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Ennio Serventi, La “cokeria” - oraSesta

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<strong>Ennio</strong> <strong>Serventi</strong><br />

<strong>La</strong> <strong>“cokeria”</strong><br />

OraSesta


Questa storia è stata scritta qualche anno fa. Era il tempo di quando “si avanzava<br />

l’idea di costruire un “polo tecnologico” sulle aree adiacenti al campo “Zini”. Gli uffici<br />

comunali ipotizzavano che la vecchia <strong>“cokeria”</strong> di via Cardinal Massaia (che qualcuno,<br />

sbagliando, identifica come la “Carbonifera”) potesse anche essere demolita. <strong>La</strong><br />

prospettiva della scomparsa definitiva di quel sito ha sollecito una visita affinché,<br />

almeno nella memoria, non si obliteri quel luogo al quale sono legato da ricordi<br />

d’adolescente e non solo. <strong>La</strong> struttura è imponente, sembra che sia l’unica ancora<br />

presente nell’Italia del nord. L’area circostante, nonostante alcune manomissioni,<br />

manteneva una sua integrità, bisognava inventare qualche cosa che la salva-<br />

guardasse integralmente. L’idea del “polo tecnologico” tramontò, non se ne fece<br />

niente. Ma su quell’area piccone e cemento hanno compiuto il loro esercizio e oggi le<br />

ACLI cremonesi vi hanno trasferito i propri uffici.<br />

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<strong>La</strong> <strong>“cokeria”</strong><br />

Era leggermente in discesa quella strada che percorrevamo per andare allo stadio,<br />

fiancheggiata a sinistra da un allora già vecchio muro di mattoni rossi, e il tempo era<br />

ancora quello del collegio e del sabato fascista.<br />

Al di là di quella parete rossa uno strano coso cilindrico non mancava mai di attirare<br />

l’attenzione di noi ragazzi. Imprigionato dentro ad un reticolo di alti tralicci, pali,<br />

tiranti e funi, quello strano congegno aveva una sua insospettata vita. Si muoveva in<br />

verticale tanto che, a volte, la sua parte superiore raggiungeva il limite superiore di<br />

quella impalcatura fino a superare una specie di anello che tutto cingeva e rendeva<br />

solidali, le une agli altri, pertiche e sostegni, impedendo che si divaricassero. A volte,<br />

invece, era talmente basso che a mala pena occhieggiava dalla sommità del muro e<br />

allora mi chiedevo dove fosse finito. Immaginavo, sfiorando inconsapevolmente la<br />

realtà, che quell’immenso panettone s’infilasse tutto intero in una specie di tunnel<br />

verticale per nascondere, ad occhi indiscreti, operazioni segrete che gli altri non<br />

dovevano sapere.<br />

L’insieme della struttura ed il suo colore grigio mi ricordavano il dirigibile “Zeppelin”<br />

che una volta ebbi la ventura di vedere navigare nel cielo e, come questo, la credevo<br />

fatta di tela. Poi, molto più tardi, scoprii che non di tela era ma di lamiera di ferro, e<br />

il mio tempo non era più quello del collegio ma del lavoro.<br />

Misterioso era anche quel suo salire e scendere. “È la pressione”, dicevano quelli<br />

della fila del collegio che di queste cose ne sapevano. “Quando è alta il tubo s’innalza<br />

e quando non lo è s’abbassa”. Forti di questo sapere ormai diventato di tutti, allo<br />

svoltare dalla via Brescia, gli occhi puntavano alla sommità del muro a scrutare se si<br />

intravedesse il cilindrone e una parola, collettivamente detta, percorreva tutta la fila:<br />

“è alta”, oppure “oggi è bassa”.<br />

Insomma, quel coso che si alzava o abbassava dall’altra parte del muro, era un<br />

serbatoio a volumetria variabile, ideato per occupare la più piccola superficie<br />

possibile ma che nel contempo avesse la possibilità di accumulare tutto il gas<br />

prodotto nei periodi di poco consumo. Per una sua caratteristica di tenuta, veniva<br />

chiamato “a guardia idraulica” e la sua base era annegata nell’acqua di una specie di<br />

piscina circolare. Il gas accumulato veniva poi ridistribuito al consumo nei periodi di<br />

maggior richiesta e l’impianto di produzione (le storte) poteva lavorare in equilibrio<br />

senza seguire, con manovre o contromanovre, il mutare della richiesta.<br />

Il gas era quello ricavato dalla distillazione del litantrace. Per il suo originario uso<br />

venne chiamato “illuminante”, poi, forse per l’estendersi del suo impiego anche alla<br />

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cottura dei cibi e per il sopravvento dell’energia elettrica nell’illuminazione, mutò la<br />

denominazione in “gas di città”.<br />

Quel serbatoio fu la parte del vecchio impianto che ebbe vita più lunga, continuò la<br />

sua funzione di accumulare e di restituire gas, certamente con qualche problema da<br />

risolvere, anche in una prima fase della metanizzazione. Venne demolito e cominciò<br />

la devastazione, lenta ma inesorabile, di quell’area racchiusa al là del vecchio muro.<br />

In altre città simili serbatoi sono stati conservati come testimonianze ed in alcuni casi<br />

anche come elementi di arredo urbano.<br />

Era molto grande quell’area che arrivava a lambire l’oleificio Zucchi all’incrocio della<br />

via Brescia con la via Persico ed i campi di calcio (al tempo erano due, uno grande e<br />

uno più piccolo). Nel lato prospiciente la via Cardinal Massaia si apriva il portone di<br />

accesso. Il varco interrompeva la continuità del vecchio muro e alla sua destra aveva<br />

la palazzina a due piani costruita per ospitare l’abitazione del direttore dell’opificio e<br />

gli uffici. Una bella terrazza, all’altezza del primo piano, trovava sostegno dal tratto di<br />

vecchio muro che, oltre il portone, riprendeva da quel lato. Poco più avanti, ad<br />

un’altezza di circa un metro e mezzo dal piano di calpestio, ricavati nel muro, quel<br />

che resta di cinque piccoli pertugi malamente tamponati. Al di sopra di questi e per<br />

tutta la lunghezza, una striscia biancastra ricorda la preesistente presenza di un<br />

intonaco ormai caduto. Solo un lembo, all’estremo angolo destro, regge l’usura del<br />

tempo ed è ancora possibile leggervi una dicitura: “normali”. È quel che rimane della<br />

vecchia biglietteria dello stadio ricavata da uno dei locali che furono il deposito del<br />

carbone: cinque piccole finestrelle, malamente tamponate, sufficientemente larghe<br />

da fare intravedere, dall’altra parte, la faccia del bigliettaio e i blocchetti dei biglietti<br />

appoggiati sulla piccola balaustra. Al piano terreno della palazzina locali per la<br />

direzione e uffici. Nel grande spiazzo interno, al confine con il campo “Zini”, la grande<br />

<strong>“cokeria”</strong>, cuore infuocato di tutto l’impianto, con la parte centrale del tetto rialzata<br />

rispetto alle falde laterali, con ampi spazi aperti attraverso i quali per l’innescarsi<br />

dell’effetto simile a quello del camino, una corrente d’aria ascensionale evacuava<br />

fumi e calore in eccesso.<br />

Al centro del cortile, una palazzina dalla facciata impreziosita da ornamentali motivi in<br />

cotto.<br />

Alla sua destra la costruzione che ospitava lo spogliatoio degli operai. In origine<br />

conteneva l’impianto per la depurazione del gas, certamente coeva alla grande<br />

cokeria e come questa aveva le finestre chiuse con arabescate “gelosie”.<br />

Nell’insieme quest’area, per il momento risparmiata dalla ruspa, mantiene una sua<br />

omogeneità. Chiusa all’interno del vecchio muro, con l’ampio cortile delimitato dalla<br />

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cokeria, dal deposito del carbone e dai muri di antiche case confinanti, trasmette un<br />

qualcosa che ricorda le nostre cascine a corte chiusa. È tutto l’insieme che deve<br />

essere salvato e l’attenzione del piccone rivolta esclusivamente alla nuova biglietteria<br />

dello stadio e al portale piacentiniano che una volta, ma ora non più, immetteva nei<br />

campi da gioco.<br />

In una parte di quell’area cortilizia, a sinistra del portone, il terreno si rialza andando<br />

a formare un ampio pian-alto. Sullo sfondo qualche albero e i tralci di una vigna<br />

danno ancora qualche frutto, ma il loro destino sembra ormai segnato. Tutto, qui,<br />

sembra ormai segnato. Di quel pian-alto, che in origine custodiva la grande fossa<br />

circolare in muratura, alloggiamento e base del serbatoio per il gas, rimane ancora<br />

una traccia. Sopra di esso è stato costruito un condominio abitativo e al suo interno<br />

un ampio parcheggio sotterraneo. Anche al margine dello screpolato muro di confine<br />

con le finestre protette da inferriate a mezza luna, si intravedono tracce della sua<br />

esistenza.<br />

È affascinante quell’area al di là del rosso vecchio muro che la cinge dal lato di via<br />

Cardinal Massaia e che, varcato il grande portone, ti annega nel suo silenzio. È il<br />

fascino esclusivo delle cose che sopravvivono al loro tempo, di cui nessuno ricorda le<br />

origini, che ti obbliga a scrutare nei loro angoli più nascosti e fra gli interstizi dei<br />

vecchi muri per carpirgli le cose, le storie più segrete gelosamente custodite.<br />

Anche questo luogo racconta una sua storia, ed è una storia di fatica e di sudore. Di<br />

fatica e di sudore è la storia del lavoro di quegli uomini davanti alle bocche<br />

spalancate ed infuocate delle “storte”, incandescenti per il gran fuoco, insaziabili<br />

divoratrici di carbone e di lavoro. Il caricamento, nelle storte, del carbone da distillare<br />

o da bruciare nei sottostanti fornelli, l’estrazione del coke incandescente, erano<br />

operazioni faticosissime ed esponevano i fuochisti ad un calore spesso insopportabile.<br />

Le operazioni di caricamento del distillatore e dell’asportazione del coke andavano<br />

svolte velocemente, indispensabile era evitare che il gas si disperdesse e la storta si<br />

raffreddasse. Per il caricamento, fatto a mano, si usavano pale per il cui solleva-<br />

mento erano necessari tre uomini. Per quanto fossero abili e svelti, queste operazioni<br />

comportavano sempre una perdita di idrocarburi e di calore che danneggiavano<br />

l’impresa. Questo spinse gli imprenditori a ricercare un sistema meccanico che<br />

sostituisse il lavoro manuale degli uomini.<br />

Gli impianti per la distillazione del litantrace, a causa della loro potenziale perico-<br />

losità, venivano costruiti in aree decentrate, significativamente lontane da zone<br />

densamente popolate. Notevoli erano le esalazioni di fumi e gas diversi, insieme alla<br />

non trascurabile probabilità che tutto saltasse in aria. Per il tipo di produzione<br />

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necessitavano di una grande movimentazione di materia prima ma anche da<br />

sottoprodotti e scorie. In Francia e in Germania non erano pochi gli impianti costruiti<br />

in prossimità di fiumi o di canali, e utilizzavano le vie d’acqua per il loro rifornimento.<br />

L’area di via Cardinal Massaia, estrema propaggine della zona industriale di Cremona<br />

oggi interamente scomparsa, per quanto concerne la facilità di movimentazione del<br />

materiale venne scelta per la vicinanza con il nodo ferroviario di via Brescia. Da qui<br />

partiva un binario che, dopo l’attraversamento della strada, si incuneava in un<br />

passaggio all’interno dell’area dove esisteva l’oleificio Zucchi (oggi vicino al canale<br />

navigabile) che rendeva possibile ai grandi carri ferroviari di arrivare fino ai piazzali-<br />

deposito dell’officina per la produzione del gas, senza la necessità di dover scaricare<br />

il materiale e di ricaricarlo su di altri mezzi di trasporto.<br />

Sempre partendo dal nodo ferroviario di via Brescia, un altro binario collegava gli<br />

insediamenti industriali lungo la “via degli opifici” e “magazzini generali” fino<br />

all’incrocio con via Dante ed erano: lo Zuccherificio, il deposito di legnami Coggi, i<br />

magazzini generali del Consorzio Agrario, la “Carbonifera”, la Cooperativa Concimi.<br />

Esiste ancora integro e maestoso, sovrastato dal tubolare grande serbatoio per<br />

l’acqua, il mulino Rapuzzi, “el mulinòon”, oggi adibito ad altre funzioni.<br />

<strong>La</strong> produzione del gas<br />

<strong>La</strong> produzione del gas non si accompagnò ad un rapido evolversi delle tecnologie. Il<br />

metodo di fabbricazione rimaneva debitore del procedimento di cokefazione del<br />

carbon fossile sperimentato nei primi anni del XII secolo. Per molti anni il gas<br />

prodotto rimase inutilizzato e disperso nell’aria. Il litantrace veniva importato<br />

dall’Inghilterra ed il processo di gassificazione si basava sul principio della<br />

“distillazione secca”. Immesso in un recipiente chiuso, il carbon fossile, opportuna-<br />

mente riscaldato, si decomponeva in una serie di elementi, alcuni volatili ed altri fissi.<br />

<strong>La</strong> distillazione avveniva nelle “storte” (da qui il nome “carbone di storta”, come<br />

veniva chiamato da noi il coke dopo che il fascismo proibì l’uso delle parole<br />

straniere): un insieme di vasi chiusi che venivano riscaldati sopra fornelli o in forni.<br />

Le prime “storte” furono in ghisa, poi si diffusero quelle in terra refrattaria. Tale<br />

innovazione ebbe conseguenze negative sulla qualità del prodotto, ma permettevano<br />

un minore costo di produzione e furono largamente adottate. Il loro diretto<br />

riscaldamento si otteneva prevalentemente bruciando coke, cioè utilizzando quello<br />

che, dalle imprese che privilegiavano la produzione di gas, era considerato un sotto<br />

prodotto della distillazione. Le “storte” venivano appoggiate sopra un focolare a<br />

griglia, sotto il quale bruciava il combustibile. Il riscaldamento migliorò molto quando,<br />

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da parte di Siemens, vennero introdotti recuperatori di arie primarie e secondarie con<br />

il recupero e l’utilizzo, per il loro riscaldo, di parte dell’ingente calore prima disperso.<br />

Questa innovazione comportò un minore costo di produzione. Poi, con il tempo, le<br />

“storte” furono oggetto di modifiche evolutive sostanziali.<br />

All’uscita del distillatore il gas non era ancora in grado di illuminare, doveva essere<br />

depurato. Più che un gas semplice, esso era una miscela di vapori solforosi,<br />

ammoniacali e d’acqua che andavano separati e rimossi. Dalla depurazione si<br />

ottenevano alcuni sotto prodotti che venivano commercializzati. Una volta finita la<br />

depurazione, il gas era pronto per la distribuzione e l’utilizzazione.<br />

<strong>La</strong> distribuzione del gas<br />

Le condotte per il trasporto del gas fino all’utenza vennero costruite in piombo e poi<br />

in ghisa. Solo con l’utilizzo di questo materiale divenne possibile ridurre le notevoli<br />

perdite dovute alla scarsa resistenza meccanica che il piombo poteva offrire. Poi,<br />

rapidamente abbandonato anche l’uso di tubi in fibra di amianto e cemento,<br />

s’imposero definitivamente quelli di acciaio saldati.<br />

<strong>La</strong> rete di distribuzione cominciava con una canalizzazione principale che via via si<br />

diradava, raggiungendo tutti i punti di utilizzazione. Più tardi si rese necessario<br />

utilizzare nella distribuzione valori di pressione diversi. Le tipologie delle reti di<br />

distribuzione furono, lo sono ancora, sostanzialmente due: quelle dette a “stella” per<br />

le reti che utilizzano una sola pressione e quelle dette ad “anello” dove è possibile<br />

utilizzare due pressioni diverse.<br />

Arrivato all’utilizzatore il gas, fu possibile accenderlo. <strong>La</strong> fiamma, al suo apparire,<br />

stupì chi ebbe la ventura di vederla per la prima volta.<br />

Il gas veniva fatto fluire da un apposito apparecchio chiamato “becco” o “beccuccio”.<br />

Ancora nel recente passato la capacità di un contatore di fare fluire una certa<br />

quantità di gas era espressa in “becchi”. Così si avevano contatori da “10 becchi”, da<br />

“20 becchi” ecc. Poi la quantità venne espressa in metri cubi standard (m3s). Si<br />

studiarono diversi tipi di “becco”, che fossero in grado di ridurre i consumi e<br />

aumentare la luminosità che comunque dipendeva essenzialmente dalla quantità di<br />

carbonio presente nel gas. I “becchi” assunsero diverse forme e dimensioni. Si<br />

potevano comunque distinguere in due fondamentali categorie: “a getto singolo e<br />

semplice corrente d’aria” o a “getti multipli e doppia corrente d’aria”. Appartenenti<br />

all’una o all’altra categoria si ebbero getti denominati a “candela”, a “farfalla”, il<br />

“Manchester” e l’“Argan”. Per l’illuminazione pubblica il becco più usato fu quello a<br />

“farfalla”.<br />

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All’inizio il gas era venduto “a forfait”. Si pagava in abbonamento la possibilità di<br />

tenere accese un certo numero di fiamme per un certo tempo. Per alcune forniture di<br />

energia elettrica l’AEM adottò questo sistema fino alla fine degli anni ’60. Quando le<br />

società del gas non ritennero più economicamente soddisfacente tale sistema,<br />

vennero introdotti i contatori e l’uso di fare la loro lettura presso il domicilio degli<br />

utenti. Fece così la sua comparsa il meccanismo più odiato in assoluto. Considerato<br />

strumento vessatorio fin dalla “rivolta del macinato”, il contatore, mai amato,<br />

condivise con le casseforti il primato dei tentativi di manomissione e sull’ingegnosità<br />

di tali manomissioni si potrebbe scrivere un trattato.<br />

I primi contatori volumetrici furono “a liquido”. Il loro principio di funzionamento è<br />

rimasto, per oltre un secolo, fondamentale per ogni altro strumento di misura “a<br />

liquidi”. Venne soppiantato negli anni ’30 da un nuovo tipo detto “a secco”.<br />

A Cremona i contatori a “liquido” per la misura del gas furono in esercizio fino agli<br />

anni ’50. Questi avevano bisogno che il liquido, al suo interno, mantenesse sempre<br />

un livello e un peso costanti. Per compensare l’evaporazione necessitavano di un<br />

saltuario rabbocco. Sulla cassa era previsto un apposito tappo. Alla necessità, il<br />

letturista dei consumi che passava a scadenze prefissate, provvisto di apposita<br />

fiaschetta, provvedeva anche a questa operazione.<br />

Benché non più usato per le misurazioni domestiche, questo tipo di contatore viene<br />

ancora adoperato per le misurazioni di laboratorio, essendo considerato di grande<br />

precisione.<br />

L’utilizzo<br />

Con l’arrivo del ‘900, il gas estese la sua gamma di utilizzo. L’invenzione di un<br />

beccuccio nel quale l’uscita del gas poteva essere variata a volontà mediante la facile<br />

apertura e chiusura degli orifizi, permise il suo utilizzo per cucinare. Poi vennero<br />

fornelli dove ugelli e bruciatori regolabili permisero la cottura differenziata dei cibi.<br />

Di utilizzo del gas per il riscaldamento degli ambienti si cominciò a parlare almeno un<br />

quarantennio dopo che in altri paesi europei. <strong>La</strong> “Sociètè francaise de chaleur et<br />

lumière” ideò un radiatore in materiale refrattario che, immessa una fiamma<br />

“Bunsen”, diventava incandescente irradiando calore. Vale la pena di osservare che<br />

nel campo del riscaldamento il maggior concorrente del gas era il coke, di cui le<br />

aziende del gas erano le produttrici. Il “gas di città” venne sfruttato anche per<br />

conservare gli alimenti.<br />

Poco dopo il ‘900 cominciarono ad essere introdotti apparecchi per la refrigerazione,<br />

principalmente in latterie e macellerie. Secondo quanto riportato dall’AEM in una sua<br />

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pubblicazione, la macelleria Varani, sotto i portici di via Platina (il negozio c’è ancora)<br />

si dotò, nel 1903, di un frigorifero a gas. In città, fino a circa il 1960, era presente<br />

una fabbrica che produceva frigoriferi domestici funzionanti a gas.<br />

L’officina cremonese per la produzione del gas venne dotata di macchinario simile a<br />

quello istallato nelle maggiori officine dell’epoca. Un radicale ammodernamento si<br />

ebbe, con ogni probabilità, nell’ultima decade dell’Ottocento. Venne costruita la<br />

grande cokeria, quella ancora esistente, che reca, sulla chiave di volta, impressa una<br />

data:1891.<br />

Dalla “Monografia statistico-economica della provincia di Cremona” degli anni 1926-<br />

1930 risulta che, dal primo aprile 1930, è la ditta Società anonima Camozzi gas, con<br />

sede a Milano, ad occuparsi della produzione e distribuzione del gas. Negli anni che<br />

vanno dal 1927 al 1930 il suo consumo è aumentato di 98.640 m 3 pari al 7%. Tale<br />

aumento è derivato esclusivamente dall’incremento dei consumi privati. Da un’analisi<br />

statistica sui consumi e sulla tipologia delle utenze si rileva come nel 1913 fossero in<br />

funzione a Cremona 349 “becchi” per l’illuminazione pubblica e 6.250 per quella<br />

privata. Nel 1930 l’uso del gas per l’illuminazione pubblica era totalmente sparito,<br />

mentre erano in funzione 33.070 fuochi per uso privato di cucina. Nel comune di<br />

Crema, sempre nel 1930, le fiamme in funzione per l’illuminazione pubblica erano<br />

ancora 100 e 35 quelle per uso privato. Da notare come in queste statistiche non<br />

compaia il dato dei consumi per uso riscaldamento.<br />

Nel 1885 la produzione e la distribuzione del gas erano gestite dalla Società Anonima<br />

Italiana.<br />

Nei primi tempi di vita dell’industria per la produzione del gas i prodotti residui della<br />

distillazione erano visti come un peso del quale disfarsi nel modo più economico<br />

possibile. È stato con il successivo sviluppo della chimica organica e con l’ideazione di<br />

nuovi procedimenti che tali residui cominciarono ad assumere un ruolo più<br />

importante e divennero preziosi. Anche dalla depurazione si ebbero residui che<br />

divennero fonte di ulteriore reddito per le imprese. Le impurità che accompagnavano<br />

il gas, con l’abbassarsi della temperatura, si condensavano e si separavano. Il coke,<br />

primario residuo della distillazione, veniva usato per riscaldare le “storte” e, la parte<br />

eccedente, venduta per uso privato. A causa della sua friabilità, per dargli compat-<br />

tezza, veniva confezionato sotto forma di “ovetti” e di “mattonelle” pressate. Alcune<br />

sostanze, fino ad allora considerate dei residui, divennero oggetto e scopo della<br />

produzione stessa.<br />

Fu il forte aumento della richiesta di prodotti chimici che incrementò enormemente<br />

l’utilizzo di queste sostanze che cessarono di essere considerate residuali. Lo scopo<br />

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primario della distillazione cessava di essere esclusivamente quello del gas, ma si<br />

arricchiva di una più articolata completezza. Fino allo scoppio della prima guerra<br />

mondiale, nel 1915, i prodotti della chimica erano strozzati dallo scarso mercato e<br />

dalla spietata concorrenza tedesca. Cessata, in seguito alla guerra, tale concorrenza,<br />

si sviluppò un’industria nazionale del settore. Non si esclude che si istalli in questo<br />

contesto a Cremona la “Carbonifera” con lo scopo di recuperare e trasformare alcuni<br />

prodotti dell’impianto di via Cardinal Massaia, fra questi anche il catrame che, oltre<br />

ad essere usato per l’impermeabilizzazione del legname e nei calafati, cominciava ad<br />

essere impiegato nell’asfaltatura delle strade.<br />

Il cambiamento, il Movimento<br />

Con l’arrivo del metano fuoco e carbone divennero inutili. Cessò l’andare e venire dei<br />

grandi carri ferroviari, portati dalle cento ruote di questi enormi carrelli semoventi<br />

introdotti dopo che, per l’aumentato traffico sulla via Brescia e per l’estrema<br />

pericolosità del suo attraversamento, il binario venne tolto. Si smantellarono<br />

tramogge, “storte” e forni. Rimasero solo gli uomini che avevano sudato davanti a<br />

quelle bocche che già cominciavano ad essere ricordo. Vecchi mestieri persero la loro<br />

centralità, non ci fu bisogno né del fuochista né del “battitore” dei giunti delle<br />

condotte sigillati con canapa e piombo fuso. S’interruppe il tramandare del “sapere”<br />

dalle generazioni precedenti verso quelle più giovani. Piombo e argilla furono<br />

sostituiti dalle diverse tecniche di saldatura dei tubi d’acciaio che andavano<br />

sostituendo quelli fatti in ghisa. Mutò, in parte, anche il vecchio linguaggio d’officina<br />

che esprimeva continuità con lavori antichi. Nuovi vocaboli, magari in precedenza<br />

solo occasionalmente sentiti, si concretizzavano nella quotidianità del nuovo modo di<br />

lavorare. Ma tutto questo non significò rottura. Una faglia non tagliò le generazioni. Il<br />

ricordo e il futuro trovarono una loro unitaria composizione, forse frutto di una<br />

naturale coscienza o di acquisite consapevolezze. Le piccole divergenze e diversità di<br />

opinioni su problemi del lavoro o di vita non determinarono rotture profonde. Anche<br />

nelle scelte sindacali non ci si divise.<br />

Ci fu un sindacato che raccolse almeno il 95% delle adesioni, ma tutti si iscrissero<br />

all’uno o all’altro sindacato. Insieme si arrivò a quell’appuntamento nell’inverno del<br />

1970. Una consueta contrattazione aziendale si inasprisce. L’oggetto delle trattative<br />

sono modeste richieste di miglioramento dell’inquadramento professionale per alcune<br />

figure e la regolamentazione del lavoro dato in appalto, pratica alla quale l’azienda<br />

ricorreva sempre più massicciamente. I lavoratori temono che questo, a lungo<br />

andare ma inesorabilmente, porti ad una riduzione dell’organico. L’azienda è<br />

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d’accordo di rivedere l’inquadramento, è irremovibile sulla più importante questione<br />

che riguarda il lavoro in appalto. Ne fa una questione di principio; sostiene che<br />

questa richiesta dei lavoratori costituisce una indebita intrusione nelle sue specifiche<br />

prerogative e che di fatto, se accolta, limita la libertà di organizzare il lavoro secondo<br />

i canoni da lei ritenuti più idonei, peculiarità esclusivamente imprenditoriale. Ci sono<br />

alcuni incontri poi le trattative s’interrompono.<br />

Il 17 marzo i lavoratori si presentano al lavoro con qualche minuto di anticipo<br />

sull’orario d’inizio. Gli operai si fermano nello spogliatoio e gli impiegati nel corridoio<br />

degli uffici, interrompendo la consuetudine di ritrovarsi in cortile per le consuete<br />

“quattro chiacchere”. Alle otto il lavoro non comincia. <strong>La</strong> commissione interna<br />

dichiara lo sciopero con l’occupazione immediata degli spazi dell’impianto. È il primo<br />

dei centosedici giorni consecutivi di sciopero con presidio continuo della sede. Si<br />

organizzano i turni notturni e la cucina. Per centosedici giorni e altrettante notti la<br />

sede dell’impianto non sarà mai abbandonata. Lo sciopero, proclamato e diretto dalla<br />

Commissione Interna, coglie un tantino di sorpresa le confederazioni sindacali.<br />

L’erogazione del gas alla cittadinanza è garantita.<br />

Come prima azione non vengono spediti alla sede di Torino i “libri” sui quali erano<br />

annotate le letture dei consumi degli utenti nei trascorsi mesi invernali. Questo<br />

comporta, per l’azienda, l’impossibilità di procedere alla fatturazione e al conseguente<br />

invio, agli utenti, delle relative bollette per il pagamento. <strong>La</strong> direzione cerca di farvi<br />

fronte mandando al domicilio degli utenti una cartolina predisposta per l’auto lettura,<br />

già munita di affrancatura per la spedizione di ritorno. Una parte degli operai va nei<br />

quartieri più popolari; parlano con i cittadini della loro lotta, li invitano a non fare le<br />

letture né le spedizioni delle cartoline. Pacchetti di cartoline raccolte vengono<br />

bruciate nel cortile dell’impianto.<br />

Nei quartieri, a fianco e a sostegno degli operai, interviene anche il “collettivo<br />

studenti-operai”. Il “collettivo” sorto un anno prima, era uno dei tanti esperimenti di<br />

organizzazione, al di fuori dei partiti, che le forze sociali si davano. Formato in<br />

prevalenza da giovani alla loro prima esperienza politica, senza velleità di sostituirsi<br />

alle organizzazioni del movimento operaio, ma con la volontà di portare autonoma-<br />

mente nuovi elementi teorici e pratici alla crescita del movimento stesso.<br />

Iniziative del “collettivo” in appoggio ad azioni sindacali o in loro sostituzione quando<br />

queste vengono a mancare, si sono già avute al Nastrificio Alquati, al supermercato<br />

Stella, alla UPIM e al Fulmine. Il “collettivo” si era presentato, nel 1969, anche alla<br />

manifestazione del 25 aprile e a quella del 1° maggio, invitato personalmente dal<br />

segretario della Camera del <strong>La</strong>voro. Nel corteo sostiene un piccolo diverbio con alcuni<br />

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sindacalisti che non gradiscono l’apparizione, fuori dal gruppo del “collettivo”, di<br />

alcuni grandi cartelli con l’effige di Mao. In piazza, mentre sta parlando uno studente<br />

del collettivo, viene messa in atto una provocazione da parte di gruppetti di neo-<br />

fascisti, alla quale si reagisce energicamente. L’azione degli operai e dei giovani del<br />

“collettivo” è generalmente accolta con favore.<br />

All’officina del gas comincia a circolare qualche tentativo di intimidazione. Le Confe-<br />

derazioni Sindacali, che sono titolate alla stipulazione degli accordi, trattano e<br />

propongono mediazioni. Con i lavoratori ci sono riunioni animate. <strong>La</strong> Commissione<br />

Interna mantiene la sua linea di fermezza. Lo sciopero è totale, i non partecipanti si<br />

contano con le dita di una mano: due operai, qualche tecnico. Circolano voci di<br />

possibili denunce come conseguenza dell’azione svolta verso gli utenti e all’occupa-<br />

zione stessa. Comincia a farsi sentire anche la solidarietà. <strong>La</strong> notizia dello sciopero<br />

arriva negli impianti delle altre città e non manca l’aiuto sostanzioso dei colleghi.<br />

Diversi cittadini si recano all’impianto di via Cardinal Massaia a chiedere informazioni<br />

e a portare il loro contributo. Da qualche parte si fa circolare la voce di un imminente<br />

sgombero forzoso. Per il momento la polizia non si vede. Solo due agenti in borghese<br />

sono costantemente presenti nei pressi dell’impianto.<br />

In alcune case che stanno sorgendo in fregio al viale Po, una ditta appaltatrice è<br />

impegnata a completare lavori che erano stati cominciati prima dello sciopero. Alcuni<br />

scioperanti vanno a parlare con quei lavoratori e li convincono a smettere il lavoro. I<br />

“montanti” messi in opera da quell’appaltatore vengono smontati, i tubi portati<br />

all’officina e scaricati nel cortile.<br />

Il prefetto convoca i sindacati e fa delle proposte per risolvere immediatamente la<br />

vertenza. S’impegna personalmente a convocare le parti, ma prima l’officina deve<br />

essere sgomberata. È la classica posizione preliminare di ogni incontro, generalmente<br />

accettata dal sindacato: non si tratta, non c’è trattativa con l’occupazione in atto.<br />

L’assemblea è infuocata, la Commissione Interna e lavoratori respingono la proposta.<br />

Sono d’accordo nel riprendere le trattative ma questa deve avvenire con l’occupa-<br />

zione in atto. Lo sciopero e l’occupazione dell’impianto è il loro punto di forza, senza<br />

di questi sarebbero alla mercé delle incursioni padronali. Si divaricano le posizioni con<br />

i sindacalisti. Si brucia, localmente, ogni possibilità di soluzione. <strong>La</strong> questione viene<br />

assunta dalle segreterie nazionali dei sindacati dei gasisti. <strong>La</strong> sede delle trattative<br />

diventa Roma e ci si incontra alla sede della Confederazione della industria romana.<br />

Si profila una possibilità d’intesa.<br />

Si torna a Cremona e se ne discute in assemblea con i lavoratori, poi la Commissione<br />

Interna parte per Roma. L’appuntamento è per le ore 17 alla sede della Confede-<br />

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azione dell’industria. Ci sono anche i tre segretari nazionali dei sindacati dei gasisti.<br />

Loro hanno la titolarità delle trattative, la Commissione Interna quella dei lavoratori.<br />

Dall’altra parte del tavolo i rappresentanti della “Italgas”, assistiti dai loro avvocati. Si<br />

riassumono i risultati degli ultimi incontri, si rileggono bozze e verbali. I membri della<br />

Commissione Interna, assistiti dai segretari generali dei sindacati, firmano l’intesa. Si<br />

torna a Cremona, il presidio viene tolto, lo sciopero finisce, il giorno dopo si riprende<br />

il lavoro. È l’11 luglio, sono passati 116 giorni.<br />

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