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Per la stagione 2008/2009 sono operanti due Comitati Consultivi IN ...

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Conoscerete <strong>la</strong> verità<br />

E <strong>la</strong> verità vi farà liberi<br />

Giovanni 8,32<br />

Questa pubblicazione è stata curata dal<br />

Cinecircolo Romano<br />

Roma - Via Nomentana 333/c - tel 068547151 - fax 068553108<br />

Sito internet: www.cinecircoloromano.it<br />

E-mail: segreteria@cinecircoloromano.it<br />

Coordinamento filmografico<br />

Francesco <strong>Per</strong>netti<br />

Col<strong>la</strong>borazione redazione filmografica e schede registi<br />

Catello Masullo, Laura Ferretti, Pao<strong>la</strong> Dell’Uomo; Vincenzo Carbotta, Fiorenza Irace, Giuseppe Rizzo, Maria Caro<strong>la</strong><br />

Scialdone<br />

Assistente editoriale<br />

Alessandra Imbastaro<br />

Assistente all’edizione “dossier”<br />

Tania Di Stefano<br />

Assistente amministrativo<br />

Giuliana De Angelis<br />

Re<strong>la</strong>zioni culturali<br />

Maria Luisa Cosentino<br />

Direzione e coordinamento generale<br />

Pietro Murchio<br />

Le fotografie <strong>sono</strong> state fornite da:<br />

Centro Studi Cinematografici / Archivio del Cinecircolo Romano / Mauro Crinel<strong>la</strong> / Laura Ferretti / Giampaolo<br />

D’Armpino<br />

Valutazione pastorale: da Commissione Nazionale per <strong>la</strong> valutazione dei film del<strong>la</strong> C.E.I.<br />

Recensioni cinematografiche: da “Rassegna Stampa Cinematografica” Editore S.A.S. Bergamo,<br />

<strong>Per</strong> <strong>la</strong> <strong>stagione</strong> <strong>2008</strong>/<strong>2009</strong> <strong>sono</strong> <strong>operanti</strong> <strong>due</strong> <strong>Comitati</strong> <strong>Consultivi</strong><br />

Selezione Cinematografica Promozione e Cultura:<br />

Vincenzo Carbotta, Mauro Crinel<strong>la</strong>, Pao<strong>la</strong> Dell’Uomo, Rosa Aronica, Lamberto Caiani, Rinaldo Capriotti,<br />

Francesco Fazioli, Catello Masullo, Alessandro Jannetti Anna Maria Curini, Fiorenza Irace,<br />

Roberto Petrocchi, Giuseppe Rizzo, Maria Teresa Raffaele,<br />

Maria Caro<strong>la</strong> Scialdone<br />

<strong>IN</strong> COPERT<strong>IN</strong>A: in senso orario l’attore VIGGO MORTENSEN e scene tratte da “Rachel getting married”,<br />

“L’altra donna del re”, “Vicky Cristina Barcelona”, “Caos calmo” e “Mongol”.


STAGIONE C<strong>IN</strong>EMATOGRAFICA <strong>2008</strong>/<strong>2009</strong><br />

DOSSIER ASSOCIAZIONE<br />

• Invece di investire in cultura si taglia<br />

• Rubrica festivaliera del Cinecircolo<br />

• Il Premio Cinema Giovane - IV Edizione<br />

• Quinta Edizione: un appuntamento del<br />

Cinema Giovane Italiano<br />

C<strong>IN</strong>ECIRCOLO ROMANO<br />

1<br />

• La Mostra d’Arte del <strong>2008</strong><br />

• Concorso Cinecortoromano <strong>2008</strong><br />

I REGISTI<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

Nel<strong>la</strong> foto di Giampaolo D’Arpino: il cast del film “I Ga<strong>la</strong>ntuomini” di Edoardo Winspeare


APPUNTAMENTI DI PROGRAMMA<br />

I DIBATTITI A F<strong>IN</strong>E CICLO: <strong>sono</strong> previsti sette dibattiti, che si terranno alle ore 18.00 del martedì successivo<br />

al<strong>la</strong> fine di ciascun ciclo di film, nel<strong>la</strong> saletta conferenze di Via Nomentana 333/c.<br />

IL CALENDARIO DEI DIBATTITI<br />

• 25 novembre <strong>2008</strong> “I brutti sogni non sembrano mai sogni” da Caos Calmo<br />

• 16 dicembre <strong>2008</strong> “Guardandomi intorno vedo tutte donne, e tutte belle. Ma è normale?” da La guerra di<br />

Charlie Wilson<br />

• 27 gennaio <strong>2009</strong> “Se non potete par<strong>la</strong>re bene di una persona , non par<strong>la</strong>tene” da Il divo<br />

• 24 febbraio <strong>2009</strong> “La mia vita non torna. La somma di tutti i miei pezzi non fanno un me intero” da<br />

Onora il padre e <strong>la</strong> madre<br />

• 24 marzo <strong>2009</strong> “Non c’è che un solo peccato: il furto. Tutti gli altri peccati <strong>sono</strong> una variante del<br />

primo. Lo capisci !?” da Il Cacciatore di aquiloni<br />

• 28 aprile <strong>2009</strong> “Charlie Parker dice che <strong>la</strong> musica è più forte delle parole” da Rachel getting married<br />

• 26 maggio <strong>2009</strong> “Basta volerle le cose, volerle con tutto il cuore, che accadano” da Il papà di<br />

Giovanna<br />

L’ASSEMBLEA ANNUALE DEI SOCI: martedì 9 dicembre <strong>2008</strong> presso <strong>la</strong> sede di Via Nomentana 333/c<br />

SETTIMANA CULTURALE: dal 30 marzo <strong>2009</strong> al 4 aprile <strong>2009</strong><br />

ad inviti “Premio Cinema Giovane & Festival delle Opere Prime” V edizione;<br />

Mostra / Concorso di opere figurative<br />

I FILM PER RAGAZZI: ad inviti - 17dicembre <strong>2008</strong> e 11 marzo <strong>2009</strong><br />

PROGETTO EDUCAZIONE AL C<strong>IN</strong>EMA D’AUTORE: proiezioni mattutine per i giovani studenti<br />

LA MANIFESTAZIONE DI F<strong>IN</strong>E STAGIONE: mercoledì 3 giugno <strong>2009</strong><br />

Il Cinecircolo Romano ha concordato con l’Associazione <strong>IN</strong>FO.ROMA.IT lo scambio di informative promozionali.<br />

<strong>IN</strong>FO.ROMA.IT è:<br />

Portale dell’Associazione culturale omonima, nato per valorizzare e promuovere il patrimonio storico, artistico<br />

e sociale del<strong>la</strong> città di Roma. Tra le sezioni più interessanti, le schede informative sui monumenti del centro storico,<br />

una web directory sui siti internet e <strong>la</strong> programmazione degli eventi culturali, tra cui quelli ordinari e straordinari<br />

del Cinecircolo Romano, che rafforza così <strong>la</strong> propria presenza in internetTra le sezioni più interessanti, le<br />

schede informative sui monumenti del centro storico, una web directory sui siti in rafforza così <strong>la</strong> propria presenza<br />

in internet<br />

È stata stipu<strong>la</strong>ta il giorno 6/10/08 <strong>la</strong> convenzione tra UPTER - Università Popo<strong>la</strong>re di Roma e Cinecircolo<br />

Romano, ove visto che: entrambe le Organizzazioni hanno interesse a promuovere <strong>la</strong> cultura cinematografica<br />

presso i propri iscritti e più in generale presso <strong>la</strong> cittadinanza di Roma e condividono l’impegno a sostenere <strong>la</strong><br />

promozione reciproca e a sviluppare attività culturali comuni con specifiche forme di col<strong>la</strong>borazione. Le associazioni<br />

hanno convenuto di porre in essere una col<strong>la</strong>borazione che riguarderà in partico<strong>la</strong>re: Scambio<br />

Materiali Promozionali e Pubblicità reciproca; Eventi; Corsi Upter.<br />

2


DOSSIER<br />

ASSOCIAZIONE


<strong>IN</strong>VECE DI <strong>IN</strong>VESTIRE <strong>IN</strong> CULTURA SI TAGLIA!<br />

del Presidente Pietro Murchio<br />

Lo scenario tecnologico continua a cambiare, ma in<br />

Italia invece di investire in cultura si tagliano i fondi<br />

pubblici ad essa destinati!<br />

Le tecnologie digitali applicate al<strong>la</strong> proiezione dei<br />

film anche in sa<strong>la</strong> <strong>sono</strong> alle porte, in effetti il numero<br />

di impianti di proiezione digitale <strong>sono</strong> già alcune<br />

migliaia in piccole sale, non manca molto a che <strong>la</strong><br />

tecnologia consenta, a costi contenuti, <strong>la</strong> proiezione<br />

di qualità anche sui grandi schermi di film registrati<br />

in DVD invece che su pellico<strong>la</strong> a 35 mm.<br />

L’evoluzione avrà riflessi enormi sul sistema di distribuzione<br />

e sull’introduzione di nuove tecniche visive,<br />

infatti consentirà anche di vedere film con immagini<br />

in 3D ( tre dimensioni ). In attesa del<strong>la</strong> suddetta<br />

rivoluzione il mercato del cinema in Italia ha visto<br />

nei primi dieci mesi del <strong>2008</strong> un lieve calo al Box<br />

Office rispetto al 2007. Fortunatamente invece c’è<br />

stato un incremento del<strong>la</strong> quota di film Italiani che<br />

ha raggiunto un terzo del totale dei titoli. In realtà il<br />

fenomeno è meno positivo se si comparano i numeri<br />

degli spettatori, in quanto molti film italiani <strong>sono</strong><br />

destinati a rimanere “invisibili” sia perchè poco o<br />

mal distribuiti sia perchè parecchi di essi di qualità<br />

scarsa.<br />

Lo scenario normativo fa emergere il problema dei<br />

fondi per <strong>la</strong> cinematografia italiana: nel Piano del<strong>la</strong><br />

Finanziaria, nel trennio<strong>2009</strong>/2011, il Fondo Unico<br />

per lo Spettacolo diminuisce del 10-20 per cento. <strong>Per</strong><br />

le attività culturali è come per <strong>la</strong> Scuo<strong>la</strong> e<br />

l’Università, si taglia!<br />

Forse i politici che ci amministrano pensano che il<br />

sostegno pubblico sia un ostacolo al<strong>la</strong> libera impresa,<br />

<strong>la</strong> quale per obiettivo deve seguire le regole,<br />

spesso miopi, del mercato e quindi investe sul “sicuro”<br />

anche tentando di condizionare, tramite i palinsesti<br />

dei media televisivi, i criteri di scelta del pubblico!!<br />

Nel frattempo <strong>la</strong> ristrutturazione, iniziata con il<br />

ministero di Rutelli, delle aziende di Cinecittà è<br />

giunta a compimento portando al vertice Gaetano<br />

B<strong>la</strong>ndini come commissario/ amministratore unico<br />

di Cinecittà Holding e confermando Luciano Sovena<br />

al<strong>la</strong> guida dell’Istituto Luce per il quale è stata focalizzata<br />

<strong>la</strong> missione sulle opere prime, seconde e le<br />

sperimentazioni: riteniamo che ciò possa giovare se<br />

ci sarà il tempo per portare a termine <strong>la</strong> riorganizzazione!<br />

Scendendo dal generale al nostro partico<strong>la</strong>re segnalo<br />

che il consiglio di presidenza si è adoperato per attivare<br />

nuove importanti col<strong>la</strong>borazioni come ad esempio<br />

<strong>la</strong> convenzione con il Festival del Cinema di<br />

Roma, che ha consentito di ottenere uno sconto per<br />

i Soci del 15% sul prezzo dei biglietti.<br />

Inoltre, con riflessi di più ampio respiro, è stata stipu<strong>la</strong>ta<br />

recentemente una convenzione con l’UPTER<br />

4<br />

- Università Popo<strong>la</strong>re di Roma. Infatti entrambe le<br />

Organizzazioni hanno interesse a promuovere <strong>la</strong> cultura<br />

cinematografica presso i propri iscritti e più in<br />

generale presso <strong>la</strong> cittadinanza di Roma e condividono<br />

l’impegno a sostenere <strong>la</strong> promozione reciproca<br />

e a sviluppare attività culturali comuni con specifiche<br />

forme di col<strong>la</strong>borazione. Nel contempo verranno<br />

poste allo studio forme di agevo<strong>la</strong>zione economica<br />

per l’adesione associativa reciproca.<br />

Queste col<strong>la</strong>borazioni hanno tra l’altro il merito di<br />

farci conoscere da un più vasto pubblico creando<br />

quindi i presupposti per l’ampliamento delle adesioni<br />

associative. Infatti continua a ca<strong>la</strong>re il numero dei<br />

soci, cioè <strong>sono</strong> di più soci che non rinnovano di quelli<br />

nuovi, ma quali <strong>sono</strong> le cause? Esse a nostro avviso<br />

non <strong>sono</strong> dovute al<strong>la</strong> qualità dei servizi offerti ma<br />

presumibilmente dipendono da: l’evoluzione sfavorevole<br />

del modello di frequentazione del pubblico in<br />

sa<strong>la</strong>, <strong>la</strong> congiuntura economica che suggerisce alle<br />

persone di risparmiare anche sulle piccole spese,<br />

dal<strong>la</strong> situazione transitoria logistica -parcheggi<br />

intorno all’auditorio.<br />

Stiamo prendendo in considerazione dati e pareri e<br />

cercheremo di mettere in atto i rimedi al<strong>la</strong> nostra<br />

portata: uno di questi è sicuramente il più ovvio, sollecitare<br />

i soci a fare proselitismo.<br />

Il conto economico negativo impone <strong>la</strong> ricerca di<br />

ulteriori fonti di finanziamento oltre quelle da quote<br />

sociali e ci stiamo impegnando a presentare istanze<br />

di contributo a vari enti, tra i quali <strong>la</strong> Regione Lazio<br />

dal<strong>la</strong> quale ci attendiamo un benestare, anche se ci<br />

rendiamo conto che <strong>la</strong> congiuntura economica non è<br />

favorevole alle sponsorizzazioni!<br />

Inoltre abbiamo completato l’istanza per ottenere il<br />

riconoscimento giuridico del<strong>la</strong> Associazione, il che<br />

ci dovrebbe consentire di fare appello ai soci e simpatizzanti<br />

affinché si ricordino del Cinecircolo<br />

Romano al momento di sottoscrivere l’opzione del<br />

5%° sul modello di dichiarazione IRPEF.<br />

È infine storia di ieri l’evento straordinario dell’inaugurazione<br />

dell’anno sociale, patrocinato dal<strong>la</strong><br />

Ambasciata Slovacca con <strong>la</strong> concessione di un originale<br />

concerto di musiche da film eseguito da <strong>due</strong><br />

bravissimi giovani artisti slovacchi.


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVAL<br />

Rubrica Festivaliera del Cinecircolo a cura di Pietro Murchio<br />

Che dire sul tema “ festival”? Troppi film per ogni festival, troppi festival in concorrenza per pochi film di qualita’.<br />

Questo è l’esito attuale, conseguente al<strong>la</strong> carenza di talenti che riempiano di contenuti validi le vetrine festivaliere.<br />

“Datemi una te<strong>la</strong> e vi dipingo il “cinema”, <strong>la</strong>sciando che l’inconscio si liberi e via….” cosi si è espresso Al Pacino<br />

al Festival di Roma durante il dibattito con il pubblico in occasione del<strong>la</strong> consegna del Marc’Aurelio d’oro al<strong>la</strong> carriera,quel<strong>la</strong><br />

di un grande talento. Se ce ne fossero tanti di questi artisti, i festival sarebbero veramente una festa per<br />

chi ama il cinema!<br />

FESTIVAL DI CANNES: al<strong>la</strong> Croisette <strong>la</strong> 61° edizione ha visto buoni risultati per il cinema italiano. Infatti<br />

Gomorra di Garrone ed il Divo di Sorrentino <strong>sono</strong> stati premiati e <strong>la</strong> giuria ha scelto per <strong>la</strong> Palma d’Oro un ottimo<br />

film francese “ La c<strong>la</strong>sse ”- Entre les murs - (in programma al Cinecircolo nei giorni 12 e 13 marzo <strong>2009</strong>).<br />

FESTIVAL VENEZIA: con i soliti problemi organizzativi il festival è stato impreziosito da qualche buon film fuori<br />

concorso (Burn after reading), meno apprezzabile il <strong>la</strong>voro del<strong>la</strong> giuria che ha scambiato il leone (Wrestler con<br />

Mickey Rourke) con <strong>la</strong> volpe (Silvio Or<strong>la</strong>ndo nel Il papà di Giovanna di Pupi Avati). Bene il film opera prima del<br />

non più giovane Di Gregorio “ Pranzo di ferragosto” giustamente premiato, mentre è stato ignorato “Il giorno perfetto”<br />

di Ferzan Ozpetek, buono ma drammaticamente noioso.<br />

FESTIVAL DI ROMA, che ha seguito a ruota Venezia e Toronto ha “pagato” una offerta debole sul piano qualitativo<br />

con pochissimi film americani e troppi italiani in concorso, scelti in modo discutibile; come si fa ad includere in<br />

concorso film come quello sul<strong>la</strong> saga dei De Sica- buono per concludere una retrospettiva – e quello sulle vicende<br />

delle tre sgallettate di “Un gioco da ragazze”, <strong>la</strong>sciando fuori “Si può fare” film intelligente e divertente di Giulio<br />

Manfredonia! Parecchie <strong>la</strong>mentele per il sistema usato per <strong>la</strong> distribuzione dei biglietti agli accreditati che ci dicono<br />

simile a quello di Berlino, ma ci si scorda che anche un buon criterio si vanifica usando parametri sbal<strong>la</strong>ti, come ad<br />

esempio i troppi posti riservati a priori per gli sponsors, parecchi dei quali disertano poi le proiezioni.<br />

Al<strong>la</strong> cerimonia di premiazione i vari politici al microfono hanno rivendicato (sic!)una crescita generalizzata di presenze,<br />

accreditati e di tasso di occupazione delle sale. Complessivamente c’è da riconoscere che <strong>la</strong> direzione di Rondi<br />

sembra aver semplificato <strong>la</strong> macchina organizzativa e nonostante l’inclemenza delle condizioni meteorologiche, gli<br />

eventi si <strong>sono</strong> succeduti con più sobrietà, anche se tutte le proiezioni delle prime hanno registrato insopportabili attese.<br />

La premiazione, cerimonia non noiosa con premiati condivisibili, è stata impreziosita dal<strong>la</strong> consegna a Gina<br />

Lollobrigida del Marc’Aurelio d’oro al<strong>la</strong> carriera, <strong>la</strong> quale dopo aver dominato il set per anni si è dedicata con successo<br />

al<strong>la</strong> fotografia, scultura e testimonianza sociale: proprio un talento straordinario di cui andare fieri!<br />

Nel<strong>la</strong> foto di Mauro Crinel<strong>la</strong> il cast del film diretto da Giulio Manfredonia dal titolo “Si può fare”.<br />

5


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

61 a MOSTRA DEL C<strong>IN</strong>EMA DI CANNES <strong>2008</strong><br />

Il 61° Festival di Cannes sarà ricordato, soprattutto<br />

nel nostro paese, come <strong>la</strong> rivincita del cinema italiano.<br />

Assente totalmente o quasi nel<strong>la</strong> precedente edizione,<br />

lo scorso anno <strong>la</strong> stampa nazionale era sul<strong>la</strong><br />

Croisette per seppellirlo, mentre oggi è lì per lodarlo.<br />

C’è chi ne approfitta per accusare i detrattori dello<br />

scorso anno, ma cautamente bisognerebbe gridare<br />

al<strong>la</strong> sua resurrezione. Il cinema italiano non è mai<br />

morto e quindi non è mai risorto; piuttosto vale <strong>la</strong><br />

pena soffermarsi sul<strong>la</strong> considerazione che ancora una<br />

volta il cinema italiano che convince è il cinema che<br />

par<strong>la</strong> di oggi, dei nostri giorni, del<strong>la</strong> nostra storia e<br />

che trova nel<strong>la</strong> realtà storie di ampio respiro che, proprio<br />

per questo, interessano non solo il nostro ombelico,<br />

ma anche il pubblico internazionale.<br />

La 61° edizione del festival del cinema di Cannes è<br />

stata testimone e madrina di una splendida <strong>stagione</strong><br />

per il cinema italiano ed ha avuto il merito di riconoscere<br />

ed aggiudicarsi <strong>due</strong> delle migliori opere di quest’anno:<br />

“Gomorra” di Matteo Garrone e “Il Divo” di<br />

Paolo Sorrentino. Non solo li ha tenuti a battesimo,<br />

ma <strong>la</strong> giuria presieduta dall’attore e regista Sean<br />

Penn, ha anche riconosciuto i meriti di entrambi,<br />

assegnando al primo “Il Gran Prix” e al secondo<br />

“Prix du Juri”. Forse il successo dei <strong>due</strong> film italiani<br />

in concorso ha avuto come prezzo il mancato riconoscimento<br />

come migliore attore per Toni Servillo,<br />

visto che questo premio è andato al Benicio Del Toro,<br />

per <strong>la</strong> sua interpretazione di Che Guevara ne film di<br />

Soderbergh “Che”, per molti prova meno convincente<br />

rispetto al nostro Servillo. Sempre in America<br />

Latina rimane il riconoscimento per <strong>la</strong> migliore attrice,<br />

assegnata a Sandra Corveloni per il film “Linha<br />

de passe” di Walter Salles e Danie<strong>la</strong> Thomas.<br />

Il 61° Festival di Cannes verrà anche ricordato come<br />

il ritorno del<strong>la</strong> Palma d’Oro in patria dopo più di vent’anni,<br />

con il premio assegnato al film “Entre les<br />

Murs”, il falso documentario di Laurent Cantent,<br />

accolto da un notevole successo al<strong>la</strong> proiezione dell’ultimo<br />

giorno e da un verdetto unanime da parte<br />

del<strong>la</strong> giuria. Le premesse del presidente del<strong>la</strong> giuria<br />

La rivincita sul<strong>la</strong> Croisette di Pao<strong>la</strong> Dell’Uomo<br />

6<br />

Sean Penn <strong>sono</strong> state mantenute, privilegiando tematiche<br />

di cronaca odierna per i <strong>due</strong> premi ai film italiani<br />

e riconoscendo il premio principale ad un film<br />

che vuole rappresentare, entro le mura di una c<strong>la</strong>sse<br />

sco<strong>la</strong>stica come su un palcoscenico, i contrasti e i<br />

conflitti del<strong>la</strong> società francese di oggi.<br />

Il premio per <strong>la</strong> miglior regia al turco Nuri Bilge<br />

Ceylon per “Three Monkey” e quello al<strong>la</strong> miglior<br />

sceneggiatura ai fratelli Dardenne per “Le silence de<br />

Lorna”, <strong>sono</strong> un riconoscimento all’arte cinematografica<br />

pura. Mentre suscitano perplessità i <strong>due</strong> premi<br />

speciali “inventati” dal<strong>la</strong> giuria per Clint Eastwood,<br />

che per l’ennesima volta va via senza un premio ufficiale,<br />

e per Catherine Deneuve, per <strong>la</strong> sua interpretazione<br />

di madre nel film di Desplechin, “Un conte de<br />

Noël”.<br />

La Croisette ha visto sfi<strong>la</strong>re anche i miti del cinema<br />

internazionale, con il ritorno dell’impareggiabile<br />

Indiana Jones, perduto nei meandri del<strong>la</strong> nostra adolescenza<br />

e ritrovato un po’ imborsito ed un po’ invecchiato;<br />

o con l’immancabile Woody Allen, sempre<br />

fedele alle aspettative con il suo “Vicky, Cristina,<br />

Barcelona”, mentre delude Wim Wenders con il suo<br />

“Palermo Shooting”; o con <strong>la</strong> improbabile coppia<br />

Emir Kusturica e Diego Maradona, con il film documento<br />

sul<strong>la</strong> vita del fenomeno del calcio.<br />

Rimane quasi come rumore di sottofondo, <strong>la</strong> polemica<br />

sull’opportunità di mostrare all’estero i “problemi”<br />

nostrani, come volere rappresentare il peggio del<br />

nostro “Bel Paese”, apparsi su alcuni quotidiani in<br />

concomitanza con le presentazioni dei <strong>due</strong> film italiani<br />

al<strong>la</strong> manifestazione cinematografica con più<br />

ampio visibilità all’estero. La polemica non ha ragione<br />

di essere visto il successo che le <strong>due</strong> pellicole<br />

hanno ricevuto non solo nell’ambito del<strong>la</strong> manifestazione,<br />

ma anche successivamente da parte del pubblico<br />

straniero. Rumori di fondo rimangono, dopo <strong>la</strong><br />

notizia del<strong>la</strong> scelta di “Gomorra” come <strong>la</strong> pellico<strong>la</strong><br />

che rappresenterà l’Italia per <strong>la</strong> candidatura al<strong>la</strong><br />

nominations degli Oscar. Rumori di fondo, “Rumori<br />

fuori scena”.<br />

VENEZIA 65 a MOSTRA <strong>IN</strong>TERNAZIONALE D’ARTE C<strong>IN</strong>EMATOGRAFICA<br />

A lungo si discuterà sul<strong>la</strong> 65° edizione del<strong>la</strong> Mostra<br />

internazionale di Venezia. A lungo ci si chiederà se <strong>la</strong><br />

direzione di Marco Müller è stata vincente anche per<br />

questa volta. La paro<strong>la</strong> “vincente” è stata <strong>la</strong> chiave di<br />

volta di tutta <strong>la</strong> mostra, più che mai per quelli che<br />

<strong>sono</strong> stati i premiati.<br />

Il Leone d’Oro è andato all’ultimo film proiettato in<br />

Vinti e vincitori di Pao<strong>la</strong> Dell’Uomo<br />

concorso che, come per Cannes, ha folgorato <strong>la</strong> giuria:<br />

“The Wrestler” di Darren Aronofsky. Film outsider<br />

ha incarnato il tema principale del festival; con <strong>la</strong><br />

sua faccia, il protagonista Mikey Rourke, praticamente<br />

irriconoscibile pensando al seduttore di venti<br />

anni fa di “Nove settimane e mezzo”, ha portato sul<br />

tappeto rosso <strong>la</strong> storia, vissuta forse anche in prima


persona, di chi, toccato il fondo dopo il successo,<br />

riesce a portare a termine <strong>la</strong> sua sfida con <strong>la</strong> vita.<br />

<strong>Per</strong>sone e personaggi vinti, ma non sconfitti, come ha<br />

definito i suoi personaggi Silvio Or<strong>la</strong>ndo, che quest’anno<br />

ha avuto il suo riconoscimento più bello, <strong>la</strong><br />

Coppa Volpi. Nel<strong>la</strong> sua interpretazione di Michele,<br />

nel film di Pupi Avati “Il papà di Giovanna”, ha convinto<br />

<strong>la</strong> giuria e sicuramente tutto il pubblico di<br />

addetti ai <strong>la</strong>vori e non.<br />

Vincente ne esce sicuramente il cinema italiano, già<br />

vincitore annunciato solo per <strong>la</strong> presenza di ben tre<br />

pellicole in concorso, annunciate come di ottima qualità.<br />

Oltre a Pupi Avati, erano in concorso l’attesissimo<br />

“Un giorno perfetto” di Ferzan Özpetek, e “Il<br />

seme del<strong>la</strong> discordia” di Pappi Corsicato. E se il riconoscimenti<br />

più ambito non è arrivato, certamente<br />

queste pellicole <strong>sono</strong> state tra le più acc<strong>la</strong>mate. Non<br />

solo, ma un riconoscimento importante è arrivato al<br />

freschissimo “Il pranzo di Ferragosto” dell’esordiente<br />

al<strong>la</strong> regia, Gianni Di Gregorio, premiato nel<strong>la</strong><br />

sezione “La settimana del<strong>la</strong> critica” e numerose <strong>sono</strong><br />

state le lodi per “Pa.ra.da” di Marco Pontecorvo,<br />

nel<strong>la</strong> sezione “Orizzonti”.<br />

7<br />

PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

La 65° Mostra di Venezia può essere annoverata nel<strong>la</strong><br />

schiera dei vinti o dei vincitori? Questa edizione non<br />

verrà ricordata per l’ottimo livello generale delle<br />

opere presentate nelle sezioni ufficiali. Nessuno ha<br />

gridato al capo<strong>la</strong>voro e molti aspettative sui partecipanti<br />

<strong>sono</strong> state deluse.<br />

Certo è che le sezioni minori hanno fatto vedere<br />

molto di nuovo, da “Kabuly Kid” del regista iraniano<br />

Barmak Akram, splendido ritratto di una città ferita<br />

dal<strong>la</strong> guerra, all’esi<strong>la</strong>rante sorpresa del malese,<br />

$e11.Ou7!, primo lungometraggio di Yeo Joonhan,<br />

già premiato a Venezia con un suo corto nelle edizioni<br />

precedenti. Tutti film che non avremo <strong>la</strong> possibilità<br />

di vedere nelle sale, ma che, a mio avviso <strong>sono</strong><br />

state le cose migliori viste in questa edizione.<br />

Vincitori definitivi quindi i selezionatori delle sezioni<br />

minori, dal<strong>la</strong> Sezione “Le giornate del<strong>la</strong> critica”,<br />

al<strong>la</strong> Sezione “Orizzonti”, segno che ancora c’è tanto<br />

cinema da scoprire, al di là delle logiche delle grandi<br />

distribuzioni o del potere delle major. Segno che c’è<br />

ancora tanta creatività da fare emergere, nonostante<br />

le logiche delle grandi case di distribuzione e del<br />

potere delle major.<br />

Il ruggito del leone è stato un po’ rauco di Laura Ferretti & Catello Masullo<br />

La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di<br />

Venezia, il festival di cinema più antico del mondo,<br />

arrivata al<strong>la</strong> sua 65-esima edizione, ha avuto nel <strong>2008</strong><br />

una edizione un po’ sottotono. La partenza bruciante<br />

con l’ennesimo capo<strong>la</strong>voro dei fratelli Coen ed il<br />

semi-acuto finale di “The Wrestler”, che ha afferrato<br />

in extremis il massimo alloro, non hanno potuto<br />

infatti riscattare una programmazione un po’ deludente.<br />

Specie per quanto attiene al concorso. Leone<br />

d’oro attribuito al citato “The Wrestler” di Darren<br />

Aronofsky, con un grande ritorno di Mickey Rourke.<br />

Leone d’argento a “Paper Soldier”, del russo Aleksei<br />

German, che fornisce uno spaccato originale, critico<br />

e attento del<strong>la</strong> unione Sovietica che cercava di uscire<br />

dalle efferatezze staliniane e si poneva obiettivi<br />

ambiziosi e grandiosi, come <strong>la</strong> conquista dello spazio,<br />

con un linguaggio originale, autoriale, personale.<br />

La Coppa Volpi per <strong>la</strong> migliore attrice è andata a<br />

Dominique B<strong>la</strong>nc, protagonista di “L’autre” film<br />

peraltro non riuscitissimo di Bernard e Trividic.<br />

Quel<strong>la</strong> per il miglior attore è andata ad un grande<br />

Silvio Or<strong>la</strong>ndo, per <strong>la</strong> magistrale interpretazione ne<br />

“Il papà di Giovanna”, di Pupi Avati. Meritato il<br />

Premio Speciale del<strong>la</strong> Giuria a “Teza” dell’etiope<br />

Haile Gerima. Film di grande intensità epica ed emotiva.<br />

Nobilitato da un linguaggio poetico, suggestivo<br />

ed innovativo. Un Leone Speciale è stato attribuito<br />

per l’insieme dell’opera a Werner Schroeter, che si è<br />

presentato al Lido certamente non con <strong>la</strong> sua opera<br />

migliore: “Nuit de chien”. Il Premio per l’Opera<br />

Prima è andato a “Pranzo di ferragosto”, vero film<br />

rive<strong>la</strong>zione di questa edizione. Felicissimo esordio<br />

nel lungometraggio di Gianni Di Gregorio, quasi 60enne,<br />

aiuto regista di Matteo Garrone per “Estate<br />

Romana”, “L’imbalsamatore” e “Primo Amore”,<br />

nonché co-sceneggiatore di “Gomorra”. Gianni Di<br />

Gregorio oltre a scrivere e a dirigere il film, ne è<br />

anche interprete principale. Il Premio Mastroianni<br />

per l’attore/attrice emergente è andato a Jennifer<br />

Lawrence per lo struggente ed intenso “The burning<br />

p<strong>la</strong>in”, opera prima del famoso sceneggiatore messicano<br />

Guillermo Arriaga. Non è certamente mancato<br />

del buon cinema in questa edizione <strong>2008</strong> di Venezia.<br />

Si è già accennato all’eccellente film di apertura,<br />

“Burn After Reading”, di Ethan e Joel Coen, i quali,<br />

irriverenti, sardonici, semplicemente unici, rappresentano<br />

una assoluta garanzia di qualità, originalità,<br />

eccellenza. E non possiamo non fare menzione per<br />

quello che è il nostro Leone d’oro: “Ponyo sopra il<br />

dirupo”, del 67-enne maestro giapponese del<strong>la</strong> animazione,<br />

Hayao Miyazaki, che costruisce un nuovo<br />

capo<strong>la</strong>voro. Visionario, coloratissimo, caleidoscopico.<br />

Jonathan Demme, al suo 40-esimo anno di attività<br />

da regista, autore di successi c<strong>la</strong>morosi, come “Il<br />

silenzio degli innocenti”, vincitore di 5 premi Oscar,<br />

e tanti altri che gli hanno visto attribuire numerosissimi<br />

allori e ben 20 nominations agli Oscar, ha portato<br />

al<strong>la</strong> mostra il suo “Rachel getting married”. Un<br />

film dalle atmosfere bergmaniane, sincero, intenso,<br />

struggente. La rappresentanza italiana al<strong>la</strong> Mostra


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

non ha sfigurato. “Il papà di Giovanna”, di Pupi Avati<br />

è una storia di profonda, intensa umanità. Con straordinarie<br />

interpretazioni. Di altissimo livello. Su tutte<br />

l’ennesima super<strong>la</strong>tiva prova del<strong>la</strong> giovanissima e<br />

bravissima Alba Rohrwacher e quel<strong>la</strong> del fantastico<br />

Silvio Or<strong>la</strong>ndo. Tratto dal romanzo omonimo di<br />

Me<strong>la</strong>nia Mazzucco (ed. Rizzoli, 2005), il nuovo film<br />

di Ferzan Ozpetek, “Un giorno <strong>Per</strong>fetto”, centra<br />

ancora un volta l’obiettivo. Il regista italo-turco è<br />

ormai una certezza: sa toccare le corde dell’anima<br />

come pochi. Maggiore fortuna avrebbe meritato “La<br />

terra degli uomini rossi – Birdwatchers” di Marco<br />

Bechis, che continua, con sempre maggiore incisività,<br />

<strong>la</strong> sua missione di cinema militante. Il suo film<br />

suona come una denuncia alta e forte del genocidio di<br />

fatto di cui <strong>sono</strong> vittima gli indios brasiliani.<br />

Bentornati, ben arrivati al Lido.<br />

Anche quest’ anno l’atmosfera ci avvolge.<br />

Il tempo di disfare i bagagli e siamo già al Pa<strong>la</strong>zzo<br />

del Casinò per ritirare gli accrediti, e poi via a curiosare<br />

tra il red carpet e gli stand del<strong>la</strong> mostra.<br />

Ci accorgiamo che poco è cambiato dall’anno precedente,<br />

<strong>la</strong> cosa ci rassicura, ci tranquillizza, sappiano<br />

esattamente come muoverci, abbiamo i nostri punti<br />

certi:<br />

Saranno assicurate anche quest’anno le interminabili<br />

file e i famigerati controlli?<br />

Ci sarà <strong>la</strong> solita disputa sul<strong>la</strong> forma delle borse da<br />

poter portare in sa<strong>la</strong>?<br />

Ci saranno le inutili file davanti al<strong>la</strong> Volpi e al<strong>la</strong><br />

Zorzi, per poi sentirsi dire che i posti in sa<strong>la</strong> <strong>sono</strong><br />

esauriti?<br />

8<br />

Andrebbe proiettato nelle scuole superiori. Ma i colori<br />

italiani non <strong>sono</strong> stati tenuti in alto solo dai campioni<br />

in gara. Grande vivacità, al limite del<strong>la</strong> rive<strong>la</strong>zione,<br />

hanno mostrato autori giovani, al loro esordio,<br />

che <strong>sono</strong> sbarcati al Lido senza timori reverenziali:<br />

“PA-RA-DA” di Marco Pontecorvo, “Machan” di<br />

Uberto Pasolini, “Pinuccio Lovero – Sogno di una<br />

morte di mezza estate” di Pippo Mezzapesa. Ancora<br />

una volta Venezia dona le migliori perle al programma<br />

del Cineromano con “Il papà di Giovanna”,<br />

“Rachel getting married”, “Burn After Reading”,<br />

“Non pensarci” ed “Il treno per Darjeeling. E, sicuramente,<br />

alcune opere prime presentate al Lido saranno<br />

selezionate per il nostro fiore all’occhiello: “Il<br />

Premio Cinema Giovane”.<br />

SEDUTI SUL RED CARPET (n.d.r.: con occhio critico e facendo un po’ di ironia...)<br />

Testo e foto di Laura Ferretti (www.ilpareredellingegnere.it)<br />

La nuova scenografia di Dante Ferretti per <strong>la</strong> 65^ Mostra<br />

Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia<br />

E gli assistenti in sa<strong>la</strong>, saranno sempre solerti nel pretendere<br />

che si <strong>la</strong>sci <strong>la</strong> sa<strong>la</strong> prima del<strong>la</strong> fine dei titoli<br />

di coda? (A nul<strong>la</strong> <strong>sono</strong> servite, gli scorsi anni, le<br />

rimostranze per far capire che un film è finito quando<br />

sullo schermo compare <strong>la</strong> scritta F<strong>IN</strong>E).<br />

Anche <strong>la</strong> scenografia del Pa<strong>la</strong>zzo del Cinema ci rassicura,<br />

come ogni anno.<br />

Abbiamo visto eserciti di Leoni d’Oro, schiere di<br />

“sederi” dei Leoni d’Oro, sfere nere, quest’anno<br />

abbiamo Leoni che giocano a nascondino: Dante<br />

Ferretti ci assicura che <strong>sono</strong> leoni che “sfondano” e<br />

vanno verso il nuovo pa<strong>la</strong>zzo del cinema…che sorgerà<br />

nell’attuale area Eventi del “Movie Vil<strong>la</strong>ge”.<br />

Sotto il tendone dell’area Eventi è stata infatti posata<br />

<strong>la</strong> prima pietra del Nuovo Pa<strong>la</strong>zzo del Cinema e dei<br />

Congressi di Venezia, che dovrà essere ultimato<br />

in concomitanza dell’anniversario dei<br />

150 anni dell’Unità d’Italia, nel 2011.<br />

Siamo qui, anche quest’anno, per scoprire<br />

cosa c’è dietro <strong>la</strong> macchina del festival, per<br />

curiosare nelle sale, fuori mentre si fa <strong>la</strong> fi<strong>la</strong>,<br />

per strada, tra gli stand e sul red<br />

carpet…ovviamente rosso!<br />

E proprio passeggiando lungo il Red Carpet<br />

siamo accolti dal<strong>la</strong> solita ressa di fotografi e<br />

neofiti arrampicati su scalette, fioriere, impalcature,<br />

panchine per carpire un volto, un saluto<br />

dei loro beniamini: anche qui non è cambiato<br />

nul<strong>la</strong>.<br />

Nel<strong>la</strong> nuova area ristoro, notiamo nuovi<br />

stand: segnaliamo quello del “Progetto


Papillon”, vendita di prodotti confezionati dai detenuti<br />

delle carceri veneziane in col<strong>la</strong>borazione con <strong>la</strong><br />

Mostra del Cinema.<br />

Rifocil<strong>la</strong>ti e rassicurati dal<strong>la</strong> scarsa preparazione di<br />

parte del personale assunto per <strong>la</strong> manifestazione (lo<br />

scorso anno alcune assistenti dell’info point erano<br />

molto point e poco info), ci dirigiamo verso <strong>la</strong> sa<strong>la</strong><br />

stampa, al terzo piano del Casinò.<br />

Anche qui nul<strong>la</strong> di nuovo… postazioni computer già<br />

insufficienti dal primo giorno… e scarsità di sedie…<br />

perché non tutte<br />

le postazioni<br />

hanno <strong>la</strong> rispettiva<br />

sedia, tanto<br />

che, come in un<br />

film comico,<br />

non è raro vedere<br />

compassati<br />

giornalisti scrivere<br />

al computer<br />

seduti sulle<br />

proprie gambe!<br />

Anche questa<br />

disorganizzazione<br />

ci tranquillizza,<br />

non<br />

avremmo voluto<br />

che dopo ben 65 manifestazioni, qualcuno pensasse<br />

almeno di ipotizzare delle postazioni computer con<br />

re<strong>la</strong>tiva sedia!<br />

Incontriamo davanti al Pa<strong>la</strong>zzo del Cinema le vene-<br />

9<br />

PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

rande, e spumeggianti, interpreti de “Il pranzo di ferragosto”,<br />

di e con Gianni Di Gregorio: Marina<br />

Cacciotti (85 anni, nel<strong>la</strong> parte del<strong>la</strong> mamma dell’amministratore),<br />

Maria Calì (87 anni, nel<strong>la</strong> parte del<strong>la</strong><br />

zia dell’amministratore), Grazia Cesarini Sforza (90<br />

anni, nel<strong>la</strong> parte del<strong>la</strong> mamma del dottore) e Valeria<br />

de Franciscis Bendoni (93 anni, nel<strong>la</strong> parte del<strong>la</strong><br />

mamma del protagonista).<br />

Quest’anno <strong>la</strong> Mostra del Cinema festeggia <strong>la</strong> terza<br />

età con i 100 anni di Manoel de Oliveira, i 90 anni di<br />

Monicelli, gli over 70 Lauren Bacall, Ben Gazzara,<br />

Giuliano Gemma e Adriano Celentano: evviva le<br />

rughe! <strong>Per</strong>ché, come diceva <strong>la</strong> Magnani al trucco:<br />

“Non me le coprite! Ciò messo una vita per averle!”<br />

Allo stand “Ridateci i soldi” c’è <strong>la</strong> premiazione del<strong>la</strong><br />

migliore “stroncatura” del<strong>la</strong> 65^ Mostra<br />

Internazionale d’Arte Cinematografica.<br />

Presenti al<strong>la</strong> cerimonia Gianni Ippoliti, da 12 anni<br />

responsabile dello stand “Codacons-Ridateci i soldi”<br />

del<strong>la</strong> Mostra, Marco Muller e il Presidente Codacons<br />

Carlo Rienzi, in palio l’ambita Coppa Codacons, <strong>la</strong><br />

vignetta premiata è questa: il Leone impiccato con<br />

una pellico<strong>la</strong> cinematografica…<br />

E al<strong>la</strong> fine è arrivato anche il giorno del<strong>la</strong> partenza.<br />

Facciamo le valigie, senza dimenticare gli opuscoli e<br />

le riviste uscite in questi giorni in edizione straordinaria<br />

per il Festival. Sul traghetto ci concediamo un<br />

ultimo sguardo al Lido, con già in mente le emozioni<br />

e le sorprese del<strong>la</strong> prossima Mostra Internazionale<br />

d’Arte Cinematografica…<br />

FESTA <strong>IN</strong>TERNAZIONALE DEL C<strong>IN</strong>EMA DI ROMA<br />

Monica Bellucci Il cast del film “L’uomo che ama” diretto da Maria Sole Tognazzi.


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

LA TERZA EDIZIONE DEL FESTIVAL <strong>IN</strong>TERNAZIONALE DI ROMA <strong>2008</strong><br />

Un Tappeto Rosso bagnato è quello che è rimasto<br />

del<strong>la</strong> terza edizione del Festival Internazionale del<br />

Film di Roma. Una terza edizione molto diversa dalle<br />

precedenti, e non solo per il nome. Il nuovo direttore<br />

lo aveva annunciato: non più riflettori accesi su grandi<br />

star e anteprime internazionali, ma un festival più<br />

sobrio, tutto concentrato sul buon cinema. L’apertura<br />

ha rispettato le premesse, con l’incontro organizzato<br />

con il grande Al Pacino, premiato con il Marco<br />

Aurelio d’Oro in qualità di Presidente dell’Actor<br />

Stidio: un’ora di lezione di cinema e poco a che fare<br />

con il G<strong>la</strong>mour.<br />

Così come occasioni di lezioni di cinema <strong>sono</strong> stati<br />

gli incontri con altri grandi nomi, come David<br />

Cronenberg, Viggo Mortensen, Carlo Verdone Toni<br />

Servillo e Michael Cimino, che si <strong>sono</strong> svolti durante<br />

il festival.<br />

Poi però <strong>la</strong> mancanza di grandi star internazionali ha<br />

avuto le sue ripercussioni sulle presenze del pubblico.<br />

Più che per le presenza il Festival ha bril<strong>la</strong>to per<br />

le assenze. Basti pensare che l’evento di punta per gli<br />

organizzatori è stata <strong>la</strong> proiezione del film “High<br />

School Musical 3: Senior Year”.<br />

Una cosa che non è mancata <strong>sono</strong> state le polemiche:<br />

quelle che hanno preceduto l’apertura del festival,<br />

con una presunta esclusione all’ultimo momento del<br />

film sulle brigate rosse; quelle che hanno accompagnato<br />

<strong>la</strong> proiezione del film”Il Sangue dei vinti”, di<br />

Michele Soavi, ispirato al libro di Giampaolo Pansa,<br />

film escluso da Venezia ed inizialmente anche dal<br />

Festival di Roma, reinserito poi come Evento<br />

Speciale; quelle che hanno seguito <strong>la</strong> conferenza<br />

stampa dopo <strong>la</strong> proiezione del film di Giulio<br />

Manfredonia “Si può fare”, per l’inspiegabile esclusione<br />

dal concorso del<strong>la</strong> pellico<strong>la</strong> italiana più interessante<br />

che è stata vista al Festival.<br />

Quello che però c’è piaciuto molto di questo nuovo<br />

festival, come <strong>la</strong> solito, <strong>sono</strong> stati i film presentati<br />

nelle sezioni parallele: come $9.99 di Tatia<br />

Rosenthal, nel<strong>la</strong> sezione l’Altro Cinema, splendida<br />

pellico<strong>la</strong> animata in stop motion sul significato del<strong>la</strong><br />

vita; o “Summer”, di Kenneth Glenaan, nel<strong>la</strong> sezione<br />

“Alice nel<strong>la</strong> Città”, sul<strong>la</strong> dolorosa fatica del vivere in<br />

un Inghilterra sconfitta dal<strong>la</strong> recessione; o “The<br />

Home of the Dark Butterflies”, di Dome Karukoski,<br />

sempre nel<strong>la</strong> sezione “Alice nel<strong>la</strong> Città”, candidato<br />

all’Oscar <strong>2009</strong> come miglior film straniero; o l’esi<strong>la</strong>rante<br />

“Where in The World is Osama Bin Laden” di<br />

Morgan Spurlock, presentato nel<strong>la</strong> sezione “L’Altro<br />

Cinema”, un grande viaggio conoscitivo nel<strong>la</strong> terra<br />

del “nemico”; o l’originale fusione di commedia<br />

grottesca e horror del<strong>la</strong> coppia americana Jay e Mark<br />

Dup<strong>la</strong>ss, presentato sempre nel<strong>la</strong> sezione “L’Altro<br />

Tappeto rosso di Pao<strong>la</strong> Dell’Uomo<br />

10<br />

Cinema”. Ma su tutti ci ha entusiasmato il britannico<br />

“RocknRol<strong>la</strong>” di Guy Ritchie, Proiezione Speciale<br />

per i pochi che hanno avuto il coraggio di andarlo a<br />

vedere a mezzanotte e mezza, con il suo esi<strong>la</strong>rante<br />

intersecarsi delle storie di personaggi da B<strong>la</strong>ck commedy,<br />

condito con un ottima musica Rock.<br />

Si; più di tutto ci è piaciuto il cinema Inglese che in<br />

diversi generi e con diversi stili ha sempre convinto,<br />

divertito e, talvolta, sorpreso.<br />

Al Pacino<br />

Donatel<strong>la</strong> Finocchiaro


Giunta al<strong>la</strong> terza edizione, <strong>la</strong> manifestazione cinematografica<br />

del<strong>la</strong> capitale, ribattezzata da “Festa” a<br />

“Festival” dal neo-direttore Gian Luigi Rondi, è apparsa<br />

un po’ sotto tono rispetto alle <strong>due</strong> precedenti. Sconta<br />

probabilmente, come d’altra parte <strong>la</strong> Mostra di Venezia,<br />

il terremoto mondiale del settore conseguente allo sciopero<br />

degli sceneggiatori USA. Ma, con tutta probabilità,<br />

anche dell’inevitabile sbandamento dovuto al cambio<br />

di vertice conseguente al<strong>la</strong> elezione a sindaco di<br />

Alemanno che ha programmaticamente preteso una<br />

soluzione di continuità con <strong>la</strong> precedente gestione<br />

Veltroni-Bettini. Il giudizio sul<strong>la</strong> direzione del decano<br />

del cinema Rondi è da rimandare al<strong>la</strong> prossima edizione,<br />

avendone assunto le redini quando <strong>la</strong> quasi totalità<br />

delle scelte era stata già fatta dallo staff del<strong>la</strong> precedente<br />

gestione. Ma di certo è apparso subito sostanzialmente<br />

fallito l’obiettivo di fare del<strong>la</strong> kermesse una<br />

vetrina internazionale delle produzione cinematografica<br />

italiana. Se si voleva realizzare un match Italia contro<br />

tutti, è andata a finire come era facile prevedere:<br />

resto del mondo batte Italia <strong>due</strong> a zero. D’altra parte un<br />

festival internazionale che si rispetti, seleziona i film<br />

migliori disponibili in quel momento, indipendentemente<br />

dal<strong>la</strong> nazionalità. I film italiani in concorso<br />

hanno infatti sostanzialmente deluso. Sin dal film d’apertura,<br />

“L’Uomo che Ama”, di Maria Sole Tognazzi.<br />

Che, pur potendo contare su eccellenti interpretazioni,<br />

non ha lo spessore del film di apertura di un grande<br />

festival. Non del tutto convincenti anche “Il sangue dei<br />

vinti” di Michele Soavi, “Il passato è una terra straniera”<br />

di Daniele Vicari e “Ga<strong>la</strong>ntuomini” di Edoardo<br />

Winspeare, che ha però, meritatamente, conseguito l’unico<br />

alloro al cinema nostrano, il premio per migliore<br />

attrice a Donatel<strong>la</strong> Finocchiaro, veramente strepitosa.<br />

Qualcosa in più, almeno in termini di emozioni, ha<br />

saputo rega<strong>la</strong>re il film di chiusura, “L’Ultimo<br />

Pulcinel<strong>la</strong>”, intenso e crepusco<strong>la</strong>re, di Maurizio<br />

Scaparro, con un grande Massimo Ranieri.<br />

Paradossalmente, il miglior film italiano visto al festival,<br />

“Si può fare”, di Giulio Manfredonia, è stato posto<br />

dai selezionatori fuori concorso, per motivi del tutto<br />

incomprensibili. Si tratta infatti di un film divertentissimo.<br />

Con un grande ritmo da commedia bril<strong>la</strong>nte.<br />

Battute fulminanti, gag irresistibili. Ma anche con un<br />

sapiente dosaggio di momenti agro dolci, che affrontano<br />

temi alti, forti, ma trattati in modo lieve, che suscitano<br />

riflessione e discussione. I premi maggiori <strong>sono</strong><br />

andati a <strong>due</strong> film di guerra, sebbene di stile e linguaggi<br />

completamente diversi. Il Marco Aurelio d’oro attribuito<br />

dal pubblico, con votazione elettronica all’uscita<br />

dalle proiezioni (interessante e positiva novità di questa<br />

edizione), è andato a “Resolution 819”, co-produzione<br />

franco-po<strong>la</strong>cca-italiana, di Giacomo Battiato. Una ricostruzione<br />

toccante e vibrante di una delle più terrificanti<br />

efferatezze avvenute di recente alle nostre porte, l’eccidio<br />

di Srebrenica che ha visto <strong>la</strong> brutale uccisione,<br />

con occultamenti di cadaveri, di 8.000 civili musulma-<br />

UNO SGUARDO CRITICO AI FILM<br />

a cura di Laura Ferretti & Catello Masullo<br />

11<br />

PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

ni da parte delle truppe serbe. Il Marco Aurelio d’oro<br />

del<strong>la</strong> critica è andato invece a “Opium War”, dell’afgano<br />

Siddik Barmak, di co-produzione afgana, giapponese,<br />

coreana e francese. Film d’autore, rigoroso, antispettaco<strong>la</strong>re,<br />

che offre uno spaccato inedito delle remote<br />

regioni del martoriato Afganistan e volti indimenticabili,<br />

da copertina del National Geographic. Il premio<br />

per miglior attore è andato a Bohdan Stupka, protagonista<br />

di “Il cuore in mano”, sorprendente commedia<br />

bril<strong>la</strong>nte di Krzysztof Zanussi. Le scelte effettuate dalle<br />

giurie dei giovanissimi per i film del<strong>la</strong> sezione Alice,<br />

uno dei fiori all’occhiello del Festival di Roma, <strong>sono</strong><br />

state ancora una volta ocu<strong>la</strong>tissime e competenti. I<br />

bambini di età compresa tra 8 e 12 anni hanno premiato<br />

il franco-belga-canadese “Magique!”, di Philippe<br />

Muyl, tenero, toccante e, per l’appunto, “magico” film<br />

per piccini e per adulti. I ragazzi di 13-17 anni hanno<br />

premiato l’inglese “Summer”, di Kenneth Glenaan,<br />

film splendido, intenso, toccante. Come in ogni festival<br />

che si rispetti, non <strong>sono</strong> mancati i buoni film. Ci piace<br />

segna<strong>la</strong>re il film ad episodi, di grande spessore morale<br />

ed impegno civile “8”, sugli otto obiettivi del Millennio<br />

(di Wim Wenders, Mira Nair, Gabriel Garcia Bernal,<br />

Jane Campion, Gaspar Noé, Jan Kounen,<br />

Abderrahmane Sissako, Gus van Sant), <strong>la</strong> gustosa commedia<br />

francese “Parlez-moi de <strong>la</strong> pluie” di Agnès Jaoui,<br />

il sontuoso “The Duchess” di Saul Dibb, il poderoso<br />

“La banda Baader Meinhof” di Uli Edel, e ancora i <strong>due</strong><br />

film che hanno meritato una menzione speciale, il<br />

multi-etnico, almodovariano “Aide-toi et le ciel t’aidera”<br />

di Francois Dupeyron (vincitore anche del premio<br />

“Farfal<strong>la</strong> d’oro Agiscuo<strong>la</strong>”) ed il visionario, estetizzante<br />

“A corte do norte” del portoghese Joao Botelho. Ma<br />

<strong>due</strong> <strong>sono</strong> stati gli acuti, che hanno sfiorato il capo<strong>la</strong>voro<br />

assoluto, pur non ricevendo, inspiegabilmente, alcun<br />

premio né menzione. Il primo è “Appaloosa” di Ed<br />

Harris, western c<strong>la</strong>ssico, ma con linguaggio moderno,<br />

con dialoghi spassosissimi (mai riso così tanto per un<br />

western), cura maniacale dei dettagli, interpretazioni<br />

strepitose, a cominciare dallo stesso autore Ed Harris,<br />

misurato, ironico, impagabile, un ennesimo capo<strong>la</strong>voro<br />

<strong>la</strong> recitazione di Viggo Mortensen, re del<strong>la</strong> sottrazione,<br />

una gustosamente darwiniana prova di Renée<br />

Zellweger, un grande il vi<strong>la</strong>in di Jeremy Irons. Il<br />

Secondo è “Easy Virtue”, di Stephan Elliott, trasposizione<br />

cinematografica dell’opera teatrale omonima di<br />

Noel Coward, scritta nel 1924, quando l’autore aveva<br />

solo 23 anni. Bril<strong>la</strong>nte, scoppiettante, spumeggiante.<br />

Dialoghi affi<strong>la</strong>tissimi. Battute fulminanti. Sitcom esi<strong>la</strong>ranti.<br />

Sarcastico, graffiante, dissacrante, a tratti deliziosamente<br />

irriverente. Godibilissimo. Con una confezione<br />

impeccabile ed attori strepitosi. Ed il Cinecircolo<br />

Romano, nel<strong>la</strong> sua costante ricerca del<strong>la</strong> alta qualità<br />

cinematografica, non poteva farsi sfuggire queste <strong>due</strong><br />

perle, che saranno i <strong>due</strong> film di programma <strong>2008</strong>-<strong>2009</strong><br />

provenienti dal Festival di Roma, e saranno proiettati il<br />

21 e 22 maggio ed il 4 e 5 giugno <strong>2009</strong>.


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

Andrea Mo<strong>la</strong>ioli (La ragazza del <strong>la</strong>go), Fausto Brizzi<br />

(campione uscente), Francesca Cima (per Apnea di<br />

Roberto Dordit).<br />

Giuseppe Battiston (La giusta distanza).<br />

Da sinistra: Murchio, Cima, Brizzi, Lodovini, Battiston,<br />

Mo<strong>la</strong>ioli, Co<strong>la</strong>ngeli.<br />

12<br />

Valentina Lodovini (La giusta distanza).<br />

Il pubblico in p<strong>la</strong>tea.


PREMIO C<strong>IN</strong>EMA GIOVANE - Quarta Edizione<br />

<strong>Per</strong> le opere prime del 2007 (21 opere)<strong>la</strong> manifestazione<br />

si è tenuta dal 31 marzo al 5 aprile <strong>2008</strong> con <strong>la</strong><br />

presentazione di 10 titoli del cinema giovane italiano<br />

su 20 proiezioni, con circa 9000 presenze in sa<strong>la</strong>.<br />

Il Premio Cinema Giovane <strong>2008</strong> è stato assegnato dal<br />

giudizio del pubblico a “La ragazza del Lago” di<br />

Andrea Mo<strong>la</strong>ioli. A consegnare i premi all’autore e a<br />

Francesca Cima, produttrice di “La ragazza del <strong>la</strong>go”<br />

e di “Apnea”, è stato chiamato Fausto Brizzi, vincitore<br />

del<strong>la</strong> passata edizione con “Notte prima degli<br />

esami”. I premi a miglior attrice giovane e miglior<br />

attore giovane <strong>sono</strong> stati attribuiti a Valentina<br />

Lodovini e a Giuseppe Battiston, entrambi per “La<br />

giusta distanza”.<br />

Targhe per “opera segna<strong>la</strong>ta” <strong>sono</strong> andati anche a<br />

13<br />

tutti i partecipanti al<strong>la</strong> competizione.<br />

La serata è stata impreziosita dal<strong>la</strong> presenza di tutti i<br />

registi ed attori candidati ed è stata presentata da<br />

Franco Mariotti responsabile del cerimoniale al<strong>la</strong><br />

Mostra del Cinema di Venezia.<br />

Il Forum sul “Cinema Giovane Italiano: segni di<br />

risveglio” ha coronato <strong>la</strong> settimana di cultura cinematografica<br />

con gli interventi di Elio Ghir<strong>la</strong>nda<br />

docente di cinema, Marco Simone Piccioni, regista,<br />

Enzo Natta, giornalista critico cinematografico,<br />

Pietro Murchio presidente del Cinecircolo Romano,<br />

Bruno Torri, docente di Cinema e Presidente del<br />

Sindacato Italiano Critici Cinematografici, Catello<br />

Masullo critico cinematografico.<br />

C<strong>IN</strong>EMA E CRITICA: UNA DIALETTICA COSTRUTTIVA<br />

Il cinema giovane italiano dà certamente segni di<br />

risveglio. Lo testimonia <strong>la</strong> buona qualità delle opere<br />

presenti nell’ultima Manifestazione Premio Cinema<br />

Giovane del Cinecircolo Romano, nelle quali si è<br />

potuto notare un riuscito tentativo di svinco<strong>la</strong>rsi dal<br />

genere “commedia”, caro al<strong>la</strong> nostra tradizione per<br />

avviare operazioni nuove con film di diverso genere:<br />

giallo, noir, thriller, biopic.<br />

In tutte le opere si è evidenziata un’attenzione partecipe<br />

verso i temi sociali più scottanti del<strong>la</strong> nostra<br />

società, quali l’immigrazione, l’integrazione, il <strong>la</strong>voro<br />

nero e il <strong>la</strong>voro precario, il divario tra le generazioni,<br />

non esclusi argomenti più strettamente privati<br />

ed esistenziali con riflessioni sul dolore, sul<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia,<br />

sul<strong>la</strong> morte, tutti temi ai quali lo specifico filmico<br />

ha rega<strong>la</strong>to suggestioni narrative e formali non<br />

banali.<br />

Queste tematiche entrano prepotentemente nel<strong>la</strong> storia<br />

dei nostri giovani cineasti (forse sarebbe meglio<br />

dire esordienti maturi) e non potrebbe essere altrimenti.<br />

Come i più attenti studiosi sanno, il cinema,<br />

arte tra le arti, non solo rappresenta il suo tempo, ma<br />

lo esprime. La distinzione è qualificante e ciò è dimostrato<br />

da tutta una serie di scelte narrative e stilistiche<br />

che, forse anche al di là del<strong>la</strong> consapevolezza degli<br />

autori, raccontano il disagio delle persone sia come<br />

individui che come cittadini nei confronti delle nuove<br />

realtà sociali.<br />

Quelli che abbiamo visto <strong>sono</strong> film intensi in cui i<br />

temi del<strong>la</strong> sofferenza, del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, dell’abbandono,<br />

dell’accoglienza, del<strong>la</strong> difficoltà di comunicazione<br />

<strong>sono</strong> trattati con profondità, finezza, originalità, nonché<br />

con elevata professionalità. <strong>Per</strong>sonalmente ho<br />

di Maria Teresa Raffaele<br />

trovato che sia i tre film in concorso, La ragazza del<br />

<strong>la</strong>go, L’aria sa<strong>la</strong>ta, Apnea, che altri del<strong>la</strong> rassegna,<br />

come Il vento fa il suo giro, Piano solo, La giusta<br />

distanza, siano contraddistinti da un humus comune<br />

che potrebbe far pensare all’affermazione di una<br />

“nouvelle vague” Italiana. Nel corso del Forum, tenutosi<br />

nell’ambito del<strong>la</strong> Manifestazione, oltre ad essere<br />

stati evidenziati gli annosi problemi dovuti al<strong>la</strong> distribuzione<br />

che non aiuta <strong>la</strong> nostra produzione, problema<br />

ampiamente noto, sempre dibattuto e mai<br />

risolto, evidentissimo anche ai non addetti ai <strong>la</strong>vori<br />

(un film come Apnea non può essere stampato in<br />

quattro copie e pretendere che abbia il suo ritorno<br />

economico!) è emersa pure <strong>la</strong> constatazione che, a<br />

differenza di quanto accaduto in passato, non si riesce<br />

a far nascere una nuova scuo<strong>la</strong> italiana. <strong>Per</strong> alcuni<br />

critici questa difficoltà imputabile ad un accentuato<br />

individualismo dei pur tanti talenti emergenti che<br />

però stentano a “fare gruppo” ed a <strong>la</strong>vorare quindi<br />

perché si imponga una maniera italiana nel cinema.<br />

Riflettendo su quest’ultima osservazione mi è sovvenuto<br />

come nell’arte italiana pochissimi movimenti,<br />

nel dopoguerra, siano stati capaci di imporsi travalicando<br />

i confini nazionali: cito i <strong>due</strong> più importanti, l’<br />

Arte Povera e <strong>la</strong> Transavanguardia, movimenti individuati,<br />

teorizzati, sostenuti da critici illuminati e pervicaci,<br />

come Germano Ce<strong>la</strong>nt e Achille Bonito Oliva<br />

che, individuati artisti omologhi, pur nelle loro in<br />

sovrapponibili individualità, hanno creato massa critica<br />

attorno a loro, rega<strong>la</strong>ndogli quel<strong>la</strong> identità culturale<br />

omogenea, probabilmente non percepita neanche<br />

dagli stessi singoli artisti. Mi chiedo perché per il<br />

Cinema non potrebbe succedere lo stesso.


PREMIO C<strong>IN</strong>EMA GIOVANE: UN APPUNTAMENTO<br />

DEL C<strong>IN</strong>EMA ITALIANO - Quinta Edizione<br />

A cura di Pietro Murchio e Francesco <strong>Per</strong>nette<br />

Manifestazione festivaliera con rassegna cinematografica<br />

celebrante il cinema giovane italiano.<br />

Conferisce un premio annuale al migliore autore di<br />

opere prime ed interpreti giovani del<strong>la</strong> recente <strong>stagione</strong><br />

cinematografica. La manifestazione è caratterizzata<br />

dal giudizio espresso dal pubblico di soci ed ospiti, con<br />

il coinvolgimento di numerosi giovani, dei “cineasti”<br />

protagonisti nonché delle risorse culturali del territorio<br />

a livello regionale.<br />

Qualora l’istanza di sponsorizzazione presentata<br />

all’assessorato al<strong>la</strong> cultura del<strong>la</strong> Regione Lazio venga<br />

accolta: al Festival farà immediato seguito, in provincia,<br />

una rassegna dei migliori film in concorso organizzata<br />

con <strong>la</strong> col<strong>la</strong>borazione del Comune di San<br />

Felice Circeo (LT).<br />

Si intende continuare <strong>la</strong> tradizione del “Festival”, che<br />

ha già ottenuto successo nelle precedenti edizioni,<br />

ampliando l’offerta culturale e <strong>la</strong> promozione territoriale,<br />

in modo da dare all’evento un più vasto respiro a<br />

livello regionale e nazionale.<br />

La manifestazione si svolgerà dal 30 marzo al 4 aprile<br />

<strong>2009</strong> presso l’Auditorio San Leone Magno di Via<br />

Bolzano 38 <strong>la</strong> cui sa<strong>la</strong> ospiterà le proiezioni cinematografiche,<br />

il Forum su “Il Cinema Giovane Italiano:<br />

segni di crescita” e <strong>la</strong> Premiazione.<br />

Contemporaneamente nell’elegante foyer si svolgerà<br />

una mostra d’arti figurative competitiva non commerciale.<br />

➣ Il processo di selezione e programma<br />

Una Commissione di esperti, appositamente nominata<br />

composta da membri altamente qualificati del mondo<br />

del<strong>la</strong> cultura e del<strong>la</strong> stampa cinematografica, effettua<br />

una selezione di film italiani opere prime, di genere fiction,<br />

distribuiti nel corso del <strong>2008</strong>. Ad oggi già 18 opere<br />

<strong>sono</strong> state censite e visionate.<br />

La Commissione, che prenderà in esame tutte le opere<br />

prime nominando tre film (nominations) entro gennaio<br />

<strong>2009</strong>, è così composta: dr.Pietro Murchio (direttore<br />

artistico), prof. Bruno Torri; dr. Enzo Natta, prof. Elio<br />

Gir<strong>la</strong>nda, dr. Alessandro Casanova, ing. Catello<br />

Masullo.<br />

<strong>Per</strong> <strong>la</strong> selezione dei migliori interpreti giovani <strong>la</strong> giuria<br />

si avvale anche del parere di <strong>due</strong> registi esperti.<br />

L’attrice e l’attore giovani da premiare verranno quindi<br />

selezionati direttamente da tutta <strong>la</strong> commissione entro<br />

febbraio <strong>2009</strong>.<br />

La rassegna finale del Festival si terrà presso<br />

l’Auditorio San Leone Magno in occasione del<strong>la</strong><br />

14<br />

annuale settimana culturale (30 marzo – 4 aprile <strong>2008</strong>).<br />

I tre film nominati verranno proiettati tre volte, in tre<br />

orari diversi (16.00, 18.30, 21,15) nei giorni 30 e 31<br />

marzo e 1 aprile <strong>2008</strong>, raccogliendo su apposita scheda<br />

i giudizi del pubblico spettatore e negli stessi giorni di<br />

mattina si terranno le proiezioni per i giovani studenti<br />

delle scuole del Comune. Durante <strong>la</strong> settimana culturale<br />

verranno proiettati anche altri 7 film selezionati dal<br />

Cinema Giovane Italiano.Complessivamente, nel<strong>la</strong> settimana,<br />

<strong>sono</strong> previste 16 (+3 mattutine per giovani studenti)<br />

proiezioni per un totale di circa 9000 presenze ad<br />

inviti gratuiti per i soci e per il pubblico ospite, come<br />

avvenuto nelle quattro precedenti edizioni. Il 3 aprile<br />

<strong>2009</strong> verrà effettuata <strong>la</strong> premiazione. I “Premi Cinema<br />

Giovane”, assegnati all’autore del<strong>la</strong> migliore opera<br />

prima ed ai migliori giovani interpreti, consisteranno in<br />

un oggetto di fattura originale appositamente inciso e<br />

personalizzato. La cerimonia sarà condotta dal cerimoniere<br />

del Festival di Venezia Franco Mariotti.<br />

➣ Pubblicità, Pubblicazioni e Promozione<br />

<strong>Per</strong> l’occasione <strong>la</strong> prestigiosa rivista del Cinecircolo<br />

“Qui Cinema” dedicherà un numero speciale al<strong>la</strong> manifestazione.<br />

Il Cinecircolo provvederà a divulgare <strong>la</strong><br />

notizia del<strong>la</strong> Manifestazione oltre che con locandine,<br />

depliants di programma ed inviti personalizzati: con<br />

comunicati al<strong>la</strong> stampa quotidiana, periodica, e ai<br />

media radio-televisivi, nonché alle Istituzioni<br />

Pubbliche e agli Enti Patrocinanti.<br />

Qualora <strong>la</strong> manifestazione venisse sponsorizzata dal<strong>la</strong><br />

Regione Lazio :<br />

• La manifestazione sarà preannunciata con apposita<br />

Conferenza Stampa da tenere o presso l’au<strong>la</strong> convegni<br />

del<strong>la</strong> Regione Lazio o presso i locali del<br />

Cinecircolo Romano, 5-10 giorni prima dell’inizio<br />

del<strong>la</strong> stessa .<br />

• <strong>Per</strong> <strong>la</strong> Rassegna post-festival in provincia (LT) “I<br />

Migliori del cinema giovane italiano <strong>2008</strong>”, verrà<br />

editata una locandina e un depliant che verranno distribuiti<br />

con l’ausilio dell’ufficio stampa del Comune<br />

di San Felice Circeo presso i Comuni limitrofi<br />

(Sabaudia, Terracina, Priverno). Anche il Comune di<br />

Priverno ha mostrato interesse e disponibilità all’evento,<br />

pertanto costituendo una valida alternativa<br />

per l’effettuazione del<strong>la</strong> rassegna succitata.<br />

• La notizia del<strong>la</strong> manifestazione verrà divulgata tramite<br />

Radio Cinema (ente col<strong>la</strong>borante) anche in<br />

appositi spazi radiofonici su rete nazionale,nonché<br />

su vari siti internet.


Durante <strong>la</strong> Settimana Culturale al Cinecircolo<br />

Romano Arte e Cinema viaggiano insieme, come<br />

parenti stretti , poichè anche nel<strong>la</strong> loro diversità di<br />

linguaggio, guardano verso una dimensione che è<br />

loro comune: “quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> creatività”.<br />

L’arte, si sa, nasce come pulsione primordiale, è <strong>la</strong><br />

materializzazione dell’istinto dell’uomo che vuole<br />

comunicare quel senso del “sacro” che è dentro l’anima.<br />

Essa perciò, è intimamente legata alle emozioni,<br />

che cerca di trasmettere a chi si offre, libero da inibizioni,<br />

pronto a ricevere tutti i segnali che essa vuole<br />

trasmettere. E’ questo il suo grande punto di forza, il<br />

fatto cioè di essere una esperienza coinvolgente.<br />

Tanto si è detto e scritto a questo proposito, lo stesso<br />

scrittore francese Stendhal racconta di una sua esperienza<br />

personale, durante il suo Grand tour del 1817,<br />

con queste parole “ ero giunto a quel livello di emozione<br />

dove si incontrano le sensazione celesti date<br />

dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da<br />

Santa Croce, ebbi un battito del cuore, <strong>la</strong> vita per me<br />

I PREMIATI<br />

Mostra di pittura – Sezione professionale<br />

1° Anna Marino con “Fiori su fondo grigio”<br />

2° Anna D’Arienzo con “Cercando il padre”<br />

3° Franco Nico<strong>la</strong>i con “Tutto è compiuto”<br />

Opere segna<strong>la</strong>te<br />

“Inverno” di Serafina Trassari<br />

“Monaci Birmani” di Fiorel<strong>la</strong> Val<strong>la</strong>rino<br />

Mostra di pittura – Sezione Amatoriale<br />

1° Franca Fantini con “La vita è sogno”<br />

2° Tilli Scarpis con “Riflessi”<br />

3° Paolo Pierantoni con “Superstite”<br />

Opere Segna<strong>la</strong>te<br />

“Il volto” di Massimo Matteucci<br />

“Trittico gotico” di Adriana Vassallo<br />

MOSTRA D’ARTE <strong>2008</strong><br />

15<br />

si era inaridita, camminavo temendo di cadere.”<br />

La mostra d’arte al Cinecircolo, lungi dall’avere queste<br />

grandi pretese, è tuttavia un piccolo universo artistico.<br />

Vuole essere uno spazio culturale, sebbene di<br />

notevole pregio, nel quale il pubblico possa intrattenere<br />

un dialogo molto partico<strong>la</strong>re tra l’opera d’arte<br />

che si propone e lo sguardo che si sofferma ad ammirar<strong>la</strong>,<br />

un’opportunità molto partico<strong>la</strong>re di spaziare<br />

con <strong>la</strong> mente e l’immaginazione, nel mondo imprevedibile<br />

che <strong>la</strong> contemp<strong>la</strong>zione artistica sa offrire.<br />

Al<strong>la</strong> mostra del <strong>2008</strong> hanno partecipato 62 autori con<br />

133 opere , di cui alcuni appartenenti al<strong>la</strong> associazione<br />

“<strong>IN</strong>ARTE”.<br />

<strong>Per</strong> <strong>la</strong> prossima edizione stiamo studiando qualche<br />

modifica al rego<strong>la</strong>mento di presentazione delle opere<br />

ed alle modalità di esposizione, inoltre stiamo pensando<br />

di estendere l’invito a partecipare ad<br />

Associazioni di Artisti che incrementino qualità e<br />

competitività del concorso.<br />

Premio Acquisto “L’ultima stel<strong>la</strong>”<br />

di Gabriel<strong>la</strong> di Serio<br />

Mostra di grafica<br />

1° Mauro Mazzaglia con “Paesaggio francese”<br />

2° Rossana Tanda con “Pesci”<br />

Mostra di ceramica<br />

1° Cecilia di Prospero con “Lo schiavo”<br />

2° Bruy con “ Le Grazie”<br />

Le opere del<strong>la</strong> Mostra <strong>sono</strong> state giudicate dal<strong>la</strong><br />

commissione di esperti composta da:<br />

Cristina Botti – pittrice<br />

Gianluigi Biagioni Gazzoli –critico arti figurative<br />

Carlo Fabbrini - esperto arti figurative e antiquario<br />

Ferruccio Fantone – giornalista<br />

C<strong>la</strong>udio Guidi – architetto<br />

Sezione ceramica: Cecilia di Prospero con “Lo schiavo”. Franca Fantini autrice di “La vita è sogno”.


C<strong>IN</strong>ECORTOROMANO:<br />

IL CONCORSO DI CORTOMETRAGGIO <strong>2008</strong><br />

E LA MANIFESTAZIONE DI F<strong>IN</strong>E STAGIONE<br />

Il concorso di quest’anno ha avuto un esito deludente<br />

per ciò che riguarda <strong>la</strong> partecipazione. Un solo cortometraggio<br />

presentato, il che ha reso impossibile <strong>la</strong><br />

realizzazione del concorso.<br />

Le edizioni precedenti avevano visto una partecipazione<br />

numerosa anche da parte dei soci del<br />

Cinecircolo, di cui forse si è esaurita <strong>la</strong> vena creativa<br />

, pertanto, al fine di aprire al concorso nuove possibilità,<br />

è allo studio l’idea di divulgare <strong>la</strong> notizia in<br />

maniera più capil<strong>la</strong>re e di dargli maggiore appetibilità,<br />

assegnando al vincitore, oltre al<strong>la</strong> targa, un premio<br />

più consistente, auspicabilmente donato da uno<br />

Pietro Murchio, Anna Marino autrice di “Fiori su fondo grigio”,<br />

Alexandre Tessier, Guido Bottini e Francesco<br />

<strong>Per</strong>netti.<br />

30 OTTOBRE <strong>2008</strong><br />

SERATA DI <strong>IN</strong>AUGURAZIONE<br />

Jana Formanekova’: f<strong>la</strong>uto<br />

Ivan Koska: pianoforte Il pubblico in p<strong>la</strong>tea.<br />

16<br />

Sponsor.<br />

In ogni caso il cortometraggio pervenuto, “Campo<br />

doppio” di C<strong>la</strong>ra Avati, è stato proiettato in sa<strong>la</strong><br />

durante <strong>la</strong> manifestazione di chiusura il cui programma,<br />

come di consueto, ha previsto <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione del<br />

Presidente sull’attività del<strong>la</strong> <strong>stagione</strong> appena conclusa<br />

e sulle linee programmatiche del<strong>la</strong> prossima, che<br />

auspichiamo ricca di eventi e di spunti culturali al<br />

punto da raccogliere sempre di più l’interesse e l’entusiasmo<br />

di un pubblico che ci auguriamo possa<br />

diventare sempre più grande.<br />

Maria Luisa Cosentino e Pietro Murchio premiano Anna<br />

D’Arienzo autrice di “Cercando il padre”.


REGISTI


WOODY ALLEN<br />

(Nome d’arte di Allen Stuart Konigsberg, nato<br />

nel 1935 a Brooklyn, NY) Esordisce nel 1965 in<br />

Ciao pussycat e si rive<strong>la</strong> subito come autore dotato<br />

di scintil<strong>la</strong>nte umorismo. Fino al 1969 continua<br />

con <strong>la</strong> sua attività di sceneggiatore, quando si<br />

cimenta anche nel<strong>la</strong> regia con Prendi i soldi e<br />

scappa. Creativo e geniale, l’uscita dei suoi film<br />

è sempre molto attesa, spesso recita da protagonista<br />

incontrando il favore del pubblico internazionale<br />

per il suo fine humour di stampo ebraico<br />

e <strong>la</strong> sua satira acuta e ironica.<br />

Dal 2004 <strong>la</strong>vora in Inghilterra. Molto densa <strong>la</strong> sua<br />

filmografia, dal 1997 al 2007 i suoi <strong>la</strong>vori più<br />

noti, spesso premiati, <strong>sono</strong>: Io e Annie,<br />

Manhattan, Zelig, La rosa purpurea del Cairo,<br />

Hanna e le sue sorelle, Radio days, Crimini e<br />

misfatti, Mariti e mogli, Misterioso omicidio a<br />

Manhattan, Pallottole su Broadway, La Dea dell’amore,<br />

Celebrity, La maledizione dello scorpione<br />

di giada, Anithyng else, Match point, Scoop, e<br />

l’ultimo Vicky Cristina Barcelona. Tutti film<br />

molto apprezzati in Italia, dove gli <strong>sono</strong> stati<br />

attribuiti spesso David di Donatello.<br />

WES ANDERSON<br />

(1969, Houston, Texas) Texano ma di adozione<br />

Newyorkese, Anderson ha studiato filosofia<br />

all’Università del Texas, dove ha conosciuto l’attore,<br />

poi amico, Owen Wilson. Nel cinema ha<br />

esordito nel 1994 con il corto Battle Rocket e nel<br />

1966 Un colpo da dilettanti. Nel 1998 un ottimo<br />

film ha attirato l’attenzione del<strong>la</strong> critica, Rush<br />

more. Nel 2001 è uscito il pregevole e ricercato I<br />

Tennebaum, ritratto di un’eccentrica famiglia<br />

newyorkese. Nel 2007 ha presentato al Festival di<br />

Venezia Il treno per Darjeeling preceduto dal<br />

romantico cortometraggio Hotel Chevalier, ideale<br />

prologo del film. La sua galleria di personaggi<br />

eccentrici e stralunati popo<strong>la</strong> un mondo originale<br />

tragicomico, illuminato da disegni infantili realizzati<br />

dal fratello Eric Chase Anderson.<br />

PUPI AVATI<br />

Bolognese, nato nel 1938, inizierà <strong>la</strong> carriera<br />

cinematografica negli anni ’60, dopo aver svolto<br />

vari <strong>la</strong>vori per vivere. Realizzerà nel 1970 <strong>la</strong> sua<br />

passione per il cinema con Balsamus l’uomo di<br />

satana. Autore sensibile e attento alle problematiche<br />

del<strong>la</strong> vita, ambienta quasi tutti i suoi film<br />

nell’atmosfera ovattata del<strong>la</strong> provincia emiliana.<br />

Nel 1976 La casa delle finestre che ridono, 1978<br />

Le strelle nel fosso, 1983 Una gita sco<strong>la</strong>stica e<br />

così via un anno dopo l’altro è sempre presente<br />

18<br />

nel cinema italiano con il suo tratto delicato e<br />

malinconico: 1985 Impiegati e Festa di <strong>la</strong>urea,<br />

1987 Ultimo minuto, Sposi e Regalo di Natale del<br />

1981, poi Storia di ragazzi e ragazze (1989)<br />

Fratelli e sorelle (1992) e L’amico d’infanzia<br />

(1994). La sua versatilità lo porta a cimentarsi<br />

con il genere musicale: Bix nel 2001; si dedica al<br />

genere storico con I cavalieri che fecero l’impresa.<br />

Nel 2003 ritorna alle sue radici ambientando<br />

a Bologna il suo 28° film, Il cuore altrove; nel<br />

2005 La cena per farli conoscere ed infine nel<br />

2007 Il papà di Giovanna, presentato e premiato<br />

a Venezia col Leoncino d’oro e <strong>la</strong> Coppa Volpi a<br />

Silvio Or<strong>la</strong>ndo come miglior attore.<br />

JON AVNET<br />

È nato a Brooklyn nel 1947, ha studiato al<strong>la</strong><br />

Great Neck High School di Great Neck, <strong>la</strong>ureandosi<br />

poi in cinematografia e teatro al<strong>la</strong> University<br />

of Pennsylvania. Finanzia documentari seguiti da<br />

pellicole più o meno note. Fonda una società di<br />

produzione cinematografica e grazie ai suoi investimenti<br />

escono numerose pellicole, tra le quali<br />

Gli uomini del<strong>la</strong> mia vita, I tre moschettieri. Nel<br />

1986 il suo primo approccio registico con Ho<br />

imparato ad amarti; tenta <strong>la</strong> trasposizione cinematografica<br />

del romanzo di Fannie F<strong>la</strong>gg<br />

Pomodori verdi fritti al<strong>la</strong> fermata del treno<br />

(1991). Nel 1995 è <strong>la</strong> volta di The war e l’anno<br />

dopo di Qualcosa di personale. Nel <strong>2008</strong> con <strong>la</strong><br />

coppia Al Pacino-Robert De Niro Sfida senza<br />

regole.<br />

SUSANNE BIER<br />

Nata a Copenhagen, studia architettura e cinema.<br />

Il suo esordio nel<strong>la</strong> regia cinematografica risale<br />

al 1999 con The one and only, un film che molti<br />

altri del cinema nordico affronta i temi esistenziali,<br />

soprattutto quelli di coppia, con un’ottica<br />

dominata dal disagio e dal<strong>la</strong> difficoltà di instaurata<br />

una reale comunicazione tra uomo e donna.<br />

Sul<strong>la</strong> medesima linea si muovono anche i film<br />

successivi: Open hearts (2003), Non desiderare<br />

<strong>la</strong> donna d’altri (2005) e l’ultimo Noi <strong>due</strong> sconosciuti<br />

(2007).<br />

SERGEI BODROV<br />

Nato in Russia nel 1948, studia presso l’Istituto<br />

Sovietico di Cinematografia e si diploma in sceneggiatura.<br />

Muove i suoi primi passi nel mondo<br />

del cinema come sceneggiatore di numerosi film.<br />

Nel 1989 esce con <strong>la</strong> sua regia La libertà è il<br />

paradiso. Nel 1996 si rivede in campo internazionale<br />

con Il prigioniero del Caucaso, un vero


successo; nel 2001 Decisione rapida e nel 2002 Il<br />

bacio dell’orso, ultimo nel 2007 il kolossal<br />

Mongol.<br />

MARC FORSTER<br />

(1969 Ulm, Germania). Ha realizzato <strong>due</strong> documentari<br />

per <strong>la</strong> televisione europea, Silent<br />

Windows sui suicidi giovanili e Our Story, partecipata<br />

storia di bambini vittime di ustioni. Ha<br />

diretto Loungers (1995) Evetything Put Together<br />

(2000) presentato al Sundance Film Festival e<br />

vincitore delI’Independenf Spirit Award. Ha poi<br />

ottenuto <strong>la</strong> candidatura all’Oscar con Monster’s<br />

Ball – L’ombra del<strong>la</strong> vita (2001), già Orso<br />

d’Argento al Festival di Berlino. <strong>Per</strong> <strong>la</strong> sua interpretazione<br />

nel film Halle Berry ha vinto l’Oscar<br />

come miglior attrice protagonista. Il successivo<br />

Never<strong>la</strong>nd - Un sogno per <strong>la</strong> vita (2004) è stato<br />

candidato a 7 premi Oscar. Dopo <strong>la</strong> commedia<br />

cervellotica con Will Ferrell Vero come <strong>la</strong> finzione,<br />

Marc Forster porta sullo schermo il commovente<br />

romanzo Il cacciatore di aquiloni (2007).<br />

LAURENT CANTET<br />

Nato a Melle, Deux-Sevres (Francia) nel 1961.<br />

Esordisce nel cinema come regista di cortometraggi<br />

che vincono molti prestigiosi premi internazionali.<br />

Dopo essere stato assistente di Marcel<br />

Ophuls, il suo primo lungometraggio è Risorse<br />

umane (1999) che vince il Premio César come<br />

migliore opera prima e anche il premio per l’esordio<br />

al<strong>la</strong> regia al Festival di San Sebastiano<br />

oltre il premio Fassbinder Discovery. Nel 2001<br />

esce A tempo pieno. Nel 2005 firma Verso il Sud<br />

con Charlotte Rampling, una gita nell’universo<br />

del turismo sessuale al femminile. Nel <strong>2008</strong> infine<br />

La c<strong>la</strong>sse, tratto dal diario del prof. François<br />

Bégaudeau.<br />

JOHN CARNEY<br />

(1972, Dublino) Esordisce al<strong>la</strong> regia nel 1996 con<br />

November Afternoon a cui seguono nell’ordine:<br />

Park (1999), On the edge (2001), Zonad (2003),<br />

tutti film non usciti in Italia, e dirige alcuni episodi<br />

del<strong>la</strong> serie TV ir<strong>la</strong>ndese Bachelors Walk. Il<br />

grande successo arriva però con Once, che ha<br />

ottenuto molti riconoscimenti in Gran Bretagna e<br />

negli Stati Uniti, dove ha vinto un Oscar per <strong>la</strong><br />

migliore canzone originale, e certamente si farà<br />

apprezzare anche in Europa.<br />

JUST<strong>IN</strong> CHADWICK<br />

(1968, Manchester, GB) Chadwick esordisce<br />

come attore negli anni novanta con Londra mi fa<br />

19<br />

morire,<br />

Au Pair e nel 1999 La perdita dell’innocenza.<br />

Nel 1997 si cimenta come regista nel film<br />

Sleeping with the fishes. Sino al 2005 <strong>la</strong>vora<br />

negli Stati Uniti dirigendo diversi episodi di varie<br />

serie TV, come Bleak house, Spooks, Murder prevention.<br />

Al<strong>la</strong> Berlinale <strong>2008</strong> ha presentato L’altra<br />

donna del re.<br />

GEORGE TIMOTHY CLOONEY<br />

Nato a Lexington (Kentucky) nel 1961, ha iniziato<br />

come sportivo, successivamente a causa di un<br />

infortunio è tornato al<strong>la</strong> recitazione a cui si era<br />

dedicato già all’età di 17 anni. Si trasferisce a<br />

Los Angeles dove fa gavetta in B-Movie dal 1984<br />

al 1994 solo in ruoli secondari. Scartato per il<br />

film Thelma e Louise, ruolo poi assegnato a Brad<br />

Pitt nel 1994 con <strong>la</strong> serie E.R.- Medici in prima<br />

linea del regista Steven Spielberg arriva l’occasione<br />

e Clooney ottiene il ruolo del Dr. Ross.<br />

Sull’onda del successo Hollywood lo chiama ad<br />

interpretare Un giorno per caso. La strada per<br />

Clooney è in ascesa e dopo il film di successo,<br />

fonda una casa produttrice e filma Good night<br />

and good luck. Subito dopo firma <strong>la</strong> regia di<br />

Confessioni di una mente pericolosa nel 2002 e<br />

nel <strong>2008</strong> In amore niente regole.<br />

JOEL E ETHAN COEN<br />

Joel nasce nel 1954, Ethan nel 1957, entrambi a<br />

Minneapolis (Minnesota). Joel si iscrive ai corsi<br />

di cinematografia del<strong>la</strong> First School University.<br />

Agli inizi del<strong>la</strong> carriera è assistente al montaggio<br />

oltre che soggettista con il fratello Ethan.<br />

Produttore indipendente, esordisce nel<strong>la</strong> regia nel<br />

1995, avendo sempre come socio di affari suo<br />

fratello, con il film Blood simple, un film comico<br />

che piace molto al pubblico americano. Sui nostri<br />

schermi arriveranno poi dal 1991 al 1997 film di<br />

notevole successo: Arizona junior, Burton Fink,<br />

Mr. Hu<strong>la</strong> Hp, Fargo, Il grande Lebowsky. In<br />

seguito dal 2001 in poi: L’uomo che non c’era,<br />

Prima ti sposo poi ti rovino, The <strong>la</strong>dy killer<br />

(remake de La signora omicidi) fino all’ultimo,<br />

recente Burn after reading – A prova di spia<br />

(<strong>2008</strong>).<br />

JONATHAN DEMME<br />

Nato a New York nel 1944. Inizialmente si dedica<br />

al<strong>la</strong> critica cinematografica. In seguito debutta<br />

come regista nel 1974 con il film Femmine in<br />

gabbia, che riscuote subito il successo di pubblico<br />

e del<strong>la</strong> critica. Nel 1979 firma un altro apprezzato<br />

film: Segno degli Hannah. Negli anni


novanta si afferma definitivamente con Il silenzio<br />

degli innocenti (1991) e Phi<strong>la</strong>delphia (1994). Nel<br />

2004 esce The Manciurian candidate, tratto dal<br />

romanzo di Richard Cardon e nel <strong>2008</strong> Rachel<br />

getting married.<br />

STEPHAN ELLIOT<br />

(1964, Sidney, Australia) Impulsivo e provocatorio<br />

esordisce nel 1993 con Scherzi maligni (presentato<br />

a Cannes), un film eccentrico e aggressivo<br />

che non piace ai produttori i quali lo rimontano<br />

completamente prima di distribuirlo. <strong>Per</strong> protesta<br />

il regista brucia l’unica copia del montaggio<br />

originale. Complice <strong>la</strong> suggestiva vastità del<br />

deserto australiano, gira nel 1994 l’ironico e<br />

malinconico Priscil<strong>la</strong>, <strong>la</strong> regina del deserto, storia<br />

di omosessuali e travestiti che diventa presto<br />

un oggetto di culto internazionale. Sempre tormentato<br />

da difficoltà produttive, nel 1999 realizza<br />

The Eye - Lo sguardo, thriller anomalo e melodrammatico.<br />

Dopo una pausa ritorna al cinema<br />

con Easy Virtue, presente al<strong>la</strong> Festa del cinema di<br />

Roma.<br />

ANTONELLO GRIMALDI<br />

(1955, Sassari) Dopo <strong>la</strong> <strong>la</strong>urea in legge frequenta<br />

<strong>la</strong> Scuo<strong>la</strong> di Cinema del<strong>la</strong> Gaumont e insieme ad<br />

altri esordienti, come Luchetti, Carlei e Jaolongo,<br />

realizza nel 1983 il lungometraggio a episodi<br />

Juke Box, che viene presentato al Festival di<br />

Venezia. Seguono i film come Nul<strong>la</strong> ci può fermare<br />

(1988), La bionda (1991), Il cielo è sempre<br />

più blu (1995), Asini (1999) e Un delitto impossibile<br />

(2001). Di livello è anche il suo impegno<br />

come regista televisivo. Tra i <strong>la</strong>vori realizzati per<br />

il piccolo schermo, ricordiamo <strong>la</strong> serie Distretto<br />

di polizia di cui dirige ben 34 episodi dal 2001 al<br />

2007 e che ha ottenuto ottimi risultati in termini<br />

di audience. Caos calmo è il ritorno al cinema nel<br />

<strong>2008</strong>.<br />

CAO HAMBURGER<br />

(1962 San Paolo del Brasile) Figlio di professori<br />

dell’Università di San Paolo, il padre di origine<br />

tedesca e <strong>la</strong> madre italiana, Cao Hamburger inizia<br />

<strong>la</strong> sua carriera come scrittore e regista di film TV.<br />

È stato il creatore di una serie TV (Il castello di<br />

Ra’- Tim – Bum) per <strong>la</strong> televisione culturale di<br />

San Paolo che ha dato origine a un programma<br />

per ragazzi molto seguito in Brasile: Il film che lo<br />

ha definitivamente consacrato come regista è<br />

sicuramente L’anno in cui i miei genitori andarono<br />

in vacanza, un viaggio nell’universo brasiliano.<br />

20<br />

ED HARRIS<br />

(1950, New Jersey - USA) Dopo aver studiato al<br />

Tenafly High School, si appassiona all’atletica<br />

che poi lo porterà a iscriversi al<strong>la</strong> Columbia<br />

University. Due anni più tardi, <strong>la</strong> sua famiglia si<br />

trasferisce in Ok<strong>la</strong>homa, si iscrive al corso di<br />

recitazione del<strong>la</strong> University of Ok<strong>la</strong>homa e<br />

comincia a recitare in teatro. Con Fool for Love<br />

(1983) in una parte scritta per lui, vince alcuni<br />

premi come miglior attore.<br />

Esordisce come attore cinematografico nel film<br />

dello scrittore di fantascienza Michael Cricton<br />

Coma profondo (1978). Seguono numerosi film<br />

come: Creepshow (1982), Un prete da uccidere<br />

(1988),The Abyss (1989), Il socio (1993), Apollo<br />

13 (1995), per il quale viene candidato all’Oscar,<br />

Seguiranno altre pellicole fortunate come Potere<br />

assoluto, The Truman Show, Golden Globe come<br />

attore non protagonista. Esordio al<strong>la</strong> regia con<br />

Pollock, dove è anche interprete, e nuovamente<br />

candidato all’Oscar come attore; analoga candidatura<br />

per The Hours (2002), poi diretto dal<strong>la</strong><br />

Hol<strong>la</strong>nd, in Io e Beethoven (2006). Seconda<br />

prova al<strong>la</strong> regia con Appaloosa, (<strong>2008</strong>), western<br />

di ampio respiro, presentato al<strong>la</strong> Festa del cinema<br />

di Roma.<br />

GAV<strong>IN</strong> HOOD<br />

(1963, Johannesburg, SudAfrica) Dopo The storekeeper<br />

(1998) si fa conoscere al nostro pubblico<br />

con Verdetto bianco (1999) di cui è anche produttore,<br />

sceneggiatore e attore. Poi nel 2005 un<br />

buon successo con Il suo nome è Tsotsie, di cui è<br />

anche sceneggiatore, Oscar come miglior film<br />

straniero, analogo riconoscimento da noi con il<br />

David di Donatello, e numerosi altri premi da<br />

occidente ad oriente. Continua intanto a fare<br />

anche l’attore, avendo esordito nel 1991 nel film<br />

Senza esclusione di colpi 2. Nel 2007 dirige<br />

Redention - Detenzione illegale, un thriller c<strong>la</strong>ssico<br />

ricco di suspense.<br />

WAN KAR-WAI<br />

Nato nel 1956 a Shangai, si diploma in arti grafiche<br />

presso <strong>la</strong> Scuo<strong>la</strong> Politecnica di Hong Kong.<br />

Lavora in televisione come assistente al<strong>la</strong> produzione,<br />

poi come sceneggiatore, anche per il cinema.<br />

Inizia <strong>la</strong> sua attività di regista come autore di<br />

film che lo fanno definire il “Quentin Tarantino<br />

cinese” per l’audacia dei temi trattati e per <strong>la</strong><br />

forza delle immagini. Il suo primo film, del 1988<br />

è As tears Go By. Seguono Dayio, Being wild<br />

(1991), Hon Kong Express (1994) che vincerà


una Osel<strong>la</strong> d’oro al Festival di Venezia, Angeli<br />

perduti (1995), Happy together (1997), In the<br />

mood for love (2000), vincitore di numerosi<br />

premi internazionali. Nel 2004 dirige un episodio<br />

di Eros (gli altri <strong>sono</strong> diretti da Antonioni e<br />

Soderberg) e il film 2046. Nel 2007: Un bacio<br />

romantico.<br />

NAD<strong>IN</strong>E LABAKI<br />

Nata a Baabo<strong>la</strong>t (Libano) nel 1974 ha debuttato<br />

nel mondo dello spettacolo con un videoclip del<strong>la</strong><br />

cantante Car<strong>la</strong>. Altri videoclip suscitano reazioni<br />

contrastanti nel mondo arabo. Passa poi agli spot<br />

commerciali fino ad approdare al cinema come<br />

attrice, per poi dirigere e interpretare Caramel,<br />

candidato all’Oscar come miglior film straniero.<br />

Giudicato uno stupendo affresco al femminile, a<br />

tinte delicate, del<strong>la</strong> realtà quotidiana a Beirut.<br />

BARRY LEV<strong>IN</strong>SON<br />

(1942, Baltimora, Mary<strong>la</strong>nd, USA) Come regista<br />

comincia nel 1982 con A cena con gli amici, ma<br />

dal 1967 in poi ha già scritto o col<strong>la</strong>borato a<br />

numerose sceneggiature di minore importanza<br />

come L’ultima follia di Mel Brooks o Alta tensione.<br />

A parte saltuari impegni con episodi di serie<br />

TV. Dal 1984 al 2006 infi<strong>la</strong> una serie di film di<br />

discreto successo: Piramide di paura (1985),<br />

Rain man, l’uomo del<strong>la</strong> pioggia (1988), con il<br />

quale tra gli altri vince l’Oscar, l’Orso d’oro a<br />

Berlino, e il David di Donatello come miglior<br />

film straniero, Bugsy (1991), Oscar per <strong>la</strong> regia,<br />

Toys (1992), Rive<strong>la</strong>zioni nel 1994, Sesso e potere<br />

(1997), L’invidia del mio migliore amico (2004),<br />

L’uomo dell’anno (2006). Nel <strong>2008</strong> infine il film<br />

in cartellone per questa <strong>stagione</strong>: What just happened?,<br />

quasi sicuramente uno dei suoi film più<br />

interessanti.<br />

PHILLIDA LLOYD<br />

(Gran Bretagna, 1957) Rinomata regista inglese<br />

di opera e teatro, ha girato per lo schermo il musical<br />

Mamma mia, dopo che <strong>la</strong> produzione l’ha<br />

tenuto per quasi un decennio nei teatri di<br />

Broadway, del<strong>la</strong> West End londinese e nel resto<br />

del mondo. Lloyd ha diretto diversi spettacoli, tra<br />

cui Shakespeare e opere del teatro c<strong>la</strong>ssico come<br />

Medea, nei teatri più prestigiosi. Ha diretto tra<br />

l’altro le opere La Boheme, La Carmen, il<br />

Macbeth e il Requiem di Verdi, opere di Wagner.<br />

La sua ultima produzione del<strong>la</strong> Maria Stuarda<br />

esordirà a Broadway nel <strong>2009</strong>.<br />

SIDNEY LUMET<br />

21<br />

(Phi<strong>la</strong>delphia, USA, nel 1924) Si dedica all’inizio<br />

del<strong>la</strong> sua carriera al<strong>la</strong> regia televisiva e al<strong>la</strong><br />

recitazione teatrale. Nel 1957 esce il suo primo<br />

lungometraggio, La paro<strong>la</strong> ai giurati, film di<br />

impianto teatrale, caratteristica peculiare dei suoi<br />

<strong>la</strong>vori. Tra i tanti significativi, spesso tratti dai<br />

<strong>la</strong>vori di grandi drammaturghi, i più importanti<br />

nel<strong>la</strong> sua densa filmografia <strong>sono</strong> dal 1981 ad<br />

oggi; Uno sguardo dal ponte, L’uomo del banco<br />

dei pegni, Riflessi in uno specchio oscuro,<br />

Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Il<br />

principe del<strong>la</strong> città, Quinto potere, Il mattino<br />

dopo, Sono affari di famiglia, Vivere in fuga,<br />

Terzo grado, Un estraneo fra noi, <strong>Per</strong> legittima<br />

accusa, Prove apparenti, Gloria e l’ultimo Onora<br />

il padre e <strong>la</strong> madre.<br />

MART<strong>IN</strong> MACDONAGH<br />

Nato a Camberwell (GB), 38 anni. Regista famoso<br />

di origini ir<strong>la</strong>ndesi, cresciuto a Londra, direttore<br />

di opere teatrali, vince molti premi internazionali<br />

tra cui nel 1996 quello per “Il miglior<br />

commediografo emergente”, scrive commedie di<br />

successo ottenendo riconoscimenti in tutto il<br />

mondo. Nel 2005 dopo i successi teatrali si interessa<br />

anche al cinema e vince l’Oscar per il<br />

miglior cortometraggio: Six Shooter (2006).<br />

Dopo un esordio così importante nel campo cinematografico,<br />

tre anni dopo si cimenta nel lungometraggio<br />

In Bruges – La coscienza dell’assassino.<br />

MIKE NICHOLSON<br />

(Nome d’arte di Michael Igor Peschkowsky, americano)<br />

La sua lunga carriera inizia nel 1966 con<br />

il film Chi ha paura di Virginia Wolf, nell’anno<br />

successivo Il <strong>la</strong>ureato, film che è rimasto tuttora<br />

un punto fermo per lo studio cinematografico di<br />

quel<strong>la</strong> età, non più appartenente all’età sco<strong>la</strong>stica<br />

e non ancora svinco<strong>la</strong>ta dalle pastoie del<strong>la</strong> gioventù.<br />

Nel 1970 è <strong>la</strong> volta di Comma 22 e nel<br />

1971 di Conoscenza carnale; seguono negli anni<br />

successivi altri film sino Una donna in carriera,<br />

che sintetizza il nuovo volto delle donne. Nel<br />

1996 è <strong>la</strong> volta di Piume di struzzo, l’esi<strong>la</strong>rante<br />

commedia con il bravissimo Robin Williams.<br />

Seguiranno altri film tra i quali da ricordare I<br />

colori del<strong>la</strong> vittoria con John Travolta e quindi<br />

Da che pianeta vieni, commedia fantascientifica,<br />

di tutt’altra dimensione filmografica, infine l’ultimo<br />

La guerra di Charlie Wilson.<br />

FERZAN OZPETEK<br />

Nasce in Turchia, a Istanbul nel 1959, ma <strong>la</strong> sua


carriera si svolge in Italia dove si <strong>la</strong>urea in storia<br />

del cinema. <strong>Per</strong> lungo tempo scrive soggetti e<br />

sceneggiature e col<strong>la</strong>bora al<strong>la</strong> regia con Ricky<br />

Tognazzi, Massimo Troisi, Maurizio Ponzi,<br />

Lamberto Bava, Francesco Nuti. Nel 1996 esce <strong>la</strong><br />

prima realizzazione tutta sua, Hannam, il bagno<br />

turco, buon film che riscuote successo di pubblico<br />

e di critica e fa conoscere al pubblico il suo<br />

stile. Seguono nel 1999 e nel 2003 Harem suaré,<br />

La fate ignoranti e La finestra di fronte, David<br />

come miglior film dell’anno, Nastro d’argento<br />

per il soggetto e per <strong>la</strong> regia premiato al Festival<br />

di Karlowy Vary. Nel 2005 dirige Cuore sacro,<br />

un po’ fuori dal suo stile narrativo come anche<br />

Saturno contro del 2006, quindi il recente Un<br />

giorno perfetto.<br />

SARAH POLLEY<br />

(Toronto, 1979) regista e attrice ha al suo attivo<br />

pellicole che hanno sollevato un certo interesse:<br />

La vita segreta delle parole, Non bussare al<strong>la</strong><br />

mia porta, Il dolce domani. Nel 2006 firma Away<br />

from her (Lontano da lei) definito una splendida<br />

immagine dal<strong>la</strong> rivista internazionale Exite.<br />

JASON REITMAN<br />

Nato a Montreal, trentunenne, regista comincia<br />

come attore nei <strong>due</strong> scanzonati Ghostbuster, è il<br />

più giovane regista a partecipare al Sundance<br />

Festival. Nel 1998 viene proiettato il suo<br />

Operation. Thank you for smoking è candidato al<br />

Golden Globe per <strong>la</strong> migliore sceneggiatura non<br />

originale. Il suo secondo film, Juno, ha vinto il<br />

Festival del cinema di Roma dell’anno scorso.<br />

22<br />

PAOLO SORRENT<strong>IN</strong>O<br />

Giovane regista napoletano, nato nel 1970, inizia<br />

a <strong>la</strong>vorare nel cinema come sceneggiatore: nel<br />

1997 scrive Polvere di Napoli, per <strong>la</strong> regia di<br />

Antonio Capuano, e vince il Premio Solinas,<br />

massimo riconoscimento per i giovani sceneggiatori.<br />

La sua prima opera da regista è L’uomo in<br />

più del 2001; <strong>la</strong> seconda, del 2004, Le conseguenze<br />

dell’amore, unica opera italiana ammessa<br />

a Cannes e che poi vincerà anche cinque David.<br />

Il suo terzo lungometraggio è uno dei film più<br />

attesi del 2005: L’amico di famiglia. Nel 2007 il<br />

suo ultimo <strong>la</strong>voro, Il Divo.<br />

DAVID VON ANCKEN<br />

Esordio come regista e sceneggiatore in Box suite<br />

nel 1997. Continua <strong>la</strong>vorando a numerosi episodi<br />

di alcune fortunate serie Tv come Senza traccia,<br />

Numbers, CSI NY e Cold case. Nel 2006 il suo<br />

primo vero lungometraggio Caccia spietata, un<br />

western con Liam Neeson e Pierce Brosnan.<br />

GIANNI ZANASI<br />

(Modena, 1965) Ha studiato filosofia all’università<br />

di Bologna. Ha frequentato il corso di regia<br />

al Centro Sperimentale di Cinematografia.<br />

Esordisce con il corto Le belle prove, vincitore di<br />

un premio al festival di Torino. Due anni dopo<br />

con lo stesso cast il suo primo lungometraggio<br />

Nel<strong>la</strong> mischia (1995) che partecipa al Festival di<br />

Cannes e vince premi in diverse rassegne in tutto<br />

il mondo. Successivamente gira nel 1999 Fuori<br />

di me e A domani. L’ultimo Non pensarci è del<br />

2007.


SCHEDE<br />

FILMOGRAFICHE


1<br />

IL TRENO PER DARJEEL<strong>IN</strong>G<br />

29-30-31 ottobre <strong>2008</strong><br />

Regia: Wes Anderson<br />

Interpreti: Owen Wilson (Francis Whitman), Adrien<br />

Brody (Peter Whitman), Jason Schwartzman (Jack<br />

Whitman), Anjelica Huston (Patricia Whitman, <strong>la</strong> madre),<br />

Natalie Portman (Ex fidanzata di Jack), Amara Karan<br />

(Rita), Trudy Matthys (Signora tedesca sul treno), Camil<strong>la</strong><br />

Rutherford (Alice)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Wes Anderson, Jason Schwartzman, Roman<br />

Coppo<strong>la</strong><br />

Sceneggiatura: Wes Anderson, Jason Schwartzman,<br />

Roman Coppo<strong>la</strong><br />

Fotografia: (Scope/a colori): Robert Yeoman<br />

Musica: Randall Poster<br />

Montaggio: Andrew Weisblum<br />

Durata: 91’<br />

Produzione: Wes Anderson, Scott Rudin, Roman<br />

Coppo<strong>la</strong>, Lydia Dean Pilcher per American Empirical<br />

Pictures, Cine Mosaic, Scott Rudin Productions<br />

Distribuzione: 20th Century Fox Italia (<strong>2008</strong>)<br />

24<br />

Soggetto<br />

Tre fratelli americani che non si par<strong>la</strong>no tra loro da un<br />

anno organizzano un viaggio in treno in India allo scopo<br />

di ritrovare se stessi e un legame che torni ad unirli. Ben<br />

presto tuttavia questo obbiettivo sfocia nel caos per vari<br />

contrattempi, e i tre rimangono bloccati nel deserto con<br />

valigie e altri oggetti. Decidono allora di darsi un nuovo<br />

traguardo, quello di raggiungere <strong>la</strong> mamma, che è andata<br />

presso una missione indiana.<br />

Valutazione<br />

Dopo “I Tenenbaum” e “Le avventure acquatiche di Steve<br />

Zissou”, Wes Anderson colpisce ancora nel segno con una<br />

storia sgalemba e fuori dalle regole, una sorta di viaggio<br />

al<strong>la</strong> scoperta di se stessi, sulfureo e scombinato.<br />

L’ispirazione del regista conduce i protagonisti ad un balletto<br />

dai movimenti imprevedibili, una giostra forse un po’<br />

infantile ma insieme adulta nei momenti in cui é necessario<br />

fare i conti con se stessi. Anderson non é un americano<br />

anomalo, ma un regista statunitense che scava senza<br />

prendersi troppo sul serio sotto <strong>la</strong> scorza di amari bi<strong>la</strong>nci<br />

esistenziali.


Il Tempo - Gian Luigi Rondi - 04/05/<strong>2008</strong><br />

Un film americano che può divertire. Come ha divertito il<br />

pubblico,anche se non del tutto, che lo ha visto l’estate<br />

scorsa al<strong>la</strong> Mostra di Venezia.<br />

Lo ha diretto Wes Anderson di cui si ricorderà con simpatia<br />

“I Tennenbaum” anche se poi il film da cui è stato<br />

seguito, “Le avventure acquatiche di Steve Zizzou”, ha<br />

piuttosto deluso perché l’umorismo stralunato che si<br />

imponeva nell’altro film, in questo finiva soltanto per<br />

essere ripetitivo e senza graffi.<br />

Un po’, se vogliamo, come in questa nuova impresa, pur<br />

con spunti curiosi e approdi furbi, tra <strong>la</strong> beffa e il grottesco.<br />

Il film, vede Jack, uno dei tre fratelli, coinvolto nel tentativo<br />

di riprendere i rapporti, interrotti dopo <strong>la</strong> morte del<br />

padre, con <strong>due</strong> suoi scombinatissimi fratelli, Francis<br />

(Owen Wilson), il maggiore, e Peter (Adrien Brody), il<br />

minore. L’occasione dovrà essere un viaggio insieme,<br />

addirittura in India dove, fra l’altro, sanno che si è ritirata<br />

in un monastero induista <strong>la</strong> loro madre altrettanto<br />

scombinata (Anjelica Huston). Un viaggio soprattutto in<br />

treno, non come quelli, scalcinati e miseri che si vedono<br />

nei film indiani, ma coloratissimo, lussuoso, con servizi<br />

da alberghi a cinque stelle, su cui i tre si imbarcano equipaggiati<br />

con uno stuolo di bagagli variopinti e vistosi firmati<br />

tutti, addirittura, dal celebre e costosissimo Louis<br />

Vuitton.<br />

Da qui tutto il resto, tra avventure d’ogni tipo, disguidi<br />

non facilmente rimediabili, scontri spesso anche furenti<br />

tra quei tre fratelli ciascuno con caratteri l’uno diverso<br />

dall’altro e pronti così a sprizzare scintille ad ogni svolta.<br />

Una bizzarria, ma un po’ anche una favo<strong>la</strong>, tra un florilegio<br />

di situazioni per metà paradossali sostenute da scenografie<br />

scopertamente affidate a preziosi cromatismi e<br />

punteggiate da dialoghi tra <strong>la</strong> malizia e l’astuzia piegati<br />

soprattutto a far distinguere le fisionomie quasi surreali di<br />

quei curiosi personaggi, non dissimili, quando <strong>la</strong> incontreranno,<br />

da quel<strong>la</strong> madre monaca indiana che sembra<br />

uscita da uno scherzo.<br />

Lo scherzo, accentuatissimo, lo si riconosce anche nei<br />

modi con cui i tre ci <strong>sono</strong> presentati: uno sempre a piedi<br />

nudi, l’altro con una scarpa diversa dall’altra e con giganteschi,<br />

occhiali neri, il terzo con <strong>la</strong> faccia quasi nascosta<br />

dalle bende. Un gioco, insomma, in un film giocattolo.<br />

L’Unità - Alberto Crespi - 04/10/<strong>2008</strong><br />

...È un film sul<strong>la</strong> pulsione di morte, e su come rimuover<strong>la</strong><br />

nel nome del<strong>la</strong> vita. I tre fratelli Whitman <strong>sono</strong> come i<br />

fratelli Tenenbaum di un precedente, magnifico film di<br />

Anderson: strani, lunari, con una dolorosa situazione<br />

familiare alle spalle. Hanno perso il padre e vorrebbero<br />

rivedere <strong>la</strong> madre, che si è imboscata in qualche angolo<br />

dell’India a fare <strong>la</strong> suora <strong>la</strong>ica. Non si par<strong>la</strong>no da anni ma<br />

il maggiore di loro, Wilson, convoca gli altri <strong>due</strong> - Brody<br />

e Schwartzman, anche sceneggiatore assieme al regista e<br />

a Roman Coppo<strong>la</strong> - su un treno che parte da una scalcinatissima<br />

stazione dell’India. Inizia un viaggio iniziatico<br />

in cui i fratelli si rimbalzano battute surreali e pian piano<br />

imparano a conoscersi, o a riconoscersi. Finché arrivano<br />

dal<strong>la</strong> mamma, che è <strong>la</strong> splendida Anjelica Huston: li<br />

25<br />

accoglie nel suo monastero in cima a un monte, li ammonisce<br />

di stare attenti alle tigri e li ‘guarisce a modo Zen,<br />

con il silenzio. La scena in cui i quattro, madre e figli, si<br />

riconciliano con <strong>la</strong> vita è un piccolo miracolo: i primi<br />

piani degli attori <strong>sono</strong> accompagnati dal<strong>la</strong> vecchia canzone<br />

dei Rolling Stones P<strong>la</strong>y With Fire, ed è il più bel<br />

videoclip che Jagger & Richards abbiano mai avuto. II<br />

film conferma il prodigioso talento di Wes Anderson nell’inserire<br />

le canzoni nei film: anche i titoli di coda, con <strong>la</strong><br />

vecchia Champs Elysées cantata da Joe Dassin, <strong>sono</strong><br />

meravigliosi. Wes Anderson è un artista unico. I suoi film<br />

fanno venir voglia di usare una paro<strong>la</strong> desueta e, nel<br />

gergo giornalistico, quasi proibita: poesia. Il giovane<br />

regista texano parte sempre da storie cupe, e riesce a rasserenarle<br />

con un talento visivo e narrativo che non ha termini<br />

di paragone. Ha un’idea di cinema personalissima e<br />

“The Darjeeling Limited” <strong>la</strong> sviluppa in modo coerente<br />

rispetto a “I Tenenbaum” e a “Le avventure aquatiche di<br />

Steve Zissou”.<br />

Il Foglio - Mariarosa Mancuso - 08/05/<strong>2008</strong><br />

Da “Rushmore” a “I Tenenbaum” a “Le avventure acquatiche<br />

di Steve Zissou”, Wes Anderson resta fedele al<strong>la</strong> sua<br />

famiglia di attori: Bill Murray (che qui fa soltanto una<br />

particina, rincorrendo un treno indiano), Anjelica Huston,<br />

l’amico di sempre Owen Wilson. Resta fedele anche alle<br />

sue collezioni di tragicomici siparietti: forse un pochino<br />

meno di un film vero e proprio, se prendiamo <strong>la</strong> trama<br />

come metro di misura, ma a lui piace così, e noi che<br />

siamo suoi fan apprezziamo l’ostinazione. Owen Wilson<br />

aveva girato “Il treno per il Darjeeling” prima del tentato<br />

suicidio, per amore o per solitudine losangelina; a vederlo<br />

tutto bendato e con il bellissimo naso fracassato da un<br />

incidente di motocicletta fa un po’ impressione, con il<br />

senno di poi. Qui convoca i <strong>due</strong> fratelli Jason<br />

Schwartzman e Adrien Brody per un viaggio in India:<br />

papà è morto da un anno, incarnandosi forse in una tigre,<br />

<strong>la</strong> mamma si è ritirata in un monastero che ricorda il convento<br />

delle monache scelto da Powell & Pressburger per<br />

“Narciso nero”, una scaletta dettagliata delle cose da fare<br />

fornita ogni mattina dovrebbe riunire le rimanenze del<strong>la</strong><br />

famiglia (e risolvere il mistero di una preziosa cintura<br />

contesa tra i rampolli, firmata Vuitton come il set di valige<br />

che i tre si trascinano). Quasi tutto avviene sul treno<br />

più elegante mai visto sullo schermo, una sinfonia di<br />

verdi e di rossi e di toni zafferano, governato da un fascinoso<br />

controllore e da una sensualissima hostess, vestiti da<br />

Milena Canonero. Il viaggio non procede secondo i piani.<br />

I <strong>due</strong> fratelli <strong>sono</strong> piuttosto renitenti al<strong>la</strong> rinascita spirituale<br />

imposta dal capocordata, che come scopriamo verso<br />

<strong>la</strong> fine del film è tutto sua madre, quanto a precisione e<br />

mania per le liste. Uno medita di <strong>la</strong>sciare <strong>la</strong> fidanzata perché<br />

incinta, l’altro chiama ossessivamente - da telefoni<br />

pubblici in mezzo al nul<strong>la</strong> - <strong>la</strong> segreteria telefonica del<strong>la</strong><br />

morosa che lo ha <strong>la</strong>sciato. Bollino rosso sul<strong>la</strong> fronte e<br />

coroncine di fiori al collo, intraprendono <strong>la</strong> lunga marcia<br />

verso l’illuminazione. La boccettina di profumo ha <strong>la</strong><br />

scritta Voltaire numero 6. Ai funerali si partecipa in pigiama.<br />

In tanta smagliante originalità, <strong>la</strong> sorte del bagaglio<br />

risulta prevedibile, ma perdoniamo.


Ragazzo Selvaggio - Marzia Gandolfi<br />

Presentato al<strong>la</strong> 64a edizione del Festival di Venezia, il<br />

nuovo film di Wes Anderson prosegue il suo percorso<br />

all’interno delle difficili re<strong>la</strong>zioni parentali, perché ‘Ia<br />

famiglia non è una paro<strong>la</strong>, è una sentenza’ che avvita e<br />

svita i destini e le esistenze dei propri ‘cari’. “Il treno per<br />

Darjeeling” un viaggio spirituale nel cuore dell’India e di<br />

un passato familiare da rie<strong>la</strong>borare.<br />

Dopo un anno dal<strong>la</strong> morte del padre, i tre al<strong>la</strong>mpanati e<br />

malinconici fratelli Whitman decidono di recarsi in India<br />

per ricucire un rapporto traumatizzante nello scompartimento<br />

di un treno per Darjeeling. Rimasti soli nel deserto<br />

indiano, Francis, Peter e Jack ripensano alle vicende di<br />

famiglia recuperando se stessi e il loro fraterno rapporto.<br />

Il cinema dei padri e dei fratelli<br />

Il cinema di Wes Anderson attinge alle fonti originarie di<br />

tutto il cinema di genere: <strong>la</strong> rappresentazione dell’amore e<br />

del<strong>la</strong> famiglia da una parte e del<strong>la</strong> ‘violenza’ e del<strong>la</strong> morte<br />

dall’altra. A essere totalmente innovativo e trasgressivo<br />

rispetto ai canoni del<strong>la</strong> tradizione hollywoodiana è il suo<br />

approccio a questi temi, caratterizzato da un atteggiamento<br />

più incline all’ironia nostalgica che al dramma, più portato<br />

al<strong>la</strong> risoluzione esi<strong>la</strong>rante e spiazzante che a quelle<br />

ordinarie e prive di pathos del<strong>la</strong> narrazione contemporanea.<br />

Ma i film di Anderson <strong>sono</strong> anche e dichiaratamente<br />

un omaggio al<strong>la</strong> letteratura, non solo per l’uso del<strong>la</strong> voce<br />

off o per <strong>la</strong> suddivisione dei film in capitoli (“I<br />

Tenenbaum”) ma soprattutto per i libri, sempre inquadrati<br />

in dettaglio, e per i romanzi, i tanti romanzi che il suo<br />

cinema richiama al<strong>la</strong> mente. Su tutti prevale Salinger (per<br />

l’ambientazione, per New York o per <strong>la</strong> saga di una famiglia<br />

che ricorda) ma c’è pure <strong>la</strong> destrutturazione del<strong>la</strong><br />

famiglia dì William Faulkner, affondata nel sarcasmo surreale<br />

di RG. Wodehouse. Intere generazioni dì sorelle e<br />

fratelli letterari o cinematografici, che non pos<strong>sono</strong> fuggire<br />

<strong>la</strong> famiglia e che addirittura in quel<strong>la</strong> prigione vivono il<br />

grande amore o il grande odio in una coazione a ripetere.<br />

Proprio come i personaggi di Salinger, i fratelli Whitman<br />

crescono continuando a nascondersi o a scappare (in treno<br />

o in auto) o a vivere nel<strong>la</strong> paura del<strong>la</strong> morte fino a pensare<br />

di procurarse<strong>la</strong>. Il Jack Whitman di Jason Schwartzman<br />

ha il cuore spezzato dal<strong>la</strong> fidanzata e ha trascorso gli ultimi<br />

mesi a leccarsi le ferite nascosto in una stanza<br />

dell’Hotel Chevalier, il Peter di Adrien Brody fugge dal<strong>la</strong><br />

moglie incinta e dalle responsabilità del<strong>la</strong> sua condizione,<br />

mentre il Francis di Owen Wilson è convalescente dopo<br />

un incidente in auto non proprio casuale. Il treno<br />

Darjeeling Limited è allora pronto ad accogliere e a condurre<br />

simbolicamente i tre fratelli Whitman nel proprio<br />

passato per prenderne consapevolezza e metabolizzarlo. Il<br />

cinema ‘familiare’ di Anderson converge sempre e<br />

comunque nel<strong>la</strong> figura paterna: quel<strong>la</strong> che rispunta nelle<br />

loro vite chiedendo amore (“I Tenenbaum”) o quel<strong>la</strong><br />

assente ma presente e ingombrante come un set intero di<br />

valigie. Bauli, borse, borsoni e tracolle realizzate in cuoio<br />

naturale e firmate Luis Vuitton, che i fratelli Whitman, in<br />

treno o appiedati, si portano dietro come simbolo evidente<br />

di un passato da rie<strong>la</strong>borare e da abbandonare per diven-<br />

26<br />

tare grandi. <strong>Per</strong> i tre Whitman/Tenenbaum non è più<br />

tempo per prenderse<strong>la</strong> col padre ma è il tempo di scaricare<br />

<strong>la</strong> loro mancata felicità.<br />

Le famiglie di Anderson<br />

Dopo il successo de “I Tenenbaum”, Wes Anderson torna<br />

a fare un film che ne ricalca lo stile, i temi e le atmosfere.<br />

Ennesima saga familiare, disseminata di tic e di nevrosi?<br />

Forse, ma in questo film eccentrico e nostalgico c’è qualcosa<br />

di più. Contro i giudizi del<strong>la</strong> critica, che si affretta a<br />

certificare crescite o a deprecare regressioni, Anderson<br />

ribadisce se stesso e il suo cinema. Piaccia o non piaccia,<br />

insomma, il regista americano è lo stesso di “Rushmore”,<br />

dei “Tenenbaum” e delle “Avventure acquatiche di Steve<br />

Zissou”, i film che lo hanno <strong>la</strong>nciato nel firmamento delle<br />

promesse del cinema americano e che hanno creato un<br />

piccolo culto intorno a lui. Già da “Rushmore” sembrava<br />

possedere uno stile preferito, scelto come il colore del<strong>la</strong><br />

maglia del<strong>la</strong> propria squadra. Netto e inconfondibile. Ne<br />

“ll treno per Darjeeling” lo ripete esattamente. Montaggio<br />

elegante come un assolo ininterrotto, percorso da bellissimi<br />

ralenti e sincopi improvvise, graffiato dal rock che<br />

infonde alle immagini una dolce e speziata allucinazione,<br />

costruito attorno a scenografie dettagliate al millimetro da<br />

un set decoration maniacale e abitato da personaggi pieni<br />

di grazia e di malinconica eccentricità.<br />

C’è nel film un delicato rapporto d’amore tra fratelli, c’è<br />

il senso del distacco dato dal tempo e dal lutto (il viaggio,<br />

fisico ed esistenziale, si avvia all’indomani del<strong>la</strong> morte del<br />

padre), che stempera anche il più saldo dei rancori, senza<br />

ricorrere mai al buonismo e al<strong>la</strong> prevedibilità del<strong>la</strong> stagnante<br />

tradizione hollywoodiana. Anderson non si accontenta<br />

semplicemente di scompaginare le carte, di spazzare<br />

il sodalizio tra buoni sentimenti e famiglia che caratterizza<br />

buona parte del cinema odierno. <strong>Per</strong> lui <strong>la</strong> famiglia è il<br />

luogo fondatore del<strong>la</strong> nevrosi e del<strong>la</strong> schizofrenia, <strong>la</strong> cul<strong>la</strong><br />

dove vengono allevati e cresciuti in modo maldestro individui<br />

destinati, col tempo e nel tempo, a trasformarsi in<br />

adulti insicuri e divorati dalle loro patologie. Privati del<strong>la</strong><br />

loro infanzia per farsi carico delle carenze genitoriali, gli<br />

ex bambini prodigio, oggi adulti ossessivi in tute vintage<br />

Adidas (quel<strong>la</strong> di Ben Stiller ne “I Tenenbaum”) o nel perfezionismo<br />

griffato del<strong>la</strong> Canonero (quello dei fratelli<br />

Whitman in “Il treno per Darjeeling”), devono trovare una<br />

re<strong>la</strong>zione fra passato e presente, fra ciò che rimane tragicamente<br />

uguale e ciò che si trasforma. Non si tratta del<br />

passaggio da un’epoca all’altra, piuttosto del<strong>la</strong> deleteria<br />

predisposizione di una generazione a ereditare e ad amplificare<br />

gli errori del<strong>la</strong> precedente (il personaggio di Ben<br />

Stiller che ha vissuto con troppa responsabilità dimenticando<br />

di ‘fare’ il bambino, si è trasformato in un padre<br />

paranoico) o, nel<strong>la</strong> migliore delle ipotesi, a subirne pesantemente<br />

le conseguenze (il fratello di Owen Wilson è<br />

capace di compiere il gesto più estremo). Soltanto dopo<br />

l’atto liberatorio dell’ ‘abbandono’ dei bagagli paterni e<br />

nell’essere nomadi nel deserto, i Whitman ritroveranno <strong>la</strong><br />

fratel<strong>la</strong>nza e recupereranno i legami sopravvissuti, riconciliandosi<br />

col mondo e con quel bambino felice che tutti i<br />

Tenenbaum (o i Whitman) del mondo avrebbero voluto<br />

essere.


2<br />

Regia: Nadine Labaki<br />

Interpreti: Nadine Labaki (Layale), Yasmine Al Masri<br />

(Nisrine), Joanna Moukarzel (Rima), Gisèle Aouad<br />

(Jamale), Adel Karam (Youssef), Siham Haddad (Rose),<br />

Aziza Semaan (Lili), Fatme Safa (Siham), Dimitri<br />

Stancofski (Charles), Fadia Stel<strong>la</strong> (Christine), Ismail<br />

Antar (Bassam)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Francia/Libano<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Nadine Labaki, Jihad Hojeily, Rodney Al<br />

Haddad<br />

Sceneggiatura: Nadine Labaki, Jihad Hojeily, Rodney Al<br />

Haddad<br />

Fotografia: Yves Sehnaoui<br />

Musica: Khaled Mouzanar<br />

Montaggio: Laure Gardette<br />

Durata: 96’<br />

Produzione: Les Films des Toujours, Les Films de<br />

Beyrouth, Roissy Films, Sunny<strong>la</strong>nd, Arte France Cinema<br />

Distribuzione: Lady Film (2007)<br />

CARAMEL<br />

6-7 novembre <strong>2008</strong><br />

27<br />

Soggetto<br />

A Beirut oggi, alcune donne <strong>la</strong>vorano in un istituto<br />

di bellezza, altre lo frequentano. Layale, proprietaria<br />

del salone, é innamorata di Rabih, un uomo sposato.<br />

Nisrine, musulmana, sta per sposarsi ed è<br />

angosciata dal fatto che <strong>la</strong> prima notte di nozze suo<br />

marito scoprirà che lei non è vergine. Rima non<br />

riesce ad accettare di essere attratta dalle donne ma<br />

aspetta con ansia <strong>la</strong> visita di una cliente dai lunghi<br />

capelli. Jamale, cliente fedele, é ossessionata dal<strong>la</strong><br />

sua età e dal suo fisico. Rose capisce di aver sacrificato<br />

gli anni migliori e <strong>la</strong> sua felicità per occuparsi<br />

del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> maggiore.<br />

Valutazione<br />

‘Caramel’ è <strong>la</strong> tipica ceretta per depi<strong>la</strong>zione che si<br />

usa in Medio Oriente, una misce<strong>la</strong> di zucchero,<br />

limone e acqua, che portata ad ebolizione si trasforma<br />

in caramello. <strong>Per</strong> il suo film d’esordio,<br />

Nadine Labaki, nata in Libano nel 1974, mette<br />

insieme un microcosmo contemporaneo nel quale si<br />

agitano molte situazioni in chiaroscuro del<strong>la</strong> cronaca<br />

quotidiana. <strong>Per</strong> se, <strong>la</strong> Labaki si riserva il ruolo di<br />

Layale. Il Libano appare come esempio di un paese<br />

libero, aperto e con una società emancipata. Si<br />

par<strong>la</strong> di religione, di cristiani e musulmani sempre<br />

senza enfasi né preclusioni e si riflette senza gridare<br />

sui sentimenti, sul<strong>la</strong> difficoltà di un equilibrio


negli affetti, in famiglia, nei rapporti con gli altri.<br />

L’atmosfera un po’ crepusco<strong>la</strong>re risulta azzeccata e<br />

calzante, per un film che apre nuove occasioni di<br />

conoscenza in modo genuino e diretto.<br />

Famiglia Cristiana - Enzo Natta - 13/01/<strong>2008</strong><br />

Il titolo prende il nome dal<strong>la</strong> ceretta a base di zucchero<br />

e limone che le donne mediorientali usano<br />

per depi<strong>la</strong>rsi. A impiegar<strong>la</strong> quotidianamente per<br />

motivi professIonali è Nadine Labaki (<strong>la</strong> bel<strong>la</strong> e<br />

brava protagonista, nonché regista del film), proprietaria<br />

di un salone di bellezza dove un gruppo dì<br />

donne si scambia ogni giorno confidenze e segreti.<br />

Come nel<strong>la</strong> Tel Aviv di “Meduse”, anche nel<strong>la</strong><br />

Beirut di “Caramel” non ci <strong>sono</strong> echi di guerra o di<br />

azioni terroristiche e gli unici attentati <strong>sono</strong> quelli<br />

al cuore. Una lettera rovesciata e penzo<strong>la</strong>nte nell’insegna<br />

del locale <strong>la</strong>scia però intuire che da quelle<br />

parti l’equilibrio è instabile e che di estrema precarietà<br />

si nutrono i rapporti umani e sentimenti<br />

delle donne che frequentano il ‘sì Belle’.<br />

Tenero e romantico, “Caramel” profuma di sensibilità<br />

per il modo in cui par<strong>la</strong> di donne che inseguono<br />

sogni spesso impossibili: una ‘ricerca del<strong>la</strong> felicità’<br />

in salsa libanese, dove speranze, illusioni e tristi<br />

risvegli danno vita a tante piccole tessere che<br />

sfumano l’una nell’altra fino a ricomporsi in un<br />

malinconico mosaico sul<strong>la</strong> condizione femminile.<br />

Il film del<strong>la</strong> Labaki va comunque al di là delle<br />

vicende personali per farsi portatore di un messaggio<br />

di pace e di coesistenza tutt’altro che utopico,<br />

che si realizza nell’intesa che lega le protagoniste.<br />

Il che, in un Paese tanto <strong>la</strong>cerato, non è argomento<br />

da sottovalutare.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 21/12/2007<br />

Cinque donne, un salone di bellezza, un <strong>la</strong>birinto di<br />

contraddizioni chiamato Beirut, un mondo in cui<br />

shampoo e cerette si intrecciano a codici e tabù ora<br />

cristiani ora musulmani, e a una visione molto complicata<br />

e molto mediorientale del<strong>la</strong> bellezza, del<strong>la</strong><br />

femminilità, del<strong>la</strong> famiglia... È “Caramel”, esordiorive<strong>la</strong>zione<br />

del<strong>la</strong> 37enne Nadine Labaki, anche protagonista<br />

nei panni del<strong>la</strong> proprietaria del salone,<br />

centro di un mondo in cui talvolta è difficile distinguere<br />

fra desideri e realtà, ma come in certi musical<br />

francesi tutto sembra poter succedere o almeno<br />

aggiustarsi al<strong>la</strong> meno peggio. Fino a far soffiare su<br />

questo carosello di amori impossibili, passioni<br />

senili, omosessualità repressa, chirurgia estetica,<br />

cliniche per ricostruire <strong>la</strong> verginità, <strong>la</strong> brezza di un<br />

colorato, doloroso ottimismo. Con qualche picco<strong>la</strong><br />

concessione al gusto globalizzato delle nuove<br />

‘soap’. Ma anche molte finezze inattese nel<strong>la</strong><br />

28<br />

costruzione del racconto e nel<strong>la</strong> scelta felice di<br />

attrici tutte non professioniste ma vivaci, coraggiose,<br />

convincenti, affiatatissime.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Maurizio Porro -<br />

04/01/<strong>2008</strong><br />

In principio fu Cukor a far film intessuti delle<br />

chiacchiere femminili (“Donne” del ‘39), poi venne<br />

don Pedro Almodóvar, poi i “Fiori d’acciaio” e infine<br />

i serial tv delle signore e signorine frustrate. In<br />

stile, risponde dal Libano una brava regista-attrice,<br />

Nadine Labaki che invita ad ascoltare storie di<br />

donne tra le sciampiste di oggi a Beirut. Donne sull’orlo<br />

e oltre di una crisi di nervi, senza accusare né<br />

<strong>la</strong> religione né <strong>la</strong> politica. Scherzano, litigano, si<br />

illudono e deludono, sognano o ripudiano uomini,<br />

hanno tentazioni gay e portano il velo o guardano<br />

oltre e vorrebbero rifarsi una verginità in tutti i<br />

sensi. A ciascuna il suo, anche <strong>la</strong> poverina con <strong>la</strong><br />

sorel<strong>la</strong> schizzata. Il tema anche metaforico dell’estetismo<br />

(curarsi fuori per migliorare dentro) porta<br />

le ragazze al<strong>la</strong> sincerità: il film è corposo e sensuale<br />

come un massaggio-messaggio con panno caldo.<br />

Il caramel fa parte del<strong>la</strong> ceretta depi<strong>la</strong>nte: tradizione<br />

o moderno?<br />

L’Unità - Alberto Crespi - 20/12/2007<br />

È un film libanese, e già questa è una notizia:<br />

pochissimi film medio-orientali escono nei nostri<br />

cinema. È un film diretto (e interpretato) da una<br />

donna, cosa che in Libano non è una novità - qualcuno<br />

ricorderà i notevoli film, documentari e non,<br />

diretti dal<strong>la</strong> libanese Jocelyn Saab negli anni 70. La<br />

vostra nuova attrice preferita - se andate a vedere<br />

“Caramel” lo diventerà, state tranquilli - si chiama<br />

Nadine Labaki. Come interprete è molto nota sulle<br />

sponde Est e Sud del Mediterraneo, come regista è<br />

un’esordiente, ma il film ha avuto un grande successo<br />

al festival di Toronto ed è andato molto bene<br />

in Francia, paese cinematograficamente più civile<br />

del nostro.<br />

“Caramel” è una commedia ambientata in un salone<br />

di bellezza: il titolo deriva dall’uso del caramello<br />

per <strong>la</strong> depi<strong>la</strong>zione femminile. Il soggetto non è<br />

nuovissimo: qualche anno fa, in Francia, fece furore<br />

“Venus Beauté”, film tutto al femminile anch’esso,<br />

guarda caso, diretto da una donna l’attrice,<br />

Tonie Marshall. Naturalmente Nadine Labaki trasporta<br />

il soggetto nel contesto del Libano, dove <strong>la</strong><br />

coesistenza fra cristiani e musulmani - a loro volta<br />

frammentati in una miriade di etnie - è storicamente<br />

difficile. Di qui il personaggio di Nisrine (interpretata<br />

da Jasmine Elmasri), socia nel salone del<strong>la</strong><br />

proprietaria Layale (<strong>la</strong> stessa Labaki): una ragazza


musulmana, fidanzata ma non vergine, che ha il tremendo<br />

problema di confessare il suo ‘passato’ al<br />

suo ragazzo e al<strong>la</strong> sua famiglia super-tradizionale;<br />

ma anche i problemi di Layale, corteggiata da un<br />

poliziotto ma propensa a una condizione di single<br />

che agli occhi di tutti appare scandalosa. “Caramel”<br />

usa l’unità aristotelica di luogo per raccontare le<br />

storie quotidiane di un gruppo di donne libanesi,<br />

nel<strong>la</strong> Beirut piccolo-borghese di oggi. Spiega<br />

Nadine: ‘Tutti pensano che il Libano sia un’eccezione<br />

nel Medio Oriente, che sia molto più libero e<br />

moderno di altri paesi is<strong>la</strong>mici. In parte è così, ma<br />

è vero anche il contrario. La cultura è ancora molto<br />

tradizionale, <strong>la</strong> religione è opprimente, e le donne<br />

hanno sempre paura di contraddire il proprio ruolo<br />

di mogli e di madri. Il mio film racconta questa<br />

paura’. La cosa bel<strong>la</strong> è che lo fa con toni da commedia<br />

popo<strong>la</strong>re, con un umorismo so<strong>la</strong>re e concreto.<br />

Un film da vedere.<br />

Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 13/01/<strong>2008</strong><br />

Il mondo visto da un salone di bellezza. A mandarlo<br />

avanti, in quel di Beirut, <strong>sono</strong> tre amiche alquanto<br />

chiacchierine (s’è mai visto un salone di bellezza<br />

in cui non si par<strong>la</strong>, par<strong>la</strong>, par<strong>la</strong>...?): Layal,<br />

Jamale e Rima. Amiche sì, ma quanto <strong>sono</strong> diverse!<br />

La prima, un vero schianto, fa parte del<strong>la</strong> comunità<br />

cristiana; <strong>la</strong> seconda, anche lei un tipino niente<br />

male, è musulmana. La terza di quale religione sia<br />

non si dice, anche se <strong>la</strong> sua identità sessuale - è<br />

lesbica - <strong>la</strong> rende marginale a tutti i gruppi costituiti.<br />

I problemi alle tre protagoniste di “Caramel”,<br />

graziosa opera prima di Nadine Labaki, non mancano<br />

mai. Layal si è andata a innamorare di un tizio<br />

sposato, che vede ovviamente di nascosto, attendendone<br />

<strong>la</strong> chiamata a colpi di c<strong>la</strong>cson e al cellu<strong>la</strong>re.<br />

Jamale sta per sposarsi con un bravo ragazzo,<br />

ma, ahi lei, non è stato il primo: urge trovare una<br />

clinica in cui recuperare <strong>la</strong> perduta verginità.<br />

Intanto Rima-dagli-occhi-tristi ha forse scovato<br />

una compagna tra le clienti del negozio. Dove, tra<br />

una ceretta e l’altra, passano tante altre donne: tristi<br />

o felici, calme o affannate, in un angolo piccolo<br />

piccolo del<strong>la</strong> grande, caotica Beirut.<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi - 21/12/2007<br />

Paese travagliatissimo il Libano, donde giungono<br />

di continuo al<strong>la</strong>rmi di violenza e sangue. <strong>Per</strong>ò a<br />

dispetto dell’inquietante contesto, anche sotto i<br />

cieli mediorientali si può vivere come dappertutto<br />

una normalità intessuta di piccole cose, gioie e<br />

dolori, solitudini e amori. Lo dimostra “Caramel”<br />

di Nadine Labaki, 32enne attrice al debutto nel<strong>la</strong><br />

regia, che lo scorso maggio al<strong>la</strong> Quinzaine di<br />

29<br />

Cannes ha suscitato l’entusiasmo del pubblico per<br />

<strong>la</strong> grazia con cui sa introdursi nel<strong>la</strong> complessa realtà<br />

di Beirut attraverso un piccolo spaccato femminile.<br />

In un istituto di bellezza si intrecciano le esistenze<br />

di cinque donne di varia età e ognuna alle<br />

prese con un suo problema. La proprietaria del<br />

locale, <strong>la</strong> bel<strong>la</strong> Layale ha una re<strong>la</strong>zione con un<br />

uomo sposato, <strong>la</strong> musulmana Nisrine non è più vergine<br />

come crede il futuro sposo, Rima ha inclinazioni<br />

omosessuali; mentre <strong>la</strong> quarantenne Jamale<br />

ha orrore di invecchiare e <strong>la</strong> matura Rosa, di fede<br />

cristiana, una volta di più deve rinunciare all’amore<br />

per via di una sorel<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ta di mente. Nel<strong>la</strong><br />

commedia dolceamara i rapporti acquistano calore<br />

e colore mediterranei; e in questo di<strong>la</strong>niato angolo<br />

del mondo, sempre sull’orlo del<strong>la</strong> guerra civile,<br />

l’affresco di una cronaca quotidiana dove le diversità<br />

convivono in piena armonia risuona come un<br />

appello al<strong>la</strong> pace. È un messaggio ben colto da<br />

alcuni entusiasti spettatori libanesi che sulle pagine<br />

di Internet invitano a vedere un film che fuori da<br />

ogni settarismo par<strong>la</strong> con tanta verità del loro<br />

paese.<br />

L’Eco di Bergamo - Achille Frezzato - 29/12/2007<br />

Caramel è una pasta adesiva (una misce<strong>la</strong> di zucchero,<br />

limone ed acqua), usata nei paesi del Medio<br />

Oriente per <strong>la</strong> depi<strong>la</strong>zione femminile e “Caramel” è<br />

il titolo di un film, una coproduzione franco-libanese,<br />

presentato, con successo di pubblico e di critica<br />

a Cannes il maggio scorso nel<strong>la</strong> ‘Quinzaine des<br />

réalisateurs’ e candidato all’Oscar 2007 come<br />

miglior film straniero. E’ il primo lungometraggio<br />

cosceneggiato, diretto e interpretato dal<strong>la</strong> trentaquattrenne<br />

libanese Nadine Labari, <strong>la</strong> quale, fra il<br />

1998 ed il 2003, ha realizzato cortometraggi, spot<br />

pubblicitari e videoclip musicali, ottenendo diversi<br />

premi.<br />

Una Beirut babelica e dinamica, dove non vi <strong>sono</strong><br />

tracce delle devastazioni del<strong>la</strong> guerra, fa da sfondo<br />

alle vicende di alcune donne di età e generazioni<br />

diverse, che <strong>la</strong>vorano e si incontrano in un salone di<br />

bellezza: Layale, <strong>la</strong> proprietaria (Nadine Labari), di<br />

religione cristiana, ancora nubile, vive con i genitori:<br />

corteggiata da un poliziotto, ha una re<strong>la</strong>zione<br />

con un uomo sposato, una re<strong>la</strong>zione frustrante, che<br />

le fa talvolta trascurare le clienti, anche <strong>la</strong> più affezionata,<br />

Jamale (Gisèle Aouad), una donna che è<br />

stata da poco <strong>la</strong>sciata dal marito per una più giovane<br />

(per <strong>la</strong> famiglia ha rinunciato al<strong>la</strong> carriera di<br />

attrice) e che non accetta il passare degli anni.<br />

Nisrine (Yasmine Al Masri), di qualche anno più<br />

giovane di Jamale, si confida spesso con lei: musulmana<br />

e non più vergine, sta per sposarsi con un cor-


eligionario e teme <strong>la</strong> reazione sua e del<strong>la</strong> famiglia<br />

tradizionalista in una società dominata dal maschilismo.<br />

<strong>Per</strong> questo entrambe, senza darlo a vedere,<br />

comprendono il dramma di Rima, <strong>la</strong> shampista<br />

(Joanna Moukarzel), una venticinquenne silenziosa<br />

e introversa, attratta dalle donne.<br />

Tutte conoscono Rose (Siham Haddad), un’anziana<br />

sarta che abita accanto al salone e che ha dedicato<br />

<strong>la</strong> sua esistenza al<strong>la</strong> cura del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> (Aziza<br />

Semaan), un’amabile vecchietta un po’ fuori di<br />

senno. Nell’arco di una giornata, Ie donne di<br />

“Caramel”, interpretate, ad eccezione di Layale, da<br />

attrici non professioniste, si aiutano nell’affrontare<br />

situazioni e problemi che, condizionate da convenzioni<br />

sia sociali che culturali, incontrano con gli<br />

uomini, con l’amore, col matrimonio, con <strong>la</strong> maternità,<br />

par<strong>la</strong>ndone con <strong>la</strong> libertà e l’intimità, con <strong>la</strong><br />

confidenza e <strong>la</strong> complicità, proprie dell’ ‘altra metà<br />

del cielo’.<br />

“Caramel” non ha ambizioni sociologiche, non<br />

sonda <strong>la</strong> società libanese: mostra come alcune<br />

donne del<strong>la</strong> Beirut piccolo-borghese dei nostri giorni<br />

vivono nel timore di non attenersi al ruolo di<br />

mogli e di madri, destinato loro dalle tradizioni.<br />

Una condizione ingrata, descritta non con accenti e<br />

cadenze drammatiche, ma nei toni, umoristicamente<br />

concreti, di un racconto corale, in cui ben si<br />

coniugano motivi melodrammatici e<br />

situazíoni/notazioni tipiche del<strong>la</strong> commedia sentimentale<br />

e di costume.<br />

Rimarchevole per <strong>la</strong> sua messinscena caratterizzata,<br />

come altri ha notato, da ‘raffinata, lieve sensualità’<br />

(<strong>la</strong> luce, il colore vi giocano un ruolo rilevante),<br />

“Caramel” raffigura storie commoventi, appassionate,<br />

divertenti su amori tormentati e/o diversi, sulle<br />

ansie del matrimonio, sul silenzio fra universi differenti,<br />

sul<strong>la</strong> calda complice amicizia ignara di qualsiasi<br />

limite, sul<strong>la</strong> mestizia dell’ineluttabile sfiorire.<br />

30<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli -<br />

30/12/2007<br />

Nelle fiere di paese, veniva <strong>la</strong>vorato con vigorose<br />

bracciate. I banconisti lo appendevano agli uncini,<br />

lo tiravano e ripiegavano ben bene, poi lo affettavano<br />

in prelibati bocconcini. A Beirut, Libano, le<br />

ragazze nel salone di bellezza usano il Caramel per<br />

depi<strong>la</strong>re le clienti, stendendolo sul<strong>la</strong> pelle e strappandolo,<br />

con qualche raccapriccio di signore e<br />

signorine. Su questa trovata, e senza dimenticare il<br />

memorabile “Donne” (1939) di George Cukor, <strong>la</strong><br />

splendente attrice trentenne Nadine Labaki debutta<br />

nel<strong>la</strong> regia, allineando <strong>la</strong> nubile Layale innamorata<br />

di un uomo sposato, <strong>la</strong> dolce Rima attratta da una<br />

sognante brunetta, l’estroversa Jarnale che aspira<br />

ad un’impossibile carriera nello spettacolo; e l’anziana<br />

sarta Rose, corteggiata dal vecchio Charles,<br />

ma doverosamente legata al<strong>la</strong> soave demenza del<strong>la</strong><br />

sorel<strong>la</strong> Lilli, altrimenti vagabonda per le vie del<strong>la</strong><br />

città. Diamo a questi personaggi <strong>la</strong> libertà di scegliere<br />

l’innocua letizia del quartiere. Fra bigodini,<br />

cerette; <strong>la</strong>vabi per curare l’acconciatura, ciprie,<br />

rimmel, mascara e ingredienti di varia cosmesi,<br />

s’intravede una realtà minima ben lontana dal<strong>la</strong><br />

squarciante brutalità del<strong>la</strong> guerra che incombe in<br />

quelle zone. Labaki esalta <strong>la</strong> religione, il santino<br />

del<strong>la</strong> Madre Addolorata, i canti arabi inframmezzati<br />

da litanie e riti nuziali di matrice decisamente<br />

occidentale. Accennando soltanto all’oltranzismo<br />

poliziesco; e mitigandolo, anzi, in una sorta di<br />

benevo<strong>la</strong> ammenda. Letto in filigrana, il film è un<br />

gioioso inno al<strong>la</strong> pace, sia pure insidiata dalle piccole<br />

noie degli amori disattesi e dei sentimenti traditi.<br />

Fulgente nel<strong>la</strong> sua bellezza, Nadine Labaki<br />

guida il coro con autorevolezza, mettendo a profitto<br />

parecchie lezioni italiche: si vedano. nel provino<br />

di Jarnale, i riferimenti a Fellini e a Tornatore.


3<br />

Regia: Antonello Grimaldi<br />

Interpreti: Nanni Moretti (Pietro Pa<strong>la</strong>dini), Valeria Golino<br />

(Marta), Isabel<strong>la</strong> Ferrari (Eleonora Simoncini), Alessandro<br />

Gassman (Carlo), Blu Yoshimi Di Martino (C<strong>la</strong>udia),<br />

Hippolyte Girardot (Jean-C<strong>la</strong>ude), Kasia Smutniak<br />

(Jo<strong>la</strong>nda), Denis Podalydès (Thierry), Charles Berling<br />

(Boesson), Silvio Or<strong>la</strong>ndo (Samuele), Alba Rohrwacher<br />

(Annalisa), Manue<strong>la</strong> Morabito (Maria Grazia), Roberto<br />

Nobile (Taramanni), Babak Karim (Mario), Tatiana Lepore<br />

(Mamma di Matteo), Beatrice Bruschi (Benedetta), Cloris<br />

Brosca (Psicoterapeuta), Antonel<strong>la</strong> Attili (Maestra Gloria),<br />

Sara D’Amario (Francesca), Stefano Guglielmi (Matteo),<br />

Nestor Saied (Marito Simoncini), Dina Braschi (Donna<br />

anziana al Ga<strong>la</strong>), Ester Caval<strong>la</strong>ri (Lara), Anna Gigante<br />

(Mamma), Anna Gigante (Amica di Maria Grazia),<br />

Valentina Carnelutti (Amica di Maria Grazia)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Italia<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Sandro Veronesi (romanzo)<br />

Sceneggiatura: Nanni Moretti, Laura Paolucci,<br />

Francesco Piccolo<br />

Fotografia: Alessandro Pesci<br />

Musica: Paolo Buonvino<br />

Montaggio: Alessandro Pesci<br />

Durata: 112’<br />

Produzione: Domenico Procacci <strong>Per</strong> Fandango In<br />

Col<strong>la</strong>borazione Con Rai Cinema, Portobello Pictures e<br />

Phoenix Film Investment<br />

Distribuzione: 01 Distribution (<strong>2008</strong>)<br />

CAOS CALMO<br />

13-14 novembre <strong>2008</strong><br />

31<br />

Soggetto<br />

Estate, litorale romano. Pietro, 43 anni, e il fratello Carlo<br />

hanno appena salvato <strong>due</strong> donne che stavano affogando.<br />

Nessuno si è accorto di loro e, quando tornano a casa,<br />

Pietro si trova di fronte al<strong>la</strong> moglie, morta da poco per un<br />

improvviso ictus. Tempo dopo, in città, arriva il momento<br />

per <strong>la</strong> figlioletta C<strong>la</strong>udia, dieci anni, di riprendere <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>,<br />

Pietro l’accompagna e, poi, quasi di colpo, decide di<br />

fermarsi lì, di fronte all’edificio sco<strong>la</strong>stico.<br />

Estraniandosi da tutto il resto, resta solo, aspettando l’uscita<br />

del<strong>la</strong> figlia per tornare a casa con lei. In quel<strong>la</strong> piazza<br />

comincia così a scorrere <strong>la</strong> sua vita, arrivano i colleghi<br />

d’ufficio, portano i problemi personali e dell’azienda:<br />

fusioni, cariche, retribuzioni, licenziamenti. Passano i<br />

giorni e le stagioni. Pietro incontra <strong>la</strong> donna salvata,<br />

Eleonora, e con lei ha un rapido, bruciante incontro d’amore.<br />

Pietro aspetta di liberarsi dal senso di colpa. Forse<br />

ci sta riuscendo.<br />

Valutazione<br />

All’origine c’è, come si sa, il libro omonimo scritto da<br />

Sandro Veronesi e insignito del Premio Strega 2006: libro<br />

non facile da tradurre in immagini perché scritto in prima<br />

persona, ossia in ‘soggettiva’. L’operazione poi é resa<br />

meno catalogabile per <strong>la</strong> presenza nel ruolo del protagonista<br />

di Nanni Moretti, forse il più egocentrico autore (attore/regista)<br />

del cinema italiano. Moretti si ca<strong>la</strong> nei panni<br />

del dirigente di una società di produzione televisiva nel<br />

momento in cui <strong>la</strong> vita quotidiana comincia a ruotargli<br />

intorno. Pietro sa che dovrebbe arrivare il momento del


crollo psicologico, conseguenza del senso di colpa che lo<br />

possiede. Pietro aspetta ma il dolore non arriva. Anzi <strong>la</strong><br />

donna salvata si rifà viva e con lei succede l’occasione di<br />

un rapporto tutto ‘carnale’ e ‘esteriore’, che dovrebbe<br />

segnare <strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> confusione. Pietro voleva soffrire <strong>la</strong><br />

perdita del<strong>la</strong> moglie ma al posto del<strong>la</strong> sofferenza c’è un<br />

rimesco<strong>la</strong>mento forte ma anche “calmo”, una presa di<br />

distanza dal<strong>la</strong> vita precedente ma senza disperazione.<br />

Qual è allora <strong>la</strong> realtà, <strong>la</strong> vita autentica? Forse ha ragione<br />

il suo collega Samuele, che si <strong>la</strong>scia andare ad una<br />

bestemmia ‘faticosa’ prima di partire per l’Africa dove<br />

raggiungerà il fratello missionario? Il copione resta sospeso,<br />

altalenante, un po’ troppo mascherato dietro il “non<br />

luogo” del<strong>la</strong> piazza come microcosmo, anche se non privo<br />

di suggestioni.<br />

Famiglia Cristiana - Enzo Natta - 24/02/<strong>2008</strong><br />

D’estate, al mare. Mentre <strong>la</strong> moglie muore, stroncata da<br />

un infarto, Pietro Pa<strong>la</strong>dini sta salvando una sconosciuta<br />

colta da improvviso malore in mezzo alle onde. Comincia<br />

l’anno sco<strong>la</strong>stico. Pietro accompagna a scuo<strong>la</strong> <strong>la</strong> figlia di<br />

10 anni, ma invece di recarsi al <strong>la</strong>voro decide di aspettare<br />

<strong>la</strong> fine delle lezioni nel<strong>la</strong> piazzetta antistante l’edificio<br />

sco<strong>la</strong>stico. E cosi l’indomani e i giorni che verranno. Fino<br />

a che il dolore non esploderà in lui scuotendolo da uno<br />

stato catatonico che sembra averlo pietrificato...<br />

Ancora un’e<strong>la</strong>borazione del lutto per Nanni Moretti, questa<br />

volta nelle sole vesti di attore. Se nel<strong>la</strong> “Stanza del<br />

figlio” un nucleo familiare si frantumava, in “Caos calmo”<br />

si ricompone attraverso un rapporto faticosamente ricucito.<br />

Tutto tessuto sul te<strong>la</strong>io dei contrasti, il film di<br />

Antonello Grimaldi passa dal preludio di un abbraccio che<br />

potrebbe rive<strong>la</strong>rsi mortale (<strong>la</strong> sequenza del salvataggio)<br />

all’epilogo dell’abbraccio vitale che in un’esperienza<br />

tanto passionale quanto traumatica si scioglie in un atto<br />

liberatorio, esplosione di un dolore a lungo represso e mai<br />

sfogato. Come <strong>la</strong> frase palindroma che diverte tanto <strong>la</strong><br />

figlioletta perché, letta al contrario, ha sempre lo stesso<br />

significato, anche Pietro si rende conto che <strong>la</strong> vita può<br />

essere reversibile.<br />

Tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Veronesi edito<br />

da Bompiani, “Caos calmo” è un film complesso che stimo<strong>la</strong><br />

una serie di riflessioni sul dolore, sul<strong>la</strong> solitudine,<br />

sull’incapacità di comunicare da parte di un campionario<br />

di personaggi che evidenzia tutte le contraddizioni e le<br />

monomanie dell’attuale condizione umana. Con un Nanni<br />

Moretti che di questo caos quotidiano dell’anima è l’interprete<br />

ideale grazie al<strong>la</strong> sua aria svagata, assente, distratta.<br />

Il Tempo - Gian Luigi Rondi - 10/02/<strong>2008</strong><br />

‘Caos calmo’ di Sandro Veronesi era un romanzo faticoso<br />

da leggersi, affol<strong>la</strong>to a dismisura di personaggi secondari<br />

però incentrato su un protagonista, anche voce narrante,<br />

che morta all’improvviso sua moglie, temendo conseguenze<br />

negative di quel<strong>la</strong> perdita sul<strong>la</strong> figlia decenne,<br />

<strong>la</strong>sciava un alto incarico in un’impresa di prestigio e se ne<br />

stava sul<strong>la</strong> sua auto tutto il giorno di fronte al<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong><br />

32<br />

del<strong>la</strong> bambina, intento solo a quello; mentre attorno amici,<br />

parenti, colleghi gli si alternavano quasi tutti con un problema<br />

da risolvere o con una crisi personale, nel<strong>la</strong> vita privata<br />

e sul <strong>la</strong>voro.<br />

Antonello Grimaldi, dopo alcuni film modesti e molta<br />

televisione popo<strong>la</strong>re, affronta adesso quel romanzo, sintetizzando<br />

al massimo i personaggi, anche come numero, e<br />

apportando, al<strong>la</strong> trama, alcune precise varianti. Intanto il<br />

luogo dell’azione: non più a Mi<strong>la</strong>no ma Roma (nonostante<br />

un finale con neve fitta). Poi quell’auto su cui il protagonista<br />

si era iso<strong>la</strong>to. C’è ancora, ma di sfondo, sostituita<br />

in prevalenza da una panchina nei giardinetti prospicienti<br />

<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>. Pos<strong>sono</strong> accertarsi, meno facile consentire sempre<br />

sulle sintesi operate nel<strong>la</strong> descrizione di tutti quei personaggi<br />

che si fanno via via incontro al protagonista, quasi<br />

sempre infastidendolo, sia che vogliono coinvolgerlo in<br />

trame al livello del suo <strong>la</strong>voro (nell’impresa di cui fa parte<br />

si stanno minacciando manovre di vario tipo), sia che vengano<br />

a discutere questioni familiari, non ultimo quel suo<br />

lutto da cui, forse, intende estraniarsi.<br />

I caratteri <strong>sono</strong> indicati spesso in superficie, limitandoli<br />

solo a delle facce e anche <strong>la</strong> tanto chiacchierata scena di<br />

sesso, nel libro minutamente motivata, finisce per risultare<br />

così improvvisa da rischiare quasi il gratuito.<br />

Il film, tuttavia, pur con questi scompensi soprattutto a<br />

livello di racconto e di psicologie, un suo peso finisce per<br />

averlo. <strong>Per</strong> merito, soprattutto, del<strong>la</strong> presenza di Nanni<br />

Moretti nelle vesti del protagonista. Forse non è il personaggio<br />

sbandato, sospeso, irritabile pensato da Veronesi,<br />

ma è, con molta più logica, uno dei quei personaggi fra<br />

nevrosi e vero dolore che tanta parte hanno avuto nel cinema<br />

di Moretti: crucciato, in equilibrio fra dubbi e tormenti,<br />

con una mimica che dice di più, sulle contraddizioni e<br />

le ansie, di quanto non dicano le battute di dialogo che gli<br />

si ascoltano attorno.<br />

Lo coadiuva egregiamente un Alessandro Gassman rinnovato,<br />

grintoso, incisivo. Cui si accompagnano Isabel<strong>la</strong><br />

Ferrari (nel<strong>la</strong> pagina erotica) e Valeria Golino, una cognata<br />

confusa.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 08/02/<strong>2008</strong><br />

L’unica scena di sesso è goffa: Nanni Moretti tocca un<br />

capezzolo di Isabel<strong>la</strong> Ferrari come se premesse il campanello<br />

dell’interno sei; lo sforzo maggiore di tutti è di non<br />

<strong>la</strong>sciar vedere neppure mezza natica, il che toglie all’insieme<br />

s<strong>la</strong>ncio e necessità. “Caos calmo” di Antonello<br />

Grimaldi, tratto dal romanzo di Sandro Veronesi<br />

(Bompiani) comincia come un bel film, poi si perde un<br />

po’: è il tentativo di raccontare il percorso di un dolore,<br />

dall’attimo in cui colpisce al momento in cui <strong>la</strong> sofferenza<br />

comincia ad attenuarsi.<br />

Nanni Moretti torna a casa dal mare e trova <strong>la</strong> moglie<br />

improvvisamente morta. Nello smarrimento, applica quei<br />

comportamenti professionalmente suggeriti al manager<br />

che è: calma, imperturbabilità, efficienza pratica, una specie<br />

di autoanestesia che non <strong>la</strong>scia filtrare i sentimenti o li<br />

conge<strong>la</strong>. Si concentra sul<strong>la</strong> sua bambina di dieci anni: ogni<br />

mattina <strong>la</strong> accompagna a scuo<strong>la</strong> e l’aspetta sino al<strong>la</strong> fine


delle lezioni, seduto su una panchina o dentro l’auto in un<br />

giardinetto davanti all’edificio. Lì vanno a trovarlo amici,<br />

parenti, colleghi: ambasciatori inviati dal<strong>la</strong> vita per richiamarlo<br />

a sé. Ma delle civetterie del<strong>la</strong> molesta cognata né<br />

delle fusioni aziendali in atto a lui importa nul<strong>la</strong>. Un pianto<br />

in auto, una stretta passionale <strong>sono</strong> i segni di un’umanità<br />

ritrovata; <strong>la</strong> rinuncia ad accompagnare <strong>la</strong> figlia (è lei<br />

che glielo chiede) è il segno d’una normalità recuperata.<br />

È una vera sfida raccontare una vicenda del tutto interiore,<br />

che può esprimersi in film soltanto con battute o movimenti<br />

esteriori: se non ci fosse l’interpretazione di Nanni<br />

Moretti, qualcosa di superficiale sciuperebbe il film realizzato<br />

con attenzione e cura. Apparizione folgorante:<br />

Roman Po<strong>la</strong>nski, figura carica di cinema e di Storia, nel<strong>la</strong><br />

particina d’un presidente con un bellissimo cappotto.<br />

Avvenimenti - Callisto Cosulich - 08/02/<strong>2008</strong><br />

L’attore Nanni Moretti finora non si era mai dissociato<br />

dall’autore. Neanche nei <strong>due</strong> film in cui aveva delegato <strong>la</strong><br />

regia ad altri: Daniele Luchetti ne “Il portaborse”, Mimmo<br />

Calopresti ne “La seconda volta”. Stavolta, però, Nanni è<br />

arrivato in seconda battuta. Ideatore e produttore di “Caos<br />

calmo” è stato Domenico Procacci che ha sottoposto l’idea<br />

di tradurre sullo schermo il romanzo di Sandro<br />

Veronesi al regista Antonello Grimaldi. Moretti ha col<strong>la</strong>borato<br />

semplicemente al<strong>la</strong> sceneggiatura. Eppure il comune<br />

spettatore stenterebbe a distinguere questo dagli altri<br />

film, di cui Nanni è l’intero responsabile. Le battute del<br />

dialogo sembrano tutte farina del suo sacco e in quanto al<br />

fatto che l’ironia, <strong>la</strong> satira, <strong>la</strong> politica, materie prime del<br />

‘morettismo’, qui siano ridotte al minimo, non costituisce<br />

una sorpresa. Del resto, sfidiamo chiunque a riconoscere<br />

<strong>la</strong> personalità di Antonello Grimaldi, regista che dal 1988<br />

al 2001 ha diretto solo quattro film, per poi rifugiarsi nell’anonimato<br />

televisivo. Forse facendo tesoro del<strong>la</strong> sua pratica<br />

in tivù, Grimaldi ha avuto l’accortezza di rinunciare a<br />

improprie ambizioni autoriali, <strong>la</strong>sciando a Moretti <strong>la</strong> totale<br />

libertà nell’esprimersi dinanzi al<strong>la</strong> cinepresa, preoccupandosi<br />

invece di attorniarlo con un ottimo cast di attori<br />

nei ruoli secondari, dai più che col<strong>la</strong>udati Alessandro<br />

Gassman, Silvio Or<strong>la</strong>ndo e Valeria Golino, al<strong>la</strong> bimba Blu<br />

Yoshimi, autentica rive<strong>la</strong>zione nel<strong>la</strong> parte di C<strong>la</strong>udia, <strong>la</strong><br />

figlia decenne del Pa<strong>la</strong>dini, al<strong>la</strong> quale il vedovo si dedica<br />

anche durante le ore di scuo<strong>la</strong>, attendendo su una panchina.<br />

Un modo - in certo qual modo - polemico di disertare<br />

i propri impegni di <strong>la</strong>voro e di riesaminare con mente distaccata<br />

il proprio ruolo nel mondo che lo circonda. La<br />

panchina diviene così una sorta di ufficio, dove via via<br />

incontra le persone che gli <strong>sono</strong> vicine; mentre il giardinetto<br />

di fronte all’edificio sco<strong>la</strong>stico, dove <strong>la</strong> panchina è<br />

sita, si trasforma in un teatrino all’aperto. Unico ma<br />

importante interludio, il cameo erotico che Moretti intreccia<br />

con Isabel<strong>la</strong> Ferrari sequenza piuttosto inedita, data<br />

l’età dei <strong>due</strong> attori. Nuocciono certe coincidenze, dettate<br />

dal destino, che incorniciano il racconto, accettabili al<strong>la</strong><br />

lettura, ma non al<strong>la</strong> visione, dove <strong>la</strong> norma premia più dell’eccezione,<br />

nel rappresentare in modo drammatico i casi<br />

del<strong>la</strong> vita.<br />

33<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli - 09/03/<strong>2008</strong><br />

L’ossimoro e il palindromo <strong>sono</strong> figure morfologiche sulle<br />

quali si regge il bellissimo romanzo di Sandro Veronesi e,<br />

oggi, l’affascinante, meditabondo film diretto da<br />

Antonello Grimaldi, sotto lo straordinario auspicio carismatico<br />

di Nanni Moretti. “Caos calmo”, infatti, l’accostamento<br />

contraddittorio di <strong>due</strong> vocaboli in lotta l’uno<br />

contro l’altro (il caos non è calmo, bensì turbolento); e<br />

palindrome <strong>sono</strong> le parole che <strong>la</strong> picco<strong>la</strong> C<strong>la</strong>udia pronuncia<br />

per gioco, quelle che pos<strong>sono</strong> leggersi da sinistra verso<br />

destra e viceversa. Noi ne conosciamo una, ossesso, ma il<br />

libro e <strong>la</strong> pellico<strong>la</strong> hanno un repertorio assai più ricco.<br />

Divorando <strong>la</strong> pagina scritta e l’immagine sullo schermo, ci<br />

accorgiamo che, in fondo, è <strong>la</strong> nostra stessa realtà ad essere<br />

oppugnabile ed aperta al<strong>la</strong> disputa; mentre <strong>la</strong> vita, l’amore,<br />

<strong>la</strong> morte ruotano, come una giostra impazzita, intorno<br />

l’ossesso che ristagna nel nostro cuore. Dopo aver salvato<br />

<strong>due</strong> donne dal mare in tempesta, i fratelli Pietro e<br />

Carlo Pa<strong>la</strong>dini tornano alle loro esistenze. Dirigente d’azienda,<br />

Pietro incappa nel malessere: gli muore <strong>la</strong> moglie,<br />

deve occuparsi del<strong>la</strong> figlioletta C<strong>la</strong>udia, ammansire le<br />

inquietudini del<strong>la</strong> cognata Marta; ed intanto <strong>la</strong> sua ditta si<br />

avvia al<strong>la</strong> fusione. Pochissimi scrittori - forse Luciano<br />

Bianciardí, con l’attuale Veronesi - hanno descritto così<br />

bene il trauma dell’impresa che ignora l’umanità dei propri<br />

dipendenti. Grimaldi affida l’al<strong>la</strong>rme sociale ai primi<br />

piani inenarrabili di Moretti, con quell’ombra di dolore<br />

autentico che l’interprete fa affiorare in maestria. Pietro è<br />

una voce fievole nel deserto dei sentimenti. Con pochi<br />

tratti, è scheggiata al bulino l’alleanza non virtuosa fra <strong>la</strong><br />

cattiva sorte e <strong>la</strong> logica crudele del nuovo capitalismo.<br />

Dopo l’amplesso con <strong>la</strong> salvata Leonora, è l’apparizione<br />

folgorante di Roman Po<strong>la</strong>nski che porta al pantografo <strong>la</strong><br />

<strong>la</strong>ma di<strong>la</strong>cerante dell’apologo. Solo <strong>la</strong> devozione di Pietro<br />

verso <strong>la</strong> figlia potrà risarcire i personaggi. E’ esemp<strong>la</strong>re <strong>la</strong><br />

confluenza del<strong>la</strong> lettura e del<strong>la</strong> visione: una via da seguire,<br />

per il nostro cinema, un’ipotesi di fruizione interlineare<br />

che aggiunge intelligenza all’estro, chiamando in scena<br />

una crestomazia di talenti, senza dubbio, al<strong>la</strong> meritata carriera<br />

cosmopolita di un manufatto italiano del quale, finalmente,<br />

possiamo andare orgogliosi.<br />

Ragazzo Selvaggio - Giancarlo Zappoli<br />

La moglie di Pietro Pa<strong>la</strong>dini è morta in casa proprio mentre<br />

lui stava salvando in mare una sconosciuta. Rimasto<br />

solo con <strong>la</strong> figlia C<strong>la</strong>udia l’uomo continua <strong>la</strong> propria attività<br />

di dirigente di una multinazionale senza riuscire a<br />

manifestare il dolore che prova. Finché un giorno, accompagnando<br />

C<strong>la</strong>udia a scuo<strong>la</strong>, prende una decisione: da allora<br />

in poi attenderà nel<strong>la</strong> piazzetta antistante <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> l’uscita<br />

del<strong>la</strong> figlia. Da quel momento <strong>la</strong> panchina su cui<br />

Pietro siede diviene il luogo in cui colleghi, parenti e<br />

amici vanno a incontrarlo. In partico<strong>la</strong>re <strong>la</strong> cognata, con <strong>la</strong><br />

quale aveva avuto una breve re<strong>la</strong>zione prima del matrimonio<br />

e che ora è incinta. Suo fratello, che aveva partecipato<br />

al salvataggio occupandosi di un’altra persona in pericolo,<br />

un giorno gli comunica di avere incontrato a una cena <strong>la</strong><br />

donna, Eleonora, che Pietro aveva salvato. I <strong>due</strong> si incontreranno<br />

e in Pietro si accenderà un forte desiderio di natu-


a sessuale nei confronti di Eleonora, che si concretizzerà<br />

con il ritorno nel<strong>la</strong> casa al mare in cui non aveva più voluto<br />

entrare. Potrebbe essere l’inizio di un ritorno al<strong>la</strong> vita e<br />

di e<strong>la</strong>borazione del lutto. Dovrà però anche cambiare il<br />

suo rapporto con <strong>la</strong> figlia.<br />

“Caos calmo” è un film che ha goduto di una promozione<br />

tutta puntata su un unico elemento decisamente fuorviante:<br />

il rapporto sessuale anale non tra i ‘personaggi’ del film<br />

ma tra il pudico Nanni Moretti e Isabel<strong>la</strong> Ferrari. E evidente<br />

lo scopo del<strong>la</strong> produzione e del<strong>la</strong> distribuzione: portare<br />

in sa<strong>la</strong> chi altrimenti avrebbe subodorato l’impegno<br />

offrendogli l’esca dell’eros per di più legato al gossip. Il<br />

risultato è stato ottenuto ma al prezzo di mettere in secondo<br />

piano gli elementi davvero validi del film che qui non<br />

mancano. Anche se, come solitamente accade quando una<br />

sceneggiatura è tratta da un romanzo, chi ha letto il libro<br />

non ha ritrovato nel film situazioni anche psicologiche<br />

essenziali. Come, ad esempio, l’erezione che Pietro ha<br />

mentre sta salvando <strong>la</strong> sconosciuta e che diviene uno degli<br />

elementi fondamentali che lo porteranno a quel rapporto<br />

che nel film è montato in modo tale da farlo sembrare frutto<br />

dell’immaginazione e che invece Grimaldi afferma di<br />

aver voluto conservare nel<strong>la</strong> sua qualità di dato realistico<br />

così come risulta nel libro.<br />

Se però <strong>la</strong>sciamo sullo sfondo l’elemento piccante e concentriamo<br />

l’attenzione sulle dinamiche che Pietro mette in<br />

atto con chi lo circonda, dopo l’improvvisa e inattesa<br />

morte del<strong>la</strong> moglie, troviamo nel film molti elementi d’interesse.<br />

A partire dall’interpretazione di un Moretti che si<br />

è costruito addosso il personaggio in fase di sceneggiatura<br />

ma, al contempo, è riuscito a liberarsi dell’abituale e<br />

non produttiva sovrapposizione attore/personaggio che ha<br />

34<br />

talvolta limitato i film da lui scritti e diretti. Pietro quindi<br />

non è Moretti ma un uomo incapace di e<strong>la</strong>borare il lutto<br />

che riversa sul<strong>la</strong> figlia preadolescente tutto il suo bisogno<br />

di dare e ricevere sicurezza. L’elemento surreale (<strong>la</strong> panchina<br />

e l’auto che divengono centro dell’universo di un<br />

dirigente che non viene cacciato dal<strong>la</strong> sua azienda ma riceve<br />

addirittura <strong>la</strong> visita del Grande Capo) si trasforma in<br />

baricentro di dinamiche che fanno interagire il noto con <strong>la</strong><br />

novità. Il noto è rappresentato da un fratello profondamente<br />

diverso (si occupa di moda) ma capace di essere<br />

‘zio’ per C<strong>la</strong>udia nel momento in cui il padre è in ricerca.<br />

Dal<strong>la</strong> cognata che lo raggiunge volendolo aiutare ma in<br />

fondo caricandolo dei suoi problemi. Dal collega che lo<br />

tiene aggiornato sul<strong>la</strong> situazione aziendale ed e<strong>la</strong>bora <strong>la</strong><br />

teoria di un management che dovrebbe assumere <strong>la</strong> struttura<br />

trinitaria cattolica (e qui c’è una bestemmia subito<br />

giustificata come trasgressione di un cattolico convinto).<br />

Ma <strong>sono</strong> soprattutto gli incontri con gli sconosciuti a<br />

caratterizzare l’evolversi di un mutamento. La ragazza<br />

con il cane che Pietro ammira per <strong>la</strong> sua bellezza senza<br />

mai par<strong>la</strong>rle, il bambino Down con il quale instaura un<br />

gioco di riconoscimento costante, il gestore del ristorantino<br />

con il quale si aprono dialettiche sul condimento dei<br />

cibi, l’uomo che lo invita in casa per un piatto di pasta o<br />

le stesse mamme che attendono i figli davanti al<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong><br />

<strong>sono</strong> tutte tessere di un mosaico che si sta progressivamente<br />

ricomponendo. Questo porterà Pietro ad accettare<br />

se stesso nel<strong>la</strong> perdita e a ritrovare un rapporto<br />

genitore/figlia in grado di rimettersi in movimento pur<br />

non dimenticando chi non c’è più. Il caos calmo avrà<br />

avuto modo di ribollire anche in superficie per poi ritrovare<br />

una sua dimensione finalmente e veramente ‘calma’.


4<br />

Regia: Jason Reitman<br />

Interpreti: Ellen Page (Juno MacGuff), Michael Cera<br />

(Paulie Bleeker), Jennifer Garner (Vanessa Loring), Jason<br />

Bateman (Mark Loring), Olivia Thirlby (Leah), J.K.<br />

Simmons (Mac MacGuff), Allison Janney (Bren), Rainn<br />

Wilson (Rollo)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Diablo Cody<br />

Sceneggiatura: Diablo Cody<br />

Fotografia: Eric Steelberg<br />

Musica: Matteo Messina, Kimya Dawson<br />

Montaggio: Dana E. G<strong>la</strong>uberman<br />

Durata: 92’<br />

Produzione: Fox Searchlight Pictures, Mandate Pictures,<br />

Mr. Mudd<br />

Distribuzione: 20th Century Fox Italia (<strong>2008</strong>)<br />

JUNO<br />

20-21 novembre <strong>2008</strong><br />

35<br />

Soggetto<br />

In America Juno è una ragazzina di sedici anni che decide<br />

di affrontare <strong>la</strong> prima esperienza sessuale. Dopo il rapporto<br />

con l’amico e coetaneo Paulie resta incinta, rifiuta l’aborto<br />

quando si trova nel<strong>la</strong> clinica specializzata, decide<br />

che, appena nato, darà il figlio in adozione ad una coppia<br />

che ne ha fatto richiesta. Nei mesi successivi <strong>la</strong> coppia,<br />

che sembrava molto legata, va incontro a dissapori fino<br />

al<strong>la</strong> separazione. Juno però continua ad avere molta stima<br />

per <strong>la</strong> donna, di nome Vanessa, e le chiede se il suo desiderio<br />

è rimasto lo stesso. La risposta è positiva e il neonato<br />

andrà a lei. Juno e Paulie però si avvicinano e si scambiano<br />

un affetto autentico.<br />

Valutazione<br />

Una volta par<strong>la</strong>re di teen-ager e gravidanze indesiderate<br />

era un tabù.<br />

Poi è diventato un argomento scottante che a sua volta si è<br />

trasformato nel soggetto per polpettoni tristissimi sul<strong>la</strong><br />

solitudine e sul<strong>la</strong> disperazione contemporanea. “Juno “non<br />

si inserisce in nessuno di questi filoni cine-letterari ma se<br />

ne inventa uno proprio, confermando il principio per cui si<br />

pos<strong>sono</strong> realizzare prodotti leggeri anche su tematiche non<br />

di poco conto dal punto di vista umano e sociale.<br />

Il film, che mantiene una grande leggerezza per tutta <strong>la</strong> sua<br />

piacevole durata, evita con grande abilità le trappole del<br />

cinismo e del patetismo grazie soprattutto a dialoghi che<br />

mettono in discussione in maniera costante tutti gli stereotipi<br />

di simili situazioni di gravidanza. Spesso anzi, <strong>la</strong><br />

ragazza del liceo che rimaneva incinta era una figura di


secondo piano, di cui si sapeva che aveva <strong>la</strong>sciato <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong><br />

dopo il “fattaccio”. Qui Juno non solo non <strong>la</strong>scia <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong><br />

ma <strong>la</strong> sua involontaria gravidanza diventa quasi una protesta<br />

ed una sfida alle convenzioni (invece di diventare una<br />

madre inadatta o di ricorrere all’aborto sceglie l’adozione).<br />

La penna molto felice dal<strong>la</strong> quale è nato questo piccolo<br />

gioiello altri non è che Diablo Cody (al secolo Brook<br />

Busey-Hunt) ex spogliarellista poi diventata giornalista<br />

che ha goduto di una certa notorietà grazie al suo blog<br />

“Pussy Ranch”, in cui re<strong>la</strong>zionava in maniera semiseria<br />

delle sue avventure nel mondo dello strip-tease.<br />

Ragazzo Selvaggio - Elio Gir<strong>la</strong>nda<br />

Premiato con il Marco Aurelio come Miglior Film al<strong>la</strong><br />

Festa Internazionale del Cinema di Roma (app<strong>la</strong>uditissimo<br />

dai più giovani nel<strong>la</strong> sezione ‘Alice in città’) e reduce dai<br />

successi americani (vincitore del<strong>la</strong> dodicesima edizione dei<br />

Satellite Awards per film, attrice e sceneggiatura, con un<br />

incasso di $ 50 milioni solo nel primo weekend), “Juno” è<br />

una commedia bril<strong>la</strong>nte in chiave adolescenziale.<br />

Il regista, figlio di Ivan, l’autore di “Ghostbuster”, è al<strong>la</strong><br />

seconda prova dopo “Thank You for Smoking” (2006). La<br />

sua messinscena ritmata come una sitcom e il cast assortito<br />

<strong>sono</strong> funzionali al<strong>la</strong> sceneggiatura del<strong>la</strong> trentenne<br />

Diablo Cody, ex spogliarellista e pornotelefonista, che ora<br />

scrive dialoghi di un umorismo acre e malizioso.<br />

Evidentemente <strong>la</strong> Cody, peraltro tito<strong>la</strong>re di un blog frequentato<br />

sul Web, ricrea una vicenda autobiografica, generazionalmente<br />

vicina agli adolescenti che guardano Mtv e<br />

producono contenuti in Rete. Quelli che stanno trasformando<br />

lo scenario mediatico sia nei consumi che nei meccanismi<br />

di produzione.<br />

Secondo ricerche recenti (cfr. ‘Nòva 24’,10 gennaio <strong>2008</strong>),<br />

i ragazzi ‘scrivono blog, partecipano ai social network,<br />

guardano video online, condividono contenuti: nel<strong>la</strong> vita<br />

dei ragazzi <strong>sono</strong> centrali i media sociali. Lo sostiene uno<br />

studio del Pew Research Center sulle abitudini degli adolescenti<br />

negli Stati Uniti, dai 12 ai 17 anni. Sette su dieci creano<br />

contenuti come audio, testi e foto che pubblicano sul<br />

web: se il 35% delle ragazze ha un blog, i maschi invece<br />

preferiscono guardare video. Sono soprattutto le fotografie<br />

pubblicate online a stimo<strong>la</strong>re <strong>la</strong> partecipazione dei teenager:<br />

nove su dieci ricordano di aver ricevuto commenti alle<br />

immagini che hanno portato sul web. I filmati, invece,<br />

hanno avviato una conversazione in tre casi su quattro’.<br />

Dall’interazione all’autoproduzione il passo è breve, anche<br />

nel contesto europeo e italiano, e che comprende <strong>la</strong> ‘generazione’<br />

dai 18 ai 30 anni. ‘Un teenager su quattro, inoltre,<br />

rie<strong>la</strong>bora in creazioni proprie i contenuti trovati durante <strong>la</strong><br />

navigazione sul web, remixando filmati, immagini, musiche<br />

e testi. Il Pew Research Center ha coniato <strong>la</strong> definizione<br />

di ‘teens multicanale’ per i protagonisti dei media sociali:<br />

<strong>sono</strong> quei ragazzi che preferiscono comunicare attraverso<br />

cellu<strong>la</strong>ri, messaggini e social network’.<br />

Le situazioni del film si susseguono con battute fulminanti<br />

e spregiudicate di Juno che sembrano derivare dai blog o<br />

dai video diYouTube, e che spiazzano i luoghi comuni sugli<br />

adolescenti. Reitman le sistema in una serie di strisce a<br />

36<br />

fumetti intorno all’unico tema: sessualità precoce e maternità,<br />

ma anche maturità degli adolescenti. “Juno” poi<br />

mostra nobili ascendenze: da “Una donna tutta so<strong>la</strong>” fino ad<br />

Annie Hall di Woody Allen (Io e Annie), in quel tipo di<br />

commedia sull’emancipazione femminile. E che ora marca<br />

l’evoluzione del genere teen movie. “Juno” è in sintonia<br />

con gli autori attenti al<strong>la</strong> condizione giovanile che stanno<br />

dando risultati nel<strong>la</strong> comprensione dei fenomeni e nei processi<br />

di formazione. “Marie Antoinette2 di Sofia Coppo<strong>la</strong>,<br />

“XXY” di Lucia Puenzo, “Paranoid Park” di Gus Van Sant,<br />

“Into the Wild” di Sean Penn, dimostrano come il ‘disagio’<br />

espressivo degli autori sul pianeta giovanile stia volgendo<br />

al racconto ‘dal punto di vista dei protagonisti’. Esempi che<br />

segna<strong>la</strong>no una tendenza di valore estetico e di grande profondità<br />

nell’analisi psico-sociologica.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 04/04/<strong>2008</strong><br />

Una ragazzina che resta incinta a soli 15 anni e naturalmente<br />

non sa cosa fare. Un ‘padre’ che frequenta il suo stesso<br />

liceo ma non ha proprio il fisico né il carattere per affrontare<br />

<strong>la</strong> situazione. Un’amica che le consiglia di cercare una<br />

coppia che voglia adottare il bambino (‘<strong>sono</strong> fra gli annunci<br />

economici accanto ai terrier, alle iguana e alle attrezzature da<br />

fitness usate’...). E una coppia perfetta di belli-ricchi-e-colti<br />

che così perfetti forse non <strong>sono</strong>, ma avranno almeno il merito<br />

di accompagnare <strong>la</strong> picco<strong>la</strong> ma tutt’altro che fragile Juno<br />

in quei nove mesi di dubbi e di attesa.<br />

Càpita a tutti, anche se càpita sempre più di rado, di vedere<br />

un film e dimenticarsi completamente di essere al cinema.<br />

Càpita di sorprendersi a credere ciecamente in un personaggio<br />

e a tutto quello che dice e che fa, per bizzarro e<br />

improbabile che sia, dimenticando che c’è dietro un attore<br />

(in questo caso un’attrice, <strong>la</strong> deliziosa Ellen Page, che con<br />

“Juno” meritava l’Oscar). Càpita anche di chiedersi, giustamente,<br />

da dove venga quel potere di incantamento. <strong>Per</strong><br />

decidere che una risposta so<strong>la</strong> non c’è, ce ne <strong>sono</strong> tante.<br />

È il tema a toccarci da vicino. È <strong>la</strong> regia insieme abile e dannatamente<br />

semplice di Ivan Reitman a rendere così credibile<br />

ed emozionante una storia che in altre mani sarebbe stata<br />

ambigua o zuccherosa, fino a farci credere o perlomeno<br />

sperare in quel<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> città di provincia così diversa dalle<br />

nostre (al cinema in fondo e tutta questione di fede). È <strong>la</strong><br />

sceneggiatura che sprizza verità in ogni dettaglio (ambienti,<br />

sentimenti, dialoghi pepati e irresistibili: in 90 minuti<br />

l’ex-blogger e spogliarellista Diablo Cody ci mostra come<br />

amano, pensano, par<strong>la</strong>no, scherzano, decidono le ragazze di<br />

oggi). Anche se forse il segreto di “Juno”, che comincia<br />

come un cartoon e finisce con una canzone, sta tutto nel<br />

tocco lieve e sapiente con cui stempera argomenti ‘pesanti’<br />

mesco<strong>la</strong>ndoli con mano felice a tutto ciò che entra nel<strong>la</strong> vita<br />

di una 15enne e che magari pesante non è, dal rock ai film<br />

horror (impagabile il derby all’ultimo squartamento fra<br />

Dario Argento e H.G. Lewis), dagli shopping center ai flirt<br />

consumati o solo sognati fra le mura del liceo, dal<strong>la</strong> scoperta<br />

del mondo con le sue divisioni (fra ricchi e poveri, ma<br />

anche fra chi veste ‘giusto’ e chi no) al rapporto di Juno col<br />

padre e <strong>la</strong> sua seconda moglie (perfetti J.K. Simmons e<br />

Allison Janney).


Rapporto che contro l’insopportabile retorica dominante nei<br />

film sui teen ager si rive<strong>la</strong> ricco di calore e di intelligenza.<br />

Almeno quanto quello che in realtà lega Juno allo stralunato<br />

Bleeker (Michael Cera), ‘fidanzato’ di una so<strong>la</strong> notte, che<br />

con <strong>la</strong> sua ossessione per <strong>la</strong> corsa e per le tic-tac all’arancio,<br />

centra l’adorabile ritratto di un giovanissimo imbranato ma<br />

non troppo. Sconcerta che tanta arguta leggerezza sia stata<br />

arruo<strong>la</strong>ta a forza dal<strong>la</strong> truce campagna antiabortista di<br />

Giuliano Ferrara. Evidentemente ognuno ha i film e i ‘registi’<br />

che si merita.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 04/04/<strong>2008</strong><br />

Lodato, usato come simbolo pseudopolitico, premiato,<br />

apprezzato, “Juno” è un film inconsueto, carino, molto<br />

furbo. L’astuzia non stupisce nel regista Jason Reitman (31<br />

anni, origini cecoslovacche, figlio dello svelto regista Ivan,<br />

cresciuto sui set del padre) e nel<strong>la</strong> soggettista-sceneggiatrice<br />

Diablo Cody (ex operatrice d’una linea telefonica pornografica,<br />

autrice d’un romanzo ribaldo, al <strong>la</strong>voro su un<br />

secondo romanzo).<br />

E’ un film scandito dal passare delle stagioni, fatto per contentare<br />

tutti. Gli adolescenti, dei quali finalmente non si dice<br />

male: <strong>la</strong> protagonista è una ragazzina intelligente, calma,<br />

coraggiosa, equilibrata, simpatica, amante dei film di Dario<br />

Argento. Gli adulti genitori, singo<strong>la</strong>rmente aperti e comprensivi.<br />

Gli adulti aspiranti genitori, educati e perfetti benestanti<br />

anche quando si separano. Le persone di buoni sentimenti,<br />

che amano constatare come tutto possa accomodarsi<br />

e avere un lieto fine. I pervertiti, che godono a vedere sullo<br />

schermo una ragazzina, quasi una bambina, con il corpo<br />

deformato dal<strong>la</strong> gran pancia del<strong>la</strong> gravidanza avanzata.<br />

La ragazzina ha fatto l’amore con un coetaneo imbranato, e<br />

si ritrova incinta. Vuole abortire e va nel luogo adeguato:<br />

ma atmosfera e personale <strong>la</strong> disgustano, scappa via. Decide<br />

di far nascere il bambino e di affidarlo a una coppia adatta.<br />

La cerca, <strong>la</strong> trova. Fine. Non c’è alcuna eroina antiabortista,<br />

soltanto una protagonista di buon senso come i suoi genitori<br />

(padre + matrigna), una sco<strong>la</strong>ra divertente e chiacchierina<br />

come <strong>la</strong> sua amica migliore e i suoi compagni coetanei,<br />

una picco<strong>la</strong> donna costretta dal film a una gravidanza supervistosa<br />

fin quasi dal primo momento.<br />

L’interprete Ellen Page è brava e graziosa. La costumista<br />

canadese Monique Prudhomme, molto abile, ha creato per<br />

<strong>la</strong> protagonista abiti che ne sottolineano <strong>la</strong> natura infantile<br />

in contrasto con <strong>la</strong> gravidanza. La veloce discrezione con<br />

cui viene raccontato il parto è apprezzabile. Tra i produttori<br />

figura John Malkovich.<br />

Il Mattino - Valerio Caprara - 05/04/<strong>2008</strong><br />

Una commedia lieve e spiritosa, disegnata sullo schermo<br />

come <strong>la</strong> striscia di un fumetto, bene intonata al<strong>la</strong> grazia<br />

acerba del<strong>la</strong> protagonista e scandita dal pungente tempismo<br />

dei dialoghi in stile giovanilistico-alternativo. Ciò detto, ci<br />

sembra alquanto strambo che “Juno” susciti tanto entusiasmo<br />

(vittoria al<strong>la</strong> Festa del cinema di Roma, Oscar al<strong>la</strong><br />

migliore sceneggiatura) e nel contempo attizzi tante polemiche.<br />

Va bene che un rozzo prontuario critico potrebbe tramandarlo<br />

come ‘film sull’aborto’, ma a conti fatti Jason<br />

37<br />

Reitman, figlio trenta<strong>due</strong>nne dell’Ivan autore di<br />

“Ghostbusters” e “Dave-Presidente per un giorno”, è più<br />

che altro interessato al<strong>la</strong> dolcezza e spontaneità - ma anche<br />

spudoratezza ed energia - di un’adolescente americana<br />

d’oggi, in grado di fronteggiare problemi più grandi di lei,<br />

non omologarsi al<strong>la</strong> logica degli adulti e respingere vecchi<br />

e nuovi preconcetti. La sedicenne dall’insolito nome mitologico<br />

(interpretata dal<strong>la</strong> bravissima ancorché ventenne<br />

Ellen Page) è infatti una ragazzina qualunque, appena un<br />

po’ afflitta da una famiglia modernamente disgregata, che<br />

decide un bel giorno di perdere <strong>la</strong> verginità con un coetaneo<br />

bamboccione strampa<strong>la</strong>to. Peccato che ‘l’esperimento’ si<br />

risolva in un’indesiderata gravidanza destinata a crearle una<br />

serie di buffi dilemmi... L’amata ovvero detestata carica<br />

eversiva del film starebbe proprio in questo snodo: <strong>la</strong> ragazzina<br />

da una parte non si fa assediare da angosce o sensi di<br />

colpa, ma dall’altra scarta decisamente <strong>la</strong> sbrigativa soluzione<br />

dell’aborto (anche per colpa del tanfo medicinale percepito<br />

nell’ambu<strong>la</strong>torio). <strong>Per</strong> <strong>la</strong> verità <strong>la</strong> fluidità e leggerezza<br />

del<strong>la</strong> regia non ci sembrano meritevoli d’essere introdotte<br />

nel tritatutto mediatico; come ribadisce <strong>la</strong> bonaria piroetta<br />

del finale, “Juno” vuole e riesce a divertire grazie soprattutto<br />

al<strong>la</strong> simpatica cocciutaggine con <strong>la</strong> quale <strong>la</strong> protagonista<br />

riesce a restare estranea da tutto ciò che le accade attorno:<br />

comprese, di conseguenza, le polemiche nostrane tra<br />

spettatori/ultrà <strong>la</strong>ici o devoti. Se c’è dunque un piano dietro<br />

al piacevole balletto di “Juno”, sta tutto nel<strong>la</strong> penna dell’autrice<br />

del copione Diablo Cody (nome d’arte di Brook<br />

Busey-Hunt), trentenne ex spogliarellista passata al giornalismo<br />

e al cinema: un mix d’ingenuità e malizia, una competenza<br />

femminile non sclerotizzata dall’ideologia, un<br />

modo dignitoso d’assecondare il naturale anticonformismo<br />

degli under 18 e il tipico piglio indipendente, paradossale<br />

ed umoristico nel caratterizzare personaggi e situazioni.<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli - 07/04/<strong>2008</strong><br />

Con <strong>la</strong> solita lucidità, Giovanni Grazzini definì <strong>la</strong> sceneggiatura<br />

fase finale nel testo scritto di un film. E’ chiaro che<br />

quando Federico Fellini e Sergio Amidei descrissero, nel<br />

copione, <strong>la</strong> corsa di Anna Magnani dietro al camion dei<br />

nazisti, in “Roma, città aperta” fecero opera soltanto propedeutica<br />

al<strong>la</strong> celebre sequenza filmata, poi, da Roberto<br />

Rossellini.<br />

Non è un caso, dunque, che l’Academy degli Oscar si sia<br />

Iimitata a premiare lo screenp<strong>la</strong>y di “Juno”, sorvo<strong>la</strong>ndo<br />

sul<strong>la</strong> regia. Infatti, Jason Reitman non va oltre <strong>la</strong> pedissequa<br />

osservazione del testo e<strong>la</strong>borato da Diablo Cody (al secolo<br />

Brook Busey), e così <strong>la</strong> pellico<strong>la</strong> ha un’eleganza fragile,<br />

priva di smalto.<br />

La ragazzina epònima, sedicenne, decide di far nascere il<br />

bambino concepito col coetaneo Paulie, progettando di affidarlo<br />

in adozione ai coniugi Mark e Vanessa, per altro sul<strong>la</strong><br />

soglia del divorzio. Il candore di Ellen Page restituisce tenerezza<br />

al personaggio, condendolo con un’arguzia pungente<br />

e arricchendolo con saporita ironia nel reparto nascituri dell’apposito<br />

ospedale. Ecografie, addobbi prenatali, insegne<br />

honey and milk al bar, <strong>la</strong>tte-e-miele irrorati su un aneddoto<br />

suscettibile di ben più tragiche riflessioni.


5<br />

Regia: David Von Ancken<br />

Interpreti: Liam Neeson (Carver), Pierce Brosnan<br />

(Gideon), Anjelica Huston (Madame Louise), Michael<br />

Wincott (Hayes), Ed Lauter (Parsons), Robert Baker<br />

(Pope), John Robinson (Kid), Kevin J.O’Connor (Henry),<br />

Tom Noonan (Ministro/Abraham)<br />

Genere: Drammatico/Guerra/Western<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: David Von Ancken<br />

Sceneggiatura: David Von Ancken, Abby Everett Jaques<br />

Fotografia: John Toll<br />

Musica: Harry Gregson-Williams<br />

Montaggio: Conrad Buff<br />

Durata: 116’<br />

Produzione: Icon Productions<br />

Distribuzione: Eagle Pictures (<strong>2008</strong>)<br />

CACCIA SPIETATA<br />

27-28 novembre <strong>2008</strong><br />

38<br />

Soggetto<br />

Stati Uniti, negli anni successivi al<strong>la</strong> Guerra Civile<br />

Americana. Gideon (Pierce Brosnan) viaggia da solo tra le<br />

Montagne Rocciose. Improvvisamente viene colpito da<br />

una pallotto<strong>la</strong> sparata da un vicino fucile: a dare <strong>la</strong> caccia<br />

a Gideon è un gruppo di uomini pagati e guidati da Carver<br />

(Liam Neeson), che pare disposto a tutto pur di catturare<br />

<strong>la</strong> sua preda. Gideon riesce a fuggire, dimostrando capacità<br />

e determinazione fuori dal comune, ma Carver e i suoi<br />

rimangono sulle sue tracce. Sarà l’inizio di una spietata<br />

caccia all’uomo che dal freddo delle montagne innevate<br />

attraverserà le praterie ed i deserti: una lotta che al<strong>la</strong> fine<br />

vedrà contrapposti solo Gideon e Carver, legati e resi<br />

nemici da un passato di guerra e violenza.<br />

Valutazione<br />

Caccia spietata è un western insolito, intenso ma essenziale<br />

ed a tratti persino tendente al metafisico. La caccia<br />

cui il titolo fa riferimento è quel<strong>la</strong> all’uomo compiuta dal<br />

misterioso Carver (Liam Neeson), intento a braccare<br />

senza sosta l’altrettanto enigmatico Gideon (Pierce<br />

Brosnan), con il chiaro intento di ucciderlo. Von Ancken<br />

non rive<strong>la</strong> subito quali siano le motivazioni di questa rivalità,<br />

ed è un bene, perché da un <strong>la</strong>to – complici le ottime<br />

interpretazioni dei <strong>due</strong> protagonisti assoluti del<strong>la</strong> storia, ed<br />

un incipit dal ritmo invidiabile – ci si concentra solo su<br />

una dinamica di pura contrapposizione e sopravvivenza, e<br />

dall’altro, quando il regista inizia a fornire le sue spiegazioni,<br />

paradossalmente <strong>la</strong> storia che racconta perde lievemente<br />

di fascino. Fascino che invece Caccia spietata è in


grado di esercitare attraverso una struttura che mira ad<br />

andare all’essenzialità ed agli istinti primordiali del<strong>la</strong><br />

natura umana, tratteggiando <strong>due</strong> personaggi che è impossibile<br />

bol<strong>la</strong>re alternativamente come buoni o cattivi, ma<br />

che <strong>sono</strong> sfumati, fatti di luci e ombre, di ferite intime e<br />

motivazioni ideali. Anche considerato il suo esito, quasi<br />

specu<strong>la</strong>re a quello che <strong>la</strong> tradizione del genere sembrerebbe<br />

voler imporre, <strong>la</strong> sfida tra Gideon e Carver si fa simbolo<br />

quindi di qualcosa di più ampio, quasi di esistenziale,<br />

come testimoniato da un finale dai chiari aff<strong>la</strong>ti metafisici,<br />

di sicuro opinabili ma comunque originali e nel complesso<br />

equilibrati. Una sfida al<strong>la</strong> quale fa da cornice – mai<br />

passiva – e coro un paesaggio americano sterminato e<br />

magnetico, che va dalle nevi delle Montagno rocciose ai<br />

deserti tra California e Nevada, passando da foreste e praterie.<br />

Il Giornale - Maurizio Cabona - 09/05/<strong>2008</strong><br />

Il peggiore dei mali, <strong>la</strong> guerra civile, in un western dove<br />

si affrontano nel 1868 <strong>due</strong> reduci cinquantenni, non da<br />

ex nemici - ideologici, politici e militari -, ma per vendetta:<br />

un atroce fatto semiinvolontario ha elevato all’ennesima<br />

potenza il precedente antagonismo pubblico. E <strong>la</strong><br />

pace chiude le guerre, ma non liquida gli odi. Ecco<br />

“Caccia spietata” (in originale “Seraphim Falls”, letteralmente<br />

‘Cascate Serafino’) di David von Ancken, che<br />

esce in sordina, con <strong>due</strong> anni di ritardo, eppure è uno dei<br />

film più interessanti americani del decennio, che reca il<br />

marchio Ikon, <strong>la</strong> compagnia di Mel Gibson. A che cosa<br />

somiglia? A “Corvo rosso, non avrai il mio scalpo” di<br />

Pol<strong>la</strong>ck per sfondo nevoso e boscoso; a “Duello nel<br />

Pacifico” di Boorman per lo scontro fra (ex) militari. La<br />

sceneggiatura, dello stesso regista e di Abby Everett<br />

Jaques, evita di rappresentare <strong>due</strong> Rambo dove uno insegue<br />

l’altro. Verosimilmente mostra il militare di carriera<br />

(Pierce Brosnan) più abile del contadino che aveva<br />

indossato l’uniforme (Liam Neeson). Entrambi vivono di<br />

un orrore derivato da un errore e ne portano il fardello.<br />

Non c’è un buono, non c’è un cattivo da scegliere fra gli<br />

antagonisti. Sono entrambi vittime e carnefici, circondati<br />

dal<strong>la</strong> teppa che esiste sempre e ovunque, ma che, quando<br />

<strong>la</strong> società non ha ancora preso il posto dello stato di<br />

natura, agisce liberamente. “Caccia spietata” - dove<br />

Brosnan giganteggia come nel Sarto di Panama proprio<br />

di Boorman e, come allora, in un ruolo di anti-Bond -<br />

resterà poco in circo<strong>la</strong>zione, salvo inattese affluenze:<br />

contribuite a crearle. Il residuo di buon cinema si preserva<br />

andando a vederlo, anche da soli se gli altri non capiscono.<br />

Quotidiano Nazionale - Silvio Danese - 10/05/<strong>2008</strong><br />

Non ci <strong>sono</strong> più western, ci <strong>sono</strong> miti che vengono rivisitati<br />

da facce e corpi di oggi. Pierce Brosnan, che ha<br />

stampato per i secoli il sorrisetto di ex 007, puntava a un<br />

ruolo duro e puro da cowboy senza tregua. Liam Neeson<br />

cerca invece di voltare il suo volto pacioso nel carattere<br />

di un imp<strong>la</strong>cabile. Negli spettrali paesaggi nordici e poi<br />

desertici di un post western (post perché ha, per esempio,<br />

39<br />

<strong>la</strong> luce ottusa e fibrosa di “Gli spietati”, a sua volta erede<br />

di eredi) Neeson insegue Brosnan per vendicare <strong>la</strong><br />

distruzione del<strong>la</strong> sua famiglia al<strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> Guerra<br />

Civile, lo annusa nei boschi nevosi, lo trova più di una<br />

volta e se lo fa scappare. Brosnan è una preda esperta,<br />

ricorda Rambo, a volte Bond. Scritto dal regista, esordiente<br />

e recettivo delle immagini che contano, è un film<br />

di caccia all’uomo che confluisce nel fiume morale del<strong>la</strong><br />

rapacità, infine sospesa nel nome del perdono e, più<br />

ancora, dell’indifferenza del<strong>la</strong> vendetta quando, faccia a<br />

faccia, dopo una lotta nel deserto che cita Von Stroheim<br />

(“Greed”) i <strong>due</strong>... Finale simbolista.<br />

Filmcritica<br />

Non ci stancheremo mai di affermarlo: il western è<br />

morto, viva il western. “Caccia spietata”, dell’esordiente<br />

David Von Ancken (al suo attivo un invidiabile esperienza<br />

in serial televisivi come ‘Oz’, ‘The Shield’,<br />

‘CSI’: ‘NY’ e ‘Californication’), nonostante <strong>la</strong> veste<br />

impeccabile, ne è <strong>la</strong> dimostrazione. Realizzato nel 2006,<br />

è uscito sugli schermi italiani dopo <strong>due</strong> anni, nel<strong>la</strong> settimana<br />

precedente <strong>la</strong> prevista infornata da Cannes, tanto<br />

per ingannare l’attesa e colmare un buco nel<strong>la</strong> distribuzione.<br />

Ed è un peccato, perché si tratta di una pellico<strong>la</strong><br />

veramente interessante, vigorosa, avvincente e perfettamente<br />

consapevole di cosa sia (stato) il western e quale<br />

sia <strong>la</strong> direzione che ha da tempo tristemente intrapreso.<br />

Intreccio fors’anche banale nel<strong>la</strong> sua estrema e minimale<br />

ripetitività: un uomo (Liam Neeson) è allo spietato<br />

inseguimento di un altro (Pierce Brosnan) per soddisfare<br />

<strong>la</strong> sua vendetta. Sia chiaro: David Von Ancken non<br />

reinventa modalità e consuetudini del genere, sarebbe<br />

irrazionale come tentare un trapianto congiunto di cuore<br />

e polmoni ad un ultracentenario, ma l’interesse scaturisce<br />

dal<strong>la</strong> tensione narrativa proposta, dal<strong>la</strong> rilettura di<br />

microconfigurazioni provenienti da esempi celebri (e<br />

celebrati: quindi perfettamente riconoscibili), dal ribaltamento<br />

beffardo del gioco identificativo spettatore/personaggi,<br />

dall’uso bril<strong>la</strong>ntemente sottile dello scenario<br />

naturale (complice <strong>la</strong> fotografia del sempiterno John<br />

Toll). Il campionario di assunzioni più o meno dirette,<br />

come è inevitabile, è molto ricco: <strong>la</strong> scena in cui Pierce<br />

Brosnan, ferito ad un braccio, si palesa dall’alto di un<br />

albero sul quale si è rifugiato tramite lo sgoccio<strong>la</strong>re del<br />

suo sangue sul<strong>la</strong> candida neve ed è poi costretto a conficcare<br />

un pugnale nel<strong>la</strong> fronte di uno dei suoi inseguitori,<br />

facendolo semplicemente cadere dal<strong>la</strong> posizione<br />

elevata in cui si trova, offre un capovolgimento delle<br />

attese del pubblico pur nell’identità dello schema proposto<br />

nel<strong>la</strong> scena del saloon in “Un dol<strong>la</strong>ro di onore”;<br />

Liam Neeson che mette a nudo le difese del suo acerrimo<br />

nemico sparando senza remore ad un suo uomo<br />

tenuto strettamente sotto tiro da Brosnan, fornisce una<br />

nuova versione del metodo Fuller che aveva sorpreso in<br />

“Quaranta pistole” (ma anticipa un momento simile del<br />

“Il treno per Yuma” di Mangold); e anche il f<strong>la</strong>shback<br />

chiarificatore che si mostra con modalità progressive e<br />

frammentarie è debitore del<strong>la</strong> costruzione a posteriori<br />

del “C’era una volta il west” di Leone.


E i riferimenti potrebbero continuare, per una sorta di<br />

giustapposizione consecutiva che conduce fino ad una<br />

conclusione metafisica e quasi stroheimiana. Eppure,<br />

questo continuo gioco di riferimenti appare estremamente<br />

funzionale in un racconto che, tramite sottrazione delle<br />

informazione decisive e artificiosa caratterizzazione dei<br />

personaggi, ambisce a scardinare le certezze fatte acquisire<br />

al suo pubblico: ad un Liam Neeson crudele e spietato,<br />

ossessionato egoisticamente dal<strong>la</strong> vendetta, si contrappone<br />

un Pierce Brosnan passivo ed eroico, che si<br />

limita a fuggire e a difendersi con grande ingegno, arrivando<br />

anche a nascondersi all’interno del ventre sviscerato<br />

del suo cavallo. Ad un’identificazione spettatoriale<br />

perlomeno veico<strong>la</strong>ta, si contrappone il successivo capovolgimento<br />

delle evidenze assimi<strong>la</strong>te fino a quel momento,<br />

in virtù del f<strong>la</strong>shback che rive<strong>la</strong> come Brosnan, ufficiale<br />

nordista, sia stata <strong>la</strong> causa (seppur preterintenzionale)<br />

del<strong>la</strong> morte del<strong>la</strong> moglie e dei <strong>due</strong> figli (uno in fasce)<br />

di Neeson, soldato sudista, durante <strong>la</strong> Guerra Civile.<br />

Come già insegnava I’Out<strong>la</strong>w Josey Wales, secondo i<br />

dettami del genere si tratta di una vendetta legittima, e<br />

quindi di una spietatezza pienamente giustificata che fa<br />

vacil<strong>la</strong>re l’equilibrio assunto fino a quel momento da<br />

parte del pubblico.<br />

Paralle<strong>la</strong>mente, muta anche il modo di intendere il paesaggio<br />

all’interno delle inquadrature che lo restituiscono nel<br />

suo vario splendore: da tessuto su cui si inscrivono i segni<br />

del passaggio di Brosnan (con lo spettatore che a causa del<br />

criterio di identificazione si sente braccato dal<strong>la</strong> precisa<br />

lettura dell’ambiente operata da Liam Neeson), si giunge<br />

ad un’estensione che ha il compito di dimensionare l’inadeguatezza<br />

dell’individuo nei confronti dell’ipotesi di fuga<br />

e <strong>la</strong> sua velleità di riuscita in re<strong>la</strong>zione al<strong>la</strong> trascendenza<br />

spaziale, immagine del<strong>la</strong> giustizia che risana le colpe e<br />

salda le fratture esistenti. Ma anche <strong>la</strong> colpa, in “Caccia<br />

spietata”, è concetto accidentale, perché è <strong>la</strong> crudele contingenza<br />

del<strong>la</strong> guerra che genera i mostri e i successivi fantasmi<br />

dell’ossessione: il nul<strong>la</strong> desertico in cui i <strong>due</strong> si<br />

incontrano per <strong>la</strong> definitiva resa dei conti tacita <strong>la</strong> brama di<br />

vendetta e l’eventuale sopraffazione dell’altro, le <strong>due</strong> figure<br />

si avviano mestamente su strade divergenti e dissolvono,<br />

fagocitate dai loro errori, eclissandosi per sempre, consapevoli<br />

di essere ormai entità fuori dal tempo. Il tempo del<strong>la</strong><br />

Guerra. Ma anche il tempo dell’intero genere Western.<br />

40<br />

The Guardian - Peter Bradshaw - 09/05/<strong>2008</strong><br />

Il regista e sceneggiatore David Von Ancken fa un eccellente<br />

debutto con un western brutale e appassionante,<br />

ambientato immediatamente dopo <strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> guerra di<br />

secessione. Il film ha un fascino d’altri tempi: Pierce<br />

Brosnan intepreta un cacciatore che evidentemente ha<br />

qualcosa sul<strong>la</strong> coscienza visto che Liam Neeson lo insegue<br />

dalle montagne alle grandi pianure, animato da un<br />

odio feroce. <strong>Per</strong> <strong>la</strong> maggior parte del film non ci viene<br />

sve<strong>la</strong>to il motivo del<strong>la</strong> contesa tra i <strong>due</strong> uomini. Ma <strong>la</strong><br />

loro sfida è sempre appassionante. Pierce Brosnan rega<strong>la</strong><br />

una delle sue migliori interpretazioni di sempre e i<br />

paesaggi c<strong>la</strong>ssici del western <strong>sono</strong> splendidamente fotografati<br />

dal <strong>due</strong> volte premio Oscar John Toll.<br />

Film TV - Andrea Giorgi<br />

È uscito in sordina senza manco i f<strong>la</strong>ni, in una manciata<br />

di sale in tutto, in ritardo (è del 2006), con un titolo<br />

da fondo di magazzino action anni ‘80, magari con<br />

Chuck Norris e tagliato di 20 minuti. Epperò è un film<br />

di quelli che <strong>la</strong>sciano il segno, un western duro e puro,<br />

sanguigno e sanguinante, appassionante come pochi.<br />

Comincia in montagna, d’inverno, prima del<strong>la</strong> conquista<br />

del West, subito dopo <strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> Guerra civile. Le<br />

armi, nonostante tutto, non tacciono per niente, anche<br />

perché l’odio non è ancora seppellito sotto <strong>la</strong> coltre di<br />

neve. Due uomini (Brosnan e Neeson, entrambi guarda<br />

caso ir<strong>la</strong>ndesi), uno contro l’altro, uno scortato da un<br />

drappello, l’altro solo e ferito, si inseguono, si annusano,<br />

si sfidano: non per motivi politici ma per un fatto<br />

personale, accaduto in tempo di guerra a Seraphim<br />

Falls, da cui il titolo originale. Nessuno dimentica, difficile<br />

dire chi è buono e chi è cattivo. Non è tempo d’eroi.<br />

Resta <strong>la</strong> forza primordiale del<strong>la</strong> natura che non fa<br />

sconti, costringe ad arrivare all’essenza di se stessi<br />

anche per trovare <strong>la</strong> forza di scaldarsi le mani conge<strong>la</strong>te<br />

nelle budel<strong>la</strong> di un cadavere ancora caldo. Produce<br />

Mel Gibson, dirige un giovinastro che viene da<br />

“Californication, The Shield, CSI: NY”. Rapsodia del<strong>la</strong><br />

violenza, realistica, cannibalica, mai banale né gratuita.<br />

Finisce come un miraggio pacifista, contro tutte le guerre<br />

e le bombe intelligenti, a 50 gradi sotto il sole nel<br />

deserto dove tutto può succedere.


6<br />

LA GUERRA DI CHARLIE WILSON<br />

4-5 dicembre <strong>2008</strong><br />

Regia: Mike Nichols<br />

Interpreti: Tom Hanks (Charlie Wilson), Julia Roberts<br />

(Joanne Herring), Emily Blunt (Jane Liddle), Philip<br />

Seymour Hoffman (Agente CIA), Amy Adams (Bonnie),<br />

Shiri Appleby (Jailbait), Rachel Nichols (Suzanne), Mayte<br />

Garcia (Carol Shannon), Erick Avari (Avi <strong>Per</strong>lman), Ned<br />

Beatty (Doc Long), Maulik Pancholy (Hassan), Shaun<br />

Toub (Hassan), Jud Tylor (Crystal Lee), Mary Page Keller<br />

(Sig.ra Wilson), Om Puri (Generale Zia-Ul-Haq), Jackie<br />

Swanson (Maddy), P.J. Byrne (Jim Van Wagenen),<br />

Spencer Garrett (Davis), David Newham (Edsel), Mary<br />

Bonner Baker (Mar<strong>la</strong>)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: George Crile<br />

Sceneggiatura: Aaron Sorkin<br />

Fotografia: Stephen Goldb<strong>la</strong>tt<br />

Musica: James Newton Howard<br />

Montaggio: John Bloom, Antonia Van Drimmelen<br />

Durata: 97’<br />

Produzione: Tom Hanks, Gary Goetzman E Michael<br />

Haley <strong>Per</strong> P<strong>la</strong>ytone, Universal Pictures, Good Time<br />

Charlie Productions, Participant Productions, Re<strong>la</strong>tivity<br />

Media<br />

Distribuzione: Universal (<strong>2008</strong>)<br />

41<br />

Soggetto<br />

All’inizio degli anni 80, il texano Charlie Wilson, membro<br />

del congresso, diventa sostenitore dell’intervento<br />

degli Stati Uniti in aiuto dei ribelli afgani contro l’invasione<br />

sovietica. <strong>Per</strong> mettere in pratica questo suo proposito,<br />

Wilson si muove abilmente tra governo da un parte<br />

e CIA dall’altra, riuscendo ad ottenere il necessario<br />

appoggio.<br />

Valutazione<br />

Il personaggio è esistito veramente, e questo recupero in<br />

forma di fiction è una preziosa occasione per capire<br />

come funzionano i meccanismi che determinano i cambiamenti<br />

nel<strong>la</strong> politica mondiale. A ricostruire questa<br />

vicenda provvede il veterano Mike Nichols, per niente<br />

arrugginito, anzi più che mai caustico, ironico, amaramente<br />

riflessivo. Il regista riesce ad innestare un tema<br />

così scottante sui binari del<strong>la</strong> commedia sofisticata, supportato<br />

da interpreti in condizione ideale. Così <strong>la</strong> denuncia<br />

diventa efficace proprio perché non prevenuta, non<br />

condizionata a priori. E offre molti elementi di discussione.


Famiglia Cristiana - Enzo Natta - 09/03/<strong>2008</strong><br />

Charlie Wilson del titolo è un personaggio realmente esistito:<br />

senatore del Texas, p<strong>la</strong>y-boy amante del<strong>la</strong> bel<strong>la</strong><br />

vita, eroe con molte macchie, che a tanti vizi unisce però<br />

anche qualche virtù. Siamo ai tempi dell’invasione<br />

sovietica in Afghanistan. Convinto da un’amica e sostenitrice,<br />

il senatore si reca a visitare un campo profughi in<br />

Pakistan. Le drammatiche condizioni di vita di quei rifugiati,<br />

in fuga dalle rappresaglie dell’Armata rossa, lo<br />

spingono a prodigarsi perché il sostegno del Congresso<br />

al<strong>la</strong> resistenza afghana passi da 5 milioni a un miliardi di<br />

dol<strong>la</strong>ri.<br />

Con quel<strong>la</strong> cifra, i mujaheddin sostituiscono arrugginiti<br />

fucili del<strong>la</strong> Prima guerra mondiale con moderni missili<br />

terra-aria a testata termica, e le sorti del<strong>la</strong> resistenza antisovietíca<br />

si capovolgono: a far da piccione tocca ora agli<br />

elicotteri blindati dell’Armata rossa, costretta ad abbandonare<br />

l’Afghanistan. Si apre una crepa che pochi anni<br />

dopo farà crol<strong>la</strong>re il muro di Berlino. Ma per <strong>la</strong> Casa<br />

Bianca quel<strong>la</strong> vittoria si trasformerà presto in una sconfitta.<br />

Nonostante il senatore Wilson si sforzi di convincere<br />

il Congresso che dopo le armi ci vogliono le scuole,<br />

nessuno gli darà ascolto. A dare un’istruzione di massa a<br />

una popo<strong>la</strong>zione analfabeta ci penseranno i talebani con<br />

le scuole coraniche. Con i noti risultati.<br />

Lo sceneggiatore Aaron Sorkin ha fatto di un’inchiesta<br />

giornalistica una commedia cinica e amara, punteggiata<br />

da venature ironiche. Il resto lo si deve al<strong>la</strong> solida regia<br />

di Mike Nichols e al<strong>la</strong> verve di tre Oscar come Tom<br />

Hanks, Julia Roberts e Philip Seymour Hoffman.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Tullio Kezich - 08/02/<strong>2008</strong><br />

In “La guerra di Charlie Wilson” c’è un minuto di cinema<br />

che vale tutto il film. Sta proprio all’inizio, prima<br />

dei titoli, quando sullo schermo appare il deserto in una<br />

notte di luna, con un musulmano inginocchiato che<br />

rivolge al cielo <strong>la</strong> sua preghiera, ma poi si alza e voltandosi<br />

verso di noi brandisce il <strong>la</strong>nciamissili e spara<br />

dritto al<strong>la</strong> macchina da presa. Difficile immaginare una<br />

sintesi più efficace del<strong>la</strong> minaccia incombente in questo<br />

nevrotico inizio del XXI secolo, quando l’occidentale si<br />

scopre impotente davanti all’asiatico che, illuso di servire<br />

il suo Dio, prega e uccide. Peccato che nell’adattare<br />

il libro di George Crile su ciò che veramente accadde<br />

in Afghanistan negli anni ‘80 il regista Mike Nichols<br />

e il suo sceneggiatore Aaron Sorkin non siano rimasti<br />

fedeli all’icastica semplicità dell’incipit. Il cinema<br />

moderno si ritiene più acculturato e sottile del cinema<br />

d’epoca e infatti oggi nessuno oserebbe più firmare<br />

certe rozze contraffazioni del<strong>la</strong> storia come i film hollywoodiani<br />

sul<strong>la</strong> Rivoluzione francese o sul<strong>la</strong> Civil War,<br />

in genere ispirati al rimpianto per Maria Antonietta o <strong>la</strong><br />

Confederazione schiavista. Qui non si tratta però di discutere<br />

il carattere reazionario di certi messaggi, piuttosto<br />

di sottolinearne il taglio deciso, eloquente e superpopo<strong>la</strong>re.<br />

<strong>Per</strong> appassionarsi a quelle rievocazioni (pensate<br />

a “Via col vento”) non servivano partico<strong>la</strong>ri riferimenti<br />

culturali, le trame par<strong>la</strong>vano da sole. Nel<strong>la</strong> sua<br />

42<br />

sapiente rozzezza era un cinema al<strong>la</strong> portata di tutti,<br />

mentre per capire fino in fondo “Charlie Wilson” ci vorrebbe<br />

un politologo. Lo sfondo è quello di un conflitto<br />

semidimenticato, quello degli sparuti gruppi del<strong>la</strong> resistenza<br />

afghana contro l’orda militare sovietica che invase<br />

e devastò il paese dal ‘79. Il deputato texano Charlie<br />

Wilson, tutto whisky donne e coca, è allertato dal<strong>la</strong><br />

ricca damazza Joanne Herring, che in qualità di console<br />

onorario del Pakistan lo fa invitare a Is<strong>la</strong>mabad. Di<br />

punto in bianco (e qui l’interprete, Tom Hanks, è davvero<br />

toccante quando di fronte al deso<strong>la</strong>nte spettacolo<br />

di un campo profughi gli occhi gli si riempiono di <strong>la</strong>crime)<br />

il politico si rende conto dell’odissea di un intero<br />

popolo allo sbando, bersagliato dagli elicotteri russi e<br />

senza difesa. Urge aumentare il contributo segreto degli<br />

Usa ai mujaheddin per dotarli di armamenti adeguati; e<br />

Charlie porta in fondo <strong>la</strong> complessa operazione c<strong>la</strong>ndestina<br />

appoggiandosi alle furberie di Gus Avrakotos, un<br />

agente del<strong>la</strong> Cia che riesce a coinvolgere nell’inghippo<br />

il dittatore pakistano Zia e i vertici di Israele. Nel film i<br />

protagonisti Wilson, Herring e Avrakotos <strong>sono</strong> incarnati,<br />

mantenendo i nomi e cognomi veri, da Hanks, Julia<br />

Roberts e Philip Seymour Hoffman. Questi tre ce <strong>la</strong><br />

mettono tutta per sbrogliarsi attraverso dialoghi verbosissimi<br />

e <strong>la</strong>nciati a doppia velocità. Purtroppo i rapporti<br />

interpersonali non emergono abbastanza; e se <strong>la</strong><br />

Roberts si ritrova fra le mani una mezza tinca anche<br />

all’eclettico Hoffman il copione non fornisce le occasioni<br />

che ha Hanks puttaniere redento. “La guerra di<br />

Charlie Wilson” sve<strong>la</strong> di che torbidi intrighi, magari a<br />

fin di bene, si nutrono le svolte del<strong>la</strong> storia, non di rado<br />

legate a iniziative di cui nul<strong>la</strong> emerge ufficialmente.<br />

Dopo il trattato di pace sottoscritto nell’87 a Ginevra<br />

dall’Urss, gli americani non si occuparono più<br />

dell’Afghanistan; e Wilson, pur essendo riuscito a farsi<br />

dare miliardi per bombe e cannoni, non ce <strong>la</strong> fece a<br />

strappare un modesto contributo onde aprire qualche<br />

scuo<strong>la</strong> nel paese devastato. Il risultato è l’odierna situazione<br />

senza sbocchi, con gli Usa nel mirino dei talebani<br />

da loro stessi armati. Ahimè, chi conduce ormai il<br />

gioco è il musulmano del prologo, quello che ci spara<br />

addosso.<br />

Il Giornale - Maurizio Cabona - 08/02/<strong>2008</strong><br />

Alle origini di Al Qaeda potrebbe essere il sottotitolo de<br />

“La guerra di Charlie Wilson” di Mike Nichols, storia<br />

del reale rappresentante texano (Tom Hanks) al<br />

Congresso di Washington che riuscì a far moltiplicare gli<br />

stanziamenti segreti degli Stati Uniti per le bande armate<br />

is<strong>la</strong>miche in Afghanistan fra il 1980 e il 1989, dotandole<br />

in partico<strong>la</strong>re dei missili Sting, usati contro gli elicotteri<br />

sovietici.<br />

Alcuni di quegli Sting <strong>sono</strong> ancora sul mercato delle<br />

armi e oggi abbattono, in Irak, elicotteri statunitensi,<br />

quando qualcuno può acquistarli con i proventi dei<br />

sequestri di stranieri... Quasi ottantenne, Nichols ritrova<br />

il brio di “Comma 22”, girando un film di quelli che<br />

erano normali negli anni Settanta, quando non era strano


che un soggetto verosimile, sostenuto da una sceneggiatura<br />

smagliante, trovasse i soldi per diventare un film per<br />

cittadini, non per consumatori.<br />

Quando comincia il film, Wilson è un par<strong>la</strong>mentare malleabile<br />

giunto al terzo mandato; soltanto a causa di una<br />

matura e disinibita finanziatrice (Julia Roberts) si fa<br />

coinvolgere nel caso Afghanistan. È per compiacer<strong>la</strong> che<br />

manda all’incasso tutti favori fatti ai colleghi su questioni<br />

per lui senza interesse e allestisce, grazie a un agente<br />

del<strong>la</strong> Cia (Philip Seymour Hoffman, eccezionale) un bis<br />

dell’Irangate, passando anche per grande politico.<br />

Nichols non chiude il film con <strong>la</strong> churchilliana constatazione<br />

‘d’aver ucciso il porco sbagliato’ perché era evidente<br />

ancor prima dell’11 settembre 2001.<br />

Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 17/02/<strong>2008</strong><br />

Il potere è bello. Il potere è tutto. E, soprattutto, concede<br />

tanti privilegi: soldi, fama, porte aperte, facili conquiste<br />

amorose. Ed è così che Mike Nichols ci racconta, con<br />

“La guerra di Charlie Wilson”, <strong>la</strong> storia di un uomo di<br />

successo, bello simpatico e senza rimorsi di alcun tipo,<br />

impegnato quasi per caso in una vicenda che cambierà <strong>la</strong><br />

storia. Ispirato a un personaggio realmente esistente, il<br />

film è infatti il racconto di come un senatore del Texas,<br />

Charlie Wilson appunto, sia riuscito a dare <strong>la</strong> spinta decisiva<br />

al crollo dell’Impero del Male, l’arcinemica Unione<br />

Sovietica. E come fece? ‘Semplicemente’ dando tutto il<br />

contributo possibile al<strong>la</strong> lotta dei combattenti afghani<br />

contro l’Armata Rossa: un perfetto intreccio di dol<strong>la</strong>ri e<br />

spie, con tanto di ‘sponsor’ texano rappresentato da una<br />

ricca ereditiera convinta sostenitrice del<strong>la</strong> causa anticomunista,<br />

allo scopo di fornire ai resistenti le armi più<br />

moderne, senza coinvolgere direttamente Washington. Il<br />

tutto senza rinunciare al valore più forte del<strong>la</strong> vita di<br />

Charlie: il gusto del potere, con il simpatico corol<strong>la</strong>rio di<br />

una cascata di bellissime donne.<br />

43<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli - 25/02/<strong>2008</strong><br />

Soltanto un cineasta geniale, quale Mike Nichols, poteva<br />

mettere in scena una metafora come il giovane ufficiale<br />

dei marines che gioca a scacchi su quattro tavoli mentre<br />

progetta tattiche adeguate per distruggere gli elicotteri<br />

sovietici. E’ <strong>la</strong> Guerra, si dirà. Ed è <strong>la</strong> tragedia che il gaudente<br />

deputato Charlie Wilson scoprirà quando il<br />

Congresso Usa lo manda in Afghanistan per verificare<br />

l’opportunità strategica di aumentare i fondi destinati agli<br />

armamenti. Nato a Berlino nel 1931, da un medico ebraico<br />

di origine russa, emigrato a sette anni negli Stati Uniti<br />

per sfuggire alle persecuzioni hitleriane, Nichols tiene alta<br />

<strong>la</strong> <strong>la</strong>ma del giudizio sulle infamie del<strong>la</strong> Storia; ed è entusiasmante<br />

ammirare <strong>la</strong> coerenza civile del regista, autore<br />

si del “Laureato” (1967), ma profeta di pace e di antimilitarismo<br />

fin dai tempi di “Comma 22” (1970). <strong>Per</strong>sonaggio<br />

reale, il deputato Wilson nuota beatamente in una vasca da<br />

bagno a Las Vegas, bevendo Martini e trastul<strong>la</strong>ndosi con<br />

deliziose girls, quando lo nominano dirigente del<br />

Comitato etico. Siamo allo scadere del decennio 1980, e<br />

l’America sta innescando <strong>la</strong> Santa Barbara che, ancora<br />

oggi, esplode in Medio Oriente. Il film - ventesimo di<br />

Mike Nichols - mostra <strong>la</strong> fragilità morale dell’uomo, e tuttavia<br />

non nasconde le sue <strong>la</strong>crime, quando <strong>la</strong> panoramica<br />

globale avvolge l’esodo degli umili pastori, inquadrando il<br />

campo dei profughi, le muti<strong>la</strong>zioni dei bambini, il dolore<br />

delle madri. Se un merito dobbiamo ascrivere all’autore è<br />

il tocco sobrio e non retorico. Tom Hanks vanta misura,<br />

conducendo gradualmente il suo personaggio verso <strong>la</strong><br />

presa di coscienza, e <strong>la</strong>sciandogli l’ombra del dubbio<br />

quando lo decorano come ‘collega ad honorem’. Charlie<br />

Wilson, al<strong>la</strong> fine, si è convertito, probabilmente, al<strong>la</strong> pietà.<br />

Chi lo circonda, compresi il cinico agente Cia e l’ambigua<br />

consolessa onoraria, restano abbarbicati al<strong>la</strong> nozione colonialista:<br />

in un ‘gioco a scacchi’ ben enfatizzato da Philips<br />

Seymour Hoffman e Julia Roberts, mentre <strong>la</strong> bandiera<br />

stel<strong>la</strong>ta svento<strong>la</strong> p<strong>la</strong>tonicamente, invocando <strong>la</strong> libertà.


7<br />

Regia: Justin Chadwick<br />

Interpreti: Natalie Portman (Anna Bolena), Scarlett<br />

Johansson (Maria Bolena), Eric Bana (Enrico VIII), David<br />

Morrissey (Duca di Norfolk), Kristin Scott Thomas (Lady<br />

Elisabetta), Mark Ry<strong>la</strong>nce (Sir Thomas Boleyn), Jim<br />

Sturgess (Giorgio Bolena), Ana Torrent (Caterina<br />

d’Aragona) Juno Temple (Jane Parker), Eddie Redmayne<br />

(William Stafford), Benedict Cumberbatch (William<br />

Carey), Tiffany Freisberg (Mary Talbot), Oliver Coleman<br />

(Henry <strong>Per</strong>cy)<br />

Genere: Drammatico/Romantico/Storico<br />

Origine: Gran Bretagna<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Philippa Gregory (romanzo)<br />

Sceneggiatura: Peter Morgan<br />

Fotografia: Kieran McGuigan<br />

Musica: Paul Cantelon<br />

Montaggio: Carol Littleton, Paul Knight<br />

Durata: 115’<br />

Produzione: Bbc Films, Focus Features, Re<strong>la</strong>tivity<br />

Media, Ruby Films, Scott Rudin Productions<br />

Distribuzione: Universal (<strong>2008</strong>)<br />

L’ALTRA DONNA DEL RE<br />

11-12 dicembre <strong>2008</strong><br />

44<br />

Soggetto<br />

In Inghilterra il re Enrico VIII, dopo aver cercato<br />

senza successo di fare di Maria Bolena <strong>la</strong> propria<br />

amante, cede al fascino del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> di lei, Anna.<br />

Incalzato dal<strong>la</strong> ragazza, chiede al Papa l’annul<strong>la</strong>mento<br />

del matrimonio dal<strong>la</strong> moglie Caterina d’Aragona.<br />

Non ottiene risposta, dichiara di non riconoscere più<br />

l’autorità del<strong>la</strong> Chiesa di Roma, <strong>la</strong>scia Caterina e<br />

sposa Anna che diventa regina. Il mancato arrivo di<br />

un erede maschio porta tuttavia in seguito al deteriorarsi<br />

dei rapporti tra i <strong>due</strong>. Fin quando Anna, accusata<br />

di tradimento, viene condannata a morte.<br />

Valutazione<br />

Se <strong>la</strong> tragica vicenda di Enrico VIII e di Anna Bolena<br />

continua periodicamente a trovare versioni sia cinematografiche<br />

che televisive, vuol dire che quei fatti<br />

continuano a ‘par<strong>la</strong>re’ allo spettatore di oggi, ad avere<br />

dentro qualcosa che esu<strong>la</strong> dal contesto storico per<br />

diventare sempre una intrigante ‘attualità’. Qui, come<br />

in altri casi, non mancano varianti, c’è qualche mutamento<br />

di fatti di contorno, ma <strong>la</strong> prospettiva è quel<strong>la</strong><br />

‘femminile’, re<strong>la</strong>tiva a <strong>due</strong> ragazze dapprima obbligate<br />

e poi decise a lottare contro il monolitico potere<br />

del<strong>la</strong> corte d’Inghilterra. Sia pure con qualche<br />

momento meno risolto, il dramma umano viene fuori<br />

bene anche stavolta: conflitto <strong>la</strong>cerante tra desiderio<br />

e potere, tra verità e tradimento, tra coscienza e etica<br />

cancel<strong>la</strong>ta. La microstoria si scontra con <strong>la</strong> Storia


grande e ne esce ancora una volta sconfitta. Affidato<br />

al<strong>la</strong> convinta prestazione delle <strong>due</strong> protagoniste, il<br />

copione, quasi un testo shakespeariano, avvince e<br />

convince, dura lezione per <strong>la</strong> monarchia inglese<br />

(anche di oggi?), pagina e monito verso gli eccessi e<br />

il prezzo che chiede <strong>la</strong> rincorsa al potere.<br />

Film - Fabrizio Moresco<br />

Il racconto del cinema si è sempre servito a piene<br />

mani degli anni foschi del sedicesimo secolo inglese<br />

e ha rappresentato in più modi le passioni, <strong>la</strong> crudeltà,<br />

le ambizioni per il potere delle storie legate a quei<br />

temi e a quei luoghi. Naturalmente, ogni volta si è<br />

trattato di scegliere l’ottica in cui inquadrare l’argomento<br />

e il modo per portarlo sullo schermo. In questo<br />

film, si è optato per mettere al centro <strong>la</strong> vicenda<br />

personale di un re che, pur spinto da esigenze dinastiche<br />

istituzionali, non ha messo freno al<strong>la</strong> propria<br />

voracità sessuale, facendo strage delle donne che ha<br />

avuto, fino al punto di modificare l’assetto<br />

politico/religioso del suo Paese, agire in aperto conflitto<br />

con Roma e dare inizio a un periodo di forti e<br />

sanguinose tensioni sociali. Quindi mai riprese d’ampio<br />

respiro o dall’alto, rari i grandi spazi, fino alle<br />

esecuzioni finali incorniciate nell’ampia partecipazione<br />

di popolo e nel giudizio impersonale del<br />

Tempo; mai riferimenti politici e storiografici precisi:<br />

il Cardinale Wolsey, il Lord Cancelliere che fu il<br />

braccio di Enrico nel trascinare l’Inghilterra allo scisma,<br />

nominato di sfuggita una so<strong>la</strong> volta; superficialmente<br />

accennate le difficoltà di gestire i rapporti con<br />

gli ambienti religiosi; sbrigativamente risolta <strong>la</strong> separazione<br />

da Caterina e così via. Privilegiate le scene a<br />

<strong>due</strong>, le ambientazioni ristrette, soprattutto in camera<br />

da letto, per sottolineare l’importanza dei dialoghi,<br />

delle passioni, dei progetti, delle avidità; come a dire<br />

che i grandi sommovimenti del<strong>la</strong> Storia <strong>sono</strong> stati<br />

causati da innamoramenti improvvisi durante una<br />

partita di caccia, da inaspettate esplosioni dell’animo,<br />

da improvvise bassezze: minute ripicche e violente<br />

gelosie d’alcova hanno cambiato <strong>la</strong> vita di milioni di<br />

uomini e donne. Forse è andata davvero così, <strong>la</strong> scelta<br />

degli autori è da rispettare, anche quando si trascina<br />

<strong>la</strong> Storia negli incastri di una soap-opera. Quindi<br />

tutto è possibile e <strong>sono</strong> perfette <strong>la</strong> Portman e <strong>la</strong><br />

Johansson nel fronteggiarsi senza esclusione di colpi<br />

in un logorio di cui entrambe pagano il prezzo; nel<strong>la</strong><br />

figura di Enrico, che prosegue testardo e incurante<br />

nello scrivere le vicende dei Tudor, passando da un<br />

letto all’altro, si concentra con efficacia non priva di<br />

smarrimento Eric Bana, bravo nel significare come il<br />

coinvolgimento di un uomo possa essere superiore<br />

al<strong>la</strong> responsabilità di un re. Onestamente i titoli di<br />

coda ricordano che a dare un assetto composito (e<br />

una dignità, noi aggiungiamo) a tutto questo e a far<br />

45<br />

transitare l’Inghilterra verso i secoli più moderni sia<br />

poi stata chiamata dal destino proprio <strong>la</strong> figlia di colei<br />

che Enrico mise sotto <strong>la</strong> scure del boia.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce - 27/04/<strong>2008</strong><br />

Salvo errori di calcolo, in quasi un secolo dal primo<br />

“Henry VIII” del 1911 per <strong>la</strong> regia di William G.B.<br />

Barker, “L’altra donna del re” dovrebbe essere il ventesimo<br />

film che, al centro o col<strong>la</strong>terale, ci racconta di<br />

Anna Bolena, del<strong>la</strong> rete di seduzioni e complotti al<strong>la</strong><br />

corte del re d’Inghilterra, delle nozze con Enrico VIII<br />

invaghitosi di Anna magari con <strong>la</strong> non tanto segreta<br />

speranza, dopo il divorzio da Caterina d’Aragona che<br />

l’aveva reso padre solo di una femminuccia, di assicurare<br />

l’eredità al trono con <strong>la</strong> nascita di un maschietto,<br />

nonché del<strong>la</strong> tragica fine di Anna regina dopo<br />

l’accusa di un tradimento forse mai avvenuto.<br />

E quasi ogni film - almeno quelli meglio incastonati<br />

per sapienza di scenario, chiarezza di figurazioni,<br />

alchimia di sentimenti - ha avuto il suo esemp<strong>la</strong>re<br />

stigma d’epoca: tra leggerezza ed eleganza quello di<br />

Ernst Lubitsch del 1919, con Emil Jannings dai sottintesi<br />

tronfi di ghignante sorriso; tra crudeltà e ironia<br />

quello di Alexander Korda del 1934 con Charles<br />

Laughton, stazza corpulenta, sguardi penetranti, subsannanti<br />

risate.<br />

Ora, invece, sul<strong>la</strong> falsariga di un romanzo con varianti<br />

melò su trama storica da bigino popo<strong>la</strong>re, di contro<br />

ad un Enrico VIII schizzato giovane, intelligente e<br />

bello, - lo raffigura con prestanza Eric Bana -, l’interesse<br />

si sposta sul destino di <strong>due</strong> sorelle Bolena, Anna<br />

e Maria, <strong>la</strong> prima ambiziosa e cinica freneticamente<br />

tesa al potere, quale sa darvi sotto venustà d’immagine<br />

sottile perfidia Natalie Portman, e <strong>la</strong> seconda<br />

dolce e mite con quell’aura da santino che sa scaltramente<br />

illuminarsi addosso Scarlett Johansson.<br />

Ambe<strong>due</strong> <strong>sono</strong> vittime del<strong>la</strong> sfrenata ambizione di<br />

padre e zio, tesi ad aumentare prestigio e ricchezza<br />

del<strong>la</strong> propria famiglia. Mandate a corte, dapprima è<br />

Maria, benché già sposata e confinata damigel<strong>la</strong> del<strong>la</strong><br />

regina, a suscitare le attenzioni amorose di Enrico. E<br />

per non disturbare <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, Anna è mandata a<br />

Parigi al<strong>la</strong> corte del re. Ma quando, illegittimo, ci<br />

scappa un figlio tra Enrico e Maria e il re si disamora<br />

dell’amante, padre e zio <strong>sono</strong> pronti a richiamare<br />

Anna per tenersi sul<strong>la</strong> cresta dell’onda nei favori<br />

reali. Ad Anna non par vero di giostrare astutissima,<br />

costringendo Enrico a ripudiare Caterina, staccarsi<br />

dal<strong>la</strong> Chiesa di Roma, diventare regina, almeno sino<br />

a quando l’interruzione di una tanto sperata gravidanza<br />

<strong>la</strong> induce a intrighi di tragico epilogo.<br />

Ma, a parte <strong>la</strong> recitazione delle <strong>due</strong> protagoniste piacevolmente<br />

a ping pong accanto a comprimari di<br />

piatta stereotipia, più che <strong>la</strong> regia di Justin Chadwick,<br />

all’esordio nel lungometraggio con facile ricorso a<br />

stilemi del<strong>la</strong> sua esperienza televisiva tra frequenza


di primi piani e dettagli compiacentemente pantografati,<br />

hanno un certo fascino quasi hollywoodiano<br />

fotografia di un cromatismo che sembra graffiare il<br />

buio di un memoriale ossidato dal tempo, scenografia<br />

d’antan tra esterni di castelli e brughiere, costumi in<br />

una impeccabile sfi<strong>la</strong>ta di trine e merletti, corsetti e<br />

broccati.<br />

Il Venerdì di Repubblica - Arianna Finos -<br />

18/04/<strong>2008</strong><br />

Le dive più in vista di Hollywood insieme in un film<br />

in costume sugli amori di Enrico VIII. Che sve<strong>la</strong> un<br />

personaggio storico poco conosciuto. Competizione<br />

tra star? Dice <strong>la</strong> Portman: ‘<strong>Per</strong> ora non abbiamo bisogno<br />

di distruggerci...’.<br />

Avrebbe potuto esserci un’altra Bolena al fianco di<br />

Enrico VIII, con un diverso destino per l’Inghilterra<br />

e <strong>la</strong> cristianità. La storia ufficiale ci ha consegnato<br />

Anna, seconda moglie del sovrano del<strong>la</strong> dinastia<br />

Tudor, come colei che lo convinse al divorzio da<br />

Caterina d’Aragona, provocando, nel 1534, lo scisma<br />

con <strong>la</strong> Chiesa di Roma. Finì i suoi giorni sul patibolo,<br />

accusata di stregoneria e incesto, non prima di<br />

aver dato al<strong>la</strong> luce quel<strong>la</strong> che si sarebbe rive<strong>la</strong>ta <strong>la</strong> più<br />

grande delle regine, Elisabetta I.<br />

Diciannove film hanno già raccontato le vicende di<br />

Anna e il re. Il primo, “Henry VIII”, di William G.B.<br />

Barker, risale al 1911, il ventesimo, quasi un secolo<br />

dopo, fa uscire dall’ombra e rega<strong>la</strong> pari dignità all’altra<br />

Bolena, Maria, <strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> nemica. Presentato<br />

all’ultima Berlinale, “L’altra donna del re” è tratto dal<br />

bestseller omonimo di Philippa Gregory (Sperling &<br />

Kupfer, ) ed è incentrato sulle lotte e gli intrighi di<br />

corte tra le <strong>due</strong> sorelle per <strong>la</strong> conquista del cuore del<br />

monarca. E poiché le attrici chiamate a interpretare le<br />

Boylen girls <strong>sono</strong> Natalie Portman e Scarlett<br />

Johansson, il <strong>due</strong>llo si è immediatamente trasferito<br />

oltre i confini del<strong>la</strong> corte dei Tudor.<br />

‘Oggi sei bellissima, e a me tocca <strong>la</strong> parte dell’altra<br />

Bolena’. Anna, <strong>la</strong> maggiore delle <strong>due</strong>, assiste alle<br />

nozze del<strong>la</strong> più giovane Maria. Lo sguardo affettuosamente<br />

cinico di Anna, consapevole del matrimonio<br />

poco ambizioso del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong>, è quello di Natalie<br />

Portman. È lei (27 anni), che dopo essersi aggiudicata<br />

il primo ruolo da cattiva del<strong>la</strong> sua carriera ha<br />

suggerito il nome del<strong>la</strong> ventitreenne Johansson, <strong>la</strong><br />

bionda.<br />

È stata una scelta felice, perché il confronto tra le <strong>due</strong><br />

dame è il principale motivo d’interesse in un film che<br />

il debuttante Justin Chadwick ha girato ispirandosi<br />

più ai melodrammi in costume di hollywoodiana<br />

memoria che ai resoconti storici. Sullo sfondo di<br />

castelli d’epoca, in una corte che, anche grazie ai<br />

costumi di Sandy Powell (già Oscar per<br />

“Shakespeare in Love” e “The Aviator”), sembra<br />

uscita da un dipinto di Hans Holbein (l’unico pittore<br />

46<br />

al<strong>la</strong> corte di Enrico VIII), si muovono le intrecciate<br />

vicende del<strong>la</strong> famiglia reale.<br />

Il padre Thomas Boylen e lo zio Duca di Norfolk<br />

convincono Anna a diventare l’amante di Enrico<br />

VIII, che si è allontanato dal<strong>la</strong> consorte Caterina<br />

d’Aragona perché non riesce a dargli un figlio<br />

maschio. Ma il re (Eric Bana), che nel film è meno<br />

rossiccio e obeso di come: ce lo dipinge <strong>la</strong> storia,<br />

s’invaghisce invece del<strong>la</strong> più dolce e mite Maria, che<br />

si trasferisce a corte con marito e famiglia. Quando<br />

lei sarà alle prese con una gravidanza difficile, Anna<br />

(allontanata per aver sposato in segreto un facoltoso<br />

proprietario terriero), sarà richiamata dal padre per<br />

mantenere viva <strong>la</strong> passione del sovrano per <strong>la</strong> sorel<strong>la</strong><br />

ma<strong>la</strong>ta. Ne ruberà il posto, arrivando a farsi sposare<br />

dal re, conquistandolo. Ma anche i suoi progetti s’infrangeranno<br />

di fronte all’incapacità di soddisfare <strong>la</strong><br />

principale esigenza regale, quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> prosecuzione<br />

dinastica. Che, paradossalmente, <strong>la</strong> storia risolverà<br />

facendo sedere <strong>la</strong> figlia femmina di Anna, Elisabetta,<br />

sul trono d’Inghilterra per oltre quarant’anni.<br />

‘Anna rappresenta il prototipo del<strong>la</strong> donna moderna,<br />

che cerca il potere, mentre Maria se ne distacca e<br />

decide di allontanarsene, anche fisicamente. Sono<br />

passati parecchi secoli, ma ancora oggi, indubbiamente,<br />

il maschio altolocato resta un veicolo per l’emancipazione<br />

sociale’ dice Natalie Portman. Le fa<br />

eco <strong>la</strong> collega Johansson: ‘Credo che certe cose succedano<br />

ancora oggi. Sono cresciuta in una famiglia<br />

progressista, con genitori che hanno incoraggiato me<br />

e le mie sorelle a trovare <strong>la</strong> nostra strada, seguire le<br />

passioni e crescere intellettualmente. Ma so che a<br />

quei tempi le famiglie, specie nobili, usavano i figli,<br />

maschi o femmine che fossero, come semplici pedine<br />

per <strong>la</strong> conquista del potere’. Le <strong>due</strong> attrici si <strong>sono</strong><br />

reciprocamente coperte di lodi infinite. La Portman è<br />

arrivata a dichiarare al britannico Sun di voler ‘palpare<br />

il seno di Scarlett’ <strong>la</strong> quale, da parte sua ha ringraziato.<br />

‘Il fatto è che siamo in <strong>due</strong> momenti del<strong>la</strong><br />

carriera molto simili, non sentiamo di doverci<br />

distruggere a vicenda’ racconta schietta <strong>la</strong> Portman.<br />

Entrambe sex symbol sul metro e sessanta, una carriera<br />

iniziata da bambine, Natalie (<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> amica<br />

del killer Léon) e Scarlett (<strong>la</strong> ragazzina che affiancava<br />

Redford sussurratore di cavalli) <strong>sono</strong> le dive di<br />

maggiore spicco a Hollywood. La sfida artistica di<br />

questo set <strong>la</strong> vince <strong>la</strong> perfida Portman, ma sul fronte<br />

dell’appeal gli uomini le preferiscono <strong>la</strong> bionda<br />

Johansson.<br />

L’ultimo comune denominatore delle ragazze è l’impegno<br />

politico, su fronti diversi. Natalie Portman tifa<br />

Hil<strong>la</strong>ry ‘perché sarebbe bellissimo avere una donna<br />

presidente’. Scarlett Johansson invece sostiene<br />

Barack Obama. E alle parole <strong>la</strong> bionda ha fatto seguire<br />

i fatti, apparendo nel video Yes, we can, che nel<br />

giro di pochi giorni ha attratto 14 milioni di contatti.


8<br />

<strong>IN</strong> BRUGES<br />

LA COSCIENZA DELL’ASSASS<strong>IN</strong>O<br />

18-19 dicembre <strong>2008</strong><br />

Regia: Martin McDonagh<br />

Interpreti: Colin Farrell (Ray), Brendan Gleeson (Ken),<br />

Ralph Fiennes (Harry), Clémence Poésy (Chloë), Jordan<br />

Prentice (Jimmy), Jérémie Renier (Eirik), Eric Godon<br />

(Yuri), Thek<strong>la</strong> Reuten (Marie), Anna Madeley (Denise),<br />

Elizabeth Berrington (Natalie), Sachi Kimura (Imamoto),<br />

Inez Stinton (Kelli), Ciarán Hinds (Sacerdote)<br />

Genere: Commedia/Drammatico<br />

Origine: Belgio/Gran Bretagna<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Martin McDonagh<br />

Sceneggiatura: Martin McDonagh<br />

Fotografia: (Scope/a colori): Eigil Bryld<br />

Musica: Carter Burwell<br />

Montaggio: Jon Gregory<br />

Durata: 101’<br />

Produzione: Blueprint Pictures, Film Four, Focus<br />

Features, Scion Films Limited<br />

Distribuzione: Mikado (<strong>2008</strong>) - VIETATO AI M<strong>IN</strong>ORI<br />

DI 14 ANNI<br />

47<br />

Soggetto<br />

Ray e Ken, <strong>due</strong> killer professionisti, ricevono dal<br />

capo Harry l’ordine di nascondersi a Bruges, dopo<br />

che a Londra Ray, nel compiere l’esecuzione di un<br />

prete, ha accidentalmente ucciso un bambino. Una<br />

sera in albergo, mentre Ray é fuori, Ken risponde<br />

per telefono a Harry: l’ordine per lui é di eliminare<br />

Ray. Operazione quasi impossibile. Così Harry è<br />

costretto ad arrivare di persona a Bruges.<br />

Valutazione<br />

Com’era inevitabile, <strong>la</strong> cittadina belga è a pieno<br />

titolo una coprotagonista. Pa<strong>la</strong>zzi e strade medievali,<br />

i castelli, le torri creano le atmosfere giuste dentro<br />

le quali far svolgere una vicenda di amore e<br />

morte, di peccato e di espiazione, di colpa e di<br />

riscatto. <strong>Per</strong> tutta <strong>la</strong> prima parte il copione corre sul<br />

filo di una follia lucida, del<strong>la</strong> necessità di mettere<br />

d’accordo codice d’onore e coscienza, cognizione<br />

del proprio <strong>la</strong>voro di criminali e rispetto dell’amicizia.<br />

Nel<strong>la</strong> seconda l’accumulo drammaturgico<br />

sovrasta l’azione, che si appesantisce e dovrebbe<br />

essere stemperata da un certo umorismo paradossale.<br />

L’originalità del<strong>la</strong> scelta ambientale resta indubbia,<br />

con i riferimenti ad una pittura nordica fatta di<br />

tragico e di scelte beffarde.


Il Messaggero - Francesco Alò - 16/05/<strong>2008</strong><br />

Due gangster ir<strong>la</strong>ndesi aspettano Godot a Bruges.<br />

Un colpo è andato male. Così male che il giovane<br />

Ray e l’esperto Ken vengono spediti dal loro capo<br />

nevrotico Harry nel<strong>la</strong> Venezia delle Fiandre ad<br />

aspettare che le acque si calmino. Ken è affascinato<br />

dall’arte e dal<strong>la</strong> tranquillità del luogo. Ray si<br />

sente in gabbia e rischia l’esaurimento quando<br />

rischia il linciaggio da parte di un gruppo di turisti<br />

americani obesi. La trama si ferma qui, il resto di<br />

“In Bruges-La coscienza dell’assassino”, opera<br />

prima del drammaturgo ir<strong>la</strong>ndese Martin<br />

McDonagh, è pura arte del dialogo con un occhio a<br />

Beckett e l’altro a Tarantino. Brutalità e senso dell’umorismo,<br />

arte medievale e commedia romantica<br />

(Ray si prende una cotta per <strong>la</strong> misteriosa Chloe),<br />

nani da picchiare (è il secondo film recente dopo<br />

Funeral Party in cui si maltrattano i nani; trionfo<br />

del politicamente scorretto) e pistole che troncano<br />

<strong>la</strong> conversazione. Episodio dopo episodio, il film si<br />

sve<strong>la</strong> ipnoticamente davanti ai nostri occhi. Motivi<br />

del<strong>la</strong> magia? La penna arguta e umana di<br />

McDonagh (viene voglia di leggersi tutte le sue<br />

pièce ir<strong>la</strong>ndesi) e <strong>la</strong> potenza espressiva di Farrell e<br />

Gleeson. Il giovane Farrell si conferma grande attore.<br />

Se solo mettesse <strong>la</strong> testa a posto. Gli suggeriamo<br />

più Bruges e meno Hollywood.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Maurizio Porro - 30/05/<strong>2008</strong><br />

Finalmente un film ben scritto e diretto da Martin<br />

McDonagh, che scompagina i generi noir col suo<br />

curriculum teatrale che privilegia dialoghi e atmosfere.<br />

Sono <strong>due</strong> killer in attesa di punizione, a<br />

Bruges; mentre aspettano il capo, il loro gioco psicologico<br />

di vittime-carnefici si fa sempre più teso<br />

anche se i luoghi fiamminghi invitano al turismo.<br />

Vo<strong>la</strong>ndo alti, si potrebbero citare il ‘Godot’ di<br />

Beckett ma anche certi incastri al<strong>la</strong> Pinter; comunque<br />

il racconto funziona, anche con valenza surreale,<br />

grazie al<strong>la</strong> perfetta sintonia di tre attori che si<br />

palleggiano una specie di infelicità esistenziale ma<br />

colorata di gangsterismo. Sono Colin Farrell, al<strong>la</strong><br />

sua prova migliore, con aria stralunata ma sempre a<br />

caccia di ragazze; Brendan Gleeson, il più combattuto;<br />

il boss porta dubbi e segni di Ralph Fiennes.<br />

Delitto, pentimento, rimozione e castigo, nel gusto<br />

del ricamo delle Fiandre da sottosapore amaro.<br />

Il Foglio - Mariarosa Mancuso - 18/05/<strong>2008</strong><br />

Ci <strong>sono</strong> i turisti intruppati (<strong>sono</strong> sempre gli altri).<br />

Ci <strong>sono</strong> i colti viaggiatori (<strong>sono</strong> i più antipatici,<br />

Chatwin sottobraccio e fumetto ‘cosa ci faccio io<br />

qui?’). Ci <strong>sono</strong> i cultori dello slow travel (scrivono<br />

48<br />

libri per spiegare con molte e confuse parole il basi<strong>la</strong>re<br />

concetto nonnesco: ‘Partire è meglio che arrivare’).<br />

Il nostro tipo preferito somiglia a Colin<br />

Farrell in questo film. A Bruges, <strong>la</strong> città medievale<br />

meglio conservata d’Europa, tutta canali e ponticelli,<br />

adottata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità,<br />

nota come <strong>la</strong> Venezia del Belgio, e tutto quel<br />

che gli esce di bocca, senza neanche alzare gli<br />

occhi dal selciato, <strong>sono</strong> queste definitive parole:<br />

‘Se fossi un ritardato cresciuto in campagna forse<br />

Bruges potrebbe impressionarmi. Ma non lo <strong>sono</strong>,<br />

quindi non mi fa nessun effetto’. App<strong>la</strong>uso. E grandi<br />

app<strong>la</strong>usi al film, scritto e diretto da Martin<br />

McDonagh, commediografo ir<strong>la</strong>ndese paragonato a<br />

David Mamet. Senza sbagliarsi troppo, per quanto<br />

riguarda <strong>la</strong> bravura. Ma il b<strong>la</strong>ck humour è tipicamente<br />

ir<strong>la</strong>ndese, come potrete constatare vedendo<br />

questa storia originalissima e spassosa, con <strong>due</strong> killer<br />

dublinesi per protagonisti. Colin Farrell - nel<br />

film si chiama Ray - è giovane e imbronciato: gli<br />

occhietti si illuminano soltanto quando vede un<br />

nano sul set di un film (per i nani ha una vera passione:<br />

discute come devono essere chiamati, li insegue,<br />

cita le pellicole dove compaiono). Brendan<br />

Gleeson - nel film si chiama Ken - è più adulto, con<br />

una sanguinaria carriera alle spalle, e si trova a<br />

dover fare da balia al giovanotto. Entrambi <strong>sono</strong> in<br />

punizione per un incarico male eseguito - dovevano<br />

sparare a un prete, c’è stato purtroppo un danno<br />

col<strong>la</strong>terale. A Bruges dovrebbero stare tranquilli<br />

per un po’, cosa che non accade. Ogni altro accenno<br />

sul<strong>la</strong> trama sarebbe delittuoso. Si può accennare<br />

invece al<strong>la</strong> lungimiranza con cui il Belgio e <strong>la</strong> città<br />

di Bruges hanno gentilmente dato i permessi per le<br />

riprese di un film dove i rispettivi nomi <strong>sono</strong> sempre<br />

preceduti da un ‘fucking’. E dove si ride al<strong>la</strong><br />

battuta: ‘I belgi <strong>sono</strong> famosi per <strong>due</strong> cose, <strong>la</strong> ciocco<strong>la</strong>ta<br />

e <strong>la</strong> pedofilia; sappiamo che hanno inventato<br />

<strong>la</strong> ciocco<strong>la</strong>ta per attirare i bambini”. Lungimiranza,<br />

perché <strong>la</strong> città è diventata simpatica, e i turisti si<br />

<strong>sono</strong> moltiplicati.<br />

Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 25/05/<strong>2008</strong><br />

Anche i killer hanno un’anima? Forse, ma è sepolta<br />

sotto le regole di un ‘mestiere’ che non <strong>la</strong>scia<br />

molto spazio ai pensieri positivi. Brutti ceffi,<br />

insomma, anche quando si presentano con i volti<br />

simpatici di Ray e Ken, i <strong>due</strong> protagonisti di “In<br />

Bruges-La coscienza dell’assassino”.<br />

Un’opera prima, quel<strong>la</strong> di Martin McDonagh, che<br />

ha il pregio di spiazzare lo spettatore. Una bellissima<br />

città, inquadrature quasi da film di promozione<br />

turistica, e poi il giro di boa. Ray e Ken <strong>sono</strong> in


Belgio solo per nascondersi, e quel set da cartolina<br />

fa da singo<strong>la</strong>re contrappunto al<strong>la</strong> loro storia. Vite<br />

violente, segnate dal crimine. E un ‘incidente’ di<br />

percorso, di cui veniamo a sapere solo più avanti.<br />

Ray, durante l’ultima missione, ha ucciso per sbaglio<br />

un ragazzino. La sua coscienza, anche se rimasta<br />

allo stadio embrionale, comincia a tormentarlo.<br />

Voglia di far<strong>la</strong> finita, mentre da Londra arriva un<br />

altro ordine terribile. Intanto <strong>la</strong> vita a Bruges propone<br />

svolte impreviste: una ragazza gentile (ma dai<br />

molti misteri) con un ex fidanzato assai violento,<br />

un nano americano che sta girando un film, <strong>la</strong> proprietaria<br />

dell’albergo in attesa di un bambino. È<br />

quasi Natale, e <strong>la</strong> Vigilia si prospetta alquanto<br />

movimentata.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 16/05/<strong>2008</strong><br />

Due killer e il loro committente muoiono male<br />

(colpi di pisto<strong>la</strong>, caduta dal<strong>la</strong> torre, sparo in bocca)<br />

nel<strong>la</strong> bellissima città di Bruges nelle Fiandre, con i<br />

suoi canali, le piazze, le chiese e gli edifici goticorinascimentali,<br />

i giardini.<br />

Il più giovane dei killer ha ucciso su commissione<br />

un prete e, per errore, un bambino; l’altro lo ha<br />

accompagnato a Bruges per ammazzarlo (il committente<br />

non tollera che si faccia del male ai bambini).<br />

Il primo detesta <strong>la</strong> città, trovando<strong>la</strong> molto<br />

noiosa; gli altri <strong>due</strong> <strong>la</strong> adorano. I <strong>due</strong> killer girano<br />

per vie e canali, si fermano a contemp<strong>la</strong>re <strong>la</strong> <strong>la</strong>vorazione<br />

di un film di nani, bevono birra, aspettano<br />

<strong>la</strong> telefonata del padrone, si annoiano e divertono<br />

gli spettatori. Il regista Martin McDonagh, nato a<br />

Londra da genitori ir<strong>la</strong>ndesi, drammaturgo e regista<br />

teatrale, debutta nel cinema con questo film e<br />

mostra straordinaria padronanza, partico<strong>la</strong>re<br />

sapienza nel<strong>la</strong> sceneggiatura e nei dialoghi perfetti.<br />

Aveva detto di voler fare ‘una storia divertente,<br />

sexy e pericolosa, ma insieme triste, strana, riflessiva<br />

e gioiosa’: c’è riuscito (salvo <strong>la</strong> connotazione<br />

sexy, che proprio manca) realizzando un film bril<strong>la</strong>nte<br />

e malinconico, recitato benissimo specialmente<br />

da Colin Farrell.<br />

L’Eco di Bergamo - Achille Frezzato<br />

Nato a Londra nel 1970 da genitori ir<strong>la</strong>ndesi,<br />

Martin McDonagh è un insigne drammaturgo (le<br />

sue pièces hanno ottenuto numerosi premi in<br />

Ir<strong>la</strong>nda e in Inghilterra), che con “In Bruges - La<br />

coscienza dell’assassino” firma il suo primo lungometraggio,<br />

una storia di assassini a pagamento, in<br />

cui <strong>sono</strong> assenti roboanti e frenetiche azioni, presentata<br />

e premiata al Sundance Film Festival lo<br />

scorso gennaio. Ne <strong>sono</strong> protagonisti <strong>due</strong> killer<br />

49<br />

ir<strong>la</strong>ndesi, Ray (Colin Farrell: “Alexander”, “Miami<br />

Vice”) e Ken (Brendan Gleeson: “Harry Potter e il<br />

calice di fuoco”, “Harry Potter e l’Ordine del<strong>la</strong><br />

Fenice”), i quali, poco prima di Natale, <strong>la</strong>sciano in<br />

tutta fretta Londra: Harry, il boss (Ralph Fiennes:<br />

“Shindler’s list”, “Il paziente inglese”) ha ordinato<br />

loro di rifugiarsi per un paio di settimane a Bruges,<br />

in Belgio, dopo che Ray, nel portare a termine una<br />

truce commissione, aveva ucciso un bambino.<br />

Nel<strong>la</strong> tranquil<strong>la</strong> cittadina essi devono attendere una<br />

sua telefonata con il permesso di rientrare, accingendosi<br />

nel frattempo a fare i turisti: Ken non si<br />

<strong>la</strong>scia sfuggire l’occasione, frequenta bar, passeggia<br />

per le vecchie vie, visita chiese e musei (scopre<br />

il terrificante ‘Giudizio universale’ di Hieronymus<br />

Bosch), trovandosi talvolta in situazioni insolite e<br />

stravaganti, spesso in compagnia di Ray, che trascorre<br />

giornate difficili, tormentate per l’errore<br />

compiuto, giornate in parte meno opprimenti per le<br />

attenzioni di Ken e per l’inizio di una possibile storia<br />

d’amore con una ragazza che sembra nascondere<br />

oscuri segreti. Finalmente l’attesa telefonata<br />

arriva ed è terribile: le regole del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>vita vanno<br />

applicate. In questa coproduzione anglo-belga, realizzata<br />

a Bruges, si snoda una storia nera, una<br />

vicenda in cui si intersecano violenza, lealtà, onore,<br />

amicizia, con frequenti improvvise virate dai toni<br />

del<strong>la</strong> commedia a quelli del dramma, una vicenda,<br />

in cui contemporaneamente si delinea, fra significanti<br />

dettagli e notazioni, il rapporto fra <strong>due</strong> sicari,<br />

già definito ‘cameratesco, amichevole, al<strong>la</strong> fine<br />

anche solidale’. “In Bruges” (titolo originale) gode<br />

di una inappuntabile sceneggiatura, arricchita da<br />

una sensibilità registica e visiva esemp<strong>la</strong>re e vanta<br />

una scenografia altamente eloquente: con il procedere<br />

del racconto <strong>la</strong> città delle Fiandre da pittoresca<br />

e incredibilmente romantica si fa gradualmente<br />

sinistra, minacciosa nelle sue accentuate caratteristiche<br />

gotiche, assumendo una valenza drammatica,<br />

alludendo al destino dei personaggi, suggestivamente<br />

interpretati da Gleeson e da Farrell.<br />

Sotto <strong>la</strong> guida del regista, essi non tratteggiano in<br />

bianco e nero <strong>la</strong> personalità dei <strong>due</strong> criminali e se<br />

Ken, dotato di grande forza e di generosa comprensione,<br />

esprime consapevolmente una carica di energia<br />

umana, Ray, nel<strong>la</strong> sua disperazione, nei suoi turbamenti<br />

e rimorsi, convinto di un futuro per lui tragico,<br />

affonda nel<strong>la</strong> sua natura complessa e cupa. Due<br />

criminali, violenti e sanguinari, che pur si avvertono<br />

percorsi da scosse e trasalimenti decisamente umani:<br />

<strong>due</strong> personaggi, in cui, come è stato acutamente<br />

notato, ‘si concretizzano il bene e il male, che perennemente<br />

albergano nel<strong>la</strong> natura umana’.


9<br />

Regia: Gianni Zanasi<br />

Interpreti: Valerio Mastandrea (Stefano Nardini), Anita<br />

Caprioli (Miche<strong>la</strong> Nardini), Giuseppe Battiston (Alberto<br />

Nardini), Caterina Murino (Nadine), Paolo Briguglia<br />

(Paolo Guidi), Dino Abbrescia (Stefano, il vigi<strong>la</strong>nte), Teco<br />

Celio (Walter Nardini, il papà), Gisel<strong>la</strong> Burinato (Mamma<br />

Nardini), Luciano Scarpa (Luciano detto Matrix), Paolo<br />

Sassanelli (Francesco, il bancario), Natalino Ba<strong>la</strong>sso<br />

(Riccardo Martinelli, il sindacalista), Raffael<strong>la</strong> Reboroni<br />

(Manue<strong>la</strong>, <strong>la</strong> ragioniera del<strong>la</strong> fabbrica), Edoardo<br />

Gabbriellini (Luca, chitarrista dei ‘Lager’),Chiara Bucchi<br />

(Eleonora, figlia di Alberto), Riccardo Bucchi (Luca,<br />

figlio di Alberto), Pao<strong>la</strong> Bechis (Giulia, <strong>la</strong> moglie di<br />

Alberto), Valentina Fois (Monica, <strong>la</strong> ragazza di Stefano)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Italia<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Gianni Zanasi<br />

Sceneggiatura: Gianni Zanasi, Michele Pellegrini<br />

Fotografia: (Panoramica/a colori): Giulio Pietromarchi<br />

Musica: Merci Miss Monroe, Les Fauves, Atomik Dog<br />

Montaggio: Rita Rognoni<br />

Durata: 110’<br />

Produzione: Beppe Caschetto e Rita Rognoni per Itc<br />

Movie, Pupkin Production in col<strong>la</strong>borazione con La7<br />

Distribuzione: 01 Distribution (<strong>2008</strong>)<br />

NON PENSARCI<br />

8-9 gennaio <strong>2009</strong><br />

50<br />

Soggetto<br />

In un momento di crisi del<strong>la</strong> sua carriera di cantante<br />

punk rock, il 36enne Stefano Nardini decide di<br />

<strong>la</strong>sciare Roma e tornare al nord dal<strong>la</strong> famiglia che<br />

non vede da tempo. Ritrova così i genitori, Miche<strong>la</strong><br />

<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> più giovane, e Alberto, il fratello maggiore<br />

che ha preso su di sé <strong>la</strong> responsabilità del<strong>la</strong> fabbrica<br />

di famiglia, un’azienda che produce ciliege sotto spirito.<br />

Stefano voleva riposarsi ma i problemi cominciano<br />

solo ora.<br />

Valutazione<br />

Gianni Zanasi era fermo da “A domani” (1999).<br />

Lunghi momenti di incertezze, simili a quelli del suo<br />

protagonista. <strong>Per</strong> uscirne, ecco questo copione vivace<br />

e sfaccettato, scritto con scioltezza di dialogo in linea<br />

con <strong>la</strong> migliore tradizione italiana e condotto con il<br />

brio del<strong>la</strong> migliore commedia italiana. Tutto scorre<br />

sul<strong>la</strong> linea di confine tra dolce e amaro, tra vizi e<br />

virtù, tra forte richiamo dei legami e frustrata voglia<br />

di fuga. Nel convulso nucleo familiare che si agita<br />

intorno a Stefano, si agita l’Italia di oggi, sbattuta nel<br />

mare agitato del<strong>la</strong> perdita dei valori, indecisa se battersi<br />

per rinascere o <strong>la</strong>sciarsi andare a fondo. Si ride,<br />

ma sempre a denti stretti.


TrovaRoma di La Repubblica - Renzo Fegatelli -<br />

27/03/2000<br />

Gianni Zanasi ha passato <strong>la</strong> quarantina da un paio<br />

d’anni e ha girato quattro film. Non di quelli a grosso<br />

budget, ma opere singo<strong>la</strong>ri con personaggi eccentrici<br />

e di estrazione popo<strong>la</strong>re che si pongono domande.<br />

Presentati nei principali Festival internazionali, e<br />

spesso premiati, <strong>sono</strong> nell’ordine “Nel<strong>la</strong> mischia”,<br />

“Fuori di me”, “A domani”. L’ultimo “Non pensarci”,<br />

premiato al<strong>la</strong> sessantaquattresima Mostra di Venezia,<br />

è una commedia malinconica e trasgressiva. Allievo<br />

di Nanni Moretti, dopo studi di lettere e filosofia<br />

all’università di Bologna, Zanasi ha scritto e diretto<br />

<strong>la</strong> storia di una famiglia strampa<strong>la</strong>ta. Protagonista<br />

Stefano Nardini, che ha il volto stralunato di Valerio<br />

Mastandrea, virtuoso di chitarra a cinque anni.<br />

Originario di Rimini, lo ritroviamo a Roma a 35 anni,<br />

chitarrista rock. Il momento magico però è passato.<br />

Stefano suona nei concerti per guadagnarsi da vivere,<br />

ma non riesce a incidere un disco e per colmo di sfortuna<br />

viene anche mol<strong>la</strong>to dal<strong>la</strong> ragazza. <strong>Per</strong> non<br />

entrare in crisi decide di tornare in famiglia e offrirsi<br />

un momento di riflessione. Non trova <strong>la</strong> mitica casa<br />

dolce casa, ma piuttosto una gabbia di matti. Il padre,<br />

reduce da un infarto, è in pensione e dedica tutto il<br />

tempo al gioco del golf. L’azienda di ciliegie sciroppate<br />

è ora sulle spalle del fratello, unico sostegno di<br />

tutta <strong>la</strong> famiglia perché <strong>la</strong> madre, al limite del<strong>la</strong><br />

depressione, si è rifugiata in corsi di tecniche sciamaniche;<br />

<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> ha <strong>la</strong>sciato l’università per <strong>la</strong>vorare<br />

con i delfini in un parco acquatico. Il chitarrista<br />

ha <strong>la</strong> sensazione di essere sbarcato in un mondo sconosciuto,<br />

ma è al<strong>la</strong> ricerca di se stesso e intuisce che<br />

soltanto riuscendo a capire le ragioni dei familiari<br />

può ritrovarsi. Ma quando riesce ad avere una visione<br />

chiara del<strong>la</strong> situazione, scopre di poter essere <strong>la</strong><br />

persona giusta per dar man forte al fratello. Premiato<br />

anche ai Festival di Annecy e di Villerupt, il film si<br />

avvale di una bril<strong>la</strong>nte galleria di attori: Anita<br />

Caprioli, Giuseppe Battiston, Caterina Murino, Paolo<br />

Briguglia, Dino Abbrescia, Teco Celio, Gisel<strong>la</strong><br />

Burinato e molti altri.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Maurizio Porro -<br />

04/04/<strong>2008</strong><br />

Stefano Nardini, un malinconico trentacinquenne già<br />

passato da Chopin al punk in crisi, decide di tornare<br />

a cuccia di famiglia. Da Roma va dai suoi trovando<br />

un gruppo totalmente smembrato più in panne di lui:<br />

a Rimini <strong>la</strong> fabbrichetta è sull’orlo del disastro, <strong>la</strong><br />

sorel<strong>la</strong> frequenta solo i delfini al parco acquatico,<br />

l’altro fratello sposato con figli si assume il peso del<br />

tran tran, il padre è infartuato, <strong>la</strong> mamma segue tecniche<br />

sciamaniche e tutti imbottiti di tranquil<strong>la</strong>nti e/o<br />

51<br />

di illusioni anche per gli agguati del<strong>la</strong> memoria.<br />

<strong>Per</strong>sone e personaggi reali trattati con venatura ironica,<br />

con leggera ventata fiabesca: tra molti tipi strambi<br />

Gianni Zanasi offre con “Non pensarci” scritto con<br />

Michele Pellegrini, un vero, bellissimo ritratto del<br />

Paese di oggi, davvero una metafora di una società<br />

famiglia che non regge i tempi e ha bisogno di un<br />

curatore civile del fallimento morale dell’istituzione.<br />

Tutto ciò non viene trattato da tragedia, né il regista<br />

fa <strong>la</strong> predica, ma inserisce ogni terminazione nervosa<br />

del racconto in una commedia certo all’italiana ma<br />

aggiornata ai tempi, ai pudori, all’etica, al<strong>la</strong> sensualità<br />

diverse. Solo con l’ironia si sopravvive: è il valore<br />

aggiunto al<strong>la</strong> visione apocalittica dei rapporti interpersonali.<br />

Ci si diverte molto, non per cinismo, nel<strong>la</strong> drammatizzazione<br />

dei contrasti, con una vena di follia posata<br />

sul<strong>la</strong> gente: ogni psicologia è descritta con una leggerezza<br />

che non vuol dire superficialità. E al confine<br />

ultimo c’è in attesa <strong>la</strong> vena malinconica del protagonista<br />

costretto ad occuparsi di tutti: un eccezionale<br />

Valerio Mastandrea, romanticamente in fuga, in cerca<br />

di altrove. E i nostri attori <strong>sono</strong> intonati, bravi e sensibili:<br />

<strong>la</strong> Caprioli, Battiston nevrotico, <strong>la</strong> Murino,<br />

Briguglia, Abbrescia.<br />

E per carità niente retorica: si vomita, si rutta, ci si<br />

confida sugli autoscontri, si litiga coi delfini, si ama,<br />

si bacia e ci si suicida nel<strong>la</strong> consapevolezza forse è<br />

sempre lo stesso.<br />

Il Foglio - Mariarosa Mancuso - 05/04/<strong>2008</strong><br />

Il miglior film italiano da molti anni a questa parte<br />

l’ha girato Gianni Zanasi, e una menzione speciale va<br />

anche allo sceneggiatore Michele Pellegrini. Si capisce<br />

che si <strong>sono</strong> messi seriamente a tavolino, che <strong>sono</strong><br />

andati a caccia di tempi morti, che hanno scartato le<br />

solite gag, e cancel<strong>la</strong>to con un pennarello rosso le<br />

voci ‘<strong>la</strong>voratori precari’ e ‘critica sociale’. Una commedia<br />

italiana che non par<strong>la</strong> di tette è già una sorpresa,<br />

scrive Variety, prima di attaccare con gli elogi<br />

sperticati, e di lodare gli attori uno per uno, oltre al<strong>la</strong><br />

prestazione d’insieme. Mai come in questo film si<br />

<strong>sono</strong> visti tanti italiani seriamente impegnati a recitare:<br />

dove recitare, lo diceva Anna Magnani in<br />

“Bellissima” vuol dire ‘far finta di essere qualcun<br />

altro’ (tra i molti esempi, Caterina Murino e Giuseppe<br />

Battiston mentre discutono le virtù ri<strong>la</strong>ssanti del<strong>la</strong><br />

camomil<strong>la</strong>, irresistibile). “Non pensarci” racconta il<br />

ritorno al paesello di un rockettaro tanto sfigato che<br />

quando si butta dal palco gli spettatori si scansano.<br />

Tornato a casa con anticipo, trova <strong>la</strong> fidanzata a letto<br />

con un altro. Basterebbe questa scena - con l’imbarazzo,<br />

e un risvolto grottesco che non diciamo, tutto<br />

risolto negli sguardi e nei gesti - per capire che il


egista sa il suo mestiere. Il dubbio, a questo punto, è<br />

se <strong>la</strong> storia e il ritmo reggeranno fino al<strong>la</strong> fine.<br />

Reggono benissimo. Il giovanotto - Valerio<br />

Mastandrea anche più bravo del solito - infi<strong>la</strong> un paio<br />

di magliette nel<strong>la</strong> custodia del<strong>la</strong> chitarra e da Roma<br />

risale verso Rimini, a casa dei genitori, che hanno<br />

una fabbrica di ciliegie sotto spirito. Menzione speciale<br />

anche alle amarene, che da sole rappresentano<br />

un mondo piccolo in via di estinzione. E all’air guitar,<br />

e salto dal balcone con atterraggio sul cane di<br />

casa, alle <strong>la</strong>pidi del cimitero illuminate con l’accendino,<br />

e alle parole sante: ‘Mamma, ma non stavamo<br />

meglio quando ci dicevamo le bugie?’.<br />

L’Eco di Bergamo - Franco Colombo - 05/04/<strong>2008</strong><br />

‘Giovani, si fa per dire/ eterni innamorati del<strong>la</strong> vita/<br />

col gusto di chi sfida il tempo e vive al<strong>la</strong> giornata/<br />

giovani un po’ speciali che non sanno ancora cosa<br />

fare/ ma <strong>sono</strong> sempre e comunque in attesa di un<br />

grande avvenire…’ Così cantava una quindicina<br />

d’anni fa l’indimenticabile Giorgio Gaber (‘E pensare<br />

che c’era il pensiero’). Di lì a poco usciva il “Jack<br />

Frusciante” di Brizzi e, un po’ più in là, “L’ultimo<br />

bacio” di Muccino.<br />

Giovani allo specchio, deformante ma non troppo,<br />

fino al più spiazzante, di oggi, “Tutta <strong>la</strong> vita davanti”.<br />

Sul medesimo filo, per fortuna non da call center, ma<br />

con i giovani e <strong>la</strong> famiglia protagonisti, scentrati gli<br />

uni e l’altra, corre questo “Non pensarci”, quarto<br />

film, dal 1995 a oggi, del modenese Gianni Zanasi,<br />

dopo “Nel<strong>la</strong> mischia”, “A domani”, “Fuori di me”,<br />

tutti più o meno sul medesimo tema di adolescenti<br />

(prima) e di giovani (poi) turbati e inquieti. È un regista<br />

di 43 anni che già qualcuno, al suo apparire, accostò<br />

al Truffaut dei “Quattrocento colpi”, a un Pasolini<br />

più lieve, mitigato dal sorriso del De Sica neorealista.<br />

Confermiamo e aspettiamo Zanasi con un altro film,<br />

a tempi più ravvicinati, perché il nostro cinema ha un<br />

handicap, rispetto per esempio a quello francese, non<br />

sa capire e valorizzare i registi di talento, e Zanasi è<br />

uno di questi.<br />

“Non pensarci”, titolo già allusivo di per sé, vede in<br />

campo tre fratelli, dentro a una famiglia piuttosto<br />

fuori di testa, più dal di dentro che dal di fuori. Tema<br />

non secondario dei ‘giovani non tanto giovani’ è che<br />

spesso <strong>sono</strong> cresciuti con genitori presenti-assenti,<br />

pronti a rimboccare le coperte ma in tutt’altre faccende<br />

affaccendati. A rendersi conto del ma<strong>la</strong>ndare di<br />

famiglia, che serpeggia magari contro <strong>la</strong> volontà di<br />

tutti, è Stefano, il maggiore (Valerio Mastandrea, il<br />

più intenso e interessante attore del nostro cinema)<br />

che, dall’estraniante Roma, dove sta tentando (vanamente)<br />

di fare il musicista rock, torna nel<strong>la</strong> casa<br />

natia, sotto il sole del<strong>la</strong> sabbiosa Rimini. Lì trova il<br />

52<br />

fratellone Alberto (l’ottimo e rubicondo Giuseppe<br />

Battiston) che, incapace, sta mandando in malora l’azienda<br />

di famiglia che imbottiglia ciliegie sotto spirito,<br />

e <strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> Miche<strong>la</strong> (<strong>la</strong> ben disinvolta Anita<br />

Caprioli), <strong>la</strong> quale ha abbandonato gli studi per <strong>la</strong>vorare<br />

in un delfinario. Se si aggiunge che <strong>la</strong> madre e il<br />

padre hanno più <strong>la</strong> testa fra le nuvole che i piedi per<br />

terra, risulta che, oltre quello economico, è prossimo<br />

il tracollo esistenziale.<br />

Forse <strong>la</strong> soluzione è quel<strong>la</strong> di “Non pensarci “, come<br />

il titolo del film suggerisce, anche perché, come<br />

sostiene in fondo il vecchio padre, ‘il tempo finisce<br />

col sistemare tutto’. Le durezze del<strong>la</strong> vita ci <strong>sono</strong>, ma<br />

il film di Zanasi non è lontamente paragonabile, per<br />

esempio, all’americano “Onora il padre e <strong>la</strong> madre”.<br />

Circo<strong>la</strong> nelle immagini, avvalorato da un vivace<br />

commento musicale, un atteggiamento dopotutto<br />

sereno e un po’ scherzoso. <strong>Per</strong> questo abbiamo citato<br />

Gaber, ma Zanasi sembra anche ben consapevole,<br />

come i suoi balzani personaggi, che <strong>la</strong> vita, per ricorrere<br />

a un famoso verso carducciano, ‘è l’ombra d’un<br />

sogno fuggente’.<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli -<br />

06/04/<strong>2008</strong><br />

La carriera del rockettaro è insidiata dal tradimento<br />

del<strong>la</strong> donna? E nel natio paesello l’industria conserviera<br />

del padre rischia il fallimento per l’imperizia<br />

del fratello Alberto? Un giovane deputato non riesce<br />

a trovare le risorse finanziarie per evitare <strong>la</strong> chiusura<br />

del<strong>la</strong> baracca e <strong>la</strong> vendita del<strong>la</strong> casa? Meglio non<br />

pensarci; e così Gianni Zanasi costruisce un saporito<br />

ritratto del<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> borghesia italiana, dove i disinganni<br />

sentimentali, il successo effimero, le difficoltà<br />

del<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> impresa si sommano all’itterizia caratteriale<br />

di Stefano Nardini, che abbandona Roma, i<br />

palcoscenici, e <strong>la</strong> gloria di una band fracassona, per<br />

conso<strong>la</strong>re i genitori, rimettere in riga <strong>la</strong> famiglia, far<br />

divertire i nipotini. Zanasi (Vigno<strong>la</strong>, Modena, 1965)<br />

potrebbe essere definito un avanguardista, se non<br />

apparisse, invece, il dominatore assoluto degli strumenti<br />

espressivi e degli attori a lui affidati. Fra i<br />

‘Notturni’ di Chopin, il verdiano brindisi del<strong>la</strong><br />

Traviata e gli accordi rumorosi di un pentagramma<br />

che lui sembra voler esecrare (e noi facciamo altrettanto),<br />

il fervido cineasta sintetizza parecchi argomenti:<br />

i guasti del neocapitalismo che alimenta le<br />

globalizzazioni e trascura le iniziative locali; l’illusione<br />

dei paradisi sciamanici; l’impotenza dei politici<br />

insigniti di b<strong>la</strong>sone elettorale ma insignificanti nel<br />

gioco del Potere. ll tutto, in allegra altalena sul<strong>la</strong> giostra<br />

dell’ironia, con un taglio secco e preciso ogni<br />

qual volta il <strong>la</strong>zzo sta per prendere il sopravvento.<br />

Nel<strong>la</strong> gustosa gara si alternano gli straordinari


Mastandrea e Battison, con un coro dove eccellono<br />

le soavi damigelle di grazia Caprioli e Murino; il<br />

palpito rabe<strong>la</strong>isiano dei ‘vecchi’ Burinato e Celio; il<br />

guizzo aurorale e mefitico del ‘nostro’ Paolo<br />

Briguglia, ormai saldamente acquisito al firmamento<br />

che ha saputo conquistarsi con <strong>la</strong> sua cultura e il suo<br />

impegno.<br />

Il Manifesto - Cristina Piccino - 01/09/2007<br />

Pensiamo a un rocker, anzi meglio a un trentacinquenne<br />

che ‘avrei voluto-essere-famoso’ e si ritrova<br />

chitarra in mano disoccupato, zero idee, <strong>la</strong> macchina<br />

scassata, <strong>la</strong> ragazza che lo pianta e lo sbatte pure fuori<br />

appartamento. Cosa fa il nostro? Piglia <strong>la</strong> strada e se<br />

ne torna da Roma, <strong>la</strong> città dello spettacolo a casa,<br />

provincia emiliana di villetta con giardino, fratello<br />

sovrappeso sposato ma in crisi, madre apprensiva,<br />

padre con infarto, sorel<strong>la</strong> solitaria forse lesbica visto<br />

che non ha mai esibito un fidanzato. Su schermo una<br />

roba così minaccerebbe di dare i brividi, specie poi se<br />

si tratta di una produzione italiana, dove <strong>la</strong> crisi esistenziale<br />

non conosce alcuna ironia. Stavolta però no.<br />

Intanto perché il regista si chiama Gianni Zanasi e è<br />

abbastanza visionario e istintivamente punk per rimesco<strong>la</strong>re<br />

tutte le coordinate delle storie, tradire a ogni<br />

passo sospetti di romanticismi, sviolinate, eccitazioni<br />

‘familiste’ con gusto del gioco, una provocazione in<br />

leggerezza e raro talento, quasi majakovskjano, nel<br />

muovere gli attori come corpi poetici dissonanti.<br />

Zanasi era stato una rive<strong>la</strong>zione e una scossa fantastica<br />

per gli immaginari nostrani col suo esordio, il<br />

talentuoso “Nel<strong>la</strong> mischia”, poi c’erano stati “Fuori<br />

di me” e “A domani”, tutti perfetti meccanismi di<br />

commedia tra provincia, nevrosi, amori falliti e<br />

riusciti, personaggi bizzarri e <strong>la</strong> capacità di mesco<strong>la</strong>re<br />

con tocco alchemico precisione di scrittura e libertà<br />

delle immagini.<br />

“Non pensarci” mette insieme Valerio Mastandrea,<br />

Giuseppe Battiston e Anita Caprioli nel ruolo dei tre<br />

fratelli, Mastandrea è l’emigrato nel<strong>la</strong> metropoli<br />

musicista, lì in provincia lo invidiano, credono (o gli<br />

fanno credere) che sia famoso per <strong>la</strong> vecchia copertina<br />

di una rivista musicale e per <strong>la</strong> dote che aveva da<br />

piccolo al conservatorio. La sorel<strong>la</strong> ha mol<strong>la</strong>to l’università<br />

e cura i delfini dell’acquario tanto, dice, ci<br />

sarebbe finita lì o in un altro posto qualsiasi pure con<br />

<strong>la</strong> <strong>la</strong>urea. Il fratello teso perché non scopa, così mor-<br />

53<br />

morano gli impiegati, nasconde il fallimento del<strong>la</strong><br />

fabbrica di famiglia finita in ipoteche come <strong>la</strong> casa.<br />

Le ciliegie sotto spirito non vanno più e gli operai<br />

non vedono lo stipendio da mesi... La madre nel frattempo<br />

si dedica a terapie di gruppo vagamente sciamaniche<br />

e il padre dopo l’infarto gioca solo a golf.<br />

Poverino Stefano Nardini/Mastandrea (come <strong>la</strong> grappa<br />

ma siamo nel<strong>la</strong> fabbrica vera del<strong>la</strong> Toschi), pensava<br />

che <strong>la</strong> sua vita fosse un caos e si ritrova col grembiule<br />

del<strong>la</strong> fabbrica a discutere coi sindacati e le banche.<br />

Ma Zanasi è cresciuto respirando provincia e immaginari<br />

poco addomesticabili con espansioni nel<strong>la</strong> vita<br />

e viceversa. Precariato, diffidenza, senso del<strong>la</strong> famiglia,<br />

se ce ne è una ancora, solitudine, fatica a essere<br />

se stessi vengono raccontati con <strong>la</strong> complicità dolce e<br />

anche me<strong>la</strong>nconica di una vecchia canzone, ‘Agnese<br />

dolce Agnese’ di Ivan Graziani. E con irriverente<br />

umorismo Zanasi conferma il suo talento di saper far<br />

ridere senza per questo darsi delle etichette. È buffo<br />

Stefano/Mastandrea che porta in giro i nipoti e finisce<br />

quasi arrestato per fare impressione guidando<br />

come un pazzo. È tenero il fratellone che si innamora<br />

del<strong>la</strong> prostituta (Caterina Murino) o i genitori che<br />

credono davvero che <strong>la</strong> figlia sia lesbica ma: ‘amore<br />

per noi sei sempre <strong>la</strong> stessa’. O il padre distratto che<br />

sa tutto invece, ha lo sguardo sensibile ma fa finta di<br />

nul<strong>la</strong> come capita in ogni famiglia... L’intreccio va<br />

avanti, il set è una Rimini abilmente diluita nelle villette<br />

e nei caffè con fuori un misuratore di velocità<br />

per qualsiasi essere in movimento che passi, pure una<br />

centenaria. C’è il tono surreale del<strong>la</strong> provincia e i<br />

suoi riti, l’instabile del contemporaneo che in apparenza<br />

manco li scalfisce, e quel tono trasversale, di<br />

distanza partecipe che li restituisce capovolti. La sorpresa<br />

diventa <strong>la</strong> cosa più riconoscibile, il luna park, i<br />

vomiti, le sbronze, i cani trovatelli e quelli costosi, i<br />

tentati suicidi che finiscono con zampe canine rotte e<br />

quelli veri. Gli incontri inaspettati con chi pensi di<br />

conoscere da sempre. Che ti cambiano e <strong>sono</strong> sostanza<br />

di vita e ispirazione, basta guardarsi un po’ meglio<br />

intorno... Infatti Stefano torna al<strong>la</strong> musica con grinta,<br />

e poi chissà. Il cinema di Zanasi si sposta per movimenti<br />

impercettibili, ha <strong>la</strong> vitalità dell’imperfezione e<br />

del sentimento. Con <strong>la</strong> dote rara di catturare l’istante<br />

in esperienze (immagini) riconoscibili. <strong>Per</strong> renderle<br />

però ogni volta inattese.


10<br />

Regia: Paolo Sorrentino<br />

Interpreti: Toni Servillo (Giulio Andreotti), Anna<br />

Bonaiuto (Livia Andreotti), Piera Degli Esposti (Sig.ra<br />

Enea, segretaria di Andreotti), Paolo Graziosi (Aldo<br />

Moro), Giulio Bosetti (Eugenio Scalfari), F<strong>la</strong>vio Bucci<br />

(Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino<br />

Pomicino), Giorgio Co<strong>la</strong>ngeli (Salvo Lima), Alberto<br />

Cracco (Don Mario), Lorenzo Gioielli (Mino Pecorelli),<br />

Gianfelice Imparato (Vincenzo Scotti), Massimo<br />

Popolizio (Vittorio Sbardel<strong>la</strong>), Aldo Ralli (Giuseppe<br />

Ciarrapico), Giovanni Vettorazzo (Magistrato Scarpinato),<br />

Fanny Ardant, Michele P<strong>la</strong>cido<br />

Genere: Biografico/Drammatico<br />

Origine: Italia<br />

Anno: 2007<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Paolo Sorrentino<br />

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino<br />

Fotografia: Luca Bigazzi<br />

Musica: Teho Teardo<br />

Montaggio: Cristiano Travaglioli<br />

Durata: 110<br />

Produzione: Francesca Cima, Nico<strong>la</strong> Giuliano, Andrea<br />

Occhipinti, Arturo Paglia e Isabel<strong>la</strong> Cocuzza per Indigo<br />

Film, Lucky Red, Parco Film<br />

Distribuzione: Lucky Red (<strong>2008</strong>)<br />

IL DIVO<br />

15-16 gennaio <strong>2009</strong><br />

54<br />

Soggetto<br />

Giulio Andreotti, presente nel Par<strong>la</strong>mento italiano dal<br />

1948. Si par<strong>la</strong> di lui in partico<strong>la</strong>re dal varo (e rapida fine)<br />

del suo settimo governo nell’aprile 1992 al<strong>la</strong> mancata<br />

elezione a capo dello Stato, all’eplodere di tangentopoli,<br />

al processo di Palermo, dove fu rinviato a giudizio per<br />

associazione mafiosa. Nei titoli di coda si ricorda il verdetto<br />

di assoluzione che concluse quel<strong>la</strong> lunga fase processuale.<br />

Valutazione<br />

Ci si chiede, arrivati al<strong>la</strong> fine, quale motivazione abbia<br />

spinto il regista ad occuparsi di una persona, tuttora vivente<br />

(insieme ad altri che vengono rappresentati), del<strong>la</strong> quale<br />

é già stato detto tutto e il suo contrario. La scelta di stile<br />

più evidente é quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> costruzione di un universo del<br />

‘potere’ che richiede fermezza, equilibrio, capacità reattive,<br />

forte tensione interiore per essere mantenuto saldo e<br />

costante. A ciò riconducono atteggiamenti, gestualità,<br />

ambienti bui, rapporti familiari, colori marcati, luci soffuse,<br />

camminate notturne. La metafora del potere è quel<strong>la</strong><br />

del<strong>la</strong> solitudine, del nemico da tenere a distanza, del<br />

rimorso da sopportare. Il copione funziona nel disegnare<br />

un mosaico di stravolta e impossibile convivenza tra<br />

coscienza individuale, responsabilità collettiva, scelte tra<br />

bene e male. Accumu<strong>la</strong> però troppo materiale, confonde<br />

denuncia con caricatura, rilettura storica con ideologia,<br />

togliendo respiro al dramma. Così il ritratto del ‘Divo’<br />

resta incerto e come sospeso nel vuoto.


La Repubblica - Roberto Nepoti - 30/05/<strong>2008</strong><br />

Soddisfazione per il doppio riconoscimento al cinema italiano<br />

dal festival di Cannes. La fotografia che ritrae insieme<br />

Matteo Garrone regista di “ Gomorra “ e Paolo Sorrentino<br />

resterà nel<strong>la</strong> memoria. Ognuno ha <strong>la</strong> sua spiccata personalità<br />

ma <strong>la</strong>nciano insieme un messaggio di novità: con loro il<br />

cinema italiano recupera una credibilità che aveva perso e<br />

che ha pazientemente ricostruita. Il 38enne Sorrentino e il<br />

40enne Garrone <strong>sono</strong> <strong>la</strong> voce di un’intera comunità e di <strong>due</strong><br />

generazioni che hanno <strong>la</strong>vorato sodo, a lungo in mezzo al<br />

disprezzo.<br />

Con i loro potentissimi film il cinema italiano ritrova <strong>la</strong><br />

capacità di raccontare il proprio paese. E ritrova uno sguardo<br />

sicuro, un punto di vista deciso, un profilo marcato, un’identità<br />

riconoscibile. Paolo e Matteo provengono da un<br />

cinema di ricerca, nel quale il problema del<strong>la</strong> forma è molto<br />

sentito. Lo hanno dimostrato nelle loro opere precedenti,<br />

talvolta scivo<strong>la</strong>ndo nell’esercitazione di stile. Con<br />

“Gomorra” e “Il Divo” hanno compiuto un grande balzo in<br />

avanti. Senza arretrare di un passo nel<strong>la</strong> loro esigente attenzione<br />

al linguaggio, hanno preso di petto contenuti forti, si<br />

<strong>sono</strong> immersi senza reticenze nell’aria del tempo. Due risultati<br />

in cui è <strong>la</strong> forma a qualificare i contenuti e non viceversa.<br />

“Il Divo”, che speriamo circondato dalle stesse aspettative<br />

dell’altro - trattano ambe<strong>due</strong> temi molto presenti nell’immaginario<br />

e nel<strong>la</strong> storia italiani - riesce nel<strong>la</strong> sfida di ritrarre<br />

un personaggio di cui tutto è stato già detto procurando<br />

l’impressione che tutto sia inedito, originale. Frutto di un<br />

calibrato mix tra documento e invenzione. Dove è l’invenzione,<br />

<strong>la</strong> libera utilizzazione del materiale o <strong>la</strong> sua manipo<strong>la</strong>zione<br />

creativa a imprimere forza al film. Le persone più<br />

vicine a Giulio Andreotti, i capi del<strong>la</strong> sua corrente, esprimono<br />

un alone sinistro e cupo che è conseguenza dell’interpretazione<br />

artistica ma non per questo perde in attendibilità.<br />

Il colloquio tra Andreotti ed Eugenio Scalfari è inventato,<br />

ma come rende l’idea quell’appel<strong>la</strong>rsi del senatore al<strong>la</strong><br />

complessità delle cose, in risposta alle domande incalzanti<br />

del giornalista, e <strong>la</strong> sua esortazione a evitare le scorciatoie<br />

semplicistiche nel condannarlo. Non sarà vero in senso<br />

stretto ma quanta verità c’è nel passaggio in cui il presidente<br />

confessa il dolore cui lo condannano il pensiero di Moro<br />

e <strong>la</strong> domanda ‘perché le Br non hanno preso me?’. E poi<br />

quello in cui egli assume <strong>la</strong> responsabilità di una pratica del<br />

Male che è servita a preservare, difendere, promuovere il<br />

Bene.<br />

Un film complesso, discutibile come qualsiasi opera che<br />

tocca argomenti tanto sensibili, dove <strong>la</strong> figura più nota di<br />

tutta <strong>la</strong> storia repubblicana, milioni di volte caricaturizzata<br />

per le sue inconfondibili caratteristiche fisiche, ci appare<br />

per <strong>la</strong> prima volta nel<strong>la</strong> sua enigmatica dimensione umana<br />

e nel<strong>la</strong> sua statura di moderno “Nosferatu”. Le forzature, le<br />

invenzioni, non mancano di restituirci un ritratto denso, realistico<br />

e indimenticabile. Il massimo di deformante soggettività<br />

produce il massimo di documento. Come fu per “La<br />

dolce vita”.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 23/05/<strong>2008</strong><br />

Grandi risate all’inizio, attenzione concentrata, intenso<br />

app<strong>la</strong>uso finale. “Il divo” di Paolo Sorrentino passa l’esame<br />

del<strong>la</strong> stampa internazionale. Non era facile, per ciò che racconta<br />

e per le immagini che usa, forti e talvolta grottesche.<br />

Andreotti con <strong>la</strong> faccia irta di aghi contro l’emicrania che<br />

sembra uscito dal film dell’orrore “Hellraiser”. Cirino<br />

55<br />

Pomicino neoministro che prende <strong>la</strong> rincorsa e si concede<br />

una lunga, bambinesca scivo<strong>la</strong>ta nel Transat<strong>la</strong>ntico di<br />

Montecitorio. Il cadavere di Roberto Calvi, il presidente del<br />

Banco Ambrosiano ritrovato impiccato nel 1982 a Londra,<br />

che sembra stare in piedi e fissarci. L’automobile di Falcone<br />

proiettata in alto dal<strong>la</strong> bomba che cade, cade, cade, come un<br />

meteorite, poi esplode. E ancora: Andreotti e signora impettiti<br />

sul divano mentre intorno a loro l’a<strong>la</strong> gaudente del<strong>la</strong><br />

Roma di governo si sfrena bal<strong>la</strong>ndo ritmi africani con<br />

ragazze poco vestite. Andreotti che legge un giallo a letto<br />

sotto un gran ritratto di Marx. Andreotti che riceve i membri<br />

del<strong>la</strong> sua corrente mentre si fa radere, in stile “Padrino”.<br />

Andreotti che gira per casa di notte come Nosferatu. O<br />

come l’usuraio de “L’amico di famiglia”, il film precedente<br />

di Paolo Sorrentino, che dopo aver raccontato mestatori in<br />

ombra o senza volto, sceglie il simbolo stesso del Potere per<br />

cercare di sciogliere questo enigma così domestico e indecifrabile<br />

insieme.<br />

Il ‘divo Giulio’ come icona dell’italianità, dunque. Un<br />

Borgia dei nostri giorni, maschera tragica e centro intoccabile<br />

di tutti i misteri (Montanelli: Andreotti è il più scaltro<br />

criminale o il più grande perseguitato del<strong>la</strong> storia d’Italia).<br />

Ma anche dispensatore di battute leggendarie come <strong>la</strong> sua<br />

insonnia, che nel<strong>la</strong> scena più bel<strong>la</strong> (e più inventata) de “ll<br />

Divo” pronuncia invece una appassionata dichiarazione<br />

d’amore al<strong>la</strong> moglie culminante in una disperata ammissione<br />

di colpa per tutto ‘il male perpetrato per garantire il<br />

bene’ negli anni terribili delle stragi, 1969-1976, con i loro<br />

236 morti e 817 feriti.<br />

Con “Il divo” Sorrentino non solo sferra <strong>la</strong> più violenta<br />

accusa al<strong>la</strong> c<strong>la</strong>sse politica italiana vista dai tempi di “Todo<br />

Modo”, ma cambia le regole del<strong>la</strong> rappresentazione di<br />

quel<strong>la</strong> stessa c<strong>la</strong>sse. Siamo in una specie di ‘quarta dimensione’<br />

dove <strong>la</strong> citazione di nomi, cognomi e soprannomi<br />

(lo Squalo, il Ciarra, il Limone, sua Sanità...) si mesco<strong>la</strong><br />

con effetto ‘pulp’ al<strong>la</strong> deformazione grottesca dei volti (lo<br />

stile del trucco sfiora Dick Tracy), alle immagini d’archivio<br />

(Rosaria Schifani, vedova di un agente ucciso, che<br />

perdona in <strong>la</strong>crime gli assassini di suo marito). E alle sferzanti<br />

lettere dal<strong>la</strong> prigionia di Aldo Moro. L’effetto è<br />

potente, a tratti sconcertante. Scrive Moro: ‘Andreotti è<br />

rimasto indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo<br />

disegno di gloria... Cosa significava davanti a tutto questo<br />

il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una<br />

famiglia, che significava tutto questo per Andreotti una<br />

volta conquistato il Potere per fare il Male, come sempre<br />

ha fatto il Male nel<strong>la</strong> sua vita? Tutto questo non significava<br />

niente’. Intanto <strong>la</strong> colonna <strong>sono</strong>ra alterna l’elettronica a<br />

Vivaldi, i Ricchi e Poveri a Sibelius, ed è questo caos di<br />

forme e di registri che ci resta addosso. Che cosa abbiamo<br />

visto, una farsa, una tragedia, un film dell’orrore? Chissà,<br />

forse non c’era proprio niente da vedere. O magari è il<br />

nul<strong>la</strong> del potere, quello di cui par<strong>la</strong> Moro nel finale, che<br />

Sorrentino e il suo grande cast Servillo, Anna Bonaiuto,<br />

Piera Degli Esposti, F<strong>la</strong>vio Bucci, Carlo Buccirosso ci<br />

hanno chiamati a contemp<strong>la</strong>re.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Tullio Kezich - 30/05/<strong>2008</strong><br />

C’era una volta (e c’è ancora, quasi nonagenario...) Giulio<br />

Andreotti, romano, degasperiano, imprescindibile in par<strong>la</strong>mento<br />

dal dopoguerra agli anni ‘ 90, 17 volte ministro,<br />

8 volte presidente del consiglio, senatore a vita dal ‘91.<br />

Processato per associazione mafiosa, ha goduto del<strong>la</strong> prescrizione<br />

per fatti precedenti il 1980 ed è stato assolto per<br />

quelli successivi; condannato a 24 anni come mandante


dell’omicidio del giornalista Pecorelli è stato prosciolto in<br />

Cassazione. Sul<strong>la</strong> sua figura, accanto a una montagna di<br />

carte processuali che solo il suo avvocato Giulia<br />

Bongiorno si vanta di aver sca<strong>la</strong>to, esiste ormai un’ abbondante<br />

bibliografia pro e soprattutto contro. Da vari decenni<br />

il personaggio è considerato onnipotente, intoccabile e<br />

pressoché inconoscibile. Ha fatto buona impressione il<br />

coraggio da lui dimostrato affrontando nei tribunali di<br />

<strong>Per</strong>ugia e Palermo le infamanti accuse piovutegli addosso,<br />

evitando a differenza di altri di fuggire all’estero o di sollecitare<br />

leggi a proprio favore. Le sue battute rappresentano<br />

una gran riserva del folklore giornalistico; e i libri che<br />

pubblica di continuo ne fanno il solo politico italiano che<br />

potrebbe vivere con i diritti d’autore. Siamo evidentemente<br />

di fronte a una figura troppo complessa per venire giudicata<br />

in base a un film. Di “Il divo” è meglio quindi par<strong>la</strong>re<br />

come di una favo<strong>la</strong> un po’ nera, nel<strong>la</strong> fosca ammirevole<br />

fotografia di Luca Bigazzi, o meglio grigia: ma di un<br />

grigio assunto a ve<strong>la</strong>me dell’ambiguità. E’ così che hanno<br />

visto, amato e premiato <strong>la</strong> pellico<strong>la</strong> di Paolo Sorrentino gli<br />

stranieri a Cannes, senza sapere niente di Andreotti. “Il<br />

divo” è un titolo brechtiano, da leggere al<strong>la</strong> rovescia.<br />

Anche se è chiamato in tal modo per assonanza con ‘il<br />

divo Giulio (Cesare)’ non c’ è niente di divistico nell’immagine<br />

e nei comportamenti di un anti-divo per eccellenza.<br />

Tale lo impersona, <strong>la</strong>vorando di fantasia su spunti colti<br />

qua e là, il talentoso Toni Servillo, intonandosi al progetto<br />

di un film che vuol essere un ritratto piuttosto che un<br />

racconto. E magari un ritratto come quello di Churchill<br />

eseguito da Bacon, che <strong>la</strong> vedova irritata condannò al<br />

rogo. Nerovestito, curvo, impassibile, <strong>la</strong>conico, con le<br />

braccia in grembo o dietro <strong>la</strong> schiena, protetto dietro gli<br />

occhiali da una maschera di estraneità al limite del disgusto,<br />

indifferente al gran carnevale delle maschere intorno<br />

a lui. Se negli atteggiamenti in cui coglie il suo antieroe<br />

Sorrentino è acre ma rispettoso, non lo è altrettanto per<br />

quanto riguarda il contesto. Il coro dei cortigiani, tutti con<br />

nomi e cognomi veri, si direbbero caricature di Giannelli<br />

rimbalzate vive dal<strong>la</strong> pagina grazie all’arcivernice di<br />

Lambicchi. Gli interpreti che sfruttano le occasioni più<br />

ridanciane <strong>sono</strong> Carlo Buccirosso (Pomicino), F<strong>la</strong>vio<br />

Bucci (Evangelisti) e Massimo Popolizio (Sbardel<strong>la</strong>).<br />

Fanno da contrappeso <strong>due</strong> aggraziate figure femminili,<br />

Anna Bonaiuto (<strong>la</strong> moglie Livia) e Piera Degli Esposti<br />

(Enea, <strong>la</strong> segretaria). Giulio Bosetti è uno Scalfari da confondere<br />

con quello vero. Credo poi di aver riconosciuto l’<br />

impeccabile Pietro Biondi che rende a Cossiga un buon<br />

servizio soprattutto fungendo da spal<strong>la</strong> nel <strong>due</strong>tto in cui il<br />

marpionesco Giulio, con l’ aria di confidare un segreto di<br />

stato, confessa il suo innamoramento giovanile per Mary<br />

Gassman sorel<strong>la</strong> di Vittorio. Lungi dall’essere grato per il<br />

bonario trattamento, l’ex-presidente ha <strong>la</strong>nciato contro<br />

Sorrentino l’epiteto di ‘registucolo’. Avrà voluto mettere<br />

le mani avanti di fronte all’ eventualità che a “Il divo”<br />

possa far seguito Il picconatore? In tal caso può starsene<br />

tranquillo. <strong>Per</strong>ché di Giulio Andreotti, <strong>la</strong> talpa politica che<br />

pur continuando a scavare i suoi cunicoli nel<strong>la</strong> realtà è<br />

riuscito ad abitare <strong>la</strong> favo<strong>la</strong>, ne esiste soltanto uno.<br />

Il Giornale - Stenio Solinas - 23/05/<strong>2008</strong><br />

Quando sullo schermo appare La Sfinge, ovvero Belzebù,<br />

La Volpe, Il Gobbo, La Sa<strong>la</strong>mandra, Il Papa Nero, Il Divo<br />

Giulio e insomma Andreotti, si capisce subito che non staccheremo<br />

più gli occhi. Non importa che non sia quello<br />

vero, ma ci <strong>sono</strong> le sue grandi orecchie, le <strong>la</strong>bbra sottili, i<br />

56<br />

capelli fissati con <strong>la</strong> bril<strong>la</strong>ntina, affinché restino sempre<br />

ordinati, perché mai lui è stato disordinato nel<strong>la</strong> vita, perché<br />

mai avrebbe voluto che <strong>la</strong> vita fosse, per lui, fonte di<br />

disordine. L’unica volta che è successo, <strong>la</strong> Mafia e tutto il<br />

resto, ha faticato a ‘pettinar<strong>la</strong>’ di nuovo come un tempo: ci<br />

è riuscito, ma ormai l’incantesimo si era rotto e niente<br />

sarebbe più stato come prima…Ecco <strong>la</strong> sua camminata, le<br />

spalle strette, il muoversi felpato eppure a scatti. Ecco le<br />

sue frasi celebri: ‘E’ meglio tirare a campare che tirare le<br />

cuoia’, ‘Dio ha detto di rispondere alle offese porgendo<br />

l’altra guancia, ma intelligentemente ce ne ha date solo<br />

<strong>due</strong>’, ‘intellettualmente par<strong>la</strong>ndo, mi considero di statura<br />

media, ma se mi guardo intorno non è che veda molti<br />

giganti’… Qualche mese fa, intervistando Toni Servillo ed<br />

avendogli chiesto qualcosa su quello che era ancora un film<br />

in <strong>la</strong>vorazione e ora è questo “Il Divo”, presentato ieri sera<br />

qui in concorso, mi ero sentito rispondere che no, non<br />

aveva mai incontrato Andreotti prima di allora e non lo<br />

avrebbe incontrato, almeno sino all’uscita del film, e ancora<br />

che no, non lo aveva studiato attraverso riprese e filmati.<br />

‘Non credo all’imitazione in quanto tale’, mi aveva detto<br />

allora. Visti i risultati, aveva ragione, perché qui c’è un<br />

Andreotti, come dire, dell’anima, una sorta di quintessenza,<br />

e non importa tanto, che sia quello vero, che corrisponda<br />

al<strong>la</strong> realtà, è sufficiente che esso sia tutt’uno con l’immagine<br />

che in mezzo secolo di storia patria si è incisa nel<strong>la</strong><br />

nostra mente, l’immagine di un potere inafferrabile e astuto,<br />

silenzioso e spregiudicato, moralmente cinico, ovvero<br />

con un’etica partico<strong>la</strong>re in cui si mischia lo spirito di una<br />

romanità popo<strong>la</strong>re e clericale, <strong>la</strong> consapevolezza che siamo<br />

tutti peccatori e che quindi non ci si deve meravigliare di<br />

nul<strong>la</strong>... Sullo schermo, in un film che è febbrile nel ritmo,<br />

iperrealista nelle descrizioni e negli ammazzamenti quanto<br />

spesso caricaturale nei personaggi, c’è anche il suo c<strong>la</strong>n,<br />

che non è mai stato una corrente di partito tradizionale, ma<br />

un campionario italiano, cioè un ‘bestiario’: Lo Squalo e il<br />

Ciarra, ‘O Ministro e Il Limone, Sua Santità e Sua<br />

Eccellenza, anche loro emblemi, perché poi tutto “Il Divo”<br />

è un’allegoria, anche feroce, sul potere, <strong>la</strong> sua gestione e <strong>la</strong><br />

sua mancanza, <strong>la</strong> solitudine che lo accompagna. ‘Il mio<br />

film preferito è Il dottor Jekill e Mister Hyde’. Se questa<br />

frase di Andreotti è vera - non nel senso che non l’abbia<br />

mai pronunciata, ma nel suo crederci veramente -, “Il<br />

Divo” ne è in fondo l’illustrazione più completa. Così come<br />

negli altri suoi film Sorrentino era riuscito a costruire un’estetica<br />

del brutto capace di dargli una propria <strong>la</strong>ncinante<br />

bellezza, qui è <strong>la</strong> politica a caricarsi di un fascino diabolico<br />

formale che nel<strong>la</strong> realtà invece non possiede. Allo stesso<br />

modo, forse, quel<strong>la</strong> sublimazione e quintessenza di cui si<br />

par<strong>la</strong>va prima, dà in fondo all’Andreotti cinematografico<br />

una grandezza, un’ambiguità sovrumana, che quello reale<br />

non ha mai posseduto. A fronte di una letteratura sterminata,<br />

il regista ha privilegiato come linea interpretativa del<br />

personaggio <strong>due</strong> giudizi, entrambi frutto di una psicologia<br />

femminile, per quanto partico<strong>la</strong>re. Uno è dell’ex premier<br />

britannico Margaret Thatcher: ‘Mi è sempre sembrato contrario<br />

a ogni principio etico, addirittura convinto che chi li<br />

possedesse fosse condannato a essere ridicolo’. L’altro<br />

del<strong>la</strong> scrittrice Oriana Fal<strong>la</strong>ci: ‘Mi fa paura proprio per <strong>la</strong><br />

sua gentilezza. <strong>Per</strong>ché il vero potere ci strango<strong>la</strong> con sciarpe<br />

di seta, con cortesia e intelligenza’. Pur non avendo fatto<br />

nul<strong>la</strong> per contrastare il film, Andreotti, che lo ha visto in<br />

anteprima privata ha fatto sapere di non riconoscersi in esso<br />

e di considerarlo ingiusto nei sui confronti. Non ha tutti i<br />

torti, perché Sorrentino esaspera gli elementi negativi, li


carica (<strong>la</strong> parossistica scena del<strong>la</strong> ‘confessione’ è da questo<br />

punto di vista emblematica).<br />

Il Secolo XIX - Natalino Bruzzone - 28/05/<strong>2008</strong><br />

La prima volta che l’occhio del<strong>la</strong> p<strong>la</strong>tea mette a fuoco<br />

Giulio Andreotti si ritrova con il senatore a vita che alza <strong>la</strong><br />

testa coperta di aghi in funzione antiemicrania come se si<br />

trattasse del protagonista horror di “Hellraiser”. Poi le cose<br />

cambiano perché colui che è stato chiamato anche Belzebù,<br />

il Gobbo, <strong>la</strong> Volpe e <strong>la</strong> Sfinge confeziona l’acqua minerale<br />

effervescente con le cartine così come i brigatisti di<br />

Bellocchio cenavano a minestrina, distribuisce pacchi di<br />

pasta al<strong>la</strong> stregua di un comandante Lauro, passeggia di<br />

notte, sotto scorta,verso l’ufficio in una capitale in cui<br />

incontra solo macel<strong>la</strong>i, si arresta di fronte ad un gattone<br />

insolente che gli sbarra un salone del Pa<strong>la</strong>zzo, resta mummificato<br />

su un divano mentre esplode <strong>la</strong> mitica festa di<br />

Roma ‘da bere’ e stringe <strong>la</strong> mano al<strong>la</strong> moglie guardando in<br />

tv Renato Zero cantare ‘I migliori anni del<strong>la</strong> nostra vita’.<br />

Certo, un film politico e cattivo, ingombrante di sarcasmo<br />

allusivo come il testone di Mussolini nel “Potere” di<br />

Augusto Tretti, ma “Il Divo” firmato da Paolo Sorrentino è<br />

anche una sontuosa lezione di regia e di stile che non <strong>la</strong>scia<br />

incompiuta neppure una sequenza nel<strong>la</strong> sua voglia di grottesco<br />

allo stato puro ed estremo. Dall’incipit dei Novanta<br />

al<strong>la</strong> chiamata in causa nei processi di Palermo e di <strong>Per</strong>ugia,<br />

il mistero Giulio Andreotti (circondato dal<strong>la</strong> sua ‘corrente’:<br />

Cirino Pomicino, Sbardel<strong>la</strong>, Ciarrapico, Evangelisti, Lima e<br />

il cardinale Angelini) è sottoposto ad un bagno turco di<br />

ambiguità secondo una soluzione narrativa che potrà anche<br />

sembrare riduttiva rispetto al<strong>la</strong> caratura di un personaggio<br />

impossibile da fissare in un’unica dimensione ma che, invece,<br />

focalizza un’idea forte di spettacolo convinto e convincente<br />

nel<strong>la</strong> sua dichiarata esagerazione di misura come<br />

richiede <strong>la</strong> satira, anche quel<strong>la</strong> partico<strong>la</strong>rissima di<br />

Sorrentino per nul<strong>la</strong> apparentabile ai facili schemi ideologici<br />

del<strong>la</strong> beffarda tipologia televisiva, ma piuttosto stagliata<br />

e tuffata nel riuscito progetto di coniugare <strong>due</strong> tradizioni del<br />

cinema italiano: il genere ‘civile’” di denuncia e <strong>la</strong> commedia<br />

per sfogliare sullo schermo le pagine e le illustrazioni di<br />

un pamphlet da opera dei pupi che non risparmia nessuno,<br />

compresa <strong>la</strong> tracotanza barbuta di Scalfari o il procuratore<br />

Caselli (che, prima di interrogare chiunque, s’innaffia di<br />

<strong>la</strong>cca i capelli).<br />

In alternanza con il divo Giulio spettatore partecipe di una<br />

corsa ippica, vengono evocati i delitti Calvi, Sindona,<br />

Pecorelli, Lima, Ambrosoli e gli attentati contro Falcone e<br />

Dal<strong>la</strong> Chiesa, l’ombra di Moro tormenta al<strong>la</strong> Banquo, Riina<br />

bacia sulle guance il presidente del consiglio, Andreotti non<br />

sale al Quirinale, Tangentopoli chiude un’era e dissolve <strong>la</strong><br />

Dc: tra oniricità rimandi a Petri, Rosi, Moore, Stone e<br />

Coppo<strong>la</strong> si ricorderà a lungo <strong>la</strong> maschera di Toni Servillo<br />

geniale per gestualità e vocalità.<br />

Il Manifesto - Mariuccia Ciotta - 24/05/<strong>2008</strong><br />

Quanta grandezza rive<strong>la</strong> il Divo, Giulio Andreotti, nel film<br />

di Paolo Sorrentino in gara a Cannes. Il fascino del ‘male<br />

all’italiana’ ripreso nel<strong>la</strong> sua parabo<strong>la</strong> discendente, quel<strong>la</strong><br />

del leader del<strong>la</strong> Dc, sette volte presidente del consiglio,<br />

chiamato con i più variopinti soprannomi. ‘Belzebù’ si<br />

staglia nell’ombra dei corridoi di Pa<strong>la</strong>zzo Chigi con il<br />

corpo irrigidito e curvo di Toni Servillo, bravissimo tra il<br />

Bagaglino e “Nosferatu”. Un’onda di risate ha attraversato<br />

il pubblico del<strong>la</strong> stampa davanti ai ‘goodfel<strong>la</strong>s’, gli<br />

andreottiani.<br />

57<br />

Sono tutti presentati nel prologo al<strong>la</strong> gangster-story con<br />

nome e cognome, Cirino Pomicino, Evangelisti, Scotti,<br />

Sbardel<strong>la</strong> e il cardinal Angelini, una ‘sporca dozzina’ intorno<br />

al capo, che macina battute coerente al<strong>la</strong> dimensione del<br />

grottesco, cifra stilistica del film. Andreotti come astrazione,<br />

maschera del potere democristiano seppellito con<br />

Tangentopoli e ormai fuori corso. La cattiveria di<br />

Sorrentino nell’attribuirgli tutti i misfatti d’Italia, ‘tranne le<br />

guerre puniche’, dal<strong>la</strong> ‘strategia del<strong>la</strong> tensione’ al patto con<br />

<strong>la</strong> mafia fino ai delitti eccellenti ripropone <strong>la</strong> vulgata popo<strong>la</strong>re<br />

del diabolico con humor, del cinico sapiente che<br />

maneggia <strong>la</strong> politica per quel che è, ‘una cosa sporca’, e ‘fa<br />

del male a fin di bene’. Un bene che i suoi ammiratori/denigratori<br />

sanno apprezzare, <strong>la</strong> battaglia con ogni mezzo per<br />

ripulire dal pericolo rosso l’Italia del dopo-guerra, difendere<br />

i confini dall’avanzata comunista, sacrificare l’umanità -<br />

Aldo Moro compreso - per un paese ‘democratico’, anche a<br />

costo di promuovere <strong>la</strong> feccia perché ‘il letame serve per far<br />

crescere gli alberi’. Quei segreti perciò vanno preservati<br />

nell’archivio ‘privato’ di Andreotti il divo, depositario del<strong>la</strong><br />

verità ‘che tutti pensano sia una cosa giusta mentre è <strong>la</strong> fine<br />

del mondo’. Ed è di questo ‘martire’ del<strong>la</strong> menzogna necessaria,<br />

l’uomo che agisce ‘per conto di Dio’ che Sorrentino<br />

par<strong>la</strong> e che piace come un personaggio dell’apocalisse, che<br />

ha sventato con il suo odio per il socialista Nenni un approdo<br />

diverso di questo paese che nel <strong>2008</strong> è all’indice del<strong>la</strong><br />

comunità internazionale. La caricatura del gobbo con le<br />

orecchie rovesciate, i suoi atroci mal di testa, le buffe corsette<br />

su via del Corso, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tenera e comica con <strong>la</strong><br />

moglie Livia (Anna Bonaiuto) compongono un ritratto farsesco<br />

mentre il grottesco duro, surreale, e l’incipit felliniano<br />

del Divo si perdono nel<strong>la</strong> maschera di un potere generico.<br />

E l’interca<strong>la</strong>re di f<strong>la</strong>sh sui delitti di Lima, Calvi,<br />

Sindona, Falcone, Pecorelli sembrano sequenze de ‘La<br />

Squadra’, inserti di una cronologia di morte senza mandanti<br />

perché Andreotti si consegnò a un lungo processo e ne<br />

uscì al<strong>la</strong> fine prescritto e assolto. E così ne esce dal film di<br />

Sorrentino, un Belzebù che non baciò mai Riina, chiamato<br />

ancora oggi nei salotti televisivi con gran divertimento di<br />

tutti, mentre l’Andreotti politico scompare. Paolo<br />

Sorrentino è stato coraggioso a portare al<strong>la</strong> sbarra cinematografica<br />

il mito democristiano, ma ha eluso l’attualità del<br />

suo <strong>la</strong>scito e mancato lo ‘scandalo’. Andreotti ha forgiato<br />

questa Italia, quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> corruzione, dell’immoralità P2 al<br />

governo, del<strong>la</strong> censura, quel<strong>la</strong> del delitto sociale in nome<br />

del<strong>la</strong> ‘ragion di stato’. Altro che ‘viale del tramonto’, altro<br />

che intelligenza, cultura e abilità contro <strong>la</strong> rozzezza del ceto<br />

politico di oggi. Non bastano le parole a<strong>la</strong>te di Eugenio<br />

Scalfari (Giulio Bosetti, che nel film lo intervista) e <strong>la</strong> consulenza<br />

sui dossier dei servizi del giornalista di Repubblica<br />

Giuseppe D’Avanzo per chiudere il cerchio. Lo ‘scandalo’<br />

di Andreotti sta nel suo modo di intendere <strong>la</strong> politica, nel<strong>la</strong><br />

sua idea di ‘sicurezza’ nazionale, condivisa non solo dal suo<br />

ex uomo Giuseppe Ciarrapico, detto il ‘Ciarra’, che siede<br />

nei banchi del<strong>la</strong> maggioranza. Ogni pensiero di opposizione<br />

al<strong>la</strong> degenerazione democratica italiana è stato tacciato<br />

di ‘estremismo’, combattuto come veleno anti-liberista,<br />

residuo novecentesco. Ideologia. Cos’altro ha fatto Giulio<br />

Andreotti nel<strong>la</strong> sua ‘eroica’ resistenza al<strong>la</strong> sinistra? “Il<br />

divo”, paradossalmente, involontariamente è un film conso<strong>la</strong>torio,<br />

allontana i fantasmi e i mostri relegandoli al folklore<br />

e al passato. Eppure <strong>sono</strong> ancora qui.


11<br />

UN BACIO ROMANTICO<br />

22-23 gennaio <strong>2009</strong><br />

Regia: Wong Kar-Wai<br />

Interpreti: Jude Law (Jeremy), Norah Jones (Elizabeth),<br />

Natalie Portman (Leslie), Rachel Weisz (Sue Lynne),<br />

David Strathairn (Arnie), Chan Marshall (Katjia), Ed<br />

Harris, Tim Roth<br />

Genere: Romantico<br />

Origine: Francia/Hong Kong<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Wong Kar-Wai<br />

Sceneggiatura: Lawrence Block, Wong Kar-Wai<br />

Fotografia: Darius Khondji<br />

Musica: Ry Cooder<br />

Montaggio: William Chang<br />

Durata: 111’<br />

Produzione: Block 2 Pictures, Jet Tone Production, Lou<br />

Yi Ltd., Studio Canal<br />

Distribuzione: Bim (<strong>2008</strong>)<br />

58<br />

Soggetto<br />

Addolorata per <strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> sua storia d’amore, Elizabeth<br />

parte da New York per un viaggio attraverso l’America,<br />

decisa ad entrare in contatto con altre esistenze come lei<br />

solitarie. Quando torna, dietro il bancone del solito bar,<br />

trova ad aspettar<strong>la</strong> Jeremy, pronto ad offrirle una fetta di<br />

torta al mirtillo.<br />

Valutazione<br />

Il primo film americano di Wong Kar-Wai conferma che il<br />

regista di Hong Kong è perfettamente in grado di tenere<br />

alta <strong>la</strong> propria ispirazione, anche in contesti così fortemente<br />

diversi. C’è ancora un percorso di conoscenza da<br />

compiere, ci <strong>sono</strong> emozioni e sensazioni che pulsano sempre<br />

di più dentro gli spazi on the road dell’american<br />

dream, ci <strong>sono</strong> confronti impossibili da evitare con gli altri<br />

e con se stessi. Wai riesce ancora una volta a di<strong>la</strong>tare gli<br />

spazi dell’inquadratura in un’inafferrabile rincorrersi di<br />

immagini, nel<strong>la</strong> sottrazione degli eventi a favore di un<br />

lucida ricomposizione del pensiero, delle riflessioni, dei<br />

sentimenti. Un viaggio di crescita, una presa di coscienza<br />

del vero amore, una favo<strong>la</strong> che non può prescindere dal<strong>la</strong><br />

realtà delle cose. Bello, intenso, attento dare spazio a valori<br />

sinceri.


Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Paolo Mereghetti - 17/05/2007<br />

Non bisogna aver paura del romanticismo per apprezzare<br />

“My Blueberry Nights” di Wong Kar-Wai che ha inaugurato<br />

<strong>la</strong> sessantesima edizione del Festival di Cannes.<br />

Sicuramente non ne ha paura il regista cinese che racconta<br />

con dolcezza e coinvolgimento i dispiaceri d’amore di<br />

Elizabeth (Norah Jones), in fuga da New York e dall’uomo<br />

che dopo cinque anni l’ha <strong>la</strong>sciata per un’altra. Il bisogno di<br />

dimenticare <strong>la</strong> spingerà verso Ovest, al<strong>la</strong> ricerca di una strada<br />

che le faccia finalmente superare il terreno dei rimpianti<br />

e dei ricordi. Non un road movie però, piuttosto un viaggio<br />

iniziatico per e<strong>la</strong>borare il proprio e l’altrui dolore, fatto di<br />

<strong>la</strong>icissime stazioni lungo <strong>la</strong> via crucis del mal d’amore. La<br />

prima è a New York, proprio nel bar che Elizabeth frequentava<br />

con il suo perduto amore: diventerà una specie di rifugio<br />

tra rimpianti e recriminazioni, trasformando il proprietario<br />

(Jude Law) in un confidente/conso<strong>la</strong>tore, per raccontare,<br />

chiedere, interrogare ma anche assaggiare <strong>la</strong> torta ai<br />

mirtilli con ge<strong>la</strong>to (i blueberry del titolo) che contraddistinguerà<br />

i suoi menù notturni. Fino al momento in cui sentirà<br />

il bisogno di allontanarsene il più possibile. La seconda<br />

tappa è Memphis, dove <strong>la</strong>vorando di giorno in una tavo<strong>la</strong><br />

calda e di notte in un bar incrocerà il dolore di un poliziotto<br />

alcolizzato (David Strathairn), incapace di accettare l’abbandono<br />

del<strong>la</strong> moglie (Rachel Weisz). La terza fermata è<br />

nel Nevada, dove finisce per costruire una strana coppia con<br />

una giocatrice di poker (Natalie Portman) che crede di poter<br />

trasformare <strong>la</strong> rego<strong>la</strong> numero uno del gioco - non fidarsi<br />

mai di chi si ha di fronte - in una rego<strong>la</strong> di vita. Soprattutto<br />

nel rapporto col padre. Cambia il sesso del protagonista, ma<br />

il percorso è più o meno quello del giornalista Chow Mowan,<br />

al centro dei suoi precedenti film “In the Mood for<br />

Love” e “2046”: come lui, Elizabeth cerca di capire i contorni<br />

dei suoi sentimenti e scopre <strong>la</strong> difficoltà di trovarli in<br />

sintonia con quelli degli altri. Lei stessa non si accorge che<br />

il barista di New York, a cui ogni tanto manda estemporanee<br />

cartoline, si sta innamorando di lei. E assiste più o meno<br />

impotente all’incapacità di comunicare tra il poliziotto e <strong>la</strong><br />

moglie e tra <strong>la</strong> giocatrice e suo padre. Anche se lontano<br />

dal<strong>la</strong> natia Cina, lo sguardo di Wong si rivelerà meno pessimista<br />

e disilluso. Girato completamente negli Stati Uniti e<br />

par<strong>la</strong>to in inglese, il film ha una struttura molto più lineare<br />

dei precedenti (si sente <strong>la</strong> mano più narrativa del cosceneggiatore<br />

Lawrence Block, formato al rigore dei gialli che<br />

l’hanno reso celebre), ma possiede un’eguale raffinatezza e<br />

intensità visiva. Mai gratuita, però, se si pensa che le complicate<br />

inquadrature del<strong>la</strong> prima parte del film, dove il direttore<br />

del<strong>la</strong> fotografia Darius Khondji sembra abusare coi<br />

riflessi di scritte, luci, oggetti che sfumano l’immagine dei<br />

protagonisti, riescono al<strong>la</strong> fine nel<strong>la</strong> scommessa di rendere<br />

sullo schermo quel velo che spesso annebbia gli occhi di chi<br />

piange. Proprio come succede agli innamorati disperati.<br />

Al<strong>la</strong> fine il racconto di Wong Kar-Wai è meno preda di quel<br />

caos del<strong>la</strong> Storia e dell’instabilità dei sentimenti che avevamo<br />

imparato ad apprezzare in “In the Mood for Love” e in<br />

“2046”. L’occhio del regista sta più addosso alle persone e<br />

ai loro volti, aiutato in questo anche da un gruppo di attori<br />

eccezionalmente in sintonia con il romanticismo struggente<br />

e insieme trattenuto dei suoi personaggi. Chiedendo allo<br />

59<br />

spettatore non tanto di identificarsi melodrammaticamente<br />

con i tormenti di Elizabeth ma di seguirne il percorso di<br />

accettazione di sé e di crescita sentimentale. Aiutato anche<br />

da una Norah Jones che non diresti mai un’esordiente<br />

‘strappata’ al<strong>la</strong> canzone.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 01/04/<strong>2008</strong><br />

Il bacio all’inizio e al<strong>la</strong> fine tra Norah Jones e Jude Law ha<br />

una dolcezza, una finezza amorosa, una intensità tenera mai<br />

viste prima: è perciò che in italiano si chiama “Un bacio<br />

romantico” il primo film americano di Wong Kar-Wai, regista<br />

meraviglioso nato a Shanghai, bambino in esilio a Hong<br />

Kong coi genitori, autore di opere emozionanti e perfette<br />

(“Happy Together”, “In the mood for Love”, “2046”). In<br />

inglese il titolo è “My Blueberry Nights”: blueberry significa<br />

mirtilli, e una torta di mirtilli al<strong>la</strong> crema preparata nel<br />

caffè di Jude Law ha appunto una miracolosa funzione di<br />

conforto.<br />

La cantante Norah Jones, al suo primo film, vuol cambiare<br />

il paesaggio interno ed esterno dopo un dolore d’amore e<br />

intraprende un viaggio negli Stati Uniti per <strong>la</strong>sciarsi dietro<br />

le spalle ricordi, sogni e ferite passionali. Da New York<br />

viaggia verso <strong>la</strong> California. Lavora un po’ come cameriera,<br />

conosce persone (un poliziotto tormentato, <strong>la</strong> moglie che<br />

l’ha <strong>la</strong>sciato Rachel Weisz, <strong>la</strong> giocatrice sfortunata Natalie<br />

Portman). Scopre quanti siano più infelici, solitari e vuoti di<br />

lei. Compra un’automobile, torna a New York: da Jude<br />

Law, da se stessa.<br />

Banale? Si fa presto a dirlo. Dal<strong>la</strong> letteraria Alice nel paese<br />

delle meraviglie creata da Lewis Carroll nel 1865 all’escursione<br />

fantastica sul<strong>la</strong> Luna che Georges Méliès realizzò nel<br />

1902 a Parigi introducendo il meraviglioso nel cinema<br />

appena nato, il viaggio è sempre stato una struttura narrativa<br />

ideale: aperta, libera, fitta di avventure e di incontri, portatrice<br />

di immaginazione e di conoscenza del mondo,<br />

attraente per bambini, adulti, infelici, sentimentali, curiosi e<br />

pseudo Robinson Crusoe, mezzo di trasporto ma soprattutto<br />

di conso<strong>la</strong>zione e ardire.<br />

In “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, 1953, il giro nel<br />

Sud italiano di Ingrid Bergman e George Sanders, coppia di<br />

coniugi inglesi, vince <strong>la</strong> solitudine e <strong>la</strong> noia ristabilendo tra<br />

i personaggi affetto e comunicazione. Il viaggio come arma<br />

contro il disamore, ma pure il viaggio come fuga e ricerca<br />

d’indipendenza: in “Thelma e Louise” di Ridley Scott,<br />

1991, con Susan Sarandon e Geena Davis, <strong>due</strong> amiche,<br />

<strong>la</strong>sciando volentieri a casa i rispettivi uomini, partono in<br />

auto dall’Arkansas per un weekend di libertà, scoprono una<br />

parte di se stesse, scoprono un’altra dimensione del<strong>la</strong> vita e<br />

del<strong>la</strong> morte. Il film resta essenziale e simbolico di ogni servitù<br />

femminile, di ogni lotta femminile per sciogliersi dal<strong>la</strong><br />

schiavitù sociale. Il viaggio di fantasia è dedicato ai bambini:<br />

“La storia infinita” di Wolfgang Petersen, 1984, tratto da<br />

una parte del romanzo di Michael Ende, ospita cani vo<strong>la</strong>nti,<br />

il Nul<strong>la</strong>, sfi<strong>la</strong>te di mostri, il Regno di Fantasia, un bambino<br />

guerriero, paesaggi mirabo<strong>la</strong>nti. Il viaggio spaziale per<br />

ex-astronauti con <strong>la</strong> loro memoria e nostalgia, il loro orgoglio<br />

e <strong>la</strong> resistenza: in “Space Cowboys” di Clint Eastwood,<br />

2000, quattro vecchi ex piloti col<strong>la</strong>udatori si fanno mandare<br />

in orbita, viaggiano nel cielo, riparano un satellite sovie-


tico armato, lo portano verso <strong>la</strong> Luna, dimostrano che l’età<br />

non conta.<br />

Ancora, il cinema offre il viaggio come scoperta e documento<br />

politico, con grandi vantaggi culturali: in “Viaggio a<br />

Kandahar” di Mohsen Makhmalbaf, 2001, un viaggio nel<br />

deserto comporta tappe quali un campo profughi, una scuo<strong>la</strong><br />

coranica talebana, un centro assistenza del<strong>la</strong> Croce Rossa<br />

e, intriso di dolore, descrive sino a che punto una lunga<br />

guerra possa devastare un Paese. Infine, il viaggio come<br />

addio: nell’ultimo film del<strong>la</strong> vita di Marcello Mastroianni<br />

diretto da Manoel de Oliveira nel 1997, “Viaggio all’inizio<br />

del mondo”.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce - 30/03/<strong>2008</strong><br />

Da “In the Mood for Love” a “Eros” e “2046” <strong>sono</strong> sempre<br />

love stories di pensieri e di sguardi quelle di Wong Kar-Wai,<br />

affascinante regista di Hong Kong, di una fluidità di immaginario<br />

che sroto<strong>la</strong> con raffinata eleganza nello spaziotempo<br />

di rapporti uomo-donna pudicamente segnati da<br />

attrazione e freno e fa del<strong>la</strong> reciproca distanza per quanto<br />

breve complessa realtà sino all’incantamento. Ed è sempre<br />

il suo linguaggio scansione di estenuata lentezza su scorci<br />

leggermente attoniti di forme e presenze, volti e dettagli,<br />

come rattenuti un attimo di più, tra sve<strong>la</strong>re e nascondere, o<br />

segmentati nel ritmo a piccoli stacchi, o carezzevolmente<br />

s<strong>la</strong>bbrati per un nuovo, non importa se surreale, ma sempre<br />

armonico incrocio di linee e colori, cui fa sempre da contrappunto<br />

una felicissima colonna musicale, i tanghi interpretati<br />

da Nat King Cole (“In the Mood for Love”) o <strong>la</strong> stregante<br />

malia dei refrain del<strong>la</strong> belliniana ‘Casta Diva’<br />

(“2046”).<br />

Con “Un bacio romantico”, Wong Kar-Wai, per <strong>la</strong> prima<br />

volta negli Usa, si cimenta in un seducente esercizio sovrappositivo<br />

ca<strong>la</strong>ndo i suoi singo<strong>la</strong>ri frammenti di un discorso<br />

d’amore all’interno di un modulo formale ormai c<strong>la</strong>ssico<br />

nel<strong>la</strong> cultura americana quale è il ‘viaggio’ coast to coast.<br />

Pur nel<strong>la</strong> successione spazio-temporale lungo i giorni e le<br />

stagioni da New York al Nevada - e all’Arizona, con un cast<br />

americano, al femminile dal<strong>la</strong> cantante Norah Jones protagonista<br />

a Rachel Weisz moglie abbandonata e Natalie<br />

Portman spregiudicata giocatrice d’azzardo, e l’accompagnamento<br />

oltre alle canzoni delIa Jones e di Cat Power<br />

anche di un ritmo al<strong>la</strong> chitarra country di Ry Cooder, il roadmovie<br />

diventa specchio di un riaffondo di interiorità e riscoperta<br />

d’amore al di là di una dolorosa perdita irrimedibile.<br />

Elizabeth (Norah Jones), dopo <strong>la</strong> straziata rottura di una<br />

re<strong>la</strong>zione, indugia sino all’ubriacatura e al sonno al bar di<br />

Jeremy (Jude Law), così servizievole e gentile. Ma non ce<br />

<strong>la</strong> fa, e allora decide di <strong>la</strong>sciarsi alle spalle ricordi, illusioni,<br />

disincanti, anche l’amicizia stessa di Jeremy. In un bar del<br />

Nevada trova <strong>la</strong>voro come cameriera, fa stranite conoscenze,<br />

dal poliziotto (David Strathairn) così lucido in servizio<br />

e in borghese a sera così tormentato e stanco, al<strong>la</strong> scaltra<br />

giocatrice (Natalie Portman) con cui rischia di perdere i<br />

risparmi. Ma <strong>sono</strong> incontri, come del resto lo scambio di<br />

lettere con Jeremy, che ad Elizabeth rive<strong>la</strong>no quale potrebbe<br />

essere il suo nuovo destino, proprio lì donde s’era mossa,<br />

con Jeremy per un final kiss a tutto schermo con sensualità<br />

appassionata tenera e dolce.<br />

60<br />

L’Eco di Bergamo - Achille Frezzato - 29/03/<strong>2008</strong><br />

Due baci - il primo tenero, conso<strong>la</strong>torio, ‘rubato’, il secondo<br />

sensuale, chiara conferma dell’inizio di una nuova vita<br />

amorosa - incorniciano <strong>la</strong> storia narrata in “Un bacio<br />

romantico” dal regista Wong Kar-Wai, nato a Shangai nel<br />

1958, ma vissuto dal<strong>la</strong> fanciullezza ad Hong Kong, autore<br />

di “In the Mood for Love”, di “2046” e di “La mano”, un<br />

episodio di “Eros”.<br />

Suo primo film in inglese, realizzato negli Stati Uniti e in<br />

competizione a Cannes lo scorso maggio, “Un bacio<br />

romantico”, da alcuni considerato un omaggio al<strong>la</strong> commedia<br />

romantica hollywoodiana con lieto fine, al road<br />

movie degli anni ‘60 e al<strong>la</strong> musica statunitense (<strong>la</strong> colonna<br />

<strong>sono</strong>ra ospita melodie folk, rock, jazz, rythmn’ blues),<br />

può essere visto come una esplorazione del<strong>la</strong> grande<br />

distanza emotiva che può esservi fra <strong>due</strong> persone fisicamente<br />

vicine: quel<strong>la</strong> esistente fra Elizabeth (<strong>la</strong> cantautrice<br />

di modern jazz Norah Jones al suo esordio cinematografico)<br />

e Jeremy (Jude Law), reduce da un abbandono e gestore<br />

a New York di una caffetteria, dove <strong>la</strong> giovane, da poco<br />

<strong>la</strong>sciata dal fidanzato, passa le serate mangiando torte al<br />

mirtillo (come indica il titolo originale: “My blueberry<br />

nights”), chiacchierando con lui ed intrecciando un rapporto<br />

di timide confidenze.<br />

Animo inquieto ed in crisi, Elizabeth <strong>la</strong>scia <strong>la</strong> Grande<br />

Me<strong>la</strong> ed incomincia a spostarsi nel Grande Paese: a<br />

Memphis, cameriera in un bar, assiste al<strong>la</strong> tragica fine di<br />

Arnie (David Strathairn), un poliziotto affidatosi all’alcol<br />

per dimenticare <strong>la</strong> moglie Sue Lynne (Rachel Weisz); a<br />

Las Vegas fa amicizia con Lesile, una giocatrice sfortunata<br />

(Natalie Portman), dal<strong>la</strong> quale viene ospitata e al<strong>la</strong><br />

quale presta del danaro, assistendo<strong>la</strong> e confortando<strong>la</strong> al<strong>la</strong><br />

morte del padre. Grazie a questi incontri, dopo aver incrociato<br />

vite e destini di una sommessa ‘normalità’ e conosciuto<br />

gli abissi del<strong>la</strong> solitudine e dell’infelicità, Elizabeth<br />

comprende come il suo viaggio, raccontato nelle cartoline<br />

inviate e Jeremy, sia in realtà una perlustrazione del suo<br />

animo, vedendovi, convinta, una sua maturazione, <strong>la</strong> sua<br />

possibile rinascita.<br />

Con tempi lenti, avvalendosi di dialoghi brevi, intensi, allusivi<br />

e di immagini sia c<strong>la</strong>ustrofobiche (le sequenze ambientate<br />

nei fumosi bar, con richiami ai quadri di Edward<br />

Hopper, e nel casinò) che abbaglianti (i brani girati nel<br />

deserto del Nevada), le une e le altre colte dal<strong>la</strong> magistrale<br />

fotografia del franco-iraniano Darius Khondji, Wong Kar-<br />

Wai, come nei film succitati, anche in “Un bacio romantico”<br />

abbozza delle vicende, raffigura, artico<strong>la</strong>ndole in tre<br />

capitoli, le vicissitudini di pochi personaggi, i quali vivono<br />

situazioni, che - come è stato osservato - ‘si ripetono come<br />

in una spirale rimbalzando da un personaggio all’altro, da<br />

una storia all’altra’. Storie già raccontate (le lontananze<br />

affettive e reali, le pene d’amore, le assenze dei padri, l’infedeltà<br />

degli amati), che si reggono, abilmente rinnovate e<br />

declinate, sulle sue scelte espositive, caratterizzate da un<br />

clima rarefatto e coinvolgente, dal<strong>la</strong> perizia nel collocare le<br />

figure nello spazio, nel cogliere i fremiti, gli indugi, il dolore<br />

sui volti dei personaggi, nelle loro espressioni. Scelte che<br />

richiamano movenze ed atmosfere tipiche del suo cinema,<br />

che pos<strong>sono</strong> predisporlo a sfociare nel manierismo.


12<br />

ONORA IL PADRE E LA MADRE<br />

29-30 gennaio <strong>2009</strong><br />

Regia: Sidney Lumet<br />

Interpreti: Philip Seymour Hoffman (Andy), Ethan<br />

Hawke (Hank), Albert Finney (Charles), Marisa Tomei<br />

(Gina), Aleksa Pal<strong>la</strong>dino (Chris), Michael Shannon (Dex),<br />

Amy Ryan (Martha), Sarah Livingston (Danielle), Brian<br />

F. O’Byrne (Bobby), Rosemary Harris (Nanette), B<strong>la</strong>ine<br />

Horton (Justin), Arija Bareikis (Katherine), Leonardo<br />

Cimino (William), Lee Wilkof (Jake), Paul Butler<br />

(Detective Barrett)<br />

Genere: Drammatico/Thriller<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Kelly Masterson<br />

Sceneggiatura: Kelly Masterson<br />

Fotografia: Ron Fortunato<br />

Musica: Carter Burwell<br />

Montaggio: Tom Swartwout<br />

Durata: 105’<br />

Produzione: Linsefilm, Michael Cerenzie Productions,<br />

Unity Productions<br />

Distribuzione: Medusa (<strong>2008</strong>) — VIETATO AI M<strong>IN</strong>ORI<br />

DI 14 ANNI<br />

61<br />

Soggetto<br />

Sia pure per motivi diversi, Andy e Hank, <strong>due</strong> fratelli,<br />

hanno impellenti problemi finanziari. Andy pensa che<br />

una soluzione potrebbe essere quel<strong>la</strong> di fare una rapina<br />

nel<strong>la</strong> gioielleria dei genitori, <strong>la</strong> mattina presto: a quell’ora<br />

c’è solo <strong>la</strong> commessa, il <strong>la</strong>dro non sarà mai scoperto,<br />

l’assicurazione rifonderà tutto, loro venderanno i<br />

gioielli e tutti saranno felici. Qualcosa però va storto,<br />

nel negozio c’è <strong>la</strong> mamma, l’incaricato del<strong>la</strong> rapina<br />

spara e <strong>la</strong> donna muore. Da quel momento tutto cambia.<br />

Quando le indagini ristagnano, Charles, il padre, fa<br />

ricerche in proprio, e infine <strong>la</strong> verità viene a gal<strong>la</strong>. Non<br />

ci <strong>sono</strong> vie di mezzo. All’ospedale, Charles soffoca il<br />

figlio Andy fino a provocarne <strong>la</strong> morte.<br />

Valutazione<br />

Il titolo originale suona “Before the Devil Knows<br />

You’re Dead”, frase proverbiale ir<strong>la</strong>ndese: é meglio<br />

arrivare in Paradiso mezz’ora prima che il Diavolo<br />

sappia che sei morto. L’anziano Lumet (esordio nel<br />

1957 con “La paro<strong>la</strong> ai giurati”) costruisce un meccanismo<br />

di spietata lucidità descrivendo <strong>due</strong> nuclei familiari<br />

che precipitano in un abisso morale sempre più<br />

profondo, dal quale non si torna indietro. Fortemente<br />

pessimista ma non del tutto nichilista, perché il copione<br />

fa emergere bene che molti gradini del precipizio<br />

<strong>sono</strong> discesi a causa di una profonda carenza di comunicazione<br />

interpersonale: quando padre e figlio per un


minuto riescono a par<strong>la</strong>re, si intuisce che con minori<br />

silenzi qualcosa si sarebbe potuto evitare. La spirale di<br />

violenza si vorrebbe fermare ma nessuno ne esce soddisfatto,<br />

e le ferite dell’anima <strong>sono</strong> le più acute, incancel<strong>la</strong>bili.<br />

Famiglia Cristiana - Enzo Natta<br />

“America, America dove vai?” Il titolo di un film di<br />

Haskell WexIer, girato quando il vento del<strong>la</strong> rivolta<br />

studentesca soffiava sulle università oltreoceano,<br />

potrebbe tornare utile oggi di fronte all’inquietante<br />

interrogativo di alcune opere hollywoodiane tese a<br />

scorgere nello specchio del<strong>la</strong> storia i lineamenti che<br />

gli Usa hanno assunto dopo l’11 settembre. Esempi?<br />

“Il petroliere” di Paul T. Anderson, dove è ravvisabile<br />

il marchio di Caino del capitalismo, o “Non è<br />

un paese per vecchi” dei fratelli Coen, che associa il<br />

baratro del<strong>la</strong> dannazione al<strong>la</strong> caduta dei valori tradizionali.<br />

Sul<strong>la</strong> stessa linea, quasi a formare un’ideale<br />

trilogia, “Onora il padre e <strong>la</strong> madre” di Sidney<br />

Lumet, dove a incarnare il male oscuro<br />

dell’America è l’avidità congiunta al<strong>la</strong> perdita del<strong>la</strong><br />

coscienza etica. E’ <strong>la</strong> storia di <strong>due</strong> fratelli disperatamente<br />

a caccia di soldi (uno ne ha tanti ma non gli<br />

bastano mai, l’altro ne ha pochi o quasi niente) che<br />

decidono di svaligiare <strong>la</strong> gioielleria dei genitori<br />

(tanto paga l’assicurazione). Ma le cose vanno storte<br />

e più i <strong>due</strong> cercano di raddrizzarle, più si ingarbugliano.<br />

Con tensione crescente e piglio incalzante,<br />

l’ottantatreenne Lumet sve<strong>la</strong> poco al<strong>la</strong> volta<br />

l’ambiguità dei personaggi e le loro zone d’ombra<br />

sprofondate nel buio del vuoto morale, fino a completare<br />

l’ordito edipico di una tragedia tessuta con il<br />

filo dell’infamia, dell’ignavia e del tradimento.<br />

Tramite una ragnate<strong>la</strong> di incastri, <strong>la</strong> vicenda segue i<br />

diversi punti di vista dei personaggi sviluppando<br />

altrettanti capitoli che danno vita a un’unica storia.<br />

Allegoria del<strong>la</strong> rapacità che non conosce ostacoli. A<br />

cominciare da quelli del sangue.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 14/03/<strong>2008</strong><br />

Giù il cappello davanti a Sidney Lumet, 83 anni e<br />

quasi altrettanti film (molti di più se contiamo gli<br />

episodi tv). Più <strong>la</strong> dote, rara, di trasformare tutto ciò<br />

che tocca in oro a colpi di cinema. Cioè di ritmo, di<br />

dialoghi perfetti, di inquadrature semplicissime e<br />

geniali, di attori capaci di dare con pochi tocchi<br />

spessore e profondità anche a personaggi ordinari o<br />

spregevoli.<br />

Non importa infatti quanto azzardate siano <strong>la</strong> storia<br />

o le psicologie. Lumet può ambientare una tragedia<br />

greca nel<strong>la</strong> New York di oggi con <strong>la</strong> faccia tosta di<br />

chi ne sa una più del diavolo. E proprio “Before the<br />

Devil Knows You’re Dead”, “Prima che il diavolo<br />

62<br />

sappia che sei morto”, si intito<strong>la</strong> questa tragedia in<br />

forma di thriller, ribattezzata “Onora il padre e <strong>la</strong><br />

madre” e condotta con mano sicura in un gioco vertiginoso<br />

di f<strong>la</strong>shback e cambi di prospettiva che<br />

inchioda al<strong>la</strong> poltrona fino all’ultimo minuto.<br />

Andy e Hank (Philip Seymour Hoffman e Ethan<br />

Hawke) <strong>sono</strong> <strong>due</strong> fratelli middle c<strong>la</strong>ss che sotto<br />

sotto non si vogliono molto bene, infatti Hank il<br />

bello si porta anche a letto <strong>la</strong> moglie di Andy<br />

(Marisa Tomei). Ma Andy naturalmente non sospetta<br />

nul<strong>la</strong>, e visto che hanno entrambi seri guai finanziari,<br />

il ‘cervello’ dei <strong>due</strong>, cioè il corpulento Andy,<br />

propone al fratello di risolvere i loro problemi ...<br />

rapinando una gioielleria che conoscono bene.<br />

A chi appartenga questa gioielleria, ve lo <strong>la</strong>sceremo<br />

scoprire da soli, anche se è un ‘segreto’ che dura<br />

circa 10 minuti. Basti sapere che il colpo, assurdo<br />

ma apparentemente facile, degenera in pasticcio<br />

sanguinoso e irrimediabile, anche perché il debole<br />

Hank manda un balordo a fare <strong>la</strong> rapina al posto suo<br />

mentre lui aspetta fuori in auto. E quando tutto inizia<br />

a andare storto i <strong>due</strong> fratelli si trovano catapultati<br />

in una spirale di intrighi e violenza che non<br />

risparmia nessuno, mogli, ex-mogli, amanti, complici,<br />

fratelli, genitori. In una resa dei conti generale<br />

che mette a nudo ogni personaggio con i suoi rancori,<br />

le sue debolezze, i suoi desideri di rivalsa<br />

sepolti magari nell’infanzia, come succede quando<br />

ci si scanna in famiglia.<br />

È qui che si rive<strong>la</strong> <strong>la</strong> formidabile bravura di Lumet<br />

e dei suoi attori, capaci di spremere il succo di un<br />

pugno di esistenze in pochi giorni decisivi. Anche<br />

grazie al<strong>la</strong> sapiente alternanza di scene madri e<br />

tempi morti. Vedi <strong>la</strong> scena in cui Andy va a ri<strong>la</strong>ssarsi<br />

in cima a un grattacielo, accudito da un efebo in<br />

vestaglia che gli prepara un comodo letto, incassa il<br />

dovuto e gli fa un bel ‘buco’ d’eroina un f<strong>la</strong>sh quasi<br />

onirico che ci dice bruscamente tutto del personaggio.<br />

Prima che il padre, anzi il Padre (grandioso<br />

Albert Finney) irrompa a sua volta nel<strong>la</strong> vicenda<br />

con tutto il suo peso. ‘Solo’ un grande film di genere,<br />

dunque, come pare suggerire quel finale nerissimo,<br />

o una tragedia americana da prendere sul serio<br />

fino in fondo? Difficile dirlo: <strong>la</strong> libertà di tono di<br />

Lumet autorizza ogni lettura. Ma è proprio questo a<br />

rendere il gioco, oltre che preciso e crudele, doloroso<br />

e rive<strong>la</strong>tore.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Paolo Mereghetti -<br />

14/03/<strong>2008</strong><br />

Di fronte all’ultimo film di Sidney Lumet, i generi<br />

tradizionali del cinema rive<strong>la</strong>no tutta <strong>la</strong> loro inadeguatezza<br />

catalogatoria. Non funziona ‘giallo’ anche<br />

se tutto parte da un furto e da un omicidio, non fun-


ziona ‘noir’ nonostante lo scontro di passioni e tormenti<br />

che agita l’animo dei protagonisti e ‘dramma’<br />

è decisamente troppo generico. Solo una definizione<br />

sembra calzare al film, ed è tragedia. Una tragedia<br />

quotidiana, ambientata in una New York senza<br />

smalto né appeal, interpretata da personaggi anonimi,<br />

‘piccoli’ borghesi con il problema degli alimenti<br />

da pagare al<strong>la</strong> moglie o di una routine matrimoniale<br />

da risvegliare. L’angoscia per l’incombere del<br />

destino o <strong>la</strong> pulsione per un qualsivoglia dovere<br />

morale non entrano mai nell’orizzonte delle azioni,<br />

ma anche par<strong>la</strong>re di banalità del male vorrebbe dire<br />

attribuire alle azioni dei fratelli Hanson una qualche<br />

dimensione etica: “Onora il padre e <strong>la</strong> madre” è <strong>la</strong><br />

tragedia del<strong>la</strong> mediocrità e del<strong>la</strong> immoralità, il<br />

ritratto senza speranza di un mondo che ha perso<br />

ogni possibile dignità e che, come dice un proverbio<br />

ir<strong>la</strong>ndese citato per metà dal titolo originale<br />

(“Before the Devil Knows You’re Dead”), spera<br />

solo di ‘arrivare in paradiso mezz’ ora prima che il<br />

diavolo si accorga che sei morto’. Trenta minuti<br />

(forse) di felicità prima del castigo eterno... La strada<br />

per quel<strong>la</strong> ‘felicità’ <strong>la</strong> propone Andy (Philip<br />

Seymour Hoffman) al fratello minore Hank (Ethan<br />

Hawke): svaligiare <strong>la</strong> gioielleria degli anziani genitori.<br />

Conoscono perfettamente il locale e i suoi<br />

al<strong>la</strong>rmi avendoci entrambi <strong>la</strong>vorato, una pisto<strong>la</strong> giocattolo<br />

basterà per impaurire l’anziana commessa e<br />

l’assicurazione si occuperà di risarcire i proprietari.<br />

Mentre <strong>la</strong> refurtiva consentirà allo squattrinato<br />

Hank di mantenere i suoi impegni con l’ex consorte<br />

e Andy potrà fuggire con <strong>la</strong> moglie Gina (Marisa<br />

Tomei) verso quel<strong>la</strong> Rio che nel<strong>la</strong> primissima scena<br />

li aveva visti ritrovare per una volta <strong>la</strong> passione sessuale.<br />

Naturalmente niente va come dovrebbe: Hank<br />

non ha il coraggio di fare il colpo da solo e ingaggia<br />

un balordo che ‘per entrare nel<strong>la</strong> parte”’ usa una<br />

vera pisto<strong>la</strong>. Invece del<strong>la</strong> commessa semicieca nel<br />

negozio c’è <strong>la</strong> madre (Rosemary Harris) e <strong>la</strong> rapina<br />

si conclude con <strong>due</strong> corpi sul pavimento: il balordo<br />

ucciso e <strong>la</strong> madre trasportata in coma all’ospedale.<br />

Dove i <strong>due</strong> fratelli si ritrovano fianco a fianco a un<br />

padre (Albert Finney) che non si capacita dell’accaduto.<br />

E dove, come è facile intuire, i veri problemi<br />

<strong>sono</strong> appena cominciati. Quello che abbiamo finora<br />

riassunto in maniera lineare, però, il film ce lo<br />

mostra in tutt’altro modo, partendo dal<strong>la</strong> rapina (su<br />

cui tornerà anche in seguito) e poi zigzagando nel<br />

tempo, prima e dopo l’assalto al<strong>la</strong> gioielleria. Una<br />

‘trovata’ di sceneggiatura come ne abbiamo viste<br />

molte ma a cui lo scrittore Kelly Masterson affida<br />

un compito meno sco<strong>la</strong>stico e più complesso: illustrare<br />

non tanto i meccanismi del<strong>la</strong> storia e gli<br />

intoppi che <strong>la</strong> fanno deragliare ma piuttosto sve<strong>la</strong>re<br />

63<br />

l’abiezione e <strong>la</strong> pochezza dei vari personaggi. In<br />

questo modo <strong>la</strong> tragedia non nasce dal susseguirsi<br />

degli eventi, coinvolgendo lo spettatore in un meccanismo<br />

narrativo incalzante, ma piuttosto dal<strong>la</strong><br />

scoperta dell’inumanità dei vari personaggi, delle<br />

loro debolezze e piccolezze. Invece di farci appassionare<br />

ai ‘sassolini’ che dovrebbero bloccare gli<br />

ingranaggi ben oliati di una rapina, il film (e una<br />

sceneggiatura costruita così) ci aprono gli occhi sul<br />

<strong>la</strong>to oscuro delle persone che incrociamo tutti i giorni,<br />

capaci di tradire il fratello con sua moglie (lo fa<br />

Hank con Gina tutti i giovedì) o di falsificare <strong>la</strong> contabilità<br />

dell’ufficio per pagarsi periodiche iniezioni<br />

di eroina (lo fa Andy). E che non si tratti solo di<br />

‘luoghi comuni’ sul Male ma di qualche cosa di più<br />

squallido e insieme ordinario lo rive<strong>la</strong>no piccole<br />

preziosità dei dialoghi, come il bisogno che ha Hank<br />

di nobilitare <strong>la</strong> sua re<strong>la</strong>zione con giustificazioni<br />

romantiche (mentre Gina ha ben presente che tutto<br />

si basa sull’attrazione sessuale) o come le confessioni<br />

esistenziali che Andy snoccio<strong>la</strong> ogni volta che<br />

si fa bucare dal suo raffinato spacciatore (che con<br />

inevitabile cinismo gli consiglia di rivolgersi a uno<br />

psicoanalista). In questo modo <strong>la</strong> tragedia del sangue<br />

(che naturalmente non si limiterà a quello versato<br />

in gioielleria) diventa <strong>la</strong> tragedia del<strong>la</strong> mediocrità<br />

imperante, dove <strong>la</strong> vita perde ogni significato<br />

perché non ne hanno più parole come morale o<br />

amore filiale o rispetto altrui. E se “Non è un paese<br />

per vecchi” dei fratelli Coen si limitava, in qualche<br />

modo a prendere atto dell’irruzione del<strong>la</strong> violenza<br />

nel<strong>la</strong> vita di tutti i giorni, il film di Lumet ci dice che<br />

quel<strong>la</strong> violenza non viene dall’esterno, ma è <strong>la</strong> conseguenza<br />

inevitabile di un mondo dove il miraggio<br />

di pochi soldi (il guadagno del<strong>la</strong> rapina avrebbe<br />

dovuto essere di 60 mi<strong>la</strong> dol<strong>la</strong>ri, da dividere in <strong>due</strong>)<br />

ha cancel<strong>la</strong>to ogni altra forma di valore. Lasciando<br />

campo libero solo all’odio e al<strong>la</strong> ferocia, come ci<br />

ricorda l’ultima indimenticabile, agghiacciante<br />

scena tra padre e figlio.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 07/03/<strong>2008</strong><br />

Fatto di cronaca attuale, tragedia elisabettiana,<br />

melodramma: <strong>due</strong> fratelli rapinano per soldi <strong>la</strong><br />

gioielleria dei genitori, provocano per incidente <strong>la</strong><br />

morte del<strong>la</strong> madre, uccidono per paura alcuni testimoni<br />

e/o ricattatori, uno scappa chissà dove, l’altro<br />

viene ammazzato dal padre. “Onora il padre e <strong>la</strong><br />

madre”, 45° film di Sidney Lumet ottantatreenne, è<br />

un thriller newyorchese veloce, ricco di energia, di<br />

empietà famigliare, dei guai di un’America usa a<br />

vivere indebitandosi. Ben fatto, appassionante, e<br />

con qualcosa di più rispetto ai grandi e rabbiosi passati<br />

film del regista (“La paro<strong>la</strong> ai giurati”, “L’uomo


del banco dei pegni”, “Il verdetto”).<br />

Lumet, da sempre portato per l’azione e per i drammi<br />

famigliari, qui analizza in profondità i personaggi<br />

nel loro bisogno di soldi: un fratello con <strong>la</strong><br />

moglie esigente, amante del<strong>la</strong> droga e del<strong>la</strong> vita<br />

ricca, ruba soldi nell’azienda del<strong>la</strong> quale è amministratore<br />

e non riesce a risarcire il debito segreto;<br />

l’altro, che ha un <strong>la</strong>voro più modesto, è divorziato e<br />

va a letto con <strong>la</strong> cognata, non arriva a pagare gli alimenti.<br />

A tutti e <strong>due</strong> non sembra impossibile far soldi<br />

rapinando i genitori: l’assicurazione pagherà, nessuno<br />

si farà male, tutto verrà risolto. Quando il colpo<br />

fallisce, Lumet esamina molto bene le reazioni di<br />

ciascuno al disastro: mentre il padre tenacemente<br />

indaga per scoprire l’assassino del<strong>la</strong> moglie, un fratello<br />

si abbandona all’eroina e al sesso meccanico,<br />

l’altro si immerge in sonni comatosi pesanti e torvi<br />

come fughe.<br />

Altri meriti: gli attori diretti benissimo (Philip<br />

Seymour Hoffman e il padre Albert Finley <strong>sono</strong> perfetti,<br />

anche Ethan Hawke è molto bravo); New York<br />

vista con <strong>la</strong> tristezza e lo struggimento amoroso di<br />

chi teme di dover <strong>la</strong>sciare <strong>la</strong> città più bel<strong>la</strong> e più crudele.<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli -<br />

16/03/<strong>2008</strong><br />

Il prossimo 24 giugno Sidney Lumet compirà 84<br />

anni. Il maestro di Phi<strong>la</strong>delphia celebra <strong>la</strong> ricorrenza<br />

con un ennesimo capo<strong>la</strong>voro, il quaranta<strong>due</strong>simo<br />

distribuito in Italia, dopo il sorprendente esordio de<br />

“La paro<strong>la</strong> ai giurati” (1957). Rubandogli un po’<br />

I’ineffabile abilità del racconto ad incastri, diremo<br />

che nel<strong>la</strong> fulgida carriera <strong>la</strong> letteratura di genere<br />

(“Serpico”, 1971) si è alternata ad uno dei pochi<br />

documenti sul<strong>la</strong> perversione degli indici d’ascolto<br />

televisivi, e stiamo alludendo ‘Network’ (Quinto<br />

potere, 1976) appassionante metafora sul<strong>la</strong> ‘morte<br />

in diretta’. “Onora il padre e <strong>la</strong> madre” riunisce i<br />

<strong>due</strong> versanti creativi di questo genio del<strong>la</strong> macchina<br />

da presa; e <strong>la</strong> sceneggiatura perfetta di Kelly<br />

64<br />

Masterson gli consente poi di rileggere, se non il<br />

teatro del<strong>la</strong> crudeltà e Antonin Artaud, ‘almeno’<br />

Arthur Miller, Tennessee Williams e Harold Pinter.<br />

Qualcuno,volendo, può risalire ai Greci.<br />

Dirigente immobiliare, Andy Hanson è in difficoltà<br />

finanziarie: deve alimentare il suo vizio degli allucinogeni<br />

e creare un futuro allo sbalestrato fratello<br />

minore, Hank, separato dal<strong>la</strong> moglie e soverchiato<br />

dall’obbligo di versarle l’assegno mensile. Papà<br />

Charles e mamma Nanette gestiscono un piccolo<br />

negozio di gioielli in periferia, perché non rapinarlo?<br />

L’assicurazione pagherà il danno ed i vari personaggi<br />

saranno soddisfatti e rimborsati. Ma...<br />

Usiamo l’antico espediente di non continuare nel<br />

resoconto, benché Lumet, con <strong>la</strong> sua arte, faccia a<br />

meno delle convenzioni, poiché <strong>la</strong> suspense deriva<br />

dal sapiente incastro fra tempo ed azione. Le anime<br />

nere di Andy ed Hank si confrontano col dolore di<br />

papà Charles e col sacrificio di Nanette. ed alle loro<br />

spalle, nel grigiore del panorama sui grattacieli di<br />

New York, scorgiamo <strong>la</strong> pressione disumana del<br />

profitto. L’anziana pedina Andy anche nelle ore del<br />

funerale al<strong>la</strong> madre; il possesso di una banconota<br />

spinge al delitto; e <strong>la</strong> cupidigia esonda dal<strong>la</strong> 47a<br />

Strada o dal West Center presentandosi nel<strong>la</strong> sua<br />

agghiacciante gIobalità: tutti, arabi ed europei,<br />

vogliono una casa nel<strong>la</strong> Grande Me<strong>la</strong>.<br />

L’universo familiare e quello del <strong>la</strong>voro si riducono<br />

dunque allo squillo dei telefoni, all’ostracismo dei<br />

citofoni ed ai colpo di pisto<strong>la</strong>. In questo sulfureo<br />

fulgore giganteggiano Agamennone ed un Oreste<br />

senza vendetta. Diciamo, Albert Finney venerando<br />

per età e coturno britannico; un Philips Seyrmour<br />

Hoffman che si <strong>la</strong>urea miglior attore contemporaneo;<br />

ed un Ethan Hawke scavato nel<strong>la</strong> fragilità<br />

morale del matricida per sciagurata avidità di denaro.<br />

Sidney Lumet ci offre un manufatto cinematografico<br />

davvero fondamentale, per <strong>la</strong> comprensione<br />

del nostro tempo: un tempo che non ha mai smarrito<br />

gli ideali perché, probabilmente, non li ha mai<br />

avuti.


13<br />

Regia: Sergej Bodrov<br />

Interpreti: Tadanobu Asano (Temugin), Khu<strong>la</strong>n Chuluun<br />

(Börte), Sun Honglei (Jamukha), Aliya (Oelun), Bao Di<br />

(Todoen), Tegen Ao (Charkhu), Deng Ba Te Er (Daritai),<br />

You Er (Sorgan-Shira), Sai Xing Ga (Chiledu), Odnyam<br />

Odsuren (Giovane Temugin), Bayertsetseg Erdenebat<br />

(Giovane Börte), Amarbold Tuvshinbayar (Giovane<br />

Jamukha), Ba Sen (Esugei), Amadu Mamadakov<br />

(Targutai), Sun Ben Hou (Monaco), He Qi (Dai Sechen),<br />

Ba Yin (Mercante con anello d’oro), Ji Ri Mu Tu<br />

(Boorchu)<br />

Genere: Drammatico/Storico<br />

Origine: Germania/Kazakhistan/Mongolia/Russia<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Sergei Bodrov, Arif Aliyev<br />

Sceneggiatura: Arif Aliyev, Sergej Bodrov<br />

Fotografia: (Scope/a colori): Sergei Trofimov, Rogier<br />

Stoffers<br />

Musica: Tuomas Kantelinen<br />

Montaggio: Zach Staenberg, Valdís Óskarsdóttir<br />

Durata: 120’<br />

Produzione: Andreevsky F<strong>la</strong>g Film Company,<br />

Kinofabrika, Kinokompaniya Ctb, X-Filme Creative Pool<br />

Distribuzione: Bim (<strong>2008</strong>)<br />

MONGOL<br />

5-6 febbraio <strong>2009</strong><br />

65<br />

Soggetto<br />

Mongol ripercorre i drammatici e tormentati primi anni del<br />

sovrano nato nel 1162 col nome di Temugin ma più conosciuto<br />

come Gengis Khan - dal<strong>la</strong> sua difficile infanzia, fino<br />

al<strong>la</strong> battaglia che segnerà il suo destino - facendone un ritratto<br />

complesso che lo dipinge non più come lo spietato mostro<br />

dello stereotipo, ma come un nobile condottiero impavido e<br />

visionario. Mongol racconta <strong>la</strong> storia di un uomo straordinario,<br />

sve<strong>la</strong>ndoci il fondamento su cui poggiava gran parte del<strong>la</strong><br />

sua grandezza: il rapporto con <strong>la</strong> moglie Borte, grande amore<br />

del<strong>la</strong> sua vita, e sua più fidata consigliera.<br />

Valutazione<br />

L’obiettivo di Sergei Bodrov era quello di raccontare le origini<br />

e <strong>la</strong> crescita di un uomo straordinario, sve<strong>la</strong>ndoci che il<br />

fondamento di gran parte del<strong>la</strong> sua grandezza poggiava sul<br />

rapporto con <strong>la</strong> moglie Borte. Il regista e il suo cosceneggiatore<br />

si <strong>sono</strong> basati su autorevoli documenti storici e in<br />

seguito l’azione è stata girata nei veri luoghi dove è nato<br />

Gengis Khan in paesaggi fatti di spazi infiniti, clima freddo,<br />

pericoli sempre in agguato. In più Bodrov ha voluto aggiungere<br />

<strong>la</strong> spettaco<strong>la</strong>rità e <strong>la</strong> grandiosità di scene di battaglia ad<br />

ampio respiro, donando a “Mongol” il ritmo solenne del<br />

cinema russo.<br />

Dal film si capisce che il mostro sanguinario è un’invenzione<br />

del<strong>la</strong> vulgata cristiana e mussulmana, mentre Bodrov<br />

sa apprezzare <strong>la</strong> spregiudicatezza di un uomo che accolse<br />

come propri i figli concepiti dal<strong>la</strong> moglie schiava del nemico<br />

e lo copre di gloria in acrobatici scontri all’arma bianca<br />

tra Ejzenstejn e Kurosawa.


Il Tempo - Gian Luigi Rondi - 10/05/<strong>2008</strong><br />

Quando il cinema sovietico ormai volgeva al termine e il<br />

cinema russo stava accingendosi a sostituirlo, Sergej<br />

Bodrov si fece conoscere, e apprezzare, con <strong>due</strong> film di<br />

qualità sicure, nelle cifre di un realismo che si sublimava<br />

in poesia, “S.E.R. <strong>la</strong> libertà è il paradiso”, e “Il prigioniero<br />

del Caucaso”. Adesso, dopo alcuni altri non del tutto<br />

conseguenti e compiuti (“Il bacio dell’orso”), eccolo invece<br />

affrontare, con <strong>la</strong>rghissimo respiro, quell’epica corale<br />

<strong>la</strong> cui tradizione, nel suo Paese, risale addirittura a<br />

Ejzenstejn e al suo immortale “Ivan il Terribile”.<br />

Anche qui un gran personaggio al centro, anche qui <strong>la</strong><br />

Storia di sfondo, con un deciso capovolgimento di una<br />

certa tradizione perché quel personaggio, che è Gengis<br />

Khan, non è proposto come un tiranno feroce che, per conquistare<br />

mezzo mondo, in quell’epoca turbolenta che era<br />

il XII Sec., devastò con tremende distruzioni, ma come un<br />

uomo giusto, legato a moglie e figli e pronto a governare<br />

con saggezza e persino con misura.<br />

Una trovata narrativa - a quanto sembra anche con un fondamento<br />

storico - che ha permesso a Bodrov di ricercare<br />

un equilibrio fra le psicologie anche più sommesse dei<br />

vari caratteri cui si è rivolto e i corruschi eventi in cui, poi<br />

li ha coinvolti. L’intimismo da un <strong>la</strong>to, perciò, e, da un<br />

altro, <strong>la</strong> guerra svolta con seguito di battaglie furibonde e<br />

violentissime.<br />

Forse, dove non solo <strong>la</strong> rappresentazione, ma anche <strong>la</strong><br />

struttura narrativa che <strong>la</strong> pretende, <strong>sono</strong> meno convincenti<br />

è proprio nell’intimismo, che tutto sommato si limita a<br />

seguire da vicino le vicende del futuro Gengis Khan quando<br />

ancora di chiamava Temugin iniziando dall’età di nove<br />

anni fino al momento in cui, sconfitti tutti i suoi avversari,<br />

avrebbe cominciato a dominare i suoi Mongoli. Si<br />

seguono, invece con partecipazione le molte pagine epiche<br />

che vedono il personaggio, pur tra alti e bassi, sgominare<br />

a poco a poco quanti osano sfidarlo, persino un<br />

potentissimo amico fraterno poi diventato suo oppositore.<br />

Qui Bodrov mostra di aver tenute ben presenti non solo le<br />

grandi battaglie di “Ivan il Terribile” ed anche dell’<br />

“Aleksandr Nevskij” sempre di Ejzenstejn, ma quelle, più<br />

recenti e sconvolgenti, di Kurosawa in “Kagemusha” e in<br />

“Ran”. Con effetti da kolossal, insoliti per il cinema russo<br />

di oggi, ma sempre di gusto control<strong>la</strong>to: all’insegna di una<br />

grandiosità che mai indulge al facile.<br />

Non dimentico gli interpreti. il giapponese Tadanobu<br />

Asano, premiato anni fa a una Mostra di Venezia, è il protagonista,<br />

il cinese Honglei Sun, il suo nemico, l’esordiente<br />

mongo<strong>la</strong> Khu<strong>la</strong>n Chuluun, <strong>la</strong> moglie.<br />

Condividono, con seri accenti, il realismo dell’insieme.<br />

La Repubblica - Roberto Nepoti - 09/05/<strong>2008</strong><br />

L’epopea di Gengis Khan, il condottiero che al<strong>la</strong> fine del<br />

XII secolo ha fondato l’impero più vasto del<strong>la</strong> storia<br />

umana, è raccontato dal regista russo di Mongol all’insegna<br />

di toni pacati ed elegiaci, sebbene non manchi <strong>la</strong> componente<br />

ferina di quel<strong>la</strong> civiltà di fieri nomadi-guerrieri.<br />

Fierezza, e pacata saggezza, e capacità di vivere intensamente<br />

passioni e sentimenti intimi, <strong>sono</strong> le insegne sotto<br />

le quali il film tratteggia questo personaggio storico e leg-<br />

66<br />

gendario.<br />

Assieme alle leggi elementari attraverso le quali il piccolo<br />

Temugin (questo il vero nome del futuro Khan di tutti i<br />

mongoli) riesce a imporsi come unificatore del suo popolo<br />

di uomini liberi e tribù indipendenti, il film racconta i<br />

vasti spazi e gli imponenti scenari del<strong>la</strong> steppa. Vera protagonista<br />

del<strong>la</strong> vita di quel popolo e quindi del film cui<br />

non si può non riconoscere grande suggestione visiva.<br />

Difficile non riconoscere anche un procedere tanto solenne<br />

quanto ripetitivo. Con esagerata malizia si potrebbe<br />

immaginarvi l’equivalente contemporaneo - pro-Putin? -<br />

di ciò che tra grandezza e compromesso rappresentarono<br />

gli ultimi capo<strong>la</strong>vori di Ejzenstejn “Aleksander Nevskij” e<br />

“Ivan il terribile” per Stalin.<br />

Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 18/05/<strong>2008</strong><br />

Grande schermo, grandi paesaggi. Ultima carta da giocare<br />

(forse) per il cinema in sa<strong>la</strong>: <strong>la</strong> vastità, <strong>la</strong> profondità, l’immersione<br />

in un mondo che ti rapisce e ti porta, almeno per<br />

<strong>due</strong> ore, in una dimensione diversa. È l’emozione che ti dà<br />

“Mongol”, di Sergei Bodrov, dedicato al<strong>la</strong> vita iperavventurosa<br />

di Temüjin, il futuro Gengis Khan, l’uomo che<br />

fondò il più grande impero del<strong>la</strong> storia, dall’Oceano<br />

Pacifico fin quasi alle porte di Vienna. Ispirato al<strong>la</strong> ‘Storia<br />

segreta dei mongoli’, il film ha qualcosa di antico: i cieli,<br />

il vento, i mari d’erba, l’immensità del<strong>la</strong> steppa, l’acqua,<br />

l’aria, <strong>la</strong> terra e il fuoco. E un bambino che lotta per non<br />

soccombere ai mille nemici, forgiato da continue sventure.<br />

Destinato a essere ucciso, reso schiavo prima da un<br />

altro c<strong>la</strong>n e poi dai cinesi, liberato dal<strong>la</strong> moglie Börte, da<br />

lui scelta quando aveva solo 9 anni. E le epiche battaglie,<br />

combattute con straordinaria visione strategica. Temüjin<br />

sembra sempre sul punto di venire travolto, ma non cede<br />

mai: fino al momento in cui diventa il capo indiscusso di<br />

tutti i mongoli. Terrore per il resto del mondo, affascinante<br />

eroe per i suoi.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 09/05/<strong>2008</strong><br />

Grande film di Sergei Bodrov (l’autore russo sessantenne<br />

de “Il prigioniero del Caucaso”, e de “Il bacio dell’orso”),<br />

sceneggiatore, regista, produttore di “Mongol”, storia<br />

affascinante di infanzia, adolescenza, prima giovinezza<br />

del mongolo Temüjin (1167-1227) detto Gengis Khan<br />

(Signore Universale), conquistatore e capo del vasto<br />

impero mongolo che dominò anche <strong>la</strong> Russia per 200<br />

anni. Intorno a questo personaggio è da poco terminato un<br />

processo di revisione del<strong>la</strong> critica storica recente, che ne<br />

rivaluta l’opera costruttiva, le qualità militari e umane,<br />

smentendone <strong>la</strong> leggenda di ferocia e di sangue. Bodrov<br />

accoglie nel suo film questa nuova visione di Gengis<br />

Khan, raccontando insieme con <strong>la</strong> formazione del condottiero<br />

<strong>la</strong> vita delle tribù nomadi mongole del XII secolo.<br />

Bellissimo. I veri luoghi nativi di Gengis Khan, dove il<br />

film è stato girato, offrono spazi infiniti, salti climatici, <strong>la</strong><br />

bellezza aspra e selvaggia dei posti più iso<strong>la</strong>ti del<strong>la</strong> terra.<br />

Tre magnifiche battaglie a cavallo (frecce, <strong>la</strong>nce, spade,<br />

bastoni) <strong>sono</strong> animate da prodigiosi strumenti kasaki e<br />

kirghishi. Amore (per <strong>la</strong> prima moglie Börte) e azione<br />

mesco<strong>la</strong>ti hanno <strong>la</strong> potenza del<strong>la</strong> vita.


14<br />

Regia: Sarah Polley<br />

Interpreti: Julie Christie (Fiona), Gordon Pinsent<br />

(Grant), Olympia Dukakis (Marian), Murphy Aubrey<br />

(Michael), Kristen Thomson (Kristy), Wendy Crewson<br />

(Madeleine), Alberta Watson (Dottor Fischer), Deanna<br />

Dezmari (Veronica), C<strong>la</strong>re Coulter (Phoebe Hart), Thomas<br />

Hauff (William Hart), Grace Lynn Kung (Betty), Lili<br />

Francks (Theresa), Andrew Moodie (Liam), Judy Sinc<strong>la</strong>ir<br />

(Sig.ra Albright), Tom Harvey (Michael), Carolyn<br />

Hetherington (Eliza), Stacey Laberge (Fiona da giovane)<br />

Genere: Drammatico/Romantico<br />

Origine: Canada<br />

Anno: <strong>2008</strong><br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Alice Munro<br />

Sceneggiatura: Sarah Polley<br />

Fotografia: Luc Montpellier<br />

Musica: Jonathan Goldsmith<br />

Montaggio: David Wharnsby<br />

Durata: 110<br />

Produzione: The Film Farm, Foundry Films Inc., Pulling<br />

Focus Pictures<br />

Distribuzione: Videa CDE (<strong>2008</strong>)<br />

LONTANO DA LEI<br />

12-13 febbraio <strong>2009</strong><br />

67<br />

Soggetto<br />

Dopo 50 anni di felice matrimonio, Fiona e Grant<br />

Anderson si accorgono di dover fare i conti con le<br />

continue dimenticanze che <strong>la</strong> donna accusa. Di<br />

fronte all’incombere del morbo di Alzheimer, decidono<br />

che é il momento per lei di ricoverarsi in una<br />

clinica specializzata. La conseguenza é che Grant,<br />

nel rispetto delle regole del<strong>la</strong> clinica, deve restare<br />

lontano dal<strong>la</strong> moglie per un periodo lungo, mai<br />

capitato prima. Quando torna in visita, capisce che<br />

niente é più come prima: Fiona non lo riconosce e,<br />

nel frattempo, ha trovato conforto nell’amicizia con<br />

un altro ospite, un certo Aubrey, che lei accudisce<br />

con amore. Ogni tentativo per tornare indietro da<br />

questa situazione si dimostra inutile. Grant entra in<br />

confidenza con Marian, moglie di Aubrey, scambia<br />

confidenze, cerca qualche sollievo. Fiona intanto<br />

viene trasferita al 2^ piano, <strong>la</strong>ddove <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia é<br />

irreversibile. Lui <strong>la</strong> abbraccia, ma fuori c’è Aubrey<br />

ad aspettare.<br />

Valutazione<br />

Il racconto del<strong>la</strong> scoperta e dell’avanzare lento ma<br />

inesorabile dell’Alzheimer é affidato a pagine di<br />

intensa e convincente emozione. Ispirandosi ad un<br />

racconto di Alice Munro, Sarah Polley tratteggia<br />

con sensibilità il diagramma di una ‘disgrazia’ che<br />

spezza il filo di una unione bel<strong>la</strong> e duratura.


Volutamente <strong>la</strong>sciando da parte sia gli aspetti più<br />

decisamente medico-scientifici sia quelli sociali, il<br />

copione trova s<strong>la</strong>ncio nel proporsi come uno sguardo<br />

non solo sul<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia ma anche sull’amore<br />

coniugale. Il progressivo frantumarsi di una quotidianità<br />

fatta di piccoli gesti, di attenzione, di ricordi<br />

<strong>la</strong>scia un vuoto impossibile da colmare, scorie di<br />

equilibrio nelle quali <strong>la</strong> memoria non ha più cittadinanza,<br />

e l’impossibilità di opporsi al degrado<br />

<strong>la</strong>scia quasi atterriti. Tuttavia <strong>la</strong> storia ha accenti<br />

non di disperazione ma di sublimazione, dell’amore<br />

e dei sentimenti. La ricchezza di affetti e di reciproca<br />

stima accumu<strong>la</strong>ta in tanti anni non sfuma,<br />

non sfiorisce. Qualche passaggio un po’ edulcorato<br />

non sminuisce <strong>la</strong> compattezza di una trama che<br />

commuove e conquista, <strong>la</strong>nciando segnali di speranza<br />

non fine a se stessa, anche in assenza di un<br />

orizzonte di trascendenza.<br />

Il Messaggero - Francesco Alò - 15/02/<strong>2008</strong><br />

L’amore ai tempi dell’Alzheimer. Il debutto al<strong>la</strong><br />

regia del<strong>la</strong> straordinaria attrice canadese Sarah<br />

Polley, bambina ne “Le avventure del Barone di<br />

Munchausen” di Terry Gilliam e commovente giovane<br />

donna ne “La vita segreta delle parole” di<br />

Isabelle Coixet, ci riporta dalle parti del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia<br />

che cancel<strong>la</strong> le tracce di una vita amorosa. Quando<br />

a Fiona (Julie Christie) viene diagnosticato<br />

l’Alzheimer, il marito Grant (Gordon Pinsent con<br />

look bergmaniano) <strong>la</strong> porta in una casa di cura dove<br />

lei dimenticherà i 40 anni di matrimonio e, forse,<br />

troverà un nuovo amore. Ci voleva un’artista del<strong>la</strong><br />

c<strong>la</strong>sse di Sarah Polley per affrontare con “Lontano<br />

da lei” un tema così duro con un tono incredibilmente<br />

leggero, tutto di sottrazione e sguardi ironici.<br />

Il film è come il personaggio di Julie Christie:<br />

imprevedibile, dolce, sensuale e intelligente. La<br />

sessantasettenne divina attrice britannica è il motivo<br />

per cui rimpiangiamo il cinema di una volta. È<br />

una star che è stata icona del Free Cinema inglese e<br />

del<strong>la</strong> New Hollywood che usa le rughe e <strong>la</strong> vecchiaia<br />

come straordinari strumenti per emozionarci<br />

e convincerci che <strong>la</strong> terza età, se portata con c<strong>la</strong>sse,<br />

ha una marcia in più. Che smacco alle povere<br />

Kidman di turno che umiliano il loro talento per<br />

provare chirurgicamente a fermare il tempo. In<br />

Italia gli attori ventiseienni che passano al<strong>la</strong> regia<br />

realizzano vuoti e ridicoli inni estetizzanti al<strong>la</strong> loro<br />

immagine. Sarah Polley, a 28 anni, ha realizzato un<br />

film su vecchietti ma<strong>la</strong>ti dal quale esci completamente<br />

guarito.<br />

Avvenimenti - Callisto Cosulich - 22/02/<strong>2008</strong><br />

‘Sarà come stare in albergo’, dice Fiona, mentre<br />

68<br />

Grant, il marito, <strong>la</strong> conduce in macchina a<br />

Meadow<strong>la</strong>ke, <strong>la</strong> casa di riposo per ma<strong>la</strong>ti di<br />

Alzheimer. Fiona e Grant <strong>sono</strong> sposati da cinquant’anni.<br />

Non avevano avuto figli, <strong>la</strong> semisolitudine<br />

aveva rafforzato <strong>la</strong> loro unione. Un giorno Fiona<br />

ripose una padel<strong>la</strong> appena <strong>la</strong>vata, anziché nell’apposito<br />

armadio, in frigorifero. Fu <strong>la</strong> prima avvisaglia<br />

del male, seguita da altre, sinché non arrivò il<br />

momento del ricovero. La casa di cura era moderna,<br />

ma vi vigeva una rego<strong>la</strong> ferrea. <strong>Per</strong> i primi trenta<br />

giorni i nuovi residenti non dovevano ricevere<br />

visite. Quando Grant, trascorsi i trenta giorni, si<br />

precipitò a trovar<strong>la</strong>, Fiona non lo riconosceva più.<br />

Nel frattempo aveva stretto amicizia con un altro<br />

paziente di nome Aubrey, praticamente disabile.<br />

L’aveva ricoverato <strong>la</strong> moglie Marian, non potendolo<br />

più accudire in casa da so<strong>la</strong>. Una vicenda raccontata<br />

prima in una novel<strong>la</strong> di Alice Munro, una<br />

delle maggiori scrittrici canadesi viventi, ora tradotta<br />

in film dall’attrice Sarah Polley, ventottenne<br />

al suo primo lungometraggio. Una traduzione<br />

esemp<strong>la</strong>re, mai limitata al<strong>la</strong> semplice illustrazione<br />

del testo. Evidentemente l’autrice, che frequenta i<br />

teatri di posa da quando aveva sei anni, è ben consapevole<br />

che il cinema adopera un altro linguaggio,<br />

più vicino alle note musicali che all’alfabeto. Ha<br />

puntato con grande maestria sul volto e sul corpo<br />

dei personaggi, sia principali che di contorno. Ha<br />

adottato i tempi dell’adagio, il movimento che<br />

meglio si adattava al<strong>la</strong> condizione dei ricoverati.<br />

Ha trovato in Julie Christie una straordinaria interprete<br />

del personaggio di Fiona, ruolo quanto mai<br />

difficile, poiché l’Alzheimer dà pochi e contraddittori<br />

segni esteriori. Quanto al<strong>la</strong> Polley, <strong>la</strong> ricordiamo<br />

in parecchi film, giovane attrice in ruoli conturbanti,<br />

che sembrano avere <strong>la</strong>sciato un segno nel<strong>la</strong><br />

sua visione del mondo. Ci aveva colpito soprattutto<br />

ne “Il dolce domani” di Atom Egoyan, dove era<br />

Nicole, ragazza che aveva avuto dei rapporti incestuosi<br />

col padre. Qui troviamo Egoyan in veste di<br />

produttore esecutivo. Il film s’intito<strong>la</strong> “Away from<br />

Her” (“Lontano da lei”) e prospetta un domani<br />

‘dolceamaro’.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Tullio Kezich - 15/02/<strong>2008</strong><br />

Attenzione! Se vi capita di <strong>la</strong>vare una padel<strong>la</strong> e<br />

subito dopo metter<strong>la</strong> nel frigorifero, se avvertite il<br />

bisogno di applicare delle etichette sui cassetti per<br />

ricordare ciò che contengono, se uscite per una passeggiata<br />

e non ritrovate più <strong>la</strong> strada di casa... Nel<br />

film “Away from Her - Lontano da lei” questi e altri<br />

<strong>sono</strong> i prodromi del morbo destinato a ottenebrare<br />

<strong>la</strong> coscienza del<strong>la</strong> protagonista Fiona (Julie<br />

Christie) con l’inesorabile progredire del morbo


contrassegnato dal nome del suo scopritore, il neurologo<br />

tedesco Alois Alzheimer (1864 - 1915).<br />

Siamo in mezzo al<strong>la</strong> campagna innevata<br />

dell’Ontario e chi segue sempre più al<strong>la</strong>rmato i <strong>la</strong>psus<br />

del<strong>la</strong> moglie è Grant, un professore in pensione<br />

che sembra ritagliata da un film di Bergman (è l’eccellente<br />

attore canadese Gordon Pinsent). Ben presto<br />

gli si presenta ineluttabile il ricovero del<strong>la</strong> consorte<br />

in una clinica (le riprese <strong>sono</strong> avvenute fra gli<br />

ospiti veri del Freeport Health Center di<br />

Kitchener), dove il garbo dell’accoglienza al piano<br />

terra non nasconde l’inquietante probabilità di<br />

un’ascesa al ‘secondo piano’ degli incurabili. E’ su<br />

sca<strong>la</strong> ridotta <strong>la</strong> stessa metafora del racconto di Dino<br />

Buzzati ‘Sette piani’, dal quale Ugo Tognazzi trasse<br />

il film “Il fischio al naso”. Nelle 70 ispirate e<br />

toccanti intense paginette di Alice Munro adattate<br />

per lo schermo dal<strong>la</strong> regista Sarah Polley (anche<br />

entusiasta prefatrice del<strong>la</strong> recente edizione Vintage)<br />

il caso clinico viene affrontato senza <strong>la</strong>crime. Ci<br />

aspetta invece una sorpresa: dopo i rituali 30 giorni<br />

nei quali i ma<strong>la</strong>ti per esigenze di ambientazione<br />

non devono ricevere visite, Grant arriva con i fiori<br />

in mano e scopre Fiona impegnata a pieno tempo<br />

come trepida badante di Aubrey (Michael Murphy),<br />

un compagno di sventura messo peggio di lei.<br />

Nell’osmosi delle rispettive nebbie mentali è nata<br />

una corrispondenza di amorosi sensi tanto esclusiva<br />

da suscitare nel legittimo consorte una paradossale<br />

gelosia. <strong>Per</strong>ò quando Aubrey viene portato via<br />

dal<strong>la</strong> moglie Marian (Olympia Dukakis) e Fiona<br />

precipita nel<strong>la</strong> disperazione, Grant decide di andare<br />

in cerca del rivale per farlo tornare. Tutto ciò nel<br />

racconto avviene oltre <strong>la</strong> metà, mentre <strong>la</strong> Polley<br />

mette <strong>la</strong> situazione proprio all’ inizio del film in<br />

contrappunto con i f<strong>la</strong>shback. E’ una delle trovate<br />

di una sceneggiatura al<strong>la</strong> quale è stata attribuita,<br />

forse con un eccesso di generosità, un’ulteriore<br />

candidatura all’Oscar accanto a quel<strong>la</strong> per Julie<br />

Christie (nominata quattro volte, di cui una vincente<br />

nel ‘65 con “Darling”). Il tutto nel corso dell’assunzione<br />

a oggetto di culto di un piccolo film indipendente,<br />

passato attraverso il cursus honorum di<br />

vari festival e già onusto di premi. <strong>Per</strong> l’occasione<br />

assistiamo al<strong>la</strong> sorprendente rimonta di una diva<br />

presente sugli schermi da quasi mezzo secolo e<br />

definita da Al Pacino ‘<strong>la</strong> più poetica di tutte le attrici’.<br />

Un entusiasmo non condiviso da tutti perché<br />

Julie ha spesso suscitato critiche feroci. Leggere<br />

per credere <strong>la</strong> voce che le dedica David Thomson<br />

nel suo dizionario biografico del cinema, una brutale<br />

stroncatura includente accuse di manierismo e<br />

scarsa sincerità. <strong>Per</strong> scoprire l’infondatezza di tali<br />

cattiverie basta tuttavia rivedere <strong>la</strong> Christie in<br />

69<br />

“Away from Her”. Senza essere il capo<strong>la</strong>voro di cui<br />

si è par<strong>la</strong>to, questo film lindo e rispettabile ci rega<strong>la</strong><br />

un’interpretazione davvero straordinaria di colei<br />

che fu l’ispiratrice di “Il dottor Zivago”. Ancora<br />

bellissima benché in viaggio verso i settanta, Julie<br />

Christie non ricorre ai trucchi di mestiere che gli<br />

attori utilizzano nel rappresentare <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia. A differenza<br />

del gran mattatore positivista Ermete<br />

Zacconi, che ricostruì <strong>la</strong> paralisi progressiva di<br />

‘Osvaldo negli Spettri’ frequentando gli ospedali,<br />

Julie cerca <strong>la</strong> dolente verità del personaggio dentro<br />

se stessa.<br />

L’Eco di Bergamo - Achille Frezzato - 27/04/2000<br />

“Lontano da lei - Away from her” segna l’esordio<br />

nel<strong>la</strong> regia dell’attrice canadese Sarah Polley (nata<br />

a Toronto nel 1979, è stata interprete/protagonista,<br />

fra gli altri, di “Il mistero dell’acqua”, “La mia vita<br />

senza me”, “La vita segreta delle parole” ), che ne<br />

ha scritto <strong>la</strong> sceneggiatura, ricavando<strong>la</strong> da un racconto<br />

del<strong>la</strong> connazionale Alice Munro, pubblicato<br />

da Einaudi nel<strong>la</strong> raccolta ‘Nemico, amico, amante…’.<br />

Fedele al<strong>la</strong> vicenda del testo letterario, ma non al<br />

lineare schema narrativo (ha optato per un intreccio<br />

di f<strong>la</strong>shback), <strong>la</strong> neoregista evoca il trascorrere del<br />

tempo e il permanere dei sentimenti, si sofferma<br />

sulle ferite, sulle paure, sulle speranze, sugli affetti<br />

deboli o trascurati, sulle quotidiane forme di amorevolezza,<br />

sul dramma di un’identità coniugale<br />

<strong>la</strong>cerata.<br />

Attenta a una costruzione minuziosa, quasi maniacale<br />

dei personaggi, senza concedere nul<strong>la</strong> al sentimentalismo,<br />

in un calmo incedere e con essenziale<br />

nitidezza, racconta <strong>la</strong> storia, volutamente deprimente,<br />

ma austeramente toccante e coinvolgente,<br />

del lento, impietoso tramonto di Fiona (una magnifica<br />

Julie Christie in una interpretazione sentita ed<br />

emozionante), che, colpita dal morbo di Alzheimer,<br />

viene ricoverata in una casa di riposo specializzata<br />

dal marito Grant, un professore in pensione<br />

(Gordon Pinset, attore canadese di indubbio talento,<br />

sconosciuto in Europa): una decisione comunque<br />

drammatica per entrambi, mai separatisi nel<br />

corso di 48 anni.<br />

Dopo i rituali trenta giorni, durante i quali i ma<strong>la</strong>ti,<br />

per meglio adattarsi al<strong>la</strong> nuova vita, non pos<strong>sono</strong><br />

ricevere visite, Grant trova una Fiona che non si<br />

ricorda assolutamente di lui, che lo ignora, impegnata<br />

ad assistere affettuosamente Aubrey (Michael<br />

Murphy), un compagno di sventura, <strong>la</strong> cui moglie<br />

Marian (Olympia Dukakis), tornata dalle vacanze,<br />

lo riporta a casa. La scomparsa di Aubrey fa peggiorare<br />

velocemente le condizioni di Fiona, sempre


al centro dell’affetto, delle quotidiane attenzioni<br />

del marito, che, in un esemp<strong>la</strong>re atto di generosità e<br />

di amore, si preoccupa del<strong>la</strong> felicità dell’amata<br />

consorte, non esitando a chiedere aiuto al<strong>la</strong> moglie<br />

di Aubrey.<br />

Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli -<br />

20/02/<strong>2008</strong><br />

In una gloriosa ‘voce’ sul Filmlexikon, Tino<br />

Ranieri definì ‘inquietamente moderna’ <strong>la</strong> bellezza<br />

di Julie Christie. Era il 1973, l’attrice aveva già<br />

interpretato <strong>la</strong> fotomodel<strong>la</strong> di “Darling”, conquistando<br />

l’Oscar; ed era ormai leggendaria per il personaggio<br />

di Lara nel “Dottor Zivago”. Passava,<br />

quindi, dal<strong>la</strong> new wave di John Schlesinger al<strong>la</strong><br />

lussuosa confezione di David Lean, proponendosi<br />

come simbolo di squisita sensibilità. Nata ad<br />

Assam, India, il 14 aprile 1941, salutata da<br />

François Truffaut come un garcon en minijupe (un<br />

ragazzo in minigonna, Arts numero 53 del 1966),<br />

Julie incanta con <strong>la</strong> sua soffice freschezza nel ruolo<br />

di Fiona Anderson.<br />

Sposata da 44 anni al docente in pensione Grant, <strong>la</strong><br />

donna conserva una padel<strong>la</strong> vuota nel frigorifero;<br />

ed è il primo sintomo dell’Alzheimer. Grant precipita<br />

nel dolore, sussurrando ‘mai Away from her’,<br />

‘prometto di non abbandonar<strong>la</strong>. Siamo in Canada,<br />

le cliniche funzionano bene, seppur a pagamento, e<br />

gli amma<strong>la</strong>ti vengono chiamati residenti. Fra quei<br />

corridoi ovattati, può nascere anche un idillio...<br />

Attrice pure lei, ventottenne, Sarah Polley esordisce<br />

in regia con tocco sommesso e delicato. La<br />

‘camera’ incede, in pacati carrelli, dal<strong>la</strong> casa di cura<br />

al paesaggio nevoso, dal cottage accogliente ai<br />

campi di sci, soltanto con un fugace accenno al<strong>la</strong><br />

volgarità del<strong>la</strong> televisione e, purtroppo, al<strong>la</strong> ferocia<br />

delle armi, ancor oggi senza catarsi, dopo <strong>la</strong> tragedia<br />

del Vietnam.<br />

Diario di vegliardi, il film vanta <strong>due</strong> altri talenti:<br />

Gordon Pinsent ed Olympia Dukakis, entrambi di<br />

c<strong>la</strong>sse 1931. Altro che Alzheimer, questi qui hanno<br />

scoperto il segreto dell’eterna giovinezza.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce -<br />

17/02/<strong>2008</strong><br />

Vivono assieme da quasi mezzo secolo serenamente<br />

i coniugi Andersson ultrasessantenni, Grant<br />

(Gordon Pinsent) e Fiona (Julie Christie). Forse<br />

dal<strong>la</strong> lontana giovinezza a volte sussulta qualche<br />

stridore, per lui, ex-professore universitario di<br />

mitologia, tenerezze trasgressive con giovani stu-<br />

70<br />

dentesse, magari cedimenti alle droghe; per lei<br />

donna bril<strong>la</strong>nte, incostanti soprassalti di estrosa<br />

vitalità. Ma il tempo ha tutto cicatrizzato. Ormai tra<br />

i <strong>due</strong> ricchezza d’amore restano comprensione,<br />

devozione, reciproco bisogno d’affetto. Almeno<br />

sino al giorno in cui Fiona pare stranirsi, smemorare<br />

lontana, variare d’umore senza ragioni, dimenticare<br />

definizioni e parole: i sintomi del morbo di<br />

Alzheimer, con progressiva perdita di memoria, cui<br />

non c’è rimedio se non ricovero in clinica specializzata.<br />

Ma per Grant prima sorpresa <strong>sono</strong> le regole del<strong>la</strong><br />

casa di riposo: niente visite per i primi 30 giorni. E,<br />

dopo un mese, l’altra sorpresa dolorosa: scoprire<br />

Fiona quasi immemore del marito, e invece premurosamente<br />

affettuosa vicino a un altro paziente,<br />

Aubrey (Michel Murphy), paralizzato in carrozzel<strong>la</strong>,<br />

statuario, senza mai una paro<strong>la</strong>. Cerca di spiegargli<br />

<strong>la</strong> situazione l’infermiera Kristie (Kristen<br />

Thompson), ma Grant che pur torna ogni giorno a<br />

trovare Fiona, stenta ad accettare il contrappasso<br />

sentendosene nel contempo in qualche modo colpevole.<br />

Ma quando <strong>la</strong> moglie di Aubrey, Marian<br />

(Olympia Dukakis) si porta a casa il marito e Fiona<br />

rischia una depressione disperata, Grant trova forza<br />

e modo d’adeguarsi, affinché <strong>la</strong> moglie e torni a<br />

sorridere.<br />

È al primo lungometraggio <strong>la</strong> canadese Sarah<br />

Polley, che in “Il dolce domani” o “La vita segreta<br />

delle parole” ricordiamo affascinante attrice quasi<br />

eterea nel<strong>la</strong> sua bellezza, di un pallore esangue<br />

sotto il biondo scialbo dei capelli, con un fondo<br />

scostante di fragilità e solitudine. Ora ne riflette <strong>la</strong><br />

stessa delicatezza e vibratilità d’anima come sceneggiatrice<br />

e regista di una squisitezza e sensibilità<br />

autorale matura sino al tocco virtuoso, par<strong>la</strong>ndo di<br />

forti s<strong>la</strong>nci d’amore e dei suoi risvolti cementati<br />

oltre ogni trasgressività, di vecchiezza e del suo<br />

inarrestabile declino, di memoria e del<strong>la</strong> sua perdita<br />

progressiva, di nuove curiosità e stupori innocentemente<br />

sbi<strong>la</strong>nciati altrui e altrove.<br />

Contribuiscono al<strong>la</strong> suggestione del film sia <strong>la</strong><br />

fotografia di Lue Montpellier d’invernale luminescenza<br />

discreta, sia <strong>la</strong> scenografia di Kathleen<br />

Climie, attenta al<strong>la</strong> rurale semplicità degli interni e<br />

al sereno incantamento freddo degli esterni; soprattutto,<br />

però, con sfumata variazione di toni, tempi e<br />

ritmi, <strong>la</strong> recitazione degli attori. Di una tacca in più<br />

Julie Christie, intramontabile star - per questo ruolo<br />

candidata all’Oscar -, ma anche tutti gli altri d’efficacissimo<br />

effetto.


15<br />

Regia: Jon Avet<br />

Interpreti: Al Pacino, Robert De Niro, John Leguizamo,<br />

Donnie Wahlberg, 50 Cent, Frank John Hughes, Car<strong>la</strong><br />

Gugino, Shirly Brener, Katie Chonacas, Brian Dennehy,<br />

Rob Dyrdek<br />

Genere: Azione, Drammatico<br />

Origine: U:S.A.<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Sceneggiatura: Russel Gewirtz<br />

Fotografia: (Panoramica/a colori): Denis Lenoir<br />

Musica: Ed Shearmur<br />

Scenografia: Tracey Gal<strong>la</strong>cher<br />

Montaggio: Paul Hirsch<br />

Durata: 101’<br />

Produzione: Jon Avet, Boaz Davidson, Randall Emmett,<br />

Lati Grobman, Avi Lerner<br />

Distribuzione: 01 Distribution (<strong>2008</strong>)<br />

SFIDA SENZA REGOLE<br />

19-20 febbraio <strong>2009</strong><br />

71<br />

Soggetto<br />

Dopo trent’anni di <strong>la</strong>voro di squadra al Dipartimento<br />

di polizia di New York, i pluridecorati detective<br />

Turk (Robert De Niro) e Rooster (Al Pacino)<br />

non vogliono arrendersi al<strong>la</strong> pensione. In città,<br />

<strong>sono</strong> stati assassinati dei presunti criminali. La polizia<br />

è certa che si tratti di un serial killer, perché <strong>la</strong>scia<br />

poesie sui cadaveri a motivazione del suo gesto.<br />

Karen Corelli (Car<strong>la</strong> Gugino), agente del<strong>la</strong><br />

squadra CSI, comincia a chiedersi il perché delle<br />

poesie <strong>la</strong>sciate sul cadavere delle vittime. I detective<br />

<strong>Per</strong>ez (John Leguizamo) e Riley (Donnie Wahlberg),<br />

irrispettosi e non curanti delle gerarchie, sperano<br />

di risolvere il caso prima dei veterani Turk e<br />

Rooster. Il tenente Hingis (Brian Dennehy), loro<br />

capo, è ansioso di chiudere il caso perché gli indizi<br />

portano a uno dei suoi uomini. Prima del ritrovamento<br />

del protettore di prostitute Rambo (Rob<br />

Dyrdek), Turk e Rooster stavano cercando di incastrare<br />

il proprietario di un nightclub, Spider (Curtis<br />

‘50 CENT’ Jackson) con l’aiuto di Jessica (Trilby<br />

Glover), un avvocato di Manhattan con problemi di<br />

tossicodipendenza. Al dipartimento di polizia inizia<br />

a delinearsi un quadro. Come fermare il killer e impedirgli<br />

di fare giustizia da sé?<br />

Valutazione<br />

Sono trascorsi ben tredici anni da quando Michael<br />

Mann portò i <strong>due</strong> maestri Robert De Niro e Al Pa-


cino a scontrarsi sul grande schermo in “Heat – La<br />

sfida”. Oggi è Jon Avnet, il famoso regista di “Pomodori<br />

verdi fritti” a dirigerli insieme per <strong>la</strong> terza<br />

volta in ordine cronologico: <strong>la</strong> prima infatti spetta<br />

al grande Francis Ford Coppo<strong>la</strong> nel 1974 con il<br />

“Padrino, Parte II”.<br />

Almeno nelle intenzioni il film di Avnet accontenta<br />

tutti: Robert De Niro e Al Pacino si ritrovano fianco<br />

a fianco, nei panni rispettivamente dei pluridecorati<br />

detective Turk e detective Rooster, per indagare<br />

sul<strong>la</strong> morte di alcuni criminali. Tra i decessi<br />

nessun collegamento a parte una breve poesia in rima<br />

<strong>la</strong>sciata sul luogo del delitto...De Niro e Pacino<br />

<strong>sono</strong> le icone di molti dei migliori film del<strong>la</strong> nostra<br />

vita e il vero grande merito di questo film è farci<br />

vedere questi <strong>due</strong> grandi attori recitare insieme.<br />

Questo piacere fa perdonare alcune <strong>la</strong>cune del<strong>la</strong> regia.<br />

Il Venerdì di Repubblica - Gino Castaldo<br />

12/9/<strong>2008</strong><br />

Poliziotti a caccia di Killer, Ma non poliziotti qualunque.<br />

In «Sfida senza regole» i miti di Hollywood<br />

<strong>la</strong>vorano spal<strong>la</strong> a spal<strong>la</strong>: «Tra noi grande feeling»,<br />

raccontano. Cronaca di un set straordinario.<br />

La sanno lunga. Lo si legge nei loro occhi quando<br />

scendono, sornioni, ri<strong>la</strong>ssati, circondati da un’aura<br />

impenetrabile, dall’auto che li porta sul set di Sfida<br />

senza regole. Righteous Kill (in uscita in Italia il 26<br />

settembre). Lo si legge negli occhi dello staff; del<br />

regista Jon Avnet, perfino nello sguardo devoto e<br />

remissivo del terribile Curtis Jackson, alias 50<br />

Cent, il rapper che ogni tanto si dedica al cinema e<br />

se, sul suo palco, è una tigre feroce, qui è un agnellino<br />

che prende appunti e racconta disarmante:<br />

«Anche quando non devo girare vengo sul set per<br />

imparare guardandoli <strong>la</strong>vorare».<br />

Al Pacino e De Niro - una coppia che vale da so<strong>la</strong><br />

una buona fetta del<strong>la</strong> storia del cinema americano -<br />

arrivano come carismatici principi nel parco di<br />

Bridgeport, amena cittadina del Connecticut dove<br />

si girano le parti non newyorchesi del newyorchisissimo<br />

film che racconta di <strong>due</strong> veterani poliziotti<br />

del<strong>la</strong> Grande Me<strong>la</strong> che, a un passo dal<strong>la</strong> pensione,<br />

vengono richiamati da un brutale e singo<strong>la</strong>re omicidio<br />

(firmato con alcuni esplicativi versi poetici)<br />

che richiama <strong>la</strong> precisa eventualità che si tratti di<br />

un serial killer.<br />

In mattinata c’è stato un piccolo incendio nell’ufficio<br />

postale dove dovevano girare una scena, ma nel<br />

cinema non si può perdere una giornata e allora <strong>la</strong><br />

troupe si è mobilitata in fretta e furia per allestire il<br />

set nel parco dove bisogna girare <strong>la</strong> scena di una<br />

partita di baseball. De Niro, malgrado l’età, si but-<br />

72<br />

ta a giocare coi ragazzi, mentre dagli spalti Al Pacino<br />

ride. Sono tutti affascinati, a fianco delle <strong>due</strong><br />

leggende; i giocatori, De Niro lo pos<strong>sono</strong> anche<br />

spintonare. Nei gioco è tutto permesso. Ma già sul<br />

set è come vedere giocare assieme Pelé e Maradona.<br />

Nervosismo da eccesso di star? «Siamo amici<br />

da un sacco di tempo» tranquillizza De Niro in una<br />

pausa «e questo aiuta, crea una zona rassicurante».<br />

«Sì» gli fa eco Pacino «ci sentiamo a nostro agio,<br />

c’è confidenza, una complicità che in genere si acquista<br />

solo dopo molto tempo che si <strong>la</strong>vora insieme.<br />

Ma tra noi c’è una innata fiducia».<br />

Eppure i <strong>due</strong> non hanno praticamente mai <strong>la</strong>vorato<br />

insieme. C’è un precedente, il film Heat, in cui interpretavano<br />

rispettivamente il cattivo e il buono, ma<br />

erano «a confronto» solo in un paio di brevi scene.<br />

«Abbiamo par<strong>la</strong>to mille volte dell’eventualità di fare<br />

una cosa davvero insieme» ricorda De Niro «E<br />

per un motivo o per un altro non se n’è mai fatto<br />

nul<strong>la</strong>. Ci conosciamo fin dai tempi dell’Actors Studio,<br />

ma, anche li, eravamo in c<strong>la</strong>ssi diverse, non abbiamo<br />

mai recitato insieme». Dunque è un battesimo.<br />

Chi proprio non sta nel<strong>la</strong> pelle è il regista Jon<br />

Avnet (Pomodori verdi fritti al<strong>la</strong> fermata del treno,<br />

Qualcosa di personale). Dice: «Pensare a loro <strong>due</strong><br />

insieme è come un sogno, ed è successo quasi per<br />

caso, se l’avessimo programmato non sarebbe mai<br />

successo. In realtà avevo dato <strong>la</strong> sceneggiatura a<br />

Bob e poi gli ho chiesto chi avrebbe visto nel<strong>la</strong> parte<br />

dell’altro poliziotto. Lui ha risposto: Al, è ovvio.<br />

Io dissi che quel<strong>la</strong> era un telefonata non proprio facile<br />

da fare, almeno per me». Ci pensò lo stesso De<br />

Niro e lo scritto finì in mano a Pacino, che racconta:<br />

«Ero molto nervoso. Avevo voglia di <strong>la</strong>vorare<br />

con Bob e Jon, e forse avrei detto si anche se <strong>la</strong> sceneggiatura<br />

non mi avesse entusiasmato. Ma, fortunatamente,<br />

l’ho trovata straordinaria».<br />

E così è partita l’avventura. De Niro e Pacino <strong>sono</strong><br />

<strong>due</strong> poliziotti, amici, ma anche rivali, con <strong>due</strong> differenti<br />

caratteri e con un mare di psicologia da riversare<br />

nelle parti. La storia è c<strong>la</strong>ssica, in fondo, ci<br />

<strong>sono</strong> <strong>due</strong> poliziotti che inseguono un serial killer.<br />

Ma, grazie al<strong>la</strong> sapienza dei <strong>due</strong>, assume risvolti<br />

profondi e finisce per creare un gioco di specchi su<br />

quello che è diventata oggi New York e sul<strong>la</strong> confusione<br />

che regna a proposito dell’eterna distinzione<br />

tra ciò che è bene e ciò che è male. E questa volta<br />

<strong>sono</strong> entrambi dal<strong>la</strong> parte del<strong>la</strong> giustizia. Ma non<br />

era più facile, o almeno più suggestivo, interpretare<br />

il ruolo dei cattivi? «In un certo senso, sì» racconta<br />

De Niro «ma al<strong>la</strong> fine lo vedrete, non è poi<br />

così scontata che chi sta dal<strong>la</strong> parte del<strong>la</strong> giustizia<br />

sia per forza nel giusto. I buoni non <strong>sono</strong> mai così<br />

buoni. E viceversa». Il parco è silenzioso, ci <strong>sono</strong>


uccellini che cinguettano, un piccolo <strong>la</strong>go da una<br />

parte che ispira bucoliche riflessioni. In questa calma<br />

olimpica, singo<strong>la</strong>re in una <strong>la</strong>vorazione cinematografica,<br />

le voci dei <strong>due</strong> attori risaltano con impressionante<br />

chiarezza. La tentazione di rinverdire<br />

con <strong>due</strong> superstar alcune delle loro più famose battute<br />

è forte, ma bisogna trattenersi. Del resto, anche<br />

tutti quelli che <strong>la</strong>vorano qui si trasformano in fan,<br />

automaticamente. Il rapporto professionale scivo<strong>la</strong><br />

fatalmente nell’ido<strong>la</strong>tria, a cominciare dal regista.<br />

«Quando li vedo recitare» confessa Avnet «mi verrebbe<br />

da dire: ancora, non smettete».<br />

Curtis Jackson, nome d’arte 50 Cent, è ancora più<br />

esplicito e dice qualcosa di davvero inimmaginabile:<br />

«Prima di cominciare a <strong>la</strong>vorare ci siamo incontrati<br />

per <strong>la</strong> lettura del copione. Volevano essere<br />

sicuri che non fossi un disastro. Be’, devo dire che<br />

sotto il tavolo avevo le gambe che mi tremavano.<br />

Poi ho imparato a ri<strong>la</strong>ssarmi ed è andata bene». Di<br />

lui, ora, dicono: «È formidabile». E il regista lo<br />

descrive molto lontano dal cliché del rapper: un<br />

bravo attore, disciplinato e attento.<br />

E poi ci <strong>sono</strong> loro <strong>due</strong>, i giganti, i monumenti<br />

viventi. Quando par<strong>la</strong>no si ha sempre l’impressione<br />

che a par<strong>la</strong>re sia uno dei loro personaggi. Sono talmente<br />

incastonati nei loro ruoli celebri, che <strong>la</strong> loro<br />

presenza fisica, per non dire <strong>la</strong> normalità di una<br />

conversazione fuori dal set, mantiene sempre qualcosa<br />

di irreale. A un certo punto scherzano tra di<br />

loro sugli inizi del<strong>la</strong> carriera. Ricordano Il padrino<br />

dove recitavano in diverse fasi del<strong>la</strong> saga dei<br />

Corleone: «Io <strong>sono</strong> tuo padre» dice solenne De<br />

Niro a Pacino, che ammette sorridendo. E a ricordare<br />

Il padrino si cade di nuovo nel<strong>la</strong> tentazione.<br />

Potrebbero, per cortesia, recitarci un pezzetto del<br />

film? Tutti lo pensano, nessuno ha il coraggio di<br />

chiederlo, ma quando entrano nel<strong>la</strong> limousine nera<br />

che deve riportarli sul set, sembra che Corleone<br />

padre e Corleone figlio si siano incontrati una volta<br />

ancora, e che finalmente possano dirsi tutto quello<br />

che non fecero in tempo a dirsi allora.<br />

73<br />

Corriere del<strong>la</strong> Sera Magazine - C<strong>la</strong>udio Carabba<br />

- 9/10/<strong>2008</strong><br />

Hollywood non è un paese per vecchi; quando arrivi<br />

sul<strong>la</strong> sessantina, i produttori ti usano poco e i critici<br />

ti stroncano. Fra le stelle cadenti, sta risalendo<br />

Meryl Streep (c<strong>la</strong>sse 1958) che cantando e bal<strong>la</strong>ndo<br />

in “ Mamma mia!” spera di risentire il profumo dell’Oscar.<br />

Solo schiaffi <strong>sono</strong> invece vo<strong>la</strong>ti per <strong>la</strong> coppia<br />

De Niro-Pacino (duri anni 40) che girano per le<br />

strade di New York a caccia di un serial-killer giustiziere.<br />

Conoscono le regole per sopravvivere:<br />

molti rispettano il distintivo, tutti <strong>la</strong> pisto<strong>la</strong>. Così<br />

loro sparano spesso (e volentieri) contro i criminali.<br />

Qualcuno esagera. Una video-confessione sembra<br />

chiarire le cose; ma nel<strong>la</strong> giung<strong>la</strong> d’asfalto le<br />

sorprese non mancano mai. Sarà per i colpi dì scena,<br />

sarà che Bob e Al <strong>sono</strong> il simbolo dei cattivi ragazzi<br />

del<strong>la</strong> mia generazione, ma io mi <strong>sono</strong> parecchio<br />

divertito.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Maurizio Porro -<br />

3/10/<strong>2008</strong><br />

Al Pacino, più metodico, e Robert De Niro, più srego<strong>la</strong>to,<br />

al<strong>la</strong> fine insieme nel<strong>la</strong> c<strong>la</strong>ssica strana coppia<br />

di poliziotti che combattono il peggio sociale del<strong>la</strong><br />

rotta Brooklyn-Queens, i serial killer, i pervertiti, i<br />

sadici. Tra ricordi di Siegel, Cal<strong>la</strong>ghan, di Taxi driver,<br />

di Seven e giustizieri notturni, con puntata finale<br />

al<strong>la</strong> roulette del<strong>la</strong> coscienza freudiana, il film<br />

amorfo di Jon Avnet (non si crede sceneggiato dallo<br />

stesso Russell Gewirtz di Inside man!) è inesorabilmente<br />

insapore e sembra di averlo già visto molte<br />

volte. Fra ottimi comprimari, qualche battuta al<strong>la</strong><br />

Woody Allen che ha sbagliato film, anche le <strong>due</strong><br />

star <strong>sono</strong> gigione e manierate come avete sempre<br />

sospettato, ma bisogna giudicarli come un pezzo di<br />

recherche del cinema. E’ uno di quei film in cui una<br />

volta si sarebbe avvertito di non rive<strong>la</strong>re l’ ultimo<br />

quarto d’ ora. Chi indovina al primo tempo, non è<br />

impossibile, soffre.


16<br />

Regia: Dany Boon<br />

Sceneggiatura: Dany Boon, Alexandre Charlot, Franck<br />

Magnier<br />

Attori: Kad Merad, Dany Boon, Zoé Felix, Lorenzo<br />

Ausilia-Foret, Anne Marivin, Philippe Duquesne, Guy<br />

Lecluyse, Line Renaud, Alexandre Carrière, Patrick<br />

Bosso, Zinedine Soualem, Michel Ga<strong>la</strong>bru, Stéphane<br />

Freiss, Jérôme Commandeur, Fred <strong>Per</strong>sonne<br />

Fotografia: Pierre Aïm<br />

Montaggio: Luc Barnier<br />

Musiche: Philippe Rombi<br />

Produzione: Pathe Renn, Hirsch, Tf1 Films, Les<br />

Productions Du Chicon<br />

Distribuzione: Medusa Film<br />

Paese: Francia <strong>2008</strong><br />

Genere: Commedia<br />

Durata: 106 Min<br />

GIÙ AL NORD<br />

26-27 febbraio <strong>2009</strong><br />

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Soggetto<br />

Philippe Abrams, un responsabile dell’ufficio postale di<br />

Salon-de-Provence, una adorabile cittadina del sud del<strong>la</strong><br />

Francia, cerca di ottenere a tutti i costi un trasferimento, in<br />

una città sul<strong>la</strong> costa, per andare incontro al<strong>la</strong> moglie che<br />

sta attraversando un periodo di depressione. Purtroppo per<br />

lui, ottiene sì il trasferimento, ma in una città sul<strong>la</strong> costa<br />

del nord del<strong>la</strong> Francia, dove gli abitanti, per <strong>la</strong> maggior<br />

parte rozzi agricoltori, par<strong>la</strong>no un dialetto incomprensibile<br />

e passano le giornate ad ubriacarsi...<br />

Valutazione<br />

Divertente, intelligente, acuto e autoironico, “Giù al<br />

Nord” riesce nell’impresa di meritarsi un app<strong>la</strong>uso anche<br />

fuori dai confini nazionali, anche se tradotto in un’altra<br />

lingua, perdendo così il 50% del<strong>la</strong> sua stessa ragione di<br />

vivere, visto che <strong>la</strong> metà delle gag <strong>sono</strong> costruite proprio<br />

sul folle ed incomprensibile dialetto dello Ch’tis ( tradotto<br />

in una sorta di ciociaro maccheronico in Italia ). Ma lo<br />

script di Dany Boon, sceneggiatore, regista e co-protagonista<br />

del film, è un concentrato di battute e di situazioni<br />

comiche che vanno addirittura oltre questo non piccolo<br />

‘problema’ traduttivo.Gli stessi francesi conoscono poco<br />

<strong>la</strong> regione del Nord-Pas e tra gli stessi transalpini i pregiudizi<br />

e i clichè abbondano nei confronti di questa zona<br />

così fredda e misteriosa. L’aspetto umano, <strong>la</strong> cultura, l’umanità<br />

degli abitanti che <strong>la</strong> vivono, il loro senso di accoglienza,<br />

<strong>la</strong> loro voglia di condivisione, il loro calore e <strong>la</strong><br />

loro generosità vengono portati in sa<strong>la</strong> attraverso uno<br />

script che è un concentrato di battute e ad una serie di atto-


i che <strong>sono</strong> delle vere e proprie maschere viventi. Non c’è<br />

cosa più bel<strong>la</strong> al mondo del ricredersi su alcuni pregiudizi<br />

o del riuscire a smentire e smascherare alcuni stupidi clichè,<br />

come fa con elegante satira questo film ( titolo originale<br />

Bienvenue chez les Ch’tis ) vero e proprio gioiellino<br />

di Francia.<br />

Eco Del Cinema - Ivana Faranda<br />

Nell’ambito delle anteprime del Printemps du Cinema<br />

Francais approda a Roma il film francese più visto in<br />

Oltralpe, battendo il record detenuto nel lontano 1966 da<br />

“ Tre uomini in fuga”. “Bienvenue chez les Ch’tis” di<br />

Dany Boon sembra destinato a superare anche i venti<br />

milioni di spettatori del “Titanic” del 1998. In un film<br />

napoletano si diceva che “si è sempre meridionali di qualcuno”,<br />

per <strong>la</strong> Francia è esattamente il contrario. Il nord<br />

del nord non gode di una buona fama. Fa un freddo tremendo<br />

e si dice essere popo<strong>la</strong>to da gente zotica e sempliciotta.<br />

<strong>Per</strong> di più si par<strong>la</strong> con un accento tremendo, lo<br />

“cheutimi”. E’ proprio in questo inferno che il direttore<br />

del<strong>la</strong> posta Philippe viene trasferito per punizione, dopo<br />

aver finto di essere handicappato per andare nell’ambita<br />

Costa Azzurra. Appena arrivato il nostro eroe sembra<br />

sprofondare nel<strong>la</strong> disperazione, ma <strong>la</strong> vita riserva a volte<br />

strane sorprese. Il posto è invece incredibilmente piacevole<br />

e <strong>la</strong> gente è generosa e accogliente. Al<strong>la</strong> moglie<br />

rimasta nel “bel sud” che non riesce a credere a tutto questo,<br />

il povero travet dovrà mentire. Dice un adagio del<br />

nord che lo straniero che arriva lì piange <strong>due</strong> volte, quando<br />

arriva e quando va via. E’ quello che succederà al protagonista<br />

e al<strong>la</strong> sua famiglia che riscoprirà i valori veri<br />

del<strong>la</strong> vita. Non i compromessi, <strong>la</strong> ricchezza e il successo<br />

ma i buoni sentimenti di una volta, troppo spesso dimenticati.<br />

Una picco<strong>la</strong> storia per un grande film che fa ridere<br />

sui cliché e che ha in primo piano lo stravagante idioma<br />

chitimi. Infatti, il titolo viene dal dialetto piccardo di<br />

“C’est toi” che nel Nord –pas-de- Ca<strong>la</strong>is diventa per l’appunto<br />

ch’tis. La lingua in questione non è facilmente<br />

comprensibile dai non francofoni, infatti, il film è stato<br />

sottotito<strong>la</strong>to in un italiano che può ricordare lo sgraziato<br />

bergamasco. Eppure nonostante ciò, il messaggio arriva<br />

forte e chiaro anche a chi non ha una gran padronanza del<br />

francese. Popo<strong>la</strong>re eppure mai volgare, il lungometraggio<br />

fa dimenticare agli spettatori per un paio d’ore i problemi<br />

del mondo; una salutare boccata d’aria pura. Prodotto<br />

fruibile per tutti, è già uscito a Londra ed è pronto conquistare<br />

il mercato americano. Il regista nonché protagonista<br />

Dany Boon, nell’incontro seguito al<strong>la</strong> proiezione,<br />

lui stesso d‘origine “chitimi” è stato accolto come una<br />

star dal pubblico in sa<strong>la</strong>. Ha spiegato che il successo del<br />

suo <strong>la</strong>voro deriva dal fatto che i francesi si <strong>sono</strong> ritrovati<br />

nei valori del<strong>la</strong> gente semplice del nord. Si rinnova con<br />

quest’opera <strong>la</strong> tradizione del cinema d’oltralpe degli anni<br />

50 e finalmente è segnato un punto a favore nei confronti<br />

dello strapotere Usa. Piacerebbe pure a noi italiani che<br />

al nord fossero così simpatici e carini come i protagonisti<br />

del<strong>la</strong> pellico<strong>la</strong>. Allo stesso modo vorremmo vedere in<br />

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futuro prodotti così nelle sale, che piacciano al pubblico<br />

senza mai scadere nel becero come troppo spesso purtroppo<br />

accade.<br />

La repubblica.it - Bernardo Valli - 10/4/<strong>2008</strong>)<br />

Secondo un vecchio luogo comune, attribuito a Jean<br />

Cocteau, i francesi sarebbero degli italiani imbronciati.<br />

Quindi gli italiani sarebbero dei francesi che ridono. Se<br />

era vero non lo è più. Da alcune settimane <strong>la</strong> situazione si<br />

è rovesciata. I cisalpini <strong>sono</strong> immusoniti e i transalpini si<br />

sganasciano dalle risa. Non è questo il posto per elencare<br />

le tribo<strong>la</strong>zioni all’origine del nostro malumore nazionale.<br />

È più facile spiegare l’i<strong>la</strong>rità francese. La mol<strong>la</strong> che l’ha<br />

fatta scattare, travolgendo il luogo comune, è uno spettacolo,<br />

un film a basso costo, non un grande film, un film<br />

semplice, anzi sempliciotto, senza <strong>la</strong> minima traccia di<br />

morbosità, limpido come l’acqua di un ruscello di montagna<br />

che non esiste più.<br />

No sesso, no politica, no astio sociale, no violenza, no<br />

linguaggio triviale, no trame enigmatiche. Cosa fa allora<br />

non solo ridere ma anche appassionare un intero paese?<br />

Cosa ha attirato in qualche settimana quasi diciotto (presto<br />

venti) milioni di spettatori nei cinema dispersi tra il<br />

Mediterraneo e l’At<strong>la</strong>ntico? Vale a dire più di un francese<br />

su tre, se si tiene conto dei vecchi disabili, dei ma<strong>la</strong>ti<br />

e dei neonati? Ebbene, <strong>la</strong> grande attrazione <strong>sono</strong> tutti<br />

quei “no” che fanno di Bienvenue chez les Ch’tis uno<br />

dei film più visti nel<strong>la</strong> storia cinematografica di Francia,<br />

e probabilmente d’Europa. Ed anche uno dei più redditizi.<br />

<strong>Per</strong> questo, più che per le sue qualità, sarà ricordato.<br />

Più che di una corsa a uno spettacolo di successo, parlerei<br />

di una ubriacatura nazionale, di una sbronza collettiva<br />

con un vino genuino, senza le sofisticazioni di un<br />

grand cru, mettiamo con un beaujo<strong>la</strong>is nouveau (sul tipo<br />

di un <strong>la</strong>mbrusco “fermo”). Un film in cui <strong>la</strong> fiction è<br />

usata per immaginare non un intrigo, non un delitto, non<br />

una delle tante barbare vicende del<strong>la</strong> storia o del presente,<br />

ma un angolo di Francia dal cuore d’oro, tenero come<br />

quello di un agnello, in cui prevale <strong>la</strong> gentilezza, <strong>la</strong> solidarietà<br />

e i malintesi vengono subito affogati nell’alcool,<br />

i cui effetti <strong>sono</strong> sempre salutari, perché fanno crescere il<br />

coro delle risate. Il buonumore. Pensate! In quell’angolo<br />

di Francia dimenticato dal sole i postini vuotano un bicchiere<br />

di vino ad ogni lettera consegnata a domicilio.<br />

Altrimenti <strong>la</strong> gente se ne ha a male. La fol<strong>la</strong> si accalca<br />

nelle sale per crogio<strong>la</strong>rsi nel<strong>la</strong> nostalgia. Sognano: quel<strong>la</strong><br />

era forse una volta <strong>la</strong> Francia; quel<strong>la</strong> è comunque <strong>la</strong><br />

Francia che vorremmo. E non è una nostalgia <strong>la</strong>crimosa.<br />

È un allegro <strong>la</strong>nguore. Radio France Inter ha annunciato<br />

che nel Nord, terra degli Ch’tis, c’è chi ha visto il film<br />

diciassette volte. Il comico Dany Boon, regista e interprete<br />

principale, ha preparato bene <strong>la</strong> trappo<strong>la</strong>. Ha capito<br />

più dei politici quali <strong>sono</strong> le riforme che vuole <strong>la</strong> gente.<br />

E le ha messe sullo schermo, elencandole con una calligrafia<br />

esemp<strong>la</strong>re, castigata, arrotondata, senza troppi<br />

svo<strong>la</strong>zzi. Le maestre elementari un tempo scrivevano<br />

così sul<strong>la</strong> <strong>la</strong>vagna. Appena si spengono le luci, gli spettatori<br />

precipitano in un mondo dove non ci <strong>sono</strong> più guer-


e tra civiltà, né terrorismo, né Internet, né il fiume quotidiano<br />

di numeri illustranti i guai dell’economia mondiale,<br />

né <strong>la</strong> polemica politica, né l’aumento degli affitti,<br />

né gli arrapamenti erotici, né... né... né... tutto quello che<br />

ammobilia <strong>la</strong> vita d’ogni giorno. È curioso, no? <strong>Per</strong> elencare<br />

le qualità basta elencare quello che non c’è. È come<br />

sprofondare nel vuoto: in un baratro di serenità.<br />

Un’opera semplice diventa rara quando <strong>la</strong> sua semplicità<br />

è autentica. È il caso, rarissimo, di Bienvenue chez les<br />

Ch’tis. <strong>Per</strong> cui adesso rimpiango di avere poc’anzi definito<br />

“sempliciotto” il film. Ma <strong>la</strong>scio l’aggettivo. Mi<br />

rifiuto di cancel<strong>la</strong>rlo. Resterà così a ricordare <strong>la</strong> mia<br />

ignominia. Ecco <strong>la</strong> storia. Un italiano deve fare una svolta<br />

mentale di novanta gradi.<br />

Infatti (stando al film) in Francia i meridionali guardano<br />

più o meno il Nord come i settentrionali in Italia guardano<br />

il Sud. Anzi, peggio, perché i benedetti dal sole si guardano<br />

bene dal passare le vacanze nel grigiore del Nord.<br />

Un Nord inospitale, dove regna un freddo po<strong>la</strong>re. È il triste<br />

mondo delle miniere raccontato da Emile Zo<strong>la</strong> in<br />

Germinal, che ha fatto piangere più di <strong>due</strong> generazioni.<br />

Dany Boon ha raccontato quel freddo Nord di Zo<strong>la</strong> come<br />

Marcel Pagnol raccontava il caldo, colorito Sud, il Midi,<br />

attraverso i suoi personaggi Marius e Fanny. Un’idea<br />

geniale e redditizia.<br />

Philippe Abrams (l’attore Kad Merad), direttore di un<br />

ufficio postale a Salon-de-Provence, cerca di farsi trasferire<br />

in una località ancor più vicina al<strong>la</strong> costa mediterranea.<br />

Finge persino di essere disabile per usufruire dei vantaggi<br />

accordati agli handicappati. Scoperto l’inganno<br />

viene mandato per punizione nel Nord-Pas-de-Ca<strong>la</strong>is,<br />

vicino a Dunkerque. La moglie (l’attrice Zoé Felix) si<br />

guarda bene dal seguirlo. Inorridisce al<strong>la</strong> semplice idea di<br />

vivere in una provincia dove, oltre al clima inclemente, si<br />

par<strong>la</strong> un idioma incomprensibile. Vi prevale infatti <strong>la</strong> cultura<br />

“ch’timie” (vale a dire piccarda) e gli abitanti si<br />

esprimono in “ch’ti”, che, più di una lingua o dialetto, è<br />

un modo partico<strong>la</strong>re di pronunciare il francese. A un italiano<br />

ricorda il bergamasco, sebbene sia meno gutturale.<br />

Ascoltandolo, meglio scoprendolo, i francesi ridono a crepapelle.<br />

Anch’io ho riso per contagio. Comunque, invece<br />

del freddo po<strong>la</strong>re e di una popo<strong>la</strong>zione inospitale, il funzionario<br />

delle poste in esilio trova una terra cordiale, allegra,<br />

solidale, accogliente. Dove non esiste tutto quello che<br />

angoscia il resto del mondo. Adesso le agenzie di viaggi<br />

organizzano in tutta <strong>la</strong> Francia soggiorni nel paese degli<br />

“ch’tis”.<br />

Traduzione di Federica Campoli per CaffèBabel.com<br />

La stampa francese è senza parole: finalmente un film che<br />

ricorda il successo cinematografico di campioni d’incassi<br />

come Le Père Noel est une ordure (1982) o Les Bronzés<br />

font du ski(1979), <strong>due</strong> commedie francesi il cui successo<br />

è paragonabile al nostro Amici miei. Bienvenue chez les<br />

Ch’tis, <strong>la</strong> commedia del comico Dany Boon, uscita il 27<br />

febbraio, ancora dopo settimane continua a far par<strong>la</strong>re di<br />

sé e ad attirare il pubblico francese.<br />

Ora ci si domanda se <strong>la</strong> pellico<strong>la</strong> sia diffondibile o meno,<br />

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provando a sostituire lo Chtimi, dialetto del<strong>la</strong> Picardia,<br />

regione al nord del<strong>la</strong> Francia, con il sassone, il mi<strong>la</strong>nese,<br />

il siciliano o l’asturiano spagnolo, e immaginare se riusciranno<br />

ad immettersi nel mercati nazionali.In poco tempo,<br />

Bienvenue chez les Ch’tis (Benvenuti a casa degli Ch’tis,<br />

coloro che par<strong>la</strong>no lo Chitimi, ndr) è diventato uno dei<br />

film più visti dal 1945.<br />

Già venti milioni di spettatori <strong>sono</strong> andati a vedere <strong>la</strong><br />

commedia su questa lingua del nord del<strong>la</strong> Francia. Ha<br />

fatto cadere dal podio film come Tre uomini in fuga (con<br />

Louis de Funès, diciassette milioni di spettatori nel 1966)<br />

e, se si aggiungeranno un altro mezzo milione di spettatori,<br />

cadrà anche Titanic, ad oggi il film più visto in Francia.<br />

Il progetto del comico francese Dany Boon – che è attore<br />

e regista – disponeva di un budget ridicolo, solo 11 milioni<br />

di euro quando, ad esempio, un film come Asterix ne è<br />

costati cento.<br />

E <strong>la</strong> storia? Kad Mera, nel ruolo del direttore di un ufficio<br />

postale del sud del<strong>la</strong> Francia, vorrebbe essere trasferito in<br />

Costa Azzurra. Si ritrova, invece, relegato a Bergues, paesino<br />

del Nord-Passo di Ca<strong>la</strong>is, dove si par<strong>la</strong>, appunto, il<br />

dialetto chtimi.<br />

Nord e sud – <strong>due</strong> emisferi pieni di pregiudizi – si scontrano,<br />

provocando un vero e proprio shock culturale. Poiché<br />

al nord, come dice il personaggio di Dany Boom nel film,<br />

«si piange <strong>due</strong> volte, all’arrivo e al<strong>la</strong> partenza».Il successo<br />

di Bienvenue chez les Ch’tis dovrebbe sbarcare in<br />

Europa. Ma il sassone o il palermitano pos<strong>sono</strong> pretendere<br />

di andare d’accordo con <strong>la</strong> mimica degli Cht’ti? Si può<br />

far passare Bergues, vicino a Dunkerque, dove è stato<br />

girato il film, per uno dei tanti paesini del<strong>la</strong> Sassonia?<br />

<strong>Per</strong>ché no, Dany Boon non è poi così conosciuto all’estero,<br />

e non è così caratterizzato da poterlo identificare con<br />

una nazionalità, una voce o un dialetto.<br />

L’architettura in <strong>la</strong>terizio del nord del<strong>la</strong> Francia si può<br />

ritrovare anche in altre terre, e le Poste <strong>sono</strong> un po’ ovunque,<br />

anche se non sempre gialle.<br />

<strong>Per</strong> quanto riguarda le differenze regionali, funzionano<br />

bene ovunque: le ritroviamo in Italia, Spagna o Germania.<br />

Tra <strong>la</strong> Baviera e <strong>la</strong> Sassonia, tra l’Andalusia e <strong>la</strong><br />

Catalogna, tra <strong>la</strong> Lombardia e <strong>la</strong> Campania ci <strong>sono</strong> differenze<br />

– e conflitti – enormi.Ma oggi, al tempo dell’integrazione<br />

europea, su cosa si basa il successo di questo<br />

ritorno cinematografico ai valori tradizionali e ai dialetti<br />

regionali? Che <strong>la</strong> globalizzazione interagisca in modo crescente<br />

con <strong>la</strong> regionalizzazione, lo sapevamo già. Più si<br />

può viaggiare, investire, comprare solo con un click, più<br />

le persone cercano un approdo sicuro nel loro ambiente,<br />

nel<strong>la</strong> loro lingua e identità.<br />

Non riusciamo ancora a pensare europeo? L’Ue ha scelto<br />

questo motto «uniti nel<strong>la</strong> molteplicità»: ogni nazione ha<br />

una propria pluralità da mostrare con orgoglio, che vale <strong>la</strong><br />

pena preservare e che – grazie alle sovvenzioni europee a<br />

sostegno delle diversità linguistiche – è ancora più marcata<br />

di prima.<br />

Sentirsi bavaresi o britannici, ma “europei”, è forse l’unica<br />

possibilità per unire l’integrazione regionale a quel<strong>la</strong><br />

europea.


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IL CACCIATORE DI AQUILONI<br />

5-6 marzo <strong>2009</strong><br />

Regia: Marc Forster<br />

Interpreti: Khalid Abdal<strong>la</strong> (Amir), Homayon Ershadi<br />

(Baba), Shaun Toub (Rahim Kahn), Atossa Leoni<br />

(Soraya), Saïd Taghmaoui (Farid), Zekeria Ebrahimi<br />

(Amir bambino), Ali Danesh Bakhtyari (Sohrab), Ahmad<br />

Khan Mahmidzada (Hassan bambino), Nabi Tanha (Ali),<br />

Elham Ehsas (Assef giovane), Bahram Ehsas (Wali),<br />

Maimoona Ghizal (Jami<strong>la</strong>), Abdul Qadir Farookh<br />

(Generale Taher), Abdul Sa<strong>la</strong>m Yusoufzai (Assef), Tamim<br />

Nawabi (Kamal)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Khaled Hosseini (romanzo)<br />

Sceneggiatura: David Benioff<br />

Fotografia: Roberto Schaefer<br />

Musica: Alberto Iglesias<br />

Montaggio: Matt Chesse<br />

Durata: 131’<br />

Produzione: Macdonald/Parkes Productions, Neal Street<br />

Productions, Participant Productions, Sidney Kimmel<br />

Entertainment, Wonder<strong>la</strong>nd Films<br />

Distribuzione: Filmauro (<strong>2008</strong>)<br />

77<br />

Soggetto<br />

Amir, figlio di uno degli uomini pashtun più influenti<br />

di Kabul, assiste di nascosto allo stupro di Hassan,<br />

suo giovane compagno di giochi. Quando le truppe<br />

sovietiche invadono il suo Paese, Amir fugge negli<br />

Stati Uniti con il padre Baba, ma resta con il senso di<br />

colpa per non essere intervenuto. In America Amir<br />

cresce, si diploma, sposa Soraya, pubblica il suo<br />

primo libro. Un giorno a San Francisco, al telefono,<br />

Rahim Khan, vecchio amico di Baba, lo prega di<br />

rientare a Kabul: Sohrab, figlio di Hassan, ha bisogno<br />

di aiuto.<br />

Valutazione<br />

Di saldo e severo impegno <strong>la</strong> sceneggiatura. Fedele al<br />

testo, ma con intelligenza, ne espone le tappe salienti<br />

con felice essenzialità, badando soprattutto ad<br />

esprimerne più il senso e i climi che non lo schema<br />

libresco. Con un finale, forse più ottimistico di come<br />

l’autore letterario lo avesse visto, ma comunque con<br />

accenti di un lirismo asciutto che finiscono persino<br />

per commuovere. Pur evitando il patetismo.<br />

La regia ha fatto il resto. Agli inizi con un disegno<br />

affabile e disteso per rappresentarci l’infanzia felice<br />

del piccolo protagonista in una Kabul ricca e serena,<br />

con un padre affettuoso e un amico del<strong>la</strong> sua stessa<br />

età che gli è devoto con dedizione assoluta. poi, di<br />

seguito, con cenni rapidi, ha disegnato <strong>la</strong> cattiva azio-


ne commessa dal primo ai danni del secondo, travolgendo<br />

tutti, con ansioso rigore, nel<strong>la</strong> deso<strong>la</strong>zione dell’occupazione<br />

sovietica: con <strong>la</strong> fuga, l’espatrio, una<br />

nuova vita in California, sempre nell’inconscio, con<br />

il ricordo di quel<strong>la</strong> cattiva azione. Fino al momento in<br />

cui giungerà l’ora, drammatica per riparar<strong>la</strong> al<strong>la</strong> luce<br />

anche di una rive<strong>la</strong>zione inattesa.<br />

Tensioni, angosce, pagine terribili al momento dei<br />

sovietici, ma anche più terribili, e atroci, quando quel<br />

ritorno ‘a casa’ opporrà il protagonista adulto all’orrore<br />

dei talebani (<strong>la</strong>cerante <strong>la</strong> sequenza del<strong>la</strong> <strong>la</strong>pidazione<br />

dell’adultera...). Uno stile rapido ma anche prezioso,<br />

cifre visive sempre di sapiente intensità. Al<br />

centro, degli interpreti, professionisti e no, di solida<br />

efficacia. E coinvolgenti; specie i bambini.(Gianluigi<br />

Rondi)<br />

Il Messaggero - Francesco Alò - 28/03/<strong>2008</strong><br />

Un telefono squil<strong>la</strong> nel<strong>la</strong> California del 2000. ‘Si può<br />

tornare a essere buoni’ dice una voce dal passato. <strong>Per</strong><br />

farlo Amir, scrittore di successo, deve tornare nel suo<br />

Afghanistan dove 22 anni prima correva per le strade<br />

di Kabul con l’amico Hassan inseguendo un aquilone<br />

colorato. La differenza di etnia non li divise. Il coraggio<br />

sì. Quando Hassan, servo di etnia hazara, viene<br />

malmenato e violentato da un gruppetto di imberbi<br />

fondamentalisti, il nobile pashtun Amir fugge<br />

vigliaccamente. <strong>Per</strong>derà innocenza e patria, rifugiandosi<br />

negli Usa dopo l’invasione sovietica del ‘79. Il<br />

ritorno in Afghanistan sarà doloroso e catartico.<br />

Troverà ad aspettarlo fantasmi vestiti da talebani. “Il<br />

cacciatore di aquiloni” dell’eclettico Marc Forster<br />

(dal drammone “Monster’s Ball” al biografico leccato<br />

“Never<strong>la</strong>nd” fino al prossimo 007), tratto dal bestseller<br />

di Khaled Hosseini, è un adattamento molto<br />

corretto, abitato da facce giuste (i bambini <strong>sono</strong> entusiasmanti)<br />

e sapientemente montato tra passato e presente.<br />

In alcuni momenti (le esecuzioni talebane)<br />

restituisce l’immane potenza del<strong>la</strong> storia cartacea. In<br />

altri (<strong>la</strong> banalizzazione del papà di Amir) i tanti fan<br />

del romanzo storceranno il naso. Forse erano necessarie<br />

3 ore. Comunque un’opera che vo<strong>la</strong> alto senza<br />

cadere mai.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Tullio Kezich - 28/03/<strong>2008</strong><br />

Nel cinema vige <strong>la</strong> rego<strong>la</strong> per cui quando si ricava un<br />

film da un romanzo immensamente popo<strong>la</strong>re (l’esempio<br />

c<strong>la</strong>ssico è “Via col vento”) per non deludere i<br />

lettori bisogna restargli fedele il più possibile. Così<br />

hanno fatto i produttori di “Il cacciatore di aquiloni”,<br />

scritto da un oriundo afghano emigrato politico in<br />

USA, il medico Khaled Hosseini, che nel 2003 pubblicò<br />

‘The Kite Runner’ arrivando a vendere 8 milio-<br />

78<br />

ni di copie (di cui una rispettabile percentuale in<br />

Italia nelle edizioni Piemme). L’interesse di libro e<br />

film sta nel riassumere 25 anni di storia che hanno<br />

visto nel ‘79 l’invasione sovietica dell’Afghanistan,<br />

<strong>la</strong> decennale guerriglia che seguì, <strong>la</strong> lotta fratricida<br />

dopo il ritiro russo nel 1989 e <strong>la</strong> crudele dittatura dei<br />

Talebani nel ‘96 per metter fine al<strong>la</strong> quale si <strong>sono</strong><br />

mobilitate le forze dell’ONU. Amir fa pensare al<br />

‘Lord Jim’ di Conrad, colui che sconta per tutta <strong>la</strong><br />

vita le conseguenze di un gesto di viltà. Fin da piccolo<br />

il protagonista ha avuto come compagno nelle gare<br />

degli aquiloni e in altri giochi il coetaneo Hassan servitore<br />

in casa sua: un ragazzino analfabeta, devoto e<br />

avido di sapere. Un brutto giorno Amir, senza trovare<br />

il coraggio di intervenire, assiste all’ignobile violenza<br />

di tre bulli sunniti sul suo amichetto, colpevole<br />

solo di essere sciita. Da quel momento il padroncino<br />

avverte <strong>la</strong> presenza di Hassan come un rimorso, e per<br />

liberarsene lo accusa di avergli rubato l’orologio. Il<br />

padre di Amir, l’agiato vedovo Baba, vede andar via<br />

il piccolo cameriere con un dispiacere profondo di<br />

cui capiremo più tardi il motivo. Arrivano i carri<br />

armati russi e bisogna fuggire da Kabul: dopo un<br />

viaggio fortunoso, ritroviamo Baba e Amir rifugiati<br />

nel seno di una comunità afghana in California. Nel<br />

tempo trascorso, guadagnandosi il pane con umili<br />

impieghi, Baba è riuscito a far <strong>la</strong>ureare il figliolo. Lo<br />

scopriamo sposato con <strong>la</strong> bel<strong>la</strong> Soraya quando è<br />

appena arrivato il pacco con le copie del suo primo<br />

romanzo. Ma <strong>la</strong> telefonata di un vecchio amico di<br />

famiglia rifugiato in Pakistan invoca e quasi pretende<br />

l’immediata presenza di Amir. A Peshawar, il protagonista<br />

apprende che Hassan e sua moglie <strong>sono</strong> stati<br />

trucidati dai Talebani, i quali hanno rapito l’orfanello<br />

Sohrab. Amir si chiede perché spetta proprio a lui<br />

tentare di salvarlo, ma pronta arriva <strong>la</strong> risposta:<br />

Hassan era un figlio naturale di Baba, quindi Sohrab<br />

è un nipote. Non resta che affrontare i rischi di una<br />

trasferta c<strong>la</strong>ndestina, con tanto di barba posticcia, fra<br />

le rovine e gli orrori di un Paese che non è più il paradiso<br />

degli aquiloni. Se penetrare in Afghanistan non<br />

è facile, uscirne sarà peggio. Tra rive<strong>la</strong>zioni e colpi di<br />

scena, il racconto parallelo di libro e film procede<br />

con colpi di scena al<strong>la</strong> Victor Hugo. Sorprese, agnizioni,<br />

brutalità: non manca niente. Neppure <strong>la</strong> configurazione<br />

postuma dell’antico rapporto fra Amir e<br />

Hassan come quello fra Caino e Abele. Un pregio di<br />

“Il cacciatore di aquiloni” è di raccontare dal di dentro<br />

un contesto che per noi spettatori del TG è solo un<br />

surreale teatro di sparatorie e massacri.<br />

L’ambientazione del<strong>la</strong> pellico<strong>la</strong>, girata nel<strong>la</strong> Cina<br />

interna, risulta p<strong>la</strong>usibile, i paesaggi <strong>sono</strong> suggestivi<br />

e nell’allestimento non si è guardato a spese. Qualche<br />

sequenza partico<strong>la</strong>rmente riuscita rimane impressa:


da una parte il pittoresco matrimonio di rito afghano,<br />

dall’altra l’atroce <strong>la</strong>pidazione di <strong>due</strong> adulteri durante<br />

una partita di calcio a Kabul. Pur di varia provenienza<br />

etnica gli interpreti <strong>sono</strong> adeguati, ma fra tutti<br />

spicca Homayoun Ershadi (Baba), che viene da “Il<br />

sapore del<strong>la</strong> ciliegia” di Kiarostami. Poco convincente<br />

nelle vicissitudini rocambolesche dell’ultimo quarto<br />

d’ora, questa diligente trascrizione letteraria di<br />

Marc Foster (un regista che ai tempi di “Monster’s<br />

Ball” sembrava avviato a migliori destini) avrebbe<br />

guadagnato da un uso più parsimonioso del<strong>la</strong> musica<br />

invadente di Alberto Iglesias.<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi - 28/03/<strong>2008</strong><br />

Una chiamata da Peshawar sprofonda nei ricordi il<br />

giovane scrittore afghano Amir, fuggito in America<br />

all’arrivo dei russi, ed è nel<strong>la</strong> Kabul del ‘75 che si<br />

avvia in f<strong>la</strong>shback <strong>la</strong> vicenda di “Il cacciatore di aquiloni”.<br />

Raccontando il rapporto che lega l’allora dodicenne<br />

protagonista a Hassan, figlio di un servitore e<br />

suo inseparabile compagno di giochi: un vincolo fraterno<br />

sul quale però si riverberano le ambiguità di<br />

Amir e le ribollenti contraddizioni (Hassan appartiene<br />

all’etnia hazara disprezzata dal<strong>la</strong> maggioranza<br />

pashthun) di un paese dove i fanatici già si fanno sentire.<br />

Diretto da Marc Forster in spirito di fedeltà al bestseller<br />

di Khaled Hosseim (Piemme), il film rievoca<br />

con sensibilità i giorni (quasi) spensierati di un’amicizia<br />

infantile traumaticamente spezzata. E se l’avventuroso<br />

rientro in patria, che riscatta Amir adulto<br />

delle colpe passate, non è altrettanto convincente,<br />

restano forti <strong>la</strong> bel<strong>la</strong> immagine paterna incarnata da<br />

Homayoun Ershadi; e lo svo<strong>la</strong>zzare libero e colorato<br />

degli aquiloni in gara sui tetti di una suggestiva<br />

Kabul (ritagliata in Cina), com’era prima dell’invasione<br />

sovietica, dell’avvento dei talebani e dell’attuale<br />

caos.<br />

Il Foglio - Mariarosa Mancuso - 29/03/<strong>2008</strong><br />

Non si vendono 8 milioni di copie nel mondo (2 soltanto<br />

in Italia, patria dei non lettori, <strong>la</strong> proporzione è<br />

interessante e andrebbe indagata) senza qualcosa di<br />

forte che scateni il passaparo<strong>la</strong>. ‘Il cacciatore di aquiloni’<br />

aveva tutto e anche di più: un’amicizia infantile<br />

avvelenata dal<strong>la</strong> gelosia, il senso di colpa e l’espiazione,<br />

il destino che si allea con <strong>la</strong> storia per far più<br />

danni, il figlio del servo e il figlio del padrone, l’ambientazione<br />

afgana (in <strong>due</strong> tempi: prima dell’invasione<br />

sovietica e sotto i talebani, con tappa nel<strong>la</strong><br />

California degli emigrati), le etnie rivali, <strong>la</strong> fedeltà e<br />

<strong>la</strong> codardia, un intreccio romanzesco da non sve<strong>la</strong>re a<br />

chi non ha ancora letto il libro o vedrà il film, un incipit<br />

a presa rapida: ‘Sono diventato <strong>la</strong> persona che<br />

<strong>sono</strong> ora a dodici anni’. Su tutto, le gare di aquiloni<br />

79<br />

nel cielo di Kabul, quando ancora gli abitanti sperimentavano<br />

<strong>la</strong> dolcezza del vivere. Si vincono tagliando<br />

il filo degli aquiloni concorrenti: ancora non<br />

abbiamo capito come si fa, neanche guardando le<br />

molte scene aeree - e computerizzate - del film di<br />

Mark Forster. <strong>Per</strong> ricuperare i caduti entra in scena il<br />

cacciatore, che capisce dove tira il vento e dove l’aquilone<br />

atterrerà senza bisogno di guardare il cielo.<br />

Di etnia hazara (‘viso tondo come una bambo<strong>la</strong> cinese<br />

e occhi a mandor<strong>la</strong>’, scrive Khaled Hosseini nel<br />

libro) si chiama Hassan e fa le gare in coppia con<br />

Amir, che invece è pashtun come suo padre Baba,<br />

molto preoccupato perché il figliolo - e futuro scrittore<br />

- preferisce le storie alle risse. Il regista Mark<br />

Forster (“Monster Ball”, “Never<strong>la</strong>nd”) e lo sceneggiatore<br />

David Benioff (“Troy”, “La 25ª ora”) hanno<br />

rispettato il romanzo, evitato <strong>la</strong> voce fuori campo del<br />

narratore, compresso il ricco materiale in un intervallo<br />

di tempo ragionevole, fatto qualche taglio, ai personaggi<br />

e alle loro biografie (tra<strong>la</strong>sciando, per esempio,<br />

che il cattivo è figlio di madre tedesca e neonazi<br />

di ideologia). Ogni scena dura comunque un po’ più<br />

di quel che dovrebbe durare, al netto delle complicanze.<br />

Tra i meriti condivisi da libro e film, c’è una<br />

visione non buonista dell’infanzia, e una visione<br />

molto realistica dell’Afghanistan talebano, con pubbliche<br />

<strong>la</strong>pidazioni di adultere in burka. Va da sé che<br />

da quelle parti “Il cacciatore di aquiloni” è vietato, e<br />

<strong>la</strong> produzione ha fatto emigrare i <strong>due</strong> giovani e bravi<br />

attori negli Stati Uniti per non esporli a rappresaglie.<br />

Il Giornale di Brescia - Marco Bertoldi -<br />

30/03/<strong>2008</strong><br />

C’erano una volta gli aquiloni che vo<strong>la</strong>vano nel cielo<br />

sopra Kabul con i bambini che gareggiavano a fare<br />

andare più in alto il loro e a tagliare il sottile filo di<br />

quelli avversari. Poi però hanno smesso di librarsi<br />

nell’azzurro: <strong>sono</strong> arrivati gli invasori russi cacciati i<br />

quali è iniziata una guerriglia fratricida che ha portato<br />

al potere i Talebani con il loro integralismo religioso<br />

che ha fatto ca<strong>la</strong>re sul Paese una plumbea cortina<br />

di divieti e paura.A questa <strong>la</strong> splendida metafora<br />

al<strong>la</strong> radice de ‘Il cacciatore di aquiloni’, romanzo del<br />

medico afgano esule negli Usa Khaled Hosseini divenuto,<br />

grazie anche al passaparo<strong>la</strong> dei lettori, un best<br />

seller internazionale e in Italia pubblicato da<br />

Piemme. Un trionfo che ha indotto a farne un film firmato<br />

dal regista Marc Foster (“Monster’s ball”,<br />

“Never<strong>la</strong>nd”, “Vero come <strong>la</strong> finzione”; ora al <strong>la</strong>voro<br />

per il nuovo 007 ambientato anche sul Garda) e girata<br />

in Cina, nelle zone al confine con l’Afghanistan.<br />

L’abilità di Hosseini è narrare una vicenda tragica e<br />

crudele, non priva nemmeno di raccapriccio, di vite<br />

rovinate o addirittura spezzate sullo sfondo di 25 anni


di storia recente del Paese senza calcare troppo le<br />

tinte fosche, arrivando al cuore del lettore, che commuove<br />

e fa insieme riflettere.<br />

Si parte nel 1978 con i bambini Hassan e Amir<br />

(eccellenti in una prima parte dalle reminiscenze neorealiste<br />

i piccoli interpreti Zekeria Ebrahimi e Ahmad<br />

Khan Mahmidzada, che hanno rischiato di incorrere<br />

nelle ire talebane per <strong>la</strong> scena scabrosa), il primo<br />

figlio di Baba, un ricco commerciante pashtun, e l’altro<br />

del servo di etnia inferiore hazara. Amir, analfabeta,<br />

è legatissimo ad Hassan e lo aiuta nelle gare di<br />

aquiloni mostrando pure un talento formidabile nel<br />

trovare quelli persi in cielo, ma una volta che si trova<br />

nei guai a causa di un ricco bullo che lo picchia e lo<br />

sodomizza, viene tradito da Hassan che per viltà vede<br />

e fugge.<br />

Il peso del<strong>la</strong> colpa porta addirittura Hassan non solo<br />

a ignorare Amir, ma addirittura ad accusarlo falsamente<br />

di furto e, anche se il padre Baba non vorrebbe<br />

(si saprà verso <strong>la</strong> fine il perché), a <strong>la</strong>sciare <strong>la</strong> casa.<br />

Poi è l’invasione sovietica, <strong>la</strong> fuga negli Usa con<br />

Baba, le nozze con un’altra esule e l’inizio del<strong>la</strong> carriera<br />

di scrittore di Hassan. Che viene però invitato<br />

da un amico del genitore a tornare in patria per salvare<br />

il figlio di Amir, ucciso dai talebani assieme al<strong>la</strong><br />

moglie. E sarà un viaggio pieno di rischi nel dolore,<br />

ma anche nel riscatto personale...<br />

Il film è girato con molta cura, attori in stato di grazia<br />

(splendido il Baba di Homayon Ershadi), ben<br />

fotografato e, a parte le semplificazioni narrative in<br />

eccesso del finale (<strong>la</strong> facilità del<strong>la</strong> fuga e dell’introdurre<br />

un bimbo negli Usa, il silenzio sulle armi fornite<br />

dagli Usa ai Talebani...), vuole essere il più possibile<br />

fedele al romanzo per non deludere i molti lettori.<br />

Cosa che involontariamente però fa: ne coglie <strong>la</strong><br />

lettera, non però lo spirito, si limita a mostrare senza<br />

indirizzare l’attenzione sicché s<strong>la</strong>va l’intensità delle<br />

emozioni e dei sentimenti data dal<strong>la</strong> pagina, si <strong>la</strong>scia<br />

vedere, ma non indigna né commuove come avrebbe<br />

potuto - e dovuto fare.<br />

L’Eco di Bergamo - Andrea Frambrosi -<br />

29/03/<strong>2008</strong><br />

Quando, dopo una serie di vicissitudini degne di un<br />

feuilletton ottocentesco, Amir riesce a rintracciare e<br />

portare in salvo il piccolo Sohrab, il bambino gli confida<br />

di sentirsi a disagio perché si sta già dimenticando<br />

il volto dei genitori, barbaramente trucidati dai<br />

Talebani. E Amir, donandogli una foto po<strong>la</strong>roid dove<br />

<strong>sono</strong> ritratti il piccolo Sohrab e il padre, Hassan,<br />

amico d’infanzia di Amir, lo esorta e lo aiuta a non<br />

dimenticare. Ecco, forse il senso profondo di un film<br />

che peraltro tocca corde molto profonde in diversi<br />

campi, è proprio quello del<strong>la</strong> necessità di ricordare.<br />

80<br />

Come si sa il film è tratto dal bestseller internazionale<br />

di Khaled Hosseini (edito in Italia da Piemme),<br />

medico di origini afghane emigrato negli Stati Uniti.<br />

La necessità di ricordare significa ripercorrere (e far<br />

ripercorrere al lettore e allo spettatore) almeno venticinque<br />

anni di storia dell’Afghanistan, raccontata<br />

(vissuta) dall’interno. Non <strong>sono</strong> le immagini di un<br />

qualsiasi telegiornale quelle che vediamo sullo schermo:<br />

hanno una loro crudezza e una loro evidenza<br />

tanto più forti quanto più sappiamo che <strong>sono</strong> comunque<br />

filtrate dal romanzesco e dal filmico. Ricordare<br />

cos’era Kabul negli anni Settanta, per esempio: una<br />

città colorata, vivace, cosmopolita; o forse solo semplicemente<br />

più libera. Una città dove vo<strong>la</strong>vano gli<br />

aquiloni: punti colorati che si rincorrevano nel cielo<br />

guidati dalle mani esperte dei ragazzi che si sfidavano<br />

a <strong>due</strong>lli infiniti: oggi i Talebani hanno proibito<br />

anche quelli, dice sconso<strong>la</strong>to uno dei protagonisti.<br />

Appassionati di aquiloni <strong>sono</strong> anche Amir e il suo<br />

inseparabile amico Hassan. Amir è figlio di Baba<br />

(l’attore Homayoun Ershadi, già visto nel film “Il<br />

sapore del<strong>la</strong> ciliegia” di Abbas Kiarostami), un facoltoso<br />

uomo d’affari di etnia pashtun, mentre Hassan è<br />

il piccolo servitore di casa, analfabeta e appartenente<br />

all’etnia hazara, considerata inferiore. Nonostante ciò<br />

i <strong>due</strong> ragazzini <strong>sono</strong> inseparabili e vivono come se<br />

fossero fratelli. Un brutto giorno, però, tre bulli del<br />

quartiere che da tempo ronzavano intorno ai <strong>due</strong><br />

ragazzi trovano Hassan da solo e per punirlo lo violentano.<br />

Amir assiste nascosto al<strong>la</strong> scena senza avere<br />

il coraggio di intervenire. Da quel momento in poi <strong>la</strong><br />

vista di Hassan è per lui fonte di sensi di colpa e<br />

rimorso, per cui lo accusa di avergli rubato l’orologio<br />

e lo fa scacciare dal padre. Il quale lo scaccia molto<br />

malvolentieri e solo poi scopriremo il perché. Intanto<br />

siamo arrivati al<strong>la</strong> fine degli anni Settanta e con l’invasione<br />

sovietica dell’Afghanistan Amir e suo padre<br />

<strong>la</strong>sciano il paese, si rifugiano in Pakistan e poi negli<br />

Stati Uniti. Dove il film peraltro inizia quasi dal<strong>la</strong><br />

fine del<strong>la</strong> storia. Amir, che da sempre sogna di fare lo<br />

scrittore, ha infatti finalmente pubblicato il suo primo<br />

romanzo, ma proprio mentre apre le scatole con le<br />

prime copie riceve una drammatica telefonata…<br />

Bellissimo nel<strong>la</strong> prima parte, quel<strong>la</strong> che ricostruisce<br />

<strong>la</strong> vecchia Kabul, di cui dicevamo, il film tocca diverse<br />

corde: da quel<strong>la</strong> del ricordo di cui abbiamo detto a<br />

quel<strong>la</strong> del rimorso e del senso di colpa, dell’affetto tra<br />

padre e figlio, dell’amore per <strong>la</strong> scrittura e per il proprio<br />

paese. Toccando anche il drammatico problema<br />

del regime dei Talebani (agghiacciante <strong>la</strong> sequenza<br />

del<strong>la</strong> <strong>la</strong>pidazione di una coppia di adulteri), anche se<br />

il film glissa sul passaggio dall’invasione sovietica al<br />

nuovo regime. Ma forse toccando troppe corde non<br />

riesce sempre a toccare quel<strong>la</strong> giusta.


18<br />

LA CLASSE - ENTRO LE MURA<br />

12-13 marzo <strong>2009</strong><br />

Regia: Laurent Cantet<br />

Interpreti: François Bégaudeau, Nassim Amrabt, Laura<br />

Baque<strong>la</strong>, Cherif Bounaïdja Rachedi, Juliette Demaille,<br />

Dal<strong>la</strong> Doucoure, Arthur Fogel, Damien Gomes, Louise<br />

Grinberg, Qifei Huang, Chien-wei Huang, Franck Keïta,<br />

Henriette Kasaruhanda, Lucie Landrevie, Agame<br />

Malembo-Emene<br />

Genere:<br />

Origine: Francia <strong>2008</strong><br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Sceneggiatura: Laurent Cantet, François Bégaudeau,<br />

Robin Campillo<br />

Fotografia: Pierre Milon, Catherine Pujol, Georgi<br />

Lazarevski<br />

Montaggio: Robin Campillo, Stéphanie Léger<br />

Durata: 128’<br />

Produzione: Haut et Court<br />

Distribuzione: Mikado Film<br />

81<br />

Soggetto<br />

L’inizio di un nuovo anno sco<strong>la</strong>stico in una scuo<strong>la</strong> di<br />

un quartiere disagiato, riserverà a François, insegnante<br />

sui generis di francese una brutta sorpresa.<br />

Nonostante i suoi metodi non siano per niente severi,<br />

ma, al contrario il suo modo di porsi nei confronti<br />

degli alunni è piuttosto malleabile, alcuni studenti<br />

mettono in discussione il suo comportamento, mettendo<br />

in crisi il suo rigore professionale...<br />

Valutazione<br />

Il regista francese Laurent Cantet, autore, tra gli altri,<br />

di Verso il sud, con “La c<strong>la</strong>sse” - Entre les murs - ci<br />

porta “fra le mura”, cioè dentro una c<strong>la</strong>sse di un liceo.<br />

Egli filma le sfide e le lotte quotidiane che avvengono<br />

in una qualsiasi c<strong>la</strong>sse di un qualsiasi liceo francese<br />

di periferia: multirazziale, “normale”, non elitario<br />

ma neppure estremo. Una scuo<strong>la</strong> come tante. Una<br />

scuo<strong>la</strong> “normale”, se il termine ha un qualche significato.<br />

Tra ribellioni, confronti verbali, piccoli drammi,<br />

situazioni comiche, Entre les murs è un film sull’insegnamento<br />

e sull’essere studenti, un’opera più vera<br />

del vero, che registra <strong>la</strong> quotidianità, le fatiche dell’insegnare<br />

lungo un intero anno sco<strong>la</strong>stico.<br />

Cantet riprende il quotidiano di quest’arena, con<br />

leoni affamati e ansiosi di essere soddisfatti. Nel<strong>la</strong><br />

giustificazione del sapere e di ogni rego<strong>la</strong>.


Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Paolo Mereghetti -<br />

10/10/<strong>2008</strong><br />

A volte il miracolo succede. Ti siedi in p<strong>la</strong>tea e per<br />

una volta ti sembra che lo schermo si trasformi davvero<br />

in una finestra che si apre sul mondo. <strong>Per</strong> una<br />

volta senti aria pura che entra nel cinema e scompiglia<br />

i capelli, cancel<strong>la</strong> le convenzioni e le abitudini.<br />

Succede con La c<strong>la</strong>sse, il film di Laurent Cantet che<br />

ha vinto l’ ultimo festival di Cannes riportando <strong>la</strong><br />

Palma d’ oro in Francia dopo ventun anni (strappando<strong>la</strong><br />

a un altro film che procurava le stesse sensazioni,<br />

Gomorra di Matteo Garrone). E se ci ripensi, al<strong>la</strong><br />

fine, ti rendi conto che il merito non è né del<strong>la</strong> storia<br />

(un anno nel<strong>la</strong> vita di un liceo francese di periferia,<br />

che si conclude senza nemmeno sapere chi è stato<br />

promosso o bocciato. Senza sapere chi ha vinto o ha<br />

perso) né del fascino o del<strong>la</strong> bellezza degli interpreti<br />

(normalissimi studenti liceali trasformati in attori<br />

grazie agli incontri settimanali con il regista: più o<br />

meno dei «normali» corsi integrativi). No, al<strong>la</strong> fine il<br />

merito è proprio del cinema, del<strong>la</strong> sua capacità - a<br />

volte - di cogliere attraverso <strong>la</strong> recitazione e <strong>la</strong> messa<br />

in scena qualche bricio<strong>la</strong> di realtà. Di verità. Di bellezza.<br />

All’origine c’ è il libro autobiografico di<br />

François Bégaudeau Entre les murs (ora tradotto in<br />

italiano col titolo La c<strong>la</strong>sse da Einaudi), che racconta<br />

in forma molto libera e diaristica un anno di insegnamento<br />

nelle prime c<strong>la</strong>ssi di un liceo del ventesimo<br />

arrondissement, il collège Françoise Dolto di Parigi.<br />

Un libro che ha avuto un certo successo in Francia e<br />

che ha spinto l’ autore ha <strong>la</strong>sciare l’ insegnamento per<br />

dedicarsi a tempo pieno al<strong>la</strong> scrittura e al giornalismo.<br />

Laurent Cantet è partito da qui, ma non si è<br />

limitato a scegliere degli attori, o aspiranti tali, per<br />

«dare forma» al testo letterario. Ha deciso di <strong>la</strong>vorare<br />

per un anno intero con i ragazzi che frequentavano<br />

davvero quel liceo, invitando chi voleva recitare a<br />

degli incontri settimanali. Con i 25 più assidui (e più<br />

motivati) ha cominciato, insieme a Bégaudeau (che<br />

nel film interpreta se stesso, il professore di lingua<br />

francese), a tratteggiare i caratteri degli studenti che<br />

si sarebbero visti nel film, ognuno inventando situazioni<br />

e atteggiamenti ma anche portando esperienze<br />

personali e proposte. Molti degli «autoritratti» che a<br />

un certo momento gli studenti scrivono <strong>sono</strong> usciti<br />

dal<strong>la</strong> fantasia dei soli ragazzi, così come il carattere<br />

ostico e scostante di Souleymane (Franck Keita) o<br />

quello ribelle di Kohumba (Rachel Régulier) o quello<br />

curiosamente riflessivo di Wei (Wei Huang).<br />

Mentre altre volte l’ identificazione era più diretta,<br />

come per <strong>la</strong> «contestatrice» Sandra (Esméralda<br />

Ouertani). Questo materiale umano, Cantet l’ ha<br />

usato per raccontare alcuni momenti del<strong>la</strong> vita sco<strong>la</strong>stica<br />

di una c<strong>la</strong>sse di quindicenni, senza disperdersi<br />

82<br />

in un’ inutile voglia di dire tutto ma scegliendo di privilegiare<br />

alcuni momenti significativi. O comunque<br />

problematici. Come l’ insegnamento del<strong>la</strong> lingua<br />

francese in una c<strong>la</strong>sse (e in una società) ormai intimamente<br />

multirazziale. Come il rapporto didattico<br />

che si instaura (o si dovrebbe instaurare) tra docenti e<br />

allievi. Come il percorso di maturazione che <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong><br />

dovrebbe favorire e che spesso finisce per ostaco<strong>la</strong>re.<br />

Come il livello di responsabilizzazione che gli<br />

insegnanti sanno mettere in gioco nel<strong>la</strong> loro professione.<br />

Senza mai fare una specie di cahiers des<br />

doléances, dove elencare i tanti problemi del<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>,<br />

ma sforzandosi sempre di restituire <strong>la</strong> complessità<br />

e lo spessore delle cose. Cinema, dunque, come strumento<br />

capace di leggere e interpretare il reale, come<br />

ca<strong>la</strong>mita per trattenere solo i momenti essenziali (è<br />

chiaro che <strong>la</strong> scena del consiglio di c<strong>la</strong>sse, con le <strong>due</strong><br />

rappresentanti che sghignazzano e si distraggono, è<br />

«costruita», perché funzionale a far avanzare il racconto.<br />

Così come <strong>la</strong> scena del<strong>la</strong> reazione di<br />

Souleymane al giudizio negativo dei professori e poi<br />

il successivo consiglio di disciplina). Ma anche cinema<br />

come specchio del mondo quotidiano, capace di<br />

restituire nel<strong>la</strong> sua sfaccettatura <strong>la</strong> verità dei volti e<br />

delle persone, <strong>la</strong> ricchezza del mondo quotidiano, <strong>la</strong><br />

sua impossibilità di incasel<strong>la</strong>mento o semplificazione.<br />

E, da qui, cinema come strumento di conoscenza<br />

e di analisi, non perché divide i buoni dai cattivi ma<br />

perché li confonde, li mesco<strong>la</strong>, li incrocia. <strong>Per</strong>ché<br />

pone problemi che si rifiuta di risolvere (non è questo<br />

il compito del cinema) e anzi ingarbuglia ancora<br />

di più le risposte. <strong>Per</strong>ché pur svolgendosi tutto all’<br />

interno delle mura sco<strong>la</strong>stiche fa sentire quello che<br />

succede fuori e che finisce per «invadere» anche <strong>la</strong><br />

c<strong>la</strong>sse (<strong>la</strong> moda attraverso i vestiti, <strong>la</strong> famiglia attraverso<br />

i genitori, <strong>la</strong> cultura attraverso le curiosità). E<br />

perché pur durando <strong>due</strong> ore e otto minuti non ha mai<br />

un attimo di pausa o di ri<strong>la</strong>ssamento. Dobbiamo<br />

aggiungere che un film così sul<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> italiana<br />

sarebbe un altro auspicabile miracolo?<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi - 10/10/<strong>2008</strong><br />

Qualcuno ha scritto che La c<strong>la</strong>sse di Laurent Cantet,<br />

Palma d’oro a Cannes e candidato francese per<br />

l’Oscar, non è un film sul<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> ma (vedi il titolo<br />

originale Entre les murs) un film «dentro» <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>.<br />

Al primo posto in patria negli incassi, <strong>la</strong> pellico<strong>la</strong><br />

vanifica discorsi e teorie anche seri, figurarsi il tema<br />

dei grembiulini caro al nostro ministero, mettendo in<br />

scena l’incontro-scontro fra <strong>due</strong> mondi: quello dell’insegnante,<br />

impegnato a trasmettere lo scibile, e<br />

quello degli allievi, che trovano il sapere scollegato<br />

dal<strong>la</strong> vita.<br />

François Marin insegna nel<strong>la</strong> IV ginnasio di una peri-


feria multietnica parigina. <strong>Per</strong>ò non è questo il punto.<br />

Arabi, cinesi, africani o bianchi che siano, questi<br />

alunni tredici/quattordicenni, simili per gergo, rituali,<br />

modo di vestirsi, portano nel<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> <strong>la</strong> voce del<strong>la</strong><br />

strada, cioè di una realtà in continua trasformazione.<br />

Che ne sa di loro quel giovane professore che si presenta<br />

in veste di amico? Come può pensare che<br />

un’immutabile rego<strong>la</strong> grammaticale o <strong>la</strong> scansione di<br />

un endecasil<strong>la</strong>bo possano avere qualche influenza sul<br />

loro futuro? Dal canto suo, frustrato nel suo tentativo<br />

di dialogo, il prof reagisce, si offende anche, entra in<br />

crisi assil<strong>la</strong>to dal dubbio di pretendere troppo o troppo<br />

poco. <strong>Per</strong>ò non si arrende, consapevole che le provocazioni<br />

nascondono una richiesta di aiuto: vediamo<br />

quanto sei disposto a sopportare, se sai convincerci,<br />

se ti stiamo veramente a cuore.<br />

Ispirato all’omonimo libro (Einaudi) di François<br />

Bégaudeau sul<strong>la</strong> sua esperienza di insegnante e da lui<br />

stesso interpretato, La c<strong>la</strong>sse è animata da venticinque<br />

veri alunni che recitano un copione cucitogli<br />

addosso su misura da Cantet nel corso di un anno di<br />

prove, ma <strong>la</strong>sciando spazio sul set all’improvvisazione,<br />

con tre macchine da presa in grado di cogliere al<br />

volo il momento estemporaneo, il gesto improvviso,<br />

l’espressione vo<strong>la</strong>tile. Ne deriva un’incredibile sensazione<br />

di freschezza, spontaneità e divertimento; e<br />

al tempo stesso <strong>la</strong> consapevolezza che <strong>la</strong> vera istruzione,<br />

o passa grazie a quel rapporto indicibile, a<br />

volte meraviglioso e spesso sofferto, che si instaura<br />

fra maestro e allievo. O non passerà.<br />

Il Giornale - Stelio Solinas - 10/10/<strong>2008</strong><br />

Entre le murs, Palma d’oro a Cannes, racconta <strong>la</strong><br />

scuo<strong>la</strong> francese, ma va bene anche per quel<strong>la</strong> italiana.<br />

I professori par<strong>la</strong>no una lingua che gli studenti non<br />

capiscono e insegnano materie di cui questi ultimi<br />

non vedono l’utilità, gli studenti vivono le lezioni<br />

come una prigione nel peggiore dei casi, una perdita<br />

di tempo nel migliore. Il tutto fra le mura di un edificio<br />

dove le regole e i ruoli bene o male resistono, ma<br />

nessuno sa il perché. Girato con attori non protagonisti,<br />

allievi di un liceo parigino, costruito come fosse<br />

un documentario in presa diretta, Entre les murs ha<br />

una freschezza di verità stupefacente che cattura e<br />

83<br />

commuove. Si capisce che insegnare è un mestiere<br />

eroico, nel quale <strong>sono</strong> più le sconfitte che le vittorie.<br />

Il Mattino - Valerio Caprara - 11/10/<strong>2008</strong><br />

Oltremodo originale e spiazzante, «La c<strong>la</strong>sse - Entre<br />

les murs» non viene per unire, ma per dividere il pubblico.<br />

Vincitore a sorpresa del<strong>la</strong> Palma d’oro all’ultimo<br />

festival di Cannes, nel maggio scorso, il film di<br />

Laurent Cantet - sbrigativamente soprannominato il<br />

Ken Loach francese - è un raro esemp<strong>la</strong>re di quasidocumentario<br />

tratto dal libro omonimo pubblicato<br />

<strong>due</strong> anni or<strong>sono</strong> dal trentasettenne François<br />

Bégaudeau, interpretato dallo stesso ex insegnante di<br />

scuo<strong>la</strong> media e realizzato facendo «entrare nelle loro<br />

parti» ventiquattro alunni di un turbolento liceo del<br />

ventesimo «arrondissement» parigino. Grazie al duro<br />

training preparatorio cui i ragazzi si <strong>sono</strong> volontariamente<br />

assoggettati, e al delicato equilibrio raggiunto<br />

tra immedesimazioni e recitazioni, <strong>la</strong> regia di Cantet<br />

cerca innanzitutto di trascendere il contesto c<strong>la</strong>ustrofobico<br />

del<strong>la</strong> quotidianità sco<strong>la</strong>stica. Inoltre le lezioni,<br />

i collegi dei professori, i metodi d’insegnamento, l’irruzione<br />

del mondo esterno, i ruoli ricoperti o rifiutati<br />

dalle famiglie e <strong>la</strong> conflittualità permanente innescata<br />

dal<strong>la</strong> multietnicità del gruppo riescono via via a<br />

trasmettere non solo e non tanto le pene del<strong>la</strong> categoria<br />

disprezzata e malpagata degli insegnanti, ma<br />

soprattutto i dubbi e i drammi dei ragazzi tutti incapaci,<br />

sia pure nel<strong>la</strong> loro mesco<strong>la</strong>nza sociale, di forgiare<br />

il comportamento sui canoni del<strong>la</strong> disciplina e<br />

del<strong>la</strong> gerarchia e di «tradurre» in qualche modo il<br />

codice imparato dal<strong>la</strong> strada in quello del<strong>la</strong> cultura e<br />

dell’apprendimento. Il protagonista, ovviamente, non<br />

fa che registrare delusioni e sconfitte; ma Cantet sa<br />

intravedere, tra gli incrostati ingranaggi dell’autoritarismo<br />

e del<strong>la</strong> discriminazione, anche uno s<strong>la</strong>ncio<br />

energetico che preserva il suo excursus dal consueto<br />

vittimismo sociologico-progressista. Certo, il ritmo<br />

del racconto prende il suo tempo e raramente rinuncia<br />

all’altalena dei primi piani; eppure tematiche<br />

complesse e irrisolte come quelle dell’immigrazione<br />

e dell’integrazione sembrano illuminarsi di una luce<br />

più intensa proprio grazie allo stile insieme lieve ed<br />

intenso.


19<br />

L’ANNO <strong>IN</strong> CUI I MIEI GENITORI<br />

ANDARONO <strong>IN</strong> VACANZA<br />

19-20 marzo <strong>2009</strong><br />

Regia: Cao Hamburger<br />

Interpreti: Michel Joelsas (Mauro), Germano Haiut<br />

(Shlomo), Paulo Autran (Nonno Mótel), Danie<strong>la</strong> Piepszyk<br />

(Hanna), Simone Spo<strong>la</strong>dore (Bia), Caio B<strong>la</strong>t (Ítalo),<br />

Liliana Castro (Irene), Eduardo Moreira (Daniel) Gabriel<br />

Eric Bursztein (Bóris), Felipe Hanna Braun (Caco), Haim<br />

Fridman (Duda), Hugueta Sendacz (Eidel Schwestern),<br />

Silvio Boraks (Rabbino Samuel), David Kullock (Hazã),<br />

Einat Falbel (Madre di Hanna), Abrahão Farc (Anatol),<br />

Fábio Ferreira Dias (Robson), Rodrigo dos Santos<br />

(Edgar), Sérgio Siviero (Carlão), Edu Guimaraes<br />

(Alfredo), Fredy De<strong>la</strong>to<strong>la</strong>s (Ianis)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Brasile<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Cláudio Galperin, Cao Hamburger<br />

Sceneggiatura: Cláudio Galperin, Bráulio Mantovani,<br />

Anna Muy<strong>la</strong>ert, Cao Hamburger<br />

Fotografia: Adriano Goldman<br />

Musica: Beto Vil<strong>la</strong>res<br />

Montaggio: Daniel Rezende<br />

Durata: 104’<br />

Produzione: Gul<strong>la</strong>ne Filmes, Caos Produções, Miravista,<br />

Globo Filmes, Lereby, Teleimage, Locall<br />

Distribuzione: Lucky Red (<strong>2008</strong>)<br />

84<br />

Soggetto<br />

1970. L’unico grande sogno di Mauro, un bambino di 12<br />

anni é vedere il Brasile vincere il campionato del mondo<br />

per <strong>la</strong> terza volta, ma <strong>la</strong> tranquil<strong>la</strong> esistenza di Mauro<br />

viene all’improvviso movimentata dal<strong>la</strong> frettolosa partenza<br />

per delle “vacanze” dei genitori, che decidono di<br />

<strong>la</strong>sciarlo di fronte al<strong>la</strong> casa del nonno, non sapendo che<br />

questi é morto poco tempo prima. La partenza dei genitori<br />

di Mauro in realtà é legata al loro attivismo politico, per<br />

il quale <strong>sono</strong> ricercati dal governo brasiliano. Il bambino<br />

si trova così ad affrontare da solo una situazione del tutto<br />

nuova e forse più grande di lui...<br />

Valutazione<br />

“L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza” non è<br />

il c<strong>la</strong>ssico film di formazione in cui viene mostrato il passaggio<br />

del protagonista dall’infanzia all’età adulta, e non<br />

è nemmeno un film partico<strong>la</strong>rmente drammatico nonostante<br />

le premesse senz’altro poco incoraggianti. Si tratta,<br />

sorprendentemente, di una commedia girata dal punto<br />

di vista del piccolo protagonista. Assistiamo così al racconto<br />

di parte di un estate del piccolo Mauro, e ci sorprendiamo<br />

e commoviamo di fronte al<strong>la</strong> sua capacità di<br />

adattamento ad un mondo per lui ignoto e alle insolite circostanze<br />

che gli si parano innanzi. Durante il suo soggiorno<br />

nel<strong>la</strong> casa del nonno, ormai vuota, Mauro conosce<br />

meglio il suo parente di religione ebraica, di cui conosce<br />

l’ambiente dell’emigrazione (per essere meglio accettato<br />

il suo nome viene però cambiato in Moishele) ed il variopinto<br />

quartiere in cui si trova e che rappresenta un vero e


proprio universo in sca<strong>la</strong> ridotta. Viene proposta quindi<br />

un’autentica babele in cui si par<strong>la</strong> portoghese, yiddish,<br />

tedesco e italiano (e possiamo anche assistere a una curiosa<br />

partita di calcio di quartiere “ebrei contro italiani”).<br />

L’umorismo garbato ed ingenuo è affidato all’innocenza<br />

dei piccoli protagonisti e alle loro deliziose espressioni di<br />

stupore di fronte ad una realtà che credono di dominare<br />

ma non comprendono appieno. Si ride quindi, e molto, ma<br />

con occhio sempre attento al<strong>la</strong> realtà brasiliana di quegli<br />

anni, ai fermenti studenteschi e alle violente repressioni<br />

del<strong>la</strong> polizia. Il finale non <strong>la</strong>scia del resto dubbi rispetto<br />

al<strong>la</strong> natura tragica anni di piombo in Brasile.<br />

Famiglia Cristiana - Enzo Natta - 10/08/<strong>2008</strong><br />

Nel 1970, anno in cui vinse <strong>la</strong> Coppa Rimet diventando<br />

campione del mondo per <strong>la</strong> terza volta, il Brasile stava<br />

attraversando una difficile fase del<strong>la</strong> vita politica, nel<br />

segno di una spietata dittatura militare. E così <strong>la</strong> squil<strong>la</strong>nte<br />

vittoria calcistica fu trasformata dal Governo del generale<br />

Garrastazu-Medici in strumento politico, per distogliere<br />

l’attenzione dell’opinione pubblica dal<strong>la</strong> repressione<br />

in atto. E’ in questo clima che, costretti al<strong>la</strong> c<strong>la</strong>ndestinità<br />

e al<strong>la</strong> <strong>la</strong>titanza, i genitori di un dodicenne affidano il<br />

figlio alle cure del nonno...<br />

“L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza” di Cao<br />

Hamburger è un film sull’esilio (del ragazzo, dei genitori,<br />

del<strong>la</strong> libertà) e sul<strong>la</strong> scoperta del mondo, scrutato con gli<br />

occhi dell’innocenza e del<strong>la</strong> curiosità. Lo sguardo del protagonista<br />

si posa sorpreso su ogni dettaglio e, come<br />

Robinson Crusoe sull’iso<strong>la</strong> deserta, il ragazzo affina <strong>la</strong> sua<br />

capacità di osservazione catturando ogni momento di quel<br />

forzato distacco dal<strong>la</strong> famiglia fino a trasformarlo in crescita<br />

e arricchimento continui. Un film sfumato, leggero,<br />

mai banale, grazie al<strong>la</strong> sensibilità di un regista che in Tv<br />

ha maturato una notevole esperienza pedagogica nel <strong>la</strong>voro<br />

di gruppo con i ragazzi.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 06/06/<strong>2008</strong><br />

Due genitori in fuga, un ragazzino affidato in tutta fretta al<br />

nonno, i mondiali di calcio del 1970. E dietro, invisibili<br />

ma sempre presenti, filtrati dallo sguardo del piccolo protagonista,<br />

l’angoscia e gli orrori del<strong>la</strong> dittatura militare<br />

brasiliana. “L’anno in cui i miei genitori andarono in<br />

vacanza” è un film che sarebbe facile etichettare ‘di formu<strong>la</strong>’<br />

se non fosse semplicemente, bonariamente irresistibile.<br />

Questione di feeling, come sempre. Ovvero di<br />

casting, di finezza del tocco, di un senso dei dettagli che<br />

dà scatto e spessore a ogni momento del<strong>la</strong> strana estate di<br />

Mauro, perso come un astronauta dimenticato nello spazio<br />

in un polveroso quartiere ebraico di San Paolo, abitato<br />

quasi solo da anziani che par<strong>la</strong>no yiddish; mentre lui, di<br />

madre cristiana, non è nemmeno circonciso, come scopre<br />

sgomento il vecchio signore che lo prende in casa dopo <strong>la</strong><br />

morte repentina del nonno... Diretto da un regista esperto<br />

in tv per l’infanzia, popo<strong>la</strong>to da ragazzini (e soprattutto<br />

ragazzine) portentosi per simpatia ed espressività,<br />

“L’anno in cui i miei...” schiva con eleganza e struggi-<br />

85<br />

mento tutte le trappole dei film sospesi al punto di vista<br />

rive<strong>la</strong>tore (e un po’ facile) del bambino. E conferma il<br />

momento di grazia del cinema brasiliano. Specie quando<br />

non tambureggia sul Grande Tema ma riscopre con garbo<br />

le sue molte anime.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Maurizio Porro - 06/06/<strong>2008</strong><br />

Viene dal Brasile questo film sensibile e gentile nei modi<br />

di Truffaut, in cui si par<strong>la</strong> di questioni grosse mesco<strong>la</strong>te ai<br />

goal dei Mondiali di calcio ‘70, con una sceneggiatura<br />

bi<strong>la</strong>nciata tra il sommerso del dolore politico e quello che<br />

galleggia nel quotidiano, mixando argutamente sport e<br />

politica. Un ragazzino di 10 anni vede partire nel 1970 i<br />

genitori costretti a una ‘vacanza’ in Maggiolino, invisi al<strong>la</strong><br />

dittatura militare, completa di assassini, esilio e torture<br />

che colpì il Brasile dal ‘64 all’85. Affidato al nonno, lo<br />

trova appena morto per infarto e se <strong>la</strong> deve cavare da solo,<br />

con l’aiuto di un vicino di casa nel<strong>la</strong> periferia di San Paolo<br />

che fa parte del gruppo yiddish e adotta il ragazzo,<br />

seguendo i consigli del rabbino, anche se non è circonciso,<br />

ma riconoscendo <strong>la</strong> vittima designata. A questo punto<br />

<strong>la</strong> vita ricomincia con amici teenager, una ragazzina assai<br />

partico<strong>la</strong>re che organizza per i maschietti un peep show<br />

sbirciando gli spogliatoi del<strong>la</strong> sartoria materna, <strong>la</strong> barista<br />

di buon cuore, il compagno di sinistra. Gruppetto da realismo<br />

magico che cerca di far dimenticare al piccolo protagonista,<br />

che nel<strong>la</strong> confusione cerca di essere felice e<br />

diventa un mini capofamiglia con l’ansia del<strong>la</strong> solitudine<br />

e l’attesa del<strong>la</strong> telefonata promessa per <strong>la</strong> finale dei<br />

Mondiali che il Brasile vincerà (contro l’Italia) grazie a<br />

Pelé, allentando <strong>la</strong> morsa golpista con l’oppio calcistico<br />

che va sempre di moda. Film romanzo di formazione adolescenziale,<br />

datato anni ‘70 e presentato con successo al<strong>la</strong><br />

Berlinale 2007, opera seconda di un autore di tv, Cao<br />

Hamburger, specialista di infanzie, che non fa sconti ideologici<br />

al<strong>la</strong> dittatura ma insegue il sogno dell’infanzia e ne<br />

analizza i piccoli grandi traumi in modo personale, attraccando<br />

il racconto al fantastico cordone ombelicale di un<br />

decenne appassionato di vita e pallone. Un racconto fatto<br />

di memorie e rimpianti, non sempre immune da qualche<br />

sentimentalismo, ma godibile nel rapporto tra nonno e<br />

nipote secondo i modelli anche del nostro neorealismo.<br />

Il Sole 24Ore - Roberto Escobar - 15/06/<strong>2008</strong><br />

Pos<strong>sono</strong> giocare nel<strong>la</strong> stessa formazione, Pelé e Tostão?<br />

Questa è <strong>la</strong> domanda che i brasiliani si pongono nell’estate<br />

di 38 anni fa. Il 1970, appunto, è l’anno dei mondiali in<br />

Messico, ma è anche il sesto di una dittatura militare che<br />

nel calcio, e nel tifo appassionato di tutto il Paese per <strong>la</strong><br />

nazionale, cerca un potente strumento di consenso. A quel<br />

tempo, e più d’una volta anche a quel<strong>la</strong> domanda, torna<br />

Cao Hamburger con “L’anno in cui i miei genitori andarono<br />

in vacanza” (“O ano em que meus pais saíram de<br />

férias”, Brasile, 2006, 104’).<br />

Nato nel 1962, Hamburger è su per giù coetaneo del suo<br />

Mauro (Michel Joelsas). Dunque, potrebbe essere anche<br />

sua <strong>la</strong> voce narrante del film che ha scritto con Adriana<br />

Falcão, C<strong>la</strong>udio Galperin, Bráulio Mantovani e Anna<br />

Muy<strong>la</strong>ert. In ogni caso, anche sua è <strong>la</strong> memoria di quel-


l’estate: tanto quel<strong>la</strong> felice del<strong>la</strong> vittoria di Pelé, Tostão e<br />

degli altri in maglia verdeoro, quanto quel<strong>la</strong> tragica del<strong>la</strong><br />

persecuzione contro gli oppositori del regime. E oppositori<br />

- comunisti, secondo <strong>la</strong> definizione sbrigativa che piace<br />

ai ‘moderati’, in quel<strong>la</strong> lontana estate brasiliana - <strong>sono</strong> Bia<br />

(Simone Spo<strong>la</strong>dore) e Daniel (Eduardo Moreira), <strong>la</strong> madre<br />

e il padre del piccolo protagonista. Costretti al<strong>la</strong> fuga, con<br />

il figlio i <strong>due</strong> fingono di partire per una lunga vacanza. Lui<br />

invece andrà dal nonno paterno (Paulo Autran), un ebreo<br />

po<strong>la</strong>cco che vive a San Paolo. Così gli dicono. E il padre<br />

aggiunge una promessa, che è poi solo una bugia imposta<br />

dall’amore: torneranno a prenderlo presto, in tempo per<br />

seguire con lui in tivù i mondiali messicani. D’altra<br />

parte,appena arrivato a casa del nonno, Mauro scopre di<br />

essere solo: l’uomo è morto all’improvviso, e tutto quello<br />

che ne resta è il suo appartamento, chiuso a chiave.<br />

Ci <strong>sono</strong> <strong>due</strong> diversi livelli narrativi, in “L’anno in cui i<br />

miei genitori andarono in vacanza”. Il primo, storico e<br />

politico, è il più drammatico, ma è anche il più sottinteso,<br />

e quasi taciuto. Il secondo, quotidiano e spesso dolce, è<br />

attento non solo ai timori di Mauro, ma anche al<strong>la</strong> sua<br />

voglia di vita e alle sue curiosità di preadolescente.<br />

Attorno a lui c’è poi l’umanità di un intero caseggiato, e<br />

di un intero quartiere. In partico<strong>la</strong>re, c’è l’attenzione brusca<br />

e tenera insieme di Shlomo (Germano Haiut), un vecchio<br />

signore silenzioso che vive nell’appartamento vicino<br />

a quello del nonno.<br />

Chi si deve occupare di Mauro? È Shlomo che lo ha ‘scoperto’,<br />

solo e abbandonato di fianco al<strong>la</strong> sua porta.<br />

Dunque, così gli dice un rabbino molto saggio e molto<br />

deciso, è un po’ come se si trattasse di un nuovo ‘piccolo<br />

Mosè’ salvato dalle acque. Proprio a lui, a Shlomo, tocca<br />

prendersene cura, come toccò al<strong>la</strong> figlia del faraone prendersi<br />

cura dell’altro Mosè, quello antico. Poco importa che<br />

si tratti di un goi, di un non ebreo (come Shlomo scopre,<br />

con orrore, quando lo vede fare pipì in un vaso di fiori: e<br />

l’orrore non è per l’uso indebito del vaso di fiori). Con<br />

dolcezza e con tenerezza, ma sempre in modo ‘trattenuto’,<br />

Hamburger racconta dapprima le incomprensioni e gli<br />

scontri fra i <strong>due</strong>, fra il ragazzino e il vecchio, quello spaventato<br />

per l’abbandono e questo spaventato del suo stesso<br />

spavento. Ma poi, lentamente, minimo gesto dopo<br />

minimo gesto, Shlomo impara ad amare il suo piccolo<br />

Mosè incirconciso.<br />

Intanto, Mauro esplora e conosce il quartiere, e i suoi abitanti:<br />

<strong>la</strong> comunità ebraica che lo copre di attenzioni e lo<br />

riempie di cibo (oltre che di misteriosi discorsi in yiddish),<br />

86<br />

<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> e svelta Hanna, e anche Irene, <strong>la</strong> bel<strong>la</strong> cameriera<br />

del bar dove gli uomini si trovano per par<strong>la</strong>r del mondiale<br />

(e per darle un’occhiata). <strong>Per</strong> un po’, <strong>la</strong> storia e <strong>la</strong><br />

politica si perdono sullo sfondo, e il film sembra interessato<br />

solo al<strong>la</strong> memoria di una dolce estate lontana: le cerimonie<br />

in sinagoga, le sfide calcistiche fra italiani ed ebrei,<br />

i giochi in strada dei ragazzini (e anche quello, poco usuale,<br />

di starsene dietro lo spogliatoio di una sartoria con<br />

l’occhio a un buco, ma solo dopo aver pagato il ‘biglietto’<br />

a Hanna, che è <strong>la</strong> figlia del<strong>la</strong> sarta). Al<strong>la</strong> fine, attesi e<br />

sognati, arrivano i mondiali. Del<strong>la</strong> dittatura e del<strong>la</strong> sua<br />

violenza si direbbe che niente sia rimasto, a parte qualche<br />

scritta di protesta sul muro, o al peggio una carica di<br />

cavalleria contro degli studenti. <strong>Per</strong> il resto, tutti stanno<br />

davanti ai televisori. Moderati e comunisti, ebrei e italiani,<br />

vecchi e ragazzini, i brasiliani <strong>sono</strong> in festa. E però,<br />

proprio quando <strong>la</strong> nazionale trionfa a Città del Messico,<br />

Mauro rivede <strong>la</strong> madre: distesa su un letto, in casa del<br />

nonno, ha gli occhi pesti e vuoti. Bia è tornata dalle<br />

‘vacanze’, ma senza Daniel. E il ragazzino scopre che<br />

sul<strong>la</strong> sua vita e sul<strong>la</strong> sua memoria peseranno altre domande,<br />

oltre a quel<strong>la</strong> circa Pelé e Tostão.<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi - 06/06/<strong>2008</strong><br />

Sembra esserci qualcosa in comune fra il dodicenne protagonista<br />

di “L’anno in cui i miei genitori andarono in<br />

vacanza” e il regista brasiliano Cao Hamburger, come lui<br />

di origine mista ebraico-berlinese e italo-cattolica. Tanto<br />

da far pensare che questo delicato e doloroso romanzo di<br />

formazione, ambientato in un’estate di esilio dopo <strong>la</strong><br />

quale nul<strong>la</strong> sarà uguale a prima, abbia un’ispirazione<br />

autobiografica. Siamo nel giugno 1970 e il paese, pur da<br />

sei anni sotto il tallone di una repressiva dittatura militare<br />

destinata a durare fino all’85, è distratto da altro: forte<br />

di una squadra di campionissimi fra cui il mitico Pelé,<br />

tutti non pensano che a conquistare <strong>la</strong> coppa del mondo.<br />

Appassionato come ogni ragazzino di calcio, anche<br />

Mauro vivrebbe nell’euforica attesa del<strong>la</strong> vittoria, se non<br />

fosse per un senso di solitudine e un presentimento di tragedia<br />

incombente dopo che papà e mamma, militanti di<br />

sinistra perseguitati dal regime, <strong>sono</strong> stati costretti a<br />

<strong>la</strong>sciarlo a San Paulo diluendosi nel nul<strong>la</strong>. Un po’ troppo<br />

pasteggiato ma realizzato con finezza, il film ha soprattutto<br />

il pregio dì una felice ambientazione: multietnico e<br />

vivace, il quartiere ebraico del Bon Ritiro é un luogo vero<br />

su cui si riverbera <strong>la</strong> dolcezza nostalgica di un luogo del<strong>la</strong><br />

memoria.


20<br />

RACHEL GETT<strong>IN</strong>G MARRIED<br />

26-27 marzo <strong>2009</strong><br />

Regia: Jonathan Demme<br />

Interpreti: Anne Hathaway, Debra Winger, Bill Irwin,<br />

Rosemarie DeWitt, Anna Deavere Smith, Mather Zickel,<br />

Anisa George, Tunde Adebimpe<br />

Genere: Commedia, Drammatico<br />

Origine: USA <strong>2008</strong><br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Sceneggiatura: Jenny Lumet<br />

Scenografia: Ford Wheeler<br />

Fotografia: (Panoramica/a colori): Dec<strong>la</strong>n Quinn<br />

Musica: Suzana Péric Zafer Tawil, Donald Jerrison Jr.<br />

Montaggio: Tim Squyres<br />

Durata: 116’<br />

Produzione: Clinica Estetico, Marc P<strong>la</strong>tt Productions,<br />

Sony Pictures C<strong>la</strong>ssics<br />

Distribuzione: Sony Pictures C<strong>la</strong>ssics<br />

87<br />

Soggetto<br />

Quando Kym (Anne Hathaway) torna a casa del<strong>la</strong> famiglia<br />

per il matrimonio del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> Rachel (Rosemarie<br />

Dewitt), porta con sé una lunga storia di crisi personali,<br />

conflitti familiari e tragedie. La grande quantità di amici<br />

presenti al matrimonio del<strong>la</strong> coppia si è riunita per un felice<br />

weekend di feste, musica ed amore, ma Kym, con le sue<br />

taglienti frasi secche e un’inclinazione naturale a provocare<br />

dei drammi, rappresenta un catalizzatore per le tensioni<br />

a lungo sopite nelle dinamiche familiari. Pieno di personaggi<br />

ricchi ed eclettici che rimangono un marchio di fabbrica<br />

dei film di Jonathan Demme, Rachel Getting<br />

Married dipinge un ritratto di famiglia toccante, sensibile<br />

e talvolta esi<strong>la</strong>rante. Il regista, <strong>la</strong> sceneggiatrice esordiente<br />

Jenny Lumet e un cast stel<strong>la</strong>re esprimono il dramma di<br />

queste persone complesse ma affascinanti con un grande<br />

affetto e generosità di spirito.<br />

Valutazione<br />

Prendiamo un regista dallo spirito documentaristico,<br />

un’attrice in un insolita veste drammatica, una sceneggiatrice<br />

fuori dalle linee e al suo esordio, tanta bel<strong>la</strong> musica,<br />

un evento familiare importante, shackeriamo il tutto e ciò<br />

che si ottiene è “Rachel Getting Married”, un film che ha<br />

<strong>la</strong> capacità di tirar fuori dallo spettatore un gran numero di<br />

emozioni.<br />

In un atmosfera festosa come quel<strong>la</strong> di un matrimonio,<br />

dove per un week end parenti e amici, di ogni genere, specie<br />

e razza, si riuniscono tutti in uno stesso luogo e dove<br />

tutti in qualche modo hanno il loro momento di gloria, stu-


pisce come il regista sia riuscito a dare importanza ad<br />

ognuno di loro, e come ogni attore ed ogni comparsa<br />

riesca a <strong>la</strong>sciare il segno di se esattamente come fosse un<br />

personaggio principale.<br />

Altra protagonista importante è <strong>la</strong> musica, che Jonathan<br />

Demme ha fortemente voluto non fosse creata in post-produzione.<br />

<strong>Per</strong> questo ha scelto dei bravi musicisti che nei<br />

panni degli invitati, suonassero durante tutte le riprese,<br />

ispirati dai dialoghi e dai momenti cui assistevano. In questo<br />

modo, dato che nemmeno troupe e cast erano al corrente<br />

di ciò che avrebbero sentito, <strong>la</strong> spontaneità è venuta<br />

fuori tutta, tanto da rega<strong>la</strong>re una colonna <strong>sono</strong>ra che si<br />

adattasse perfettamente al<strong>la</strong> storia e ai personaggi.<br />

In pratica questo film è stato realizzato ed organizzato<br />

come lo stesso matrimonio, in un’atmosfera di totale libertà<br />

narrativa ed emozionale, ed è questo che percepisce lo<br />

spettatore quando si addentra nei segreti del<strong>la</strong> famiglia,<br />

quando gioisce e si commuove per le gioie che gli invitati<br />

sentono, quando ride per i momenti esi<strong>la</strong>ranti, e quando<br />

si rattrista per il dolore, il disagio e il rancore che fatti mai<br />

risolti determinano, aleggiando tra le mura del<strong>la</strong> casa.<br />

MYmovies <strong>2008</strong> - Tirza Bonifazi Tognazzi<br />

Uscita dal centro di riabilitazione per partecipare al<br />

matrimonio del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> maggiore, Kym travolge l’apparente<br />

pace familiare con <strong>la</strong> sua problematica esuberanza.<br />

Tra riunioni di tossicodipendenti anonimi, preparativi<br />

nuziali, incomprensioni e liti, affronterà il drammatico<br />

episodio che ha segnato <strong>la</strong> vita di tutta <strong>la</strong> famiglia.<br />

Lungi dall’essere solo l’assistente del diavolo che veste<br />

Prada, Anne Hathaway si era già confrontata con il genere<br />

drammatico e con un ruolo “al limite” e “fuori controllo”<br />

nell’indipendente Havoc. Curiosamente, sebbene non<br />

ci siano legami se non qualche coincidenza nel<strong>la</strong> carriera<br />

dei registi, il film di Barbara Kopple sembra costituire<br />

una premessa all’opera cinematografica di Jonathan<br />

Demme. Se <strong>la</strong> giovane attrice incarnava una generazione<br />

viziata e annoiata nel<strong>la</strong> Los Angeles bene, in Rachel<br />

Getting Married ne subisce le conseguenze, drammaticamente<br />

legate a un evento che pesa sulle sue spalle come<br />

un macigno.<br />

Kym è una ragazza interrotta che per anni ha vissuto<br />

segregata nei centri di recupero, dai quali è entrata e<br />

uscita ripetutamente. <strong>Per</strong> espiare <strong>la</strong> colpa si è costruita<br />

una gabbia nell’inferno del<strong>la</strong> dipendenza. “Pulita” da<br />

nove mesi e decisa a rientrare in casa e riprendersi l’affetto<br />

del<strong>la</strong> famiglia, si piazza al centro del<strong>la</strong> scena, sotto<br />

le luci dei riflettori, noncurante del “momento” di<br />

Rachel. Tuttavia, di fronte all’ostilità del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong>, subisce<br />

poco al<strong>la</strong> volta un cambiamento e <strong>la</strong>scia che il tormento<br />

di una vita venga finalmente a gal<strong>la</strong>. Figura negativa<br />

al limite del<strong>la</strong> ripugnanza, Kym ottiene l’empatia<br />

dello spettatore solo nel momento in cui si apre al prossimo<br />

e a se stessa nel tentativo di <strong>la</strong>sciarsi alle spalle <strong>la</strong><br />

colpa e condivider<strong>la</strong>.<br />

Nel trasporre sul grande schermo <strong>la</strong> sceneggiatura di<br />

Jenny Lumet, figlia del celebre Sidney, Demme sceglie <strong>la</strong><br />

88<br />

linea dell’onestà documentaristica come cifra stilistica e <strong>la</strong><br />

compassione come strumento per avvicinarsi al<strong>la</strong> storia di<br />

Kym. Macchina da presa al<strong>la</strong> mano, segue <strong>la</strong> protagonista<br />

con uno sguardo paterno, nel presumibile tentativo di protegger<strong>la</strong><br />

dal suo dramma personale e lungo il sofferto percorso,<br />

senza mai spettaco<strong>la</strong>rizzare il dolore e senza renderlo<br />

fine a se stesso. I momenti estremamente intensi e<br />

infausti <strong>sono</strong> alleggeriti da episodi i<strong>la</strong>ri e domestici (<strong>la</strong><br />

gara tra suocero e genero su chi dei <strong>due</strong> carichi in minor<br />

tempo <strong>la</strong> <strong>la</strong>vastoviglie) in nome dell’autenticità. Il realismo<br />

narrativo e registico si estende agli oltre dieci minuti<br />

di scene dal matrimonio finali – dove si alternano promesse<br />

d’amore “rubate” a Neil Young, canti e danze – talmente<br />

estenuanti da rendere lo spettatore partecipe dei<br />

festeggiamenti, <strong>la</strong>sciando una sensazione di saturazione e<br />

dolce ubriachezza.<br />

Coming Soon.it - Federico Gironi<br />

La storia è quel<strong>la</strong> di Kym (Anne Hathaway), una giovane<br />

ex model<strong>la</strong> che negli ultimi dieci anni ha fatto dentro e<br />

fuori dalle cliniche per disintossicarsi e che fa ritorno a<br />

casa, nel Connecticut, per presenziare al matrimonio del<strong>la</strong><br />

sorel<strong>la</strong> Rachel (Rosemarie DeWitt). Il ritorno a casa di<br />

Kym, peraltro in una circostanza tanto delicata e stressante<br />

come quel<strong>la</strong> di un matrimonio e dei suoi preparativi,<br />

sarà ovviamente il catalizzatore di una serie di reazioni<br />

che porteranno al progressivo confronto e scontro tra i<br />

membri di una famiglia apparentemente solida e so<strong>la</strong>re ma<br />

afflitta (come tutte?) da tensioni e rancori sotterranei.<br />

Quello di Demme è un dramma familiare che ha prima di<br />

tutto il pregio non indifferente di voltare le spalle a quel<strong>la</strong><br />

fastidiosissima nuova tendenza del cinema hollywoodiano<br />

e non solo di raccontare i drammi abusando di retoriche e<br />

disperazioni gettate in pasto allo spettatore un tanto al<br />

chilo. Al contrario, il regista sceglie <strong>la</strong> chiave del rigore e<br />

spesso persino del<strong>la</strong> sottrazione, avendo il coraggio di far<br />

interrompere per via di quell’inatteso che è parte del<strong>la</strong> vita<br />

molti dei tesi confronti fra i suoi protagonisti.<br />

La macchina da presa – quasi tutta a mano, come fosse un<br />

videodiario amatoriale del matrimonio – s’incol<strong>la</strong> al<strong>la</strong><br />

Kym interpretata dal<strong>la</strong> Hathaway e su tutti gli altri bravissimi<br />

attori protagonisti indagandone le psicologie e gli<br />

stati d’animo, ma mai con morbosità o invadenza.<br />

Le difficoltà dovute al riprendere una vita “normale” dopo<br />

<strong>la</strong> dipendenza dal<strong>la</strong> droga e i guai che si <strong>sono</strong> combinati,<br />

il rapporto complesso e conflittuale tra <strong>due</strong> sorelle che<br />

pensano ognuna che l’altra possa rubare le attenzioni del<br />

padre, tra loro <strong>due</strong> e una madre lontana fisicamente e psicologicamente,<br />

lo spettro di un lutto passato ma ancora<br />

pesante di cui Kym è responsabile: tutti aspetti narrativi e<br />

tematici che Demme affronta con mano ferma, riuscendo<br />

a dosare con abilità <strong>la</strong> drammaticità dovuta alle tensioni<br />

emotive con momenti di agrissimo umorismo che serve<br />

non a mascherare ma a contribuire ad un quadro complessivo<br />

mai facile.<br />

Corale e vorticoso ma mai dispersivo, ricco di musica e<br />

di colori che fanno da contraltare al<strong>la</strong> cupa tensione di<br />

certe situazioni, Rachel Getting Married è un efficace e<br />

solido, emotivamente coinvolgente. Merito tanto del<strong>la</strong>


mano di Demme quanto dell’intensità del<strong>la</strong> Hathaway e<br />

del cast tutto.<br />

Sentieri Selvaggi - Federico Chiacchiari - 04/09/<strong>2008</strong><br />

Ci mette il cuore, mai come questa volta, Jonathan<br />

Demme, nel suo incredibile “miglior filmino familiare<br />

mai realizzato” (come da progetto del regista…). Cuore,<br />

corpo pulsante, danzante, musica dal vivo sul set/nel film,<br />

girando come fosse un documentario, ma con l’occhio da<br />

telefilm “new wave”, senza prove, con <strong>la</strong> troupe che diviene<br />

famiglia, dentro una casa/set che li spinge – letteralmente<br />

– a condividere per 5 giorni l’esperienza del “vivere<br />

assieme”. Con i musicisti che suonano fuori al giardino,<br />

o al piano di sotto, mentre Kym (una Anne Hathaway che<br />

è un corpo malleabile/mutante,capace di prendersi con gli<br />

occhi e il sangue un ruolo che sembra venire da Ragazze<br />

interrotte, e <strong>la</strong> ragazza sembra possedere, assieme in un<br />

unico corpo, l’inquietudine di Winona Ryder con l’energia<br />

dell’Angiolina Jolie) sale le scale ed entra nel<strong>la</strong> sua vecchia<br />

camera da dove manca da mesi e mesi di vita srego<strong>la</strong>ta,<br />

case di cura e corsi di recupero per<br />

tossicodipendenti. Kym entra in camera e il suo sguardo<br />

vaga lento tra le pareti, tra i vecchi oggetti di<br />

ragazza/bambina, e <strong>la</strong> musica di Zafer Tawil sale lenta, e<br />

questa scena sembra non finire mai, di una lentezza sublime,<br />

dolcissima e impensabile per un film con star, tutta<br />

dentro Hollywood, ma girato come se ci fosse una nuova<br />

Nouvelle Vague e Demme fosse il nuovo Godard.<br />

Ma Demme, (per fortuna?) viene dal<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> di Corman<br />

(anche qui presente in una cameo) e sa come mixare culture<br />

alte e basse, misce<strong>la</strong>re musiche bianche e nere, far<br />

cantare Robyn Hitchcock e Sister Carol, riecheggiare Neil<br />

Young, il tutto dentro un matrimonio che sta per compiersi,<br />

quello del<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> di Kym, <strong>la</strong> Rachel del titolo, che è<br />

l’atto ufficiale in cui <strong>la</strong> famiglia si ricompone, dopo lutti,<br />

separazioni e corpi spezzati dentro dai dolori. E Rachel<br />

Getting Married, con <strong>la</strong> sua messa in scena senza prove,<br />

con <strong>la</strong> libertà di <strong>la</strong>sciare al direttore del<strong>la</strong> fotografia<br />

Dec<strong>la</strong>n Quinn <strong>la</strong> scelta del punto di vista, con le sue numerose<br />

macchine da presa HD che riprendono il set, dentro al<br />

set, addosso agli attori, in mano, persino, agli attori, è <strong>la</strong><br />

magnifica scoperta di un cinema intimo e sovversivo che<br />

prova a raccontare le emozioni attraverso le emozioni, il<br />

dolore attraverso gli occhi, e poi le paure e il senso di solitudine,<br />

ma anche l’amore, tutto dentro quel<strong>la</strong> cosa pazzesca,<br />

detestabile e necessaria (come il respiro) che è oggi <strong>la</strong><br />

famiglia.<br />

Il corpo “interrotto” è quello di Kym, che torna dal<strong>la</strong> casa<br />

di cura proprio nel giorno che precede il matrimonio del<strong>la</strong><br />

sorel<strong>la</strong>. E’ una casa famiglia che si al<strong>la</strong>rga, per le prove e<br />

tutto il gioco del<strong>la</strong> rappresentazione di un atto simbolico,<br />

89<br />

ed è curioso vedere un film che mostra le prove del matrimonio<br />

proprio mentre sceglie deliberatamente di non far<br />

provare gli attori, che <strong>sono</strong> così liberati dal perfezionismo<br />

del<strong>la</strong> sceneggiatura (un esplosione di energia emozionale<br />

allo stato puro, scritta dal<strong>la</strong> figlia di Sidney Lumet, Jenny,<br />

insegnante e scrittrice di teatro di talento) e <strong>la</strong>nciati nell’universo<br />

set/famiglia, luogo dove i discorsi, i gesti, gli<br />

scambi di sguardi pos<strong>sono</strong> esibirsi senza cesure, senza<br />

limiti. Con <strong>la</strong> musica che invade il set fino al punto da<br />

infastidire gli attori ma con Demme capace di utilizzare<br />

persino questa “invadenza” in una pezzo di film (con<br />

Kym/Anne Hathaway che grida ai musicisti fuori al giardino<br />

di smetter<strong>la</strong> con <strong>la</strong> musica, storie vere del set e ormai<br />

dentro al film).<br />

Mentre il matrimonio celebra un’unione, quel<strong>la</strong> di Rachel<br />

e Sidney, Kym è l’alieno, l’insopportabile presenza, il<br />

corpo/segno di un passato che non si può dimenticare, così<br />

legato a una perdita luttuosa di cui <strong>la</strong> sua ma<strong>la</strong>ttia/dipendenza<br />

fu responsabile. E non è amabile Kim, come non lo<br />

<strong>sono</strong> gli altri personaggi, tutti pieni di limiti (dolcemente<br />

umani) e rinchiusi nei limiti delle loro esistenze. Kym è<br />

semplicemente <strong>la</strong> cartina al tornasole, l’elemento esplosivo<br />

di conflitti mai sopiti e dolori mai rimossi. E allora<br />

tutto il film si dipana in queste “scie d’amore” cassavetesiane,<br />

con Kym e Rachel che si amano e odiano, con Paul,<br />

il padre, che cerca di mantenere un impossibile equilibrio<br />

e una madre ex moglie (una finalmente recuperata al cinema<br />

Debra Winger), che non sa chiudere questo distacco.<br />

Tutto Rachel Getting Married sembra fatto di “scene<br />

madri”, come se <strong>la</strong> struttura c<strong>la</strong>ssica del<strong>la</strong> sceneggiatura<br />

fosse esplosa dentro un corpo/film che procede per accumulo<br />

e sottrazione, aggiungendo emozioni ad ogni inquadratura<br />

e levando i simbolismi, giocando con i corpi<br />

immersi nelle musiche che, letteralmente, viene da dentro<br />

al film. E al<strong>la</strong> fine i conflitti non si ricompongono, perché<br />

non è così facile nel<strong>la</strong> vita reale e l’antistruttura dello<br />

script sceglie <strong>la</strong> via anticonvenzionale, dove certo i personaggi<br />

<strong>sono</strong> cambiati nel corso del<strong>la</strong> storia, ma nul<strong>la</strong> appare<br />

risolto, e Kym neppure riesce a raggiungere <strong>la</strong> madre<br />

che sta andando via, dopo che <strong>la</strong> sera prima si erano prese<br />

a schiaffi al termine di una discussione a dir poco accesa….<br />

Abby (<strong>la</strong> Winger) va via, Kym <strong>la</strong> segue con lo sguardo,<br />

poi decide di corrergli incontro, forse per l’ennesima<br />

ed estrema richiesta di perdono, ma viene fermata dal<br />

padre che le presenta un’amica che le offre un <strong>la</strong>voro,<br />

domani. Kym è lì ma il suo sguardo e il cuore seguono<br />

l’auto di Abby che va via, e nessuna redenzione è, per<br />

oggi, possibile. Con un finale malinconico e bellissimo,<br />

con Kym che va via e, nel giardino di casa, resta solo<br />

Rachel, ferma, immobile ad ascoltare i musicisti. Ma poi<br />

decide di andare verso di loro…verso <strong>la</strong> musica.


21<br />

Regia: John Carney<br />

Interpreti: Glen Hansard (Guy), Markéta Irglova (<strong>la</strong><br />

ragazza), Bill Hodnett (padre di Guy), Danuse Ktrestova<br />

(madre del<strong>la</strong> ragazza), Hugh Walsh (batterista), Gerard<br />

Hendrick (chitarrista), A<strong>la</strong>istair Foley (bassista), Geoff<br />

Minogue (Eamon)<br />

Genere: Drammatico/Musicale/Romantico<br />

Origine: Ir<strong>la</strong>nda<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: John Carney<br />

Sceneggiatura: John Carney<br />

Fotografia: (Panoramica/a colori): Tim Fleming<br />

Musica: Glen Hansard, Markéta Irglová, La canzone<br />

“Falling Slowly” è di Glen Hansard e Markéta Irglová.<br />

Montaggio: Paul Mullen<br />

Durata: 91’<br />

Produzione: Samson Films, Bord Scannán Na Héireann,<br />

The Irish Film Board & Rté<br />

Distribuzione: Sacher Distribuzione (<strong>2008</strong>)<br />

ONCE<br />

16-17 aprile <strong>2009</strong><br />

90<br />

Soggetto<br />

Un musicista ir<strong>la</strong>ndese, che durante il giorno <strong>la</strong>vora nel<br />

negozio del padre e durante <strong>la</strong> notte suona per strada<br />

sognando di poter sfondare un giorno nel campo musicale,<br />

incontra una ragazza immigrata dal<strong>la</strong> Repubblica Ceca,<br />

che si arrangia come può, accettando qualsiasi <strong>la</strong>voro per<br />

dare da mangiare al<strong>la</strong> madre ed al<strong>la</strong> figlia. I <strong>due</strong> <strong>sono</strong><br />

accomunati dal<strong>la</strong> musica, lei infatti é una pianista, e decidono<br />

allora di suonare insieme riuscendo a realizzare un<br />

cd-demo promozionale, nel frattempo però, tra i <strong>due</strong> nasce<br />

anche un reciproco sentimento...<br />

Valutazione<br />

“Once” propone un nuovo tipo di musical, realistico, quasi<br />

documentaristico e poco costoso. Il regista John Carney,<br />

anche sceneggiatore, riprende le vite dei <strong>due</strong> protagonisti<br />

con <strong>la</strong> camera a mano, attraverso le strade di Dublino, utilizzando<br />

quasi sempre luci naturali, anche per le riprese<br />

notturne e <strong>la</strong> musica non viene inserita in maniera forzosa<br />

all’interno del film. La storia è molto semplice: <strong>due</strong> persone<br />

si incontrano e tra loro scatta un feeling partico<strong>la</strong>re. Il<br />

loro incontro si artico<strong>la</strong> nell’arco di pochi giorni nei quali<br />

le vite dei <strong>due</strong> protagonisti si intersecheranno, cambieranno<br />

e si arricchiranno a vicenda.<br />

Terzo protagonista del<strong>la</strong> storia è <strong>la</strong> musica, le bal<strong>la</strong>te <strong>sono</strong><br />

estremamente delicate e orecchiabili, <strong>la</strong> canzone “Falling<br />

Slowly” ha vinto il premio Oscar come miglior canzone<br />

originale.<br />

Ciò che colpisce di più è <strong>la</strong> semplicità ed insieme <strong>la</strong> naturalezza<br />

del<strong>la</strong> vicenda, aiutata anche da un’interpretazione<br />

intensa ed estremamente spontanea dei <strong>due</strong> protagonisti.


Famiglia Cristiana - Enzo Natta - 22/06/<strong>2008</strong><br />

La musica che entra nel cinema, non come supporto, non<br />

con <strong>la</strong> forma del musical, ma attraverso un’autentica compenetrazione,<br />

così naturale e spontanea da tradursi in simbiosi.<br />

E’ il caso di “Once” (Una volta), il cui autore, John<br />

Carney, è stato per anni il batterista del gruppo ir<strong>la</strong>ndese<br />

Frames, e loro, i protagonisti, <strong>sono</strong> <strong>due</strong> musicisti che<br />

interpretano una storia mediata dalle canzoni che hanno<br />

scritto e composto.<br />

Lui, Glen Hansard, fondatore dei Frames, è già stato visto<br />

in “The Commitments” di A<strong>la</strong>n Parker; lei, Markéta<br />

IrgIovà, viene dal<strong>la</strong> Repubblica Ceca ed è una cantautrice<br />

polistrumentista. Due spiriti affini, come quelli dei personaggi<br />

che si incontrano nel film: lui, musicista di strada;<br />

lei, giovane donna con un figlio, arrivata in Ir<strong>la</strong>nda<br />

dall’Est europeo. Lui tormentato dal ricordo di un amore<br />

perduto; lei sposata con un uomo lontano che non ama.<br />

Uniti dal<strong>la</strong> passione per <strong>la</strong> musica, vivranno un’esperienza<br />

che toccherà profondamente le vite di entrambi scrivendo,<br />

provando e registrando canzoni...<br />

“Once” è una delle più belle storie d’amore mai raccontate,<br />

dove le canzoni si <strong>sono</strong> sviluppate insieme al<strong>la</strong> scrittura<br />

(10 canzoni per 60 pagine di sceneggiatura), per raccontare<br />

un amore p<strong>la</strong>tonico, cosi intenso e romantico da<br />

<strong>la</strong>sciare il segno. Il risultato è un album visivo, un videomusic<br />

poetico che più volte si sostituisce al dialogo e lo<br />

sublima. Al punto che <strong>la</strong> colonna <strong>sono</strong>ra è fra i dischi più<br />

venduti e il brano ‘Falling Slowly’ è stato premiato con<br />

l’Oscar.<br />

Il Tempo - Gian Luigi Rondi - 30/05/<strong>2008</strong><br />

Una storia d’amore con musica e canzoni, ma senza che si<br />

ceda un solo istante ai vezzi soliti dei film musicali. Lui,<br />

in una Dublino senza sole, è un musicista di strada, lei è<br />

pianista ed è arrivata da Praga con <strong>la</strong> madre e una figlia<br />

picco<strong>la</strong>, avendo <strong>la</strong>sciato in patria un marito cui non sembra<br />

molto legata. Anche lui, più o meno, è nelle stesse condizioni<br />

perché una donna, che ha amato, adesso è andata a<br />

vivere a Londra.<br />

Li unisce, intimamente - ma con segni delicati - l’amore<br />

per <strong>la</strong> musica che, a un certo momento, li vedrà registrare<br />

insieme una serie di canzoni composte e messe in musica<br />

da lui accompagnato, al piano, dal<strong>la</strong> ragazza. Mentre provano,<br />

registrano, fanno l’alba insieme con altri musicisti,<br />

insensibilmente sentono una reciproca attrazione. Si frequentano<br />

anche nel privato, facendosi reciprocamente<br />

conoscere le famiglie, ma tutto si ferma lì, senza che si<br />

superino certi limiti, in climi in cui i sentimenti, anche<br />

quelli che sembrano farsi più caldi e addirittura prepotenti,<br />

vengono sempre trattenuti, sia pure con tatto. Senza né<br />

scontri né fratture.<br />

Li dosa un regista ir<strong>la</strong>ndese, John Carney, conosciuto qui<br />

da noi per un film, “On the Edge”, presentato però solo in<br />

TV. Ha un passato musicale e se n’è servito per svolgere<br />

<strong>la</strong> sua storia - pari passo con <strong>la</strong> musica, evitando - appunto<br />

- i luoghi comuni dei film musicali e facendo sempre in<br />

modo, con abili accorgimenti narrativi (e stilistici), che le<br />

canzoni si inseriscano puntualmente e realisticamente nell’azione<br />

creandone le occasioni non solo con quel<strong>la</strong> regi-<br />

91<br />

strazione delle composizioni del protagonista, che è il<br />

nucleo principale del<strong>la</strong> vicenda, ma anche con proposte a<br />

margine sempre però ben inserite nel contesto.<br />

Anche per questo le varie atmosfere non hanno mai accenti.<br />

Sfumano, alludono, sottintendono e con logica precisa<br />

risolvono in modo non previsto il rapporto sentimentale<br />

fra i <strong>due</strong>: con tutte le virtù del non concluso e del sospeso.<br />

I protagonisti non <strong>sono</strong> attori anche se lui, Glen Hansard,<br />

lo s’ è visto in “The Commitments” di A<strong>la</strong>n Parker. E’ il<br />

fondatore di un noto gruppo rock ir<strong>la</strong>ndese e tutta <strong>la</strong> musica<br />

che si ascolta è bellissima ed è sua, compresa quel<strong>la</strong><br />

canzone che, di recente, è stata premiata con un Oscar.<br />

La ragazza, Markéta Irglóva per il cinema invece è un’esordiente,<br />

ma ha una grazia gentile che illumina lo schermo.<br />

Il Mattino - Alberto Castel<strong>la</strong>no - 07/06/<strong>2008</strong><br />

Lanciato dal ‘Sundance’ di Redford, “Once” è un film<br />

indipendente che in America è diventato un caso: <strong>la</strong> scorsa<br />

estate ha incassato sette milioni di dol<strong>la</strong>ri, ha conquistato<br />

pubblico e critica e ha avuto gli elogi di Spielberg e<br />

Dy<strong>la</strong>n. Girato nel 2006 in soli 17 giorni e costato appena<br />

180 mi<strong>la</strong> euro, il musical dell’ir<strong>la</strong>ndese John Carney esce<br />

ora in Italia grazie al<strong>la</strong> Sacher di Nanni Moretti. Il trentasettenne<br />

esordiente regista dublinese che viene dal<strong>la</strong> televisione<br />

rende esplicito omaggio al grande musical hollywoodiano,<br />

in partico<strong>la</strong>re a “Bulli e pupe” e “Cantando<br />

sotto <strong>la</strong> pioggia”, e per raccontare una picco<strong>la</strong> grande storia<br />

d’amore ha <strong>la</strong>vorato molto sul<strong>la</strong> colonna <strong>sono</strong>ra dosando<br />

con abilità brani di matrice diversa (‘Falling slowly’ ha<br />

vinto l’Oscar <strong>2008</strong> come migliore canzone originale) e<br />

non è un caso che per i ruoli dei <strong>due</strong> protagonisti ha scelto<br />

<strong>due</strong> veri musicisti, Glen Hansard fondatore del<strong>la</strong> band<br />

indie ir<strong>la</strong>ndese Frames, e Markéta Irglova, ventenne cantautrice<br />

di Praga. Lui, Guy, suona <strong>la</strong> chitarra per le strade<br />

di Dublino, sogna di fare il musicista ma intanto <strong>la</strong>vora<br />

con il padre e ripara aspirapolveri. Lei, Girl, è una giovane<br />

immigrata ceca separata con figlia a carico che canta e<br />

suona il piano. Quando i <strong>due</strong> si conoscono nel giro di<br />

poche ore s’innamorano e trovano un’intesa artistica, al<br />

punto da fare un disco insieme. Con una sceneggiatura in<br />

parte autobiografica, Carney ha dato al magico incontro di<br />

Guy e Girl <strong>la</strong> forma del romanticismo fuori moda (i <strong>due</strong><br />

innamorati si raccontano le rispettive esperienze amorose<br />

del passato) e ha trasformato <strong>la</strong> fragilità del<strong>la</strong> trama nel<strong>la</strong><br />

semplicità narrativa e nell’impatto emotivo del cinema del<br />

passato, complici le efficaci performance canore dei protagonisti<br />

e lo sfondo di una suggestiva Dublino.<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi - 30/05/<strong>2008</strong><br />

Distribuito dal<strong>la</strong> Sacher di Nanni Moretti, “Once” è un<br />

film girato in diciassette giorni e costato poco più di<br />

100mi<strong>la</strong> euro che dopo aver conquistato il cuore del pubblico<br />

del Sundance ha realizzato al botteghino Usa quasi<br />

10 milioni di dol<strong>la</strong>ri. Come categoria rientra nel genere<br />

musical: ma è diretto da un regista, John Carney, che è un<br />

ex-bassista, ed è interpretato da <strong>due</strong> artisti per i quali è abituale<br />

comunicare sentimenti tramite parole e musica. Il<br />

che conferisce al<strong>la</strong> bal<strong>la</strong>ta intimista di “Once” una natura-


lezza rara e preziosa.<br />

Il ‘lui’ del<strong>la</strong> storia, cantautore di strada e riparatore di aspirapolveri<br />

nel negozietto paterno, è impersonato da Glen<br />

Hansard, leader del gruppo ir<strong>la</strong>ndese ‘The Frames’; nei<br />

panni di ‘lei’, un’immigrata czeca che sa ascoltare, suonare,<br />

cantare e per di più ha un aspirapolvere rotto, troviamo<br />

l’appena ventenne Marketa Irglova, <strong>la</strong> quale con Hansard<br />

ha già registrato un album. Entrambi con un problema<br />

sentimentale irrisolto, i <strong>due</strong> trascorrono una settimana<br />

sublimando nel fare appassionatamente musica insieme<br />

un’inconfessata attrazione reciproca. ‘I dont know you,<br />

but 1 want you’ <strong>sono</strong> i versi iniziali del<strong>la</strong> struggente<br />

‘Falling Slowly’ vincitrice dell’Oscar <strong>2008</strong> per <strong>la</strong> migliore<br />

canzone.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 06/06/<strong>2008</strong><br />

Far funzionare <strong>la</strong> storia più vecchia del mondo - ‘ragazzo<br />

incontra ragazza’ - non succede ogni giorno. Ma usare uno<br />

schema così semplice e universale per ribaltare il rapporto<br />

fra il cinema e <strong>la</strong> musica, asservendo il primo al<strong>la</strong><br />

seconda senza battere le solite strade del musical, è ancora<br />

più raro. Eppure è quanto accade in “Once”, diretto da<br />

un regista che è stato per anni il bassista del gruppo ir<strong>la</strong>ndese<br />

dei Frames, e interpretato da altri <strong>due</strong> veri musicisti<br />

che non ‘recitano’ personaggi cuciti loro addosso, ma<br />

piuttosto mettono in scena <strong>la</strong> nascita di una serie di bellissime<br />

canzoni - le loro canzoni. Lui (Glen Hansard, fondatore<br />

dei Frames, apparso anche in “The Commitments”)<br />

suona <strong>la</strong> chitarra nelle strade di Dublino.<br />

Lei, una giovane profuga arrivata lì da Praga chissà come,<br />

sembrerebbe una delle tante anime perse nelle strade del<strong>la</strong><br />

città se non nascondesse un dono. Anche lei infatti<br />

(Markéta Irglova), è una musicista, nel<strong>la</strong> vita come nel<br />

film. Anche lei nasconde tesori di sentimento e di saggezza<br />

nelle dita e nel<strong>la</strong> voce. E insieme a lui... Beh, questo<br />

conviene scoprirlo direttamente al cinema, “Once” è uno<br />

di quei film così delicati e toccanti che a raccontarli si<br />

sciupa. Ma <strong>la</strong> fusione fra il ‘poco’ che accade e <strong>la</strong> piena di<br />

emozioni che Carney riesce a scatenare con un pugno di<br />

personaggi è una delle vere sorprese dell’anno.<br />

Il Manifesto - Silvana Silvestri - 30/05/<strong>2008</strong><br />

Se ‘canta che ti passa’ è ormai il motto dell’Europa impoverita,<br />

“Once” di John Carney (distribuisce Sacher), Oscar<br />

<strong>2008</strong> per <strong>la</strong> canzone ‘Falling Slowly’ è il film emblematico<br />

del<strong>la</strong> rinascita del film musicale. Anche in Italia il<br />

genere ebbe i suoi fasti nei periodi di maggiore povertà<br />

diffusa, il dopoguerra di C<strong>la</strong>udio Vil<strong>la</strong>, i musicarelli non<br />

ancora sfiorati dal boom, fino a X Factor dei giorni nostri,<br />

92<br />

immaginata come unica chance di un possibile futuro. Il<br />

sound ir<strong>la</strong>ndese dei ‘The Frames’ è il film stesso, Carney<br />

fa parte del<strong>la</strong> band come il protagonista Glen Hansard e <strong>la</strong><br />

protagonista morava Markéta Irglová. Il semplice intreccio<br />

di ‘boy meet girl’, ragazzo incontra ragazza, è complicato<br />

dal<strong>la</strong> cupa realtà di una Dublino in cui si suona sui<br />

marciapiedi per sbarcare il lunario (come secondo <strong>la</strong>voro)<br />

e il costo di un pianoforte è proibitivo. Due talenti musicali<br />

si incontrano casualmente per strada e sviluppano<br />

insieme una serie di canzoni come beffarda risposta alle<br />

difficili situazioni del<strong>la</strong> vita. Lei è una immigrata proveniente<br />

dai paesi dell’est e si rive<strong>la</strong> una brava pianista, lui<br />

ha il cuore spezzato da una ragazza che se ne è andata a<br />

Londra e scrive canzoni che non <strong>la</strong>sciano indifferenti. Il<br />

loro incontro avvicina moltissimo le loro abilità artistiche,<br />

ma li tiene a debita distanza, senza forzare sentimenti che<br />

non provano. Scommettono ogni emozione sul<strong>la</strong> creatività,<br />

sul comune amore per <strong>la</strong> musica. Il disprezzo per <strong>la</strong><br />

creatività artistica nei paesi toccati da neoliberismo emerge<br />

in “Once” con una evidenza che si fa <strong>la</strong>rgo in ogni<br />

scena, anche se le canzoni <strong>sono</strong> l’elemento portante dell’intreccio.<br />

Canzoni abbozzate, solo accennate, poi e<strong>la</strong>borate<br />

in <strong>due</strong>tto, infine incise al meglio in una sa<strong>la</strong> professionale.<br />

Forte di alcuni cd, il futuro è nelle case di incisioni<br />

di Londra. Così si <strong>sono</strong> spa<strong>la</strong>ncate anche per Carney e<br />

i suoi le porte di Hollywood, dopo il successo del film. Un<br />

amico, dice, gli ha riferito di aver sentito Spielberg dire:<br />

‘questo piccolo film mi ha dato ispirazione per il resto dell’anno’,<br />

frase che ormai accompagna come un portafortuna<br />

il film nel suo tour (e anche gli incassi <strong>sono</strong> stati notevoli).<br />

Carney si ispira un po’ al<strong>la</strong> nouvelle vague, un po’<br />

al neorealismo, dice. E ha preso parecchi spunti dal<strong>la</strong> sua<br />

esperienza personale, le band ir<strong>la</strong>ndesi infatti vivono un<br />

po’ al<strong>la</strong> giornata (non tutti <strong>sono</strong> gli U2), ha chiesto soldi in<br />

prestito in banca portando un suo video come garanzia<br />

(sfidiamo qualcuno a farlo in Italia), ha dato brevi indicazioni<br />

a Glen Hansard per le sue canzoni e costruito il film<br />

un po’ al<strong>la</strong> volta, si è tenuto lontano dai personaggi come<br />

fossero passanti sconosciuti (non è educato avvicinarsi<br />

troppo al<strong>la</strong> loro privacy), ha fatto innervosire il direttore<br />

del<strong>la</strong> fotografia perché spesso ha girato per strada e senza<br />

<strong>la</strong>sciargli il tempo di montare il parco <strong>la</strong>mpade negli interni,<br />

soprattutto ha ridotto tutto al minimo. John Carney sta<br />

ora preparando il suo prossimo dark film a Hollywood, ha<br />

raggiunto il suo personale lieto fine, anche se confessa:<br />

‘Devo solo stare attento a non fare l’ennesimo film con<br />

l’happy end. Neanche a Spielberg certe volte i finali<br />

riescono tanto bene’.


22<br />

Regia: Susanne Bier<br />

Interpreti: Halle Berry (Audrey Burke), Benicio Del<br />

Toro (Jerry Sunborne), David Duchovny (Brian Burke),<br />

Alexis Llewellyn (Harper Burke), Micah Berry (Dory<br />

Burke), John Carroll Lynch (Howard G<strong>la</strong>ssman), Alison<br />

Lohman (Kelly), Robin Weigert (Brenda), Omar Benson<br />

Miller (Neal), Pau<strong>la</strong> Newsome (Diane), Sarah Dubrovsky<br />

(Spring), Maureen Thomas (Nonna Ginnie Burke), James<br />

Lafazanos (Arnie), Liam James (Cugino Dave), Quinn<br />

Lord (Cugino Joel), Patricia Harras (Moglie di Howard),<br />

Abraham Jedidiah (Sig. Skopes), Ken Tremblett (Marito<br />

di Brenda), Caroline Field (Teresa Haddock)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Gran Bretagna/Stati Uniti d’America<br />

Stagione: 2007/<strong>2008</strong><br />

Soggetto: Al<strong>la</strong>n Loeb<br />

Sceneggiatura: Al<strong>la</strong>n Loeb<br />

Fotografia: Tom Stern<br />

Musica: Johan Söderqvist, Gustavo Santao<strong>la</strong>l<strong>la</strong><br />

Montaggio: <strong>Per</strong>nille Bech Christensen, Bruce Cannon<br />

Durata: 118’<br />

Produzione: Dreamworks Skg, Neal Street Productions,<br />

Scamp Film And Theatre Ltd.<br />

Distribuzione: Teodora Film (<strong>2008</strong>)<br />

NOI DUE CONOSCIUTI<br />

23-24 aprile <strong>2009</strong><br />

93<br />

Soggetto<br />

Seattle, Audrey ha perso il marito Brian ed è rimasta con<br />

i <strong>due</strong> figli piccoli Harper e Dory. Nel<strong>la</strong> casa vicino a loro<br />

arriva Jerry, alcolista disadattato e miglior amico di<br />

Brian. Jerry sta cercando di guarire; Audrey sta cercando<br />

di continuare a vivere. I <strong>due</strong> <strong>sono</strong> ma<strong>la</strong>ti, un po’ si sorreggono<br />

un po’ si ostaco<strong>la</strong>no, si respingono e si attirano.<br />

Entrambi vogliono ricominciare una nuova vita.<br />

Valutazione<br />

Segna<strong>la</strong>tasi con <strong>due</strong> titoli convincenti (“Non desiderare<br />

<strong>la</strong> donna d’altri”, 2004; “Dopo il matrimonio”, 2006), <strong>la</strong><br />

danese Susanne Bier esordisce nel cinema americano,<br />

ripercorrendo <strong>la</strong> strada di molti suoi illustri predecessori<br />

(Curtis, Sirk, Zinnemann...). La ma<strong>la</strong>ttia e <strong>la</strong> difficoltà di<br />

e<strong>la</strong>borare il lutto si incontrano lungo un terreno irto di<br />

problemi e di chiaroscuri. Il cammino di Jerry per uscire<br />

dal<strong>la</strong> dipendenza dall’alcool è all’insegna di s<strong>la</strong>nci contraddittori<br />

e sfocia nel<strong>la</strong> scena-madre del<strong>la</strong> grande crisi. Il<br />

dolore di Audrey scandisce le tappe di un atteggiamento<br />

verso l’assenza da ricostruire con nuova forza e solidità<br />

caratteriale. I temi ci <strong>sono</strong> (<strong>la</strong> famiglia, i figli, l’assenza<br />

del padre, il <strong>la</strong>voro, l’amicizia, l’alcool, l’amore trattenuto...)<br />

ma lo svolgimento, più che sul dramma, vira appunto<br />

sul melodramma, sul<strong>la</strong> forte esposizione dei sentimenti,<br />

sullo sconvolgimento interiore. Bier costruisce un<br />

meccanismo solido e coerente, facendo riflettere e insieme<br />

scavalcando ogni possibile suggestione didascalica.


Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Maurizio Porro - 13/06/<strong>2008</strong><br />

Non è un remake, ma <strong>la</strong>ggiù nel ‘60 i <strong>due</strong> sconosciuti<br />

erano Doug<strong>la</strong>s e Kim Novak; qui nel primo film hollywoodiano<br />

del<strong>la</strong> danese Susanne Bier, che usa il dècor spoglio<br />

e i primi piani del Dogma (ma non li faceva già il<br />

grande Bergman?), vanno incontro ai loro destini sentimentali<br />

Halle Berry e il neo premiato a Cannes Benicio<br />

del Toro. Che prima di fare il Che, è un avvocato eroinomane,<br />

ex migliore, più disadattato e strafatto amico di un<br />

gentile, benestante marito e padre che una sera, periferia<br />

di Seattle, perde <strong>la</strong> vita in un incidente stupido e banale:<br />

non porterà mai più a casa il ge<strong>la</strong>to. La moglie, per rimuovere<br />

il lutto, invita l’altro, sempre a lei inviso, a stabilirsi<br />

in casa: si aiutano a vicenda, ma è <strong>la</strong> disintossicazione che<br />

viene programmata davanti ai <strong>due</strong> piccini che si affezionano<br />

al nuovo papà isterico tanto da organizzargli dei bei<br />

ricatti affettivi. Non va come l’olio: l’importante è disintossicarsi<br />

dai ricordi (‘Le cose che abbiamo perso nell’<br />

incendio’, dice il titolo originale), reagire al<strong>la</strong> dittatura<br />

del<strong>la</strong> memoria e del rimpianto, riuscire a guardare avanti,<br />

all’originalità sveviana del<strong>la</strong> vita, compresi i percorsi<br />

affettivi a zig zag, spesso imperscrutabili o resi zoppi da<br />

pregiudizi. Il finale porta rose, ma non ancora <strong>la</strong> felicità,<br />

mentre l’ombra del caro estinto David Duchovny si materializza<br />

nei f<strong>la</strong>sh back come un “Ghost” versione dramma.<br />

La Bier è una specialista nei melò frenati, autrice di<br />

“Dopo il matrimonio” e “Non desiderare <strong>la</strong> donna d’altri”.<br />

Azzarda qui <strong>la</strong> mossa dell’interscambiabilità dei ruoli<br />

familiari, tenendo a bada <strong>la</strong> retorica attenta a non far festa<br />

banale. Scritturata dal<strong>la</strong> Dreamworks <strong>la</strong> regista si butta in<br />

un disegno tipo “American beauty” ma senza cercare con<br />

malizia il sesso contorto, esaminando l’angoscia che sta<br />

dentro una situazione di stallo borghese, un qualcosa che<br />

dal pubblico lentamente striscia nel<strong>la</strong> privacy e ne mina <strong>la</strong><br />

stabilità. La Berry è brava, mentre Del Toro fa proprio il<br />

tipo che piace anche quando si presenta al centro di disintossicazione.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 13/06/<strong>2008</strong><br />

Primo film americano, prodotto da Sam Mendes, del<strong>la</strong><br />

ammirata regista danese Susanne Bier, già autrice di<br />

“Dopo il matrimonio”, di “Non desiderare <strong>la</strong> donna d’altri”.<br />

Con Halle Berry e Benicio Del Toro bravi, “Noi <strong>due</strong><br />

sconosciuti” è più sentimentale, meno asciutto dei film<br />

precedenti, ma non meno importante e significativo. La<br />

morte di un architetto, ucciso durante una rissa per strada,<br />

<strong>la</strong>scia vedova sua moglie, orfani i suoi ragazzi, solo il suo<br />

migliore amico, un tossicomane caotico. La moglie vuole<br />

seguitare ad assistere l’amico, come faceva suo marito: lo<br />

aiuta, lo ospita in casa, gli fa trovare <strong>la</strong>voro. Con grande<br />

delicatezza il film <strong>la</strong>scia capire che tra i <strong>due</strong> c’è un rapporto<br />

fatto di necessità, di compagnia e di amicizia, di esigenza<br />

di affetto, di indispensabilità di riformare una nuova<br />

famiglia (specialmente da parte di lei). Poi: ‘Devi andartene’,<br />

e lo convince a entrare in clinica per disintossicarsi.<br />

La sensibilità del<strong>la</strong> Bier, come interprete di sentimenti, <strong>la</strong><br />

sua forza narrativa ne fanno un’autrice straordinaria per<br />

dolcezza e rettitudine. Anche per sapienza nel dirigere gli<br />

attori: Halle Berry e Benicio Del Toro, sempre espansivi<br />

94<br />

ed esteriori, arrivano qui a una recitazione davvero sobria<br />

e interiorizzata.<br />

Il Manifesto - Roberto Silvestri - 13/06/<strong>2008</strong><br />

‘Farsi una pera? È come ricevere un bacio da Dio. Ma una<br />

volta so<strong>la</strong>, <strong>la</strong> prima: dopo quell’esperienza meravigliosa<br />

non ci sarà mai più il bis, si oscillerà solo tra evasione e<br />

nausea’...’Fammi evadere con te’, chiede allora lei,<br />

Audrey. Lui, Jerry, non lo permetterà mai, troppo dark<br />

quei viaggi...<br />

Giovane mamma di <strong>due</strong> figli piccoli, e da poco vedova<br />

inconso<strong>la</strong>bile, Audrey Burke (Halle Berry) chiama a vivere<br />

in casa sua l’uomo che “amava odiare”, il migliore<br />

amico del marito immobiliarista (ucciso da un pazzo) l’ex<br />

avvocato rampante, poi distrutto dall’eroina, Jerry<br />

Sunborne (Benicio Del Toro) che ha incrociato forzosamente<br />

(e antipaticamente) al funerale mentre raccattava<br />

mozziconi di sigaretta. Jerry, che vuol disintossicarlo, e il<br />

cambio di casa facilita lo sforzo, conosce piccoli e grandi<br />

segreti del deceduto (e anche dei suoi figli) che perfino <strong>la</strong><br />

madre ignora. Molte delle ‘massime celebri’ del marito,<br />

imperativi morali, trucchi esistenziali, erano in realtà farina<br />

del sacco dell’amico. Che conosce anche alcuni vizi dei<br />

ragazzi, come marinare a scuo<strong>la</strong> e andare invece in quel<br />

cinema che, in un certo periodo dell’anno, dedica matinée<br />

imperdibili (per papà e figlia) ai c<strong>la</strong>ssici del cinema americano<br />

in bianco e nero...<br />

Ma <strong>la</strong> sensibilità, <strong>la</strong> devozione al<strong>la</strong> casa e al defunto, <strong>la</strong><br />

raffinatezza psicologica di Jerry urtano a poco a poco <strong>la</strong><br />

suscettibilità di Audrey: ‘Sono figli miei, non tuoi, io li<br />

devo educare, io devo insegnare a mio figlio a non aver<br />

paura di nuotare e a respirare sott’acqua’. Ma è Jerry a fargli<br />

superare lo shock...E quando sta per nascere (o rinascere)<br />

quasi qualcosa di tenero tra i <strong>due</strong> - ma che verrà<br />

interpretato da entrambi, probabilmente a torto, come un<br />

falso sentimento, causato dal partico<strong>la</strong>re stato di disperazione<br />

psicologica di entrambi - lei lo sbatte con fermezza<br />

fuori di casa. Jerry che si era appena ripreso, anche <strong>la</strong>vorativamente<br />

(grazie all’aiuto di un bizzarro vicino di casa<br />

dei Burke, e all’affetto di una ragazza che condivideva con<br />

lui il training dei gruppi di autocoscienza anti-droga, preghiere<br />

a parte), ripiomba nel caos esistenziale e morirebbe<br />

di overdose se non ‘arrivassero i nostri’, Audrey appunto,<br />

a strapparlo al<strong>la</strong> morte. Ma l’happy end amoroso non ci<br />

sarà, mai. Le intense re<strong>la</strong>zioni incrociate d’amore tra i tre<br />

<strong>sono</strong> sempre avvenute in dimensioni mai comunicanti tra<br />

loro.... Dramma psicofamiliare, ambientato a Seattle<br />

(Washington) “Noi <strong>due</strong> sconosciuti”, (“Things we lost in<br />

the fire”) scritto e diretto dal<strong>la</strong> cineasta danese (di cui è<br />

appena uscita in Italia l’opera omnia in cofanetto dvd) non<br />

è stato ‘rimontato’ secondo le statistiche di mercato, cioé<br />

a standard linguistico rigido. Ci <strong>sono</strong> improvvise aperture<br />

senza chiusura in questa storia curva, svolte proibite sperdute<br />

nel vuoto, misteri inspiegati. La bellezza di questo<br />

viaggio del<strong>la</strong> Bier in America (Sam Mendes ne è guida,<br />

come produttore) è qui. In più il titolo italiano, omaggio<br />

all’omonimo dramma acido di Richard Quine: e un bel po’<br />

di quel tono cool (guardare bene in faccia <strong>la</strong> morte per<br />

amar<strong>la</strong>, con presenza di spirito) è molto ben rievocato.


L’Eco di Bergamo - Achille Frezzato - 18/06/<strong>2008</strong><br />

La danese Susan Bier, <strong>la</strong> regista di “Non desiderare <strong>la</strong><br />

donna d’altri” e di “Dopo il matrimonio”, opere melodrammatiche<br />

sul senso del<strong>la</strong> vita, sull’amore e le sue complicazioni,<br />

sull’altruismo, firma con “Noi <strong>due</strong> sconosciuti”<br />

il suo primo lungometraggio hollywoodiano: un<br />

muovo melodramma in cui, con sobria partecipazione,<br />

racconta l’incontro fra <strong>due</strong> anime perdute, ma in grado di<br />

affrontare, aiutandosi reciprocamente, le vicissitudini<br />

del<strong>la</strong> vita. A Seattle, Audrey (Halle Berry) e Brian (David<br />

Duchovny), un architetto, e i loro <strong>due</strong> figli conducono una<br />

vita tranquil<strong>la</strong>, lievemente turbata dall’amicizia, per<br />

Audrey immotivata, che il marito nutre per Jerry (Benicio<br />

Del Toro), un avvocato eroinomane abbandonato da tutti.<br />

All’improvviso Brian muore e Audrey, dopo averlo invitato<br />

al funerale, offre ospitalità a Jerry, scoprendo giorno<br />

dopo giorno una persona del tutto diversa da quel<strong>la</strong> detestata.<br />

In “Noi <strong>due</strong> sconosciuti”, ben interpretato e caratterizzato<br />

da una narrazione a incastro, Susanne Bier ripropone<br />

il ‘suo’ cinema introspettivo. Da un <strong>la</strong>to, dipinge,<br />

soffermandosi su significativi dettagli, un mondo insicuro,<br />

in difficoltà di fronte alle improvvise svolte, ai drammi<br />

del<strong>la</strong> vita. Dall’altro, si mostra attenta a dire il dolore dell’assenza,<br />

a rilevare momenti di solitudine e di disperante<br />

vuoto e, sempre attraverso primi e primissimi piani e con<br />

l’impiego di una cinepresa a mano, a cogliere sui volti, nei<br />

gesti e nelle espressioni le emozioni, i trasalimenti dell’anima<br />

di <strong>due</strong> persone sole e caratterialmente diverse. Due<br />

persone che coraggiosamente intraprendono un percorso<br />

di crescita, che permette di vivere nell’assenza del<strong>la</strong> persona<br />

amata e nel<strong>la</strong> cessata dipendenza dal<strong>la</strong> droga. Ciò<br />

che conta nel<strong>la</strong> vita non è costituito dai beni materiali,<br />

dagli oggetti pur amati e ridotti in cenere da un incendio<br />

(vi allude il titolo originale: “Things we lost in the fire”).<br />

Ciò che ha effettivo valore in ogni momento dell’esistenza,<br />

per Susanne Bier e i protagonisti del<strong>la</strong> sua storia, <strong>sono</strong><br />

<strong>la</strong> disponibilità a comprendersi e ad aiutarsi, <strong>sono</strong> gli affetti,<br />

l’amicizia, l’amore.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce - 17/06/<strong>2008</strong><br />

Sono tutti e <strong>due</strong> molto bravi, l’afroamericana Halle Berry<br />

e il portoricano Benicio Del Toro, nell’ambiguità compressa<br />

e dolente dei loro ruoli, nel bilico dei loro sentimenti,<br />

nel confronto delle loro sospensioni e tensioni, lei<br />

95<br />

Audrey di una ora dolce e ora <strong>la</strong>crimata e cruda intensità<br />

d’anima, lui Jerry di forte espressività anche fisica tra sogghigni<br />

scimmieschi e <strong>la</strong>mpi di luce con straordinaria,<br />

gamma di tremori, astinenze, fragilità, speranze.<br />

Audrey è appena rimasta vedova di Brian (David<br />

Duchovny) con <strong>due</strong> bambini, ha perso il marito architetto<br />

ucciso per strada mentre cercava di aiutare una donna brutalizzata<br />

dal marito. Quasi per richiamarselo vicino, restare<br />

fedele al<strong>la</strong> sua memoria di uomo generoso sempre pronto<br />

a cogliere in una persona ‘quello che c’è di buono’, fa<br />

venire anche Jerry alle esequie di Brian. Lei l’aveva odiato<br />

perché avvocato disperatamente allo sbando, tossicomane<br />

inguaribile, e con il pretesto di un’antica amicizia di<br />

scuo<strong>la</strong>, tanto aiutato e curato da Brian. Ma ora, per contrappasso,<br />

Audrey intende comportarsi con Jerry come<br />

faceva Brian. Cerca di aiutarlo, lo consiglia, lo va a trovare<br />

in clinica dove Jerry s’arrangia in qualche mansione<br />

manuale, finisce per ospitarlo in casa, chiedergli una presenza<br />

affettuosa che le ridoni il sonno, anche se con qualche<br />

soprassalto in chiusura, quando vede i propri bambini<br />

guardare a Jerry con tenerezza troppo filiale, o si trova a<br />

temere propri inespressi risvolti d’amore, o non riesce a<br />

sottrarre Jerry alle distruttive tentazioni del<strong>la</strong> droga. <strong>Per</strong><br />

Audrey e Jerry, non potrà non esserci diverso destino.<br />

Al<strong>la</strong> sua prima esperienza americana, <strong>la</strong> danese Susanne<br />

Bier, pur in una sceneggiatura firmata da Al<strong>la</strong>n Loeb con<br />

sviluppi d’azione alquanto prevedibili, non rinuncia a temi<br />

a lei cari, come già intravisti in “Non desiderare <strong>la</strong> donna<br />

d’altri” e “Dopo il matrimonio”, quel<strong>la</strong> filtratura ambiguamente<br />

complessa di caratteri, umori, destini tra amore<br />

e dolore, complesso di colpa e speranza di vita nel (melo)<br />

drammatico confronto di re<strong>la</strong>zioni aggroppate tra remore<br />

del passato e cognizioni sconvolgenti.<br />

Pupil<strong>la</strong> di Lars von Trier, <strong>la</strong> Bier ne riflette <strong>la</strong> lezione, ma<br />

a modo suo, con diversa intelligenza e sensibilità. Trova<br />

elementi espressivi forti di dolorosa tensione nel sistematico<br />

uso di uno scaltrito montaggio scivoloso a rimpallo<br />

tra passato e presente, realtà e incubo e sogno, nel<strong>la</strong><br />

inquietante fissità dei primi piani, nell’orchestrazione<br />

degli sguardi, negli estatici refrain, dei dettagli, un occhio,<br />

un battito di ciglia, <strong>due</strong> <strong>la</strong>bbra, una mano, una carezza, un<br />

piede, un sorriso, nel<strong>la</strong> suggestione dei contrappunti musicali,<br />

e pur sul limite dell’artificio nel<strong>la</strong> salda direzione<br />

degli interpreti.


23<br />

VICKY CRIST<strong>IN</strong>A BARCELONA<br />

mercoledì 29 - giovedì 30 aprile <strong>2009</strong><br />

Genere: Commedia<br />

Regia: Woody Allen<br />

Interpreti: Scarlett Johansson (Cristina), Rebecca Hall<br />

(Vicky), Javier Bardem (Juan Antonio), Penelope Cruz<br />

(Maria Elena), Patricia C<strong>la</strong>rkson (Judy Nash), Kevin<br />

Dunn (Mark Nash), Chris Messina (Doug), Julio <strong>Per</strong>il<strong>la</strong>n<br />

(Charles), Pablo Schreiber (Ben), Carrie Preston (Sally),<br />

Zak Orth (Adam).<br />

Nazionalità: Stati Uniti<br />

Distribuzione: Medusa Film<br />

Orig.: Stati Uniti (<strong>2008</strong>)<br />

Sogg. e scenegg.: Woody Allen<br />

Fotogr. (Normale/a colori): Javier Aguirresarobe<br />

Mus.: brani di autori vari<br />

Montagg.: Alisa Lepselter<br />

Dur.: 97’<br />

Produz.: Letty Aronson, Gareth Wiley, Stephen<br />

Tenenbaum.<br />

96<br />

Soggetto<br />

Due turiste americane, Vicky e Cristina, che danno il<br />

nome al film, in viaggio nel<strong>la</strong> città cata<strong>la</strong>na, fanno perdere<br />

<strong>la</strong> testa ad un irresistibile pittore spagnolo. Se già non<br />

bastasse questo triangolo amoroso a rendere bollente <strong>la</strong><br />

situazione, ci si mette pure l’ex-fidanzata dell’artista, che<br />

al<strong>la</strong> vista del “suo” uomo insieme a <strong>due</strong> straniere si fa travolgere<br />

dal<strong>la</strong> gelosia...<br />

Valutazione<br />

Woody Allen dirige e firma <strong>la</strong> sua escursione in terra spagno<strong>la</strong>.<br />

Da Barcellona a Oviedo e poi ancora a Barcellona, seguiamo<br />

il viaggio “di formazione” di <strong>due</strong> amiche americane,<br />

Vicky (una convincente Rebecca Hall) e Cristina (Scarlett<br />

Johansson che qui rifà se stessa).<br />

La prima è in procinto di sposarsi con un noioso americano<br />

e studia <strong>la</strong> cultura cata<strong>la</strong>na, <strong>la</strong> seconda è single, scrive,<br />

fa fotografie e sogna l’amore tragico e romantico. A<br />

Barcellona incontreranno il fascinoso Juan Antonio<br />

(Javier Bardem) un pittore ancora innamorato del<strong>la</strong> focosa<br />

Maria Elena (Penélope Cruz), <strong>la</strong> moglie da cui vive<br />

separato. Juan Antonio propone alle <strong>due</strong> giovani un weekend<br />

di arte, cibo e sesso a Oviedo. Saranno lunghi e illuminanti<br />

i <strong>due</strong> mesi estivi a Barcellona, per Vicky e<br />

Cristina.<br />

Allen si <strong>la</strong>scia sedurre ancora una volta dall’Europa e<br />

dal<strong>la</strong> sua città più romantica, insieme a Roma e Parigi.<br />

Dopo Londra, dopo il noir e le atmosfere cupe, il regista<br />

newyorchese torna al<strong>la</strong> commedia, so<strong>la</strong>re e umoristica. Si


ide con Vicky Cristina Barcelona, si ammirano paesaggi<br />

e opere d’arte, si percepisce perfino il calore del sole che<br />

dà al<strong>la</strong> testa, si batte il piede seguendo il ritmo del tema<br />

musicale del film.<br />

Così di gag in gag, assistiamo al farsi e disfarsi dei legami,<br />

Vicky con Juan Antonio, poi è <strong>la</strong> volta di Cristina e poi<br />

anche di Maria Elena, che ricompare in un divertente legame<br />

a tre, poi ancora Vicky. Le ossessioni del<strong>la</strong> ricca borghesia,<br />

le sue finte trasgressioni <strong>sono</strong> ferocemente ritratte,<br />

così come <strong>la</strong> vaghezza di certe aspirazioni pseudo artistiche.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Paolo Mereghetti - 17/05/<strong>2008</strong><br />

App<strong>la</strong>usi convinti e <strong>sono</strong>ri ulu<strong>la</strong>ti hanno accolto ieri <strong>la</strong><br />

proiezione per <strong>la</strong> stampa del nuovo film di Woody Allen<br />

Vicky Cristina Barcelona, dal nome delle <strong>due</strong> protagoniste<br />

e del<strong>la</strong> città dove passeranno un’ estate che non dimenticheranno<br />

facilmente. Due reazioni in qualche modo giustificate<br />

perché il film ha momenti davvero esi<strong>la</strong>ranti<br />

(soprattutto per merito di Javier Bardem e Penélope Cruz)<br />

e altri decisamente macchinosi e fin troppo didascalici,<br />

con una voce fuori campo invadente fino al fastidio. Vicky<br />

e Cristina, cioè Rebecca Hall (eccellente) e Scarlett<br />

Johansson (un po’ troppo uguale a se stessa), sbarcano a<br />

Barcellona per una vacanza: <strong>la</strong> prima, razionale e concreta,<br />

ha <strong>la</strong>sciato il promesso sposo a New York; <strong>la</strong> seconda,<br />

irrazionale e spensierata, vuole vivere al<strong>la</strong> giornata. A<br />

cambiare le loro vite ci penserà un pittore, Juan Antonio<br />

(Javier Bardem), che incarna tutte le virtù, e i vizi, che l’<br />

Europa possiede agli occhi degli americani: sensualità,<br />

spontaneità, cultura, fascino e naturalmente spregiudicatezza.<br />

Prima mette in crisi le certezze di Vicky con una<br />

inaspettata notte d’ amore, poi conquista Cristina con il<br />

fascino dell’ intellettuale tutto genio e srego<strong>la</strong>tezza. A<br />

mettere in discussione <strong>la</strong> «normalità» riconquistata (Vicky<br />

si è messa il cuore in pace, Cristina fa coppia fissa con<br />

Juan Antonio) arrivano il fidanzato americano del<strong>la</strong> prima<br />

e l’ ex moglie del secondo. È il momento in cui Woody<br />

Allen, che come sempre firma anche <strong>la</strong> sceneggiatura,<br />

trova i suoi momenti migliori, ironizzando sul<strong>la</strong> noia dei<br />

maschi americani, che pensano solo al <strong>la</strong>voro e a giocare<br />

a golf, e sul<strong>la</strong> follia di quelli europei, incapaci di decidersi.<br />

<strong>Per</strong>ché naturalmente Juan Antonio è ancora innamoratissimo<br />

del<strong>la</strong> sua ex moglie Maria Elena (una Cruz in<br />

grande forma) e finisce per coinvolgere Cristina in un<br />

«rapporto a tre» che sullo schermo si concretizza in pudichi<br />

baci di pochi secondi (prima tra le <strong>due</strong> donne, poi con<br />

l’ intervento dell’ uomo) ma che nel<strong>la</strong> fantasia dello spettatore<br />

dovrebbe rappresentare il massimo del<strong>la</strong> trasgressione.<br />

Peccato che al<strong>la</strong> fine nessuno sia felice. Né Vicky<br />

che sogna impossibile fughe romantiche, né Cristina che<br />

non riesce ad accettare di condividere Juan Antonio, né<br />

naturalmente Maria Elena, che appena si trova campo<br />

libero non sa trattenere rabbie e paure. E un finale di<br />

«sconfitta» per tutti sembra <strong>la</strong> morale piuttosto disincantata<br />

di un Woody Allen che ha messo da parte le riflessioni<br />

morali sul<strong>la</strong> colpa e <strong>la</strong> responsabilità (al centro dei tre<br />

film girati in Gran Bretagna) e si diverte a punzecchiare i<br />

97<br />

propri connazionali, incapaci di capire cosa vogliano davvero:<br />

se <strong>la</strong> rispettabilità (e l’ agiatezza) borghese o <strong>la</strong> passione<br />

(e l’ appagamento) dei sentimenti.<br />

Fulvia Caprara - Il Mattino, 17 maggio <strong>2008</strong><br />

Come <strong>sono</strong> eccitanti, secondo Woody, le vacanze d’estate<br />

a Barcellona. Specie quando a godersele <strong>sono</strong> <strong>due</strong> signorine<br />

inquiete e sexy come Rebecca Hall e Scarlett<br />

Johansson. Un’ora e mezza secca, come ai bei tempi: il<br />

cinema del piccolo grande regista non ha per fortuna<br />

molto tempo da perdere. A rendere ancora più calda <strong>la</strong> trasferta<br />

ci pensano <strong>due</strong> personaggi che, guarda caso, <strong>sono</strong><br />

anche <strong>due</strong> attori-simbolo del<strong>la</strong> nazione ospitante: lo spudorato<br />

pittore Javier Bardem e <strong>la</strong> squinternata ex moglie<br />

Penelope Cruz ….<br />

«Vicky Cristina Barcelona» è una deliziosa commedia da<br />

viaggio (iniziatico), che evoca i tormentosi intrecci del<strong>la</strong><br />

passione cari al Truffaut di «Jules e Jim» o «Le <strong>due</strong> inglesi»,<br />

ma poi finisce con l’acquistare un tono malizioso e<br />

pungente degno di Lubitsch. Quando le <strong>due</strong> turiste americane<br />

incontrano l’aitante pittore (al quale Bardem si diverte<br />

a dare un’aria esi<strong>la</strong>rante da babbione machista), si capisce<br />

che ci finiranno a letto; ma non si può prevedere che i<br />

divergenti caratteri delle moderne girls - l’una razionale,<br />

leale e avviata a un matrimonio squallido; l’altra civetta,<br />

sensuale e pronta alle sfide del<strong>la</strong> mentalità libera degli<br />

indigeni - saranno, sia pure in maniera brutale, rivitalizzati<br />

dall’entrata in scena del<strong>la</strong> vulcanica, incontenibile Cruz.<br />

Tra le citazioni ammiccanti di Gaudi e Mirò, <strong>la</strong> Sagrada<br />

Familia e il Parc Guell - con <strong>la</strong> parentesi di una galeotta<br />

gita a Oviedo - <strong>la</strong> follia mediterranea contagerà beneficamente<br />

il pragmatico puritanesimo yankee, come sancisce<br />

il liberatorio bacio saffico a cui s’abbandonano <strong>la</strong> mora<br />

Penelope e <strong>la</strong> bionda Scarlett. Allen sa bene, però, che <strong>la</strong><br />

tristezza cova sotto le ceneri d’ogni amplesso e sbarra <strong>la</strong><br />

strada dell’happy end con tutta <strong>la</strong> c<strong>la</strong>sse del suo scetticismo.<br />

Alessandra De Luca Avvenire 18 maggio <strong>2008</strong><br />

Le risate e gli app<strong>la</strong>usi non <strong>sono</strong> mancati, ma al<strong>la</strong> fine l’ultimo<br />

film di Woody Allen, <strong>la</strong> commedia Vicky Cristina<br />

Barcelona presentato ieri a Cannes fuori concorso ha<br />

rimediato anche molti dissensi dal pubblico degli addetti<br />

ai <strong>la</strong>vori. Sarà perché da questo autore che con i suoi ultimi<br />

film ci ha fatto riflettere su delitti e castighi ci si aspettava<br />

molto di più. O forse perché a scene davvero divertenti<br />

si mesco<strong>la</strong>no situazioni e morali un po’ scontate. Due<br />

amiche (Rebecca Hall e Scarlett Johansson) arrivano in<br />

Spagna per trascorrere l’estate. A Barcellona incontrano<br />

un eccentrico e affascinante pittore, Juan Antonio (Javier<br />

Bardem) tra le cui braccia cadranno prima <strong>la</strong> razionale<br />

Vicky a pochi giorni dal suo matrimonio, e poi <strong>la</strong> spensierata<br />

Cristina abituata ad affrontare con più coraggio <strong>la</strong> sua<br />

vita sentimentale. Ma quando l’artista, che agli occhi delle<br />

ragazze rappresenta tutto ciò che di creativo e liberatorio<br />

esiste nel<strong>la</strong> cultura europea, sembra aver scelto <strong>la</strong> seconda,<br />

ecco rifarsi viva l’ex moglie di Juan Antonio, Maria


Elena, donna irruenta ed emotivamente instabile capace di<br />

condizionare ancora <strong>la</strong> vita del suo precedente partner.<br />

Cristina però è pronta a tutto ed ecco che tra lei, il fidanzato<br />

e <strong>la</strong> nuova arrivata comincia un «rapporto a tre». Al<strong>la</strong><br />

lunga però <strong>la</strong> situazione non regge. E mentre il matrimonio<br />

di Vicky convo<strong>la</strong>ta nel frattempo a nozze, già vacil<strong>la</strong><br />

tra pentimenti e rimpianti, Cristina decide di abbandonare<br />

<strong>la</strong> coppia a un rapporto che non fa per lei. E così, in un<br />

finale tutt’altro che lieto le <strong>due</strong> amiche se ne torneranno<br />

infelici a New York, l’una ingabbiata in un legame matrimoniale<br />

di compromesso, l’altra perennemente al<strong>la</strong> ricerca<br />

di non si sa bene cosa. Mentre tra Juan Antonio e Maria<br />

Elena sarà di nuovo rottura. Conclusione dicevamo piuttosto<br />

prevedibile soprattutto se arriva da un regista che sui<br />

rapporti di coppia ha realizzato pellicole davvero di culto.<br />

Ma non è che per caso, chiede malizioso un giornalista,<br />

Allen si è divertito a mettere in scena una sua personale<br />

fantasia? «<strong>Per</strong> carità — si schernisce il regista— è già così<br />

difficile con un partner! Nel<strong>la</strong> vita reale le persone non<br />

sopravviverebbero a rapporti del genere, a una tale complicazione<br />

sentimentale. Nei film invece è tutto più facile,<br />

anche se al<strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> storia che racconto nessuno è felice».<br />

Penelope Cruz, che insieme a Rebecca Hall ha<br />

accompagnato Allen sul<strong>la</strong> Croisette, viene bombardata in<br />

conferenza stampa da domande sui baci saffici dei film.<br />

La riposta è <strong>la</strong>conica: «Non bisogna essere necessariamente<br />

d’accordo con i personaggi che si interpretano,<br />

l’importante è capirli, amarli. Woody Allen, estremamente<br />

rispettoso di tutti i suoi attori, mi ha fatto fare delle cose<br />

di cui non mi <strong>sono</strong> neanche accorta passando dal tragico<br />

al comico con estrema disinvoltura».<br />

Giancarlo Zappoli – My Movies <strong>2008</strong><br />

Vicky e Cristina <strong>sono</strong> buone amiche anche se hanno visioni<br />

completamente differenti dell’amore. Vicky è fedele<br />

all’uomo che sta per sposare e ancorata ai propri principi.<br />

Cristina invece è disinibita e continuamente al<strong>la</strong> ricerca di<br />

una passione amorosa che <strong>la</strong> sconvolga. Vicky riceve da<br />

<strong>due</strong> amici di famiglia l’offerta di trascorrere una vacanza<br />

in casa loro a Barcellona durante l’estate. La ragazza<br />

pensa cosi’ di poter approfondire <strong>la</strong> propria conoscenza<br />

del<strong>la</strong> cultura cata<strong>la</strong>na sul<strong>la</strong> quale sta <strong>la</strong>vorando per un<br />

master. Propone a Cristina di accompagnar<strong>la</strong>, così forse<br />

potrà superare meglio il trauma di una storia finita di<br />

recente. Una sera, in una galleria d’arte, Cristina incrocia<br />

lo sguardo di un uomo estremamente attraente. Si tratta<br />

del pittore Juan Antonio, finito di recente su giornali e<br />

televisione per un furibondo litigio con <strong>la</strong> moglie Maria<br />

Elena nel corso del quale uno dei <strong>due</strong> ha cercato di accoltel<strong>la</strong>re<br />

l’altro. Le <strong>due</strong> ragazze lo ritroveranno nel locale in<br />

cui cenano. Anzi, sarà lui ad avvicinarsi al loro tavolo con<br />

una proposta molto chiara: partire subito con il suo aereo<br />

98<br />

privato per recarsi in un hotel ad Oviedo dove potranno<br />

visitare il luogo, apprezzarne tradizioni e cultura (anche<br />

culinaria) e fare entrambe l’amore con lui. Se Cristina non<br />

ha alcun ripensamento nell’accettare <strong>la</strong> proposta, le regole<br />

che Vicky si è imposta <strong>la</strong> spingono a rifiutare in modo<br />

seccato. Cristina l’avrà vinta ma l’amica vuole avere <strong>la</strong><br />

certezza di camere separate e ottiene rassicurazioni in proposito.<br />

Dopo una giornata trascorsa con una prima visita del<strong>la</strong><br />

città, nel corso del<strong>la</strong> quale Juan Antonio dichiara l’amore<br />

che ancora prova per <strong>la</strong> moglie benché sia consapevole<br />

del<strong>la</strong> loro impossibilità a convivere, giunge finalmente <strong>la</strong><br />

notte con l’invito più intrigante. Vicky torna a respingere<br />

l’offerta mentre Cristina accetta. Ma…<br />

Se potete non fatevi raccontare (o non leggete) nul<strong>la</strong> su<br />

come prosegue <strong>la</strong> vicenda. Finireste con il togliervi il piacere<br />

del<strong>la</strong> scoperta di uno dei più riusciti ed ironici film<br />

dell’ultimo Allen. <strong>Per</strong>ché è vero che Woody ha dei temi e<br />

delle scelte narrative su cui periodicamente ritorna (per<br />

questo i detrattori lo accusano di ripetitività) ma quando,<br />

come in questa occasione, sa farlo con un approccio totalmente<br />

nuovo allora è davvero festa in sa<strong>la</strong>. <strong>Per</strong>ché questa<br />

volta <strong>la</strong> scelta dell’Io narrante è funzionale al modo con<br />

cui vengono guardati (e presentati) i personaggi.<br />

Osservate, a titolo di esempio, l’entrata in scena di Juan<br />

Antonio: Javier Bardem è straordinario nel caratterizzare,<br />

già da quel<strong>la</strong> inquadratura, il suo personaggio.<br />

Allen torna a riflettere sul<strong>la</strong> natura di quello che chiamiamo<br />

amore registrando gli spostamenti del cuore che vanno<br />

spesso al di là di ciò che ragione, tradizione, valori acquisiti<br />

ma mai del tutto interiorizzati, sembrerebbero imporre.<br />

Ecco allora che l’impostazione dei caratteri di Vicky e<br />

Cristina diviene da subito funzionale al<strong>la</strong> creazione di<br />

un’attesa. Resteranno salde nelle loro posizioni? In che<br />

misura potrebbero mutare atteggiamento? Quando dall’altra<br />

parte ci <strong>sono</strong> un Bardem che riempie lo schermo per <strong>la</strong><br />

gioia di signore e signorine pronte a partire per Oviedo<br />

senza remore e una Penelope Cruz forse altrettanto efficace<br />

solo nelle mani di Pedro Almodovar, il gioco si fa ancor<br />

più interessante.<br />

Anche perchè Woody ha abbattuto un altro dei suoi tabù.<br />

Se finora solo rarissimamente aveva girato in piena estate<br />

(fatti salvi Una commedia sexy in una notte di mezza estate,<br />

le cui riprese avevano pero’ avuto luogo a poche decine<br />

di chilometri da Manhattan, e alcune scene di Tutti<br />

dicono I Love You) ora è <strong>la</strong> luminosa Barcellona ad attrarre<br />

il suo sguardo. Si sarà senz’altro trattato di esigenze<br />

produttive (come era accaduto per <strong>la</strong> peraltro nuvolosa e<br />

quindi rassicurante Londra). Fatto sta che il calore del<strong>la</strong><br />

città cata<strong>la</strong>na (e del<strong>la</strong> sorprendente Oviedo) si trasmette al<br />

film offrendogli un’ulteriore sensazione di novità!<br />

Felicitaciones Woody!


24<br />

Regia: Pupi Avati<br />

Interpreti: Silvio Or<strong>la</strong>ndo (Michele Casali), Alba<br />

Rohrwacher (Giovanna Casali), Francesca Neri (Delia<br />

Casali), Ezio Greggio (Sergio Ghia), Serena Grandi (Lel<strong>la</strong><br />

Ghia), Paolo Graziosi (Andrea Traxler), Sandro Dori<br />

(Belletti), Edoardo Romano (Pradelli), Chiara Sani<br />

(Amabile), Valeria Bilello (Marcel<strong>la</strong> Traxler)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Italia<br />

Stagione: <strong>2008</strong>/<strong>2009</strong><br />

Soggetto: Pupi Avati<br />

Sceneggiatura: Pupi Avati<br />

Fotografia: Pasquale Rachini<br />

Musica: Riz Orto<strong>la</strong>ni<br />

Montaggio: Amedeo Salfa<br />

Durata: 104’<br />

Produzione: Antonio Avati <strong>Per</strong> Duea Film, Medusa Film<br />

Distribuzione: Medusa (<strong>2008</strong>)<br />

IL PAPÀ DI GIOVANNA<br />

7-8 maggio <strong>2009</strong><br />

99<br />

Soggetto:<br />

Bologna 1938. Michele Casali, insegnante di liceo, viene<br />

a sapere che Giovanna, sua unica figlia ancora adolescente,<br />

ha ucciso per gelosia <strong>la</strong> compagna di banco e sua<br />

migliore amica. Riconosciuta colpevole, <strong>la</strong> ragazza viene<br />

tuttavia ritenuta non sana di mente e rinchiusa nell’ospedale<br />

psichiatrico di Reggio Emilia, dove rimane fino al<br />

1945. Michele <strong>la</strong>scia moglie e casa per trasferirsi vicino a<br />

lei, veder<strong>la</strong> e accudir<strong>la</strong> tutti i giorni. Nel dopoguerra i <strong>due</strong><br />

ritrovano per caso Delia, <strong>la</strong> mamma. Forse una riunificazione<br />

del<strong>la</strong> famiglia è possibile.<br />

Valutazione:<br />

Era uno dei quattro film in concorso a rappresentare<br />

l’Italia al<strong>la</strong> Mostra di Venezia <strong>2008</strong>. La paternità, l’handicap,<br />

lo strazio dei sentimenti difficili da control<strong>la</strong>re: Avati,<br />

più che mai, arpeggia uno spartito delicato e impervio,<br />

acuto e stratificato. “Da qualche tempo - ha detto in c.s. a<br />

Venezia - ho messo in atto una riflessione sul<strong>la</strong> figura<br />

paterna avvertendo che nel corso degli anni si è andata<br />

sempre più sbiadendo (...) Dal gesto sconsiderato del<strong>la</strong><br />

figlia parte una vicenda umana vissuta attraverso gli occhi<br />

del padre che avverte in modo sempre più pressante le<br />

proprie responsabilità”. Avati affronta il tema con toni<br />

accorati, riflessivi, convincenti, e il racconto diventa un<br />

nuovo capitolo di quel diario di ricordi che il regista bolognese<br />

va scrivendo da anni. Affresco d’epoca palpitante,<br />

poesia soffusa, capacità di disegnare dolori e sofferenze su<br />

sfondi di impeccabile precisione descrittiva. Avati è così,<br />

forse non graffia ma non delude mai, cantore gentile delle


piccole cose, del<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> gente, del<strong>la</strong> nostra vita di tutti i<br />

giorni. La memoria del passato si fa in lui filtro per vivere<br />

il presente. E di ogni essere umano vanno difesi e affermati<br />

l’unicità e il suo essere irripetibile.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Tullio Kezich - 12/09/<strong>2008</strong><br />

Mi succede raramente di sfogliare i libri tratti dai film, un<br />

sottoprodotto letterario a puro scopo commerciale, ma<br />

qualche settimana fa in attesa di vedere “Il papà di<br />

Giovanna” non ho resistito al<strong>la</strong> tentazione offerta dall’omonimo<br />

romanzo di Pupi Avati (Mondadori). Ebbene,<br />

dopo poche pagine <strong>la</strong> curiosità si è tramutata in interesse<br />

e <strong>la</strong> storia del povero professore di disegno che si ritrova<br />

con l’adorata figlia unica colpevole di uno spaventoso<br />

delitto, non l’ho più mol<strong>la</strong>ta: mi premeva sapere in quale<br />

modo l’autore giunto al momento di tirare le fi<strong>la</strong> di un<br />

dramma seguito passo passo dal ‘38 al ‘53, si sarebbe<br />

sbrogliato da un tale groviglio di pene perdute, angosce e<br />

<strong>la</strong>cerazioni. Ha funzionato, insomma, l’infallibile mol<strong>la</strong><br />

del ‘come andrà a finire?’ che <strong>la</strong> narrativa contemporanea<br />

spesso trascura. Mentre leggevo, istintivamente cercando<br />

precedenti al<strong>la</strong> scrittura nitida e sapiente di Pupi, mi <strong>sono</strong><br />

venuti in mente Mario Soldati, Piero Chiara e altri inventori<br />

(o riecheggiatori?) di vicende similvere. E ho subito<br />

avvertito <strong>la</strong> partico<strong>la</strong>rità di un testo che sembra ritagliato<br />

da uno dei referti di ordinaria criminalità imperversanti su<br />

giornali e tv, quelle azioni orrende, patologiche, immotivabili<br />

su cui fanno a gara per intervenire, spesso a sproposito,<br />

orde di intervistati-squillo. Ma qui l’origine del<br />

fattaccio è allontanata in un periodo del<strong>la</strong> vita italiana in<br />

cui <strong>la</strong> dittatura vietava l’abuso (se non addirittura l’uso)<br />

del<strong>la</strong> cronaca nera; e dove il peso del<strong>la</strong> politica si faceva<br />

sentire nelle indagini poliziesche e nelle decisioni del<strong>la</strong><br />

magistratura. Ciò che ha fatto Avati, precisando e puntualizzando<br />

le allusioni del film al culmine dell’era fascista e<br />

alle sue disastrose conseguenze, si chiama tramutare in<br />

storia <strong>la</strong> contemporaneità o, visto in senso contrario, leggere<br />

il presente al<strong>la</strong> luce del passato. All’ordito del libro il<br />

film somma <strong>la</strong> capacità del cinema di evocare in diretta gli<br />

ambienti attraversati: e qui fin dai titoli di testa, che fanno<br />

sfi<strong>la</strong>re le foto dei protagonisti in simpatici e comuni atteggiamenti<br />

d’antan, <strong>la</strong> narrazione per immagini si annuncia<br />

come si conviene tra incredulità e distacco, umana comprensione<br />

e ironia. E’ il trionfo dell’ ‘Avati touch’ nel suo<br />

film forse più bello, certo più padroneggiato e maturo: un<br />

apologo che invita a guardare il mondo, nelle sue brutte<br />

storie di ieri e di oggi, senza morbosità né acrimonia.<br />

Attingendo in fondo, con il massimo pudore e senza sottolineature<br />

di sorta, a una lezione d’amore. Una simile<br />

delicata partitura aveva bisogno di esecutori ispirati; e qui<br />

c’è un quartetto di autentici virtuosi. Silvio Or<strong>la</strong>ndo si<br />

comporta da primo violino senza esuberanze né esibizionismi,<br />

in una chiave intimista di sapore quasi dostoevskiano:<br />

lo si accoglie, prima che nel<strong>la</strong> sua qualità di grande<br />

attore, come un fratello. Una coraggiosa e bellissima<br />

Francesca Neri gli tiene testa trovando toni aspri e risentiti,<br />

confermandosi interprete dal<strong>la</strong> gamma incredibilmente<br />

100<br />

estesa. Forte è il segno di Alba Rohrwacher, che trova una<br />

chiave di apparente innocua normalità per addentrarsi<br />

negli oscuri territori del<strong>la</strong> follia. E una rive<strong>la</strong>zione addirittura<br />

è Ezio Greggio, che si trasforma per l’occasione in un<br />

comprimario da Hollywood, capace di attirare l’attenzione<br />

con una tragedia tutta sua.<br />

Panorama - Piera Detassis - 18/09/<strong>2008</strong><br />

Fotografia brunita come le immagini d’epoca che introducono<br />

questo racconto di un’Italia grigia e offesa, serenamente<br />

vile, stretta tra <strong>la</strong> Seconda guerra mondiale, il fascismo<br />

e <strong>la</strong> Liberazione. Il borghese piccolo piccolo di Avati<br />

ha <strong>la</strong> faccia onesta e dolente del professore di disegno<br />

Michele Casati (Silvio Or<strong>la</strong>ndo), ossessionato dal desiderio<br />

di preservare dalle umiliazioni <strong>la</strong> figlia bruttina (Alba<br />

Rohrwacher), al punto da offrire <strong>la</strong> promozione facile<br />

all’unico allievo che mostra interesse nei confronti del<strong>la</strong><br />

ragazza. Eccesso di protezione che diventa criminale<br />

quando <strong>la</strong> diciassettenne Giovanna ammazza senza pentimento<br />

l’amica del cuore sospettandone <strong>la</strong> liaison con l’amato.<br />

Il mondo chiuso che circonda i protagonisti è tratteggiato<br />

al<strong>la</strong> perfezione: <strong>la</strong> bel<strong>la</strong> moglie (una bravissima<br />

Francesca Neri), amata e odiata dal<strong>la</strong> figlia e chiusa in un<br />

dolore che pare indifferenza, e l’amico poliziotto fascista<br />

interpretato con insoliti mezzi toni da Ezio Greggio. Il<br />

<strong>due</strong>tto fatale e chiuso fra Or<strong>la</strong>ndo e Rohrwacher ha gesti<br />

intonati, complicità folli nel<strong>la</strong> caduta e nel<strong>la</strong> vergogna; e il<br />

protagonista è insuperabile nel declinare umanità, malinconia<br />

e tratto grottesco con sensibilità sommessa, dove l’ironia<br />

e il tragico si confondono armoniosi. Da ricordare il<br />

momento in cui consegna, vinto ma consapevole, <strong>la</strong><br />

moglie all’amore dell’altro: un’emozione rara.<br />

L’Unità - Alberto Crespi - 12/09/<strong>2008</strong><br />

Settembre andiamo - al cinema, parafrasando il poeta.<br />

Finiscono le ferie, comincia <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>, riparte il campionato<br />

e riaprono le sale. E come al solito, arrivano al cinema<br />

i film veneziani: spopo<strong>la</strong>no le vecchiette di “Pranzo di ferragosto”,<br />

serpeggia il dibattito sul nuovo Ozpetek un po’<br />

diverso dagli Ozpetek di prima, e una settimana più tardi,<br />

con il sussiego di chi arriva a una festa volutamente in<br />

ritardo - c’è chi può... - esce un altro reduce dal concorso<br />

<strong>la</strong>gunare. L’unico premiato, per altro: “Il papà di<br />

Giovanna” di Pupi Avati, che è valso a Silvio Or<strong>la</strong>ndo una<br />

Coppa Volpi meritatissima al di là delle infatuazioni per <strong>la</strong><br />

prova - emozionante, certo - di Mickey Rourke in “The<br />

Wrestler”. Da Venezia abbiamo lodato il film anche per il<br />

suo modo sommesso, e al tempo stesso limpido, di raccontare<br />

l’Italia fascista al<strong>la</strong> vigilia del<strong>la</strong> guerra. Silvio<br />

Or<strong>la</strong>ndo e Francesca Neri <strong>sono</strong> marito e moglie: lui insegna<br />

arte in un liceo di Bologna, lei è una donna troppo<br />

bel<strong>la</strong> per fare <strong>la</strong> casalinga. Hanno una figlia, Giovanna<br />

(Alba Rohrwacher, anche lei bravissima): una ragazza<br />

bruttina e complessata, che il padre adora e <strong>la</strong> madre sotto<br />

sotto disprezza. Anche spinta dal padre, che vorrebbe <strong>la</strong><br />

sua felicità ad ogni costo, Giovanna si innamora di un<br />

ragazzo che però <strong>la</strong> prende in giro, per poi corteggiare <strong>la</strong>


sua amica del cuore, figlia di un pezzo grosso del fascio.<br />

Folle di gelosia- ma è una follia silenziosa, sommessa<br />

come tutto il film - Giovanna uccide l’amica e finisce in<br />

manicomio criminale, mentre <strong>la</strong> vendetta dei maggiorenti<br />

bolognesi si abbatte come una mannaia sul<strong>la</strong> famiglia.<br />

Marito e moglie si separano, e lui resterà sempre con<br />

Giovanna, per tutta <strong>la</strong> vita. Girato in uno stile ‘all’antica’,<br />

con una fotografia (di Pasquale Rachini, assai bel<strong>la</strong>) che<br />

mira al bianco e nero, “Il papà di Giovanna” è uno dei<br />

migliori film di Pupi Avati: per chi apprezza il regista<br />

bolognese, una garanzia.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 12/09/<strong>2008</strong><br />

Silvio Or<strong>la</strong>ndo è stato premiato come miglior attore al<strong>la</strong><br />

Mostra di Venezia per <strong>la</strong> straordinaria interpretazione di<br />

un padre professore che ama e protegge troppo, con attenzione<br />

ossessiva, <strong>la</strong> figlia adolescente Alba Rohrwacher,<br />

poco equilibrata, studentessa nello stesso liceo di Bologna<br />

1938. E’ un personaggio bellissimo: frustrato (allievo del<br />

pittore Giorgio Morandi, neppure s’è avvicinato da lontano<br />

al grande modello), nevrotico, capace di rappresentare<br />

interamente <strong>la</strong> meschinità angusta del<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> borghesia<br />

italiana ai tempi del fascismo, timoroso che l’eccentricità<br />

del<strong>la</strong> figlia possa nuocere al<strong>la</strong> sua rispettabilità e insieme<br />

fortemente legato a lei. Le resta accanto sempre, attraverso<br />

i momenti più tragici: un esempio di paternità appassionata<br />

e insieme ma<strong>la</strong>ta. La ragazza, infatti, niente affatto<br />

innamorata del padre ma del<strong>la</strong> madre che <strong>la</strong> ignora,<br />

diventa assassina per gelosia, a colpi di rasoio, del<strong>la</strong><br />

migliore amica e compagna di scuo<strong>la</strong>, viene processata e<br />

ricoverata in manicomio criminale.<br />

Tutta <strong>la</strong> parte del film che racconta il rapporto padre-figlia<br />

è molto bel<strong>la</strong>. La seconda parte, segnata da materiali di<br />

repertorio, da eventi di guerra e dopoguerra (bombardamenti,<br />

Liberazione, processi sommari contro gerarchi fascisti,<br />

fuci<strong>la</strong>zioni) è banale, conclusa da un finale giusto e<br />

deludente. S’è sempre detto che Avati è un ottimo direttore<br />

di attori: anche stavolta Or<strong>la</strong>ndo è magnifico. E’ brava pure<br />

Alba Rohrwacher. E’ bravo Ezio Greggio, nel<strong>la</strong> sua prima<br />

parte drammatica: già in precedenza, con Abatantuono,<br />

Boldi, Marcorè, Kartia Ricciarelli, il regista aveva mostrato<br />

<strong>la</strong> sua bravura nell’utilizzare in modo inconsueto gli attori.<br />

Ezio Greggio, del<strong>la</strong> polizia politica, è un buon uomo innamorato<br />

del<strong>la</strong> moglie di Or<strong>la</strong>ndo, Francesca Neri, e sua suocera<br />

nel<strong>la</strong> sedia a rotelle è Serena Grandi.<br />

Molto bel<strong>la</strong> pure l’ambientazione, in appartamenti un po’<br />

tetri con troppe porte e finestre, senza il minimo cedimento<br />

alle mode rétro: una vera lezione.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti - 12/09/<strong>2008</strong><br />

Un padre apprensivo, una figlia complessata, una madre<br />

indifferente. E <strong>la</strong> cappa di conformismo e paura stesa dal<br />

101<br />

fascismo sulle eterne piccinerie del<strong>la</strong> nostra picco<strong>la</strong> borghesia.<br />

Trentasettesimo titolo di una carriera ormai quarantennale,<br />

“Il papà di Giovanna” è uno dei film più ambiziosi<br />

di Avati. <strong>Per</strong> <strong>la</strong> complessità del disegno, per le<br />

dimensioni produttive, per il cast mobilitato intorno a questa<br />

storia di rancori personali che degenerano in tragedia<br />

sullo sfondo di ben altri eventi storici. Non si svolgesse fra<br />

il ‘38 e il ‘45, con un epilogo addirittura negli anni ‘50, <strong>la</strong><br />

storia di Giovanna potrebbe uscire dalle cronache di questi<br />

giorni. Con <strong>la</strong> giovane bruttina corrosa dal desiderio di<br />

apparire (Alba Rohrwacher), il padre onesto ma pronto a<br />

ogni bassezza per favorir<strong>la</strong>, tanto più che insegna storia<br />

dell’arte nel suo stesso liceo (Silvio Or<strong>la</strong>ndo); e <strong>la</strong> madre<br />

casalinga frustrata, chiusa nel<strong>la</strong> sua inutile bellezza<br />

(Francesca Neri).<br />

Ma siamo in pieno Ventennio, i meccanismi dell’esclusione<br />

sociale <strong>sono</strong> più rozzi e insieme più vistosi che oggi,<br />

quel<strong>la</strong> figlia poco attraente e pure un po’ stramba, dunque<br />

destinata a restare zitel<strong>la</strong>, è ancora una vergogna se non<br />

una disgrazia. Vissuta dai genitori con modalità opposte<br />

ma altrettanto nefaste. Distanza e diffidenza da parte del<strong>la</strong><br />

madre. Complicità smodata da parte del padre, che per<br />

amore non vede <strong>la</strong> ferita e tantomeno <strong>la</strong> follia del<strong>la</strong> figlia,<br />

capace di uccidere <strong>la</strong> migliore amica per gelosia e senza<br />

dare mai segno di pentimento, neanche in tribunale.<br />

Cavare grandezza se non eroismo da una vicenda così soffocante<br />

era arduo. Eppure Avati ci prova nobilitando tutto<br />

e tutti, cattolicamente, col sacrificio. È perché sacrifica<br />

ogni bene a quel<strong>la</strong> figlia infelice, spingendo perfino <strong>la</strong><br />

moglie fra le braccia del vicino Ezio Greggio, bonario ma<br />

ambiguo poliziotto fascista, che il patetico professorino<br />

(Or<strong>la</strong>ndo è davvero strepitoso) riscatta l’intera famiglia<br />

dopo aver sceso uno ad uno, con <strong>la</strong> confessione del<strong>la</strong> figlia<br />

e <strong>la</strong> sua reclusione in manicomio, tutti i gradini del<strong>la</strong><br />

degradazione sociale.<br />

Intanto, si capisce, gli anni passano. Anche se Avati si<br />

concentra sul privato relegando <strong>la</strong> Grande Storia sullo<br />

sfondo. Così a dire <strong>la</strong> chiusura del Par<strong>la</strong>mento, le leggi<br />

razziali, <strong>la</strong> guerra, basta qualche battuta o titolo di giornale.<br />

Solo i bombardamenti <strong>la</strong> fame, le rovine, finiscono<br />

sullo schermo. Mentre <strong>la</strong> lunga fuci<strong>la</strong>zione di Greggio,<br />

pronto a rinnegare tutto per salvare <strong>la</strong> pelle, sembra sintetizzare<br />

il giudizio morale su una <strong>stagione</strong> (curioso<br />

però: <strong>la</strong> violenza fascista resta fuori campo, quel<strong>la</strong> partigiana<br />

si vede).<br />

Ma forse il vero tema del film è il trasformismo, l’ipocrisia,<br />

l’indifferenza che per Moravia era alle origini del consenso<br />

al fascismo e che Avati invece, nell’ottica piccolo<br />

borghese che gli è cara, vede agire sui <strong>due</strong> fronti, salvo poi<br />

chiudere tutto con uno stonato embrassons-nous. Troppa<br />

carne al fuoco per un film solo. Si esce pensierosi ma<br />

insoddisfatti.


25<br />

BURN AFTER READ<strong>IN</strong>G - A prova di spia<br />

14-15 maggio <strong>2009</strong><br />

Regia: Ethan Coen, Joel Coen<br />

Interpreti: Brad Pitt (Chad Feldheimer), George Clooney<br />

(Harry Pfarrer), Tilda Swinton (Katie Cox), John<br />

Malkovich (Osbourne Cox), Frances McDormand (Linda<br />

Litzke), Richard Jenkins (Ted Treffon), Matt Walton (Del)<br />

Genere: Commedia/Noir<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Stagione: <strong>2008</strong>/<strong>2009</strong><br />

Soggetto: Stansfield Turner (romanzo), Joel Coen, Ethan<br />

Coen<br />

Sceneggiatura: Ethan Coen, Joel Coen<br />

Fotografia: Emmanuel Lubezki<br />

Montaggio: Ethan Coen, Joel Coen<br />

Durata: 95’<br />

Produzione: Ethan Coen, Joel Coen, Tim Bevan ed Eric<br />

Fellner per Working Title Films, Mike Zoss Productions<br />

Distribuzione: Medusa (<strong>2008</strong>)<br />

102<br />

Soggetto:<br />

Dec<strong>la</strong>ssato dal suo incarico di analista al<strong>la</strong> CIA,<br />

Osborne Cox si trova invischiato in una strana vicenda<br />

che comincia con il ritrovamento di un suo CD<br />

contenente materiali scottanti. Nell’azione che si<br />

ingarbuglia finiscono anche sua moglie Katie, l’amante<br />

di lei Harry, dipendente del Tesoro, <strong>la</strong> dipendente<br />

di una palestra Linda, e il suo strambo collega<br />

Chad. C’è anche l’ambasciata russa, e ci <strong>sono</strong><br />

soprattutto nervi a fior di pelle che provocano morti<br />

ammazzati. E nessuno ne esce tranquillo.<br />

Valutazione:<br />

Le immagini del<strong>la</strong> trionfale serata degli Oscar <strong>2008</strong><br />

per “Non è un paese per vecchi” <strong>sono</strong> ancora nel<strong>la</strong><br />

memoria di tutti, e già ecco i fratelli Coen presentarsi<br />

con un nuovo film, scelto per inaugurare <strong>la</strong> Mostra<br />

di Venezia <strong>2008</strong>. Andare e venire dal registro drammatico<br />

a quello dove certe situazioni comunque delicate<br />

<strong>sono</strong> virate sui toni grotteschi e deformanti, è<br />

percorso tipico dei Coen (vedi “Il grande Lebowsky”<br />

e “L’uomo che non c’era”, e altri abbinamenti solo<br />

all’apparenza contrapposti). Così anche qui torna a<br />

dominare un umorismo amaro e sulfureo, un procedere<br />

del racconto che sembra leggero ma invece si<br />

attacca sul<strong>la</strong> pelle dei protagonisti, li rende elettrici,<br />

simili a fili spinati. L’apologo, malinconico dietro il<br />

riso, tende a sbeffeggiare <strong>la</strong> stupidità umana, dominante<br />

a troppi livelli. I sentimenti? Forse. Meglio


stemperare il pessimismo con una risata, ed essere<br />

lucidi più che inutilmente mielosi. Molto ‘americano’<br />

nello snodo di certi percorsi mentali e atteggiamenti<br />

esistenziali, il film si <strong>la</strong>scia seguire, anche perché<br />

favorito da un cast decisamente da ‘prima pagina’.<br />

Difficile fare a meno dei divi.<br />

La Repubblica - Natalia Aspesi - 28/08/<strong>2008</strong><br />

L’America dei fratelli Coen è sempre spaventosa,<br />

irrecuperabile, crudele, anche se quasi sempre fa<br />

ridere, o forse proprio per questo. Lo era nel violento<br />

e drammatico film precedente “Non è un paese<br />

per vecchi”, molto premiato, Oscar compreso, lo è<br />

ancora di più adesso con l’ironico e travolgente<br />

“Burn after reading” che uscirà in Italia col titolo “A<br />

prova di spia” (che come al solito nul<strong>la</strong> vuol dire).<br />

Non solo racconta <strong>la</strong> deso<strong>la</strong>zione dei miti di oggi, gli<br />

stessi che pure noi prendiamo sul serio e addirittura<br />

esaltiamo dimenticandoci di riderne, ma obbliga<br />

anche a porsi una domanda meno divertente e più<br />

inquietante: se davvero i servizi segreti americani, <strong>la</strong><br />

Cia, l’Fbi, nei piccoli disguidi quotidiani <strong>sono</strong> così<br />

incapaci e spietati, così affidati al caso e così bugiardi,<br />

così abili nel nascondere gli errori e a dimenticarli,<br />

così burocratici e ridicoli, non è che si comporteranno<br />

allo stesso modo nei grandi frangenti<br />

mondiali ed epocali, quando si rompono le alleanze<br />

politiche, si creano nemici, si progettano invasioni,<br />

ci si imbatte nel famoso fuoco amico, si scatenano le<br />

guerre?<br />

C’è un grande filone di cinema dedicato ai servizi<br />

segreti e alle loro trame e trappole, film d’azione che<br />

paiono irreali, ma <strong>sono</strong> i Coen, che rendendo ridicole<br />

le loro gesta e i loro misteri, finiscono col generare<br />

inquietudine. Nel film i miti creatori dell’ansia<br />

contemporanea ci <strong>sono</strong> tutti, <strong>la</strong> prestazione sessuale,<br />

gli incontri via Internet, il culto del corpo perfetto e<br />

<strong>la</strong> palestra, l’orrore del corpo imperfetto e <strong>la</strong> chirurgia<br />

p<strong>la</strong>stica, e soprattutto il denaro, che sostituisce<br />

vecchi arnesi come l’amore, i sentimenti, l’etica.<br />

L’agente del<strong>la</strong> Cia John Malkovich, calvo e spesso in<br />

mutande e vestaglia, viene licenziato per alcolismo e<br />

<strong>la</strong> moglie Tilda Swinton, un’acida vil<strong>la</strong>na in perenne<br />

tailleur grigio con filo di perle, <strong>la</strong> prende malissimo<br />

e si confida con l’amante sposato George Clooney<br />

con barba, appassionato di jogging e avventure via<br />

Internet. Il licenziato raccoglie per vendetta le sue<br />

scottanti memorie su un dischetto, <strong>la</strong> moglie che<br />

vuole divorziare glielo ruba, <strong>la</strong> segretaria dell’avvocato<br />

dei divorzi lo perde in palestra. Qui lo trovano<br />

l’istruttore Brad Pitt dal grande ciuffo cotonato, lo<br />

sguardo vuoto e completo di Ipod, e <strong>la</strong> collega<br />

Frances McDormand che non ha i soldi per togliersi<br />

<strong>la</strong> pancia, pial<strong>la</strong>re le natiche, ingrossare il seno e trovare<br />

qualcosa di più di un uomo, quasi sempre orri-<br />

103<br />

bile, nei siti di cuori disoccupati. Da questo momento<br />

l’intreccio di questi personaggi tra loro e con <strong>la</strong><br />

Cia, l’ambasciata russa, e <strong>la</strong> politica di Washington<br />

che nul<strong>la</strong> vogliono sapere del misero intrigo, si fa<br />

frenetico, esi<strong>la</strong>rante e appunto scoraggiante sul futuro<br />

del mondo. Non c’è personaggio che non sia privo<br />

di intelligenza e di cuore ma anche sfortunato, tutti i<br />

sogni contemporanei e miserevoli; tranne uno, si<br />

infrangono nel disordine e negli errori, i morti per<br />

caso vengono fatti scomparire per non creare problemi.<br />

I <strong>due</strong> grandi capi del<strong>la</strong> Cia, annoiatissimi dai<br />

fastidi che quel<strong>la</strong> massa di pasticcioni sta procurando<br />

distogliendoli dal loro letargo dietro le scrivanie<br />

(<strong>due</strong> magnifici, vecchi caratteristi, Richard Jenkins e<br />

JK Simmons), concludono, ‘Dovremmo imparare da<br />

tutto questo a non commettere più gli stessi errori. Se<br />

solo sapessimo quali errori’.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni - 28/08/<strong>2008</strong><br />

Benissimo: il film che ha inaugurato fuori concorso<br />

<strong>la</strong> 65a Mostra, “Burn After Reading” (un tic verbale<br />

da vecchio spionaggio, ‘bruciare dopo aver letto’,<br />

ma il titolo italiano è “A prova di spia”), scritto e<br />

diretto dai fratelli Joel e Ethan Coen (per <strong>la</strong> prima<br />

volta Ethan firma anche come regista) è una commedia<br />

molto molto divertente, perfetta, piena di star.<br />

Una commedia confusa, ridico<strong>la</strong> e tragica come il<br />

mondo contemporaneo dove soldi, sospetto, fitness,<br />

sesso on line <strong>sono</strong> cose essenziali.<br />

Frances McDormand, signora non giovane, desidera<br />

una serie di interventi di chirurgia estetica (sedere,<br />

petto, braccia, occhi) e per pagarli vende ai russi<br />

quelli che considera piani segreti americani e che<br />

<strong>sono</strong> invece memorie di un analista del<strong>la</strong> Cia licenziato<br />

perchè ‘ha un problema con l’alcol’, John<br />

Malkovich. George Clooney, nell’ellissi del film,<br />

conosce una donna e nell’immagine seguente è a<br />

letto con lei, pronto ad abbandonar<strong>la</strong> per ‘andare a<br />

fare una corsetta’: seduttore e ottimista, molto simpatico,<br />

disprezzato dal<strong>la</strong> moglie medico Tilda<br />

Swinton con capelli rosso mogano tagliati al<strong>la</strong><br />

maschietta. Brad Pitt è uno dei personaggi più buffi,<br />

un giovane fisioterapista da palestra ardito e cretino,<br />

con il cervello bruciato dall’Ipod e le mascelle stanche<br />

a forza di bere Gatorade e masticare gomma. I<br />

dirigenti del<strong>la</strong> Cia <strong>sono</strong> burocrati pericolosi: non<br />

sanno risolvere il problema, fanno uccidere <strong>la</strong> persona<br />

che rappresenta il problema, oppure scaricano il<br />

problema sui sottoposti, comunque odiano il problema<br />

capace di turbare <strong>la</strong> loro comatosa tranquillità.<br />

Appena qualche picco<strong>la</strong> battuta ricorda che ci troviamo<br />

di fronte a una parodia del mondo attuale: ‘È<br />

un casino’, ‘Presto tutti sapranno dove stiamo, in<br />

ogni minuto’, ‘Tu rappresenti l’idiozia dell’oggi’. Il<br />

film divertente e tragico (come “Barton Fink”, o<br />

“Fargo”) è montato molto velocemente e bene (dagli


stessi fratelli Coen, sotto lo pseudonimo di Roderick<br />

Jaynes), <strong>la</strong> fotografia di Emmauel Lubezki incisiva e<br />

bel<strong>la</strong> dà al film toni orientali; tutti gli attori non<br />

potrebbero essere più bravi, ma Brad Pitt ha il personaggio<br />

migliore.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Paolo Mereghetti -<br />

28/08/<strong>2008</strong><br />

I fratelli Coen una certezza ce l’ hanno: il mondo è<br />

pieno di stupidi. Che qualche volta sanno quello che<br />

fanno ma più spesso non riescono nemmeno a spiegare<br />

le ragioni delle proprie azioni, come dice sconso<strong>la</strong>to<br />

il funzionario del<strong>la</strong> Cia che chiude sul<strong>la</strong> scrivania<br />

un dossier top secret. Dentro c’ è <strong>la</strong> storia di<br />

“Burn after reading”, il film che ha inaugurato fuori<br />

concorso e con tante risate <strong>la</strong> sessantacinquesima<br />

Mostra d’ arte cinematografica di Venezia. A innescare<br />

tutto è il licenziamento di un analista del<strong>la</strong> Cia,<br />

Ozzie Cox (John Malkovich): come si trattasse di<br />

una specie di autoterapia (ha il bicchiere facile), lui<br />

si mette a scrivere le proprie memorie, che finiscono<br />

in un dischetto insieme ai conti e ai movimenti bancari<br />

che <strong>la</strong> moglie (Tilda Swinton) pensa bene di<br />

affidare al proprio avvocato in vista del divorzio.<br />

Peccato che quel dischetto finisca per essere dimenticato<br />

nello spogliatoio del<strong>la</strong> palestra dove <strong>la</strong>vorano<br />

Linda (Frances McDorman) e Chad (Brad Pitt), che<br />

si convincono di poter ricavare i soldi necessari al<strong>la</strong><br />

donna per un ambitissimo intervento quadruplo di<br />

chirurgia p<strong>la</strong>stica. A ingarbugliare ancora di più le<br />

cose entra in gioco anche Harry (George Clooney),<br />

dipendente del Dipartimento di Stato e ‘doppio’<br />

amante: fisso del<strong>la</strong> moglie di Ozzie e occasionale - si<br />

<strong>sono</strong> incontrati chattando - di Linda. Così, quando<br />

Linda e Chat decidono di passare i ‘segreti’ di Ozzie<br />

addirittura ai russi (l’ ex analista ha risposto con un<br />

pugno sul naso al<strong>la</strong> richiesta di soldi), <strong>la</strong> Cia finisce<br />

per credere che nel gioco sia entrato anche Harry,<br />

che invece si interessa solo delle proprie performance<br />

erotiche e del<strong>la</strong> linea del<strong>la</strong> sua pancetta. Inizia<br />

così un gioco di pedinamenti e di quiproquo dove gli<br />

agenti del<strong>la</strong> Cia si confondono con i dipendenti degli<br />

studi legali che devono raccogliere prove per le future<br />

cause di divorzio (anche <strong>la</strong> moglie di Harry ha un<br />

amante e vuole separarsi) e i Coen si divertono a giocare<br />

con i tanti luoghi comuni che ormai dominano<br />

nel<strong>la</strong> testa dei loro amati ‘stupidi’, dal<strong>la</strong> paranoia<br />

post 11 settembre (tutti pensano di essere spiati da<br />

tutti) al ‘potere’ delle informazioni (una delle battute<br />

più fulminanti di Linda). Messe in bocca a personaggi<br />

squinternati e dilettanteschi, luoghi comuni<br />

che altrove siamo disposti ad accettare senza battere<br />

ciglio qui rive<strong>la</strong>no tutta <strong>la</strong> loro stupidità (il dialogo<br />

sulle linee telefoniche ‘sicure’, <strong>la</strong> concorrenza spionistica<br />

tra Usa, Russia e Cina) e i Coen aggiungono<br />

così un nuovo capitolo a quel<strong>la</strong> cronaca dell’ idiozia<br />

104<br />

umana che al<strong>la</strong> fine non risparmia nessuno.<br />

Nemmeno quel<strong>la</strong> Cia a cui gli Usa affidano <strong>la</strong> propria<br />

sicurezza (e stavolta ogni riferimento ‘a fatti e<br />

persone reali’ - leggi Bush - sembra proprio voluto).<br />

Ad aiutarli un gruppo di attori che dà l’ impressione<br />

di essersi molto divertito a girare (con <strong>la</strong> ‘megera’<br />

Swindon e il ‘rintronato’ Pitt su tutti), ma che per<br />

una volta sa trasferire allo spettatore altrettanta allegria<br />

e divertimento.<br />

Liberazione - Roberta Ronconi - 28/08/<strong>2008</strong><br />

Finalmente i Coen ce l’hanno fatta. Dopo una serie<br />

di film forse ispirati ma poco trascinanti e un paio di<br />

commedie azzoppate ieri hanno aperto <strong>la</strong> Mostra del<br />

cinema di Venezia facendoci ridere di cuore. La conclusione<br />

del<strong>la</strong> cosiddetta ‘trilogia dell’idiota’ ispirata<br />

a George Clooney (“Fratello, dove sei?”, “Prima ti<br />

sposo, poi ti rovino”) con “Burn after reading” (in<br />

italiano: “A prova di spia”) centra il bersaglio e rega<strong>la</strong><br />

una commedia di quelle che a ripensarci ti mettono<br />

addosso i brividi. Le disavventure incrociate di<br />

un agente del<strong>la</strong> Cia (John Malkovich) licenziato in<br />

tronco per alcolismo, del<strong>la</strong> sua stronzissima moglie<br />

(Tilda Swinton), dell’amante di lei (George<br />

Clooney) e di tre pietosi impiegati di una palestra<br />

(Ted Treffon, Brad Pitt e Frances McDormand)<br />

strappano al pubblico una facile i<strong>la</strong>rità momentanea,<br />

dietro <strong>la</strong> quale si nasconde <strong>la</strong> pochezza esistenziale<br />

dei nostri giorni.<br />

Basti dire che l’intera storia trova un suo filo narrativo<br />

nel<strong>la</strong> caparbia volontà di Linda (Frances<br />

McDormand, moglie di Joel Coen, come sempre<br />

grandissima), impiegata del<strong>la</strong> palestra che, intorno ai<br />

cinquant’anni e disperatamente so<strong>la</strong>, è pronta a fare<br />

qualsiasi cosa per rimediare i soldi necessari a quelle<br />

tre-quattro operazioni estetiche in grado di riportar<strong>la</strong><br />

indietro negli anni. E’ <strong>la</strong> sua volontà di ferro<br />

(quello che lei, scimmiottando l’ottimismo americano,<br />

chiama ‘il pensiero positivo’) a far muovere l’intera<br />

macchina dell’orrore di “Burn after reading” e a<br />

trasformare <strong>la</strong> farsa in tragedia. <strong>Per</strong> tutti tranne che<br />

per lei, che al<strong>la</strong> fine riuscirà comunque a raggiungere<br />

l’agognato obiettivo. Sullo sfondo del delirante<br />

racconto, l’altra faccia del<strong>la</strong> Cia, quel<strong>la</strong> diabolica<br />

macchina per spie e assassini che nelle mani dei sarcastici<br />

fratellini Joel e Ethan si trasforma in una sorta<br />

di ufficio centrale per cretini, incapaci persino di<br />

seguire il filo dei propri pensieri, oltre che delle proprie<br />

oscure trame. La conclusione è che i fratelli<br />

Coen funzionano evidentemente assai meglio quando<br />

si muovono con <strong>la</strong> stessa gamba, ovvero quando<br />

fanno entrambi i registi, come in questo caso e come<br />

non facevano da anni. Anche <strong>la</strong> scrittura è a quattro<br />

mani e batte il tempo come un orologio, così come<br />

gli attori che partecipano al gioco dei ruoli senza<br />

nemmeno una sbavatura.


26<br />

Regia: Ed Harris<br />

Interpreti: Ed Harris (Virgil Cole), Viggo Mortensen<br />

(Everett Hitch), Renée Zellweger (Allison French),<br />

Jeremy Irons (Randall Bragg), Lance Henriksen (Ring<br />

Shelton),Timothy Spall, Tom Bower, James Gammon,<br />

Ariana Gil<br />

Genere: Western<br />

Origine: USA <strong>2008</strong><br />

Soggetto: tratto dal romanzo di Robert Parker<br />

Sceneggiatura: Robert Knott , Ed Harris<br />

Fotografia: (Scope/a colori): Dean Semler<br />

Musica: Jeff Beal<br />

Montaggio: Kathryn Himoff<br />

Scenografia: Waldemar Kalinowski<br />

Costumi: David Robinson<br />

Durata: 116’<br />

Produzione: Ed Harris, Robert Knott, Ginger Sledge per<br />

Groundswell Productions, Eight Gauge<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

APPALOOSA<br />

21-22 maggio <strong>2009</strong><br />

105<br />

Soggetto<br />

Ambientato nel 1882 nei territori del New Mexico,<br />

“Appaloosa” racconta <strong>la</strong> storia dello sceriffo Virgil Cole<br />

(Harris) e del suo vice Everett Hitch (Mortensen), che si<br />

<strong>sono</strong> fatti <strong>la</strong> fama di pacificatori nelle città senza legge<br />

sorte in quelle terre selvagge. Nel<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> comunità di<br />

minatori di Appaloosa, uno spietato e potente ranchero,<br />

Randall Bragg (Irons), ha permesso al<strong>la</strong> sua banda di fuorilegge<br />

di spadroneggiare in tutta <strong>la</strong> città. Dopo l’assassinio<br />

a sangue freddo dello sceriffo di Appaloosa, Cole and<br />

Hitch vengono incaricati di assicurare il colpevole al<strong>la</strong> giustizia.<br />

Mentre impongono <strong>la</strong> loro autorità usando in parti<br />

uguali fermezza e pistole, Cole e Hitch conoscono <strong>la</strong> bel<strong>la</strong><br />

nuova arrivata Allison French (Zellweger), i cui modi anticonformisti<br />

mettono a rischio il loro <strong>la</strong>voro e l’amicizia<br />

che li lega da anni.<br />

Valutazione<br />

Nel 2000 con “Pollock” (sua opera prima dietro <strong>la</strong> macchina<br />

da presa) ne avevamo apprezzato <strong>la</strong> freschezza e <strong>la</strong><br />

genialità narrativa. Oggi, dopo 8 anni di “assenza” registica,<br />

Ed Harris riesce a stupire nuovamente e ad emozionare<br />

con un’opera solida, grintosa e fortemente<br />

convincente.Appaloosa è in tutto e per tutto un western atipico<br />

per certi versi, molto composito, ricco di spunti e di<br />

tematiche interessanti. Ci <strong>sono</strong> senza dubbio gli elementi<br />

c<strong>la</strong>ssici ricorrenti del genere ma c’è anche quel<strong>la</strong> modernità<br />

sperimentativa che molto piace ai registi–attori (basta<br />

pensare al “Bal<strong>la</strong> coi Lupi” di Kevin Costner). La pellico<strong>la</strong>,<br />

che è tratta dal romanzo di Robert Parker, riprende per<br />

buona parte i dialoghi originali, ma per molti aspetti vive<br />

dell’improvvisazione mimica degli attori e dell’azzardo


visivo di Harris.Il risultato che ne consegue è straordinario.<br />

Viggo Mortensen è un comprimario, ma non lo mostra; è<br />

lui al<strong>la</strong> fine l’eroe di circostanza, capace di togliersi, e<br />

togliere di mezzo, al momento giusto. Del suo personaggio<br />

di vice sceriffo, sembra (ri)apparire molto dei personaggi<br />

già apprezzati in “History of a Violence” o “La promessa<br />

dell’assassino”: una recitazione dinamico–statica, umoristica,<br />

ma che ha qui l’aggiunta dell’elemento sentimentale.<br />

Già perché tutto il film sembra intriso da quell’elemento, e<br />

non perché per esempio l’attrice principale Renée<br />

Zellweger ce lo fa respirare ampiamente (manierismi, raffinatezze,<br />

cortesie, a tratti stucchevoli) ma perché sia<br />

Harris nel ruolo principale di sceriffo sia Mortensen sembrano<br />

ce<strong>la</strong>re sentimenti nascosti, come l’amore e l’amicizia,<br />

anche se però non ne confermano mai un evidente esistenza.<br />

Tutto però ruota intorno a quello che è riuscito a<br />

fare Harris: se <strong>la</strong> sceneggiatura, scritta insieme a Robert<br />

Knott, non aveva bisogno di eccessivi ritocchi, <strong>la</strong> regia<br />

invece è qualcosa di penetrante, “spietata”. Guardando<br />

questo film, indirettamente, ci si pongono delle domande<br />

sul<strong>la</strong> fine di un’epoca, che è stata così affascinante, così<br />

mutevole, e che oggi sembra forse essere tornata di gran<br />

moda.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Paolo Mereghetti<br />

Accolto dal più convinto app<strong>la</strong>uso del<strong>la</strong> stampa, Appaloosa<br />

di (e con) Ed Harris è un western ultrac<strong>la</strong>ssico che però<br />

non dimentica di interrogarsi sul<strong>la</strong> storia del genere e su<br />

quel<strong>la</strong> del suo Paese. Raccontando <strong>la</strong> storia di Virgil<br />

(Harris) e Everett (Viggo Mortensen), chiamati come sceriffi<br />

dagli abitanti di Appaloosa per difenderli dallo strapotere<br />

del ricco Bragg (Jeremy Irons), il film da una parte si<br />

rial<strong>la</strong>ccia al<strong>la</strong> grande tradizione western (lo spunto ricorda<br />

“Ultima notte a Warlock” ma anche “Sfida infernale”) e<br />

dall’altra riprende il tema che Harris aveva esplorato nel<br />

suo esordio da regista (Pollock): <strong>la</strong> forza di una vocazione<br />

e l’impegno a essere coerente con se stesso fino in fondo.<br />

La presenza del<strong>la</strong> bel<strong>la</strong> vedova Allie (Renée Zellweger), di<br />

cui si innamora Virgil, e <strong>la</strong> fuga di Braggs dopo essere stato<br />

catturato e condannato per omicidio, complicano <strong>la</strong> storia<br />

e il compito dei <strong>due</strong> sceriffi ma non cambiano le carte in<br />

tavo<strong>la</strong>. Piuttosto permettono di approfondire alcuni temi,<br />

come il (misogino) «darwinismo» del<strong>la</strong> donna, pronta a<br />

chiedere aiuto a chi, di volta in volta, risulta essere il più<br />

forte; oppure il valore delle scelte morali che, sul<strong>la</strong> scorta<br />

dell’incitamento al<strong>la</strong> disobbedienza civile di Emerson in<br />

nome delle proprie convinzioni (citato esplicitamente in<br />

una scena), spingono Everett a difendere l’onore dell’amico<br />

Virgil con le pistole - e quindi a rompere l’amicizia visto<br />

che infrangendo <strong>la</strong> legge non può più stare al suo fianco<br />

come sceriffo - senza che quest’ultimo nemmeno ne sappia<br />

<strong>la</strong> ragione. In questo modo <strong>la</strong> riflessione sui compiti dell’uomo<br />

e su quello cui si deve rinunciare per essere coerenti<br />

si lega a un’appassionata rivisitazione delle radici storiche<br />

dell’America (il film è ambientato nel 1882) e del suo<br />

genere cinematografico per eccellenza.<br />

Cinecircolo Romano/Qui Cinema - Catello Masullo<br />

Quando Ed Harris stava girando, insieme a Viggo<br />

Mortenses, “A History of Violence”, aveva appena finito di<br />

leggere “Appaloosa”, il romanzo di Robert B. Parker da<br />

cui è tratto il film. Ha quindi dato a Mortensen il libro da<br />

106<br />

leggere e gli ha proposto di esserne protagonista. Così è<br />

nato il film. Che riunisce in un’unica produzione veri campioni<br />

del cinema d’oggi, dal candidato all’Oscar Viggo<br />

Montensen (“Eastern Promises”), al 4 volte candidato<br />

all’Oscar Ed Harris, all’Oscar Renée Zellweger (“Ritorno<br />

a Could Mountain”), all’Oscar Jeremy Irons (“Il Mistero<br />

von Bulow”). Ed Harris ha chiamato a <strong>la</strong>vorare nel suo<br />

film i più fidi col<strong>la</strong>boratori di sempre, con i quali ha <strong>la</strong>vorato<br />

varie volte. A cominciare dal citato Mortensen, a<br />

Timothy Spall (“Un prete da uccidere”), a Lance<br />

Henriksen (“Uomini Veri”), a Timothy V. Murphy<br />

(“National Treasure : Book of Secrets”), nonché il costumista<br />

David Robinson, <strong>la</strong> montatrice Kathrin Himoff, lo<br />

sceneggiatore Robert Knott, il musicista Jeff Beal e l’attore<br />

Tom Bower, tutti già coinvolti in “Pollock” , l’opera di<br />

esordio al<strong>la</strong> regia di Harris. L’affiatamento del gruppo è<br />

evidente sullo schermo. Il film è riuscitissimo. Sfiora il<br />

capo<strong>la</strong>voro assoluto. Un western c<strong>la</strong>ssico, ma con linguaggio<br />

moderno. Con dialoghi spassosissimi (mai riso così<br />

tanto per un western). Degno dei migliori western di Sergio<br />

Leone, cui appare ispirarsi il regista. Cura maniacale dei<br />

dettagli : colt 45 del 1873 per Virgil Cole, Pot Gun da 50<br />

pollici e 11 libbre di peso per Everett Hitch, collo di pizzo<br />

usato nel 1880 per l’abito di satin iridescente di Allie,<br />

costruzioni in legno, mattoni e “adobe” (sorta di mattoni<br />

seccati al sole, tipici dell’epoca), copia moderna di carte da<br />

parati William Morris , disegnate in Inghilterra, per rivestire<br />

le pareti del Boston House Hotel e del Saloon, briglie e<br />

morsi d’argento per i cavalli, come si usava all’epoca, ecc.<br />

Fotografia super<strong>la</strong>tiva di Dean Semler, che ha vinto<br />

l’Oscar per il mitico “Bal<strong>la</strong> coi lupi”, uno specialista dei<br />

paesaggi del New Mexico, che è al settimo film con queste<br />

ambientazioni, il quale ha valorizzato i fantastici paesaggi<br />

con un <strong>la</strong>rgo uso dei grandango<strong>la</strong>ri , catturando toni ricchi<br />

ed intensi, dal blu vivace dei cieli, al verde intenso delle<br />

distese, con sfumature rosa e arancio, di posti unici al<br />

mondo, come le rocce di Abiquiu, il Chama River e le gole<br />

del Rio grande, nei pressi di Algodones. Scenografie<br />

costruite con attenzione filologica da Waldemar<br />

Kalinowski, che mette nel<strong>la</strong> sua professione tutta <strong>la</strong> meticolosità<br />

che gli deriva dagli studi di fisica e matematica<br />

fatti a Varsavia e che ha il privilegio di poter contare sul<strong>la</strong><br />

col<strong>la</strong>borazione, alta e preziosa, del<strong>la</strong> moglie, Florence<br />

Fellman, famosa storica dell’arte . Montaggio di alta professionalità<br />

di Kathrin Himoff (“Pollock”, “Killing Zoe”,<br />

“Mi vida loca”, ecc.). Ricerche analitiche su vecchie foto<br />

ed oggetti di antiquariato del West hanno costituito <strong>la</strong> base<br />

del meticoloso <strong>la</strong>voro del costumista David Robinson (“Ti<br />

presento Joe B<strong>la</strong>ck”, “Donnie Brasco”, “Riccardo III, un<br />

uomo, un re”, “The Savages”, “Carlito’s Way”, “Scent of<br />

Woman”, ecc.). Commento musicale memorabile, a tratti<br />

epico, a tratti burlesco, a tratti tragico, a cura di Jeff Beal,<br />

che aveva già composto per Ed Harris <strong>la</strong> colonna <strong>sono</strong>ra di<br />

“Pollock”, e che è stato di recente chiamato da Al Pacino<br />

per musicare il suo “Salomaybe?”, di prossima uscita.<br />

Strepitose le interpretazioni, a cominciare dallo stesso<br />

autore Ed Harris, misurato, ironico, impagabile. Ennesimo<br />

capo<strong>la</strong>voro <strong>la</strong> recitazione di Viggo Mortensen, re del<strong>la</strong> sottrazione.<br />

Gustosamente darwiniana <strong>la</strong> prova di Renée<br />

Zellweger. Grande il vi<strong>la</strong>in di Jeremy Irons. Assolutamente<br />

da non perdere.


27<br />

Regia: Phyllida Lloyd<br />

Interpreti: Meryl Streep (Donna), Pierce Brosnan (Sam<br />

Carmichael), Colin Firth (Harry Bright), Stel<strong>la</strong>n<br />

Skarsgård (Bill), Julie Walters (Rosie),<br />

Dominic Cooper (Sky), Amanda Seyfried (Sophie),<br />

Christine Baranski (Tanya), Juan Pablo Di Pace (Petros),<br />

Enzo Squillino Jr. (Gregoris), Hemi<br />

Yeroham (Dimitri), Chris Jarvis (Eddie), Ashley Lilley<br />

(Ali), C<strong>la</strong>re Louise Connolly (Hen 19), Norma Atal<strong>la</strong>h<br />

(Irini), Rachel McDowall (Lisa), Dy<strong>la</strong>n<br />

Turner (Stag), George Georgiou (Pannos)<br />

Genere: Commedia/Musicale<br />

Origine: Gran Bretagna/Stati Uniti d’America<br />

Anno: <strong>2008</strong><br />

Soggetto: Catherine Johnson<br />

Sceneggiatura: Catherine Johnson<br />

Fotografia: Haris Zambarloukos<br />

Musica: Benny Andersson, Björn Ulvaeus, canzoni degli<br />

Abba<br />

Montaggio: Lesley Walker<br />

Durata: 108’<br />

Produzione: Produzione Judy Craymer, Gary Goetzman,<br />

Tom Hanks, Rita Wilson, Benny Andersson E Björn<br />

Ulvaeus<strong>Per</strong> Littlestar Production, P<strong>la</strong>ytone<br />

Distribuzione: Universal (<strong>2008</strong>)<br />

MAMMA MIA<br />

28-29 maggio <strong>2009</strong><br />

107<br />

Soggetto<br />

E’ il 1999 e siamo nell’incantevole iso<strong>la</strong> greca di<br />

Kalokairi. La nostra avventura romantica inizia nel delizioso<br />

hotel mediterraneo Vil<strong>la</strong> Donna, gestito da Donna<br />

(Meryl Streep), dal<strong>la</strong> figlia Sophie (Amanda Seyfried) e<br />

dal fidanzato di Sophie, Sky (Dominic Cooper). Al<strong>la</strong> vigilia<br />

del suo imminente matrimonio, Sophie spedisce segretamente<br />

tre inviti (“I Have a Dream”) indirizzati a tre<br />

uomini diversi, uno dei quali potrebbe, a suo avviso, essere<br />

suo padre. Partendo da tre città diverse del globo, i tre<br />

uomini si mettono in viaggio per tornare sull’iso<strong>la</strong>, dove,<br />

20 anni prima, l’affascinante Donna aveva conquistato il<br />

loro cuore. Nel frattempo Donna ha un gran daffare per<br />

organizzare il suo matrimonio, curando ogni minimo dettaglio,<br />

mentre sua figlia accoglie le sue migliori amiche,<br />

che saranno le sue damigelle, e subito confessa loro un<br />

segreto “piccante”: leggendo un vecchio diario di sua<br />

madre, ha scoperto che ci <strong>sono</strong> stati tre uomini nel<strong>la</strong> sua<br />

vita, uno dei quali potrebbe essere suo padre: l’uomo d’affari<br />

Sam Carmichael (Pierce Brosnan), l’avventuriero Bill<br />

Anderson (Stel<strong>la</strong>n Skarsgård) o il banchiere Harry Bright<br />

(Colin Firth). Ad insaputa del<strong>la</strong> mamma, Sophie ha invitato<br />

tutti e tre questi signori al suo matrimonio (“Honey,<br />

Honey”), sperando di riuscire a capire chi di loro è veramente<br />

suo padre.<br />

Valutazione<br />

La versione cinematografica di uno dei musical recenti di<br />

maggior successo (nato nel 1999 a Londra, ha già supera-


to per numero di repliche a Broadway un mostro sacro<br />

come “Tutti assieme appassionatamente”) attira prima di<br />

tutto per <strong>la</strong> sua protagonista, Meryl Streep. Che sia una<br />

delle più grandi attrici del<strong>la</strong> storia del cinema era fuor di<br />

dubbio, ma che si ca<strong>la</strong>sse nel ruolo di una mamma che<br />

canta e saltel<strong>la</strong> come una dodicenne su di un letto, era difficile<br />

immaginarlo. E’ proprio questa però <strong>la</strong> grandezza<br />

del<strong>la</strong> <strong>due</strong> volte premio Oscar: il riuscire a rendere credibile<br />

e sempre adeguato qualsiasi personaggio che si trovi ad<br />

interpretare. Una forza che di riflesso si spande su tutto<br />

questo film.<br />

Il cast ben nutrito ed i begli arrangiamenti delle canzoni<br />

degli Abba riescono ad espandere quell’atmosfera di festa,<br />

che al di là dei limiti, non si può che apprezzare.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera Maurizio Porro - 10/10/<strong>2008</strong><br />

Festoso e allegro, saldamente radicato nel musical c<strong>la</strong>ssico<br />

dove si ama, sorride e si ammicca, Mamma mia!, da<br />

anni hit di Broadway, ha invertito <strong>la</strong> tendenza negativa del<br />

box office italiano, partendo al<strong>la</strong> grande. Merito dei 20<br />

song degli Abba che <strong>sono</strong> piacevolissimi e dell’estetica<br />

del carino in cui una ragazzina quasi sposa invita i suoi tre<br />

possibili padri per scoprire quale sia quello vero (il teorema<br />

inverso a Filumena Marturano). Meryl Streep, accesa<br />

di luce propria, festeggia nostalgie con le amichette stagionate<br />

riscoprendo il fascino dei sentimenti: e nessuno se<br />

ne andrà dall’ iso<strong>la</strong> meravigliosa greca senza aver rifondato<br />

le ragioni del cuore. Poco più che sufficiente lo script,<br />

ma il ritmo registico di Phyllida Lloyd appartiene al<strong>la</strong> tradizione<br />

e le coreografie con pinne, fucili ed occhiali danno<br />

tocco vacanziero al formidabile cast. Tra <strong>la</strong> fantastica<br />

Meryl e i suoi mariti, anche un ex 007.<br />

Il Messaggero Fabio Ferzetti - 3/10/<strong>2008</strong><br />

Brevi note a uso degli antipatizzanti. Se non siete dei fan<br />

compulsivi degli ABBA; se le zeppe e i vestiti luccicanti<br />

anni 70 non vi incantano; se <strong>la</strong> so<strong>la</strong> idea di un musical di<br />

Broadway trasportato su un’isoletta greca piena di indigeni<br />

sorridenti e pittoreschi sullo sfondo, vi fa venire l’orticaria;<br />

se insomma non pensereste mai di andare a vedere<br />

Mamma mia!, state in guardia. Durante il film potreste<br />

scoprirvi di colpo convertiti, o quantomeno trasportati per<br />

poco meno di <strong>due</strong> ore in un mondo così assurdo e zuccherino<br />

da abbattere ogni resistenza a suon di canzoni dannatamente<br />

orecchiabili (per giunta sottotito<strong>la</strong>te, cosa che non<br />

guasta) e abilmente cucite insieme da una trama più maliziosa<br />

di quanto sembri.In Mamma mia! infatti c’è una<br />

figlia che non sa chi sia il padre, una madre che da giovane<br />

si divideva fra tre amanti, quegli stessi ex-amanti che<br />

tornano, una ventina d’anni dopo, sull’idilliaca isoletta<br />

greca del<strong>la</strong> loro giovinezza fricchettona, segretamente<br />

invitati dal<strong>la</strong> figlia del<strong>la</strong> loro ex (e di uno di loro) al<strong>la</strong> sua<br />

festa nuziale, e naturalmente ignari di tutto. Gli spettatori<br />

più informati vedranno in questa trama un rovesciamento<br />

allegramente immoralistico del vecchio Buonasera signo-<br />

108<br />

ra Campbell, amabile commedia del ‘68 con Gina<br />

Lollobrigida nei panni dell’italiana che per vent’anni<br />

abbindo<strong>la</strong> i tre soldati americani con cui amoreggiava<br />

durante <strong>la</strong> guerra, <strong>la</strong>sciando credere a ognuno di loro di<br />

essere il padre di sua figlia. Finché i tre ex-militi arrivano<br />

casualmente tutti insieme in Italia per conoscere <strong>la</strong> ragazza...<br />

La simmetria fra i <strong>due</strong> plot ci dice fino a che punto<br />

una fiaba può cambiar segno restando una fiaba. Ma facciamo<strong>la</strong><br />

breve: Mamma mia! non sarebbe nul<strong>la</strong> senza le<br />

canzoni degli ABBA, assai più spiritose e meno datate di<br />

quanto avremmo sospettato; e soprattutto senza <strong>la</strong> strepitosa<br />

performance di Meryl Streep, che pur avendo quasi<br />

vent’anni più del ruolo riesce a comunicare un’energia, un<br />

buonumore, una felicità (artistica innanzitutto) semplicemente<br />

irresistibili. Non era una scommessa vinta in partenza.<br />

Quando Meryl Streep corre a zig-zag incontro alle<br />

amiche di gioventù appena sbarcate sull’isoletta vestita<br />

con cappellone di paglia, salopette jeans e scarpe da tennis,<br />

per poi improvvisare insieme un balletto goliardico<br />

tutto urli e mossette, ad esempio, il termometro del kitsch<br />

sfonda ampiamente il tetto del sopportabile. Ma pochi<br />

minuti dopo ecco Meryl bal<strong>la</strong>re sui tetti <strong>la</strong> sua allegria e il<br />

suo sconcerto sulle note di Mamma mia!, e qualcosa inizia<br />

a sciogliersi. Il resto, se vi <strong>la</strong>sciate andare e pensate<br />

che perfino <strong>la</strong> rigidità e le giacche stiratissime di Pierce<br />

Brosnan facciano parte del gioco, può esser preso come<br />

una godibilissima prova di professionismo (ogni membro<br />

del cast trae forza e simpatia anche dai suoi difetti). O<br />

come un’inquietante metafora dell’alleanza fra gerontocrazia<br />

e girl power. Ma se <strong>la</strong> prendete così siete molto,<br />

molto di cattivo umore.<br />

Il Giornale Maurizio Cabona - 3/10/<strong>2008</strong><br />

Uno esce dal cinema frizzando e ha una voglia pazza di<br />

bal<strong>la</strong>re, le canzoni degli Abba nei piedi e nel<strong>la</strong> testa. Ti<br />

credo, quando c’è di mezzo un musical teatrale col<strong>la</strong>udato<br />

nel mondo; una sposa, Sophie (Amanda Seyfried), col<br />

visino fresco e <strong>la</strong> voce matura e, soprattutto, sua madre<br />

Donna, una tardona hippie, impersonata dall’inossidabile<br />

Meryl Streep al suo primo film musicale. E se <strong>la</strong> Streep ha<br />

già dato prova del suo talento canoro (in Cartoline dall’inferno<br />

e Radio America di Altman), sorprende il suo timbro<br />

potente e l’energia fisica, che mette nei balletti in salopette.<br />

La storia è c<strong>la</strong>ssica: per vent’anni <strong>la</strong> giovane nubenda<br />

ha ignorato chi fosse suo padre. La mamma da ragazza<br />

aveva il letto facile e, sull’isolotto greco dove l’attempata<br />

tutto pepe manda avanti una pensioncina familiare, s’era<br />

accoppiata con tre maschi: Harry, l’imbalsamato Colin<br />

Firth (poi passato all’altra sponda); Sam, l’elegante Pierce<br />

Brosnan ed Harry, il flemmatico Stel<strong>la</strong>n Skarsgard. Chi<br />

accompagnerà <strong>la</strong> sposina all’altare, visto che Sophie ha<br />

invitato il trittico alle nozze per scoprire di chi è figlia?<br />

Ma non si tratta di un dramma: gli americani, per fortuna,<br />

sanno far ridere e piangere, imbastendo il tutto sullo sfondo<br />

del Mar Egeo, il che acuisce il senso d’evasione del<br />

film. C’è poi il concetto del<strong>la</strong> «seconda opportunità»: non-


ostante l’avanzare degli anni, le <strong>due</strong> amiche di Donna<br />

(Julie Walters e Christine Baranski, autoironiche su rughe<br />

e affini) trovano l’amore e <strong>la</strong> voglia di campare. Siccome<br />

a Ovest i vecchi non mancano, ecco una valida ragione per<br />

fornire loro una notevole dose di buonumore su base Pop<br />

anni Settanta.<br />

Il Manifesto - Antonello Catacchio - 10/10/<strong>2008</strong><br />

All’origine <strong>la</strong> musica degli Abba, il gruppo svedese che ha<br />

bril<strong>la</strong>to per pochi anni, ma ha <strong>la</strong>sciato un segno forte nel<br />

pop. Poi un musical che ha impazzato nei teatri. Proprio a<br />

Broadway Meryl Streep lo aveva visto, poco dopo l’11<br />

settembre, e le era sembrato uno spiraglio di ottimismo<br />

dopo <strong>la</strong> tragedia. Così aveva scritto al<strong>la</strong> regista Phyllida<br />

Loyd e all’autrice Catharine Johnson per congratu<strong>la</strong>rsi e<br />

offrire <strong>la</strong> sua ipotetica disponibilità cinematografica. Un<br />

gesto di cortesia diventato oggi realtà. <strong>Per</strong>ché quando l’idea<br />

di portare su grande schermo si fece <strong>la</strong>rgo fu proprio<br />

Meryl a essere chiamata per il ruolo di Donna. La protagonista<br />

che gestisce un alberghetto su un’iso<strong>la</strong> greca, che<br />

ha allevato da single <strong>la</strong> figlia, ormai ventenne e prossima<br />

al matrimonio. E proprio <strong>la</strong> ragazza ha scovato il diario di<br />

mamma e invitato, di nascosto da tutti, i tre uomini, di cui<br />

uno è suo padre.<br />

Dicevamo del<strong>la</strong> Streep, già abituata al canto, e che con<br />

Altman si era esibita in Radio America, qui anche ballerina<br />

e il suo nome è stato il vo<strong>la</strong>no per coinvolgere Pierce<br />

Brosnan, Colin Firth e Stel<strong>la</strong>n Skarsgard (i possibili padri)<br />

oltre a Christine Baranski e Julie Walters (amiche di<br />

Donna), mentre i <strong>due</strong> giovani futuri sposi <strong>sono</strong> interpretati<br />

da Amanda Seyfried e Dominic Cooper. Tutti impegnati<br />

a gorgheggiare, non sempre in modo straordinario. Così<br />

sulle note di Mamma mia!, che dà anche il titolo, e quelle<br />

di Dancing Queen (<strong>la</strong> sequenza più riuscita del film), più<br />

altri titoli degli Abba, muove i suoi garbatissimi passi l’intera<br />

vicenda che pone le donne in magnifica evidenza a<br />

fronte di presenze maschili a metà tra l’attonito e l’inadeguato.<br />

Un divertissement che riesce a coniugare <strong>la</strong> disco<br />

music e il gusto contemporaneo per il revival. Compaiono<br />

anche Benny Andersson e Bjorn Ulvaeus, <strong>la</strong> coppia<br />

maschile degli Abba, le <strong>due</strong> «signore» (al tempo anche<br />

consorti) erano Anni-Frid Lyngstad e Agnetha Faltskog.<br />

Il Corriere del<strong>la</strong> Sera - Tullio Kezich - 03/10/08<br />

“Mamma mia!” si potrebbe anche intito<strong>la</strong>re ‘Lettera a tre<br />

padri’. La spedisce da Kalokairi, un’ immaginaria iso<strong>la</strong><br />

dell’Egeo, <strong>la</strong> promessa sposina Sophie nel<strong>la</strong> prospettiva<br />

dell’imminente matrimonio con l’amato Sky. Avendo<br />

sempre vissuto con sua madre Donna, proprietaria di un<br />

fatiscente alberghetto, <strong>la</strong> ragazza ne ha ritrovato un vec-<br />

109<br />

chio diario da cui ha scoperto che suo padre potrebbe<br />

essere Sam, Harry o Bill. Che c’è di meglio se non invitarli<br />

segretamente e separatamente alle nozze, un’occasione<br />

unica per accertare finalmente chi in questo terzetto<br />

di amanti d’epoca ha il diritto divenir chiamato papà?<br />

La bol<strong>la</strong> di sapone che il cinema gonfia sull’evanescente<br />

pretesto viene da lontano. Nasce infatti da una col<strong>la</strong>na di<br />

canzoni degli Abba, un quartetto vocale che si affermò<br />

negli anni ‘70, cucite insieme e applicate a una trametta<br />

per farne un musical trionfante nel 1999 a Londra, <strong>due</strong><br />

anni dopo a New York e in seguito (se <strong>la</strong> cifra è esatta)<br />

in 170 teatri del mondo (esclusa l’Italia). Vedere per credere,<br />

su YouTube, gli estratti di certi allestimenti giapponesi,<br />

coreani o altri, tutti simili e tutti diversi e apparentemente<br />

tutti graditi ai rispettivi pubblici. Proprio<br />

come il film che ora ne ha tratto l’abile regista dell’allestimento<br />

originario, Phyllide Lloyd. Quel<strong>la</strong> che si svolge<br />

sullo schermo è una ‘festa mobile’ (per dir<strong>la</strong> con<br />

Hemingway) che trascorre dall’hotel in collina al<strong>la</strong><br />

spiaggia, dal mare aperto al<strong>la</strong> chiesetta alta sugli scogli<br />

da raggiungere al seguito del<strong>la</strong> sposa viaggiante a dorso<br />

di mulo. Chi si commuove ai matrimoni, si prepari a tirar<br />

fuori il fazzoletto per gli annunciati sponsali, che peraltro<br />

riservano una buffa sorpresa (o <strong>due</strong>?). Nel film,<br />

ambientato senza badare a spese in varie isole a comporre<br />

il quadro di una so<strong>la</strong> località da sogno, si canta e si<br />

bal<strong>la</strong> continuamente all’ insegna del ‘chi vuol esser lieto<br />

sia’. La pirotecnica e prolungata esplosione di gioia non<br />

esclude, peraltro, qualche intermezzo assorto, qualche<br />

punta di malinconia e (come si è detto) qualche <strong>la</strong>crimuccia.<br />

Il perfetto amalgama per mandare a casa <strong>la</strong><br />

gente soddisfatta. Ma <strong>la</strong> carta vincente è Meryl Streep:<br />

nel<strong>la</strong> parte di Donna fa di tutto per rassicurare le signore<br />

di mezza età che <strong>la</strong> vita comincia a (quasi) 60 anni.<br />

Considerata a ragione <strong>la</strong> grande tragica di Hollywood<br />

intona con grazia le canzoni, affronta con estro miracolosamente<br />

acrobatico i numeri musicali e domina dall’alto<br />

del suo carisma l’affol<strong>la</strong>to cast che pur conta nomi di<br />

grido quali Pierce Brosnan, Colin Firth e Stel<strong>la</strong>n<br />

Skarsgard, oltre al<strong>la</strong> giovane Amanda Seyfried e al<strong>la</strong> stagionata<br />

Julie Walters (ma l’elenco dei menzionabili<br />

potrebbe allungarsi). Tutti obbligati a cantare dal vivo,<br />

senza doppiatori, per ottenere un risultato magari non<br />

ineccepibile anche dal punto di vista del ballo, ma insolito<br />

e fresco. Gira e rigira, però, si torna sempre al<strong>la</strong> scatenata<br />

e irresistibile Meryl. Verrebbe da constatare che<br />

né Greta, né Marlene, né Marilyn hanno osato tanto; e <strong>la</strong><br />

mattatrice si riserva una botta segreta da par suo. Ovvero<br />

si concede l’estremo lusso, nel colmo del<strong>la</strong> carneva<strong>la</strong>ta<br />

mediterranea, di trasmettere qualche emozione sincera.


28<br />

Regia: Stephan Elliott<br />

Interpreti: Con Jessica Biel ((Larita), Colin Firth (il signor<br />

Whittaker), Kristin Scott Thomas (<strong>la</strong> signora<br />

Whittaker), Ben Barnes (John Whittaker), Kris Marshall<br />

(Furber) Kimberley Nixon. Katherine Parkinson,<br />

Christian Brassington, Charlotte Riley, Jim McManus, Pip<br />

Torrens<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Gran Bretagna <strong>2008</strong><br />

Soggetto: tratto dal testo teatrale di Noel Coward<br />

Sceneggiatura: Stephan Elliott, Sheridan Jobbins<br />

Fotografia: (Scope/a colori): Martin Kenzie<br />

Musica: Marius de Vries<br />

Montaggio: Sue B<strong>la</strong>iney<br />

Scenografia: John Beard<br />

Costumi: Charlotte Walter<br />

Durata: 96’<br />

Produzione: Barnaby Thompson, Joe Abrams, James D.<br />

Stern per Ealing Studios<br />

Distribuzione: Eagle Pictures<br />

EASY VIRTUE<br />

4-5 giugno <strong>2009</strong><br />

110<br />

Soggetto<br />

Il film, diretto dall’estroso regista di Priscil<strong>la</strong>, <strong>la</strong><br />

regina del deserto, è tratto da un testo teatrale di Noel<br />

Coward già portato sul grande schermo da Alfred<br />

Hitchcock nel 1928. Una giovane divorziata americana<br />

sposa in fretta e furia, sull’onda del<strong>la</strong> passione, il<br />

rampollo di una facoltosa famiglia inglese per poi<br />

ritrovarsi a dover affrontare i suoi impossibili parenti,<br />

tradizionalisti e eccentrici signorotti di campagna.<br />

Un apologo sul<strong>la</strong> lotta di c<strong>la</strong>sse e le differenze tra<br />

America e vecchia Inghilterra, interpretato e diretto<br />

con gusto ironico e dissacrante.<br />

Valutazione<br />

Inghilterra anni ‘30. Una campionessa americana di<br />

automobilismo sposa in fretta un giovane aristocratico<br />

e si reca nel<strong>la</strong> residenza di campagna per conoscerne<br />

i genitori. Insomma parliamo di un “Ti presento<br />

i miei” spostato nel tempo, nello spazio e nei<br />

generi (stavolta il confronto è tra donne: mamma e<br />

moglie), ma comunque dalle dinamiche narrative<br />

piuttosto delineate.I dispetti tra le <strong>due</strong> donne, una<br />

vogliosa che il figlio rimanga a casa a curare <strong>la</strong> tenuta,<br />

l’altra vogliosa di tornare nel<strong>la</strong> più mondana<br />

Londra, scandiscono <strong>la</strong> parte centrale (e più comica)<br />

del<strong>la</strong> storia, riservando al finale <strong>la</strong> parte più “drammatica”<br />

del<strong>la</strong> vicenda, una morale che sa molto di<br />

“amore e buoi dei paesi tuoi”.La confezione è ele-


gante e anche <strong>la</strong> regia di Stephn Elliott cerca in qualche<br />

modo di arricchire il tutto (alcune immagini,<br />

soprattutto quando si gioca con i riflessi, <strong>sono</strong> più che<br />

interessanti).<br />

FILM.IT - Adriano Erco<strong>la</strong>ni - 27/10/<strong>2008</strong><br />

Diverte e convince il film di Stephan Elliott, una<br />

commedia in costume ambientata nel<strong>la</strong> campagna<br />

nobiliare inglese grazie anche ad un cast perfetto<br />

dove bril<strong>la</strong> <strong>la</strong> bellissima Jessica Biel<br />

Due erano gli indizi ben precisi che deponevano a<br />

favore di questo “Easy Virtue”:<br />

1) L’estroverso regista australiano Stephan Elliott,<br />

uno che ha sempre centellinato i suoi <strong>la</strong>vori per il<br />

cinema – non dirigeva un lungometraggio dal 1999 –<br />

ha deciso di “resuscitare” una piece teatrale degli<br />

anni ’20, probabilmente quel testo doveva contenere<br />

qualcosa di buono.<br />

2) Lo stesso testo, scritto dal genio anticonformista di<br />

Noel Coward, era già stato portato al cinema nel<br />

1928 da Alfred Hitchock, uno dei cineasti che più di<br />

tutti sapevano riconoscere meccanismi narrativi funzionali<br />

e ritmati. L’interesse dunque per questa commedia<br />

di costume ambientata nel<strong>la</strong> campagna nobiliare<br />

inglese era più che giustificato, e non è stato<br />

assolutamente disatteso.<br />

Lavorando su una messa in scena piuttosto tradizionale,<br />

anche se condita con alcuni piccoli guizzi di<br />

inventiva davvero originali, Elliott ha <strong>la</strong>sciato ampio<br />

spazio al<strong>la</strong> grandezza dei dialoghi ed al<strong>la</strong> comicità<br />

corrosiva delle situazioni, costruendo una sequenza<br />

di scene perfettamente concatenate tra loro ed insieme<br />

strepitosamente funzionali, dove il ritmo delle<br />

battute al vetriolo è anche supportato da una trama<br />

che avanza precisa e pungente fino al<strong>la</strong> sua inevitabile<br />

conclusione. Un altro innegabile pregio del film è<br />

quello del cast d’attori, composto da interpreti probabilmente<br />

non dotati di capacità indiscutibili ma tutti<br />

precisamente adattati a ruoli a loro congeniali, in<br />

grado quindi di fornire prove di altissima qualità;<br />

Colin Firth è un ottimo capofamiglia segnato dagli<br />

orrori del<strong>la</strong> guerra ed ormai incapace di accettare le<br />

convenzioni ipocrite del mondo in cui vive; sua<br />

moglie Kristin Scott Thomas è invece <strong>la</strong> personificazione<br />

algida e perfetta di quel mondo conservatore e<br />

mai aperto al cambiamento; ma a sorprendere davvero<br />

è <strong>la</strong> protagonista Jessica Biel, perfetta nel ruolo<br />

dell’americana disinibita e volitiva che porta con sé<br />

una ventata d’innovazione, non semplicistica né tanto<br />

meno libera da ambiguità e da dolore. In un panorama<br />

cinematografico dove l’estetica, <strong>la</strong> forza dell’immagine<br />

è costantemente messa davanti al<strong>la</strong> struttura<br />

narrativa, all’importanza del<strong>la</strong> sceneggiatura, questo<br />

notevole “Easy Virtue” potrebbe essere preso come<br />

111<br />

esempio, e raccontare che il cinema è ancora un’arte<br />

di scrittura, di dialogo, di storia. Elliott ha compiuto<br />

un’operazione davvero preziosa, e non ci si <strong>la</strong>sci<br />

ingannare dal<strong>la</strong> confezione vagamente retrò di “Easy<br />

Virtue”, perché in realtà si tratta di un film molto più<br />

attuale e moderno di quanto non appaia in un primo<br />

momento. Insomma, uno dei migliori lungometraggi<br />

presentati a questa edizione al Festival di Roma.<br />

MYmovies <strong>2008</strong> - Marianna Cappi<br />

Il giovane John Witthaker s’innamora perdutamente<br />

di un’elegante e indipendente americana di nome<br />

Larita e <strong>la</strong> sposa. Viene quindi il momento di presentar<strong>la</strong><br />

al<strong>la</strong> famiglia, che vive imbalsamata e preda dei<br />

debiti in una splendida vil<strong>la</strong> del<strong>la</strong> campagna inglese.<br />

Nonostante Larita faccia buon viso a cattivo gioco, è<br />

presto chiaro che <strong>la</strong> suocera non può veder<strong>la</strong> e che<br />

anche le sorelle di John <strong>sono</strong> più che mai diffidenti<br />

nei suoi confronti. Lo stesso non si può dire, invece,<br />

del capofamiglia, un uomo che <strong>la</strong> guerra ha reso<br />

allergico all’ipocrisia ma non insensibile all’intelligenza<br />

e all’ironia involontaria. Stephan Elliott, regista<br />

del fortunato “Priscil<strong>la</strong>, <strong>la</strong> regina del deserto” e<br />

dell’incompreso ” The Eye”, torna sullo schermo<br />

dopo dieci anni di <strong>la</strong>titanza con Easy Virtue, eccellente<br />

operazione d’adattamento del<strong>la</strong> pièce omonima<br />

del commediografo Noel Coward, che in passato<br />

aveva già conquistato Alfred Hitchcock (Fragile<br />

virtù). Se <strong>la</strong> storia poggia su un conflitto di civiltà<br />

canonico, tra vecchio e nuovo mondo, le tinte con cui<br />

l’autore inscena tale confronto <strong>sono</strong> deliziosamente<br />

originali e sembrano ricalcare l’aforisma di Wilde per<br />

cui gli inglesi “oggigiorno” hanno veramente tutto in<br />

comune con gli americani, tranne, naturalmente, <strong>la</strong><br />

lingua. Jessica Biel è l’indossatrice ideale dei panni<br />

del<strong>la</strong> volitiva Larita, inetta nel<strong>la</strong> nobile arte del<strong>la</strong> sopportazione<br />

forzata e interprete dai tempi comici perfetti;<br />

Ben Barnes è il maritino p<strong>la</strong>smabile e naïve;<br />

Kristin Scott Thomas e Colin Firth, signori e suoceri,<br />

<strong>sono</strong> il re e <strong>la</strong> regina del<strong>la</strong> risata a denti stretti. Ma il<br />

film non si riduce allo sfoggio di wit né al<strong>la</strong> rivisitazione<br />

in chiave più che mai dinamica dei topoi dell’irriverenza<br />

a corte (dal<strong>la</strong> preoccupazione patologica<br />

per l’animale domestico al<strong>la</strong> complicità fisiologica<br />

del<strong>la</strong> servitù nel misfatto) ma si addentra, armato di<br />

una sottile <strong>la</strong>ma di coltello, ad esplorare le conseguenze<br />

più intime di una lotta senza fine tra presente<br />

e passato all’interno del<strong>la</strong> coscienza stessa di Larita e<br />

va sondando il prezzo e il gusto del<strong>la</strong> libertà, anche e<br />

soprattutto in amore. Con Easy Virtue il regista<br />

australiano si ca<strong>la</strong> in un’epoca passata con il passo<br />

curioso e spedito del<strong>la</strong> contemporaneità, ma senza<br />

per questo farne un’operetta pop, anzi lucidando il<br />

jazz sul grammofono perché possiamo ricordarci


d’un tratto di tutta l’energia e l’aff<strong>la</strong>to di ribellione<br />

che già contiene. Nel bel mezzo dell’eccentricità<br />

apparente di Larita, che prende parte al<strong>la</strong> caccia al<strong>la</strong><br />

volpe a cavallo di una moto, e dell’eccentricità reale<br />

di una caccia al<strong>la</strong> volpe punto e basta, Elliot non è<br />

certo tipo da sottrarsi al<strong>la</strong> gara di anticonformismo<br />

per nascondersi dietro una regia trasparente. Un<br />

tocco di musical, un profumo di bordello francese,<br />

una pal<strong>la</strong> di biliardo ed ecco inscenata una lezione di<br />

stile, con tanto di approfondimento sull’inquadratura<br />

sardonica.<br />

Cinecircolo Romano/Qui Cinema - Catello Masullo<br />

Trasposizione cinematografica dell’opera teatrale<br />

omonima di Noel Coward, scritta nel 1924, quando<br />

l’autore aveva solo 23 anni. Una prima riduzione per<br />

il grande schermo ebbe <strong>la</strong> regia di Alfred Hitchcock,<br />

nel 1928, in versione muta. La regia è stata affidata<br />

all’australiano Stephan Elliot (che ha anche scritto <strong>la</strong><br />

sceneggiatura, a 4 mani con il suo fedele col<strong>la</strong>boratore<br />

Sheridan Jobbins), il quale torna al<strong>la</strong> regia dopo 10<br />

anni e che è stato autore di successi come “Priscil<strong>la</strong> <strong>la</strong><br />

regina del deserto” e “The eye – lo sguardo”. Il risultato<br />

è bril<strong>la</strong>nte. L’originario testo teatrale, che era<br />

melodrammatico ed un po’ velenoso, è stato modernizzato<br />

con l’aggiunta di un gran numero di battute<br />

irresistibili. Ne è uscito un film scoppiettante, spumeggiante.<br />

Dialoghi affi<strong>la</strong>tissimi. Botte e risposte fulminanti.<br />

Sitcom esi<strong>la</strong>ranti. Sarcastico, graffiante, dissacrante,<br />

a tratti deliziosamente irriverente.<br />

Godibilissimo. Confezione impeccabile. Costumi<br />

ricercatissimi, perfetti, a cura di Charlotte Walter<br />

(“Un cuore grande”, “The Bourne supremacy”, ecc.).<br />

Inappuntabile e creativo il truccatore, premio Oscar,<br />

Jeremy Woodhead (“Il Signore degli anelli”, “I pirati<br />

dei Caraibi”, ecc.). Scenografie sontuose, dal<strong>la</strong> cura e<br />

ricostruzione filologica di John Beard (“Enigma”,<br />

“Brazil”, ecc.) che ha magistralmente reso le ambientazioni<br />

dell’epoca nel<strong>la</strong> splendida Flintham Hall a<br />

Nottinghamshire, dotata di una delle serre private più<br />

belle d’Inghilterra. Fotografia magistrale di Martin<br />

Kenzie (”Wimbledon”, “Il Fantasma dell’Opera”,<br />

Finito di stampare nel mese di Dicembre <strong>2008</strong><br />

112<br />

ecc.). Musiche bril<strong>la</strong>nti e professionali di Marius de<br />

Vries (“Romeo e Giulietta”, “Moulin Rouge”, ecc.),<br />

che, con approccio innovativo, si distacca dal tradizionale<br />

commento di scene gioiose con musiche allegre<br />

e sottolineature delle scene drammatiche con<br />

musiche adeguate, e si prende <strong>la</strong> libertà di inserire<br />

brani moderni riarrangiati con lo stile dell’epoca al<strong>la</strong><br />

Cole Porter . Fanno parte del<strong>la</strong> ghiotta colonna <strong>sono</strong>ra<br />

molte delle canzoni scritte all’epoca dall’autore del<br />

testo teatrale, che si amalgamo perfettamente con<br />

brani originali di Cole Porter e con altri di Jazz. Uno<br />

straordinario tango, bal<strong>la</strong>to da Jessisa Biel con Colin<br />

Firth, sottolinea il p<strong>la</strong>teale addio dell’ intrusa americana<br />

dal<strong>la</strong> casa nobile inglese, con tutta <strong>la</strong> carica di trasgressione<br />

e di sensuale passionalità che era attribuita<br />

al tempo a tale genere. Attori strepitosi. Una Jessica<br />

Biel ( “B<strong>la</strong>de : Trinity”, “Elizabethtown”,<br />

“L’illusionista”, ecc.) so<strong>la</strong>re, prorompente, bravissima<br />

nel fare il pesce fuor d’acqua dell’ americana piovuta<br />

in un estraneo e lunare ambiente vittoriano. Un Colin<br />

Firth (“Mamma Mia”, “Quando tutto cambia”, “Che<br />

pasticcio Bridget Jones”, “Love Actually”,<br />

“Shakespeare in love”, “il paziente inglese”, ecc.) sottile<br />

e me<strong>la</strong>nconicamente ironico come non mai. Una<br />

Kristin Scott Thomas (“Il paziente inglese”, “Quattro<br />

matrimoni ed un funerale”, “L’uomo che sussurrava ai<br />

cavalli”, “L’altra donna del re”, ecc.) impeccabilmente<br />

rigida, stoica e nevrotica. E, non ultimo, l’ irresistibile<br />

maggiordomo, paradigma del proverbiale<br />

humour britannico, interpretato da un super<strong>la</strong>tivo Kris<br />

Marshal (“Funeral Party, “Love Actually”, ecc.). Ma<br />

tutti gli attori, nel complesso, mostrano di sentirsi partico<strong>la</strong>rmente<br />

a proprio agio e <strong>sono</strong> spontanei (frutto<br />

anche dello stile di improvvisazione e di libertà che è<br />

caratteristica del regista, ma, che, nel caso di specie. è<br />

stato anche frutto fortuito del<strong>la</strong> pressione dovuta allo<br />

sciopero degli sceneggiatori, che ha costretto ad<br />

affrettare <strong>la</strong> realizzazione e a girare all’impronta,<br />

senza alcuna prova e preparazione). Piccolo capo<strong>la</strong>voro.<br />

Ennesima conferma del<strong>la</strong> grande, altissima qualità<br />

del cinema inglese. Obbligatoria <strong>la</strong> visione per gli<br />

amanti del buon cinema.

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