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Il ponte di Marreri - Sardegna Cultura

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Scrittori <strong>di</strong> <strong>Sardegna</strong><br />

27


Rie<strong>di</strong>zione dell’opera:<br />

<strong>Il</strong> <strong>ponte</strong> <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, Cagliari, La Voce Sarda E<strong>di</strong>trice, 1981<br />

Perio<strong>di</strong>co quin<strong>di</strong>cinale n. 27<br />

del 10-03-2004<br />

Direttore responsabile: Giovanna Fois<br />

Reg. Trib. <strong>di</strong> Nuoro n. 1 del 16-05-2003<br />

Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, febbraio 2004<br />

© Copyright 2004<br />

<strong>Il</strong>isso E<strong>di</strong>zioni - Nuoro<br />

www.ilisso.it - e-mail ilisso@ilisso.it<br />

ISBN 88-87825-90-4<br />

Bachisio Zizi<br />

IL PONTE DI MARRERI<br />

nota introduttiva <strong>di</strong> Paolo Cannas


NOTA INTRODUTTIVA<br />

<strong>Il</strong> <strong>ponte</strong> <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, uscito nel 1981, è il primo atto <strong>di</strong> una<br />

trilogia <strong>di</strong> cui fanno parte Erthole (1984), recentemente ripubblicato<br />

in questa collana, e Santi <strong>di</strong> creta (1987). Tale<br />

trilogia è fondamentale per capire la visione del mondo, in<br />

particolare della <strong>Sardegna</strong> e della sua storia, che Bachisio Zizi<br />

è andato elaborando. I tre testi possono ben esser letti come un<br />

progressivo avvicinamento al presente: dalla <strong>Sardegna</strong> del primo<br />

romanzo, terra ancora per poco in bilico tra un mondo<br />

arcano, pre-storico («la storia della nostra gente è tutta lì, in<br />

quei segni che mancano»), e la modernità che si annuncia come<br />

sopruso o come utopia; fino all’ultimo dei tre testi in cui si<br />

approda alla nostra contemporaneità.<br />

<strong>Il</strong> <strong>ponte</strong> <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong> è ambientato a Orvine, un immaginario<br />

paese della Barbagia e si svolge a metà Ottocento, a ridosso <strong>di</strong><br />

quel 1848 così fatale per il futuro dell’Isola. La grande Storia<br />

attraversa il racconto e, come il vento che potente spira nelle<br />

pagine del testo, sembra parlare <strong>di</strong> un futuro ancora non realizzato<br />

ma ben comprensibile nelle sue linee generali: la perfetta<br />

fusione che, al sacrificio della antica – seppur nominale –<br />

autonomia del Regno <strong>di</strong> <strong>Sardegna</strong>, garantirà agli isolani non<br />

l’emancipazione ed il progresso sban<strong>di</strong>erati ma, unicamente,<br />

nuove tasse e il taglio dei millenari boschi e che sarà preannuncio<br />

delle modalità verticistiche che guideranno l’unificazione<br />

piemontese dell’Italia («Quella che scende dall’alto è solo<br />

una parvenza d’unità» – <strong>di</strong>ce un personaggio del romanzo).<br />

Questa Storia sembra essere del tutto aliena alle genti isolane e,<br />

infatti, ne sono veri protagonisti solo uomini venuti da fuori,<br />

come l’inviato speciale del viceré, il piemontese conte de Viry,<br />

tessitore <strong>di</strong> trame politiche e futuro devastatore dei boschi,<br />

mentre la sor<strong>di</strong>da, sparuta borghesia paesana si accontenterà<br />

5


<strong>di</strong> rosicchiare le briciole che cadranno dalla mensa dei signori.<br />

Gli abitanti <strong>di</strong> Orvine, nella grande maggioranza, sono e si<br />

sentono estranei a queste <strong>di</strong>namiche che non appartengono loro:<br />

«Non è l’avere che ci preme… è l’essere» – <strong>di</strong>rà Alessio,<br />

sfortunato eroe del romanzo, ad un gruppo <strong>di</strong> mercanti genovesi,<br />

portatori <strong>di</strong> una pragmatica mentalità affaristica.<br />

È il personaggio <strong>di</strong> Alessio che nel racconto svolge il ruolo <strong>di</strong><br />

positiva coscienza intellettuale della collettività, <strong>di</strong> creatore <strong>di</strong><br />

strategie per possibili, alternativi sistemi <strong>di</strong> produzione e,<br />

quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> aggregazione sociale. Grazie anche ai suoi illegittimi<br />

ma potenti natali, Alessio ha potuto coltivare la propria<br />

mirabile intelligenza stu<strong>di</strong>ando a Cagliari ed a Torino, dove<br />

ha imparato «a capire meglio uomini e cose della mia terra».<br />

È da questa volontà <strong>di</strong> comprendere le vere esigenze del suo<br />

Paese e del suo popolo («l’idea del Cumone è <strong>di</strong> tutti quelli che<br />

ci sono dentro e … io senza <strong>di</strong> loro non conto niente»), che<br />

Alessio partorisce l’idea <strong>di</strong> ripristinare un “mitico” modello <strong>di</strong><br />

società, il Cumone appunto, in cui ogni associato mette in<br />

comune con gli altri ciò che possiede: beni, competenze e forza<br />

lavoro. Questo è il progetto utopico che Alessio e l’intero Orvine<br />

contrappongono a quello deciso per loro nei santuari del<br />

potere costituito; progetto che, affondando le ra<strong>di</strong>ci in un passato<br />

fuori dal tempo, emerge potente come scommessa originale,<br />

autentica e alternativa per un futuro <strong>di</strong>verso dal presente.<br />

Ma il giovane non è l’unico intelletto vigile <strong>di</strong> Orvine, su<br />

lui, eroe luminoso nella sua fragile generosità, si sovrappone<br />

l’ombra nera <strong>di</strong> don Arcangelo Satta, rettore della chiesa del<br />

Carmelo e vera potenza del paese. I due, apparentemente così<br />

<strong>di</strong>stanti ed inconciliabili, sono in effetti accomunati da<br />

sottili e segreti legami, non tanto per la consanguineità mai<br />

riconosciuta, ma soprattutto perché ognuno è portatore <strong>di</strong> un<br />

antitetico progetto <strong>di</strong> organizzazione sociale che, inevitabilmente,<br />

dovrà scontrarsi.<br />

<strong>Il</strong> romanzo inizia proprio con la figura <strong>di</strong> don Satta che, come<br />

Frollo dalle torri <strong>di</strong> Notre-Dame, si affaccia dallo spiazzo<br />

<strong>di</strong> Santandria, giganteggiando su tutta la vallata <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>:<br />

6<br />

«quei boschi che coprivano monti e valli li sentiva suoi, solo<br />

suoi, come se nessun altro potesse amarli così intensamente».<br />

Egli, <strong>di</strong>scendente dei pochi prepotenti che «avevano affermato<br />

i loro <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietari su terre godute da sempre in comunione»,<br />

ora domina l’intero paese ed estende il suo possesso<br />

anche sugli abitanti. <strong>Il</strong> rettore tiene con pugno saldo le re<strong>di</strong>ni<br />

del suo dominio e nulla deve sfuggire al suo appetito, né le<br />

cose, <strong>di</strong> cui si appropria con <strong>di</strong>spotica prepotenza, né le persone,<br />

<strong>di</strong> cui pretende governare il corpo e lo spirito. Presso il popolo<br />

<strong>di</strong> Orvine, egli ha fama <strong>di</strong> temibile negromante, <strong>di</strong><br />

muovere misteriose forze, <strong>di</strong> esercitare lo «strano potere <strong>di</strong> legare<br />

e sciogliere gli uomini» ed è ben contento <strong>di</strong> «ra<strong>di</strong>care<br />

nella gente certi convincimenti» che gli consentono <strong>di</strong> piegare<br />

ai suoi <strong>di</strong>segni anche i più riottosi.<br />

Ma questa <strong>di</strong>spotica, solipsistica volontà <strong>di</strong> domino (per don<br />

Satta unica forza giustificata ad or<strong>di</strong>nare, secondo proprio insindacabile<br />

arbitrio, la società paesana) trova, a sbarrarle la<br />

strada, sia il Cumone <strong>di</strong> Alessio, sia la resistenza algida e intangibile<br />

dell’unico grande personaggio femminile del romanzo,<br />

donna Pepparosa, che sfugge alla suadente malia del rettore<br />

rifugiandosi nel calore della solidarietà con il popolo <strong>di</strong> Orvine.<br />

<strong>Il</strong> romanzo non potrà che chiudersi con l’inevitabile annientamento<br />

dei due protagonisti: Alessio, consunto da un male<br />

che mina il suo fragile organismo, don Satta, prima annichilito<br />

dalla consapevolezza del proprio fallimento e, poi, ucciso<br />

dai suoi scagnozzi, bramosi <strong>di</strong> impossessarsi delle sue ricchezze.<br />

Sopravviverà solo il Cumone, custo<strong>di</strong>to dai pastori e<br />

dai conta<strong>di</strong>ni guidati da Bakis, erede spirituale <strong>di</strong> Alessio, e<br />

dai bambini del paese, generazione che crescerà formata dall’idea<br />

comunitaria e che, guidata da Pepparosa, imparerà<br />

ad impossessarsi <strong>di</strong> quei «segni» che, nella visione <strong>di</strong> Alessio,<br />

sono mancati alla (non)storia del popolo sardo e che ora sembrano<br />

in<strong>di</strong>care agli isolani la prospettiva <strong>di</strong> un futuro non<br />

più imposto ma, finalmente, scelto.<br />

7<br />

Paolo Cannas


I<br />

La strada, insolitamente larga e senza fossi, si apriva come<br />

una ferita tra casupole <strong>di</strong> fango che appena si sollevavano da<br />

terra: vi gravava un silenzio risentito, come sulle cose escluse;<br />

i ra<strong>di</strong> passanti curvavano la testa, per timidezza o protesta,<br />

mentre i ragazzi non osavano lanciare le grida nei giochi della<br />

sera. Al mattino presto le donne spazzavano furiosamente il<br />

selciato, spruzzando acqua tutt’intorno per far morire la polvere.<br />

Quella inutile fatica quoti<strong>di</strong>ana era uno dei tanti riguar<strong>di</strong><br />

dovuti al rettore della chiesa del Carmelo, don Arcangelo<br />

Satta, che quella strada aveva voluto quasi come un <strong>ponte</strong> fra<br />

la sua casa e il vicino colle <strong>di</strong> Santandria. Con passo sicuro,<br />

senza appoggiarsi al bastone che portava per vezzo, il rettore<br />

scendeva, lasciando appena cadere uno sguardo sulle donne e<br />

i ragazzi che riverenti sogguardavano dalle porte delle loro case.<br />

Imboccava poi il sentiero <strong>di</strong> Cadone e, senza che il suo<br />

passo cambiasse ritmo, ergendosi fra i piccoli monticelli che<br />

affioravano qua e là, saliva, rischiarandosi in viso man mano<br />

che si avvicinava all’ampio spiazzo in cima al colle, dove i<br />

crucci del suo animo inquieto si placavano. Incurante del<br />

vento che gli gonfiava la tonaca, sporgendosi dal parapetto<br />

che chiudeva lo spiazzo, abbracciava con lo sguardo la vallata<br />

<strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, piena <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> sole, con le vigne già arate, i<br />

mandorli più ver<strong>di</strong> delle messi e al centro la casa con la chiesa.<br />

Quello spettacolo gli rigenerava la vita ogni volta. Al <strong>di</strong> là<br />

del fiume le terre apparivano spoglie, come se pastori e conta<strong>di</strong>ni<br />

le depredassero soltanto. <strong>Marreri</strong> era stato un luogo <strong>di</strong><br />

soprusi, <strong>di</strong> violenze, <strong>di</strong> sangue: lì la <strong>di</strong>sperata resistenza dei<br />

montagnini era riuscita volta a volta a fermare la furia devastatrice<br />

degli invasori venuti dal mare; lì pochi prepotenti avevano<br />

affermato i loro <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietari su terre godute da<br />

sempre in comunione; lì erano <strong>di</strong>vampati incen<strong>di</strong> irreparabili<br />

le cui fiamme, volando sui pen<strong>di</strong>i dei monti, avevano incenerito<br />

le greggi e i villaggi insieme ai boschi. <strong>Il</strong> rettore conosceva<br />

quelle storie: suo padre, don Ennio, in gara con altri venuti<br />

9


da fuori come lui, aveva fatto recintare le terre più fertili <strong>di</strong><br />

<strong>Marreri</strong>, Montricos e Niniana. Per <strong>di</strong>fendere usi antichi<br />

quanto la vita, i pastori erano scesi <strong>di</strong> notte trascinati da Michele<br />

Tuppone e avevano abbattuto i muri con pali <strong>di</strong> legno.<br />

C’erano stati scontri violenti e i muri erano stati rifatti e demoliti<br />

più volte, fino a quando Michele non era stato impiccato<br />

dai soldati inviati dal viceré. Le tanche più ricche <strong>di</strong> Orvine,<br />

don Ennio le aveva volute donare alla figlia primogenita<br />

e al figlio sacerdote, al quale aveva fatto assegnare anche la<br />

rettoria del paese, le cui origini venivano raccontate come<br />

una leggenda. Quel luogo, dove ora c’erano case, strade, due<br />

chiese e perfino una fontana, un tempo offriva <strong>di</strong>mora solo<br />

agli astori; tra massi mostruosi, <strong>di</strong>rupi senza fondo e intrichi<br />

<strong>di</strong> querce e corbezzoli, l’uomo poteva arrivarci a fatica, trascinatovi<br />

dalle capre impazzite o dai cani che inseguivano latrando<br />

i cinghiali feriti. In fughe <strong>di</strong>sperate, su quell’altura erano<br />

approdati gli scampati alla malaria, alle carestie e agli<br />

incen<strong>di</strong> e lì avevano messo ra<strong>di</strong>ci strappando al bosco col fuoco<br />

le prime strisce <strong>di</strong> terra e razziando <strong>di</strong> notte dalle vallate le<br />

bestie, per sopravvivere e ricomporre le greggi <strong>di</strong>sperse. Accogliendo<br />

superstiti <strong>di</strong> altre sventure, il villaggio si estese via via<br />

coprendo la radura <strong>di</strong> piccole case.<br />

Orvine era entrato nel sangue a don Satta, che pure aveva<br />

seguito malvolentieri suo padre, presagendo che quel luogo<br />

l’avrebbe legato a sé per sempre. Quando si affacciava allo<br />

spiazzo <strong>di</strong> Santandria o scendeva a <strong>Marreri</strong>, quei boschi<br />

che coprivano monti e valli li sentiva suoi, solo suoi, come<br />

se nessun altro potesse amarli così intensamente. Era passato<br />

tanto tempo da quando avevano osato sprangargli la porta<br />

della chiesa per impe<strong>di</strong>rgli le messe e le pre<strong>di</strong>che.<br />

Dall’altura <strong>di</strong> Santandria si staccava sempre a malincuore.<br />

Quel giorno, al rientro, anziché la strada <strong>di</strong> Cadone ch’era<br />

solito percorrere, prese un viottolo pieno <strong>di</strong> fossi e d’ingombri.<br />

Dalle casupole usciva odor <strong>di</strong> fumo e <strong>di</strong> miseria. I ragazzetti<br />

corsero a dare la voce che stava passando il rettore: le<br />

donne ritirarono gli stracci <strong>di</strong>stesi all’aria e, aggiustandosi il<br />

fazzoletto sulla testa, attesero in silenzio per riverirlo. Davanti<br />

alla porta dell’ultima casa, prima che la strada morisse sullo<br />

slargo roccioso, si fermò. La donna che l’attendeva, non più<br />

giovane, abbassò lo sguardo e sembrò sorpresa.<br />

10<br />

– E Maria? – chiese lui con quella voce che intimoriva<br />

anche quando era sussurrata. Un rossore improvviso si <strong>di</strong>pinse<br />

sul volto della donna, che non sollevò lo sguardo dalla strada.<br />

– È uscita, – rispose, chiudendosi la bocca coi lembi del<br />

fazzoletto. Don Satta non fece notare il fasti<strong>di</strong>o che provava.<br />

– La voglio in confessionale, questa sera, dopo il vespro,<br />

– <strong>di</strong>sse allontanandosi.<br />

Carmela, la fedele domestica, gli aprì il pesante portone<br />

e, sicura <strong>di</strong> fargli piacere, gli <strong>di</strong>sse che la posta era sulla scrivania,<br />

soggiungendo che dentro una persona attendeva.<br />

– Dopo – rispose lui aprendo la porta che dal pianerottolo<br />

immetteva nello stu<strong>di</strong>o dove i mobili incombevano massicci<br />

e molti erano i libri, stipati su due gran<strong>di</strong> scaffali. <strong>Il</strong> clero<br />

della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Nuoro si scandalizzava delle letture <strong>di</strong> don<br />

Satta e della sua ostentata preferenza per certi autori, che avevano<br />

qualcosa <strong>di</strong> eretico, come quel Lucrezio senza Dio. Sfogliò<br />

la rivista <strong>di</strong> economia alla quale collaborava: l’ultimo<br />

scritto che vi aveva pubblicato trattava dell’incompatibilità<br />

della pastorizia con una moderna agricoltura; lesse rapidamente<br />

i titoli del giornale, commentando con sogghigni tutto<br />

ciò che non gli andava, poi aprì le lettere provenienti dall’isola<br />

e dal continente: una lo informava che sarebbe arrivato a Orvine<br />

un inviato speciale per un’indagine sulle con<strong>di</strong>zioni del<br />

paese e gli raccomandava <strong>di</strong> assicurare tutta l’assistenza dovuta<br />

al rappresentante del viceré. Carmela gli portò una tazza <strong>di</strong><br />

mezzorau e gli riferì i fatti accaduti durante la sua assenza.<br />

– È venuto Miale: non può restituire il prestito.<br />

– Cosa gli è preso?<br />

– <strong>Il</strong> giogo… morto <strong>di</strong> carbonchio.<br />

– Che altro c’è?<br />

– Mesulanu ha rimborsato e manca un mese alla scadenza.<br />

Non chiese altro: or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> cancellare il debito <strong>di</strong> Miale<br />

e finalmente fece entrare la persona che attendeva e della<br />

quale non aveva neppure chiesto il nome. Un uomo con la<br />

berretta in mano si fermò vicino alla porta facendo un goffo<br />

inchino.<br />

– E allora, cosa c’è, Piricu Masala?<br />

Piricu, carrolante carico <strong>di</strong> figli, seminava orzo e grano<br />

sulle terre meno fertili <strong>di</strong> don Satta, cedendo il quarto del<br />

11


accolto com’era l’uso; quando era stata costruita la strada<br />

che dal paese scendeva a <strong>Marreri</strong>, aveva dato anche venti<br />

giornate per trasportare terra e pietre col carro: ciascuno nel<br />

paese aveva dato qualcosa per quella strada. Piricu non era<br />

uomo da niente, ma don Satta lo impauriva, forse per quello<br />

strano potere <strong>di</strong> legare e sciogliere gli uomini che la gente<br />

gli attribuiva.<br />

– Sapete, – <strong>di</strong>sse stringendo la berretta fra le mani, – il<br />

giogo… me l’hanno portato via ieri notte.<br />

– Dove lo tenevi?<br />

– A Nighirisè, travato.<br />

– Sospetti qualcuno?<br />

– Voi potete sapere… un vostro cenno basta… io per<br />

voi… sempre –. Don Satta tossicchiò e Piricu non parlò più.<br />

Ci fu silenzio, poi:<br />

– Va’, atten<strong>di</strong>, domani notte saprai dov’è il tuo giogo.<br />

Gl’importava poco del torto subito da Piricu, i furti andavano<br />

e venivano e alla fine tutto si compensava, gli premeva<br />

<strong>di</strong> più ra<strong>di</strong>care nella gente certi convincimenti. Carmela,<br />

silenziosamente, si affacciò alla porta per ricordargli<br />

che l’abito era pronto per il Vespro. Quando andava nella<br />

sua chiesa, don Satta indossava la tonaca <strong>di</strong> panno francese e<br />

le scarpine leggere col fiocco nero. Mentre Pilimeddu, il sagrestano,<br />

suonava l’ultimo richiamo, lui era già arrivato in<br />

prossimità della chiesa, accompagnato da Kiocò, il fabbro<br />

balbuziente, sempre pronto ad accorrere ad ogni sua chiamata.<br />

Le donne, avvolte negli scialli neri, affluivano da tutte<br />

le strade, mute e impenetrabili.<br />

– Le sentite come cantano? – balbettò Kiocò in<strong>di</strong>cando<br />

con le mani le campane. Don Satta abbozzò un sorriso,<br />

contento: quei suoni gli piacevano, finiva per commuoversi.<br />

<strong>Il</strong> campanile, rivestito in pietra lavorata e la chiesa, a tre navate,<br />

erano fatti per durare nei secoli. Tutto era stato voluto<br />

da lui: aveva ottenuto comprensione e sostegno a Cagliari,<br />

Roma e Torino e aveva fatto venire i maestri muratori <strong>di</strong><br />

Bosa, gli scalpellini <strong>di</strong> Ghilarza, i mattonai <strong>di</strong> Tertenia e i<br />

calcinai <strong>di</strong> Lula perché tutto fosse compiuto con rigore e perizia.<br />

All’inaugurazione era venuto il vescovo con l’intero capitolo<br />

e lui finalmente aveva potuto lasciare la chiesetta <strong>di</strong><br />

Santa Caterina al timido prete Chessa.<br />

12<br />

Kiocò era convinto che quando c’era vento le campane<br />

del Carmelo potessero u<strong>di</strong>rle a Orosei, a Dorgali e forse anche<br />

al <strong>di</strong> là del mare. La sua bottega era vicino alla casa parrocchiale<br />

e don Satta spesso si fermava a osservare con un<br />

sorriso indulgente quanto poco sapessero trattare il ferro il<br />

maestro e i suoi <strong>di</strong>scepoli. In quella bottega, oltre che pestare<br />

ferri, Kiocò parlava <strong>di</strong> cose <strong>di</strong>fficili, storpiando i <strong>di</strong>scorsi<br />

<strong>di</strong> don Satta: la gente lo riteneva uomo istruito e lo ascoltava<br />

in silenzio quando egli raccontava <strong>di</strong> un puledro in<strong>di</strong>avolato<br />

sfuggito <strong>di</strong> mano a quattro uomini vigorosi che tentavano<br />

<strong>di</strong> tenerlo per la prima ferratura.<br />

– Solo lui poté fermarlo… e non <strong>di</strong>co altro, – ripeteva,<br />

alludendo a don Satta e ai suoi misteriosi poteri.<br />

I ceri dell’altare maggiore erano tutti accesi, compreso<br />

quello grande che illuminava la Vergine effigiata in un magnifico<br />

<strong>di</strong>pinto del pittore Tanda <strong>di</strong> Cagliari. Alla Vergine<br />

facevano corona tre donne pie, una delle quali aveva le sembianze<br />

<strong>di</strong> Pepparosa Pintore, donna <strong>di</strong> virtù che nella riverenza<br />

<strong>di</strong> tutti appariva quasi irraggiungibile. Le sue grazie<br />

avevano per don Satta un richiamo irresistibile, il potere <strong>di</strong><br />

sollevarlo al cielo o sprofondarlo all’inferno. Con quella bizzarra<br />

santificazione delle virtù, convinto che nessuno avrebbe<br />

osato desiderare una donna innalzata all’altare, egli si era voluto<br />

creare l’illusione <strong>di</strong> un dominio esclusivo. Pepparosa<br />

non aveva voluto posare e il pittore, come gli era stato or<strong>di</strong>nato,<br />

aveva cercato <strong>di</strong> cogliere l’espressione <strong>di</strong> lei mentre pregava<br />

inginocchiata nella chiesa <strong>di</strong> Santa Caterina. Dopo il rosario<br />

e le preghiere speciali per il papa, il re e il viceré, salì sul<br />

pulpito che col tempo era <strong>di</strong>ventato una specie <strong>di</strong> trono dal<br />

quale egli dettava le prescrizioni e i <strong>di</strong>vieti, come un sovrano<br />

che legiferasse. Parlò delle virtù delle donne, della osservanza<br />

degli usi e della imminente stagione della mietitura, ricordando<br />

il dovere sacrosanto <strong>di</strong> pagare le decime. Accennò anche<br />

al giogo <strong>di</strong> Piricu Masala, parlando per sottintesi, come<br />

se sapesse e vedesse. <strong>Il</strong> giogo doveva tornare, i mo<strong>di</strong> erano<br />

noti. Tutti capirono. Egli era ascoltato a Torino, a Cagliari e a<br />

Nuoro dove una sua parola, detta al momento giusto, aveva<br />

il potere <strong>di</strong> assolvere o condannare. La prigione non era un<br />

male irreparabile, ci si poteva sottrarre: altro faceva paura. La<br />

sorte toccata al povero Andrea Mula era storia recente: non si<br />

13


trattava <strong>di</strong> uno qualsiasi, Andrea non aveva mai avuto paura<br />

delle ombre, il rovo dalle spalle se l’era saputo togliere sempre.<br />

Eppure la prima notte non si era sentito uomo con la<br />

giovanissima moglie, Caterina Mazzette, che fieramente aveva<br />

detto no a don Satta, scatenandone le ire; irrigi<strong>di</strong>to in un<br />

freddo <strong>di</strong> paura, Andrea era fuggito <strong>di</strong> casa balbettando le<br />

minacciose parole che il rettore aveva rivolto a Caterina: “che<br />

lui non ti tocchi!”. L’avevano trovato all’alba addossato al<br />

tronco <strong>di</strong> un perastro dove si era tolto la vita.<br />

Dopo la pre<strong>di</strong>ca, la chiesa si vuotò a poco a poco. Maria<br />

Campana, la ragazza della quale don Satta aveva chiesto notizie<br />

alla donna del vicolo, si avvicinò al confessionale e, rispondendo<br />

timidamente alle domande insistenti del rettore,<br />

ammise <strong>di</strong> essere andata nuovamente con Nicola.<br />

– I miei consigli non li ascolti.<br />

Maria si strinse i pugni al petto e non rispose.<br />

– Chi si allontana da me si perde.<br />

– È il mio uomo, lo sposerò.<br />

– Sposarlo no! – tuonò la voce <strong>di</strong> don Satta, – ora confessati,<br />

cos’hai fatto oggi?<br />

Maria abbassò la testa, stette un po’ in silenzio stringendosi<br />

più forte i pugni al petto, poi <strong>di</strong>sse:<br />

– Mi sono confessata a Santa Caterina, con prete Chessa,<br />

ho avuto l’assoluzione.<br />

Don Satta si levò in pie<strong>di</strong> e, strappandosi la stola dal collo,<br />

gridò:<br />

– Va’ allora, cosa vuoi da me!<br />

Maria andò via coprendosi il viso con le mani. Incontrava<br />

Nicola Porcu nella casa <strong>di</strong> sua zia tutte le volte che lui<br />

rientrava dall’ovile. C’era già la promessa, il matrimonio ormai<br />

era deciso.<br />

Don Satta, contrariato, rientrò in sagrestia dove Pilimeddu<br />

e Kiocò l’aiutarono a togliersi i paramenti.<br />

– Bella pre<strong>di</strong>ca, – <strong>di</strong>sse Kiocò, che avrebbe voluto saperne<br />

<strong>di</strong> più sul giogo <strong>di</strong> Piricu.<br />

– Puoi andare – rispose don Satta, accigliato. Raccomandò<br />

a Pilimeddu <strong>di</strong> tornare a spegnere il cero grande a<br />

mezzanotte e uscì, solo.<br />

14<br />

II<br />

La casa Pintore, così veniva chiamata, aveva sul davanti<br />

un ampio cortile con una scalinata a metà per correggere il<br />

<strong>di</strong>slivello del pavimento a selciato. Sul retro c’era un grande<br />

giar<strong>di</strong>no con alberi da frutto, filari <strong>di</strong> viti, gelsi e otto arnie.<br />

Era una casa antica, rifatta dallo zio <strong>di</strong> Pepparosa, canonico<br />

Pintore, che era stato parroco della chiesa <strong>di</strong> Santa Caterina,<br />

fino a quando non l’avevano sostituito con don Satta inviandolo<br />

a Orosei dove era morto, pare avvelenato. <strong>Il</strong> padre <strong>di</strong><br />

Pepparosa si era tolto la vita dopo aver subito l’esproprio <strong>di</strong><br />

una parte consistente del patrimonio familiare per le malversazioni<br />

<strong>di</strong> un esattore al quale egli, per amicizia, aveva dovuto<br />

prestare la garanzia cauzionale. Nella casa ormai vuota era<br />

rimasta Pepparosa con sua madre, Vittoria Tola, invecchiata<br />

più dal dolore che dagli anni. Madre e figlia vivevano <strong>di</strong>gnitosamente,<br />

anche se don Satta aveva tolto loro la ricca tanca<br />

<strong>di</strong> <strong>Marreri</strong> con la chiesa <strong>di</strong> Santa Lulla costruita dal canonico<br />

Pintore. Restavano le terre <strong>di</strong> Niniana, anche se contestate, e<br />

quelle de su Lidone e su Tuvu che un Pintore aveva recintato<br />

a muro al tempo delle Chiudende. La casa, con le finestre ad<br />

arco e i tetti sfalsati, s’imponeva per la sua severa <strong>di</strong>stinzione.<br />

Così isolata sembrava estranea alla vita del paese. La gente la<br />

guardava con rispetto, come se fosse un santuario. Don Satta<br />

veniva ricevuto nella sala al piano terra, dove c’erano tutti i<br />

ricor<strong>di</strong> del canonico Pintore, compresa la statua <strong>di</strong> Santa<br />

Lulla. La stanza <strong>di</strong> Pepparosa era al piano rialzato, con due<br />

vedute, una sul tetto del loggiato, verso il cortile, l’altra sul<br />

giar<strong>di</strong>no, verso il boscoso colle della Consolata. Quella stanza<br />

era il suo rifugio preferito, una clausura volontaria, dove<br />

lei trascorreva le giornate <strong>di</strong>pingendo o ricamando: usciva<br />

solo per recarsi alla messa, nella chiesa <strong>di</strong> Santa Caterina, o<br />

per preparare le tinte dei tessuti con le erbe che le portava il<br />

vecchio servo ziu Kicu. Da qualche tempo però de<strong>di</strong>cava le<br />

sue giornate alle ragazze dei telai che riempivano la grande<br />

sala nella parte bassa della casa.<br />

15


Quando Ninedda, la domestica, entrò nel salone per avvisarla<br />

che c’era il rettore, Pepparosa arrossì: ormai non riusciva<br />

più a nascondere il suo <strong>di</strong>sagio, come se fosse lei coi<br />

suoi riguar<strong>di</strong> a incoraggiare quegli incontri che la facevano<br />

star male. Don Satta, che conversava svogliatamente con la<br />

vedova Pintore, si rianimò improvvisamente, quando nella<br />

sala <strong>di</strong> Santa Lulla apparve Pepparosa, splendente nel viso<br />

incorniciato dalla can<strong>di</strong>da benda che dal capo le scendeva<br />

fin sotto il mento. Lui la salutò con un gesto della mano,<br />

come se volesse porgere o chiedere qualcosa.<br />

– I telai, – <strong>di</strong>sse scuotendo la testa, – allontanano Pepparosa<br />

irrime<strong>di</strong>abilmente… non è giusto, non è giusto.<br />

<strong>Il</strong> tono scherzoso riusciva a nascondere appena il <strong>di</strong>spetto<br />

ch’egli provava per quei dannati telai e non perché non<br />

ne capisse l’importanza, anzi… ma avrebbe voluto che a<br />

suggerire quell’idea fosse stato lui, non altri. A Pepparosa i<br />

telai riempivano la vita.<br />

– Le ragazze non si riconoscono più, – <strong>di</strong>sse, come se<br />

volesse affermare una verità che altri negava, – sembrano nate<br />

per questi lavori.<br />

Parlava con calore. Don Satta capì che Pepparosa era<br />

scesa dall’altare dove lui aveva voluto collocarla.<br />

– Ho paura che tutto sia stato fatto troppo affrettatamente<br />

–. Non voleva contrariarla, anzi sentiva che doveva<br />

assecondarla.<br />

– Avevo altri propositi io: pensavo a telai moderni, più<br />

leggeri e più veloci, come quelli che usano in Inghilterra…<br />

coltivare i gelsi, allevare i bachi da seta… tessere scialli e mantiglie…<br />

avevo in mente tutte queste cose e pensavo a te…<br />

Pepparosa si accorse che don Satta la fissava intensamente,<br />

come se alle parole volesse dare altri significati. Abbassò<br />

pu<strong>di</strong>camente gli occhi, ma non poteva sottrarsi alle suggestioni<br />

<strong>di</strong> quei <strong>di</strong>scorsi. Si sforzò <strong>di</strong> pensare ad altro e con la<br />

mente tornò caparbiamente ai suoi telai pesanti che fiaccavano<br />

la schiena e le braccia alle ragazze.<br />

– C’è tempo perché tutto cresca, importante era iniziare,<br />

– <strong>di</strong>sse con una punta d’orgoglio.<br />

– Certo, certo, – si affrettò a <strong>di</strong>re don Satta, – i tuoi meriti<br />

sono incontestabili.<br />

16<br />

– I meriti sono <strong>di</strong> tutti, <strong>di</strong> chi ha pensato e <strong>di</strong> chi ha fatto,<br />

– precisò Pepparosa. Don Satta, per nascondere il suo <strong>di</strong>sappunto,<br />

fece un garbato gesto con la mano.<br />

– I tuoi slanci generosi commuovono, ma l’indulgenza<br />

per ciò che nasce storto è un’offesa al cielo. Ben altre sod<strong>di</strong>sfazioni<br />

può cogliere il tuo animo eletto. Vieni in parrocchia,<br />

quante cose ci sono da fare.<br />

La vecchia madre <strong>di</strong> Pepparosa, piccola e un po’ curva,<br />

uscì dal suo silenzio e ricordò le vicende che avevano portato<br />

la sua famiglia a frequentare la chiesa <strong>di</strong> Santa Caterina, cara<br />

per la memoria del povero canonico. Don Satta era contrariato,<br />

ogni volta si tirava in ballo quel <strong>di</strong>avolo <strong>di</strong> canonico.<br />

– E <strong>di</strong>re che la <strong>di</strong>letta immagine <strong>di</strong> Pepparosa adorna<br />

l’altare maggiore accanto alla santissima Vergine. Che splendore!<br />

– nelle sue parole non vi era niente <strong>di</strong> mistico. Pepparosa<br />

esprimeva il suo <strong>di</strong>sagio con i rossori del viso. Quel <strong>di</strong>pinto<br />

lei non l’aveva mai voluto vedere, ogni volta che don<br />

Satta gliene parlava sentiva un profondo senso <strong>di</strong> vergogna,<br />

come se in quella stravaganza vi fosse una sua complicità.<br />

Tutto ciò che faceva e <strong>di</strong>ceva don Satta era motivo <strong>di</strong> turbamento<br />

per lei: il fascino dell’uomo pieno d’estri e d’intelligenza<br />

fuorviava la devozione con cui lei si pre<strong>di</strong>sponeva ad<br />

ascoltare il ministro <strong>di</strong> Dio.<br />

– Quel <strong>di</strong>pinto è una profanazione, – ebbe il coraggio <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>re. La tensione del viso lasciava trasparire tutta la sua agitazione.<br />

– La nostra chiesa l’abbiamo scelta da tempo, perché<br />

continua a chiedermi ciò che non posso fare? Troppe cose ci<br />

separano.<br />

Nei no <strong>di</strong> Pepparosa vi era il segno <strong>di</strong> un intimo turbamento<br />

che si rifletteva anche nell’espressione inquieta e<br />

preoccupata del viso e nel tono della voce. Don Satta la guardava.<br />

– La lite per Niniana? Tu sai come nascono e perché<br />

nascono le liti, è un gioco dell’intelligenza, un pretesto per<br />

comunicare con gli altri. La causa…? L’avrei potuta vincere<br />

cento volte, ma non sono queste le vittorie che mi premono.<br />

Sono pronto a offrirti un accordo, se vuoi –. La vecchia<br />

madre, per porre fine alla <strong>di</strong>scussione, <strong>di</strong>sse che <strong>di</strong> tutto ciò<br />

17


si poteva parlare un altro giorno. Pepparosa, invece, volle fare<br />

chiarezza subito, temeva i rinvii.<br />

– Di quelle terre dovrà rendere conto ad altri… –. Fece<br />

uno sforzo per tacere ciò che da tempo pensava sulla sorte <strong>di</strong><br />

Niniana. Don Satta aveva addosso una smania incontenibile;<br />

gli sembrava <strong>di</strong> cogliere impercettibili segni <strong>di</strong> un’intesa a<br />

lungo cercata e sperata. Per poter restare solo con Pepparosa<br />

chiese <strong>di</strong> vedere i telai, era convinto <strong>di</strong> capire e <strong>di</strong> farsi capire<br />

finalmente.<br />

Attraverso il cortile arrivarono al salone dei telai, spazioso<br />

e solido, con i suoi contrafforti e i suoi archi ad ampie<br />

campate. A don Satta piacquero la pulizia del luogo e la laboriosità<br />

delle ragazze che seguivano con rapi<strong>di</strong>tà e sicurezza<br />

le complesse operazioni scandendo i movimenti con gesti<br />

decisi. Pepparosa descriveva i compiti <strong>di</strong> ognuna percorrendo<br />

le fasi della lavorazione, dall’avvolgimento delle matasse<br />

alla battitura dei teli per rendere compatto il tessuto. Si fermarono<br />

davanti al primo telaio, il più grande e il più antico,<br />

situato vicino a un ampio finestrone dal quale si potevano<br />

vedere i gelsi del giar<strong>di</strong>no che attorniava la casa. Le ragazze,<br />

anche se intimi<strong>di</strong>te dalla presenza <strong>di</strong> don Satta, continuarono<br />

il lavoro senza sollevare la testa. Solo Dionedda, la ragazza<br />

che batteva il tessuto con la mazzola <strong>di</strong> legno, guardava<br />

senza alcun timore, sollevando la testa a scatti.<br />

– Che compiti hai tu? – le chiese don Satta colpito dall’impertinenza<br />

dei suoi sguar<strong>di</strong>.<br />

– Picchio con questo.<br />

– Chi?<br />

– Per ora i tappeti.<br />

– Vuoi picchiare anche me?<br />

– No, anzi… – e riprese a battere con la mazzola facendola<br />

ruotare nell’aria con fare civettuolo. Nicolosa, la capo<br />

telaio, era più intimi<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> tutte: eseguiva rapi<strong>di</strong>ssima gli intrecci<br />

e muoveva con sicurezza pettini e pedali, ma da ogni<br />

suo gesto traspariva una insolita apprensione. Sull’arazzo che<br />

stava tessendo si delineavano i contorni d’una figura.<br />

– Cosa vuoi rappresentare? – le chiese don Satta.<br />

– Un muflone – rispose, sobbalzando un po’.<br />

– Incominci dai pie<strong>di</strong>?<br />

18<br />

– Sì, da quelli <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro, per misurare meglio lo slancio.<br />

– Hai mai visto un muflone?<br />

– Una volta, su un’altura.<br />

– E la traccia del <strong>di</strong>segno?<br />

– Seguo l’idea che ho in mente, – rispose Nicolosa, toccandosi<br />

la fronte col <strong>di</strong>to.<br />

In fondo al salone c’erano i tappeti e gli arazzi <strong>di</strong>stesi su<br />

lunghe pertiche. Don Satta volle vedere e toccare. Parlava<br />

poco, <strong>di</strong>ceva tutto con gli sguar<strong>di</strong>. In uno spazio appartato<br />

notò una tela montata su un cavalletto improvvisato e volle<br />

avvicinarsi; Pepparosa lo seguì arrossendo: era un suo <strong>di</strong>pinto<br />

incompiuto al quale lavorava da tempo in un fare e <strong>di</strong>sfare<br />

senza fine. Egli lo osservò attentamente, scrutandolo da<br />

tutte le parti e lo toccò anche facendovi scorrere lievemente<br />

la mano, come se volesse accarezzarlo.<br />

– Cosa manca? – chiese senza <strong>di</strong>strarre lo sguardo da quei<br />

colori che salivano dal basso in un tenue bianco.<br />

– Non so, forse niente o forse tutto, – rispose lei sorpresa<br />

<strong>di</strong> tanto interesse.<br />

– <strong>Il</strong> soggetto… mi sfugge…<br />

– È il bosco della Consolata… inafferrabile.<br />

Nel <strong>di</strong>pinto il bosco s’intuiva appena, si sarebbe detto<br />

ch’era una esaltazione della luce che vinceva le tenebre, ma<br />

era <strong>di</strong>fficile penetrare nell’irrealtà <strong>di</strong> quei simboli.<br />

– Hai rappresentato i sospiri della tua anima. Però qualcosa<br />

manca…<br />

Lei non <strong>di</strong>sse niente, ma era ansiosa <strong>di</strong> sapere.<br />

– Sì, manca la vita, che è fatta <strong>di</strong> cose concrete, <strong>di</strong> creature<br />

che si scambiano pensieri e sentimenti e soffrono e amano<br />

e gridano ciò che vogliono e sperano. I sospiri nascono dai<br />

rimpianti: mortificano la fantasia, la creatività, perfino la fede.<br />

Non fuggire più, Pepparosa, asseconda la tua natura.<br />

Lei non poté pensare niente, ebbe paura <strong>di</strong> tutto, anche<br />

del piacere doloroso che provava ascoltando don Satta, che<br />

sembrava leggesse veramente nella sua anima; avrebbe preferito<br />

tacere, ma poi, vincendo ogni ritegno, <strong>di</strong>sse guardandosi<br />

attorno:<br />

– Anche questo fa parte della vita…<br />

– Le cose che tu concepisci sono nobili, belle, pure: il<br />

19


<strong>di</strong>pinto, le ragazze, i telai… ma tutto finisce per <strong>di</strong>ventare<br />

un rifugio, una prigione.<br />

Pepparosa capì soltanto che doveva fuggire ancora, temeva<br />

la sua debolezza.<br />

– Mamma attende.<br />

Rientrarono nella sala <strong>di</strong> Santa Lulla e lui riprese a parlare<br />

dei telai e delle ragazze, insistendo ancora su ciò che <strong>di</strong><br />

meglio si poteva fare; ma le sue parole suscitavano altre sensazioni<br />

in Pepparosa, che taceva con una pensosità grave che<br />

indusse sua madre ad alzarsi in pie<strong>di</strong>. Don Satta capì che<br />

doveva andar via. Quando stava per varcare la porta si voltò<br />

e <strong>di</strong>sse:<br />

– Non <strong>di</strong>spero <strong>di</strong> averti mia alleata.<br />

Pepparosa accennò appena un saluto.<br />

Era già notte. Salendo per viottoli tortuosi arrivò al<br />

camposanto vecchio, un terrapieno a semicerchio sul quale<br />

si prolungava la piazza della chiesa cintata da un parapetto.<br />

Le stelle <strong>di</strong> maggio rischiaravano appena i tetti delle case<br />

sotto il muraglione. In fondo, verso la parte alta del paese, la<br />

grande casa Pintore sembrava congiungersi con i pen<strong>di</strong>i boscosi<br />

della Consolata. Dal parapetto puntò gli occhi su quella<br />

casa. Cercò <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere qualcosa oltre la finestra, almeno<br />

un’ombra, ma la luce che vi traspariva era lontana e lo<br />

sguardo si perdeva. Stette ancora così poi si allontanò calcando<br />

le malve e gli asfodeli che coprivano le antiche sepolture.<br />

Prese la strada che separava le case nuove del paese dalle<br />

case vecchie raccolte in grovigli inestricabili <strong>di</strong> vicoli e fece<br />

sosta su un altro terrapieno frugando a lungo con lo sguardo<br />

sul cortile sottostante. Sembrava impassibile, ma prima <strong>di</strong><br />

allontanarsi, brandendo il bastone, borbottò:<br />

– Dove cre<strong>di</strong> <strong>di</strong> arrivare, povero pazzo?<br />

Aveva il cuore in tumulto, come gli accadeva ogni volta<br />

che si fermava su quel parapetto.<br />

20<br />

III<br />

Le casette erano vecchie e cadenti, quasi schiacciate dall’incombente<br />

muro che sosteneva il terrapieno. Una era più<br />

alta <strong>di</strong> tutte: due piani con la scalinata <strong>di</strong> legno all’esterno e<br />

in cima una porticina a lucernario dalla quale <strong>di</strong> notte traspariva<br />

una debole luce che sembrava ridare vita al cortile<br />

buio e silenzioso. Le stanze erano tre: grande quella al piano<br />

terra, col forno per cuocere il pane, più anguste quelle al piano<br />

rialzato, in una delle quali, chino su un piccolo tavolo,<br />

leggeva e scriveva fino a notte alta colui contro il quale don<br />

Satta aveva puntato il suo bastone minaccioso. Alessio Biote<br />

lavorava alle tesi <strong>di</strong> laurea che gli commissionavano gli studenti<br />

<strong>di</strong> fuori; venivano in gran numero perfino da Sassari e<br />

da Cagliari dove il suo nome era <strong>di</strong>ventato famoso. Da quando<br />

l’avevano allontanato dall’Università, viveva <strong>di</strong> quel lavoro<br />

con la segreta ambizione <strong>di</strong> creare una grande scuola alla<br />

quale potesse partecipare tutta la gente del paese. Quell’idea<br />

era maturata negli ovili e nelle aie, ascoltando pastori e conta<strong>di</strong>ni.<br />

Voleva una scuola mai sperimentata, dove tutti potessero<br />

dare e ricevere qualcosa, senza imposizioni, né regole<br />

prestabilite. In quegli incontri raccontava anche lui, storie<br />

che toccavano tutto, perfino le vicende della lingua nel suo<br />

farsi e <strong>di</strong>sfarsi. Gli incontri si ripetevano anche fuori dalle aie<br />

e dagli ovili, sempre più numerosi. La stanza del forno della<br />

vecchia casa si riempiva <strong>di</strong> giovani e anziani che, vinte le <strong>di</strong>ffidenze<br />

iniziali, parlavano <strong>di</strong> terre e <strong>di</strong> pascoli, legando le ingiustizie<br />

del presente alle violenze e ai soprusi del passato. Riti,<br />

credenze, paure acquistavano un significato preciso al <strong>di</strong><br />

fuori dei miti. I giovani apprendevano perfino a scrivere la<br />

lingua che parlavano. Ziu Kicu, il vecchio servo <strong>di</strong> casa Pintore,<br />

era contento più <strong>di</strong> ogni altro <strong>di</strong> vedere gente <strong>di</strong>visa da<br />

antichi rancori trovare il modo <strong>di</strong> stare insieme, come se le<br />

cose che rendevano dura l’esistenza fossero mutate <strong>di</strong> colpo.<br />

Ma la tregua durava poco, fuori i contrasti e i risentimenti<br />

21


iesplodevano. Ziu Kicu era l’ultimo a lasciare la casa, gli piaceva<br />

intrattenersi con Alessio al quale ripeteva che ci voleva<br />

altro per far durare la concor<strong>di</strong>a. Anch’egli aveva coltivato le<br />

terre degli altri, fino a quando non l’avevano imprigionato<br />

per un pugno irreparabile sferrato a Zimperi, un pastore <strong>di</strong>ssennato.<br />

<strong>Il</strong> ricordo <strong>di</strong> quell’inutile morte per <strong>di</strong>fendere da un<br />

gregge affamato un seminato mal protetto da steccati <strong>di</strong> rovi<br />

e <strong>di</strong> pruni gli doleva ancora e lo spingeva a frequentare con<br />

assiduità le riunioni nella casa del forno. Alessio “capiva le cose”<br />

e ziu Kicu gli voleva bene e gli stava vicino per sostenerlo.<br />

Alle feste della tosatura e della trebbiatura andavano insieme<br />

e la gente li teneva in grande considerazione. Nella stanza del<br />

forno si parlava anche delle ragazze che filavano e tessevano<br />

nel grande salone della casa Pintore. Per Alessio i telai <strong>di</strong> Pepparosa<br />

erano un seme gettato in una terra feconda. I forestieri<br />

si portavano via in quantità arazzi e tappeti per rivenderli a<br />

Cagliari, a Genova e a Torino. Pepparosa era accorta nelle<br />

contrattazioni, ma gli scaltri mercanti ricorrevano ai raggiri.<br />

Ziu Kicu <strong>di</strong>ceva che i telai racchiudevano i sentimenti e le attese<br />

<strong>di</strong> tutto il paese, bisognava proteggerli e <strong>di</strong>fenderli dalla<br />

rapacità dei mercanti e s’in<strong>di</strong>gnava e chiamava ladri tutti<br />

quelli che venivano da fuori. Alessio cercava altre vie per far<br />

apprezzare i lavori delle ragazze. L’idea dei telai era stata sua.<br />

Ziu Kicu non lasciava la stanza del forno prima che arrivasse<br />

Bakis Moro, giovanissimo, quasi un ragazzo, che giungeva<br />

puntuale <strong>di</strong> solito. Alessio era legato a Bakis, come a un<br />

fratello, gli aveva insegnato a leggere e a scrivere e <strong>di</strong> notte,<br />

quando la sua mano s’irrigi<strong>di</strong>va, e ora accadeva spesso, gli<br />

dettava il lavoro delle tesi. Bakis aveva una vitalità sorprendente,<br />

sembrava non si dovesse stancare mai. La sera, quando<br />

rientrava da Funtanas, dove coltivava l’orto con suo padre,<br />

faceva la salita delle Vespe <strong>di</strong> corsa, saltando sassi e siepi<br />

come un capriolo. Da qualche tempo non andava subito da<br />

Alessio, com’era solito fare, attendeva le ragazze dei telai, che<br />

uscivano in gruppo dalla casa <strong>di</strong> Pepparosa.<br />

Nicolosa lasciava le compagne a metà strada e svoltava<br />

prima <strong>di</strong> arrivare al muraglione del camposanto vecchio,<br />

guardandosi intorno. Alla svolta un passo leggero la faceva<br />

trasalire.<br />

22<br />

– Vuoi che ti accompagni? – sussurrava una voce nel<br />

buio del vicolo. Lei dava il suo assenso con un cenno della<br />

testa.<br />

– Sei stanca?<br />

– Mi fanno male le spalle, <strong>di</strong> notte passa.<br />

Bakis seppe che quella sera aveva finito il grande arazzo<br />

dei cavalli.<br />

– Pepparosa ha detto ch’è molto bello.<br />

– Sei brava, – <strong>di</strong>sse lui compiaciuto. <strong>Il</strong> buio copriva i<br />

pudori <strong>di</strong> Nicolosa.<br />

– Inseguono o sono inseguiti i tuoi cavalli?<br />

Nicolosa rispose che correvano, soggiungendo che nel<br />

suo arazzo c’era un cavallo bianco montato da un cavaliere<br />

rosso che conduceva gli altri. Bakis chiese per chi era l’arazzo.<br />

– Non so, qualcuno se lo prenderà, può darsi che passi<br />

il mare.<br />

– Datelo ad Alessio, – <strong>di</strong>sse Bakis infervorandosi, – lui<br />

è come se fosse un capo.<br />

Davanti alla casa Nicolosa si affrettò a salutare.<br />

– Aspetta ancora un po’, parliamo…<br />

– Non posso, è tar<strong>di</strong>.<br />

– Sono rientrato <strong>di</strong> corsa per stare un po’ con te, ma se<br />

vai via subito…<br />

– Non posso.<br />

– Mi lasci così?<br />

Nicolosa, prima <strong>di</strong> scomparire, gli <strong>di</strong>sse che quando aveva<br />

<strong>di</strong>segnato il cavaliere rosso aveva pensato un po’ a lui. La<br />

porta si chiuse e Bakis rimase con le mani tese, deluso e contento.<br />

Si guardò intorno e sentì che il cuore gli cresceva: per<br />

dare sfogo alla sua contentezza si mise a correre e nei vicoli<br />

bui sembrava volasse.<br />

Alessio dettava e Bakis scriveva, svelto e senza esitazioni,<br />

se si fermava era per commentare a voce alta le parole che<br />

più lo colpivano: animava e trasfigurava tutto, perfino cose<br />

lontanissime, mai u<strong>di</strong>te. Alessio ogni tanto gli chiedeva s’era<br />

stanco e lui sorridendo lo incitava a dettare più in fretta per<br />

vedere come andava a finire. Per variare, spesso riprendevano<br />

in mano “I quaderni delle parole” a cui Alessio lavorava da<br />

anni, aggiungendo o togliendo qualcosa ogni giorno. A Bakis<br />

23


quel lavoro piaceva molto, per lui era come se fossero fatte <strong>di</strong><br />

sangue e <strong>di</strong> carne le parole che Alessio pazientemente componeva<br />

e ricomponeva.<br />

La candela <strong>di</strong> sego era quasi consumata e loro erano ancora<br />

lì che parlavano e scrivevano.<br />

– Va’ ora, finisco da solo, – ripeteva Alessio. Ma Bakis<br />

era irremovibile, non aveva voglia <strong>di</strong> tornare a casa. Faceva<br />

sempre così, come se non volesse perdere niente <strong>di</strong> ciò che<br />

<strong>di</strong>ceva Alessio.<br />

– Non sono stanco.<br />

– Io sì, per oggi basta.<br />

<strong>Il</strong> lavoro <strong>di</strong> quel giorno era andato bene, si erano liberati<br />

<strong>di</strong> una tesi sul Metastasio per uno studente <strong>di</strong> Ottana, Pietro<br />

Denti, invecchiato all’Università <strong>di</strong> Cagliari, dov’era famoso<br />

per essere citato spesso da un professore che ripeteva:<br />

“Ne ho visto <strong>di</strong> tonti, ma come i Denti <strong>di</strong> Ottana…”. Alessio<br />

esigeva che gli studenti leggessero e capissero ciò che lui<br />

scriveva, ma quando gli capitavano tronchi come Pietro<br />

Denti lavorava malvolentieri ed era preso da tanti scrupoli<br />

che lo inducevano a rinunziare al compenso. Avevano compilato<br />

il solito “Diario”. Bakis ricordava tutto ciò che si <strong>di</strong>ceva<br />

e faceva nella casa del forno, perfino il tono delle voci e le<br />

imprecazioni. Ma ad Alessio bastavano poche note per cogliere<br />

i fatti e gli umori. Leggendo il “Diario” si poteva rivivere<br />

la storia <strong>di</strong> quella strana scuola: c’era tutto, dai silenzi<br />

<strong>di</strong>ffidenti dei primi incontri, a quel parlare per simboli e<br />

sottintesi, cantilenando, fino all’insofferenza <strong>di</strong> Curzette<br />

ch’era andato via imprecando contro le pre<strong>di</strong>che. Bakis promise<br />

che l’indomani sarebbe arrivato in tempo, non si dava<br />

pace del ritardo <strong>di</strong> quel giorno.<br />

– Sto ancora pensando a Curzette, – <strong>di</strong>sse poi. – Sono<br />

arrivato quando stava andando via. Se l’era presa per quelle<br />

cose che <strong>di</strong>cevi sul paese e sul Cumone?<br />

– Per quello e per altro, oggi gli andava tutto stretto.<br />

– Voglio sentirle anch’io quelle storie, non mi muovo se<br />

non mi fai capire tutto.<br />

Alessio per <strong>di</strong>vagare gli consegnò una parte dei sol<strong>di</strong><br />

che aveva ricevuto per una tesi <strong>di</strong> qualche mese prima.<br />

– Non li attendevo più, sembrano guadagnati due volte.<br />

24<br />

Bakis prese i sol<strong>di</strong> con imbarazzo. Non si era mai potuto<br />

convincere che gli spettasse qualcosa per l’aiuto che dava<br />

scrivendo sotto dettatura. Le prime volte aveva tentato <strong>di</strong><br />

opporsi, ma Alessio l’aveva persuaso <strong>di</strong>cendogli che voleva<br />

<strong>di</strong>videre con lui tutto ciò che guadagnava da quel lavoro.<br />

– Sentiamo le storie.<br />

– E se non racconto?<br />

– Mi siedo a pie<strong>di</strong> incrociati e attendo fino a quando<br />

non ti deci<strong>di</strong>.<br />

– Mi conviene arrendermi allora… Parlavamo del paese…<br />

le case, i vicoli, i cortili… sono come libri… raccontano<br />

la vita… la verità spesso è rivelata da un particolare…<br />

agli amici <strong>di</strong>cevo che i cortili delle nostre case sono un segno<br />

<strong>di</strong> solidarietà, un luogo dove si sono svolte e si svolgono forme<br />

<strong>di</strong> vita comunitaria…<br />

L’attenzione con cui Bakis seguiva fece piacere ad Alessio<br />

che, pazientemente, volle impostare un <strong>di</strong>scorso più ampio<br />

risalendo alle origini per capire e far capire le necessità<br />

che avevano spinto la gente a raccogliersi attorno a uno stesso<br />

cortile, ad allevare in comune la capra e il maiale, a servirsi<br />

<strong>di</strong> un’unica legnaia e <strong>di</strong> un unico pascolo, a proiettare<br />

anche fuori quella comunione, nella coltivazione del campo,<br />

nella conduzione del gregge o in altre attività meno precarie.<br />

– Ho capito tutto, – <strong>di</strong>sse Bakis eccitato, come gli accadeva<br />

sempre quando riusciva a seguire il filo dei pensieri <strong>di</strong><br />

Alessio. – Mi piacciono queste cose, racconta ancora.<br />

– È tutto qui… Alcuni sostenevano che non vale la pena<br />

rovistare su quello che è stato. Io sono convinto invece<br />

che per sapere quello che si deve e si può fare oggi bisogna<br />

capire quello ch’è accaduto ieri.<br />

– Non è vero che sono pre<strong>di</strong>che, – insorse Bakis, – anche<br />

dalle parole possono nascere idee. Ti ricor<strong>di</strong> il Cumone?<br />

Era un’idea nata quasi per caso: si parlava <strong>di</strong> quella strana<br />

parola e Alessio ne aveva spiegato i significati soffermandosi<br />

sulle necessità che nelle varie epoche e nei vari luoghi<br />

avevano spinto i pastori a dare vita a forme <strong>di</strong> comunione<br />

che prendevano quel nome, sempre limitate a poche persone<br />

e per tempi brevi. Alessio pensava da tempo a un grande<br />

Cumone che abbracciasse un intero paese. Era convinto che<br />

25


per rigenerare i costumi e i rapporti fra la gente bisognasse<br />

ritornare alle origini. L’anima del suo Cumone era la terra,<br />

bisognava averne molta per estendere i coltivi e assicurare<br />

pascoli abbondanti per l’estate e per l’inverno.<br />

Appena Bakis andò via, Alessio spense la candela e stette<br />

supino sul letto con gli occhi socchiusi. Non aveva sonno,<br />

però sentiva una spossatezza in tutto il corpo, nelle gambe e<br />

nelle mani soprattutto, come dopo una fatica estrema. La<br />

mente, sorprendentemente lucida, ritornava ai fatti accaduti,<br />

quasi si potessero vivere un’altra volta; ma senza le emozioni<br />

del momento le parole e i gesti acquistavano altri significati.<br />

Solo le parole gridate da Curzette avevano la chiarezza<br />

<strong>di</strong> un sasso scagliato. Alessio ne era rimasto turbato più <strong>di</strong><br />

quanto non avesse lasciato capire a Bakis; si sentiva veramente<br />

un pre<strong>di</strong>catore. Fare una tesi per Pietro Denti, lui che<br />

aveva rinunziato alla carriera <strong>di</strong> magistrato per non dover<br />

fingere <strong>di</strong> amministrare la giustizia, era un tra<strong>di</strong>re ciò che<br />

pensava e sentiva. L’alibi del compenso rifiutato o delle necessità<br />

che pressavano non bastava ad assolvere.<br />

Nell’oscurità della stanza si potevano intuire solo i legni<br />

grossi del tetto, il resto era un’ombra vagante. <strong>Il</strong> fruscio del<br />

materasso <strong>di</strong> fieno richiamò la donna che dormiva nell’altra<br />

stanza. – Hai bisogno <strong>di</strong> niente, Alessio?<br />

– No, zia Pasqua.<br />

– Ti sei stancato troppo.<br />

– Sto bene.<br />

La donna andò più volte da una stanza all’altra e quando<br />

vide che Alessio dormiva sostò davanti al letto <strong>di</strong> lui dondolando<br />

il capo.<br />

26<br />

IV<br />

Alessio aveva abitato sempre in quella casa, salvo gli anni<br />

che aveva trascorso fuori per gli stu<strong>di</strong>. La donna, Pasqua<br />

Gaddari, viveva del proprio lavoro; da sua madre aveva appreso<br />

l’arte dei dolci e ora venivano anche dai paesi vicini a<br />

or<strong>di</strong>narle i biscotti, gli zarmini e il pane <strong>di</strong> semola per le nozze.<br />

<strong>Il</strong> suo attaccamento ad Alessio poteva sembrare perfino<br />

esagerato, ma lei giustificava quegli eccessi <strong>di</strong>cendo che gli<br />

orfani avevano bisogno <strong>di</strong> affetto più degli altri. Fin da piccolo<br />

Alessio aveva mostrato una sorprendente vivacità d’ingegno,<br />

tanto che la zia, sollecitata anche da don Satta, che sembrava<br />

volersi prendere cura <strong>di</strong> quel povero orfano, l’aveva<br />

mandato a scuola dove apprendeva con facilità tutto ciò che<br />

il maestro poteva insegnargli. Camillo Gallus, con una pancia<br />

enorme che gl’impe<strong>di</strong>va <strong>di</strong> sedersi, era l’unico maestro del<br />

paese e sapeva molte cose, anche se si ubriacava quasi tutti i<br />

giorni trascurando spesso le lezioni che solo pochi ragazzi frequentavano.<br />

I figli dei pastori e dei conta<strong>di</strong>ni fuggivano la<br />

scuola, avevano quasi paura <strong>di</strong> quella strana lingua che nessuno<br />

capiva. I pochi ragazzi che ci andavano si vergognavano<br />

<strong>di</strong> ripetere le nuove parole che riuscivano ad apprendere: solo<br />

per far ridere <strong>di</strong>cevano che sa pudda il maestro la chiamava<br />

gallina e che anche pisinache, bacantia, mustrencu venivano<br />

chiamati con altri nomi strani. Alessio andava a scuola senza<br />

vergognarsi, anche se gli altri ragazzi gli mettevano le voci per<br />

la sua gracilità e per tutte quelle cose che chiedeva al maestro<br />

pancione. L’avevano sfidato alla lotta e aveva perso con tutti,<br />

ma da quel giorno i compagni avevano smesso <strong>di</strong> canzonarlo,<br />

anche se continuavano a guardarlo con <strong>di</strong>ffidenza per<br />

quell’aria da signorino che si portava addosso. Lui se ne crucciava<br />

e in estate si faceva mandare nell’ovile del cugino <strong>di</strong> sua<br />

zia convinto che il latte quagliato potesse irrobustirlo e dargli<br />

un aspetto più virile. La gracilità rimaneva, anzi sembrava<br />

che il suo corpo si rimpicciolisse, sovrastato dalla testa che<br />

27


cresceva a <strong>di</strong>smisura. Anche la sua mente si sviluppava e a<br />

scuola non aveva <strong>di</strong>fficoltà a trovare un collegamento tra la<br />

lingua che parlava con la zia e con i pastori e la lingua che<br />

tentava d’insegnargli il maestro Camillo il quale, sorpreso e<br />

incuriosito dall’ingegno <strong>di</strong> quello strano ragazzo, saltava<br />

qualche sbornia e s’intratteneva a parlare con lui dei segni e<br />

dei significati delle parole. Camillo era uno stu<strong>di</strong>oso, qualche<br />

anno prima aveva perfino scritto qualcosa su quell’argomento<br />

che tanto lo appassionava; poi la pazzia <strong>di</strong> sua moglie aveva<br />

stroncato ogni suo volere. Alessio gli aveva ridestato antichi<br />

entusiasmi; nella stanzetta buia della scuola parlava solo a<br />

lui andando avanti e in<strong>di</strong>etro per tenersi sveglio. Gli altri ragazzi<br />

non osavano <strong>di</strong>sturbare anche se sorridendo maliziosamente<br />

consideravano stramberie le cose che <strong>di</strong>ceva Camillo<br />

sull’origine delle parole. Alessio a casa si esercitava con un<br />

impegno cocciuto, quando incontrava <strong>di</strong>fficoltà chiedeva alla<br />

zia, che poco poteva <strong>di</strong>rgli, oppure andava a cercare Camillo<br />

nella solita bettola dove lo trovava seduto su una panca con<br />

gli occhi socchiusi e un corno <strong>di</strong> vino in mano. Se era molto<br />

tar<strong>di</strong> lo incontrava per la strada sostenuto dalla vecchia madre<br />

che tentava <strong>di</strong> portarselo a casa. Si avvicinava e chiedeva<br />

al maestro le spiegazioni che gli premevano, ma Camillo,<br />

pieno <strong>di</strong> vino e <strong>di</strong> sonno, raramente rispondeva a tono, straparlava<br />

con sua madre alla quale <strong>di</strong>ceva che voleva morire tra<br />

i fumi del vino. A scuola però consegnò ad Alessio un vecchio<br />

quaderno <strong>di</strong>cendogli:<br />

– Non chiedere più niente agli ubriaconi, qui c’è tutto<br />

quello che sapevo.<br />

Don Satta spesso chiamava Alessio e lo tratteneva a lungo<br />

nel suo stu<strong>di</strong>o. Lo faceva parlare e lo scrutava, come se<br />

volesse entrare nella mente <strong>di</strong> quel ragazzo che lo sorprendeva<br />

ogni volta con i suoi mo<strong>di</strong> garbati, le sue parole piene<br />

d’intelligenza e quel corpicino solo apparentemente fragile.<br />

Decise <strong>di</strong> istituire una borsa <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o per quel povero orfanello<br />

che aveva tanto ingegno.<br />

Alessio <strong>di</strong> suo padre e <strong>di</strong> sua madre sapeva poco, solo<br />

quello che nei primi anni gli aveva detto Pasqua Gaddari, la<br />

quale ripeteva che sua sorella era morta nel mettere al mondo<br />

quell’unico figlio e che il marito <strong>di</strong> lei, Nicola Biote, era<br />

28<br />

morto anche lui poco dopo, quando il bambino non aveva<br />

ancora un mese. Alessio voleva sapere qualcosa <strong>di</strong> più <strong>di</strong> sua<br />

madre, almeno com’era fatta, e <strong>di</strong> suo padre, che nel paese<br />

non aveva lasciato né parenti né ricor<strong>di</strong>: Pasqua gli dava altre<br />

in<strong>di</strong>cazioni, ma sempre molto vaghe. Con la borsa <strong>di</strong><br />

stu<strong>di</strong>o poté proseguire la scuola fuori e ogni estate tornava<br />

in paese con la promozione accompagnata dalla lode dei<br />

professori che rimarcavano la sua versatilità. Don Satta voleva<br />

che entrasse in seminario, gli sembrava che con quell’ingegno<br />

potesse arrivare molto in alto, dove lui non era<br />

voluto arrivare. Ma Alessio <strong>di</strong>ffidava <strong>di</strong> quei suggerimenti,<br />

non voleva farsi prete. Le premure <strong>di</strong> don Satta gli pesavano<br />

e sentiva un bisogno irrefrenabile <strong>di</strong> ribellarsi, <strong>di</strong> <strong>di</strong>re no anche<br />

quando le proposte e le richieste apparivano sagge e generose.<br />

Dopo aver frequentato i collegi <strong>di</strong> Sassari, <strong>di</strong> Cagliari<br />

e una scuola <strong>di</strong> gesuiti a Roma, passò a Torino e s’iscrisse<br />

al corso <strong>di</strong> giurisprudenza appagando almeno in quello il<br />

volere <strong>di</strong> don Satta, al quale non <strong>di</strong>spiaceva la carriera giu<strong>di</strong>ziaria<br />

che in quei tempi <strong>di</strong> rapi<strong>di</strong> mutamenti poteva aprire<br />

molte strade e introdurre anche a corte. A Torino, quando<br />

poteva, seguiva altri corsi <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o e al secondo anno <strong>di</strong><br />

Università era già in grado <strong>di</strong> preparare le tesi <strong>di</strong> laurea per i<br />

giovani aristocratici piemontesi che lo compensavano col<br />

dono <strong>di</strong> libri rari. In estate rientrava a Orvine e don Satta<br />

voleva che lo seguisse ovunque, perfino in chiesa. Per sottrarsi<br />

a quelle attenzioni, che inspiegabilmente lo mettevano<br />

a <strong>di</strong>sagio, si recava spesso nell’ovile del cugino <strong>di</strong> Pasqua<br />

Gaddari dove si radunavano altri pastori che gli chiedevano<br />

<strong>di</strong> Torino e dei torinesi. Andava a trovare anche ziu Kicu, il<br />

servo <strong>di</strong> casa Pintore, il quale gli parlava delle terre tolte ai<br />

pastori e ai conta<strong>di</strong>ni, dell’avi<strong>di</strong>tà degli esattori e della miseria<br />

che avviliva tutti. Don Satta non aveva piacere che Alessio<br />

facesse lega coi pastori, gente senza morale, capace solo<br />

<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>menti, e non voleva neppure che ascoltasse sos contos<br />

<strong>di</strong> Mauru Saccu, un vecchio <strong>di</strong> Bono, rifugiatosi a Orvine<br />

insieme agli altri scampati alla repressione del ’93, il quale<br />

raccontava come erano decisi a farla finita coi feudatari e<br />

coi piemontesi quelli che avevano seguito don Angioy nella<br />

marcia su Cagliari.<br />

29


– Tremavano tutti, – <strong>di</strong>ceva ziu Mauru, rivivendo gli<br />

entusiasmi <strong>di</strong> allora, – eravamo tanti, ciascuno voleva qualcosa:<br />

noi la terra e un po’ <strong>di</strong> giustizia. Potevamo vincere.<br />

Gli altri sorridevano ai vaghi rimpianti del vecchio angioino,<br />

ma Alessio ascoltava con grande interesse e chiedeva<br />

altri particolari. Si sorprendeva che pastori e conta<strong>di</strong>ni, tenuti<br />

sempre lontani dalle gran<strong>di</strong> vicende, si fossero mossi<br />

insieme non spinti solo dalle necessità imme<strong>di</strong>ate della loro<br />

misera esistenza. Don Satta s’infuriava, tutto ciò che faceva e<br />

pensava Alessio sembrava dettato da una caparbia volontà <strong>di</strong><br />

contrad<strong>di</strong>re i principi che lui aveva cercato d’inculcargli.<br />

Quando si approssimò il momento della laurea, mancavano<br />

pochi esami, egli, quasi per sfida, volle imporgli la carriera<br />

<strong>di</strong> magistrato; Alessio, ancora una volta, si ribellò <strong>di</strong>cendo<br />

che non voleva amministrare leggi inique.<br />

– Devi fare quello che <strong>di</strong>co io.<br />

– Non cose che non sento.<br />

– La borsa <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o è mia.<br />

– Potete riprendervela quando volete, io voglio seguire<br />

le mie inclinazioni.<br />

– Certo che me la riprendo, – gli urlò don Satta, fuori <strong>di</strong><br />

sé per l’ingratitu<strong>di</strong>ne con cui veniva ripagato, – non illuderti,<br />

tu non hai sangue mio, non puoi averne –. Alessio rimase<br />

impietrito. La mente gli s’illuminò <strong>di</strong> colpo, gli sembrò <strong>di</strong><br />

capire improvvisamente cose che aveva solo intuito prima e<br />

sulle quali, per una vaga paura, non aveva mai voluto indagare<br />

a fondo.<br />

L’estate stava per finire, sarebbe dovuto tornare a Torino<br />

per dare gli ultimi esami, ma non partì. Si fece mandare le<br />

sue cose, spedì alcune lettere e restò nel paese iscrivendosi<br />

all’Università <strong>di</strong> Cagliari. Non tornò più da don Satta, che<br />

lo mandò a chiamare più volte. Volle sapere, però. Interrogò<br />

Pasqua Gaddari, chiese ad altri che potevano ricordare, fece<br />

ricerche nei registri dei vivi e dei morti e seppe finalmente la<br />

sua storia, una storia che gli sembrava <strong>di</strong> conoscere già, <strong>di</strong><br />

averla sentita raccontare in un tempo lontano, alle origini<br />

della vita forse. Fu felice <strong>di</strong> sapere. Ora tutto acquistava<br />

chiarezza, gli sembrava <strong>di</strong> poter conoscere meglio se stesso,<br />

<strong>di</strong> capire il perché dei suoi crucci, dei suoi stati d’animo e <strong>di</strong><br />

30<br />

quelle ricorrenti <strong>di</strong>ssociazioni che lo spingevano a contrad<strong>di</strong>re<br />

e contrad<strong>di</strong>rsi. Quella storia quasi fantastica ogni tanto<br />

la percorreva con la mente, da quando la grande casa costruita<br />

dai maestri bosani era stata occupata da Placida, la figlia<br />

pre<strong>di</strong>letta <strong>di</strong> don Ennio, e da Melchiorre Dore, venuti a<br />

Orvine, con la figlia Lia, spinti dalla stessa necessità che li<br />

aveva portati davanti all’altare in una giornata senza sole; il<br />

loro matrimonio più che un vincolo d’amore era stato una<br />

comunione <strong>di</strong> beni, <strong>di</strong> terre soprattutto, quelle usurpate a<br />

<strong>Marreri</strong>, a Niniana e a Molas. Sulla loro unione la sorte <strong>di</strong><br />

quell’unica figlia pesava come una croce. Lia, fin da piccola,<br />

aveva una espressione <strong>di</strong>stratta, assente quasi, come se la sua<br />

mente vagasse lontano; parlava a fatica, esprimendosi con<br />

gesti incerti, gli occhi sempre pieni <strong>di</strong> stupore. <strong>Il</strong> padre e la<br />

madre avevano sperato fosse uno smarrimento momentaneo,<br />

ma col tempo Lia era regre<strong>di</strong>ta sempre <strong>di</strong> più fino a ritornare<br />

alla vaghezza dell’infanzia, perdendo quasi la facoltà<br />

della parola. Morto Melchiorre, Placida rimase sola con Lia<br />

e l’anziana domestica, Mariangela Pala. Nella demenza della<br />

figlia vedeva una punizione del cielo e frugava spietatamente<br />

nella sua vita alla ricerca <strong>di</strong> una colpa. Lia, protetta dalla <strong>di</strong>strazione<br />

della sua mente, non capiva le parole dure <strong>di</strong> sua<br />

madre, anche se per istinto si rifugiava presso Mariangela<br />

Pala, sempre affettuosa con lei. Donna Placida, col cuore<br />

gonfio <strong>di</strong> rancore, non volle più vedere quella figlia, che doveva<br />

starsene rinchiusa in una stanza, sorvegliata da Mariangela<br />

<strong>di</strong> giorno e <strong>di</strong> notte. Ma Lia aveva bisogno <strong>di</strong> muoversi,<br />

la sua vitalità era sorprendente. Ogni tanto l’affidavano al<br />

fattore che la conduceva a <strong>Marreri</strong>. Paolo Manca, uomo <strong>di</strong><br />

fiducia della famiglia Satta, vigilava sui pastori, raccoglieva i<br />

prodotti che versavano i conta<strong>di</strong>ni per l’uso delle terre, seguiva<br />

i manovali che zappavano e mietevano e si occupava<br />

<strong>di</strong> tante altre cose, meritando la piena considerazione dei<br />

padroni. Vedovo da tanto tempo, gli era rimasto un solo figlio,<br />

Giovanni, del quale era orgoglioso, anche se l’avrebbe<br />

voluto più smaliziato. Le <strong>di</strong>scese a <strong>Marreri</strong> per Lia erano come<br />

un ritornare al mondo dove la sua mente vagava smarrita.<br />

Ascoltava i canti degli uccelli e le voci che giungevano da<br />

lontano, tendendo l’orecchio con un’espressione attenta che<br />

31


sembrava restituire grazia e intelligenza al suo viso. Giovanni,<br />

il figlio <strong>di</strong> Paolo Manca, le faceva compagnia per tutto il<br />

giorno seguendola lungo il fiume, sotto gli alberi o in collina,<br />

e le parlava. Lei rispondeva con le sue nenie, articolando<br />

qualche parola, come se capisse.<br />

A giugno il grano era maturo a <strong>Marreri</strong>. Paolo Manca<br />

non c’era. Le mietitrici falciavano senza guida e non cantavano.<br />

Lia, rinchiusa in una stanza, sognava <strong>Marreri</strong>, mentre il<br />

suo essere si apriva inconsciamente al mistero della vita. Se<br />

n’era accorta Mariangela. Fu uno schianto per la famiglia<br />

Satta. La gente sapeva solo che Lia era malata. Mariangela<br />

non parlava con nessuno, ma la sera, quando le accarezzava i<br />

fianchi piangeva. Giovanni era scomparso. Di lui non si seppe<br />

più nulla. Paolo Manca era andato a cercarlo. Per giorni e<br />

giorni aveva vagato tra valli e boschi chiedendo a tutti <strong>di</strong> suo<br />

figlio. Non aveva saputo niente. Altri uomini erano andati a<br />

cercare lui e dopo qualche tempo l’avevano trovato appeso a<br />

un albero: aveva voluto pagare così un gesto che offendeva il<br />

cielo, come lui <strong>di</strong>ceva mentre andava errando per i boschi.<br />

Lia era sempre pallida e <strong>di</strong>magriva paurosamente. Sembrava<br />

che tutto il suo essere si <strong>di</strong>ssolvesse nella nuova vita che<br />

portava nel grembo. Soffriva, forse, ma non si lamentava.<br />

Mariangela le parlava amorosamente <strong>di</strong> un piccolo male che<br />

presto sarebbe passato. Lei spalancava gli occhi, più gran<strong>di</strong> e<br />

più chiari, ma non riusciva a cantare le nenie. <strong>Il</strong> pro<strong>di</strong>gio della<br />

vita e della morte si compì <strong>di</strong> notte. La gente pianse per<br />

quell’anima innocente. Qualche giorno dopo donna Placida<br />

<strong>di</strong>sse ch’era tempo. Di sera, era la fine <strong>di</strong> gennaio e c’era freddo,<br />

Mariangela uscì <strong>di</strong> casa con un involtino sotto lo scialle:<br />

piangeva. Fece la strada <strong>di</strong> Muz’e turre ed entrò in un cortile<br />

che già conosceva. Salì una scalinata <strong>di</strong> legno e davanti alla<br />

porta <strong>di</strong> Pasqua Gaddari depose un cestino, bussando prima<br />

<strong>di</strong> scomparire. Pasqua, tremante <strong>di</strong> meraviglia e <strong>di</strong> paura, raccolse<br />

il cestino, dentro il quale, avvolto in can<strong>di</strong>de coperte <strong>di</strong><br />

lana, dormiva un bambino <strong>di</strong> pochi giorni. Al polso aveva<br />

una catenina d’oro e nel pugnetto sinistro stringeva un biglietto<br />

con la data <strong>di</strong> nascita. Queste cose accadevano nel paese,<br />

era un rime<strong>di</strong>o per coprire le vergogne della gente in vista.<br />

<strong>Il</strong> bambino deposto davanti alla porta <strong>di</strong> Pasqua proveniva da<br />

famiglia benestante, lo <strong>di</strong>cevano la catena d’oro, le coperte <strong>di</strong><br />

32<br />

lana e il cestino <strong>di</strong> vimini. Pasqua, dopo i primi giorni <strong>di</strong><br />

smarrimento, si de<strong>di</strong>cò al bambino come se lei stessa l’avesse<br />

generato. Lo fece battezzare nella chiesa <strong>di</strong> Santa Caterina e<br />

gli <strong>di</strong>ede il nome <strong>di</strong> Alessio, in ricordo <strong>di</strong> suo padre. All’inizio<br />

cercò <strong>di</strong> sapere ma inutilmente, poi l’affetto per Alessio fu<br />

tanto che ebbe paura d’indagare. Ma proprio quando non<br />

voleva sapere seppe. La commovente storia <strong>di</strong> Lia e Giovanni<br />

la ra<strong>di</strong>cò ancor più nel convincimento che Alessio appartenesse<br />

solo a lei.<br />

Don Satta voleva che il bambino si tenesse in casa, ma<br />

donna Placida aveva deciso <strong>di</strong> liberarsene, come se non fosse<br />

mai nato da sangue del suo sangue. A Lia non perdonava <strong>di</strong><br />

essere sopravvissuta all’altro figlio, Bastiano, morto appena<br />

nato; il rancore lo riversava anche su quel piccolo essere del<br />

quale non volle sapere mai niente. Mariangela ogni tanto<br />

gliene parlava.<br />

– È un fiore, – le <strong>di</strong>ceva, – se lo vedete, bello come sua<br />

madre e tanto savio.<br />

– Non esiste per me, non parlarmene più, neanche se lo<br />

fanno papa.<br />

Morì chiusa in quel rancore.<br />

* * *<br />

<strong>Il</strong> daffare che univa Alessio e Pepparosa preoccupava<br />

don Satta. All’inizio aveva sorriso, quando gli avevano parlato<br />

della stanza del forno.<br />

– Ha la testa fra le nuvole, – ripeteva. Era curioso però.<br />

Senza darlo a vedere cercava <strong>di</strong> sapere cosa facesse <strong>di</strong> giorno<br />

e <strong>di</strong> notte tutta quella gente nella casa <strong>di</strong> Pasqua Gaddari.<br />

– Allora, anche tu vai a scuola? – chiese al garzone ribelle<br />

<strong>di</strong> Kiocò, Daniele, che lucidava il calesse, come faceva ogni<br />

settimana. Daniele <strong>di</strong>ventò rosso.<br />

– Scuola no, – <strong>di</strong>sse, – an<strong>di</strong>amo a parlare con Alessio.<br />

Tutte cose buone quelle che <strong>di</strong>ce.<br />

– Certo, certo, – brontolò don Satta, – cos’hai imparato<br />

tu?<br />

Daniele, vincendo la vergogna, <strong>di</strong>sse ch’era bello ascoltare<br />

le storie degli antichi: come parlavano, com’erano forti e<br />

sfortunati.<br />

33


– Voi sorridete perché queste cose le sapete, – <strong>di</strong>sse ancora<br />

Daniele – ma capire bene bene tutti i significati delle parole<br />

e i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re degli antichi è importante, si possono<br />

comprendere le <strong>di</strong>sgrazie della vita.<br />

Don Satta avrebbe mandato via volentieri Daniele.<br />

– Ne sanno tanto anche gli altri?<br />

– Io sono piccolo, la mente non ce l’ho ancora sviluppata.<br />

– Adesso lascia tutto e va’, – lo liquidò don Satta, pensando<br />

alla incoscienza del figlio della pazza che senza rendersene<br />

conto stava avvelenando il paese. Seppe dei telai <strong>di</strong> Pepparosa<br />

voluti da Alessio e s’infuriò. La gelosia gli rodeva<br />

l’anima. La scuola <strong>di</strong> Alessio parlava anche a coloro che non<br />

potevano recarvisi. Fuori, nel paese o nei campi, uno ripeteva<br />

all’altro e così le idee camminavano e si spandevano come rigagnoli,<br />

arricchendosi via via perché ognuno aggiungeva<br />

qualcosa <strong>di</strong> nuovo. Quelli che avevano la casa nella parte alta<br />

del paese: i proprietari <strong>di</strong> terre, gli usurai, il sindaco, l’esattore<br />

e il notaio andarono in delegazione da don Satta per chiedergli<br />

<strong>di</strong> far cessare quello scandalo; con la scusa della scuola si<br />

propagavano idee contro la religione, contro la morale, contro<br />

le autorità. <strong>Il</strong> paese aveva bisogno d’altro, non <strong>di</strong> quel veleno.<br />

La febbre in un organismo debole poteva provocarne la<br />

morte. Anche don Satta era convinto che bisognasse stroncare<br />

subito quelle stramberie. Se avesse potuto scendere in<br />

campo aperto avrebbe spazzato via Alessio e i suoi come paglia<br />

al vento, ma il suo prestigio glielo impe<strong>di</strong>va. Occorreva<br />

tatto. Bisognava partire dalle esigenze del paese e fare qualcosa<br />

<strong>di</strong> straor<strong>di</strong>nario. La luce più forte oscura la luce più debole.<br />

Ci pensò giorno e notte, si consultò con le persone più in<br />

vista del paese, andò a Cagliari e a Torino dove le sue idee furono<br />

accolte con grande interesse e una domenica, durante la<br />

funzione, annunciò dal pulpito che voleva fondare un comitato<br />

agrario con lo scopo d’insegnare a conta<strong>di</strong>ni e pastori le<br />

nuove tecniche per la coltivazione dei campi e la trasformazione<br />

dei prodotti. Quando i giovani avessero appreso le<br />

nuove tecniche i fratelli del continente avrebbero investito i<br />

loro capitali per trasformare i campi, dare avvio a nuove opere<br />

e far rifiorire il paese. Occorreva perseveranza, ubbi<strong>di</strong>enza<br />

e fede. Sarebbero venuti anche insegnanti dal continente e<br />

34<br />

specialisti dalla Svizzera. L’annunzio, nonostante la solennità,<br />

non suscitò l’entusiasmo che il rettore si attendeva. <strong>Il</strong> comitato<br />

sorse ugualmente con don Satta presidente, il notaio Cu<strong>di</strong>llo<br />

segretario e consiglieri le personalità più in vista del paese<br />

per censo e istruzione. I soci erano più <strong>di</strong> cento. Don Satta<br />

ci si mise d’impegno. Tutto ciò che sapeva d’agricoltura, ed<br />

era molto, cercò d’insegnarlo ai soci, i quali seguivano faticosamente<br />

tutte quelle nozioni sulla natura dei terreni, sulla selezione<br />

delle sementi, sui cicli delle colture e sugli innesti e le<br />

potature. Don Satta voleva che i soci gli facessero domande e<br />

<strong>di</strong>scutessero su quanto lui spiegava. Qualcuno gli chiese se<br />

non fosse meglio dare la terra ai conta<strong>di</strong>ni prima e imparare<br />

tutte quelle cose dopo, sperimentando ciascuno sul proprio<br />

campo, provando e riprovando, secondo l’indole della terra.<br />

Don Satta spiegò che importante era apprendere il mestiere.<br />

– La terra è <strong>di</strong> chi la fa produrre con fatica e intelligenza.<br />

Per facilitare l’appren<strong>di</strong>mento dei nuovi insegnamenti<br />

compose una specie <strong>di</strong> catechismo del perfetto agricoltore,<br />

in sardo, e lo fece imparare a memoria premiando i migliori<br />

con doni in denaro e gite a <strong>Marreri</strong> per sperimentare le nuove<br />

colture.<br />

<strong>Il</strong> comitato, alla presenza dei soci, si riuniva ogni tanto e<br />

il presidente faceva il punto sui risultati ottenuti, non nascondendo<br />

le <strong>di</strong>fficoltà. Ci furono molti attestati <strong>di</strong> benemerenza,<br />

uno anche da parte della corte <strong>di</strong> Torino, che concesse<br />

un contributo per l’acquisto delle attrezzature, ma nonostante<br />

ciò il prestigio e l’autorità in<strong>di</strong>scussa del rettore non c’erano<br />

più, come se la gente non si volesse <strong>di</strong>sintossicare dal veleno<br />

che le aveva instillato Alessio.<br />

35


V<br />

Quando il giorno moriva <strong>di</strong>etro i monti della Consolata,<br />

nel paese scendeva un silenzio d’attesa per la notte, che appariva<br />

sempre carica <strong>di</strong> misteri; le donne raccoglievano dai cortili<br />

e dai vicoli ogni cosa e continuavano i lavori dentro le case,<br />

alla luce del focolare. Si parlava a bassa voce, con un<br />

pauroso rispetto per gli spiriti del male e del bene che si pensava<br />

aleggiassero nel buio. Piricu Masala, seduto su uno sgabello<br />

davanti al focolare tendeva le mani, anche se il fuoco<br />

era spento. Sua moglie filava al buio. Non parlavano. <strong>Il</strong> ronfo<br />

della conocchia sembrava rintronasse nella piccola cucina.<br />

– È tar<strong>di</strong>, va’ a letto, – <strong>di</strong>sse dopo tanto Piricu. I figli, coricati<br />

sulle stuoie, dormivano già. Mallena Pipere voleva fare<br />

compagnia al suo uomo, ma Piricu insistette: doveva attendere<br />

da solo. Mallena depose la conocchia e muovendosi cautamente<br />

andò nell’altra stanza. Piricu cercava <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere le<br />

sagome dei pochi arre<strong>di</strong>: la ma<strong>di</strong>a, la cassapanca, la tinozza <strong>di</strong><br />

legno, qualche sgabello. Ascoltava. Dall’altra stanza giunse il<br />

fruscìo del materasso <strong>di</strong> fieno, la donna doveva essere già salita<br />

sul letto alto con le spalliere <strong>di</strong> legno robusto. Mallena non<br />

era molto anziana, senza gli abiti logori che indossava in casa,<br />

era ancora piacente. Neanche Piricu era vecchio, nonostante<br />

avesse il viso secco e rugoso dei conta<strong>di</strong>ni. Nel paese ognuno<br />

portava i segni della propria con<strong>di</strong>zione. Mallena non si mosse<br />

più, dormiva o forse ascoltava anch’essa. Nella cucina il silenzio<br />

era profondo. Ogni tanto si u<strong>di</strong>vano scricchiolii dall’incannucciato<br />

o dalla cassapanca. Piricu non riusciva a pensare,<br />

ricordava le storie degli spiriti tormentati che vagano e dei<br />

pro<strong>di</strong>gi che si compiono nel buio della notte. Attendeva ora,<br />

come aveva raccomandato il rettore. Non aveva paura. Era<br />

convinto che qualcosa sarebbe accaduto, don Satta gli spiriti<br />

del male e del bene li muoveva a suo piacimento; nel paese<br />

parlavano ancora <strong>di</strong> come egli avesse domato Bannantana,<br />

posseduto da demoni scatenati che lo costringevano a fare<br />

36<br />

cose inau<strong>di</strong>te e a <strong>di</strong>re parole in lingue incomprensibili; gli<br />

erano bastate poche voci imperiose e un libro nero per scacciare<br />

i demoni ch’erano usciti dalla stanza buia dove il povero<br />

Bannantana giaceva spossato. Gli scricchiolii dell’incannucciato<br />

erano più frequenti, rumorosi quasi. Piricu non si sorprese,<br />

sapeva che le anime delle cose <strong>di</strong> notte si ridestano. Sul<br />

tar<strong>di</strong>, e doveva essere mezzanotte a giu<strong>di</strong>care dal tempo trascorso,<br />

si percepirono calpestii <strong>di</strong> passi. Piricu tese le orecchie,<br />

forse erano pastori frettolosi che rientravano all’ovile, gli spiriti<br />

non potevano far rumore. I passi erano sempre più vicini,<br />

poi si arrestarono. Lui non si mosse, ascoltava, tendendo le<br />

rughe che tormentavano il suo viso. Nel silenzio si udì come<br />

un sibilo <strong>di</strong> vento, poi un muggito, un lamento prolungato.<br />

Piricu si alzò in pie<strong>di</strong>, non riusciva a staccarsi dal focolare. <strong>Il</strong><br />

muggito continuava. Ogni tanto qualche sillaba, come se le<br />

parole fossero dette tra lamenti.<br />

– I buoooiii a Nighirisee, – capì Piricu, che si mosse finalmente.<br />

I passi si allontanarono. Fuori c’era buio e silenzio.<br />

Piricu corse a Nighirisè, la campagna vicina dove solitamente<br />

lasciava il giogo. Trovò i buoi al pascolo, come se<br />

nessuno li avesse mai spostati. Avevano le funi attorno alle<br />

corna. Si precipitò a toccarli, erano sudati, come dopo una<br />

lunga camminata. Li ricondusse in paese e li legò davanti alla<br />

porta della sua casa. A voce bassa raccontò il pro<strong>di</strong>gio a<br />

Mallena, che sommessamente commentò:<br />

– E poi <strong>di</strong>cono che gli spiriti non vanno.<br />

Entrambi attesero controllando ogni tanto i buoi che ruminavano<br />

coricati davanti alla porta. I ragazzi dormivano ancora<br />

sulle stuoie, parlavano nel sonno. Al tocco della messa,<br />

Piricu attese davanti alla casa parrocchiale. Quando il rettore<br />

uscì gli andò incontro, togliendosi la berretta. Don Satta,<br />

con un sorriso malizioso, gli chiese se i buoi erano tornati.<br />

– Come avevate detto voi, – rispose Piricu senza sollevare<br />

la testa, – è venuto qualcuno a muggire davanti alla mia<br />

porta… Ma ho u<strong>di</strong>to anche passi, possibile che le anime<br />

facciano rumore?<br />

Don Satta gli <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> accettare i fatti senza indagare, ci<br />

voleva fede.<br />

– Credo, credo, – si precipitò a <strong>di</strong>re Piricu.<br />

37


– Ora va’ e racconta come sono tornati i tuoi buoi.<br />

Lo lasciò curvo con gli occhi ancora pieni <strong>di</strong> stupore fissi<br />

sul selciato della strada.<br />

Nel paese si parlò molto dei buoi <strong>di</strong> Piricu e dei poteri<br />

del rettore. Tanto fu lo sgomento che, qualche giorno dopo,<br />

quando Kiocò invitò le donne al ballo nel cortile della casa<br />

parrocchiale, nessuna osò <strong>di</strong>re <strong>di</strong> no. Coi primi tepori della<br />

primavera, don Satta imponeva quelle danze ogni domenica,<br />

<strong>di</strong> pomeriggio, per <strong>di</strong>vertirsi e <strong>di</strong>vertire. Le donne invitate,<br />

scelte da lui, indossavano l’abito della festa e si riunivano nel<br />

grande cortile dove Kiocò, seduto su una panca, le faceva<br />

danzare e sfilare in coppia al suono dell’organetto. Gli uomini<br />

non erano ammessi. Don Satta non scendeva, guardava dalla<br />

veranda del suo stu<strong>di</strong>o scrutando a una a una le ragazze rosse<br />

in viso per la danza e il richiamo della stagione. Le più brave<br />

ricevevano in premio un oggetto <strong>di</strong> valore o danaro, secondo<br />

l’umore del rettore. Durante la gara, Carmela porgeva alle ragazze<br />

un bicchierino <strong>di</strong> rosolio e dolci fatti appositamente.<br />

Quando le danze finivano, verso l’imbrunire, Kiocò saliva da<br />

don Satta per sapere se tutto era andato bene. Quella domenica<br />

le ragazze erano più numerose del solito. Tutte avevano<br />

danzato e sfilato mostrando le grazie della loro giovane età.<br />

– Quale ti è piaciuta? – chiese don Satta a Kiocò, che era<br />

salito per sapere cosa dovesse fare.<br />

– Paolina era bella oggi… Se posso <strong>di</strong>rlo, mi faceva perdere<br />

il filo.<br />

– Hai ragione, consegnale questo fazzoletto e fai <strong>di</strong>stribuire<br />

alle altre un po’ <strong>di</strong> dolci. Manda Teresina, qui.<br />

– Teresina? – chiese sorpreso Kiocò.<br />

– Sì, va’.<br />

<strong>Il</strong> premio speciale toccava alla ragazza che più era piaciuta<br />

a don Satta. Accadeva che per più domeniche consecutive<br />

venisse scelta la stessa ragazza, ma più spesso si cambiava<br />

e qualche volta le prescelte erano due, quando don<br />

Satta era <strong>di</strong> umore buono. Kiocò scese e portò il fazzoletto a<br />

Paolina e i dolci alle altre ragazze.<br />

– Tu va’ dal rettore, – <strong>di</strong>sse in <strong>di</strong>sparte a Teresina, che<br />

sembrò <strong>di</strong>sorientata da quell’invito. Le altre ragazze erano<br />

uscite una alla volta.<br />

38<br />

– Perché io? – chiese Teresina che, pur non avendo motivi<br />

precisi, voleva sottrarsi a quell’onore che a molti avrebbe<br />

fatto piacere. Le ragazze che ricevevano il premio speciale<br />

non riferivano mai niente.<br />

– Non so dove andare – <strong>di</strong>sse ancora Teresina, sempre<br />

più smarrita. Don Satta e la sua casa incutevano paura.<br />

– Ti accompagna Carmela, – <strong>di</strong>sse Kiocò, – affidati a<br />

lei, come se fosse tua madre.<br />

Teresina, tenera come un virgulto d’olivastro, aveva un’espressione<br />

trasognata, come se tutto ciò che accadeva intorno<br />

a lei fosse vago e lontano. Proprio quell’aria era piaciuta a<br />

don Satta e la levità con cui essa si muoveva nella danza.<br />

Carmela portava quelle ragazze a don Satta, come aveva<br />

portato se stessa tanti anni prima. Lei attendeva giù, imbronciata,<br />

a volte poco, quando la ragazza si ribellava e scappava,<br />

a volte molto, anche ore. Fece così anche quella sera e<br />

dall’attesa capì quello che poteva essere accaduto.<br />

Quando uscì dalla casa parrocchiale, Teresina aveva una<br />

grande confusione nella mente e nel cuore. Era già notte e lei<br />

camminava per la strada, sola, senza guardarsi intorno. La<br />

promessa <strong>di</strong> don Satta <strong>di</strong> far uscire dal carcere suo fratello<br />

che rischiava pene gravissime aumentava il suo smarrimento.<br />

Fu terribile ciò che provò quella notte e i giorni che seguirono.<br />

Poi suo fratello riacquistò la libertà e lei, come aveva promesso,<br />

andò da don Satta per ringraziarlo.<br />

Grande fu lo stupore nel paese per il ritorno del carcerato,<br />

che sembrava perduto per sempre, ma più grande fu<br />

l’in<strong>di</strong>gnazione quando si videro i miliziani irrompere nella<br />

casa <strong>di</strong> Nicola Porcu sul quale pendevano tutte le imputazioni<br />

miracolosamente cadute dal capo del fratello <strong>di</strong> Teresina.<br />

I miliziani misero sottosopra le case <strong>di</strong> un intero vicinato,<br />

ma nessuna traccia trovarono <strong>di</strong> Nicola. “Non so niente”<br />

rispondeva la gente. Maria Campana riuscì a scavalcare il<br />

cortiletto della sua casa e, attraverso i sentieri nascosti del<br />

bosco, corse all’ovile <strong>di</strong> Nicola. I miliziani ne seguirono le<br />

tracce, camminando piano, però, perché avevano paura <strong>di</strong><br />

addentrarsi nel bosco. I pastori si davano la voce l’un l’altro<br />

e Nicola e Maria, salendo <strong>di</strong> roccia in roccia, arrivarono fino<br />

alla grotta ventosa dove solo le capre e i mufloni potevano<br />

39


arrampicarsi. Avevano nella bisaccia un po’ <strong>di</strong> pane e formaggio<br />

e poterono attendere più giorni, fino a quando i miliziani<br />

non si ritirarono imprecando contro i luoghi impervi.<br />

– Al paese non potremo tornare – <strong>di</strong>ceva Maria. Era<br />

preparata a tutto fin da quando aveva detto il suo no a don<br />

Satta. Saltando il muro del suo cortiletto aveva tagliato ogni<br />

indugio. Nicola era orgoglioso <strong>di</strong> lei.<br />

– Hai voluto legare la tua sorte alla mia – le <strong>di</strong>ceva pensoso<br />

per tutto ciò che li attendeva. Maria non aveva rimpianti,<br />

né paura <strong>di</strong> prendere decisioni estreme.<br />

– Ci faremo unire in matrimonio dai pastori e faremo<br />

anche festa, – ripeteva. Nicola avrebbe voluto che tutto si<br />

svolgesse secondo le usanze. Decisero <strong>di</strong> sposarsi ugualmente<br />

e quando uscì la luna nuova, al mattino presto, i pastori<br />

degli ovili vicini salirono con gli abiti della festa portando<br />

anche i doni: lana d’agnello pronta per la filatura e stoviglie<br />

<strong>di</strong> legno. L’ovile era a ridosso <strong>di</strong> una roccia sotto una grande<br />

quercia. Era una giornata <strong>di</strong> sole, alla fine <strong>di</strong> maggio, il verde<br />

dei boschi era tenero, nelle radure l’erba era alta e le pervinche<br />

fiorivano già. Anche Maria e Nicola avevano gli abiti<br />

della festa, glieli avevano portati i parenti venuti uno alla volta<br />

per non dare nell’occhio. C’era un po’ <strong>di</strong> tristezza all’inizio,<br />

poi il vino offerto sciolse le favelle. La madre <strong>di</strong> Maria<br />

piangeva. Aveva sperato <strong>di</strong> poter festeggiare in altro modo le<br />

nozze <strong>di</strong> quell’unica figlia. Questa cerimonia, senza un segno<br />

sacro, sembrava una sfida al cielo. Gl’invitati fecero cerchio<br />

attorno agli sposi e ciascuno <strong>di</strong>sse il suo augurio. Tutti<br />

erano seri. Maria e Nicola, commossi, non riuscivano a sollevare<br />

lo sguardo. Tornò un grande silenzio. Si u<strong>di</strong>vano solo<br />

le cime delle querce che stormivano al vento e qualche belato<br />

<strong>di</strong> pecora.<br />

– Ora prendetevi per mano, – <strong>di</strong>sse agli sposi Antonio<br />

Dobbe, il più anziano <strong>di</strong> tutti. Maria tese le mani e Nicola<br />

gliele prese. Antonio Dobbe sollevò il braccio destro e <strong>di</strong>sse:<br />

– <strong>Il</strong> cielo e la terra sanno che la vostra unione è onesta.<br />

<strong>Il</strong> coraggio <strong>di</strong> Maria commuove qualsiasi Dio. Non avete<br />

bisogno <strong>di</strong> altre bene<strong>di</strong>zioni. Gli sposi si abbracciarono.<br />

Fu <strong>di</strong>stribuito un altro po’ <strong>di</strong> vino e le donne andarono<br />

a preparare il pranzo. Gli altri fecero festa e ciascuno volle<br />

ballare con Maria.<br />

40<br />

– Gli antichi, – <strong>di</strong>sse Antonio Dobbe, – forse si sposavano<br />

come voi, allora non c’erano i preti e le chiese, forse c’erano<br />

altri preti e altre chiese che sono passati.<br />

Quando la carne fu cotta la tolsero dagli spie<strong>di</strong> <strong>di</strong> legno e<br />

la <strong>di</strong>stesero sui taglieri. <strong>Il</strong> primo pezzo fu lasciato agli sposi.<br />

Al tramonto gli amici andarono via salutando a voce alta.<br />

Nicola e Maria rimasero soli e accesero il fuoco dentro la<br />

capanna. Lui preparò il giaciglio con le stuoie e <strong>di</strong>stese le coperte,<br />

ma non c’era freddo.<br />

– Sei contenta? – chiese a Maria, che rispose con un<br />

cenno del capo; appariva intimi<strong>di</strong>ta ora e non sapeva cosa<br />

<strong>di</strong>re. Nicola si sedette davanti al fuoco e porse uno sgabello<br />

<strong>di</strong> ferula alla sua sposa prendendole le mani. Nessuno parlò,<br />

e si abbracciarono forte come facevano gli antichi quando<br />

non c’erano le chiese.<br />

41


VI<br />

L’inviato speciale del viceré, il conte de Viry, arrivò a Orvine<br />

molto contrariato a causa della <strong>di</strong>savventura capitatagli<br />

a Bono dove la popolazione si era sollevata contro il parroco,<br />

cacciato dal paese a sassate per aver scomunicato i fedeli che<br />

non avevano voluto pagare le decime. <strong>Il</strong> conte era rimasto<br />

rinchiuso nella casa del sindaco e al terzo giorno, quando<br />

erano accorsi i miliziani, era andato via in<strong>di</strong>gnato per quel<br />

ri<strong>di</strong>colo asse<strong>di</strong>o che avrebbe potuto far cessare in un baleno<br />

se avesse potuto far intervenire il suo glorioso reggimento.<br />

Don Satta gli andò incontro col calesse insieme alle altre<br />

personalità del paese. Gli <strong>di</strong>ede il benvenuto e quando seppe<br />

dell’incidente <strong>di</strong> Bono si affrettò a rassicurarlo: ora si trovava<br />

fra sud<strong>di</strong>ti fedeli alla casa regnante. <strong>Il</strong> conte ringraziò, ma<br />

ascoltava e guardava tutto con <strong>di</strong>ffidenza: <strong>di</strong> Orvine e della<br />

sua gente sapeva ciò che gli avevano detto i suoi consiglieri, i<br />

quali avevano compilato rapporti su rapporti, affidandosi<br />

spesso al sentito <strong>di</strong>re, quando non avevano dati certi. Lui,<br />

nonostante l’avessero messo in guar<strong>di</strong>a, era voluto venire<br />

ugualmente, per scommessa quasi. Ora aveva paura, anche<br />

se riusciva a controllare gesti e parole; solo la scorta, rinforzata<br />

dopo i fatti <strong>di</strong> Bono, riusciva a tranquillizzarlo. Alloggiò<br />

da don Satta, nella stanza riservata agli ospiti <strong>di</strong> riguardo, col<br />

letto in ferro battuto, i mobili in noce, il camino con gli alari<br />

e, accanto, il bagno con la tinozza già piena d’acqua. A cena<br />

si <strong>di</strong>stese e conversò cor<strong>di</strong>almente con don Satta, parlando<br />

spesso in francese, com’era usanza alla corte <strong>di</strong> Torino. Uno<br />

squisito liquore al mirto lo rasserenò definitivamente e dopo<br />

le eru<strong>di</strong>te <strong>di</strong>squisizioni volle conoscere la situazione del paese.<br />

Don Satta gliene fece un’accurata descrizione mettendo<br />

in evidenza le occupazioni degli abitanti, gli usi, i costumi, e<br />

le ricorrenti crisi. Parlò della <strong>di</strong>fficile opera <strong>di</strong> educazione<br />

svolta da lui e dai suoi collaboratori e riferì i risultati ottenuti<br />

con la scuola agraria e con le sperimentazioni compiute a<br />

42<br />

<strong>Marreri</strong>. Le resistenze e le trasgressioni venivano dai pastori<br />

che vivevano al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> ogni regola, senza ideali e senza<br />

fede. Solo il rifiorimento dell’agricoltura e gli aiuti esterni<br />

potevano accelerare il processo <strong>di</strong> assimilazione dei sud<strong>di</strong>ti<br />

sar<strong>di</strong> ai sud<strong>di</strong>ti piemontesi. <strong>Il</strong> conte ringraziò don Satta rammaricandosi<br />

<strong>di</strong> non aver trovato negli altri paesi interlocutori<br />

così preparati e appassionati. Tutti si erano limitati a fargli<br />

un elenco <strong>di</strong> beghe paesane, senza che nessuno sapesse guardare<br />

oltre le proprie miserie. Con aria preoccupata poi chiese<br />

come si potessero contenere le intemperanze dei pastori fintanto<br />

che non venissero attuate quelle trasformazioni auspicate.<br />

Aveva sentito parlare <strong>di</strong> loro, li <strong>di</strong>cevano coraggiosi fino<br />

alla temerarietà, pieni <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità, forti fisicamente e capaci <strong>di</strong><br />

resistere a privazioni e fatiche come nessun altro uomo. Un<br />

movimento se<strong>di</strong>zioso che facesse leva su uomini <strong>di</strong> quella<br />

tempra poteva dare seri fasti<strong>di</strong>. Don Satta <strong>di</strong>sse che quella<br />

gente “eccezionale” aveva un punto vulnerabilissimo, lui l’aveva<br />

in<strong>di</strong>viduato. <strong>Il</strong> conte seguiva attento, come se si stesse <strong>di</strong>scutendo<br />

<strong>di</strong> strategia militare. Questo prete lo incuriosiva e<br />

lo sorprendeva anche. Egli era convinto che in <strong>Sardegna</strong> anche<br />

i preti fossero più vicini alla bestia che all’uomo. L’ultima<br />

conferma gliel’aveva data il su<strong>di</strong>cio parroco <strong>di</strong> Bultei che<br />

due giorni prima l’aveva accolto villanamente presentandoglisi<br />

ubriaco e con un tascapane sulle spalle pronto a correre<br />

<strong>di</strong>etro alle pecore che teneva al pascolo in un tancato vicino<br />

al paese. Trovare in questo villaggio un parroco così <strong>di</strong>verso<br />

da tutti gli altri, intelligente, colto e perfino pulito <strong>di</strong>sorientava:<br />

certamente non doveva essere in<strong>di</strong>geno, anche se portava<br />

quel nome.<br />

– Sentiamo questa scoperta, – chiese con apparente noncuranza.<br />

Don Satta sorrise, voleva far spazientire un po’ il<br />

conte e <strong>di</strong>vagò su come nascono e si ra<strong>di</strong>cano le credenze e le<br />

paure in una comunità.<br />

– Non ho inventato niente, – <strong>di</strong>sse poi, – basta osservare<br />

e capire. Le <strong>di</strong>co tutto in una parola: superstizione – scandì<br />

con aria pensosa. <strong>Il</strong> conte sembrò deluso.<br />

– Non sottovaluti quest’elemento irrazionale, – riprese<br />

don Satta. – Ho visto pastori fieri e coraggiosi piegarsi pieni<br />

<strong>di</strong> paura <strong>di</strong> fronte a semplici fenomeni naturali. Tutti i miei<br />

43


eni, tutte le mie energie le ho impegnate per sollevare questa<br />

comunità, ma anche la superstizione può avere la sua<br />

utilità sociale come ricorda il suo de Maistre.<br />

<strong>Il</strong> conte annuì, ciò che <strong>di</strong>ceva il prete rientrava nella <strong>di</strong>fficile<br />

arte del governare. Egli però non si attendeva <strong>di</strong> dover<br />

affrontare questioni <strong>di</strong> quella portata che tormentavano la<br />

mente e la coscienza del sovrano. Fu colpito dall’accenno all’agricoltura<br />

e ai capitali necessari. Pacatamente, come se pesasse<br />

ogni parola, <strong>di</strong>sse:<br />

– Reverendo, la <strong>Sardegna</strong> è una terra cara ai piemontesi,<br />

l’asilo dato agli augusti sovrani durante lo sciagurato periodo<br />

napoleonico nessuno l’ha <strong>di</strong>menticato e nessuno lo <strong>di</strong>menticherà.<br />

Ma, a parte i sentimenti e gli affetti, quali convenienze<br />

può offrire la <strong>Sardegna</strong> ai capitali della libera iniziativa? –.<br />

Ebbe un’esitazione: sapeva che proprio in quel momento le<br />

trattative segrete per la cessione dell’isola alla Francia avevano<br />

fatto passi decisivi. Come si potevano rischiare capitali in<br />

quella terra così lontana, in procinto <strong>di</strong> passare ad altri? <strong>Il</strong><br />

Piemonte aveva sempre considerato precario quel posse<strong>di</strong>mento.<br />

<strong>Il</strong> conte era un buon <strong>di</strong>plomatico e non lasciò trasparire<br />

queste sue preoccupazioni, che poi erano le preoccupazioni<br />

della corte <strong>di</strong> Torino. Continuò con la sua aria pensosa:<br />

– Manca tutto. Si tratta <strong>di</strong> sperimentare nuove colture,<br />

<strong>di</strong> costruire strade, case coloniche e tutto ciò che <strong>di</strong>stingue<br />

un’agricoltura moderna. I tempi <strong>di</strong> ren<strong>di</strong>mento sono troppo<br />

lunghi. È un’impresa rischiosissima dal punto <strong>di</strong> vista della<br />

libera iniziativa, che noi dobbiamo rispettare e incoraggiare<br />

se veramente vogliamo allinearci alle nazioni più progre<strong>di</strong>te.<br />

Bisognerebbe iniziare con investimenti sicuri e senza vincoli<br />

durevoli.<br />

Don Satta era contrariato. I ragionamenti del conte non<br />

tenevano presente la necessità politica <strong>di</strong> una nuova classe<br />

che facesse da tramite tra la corte e il popolo. Bisognava<br />

riempire il vuoto lasciato dai feudatari, altrimenti era la <strong>di</strong>sgregazione<br />

totale, non si salvava niente, né re, né santi, né<br />

Dio. <strong>Il</strong> conte non aveva convincimenti su quella complessa<br />

materia, però era sod<strong>di</strong>sfatto <strong>di</strong> quello che aveva detto e del<br />

modo con cui l’aveva detto. In <strong>di</strong>plomazia più che le idee<br />

contavano le rappresentazioni. Riprese il suo <strong>di</strong>scorso:<br />

44<br />

– Venendo qui, fra tanto squallore mi hanno impressionato<br />

i boschi. Sono intatti, come Dio li ha creati, salvo una<br />

striscia lungo il pen<strong>di</strong>o della montagna. Estensioni a per<strong>di</strong>ta<br />

d’occhio.<br />

– Quella striscia fu venduta qualche anno fa a imprese<br />

del continente per ricavare scorza e cenere. <strong>Il</strong> guadagno fu<br />

buono, si poté costruire la fontana…<br />

<strong>Il</strong> conte, molto garbatamente, interruppe il rettore:<br />

– Non cenere, ma carbone bisogna ricavare. In questo<br />

settore i capitali si potrebbero rischiare.<br />

Don Satta insisteva, occorreva sollevare subito l’agricoltura,<br />

il resto poteva attendere.<br />

– Si deve andare per gra<strong>di</strong>, – <strong>di</strong>sse il conte, – allo sfruttamento<br />

dei boschi seguiranno altri investimenti, secondo le<br />

convenienze che man mano matureranno. Importante è far<br />

circolare un po’ <strong>di</strong> moneta in quest’economia <strong>di</strong>ssanguata.<br />

Spinto dalla facilità con cui fluivano le parole si cimentò<br />

in un’altra rappresentazione:<br />

– La moneta determina nuove possibilità, nuovi rapporti<br />

tra uomini e cose… accende la fantasia e <strong>di</strong>stribuisce<br />

meglio le gerarchie sociali, selezionando le capacità dei singoli.<br />

Io sono un fisiocratico, ma ammiro i mercantilisti sotto<br />

molti aspetti.<br />

Don Satta, scherzosamente, <strong>di</strong>sse che aveva l’impressione<br />

<strong>di</strong> ascoltare Mefistofele alla corte dell’imperatore.<br />

– C’è tanto da fare, – soggiunse molto serio, – e non c’è<br />

più tempo, abbiamo perso secoli… Certo i boschi, se si trovassero<br />

imprese <strong>di</strong>sposte…<br />

<strong>Il</strong> conte promise che se ne sarebbe occupato lui, suo padre<br />

aveva alcuni affari in quel settore; pregò don Satta <strong>di</strong> fargli<br />

avere un appunto con le in<strong>di</strong>cazioni sull’estensione e sull’appartenenza<br />

dei terreni boscosi. Aveva voglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>vagare e<br />

volle appagare qualche sua curiosità.<br />

– Non ha mai pensato <strong>di</strong> uscire da questo paese? – chiese,<br />

come se avesse proposte da fare.<br />

– Le occasioni non sono mancate.<br />

– Cosa la trattiene?<br />

– Tutto e niente… Si sono creati legami inestricabili fra<br />

me e questo paese, come se ci possedessimo a vicenda.<br />

45


– Fuori <strong>di</strong> qui, in una città poniamo, avrebbe altra considerazione,<br />

altro prestigio.<br />

– Mi basta quello che ho, se riuscissi a conservarlo. Altrove<br />

mi troverei fuori posto, la mia esistenza è regolata secondo<br />

i ritmi e gli umori <strong>di</strong> questi luoghi e <strong>di</strong> questa gente.<br />

– Se dovesse cambiare idea io…<br />

Don Satta lo interruppe con un gesto della mano, come<br />

se volesse esorcizzare quella eventualità. La serata finì così.<br />

A parte l’eccitazione del sindaco, dei membri del comitato<br />

agrario e <strong>di</strong> Kiocò, l’arrivo dell’inviato speciale nel paese<br />

fu accolto con molta in<strong>di</strong>fferenza, anche se l’avvenimento<br />

era eccezionale, non essendo mai accaduto che un ospite così<br />

illustre si trattenesse per due giorni. Ma i pastori, i conta<strong>di</strong>ni<br />

e la povera gente non facevano <strong>di</strong>stinzione fra re, viceré<br />

ed esattori delle imposte. Uno valeva l’altro, chi non poteva<br />

muovere le mani muoveva i pie<strong>di</strong> per opprimere e perseguitare<br />

senza pietà. Molti credevano che ci fosse ancora il viceré<br />

spagnolo e se qualcuno, più informato, <strong>di</strong>ceva ch’era piemontese,<br />

non ci si meravigliava e ci si limitava a <strong>di</strong>re:<br />

– Ah, l’hanno cambiato?<br />

Don Satta dal pulpito parlava spesso del re, del viceré e<br />

del papa, ma i fedeli credevano che quella parte delle pre<strong>di</strong>che<br />

riguardasse gli sfoghi eru<strong>di</strong>ti del rettore e che non interessasse<br />

la loro vita <strong>di</strong> ogni giorno.<br />

L’indomani il conte de Viry incontrò le personalità del<br />

paese, nella casa parrocchiale. La sala grande del piano terra<br />

era piena. Insieme al rettore c’erano tutti i consiglieri del comitato<br />

agrario, i soci più meritevoli e Kiocò. <strong>Il</strong> sindaco consegnò<br />

all’illustre ospite l’elenco dei latitanti. L’inviato, come<br />

aveva fatto negli altri villaggi, calcolò il rapporto fra popolazione<br />

e malviventi ottenendo un in<strong>di</strong>ce nettamente sfavorevole.<br />

Stava per esprimere il suo malcontento quando lesse in<br />

fondo all’elenco il nome <strong>di</strong> Campana Maria. La curiosità lo<br />

spinse a interessarsi del caso. <strong>Il</strong> sindaco, cui fecero eco gli altri<br />

esponenti presenti, elencò tutti i reati che pendevano sul capo<br />

<strong>di</strong> Porcu Nicola e della sua sciagurata donna e, con aria<br />

contrita, stigmatizzò l’atto sacrilego che tanto aveva addolorato<br />

il rettore e la popolazione. L’inviato avrebbe voluto sapere<br />

qualcosa <strong>di</strong> più sulla ragazza: se era stata sempre così ribelle e<br />

46<br />

che cosa avesse <strong>di</strong> particolare per trascinarsi <strong>di</strong>etro gli uomini<br />

in quel modo, ma poi ritenne che non era opportuno e fece<br />

qualche domanda, per formalità, in quanto la conversazione<br />

avuta con don Satta la sera prima era stata molto esauriente.<br />

Tutti <strong>di</strong>ssero che, a parte i latitanti, che c’erano dappertutto,<br />

il paese viveva in pace, la gente era laboriosa e sapeva sopportare<br />

in silenzio le annate <strong>di</strong>sastrose e le altre <strong>di</strong>sgrazie. <strong>Il</strong><br />

merito era del rettore, che aveva preso tante iniziative buone<br />

e aveva cura del paese e della gente che vi abitava. Don Satta<br />

non si commosse, né s’inorgoglì: erano lo<strong>di</strong> che gli spettavano.<br />

Kiocò tentò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re la sua, incespicando più che mai su<br />

ogni parola. Voleva confermare che tutto ciò che <strong>di</strong> buono<br />

c’era nel paese si doveva a don Satta e cercava <strong>di</strong> fare l’elenco<br />

contando sulla punta delle <strong>di</strong>ta: la chiesa, la più bella del<br />

mondo, la strada per <strong>Marreri</strong>, la fontana, la scuola agraria e<br />

la gente che rubava <strong>di</strong> meno. Era una pena sentirlo balbettare<br />

in quel modo e don Satta liberò tutti rivolgendosi a un<br />

socio del comitato per fargli domande sul catechismo del<br />

buon agricoltore. E quello, in sardo, tutto d’un fiato, come<br />

una filastrocca recitò le teorie sugli innesti, sulle potature, sui<br />

concimi, sulle stagioni delle semine e sull’epoca del raccolto.<br />

Don Satta traduceva e il conte annuiva sod<strong>di</strong>sfatto. A conclusione<br />

dell’incontro l’inviato speciale fece un <strong>di</strong>scorso alla<br />

buona, ricordando quanto aveva fatto il regio governo per la<br />

<strong>di</strong>letta <strong>Sardegna</strong> e promettendo altre cose da fare per il bene<br />

<strong>di</strong> tutti. Era necessario convivere pacificamente, restare fedeli<br />

alla corona, osservare le leggi. L’incontro era ormai terminato<br />

quando qualcuno <strong>di</strong>sse qualcosa a bassa voce al rettore,<br />

che cambiò subito d’umore. Fuori attendeva Alessio Biote,<br />

chiamato dal conte ch’era curioso <strong>di</strong> conoscerlo per tutte le<br />

maliziose allusioni a lui de<strong>di</strong>cate nel rapporto su Orvine.<br />

Don Satta la sera precedente aveva tentato in tutti i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

evitare quell’incontro, ma il conte gli aveva fatto tante domande<br />

ottenendo risposte che l’avevano vieppiù incuriosito.<br />

Ci fu un silenzio attento, preoccupato. Don Satta si rivolse<br />

in francese al conte, che annuì. Un passaggio si aprì in mezzo<br />

alla gente che affollava la sala e Alessio entrò, solo, guardandosi<br />

attorno: provava <strong>di</strong>sagio e fasti<strong>di</strong>o per tutti quegli<br />

sguar<strong>di</strong> puntati su <strong>di</strong> lui. Si fermò a pochi passi dall’inviato,<br />

47


seduto insieme a don Satta <strong>di</strong>etro un grande tavolo, e fece<br />

un cenno <strong>di</strong> saluto.<br />

– Non so la ragione della mia presenza qui, – <strong>di</strong>sse con<br />

voce alterata, – i pastori hanno più cose da <strong>di</strong>re.<br />

<strong>Il</strong> conte sembrava deluso, si attendeva un uomo vigoroso<br />

e fiero che incutesse rispetto e paura e invece si trovava <strong>di</strong><br />

fronte un esserino delicato con un’aria sofferente: pareva uno<br />

scherzo del suo consigliere. Una certa sorpresa c’era però:<br />

quel corpo esile era sovrastato da una testa che poteva <strong>di</strong>rsi<br />

bella con quegli occhi chiari da nor<strong>di</strong>co e quel biondo cenere<br />

dei capelli che ricordava i nobili <strong>di</strong> antico stampo. Non gli<br />

piacque l’impertinenza con cui gli si presentò Alessio.<br />

– Perché pensa ch’io cerchi gente da ascoltare? – gli chiese<br />

con un sorriso stanco che valeva un rimprovero.<br />

– Non sarà venuto a Orvine per cambiare aria, – <strong>di</strong>sse<br />

Alessio, perdendo la calma. – Se vuole conoscere e capire deve<br />

vedere e ascoltare anche i pastori.<br />

Don Satta sentiva quel rimescolio d’o<strong>di</strong>o e d’amore che<br />

sempre lo assaliva quando si trovava <strong>di</strong> fronte ad Alessio.<br />

Lo guardava e gli pareva <strong>di</strong> avere davanti a sé Lia.<br />

– Alessio, – gli <strong>di</strong>sse, dominando i tumulti del suo animo,<br />

– il conte de Viry ha potuto ascoltare la voce <strong>di</strong> quanti<br />

affollano questa sala e sono tanti, pensi veramente che la<br />

gente che è qui non sia in grado <strong>di</strong> dare utili in<strong>di</strong>cazioni all’illustre<br />

ospite sui molti bisogni del nostro paese? Perché<br />

vuoi fare torto a noi tutti?<br />

Alessio capì che la sua presenza dava fasti<strong>di</strong>o: non <strong>di</strong>sse<br />

niente e lasciò che don Satta si rodesse nel suo cruccio <strong>di</strong>ssimulato<br />

appena da quel parlare insolitamente pacato. <strong>Il</strong> conte<br />

non aveva voglia <strong>di</strong> ascoltare i pastori: a parte ciò che gli<br />

aveva riferito don Satta sul loro conto e i preoccupati avvertimenti<br />

del suo consigliere, sentiva per loro una repulsione<br />

istintiva, come se fossero portatori <strong>di</strong> peste, ma era anche<br />

impaziente <strong>di</strong> liberarsi <strong>di</strong> coloro che altro non avevano saputo<br />

<strong>di</strong>re che ripetere le litanie del tutto va bene. Disse qualcosa<br />

a don Satta e in un momento tutti uscirono dalla sala,<br />

fuorché Alessio che fu fatto sedere.<br />

– Che cosa avrebbero potuto <strong>di</strong>rmi i suoi amici? – chiese<br />

il conte con fare garbato che induceva al colloquio. Alessio<br />

48<br />

con più calma gli <strong>di</strong>sse che se voleva rendere proficua la sua<br />

visita doveva uscire dalla casa parrocchiale, camminare per le<br />

strade del paese, entrare nelle povere case <strong>di</strong> Cadone e Parraghine<br />

e farsi raccontare dalle donne come vivevano, quali<br />

paure le tormentavano, quali violenze subivano.<br />

<strong>Il</strong> conte ascoltava con un imperturbabile sorriso.<br />

– Lei è figlio <strong>di</strong> pastori?<br />

– No.<br />

– Figlio <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni?<br />

– No.<br />

– Di che si occupa?<br />

– Di scuola, potrei <strong>di</strong>re.<br />

– Insegnante?<br />

– Insegno e apprendo.<br />

<strong>Il</strong> conte si stava spazientendo.<br />

– A chi insegna e da chi apprende e che cosa? – chiese<br />

ancora per porre fine a quello strano indovinello.<br />

– Sto con i pastori e i conta<strong>di</strong>ni, apprendo le cose della<br />

vita e do quel che so.<br />

– Ma la scuola vera, la scuola che conta l’ha fatta?<br />

Alessio rispondeva seccamente. Era preoccupato, lo si<br />

capiva dallo sguardo.<br />

– Dalla vostra scuola mi hanno mandato via, il rettore<br />

conosce la storia.<br />

Don Satta provava fasti<strong>di</strong>o per quell’interrogatorio; il<br />

conte voleva ficcare il naso su cose che non lo riguardavano,<br />

come aveva tentato <strong>di</strong> fare la sera prima con lui. Sforzandosi<br />

<strong>di</strong> mantenere la calma <strong>di</strong>sse:<br />

– Non sono depositario <strong>di</strong> segreti particolari, i fatti sono<br />

noti a tutti. Stu<strong>di</strong>ava a Torino, poi a Cagliari, poteva fare il<br />

giu<strong>di</strong>ce o altro, il talento non gli mancava. Si trovò in mezzo<br />

a un tumulto <strong>di</strong> pastori che protestavano per gl’indennizzi<br />

concessi ai feudatari. Fu arrestato. Colpe non ce n’erano e<br />

si riuscì a farlo liberare. Ma l’esclusione da tutte le scuole fu<br />

irrevocabile.<br />

<strong>Il</strong> conte era sorpreso della caparbietà <strong>di</strong> Alessio che preferiva<br />

parlare <strong>di</strong> pastori e <strong>di</strong> bestie e sembrava non rimpiangere<br />

niente.<br />

– Le piaceva Torino? – gli chiese tanto per sondare.<br />

49


– Non mi piacciono i torinesi, o meglio l’idea <strong>di</strong>storta<br />

ch’essi hanno della nostra gente.<br />

– Mi domando cosa può aver appreso lei a Torino con<br />

tutto il suo talento.<br />

– Ho imparato a capire meglio uomini e cose della mia<br />

terra.<br />

Alessio, con un insolito accento <strong>di</strong> sincerità, rendeva le<br />

cose che <strong>di</strong>ceva meno spiacevoli.<br />

– Conosco la povertà del paese, – <strong>di</strong>sse il conte – ne ho<br />

<strong>di</strong>scusso a lungo col vostro rettore. Secoli <strong>di</strong> storia non si<br />

cancellano con un colpo <strong>di</strong> bacchetta magica. Ciò che ha<br />

fatto il regio governo ha del miracoloso. Quante riforme!<br />

Quante novità affidandosi alla ragione e al buon senso!<br />

Alessio voleva parlare <strong>di</strong> Orvine e della sua gente, ma il<br />

conte lo portava su un terreno più insi<strong>di</strong>oso.<br />

– Potevate riparare secoli d’ingiustizie, non lo avete fatto,<br />

anzi siete stati più iniqui degli stessi spagnoli –. Don Satta<br />

non riuscì più a star seduto. Quegli spropositi potevano<br />

in<strong>di</strong>sporre il conte, che pure mostrava tanta tolleranza, troppa<br />

perfino. In pie<strong>di</strong>, rivolto all’inviato, <strong>di</strong>sse:<br />

– Alessio è sempre paradossale…<br />

<strong>Il</strong> conte, inspiegabilmente, era <strong>di</strong>sposto a perdonare tutte<br />

quelle stravaganze, lui che aveva fatto sette duelli per <strong>di</strong>fendere<br />

l’onore del Piemonte offeso da una semplice allusione.<br />

Alessio parlò ancora, pacatamente all’inizio, poi con veemenza,<br />

come se dovesse dare voce a coloro che avevano sempre<br />

taciuto e non sapevano <strong>di</strong> re, <strong>di</strong> viceré e dei loro inviati: soprusi<br />

e violenze; leggi imposte calpestando tra<strong>di</strong>zioni, lingua<br />

e credenze; <strong>di</strong>visioni volute aizzando gli uni contro gli altri<br />

con l’inganno e la corruzione; volontà <strong>di</strong> non asservirsi dei<br />

pastori chiamati selvaggi o ban<strong>di</strong>ti… tutto ciò fluì nelle sue<br />

parole come la piena <strong>di</strong> un fiume.<br />

<strong>Il</strong> conte, anziché in<strong>di</strong>gnarsi, minacciare, far intervenire<br />

le guar<strong>di</strong>e provava piacere a continuare quella schermaglia.<br />

Guardando Alessio che parlava con l’in<strong>di</strong>ce puntato come<br />

se volesse accusare il mondo, si ricordò <strong>di</strong> un angelo con la<br />

tromba <strong>di</strong>pinto sul soffitto <strong>di</strong> una sala della corte <strong>di</strong> Torino.<br />

Nella sua indulgenza però vi era un po’ <strong>di</strong> autocompiacimento:<br />

Alessio, con la sua ingenua intransigenza, gli dava la<br />

50<br />

misura <strong>di</strong> quanto fosse <strong>di</strong>fficile me<strong>di</strong>are, arte nella quale egli<br />

si esercitava con tanto successo in ogni occasione; anche ora<br />

gli sembrava che tutto ciò che aveva detto questo bizzarro<br />

personaggio andasse rappresentato <strong>di</strong>versamente, sfumando<br />

tutto e muovendosi per allusioni. Ammorbidendo il tono<br />

della voce volle dare un affondo con una voluta <strong>di</strong> interrogativi<br />

come usavano gli antichi oratori.<br />

– Crede che portare una lingua colta quale è quella dei<br />

nostri padri sia mortificare la cultura? Crede che <strong>di</strong>ffondere<br />

l’insegnamento della religione cristiana sia un sopruso? Crede<br />

che le riforme che il regio governo ha esteso alla <strong>Sardegna</strong><br />

siano da condannare soltanto perché hanno scosso se<strong>di</strong>menti<br />

<strong>di</strong> vecchie istituzioni?<br />

Don Satta, più schiettamente, <strong>di</strong>sse che Alessio parlava<br />

in nome del popolo, ma che i sar<strong>di</strong> la pensavano <strong>di</strong>versamente,<br />

i sar<strong>di</strong> che contavano, che avevano cultura e facevano la<br />

storia. Disse ancora:<br />

– Umanamente e cristianamente i pastori ci sono cari,<br />

ma non possiamo amare la loro ignoranza, la loro miseria<br />

morale, la loro mancanza <strong>di</strong> idealità.<br />

<strong>Il</strong> conte qualche preoccupazione l’aveva. Pensava che pastori<br />

e conta<strong>di</strong>ni si erano potuti imbrigliare perché non erano<br />

riusciti mai a esprimere uomini capaci <strong>di</strong> guidarli, <strong>di</strong> dare un<br />

in<strong>di</strong>rizzo alla loro protesta, <strong>di</strong> aprire loro gli occhi insomma.<br />

Questo qui poteva <strong>di</strong>ventare un capo. Bisognava neutralizzarlo.<br />

<strong>Il</strong> regio governo era invi<strong>di</strong>abile sotto quest’aspetto. Gli<br />

elementi pericolosi li sra<strong>di</strong>cava dal loro ambiente, offrendo<br />

qualche impiego che appagasse le vanità, se possibile, oppure<br />

con la forza. Nelle città le operazioni <strong>di</strong> recupero e <strong>di</strong> assimilazione<br />

erano facili. C’erano stati elementi in<strong>di</strong>geni che si<br />

erano <strong>di</strong>stinti per zelo e anche per capacità. In questi villaggi<br />

sperduti era stata impiegata sempre la forza solo perché non<br />

vi erano stati uomini <strong>di</strong> spicco. Alessio abbassò la testa e non<br />

parlò più. Capì che al conte non importava niente <strong>di</strong> Orvine<br />

e delle sue miserie, gli piaceva giocare con le parole, come si<br />

usava nei salotti <strong>di</strong> Cagliari e <strong>di</strong> Torino. Don Satta era scontento<br />

<strong>di</strong> entrambi, <strong>di</strong> Alessio che con la sua tirata aveva travisato<br />

tutto, dando un’immagine <strong>di</strong>storta <strong>di</strong> se stesso e degli altri,<br />

e del conte, pettegolo e inutilmente verboso.<br />

51


<strong>Il</strong> silenzio ostinato <strong>di</strong> Alessio pareva una provocazione,<br />

ma l’inviato non se ne risentì, egli era un <strong>di</strong>plomatico in<br />

ogni suo atto e aveva sempre due verità: quella per sé, dettatagli<br />

da ciò che vedeva e sentiva, e quella per gli altri, calibrata<br />

secondo le opportunità, in<strong>di</strong>pendentemente dai suoi<br />

convincimenti. Alessio per lui aveva la testa piena <strong>di</strong> utopie,<br />

ingenue per giunta. Era inutile farlo scendere dalle nuvole<br />

bruscamente. Però le sue argomentazioni quanto più erano<br />

astratte tanto più potevano far presa. Bisognava tagliargli gli<br />

artigli a poco a poco.<br />

Alla fine don Satta <strong>di</strong>sse che si era fatto tar<strong>di</strong> e Alessio<br />

chiese <strong>di</strong> poter andar via. <strong>Il</strong> conte non lo trattenne oltre, ma<br />

gli <strong>di</strong>sse che avrebbe potuto in<strong>di</strong>rizzare <strong>di</strong>versamente la sua<br />

vita.<br />

52<br />

VII<br />

Alessio trovò fuori gli amici, ansiosi <strong>di</strong> sapere.<br />

– Cosa volevano?<br />

– Non lo so, forse solo vedermi.<br />

– Hai parlato chiaro?<br />

– Mi considerano stravagante.<br />

– E il rettore?<br />

– Era sulle spine.<br />

Arrivarono alla stanza del forno. Erano pochi. Ora non<br />

c’erano più gli affollamenti dei primi tempi. Si sedettero sulle<br />

panche addossate al muro. I pastori si tolsero le berrette, Alessio<br />

la giacca. Sembravano tutti delusi. Non che da quell’incontro<br />

si attendessero niente, però avvenimenti eccezionali<br />

come questo qualche vaga speranza potevano pure accenderla.<br />

Anche Alessio si era incupito, rimuginava ciò che gli avevano<br />

detto l’inviato e don Satta e provava sconforto per non<br />

essere riuscito a farsi capire. Gli altri lo guardavano, sorpresi.<br />

– Prima eravamo tanti, quasi non ci stavamo in questa<br />

stanza e si parlava, e le parole dell’uno davano coraggio agli<br />

altri –. Era Pasquale Contena, un pastore. Quando rientrava<br />

in paese, e accadeva ogni mese, andava da Alessio e s’intratteneva<br />

fino all’ora <strong>di</strong> rientrare all’ovile.<br />

– Non è successo niente che debba scoraggiarci, – <strong>di</strong>sse<br />

Alessio, che sembrò ridestarsi d’improvviso dalle sue me<strong>di</strong>tazioni.<br />

– Ora è la stagione della mietitura e i conta<strong>di</strong>ni non<br />

possono rientrare in paese. Ma possiamo trovarci ancora.<br />

Pasquale voleva che ci si rivedesse tutti l’indomani, lui<br />

avrebbe pensato ad avvisare i pastori e i conta<strong>di</strong>ni che si trovavano<br />

nella sua zona, lo stesso avrebbero potuto fare gli altri.<br />

– Io ci sto, – <strong>di</strong>sse Alessio, contento <strong>di</strong> rivedere il sorriso<br />

sul volto magro <strong>di</strong> Pasquale. Anche gli altri <strong>di</strong>ssero che per<br />

loro andava bene.<br />

– Ditemi dove – chiese Alessio.<br />

– A Nighirisè – propose Pasquale.<br />

53


Qualcuno <strong>di</strong>sse che bisognava lasciare il cavallo per Alessio.<br />

Si offrirono a gara. Non si parlò d’altro e la riunione si<br />

sciolse. Suonava mezzogiorno.<br />

Nella casa del rettore la tavola era già imban<strong>di</strong>ta per il<br />

pranzo in onore dell’inviato speciale. Carmela, assistita da<br />

altre donne e da Kiocò, aveva seguito scrupolosamente le<br />

prescrizioni <strong>di</strong> don Satta, che aveva stabilito ogni minimo<br />

particolare, dalla quantità e tempi <strong>di</strong> cottura dei cibi, ai costumi<br />

che dovevano indossare le ragazze chiamate a servire a<br />

tavola. L’inviato aveva acconsentito a che s’invitassero il sindaco,<br />

il notaio, i membri del comitato agrario e alcuni proprietari<br />

<strong>di</strong> terre. Ogni cosa andò per il verso giusto e il conte<br />

ne fu sorpreso: non immaginava <strong>di</strong> scoprire in un villaggio<br />

sperduto raffinatezze degne d’una corte, anzi con qualcosa<br />

<strong>di</strong> più: una classe e una naturalezza ch’egli non aveva mai riscontrato<br />

né a Cagliari, né a Torino e neanche nei più rinomati<br />

ambienti francesi. I prosciutti gli <strong>di</strong>edero il pretesto per<br />

ricordare le battute <strong>di</strong> caccia alle quali aveva partecipato in<br />

Piemonte cavalcando a fianco delle auguste maestà e degli<br />

altri <strong>di</strong>gnitari <strong>di</strong> corte. In quelle atmosfere tutto si trasfigurava:<br />

il suono del corno dei battitori, i latrati dei cani, il galoppo<br />

dei cavalli, la grazia delle donne e la regale audacia… La<br />

preda passava in secondo piano, la sua comparsa o la sua<br />

cattura erano l’epilogo <strong>di</strong> uno spettacolo in<strong>di</strong>menticabile.<br />

Don Satta parlò <strong>di</strong> cacce più selvagge: i cinghiali abbattuti<br />

dentro i boschi <strong>di</strong> sa Lada, le pernici che si levavano a<br />

stormi riempendo l’aria <strong>di</strong> fruscii e le scalate su erte impossibili<br />

inseguendo il veloce muflone. Gli altri commensali<br />

confermavano, ciascuno ricordando episo<strong>di</strong> memorabili. <strong>Il</strong><br />

vino rosso <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, vecchio <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci anni, <strong>di</strong>ede ai commensali<br />

un’insolita allegrezza e il conte, più euforico <strong>di</strong> tutti,<br />

parlò <strong>di</strong> vino e <strong>di</strong> donne: lui conosceva l’estro e la fantasia<br />

delle francesi e le grazie delle piemontesi, che tentavano<br />

più sommessamente: ma gli occhi <strong>di</strong> quelle ragazze che servivano<br />

a tavola…<br />

– Cosa c’è <strong>di</strong>etro quegli sguar<strong>di</strong>? – chiese cupidamente.<br />

– Tutto ciò che un uomo si attende dalla donna, – rispose<br />

don Satta con un sorriso malizioso.<br />

– Per lei, reverendo, le donne sono una tentazione.<br />

54<br />

– La chiesa venera la Madonna, simbolo <strong>di</strong> tutte le donne,<br />

<strong>di</strong> qualsiasi con<strong>di</strong>zione.<br />

<strong>Il</strong> conte bevve un altro bicchiere <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, sostenendo<br />

che il gusto <strong>di</strong> quel vino pro<strong>di</strong>gioso era insondabile come le<br />

grazie delle donne.<br />

– Queste cose lei non può comprenderle, – <strong>di</strong>sse con<br />

l’intento <strong>di</strong> mettere don Satta in imbarazzo, – la donna è<br />

spirito, ma anche altro… Lei deve reprimere…<br />

– <strong>Il</strong> gusto <strong>di</strong> questo vino io riesco a coglierlo sino in fondo,<br />

nella sua interezza. Tutto ciò che sale dalla natura ha del<br />

<strong>di</strong>vino; il reprimere offende Dio. Piuttosto bisogna saper guidare<br />

con sapienza gl’istinti –. <strong>Il</strong> conte forse non aveva valutato<br />

l’effetto del vino <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, tanto che i freni dell’opportunità<br />

<strong>di</strong>plomatica che sempre lo guidavano si allentarono.<br />

– Allora, li conosce anche lei i turbamenti? – <strong>di</strong>sse attendendosi<br />

chissà quale imbarazzo da parte del rettore.<br />

– <strong>Il</strong> primo turbamento mi spinse a fuggire <strong>di</strong> notte dal<br />

seminario per rivedere la domestica <strong>di</strong> mio padre. Mi placai<br />

poi rivolgendo i miei pensieri alla sorella <strong>di</strong> un collega che<br />

veniva spesso a trovarci. <strong>Il</strong> resto è mistero. Noi uomini <strong>di</strong><br />

chiesa, anche senza volerlo, siamo immersi nel mistero.<br />

<strong>Il</strong> conte non insistette oltre. Volle far parlare gli altri<br />

commensali, facendo domande sull’attività <strong>di</strong> ciascuno e<br />

sollecitando giu<strong>di</strong>zi sulla situazione del paese, ma il brio che<br />

fino ad allora aveva allietato il pranzo cadde; il sindaco e gli<br />

altri erano <strong>di</strong> una grettezza spaventosa, povere marionette<br />

che ubbi<strong>di</strong>vano a ogni cenno del rettore. <strong>Il</strong> notaio sobbalzò<br />

quando il conte gli <strong>di</strong>sse che il suo nome l’aveva già sentito.<br />

– Sono piemontese, – rispose Cu<strong>di</strong>llo preso da una strana<br />

paura che gli si leggeva sul viso. <strong>Il</strong> conte lodò lo spirito <strong>di</strong><br />

sacrificio dei piemontesi che per la <strong>di</strong>letta <strong>Sardegna</strong> lasciavano<br />

la casa e gli affetti. – Questi scambi sono semi preziosissimi<br />

– <strong>di</strong>sse ancora.<br />

<strong>Il</strong> rapporto del consigliere dell’inviato speciale <strong>di</strong>ceva solo<br />

che il notaio Cu<strong>di</strong>llo era un piemontese e il riferimento<br />

all’origine era sottolineato due volte. Don Satta fece un cenno<br />

con la testa, ma non era <strong>di</strong> assenso. <strong>Il</strong> conte incominciava<br />

a non piacergli, era troppo superficiale. Gli avrebbe voluto<br />

<strong>di</strong>re chi era veramente Cu<strong>di</strong>llo, un ladro cacciato via da<br />

55


Torino che lui aveva accolto a Orvine per pietà gratificandolo<br />

oltre ogni merito. Preferì tacere.<br />

Finito il pranzo il conte si ritirò nella sua stanza per un<br />

breve riposo; gli altri invitati lo ossequiarono e andarono via<br />

ringraziando con profon<strong>di</strong> inchini. Don Satta si complimentò<br />

con le quattro ragazze che avevano servito a tavola e<br />

con Carmela e si fece chiamare Kiocò, che comparve subito,<br />

ansioso <strong>di</strong> sapere se gli arrosti erano venuti bene.<br />

– Non c’è male, – rispose don Satta, non volendogli<br />

dare troppa sod<strong>di</strong>sfazione per la pretesa che aveva <strong>di</strong> intendersene<br />

più <strong>di</strong> lui.<br />

– Con rispetto, – balbettò Kiocò, – il porchetto era a midollo,<br />

come piace a voi e la vitella, dorata all’esterno e sanguinolenta<br />

dentro, era…<br />

– Bene, – lo interruppe don Satta, – il ballo è per le<br />

cinque, fai partecipare queste brave figliole, se lo meritano.<br />

– Certo, certo, – lo rassicurò Kiocò.<br />

E alle cinque, quando il conte si affacciò alla veranda,<br />

col viso <strong>di</strong>steso, lo sguardo vivo, e con l’euforia che dava il<br />

vino <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, dal cortile si levarono i suoni dell’organetto<br />

<strong>di</strong> Kiocò che scan<strong>di</strong>vano le cadenze del ballo. <strong>Il</strong> conte gradì<br />

quella sorpresa e seduto su una panchina <strong>di</strong> pietra ammirò<br />

la leggiadria delle ragazze che facevano impeccabili inchini<br />

raccogliendosi con grazia e civetteria sopra le cupole delle<br />

loro gonne. I colori dei costumi e il ritmo delle danze lo<br />

inebriarono e alla fine volle congratularsi con le danzatrici<br />

stringendo loro la mano.<br />

C’era ancora il sole e don Satta pregò il conte <strong>di</strong> visitare<br />

la sede del comitato agrario: l’aveva promesso ai suoi soci<br />

come premio per la buona volontà <strong>di</strong> tutti. Uscirono, seguiti<br />

dai miliziani che presi<strong>di</strong>avano tutt’intorno la casa parrocchiale<br />

<strong>di</strong> giorno e <strong>di</strong> notte. Kiocò aveva preparato il calesse,<br />

ma il conte aveva voglia <strong>di</strong> camminare a pie<strong>di</strong>.<br />

– È una casa modesta, l’ho messa io a <strong>di</strong>sposizione del<br />

comitato, <strong>di</strong>sta poco, è su quello spiazzo, – <strong>di</strong>sse don Satta<br />

in<strong>di</strong>cando con la mano la parte alta del paese. Si mossero.<br />

Don Satta, agitando il suo inseparabile bastone, spiegava come<br />

si era formato il paese, <strong>di</strong>viso in due parti dalla strada<br />

che percorrevano, quasi a <strong>di</strong>stinguere il vecchio dal nuovo, il<br />

56<br />

passato dal futuro. E in<strong>di</strong>cava le case <strong>di</strong> più recente costruzione,<br />

nominando i proprietari, tutti buoni cristiani e buoni<br />

sud<strong>di</strong>ti. <strong>Il</strong> conte era attratto dalle case della parte bassa, tutte<br />

strette attorno ai cortili coi tettucci schiacciati.<br />

– Scen<strong>di</strong>amo qui, ho voglia <strong>di</strong> camminare un po’ – propose<br />

in<strong>di</strong>cando un viottolo.<br />

– Le strade non sono agevoli, – rispose il rettore: non<br />

aveva piacere che l’ospite andasse a ficcare il naso nelle miserie<br />

delle case <strong>di</strong> Cadone. Ma il conte aveva già imboccato il<br />

viottolo, incurante dei fossati.<br />

– Stia attento, può inciampare, – gli ricordava ogni tanto<br />

don Satta quando lo vedeva col naso in su contemplare le<br />

piccole finestrelle che foravano i muri delle casette. <strong>Il</strong> viottolo<br />

riusciva a stento a contenere il conte e il suo seguito.<br />

Svoltarono a destra e la strada ora si allargava in lieve salita.<br />

Anche qui le case facevano cerchio attorno a cortili, spaziosi<br />

quando il terreno era pianeggiante, angusti quando erano ricavati<br />

tra le rocce. Accovacciati a ridosso del muro <strong>di</strong> una<br />

casetta senza grazia, tre ragazzi spalmavano un foglio <strong>di</strong> pane<br />

d’orzo con ricotta secca. Era come se seguissero un rito:<br />

spalmata la ricotta attendevano per saziare un po’ anche gli<br />

occhi, poi, sbriciolando dagli orli, mangiavano un pezzetto<br />

<strong>di</strong> pane alla volta, masticandolo a lungo per farlo durare <strong>di</strong><br />

più. Ogni tanto si scambiavano delle briciole e ciascuno significava<br />

col gesto che il pane che riceveva era più buono <strong>di</strong><br />

quello che dava.<br />

<strong>Il</strong> conte osservava quegli esserini che piluccavano come<br />

passeri su quei fogli <strong>di</strong> pane nero. I ragazzi non si mossero,<br />

capirono che i miliziani non cercavano nessuno. Smisero <strong>di</strong><br />

masticare, vergognandosi un po’, e spalancarono gli occhi<br />

che apparivano più gran<strong>di</strong> in quei visetti smagriti: erano<br />

sorpresi, non impauriti. Ogni tanto, con i vestitini lunghi<br />

cercavano <strong>di</strong> coprirsi i pie<strong>di</strong> nu<strong>di</strong> segnati ancora dalle piaghe<br />

del freddo.<br />

– Come ti chiami tu? – chiese il conte. <strong>Il</strong> ragazzo ebbe<br />

un sussulto e con le spallucce fece un gesto, come per significare<br />

che non capiva. Don Satta gli ripeté la domanda in<br />

sardo e lui, deglutendo in fretta il poco cibo che aveva ancora<br />

in bocca, <strong>di</strong>sse, con una voce spaurita:<br />

57


– Pascale –. Gli fecero eco gli altri due interrogati da don<br />

Satta:<br />

– Zuseppinu.<br />

– Predu.<br />

<strong>Il</strong> conte volle sapere se erano fratelli, quanti anni avevano,<br />

se andavano a scuola e don Satta tradusse le risposte: erano<br />

solo comparetti, abitavano nel cortile, avevano tanti anni<br />

quanti ce ne stavano nelle <strong>di</strong>ta <strong>di</strong> una mano più altre due <strong>di</strong>ta.<br />

Per la scuola non risposero, sorrisero guardandosi in viso.<br />

– Hanno occhi intelligenti, ma sono denutriti… –. Mentre<br />

proseguivano per la strada in salita, don Satta spiegò che<br />

le cattive annate erano sopraggiunte una dopo l’altra e che il<br />

paese era stremato. Quell’inverno erano morti tanti bambini<br />

e tanti vecchi, più degli altri anni. <strong>Il</strong> conte non fece altri<br />

commenti, ma in cuor suo pensava che questa era veramente<br />

una terra abbandonata da Dio, altro che rischiare capitali per<br />

farla rinascere! Ai lati della strada i cortili s’inseguivano uno<br />

intrecciato all’altro e lui, quasi infasti<strong>di</strong>to, sbottò:<br />

– <strong>Il</strong> paese dei cortili è questo – e volle sapere che senso<br />

avesse quella strana architettura. Don Satta spiegò che il<br />

cortile era uno sfogo, un modo per allargare lo spazio delle<br />

piccole case che vi si affacciavano.<br />

Nella sede del comitato agrario i soci c’erano tutti, attendevano<br />

in pie<strong>di</strong> con l’abito della festa, a capo scoperto. Quando<br />

entrò l’inviato tutti applau<strong>di</strong>rono, come aveva raccomandato<br />

don Satta e gridarono viva il re, viva il viceré, viva il<br />

conte de Viry. Lui salutò con un gesto paterno delle mani e<br />

si <strong>di</strong>resse alla cattedra da dove il rettore solitamente impartiva<br />

le lezioni sulle buone regole dell’agricoltore. La sala era grande<br />

e conteneva molte file <strong>di</strong> banchi. Su uno scaffale c’erano gli<br />

strumenti <strong>di</strong>dattici: cesoie, sacchetti <strong>di</strong> sementi e <strong>di</strong> terra, innesti<br />

figurati sui rami ormai secchi e così via. <strong>Il</strong> conte fece<br />

un <strong>di</strong>scorsetto, congratulandosi con don Satta per la meritoria<br />

opera che svolgeva nel paese, e con tutti i soci per l’impegno<br />

con cui seguivano gli alti insegnamenti. Disse che per<br />

<strong>di</strong>ventare buoni agricoltori e buoni artigiani occorreva essere<br />

buoni sud<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> sua maestà, osservare le leggi e rispettare le<br />

autorità il cui compito era tanto gravoso. La riunione si sciolse<br />

in modo austero, senza entusiasmi.<br />

58<br />

Dopo cena il conte e don Satta scesero nel cortile e fecero<br />

passi sul lastricato. Parlavano <strong>di</strong> cavalli. L’incontro aveva il<br />

suo scopo. <strong>Il</strong> conte voleva conoscere l’orientamento del rettore<br />

sulla fusione dell’isola col Piemonte. La corte era prudente<br />

su quella delicata questione: c’erano le trattative con la<br />

Francia per la cessione dell’isola e poi si voleva verificare l’effettiva<br />

consistenza <strong>di</strong> quello strano movimento che stava<br />

montando con grande fracasso. Anche don Satta aveva il suo<br />

scopo: arrivare a qualche conclusione sull’affare dei boschi, la<br />

proposta gli sembrava ottima ora. Continuarono a <strong>di</strong>scorrere<br />

e gli argomenti, dalla letteratura e dall’economia, scivolarono<br />

alla politica, fino a toccare la posizione del nuovo papa. Don<br />

Satta era entusiasta <strong>di</strong> Pio IX, il papa vagheggiato dal suo<br />

Gioberti, Pio IX e Carlo Alberto erano due pilastri sui quali<br />

doveva reggersi l’unità d’Italia. Un po’ malignamente, il conte<br />

ricordò a don Satta il giu<strong>di</strong>zio sconcertante che quella<br />

stessa mattina aveva dato Alessio su Pio IX.<br />

– Dissacra re e santi per il gusto <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>re – rispose<br />

don Satta mutando repentinamente d’umore. <strong>Il</strong> conte si accorse<br />

che non era solo in<strong>di</strong>gnazione ciò che in quel momento<br />

turbava don Satta, vi era uno stato d’animo più complesso<br />

che gli sarebbe piaciuto sondare sino in fondo.<br />

– Ha intuizioni intelligenti, non dobbiamo sottovalutarlo,<br />

– <strong>di</strong>sse il conte che voleva dare una risposta a se stesso,<br />

oltre che far esplodere quel grumo <strong>di</strong> sentimenti che il rettore<br />

si teneva dentro.<br />

– Certo, – rispose don Satta, abbassando la voce, – l’intelligenza<br />

non gli manca, – e sollevò il viso per cercare il cielo<br />

nascosto fra i rami del pergolato. Entrambi ripresero a<br />

camminare avanti e in<strong>di</strong>etro sul lastricato. Parlarono ancora<br />

<strong>di</strong> Pio IX, il papa della provvidenza, buono, pio, sinceramente<br />

cristiano e <strong>di</strong> Carlo Alberto, campione del Cattolicesimo,<br />

cui il cielo aveva affidato una missione provvidenziale.<br />

<strong>Il</strong> conte confidò a don Satta che il sovrano stava scrivendo<br />

un’opera monumentale, Les riflections historiques.<br />

– I tempi sono maturi per la “perfetta fusione”, il clero<br />

sardo è concorde – <strong>di</strong>sse don Satta. <strong>Il</strong> conte era favorevole, a<br />

Cagliari cuciva e ricuciva col clero e con la nobiltà, la corte<br />

<strong>di</strong> Torino non lo scoraggiava. Tuttavia non volle uscire dalla<br />

59


sua prudenza. Non <strong>di</strong>sse niente <strong>di</strong> suo, rilevò però che anche<br />

in seno al clero vi era <strong>di</strong>sparità <strong>di</strong> opinioni. Don Satta<br />

rispose che occorreva inserire quella questione decisiva in un<br />

contesto più ampio.<br />

– La fusione riproporrà in termini nuovi tutti i problemi<br />

della nostra isola, – continuò, – qualcosa <strong>di</strong> vecchio perirà,<br />

ma saranno soltanto scorie che cadendo permetteranno al<br />

corpo <strong>di</strong> crescere meglio –. Si accorse che stava facendo un<br />

sermone e chiese scusa al conte, il quale si precipitò a ringraziarlo,<br />

<strong>di</strong>cendo che lui aveva bisogno <strong>di</strong> conoscere tutti i<br />

punti <strong>di</strong> vista. Ma non <strong>di</strong>sse altro, né si pronunziò quando<br />

don Satta, riprendendo l’argomento, gli chiese se a parere<br />

suo il rifiorimento dell’agricoltura, che da più parti si attendeva,<br />

poteva ottenersi più rapidamente con la “fusione”.<br />

– Sono problemi molto complessi. Fare previsioni in<br />

questo campo è molto azzardato.<br />

Non era incoraggiante e don Satta ne fu contrariato, anche<br />

se come compenso ebbe la conferma che l’affare dei boschi<br />

poteva andare avanti comunque.<br />

60<br />

VIII<br />

<strong>Il</strong> conte partì alle <strong>di</strong>eci; nella sua carrozza fece salire il rettore,<br />

che volle accompagnarlo fino al bivio; <strong>di</strong>etro seguiva<br />

Kiocò col calesse. La gente si era <strong>di</strong>sposta lungo la strada, come<br />

aveva or<strong>di</strong>nato don Satta e batteva le mani. <strong>Il</strong> conte era<br />

sod<strong>di</strong>sfatto, ogni tanto si sporgeva dalla carrozza e salutava.<br />

– Questa è opera sua, – <strong>di</strong>ceva al rettore, pensando fra<br />

sé che quel prete in quel luogo era tutto; il paese lo temeva e<br />

lo riveriva come un sovrano. Per fortuna era un sud<strong>di</strong>to devoto.<br />

Pensò anche che nei villaggi, fino a quando le popolazioni<br />

non si fossero incivilite, occorreva sostenere l’opera del<br />

regio governo in quel modo. Ma parroci <strong>di</strong> questa levatura<br />

ce n’erano pochi.<br />

– Come sono estesi questi boschi! – <strong>di</strong>sse, quasi volesse<br />

ricambiare il rettore dei ricchi doni. – Vedrà quanti frutti<br />

daranno.<br />

Al bivio, la carrozza si fermò.<br />

– Scendo, – <strong>di</strong>sse don Satta, – l’accompagna la mia bene<strong>di</strong>zione.<br />

– Riferirò al viceré ciò che ho visto e u<strong>di</strong>to. <strong>Il</strong> mio apprezzamento<br />

per la sua opera è incon<strong>di</strong>zionato. Lei ha il paese<br />

in pugno anche se qualcuno tenta <strong>di</strong> scalzarla.<br />

– Stia ben certo, – rispose il rettore con una voce ferma<br />

che l’inviato non aveva ancora u<strong>di</strong>to, – non è facile <strong>di</strong>sarcionarmi<br />

da cavallo, le re<strong>di</strong>ni le so tenere ben salde e so adoperare<br />

la frusta e gli speroni quando è necessario.<br />

– Ad<strong>di</strong>o – <strong>di</strong>sse il conte sporgendosi dal finestrino per salutare<br />

un’altra volta la gente che applau<strong>di</strong>va. Anche don Satta<br />

batté le mani. La carrozza del conte riprese la strada, preceduta<br />

e seguita da un esercito <strong>di</strong> miliziani a cavallo. Kiocò teneva<br />

pronto il calesse e don Satta vi montò su, prendendo lui le<br />

re<strong>di</strong>ni. Fece schioccare la frusta e il cavallo si mise al trotto<br />

passando tra la gente che ancora assiepava i lati della strada.<br />

Ora che la festa era finita e che anche il calesse <strong>di</strong> don Satta<br />

61


era rientrato in paese, le donne si tolsero i fazzoletti, gli uomini<br />

le pesanti berrette e tutti sciamarono per i sentieri in <strong>di</strong>scesa.<br />

A Gurgu incontrarono Alessio che saliva a cavallo.<br />

– La carrozza è già passata, – gli gridarono alcune donne.<br />

– Non cerca carrozze lui, – commentò qualcuno. Alessio<br />

salutò e riprese la strada incitando il cavallo. Andava all’incontro<br />

deciso il giorno prima.<br />

Nighirisè era vicino ai campi dove era in corso la mietitura<br />

dell’orzo. I coltivi non erano molti, i conta<strong>di</strong>ni se li<br />

contendevano con liti furibonde. Le terre buone erano a<br />

<strong>Marreri</strong> e a Niniana, tutte <strong>di</strong> proprietà: per averle occorreva<br />

lasciare perfino un terzo del raccolto, assicurando un minimo<br />

nelle annate scarse. Alessio giunse a Nighirisè verso mezzogiorno:<br />

a quell’ora i mietitori si concedevano una pausa.<br />

Poco <strong>di</strong>stante vi erano gli ovili <strong>di</strong> Bardeglinu e <strong>di</strong> Palichedda.<br />

<strong>Il</strong> punto <strong>di</strong> ritrovo era sotto il leccio, conosciuto da tutti<br />

per il suo tronco enorme appena scalfito dal segno <strong>di</strong> un<br />

fuoco <strong>di</strong> epoca lontana. La chioma alta gettava la sua ombra<br />

tutt’intorno formando un immenso cerchio che poteva contenere<br />

più greggi senza che l’uno potesse confondersi con<br />

l’altro. Alessio trovò pastori e conta<strong>di</strong>ni raccolti in gruppi<br />

<strong>di</strong>stinti: ciascuno aveva cercato <strong>di</strong> unirsi a un amico, a un<br />

vicino <strong>di</strong> ovile, a un parente, oppure <strong>di</strong> tenersi lontano da<br />

un rivale <strong>di</strong> pascolo o da altri avversati per una qualche ragione.<br />

La gente del paese era <strong>di</strong>laniata da rancori antichi e<br />

recenti. A parte le intemperanze e l’ombrosità dei singoli, i<br />

rancori nascevano dalla <strong>di</strong>sperata situazione dei pastori e dei<br />

conta<strong>di</strong>ni senza terra. Alessio non aveva mai tentato <strong>di</strong> mettere<br />

pace, però <strong>di</strong> quelle <strong>di</strong>visioni parlava spesso, risalendo<br />

ad altre epoche e ricordando che sempre rivalità e o<strong>di</strong> erano<br />

stati voluti da chi aveva interessi da <strong>di</strong>fendere.<br />

– Sono in ritardo? – chiese avvicinandosi al leccio. Tutti<br />

lo salutarono.<br />

– Sie<strong>di</strong>ti su quel sasso, vicino al tronco – gli <strong>di</strong>ssero.<br />

– Sto meglio sdraiato come voi.<br />

I presenti sembrarono delusi da quel rifiuto, ma Alessio<br />

spiegò che sentiva un certo fasti<strong>di</strong>o alle gambe. Si sedette vicino<br />

a Palatosa, un misero conta<strong>di</strong>no che gli altri consideravano<br />

uomo da poco.<br />

62<br />

– Così sto bene, – <strong>di</strong>sse sdraiandosi sul fianco sinistro.<br />

– La terra è soffice, sembra una stuoia.<br />

Sotto il leccio c’era uno strato <strong>di</strong> foglie secche.<br />

– Questa è terra grassa, tocca – <strong>di</strong>sse Palatosa porgendo<br />

ad Alessio un pugno <strong>di</strong> polvere leggera che sembrava tabacco.<br />

Alessio gli chiese come andava la mietitura ed egli rispose<br />

che avrebbe fatto in fretta quell’anno a raccogliere le<br />

quattro spighe che gli erano rimaste. I proprietari davano<br />

poca terra a Palatosa, solo qualche striscia rifiutata dagli altri<br />

perché ciottolosa o nascosta al sole. <strong>Il</strong> grano e l’orzo ch’egli<br />

riusciva a raccogliere era sempre così scarso che se lo poteva<br />

trasportare a spalle. Durante l’inverno, quando non aveva<br />

più pane, andava a raccogliere erbe selvatiche e se ne cibava<br />

anche se gli si gonfiava il ventre.<br />

– Quest’anno non basta neanche a saziare le formiche il<br />

tuo raccolto, – <strong>di</strong>sse un pastore rivolto a Palatosa, che non<br />

se la prese. Era abituato agli scherzi impietosi, lo schernivano<br />

tutti per la flatulenza del suo ventre malato e per la sua<br />

fame insaziata. Al pastore che lo aveva canzonato <strong>di</strong>sse solo<br />

che neanche lui aveva da stare allegro con quel pugno <strong>di</strong><br />

formaggio che poteva salvare. Pastori e conta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong>ssimulavano<br />

così la loro <strong>di</strong>sperazione. La siccità, le cavallette e il<br />

mal <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> alle pecore quell’anno erano arrivati insieme.<br />

Tutti erano carichi <strong>di</strong> debiti per le imposte e le decime e gli<br />

usurai aumentavano il prezzo a ogni proroga. Un altro pastore<br />

chiese dell’inviato speciale. Alessio <strong>di</strong>sse che l’aveva visto<br />

e raccontò com’era andato l’incontro. Scherzando ancora<br />

volevano sapere com’era fatto e che cosa avesse in più degli<br />

altri un conte. Qualcuno <strong>di</strong>sse che don Satta per preparare il<br />

pranzo al suo ospite si era fatto prestare quattro pani d’orzo<br />

da Pedoi, un povero conta<strong>di</strong>no con gli occhi cisposi che viveva<br />

più miseramente degli altri. Un altro aggiunse che il<br />

conte aveva consegnato all’esattore un elenco <strong>di</strong> nuove imposte<br />

come regalo per il paese.<br />

– Ma cosa vogliono ancora da noi? Ci lascino in pace,<br />

– gridò uno da <strong>di</strong>etro il tronco dell’albero.<br />

Balentinu, continuando lo scherzo, rispose:<br />

– Gli appartieni, viene a controllarti, come si fa con le<br />

bestie da ingrasso.<br />

63


– Siamo bestie troppo magre.<br />

– Qualcosa la spremono sempre.<br />

Alessio cercò <strong>di</strong> parlare, ma gli altri non lo seguivano<br />

presi com’erano da quegli scherzi che non facevano ridere.<br />

– Volevo <strong>di</strong>re che se avessimo le terre e potessimo pascolarle<br />

e coltivarle in comune, senza gli esattori, senza le decime<br />

e senza i proprietari che ci spogliano potremmo cambiare<br />

qualcosa.<br />

– Solo che la terra non l’abbiamo – <strong>di</strong>sse Palichedda.<br />

– Abbiamo debiti – soggiunse un altro. Alessio si mise<br />

seduto ed espose la sua idea.<br />

– Io propongo <strong>di</strong> prendercele le terre, quelle del Demanio<br />

e del Comune, prima che arrivino gli altri.<br />

– Prendere la terra non è come prendere una pecora o<br />

altra cosa.<br />

– Nessuno, – <strong>di</strong>sse Alessio, – può fare niente da solo.<br />

Tutti insieme potete prendere la terra, con le buone o con le<br />

cattive, importante è restare uniti anche dopo, per <strong>di</strong>fenderle.<br />

La mia idea è proprio questa: mettere in comune bestie e<br />

terre e pascolare e seminare insieme, come se fosse un grande<br />

Cumone. I prodotti della terra e delle bestie si ripartiscono<br />

secondo le necessità. Se qualcosa avanza si accumula per<br />

le annate cattive e per migliorare la terra.<br />

– Ci parli ancora del Cumone, come se fosse un gioco<br />

da ragazzi, – insorse Curzette con una veemenza che sembrava<br />

non conoscesse controllo. – L’ho detto altre volte, per<br />

me tutta questa storia è un gran pasticcio. Avrai stu<strong>di</strong>ato<br />

tante cose sui libri, ma non il modo <strong>di</strong> cambiare la testa agli<br />

uomini. Questo tornare sempre a quello che <strong>di</strong>cevano e facevano<br />

gli antichi non ha né capo, né coda. Se le cose vanno<br />

<strong>di</strong>versamente ora una ragione ci dev’essere –. Si levò un brusìo<br />

e non si capiva s’era <strong>di</strong> approvazione perché il <strong>di</strong>sagio era<br />

<strong>di</strong> tutti. Palichedda, però, qualcosa fuori dai denti volle <strong>di</strong>rla<br />

a Curzette.<br />

– Anche tu pesti sempre sulle stesse cose – gli gridò. –<br />

Ciascuno ha i suoi dubbi e le sue paure, ma nessuno se la<br />

prende con gli altri. Cosa preten<strong>di</strong> che Alessio ti faccia un<br />

miracolo? Sei libero <strong>di</strong> andare o <strong>di</strong> restare, nessuno ti vuole<br />

legare, però non <strong>di</strong>ventare aceto prima d’entrare nella botte:<br />

64<br />

ascoltale bene e pesale a una a una le parole che ti <strong>di</strong>cono e<br />

rispon<strong>di</strong> a tono… oppure <strong>di</strong>’ chiaramente che non ti sta bene<br />

e troncala lì.<br />

– Certo che non mi sta bene. E come, le mie pecore le<br />

devo mettere a cumone con uno che non ne ha? Con Palatosa<br />

per esempio?<br />

<strong>Il</strong> senso della proprietà era così ra<strong>di</strong>cato che nessuno riusciva<br />

a pensare <strong>di</strong> poter cedere ciò che aveva, a nessun titolo.<br />

– Proprio così, – rispose Alessio che conosceva le intemperanze<br />

<strong>di</strong> Curzette. – Tu metti le pecore, Palatosa mette le<br />

sue braccia, ciascuno dà qualcosa, non importa chi <strong>di</strong> più chi<br />

<strong>di</strong> meno. Non ci sono altre vie d’uscita. Ciò che potete perdere<br />

è niente: quattro pecore che non bastano a sfamarvi, debiti<br />

e attese che rodono l’anima; quello che potete trovare è<br />

molto: l’unione nel bene e nel male e un legame più profondo<br />

con la terra. È un esperimento che bisogna tentare.<br />

– Sembra <strong>di</strong> sentire una favola, Alessio, e tu la racconti<br />

così bene. Peccato che fra un po’ ci dovremo svegliare –. Era<br />

Balentinu che parlava guardando le cime della quercia. Palichedda,<br />

invece, non scherzava più, aveva una sola preoccupazione,<br />

sapere se in questo Cumone voleva entrare anche<br />

lui, Alessio.<br />

– E perché lui no, se entra Palatosa? – gridarono a una<br />

voce gli altri. Alessio <strong>di</strong>sse che si trovava bene con i pastori e<br />

i conta<strong>di</strong>ni. Se lo volevano avrebbe cercato <strong>di</strong> rendersi utile.<br />

– E chi non ti vuole? – precisò Palichedda, – eri tu che<br />

<strong>di</strong>cevi “voi farete”, “voi sarete”.<br />

<strong>Il</strong> più pensoso era Palatosa. Ascoltava solo Alessio, come<br />

se gli altri non parlassero. Quando si fece un po’ <strong>di</strong> silenzio<br />

chiese, sottovoce:<br />

– Queste cose le ha mai tentate nessuno?<br />

– I padri dei padri vivevano così, forse. Poi la concor<strong>di</strong>a è<br />

stata rotta. <strong>Il</strong> più forte ha imposto la sua legge al più debole.<br />

Qualcuno parlò del rettore e sotto l’albero si fece silenzio.<br />

Alessio non aveva detto mai niente contro don Satta,<br />

anzi nei suoi <strong>di</strong>scorsi evitava <strong>di</strong> farcelo entrare, anche se lo<br />

sentiva prepotentemente presente.<br />

– Quelli che temiamo sono uomini come noi, – <strong>di</strong>sse<br />

con tono deciso, – solo che hanno il potere <strong>di</strong> dare o togliere<br />

65


un pezzo <strong>di</strong> terra, <strong>di</strong> dare o negare un prestito per pagare le<br />

imposte o acquistare le sementi. Spogliati <strong>di</strong> queste cose, né<br />

il conte, né altri valgono quanto chi sa lavorare la terra o<br />

condurre al pascolo il gregge.<br />

– Ma queste cose le hanno loro e non gli si possono togliere<br />

– <strong>di</strong>sse Balentinu.<br />

– <strong>Il</strong> Cumone è un tentativo per non farsi imporre più<br />

niente.<br />

Proprio in quel momento arrivarono Nicola Porcu con la<br />

giovane moglie, Maria Campana. Ci fu sorpresa. Conoscendo<br />

l’ingiustizia patita dai due giovani tutti erano pronti a porgere<br />

loro un aiuto, ma Nicola e Maria erano latitanti e colpiti<br />

dalla scomunica del rettore. La loro presenza inquietava.<br />

– Benvenuti, – <strong>di</strong>sse Alessio avvicinandosi a entrambi,<br />

– abbiamo piacere <strong>di</strong> vedervi. Maria, sie<strong>di</strong>ti là, su quel sasso<br />

vicino al tronco, è il trono che gli amici volevano offrire a<br />

me, sembra fatto apposta per te. Tu, Nicola, vieni a sederti<br />

vicino a me.<br />

Anche gli altri sembrarono <strong>di</strong>menticare le preoccupazioni<br />

e salutarono i due. Maria si sedette. Era molto magra, col<br />

viso segnato dalle rughe e aveva un abito logoro. Chi aveva<br />

assistito alle sue nozze stentava a riconoscerla. La sua espressione<br />

era triste, come se non avesse mai sorriso.<br />

– Abbiamo saputo e siamo venuti, – <strong>di</strong>sse Nicola, – so<br />

che dobbiamo tenerci appartati… Ma Maria ha insistito,<br />

voleva vedere gente, visi <strong>di</strong> amici.<br />

– Sì, la colpa è mia, forse non dovevamo…<br />

– Hai fatto bene – gridò Balentinu. Maria si sentì rincuorata<br />

e chiese le nuove del paese. Voleva sapere chi era<br />

morto, chi era nato, chi avevano arrestato e chi era tornato<br />

in libertà. Cercarono <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare tutte quelle domande e<br />

Maria, insaziabile, chiese ancora delle ragazze sue amiche: le<br />

sue parole erano accorate e alla fine si abbandonò a un pianto<br />

sconsolato. Gli altri si commossero e tacquero. Nicola<br />

andò vicino alla moglie.<br />

– Così me l’hanno ridotta – <strong>di</strong>sse con rabbia.<br />

– Noi stavamo parlando <strong>di</strong> cose che forse possono interessare<br />

anche voi, – intervenne Alessio, ripetendo la sua proposta<br />

e illustrandola meglio.<br />

66<br />

– <strong>Il</strong> nostro Cumone vi potrà proteggere contro il <strong>di</strong>avolo,<br />

contro i miliziani e contro tutti coloro che vi vogliono recare<br />

offesa. Siamo tutti oppressi e violentati.<br />

Maria e Nicola seguivano attenti. Gli altri parlavano,<br />

ma nessuno pareva avesse idee chiare, la paura soffocava la<br />

speranza.<br />

– Non siamo venuti per decidere niente, – <strong>di</strong>sse Alessio,<br />

– ne parleremo ancora. Forse il giorno più in<strong>di</strong>cato per<br />

ritrovarci è la festa della Consolata, ci sarà tanta gente.<br />

Quel rinvio fu accolto con sollievo. I conta<strong>di</strong>ni tornarono<br />

giù nei campi per riprendere la mietitura e si mossero<br />

anche i pastori. Sotto l’albero rimasero Nicola e Maria insieme<br />

ad Alessio. Palichedda li invitò nel suo ovile a prendere<br />

un po’ <strong>di</strong> latte.<br />

– Anzi, lo porto qui, all’ombra si sta meglio – <strong>di</strong>sse allontanandosi.<br />

Maria chiedeva s’erano possibili tutte quelle cose.<br />

– Dipenderà da noi – rispose Alessio.<br />

Nicola e Maria assaggiarono appena il latte, mentre Alessio<br />

bevve <strong>di</strong> gusto, attingendo avidamente dalla conca. Palichedda<br />

era contento. Si trattennero ancora sotto l’albero e<br />

parlarono come facevano nella casa del forno. <strong>Il</strong> sole era vicino<br />

al tramonto e Palichedda rientrò all’ovile per fare alzare<br />

le pecore che meriggiavano ancora. Anche Alessio andò via,<br />

a cavallo; Nicola e Maria agitarono le mani, finché non lo<br />

videro scomparire nel bosco.<br />

67


IX<br />

<strong>Il</strong> sole era già tramontato e i mietitori, sparsi sui pen<strong>di</strong>i<br />

che scendevano a gradoni fino al fiume, erano ancora lì,<br />

confusi coi sassi. I campi erano desolati: solo ciuffi <strong>di</strong> spighe<br />

nane qua e là che appena si alzavano da terra e lunghe strisce<br />

gialle dove la furia delle cavallette aveva portato rovina e<br />

devastazione. La terra veniva strappata ai boschi col fuoco.<br />

Gli incen<strong>di</strong> <strong>di</strong>vampavano in agosto, dopo il raccolto; le<br />

fiamme, alte che sembravano toccare il cielo, inseguivano i<br />

pastori e le bestie in fuga verso i monti. I conta<strong>di</strong>ni guardavano<br />

da lontano quell’orrendo spettacolo, insensatamente<br />

contenti quando u<strong>di</strong>vano i sibili delle sughere che si squarciavano<br />

gonfiandosi o gli schianti dei maestosi lecci ridotti<br />

in cenere. Nessuno poteva domare quella furia e i pastori attendevano<br />

sui monti il vento <strong>di</strong> ponente.<br />

Alla mietitura i covoni venivano ammucchiati su spiazzi<br />

circolari dove i buoi trascinavano stancamente, in giroton<strong>di</strong><br />

infiniti, pietre legate alle funi per trinciare paglia e spighe. <strong>Il</strong><br />

raccolto veniva <strong>di</strong>viso in tante parti: un terzo al padrone della<br />

terra, poi le decime, le quote pretese dagli usurai e quelle<br />

dovute al monte granatico; ciò che avanzava se lo portavano<br />

a casa sul carro o in un cul <strong>di</strong> sacco quando era poco. Ogni<br />

proprietario ripartiva le sue terre in piccoli pezzi per sfruttare<br />

sino in fondo la <strong>di</strong>sperazione dei conta<strong>di</strong>ni che, correndo<br />

dalle valli ai monti, si adattavano a prenderne tanti brandelli<br />

quanti ne occorrevano per sfamarsi. Le terre buone, quelle<br />

che costeggiavano i fiumi nelle vallate, rimanevano compatte<br />

e i padroni le facevano coltivare per proprio conto agli altri.<br />

Don Satta riservava a sé le terre che aveva accorpato a<br />

<strong>Marreri</strong>: le concimava ad anni alterni, facendovi seminare<br />

solo grano che maturava a luglio. Ora anche a <strong>Marreri</strong> si<br />

mieteva. Decine <strong>di</strong> manovali, uomini e donne, menavano le<br />

falci dall’alba fino a notte inoltrata, sorvegliati da Raimondo<br />

Piete, il fattore. Ogni manovale dava le prestazioni dovute<br />

68<br />

in aggiunta al fitto pagato per il go<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> un pezzo <strong>di</strong><br />

terra in collina. Don Satta si fece sellare il cavallo, un baio<br />

ch’era il suo orgoglio, e scese a <strong>Marreri</strong>, per dare uno sguardo.<br />

Si avviò solo, saldo in sella come a lui piaceva stare. Per<br />

un buon tratto percorse la strada ch’egli aveva fatto costruire<br />

qualche anno ad<strong>di</strong>etro, larga e col fondo compatto: il tracciato<br />

era tutto dentro le sue terre. Quando scendeva col calesse<br />

quella strada la percorreva tutta, fermandosi ogni tanto<br />

per controllare che i pastori non avessero danneggiato le sue<br />

proprietà: una pianta cimata male, un muro abbattuto e<br />

perfino qualche mucchio <strong>di</strong> frasche abbandonate gli davano<br />

tanta rabbia che doveva sfogarla subito chiamando a raccolta<br />

i pastori per terrorizzarli con le sue voci che rimbombavano<br />

come tuoni nella vallata. L’ultima fermata la faceva al<br />

<strong>ponte</strong>, per controllarne la resistenza: l’aveva fatto ricostruire<br />

ancora una volta con pilastri e archi <strong>di</strong> pietra, deciso a porre<br />

un riparo definitivo alla furia delle acque che alle piogge lo<br />

travolgevano, spazzando via perfino le tracce delle strade<br />

che, intrecciandosi, vi confluivano da Nuoro, dalle Baronie<br />

e da Isalle. Oltre che per la <strong>di</strong>fesa delle sue terre, si prendeva<br />

cura <strong>di</strong> quel <strong>ponte</strong> per lo sgomento che provava ogni volta<br />

che la piena portava via gli uomini e le bestie che tentavano<br />

<strong>di</strong> guadare il torrente impazzito, e più ancora perché era<br />

convinto che esso fosse la porta del mondo per Orvine e la<br />

sua gente. <strong>Il</strong> calesse lo prendeva quando doveva trasportare<br />

le provviste, ma, solitamente, montava il suo Ombroso. <strong>Il</strong><br />

cavallo percorreva la strada nuova con un’andatura tutta<br />

particolare, tra il trotto e il galoppo, poi imboccava i sentieri<br />

più a valle, regolando il passo secondo le asperità, sempre attento<br />

ai richiami del padrone, del quale sembrava capire gli<br />

umori più segreti. A <strong>Marreri</strong> la gioia <strong>di</strong> Ombroso traboccava,<br />

come quella <strong>di</strong> don Satta: l’uno nitriva accelerando l’andatura,<br />

l’altro si guardava intorno e sorrideva.<br />

Le cavallette si erano mosse seguendo la <strong>di</strong>rezione dei<br />

venti: avevano invaso i monti e le colline, ma a <strong>Marreri</strong> non<br />

erano scese e le messi erano potute rimanere intatte, anche se<br />

portavano i segni dell’annata scarsa. All’ora in cui arrivò don<br />

Satta, tutta la piana sembrava presa da un incen<strong>di</strong>o, tanta era<br />

la violenza del giallo che saliva dai campi non ancora mietuti.<br />

69


Le vigne e gli ulivi mandavano riverberi <strong>di</strong> fuoco e perfino<br />

l’azzurro del cielo in quella luce accecante andava smarrendo<br />

la sua identità. Ombroso, prima <strong>di</strong> fermarsi sullo spiazzo davanti<br />

alla casa, girò attorno al grande olivastro, nitrendo.<br />

L’anziano fattore, con mano sicura, fermò il cavallo afferrandolo<br />

al morso; voleva porgere aiuto anche a don Satta, ma<br />

questi smontò da solo con uno scatto che la mole non lasciava<br />

supporre. Raimondo liberò il cavallo dalla bisaccia e dalla<br />

sella e, dopo avergli asciugato il sudore, lo portò sotto la tettoia<br />

dove aveva già preparato una profenda d’erba fresca.<br />

– C’è un po’ <strong>di</strong> mezzorau, è venuto bene, come piace a<br />

voi.<br />

Don Satta abbozzò un sorriso.<br />

– Dopo ti <strong>di</strong>rò com’è il tuo latte… –. Senza entrare nella<br />

casa si <strong>di</strong>resse verso il frutteto prendendo le cesoie e il falcetto<br />

che Raimondo aveva approntato come al solito mettendoli<br />

bene in vista sul lastrone <strong>di</strong> pietra. Ogni volta che<br />

scendeva a <strong>Marreri</strong> le prime cure don Satta le riservava al<br />

frutteto. Raimondo lo accompagnò e strada facendo, con<br />

poche parole, lo mise al corrente <strong>di</strong> tutto: quanto grano era<br />

stato mietuto, quanto ne rimaneva da mietere, quanti manovali<br />

erano presenti quel giorno, quanti ne sarebbero venuti<br />

nei giorni successivi e quanto formaggio era stato accatastato<br />

nella cantina. Don Satta osservava attentamente ogni<br />

pianta e si compiaceva degli spiazzi ben puliti, facendolo capire<br />

a Raimondo con un cenno o con uno sguardo.<br />

– Allora, i manovali si comportano bene?<br />

– Lavorano come schiavi, uomini e donne.<br />

– Non devi esagerare.<br />

– Nessuna sollecitazione da parte mia – assicurò Raimondo.<br />

Don Satta <strong>di</strong>ede or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> ammazzare e cucinare una<br />

pecora e un porchetto per premiare la buona volontà <strong>di</strong> quei<br />

bravi figlioli.<br />

– Va’, pre<strong>di</strong>sponi tutto per il pranzo, io do ancora uno<br />

sguardo qui intorno.<br />

Raimondo si avviò all’altra casa dove c’erano i pastori e lasciò<br />

solo don Satta che continuò a passare in rassegna i peschi,<br />

i peri, gli ulivi e gli agrumi, tagliando qualcosa ogni tanto con<br />

70<br />

le cesoie o col falcetto. I frutti non erano molti, ma le piante<br />

apparivano sane e avevano tante riserve per l’anno successivo.<br />

Gli agrumi dovevano aver sofferto la sete più delle altre piante.<br />

Poter sbarrare il fiume e raccogliere l’acqua dell’inverno<br />

per utilizzarla d’estate prelevandola con qualche mezzo! Aveva<br />

letto qualcosa su certi esperimenti fatti in Toscana, ma occorrevano<br />

troppi capitali, doveva pensarci. Le entrate <strong>di</strong> don<br />

Satta erano consistenti. C’erano i fitti dei pascoli, i ricavi dei<br />

prodotti del bestiame e della terra, le decime, gli interessi sui<br />

prestiti e le ren<strong>di</strong>te varie della parrocchia: tanti rivoli che formavano<br />

un fiume. Per un certo tempo tutti i suoi capitali li<br />

aveva tenuti presso la Banca d’Inghilterra, per sicurezza, poi,<br />

dopo aver valutato le <strong>di</strong>verse convenienze, li aveva ritirati e<br />

destinati in vario modo. La parte più cospicua l’aveva impiegata<br />

nell’acquisto <strong>di</strong> nuove terre, un’altra parte per migliorare<br />

<strong>Marreri</strong> e una parte più piccola, ma non trascurabile, in prestiti<br />

a interesse. Ogni impiego aveva un preciso scopo, che<br />

andava oltre la convenienza imme<strong>di</strong>ata.<br />

Nel paese e fuori altri lo avevano imitato e lui ora si trovava<br />

a dover gareggiare con una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> gente che arraffava<br />

terre spinta solo dall’avi<strong>di</strong>tà. Dopo qualche ora tornò<br />

alla casa ed era contento. Cavalli e piante non lo deludevano<br />

mai, sembravano avere intelligenza e sentimento più degli<br />

uomini. A Ombroso bastava un gesto per intendere il volere<br />

degli altri; anche alle piante bastava una potatura, un innesto,<br />

un rapido intervento con le mani e loro crescevano e<br />

davano fiori e frutti. Con gli uomini era più faticoso e penoso.<br />

Bisognava parlare per farsi capire, urlare spesso, e usare<br />

la forza per vincere la resistenza e la caparbietà. Nella casa<br />

c’era anche la chiesa, con l’altare per la messa, un grande salone,<br />

uno stu<strong>di</strong>o e la camera da letto. <strong>Marreri</strong> don Satta l’aveva<br />

portata via allo zio <strong>di</strong> Pepparosa. La causa era durata alcuni<br />

anni, ma alla fine lui era riuscito ad avere tutto senza alcun<br />

indennizzo. Non vi aveva fatto gran<strong>di</strong> mo<strong>di</strong>fiche, tutto sembrava<br />

pre<strong>di</strong>sposto secondo il suo gusto e le sue esigenze: aveva<br />

solo esteso il frutteto, impiantato un’altra vigna e abbattuto<br />

il muro che separava le due proprietà.<br />

Raimondo lo avvertì che la pecora e il porchetto erano in<br />

cottura e gli porse il latte in una pulitissima tazza <strong>di</strong> sughero.<br />

71


<strong>Il</strong> fattore conosceva debolezze e virtù del suo padrone e cercava<br />

<strong>di</strong> prevenirlo in tutto, riuscendo a indovinare perfino il<br />

giorno e l’ora in cui sarebbe sceso a <strong>Marreri</strong>. Le sue intemperanze<br />

lo ferivano spesso, ma lui non giu<strong>di</strong>cava, aveva una<br />

sua filosofia: ogni uomo era impastato <strong>di</strong> bene e <strong>di</strong> male,<br />

importante era che il bene superasse il male e a lui sembrava<br />

che ciò accadesse sempre in don Satta.<br />

I manovali mietevano, erano molti, più donne che uomini,<br />

e alcune ragazze. Le prestazioni gratuite <strong>di</strong> ciascuno duravano<br />

sette giorni. Dal paese scendevano a pie<strong>di</strong> portandosi<br />

<strong>di</strong>etro il cibo per tutto il tempo: pane e un po’ <strong>di</strong> formaggio,<br />

quando potevano. Mietevano per quin<strong>di</strong>ci ore e la notte dormivano<br />

tra i covoni o sotto gli alberi, le donne coperte con<br />

gli scialli, gli uomini coi gabbani. Temevano la malaria, anche<br />

se a <strong>di</strong>giuno bevevano un amarissimo intruglio <strong>di</strong> erbe<br />

per <strong>di</strong>fendersene. Per alleviare la fatica durante la mietitura le<br />

ragazze cantavano. I più anziani raccontavano <strong>di</strong> mietiture in<br />

luoghi non precisati e in tempi in cui il grano veniva su a<br />

montagne e lo si raccoglieva senza chinarsi, anzi <strong>di</strong>stendendo<br />

le braccia per poter cimare le alte spighe. Le donne meno<br />

giovani facevano eco raccontando <strong>di</strong> quando il pane si cuoceva<br />

in abbondanza: le spianate calde si <strong>di</strong>stribuivano a tutti<br />

quelli del vicinato, gran<strong>di</strong> e piccoli, e i pastori avevano sempre<br />

le bisacce piene. Ma quelli erano altri tempi, ora bisognava<br />

mietere il grano degli altri. A mezzogiorno Raimondo<br />

chiamò i mietitori per il pasto. Tutti sapevano ch’era arrivato<br />

il rettore e che c’erano una pecora e un porchetto. Si avviarono<br />

alla casa con le falci, senza fare commenti. <strong>Il</strong> sole picchiava<br />

inesorabile. Dalle stoppie dei campi mietuti si levava un’aria<br />

infuocata. Gli uomini ripetevano alle donne più giovani l’antica<br />

canzone: Bella mea non b’andes a messare ca su sole ti chochet<br />

sa bellesa; e le ragazze sorridevano calandosi i fazzoletti<br />

sulla fronte. Raimondo fece sedere tutti attorno al lastrone <strong>di</strong><br />

pietra, all’ombra del grande olivastro. Gli uomini si tolsero le<br />

berrette e le donne fecero scivolare i fazzoletti sulle spalle.<br />

Parlavano sottovoce, timidamente. Sul lastrone c’era già il pane,<br />

tante pile alte, il formaggio, l’acqua e il vino nelle brocche<br />

<strong>di</strong> terra cotta. La carne la stavano approntando i pastori nell’altra<br />

casa. Raimondo andava e veniva. Nessuno toccò niente.<br />

72<br />

Qualcuno <strong>di</strong>ceva sottovoce che si doveva mangiare poco non<br />

essendo abituati a fare pasti abbondanti.<br />

Uscì don Satta, a capo scoperto, rasato <strong>di</strong> fresco e tutti si<br />

alzarono in pie<strong>di</strong>.<br />

– Sedetevi, si sta bene sotto quest’albero.<br />

Uno degli anziani, per rompere l’imbarazzo, <strong>di</strong>sse scherzosamente<br />

che sarebbe stato bello poter mietere all’ombra.<br />

Don Satta rispose che senza la fatica e il sudore il pane non<br />

avrebbe avuto sapore. A ciascuno chiese qualcosa, chiamando<br />

per nome quelli che conosceva, ed erano quasi tutti. Scrutava<br />

le ragazze, sorprendendosi che alcune <strong>di</strong> esse non le<br />

avesse mai notate.<br />

– E tu figlia <strong>di</strong> chi sei? – chiese a una <strong>di</strong> loro, puntandole<br />

gli occhi addosso come un rapace.<br />

– La figlia <strong>di</strong> Conteneddu – rispose la ragazza, arrossendo:<br />

il volto cotto dal sole le dava una grazia particolare.<br />

– Come ti chiami? – le chiese ancora don Satta, ammirando<br />

il collo delicato e i capelli neri raccolti a cercine.<br />

– Priamedda – rispose lei abbassando gli occhi ancora<br />

più neri in quel volto <strong>di</strong> madonna dei fuochi e dei soli.<br />

Don Satta chiese il nome <strong>di</strong> qualche altra ragazza e dei<br />

giovani, ma il suo sguardo non si staccava da Priamedda che<br />

cercava <strong>di</strong> vincere l’imbarazzo aggiustandosi il fazzoletto sulle<br />

spalle o abbottonandosi la blusa sul petto. Arrivò Raimondo<br />

seguito dai pastori che portavano due gran<strong>di</strong> conche<br />

<strong>di</strong> sughero ricolme <strong>di</strong> carne. L’odore dell’arrosto stordì i manovali,<br />

che improvvisamente furono assaliti da una fame feroce.<br />

Don Satta tornò dentro la casa per lasciare piena libertà<br />

ai mietitori. Raimondo compose due piatti scegliendo<br />

i pezzi più gustosi e glieli portò facendosi aiutare da Priamedda.<br />

La tavola era già apparecchiata con la tovaglia, il pane<br />

<strong>di</strong> grano e il vino. Lo sguardo <strong>di</strong> don Satta era concentrato<br />

su Priamedda che si muoveva leggera come una cerbiatta.<br />

– <strong>Il</strong> sanguinaccio l’ha preparato Peppeddu, – <strong>di</strong>sse Raimondo,<br />

– ci ha messo mentastro e pane d’orzo.<br />

– Bene, bene, – commentò don Satta. – Fai mangiare<br />

Priamedda, così <strong>di</strong>venterà ancora più bella –. Priamedda seguì<br />

Raimondo, ancora più confusa per quel complimento e<br />

per gli sguar<strong>di</strong> <strong>di</strong> don Satta. Fuori Peppeddu aveva appezzato<br />

73


la carne. <strong>Il</strong> cibo e il vino riscaldavano il sangue e ora parlavano<br />

tutti. Chi magnificava la generosità del rettore, chi lodava<br />

l’arte <strong>di</strong> Peppeddu e tutti sembravano aver <strong>di</strong>menticato<br />

per un po’ la miseria dei giorni passati e quella dei giorni a<br />

venire. Le ragazze ridevano, scherzando coi giovani, e le voci<br />

giungevano al rettore, che mangiava da solo. Raimondo andava<br />

fuori e dentro.<br />

– Fatti aiutare dalle donne, – gli <strong>di</strong>sse don Satta. – Le<br />

compenserai con un po’ <strong>di</strong> formaggio. Priamedda sembra<br />

piena <strong>di</strong> buona volontà, mandala qui dopo.<br />

Fuori non mangiavano più, e carne ne era avanzata molta,<br />

come se i lunghi <strong>di</strong>giuni avessero ridotto la capacità <strong>di</strong> cibarsi<br />

ai poveri mietitori. Peppeddu e l’altro pastore raccolsero<br />

la carne e il pane, lasciando solo il vino. Uscì don Satta che<br />

aveva mangiato poco anche lui, pur apprezzando come meritavano<br />

l’arrosto e il sanguinaccio <strong>di</strong> Peppeddu. I mietitori si<br />

alzarono in pie<strong>di</strong> e ringraziarono, offrendo l’insperato benessere<br />

che loro aveva dato il pasto generoso in suffragio delle<br />

anime benedette dei parenti estinti del rettore.<br />

– Sedetevi e offrite anche a me qualcosa, – <strong>di</strong>sse lui prendendo<br />

la tazza <strong>di</strong> sughero che era davanti a Priamedda. Una<br />

delle donne gliela riempì <strong>di</strong> vino.<br />

– Allora, alla salute <strong>di</strong> chi beviamo? – chiese don Satta,<br />

guardando Priamedda, alla quale il cibo e il vino avevano acceso<br />

il viso.<br />

– Alla vostra, – gridarono tutti a una voce, – a cento anni.<br />

– Salute e fortuna a tutti, e in particolare a queste splen<strong>di</strong>de<br />

ragazze, che Dio le conservi sane nel corpo e nello spirito,<br />

– rispose lui porgendo la tazza a Priamedda che bevve<br />

con la testa che le girava; anch’essa, contenta senza sapere<br />

perché, gridò: – salute, – restituendo la tazza. Don Satta<br />

sentì nel vino il sapore delle labbra <strong>di</strong> lei.<br />

– Questa mattina ho u<strong>di</strong>to dei canti.<br />

Qualcuno precisò che i canti non <strong>di</strong>straevano dal lavoro,<br />

anzi aiutavano a mietere più spe<strong>di</strong>ti. Don Satta sorridendo<br />

continuò:<br />

– Erano voci bene intonate, chi cantava?<br />

– Priamedda e Maddalena.<br />

– Allora sentiamole queste sirene.<br />

74<br />

Ma le due ragazze si vergognavano e ci vollero tanti incitamenti<br />

dei mietitori e qualche altro sorso del vino <strong>di</strong> fuoco<br />

<strong>di</strong> <strong>Marreri</strong> per farle cantare. Intonarono i mutos, a domanda<br />

e risposta, fingendo <strong>di</strong> essere due innamorati. Don Satta<br />

ascoltava e annuiva, sorseggiando il vino. La voce <strong>di</strong> Priamedda<br />

era chiara come acqua <strong>di</strong> sorgente, l’eco si perdeva<br />

lontano tra le messi e gli oleandri che costeggiavano il fiume.<br />

Anche Maddalena aveva una voce piacevole, più dura<br />

però, come se il canto prorompesse in grido.<br />

– Brave, – <strong>di</strong>ceva don Satta alla fine <strong>di</strong> ogni canto, ma<br />

tutti i suoi pensieri erano per Priamedda, la cui voce gli entrava<br />

lentamente nel sangue, come il vino rosso <strong>di</strong> quella<br />

tazza, che aveva un profumo <strong>di</strong> vergine. Raimondo <strong>di</strong>sse che<br />

bisognava tornare al campo per completare la mietitura stabilita<br />

per quel giorno. I mietitori si alzarono e raccolsero le<br />

falci che avevano deposto sotto il lastrone <strong>di</strong> pietra.<br />

– Voi due, – <strong>di</strong>sse Raimondo in<strong>di</strong>cando Maria Ladu e<br />

Priamedda, – dovete aiutarmi a ripulire un po’.<br />

Le due donne seguirono Raimondo, mentre gli altri si<br />

avviarono al campo con il passo pesante. <strong>Il</strong> cibo e il vino li<br />

avevano fiaccati più del lavoro. Don Satta rientrò nella sua<br />

stanza e si sdraiò sul letto, incavato in una nicchia come un<br />

trono: non aveva sonno, sentiva una frenesia addosso, come<br />

Ombroso quando fiutava l’odore dell’erba fresca.<br />

Quando Priamedda e Maria Ladu finirono <strong>di</strong> mettere in<br />

or<strong>di</strong>ne le conche e le stoviglie, Raimondo le condusse nella<br />

cantina dove ciascuna si scelse un formaggio. Inviò Maria<br />

Ladu al campo e accompagnò Priamedda da don Satta, che<br />

si era già alzato e passeggiava su e giù per la stanza. Quando<br />

la vide entrare si fermò <strong>di</strong> colpo.<br />

– Vieni, – le <strong>di</strong>sse, – sei una brava figliola, hai cantato<br />

bene e voglio darti un premio.<br />

Priamedda avanzò con la testa ancora confusa dal vino e<br />

dal canto. Raimondo uscì <strong>di</strong>rigendosi svelto all’altra casa per<br />

raccomandare ai pastori <strong>di</strong> conservare la carne avanzata.<br />

Nello spiazzo e nella casa cadde un grande silenzio. Di<br />

lontano giungeva il canto isolato <strong>di</strong> Maddalena, molto debole.<br />

Non c’era un alito <strong>di</strong> vento, l’aria era chiusa come se il<br />

mondo trattenesse il respiro. <strong>Il</strong> grande olivastro era immobile.<br />

75


Dopo qualche tempo Priamedda uscì dalla stanza <strong>di</strong> don<br />

Satta stringendo qualcosa nervosamente fra le mani, una<br />

stoffa <strong>di</strong> seta: si guardò intorno e non vedendo nessuno fu<br />

presa da una grande paura, come se solo allora si fosse svegliata<br />

da un sonno. Si mise a correre verso il campo sollevando<br />

la gonna con le mani per non inciampare e chiamava, ma<br />

nessuno la u<strong>di</strong>va.<br />

A sera, quando il sole stava per tramontare, don Satta<br />

montò a cavallo e si avviò verso il paese. I manovali mietevano<br />

ancora.<br />

– Va’ – <strong>di</strong>sse al cavallo, che si mosse <strong>di</strong> malavoglia, chinando<br />

la testa come se una grande stanchezza legasse le sue<br />

agili membra. Anche don Satta era scontento. Quando stava<br />

per entrare in paese si fermò e guardò il colle della Consolata<br />

rischiarato dalla luna già alta. La festa si avvicinava, vi sarebbe<br />

affluita tanta gente, anche se a lui <strong>di</strong>spiaceva.<br />

76<br />

X<br />

Dopo il raccolto venivano le feste, prima quella della<br />

Consolata, la più antica e anche la più attesa: un giorno <strong>di</strong><br />

canti e <strong>di</strong> danze tra i boschi con carne e pane per tutti; poi<br />

quella del Carmelo, voluta da don Satta, più composta e più<br />

ricca, con la processione, il paese imban<strong>di</strong>erato e l’albero della<br />

cuccagna. La gente accorreva più numerosa alla Consolata,<br />

anche se doveva fare un’ora <strong>di</strong> strada in salita tra i boschi. La<br />

chiesetta e le cumbessias erano <strong>di</strong>sadorne, ravvivate solo dal<br />

candore della calce che ogni anno rinfrescava i muri e l’incannucciato.<br />

In quel santuario ogni cosa acquistava solennità:<br />

il gesto dei pastori e dei conta<strong>di</strong>ni che offrivano una pecora<br />

o un po’ <strong>di</strong> grano, la gente che veniva da lontano per<br />

ricevere il pane e la carne, le promesse che si scambiavano<br />

gl’innamorati. C’erano anche le messe e la processione, ma<br />

erano appen<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> altri riti le cui origini si perdevano nella<br />

notte dei tempi, quando in quel luogo c’era un altro segno<br />

sacro, una pietra o una fonte. La chiesetta era tanto piccola e<br />

sommessa che non aveva turbato mai le antiche credenze,<br />

anzi a esse si era adattata. Col tempo era crollato un muro,<br />

ma la festa si rinnovava ugualmente ogni anno con la stessa<br />

solennità e devozione. Era stato lo zio <strong>di</strong> Pepparosa Pintore a<br />

riattare la chiesetta, quando era parroco del paese. A sue spese<br />

aveva rifatto il tetto, innalzato il muro caduto e costruito<br />

le cumbessias. Dopo la morte del canonico Pintore, don Satta<br />

non aveva voluto più sentir parlare <strong>di</strong> quella festa pagana e<br />

si era rifiutato <strong>di</strong> celebrarvi la messa. La famiglia Pintore, per<br />

mantenere viva la devozione al santuario, aveva chiamato<br />

prete Chessa. Pepparosa alla Consolata saliva tutti gli anni e<br />

ora che sua madre era vecchia accu<strong>di</strong>va da sola alle incombenze<br />

della festa. Partì presto, prima dell’alba, accompagnata<br />

da ziu Kicu, il fedele servitore che l’aveva vista nascere e al<br />

quale don Pintore in punto <strong>di</strong> morte aveva raccomandato <strong>di</strong><br />

aver cura <strong>di</strong> lei e dei suoi beni. Ninedda, la domestica, con le<br />

77


altre donne e i pastori erano saliti già da qualche giorno con i<br />

carri carichi <strong>di</strong> pane, <strong>di</strong> dolci e <strong>di</strong> vino. Le pecore per la carne<br />

i pastori le portavano <strong>di</strong>rettamente lassù: quell’anno c’era anche<br />

una vitella offerta da un forestiero in onore della Santa e<br />

<strong>di</strong> Pepparosa. Ziu Kicu precedeva il cavallo, tenendolo per il<br />

morso; quando la strada presentava qualche <strong>di</strong>fficoltà lui rallentava<br />

il passo per evitare scosse a Pepparosa che cavalcava a<br />

sa feminina. Usciti dal paese presero la strada carrabile fino al<br />

bivio poi, quando già avanzava la luce dell’alba, s’inoltrarono<br />

nel bosco, pauroso per le sue oscurità e i suoi silenzi. Ziu Kicu<br />

parlava per <strong>di</strong>strarre Pepparosa. Lei taceva: ogni anno<br />

quando entrava in quel luogo sentiva uno strano incanto, come<br />

se qualcosa mutasse in lei. Socchiudendo gli occhi aspirava<br />

profondamente le essenze che profumavano l’aria; pensava<br />

al suo <strong>di</strong>pinto incompiuto e ai <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> don Satta che tante<br />

volte le erano tornati alla mente nell’ultimo periodo, rinnovando<br />

turbamenti e paure che non riusciva a vincere. Man<br />

mano che salivano il bosco si rischiarava, la luce sembrava<br />

prorompere dalle viscere della terra. Pepparosa taceva ancora.<br />

La voce <strong>di</strong> ziu Kicu l’u<strong>di</strong>va lontana, come il fruscìo delle foglie<br />

calpestate. La luce si faceva via via più intensa e lei fu<br />

presa da uno strano timore, come se quel chiarore potesse<br />

svelare pensieri e sensazioni che voleva nascondere a se stessa.<br />

Camminavano da molto, sempre dentro il bosco e ziu<br />

Kicu le chiese se volesse fermarsi alla fonte. Lei <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> sì con<br />

un cenno del capo. Presero un altro sentiero in <strong>di</strong>scesa tra alti<br />

macchioni <strong>di</strong> corbezzoli che imprigionavano i tronchi dei<br />

lecci. <strong>Il</strong> cavallo scivolava ogni tanto, ma ziu Kicu riusciva a<br />

tenerlo piantandoglisi davanti. A un tratto furono investiti<br />

da una luce violenta, come se nel bosco fosse <strong>di</strong>vampato un<br />

grande incen<strong>di</strong>o. Pepparosa emise un grido <strong>di</strong> stupore.<br />

– Siamo alla fonte – <strong>di</strong>sse ziu Kicu.<br />

Davanti a loro si apriva una radura, un poggio quasi: si<br />

vedeva il paese e più giù i colli e le valli; in fondo, nel mare,<br />

si compiva il pro<strong>di</strong>gio del giorno con un sole rosso che tingeva<br />

tutta l’aria d’intorno. Pepparosa scese dal cavallo, parlava<br />

sommessamente, del bosco e dell’alba. Anche ziu Kicu si<br />

guardava intorno e il petto gli si gonfiò come quando abbatteva<br />

un bue con un pugno.<br />

78<br />

– Bella giornata! – <strong>di</strong>sse e si avviò col cavallo verso la fonte.<br />

Pepparosa lo seguì raccogliendo la gonna con le mani. U<strong>di</strong>rono<br />

il gorgoglio dell’acqua e ne sentirono anche l’odore. La<br />

fonte era nascosta in fondo alla grotta, tra corbezzoli altissimi.<br />

Poco <strong>di</strong>stante dal canale dove scorreva l’acqua, c’era un enorme<br />

leccio legato alla terra da un intrico <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ci che affioravano<br />

in bizzarre gra<strong>di</strong>nate. Dietro il tronco sostava qualcuno.<br />

Sembrava dormisse.<br />

Ziu Kicu salutò, soggiungendo poi con un grido <strong>di</strong> sorpresa:<br />

– Sei tu, Alessio? M’aveva confuso questa luce –. Entrambi<br />

erano contenti <strong>di</strong> trovarsi lì, ziu Kicu, commosso,<br />

sbatteva la berretta sul tronco dell’albero. Arrivò Pepparosa<br />

col fazzoletto sulle spalle e i capelli un po’ scompigliati; i suoi<br />

occhi riflettevano la luce che saliva dal mare. Mai era stata<br />

così bella.<br />

– Chiara l’alba oggi – le <strong>di</strong>sse Alessio guardandola intensamente,<br />

con una voglia <strong>di</strong> gridare ciò che sentiva, ma la timidezza<br />

che sempre lo assaliva lo fece ancora tacere.<br />

Lei si raccolse i capelli nel fazzoletto e con un gesto della<br />

mano in<strong>di</strong>cò la grotta della fonte dove l’attendeva ziu Kicu.<br />

Alessio la seguì, camminando a fatica per un indolenzimento<br />

alle gambe. L’acqua sgorgava abbondante dalle fessure della<br />

roccia e raccogliendosi in rivoli defluiva lungo il canale fino<br />

alla valle. La fonte era più antica del nome che portava: Buzinos<br />

ricordava il lavacro dei boia dopo le esecuzioni. Pepparosa,<br />

dopo essersi bagnata un poco la fronte, prese la tazza <strong>di</strong><br />

sughero che le porse ziu Kicu e bevve socchiudendo gli occhi.<br />

– Ho piacere che anche tu venga alla festa – <strong>di</strong>sse ad<br />

Alessio porgendogli la tazza. Lui rispose che la Consolata<br />

gli piaceva, gli sembrava che su quel colle uomo e natura ritrovassero<br />

un’antica intesa ogni anno. Uscirono dalla grotta<br />

e si sedettero su una delle ra<strong>di</strong>ci del grande leccio. Ziu Kicu<br />

portò il cavallo a bere giù nel canale. Pepparosa parlò ancora<br />

della Consolata.<br />

– Non so se c’entri la Santa, – rispose Alessio, – ma tutto<br />

ciò ha una grande importanza, il giorno della festa rinasce<br />

uno spirito <strong>di</strong> comunità che richiama altre epoche –. Disse<br />

che si doveva incontrare coi pastori e i conta<strong>di</strong>ni e raccontò<br />

79


<strong>di</strong> Nighirisè, parlando con <strong>di</strong>sinvoltura e accalorandosi. Pepparosa<br />

guardava il mare.<br />

– Le tue proposte all’inizio <strong>di</strong>sorientano, come quel sole<br />

rosso, hanno bisogno <strong>di</strong> percorrere tutto il cielo per essere<br />

capite.<br />

– Potessi chiarire a me stesso ciò che voglio! – <strong>di</strong>sse Alessio,<br />

con un’aria pensosa, preoccupata quasi.<br />

Pepparosa voleva incoraggiarlo, fargli capire che gli era<br />

vicino, ma non trovava le parole adatte. Parlò <strong>di</strong> sé: era vissuta<br />

sempre sola, lontano dalla gente e dal mondo, i telai e<br />

le ragazze avevano mutato la sua esistenza.<br />

– È opera tua – <strong>di</strong>sse ancora con la stessa solennità con<br />

cui aveva parlato della Santa. Alessio si schermì, ma volle <strong>di</strong>re<br />

qualcosa che gli urgeva sui telai.<br />

– <strong>Il</strong> merito è tutto vostro, tuo e delle ragazze. Vi potranno<br />

<strong>di</strong>re che tutto si poteva fare <strong>di</strong>versamente, citandovi fatti e<br />

luoghi. Non lasciatevi abbagliare. I vostri telai hanno un’anima,<br />

fanno parte della vostra vita. Se l’idea dei telai potesse<br />

estendersi… Prima che venissi tu stavo osservando i campi<br />

intorno al paese, com’è accorante vederli intatti. L’uomo<br />

non vi ha lasciato alcun segno: qualche sentiero tracciato<br />

dalle bestie, qualche muro a secco per imporre un sopruso…<br />

non c’è altro: la storia della nostra gente è lì, in quei<br />

segni che mancano.<br />

Ziu Kicu si avvicinò e li sollecitò a rimettersi in cammino<br />

prima che salisse il caldo. Si mossero, Pepparosa a cavallo.<br />

Alessio tentava <strong>di</strong> massaggiarsi le gambe e per quanto ziu<br />

Kicu rallentasse l’andatura non riusciva ugualmente a tenere<br />

<strong>di</strong>etro.<br />

– Andate voi, io mi fermo ancora un po’.<br />

Pepparosa smontò dal cavallo senza l’aiuto <strong>di</strong> nessuno.<br />

– Ti sei stancato salendo a pie<strong>di</strong>.<br />

Lui <strong>di</strong>sse che preferiva riposarsi, ma ziu Kicu confermò<br />

che il cavallo era forte e poteva portarli entrambi senza fatica.<br />

Pepparosa insistette e nelle sue parole c’era una tale sollecitu<strong>di</strong>ne<br />

che finì per vincere la debole resistenza <strong>di</strong> Alessio. Montarono<br />

entrambi: Alessio teneva le briglie e lei si teneva timidamente<br />

con le braccia alla vita <strong>di</strong> lui. Ziu Kicu precedeva.<br />

Nessuno parlava. <strong>Il</strong> cavallo scivolò sul fogliame e Pepparosa<br />

80<br />

istintivamente si strinse più forte alla vita <strong>di</strong> Alessio che, per<br />

rassicurarla, le prese la mano provando un piacere così dolce<br />

che quasi ne sentiva un male. La sua agitazione fu avvertita<br />

da Pepparosa, che rimase impassibile, ritirando cautamente<br />

la mano dalla stretta. Lei conosceva Alessio attraverso i racconti<br />

<strong>di</strong> ziu Kicu, che le riferiva tutto ciò che accadeva nella<br />

casa del forno, ripetendo ogni volta che quel ragazzo, se avesse<br />

avuto salute come aveva mente e cuore, sarebbe arrivato<br />

chissà dove. Anche l’idea dei telai le era giunta così e lei si era<br />

sorpresa della facilità con cui aveva superato l’innata <strong>di</strong>ffidenza<br />

che con<strong>di</strong>zionava ogni suo volere. Un’indefinita paura e il<br />

convincimento che le vicende della sua famiglia l’avessero votata<br />

alla rinuncia, secondo le sante parole dello zio canonico,<br />

la spingevano a isolarsi sempre <strong>di</strong> più e a soffocare la sua natura.<br />

I telai le avevano rivelato un Alessio generoso e pieno <strong>di</strong><br />

senno e lei seguiva tutto ciò che lui faceva con tenerezza e<br />

trepidazione, come una sorella o una madre. La sera attendeva<br />

con ansia le notizie che le portava ziu Kicu.<br />

Quando furono vicino al Santuario, Alessio fece fermare il<br />

cavallo e smontò, chiedendo a Pepparosa e a ziu Kicu <strong>di</strong> proseguire<br />

da soli, lui sarebbe giunto più tar<strong>di</strong>. Pepparosa era in<br />

apprensione, la sofferenza che aveva scorto in Alessio non era<br />

dovuta solo alla stanchezza. Gli chiese come si sentisse e lui rispose<br />

ch’era tutto passato, la cavalcata gli aveva fatto bene.<br />

– Mi prenoto per l’anno venturo – <strong>di</strong>sse poi scherzando.<br />

Si fermò a lungo nel bosco: le gambe non gli dolevano<br />

più, anzi era come se non avesse mai sentito un dolore. Arrivò<br />

al Santuario in piena festa, la messa era stata già celebrata<br />

da prete Chessa e la gente andava e veniva da tutte le parti.<br />

Molti scendevano nel bosco, altri sostavano davanti alle<br />

cumbessias. In fondo, sullo spiazzo, c’erano enormi tronchi<br />

ridotti in brace, attorno ai quali i pastori rigiravano lentamente<br />

i lunghi spie<strong>di</strong> <strong>di</strong> legno carichi <strong>di</strong> quarti <strong>di</strong> pecore. <strong>Il</strong><br />

profumo degli arrosti si confondeva con gli aromi del bosco.<br />

Più in là, in un grosso caldaro, bollivano altri quarti <strong>di</strong> pecore.<br />

La gente si avvicinava e guardava. Qualcuno chiedeva a<br />

che ora si mangiasse.<br />

– All’ora giusta – rispondevano gli uomini che sudavano<br />

ai fuochi. Alessio cercava <strong>di</strong> farsi largo tra la folla. I ragazzi,<br />

81


quando lo scorgevano, tiravano le gonne alle mamme e <strong>di</strong><br />

nascosto, sorridendo con gli occhi, <strong>di</strong>cevano:<br />

– Guarda, c’è Alessio.<br />

Le donne si voltavano e lo salutavano.<br />

– Qui sei? – gli chiedevano, quasi a significare il piacere<br />

<strong>di</strong> vederlo in mezzo a loro. Gli arrostitori, scherzosamente,<br />

gli promisero un pezzo <strong>di</strong> coda, se l’avesse meritato.<br />

Nel cortile delle cumbessias i pastori, con le mani insanguinate,<br />

immolavano le bestie man mano che uscivano da<br />

un recinto; altri le scorticavano mentre erano ancora calde,<br />

<strong>di</strong>stendendo poi le carni fumanti su frasche <strong>di</strong> mirto. Le bestie<br />

erano tante: molte pecore, alcune capre, due montoni e<br />

la magnifica vitella offerta dal forestiero, già pronta per il sacrificio:<br />

aveva un collare <strong>di</strong> morbido cuoio con un sonaglio<br />

<strong>di</strong> bronzo che uno dei pastori le tolse delicatamente <strong>di</strong>cendo<br />

che andava a portarlo a Pepparosa, come aveva raccomandato<br />

il donatore. Al centro del cortile due pastori la immobilizzarono<br />

tenendola per le orecchie, un altro prese una piccola<br />

scure e sollevò un braccio poderoso: una luce balenò<br />

nell’aria e un grido selvaggio coprì il tonfo; la vitella piegò le<br />

gambe, ma i pastori non la lasciarono cadere: sollevandola<br />

<strong>di</strong> peso l’adagiarono delicatamente su un giaciglio <strong>di</strong> lentischi.<br />

Alessio aveva seguito il rito con lo stesso raccoglimento<br />

degli altri che gli si strinsero attorno; si avvicinò anche il pastore<br />

che aveva abbattuto la vitella, e gli tese la mano, mettendolo<br />

al corrente <strong>di</strong> tutto: avevano iniziato all’alba e ne<br />

avrebbero avuto fino a sera; le pecore erano magre, come<br />

l’annata; la vitella era splen<strong>di</strong>da, degna della Santa e <strong>di</strong> Pepparosa.<br />

Alessio <strong>di</strong>sse che non voleva intralciare oltre il lavoro<br />

e andò via. Fuori continuava il via vai della gente, mentre<br />

sotto il leccio grande le donne ammonticchiavano il pane <strong>di</strong><br />

grano sul lastrone <strong>di</strong> pietra e <strong>di</strong>sponevano le conche su trespoli<br />

<strong>di</strong> legno. Poco lontano, all’ombra, c’era il carro con<br />

due gran<strong>di</strong> botti: una piena d’acqua, l’altra <strong>di</strong> vino. Da <strong>di</strong>etro<br />

le cumbessias provenivano canti. Alessio trovò gli amici<br />

sotto l’albero.<br />

– Sie<strong>di</strong>ti e bevi con noi – gli <strong>di</strong>sse Balentinu. Erano molti,<br />

più <strong>di</strong> quanti non fossero intervenuti a Nighirisè. I canti<br />

ripresero. <strong>Il</strong> basso <strong>di</strong> Indoi era profondo, sembrava potesse<br />

82<br />

scavare la terra. Alcuni parlottavano. A mezzogiorno la campanella<br />

della chiesetta chiamò per il pranzo.<br />

– An<strong>di</strong>amo, è l’ora – <strong>di</strong>sse Balentinu alzandosi. Gli altri<br />

lo seguirono. Davanti alle cumbessias lo spiazzo era già affollato.<br />

Tutti i festanti ormai erano raccolti lì. Le conche erano<br />

ricolme <strong>di</strong> carne e i pastori arrostivano ancora. Dopo un po’,<br />

da una delle cumbessias uscì Pepparosa seguita da altre donne,<br />

tutte parenti della Santa: la Consolata, con le terre d’intorno,<br />

era proprietà privata, l’origine si faceva risalire a un<br />

misterioso parentado e la maggior quota spettava alla famiglia<br />

Pintore. Tra la folla si aprì un passaggio e Pepparosa<br />

avanzò lentamente fino al lastrone dov’erano i cibi. Stette un<br />

po’ in raccoglimento poi prese un pezzo <strong>di</strong> pane e un pezzo<br />

<strong>di</strong> carne e li porse al più anziano dei presenti <strong>di</strong>cendo:<br />

– Ziu Montesu, offro a voi per la consolazione delle anime<br />

e la pace dei vivi –. Indossava il costume e un can<strong>di</strong>do fazzoletto<br />

le copriva il capo. I suoi gesti erano misurati. La gente<br />

seguiva in silenzio. I pensieri <strong>di</strong> tutti andarono alla devozione<br />

che ispirava il <strong>di</strong>pinto nella chiesa del Carmelo. Pepparosa<br />

sentiva come un peso quella falsa santità che irrigi<strong>di</strong>va ogni<br />

suo gesto. Ziu Montesu, vecchio con la barba bianca ma ancora<br />

fermo sulle gambe, prese il pane e la carne e levando il<br />

braccio al cielo <strong>di</strong>sse:<br />

– Qui venivano i padri dei padri, qui verranno i nipoti<br />

dei nipoti per rinnovare un voto <strong>di</strong> concor<strong>di</strong>a.<br />

Pepparosa <strong>di</strong>stribuì il pane e la carne e così fecero le parenti<br />

della Santa. Gli arrostitori ogni tanto arrivavano con gli<br />

spie<strong>di</strong> e sfilavano le carni fumanti.<br />

83


XI<br />

Al raccoglimento iniziale seguì un frenetico assalto alle<br />

conche e alla botte del vino in un vociare crescente che<br />

spesso prorompeva in urla selvagge. Erano stati accesi altri<br />

fuochi per arrostire le carni della vitella e le conche ora si<br />

riempivano e svuotavano rapidamente. Cento mani si allungavano<br />

per arraffare qualcosa e ciascuno, più che mangiare,<br />

<strong>di</strong>vorava, come se la fame da saziare non avesse fine.<br />

Si formavano crocchi che presto si <strong>di</strong>sperdevano per ricomporsi<br />

ancora in un continuo movimento senza senso. Ciascuno,<br />

nell’ebrezza del vino, si affannava a cercare un amico<br />

o un parente chiamando spesso un nome con voce querula.<br />

In quelle smodate effusioni vi era qualcosa <strong>di</strong> doloroso. <strong>Il</strong> cibo<br />

e il vino fiaccavano ogni resistenza e allora i gruppi, portandosi<br />

appresso manciate <strong>di</strong> carne e <strong>di</strong> pane, si <strong>di</strong>sperdevano<br />

nei boschi e si <strong>di</strong>stendevano sotto gli alberi, modulando<br />

nenie malinconiche.<br />

Alessio si sentiva chiamare da ogni parte, tutti lo volevano<br />

e ciascuno gli offriva qualcosa invitandolo a fare onore<br />

alla Santa. Lui mangiava e beveva e andava da un gruppo all’altro,<br />

stor<strong>di</strong>to dalle voci e dal vino.<br />

– Ti piace la festa?<br />

– Sì – rispondeva lui e gli altri gli battevano una mano<br />

sulle spalle. Gli girava la testa e sentiva una tristezza <strong>di</strong> cui<br />

non sapeva darsi ragione.<br />

– Alessio, mangia e bevi con noi, <strong>di</strong>mentichiamo insieme<br />

le sventure, – gli gridavano, e lui continuava a bere e a<br />

mangiare, andando <strong>di</strong> gruppo in gruppo, finché si trovò in<br />

mezzo al bosco sdraiato sotto un albero e lì, spossato ormai<br />

e con una voglia <strong>di</strong> piangere che non aveva provato mai, si<br />

coprì la testa con le braccia e si assopì tra canti e lamenti.<br />

Nel dormiveglia i pensieri coscienti si alternavano ai sogni<br />

agitati… Pepparosa vestita da sacerdotessa spargeva semi <strong>di</strong><br />

grano con entrambe le mani in<strong>di</strong>cando campi sterminati.<br />

84<br />

Lui la seguiva confuso tra la folla dei pastori e dei conta<strong>di</strong>ni<br />

che procedevano lentamente con le berrette in mano. I conta<strong>di</strong>ni<br />

scendevano verso la valle e i pastori andavano verso i<br />

monti; lo chiamavano, ma lui non sapeva con chi andare.<br />

Correva verso i conta<strong>di</strong>ni, che tendevano le mani, i richiami<br />

dei pastori si facevano più alti e lui correva in un an<strong>di</strong>rivieni<br />

affannoso, finché Pepparosa non lo prese per mano e senza<br />

<strong>di</strong>re niente gl’impose <strong>di</strong> stare con lei, fermo al centro del<br />

campo; ma i richiami dei pastori e dei conta<strong>di</strong>ni gli rintronavano<br />

dolorosamente nella testa…<br />

– Alessio, Alessio!<br />

Si svegliò e si accorse che la voce era quella <strong>di</strong> Bakis Moro,<br />

il giovane amico che la sera, al rientro dall’orto, lasciava<br />

suo padre a metà strada per correre alla casa del forno.<br />

– Non riuscivo a svegliarti.<br />

– Sei tu? Mi hai chiamato molte volte?<br />

– Credevo ti sentissi male, ci ha mandato Pepparosa, –<br />

<strong>di</strong>sse ancora Bakis, tenendo per mano Nicolosa, la ragazza<br />

dei telai.<br />

– Nella cumbessia c’è prete Chessa e ci sono gli ospiti<br />

forestieri.<br />

– Avevo un tale stor<strong>di</strong>mento che non so come sono arrivato<br />

qui.<br />

Si mossero tutti e tre, Nicolosa in mezzo. Alessio si compiacque<br />

<strong>di</strong> vedere i due giovani insieme.<br />

– Mi hanno dato l’entrata, – <strong>di</strong>sse felice Bakis, – ora posso<br />

andare in casa <strong>di</strong> Nicolosa una volta la settimana.<br />

– State bene insieme, – <strong>di</strong>sse Alessio. Bakis sorrise con<br />

quei suoi occhi mobilissimi che sembravano unu focu fughidu<br />

come <strong>di</strong>ceva suo padre.<br />

– Come vanno i tappeti? – chiese Alessio a Nicolosa.<br />

– Oh bene, – rispose lei, – verranno altre ragazze, saremo<br />

più <strong>di</strong> cinquanta.<br />

– È la più brava ai telai, lo sai? – <strong>di</strong>sse Bakis. – Dipinge<br />

anche, ai suoi lavori manca solo la parola.<br />

Alessio <strong>di</strong>sse che aveva visto gli arazzi e i ricami, tutti<br />

molto belli.<br />

La ragazza, arrossendo, parlò <strong>di</strong> Pepparosa che sapeva insegnare<br />

così bene.<br />

85


– Quando avremo il Cumone… – <strong>di</strong>sse Bakis pieno <strong>di</strong><br />

entusiasmo. A Nicolosa quell’idea appariva vaga e lontana,<br />

ma quando Bakis gliene parlava lei s’incantava e il Cumone<br />

allora sembrava potesse scaturire dalle cose <strong>di</strong> tutti i giorni,<br />

con semplicità e naturalezza. Arrivarono alla cumbessia, uno<br />

stanzone arredato sommariamente, con un robusto tavolo al<br />

centro, una credenza, due panche, se<strong>di</strong>e e scranni <strong>di</strong> legno<br />

appena sgrezzato. Gli ospiti, intrattenuti da Pepparosa e dalle<br />

parenti della Santa, seduti attorno al tavolo, ascoltavano il<br />

forestiero della vitella, Chellone <strong>di</strong> Gorofai, che per mole e<br />

loquela sovrastava tutti gli altri. Chellone aveva l’aspetto <strong>di</strong><br />

un toro, con una testa tonda solidamente piantata su spalle<br />

possenti che si scuotevano violentemente quando prorompevano<br />

le fragorose risate. Suo padre aveva terre e armenti e<br />

lui ne parlava con l’intento <strong>di</strong> sbalor<strong>di</strong>re chi l’ascoltava; <strong>di</strong>ceva<br />

che le tanche <strong>di</strong> Mamone e Babbu Mannu, solcate da<br />

fiumi, non conoscevano le cattive annate, l’erba vi cresceva<br />

tanto alta che si poteva mieterla. Chellone era uno dei pretendenti<br />

<strong>di</strong> Pepparosa, l’offerta della vitella seguiva tante altre<br />

attenzioni. La delicatezza e i riguar<strong>di</strong> con cui lei aveva<br />

ripetuto i suoi “no” l’avevano illuso <strong>di</strong> potersi portare a Gorofai<br />

quell’incanto <strong>di</strong> donna. Fra gli ospiti della cumbessia<br />

c’era prete Chessa, seduto alla destra <strong>di</strong> Pepparosa: anch’egli<br />

subiva tacendo la loquela <strong>di</strong> Chellone e se qualche volta riusciva<br />

a <strong>di</strong>re qualcosa, parlava con un fil <strong>di</strong> voce, tormentandosi<br />

le mani per la timidezza. Quando entrarono Alessio e i<br />

suoi amici tornò il silenzio, con grande sollievo <strong>di</strong> prete<br />

Chessa. Alessio si sedette <strong>di</strong> fronte a Chellone; Bakis e Nicolosa<br />

presero posto su uno stesso sgabello perché non c’erano<br />

altre se<strong>di</strong>e.<br />

– Era nel bosco e dormiva – <strong>di</strong>sse Bakis per giustificare il<br />

ritardo. Alessio spiegò che aveva bevuto troppo. Prete Chessa,<br />

sorridendo, <strong>di</strong>sse che anche il bere e il mangiare avevano<br />

un loro senso alla festa della Consolata.<br />

– Ho bevuto anch’io, – continuò abbassando gli occhi,<br />

– e mi sono sentito girare la testa.<br />

Alessio gli chiese se accettava tutto della festa, che aveva<br />

aspetti così singolari. Prete Chessa non si torceva più le mani<br />

e parlava con insolita sicurezza.<br />

86<br />

– Qui ogni gesto e ogni parola nascono da un profondo<br />

sentire religioso.<br />

– Alla messa c’era poca gente – si lamentò una delle parenti.<br />

– Tutto l’altipiano della Consolata è un grande altare, –<br />

rispose prete Chessa. Chellone era insofferente, avrebbe voluto<br />

parlare lui e ne aveva <strong>di</strong> cose da <strong>di</strong>re sulle feste. Alessio<br />

ascoltava attento, le cose che <strong>di</strong>ceva prete Chessa le pensava<br />

anche lui: la festa, coi suoi riti antichi che puntualmente si<br />

rinnovavano ogni anno era un vago tentativo <strong>di</strong> recuperare il<br />

ricordo <strong>di</strong> altre esistenze. Chellone sbottò alla fine: nella Consolata<br />

lui non vedeva niente <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso dalle altre feste, anzi gli<br />

sembrava una festa povera, non paragonabile a quella del Miracolo<br />

<strong>di</strong> Gorofai. L’unica cosa bella, anzi bellissima, era Pepparosa<br />

e lui e i suoi amici erano venuti per rendere omaggio a<br />

lei soltanto. L’invitò a Gorofai per la fine <strong>di</strong> settembre, tutta la<br />

festa sarebbe stata in suo onore: era lui il priore quell’anno.<br />

Pepparosa, un po’ a <strong>di</strong>sagio, <strong>di</strong>sse ch’era stata una volta al Miracolo<br />

<strong>di</strong> Gorofai e che non aveva motivo <strong>di</strong> tornarvi.<br />

Bakis, furente per la rozzezza <strong>di</strong> Chellone, <strong>di</strong>sse che il<br />

Miracolo, come il Carmelo, era una festa imposta, la gente<br />

non la sentiva sua.<br />

Chellone, contrariato per il rifiuto <strong>di</strong> Pepparosa e per le<br />

attenzioni che essa aveva per Alessio, avrebbe voluto esplodere<br />

e prendersela con Bakis, si dominò però, anche se gli<br />

costò molto, e riprese a parlare della festa del Miracolo, che<br />

<strong>di</strong>ventava ogni anno più bella: da Bitti e da Lula i giovani<br />

accorrevano a cavallo per accompagnare la processione che<br />

attraversava tutto il paese, e ciascuno portava doni per adornare<br />

l’altare della Santa. La piazza nuova si riempiva <strong>di</strong> carri<br />

carichi <strong>di</strong> mercanzie e il denaro e la roba scorrevano a fiumi<br />

perché alla festa andava solo gente che “poteva”. I giovani si<br />

cimentavano nella corsa dei cavalli e i premi erano ricchi e<br />

la sera si ballava e si accendevano i fuochi. Quella era festa!<br />

I due amici che Chellone s’era portato da Gorofai gli facevano<br />

eco, magnificando il suo priorato che avrebbe oscurato<br />

tutti quelli che l’avevano preceduto. Alessio e prete Chessa<br />

tacevano. Pepparosa e le altre donne ascoltavano impassibili.<br />

Bakis non riusciva a star fermo.<br />

87


– <strong>Il</strong> Miracolo, – <strong>di</strong>sse, – è la festa dei proprietari che hanno<br />

tolto la terra ai pastori e ai conta<strong>di</strong>ni.<br />

Chellone strinse la bocca e gonfiò il collo come se volesse<br />

dare una furiosa incornata. Pepparosa corse ai ripari e <strong>di</strong>sse<br />

sorridendo:<br />

– Noi abbiamo rispetto delle usanze altrui.<br />

<strong>Il</strong> collo <strong>di</strong> Chellone si stava sgonfiando quando Bakis<br />

sbottò <strong>di</strong> nuovo:<br />

– Rispettiamo chi ci rispetta.<br />

Chellone si alzò <strong>di</strong> scatto, la sua mole incuteva paura.<br />

– Ti riempi la bocca <strong>di</strong> cose che neanche capisci, ma io<br />

non mi lascio insolentire da nessuno, – <strong>di</strong>sse minaccioso.<br />

Alessio lo fermò con un gesto deciso.<br />

– Bakis crede in quello che <strong>di</strong>ce, sbagli se pensi d’impe<strong>di</strong>rgli<br />

<strong>di</strong> parlare con le minacce.<br />

Da fuori proveniva il suono dell’organetto.<br />

– Sono iniziati i balli, an<strong>di</strong>amo a vedere, – propose Pepparosa<br />

che voleva rompere quell’atmosfera pesante.<br />

Si alzarono tutti e uscirono dal camerone. Chellone non<br />

sapeva che contegno darsi; si aggiustò il berrettino <strong>di</strong> pelle,<br />

una cupoletta con la visiera appena accennata, e seguì gli altri<br />

sbattendo sul grezzo pavimento i tacchi dei suoi stivali<br />

nuovi. I balli s’intrecciavano nel grande spiazzo e sotto gli<br />

alberi. Pepparosa e le altre donne si sedettero su una panca<br />

<strong>di</strong> pietra addossata al muro della cumbessia. L’organetto <strong>di</strong><br />

Eusebio, il calzolaio, aveva attaccato il ritmo incalzante de<br />

Su <strong>di</strong>llu. Chellone, senza chinarsi, invitò Pepparosa al ballo.<br />

Lei si alzò e si lasciò afferrare da due mani robuste. Arrivati<br />

al centro dello spiazzo Chellone le girò intorno sbattendo i<br />

tacchi degli stivali sul terreno polveroso. Pepparosa si voltava<br />

lentamente per seguire le evoluzioni del suo cavaliere. Lui fece<br />

tre giravolte, poi riafferrò le mani <strong>di</strong> lei dando il via a un<br />

vorticoso girotondo a due. Ogni tanto Chellone voltava le<br />

spalle a Pepparosa che riprendeva a girare su se stessa introducendo<br />

nel ballo figure non previste. Lui tornava a riafferrarle<br />

bruscamente le mani e tentava <strong>di</strong> farla “volare”, ma Pepparosa<br />

<strong>di</strong>vertita glielo impe<strong>di</strong>va flettendosi con movimenti<br />

aggraziati. Chellone voleva stancare la sua dama, che si muoveva<br />

leggera, senza alcuna fatica. Ci furono altre fughe, altri<br />

88<br />

inseguimenti e altri giroton<strong>di</strong> e Pepparosa <strong>di</strong>sorientava Chellone.<br />

Tutti gli altri balli erano cessati, la gente faceva cerchio<br />

attorno alla coppia e capiva dalla danza che niente univa i<br />

due. Pepparosa non provava simpatia per Chellone; quella<br />

danza la sentiva come una sfida e lei resisteva fiera. Quando<br />

Eusebio smorzò le note de Su <strong>di</strong>llu, Chellone rientrò nel<br />

gruppo dominando a stento il suo <strong>di</strong>sappunto. I balli ripresero,<br />

ora in giroton<strong>di</strong> più pacati, ora in altri voli a due o a<br />

quattro e al suono dell’organetto ogni tanto si aggiungevano<br />

grida che mettevano le ali ai danzatori. Pepparosa tornò a sedersi<br />

sulla panca, insieme alle altre donne; la sfida <strong>di</strong> Chellone<br />

l’aveva fatta uscire dalla sua compostezza abituale: seguiva<br />

i danzatori e li incitava a voce alta. Bakis, prendendo per<br />

mano Nicolosa, andò verso lo spiazzo.<br />

– Tocca a noi – <strong>di</strong>sse scalpitando come un puledro.<br />

Eusebio il calzolaio attaccò Anda e bola: il ritmo era tanto<br />

veloce che i danzatori sembrava non toccassero terra.<br />

Bakis e Nicolosa si staccarono dalla catena e si misero al<br />

centro del cerchio ora saltellando avanti e in<strong>di</strong>etro col busto<br />

eretto ora tenendosi per mano uno <strong>di</strong> fronte all’altro. <strong>Il</strong> cerchio<br />

si fermò <strong>di</strong> colpo, ma la catena non si sciolse. Bakis<br />

conduceva Nicolosa senza sforzo. I loro volti si avvicinavano<br />

e l’uno sentiva il respiro dell’altro. Dal cerchio, sempre inchiodato<br />

in quella contemplazione, ogni tanto si levava un<br />

grido d’ammirazione. Eusebio lasciò morire piano piano le<br />

note del suo organetto, quasi gli <strong>di</strong>spiacesse ridestare i due<br />

danzatori, che seguendo le cadute dei suoni rallentarono il<br />

loro volo come se scendessero da un altro mondo. La catena<br />

si aprì per farli passare poi si sciolse a pezzo a pezzo e ci fu<br />

un fragoroso battimani. Non si ballò più, ma quella danza<br />

sembrava aver messo il <strong>di</strong>avolo addosso a tutti e per dare<br />

sfogo a tanta esuberanza gli uomini si sfidarono a s’istrumpa.<br />

Chellone, imbronciato, si avviò al centro dello spiazzo per<br />

partecipare alla gara <strong>di</strong> lotta. Questo bastò per attirare l’attenzione<br />

su <strong>di</strong> lui. Lanciava le sue sfide a caso, toccando con<br />

la mano chi gli capitava. Nessuno si sottraeva, ma la forza <strong>di</strong><br />

Chellone aveva qualcosa <strong>di</strong> bestiale e quelli che osavano cadevano<br />

ai suoi pie<strong>di</strong> uno dopo l’altro con tonfi che facevano<br />

rintronare la terra. Ogni caduta strappava un grido alla folla,<br />

89


che assisteva sgomenta davanti a quella furia. Dopo che ne<br />

ebbe abbattuti tanti, Chellone si guardò intorno cercando<br />

qualcuno. Gli si avvicinarono i due amici <strong>di</strong> Gorofai e gli<br />

<strong>di</strong>ssero qualcosa. Lui si mosse, facendosi largo tra la folla. Ci<br />

fu un grande silenzio. Pepparosa e Nicolosa si alzarono in<br />

pie<strong>di</strong>. Chellone si fermò <strong>di</strong> colpo vicino all’albero e, facendo<br />

cadere la sua mano sulle esili spalle <strong>di</strong> Alessio, <strong>di</strong>sse:<br />

– A noi due ora!<br />

Alessio sollevò gli occhi e tentò <strong>di</strong> misurare l’impossibile<br />

altezza <strong>di</strong> quella mole andando con lo sguardo dagli stivali al<br />

berretto <strong>di</strong> pelle. Chellone era veramente enorme, sembrava<br />

una montagna venuta da chissà dove per togliere spazio alla<br />

quercia vicina. Alessio avrebbe voluto avere forza e agilità<br />

per affrontare quel forestiero che voleva conquistare il cuore<br />

<strong>di</strong> Pepparosa col dono <strong>di</strong> una vitella. Ma la sua gracilità lo<br />

rendeva timido <strong>di</strong> fronte alla forza <strong>di</strong> Chellone. Non era impaurito,<br />

però, anzi la solennità con cui gli era stata lanciata<br />

la sfida lo <strong>di</strong>vertiva. Si alzò in pie<strong>di</strong> e <strong>di</strong>sse che lui non voleva<br />

fare la lotta con nessuno. Chellone <strong>di</strong>ventò rosso <strong>di</strong> rabbia,<br />

quel rifiuto oltre che vigliaccheria era un’offesa.<br />

– Col prete <strong>di</strong>cevi che si deve accettare tutto <strong>di</strong> questa<br />

festa. Sei uomo <strong>di</strong> poca fede o vuoi farmi un affronto?<br />

– Se ti sembra un’offesa sono cose tue.<br />

La gente ascoltava. Chellone con la sua arroganza non<br />

piaceva, lo tolleravano perché era un ospite. Arrivò <strong>di</strong> corsa<br />

Bakis.<br />

– Vengo io al posto <strong>di</strong> Alessio, – <strong>di</strong>sse piazzandosi davanti<br />

a Chellone – se atterri me è come se atterrassi lui.<br />

Nicolosa si coprì il viso con le mani. Pepparosa trattenne<br />

il respiro, voleva proteggere Alessio, ma non sapeva come<br />

fare, pensò <strong>di</strong> riaprire i balli. Chellone si guardò intorno e<br />

capì che doveva accettare la sfida <strong>di</strong> Bakis. Anzi ne fu contento,<br />

con un solo colpo poteva ri<strong>di</strong>colizzarli tutti e due.<br />

– E sia – <strong>di</strong>sse rientrando al centro dello spiazzo.<br />

La folla tornò a far cerchio. I due lottatori, uno <strong>di</strong> fronte<br />

all’altro, si avvinghiarono. Bakis, non riuscendo ad abbracciare<br />

la mole <strong>di</strong> Chellone, preferì aggrapparsi alla robusta<br />

cintura <strong>di</strong> lui. Nella strumpa più che la forza contava l’agilità<br />

e il movimento delle gambe. Bakis era un lottatore nato,<br />

90<br />

agli amici e ai conoscenti, dovunque li incontrasse, dava il<br />

suo saluto strumpando. Chellone aveva una sua tattica: attirava<br />

a sé l’avversario, lo stringeva con le sue poderose braccia<br />

fino a fiaccargli le forze sollevandolo poi in alto per farlo volare<br />

e sbatterlo con forza a terra. Così tentò <strong>di</strong> fare con<br />

Bakis, che però gli sgusciava da una parte e dall’altra, saltellando<br />

con un ritmo che il massiccio Chellone non riusciva a<br />

seguire. Bakis era attentissimo a tutti i movimenti del suo<br />

avversario e capì che questi spesso si sbilanciava col movimento<br />

lento dei pie<strong>di</strong>. La folla incitava a voce alta, mandando<br />

urla ogni tanto. Bakis <strong>di</strong>ceva a Chellone che gli avrebbe<br />

impolverato la bella giacca <strong>di</strong> velluto con le doghe <strong>di</strong> pelle.<br />

Chellone, fuori <strong>di</strong> sé, rispondeva che gli avrebbe spezzato la<br />

schiena e con tutta la sua forza tentava <strong>di</strong> avvinghiarlo.<br />

– Se ca<strong>di</strong> è come se ti atterrasse Alessio.<br />

Chellone, sbuffando, rispose che prima <strong>di</strong> subire un tale<br />

affronto si sarebbe lasciato tagliare longos e curzos. Bakis<br />

girò più veloce e quando si accorse che Chellone si muoveva<br />

confusamente e non riusciva più a stargli <strong>di</strong>etro, con un<br />

colpo secco <strong>di</strong> gamba e una spinta decisa lo mandò a terra.<br />

Chellone cadde a gambe aperte avvolto in una nuvola <strong>di</strong><br />

polvere nera. Dalla folla si levarono grida e qualcuno urlò<br />

che da quella cosa caduta potevano uscirci due carri <strong>di</strong> sugherone.<br />

Chellone, pieno <strong>di</strong> stupore e <strong>di</strong> rabbia, rimase <strong>di</strong>steso<br />

per un po’; ogni movimento lo rendeva goffo.<br />

– Sbattetegli la giacca <strong>di</strong> velluto, non è degno <strong>di</strong> portarsi<br />

via neanche la polvere della Consolata, – gridò Bakis senza<br />

guardarlo. La folla, per il rispetto dovuto all’ospite, non fece<br />

altri commenti.<br />

I due amici <strong>di</strong> Gorofai aiutarono Chellone a rialzarsi: gli<br />

sbatterono la giacca e i calzoni e raccolsero il berrettino <strong>di</strong><br />

pelle ch’era volato lontano. Nicolosa scappò via. Bakis le corse<br />

<strong>di</strong>etro e la trovò dentro la cumbessia che piangeva.<br />

– Perché? – le chiese.<br />

Lei non rispondeva e continuava a piangere, con le lacrime<br />

che le rigavano il viso spaurito. Bakis le prese le mani e le<br />

chiese ancora perché piangesse.<br />

– Ho avuto tanta paura.<br />

Lui le asciugò le lacrime col dorso della mano.<br />

91


– Quando tu sei con me, nessuno può farmi del male.<br />

Nicolosa piangeva e sorrideva, ora.<br />

– An<strong>di</strong>amo a fare la promessa, – <strong>di</strong>sse con una voce più<br />

sicura.<br />

Si presero per mano e attraverso la porta che dava sul<br />

cortile corsero alla chiesetta e vi girarono attorno tre volte,<br />

in silenzio. Poi, sempre correndo, scesero verso il bosco e si<br />

fermarono davanti al pozzo sacro, nascosto tra felci e sassi.<br />

L’acqua affiorava in superficie e Bakis l’attinse con le mani<br />

giunte porgendola a Nicolosa, che ne bevve tre sorsi. Bevve<br />

anche lui, spargendo quella rimasta lontano dalla parte dove<br />

sorgeva il sole. Si sedettero su una delle pietre che proteggeva<br />

il pozzo e si abbracciarono. Nicolosa <strong>di</strong>sse qualcosa, sommessamente,<br />

ma le sue parole furono soltanto un sussurro,<br />

confuso col respiro del bosco. <strong>Il</strong> sole tramontando aveva lasciato<br />

una luce abbagliante che si spandeva <strong>di</strong>etro i monti come<br />

un riverbero d’incen<strong>di</strong> lontani. Le voci dei festanti giungevano<br />

confuse. Bakis e Nicolosa si baciarono ancora tra le<br />

felci del pozzo. Stettero così a lungo e quando la luce svanì<br />

<strong>di</strong>etro il monte Nicolosa <strong>di</strong>sse:<br />

– Torniamo.<br />

Bakis le chiese <strong>di</strong> restare ancora e, tendendole le mani,<br />

la fece sdraiare accanto a sé su un soffice letto <strong>di</strong> felci. Lei si<br />

lasciò condurre senza opporre resistenza <strong>di</strong>cendo solo ch’era<br />

tar<strong>di</strong>.<br />

92<br />

XII<br />

<strong>Il</strong> cortile <strong>di</strong>etro le cumbessias era stato ripulito in ogni<br />

angolo e delle bestie immolate quel giorno non era rimasta<br />

alcuna traccia, salvo un lontano sentore <strong>di</strong> sangue rappreso.<br />

I pastori e i conta<strong>di</strong>ni avevano ascoltato Alessio che aveva<br />

voluto esporre ancora una volta l’idea del Cumone, chiarendo<br />

ogni parola con esempi. Quando arrivò Bakis, Alessio<br />

era ancora al centro del cortile e si voltava da una parte all’altra<br />

attendendo che qualcuno parlasse. Ma i pastori e i<br />

conta<strong>di</strong>ni, addossati ai muri, parevano <strong>di</strong> sasso. Alessio si<br />

sentiva schiacciare da quel silenzio e continuava a voltarsi<br />

chiedendo che ciascuno <strong>di</strong>cesse la sua. Palichedda parlò per<br />

tutti e ripeté dubbi e preoccupazioni già noti. Bakis non era<br />

potuto andare a Nighirisè, ma sapeva che alla Consolata si<br />

doveva decidere qualcosa. Si avvicinò ad Alessio, per sostenerlo,<br />

come aveva fatto contro Chellone. Cercando con gli<br />

occhi fra le ombre dei muri <strong>di</strong>sse che il Cumone era un’idea<br />

così grande che valeva la pena <strong>di</strong> rischiare tutto per essa.<br />

– Dobbiamo vincere le <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>e e liberarci dalla paura,<br />

– <strong>di</strong>sse muovendo le braccia come se volesse giurare davanti<br />

a tutti.<br />

Dai muri si levò un brusio. Ormai era sceso il buio. Ciascuno<br />

riconosceva le ragioni <strong>di</strong> Alessio, ma i dubbi c’erano<br />

ancora. Come andare d’accordo con chi aveva bruciato il pascolo<br />

o <strong>di</strong>strutto il seminato? Alessio incalzava. Bisognava valutare<br />

i torti e le ragioni da un altro punto <strong>di</strong> vista. Uno alla<br />

volta tutti si staccarono dai muri e si strinsero al centro del<br />

cortile. Parlavano a voce alta: c’era confusione, ma quel vociare<br />

era il segno che qualcosa si era mossa. Le voci salivano dalle<br />

ombre. La confusione cresceva. Alessio e Bakis rispondevano<br />

all’uno e all’altro <strong>di</strong>cendo tutto ciò che sentivano e speravano,<br />

ma i dubbi erano <strong>di</strong>fficili da rimuovere: ora era un’esperienza<br />

vissuta, ora i detti degli antichi, ora lo sgomento per ciò che<br />

non si sapeva e non si capiva. Improvvisamente dalla porta<br />

93


della cumbessia proruppe una luce che parve violenta in quel<br />

buio impenetrabile. Ci fu silenzio. Ciascuno cercò <strong>di</strong> capire,<br />

ma gli sguar<strong>di</strong> stupiti tardarono a <strong>di</strong>stinguere Pepparosa che<br />

avanzava con un cero acceso; con un altro cero la seguiva Nicolosa.<br />

Pepparosa si fermò al centro dov’erano rimasti Alessio<br />

e Bakis, imprigionati quasi dall’alone luminoso.<br />

– Voglio parlare anch’io, – <strong>di</strong>sse con una voce incerta<br />

che tra<strong>di</strong>va l’emozione.<br />

– Ti ascoltiamo, – rispose Alessio sorpreso per quell’inattesa<br />

presenza. I pastori e i conta<strong>di</strong>ni, tornati ai muri, tacevano.<br />

Pepparosa sollevò in alto il cero come se volesse illuminarli<br />

tutti. Altrettanto fece Nicolosa dalla parte opposta. Le<br />

fiammelle dei ceri tremolavano alla lieve brezza della sera e<br />

gli aloni si <strong>di</strong>latavano e restringevano raggiungendo a tratti i<br />

muri e gli uomini che vi erano addossati.<br />

– Alla Consolata, ogni anno faccio un voto o una promessa,<br />

– riprese Pepparosa: la sua voce aveva un tono deciso<br />

ora. – Sono contenta che abbiate scelto questo luogo per<br />

decidere cose tanto importanti –. Bakis si avvicinò a Nicolosa<br />

e l’aiutò a tenere in alto il cero.<br />

– Sapete che ho ancora il possesso delle terre <strong>di</strong> Niniana<br />

lasciatemi da mio padre. Sono terre fertili, solcate dal fiume<br />

e protette dai venti e dai fred<strong>di</strong>: il grano vi può crescere bene<br />

e i pascoli vi abbondano. Su quelle terre c’è una lite, dura<br />

da anni. Ecco la mia promessa, il mio voto: quelle terre, con<br />

tutto quello che c’è dentro le dono al Cumone, se nascerà.<br />

Ritornano proprietà <strong>di</strong> tutti, come forse era in origine e nessuno<br />

potrà togliervele, se saprete <strong>di</strong>fenderle.<br />

Un brusio corse nell’aria, si percepivano espressioni <strong>di</strong><br />

meraviglia. Alessio ascoltando Pepparosa si era ricordato della<br />

sacerdotessa che gli era apparsa in sogno sotto l’albero<br />

quel giorno.<br />

– C’è una ragione in più perché il Cumone nasca – <strong>di</strong>sse<br />

alzando la voce più che poteva.<br />

Gli rispose un grido isolato.<br />

– Le mie pecore le metto a <strong>di</strong>sposizione del Cumone.<br />

– Anch’io! Anch’io! –. Urlarono altri.<br />

– Donna Pepparosa mi ha tolto ogni dubbio –. Era la<br />

voce <strong>di</strong> Palichedda seguita da un coro <strong>di</strong> approvazioni.<br />

94<br />

Gli uomini corsero al centro del cortile. Nella calca i<br />

ceri si spensero, ma nessuno sembrò accorgersene, tutto era<br />

illuminato dalla luna ora.<br />

– Sei contento? – chiese Bakis ad Alessio.<br />

– Sono stupito… – rispose questi gettandogli un braccio<br />

al collo.<br />

– Quante cose abbiamo da fare!<br />

– Le faremo tutte, siamo tanti, una forza mai esistita.<br />

I pastori ch’erano saliti alla Consolata a cavallo <strong>di</strong>ssero<br />

che avrebbero accompagnato Pepparosa in paese, come in<br />

processione. Tutti furono d’accordo e procurarono i cavalli<br />

anche per Alessio e Bakis. Più tar<strong>di</strong> dallo spiazzo si levarono<br />

grida in onore della Consolata e la processione si mosse<br />

prendendo l’altra strada, non quella del bosco, che non<br />

avrebbe potuto contenere tanti cavalli insieme.<br />

I fuochi degli arrostitori, non più ravvivati, si spegnevano<br />

lentamente; le conche però erano ancora piene <strong>di</strong> carne e<br />

sul lastrone c’erano intatte due pile <strong>di</strong> pane. <strong>Il</strong> vino era finito,<br />

ne erano stati nascosti due barilotti per i visitatori della<br />

notte. Ogni tanto arrivava qualcuno, sudato per aver camminato<br />

a lungo: erano i pastori partiti dagli ovili sul tar<strong>di</strong>,<br />

dopo aver messo al sicuro il gregge o dopo che altri, rientrati<br />

dalla festa, avevano dato loro il cambio. All’ultim’ora giungevano<br />

alla Consolata anche quelli che vivevano alla macchia.<br />

Di giorno non osavano comparire per non turbare la festa.<br />

Ban<strong>di</strong>ti nel paese ce n’erano molti, il numero cresceva ogni<br />

anno, lo stesso inviato del viceré, durante la sua recente visita,<br />

se ne era preoccupato. I fuorilegge erano pastori per lo<br />

più, spinti alla macchia dai motivi più <strong>di</strong>sparati: c’erano anche<br />

coloro che si erano macchiati <strong>di</strong> delitti atroci, e fra questi<br />

era Brusa, latitante da anni, ma la maggior parte dei fuorilegge<br />

era gente allontanatasi dal paese o per non aver pagato<br />

i tributi o perché incolpata <strong>di</strong> un furto <strong>di</strong> bestiame, reato<br />

gravissimo che le leggi <strong>di</strong> Carlo Felice punivano con severità.<br />

Anche Nicola Porcu e Maria Campana vollero scendere<br />

alla festa. Indossarono gli abiti buoni che si erano fatti portare<br />

dal paese e montarono a cavallo. Era già notte alta e temevano<br />

<strong>di</strong> non arrivare in tempo. Spronando il cavallo presero una<br />

scorciatoia che pochi conoscevano e giunsero al Santuario<br />

95


quando ormai si stavano caricando gli attrezzi sui carri. Nicola<br />

si scusò del ritardo con gli arrostitori i quali senza far<br />

commenti gli offrirono l’ultimo vino rimasto. Maria voleva<br />

sapere s’era venuta molta gente alla festa e se si era ballato<br />

come gli altri anni. Gli arrostitori, pur <strong>di</strong>cendo ch’era stata<br />

una bella festa, trascorsa in pace, non parlarono dei balli e<br />

dei canti per evitare rimpianti a Maria. Nicola invece era ansioso<br />

<strong>di</strong> sapere del Cumone. Gli arrostitori raccontarono<br />

dell’offerta <strong>di</strong> Pepparosa e della grande cavalcata improvvisata<br />

per festeggiare la nascita del Cumone.<br />

– Hai sentito, Maria? – <strong>di</strong>ceva ogni tanto Nicola, ricordando<br />

ciò che gli aveva promesso Alessio a Nighirisè.<br />

Attraversando lo spiazzo dei balli giunsero davanti alla<br />

chiesetta dove Maria pianse: lì aveva fatto la sua promessa.<br />

Nicola la strinse a sé e cercò <strong>di</strong> consolarla <strong>di</strong>cendole che con<br />

il Cumone potevano mutare molte cose. Si sedettero davanti<br />

alla porta e parlarono ancora del Cumone, ricordando<br />

ogni tanto la festa della loro promessa, il ballo che avevano<br />

fatto insieme e il ritorno in paese <strong>di</strong> notte a cavallo. Parlarono<br />

anche <strong>di</strong> quelli che quell’anno avevano fatto insieme a<br />

loro la promessa: alcuni erano morti, altri erano in prigione<br />

o latitanti, pochi si erano sposati e molti attendevano la<br />

buona annata. La luna illuminava la struggente nostalgia <strong>di</strong><br />

Maria e la cauta speranza <strong>di</strong> Nicola. Un velo <strong>di</strong> luna era sceso<br />

anche nel bosco che copriva il pen<strong>di</strong>o del monte, mentre<br />

nella vallata l’oscurità era impenetrabile. Nicola e Maria si<br />

mossero e prima <strong>di</strong> tornare a prendere il cavallo vollero salire<br />

su un’altura dalla quale <strong>di</strong> giorno si poteva scorgere il paese.<br />

Aguzzarono gli occhi fino a sentir male ma lo sguardo si<br />

perdeva tra i boschi e le valli e solo un doloroso desiderio fece<br />

<strong>di</strong>re loro che il paese si scorgeva.<br />

I carri degli arrostitori si erano avviati. La festa era finita.<br />

Nello spiazzo scese un silenzio triste che la luna non riusciva<br />

a consolare. Nicola e Maria si guardarono intorno un’ultima<br />

volta, poi montarono a cavallo e ripresero il sentiero segreto.<br />

Parlavano sottovoce. Maria, stringendo forte con le braccia<br />

la vita <strong>di</strong> lui, <strong>di</strong>ceva ch’era stato bello esser potuti venire insieme<br />

alla festa. Nicola le prometteva che un altro anno sarebbero<br />

saliti <strong>di</strong> giorno alla Consolata e avrebbero portato in<br />

96<br />

dono una bestia e lei avrebbe potuto ballare con l’abito più<br />

bello. Maria, stringendo ancor più forte Nicola, chiudeva gli<br />

occhi e cercava <strong>di</strong> figurarsi quei balli ricordando le feste passate.<br />

Attraversavano il bosco ora. <strong>Il</strong> cavallo conosceva quel<br />

sentiero, ma c’era tanto buio e tanto silenzio. Nicola per <strong>di</strong>strarre<br />

Maria parlava ancora, alzando la voce. Le chiedeva se<br />

si ricordava <strong>di</strong> Crabioleddu che l’aveva chiesta in sposa l’anno<br />

della promessa.<br />

– Ricordo che ho ballato con te, eri il più bello.<br />

– Ti sei pentita? – chiedeva ancora lui.<br />

– Nessun pentimento, – rispose Maria, appoggiando la<br />

testa alle spalle <strong>di</strong> lui. – Ti voglio tanto bene; quando sono<br />

triste ti voglio ancor più bene.<br />

Lui s’intenerì e le strinse la mano.<br />

– Volevo fare tante cose per te…<br />

Un lampo squarciò le tenebre e tutto il bosco fu scosso<br />

da uno scoppio, seguito dalle strida dei rapaci che sfrusciarono<br />

tra gli alberi. Nicola si piegò in avanti, come se volesse<br />

fermare il cavallo che si era impennato, mentre un urlo <strong>di</strong><br />

terrore proruppe dal petto <strong>di</strong> Maria.<br />

– Nicola! Nicola! – chiamò guardandosi attorno. Le rispose<br />

il silenzio cupo del bosco. Smontò dal cavallo e nel<br />

buio intravvide Nicola che, con le re<strong>di</strong>ni ancora in mano,<br />

scivolava pesantemente a terra. Aveva il petto insanguinato.<br />

Lo chiamò più volte piangendo, ma i suoi lamenti si perdevano<br />

nel bosco desolato. Curva sul corpo del suo Nicola,<br />

che vedeva appena nel buio ancora più fitto, si picchiava il<br />

petto coi pugni e si strappava i capelli, chiamando sua madre<br />

e gli amici.<br />

– Accorrete, per carità, Nicola è morto –. Stette così per<br />

tanto tempo, poi si alzò e sentì che il gelo le era sceso nel<br />

cuore. Montò a cavallo e corse all’ovile dove trovò i pastori<br />

che, come promesso, avevano sorvegliato il gregge. Con loro<br />

ritornò nel sentiero del bosco e con loro accompagnò in<br />

paese il cavallo che trasportava il corpo <strong>di</strong> Nicola avvolto in<br />

una coperta. A metà strada, quand’era già l’alba, fu fermata<br />

dai miliziani che correvano nel luogo in<strong>di</strong>cato loro da Brusa,<br />

il ban<strong>di</strong>to, il quale, dopo aver fatto esplodere il colpo d’archibugio<br />

e aver u<strong>di</strong>to i lamenti <strong>di</strong> Maria, era sceso <strong>di</strong> corsa<br />

97


in paese a prendersi la libertà per aver consegnato “vivo o<br />

morto” un latitante alla giustizia. Nonostante le innovazioni<br />

<strong>di</strong> Carlo Felice, il principio secondo il quale ogni latitante<br />

poteva essere liberamente ucciso sopravviveva ancora in<br />

molti centri. Brusa riuscì a ottenere la libertà che credeva <strong>di</strong><br />

aver perduto per sempre. Non durò molto perché aveva violato<br />

una legge più antica e più sentita. Lo trovarono <strong>di</strong>steso<br />

nello stesso bosco della Consolata e lo portarono su un cavallo<br />

come il povero Nicola Porcu. Nessuno lo pianse.<br />

Maria con la mente sconvolta non poteva capire niente:<br />

chiamava solo il suo Nicola piangendo senza lacrime.<br />

98<br />

XIII<br />

Alla fine <strong>di</strong> settembre, in coincidenza con l’inizio del<br />

nuovo anno agrario, com’era nei propositi <strong>di</strong> tutti, il Cumone<br />

ebbe vita finalmente. Come per voto, tutti gli aderenti<br />

tornarono alla Consolata e nel cortile ascoltarono in silenzio<br />

Alessio che <strong>di</strong>ede lettura dell’atto costitutivo e delle tavole<br />

che contenevano le poche regole <strong>di</strong> vita del Cumone. Tutto<br />

era stato pre<strong>di</strong>sposto in tempo. I pastori avevano apportato i<br />

loro greggi, grossi o piccoli che fossero, i conta<strong>di</strong>ni i gioghi e<br />

alcuni anche qualche scampolo <strong>di</strong> terra dal quale credevano<br />

<strong>di</strong> non potersi <strong>di</strong>staccare neanche con la morte. Coloro che<br />

non avevano né bestie né terra avevano apportato le braccia<br />

per lavorare. Gli apporti erano stati valutati ed elencati in<br />

un inventario allegato all’atto costitutivo. Le greggi, i gioghi<br />

e le terre, insieme a tutti i beni futuri <strong>di</strong> qualunque provenienza,<br />

<strong>di</strong>venivano proprietà del Cumone. Le norme delle<br />

tavole ponevano come fondamento del Cumone la solidarietà<br />

dei cumoneri, considerata il capitale più prezioso. Per la<br />

destinazione dei frutti non erano state dettate norme rigide<br />

lasciando agli associati <strong>di</strong> decidere volta per volta. Alcune<br />

in<strong>di</strong>cazioni c’erano però, riguardavano l’esigenza <strong>di</strong> ripartire<br />

le quote destinate ai consumi in rapporto ai bisogni <strong>di</strong> ciascuno<br />

e <strong>di</strong> accrescere ogni anno il fondo dei beni comuni attraverso<br />

il risparmio. Dopo la lettura ciascuno sottoscrisse<br />

l’atto Costitutivo e le tavole con uguale serietà; quelli che<br />

non sapevano firmare, ed erano i più, apponevano segni <strong>di</strong><br />

croce, avvalorati da testimoni che sapevano scrivere. Gli<br />

aderenti erano molti, i pastori c’erano tutti. Fu eletto il consiglio<br />

del Cumone, con un presidente, ziu Kicu e quin<strong>di</strong>ci<br />

membri ripartiti in tre gruppi, a ciascuno dei quali furono<br />

assegnati compiti specifici nei tre settori: allevamento del<br />

bestiame, coltivazione delle terre, altre attività. Alessio fu<br />

nominato segretario e Bakis, che durante i lavori preparatori<br />

aveva messo in evidenza un’eccezionale capacità contabile,<br />

99


fu nominato tesoriere. Dalla Consolata rientrarono con grande<br />

compostezza, quasi a significare la solennità dell’avvenimento.<br />

Pepparosa ricevette da Alessio e ziu Kicu una copia<br />

degli atti sottoscritti alla Consolata. Fu un atto <strong>di</strong> omaggio e<br />

lei, commossa, adempì il giorno stesso la promessa fatta e<br />

donò al Cumone tutte le terre <strong>di</strong> Niniana, nello stato in cui<br />

si trovavano, con tutti i <strong>di</strong>ritti e tutti gli oneri. <strong>Il</strong> notaio Cu<strong>di</strong>llo,<br />

chiamato a ricevere l’atto <strong>di</strong> donazione, oppose serie<br />

<strong>di</strong>fficoltà perché non riusciva a trovare nelle Leggi Civili un<br />

soggetto parificabile al Cumone. Alessio appianò ogni cosa e<br />

fece lui la stesura dell’atto richiamando norme appropriate<br />

che appagarono in pieno le esigenze professionali del notaio.<br />

La donazione fu accettata con un verbale del consiglio del<br />

Cumone. Pepparosa arrossì un po’ quando sentì leggere dal<br />

notaio le motivazioni ideali della donazione, che Alessio aveva<br />

fatto inserire nel preambolo dell’atto e che rispondevano<br />

certamente a ciò che lei aveva sentito e pensato fin da quando<br />

aveva saputo che a Nighirisè si era <strong>di</strong>scusso della comunione<br />

delle terre e delle greggi. Le altre motivazioni non dette nel<br />

preambolo le sapeva solo lei, alcune presenti prepotentemente<br />

alla sua coscienza e al suo volere, altre percepite appena, come<br />

un’attesa e un desiderio vago, ma ugualmente decisive.<br />

Lo spirito <strong>di</strong> comunità <strong>di</strong> cui parlava Alessio aveva conquistato<br />

Pepparosa da tempo. <strong>Il</strong> primo impulso alla donazione<br />

era nato a contatto con le tessitrici, poi l’impulso era maturato<br />

lentamente in idea, convincimento, determinazione.<br />

Pensò che donando le terre entrava anche lei a far parte del<br />

Cumone e poteva così uscire dal mondo in cui si sentiva prigioniera:<br />

sarebbe scesa finalmente dall’altare e sarebbe tornata<br />

fra la gente a parlare, a ridere, a piangere, a sentirsi donna<br />

con tutte le sue debolezze e tutte le sue passioni. Nella fontana<br />

<strong>di</strong> Buzinos, mentre ascoltava Alessio che parlava del Cumone<br />

e dei telai, l’idea <strong>di</strong> donare le terre le si era presentata<br />

sotto un’altra luce, un bisogno <strong>di</strong> vincere le paure e <strong>di</strong> capire<br />

se stessa. <strong>Il</strong> notaio Cu<strong>di</strong>llo raccolse le copie dell’atto, le suggellò<br />

con la sua firma e il suo timbro e le <strong>di</strong>stribuì: una copia<br />

a Pepparosa, una copia a ziu Kicu e tre copie per gli altri<br />

adempimenti del suo ufficio. Anche se quell’atto appagava le<br />

sue vanità professionali, il notaio appariva preoccupato e<br />

100<br />

precipitosamente chiese il permesso <strong>di</strong> andar via, riservandosi<br />

<strong>di</strong> regolare in seguito i suoi <strong>di</strong>ritti. Alessio e ziu Kicu si<br />

trattennero ancora un po’ e Pepparosa volle offrire loro un<br />

bicchierino <strong>di</strong> rosolio.<br />

– Che cuore grande avete, donna Pepparosa, – <strong>di</strong>sse ziu<br />

Kicu sollevando il bicchierino. – Darei la vita per vedervi<br />

felice.<br />

Alessio fece un cenno <strong>di</strong> assenso e, come se stesse inseguendo<br />

altri pensieri, <strong>di</strong>sse:<br />

– …Ieri con i telai, oggi con le terre, domani chissà…<br />

Pepparosa compie i suoi pro<strong>di</strong>gi in punta <strong>di</strong> pie<strong>di</strong>.<br />

– Ho donato quelle terre per un <strong>di</strong>spetto – <strong>di</strong>sse lei.<br />

– Gesti come questi non nascono dal <strong>di</strong>spetto, – replicò<br />

Alessio, – affidandoti al tuo impulso generoso hai capito il<br />

Cumone più <strong>di</strong> tutti. Anche le nostre idee ora sono più<br />

chiare… <strong>di</strong> ciò che tu <strong>di</strong>ci e fai bisogna saper cogliere tutti i<br />

significati.<br />

Pepparosa aveva assunto un’espressione seria, triste quasi.<br />

– Ve<strong>di</strong>, mi dai ragione, – <strong>di</strong>sse, – molti miei gesti sono<br />

incomprensibili perfino a me…<br />

– No! Sono chiari come il sole, l’incapacità <strong>di</strong> capire è<br />

mia, – la interruppe Alessio, che sembrava volesse parlare<br />

d’altro, non delle terre donate.<br />

C’erano altri doveri urgenti da compiere e andarono via.<br />

Quando stavano per varcare la soglia, ziu Kicu si voltò e <strong>di</strong>sse,<br />

commosso:<br />

– La vostra presenza dà nuova forza al Cumone, una forza<br />

che non viene solo dal possesso della terra.<br />

– Sono contenta che lo pensiate – rispose lei salutando<br />

ancora.<br />

Don Satta non aveva più pace, ogni giorno c’era qualcosa<br />

che lo scuoteva dentro violentemente. Era informato <strong>di</strong><br />

tutto: sapeva della congiura <strong>di</strong> Nighirisè e della promessa<br />

sconsiderata <strong>di</strong> Pepparosa nel cortile delle cumbessias, sapeva<br />

della nascita del Cumone, <strong>di</strong> cui si rifiutava <strong>di</strong> pronunziare<br />

perfino il nome, e sapeva dell’adesione <strong>di</strong> molti che riteneva<br />

devoti a lui e alla sua chiesa. Un profondo senso <strong>di</strong> <strong>di</strong>sgusto<br />

lo spingeva a rinchiudersi in un rabbioso silenzio. <strong>Il</strong> notaio<br />

Cu<strong>di</strong>llo, quando uscì dalla casa <strong>di</strong> Pepparosa, corse da lui<br />

101


per informarlo che la donazione era stata compiuta ormai.<br />

Lo trovò in chiesa mentre indossava i paramenti per la funzione<br />

pomeri<strong>di</strong>ana.<br />

– È fatta, – <strong>di</strong>sse trafelato il notaio, mostrando la cartella<br />

che stringeva sotto il braccio. – Non potevo impe<strong>di</strong>rlo, anzi<br />

qualche <strong>di</strong>fficoltà ho cercato <strong>di</strong> farla, e motivata anche, ma<br />

Alessio ha compilato da sé l’atto, giuri<strong>di</strong>camente ineccepibile.<br />

Don Satta sembrava non u<strong>di</strong>sse ciò che il notaio gli raccontava<br />

con aria contrita.<br />

– Deve capire, non potevo venir meno ai doveri professionali,<br />

– continuò il notaio, che sembrava supplicare una<br />

qualsiasi reazione. Compiuta la vestizione, Pilimeddu aprì la<br />

porta della sagrestia e don Satta si avviò.<br />

– Mi <strong>di</strong>ca almeno che non ce l’ha con me, – implorò il<br />

notaio.<br />

– Le sue non sono lacrime sincere, – <strong>di</strong>sse don Satta<br />

varcando la porticina. Passò davanti all’altare, ma non s’inginocchiò.<br />

La chiesa era affollata, c’erano anche molti uomini.<br />

Preceduto da Pilimeddu si <strong>di</strong>resse verso il pulpito senza<br />

guardarsi intorno com’era solito fare. Aveva una faccia scura.<br />

I fedeli attendevano in silenzio, impauriti. Era una funzione<br />

solenne, si ripeteva ogni anno puntualmente dopo il raccolto,<br />

per il ringraziamento e la denunzia delle decime. Don<br />

Satta, dagli elenchi che gli consegnava il collettore, leggeva i<br />

nomi <strong>di</strong> quelli che avevano versato il contributo per le decime,<br />

scandendo la quantità <strong>di</strong> grano, <strong>di</strong> orzo o <strong>di</strong> altri prodotti<br />

e biasimando coloro che avevano sottratto i covoni al<br />

controllo del collettore o erano venuti meno in altro modo<br />

al dovere <strong>di</strong> contribuire alle necessità della chiesa. Quelle<br />

pubbliche letture incitavano alla delazione, perché ciascuno<br />

sapeva le quantità esatte raccolte dagli altri e coloro che avevano<br />

adempiuto a quel gravoso onere, versando tutto il dovuto,<br />

si sentivano defraudati da coloro ch’erano riusciti a<br />

sottrarre qualcosa. Alle delazioni seguiva l’ira del rettore e le<br />

azioni <strong>di</strong> recupero del collettore, spietate. Già da qualche<br />

anno non c’erano più delazioni. Le annate magre avevano<br />

spinto un po’ tutti a <strong>di</strong>fendersi dalla rapacità del collettore,<br />

che si presentava inesorabile prima che iniziasse la trebbiatura<br />

e contava i covoni, segnandone il numero sul registro e<br />

102<br />

notificandolo a voce alta al conta<strong>di</strong>no che assisteva impotente<br />

alla conta. I covoni sottratti non arrivavano all’aia, venivano<br />

trasportati a spalla <strong>di</strong> notte e nascosti in luoghi inaccessibili,<br />

dove venivano trebbiati con la pesta dei pie<strong>di</strong> o col<br />

traino aggiogato a un asino, quand’era possibile. Ciò che<br />

ciascuno poteva sottrarre era poca cosa, ma sembrava molto<br />

perché almeno su quello non gravavano le decime e gli altri<br />

tributi.<br />

Don Satta salì sul pulpito, aveva in mano i fogli che gli<br />

aveva consegnato il collettore. Non aveva voglia <strong>di</strong> parlare.<br />

Avrebbe voluto essere a <strong>Marreri</strong> o in sella a Ombroso. In<br />

quel momento o<strong>di</strong>ava la gente che affollava la chiesa: erano<br />

tutti ipocriti, pronti a tra<strong>di</strong>re, come avevano fatto a Nighirisè<br />

e alla Consolata. Parlò con una voce grave, piena <strong>di</strong> amarezza<br />

e <strong>di</strong> risentimento. Disse che non avrebbe letto i nomi<br />

dei contribuenti, tanto non serviva a niente. Lui sapeva quali<br />

inganni e quali tra<strong>di</strong>menti si nascondevano <strong>di</strong>etro ogni<br />

nome. Non aveva mai fatto una pre<strong>di</strong>ca così remissiva, così<br />

sconsolata. La gente si commosse e ciascuno provò scrupolo<br />

per il grano che aveva sottratto. Ma presto la voce riacquistò<br />

il tono imperioso <strong>di</strong> sempre: don Satta parlò con <strong>di</strong>sprezzo<br />

del Cumone, pur senza nominarlo, e dell’ingratitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

tutti. Elencò le cose ch’egli aveva fatto per il paese e le cose<br />

che aveva in animo <strong>di</strong> fare e ricordò i torti subiti. <strong>Il</strong> sangue<br />

gli ribolliva ora e <strong>di</strong>ede sfogo finalmente a tutta la rabbia repressa<br />

<strong>di</strong> quei giorni. Le parole scendevano come scu<strong>di</strong>sciate.<br />

Con l’in<strong>di</strong>ce puntato urlò:<br />

– Uscite tutti dalla mia casa, dalla casa <strong>di</strong> Dio, non siete<br />

degni <strong>di</strong> stare qui. Tornerete quando vi sarete pentiti e avrete<br />

espiato.<br />

I fedeli rimasero immobili, schiacciati dal peso <strong>di</strong> quelle<br />

minacce e lui, aggrappandosi al parapetto del pulpito, urlò<br />

ancora più forte:<br />

– Uscite o vi scaravento fuori.<br />

Pilimeddu corse ad aprire il portone grande che dava sul<br />

camposanto vecchio e la folla, presa dal panico, si precipitò<br />

fuori. Don Satta socchiuse gli occhi e rimase immobile, stringendosi<br />

forte con le mani ai marmi del pulpito. Nella chiesa<br />

vuota rintronavano ancora le sue voci. Pilimeddu corse da lui<br />

103


e con un inchino <strong>di</strong>screto gli chiese se aveva bisogno <strong>di</strong><br />

qualcosa. Don Satta, facendo un segno <strong>di</strong> <strong>di</strong>niego con la testa,<br />

infilò la scaletta e scese avviandosi svelto in sagrestia dove<br />

si strappò i paramenti <strong>di</strong> dosso gettandoli rabbiosamente<br />

sulla cassapanca. <strong>Il</strong> notaio Cu<strong>di</strong>llo era ancora lì, aveva sentito<br />

le voci del rettore e non aveva avuto il coraggio <strong>di</strong> fuggire.<br />

Venne fuori dall’angolo dove si era nascosto e cercò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re<br />

qualcosa a don Satta, il quale, senza guardarlo, gli <strong>di</strong>sse con<br />

una voce che gelava il sangue:<br />

– Oggi non ho voglia <strong>di</strong> vederla, né <strong>di</strong> sentirla, mi lasci<br />

in pace.<br />

<strong>Il</strong> notaio gli fece un inchino rispettoso e andò via <strong>di</strong><br />

corsa urtando Kiocò che entrava in quel momento; si trovò<br />

fuori, sudato e avvilito, e parlava da solo, non sapendo con<br />

chi sfogarsi. Quando Kiocò entrò in sagrestia don Satta stava<br />

già andando via.<br />

– Cosa vuoi? – gli domandò, senza fermarsi. Kiocò, seguendolo,<br />

balbettò che aveva saputo della fine anticipata<br />

della funzione ed era venuto per accompagnarlo a casa.<br />

– Cosa devi <strong>di</strong>rmi, non farmi perdere la pazienza.<br />

– Voo-llee-vo…<br />

– Anche tu vuoi, tutti volete qualcosa e io devo dare, dare,<br />

dare.<br />

Kiocò non capiva, con aria afflitta incrociava le braccia<br />

sul petto per protestare la sua devozione e come Dio volle<br />

riuscì a <strong>di</strong>re che Alessio con qualche altro lo attendevano nella<br />

casa parrocchiale. Don Satta non sembrò sorpreso, quella<br />

visita se l’attendeva. In quel momento però non aveva voglia<br />

<strong>di</strong> vedere nessuno e si <strong>di</strong>resse a Santandria <strong>di</strong>cendo:<br />

– Che attendano.<br />

Kiocò lo accompagnò e camminarono per mezz’ora, in<br />

silenzio. A Santandria la rabbia si placò. Al rientro Carmela<br />

gli corse incontro e gli prese il bastone e il cappello.<br />

– Dove sono? – chiese lui.<br />

– Nel salottino. Prendete qualcosa prima?<br />

– Accompagnali nella sala grande, – rispose lui e salì nel<br />

suo stu<strong>di</strong>o, dove trovò pronta sulla scrivania la bottiglia del<br />

liquore che beveva nei momenti <strong>di</strong>fficili. Se ne versò un bicchierino,<br />

ma lo lasciò a metà, aveva fretta <strong>di</strong> scendere ora.<br />

104<br />

Nella sala grande la stessa dove l’inviato speciale aveva<br />

ricevuto la gente del paese, lo attendevano in pie<strong>di</strong>, a capo<br />

scoperto, Alessio, ziu Kicu e Bakis. Don Satta entrò ravviandosi<br />

i capelli tagliati a spazzola. Rispose con un gesto della<br />

mano al saluto e invitò i tre a sedersi davanti al lungo tavolo.<br />

Lui prese posto dalla parte opposta. Ogni tanto gettava<br />

uno sguardo su Bakis e ziu Kicu: voleva ignorare Alessio.<br />

– Avrete saputo la novità – <strong>di</strong>sse ziu Kicu.<br />

– Chiasso ne avete fatto abbastanza per farvi sentire.<br />

Bakis, timidamente, <strong>di</strong>sse che quelli erano giorni <strong>di</strong> festa<br />

per tutto il paese. Don Satta non volle rispondergli, gli dava<br />

fasti<strong>di</strong>o star lì ad ascoltare un ragazzo che non aveva ancora<br />

la barba. Alessio taceva per <strong>di</strong>spetto, sentiva che don Satta<br />

voleva ignorarlo.<br />

– Vi abbiamo portato gli atti del Cumone, – riprese ziu<br />

Kicu.<br />

– Voi siete la persona più importante del paese, – soggiunse<br />

Bakis.<br />

– Troppo tar<strong>di</strong>, avete fatto e <strong>di</strong>sfatto senza il mio consenso,<br />

sono contro <strong>di</strong> voi e sarò inesorabile.<br />

Rivolse lo sguardo verso Alessio e la prima cosa che lo<br />

colpì fu il viso smagrito <strong>di</strong> lui. Pensò che quel pazzo stava<br />

<strong>di</strong>struggendo se stesso e gli altri. Nella magrezza il viso <strong>di</strong><br />

Alessio si era ancor <strong>di</strong> più affinato e metteva in risalto una<br />

delicatezza che richiamò alla mente <strong>di</strong> don Satta l’espressione<br />

<strong>di</strong> Lia prossima alla morte. Stava per commuoversi, ma<br />

poi, infasti<strong>di</strong>to, voltò lo sguardo verso ziu Kicu che <strong>di</strong>ceva:<br />

– <strong>Il</strong> Cumone è nato nella concor<strong>di</strong>a. Donna Pepparosa<br />

Pintore ha donato le terre <strong>di</strong> Niniana.<br />

Don Satta si alzò <strong>di</strong> scatto e battendo il pugno sul tavolo<br />

urlò che quelle terre erano sue, la donazione non aveva alcun<br />

valore.<br />

– È stato un inganno anche nei vostri confronti. Farò decidere<br />

la causa in poco tempo e Niniana sarà assegnata a me.<br />

Andava avanti e in<strong>di</strong>etro per placare l’in<strong>di</strong>gnazione. Lo<br />

fermò la voce <strong>di</strong> Alessio, una voce alterata dall’emozione che<br />

sorprese un po’ tutti.<br />

– Ho esaminato gli atti della causa… è vero che non<br />

m’intendo…<br />

105


Don Satta si rimise a sedere spostando la se<strong>di</strong>a proprio<br />

<strong>di</strong> fronte ad Alessio e con tono ironico <strong>di</strong>sse:<br />

– T’inten<strong>di</strong> <strong>di</strong> tutto tu, arrivi dove gli altri non arrivano:<br />

sai fare il notaio meglio <strong>di</strong> quella bestia <strong>di</strong> Cu<strong>di</strong>llo, sai <strong>di</strong> pecore<br />

e <strong>di</strong> terre più dei pastori e dei conta<strong>di</strong>ni, che cosa non<br />

sai fare tu? Ti manca che venga in chiesa a <strong>di</strong>r messa al mio<br />

posto e anche in questo saresti un campione. Sentiamo, cos’hai<br />

scoperto negli atti <strong>di</strong> quella causa?<br />

Alessio conosceva quelle sfuriate; senza più l’imbarazzo<br />

iniziale continuò:<br />

– Quella causa non ha senso, i <strong>di</strong>ritti della famiglia Pintore<br />

sono sacrosanti, nessun giu<strong>di</strong>ce onesto può assegnare a<br />

voi quelle terre.<br />

– I giu<strong>di</strong>ci che devono decidere non hanno la testa piena<br />

<strong>di</strong> fumi. Ho fornito cento prove…<br />

Ziu Kicu si alzò in pie<strong>di</strong> e sollevando la mano <strong>di</strong>sse con<br />

tono solenne:<br />

– Non parlate <strong>di</strong> prove, so come sono nate le testimonianze.<br />

Don Satta era furente, gli stavano facendo un processo<br />

senza alcun riguardo. Alessio incalzò:<br />

– Le terre <strong>di</strong> Niniana appartengono al Cumone ora, non<br />

sarà una sentenza che potrà togliercele. <strong>Il</strong> Cumone è il paese<br />

e il paese ha bisogno <strong>di</strong> terre da coltivare e far produrre.<br />

Don Satta si alzò ancora e riprese a camminare.<br />

– Come al solito, minacci sorridendo, – <strong>di</strong>sse riacquistando<br />

la calma. – Non abusate della mia pazienza, vi ascolto<br />

per carità cristiana, non perché abbia qualcosa da <strong>di</strong>scutere<br />

con voi.<br />

– Abbiamo da <strong>di</strong>rvi altro, – continuò inesorabile Alessio.<br />

Ziu Kicu e Bakis erano preoccupati.<br />

– Le tue filosofie non m’interessano.<br />

– Ci sono le terre <strong>di</strong> Nunnale destinate a vidazzone, il<br />

Cumone ne ha bisogno, come ha bisogno delle terre comunali<br />

e <strong>di</strong> quelle demaniali.<br />

Don Satta, con un sorriso cattivo, gli chiese se per caso<br />

non fosse uscito <strong>di</strong> senno. Ma Alessio non si scompose,<br />

scandendo ogni parola, quasi volesse vederne i segni sul volto<br />

accigliato <strong>di</strong> don Satta, continuò:<br />

106<br />

– L’ultima richiesta che vi rivolgiamo è <strong>di</strong> sospendere le<br />

decime su tutto ciò che produrrà il Cumone.<br />

Don Satta, in tono canzonatorio, chiese se avevano sognato<br />

altro sotto le ombre della Consolata. Poi, molto serio,<br />

fissando intensamente Alessio, continuò:<br />

– Niente è cambiato: le vidazzoni saranno regolate come<br />

sempre e le decime saranno riscosse nell’identica misura,<br />

nessuno potrà sottrarsi a questo dovere sacrosanto.<br />

Alessio insistette, <strong>di</strong>cendo che il Cumone non poteva<br />

sopportare l’onere delle decime.<br />

– Non è <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza, – soggiunse ziu Kicu, – dovete<br />

comprenderci e venirci incontro.<br />

Don Satta non volle più parlare. Si avvicinò alla porta e<br />

attese impaziente che i tre si avviassero.<br />

– Tu resta – intimò ad Alessio.<br />

Carmela si affacciò alla porta della sala per sentire se<br />

avessero bisogno <strong>di</strong> qualcosa. Don Satta fece un cenno con la<br />

mano e lei capì e si allontanò delusa perché aveva pensato a<br />

una riconciliazione. Ogni volta che doveva dare un <strong>di</strong>spiacere<br />

a don Satta, Alessio si sorprendeva, come se i fatti che inesorabilmente<br />

lo spingevano contro <strong>di</strong> lui li subisse per chissà<br />

quali misteriose imposizioni. Con gli amici parlava raramente<br />

<strong>di</strong> lui, apertamente non lo aveva mai condannato. Bakis<br />

credeva <strong>di</strong> conoscere tutto <strong>di</strong> Alessio, ma quel punto gli rimaneva<br />

oscuro, insondabile. Più <strong>di</strong> una volta aveva cercato<br />

<strong>di</strong> chiedergliene ragione, ma Alessio non parlava.<br />

– Tu non taci per paura, io lo so… Ma la gente questo<br />

crede.<br />

Alessio non si sorprendeva <strong>di</strong> quelle domande. Se avesse<br />

parlato avrebbe dovuto <strong>di</strong>re che, a suo modo voleva bene<br />

a don Satta il quale lo aveva trattenuto senza uno scopo, un<br />

impulso nato dal tumulto dei pensieri.<br />

– Sei contento? – gli chiese. – Tutto ciò che fai o pensi lo<br />

rivolgi contro <strong>di</strong> me. Non m’interessa che un Kicu o un altro<br />

povero <strong>di</strong>avolo si comportino così, nella loro ignoranza trovano<br />

mille ragioni per o<strong>di</strong>are, ma il tuo accanimento contro<br />

<strong>di</strong> me non lo capisco. Cosa vuoi? Perché tanto o<strong>di</strong>o? –. Vi<br />

era una grande tristezza, una solitu<strong>di</strong>ne mai confessata nelle<br />

sue parole. Alessio, turbato, gli <strong>di</strong>sse:<br />

107


– Per me non cerco niente. Vi trovate al centro <strong>di</strong> un<br />

mondo che io non amo –. Don Satta scuoteva la testa scoraggiato.<br />

– Non ti ren<strong>di</strong> conto del male che fai alla gente <strong>di</strong> questo<br />

paese? Hai svegliato gli istinti, nessuno potrà più frenarli.<br />

Quando aprirai gli occhi sarà troppo tar<strong>di</strong>. Ciò ch’è accaduto<br />

oggi mi addolora, non per le sciocchezze che avete<br />

detto, ma per il fatto stesso che abbiate voluto incontrarvi<br />

con me e abbiate osato rivolgermi quelle richieste –. Alessio,<br />

pur sapendo <strong>di</strong> dargli un <strong>di</strong>spiacere, gli <strong>di</strong>sse:<br />

– Ignorate ciò che veramente pensa e sente la gente…<br />

per voi contano le apparenze… i pastori sono uomini veri<br />

sempre, nel bene e nel male… il Cumone l’hanno voluto<br />

loro… un’idea sana, capace <strong>di</strong> dare un nuovo senso alla vita<br />

<strong>di</strong> questa comunità.<br />

– Tu sragioni, – urlò don Satta battendo il pugno sul tavolo.<br />

– I sogni e le illusioni si scontano. Io mi opporrò a questa<br />

tua pazzia, riporterò la gente all’obbe<strong>di</strong>enza, al rispetto dei<br />

principi, a vivere secondo la propria con<strong>di</strong>zione. Ho un dovere<br />

pastorale, non permetterò che il mio gregge si <strong>di</strong>sperda.<br />

Nella stanza era sceso il buio. Carmela non aveva osato<br />

portare il lume.<br />

– Ora va’, se non rinsavirai dovrò farti del male, non importa<br />

se ciò mi farà soffrire.<br />

– Dovete scendere dal pulpito e ascoltare qualche volta…<br />

nel Cumone vi sono uomini che possono <strong>di</strong>rvi <strong>di</strong> no…<br />

Uscì senza <strong>di</strong>re altro e Carmela gli aprì il portone salutandolo.<br />

– Tornerai, Alessio? – gli chiese ansiosa. – Non credo, zia<br />

Carmela.<br />

Don Satta rimase nella sala buia, immobile davanti alla<br />

finestra appena segnata dal debole chiarore che filtrava attraverso<br />

i vetri. Ora che aveva acquistato la calma cercava <strong>di</strong><br />

sgrovigliare tutti i pensieri che gli si affollavano nella mente.<br />

Lui e Alessio, due apostoli o due pazzi, ugualmente convinti<br />

<strong>di</strong> possedere tutta la verità, due mo<strong>di</strong> opposti <strong>di</strong> porsi<br />

<strong>di</strong> fronte a tutto ciò che stava ribollendo in quell’epoca <strong>di</strong><br />

smarrimento. Carmela si affacciò col lume alla porta della<br />

sala e attese senza <strong>di</strong>re niente.<br />

– Fai luce nello stu<strong>di</strong>o, – or<strong>di</strong>nò don Satta.<br />

108<br />

Carmela lo precedette e salirono le scale.<br />

– Non preparare niente, non cenerò – <strong>di</strong>sse lui prendendole<br />

il lume ed entrando nello stu<strong>di</strong>o. Carmela avrebbe<br />

voluto che mangiasse qualcosa, ma non osò insistere. Lui<br />

posò il lume sulla scrivania, camminò un po’ tenendosi il<br />

mento tra il pollice e l’in<strong>di</strong>ce della mano destra, poi si sedette<br />

davanti alla scrivania e si mise a scrivere, corrugando<br />

la fronte nella tensione.<br />

Alessio era assorto in altri pensieri. Le parole, i gesti e<br />

l’espressione risentita <strong>di</strong> don Satta gli richiamavano alla mente<br />

ricor<strong>di</strong> lontani <strong>di</strong> quando era un ragazzo. Socchiudeva gli<br />

occhi e rivedeva se stesso a <strong>Marreri</strong> mentre lui lo conduceva<br />

lungo il fiume parlandogli dei pro<strong>di</strong>gi che compiva la natura.<br />

E ricordava anche le parole: «Devi amare la terra più <strong>di</strong> ogni<br />

altra cosa, perché tutto parte dalla terra e tutto alla terra ritorna».<br />

Nella stanza del forno c’era buio. Alessio, pur non vedendo<br />

niente, sentì la presenza degli amici. Una voce nota lo<br />

rassicurò:<br />

– Siamo noi, Alessio.<br />

Lui, a tentoni, cercò <strong>di</strong> avvicinarsi al forno per prendere<br />

la candela. Ziu Kicu gli chiese se portava altre notizie e lui<br />

<strong>di</strong>sse che don Satta gli aveva voluto confermare, con più calma,<br />

ma con uguale intransigenza, la sua avversione al Cumone.<br />

Dal brusio che seguì si levò qualche imprecazione.<br />

Alla porta, col lume in mano, si affacciò Pasqua Gaddari. La<br />

stanza s’illuminò <strong>di</strong> facce preoccupate. Alcuni erano accosciati<br />

sul pavimento, altri seduti sulle panche. Ziu Kicu e<br />

Bakis si alzarono in pie<strong>di</strong>, gli altri li imitarono. Pasqua Gaddari<br />

chiese se avevano bisogno <strong>di</strong> qualcosa e uscì a un cenno<br />

garbato <strong>di</strong> Alessio, che andò a sedersi sulla panca. Gli altri<br />

volevano sapere.<br />

– Ci farà arrestare, così il Cumone sarà <strong>di</strong>sperso, – <strong>di</strong>sse<br />

uno guardandosi intorno come se attendesse conforto dai<br />

compagni. Riprese il brusio, nessuno parlava apertamente.<br />

Alessio <strong>di</strong>sse ciò che pensava.<br />

– Non so cosa farà, non manderà i miliziani, ma cercherà<br />

con ogni mezzo <strong>di</strong> <strong>di</strong>sgregarci. Ci colpirà nel punto<br />

più debole. Dobbiamo resistergli. Lui è solo, noi potremo<br />

avere tutto il paese.<br />

109


Alessio indovinava i pensieri degli amici.<br />

– Abbiamo tante cose da fare, – <strong>di</strong>sse ancora. Aveva<br />

un’aria preoccupata per il tempo che passava mentre gli<br />

eventi incalzavano.<br />

– E allora facciamo subito quello che c’è da fare, se no<br />

questi pentimenti ci fanno impazzire, – gridò uno.<br />

<strong>Il</strong> Cumone era stata idea <strong>di</strong> uno prima, poi speranza <strong>di</strong><br />

pochi, ora attesa inquieta <strong>di</strong> tutti, <strong>di</strong> coloro ch’erano convinti<br />

e <strong>di</strong> coloro che avevano fede in chi aveva capito. Ma l’idea<br />

e la speranza per vivere e crescere avevano bisogno <strong>di</strong> toccare<br />

terra, <strong>di</strong> contare le cose da fare e le <strong>di</strong>fficoltà da vincere. Ci si<br />

smarriva, tutto appariva <strong>di</strong>fficile, lontano, impossibile. C’era<br />

da stabilire quali altre terre, oltre quelle della dotazione comunale,<br />

dovessero entrare in possesso del Cumone: alcuni volevano<br />

le vidazzoni appartenenti ai privati, altri quelle ch’erano<br />

state usurpate dai feudatari, altri ancora volevano quelle che<br />

appartenevano al demanio regio; c’era da delimitare le terre<br />

destinate stabilmente a pascolo e quelle destinate ai coltivi;<br />

c’era da vincere la resistenza del ricevitore del Monte granatico<br />

che non voleva decidersi ad assegnare la quantità <strong>di</strong> seme<br />

necessaria per i bisogni del Cumone: rimandava <strong>di</strong> giorno in<br />

giorno, in attesa della pioggia, per lucrare <strong>di</strong> più dalla “crescimonia”<br />

del grano gonfio d’umi<strong>di</strong>tà; c’era da accorpare le<br />

greggi tenendo conto della <strong>di</strong>slocazione dei pascoli e c’era da<br />

decidere l’impiego dei pastori che non potevano andare <strong>di</strong>etro<br />

il gregge. Alessio, quando sentiva i compagni in<strong>di</strong>care<br />

quelle necessità, finiva per riprendere coraggio: i problemi<br />

del Cumone <strong>di</strong>ventavano tormento <strong>di</strong> tutti. Nella stanza del<br />

forno si <strong>di</strong>scusse animatamente e quando fu notte inoltrata<br />

un accordo fu raggiunto: Alessio doveva fare un rapporto al<br />

viceré per informarlo della nascita del Cumone. Non tutti<br />

erano stati d’accordo su quel rapporto, anzi molti l’avevano<br />

considerato pericoloso. Alessio si mise subito al lavoro e non<br />

si accorse che Pasqua era uscita e rientrata con una tazzina <strong>di</strong><br />

terracotta che aveva deposto sul tavolino, allontanandosi poi<br />

senza far rumore.<br />

Nel rapporto veniva affermata la necessità e la legittimità<br />

del Cumone che si riallacciava alle antiche forme <strong>di</strong><br />

proprietà collettiva: a Sos benes de su Cumone <strong>di</strong> cui parlavano<br />

110<br />

lo Statuto <strong>di</strong> Sassari e il Condaghe <strong>di</strong> San Pietro; per superare<br />

i contrasti tra proprietari e conduttori, tra pastori e conta<strong>di</strong>ni,<br />

era necessario creare legami più stretti tra l’uomo e la<br />

terra. <strong>Il</strong> Cumone non era in contrasto con nessuna legge,<br />

anzi dava contenuto pieno a tante norme rimaste inattuate.<br />

Tracciate le linee delle cose che il Cumone voleva realizzare,<br />

il rapporto chiedeva <strong>di</strong> poter estendere le terre <strong>di</strong> dotazione<br />

comunale incorporando quelle usurpate dai feudatari e alcune<br />

che facevano parte del regio demanio. Anche questa richiesta<br />

veniva sostenuta con riferimento a norme <strong>di</strong> legge e<br />

a una sentenza importante pronunciata dalla regia u<strong>di</strong>enza<br />

nella causa tra il marchese <strong>di</strong> Villacidro e il comune <strong>di</strong> Villamassargia.<br />

<strong>Il</strong> rapporto era ben articolato, ogni affermazione<br />

era <strong>di</strong>mostrata, ogni richiesta scaturiva da vitali esigenze e<br />

tutto veniva proiettato in una nuova prospettiva <strong>di</strong> sviluppo<br />

della <strong>Sardegna</strong>. Era un rapporto pacato, rispettoso delle autorità,<br />

ma <strong>di</strong>gnitoso e deciso nell’affermazione dei <strong>di</strong>ritti della<br />

comunità. E l’intero <strong>di</strong>scorso era condotto con una passione<br />

e una fede che trascinavano il lettore. L’indomani mattina<br />

ziu Kicu e Bakis tornarono nella stanza del forno per sapere.<br />

Alessio, ancora assonnato, prese i fogli che aveva riempito<br />

durante la notte e lesse, soffermandosi sui punti più importanti<br />

per chiarire e integrare, ma ziu Kicu e Bakis capivano<br />

tutto ciò che lui <strong>di</strong>ceva: ciascuno ritrovava in quello scritto<br />

ciò che aveva sempre pensato. Alessio era contento e non ricordava<br />

più i dolori alle mani che l’avevano tormentato per<br />

tutta la notte.<br />

111


XIV<br />

<strong>Il</strong> calesse percorreva la strada per <strong>Marreri</strong>, che don Satta<br />

aveva preferito all’altra più agevole <strong>di</strong> sa Serra per avere il<br />

modo <strong>di</strong> dare uno sguardo alle sue tanche. A Nuoro, però,<br />

voleva arrivare presto e non poté fermarsi a Santa Lulla.<br />

Kiocò sorrideva quando u<strong>di</strong>va il battito degli zoccoli sui<br />

sassi: <strong>di</strong>ceva che il cavallo faceva un buon lavoro perché lui<br />

gli aveva messo ferri adatti.<br />

Don Satta parlava poco. Ogni tanto sbuffava per la strada<br />

tenuta in quello stato <strong>di</strong> abbandono e guardava le terre<br />

da una parte e dall’altra, anch’esse senza segni <strong>di</strong> vita.<br />

– Guarda, – esclamava, in<strong>di</strong>cando i muri a secco demoliti<br />

qua e là, così fin dal periodo delle furibonde lotte, – sono<br />

terre abbandonate, nessuno le cura, tutti le rapinano. Sono<br />

delitti, siamo tutti colpevoli.<br />

Kiocò, muovendo la testa, dava ragione al rettore, anche<br />

se lui era certo <strong>di</strong> non averci mai messo mano sui muri e<br />

sulle terre.<br />

– Sì, – riprese don Satta, – tu, io, tutti siamo colpevoli.<br />

Tolleriamo la violenza <strong>di</strong> pochi <strong>di</strong>ssennati che calpestano i<br />

<strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> tutti.<br />

– Come il Cumone, – balbettò Kiocò, sicuro <strong>di</strong> far piacere<br />

al rettore, il quale fece schioccare la frusta, come se volesse<br />

colpire qualcosa o qualcuno, dando una terribile voce<br />

d’incitamento al cavallo, che accelerò il suo trotto, sballottando<br />

un po’ il calesse.<br />

Le frustate e le voci erano uno sfogo, un sollievo per<br />

tutto ciò che non voleva <strong>di</strong>re a Kiocò, il quale, come spesso<br />

gli accadeva, non si accorse della contrarietà <strong>di</strong> don Satta e,<br />

credendo <strong>di</strong> aver trovato un argomento che a quest’ultimo<br />

potesse interessare, riprese:<br />

– Tutta quella gente che s’è messa <strong>di</strong>etro ad Alessio…<br />

Don Satta con uno sguardo zittì Kiocò, che si fece piccolo<br />

piccolo sprofondando sul se<strong>di</strong>le del calesse.<br />

112<br />

– Se non chiu<strong>di</strong> la bocca ti butto giù a calci – gli urlò.<br />

– Cosa sai tu, sei buono solo a pestare ferri vecchi. Pecore<br />

sono e tu sei come loro. Ti attacchi alle mie sottane per<br />

convenienza, ma se cambia vento sei pronto a metterti in<br />

testa al gregge.<br />

Frustò ancora il cavallo che ora si arrampicava veloce sui<br />

tornanti <strong>di</strong> Valverde sollevando pietre e polvere. Kiocò non<br />

osava muoversi, per non sobbalzare si teneva al bracciolo del<br />

se<strong>di</strong>le. Don Satta parlava col cavallo incitandolo o battendogli<br />

una mano sulla groppa quando riusciva a evitare un fossato<br />

o a superare un masso. Dopo Valverde la strada penetrava<br />

nel bosco che scendeva fitto dall’alto sommergendo le<br />

rocce <strong>di</strong> Borbore e i canaloni <strong>di</strong> Lucula. <strong>Il</strong> cavallo rallentò il<br />

passo e il calesse scivolò silenzioso sul fogliame che ricopriva<br />

la strada. Don Satta si accese un sigaro e soffiava in alto le<br />

boccate del fumo come se volesse annebbiare gli squarci <strong>di</strong><br />

cielo che ogni tanto apparivano tra le chiome dei lecci.<br />

– Non parli più?<br />

– Lì c’è la Solitu<strong>di</strong>ne, – <strong>di</strong>sse Kiocò, con voce fievole,<br />

in<strong>di</strong>cando in alto una falda <strong>di</strong> tetto che spuntava tra gli alberi.<br />

Don Satta non amava le piccole chiese e tantomeno<br />

quelle campestri, sopportava quella <strong>di</strong> Santa Lulla solo per<br />

il gusto che gli dava il sentirsela sua. Lui era per le chiese<br />

gran<strong>di</strong>, coi pulpiti, le cappelle, i santi e gli altari: lì gli uomini<br />

avevano il senso della loro piccolezza, la voce del sacerdote<br />

era come se scendesse dal cielo. Le chiese <strong>di</strong> campagna<br />

erano ovili, troppa confidenza, i preti si confondevano con<br />

la plebaglia, il rispetto veniva meno e i santi non incutevano<br />

alcun timore. Anche la chiesa della Solitu<strong>di</strong>ne era piccola,<br />

con un altarino <strong>di</strong>sadorno, il tetto a incannucciata, i muri<br />

cadenti, e non aveva un pulpito. Ma era collocata ai pie<strong>di</strong><br />

del monte, maestoso con quell’intrico <strong>di</strong> rocce e <strong>di</strong> lecci.<br />

Don Satta fermò il calesse sul ciglio della strada, a sinistra,<br />

<strong>di</strong>ede un’occhiata alla chiesetta sulle cui gra<strong>di</strong>nate sostavano<br />

alcune donne imbacuccate negli scialli, si fece affrettatamente<br />

il segno della croce e voltò lo sguardo alla vallata sottostante<br />

che da Isporosile si spingeva sino a Badde Manna,<br />

a Locoe, a Corrasi. Quanta luce saliva! <strong>Il</strong> fiume e gli ulivi<br />

luccicavano a tratti come specchi mossi dal vento e i monti<br />

113


e i colli abbacinati da quei riverberi si <strong>di</strong>stendevano all’orizzonte<br />

senza ombre. Don Satta respirava profondamente, il<br />

suo viso era trasfigurato. Passavano le donne della chiesa,<br />

ma lui sembrava non accorgersi <strong>di</strong> niente. In quei momenti<br />

<strong>di</strong> rapimento si placavano tutti i suoi crucci e gli sembrava<br />

<strong>di</strong> potersi riconciliare col mondo che spesso lo <strong>di</strong>sgustava.<br />

Kiocò non parlava, fissava don Satta meravigliato e voltava<br />

lo sguardo verso la vallata che certo era bella, ma non tale<br />

da mutare il <strong>di</strong>avolo in angelo. Aveva paura, ma sentiva che<br />

doveva <strong>di</strong>re qualcosa per rompere quell’incanto.<br />

– È bella quasi quanto Santa Lulla – <strong>di</strong>sse fievolmente.<br />

Don Satta non lo udì: con la mano tesa seguiva il profilo dei<br />

colli che si arrampicavano fino a monte Corrasi. Kiocò tossicchiò<br />

un po’ e alzando la voce <strong>di</strong>sse che anche se non era<br />

piovuto nel fiume c’era acqua e che la ricchezza della vallata<br />

era tutta lì. Don Satta si voltò e annuì. Kiocò fu ancora meravigliato:<br />

quel viso così <strong>di</strong>steso sembrava si fosse liberato<br />

dal cipiglio che spesso lo incupiva.<br />

– Guarda quanti ulivi e quanti mandorli, – <strong>di</strong>sse in<strong>di</strong>cando<br />

vagamente con la mano, – c’è già l’erba… il para<strong>di</strong>so<br />

è così… –. Poi, quasi si fosse ridestato <strong>di</strong> colpo, muovendosi<br />

verso il calesse, soggiunse:<br />

– Ma tu il para<strong>di</strong>so non lo vedrai perché hai un’anima<br />

gretta.<br />

Kiocò lo seguì ed ebbe voglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>re qualcosa.<br />

– Badde Manna piace anche a me, come mi piace Santa<br />

Lulla…<br />

– Monta su – gli <strong>di</strong>sse brusco; lui aveva già preso posto<br />

sul calesse.<br />

<strong>Il</strong> cavallo si mosse percorrendo veloce l’ultimo tratto <strong>di</strong><br />

strada in salita prima <strong>di</strong> entrare a Nuoro. Don Satta si voltò a<br />

osservare la chiesetta, che da lontano sembrava ancora più<br />

piccola fino a confondersi quasi con le ombre degli alberi che<br />

l’attorniavano. <strong>Il</strong> suo sguardo salì rapido lungo i pen<strong>di</strong>i boscosi<br />

del monte; sentì <strong>di</strong> nuovo quella piacevole confusione<br />

dell’anima che aveva provato poco prima e voleva farsi il segno<br />

della croce, ma non poté perché aveva entrambe le mani<br />

impegnate con le re<strong>di</strong>ni e la frusta. <strong>Il</strong> cavallo ormai era arrivato<br />

in cima alla salita e stava per imboccare la strada selciata<br />

114<br />

in leggera <strong>di</strong>scesa che attraversava l’abitato. Le prime case<br />

erano isolate, con l’orto attorno, recintato a muro o a siepi.<br />

Man mano che si scendeva dentro l’abitato le case s’infittivano<br />

ai lati della strada; avevano quasi tutte il cortile e davanti<br />

alle porte vi sostavano i carri. Don Satta notò con fasti<strong>di</strong>o<br />

che anche la chiesa del Rosario era <strong>di</strong>messa, coi muri<br />

vecchi sostenuti da contrafforti, il campanile basso e tozzo<br />

non ancora intonacato e lo spiazzo antistante pieno <strong>di</strong> fossi:<br />

che miseria! Lì si offendeva Dio. Andò col ricordo alla chiesa<br />

del Carmelo, alla sua chiesa e contò tutte le ricchezze<br />

ch’egli vi aveva profuso dentro e fuori; il cielo sembrava sorridergli<br />

col sole che trafiggeva le nuvole in fuga. Gli zoccoli<br />

del cavallo battendo veloci sul selciato scan<strong>di</strong>vano secchi<br />

suoni metallici che insieme al rotolio del calesse vincevano<br />

ogni altro rumore. Don Satta godeva come un conquistatore.<br />

Dopo un tratto piano la strada riprese a scendere stretta<br />

fra due file <strong>di</strong> case nuove che quasi la strozzavano, e non era<br />

più selciata, anzi il fondo in terra battuta era segnato dalle<br />

scanalature delle acque che vi confluivano. <strong>Il</strong> cavallo rallentò il<br />

passo e il calesse rotolò senza scosse rasentando il paracarro<br />

che proteggeva lo spigolo dell’ultima casa prima dello spiazzo<br />

<strong>di</strong> San Giovanni dove tenevano mercato i carrolanti <strong>di</strong> Mamoiada,<br />

<strong>di</strong> Fonni e <strong>di</strong> Desulo coi loro sacchi <strong>di</strong> patate, <strong>di</strong> noci,<br />

<strong>di</strong> fagioli, <strong>di</strong> castagne. Alcune donne, con fagotti sotto gli<br />

scialli, si aggiravano fra i carri, fermandosi ogni tanto per una<br />

contrattazione. Passavano oltre, si fermavano ancora, toccavano<br />

il contenuto dei sacchi, mostravano <strong>di</strong> sfuggita i loro fagotti<br />

e <strong>di</strong>cevano qualcosa. Qualche volta lo scambio avveniva:<br />

lardo, pelli conciate, salsicce contro patate o fagioli. I castagneri<br />

offrivano le mercanzie gridando oh chie comparat castanza<br />

e il grido ripetuto finiva in lamento. Più ressa c’era davanti<br />

ai carri gavoesi, carichi <strong>di</strong> pezze d’orbace bianco e nero. Lì si<br />

comprava coi sol<strong>di</strong>.<br />

Kiocò osservava attentamente e intravvide, appese a un<br />

filo sulle spalliere <strong>di</strong> un carro, pale, tridenti, stoviglie <strong>di</strong> legno<br />

e anche zappe e vomeri già temprati. Espresse la sua<br />

meraviglia <strong>di</strong>cendo che in quel luogo era bello vivere, c’era<br />

ogni grazia <strong>di</strong> Dio. Don Satta non rispose, aveva le sopracciglia<br />

arruffate; il mercato gli dava fasti<strong>di</strong>o, quel barattare,<br />

115


comprare e vendere alla portata <strong>di</strong> tutti era il sintomo dello<br />

sgretolamento <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne antico quanto il mondo: i beni<br />

allora non si commerciavano, scendevano dall’alto al basso e<br />

si <strong>di</strong>stribuivano secondo l’indole <strong>di</strong> chi dava e i meriti <strong>di</strong> chi<br />

riceveva. Col commercio tutto si spersonalizzava, prendevano<br />

il sopravvento il calcolo e l’interesse, tutto era destinato<br />

ad appiattirsi e inari<strong>di</strong>rsi e i valori degli uomini non contavano<br />

più niente e il miserabile che vendeva si trovava sullo<br />

stesso piano dell’uomo magnanimo che comprava.<br />

– Va’! – gridò al cavallo, che svoltò bruscamente a destra<br />

scendendo per la via Majore, inghiaiata a tratti per riempire<br />

i fossati. Alcuni carri a buoi salivano <strong>di</strong>retti al mercatino,<br />

mentre dai vicoli sbucavano uomini a cavallo e donne con<br />

carichi sul capo. Nella parte sinistra della strada le case erano<br />

poche, separate da spazi che si estendevano fino all’altura<br />

dove c’era la chiesa.<br />

– Porta il cavallo giù, – <strong>di</strong>sse a Kiocò, in<strong>di</strong>candogli le<br />

campagne che si estendevano ai pie<strong>di</strong> del colle. Lui scese dal<br />

calesse con la sciarpa nera attorno al collo e un portacarte <strong>di</strong><br />

velluto. Salì la strada del vescovado, stretta e coperta <strong>di</strong> selci<br />

nere e levigate, con la scanalatura al centro per lo scolo dell’acqua<br />

che alle piogge confluiva con violenza dallo spiazzo<br />

sovrastante. Attraverso un portone entrò nel cortile e si <strong>di</strong>resse<br />

verso una scalinata a due rampe. Un prete giovane gli<br />

andò incontro salutandolo con un inchino rispettosissimo.<br />

– Benvenuto, reverendo.<br />

Sollevò la testa e rispose al saluto chiamando per nome<br />

il segretario del vescovo.<br />

– Gli altri reveren<strong>di</strong> parroci attendono nel salone delle<br />

u<strong>di</strong>enze, – <strong>di</strong>sse don Era, che mostrava molta devozione. – <strong>Il</strong><br />

vescovo la prega <strong>di</strong> passare un momento nel suo stu<strong>di</strong>o privato.<br />

Don Satta era <strong>di</strong> casa nella <strong>di</strong>ocesi, ci veniva spesso, almeno<br />

due volte al mese chiamato dal vescovo che ormai non<br />

sapeva decidere niente senza consultarsi con lui. Quando<br />

non poteva muoversi, per altri impegni o perché aveva meno<br />

voglia del solito <strong>di</strong> vedere Nuoro e la sua gente, il vescovo<br />

mandava espressamente qualcuno a Orvine con le bozze delle<br />

lettere pastorali o con le richieste che voleva inoltrare alla<br />

116<br />

corte <strong>di</strong> Roma. Incaricato <strong>di</strong> quelle missioni solitamente era<br />

il segretario, che spesso si prendeva i rabbuffi <strong>di</strong> don Satta<br />

insofferente per la rozzezza con cui il vescovo e i suoi consiglieri<br />

curavano le cose della <strong>di</strong>ocesi. Le bozze delle lettere venivano<br />

strappate o rifatte con impostazioni originali per le<br />

quali qualche volta giungevano al vescovo comunicazioni <strong>di</strong><br />

compiacimento da parte della corte <strong>di</strong> Roma. Riconsegnando<br />

gli scritti <strong>di</strong>ceva a don Era:<br />

– Sella il cavallo e va’ senza voltarti, altrimenti ti contagiamo<br />

l’intelligenza e puoi far scoppiare un’epidemia nel tuo<br />

ovile.<br />

Don Era non osava offendersi, assentiva inchinandosi,<br />

senza però ripetere l’insolenza della prima volta quando, un<br />

po’ convinto e un po’ adulando, aveva voluto <strong>di</strong>re che sarebbe<br />

stato semplice fare uno scambio tra la rettoria <strong>di</strong> Orvine<br />

e la <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Nuoro, scatenando però l’ira del rettore che<br />

riteneva il vescovo indegno <strong>di</strong> avvicinarsi all’altare del Carmelo.<br />

Alcuni preti si affacciarono al ballatoio antistante il salone<br />

delle u<strong>di</strong>enze, ma si ritirarono presto intimi<strong>di</strong>ti dalla<br />

presenza <strong>di</strong> don Satta che, seguito da don Era, si <strong>di</strong>rigeva allo<br />

stu<strong>di</strong>o privato del vescovo. Nel cortile c’era silenzio. Altre<br />

ombre nere <strong>di</strong> preti affacciate alle numerose porte e porticine<br />

si erano <strong>di</strong>leguate rapidamente. Don Satta sorrise malignamente<br />

e chiese perché mai tenessero segregate tutte quelle<br />

blatte e non facessero prender loro aria e luce. Don Era,<br />

misurando le parole, rispose ch’era un segno <strong>di</strong> rispetto e alla<br />

porta dello stu<strong>di</strong>o anch’egli si <strong>di</strong>leguò senza <strong>di</strong>re niente.<br />

– Un’altra ombra che scompare, – <strong>di</strong>sse fra sé don Satta,<br />

salutando il vescovo che gli andò incontro tendendogli le<br />

braccia.<br />

– Caro Arcangelo, la tua presenza mi rallegra e mi dà<br />

sicurezza, temevo non venissi. Vedo che stai bene e ne sono<br />

sinceramente felice. Sie<strong>di</strong>ti, sarai stanco, ti faccio portare<br />

qualcosa.<br />

Ogni parola era una <strong>di</strong>chiarazione d’affetto e <strong>di</strong> devozione.<br />

Don Satta si era lasciato abbracciare <strong>di</strong> malavoglia sollevando<br />

lo sguardo per non vedere da vicino il viso del vescovo,<br />

molliccio, pieno <strong>di</strong> chiazze rossastre e con gli occhi acquosi<br />

senza ciglia.<br />

117


– Sie<strong>di</strong>ti, – insistette il vescovo: non sapeva cosa <strong>di</strong>re per<br />

far piacere all’ospite che andò a sedersi sull’alta cassapanca<br />

quasi per porre un ostacolo fra sé e il vescovo: tutte le volte<br />

che lo vedeva gli ritornava in mente lo schifo che aveva provato<br />

tanti anni prima a <strong>Marreri</strong>, quando dal ventre <strong>di</strong> una<br />

pecora immolata per la potatura delle viti, i pastori avevano<br />

estratto un feto appena formato che sbavava da ogni parte<br />

chiazzandosi <strong>di</strong> viola man mano che prendeva contatto con<br />

l’aria. Egli, che pure non s’impressionava <strong>di</strong> fronte a niente,<br />

aveva voltato il viso dall’altra parte e si era allontanato quasi<br />

sconvolto. Tutto ciò che offendeva l’armonia della natura lo<br />

faceva star male.<br />

– Sono pronto a seguire il tuo consiglio, – gli <strong>di</strong>sse il vescovo<br />

mettendosi una mano davanti alla bocca. – Volevo vedere<br />

ciò che succedeva a Cagliari, a Sassari, a Tortolì per<br />

non essere il primo a prendere una decisione, ma se tu ritieni<br />

che si deve fare io sono pronto. I sacerdoti attendono una<br />

mia parola, cosa devo <strong>di</strong>re?<br />

Don Satta non rispose, si alzò in pie<strong>di</strong> e camminò avanti<br />

e in<strong>di</strong>etro nella stanza. Per il vescovo non riusciva a provare<br />

alcun sentimento d’amicizia. Lo considerava un ladro e<br />

non tanto per ciò che aveva portato via a lui: il titolo <strong>di</strong> vescovo,<br />

le idee, tutte le iniziative più apprezzate della <strong>di</strong>ocesi,<br />

ma per tutto ciò che aveva avuto senza alcun merito.<br />

– Ormai la <strong>Sardegna</strong> è irrime<strong>di</strong>abilmente legata al Piemonte,<br />

– rispose finalmente. – La “fusione” è una necessità<br />

per tutti e in modo particolare per noi. La dobbiamo imporre<br />

anche a chi non la vuole. La gente dovrà chiederla gridando<br />

dentro e fuori delle chiese, come si chiede la pioggia<br />

quando l’arsura brucia. Le devi far entrare nella testa dei<br />

tuoi preti queste cose, altrimenti facciamo la fine dei gesuiti.<br />

<strong>Il</strong> vescovo si fermò in mezzo alla stanza e, facendosi ancora<br />

più piccolo, si curvò tenendosi la testa fra le mani. Sembrava<br />

una protesta, un atto <strong>di</strong> ribellione, ma era solo un inutile<br />

tentativo <strong>di</strong> dominare la confusione che gli annebbiava la<br />

mente. Gli accadeva spesso quando doveva prendere qualche<br />

decisione importante: lui <strong>di</strong>ceva, ricordando vagamente, ch’era<br />

il ritorno <strong>di</strong> quel terribile mal <strong>di</strong> capo che gli aveva lasciato la<br />

caduta dall’albero ch’era nel cortile del seminario.<br />

118<br />

– An<strong>di</strong>amo – <strong>di</strong>sse don Satta afferrandolo forte per un<br />

braccio, – bastano poche parole, poi farai seguire una pastorale,<br />

ne ho preparato il testo.<br />

<strong>Il</strong> vescovo ebbe un sussulto, come se si fosse svegliato <strong>di</strong><br />

colpo; tentò <strong>di</strong> sorridere chiudendo la bocca e si avviò alla<br />

sala delle u<strong>di</strong>enze attraverso la porta laterale dello stu<strong>di</strong>o<br />

che immetteva in una saletta interna. A don Satta premeva<br />

che dalla <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Nuoro partisse la prima scintilla dei<br />

moti che dovevano scuotere l’isola. Pur vivendo a Orvine<br />

egli era sempre ben informato <strong>di</strong> tutti gli umori della corte.<br />

Della “fusione” si parlava a Cagliari e anche a Torino, non<br />

c’erano precise in<strong>di</strong>cazioni da parte del re e del viceré, ma<br />

tutta l’azione del regio governo tendeva ad approdare lì.<br />

Doveva compiersi tutto naturalmente, come se fosse un <strong>di</strong>segno<br />

della Provvidenza: il popolo chiede e il sovrano concede<br />

benignamente. Per don Satta non aveva senso <strong>di</strong>scutere<br />

se la “fusione” era un bene o un male: era una necessità.<br />

119


XV<br />

Entrarono nella sala delle u<strong>di</strong>enze accolti all’ingresso da<br />

prete Era che fece il suo atto <strong>di</strong> devozione genuflettendosi,<br />

imitato dai parroci. <strong>Il</strong> vescovo accennò una bene<strong>di</strong>zione e<br />

mentre attraversava la grande sala porgeva la sua mano con<br />

l’anello piscatorio che i parroci baciavano con grande raccoglimento.<br />

I canonici del capitolo, tutti vecchi, si mossero<br />

lentamente dalla panca sulla quale erano seduti e andarono<br />

incontro al vescovo per baciargli la mano. Dal fondo della<br />

sala dove era la seggiola vescovile, simile a un trono, il vescovo,<br />

con un cenno delle mani invitò tutti a prendere posto<br />

sulle panche. Si creò un po’ <strong>di</strong> confusione, molti parroci si<br />

avvicinarono a don Satta e anche senza inginocchiarsi fecero<br />

un atto <strong>di</strong> omaggio che a lui non <strong>di</strong>spiacque. Poi tutti si sedettero,<br />

e nella sala ci fu un momento <strong>di</strong> silenzio che creò<br />

un’attesa. I canonici, immobili, sembrava dormissero, unico<br />

segno della loro presenza qualche colpo <strong>di</strong> tosse e il fasti<strong>di</strong>oso<br />

ruminio del canonico Mura che si masticava la lingua<br />

formando un gonfiore sulla guancia sinistra. Ogni canonico<br />

del capitolo si sentiva un vescovo mancato. Tra loro, al <strong>di</strong><br />

fuori delle funzioni e delle riunioni che imponevano la presenza<br />

collegiale, non avevano alcun rapporto. Non si rivolgevano<br />

più la parola, ciascuno aveva un sordo rancore per gli<br />

altri e tutto concorreva ad acuire le rivalità. Spesso si scatenavano<br />

risse furibonde per un nonnulla: l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> entrata in<br />

certe cerimonie, il privilegio <strong>di</strong> celebrare la messa durante le<br />

funzioni solenni, i servigi dei sagrestani. Li accomunava<br />

un’attesa: la scomparsa del vescovo, avendo ciascuno il convincimento<br />

<strong>di</strong> essere il solo degno <strong>di</strong> succedergli. <strong>Il</strong> vescovo<br />

sapeva tutto ciò e se ne <strong>di</strong>fendeva fomentando le rivalità:<br />

non ci voleva molto, bastava una preferenza data con noncuranza<br />

e l’invi<strong>di</strong>a <strong>di</strong>vampava in reazioni talmente esagerate<br />

che spesso cadevano nel ri<strong>di</strong>colo. La rotazione delle preferenze<br />

esponeva ogni canonico alle rappresaglie degli altri. In<br />

120<br />

questo groviglio <strong>di</strong> o<strong>di</strong> e <strong>di</strong> ritorsioni ogni tanto c’era il fatto<br />

clamoroso, come quando fu tentato l’avvelenamento del canonico<br />

Mura col vino della messa che finì per punire l’avi<strong>di</strong>tà<br />

del sagrestano. Lo scandalo fu scoperto, ma crebbe la<br />

<strong>di</strong>ffidenza <strong>di</strong> tutti. Don Satta non riusciva a nascondere il<br />

suo <strong>di</strong>sprezzo per i canonici: non li salutava neppure e se<br />

qualche volta rivolgeva loro la parola era per ri<strong>di</strong>colizzarne<br />

l’ignoranza. Lo squallore e le miserie dei canonici facevano<br />

apparire meno grave la pochezza del vescovo, che teneva ben<br />

salda in mano la <strong>di</strong>ocesi sostenuto dalla potenza dei parenti<br />

e dall’aiuto <strong>di</strong> don Satta.<br />

<strong>Il</strong> silenzio della grande sala fu rotto da prete Era che lesse<br />

qualcosa per spiegare con quali intenzioni erano stati convocati<br />

i parroci. Quando don Era finì la sua lettura toccò al<br />

vescovo e parlò con una vocina che si u<strong>di</strong>va appena. Disse<br />

ciò che gli aveva suggerito don Satta, confondendosi spesso,<br />

ma insistendo sulla necessità per la chiesa <strong>di</strong> impegnarsi a<br />

fondo in quella che lui volle definire una prova <strong>di</strong> sopravvivenza.<br />

Quando non trovava parole appropriate ricorreva a<br />

qualche esempio, tanto più comprensibile quanto più era<br />

semplice e banale. I parroci capirono che c’era <strong>di</strong> mezzo il<br />

potere e furono presto convinti. Nessuno aveva obiezioni da<br />

fare e quando il vescovo sollecitò i pareri ciascuno parlò della<br />

situazione della propria parrocchia, tanto grave che da un<br />

momento all’altro poteva sfuggire <strong>di</strong> mano. L’annata era stata<br />

misera, si era raccolto meno <strong>di</strong> quello che occorreva per<br />

sopravvivere, la gente moriva <strong>di</strong> stenti e si <strong>di</strong>fendeva come<br />

poteva: erano aumentati i furti, gli esattori non riuscivano<br />

più a riscuotere i tributi e le decime si erano ridotte a poca<br />

cosa. <strong>Il</strong> vescovo <strong>di</strong>sse che nelle ore <strong>di</strong>fficili bisognava raccogliersi<br />

in preghiera, ma i parroci dovettero ammettere che la<br />

carestia aveva un potere demoniaco e strappava la gente dalla<br />

chiesa. <strong>Il</strong> parroco <strong>di</strong> Fonni raccontò, scandalizzato, che le<br />

donne dei pastori avevano fatto irruzione in chiesa, <strong>di</strong> sera, e<br />

avevano chiesto a lui l’assoluzione per i loro uomini ch’erano<br />

scesi <strong>di</strong> notte a Oristano e avevano riempito <strong>di</strong> prepotenza<br />

le bisacce <strong>di</strong> sale perché non ce la facevano più a sopportarne<br />

i prezzi troppo alti. Lui aveva tentato <strong>di</strong> mandarle via<br />

ma loro si erano sedute protestando: ciò che avevano dovuto<br />

121


fare i loro uomini non era peccato, senza sale il formaggio<br />

sarebbe andato a male e la grazia <strong>di</strong> Dio non poteva sciuparsi.<br />

<strong>Il</strong> parroco <strong>di</strong> Fonni non <strong>di</strong>sse altro, ma tutti capirono che<br />

l’assoluzione l’aveva dovuta dare. Anche gli altri parroci vollero<br />

citare i loro casi: furti, saccheggi, ribellioni, e ciascuno<br />

voleva sapere cosa doveva fare. <strong>Il</strong> vescovo allargò le braccia e,<br />

pur non sperando alcun aiuto, si rivolse ai canonici del capitolo,<br />

che restarono muti e impassibili: sembravano imbronciati,<br />

risentiti, ma era solo incapacità a pensare e in<strong>di</strong>fferenza<br />

a tutto ciò che non riguardava i loro interessi. <strong>Il</strong> vescovo <strong>di</strong>sse<br />

ch’erano nelle mani <strong>di</strong> Dio e con un cenno chiese aiuto a<br />

don Satta. I parroci si voltarono verso la grande finestra; anche<br />

loro attendevano un suggerimento, una parola: sapevano<br />

che ogni idea buona della <strong>di</strong>ocesi si doveva a lui. I canonici<br />

non si mossero neanche questa volta, rimasero con gli occhi<br />

chiusi, come se fossero immersi in profonde me<strong>di</strong>tazioni,<br />

ma dentro sentivano qualcosa che li <strong>di</strong>vorava, invi<strong>di</strong>a forse,<br />

anche se sapevano che don Satta non era un concorrente<br />

avendo egli stesso da tempo rinunciato al vescovado, malanimo<br />

comunque per la forza eccezionale che aveva quel prepotente<br />

<strong>di</strong> attirare su <strong>di</strong> sé l’attenzione <strong>di</strong> tutti; tanta era la loro<br />

meschinità che, come se si fossero consultati, concentravano<br />

la mente in altri pensieri, non tutti immacolati, per <strong>di</strong>strarsi<br />

e non u<strong>di</strong>re la voce <strong>di</strong> don Satta che rimbombò nella grande<br />

sala liberando il vescovo dalla sua angoscia e sollevando la<br />

mente e il cuore dei poveri parroci al <strong>di</strong> sopra dei gretti interessi.<br />

I racconti dei parroci non avevano aggiunto niente a<br />

ciò che egli sapeva. Lo aveva colpito l’impotenza che ciascuno<br />

aveva confessato <strong>di</strong> fronte alla ribellione della gente. Anche<br />

questo contribuì a convincerlo che l’assimilazione dei<br />

sar<strong>di</strong> agli altri sud<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> terraferma fosse l’unico fatto nuovo<br />

capace <strong>di</strong> scuotere quelle <strong>di</strong>sperate situazioni <strong>di</strong> ristagno.<br />

Questo <strong>di</strong>sse, in<strong>di</strong>cando poi come alla protesta della gente<br />

poteva darsi un altro senso ponendo la fusione come la conquista<br />

<strong>di</strong> qualcosa capace <strong>di</strong> mutare la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> tutti.<br />

Non era un inganno, egli <strong>di</strong> ciò era pienamente convinto e<br />

ai parroci chiese <strong>di</strong> affrontare quel compito con passione e<br />

entusiasmo perché solo così si poteva trascinare la folla dei<br />

poveri fedeli. Disse tutto con grande calore e i parroci non si<br />

122<br />

chiedevano s’era giusto o meno, si lasciavano condurre da<br />

quella voce sicura, capace <strong>di</strong> scuotere anche i morti: si alzarono<br />

tutti in pie<strong>di</strong> e col fiato sospeso ebbero la sensazione <strong>di</strong><br />

muoversi alla testa <strong>di</strong> processioni interminabili con la folla<br />

che gridava: “fusione”!<br />

Quando don Satta finì <strong>di</strong> parlare applau<strong>di</strong>rono. <strong>Il</strong> vescovo<br />

non mostrò alcun risentimento, applaudì insieme a loro e<br />

con un cenno della testa si rivolse ai canonici che finirono<br />

per assecondarlo. I parroci facevano ressa attorno a don Satta,<br />

ciascuno voleva farsi notare, anche se nessuno osava parlare.<br />

<strong>Il</strong> vescovo si sentiva trascurato e ne soffriva. Per attirare<br />

l’interesse dei presenti <strong>di</strong>sse che sarebbe stata inviata una pastorale<br />

con tutte le istruzioni e che più tar<strong>di</strong> nella chiesa <strong>di</strong><br />

Santa Maria ci sarebbe stata una funzione. Continuò la ressa<br />

davanti a don Satta e vennero le domande, timidamente all’inizio,<br />

poi incalzanti: il parroco <strong>di</strong> Orgosolo parlò dei latitanti<br />

che si rifugiavano in chiesa o chiedevano i sacramenti<br />

sui monti; poi seguì il parroco <strong>di</strong> Orosei e raccontò dei suoi<br />

fedeli che per ottenere la pioggia avevano messo a bagno il<br />

simulacro <strong>di</strong> un santo picchiandolo furiosamente coi bastoni<br />

quando si erano accorti che il povero legno, butterato dalle<br />

tarme, aveva prosciugato tutta l’acqua inzuppandosene senza<br />

aver fatto arrivare la pioggia: “muore <strong>di</strong> sete ma non vuole<br />

piovere questo porco” avevano urlato; poi ancora fu il<br />

parroco <strong>di</strong> Oliena che, quasi piangendo, raccontò dei furti<br />

<strong>di</strong> bestiame che avevano subito lui personalmente e la sua<br />

parrocchia. Tutti finirono per prendere confidenza e ciascuno<br />

chiedeva una formuletta che in<strong>di</strong>casse il giusto comportamento.<br />

Don Satta sorrideva. Non dava risposte <strong>di</strong>rette alle<br />

numerose domande, parlava <strong>di</strong> come il parroco dovesse conquistarsi<br />

l’autorità nei confronti <strong>di</strong> tutti: ora scherzando, ora<br />

intimando col <strong>di</strong>to puntato, che faceva tremare coloro che si<br />

sentivano presi <strong>di</strong> mira, <strong>di</strong>ceva che ogni paese aveva i suoi<br />

usi, le sue virtù e le sue debolezze e il parroco con intelligenza<br />

e fantasia doveva calarsi nel cuore della comunità per<br />

comprendere e operare dall’interno. Qualcuno gli chiese della<br />

sua scuola agraria e lui, compiaciuto, anche se non volle<br />

farlo vedere, <strong>di</strong>ede qualche vaga notizia, in tono scherzoso. <strong>Il</strong><br />

parroco <strong>di</strong> Bitti parlò del Cumone, era giunta un’eco anche<br />

123


alla sua parrocchia, la gente ne parlava come <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong><br />

pro<strong>di</strong>gioso. Lui sorrise con un’espressione terribile negli occhi:<br />

voleva strapazzare l’impudenza del parroco <strong>di</strong> Bitti, ma<br />

riuscì a dominare gl’impulsi e rispose:<br />

– <strong>Il</strong> Cumone non è una malattia grave, è come il morbillo<br />

dei bambini, passa presto e non lascia alcuna traccia.<br />

<strong>Il</strong> vocio aumentava e il vescovo, inciampando, si <strong>di</strong>resse<br />

al centro della sala sforzandosi <strong>di</strong> sorridere: i parroci si tirarono<br />

in <strong>di</strong>sparte rispettosamente, ma lui sentiva che nessuno<br />

gli dava ascolto e fu preso da un tale furore che avrebbe urlato,<br />

inveito contro tutti, se non lo avesse frenato la sua viltà.<br />

Don Satta si accorse del <strong>di</strong>sappunto del vescovo il quale, con<br />

voce alterata, senza riuscire a contenere il tremito delle mani,<br />

gli chiese <strong>di</strong> seguirlo nel suo stu<strong>di</strong>o. Quando don Satta andò<br />

via nella sala si ebbe l’impressione <strong>di</strong> un gran vuoto.<br />

– Che gran vescovo sarebbe, – esclamò il parroco <strong>di</strong> Orgosolo.<br />

– E pensare che fa tutto lui senza chiedere niente per sé,<br />

– soggiunse il parroco <strong>di</strong> Orosei.<br />

– La sua rinunzia è stato un atto <strong>di</strong> grande generosità.<br />

Ciascuno <strong>di</strong>ceva la sua a voce alta, era un coro <strong>di</strong> lo<strong>di</strong>.<br />

Prete Era con alcuni gesti essenziali fece capire ch’era opportuno<br />

rendere omaggio ai canonici ancora seduti sulla panca,<br />

chiusi nel loro risentimento. Uno dopo l’altro i parroci sfilarono<br />

inchinandosi e mormorando vaghe parole <strong>di</strong> ringraziamento.<br />

I canonici rispondevano con lievissimi cenni del capo,<br />

lusingati un po’, ma pur sempre infasti<strong>di</strong>ti dai commenti<br />

che avevano colto. Uscirono tutti dalla porta che dava sul<br />

ballatoio verso il cortile e nella sala delle u<strong>di</strong>enze rimasero solo<br />

i canonici sommersi da un grande silenzio. <strong>Il</strong> vescovo nel<br />

suo stu<strong>di</strong>o riacquistò la calma e ri<strong>di</strong>venne mansueto e untuoso.<br />

<strong>Il</strong> suo egoismo era più forte del suo coraggio. Quando<br />

sentiva che altri aveva avuto ciò che lui voleva tentava <strong>di</strong> ribellarsi,<br />

come aveva fatto nella sala delle u<strong>di</strong>enze, alterando la<br />

voce e pestando i pie<strong>di</strong>. Se ciò accadeva con don Satta, in verità<br />

molto raramente, sopraggiungevano i pentimenti e cercava<br />

<strong>di</strong> farsi perdonare protestando la sua riconoscenza e la<br />

sua amicizia.<br />

– Devo tanto a te, – <strong>di</strong>sse, – ti devo tutto, non so come<br />

avrei fatto in questi tempi così <strong>di</strong>fficili.<br />

124<br />

– Non mi devi niente, – lo interruppe don Satta, allontanandosi<br />

per paura che gli prendesse le mani e gliele baciasse.<br />

– Ciò che faccio lo voglio, solo per un caso tu ne trai<br />

qualche vantaggio –. Era sincero, quando aveva rinunciato<br />

fermamente alla <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Nuoro aveva fatto i suoi calcoli.<br />

– Perché vuoi nascondere la tua generosità mostrando<br />

interessi che non hai?<br />

– Fermati lì, – gl’impose don Satta, – è meglio che tu<br />

non sappia.<br />

Tirò fuori dalla borsa <strong>di</strong> velluto alcuni fogli e <strong>di</strong>sse che<br />

aveva preparato la lettera pastorale e due comunicazioni per<br />

la corte <strong>di</strong> Roma e per il viceré.<br />

– Leggile e se ti vanno falle copiare da prete Era oggi<br />

stesso e spe<strong>di</strong>scile.<br />

<strong>Il</strong> vescovo, mettendosi la mano davanti alla bocca, <strong>di</strong>sse:<br />

– Leggi tu, capisco meglio…<br />

Don Satta abbozzò un sorriso e, anche se non lo lusingavano<br />

affatto i complimenti del vescovo, lesse con molto<br />

impegno le due comunicazioni, pausando come si doveva e<br />

accalorandosi nei passaggi più significativi. <strong>Il</strong> vescovo che<br />

pure non riusciva a capire tutta l’importanza <strong>di</strong> quegli scritti<br />

seguiva torcendosi le mani dalla contentezza.<br />

– Saper scrivere così… – <strong>di</strong>sse, – è un dono <strong>di</strong> Dio.<br />

– Lascia perdere Dio, altrimenti addebiti al <strong>di</strong>avolo la vostra<br />

ignoranza.<br />

– Ti a<strong>di</strong>ri scherzosamente, ma i tuoi sono meriti che nessuno<br />

può toglierti. Se potessi restare a pranzo con me, che regalo<br />

mi faresti!<br />

– Ma quanti regali vuoi! – rispose don Satta che sentì rivoltarglisi<br />

lo stomaco al solo pensiero <strong>di</strong> doversi sedere a tavola<br />

col vescovo.<br />

– Devo tornare a Orvine, non c’è tempo da perdere, la<br />

posta in gioco è alta. Niente dev’essere trascurato.<br />

– E la funzione?<br />

– Io non so stare nelle chiese degli altri.<br />

Prese la borsa <strong>di</strong> velluto, si avvolse la sciarpa attorno al<br />

collo e si avviò. <strong>Il</strong> vescovo gli corse <strong>di</strong>etro e gli chiese se avesse<br />

bisogno <strong>di</strong> qualcosa.<br />

– Grazie, sei sempre premuroso con me, – riuscì a <strong>di</strong>rgli,<br />

ripagandolo così <strong>di</strong> tutte le stroncature <strong>di</strong> quel giorno.<br />

125


– A te grazie, ti sono riconoscente <strong>di</strong> tutto – gli rispose<br />

il vescovo, ma don Satta era già uscito nel cortile dove l’attendevano<br />

prete Era e alcuni parroci.<br />

– Cosa state congiurando? – chiese lui scherzosamente.<br />

– Volevamo salutarla un’altra volta, – <strong>di</strong>sse prete Era, al<br />

quale fecero eco gli altri con le mani giunte sul petto. A don<br />

Satta non <strong>di</strong>spiacque quell’attenzione e rispose con un sorriso,<br />

raccomandando <strong>di</strong> collaborare col vescovo perché tutto<br />

si compisse nel migliore dei mo<strong>di</strong>.<br />

– La mia ambizione più grande, – <strong>di</strong>sse don Era, – è<br />

meritare la sua fiducia, reverendo.<br />

– Può darsi che ci riesca, – lo incoraggiò don Satta salutando<br />

tutti con un gesto della mano che poteva apparire<br />

una bene<strong>di</strong>zione o un ammonimento.<br />

126<br />

XVI<br />

Le greggi del Cumone, composte a fatica riunendo piccoli<br />

branchi isolati, pascolavano già sulle nuove terre che dai<br />

monti alle colline coprivano spazi mai sognati. Ogni gregge<br />

aveva i suoi pastori, due o tre, secondo le necessità, i suoi<br />

pascoli, delimitati solo idealmente, i suoi ricoveri, situati su<br />

radure o a ridosso delle rocce. I pastori erano <strong>di</strong>sorientati:<br />

quelle greggi che non si riusciva ad abbracciarle con un solo<br />

sguardo e quei pascoli senza confini mettevano quasi paura.<br />

A sera, quando si ritrovavano nelle capanne, parlavano poco,<br />

solo qualche accenno alle cose pratiche che incalzavano:<br />

quello stare insieme rendeva tutti più pensosi. Ci si rianimò<br />

alle prime piogge, che arrivarono in anticipo e si riprese a<br />

<strong>di</strong>scutere e anche a scherzare con un entusiasmo ingenuo<br />

che spingeva a scommettere sul gregge che avrebbe reso più<br />

latte, più agnelli, più lana. Gli altri, i pastori che a malincuore<br />

avevano dovuto cedere il branco per essere accorpato,<br />

erano ancora più <strong>di</strong>sorientati: ripulivano i pascoli dai sassi e<br />

dai cespugli, costruivano la casa dove avrebbero lavorato il<br />

formaggio, preparavano fustelle <strong>di</strong> legno e <strong>di</strong> sughero, mettendo<br />

un impegno cocciuto per non deludere, ma senza le<br />

pecore si sentivano mutilati, non sapevano pensare a niente<br />

e si rinchiudevano in un silenzio risentito. Ogni tanto andavano<br />

a trovarle e chiedevano le nuove ai pastori che le governavano<br />

i quali per tirarli su ricordavano che dopo sarebbe<br />

toccato a loro andare <strong>di</strong>etro il gregge.<br />

– Cambiare ogni tanto, sapendo che si deve tornare, fa<br />

bene, – <strong>di</strong>cevano, – si fa tutto con più cura e si attende<br />

qualcosa che dovrà avvenire.<br />

– Senza le pecore non si può stare neanche un po’, – rispondevano<br />

gli altri. Cadevano silenzi imbarazzanti dai quali<br />

si usciva solo parlando <strong>di</strong> pecore e <strong>di</strong> pascoli.<br />

– E le mie pecore come stanno? – chiedevano quelli che<br />

avevano dovuto lasciarle, e volevano sapere un’infinità <strong>di</strong><br />

127


particolari, ripetendo raccomandazioni già fatte. I pastori assegnati<br />

alle greggi rispondevano sicuri perché avevano appreso<br />

tutto su ogni bestia.<br />

– Non vi è più niente <strong>di</strong> mio, <strong>di</strong> tuo o <strong>di</strong> suo, – commentavano<br />

sorridendo, – le pecore e le terre sono nostre, <strong>di</strong><br />

tutti e <strong>di</strong> nessuno. Quando verrete al posto nostro imparerete<br />

tante cose che vi riempiranno la testa <strong>di</strong> nuovi pensieri.<br />

Gli altri, un po’ confusi, non rispondevano, chiedevano<br />

solo <strong>di</strong> vedere le pecore.<br />

– Tutte con uguale affezione bisogna guardarle, – raccomandavano<br />

i pastori delle greggi, – come facciamo noi. Anche<br />

loro, le bestie, hanno sofferto per abituarsi a stare insieme,<br />

ora una non si separa dall’altra e sembrano nate e vissute<br />

sempre così.<br />

Al momento <strong>di</strong> andarsene, quelli che dovevano abbandonare<br />

le pecore, quasi per trovare un compenso, elencavano<br />

le cose che avevano fatto.<br />

– A <strong>di</strong>cembre, sulle terre che stiamo pulendo, troverete<br />

l’erba a mezza gamba.<br />

I pastori in<strong>di</strong>cavano i torrenti che dalle cavità dei boschi<br />

precipitavano a valle scrosciando.<br />

– <strong>Il</strong> latte scorrerà così – <strong>di</strong>cevano sorridendo.<br />

La pioggia aveva messo il <strong>di</strong>avolo addosso anche ai conta<strong>di</strong>ni<br />

che alle prime gocce erano saltati <strong>di</strong> gioia brandendo<br />

le zappe e i vomeri. Nessuno però l’attendeva così presto,<br />

sembrava il dono <strong>di</strong> un Dio <strong>di</strong>stratto. Subentrò una grande<br />

paura perché si temeva che i cieli, pentiti, potessero richiudersi<br />

ancora.<br />

– Sì, piove ancora – si <strong>di</strong>ssero.<br />

Nei giorni che seguirono, quando sembrò che l’acqua<br />

fosse abbastanza, i conta<strong>di</strong>ni si recarono ai campi per sentirne<br />

la mutria. Tornarono rattristati <strong>di</strong>cendo ch’era tutto un<br />

lago, che i pie<strong>di</strong> affondavano nel fango e che la troppa pioggia<br />

stava sfibrando la terra. Nessuno riusciva più a stare fermo:<br />

uscivano dalle casupole e rientravano sempre più imbronciati,<br />

agitando le mani furiosamente, come se non fosse<br />

possibile ritrovare la rassegnazione. E la notte si voltolavano<br />

sui letti o sulle stuoie e le donne pregavano. Furono lunghe<br />

quelle veglie. Poi, una notte, quando l’ansia sembrava aver<br />

128<br />

fiaccato ogni resistenza, si u<strong>di</strong>rono sibili sui tetti, prima lontani,<br />

appena percettibili, poi sempre più vicini, insistenti,<br />

come fruscii d’alberi o scrosci <strong>di</strong> nuova pioggia. Uomini e<br />

donne si alzarono terrorizzati credendo fosse un <strong>di</strong>luvio. Era<br />

il vento. La pioggia era cessata finalmente. Gli uomini, con<br />

la faccia inebetita che voleva sorridere e non poteva, guardavano<br />

il cielo senza nuvole, mentre il vento freddo scendeva<br />

mulinando nei cortili. Le donne in<strong>di</strong>cavano le stelle con le<br />

mani senza <strong>di</strong>re niente. Non si dormì più. Dai cortili delle<br />

case <strong>di</strong> Cadone e Parraghine si levò un tramestio <strong>di</strong> zappe, <strong>di</strong><br />

aratri e <strong>di</strong> roncole accompagnato da insistenti bisbigli. I tetti<br />

fumavano. Anche i ragazzi guazzando nelle pozzanghere andavano<br />

da una parte all’altra come sospinti dal vento. Toccavano<br />

anch’essi gli attrezzi e ogni tanto chiedevano:<br />

– Quando?<br />

Gli uomini sollevavano le mani, quasi volessero palpare<br />

l’aria.<br />

– Un giorno ancora, – rispondevano. La seminagione si<br />

compiva sempre come un rito. Era un momento <strong>di</strong> raccoglimento,<br />

come se i semi che si offrivano alla terra a mano<br />

aperta racchiudessero tutti i segreti della natura. Ora, con il<br />

Cumone, il rito sembrava più sentito. Quando il vento cessò,<br />

in un’alba che sembrava evocare altre età, i carri coi semi, gli<br />

aratri e le zappe si mossero trainati dai buoi che apparivano<br />

più vigorosi con le narici <strong>di</strong>latate nell’aria pungente del mattino.<br />

Tutto il paese ne fu scosso: il paese povero e antico,<br />

quello del Cumone, dei pastori, dei conta<strong>di</strong>ni, delle casupole<br />

<strong>di</strong> Parraghine e Cadone. A Cu<strong>di</strong>nattas, nella parte alta del<br />

paese, ci fu una sosta: c’erano tutti, quelli che non avevano<br />

carri, con le zappe sulle spalle e la roncola appesa alla cintura,<br />

le donne coi fagotti sul capo, e i ragazzi aggrappati alle spalliere<br />

dei carri e alla gloria delle re<strong>di</strong>ni che stringevano forte<br />

nei pugnetti magri. C’era anche Palatosa, senza carro anche<br />

lui, con la sua zappa temprata a nuovo e la roncola: lo guardavano<br />

tutti e lui, confuso, camminava ancora più curvo.<br />

Ziu Kicu, alto con la barba bianca, conduceva il primo carro.<br />

– Ora an<strong>di</strong>amo, – <strong>di</strong>sse, – ciascuno sa il sito. Palatosa<br />

scenderà con noi a Niniana poi farà il giro degli altri siti, a<br />

cavallo: tutti i semi li spargerà lui.<br />

129


Palatosa si sentì uomo come non mai nella sua misera<br />

esistenza. Fu preso dalla vergogna e cercò <strong>di</strong> nascondersi <strong>di</strong>etro<br />

un carro, ma i ragazzi lo invocarono ad alta voce; lui, ancora<br />

più confuso, agitò nell’aria la sua zappa. Quando i carri<br />

stavano per ripartire arrivarono a cavallo Alessio, Bakis e tre<br />

pastori: nelle bisacce portavano due pecore ciascuno da immolare<br />

per propiziare il buon raccolto.<br />

– Scenderemo più tar<strong>di</strong>, – <strong>di</strong>sse Alessio, – in tempo per<br />

vedere i primi solchi; con noi verranno altri pastori.<br />

– A Niniana dovrà scendere anche donna Pepparosa, –<br />

<strong>di</strong>sse ziu Kicu, – le farà bene vedere gli aratri solcare le sue<br />

terre.<br />

Alessio fece un cenno con la testa. Bakis promise che<br />

avrebbe condotto a Niniana anche le ragazze dei telai. Ziu Kicu<br />

incitò a voce alta i buoi che si mossero solenni agitando la<br />

testa per scuotere il pesante giogo. I carri erano molti e più<br />

ancora gli zappatori e le donne che seguivano a pie<strong>di</strong>. Le pesanti<br />

ruote stridendo e trapestando ricordavano gli scrosci del<br />

vento o il rombo dei torrenti. Si levarano chiare le voci dei ragazzi<br />

che si salutavano dai carri e più sommessi i saluti delle<br />

donne e degli uomini. Sembrava una festa, anche se le campane<br />

della prima messa non suonarono, rese mute da don Satta<br />

che aveva voluto punire tutti per l’empietà <strong>di</strong> quei “pochi”.<br />

Niniana non <strong>di</strong>stava molto da Orvine, prendendo la<br />

scorciatoia <strong>di</strong> Ghele, tra i rocciai, ci si arrivava in poco tempo:<br />

lì però si poteva passare solo a cavallo o a pie<strong>di</strong>, i carri<br />

dovevano percorrere la nuova strada del rettore, più lunga,<br />

ma più agevole. Gli zappatori e le donne che seguivano ziu<br />

Kicu non scesero per Ghele, vollero andare <strong>di</strong>etro i carri<br />

formando una folla che riempiva la strada per lungo tratto.<br />

Sullo scrimolo del pianoro <strong>di</strong> Nunnale ziu Kicu fermò il<br />

suo carro e <strong>di</strong>stendendo l’asta del pungolo nell’aria in<strong>di</strong>cò<br />

la vallata che si schiudeva più giù. Gli altri si <strong>di</strong>sposero in<br />

fila e guardarono. Era Niniana, una conca piena <strong>di</strong> luce, attorniata<br />

da collinette a lievi pen<strong>di</strong>i.<br />

– Questo è il dono <strong>di</strong> donna Pepparosa Pintore, – <strong>di</strong>sse<br />

ziu Kicu sollevando la testa fieramente, come se l’origine<br />

rendesse più ricco il dono. Niniana si offriva in tutto il suo<br />

splendore all’avi<strong>di</strong>tà degli sguar<strong>di</strong>. Nell’aria si spandeva un<br />

130<br />

odore <strong>di</strong> mirto e <strong>di</strong> ginepro, l’odore <strong>di</strong> Niniana, che alle<br />

piogge si sentiva da lontano. Man mano che i carri s’inoltravano<br />

le voci si smorzavano come se si entrasse in un luogo<br />

sacro ove ogni gesto e ogni parola dovesse avere la sua misura.<br />

I carri si fermarono al centro della conca, uno <strong>di</strong>stanziato<br />

dall’altro. Tacevano tutti, solo i ragazzi <strong>di</strong>cevano qualcosa,<br />

ma sommessamente e si muovevano in punta <strong>di</strong> pie<strong>di</strong>. Scaricati<br />

gli aratri e le sementi, ziu Kicu chiamò con un cenno<br />

Palatosa al quale in<strong>di</strong>cò con la mano i pen<strong>di</strong>i che per primi<br />

dovevano essere arati. Gli altri avevano trovato il loro daffare:<br />

alcuni ammonticchiavano i sassi che ancora affioravano;<br />

altri tagliavano siepi con la roncola per ricoprire i capanni; le<br />

donne sistemavano provviste e indumenti vicino ai carri. Palatosa<br />

si caricò una bisaccia sulla spalla sinistra, si strinse la<br />

cintura per sostenere i calzoni e si mosse a passi lenti verso il<br />

primo campo designato da ziu Kicu. Tutti si fermarono. I ginepri<br />

bruciavano con gran<strong>di</strong> fiammate e per tutta la conca si<br />

sparse un profumo che pareva d’incenso. Palatosa avanzava<br />

sollevando la testa più che poteva per riempirsi gli occhi <strong>di</strong><br />

sole. Si sentiva leggero, come se non avesse più sostanza corporea:<br />

non ricordava più i gonfiori del suo misero ventre, né<br />

l’avvilimento per lo scherno della gente. Giunto ai pie<strong>di</strong> della<br />

collinetta immerse la mano destra nella tasca della bisaccia<br />

e la ritrasse piena; senza mutare la cadenza dei suoi passi sollevò<br />

il braccio e guardando lontano tracciò rapi<strong>di</strong>ssimo un<br />

arco nell’aria schiudendo via via il pugno; i semi non toccarono<br />

subito la terra, frusciarono trascinati in un vortice poi,<br />

rossi <strong>di</strong> sole, si posarono sugli spazi che la sapiente mano <strong>di</strong><br />

Palatosa aveva calcolato. La terra, molle <strong>di</strong> pioggia, li accolse<br />

grata. Seguirono altri scrosci con uguale cadenza. <strong>Il</strong> fruscio<br />

dei semi si u<strong>di</strong>va da lontano, la gente ascoltava e non si era<br />

accorta che vicino ai carri erano giunti a cavallo Pepparosa e<br />

alcune ragazze accompagnate da Alessio e da Bakis. Vuotate<br />

le tasche della bisaccia, Palatosa ritornò in<strong>di</strong>etro, facendo un<br />

giro lungo per non calpestare i semi già sparsi. Camminava<br />

lentamente, con passo misurato, il sole gl’illuminava le spalle.<br />

Lo guardavano tutti, invi<strong>di</strong>andogli un po’ <strong>di</strong> quella gloria.<br />

Egli si fermò davanti al carro <strong>di</strong> ziu Kicu e depose la bisaccia<br />

vuota. Gli altri gli si avvicinarono e gli strinsero la mano.<br />

131


– Ti abbiamo visto, – gli <strong>di</strong>sse Alessio, – il seme scendeva<br />

come gran<strong>di</strong>ne.<br />

Palatosa, confuso, cercò <strong>di</strong> tirarsi su i calzoni poi, pu<strong>di</strong>camente,<br />

<strong>di</strong>sse che dove il sole batteva meno il seme l’aveva<br />

sparso più fitto. I ragazzi erano accorsi e gli stavano addosso,<br />

curiosi <strong>di</strong> vedere la mano che lui nascondeva dentro la tasca<br />

dei calzoni. Ziu Kicu riempì un’altra bisaccia <strong>di</strong> grano e la<br />

porse a Palatosa in<strong>di</strong>candogli l’altra collina da seminare.<br />

– Vieni, – gli <strong>di</strong>sse poi e, presolo per un braccio, lo condusse<br />

da Pepparosa ch’era rimasta vicino al fuoco con le ragazze<br />

dei telai e le altre donne.<br />

– Guardate com’è bella Niniana, – <strong>di</strong>sse ziu Kicu, –<br />

sembra felice e trepidante come una sposa il giorno delle<br />

nozze. I primi semi li ho fatti spargere a quest’uomo che ha<br />

sognato una terra per tutta la vita –. Pepparosa rispose che<br />

quello era il giorno più bello della sua vita.<br />

– Va’, – gridò ziu Kicu a Palatosa, – il sole già alto ci<br />

chiama –. Poi, incitando i buoi aggiogati all’aratro, <strong>di</strong>sse:<br />

– <strong>Il</strong> primo solco lo voglio tracciare io.<br />

I buoi si mossero trascinando l’aratro. Seguirono altri tre<br />

aratri e gli zappatori. Sul versante della seconda collinetta<br />

Palatosa spargeva altri semi, solo con la sua mano che tagliava<br />

l’aria sibilando. Man mano che lui saliva il pen<strong>di</strong>o, altri<br />

aratri e altri zappatori rovesciavano zolle nere mentre da lontano<br />

le donne e i ragazzi seguivano i veli <strong>di</strong> fumo che si levavano<br />

dalla terra <strong>di</strong>ssodata.<br />

Quando fu pieno giorno tutte le colline sulle quali erano<br />

stati sparsi i semi risuonavano <strong>di</strong> voci che incitavano i buoi.<br />

Palatosa era già andato a Molas, fiero <strong>di</strong> quella giornata che<br />

non avrebbe mai più <strong>di</strong>menticato. A mezzogiorno ci fu una<br />

pausa. Uomini e donne si sedettero attorno ai fuochi e mangiarono<br />

la carne delle pecore. Dai monti erano scesi alcuni<br />

pastori a cavallo e anche loro mangiarono attorno ai fuochi.<br />

Ziu Kicu ricordava le cose del passato e Alessio parlava del<br />

Cumone; le donne annuivano sorridendo. Parlava anche<br />

Pepparosa, <strong>di</strong> telai e <strong>di</strong> ricami, e gli altri non osavano interloquire,<br />

per timidezza e per quella <strong>di</strong>versità tra loro e lei che<br />

ancora pesava.<br />

132<br />

Pepparosa e le ragazze rientrarono in paese quella stessa<br />

sera, accompagnate da Alessio e da Bakis. Durante il viaggio<br />

parlarono a lungo <strong>di</strong> Niniana e dei ragazzi che li avevano salutati<br />

vociando. Alessio <strong>di</strong>sse a Pepparosa che doveva tornare<br />

a Niniana per conoscere meglio i ragazzi, avrebbe potuto apprendere<br />

e insegnare tante cose. Lei fu contenta <strong>di</strong> quell’invito,<br />

ma non <strong>di</strong>sse niente; sorrise soltanto scuotendo la testa.<br />

Arrivarono davanti alla casa <strong>di</strong> Pepparosa, ma Alessio e<br />

Bakis non smontarono dai cavalli, dovevano recarsi agli altri<br />

campi. Pepparosa voleva seguirli.<br />

– Un altro giorno, – le promise Alessio, – ora è tar<strong>di</strong>.<br />

Andremo insieme a trovare i ragazzi quando avrai deciso.<br />

I cavalli ripartirono veloci, scalpitando fragorosamente<br />

sui selciati del vicolo. Pepparosa e le ragazze attesero davanti<br />

al portone; quando non u<strong>di</strong>rono più i passi dei cavalli si <strong>di</strong>ressero<br />

alla sala dei telai, silenziosa in quel giorno <strong>di</strong> festa.<br />

133


XVII<br />

Le funzioni furono solenni, strepitose, come non si era<br />

visto neanche per la festa del Carmelo o per l’arrivo del vescovo<br />

con tutto il capitolo. Fin dall’alba Pilimeddu suonò<br />

tutte le campane a pieno tocco, senza sosta, come se volesse<br />

ridestare i morti e i sassi. La gente sapeva che don Satta stava<br />

preparando cose gran<strong>di</strong>, ma quei rintocchi martellanti che<br />

rintronavano cupamente nei cortiletti <strong>di</strong> Parraghine sbigottivano,<br />

non erano <strong>di</strong> festa. Le donne erano <strong>di</strong>sorientate; istintivamente<br />

si precipitarono a raccogliere le misere cose dalla<br />

strada o dai cortili e cercavano <strong>di</strong> zittire i ragazzi che vociavano<br />

per fare eco alle campane. I soci del comitato agrario e<br />

Kiocò andarono <strong>di</strong> casa in casa e chiamarono a gran voce:<br />

– Presto, in chiesa, il rettore attende, lasciate tutto.<br />

Se qualcuno faceva resistenza in<strong>di</strong>cavano vagamente con<br />

la mano gli squilli delle campane, come fossero furie da placare.<br />

Gli uomini che rientravano dai campi venivano fermati<br />

alla periferia del paese:<br />

– Sono tutti alla funzione, venite anche voi.<br />

E quelli, <strong>di</strong>ffidenti, volevano sapere se le campane suonavano<br />

in bene o in male.<br />

– Cose buone per tutti, sentirete.<br />

La chiesa si affollò: donne, uomini, ragazzi accorsero da<br />

ogni parte; erano molti, mancavano solo i pastori rimasti dove<br />

il suono delle campane non giungeva, e i conta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Niniana,<br />

Molas e Nurthole che continuavano a zappare accanitamente.<br />

Parte della gente sostava sullo spiazzo del camposanto<br />

vecchio addossata al portone grande della chiesa. Le campane<br />

continuavano a suonare e la folla ne era stor<strong>di</strong>ta. Arrivò<br />

don Satta accompagnato dai parroci <strong>di</strong> Orgosolo, Oliena e<br />

Fonni venuti appositamente per assistere alla funzione. All’altare<br />

maggiore sostarono in silenzio. Dopo un po’ il rettore<br />

salì sul pulpito addobbato a festa con le ban<strong>di</strong>ere e i ritratti<br />

134<br />

<strong>di</strong> Carlo Alberto, <strong>di</strong> Pio IX e <strong>di</strong> Leopoldo. Le campane cessarono<br />

<strong>di</strong> colpo. Don Satta non volle spiegare le ragioni del<br />

suo impegno in quella questione: c’entravano i rapporti tra<br />

la Chiesa e lo Stato, il nuovo respiro che tutti i problemi dell’isola<br />

potevano acquistare, altri suoi convincimenti che non<br />

era facile far capire agli altri. Con le sue parole cercò <strong>di</strong> toccare<br />

il cuore della gente. Era come se raccontasse una favola<br />

nella quale ciascuno si riconosceva: la favola delle genti della<br />

<strong>Sardegna</strong> oneste, laboriose, timorate <strong>di</strong> Dio che avevano dato<br />

tanto senza nulla chiedere. La folla che ascoltava si era trasfigurata,<br />

molti erano commossi, qualcuno piangeva. Don<br />

Satta volle andare sino in fondo e continuò a parlare delle<br />

privazioni della povera gente, delle lunghe attese, della solitu<strong>di</strong>ne,<br />

dello scoramento quando anche il cielo sembrava<br />

aver voltato le spalle. Ora ciascuno piangeva la propria sorte,<br />

chi non aveva atteso invano qualcosa: la buona annata, un<br />

po’ <strong>di</strong> giustizia, un sostegno da qualcuno? Chi non si era<br />

sentito solo nel momento della <strong>di</strong>sperazione e chi non aveva<br />

imprecato contro il cielo in<strong>di</strong>fferente? Parlò della Provvidenza<br />

che sa compensare al tempo giusto quelli che sanno rassegnarsi<br />

e invitò tutti a invocare a gran voce la benevolenza<br />

dell’augusto sovrano sempre sollecito alle implorazioni che<br />

salivano dalla <strong>di</strong>letta <strong>Sardegna</strong>, e la bene<strong>di</strong>zione del Santo<br />

Padre Pio IX. Disse che stava per compiersi un miracolo, ma<br />

occorreva pregare, aver fede.<br />

– Non saremo più soli se otterremo dal sovrano <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare<br />

suoi sud<strong>di</strong>ti con pari <strong>di</strong>gnità e pari <strong>di</strong>ritti con i fratelli<br />

<strong>di</strong> terraferma.<br />

La folla non riusciva a capire tutto ciò che don Satta <strong>di</strong>ceva<br />

sui sud<strong>di</strong>ti, sul re e sul papa. Subentrò la <strong>di</strong>ffidenza, come<br />

sempre quando si annunziavano novità, ma il rettore<br />

non <strong>di</strong>ede il tempo <strong>di</strong> riflettere e con la sua voce che ammaliava<br />

<strong>di</strong>sse:<br />

– Ora andremo in processione, tutti uniti, pregando e<br />

cantando. Le nostre voci giungeranno al cielo perché sono<br />

voci oneste.<br />

Quando lui <strong>di</strong>scese dal pulpito la gente si trovò a gridare<br />

“viva la fusione”, “viva Carlo Alberto”, “viva Pio IX”, “viva il<br />

rettore”.<br />

135


La processione si mosse subito dopo, in testa don Satta<br />

coi parroci ospiti sotto il baldacchino portato dai membri del<br />

comitato agrario. Seguivano gli altri con le ban<strong>di</strong>ere e i ritratti<br />

del re e del papa. La folla era sparsa <strong>di</strong>etro. Molti cantavano<br />

come facevano don Satta e i parroci, altri parlavano fra <strong>di</strong> loro.<br />

Qualcuno, curioso, voleva sapere se questo Carlo Alberto<br />

era il Carlo <strong>di</strong> prima o se era nuovo. Nessuno lo sapeva. I più<br />

informati rispondevano che in alto erano tutti uguali, anche<br />

se si chiamavano con nomi <strong>di</strong>versi. Un altro soggiunse che<br />

dovevano aver cambiato anche il papa perché il rettore nelle<br />

pre<strong>di</strong>che lo chiamava Pio, mentre prima lo chiamava Gregorio.<br />

Anche questo, però, doveva essere un santo.<br />

– E questo Leopoldo chi è?<br />

– Dev’essere un parente.<br />

Altri <strong>di</strong>scorsi simili venivano poi sommersi dai canti e<br />

dagli evviva quando don Satta nelle stazioni della via crucis<br />

si fermava e saliva su un pulpito improvvisato per parlare<br />

ancora. Le voci aumentavano <strong>di</strong> tono e le preghiere e gli evviva<br />

sembrava dovessero veramente toccare il cielo. Le campane<br />

suonavano ancora, più forte quando la processione era<br />

in movimento, con tono più caldo, quasi un accompagnamento,<br />

quando don Satta parlava. Dopo aver percorso la<br />

strada nuova, la processione tornò in chiesa e don Satta celebrò<br />

la messa assistito dagli altri parroci. La funzione finì a<br />

mezzogiorno e i fedeli poterono andar via, finalmente, stor<strong>di</strong>ti<br />

dalle voci, dai canti e dalle pre<strong>di</strong>che. Si sparsero per le<br />

strade, nessuno aveva voglia <strong>di</strong> fare commenti, per timore o<br />

per stanchezza. Non era una giornata <strong>di</strong> sole. C’era freddo,<br />

il cielo grigiastro appariva imbronciato, ostile quasi.<br />

– Arriverà il gelo prima che la semina sia finita – sospirava<br />

qualcuno.<br />

Don Satta sembrava volesse contare le presenze man mano<br />

che la chiesa si vuotava. Fin dal primo momento si era<br />

reso conto che gli assenti erano più <strong>di</strong> quanto temesse. Nulla<br />

era andato come lui voleva, era scontento perfino delle pre<strong>di</strong>che<br />

e i complimenti degli altri parroci non <strong>di</strong>cevano niente:<br />

lui sapeva che aveva parlato <strong>di</strong> malavoglia, come se qualcosa<br />

avesse bloccato la sua volontà. Era la prima volta che gli<br />

accadeva. Anche il modo scomposto con cui la folla lasciava<br />

136<br />

la chiesa lo rattristava, sembrava una fuga, molti si erano <strong>di</strong>menticati<br />

<strong>di</strong> segnarsi. Ma la sua amarezza saliva da altre<br />

profon<strong>di</strong>tà. La sera prima qualcuno gli aveva detto che alla<br />

funzione sarebbe intervenuta anche Pepparosa Pintore. Lui<br />

non aveva chiesto altro, aveva fatto solo un gesto <strong>di</strong> <strong>di</strong>niego<br />

per mostrare la sua incredulità, ma durante la notte si era agitato<br />

con una pena che non riusciva a placare. Quante volte si<br />

era proposto <strong>di</strong> non pensarci più, <strong>di</strong> soffocare quel tormento<br />

che gli stava dannando l’anima! Dopo la donazione <strong>di</strong> Niniana<br />

al Cumone aveva imposto a Pilimeddu <strong>di</strong> non accendere<br />

più il cero grande dell’altare maggiore, ma la sera, dopo il tramonto,<br />

sentiva il bisogno <strong>di</strong> uscire e andava solo per le vie<br />

del paese fermandosi immancabilmente sullo spiazzo del<br />

camposanto vecchio. Puntava gli occhi sulla casa Pintore e<br />

quando scorgeva quella debole luce alla finestra la passione<br />

che voleva soffocare irrompeva violentemente scuotendolo in<br />

ogni fibra. Rimaneva così a lungo, poi entrava in chiesa e accendeva<br />

il cero che illuminava il <strong>di</strong>pinto. In quei momenti<br />

sentiva un bisogno <strong>di</strong> raccogliersi in preghiera e guardava l’effigie<br />

della Madonna e quella <strong>di</strong> Pepparosa, sospeso fra il cielo<br />

e la terra. Andava via solo quando era notte alta.<br />

<strong>Il</strong> mattino della funzione si era alzato presto, prima che<br />

suonassero le campane. Quando aveva varcato il portone della<br />

chiesa trepidava. Prima dall’altare, poi dal pulpito aveva<br />

cercato frugando con lo sguardo in ogni angolo della chiesa.<br />

C’erano tanti visi, ma non quello <strong>di</strong> Pepparosa. Gli era venuto<br />

un tale sconforto che avrebbe voluto rinunziare alla funzione,<br />

piantare tutto, uomini e santi, e andarsene a <strong>Marreri</strong>,<br />

solo, a consolarsi con le bestie e con le piante.<br />

Quando la chiesa si vuotò andò a togliersi i paramenti seguito<br />

dai parroci ospiti e dal notaio Cu<strong>di</strong>llo. Kiocò non osò<br />

farsi avanti e rimase nascosto <strong>di</strong>etro l’acquasantiera. <strong>Il</strong> notaio<br />

cercò <strong>di</strong> complimentarsi per la bella funzione.<br />

– Tanta folla, tanta devozione… mai vista, – <strong>di</strong>ceva. I parroci<br />

manifestavano la loro ammirazione e il loro stupore<br />

con gesti delle mani, come se volessero trovare una misura a<br />

quel successo. Lui non <strong>di</strong>sse niente, si tolse i paramenti e lasciò<br />

la chiesa precipitosamente senza curarsi <strong>di</strong> nulla. Gli altri,<br />

intimoriti, lo seguirono in silenzio. Fuori l’aria era fredda.<br />

137


I parroci si avvolsero le sciarpe <strong>di</strong> lana attorno al collo, coprendosi<br />

la faccia e le orecchie. <strong>Il</strong> notaio ebbe un brivido e si<br />

raccolse tutto dentro il cappotto. Don Satta l’aria pungente<br />

se la sentiva piacevolmente sulla fronte. Si guardò intorno e<br />

come riavendosi da uno stor<strong>di</strong>mento <strong>di</strong>sse:<br />

– Quest’aria rasserena lo spirito –. I parroci annuirono<br />

senza convinzione.<br />

– Facciamo una breve passeggiata per riconciliarci col<br />

mondo.<br />

L’espressione del suo viso era andata mutando repentinamente,<br />

come se la fuliggine fosse rimasta dentro la chiesa. <strong>Il</strong><br />

notaio, timidamente, chiese <strong>di</strong> poter andar via, aveva troppo<br />

freddo, forse non stava bene: quella non era stata una giornata<br />

lieta per lui. <strong>Il</strong> rettore percorreva la strada allungando il<br />

passo via via che usciva dal paese; i parroci stentavano a stargli<br />

<strong>di</strong>etro. A Santandria si fermarono e lui, sollevando il bastone,<br />

in<strong>di</strong>cò <strong>Marreri</strong>, senza <strong>di</strong>re niente.<br />

– Sono terre benedette da Dio, – <strong>di</strong>sse il parroco <strong>di</strong> Orgosolo,<br />

scoprendo cautamente la bocca dallo scialle.<br />

– Ecco il senso delle funzioni, – <strong>di</strong>sse don Satta, – tutte<br />

così dovranno essere le nostre terre –. I parroci si guardavano<br />

intorno ed erano ammirati del paese, arroccato come un<br />

astore su quell’altura, dei boschi tutt’intorno e dei monti<br />

lontani.<br />

– Quello dev’essere il famoso santuario della Consolata,<br />

– <strong>di</strong>sse il parroco <strong>di</strong> Orgosolo in<strong>di</strong>cando la casupola bianca<br />

che appena si vedeva sulla radura in cima al colle.<br />

– Perché famoso? – chiese don Satta aggrottando le sopracciglia<br />

che parevano ali <strong>di</strong> corvo.<br />

– Famoso per la devozione dei fedeli che vi si recano così<br />

numerosi, – si affrettò a <strong>di</strong>re il parroco <strong>di</strong> Orgosolo, che<br />

avrebbe magnificato ancor <strong>di</strong> più la Consolata se don Satta<br />

non l’avesse fermato col suo sogghigno. A tavola tutti parlarono<br />

<strong>di</strong> più. I parroci non risparmiavano i ringraziamenti:<br />

funzioni così sentite e folle così appassionate non ne avevano<br />

mai visto. Avrebbero cercato d’imitare quell’esempio mirabile.<br />

Don Satta, senza tanti riguar<strong>di</strong>, <strong>di</strong>sse che ogni funzione<br />

era un’opera d’arte irripetibile bisognava inventare, non imitare.<br />

Dopo il pranzo i parroci vollero partire, avevano fretta<br />

138<br />

<strong>di</strong> dare inizio anche loro alle funzioni. Don Satta li accompagnò<br />

fino alla scuderia dove Kiocò aveva già sellato i cavalli,<br />

poi salì nel suo stu<strong>di</strong>o, voleva raccogliere le idee su tutto ciò<br />

che quel giorno l’aveva fatto soffrire. Andava avanti e in<strong>di</strong>etro<br />

nella stanza, irrequieto, e la sua mente non riusciva a formulare<br />

pensieri, come se avesse perso ogni capacità <strong>di</strong> riflessione.<br />

Era un accavallarsi d’immagini che aggre<strong>di</strong>vano con<br />

dolorosa violenza. Ogni tanto prendeva un libro e cercava <strong>di</strong><br />

leggere qualcosa per uscire da quello stato <strong>di</strong> incubo. Non<br />

riusciva a concentrarsi su niente e questa strana <strong>di</strong>strazione lo<br />

preoccupava. “Mi sta franando tutto intorno”, sospirava ogni<br />

tanto. E tutto s’ingigantiva: la fuga dei fedeli dalla chiesa; le<br />

torme del Cumone che avevano invaso le terre a monte e a<br />

valle; Pepparosa e Alessio, i due Luciferi. Ripresero a suonare<br />

le campane e lui si fermò. I suoni giungevano chiari, non si<br />

perdeva niente. Socchiuse la finestra e stette ad ascoltare accompagnando<br />

con un impercettibile gesto del capo i rintocchi,<br />

come se li volesse contare. Le campane erano l’unica voce<br />

amica in quella giornata piena <strong>di</strong> amarezze. Quei suoni<br />

scossero tutto il paese. Erano l’ammonimento per la funzione<br />

dell’indomani. <strong>Il</strong> notaio Cu<strong>di</strong>llo non aveva pranzato tanta<br />

era la preoccupazione e l’avvilimento per l’umore <strong>di</strong> don Satta.<br />

Non pensava ad altro. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma<br />

non era mai stato capace <strong>di</strong> idee originali.<br />

<strong>Il</strong> suono delle campane gl’illuminò la mente. Prese il cappotto<br />

e il cappello e uscì <strong>di</strong> casa senza <strong>di</strong>re niente alla moglie.<br />

Arrivò trafelato alla casa <strong>di</strong> don Satta e <strong>di</strong>sse a Carmela<br />

che aveva bisogno <strong>di</strong> parlare subito col rettore, era cosa urgente.<br />

Carmela salì e bussò alla porta dello stu<strong>di</strong>o. Non ottenne<br />

risposta. Le campane continuavano a suonare e don<br />

Satta ascoltava assorto davanti alla finestra. Carmela bussò<br />

ancora.<br />

– Entra, – <strong>di</strong>sse lui con voce calma che sembrava giungere<br />

da lontano.<br />

– <strong>Il</strong> notaio vuole parlare con lei.<br />

Don Satta esitò e guardando attraverso la finestra <strong>di</strong>sse:<br />

– Non ho niente da <strong>di</strong>rgli.<br />

– È lui che ha qualcosa d’urgente.<br />

– Ora no.<br />

139


Carmela tornò dal notaio e gli <strong>di</strong>sse che il rettore non<br />

poteva riceverlo, era molto occupato, forse più tar<strong>di</strong>, ma<br />

non ne era sicura, gli impegni erano troppi. <strong>Il</strong> notaio era affranto.<br />

Voleva insistere, ma l’espressione <strong>di</strong> Carmela lo convinse<br />

ad andarsene. Non riusciva a darsi pace. Don Satta ce<br />

l’aveva anche con lui. Non sapeva cosa fare. Poteva andare<br />

dagli altri soci del comitato agrario, ma cosa potevano <strong>di</strong>rgli?<br />

Ascoltava le campane e pensava: la funzione in fondo<br />

era andata bene, lo scontento aveva altra causa. Gli venne<br />

un’altra idea e questa gli sembrò talmente brillante che sorrise<br />

compiaciuto. Non volle rifletterci su, allungò il passo e<br />

dopo un po’ si trovò davanti alla casa <strong>di</strong> Pepparosa. Questa<br />

era l’idea: convincere quella santa donna a recarsi alla funzione<br />

dell’indomani. Don Satta avrebbe toccato il cielo col<br />

<strong>di</strong>to e lui… Pepparosa l’accolse col rispetto dovuto al notaio<br />

<strong>di</strong> famiglia. Cu<strong>di</strong>llo parlò della bella funzione <strong>di</strong> quella giornata,<br />

della folla che devotamente aveva seguito la processione,<br />

delle funzioni altrettanto solenni che si stavano preparando<br />

per l’indomani e il giorno successivo.<br />

– C’erano tutti, perfino i fedeli <strong>di</strong> prete Chessa. Mancavate<br />

solo voi. Vengo a pregarvi per domani, sarebbe una giornata<br />

memorabile.<br />

– Le sue premure mi lusingano, ma non posso, – rispose<br />

Pepparosa sforzandosi <strong>di</strong> vincere il tormento che le procurava<br />

quella richiesta.<br />

– Sentite le campane? – replicò il notaio. – Sembra che<br />

suonino per voi. È come se v’invocasse l’intero paese.<br />

Lei avrebbe voluto coprirsi le orecchie o fuggire per non<br />

u<strong>di</strong>re quei rintocchi.<br />

– Non è proprio così, – si sforzò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, – il paese è più<br />

grande della chiesa del Carmelo. I conta<strong>di</strong>ni che stanno seminando<br />

a Niniana e i pastori che curano le greggi sui monti<br />

alla funzione non c’erano.<br />

– Ma voi dovete, – tentò d’insistere il notaio, con un’aria<br />

afflitta, – la vostra assenza <strong>di</strong>spiacerà tanto al rettore.<br />

Pepparosa ribadì il suo no, rivolto più a se stessa che al<br />

notaio.<br />

– Domani sarò a Niniana, – sembrava che quella <strong>di</strong>stanza<br />

potesse proteggere la sua debolezza.<br />

140<br />

– Almeno lasciate che partecipino le vostre ragazze, – fu<br />

l’ultima richiesta.<br />

– Non sarò io a porre <strong>di</strong>vieti. Anzi, venga, farà lei tutte<br />

le richieste che vuole.<br />

Lo accompagnò dalle ragazze e il notaio rimase sbalor<strong>di</strong>to.<br />

– Non credevo… – balbettò. Pepparosa gli mostrò gli<br />

arazzi e i tappeti <strong>di</strong>cendogli che quelli erano i frutti del Cumone.<br />

<strong>Il</strong> notaio toccava avidamente pensando al valore che<br />

contenevano quei tessuti.<br />

Pepparosa, piena d’orgoglio, <strong>di</strong>sse:<br />

– Sì, li ven<strong>di</strong>amo bene ai commercianti <strong>di</strong> Genova e <strong>di</strong><br />

Ponza. Alessio e Bakis si recano a Orosei una volta la settimana<br />

con i cavalli carichi: qualche volta vengono a prenderseli<br />

qui i compratori. I guadagni sono del Cumone.<br />

– Pensavo invece… – continuò il notaio guardandosi<br />

intorno pieno <strong>di</strong> meraviglia.<br />

– Non bisogna mai giu<strong>di</strong>care per sentito <strong>di</strong>re – ammonì<br />

Pepparosa. – Vede che oltre alle processioni vi sono altre cose<br />

importanti.<br />

<strong>Il</strong> notaio non se la sentiva più d’invitare le ragazze, gli<br />

sembrava un peccato <strong>di</strong>strarle da quel lavoro. Pepparosa lo<br />

incoraggiò e lui parlò confusamente della funzione dell’indomani<br />

e fece un cenno alle campane che suonavano. Le ragazze<br />

guardarono Pepparosa che sollecitamente acconsentì,<br />

sorprendendo ancora una volta il notaio. E l’indomani i telai<br />

si fermarono: le ragazze andarono alla funzione e sfilarono<br />

in processione cantando, anche se a loro sfuggivano i significati<br />

delle pre<strong>di</strong>che <strong>di</strong> don Satta, che però erano belle e<br />

facevano pensare cose che poco avevano a che fare col papa,<br />

col re e con la “fusione”.<br />

141


XVIII<br />

Nicolosa non andò alla funzione, volle scendere a Niniana<br />

con Pepparosa, che aveva atteso l’alba agitatissima, pensando<br />

al suo precipitoso rifiuto. Partirono presto, a cavallo,<br />

con Bakis che le precedeva a pie<strong>di</strong>. I suoni delle campane,<br />

ossessivi, li inseguirono per un buon tratto: solo a Ghele,<br />

quando s’inoltrarono tra i rocciai, non li u<strong>di</strong>rono più; Pepparosa,<br />

però, se li sentiva echeggiare dentro, come richiami irresistibili<br />

che acuivano i tormenti della notte insonne. Bakis<br />

appariva triste, come se avesse un dolore segreto. <strong>Il</strong> silenzio fu<br />

rotto da Nicolosa che chiese com’era andata a Orosei.<br />

– La merce l’abbiamo consegnata tutta… Ne vogliono<br />

altra.<br />

– E Alessio? – chiese Nicolosa. Bakis rispose vagamente,<br />

<strong>di</strong>sse che erano entrati in simpatia ai genovesi: era stato fatto<br />

un accordo per molti tappeti e molti arazzi a prezzi buoni,<br />

forse si poteva smerciare anche la lana.<br />

– Alessio sa che tu sei con noi? – insistette Nicolosa.<br />

Bakis, quasi piangendo, gridò:<br />

– Lo sa, lo sa… Alessio non sta bene… Le gambe non se<br />

le sente quasi… Io non riesco a tenerla tutta per me questa<br />

pena.<br />

Pepparosa si sentì venir meno, tutto le girò attorno vorticosamente.<br />

Fermò il cavallo e volle scendere.<br />

– Ti senti male? – chiese Bakis aiutandola.<br />

– Un po’ <strong>di</strong> capogiro, – rispose lei a mezza voce, –<br />

dev’essere l’aria fredda, passa subito –. Si rivolse a Bakis,<br />

voleva sentir parlare e glielo fece capire con uno sguardo.<br />

Bakis raccontò ancora, <strong>di</strong>sse che il male era sopraggiunto al<br />

rientro da Orosei e che ora Alessio era a letto: una malattia<br />

strana, veniva e spariva così.<br />

– Al ritorno lo troveremo alzato, sano come un pesce.<br />

Ha ricevuto una lettera dal viceré, lo vogliono a Cagliari, –<br />

aggiunse accalorandosi – dev’essere per il Cumone… ci vado<br />

anch’io a Cagliari.<br />

142<br />

Pepparosa rimontò precipitosamente a cavallo, provava<br />

vergogna per quel momentaneo smarrimento, che non era<br />

dovuto solo al <strong>di</strong>spiacere per il malessere <strong>di</strong> Alessio, come<br />

credevano Bakis e Nicolosa.<br />

– A Orosei abbiamo parlato tanto <strong>di</strong> te, – le <strong>di</strong>sse Bakis.<br />

– Ci tiene alla scuola Alessio. Quante cose mi ha detto su <strong>di</strong><br />

te e sui ragazzi, io non le so neanche raccontare, le sciuperei<br />

se ne parlassi –. Pepparosa in cuor suo pregava Bakis <strong>di</strong> non<br />

tacere niente, le sembrava che il ricordo <strong>di</strong> Alessio potesse<br />

darle sicurezza, farla sentire meno sola; ma i <strong>di</strong>scorsi si perdevano<br />

ancora nel vago. <strong>Il</strong> sole si era già levato, anche se rimaneva<br />

nascosto <strong>di</strong>etro la nuvolaglia grigia che ricopriva il<br />

cielo. Niniana splendeva, come se avesse un sole suo. Quando<br />

entrarono nella conca i ragazzi corsero loro incontro, festosi,<br />

cavalcando bastoni <strong>di</strong> legno. Bakis li salutò agitando le<br />

mani, ma essi si allontanarono gridando:<br />

– Sono arrivati! Sono arrivati!<br />

Tutti sentirono le voci: gli aratri si fermarono. I ragazzi<br />

continuarono a correre su quei cavallucci fantastici e ogni<br />

tanto, per gioco, facevano finta <strong>di</strong> cadere rialzandosi subito<br />

per riprendere la corsa. Le donne <strong>di</strong> Niniana accolsero Pepparosa<br />

contente, anche se intimi<strong>di</strong>te. Si avvicinò ziu Kicu e<br />

salutò mostrando un lungo bastone sul quale erano incise<br />

le tacche che segnavano il numero delle bisacce <strong>di</strong> grano seminato.<br />

– È <strong>di</strong>versa ora Niniana, – <strong>di</strong>sse in<strong>di</strong>cando col bastone i<br />

pen<strong>di</strong>i segnati da canali profon<strong>di</strong> per il deflusso delle acque.<br />

Pepparosa voltava lo sguardo da una parte e dall’altra e non<br />

riusciva a <strong>di</strong>re niente tanta era la commozione che provava.<br />

– Abbiamo seminato anche le fave, giù vicino al fiume,<br />

– <strong>di</strong>sse ziu Kicu guardando il cielo. – Temiamo il gelo, ma<br />

fra qualche giorno la semina sarà finita, torneremo per costruire<br />

la casa e il resto.<br />

Scaricarono dai cavalli le provviste: pane, formaggio,<br />

qualche dolce per i ragazzi, e le sistemarono dentro le capanne.<br />

Pepparosa e Nicolosa andarono con le donne che,<br />

parlando <strong>di</strong> Niniana, riuscivano a vincere ogni soggezione.<br />

Mostravano la lana filata e in<strong>di</strong>cavano le pietre ammucchiate<br />

<strong>di</strong>cendo che sui campi seminati non avevano lasciato un<br />

sasso o uno sterpo.<br />

143


– Se i semi che abbiamo sparso a Niniana daranno i frutti<br />

sperati… – <strong>di</strong>ceva Antonietta Cossu, la più anziana a giu<strong>di</strong>care<br />

dal ciuffo dei capelli bianchi che sporgeva dal fazzoletto.<br />

– Ma ho tanta paura, non so godere niente in quest’attesa.<br />

Pepparosa non riusciva a sentirsi una <strong>di</strong> loro, la commozione<br />

per Niniana e l’interesse per i filati e le altre faccende<br />

non bastavano, c’erano troppe <strong>di</strong>versità e lei le cercava, soffrendone<br />

quando le coglieva. Arrivarono davanti al fuoco e<br />

sostarono lì. Le donne ripresero a filare la lana con le conocchie.<br />

Sembrava che non avessero più niente da <strong>di</strong>re. Le loro<br />

parole erano scarne, essenziali, non riuscivano a staccarsi dalle<br />

cose <strong>di</strong> ogni giorno. Ziu Kicu e Bakis camminavano lungo<br />

il fiume e parlavano <strong>di</strong> Niniana, dei campi che stavano arando,<br />

degli altri conta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Molas e Nurthole, dei pastori.<br />

– Non mi hai ancora detto <strong>di</strong> Alessio, non è venuto…<br />

Gli volevo chiedere… Parlare con lui rincuora.<br />

Bakis non parlò del male <strong>di</strong> Alessio.<br />

– Deve andare a Cagliari, l’ha chiamato il viceré… si<br />

sta preparando.<br />

– Cosa vuole il viceré? – chiese ziu Kicu preoccupato.<br />

– Sarà per il rapporto… se lo chiamano è segno buono.<br />

Ci vado anch’io.<br />

– Quando? – chiese ancora ziu Kicu che non era tranquillo.<br />

Temeva che volessero staccare Alessio dal Cumone.<br />

– Appena Alessio si sentirà bene.<br />

– Allora mi nascon<strong>di</strong> qualcosa: Alessio non sta bene? –<br />

chiese ziu Kicu sollevando il bastone. Bakis lo rassicurò: Alessio<br />

voleva andare a Cagliari in piena forma, deciso a sostenere<br />

le ragioni del Cumone davanti a tutti.<br />

– Così mi piace.<br />

Parlarono poi degli olivastri da innestare, della casa da<br />

costruire, dei conta<strong>di</strong>ni che dovevano restare e <strong>di</strong> quelli che<br />

dovevano rientrare in paese.<br />

I ragazzi avevano acceso un fuoco tutto per loro, in <strong>di</strong>sparte.<br />

Erano seduti a cerchio e giocavano con le fiamme cercando<br />

<strong>di</strong> svettarle coi vincastri che sibilavano nell’aria. Si avvicinò<br />

Pepparosa, e loro si zittirono e smisero il gioco.<br />

– Mi volete con voi? – chiese lei inserendosi nel cerchio.<br />

Si era allontanata dall’altro fuoco quasi sospinta dal silenzio<br />

144<br />

delle donne che filavano ancora. I ragazzi arrossirono e guardandosi<br />

con gli occhietti furbi sorrisero senza rispondere.<br />

– Chi l’ha fatto questo grande fuoco?<br />

– Io ho portato la legna.<br />

– Anch’io.<br />

– Io ho portato il tizzone acceso.<br />

– Tutti allora avete collaborato –. Pepparosa riusciva ad<br />

ammansire i ragazzi che ora si schiudevano come piccoli ricci.<br />

Chiese ancora perché avessero voluto fare un fuoco separato;<br />

non le <strong>di</strong>edero una ragione, <strong>di</strong>ssero che quel fuoco era<br />

più grande dell’altro e non si spegneva mai e continuarono a<br />

parlare delle fiamme che avevano tanti colori a seconda della<br />

legna e del fumo che saliva in alto quando non c’era vento.<br />

Tutte le loro fantasie s’incentravano nel fuoco e parlandone<br />

si eccitavano; qualcuno si era levato in pie<strong>di</strong> per esprimere<br />

coi gesti ciò che voleva <strong>di</strong>re; nei loro <strong>di</strong>scorsi esistevano solo<br />

cose gran<strong>di</strong> che non avevano fine. Pepparosa non li interrompeva,<br />

ma faticava a ricucire quei <strong>di</strong>scorsi che toccavano<br />

la terra e il cielo. Uno dei ragazzi si alzò e le <strong>di</strong>sse sottovoce:<br />

– Abbiamo un laboreddu, vicino al fiume, se non lo <strong>di</strong>ci<br />

a nessuno te lo facciamo vedere.<br />

Gli altri si risentirono per il segreto svelato o forse perché<br />

ciascuno voleva essere il solo a svelarlo. Tutti fecero ressa<br />

attorno a Pepparosa, la quale, mostrando un grande interesse,<br />

chiese chi avesse seminato il laboreddu. <strong>Il</strong> ragazzo che<br />

aveva confidato il segreto, Maureddu, alzò la mano e <strong>di</strong>sse:<br />

– Li ho sparsi io i semi.<br />

– Anch’io so spargere i semi come ziu Palatosa – <strong>di</strong>sse un<br />

altro.<br />

Maureddu si avvicinò a Pepparosa e le confidò che loro<br />

avevano anche il Cumone.<br />

– Io sono Alessio – <strong>di</strong>sse poi battendosi il pugno sul petto.<br />

– Io sono Bakis – fece eco Paolo, quello che aveva detto<br />

<strong>di</strong> saper spargere i semi come Palatosa.<br />

– Io sono ziu Kicu – <strong>di</strong>sse ancora un altro. Tutti volevano<br />

essere qualcuno e Mauro in<strong>di</strong>cò uno dei ragazzi, il più<br />

robusto, <strong>di</strong>cendo che quello era il rettore e faceva le magie.<br />

Pepparosa fu presa dalla curiosità <strong>di</strong> fare domande, come le<br />

accadeva con Ninedda, la domestica, quando ingenuamente<br />

145


le riferiva quello che la gente <strong>di</strong>ceva e pensava <strong>di</strong> don Satta,<br />

ma tacque non volendo far trasparire la confusione che sentiva<br />

dentro.<br />

– Perché vuoi essere Alessio? – chiese però a Maureddu,<br />

che abbassò gli occhi pu<strong>di</strong>camente.<br />

– Beh, perché Alessio sa le cose, – rispose poi sollevando<br />

la testina sull’esile collo.<br />

Pepparosa voleva trovare qualcosa <strong>di</strong> Alessio in Maureddu,<br />

la fronte grande forse o il sorriso dolce, ma il seme dà<br />

solo un’idea lontana del frutto che custo<strong>di</strong>sce.<br />

– Io voglio essere Bakis perché ha vinto Chellone alla<br />

Consolata – <strong>di</strong>sse Pauleddu allargando le braccia.<br />

– Ziu Kicu, invece, guida i carri e gli aratri – <strong>di</strong>sse un<br />

altro.<br />

– Cosa farete al Cumone? – chiese ancora Pepparosa<br />

senza mostrare eccessiva curiosità per indurli ancora <strong>di</strong> più<br />

alla confidenza.<br />

I ragazzi si sbracciavano per spiegare e ciascuno trasfigurava<br />

fantasticamente i <strong>di</strong>scorsi u<strong>di</strong>ti. Anche per il Cumone<br />

volevano <strong>di</strong>stinguersi, come avevano fatto col fuoco.<br />

– <strong>Il</strong> nostro Cumone, – <strong>di</strong>sse Maureddu, – sarà grande<br />

così, arriverà fino al cielo e le magie del rettore non potranno<br />

raggiungerlo.<br />

Quante cose sapevano quei ragazzi e quante cose inventavano.<br />

Parlarono anche <strong>di</strong> zappe, <strong>di</strong> buoi, <strong>di</strong> carri e volevano<br />

fare tutto sull’esempio dei gran<strong>di</strong>, ma <strong>di</strong>stinguendosi da<br />

loro. Mauro appoggiò il suo musetto all’orecchio <strong>di</strong> Pepparosa<br />

e bisbigliò:<br />

– Allora, se non lo <strong>di</strong>ci a nessuno, ti porto a vedere il laboreddu.<br />

– Certo che non lo <strong>di</strong>co, – promise lei, con un’espressione<br />

molto seria. Mauro la prese per mano e la condusse<br />

verso il fiume. Gli altri ragazzi seguirono parlottando fra loro.<br />

Pauleddu si staccò dal gruppo e anch’egli si affiancò a<br />

Pepparosa prendendole l’altra mano. <strong>Il</strong> gruppo si allungava<br />

in una linea sinuosa, come una giovane siepe mossa dal vento.<br />

Improvvisamente un altro si staccò e si mise a correre.<br />

– Io non voglio fare il rettore, – <strong>di</strong>sse piagnucolando. Era<br />

il ragazzo robusto al quale avevano imposto quella parte.<br />

Pepparosa si fermò e osservò il ragazzo, come se volesse capire<br />

146<br />

le ragioni più profonde <strong>di</strong> quella ribellione, che sembrava le<br />

<strong>di</strong>spiacesse, anche se non la sorprendeva; non gli <strong>di</strong>sse niente,<br />

ma riuscì ad ammansirlo ugualmente con una tenera carezza.<br />

– Farai un’altra parte, chi vuoi essere? – gli chiese quando<br />

lo vide rinfrancato.<br />

– Li hanno presi tutti loro i posti buoni, io volevo essere<br />

Alessio.<br />

– Tu non puoi fare Alessio, – gli rispose in<strong>di</strong>spettito<br />

Maureddu.<br />

– Allora faccio ziu Peppe, che guida l’aratro con due<br />

vomeri.<br />

Gli altri ragazzi lo guardarono con un po’ d’invi<strong>di</strong>a, nessuno<br />

aveva pensato a quel ruolo.<br />

– Così va bene, – <strong>di</strong>sse Pepparosa, – pensando alla facilità<br />

con cui tutto si può ricomporre nella finzione del gioco.<br />

<strong>Il</strong> piccolo ziu Peppe, liberatosi finalmente dal peso del<br />

rettore, si mise a correre gridando:<br />

– Tbruuu su boe.<br />

Arrivarono al laboreddu, un tratto <strong>di</strong> terra racchiuso tra<br />

siepi con i germogli del grano appena spuntati. Pepparosa si<br />

mostrò meravigliata e <strong>di</strong>sse che quello era un labore grande.<br />

– Guarda quanti germogli ci sono, – <strong>di</strong>sse Maureddu, –<br />

sai, da un germoglio possono venire fuori anche cento spighe.<br />

– Facciamo i conti, – propose Pepparosa.<br />

Si sedettero a cerchio attorno al laboreddu e cominciarono<br />

a contare. I ragazzi, con le manine alzate, tenevano i conti<br />

delle spighe sulla punta delle <strong>di</strong>ta. Pepparosa <strong>di</strong>ceva i numeri<br />

e loro li ripetevano per tenerli a mente e perché, detti a<br />

voce alta, sembrava si materializzassero subito in covoni e<br />

sacchi <strong>di</strong> grano.<br />

– Non ho altre <strong>di</strong>ta, – <strong>di</strong>ceva Maureddu tendendo le mani<br />

con le palme aperte, – le spighe sono tante.<br />

Una voce chiamò Pepparosa.<br />

– È zia Cossu per mangiare – <strong>di</strong>sse uno dei ragazzi contrariato.<br />

– Torniamo poi?<br />

Pauleddu però <strong>di</strong>sse ch’era meglio non tornare per quel<br />

giorno, i germogli si vergognavano <strong>di</strong> crescere davanti alla<br />

gente.<br />

147


– Noi mangiamo in <strong>di</strong>sparte, – propose un altro ragazzo.<br />

– Come volete, – rispose Pepparosa; – forse è meglio<br />

mangiare insieme agli altri e parlare con loro.<br />

Arrivarono davanti al fuoco. <strong>Il</strong> pranzo era pronto. <strong>Il</strong> giorno<br />

prima, i pastori avevano mandato un quarto <strong>di</strong> cinghiale<br />

e le donne lo avevano cucinato con le fave.<br />

– Dov’eravate? – chiese ziu Kicu incuriosito.<br />

I ragazzi <strong>di</strong>edero un’occhiata a Pepparosa.<br />

– Abbiamo camminato lungo il fiume, – rispose lei sorridendo.<br />

Mangiarono prendendo il cibo dai taglieri con le mani.<br />

– È buono questo cinghiale, – <strong>di</strong>sse ziu Kicu, – quando<br />

raccoglieremo i frutti manderemo qualcosa anche noi.<br />

Bakis voleva sapere da Pepparosa cosa avessero raccontato<br />

<strong>di</strong> tanto importante i ragazzi.<br />

– Stiamo <strong>di</strong>ventando amici.<br />

– Volete anche me? –. Pauleddu fece <strong>di</strong> sì con la testa e<br />

sorrise contento. Toccò un pezzetto <strong>di</strong> carne a ciascuno, perché<br />

erano tanti, ma le fave bastarono per tutti. <strong>Il</strong> pane, bagnato<br />

nel brodo grasso della carne, lo mangiarono col formaggio<br />

che aveva portato Pepparosa. Nicolosa parlò della<br />

lana che stavano lavorando le donne.<br />

– I fili sembrano <strong>di</strong> seta, – <strong>di</strong>sse, – non hanno no<strong>di</strong> e<br />

sono ben tesi.<br />

– Ne abbiamo pronti già venti gomitoli, ve li porterete<br />

via coi cavalli, – <strong>di</strong>sse una delle donne. I conta<strong>di</strong>ni tacevano,<br />

i loro pensieri erano rivolti alla terra che dovevano ancora<br />

arare, temevano il gelo. Dopo qualche tempo si alzarono e<br />

riaggiogarono i buoi che si erano saziati con la paglia. Ripresero<br />

ad arare e a zappare e anche ziu Kicu e Bakis andarono<br />

con loro. Alcune donne sparecchiarono, altre tornarono a filare.<br />

I ragazzi presero per mano Pepparosa e la condussero<br />

davanti al loro fuoco. Volevano imparare i numeri. Pepparosa<br />

si fece pregare un po’.<br />

– Ce l’hai promesso, – <strong>di</strong>sse Maureddu.<br />

Lei mandò a prendere dalla capanna una tavoletta e dei<br />

carboncini e giocò coi ragazzi <strong>di</strong>segnando.<br />

– Fammi un cavallo – chiese Pauleddu. Pepparosa rapi<strong>di</strong>ssima<br />

abbozzò un cavallo teso nel volo della corsa.<br />

148<br />

– Un astore!<br />

– Un albero!<br />

– Un aratro!<br />

Chiedevano ancora e lei eseguiva. Poi <strong>di</strong>ede i carboncini<br />

ai ragazzi e ciascuno tracciava delle linee così come venivano<br />

e ne domandava i significati. Pepparosa <strong>di</strong>ceva che ogni cosa,<br />

ogni esistenza aveva il suo segno. I ragazzi preferivano i<br />

<strong>di</strong>segni, ma lei spiegava ch’era <strong>di</strong>fficile comunicare agli altri<br />

tutti i pensieri con le sole figure, la scrittura era più semplice.<br />

Maureddu le dettò i suoi pensieri che parlavano del laboreddu,<br />

del Cumone, delle stagioni, <strong>di</strong> Alessio, <strong>di</strong> don Satta e<br />

lei scrisse riempendo la tavoletta. L’incomprensibilità dei segni<br />

deluse i ragazzi. Mauro scoraggiato <strong>di</strong>sse che senza le figure<br />

non si poteva capire niente. Pepparosa assicurò che<br />

presto tutti avrebbero potuto capire e tentava <strong>di</strong> <strong>di</strong>strarre i<br />

ragazzi i quali però caparbiamente insistevano alternando<br />

scrittura e <strong>di</strong>segno e quando non riuscivano si <strong>di</strong>speravano<br />

picchiando furiosamente la terra coi pugni.<br />

<strong>Il</strong> freddo si faceva sentire e a sera scese il gelo. Restava da<br />

arare un ultimo tratto della conca e il pen<strong>di</strong>o della collinetta<br />

più lontana. La terra andava indurendosi e i conta<strong>di</strong>ni, imbronciati,<br />

continuavano ad arare al buio, muovendosi a tentoni.<br />

Bakis propose <strong>di</strong> far luce coi fuochi.<br />

– Sì, – <strong>di</strong>sse ziu Kicu, – accen<strong>di</strong>amone tanti così riscal<strong>di</strong>amo<br />

anche la terra –. I ragazzi saltarono e andarono per<br />

primi a raccogliere le frasche.<br />

– Vieni anche tu, – <strong>di</strong>sse Maureddu a Pepparosa, che si<br />

lasciò condurre per mano. Si mossero tutti, uomini e donne,<br />

e portarono tante bracciate <strong>di</strong> frasche che ammucchiarono<br />

attorno alle terre da arare. I mucchi furono accesi uno dopo<br />

l’altro. I ragazzi attendevano la luce, ma la legna non bruciava,<br />

le dense nuvole <strong>di</strong> fumo ristagnavano nella conca rendendo<br />

la notte più nera. Furono portate altre bracciate <strong>di</strong> rami<br />

secchi e finalmente i ginepri arsero crepitando. Le fiamme si<br />

levavano alte e la terra e il cielo s’illuminarono. I riverberi<br />

delle fiamme ingigantivano tutto e rischiaravano anche il<br />

cielo che si era liberato dalle nuvole che l’avevano incupito<br />

durante tutta la giornata. Si vedevano le stelle ora, sembrava<br />

vagassero come frammenti <strong>di</strong> fuochi portati dal vento.<br />

149


Doveva essere notte alta, ma i conta<strong>di</strong>ni erano sempre curvi<br />

sulle zappe e sugli aratri con le schiene folgorate dalla luce<br />

dei fuochi.<br />

– I ragazzi vadano a dormire, – or<strong>di</strong>nò ziu Kicu, fermando<br />

l’aratro. – Anche voi, donna Pepparosa e tu, Nicolosa,<br />

– soggiunse, – è bene che an<strong>di</strong>ate a riposare.<br />

Solo quando u<strong>di</strong>rono il nome <strong>di</strong> Pepparosa i ragazzi<br />

smisero il broncio e andarono verso le capanne seguendo zia<br />

Cossu che in<strong>di</strong>cò la capanna per le due donne con le doppie<br />

stuoie <strong>di</strong>stese su tettucci <strong>di</strong> felci e le coperte <strong>di</strong> lana ancora<br />

piegate. I ragazzi volevano restare con Pepparosa, ma zia<br />

Cossu si oppose. Maureddu tentò <strong>di</strong> dare una ragione <strong>di</strong><br />

quella richiesta <strong>di</strong>cendo che dovevano finire i segni. Pepparosa<br />

rispose che al buio i segni non si potevano vedere ma<br />

che sarebbero rimasti insieme ugualmente. I ragazzi furono<br />

contenti <strong>di</strong> quella promessa.<br />

Zia Cossu era a <strong>di</strong>sagio.<br />

– Torno ai fuochi, – <strong>di</strong>sse, – sistematevi come potete.<br />

Pepparosa la rassicurò. Si sedettero davanti alle capanne,<br />

le due donne addossate al muro a secco, una accanto all’altra,<br />

i ragazzi accosciati sui pie<strong>di</strong>ni nu<strong>di</strong> che tentavano <strong>di</strong> ricoprire<br />

coi lembi dei lunghi vestiti. Nell’aria c’era un tepore<br />

che sembrava <strong>di</strong> un’altra stagione, e il cielo, tutto rischiarato,<br />

appariva meno lontano, come se si fosse avvicinato per<br />

riscaldarsi ai fuochi <strong>di</strong> Niniana. I bagliori delle fiamme toccavano<br />

le cime dei colli e perfino il fiume in fondo alla conca.<br />

I ragazzi guardavano i tetti delle capanne che s’illuminavano<br />

a tratti. Maureddu si avvicinò a Pepparosa e la fissò<br />

intensamente con un’espressione <strong>di</strong> stupore.<br />

– Che cosa c’è? – gli chiese Nicolosa. <strong>Il</strong> ragazzo sbarrava<br />

gli occhi.<br />

– Solo a lei lo <strong>di</strong>co, – rispose in<strong>di</strong>cando col <strong>di</strong>to Pepparosa.<br />

Gli altri volevano sapere, ma Maureddu sembrava non<br />

li u<strong>di</strong>sse e avvicinatosi ancora <strong>di</strong> più a Pepparosa le sussurrò<br />

all’orecchio:<br />

– La luce dei fuochi l’ho vista scomparire nei tuoi occhi.<br />

Non <strong>di</strong>rlo a nessuno – continuò e, mentre sfiorava con le<br />

labbra l’orecchio <strong>di</strong> lei, era scosso da un tremore in tutto il<br />

corpo. Pepparosa, accortasi del turbamento del ragazzo e<br />

150<br />

della gelosia degli altri che si sentivano esclusi, si alzò e <strong>di</strong>sse:<br />

– Tra <strong>di</strong> voi non devono esserci segreti.<br />

Maureddu non si oppose e fece un cenno con la testa<br />

che poteva apparire un assenso o anche una rassegnazione a<br />

perdere un privilegio che credeva <strong>di</strong> aver acquistato. Pepparosa,<br />

per gioco, li fece sedere al suo posto, uno alla volta, e<br />

quando giungevano i riverberi delle fiamme mostrava i riflessi<br />

negli occhi dei ragazzi che si esponevano via via a quella<br />

folgorazione.<br />

Anche Maureddu posò e attese imbronciato che i riverberi<br />

delle fiamme lo toccassero. Gli altri ragazzi, gridando,<br />

in<strong>di</strong>carono col <strong>di</strong>to il lampo che si riflesse nei suoi occhi.<br />

Lui non ne fu contento, <strong>di</strong>sse che la luce che aveva visto<br />

negli occhi <strong>di</strong> Pepparosa era più grande degli stessi fuochi.<br />

Gli altri mostrarono la loro incredulità vociando. Mauro<br />

voleva allontanarsi, ma Pepparosa lo chiamò e gli <strong>di</strong>sse che<br />

lui quella notte poteva aver visto ogni cosa più grande.<br />

– Tutti abbiamo una notte più luminosa delle altre. Questa<br />

è la notte <strong>di</strong> Maureddu, ma ciascuno avrà la sua notte <strong>di</strong><br />

luce –. <strong>Il</strong> ragazzo sorrise contento. Pauleddu chiese a Pepparosa<br />

se avesse già incontrato la sua notte.<br />

– Non ancora, bisogna trovarsi in uno stato particolare,<br />

– rispose lei e il suo sguardo si spinse lontano, oltre i fuochi,<br />

come se cercasse luci più remote. Vollero sapere anche da<br />

Nicolosa, che ammise senza esitazione:<br />

– Sì, era una sera, non una notte.<br />

I ragazzi chiesero dove, quando, con chi.<br />

– Alla Consolata, – rispose lei socchiudendo gli occhi.<br />

– Eri sola? – chiese Pauleddu.<br />

– No, c’era un altro.<br />

– Era Bakis?<br />

– Sì – rispose ancora Nicolosa, che ricordando non poteva<br />

nascondere niente.<br />

– Anche Bakis l’ha vista?<br />

– Credo <strong>di</strong> sì.<br />

– Era più grande la tua o quella <strong>di</strong> Bakis?<br />

Nicolosa <strong>di</strong>sse che non lo sapeva.<br />

– Le cose gran<strong>di</strong>ssime non si possono misurare, il più o<br />

il meno non esistono.<br />

151


Si sedettero ancora, <strong>di</strong>sponendosi come prima. I ragazzi<br />

guardavano i fuochi che ardevano ancora con le fiamme alte<br />

mosse dal vento. Le terre arate apparivano rosse, forse vivevano<br />

anch’esse la loro notte <strong>di</strong> luce.<br />

– È tar<strong>di</strong>, dobbiamo andare a dormire – <strong>di</strong>sse poi Pepparosa.<br />

– Aspettiamo ancora un po’.<br />

– È quasi l’alba, bisogna andare.<br />

Si <strong>di</strong>stribuirono in due capanne, alcuni con Nicolosa,<br />

gli altri con Pepparosa. La scelta non fu a caso. Mauro e<br />

Pauleddu non si staccarono dalla gonna <strong>di</strong> Pepparosa. Si <strong>di</strong>stesero<br />

sulle stuoie in due file. Non c’era tanto buio e si potevano<br />

<strong>di</strong>stinguere tutti: Maureddu, raggomitolato con la<br />

testa che toccava i ginocchi, come se volesse nascondersi,<br />

Pauleddu con le braccia strette a croce sul petto e gli altri <strong>di</strong>stribuiti<br />

due per ogni stuoia. Qualcuno parlava nel sonno,<br />

altri avevano il respiro pesante. A Pepparosa piaceva stare coi<br />

ragazzi e cercare <strong>di</strong> penetrare in quel loro mondo così ingenuo,<br />

ma anche così saldamente ra<strong>di</strong>cato nelle cose della vita:<br />

le sembrava <strong>di</strong> trovare un’infanzia mai vissuta, sognata forse.<br />

Si chiedeva se lei potesse insegnare qualcosa a quei ragazzi,<br />

che avevano la maturità degli uomini e la voglia <strong>di</strong> apprendere<br />

tutto da soli. Di proposito quel giorno aveva parlato<br />

poco, ma le sembrava <strong>di</strong> essere riuscita a conquistare la confidenza<br />

<strong>di</strong> tutti. Forse il miglior modo <strong>di</strong> fare scuola era proprio<br />

quello: stare coi ragazzi e sollecitare la loro fantasia e la<br />

loro inventiva. Poterne parlare subito con Alessio per sapere<br />

s’era questo ch’egli intendeva.<br />

Nella capanna sembrava che tutti dormissero profondamente,<br />

solo qualcuno ogni tanto si muoveva. Pepparosa osservò<br />

Maureddu e lo vide sollevare la testa, gli occhi non<br />

sfiorati dal sonno. Non si mosse, ma il ragazzo le si avvicinò<br />

e la toccò.<br />

– Perché non dormi?<br />

– Attendevo.<br />

– Che cosa?<br />

– Non lo so… mi vuoi?<br />

– Se non dormi no.<br />

– Tienimi la mano, almeno, così so che non te ne vai.<br />

152<br />

Pepparosa gli prese la mano e se la mise tra il cuscino e<br />

la sua guancia.<br />

– Dormi ora, domani parleremo dei segni.<br />

Maureddu chiuse gli occhi e non si mosse: nel viso non<br />

più nascosto ritornò un’espressione <strong>di</strong> beatitu<strong>di</strong>ne. Pepparosa<br />

rimase sveglia a lungo. Attraverso la porta della capanna si<br />

vedevano ancora i fuochi che scolorivano alla luce dell’alba.<br />

Le altre donne erano rientrate alle capanne perché i conta<strong>di</strong>ni<br />

avevano voluto far riposare i buoi. C’era un silenzio profondo,<br />

il silenzio della stanchezza e dell’attesa: il nuovo giorno<br />

poteva riscaldare la terra e gli uomini.<br />

153


XIX<br />

Dopo qualche giorno Alessio poté alzarsi dal letto: anche<br />

questa volta gl’infusi <strong>di</strong> quell’erba misteriosa compirono<br />

il miracolo e le gambe e le mani non dolevano quasi più,<br />

anche se la rigi<strong>di</strong>tà si era accentuata. Ritornò a Orosei insieme<br />

a Bakis e concluse un accordo importante coi mercanti<br />

genovesi per lo smercio degli agnelli, del formaggio e della<br />

lana. Furono stabiliti equamente i prezzi <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>ta e le ragioni<br />

<strong>di</strong> scambio con altri beni necessari e i genovesi tornarono<br />

a proporre una società alla pari, facendo intravvedere<br />

guadagni talmente strepitosi che fecero sgranare gli occhi a<br />

Bakis. Alessio dovette rifiutare: lui e Bakis avevano altri impegni<br />

e il commercio non sembrava il mestiere più adatto.<br />

I genovesi insistettero, neanche loro erano nati commercianti,<br />

avevano iniziato da poco, ma ora con un solo affare guadagnavano<br />

quanto in un intero anno facendo i marinai o i<br />

conta<strong>di</strong>ni. Di fronte al tornaconto qualsiasi legame poteva<br />

sciogliersi. Alessio cercò <strong>di</strong> spiegare che loro vedevano le cose<br />

in altro modo, non cercavano tornaconti personali.<br />

I genovesi si mostrarono interessati anche al Cumone,<br />

forse per ragioni <strong>di</strong>verse da quelle che esaltavano Bakis e<br />

Alessio: in esso vedevano un mezzo nuovo per potenziare le<br />

attività mercantili che intendevano compiere nell’isola.<br />

– Presto o tar<strong>di</strong> la <strong>Sardegna</strong> esploderà, – <strong>di</strong>sse il più anziano<br />

dei genovesi, il marinaio, che mostrava simpatia per<br />

Alessio, – bisogna piazzarsi in tempo. Incomincia un’altra<br />

epoca, l’epoca dei commerci e delle industrie, conterà chi<br />

avrà mezzi, chi saprà comprare e vendere –. E continuò a<br />

spiegare come Orvine, così <strong>di</strong>menticato e così insignificante<br />

oggi, se avesse avuto moneta avrebbe potuto attirare l’attenzione<br />

<strong>di</strong> tutti.<br />

– Ho stu<strong>di</strong>ato poco, – <strong>di</strong>sse ancora, – però ho viaggiato<br />

molto: sono stato in Inghilterra, in Francia, in Olanda…<br />

quelli sono avanti a noi <strong>di</strong> almeno cento anni.<br />

154<br />

Bakis ogni tanto usciva in esclamazioni <strong>di</strong> meraviglia,<br />

gli sembrava tutto vero.<br />

– Col denaro si può far andare l’acqua in salita – commentò.<br />

Alessio aveva un’espressione pensosa, come se le proposte<br />

del genovese avessero scosso anche lui. Cercò <strong>di</strong> trovare<br />

ragioni per <strong>di</strong>re <strong>di</strong> no.<br />

– <strong>Il</strong> produrre e lo scambiare, – <strong>di</strong>sse, – devono rispondere<br />

alle esigenze dell’uomo, <strong>di</strong> tutti gli uomini in ugual misura,<br />

senza esclusioni, senza con<strong>di</strong>zionamenti. Dietro i beni<br />

che si comprano e si vendono ci sono le fatiche che devono<br />

essere <strong>di</strong>stribuite e compensate equamente.<br />

<strong>Il</strong> genovese marinaio lo guardava, sembrava non riuscisse<br />

a capire quegli strani ragionamenti. Alessio continuò:<br />

– Se smarrisce la sua funzione naturale, il denaro <strong>di</strong>venta<br />

un Dio capriccioso: chi ha il suo favore vince sempre, gli<br />

altri soccombono, i valori vengono sovvertiti e le ingiustizie<br />

e le oppressioni si perpetuano.<br />

<strong>Il</strong> genovese, battendogli una mano sulla spalla, gli <strong>di</strong>sse:<br />

– I suoi saranno anche bei <strong>di</strong>scorsi, io non posso capirli…<br />

però so che il denaro riempie la casa, il paese, la nazione:<br />

più se ne ha più si conta, l’ho sperimentato. Star lì a misurare<br />

chi ne ha <strong>di</strong> più e chi <strong>di</strong> meno non è un ragionare pratico…<br />

Ammucchiamone tanti <strong>di</strong> sol<strong>di</strong> e ne toccherà a tutti… Ma<br />

bisogna muoversi, correre <strong>di</strong> giorno e <strong>di</strong> notte, arrivare prima<br />

degli altri. Coi bei <strong>di</strong>scorsi non si cambia niente.<br />

Alessio non rispose, sembrava a <strong>di</strong>sagio, come se le parole<br />

del genovese gli avessero tolto ogni sicurezza. Bakis significava<br />

il suo <strong>di</strong>sorientamento scuotendo la testa.<br />

– Facciamolo quest’accordo, su, – <strong>di</strong>sse il genovese marinaio,<br />

– lasciatevi guidare da chi ha navigato.<br />

– Non ho senso pratico, ma una cosa credo <strong>di</strong> averla capita,<br />

– lo interruppe Alessio, – i denari ammucchiati in un<br />

certo modo possono anche riempire la casa, ma svuotano<br />

l’uomo. Noi vogliamo lavorare e produrre per ritrovare noi<br />

stessi e per non essere più venduti o comprati. Quando il<br />

Cumone crescerà e avrà messo ra<strong>di</strong>ci profonde nella mente e<br />

nel cuore d’ognuno, potremo usarlo anche noi il denaro, come<br />

usiamo l’aratro, la zappa, i telai.<br />

155


Entrarono nell’osteria <strong>di</strong> Vissente, dove i genovesi erano<br />

<strong>di</strong> casa.<br />

– Dobbiamo berla, abbiamo fatto un buon contratto, –<br />

<strong>di</strong>sse il genovese marinaio, or<strong>di</strong>nando una caraffa <strong>di</strong> vino<br />

che l’oste servì prontamente con quattro tazze <strong>di</strong> sughero.<br />

– Ti piace?<br />

– No, ma bevo lo stesso, per <strong>di</strong>mostrarvi la mia simpatia,<br />

– rispose Alessio, che a ogni sorso contraeva la bocca.<br />

Bakis era euforico, voleva cantare.<br />

– Lasciamo i canti e parliamo degli affari futuri ora che<br />

siamo <strong>di</strong>stesi, – propose il genovese conta<strong>di</strong>no. Alessio il vino<br />

se lo sentiva scorrere nelle vene con un piacevole senso<br />

<strong>di</strong> caldo: era come se si <strong>di</strong>staccasse lentamente dalle cose.<br />

– Insisto ancora per l’accordo, lo faccio anche nel vostro<br />

interesse, ispirate fiducia.<br />

Alessio non aveva voglia <strong>di</strong> parlare d’affari.<br />

– Mi piace starmene in pace, – <strong>di</strong>sse, – ascoltare, senza<br />

pensare a niente –. <strong>Il</strong> genovese marinaio non dava tregua,<br />

elencava tutti i vantaggi che potevano derivare dall’accordo.<br />

– Ve l’ho detto, noi siamo legati al Cumone, – rispose<br />

Alessio, bevendo ancora ad ampie sorsate; non faceva più<br />

smorfie, il vino sembrava gli piacesse ora.<br />

– Mettiamoci dentro anche il Cumone, sarà un bene<br />

per tutti.<br />

– Non è facile capire che cos’è e che cosa sarà il Cumone…<br />

a me, a Bakis, a noi sembra tutto chiaro e semplice: un<br />

fatto naturale. <strong>Il</strong> <strong>di</strong>fficile è farlo capire agli altri, a chi non<br />

sente come noi che l’uomo in questo luogo e in questo tempo<br />

può convivere solo così… Vendere e comprare per avere<br />

denaro…? Non è l’avere che ci preme… è l’essere. I sol<strong>di</strong> fatti<br />

così ti strappano dalle cose e dagli uomini. Noi vogliamo<br />

fare tutto con naturalezza, ecco: pensare e fare per essere<br />

uomini. Non solo coltivare terre e allevare pecore… <strong>Il</strong> Cumone<br />

crescerà e si estenderà… –. Bevve un altro sorso e riprese<br />

a parlare corrugando la fronte, come se gli costasse<br />

una fatica estrema trovare le parole adatte per esprimere i<br />

pensieri che gli si accavallavano nella mente.<br />

– Sapete, – riprese, – Bakis ha ricomposto la tavola del<br />

Cumone, una invenzione… Bakis è forte, ha abbattuto<br />

156<br />

Chellone, una montagna… voi non sapete chi è Chellone…<br />

<strong>di</strong>ciamo ch’è un simbolo… Io sono debole… sono<br />

nato per una <strong>di</strong>strazione della natura… il guaio è che penso<br />

e sento come un uomo nato giusto… ma questo non importa,<br />

anzi importa perché è così che si formano no<strong>di</strong> dentro,<br />

che dolgono, dolgono… quanto dolgono! Credete che<br />

il vino <strong>di</strong> Vissente mi faccia sragionare? Non è così, adesso<br />

torno al punto… Bakis vi spiega la sua tavola…<br />

Aveva un’aria affaticata e il genovese marinaio gli <strong>di</strong>sse<br />

<strong>di</strong> riposarsi.<br />

Bakis tentò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re qualcosa, ma provava <strong>di</strong>fficoltà a parlare,<br />

il vino bevuto avidamente gli aveva legato la lingua.<br />

Pianse e fece capire che piangeva perché voleva bene ad<br />

Alessio. <strong>Il</strong> pianto gli snebbiò un po’ la mente e faticosamente<br />

poté <strong>di</strong>re:<br />

– Quello che so oggi e quello che saprò domani lo devo<br />

tutto ad Alessio. È come se m’avesse dato una seconda vita…<br />

La tavola… forse non è una cosa importante, a me è sembrato<br />

un gioco. Vedere come crescono gli uomini e le cose nel<br />

Cumone è bello… Con i numeri si possono fare miracoli.<br />

Raccontare… non sono buono, è più facile farle certe cose<br />

che <strong>di</strong>rle… Ammettiamo che il Cumone abbracci Orvine, il<br />

paese dove abitiamo noi… allora da una parte mettiamo tutto<br />

ciò che occorre a Orvine e alla sua gente per vivere e crescere,<br />

partendo dai bisogni più importanti: cibo, vestiti, case,<br />

terre, strumenti <strong>di</strong> lavoro… dall’altra parte le cose giuste per<br />

coprire quei bisogni… e questo è semplice… però bisogna<br />

seguire passo passo tutto, perché i bisogni e le cose è come se<br />

avessero gambe: si muovono e si mo<strong>di</strong>ficano, crescendo o <strong>di</strong>minuendo…<br />

Sto pasticciando, non riesco a essere chiaro…<br />

La tavola segue il Cumone per cinque anni, la durata della<br />

Carta nei vecchi cumoni… Adesso il ballo si riscalda, è come<br />

inseguire cento lepri… Tanto grano devi seminare, tanto si<br />

spera <strong>di</strong> raccoglierne, tanto lo trasformi in pane e pasta, tanto<br />

lo metti da parte per le nuove semine, tanto lo scambi con<br />

i ponzesi per avere altre cose, che servono per acchiappare altre<br />

lepri: gli abiti, le case… e poi bisogna istruirsi e inventare<br />

altri arnesi e sapere quanti ne muoiono e quanti ne nascono,<br />

parlo della gente, ma anche delle bestie, e chi può andare in<br />

157


un lavoro, e chi in un altro, e chi è più abile e chi è meno<br />

abile, e chi ha più bisogno e chi ha meno bisogno… e le lepri<br />

ti scappano da una parte e dall’altra… però ci vuole concor<strong>di</strong>a<br />

dentro e fuori del Cumone… Temo <strong>di</strong> aver perso il filo,<br />

nella tavola il gioco è più chiaro…<br />

Alessio, sollevando la mano stancamente, con una voce<br />

ancora più stanca, gli <strong>di</strong>sse che l’idea della tavola e del Cumone<br />

l’aveva resa bene. I genovesi erano perplessi, il marinaio<br />

si passò una mano sulla fronte, poi <strong>di</strong>sse, pacatamente:<br />

– È un gioco troppo complicato… sarà anche bello, ma<br />

siete partiti male, troppi pensieri, troppe filosofie e poche<br />

cose… Noi siamo abituati a partire dai fatti, misurandoli in<br />

lungo e in largo: i pensieri e le filosofie vengono dopo…<br />

Facciamo così: continuate a giocare col Cumone per <strong>di</strong>vertimento,<br />

ma per le cose che contano facciamo l’accordo che<br />

vi ho proposto, i termini li conoscete, se non vi stanno bene<br />

si possono rivedere… Ci <strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amo i compiti: voi comprate<br />

tutto quello che trovate e noi ven<strong>di</strong>amo fuori… i<br />

guadagni si ripartiscono e Bakis potrà fare altre tavole con<br />

quello che si compra e si vende.<br />

Bakis <strong>di</strong>sse che ci avrebbero pensato. Alessio dormiva<br />

con la testa nascosta fra le braccia appoggiate sul tavolo.<br />

Lasciarono Orosei e ripartirono a cavallo <strong>di</strong>retti a Niniana.<br />

Bakis sembrava imbronciato. Alessio gli si affiancò e gli <strong>di</strong>sse:<br />

– Se parli ti fa bene.<br />

– Sto pensando ancora alle proposte dei genovesi, mi<br />

sembravano così sensate… Ancora adesso ci giurerei sopra…<br />

ma anche le cose che <strong>di</strong>cevi tu sono sensate e giuste… Sono<br />

confuso, è come se fossi ancora ubriaco… tra i fumi del vino<br />

mi sembrava <strong>di</strong> ragionare meglio.<br />

– Credevo ci fosse qualcosa <strong>di</strong> più serio.<br />

– Ti sembra poco? L’uomo si vede in queste cose.<br />

Anche Alessio aveva i suoi dubbi, le sue paure: quelle<br />

proposte erano un’insi<strong>di</strong>a e le temeva.<br />

– Questi genovesi, – <strong>di</strong>sse, – entrano come il sonno, se<br />

non stiamo attenti ci troviamo legati mani e pie<strong>di</strong> senza accorgercene<br />

–. Bakis scosse la testa e incitò il cavallo.<br />

Arrivarono a Niniana ch’era ancora giorno, dopo aver cavalcato<br />

per ore attraverso sentieri impervi. Fermarono i cavalli<br />

158<br />

vicino alle capanne. Nessuno li attendeva. Bakis prese in<br />

custo<strong>di</strong>a i cavalli e andò per conto suo in cerca <strong>di</strong> Nicolosa.<br />

Gli uomini e le donne che caricavano la legna sui carri si<br />

avvicinarono sorridendo. Ziu Kicu gettò via la berretta come<br />

se volesse acquistare più slancio e porgendo entrambe le<br />

mani <strong>di</strong>sse:<br />

– Alessio caro, come stai? –. Gli tremava la voce dall’emozione.<br />

Alessio lo rassicurò in<strong>di</strong>cando con le mani la conca e le<br />

colline, belle alla luce del tramonto. Ziu Kicu lo prese per<br />

un braccio.<br />

– Guarda, – gli <strong>di</strong>sse, – i semi stanno già cacciando i<br />

germogli, la prima collina è tutta spruzzata <strong>di</strong> verde.<br />

Alessio camminava lentamente, sollevando i pie<strong>di</strong> a fatica.<br />

– Non stai bene? – gli chiese ziu Kicu rabbuiandosi.<br />

– Abbiamo cavalcato per tre ore, sento solo un formicolio<br />

alle gambe. Non è nulla, scen<strong>di</strong>amo –. E si appoggiò al braccio<br />

<strong>di</strong> ziu Kicu che lo condusse fino ai pie<strong>di</strong> della prima collina.<br />

– I semi sono stati dosati con grande sapienza, ma anche<br />

noi abbiamo fatto la nostra parte, non avevo mai visto solchi<br />

così profon<strong>di</strong> –. I germogli erano tenerissimi, <strong>di</strong> appena un<br />

giorno, tutti a una sola foglia: <strong>di</strong>segnavano onde e vortici,<br />

come aveva voluto la mano <strong>di</strong> Palatosa. Alessio era commosso.<br />

Ogni tanto si guardava intorno, come se cercasse qualcuno.<br />

Ziu Kicu sorrise, e <strong>di</strong>stendendo la mano verso il passiale,<br />

in<strong>di</strong>cò un grande recinto <strong>di</strong> pietre che prima non c’era.<br />

– I ragazzi sono lì, con donna Pepparosa. Va’ solo, la sorpresa<br />

sarà più gra<strong>di</strong>ta –. Alessio si allontanò, sembrava muovesse<br />

meglio le gambe.<br />

Al centro del grande passiale, poco lontano dal fiume, si<br />

elevavano cumuli alti <strong>di</strong> pietre che chiudevano in un cerchio<br />

lo spiazzo destinato alla casa. Erano pietre senza forme definite,<br />

spesso tormentate da cavità profonde e ricoperte <strong>di</strong> muschio.<br />

Non portavano segni <strong>di</strong> tagli o scheggiature, come se la<br />

mano dell’uomo non le avesse mai sfiorate. Erano state raccolte<br />

qua e là e trasportate coi carri: ammassate in tanti mucchi<br />

davano l’idea <strong>di</strong> un’antica muraglia o <strong>di</strong> una rovina che<br />

conservasse poco o niente della primaria forma. Quella vista<br />

scosse profondamente Alessio, che dovette fermarsi sedendosi<br />

159


<strong>di</strong>etro una siepe ancora illuminata dal sole. Non era stanco,<br />

né sentiva alcun dolore: era preso da uno smarrimento, come<br />

se nella sua mente si accavallassero ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> cose viste in un<br />

altro tempo. Si accoccolò e chiuse gli occhi, come quando era<br />

bambino e gli piaceva ascoltare il vento al tepore del sole. Le<br />

voci che giungevano attraverso i varchi dei cumuli rendevano<br />

più vivi i ricor<strong>di</strong>: quel rudere riprendeva confusamente la sua<br />

antica forma <strong>di</strong> fortezza o <strong>di</strong> tempio e le voci parevano canti<br />

o preghiere. Tutto era stato già u<strong>di</strong>to e visto. Quando riaprì<br />

gli occhi la siepe era entrata nell’ombra. Si alzò e, attraverso<br />

un varco, entrò nel recinto. Pepparosa e i ragazzi erano seduti<br />

sulle pietre.<br />

– Alessio! – gridò Maureddu correndogli incontro. Anche<br />

gli altri levarono voci <strong>di</strong> festa. Pepparosa non si mosse.<br />

Alessio prese per mano Maureddu e le si avvicinò.<br />

– Non riesco a riavermi dallo stupore, – <strong>di</strong>sse, – qui dentro<br />

mi sento un frammento d’eternità –. Si sedette tenendo<br />

Maureddu fra le gambe e, come se stesse continuando un <strong>di</strong>scorso<br />

mai interrotto, riprese:<br />

– Queste pietre sono i segni <strong>di</strong> ciò ch’è stato in un altro<br />

tempo. La casa, le capanne, i semi che germogliano, le voci<br />

della gente…<br />

I ragazzi ascoltavano attenti, ma Alessio, sorridendo, come<br />

per farsi perdonare:<br />

– Che <strong>di</strong>scorsi vi sto facendo? Di che cosa parlavate?<br />

Sentivo le vostre voci.<br />

– Parlavamo anche noi <strong>di</strong> segni, – rispose Pepparosa.<br />

– I ragazzi sono tanto saggi che faccio fatica a seguirne i<br />

pensieri e le fantasie.<br />

– Stiamo imparando, guarda questo l’ho fatto io, – <strong>di</strong>sse<br />

Maureddu mostrando la tavoletta dove scrittura e <strong>di</strong>segno<br />

si accavallavano.<br />

– Quante cose sapete!<br />

– Ti dobbiamo <strong>di</strong>re una cosa, solo a Pepparosa l’abbiamo<br />

detta.<br />

I ragazzi facevano a gara a svelare il segreto del loro Cumone<br />

e del laboreddu. Comparvero Bakis e Nicolosa e fecero<br />

festa anche a loro. Bakis si avvicinò a Pauleddu e gli cinse<br />

la vita con le braccia <strong>di</strong>cendogli che lo sfidava a s’istrumpa.<br />

160<br />

– Anche a me, – chiesero a una voce gli altri ragazzi.<br />

– No, altrimenti mi copro <strong>di</strong> vergogna, – rispose Bakis<br />

in segno <strong>di</strong> resa. Dentro il recinto c’era buio ora, per riconoscersi<br />

si toccavano. Pepparosa era vicino ad Alessio, ne sentiva<br />

il respiro.<br />

– Grazie – le sussurrò lui sfiorandole il viso quasi.<br />

– Con i ragazzi parliamo tanto <strong>di</strong> te, – gli <strong>di</strong>sse Pepparosa<br />

a mezza voce.<br />

– Io penso sempre a voi, a te… –. Alessio si fermò, come<br />

se affidasse a quella pausa tutto il resto che non riusciva<br />

a <strong>di</strong>re.<br />

Lei attendeva, che cosa non lo sapeva, forse che lui parlasse<br />

ancora, che le <strong>di</strong>cesse un’altra volta grazie. Maureddu<br />

chiamò Alessio, propose che tutti restassero nel recinto per<br />

vedere da dove usciva la luce all’alba.<br />

– Io ci sto, – <strong>di</strong>sse Bakis, – portiamo le stuoie, qui il freddo<br />

non si sente –. I ragazzi contenti gridavano e ballavano.<br />

Anche Pepparosa avrebbe voluto attendere l’alba spiando<br />

il cielo attraverso i varchi della muraglia, ma non <strong>di</strong>sse<br />

niente.<br />

– Io non posso, – <strong>di</strong>sse Alessio con rimpianto, – restate<br />

voi, poi mi <strong>di</strong>rete come sorge l’alba fra le rovine. Credo che<br />

neanche Bakis possa rimanere, dobbiamo andare a Molas<br />

insieme questa notte e domani salire sui monti. Non c’è più<br />

tempo. Insieme attenderemo un’altra alba quando rientreremo<br />

da Cagliari.<br />

– Oggi era bello, – <strong>di</strong>sse Pauleddu quasi piangendo.<br />

– E se non può, non può, – ribatté Maureddu. Pepparosa<br />

per riconciliarli <strong>di</strong>sse che l’alba l’avrebbero attesa davanti<br />

alle capanne.<br />

Uscirono tutti. Fuori c’era più luce. Maureddu felice<br />

stringeva le mani <strong>di</strong> Pepparosa e <strong>di</strong> Alessio: quella <strong>di</strong> Alessio<br />

era fredda, come se la vita non vi pulsasse più e inutilmente<br />

lui cercava <strong>di</strong> riscaldarla stringendola forte.<br />

– Ti fa impressione? – chiese sottovoce Alessio. <strong>Il</strong> ragazzo<br />

non rispose, appoggiò la testa al braccio <strong>di</strong> lui, come se<br />

solo in quel modo potesse far capire ciò che sentiva. Trovarono<br />

gli altri attorno al fuoco. I carri erano pronti per il<br />

rientro a Orvine, vi avevano caricato la legna e gli attrezzi e<br />

161


li avevano avvicinati alle capanne. Era stato già deciso chi<br />

doveva restare a Niniana per gli altri lavori e per la casa.<br />

Alessio <strong>di</strong>sse a Pepparosa che il lavoro coi ragazzi avrebbe<br />

dovuto continuarlo a Orvine.<br />

– Ci sono anche gli altri ragazzi e le ragazze… Ne parleremo<br />

un altro momento… Sono così contento…<br />

– Cerco <strong>di</strong> dare vita alle idee che tu hai suggerito – gli<br />

<strong>di</strong>sse Pepparosa. Alessio sorrise e montò a cavallo aiutato da<br />

ziu Kicu. Non sembrava più notte, i visi <strong>di</strong> tutti erano illuminati,<br />

forse dal fuoco che aveva le fiamme alte o forse dal chiarore<br />

delle stelle. Tutti mandarono un saluto ad Alessio e Bakis.<br />

– Andate piano, – raccomandò ziu Kicu. Anche Pepparosa<br />

sollevò la mano stringendo a sé Maureddu. Bakis e<br />

Alessio si voltavano ogni tanto poi scomparvero tra le siepi<br />

che impe<strong>di</strong>vano <strong>di</strong> vedere la conca. Usciti da Niniana i cavalli<br />

imboccarono sicuri il tortuoso sentiero che a tratti<br />

sprofondava tra i macchioni <strong>di</strong> mirto e <strong>di</strong> lentischio. Alessio<br />

ogni tanto incitava il cavallo, voleva arrivare presto a Molas,<br />

ch’era sull’altro versante del ripido costone. Sentiva che il<br />

tempo, il suo tempo, si consumava inesorabilmente e non<br />

bastava per tutte le cose che restavano da fare. Fra due giorni<br />

doveva recarsi a Cagliari ed era il viaggio che lo preoccupava<br />

perché temeva il ritorno dei dolori alle gambe e alle<br />

mani. Ma bisognava andare. Tentavano <strong>di</strong> parlare, ma i loro<br />

<strong>di</strong>scorsi s’interrompevano perché il sentiero, restringendosi<br />

improvvisamente fra siepi altissime, costringeva i cavalli a<br />

passare uno dopo l’altro, <strong>di</strong>stanziati.<br />

– Ti è <strong>di</strong>spiaciuto lasciare Niniana? – chiese Alessio.<br />

Bakis aveva un’aria triste, rispose qualcosa, ma il fruscio delle<br />

siepi si sovrapponeva alle parole.<br />

– Dicevo, – riprese quando Alessio gli si accostò, – che<br />

sarebbe stato bello restare tutta la notte fra quelle pietre e<br />

giocare coi ragazzi e… con Nicolosa… Mi ero quasi scordato<br />

<strong>di</strong> tutto il resto –. Ci furono altre siepi, altri fruscii, altre<br />

parole dette e non u<strong>di</strong>te.<br />

– …A te non piaceva stare fra le pietre?<br />

Alessio gli andò a ridosso col suo cavallo e gli gridò:<br />

– Sono andato via col pianto nel cuore… Non vedrò<br />

mai un’alba così.<br />

162<br />

– Sembrava non t’importasse niente.<br />

– Bisognava convincere i ragazzi.<br />

– <strong>Il</strong> Cumone tutto ti dà e tutto ti toglie – commentò<br />

Bakis, compiaciuto <strong>di</strong> quella de<strong>di</strong>zione. Cavalcarono tutta la<br />

notte fino a Molas e poi fino a Nurthole; l’indomani all’alba<br />

salirono sui monti e sotto i lecci delle ghiande incontrarono i<br />

pastori con i quali parlarono delle greggi che figliavano, delle<br />

capanne che avevano costruito, del caseificio che stavano costruendo<br />

e dei pascoli rigogliosi ripuliti dai sassi e dagli sterpi.<br />

A sera rientrarono a Orvine. Alessio aveva un indolenzimento<br />

alle gambe, ma si fece un lungo pe<strong>di</strong>luvio e preparò<br />

altre erbe dentro un recipiente <strong>di</strong> sughero per portarsele a<br />

Cagliari.<br />

163


XX<br />

Cagliari era così lontana che la gente <strong>di</strong> Orvine non riusciva<br />

a raggiungerla neanche col pensiero. Nessun pastore e<br />

nessun conta<strong>di</strong>no c’era mai stato, però ciascuno nella sua vita<br />

ne sentiva parlare e ne parlava come <strong>di</strong> qualcosa d’indefinito<br />

che poteva essere un luogo al <strong>di</strong> là dei monti e del mare,<br />

un’immensa caserma, una prigione oppure una fortezza; così<br />

l’idea <strong>di</strong> Cagliari si confondeva con l’idea del viceré, del re,<br />

della Spagna, del Piemonte, delle magie <strong>di</strong> don Satta, <strong>di</strong> tutto<br />

ciò da cui poteva venir male e da cui bisognava <strong>di</strong>fendersi.<br />

– Me la figuravo <strong>di</strong>versa questa Cagliari, – <strong>di</strong>ceva Bakis<br />

mentre saliva le ripide scalette dei vicoli stretti che portavano<br />

al palazzo del viceré.<br />

– Guarda, – in<strong>di</strong>cava ad Alessio, – le case sono misere<br />

come le nostre. Anzi, a sentire quest’odore, sembrano ancora<br />

più povere –. E si meravigliava ancora perché uomini e<br />

donne, seduti davanti alle porticine, erano scalzi e carichi <strong>di</strong><br />

mosche come vecchi buoi sfiancati.<br />

– Credevo che i casteddajos fossero tutti signori con la<br />

carrozza, o soldati, o preti.<br />

Durante i due giorni <strong>di</strong> viaggio Bakis aveva osservato i<br />

luoghi cercando il <strong>di</strong>stacco tra il mondo che lui già conosceva<br />

e Casteddu; invece paesi e campi erano uno la continuazione<br />

dell’altro, le varietà quando c’erano sembravano confermare<br />

la continuità, i paesi erano tutti egualmente soli in<br />

mezzo a quelle <strong>di</strong>stese <strong>di</strong> pascoli e <strong>di</strong> boschi, la gente guardava<br />

con <strong>di</strong>ffidenza i forestieri, e le terre coltivate erano poche,<br />

mentre molte erano le pecore che si muovevano in piccoli<br />

branchi condotti da pastori solitari. Cagliari non era che<br />

una continuazione, come se tutto dovesse confluire per necessità<br />

in quelle case basse, in quei vicoletti sporchi, in quella<br />

gente stanca <strong>di</strong> non far niente. Alla fine <strong>di</strong> ogni scaletta si<br />

apriva uno spiazzo quasi per far prendere respiro alla città; le<br />

case erano alte, a più piani, tinteggiate all’esterno con colori<br />

164<br />

teneri che sembravano riflettere il mare; la gente, quelle poche<br />

persone che si potevano vedere, aveva qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso<br />

nei gesti, nell’espressione del viso, nel vestire; e non c’erano<br />

mosche. Attraverso altri vicoletti e altre scalette si saliva<br />

ancora e s’incontravano spiazzi più larghi e case che sembravano<br />

fortezze; non si vedeva più nessuno davanti ai portoni<br />

chiusi, o nelle strade. Tutto ciò <strong>di</strong>sorientava Bakis che ora<br />

credeva <strong>di</strong> trovare quello stacco che aveva cercato prima, ma<br />

non riusciva a capire. Alessio gli <strong>di</strong>ceva che anch’egli la prima<br />

volta ch’era venuto a Cagliari era rimasto <strong>di</strong>sorientato,<br />

ma che tutto aveva un senso e che la storia della città si poteva<br />

leggere in quei vicoli, in quelle scalette, in quelle case<br />

che si alzavano man mano che si saliva.<br />

– È una città con tante anime, fatta a strati, – <strong>di</strong>ceva ancora,<br />

– in alto sono arroccati i signori, come <strong>di</strong>cevi tu, che<br />

gravitano attorno alla corte, in basso vi sono gli altri, gente<br />

senza mestiere che vive alla giornata –. Alessio faticava a salire,<br />

sentiva una spossatezza che ogni tanto lo costringeva ad<br />

appoggiarsi al braccio <strong>di</strong> Bakis.<br />

– Queste scalette non sono mai servite a <strong>di</strong>fendere: spagnoli,<br />

pisani, piemontesi non hanno avuto <strong>di</strong>fficoltà a salire<br />

fino al castello, accolti via via come liberatori; i vicoli stretti<br />

e le scalette sono serviti e servono ancora a <strong>di</strong>stinguere e separare.<br />

I bottegai, i pescatori, gli artigiani non salgono, non<br />

possono salire, sale ciò ch’essi producono, come tanti rivoli<br />

che innaturalmente scorrono in su.<br />

Bakis <strong>di</strong>ceva che non era giusto, che ci si doveva ribellare,<br />

tutti uniti, quelli delle case basse potevano vincere i signori<br />

delle case alte.<br />

– Perché non fanno un Cumone? – chiese. – Forse non<br />

ci hanno pensato.<br />

Alessio <strong>di</strong>sse che i casteddajos avevano la mentalità dei<br />

mercanti, avevano sempre venduto e comprato senza badare<br />

alla controparte; cartaginesi, pisani, spagnoli, piemontesi…<br />

tutti andavano bene, purché si potesse mercanteggiare.<br />

– Manca un ideale comune, ciascuno è prigioniero del<br />

suo piccolo tornaconto e non si cura d’altro.<br />

Videro le torri pisane, il bastione, altre case alte <strong>di</strong> nobili<br />

e arrivarono alla grande piazza antistante il palazzo del viceré.<br />

165


Bakis non aveva mai visto una casa così grande e neppure se<br />

l’era mai immaginata.<br />

– Ci può stare la gente <strong>di</strong> un intero paese, – <strong>di</strong>sse fermandosi<br />

a guardare. Gli piacevano quelle finestre tutte<br />

uguali, in fila che una non usciva dall’altra, quel bel colore<br />

giallo a fasce bianche della facciata e quei portoni gran<strong>di</strong> nei<br />

quali potevano entrare due carri appaiati. Chiese chi ci abitava<br />

e Alessio gli elencò gli uffici e le personalità, partendo<br />

dal viceré. Davanti a un grande portone furono fermati dalle<br />

guar<strong>di</strong>e che volevano sapere dove andavano. Alessio <strong>di</strong>sse<br />

che dovevano parlare col viceré e mostrò la lettera. <strong>Il</strong> capo<br />

delle guar<strong>di</strong>e lesse con <strong>di</strong>ffidenza.<br />

– È una comunicazione d’u<strong>di</strong>enza, riguarda solo Biote<br />

Alessio, chi è?<br />

– Sono io, ma la ragione dell’u<strong>di</strong>enza riguarda entrambi.<br />

– Può entrare solo Biote Alessio, l’altro si deve allontanare,<br />

non è permesso.<br />

– Posso aspettare almeno fuori? – chiese Bakis.<br />

– Sì, ma in fondo, il passaggio dev’essere libero.<br />

Alessio seguì il capo delle guar<strong>di</strong>e che attraverso uno scalone<br />

<strong>di</strong> marmo lo condusse al piano <strong>di</strong> sopra e lo affidò ad altre<br />

guar<strong>di</strong>e che si <strong>di</strong>stinguevano solo per il colore <strong>di</strong>verso della<br />

<strong>di</strong>visa. Anche qui Alessio mostrò il foglio, ma quelli non si<br />

accontentarono, le u<strong>di</strong>enze del viceré in persona erano rare,<br />

venivano accordate solo a personalità <strong>di</strong> spicco. Nel foglio <strong>di</strong><br />

Alessio c’era la firma del conte de Viry e c’erano anche i timbri,<br />

ma questo non era sufficiente per introdurre il primo venuto<br />

dal viceré. Bisognava pur decidere e per scaricarsi da<br />

ogni responsabilità condussero Alessio attraverso un lunghissimo<br />

corridoio tappezzato con quadri e specchi dalle cornici<br />

dorate. In fondo sostava un’altra guar<strong>di</strong>a la cui <strong>di</strong>visa era arricchita<br />

da galloni e cordoni dorati che scendevano dalla spalla<br />

sinistra. Era il cameriere particolare del conte de Viry che<br />

prese in consegna Alessio e il foglio. Non ci furono domande.<br />

– Attenda un momento – <strong>di</strong>sse molto serio e s’inoltrò<br />

per un altro corridoio più largo del primo. Alessio non dovette<br />

attendere molto, fu subito accompagnato dal conte il<br />

quale <strong>di</strong>stendendo la mano con sufficiente cor<strong>di</strong>alità gli <strong>di</strong>sse:<br />

– Ci rive<strong>di</strong>amo prima <strong>di</strong> quanto pensassi.<br />

166<br />

– Si è voluto compiacere <strong>di</strong> chiamarmi.<br />

– Non io, il viceré – precisò il conte, invitando Alessio a<br />

sedersi su uno dei <strong>di</strong>vani che arredavano la sala; lui rimase<br />

in pie<strong>di</strong> e andava avanti e in<strong>di</strong>etro, elegantissimo nella sua<br />

splen<strong>di</strong>da <strong>di</strong>visa <strong>di</strong> alto ufficiale piemontese. Quella grande<br />

sala arredata in stile Luigi XIV restituiva al conte tutta la regalità<br />

che le povere case <strong>di</strong> Orvine e la pur <strong>di</strong>gnitosa casa <strong>di</strong><br />

don Satta non avevano potuto dargli. Si muoveva fra i ritratti:<br />

due Carlo Alberto, uno a cavallo che voleva effigiare il<br />

condottiero indomito e uno, rarissimo, in atteggiamento<br />

me<strong>di</strong>tativo che voleva tramandare ai posteri il sovrano pensatore;<br />

un Carlo Felice, con un’espressione severa, quasi feroce,<br />

come lo ricordavano quelli che l’avevano conosciuto e<br />

quelli che ne avevano sentito parlare; altri personaggi, tutti<br />

ugualmente importanti nella storia del Piemonte.<br />

– Abbiamo un <strong>di</strong>scorso in sospeso, – <strong>di</strong>sse il conte fermandosi<br />

davanti ad Alessio con la posizione <strong>di</strong> avvio che<br />

assumeva quando tirava <strong>di</strong> scherma.<br />

– Quella sua petizione o istanza o rapporto, insomma lo<br />

scritto che ha mandato, <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile classificazione come genere…<br />

– È un rapporto su ciò che inten<strong>di</strong>amo fare nel rispetto<br />

delle leggi… – chiarì Alessio che voleva rassicurare il suo interlocutore<br />

sul carattere pacifico delle iniziative del Cumone.<br />

– In tutta questa storia vi è una certa originalità che incuriosisce,<br />

– <strong>di</strong>sse il conte. Si fermò <strong>di</strong> colpo davanti al ritratto<br />

<strong>di</strong> Carlo Felice e continuò:<br />

– Legalità…? <strong>Il</strong> vostro Cumone, il suo Cumone è un<br />

tentativo per sovvertire dalle fondamenta il nostro or<strong>di</strong>namento<br />

politico, eppure viene presentato come il fatto più<br />

innocuo <strong>di</strong> questo mondo, voluto, sollecitato quasi dalle<br />

leggi… Qui sta l’inganno o se vuole l’equivoco.<br />

Riprese a camminare e anche Alessio si alzò.<br />

– <strong>Il</strong> Cumone scaturisce da una situazione <strong>di</strong>sperata.<br />

Nessun proposito sovversivo, solo un tentativo <strong>di</strong> organizzare<br />

<strong>di</strong>versamente la vita <strong>di</strong> una comunità <strong>di</strong>sgregata dall’ignoranza,<br />

dalle superstizioni, dalla miseria e dalle rivalità artificiose.<br />

Nessun equivoco, ciò che il Cumone vuole fare è nello<br />

spirito delle leggi che ci governano. Se la vita delle nostre<br />

167


genti sarà fondata su forme comunitarie, le leggi si evolveranno<br />

naturalmente, senza sconvolgimenti, senza violenze,<br />

senza contrapposizioni. Coloro che hanno responsabilità <strong>di</strong><br />

governo dovrebbero temere il ristagno, che cova violenze e<br />

rotture incontrollabili, non un tentativo così onesto che nasce<br />

dalle cose. <strong>Il</strong> nostro Cumone ha gettato un seme nuovo:<br />

sono state coltivate terre abbandonate da secoli, sono stati ricomposti<br />

greggi secondo principi <strong>di</strong> maggiore economicità,<br />

è stato creato qualcosa che accomuna le speranze <strong>di</strong> tutti.<br />

Alessio parlava con calma, il contegno era <strong>di</strong>gnitoso. <strong>Il</strong><br />

conte con un’espressione molto seria, <strong>di</strong>sse:<br />

– <strong>Il</strong> Cumone poteva essere un’idea buona in un’epoca<br />

passata, forse lo potrà essere in un’epoca a venire, oggi no.<br />

È un’idea <strong>di</strong>sgregatrice. Oggi tutto tende a unire non a <strong>di</strong>videre.<br />

<strong>Il</strong> problema dei problemi è ricomporre le membra <strong>di</strong><br />

quest’Italia così frantumata, ogni deviazione, qualunque sia<br />

l’inten<strong>di</strong>mento, si paga a caro prezzo. Quando l’Italia sarà<br />

unita, quando si saranno consolidate le istituzioni, quando si<br />

sarà creata quell’uniformità per una pacifica convivenza si<br />

potranno consentire le articolazioni dettate dalle esigenze<br />

ambientali –. <strong>Il</strong> conte non aveva più niente dell’aria svagata e<br />

frivola che l’aveva accompagnato a Orvine; con quell’espressione<br />

severa e quei gesti decisi sembrava un altro, come se la<br />

sicurezza gli derivasse dallo stare in quel luogo, con quella <strong>di</strong>visa,<br />

protetto e servito da guar<strong>di</strong>e e camerieri.<br />

Dalla strada provenivano voci, come <strong>di</strong> folla in tumulto.<br />

<strong>Il</strong> conte tese le orecchie per un momento poi si rassicurò e<br />

continuò a camminare scrutando Alessio ogni tanto, il quale<br />

<strong>di</strong>sse:<br />

– Quella che scende dall’alto è solo una parvenza d’unità.<br />

– Le eresie non si possono <strong>di</strong>scutere, eppure io ho parlato<br />

con lei del Cumone… <strong>Il</strong> suo punto <strong>di</strong> vista è angusto,<br />

com’è angusto Orvine. <strong>Il</strong> regio governo ha bisogno <strong>di</strong> menti<br />

sveglie. Se vuole riformare venga qui a Cagliari o a Torino,<br />

potrà dare contenuti più concreti alle sue idee, avrà <strong>di</strong> fronte<br />

non uno sperduto villaggio <strong>di</strong> montagna, ma l’Italia intera,<br />

l’Europa, il mondo…<br />

I clamori della folla ora rintronavano nella sala. Anche<br />

168<br />

dal corridoio provenivano passi affrettati e voci. <strong>Il</strong> conte aprì<br />

la porta e si trovò <strong>di</strong> fronte il suo cameriere privato il quale<br />

concitatamente cercò <strong>di</strong> <strong>di</strong>rgli che lo cercava il viceré.<br />

– Cosa vuole ancora questo buon uomo, – <strong>di</strong>sse il conte<br />

che non appariva preoccupato per tutto quel fracasso che<br />

proveniva dalla piazza.<br />

– Attenda, – <strong>di</strong>sse ad Alessio e uscì deciso.<br />

<strong>Il</strong> cameriere lo mise al corrente <strong>di</strong> ciò che accadeva: nella<br />

piazza c’era tanta gente, studenti per lo più, che gridavano<br />

“fuori il viceré” e altre frasi del genere, le guar<strong>di</strong>e non erano<br />

riuscite a <strong>di</strong>sperdere l’assembramento, negli uffici erano impauriti,<br />

si temeva una sommossa. <strong>Il</strong> conte percorreva a passo<br />

svelto il corridoio e percepiva chiare voci della folla che sembravano<br />

acclamare qualcuno più che minacciare. Entrò nella<br />

sala del viceré e lo trovò attorniato da segretari, comandanti<br />

militari, giu<strong>di</strong>ci e vescovi: avevano tutti un’aria molto seria,<br />

come se ciascuno fosse lì per una <strong>di</strong>fesa a costo della propria<br />

vita. <strong>Il</strong> viceré gli andò incontro.<br />

– Hai sentito? – <strong>di</strong>sse in<strong>di</strong>gnato, – mi vogliono cacciare,<br />

a questo approda la fusione…<br />

– Sì, ho sentito, – rispose il conte infasti<strong>di</strong>to dall’incomprensione<br />

del viceré, – ti acclamano, vogliono vederti, sentirti.<br />

Affacciati al balcone e parla, <strong>di</strong>’ che intercederai presso<br />

il sovrano perché riceva la delegazione che dovrà portare la<br />

petizione e invita tutti alla calma e alla moderazione.<br />

Nella sala erano rimasti soli, gli altri erano usciti uno<br />

alla volta, <strong>di</strong>scretamente.<br />

– Tu sapevi? – chiese <strong>di</strong>ffidente il viceré.<br />

– Era da prevedere, la città è in fermento da tre giorni.<br />

– Non posso sbilanciarmi, – <strong>di</strong>sse il viceré in<strong>di</strong>spettito,<br />

– io non la voglio la fusione.<br />

– La devi subire – gli rispose freddo il conte sospingendolo<br />

fuori. <strong>Il</strong> viceré cercò <strong>di</strong> resistere ancora, caparbiamente, ma<br />

poi udendo le voci e i fischi che salivano dalla piazza si avviò<br />

al balcone. Prima <strong>di</strong> varcare la soglia della porta finestra si<br />

voltò e con un gesto fece capire che non voleva restare solo.<br />

<strong>Il</strong> conte lo rassicurò con un cenno della testa e lui si affacciò al<br />

balcone accolto da applausi ed evviva che lo <strong>di</strong>sorientarono.<br />

169


XXI<br />

L’insicurezza e la <strong>di</strong>ffidenza rendevano il viceré sempre<br />

più apprensivo: un richiamo della corte <strong>di</strong> Torino, una richiesta<br />

dei baroni o dei vescovi, la notizia <strong>di</strong> malcontenti all’interno<br />

gli toglievano il buonumore e il sonno, e ci voleva<br />

tutta l’autorità del conte de Viry per placarlo. Perfino il rapporto<br />

<strong>di</strong> Alessio era stato causa <strong>di</strong> preoccupazioni e <strong>di</strong> paure:<br />

aveva letto affrettatamente, aveva intuito che si voleva cambiare<br />

qualcosa e aveva detto:<br />

– Anche i pastori avanzano pretese. Dove andremo a finire?<br />

Ci vorrebbero cento teste per tenere <strong>di</strong>etro a tutto questo<br />

groviglio <strong>di</strong> cose.<br />

<strong>Il</strong> conte lo aveva rassicurato promettendogli che avrebbe<br />

convocato l’autore del rapporto per sapere che cosa i pastori<br />

e i conta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> quel villaggio volessero fare.<br />

– Ve<strong>di</strong>tela tu, non ho pazienza per queste cose – aveva<br />

troncato il viceré, il quale sognava che tutte le giornate potessero<br />

scorrere con lo stesso ritmo, senza novità, né complicazioni,<br />

in cui il maggiore impegno fosse dato dalla firma dei<br />

pregoni che pre<strong>di</strong>sponevano i suoi consiglieri e che lui leggeva<br />

con meticolosità, godendo quando poteva apportare una<br />

qualche variazione anche se si trattava <strong>di</strong> una semplice virgola.<br />

Pur avendo molti limiti come politico, egli riusciva a percepire<br />

tutto ciò che toccava i suoi interessi personali. Così,<br />

con tenacia insospettata, aveva avversato tutto il lavorio condotto<br />

dal conte per la fusione, assecondato in questo dall’apparato<br />

burocratico che gli stava attorno, preoccupato anch’esso<br />

che lo smantellamento <strong>di</strong> uffici, segreterie, corti alte e<br />

basse comportasse un declassamento <strong>di</strong> funzioni, se non il<br />

trasferimento ad altri incarichi <strong>di</strong> minor prestigio. <strong>Il</strong> conte,<br />

senza mai apparire, in pieno accordo con la corte <strong>di</strong> Torino,<br />

aveva mobilitato la stampa, ed erano scesi in campo gli uomini<br />

<strong>di</strong> maggior spicco per sollevare l’opinione a sostegno dell’unione,<br />

parificazione, perfetta fusione come volta a volta<br />

170<br />

veniva chiamata. Uguale lavorio il conte aveva condotto con<br />

la prima voce dello stamento militare e dello stamento religioso<br />

e anche con gli alti funzionari viceregi, ai quali aveva<br />

in<strong>di</strong>cato la possibilità <strong>di</strong> accedere a incarichi molto più importanti<br />

negli stati <strong>di</strong> terraferma. Nessuna <strong>di</strong> quelle illustri<br />

personalità aveva colto il nocciolo politico della questione<br />

che il conte con lungimiranza aveva saputo impostare. La fusione<br />

della <strong>Sardegna</strong> con gli stati <strong>di</strong> terraferma, in<strong>di</strong>pendentemente<br />

dai vantaggi o svantaggi per le popolazioni dell’isola,<br />

che costituivano aspetti particolari, doveva affermare il principio<br />

della annessione che, in forme e tempi <strong>di</strong>versi, sarebbe<br />

stato esteso agli altri stati che dovevano concorrere a formare<br />

l’unità d’Italia. <strong>Il</strong> viceré aveva colto altro: l’abolizione dell’autonomia<br />

prevista dal trattato <strong>di</strong> Londra del 1718 avrebbe<br />

comportato l’abolizione del vicereame e quin<strong>di</strong> la sua definitiva<br />

liquidazione. Aveva fatto resistenza, si era recato a Torino<br />

per scoraggiare quella pazzia che stava prendendo tutti, aveva<br />

in<strong>di</strong>cato le complicazioni internazionali per la violazione del<br />

trattato <strong>di</strong> Londra, ma ora <strong>di</strong> fronte alla folla che gridava<br />

“fuori il viceré” si dovette arrendere e parlò mettendo insieme<br />

poche parole che bastarono ad appagare le illusioni <strong>di</strong><br />

quella gente che si attendeva chissà quali mutamenti.<br />

Rientrò molto agitato:<br />

– Li ho placati… Ho promesso… Per la mia rovina –<br />

<strong>di</strong>sse gesticolando. Poi, con tono <strong>di</strong> rimprovero, continuò:<br />

– Mi hai condotto tu a questo passo estremo, con le tue<br />

mene, che non possono finire bene… Sarai contento finalmente!<br />

<strong>Il</strong> conte lo lasciò sfogare poi gli <strong>di</strong>sse:<br />

– Non si tratta <strong>di</strong> rovinare nessuno. Abbiamo gettato le<br />

premesse per rafforzare lo stato piemontese. Si aboliscano<br />

pure i viceré, residuo <strong>di</strong> concezioni superate e per giunta<br />

non nostre, quando il Piemonte si sarà annesso tutti gli altri<br />

territori le funzioni <strong>di</strong> governo saranno più complesse e allora<br />

si avrà bisogno <strong>di</strong> tutti i talenti… Ci sarà spazio anche<br />

per te; stai tranquillo.<br />

<strong>Il</strong> viceré scuoteva la testa.<br />

– Ora cosa dobbiamo fare?<br />

<strong>Il</strong> conte lo rassicurò:<br />

171


– È tutto pre<strong>di</strong>sposto, più tar<strong>di</strong> ti riferirò. Nella mia<br />

stanza c’è l’autore <strong>di</strong> quello strano rapporto su quel paese<br />

della Barbagia, lo vuoi sentire?<br />

– Ci manca proprio lui! Ve<strong>di</strong>tela tu. Digli che se ne stia<br />

buono, almeno per il tempo che ancora ci starò io… Non<br />

so, frenalo, minaccialo, imprigionalo, purché non crei altri<br />

fasti<strong>di</strong>.<br />

– È un giovane pieno d’idee, non lo puoi liquidare così.<br />

– Anche tu sei pieno d’idee, tutti siete pieni d’idee, ma io<br />

voglio vivere in pace –. E scuotendo la testa si ritirò nei suoi<br />

appartamenti. <strong>Il</strong> conte sorrise. Fra lui e il viceré, nonostante<br />

la <strong>di</strong>versità <strong>di</strong> temperamento, si era creata una certa intesa<br />

che, a parte qualche scontro sempre contenuto, durava da<br />

molto tempo. <strong>Il</strong> viceré si accontentava <strong>di</strong> apparire il reggitore<br />

del governo sardo, il conte era pago <strong>di</strong> esserlo nei fatti.<br />

– Ha sentito? – chiese il conte ad Alessio quando rientrò<br />

nella sala. – Qui gridano per essere parificati in tutto ai sud<strong>di</strong>ti<br />

<strong>di</strong> terraferma, voi chiedete <strong>di</strong> governarvi da soli… Governare<br />

non è facile. <strong>Il</strong> vostro Cumone è nato nel momento<br />

peggiore… Non può avere vita lunga, è un parto prematuro<br />

o forse ritardato.<br />

Alessio <strong>di</strong>sse che aveva guardato dalla finestra del corridoio<br />

e aveva visto tanta gente che si agitava, non aveva sentito<br />

ciò che gridavano; era convinto però che a parte le apparenze<br />

una stessa necessità aveva spinto quei giovani sulla<br />

piazza e i conta<strong>di</strong>ni e i pastori a unirsi nel Cumone.<br />

– Molte cose potrebbero semplificarsi se si cogliessero<br />

gli umori che salgono dal basso e si riuscisse a capire che il<br />

governare tocca uomini che pensano e sentono.<br />

<strong>Il</strong> conte andò a sedersi su un <strong>di</strong>vano e invitò Alessio al<br />

suo fianco. Sollevò la testa e guardando gli stucchi che incorniciavano<br />

gli affreschi del soffitto, quasi a trarre ispirazione<br />

da quei cieli finti, riprese:<br />

– Tutto rende attuale la mia proposta <strong>di</strong> poco fa. Dalla<br />

sua idea del Cumone forse c’è qualcosa da recuperare. Si tratta<br />

<strong>di</strong> darle respiro più ampio, svilupparla in modo sistematico,<br />

universalizzarla –. Guardò Alessio e sorridendo continuò:<br />

– Nessuno meglio <strong>di</strong> lei può compiere tutto ciò. Esca<br />

dalla <strong>Sardegna</strong>, venga con me a Torino, la metterò a capo <strong>di</strong><br />

172<br />

un nuovo ufficio che dovrà coor<strong>di</strong>nare gli stu<strong>di</strong> e le riforme<br />

per rendere più agevole l’assimilazione dei sar<strong>di</strong> agli altri<br />

sud<strong>di</strong>ti. <strong>Il</strong> Cumone sarà la prima riforma e sarà lei a stu<strong>di</strong>arne<br />

i mo<strong>di</strong> e i tempi <strong>di</strong> realizzazione. Non sarà solo, sarà affiancato<br />

da economisti, giuristi, tecnici… Una schiera <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>ssimi<br />

collaboratori: tutto si compirà nel migliore dei mo<strong>di</strong>.<br />

Non si sorprenda <strong>di</strong> questa mia insistenza, voglio premiare<br />

la sua coerenza –. <strong>Il</strong> conte era sincero, anche se aveva qualche<br />

riserva: stimava Alessio e anche l’idea del Cumone forse<br />

poteva suggerire qualcosa da fare per equilibrare gli scompensi<br />

che l’annessione, come lui la chiamava, avrebbe necessariamente<br />

comportato. Era convinto, inoltre, che Alessio avesse<br />

sangue aristocratico nelle vene, forse era il bastardo <strong>di</strong> qualche<br />

nobile, non si spiegava altrimenti quel vigore intellettuale.<br />

Nobile o plebeo, non aveva più scampo, gli aveva teso una<br />

trappola e doveva abboccare. A Torino ci avrebbe pensato<br />

l’apparato a renderlo innocuo.<br />

Alessio non sembrava meravigliato <strong>di</strong> quella proposta.<br />

Intuì subito che lo volevano sra<strong>di</strong>care da Orvine, allontanarlo<br />

dai pastori e dai conta<strong>di</strong>ni. <strong>Il</strong> conte si alzò e non sollecitò<br />

la risposta, alla quale anzi sembrava non dare più tanto peso.<br />

Alessio per riguardo gli andò appresso.<br />

– Tutto nasce da un equivoco. Le idee del rapporto non<br />

sono mie, io ho solo raccolto ciò che pensa e spera la gente<br />

del mio paese. <strong>Il</strong> Cumone è nato dopo lunghe <strong>di</strong>scussioni.<br />

Se mi toglie da Orvine, se mi strappa ai pastori e ai conta<strong>di</strong>ni,<br />

io non ho più idee.<br />

<strong>Il</strong> conte era contrariato.<br />

– Non deve confondere la buona <strong>di</strong>sposizione con la paura.<br />

<strong>Il</strong> Cumone non mi preoccupa affatto, se voglio lo <strong>di</strong>sperdo<br />

in un attimo, senza che ne rimanga traccia. Lei rifiuta la mia<br />

proposta e allora non credo abbia da <strong>di</strong>rle altro. Ho ricevuto<br />

un altro rapporto da Orvine, forse più concreto del suo. Lei<br />

sa che il rettore Satta non vuole il Cumone e vuole la fusione.<br />

È stato lui l’animatore delle gran<strong>di</strong>ose manifestazioni che dalla<br />

Barbagia sono <strong>di</strong>lagate a Sassari, a Tortolì e a Cagliari. Io<br />

non spendo più una parola, il Cumone dovrà fare i conti col<br />

rettore che ha autorità e potere sufficienti per <strong>di</strong>struggerlo. Allora<br />

non sarà più valida la mia offerta. Anzi, tenga presente<br />

173


che col suo rifiuto lei ha sfidato il governo centrale che reprimerà<br />

senza pietà qualsiasi violazione delle leggi. Stia attento,<br />

ci vuole molto poco a violare le leggi –. Alessio rispose ch’era<br />

già preparato a tutto e prima <strong>di</strong> andarsene volle <strong>di</strong>re che il<br />

Cumone non avrebbe pagato le decime, né gli altri tributi, la<br />

popolazione <strong>di</strong> Orvine era all’estremo, non aveva più pane, né<br />

alcun altro alimento, c’erano solo debiti.<br />

– I tributi sono dovuti, ci penseranno gli esattori a riscuoterli.<br />

– Chiedo una tolleranza, la scarsa annata può giustificarla.<br />

– Dovrei concederla a tutti gli altri paesi e ciò non è<br />

possibile, il regio governo deve fronteggiare spese inderogabili<br />

nell’interesse <strong>di</strong> tutti i sud<strong>di</strong>ti.<br />

– Troverà l’intera comunità decisa a <strong>di</strong>fendere il <strong>di</strong>ritto<br />

alla sopravvivenza.<br />

– Queste sono minacce. È meglio che vada. Questo incontro<br />

è stato una delusione, il viceré aveva ragione a voler<br />

stroncare subito questo tentativo <strong>di</strong> sovvertimento perché tale<br />

è il suo Cumone a parte gli abbellimenti letterari. Lei è più<br />

ambizioso <strong>di</strong> quanto non sembri.<br />

Alessio prima <strong>di</strong> varcare la porta si voltò e <strong>di</strong>sse:<br />

– Io non ho ambizioni.<br />

<strong>Il</strong> cameriere del conte lo accompagnò fino all’uscita.<br />

– Cosa ti hanno detto? – gli chiese Bakis. – Qui c’era<br />

tanta gente, gridavano tutti, ce l’avevano col viceré che non<br />

voleva uscire, mi sono messo a gridare anch’io, chiedevo il<br />

Cumone per tutti. Mi domandavano cos’è il Cumone e io<br />

cercavo <strong>di</strong> spiegarlo, poi è uscito il viceré che a me non piace<br />

e ha detto poche parole e non si capiva s’era contento o a<strong>di</strong>rato.<br />

Ha raccomandato a tutti <strong>di</strong> tornare a casa, <strong>di</strong> stare calmi<br />

che avrebbe scritto al re. Tu ci hai visto?<br />

– Sì, ma non ho sentito cosa gridava la folla.<br />

– Non c’era da capire niente, però sembravano decisi a<br />

ottenere quello che chiedevano. Ma tu hai parlato col viceré?<br />

– No.<br />

– Non ti hanno fatto entrare?<br />

– Ho parlato con quell’inviato ch’era venuto a Orvine,<br />

comanda più del viceré.<br />

174<br />

– Quello è contro il Cumone, – <strong>di</strong>sse Bakis rattristandosi,<br />

– è amico del rettore.<br />

– Sì, mi ha detto chiaramente che farà <strong>di</strong> tutto per <strong>di</strong>sperdere<br />

il Cumone, non vuole che si turbi la fusione.<br />

– Ti ha minacciato?<br />

– Voleva portarmi a Torino per stu<strong>di</strong>are lì insieme ad<br />

altri le riforme e anche il Cumone.<br />

– E tu?<br />

– Gli ho detto che l’idea del Cumone è <strong>di</strong> tutti quelli che<br />

ci sono dentro e che io senza <strong>di</strong> loro non conto niente.<br />

– Allora non hai accettato?<br />

– No, volevi che accettassi?<br />

– Ziu Kicu lo sapeva che avrebbero tentato <strong>di</strong> strapparti<br />

dal Cumone. Ma ora cosa faremo?<br />

– Continueremo come prima.<br />

– Ci arresteranno?<br />

– Non so, forse no, con la fusione troppi arresti farebbero<br />

chiasso.<br />

– Allora come faranno a toglierci il Cumone?<br />

– Si serviranno del rettore, a quello non manca la fantasia<br />

per trovare mezzi adatti.<br />

– Sei <strong>di</strong>spiaciuto?<br />

– Non è successo niente che non ci attendessimo.<br />

– Dove an<strong>di</strong>amo ora?<br />

– A trovarci un alloggio per questa notte.<br />

Si allontanarono dalla piazza parlando ancora delle cose<br />

che Alessio aveva <strong>di</strong>scusso col conte. Bakis aveva nel tascapane<br />

del cibo e andarono a mangiare vicino al porto seduti su<br />

una panchina. La gente li guardava, ma non <strong>di</strong>ceva niente.<br />

Anche se si era <strong>di</strong> novembre non c’era freddo, sembrava primavera.<br />

<strong>Il</strong> mare era calmo, non bello però sotto quel cielo<br />

grigio. Anche la città era triste. Rimasero ancora sulla panchina<br />

a guardare i rari passanti e il porto con le navi: ce n’erano<br />

due, forse quelle <strong>di</strong> linea con le quali si poteva arrivare fino a<br />

Genova. Più tar<strong>di</strong> trovarono un alloggio in una pensione che<br />

Alessio conosceva già. Presero una camera a due letti. Alessio<br />

si coricò subito, era stanco. Mandò Bakis a scoprire la città,<br />

voleva restare solo per farsi un bagno ai pie<strong>di</strong> con le erbe.<br />

– Mi smarrirò.<br />

175


– È facile orientarsi col mare.<br />

Bakis uscì e si fermò a osservare gli ambulanti, per capire<br />

la mentalità mercantile dei casteddajos. Erano <strong>di</strong>stribuiti<br />

nei crocicchi con una corbula o una cassettina piene <strong>di</strong> erbe,<br />

<strong>di</strong> pesci o <strong>di</strong> frutta. Offrivano a voce alta, ma nessuno comprava.<br />

Bakis si fermò ancora davanti ai palazzi <strong>di</strong> Castello.<br />

Quelli che vi abitavano apparivano tutti signori; negli spiazzi<br />

c’era qualche calesse; tutte le case avevano la scuderia. Salì<br />

sul bastione, che per quanto altissimo restava più basso dei<br />

palazzi <strong>di</strong> Castello, più su dei quali non si poteva andare.<br />

Giù c’erano i tetti sconnessi delle case povere e in fondo il<br />

mare che sembrava cingere in un morbido abbraccio la città.<br />

Attraverso altri vicoli arrivò a piazza Palazzo e si sedette lontano<br />

dalle guar<strong>di</strong>e. Era curioso <strong>di</strong> vedere chi entrava e chi<br />

usciva. C’era calma, come se le numerose sale in<strong>di</strong>cate da<br />

quelle finestre, tutte allineate che non finivano <strong>di</strong> sorprendere<br />

Bakis, fossero vuote, mai abitate da alcuno. Eppure da lì<br />

partivano i coman<strong>di</strong>, i <strong>di</strong>vieti che Bakis si attendeva <strong>di</strong> vedere<br />

materializzati: se li immaginava come pergamene portate<br />

da guar<strong>di</strong>e a cavallo. Da un portone uscì una carrozza a<br />

quattro cavalli. Bakis non poté scorgere chi c’era dentro per<br />

via delle ten<strong>di</strong>ne abbassate; sembravano donne con dei<br />

bambini, forse la famiglia del viceré o dell’inviato speciale o<br />

<strong>di</strong> qualche altro che abitava lì e comandava. Non riusciva a<br />

staccarsi da quel palazzo, voleva sapere com’erano fatti quelli<br />

che vi abitavano, quelli che comandavano, quelli che con un<br />

sì o un no potevano decidere la sorte del Cumone, <strong>di</strong> un intero<br />

paese, <strong>di</strong> tutta la gente sparsa nei campi e nei villaggi<br />

che aveva visto in quei giorni. Ma il palazzo continuava a restare<br />

avvolto in un mistero impenetrabile. Solo verso il tramonto<br />

uscirono altre carrozze e questa volta Bakis poté scorgere<br />

uomini senza <strong>di</strong>visa, vestiti <strong>di</strong> nero, nessuno giovane,<br />

tutti con un’espressione severa, minacciosa quasi.<br />

Fece un grande giro per ritornare alla pensione. Ogni<br />

tanto guardava il mare e il tramonto <strong>di</strong>etro i monti <strong>di</strong> Capoterra<br />

con i suoi colori violenti che si riflettevano sulle case<br />

alte <strong>di</strong> Castello; le case dei vicoli erano già entrare nel buio<br />

della notte.<br />

176<br />

L’indomani mattina ripartirono. Alessio non sentiva dolori,<br />

il lungo bagno della sera prima gli aveva fatto bene. A<br />

Nuoro, dove arrivarono <strong>di</strong> pomeriggio dopo <strong>di</strong>verse soste,<br />

ritirarono i cavalli che avevano lasciato da ziu Conchedda e<br />

la sera stessa rientrarono a Orvine. Alessio sentiva che il Cumone<br />

era asse<strong>di</strong>ato da ogni parte. Con quel rapporto al viceré<br />

aveva tentato <strong>di</strong> evitare lo scontro che temeva da tempo,<br />

ma il senso delle minacce del conte era chiaro, non c’era<br />

possibilità <strong>di</strong> salvezza. Lui non sapeva più come <strong>di</strong>fendersi,<br />

non aveva forze per lottare, si sentiva addosso una stanchezza<br />

mortale. Nella stanza del forno ziu Kicu e gli altri ascoltarono<br />

il suo racconto senza interromperlo. Discussero fino a<br />

notte e quando si separarono nessuno era contento, ciascuno<br />

aveva atteso qualcosa da quel viaggio, anche se non era<br />

stato promesso niente.<br />

177


XXII<br />

Alla fine <strong>di</strong> novembre, quando le pecore furono prossime<br />

a figliare, il collettore delle decime salì a cavallo sui monti<br />

per la conta dei feti. A Unertore, un’altura boscosa dove<br />

confluivano le strade per i pascoli, radunò i pastori e chiese<br />

loro <strong>di</strong> portargli le greggi, avvertendo che lui aveva gli elenchi<br />

<strong>di</strong> tutti i branchi, aggiornati dei capi aggiunti per le nascite<br />

e <strong>di</strong> quelli usciti. I pastori lo guardarono impassibili,<br />

come se quei <strong>di</strong>scorsi non toccassero loro. <strong>Il</strong> collettore, ch’era<br />

molto esigente e che in servizio non dava alcuna confidenza,<br />

si agitò <strong>di</strong>cendo che non aveva tempo da perdere e che doveva<br />

finire il lavoro in giornata.<br />

– Tu chi sei? – chiese al pastore che gli stava più vicino<br />

puntandogli il <strong>di</strong>to.<br />

– Contena Pasquale.<br />

– Cinquantatré femmine, tutte da figliare, una capra, un<br />

montone – lesse sul registro tenuto in or<strong>di</strong>ne con tutti i dati.<br />

– Io non ho più pecore.<br />

– Nessuno <strong>di</strong> noi ha più pecore – fecero eco gli altri.<br />

<strong>Il</strong> collettore sfogliò il registro convulsamente e <strong>di</strong>sse che<br />

lui i conti li sapeva tenere, che aveva preso nota <strong>di</strong> ogni variazione<br />

e che tutti i branchi dell’annata scorsa risultavano<br />

ancora in vita, intestati agli stessi proprietari.<br />

– Le abbiamo date al Cumone le nostre pecore, non abbiamo<br />

da farti vedere più niente – <strong>di</strong>sse Contena Pasquale.<br />

<strong>Il</strong> collettore era sconcertato, lui non sapeva <strong>di</strong> Cumone<br />

o <strong>di</strong> altro, ogni passaggio <strong>di</strong> proprietà doveva essere provato.<br />

– C’è tanto <strong>di</strong> strumento, chie<strong>di</strong>lo al notaio Cu<strong>di</strong>llo, – gli<br />

rispose ancora Contena Pasquale.<br />

– Abbiamo fretta, dobbiamo tornare a lavorare, – soggiunsero<br />

gli altri.<br />

<strong>Il</strong> collettore non sapeva se a<strong>di</strong>rarsi e minacciare oppure<br />

approfon<strong>di</strong>re la questione. Si convinse che non lo stavano<br />

prendendo in giro, anche perché le altre volte non avevano<br />

178<br />

mai fatto una cosa simile, se mai avevano tentato <strong>di</strong> sottrarre<br />

qualche capo alla conta facendolo passare per sterile.<br />

– Di chi è questo Cumone che <strong>di</strong>te voi? – chiese conciliante,<br />

ma senza perdere del tutto la severità professionale.<br />

– Di tutti e <strong>di</strong> nessuno, – gli rispose un pastore, – se<br />

cerchi un padrone da segnare nel tuo registro non lo trovi,<br />

ma se tocchi una pecora ti saltano addosso <strong>di</strong>eci, venti, cinquanta<br />

pastori.<br />

La sicurezza del collettore sembrò appannarsi, questa<br />

storia sembrava veramente una presa in giro e per giunta il<br />

Cumone non si sapeva cosa fosse, lui ufficialmente non ne<br />

sapeva niente.<br />

– Ogni bestia ha il suo padrone: se le pecore le avete<br />

date a un altro con atto <strong>di</strong> notaio, quest’altro sarà un padrone,<br />

o il Cumone è un fantasma?<br />

I pastori si <strong>di</strong>vertivano a confondere le idee del collettore.<br />

– È come un indovinello, – fu la risposta, – non si vede,<br />

non si tocca, ma esiste.<br />

<strong>Il</strong> collettore perse la pazienza, <strong>di</strong>sse che per lui valeva ciò<br />

che aveva segnato nel registro, ci metteva poco a considerare<br />

tanti feti quanti erano i capi <strong>di</strong> ciascun branco, poi si sarebbero<br />

rivisti al tempo della riscossione.<br />

– Lo strumento del notaio Cu<strong>di</strong>llo vale più del tuo registro<br />

– gli <strong>di</strong>sse con aria <strong>di</strong> sfida Contena Pasquale.<br />

– Nessuno strumento può essere fatto con persone inesistenti,<br />

<strong>di</strong> leggi ne so abbastanza, ogni contratto vuole i suoi<br />

soggetti, le sue teste insomma.<br />

– Informati e vedrai che tutto è regolarissimo. <strong>Il</strong> Cumone<br />

esiste, solo per pagare le decime non può esistere. Lo sa il<br />

viceré, il rettore e tu non lo sai ancora? Quello che è scritto<br />

nel tuo registro lo puoi cancellare per sempre.<br />

<strong>Il</strong> collettore riuscì a malapena a controllare la rabbia, nessuno<br />

gli aveva mai mancato <strong>di</strong> rispetto, questi morti <strong>di</strong> fame<br />

volevano prendersi gioco <strong>di</strong> lui.<br />

– Portatemi le pecore del Cumone – or<strong>di</strong>nò.<br />

Gli risposero che non era in loro potere toccare roba che<br />

non apparteneva <strong>di</strong> pieno <strong>di</strong>ritto.<br />

– Ma allora chi è, dov’è questo maledetto Cumone? –<br />

urlò il collettore pestando i pie<strong>di</strong>.<br />

179


Contena Pasquale rise picchiandosi le cosce con le mani,<br />

risero anche gli altri con uguale fragore e il collettore si guardava<br />

intorno con un’espressione <strong>di</strong> stupore, come se avesse<br />

davanti gente fuori <strong>di</strong> senno.<br />

– Parliamo, parliamo e non riusciamo a capirci, – <strong>di</strong>sse<br />

Contena Pasquale, – come nella torre <strong>di</strong> Babele, – e gli occhi<br />

gli lacrimavano dal gran ridere. – Come facciamo a in<strong>di</strong>carti<br />

il Cumone, una cosa che non si può toccare, né vedere,<br />

né sentire… – e continuava a ridere.<br />

– Dov’è il Cumone? Qua, là, giù, su: dappertutto e in<br />

nessun luogo, ci per<strong>di</strong> la testa se insisti, finirai per <strong>di</strong>ventare<br />

matto… Dov’è il Cumone? Chi è il Cumone? – e guardava<br />

i compagni che ridevano ancora, ma non era più riso, era<br />

sfogo <strong>di</strong> rabbia a lungo repressa. <strong>Il</strong> collettore capì e montò<br />

a cavallo precipitosamente.<br />

– Riderò io quando arriveranno i miliziani – <strong>di</strong>sse allontanandosi.<br />

– Dov’è il Cumone? – gli gridavano i pastori e non ridevano<br />

più, urlavano, inveivano agitando i pugni. – Lo avrai<br />

sempre davanti e non lo potrai mai ghermire.<br />

Ma il collettore era già lontano. Spronò il cavallo e appena<br />

in paese corse a cercare don Satta. Non riusciva a trovarlo<br />

e si <strong>di</strong>sperava, preso da una paura che non aveva mai provato:<br />

gli sembrava <strong>di</strong> non poter più fare il collettore come sempre<br />

aveva fatto, quelle risa e quegli scherni avevano rotto il<br />

dovere dell’obbe<strong>di</strong>enza e del silenzio, ch’erano i pilastri <strong>di</strong><br />

quel mestiere. Solo don Satta poteva ridargli sicurezza e restituirgli<br />

il rispetto dovutogli. Carmela gli <strong>di</strong>sse che il rettore<br />

era andato a Santandria per la solita passeggiata e gli consigliò<br />

<strong>di</strong> attenderne il rientro. Ma il collettore aveva troppe cose<br />

che gli urgevano e corse fuori incurante della meraviglia<br />

della gente abituata a vederlo sempre calmo, composto, paziente<br />

perfino.<br />

– Ora no! – gli <strong>di</strong>sse don Satta fermandolo con un gesto<br />

della mano quando se lo vide davanti, trafelato, col berretto<br />

in mano e i ra<strong>di</strong> capelli scomposti.<br />

– Sapete che…<br />

– So, – lo interruppe, – va’, parleremo più tar<strong>di</strong>.<br />

180<br />

<strong>Il</strong> collettore andò via da solo, sconsolato, voltandosi ogni<br />

tanto a guardare don Satta che saliva verso Santandria col passo<br />

ritmato dal movimento del bastone che roteava nell’aria.<br />

La passeggiata era sacra, più della messa quasi, e don Satta<br />

non voleva sentire nessuno in quelle pause <strong>di</strong> raccoglimento.<br />

<strong>Il</strong> collettore lo sapeva, ma gli sembrava che la gravità <strong>di</strong> ciò<br />

che doveva <strong>di</strong>re potesse giustificare la violazione <strong>di</strong> quella<br />

consegna. Ora attendeva davanti alla casa parrocchiale andando<br />

avanti e in<strong>di</strong>etro.<br />

– Se m’avesse lasciato parlare… – si <strong>di</strong>ceva. – Cose incre<strong>di</strong>bili<br />

stanno accadendo.<br />

Carmela lo fece entrare e cercò <strong>di</strong> confortarlo <strong>di</strong>cendogli<br />

ch’era bene lasciare sbollire le passioni, si ragionava meglio.<br />

Ma il collettore non era abituato a rimandare niente, ciò che<br />

doveva esigere lo voleva subito, non lasciava mai respiro a<br />

nessuno, neanche a se stesso, né si commoveva o aveva ripensamenti.<br />

Sapeva <strong>di</strong> essere o<strong>di</strong>ato, ma se ne faceva una ragione<br />

<strong>di</strong>cendo che quello era il prezzo della sua alta funzione.<br />

Dopo quasi un’ora arrivò don Satta.<br />

– Allora, ti hanno preso a sassate?<br />

– Peggio, mi hanno deriso… Hanno deriso tutto e tutti…<br />

– Incauto e ingenuo, – gli <strong>di</strong>sse don Satta col viso accigliato<br />

che preoccupò molto il collettore, il quale <strong>di</strong>sse che non<br />

sapeva niente del Cumone e degli artifizi che lo sostenevano.<br />

– Non possiamo starcene così, – supplicò, – conosco<br />

questa gente: guai se ci si mostra deboli, se si cede appena…<br />

Mi <strong>di</strong>ca cosa devo fare.<br />

– Calmarti, innanzi tutto.<br />

– Ha ragione, sono troppo agitato, ma c’è da perdere la<br />

ragione a pensare che se la <strong>di</strong>amo vinta oggi sarà lo stesso<br />

domani con la lana poi col raccolto… L’obbe<strong>di</strong>enza e la giustizia<br />

dove vanno a finire?<br />

– Va’ a scovare le greggi coi miliziani, pren<strong>di</strong> nota dei feti<br />

e notificali ai pastori che hanno in custo<strong>di</strong>a le pecore e al<br />

presidente del Cumone, Kicu Brundu. Nessuna provocazione,<br />

né azioni <strong>di</strong> forza; se sarà necessario si farà anche qualche<br />

rinunzia perché tutto ritorni come prima.<br />

181


– Se si rinunzia una volta… È gente che non perdona…<br />

– <strong>di</strong>sse il collettore. – Per chi non sente ragione la forza è<br />

l’unico mezzo.<br />

– Non ora, – rispose don Satta con aria pensosa, – bisogna<br />

battere altre vie se si vuole vincere anche per domani.<br />

Ma questi sono <strong>di</strong>scorsi più vasti che tu non puoi intendere.<br />

Ora va’, sali oggi stesso a controllare le greggi e raccomanda<br />

prudenza a quelle bestie <strong>di</strong> miliziani.<br />

<strong>Il</strong> collettore era deluso.<br />

– Vado, ma sono convinto che troppi riguar<strong>di</strong> non portano<br />

bene.<br />

– Non ho riguar<strong>di</strong> per nessuno, nemmeno per la tua<br />

rapacità. Questo Cumone bisogna colpirlo nella sua anima<br />

dannata.<br />

– Dicevo così per sfogarmi.<br />

– Monta a cavallo e sfogati strada facendo, attento perché<br />

<strong>di</strong>etro alle risa <strong>di</strong> oggi c’è altro e l’avversione che tu susciti<br />

è molta.<br />

– Rafforzerò la scorta.<br />

– Non saranno i miliziani che potranno proteggerti, cerca<br />

<strong>di</strong> essere meno o<strong>di</strong>oso se puoi.<br />

– Allora vado.<br />

– Però sei ancora qui e io sono stanco <strong>di</strong> vederti.<br />

– Non è una giornata buona per me oggi – brontolò il<br />

collettore uscendo.<br />

Don Satta rimase solo nella sala grande e si fermò davanti<br />

alla finestra com’era solito fare quando c’era qualcosa<br />

che lo preoccupava. Proprio quel giorno il conte de Viry,<br />

con una lettera, lo metteva al corrente della visita <strong>di</strong> Alessio<br />

a Cagliari e gli raccomandava <strong>di</strong> non farsi sfuggire le re<strong>di</strong>ni<br />

dalle mani. “<strong>Il</strong> Cumone è una cosa troppo seria e il giovane<br />

sovversivo è capace <strong>di</strong> trascinare dove vuole pastori, conta<strong>di</strong>ni<br />

e ban<strong>di</strong>ti”, <strong>di</strong>ceva il conte, il quale proseguiva: “in questo<br />

momento delicato l’impiego della forza non è consigliabile,<br />

perciò chiedo a lei <strong>di</strong> compiere ogni cosa con cautela, non le<br />

mancano i mezzi, né l’autorità, né il coraggio”. Nella lettera<br />

c’era anche altro: un caloroso ringraziamento per quanto<br />

don Satta aveva fatto per la causa della “fusione”; la notizia<br />

che il taglio dei boschi sarebbe iniziato fra qualche mese con<br />

182<br />

un guadagno che avrebbe compensato largamente gli sforzi<br />

<strong>di</strong> tutti; la promessa <strong>di</strong> inviare un favorevole rapporto alla<br />

corte <strong>di</strong> Roma e infine l’annunzio <strong>di</strong> un contributo per la<br />

scuola agraria concesso dalla corte <strong>di</strong> Torino. Ma la lettera<br />

tornava spesso a parlare del Cumone e finiva con una raccomandazione<br />

a nome del viceré perché si risolvesse nel migliore<br />

dei mo<strong>di</strong> questo fasti<strong>di</strong>oso incidente che turbava il<br />

nuovo equilibrio che si stava faticosamente creando nei rapporti<br />

fra l’isola e gli stati <strong>di</strong> terraferma.<br />

Don Satta era rimasto lusingato dal tono cor<strong>di</strong>ale della<br />

lettera, ma aveva capito anche che a Cagliari erano molto<br />

preoccupati, non sapevano affrontare un fatto così nuovo.<br />

Davanti alla finestra pensava a come fermare il figlio della<br />

pazza, per il quale finiva per provare ammirazione: si rammaricava<br />

che egli non avesse seguito i suoi consigli: avrebbe<br />

messo tutti nel sacco a Cagliari e a Torino; aveva intelligenza,<br />

fantasia e il suo sangue nelle vene.<br />

Al Cumone pensava giorno e notte, era informato <strong>di</strong> tutto<br />

e quando gli riferivano <strong>di</strong> quello che avevano già fatto a<br />

Niniana, a Molas, a Nurthole e in montagna si sentiva vinto.<br />

“Sono solo un prete, non sono un politico” si ripeteva,<br />

“cosa vogliono da me, mi sto logorando l’esistenza”.<br />

La lettera del conte però era un incitamento, e lui non<br />

poteva deludere, vi era impegnato tutto il suo prestigio.<br />

183


XXIII<br />

Quando fu dato l’annuncio che il magnanimo Carlo Alberto,<br />

“deferendo alle calde istanze”, voleva “formare una sola<br />

famiglia <strong>di</strong> tutti i suoi amati sud<strong>di</strong>ti con perfetta parità <strong>di</strong><br />

trattamento”, vi furono altre sfilate con ban<strong>di</strong>ere e coccarde,<br />

altre processioni con stendar<strong>di</strong> e simulacri <strong>di</strong> santi, altri clamori:<br />

a Cagliari, a Sassari, a Nuoro, nei villaggi delle montagne<br />

e delle valli la gente gridò ancora, ma non s’inneggiava<br />

più alla “fusione”, ora si chiedeva a gran voce ciò ch’era stato<br />

tolto o negato.<br />

<strong>Il</strong> pregone del viceré, <strong>di</strong>vulgato con una rapi<strong>di</strong>tà impensata,<br />

deludeva le attese che avevano scosso le folle nelle “memorabili<br />

giornate <strong>di</strong> novembre”. Le promesse dell’“ottimo<br />

sovrano” potevano appagare nobili ed ex feudatari, preti e<br />

borghesi, tutti ansiosi <strong>di</strong> potersi mescolare ai fratelli <strong>di</strong> terraferma,<br />

ma lasciavano più che mai delusi pastori e conta<strong>di</strong>ni<br />

vessati e oppressi da ogni parte “in una con<strong>di</strong>zione da destare<br />

pietà e da torre a occhio meno veggente fin la speranza”, come<br />

qualcuno scriveva.<br />

I festeggiamenti, voluti da nobili e preti, ben presto si<br />

mutarono in tumulti, le richieste furono gridate con furore<br />

e molti tremarono ricordando il ’93; vi furono esortazioni<br />

alla “perfetta obbe<strong>di</strong>enza”, appelli del viceré e del sindaco <strong>di</strong><br />

Cagliari ai citta<strong>di</strong>ni perché non si mostrassero “indegni del<br />

beneficio ricevuto dall’ottimo monarca con fatti se<strong>di</strong>ziosi<br />

che <strong>di</strong>s<strong>di</strong>cevano alla moderna civiltà <strong>di</strong> cui a partecipare erano<br />

chiamati dai destini”, minacce <strong>di</strong> reprimere con tutto il<br />

vigore. Si continuò a vociare, più fievolmente però, finché<br />

non ritornò il silenzio delle recriminazioni e dei pentimenti.<br />

Anche don Satta lesse e commentò il pregone del viceré<br />

nella chiesa del Carmelo e spiegò il significato <strong>di</strong> ogni parola,<br />

mettendo del suo per rinsanguare quel misero testo che a lui<br />

sembrava irrime<strong>di</strong>abilmente povero rispetto alla gran<strong>di</strong>osità<br />

degli eventi che annunciava; cercò <strong>di</strong> suscitare entusiasmo e<br />

184<br />

<strong>di</strong> commuovere come aveva fatto a novembre, ma i fedeli<br />

erano <strong>di</strong>stratti, non lo seguivano, anzi nella chiesa si sentiva<br />

un brusio continuo, come non era mai accaduto. Lui se ne<br />

accorse e mise più calore nella voce per attirare l’attenzione,<br />

ma la gente continuava a parlottare e molti davano le spalle<br />

al pulpito.<br />

– Hai sentito? A Cagliari e a Nuoro protestano.<br />

– Non danno niente, anzi ci tolgono quel poco che abbiamo.<br />

– Costringeranno i figli a fare il soldato e metteranno altre<br />

tasse.<br />

– Anche il rettore, con le sue processioni…<br />

– È sempre dalla parte <strong>di</strong> chi comanda.<br />

I commenti continuarono finché don Satta, finita la<br />

pre<strong>di</strong>ca, chiese a tutti <strong>di</strong> seguirlo nella processione <strong>di</strong> ringraziamento.<br />

I fedeli accompagnarono la Madonna del Carmelo<br />

per le vie del paese, alcuni cantarono i gosos insieme a don<br />

Satta e agli amici del comitato agrario, ma i più continuarono<br />

i concitati <strong>di</strong>scorsi, incuranti della Santa, del rettore e dei<br />

suoi amici. Dalla pre<strong>di</strong>ca avevano capito che ogni attesa era<br />

stata vana: non c’era grano, i pastori sui monti si cibavano<br />

d’erbe, gli uomini rimasti in paese soffrivano per la fame e<br />

per la vergogna <strong>di</strong> non poterci far niente; e il rettore voleva<br />

che si ringraziasse il re che concedeva ai piemontesi <strong>di</strong> portarsi<br />

via anche l’olio e il vino. Era una processione misera,<br />

come si ripeteva don Satta, quando si voltava a guardare la<br />

gente che lo seguiva senza fede e senza amore, quasi venisse<br />

condotta al patibolo.<br />

– Torniamo in<strong>di</strong>etro! – or<strong>di</strong>nò ai quattro che portavano<br />

a spalle il simulacro della Santa. In chiesa non fece altre<br />

pre<strong>di</strong>che, mandò via i fedeli con un gesto delle mani che<br />

esprimeva tutto il suo <strong>di</strong>sgusto. Disse a Pilimeddu <strong>di</strong> chiudere<br />

la porta della chiesa a doppia passata perché in giro<br />

c’erano troppi cani, e andò a casa solo, senza salutare nessuno.<br />

Uomini e donne sostarono sullo spiazzo del camposanto<br />

vecchio illuminato a tratti da un povero sole. Parlavano,<br />

ma le parole non bastavano a raccontare quelle pene. Qualcuno<br />

<strong>di</strong>sse che se protestavano gli altri potevano protestare<br />

anche loro.<br />

185


– An<strong>di</strong>amo, gri<strong>di</strong>amo, – propose Lukia Carta lasciandosi<br />

scivolare lo scialle sulle spalle. Suo marito, Palichedda, era sui<br />

monti con i pastori del Cumone, l’unico figlio, Andrieddu,<br />

era in prigione e attendeva da tempo il processo. Quand’era<br />

più giovane, Lukia cavalcava i puledri senza sella. Palichedda<br />

l’aveva scelto lei durante la tosatura delle pecore.<br />

– Questo è il mio uomo, – aveva detto prendendolo per<br />

mano.<br />

In mezzo alla folla sembrava non aver perso niente degli<br />

antichi impeti. Si guardava intorno muovendo fieramente la<br />

testa imbiancata anzitempo e con lo sguardo sollecitava un<br />

sì o un no alla sua proposta.<br />

– An<strong>di</strong>amo a gridare, come <strong>di</strong>ce Lukia, – <strong>di</strong>ssero alcuni<br />

muovendosi verso la strada nuova. A poco a poco si accodarono<br />

tutti, vociando. Chiedevano grano, non volevano più<br />

pagare le decime, né le altre imposte. Nel paese non si gridava<br />

mai, si parlava, si rideva e si piangeva sommessamente<br />

perché nessuno sentisse o sapesse. Anche i ragazzi nei giochi<br />

si chiamavano sottovoce e se qualche volta scappava un grido<br />

tutti si guardavano sorpresi. Giunta sulla strada nuova la<br />

folla, trascinata da Lukia Carta, si fermò. Altra gente saliva<br />

dai vicoli <strong>di</strong> Cadone e Parraghine. <strong>Il</strong> paese era scosso da<br />

quelle voci. Chi non sapeva intuiva.<br />

– An<strong>di</strong>amo alla casa del sindaco.<br />

– Sì, dal sindaco e dal notaio, così lo raccontano ai loro<br />

amici.<br />

La casa del sindaco era nuova e grande, in cima a un<br />

terrapieno. Aveva due entrate, ma la gente vi arrivò da tutte<br />

le parti e lo spiazzo sembrava non potesse contenerla tutta.<br />

Qualcuno bussò alla porta e il sindaco, ch’era appena rientrato<br />

pensando al malumore <strong>di</strong> don Satta, si affacciò alla finestra<br />

del piano rialzato. Davanti alla folla che urlava con le<br />

braccia levate, fu preso dallo spavento. Non sapeva cosa fare,<br />

né cosa <strong>di</strong>re.<br />

– Grano! – urlavano tutti.<br />

La rabbia ebbe il sopravvento sulla paura.<br />

– Non mi faccio a grano, – rispose sottolineando coi gesti<br />

il fasti<strong>di</strong>o e l’in<strong>di</strong>gnazione per tutti quei pie<strong>di</strong> che calpestavano<br />

lo spiazzo e per quelle voci e quelle richieste, così insensate<br />

186<br />

che veniva voglia <strong>di</strong> aizzare i cani. Da quando si era costruita<br />

la casa sopra la strada, il sindaco non era più passato nei<br />

vicoli <strong>di</strong> Cadone e Parraghine, anzi faceva <strong>di</strong> tutto per far<br />

<strong>di</strong>menticare che in uno <strong>di</strong> quei rioni era nato. Ora aveva<br />

terre, case, bestiame ed era sindaco, membro del comitato<br />

agrario e quasi amico <strong>di</strong> don Satta. Quella gente era venuta<br />

su da Cadone e Parraghine, aveva varcato la strada ch’era un<br />

limite netto tra il vecchio e il nuovo, un confine fra due<br />

paesi quasi, e faceva chiasso e insolentiva, come se si potesse<br />

mescolare ciò ch’era <strong>di</strong>stinto, separato per sempre.<br />

– La tua casa è piena, noi abbiamo fame – gli gridarono<br />

le donne.<br />

<strong>Il</strong> sindaco era fuori <strong>di</strong> sé: venivano a fargli i conti in tasca,<br />

come se toccasse a lui saziare quei morti <strong>di</strong> fame. Bisognava<br />

mostrare la maniera forte, ora non aveva più paura.<br />

– Andate via, non ho tempo da perdere.<br />

– Tutto a uno dovrà essere, – gli gridò Lukia Carta,<br />

ch’era salita su una panca <strong>di</strong> pietra per svettare sugli altri.<br />

– Sì, tutto e tutti dentro il Cumone, – fecero eco altre<br />

voci.<br />

– La giustizia chiamo, – ribatté il sindaco col viso stravolto.<br />

– Non conti più niente, – gli gridarono ancora.<br />

Erano arrivati altri uomini, pastori scesi dai monti, e anche<br />

loro presero a vociare.<br />

– Scen<strong>di</strong> giù, così ci guar<strong>di</strong> in faccia.<br />

Era una sfida che il sindaco non poteva tollerare, in casa<br />

sua lui non doveva aver paura. Si ritirò dalla finestra e dopo<br />

un po’ comparve sulla porta, verde <strong>di</strong> rabbia.<br />

– Non sono mai andato in casa degli altri a insultare, –<br />

<strong>di</strong>sse; gli tremavano le labbra.<br />

– Tu man<strong>di</strong> gli altri, la tua casa è alta – <strong>di</strong>sse Lukia Carta<br />

dritta sul se<strong>di</strong>le <strong>di</strong> pietra coi capelli scarmigliati. – Non puoi<br />

essere il sindaco <strong>di</strong> questo paese, sei stato messo lì come una<br />

pietra che ci pesa.<br />

<strong>Il</strong> sindaco, inchiodato sulla soglia, non osava scendere gli<br />

scalini che lo separavano dallo spiazzo dove la folla si accalcava<br />

e gridava, smuovendo le pietre e tutto ciò che costituiva<br />

ornamento della casa più alta del paese.<br />

187


– Cacciamolo via, – gridò ancora Lukia buttando scialle<br />

e fazzoletto per meglio accompagnare il grido con la furia<br />

del gesto.<br />

– Leghiamolo sopra il somaro.<br />

– Suoniamogli anche le tavole.<br />

– Diamogli tutto ciò che si merita.<br />

La folla avanzava compatta, minacciosa, urlante; ben<br />

presto raggiunse la piccola scalinata della porta d’ingresso.<br />

– Ecco l’asino!<br />

Si aprì un varco: tante mani spingevano in avanti un piccolo<br />

somaro spaurito. <strong>Il</strong> sindaco tremava. Voleva scappare,<br />

ma si era chiusa la porta alle spalle. Cento mani lo afferrarono<br />

e lo sollevarono come una foglia secca. Lui agitava i pie<strong>di</strong><br />

e le braccia, ma il volo fu rapido e si trovò subito sul dorso<br />

dell’asino.<br />

– Miserabili, tutti contro uno!<br />

Gli legarono saldamente le mani e le gambe incrociando<br />

la fune tra la sella e il dorso dell’asino.<br />

– Tutta la giustizia del mondo faccio venire, – minacciava<br />

nel <strong>di</strong>sperato tentativo <strong>di</strong> far desistere quelli scellerati.<br />

Alla finestra del piano alto si affacciò una donna e chiamò:<br />

– Antonio! Perché? Cosa vogliono farti?<br />

La folla non u<strong>di</strong>va, incitava l’asino con le voci e coi suoni<br />

assordanti delle tavole sbattute coi sassi.<br />

– Antonio! Antonio! – gridava piangendo la donna alla<br />

finestra.<br />

– Fai suonare le campane, – rispose il sindaco con voce<br />

<strong>di</strong>sperata.<br />

– Suoniamo noi! – rispose Lukia Carta. E la gente agitò<br />

i campanacci e sbatté con più forza le tavole. L’asino era fermo,<br />

inchiodato dalla paura <strong>di</strong> quelle voci. Lo trascinarono a<br />

forza per un buon tratto. Tutto il paese rintronava d’urla, <strong>di</strong><br />

suoni <strong>di</strong> campanacci e <strong>di</strong> sbattiti <strong>di</strong> tavole. Chi non era <strong>di</strong>etro<br />

l’asino si affacciava alla porta della propria casa e ascoltava<br />

guardando nell’aria come per capire il senso <strong>di</strong> quella baraonda.<br />

Gli amici del sindaco, o quelli che si ritenevano tali,<br />

si rinchiusero in casa e tremarono. Solo il notaio Cu<strong>di</strong>llo si<br />

avventurò nella strada: corse da don Satta, ma gli <strong>di</strong>ssero<br />

ch’era a <strong>Marreri</strong> e lui ritornò a casa più che mai impaurito e si<br />

188<br />

chiuse dentro sobbalzando agli echi dei campanacci e delle<br />

urla che andavano allontanandosi. Nella radura <strong>di</strong> Cu<strong>di</strong>nattas<br />

la corsa ebbe fine e cadde un silenzio stupito, come se<br />

tutti, rinsavendo <strong>di</strong> colpo, fossero usciti da uno smarrimento<br />

e solo ora capissero l’inutilità <strong>di</strong> quel furore e <strong>di</strong> quel frastuono.<br />

Si formò un grande cerchio attorno all’asino. <strong>Il</strong> sindaco<br />

appariva rassegnato; non minacciava più, era immobile<br />

con la testa piegata in avanti, come se si sentisse irrime<strong>di</strong>abilmente<br />

perso sotto il peso <strong>di</strong> quell’umiliazione. La gente lo<br />

guardava, infasti<strong>di</strong>ta ch’egli suscitasse quasi compassione<br />

con quella faccia sofferente nella quale non vi era traccia<br />

dell’arroganza <strong>di</strong> sempre. Lukia Carta coprendosi il capo<br />

con lo scialle interrogava gli altri con sguar<strong>di</strong> preoccupati.<br />

Nessuno sapeva più cosa fare, in tutti vi era un penoso senso<br />

<strong>di</strong> pentimento che confondeva le idee.<br />

Arrivò ziu Kicu. Facendosi largo a fatica, entrò nel cerchio<br />

e si fermò davanti all’asino.<br />

– Cosa volete fare? Cosa vogliamo fare? – <strong>di</strong>sse sollevando<br />

le mani quasi volesse interrogare il cielo più che quella<br />

folla muta; aveva il respiro pesante per la corsa. Lukia Carta<br />

<strong>di</strong>sse che quello che si era fatto si doveva fare.<br />

– Questo sindaco ingordo deve sapere che lo possiamo<br />

<strong>di</strong>sfare quando vogliamo.<br />

Le sue parole furono accompagnate da voci minacciose.<br />

<strong>Il</strong> cerchio si strinse attorno all’asino e le mani <strong>di</strong> tutti si protendevano<br />

verso il sindaco.<br />

– No! – gridò ziu Kicu. – Non in questo modo, un’altra<br />

strada abbiamo scelto.<br />

– Alessio dov’è? – domandò una voce isolata.<br />

– Perché non è con noi? – chiese anche Lukia Carta e<br />

tutti le fecero eco chiamando a gran voce Alessio. Ziu Kicu<br />

scosse la testa.<br />

– Non può…<br />

– Niente può trattenerlo lontano da qui, – replicò Lukia<br />

Carta, – lui ci deve <strong>di</strong>re se facciamo bene o male.<br />

Altre voci si levarono: Alessio non doveva tirarsi in<strong>di</strong>etro.<br />

– Alessio ha mandato me, lui non può. L’avete capito o<br />

devo urlare fino a rompervi la testa che non può? – gridò<br />

ziu Kicu scuotendo furiosamente il sindaco e l’asino. Quel<br />

189


ipetere e urlare era un modo <strong>di</strong> esprimere tutto il suo dolore<br />

per Alessio, immobilizzato sul letto nella stanza del forno<br />

con le gambe paralizzate. Aveva tentato <strong>di</strong> alzarsi quando<br />

aveva sentito i campanacci e le voci, ma era ricaduto davanti<br />

a Pasqua Gaddari. A ziu Kicu aveva detto:<br />

– Andate voi, io non posso. Fermateli, ma la passione<br />

che li ha uniti resti –. E ziu Kicu era corso a Cu<strong>di</strong>nattas e<br />

aveva avuto l’impeto <strong>di</strong> gridare anche lui contro tutti. Ora<br />

era lì, davanti alla folla che non sapeva se <strong>di</strong>sperdere quel<br />

misero sindaco e continuare a vociare, oppure abbandonare<br />

l’inutile tentativo e tornare a tacere.<br />

– La vostra rabbia, la nostra rabbia, è una forza che può<br />

<strong>di</strong>struggere o costruire: conserviamola intatta e rientriamo<br />

in seno al Cumone. Questo qui sleghiamolo, come vuole<br />

Alessio –. Così <strong>di</strong>cendo scioglieva i legacci e i campanacci<br />

al sindaco che non riusciva a trattenere il pianto.<br />

– E finisce così? – si levò una voce stupita. Ziu Kicu <strong>di</strong>sse<br />

che non finiva niente, che tutto ricominciava.<br />

– Con la testa abbiamo dominato gl’impulsi del sangue<br />

che ribolle.<br />

<strong>Il</strong> sindaco non riusciva a smontare dall’asino, come se<br />

altri legacci lo tenessero in quell’immobilità. Ziu Kicu lo afferrò<br />

per un braccio e lo trascinò giù.<br />

– Va’ e ricorda quello che hai visto – gli <strong>di</strong>sse. <strong>Il</strong> sindaco<br />

si mosse barcollando. Lukia Carta gli gridò che la prossima<br />

volta lo avrebbero appeso a testa in giù alla quercia <strong>di</strong> Gurgu,<br />

tristemente nota per altre impiccagioni. <strong>Il</strong> cerchio era<br />

compatto e il povero sindaco non sapeva come uscirne. Lo<br />

afferrò ancora una volta ziu Kicu e lo trascinò in mezzo alla<br />

folla che fischiava rabbiosamente. Qualcuno recuperò l’asino<br />

e lo spinse nel varco che si era aperto quasi a sottolineare<br />

un maggior rispetto per la bestia. Poi il cerchio si sciolse. In<br />

tutti vi era il peso <strong>di</strong> una rinuncia; la più avvilita era Lukia<br />

Carta che andò via sola con lo scialle calato sugli occhi. Anche<br />

ziu Kicu si allontanò solo. Gli corsero <strong>di</strong>etro quelli del<br />

Cumone per sapere <strong>di</strong> Alessio.<br />

– Vado da lui – <strong>di</strong>sse, e proseguì per la strada nuova.<br />

Gli altri rientrarono nelle case attraverso i vicoletti <strong>di</strong> Cadone<br />

e Parraghine. <strong>Il</strong> silenzio ch’era tornato nel paese aveva<br />

190<br />

qualcosa d’innaturale. Davanti alla casa del sindaco ziu Kicu<br />

si sentì chiamare sottovoce. Si voltò; <strong>di</strong>etro a lui c’era<br />

una torma <strong>di</strong> ragazzi.<br />

– Stanno arrivando i soldati a cavallo, sono tanti, – gli<br />

<strong>di</strong>ssero bisbigliando. Lui si ridestò <strong>di</strong> colpo.<br />

– Correte, spargete la voce nelle case, poi nascondetevi.<br />

I ragazzi esitavano.<br />

– Andate, – replicò ziu Kicu con gesto affettuoso.<br />

I ragazzi scomparvero e lui, raddrizzando la schiena, che<br />

sembrava gravata da un peso, si guardò attorno. Udì lo scalpiccio<br />

dei cavalli al galoppo proveniente dalla parte della<br />

chiesa. Erano i miliziani, accorsi dai villaggi vicini. Ziu Kicu<br />

li attese proprio davanti alla casa del sindaco: voleva fermarli<br />

in qualche modo per dare il tempo agli altri <strong>di</strong> allontanarsi<br />

dal paese. Quando si vide accerchiato provò piacere. I miliziani<br />

vollero sapere cosa facesse lì.<br />

– Ero a Cu<strong>di</strong>nattas.<br />

– Solo?<br />

– No, eravamo cento, mille, c’era tutto il paese.<br />

Quell’ammissione era il bandolo della matassa.<br />

– Allora anche lei ha partecipato?<br />

– Sì.<br />

– Non ha altro da <strong>di</strong>re? Una <strong>di</strong>scolpa, un’attenuante…<br />

Alla sua età.<br />

Ziu Kicu, sollevando la testa, <strong>di</strong>sse:<br />

– Se sentite un dolore che vi morde le viscere e urlate<br />

per provare sollievo qualcuno vi chiede <strong>di</strong> <strong>di</strong>scolparvi? Non<br />

abbiamo grano, né altro, i figli chiedono pane, gli esattori ci<br />

spogliano: questo è il dolore. <strong>Il</strong> resto fatevelo raccontare dal<br />

sindaco ch’è tornato nella sua casa.<br />

– Avete usato violenza a un’autorità – <strong>di</strong>sse il capo passandosi<br />

una mano sulla fronte.<br />

– E le violenze che subiamo noi, da sempre, quale legge<br />

le punisce?<br />

– Non tocca a noi fare processi, venga.<br />

Salirono la stra<strong>di</strong>cciola che portava alla casa del sindaco.<br />

Porte e finestre erano sbarrate. Solo dopo tanto bussare<br />

si affacciò alla finestra la donna che aveva urlato quando<br />

avevano portato via il sindaco.<br />

191


– Abbiamo bisogno urgente <strong>di</strong> parlare con suo marito.<br />

– È molto stanco, si è buttato sul letto.<br />

– Solo qualche domanda.<br />

La donna scese, manovrò il chiavistello, tolse le spranghe<br />

e aprì la porta.<br />

– Attendete qui, – <strong>di</strong>sse, in<strong>di</strong>cando una grande stanza<br />

al piano terra, – vedo se riesco a farlo scendere.<br />

Entrò solo il capo dei miliziani seguito da ziu Kicu. Gli<br />

altri sostarono fuori.<br />

Ziu Kicu non era mai entrato nella casa del sindaco.<br />

Con uno sguardo rapido si rese conto ch’era una casa ricca,<br />

come quella <strong>di</strong> don Satta, del notaio e <strong>di</strong> tutti quelli che<br />

contavano nel paese. Scese il sindaco, barcollando, lo sosteneva<br />

la moglie. <strong>Il</strong> suo pallore <strong>di</strong>ceva tutto.<br />

– Sono qui per rallegrarmi dello scampato pericolo, – <strong>di</strong>sse<br />

il capo dei miliziani con molta deferenza, – ma anche per<br />

colpire inesorabilmente gli autori <strong>di</strong> questo gesto insensato.<br />

– Sono troppi, – riuscì a balbettare il sindaco, significando<br />

con l’espressione impotenza e rassegnazione. Pianse.<br />

– So quanto sia doloroso parlarne ancora, ma ho un dovere<br />

da compiere. Uno l’abbiamo già preso, ha confessato<br />

tutto. Eccolo. Ma vogliamo sapere da lei i nomi degli altri e<br />

tutte le violenze che le hanno fatto.<br />

– Volete nomi? Tutti vi ho detto, anche le pietre <strong>di</strong> quest’ingrato<br />

paese si sono rivoltate contro <strong>di</strong> me. Violenze?<br />

Mi volevano impiccare, se non fosse sopraggiunto lui, quello<br />

che <strong>di</strong>te <strong>di</strong> aver preso… Lui mi ha liberato, anche se non<br />

è <strong>di</strong>verso dagli altri… Devo a lui la vita, lasciatelo andare,<br />

altrimenti devo chiedergli perdono –. <strong>Il</strong> sindaco sembrava<br />

aver riacquistato luci<strong>di</strong>tà.<br />

– Senza ragione, un sopruso indegno… Volevano derubarmi.<br />

– Ragioni ce ne sono mille – lo interruppe ziu Kicu.<br />

– Sono venuti loro a casa mia, dopo la processione, hanno<br />

<strong>di</strong>strutto tutto quello che hanno trovato.<br />

– La gente muore <strong>di</strong> fame e tu piangi perché hanno spostato<br />

qualche pietra davanti alla tua casa!<br />

– Sono sfinito, non ho voglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>scutere… Se non occorre<br />

altro…<br />

192<br />

<strong>Il</strong> capo dei miliziani voleva altri nomi, ma il sindaco ripeteva<br />

che c’erano tutti e che ziu Kicu l’aveva salvato da una<br />

fine orrenda.<br />

– Quando sono giunto stavano per lasciarti andare, nessuno<br />

voleva farti del male.<br />

– No, volevano impiccarmi, li ho sentiti io parlare della<br />

quercia <strong>di</strong> Gurgu. Volete nomi? – <strong>di</strong>sse poi accendendosi<br />

d’o<strong>di</strong>o. – Eccone uno: Lukia Carta, è lei che voleva impiccarmi…<br />

quella dovete prendere, gli altri si sono lasciati trascinare.<br />

Andate, altrimenti vi scappa, è una pazza quella.<br />

– Una donna non può trascinarsi <strong>di</strong>etro tutto il paese,<br />

– <strong>di</strong>sse ancora ziu Kicu.<br />

– Lukia Carta! Lukia Carta! – ripeteva il sindaco. – I suoi<br />

occhi da forsennata li ricordo bene… Correte, altrimenti vi<br />

scappa.<br />

<strong>Il</strong> capo dei miliziani or<strong>di</strong>nò a ziu Kicu <strong>di</strong> seguirlo.<br />

– Lui non c’entra, lasciatelo andare, – ripeté il sindaco,<br />

che uscì dalla stanza sostenuto dalla moglie. – Una catena<br />

lunga ci vorrebbe per legarli tutti. Andate, non mi reggo<br />

più. Prima si doveva intervenire, – continuò a piagnucolare,<br />

– chi poteva non mi ha dato ascolto, ora siamo a questo<br />

punto e io sono solo, non si è visto nessuno…<br />

– Calmati, ti fa male, – gli raccomandava la moglie. Ma<br />

lui <strong>di</strong>ceva a voce alta tutto ciò che rimuginava dentro, anche<br />

se il capo dei miliziani e ziu Kicu erano andati via.<br />

Ormai era sera. L’ultima luce si era raccolta sui monti<br />

della Consolata, ma era debole e lontana, più presagio <strong>di</strong> tenebra<br />

che ricordo <strong>di</strong> sole. Uno spesso velo d’ombra nascondeva<br />

le case <strong>di</strong> Cadone e Parraghine allo sguardo dei miliziani<br />

che lasciarono andare ziu Kicu <strong>di</strong>cendo:<br />

– <strong>Il</strong> conto che dobbiamo regolare con lei è più grosso,<br />

ha ragione il sindaco –. Ziu Kicu non rispose. Seguì con lo<br />

sguardo i cavalli che irruppero nei vicoli fragorosamente e<br />

quando li vide scomparire tese le orecchie per capire qualcosa<br />

dallo scalpiccio che dopo un po’ non udì più. Preoccupato<br />

per quel silenzio riprese la strada, fermandosi ogni<br />

tanto. Un ragazzo gli andò incontro <strong>di</strong> corsa e affrettatamente<br />

gli <strong>di</strong>sse che gli uomini si erano allontanati insieme<br />

a zia Lukia.<br />

193


– Dove sono i soldati? –. <strong>Il</strong> ragazzo raccontò ch’erano entrati<br />

nel cortile della sua casa e avevano chiesto <strong>di</strong> zia Lukia.<br />

– Mamma ha risposto “non si è vista”. Anch’io ho risposto<br />

così.<br />

– Va’ a casa, le donne possono avere bisogno <strong>di</strong> te.<br />

– Quando sarò grande potrò entrare nel Cumone?<br />

– Ci sei già – gli rispose ziu Kicu. <strong>Il</strong> ragazzo si allontanò<br />

saltellando e ogni tanto lanciava un grido esprimendo così<br />

la sua felicità. Ziu Kicu si commosse e ricordò altri gri<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

quando lui si cimentava nella lotta o <strong>di</strong> quando domava i<br />

cavalli o incitava alle danze nelle feste della tosatura. Tese le<br />

orecchie e dallo scalpiccio dei cavalli che si allontanavano<br />

dedusse che i miliziani correvano sui monti. Non ne ebbe<br />

paura, lì si era al sicuro.<br />

194<br />

XXIV<br />

I soldati tornarono più volte nel paese e frugarono rabbiosamente<br />

in ogni casa: cercavano i pastori che avevano visto<br />

<strong>di</strong>leguarsi come ombre sui monti. Le minacce e qualche<br />

arresto nulla poterono contro l’ostinato silenzio delle donne<br />

e dei ragazzi. Del tumulto <strong>di</strong> Orvine s’era parlato anche a<br />

Cagliari: si temeva il contagio, anche se negli altri paesi non<br />

vi era ancora alcun segno <strong>di</strong> ribellione. <strong>Il</strong> conte de Viry, dopo<br />

uno scontro col viceré, che gli rimproverava <strong>di</strong> non essere intervenuto<br />

al momento giusto con la forza, mandò una lettera<br />

a don Satta, rammaricandosi <strong>di</strong> aver mal riposto la sua fiducia:<br />

“È stata <strong>di</strong>sarcionata malamente, mi auguro che riesca a<br />

rimontare in sella e riprendere le re<strong>di</strong>ni in mano. Faccio ritirare<br />

i militi, ma il tempo che mi è concesso e che le concedo<br />

è breve, una settimana, <strong>di</strong>eci giorni al massimo. Poi <strong>di</strong> tutto<br />

ciò che lei ha fatto non rimarrà niente”.<br />

Don Satta stava vivendo giorni d’inferno. Sentiva che<br />

tutto gli si rivoltava contro. <strong>Il</strong> notaio, il sindaco e tutti quelli<br />

del comitato agrario trovarono il coraggio <strong>di</strong> puntare il <strong>di</strong>to<br />

contro <strong>di</strong> lui, minacciandolo, se non avesse fatto subito<br />

qualcosa, <strong>di</strong> rivolgersi <strong>di</strong>rettamente al viceré per far ritornare<br />

i soldati, tutto l’esercito se fosse stato necessario. Li trattava<br />

rudemente, ma a ogni incontro il segno della sua impotenza<br />

era sempre più manifesto. Passava le notti insonni. “Che<br />

confusione ho dentro <strong>di</strong> me”, andava ripetendosi, “voglio e<br />

non voglio, non so più se amo o se o<strong>di</strong>o”. Al mattino si sentiva<br />

sfinito. Non aveva voglia <strong>di</strong> niente e non faceva neppure<br />

la passeggiata a Santandria. Quando Carmela gli porse la lettera<br />

del conte la fece mettere da parte, aveva quasi paura <strong>di</strong><br />

aprirla. Lui che non aveva mai temuto niente, che aveva osato<br />

tutto, ora non aveva più alcuna certezza. La lesse <strong>di</strong> sera,<br />

ma ne presentiva già il contenuto. “Vuole sfidarmi aizzandomi<br />

e minacciandomi questo conte impomatato. Non sarai<br />

195


tu a <strong>di</strong>rmi cosa devo fare. Posso tutto, se voglio, posso più<br />

del tuo esercito d’imbecilli”. Quella notte, vinto dalla stanchezza,<br />

dormì a lungo e sognò Lia. Si alzò presto l’indomani<br />

e tornò in chiesa per la messa, che celebrò con poca gente.<br />

Annunciò che quella sera ci sarebbe stata una funzione, senza<br />

<strong>di</strong>re altro. Dopo la messa arrivò a Santandria per le stesse<br />

antiche strade che cento e cento volte aveva percorso. Camminava<br />

senza accorgersi della gente che lo riveriva, come in<br />

uno stato <strong>di</strong> stor<strong>di</strong>mento. A Santandria si sedette su un sasso<br />

e, mentre volgeva lo sguardo a <strong>Marreri</strong> e alla Consolata, sentiva<br />

una tristezza infinita, quasi dovesse staccarsi per sempre<br />

da quei luoghi amati e o<strong>di</strong>ati. Poi lo sguardo si posò sul paese<br />

e provò una pena profonda, come se qualcosa <strong>di</strong> terribile<br />

stesse per abbattersi su quelle povere casupole e sulla gente<br />

che vi <strong>di</strong>morava. Tornò a casa e prese un po’ <strong>di</strong> cibo, poi si<br />

rinchiuse nello stu<strong>di</strong>o e cercò <strong>di</strong> acquistare luci<strong>di</strong>tà e calma<br />

leggendo. Suonarono le campane per la funzione. I suoni gli<br />

sembravano chiari e incalzanti, ma avevano una tristezza insolita.<br />

Al terzo tocco scese. Carmela gli porse il cappello e il<br />

bastone senza <strong>di</strong>re niente, ma non poté trattenere il pianto,<br />

come se sapesse. Lui cercò <strong>di</strong> sorridere e, come da tempo<br />

non gli accadeva più, le posò una mano sulla spalla affettuosamente.<br />

Fuori, addossato al muro, come un cane orfano,<br />

c’era Kiocò. Lui gli fece un cenno con la testa e Kiocò gli<br />

andò <strong>di</strong>etro, non osando stargli a fianco. La chiesa era affollata<br />

come non mai. Don Satta non provò piacere, anzi ebbe<br />

paura <strong>di</strong> tutta quella gente che pareva pronta a rivoltarglisi<br />

contro, come aveva fatto col sindaco. I soci del comitato<br />

agrario c’erano tutti. Andò verso il pulpito, senza fermarsi all’altare.<br />

Camminava piano, pesantemente, con la testa china.<br />

La folla era sorpresa <strong>di</strong> quel viso tirato. Quando prese a parlare,<br />

i fedeli che ansiosamente attendevano <strong>di</strong> sapere, notarono<br />

che anche nella voce vi era qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso.<br />

– Non posso più tacere… Sono pronto a dare la mia vita,<br />

s’è necessario… <strong>Il</strong> mio paese, la mia gente devono salvarsi…<br />

Hanno sopportato le avversità più crudeli, nessuno ha sofferto<br />

più <strong>di</strong> loro… Uno smarrimento non può perderli, non<br />

può perderci –. Parlò delle sciagurate vicende degli ultimi<br />

196<br />

tempi, del lento inesorabile <strong>di</strong>sgregarsi <strong>di</strong> tutto, del suo intervento<br />

per mandare via i soldati e fermare l’esercito ch’era stato<br />

mandato per punire il paese. La gente era <strong>di</strong>sorientata, non<br />

sapeva se consolarsi o <strong>di</strong>sperarsi; le pause <strong>di</strong> don Satta apparivano<br />

come vortici dentro cui tutto poteva sprofondare.<br />

– Gli eserciti possono <strong>di</strong>struggere col ferro e col fuoco,<br />

non possono liberarci dal male che ci minaccia –. La voce,<br />

rintronando cupamente nel silenzio sbigottito della chiesa,<br />

faceva ricordare altre paure quando, <strong>di</strong> notte, le case tremavano<br />

sferzate dai venti. Parlò del <strong>di</strong>avolo, delle sue tentazioni<br />

per sedurre e deviare: si presentava immacolato come un<br />

agnello, ammantato <strong>di</strong> tutte le virtù.<br />

– Ci vuole una grande fede per resistergli, un potere<br />

più grande per sconfiggerlo –. Ci fu una pausa ancora più<br />

lunga, poi riprese:<br />

– Sapete <strong>di</strong> chi parlo e sapete quanto sia doloroso per<br />

me fare il passo che sto per fare. Sono un ministro <strong>di</strong> Dio,<br />

devo salvare il gregge che mi è stato affidato, non posso sottrarmi<br />

anche se mi sanguina il cuore…<br />

Pilimeddu e Kiocò spensero le candele dell’altare. Rimase<br />

acceso solo un esile cero nella cappella <strong>di</strong> Santa Prisca.<br />

– Io ho il potere <strong>di</strong> vincere il <strong>di</strong>avolo. Ti scomunico,<br />

Alessio Biote, perisci e il male che porti si <strong>di</strong>sperda nell’aria<br />

o sprofon<strong>di</strong> con te. Scomunico chiunque gli parli, chiunque<br />

lo ascolti, chiunque lo avvicini…<br />

Un urlo si levò dalla folla. Nel buio s’intravvedeva la figura<br />

ancora più nera del rettore, immobile, col viso rivolto<br />

in alto e le mani tese come se volesse ghermire il <strong>di</strong>avolo che<br />

aveva appena esorcizzato.<br />

– Andate e ricordate – <strong>di</strong>sse senza muoversi.<br />

I fedeli restarono curvi, con gli occhi chiusi e la mente<br />

confusa, come se guardandosi intorno dovessero vedere i segni<br />

della scomunica che li aveva appena colpiti. Incominciarono<br />

a muoversi quelli che sostavano vicino alla porta, poi<br />

uno <strong>di</strong>etro l’altro, silenziosamente, uscirono tutti e si <strong>di</strong>leguarono<br />

correndo.<br />

<strong>Il</strong> notaio, il sindaco e qualche altro seguirono don Satta<br />

in sagrestia.<br />

197


– Quanta devozione nella folla! – esclamò il notaio, – e<br />

quanta saggezza e decisione nelle sue parole. La preoccupazione<br />

e la paura ci hanno fatto apparire meno devoti <strong>di</strong> quanto<br />

siamo…<br />

Don Satta era già andato via senza degnare <strong>di</strong> uno sguardo<br />

quelli che gli stavano attorno, forse non aveva u<strong>di</strong>to veramente<br />

le parole del notaio il quale continuava a parlare in<br />

uno stato <strong>di</strong> esaltazione, tessendo le lo<strong>di</strong> del rettore che con<br />

una mossa imprevista e impreve<strong>di</strong>bile poteva <strong>di</strong>sporre ora del<br />

paese a suo piacimento. <strong>Il</strong> sindaco annuiva con la testa e aveva<br />

la stessa espressione <strong>di</strong> quando ziu Kicu l’aveva strappato dalle<br />

groppe del somaro. Solo Kiocò lo seguì, senza però avvicinarglisi<br />

troppo. Voleva rendersi utile in qualche modo e per far<br />

capire che c’era tossicchiava. Don Satta fece un gesto con la<br />

mano, non brusco, amichevole quasi, e Kiocò capì che doveva<br />

lasciarlo solo.<br />

La primavera era vicina, ma la giornata era grigia e fredda,<br />

come se si fosse ancora nel cuore dell’inverno. <strong>Il</strong> sole forse<br />

si avvicinava all’orizzonte, ma non si capiva, in ogni punto<br />

del cielo si <strong>di</strong>ffondeva una luce scialba che filtrava faticosamente<br />

dalle nuvole.<br />

Don Satta rientrò a casa. Si rinchiuse nello stu<strong>di</strong>o e<br />

camminò a lungo avanti e in<strong>di</strong>etro. Non riusciva a pensare a<br />

niente. Sentiva uno stor<strong>di</strong>mento e una confusione come dopo<br />

una febbre. Bevve un po’ <strong>di</strong> liquore <strong>di</strong> mirto poi uscì <strong>di</strong><br />

nuovo <strong>di</strong> casa e attraverso le strade <strong>di</strong> Cadone tornò a Santandria.<br />

Stette lì a lungo, guardando <strong>Marreri</strong> con una fissità<br />

senza pensieri. All’imbrunire, quando la vallata ormai non si<br />

<strong>di</strong>stingueva più, si mosse e percorse i vicoli <strong>di</strong> Parraghine<br />

sorprendendosi della desolazione e del silenzio che gravava<br />

sulle casupole. Camminò a lungo: non riusciva a percepire<br />

alcuna voce, alcun suono. Quando era già notte si fermò sul<br />

terrapieno del camposanto vecchio. La casa Pintore era segnata<br />

da una debole luce. Poter ritornare in<strong>di</strong>etro, poter ancora<br />

attendere qualcosa, sperare, confondere un rossore del<br />

viso o uno sguardo con una promessa e illudersi… Ma tutto<br />

era mutato. Riprese la strada per rientrare a casa e fece un’altra<br />

sosta, come un tempo. Non minacciò col bastone. C’era<br />

buio e silenzio. Dalle fessure della porta, al piano interrato,<br />

198<br />

filtrava un debolissimo riverbero, come <strong>di</strong> fuoco prossimo a<br />

spegnersi. Avrebbe voluto sapere qualcosa: tendeva l’orecchio,<br />

ma non si u<strong>di</strong>va niente, neanche un bisbiglio. Era certo<br />

<strong>di</strong> aver vinto, ma era una vittoria che non gli dava alcun<br />

piacere, anzi gli lasciava un senso <strong>di</strong> vuoto e <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne.<br />

Non aveva pentimenti, ciò che aveva fatto era una necessità,<br />

non per sé che avrebbe potuto <strong>di</strong>sinteressarsi e assistere alla<br />

rovina <strong>di</strong> tutto, ma per gli altri, per quelli che avevano riposto<br />

fiducia in lui e gliel’avevano confermata anche quando<br />

sembrava che dovesse soccombere. Alessio era una vittima<br />

predestinata, come sua madre, anch’egli aveva un germe <strong>di</strong><br />

follia, <strong>di</strong>versa da quella innocente <strong>di</strong> Lia.<br />

– Piangerò la tua fine, ma <strong>di</strong> te devo <strong>di</strong>struggere anche<br />

il ricordo – <strong>di</strong>sse allontanandosi.<br />

<strong>Il</strong> silenzio e il buio che gravavano sulle case <strong>di</strong> Cadone e<br />

Parraghine nascondevano il tormento della gente tornata <strong>di</strong><br />

corsa dalla chiesa per cercare in quei miseri rifugi un po’ <strong>di</strong><br />

sollievo a tanta angoscia. Ma il terrore della scomunica non<br />

dava tregua, i pensieri contrad<strong>di</strong>cevano i sentimenti in uno<br />

smarrimento <strong>di</strong>sperante. Non era possibile tenere tanto<br />

sconforto da soli, bisognava parlarne, sentire anche gli altri.<br />

Ci furono an<strong>di</strong>rivieni confusi <strong>di</strong> donne e <strong>di</strong> ragazzi da una<br />

casa all’altra, da un cortile all’altro; parlavano sottovoce, lo<br />

smarrimento era <strong>di</strong> tutti, nessuno aveva un’idea, nessuno<br />

osava alzare la voce.<br />

– Sentiremo gli uomini, bisogna avvisarli.<br />

Qualcuno andò sui monti a portare la notizia.<br />

– La male<strong>di</strong>zione ce l’avevamo da tempo, – ripetevano<br />

ancora le donne in quel confuso andare e venire. Qualcuno<br />

a mezze parole azzardò che il Cumone aveva scompigliato<br />

tutto. Dicevano e non <strong>di</strong>cevano.<br />

– Contro Alessio non abbiamo niente, anzi.<br />

Ma certi poteri si dovevano temere. Cercavano appigli<br />

per giustificare con la ragione quello che dovevano fare per<br />

paura.<br />

– Anche questo mettere tutto a muntone…<br />

– Non si è più padroni <strong>di</strong> niente.<br />

– Non possiamo contare le nostre pecore.<br />

– Non possiamo nascondere le nostre miserie.<br />

199


Le recriminazioni erano tante, ciascuno frugava nella<br />

memoria. Chi lamentava che il marito fosse stato costretto a<br />

lasciare le pecore per tagliare siepi o portare pietre a spalla,<br />

chi non perdonava al Cumone le fatiche sopportate dal proprio<br />

uomo mentre altri se ne stavano a guardare, chi vedeva<br />

parzialità o protezioni e chi non sopportava che gente da<br />

niente o ragazzi comandassero senza avere rispetto per i capelli<br />

bianchi. Non salvavano più nulla. Era una gara. Accusare<br />

sembrava servisse a scongiurare il male minacciato da<br />

don Satta.<br />

– Dobbiamo <strong>di</strong>fendere i nostri figli, le nostre cose.<br />

– Si viveva in pace, il rettore ha sempre avuto cura <strong>di</strong> tutti<br />

e <strong>di</strong> tutto, chi faceva il suo dovere non aveva niente da temere.<br />

– Quanto bene ha fatto!<br />

Le voci che si levavano nel buio dei cortili e delle case<br />

erano in<strong>di</strong>stinte, come le litanie che si u<strong>di</strong>vano in chiesa.<br />

– Atten<strong>di</strong>amo gli uomini.<br />

Quando smettevano <strong>di</strong> accusare si sorprendevano <strong>di</strong> questo<br />

repentino mutamento, ricordando gli entusiasmi e le<br />

commozioni che ciascuno aveva vissuto partecipando alle vicende<br />

del Cumone. Per vincere lo smarrimento ripetevano<br />

che si dovevano <strong>di</strong>fendere i figli e le cose. Gli uomini si precipitarono<br />

in paese decisi a ribellarsi a quell’ultimo sopruso <strong>di</strong><br />

don Satta. Tutti sapevano. Chi trovò la casa vuota corse nel<br />

cortile o nella casa del vicino. Le donne tacquero. La presenza<br />

degli uomini, per un momento, sembrò fugare le paure.<br />

– Io non la temo la scomunica, – <strong>di</strong>sse Palichedda, rientrato<br />

insieme a Lukia Carta. Le donne si fecero il segno della<br />

croce e protestarono per quella ch’era sembrata una bestemmia.<br />

Lukia <strong>di</strong>sse che la scomunica serviva a terrorizzare<br />

per <strong>di</strong>sperdere il Cumone.<br />

– Con la scomunica non si scherza, – si levò una voce<br />

tremante <strong>di</strong> paura. – Ci sono le prove, le abbiamo viste e toccate<br />

con mano tutti.<br />

– E quello che non sappiamo? – soggiunse un’altra. <strong>Il</strong> rettore<br />

aveva fatto andar via i soldati e aveva fermato l’esercito.<br />

– Per Alessio non possiamo perire tutti.<br />

200<br />

Palichedda voleva trovare ragioni per convincere, ma le<br />

donne ripetevano le accuse che avevano detto tante volte<br />

quella notte.<br />

– Non è cosa <strong>di</strong> poco conto quello che ci sta accadendo,<br />

– <strong>di</strong>sse Lukia.<br />

– Bisogna attendere il giorno, sentire gli altri del Cumone,<br />

cercare una via d’uscita. La scomunica tenta <strong>di</strong> vincere<br />

dove hanno fallito i soldati.<br />

– Torniamo alle nostre case, – <strong>di</strong>sse Palichedda, – ciascuno<br />

ci pensi per conto proprio.<br />

I cortiletti e le case si svuotarono ed era vicina l’alba,<br />

un’alba carica d’incertezze e <strong>di</strong> paure.<br />

201


XXV<br />

La scomunica <strong>di</strong> don Satta era uscita dalla chiesa prima<br />

dei fedeli ed era rimbalzata <strong>di</strong> casa in casa creando paura e<br />

sgomento ovunque. Ziu Kicu e Bakis, appena saputo, corsero<br />

da Alessio. Trovarono Pasqua Gaddari piangente, fuori<br />

nel cortile.<br />

– Sa niente lui? – chiese Bakis.<br />

– No, temo che capisca dalla mia debolezza. Sprofonderemo<br />

tutti. Le male<strong>di</strong>zioni del rettore scendono. Quella è<br />

l’origine del male <strong>di</strong> Alessio.<br />

– No, non sprofonderemo, – esclamò ziu Kicu. – Se sarà<br />

necessario… – si guardò le mani sbarrando gli occhi. – Va’<br />

nella stanza <strong>di</strong> sopra, – <strong>di</strong>sse poi a Pasqua. Imbruniva già.<br />

<strong>Il</strong> letto sul quale giaceva Alessio sembrava una culla o<br />

qualcosa che ricordava il fondo della vita. Era <strong>di</strong> ginepro<br />

antico con la spalliera a tre archi venata <strong>di</strong> rosso e <strong>di</strong> bianco,<br />

sulla quale ziu Kicu aveva intagliato un sole luminoso come<br />

un’alba o un tramonto. <strong>Il</strong> leggero corpo <strong>di</strong> Alessio, nella sua<br />

dolente immobilità, segnava appena il materasso <strong>di</strong> lana<br />

d’agnello. La vita si era raccolta tutta nello sguardo, che aveva<br />

un’intensità nuova. Ziu Kicu e Bakis gli chiesero come<br />

stava. Lui sorrise con gli occhi, <strong>di</strong>speratamente rassegnato e<br />

<strong>di</strong>sse che stava come lo vedevano. Li fece sedere alla sua sinistra,<br />

dalla parte del forno.<br />

– Siete stato a Niniana? – chiese a ziu Kicu e nel suo<br />

sguardo vi era il rimpianto <strong>di</strong> staccarsi dalle cose che amava.<br />

Ziu Kicu gli parlò del seminato che cresceva a vista<br />

d’occhio e, accompagnandosi coi gesti delle mani, cercava<br />

<strong>di</strong> far capire il pro<strong>di</strong>gio <strong>di</strong> Niniana: tanta grazia <strong>di</strong> Dio non<br />

si era mai vista.<br />

– La casa… – ziu Kicu allargò le braccia come se non<br />

riuscisse a trovare le parole. – Sembra sia stata sempre lì dalle<br />

origini del tempo… Bakis può <strong>di</strong>re, io mi faccio trasportare,<br />

voglio troppo bene a Niniana –. Alessio seguiva più i<br />

202<br />

gesti che le parole <strong>di</strong> ziu Kicu, sapeva già com’era verde la<br />

conca e com’era grande la casa.<br />

– È così, – <strong>di</strong>sse Bakis, – ora che c’è la casa e che la conca<br />

è verde tutto è <strong>di</strong>verso. Appena ti alzerai scenderemo insieme<br />

e vedrai.<br />

– Volevate fare la festa per la casa… – <strong>di</strong>sse Alessio. – Oggi<br />

ho sentito suonare le campane, <strong>di</strong> mattina e <strong>di</strong> sera, cos’è<br />

successo in paese?<br />

Bakis rispose che il rettore Satta era tornato a <strong>di</strong>r messa.<br />

– E <strong>di</strong> sera? Una funzione per annunziare che cosa?<br />

– Funzioni ne fa tante, non sappiamo, – <strong>di</strong>sse ancora<br />

Bakis confondendosi un po’.<br />

– Credevo sapeste, neanche zia sa… stando a letto si <strong>di</strong>venta<br />

curiosi. Dovete portare Pepparosa alla casa e i ragazzi.<br />

Ricor<strong>di</strong>, Bakis, volevi trascorrere la notte fra le pietre per vedere<br />

l’alba…<br />

Bakis fece <strong>di</strong> sì con la testa. Per nascondere la commozione<br />

si avvicinò al forno e attizzò il fuoco. Alessio e ziu Kicu<br />

si guardavano senza parlare. <strong>Il</strong> loro tacere era doloroso.<br />

– Verrai anche tu a Niniana, – gli <strong>di</strong>sse ziu Kicu, che<br />

voleva rompere quel silenzio, – senza <strong>di</strong> te non ci può essere<br />

festa.<br />

<strong>Il</strong> forno, riacceso, illuminava tutta la stanza. Bakis si avvicinò<br />

al letto.<br />

– È come andare al buio senza <strong>di</strong> te, – <strong>di</strong>sse. Alessio<br />

sembrava <strong>di</strong>stratto, fissava le fiamme del forno.<br />

– Aver conosciuto voi è tanto per una vita sola: non posso<br />

chiedere altro, – <strong>di</strong>sse come se stesse parlando fra sé. Ziu Kicu,<br />

col mento sul petto, sembrava imbronciato, non riusciva a<br />

contenere ciò che gli gravava il cuore: aveva voglia <strong>di</strong> urlare, <strong>di</strong><br />

picchiarsi la testa coi pugni, <strong>di</strong> lasciarsi cadere in un angolo e<br />

piangere. Le fiamme del forno si erano nuovamente spente.<br />

Nel buio Bakis soffocava i singhiozzi con sospiri profon<strong>di</strong>.<br />

– Accendetemi ancora il fuoco… Al buio non riesco ad<br />

abituarmi… Mi piace il profumo della legna.<br />

Bakis e ziu Kicu si precipitarono a caricare il forno. Alessio<br />

muoveva la testa ogni tanto. Anche il collo si era assottigliato,<br />

sembrava l’ultimo esile filo sul quale scorresse a fatica<br />

la vita.<br />

203


– È tar<strong>di</strong>, andate, ora non mi occorre niente.<br />

– Io resto con te – <strong>di</strong>sse Bakis, inginocchiandosi davanti<br />

al letto.<br />

– Va’ con ziu Kicu… non dovete separarvi, avete bisogno<br />

<strong>di</strong> tanto coraggio.<br />

Gli <strong>di</strong>edero la buona notte e uscirono. Fuori c’era Pasqua<br />

Gaddari.<br />

– Glielo avete detto?<br />

– No, ma cre<strong>di</strong>amo che l’abbia capito.<br />

Pasqua pianse ancora, quasi volesse consumare tutte le<br />

lacrime prima <strong>di</strong> tornare da Alessio. Nel cortiletto c’era buio<br />

e ziu Kicu e Bakis lo attraversarono a tentoni.<br />

– Dobbiamo andare a sentire nelle case, – <strong>di</strong>sse Bakis.<br />

– Lasciamo che ciascuno vinca da solo la paura.<br />

– E domani cosa faremo? – chiese Bakis.<br />

– Andremo sui monti a parlare coi pastori.<br />

Scesero verso Cadone.<br />

– Separiamoci qui – <strong>di</strong>sse ziu Kicu fermandosi a un incrocio.<br />

Ciascuno percorse il suo vicolo. Camminavano curvi,<br />

come se faticassero a traversare la notte buia.<br />

L’indomani, appena ci fu luce, ziu Kicu e Bakis salirono<br />

a Nighirisè, a cavallo. Era una giornata fredda e nuvolosa,<br />

minacciava <strong>di</strong> piovere: la stagione sembrava regre<strong>di</strong>re innaturalmente<br />

verso l’inverno. Si fermarono sotto la grande quercia<br />

e attesero. Da lontano giungevano i belati delle pecore e i<br />

fischi <strong>di</strong> Buzeddu, il capraro del Cumone, che svettava in cima<br />

al rocciaio più alto, come un dominatore <strong>di</strong> spazi. A poco<br />

a poco arrivarono i pastori, la voce si era sparsa rapidamente.<br />

Dal paese salirono i conta<strong>di</strong>ni. Dopo qualche ora<br />

c’erano tutti. Vi era un grande imbarazzo. Alcuni non riuscivano<br />

a sollevare lo sguardo da terra.<br />

– Dobbiamo trovare il coraggio <strong>di</strong> essere onesti con noi<br />

stessi – <strong>di</strong>sse ziu Kicu.<br />

Qualcuno brontolò, l’onestà non c’entrava niente.<br />

– C’entra, c’entra, – <strong>di</strong>sse Bakis, – la paura ci può portare<br />

a fare cose che non vogliamo. Dobbiamo decidere se il<br />

Cumone deve finire perché qualcuno tenta <strong>di</strong> farci paura.<br />

Palichedda, succhiando rabbiosamente un mozzicone <strong>di</strong><br />

204<br />

sigaro, saltò su a <strong>di</strong>re che a lui le minacce del rettore non gli<br />

facevano tremare le gambe.<br />

– Chi ha paura <strong>di</strong> queste cose non è uomo – <strong>di</strong>sse ancora<br />

puntando il <strong>di</strong>to contro tutti.<br />

Ci fu un mormorio <strong>di</strong> protesta.<br />

– Cre<strong>di</strong> <strong>di</strong> essere più uomo degli altri, tu? – gli chiese<br />

Goddette, un pastore non più giovane, che tutti ricordavano<br />

per il coraggio che aveva avuto quando era fuggito dalla prigione<br />

<strong>di</strong> Bono. – Non temo gli uomini e tu lo sai. La minaccia<br />

del rettore tocca altro.<br />

Quasi tutti erano d’accordo con Goddette. Uno gridò:<br />

– Le donne sono terrorizzate, non possiamo vivere con<br />

questa paura dentro casa –. Si levarono voci; tutti volevano<br />

tornare a vivere la loro vita, come prima, quando non c’era il<br />

Cumone, che aveva portato solo guai.<br />

Grallinu, un altro pastore, era il più intransigente.<br />

– Lo sappiamo tutti, appena il rettore ha detto quelle<br />

parole, Alessio è stato colpito da un male misterioso e non si<br />

è più mosso, lo voltano nel letto col lenzuolo. Sta morendo,<br />

ma non è un morire da uomo.<br />

Si levarono altre voci piene <strong>di</strong> sgomento:<br />

– Dicono che urla come una bestia e che si voglia pentire.<br />

Ziu Kicu e Bakis erano spaventati, non dalla scomunica<br />

del rettore, ma dal ce<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> uomini come Goddette,<br />

capaci <strong>di</strong> mettere a repentaglio la propria vita per salvare un<br />

agnello e <strong>di</strong> sfidare qualsiasi pericolo.<br />

– <strong>Il</strong> male <strong>di</strong> Alessio non è nuovo, dura da tempo, io lo<br />

so, anche se lui non si è lamentato mai <strong>di</strong> niente e ha cercato<br />

<strong>di</strong> nasconderlo –. Le parole <strong>di</strong> ziu Kicu non convincevano<br />

nessuno. Vi era un’incredulità caparbia. Alessio l’avevano<br />

visto salire alla Consolata, correre da una parte all’altra <strong>di</strong><br />

notte e <strong>di</strong> giorno, scrivere, fare viaggi lunghi a Cagliari e<br />

Orosei… uno che faceva quelle cose non poteva tener nascosto<br />

un male così grave. Ziu Kicu era scoraggiato. Non era<br />

solo la paura <strong>di</strong> oggi che portava a stravolgere tutto, vi era<br />

qualcos’altro, covato a lungo con rancore. Continuò:<br />

– Quali pentimenti può avere Alessio? Forse <strong>di</strong> averci dato<br />

tutto, intelligenza, cuore, salute? Di aver rinunziato a tutto<br />

per il Cumone?<br />

205


Bakis <strong>di</strong>sse che Alessio, se avesse voluto, sarebbe arrivato<br />

alla corte <strong>di</strong> Torino, lui lo sapeva, a Cagliari l’avevano pregato<br />

come un santo.<br />

– Tu sai tutto… – gli gridarono.<br />

Ziu Kicu riprese:<br />

– Io non posso dare saggezza e coraggio a chi non ne ha,<br />

sono cose che toccano la coscienza <strong>di</strong> ciascuno… Voglio solo<br />

sapere da quelli che stanno per scappare che cosa li ha legati<br />

finora al Cumone.<br />

Palichedda <strong>di</strong>sse che a lui il Cumone stava bene e l’avrebbe<br />

<strong>di</strong>feso contro chiunque. Goddette, col volto accigliato che<br />

esprimeva un <strong>di</strong>sagio, <strong>di</strong>sse che i legami <strong>di</strong> ieri erano stati<br />

spezzati. Si levarono altre voci per approvare o <strong>di</strong>ssentire, ma<br />

confusamente. Poi una voce isolata:<br />

– Se dobbiamo <strong>di</strong>re tutto, a me il Cumone non andava<br />

bene, ci rimanevo masticando fiele.<br />

Altri <strong>di</strong>ssero che anche loro se avessero potuto parlare le<br />

avrebbero cantate chiare da tempo.<br />

– Perché non avete parlato? – chiese Bakis rabbiosamente.<br />

– Sempre pieni <strong>di</strong> paure siete: oggi la scomunica e ieri<br />

che cosa?<br />

– Ieri non si poteva parlare, – replicò Grallinu, – tutti<br />

adoravano i re magi e la madonna: Alessio, Kicu, Bakis e Pepparosa.<br />

– È proprio così – soggiunsero altri. – Facevano e <strong>di</strong>sfacevano<br />

tutto loro.<br />

– Noi dovevamo <strong>di</strong>re solo che andava bene.<br />

– Era peggio <strong>di</strong> una chiesa, ogni volta si doveva fare il<br />

ringraziamento per qualcosa.<br />

Grallinu, rivolgendosi a Bakis, gridò:<br />

– A te voglio <strong>di</strong>re una cosa: hai ancora il latte sulle labbra<br />

e hai avuto il coraggio <strong>di</strong> venirmi a contare i bocconi<br />

che dovevo mangiare, senza rispetto alcuno per questa testa<br />

bianca e per le donne.<br />

– Avete perso la ragione, – <strong>di</strong>sse ziu Kicu. – Non avete il<br />

coraggio <strong>di</strong> riconoscere che senza la solidarietà <strong>di</strong> tutti oggi<br />

saremmo alla fame. Donna Pepparosa vi ha dato tutto, le sue<br />

ricchezze, il suo lavoro, cosa volete? <strong>Il</strong> Cumone, questo Cumone,<br />

l’avete spezzato, niente potrà più ricomporlo, sono<br />

206<br />

cose vostre, avrete tempo per rimpiangere, ma la vigliaccheria<br />

e l’ingratitu<strong>di</strong>ne non ve la perdono.<br />

Si levò ancora un mormorio <strong>di</strong> protesta.<br />

– Nessuno ci può impe<strong>di</strong>re <strong>di</strong> <strong>di</strong>re come la pensiamo.<br />

– Alessio non è il re <strong>di</strong> Spagna.<br />

– Ci ha inimicato con tutti, abbiamo contro il rettore,<br />

il sindaco, il collettore delle decime, gli esattori, i soldati…<br />

Quante male<strong>di</strong>zioni non ci ha attirato addosso –. Era Grallinu<br />

che sempre più furibondo faceva quell’elenco.<br />

– A Cu<strong>di</strong>nattas contro il sindaco c’eravate tutti, – <strong>di</strong>sse<br />

Palichedda, – non vi aveva mandato Alessio.<br />

– Tua moglie, quella pazza, ci ha attirato lì – gli gridò<br />

Grallinu.<br />

– Non ti azzardare a <strong>di</strong>re un’altra parola contro Lukia, altrimenti<br />

ti trascino come un cane, fino a consumarti le carni.<br />

Stavano per venire alle mani. Li separarono, ma Palichedda<br />

non si dava pace.<br />

– Che uomini siete? Non avete testa, né cuore, né sangue…<br />

Stracci siete.<br />

Goddette, cercando <strong>di</strong> placare quella baraonda, <strong>di</strong>sse che<br />

non erano lì per azzuffarsi.<br />

– Dobbiamo tornare com’eravamo prima del Cumone<br />

– insisteva Grallinu. – Ciascuno si riprende ciò che aveva, è<br />

tutto scritto.<br />

Un conta<strong>di</strong>no chiese cosa avrebbe preso chi non aveva<br />

portato niente e aveva lavorato come uno schiavo.<br />

– Tutti abbiamo lavorato, – rispose ancora Grallinu, – a<br />

me hanno tolto le pecore e mi hanno mandato a spietrare<br />

terre non mie.<br />

Sorsero altri contrasti, i conta<strong>di</strong>ni chiedevano come si<br />

faceva a <strong>di</strong>videre subito quello che avevano seminato e le<br />

altre cose che non erano ripartibili, come la casa <strong>di</strong> Niniana.<br />

I pastori rispondevano che il grano si poteva lasciarlo fino<br />

al raccolto.<br />

– Ma chi lo raccoglierà? – chiedevano ancora conta<strong>di</strong>ni.<br />

I pastori sostenevano che dovevano mietere e trebbiare quelli<br />

del mestiere e tutto il raccolto si doveva <strong>di</strong>videre in parti<br />

uguali, perché loro dovevano essere indennizzati del formaggio<br />

che avevano ceduto ai genovesi. Disfare era più <strong>di</strong>fficile<br />

207


che fare, anche perché tutti erano spinti dal <strong>di</strong>samore e dalla<br />

fretta <strong>di</strong> fuggire, <strong>di</strong> mettersi in salvo. Riaffiorarono le antiche<br />

rivalità. I temuti sconfinamenti scagliavano i conta<strong>di</strong>ni<br />

contro i pastori.<br />

– Se passerai il limite te la vedrai con me.<br />

Goddette cercava inutilmente <strong>di</strong> placarli. Palichedda ce<br />

l’aveva contro tutti. Ziu Kicu e Bakis, vinti dallo sconforto,<br />

erano ammutoliti, si sentivano addosso tutte quelle accuse.<br />

Montarono a cavallo e tornarono in paese, senza <strong>di</strong>re niente.<br />

Palichedda li seguì, ma per tornare alle pecore del Cumone,<br />

pronto a <strong>di</strong>fenderle contro chiunque avesse osato toccarle.<br />

Andò via anche Palatosa, ch’era salito solo e solo era rimasto<br />

per tutto il tempo appoggiato al tronco della quercia con le<br />

mani in tasca. Non aveva detto una parola. Gli altri continuavano<br />

a urlare, insultandosi, in una confusione crescente. L’impossibilità<br />

<strong>di</strong> fare un taglio netto subito rendeva tutti più furibon<strong>di</strong>.<br />

<strong>Il</strong> Cumone era <strong>di</strong>ventato una catena, aveva finito per<br />

legare tutti e nessuno sembrava capace <strong>di</strong> sciogliere quei no<strong>di</strong>.<br />

– Sono scappati, – gridarono alcuni in<strong>di</strong>cando ziu Kicu<br />

e Bakis.<br />

Goddette <strong>di</strong>sse amaramente che da soli non sarebbero<br />

riusciti a trovare una via d’uscita.<br />

– Non sappiamo decidere più niente, – fece eco Grallinu,<br />

– pensavano tutto loro, le nostre teste si sono seccate.<br />

Goddette replicò ch’era <strong>di</strong>fficile mettere d’accordo l’ingor<strong>di</strong>gia<br />

<strong>di</strong> tutti.<br />

– Siamo come porci affamati, – <strong>di</strong>sse ancora, – ciascuno<br />

vuole mangiarsi tutto. Kicu e Bakis hanno fatto bene ad andar<br />

via.<br />

– Allora sei con loro? – gli chiesero vociando.<br />

– Non lo so, forse sì; c’è un tale scompiglio nelle nostre<br />

menti… Ho paura che vada a finir male.<br />

– È la male<strong>di</strong>zione che incomincia a cadere anche su <strong>di</strong><br />

noi – <strong>di</strong>sse Grallinu. Gli altri si guardavano smarriti. Attendevano<br />

che qualcuno prendesse una decisione per tutti.<br />

Goddette era il più tormentato, <strong>di</strong>sse che in quella baraonda<br />

non potevano decidere niente.<br />

– Io torno a fare quello che facevo. <strong>Il</strong> tempo chiarirà<br />

qualcosa.<br />

208<br />

– A uno a uno si tirano in<strong>di</strong>etro tutti, cosa <strong>di</strong>remo alle<br />

donne?<br />

– Che ci lascino in pace, – urlò Goddette, – sono loro<br />

che ci hanno messo questo <strong>di</strong>avolo addosso.<br />

Si allontanò. Prima <strong>di</strong> scomparire si voltò e gridò ancora:<br />

– Non ho niente contro le donne… Non ragioniamo<br />

più. Abbiamo bisogno <strong>di</strong> stare soli. Dobbiamo essere onesti<br />

con noi stessi, come <strong>di</strong>ceva Kicu –. E scese svelto il pen<strong>di</strong>o<br />

senza più voltarsi.<br />

Gli altri si rivolsero a Grallinu, volevano sapere cosa dovevano<br />

fare. Lui rabbiosamente <strong>di</strong>sse che non poteva prendere<br />

a pugni il cielo per trovare una via d’uscita.<br />

– Io non ho la testa <strong>di</strong> Alessio, – <strong>di</strong>sse e andò via anche<br />

lui imprecando contro tutti e contro se stesso.<br />

Nessuno rientrò in paese. I pastori restarono sui monti,<br />

i conta<strong>di</strong>ni scesero a Niniana, a Molas e a Nurthole per sfogare<br />

l’amarezza facendo qualcosa. Attorno alla quercia tornò<br />

la calma. Poi si levò il vento.<br />

209


XXVI<br />

<strong>Il</strong> male non dava respiro ad Alessio, con moto insonne<br />

gli toglieva la vita attimo dopo attimo. Le gambe e le braccia<br />

erano sensibili solo al dolore che saliva dalle ossa sordo,<br />

sfiancante, spietato. Lui cercava <strong>di</strong> non lamentarsi: muoveva<br />

la testa e chiudeva gli occhi, trattenendo il respiro. Ziu Kicu<br />

e Bakis restarono con lui fin sul tar<strong>di</strong>; poterono parlare poco<br />

<strong>di</strong> ciò che era accaduto a Nighirisè non volendogli dare altri<br />

tormenti. Quando sembrava che il male allentasse la morsa,<br />

Alessio riprendeva fiato e tentava <strong>di</strong> far coraggio ai due amici:<br />

sapeva della scomunica, la povera zia aveva detto tutto, e<br />

sapeva anche della grande confusione <strong>di</strong> Nighirisè. Ziu Kicu<br />

e Bakis cercavano <strong>di</strong> nascondere il loro sconforto, ma Alessio<br />

<strong>di</strong>ceva che non sapevano mentire. Quando andarono via<br />

era già notte. Rientrò Pasqua Gaddari col viso consumato<br />

dalle veglie e dalla pena.<br />

– Povera zia Pasqua… le persone che più ho amato hanno<br />

sofferto tutte per causa mia.<br />

Pasqua rispondeva con un pianto sconsolato.<br />

– No, Alessio! No, Alessio! – riusciva a <strong>di</strong>re chiudendo<br />

gli occhi. Quando trovò la forza lo pregò <strong>di</strong> prendere qualcosa.<br />

Alessio non mangiava quasi niente ormai, solo un po’<br />

<strong>di</strong> latte, come quando era arrivato nella casa Gaddari.<br />

– Sì, due cucchiai, – <strong>di</strong>sse lui per compiacenza. Pasqua<br />

uscì per prendere il latte dalla stanza <strong>di</strong> sopra. Fuori, nel<br />

buio addossato al muro vicino alla porta, intravvide un’ombra.<br />

Lei sussultò e chiese chi c’era. L’ombra si staccò dal muro<br />

e le andò incontro: era un uomo con la berretta calcata<br />

sugli occhi e le mani sprofondate nelle tasche.<br />

– Sono io – <strong>di</strong>sse con voce fievole, come se volesse farsi<br />

perdonare <strong>di</strong> aver osato tanto.<br />

– Oh, Palatosa, cosa fai? – chiese Pasqua sorpresa.<br />

L’uomo si addossò nuovamente al muro, come se cercasse<br />

il punto più buio della notte per nascondere la sua timidezza.<br />

210<br />

– Volevo sapere <strong>di</strong> Alessio, – rispose con una voce tenera<br />

e dolente che nessuno gli aveva mai sentito. Pasqua era sorpresa:<br />

proprio Palatosa!<br />

– <strong>Il</strong> rettore… la pre<strong>di</strong>ca… – cercò <strong>di</strong> <strong>di</strong>rgli, confondendosi;<br />

forse non sapeva, gli altri, quelli che affollavano la stanza<br />

anche <strong>di</strong> notte, non erano venuti a chiedere <strong>di</strong> Alessio.<br />

– Lo voglio vedere, – rispose Palatosa, senza dare peso<br />

all’avvertimento <strong>di</strong> Pasqua. Promise che non lo avrebbe<br />

stancato, sarebbe andato via subito. Pasqua si guardò intorno,<br />

come se volesse controllare che nessuno vedesse o sentisse,<br />

ma il buio nascondeva tutto. Attraverso la scaletta <strong>di</strong> legno<br />

corse alla stanza <strong>di</strong> sopra; la presenza <strong>di</strong> Palatosa le<br />

faceva piacere. Ritornò con una tazzina in mano.<br />

– Entra – gli <strong>di</strong>sse precedendolo.<br />

Palatosa si tolse la berretta e avanzò piano, in punta <strong>di</strong><br />

pie<strong>di</strong> quasi. Cercava con lo sguardo, ma i suoi occhi erano<br />

ancora accecati dal buio che c’era fuori.<br />

– È venuto a trovarti Palatosa.<br />

Alessio lo chiamò per nome più volte, sommessamente,<br />

come se volesse fargli un rimprovero affettuoso.<br />

– Hai sfidato il buio per venire qui, – gli <strong>di</strong>sse poi trattenendo<br />

il respiro per soffocare il dolore che accanitamente<br />

saliva da una zona del suo corpo che lui non sapeva più in<strong>di</strong>viduare.<br />

Pasqua depose la tazza sopra il forno e ravvivò il fuoco.<br />

Palatosa era fermo al centro della stanza, con la berretta in<br />

mano. Ora vedeva il letto e anche la testa <strong>di</strong> Alessio che si<br />

muoveva ogni tanto, come se volesse staccarsi e prendere il<br />

volo.<br />

– Sie<strong>di</strong>ti vicino, – <strong>di</strong>sse ancora Alessio, – voglio vedere il<br />

tuo viso –. Palatosa si sedette su uno sgabello, ma Alessio gli<br />

<strong>di</strong>sse <strong>di</strong> prendere una se<strong>di</strong>a.<br />

– Così in basso non riesco a vederti –. Palatosa ubbidì.<br />

– <strong>Il</strong> tuo viso non nasconde niente –. Palatosa abbassò la<br />

testa pu<strong>di</strong>camente, ma la fiamma del forno lo folgorò <strong>di</strong> luce<br />

e lui ne rimase abbagliato. Voleva chiedere ad Alessio come<br />

stava e fargli coraggio, ma non trovava le parole. Guardava<br />

quel viso teso nello spasimo del dolore e accennava un<br />

gesto delle mani, come se volesse porgere un aiuto.<br />

211


– Male vero? – chiese con una voce che appena si u<strong>di</strong>va.<br />

Si vergognò perché avrebbe voluto <strong>di</strong>re altro e abbassò ancora<br />

la testa.<br />

– Solo un po’, – <strong>di</strong>sse Alessio, – presto passerà. Fammi<br />

vedere la tua mano. Sono curioso come i bambini, ricor<strong>di</strong> a<br />

Niniana?<br />

Palatosa, commosso, alzò la mano destra e la mostrò.<br />

– Quanti semi può spargere ancora.<br />

Pasqua <strong>di</strong>sse che aveva portato il latte.<br />

– Vuoi prenderne un po’?<br />

Alessio fece <strong>di</strong> sì con la testa, rassegnato, e Pasqua si avvicinò<br />

al letto e lo sollevò cingendogli le spalle col braccio<br />

sinistro.<br />

– Tieni – <strong>di</strong>sse a Palatosa porgendogli la tazza. Alessio<br />

quasi seduto sul letto sembrava un fuscello. Reclinava la testa,<br />

come se il suo esile collo non riuscisse a reggerla. Palatosa,<br />

in pie<strong>di</strong>, stringeva con tutte e due le mani la tazza. Aveva<br />

lasciato cadere la berretta. Pasqua prendeva il latte con un<br />

cucchiaio e imboccava Alessio. Palatosa atteggiava buffamente<br />

la bocca, quasi volesse facilitare quell’opera paziente<br />

e affettuosa. Con un cenno della testa, Alessio fece capire<br />

che bastava. Pasqua avrebbe voluto insistere perché ne prendesse<br />

ancora, ma lo sguardo implorante <strong>di</strong> lui la fece desistere.<br />

Palatosa guardava tristemente la tazza: il latte bevuto<br />

era poco, bastava appena a sfamare un passero. Pasqua adagiò<br />

Alessio delicatamente sul cuscino ravviandogli i capelli<br />

con le mani poi, con un panno <strong>di</strong> lino appena inumi<strong>di</strong>to,<br />

gli deterse la fronte coperta da un velo <strong>di</strong> sudore freddo. Palatosa<br />

non sapeva dove posare la tazza che stringeva ancora<br />

fra le mani. Gliela tolse Pasqua che andò a riportarla nella<br />

stanza <strong>di</strong> sopra.<br />

– Non servo più a niente, – <strong>di</strong>sse Alessio, – non ho più<br />

mani, né gambe.<br />

– La tua testa, il tuo cuore… – cercò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re Palatosa,<br />

ma Alessio fece un gesto <strong>di</strong> <strong>di</strong>niego. Tornò il silenzio, il fuoco<br />

del forno si era <strong>di</strong> nuovo affievolito. Palatosa aveva raccolto<br />

la sua berretta e la tormentava con le mani.<br />

– Disperdere il Cumone, – <strong>di</strong>sse poi abbassando la testa,<br />

– non voglio tornare in<strong>di</strong>etro –. Sudava, parlare gli costava<br />

212<br />

una fatica mortale. Era andato a Nighirisè, ma sapeva che<br />

senza Alessio tutto sarebbe finito così. Non aveva voluto<br />

parlare più con nessuno. <strong>Il</strong> pensiero <strong>di</strong> dover tornare a cibarsi<br />

d’erbe come una bestia, deriso da tutti, lo avviliva. <strong>Il</strong> Cumone<br />

gli aveva dato un’altra vita e lui voleva che niente la<br />

intaccasse. Alessio si lasciava sfuggire un lamento ogni tanto.<br />

<strong>Il</strong> dolore, più violento ora, fiaccava ogni resistenza.<br />

– Ti parlo delle mie miserie e tu senti tanto dolore.<br />

– Mi piace ascoltarti, – gli rispose Alessio, – avrei voluto<br />

parlare a lungo con te, ma non posso, lo ve<strong>di</strong>, cento cani<br />

mi mordono da ogni parte –. Palatosa <strong>di</strong>sse che non voleva<br />

sciupare niente <strong>di</strong> ciò che aveva avuto. Si alzò.<br />

– Devo andare, è tar<strong>di</strong> –. Prima <strong>di</strong> varcare la porta si<br />

voltò, non vedeva più il letto, né Alessio.<br />

– Ti ho voluto bene, come <strong>di</strong>cono si voglia bene a un<br />

figlio.<br />

– Palatosa, Palatosa, – sussurrava Alessio. Ma Palatosa<br />

non l’udì, attraversava già il cortile a testa bassa, con la berretta<br />

calcata fin sugli occhi. Andò <strong>di</strong>rettamente a casa sua, un<br />

povero rifugio, più stalla che casa, dove aveva sempre vissuto<br />

solo. Ultimamente i vicini l’avevano u<strong>di</strong>to canticchiare, forse<br />

quando Bakis l’aveva fatto scendere a Orosei e gli aveva affidato<br />

le re<strong>di</strong>ni del giogo che trainava il primo carro o quando<br />

Bidone, il muratore, l’aveva lodato per il lavoro fatto nella<br />

casa <strong>di</strong> Niniana. Sospinse la porticina, semichiusa, ed entrò<br />

nel tugurio. <strong>Il</strong> buio era fitto, palpabile quasi. Inciampò sulla<br />

pietra che segnava il focolare, come gli accadeva ogni notte,<br />

ma seguendo l’odore del sego trovò subito la fune <strong>di</strong> cuoio<br />

che pendeva dal piolo conficcato nella parete. La prese e, dopo<br />

averla arrotolata fino a farne un gomitolo, se la mise sotto<br />

il braccio, come se volesse nasconderla. Prese anche la roncola<br />

ch’era nell’angolo della parete opposta, vicino alla stuoia, e<br />

uscì senza inciampare. Chiuse la porta, come non aveva mai<br />

fatto, assicurandola con una spranga <strong>di</strong> legno, forse perché il<br />

vento che si era levato non la sbattesse. Attraverso i tortuosi<br />

vicoletti <strong>di</strong> Parraghine salì fino a Cu<strong>di</strong>nattas tenendosi la<br />

berretta con la mano. Col vento il buio andava <strong>di</strong>radandosi.<br />

A Cu<strong>di</strong>nattas si fermò. C’era qualche stella. Verso Gurgu c’era<br />

un lucore <strong>di</strong> albe, anche se la notte era ancora alta. Distese la<br />

213


mano in quella <strong>di</strong>rezione, come se volesse tracciarsi la meta e<br />

andò sospinto dal vento che ora soffiava impetuoso. I boschi<br />

d’intorno gemevano. Nel paese sbigottito i miseri tetti <strong>di</strong> Cadone<br />

e Parraghine tremarono. Gli strappi delle tegole si accompagnavano<br />

ai mugolii <strong>di</strong>sperati. “Anime in pena sono,<br />

chiamano, non possono tornare sole”, era il pensiero <strong>di</strong> tutti.<br />

<strong>Il</strong> vento continuava a soffiare strappando e rompendo<br />

tutto ciò che si opponeva alla sua furia. Si placò solo all’alba<br />

quando il cielo, ripulito in ogni angolo, sfolgorava <strong>di</strong> luce.<br />

Ormai la vittima c’era. Tra le fronde dell’alta quercia <strong>di</strong><br />

Gurgu oscillava lievemente in un silenzio <strong>di</strong> sole. I passanti<br />

si meravigliarono che avesse potuto salire tanto in alto.<br />

– Forze non ne aveva – commentavano.<br />

Quando lo calarono giù, e ci vollero uomini vigorosi,<br />

notarono che le carni delle mani e delle ginocchia erano straziate.<br />

La roncola era rimasta conficcata tra le ramaglie che<br />

avevano ostacolato quel <strong>di</strong>sperato salire.<br />

– Palatosa sulla quercia <strong>di</strong> Gurgu! –. La voce corse <strong>di</strong> casa<br />

in casa e creò sorpresa, sgomento, terrore. Le donne lasciarono<br />

le case e andarono come <strong>di</strong>ssennate per monti e<br />

valli a cercare i loro uomini. Grascia, la moglie <strong>di</strong> Goddette,<br />

andò sola a trovare suo marito. Si fermò a Gurgu e guardò.<br />

Vi era tanta gente, si <strong>di</strong>cevano tante parole. Lei ascoltò, non<br />

<strong>di</strong>sse niente, pianse senza lacrime e andò via col viso coperto<br />

dallo scialle nero. Arrivò a Unertore quando il sole non c’era<br />

più. Si fermò vicino alla casa nuova che vedeva per la prima<br />

volta. Non si stupì. Si stupì, invece, quando vide giù, sul lieve<br />

pen<strong>di</strong>o, due immensi recinti, poco <strong>di</strong>stanti uno dall’altro,<br />

con le pecore raccolte per la mungitura. Non supponeva che<br />

si potessero mettere insieme tante pecore, l’occhio vi si smarriva.<br />

Gli uomini che mungevano, curvi sulle pecore, erano<br />

molti, ne contò <strong>di</strong>eci. Non riusciva a <strong>di</strong>stinguerli, si vedevano<br />

solo i dorsi, deboli chiazze scure su quella <strong>di</strong>stesa <strong>di</strong> bianco<br />

che abbagliava. Ci doveva essere anche suo marito, governava<br />

le pecore già da un mese, era il suo turno. Grascia non<br />

chiamò, attese che la mungitura finisse. Giunse un pastore,<br />

portava il latte dal recinto alla casa.<br />

– Qui sei, Grascia? – chiese meravigliato. – Goddette sta<br />

mungendo, te lo chiamo –. Grascia attese seduta su un sasso.<br />

214<br />

Non riusciva a <strong>di</strong>strarre gli occhi dai recinti. Nessuno poteva<br />

<strong>di</strong>re sono mie, ma erano tante le pecore, a contarle si perdeva<br />

il filo. Forse non aveva importanza sapere <strong>di</strong> chi erano,<br />

importante era starci in mezzo, vedere quei fiumi <strong>di</strong> latte e<br />

toccare tutto quel formaggio. Un uomo uscì da uno dei recinti<br />

e si avviò verso la casa. Lei riconobbe il suo Goddette.<br />

Lo osservava mentre saliva con quel passo fermo, gli sembrava<br />

un altro, più alto, più bello, come l’aveva visto tanti<br />

anni prima, mentre domava la puledra <strong>di</strong> Moni che nessuno<br />

aveva voluto cavalcare. Si sorprese <strong>di</strong> quei ricor<strong>di</strong>, con altri<br />

pensieri era venuta a Unertore.<br />

– Tu qui, Grascia? – <strong>di</strong>sse Goddette con una voce tenera<br />

piena <strong>di</strong> attese. Si asciugò il sudore col dorso della mano, poi<br />

si avvicinò ancora <strong>di</strong> più alla sua donna col desiderio <strong>di</strong> farle<br />

una carezza. Non la toccò. Grascia si levò in pie<strong>di</strong>. Gli anni<br />

e le fatiche non avevano tolto niente alla sua bellezza, che si<br />

rivelava quasi all’improvviso senza lo schermo dello scialle,<br />

con quei capelli neri rigonfi sulla fronte spaziosa e quello<br />

sguardo che dava splendore al volto senza rughe. Gli spazi <strong>di</strong><br />

Unertore le davano veramente l’aria <strong>di</strong> un’antica matrona,<br />

come scherzosamente <strong>di</strong>cevano le sue vicine <strong>di</strong> casa. Goddette,<br />

quando guardava la sua donna, provava un desiderio<br />

quasi doloroso. Tutte le volte che lasciava il paese per tornare<br />

sui monti gli veniva una tristezza inconsolabile, come se la<br />

sua anima stesse per <strong>di</strong>sseccarsi.<br />

– Hai saputo <strong>di</strong> Palatosa? – gli chiese Grascia con una<br />

paura indefinita nello sguardo. Goddette <strong>di</strong>sse che non sapeva<br />

e lei raccontò ciò ch’era accaduto, ciò che aveva visto,<br />

ciò che aveva u<strong>di</strong>to.<br />

– Quella notte era stato da Alessio, – <strong>di</strong>sse ancora abbassando<br />

la voce. – L’hanno visto uscire curvo, come se si<br />

portasse la morte addosso.<br />

Goddette aveva il cuore in tumulto. Con una tenerezza<br />

nuova chiese a Grascia <strong>di</strong> farsi forza, <strong>di</strong> liberarsi da quella<br />

paura che la stava consumando. La prese per mano e andarono<br />

a sedersi.<br />

– Palatosa l’avevo visto a Nighirisè, solo, muto, irato contro<br />

tutti. L’abbiamo fatto morire noi, forse. Mi fa male sapere<br />

ch’è finito così… Forse non poteva finire <strong>di</strong>versamente…<br />

215


È morto come ha vissuto. Era strano, pazzo o savio non lo<br />

so, <strong>di</strong>verso da noi comunque. Tutto ci fa ombra.<br />

– La scomunica del rettore non perdona, temo per te, –<br />

<strong>di</strong>sse Grascia. – Quel vento quella notte, mi sembrava <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventar<br />

pazza.<br />

Goddette le strinse la mano e guardandola negli occhi le<br />

sussurrò:<br />

– Anche il Cumone è una scomunica, una magia. Guarda,<br />

come faccio a lasciare quello che ve<strong>di</strong>. Alessio e il rettore,<br />

ciascuno a modo suo, sono due facitori <strong>di</strong> magie… Alessio è<br />

venuto prima, mi ha legato più saldamente… Hai saputo<br />

niente, come sta?<br />

Grascia <strong>di</strong>sse che nessuno in paese ne parlava, ma doveva<br />

star male, molto male.<br />

– Questa notte nei mugolii del vento mi sembrava <strong>di</strong><br />

u<strong>di</strong>re i suoi lamenti.<br />

Goddette aveva già deciso per conto suo <strong>di</strong> non lasciare<br />

il Cumone.<br />

– <strong>Il</strong> rettore non può <strong>di</strong>struggere un intero paese. Neanche<br />

il <strong>di</strong>avolo o il padreterno lo possono. Sono dalla parte<br />

<strong>di</strong> Kicu e Palichedda.<br />

– C’è una tale confusione dentro <strong>di</strong> me, – <strong>di</strong>sse Grascia<br />

con un’aria afflitta, – mi vengono certi pensieri… Sai, – continuò<br />

esitando, – a te lo devo <strong>di</strong>re… Le sofferenze <strong>di</strong> Alessio<br />

non riescono a commuovermi… Attendo la sua morte come<br />

un sollievo. Neanche la morte <strong>di</strong> Palatosa mi ha commosso,<br />

ho avuto solo paura, una paura che non conoscevo. Mi sta<br />

accadendo qualcosa <strong>di</strong> grave… Non comprendo.<br />

Nel suo sguardo c’era una tristezza e uno smarrimento<br />

che toccarono il cuore <strong>di</strong> Goddette. Le sfiorò i capelli con la<br />

mano e quasi parlando fra sé <strong>di</strong>sse:<br />

– Restiamo troppo tempo lontani uno dall’altro. Anche<br />

a me vengono pensieri strani, non sono più sicuro <strong>di</strong> niente,<br />

sono pieno <strong>di</strong> dubbi e <strong>di</strong> pentimenti. Forse è meglio che tu<br />

venga qui e rimanga insieme a me, i momenti <strong>di</strong>fficili della<br />

nostra vita li abbiamo superati stando insieme.<br />

– Come faccio? La gente del paese e i tuoi compagni cosa<br />

<strong>di</strong>rebbero?<br />

216<br />

<strong>Il</strong> buio incominciava a confondere ogni cosa. Le pecore<br />

lasciavano i recinti con un chiarore che vinceva la notte. I pastori<br />

le incitavano, si u<strong>di</strong>vano le voci, richiami sommessi e<br />

pazienti.<br />

Grascia guardava e ascoltava. Disse che anche lei si sentiva<br />

scossa guardando le pecore, i pastori, la casa e tutto il resto.<br />

– I tuoi compagni cos’hanno deciso? – chiese poi.<br />

– Nessuno ne ha parlato più, siamo <strong>di</strong>ventati tutti muti.<br />

– E tu cosa vuoi fare?<br />

– Mi sto rompendo la testa per saperlo… <strong>Il</strong> Cumone<br />

non posso lasciarlo… Provo pena per te, il resto ora mi fa<br />

meno paura… Si muore una sola volta… Se poi l’anima esiste<br />

se la prenda pure il rettore e ne faccia ciò che vuole. Resterai<br />

qui, dormirai sulla stuoia dentro la casa. Domani ti<br />

accompagnerò al paese a cavallo. Vieni, an<strong>di</strong>amo dentro, c’è<br />

un po’ <strong>di</strong> latte. I compagni verranno più tar<strong>di</strong>, conducono<br />

le pecore nel canale.<br />

– Restiamo ancora un po’ qui – <strong>di</strong>sse Grascia.<br />

Goddette la fissò. I loro volti erano vicini, si sfioravano.<br />

– Da quanto tempo non ti vedevo? – chiese Goddette.<br />

Nella sua voce c’era quell’emozione che gli prendeva ogni<br />

volta che restava solo con Grascia.<br />

– Non lo so, – rispose lei abbassando la testa. I suoi<br />

sguar<strong>di</strong> erano baleni che squarciavano la notte.<br />

– Mi pensi quando non ci sono? – <strong>di</strong>sse ancora Goddette.<br />

– Me lo chie<strong>di</strong> sempre.<br />

– Mi aspetti?<br />

– Anche questo me lo chie<strong>di</strong> ogni volta –. La risposta<br />

però era nel calore della sua voce.<br />

– Nella casa non c’è nessuno, vuoi che an<strong>di</strong>amo dentro?<br />

Grascia non rispose. Voleva, ma doveva resistere, come<br />

faceva sempre. Lui si alzò, aveva un’agitazione addosso che<br />

non riusciva a dominare. Le porse entrambe le mani. Lei sollevò<br />

lo sguardo verso <strong>di</strong> lui. Esitava ancora.<br />

– Vieni, Grascia, – sussurrò Goddette prendendole le<br />

mani. Lei si lasciò condurre senza opporre più alcuna resistenza.<br />

217


Le pecore si erano sparse, la vallata non riusciva a contenerle,<br />

avevano invaso i pen<strong>di</strong>i del colle vicino e straripavano<br />

ancora verso il canale come un fiume in piena. I richiami<br />

dei pastori si facevano sempre più lontani <strong>di</strong>stinguendosi<br />

appena dai belati e dagli altri suoni. Le altre greggi vagavano<br />

su altri pascoli, più a valle o più a monte, condotte da altri<br />

pastori, tormentati anch’essi dagli stessi dubbi. Le donne<br />

avevano portato altre paure. La sorte <strong>di</strong> Palatosa aveva rattristato<br />

tutti.<br />

<strong>Il</strong> notaio Cu<strong>di</strong>llo, il sindaco e tutti i soci del comitato<br />

agrario vivevano i loro giorni più lieti: erano sod<strong>di</strong>sfatti, come<br />

da tempo non lo erano più stati, espansivi, festosi quasi:<br />

il Cumone si <strong>di</strong>sgregava rapidamente, fuggivano tutti terrorizzati.<br />

La morte <strong>di</strong> Palatosa era stata accolta come un segno<br />

del cielo, ora assistevano impassibili all’agonia <strong>di</strong> Alessio attendendone<br />

la fine. <strong>Il</strong> notaio e il sindaco erano andati a casa<br />

<strong>di</strong> don Satta, ma non erano stati ricevuti. Ci avevano tentato<br />

più volte inutilmente.<br />

– Non si riesce a capire l’indole <strong>di</strong> questo benedetto<br />

uomo. Dovrebbe gioire più <strong>di</strong> noi e invece… –. Alle stroncature<br />

del rettore erano abituati e perciò la loro chiassosa<br />

contentezza non ne fu turbata. Sapevano che don Satta non<br />

voleva vedere nessuno, che se ne stava tutto il giorno rinchiuso<br />

nello stu<strong>di</strong>o, che non andava più a <strong>Marreri</strong>, né faceva<br />

le passeggiate a Santandria. <strong>Il</strong> notaio aveva fatto circolare la<br />

voce che il rettore stava stu<strong>di</strong>ando notte e giorno per trovare<br />

un rime<strong>di</strong>o che valesse a riparare i danni del Cumone.<br />

– Che mente! Che forza d’animo! – esclamavano quelli<br />

del comitato.<br />

Solo Carmela sapeva quali pene e quali tormenti stesse vivendo<br />

in quei giorni don Satta. Lo sentiva camminare avanti<br />

e in<strong>di</strong>etro nello stu<strong>di</strong>o fino a notte alta, ma non osava chiedergli<br />

niente. Così agitato non l’aveva visto mai. Quando<br />

scendeva per andare in chiesa lei gli porgeva il cappello e il<br />

bastone con uno sguardo supplichevole.<br />

– Stai su almeno tu, – <strong>di</strong>ceva lui, ma il più delle volte<br />

non parlava. Celebrava la messa senza pre<strong>di</strong>ca e non entrava<br />

nel confessionale, le donne che attendevano le faceva mandar<br />

via da Pilimeddu. Restava in chiesa finché non andavano via<br />

218<br />

tutti, chiuso in sagrestia. Sapeva del male che stava consumando<br />

Alessio, lo capiva dai pianti sommessi <strong>di</strong> Carmela,<br />

dalle mezze parole che riusciva a <strong>di</strong>re Kiocò e dalla feroce allegria<br />

del sindaco e del notaio. Sapeva anche della fuga dal<br />

Cumone e si convinceva che lo smarrimento e il <strong>di</strong>sorientamento<br />

non erano solo in lui, vi era una confusione <strong>di</strong> idee e<br />

<strong>di</strong> sentimenti in tutti. Gli uomini, le cose, i tempi avevano<br />

apparenze ingannevoli. Lui non riusciva a farsene una ragione.<br />

Quasi tutte le notti, quando sentiva <strong>di</strong> soffocare fra le<br />

pareti dello stu<strong>di</strong>o, tornava in chiesa. Seduto davanti all’altare<br />

illuminato dalle poche candele che accendeva tutte le sere<br />

Pilimeddu, cercava invano <strong>di</strong> trovare raccoglimento nella<br />

preghiera. Non rientrava subito a casa, si fermava davanti alla<br />

casa <strong>di</strong> Alessio e dal parapetto guardava senza vedere niente<br />

e ascoltava. Si staccava penosamente da quel ciglione e<br />

andava via più che mai scontento per quel demone che lo<br />

spingeva sempre a confrontarsi con Alessio. Le notti erano<br />

chiare e tiepide. Lui altre volte sarebbe corso a Santandria a<br />

contemplare le stelle. Ora non aveva voglia <strong>di</strong> niente, neanche<br />

<strong>di</strong> guardare il cielo.<br />

219


XXVII<br />

Era una notte serena anche quando Pepparosa Pintore<br />

uscì <strong>di</strong> casa con la testa coperta da uno scialle nero. Non aveva<br />

mai varcato la porta a un’ora così insolita; le notti del paese<br />

non le conosceva, le immaginava tutte buie e ne aveva paura.<br />

Quel chiarore intenso la stupiva: una grande luna <strong>di</strong> ghiaccio<br />

o <strong>di</strong> latte sembrava restituire vita alle cose. Prese la strada sotto<br />

il terrapieno del camposanto vecchio; non aveva paura, si<br />

guardava intorno cercando i segni che <strong>di</strong> giorno rendevano<br />

familiari quei luoghi. Ritrovò tutto, ma stentava a riconoscere<br />

il tetto cadente della casa <strong>di</strong> Martedda, la legnaia <strong>di</strong> Pioledda<br />

e il caprifico dell’alto muraglione: tutto era trasfigurato. I veli<br />

<strong>di</strong> fumo che trasparivano dai tetti si spandevano lentamente<br />

come il fiato <strong>di</strong> quelle case senza comignoli. L’incanto <strong>di</strong><br />

quella notte <strong>di</strong>straeva Pepparosa dalla dolente necessità che la<br />

spingeva a percorrere i vicoletti silenziosi <strong>di</strong> Parraghine. Quella<br />

mattina si era recata alla chiesa <strong>di</strong> Santa Caterina e aveva<br />

pregato. Quando entrò nel cortiletto <strong>di</strong> Pasqua Gaddari fu<br />

presa da un’agitazione che la costrinse a fermarsi. Si guardò<br />

intorno, quella doveva essere la porta della casa del forno.<br />

Sentiva una pena e un’ansia. La luna, ancora più luminosa in<br />

quel suo ineffabile pallore, sembrava la sospingesse. La porta<br />

della stanza si aprì e comparve Pasqua Gaddari facendosi<br />

schermo con la mano per proteggersi dalla luce che in quel<br />

punto sembrava avere la violenza <strong>di</strong> un sole.<br />

– Donna Pepparosa! – gridò mettendosi una mano sulla<br />

bocca, come per soffocare altre grida che stavano per prorompere.<br />

Pepparosa, stringendo qualcosa sotto lo scialle, si<br />

avvicinò alla porta.<br />

– È un’ora insolita, forse riposa.<br />

– No, venite, – <strong>di</strong>sse Pasqua spalancando la porta. La<br />

luna irruppe nella stanza battendo con violenza sul forno e<br />

sul soffitto bianco <strong>di</strong> calce. <strong>Il</strong> letto <strong>di</strong> Alessio fu il primo ad<br />

220<br />

esserne ferito. Una luce irreale spioveva da ogni parte svelando<br />

gli angoli più riposti della stanza, che appariva senza forme<br />

definite; le pareti sembravano <strong>di</strong>latarsi, svanire quasi in<br />

quel chiarore abbacinante. Pepparosa l’aveva immaginata così<br />

quella stanza.<br />

– Quanta luce porti in questa casa, – le <strong>di</strong>sse Alessio sorridendo.<br />

<strong>Il</strong> suo volto era sereno, come se quella luce che lo<br />

rischiarava ne avesse cancellato ogni sofferenza. Pepparosa<br />

guardava senza <strong>di</strong>re niente. Pasqua la invitò a sedersi e lei,<br />

dopo aver deposto sulla panca l’involto che aveva portato<br />

sotto lo scialle scelse la se<strong>di</strong>a ch’era dall’altra parte del letto.<br />

Pasqua voleva accendere la candela per poter chiudere la<br />

porta, ma Alessio la fermò con un movimento della testa.<br />

– Vado un momento <strong>di</strong> sopra, – <strong>di</strong>sse allora e uscì. Nella<br />

stanza tornò il silenzio. Alessio per tutto quel giorno non<br />

aveva avuto alcun dolore. Nel suo viso però vi erano i segni<br />

della lunga sofferenza. Pepparosa sentiva un senso d’oppressione,<br />

uno sfinimento quasi, che per un istante la costrinse a<br />

chiudere gli occhi. Davanti a sé aveva una sconvolgente rappresentazione<br />

della morte. Quel volto scarnito, spettrale<br />

quasi, non riusciva a guardarlo, provava una repulsione invincibile.<br />

Avrebbe voluto gridare ma era impietrita, il germe<br />

della morte e del <strong>di</strong>sfacimento sembrava toccasse anche lei.<br />

– Ora che non ho dolori mi piacerebbe parlare con te…<br />

se il mio tempo non fosse così breve… –. Quella voce pacata,<br />

senza ombra <strong>di</strong> rimpianto, fece uscire Pepparosa dal suo<br />

incubo.<br />

– Hai mai visto tanta luce <strong>di</strong> notte? – riprese Alessio, <strong>di</strong>vagando,<br />

come se le parole tante volte pensate e non dette potessero<br />

ancora <strong>di</strong>rsi in un altro tempo. Pepparosa fece <strong>di</strong> sì<br />

con la testa e volle parlare, <strong>di</strong>re qualcosa che la ricollegasse alla<br />

vita, che in quel momento sentiva <strong>di</strong> amare dolorosamente.<br />

– A Niniana, i fuochi illuminavano il cielo e riscaldavano<br />

la terra, io guardavo dalle capanne coi ragazzi…<br />

Lo sguardo <strong>di</strong> Alessio era fisso sul forno.<br />

– Le mie parole vanno da un ricordo all’altro… Ti vorrei<br />

<strong>di</strong>re tante cose, or<strong>di</strong>natamente, ma ho fretta. Parlami ancora,<br />

<strong>di</strong>mmi dei telai e delle ragazze.<br />

221


Pepparosa si alzò e andò a prendere l’involto che aveva<br />

deposto sulla panca. Un panno <strong>di</strong> can<strong>di</strong>do lino ricopriva un<br />

arazzo che lei <strong>di</strong>spiegò mostrandolo ad Alessio.<br />

– È il primo lavoro <strong>di</strong> Nicolosa, – <strong>di</strong>sse, – un arazzo così<br />

bello non lo faranno mai più. Le ragazze l’avevano destinato<br />

a te.<br />

La luce della luna dava più movimento ai cavalli, che<br />

sembravano prorompere dall’arazzo.<br />

– Che impeto quei cavalieri! – esclamò Alessio. – Sono<br />

dei vincitori –. Pepparosa gli <strong>di</strong>sse che il cavaliere rosso era<br />

lui; gli altri erano quelli del Cumone. Alessio sorrise.<br />

– La mia indole è troppo mite.<br />

Pepparosa <strong>di</strong>stese l’arazzo sopra il forno.<br />

– Hai vinto, Alessio, – <strong>di</strong>sse con voce fiera, – quei cavalieri<br />

li conduci tu –. Alessio guardava e ascoltava.<br />

– Quel cavaliere rosso lo riconosco, – <strong>di</strong>sse, come se stesse<br />

inseguendo un pensiero vago, – è Bakis, lui ha forza, coraggio,<br />

intelligenza, passione. Ricor<strong>di</strong> alla Consolata con Chellone?<br />

Io non potevo battermi, il mio corpo è stato sempre debole.<br />

Bakis ha un’anima grande, gli ho voluto bene… –. Era<br />

commosso, i suoi occhi chiari luccicavano.<br />

– Ci sono anche i ragazzi, i tuoi ragazzi, parlamene, –<br />

<strong>di</strong>sse ancora e fu preso da un’ansia <strong>di</strong> sapere e <strong>di</strong> <strong>di</strong>re.<br />

– Hai insegnato loro a cogliere i nessi delle cose… Sei<br />

tu che hai vinto, Pepparosa, hai vinto anche per me… Allora,<br />

<strong>di</strong>mmi… –. Era agitato, come se temesse <strong>di</strong> non arrivare<br />

a sapere tutto. Pepparosa si sedette vicino al letto, ma era come<br />

se la vita <strong>di</strong> Alessio fosse già sfumata e lei parlasse con se<br />

stessa del ricordo <strong>di</strong> lui.<br />

– Sai tutto dei ragazzi, <strong>di</strong> me, <strong>di</strong> ciò ch’è accaduto e <strong>di</strong><br />

ciò che dovrà accadere. I ragazzi faranno ciò che tu hai in<strong>di</strong>cato.<br />

Sei il loro punto <strong>di</strong> riferimento.<br />

– Non abbandonarli, qualunque cosa accada, – <strong>di</strong>sse lui<br />

cercando <strong>di</strong> ritrovare la calma. Ma ormai il tempo gli sfuggiva<br />

e per un istante sembrò non potersi più rassegnare.<br />

– Tu puoi leggere nella mia anima, sai cosa farò.<br />

<strong>Il</strong> volto <strong>di</strong> Alessio sbiancava sempre <strong>di</strong> più.<br />

– Ti prego, mettimi l’arazzo sopra il letto, lo consegnerò<br />

a Bakis –. Glielo <strong>di</strong>stese <strong>di</strong> traverso, all’altezza dei pie<strong>di</strong>, ma<br />

222<br />

lui non ne sentì il peso. La luce della luna cadeva a poco a<br />

poco. La stanza del forno tornava a essere un luogo <strong>di</strong> sofferenza<br />

con la morte in agguato. Pepparosa ne ebbe ancora<br />

una percezione dolorosa che sembrava sconvolgerle la mente.<br />

Si guardava intorno, come se cercasse un varco, uno spiraglio.<br />

Ma la stanza <strong>di</strong>ventava più buia. Tornò Pasqua con<br />

una candela accesa.<br />

– Venite, donna Pepparosa, vi accompagno, è tar<strong>di</strong> –. La<br />

prese dolcemente per un braccio e la condusse verso la porta.<br />

Pepparosa non fece resistenza.<br />

C’era ancora un ultimo riverbero <strong>di</strong> luna che illuminava<br />

la strada. <strong>Il</strong> cielo, con le stelle e senza nuvole, appariva più<br />

grande, come se volesse rivelare nuove profon<strong>di</strong>tà.<br />

– Vi accompagno a casa, – <strong>di</strong>sse Pasqua.<br />

– No, tornate da lui, – rispose Pepparosa coprendosi il<br />

capo con lo scialle. Ma Pasqua la prese sottobraccio:<br />

– Devo accompagnarvi, da Alessio è entrato Bakis ora.<br />

Pepparosa non rispose, si lasciò condurre attraverso i vicoli<br />

solitari sui quali la luna non splendeva più.<br />

Bakis, per tutto il tempo che Pepparosa era rimasta da<br />

Alessio, aveva atteso nella stanza <strong>di</strong> sopra insieme a Pasqua.<br />

Aveva lasciato poco prima domo ’e ocu della casa Pintore dove<br />

ziu Kicu giaceva sulla stuoia vinto dalla stanchezza, dalla<br />

vecchiaia e dal dolore.<br />

– Devo andare, – <strong>di</strong>ceva ziu Kicu senza precisare dove,<br />

– se mi fermo non mi alzo più –. Lo assisteva Ninedda, ma<br />

lui non aveva più voglia <strong>di</strong> niente. Solo quando entrava<br />

Pepparosa prendeva un po’ <strong>di</strong> brodo <strong>di</strong> gallina e si lasciava<br />

rinfrescare la fronte con un panno inzuppato <strong>di</strong> aceto.<br />

– Questo peso che mi sento addosso… – <strong>di</strong>ceva ancora,<br />

– non mi era mai accaduto –. Pepparosa gli prometteva che<br />

appena avesse riacquistato le forze sarebbero andati insieme<br />

a Niniana. Lui faceva un cenno con la testa. Bakis lo rincuorava.<br />

– Parlando con te mi sembra <strong>di</strong> ritrovare le forze, – gli<br />

ripeteva lui e avrebbe voluto trattenerlo ancora, se non avesse<br />

avuto il pensiero <strong>di</strong> Alessio.<br />

– Va’ da lui, torna quando puoi, non <strong>di</strong>rgli che io mi sono<br />

arreso.<br />

223


Quando non udì più i passi <strong>di</strong> Pepparosa e <strong>di</strong> Pasqua,<br />

Bakis scese nella stanza del forno e vi entrò in punta <strong>di</strong> pie<strong>di</strong>.<br />

Alessio era immobile sul letto, respirava affannosamente.<br />

– Avvicina la candela, – gli <strong>di</strong>sse, parlava a stento.<br />

– Riposati un momento, non parlare.<br />

– Sono tanto stanco.<br />

Bakis si mordeva le labbra e stringeva i pugni.<br />

– Ti bagno la fronte?<br />

– No, resta… Pepparosa ha portato il tuo arazzo. È bello.<br />

Pren<strong>di</strong>lo… dopo… Nicolosa… Falle una carezza per me.<br />

– Rimarrà sempre in questa stanza l’arazzo, – <strong>di</strong>sse Bakis,<br />

come se stesse facendo una promessa a se stesso.<br />

Alessio voleva parlare ancora, ma faticava molto. Bakis<br />

gli asciugò la fronte bagnata <strong>di</strong> sudore freddo.<br />

– Pren<strong>di</strong> anche i libri e le carte che sono nella stanza <strong>di</strong><br />

sopra, li lascio a te… Falli leggere ai ragazzi, quando potranno…<br />

Bakis fece <strong>di</strong> sì con la testa.<br />

– Fra quelle carte ci sono tanti appunti, ho scritto, scritto<br />

finché la mano ha risposto… Possono servire. <strong>Il</strong> nuovo<br />

Cumone lo dovete inventare voi, tu e i ragazzi.<br />

<strong>Il</strong> respiro pesante soffocava le parole.<br />

– Forse sono rimasto troppo aggrappato a un sogno…<br />

Tu farai meglio… Avvicina <strong>di</strong> più la candela –. Sembrava<br />

lottasse contro l’oscurità muovendo la testa. Bakis con una<br />

mano teneva la candela e con l’altra gli asciugava la fronte<br />

segnata da due rughe profonde. Alessio emise un ultimo impercettibile<br />

lamento, poi non si mosse più, aveva gli occhi<br />

spalancati, mentre il volto si ricomponeva rapidamente acquistando<br />

un’espressione serena, sorridente quasi.<br />

– Alessio! Alessio!<br />

<strong>Il</strong> richiamo <strong>di</strong> Bakis risuonò cupamente nella stanza. La<br />

fiammella della candela tremolò.<br />

– Alessio, non lasciarmi solo –. Gli chiuse gli occhi come<br />

aveva visto fare per suo nonno, poi gli prese il capo fra le mani<br />

e continuò a chiamare con un attitu dolente che strappò<br />

un urlo a Pasqua, accorsa in quel momento.<br />

– Voleva luce, accen<strong>di</strong>amo tutte le candele e anche il<br />

forno.<br />

224<br />

Andò fuori e dalla legnaia prese una fascina <strong>di</strong> legna<br />

secca e frasche <strong>di</strong> ginepro che compose con cura dentro il<br />

forno. <strong>Il</strong> fuoco si accese lentamente e la stanza s’illuminò<br />

profumando l’aria. Pasqua tirò fuori i ceri che usava il giorno<br />

dei morti e li accese uno dopo l’altro <strong>di</strong>stribuendoli sopra<br />

il forno e sopra le panche. Ogni angolo della stanza fu<br />

illuminato. Sul volto <strong>di</strong> Alessio spioveva una luce rossa che<br />

cadeva dal sole intagliato sulla testiera del letto.<br />

– Ora va’, – <strong>di</strong>sse Pasqua dolcemente, – lo voglio lavare<br />

e vestire da sola.<br />

– Vi aiuto.<br />

– No, lasciamelo, come se fosse mio figlio. Tornerai dopo.<br />

Bakis andò davanti al letto, guardò ancora Alessio, che<br />

sembrava dormisse, e gli <strong>di</strong>stese sopra l’arazzo coi cavalli che<br />

lo copriva tutto. <strong>Il</strong> rosso del condottiero cadeva proprio sotto<br />

il mento con riverberi <strong>di</strong> fuoco. Pasqua intanto era andata<br />

a prendere una pentola d’acqua che mise a riscaldare dentro<br />

il forno.<br />

– Va’, Bakis, figlio mio, – implorò, mentre incominciava<br />

a ravviare i capelli e la barba <strong>di</strong> Alessio. Bakis uscì dalla stanza<br />

del forno senza <strong>di</strong>re niente.<br />

Attraversò il cortile con la testa curva, poi salì sul terrapieno<br />

e guardò giù. La stanza del forno appariva piena <strong>di</strong> luce;<br />

si scorgeva Pasqua che andava avanti e in<strong>di</strong>etro leggera<br />

come un’ombra. Bakis non sapeva dove andare. Sollevò la testa.<br />

<strong>Il</strong> cielo, illivi<strong>di</strong>to, non portava alcun segno della fine <strong>di</strong><br />

Alessio. Anche le case d’intorno e la strada e le pietre apparivano<br />

in<strong>di</strong>fferenti. Lui avrebbe voluto che il cielo e la terra<br />

sentissero quel dolore che sembrava svuotasse la sua anima.<br />

Bisognava <strong>di</strong>rlo a ziu Kicu, lui sì avrebbe pianto. Si staccò dal<br />

parapetto e andò smarrito per le strade del paese. Arrivò davanti<br />

alla chiesa del Carmelo. Dalla porta semiaperta traspariva<br />

una luce debole. Sospinse la porta, la luce proveniva dall’altare<br />

maggiore. Si fermò vicino all’acquasantiera. Davanti<br />

all’altare c’era un’ombra nera. Era lui. Fu preso da un’ira incontenibile<br />

e andò deciso verso l’altare. Ammazzare un <strong>di</strong>avolo<br />

non era peccato. Si fermò in cima alla scalinata. Don<br />

Satta, seduto su un seggiolone, si teneva la testa fra le mani,<br />

non si capiva se dormisse o pregasse.<br />

225


– So già – <strong>di</strong>sse senza sollevare la testa.<br />

Bakis era sul punto <strong>di</strong> scagliarglisi contro, ma la voce accorata<br />

<strong>di</strong> don Satta lo <strong>di</strong>sarmò definitivamente.<br />

– Non è solo tuo il dolore.<br />

Anche Bakis si coprì il volto con le mani.<br />

– Ha sofferto sino all’ultimo?<br />

– Da questa mattina non sentiva più alcun dolore.<br />

– Eri lì, tu?<br />

– Sì.<br />

Don Satta curvò ancora <strong>di</strong> più la testa.<br />

– Chi c’è ora?<br />

– Zia Pasqua, è voluta rimanere sola.<br />

– Va’ a casa mia, c’è Carmela, vorrà andare a vegliarlo.<br />

Anch’io voglio restar solo.<br />

Bakis si allontanò. Fuori guardò le stelle che sembravano<br />

muoversi, vagare per spazi immensi. Andò verso la casa<br />

<strong>di</strong> don Satta. La notte ormai volgeva alla fine.<br />

226<br />

XXVIII<br />

<strong>Il</strong> nuovo camposanto, una misera striscia <strong>di</strong> terra strappata<br />

col fuoco ai lentischi e ai rovi, era delimitato sul davanti<br />

da un’antica cava <strong>di</strong> sabbione, le cui voragini avanzavano<br />

inesorabilmente invadendo la pace dei morti. Restava in<br />

fondo al paese e vi si poteva arrivare dalla strada per <strong>Marreri</strong>,<br />

interminabile con le sue curve strette e incassate fra rocciai,<br />

oppure dal sentiero scosceso <strong>di</strong> Pentumas, più breve,<br />

ma così ripido che si poteva percorrerlo solo tenendosi alle<br />

siepi che lo costeggiavano. Raramente i morti venivano portati<br />

per quel sentiero, vi era il pericolo che la bara sfuggisse e<br />

rotolasse giù insieme ai portatori. Berrittone, il becchino,<br />

che pure aveva la sua età, ricordava soltanto uno o due casi e<br />

li raccontava come prodezze.<br />

– Quelli erano uomini, – <strong>di</strong>ceva, accomunando la fama<br />

dei morti e il coraggio degli amici che li avevano portati. Approdare<br />

al camposanto per quel sentiero impossibile era un<br />

segno <strong>di</strong> grandezza: nessuno ne era convinto più <strong>di</strong> Berrittone<br />

che rimpiangeva i tempi antichi quando ogni uomo, al<br />

momento <strong>di</strong> morire, si innalzava su tutti e la sua fine lasciava<br />

sbigottiti e la terra e il cielo sembravano percossi dal rimpianto.<br />

Gli uomini <strong>di</strong> questa tempra erano quasi scomparsi.<br />

Ora i morti glieli portavano tutti dalla strada nuova, correndo,<br />

come se andassero a seppellire un cane. Lui non provava<br />

alcuna sod<strong>di</strong>sfazione, le fosse le faceva poco profonde e senza<br />

scelta <strong>di</strong> sito, tanto erano tutti miseri uomini, uno non si <strong>di</strong>stingueva<br />

dall’altro.<br />

Quando vide che Alessio Biote lo portavano per il sentiero<br />

dei gran<strong>di</strong>, quasi pianse dalla contentezza. Sul ciglione<br />

<strong>di</strong> Pentumas, prima si affacciò la bara, poi una folla che<br />

straripava da una parte e dall’altra del sentiero. La bara doveva<br />

essere d’olivastro o <strong>di</strong> ginepro. Non riusciva a <strong>di</strong>stinguere<br />

chi la portava. Uscì fuori dal cimitero e puntò ancora<br />

gli occhi. “Bakis Moro e Palichedda, gli altri non li vedo”.<br />

227


La folla riempiva il costone ormai. Bakis e Palichedda camminavano<br />

piano, i passi erano sicuri e le gambe ferme. Berrittone<br />

non riusciva ad aversi dallo stupore. Si tolse la berretta.<br />

“Anch’io farò la mia parte”, pensò. Tornò dentro e attese<br />

vicino alla fossa perché i morti lui li accoglieva così. <strong>Il</strong> piccolo<br />

camposanto non poteva contenere tutta quella folla.<br />

Dal cortile <strong>di</strong> Pasqua Gaddari erano partiti in pochi: i<br />

quattro portatori della bara, le ragazze dei telai, Lukia Carta<br />

e Grascia, la moglie <strong>di</strong> Goddette. Prete Chessa, sconsolato,<br />

se ne faceva una colpa pensando alla debole voce della campana<br />

<strong>di</strong> Santa Caterina che certamente la gente non aveva<br />

potuto u<strong>di</strong>re. Anche Bakis era deluso, non si dava pace. Portava<br />

la bara sulla spalla sinistra: lui e Palichedda davanti,<br />

Goddette e Balentinu <strong>di</strong>etro; voleva voltarsi per vedere se il<br />

numero degli accompagnatori crescesse, ma non poteva.<br />

Tendeva le orecchie per regolarsi almeno dal rumore dei passi<br />

che via via acquistava rimbombo più pieno. Nella strada<br />

<strong>di</strong> Cadone si u<strong>di</strong>rono le voci delle donne che rispondevano<br />

in coro al rosario; quelle strade non avevano visto mai tanta<br />

folla. Altra gente continuava ad affluire dai vicoli, sembrava<br />

che Alessio si trascinasse <strong>di</strong>etro tutti, uomini, donne e vecchi.<br />

A Pentumas, Bakis riuscì a vedere una parte della folla,<br />

quella che formava le ali ai lati della bara. Quel dolore senza<br />

pianto che gli stringeva il cuore sembrava attenuarsi e la bara<br />

che portava sembrava non pesargli niente. Goddette, <strong>di</strong>etro,<br />

u<strong>di</strong>va i bisbigli della gente che camminava al suo fianco e <strong>di</strong><br />

quella che seguiva; il compianto era sincero, lui non se ne<br />

meravigliava anche se il ricordo tornava al penoso smarrimento<br />

<strong>di</strong> Nighirisè. Di fronte alla morte i sentimenti veri<br />

venivano fuori. Se avevano tentato <strong>di</strong> rinnegarlo era per confusione<br />

o timore, non per <strong>di</strong>samore. C’era perfino Grallinu,<br />

isolato, con la testa curva, come se covasse un pentimento.<br />

Mancavano Pasqua Gaddari, ch’era voluta rimanere sola nella<br />

stanza dov’era morto Alessio, ziu Kicu, che non aveva potuto<br />

sollevarsi dalla stuoia e Pepparosa, che si era rinchiusa<br />

nella sua stanza.<br />

Quelli che non poterono entrare nel camposanto attesero<br />

fuori. Prete Chessa si guardò attorno, la gente lo stringeva<br />

da ogni parte. Non aveva mai visto un funerale così affollato.<br />

228<br />

Ne era intimi<strong>di</strong>to. Cercò <strong>di</strong> intonare il Dies irae, ma non<br />

aveva voce. Quelli che gli stavano vicino ne furono delusi.<br />

Dopo l’assoluzione voleva <strong>di</strong>re qualche parola, ma si commosse<br />

e andò via piangendo.<br />

Bakis e Goddette portarono la bara dove attendeva Berrittone<br />

che in<strong>di</strong>cò con pochi cenni ciò che si doveva fare.<br />

S’inginocchiarono per farla calare lentamente dentro la fossa.<br />

Berrittone dava gli or<strong>di</strong>ni con movimenti bruschi della<br />

testa. Bakis <strong>di</strong>ede l’ultimo saluto a Alessio.<br />

– Liberaci dalla paura – gridò. Prese due pugni <strong>di</strong> terra e<br />

li lasciò cadere con uno scroscio che rimbombò cupamente<br />

dentro la fossa. Berrittone manovrò la pala velocemente e in<br />

poco tempo riempì la fossa. Con la terra rimasta elevò un<br />

cumulo alto sul quale Nicolosa e le altre ragazze dei telai deposero<br />

fiori e fronde <strong>di</strong> mirto. Berrittone era sod<strong>di</strong>sfatto del<br />

lavoro compiuto, era una bella fossa, il sole la illuminava ancora,<br />

si mise il ba<strong>di</strong>le sulle spalle e in<strong>di</strong>cò alla gente ch’era<br />

l’ora <strong>di</strong> andare, la pace dei morti non si poteva turbare oltre.<br />

Uscirono tutti silenziosamente e si mossero verso il paese<br />

percorrendo la strada nuova. Bakis e gli altri tre che avevano<br />

portato la bara a spalla risalirono per il sentiero <strong>di</strong> Pentumas,<br />

quella era l’usanza. Berrittone, col ba<strong>di</strong>le sulla spalla sinistra,<br />

li seguì. Non <strong>di</strong>ssero niente. Si fermarono in cima al<br />

ciglione e cercarono con lo sguardo la fossa <strong>di</strong> Alessio, confusa<br />

con tutte le altre. Solo una macchia <strong>di</strong> colore che sfumava<br />

in un occhio <strong>di</strong> sole poteva farla in<strong>di</strong>viduare.<br />

– Ne avrò cura come un figlio, – promise Berrittone e<br />

tutti insieme proseguirono verso il paese.<br />

<strong>Il</strong> camposanto si raccolse nella quiete dei morti che i ragazzi<br />

accosciati attorno alla fossa <strong>di</strong> Alessio cercavano <strong>di</strong> non<br />

turbare parlando sottovoce o chiamandosi coi gesti, come<br />

avevano visto fare a Berrittone. Erano saltati dal muro <strong>di</strong><br />

cinta sopra il quale erano rimasti nascosti durante tutta la<br />

funzione. Con la testa bassa, senza <strong>di</strong>re niente, guardavano<br />

il mucchio <strong>di</strong> terra che seppelliva Alessio; qualcuno ogni<br />

tanto cercava <strong>di</strong> toccare i fiori per <strong>di</strong>sporli meglio, ma glielo<br />

impe<strong>di</strong>va Maureddu con un gesto minaccioso.<br />

– Li hanno raccolti nel pastineddu <strong>di</strong> Pepparosa.<br />

– Lo so più <strong>di</strong> te.<br />

229


Tacevano ancora e non riuscivano a guardarsi in faccia.<br />

– La voglia <strong>di</strong> piangere non mi viene, – <strong>di</strong>sse Pauleddu<br />

poi, stropicciandosi gli occhi coi pugni.<br />

– Neanche a me.<br />

Maureddu <strong>di</strong>sse ch’era meglio se non piangevano, voleva<br />

<strong>di</strong>re che erano gran<strong>di</strong>, l’importante era pensare ad Alessio<br />

in silenzio.<br />

– Bakis non piangeva, neanche ziu Goddette.<br />

– Ziu Berrittone l’ha fatta bella la fossa ad Alessio.<br />

– Anche quella <strong>di</strong> ziu Palatosa è bella.<br />

– Glielo portiamo un fiore?<br />

Si guardarono l’un l’altro.<br />

– Tanto Alessio vuole.<br />

Mauro prese due fiori bianchi e una fronda <strong>di</strong> mirto e<br />

andò a deporli sopra il tumulo <strong>di</strong> Palatosa.<br />

– È ancora senza croce, – <strong>di</strong>sse quando tornò a sedersi.<br />

– Gliela faranno insieme a quella <strong>di</strong> Alessio.<br />

– Anche se gliela fanno piccola non importa, ziu Palatosa<br />

si accontenta lo stesso.<br />

Tacevano per un po’. Poi riprendevano a parlare <strong>di</strong> Alessio,<br />

ma era come se fingessero perché nessuno poteva credere<br />

che davanti a loro, sotto terra, chiuso dentro la bara che<br />

avevano visto dal muro <strong>di</strong> cinta, ci fosse Alessio.<br />

– Non si sente niente – <strong>di</strong>sse Maureddu tendendo l’orecchio.<br />

– Come fanno a chiamarsi i morti?<br />

Chi <strong>di</strong>sse che le voci dei morti erano dei bisbigli che si<br />

u<strong>di</strong>vano appena, chi ribatté ch’erano voci senza suono, come<br />

un venticello, chi <strong>di</strong>sse ancora che ascoltando bene qualcosa<br />

si sentiva.<br />

– Si chiamano quando sono soli, – <strong>di</strong>sse Maureddu – i<br />

vivi non li devono sentire, chi li sente muore.<br />

– Allora an<strong>di</strong>amo via, così Alessio può parlare con gli altri,<br />

lui è nuovo, deve ancora conoscerli.<br />

– Domani torniamo.<br />

– Sì e anche dopodomani e tutti i giorni che verranno.<br />

Si alzarono e con le manine batterono delicatamente sul<br />

mucchio <strong>di</strong> terra che copriva Alessio <strong>di</strong>cendo che sarebbero<br />

tornati. Andarono via e si arrampicarono sul muro <strong>di</strong> cinta<br />

230<br />

scavalcandolo e cadendo senza rumore coi pie<strong>di</strong>ni scalzi sull’erba<br />

alta. Si addossarono al muro e poggiarono gli orecchi<br />

sperando <strong>di</strong> u<strong>di</strong>re qualcosa.<br />

– Non parlano, sanno che siamo qui.<br />

Si allontanarono tenendosi uniti con le braccia al collo, a<br />

compareddos. Non <strong>di</strong>cevano niente. Camminavano a testa bassa<br />

e tiravano su col naso per non farsi scorgere che piangevano.<br />

– Tanto Alessio non è morto, – <strong>di</strong>sse Maureddu – è legato<br />

a noi coi fili.<br />

– Allora perché stai piangendo? – gli chiese Pauleddu<br />

con gli occhi luci<strong>di</strong> <strong>di</strong> lacrime anche lui.<br />

– Perché non me ne stavo ricordando – rispose stizzito<br />

Maureddu.<br />

– Io i fili non li vedo.<br />

Maureddu <strong>di</strong>sse che bisognava cercarli.<br />

– Dove?<br />

– Basta ricordare tutto quello che <strong>di</strong>ceva e faceva Alessio<br />

–. Tutti abbassarono <strong>di</strong> nuovo la testa, tenendosi ancora<br />

più stretti in quella catena tessuta <strong>di</strong> braccia; corrugavano la<br />

fronte, come se si sforzassero <strong>di</strong> ricordare.<br />

– Saliamo qui, – <strong>di</strong>sse Maureddu in<strong>di</strong>cando il sentiero<br />

<strong>di</strong> Pentumas, – come hanno fatto Bakis e ziu Goddette.<br />

Gli altri fecero <strong>di</strong> sì con la testa, non volevano parlare<br />

per non perdere nessuno dei ricor<strong>di</strong> che affioravano alla<br />

mente. Andarono leggeri senza sollevare polvere né smuovere<br />

sassi. Quando furono in cima si voltarono e salutarono<br />

Alessio aprendo e chiudendo i pugni. Piangevano tutti.<br />

Pasqua Gaddari era rimasta sola in casa, seduta davanti al<br />

forno che aveva acceso con tanta cura. Fissava le fiamme, ma<br />

quasi non le vedeva, la sua mente si perdeva oltre il fuoco, oltre<br />

la stanza, in uno spazio senza forma e senza luce, dove<br />

pensava si trovasse Alessio. Ogni tanto tendeva l’orecchio e<br />

voltava lo sguardo verso la porta, come se attendesse qualcuno,<br />

ma presto ricadeva in quel vuoto incolmabile che sentiva<br />

dentro <strong>di</strong> sé. Entrò Bakis seguito dagli altri che erano saliti<br />

per il sentiero <strong>di</strong> Pentumas; andarono a sedersi sulle panche,<br />

senza <strong>di</strong>re niente.<br />

– L’avete accompagnato? – chiese Pasqua senza <strong>di</strong>strarre<br />

lo sguardo da quella fissità dolorosa. Fecero <strong>di</strong> sì con la testa,<br />

231


nessuno aveva voglia <strong>di</strong> parlare. <strong>Il</strong> letto era stato smontato,<br />

nella stanza tutto era tornato come un tempo, quando la<br />

gente veniva a parlare con Alessio e si tratteneva fino a notte.<br />

– È come se fosse ancora con noi Alessio, – <strong>di</strong>sse Palichedda.<br />

– Mi sembra <strong>di</strong> u<strong>di</strong>re la sua voce, le cose che lui <strong>di</strong>ceva<br />

mi tornano in mente tutte.<br />

Pasqua, senza togliere lo sguardo dalle fiamme, <strong>di</strong>sse che<br />

la stanza restava a <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> tutti, se ne avevano piacere<br />

potevano venire quando volevano. Bakis invece sentiva dolorosamente<br />

l’assenza <strong>di</strong> Alessio. Gli sembrava che niente<br />

più avesse senso.<br />

Entrarono altri uomini e altre donne; ciascuno si avvicinò<br />

a Pasqua e le <strong>di</strong>sse una parola <strong>di</strong> conforto. A Bakis sembrava<br />

tutto inutile, tutto falso: quella stanza con loro seduti<br />

sulle panche, il fuoco acceso… sentì il bisogno <strong>di</strong> uscire, <strong>di</strong><br />

parlare con qualcuno che avesse voluto veramente bene ad<br />

Alessio.<br />

– Vado, – <strong>di</strong>sse a Pasqua alzandosi. Gli altri non capirono<br />

quella fuga, restarono ancora lì e parlarono della gente<br />

ch’era scesa fino al camposanto a dare l’ultimo saluto ad<br />

Alessio.<br />

– Torna, se puoi, – <strong>di</strong>sse Pasqua facendo un gesto vago<br />

con le mani che esprimeva tutta la sua solitu<strong>di</strong>ne.<br />

<strong>Il</strong> giorno ormai stava per finire. Nel cielo durava ancora<br />

una povera luce che si rifletteva malinconicamente sulle case<br />

e sulle strade.<br />

– Tutto il mondo è triste per la morte <strong>di</strong> Alessio, – <strong>di</strong>sse<br />

Bakis guardandosi intorno mentre andava per vicoli e vicoli<br />

senza saper dove.<br />

Si trovò davanti alla casa <strong>di</strong> Pepparosa ed entrò come se<br />

avesse corso proprio per arrivare lì.<br />

– È <strong>di</strong> sopra, nella sua stanza, – gli <strong>di</strong>sse Ninedda.<br />

– Lo so, salgo.<br />

Anche la casa <strong>di</strong> Pepparosa era triste, non si u<strong>di</strong>vano le<br />

voci delle ragazze, i telai tacevano, come se la morte si fosse<br />

posata anche lì. Bakis sospinse la porta ed entrò. Pepparosa,<br />

in pie<strong>di</strong> davanti alla finestra, guardava il bosco della Consolata<br />

illuminato appena da un sole morente. Bakis avanzò e dalla<br />

tasca tirò fuori un piccolo quaderno.<br />

232<br />

Voleva chiamare e <strong>di</strong>re qualcosa, per sentire una voce.<br />

– Non ora, – <strong>di</strong>sse Pepparosa.<br />

Bakis guardò il quaderno che aveva trovato fra le carte<br />

<strong>di</strong> Alessio, voleva <strong>di</strong>rle che parlava anche <strong>di</strong> lei, ma non ebbe<br />

la forza; lo posò sul tavolo e andò via senza <strong>di</strong>re niente;<br />

Pepparosa sembrava una santa <strong>di</strong> sasso davanti alla finestra.<br />

Nel silenzio della strada deserta la sera aveva una tristezza<br />

inconsolabile. Le ombre dell’imminente notte ricoprivano già<br />

le case e i cortili, mentre nel cielo svaniva anche l’ultima luce.<br />

Bakis riprese a vagare per il paese, come un muflone ferito<br />

che cercasse <strong>di</strong> lenire il dolore nella corsa. Sentiva che gli veniva<br />

meno tutto, perfino la terra dove posava i pie<strong>di</strong>, ed era preso<br />

da una paura che non aveva mai provato. Non voleva farsi<br />

vedere così da Nicolosa. Camminò ancora per strade e vicoli,<br />

poi tornò alla casa Pintore ed entrò nella domo ’e ocu. Ziu Kicu,<br />

accovacciato nell’angolo più buio della stanza, sembrava<br />

un mucchio <strong>di</strong> legna <strong>di</strong>sseccata al sole dell’estate. La debole<br />

luce della lampada gl’illuminava appena la testa, china sopra<br />

le mani incrociate sulle ginocchia. Bakis lo chiamò e lui, senza<br />

poter sollevare la testa, definitivamente vinto dalla stanchezza,<br />

gli <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> avvicinarsi.<br />

– Sie<strong>di</strong>ti, figlio mio, restiamo insieme.<br />

Bakis gli si sedette vicino e provò un dolore ancora più<br />

forte vedendo che del vigore <strong>di</strong> ziu Kicu non restava niente.<br />

Si prese la testa fra le mani e pianse in silenzio.<br />

– Ninedda mi ha detto… Io non c’ero a Pentumas…<br />

Neanche donna Pepparosa c’era… –. La voce sembrava<br />

giungere da una fossa profonda come quella che custo<strong>di</strong>va<br />

Alessio.<br />

– So ciò che provi, Bakis… Io non ti posso dare alcun<br />

conforto… sento un peso addosso che mi schiaccia… –. Faceva<br />

delle lunghe pause, come se le parole le cercasse fra ricor<strong>di</strong><br />

lontani.<br />

– Tu puoi piangere… Va’ da Nicolosa, piangete insieme.<br />

Tentò <strong>di</strong> sciogliere l’intreccio delle mani che cingevano<br />

le ginocchia, ma non vi riuscì. Restò curvo, avvolto nella sua<br />

stanchezza e <strong>di</strong>sse ancora:<br />

– Dopo, quando avrete smesso <strong>di</strong> piangere, riprendete la<br />

strada.<br />

233


Bakis ascoltava. Anche lui era rannicchiato con la testa<br />

sulle ginocchia. Non aveva voglia <strong>di</strong> parlare. La voce <strong>di</strong> ziu<br />

Kicu sembrava gli sciogliesse quei no<strong>di</strong> duri come pietre che<br />

lo legavano. Entrò Ninedda e <strong>di</strong>sse a ziu Kicu che aveva<br />

portato un po’ <strong>di</strong> farro caldo.<br />

– Vi sostiene, l’ho preparato come piace a voi.<br />

Ziu Kicu voleva scuotere la testa per <strong>di</strong>re no. Non ne ebbe<br />

la forza. Gli pesava tutto.<br />

– Perché vuoi tormentarmi?<br />

– Non avete toccato cibo da ieri… dovete… il <strong>di</strong>giuno<br />

vi strema.<br />

– Altro mi ha stremato… Lasciami ora, ti chiamerò io.<br />

Ninedda non ebbe il coraggio <strong>di</strong> insistere oltre e portò<br />

via il farro per tenerlo ancora al caldo.<br />

– Perché vi lasciate andare così? – gli chiese Bakis. – Dove<br />

mi volto io se anche voi…<br />

– Non ho voglia <strong>di</strong> alzarmi, non ho più voglia <strong>di</strong> niente,<br />

– rispose ziu Kicu. Nella sua voce vi era un desiderio <strong>di</strong><br />

staccarsi da tutto.<br />

– Sto parlando troppo, abbiamo bisogno <strong>di</strong> silenzio.<br />

Tacquero. La lampada, una tazza <strong>di</strong> legno riempita d’acqua<br />

con un <strong>di</strong>to d’olio <strong>di</strong> lentischio, mandava una fiammella<br />

verdognola avvolta da un fumo amaro.<br />

– Va’, Bakis, non piangere più, ti resta ancora tanto da<br />

vivere e da soffrire.<br />

– Tornerò presto.<br />

– Come vuoi.<br />

Bakis uscì. Si guardò intorno. Ora sapeva dove andare.<br />

La notte era buia ma gli sembrava d’intravvedere la luce dell’alba<br />

che ancora doveva venire.<br />

234<br />

XXIX<br />

Le secche <strong>di</strong> gennaio, con un sole lucente che <strong>di</strong>sorientava,<br />

arrivavano come presagio <strong>di</strong> primavera. I mandorli fiorivano<br />

anzitempo, le api sciamavano come pazze e il sangue<br />

pulsava con più violenza, come se la vita volesse scoppiare.<br />

Presto però tornava l’inverno, più freddo e più cupo, col cielo<br />

corrucciato, la pioggia e il vento che mulinando <strong>di</strong>sperdeva<br />

i fiori insieme al nevischio nella valle. Si cadeva in un<br />

nuovo letargo, una piccola morte, che sembrava togliere la<br />

speranza <strong>di</strong> altri soli.<br />

Don Satta, sulla veranda della sua casa, non sentiva più<br />

gli impulsi che in altre stagioni lo spingevano a correre a<br />

<strong>Marreri</strong> sulle groppe del suo Ombroso o a chiamare alle<br />

danze le ragazze che avevano la fragranza dei nuovi frutti.<br />

Ora appariva stanco. Ombroso nitriva, quasi sentisse passare<br />

inutilmente anche quegli ultimi giorni <strong>di</strong> sole, ma lui non<br />

aveva voglia <strong>di</strong> muoversi, aveva rinunziato anche a Santandria.<br />

Nel silenzio tentava <strong>di</strong> leggere, ma la mente inseguiva<br />

ricor<strong>di</strong> e rimpianti.<br />

Carmela si affacciò alla veranda e attese che lui si accorgesse<br />

della sua presenza; aveva riguardo <strong>di</strong> destarlo dal suo<br />

raccoglimento. Altre volte avrebbe chiamato da lontano e alzato<br />

la voce e bussato alla porta con forza per farsi sentire.<br />

– Cosa mi devi <strong>di</strong>re? Prima riuscivo a capire i tuoi pensieri,<br />

ora… è come se fossi fuori dal ritmo della vita.<br />

La mitezza inconsueta <strong>di</strong> don Satta dava a Carmela uno<br />

struggimento che da tempo non provava più.<br />

– Giù ci sono quelli, attendono da un po’ –. Lui non rispose,<br />

reclinò la testa, come se volesse raccogliere i suoi pensieri.<br />

Quei visitatori li avrebbe mandati via volentieri, anche se<br />

gli si presentavano devoti e amici. Uomini e donne si erano<br />

piegati al suo volere per paura o per interesse, mai per amore.<br />

Ora il suo rapporto col mondo era mutato, tutto sembrava<br />

sovvertito e lui si sentiva più che mai solo e impotente.<br />

235


– Scendo, – <strong>di</strong>sse a Carmela, che andò via in punta <strong>di</strong><br />

pie<strong>di</strong>. I tralci del pergolato ormai spogli si allungavano <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>natamente<br />

in attesa della potatura, segno anch’essi <strong>di</strong><br />

quel mutamento che sembrava aver spezzato ogni volontà.<br />

Nessuna prova intorno che valesse a negare ciò che lui temeva.<br />

Muoversi gli costava, ma sentiva che bisognava andare.<br />

Nella sala grande lo attendevano il notaio Cu<strong>di</strong>llo, il sindaco<br />

e l’esattore delle imposte, che salutarono con un movimento<br />

del capo appena accennato. Altre volte si sprofondavano,<br />

non osando quasi sollevare gli occhi. Forse era solo<br />

una sua impressione, tutto gli faceva ombra ormai. Li invitò<br />

a sedersi e si lasciò cadere sulla se<strong>di</strong>a dalla parte opposta del<br />

grande tavolo. <strong>Il</strong> notaio non riusciva a nascondere la sua insofferenza.<br />

– È già tanto che atten<strong>di</strong>amo, – <strong>di</strong>sse sforzandosi <strong>di</strong> sorridere.<br />

Ma l’espressione era ostile. Don Satta si sorprese, non<br />

supponendo tanto ar<strong>di</strong>re in quella specie d’uomo che aveva<br />

sempre piagnucolato. L’esattore, la cui magrezza sembrava lo<br />

specchio della sua voracità, sottolineò con una smorfia quelle<br />

parole e puntò le sue occhiaie su don Satta, che manteneva<br />

una calma insolita. Non riusciva a in<strong>di</strong>gnarsi: bisognava<br />

ascoltare anche se niente <strong>di</strong> ciò che dovevano <strong>di</strong>rgli aveva interesse<br />

per lui. Non si doleva <strong>di</strong> averli fatti attendere, lo aveva<br />

sempre fatto, convinto che l’attesa inducesse al ripensamento.<br />

– Dite, – or<strong>di</strong>nò. <strong>Il</strong> sindaco, col rancore del giorno <strong>di</strong><br />

Cu<strong>di</strong>nattas, <strong>di</strong>sse che avevano bisogno <strong>di</strong> maggior considerazione,<br />

le cose che erano in ballo toglievano qualsiasi voglia<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>vertirsi, era tempo che si parlasse a tu per tu, ciascuno<br />

aveva la sua testa, gl’interessi erano <strong>di</strong> tutti.<br />

– Non starai <strong>di</strong>ventando intelligente? – ironizzò don Satta,<br />

che aveva sempre meno voglia <strong>di</strong> a<strong>di</strong>rarsi. <strong>Il</strong> sindaco però<br />

sembrava un altro uomo, sicuro e deciso, come mai era apparso.<br />

Risentito rispose che l’intelligenza non era tutta nella<br />

testa degli stu<strong>di</strong>ati. <strong>Il</strong> notaio, <strong>di</strong>sorientato, aveva perso il filo<br />

del <strong>di</strong>scorso che si era preparato e si agitava sulla se<strong>di</strong>a preso<br />

dalla paura che sempre lo paralizzava <strong>di</strong> fronte a don Satta.<br />

Però bisognava osare.<br />

– Vogliamo sapere con chi sta lei –. Non era quello che<br />

voleva <strong>di</strong>re o almeno non erano quelle le parole più adatte e<br />

cercò <strong>di</strong> correre ai ripari, ma era confuso.<br />

236<br />

– Tante cose sono successe e noi stiamo a guardare –.<br />

E prese a elencare i danni e gli affronti subiti, tutto riconducendo<br />

alla prepotenza con cui conta<strong>di</strong>ni e pastori mantenevano<br />

il possesso delle terre occupate l’anno prima rifiutandosi<br />

<strong>di</strong> pagare i <strong>di</strong>ritti a chi <strong>di</strong> dovere. Sbriciolava ogni fatto<br />

in tanti capi d’accusa, compiaciuto del numero che cresceva.<br />

– Senza farla tanto lunga, – sbottò il sindaco, che voleva<br />

rompere ogni indugio, – non abbiamo visto niente per<br />

le terre che ci hanno preso. Anche la parrocchia è rimasta a<br />

bocca asciutta: il Cumone finirà per spogliarci tutti.<br />

– Non pagano le imposte e non temono più – riuscì a<br />

<strong>di</strong>re l’esattore.<br />

Don Satta seguiva i loro gesti e tutto gli appariva inutile<br />

e ri<strong>di</strong>colo.<br />

– La terra non la meritate, non l’avete mai amata, – <strong>di</strong>sse<br />

con voce pacata.<br />

– Allora hanno fatto bene a prendersele?<br />

– Forse sì, voi siete rapinatori <strong>di</strong> terre.<br />

– Allora il Cumone sta bene? Quando toccheranno le<br />

terre sue, <strong>Marreri</strong> per esempio…<br />

– Non m’importa più niente delle terre.<br />

<strong>Il</strong> sindaco capì che don Satta non aveva più forza, né volontà.<br />

Ora toccava a lui, doveva trovare il modo <strong>di</strong> far entrare<br />

il fumo nel naso a quel grand’uomo pieno d’intelligenza.<br />

– Le sue terre in mano agli scomunicati? – <strong>di</strong>sse con la<br />

mente tutta tesa nella ricerca dei mo<strong>di</strong> e dei mezzi.<br />

– L’ingor<strong>di</strong>gia finirà per farti <strong>di</strong>ventare uomo pio, – gli<br />

rispose don Satta, con un <strong>di</strong>stacco che attenuava la durezza<br />

<strong>di</strong> quelle parole. <strong>Il</strong> notaio non riusciva a contenere la sua<br />

agitazione.<br />

– Perché ha sciolto il comitato agrario? – chiese alzandosi<br />

in pie<strong>di</strong>.<br />

– C’è un patto e lo deve rispettare anche lei, non siamo<br />

dei pupattoli, abbiamo la nostra <strong>di</strong>gnità –. Di colpo tornò il<br />

silenzio; ci si attendeva che don Satta urlasse o battesse i pugni<br />

sul tavolo, ma non accadde niente e il notaio provò vergogna<br />

per quella sua tirata. Don Satta si alzò. Si alzarono anche<br />

gli altri e il sindaco, con fare conciliante, cercò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re<br />

che loro comprendevano quel comportamento, dovuto forse<br />

a qualche malessere, ma non ci si poteva fermare. <strong>Il</strong> notaio<br />

237


invece volle provocare ancora: lui non credeva ai malesseri,<br />

era tutta una finzione.<br />

– <strong>Il</strong> comitato agrario continuerà anche senza <strong>di</strong> lei, –<br />

<strong>di</strong>sse perdendo ogni controllo, – non c’importa degl’innesti<br />

e delle potature che voleva insegnare ai conta<strong>di</strong>ni deficienti.<br />

– Fate quello che volete, – lo interruppe don Satta avviandosi<br />

verso la porta.<br />

– Deve prendersi le sue responsabilità, – urlò il notaio,<br />

– Alessio Biote è morto, ma il suo ricordo continua ad avvelenare<br />

l’aria; i pastori e i conta<strong>di</strong>ni se ne ridono <strong>di</strong> lei, siamo<br />

venuti per <strong>di</strong>rle <strong>di</strong> mettersi da parte, il danno che ci ha fatto<br />

è tanto.<br />

Don Satta non si sorprese, sapeva <strong>di</strong> quali bassezze erano<br />

capaci il notaio e i suoi amici. Ma il nome <strong>di</strong> Alessio riaprì<br />

una ferita mai chiusa; il rimorso per tutto ciò ch’era accaduto<br />

se lo sentì come un male che mordesse le viscere.<br />

Stava per lasciare la sala quando, come una schioppettata, lo<br />

raggiunse la voce del sindaco:<br />

– Le sue terre le deve cedere a noi, con le buone o con le<br />

cattive, deve ripagarci <strong>di</strong> tutto ciò che ci è caduto addosso.<br />

Questo vogliamo, il resto sono cose sue.<br />

Don Satta sentì tutto l’astio delle parole del sindaco, ma<br />

non si voltò: fece un cenno a Carmela per in<strong>di</strong>care che doveva<br />

accompagnare i visitatori e uscì.<br />

– Fa finta <strong>di</strong> essere annoiato per non riconoscere che ha<br />

sbagliato tutto – <strong>di</strong>sse il notaio. <strong>Il</strong> sindaco soggiunse che bisognava<br />

<strong>di</strong>fendersene. L’esattore, con una loquela insolita,<br />

elencò le terre e gli altri beni <strong>di</strong> don Satta, ricordando che<br />

non vi erano parenti prossimi. <strong>Il</strong> sindaco appariva sod<strong>di</strong>sfatto,<br />

euforico, come se si fosse levato un peso <strong>di</strong> dosso.<br />

– Per vent’anni abbiamo avuto rispetto <strong>di</strong> uno spaventa<br />

passeri.<br />

<strong>Il</strong> notaio scuoteva la testa.<br />

– Non è così, quando ha fatto bene l’abbiamo seguito e<br />

sostenuto, ora è <strong>di</strong>ventato un altro…<br />

Ogni tanto si fermavano. L’esattore <strong>di</strong>sse che prima le<br />

imposte le pagavano tutti perché temevano il rettore, ora…<br />

– Ora dobbiamo cominciare da capo, – rispose il sindaco,<br />

– non dobbiamo avere pentimenti o riguar<strong>di</strong> per nessuno.<br />

238<br />

Ci vuole decisione –. I due amici lo guardarono stupiti <strong>di</strong><br />

tanta sicurezza.<br />

– Chi può battezzare quelli lì? – <strong>di</strong>sse il notaio guardando<br />

verso i monti.<br />

– Li battezzeremo noi, ma non con l’acquasanta, – rispose<br />

il sindaco con aria <strong>di</strong> sfida.<br />

– Cosa facciamo ora? – chiese il notaio che non riusciva<br />

a <strong>di</strong>stogliere i suoi pensieri da don Satta: era stato sempre il<br />

suo punto <strong>di</strong> riferimento.<br />

– A Santandria si vedono le terre <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong> e Niniana,<br />

an<strong>di</strong>amo a guardarle – propose il sindaco. Si mossero tutti e<br />

tre. <strong>Il</strong> sindaco era eccitato, sprezzante: raccontava, proponeva,<br />

minacciava, ma non <strong>di</strong>ceva tutto ciò che gli passava nella<br />

mente. Gli altri due ascoltavano concentrati nei calcoli delle<br />

nuove convenienze. Quando furono in cima all’altura, il<br />

sindaco tacque per un po’: guardò verso il paese, poi puntò<br />

gli occhi avi<strong>di</strong> su <strong>Marreri</strong> <strong>di</strong>cendo:<br />

– Pensare che questa grazia <strong>di</strong> Dio può andare in mano<br />

a dei morti <strong>di</strong> fame!<br />

Anche il notaio e l’esattore guardavano, accarezzando<br />

pensieri inconfessabili. <strong>Il</strong> sindaco era sicuro che per i suoi<br />

amici non ci fosse spazio e sorrise; sorrisero anche gli altri<br />

due, quasi per suggellare un’intesa, ma tutto era vago e sfumato,<br />

come i monti senza sole e la vallata che stavano depredando<br />

con gli occhi.<br />

Anche la casa <strong>di</strong> don Satta era entrata nell’ombra: lui<br />

ora non cercava più la quiete, voleva rompere quell’inerzia.<br />

Nel cortile Kiocò si aggirava come un cane smarrito che cercasse<br />

<strong>di</strong>speratamente una casa e un padrone.<br />

– Vieni su, – lo chiamò don Satta. Kiocò comparve ansante,<br />

felice però <strong>di</strong> quella chiamata. Si tolse la berretta, s’inchinò<br />

goffamente e tentò <strong>di</strong> esprimere la sua contentezza,<br />

ma gli uscì solo un balbettio.<br />

– Da molto non ve<strong>di</strong> i tuoi amici del Cumone?<br />

– Ho sempre seguito voi.<br />

– Trafficano nella tua bottega.<br />

– I buoi e i cavalli bisogna ferrarli.<br />

– Chi c’è in paese?<br />

Kiocò aveva paura <strong>di</strong> <strong>di</strong>re qualcosa che potesse <strong>di</strong>spiacere.<br />

239


– Non so, oggi non sono uscito.<br />

– Insomma chi è venuto da te? – lo incalzò don Satta.<br />

– Goddette.<br />

– È ancora in paese?<br />

– Sì, c’è.<br />

– Va’, portamelo qui.<br />

– Io… Non so, non ho visto, non ho sentito…<br />

– Va’, non temere.<br />

Kiocò si allontanò e don Satta tornò nello stu<strong>di</strong>o. Ora i<br />

pensieri riprendevano a fluire, la mente era tornata lucida e<br />

lui era contento. Tirò fuori il manoscritto del suo libro e si<br />

mise a sfogliarlo soffermandosi su quei passi, numerosi, che<br />

mai l’avevano convinto. Non l’aveva più toccato, per <strong>di</strong>samore<br />

e ribellione: la “Fusione” tra<strong>di</strong>ta e il voltafaccia <strong>di</strong> Pio<br />

IX gli avevano tolto ogni entusiasmo. Rileggendo quelle pagine<br />

capì quanti mutamenti erano avvenuti anche in lui e<br />

quanti errori aveva commesso nel valutare uomini e cose.<br />

Ora non voleva più <strong>di</strong>sperdere i pastori, avrebbe voluto riconciliarli<br />

col resto del mondo. Se avesse avuto voglia e tempo<br />

avrebbe ripreso da lì.<br />

Più tar<strong>di</strong> Kiocò gli annunciò che Goddette attendeva<br />

giù, era riuscito a trovarlo e condurlo con sé.<br />

– Non voleva venire, non per paura, Goddette è un<br />

uomo.<br />

– Di che cosa doveva aver paura?<br />

– Dico così, una vostra chiamata.<br />

– Che salga.<br />

Kiocò uscì e tornò poco dopo con Goddette, che salutò<br />

togliendosi la berretta. Dal suo viso non traspariva niente né<br />

paura, né sorpresa, né curiosità; solo certi rapi<strong>di</strong> sguar<strong>di</strong> lanciati<br />

qua e là rivelavano che voleva capire. Don Satta fece un<br />

gesto amichevole con la mano e Kiocò andò via sperando<br />

che tornassero i tempi andati. Goddette prese la se<strong>di</strong>a che<br />

gl’in<strong>di</strong>cò il rettore e si sedette proprio sull’orlo quasi a significare<br />

che non si sentiva a suo agio. Don Satta lo fissò intensamente.<br />

– In paese a quest’ora?<br />

– Giù ho lasciato il tascapane.<br />

– Pieno o vuoto? – chiese don Satta in tono scherzoso.<br />

240<br />

– A metà, come possiamo.<br />

Goddette non aveva abbandonato la sua <strong>di</strong>ffidenza. Cosa<br />

mai voleva quel <strong>di</strong>avolo da lui? Non era mai entrato in<br />

quella casa, neanche quando era stato chiamato a dare una<br />

giornata per la costruzione della strada.<br />

– Dove pascolate ora?<br />

– Sui monti, ma le bestie non resistono al freddo.<br />

– <strong>Il</strong> Cumone è sempre in pie<strong>di</strong>?<br />

Goddette fece solo un impercettibile segno con la testa.<br />

– Chi è il capo ora?<br />

– Non ci sono capi, siamo tutti lì.<br />

– Alessio e Kicu contavano molto.<br />

Goddette era convinto che don Satta volesse riaprire il<br />

processo al Cumone per dargli il colpo <strong>di</strong> grazia.<br />

– Uomini come Alessio non ne nasceranno più, – <strong>di</strong>sse<br />

abbassando la testa. Era il lamento che ripeteva da qualche<br />

tempo. – Le vostre scomuniche non le teme nessuno. Anche<br />

se non ha capi il Cumone è saldo, non potete toccarlo –. Si<br />

era alzato in pie<strong>di</strong>.<br />

Don Satta in cuor suo provò piacere.<br />

– Cre<strong>di</strong> veramente ch’io voglia toccare il Cumone?<br />

– Non mi avrete chiamato per darmi la comunione.<br />

– Dicevi che ti eri liberato dalla paura. Volevo solo informarmi<br />

<strong>di</strong> voi e delle vostre cose… Dov’è finito il figlio <strong>di</strong><br />

Antoni Moro?<br />

– Bakis è sui monti.<br />

– E le terre? Quelle che vi siete presi vi bastano?<br />

– La terra non basta mai.<br />

– So che avete ripulito i pascoli sui monti.<br />

– Ne abbiamo cura, quelle terre le sentiamo nostre.<br />

– E se vi dessi anche le mie, Niniana e <strong>Marreri</strong>?<br />

– Darcele? – Goddette si passò una mano sulla fronte.<br />

– Sappiamo quanto vi stanno a cuore.<br />

– La forza del vostro Cumone è nel rispetto che avete per<br />

la terra. Ascoltami bene: le mie terre <strong>di</strong> Niniana, <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>,<br />

compresa Santa Lulla e quelle che occupate già ve le cedo, ve<br />

le dono. Tra qualche giorno andrò a Nuoro e farò l’atto regolare.<br />

Vorrò vedere cosa riuscirete a fare a <strong>Marreri</strong> ch’io non<br />

abbia fatto. La mia è una sfida. Parlane con i tuoi amici.<br />

241


Goddette gli chiese se voleva entrare nel Cumone ma<br />

don Satta rispose che il suo mestiere era <strong>di</strong>r messa.<br />

– Ero venuto con altri pensieri, – commentò Goddette,<br />

– non so cosa <strong>di</strong>re –. Non riusciva a dare un senso a tutto<br />

ciò. Infilò il suo tascapane e andò via visibilmente commosso<br />

pensando alla sconcertante offerta. Incontrò il sindaco e<br />

il notaio che <strong>di</strong>scutevano animatamente. Non li salutò; loro<br />

l’avevano visto uscire dalla casa <strong>di</strong> don Satta e avrebbero voluto<br />

fermarlo, ma il notaio si <strong>di</strong>ede un contegno <strong>di</strong> in<strong>di</strong>fferenza<br />

e noncuranza, seguito dal sindaco.<br />

– È come temevo – mormorò quest’ultimo. <strong>Il</strong> notaio<br />

abbassò la testa e manifestò la sua impotenza allargando le<br />

braccia. Ormai le ombre della sera avvolgevano tutto.<br />

242<br />

XXX<br />

Una leggenda raccontava <strong>di</strong> un pastore che avendo ancora<br />

intatto il gregge alla fine <strong>di</strong> gennaio e credendo l’inverno<br />

ormai finito aveva dato sfogo alla sua insensata allegria<br />

con un canto <strong>di</strong> scherno:<br />

Jannarju, Jannarjone<br />

mancu su thopu thopu<br />

mancu su thopicone…<br />

ma gennaio, risentito, aveva chiesto a febbraio il prestito <strong>di</strong><br />

due giorni:<br />

happas bene frearju<br />

imprestami duas <strong>di</strong>es<br />

po fachere bentu e nibe<br />

a cust’erbecarju<br />

…<br />

e l’empio pastore era stato seppellito sotto la neve insieme<br />

alle sue pecore. Anche quell’anno gennaio affidò il suo mai<br />

sopito rancore al vento dei giorni imprestati, che soffiò gelido<br />

bruciando ciò che fiduciosamente si era aperto al sole <strong>di</strong><br />

quell’ingannevole primavera. Poi il vento cessò <strong>di</strong> colpo e<br />

cadde la neve, tanta neve quanta non se n’era mai vista. Tutto<br />

fu sommerso: non si scorgevano né sassi, né siepi, emergevano<br />

solo le querce con le chiome stracariche scosse ogni<br />

tanto dalle scuri dei pastori che le cimavano per dare cibo<br />

alle bestie affamate. Pecore e agnelli, sprofondati nella neve,<br />

riuscivano a lambire appena quelle fronde. I pastori si guardavano<br />

intorno, ma non vi era speranza <strong>di</strong> salvezza. Anche il<br />

torrente era muto, come se il gelo ne avesse <strong>di</strong>sseccato la vita.<br />

Solo a <strong>Marreri</strong> la neve non riusciva a posarsi, i tepori la<br />

<strong>di</strong>ssolvevano in nebbie che vagavano leggere nell’aria.<br />

243


– Scendere lì dobbiamo, – <strong>di</strong>sse Bakis, in<strong>di</strong>cando quelle<br />

terre lontane che si aprivano come un approdo insperato. Si<br />

era parlato dell’offerta <strong>di</strong> don Satta: quel gesto appariva carico<br />

<strong>di</strong> misteri impenetrabili, poteva essere l’ultimo inganno<br />

per tagliare irreparabilmente i fili che tenevano ancora in vita<br />

il Cumone. Goddette ripeteva le parole <strong>di</strong> don Satta, che<br />

aprivano alla fiducia, ma trovava anche infinite ragioni per<br />

<strong>di</strong>ffidare e temere.<br />

– È mutato, – <strong>di</strong>ceva Bakis che lo aveva sempre presente<br />

come lo aveva visto davanti all’altare del Carmelo, gravato<br />

da un dolore inconsolabile. Non riusciva a ricordarlo <strong>di</strong>versamente,<br />

tutto lo riconduceva a quella rivelazione.<br />

– Dobbiamo salvare le greggi, – <strong>di</strong>sse Goddette: quella<br />

necessità s’imponeva su ogni altra considerazione.<br />

– Sì, questo ora conta, – <strong>di</strong>ssero gli altri. Si <strong>di</strong>visero i<br />

compiti: alcuni andarono avanti a cavallo per preparare i ricoveri,<br />

gli altri guidarono le pecore attraverso l’antico sentiero.<br />

Bakis e Goddette montarono a cavallo per rientrare in<br />

paese e parlare con don Satta. Pesava molto quell’incarico,<br />

ma dovevano compierlo e andarono orientandosi a fatica.<br />

Cercavano i segni del sentiero noto, ma al posto delle siepi e<br />

dei muri vi erano rigonfiamenti informi, come se la neve lievitasse<br />

per una forza che saliva dal grembo della terra. I cavalli<br />

sprofondavano nella neve fino al petto. Goddette tracciava<br />

la strada tenendosi sempre a metà pen<strong>di</strong>o. Bakis pensava a<br />

don Satta, provava vergogna a presentarsi a lui. Sull’altura <strong>di</strong><br />

Gurgu sostarono frugando con lo sguardo per scoprire il paese<br />

<strong>di</strong> cui <strong>di</strong>stinguevano solo il campanile e le case del rione<br />

alto. Goddette pensava a Grascia, sola nella casa sommersa.<br />

Scesero, sempre costeggiando il pen<strong>di</strong>o, coi cavalli che ogni<br />

tanto scivolavano stanchi. I sentieri scavati nella neve rivelavano<br />

che la vita continuava a tessere legami anche in quel silenzio<br />

innaturale.<br />

– Ti fermi da Grascia? – chiese Bakis quando furono<br />

dentro il paese.<br />

– No, an<strong>di</strong>amo subito da lui, voglio togliermi questo<br />

peso.<br />

Nonostante le forme bizzarre che la neve aveva modellato,<br />

Goddette riconobbe subito la sua casa: qualcuno aveva<br />

244<br />

liberato il tetto dal peso che lo schiacciava; dalle tracce indovinò<br />

anche l’an<strong>di</strong>rivieni <strong>di</strong> Grascia e l’aiuto ottenuto dai<br />

vicini nella spalatura della neve. Si tranquillizzò.<br />

Davanti alla casa del rettore, prima <strong>di</strong> bussare, sbatterono<br />

la neve dai gabbani d’orbace. Carmela li fece entrare in una<br />

saletta; dal caminetto si <strong>di</strong>ffondeva un caldo odore <strong>di</strong> ginepro.<br />

Don Satta apparve subito, si sfregava le mani, non per il<br />

freddo ma per la gioia infantile che gli dava la neve. Dopo la<br />

messa dal campanile aveva osservato i monti e le valli poi<br />

aveva attraversato le strade del paese fino a Santandria.<br />

– Ce n’è molta sui monti? – chiese, invitando i due a sedersi<br />

davanti al camino. Anche dal tono della voce traspariva<br />

una premura insolita per tutto e per tutti.<br />

– Le greggi stanno scendendo a <strong>Marreri</strong>, non si poteva<br />

lasciarle morire, – <strong>di</strong>sse Goddette, – siamo venuti a <strong>di</strong>rvelo,<br />

quando passerà la temporada penseremo qualcosa.<br />

– C’è erba e caldo a <strong>Marreri</strong>, starete bene… Con la barba<br />

sembri un uomo, – <strong>di</strong>sse poi a Bakis con un tono quasi affettuoso.<br />

Bakis, intenerito, <strong>di</strong>ventò rosso. Don Satta gli appariva<br />

ancora <strong>di</strong>verso da come l’aveva pensato nell’ultimo periodo.<br />

– Altro mi farà <strong>di</strong>ventare uomo, – rispose.<br />

– Cosa mai? – chiese don Satta, che voleva forzare il riserbo<br />

<strong>di</strong> questo strano ragazzo.<br />

– La vita che mi è toccata e quello che mi hanno fatto<br />

capire gli altri: Alessio, ziu Kicu, Goddette e anche voi…<br />

Don Satta non voleva far vedere la sua commozione e<br />

scherzò ancora <strong>di</strong>cendo che agli uomini fatti non era vietato<br />

sorridere. Parlarono ancora <strong>di</strong> cose che non avevano peso,<br />

come se ciascuno volesse <strong>di</strong>ssimulare ciò che realmente sentiva<br />

e pensava. Goddette però volle ritornare allo scopo della<br />

visita.<br />

– È come un tra<strong>di</strong>mento accettare la vostra offerta, ma<br />

con tutta quella neve…<br />

– Avete amore per la terra, solo questo conta per me, –<br />

<strong>di</strong>sse don Satta.<br />

Bakis si accarezzò nervosamente la barba.<br />

– <strong>Il</strong> Cumone è in pericolo, – <strong>di</strong>sse, – Alessio lo temeva.<br />

– Alessio! Alessio! – borbottò don Satta. Goddette si alzò,<br />

dovevano andare.<br />

245


Quando furono vicino alla porta, don Satta raccomandò<br />

loro <strong>di</strong> avere cura delle piante promettendo che presto sarebbe<br />

andato a trovarli. Bakis e Goddette montarono a cavallo e<br />

si avviarono verso <strong>Marreri</strong>. Non nevicava più e dal mare saliva<br />

un vento carico <strong>di</strong> tepori che consumava lentamente, come<br />

un male misterioso. La neve si <strong>di</strong>sciolse tutta, anche<br />

quella che si era addensata negli anfratti e nelle forre. Riemerse<br />

la terra con tutte le sue asperità, vivificata quasi dal riposo<br />

<strong>di</strong> quei giorni. Quando quella calda voracità cessò si<br />

aprirono gli spazi all’aria fredda, che scese dai monti ripulendo<br />

e prosciugando il cielo e la terra.<br />

Ombroso non voleva uscire dalla stalla: nitrì, scalpitò e<br />

poi rinculò fin nell’angolo più buio agitando violentemente<br />

la criniera. Kiocò risentito dovette adoperare la frusta.<br />

– Cosa c’è? – chiese don Satta accarezzando il collo del<br />

cavallo. – Non vuoi venire a <strong>Marreri</strong>?<br />

Ombroso scosse la testa.<br />

Della grande nevicata era rimasto solo qualche segno<br />

sui tetti delle casupole, sfiancati da quel peso immane, e sui<br />

muri dei cortili che avevano dovuto cedere un altro strato<br />

<strong>di</strong> fango alle acque e ai venti. La terra era tornata asciutta e<br />

dura, come dopo le siccità; il vento l’aveva <strong>di</strong>sseccata fin<br />

nelle profon<strong>di</strong>tà, bruciando l’erba ch’era germogliata al sole<br />

<strong>di</strong> gennaio. Ombroso camminava a testa bassa fiutando i<br />

fondali calcinosi delle pozzanghere prosciugate; ogni tanto<br />

rallentava il passo, come a significare qualcosa.<br />

– Lo so, non è una buona giornata per scendere a <strong>Marreri</strong>,<br />

– gli <strong>di</strong>ceva don Satta. I vicoli e le straducole erano deserti;<br />

le donne erano rientrate dalla messa frettolosamente, quasi<br />

temessero <strong>di</strong> <strong>di</strong>strarsi dal raccoglimento ch’erano riuscite a<br />

trovare in chiesa; gli uomini erano usciti prima dell’alba accompagnati<br />

dagli scalpitii dei cavalli o dai rotolii dei carri.<br />

In prossimità del camposanto Ombroso si fermò. Don<br />

Satta accennò un segno <strong>di</strong> croce, un’abitu<strong>di</strong>ne per rispetto<br />

del luogo consacrato: non si fermava mai, anzi passava senza<br />

guardare neppure il camposanto che conosceva in ogni angolo.<br />

La fermata insolita del cavallo lo spinse a varcare il<br />

cancello nero, ch’era aperto, contrariamente alle abitu<strong>di</strong>ni <strong>di</strong><br />

Berrittone che lo chiudeva a chiave tutte le sere. <strong>Il</strong> cimitero<br />

246<br />

senza la gente che solitamente accompagnava i funerali gli<br />

apparve <strong>di</strong>verso, il ricordo andò a quelli che giacevano sottoterra,<br />

<strong>di</strong> molti rammentava lo sguardo impaurito e supplichevole<br />

che gli avevano lanciato nel momento estremo: lo<br />

smarrimento portava a credere che il rettore potesse veramente<br />

vincere la morte, ma il patto con la natura non si poteva<br />

rompere: “una vita ci ha dato, una morte le dobbiamo”,<br />

era il rassegnato lamento dei moribon<strong>di</strong>. In mezzo a quelle<br />

croci rovesciate e ai tumuli induriti dal vento freddo provò<br />

un senso <strong>di</strong> pietà per i defunti, che in quella solitu<strong>di</strong>ne apparivano<br />

<strong>di</strong>menticati da tutti. Imboccò il sentiero che portava<br />

alle sepolture dei suoi morti, turbato dai pensieri e dai ricor<strong>di</strong><br />

che lo assalivano. <strong>Il</strong> vento aveva seminato scompiglio<br />

ovunque, alcune croci erano spezzate. Sollevò lo sguardo e<br />

stupito scorse una figura <strong>di</strong> donna, inconfon<strong>di</strong>bile con lo<br />

scialle nero che l’avvolgeva tutta. Don Satta avrebbe voluto<br />

far notare la sua presenza con un gesto o un richiamo, ma<br />

fu quasi intimi<strong>di</strong>to dal dolente raccoglimento <strong>di</strong> Pepparosa,<br />

immobile davanti a una sepoltura che il vento sembrava<br />

non aver sfiorato. Attese per un po’, poi mettendosi dall’altra<br />

parte del tumulo, <strong>di</strong>sse:<br />

– Tu qui, in questa fredda giornata?<br />

Pepparosa arrossì, come fosse stata fatta violenza alla sua<br />

intimità. Non aveva voglia <strong>di</strong> parlare, la presenza <strong>di</strong> don Satta<br />

l’offendeva. Era venuta per stare sola e ricordare in silenzio.<br />

Lo faceva con l’indulgente complicità <strong>di</strong> Berrittone che<br />

le consegnava spesso la chiave del camposanto. Viveva solo<br />

nel ricordo <strong>di</strong> Alessio, <strong>di</strong>venuto un simbolo ormai, dando significati<br />

nuovi a parole e atteggiamenti che riviveva in uno<br />

stato <strong>di</strong> esaltazione. <strong>Il</strong> piccolo quaderno nero che custo<strong>di</strong>va i<br />

tormenti e i pensieri <strong>di</strong> lui lo leggeva e rileggeva come un libro<br />

<strong>di</strong> preghiere. Non seguiva più le ragazze dei telai, affidate<br />

ormai a Nicolosa, né aveva cura delle cose che aveva sempre<br />

amato.<br />

Raccolta in quel pallore procurò a don Satta una sofferenza<br />

che non conosceva.<br />

– Hai avuto cura <strong>di</strong> tutti, – <strong>di</strong>sse lui in<strong>di</strong>cando le sepolture<br />

<strong>di</strong> Lia e <strong>di</strong> Alessio. Pepparosa non rispose: si mosse per<br />

andar via. Don Satta la seguì.<br />

247


– Bisogna ricordare, ma con l’anima nel presente, altrimenti<br />

si offende la vita.<br />

– Conta ciò che avete fatto a lui, – <strong>di</strong>sse Pepparosa fermandosi.<br />

– Dovevo farlo!<br />

Arrivarono al cancelletto. Pepparosa lo chiuse a chiave e,<br />

fatto un cenno <strong>di</strong> saluto, si avviò verso il paese.<br />

– Ad<strong>di</strong>o, Pepparosa, vorrei sentirti gridare, il tuo silenzio<br />

mi fa paura, – <strong>di</strong>sse don Satta, che riprese la strada per <strong>Marreri</strong><br />

rasentando il ciglione della cava <strong>di</strong> sabbione. Ombroso<br />

procedeva sempre svogliatamente. Nel camposanto tornò a<br />

gravare il silenzio della morte. La luce svaniva come per il<br />

sovrastare <strong>di</strong> un’imminente notte. <strong>Il</strong> cielo era corrucciato,<br />

come se <strong>di</strong>etro le nuvole ribollissero arcani cataclismi.<br />

A sera il vento soffiò dai monti e dalle valli con un moto<br />

vorticoso che travolgeva ogni resistenza. Nel paese le folate<br />

s’abbatterono con l’ululato <strong>di</strong> mille bestie ferite quando una<br />

folla sbigottita corse al ciglione <strong>di</strong> Pentumas per attendere<br />

Raimondo Piete che trasportava sul carro il corpo senza vita<br />

<strong>di</strong> don Satta. <strong>Il</strong> vocio pietoso naufragò nel frastuono assordante<br />

del vento che continuò a sferzare per tutta la notte e<br />

per i giorni che seguirono. Le ultime folate furono le più impetuose;<br />

una forza sovrumana scuoteva tutto ciò che affiorava<br />

dalla terra sollevando perfino i sassi. Ai funerali la folla fu<br />

<strong>di</strong>spersa come un mucchio <strong>di</strong> cenci senza peso. <strong>Il</strong> vescovo <strong>di</strong><br />

Nuoro non osò mettere il naso fuori dalla chiesa: <strong>di</strong>sse qualcosa<br />

per commemorare l’illustre estinto e, terrorizzato da<br />

quella bufera che curvava le querce, si raccolse in preghiera<br />

sollecitando gli altri con un cenno della mano. I preti venuti<br />

da ogni dove uscirono, ma nella piazza della chiesa in<strong>di</strong>etreggiarono<br />

con le sottane gonfie <strong>di</strong> vento. Al camposanto la bara<br />

arrivò trascinandosi <strong>di</strong>etro i portatori che pencolavano<br />

quasi dalle robuste maniglie <strong>di</strong> ferro. Planò vicino alla fossa,<br />

dove attendeva Berrittone, contento del vento e dello scompiglio<br />

ch’esso aveva portato. Dopo che la bara fu seppellita il<br />

cielo riacquistò la dolcezza delle secche <strong>di</strong> gennaio; delle pazzie<br />

del vento non rimase altro segno che l’eco lontano dei<br />

boschi che continuavano a gemere.<br />

248<br />

– Anime buone non erano, – ripeteva la gente cercando<br />

con gesti vaghi i possibili rifugi <strong>di</strong> quelle furie placate. Si<br />

parlava della fine <strong>di</strong> don Satta, come se in quel vento ci fosse<br />

stato lui, mutatosi per un’estrema bizzaria. Tutti sapevano<br />

del luogo, dell’ora, del modo, ma nessuno credeva che quello<br />

fosse un morire.<br />

L’inquisitore, venuto appositamente da Torino, faticava a<br />

capire i riferimenti contenuti nelle risposte degli interrogati.<br />

Sembrava reticenza, per sfiducia o <strong>di</strong>ffidenza, ma era solo travisamento<br />

per la superstiziosa paura dei fatti. <strong>Il</strong> marchese<br />

Monal<strong>di</strong>, torinese, inviato dal re con pieni poteri, si era inse<strong>di</strong>ato<br />

nella sala grande della casa <strong>di</strong> don Satta. Lo assistevano<br />

un capitano <strong>di</strong> giustizia e il comandante della guarnigione<br />

militare che presi<strong>di</strong>ava il paese e le zone vicine. La morte <strong>di</strong><br />

don Satta aveva convinto le autorità <strong>di</strong> Torino a stringere <strong>di</strong><br />

più i freni; ora che non c’era più il viceré ci si affidava alla polizia<br />

e all’esercito per reprimere senza pietà qualsiasi tentativo<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza o ribellione. Monal<strong>di</strong> aveva meto<strong>di</strong> personalissimi<br />

e si avvalse poco dei suoi collaboratori, salvo che per<br />

la lingua, che lui capiva a stento. Si era documentato puntigliosamente.<br />

I suggerimenti più preziosi glieli aveva dati il<br />

conte de Viry, l’ex inviato del viceré, il quale oltre che riferirgli<br />

quanto lui aveva visto e sentito durante il soggiorno a Orvine,<br />

gli aveva fatto leggere un’infinità <strong>di</strong> rapporti segreti e le<br />

numerose lettere in<strong>di</strong>rizzategli dallo sfortunato rettore. Monal<strong>di</strong><br />

volle vedere i luoghi, da solo, per comporre la cornice.<br />

Ispezionò la casa <strong>di</strong> don Satta in ogni angolo, chiedendo a<br />

Carmela abitu<strong>di</strong>ni e orari; visitò la chiesa del Carmelo, <strong>di</strong><br />

giorno e <strong>di</strong> notte; salì sul campanile; si recò a Santandria; scese<br />

a <strong>Marreri</strong> e andò perfino alla Consolata, annotando nomi<br />

e particolari che lo colpivano; e tracciò perfino schizzi topografici.<br />

Attraverso quegli itinerari tentò <strong>di</strong> ricostruire la personalità<br />

<strong>di</strong> don Satta, che appariva notevole e affascinante, anche<br />

se molto bizzarra. Non era facile però penetrare nella<br />

mente e nel cuore <strong>di</strong> quello strano prete, che si muoveva per<br />

impulsi, generoso e tiranno, ingenuo e astuto, mutevolissimo<br />

negli umori, anche se voleva razionalizzare tutto a suo modo,<br />

come testimoniavano gli scritti custo<strong>di</strong>ti nello stu<strong>di</strong>o.<br />

249


Prima d’iniziare gl’interrogatori formali, Monal<strong>di</strong> ricevette<br />

il notaio, il sindaco e gli altri membri del comitato<br />

agrario che lo asse<strong>di</strong>avano fin dal primo giorno. Le in<strong>di</strong>cazioni<br />

ch’essi <strong>di</strong>edero erano formalmente valide. <strong>Il</strong> quadro<br />

poteva considerarsi completo. Vi era una rigorosa consequenzialità<br />

tra il movente, la preparazione e l’esecuzione dell’atto<br />

criminoso. Non era stato <strong>di</strong>fficile venirne a capo, poste<br />

le premesse il resto era venuto da sé, come un teorema. La<br />

matrice era la zona delinquenziale in<strong>di</strong>viduata da attenti osservatori<br />

in<strong>di</strong>geni e piemontesi sulla base <strong>di</strong> elementi scientificamente<br />

inconfutabili. <strong>Il</strong> fatto scaturiva da quel contesto<br />

come una necessità, non lasciava posto alla fantasia. Monal<strong>di</strong>,<br />

rispettoso delle forme, volle verbalizzare gli interrogatori,<br />

facendo intervenire il capitano <strong>di</strong> giustizia solo quand’era<br />

necessario per la lingua. Col comandante della guarnigione<br />

non vi era accordo.<br />

Raimondo Piete fu il primo a essere interrogato. Monal<strong>di</strong><br />

andò a trovarlo a <strong>Marreri</strong>, scortato dai miliziani.<br />

– Al <strong>ponte</strong>, Ombroso non voleva passare, faceva sempre<br />

così in quel punto. Altri due colpi d’archibugio partirono,<br />

ma la buonanima spronava il cavallo, non voleva morire, solo<br />

su ferru frittu poteva con lui. Lo buttarono giù e lo sgozzarono.<br />

Lo trovai in mezzo alla strada proprio sul <strong>ponte</strong>, ma<br />

dalle altre ferite non usciva sangue.<br />

Furono in<strong>di</strong>viduati i luoghi e ricostruiti i movimenti.<br />

Tre le poste, sei i colpi, tutti a segno: lo strazio finale sul<br />

<strong>ponte</strong>, che appariva veramente un luogo <strong>di</strong> trapassi, solido<br />

che sembrava dovesse reggere il mondo, come la chiesa del<br />

Carmelo, come tutto ciò che aveva fatto e<strong>di</strong>ficare quel prete<br />

che non voleva morire.<br />

– Chi ha sparato?<br />

– Quello che l’ha ammazzato – rispose Raimondo alla<br />

guida del calesse che riportava Monal<strong>di</strong> in paese.<br />

– Chi è stato?<br />

– Non lo so, ho trovato la buonanima solo. L’altro o gli<br />

altri non erano lì ad attendermi.<br />

– Tutte queste cose chi le ha riferite?<br />

– Le cose si sanno senza che ci sia uno che le racconta.<br />

Quel vento, parlava, <strong>di</strong>ceva…<br />

250<br />

Anche il sindaco e il notaio avevano parlato del vento.<br />

Raimondo rispose alle altre domande e <strong>di</strong>sse che i pastori<br />

del Cumone erano scesi a <strong>Marreri</strong> autorizzati dalla buonanima,<br />

ma appena passata la nevicata erano andati via: avevano<br />

avuto rispetto <strong>di</strong> tutto e <strong>di</strong> tutti. Le <strong>di</strong>chiarazioni del<br />

sindaco e del notaio erano <strong>di</strong>verse. Monal<strong>di</strong> cercava <strong>di</strong> capire<br />

le reticenze <strong>di</strong> Raimondo che pure appariva sincero, ma<br />

per sospetto <strong>di</strong> omertà lo dovette arrestare.<br />

Vi furono altri interrogatori, ma Bakis, Goddette, Palichedda<br />

e gli altri del Cumone erano sui monti. Dopo la<br />

morte <strong>di</strong> don Satta si erano <strong>di</strong>vise precipitosamente le pecore<br />

secondo la capacità <strong>di</strong> movimento <strong>di</strong> ognuno e la capacità<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere bestie e uomini con la fuga. Era stata un’assegnazione<br />

provvisoria, per resistere alla prima sfuriata dei miliziani<br />

e dei soldati. Solo le capre furono lasciate in un unico<br />

branco e Buzeddu continuava a custo<strong>di</strong>rle governandole <strong>di</strong><br />

rupe in rupe con la fionda e con i fischi. Nessuno volle scendere<br />

dai monti: che andassero a prenderli se potevano. Sapevano<br />

dell’inquisitore, degl’interrogatori e delle violenze del<br />

comandante della guarnigione. Dava tutte le informazioni<br />

Lukia Carta che si recava <strong>di</strong> notte tra i rocciai dove pascolava<br />

Goddette. Don Satta era stato ammazzato perché non<br />

adempisse ciò che aveva promesso. Tutto era contro <strong>di</strong> loro e<br />

Vargiolu e gli altri non avrebbero mai detto per conto <strong>di</strong> chi<br />

avevano ucciso. La giustizia si accontentava delle apparenze,<br />

il resto non contava. Lukia Carta parlava anche delle stranezze<br />

dell’inquisitore.<br />

– Parla da solo e fa tutto quello che faceva la buonanima,<br />

sembra posseduto da lui.<br />

– Neanche da morto se ne sta in pace, – commentavano<br />

i pastori, i quali spesso cambiavano luogo, secondo le in<strong>di</strong>cazioni<br />

<strong>di</strong> Goddette, cui tutti riconoscevano l’autorità <strong>di</strong> un<br />

capo.<br />

– Le bestie sono <strong>di</strong>vise, – ripetevano quando s’incontravano,<br />

– ma il Cumone è come un nodo, non si può sciogliere.<br />

Torneremo a unirci quando potremo.<br />

<strong>Il</strong> comandante della guarnigione, consigliato dal sindaco<br />

e dal notaio, or<strong>di</strong>nò una battuta per catturarli, ma i soldati,<br />

nonostante lo zelo e le fatiche, non trovarono nessuno,<br />

251


intravidero solo Buzeddu, inafferrabile su una rupe. <strong>Il</strong> comandante<br />

allora fece arrestare i parenti dei latitanti: vecchi,<br />

donne, ragazzi. L’inquisitore non poté impe<strong>di</strong>rlo, ma <strong>di</strong>sse<br />

che non era d’accordo.<br />

– I suoi consiglieri sono troppo zelanti.<br />

– Parlano i fatti.<br />

– Meno <strong>di</strong> quanto sembri.<br />

– Ci vuole una catena lunga per legarli tutti. <strong>Il</strong> male ce<br />

l’hanno nel sangue. <strong>Il</strong> povero rettore lo sapeva, ma era solo.<br />

– Quante volte il rettore ha affermato e negato le stesse<br />

cose.<br />

<strong>Il</strong> comandante compilò anche un lunghissimo elenco <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>ziati. Monal<strong>di</strong> volle sentire Pepparosa e andò a trovarla<br />

<strong>di</strong> sera, senza interprete. Fu ricevuto nella sala <strong>di</strong> Santa Lulla.<br />

Pepparosa gli andò incontro col capo coperto da una<br />

benda bianca. Monal<strong>di</strong> non si attendeva tanta grazia e tanta<br />

soavità. Dai suoi occhi <strong>di</strong> ghiaccio non trasparì nessuna<br />

emozione, ma la sua mano tormentava la barba brizzolata.<br />

Solo qualche domanda sui telai e sulle ragazze che vi lavoravano,<br />

su Niniana, sul Cumone e su altri particolari senza<br />

rilevanza. Pepparosa appariva calma. <strong>Il</strong> suo dolore si era <strong>di</strong>sciolto<br />

nei giorni del vento. Quando le avevano detto <strong>di</strong> don<br />

Satta, non ricordava neppure chi le avesse portato la notizia,<br />

le lacrime erano sgorgate senza freno. Piangere le aveva fatto<br />

bene. <strong>Il</strong> ricordo <strong>di</strong> Alessio era <strong>di</strong>ventato una forza vitale che<br />

la spingeva a pensare, a fare, a riprendere i fili della vita che<br />

sembravano spezzati per sempre. Era tornata ai telai, era scesa<br />

anche a Niniana e aveva mandato a chiamare Bakis.<br />

Ricordava anche don Satta, <strong>di</strong>staccato dal mondo, come<br />

l’aveva visto quella mattina al cimitero. Monal<strong>di</strong> le chiese<br />

dell’incontro e lei <strong>di</strong>sse quello che sapeva.<br />

– Aveva motivi <strong>di</strong> risentimento?<br />

– No.<br />

– Da chi ha saputo della morte?<br />

– Non ricordo, la notizia è giunta così improvvisa, con<br />

quel vento…<br />

Monal<strong>di</strong> si fermò lì. Si trovò a <strong>di</strong>sagio. <strong>Il</strong> vento! contrappunto<br />

<strong>di</strong> quella triste vicenda, ne parlavano tutti. Per la prima<br />

volta dubitò del lavoro che aveva svolto e delle conclusioni<br />

252<br />

che ne aveva tratto. Distrattamente chiese a Pepparosa <strong>di</strong><br />

Alessio e lei ne parlò senza alcun rimpianto, come se lui fosse<br />

ancora vivo e presente in tutte le cose fatte e da fare.<br />

– Custo<strong>di</strong>sce libri o scritti <strong>di</strong> lui?<br />

Pepparosa <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> no e Monal<strong>di</strong> si <strong>di</strong>spiacque <strong>di</strong> quella<br />

<strong>di</strong>ffidenza che non era dovuta soltanto a pudore.<br />

<strong>Il</strong> rapporto ufficiale che finì <strong>di</strong> stendere conteneva tutto: il<br />

nome degli esecutori materiali del delitto, già arrestati, poveri<br />

<strong>di</strong>avoli che certamente avevano agito per conto <strong>di</strong> altri; i nomi<br />

dei possibili mandanti, tutti latitanti; i nomi dei complici<br />

e il movente: una fame <strong>di</strong> terra insaziata da secoli; su tutto e<br />

su tutti la figura <strong>di</strong> don Satta, creatore-<strong>di</strong>struttore, forza impetuosa<br />

della natura, come il vento che l’aveva portato via.<br />

Nella chiesa del Carmelo Monal<strong>di</strong> sostò davanti al <strong>di</strong>pinto<br />

delle donne pie e osservò l’immagine <strong>di</strong> Pepparosa per capire<br />

ciò che don Satta poteva aver provato nelle sue contemplazioni<br />

notturne. La vita <strong>di</strong> quel prete non era fatta <strong>di</strong> artifici,<br />

anche se certi comportamenti ne avevano tutta la parvenza.<br />

A Monal<strong>di</strong> il <strong>di</strong>pinto non <strong>di</strong>ceva molto, gli appariva ri<strong>di</strong>colo<br />

se non irriverente con quella commistione <strong>di</strong> sacro e <strong>di</strong> profano;<br />

gli era in<strong>di</strong>fferente anche la chiesa con quelle figure sanguigne<br />

effigiate sulle volte che rendevano tutto ambiguo e<br />

inafferrabile. Ciò che Monal<strong>di</strong> aveva visto e u<strong>di</strong>to in quei<br />

giorni sembrava l’eco <strong>di</strong> un mondo sommerso e <strong>di</strong>menticato<br />

da sempre. Eppure tutto era vivo e ribollente, profondamente<br />

segnato dalla solitu<strong>di</strong>ne. La luce del cero battendo sulla<br />

fronte <strong>di</strong> Pepparosa rivelava un segno <strong>di</strong> quel misterioso co<strong>di</strong>ce<br />

dei significati. La santificazione delle virtù e delle grazie<br />

della donna andava al <strong>di</strong> là delle smanie <strong>di</strong> un amante capriccioso<br />

e possessivo, era un messaggio, più raffinato delle pre<strong>di</strong>che,<br />

ma ugualmente intelligibile da quella gente che dava significati<br />

alla voce dei venti e dei tuoni. Questo prete appariva<br />

profondamente saggio o <strong>di</strong>abolicamente pazzo se ci si affidava<br />

alle sole apparenze, sempre ingannevoli. Bisognava farlo rivivere<br />

in quella chiesa fatta a sua immagine e somiglianza,<br />

luogo <strong>di</strong> sbigottimenti e <strong>di</strong> trasfigurazioni, <strong>di</strong> silenzi e clamori,<br />

dove santi e madonne non avevano dato mai sollievo a<br />

nessuno. Monal<strong>di</strong> idealmente vi fece irrompere tutto ciò che<br />

aveva riferimento all’esistenza <strong>di</strong> don Satta.<br />

253


Chiamò i vivi e i morti, quelli con i quali egli aveva potuto<br />

parlare e quelli dei quali gli avevano parlato; chiamò i<br />

luoghi amati e o<strong>di</strong>ati da don Satta: <strong>Marreri</strong>, Santandria, la<br />

Consolata; e chiamò anche il vento sempre presente nei fatti<br />

clamorosi, il Cumone, forza pro<strong>di</strong>giosa che sembrava sprigionare<br />

dalle rughe della terra, e le casupole e i cortili dei rioni<br />

bassi con le miserie che custo<strong>di</strong>vano. Non esercitazione<br />

magica, né rappresentazione <strong>di</strong> un possibile giu<strong>di</strong>zio, ma<br />

estremo tentativo <strong>di</strong> capire, <strong>di</strong> andare oltre le apparenze, per<br />

cogliere i fili che legavano le vittime ai carnefici. In quel<br />

mondo che non voleva perire, atti e parole si compivano per<br />

un volere che sfuggiva ai singoli, sospinti in giroton<strong>di</strong> senza<br />

fine. La furibonda lotta del prete per non morire sul <strong>ponte</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>Marreri</strong> non era invenzione fantastica <strong>di</strong> gente superstiziosa.<br />

Monal<strong>di</strong> capiva che nella chiesa vi erano tutti gli elementi<br />

per ricomporre la matrice delle sostanze, non delle<br />

apparenze. Ora tutto acquistava senso, il vento che aveva<br />

annunciato la morte violenta del prete e aveva fatto urlare<br />

una folla sbigottita, il <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Pepparosa, la scomunica <strong>di</strong><br />

Alessio Biote, il <strong>di</strong>rupo <strong>di</strong> Pentumas per onorare selvaggiamente<br />

la memoria dei gran<strong>di</strong> e le credenze pagane della<br />

gente e del prete; unica assenza quella dei pastori fuggiti sui<br />

monti e con i quali Monal<strong>di</strong> non aveva potuto parlare, ma<br />

essi non erano soltanto uomini che conducevano greggi al<br />

pascolo su terre impervie, erano l’anima <strong>di</strong> tutto ciò che <strong>di</strong><br />

bene e <strong>di</strong> male si compiva in quel luogo.<br />

Nel suo rapporto doveva assolvere tutti Monal<strong>di</strong>: i colpevoli<br />

erano altrove, lì c’erano solo vittime che subivano.<br />

Ma nessuno avrebbe compreso e un tale capovolgimento sarebbe<br />

apparso il racconto <strong>di</strong> una mente stravolta. La giustizia<br />

esigeva solo apparenze.<br />

Quando lasciò la chiesa, non tornò subito alla casa parrocchiale,<br />

volle andare a Santandria, quasi dovesse incontrarvi<br />

realmente don Satta e parlare con lui <strong>di</strong> <strong>Marreri</strong>, <strong>di</strong> Niniana,<br />

della Consolata, <strong>di</strong> quel paese <strong>di</strong>sgraziato e della gente<br />

che lui aveva offeso e gratificato. Non voleva più indagare per<br />

sapere se il prete credesse o no: certe personalità sono e non<br />

sono, più che aderire a ciò ch’è compiuto, amano fare, inventare<br />

e manifestare nell’atto della creazione il loro sentire.<br />

254<br />

A Santandria, nel cielo pulito, vagava il riverbero <strong>di</strong><br />

una luce lontana, della luna che doveva sorgere ancora o <strong>di</strong><br />

un fuoco. Monal<strong>di</strong> guardava le ombre dei sassi dai contorni<br />

niti<strong>di</strong> come se fosse giorno. La luce sembrava partisse dai<br />

monti e rimbalzare su Santandria passando sopra le valli e i<br />

pen<strong>di</strong>i boscosi. I luoghi! Ovunque quel prete incombeva<br />

prepotentemente. A questa rupe solitaria veniva come a un<br />

altare per celebrarvi i riti della sua fede guardando dove la<br />

terra si confondeva col cielo. Tutto appariva fantastico, pur<br />

essendo così caparbiamente ra<strong>di</strong>cato nelle vicende <strong>di</strong> ogni<br />

giorno. Monal<strong>di</strong> pensava ai pastori, invisibili e silenziosi,<br />

ma presenti ovunque. Aveva il rimpianto <strong>di</strong> non aver tentato<br />

<strong>di</strong> salire sui monti per incontrarli. Ma ormai non c’era<br />

più tempo per i rimpianti, bisognava andarsene via subito,<br />

scrollarsi tutto <strong>di</strong> dosso e rompere quella strana malìa.<br />

Partì l’indomani mattina, col calesse <strong>di</strong> don Satta, accompagnato<br />

da Kiocò che durante il soggiorno si era reso utile<br />

con le sue premure e i suoi servigi. Carmela gli aveva offerto<br />

un po’ <strong>di</strong> miele amaro e qualche bottiglia <strong>di</strong> liquore <strong>di</strong> mirto,<br />

prelevando tutto dalle ricolme cantine della casa, rimasta alla<br />

sua custo<strong>di</strong>a. Monal<strong>di</strong> aveva accettato. <strong>Il</strong> calesse prese la strada<br />

per <strong>Marreri</strong>: Kiocò teneva orgogliosamente le re<strong>di</strong>ni e parlava<br />

<strong>di</strong> tutto. Monal<strong>di</strong> taceva. Non gli era mai accaduto <strong>di</strong><br />

penare tanto nel <strong>di</strong>staccarsi da un personaggio e da un luogo.<br />

Se fosse stato meno razionale avrebbe creduto alle magie <strong>di</strong><br />

cui parlava la gente <strong>di</strong> Orvine. Si voltava a guardare il paese e<br />

i monti che apparivano sperduti in un universo in<strong>di</strong>fferente.<br />

– I cattivi non sono tutti lì, – <strong>di</strong>sse Kiocò in<strong>di</strong>cando i<br />

monti. – La buonanima l’aveva capito.<br />

Monal<strong>di</strong> si accese la pipa. Don Satta aveva capito sì, ma<br />

in ritardo: buon per lui altrimenti l’avrebbero ammazzato<br />

prima.<br />

– <strong>Il</strong> Cumone non ha fatto male a nessuno, anzi… – continuò<br />

Kiocò.<br />

Man mano che si scendeva verso <strong>Marreri</strong> l’aria era meno<br />

fredda; il tepore saliva dalla vallata, ch’era verde, allietata dai<br />

mandorli in fiore.<br />

Al <strong>ponte</strong> Kiocò rallentò l’andatura del cavallo e si fece il<br />

segno della croce.<br />

255


– Tante cose voleva fare ancora. Questa strada l’ha fatta<br />

lui e le vigne.<br />

Monal<strong>di</strong> tentava <strong>di</strong> pensare ad altro, alle brume delle<br />

sue Langhe o alla sua casa <strong>di</strong> Torino, ma la mente tornava<br />

sempre a don Satta e al suo mondo terribile.<br />

– Ci fermiamo alla vigna della buonanima?<br />

Monal<strong>di</strong> non <strong>di</strong>sse niente, quel luogo lo attraeva irresistibilmente.<br />

<strong>Il</strong> calesse si fermò sullo spiazzo davanti alla casa.<br />

Kiocò staccò il cavallo e si allontanò. Monal<strong>di</strong> rimase, appoggiato<br />

al lastrone <strong>di</strong> pietra. Si guardò intorno ed ebbe quasi<br />

paura <strong>di</strong> quel silenzio che gravava su tutto, e <strong>di</strong> quell’aria stagnante.<br />

Non una fronda d’albero, né un filo d’erba si muoveva,<br />

il grande olivastro sembrava pietrificato in quel tronco nero<br />

come la morte. Monal<strong>di</strong> parlava. Ce l’aveva col prete.<br />

– So chi ha voluto la tua morte, ma non li posso toccare,<br />

gli alibi glieli hai dati tu. Dovevi cadere, come doveva<br />

cadere il tuo Alessio. Entrambi avete sfidato il Dio dell’immobilità.<br />

Tornò Kiocò, sorpreso <strong>di</strong> sentirlo parlare da solo. Nel<br />

paese lo <strong>di</strong>cevano che a questo continentale mancava qualcosa.<br />

Fece finta <strong>di</strong> niente.<br />

– An<strong>di</strong>amo, – gli <strong>di</strong>sse risoluto Monal<strong>di</strong>. Montarono sul<br />

calesse e le re<strong>di</strong>ni le volle prendere lui ora. Lo schiocco della<br />

frusta ebbe strani echi, <strong>di</strong> sibili o <strong>di</strong> gemiti che riempirono<br />

la valle.<br />

– <strong>Il</strong> vento! – <strong>di</strong>sse sorpreso Kiocò. – Sembrava una giornata<br />

calma oggi.<br />

Monal<strong>di</strong> non si voltò. Ascoltava. I sibili si allontanavano<br />

man mano che il calesse s’inerpicava nella strada in salita. <strong>Il</strong><br />

vento non uscì da <strong>Marreri</strong>; continuò a mulinare, con gemiti<br />

senza conforto, agitando le cime degli ulivi.<br />

256


INDICE<br />

5 Nota introduttiva<br />

9 I<br />

15 II<br />

21 III<br />

27 IV<br />

36 V<br />

42 VI<br />

53 VII<br />

61 VIII<br />

68 IX<br />

77 X<br />

84 XI<br />

93 XII<br />

99 XIII<br />

112 XIV<br />

120 XV<br />

127 XVI<br />

134 XVII<br />

142 XVIII<br />

154 XIX<br />

164 XX<br />

170 XXI<br />

178 XXII<br />

184 XXIII<br />

195 XXIV<br />

202 XXV<br />

210 XXVI<br />

220 XXVII<br />

227 XXVIII<br />

235 XXIX<br />

243 XXX


SCRITTORI DI SARDEGNA<br />

Volumi pubblicati<br />

1. D. H. Lawrence, MARE E SARDEGNA<br />

2. E. Costa, GIOVANNI TOLU<br />

3. G. Spano, PROVERBI SARDI<br />

4. S. Satta, CANTI<br />

5. G. Dessì, LEI ERA L’ACQUA<br />

6. Valery, VIAGGIO IN SARDEGNA<br />

7. S. Atzeni, PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI<br />

8. O. Bacaredda, CASA CORNIOLA<br />

9. G. Fiori, VITA DI ANTONIO GRAMSCI<br />

10. A. Bernar<strong>di</strong>ni, LE BACCHETTE DI LULA<br />

11. Montanaru, CANTOS<br />

12. C. Gallini, INTERVISTA A MARIA<br />

13. S. Cambosu, UNA STAGIONE A OROLAI<br />

14. B. Ban<strong>di</strong>nu - G. Barbiellini Amidei, IL RE È UN<br />

FETICCIO<br />

15. A. Carta, ANZELINU<br />

16. B. Zizi, ERTHOLE<br />

17. P. Casu, LA VORAGINE<br />

18. A. Cossu, I FIGLI DI PIETRO PAOLO<br />

19. G. Pinna, IL PASTORE SARDO E LA GIUSTIZIA<br />

20. C. Nivola, MEMORIE DI ORANI<br />

21. P. Rombi, IL RACCOLTO<br />

22. P. Casu, GHERMITA AL CORE<br />

23. E. Lussu, IL CINGHIALE DEL DIAVOLO<br />

24. G. Deledda, CHIAROSCURO<br />

25. G. Dessì, I PASSERI<br />

26. A. Puddu, ZIO MUNDEDDU

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