I Tito un secolo e mezzo di arte - Le biblioteche comunali di Mira e ...

profili
I Tito
un secolo e mezzo di arte
di Matteo Mazzato
Quando si accenna al mondo dell’arte, in Riviera del Brenta, immediatamente il nostro pensiero va ai
secoli passati, al ‘500, al '600, e soprattutto al ‘700, come se dopo i fasti del barocco e del rococò la
nostra terra non avesse goduto della logica prosecuzione dell’operare in questo nobile ambito. Gli artisti
che hanno varcato, attraverso l’acqua o la terra, il nostro territorio negli ultimi centocinquant’anni
sono molti e da essa hanno saputo trarre non solo ispirazione, ma anche quella passione per la semplicità
e per il valori umani che ancora si celano nella cultura contadina, nel mutare delle stagioni e
nel fascino primordiale della vita animale. Tra i molti artisti che hanno dimorato in Riviera, è impossibile
non riconoscere alla famiglia Tito il primato assoluto di dedizione all’arte. Da tre generazioni,
rappresentate da Ettore, Luigi, ed Eppe, Tito è sinonimo di pittura, scultura, arte, ed essa rappresenta
un unicum non solo per il luogo in cui viviamo, bensì a livello molto più ampio.
affari di famiglia
L’arte, per i Tito, costituisce “un
affare di famiglia”, una lunga,
costante ricerca che perdura da
quasi un secolo e mezzo. Ed è
proprio nell’anno che precede
il centenario della nascita di
Luigi Tito (1907-1991) che pare
doveroso porre l’accento sull’importanza
di questo straordinario
“caso”. È come se il tempo si fosse
fermato all’interno dello studio
di famiglia, ed ogni protagonista
di questo percorso, avesse
dovuto fare i conti non solo con
l’evoluzione del mondo dell’arte,
quello esterno, bensì anche con
l’intimo “affare di famiglia” che
Ettore aveva innescato, desiderato,
amato. La fiamma della creatività
è stata alimentata nel tempo
prima dal figlio Luigi, poi dal
nipote Eppe (Pietro Giuseppe)
che ancora oggi nutre questa piccola
ma inesauribile fiammella.
Ettore, in famiglia, per coloro
che l’hanno succeduto, ha rappresentato
una figura così forte,
così emblematica che il percorso
di Luigi ed Eppe, si è dovuto
articolare tra il “rispetto” delle
scelte di famiglia e l’incontenibile
passione per quel mondo che
il loro predecessore aveva fatto
loro conoscere. Arte, all’interno
della famiglia Tito, non significa
solo pittura, bensì scultura, con
l’opera di Eppe, ma
ancora conservazione
e restauro con l’opera
di Lucia (sorella di
Eppe) e soprattutto
apertura della propria
casa ai rappresentati
di altre discipline.
Grandi musicisti
come Arturo Benedetti
Michelangeli, ospite più volte
degli amici Tito, ed altri celebri
artisti, come: Arturo Martini,
Francesco Messina, Felice
Carena, Cagnaccio di San Pietro,
Zuluaga, Giorgio Morandi, Luigi
Nono, Giacomo Favretto, Pietro
Fragiacomo, Pompeo Marino
Molmenti, Cecil Von Hoonen,
Eugenio de Blas, Ludwig Passini,
Mariano Fortuny, Manders Zorn,
Carl Larsson, Franck Brangwyng,
e l’elenco potrebbe continuare
all’infinito, hanno potuto godere
della frequentazione delle dimore
della famiglia (in particolare
Villa Tito in Riviera del Brenta
e Palazzotto Tito a Venezia)
attuando uno scambio culturale
reciproco. E poi non si possono
dimenticare i padri “ideali” della
famiglia, Dürer, Tiepolo, Tiziano,
Velasquez, Rembrandt, Ingres,
Goya, Daumier,
Nella pagina a sinistra:
Ettore Tito,
Allo specchio, 1894 ca,
olio su tela - cm 28x38,5,
Venezia, collezione privata.
In questa pagina:
Luigi Tito,
Ritratto della Contessa Avogadro
su fondo grigio, 1990,
olio su tavola - cm 50x40,
Venezia, collezione privata.
Pietro Giuseppe Tito,
La Carestia, 1989,
terracotta,
Venezia, proprietà dell'artista
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2

e più tardi anche Dalì
e Sironi, spesso citati
da Luigi nei suoi “diari”
quali fonti di ispirazione
intellettuale. Questi nomi,
infatti, non devono essere
letti come dei riferimenti
estetici formali, bensì come
“colleghi spirituali”, antichi
numi dai quali trarre
atmosfere, pensieri,
riflessioni, indizi su
come raggiungere
ciò
c h e p i ù
interessa
ai Tito, la
Pittura. In
effetti questaafferm
a z i o n e
potrebbe sembrare calzare poco
ad Eppe, che pur abile pittore
predilige la materia e la plasticità
della terza dimensione; tuttavia,
basta venire a contatto con le
sue sculture per intuire quanto
l’uso delle dita per plasmare la
creta possa essere vicino a quello
di un pennello. È con la mostra
“Omaggio ai Tito” organizzata
nel settembre 2003 presso il
Museo Nazionale di villa Pisani di
Stra (VE) che si rende giustizia
integralmente all’arte di questa
famiglia. Una mostra che senza
pretese scientifiche o di approfondimento
critico ha riunito
per la prima volta una selezione
delle opere di Ettore, Luigi
ed Eppe. Un'esposizione fortemente
voluta da chi vi scrive,
che porta con sè lo stupore nei
confronti dell’ingiustificato disinteresse
che Amministrazioni ed
Istituzioni Locali (escludendo,
ovviamente, la grande sensibilità
della Banca del Veneziano
e del Soprintendente Guglielmo
Monti) hanno saputo dimostrare
nei confronti di
un “affare” che
piuttosto che
“di famiglia”
dovrebbe essere
di noi tutti.
ettore – l’incipit
Tra i grandi accademici veneziani,
famosi in patria e nel mondo,
possiamo certamente annoverare
Ettore Tito. Il suo talento fu
precocissimo, a soli dodici anni
fu eccezionalmente ammesso a
frequentare la Real Accademia di
Belle Arti di Venezia nella quale
si diplomò, all’età di diciassette
anni, sotto la guida di Pompeo
Momenti. Un inizio straordinariamente
lusinghiero per colui che,
tra il 1887, anno in cui il suo quadro
La Pescheria, esposto a fianco
di colleghi come Alessandro
Milesi, Giacomo Favretto e Luigi
Nono, venne acquistato dalla
galleria d’arte Moderna di Roma
(dove è conservato ancora oggi),
ed il 1941, data della sua scomparsa,
fu salutato in tutto il mondo
come uno dei geni del pennello.
La sua pittura seducente,
luminosa, capace di pennellate
dinamiche e freschissime, porta
il celebre critico Ugo Ojetti
ad affermare che, in Italia, Tito
era l’unico che poteva raggiungere,
forse superare, la grazia dei
ritratti di Giovanni Boldini tante
erano la freschezza e la maestria
poste a rappresentare l’eleganza
di movimenti sopra uno sfondo
di nuvole dorate al tramonto. Le
parole di Ojetti trovano solida
conferma anche in un quadro
dall’inventio luministica straordinaria,
quale è La Sarabanda (vero
e proprio capolavoro, oggi conservato
nella sede centrale della
Banca del Veneziano), ritratto di
Dina Velluti, nel quale il gioco tra
luce e movimento crea un’atmosfera
sensuale e sofisticata.
La produzione di Ettore è caratterizzata
da varie fasi: ad un
primo periodo legato al ritratto
(genere sempre privilegiato), al
paesaggio, alle scene popolari,
ne succede, all’inizio del novecento,
un secondo, di matrice
simbolista, nel quale l’artista trasforma
la natura in una sorta di
novella Arcadia, un mondo agre-
ste ma nobile, nel quale trovano
dimora personaggi legati al
mito (si vedano: L’Aurora, Leda
ed il Cigno, Il Trionfo di Bacco,
Amore e le Parche, Amazzoni,
Ninfe, Centauri e ninfe): una
natura idealizzata, simbolica,
che lascia poco spazio alle architetture
umane per ritagliarsi un
posto nell’Olimpo.
Ettore Tito nei primi del
Novecento è un artista corteggiato
dai committenti; famose
Nella pagina a sinistra:
villa Tito a Dolo.
Sotto:
Ettore Tito,
Chiesetta in collina, 1935-36,
olio su tavola - cm 50x70,
Venezia, collezione privata.
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Ettore Tito
Modella con veste rossa, 1885,
olio su tela - cm 27x21,
Venezia, collezione privata
Aurora (bozzetto), 1921,
olio su tavola - cm 63x46,5,
Venezia, collezione privata
le sue decorazioni a fresco del
vestibolo di Villa Berlinghieri a
Roma (1917), con la rappresentazione
degli episodi che accrebbero
onore alla nobile famiglia
romana, o gli affreschi di Palazzo
Martinengo a Venezia (1921), nei
quali è rappresentata la conquista
libica da parte dell’Italia, alla
quale il Conte Giuseppe Volpi di
Misurata, proprietario del palazzo,
aveva partecipato. Ultima
grande importante commissione
operata da Tito, siamo nel
1934, è il ripristino della decorazione
nella chiesa degli Scalzi
a Venezia, nella quale a causa
della guerra era stato perso il soffitto
capolavoro di Giambattista
Tiepolo. Ettore non volle in quest’occasione,
per rispetto dell’Illustrissimo
Maestro che l’aveva
preceduto, utilizzare la medesima
tecnica, scelse, infatti, non
l’intonaco, bensì una tela,
una immensa tela di
centoquattordici
metri quadrati
divisa in tre
parti, che
ospita la
Gloria di
M a r i a
d o p o
il Concilio di Efeso. Ma tutto ciò
è storia nota.
In occasione dell’ Omaggio ai Tito
(Museo Nazionale di Villa Pisani
2003), è emersa una selezione di
piccole tavole, appunti di viaggio
nei quali Ettore sembra svelarci
un segreto personale, una pittura
diversa da quella ufficiale,
più libera, più moderna. Le pennellate
si fanno ancor più materiche,
guizzanti. I soggetti più
semplici, privi di quella solennità
che caratterizza tanti suoi ritratti,
sono deliziosi frammenti nei
quali l’artista proponeva, lontano
da un protocollo che ancora lo
assorbiva, una parte di sé non a
tutti nota.
Accusato spesso di essere artefice
di una pittura passatista,
basti pensare al lapidario giudizio
espresso da Ardengo Soffici,
ebbe forse l’unico torto di vivere
a cavallo di due secoli, in un
periodo nel quale l’avvento di
un’arte di rivoluzione e ricerca,
come quella delle avanguardie
storiche, ci ha fatto dimenticare
la semplice, buona, onesta pittura,
senza lo scontro con la quale,
non avremmo potuto godere delle
meraviglie del futurismo, del
cubismo, dell’espressionismo…
Ettore Tito,
La Sarabanda, 1934,
olio su tavola - cm 182x105,
Mira, Banca del Veneziano.
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luigi – la rivoluzione
Vi sono degli artisti all’interno
della storia dell’arte, penso ad
esempio a Giorgio Morandi, che
la critica difficilmente riesce ad
inserire all’interno di un preciso
filone o corrente. Questo perché
all’interno di un recinto, di una
gabbia, di uno stereotipo, i Geni
dell’arte perdono valore, la loro
ragione d’essere, la loro libertà.
Una libertà che Luigi ha rincorso
tutta la vita, isolandosi dalle tendenze
d’avanguardia ma guardandole
con rispetto e conoscenza,
concentrandosi su una pittura
calibrata, riflessiva, appassionata.
Bastano pochi centimetri di
una qualsiasi tela di Luigi per
capire quanto questo Maestro
abbia rappresentato per la pittura
del Novecento, restituendo ad
essa quel valore di assolutezza
che è possibile riscontrare solo
nei Grandi.
Luigi, al contrario della grandeur
dell’opera paterna, predilige
la vita, spesso impropriamente
definita, minore: la famiglia, gli
amici, una seppia, un piatto di
sarde, un tacchino, un quarto
di bue, riuscendo a trasformare
questi piccoli frammenti di realtà
in poesia, in silenzio, in Arte.
È così facile, la pittura di Luigi,
così semplice, non fa sentire il
peso delle ore, dei giorni di lavoro,
delle decine di schizzi, bozzetti,
prove cromatiche che ogni
piccolo quadro cela con umiltà
ad ogni spettatore. La pittura di
Luigi è eloquentemente muta,
bella come una pausa teatrale
di Eduardo de Filippo, come il
silenzio d’attacco di una grande
orchestra. Non è difficile riscontrare
in Luigi la stessa fiducia
analitica che Leonardo da Vinci
riponeva nell’arte pittorica, un
mezzo di indagine profondo della
realtà, un’analisi forse non scientifica,
ma capace di conoscere,
approdando, soprattutto nei
ritratti, ad una restituzione totale
del soggetto, sia fisica che psi-
cologica. La pennellata sgranata
del vecchio Tiziano, l’interesse
psicanalitico di Gericault, l’ucronicità
e la forte carica psicologica
di un Bacon, la drammaticità di
un Goya sono solo alcuni aspetti
della pittura di Luigi Tito. Una
pittura che, come spiega egli stesso,
viene da lontano, siamo tutti
epigoni del tempo di prima, figli
di quella technè che diventa il
primo passo per trasformare una
tela bianca in un capolavoro.
Le tele di Luigi Tito raccontano
la pochezza della vita di fronte
all’immensità dello spirito. I
ritratti di Cagnaccio di San Pietro
(1934) e della Gigia (1935), intrisi
di realismo magico, sono solo
l’inizio di un percorso che, nei
quadri degli anni Settanta ed
Ottanta, sfocerà in una riflessione
legata alla finitezza di una
materia decomposta, labile,
attraverso la quale Luigi riesce
a far affiorare l’universalità
del singolo. La mancanza
di contorni di disegno
porta il soggetto del quadro
allo stesso livello degli sfondi,
perché la prima intenzione
del Maestro rimane, in ogni
caso, la pittura.
Scrive Leonardo
nel Trattato della
Pittura: "Quello
non sarà universale
che non ama
egualmente tutte le
cose che si contengono
nella pittura;
come se uno non gli
piace i paesi, esso
stima quelli esser
cosa di breve e semplice
investigazione,
come disse il nostro
Botticella, che tale
studio era vano, perché
col solo gettare
di una spugna piena
di diversi colori in un
muro, essa lascia in esso
muro una macchia, dove si
vede un bel paese. Egli è ben
vero che in tale macchia
Luigi Tito
a sinistra:
Autoritratto, 1985,
olio su tavola - cm 14x10,
Venezia, collezione privata.
sotto:
Ritratto di Cagnaccio
di San Pietro, 1934,
olio su tavola - cm 105x80,
Venezia, Galleria Internazionale
d'Arte Moderena di Ca' Pesaro.

Luigi Tito
Testa di vescovo, 1983,
tempera su carta di giornale
riportata su tela - cm 46x49,
Venezia, Collezione privata.
Lucia che legge, 1966,
olio su tavola - cm 19x33,
Venezia, Collezione privata.
Trota, 1982,
olio su carta riportata
su tavola - cm 23,5x71,5,
Venezia, Collezione privata.
si vedono varie invenzioni di
ciò che l’uomo vuole cercare
in quella, cioè, teste d’uomini,
diversi animali, battaglie, scogli,
mari, nuvoli e boschi, ed altre
simili cose; e fa come il suono
delle campane, nelle quali si
può intendere quelle dire quel
che a te pare. Ma ancora ch’esse
macchie ti dieno invenzione,
esse t’insegnano finire nessun
particolare". È in questi piccoli
spazi, nel non finito leonardesco,
tra una sgranatura del colore
e l’indefinitezza di un contorno
che dobbiamo leggere per trovare
la Pittura che Tito ha tanto a lungo
rincorso.
Pochi giorni prima della grande
mostra tenutasi alla Galleria
Forni di Bologna nel 1985,
Luigi scrive nel suo diario: “Ho
insegnato tanti anni, e così mi
domandano spesso che cos’è la
pittura? Non so ancora cosa
rispondere, o piuttosto non
voglio. Faccio parlare gli altri.
Ricordo quello che mi disse, un
giorno assai lontano Ignacio
Zuluaga, amico di mio padre,
citandomi Goya: la pintura es:
blanco y negro, frio y caliente.
E ancora cos’è l’arte? Preferisco
cavarmela con le parole di Paul
Valery, che mi pare abbia dato la
definizione più pertinente: l’arte
non è il fiore, ma il profumo del
fiore stesso.”
eppe – la materia
Non ragiona Pietro Giuseppe Tito
sulla possibilità di raffigurare o
di significare, le sue sculture si
autoplasmano da una materia
convulsa, macera, emaciata, quali
idoli dell’immaginario inconscio
dell’artista. Il gesto col quale
Pietro Giuseppe Tito modella la
creta è pittorico; colpi fendenti
che vìolano la materia con nervosa
determinazione com’è evidente
nella drammatica, trascendentale
deposizione.
Nei soggetti di forte carica emotiva
la dissoluzione della forma
raggiunge un energico risultato
simbolico, la volontà dell’artista
sembra quella di scarnificare
il corpo umano fino ad
evidenziarne la pura essenza,
ciò che si cela dentro
ad ognuno di noi.
Il soggetto diviene
pretesto per contrastare un
elemento in continua gestazione,
quasi l’autore tentasse di
far trapelare dalla materia non
un’immagine od una figura bensì
qualcosa di più intimo, quel
famoso altro così caro ad ogni
artista.
Tanto veloce è l’agire, quanto
riflessiva l’invasione della massa
attraverso un duello
concitato con
l’opera, vestita di
una materia
sensuale ed
accattivante che non esiterei a
definire baroccamente informale,
memore delle innovazioni dei
lavori, tardo ottocenteschi, di
Auguste Rodin e Medardo Rosso,
ma anche spazialmente invasiva
come in una terracotta di
Leoncillo o Lucio Fontana.
Pietro Giuseppe, con la scelta
di reminescenze di arcadica
m e m o r i a ,
d e n u n c i a
un legame
con la
tormentata plasticità
di Augusto Perez, autore che,
come Tito, riesce ad instaurare
una temporalità triangolare tra
l’oggi ed il remoto in una forma
di antiprotagonismo dell’autore
rispetto all’opera. Il rapporto con
la luce è altrettanto importante
e si risolve in maniera
di volta in volta diversa,
compatibilmente con la scelta
del soggetto: mentre per i lavori
di forte carica patetica come La
morte, La carestia, Il cavallo ver-
Pietro Giuseppe Tito
Il Cavallo verdastro, 1989,
terracotta,
Venezia,
proprietà dell'artista.
Pietro Giuseppe Tito
La Deposizione, 1989,
terracotta,
Venezia, proprietà dell'artista.
Pugile grande, 1990,
bronzo,
Venezia, proprietà dell'artista.
dastro, La guerra, Deposizione
e La coscienza del bene e del
male, l’artista predilige una materia
nella quale la luce penetra
violentemente all’interno delle
superfici creando un inquieto
senso di movimento. In Fanciulla
con i capelli verdi, questo furore
si placa; non più un magma
diveniente, ma un momento, un
pensiero fissato in una superficie
sulla quale la luce scivola morbidamente
quasi con timido pudore,
per non disturbare il meditare
della bella.
Negli animali, Pietro Giuseppe
riesce ad evidenziare l’accettazione
di un destino immutabile,
un’esistenza priva della consapevolezza
insita nell’uomo, genitrice
di gioia e dolore, di colpe e
meriti. Il toro ed il rinoceronte
sono rappresentati come placidi
spettatori della realtà che li
circonda, forse sereni nella loro
ignoranza, nella non coscienza
delle asperità della vita e dell’esistenza
del bene e del male che la
totemica coscienza rappresentata
dall’autore impone di non dimenticare.
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