L'italianità all'estero tra stereotipi, grandi opere e micro storie
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L’italianità all’estero <strong>tra</strong> <strong>stereotipi</strong>, <strong>grandi</strong> <strong>opere</strong> e <strong>micro</strong> <strong>storie</strong><br />
di Mariele Merlati<br />
Se cerchiamo nel Dizionario della lingua italiana alla voce italianità, troviamo la seguente definizione: italianità è l’essere, il<br />
sentirsi italiano.<br />
Due categorie, quella dell’essere e quella del sentirsi, molto diverse <strong>tra</strong> loro che portano con sé cifre altrettanto diverse. Se<br />
infatti consideriamo quanti sono coloro che hanno cittadinanza italiana, pur non risiedendo in Italia, arriviamo alla cifra di 4<br />
milioni di persone; se invece guardiamo agli italiani all’estero prescindendo dal possesso della cittadinanza e facendo riferimento<br />
a genealogie che risalgono anche a antenati lontani, la cifra di riferimento è quella di 60 milioni; la stima sale a circa 150 milioni<br />
di persone se abbracciamo la categoria del “sentirsi italiani” e parliamo di “italici” intendendo in questo insieme non solo coloro<br />
che sono di origine italiana ma anche gli appassionati di Italia che condividono i nostri valori, parlano la nos<strong>tra</strong> lingua, studiano<br />
la nos<strong>tra</strong> cultura.<br />
Un panorama quindi estremamente vario, dove varia è la gamma dei significati che di volta in volta, di paese in paese, sono<br />
attribuiti a “italianità”.<br />
Proprio l’obiettivo di cogliere queste mille sfaccettature ha animato en<strong>tra</strong>mbe le fasi del progetto “150 anni Grande Italia”:<br />
la prima fase ha coinvolto 3000 studenti, “italici” <strong>tra</strong> gli 8 e i 17 anni di età, di 40 Paesi esteri (dal Brasile, agli Stati Uniti, all’Aus<strong>tra</strong>lia,<br />
alla Romania, all’Algeria, all’Etiopia, alla Nigeria...) ai quali è stato di esprimere at<strong>tra</strong>verso una fotografia e un brevissimo<br />
testo di accompagnamento la loro personale percezione dell’italianità; nella seconda fase, che ha visto coinvolte anche<br />
le scuole italiane, è stato chiesto ai giovani, in Italia e all’estero, di produrre ricerche che approfondissero la percezione dell’italianità<br />
emersa nel corso della prima fase e che affrontassero criticamente il binomio emigrazione degli italiani all’estero/immigrazione<br />
degli s<strong>tra</strong>nieri in Italia.<br />
Obiettivo di questo mio intervento è quello di riflettere sul concetto di italianità facendo costante riferimento alle conclusioni<br />
emerse da en<strong>tra</strong>mbe le fasi del progetto e quindi all’importante contributo offerto da giovani e giovanissimi di tutto il mondo.<br />
È un universo popolato di prodotti, simboli, marchi industriali e <strong>stereotipi</strong> quello cui noi membri del Comitato scientifico ci<br />
siamo trovati di fronte al momento della selezione di fotografie ed elaborati. Un universo in cui si alternano, nelle immagini, la<br />
Ferrari, la Vespa, la pasta e la Nutella e, nelle ricerche, riflessioni su come anche chi di italiano ha poco o nulla dell’Italia abbia<br />
imparato a conoscere sapori e costumi e a immaginare stili e atmosfere e su come d’altro canto dell’italianità sopravvivano immutati<br />
antichi <strong>stereotipi</strong>. Penso per esempio agli interessanti lavori prodotti dai ragazzi dell’Istituto Cavour di Vercelli e del Liceo<br />
Amaldi di Barcellona. In en<strong>tra</strong>mbi, a parlarci di italianità non sono solo prodotti e marchi (peraltro - ci ricordano i ragazzi - ormai<br />
scovabili nei supermercati di tutto il mondo!) ma anche simboli positivi e negativi e <strong>stereotipi</strong> quali, lo dicono con ironia sia dall’Italia<br />
sia dalla Spagna, l’immancabile e vistosa gesticolazione con cui tutti gli italiani accompagnano ogni loro discorso. Penso<br />
infine alle parole con cui un giovane studente turco ha voluto commentare la fotografia in cui è ri<strong>tra</strong>tto lui stesso su un spiaggia:<br />
“le onde, la sabbia e, in particolare, il sorriso e l’allegria del ragazzo (cioè me) sono tipici simboli dell’italianità”.<br />
C’è però molto altro nell’italianità così come è stata interpretata dai ragazzi di tutto il mondo: c’è innanzitutto l’orgoglio con<br />
cui in moltissimi paesi del mondo le seconde e terze generazioni di immigrati italiani rileggono la storia dei propri avi e guardano<br />
il proprio presente. È proprio orgoglio forse la parola in cui ci si imbatte più di frequente nello sfogliare tutti i lavori pervenuti.<br />
L’orgoglio con cui un giovane mos<strong>tra</strong> in fotografia il suo doppio passaporto italiano e uruguaiano. L’orgoglio con cui gli studenti<br />
del Liceo Luzzati di Chiavari ricostruiscono la storia dei loro illustri concittadini all’estero. L’orgoglio con cui da Bogotà Stefano<br />
Iannini, studente colombiano, ci invia la lunga intervista somminis<strong>tra</strong>ta a sua nonna Rosa che dopo la seconda guerra mondiale<br />
ha lasciato l’Italia insieme al marito.<br />
È una immagine positiva quella che emerge dal racconto che i ragazzi dentro e fuori i confini nazionali fanno delle tante esperienze<br />
e delle tante <strong>storie</strong> degli italiani all’estero nei 150 anni dall’Unità d’Italia. Una immagine positiva che si inquadra forse in
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quello che Amanda Signorelli ha definito, con una felice formula, il passaggio da emigrati a italiani nel mondo, a indicare la<br />
diversa considerazione dell’identità connessa alle origini italiane che è possibile riscon<strong>tra</strong>re a partire dagli ultimi decenni del XX<br />
secolo. (A. Signorelli, Dall’emigrazione agli italiani nel mondo, in “Storia d’Italia, Annali n. 24, Migrazioni”, Giulio Einaudi<br />
Editore, 2009). Non si <strong>tra</strong>tta solo di una maggiore presa di coscienza di sé da parte degli emigrati italiani e dei loro discendenti,<br />
ma anche di un nuova considerazione del fenomeno migratorio da parte dello stesso governo italiano e di un mutamento del contesto<br />
politico-sociale dei paesi verso i quali l’emigrazione italiana si è diretta. Se fino agli anni ’80 del novecento l’emigrazione<br />
degli italiani verso l’estero ha interessato i governi della repubblica quasi esclusivamente come una s<strong>tra</strong>tegia per risolvere i problemi<br />
di disoccupazione in Italia, è a partire da quella data che gli italiani all’estero hanno cominciato a essere considerati una<br />
“grande risorsa s<strong>tra</strong>tegica” e “fattori di primaria importanza nella costruzione del sistema Italia”. Ancora, è impossibile negare<br />
come parallelamente a questo processo sia mutata anche da parte dei paesi ospitanti la percezione dell’immigrato italiano, un<br />
cambiamento che possiamo sintetizzare come passaggio dalla xenofobia alla valorizzazione. Drammatico comun denominatore<br />
delle più diverse forme e fasi dell’emigrazione italiana all’estero <strong>tra</strong> l’800 e il ‘900 è stato lo scarso favore con cui gli immigrati<br />
venivano accolti nei paesi di destinazione. La mente corre subito a noti <strong>tra</strong>gici episodi come gli eventi di Aigues-Mortes dell’agosto<br />
1893 o di Zurigo dell’estate del 1896. Ma pensiamo anche a quanto ci raccontano efficacemente i ragazzi della Scuola Secondaria<br />
Diego Valeri di Villa del Conte nel loro elaborato che ricostruisce i moltissimi pregiudizi xenofobi che nel passato hanno accompagnato<br />
l’emigrazione degli italiani all’estero così come, oggi, accompagnano l’immigrazione di molti s<strong>tra</strong>nieri in Italia.<br />
Se ci domandiamo quali fattori abbiano contribuito alla svolta che ha consentito di passare dalla xenofobia anti-italiana alla<br />
valorizzazione dell’italianità, sicuramente una spiegazione risiede nell’etnicizzazione delle identità collettive cui si è assistito<br />
negli ultimi decenni e che ha portato anche per l’Italia a una maggiore valorizzazione degli usi e dei costumi nazionali.<br />
Altrettanto evidente tuttavia è che la maggiore valorizzazione dell’italianità cui oggi assistiamo vada di pari passo con una<br />
maggiore consapevolezza da parte di tutti dell’importante contributo che gli immigrati italiani hanno dato allo sviluppo dei paesi<br />
di destinazione, sia per quello che lì hanno costruito sia per quello che lì sono diventati.<br />
Già lo storico Robert Harney nel 1984 raggruppava gli italiani immigrati nelle Americhe in tre categorie lavorative e professionali:<br />
edilizia e arti figurative; musica e spettacolo; produzione e distribuzione di generi di consumo e di lusso nell’alimentazione,<br />
abbigliamento e settori affini. Informazioni che trovano tutte conferma nelle tante esperienze ricostruite negli elaborati inviati dai<br />
giovani di ogni parte del mondo. Tra queste tre categorie prioritaria è stata l’edilizia. I nomi di imprese italiane sono associati a<br />
molte delle più significative <strong>opere</strong> che hanno contribuito allo sviluppo economico e sociale di numerosi paesi. S<strong>tra</strong>de, ponti, dighe<br />
e ferrovie sono stati i biglietti da visita degli italiani all’estero; lo confermano le numerosissime fotografie di <strong>grandi</strong> <strong>opere</strong> italiane<br />
arrivate per il concorso (la diga di Caribe sul fiume Zambesi; la ferrovia <strong>tra</strong> Massawa e Asmara; il ponte di Tbilisi) e lo ribadisce<br />
anche il lavoro del liceo Dimitrie Leonida di Petrosani in Romania che richiama il contributo offerto al Paese dagli italiani <strong>tra</strong><br />
l’800 e il ’900 at<strong>tra</strong>verso la costruzione di ferrovie, tunnel, s<strong>tra</strong>de e cattedrali.<br />
Infine, alla base di quella positiva immagine di italianità di cui ci arriva testimonianza da tutto il mondo, vi sono forse le stesse<br />
biografie, le piccole e <strong>grandi</strong> <strong>storie</strong> degli italiani che hanno lasciato la loro patria per cercare altrove un destino migliore.<br />
Non può non colpire, sfogliando il catalogo “150 foto per i 150 anni”, che raccoglie una selezione delle immagini pervenute<br />
per la prima fase del progetto, la fotografia che riproduce la carta di imbarco per la <strong>tra</strong>tta Genova-Buenos Aires di una madre, imbarcatasi<br />
in terza classe nel settembre del 1850 con due figli giovanissimi. Quel biglietto lo ha conservato gelosamente negli anni<br />
la bis nipotina della donna, ora studentessa della Scuola Cristoforo Colombo di Buenos Aires. Quel passato di deprivazione, quei<br />
viaggi in terza classe, quelle valigie di cartone - sembrano volerci dire le testimonianze degli italici di tutto il mondo - sono serviti<br />
a costruire quello che ora all’estero i cittadini di origine italiana sono diventati. Con la nos<strong>tra</strong> storia e con la nos<strong>tra</strong> memoria di<br />
emigrati le nuove leve sembrano oggi aver fatto pienamente i conti quando, ancora una volta con orgoglio, ci descrivono da tutto<br />
il mondo i tanti successi ottenuti dagli italiani che hanno contribuito a rendere grande il paese dove loro o i loro avi sono emigrati:
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dal Cile dove la classe prima della scuola superiore italiana di Concepcion ci racconta la storia della nascita della radio Bio Bio,<br />
la più ascoltata nel paese, fondata nel 1966 da un immigrato italiano; dal Brasile dove gli studenti del Colégio Dante Alighieri ricostruiscono<br />
la storia della famiglia Matarazzo, distintasi nel Brasile del XX secolo nel mondo dell’imprenditoria; da Chiavari<br />
dove i ragazzi del già citato Liceo Luzzati approfondiscono l’importante ruolo della famiglia Rocca in Argentina.<br />
Una nota conclusiva. L’11 settembre mi è capitato di seguire alla TV parte delle celebrazioni organizzate a New York per il<br />
decennale degli attentati terroristici. Impossibile non notare, all’interno dell’interminabile elenco delle vittime letto a Ground<br />
Zero da parenti e amici, la presenza di centinaia di cognomi italiani. Italiani e italoamericani di prima, seconda, terza generazione<br />
che in quel <strong>tra</strong>gico 11 settembre hanno perso la vita. Ancora mi risuona nelle orecchie il grido s<strong>tra</strong>ziato di una madre che, dopo<br />
aver ricordato il nome della figlia Laura perduta negli attentati, a lei ha dedicato le parole “ti voglio bene”. Le ha pronunciate in<br />
italiano, la sua lingua madre, la lingua del paese delle sue origini. “La lingua che usa per dire le cose importanti, per far parlare<br />
i sentimenti” ha scritto Roberto Saviano il giorno successivo commentando quelle celebrazioni.<br />
Anche questo, anche le decine e decine di italoamericani sepolti sotto le macerie delle Torri Gemelle appartengono alla storia<br />
dei nostri 150 anni; una storia che si è costruita in Italia certamente, ma anche in tanti altri Paesi del mondo dove in questi 150<br />
anni sono emigrati i nostri connazionali. Ricordarlo ci aiuterà forse a ricordare anche - questo almeno il monito che pare provenire<br />
dai più giovani - che quella stessa storia in Italia la stanno costruendo oggi non solo gli italiani ma anche i tantissimi cittadini di<br />
altre nazionalità che soprattutto negli ultimi trenta anni sono arrivati nel nostro paese, <strong>tra</strong>sformandolo da paese di emigrazione in<br />
paese di immigrazione.