31.05.2013 Views

C R I T I C A • C U L T U R A • C I N E M A - cinecircoloromano

C R I T I C A • C U L T U R A • C I N E M A - cinecircoloromano

C R I T I C A • C U L T U R A • C I N E M A - cinecircoloromano

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

C R I T I C A <strong>•</strong> C U L T U R A <strong>•</strong> C I N E M A


Conoscerete la verità<br />

E la verità vi farà liberi<br />

Giovanni 8,32<br />

Questa pubblicazione è stata curata dal<br />

Cinecircolo Romano<br />

Roma – Via Nomentana 333/c – tel 068547151 – fax 068553108<br />

Sito internet: www.<strong>cinecircoloromano</strong>.it<br />

E-mail: segreteria@<strong>cinecircoloromano</strong>.it<br />

Assistente editoriale<br />

Alessandra Imbastaro<br />

Assistente amministrativo<br />

Giuliana De Angelis<br />

Collaborazione edizione “Dossier”<br />

Catello Masullo con Paola Dell’Uomo, Alessandro Jannetti, Maria Teresa Raffaele<br />

Coordinamento schede filmografiche<br />

Alessandro Jannetti con Giuseppe Rizzo e Vincenzo Carbotta<br />

Coordinamento realizzazione “Progetto Educazione al Cinema d’Autore”<br />

Luciana Burlin con Rosa Aronica, Fiorenza Irace ed Eugenia Porta<br />

Collaborazione operativa<br />

Lamberto Caiani, Francesco Fazioli, Maria Teresa Raffaele<br />

Direzione e coordinamento generale<br />

Pietro Murchio<br />

Le fotografie all’interno sono state gentilmente messa a disposizione da:<br />

Centro Studi Cinematografici / Archivio del Cinecircolo Romano / Mauro Crinella / Catello Masullo /<br />

Giuseppe Rizzo<br />

Valutazione: del Cinecircolo e della Commissione Nazionale per la valutazione dei film della C.E.I.<br />

Recensioni cinematografiche: da “Rassegna Stampa Cinematografica” Editore S.A.S. Bergamo, data base<br />

del Cinecircolo, siti Internet.<br />

Per la stagione 2010/2011 sono operanti due Comitati Consultivi<br />

Selezione Cinematografica Promozione e Cultura:<br />

Vincenzo Carbotta, Mauro Crinella, Rosa Aronica, Luciana Burlin, Lamberto Caiani,<br />

Paola Dell’Uomo, Francesco Fazioli, Anna Maria Curini, Fiorenza Irace, Laura Palmas,<br />

Alessandro Jannetti, Maurizio Lacorte, Paola Pironti, Maria Teresa Raffaele<br />

Catello Masullo, Giuseppe Rizzo<br />

IN COPERTINA: - foto CSC e sito internet del Festival Internazionale del Cinema di Roma - in<br />

senso orario: CHRIS KRAUS - Premio Speciale della giuria - Roma Film Fest 2010 per il film “Poll”,<br />

ABBIE CORNISH (Bright Star di J. Campion), VIRGINE EFIRA (Kill me please di H. Yomebayashi),<br />

CATHERINE DENEUVE tra JUDITH GODRÈCHE e KARIN VIARD (Potiche di F. Ozon), RUSSEL CROWE<br />

(Robin Hood di R. Scott), ZAZIE DE PARIS tra OLIAS BARCO e VIGILIE BRAMLY (Kill me please),<br />

MICAELA RAMAZZOTTI (La prima cosa bella di P. Virzì)


STAGIONE CINEMATOGRAFICA 2010/2011<br />

DOSSIER ASSOCIAZIONE<br />

<strong>•</strong> Le emozioni del cinema: questo è un<br />

valore che continuiamo a sostenere...<br />

nonostante le difficoltà<br />

<strong>•</strong> Rubrica Festivaliera del Cinecircolo<br />

<strong>•</strong> Il Premio Cinema Giovane<br />

✓ la VI Edizione<br />

✓ la VII Edizione: dal 28 marzo al 2 aprile 2011<br />

CINECIRCOLO ROMANO<br />

1<br />

<strong>•</strong> La Mostra d’Arte 2010<br />

<strong>•</strong> CineCortoRomano 2010<br />

Il cast del film “Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE con le biografie<br />

dei registi<br />

Appuntamenti di programma e calendario


LE EMOZIONI DEL CINEMA: QUESTO È UN VALORE CHE<br />

CONTINUIAMO A SOSTENERE... nonostante le difficoltà<br />

del Presidente Pietro Murchio<br />

L’atmosfera di insicurezza, di provvisorietà dello<br />

scenario futuro ha pervaso anche molte delle<br />

espressioni culturali e di intrattenimento che caratterizzano<br />

questi nostri tempi.<br />

Sembra apparentemente che il contesto non sia<br />

mutato più di quanto la naturale evoluzione non<br />

comporti, ma analizzando meglio i fenomeni ci rendiamo<br />

conto che purtroppo non è così.<br />

La crisi economica e finanziaria a livello globale ha<br />

ridotto gli spazi di manovra alle politiche sociali e<br />

nel caso dell’Italia emerge, a seconda dello stile di<br />

governo, la diversa priorità che viene data alle<br />

espressioni della vita civile, e quindi nel nostro<br />

caso la cultura soffre di più.<br />

Non ci deve trarre in inganno il risultato del box<br />

office dei primi dieci mesi del 2010 che da una crescita<br />

degli spettatori e degli incassi delle sale,<br />

dovuta al richiamo dei film in 3D, infatti nei primi<br />

venti titoli in classifica solo 6 sono di film italiani<br />

(con “Benvenuti al Sud” in testa!) il che non sarebbe<br />

uno scandalo se non si riscontrassero nel top 20<br />

ben dieci titoli di film stranieri, in cui domina l’aspetto<br />

spettacolare e tecnologico che spesso serve a<br />

coprire la scarsa qualità narrativa.<br />

Per parlare delle faccende di “casa”, registriamo<br />

ancora una volta una diminuzione del tesseramento,<br />

le cui cause sono sia strutturali che contingenti,<br />

come ad esempio la mancanza di posti di parcheggio<br />

limitrofi all’Auditorio generata dagli eterni<br />

lavori della metro B1. Per far fronte alle ovvie conseguenze<br />

di natura economica abbiamo ottenuto<br />

dall’assemblea di dicembre 2010 l’approvazione ad<br />

adeguare le quote associative ed ad anticipare la<br />

campagna associativa. Ciò assieme all’introduzione<br />

di novità operative come: la distribuzione dei<br />

bollettini di c.c.p. premarcati tramite Bancoposta e<br />

l’adozione di una nuova tecnica per il controllo<br />

degli accessi in sala tramite lettore ottico delle tessere,<br />

ci ha consentito di ottenere significativi<br />

risparmi di costo per personale e spedizioni postali.<br />

La nostra speranza di recupero della tranquillità<br />

economica sta nel ritorno di adesioni nel 2011 con<br />

2<br />

la fine dei lavori della metro e l’apertura della relativa<br />

stazione Annibaliano e nella acquisizione di<br />

introiti dalla sottoscrizione, da parte dei soci, del<br />

5%° dell’irpef.<br />

Per la stagione appena iniziata abbiamo rinnovato<br />

le convenzioni promozionali con Upter, Festival di<br />

Roma e Bibliocard, nonché le agevolazioni per i<br />

soci con alcuni teatri.<br />

Il successo crescente del Premio Cinema giovane ci<br />

ha indotto ha programmarne la VII^ edizione per<br />

marzo 2011, con la proiezione dei dieci migliori<br />

film del Cinema Giovane Italiano, dibattiti ed interviste<br />

agli artisti, contornati dall’usuale interessante<br />

Forum e dalla Mostra d’arte. Quella del 2010 ha<br />

avuto una eccezionale partecipazione (104 artisti) e<br />

pensiamo per il 2011 di poter migliorare la qualità<br />

media anche chiedendo alle Associazioni invitate di<br />

fare un pre-filtraggio delle opere amatoriali.<br />

Confidiamo infine nel supporto alla manifestazione<br />

da parte della Regione Lazio nonché nella sponsorizzazione<br />

di un noto istituto bancario.<br />

Il programma cinematografico stagionale, pubblicato<br />

a fine ottobre, rimane di consistenza invariata<br />

con una locandina ricca di commedie di qualità (più<br />

della metà), con film il più recenti possibile, compatibilmente<br />

con la distribuzione e con il vincolo<br />

della programmazione annuale anticipata, includendo<br />

film non ancora usciti in sala. Abbiamo<br />

altresì inserito alcuni titoli relativi a film di cassetta<br />

e di qualità come, Avatar e Innocenti bugie, per<br />

dare testimonianza dei mutamenti in atto nel modo<br />

di fare cinema.<br />

Infine pensiamo di presentare in sala, come evento<br />

speciale, un piccolo giro nel mondo dei documentari.<br />

“Le emozioni del cinema: questo è un valore che<br />

continuiamo a sostenere... nonostante le difficoltà”:<br />

è un motto che abbiamo parafrasato dai titoli di<br />

testa della clip del Festival di<br />

Roma e che vorremmo fosse<br />

vero non solo per noi ma anche<br />

per tutti i soci che continuano a<br />

sostenere la nostra<br />

Associazione.


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVAL<br />

Rubrica Festivaliera del Cinecircolo a cura di Pietro Murchio<br />

Cannes mantiene il primato come kermesse e base<br />

industriale del cinema, Venezia quello storico di primogenitura<br />

e di vetrina del pensiero originale, Roma,<br />

pur nelle difficoltà e nella sua incompiuta identità,<br />

cresce nel percorso per diventare grande nel panorama<br />

mondiale. Tutte e tre hanno confermato, nelle<br />

scelte delle giurie, un certo distacco dal gusto del<br />

pubblico anche di quello più professionale. In particolare<br />

i maggiori premi delle tre mostre sono andati a<br />

film che avranno poco successo nelle sale: ma cosi è<br />

e forse così ha da essere!<br />

Al cinema italiano è andata male solo a Venezia, dove<br />

è rimasta a secco di premi significativi mentre negli<br />

altri due si è aggiudicata i trofei per il miglior attore<br />

con Elio Germano e Toni Servillo.<br />

Nella “querelle” sulla incompatibilità tra Venezia e<br />

Roma a nostro avviso va chiarito quanto segue:<br />

<strong>•</strong> i periodi di svolgimento sono ora lontani di quasi<br />

due mesi e quindi i fenomeni di cannibalismo reciproco<br />

sono ridotti solo ai prodotti nazionali, come<br />

è capitato quest’anno a Roma soccombente;<br />

<strong>•</strong> il festival di Roma ha delle interessanti sezioni<br />

(Alice ed Extra) che lo distinguono dagli altri due<br />

in questione;<br />

<strong>•</strong> Roma dovrebbe forse accentuare la missione di<br />

“festival per il pubblico” anche per le sezione in<br />

concorso calibrando di più le scelte sia dei film<br />

che dei componenti della giuria, infatti Venezia ha<br />

pagato al proposito la scelta di Tarantino come<br />

Festival Internazionale del Cinema di Roma<br />

Festival di Cannes<br />

3<br />

presidente;<br />

<strong>•</strong> le Locations di entrambi i festival sono straordinarie:<br />

Venezia per il fascino lagunare e Roma per la<br />

impagabile struttura dell’auditorio ospitante, che<br />

non ha eguali in tutto il mondo per armonia ed<br />

adeguatezza allo scopo.<br />

In merito alle modifiche, ventilate dal Comune di<br />

Roma, per razionalizzare l’organizzazione degli<br />

eventi del mondo audiovisivo internazionale a Roma,<br />

riteniamo che spostare il Festival del Cinema<br />

dall’Auditorium sarebbe un suicidio. Mentre potrebbe<br />

essere condiviso l’obiettivo di perseguire delle<br />

economie di scala di tipo organizzativo - amministrativo<br />

con il “Fiction Festival” a patto che non vengano<br />

in nessun modo intaccate le autonomie delle<br />

rispettive direzioni artistiche.<br />

Ancora qualche notazione sul Festival di Roma di cui<br />

abbiamo apprezzato sia la qualità media dei film in<br />

concorso, sia la sobrietà nella ospitalità del mondo<br />

delle star: limitarne i costi non è poi cosi male.<br />

Segnaliamo inoltre una recentissima novità: il<br />

MARC’AURELIO Esordienti, cioé il premio al<br />

miglior film, presentato al festival da regista esordiente,<br />

assegnato dal Ministro della Gioventù: al<br />

proposito ci piacerebbe esaminare qualche forma di<br />

collaborazione con il nostro Premio Cinema<br />

Giovane!<br />

Infine riscontriamo nella nostra locandina stagionale<br />

la presenza di più di un terzo di film provenienti dai<br />

tre festival oggetto della rubrica.<br />

Mostra Internazionale<br />

d’arte cinematografica di Venezia


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

Il Festival di Cannes gode di una lunga e solida vita<br />

e questo è stato confermato anche nella 63° edizione.<br />

Indiscussa la qualità dei film in concorso, ma anche<br />

piena la Croisette di personalità: da Tim Burton, presidente<br />

di giuria, a Woody Allen e Ken Loach, ma<br />

anche attori come Russell Crowe, Cate Blanchett,<br />

Michael Douglas, solo per citarne alcuni. Grandi i<br />

nomi anche delle defezioni dell’ultimo momento;<br />

come Ridley Scott, Sean Pen e Jean-Luc Godard.<br />

La Palma d’Oro per il miglior film è andata al tailandese<br />

«Uncle Boonmee, Who Can Recall His Past<br />

Lives» di Apichatpong Weerasethakul, mentre<br />

quella alla regia è rimasta in casa con Mathieu<br />

Amalric per “Tournée”. Sempre in casa è rimasto il<br />

Gran Prix della giuria per “Des hommes et des<br />

dieux” di Xavier Beauvois, mentre il premio speciale<br />

è andato a Mahamat-Saleh Haroun per “A screaming<br />

man”.<br />

Al di la dei vincitori è vinti, delle polemiche inevitabili<br />

seguite ai giudizi di una giuria di tutto rispetto, la<br />

riflessione su cui mi vorrei fermare è la nuova svolta<br />

che il cinema Italiano ha avuto in questa manifestazione.<br />

Primo fra tutti il premio come migliore attore<br />

dato ad Elio Germano, che, anche se ex.equo con<br />

l’ottimo Javier Barden, ha confermato il successo<br />

con cui è stato accolto il film Daniele Lucchetti “La<br />

Nostra Vita”. Il cinema Italiano torna a trovarsi sotto<br />

le luci della manifestazione più importante d’Europa<br />

e tra le più importanti del mondo.<br />

E sotto i riflettori sono finite anche le polemiche<br />

che hanno accompagnato la scelta di mostrare il<br />

film di Sabina Guzzanti, “Draquila” che, come le<br />

parole con cui Germano ha ringraziato per il premio<br />

e la manifestazione di tutti i lavoratori nel<br />

cinema che abbiamo visto sul tappeto rosso del<br />

Festival del cinema di Roma, porta alla ribalta il<br />

63° FESTIVAL DI CANNES<br />

di Paola Dell’Uomo<br />

4<br />

disagio che il cinema Italiano sta vivendo nel suo<br />

rapporto con le Istituzioni. Giusto o sbagliato sarà<br />

il pubblico a giudicare.<br />

Nonostante nubi vulcaniche e varie calamità naturali<br />

il Festival non è stato disertato. Cannes è una kermesse<br />

spettacolare. Totalmente diversa dalla sobria<br />

eleganza di Roma, con il suo lungo tappeto rosso che<br />

va a morire nella cavea dell’auditorium di Renzo<br />

Piano. Qui il tappeto rosso è un piccolo spazio, non<br />

accessibile praticamente al pubblico, dove salgono le<br />

scale le Stars come i miti di tutti i tempi.<br />

Totalmente diverse dalla fascinosa spiaggia del lido<br />

di Venezia, con la sua aria un po’ retrò di una dolce<br />

vita morente. Cannes è la caotica vita sulla Croisette,<br />

con divi che ti sfiorano, folle che si spostano in<br />

massa, stand impegnatissimi dove soprattutto si<br />

fanno affari.<br />

Perché Cannes è anche il più grande mercato del<br />

cinema d’Europa e se ne hai la possibilità qui si possono<br />

vedere proiezioni da tutto il mondo, in vetrina<br />

per essere acquistate dai distributori europei. A<br />

Cannes si muove un’industria immensa che si presenta<br />

sulla Croisette per mostrare film che magari,<br />

solo fortunosamente riusciremo a vedere molti mesi<br />

dopo nelle sale. Nel contempo abbiamo selezionato<br />

per la locandina stagionale tre film che hanno ben<br />

figurato al Festival, due dei quali non ancora usciti<br />

in sala.<br />

Cannes riempie il piccolo spazio del salone del cinema<br />

di un folla stipata nelle numerosissime sale. E la<br />

sera è un via vai di signore in abiti da sera e uomini<br />

in Smoking che si fermano nei piccoli ristoranti,<br />

seduti vicino a ragazzi in jeans che parlano delle<br />

proiezioni della giornata.<br />

Il Festival di Cannes è tutto questo; il Festival di<br />

Cannes è il cinema.<br />

Eva Longoria e Aishwarya Rai sul red carpet Il cast del film di Ridley Scott “Robin Hood”


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

67° FESTIVAL DI VENEZIA - Il Leone più Tarantiniano<br />

La crisi mondiale non ha risparmiato il settore dell’industria<br />

cinematografica. Si investe meno. Meno produzioni,<br />

meno idee, meno film di qualità. La 67-esima<br />

Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia non poteva<br />

non accorgersene. Una sala di proiezioni in meno. Una<br />

qualità generale un po’ inferiore alle passate edizioni.<br />

Ma quella del 2010 passerà alla storia come la più<br />

“tarantiniana”. Quentin Tarantino (nella foto) è stato<br />

infatti il travolgente presidente della Giuria. Che appare<br />

essersi imposto nei verdetti con la sua forte personalità.<br />

Che hanno lasciato molto discutere. Come sempre, ma<br />

forse un po’ più di sempre. Pensare male si fa peccato,<br />

ma non sempre ci si sbaglia. La Mostra è stata vinta<br />

dalla ex di Tarantino, il secondo premio al film più<br />

tarantiniano del concorso, premio speciale al mentore e<br />

maestro di Tarantino, Monte Hellman. Il Leone d’Oro<br />

per il miglior film è stato infatti attribuito a<br />

“Somewhere” di Sofia Coppola (Usa). Un film un po’<br />

al di sotto delle sue precedenti performances. Un buon<br />

film, ma non il suo migliore, né il migliore della Mostra.<br />

Il Leone d’Argento per la migliore regia ad Álex de la<br />

Iglesia per il film “Balada triste de trompeta”<br />

(Spagna, Francia), durante la proiezione del quale<br />

Tarantino ha fatto i numeri: applaudiva a scena aperta, si<br />

alzava, inneggiava fragorosamente. Ed al quale ha pure<br />

tributato il premio per la migliore sceneggiatura. Hanno<br />

fatto discutere anche gli ambiti premi per i migliori attori:<br />

Vincent Gallo nel film “Essential Killing” di Jerzy<br />

Skolimowski , e Ariane Labed nel film “Attenberg” di<br />

Athina Rachel Tsangari (Grecia). Le valutazioni, si sa,<br />

sono totalmente personali. Io avrei dato il leone d’oro a<br />

“La Versione di Barney”. Uno strepitoso film di<br />

Richard J. Lewis con Dustin Hoffman, Rachelle<br />

Lefevre, Paul Giamatti. E proprio a Paul Giamatti avrei<br />

dato il premio per miglior attore. Mentre la migliore<br />

attrice per me è stata, di gran lunga, Alba Rohrwacher,<br />

per “La Solitudine dei Numeri Primi” di Saverio<br />

Costanzo. Ove recitasse in un film americano, sarebbe<br />

senza dubbio da Oscar. Una grandissima prova attoriale.<br />

Di assoluta dedizione alla missione assegnata. Un incredibile<br />

lavoro sul corpo. Ha perso 10 kg, che sono tantissimi<br />

partendo da una magrezza ossuta come la sua. Non<br />

sono mancati film di qualità.<br />

di Catello Masullo<br />

5<br />

Come “Il Fosso”, del cinese Wang Bing , presentato<br />

come film a sorpresa del programma. Un film durissimo,<br />

rigoroso, di grande potenza espressiva, sulle terribili<br />

e disumane “rieducazioni” maoiste inferte agli<br />

intellettuali. “Columbia Cirkus”, del premio Oscar<br />

Danis Tanovic, acutissimo affresco, tra l’ironico ed il<br />

crepuscolare, dell’era dell’oro della ex Jugoslavia, alla<br />

vigilia dello scoppio delle assurde atrocità. Il poetico<br />

“Silent Souls” di Aleksei Fedorchenko, Osella per la<br />

miglior fotografia. Agguerritissima la presenza del<br />

cinema italiano. Con Rai Cinema a fare la parte del<br />

“leone” (è il caso di dirlo…), con ben 18 opere presentate.<br />

Oltre al già citato “La Solitudine dei Numeri<br />

Primi” di Saverio Costanzo, che si conferma un autore<br />

maturo, con piena padronanza del mezzo espressivo e<br />

che ha saputo cogliere l’essenza del libro scritto da<br />

Paolo Giordano, molte le opere a distinguersi. La scorrevolissima<br />

commedia di Carlo Mazzacurati “La passione”.<br />

La gustosa commedia “Into Paradiso”, abbastanza<br />

riuscita opera prima di Paola Randi. Il convincente<br />

“L’Amore Buio” di Antonio Capuano. Il corposo<br />

e coinvolgente “Noi Credevamo” di Mario Martone.<br />

L’elegante “Notizie degli Scavi” di Emidio Greco. Il<br />

vincitore della rassegna Controcampo Italiano è “20<br />

sigarette” di Aureliano Amadei, film non riuscitissimo,<br />

ma un efficace grido alto e forte contro ogni forma di<br />

guerra. Bellissimi e fulminanti alcuni corti : “Come un<br />

Soffio” di Michela Cescon , “Niente Orchidee” di<br />

Simone e Leonardo Godano, “Achille” di Giorgia<br />

Farina, “Sposerò Nichi Vendola” di Andrea<br />

Costantino. Una menzione del tutto speciale va infine<br />

fatta sul genere documentario. Che ha visto nel programma<br />

veneziano opere di grande fattura. Come<br />

“Dante Ferretti: Production Designer” di Gianfranco<br />

Giagni, “Se hai una montagna di neve lasciala<br />

all’ombra” di Elisabetta Sgarbi, “Niente paura” e le<br />

canzoni di Luciano Ligabue, di Piergiorgio Gay. Anche<br />

quest’anno il programma del Cinecircolo non si fa mancare<br />

una selezione accurata di film del festival di<br />

Venezia. Vedremo: “La Passione” di Carlo Mazzacurati<br />

con Silvio Orlando, la divertente commedia francese<br />

“Potiche-la bella statuina”, di François Ozon, con la<br />

deliziosa Catherine Deneuve (nella foto).


PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS<br />

V° FESTIVAL DI ROMA: la Lupa si mangia il Leone<br />

Il Festival Internazionale del Film di Roma è arrivato<br />

alla sua quinta edizione. Ad onta di chi ne preconizzava<br />

una precoce dipartita, pensando ad una rapida liquidazione,<br />

una volta esaurita la esperienza veltroniana,<br />

che l’aveva tenuta a battesimo, è più in salute che mai.<br />

Risente meno della crisi internazionale rispetto alla<br />

mostra di Venezia, confermando, a sua differenza, tutte<br />

le sale disponibili. Conferma la sua vocazione di maggiore<br />

attenzione alle preferenze del grande pubblico.<br />

Privilegiando, pur sempre nella attenta ricerca della<br />

qualità, le produzioni spettacolari e tradizionali, rispetto<br />

a quelle di ricerca sperimentale. Continua a mantenere<br />

i suoi cavalli di battaglia, che ne fanno un festival<br />

unico: la splendida sezione Alice nelle città, dei film<br />

per l’infanzia e per l’adolescenza, e gli incontri dei<br />

protagonisti del grande cinema con il pubblico. Pur con<br />

il rammarico del ridimensionamento parziale della<br />

sezione Extra, quella curata da Mario Sesti, che spesso<br />

ha fornito le opere più interessanti ed intriganti, la qualità<br />

media dei film proposti si mantiene elevata. Nella<br />

ideale competizione a distanza con la ben più blasonata<br />

kermesse veneziana, Roma, ancora una volta la<br />

spunta. Prevale, di poco, ma prevale. La Lupa<br />

Capitolina si mangia il Leone di San Marco. Le punte<br />

di diamante dalla scuola di cinema inglese, che, negli<br />

ultimi anni, sta producendo le cose più belle nel settore.<br />

La strepitosa commedia “We want sex”, di Nigel<br />

Cole, che fa ridere e fa pensare e fa entusiasmare, sulla<br />

vera storia di 187 operaie della Ford inglese che, negli<br />

anni ’60, misero in scacco la multinazionale dell’auto,<br />

chiedendo parità di trattamento retributivo rispetto ai<br />

maschi: una vera rivoluzione per l’epoca. Lo struggente,<br />

bellissimo “Oranges and sunshine” di Jim Loach,<br />

figlio del mitico Ken, che alla sua opera prima fa subito<br />

centro, con la storia di<br />

130.000 bambini di famiglie<br />

disagiate che furono<br />

brutalmente deportati<br />

dalla Gran Bretagna<br />

all’Australia nel dopo<br />

guerra. L’ironico, sulfureo,<br />

impagabile “Burke<br />

& Hare” del grande John<br />

Landis, che, per fare i<br />

film che vuole fare, deve<br />

lasciare Hollywood e<br />

rivolgersi alla industria<br />

europea, supportata dagli<br />

artigiani italiani, i migliori<br />

del mondo per calzature<br />

di Catello Masullo<br />

Julianne Moore, Marc’Aurelio alla carriera<br />

6<br />

e cappelli d’epoca, per ammissione dello stesso regista<br />

ad una mia domanda specifica. Di grande impatto emotivo<br />

il ritorno in patria di Susanne Bier, dopo la felice<br />

parentesi americana, con “In a better world”, che, per<br />

la prima volta, mette d’accordo pubblico e critica,<br />

aggiudicandosi sia il premio assegnato dagli spettatori<br />

che il gran premio della giuria. Molto forte e toccante<br />

il film irakeno “I fiori di Kirkuk” di Fariborz<br />

Kamkari, con la creativa collaborazione della italiana<br />

orchestra di Piazza Vittorio per le musiche.<br />

Interessante “Kill Me Please” di Olias Barco, una<br />

sorta di “Helzapoppin” macabro e grottesco, di un<br />

umorismo noir ed irresistibile, che si è aggiudicato il<br />

Marco Aurelio d’Oro, il massimo premio del Festival.<br />

La presenza del cinema italiano non è stata invece forte<br />

come a Venezia, la cui Mostra è più brava a fare incetta<br />

in questo specifico mercato. Non sono però mancate<br />

le opere degne di nota. Come il film sorprendente di<br />

Claudio Cupellini, “Una vita tranquilla”. Un film di<br />

genere, un noir classico, che non ti aspetti dall’autore<br />

del delizioso e leggero “Lezioni di cioccolato”. Con<br />

una incredibile verosimiglianza ed un meccanismo<br />

molto intrigante di alternanza delle tre lingue: napoletano,<br />

italiano e tedesco, che vengono usate come tane<br />

in cui nascondersi dal protagonista, un monumentale<br />

Toni Servillo, che con questa interpretazione vince<br />

finalmente il premio per miglior attore ad un festival<br />

internazionale. Interessanti le sezioni collaterali come<br />

quelle tenute presso la Casa del Cinema, ove segnaliamo<br />

il medio metraggio “L’elefante occupa spazio” di<br />

Francesco Bernabei. Anche quest’anno i “movie hunters”<br />

del Cinecircolo hanno approfittato a piene mani<br />

del Festival di Roma, che offre maggiori possibilità di<br />

pescare film più adatti alla nostra programmazione.<br />

Infatti la locandina prevede<br />

ben cinque titoli, di cui<br />

tre dalla passata edizione,<br />

che sono usciti nelle sale<br />

solo questo anno, molto di<br />

recente: “Hachiko” di<br />

Lasse Hallstrom,<br />

“L’uomo che verrà” di<br />

Giorgio Diritti, e “The<br />

Last Station”, di Michael<br />

Hoffman. I due film selezionati<br />

dal programma di<br />

questo anno del Festival<br />

di Roma sono: “We want<br />

Sex” e “Una vita tranquilla”,<br />

già qui commentati.


PREMIO CINEMA GIOVANE & FESTIVAL DELLE OPERE PRIME<br />

Il Cinecircolo Romano ha programmato, a partire dalla stagione 2004/2005, di organizzare una manifestazione celebrante<br />

il cinema giovane italiano, istituendo un Premio nell’ambito di un festival.<br />

Il Premio Cinema Giovane è dedicato agli autori di opere prime ed ai giovani interpreti (attori ed attrici) del cinema italiano<br />

della più recente stagione, ed è caratterizzato dal giudizio espresso dal pubblico cinefilo. Lo scopo quindi è quello<br />

di dare annualmente un riconoscimento a personaggi emergenti del panorama del giovane cinema italiano, dando<br />

visibilità al giudizio del pubblico ospite e dei Soci dell’Associazione.<br />

ESITI DELLA VI EDIZIONE: MARZO 2010<br />

a cura di Alessandro Jannetti<br />

È stata presentata una selezione di film italiani opere prime, ovvero pellicole interpretate da giovani attori italiani, prendendo<br />

in esame tutti quelli distribuiti nel corso del 2009 (ben 30 opere) e nominando i tre film in concorso.<br />

Durante la rassegna sono stati proiettati anche altre 7 pellicole del cinema giovane italiano, di cui 4 opere prime selezionate.<br />

Complessivamente alle 19 proiezioni si sono riscontrate complessivamente circa 9.000 presenze a inviti gratuiti.<br />

Anche questa edizione ha mantenuto la tradizione dei numerosi incontri del pubblico con gli autori, attori e produttori dei<br />

film in concorso e selezionati. Una consuetudine che è uno dei fiori all’occhiello della manifestazione. Ed un importante<br />

motivo di interesse e di attrazione, che garantisce un consistente numero di presenze alla kermesse. Le interviste/dibattito<br />

sono state condotte ancora una volta dal critico cinematografico del Cinecircolo Romano, Catello Masullo.<br />

Sono stati proiettati all’Auditorio San Leone Magno, nella VI edizione del Premio Cinema Giovane & Festival delle Opere<br />

Prime, i tre film opere prime in concorso - Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli, La doppia ora di Giuseppe Capotondi,<br />

Dieci inverni di Valerio Mieli - e sette film selezionati: Piede di dio di Luigi Sardiello, Mar Nero di Federico Bondi, La<br />

siciliana ribelle di Marco Amenta, Diverso da chi? di Umberto Carteni, nonché, per la presenza degli interpreti candidati,<br />

Ex di Fausto Brizzi, Fortapàsc di Marco Risi, Il grande sogno di Michele Placido.<br />

La cerimonia di premiazione si è tenuta venerdì 26 marzo 2010 e per il secondo anno consecutivo, è stata condotta dal giornalista<br />

e critico cinematografico Maurizio Di Rienzo. Hanno consegnato i Premi: l’Assessore alla Cultura, Spettacolo e<br />

Sport Giulia Rodano e la responsabile dell’area Cinema, Audiovisivi e Programmi Europei Cristina Crisari della Regione<br />

Lazio, il Presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Bruno Torri, il regista Marco Risi ed il Presidente del<br />

Cinecircolo Pietro Murchio.<br />

Sono state consegnate, davanti ad un grande pubblico, targhe d’argento a tutti i candidati ed a Fabio Troiano per l’interpretazione<br />

nel film blockbuster Cado dalle nubi, come corollario dell’assegnazione dei seguenti “Premi Cinema Giovane”:<br />

– il Premio Opera Prima al film La doppia ora, al produttore Francesca Cima, per Giuseppe Capotondi;<br />

– il Premio Miglior Attore a Libero De Rienzo per Fortapàsc di Marco Risi;<br />

– il Premio Miglior Attrice a Jasmine Trinca, per Il grande sogno di Michele Placido;<br />

– il Premio Migliore Attrice Esordiente a Miriana Raschillà per il film Cosmonauta.<br />

Durante la manifestazione si è svolto un interessante Forum sul tema “Il cinema giovane italiano: come aiutarlo?”, al<br />

quale hanno partecipato: Pietro Murchio-moderatore, Carlo Brancaleoni, Daniele Cini, Bruno Torri, Enzo Ciarravano, Ugo<br />

Baistrocchi, Luigi Sardiello, Franco Rina, Enzo Natta e Catello Masullo.<br />

A corollario dell’evento, nel foyer dell’Auditorio del San Leone Magno, si è svolta una mostra-concorso di arti figurative<br />

competitiva e non commerciale, alla quale hanno partecipato più di 100 artisti con oltre 200 opere.<br />

Marco Risi e Valerio Mieli Miriana Raschillà<br />

Jasmine Trinca e Libero De Rienzo<br />

7


PREMIO CINEMA GIOVANE VII EDIZIONE: MARZO-APRILE 2011<br />

a cura di Pietro Murchio<br />

La manifestazione è pur sempre caratterizzata dal giudizio espresso dal pubblico di soci ed ospiti, con il coinvolgimento<br />

di numerosi giovani, dei “cineasti” protagonisti nonché delle risorse culturali del territorio.<br />

La manifestazione si svolgerà dal 28 marzo al 2 aprile 2011 presso l’ Auditorio San Leone Magno di Via Bolzano 38 la cui<br />

sala ospiterà le proiezioni cinematografiche, il Forum su “Il Cinema Giovane Italiano: quale futuro?” e la Premiazione;<br />

contemporaneamente nell’elegante foyer si svolgerà una mostra concorso di opere di arte figurativa, competitiva non commerciale.<br />

Una Commissione di esperti, appositamente nominata composta da membri altamente qualificati del mondo della cultura e<br />

stampa cinematografica, sta effettuando una selezione di film italiani opere prime, di genere fiction, distribuiti nel corso del<br />

2010: ad oggi ben 25 opere sono state censite.<br />

La rassegna finale del Festival si terrà presso l’Auditorio San Leone Magno in occasione della annuale settimana culturale. I<br />

tre film nominati verranno proiettati tre volte, in tre orari diversi (16.00, 18.30, 21,15) nei giorni 28, 29 e 30 marzo, raccogliendo<br />

su apposita scheda i giudizi del pubblico spettatore, inoltre negli stessi giorni in orario mattutino si terranno le proiezioni<br />

per i giovani studenti delle medie superiori del Comune di Roma. Durante la settimana culturale verranno proiettati<br />

anche altri 7 film selezionati dal Cinema Giovane Italiano, di cui 3 selezionati per la presenza di interpreti candidati (ad es.:<br />

Io loro e Lara, I figli delle stelle…). Complessivamente, nella settimana, sono previste 19 (di cui 3 mattutine per giovani studenti<br />

) proiezioni ad inviti gratuiti per i soci e per il pubblico ospite, come avvenuto nelle sei precedenti edizioni. Interviste<br />

agli artisti e con il pubblico sono previste per ciascun film della rassegna.<br />

La sera del primo aprile 2011 verrà effettuata la premiazione. I “ Premi Cinema Giovane”, assegnati all’autore della migliore<br />

opera prima ed ai migliori giovani interpreti, consisteranno in un oggetto di fattura originale appositamente inciso e personalizzato.<br />

Agli autori degli altri due film in concorso verrà consegnata una speciale targa in argento. Agli autori di tutti gli altri<br />

film selezionati per la rassegna verrà consegnata, al momento del loro intervista in sala, una targa personalizzata di partecipazione.<br />

Inoltre i film selezionati ed in concorso verranno invitati, come special guests, a presentare la loro opera durante lo<br />

svolgimento del Festival itinerante CinemaDamare che si terrà nelle regioni del centro sud da luglio a metà agosto 2011.<br />

Per l’occasione la prestigiosa rivista del Cinecircolo “ Qui Cinema” dedicherà un numero speciale alla manifestazione. Il<br />

Cinecircolo provvederà a divulgare la rassegna oltre che con locandine, depliants di programma ed inviti personalizzati, con<br />

comunicati alla stampa quotidiana, periodica, e ai media radio-televisivi, nonché alle Istituzioni Pubbliche e agli Enti<br />

Patrocinanti.<br />

La manifestazione usufruisce, tra gli altri prestigiosi, del Patrocinio con collaborazione dell’Assessorato alla Cultura della<br />

Regione Lazio e sarà preannunciata da una apposita Conferenza Stampa che sarà tenuta 6 o 7 giorni prima dell’inizio, presso<br />

la Casa del Cinema. Questa edizione del Festival si prevede che beneficerà<br />

anche della sponsorizzazione della Banca Mediolanum.<br />

Le notizie della manifestazione verranno divulgate tramite Radio Cinema<br />

(ente collaborante) anche in appositi spazi radiofonici su rete nazionale,<br />

nonché sulla stampa quotidiana e periodica. Interviste al direttore artistico<br />

verranno trasmesse anche da reti radio nazionali e reti TV regionali.<br />

Infine, le notizie sul programma della manifestazione saranno altresì pubblicate<br />

nel sito internet del Cinecircolo (www.<strong>cinecircoloromano</strong>.it), nonché<br />

in altri siti convenzionati come: www.upter.it; www.radiocinema.it,<br />

www.Cinemonitor.it, e sul sito del Festival del Cinema di Roma,etc.<br />

Fabio Troiano,<br />

Libero De Rienzo<br />

e Cristina Crisari<br />

Miriana Raschillà, Jasmine Trinca e Giulia Rodano Ludovica Rampoldi e Francesca Cima<br />

8


CINECORTOROMANO 2010 - VI EDIZIONE<br />

a cura di Maria Teresa Raffaele<br />

Il Concorso per Corti cinematografici, promosso dal Cinecircolo Romano nell’ambito delle iniziative collaterali alla programmazione<br />

ufficiale, è giunto quest’anno alla sua sesta edizione ed ha offerto ancora una volta agli operatori appassionati<br />

di questo genere la possibilità di portare in visione le loro opere ad una grande platea come quella dei nostri soci.<br />

Il corto è un genere cinematografico che si sta sempre più affermando tra gli appassionati di Cinema, non solo perché<br />

necessita ovviamente di un budget minore, ma anche perché sostanzialmente in sintonia con la velocità espressiva della<br />

contemporaneità. Generalmente un corto nasce da un’idea forte, deve avvalersi di una struttura narrativa compatta e veloce,<br />

tutto deve essere insostituibile ed efficace al completamento di un’azione che generalmente sfocia in un colpo di scena<br />

finale. Anche i corti premiati nell’edizione di quest’anno hanno rispettato queste regole presentando situazioni coinvolgenti<br />

ed originali, la loro visione ha sicuramente arricchito la proposta culturale del Cinecircolo Romano:<br />

OPERA VINCITRICE: “IN AMORE” di ANDREA MENGHINI<br />

Attraverso uno sguardo ironico ma mai cinico, un montaggio veloce e ritmato, è raccontata la storia di un uomo e di una<br />

donna e del loro amore tormentato, con un finale a … sorpresa.<br />

OPERA SEGNALATA: “SU DUE PIEDI” di MARIA CHIARA PIAZZA<br />

OPERA SEGNALATA: “SOSPIRI E SOSPETTI” di FABIO CLEMENTELLI<br />

Nella serata della premiazione, fuori concorso, è stato presentato anche il corto “Questi avvocati” realizzato dagli allievi<br />

del Corso Upter di Cinematografia dal titolo“Dall’idea allo schermo: come si gira un film” diretto dal nostro socio<br />

Lamberto Caiani che ha tenuto le lezioni del corso presso la nostra sede.<br />

MOSTRA CONCORSO DI ARTI FIGURATIVE 2010<br />

a cura di Maria Teresa Raffaele<br />

Uno degli appuntamenti più seguiti nell’ambito della settimana culturale del Cinecircolo è la MOSTRA CONCORSO DI<br />

ARTI FIGURATIVE che anche quest’anno ha visto grande affluenza di pubblico e di partecipanti non solo tra i soci, ma<br />

anche tra artisti ospiti provenienti dall’Associazione Pittori di via Margutta e INARTE e da allievi e docenti dell’UPTER,<br />

Università Popolare di Roma. Tra professionisti ed amatori, il numero degli artisti partecipanti è stato di ben 104 e questo<br />

ha creato uno stimolante clima di competitività ed ha testimoniato, ancora una volta, come il nostro pubblico sia interessato<br />

non solo al Cinema ma anche ai vari linguaggi dell’arte ed alle molteplici sinergie che possono intercorrere tra le arti<br />

visive ed anche con la poesia. Il Premio Acquisto di quest’anno, infatti, era riservato ad un’opera ispirata ad una frase del<br />

poeta greco Nikos Kazantzakis: “Avete il pennello, avete i colori, dipingete voi il paradiso e poi entrateci” invito che non<br />

ha mancato di sollecitare la sensibilità e la creatività di molti artisti con opere valide e suggestive.<br />

Qui sotto sono riportati la formazione della Giuria e l’elenco dei vincitori<br />

per ogni sezione di concorso.<br />

Giuria:<br />

Ugo Bevilacqua - docente arti figurative<br />

Carlo Fabbrini - antiquario<br />

Claudio Guidi - architetto<br />

Elio Morbiducci - architetto<br />

Ferruccio Fantone - giornalista<br />

PITTURA sezione professionale<br />

Primo premio Riflessi di Largo Torre Argentina di Germana Ponti - nella foto<br />

Secondo premio: Fiori e farfalle di Mario Santini<br />

Terzo premio: A Perth tra luna e stelle di Anna D’Arienzo<br />

PREMIO ACQUISTO: Il mio Paradiso di Gianluigi Poli (nella foto con la sua opera)<br />

9<br />

PITTURA sezione amatoriale<br />

Primo premio: Campo de’ Fiori di Lorenzo Longhi<br />

Secondo premio: Pensieri di Angela Laudato<br />

Terzo premio: Tetti d’Abruzzo di Tilli Scarpis<br />

CERAMICA<br />

Primo premio: Vaso con calle di Maria Claudia Telese<br />

Secondo premio: Amami di Antonello Massariello<br />

SCULTURA<br />

Primo premio: Andata e ritorno di Irene Coscarella<br />

Secondo premio: E fu la vita di Gennaro Curzio


1<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

HACHIKO - Il tuo migliore amico<br />

di Lasse Hallström<br />

28-29 ottobre 2010<br />

Lasse Hallström, Lars Sven Hallström - Stoccolma, 2 giugno 1946 - dopo aver lavorato nella televisione svedese, conquista la popolarità<br />

e l’attenzione della produzione americana con il film “La mia vita a quattro zampe”, del 1985. Tratto dal romanzo autobiografico<br />

di Reider Jonsson, il film, drammatico e surreale, fa ottenere a Lasse Hallström la nomination all’Oscar per la migliore regia<br />

e sceneggiatura non originale. Vincitore di numerosi premi della critica cinematografica di New York, dirige nel 1991 “Ancora una<br />

volta” e nel 1993 il film di successo “Buon compleanno Mr. Grape”, con Johnny Depp, Juliet Lewis e Leonardo Di Caprio. Due<br />

anni dopo realizza “Qualcosa di cui sparlare”, con Julia Roberts e Dennis Quaid, e firma alcuni programmi di successo per la televisione<br />

svedese. Nel 1997 dirige i videoclip musicali degli ABBA e cura la regia di alcuni film svedesi, come “A Lover and his Lass”.<br />

Con “Le regole della casa del sidro” è stato candidato all’Oscar 2000 per la miglior regia.<br />

Interpreti: Richard Gere (Prof. Parker Wilson), Joan Allen (Cate Wilson), Jason Alexander (Carl), Sarah Roemer (Andy), Cary-Hiroyuki<br />

(Tagawa Ken), Erick Avari (Jasjeet), Davenia McFadden (Mary Anne), Kevin DeCoste (Ronnie), Robbie Sublett (Michael), Denece<br />

Ryland (Sig.na Latham), Tora Hallstrom (Heather), Donna Sorbello (Myra), Rob Degnan (Teddy Barnes), Frank S. Aronson (Milton)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Anno: 2009<br />

Soggetto: Kaneto Shindo<br />

Sceneggiatura: Stephen P. Lindsey<br />

Fotografia: Ron Fortunato<br />

Musica: Jan A.P. Kaczmarek<br />

Montaggio: Kristina Boden<br />

Durata: 93’<br />

Produzione: Richard Gere, Bill Johnson, Vicki Shigekuni Wong e Dean Schnider per Grand Army Entertainment, Inferno Distribution,<br />

Shochiku Kinema Kenkyû-Jo<br />

Distribuzione: Lucky Red<br />

SOGGETTO: In una cittadina americana, il professor Parker, tornando una sera a casa dalla scuola dove insegna musica, trova un cucciolo<br />

abbandonato. Lo prende con se e, vincendo le resistenze della moglie Cate, lo tiene e lo cresce. Il rapporto tra il cane di razza<br />

Akita e l’uomo diventa sempre più stretto. Quando Parker muore per un improvviso ictus, il cane torna regolarmente ogni giorno alle<br />

cinque alla stazione ferroviaria ad aspettarlo, come aveva cominciato a fare in precedenza. Così avviene per i successivi dieci anni….<br />

VALUTAZIONE: I titoli di coda ricordano che all’origine c’è una storia vera, accaduta in Giappone tra gli anni Venti e Trenta del<br />

‘900. Il cane è diventato un eroe popolare. Trasferita in America, la vicenda é diventata una favola, tuttavia ben inquadrata in contesti<br />

realistici. Un storia di fedeltà, che vede da una parte i due maturi sposi, dall’altra l’affetto tra l’uomo e l’animale. Quest’ultimo, grazie<br />

all’uso sapiente delle inquadrature, suscita simpatia e in molti momenti forte commozione. Perciò il racconto resta interessante e coinvolgente,<br />

non indulgendo a facili scorciatoie emotive, legato ad un modo di esprimersi sobrio, dove il tema dominante appare quello<br />

della fedeltà come valore principale cui ispirare la propria vita e il rapporto con gli altri. La fotografia conferisce bel risalto allo scorrere<br />

delle stagioni, e la natura, con il suo cangiante cromatismo, diventa una sorta di coprotagonista attento e silenzioso.<br />

10


2<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

LA PRIMA COSA BELLA di Paolo Virzì<br />

4-5 novembre 2010<br />

(marzo 1964) Abbandonati gli studi di Lettere e Filosofia all’Università di Pisa, Paolo Virzì frequenta a Roma il corso di sceneggiatura<br />

di Furio Scarpelli presso il Centro Sperimentale di Cinematografia . Terminati gli studi collabora a numerosi script lavorando con<br />

Gabriele Salvatores, Giuliano Montaldo, Farina e Giannarelli. Il primo esordio dietro la macchina da presa è del 1994 con “La bella<br />

vita”, film premiato con il Ciak d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia, il Nastro d’Argento ed il David di Donatello come miglior regista<br />

emergente. Anche la successiva pellicola “Ferie d’Agosto” procura a Virzì un secondo David, questa volta come miglior film in concorso.<br />

“Ovosodo” (1997), scritto con la collaborazione di Francesco Bruni e del suo maestro Scarpelli, vince il Gran premio speciale<br />

della giuria al Festival di Cannes e il Ciak d’Oro per la migliore sceneggiatura. Al quarto lavoro del regista toscano (“Baci e abbracci”<br />

del 1999) seguirà due anni dopo l’applauditissimo “My name is Tanino”. Nel 2002 viene assegnato a Virzì il Premio Vittorio de Sica per<br />

il cinema italiano. Nel 2003 esce nelle sale il suo sesto cortometraggio “Caterina va in città”, con Sergio Castellitto. Produce nel 2005<br />

il film “4-4-2 il gioco più bello del mondo”, firmandone anche la sceneggiatura. In seguito “N - Io e Napoleone” viene tributato con<br />

un’anteprima al secondo giorno del RomaFilmFestival 2006 .Segue “Tutta la vita davanti” (2008 )che ha ricevuto il premio Ciak d’oro<br />

quale miglior film dell’anno. E per il quale lo stesso Virzì è stato votato come il miglior regista. Il suo ultimo film “ La prima cosa bella<br />

“ è stato scelto dalla commissione dell’ANICA come candidato italiano all’Oscar 2011 per il miglior film straniero .<br />

Interpreti: Valerio Mastandrea (Bruno Michelucci nel 2009), Micaela Ramazzotti (Anna Nigiotti in Michelucci 1970-1980), Stefania<br />

Sandrelli (Anna Nigiotti in Michelucci nel 2009), Claudia Pandolfi (Valeria Michelucci nel 2009), Marco Messeri (il Nesi), Aurora Frasca<br />

(Valeria Michelucci nel 1970), Giacomo Bibbiani (Bruno Michelucci nel 1970), Giulia Burgalassi (Valeria Michelucci nel 1980), Francesco<br />

Rapalino (Bruno Michelucci nel 1980), Isabella Cecchi (Zia Leda Nigiotti), Sergio Albelli (Mario Michelucci), Fabrizia Sacchi (Sandra),<br />

Dario Ballantini (Avvocato Cenerini dal 1970 al 1980)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto: Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì<br />

Sceneggiatura: Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì<br />

Fotografia: Nicola Pecorini<br />

Musica: Carlo Virzì<br />

Montaggio: Simone Manetti<br />

Durata: 116’<br />

Produzione: Fabrizio Donvito, Marco Cohen, Benedetto Habib, Paolo Virzì, Carlo Virzì per Indiana Production Company/Medusa<br />

Film/Motorino Amaranto<br />

Distribuzione: Medusa<br />

SOGGETTO: Nell’estate del 1971 Anna Nigiotti viene eletta Miss Pancaldi, lo stabilimento balneare più popolare di Livorno. Questo evento<br />

scongolge la sua vita e quella delle sua famiglia. Attratta dal cinema, Anna litiga con il marito Mario, e va via di casa con i due figli piccoli<br />

Valeria e Bruno. Per i tre comincia una peregrinazione in vari appartamenti, tra tentativi di riappacificazione e nuovi scontri. Tanti anni<br />

dopo, Anna é malata gravemente, e in ospedale arrivano Valeria e Bruno, tornato controvoglia da Milano dove abita e insegna. I ricordi del<br />

passato si mescolano con il presente e, quando la mamma sta per spegnersi con l’arrivo di un terzo figlio finora sconosciuto, e con il matrimonio<br />

contratto con il Nesi, un amico fedele degli ultimi anni.<br />

VALUTAZIONE: Il regista racconta di persone e situazioni che ben conosce senza farne oggetto di semplice nostalgia. La memoria, ricostruita<br />

in forme sovrapposte e per successive aggregazioni, diventa filtro per rivedere modi di fare e di rapportarsi, per fare il conto delle<br />

ferite dell’infanzia, e delle delusioni della maturità, per capire il valore degli affetti e dei punti di riferimento familiari. Nel lasciarsi come<br />

nel ritrovarsi c’è un fremito, un timore, un momento di esitazione sulla cosa da fare: il dubbio sulle decisioni, la timidezza nel manifestare<br />

i sentimenti. Così il racconto lascia sul terreno narrativo tante cose belle: allo spettatore il compito di decidere quale sia la prima.<br />

11


3<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

GLI ABBRACCI SPEZZATI di Pedro Almodovar<br />

11-12 novembre 2010<br />

Pedro Almodóvar Caballero (Castiglia La Mancia, Spagna – settembre 1951) A sedici anni interrompe gli studi, inizia a lavorare<br />

presso una compagnia telefonica per mantenersi (ci passerà ben dodici anni della sua vita), ma nel frattempo inizia a dedicarsi alle<br />

riprese di documentari, filmati amatoriali e cortometraggi .Il suo primo cortometraggio risale al 1974, cui ne seguiranno una decina<br />

prima del suo esordio nel lungometraggio, che arriva nel 1980. È l’inizio della sua folgorante carriera. Proprio in quegli anni gira i<br />

primi film realmente distribuiti in grande stile: “Pepi, Luci Bom e le altre ragazze del mucchio” e “Labirinto di passioni”. Seguono<br />

i film “L’indiscreto fascino del peccato”, “Che ho fatto io per meritare questo?!”, “Matador” e “La legge del desiderio”. Con “Donne<br />

sull’orlo di una crisi di nervi” giunge la consacrazione a livello internazionale, coronata con una nomination all’Oscar . I film seguenti<br />

sono successi in tutto il mondo: “Lègami!”, “Tacchi a spillo”, “Kika”, “Il fiore del mio segreto” e “Carne Tremula”. Nel 2000, dopo<br />

la Palma D’Oro nel 1999 a Cannes come miglior regista per “Tutto su mia madre”, riceve l’Oscar per lo stesso film, a coronamento<br />

di un successo planetario sia di critica che di pubblico. I più recenti “Parla con lei”, “La mala educación”, “Volver”, “Gli abbracci<br />

spezzati”, completano la sua filmografia.<br />

Interpreti: Penélope Cruz (Lena), Lluís Homar (Mateo Blanco/Harry Caine), Blanca Portillo (Judit García), José Luis Gómez (Ernesto<br />

Martel), Rubén Ochandiano (Ray X), Tamar Novas (Diego), Ángela Molina (Madre di Lena), Chus Lampreave (Portiera), Kiti Manver<br />

(Madame Mylene), Lola Dueñas (Lettrice di labbra), Mariola Fuentes (Edurne), Carmen Machi (Chon), Kira Miró (Modella)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Spagna<br />

Soggetto: Pedro Almodóvar<br />

Sceneggiatura: Pedro Almodóvar<br />

Fotografia: Rodrigo Prieto<br />

Musica: Alberto Iglesias<br />

Montaggio: José Salcedo<br />

Durata: 129’<br />

Produzione: El Deseo S.A., Universal International Pictures<br />

Distribuzione: Warner Bros. Italia<br />

SOGGETTO: Divenuto cieco in seguito ad un incidente d’auto di quattordici anni prima, lo sceneggiatore Harry Cain decide di raccontare<br />

a Diego, figlio della sua direttrice di produzione Judit, la storia della sua vera identità. Lui in realtà si chiama Mateo Blanco, e tutto è<br />

cominciato quando ha conosciuto Lena, che volle fare lavorare nei suoi film, a dispetto del produttore e amante di lei, Ernesto Martel.<br />

VALUTAZIONE: I temi ci sono: la casualità; il paradosso dell’essere ‘ciechi’ per chi si serve dello ‘sguardo’; il cinema come luogo dello<br />

sdoppiamento dell’identità personale; la passione e la gelosia. Anche stavolta la sensazione di un amore folle per la vita, per le persone, per<br />

il ‘fare cinema’ attraversa il racconto e lo segna con toni marcati. Ma l’ispirazione appare un po’ appannata, c’è meno vigore da parte di<br />

Almodovar nell’aggredire le immagini e i sentimenti. Oscillando tra momenti di pausa, qualche ripetizione e spunti di riflessione.<br />

12


La Stampa - Lietta Tornabuoni<br />

Grande melodramma. Una ragazza bellissima molto povera va a<br />

vivere con un uomo d’affari anziano molto ricco che l’ama follemente,<br />

ma non rinuncia al proprio sogno di essere attrice di cinema.<br />

Per accontentarla e per non perderla, l’uomo d’affari diventa<br />

finanziatore e produttore della commedia brillante “Chicas y<br />

muletas”, ragazze e valigie, in cui lei ha la sua prima parte importante.<br />

La ragazza e il regista s’innamorano. Geloso e sospettoso,<br />

l’uomo d’affari li spia, incarica il figlio di girare in video ciò che i<br />

due fanno, assume una lettrice di parole sulle labbra per farsi riferire<br />

quanto dicono. Appena finito il film, ragazza e regista fuggono<br />

a Lanzarote, rifugiandosi soli in un bungalow sull’incantevole<br />

spiaggia di Famara. In un incidente d’auto (voluto? casuale?) la<br />

bellissima muore, il regista (come in Woody Allen) diventa cieco.<br />

Intanto l’uomo d’affari, pazzo di dolore, ha fatto completare il film<br />

nel modo peggiore, scegliendo le scene mal riuscite, la recitazione<br />

sciagurata e l’ha messo nei cinema allo scopo di svergognare il<br />

regista. Come lieto fine il regista, che ha scoperto di avere un<br />

figlio, decide di mettere a posto il film: il cinema è troppo importante,<br />

si deve fare anche senza poterlo vedere.La storia appassionata<br />

e fiammeggiante s’intreccia in filigrana con l’altra grande storia<br />

di Almodóvar, la propria vita di cinema. Il cinema è sempre<br />

presente: nei personaggi, nella lavorazione del film, nelle riprese<br />

di vita quotidiana, nella lettrice di parole sulle labbra (il doppiaggio),<br />

nelle immagini di Ingrid Bergman e George Sanders in<br />

“Viaggio in Italia” di Rossellini, nelle inquadrature di strumenti<br />

obsoleti per la lavorazione cinematografica. Specialmente nello<br />

stile de “Gli abbracci spezzati”, che ne fa un perfetto thriller hollywoodiano<br />

degli Anni 40-50, sul genere di “Gilda” o simili, molto<br />

ben fatto e bello. Almodóvar sembra aver perduto con il tempo il<br />

suo speciale sarcasmo e persino il grottesco. Questo film non<br />

somiglia affatto ai primi film farseschi che lo hanno reso tanto<br />

amato e popolare in Europa. È invece tenero, dolce: l’ironia si<br />

esercita sul genere, non sulle emozioni dei personaggi, e il cambiamento<br />

non rende il film meno amorevole.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Un film fatto di tanti altri film in cui tutto è doppio, replicato, spezzato,<br />

moltiplicato. Un regista, Pedro Almodóvar, che racconta la<br />

storia tragica e barocca di un altro regista, Mateo Blanco, alias<br />

Harry Caine (l’attore Lluis Homar), prestandogli diversi tratti del<br />

vero Almodóvar (e un’intera sequenza di “Donne sull’orlo di una<br />

crisi di nervi”), ma senza per questo confondersi con lui. E poi<br />

ancora: una storia che viaggia su diversi piani, passato e presente,<br />

realtà e finzione, visibile e invisibile, con un virtuosismo e un piacere<br />

del cinema così evidenti che tutto il resto, l’amore, la famiglia,<br />

la paternità, il tradimento, la colpa, in fondo conta poco.<br />

Perché malgrado tutti i colpi di scena e le piroette, Gli abbracci<br />

spezzati ruota solo e instancabilmente attorno al cinema e ai suoi<br />

poteri.È il cinema che fa e disfa la realtà, non viceversa. È l’ossessione<br />

per la settima arte che unisce due uomini, ignari di essere<br />

padre e figlio, al lavoro insieme su una sceneggiatura. Ed è sempre<br />

il cinema che trasforma il movimento avvolgente di una bobina<br />

di pellicola in una scala a spirale. O consente al vecchio produttore<br />

di scoprire che la sua amante (Penelope Cruz) lo tradisce,<br />

facendo leggere da una specialista le labbra della ragazza nelle<br />

scene ‘rubate’ sul set... dal figlio del produttore, che sta girando un<br />

making off del film medesimo! E via di questo passo in un gioco<br />

di specchi vertiginoso e molto almodovariano che non aggiunge<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

13<br />

molto alla foresta del cinema sul cinema, ma conferma in tutta la<br />

sua forza l’arte di Almodóvar. Nessuno sa cogliere come lui l’urgenza<br />

del desiderio (vedi la bella scena iniziale in cui il maturo<br />

Mateo Blanco/Harry Caine, diventato cieco, seduce la bella sconosciuta<br />

che lo ha accompagnato a casa). E nessuno, se non<br />

Almodóvar, potrebbe ribaltare la trovata del tradimento scoperto<br />

grazie al labiale in una scena in cui la Cruz, smascherata, ‘doppia’<br />

se stessa in diretta infliggendo un’umiliazione definitiva al suo<br />

attempato amante. Il problema, perché c’è un problema, è che tutto<br />

questo stenta a trasformarsi in personaggi solidi e coinvolgenti.<br />

Ma proprio l’invadenza di una trama così minuziosa e estenuante<br />

genera momenti di cinema che irritano e insieme incantano per<br />

inventiva e leggerezza. Non perdoneremo a Almodóvar le troppe<br />

citazioni o la disinvoltura con cui butta via in due battute un soggetto<br />

come quello del figlio Down di Arthur Miller. Ma non<br />

dimenticheremo facilmente le mille parrucche della Cruz, la scena<br />

in cui amoreggia sotto le lenzuola con un partner invisibile, la sconosciuta<br />

che rivestendosi dopo aver fatto l’amore pesta sbadatamente<br />

il piede del cieco con lo stivaletto. Come un mago in crisi,<br />

Almodòvar passa in rassegna trucchi e feticci. A un regista come<br />

lui lo si può concedere.<br />

Il Corriere della Sera - Paolo Mereghetti<br />

Costruito come un gioco di scatole cinesi dove il doppio binario<br />

temporale - una storia che si svolge oggi e una 14 anni fa - si<br />

riverbera e si scompone in personaggi che hanno una vita e due<br />

nomi (come il protagonista, che si chiama Mateo Blanco quando<br />

fa il regista e poi diventa Harry Caine quando la cecità lo costringe<br />

a trasformarsi in sceneggiatore), oppure lo stesso nome ma due<br />

vite diverse (come il dispotico padre Ernesto che cerca di plagiare<br />

il complessato e remissivo figlio Ernesto), o ancora una vita<br />

prima e una dopo l’evento che ne cambierà il destino (come per<br />

la bellissima Lena, interpretata da Penélope Cruz, prima segretaria<br />

e poi aspirante attrice, prima mantenuta e poi amante), il film<br />

di Almodóvar “Los abrazos rotos” (letteralmente, “Gli abbracci<br />

spezzati”) è una disperata riflessione sul cinema, sulle responsabilità<br />

di chi lo fa e, per estensione, su quello che l’occhio umano<br />

può e vuole vedere. Disperata perché, nonostante il piacere che<br />

spesso le storie possono offrire, e che l’ultimo film (nel film)<br />

diretto da Mateo Blanco cercava di trasmettere al pubblico (ne<br />

vediamo alcune scene, che non a caso ‘citano’ “Donne sull’orlo<br />

di una crisi di nervi”), proprio quel piacere può essere causa di<br />

dolore. Oppure, può costare molto dolore a un regista per portarlo<br />

a termine. Da un po’ di tempo a questa parte Almodóvar sembra<br />

aver messo da parte il piacere di raccontare storie immaginifiche<br />

e colorate per addentrarsi in una riflessione sul proprio<br />

mestiere (“Il fior del mio segreto”, “La mala educación”) oppure<br />

sul materiale dei suoi sogni, a cominciare dal melò hollywoodiano<br />

(“Tutto su mia madre”, “Volver”) che con “Los abrazos rotos”<br />

tocca il suo culmine, per interrogarsi su cosa davvero possono<br />

dire le immagini. Come quelle girate da Mateo Blanco che possono<br />

essere manipolate da un produttore ostile o quelle senza<br />

sonoro che il giovane Ernesto gira sul set per spiare i comportamenti<br />

dell’ amante del padre e che hanno bisogno di qualcuno che<br />

sappia leggere sulle labbra per poter diventare davvero ‘parlanti’.<br />

Anche se è curioso, che in questo film generoso e complesso, il<br />

regista spagnolo abbia così tanto bisogno di rivolgersi alla parola<br />

(è forse uno dei suoi film più dialogati) per spiegare allo spettatore<br />

il senso delle immagini.


4<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

L’UOMO NERO di Sergio Rubini<br />

18-19 novembre 2010<br />

Nato a Grumo Appula, in provincia di Bari, nel ‘59, Sergio Rubini lasciò il Sud per trasferirsi a Roma e frequentare l’Accademia<br />

d’Arte Drammatica a diciotto anni. Dopo due anni però, gli si presentò l’occasione di dirigere spettacoli propri, scritti dall’amico<br />

e collaboratore Umberto Marino. Dal teatro approdò alla radio e quindi al cinema in film come “Desiderando Giulia”, “Il caso<br />

Moro”, “Figlio mio infinitamente caro” fino alla grande occasione di interpretare un giovane Federico Fellini ne “L’intervista”:<br />

un incontro, quello con il regista riminese, che si rivelerà decisivo per la sua carriera. Nel ‘90 Rubini firmerà il suo primo film da<br />

regista, “La stazione”. Il considerevole successo di critica e pubblico del film lo spinse a rimettersi in gioco con un nuovo progetto<br />

da regista, “La bionda”. Il film però si rivela un insuccesso, e spinge Rubini a realizzare un film successivo senza grandi pretese, e<br />

più adatto al grande pubblico. In seguito Rubini lavora con Tornatore in “Una pura formalità”. Al film di Tornatore seguiranno<br />

“Nirvana” di Salvatores, per il quale lavorerà anche in “Amnèsia” e “Denti”. Tra gli altri suoi film più importanti, si ricordano<br />

“Chiedi la luna”, “Il viaggio della sposa” - da lui diretto - “Del perduto amore”, “Il talento di Mr. Ripley” e “Manuale d’amore”.<br />

Interpreti: Sergio Rubini (Ernesto Rossetti, padre di Gabriele), Valeria Golino (Franca Rossetti, madre di Gabriele), Riccardo Scamarcio<br />

(Pinuccio, zio di Gabriele), Fabrizio Gifuni (Gabriele Rossetti), Guido Giaquinto (Gabriele bambino), Anna Falchi (Donna Valeria<br />

Giordano), Margherita Buy (Anna adulta), Vito Signorile (Venusio), Maurizio Micheli (Avvocato Pezzetti), Vittorio Ciorcalo (Tonino<br />

Zucca), Mario Maranzana (Direttore Dalò), Mariolina De Fano (Signorina Lo Turco), Adelaide Di Bitonto (Zia Graziella), Pierluigi<br />

Corallo (Nonno di Gabriele), Nicoletta Carbonara (Dora Spadella), Isabella Ragno (Melina Spadella)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini<br />

Sceneggiatura: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini<br />

Fotografia: Fabio Cianchetti<br />

Musica: Nicola Piovani<br />

Montaggio: Esmeralda Calabria<br />

Durata: 117’<br />

Produzione: Donatella Botti per Bianca Film in collaborazione con Rai Cinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Tornato in Puglia per dare l’ultimo saluto al vecchio padre Ernesto, Gabriele Rossetti rievoca la propria infanzia, segnata<br />

duramente dal dissidio del genitore tra l’anonimo mestiere di capostazione e l’ambizione di diventare un grande pittore. Un dilemma<br />

che ha condizionato non poco la crescita di Gabriele.<br />

VALUTAZIONE: Sergio Rubini torna nelle proprie terre e vi colloca una vicenda che, rivista oggi attraverso un lungo flashback,<br />

diventa occasione per rimettere insieme frammenti di ricordi e notazioni di diario. Nello snodarsi del racconto, la cronaca diventa via<br />

via meno asciutta e rigorosa, per cedere il passo alla memoria: dando così ampio spazio ai sogni, alle delusioni, alla rabbia del piccolo<br />

Gabriele e disegnando i controcanti di un dissidio padre/figlio tanto più profondo quanto più volto verso il rispetto reciproco. Cercare<br />

i tratti comuni tra la finzione di Gabriele e la realtà di Sergio Rubini è gioco che il copione autorizza a fare, essendo la narrazione molto<br />

legata alla concretezza della terra, dei lugohi, delle tradizioni locali. Lo sguardo dell’attore-regista diventa voglia di capire e capirsi, di<br />

fermare sull’immagine momenti belli e bruttima sempre importantissimi, nel succedersi di storie, epoche, generazioni.<br />

14


Il Tempo - Gian Luigi Rondi<br />

Sergio Rubini, con il suo cinema, ritorna volentieri in Puglia,<br />

dov’è nato. L’hanno dimostrato certi suoi film di successo quali<br />

“Tutto l’amore che c’è”, “L’anima gemella” e, soprattutto “La<br />

terra”. Lo dimostra anche il film di oggi, più scopertamente autobiografico<br />

dei precedenti, visto con gli occhi di un ragazzetto di<br />

una cittadina di provincia accudito da una mamma tenera ma<br />

spesso coinvolto nelle ire un po’ nevrotiche di un papà che, pur<br />

facendo di mestiere il capostazione, ai treni preferisce la pittura.<br />

A tal segno da volere un giorno organizzare con i suoi dipinti una<br />

mostra dedicata un po’ temerariamente a Cezanne di cui ha<br />

copiato l’autoritratto conservato nel museo di Bari.<br />

Naturalmente non ha successo, i due critici d’arte locali lo stroncano<br />

e continueranno così anche quando lui organizzerà alle loro<br />

spalle una beffa che dovrebbe farli ricredere. I punti di forza del<br />

film sono proprio, nel disegno vivace di quella passione per la<br />

pittura da cui il padre è affetto. Si tiene in equilibrio sagace fra la<br />

commedia ed il dramma, evocandovi attorno una famiglia e un<br />

coro di gente paesana affidati in più momenti a colori vividi, qua<br />

con accenti caricaturali, là con puntate nell’onirico, dato che il<br />

ragazzetto che guarda e ricordando ci racconta ha spesso, anche<br />

di giorno, incubi e visioni; a cominciare dall’”Uomo Nero” del<br />

titolo. In altri momenti il testo, che Rubini ancora una volta si è<br />

scritto con i suoi fedeli Domenico Starnone e Carla Cavalluzzi,<br />

insiste un po’ in episodi marginali, proponendo figure di contorno<br />

che non favoriscono la linearità della storia di quel padre pittore<br />

dilettante. Nel suo insieme, comunque, il film può convincere<br />

perché ha tensioni, ritmi e atmosfere che, specie quando<br />

nelle sue cornici provinciali predomina il realismo, pretendono<br />

una plausibile attenzione. La facilitano gli interpreti. Non solo lo<br />

stesso Rubini che incide a tutto tondo quel suo personaggio passionale<br />

e fanatico, ma Valeria Golino, una moglie trepida dagli<br />

accenti misurati, e Riccardo Scamarcio un cognato nei panni<br />

abilmente ricostruiti di un pittoresco seduttore di paese, destinato<br />

però al grigiore.<br />

Il Manifesto - Cristina Piccino<br />

Un figlio torna a casa per raccogliere l’ultimo soffio del padre che<br />

muore dopo averlo abbracciato. Inizio classico da cui si apre nel<br />

sentimento doloroso del lutto il flashback che narra la relazione<br />

tra i due, il figlio fuggito dal paesino pugliese soffocante di provincia<br />

vive in Svizzera, famiglia bilingue, carriera di successo e,<br />

esclamano con soggezione davanti alla bara del padre in chiesa i<br />

paesani: ‘Ti abbiamo visto in tv’. Il padre invece è stato costretto<br />

dalla vita a un destino insopportabile, passione per la pittura e<br />

forse anche talento che non ha potuto coltivare visto che suo<br />

padre non gli ha fatto frequentare il liceo artistico costringendolo<br />

a lavorare come capostazione. Frustrato l’uomo cerca ossessivamente<br />

un riconoscimento alla sua arte, ai suoi quadri, e quando<br />

pare riuscirvi sarà l’ennesimo fallimento. Il ragazzino oggi uomo<br />

davanti alle grida paterne si ripete sotto al tavolo di una tristissima<br />

festa di compleanno che lui no, non vuole essere come suo<br />

padre, mai. A questo punto accettando l’evidenza dichiarata anche<br />

dal regista, “L’uomo nero” è un racconto di formazione, amore e<br />

distacco che è pure sofferenza del figlio dal padre per diventare<br />

adulto, a sua volta padre, coltivando una personalità e un’imma-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

15<br />

gine di sé radicalmente opposta a quella del genitore. Allora è<br />

facile vedere nella figura elegante e dinoccolata di Fabrizio<br />

Gifuni, sullo schermo Gabriele, ragazzino pestifero e poi fisico<br />

geniale, un po’ dello stesso Rubini che a suo tempo ha abbandonato<br />

il paese in provincia di Bari diventando ‘famoso’. Mentre il<br />

padre capostazione di una fermata invisibile è il suo, con la ferrovia<br />

de “La stazione”, l’esordio da regista, e la memoria della terra<br />

d’origine che è in tutti i suoi film. E quell’addio quasi pacificato<br />

al padre morto, visto dal giovane come era negli anni Sessanta<br />

della sua infanzia, commuove e sembra essere quasi il punto di<br />

arrivo di un cammino personale e d’artista. Però forse perché a<br />

interpretare il padre è lo stesso Rubini è impossibile non vederci<br />

anche un po’ del regista/figlio (autore della storia insieme a<br />

Domenico Starnone e Carla Cavalluzzi), mentre è più difficile<br />

scorgerlo nell’altra figura maschile, Pinuccio, lo zio amatissimo<br />

dal ragazzino, fratello di sua mamma, che invece il padre guarda<br />

di traverso perché si è piazzato a casa loro e non accenna a andarsene.<br />

Scapolo con vanto è il modello di Gabriele deluso fino alle<br />

lacrime come le tante innamorate quando il bel Pinuccio<br />

(Riccardo Scamarcio) sarà costretto alle nozze riparatrici con una<br />

bruttina che l’ha ‘inguaiato’ come il più fesso degli uomini.<br />

Appartiene a Rubini quel sentirsi incompreso dalla critica del<br />

capostazione con amore per Cezanne, ‘il maestro’ che vuole imitare<br />

fino a divenire quasi pazzo? Certo capita a qualsiasi artista di<br />

odiare il critico ma sarebbe strano adesso perché coi suoi film<br />

Rubini ha successo e non è certo un marginale. Infatti qui ha la<br />

grazia dell’ironia che mancava in “L’amore ritorna”, quando l’ansia<br />

di prendersi la rivincita su produttori, registi, la fidanzata ex<br />

aveva involgarito il film. Il ritratto del critico trombone di paese<br />

(soltanto?) è magistrale come la capacità di mettere in scena i riti<br />

della provincia del sud, le sue gerarchie di compiacimento, ossequi,<br />

malignità. Dove solo i ragazzini, specie se poveri e scalzi,<br />

portano la freschezza dello scompiglio mentre gli altri sono già<br />

ingessati tali e quali ai genitori. E il povero capostazione oltre a<br />

pagare il prezzo di voler essere ‘artista’, subisce pure le invidie<br />

oblique contro la moglie, bella, elegante, abbastanza folle da sopportarlo,<br />

professoressa d’arte. Dire però che “L’uomo nero” è il<br />

“Baaria” di Rubini è davvero sbagliato. Lui a differenza di<br />

Tornatore non ha la prosopopea di volerci parlare della Storia con<br />

la esse maiuscola di cui le vicende familiari sono specchio. No, la<br />

storia di Rubini è tutta personale, non si scomodano per opportunismo<br />

le grandi trami e l’immaginario, cosa che gli permette la<br />

libertà della commedia, i primi amori, la farsa con sorpresa finale<br />

quasi gogoliana. Il gioco del cinema sono i sogni visionari del<br />

ragazzino Gabriele/Rubini, gli arlecchini nascosti negli armadi, i<br />

fantasmi dei nonni vestiti da sposi, l’uomo nero che è il carbonaio<br />

del treno e con la mano sporca getta caramelle scintillati ai bimbi<br />

dell’orfanotrofio, omaggio affettuosamente esplicito e personalissimo<br />

a Federico Fellini. Ci piace pensare allora che quel padre di<br />

Rubini sia anche lui, l’altro padre che lo ha reso famoso con<br />

“L’Intervista” (le musiche sono di Piovani), che nell’ultimo periodo<br />

della sua vita venne non trattato male dalla critica ma messo<br />

fuori dal cinema e attaccato da Berlusconi quando si schierò contro<br />

la pubblicità nei film in tv. Un padre grande e difficile di cui<br />

non si rivendica l’eredità ma il ricordo col sapore dolce di un sentimento<br />

quasi infantile.


5<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

SHERLOCK HOLMES di Guy Ritchie<br />

25-26 novembre 2010<br />

Nato a Hatfield, Hertfordshire (England) 10/09/1968, ma cresciuto a Londra, nel 1993 Guy Ritchie inizia a lavorare nel campo cinematografico<br />

come tuttofare. Nel 1995 inizia a dirigere video musicali e spot pubblicitari. Con i soldi guadagnati realizza un corto<br />

della durata di venti minuti intitolato “The Hard Case”, di cui cura anche la sceneggiatura. In seguito scrive e dirige “Lock &<br />

Stock” (1998), il suo primo lungometraggio. Nel 2000 è sceneggiatore e regista di “Snatch” con Brad Pitt. Nel 2001 firma la sceneggiatura<br />

del film “The Mole”.<br />

Interpreti: Robert Downey Jr. (Sherlock Holmes), Rachel McAdams (Irene Adler), Jude Law (Dottor John Watson), Mark Strong (Lord<br />

Blackwood), Eddie Marsan (Ispettore Lestrade), James Fox (Sir Thomas), Hans Matheson (Lord Coward), Robert Stone (Prizefighter),<br />

Robert Maillet (Dredger), William Hope (John Standish), William Houston (Constable Clark), David Garrick (McMurdo)<br />

Genere: Giallo<br />

Origine: Gran Bretagna<br />

Soggetto: tratto dal libro a fumetti di Lionel Wigram ispirato ai personaggi creati da Sir Arthur Conan Doyle<br />

Sceneggiatura: Mike Johnson, Anthony Peckham, Simon Kinberg, Guy Ritchie<br />

Fotografia: Philippe Rousselot<br />

Musica: Hans Zimmer<br />

Montaggio: James Herbert<br />

Durata: 130’<br />

Produzione: Lin Pictures/Silver Pictures/Wigram Productions<br />

Distribuzione: Warner Bros. Italia<br />

SOGGETTO: Londra, fine ‘800. Un complotto ordito da una setta potente (di cui fa parte anche il ministro dell’Interno) minaccia la<br />

distruzione dell’Inghilterra. Ad indagare vengono chiamati Sherlock Holmes e il suo fedele collaboratore dott. Watson. I due devono<br />

confrontarsi con il malvagio Lord Blackwood, che è stato impiccato ma è riapparso a commettere nuovi delitti.<br />

VALUTAZIONE: Va detto che all’origine non c’è una delle molte produzioni letterarie (romanzi, racconti...) di Sir Arthur Conan<br />

Doyle (creatore, come si sa, del personaggio Holmes) ma un successivo libro a fumetti di Lionel Wigram. Questo può spiegare l’approccio<br />

scelto dal regista Guy Ritchie: uno stile frenetico, un vorticoso accavallarsi di immagini in pieno stile videoclip, che arriva addirittura<br />

al ‘ralenti’ che abbiamo visto in certi titoli cinesi recenti. Fatto l’occhio ad atmosfere tutt’altro che compassate, bisogna aggiungere<br />

che scenografie, ambientazione, costumi sono di eccellente livello e l’azione ha pochi momenti di pausa. Il ‘personaggio’ Holmes<br />

é affidato a momenti differenti, muovendosi tra freddezza, disincanto, e un umorismo “all’inglese”. Un ‘giallo’ ma soprattutto una storia<br />

d’azione calata in costumi d’epoca.<br />

16


Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Sherlock Holmes ha il cazzotto che uccide. Il fido Watson non<br />

è da meno, in più vorrebbe sposarsi. Entrambi però sanno<br />

benissimo che non accadrà mai. Come tutte le vecchie coppie,<br />

in fondo, hanno finito per assomigliarsi. E poi non è il momento<br />

di rinunciare al loro tempestoso ménage: bisogna salvare<br />

Londra da un complotto esoterico-criminale che “Angeli e<br />

Demoni” in confronto è Paperinik. Messe nere, impiccati che<br />

resuscitano, gentiluomini uccisi nella vasca da bagno. E interi<br />

cantieri navali distrutti nel corso di risse epico-comiche a<br />

cavallo fra Jackie Chan e gli altri film di Guy Ritchie, da<br />

“Snatch” a “Rocknrolla”...Benvenuti nella versione più libera,<br />

pompata e irriverente che si potesse concepire del classico di<br />

Conan Doyle. Spariti berretto e mantellina, messo in un angolo<br />

il violino, la logica deduttiva è diventata un’arma in più per<br />

abbattere l’avversario con colpi micidiali a pugni nudi. E il<br />

gusto per la scienza serve a sperimentare potenti anestetici sul<br />

povero bulldog di casa, o a stendere avversari colossali con<br />

repentine scariche elettriche. Holmes e Watson, insomma si<br />

divertono un mondo, anche se le rispettive spasimanti (la<br />

delinquente d’alto bordo Rachel McAdams per il detective, la<br />

vaporosa Kelly Reilly per il dottore) se li rigirano come<br />

vogliono. Ci divertiamo anche noi? Qui la faccenda è più complicata.<br />

E non per lesa maestà ma perché a forza di aggiungere,<br />

dilatare, contaminare, sovrapponendo strati su strati di cultura<br />

pop e hip ai pochi elementi residui dell’originale, si<br />

rischia di uscire esausti e un po’ nauseati come dopo una cena<br />

tex-mex innaffiata da birre irlandesi e magari conclusa con<br />

qualche bicchierino di vodka. Anche perché Guy Ritchie ha<br />

tutte le qualità salvo la misura. Ma se si sta al gioco (prolungato<br />

oltre il dovuto, che un film d’intrattenimento debba durare<br />

130 minuti resta una contraddizione in termini) ci si può<br />

divertire eccome. Non tanto seguendo la storia, quanto ammirando<br />

questa Londra vittoriana ridisegnata a tavolino come un<br />

incubo di archeologia industriale. E il gioco sopraffino dei due<br />

primattori, Robert Downey Jr e Jude Law, che dominano lo<br />

schermo dalla prima all’ultima inquadratura. Iniettando in<br />

questo susseguirsi di colpi bassi un sottotesto di tic, ammicchi,<br />

finezze, private jokes, così nutrito da farne quasi un film a<br />

parte. Un pizzico più di attenzione alle due co-protagoniste e<br />

il divertimento sarebbe stato anche maggiore. Invece Ritchie si<br />

attarda dietro alle gesta dell’infame Mark Strong, stregone e<br />

massone, con lo zelo di chi deve vincere la prima mano a tutti<br />

i costi. È presto per dire se ci sarà una seconda puntata. Ma<br />

non ci sorprenderebbe se fosse migliore.<br />

La Repubblica - Paolo D’Agostini<br />

Sicuramente ci sarà un partito di scontenti e di detrattori di<br />

questa stupefacente nuova tappa nella discontinua carriera dell’ex<br />

‘signor Madonna’. Il punto è qui quello di stabilire se la<br />

sua rilettura del personaggio di Sherlock Holmes, con la sua<br />

vistosissima e provocatoria regia, sia affidata esclusivamente<br />

al gusto di stupire e al piacere di abbagliare, senza sostanza<br />

sotto. Oppure se (prendiamo ad esempio l’ultimo Terry<br />

Gilliam di “Parnassus”, anche se il confronto tra le due personalità<br />

e i rispettivi curricula è generoso verso Ritchie) la fan-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

17<br />

tasmagoria degli effetti sia ‘al servizio di’ e parte sostanziale<br />

di un’operazione ammirevolmente creativa. Senza sbracciarci<br />

per gridare al miracolo, qui votiamo la seconda. Decisivo è il<br />

carisma, via via nel tempo acquisito e qui esaltato, dell’attore<br />

Robert Downey jr. È lui che fa rivivere il fascino stravagante<br />

ed eccentrico del genio deduttivo concepito da Arthur Conan<br />

Doyle, dell’investigatore capriccioso e infallibile e incredibilmente<br />

erudito di Baker Street. Ma l’avventura inventata per il<br />

film aggiunge molto di suo. Armonizza l’impiego di uno stile<br />

velocissimo e sorprendente - che tiene insieme la classica<br />

ambientazione cupamente londinese fine Ottocento, con le arti<br />

apprese dal regista nella sua frequentazione dei linguaggi pubblicitari<br />

- con l’attualizzazione di un Holmes che fa valere la<br />

sua schiacciante superiorità non solo dell’ingegno e dell’intelligenza<br />

prodigiosi ma anche dei muscoli, dell’abilità e velocità<br />

nel colpire: quasi da cinema delle arti marziali. Gli è accanto<br />

il consueto dottor Watson (Jude Law), vittima un po’ riluttante<br />

della sua brillantissima e irresistibile arroganza, soggiogato<br />

e trascinato per bassifondi malgrado il proposito di rifarsi<br />

una vita con una deliziosa fidanzata che il misogino e geloso<br />

Holmes fa di tutto per mettere in cattiva luce. Si tratta di<br />

tenere testa allo smarrimento incompetente di Scotland Yard,<br />

alla corruzione massonica penetrata nelle più alte sfere, e al<br />

terrore che dilaga per Londra. Si tratta di smascherare un ciarlatano<br />

che ha plagiato tutti i suoi adepti persuadendoli di possedere<br />

doti soprannaturali e contatti diretti con il Maligno.<br />

Naturalmente per imporre il suo tirannico e avido potere sul<br />

mondo intero. Per fortuna del film, e nostra, regista e attori<br />

non fanno mancare il fondamentale supporto umoristico e<br />

dell’ autoironia. Che dire? È uno di quei film - e, dato il genere,<br />

la faccenda non è proprio indifferente - di fronte ai quali<br />

alla fine hai l’impressione e anzi ti accorgi decisamente che<br />

non tutto l’intreccio scorre fluido e plausibile. Ma onore alla<br />

capacità di suggestione che ti fa dimenticare le incongruenze e<br />

ti avvolge nell’atmosfera.<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi<br />

Se Amleto può venir rappresentato in abiti antichi o moderni,<br />

fingersi pazzo o esserlo, apparire malinconico o isterizzato e<br />

restare, ‘purché tutto si tenga’, Amleto; perché non concedere<br />

pari opportunità a Sherlock Holmes, il mitico detective di<br />

Baker Street 221B, che nel film di Guy Ritchie diventa un<br />

supereroe d’azione alla James Bond? Visti gli incassi del weekend<br />

natalizio, la domanda è retorica.<br />

In Usa Sherlock, che è costato un terzo di “Avatar”, lo tallona<br />

al secondo posto con 62 milioni di dollari; da noi gli stanno<br />

davanti “Beverly Hills” e Pieraccioni, però 4 milioni e<br />

mezzo di euro sono una gran bella partenza. Padrone del<br />

mestiere, Ritchie è abile a imbastire, fra riprese dal vero ed<br />

effetti speciali, uno spettacolo avvincente nella suggestiva<br />

cornice di una livida Londra vittoriana. La musica di Hans<br />

Zimmer è raffinata, la misterica storia e i dialoghi brillanti<br />

divertirebbero anche Conan Doyle e la coppia di interpreti è<br />

assai intrigante: Robert Downey Jr, il più fascinoso e sfaccettato<br />

degli Holmes, e Jude Law, un Watson che non è mai una<br />

noiosa spalla.


6<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

L’UOMO CHE VERRÀ di Giorgio Diritti<br />

2-3 dicembre 2010<br />

Giorgio Diritti (Bologna - dicembre 1959) Si forma al fianco di vari autori italiani (Lizzani, Wetmüller, Vancini), ed in particolare<br />

Pupi Avati. Realizza vari casting per film in Emilia Romagna, tra cui “La Voce della Luna”(1990) di Federico Fellini. Partecipa<br />

all’attività di Ipotesi Cinema, Istituto per la formazione di giovani autori, fondato e diretto da Ermanno Olmi. Come autore e regista<br />

dirige documentari, cortometraggi e programmi televisivi. In ambito cinematografico il suo primo cortometraggio, “Cappello da<br />

Marinaio” (1990) è stato selezionato in concorso a numerosi festival internazionali, tra cui quello di Clermont-Ferrand. Nel 1993<br />

ha realizzato “Quasi un Anno”, film per la TV .Il suo film d’esordio, “Il Vento fa il suo Giro” (2005), partecipa ad oltre 60 festival<br />

nazionali ed internazionali, vincendo oltre 36 premi. Riceve 5 candidature ai David di Donatello 2008 (fra cui Miglior Film, Miglior<br />

Regista Esordiente, Miglior Produttore e Migliore Sceneggiatura) e 4 candidature ai Nastri D’argento 2008. Il film inoltre diventa<br />

un “caso nazionale”, restando in programmazione al Cinema Mexico di Milano per più di un anno e mezzo.<br />

Interpreti: Alba Rohrwacher (Beniamina), Maya Sansa (Lena), Claudio Casadio (Armando), Greta Zuccheri Montanari (Martina),<br />

Vito/Stefano Bicocchi (Signor Bugamelli), Eleonora Mazzoni (Signora Bugamelli), Orfeo Orlando (il mercante), Diego Pagotto (Pepe),<br />

Bernardo Bolognesi (il partigiano Gianni), Stefano Croci (Dino), Zoello Gilli (Dante)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto: Giorgio Diritti<br />

Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Giovanni Galavotti, Tania Pedroni<br />

Fotografia: Roberto Cimatti<br />

Musica: Marco Biscarini, Daniele Furlati<br />

Montaggio: Giorgio Diritti, Paolo Marzoni<br />

Durata: 117’<br />

Produzione: Simone Bachini e Giorgio Diritti per Arancia Film/RAI Cinema<br />

Distribuzione: Mikado<br />

SOGGETTO: Inverno 1943. Alle pendici del monte Sole, non lontano da Bologna, Martina, 8 anni, vive con la propria famiglia di<br />

contadini e ha smesso di parlare da quando tempo prima ha perso un fratellino di pochi giorni. Nel dicembre la mamma rimane nuovamente<br />

incinta. Nei mesi successivi la gravidanza va avanti bene, mentre la vita per la comunità diventa sempre più difficile. Nella<br />

notte tra il 28 e il 29 settembre 1944, il piccolo viene alla luce. Quasi nello stesso momento le SS scatenano nella zona un rastrellamento<br />

di inaudita violenza. Martina riesce a prendere il neonato e a portarlo via, facendolo scampare alla terribile strage di Marzabotto.<br />

VALUTAZIONE: Sulla ferocia delle SS, sul sacrificio di tanti civili inermi, sulle vittime della seconda guerra mondiale, il cinema italiano<br />

ha già scritto pagine importanti e giuste. Il merito quindi di questo secondo film di Diritti é quello di riuscire a raccontare un episodio<br />

conosciuto come se fosse la prima volta. L’operazione é perciò opportuna e necessaria. Soprattutto per i più giovani, a rischio di<br />

“non conoscenza” dei fatti e quindi condotti a partecipare quasi in prima persona. La sensibilità storica del regista si fonde con quella<br />

antropologica e umana. Di quella civiltà contadina, dedita a seguire i ritmi della terra, si sentono i sapori e gli odori (secondo la lezione<br />

di Olmi); di quella vita modesta e intensa si avverte il forte orgoglio; di quell’andare incontro alla morte si percepisce l’affranto fremito<br />

di innocenza. Senza gridare né fare proclami, lo sguardo di Diritti si posa con tono visionario sul calvario dei protagonisti e ci<br />

chiede di essere con loro anche nella preghiera e nel riscatto. E nella speranza offerta dalla vita che nasce dopo l’orribile strage.<br />

18


Il Corriere della Sera - Maurizio Porro<br />

Sulla scorta della poetica del maestro Olmi, Giorgio Diritti<br />

racconta le opere e i giorni, i sentimenti, le paure, le giovinezze<br />

e maturità dei contadini prima di Marzabotto, la strage<br />

nazi fascista del 29.9.44. Un film bello, originale, commosso<br />

in cui si assiste alla vita quotidiana dei tempi di guerra e della<br />

brigata partigiana, finché l’eccidio non si compie. Un film<br />

meravigliosamente poetico e civile, da memorizzare e diffondere,<br />

da mostrare a scuola prima che sdoganino anche questo:<br />

così il cinema ha ancora un senso.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Succede ancora. Ogni tanto un regista allergico alle convenzioni<br />

soffia via la polvere da pagine che credevamo di sapere<br />

a memoria. Quanti film abbiamo visto sugli orrori nazisti?<br />

Quante stragi, quanti rastrellamenti, quanti tedeschi urlanti in<br />

armi? “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti è il contrario di<br />

tutto questo. Non la ricostruzione di una pagina di Storia, con<br />

tutte le maiuscole e il kitsch del caso, ma il prodursi di un<br />

evento che sembra accadere sotto i nostri occhi per la prima<br />

volta.<br />

È ciò che il cinema cerca di fare quasi sempre, non riuscendoci<br />

quasi mai. Eppure non c’è trucco. Basta spogliarsi di<br />

tutto ciò che sappiamo - oggi - su quell’evento. Per viverlo<br />

con gli occhi di chi lo visse, allora, come un fatto enorme e<br />

incomprensibile perché del tutto estraneo al proprio sapere e<br />

alla propria scala di valori. Facile a dirsi, meno a farsi. Diritti,<br />

già regista di “Il vento fa il suo giro”, ci riesce sposando dall’inizio<br />

alla fine lo sguardo dei contadini di Monte Sole,<br />

secondo logiche e ritmi che non appartengono alla Storia e<br />

alle sue guerre ma alla cultura contadina, al rapporto con la<br />

natura, a quella concezione arcaica e sacrale della vita già<br />

cara, con accenti diversi, a Olmi e Pasolini.<br />

In mani meno abili poteva diventare retorico. In quelle di<br />

Diritti e dei suoi eccellenti interpreti, scelti mescolando non<br />

professionisti ad attori veri come Alba Rohrwacher, Maya<br />

Sansa o Claudio Casadio, interprete di teatro per ragazzi qui<br />

al suo primo film, diventa un esercizio di straniamento poetico<br />

che ripaga lo spettatore con un’emozione e una comprensione<br />

delle cose straordinarie. Una madre incinta (Sansa); una<br />

zia che torna dalla città, l’unica che sa leggere e scrivere<br />

(Rohrwacher); una bambina che non parla più per un trauma<br />

(la commovente Greta Zuccheri Montanari) ma vede e capisce<br />

tutto di tedeschi, ribelli e alleati, tanto da scrivere un tema<br />

così compromettente che la maestra glielo brucia. Poi i racconti<br />

la sera, tutti insieme, adulti e bambini, si parli di emigrazione<br />

o del partigiano che ha ucciso un fascista. In dialetto<br />

naturalmente, una lingua sonora e pietrosa oggi quasi estin-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

19<br />

ta che dà peso e rilievo a ogni parola (l’italiano lo parlano<br />

solo i tedeschi, il padrone o un funzionario comunale in città).<br />

Così fra il dicembre ‘43 e il settembre ‘44 prende vita un<br />

microcosmo pulsante di affetti, dubbi, speranze, paure, che<br />

prima di esser spazzati via dall’eccidio, messo in scena con<br />

aspro pudore e dettagli rivelatori (quel prete che si unisce ai<br />

balletti nazisti per evitare che la festa degeneri in orgia, e finisce<br />

ucciso), acquistano un’innocenza, una densità, una verità,<br />

scomparse nel cinema d’oggi. Un capolavoro, limpido e<br />

accessibile, di cui essere orgogliosi. Chiedendosi anche perché<br />

ci siano voluti tanti anni per avere un film così libero e<br />

rigoroso sul tema.<br />

L’Espresso - Lietta Tornabuoni<br />

Nel settembre 1944, durante la Seconda guerra mondiale e la<br />

prima offensiva degli Alleati contro la linea Gotica, le formazioni<br />

partigiane dell’Appennino tosco-emiliano intensificarono<br />

le azioni per impedire ai tedeschi di arretrarsi nella zona.<br />

Si scatenò un violento contrattacco nazista. Reparti della l6a<br />

divisione delle SS Adolf Hitler respinsero i partigiani del<br />

gruppo Stella Rossa operanti sui monti intorno a Marzabotto.<br />

Due reggimenti comandati dal maggiore Walter Reder perpetrarono<br />

uno dei massacri più feroci. Dal 29 settembre al 18<br />

ottobre sterminarono 1.830 persone, o secondo altri 770 persone,<br />

perlopiù donne, piccoli, preti, vecchi, nella cosiddetta<br />

strage di Marzabotto. I bambini uccisi furono 200. Giorgio<br />

Diritti, gia autore de “Il vento fa il suo giro”, evoca il fatto ne<br />

“L’ uomo che verrà” e fa un film molto bello. Gli avvenimenti<br />

visti con lo sguardo di una bambina di otto anni procedono<br />

parallelamente alla gravidanza della madre, il parto coincide<br />

con la strage: il neonato è “L’uomo che verrà” del titolo, il<br />

portatore di futuro che sarà giovane nel boom economico,<br />

vecchio nella crisi globale. Nell’originale i personaggi parlano<br />

nel loro dialetto emiliano, sottotitolato in italiano. Il film<br />

comincia prima del massacro e consente di conoscere il modo<br />

di vita faticoso della campagna, lo sfruttamento, la volontà<br />

rurale di non abbandonare case né animali, la paura, la bellezza<br />

insopportabile della Natura. Non ci si trova di fronte a<br />

un avventuroso “Bastardi senza gloria” né a un epico-politico<br />

“Achtung banditi!” né a un documentano storico. “L’uomo<br />

che verrà” è la narrazione alta, nobile e semplice d’una grandezza<br />

umana e morale calpestata a morte. I protagonisti sono<br />

quelle che nella pittura figurativa vengono dette ‘figure iconiche’:<br />

ossia immagini realistiche e insieme icone eloquenti,<br />

ricche di significati, capaci di condensare la Storia. Eppure<br />

sono la sobrietà rispettosa dell’autore e la bravura degli interpreti<br />

a rendere il film ammirevole come nessun’altra opera<br />

italiana del presente.


7<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

AN EDUCATION di Lone Scherfig<br />

9-10 dicembre 2010<br />

Lone Scherfig (Copenaghen - 1959) La regista ha studiato cinematografia all’Università di Copenaghen e alla National Film<br />

School of Denmark. Ha debuttato alla regia con The Brithday Trip, selezionato nella sezione Panorama alla Berlinale e per la sezione<br />

Nuovi Registi al Museum of Modern Art di New York, in seguito realizza cortometraggi, programmi radiofonici, lavori teatrali e<br />

dirige episodi di serie televisive. Nel 2000 conosce il successo internazionale grazie alla commedia “Italiano per principianti”, realizzata<br />

avvalendosi dei dettami del Dogma 95, che vince diversi premi tra cui l’Orso d’Argento, il Premio della Giuria e il premio<br />

FIPRESCI al Festival di Berlino. Nel 2002 dirige il suo primo film in lingua inglese, “Wilbur Wants to Kill Himself”, e nel 2009<br />

segue “An Education” su una sceneggiatura dello scrittore Nick Hornby. “An Education” vince il Premio del Pubblico al Sundance<br />

Film Festival e viene in seguito presentato con successo in diversi festival cinematografici internazionali.<br />

Interpreti: Carey Mulligan (Jenny), Peter Sarsgaard (David), Alfred Molina (Jack), Cara Seymour (Marjorie), Matthew Beard<br />

(Graham), Dominic Cooper (Danny), Rosamund Pike (Helen), Emma Thompson (Preside), Olivia Williams (Sig.na Stubbs), Amanda<br />

Fairbank-Hynes (Hattie), Ellie Kendrick (Tina), Sally Hawkins (Sarah)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Gran Bretagna<br />

Soggetto: tratto dalle memorie di Lynn Barber<br />

Sceneggiatura: Nick Hornby<br />

Fotografia: John de Borman<br />

Musica: Paul Englishby<br />

Montaggio: Barney Pilling<br />

Durata: 100’<br />

Produzione: BBC Films/Endgame Entertainment/Finola Dwyer Productions/Wildgaze Films<br />

Distribuzione: Sony Picture Releasing Italia<br />

SOGGETTO: Twickenham, quartiere di Londra, anno 1961. La sedicenne Jenny, ragazza modello, conosce David, 35 anni, che fa<br />

breccia nel suo cuore e ottiene la fiducia della severa famiglia di lei. David conquista Jenny, facendola divertire in locali notturni e<br />

coinvolgendola in azioni imprevedibili, fino a portarla in gita nella Parigi da lei tanto amata. Un giorno David chiede a Jenny di sposarla<br />

e anche il padre sembra d’accordo. Jenny lascia la scuola e si prepara al matrimonio, quando scopre che David é gia sposato, ha<br />

dei figli e abitualmente, oltre a fare il truffatore, passa il tempo a raggirare minorenni. Così tutto crolla, e la ragazza torna a scuola, e<br />

alla vita di tutti i giorni.<br />

VALUTAZIONE: Cornici reali, avvenimenti credibili e tono simbolico si incontrano e bene si fondono in questo copione tratto da un<br />

libro di memorie e girato con aderenza ai moduli del cinema inglese anni Sessanta. Si tratta con evidenza di un racconto di formazione:<br />

la crescita di una adolescente passa attraverso esperienze suadenti e accattivanti prima di rivelare il vuoto che le accompagna e offrire<br />

a Jenny le giuste indicazioni per il futuro. Supportato da ambientazione e costumi che ricreano con esattezza la Londra del periodo,<br />

il film disegna un percorso di iniziazione alla vita coerente e coinvolgente.<br />

20


Il Corriere della Sera - Maurizio Porro<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

Sarsgaard, capace di farci capire la sua tragedia personale<br />

Nella Londra del ‘61, una liceale vicina a Oxford incontra un (guardate il lampo d’invidia quando lei nomina Oxford...)<br />

30enne, entra in zona vip e sembra che i soldi siano tutto. E senza mai metterci contro di lui. Passando per Alfred Molina,<br />

la scuola, l’educazione bigotta? si fa uno sconto. Quando semplicemente strepitoso nei panni del padre così interessato<br />

affiora la verità, bisogna redimersi, ricominciare. Educazione all’ascesa sociale della figlia da rendersi complice di vere<br />

social sentimentale vista da Nick Hornby che sceneggia nefandezze. La seconda parte è più illustrativa, meno sor-<br />

benissimo i ricordi di Lynn Barber con fantastica attenzione al prendente. Ma poche volte un film ha raccontato meglio il<br />

dettaglio. Cast super con Carey Mulligan, l’Audrey Hepburn viluppo di aspettative, proiezioni, sentimenti e risentimenti,<br />

di riserva e Sarsgaard, diretti dalla Scherfig. Valore aggiunto che unisce genitori e figli, ricchi e poveri, colti e meno colti,<br />

la Francia, Camus e Grèco.<br />

in un unico infernale girotondo.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Si può resistere a un giovane dal sorriso gentile che dopo aver<br />

ceduto il passo, colmo della cortesia automobilistica, a una<br />

mamma col bimbo in carrozzina, vi salva da un tremendo<br />

acquazzone offrendovi un passaggio sulla sua Bristol fiammante?<br />

Si può resistere se quel giovane spiritoso, che avrà più<br />

di 30 anni, vi sconsiglia di salire sull’auto di uno sconosciuto<br />

ma si offre galantemente di riparare dal diluvio almeno il<br />

vostro violoncello? No naturalmente, e così quando il giovanotto<br />

dichiara con dolcezza disarmante le sue ‘debolezze’ -<br />

non ha fatto l’università ed è ebreo, in anni di aperto e diffuso<br />

antisemitismo - è fatta. La deliziosa Jenny, brillante studentessa<br />

16enne dei sobborghi londinesi che nel 1962 sogna<br />

Parigi (la swinging London non è ancora esplosa) e prepara<br />

l’esame per Oxford, sale sulla Bristol amaranto, stringe la<br />

mano del suadente David, che le parla di Elgar e di pittura<br />

preraffaellita. Ed entra in un mondo ignoto e sfavillante fatto<br />

di concerti, ristoranti, sigarette russe, aste da Christie’s.<br />

Anche se come scoprirà presto il dandysmo di David, che le<br />

fa una corte tenace ma discreta, con frequenti visite a casa per<br />

sedurre prima di Jenny i suoi genitori filistei, nasconde vari<br />

lati oscuri. Ma che importa l’onestà? A 16 anni si ha voglia di<br />

vivere, Jenny ha una passione sincera e divorante per il bello,<br />

e una naturale diffidenza per i rigidi principi che le inculcano<br />

a scuola. Inoltre perfino i genitori sono sedotti da quel soave<br />

imbroglione che spaccia finte dediche di famosi scrittori e si<br />

paga la bella vita con mezzi non proprio leciti... Tratto da un<br />

amaro e pungente racconto autobiografico della famosa giornalista<br />

inglese Lynn Barber, sceneggiato con libertà e finezza<br />

da Nick Hornby (che evoca le metamorfosi dello script in un<br />

appassionato libretto edito da Guanda), “An Education” è un<br />

incantevole film in costume con molti ‘genitori’. Alla Barber<br />

e a Hornby vanno aggiunti infatti la regista danese Lone<br />

Scherfig (“Italiano per principianti”), che ci mette un tocco<br />

delicato e un’attenzione mai esteriore per l’epoca e i suoi<br />

segni. Ma soprattutto un cast oltre ogni elogio. Dalla scintillante,<br />

irresistibile Carey Mulligan (candidata all’Oscar), che<br />

dà a Jenny la curiosità, i fremiti, le ritrosie, l’impertinenza di<br />

una ragazza cresciuta in un paese ancora segnato dalla guerra,<br />

al molle, doppio, spregevole ma umanissimo Peter<br />

21<br />

Famiglia Cristiana - Enzo Natta<br />

“Prima di incontrarti tutto era noioso”. Basta una battuta per<br />

condensare il vissuto di Jenny, 16 anni, fino al casuale incontro<br />

con David, 35, dandy dal fascino irresistibile, che riesce<br />

ad ammaliare anche i genitori della fanciulla e che con il loro<br />

consenso la introduce in un mondo dorato, fino a quel<br />

momento ritenuto inaccessibile da una famiglia della piccola<br />

borghesia londinese. Seguirà il brusco risveglio dalla magia<br />

di un sogno, l’amaro senso della sconfitta. la volontà di trarsene<br />

fuori. Tutte queste fasi descritte dalla giornalista inglese<br />

Lynn Barber nella sua autobiografia sono state riversate nel<br />

romanzo An Education di Nick Hornby e dallo stesso adattate<br />

per l’omonima trasposizione filmica diretta dalla danese<br />

Lone Scherflg (scuola di Lars von Trier, autrice di Italiano per<br />

principianti). Siamo nel 1962 ed è facile perdere l’innocenza<br />

in un’Inghilterra che da li a poco avrebbe ceduto alla rivoluzione<br />

dei Beatles, della minigonna, del femminismo, della<br />

Swinging London. Jenny è carina, brillante, fantasiosa, adora<br />

la Francia, i libri di Albert Camus, le canzoni di Juliette<br />

Greco, studia con impegno per poter essere ammessa a<br />

Oxford. Ma quando incontra David è convinta di aver trovato<br />

la scorciatoia per il futuro. Senza passare da Oxford. Sembra<br />

una moderna favola di Cenerentola, ma Jenny non è la<br />

Sabrina di Billy Wilder, anche se le assomiglia. Film indipendente,<br />

realizzato con il contributo della Bbc che ha fiutato l’originalità<br />

e la freschezza deI progetto, scoperto e lanciato da<br />

queI cercatore d’oro che è Robert Redford con il Sundance<br />

film festival, An Education è al contempo la storia di un’educazione<br />

sentimentale e un romanzo di formazione. Elegante e<br />

raffinato affresco dell’Inghilterra di cinquant’anni fa, ritratta<br />

in un unico abbraccio che cinge una rigida scala gerarchica<br />

fatta di genitori e figli, allievi e insegnanti, dove i rapporti si<br />

consumano fra scontri e conflitti, ma anche fra sotterranee<br />

complicità, il film della Scherfig registra gli ultimi momenti<br />

di un’impalcatura sociale apparentemente solida che sta per<br />

accartocciarsi su sé stessa e finire nelle soffitte della Storia. In<br />

corsa per tre Oscar (film, sceneggiatura, protagonista femminile).<br />

E l’ultima nomination, quella di Carey Mulligan, è la<br />

più convincente.


8<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

INVICTUS - L’invincibile di Clint Eastwood<br />

16-17 dicembre 2010<br />

Mito del cinema western e uno dei più prolifici registi americani di fine secolo, Clint Eastwood nasce a San Francisco nel 1930. Nella<br />

metà degli anni ‘60 ha inizio il sodalizio con Sergio Leone ,che durerà per anni e che frutterà a entrambi la fama internazionale. Alla fine<br />

degli anni ‘60 fonda una sua casa di produzione, la Malpaso Company, abbandona il personaggio del pistolero solitario per vestire quelli<br />

dell’ ispettore Callaghan. La sua prima regia risale al 1971, con “Brivido nella notte”, ne seguiranno altre, non tutte importanti. Nel<br />

1988 dirige “Bird”.Negli anni ‘90 centra un successo dopo l’altro: nel 1992 dirige “Gli spietati “. Vince anche (finalmente) l’ambita statuetta<br />

per il Miglior film, dopo essere anche stato nominato per quella di Miglior attore. Nel 1993 dirige “Un mondo perfetto. Con questo<br />

film Clint Eastwood si erge come uno dei registi più sensibili ed etici nel panorama americano. Continua a dirigere grandi film, come<br />

“I ponti di Madison County” (1995) “Potere assoluto” (1996 ), “Mezzanotte nel giardino del bene e del male” (1997) “Fino a prova<br />

contraria” (1999) “Space Cowboys” (2000) e “Debito di sangue” (2002). Nel 2003 arriva un nuovo capolavoro, “Mystic River”. Con<br />

il suo lavoro “Million Dollar Baby”, Clint Eastwood vince l’ Oscar 2005 come migliore regista e di miglior film. Tra i suoi ultimi lavori:<br />

“Flags of our Fathers” (2006), “Lettere da Iwo Jima” (2007), “ Gran Torino ( 2009). Pare che Sergio Leone dicesse di lui: “Ha soltanto<br />

due espressioni, con il sigaro e senza”.<br />

Interpreti: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon (Francois Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick Mofokeng<br />

(Linga Moonsamy), Matt Stern (Hendrick Booyens), Julian Lewis Jones (Etienne Feyder), Adjoa Andoh (Brenda Mazibuko),<br />

Marguerite Wheatley (Nerine), Leleti Khumalo (Mary), Patrick Lyster (Sig. Pienaar), Penny Downie (Sig.ra Pinnear), Sibongile Nojila<br />

(Eunice), Bonnie Henna (Zindzi), Robin Smith (Johan De Villiers), Danny Keogh (Presidente Rugby)<br />

Genere: Biografico/Drammatico<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Soggetto: tratto dal libro ‘Ama il tuo nemico’ di John Carlin (ed. Sperling & Kupfer)<br />

Sceneggiatura: Anthony Peckham<br />

Fotografia: Tom Stern<br />

Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens II<br />

Montaggio: Joel Cox, Gary Roach<br />

Durata: 133’<br />

Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Lori McCreary, Mace Neufeld e Kel Symons per Malpaso Productions/Revelations<br />

Entertainment/Spyglass Entertainment/Mace Neufeld Productions<br />

Distribuzione: Warner Bros Pictures Italia<br />

SOGGETTO : Nelson Mandela, Presidente dopo le prime libere elezioni, intuisce che lo svolgimento dei campionati mondiali di<br />

rugby, assegnato per il 1995 proprio al Sudafrica, può rappresentare una grande occasione per completare quel processo di pacificazione<br />

tra negri e bianchi, da lui avviato dopo i bui anni dell’apartheid. Si impegna allora in prima persona a sostenere gli Springboks,<br />

la squadra nazionale, partecipando alle gare con entusiasmo sempre maggiore. Il successo che alla fine arride ai padroni di casa nella<br />

finale contro la Nuova Zelanda, corona un momento di felice attaccamento di tutti alla maglia e alla bandiera.<br />

VALUTAZIONE : Stavolta Clint Eastwood, solo regista, si lancia nella Storia e nella cronaca. Quelle vere, perché Mandela è ancora felicemente<br />

vivo a testimoniare gli eventi, e resoconti e telecronache sono lì a dirci che fu una partita combattuta finita con un punteggio di<br />

misura. Se dai fatti autentici il copione non poteva quindi prescindere, Eastwood di suo (prendendo le mosse da un romanzo) ci ha messo il<br />

ritmo da ballata popolare, una realtà che diventa quasi favola ma al vero ritorna in alcuni momenti toccanti e coinvolgenti (la visita della<br />

squadra alla cella del leader). Così un tema molto caro al regista, quello del perdono, torna in primo piano e si pone come vero punto di riferimento<br />

del racconto. Serve il perdono per riconciliare un popolo e fargli riacquistare una identità comune smarrita. Serve lo sport come terreno<br />

di una competizione giusta che esalta e entusiasma, meglio se infine vincente. Esemplare in questo sguardo compassionevole, la regia<br />

risulta meno attenta laddove costruisce un Mandela troppo bravo, saggio e perfetto, quasi una figura già collocata nell’agiografia.<br />

22


L’Unità - Alberto Crespi<br />

Per apprezzare “Invictus” amare il rugby non è indispensabile, ma<br />

aiuta. Aiuterebbe anche non avere una visione talebana del cinema<br />

e non essere obnubilati dalla vecchia ‘politica degli Autori’<br />

(ancora!?) inventata dalla Nouvelle Vague negli anni ‘50: lo diciamo<br />

perché, alle proiezioni-stampa, c’era puzza... di puzza sotto il<br />

naso, di riflessioni del tipo ‘non sembra un film di Clint<br />

Eastwood’, è diverso da “Gran Torino” e da “Mystic River”... Se<br />

è per questo, “Gran Torino” è molto diverso dai film dell’ispettore<br />

Callaghan, dei quali però costituisce una rilettura a distanza di<br />

decenni; e l’unico modo di indurre il vecchio Clint ad estrarre<br />

ancora la 44 Magnum sarebbe definirlo, appunto, un ‘Autore’.<br />

“Invictus” è un film ‘di’ Morgan Freeman. È l’attore che ha conosciuto<br />

di persona Nelson Mandela, che ha sognato per una vita di<br />

interpretarlo, che ha cullato per anni questo progetto e che aveva,<br />

in quanto afroamericano, ottimi motivi per farlo. Poi, al momento<br />

di scegliere un regista, Freeman ha contattato il migliore, con<br />

il quale aveva due magnifici precedenti (“Gli spietati” e “Million<br />

Dollar Baby”). Il migliore, cioè Clint, ha detto di sì. Detto questo,<br />

Eastwood si è impossessato della materia allestendola in modo<br />

magistrale. Osservate con attenzione il film, la sua complessità<br />

logistica, le decine di ambienti, gli esterni disagevoli in Sudafrica:<br />

e poi valutate se sembra diretto da un uomo di 80 anni. Il tema -<br />

la redenzione e il riscatto attraverso lo sport - gli era ben noto.<br />

Stavolta, a differenza che in “Million Dollar Baby”, non si trattava<br />

del riscatto di due individui, ma di un’intera nazione. Il film<br />

non è una biografia di Mandela, ma un capitolo della biografia del<br />

Sudafrica: come una giovanissima democrazia, costruita su basi<br />

fragilissime, usi un evento sportivo - i Mondiali di rugby del 1995<br />

-come strumento di unificazione nazionale. Il rugby era lo sport<br />

dei bianchi razzisti: Mandela seppe trasformarlo nello sport della<br />

“nazione arcobaleno” alleandosi con François Pienaar, il capitano<br />

degli Springboks (nel film è Matt Damon). Il Sudafrica era sfavorito<br />

nella finalissima contro gli All Blacks neozelandesi di<br />

Jonah Lomu, ma vinse attuando un gigantesco ‘catenaccio’ che<br />

portò al punteggio finale di 15-12 (nemmeno una meta in tutto il<br />

match). Il film racconta nel dettaglio la partita, ricostruendola in<br />

modo accettabile. Ma per valutare l’apporto di Eastwood al film<br />

osservate come racconta la nascita di un’altra ‘squadra’, quella<br />

delle guardie del corpo di Mandela, dove debbono coesistere i<br />

suoi vecchi amici neri dei tempi della clandestinità con i ‘gorilla’<br />

bianchi che proteggevano Frederik de Klerk. All’inizio si guardano<br />

in cagnesco, durante il match - con i neri che non capiscono<br />

nulla di rugby, ma finiscono per fare anch’essi il tifo - diventano<br />

quasi amici. Ci sono molti momenti del film in cui si piange, ma<br />

lo scambio di battute tra la guardia nera e quella bianca (‘È un<br />

pareggio’ ‘E ora che succede?’ ‘Tempi supplementari’ ‘Non credo<br />

di farcela’) è degno di John Ford.<br />

Liberazione - Roberta Ronconi<br />

Difficile ormai giudicare l’opera di un artista in costante crescita<br />

come Clint Eastwood, 80 anni il prossimo maggio e un curriculum<br />

cinematografico (come attore, regista, produttore, musicista)<br />

impressionante. Usciamo estasiati dall’ultimo capolavoro di “Gran<br />

Torino”, storia di un veterano incazzato della guerra di Corea che<br />

impara - nel giro delle due ore del film - a convivere con i suoi<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

23<br />

vicini coreani, per ritrovarci a soli due anni di distanza davanti a<br />

quell’immenso evento che fu la fine dell’apartheid (almeno legalmente)<br />

in Sudafrica e l’avvento del presidente Mandela. Una storia<br />

gigantesca da raccontare, ma grazie al cielo Eastwood si è ritrovato<br />

per le mani una sceneggiatura (tratta dal libro ‘Playing the<br />

Enemy’ di John Carlin) perfetta allo scopo. Perché concentrata sul<br />

primissimo periodo presidenziale di Mandela e sulle prime, fondamentali,<br />

scelte politiche finalizzate ad integrare come possibile<br />

afrikaners di origini olandesi e inglesi alla maggioranza della<br />

popolazione nera e ad evitare una guerra civile. Stretto su un breve<br />

periodo storico (il 1995), Eastwood sceglie due eventi attraverso<br />

cui forzare il senso dell’operazione: l’inserimento nel suo servizio<br />

d’ordine formato da uomini dell’Anc di vecchi agenti fedeli alla<br />

presidenza de Klerk (lo Special Branch, che non poche volte aveva<br />

torturato e incarcerato i primi) e la scelta di contrastare la volontà<br />

del popolo nero di abbattere tutti i simboli del vecchio governo, in<br />

primis l’inno nazionale e l’amatissima - dagli afrikaners - squadra<br />

di rugby degli Springboks, la più forte nel mondo assieme ai neozelandesi<br />

All Blacks. Alleandosi con il capitano della squadra<br />

François Pienaar (interpretato da un grande Matt Damon), e affascinandolo<br />

con i versi di William E. Henley che furono il suo mantra<br />

nei 27 anni di prigionia (‘Non importa quanto sia stretta la<br />

porta, quanto piena di castighi la pergamena, Io sono il padrone del<br />

mio destino: Io sono il capitano della mia anima’), Mandela gioca<br />

da fine politico e stratega, inimicandosi inizialmente anche i suoi<br />

più stretti collaboratori. Ma l’intuizione è giusta: niente unisce la<br />

gente più del tifo sportivo, niente può fare miracoli quanto una<br />

bella vittoria su un campo da gioco. Il resto è storia, anche se un<br />

po’ sviolinata. Nel 1995 i frastornati Springboks (che Eastwood<br />

rende un po’ più ex-perdenti di quanto siano stati in realtà) prevalgono<br />

sugli invincibili All Blacks, e alla loro Haka (la danza maori)<br />

contrappongono il doppio inno della nuova Africa: il ‘Die Stem’ di<br />

origine olandese e il nuovo ‘Nkosi Sikelei i Afrika’ in lingua<br />

xhosa. Nonostante qualche forzatura narrativa (oltre alla già citata,<br />

la rappresentazione di una squadra di afrikaner - un solo nero,<br />

il grande Chester Williams - molto più tollerante di quanto fosse in<br />

realtà), e nonostante la scelta di Eastwood di rispettare in modo<br />

canonico le regole del film storico-politico intrecciato a quello<br />

sportivo, il tocco del maestro si sente comunque. Soprattutto nelle<br />

magnifiche scene in campo, nelle mischie strette tra le due squadre,<br />

nell’intreccio dei corpi maschili, nei suoni gutturali (bellissima,<br />

come sempre, la colonna sonora curata da Eastwood figlio,<br />

Kyle), nei ralenti che vedono trasformare la guerra di posizione in<br />

magiche corse verso la mèta. Due le nomination agli Oscar, per<br />

Morgan Freeman e Matt Damon.<br />

La Repubblica - Roberto Nepoti<br />

Nel 1995, la volontà di Nelson Mandela porta la squadra di rugby<br />

sudafricana alla Coppa del Mondo, per ricostruire l’unità nazionale.<br />

Attivo quanto Allen, però mai sottoforma, Clint realizza un film<br />

dopo l’altro: con risultati più e meno alti, ma con l’identico umanesimo<br />

rivestito di forme classiche. Questa volta affronta un soggetto<br />

epico, che in mani altrui poteva scivolare nella retorica. Non<br />

in quelle di Eastwood, il quale mira all’essenziale senza cadere<br />

nella semplificazione. E dirige magnifiche partite, mostrando di<br />

sapere riprendere i corpi bene quanto le anime.


9<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

HAPPY FAMILY di Gabriele Salvatores<br />

mercoledì 22 - giovedì 23 dicembre 2010<br />

Gabriele Salvatores (Napoli - luglio 1950) Trasferitosi a Milano, il suo primo approccio al mondo dello spettacolo non avvenne<br />

attraverso il cinema: iniziò infatti la sua attività fondando nel 1972 a Milano (assieme a Ferdinando Bruni) il Teatro dell’Elfo, per<br />

cui diresse molti spettacoli d’avanguardia, fino al 1989, anno in cui passò definitivamente al mondo della celluloide. Del 1989 è il<br />

film “Marrakech Express”, cui seguì nel 1990 “Turné”. Nel 1991 giunse la consacrazione internazionale con “Mediterraneo”,<br />

Premio Oscar come miglior film straniero (la pellicola si aggiudicherà anche tre premi David di Donatello per il miglior film, il<br />

montaggio ed il suono e, nel 1992 un Nastro d’Argento per la regia). Nel 1990 è anche regista dell’unico videoclip girato dal cantautore<br />

Fabrizio De André, per la canzone la domenica delle salme. La sua cosiddetta “trilogia della fuga”, composta dai tre film<br />

sopra citati, è idealmente proseguita nel 1992 da “Puerto Escondido”. L’anno seguente dirige “Sud” (1993). Nel 1997 “Nirvana”<br />

segna l’inizio di un periodo di sperimentazione narrativa durante il quale firmò “Denti” (2000) e “Amnèsia” (2002). Nel 2003 ha<br />

diretto “Io non ho paura” tratto dall’omonimo romanzo di Ammaniti. La pellicola gli vale una nuova nomination all’Oscar e il<br />

“Gattopardo d’oro” - Premio Luchino Viscont. Del 2005 è “Quo vadis, baby?”, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Verasani.<br />

Nel 2008 torna a dirigere un film tratto da un romanzo di Ammaniti, “Come Dio comanda”.<br />

Interpreti: Fabio De Luigi (Ezio), Diego Abatantuono (Papà), Fabrizio Bentivoglio (Vincenzo), Margherita Buy (Anna), Carla Signoris<br />

(Mamma), Valeria Bilello (Caterina), Corinna Augustoni (Nonna Anna), Gianmaria Biancuzzi (Filippo), Alice Croci (Marta), Sandra<br />

Milo<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto: tratto dall’omonima commedia di Alessandro Genovesi prodotta dal Teatro dell’Elfo di Milano<br />

Sceneggiatura: Alessandro Genovesi e Gabriele Salvatores<br />

Fotografia: Italo Petriccione<br />

Musica: Louis Siciliano<br />

Montaggio: Massimo Fiocchi<br />

Durata: 90’<br />

Produzione: Maurizio Totti per Colorado Film/RAI Cinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: All’inizio il protagonista Enzo, 38 anni, si rivolge direttamente alla m.d.p., dichiarando il proposito di scrivere una storia<br />

da cui fare un film. A poco a poco emerge un gruppo di personaggi, che si trovano ad interagire tra loro ma che, rischiano seriamente<br />

di restare senza autore. Ecco due famiglie: entrano in contatto perché i rispettivi figli sedicenni vogliono sposarsi. Ma nella cena<br />

che organizzano per conoscersi meglio, é invitato anche Enzo. Indecisione e paura si insinuano tra i sentimenti. Quando sembra che<br />

tutto si fermi, il racconto riprende. Quei personaggi vogliono vivere, e magari anche morire, ma provare emozioni. Lo scrittore prova<br />

ad accontentarli e a soddisfare anche se stesso.<br />

VALUTAZIONE: Dal profondo Nord Est del precedente “Come Dio comanda”, Salvatores ci invita a spostarci a Milano, città viva e<br />

vibrante, piena di attività e di molte culture. “Happy family” é una storia soprattutto spiazzante. Rifacendosi ad un testo teatrale, il regista<br />

scrive il puzzle narrativo come fosse il diario della precarietà contemporanea, tra il bel vivere e le belle case della buona borghesia<br />

e una irrefrenabile voglia di fuga. Nello schizofrenico diagramma delle paure quotidiane si insinua la malattia, che può essere vera (il<br />

tumore maligno) o simbolica (l’uso di ‘canne’). Passati i cinquanta, la famiglia si propone a Salvatores come il luogo di una comunità<br />

magari disordinata ma alla quale volere bene e nella quale recuperare quell’armonia che sembra sempre sfuggire di mano. Il gioco del<br />

cinema é ancora in grado di offrire quella duttilità espressiva che fa confondere vero e falso quasi senza farsene accorgere.<br />

24


Il Corriere della Sera - Paolo Mereghetti<br />

Scriveva Pirandello, commemorando Verga al teatro Bellini di<br />

Catania nel 1920, che ‘la vita, o la si vive o la si scrive’. Chi<br />

sembra non volergli dare ascolto è Ezio (Fabio De Luigi) uno<br />

scrittore senza apparenti problemi economici (il padre, inventore<br />

della pallina per il detersivo usata nelle lavatrici, è morto<br />

lasciandolo unico erede e togliendogli ogni problema di<br />

sopravvivenza) il quale non solo ha deciso di mettersi in scena<br />

nel romanzo che sta scrivendo, ma ha scelto anche di interagire<br />

con i vari personaggi, confondendo i ruoli di burattinaio e di<br />

burattino: la vita riscritta per riviverla, si potrebbe dire parafrasando<br />

Pirandello. È questo lo spunto di partenza di “Happy<br />

Family” di Alessandro Genovesi, una commedia prodotta con<br />

buon successo dal Teatro dell’ Elfo di Milano nel 2007 e diventata<br />

- con molta fedeltà - la sceneggiatura dell’ultimo film di<br />

Gabriele Salvatores. Non è certo la prima volta che il regista<br />

porta in scena una pièce né che intreccia la realtà con l’immaginazione<br />

(in “Nirvana” si interagiva addirittura con un videogioco)<br />

ma quello che in altri film era la base per una ‘riscrittura’<br />

cinematografica qui rischia di rivelarsi il punto di approdo<br />

per una (troppo) semplicistica illustrazione dei possibili scambi<br />

tra invenzione e narrazione. Perché Ezio si mette sullo stesso<br />

piano dei suoi personaggi, diventando uno di loro? Si<br />

potrebbe rispondere (alla fine del film) perché ha paura di<br />

innamorarsi nella vita reale e allora vuole esercitarsi prima<br />

nella finzione. Ma anche in questo caso il meccanismo narrativo<br />

rischia di sembrare troppo artificioso e insieme troppo<br />

superficiale e quello che all’inizio poteva sembrare una traccia<br />

per capire il senso del film alla fine rischia di apparire solo un<br />

giochetto piuttosto scontato per impressionare lo spettatore con<br />

le trovate più risapute della mise-en-abîme e dello scambio di<br />

prospettiva tra oggettività e soggettività. Un po’ come sembra<br />

suggerire la presentazione ‘in soggettiva’ dei vari personaggi,<br />

con tutto quello che questa scelta dovrebbe comportare a livello<br />

di linguaggio (rottura della linearità narrativa, coinvolgimento<br />

diretto dello spettatore, messa in discussione del ‘patto<br />

di credibilità’ con lo spettatore) e che invece poi il film finisce<br />

per lasciar cadere. L’espediente, comunque, permette allo spettatore<br />

di fare conoscenza con la famiglia di Vincenzo e Anna<br />

(Fabrizio Bentivoglio e Margherita Buy) e i figli Filippo<br />

(Gianmaria Biancuzzi) e Caterina (Valeria Bilello) - quest’ultima<br />

figlia solo di Vincenzo e di un suo precedente matrimonio<br />

- e con la famiglia di Marta (Alice Croci) e dei suoi due improbabili<br />

genitori (Carla Signoris e Diego Abatantuono). Il sedicenne<br />

Filippo ha deciso di sposare la sua compagna Marta e la<br />

proposta di nozze diventa occasione per una cena che vede tutti<br />

riuniti e a cui parteciperà, per ‘merito’ di un incidente stradale<br />

con Anna, anche Ezio. Giocando con la doppia ‘coscienza’ di<br />

Ezio (come scrittore della pièce e come scrittore invitato alla<br />

cena) e regalandosi qualche divagazione di troppo (la pretestuosissima<br />

dedica iniziale a chi ha paura, l’avventura con la<br />

massaggiatrice-prostituta cinese che dovrebbe, forse, far ridere),<br />

il film dà l’impressione di voler ironizzare sullo scollamento<br />

dalla realtà dei giovani e degli adulti, dei borghesi e dei<br />

fricchettoni, delle femmine e dei maschi, mescolando la morte<br />

e la vita, il caso e la necessità, il gioco e la realtà. Ma lascian-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

25<br />

do invece l’impressione di una superficialità gratuita e un po’<br />

furbesca (ha funzionato a teatro, funzionerà anche al cinema),<br />

che usa i toni della commedia per affrontare temi più seri e<br />

complessi ma che finisce per rendere tutto banale. Certo,<br />

Salvatores è un ottimo direttore di attori e il cast regala<br />

momenti di divertimento e di ilarità (con Abatantuono e la<br />

Signoris su tutti), il direttore della fotografia Italo Petriccione<br />

riesce a far sembrare inedite certe atmosfere milanesi ma alla<br />

fine il sentimento dominante è quello che ti prende davanti<br />

all’arredamento troppo alla moda del loft dove vive Ezio: sembra<br />

di essere capitato all’interno di un servizio per riviste di<br />

arredamento, dove c’è tutto ce qu’il faut ma manca una cosa<br />

fondamentale: la vita!<br />

Il Manifesto - Silvana Silvestri<br />

Gabriele Salvatores riunisce la sua famiglia cinematografica<br />

con cui dimostra affiatamento ormai più che ventennale e, a<br />

parte le maestranze, rimette insieme due attori del suo gruppo<br />

di amici, Fabrizio Bentivoglio e Diego Abatantuono che non si<br />

incontravano sul set dai tempi di “Marrakech Express”, viaggiatori<br />

sans frontières ed ora padri di famiglia ugualmente disponibili<br />

alle avventure che la vita offre. Due estrazioni diverse,<br />

della Milano bene l’uno e tardo hippy l’altro: l’occasione è far<br />

incontrare le famiglie dei rispettivi figli sedicenni che hanno<br />

deciso di sposarsi.<br />

Il testo di partenza è la commedia finalista del premio Solinas<br />

di Alessandro Genovesi già andata in scena al Teatro dell’Elfo<br />

(che Salvatores fondò nel ‘70 e dove iniziò la sua attività di<br />

regista), un intreccio pirandelliano dove uno scrittore decide di<br />

scrivere una sceneggiatura d’autore ‘ma di successo’. I personaggi<br />

evocati prendono vita e interagiscono tra di loro e con il<br />

pubblico attraverso un espediente super vietato al cinema, il<br />

look in camera, cioè lo sguardo verso il pubblico ad ammiccare<br />

o a chiedere consenso, concesso solo a Oliver Hardy. In questo<br />

caso si può anche fare un’eccezione, poiché oggi tutta la<br />

comunicazione passa anche attraverso il vis à vis tipico della tv<br />

di cui il protagonista scrittore, Fabio De Luigi, è una star. Ben<br />

inseriti nel quadretto di famiglia tutti gli attori da Margherita<br />

Buy a Carla Signoris (le mamme), Corinna Augustoni (la<br />

nonna, attrice dell’Elfo), Valeria Bilello (la ragazza dai capelli<br />

rossi), Alice Croci e Gianmaria Biancuzzi (i figli) e Sandra<br />

Milo che aggiunge un tocco di follia in più oltre a quello sparso<br />

a piene mani da Abatantuono e Bentivoglio. Commedia sulla<br />

famiglia italiana con un titolo da merendina, lascia ampio spazio<br />

alle battute, alla recitazione anche un po’ sopra le righe e si<br />

trasforma ben presto in una trappola sapiente dove scontrarsi<br />

con alcuni punti dolenti del mondo contemporaneo o meglio<br />

del penoso microcosmo italiano fatto per lo più di volgarità,<br />

razzismo, spaesamento e paura. Interessante il suo modo di<br />

provocare la risata che dal fondo di un pozzo oscuro fa emergere<br />

quello che sarebbe meglio restasse sommerso: non siamo<br />

poi troppo lontani dal mondo di “Io non ho paura”, dove si<br />

distillavano sotto forma di personaggi circoscritti caratteristiche<br />

ben più vaste di un intero paese. Apparentemente<br />

Salvatores si dedica alla commedia, in realtà non tralascia il<br />

metro del discorso morale dei suoi ultimi film.


10<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

INNOCENTI BUGIE di James Mangold<br />

13-14 gennaio 2011<br />

(1963 - New York) Molti non hanno la minima idea di chi sia James Mangold, ma chi ha visto uno dei suoi film migliori, il thriller<br />

che si ispira al romanzo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani, dal titolo “Identità” (2003), sa che è un regista che può offrire pellicole<br />

costruite con intelligenza con l’approfondimento psicologico dei suoi personaggi e la descrizione del contesto sociale. Dopo<br />

aver frequentato la Washingtonville High School, viene accettato alla California Institute of the Arts, dove studia cinema e recitazione.<br />

Quindi consegue un master e comincia a firmare i suoi primi cortometraggi. Poi, nel 1985, viene assunto come regista e sceneggiatore<br />

dalla Disney, per i quali collaborerà nella stesura di alcuni film tv e qualche film animato. Per vedere la sua opera prima, si<br />

deve aspettare il 1995, con “Dolly’s Restaurant” (Premio Speciale della Regia e il Gran Premio della Giuria come miglior opera<br />

drammatica al Sundance Film Festival). Un esordio che lo spinge a Hollywood a dirigere, attori del calibro di Robert De Niro e<br />

Sylvester Stallone in “Cop Land” (1997). L’anno seguente, dirige Vanessa Redgrave in “Ragazze interrotte” (1999). Seguiranno<br />

“Kate & Leopold” (2001) e il quasi invisibile thriller “Identità” (2003). Senza alcun dubbio, il film più noto di questo regista è<br />

“Quando l’amore brucia l’anima” (2005). Nel 2007 firma la regia di “Quel treno per Yuma”, remake dell’omonimo western del 1957.<br />

Interpreti: Tom Cruise, Cameron Diaz, Peter Sarsgaard, Maggie Grace, Paul Dano, Marc Blucas, Viola Davis, Jordi Mollà, Liam<br />

Ferguson, Stream, Nicole Signore<br />

Genere: Azione, Commedia<br />

Origine: USA<br />

Sceneggiatura: Patrick O’Neill<br />

Fotografia: Phedon Papamichael<br />

Musica: John Powell<br />

Montaggio: Michael McCusker<br />

Durata: 109’<br />

Produzione: New Regency Pictures, Tree Line Films, Twentieth Century-Fox Film Corporation<br />

Distribuzione: 20th Century Fox<br />

SOGGETTO: Un incontro casuale nei corridoi dell’aeroporto, catapulterà un’innocente ragazza in partenza per fare da damigella ad<br />

un matrimonio, nell’avventuroso e pericoloso mondo di un agente segreto. L’unica cosa che può fare per stare al sicuro, é stargli attaccata<br />

il più possibile...<br />

VALUTAZIONE: Gli ingredienti, in “Innocenti bugie”, ci sono tutti, riverniciati a fresco e studiati su misura per le due star, Tom<br />

Cruise e Cameron Diaz in gran forma, che non temono di giocare con gli stereotipi legati ai personaggi che li hanno resi famosi, l’eroe<br />

action e acrobata lui, tutto sorrisi e occhiali da sole, dal fascino inossidabile, la svampita e ingenua lei, che trova in sé doti e potenzialità<br />

che non credeva di possedere. “Ethan Hunt” incontra “Tutti pazzi per Mary” e l’alchimia è perfetta: lui si scopre vulnerabile, lei<br />

volitiva; lui inizia a credere nel destino, lei a lasciarsi alle spalle una vita scolorita, che si intuisce fatta di delusioni. Soprattutto entrambi<br />

iniziano a fidarsi l’uno dell’altra, poco per volta, in un divertente e mai banale “scongelamento” di sentimenti. Un film da non perdere,<br />

che intrattiene con intelligenza, non disdegna azioni spericolate (mai fini a se stesse), fa ridere e ci fa sperare di vedere più spesso<br />

al cinema film così ben congegnati, dagli ingredienti dosati a puntino. Una nota positiva tutta italiana per il doppiaggio, soprattutto<br />

per quello di Tom Cruise, reso come sempre al massimo dal grande Roberto Chevalier.<br />

26


Coming Soon.it - Adriano Ercolani<br />

A nove anni dal sottovalutato “Vanilla Sky” di Cameron Crowe<br />

si riforma la coppia Tom Cruise/Cameron Diaz, questa volta<br />

impegnata in una commedia d’azione che appare appositamente<br />

ideata a strutturata per rilanciare la carriera delle due star, ultimamente<br />

un po’ in ribasso al botteghino. Entrambi infatti ritrovano<br />

in questo film i “tipi fissi” che meglio hanno saputo esplorare<br />

nei loro lavori precedenti, e che li hanno portati ad ottenere<br />

i maggiori successi di pubblico. La Diaz veste nuovamente i<br />

panni della ragazza carina ma un po’ impacciata, insicura nella<br />

vita e soprattutto nelle questioni sentimentali. Cruise invece<br />

ripropone in versione più simpatica e divertita il suo cavallo di<br />

battaglia, la spia dal volto umano che diventa invincibile quando<br />

si tratta di passare all’azione. Fin dalle prime scene “Innocenti<br />

bugie” riesce a conquistare l’attenzione e solleticarne il divertimento<br />

grazie all’evidente dose di autoironia che i due attori mettono<br />

nell’interpretare i propri ruoli: in un momento in cui il cinema<br />

mainstream americano sembra prendersi molto sul serio –<br />

salvo non riuscire poi a supportare questa seriosità con la necessaria<br />

funzionalità narrativa – vedere due star come Cruise e la<br />

Diaz che scherzano sulle proprie icone in alcuni momenti è piuttosto<br />

intrigante. In particolare l’attore regala alla figura di Roy<br />

Miller una lucida follia che lo rende immediatamente simpatico,<br />

insistendo in maniera sicuramente furba ma funzionale sulla presunta<br />

“eccentricità” della spia reietta: nel caratterizzarlo in questo<br />

modo Cruise sembra strizzare l’occhio divertito alle sue<br />

recenti vicende personali, che a detta di molti hanno influito sul<br />

calo di popolarità che ha subito negli ultimissimi anni. Nei<br />

momenti in cui l’ironia e la leggerezza con cui Innocenti bugie è<br />

stato improntato viene meno, soprattutto nella parte finale, ecco<br />

che il film perde di presa sul pubblico. Ciò è imputabile anche<br />

alla regia di James Mangold, cineasta che da sempre dimostra<br />

una certa solidità nel costruire storie e personaggi ma anche alcuni<br />

limiti quando si tratta di impostare scene movimentate. Non<br />

fosse stato per un chiusura abbastanza farraginosa nello sviluppo<br />

ed esteticamente meno coinvolgente, “Innocenti bugie” sarebbe<br />

diventato un prodotto pienamente riuscito: la confezione è senza<br />

dubbio meritevole, sviluppata secondo un gusto cinematografico<br />

che strizza l’occhio al cinema del passato e ne ripropone con<br />

scioltezza alcuni stilemi. Un altro punto a favore nella messa in<br />

scena di Mangold sta nell’utilizzo elegante delle ambientazioni<br />

europee, in particolar modo le scene girate in Austria. Ed almeno<br />

una sequenza, più precisamente quella iniziale dentro l’aereo,<br />

è assolutamente spassosa.<br />

Movieplayer.it - Antonio Cuomo<br />

Non si può dire che le ultime apparizioni cinematografiche di Tom<br />

Cruise abbiano lasciato un segno profondo nella mente e nei cuori<br />

degli spettatori. Ciononostante, complice il cospicuo credito accumulato<br />

nei suoi anni d’oro e l’immenso ritorno agli MTV Movie<br />

Awards nei panni di Les Grossman, l’appeal dell’attore sembra<br />

restare quasi immutato e basta citarne il nome perchè si percepisca<br />

un’aura di successo attorno ad ogni progetto. È a questo alone da<br />

star che sembra attingere James Mangold in Innocenti bugie, affidandosi<br />

proprio al carisma dei protagonisti, Cruise e Cameron<br />

Diaz, per costruire un film di puro intrattenimento, che, con ritmo<br />

travolgente e situazioni folli, strapazza il duo e lo spettatore trascinandolo<br />

in giro per il mondo. Le due star vestono i panni di Roy<br />

Miller e June Havens, formando un’improbabile ma efficace coppia<br />

d’azione: lui in versione agente segreto, dotato di abilità che lo<br />

rendono letale nel corpo a corpo ed animato da intenzioni ambigue;<br />

lei decisamente più normale e goffa, diretta a Boston per partecipare<br />

al matrimonio della sorella. Incontriamo i due in aeroporto<br />

nel Kansas, in procinto d’imbarcarsi, e ne vediamo l’incontro<br />

apparentemente fortuito, giocato tra scambi di battute vivaci ed<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

27<br />

ammiccanti. Ma bastano poche sequenze per rendersi conto che il<br />

loro flirt non sfocerà soltanto in una semplice commedia romantica,<br />

quanto in una girandola di eventi frenetici e mozzafiato, che<br />

porterà la ragazza ad essere trascinata, suo malgrado, nel complotto<br />

che circonda Miller, sballottata da una città all’altra, vivendo un<br />

pericolo dopo l’altro senza soluzione di continuità.Nonostante<br />

l’ambiguità nelle intenzioni di Miller e l’insicurezza che provoca<br />

in June, Mangold sceglie di non sfruttare questi aspetti per costruire<br />

sequenze cariche di tensione, ma decide di mettere insieme una<br />

commedia d’azione dai toni leggeri e dal ritmo frenetico, senza<br />

tempi morti o possibilità di approfondimento, costruendo una giostra<br />

ad uso e consumo dei due protagonisti e dell’alchimia che<br />

sanno costruire. Gli stessi comprimari di un cast ricco al di là di<br />

Cruise e della Diaz hanno ben poco spazio per mettersi in mostra:<br />

Maggie Grace e Marc Blucas devono sfruttare i pochi minuti a<br />

propria disposizione per tratteggiare i loro personaggi, mentre i più<br />

fortunati Paul Dano, Peter Sarsgaard e Viola Davis hanno un proprio<br />

ruolo nell’ambito dell’intreccio che riguarda Miller/Cruise e<br />

la fantascientifica invenzione in suo possesso, e riescono a guadagnare<br />

del tempo extra su schermo da sfruttare per farsi notare, ma<br />

non sufficiente a caratterizzare dei ruoli a tutto tondo.Innocenti<br />

bugie è un vero e proprio pop corn movie, divertente e scanzonato,<br />

a tratti anche riuscito ed effettivamente divertente, soprattutto<br />

nella parte iniziale e nei dialoghi frizzanti. Il tono è infatti quello<br />

da commedia brillante e qualcosa si perde quando la sua componente<br />

più propriamente d’azione prende il sopravvento, facendo<br />

salire lo spettatore su delle montagne russe che non gli lasciano<br />

nemmeno il tempo di godersi le ambientazioni suggestive (si passa<br />

da Boston alle Maldive, passando per Salisburgo, le Alpi e<br />

Valencia) o le soluzioni visive messa in scena. L’azione che vede<br />

protagonisti i due attori è eccessiva e sopra le righe, ben costruita<br />

ma poco realistica, tradendo un intento parodistico verso il genere<br />

- e lo stesso Cruise di “Mission Impossible” - apprezzabile, ma<br />

purtroppo poco incisivo, travolto com’è dalla frenesia d’insieme<br />

che ne fa perdere lo spirito e da un intreccio che rivela i suoi limiti<br />

in termini di originalità.Il risultato non è comunque da buttare e<br />

il film risulta in definitiva godibile per una serata senza pensieri,<br />

purchè non ci si aspetti il miglior 007 o un Cary Grant d’annata.<br />

CritamorCinema - Franco Pecori<br />

Una batteria che non si scarica mai. Un’invenzione così, pur se<br />

ancora da perfezionare, attrae di certo interessi mondiali. Per<br />

impossessarsene qualcuno, “cattivo”, è disposto a tutto. Ignara,<br />

Junes (Diaz), se ne sta andando tranquilla al matrimonio della<br />

sorella. All’aeroporto fa uno strano incontro, casuale. Non ci fa<br />

caso. Ma durante il volo avrà modo di notare la stranezza del tipo.<br />

Roy (Cruise), il tipo, è affaccendato parecchio in una strana e<br />

movimentata attività, anche molto violenta, tanto che ad un certo<br />

punto tutti i passeggeri muoiono ammazzati e l’aereo resta senza<br />

piloti. Ma Roy s’improvvisa pilota e, bene o male, riesce ad atterrare<br />

in un prato. Ma che sta succedendo? La disinvoltura è tale che<br />

viene quasi da ridere. Proprio qui è il punto. L’intreccio, il solito<br />

affarismo e spionaggio internazionale, è complicato e andrà complicandosi<br />

sempre di più, eppure restiamo sereni e divertiti perché<br />

la materia è trattata con umorismo e tutto ciò che sembra impossibile<br />

(non mancano scene davvero “fantastiche”) rientra in un gioco<br />

spettacolare, trattato con ironia esplicita. Non cercate ragioni profonde<br />

nel comportamento dei protagonisti. La leggerezza vi sovrasterà.<br />

In giro per il mondo, da Boston a Siviglia passando per<br />

l’Austria, l’azione si veste da commedia e viceversa, aprendo l’avventura<br />

a prospettive rosa che, dato il fascino dei divi, è più che<br />

lecito attendere. Potere del cinema: Cameron Diaz si trasforma in<br />

un batter d’occhio da donna qualunque in prestante ragazza pronta<br />

a tutto. E Tom Cruise mostra perfino di avere un cuore che s’innamora.<br />

Buon divertimento.


11<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

CRAZY HEART di Scott Cooper<br />

20-21 gennaio 2011<br />

(1971 – Abingdon, Virginia) Dopo aver studiato recitazione al celebre Lee Strasberg Institute di New York, Scott Cooper incontra<br />

quello che sarà il suo mentore, Robert Duvall, con il quale collabora in quattro pellicole, tra cui anche in “Crazy Heart”. Nel 1999,<br />

compare in un cameo nel comico Austin Power - La spia che ci provava. Una decade più tardi, compare nell’horror “For Sale by<br />

Owner” e in “Get Low”. Archiviate ,per un attimo,le velleità di attore, Cooper si è scoperto dietro la macchina da presa, dirigendo<br />

“Crazy Heart”, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Cobb. La pluripremiata pellicola, della quale ne è anche produttore e sceneggiatore,<br />

segna un esordio registico invidiabile che vanta ben due Golden Globes e tre candidature agli Academy Awards.<br />

Interpreti: Colin Farrell (Tommy Sweet), Jeff Bridges (Bad Blake), Maggie Gyllenhaal (Jean Craddock), Robert Duvall (Wayne<br />

Kramer), Sarah Jane Morris (Marissa Reynolds), Beth Grant (JoAnne), Tom Bower (Bill Wilson), Rick Dial (Wesley Barnes), William<br />

Sterchi (Pat), Brian Gleason (Steven Reynolds)<br />

Genere: Musical<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Soggetto: tratto dal romanzo di Thomas Cobb<br />

Sceneggiatura: Scott Cooper<br />

Fotografia: Barry Markowitz<br />

Musica: T-Bone Burnett<br />

Montaggio: John Axelrad<br />

Durata: 112’<br />

Produzione: Robert Duvall, Robert Carliner, Judy Cairo, Scott Cooper e T-Bone Burnett per CMT Films/Informant Media/Butchers<br />

Run Films<br />

Distribuzione: 20th Century Fox Italia<br />

SOGGETTO: Bad Blake è un cantante di musica country a pezzi, che ha vissuto troppi matrimoni, troppi anni on the road e troppi<br />

drink. Tuttavia, Bad prova a cercare la salvezza con l’aiuto di Jean, una giornalista che scopre l’uomo vero dietro al musicista. Mentre<br />

lui lotta nella strada verso la redenzione, impara nel modo più duro come una vita difficile possa dipendere dal cuore folle di un uomo.<br />

VALUTAZIONE: Il film scorre seguendo le tappe convenzionali del dramma personale, tra entusiastici nuovi inizi e tristi ricadute.<br />

L’abilità del regista esordiente Scott Cooper è soprattutto nel suo sapere dirigere (o semplicemente, nell’aver scelto) Jeff Bridges.<br />

L’attore californiano riesce a dare corpo e voce (sia lui che Colin Farrell cantano in presa diretta) ad un personaggio che fin dalle sue<br />

rughe e barba grigia racconta un passato che a parole viene solo accennato. Bridges ha inciso un disco di musica country nel 2000, oltre<br />

ad aver interpretato in passato altri ruoli da cantante (vi ricordate del suo jazz in “I favolosi Baker”?): “Crazy Heart” sembra scritto su<br />

misura per lui.Peccato che la versione doppiata tolga molto al film: l’accento texano di quasi tutti i personaggi maschili, quel suono<br />

roco e scavato tipico di chi sembra sempre che ne abbia viste di tutti i colori, è un elemento cardine per essere trasportati dopo pochi<br />

attimi dall’altra parte dell’oceano, nel sud degli Stati Uniti. La musica country, seppur così lontana dalle nostre radio, ha la capacità di<br />

essere orecchiabile e coinvolgente fin dal primo ascolto.”Crazy Heart” ne diventa un piccolo manifesto visto dalla parte dei suoi protagonisti,<br />

uomini erranti frutto più che mai dell’America più tradizionale. È stato girato in soli ventiquattro giorni con sette milioni di<br />

dollari (cifra piccolissima per una produzione americana).Un buon film classico che dimostra come, a volte, non sono necessarie idee<br />

originalissime per essere visti e apprezzati, ma basta fare le cose per bene, partire da un personaggio ben scritto e poi dare la giusta<br />

attenzione ad ogni aspetto narrativo e tecnico della realizzazione.<br />

28


Il Corriere della Sera - Maurizio Porro<br />

Scommettiamo che stavolta ce la farà? Jeff Bridges, figlio e<br />

fratello d’arte rispettivamente di Lloyd e Beau, alla sua quarta<br />

nomination potrebbe vincere l’Oscar col personaggio non<br />

certo inedito di un perdente alcolizzato, una specie di<br />

“Wrestler” con la chitarra. Il primo film di Scott Cooper, ex<br />

attore molto raccomandato da Robert Duvall, che qui recita e<br />

produce ricordando “Tender mercies”, attacca lo spinotto<br />

country del cinema anni 70 in profumo di Ashby, Rafelson e<br />

Altman (magari!), road movies con scontento esistenziale<br />

incorporato. Questa figura di ex star country che si vede superare<br />

dal suo pupillo (appare e scompare senza nome in ditta il<br />

gentile Colin Farrell) e tenta di rifarsi una vita accogliendo tra<br />

le sue nostalgie bagnate di whisky un’assai improbabile giovane<br />

mamma giornalista di Santa Fè, fa parte del panorama del<br />

cinema dei ‘loser’, quelli che ogni giorno barattano la vita<br />

bevendo e fumando. L’autore, formato alla scuola di Strasberg,<br />

rispetta ogni regola del gioco: molta musica in concert e il viso<br />

incolto, gli occhi ispidi di un Bridges ispirato da un allegro<br />

cinismo, tentato di rifarsi famiglia in un’offerta speciale con<br />

l’intervista. E dietro scorre la solita America alla Hopper di<br />

motel e stazioni di servizio, bar con musica alla sera (i saloon<br />

di oggi, dove comanda un affettuoso Duvall) e i non luoghi<br />

omologati dove un piccino si può perdere. Sogno posticipato:<br />

a 57 anni è a rischio. Il film, giocato come un pezzo country,<br />

di ambientazione provinciale proprio come il debutto di<br />

Bridges “L’ultimo spettacolo” di Bogdanovich, è banalmente<br />

scorrevole, non si nega il sentimentalismo e il moralismo nella<br />

finale difesa dei valori costituiti con melassa, si prolunga oltre<br />

la misura del racconto ispirato dal libro di Thomas Cobb,<br />

ennesima elegia di un uomo rude e solo, cow boy andato fuori<br />

strada e fuori tempo. Virtuosa almeno quanto era spudorata in<br />

“Secretary”, Maggie Gyllenhaal sfodera un’ antica dolcezza di<br />

torte di mele che forse farà vincere pure a lei la statuetta. Ma<br />

chi comanda incroci e svincoli emotivi, gettandoci in faccia<br />

birra e scotch come fosse in 3D, è lui, Jeff, ex “grande<br />

Lebowski”, il Bad texano che ha l’aria stropicciata di chi è<br />

andato a letto tardi in questi anni. Pescando dalla sua generosa<br />

offerta espressiva si legge nel volto peloso e arruffato di<br />

Bridges (simile a quello di Kris Kristofferson, impossibile non<br />

notarlo) la lista delle illusioni americane e la diagnosi di un<br />

cuore matto, matto da legare ma che non ha nulla a che vedere<br />

col colesterolo.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce<br />

È un’America country Anni ‘70 quella di “Crazy Heart”, da un<br />

libro di Thomas Scott con atmosfere alla Rafelson di “Cinque<br />

pezzi facili” e alla Hopper di “Easy Rider”. Ma il film le rivisita<br />

con bisturi leggero, quasi soave, e con vago sentore tra<br />

buonismo e malinconia le incasella in una stereotipia di personaggi<br />

e situazioni.<br />

Tutto gira attorno alla figura di Bad Blake, ex-star del country,<br />

ora surclassato dal pupillo Tommy Sweet, anche se ancora idolatrato<br />

da tifoserie di periferia texana; con 4-5 matrimoni alle<br />

spalle, un figlio lasciato perdere, sigaretta accesa e bicchiere di<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

29<br />

whisky alle labbra, alcolizzato cronico che sopravvive alla<br />

solitudine esibendosi in provinciali locali di quart’ordine. È un<br />

uomo a perdere sino a quando incontra Jean, giovane giornalista<br />

bella e rampante e il suo bambino Buddy, e sente risvegliarsi<br />

perduti sentimenti d’amore, frustrati sensi di paternità,<br />

spiragli redentivi di effimero sollievo, meteorici.<br />

Il film allinea ripetitività di situazioni e concerti, climaterica<br />

serialità di momenti country, secondo maniera nel quadro<br />

d’una cartolinesca America di frontiera, e al di là di scoramenti<br />

e malinconie con un’apertura a sani valori d’amore e amicizia.<br />

E tanta bella musica. Ma soprattutto, interprete da meritatissimo<br />

Oscar, Jeff Bridges, con allegro cinismo e sussiego stropicciato<br />

clone del fu ‘drugo’ Lebowsky. Porta alla perfezione<br />

un ritratto di perdente accidioso, trasandato e - sporco, in vano<br />

sussulto di rasserenata vita coniugalfamliare accanto a Maggie<br />

Gyllenhaal morbida e dolce.<br />

Film TV - Mariuccia Ciotta<br />

Jeff Bridges è “Crazy Heart”, corpo e melodia malinconica,<br />

genere country-western, laggiù nelle pianure deserte del New<br />

Mexico, in mezzo al ‘nulla’. Candidato all’Oscar, lo vincerà.<br />

Non è facile infatti sfuggire allo stereotipo del cantante alcolizzato,<br />

ex leggenda folk, passato nomade, vita sentimentale<br />

bruciata, figlio e moglie lasciati marcire da qualche parte, e in<br />

più fumatore estremo, il che sugli schermi americani è più<br />

spregevole di un tossico. Bridges nelle vesti spiegazzate del<br />

texano Bad Blake evita la tentazione dell’artista maledetto,<br />

modula tristezza e tenerezza, e dà voce alle canzoni con lo<br />

stesso tono disorientato. Stella cadente davanti alle platee di<br />

una generazione che non lo ricorda più e ha eletto a nuovo<br />

divo il giovane Tommy Sweet (Colin Farrell), il suo ex allievo.<br />

La jam session per soli uomini si completa con la presenza<br />

di Robert Duvall (anche produttore) nella parte del vecchio<br />

amico dei tempi gloriosi, dispensatore di saggi consigli per<br />

conquistare la felicità, affogata in troppi bicchieri di whisky. Il<br />

regista esordiente (e sceneggiatore) Scott Cooper, attore, creatura<br />

di Duvall, che lo ha voluto accanto a sé in quattro film,<br />

non poteva volere di più. Forte della formazione al Lee<br />

Strasberg Institute, ha diretto l’orchestra di tre grandi interpreti<br />

e grazie a loro parteciperà alla Notte delle Stelle con un<br />

film che ha già vinto due Golden Globe, uno per il miglior<br />

attore e l’altro per la canzone originale, ‘The Weary Kind’ (di<br />

T-Bone Burnett e Ryan Bingham). I problemi arrivano con il<br />

soggetto, tratto dal romanzo omonimo di Thomas Cobb,<br />

ammuffito refrain sul campione suonato e in crisi di età (ma<br />

Bad Blake ha solo 57 anni!) nella scia di “The Wrestler” e di<br />

“Tender Mercies” (Oscar per Robert Duvall). Uomo disilluso<br />

trova la redenzione nell’amore per la ragazza tutta acqua e<br />

virtù, in questo caso una giornalista improbabile (Maggie<br />

Gyllenhall, “The Secretary”), mammina amorosa di un pargoletto,<br />

al quale manca un ‘padre affidabile’ proprio come capita<br />

nei film del filone mucciniano. E “Crazy Heart” affonda nel<br />

più convenzionale dei mondi possibili, con la donna repressiva<br />

sentinella dell’ordine morale e alcolico e con tutto ciò che<br />

prevedibilmente accade.


12<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

L’AMANTE INGLESE di Catherine Corsini<br />

27-28 gennaio 2011<br />

(maggio 1959 - Dreux - Francia) Passata dalla recitazione direttamente dietro la macchina da presa, nei suoi film mette in scena la<br />

complessità dell’universo femminile e la fragilità delle relazioni. Catherine Corsini passa la sua infanzia nella cittadina di Seineet-Marne;<br />

la sua passione per il cinema nasce in lei da adolescente, quando degli amici le consigliano di vedere alcuni film della<br />

Nouvelle Vague. Godard resta sempre un suo punto di riferimento; inizialmente però il suo sogno è quello di diventare un’attrice.<br />

Per realizzarlo, a 18 anni si trasferisce a Parigi dove frequenta corsi di recitazione e laboratori; studiando cinema, però, si appassiona<br />

sempre di più alla scrittura e alla messa in scena, e comincia a lavorare come sceneggiatrice, realizzando alcuni cortometraggi<br />

e lavorando per il teatro. Esordisce nel lungometraggio nel 1988 con “Poker”, di cui firma anche la sceneggiatura, come succederà<br />

per tutti i suoi lavori successivi; in seguito si fa notare come regista televisiva realizzando il film “Interdit d’amour”. La sua<br />

opera seconda, “Les Amoureux” viene presentato al festival di Cannes nel 1994, permettendole di farsi conoscere dalla critica. Nel<br />

1999 firma un film dai toni più leggeri, “La Nouvelle Eve” - Una relazione al femminile che si rivela in Francia un successo a sorpresa.<br />

Nel 2001 è nuovamente a Cannes con “La Répétition”. In seguito ritorna alla commedia, nel 2003, con “Mariées mais pas<br />

trop”; nel 2006 scrive e dirige un film tratto dalla sua autobiografia “Les Ambitieux”. “L’amante inglese”, del 2009, rappresenta<br />

un altro tassello del suo mosaico al femminile.<br />

Interpreti: Kristin Scott Thomas (Suzanne), Sergi López (Ivan), Yvan Attal (Samuel), Bernard Blancan (Rémi), Aladin Reibel<br />

(Dubreuil), Alexandre Vidal (David), Daisy Broom (Marion), Berta Esquirol (Berta), Gerard Lartigau (Lagache), Geneviève Casile<br />

(Madre di Samuel), Philippe Laudenbach (Padre di Samuel), Michèle Ernou (Sig.ra Aubouy), Jonathan Cohen (Banchiere), Hélène<br />

Babu (Dorothée), Mama Prassinos (Sig.ra Dubreuil)<br />

Genere: Drammatico/Romantico<br />

Origine: Francia<br />

Sceneggiatura: Catherine Corsini, Gaelle Macé<br />

Fotografia: Agnes Godard<br />

Musica: Georges Delerue, Antoine Duhamel<br />

Montaggio: Simon Jacquet<br />

Durata: 85’<br />

Produzione: Pyramide Productions/Camera One/VMP/Solaire Production/Canal +/Ciné Cinéma<br />

Distribuzione: Teodora Film<br />

SOGGETTO: L’inglese Suzanne vive in una cittadina di provincia nel sud della Francia con Samuel il marito medico e due figli adolescenti.<br />

Quando conosce Ivan, operaio spagnolo incaricato di ristrutturale lo studio, in Suzanne scatta una scintilla incontrollabile. Tra<br />

i due comincia una storia che diventa ben presto passione travolgente. Da allora le cose precipitano. Suzanne va via di casa, ma non ha<br />

più niente, il lavoro di Ivan è precario, e i soldi non ci sono. Decisa a seguire la propria storia d’amore, Suzanne comincia una dura<br />

lotta col marito per avere quello che le spetta. In occasione di una sua assenza, entra in casa e ruba dipinti e gioielli. Ivan viene incolpato<br />

e arrestato. Samuel dice a Suzanne che se torna a casa, lo farà liberare….<br />

VALUTAZIONE: “Avevo voglia -dice Catherine Corsini- di raccontare una vicenda classica, che mi permettesse un ritratto femminile<br />

simile a quello delle eroine di cui ho sempre sognato, donne come Anna Karenina e Madame Bovary (...) Ho provato a mostrare la<br />

forza del desiderio, la sua inevitabilità e la sua irruzione in un’esistenza normale e ordinata”. Sotto questo profilo, la vicenda é ben<br />

motivata, e, si potrebbe dire, anche semplice. Il diagramma dell’ amour fou, del sentimento folle che si fa irrazionale, conduce a gesti<br />

estremi, dei quali chi li commette non avverte la gravità. Che però resta, e sebbene il copione non si risolva in una esaltazione dei fatti<br />

narrati, ci sarebbe ancora una volta da chiedersi perché l’esistenza “normale e ordinata” sia accostata quasi ad un non esistenza.<br />

Nell’ambito dunque del melò a tinte forti, il racconto procede con logica e rigore.<br />

30


Il Mattino - Valerio Caprara<br />

In un periodo che al cinema suggerisce solo riprese e riferimenti,<br />

non sorprende il teorema truffautiano svolto dalla francese<br />

Corsini. Peccato che estirpi dal modello “La signora<br />

della porta accanto” qualsiasi palpito di calore e ne inverta<br />

l’oltranzistico, folle romanticismo in una cerebrale e cruda<br />

resa dei conti neo-femministica. La brava ma algida Kristin<br />

Scott Thomas e il tarchiato e macho Sergi Lòpez vi attualizzano<br />

il tema lawrenciano della donna di classe e di censo soggiogata<br />

sul piano del sesso da un proletario reietto, percorrendo<br />

un calvario determinato dalle leggi economiche e societarie<br />

di cui, invece, è adepto lo spregevole marito tradito. I<br />

temi dell’amore-passione e del prezzo della libertà individuale<br />

risultano insomma forzati per amore di tesi, finendo con lo<br />

svuotare lo slancio di un film corretto e lineare sul piano professionale.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni<br />

La passione per un operaio spagnolo sconvolge la vita ordinata<br />

d’una donna inglese, madre di due figli grandi, moglie di un<br />

imprenditore del Sud della Francia. Non ci sarebbe nulla di<br />

inconsueto, se non fossero fuori del comune i due protagonisti,<br />

moglie e marito, Kristin Scott Thomas e Yvan Attal. Lei è<br />

una persona senza compromessi: incontrata la passione, la<br />

vive completamente, non intende rinunciarvi, lascia il marito<br />

benestante. Il marito è una persona ripugnante, vendicativa,<br />

meschina, preoccupata della propria reputazione: la picchia, le<br />

urla “non ti lascerò andare”, fa perdere il lavoro al rivale,<br />

denuncia tutti e due, allontana lei dai figli, la perseguita.<br />

Comportamenti odiosi e inutili, forse testimonianza d’amore o<br />

forse prova di suscettibilità ferita. I due interpreti (Sergi<br />

Lòpez, l’amante spagnolo operaio, non ha molta parte) sono<br />

bravissimi. In particolare, Kristin Scott Thomas affronta molto<br />

bene le scene erotiche e nude che si trova a interpretare per la<br />

prima volta nella sua carriera, nei film in cui i registi l’hanno<br />

vista piuttosto come emblema di riservatezza e d’eleganza.<br />

Con un minimo scarto, la regista Casini arriva a trasformare un<br />

adulterio come tanti in uno specchio sociale, nell’immagine di<br />

una schiettezza inglese, d’un meschino senso di proprietà francese,<br />

nella previsione di non facile felicità per gli amanti.<br />

Il Sole 24Ore - Luigi Paini<br />

Improvviso arrivò l’amore. L’amour fou, che tanto piaceva a<br />

François Truffaut e a tutti i suoi compagni della Nouvelle<br />

vague : l’amore che ti getta al tappeto, che ti fa sragionare.<br />

“L’amante inglese”, di Catherine Corsini,s’incammina su questa<br />

via fin dalle prime battute. Nel Sud della Francia, sferzato<br />

dal vento e baciato dalla luce, Suzanne è all’apparenza la<br />

donna più felice del mondo. Non manca nulla per poterla definire<br />

una tranquilla, perfetta borghese, bella casa, marito di successo,<br />

due figli, la voglia (e pure la possibilità) di ricominciare<br />

a lavorare. Non per bisogno, giusto per realizzarsi. È in<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

31<br />

simili ‘normalità’ che adora infilarsi l’amo di Eros: nella fattispecie,<br />

lo spagnolo Ivan, operaio in nero, ex carcerato per una<br />

sciocchezza. Un uomo buono, che la vita ha segnato quel che<br />

basta per desiderare di lanciarsi in una dimensione nuova. È<br />

passione, è amore, è vita. Nelle storie dell’amata Nouvelle<br />

Vague era raro che il tutto finisse in un happy end. Sono passati<br />

gli anni, il cinema è sempre il cinema, e il mondo, là fuori,<br />

esige che si paghi il tributo.<br />

La Repubblica - Roberto Nepoti<br />

Inizia con un colpo di fucile poi ci racconta una storia di<br />

moglie-marito-amante che può sembrare pericolosamente vecchiotta.<br />

In una località del Sud della Francia vive Suzanne,<br />

quarantenne di origine inglese, col consorte di successo e due<br />

figli. Quando la donna incontra Ivan, operaio catalano ed excarcerato,<br />

è l’’amour fou’: prima incontri clandestini, poi<br />

Suzanne decide di abbandonare la famiglia per vivere la sua<br />

passione. Malgrado il soggetto iper-frequentato, è un mélo che<br />

non dà una versione ovvia della psicologia dei personaggi.<br />

Soltanto il seduttore (involontario), alla fine, sa farsi carico<br />

della sofferenza altrui. Attenzione al mix musicale, tratto da<br />

tre film di Truffaut.<br />

Il Manifesto - Silvana Silvestri<br />

Un adulterio è argomento prezioso per il cinema: qui la storia<br />

è complicata dalle differenze di classe e dai diversi paesi di<br />

origine. Nulla fa cambiare idea a Suzanne (Scott Thomas)<br />

quando si innamora di Ivan, l’operaio dall’oscuro passato che<br />

sta ristrutturando il suo studio, né la vita agiata che conduce<br />

con il marito, né i due figli adolescenti. Confessa il tradimento<br />

e lascia la casa. Due cuori e una capanna spesso non sono<br />

l’equazione giusta e poiché il marito le ha tolto carte di credito,<br />

chiuso il conto e fatto il vuoto attorno, non riesce a sopravvivere.<br />

Ora, poiché si tratta di una donna inglese possiamo<br />

anche capire che contravvenga alla regola aurea del ‘negare<br />

sempre’ e abbia la smania della confessione a tutti i costi, più<br />

difficile è credere che non sappia come gestire gli affari e non<br />

corra subito dal suo avvocato prima ancora che dal prestante<br />

amante catalano (Sergi Lòpez, è la seconda volta dopo<br />

“Ricky” che lo vediamo come operaio d’oltre confine). Da<br />

questi indizi si capisce che si tratta di un raffinato gioco di<br />

ruolo, dove tre personaggi portano alle estreme conseguenze i<br />

risvolti della loro personalità: il marito francese (Yvan Attal,<br />

costruito sulla falsariga del ministro François Fillon, diceva la<br />

regista) non può sopportare che la sua immagine venga intaccata<br />

pubblicamente, soprattutto ora che ha deciso di entrare in<br />

politica, Suzanne vuole vivere fino in fondo quell’attrazione<br />

mai provata prima, Ivan si dimostra accogliente e paziente a<br />

dispetto di ogni cliché di machismo. Ma se la moglie fosse<br />

stata francese, il marito inglese e l’amante italiano? Lei avrebbe<br />

ancora il suo conto, lui non si accorgerebbe di niente, l’altro<br />

se ne andrebbe a seguire la squadra in trasferta.


13<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

MINE VAGANTI di Ferzan Ozpetek<br />

3-4 febbraio 2011<br />

Ferzan Özpetek (Istanbul -1959) si trasferisce in Italia nel 1976 per studiare Storia del cinema a La Sapienza di Roma, Dopo aver avuto<br />

alcune esperienze in teatro, riesce ad avvicinarsi al mondo del cinema iniziando a collaborare come assistente ed aiuto regista con Troisi,<br />

Ponzi, Ricky Tognazzi, Francesco Nuti. Il suo primo lavoro come aiuto regia è in “Scusate il ritardo” di Troisi, seguito da “Son contento”<br />

di Ponzi. Il suo debutto cinematografico come regista avviene nel 1997 con il film “Il bagno turco (Hamam)”. Il film, ottiene grande<br />

successo di critica e pubblico, ottenendo svariati premi e venendo presentato alla 50ª edizione del Festival di Cannes. Nel 1999 realizza<br />

“Harem Suare”. Nel 2001 dirige “Le fate ignoranti”. Nel 2003 è la volta de “La finestra di fronte”. Nel 2005 realizza “Cuore sacro”<br />

(12 candidature ai David di Donatello, e premio per la miglior attrice protagonista, Barbora Bobulova, e miglior scenografia). Nel 2007<br />

è in sala “Saturno contro” (4 Ciak d’oro, 5 Globi d’oro, 4 Nastri d’Argento e un David di Donatello come miglior attrice non protagonista,<br />

assegnato ad Ambra Angiolini). Il 2008 è un anno importante per Özpetek: per la prima svolta lavora su un film non basato su una<br />

sua sceneggiatura ma adattando il romanzo corale di Melania Mazzucco “Un giorno perfetto”. Nel dicembre 2008 il MoMa di New York<br />

ha dedicato una retrospettiva al regista:è uno dei pochi registi italiani ad aver avuto questo onore. Nel 2009 ha diretto il cortometraggio<br />

“Nonostante tutto è Pasqua”, segmento del progetto L’Aquila 2009 - Cinque registi tra le macerie, in cui diversi cineasti raccontano il<br />

terremoto dell’Aquila. Nel 2009 intraprende un nuovo progetto cinematografico: dopo aver scritto una sceneggiatura a quattro mani con<br />

Ivan Cotroneo, dirige il film “Mine vaganti”. Per la prima volta il regista dirige un film fuori da Roma, città a cui è molto legato e nella<br />

quale ha ambientato molti dei suoi lavori.<br />

Interpreti: Riccardo Scamarcio (Tommaso), Nicole Grimaudo (Alba), Alessandro Preziosi (Antonio), Lunetta Savino (Stefania), Ennio<br />

Fantastichini (Vincenzo), Elena Sofia Ricci (Zia Luciana), Ilaria Occhini (Nonna di Tommaso), Bianca Nappi (Elena), Massimiliano<br />

Gallo (Salvatore), Paola Minaccioni (Teresa), Emanuela Gabrieli (Giovanna), Carolina Crescentini (La nonna da giovane), Giorgio<br />

Marchese (Nicola), Matteo Taranto (Domenico), Carmine Recano (Marco)<br />

Genere: Commedia/Drammatico<br />

Origine: Italia<br />

Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Ivan Cotroneo<br />

Fotografia: Maurizio Calvesi<br />

Musica: Andrea Guerra<br />

Montaggio: Patrizio Marone<br />

Durata: 116’<br />

Produzione: Domenico Procacci per Fandango in collaborazione con Rai Cinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Da Roma Tommaso torna a Lecce, dove la famiglia gestisce da tempo un avviato pastificio. Tommaso dovrebbe dire ai<br />

genitori che nella capitale non ha studiato economia ma lettere, che vuole fare lo scrittore e, soprattutto, che é omosessuale. Un giorno,<br />

a tavola, il fratello Antonio spiazza tutti e rivela di essere gay. Il padre Vincenzo lo caccia di casa e lo esclude dalla gestione dell’azienda.<br />

Così Tommaso è costretto ad interessarsene e a tenersi il proprio segreto dentro. Deve passare un po’ di tempo prima che,<br />

grazie anche alla visita inattesa di alcuni suoi amici e alla morte della saggia nonna, anche Antonio torni in famiglia e si possano creare<br />

le condizioni per una migliore convivenza.<br />

VALUTAZIONE: Un nucleo familiare ampio e armonico, un’azienda di famiglia ben condotta, una solidità borghese che sembra non<br />

scalfibile. “Dopo tanti film -dice Ozpetek- in cui ho raccontato le famiglie degli affetti, ho voluto, complice forse l’età, concentrarmi<br />

sulla famiglia di sangue, quella ‘classica’, anche perché, dopo la scomparsa di mio padre, ho cominciato a riconsiderare il rapporto<br />

genitori-figli con un nuovo sguardo.(...)”. Una situazione paradossale costruita per creare sconcerto e raddoppiare la possibilità di equivoci<br />

e fraintendimenti. Nella rete della commedia di costume, la regia si muove bene per la prima parte, poi perde il controllo, si adagia<br />

sul già detto. Ozpetek prova a rifare Germi, ma l’accento posto sull’ipocrisia di provincia é spuntato e poco velenoso.<br />

32


Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Segreti di famiglia. Tutti ne hanno, nessuno li vuole. Ma il bello<br />

dei segreti è che sono contagiosi. Ogni segreto ne genera un altro,<br />

poi un altro e un altro ancora. Che alla lunga, naturalmente, sono<br />

sempre meno segreti e sempre più comici (o tragici, ma più di<br />

rado). Mine vaganti applica questo principio al clan patriarcale di<br />

un industriale della pasta leccese e ci porta di sorpresa in sorpresa<br />

con una leggerezza e una verve che il regista de “Le fate ignoranti”<br />

aveva un po’ perso per strada dopo tanti film seri o seriosi<br />

se non cupi ma poco convincenti. Il segreto più esplosivo è quello<br />

di Riccardo Scamarcio, figlio del patriarca Ennio Fantastichini,<br />

che torna da Roma con un piano. Il padre vuole affidargli l’azienda<br />

di famiglia. Lui invece dirà a tutti che ha altri progetti,<br />

vuole scrivere, ha un romanzo nel cassetto e soprattutto è gay, è<br />

sempre stato gay e sempre lo sarà. Così, pensa, verrà cacciato di<br />

casa e sarà finalmente libero. Un piano perfetto se qualcosa, non<br />

diremo cosa, non andasse storto. Perché a casa Cantone ognuno<br />

ha il suo scheletro nell’armadio. Papà Fantastichini annega i dispiaceri<br />

nel seno accogliente della sua antica amante. Mamma<br />

Lunetta Savino sopporta quelle corna istituzionali in cambio di un<br />

potere assoluto. La sorella zitella (ma assai piacente), una spiritosa<br />

Elena Sofia Ricci, riceve ogni notte l’amante urlando ‘al ladro,<br />

al ladro!’ per giustificare la finestra aperta. Quanto al fratello di<br />

Scamarcio, Alessandro Preziosi, anche lui non dice tutto... Mentre<br />

la collerica bellezza bruna che sfreccia per Lecce su una spider<br />

rossa (Nicole Grimaudo: perché lavora così di rado?) è il mistero<br />

in persona. E finirà per intrecciare un’intensa amicizia, anzi un<br />

quasi-amore proprio con Scamarcio, che dopo aver rimandato il<br />

suo coming out vive come sospeso fra due vite, due età, due città.<br />

In una lunga parentesi coincidente con l’intero film, incorniciato<br />

da un drammatico antefatto sepolto nel passato di nonna Ilaria<br />

Occhini (un altro segreto...) che regge il peso ‘morale’ della<br />

vicenda ma è saggiamente concentrato nel prologo e nell’epilogo.<br />

Lasciando a Ozpetek l’estro, il piacere, la libertà di giocare con<br />

quel mondo in cui ognuno recita una parte premendo come mai<br />

prima sul pedale del comico. Come nella lunga e irresistibile visita<br />

degli amici gay venuti da Roma a trovare Scamarcio. Un gruppo<br />

di ‘pazze’ caricaturali (ma palestrate...) che solo Fantastichini,<br />

nel suo perbenismo all’antica può scambiare per virili rubacuori.<br />

Con conseguenze assolutamente esilaranti (anche perché la servitù<br />

non la beve). A conferma che per dare il meglio prima o poi<br />

bisogna buttare a mare convenzioni e preoccupazioni inutili.<br />

Anche dietro alla macchina da presa.<br />

L’Eco di Bergamo - Andrea Frambrosi<br />

‘Tu vuò fa l’americano’,cantava Renato Carosone. Più che in altre<br />

occasioni, in questo “Mine vaganti”, ci è sembrato che Ferzan<br />

Ozpeteck si sia divertito a ‘fare’ l’Almodóvar. Questa iniezione di<br />

almodovarismo ha permesso però ad Ozpeteck di realizzare un<br />

film piuttosto vivace, coloratissimo, narrativamente fluido come<br />

non gli capitava da un po’. Detto questo, però, il film non ci ha<br />

convinti pienamente. A fronte della scorrevolezza di cui dicevamo,<br />

“Mine vaganti” non ci è sembrato andare tanto al di là di una<br />

rivisitazione, se pure più vivace, come dicevamo, dei consueti<br />

temi affrontati dal regista turco-italiano nelle sue precedenti<br />

opere. In particolare, naturalmente quello sull’essere (o non essere)<br />

gay. Un tema che, francamente, sembrava diventato ossessivo<br />

nel cinema dell’autore de “Le fate ignoranti” (film nel quale oltre-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

33<br />

tutto - come ha sottolineato Maurizio Cabona - ‘infilava il dubbio<br />

malignetto che nessuna eterosessualità è al di sopra di ogni<br />

sospetto’). Qui lo è meno. Anche se il problema del rivelare la<br />

propria omosessualità sta al centro del film. O forse no. E infatti<br />

il film sembra partire da lì per poi allargare invece il suo raggio di<br />

azione e di indagine a tutti i membri della famiglia Cantone e ai<br />

rapporti che all’interno di questa nel corso degli anni si sono<br />

instaurati tra di loro. Il padre autoritario, la madre ossessiva, la zia<br />

‘disturbata’, la cameriera ‘suonata’ e un po’ tarda. Per non parlare<br />

di Alba, l’amica di Tommaso, veramente sciroccata. L’unica<br />

che sembra mantenere qualche briciolo di lucidità è proprio quella<br />

che avrebbe il diritto (per età, esperienza, per la malattia che la<br />

affligge) di non averne: la nonna. Sarà lei, oltretutto - e non<br />

potrebbe essere altrimenti - a ricucire i rapporti all’interno della<br />

famiglia, a rimettere insieme i cocci di un nucleo familiare che si<br />

stava disgregando sotto il peso dei pregiudizi, del perbenismo piccolo<br />

borghese, della paura di ‘cosa dirà la gente’. L’altro pregio<br />

del film, come accennavamo, è la fluidità del racconto a cui si<br />

accompagnano un paio di bei momenti di cinema che mescolano<br />

la realtà e il suo fantasma. Non mancano, naturalmente, le famose<br />

sequenze conviviali intorno a una bella tavola imbandita che<br />

hanno reso celebre il cinema di Ozpetek. Insomma: un film che<br />

riesce a restare in equilibro tra il cedimento alla farsa le il prendersi<br />

troppo sul serio.<br />

Il Tempo - Gian Luigi Rondi<br />

Ancora famiglie per Ferzan Ozpetek. Come ne “Le fate ignoranti”.<br />

In Puglia, questa volta, a Lecce, dove i Cantone padre e figlio<br />

gestiscono un pastificio. L’altro figlio, Tommaso, è andato a studiare<br />

a Roma, non economia e commercio come i suoi credono<br />

pensando all’azienda, ma lettere, per diventare scrittore. Torna per<br />

dire la verità anche sulle sue inclinazioni omosessuali di cui in<br />

casa non sanno nulla, ma lo precede Antonio, l’altro fratello, rivelando<br />

inclinazioni analoghe in occasione di un pranzo in famiglia.<br />

Il padre prima rischia un infarto, poi lo caccia, Tommaso allora<br />

decide di tacere. Attorno la madre, un’altra sorella, ma soprattutto<br />

la nonna che si era sposata quasi a forza pur innamorata del futuro<br />

cognato cui si era comunque sentita legata fino a quando era<br />

morto, ricordandolo ancora con tenerezza struggente. È questa<br />

nonna il centro più autentico di una vicenda scritta da Ozpetek con<br />

Ivan Cotroneo e poi rappresentata con modi sempre intensi, tra un<br />

via vai di situazioni, spesso attorno a tavole da pranzo, in cui ogni<br />

psicologia è sottilmente cesellata alternando i climi ansiosi ad altri<br />

ora polemici ora ironici. In una cornice in cui la solarità mediterranea<br />

di Lecce e nella Puglia è messa in sapiente contrasto con il<br />

buio che pesa su tutti quegli animi feriti da duri contrasti. Con un<br />

felice equilibrio sia drammatico sia emotivo tra le cui pieghe stona<br />

solo una sequenza che indugia sull’intrusione di una banda di<br />

amici omosessuali di Tommaso piovuti giù da Roma con atteggiamenti<br />

a dir poco macchiettistici. Ma la si dimentica quasi subito<br />

per apprezzare la salda bravura della maggior parte degli interpreti:<br />

Riccardo Scamarcio (Tommaso), con una mimica eloquente<br />

sempre sospesa tra reticenza e dolore; Alessandro Preziosi<br />

(Antonio), con dignità e misura quasi severe; Ennio Fantastichini<br />

(il padre), perfetto prima nello sbalordimento furioso poi nel terrore<br />

provinciale di possibili scandali; Ilaria Occhini (la nonna), il<br />

personaggio più bello e sofferto, espresso con accenti finissimi; da<br />

grandissima attrice.


14<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

L’UOMO NELL’OMBRA di Roman Polanski<br />

10-11 febbraio 2011<br />

Il suo vero nome è Roman Lieblin (Parigi agosto1933) e nasce da emigranti polacchi che si trasferisce di nuovo a Cracovia due anni<br />

prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto i suoi genitori vengono imprigionati in un campo di concentramento<br />

e lui è costretto a cercare accoglienza per sottrarsi dal ghetto dove è rinchiuso. Si ritrova con il padre soltanto alla fine della<br />

guerra . Nel 1962 realizza in Polonia il suo primo lungometraggio, “Il coltello nell’acqua”, che ottiene una nomination all’Oscar tra i<br />

migliori film stranieri e conquista il Premio della Critica al Festival di Venezia. Nel 1965 realizza “Repulsion” e l’anno dopo lavora a<br />

“Cul de sac”. “Per favore non mordermi sul collo”, del 1967, è di nuovo un grosso successo. La fama di Polanski arriva fino a<br />

Hollywood, dove il regista si trasferisce per realizzare “Rosemary’s baby” che gli vale il Golden Globe. Nel 1971 gira un nuovo film,<br />

“Macbeth”, trascrizione del dramma shakespeariano. Dopo il grottesco “Che’”, nel 1974, Polanski torna a Hollywood per dirigere<br />

“Chinatown”. Nel 1979 realizza “Tess”, nuovo capolavoro che ottiene il César per il miglior film e per il miglior regista, più tre Oscar<br />

(fotografia, scenografia e costumi). Nel 1984 scrive la sua autobiografia, che diventa subito un best seller, ma dal punto di vista creativo<br />

gli anni Ottanta sono piuttosto deludenti per lui. Nel 1988 ottiene un nuovo successo grazie a “Frantic”, con Emmanuele Seigner.<br />

L’attrice, divenuta sua moglie, da questo momento è la protagonista di quasi tutti i suoi film, facendosi notare soprattutto in “Luna di<br />

fiele” (1992). Nel 1993 riceve a Venezia il Leone d’Oro alla carriera. Dopo “La morte e la fanciulla” (1995) e “La nona porta” (1999),<br />

nel 2002 realizza “Il pianista”, che vince la Palma d’oro al Festival di Cannes e l’Oscar come miglior film straniero. Nel 2004 ha girato<br />

a Praga il film “Oliver Twist”, tratto dall’omonimo romanzo di Charles Dickens. Nel 2007 ha preso parte in qualità d’attore al film<br />

italiano “Caos calmo” di Antonello Grimaldi.<br />

Interpreti: Ewan McGregor (Ghost Writer), Pierce Brosnan (Adam Lang), Kim Cattrall (Amelia Bly), Olivia Williams (Ruth Lang),<br />

James Belushi (John Maddox), Timothy Hutton (Sidney Kroll), Eli Wallach (Anziano della vigna<br />

Genere: Thriller<br />

Origine: Francia<br />

Soggetto: Robert Harris (romanzo)<br />

Sceneggiatura: Robert Harris (adattamento), Roman Polanski<br />

Fotografia: Pawel Edelman<br />

Musica: Alexandre Desplat<br />

Montaggio: Hervé de Luze<br />

Durata: 131’<br />

Produzione: Roman Polanski, Robert Benmussa e Alain Sarde per R.P. Films, France 2 Cinema, Elfte Babelsburg Film, Ruteam Iii<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Uno scrittore britannico accetta di completare, in qualità di ghostwriter, il libro di memorie dell’ex Primo Ministro inglese<br />

Adam Lang: una sostituzione resasi necessaria dopoché il predecessore, storico assistente di Lang, é morto in un incidente. Per raggiungere<br />

Lang, lo scrittore vola al suo quartier generale, un’isola sulla costa orientale degli Stati Uniti: proprio quando un ex ministro lo<br />

accusa di aver autorizzato la cattura illegale di sospetti terroristi e di averli consegnati alla tortura della CIA. In caso di conferma, si configurerebbe<br />

l’accusa di crimine di guerra. Da quel momento per lo scrittore il compito cambia: non più solo la scrittura del libro ma la<br />

voglia di capirne di più nei rapporti tra Lang e la CIA. Tra scoperte e mezze verità, il ghostwriter comincia seriamente a rischiare la vita…<br />

VALUTAZIONE: Si tratta del film presentato al festival di Berlino 2010 e girato da Polanski mentre su di lui incombeva la riapertura<br />

del processo per l’accusa di stupro di minorenne negli Stati Uniti. All’origine c’è il romanzo omonimo di Robert Harris, narratore e<br />

giornalista inglese, autore di libri best seller in molti Paesi. Siamo nell’ambito di una quanto mai ‘classica’ storia di spionaggio, un intrigo<br />

politico economico tra le due sponde dell’oceano, con in più la presenza dello scrittore che non c’è (o non ci dovrebbe essere).<br />

Questo è il tocco in più che fa lievitare la vicenda, innestando nel copione robuste dosi di suspence. Niente di veramente nuovo, a dire<br />

il vero. Ma il regista é bravo a tenere ben stretto il ritmo del thriller, e a nascondere la verità fino alla conclusione.<br />

34


Il Fatto Quotidiano - Anna Maria Pasetti<br />

Il coltello nell’ombra è affilato. Tanto che ne mostra una densità<br />

orrorifica, dal grigio più dark che mai si fa nero, perché nel buio<br />

totale si è ciechi. E invece Roman Polanski vuole che il nostro<br />

sguardo si accompagni al suo, un radar nei labirinti dell’invisibile.<br />

Con “L’uomo nell’ombra”, il suo lavoro più recente premiato a<br />

Berlino per la regia, lo spettatore diventa Polanski e il cinema fa il<br />

suo miracolo. Insufficienti gli aggettivi per un’Opera dalle sospensioni<br />

perfette, dalle incursioni shakespeariane nelle tre ‘p’ della<br />

Tragedia: potere, passione, paura. Il miglior Polanski mentre<br />

rievoca “Chinatown”, ritmi ‘frantic’ e dark lady da Macbeth, si<br />

mescola ‘per natura’ thriller-visiva a Hitchcock, ma anche a<br />

Huston. “L’uomo nell’ombra” è il ghostwriter (Ewan McGregor)<br />

dell’ex premier britannico Adam Lang - leggi Tony Blair (Pierce<br />

Brosnan) - in momentaneo ritiro su un’isola americana a completare<br />

l’autobiografia. Scoprirà il buio oltre una siepe intrecciata di<br />

trame politiche, accuse di crimini di guerra (l’Iraq...). manovre di<br />

una Cia molto ‘embedded’, il tutto troppo off the records. Ma<br />

soprattutto un’inquietudine che dal 2003 tortura la British intellighenzia<br />

ex blairiana: il Regno Unito è ormai il 51° degli Usa.<br />

Questo è alla base del bestseller ‘The Ghost’ (‘Il Ghost Writer’,<br />

2007 Mondadori) di Robert Harris, scrittore ed editor politico tra i<br />

più feroci accusatori di Blair, da cui il film di Polanski è tratto. Il<br />

regista l’ha voluto con sé a sceneggiare con un risultato che, rivela<br />

Harris ‘è migliore del romanzo’.<br />

Il Sole 24Ore - Roberto Escobar<br />

‘I’m the ghost’: cosi, in originale, si presenta il protagonista di<br />

“L’uomo nell’ombra” (“The Ghost Writer”. E subito qualcuno precisa<br />

che ‘he’s the ghost writer’. Insomma, lo scrittore di cui narrano<br />

Roman Polanski e il suo cosceneggiatore Robert Harris non è<br />

solo un ‘negro’ - come in un italiano molto rude, ma efficace, si<br />

può tradurre ghost writer -, ma è anche proprio un ghost, un fantasma.<br />

D’altra parte, nel film non ha un nome. Per l’ex primo ministro<br />

britannico Adam. Lang (Pierce Brosnan), per sua moglie Ruth<br />

(Olivia Williams) e per i molti coinvolti nella vicenda è solo “The<br />

Ghost” (Ewan McGregor).Un nome - ossia, McAra - ha invece il<br />

‘negro” che lo ha preceduto nel compito di scrivere l’autobiografia<br />

di Lang, e che è stato trovato annegato sulla spiaggia di un’isola<br />

al largo della costa orientale degli Usa (lì, protetto da occhiute<br />

guardie del corpo, vive da qualche mese l’ex primo ministro).<br />

McAra, tuttavia, non compare mai, nemmeno in flashback. Di lui<br />

si vede solo l’auto, che nella prima sequenza un carro attrezzi<br />

rimuove dal ponte di un traghetto. Pur in modi diversi, i due scrittori<br />

sono fantasmi: l’uno privato dell’identità di un nome, l’altro<br />

rievocato solo ‘in assenza’. Già questo suggerisce che Polanski sta<br />

attirandoci in un gioco narrativo raffinato e ingannevole.<br />

Nonostante la sua centralità, il protagonista - ecco l’inganno - non<br />

ha un ruolo sostanziale nella storia. Non lo ha al pari di quello che<br />

Alfred Hitchcock chiamava MacGuffin: un oggetto attorno a cui si<br />

sviluppa una trama, ma che alla fine viene abbandonato. Un<br />

MacGuffin spiegava con ironia, è ‘un marchingegno per catturare<br />

leoni sulle montagne della Scozia’. E se di leoni in Scozia non se<br />

ne vedono, poco male: quel che conta è catturare uomini e donne<br />

in una sala cinematografica. Certo il fantasma di “L’uomo nell’ombra”<br />

ne cattura, di leoni-spettatori. Di lui,condividiamo l’impegno<br />

a scrivere centinaia di pagine in un mese. E con lui trepidiamo.<br />

Come ha potuto il corpo di McAra arrivare sulla spiaggia,<br />

vincendo le correnti? Che cosa c’è nelle vecchie foto di Lang che<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

35<br />

McAra ha nascosto sotto un cassetto? Presi dalla vicenda personale<br />

del ghost writer, immaginiamo che Polanski abbia girato un<br />

thriller, o almeno un poliziesco. Ci aspettiamo che la capacità di<br />

scrittura del protagonista riesca a mettere ordine e senso nei fatti<br />

complessi e oscuri che, via via, la sceneggiatura accumula. Uno<br />

più di altri attende una spiegazione: Lang è un criminale di guerra?<br />

Di questo l’accusa in televisione Robert Rycart (Robert Pugh),<br />

che è stato suo ministro degli esteri: d’aver consegnato alcuni prigionieri<br />

agli Usa, per essere torturati.Prima nell’universo chiuso<br />

dell’isola, poi sulla terraferma, lo scrittore raccoglie indizi e testimonianze.<br />

Intanto, legge e inizia a riscrivere le pagine lasciate da<br />

McAra. E si stupisce della loro scarsa qualità narrativa. Era o non<br />

era un professionista, il suo predecessore? In fondo, che cosa ci<br />

vuole a migliorare un’autobiografia? Basta metterci quello che i<br />

lettori vogliono trovarci. O meglio basterebbe, se alle preoccupazioni<br />

del mestiere non s’aggiungessero quelle d’arrivare alla verità.<br />

E la verità a un certo punto sembra a portata di mano. È sufficiente<br />

collegare quelle tali vecchie foto al professor Paul Emmett<br />

(Tom Wilkinson), e poi cercare conferme in internet. A un certo<br />

punto, (anche Rycart), entra direttamente nella storia. Tutto ormai<br />

sembra chiaro: da almeno trent’anni Lang è legato alla Cia. Ora<br />

non resta che affrontarlo, in un faccia a faccia che sembra uscito<br />

da un film di Hitchcock, appunto. Ma poi qualcuno gli<br />

spara…..Siamo così all’ultima sequenza, anch’essa, anzi soprattutto<br />

essa hitchcockiana. A Londra, mentre l’ex primo ministro<br />

viene rievocato e celebrato (anche da Rycart), lo scrittore capisce.<br />

La verità è sempre stata vicinissima, nelle carte di McAra. Ma proprio<br />

adesso Polanski abbandona alla sua irrilevanza il MacGuffin.<br />

Lo fa con un’immagine geniale. “The Ghost” lascia la sala della<br />

cerimonia, portando con sé la prova della soluzione finalmente trovata.<br />

Così immagina (e noi con lui) allontanandosi a piedi. Ma<br />

all’improvviso si sente un colpo. La macchina da presa tuttavia<br />

non si gira in controcampo a mostrarne gli effetti. Con un’inquadratura<br />

fissa sulla strada, l’occhio del cinema non ci lascia vedere<br />

che i fogli di McAra dispersi dal vento: come del primo, anche del<br />

secondo ghost writer non resta che l’assenza. Qualunque sia la<br />

verità scoperta dai due, d’ora in poi conterà quella che il potere ha<br />

deciso che conti. Così sempre avviene, per quanto ci si illuda. E<br />

resto è fantasma.<br />

Io Donna - Paolo Mereghetti<br />

Un ghost writer (McGregor è chiamato a scrivere le memorie dell’ex<br />

ministro inglese Adam Lang (Brosnan) proprio quando si scopre<br />

che il politico aveva aiutato la Cia nelle peggiori pratiche antiterroristiche.<br />

È per questo che il ghost writer precedente è morto?<br />

È per questo che c’è sempre qualcuno che spia? Quasi tutto<br />

ambientato - secondo la più classica tradizione gotica - nella casafortezza<br />

che Lang ha su un’isola, capace di ‘respingere’ la realtà<br />

che sembra volerla assediare (troupe televisive, dimostranti pacifisti,<br />

curiosi); costruito sfruttando al meglio l’ostilità della Natura<br />

(vento, pioggia, mare burrascoso); giocato con sapienza tra inquietanti<br />

personaggi ‘secondari’ e reticenti comprimari (la moglie<br />

Ruth, la segretaria Amelia, un misterioso professore), il film sa trasmettere<br />

un senso di angoscia insinuante e sotterraneo che trasporta<br />

lo spettatore in un mondo senza più certezze, dove le macchinazioni<br />

politiche diventano l’altra faccia dell’insicurezza quotidiana.<br />

Perché Lang fa subito pensare a Tony Blair e il thriller si<br />

intreccia alla fantapolitica in maniera inestricabile. Come solo<br />

Polanski sa fare.


15<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

ROBIN HOOD di Ridley Scott<br />

17-18 febbraio 2011<br />

Ridley Scott (novembre 1937, Northumberland -Inghilterra) Dopo aver studiato al West Hartpool College of Art e al London’s Royal<br />

College of Art, all’inizio degli anni ‘60 comincia a lavorare come scenografo . In seguito, dirige alcuni show dell’emittente inglese.<br />

Realizza centinaia di spot pubblicitari e la mano è già quella di un maestro. Molte di quelle sue iniziali produzioni conquistano infatti<br />

premi e riconoscimenti. Nel 1977 debutta come regista con “I duellanti” (migliore opera prima al Festival di Cannes). Il film successivo,<br />

è ancora più ambizioso: “Alien” (1979), rivoluzionario esempio di cinema di fantascienza. Tre anni dopo con “Blade runner”,<br />

liberamente tratto dal romanzo di Philip K. Dick, il regista propone una tenebrosa visione del futuro; il film contribuisce a rendere<br />

mitico il suo interprete Harrison Ford. Gli altri film realizzati negli anni ‘80, “Legend” (1985), “Chi protegge il testimone”<br />

(1987) e “Black Rain - Pioggia sporca” (1989), sono certamente meno originali dei primi, ma nel 1991 “Thelma & Louise” è uno<br />

straordinario successo commerciale: ottiene sei nomination dell’Academy Award. Dopo il flop di “1492 - La scoperta del paradiso”<br />

(1992), Scott realizza opere che non raccolgono più i consensi di un tempo: “Albatros - Oltre la tempesta” (1996) e “Soldato Jane”<br />

(1997). Ma nel 2000, torna al successo con “Il Gladiatore” (vincitore di cinque Oscar, tra cui quello per il miglior film). Subito dopo<br />

realizza “Hannibal”, il seguito de “Il silenzio degli innocenti”.A questo è seguito il meno fortunato “Black hawk down”. Tra le ultime<br />

fatiche vi sono il divertente “Il genio della truffa”, “Le Crociate”(2005) e “American Gangster” (2007).<br />

Interpreti: Russell Crowe (Robin Longstride), Cate Blanchett (Marion), William Hurt (Guglielmo il Maresciallo), Mark Strong (Sir<br />

Godfrey), Mark Addy (Fra’ Tuck), Oscar Isaac (Principe Giovanni), Danny Huston (Re Riccardo), Eileen Atkins (Eleonora<br />

d’Aquitaine), Kevin Durand (Little John), Scott Grimes (Will Scarlet), Alan Doyle (Alan A’Dale), Max von Sydow (Sir Walter Loxley),<br />

Matthew Macfadyen (Sceriffo di Nottingham)<br />

Genere: Azione/Drammatico<br />

Origine: Stati Uniti d’America/Gran Bretagna<br />

Soggetto: Brian Helgeland<br />

Sceneggiatura: Brian Helgeland, Ethan Reiff, Cyrus Voris<br />

Fotografia: John Mathieson<br />

Musica: Marc Streitenfeld<br />

Montaggio: Pietro Scalia<br />

Durata: 131<br />

Produzione: Ridley Scott, Russell Crowe e Brian Gazer per Imagine Entertainment/Scott Free Productions/Universal Pictures<br />

Distribuzione: Universal Pictures International Italy<br />

SOGGETTO: Inghilterra, tredicesimo secolo. Alla morte di Re Riccardo I, gli succede il figlio principe Giovanni. Ma il regno ormai<br />

é fin troppo indebolito e non si accorge che un traditore sta agevolando lo sbarco dei francesi in terra inglese. Solo Robin Hood, prode<br />

arciere di Nottingham, tiene la testa a posto, conquista il cuore della vedova Marion e organizza la difesa che risulta vittoriosa. Il nemico<br />

é messo in fuga.<br />

VALUTAZIONE: A ognuno il Robin Hood che si merita. Errol Flynn, Kevin Costner, ora Russell Crowe, già gladiatore sempre per<br />

Rydley Scott. Tra la storia e la leggenda, stampa sempre la seconda, diceva il tipografo di “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John<br />

Ford, e sulla falsa notizia di avere ucciso quel pericoloso bandito, James Stewart costruisce una carriera da venerato senatore. Ecco<br />

quindi Robin Hood che, nel ricordo del padre ucciso brutalmente, supera divisioni e rivalità e scende in campo a difesa dei cittadini e<br />

per migliorare la vita civile. Ricostruzione ambientale impeccabile (costumi, luoghi, situazioni), grande e spettacolare incalzare dell’azione.<br />

Ma Crowe, alla c.s. al festival di Cannes, dice: “Se rinascesse oggi, Robin Hood farebbe politica o starebbe a Wall Street a<br />

combattere contro gli speculatori e chi si arricchisce illegalmente oppure farebbe la guerra a chi controlla e monopolizza i media”. Il<br />

riferimento plateale all’oggi sa di didascalico e stempera molto la vivacità del prodotto.<br />

36


Film TV - Mario Sesti<br />

Bell’omaggio francofilo che Ridley Scott sta portando a Cannes:<br />

nel suo nuovo “Robin Hood”, i cattivi tradizionali come lo sceriffo<br />

di Nottingham e il Re infido e prepotente, impallidiscono nei<br />

confronti dei francesi che ammassano i contadini dentro ricoveri di<br />

legno per poi dargli fuoco come facevano i nazisti con i villaggi<br />

dell’Ucraina e della Bielorussia, nel tentativo di preparare lo sbarco<br />

del loro monarca sul suolo inglese. I francesi di oggi la prenderanno,<br />

sicuramente, con la loro tradizionale mancanza di suscettibilità<br />

(tra Francia e Inghilterra c’è, da sempre, lo stesso elegante<br />

fairplay che c’è tra tifosi romanisti e laziali). In ogni caso, il film<br />

avanza con passo robusto e pesante fino a una sanguinosa battaglia<br />

sulle spiagge di Dover, tra i due eserciti, che rende il cinema di cui<br />

è fatto più vicino all’epica guerresca del “Signore degli Anelli” che<br />

alle acrobazie spaccone di Errol Flynn. È anche il momento in cui<br />

scintilla quel mix di montaggio ormonale e sguardo stroboscopico<br />

che ha reso celebre in tutto il mondo lo stile de “Il Gladiatore”<br />

(copiato da tutti: in primis dal suo regista). Ma prima di arrivare Iì,<br />

c’è il lungo antefatto del ritorno delle Crociate e della morte di<br />

Riccardo Cuor di Leone, un laborioso plotting della situazione<br />

internazionale e un inevitabile resoconto delle povertà e delle<br />

ingiustizie di Nottingham. Insomma, per aspettare che Robin<br />

Hood faccia qualcosa da Robin Hood (predare nella foresta in<br />

nome della giustizia e della società) bisogna aspettare quasi 90<br />

minuti (giuro). È vero che Scott ha detto che voleva raccontare la<br />

nascita del mito più che il mito stesso, ma nella classifica dei film<br />

sul tema, questo rischia proprio di trovarsi quasi al fondo - né<br />

rimarrà alla Storia la solenne ricostruzione, libertaria, della lotta<br />

dell’aristocrazia alla corona. Cosa lo salva dalla retrocessione?<br />

Non il copione colto ma velleitario, né le inquadrature paesaggistiche<br />

da art design, né Russell Crowe (il suo Robin Hood non ha<br />

né il carisma di quello di Sean Connery, né la purezza naif di<br />

Kevin Costner), ma una Lady Marian di lineamenti e bagliori preraffaelliti:<br />

anche perché non c’è bisogno di un grande filmaker per<br />

far risaltare su tutto Cate Blanchett.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Chi l’avrebbe mai detto? Nel film scelto per inaugurare con fragore<br />

il 63mo festival di Cannes i francesi sono invasori odiosi e intriganti,<br />

i loro soldati usano metodi degni delle SS, i buoni sono gli<br />

inglesi di ceppo sassone opposti a quelli di discendenza normanna,<br />

cioè francese, che depredano e taglieggiano gli onesti britanni<br />

all’alba del XIII secolo. Cioè dieci anni dopo la fine della terza<br />

Crociata. Se non riconoscete in questa tumultuosa tela di fondo<br />

l’epoca che vide nascere il mito di Robin Hood, non c’è niente di<br />

strano: il film di Ridley Scott (fuori concorso) è un prequel, vuole<br />

raccontare l’uomo prima della leggenda, il guerriero prima dell’arciere,<br />

il combattente prima del ribelle. Naturalmente ogni<br />

epoca ha il Robin Hood che si merita, o che le conviene, e quello<br />

dell’ex militare Ridley Scott è un nipote nemmeno troppo lontano<br />

dei soldati tutti d’un pezzo delle Crociate e del Gladiatore. È lontano<br />

il ricordo degli arcieri romantico-acrobatici resi leggendari<br />

negli anni ‘20-30 da Fairbanks e Flynn, lontani anche i due ufficiali<br />

napoleonici legati da un odio quasi metafisico che resero celebre<br />

Scott con “I duellanti”, Palma come miglior opera prima qui a<br />

Cannes nel 1977. Il Robin Hood di Scott è piantato anima, corpo<br />

e frecce nell’Inghilterra infuocata del primo Duecento, fra contese<br />

dinastiche e tensioni da guerra civile aggravate dalla costante<br />

minaccia francese. È il lato più ambizioso di questo kolossal cupo<br />

e muscolare. Ma è anche quello che gli impiomba le ali rendendo-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

37<br />

lo a tratti greve e didattico come un film di propaganda camuffato<br />

da cinema d’azione. Ci vuole più di mezz’ora difatti perché<br />

Riccardo Cuor di Leone (il sempre bravissimo Danny Huston)<br />

muoia quasi per caso durante uno dei tanti assedi innescando il<br />

macchinoso scambio di identità che farà scoprire al rude Robin<br />

Longstride chi è veramente. Non senza prima calarsi nei panni - e<br />

nel talamo coniugale - di un altro crociato defunto nel frattempo.<br />

È così che il futuro Robin Hood approda nell’impoverita<br />

Nottingham depredata dal famigerato sceriffo. È sempre così che<br />

si trova ‘sposato’ d’ufficio a una bella vedova perseguitata (intrepida<br />

Cate Blanchett) grazie al padre dell’uomo di cui ha assunto<br />

l’identità, un maestoso vegliardo cieco e irredento (un gigionissimo<br />

Max Von Sydow). Chi cerca riferimenti alla geopolitica odierna,<br />

e magari ai neonazionalismi antieuropei, si accomodi. Chi<br />

voleva più equilibrio fra spettacolo e divertimento storico, dovrà<br />

armarsi di pazienza. Le due ore e mezzo di film, malgrado l’azione<br />

incessante, si sentono tutte.<br />

Vivilcinema - Marco Spagnoli<br />

A differenza, fortunatamente, di quello che era possibile attendersi<br />

sulla carta, “Robin Hood” non è il remake ideale de “Il gladiatore”,<br />

quanto piuttosto un film diverso che sembra partecipare<br />

dello stesso spirito e delle medesime suggestioni visive che avevano<br />

animato “Le crociate”. Il ricongiungimento della coppia<br />

Ridley Scott-Russell Crowe in un contesto epico dà comunque<br />

vita ad un film d’azione spettacolare e ricco di humour, qualità<br />

ampiamente consentite dal personaggio dell’eroe incappucciato.<br />

“Robin Hood”, presentato in pompa magna quale film d’apertura<br />

di Cannes 2010, rappresenta una variazione interessante e originale<br />

sul tema delle gesta del ribelle che ruba ai ricchi per donare<br />

ai poveri: un prequel alla sua intera storia, rivisitata però sempre<br />

in chiave leggendaria, lasciando solo uno spazio minimo alla storicità<br />

e, ovviamente, al realismo. Una pellicola dalla vocazione<br />

molto classica che percorre, a suo modo, il solco della lunga tradizione<br />

cinematografica dell’eroe portato diverse volte sullo<br />

schermo, da Errol Flynn passando per Sean Connery fino ad arrivare<br />

a Kevin Costner. Robin Longstride è un arciere al seguito di<br />

Riccardo Cuor di Leone, che prima di tornare a casa a Londra<br />

dalla Terza Crociata, sta riconquistando alcuni castelli che gli<br />

erano stati sottratti dal Re di Francia. Robin, dopo una zuffa, sollecitato<br />

dal sovrano inglese gli comunica pubblicamente il proprio<br />

disagio per alcune gesta poco onorevoli cui era stato costretto<br />

l’esercito in Terrasanta. Messo alla gogna insieme a dei commilitoni,<br />

l’uomo di umile estrazione approfitta della morte di<br />

Riccardo per fuggire. Intercettata una pattuglia di spie francesi<br />

che hanno teso una trappola fatale al corteo che sta riportando la<br />

corona in Inghilterra, Robin è costretto a fingersi un nobile e a<br />

mantenere una promessa fatta ad un cavaliere in punto di morte.<br />

in quel momento che il soldato inizierà, suo malgrado, ad incamminarsi<br />

verso quel destino che lo porterà a diventare Robin Hood.<br />

Impreziosito dalla presenza di Cate Blanchett e da un cast di grandi<br />

talenti eterogenei, che vanno da William Hurt a Max Von<br />

Sydow, “Robin Hood” è un film gradevole ed intelligente, animato<br />

da quella cura dei dettaglio, quell’elegante gusto per il virtuosismo<br />

e il senso dello humour caratteristiche del cinema di<br />

Ridley Scott. Pienamente apprezzabile per la sua qualità e il suo<br />

stile, “Robin Hood” lascia un unico rammarico nella possibile<br />

aspettativa nei confronti di una trama di maggiore sostanza e<br />

introspezione, radicalmente differente da quanto visto e raccontato<br />

fino ad oggi.


16<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

THE LAST STATION di Michael Hoffman<br />

24-25 febbraio 2011<br />

Nato alle Hawaii nel 1956 e cresciuto nell’Idaho, Hoffman è stato cofondatore dell’Idaho Shakespeare Festival nel 1980. Studente<br />

di arte drammatica, scrive e dirige come saggio finale un film con Hugh Grant, Privileged. Amico di John Schlesinger, che collabora<br />

alla produzione delle sue opere, Hoffman realizza in seguito Restless Natives. Nel 1987 firma regia e sceneggiatura di “Terra<br />

promessa”; l’anno successivo dirige “Some Girls”. Autore eclettico, nel 1991 Hoffman è dietro la macchina da presa per la divertente<br />

satira sul mondo delle soap opera “Bolle di sapone”; nel 1995 dirige “Restoration – Il peccato e il castigo” e nel 1996 firma<br />

la commedia romantica “Un giorno, per caso”. Seguono nel 1999 “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il club degli imperatori”<br />

(2002). Nel 2009 è nuovamente regista e sceneggiatore del film “The Last Station”, basato sugli ultimi giorni di vita del grande<br />

scrittore Lev Tolstoj.<br />

Interpreti: Helen Mirren (Sofya Tolstoj), Christopher Plummer (Leo Tolstoj), James McAvoy (Valentin Bulgakov), Paul Giamatti<br />

(Vladimir Chertkov), Anne-Marie Duff (Sasha Tolstoj), Kerry Condon (Masha), Patrick Kennedy (Sergeyenko), John Sessions<br />

(Dushan), David Masterson (Reporter), Tomas Spencer (Andrej Tolstoj), Maximilian Gärtner (Kind), Nenad Lucic (Vanja)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Germania/Russia<br />

Soggetto: tratto dal romanzo ‘L’ultima stazione’ di Jay Parini (ed. Bompiani)<br />

Sceneggiatura: Michael Hoffman<br />

Fotografia: Sebastian Edschmid<br />

Musica: Serghei Yevtushenko<br />

Montaggio: Patricia Rommel<br />

Durata: 112’<br />

Produzione: Zephyr Films/Egoli Tossell Film/Samfilm Produktion/Andrei Konchalovsky Production Center<br />

Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia<br />

SOGGETTO: Unione Sovietica, 1910. Lev Tolstoj, scrittore celebrato, ha ormai deciso di rinunciare al titolo nobiliare e ai diritti sulle<br />

proprie opere. Intende così dare concretezza a quelle rinnovate idee politico-sociali, che lo hanno indotto a creare uno sorta di scuola<br />

aperta a giovani che lo adorano e lo seguono con venerazione. In questo modo però il contrasto con la contessa Sophie, da quasi cinquanta<br />

anni amata moglie, si fa sempre più aspro. Partito senza di lei per il sud del Paese, Tolstoj accusa un malore. Ricoverato in una<br />

stazioncina, muore, confortato dalla presenza di Sophie, che in un primo momento la figlia aveva tenuto fuori della porta.<br />

VALUTAZIONE: Tratta da un libro, la ricostruzione dell’ultimo anno di vita di Lev Tolstoj é affidata ad una scelta espressiva di tono<br />

memorialistico e illustrativo più che sinceramente approfondito. La regia di Michael Hoffman é più preoccupata della cornice che non<br />

del contenuto. Ne esce una illustrazione d’epoca sapiente, non confortata da una adeguata riflessione su argomenti, scelte politiche e<br />

filosofiche. Una bella messa in scena dunque, edulcorata e sentimentale.<br />

38


Il Giornale - Cinzia Romani<br />

Nel 1910 l’82enne Tolstoj (Christopher Plummer) abbandona<br />

moglie (Helen Mirren) e figli, mettendosi in viaggio su un<br />

vagone ferroviario di seconda classe: cerca la rivoluzione personale.<br />

Ma dopo mezzo secolo di matrimonio, sarà difficile<br />

che la frivola contessa Sofja, sposa devota e ignara dei moti<br />

sociali russi, possa seguire l’evoluzione del grande scrittore,<br />

smanioso di liberarsi anche del suo titolo nobiliare. L’intenso<br />

biopic in costume descrive bene gli ultimi anni di Tolstoj,<br />

rimanendo in equilibrio tra la difficoltà di vivere l’amore<br />

coniugale e l’impossibilità di vivere senza di esso.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce<br />

‘Tutto ciò che so l’ho imparato dall’amore’. Lo ha scritto Lev<br />

Tolstoj in ‘Guerra e pace’. Grafia bianca su schermo nero, lo<br />

ripete Michael Hoffman prima ancora che scorrano le immagini<br />

di “The Last Station”, preciso suggerimento allo spettatore<br />

di una chiave di lettura per il film.Sulle tracce di un libro<br />

di Jay Parini, Hoffman rievoca le ultime stagioni di vita del<br />

famoso romanziere russo nella sua tenuta di Jasnaja Poliana.<br />

Qui, ormai ottantenne, Tolstoj, tutto preso da una dottrina di<br />

austerità, solidarietà sociale, pacifismo ad oltranza, vive<br />

povero, mangia vegetariano, veste ‘come un guardiano di<br />

pecore’, con la moglie contessa Sofia - che ama anche dopo<br />

cinquant’anni di matrimonio - si fa celibe e scostante, sfoga<br />

pensieri in diari segreti, rimugina privazioni e rinunce, anche<br />

al proprio titolo nobiliare, anche a ciò che possiede.Sofia gli<br />

è sempre devota, ma sospetta che a raggirare il marito, indurlo<br />

alle rinunce, cercare di fargli firmare un nuovo testamento,<br />

sia il suo discepolo più fervido e rampante, Vladimir<br />

Chertkov, appena può con scaltro assillo in prima persona, in<br />

ogni caso attraverso il giovane e ingenuo Valentin Bulgakov<br />

che Chertkov ha mandato a Jasnaja Poljana con il compito di<br />

relazionargli ogni dettaglio e comportamento di Tolstoj. Per<br />

questo, Sofia odia e disprezza Chertkov e, irritata, appassionata,<br />

gelosa, sta addosso al marito, al punto che lui, assieme<br />

a Chertkov e Bulgakov e alla figlia Sasha, il 28 ottobre 1910<br />

decide di fuggire via. Febbricitante, Tolstoj è costretto a fermarsi<br />

alla stazioncina di Astopovo, dove muore il 7 novembre.<br />

Ma, al di là dell’episodica di calco storico, è l’amore la<br />

falsariga su cui si struttura il film. Non solo quello di Sofia,<br />

vanitosa ma appassionata, tra vezzi e chiassosità attaccata al<br />

benessere proprio ma anche a quello del marito, gelosamente<br />

curiosa tra le carte di lui, ferocemente nemica di Chertkov, la<br />

cui immagine a suo dispetto domina persino nella loro camera<br />

coniugale. C’è anche l’amore tracimante di Valentin, nella<br />

sua ingenuità sentimentalmente travolto dalla giovane Masha,<br />

discepola tolstoiana anticonformistica e sensuale. Sono due<br />

ben diversi percorsi d’amore, cui Hoffman di continuo ama<br />

guardare in parallelo, a montaggio alternato, complementari<br />

nella loro sfaccettata diversità. Per questo, più che un fedele<br />

biopic, è un melò dì distaccata compostezza “The Last<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

39<br />

Station”, cui giovano, però, una bene strutturata solidità di<br />

sceneggiatura, in apertura e in epilogo suggestive soluzioni<br />

visive d’antan, accorte scelte musicali, soprattutto una calzante<br />

resa recitativa dei personaggi: anche Christopher<br />

Plummer Tolstoj acciaccato ma vitalistico, Paul Giamatti<br />

egoistico e perfido Chertkov, James McAvoy Valentin con la<br />

sua aria fanciullesca e sprovveduta; soprattutto Helen Mirren,<br />

non a caso premiata migliore attrice alla Festa di Roma dello<br />

scorso anno, Sofia di straordinaria immedesimazione psicofisionomica.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni<br />

Leone Tolstoj, il grande scrittore di ‘Guerra e pace’, fuggì di<br />

casa a 82 anni, per evitare una crisi coniugale, nella notte del<br />

27-28 ottobre 1910; malato, si fermò alla stazione ferroviaria<br />

di Astàpovo, ospitato dal capostazione; lì morì al mattino del<br />

7 novembre. Da 48 anni era sposato con Sofia, il loro matrimonio<br />

era sempre stato tempestoso (lui aveva raccontato in<br />

‘Sonata a Kreutzer’ l’odio-amore di quel rapporto). L’ultima<br />

volta però la frattura era particolarmente grave: Tolstoj intendeva<br />

lasciare in testamento tutti i propri beni (terreni, case, la<br />

villa di Jasnaja Poljana dove era nato, cresciuto, invecchiato)<br />

e i propri diritti d’autore ‘al popolo’, ossia ai seguaci della sua<br />

filosofia, i tolstoiani; la moglie esigeva che quel patrimonio<br />

restasse alla famiglia.<br />

Sono adesso nelle librerie italiane almeno tre opere che raccontano<br />

la fine di Tolstoj, episodio affannoso e struggente<br />

nella vita del narratore. Una è ‘La fuga di Tolstoi’ di Alberto<br />

Cavallari ripubblicata da Skira, breve libro molto bello concentrato<br />

sul tema della fuga: la fuga dalla morte, la fuga come<br />

rivolta o come ricerca di libertà. Un’altra è ‘Tolstoj è morto’<br />

di Vladimir Pozner, edita da Adelphi, che ricostruisce i fatti<br />

sulla base d’un numero sterminato di documenti inediti e dei<br />

sei giorni d’agonia d’una morte in diretta con la polizia, la<br />

Chiesa ortodossa, giornalisti, fotografi, cineoperatori, familiari<br />

dello scrittore (anche la moglie, il cui arrivo venne taciuto<br />

al malato che non le fu consentito di vedere). Un’altra<br />

ancora è il romanzo di Jay Parini da cui è stato tratto “The<br />

Last Station”.<br />

Il film è centrato sul personaggio di Sofia Tolstoj, oltre che<br />

sull’episodio della fuga e morte di suo marito, così enigmatici<br />

che ancora nessuno è riuscito a comprenderne le motivazioni<br />

complesse (oppure troppo semplici). La moglie lotta ferocemente<br />

per quello che ritiene le appartenga, contro la comunità<br />

tolstoiana libertaria, povera, vegetariana, utopista e anarco-cristiana,<br />

contro le volontà del suo marito. È una nuova magnifica<br />

interpretazione di Helen Mirren, persino più straordinaria<br />

della lodata e premiata personificazione della regina Elisabetta<br />

II; anche Christopher Plummer è molto bravo nella parte di<br />

Tolstoj, mentre le scenografie perfette sono di Patrizia von<br />

Brandenstein. I pregi risultano questi e non includono il film<br />

di andamento e qualità davvero televisivi.


17<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

LA NOSTRA VITA di Daniele Luchetti<br />

3-4 marzo 2011<br />

Daniele Luchetti ( Roma , 1960) ha studiato Lettere e Storia dell’Arte, frequentando la scuola di cinema Gaumont, dove ha partecipato<br />

alla realizzazione del film collettivo Juke Box nel 1985 Molto amico di Nanni Moretti, è stato prima suo attore in Bianca (1983) e poi è<br />

diventato il suo aiuto regista in “La messa è finita” (1985), passando alla regia di spot pubblicitari (Suzuki, Fiat e Galbani) ed esordendo<br />

come sceneggiatore e regista in “Domani accadrà” (1988). La pellicola gli permette di vincere il David di Donatello come miglior<br />

regista esordiente. Seguiranno, “La settimana della sfinge” (1990), dove il regista strizza l’occhio al suo autore francese preferito<br />

(Truffaut) e “Arriva la bufera” (1993). Tornerà attore, sempre per Nanni Moretti, in “Palombella rossa” (1989), mentre due anni più<br />

tardi firmerà il suo più grande successo: “Il portaborse”. La pellicola viene accolta bene in Italia (dove Luchetti vince il David per la<br />

migliore sceneggiatura) e viene addirittura osannata in Francia.Sarà poi la volta del buon risultato de “La scuola” (1995) e, dopo una<br />

piccola parentesi come attore in “Il cielo è sempre più blu” (1995) di Antonio Luigi Grimaldi, eccolo dirigere Stefano Accorsi ne “I piccoli<br />

maestri” (1998). Collaborerà con altri autori nel film collettivo “Un altro mondo è possibile” (2001), seguito dalla commedia leggera<br />

e dalla sceneggiatura brillantissima “Dillo con parole mie” (2003). Segue “Mio fratello è figlio unico” (2007) con Elio Germano<br />

e Riccardo Scamarcio. Non è da dimenticare “12 pomeriggi” (1999), memorabile cortometraggio sull’arte accompagnato da delle splendide<br />

musiche. Nel 2008 fa parte del progetto All Human Rights for All con il corto “Articolo 15 – La lettera”, realizzato in occasione del<br />

60° anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani. Torna dietro la macchina da presa nel 2010 con “La nostra vita”, unico italiano<br />

in concorso a Cannes.<br />

Interpreti: Elio Germano (Claudio), Raoul Bova (Piero), Isabella Ragonese (Elena), Luca Zingaretti (Ari), Stefania Montorsi (Liliana),<br />

Giorgio Colangeli (Porcari), Alina Madalina Berzunteanu (Gabriela), Marius Ignat (Andrei), Awa Ly (Celeste), Emiliano Campagnola<br />

(Vittorio)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Daniele Luchetti<br />

Sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Daniele Luchetti<br />

Fotografia: Claudio Collepiccolo<br />

Musica: Franco Piersanti<br />

Montaggio: Mirco Garrone<br />

Durata: 100’<br />

Produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz per Cattleya/Babe Films/in collaborazione con Rai Cinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Claudio, operaio edile sui trenta anni, affronta un evento impossibile da immaginare: l’amata moglie Elena muore di<br />

parto nel dare alla luce il terzo figlio. Di fronte ad un lutto impossibile da elaborare, con un neonato e altri due ragazzini da accudire,<br />

Claudio reagisce con la decisione di dedicarsi ad avere il meglio, per se e per la propria famiglia. Ci vogliono molti soldi, e per questo<br />

si caccia in affari edilizi che ben presto si rivelano troppo rischiosi per lui. Seguono debiti, ricatti, illegalità. Quando, toccato il fondo,<br />

riesce a risalire, Claudio capisce che nel momento del bisogno gli unici a stargli vicino sono stati il fratello e la sorella, e che ora la<br />

vicinanza dei figli piccoli é la cosa più importante per poter affrontare il futuro.<br />

VALUTAZIONE: Siamo nella Roma contemporanea, meglio nella periferia, che Luchetti disegna come un luogo a parte, lontano dalla<br />

città tradizionale. Per Claudio, Elena rappresentava l’unico punto valoriale possibile. Dopo la caduta nella trappola dell’ “avere”, l’uomo<br />

si risolleva e si lascia andare nel finale al recupero della famiglia come orizzonte di equilibrio. Va detto che il regista privilegia più<br />

il taglio antropologico che quello etico. Nel protagonista infatti, dice di aver rappresentato: “Un italiano come tanti, che fa cose disoneste,<br />

imbroglia e sfrutta gli altri”. E Germano: “Uno spacciatore truce, ma solo nell’aspetto, di un’Italia non immorale ma amorale”.<br />

40


Il Mattino - Valerio Caprara<br />

Elio Germano, diventato celebre presso le persone che del cinema<br />

di solito se ne sbattono, ha dichiarato a Cannes di dedicare il premio<br />

di migliore attore ex aequo agli italiani che sono molto migliori<br />

della loro classe dirigente (ma quale, quella di sempre o quella<br />

degli ultimi 5, 10, 15 anni? E solo di quella nazionale o anche di<br />

quella regionale o municipale, metti della Campania come della<br />

Puglia, del Piemonte come della Toscana?). Intanto in “La nostra<br />

vita” interpreta con partecipata veemenza il ruolo di un italiano<br />

non proprio esemplare, portatore di comportamenti equivoci e<br />

pronto a tuffarsi in un mondo di compromessi e d’illegalità; un<br />

protagonista sin troppo carico sul piano simbolico, visto che deve<br />

incarnare l’inestricabile mix d’ingenuità e determinazione, onestà<br />

e furfanteria che caratterizzerebbe il ceto ex proletario in bilico tra<br />

lavoro nero e imprenditoria fai-da-te. Si può dire subito che il film<br />

di Daniele Luchetti non passa inosservato, ha una bella grinta e,<br />

soprattutto nella prima parte, dispone bene i suoi personaggi sullo<br />

sfondo di una Roma nient’affatto glamour ma neanche miserabile,<br />

un’enorme distesa di dignitosi conglomerati dove la nuova periferia<br />

senza identità cerca di mascherarsi da appagato quartiere residenziale.<br />

Claudio (Germano), marito e padre felice, è il perno<br />

dello spaccato drammaturgico perché proprio a lui capita la disgrazia<br />

che fa crollare il castello di carte sociale scatenandolo in<br />

un’ansia di riscatto basata sui soldi e i beni da mettere a tutti i costi<br />

disposizione dei figlioletti. Più che di neo-neorealismo, si tratta di<br />

un taglio teso, sincopato, attento, incollato ai volti e ai gesti come<br />

per catturarne il senso profondo, per cogliere nella loro apparente<br />

casualità il leitmotiv di paura e solitudine urbane, un po’ sulla linea<br />

del cinema indipendente newyorkese a cavallo del 1970 che ha il<br />

suo nume tutelare in John Cassavetes. A poco a poco, però, il film<br />

inizia a spegnersi, a ripetersi, a ritrovarsi addosso l’ingombro di<br />

una sgradevolezza che doveva restare a carico di Claudio, della<br />

sorella in cassa integrazione (Montorsi), del fratello scapolo<br />

(Raoul Bova) e dell’inquietante vicino di casa Ari (Zingaretti). La<br />

sceneggiatura del duo storico Rulli-Petraglia esagera nel suggerire<br />

una serie di sottolineature inutili, pedanti e a tratti persino grottesche<br />

(il ragazzo rumeno che fa la lezioncina all’italiano cinico) che<br />

non servono a causa della loro sbrigatività didascalica: in Italia<br />

impera il consumismo, il culto dell’apparenza dilaga, la classe<br />

operaia non è più quella di un tempo e, anziché leggere i giornali<br />

o impegnarsi in politica, preferisce i raid di fine settimana nei centri<br />

commerciali. Il finale consolatorio rischia di lasciare tutti gli<br />

spettatori scontenti: i furiosi perché non picchia duro come<br />

“Draquila”, i normali perché la troppa carne a cuocere sembra<br />

ancora cruda e anche un po’ bruciacchiata.<br />

Vita Pastorale - Francesco Bolzoni<br />

Diretto da un altro regista ‘in crescita’, Daniele Luchetti, “La<br />

nostra vita” descrive un credibile mondo operaio: un uomo è<br />

morto nel cantiere di un piccolo imprenditore cadendo nel vuoto<br />

di un ascensore. Una disgrazia che può rovinare una vita, in apparenza<br />

felice, con due figli simpatici, la moglie incinta, i parenti<br />

affettuosi. E, ad avvicinare Claudio (il bravo Elio Germano) al<br />

grado zero, ci si mette la morte per parto della donna. Il neoimprenditore<br />

vi reagisce in modo insolito: al funerale canta una canzone<br />

che condivideva con la compagna. Una soluzione surreale<br />

che, assieme ad altre annotazioni dello stesso timbro stilistico,<br />

sfida il tono narrativo impresso a una molto attendibile cronaca dei<br />

nostri giorni. Un colpo d’ala. Parecchio commovente, bene incor-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

41<br />

porata in una storia di sapore realistico scritta da Luchetti con la<br />

collaborazione di Petraglia e Rulli, benissimo interpretata da attori<br />

adatti alla loro parte. Insomma l’attento studio di un contesto<br />

operaio che il cinema italiano si meritava con ‘clandestini’ anche<br />

arrabbiati, intrighi per mettere insieme i soldi che paiono la misura<br />

di tutte le cose come suggerisce la ragazza extracomunitaria che<br />

poi consolerà il fratello del protagonista, il bello e credibile ritratto<br />

di un ‘eroe del nostro tempo’ (non un cinico alla Sordi ma un<br />

uomo provato), un gran rispetto della forza della famiglia e della<br />

necessità dell’amicizia, i debiti ai parenti alla fine pagati e, a risarcimento,<br />

la piena riconciliazione del protagonista con i figli.<br />

Claudio dunque che non rifiuta sé stesso, è pronto a riprendersi la<br />

vita che pareva essergli sfuggita. Non rinuncia, come tanti, alla<br />

fiducia nel futuro.<br />

Il Tempo - Gian Luigi Rondi<br />

Ancora famiglie per Daniele Luchetti. Secondo una voga, del<br />

resto, ormai abbastanza diffusa nel cinema italiano. Questa volta,<br />

però, a differenza di “Mio fratello è figlio unico” che si riferiva al<br />

passato, o comunque agli anni roventi del dopo ‘68, con uno<br />

sguardo decisamente rivolto al presente, anzi all’attualità di questi<br />

nostri anni così contraddittori e turbati. Eppure si comincia con<br />

un idillio; Claudio ed Elena, giovani sposi con due figli piccoli,<br />

che si amano teneramente. Con un solo problema, la scarsità di<br />

denaro perché lui lavora in un’impresa edile dove, nonostante un<br />

gestore corrotto, non cede un solo momento alle lusinghe di comportamenti<br />

disonesti e redditizi. Ma ecco che tutto si rovescia. La<br />

moglie muore di parto lasciandogli tra le braccia un terzo bambino<br />

e Claudio, per rifarsi e vincere il suo lutto, decide di far molti<br />

soldi ricorrendo addirittura a un ricatto per costringere il gestore<br />

dell’impresa a concedergli in subappalto certi lavori nel cantiere.<br />

Contrae molti, debiti, sfrutta cinicamente con compensi in nero<br />

degli indifesi operai quasi tutti extracomunitari, ma, pur agli inizi<br />

vincendo, tira troppo la corda e rischierebbe il tracollo se non<br />

intervenissero parenti ed amici a metterlo in condizione di riprendersi.<br />

Sempre, però, passando sopra a qualsiasi principio di onestà.<br />

Lo lasciamo così, senza che intenzionalmente ci si dica se,<br />

mentre torna a godersi l’affetto dei figli, una presa di coscienza<br />

possa metterlo in futuro su strade più giuste. Luchetti il testo se<br />

l’è scritto con Rulli e Petraglia e, pur dando spazi, con tutta l’attenzione<br />

possibile, a quel radicale mutamento di intenzioni e di<br />

gesti del protagonista, gli ha costruito attorno, con accenti colorati<br />

e felici, una galleria di personaggi solo in apparenza secondari,<br />

ma capace ciascuno di dare il suo contributo al procedere dell’azione.<br />

Con pagine in cui poi la regia, quasi sempre guidata dalla<br />

macchina a mano, ha mostrato di saper alternare i ritmi più affannati<br />

e spesso anche angoscianti a pause di intensa emozione.<br />

Come la scena muta e distante in cui Claudio apprende la morte<br />

della moglie o quella, concisa ma intensa, che lo induce a svelare<br />

a un giovane sempre pronto a fidarsi di lui il suo colpevole silenzio<br />

su un incidente nel cantiere che aveva provocato la morte di<br />

suo padre. Qualche scompenso narrativo e una certa insistenza in<br />

situazioni solo marginali sono comunque riscattati da una interpretazione<br />

sempre salda e felice a cominciare da quella di Elio<br />

Germano, un protagonista di una gestualità e di una mimica<br />

mobilissime e prodighe di espressioni anche forti. Fra gli altri,<br />

Isabella Ragonese, la moglie, Raoul Bova, un fratello, Giorgio<br />

Colangeli, il gestore, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi. Tuffi<br />

guidati con meditata sapienza.


18<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

IL SEGRETO DEI SUOI OCCHI<br />

di Juan José Campanella<br />

10-11 marzo 2011<br />

(1959 Buenos Aires - Argentina). Regista televisivo (Dr. House, la più popolare serie del mondo, e Law & Order, un cult del poliziesco<br />

contemporaneo), italiano da parte di padre. Nel 2001 il suo “Il figlio della sposa” è stato candidato all’Oscar; quest’anno “Il<br />

segreto dei suoi occhi” lo ha vinto. Miglior film straniero. E secondo incasso di sempre del cinema argentino. Così in una intervitsa:<br />

«Sono cresciuto con il mito del cinema americano anni Settanta, le storie di denuncia, profonde, rotonde. Ho capito che volevo fare<br />

il regista dopo aver visto “Quel pomeriggio di un giorno da cani”. Ho studiato regia e mi sono trasferito a Los Angeles. Ma quel cinema,<br />

per Hollywood, è storia. Non interessa più nessuno. I miei progetti di film sono rimasti tutti stipati in cantina. E allora, quando<br />

ho capito che avrei potuto spendere la mia esperienza televisiva e il mio nome, ho deciso di tornare a casa per fare film veri».<br />

Interpreti: Ricardo Darín (Benjamín Espósito), Soledad Villamil (Irene Menéndez Hastings), Pablo Rago (Ricardo Morales), Javier<br />

Godino (Isidoro Gómez), Guillermo Francella (Pablo Sandoval), José Luis Gioia (Ispettor Báez), Carla Quevedo (Liliana Coloto),<br />

Rudy Romano (Ordóñez), Mario Alarcón (Juez Fortuna Lacalle), Alejandro Abelenda (Mariano), Sebastián Blanco (Tino), Mariano<br />

Argento (Romano)<br />

Genere: Thriller<br />

Origine: Argentina<br />

Soggetto: Eduardo Sacheri<br />

Sceneggiatura: Eduardo Sacheri<br />

Fotografia: Félix Monti<br />

Musica: Juan Federico Jusid<br />

Montaggio: Juan José Campanella<br />

Durata: 129’<br />

Produzione: Juan José Campanella, Gerardo Herrero, Mariela Besuievsky per Tornasol Films, Haddock Films, 100 Bares, Telefe, Tve,<br />

Canal+<br />

Distribuzione: Lucky Red<br />

SOGGETTO: Un tempo impiegato al palazzo di giustizia di Buenos Aires, Benjamin, oggi pensionato, si sente preso dalla voglia di<br />

scrivere e, a tal fine, recupera uana vicenda relativa ad un caso di omicidio accaduto venticinque anni prima. L’aveva vissuto in prima<br />

persona e, accanto a lui, c’erano la sua superiore Irene e il suo collega/amico Sandoval. Le indagini sull’assassinio di una bellissima<br />

giovane da poco sposata erano state dichiarate chiuse dopo l’arresto di un uomo, poi liberato: una soluzione non del tutto convincente.<br />

In flashback, Benjamin ricostruisce i fatti, e incontra di nuovo Irene, di cui da sempre é innamorato senza aver mai trovato il coraggio<br />

di rivelarsi. La scoperta di nuovi elementi da ragione a Benjamin…<br />

VALUTAZIONE: Alla base c’è un romanzo di Eduardo Sacheri, che ha anche partecipato alla sceneggiatura. Dice Campanella: “Non<br />

lo considero un film ‘noir’. Il piatto forte é un amore non dichiarato durato anni, la frustrazione e il vuoto percepito dai personaggi<br />

principali. Il genere ‘noir’ é solo il vassoio sul quale la pietanza principale veniva servita. La memoria mi affascina...”. Il menù che ne<br />

viene fuori é, va detto, intrigante ed emozionante. Con grande misura il regista tiene alto il tono di una vicenda che ha appunto la cornice<br />

del thriller, ma si insinua con decisione nei territori del romanticismo, offre spazio ad una pungente ironia e con pochi, azzeccati<br />

cenni parla del doloroso periodo dell’arrivo dei generali al potere in Argentina. Non trascurando una inedita passione per il calcio che<br />

aiuta a scoprire il colpevole. Un film tanto facile nella lettura quanto denso nei contenuti, premiato con l’Oscar 2010 per il miglior prodotto<br />

in lingua non inglese.<br />

42


Il Manifesto - Silvana Silvestri<br />

In un film di Campanella ci saranno sempre particolari che a una<br />

prima visione sfuggiranno, altri momenti che ci piacerà vedere più<br />

di una volta: hanno un fascino popolare i suoi film perché (come<br />

ci racconta il regista premio Oscar nell’intervista su Alias di sabato<br />

prossimo), si ispira al cinema italiano e al cinema americano<br />

degli anni ‘70. Forse è proprio questo elemento che lo rende diverso<br />

dagli altri registi della sua generazione, quelli del nuovo cinema<br />

argentino - Burman, Trapero, Martel per citare quelli che utilizzano<br />

come lui, un tipo di produzione industriale. Come nel cinema<br />

italiano dei tempi di Gassman e Manfredi, anche a lui piace<br />

lavorare con i grandi attori. In particolare ne ha scelto uno, Ricardo<br />

Darín, come protagonista ideale di tutti i suoi film (‘El hijo de la<br />

novia’, ‘La luna de Avellaneda’), uomo dal presente affaticato, talvolta<br />

disperato, che mette in moto un meccanismo di risalita per<br />

non affondare grazie alle sue doti di umanità e alla luce che balena<br />

nei suoi occhi. Anche se il titolo di questo film non allude precisamente<br />

a Darín, questo attore possiede un carisma in cui il pubblico<br />

argentino si identifica, così come poteva farlo in Hector<br />

Alterio. Il pubblico può trovare in lui parecchi motivi di identificazione.<br />

Si entra nella carne viva della società con temi come la<br />

corruzione, il sentimento di vendetta e del potere, storia d’amore a<br />

parte. “El secreto de sus ojos” è ambientato per lo più in tribunale,<br />

che in qualche modo scandisce i tempi burocratici dell’azione.<br />

Fin dal 1974 Benjamín Espósito, funzionario del ministero della<br />

giustizia segue un caso di omicidio rimasto insoluto. Ha perfino<br />

scritto un romanzo, visto che, andato in pensione, il suo legame<br />

con il caso non è solo di carattere professionale, ma anche sentimentale,<br />

intrecciato a una storia d’amore rimasta in sospeso, nei<br />

confronti dell’irraggiungibile Irene, magistrato a capo dell’ufficio,<br />

donna di illustre famiglia come si intuisce dal cognome<br />

(Menéndez Hastings), che ha studiato negli Stati uniti e sposerà un<br />

uomo alla sua altezza (mentre lui è discendente da semplici immigrati<br />

italiani). I binari del romanzo, della vicenda dell’inchiesta,<br />

della storia d’amore, del trentennio trascorso, si incrociano su vari<br />

piani di lettura, pure se l’indagine sembra prendere il sopravvento.<br />

Se questo abbia a che fare con l’elaborazione della memoria che<br />

ha coinvolto tutto il continente latinoamericano e l’Argentina in<br />

modo eclatante per i processi ai responsabili di genocidio a noi<br />

sembra evidente, ma per il regista è un tema da cui non è partito<br />

intenzionalmente nello scrivere la sceneggiatura tratta dal libro di<br />

Eduardo Sacheri, suo abituale cosceneggiatore. Né si potrà svelare<br />

qui la trama, ma certo ha a che fare con tutto il complesso meccanismo<br />

di cancellazione del passato avvenuto nel paese e con la<br />

vigile persecuzione dei responsabili e non di un solo omicidio. Ha<br />

a che fare con il rigore morale di un paese che attraverso il suo protagonista<br />

sentiamo non aver perso dignità ed ha cercato di rialzarsi<br />

dopo la dittatura e dopo il crollo dell’economia. Per continuare<br />

a vivere infatti è più facile evitare di pensare al passato. Ci sembra<br />

un valore in più del film che procede ora romantico, ora in piena<br />

suspence, sempre con interpreti in grado di riempire lo schermo<br />

con la loro presenza. Oltre a Ricardo Darín, Soledad Villamil<br />

(Irene), interprete di “Un oso rojo” di Adrian Caetano e di “El<br />

sueño de los heroes” di Sergio Renan, principe della malinconia,<br />

regista sentito distante dalla nuova generazione, con l’eccezione di<br />

Campanella, di cui ritroviamo qui qualche atmosfera e perfino di<br />

“Un muro de silencio”, film militante di Lita Stantic, regista e produttrice.<br />

E Javier Godino e Guillermo Francella, l’amico fedele<br />

che nei film di Campanella non manca mai.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Una volta il peggior nemico della memoria era il tempo. Oggi è la<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

43<br />

valanga di informazioni che a volte confonde e rimescola tutto in<br />

un eterno presente. Su questo terreno il cinema ha ancora molte<br />

carte da giocare, specie in paesi che con la memoria hanno un<br />

conto aperto come l’Argentina. “Il segreto dei suoi occhi”, Oscar<br />

come miglior film straniero in barba a due capolavori come “Il<br />

nastro bianco” e “Un prophète”, è un perfetto esempio di questo<br />

lavoro che usa con abilità i generi (poliziesco, mélo) per scavare<br />

nella memoria.Protagonista è il maturo Esposito (un magnifico<br />

Ricardo Darìn), funzionario in pensione del tribunale di Buenos<br />

Aires che vuole scrivere un romanzo su un delitto di 25 anni prima<br />

da cui è ancora ossessionato (occhio alle date: il delitto è della primavera<br />

1974, l’azione dunque si divide fra quel periodo e il 1999).<br />

Cosa c’era dietro lo stupro e l’omicidio di una giovane bellissima<br />

e senza storia? Perché né Esposito né l’affascinante magistrato per<br />

cui lavorava e che amava in silenzio, l’altera Irene (la toccante<br />

Soledad Villamil), riuscirono a sbattere in galera il colpevole? E<br />

dove sarà il marito della vittima, che continuò a cercare da solo<br />

l’assassino? Trattandosi di anni 70 e Argentina, scatta l’associazione<br />

più ovvia: giunta militare, desaparecidos, voli della morte.<br />

Sbagliato! Perché Peron muore nel luglio ‘74, il golpe è del<br />

marzo’76, dunque la parte principale del film si svolge nel periodo<br />

d’incubazione della dittatura. Un periodo semicancellato dalla<br />

valanga di orrori successiva, tanto che oggi gli stessi argentini,<br />

specie i più giovani, ne hanno scarsa cognizione. Campanella<br />

rievoca quegli anni oscuri proiettando l’inchiesta di Esposito, del<br />

suo aiutante ubriacone e della loro bella capoufficio, contro lo<br />

sfondo agghiacciante di un paese che stava sprofondando nell’orrore<br />

ma non osava dirselo. Sono gli anni in cui il Potere reclutava<br />

malviventi comuni e la famigerata AAA (Alleanza Anticomunista<br />

Argentina) rapiva e trucidava impunemente ‘sovversivi’. Si dice<br />

persino che Peron sia morto per mano di uno di questi delinquenti,<br />

guardia del corpo e amante di sua moglie Isabelita (a questo<br />

allude una scena del film, da non svelare). Campanella è bravissimo<br />

a evocare tutto questo giocando sulle atmosfere, gli uffici divorati<br />

dalle scartoffie, il collega improvvisamente e apertamente<br />

minaccioso, le scene madri centellinate con maestria (c’è perfino<br />

un imprevedibile momento ‘hard’). Qualcuno non gli perdonerà<br />

l’epilogo a sorpresa o l’addio alla “Dottor Zivago”. Ma basterebbe<br />

la scena dell’ascensore a riconciliarci con un cinema insieme<br />

tradizionale e potente. Dopo tanti ‘cattivi’da 007, avevamo dimenticato<br />

cos’è la paura al cinema. Campanella ce lo ricorda con<br />

schietta brutalità. È una lezione anche questa.<br />

Panorama - Piera Detassis<br />

L’ombra del passato, il disagio del tempo perduto, il peso inevaso<br />

della colpa. Come in un classico noir, tutto questo è raccontato<br />

benissimo nel film argentino di Juan José Campanella, che a sorpresa<br />

ha strappato l’oscar al favorito “Il nastro bianco” di Michael<br />

Haneke. Benjamin (Ricardo Darin), ex investigatore della squadra<br />

criminale, e il giudice Irene (Soledad Villamil) si rincontrano 25<br />

anni dopo avere indagato insieme, nel 1974, su un brutale caso di<br />

omicidio e violenza carnale a Buenos Aires. L’uomo non è mai<br />

stato convinto della colpevolezza dei due arrestati, l’indagine ricomincia<br />

e il feeling taciuto ma palpabile tra i due bravissimi protagonisti<br />

riemerge in misteriosi, intensi sguardi. Si intuisce che la<br />

dittatura militare dell’epoca non è estranea al crimine, ma nel mirino<br />

del regista c’è soprattutto il magma complesso dei sentimenti e<br />

il film ondeggia fra passato e presente con eleganza fluida e<br />

ombrosa. Una regia da 10 e lode che si esprime a pieno nel labirintico<br />

inseguimento dentro lo stadio affollato, specchio feroce del<br />

tumulto del tempo che non fa sconti e girato con virtuosismo<br />

all’ultimo respiro.


19<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

AFFETTI & DISPETTI - La nana<br />

di Sebastián Silva<br />

17-18 marzo 2011<br />

Nato a Santiago del Cile nel 1979, dopo aver frequentato una prestigiosa scuola cattolica, Silva studia per un anno alla Scuola del<br />

Cinema del Cile. Di conseguenza, dopo aver lasciato la scuola di cinema, va a Montreal a studiare animazione, finendo però a lavorare<br />

in un negozio di scarpe. Nel frattempo, durante un suo spettacolo di illustrazione, un amico lo convince a cercare Spielberg in persona<br />

per presentargli un progetto. Così decide di andare a Hollywood, ma la missione si rivela un autentico fallimento. Inizia così due<br />

ulteriori progetti musicali, Yaia e Los Mono che in un secondo momento sarebbero stati acquistati per la distribuzione dalla Sonic360<br />

e pubblicati in America e Inghilterra. A New York scrive la sceneggiatura del suo primo film “La Vida me Mata”. Al suo ritorno in Cile,<br />

registra il suo album e produce il film “La Vida me Mata”. Scrive, inoltre, una sceneggiatura sul suo viaggio a Hollywood e successivamente<br />

“Affetti e dispetti”, che viene prodotto quasi immediatamente al termine della scrittura, nel febbraio del 2008.<br />

Interpreti: Catalina Saavedra (Raquel), Claudia Celedón (Pilar), Mariana Loyola (Lucy), Alejandro Goic (Mundo), Anita Reeves<br />

(Sonia), Delfina Guzmán (Nonna), Andrea García-Huidobro (Camila), Mercedes Villanueva (Mercedes), Agustín Silva (Lucas), Darok<br />

Orellana (Tomás), Sebastián La Rivera (Gabriel), Luis Dubó (Eric)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Cile<br />

Soggetto: Sebastián Silva<br />

Sceneggiatura: Sebastián Silva, Pedro Peirano<br />

Fotografia: Sergio Armstrong<br />

Musica: Pedro Soubercaseaux<br />

Montaggio: Danielle Fillios<br />

Durata: 94’<br />

Produzione: Gregorio González<br />

Distribuzione: Bolero Film<br />

SOGGETTO: Santiago del Cile, oggi, una tranquilla famiglia borghese, padre, madre, quattro figli di varia età. Da oltre venti anni<br />

Raquel è la fidata cameriera di casa. Quando comincia ad accusare forti attacchi di emicrania, la signora decide di cercare un’altra<br />

donna per aiutarla. Raquel è contraria e riesce a far scappare le prime che si presentano. Più paziente e disponibile, Lucy riesce invece<br />

a reagire con ironia ai comportamenti ostili di Raquel. Così le due diventano amiche, e Lucy la invita per il Natale a casa della sua<br />

famiglia. Al ritorno, Lucy comunica l’intenzione di lasciare la casa per tornare a vivere con i parenti.<br />

VALUTAZIONE: Si tratta di uno spaccato in interni, con un andamento calmo, disturbato da alcuni avvenimenti che però non portano<br />

mai a conseguenze forti o traumatiche. Il dramma c’è ma non emerge. Il fatto è che il copione, ben messo in scena da una regia<br />

sciolta e scorrevole, é sempre sul punto di accostare qualche passaggio importante ma all’ultimo curiosamente se ne ritrae, come se non<br />

volesse confrontarsi con temi importanti. Il chiuso della bella casa con piscina, e l’assenza totale di riferimenti esterni a lungo andare<br />

diventano un limite per una vicenda sincera ma limitata e quasi impalpabile. L’autore sceglie un tono da dramma intimista e vi resta<br />

coerente fino alla fine. L’approccio alla realtà borghese cilena resta comunque interessante, il ventaglio di sentimenti, per quanto appena<br />

abbozzato, é vivo e condotto con attenzione.<br />

44


Il Manifesto - Mariuccia Ciotta<br />

La nana del sottotitolo non è una donna bassa, ma una “tata”, una<br />

domestica babysitter, ed è anche il titolo originale del film cileno,<br />

che in italiano diventa “Affetti&Dispetti”. Un percorso a<br />

ostacoli per arrivare a un’operetta originale, proveniente dal<br />

Sundance, dove ha vinto come miglior film straniero, e poi di<br />

passaggio in concorso al festival di Torino, che ha premiato l’attrice<br />

protagonista, Catalina Saavedra, Raquel, la tata. Una quarantenne<br />

arcigna, infaticabile e restia a farsi coinvolgere dalla<br />

famiglia dove lavora da più di vent’anni. Tanto grandi e piccini<br />

la adulano, la circondano di attenzioni, la chiamano a tavola, la<br />

festeggiano con una torta di compleanno, tanto lei è sfuggente e<br />

sospettosa. In fondo, direbbe Mike Bongiorno, è solo una<br />

‘serva’, altro che ‘collaboratrice domestica’ e tutto questo miele<br />

le suona fasullo. Tanto più che deve star dietro a una nidiata di<br />

bambini e adolescenti, e non tutti le garbano. Il film accumula<br />

tensione, la tata fa sparire qualche oggetto, distrugge un modellino<br />

di nave, hobby del ‘padrone’, si rifugia nella sua stanza off<br />

limits, perseguita la ragazzina più grande. E poi i movimenti furtivi<br />

nella grande villa, la solitudine della donna, le telefonate alla<br />

madre lontana, che non vede mai... Il messicano Arturo Ripstein<br />

farebbe scorrere il sangue in questa storia di vita borghese osservata<br />

dal punto di vista sghembo della cameriera Raquel. Ma il<br />

trentenne cileno Sebastian Silva, al secondo lungometraggio<br />

(“La vida me mata”, 2007, l’esordio) sceglie la commedia sentimentale,<br />

la compassione per il suo personaggio avvolto nell’ipocrisia,<br />

diseguale in un mondo che finge di ignorare le barriere<br />

sociali. Tutti amano Raquel, ma lei sembra pronta a eliminarne<br />

qualcuno, cova qualche segreto, moltiplica feroci dispetti, e chiude<br />

fuori di casa a ripetizione le nuove cameriere, assunte per<br />

darle aiuto. Insomma, una potenziale devota assassina che fa lievitare<br />

la suspense in un gioco a rimpiattino tra le mura domestiche,<br />

tanto che ci si aspetta una imminente vendetta metaforica a<br />

danni dell’opulenta borghesia cilena. Il detour narrativo si chiama<br />

Lucia, l’ennesima cameriera chiamata per affiancare l’esaurita<br />

Rachel, sempre più affetta da atroci mal di testa, e ridotta al<br />

collasso per stress domestico. Lucia è radiosa, amabile e soprattutto<br />

condivide con la tata lo stesso status. La fa sentire amata<br />

non più per convenienza, la strappa alla sua ossessione maniacale<br />

per il lavoro. Quella casa non è il suo regno ma la sua prigione.<br />

Nominato ai Golden Globe, il film, essenziale, minimalista<br />

nello scavare variazioni psicologiche della quarantenne senza<br />

fascino, devia e volge verso un finale confortante, l’amore scalderà<br />

il cuore duro della Nana.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Una volta si chiamava “la serva”. Poi la parola diventò troppo<br />

cruda e si passò a governante, cameriera, domestica, donna di servizio,<br />

fino al burocratico colf (anche se ormai a Roma tutti dicono<br />

con larvato razzismo ‘la filippina’). Ma il termine migliore per<br />

indicare la protagonista di questo impeccabile “La nana” (che in<br />

Cile sta per “tata”) è proprio domestica: formale, rispettoso, corretto,<br />

eppure distante.Una specie di membro esterno della famiglia<br />

che per farne parte svolge i lavori più umili. Una figura<br />

domestica, appunto, cioè appartenente alla casa, che baratta<br />

tempo e forza lavoro con una parvenza di calore famigliare. Fino<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

45<br />

a scambiare, come la Raquel di “Affetti & Dispetti” (il titolo italiano<br />

più brutto e traditore dell’anno, ma anche il manifesto non<br />

scherza), la familiarità concessa dai suoi padroni con una famiglia<br />

vera. È una dinamica ambigua che in Italia conosciamo bene perché<br />

tipica dei paesi cattolici. Finché funziona fa da ammortizzatore<br />

sociale. Se degenera produce, oltre che ingiustizia, nevrosi e<br />

infelicità a catena (come dire, dalla lotta di classe al conflitto interiore).<br />

Premiato in mezzo mondo, dal Sundance a Torino, il bel<br />

film del cileno Sebastian Silva scava in una di questa nevrosi con<br />

finezza e ironia sorrette da una qualità invidiabile di scrittura e<br />

interpretazione, ovvero da personaggi così ben disegnati che ci<br />

sembra di conoscerli da sempre e insieme di non averli mai visti<br />

(e capiti) meglio. A servizio da più di vent’anni dai benestanti<br />

Valdés, l’ombrosa Raquel è meno di una parente e più di una<br />

governante, ma soprattutto è una persona sola e spaventata.<br />

Dunque disposta a tutto per mantenere il potere. Potere sui ragazzi,<br />

che sente un po’ suoi (tranne la detestata primogenita, troppo<br />

grande e forse troppo carina). Potere sugli orari, le consuetudini,<br />

le mansioni. Potere su quella bella villa con piscina, di cui conosce<br />

ogni minimo anfratto (dettaglio decisivo: è la casa in cui è cresciuto<br />

il regista, che dedica il film a due sue “nane”). A farne le<br />

spese sono soprattutto le aiutanti che la padrona di casa si ostina<br />

ad assumere per darle una mano. Senza immaginare che è lei,<br />

Raquel, a far loro la guerra. Salvo poi crollare svenuta per lo<br />

stress e la fatica. Fino a quando una di queste aiutanti più fantasiosa<br />

(e risoluta) delle altre, adotta una strategia nuova. Come un<br />

esperto di judo, non reagisce alle provocazioni di Raquel ma le<br />

schiva, facendo in modo che sia lei a sbatterci contro. Come uno<br />

psicoterapeuta, intuisce il suo disagio e anziché combatterla la<br />

accoglie, le offre comprensione, calore e un modello di vita alternativo.<br />

Impossibile dire di più senza rovinare il piacere della<br />

visione, ma “La nana” ha almeno un’altra qualità rara, specie<br />

oggi. Un ottimismo che non suona mai ingenuo o semplificatorio,<br />

ma è un esercizio di intelligenza e amore per i personaggi che<br />

scalda il cuore.<br />

La Stampa - Alessandra Levantesi<br />

Ha tenuto in ordine, pulito, strofinato la villa che é grande, ha<br />

visto nascere i bambini che sono quattro, li ha accuditi, vestiti,<br />

nutriti: da ventitré anni a servizio presso la stessa famiglia, ora<br />

Rachele ne compie quarantuno e una famiglia sua non ce l’ha.<br />

Quei borghesi agiati e civili ai quali ha dedicato le sue cure, e che<br />

la ricambiano con affetto, restano in definitiva degli estranei. Del<br />

dramma di solitudine e di identità che la macera dentro, la donna<br />

non è consapevole: però ha frequenti mal di testa, capogiri, si<br />

dimostra patologicamente ostile verso la primogenita che sta<br />

sbocciando alla vita; e fa guerra senza esclusione di colpi alle<br />

domestiche che la padrona di casa si azzarda ad assumere per aiutarla.<br />

Molto riuscito questo ritratto di cameriera prigioniera del<br />

suo ruolo sociale che il regista cileno Sebastian Silva ben coadiuvato<br />

dallo sceneggiatore Pedro Peirano, ha imbastito sul filo dell’allarme<br />

temperando le note cupe con l’arma di una sottile ironia.<br />

Senza cadere nel patetico o scivolare nella violenza, anche grazie<br />

alla recitazione asciutta ed essenziale di Catalina Saavedra:<br />

straordinaria attrice che di Rachele riesce a fare personaggio<br />

emblematico e al contempo autentico essere umano.


20<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

CITY ISLAND di Raymond De Felitta<br />

24-25 marzo 2011<br />

Sceneggiatore e regista di professione, musicista jazz per amore. Conosciuto ai più come autore di commedie brillanti, Raymond De<br />

Felitta nasce nel 1964 a New York. Dopo il diploma in regia, riceve il prestigioso premio Academy Award for Live Action Short Film<br />

per il cortometraggio “Bronx Cheers”. Nel 1995 scrive e dirige “Cafe Society”: il film si fa notare dalla critica ma non ottiene il successo<br />

sperato tra il pubblico. Continua a perfezionarsi nella scrittura, collaborando con Myra Byanka per la realizzazione “L’ombra<br />

del dubbio” (1998) ,ma non trascura la regia, nella quale si cimenta ancora una volta con “Two Family House” (2000). Il film vince<br />

l’Audience Award al Sundancce Film Festival. Gira poi “The Thing About My Folks” (2005). In seguitosi dedica alla musica jazz.<br />

Dopo alcuni anni di ricerca monta il documentario “This Autumn” (2006), riflessione sugli aspetti privati della carriera artistica di<br />

Jackie Paris. Nel 2009 ritorna alla ‘fiction’ e scrive e dirige “City Island”: segreti, bugie e tradimenti che preludono al film successivo,<br />

“Married and Cheating” (2011), dove l’infedeltà è il filo conduttore dell’intreccio che vede tre coppie in crisi amorosa.<br />

Interpreti: Andy Garcia (Vince Rizzo), Alan Arkin (Michael Malakov), Julianna Margulies (Joyce Rizzo), Emily Mortimer (Molly<br />

Charlesworth), Steven Strait (Tony Nardella), Ezra Miller (Vince Jr.), Dominik García-Lorido (Vivian Rizzo), Sharon Angela (Tanya)<br />

Genere: Commedia/Drammatico<br />

Origine: Stati Uniti d’America<br />

Sceneggiatura: Raymond De Felitta<br />

Fotografia: Vanja Cernjul<br />

Musica: Jan A.P. Kaczmarek<br />

Montaggio: David Leonard<br />

Durata: 100’<br />

Produzione: Raymond De Felitta, Andy Garcia, Zachary Matz Lauren Versel per Cineson Productions/Medici Entertainment in associazione<br />

con Lucky Monkey Pictures/Gremi Film Production/Filmsmith Productions<br />

Distribuzione: Mikado<br />

SOGGETTO: A City Island, una fetta del Bronx nella baia di New York, Vince Rizzo fa la guardia carceraria e non ha avuto il coraggio<br />

di dire alla moglie Joyce che nel tempo libero segue un corso di recitazione. In casa ci sono anche la figlia maggiore Vivian e il<br />

figlio adolescente Vinnie. Un giorno, esaminando da vicino il detenuto Toni Nardella, Vince capisce che si tratta di suo figlio, avuto<br />

venti anni prima da una donna più grande dalla quale era scappato. Vince ne prende la custodia e, senza dire niente, lo porta a casa. Da<br />

quel momento equivoci, sotterfugi, colpi di scena scandiscono la vita del gruppo. Alla scuola Vince conosce Molly; a casa Joyce resta<br />

sola con Tony; cacciata da scuola, Vivian per rifarsi i soldi della borsa di studio fa la spogliarellista; Vinnie ha una simpatia per le donne<br />

grasse. Tutto va avanti all’insaputa degli altri, fino a quando i nodi vengono al pettine……<br />

VALUTAZIONE: Con fin troppa evidenza, il tema centrale é quello della famiglia: nella quale spesso é difficile parlarsi, facile dire<br />

parole a sproposito, complicato trovare il momento giusto per essere capiti. Tuttavia gli ostacoli, anche i più spigolosi, si possono appianare,<br />

purché resti vivo quel sentimento di fondo fatto di umiltà, rispetto, amore reciproco. Va detto che il copione è scritto bene, con<br />

attenzione e scorrevolezza, riuscendo a toccare molte sfumature (il quartiere come una piccola città; la recitazione come rottura della<br />

barriera tra vero e falso; i rischi dell’uso del computer per gli adolescenti...), sempre tenendo in primo piano l’irrisolto rapporto padrefiglio<br />

(tema di punta nel cinema americano attuale). La bravura degli attori e la spigliatezza della regia rendono il racconto denso di<br />

notazioni e insieme vivace.<br />

46


L’Eco di Bergamo - Achille Frezzato<br />

A City Island, una delle isole del la baia di New York, un<br />

tempo sede cantieri navali e poi di industrie le fate alla pesca,<br />

vivono Vince Rizzo (Andy Garcia), una guardia carceraria<br />

che sogna di diventare attore, ed i suoi familiari: la moglie<br />

Joyce (Juliann Margulies), che, costantemente aggressiva, si<br />

sente trascurata e sospetta del marito per le sue uscite serali<br />

(frequenta un corso di recitazione), ed i figli, Vivian<br />

(Dominik Garcia Lorido), spogliarellista in un locale notturno<br />

da quando, all’insaputa dei suoi, è stata allontanata dal college,<br />

e Vinnie (Ezra Miller), adolescente insopportabile con<br />

l’ossessione per le donne obese. in questa famiglia, dove tutti<br />

fumano di nascosto e si raccontano bugie, entra a far parte il<br />

ventenne Tony Nardella (Steven Strait), il frutto di una lontana<br />

relazione di Vince, da lui scoperto fra i detenuti e messo in<br />

libertà sotto sua tutela. È, per gran parte, quanto racconta il<br />

cineasta indipendente Raymond De Felitta (New York, 1964)<br />

in “City Island” (ne è coproduttore, sceneggiatore e regista),<br />

un melodramma sui rapporti all’interno di un nucleo familiare,<br />

complicati da segreti, speranze, litigi, illusioni, contrarietà<br />

e frustrazioni. Una commedia dolceamara, comunque gradevole<br />

grazie all’ambientazione, nel corso della quale l’intreccio<br />

di equivoci, menzogne e silenzi prepara il finale rivelatore.Un<br />

film sincero dai dialoghi quasi sempre efficaci ed incalzanti,<br />

in cui a scene divertenti succedono momenti tesi e pagine<br />

commoventi e alla completa riuscita nuoce il tratteggio<br />

segnato ‘da sottolineature facili e ridondanti’ della personalità<br />

dei figli del protagonista. Un film dal tocco brioso che fa<br />

riflettere sul necessario distacco dalle proprie ambizioni nell’accettazione<br />

della realtà non sempre entusiasmante, concedendosi<br />

a compromessi sempre onorevoli, se decisi nel rispetto<br />

degli altri, dei loro sentimenti, delle loro aspirazioni.<br />

Il Corriere della Sera - Maurizio Porro<br />

L’ idea è buona, da Actor’ s Studio: una guardia carceraria fan<br />

di Brando, frustrata dalla vita a City Island (New York), studia<br />

di nascosto recitazione e invita a casa un figlio segreto.<br />

Troppo per un film solo e di Raymond De Felitta: infatti sbanda<br />

e si perde nel gioco degli equivoci, nelle pause (!) sentimentali,<br />

soprattutto per carenza di humour e cinismo nei dialoghi,<br />

per la paccata buonista sulle spalle, per la prova del<br />

simpatico Andy Garcia che purtroppo non è Woody Allen.<br />

Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce<br />

Con quella italoamericana dei Rizzo nel newyorkese “City<br />

Island”, borgo marinaro dentro il Bronx, ancora una famiglia.<br />

Scritto e diretto da Raymond De Felitta, ancora un luogo dove<br />

tutto accade, risacca di flutti dell’esistenza quotidiana, microcosmo<br />

in tranquilla convivenza, dove le tensioni si sfioccano<br />

solo a saper evitare scontri aperti, tutti assieme cianciando a<br />

tavola, tenendo ben chiusi segretamente nell’armadio della<br />

propria anima ‘scheletri’ allotri, frustrati desideri e sogni di<br />

rischio conflittuale, almeno sino a che le circostanze possano<br />

intervenire a metterli a nudo senza stridori, in reciproco<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

47<br />

rispetto.Come avviene in casa Rizzo, dove tutti, sereni in<br />

apparenza, hanno qualche segreto a parte. Papà Vince (Andy<br />

Garcia), guardia carceraria, in un giovane carcerato Tony<br />

(Steven Strait) ha riconosciuto un suo figlio e con la scusa di<br />

una educativa tutela di lavoro, se l’è portato in famiglia.<br />

Inoltre, ha una inconfessata passione per il teatro, in casa<br />

appena può si legge biografie di Marlon Brando, con la scusa<br />

di una partitina a poker va a scuola di recitazione, frequenta<br />

provini, ama confidarsi con una comprensiva collega di corso<br />

Molly (Emily Mortimer), che a sua volta ha un burrascoso<br />

passato da nascondere. E mamma Joyce (Julianna Margulies)<br />

nella sua inquietudine casalinga finisce per turbarsi per<br />

Tony.Segreti nascondono anche i figli: l’adolescente Vince jr.<br />

(Ezra Miller) è tutto un afrore per donne obese, gonfie alla<br />

Botero, e Vivian (Dominik Garcia-Lorido) con tanta voglia di<br />

riprendere gli studi mette insieme un po’ di soldi lavorando<br />

come lapdancer in un pub. Senza volerlo, sarà Molly, ma in<br />

parte anche Tony, a scoprire gli altarini in casa Rizzo, riportandovi<br />

confronto e chiarezza.In “City IsIand”, l’anno scorso<br />

premiato al Tribeca Film Festival, non c’è irrisione, tanto<br />

meno sarcasmo, sui personaggi, ma un’intonazione agrodolce<br />

che fa dei loro segreti, momenti funzionali di reciproca pace<br />

e serenità. Così, nessuna pretesa di polemica sociale su dritto<br />

e rovescio dell’istituzione famigliare oggi, ma con leggerezza,<br />

e appena un tocco di sorridente malinconia, un gioco sul<br />

rapporti di gruppo in un interno.Il tutto, tra comprensiva<br />

indulgenza e divertito humour, tenuto ben fermo nella caratterizzazione<br />

dei personaggi (anche quelli di quinta, come l’insegnante<br />

di recitazione, un Alan Arkin, che deliziosamente<br />

sberteggia pausative cadenze attoriali alla Marlon Brando),<br />

ben ritmato nell’incrocio dei dialoghi, ben recitato, non solo<br />

dallo scafatissimo Garcia, anche dai comprimari, tra cui la<br />

Mortimer con piacevolissimo show di grazia e bravura.<br />

Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 04/07/2010<br />

Recito, ergo sum. “City Island”, di Raymond De Felitta, si<br />

apre con la ‘confessione’ del protagonista, un secondino, pardòn<br />

guardia carceraria, con la fissa del palcoscenico. Teatro o<br />

cinema, per lui pari sono: l’importante è emulare il suo idolo,<br />

Marlon Brando, e conquistare le folle immedesimandosi in un<br />

altro personaggio. Attenzione, però, la recita inizia subito,<br />

perché nessuno, in famiglia, è al corrente della sua segreta<br />

passione: né la moglie, che fiuta qualcosa ma s’immagina il<br />

classico tradimento; né i due figli, maschio e femmina, che<br />

quanto a segreti, beh, meglio lasciar perdere. Situazione piena<br />

di equivoci dunque, perfetto terreno per una commedia con il<br />

sorriso sulle labbra ma sempre lì lì per sfiorare il dramma.<br />

Soprattutto quando all’orizzonte si materializza un altro figlio<br />

del nostro aspirante Brando: un ‘peccato di gioventù’ taciuto<br />

per tutta la vita. Segreti e bugie in un angolo del Bronx tutt’altro<br />

che male, un tranquillo ex borgo di pescatori che osserva<br />

i grattacieli di Manhattan da lontano. Con il sorriso sulle<br />

labbra, sperando che il dramma non scoppi mai.


21<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

BRIGHT STAR di Jane Campion<br />

7-8 aprile 2011<br />

Nata in Nuova Zelanda, nel 1954, Jane Campion si è laureata in antropologia alla Victoria University di Wellington nel 1975 e quattro<br />

anni dopo si è diplomata in pittura al College of the Arts di Sydney . Nel 1982 ha realizzato il suo primo cortometraggio, “Peel‘<br />

An Exercise in Discipline”, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1986. Dopo realizza altri tre cortometraggi:<br />

“Passionless Moments” (1983), “After Hours” (1984) e “A Girl’s Own Story” (1984). Nel 1989, la regista neozelandese dirige il<br />

suo primo film per il grande schermo, Sweetie, vincitore di molti premi internazionali; l’anno dopo realizza “Un angelo alla mia<br />

tavola” (1990), che conquista il Leone d’argento a Venezia. Il grande successo arriva tre anni dopo, con “Lezioni di piano” (1993).<br />

A Cannes, il film vince la Palma d’oro e il premio per la migliore attrice, mentre l’Academy Award consegna un Oscar alla protagonista<br />

Holly Hunter, uno alla giovane Anna Paquin e un altro a Jane Campion per la sceneggiatura originale. Dopo “Lezioni di<br />

piano”, Jane ha diretto “Ritratto di signora” (1996) e “Holy Smoke” (1999), scritto insieme alla sorella Anna. Nel 2003 dirige “In<br />

the Cut”. Nel 2006 scrive e dirige il cortometraggio “The Water Diary”, realizzato in collaborazione con l’ONU per promuovere la<br />

campagna lanciata da Kofi Annan nel 2000.<br />

Interpreti: Abbie Cornish (Frances ‘Fanny’ Brawne), Ben Whishaw (John Keats), Kerry Fox (Sig.ra Brawne), Paul Schneider (Charles<br />

Armitage Brown), Edie Martin (Margaret ‘Toots’ Brawne), Thomas Sangster (Samuel Brawne), Claudie Blakley (Maria Dilke), Gerard<br />

Monaco (Charles Dilke), Antonia Campbell-Hughes (Abigail ‘Abby’ O’Donaghue), Samuel Roukin (John Reynolds), Samuel Barnett<br />

(Joseph Severn), Jonathan Aris (Leigh Hunt), Olly Alexander (Tom Keats)<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Australia/Gran Bretagna/Francia/Stati Uniti d’America<br />

Sceneggiatura: Jane Campion<br />

Fotografia: Greig Fraser<br />

Musica: Mark Bradshaw<br />

Montaggio: Alexandre de Franceschi<br />

Durata: 119’<br />

Produzione: Jane Campion, Jan Chapman, Caroline Hewitt per Hopscotch Entertainment, Bbc Films, Pathé Renn Productions, Uk Film<br />

Council<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Londra 1818. Tra il poeta John Keats, 23enne, e la giovanissima Fanny Browne, studentessa di moda, nasce una storia<br />

d’amore che col tempo diventa sempre più forte e intensa. Keats però é malato. Tre anni dopo si reca a Roma nella speranza di migliorare<br />

a contatto con un clima più mite.<br />

VALUTAZIONE: Non é un film su John Keats ma semmai su di lei, sulla giovane Fanny, destinata a soffrire per amore. Scegliendo<br />

questa storia, peraltro vera e documentata, la Campion evita la trappola del taglio romantico fine a se stesso a favore di un approccio<br />

più sfaccettato. Fanny conduce il gioco doloroso dei sentimenti, ora con discrezione ora con una insistente presenza al limiti del fastidioso.<br />

All’epilogo racchiuso nei palpiti della malattia inguaribile, Fanny arriva attraverso una scansione puntigliosa della passione d’amore,<br />

consumata negli angoli di una infelicità gridata ma non urlata. Il merito maggiore della Campion è il disegno di un pentagramma<br />

psicologico del tutto moderno, lontano da orpelli ottocenteschi eppure ben calato nei colori e nelle luci di quel secolo. Un romanticismo<br />

perenne e non storico.<br />

48


La Repubblica - Natalia Aspesi<br />

In tempi d’intrattenimento volgare, può sembrare un atto di coraggio<br />

sconsiderato fare un film che ha al centro la grandezza della<br />

poesia; ma chissà che non ne nasca una virtuosa tendenza. Si riscopre<br />

il poeta romantico inglese John Keats, in Italia nel bel libro<br />

‘Vite congetturali’di Fleur Jaeggy, qui a Cannes nel film della neozelandese<br />

Jane Campion, “Bright star”, che con esaltante dolcezza<br />

e incanto davvero poetico, evitando le noie delle biografie, racconta<br />

gli ultimi due anni di vita del giovane Keats, vissuti nella<br />

passione contraccambiata per la coetanea Fanny Browne. Jane<br />

Campion è la sola donna regista ad aver vinto una Palma d’oro, nel<br />

1992, con “Lezioni di piano”, e in ogni suo film c’è sempre al centro<br />

un’eroina in lotta con le convenzioni sociali e ansiosa d’amore.<br />

Qui, tra immagini meravigliose di interni di belle case Regency<br />

e immensi campi fioriti alla periferia di Londra, all’inizio pare che<br />

stia per svolgersi una battaglia femminista tra poesia e ricamo,<br />

essendo la poesia un’arte maschile e il ricamo, allora, il solo modo<br />

di esprimersi del talento femminile. Per fortuna non è così. Siamo<br />

nel 1818, Keats (Ben Wishaw) ha 23 anni, è orfano e senza un<br />

penny, sua madre è morta di tisi, di tisi sta morendo il fratello Tom,<br />

e anche lui sputa sangue; le sue poesie, così immaginifiche e<br />

malinconiche esasperano i critici ma commuovono la vicina<br />

Fanny (Abbie Cornish) molto carina anche se deturpata dalla<br />

moda d’epoca, bruttissima, con cuffiette in casa e cappelloni a<br />

megafono fuori, vita alta e gonne sopra le caviglie. L’amore è<br />

infuocato perché casto, e tra i tanti film dove in totale nudità si<br />

geme e ci si divora e ci si penetra dappertutto e fin troppo, questa<br />

passione tra corpi completamente abbigliati e distanti, quegli<br />

sguardi di luce che fanno arrossire, quello sfiorarsi le guance con<br />

un’intimorita carezza, quelle attese di cui pare di sentire i battiti del<br />

cuore, quei baci sulla bocca come tra due bambini, risultano essere<br />

per ora, il solo momento veramente erotico del Festival. Senza<br />

televisione, si capisce che allora sì ci si divertiva davvero in compagnia:<br />

pranzi e danze, concerti e cantate in casa, lettura di poesie,<br />

corteggiamenti muti. O fruttuosi, mettendo incinta la cameriera,<br />

come fa l’amico e protettore di Keats, Charles Brown, (Paul<br />

Schneider) che forse ama in silenzio Fanny e forse la detesta perché<br />

distrae il poeta dalla sua arte; anche se invece i suoi versi più<br />

belli, come ‘Ode to a nightingale’ sono ispirati da lei. Allora era<br />

ovvio che una ragazza di buona famiglia non sposasse uno senza<br />

soldi, né cedesse al desiderio: quando lui, a spese degli amici tra<br />

cui Shelley, parte per l’Italia per curare la tisi, lei non lo può seguire.<br />

Le lettere di lei sono andate perdute, quelle di lui sono tra le più<br />

belle missive d’amore mai scritte da un uomo. ‘Qui giace uno il<br />

cui nome fu scritto sull’acqua’ è l’epigrafe sulla tomba romana del<br />

poeta morto a 25 anni, nel febbraio del 1821. Fanny si cuce un<br />

vestito tutto nero, da vedova, ma poi, e questo il film non lo dice,<br />

pochi anni dopo si sposerà, avrà tre figli, e morirà a 65 anni.<br />

L’Unità - Alberto Crespi<br />

Jane Campion è nata a Wellington, Nuova Zelanda, il 30 aprile del<br />

1954: e non si dovrebbe mai dimenticare che la Nuova Zelanda è<br />

il primo paese al mondo nel quale le donne hanno ottenuto il diritto<br />

di voto. Jane Campion non è necessariamente una femminista,<br />

ma poco più di un anno fa, al festival di Cannes (che rimane l’unica<br />

donna ad aver vinto, con “Lezioni di piano”), rispondeva così<br />

alla domanda sul tema: ‘Penso non si possa essere donne senza<br />

essere un po’ femministe, ma penso anche che siamo tutti umani,<br />

che gli uomini hanno lati femminili - e meno male! - e noi donne<br />

abbiamo lati maschili. Io, ad esempio, ho dovuto costruirmi una<br />

corazza da maschio a inizio carriera, per sopportare certe critiche<br />

feroci ai miei primi film. Le donne hanno fatto grandi progressi nel<br />

cinema, ma vorrei vedere più registe donne. In fondo siamo più<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

49<br />

della metà degli esseri umani, e li diamo alla luce tutti quanti!’.<br />

Tutto ineccepibile, e coerente con il film che Jane presentava in<br />

concorso sulla Croisette nel maggio del 2009: “Bright Star”, dedicato<br />

alla storia d’amore fra il poeta John Keats e la giovane Fanny<br />

Brawne. Una storia sulla quale abbiamo libri e testimonianze, ma<br />

solo una “voce”: la voce di Keats, uomo che con le parole ci sapeva<br />

fare e che scrisse a Fanny lettere bellissime che lei, dopo la sua<br />

morte, conservò a lungo. Paradossalmente Jane Campion, scrivendo<br />

il film, ha dovuto rovesciare il punto di vista e inventare una<br />

seconda ‘voce’ che, almeno per iscritto, non ci è giunta: quella di<br />

Fanny. Il film, infatti, non è la storia di John Keats: è la storia di<br />

come Fanny Brawne si innamora di John Keats e della sua poesia.<br />

Ma non crediate che si tratti della solita storiella romantica sulla<br />

fanciulla sognatrice infatuata del poeta: “Bright Star” è anche il<br />

confronto fra due creatività, perché Fanny Brawne è una stilista<br />

del suo tempo - Inghilterra, primo Ottocento - e adora inventare<br />

cappelli e vestiti. Non a caso il film si apre con un’immagine che<br />

forse solo l’occhio di una donna regista poteva concepire, il primissimo<br />

piano di un ago che penetra una stoffa bianca, e finisce<br />

con un’immagine speculare, un altro ago che cuce una stoffa nera.<br />

Fra i due aghi, passano anni e irrompe la morte, perché John Keats<br />

muore a Roma, a soli 26 anni, il 23 febbraio del 1821. Fanny gli<br />

sopravvive portando per tre anni il lutto, pur non essendo i due<br />

sposati: ‘All’epoca - è sempre Jane Campion a parlare - le donne<br />

cucivano e aspettavano, aspettavano e cucivano. Eppure il cucito,<br />

nel film, è la parte creativa di Fanny, e diventa lo strumento per<br />

raccontare Keats attraverso lei’.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni<br />

Un film d’amore perfetto, bello come una poesia e commovente<br />

come una canzone, è la nuova opera della geniale Jane Campion.<br />

“Bright Star” (il titolo è l’inizio di un poema amoroso, ‘Stella<br />

lucente’) è la storia della passione casta e sensuale, romantica e<br />

intensa, del giovane inglese John Keats e della sua vicina di casa<br />

Fanny Browne. Era il 1818, a Londra e nelle campagne circostanti.<br />

Lui aveva ventitre anni, lei diciannove. Lui era poeta, lei una<br />

borghese che imparava le tecniche del cucito e lo stile della moda.<br />

Lui, senza un soldo, fratello d’un ragazzo malatissimo, mantenuto<br />

da un amico che lo ammirava, non avrebbe mai potuto sposarla:<br />

nella società dell’epoca, il loro amore appassionato era impossibile.<br />

Arrivati all’ossessione romantica, dovettero separarsi: lui,<br />

malato di tubercolosi, andò a passare l’inverno 1820 nel clima<br />

mite di Roma (‘Dubito che ci rivedremo su questa terra’), dove<br />

morì nel febbraio del 1821 a ventisei anni. Lei come una vedova<br />

portò il lutto per tre anni, passando ore nella propria stanza a rileggere<br />

le lettere d’amore di lui; più tardi, nel 1833, si sposò, ebbe due<br />

figli. Non tolse mai l’anello che Keats le aveva dato. La storia di<br />

dolore, di bellezza e di innocenza, raccontata in maniera meravigliosa,<br />

aiuta a ricordare cosa davvero possa essere l’amore, così<br />

diverso dal sentimento egocentrico e narcisista a cui siamo ora<br />

spesso abituati. Sono bellissimi la delicatezza, l’intensità d’amore,<br />

i piccoli baci e le carezze leggere che gli innamorati si scambiano,<br />

le loro infinite invenzioni per vedersi e sentirsi vicini. La musica<br />

come la Natura sembrano volersi armonizzare alla coppia. Lo stile<br />

asciutto, rapido come in un film del Duemila, corrisponde magnificamente<br />

alla giovinezza ricca di slanci dei due protagonisti; le<br />

inquadrature sono affascinanti come bei quadri e come l’estetica<br />

romantica della vicenda; i due giovani attori inglesi, schietti ed<br />

entusiasti, sono bravissimi. Jane Campion ha un’invenzione narrativa<br />

molto raffinata: l’intera storia appare vissuta dal personaggio<br />

meno celebre, la ragazza, ostinata e forte come tante personalità<br />

femminili dei suoi film. “Bright Star”, tragico e tenero, è una completa<br />

riuscita.


22<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

INCONTRERAI UNO SCONOSCIUTO ALTO E BRUNO<br />

di Woody Allen<br />

14-15 aprile 2011<br />

(Il film uscirà nelle sale italiane il 3 dicembre 2010)<br />

Woody Allen, al secolo Allan Stewart Königsberg (New York, 1º dicembre 1935).Appartiene ad una famiglia medio borghese ebrea,<br />

di origini ungheresi. Suona il clarinetto dall’età di dodici anni e gli piace scrivere battute umoristiche che invia regolarmente ai<br />

giornali di New York.L’esordio dietro la macchina da presa avviene con “Prendi i soldi e scappa”, ironica parodia della piccola<br />

delinquenza, dando il via ad un cammino artistico lunghissimo e pieno di riconoscimenti e successi.Nel 1978 Woody Allen ottiene<br />

il primo riconoscimento ufficiale per la sua carriera di regista: “Io e Annie”, girato con Diane Keaton, raccoglie ben 4 Oscar:<br />

miglior fotografia, miglior sceneggiatura, miglior regia e migliore attrice protagonista.Wody Allen realizza numerosi film e 18 candidature<br />

all’Oscar, prima con lavori spiccatamente umoristi, un miscuglio di commedia farsesca dei fratelli Marx e i drammi filosofici<br />

bergmaniani, poi con film di satira corrosiva alla società di massa, alla psicanalisi e il sesso legandosi a temi più personali<br />

che si intrecciano spesso con la sua burrascosa vita privata.Periodicamente matrimoni, divorzi, relazioni amorose e tradimenti<br />

hanno movimentato la vita di Woody Allen, sia sul set che nella vita privata.<br />

Interpreti: Anthony Hopkins, Josh Brolin, Naomi Watts, Antonio Banderas, Anna Friel, Freida Pinto, Ewen Bremner, Lucy Punch,<br />

Gemma Jones, Anupam Kher, Jim Piddock, Pauline Collins, Roger Ashton-Griffiths, Jonathan Ryland, Eleanor Gecks, Pearce Quigley<br />

Genere: sentimentale<br />

Origine: USA,Spagna<br />

Sceneggiatura: Woody Allen<br />

Fotografia: Vilmos Zsigmond<br />

Montaggio: Alisa Lepselter<br />

Durata: 108’<br />

Produzione: Gravier Productions, Mediapro<br />

Distribuzione: Medusa<br />

SOGGETTO: Le vicende di due coppie sposate - nella fattispecie quella formata da Alfie (Anthony Hopkins) e Helena (Gemma<br />

Jones), e quella della figlia Sally (Naomi Watts) e di suo marito Roy (Josh Brolin), mentre passioni, ambizioni e ansie causano un crescendo<br />

di guai e follie. Dopo essere stata lasciata da Alfie – che se ne è andato per inseguire la perduta giovinezza e una ragazza di<br />

nome Charmaine (Lucy Punch) - Helena mette da parte la razionalità e si affida ciecamente ai bislacchi consigli di una cartomante ciarlatana.<br />

Dal canto suo Sally, intrappolata in un matrimonio infelice, si prende una cotta per l’affascinate proprietario della galleria d’arte<br />

- nonché suo capo - Greg (Antonio Banderas), mentre suo marito Roy, uno scrittore che attende con ansia una risposta dalla sua casa<br />

editrice, resta folgorato da Dia (Freida Pinto), una donna misteriosa che cattura il suo sguardo da una finestra vicina.<br />

VALUTAZIONE: Allen , si sa, è sempre stato un autore profondamente cinico, un pessimista cosmico che usa l’umorismo come una<br />

sorta di medicina per sopportare quella malattia incurabile che si chiama vivere. Nei suoi lavori migliori era sempre questo il tema portante<br />

dei suoi film e non sembrava esserci nemmeno un filo di speranza. A settantacinque anni suonati e con questo nuovo film sembra<br />

aver maturato una convinzione leggermente diversa ma di certo non più rassicurante: la vita fa sì schifo, ma la colpa non è solo<br />

della vita stessa ma della nostra intelligenza; solo chi è pazzo o sciocco infatti, solo chi riesce a non razionalizzare ogni cosa, solo chi<br />

è in grado di farsi cieco e rifiutare la realtà di tutti i giorni e a vivere attraverso l’illusione, può veramente dirsi felice e godersi appieno<br />

la vita. La nostra esistenza si riduce quindi a questo e poco più: se una veggente ti dice che incontrerai uno sconosciuto alto e scuro,<br />

puoi sperare che questo si avveri realmente e cominciare a cercare, oppure rifiutarti anche solo di accettare che questa remota possibilità<br />

esista e magari, da vero cinico, pensare che lo sconosciuto a cui si riferisca non sia altro che la Morte.<br />

50


Filmup - Andrea D’Addio<br />

Woody Allen potrebbe anche raccontarci per novanta minuti<br />

una fila al supermercato e comunque troveremmo la sua narrazione<br />

gradevole. Il suo modo di approcciarsi alla vita, la<br />

sua descrizione sempre leggera anche quando va in profondità,<br />

il suo modo spesso distante, forse cinico, con cui vede<br />

quelle che in molti considerano le grandi scelte che uno si<br />

trova a dover affrontare, matrimonio, tradimento, licenziamento,<br />

figli (forse si salva solo l’omicidio, ma dipende dai<br />

casi), è sinonimo di scorrevolezza. Tutto accade velocemente,<br />

non si rimarca, si lascia sempre e solo l’essenziale. E il<br />

tempo scorre, l’orologio non si guarda. Parliamo di un uomo<br />

che ha il tocco magico, anche il suo peggiore film è meglio<br />

di buona parte della concorrenza. Perché questa premessa?<br />

La ragione è che “You will meet a Dark Tall Stranger” è probabilmente<br />

il suo lavoro meno riuscito da “Melinda e<br />

Melinda”. Si guarda, ma tutto sembra già visto e sentito<br />

altrove, oltretutto in maniera migliore.Londra, persone normali,<br />

legami familiari che rendono ogni personaggio dipendente,<br />

in qualche modo, all’altro. Al centro c’è una coppia di<br />

quarantenni in crisi (ad ognuno di loro piace un’altra persona)<br />

con tanto di genitori di lei appena divorziati e già con un<br />

nuovo amore. È su questo impianto che giocano i visi di<br />

Naomi Watts, Josh Brolin, Anthony Hopkins e Gemma Jones<br />

da una parte, e i loro possibili-reali amanti, Antonio<br />

Banderas, Freida Pinto, Lucy Punch e Roger Ashton-Griffith.<br />

L’amore passa, non è eterno e non è una colpa rendersene<br />

conto. Lo avevamo già sentito nel divertente “Basta che funzioni”,<br />

lo risentiamo ora qui in maniera più seria, ma comunque<br />

non drammatica, quasi con distacco, come se neanche<br />

valesse la pena dirlo ancora. La stessa voce narrante fuori<br />

campo ci anticipa fin dall’inizio che assisteremo ad una storia<br />

senza troppo significato, fatta di rumore e poco altro, di<br />

cui “non rimane nulla” si dice citando Shakespeare. Ecco<br />

allora che per dare almeno un minimo d’interesse alla vicenda,<br />

un poco di collante che renda le storie unite, ritroviamo il<br />

misticismo de “Lo scorpione di Giada”, la crisi creativa dell’artista<br />

di “Hollywood Ending” (seppur qui parliamo di uno<br />

scrittore), l’amore tra due persone totalmente distanti per età<br />

(come “Basta che funzioni”) e questo solo per citare solo gli<br />

ultimi lavori e i richiami più espliciti. Insomma, Woody non<br />

entusiasma come al solito, nonostante tutti i suoi attori siano<br />

a loro modo amabili e alcune scene valgano da sole la visione<br />

del film. Dai due dialoghi tra Banderas e Naomi Watts (in<br />

macchina e poi sul divano, con lui che prende tempo sviando<br />

le risposte) al Josh Brolin che cambia “la finestra di fronte”<br />

avendo un lampo di rimorso di straordinaria intensità, passando<br />

per l’idea di non far vedere lo splendido viso di Freida<br />

Pinto, la ragazza che suona la chitarra, ma di tenerla sfocata<br />

fino a che non esce di casa. È per certi versi anche apprezzabile<br />

la scelta di Allen di non chiudere nessuna delle trame<br />

lasciate aperte, proprio come accade in “A serious Man” dei<br />

fratelli Coen, ma il modo con cui lo fa, senza accumulo di<br />

tensione, ma quasi volendo tagliare corto, come fosse finito<br />

lo spazio sulla pellicola, rende il tutto un po’ antipatico. Per<br />

fortuna Allen fa un film l’anno e avremo presto modo di cele-<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

51<br />

brare il suo ritorno. Due film sbagliati consecutivamente<br />

sarebbe davvero un record per lui.<br />

My Movies - Giancarlo Zappoli<br />

Alfie ha lasciato la moglie Helena perchè, colto da improvvisa<br />

paura della propria senilità, ha deciso di cambiare vita. Ha<br />

iniziato così una relazione (divenuta matrimonio) con una call<br />

girl piuttosto vistosa, Charmaine. Helena ha cercato di porre<br />

rimedio alla propria improvvisa disperata solitudine cercando<br />

prima consiglio da uno psicologo e poi affidandosi completamente<br />

alle ‘cure’ di una sedicente maga capace di predire il<br />

futuro. La loro figlia Sally intanto deve affrontare un matrimonio<br />

che non funziona più visto che il marito Roy, dopo<br />

aver scritto un romanzo di successo, non è più riuscito ad<br />

ottenere un esito che lo soddisfi. Sally ora lavora a stretto<br />

contatto con un gallerista, Greg, che comincia a piacerle non<br />

solo sul piano professionale… Woody ha preso nuovamente<br />

l’aereo ed è tornato in Gran Bretagna dopo che era tornato a<br />

respirare aria di Manhattan con Basta che funzioni.<br />

Nonostante l’aspetto sempre più fragile, Allen ha ormai le<br />

spalle più che larghe per sopportare l’ennesima, ripetitiva<br />

reprimenda critica: “Racconta sempre le stesse cose”. È vero:<br />

Woody non si inventa novità senili per stupire il pubblico.<br />

Anzi qui, fingendo di appellarsi allo Shakespeare del<br />

“Macbeth” in realtà si riallaccia al finale di uno dei suoi film<br />

più ispirati, Ombre e nebbia, che si chiudeva con la frase:<br />

“L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira”.<br />

Sono trascorsi quasi vent’anni da allora e, in materia, Allen<br />

sembra essersi ormai arreso all’evidenza: è proprio (e sempre<br />

di più) così. Come in Tutti dicono I Love You (ma con l’esclusione<br />

dell’adolescenza) le diverse età si confrontano con<br />

un bisogno di qualcosa che esemplificano con la parola<br />

‘amore’ ma di cui, se richiesti, non saprebbero dire il significato.<br />

Non potendo sfuggire a questa esigenza ognuno cerca di<br />

trovare delle soluzioni che finiscono con il rivelarsi aleatorie<br />

e provvisorie anche se ognuno, in cuor suo, vorrebbe che fossero<br />

‘per sempre’. Ma il ‘per sempre’ non esiste nell’universo<br />

alleniano. Ognuno cerca di porre rimedio alla propria solitudine<br />

come può e come sa e non ha neppure bisogno di essere<br />

perdonato per questo. L’umanità non può comportarsi altrimenti.<br />

Ciò che invece va duramente punito è il furto intellettuale,<br />

l’appropriarsi di idee altrui spacciandole per proprie,<br />

perseguire il successo a spese degli altri. In questo caso<br />

Woody diventa un giudice implacabile. Sarà anche vero che<br />

ritorna su propri temi. Ma sono ‘suoi’ per stile, qualità, leggerezza<br />

e profondità.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

“Woody Allen è stato più ispirato in altre occasioni, ma l’età<br />

lo rende pungente, specie con i suoi coetanei. Non a caso ha<br />

smesso di apparire nei suoi film, e tocca a Hopkins chiedere<br />

ancora tre minuti all’amante dopo aver preso il Viagra. Anche<br />

così si riesce a fare un film l’anno, senza sentirsi obbligati<br />

ogni volta al successo planetario. Ma è triste che spesso nel<br />

cinema libertà faccia rima con età.


23<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

TAMARA DREWE - Tradimenti all’inglese<br />

di Stephen Frears<br />

28-29 aprile 2011<br />

(Il film uscirà nelle sale italiane il 5 gennaio 2011)<br />

(1941 Leicester - Gran Bretagna) Dopo il diploma al Gresham’s School, Frears si iscrive a giurisprudenza ma abbandona presto gli studi<br />

per dedicarsi al teatro. Dopo numerose esperienze sul palcoscenico in veste di regista, passa alla direzione di alcuni lavori per la televisione.<br />

Il debutto nel lungometraggio avviene nel 1972 con “Gumshoe”, seguita poi da una ricca galleria di lavori per la tv. Con Vendetta<br />

(1984) ritorna al cinema. L’anno dopo gira “My Beautiful Laundrette” (1985) e raggiunge la notorietà. Dopo firma “Prick Up –<br />

L’importanza di essere Joe” (1987), e “Sammy e Rosie vanno a letto” (1987). Anche Hollywood lo nota e lo chiama per dirigere la trasposizione<br />

cinematografica del romanzo “Le relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos. Il cast eccezionale e l’eleganza dello stile registico<br />

ne fanno un piccolo gioiello della storia del cinema mondiale. Rimane negli Stati Uniti a girare “Rischiose abitudini” (1990), uno<br />

dei suoi lavori migliori. Per il film riceve la candidatura all’Oscar come migliore regista e poco dopo ottiene un successo incredibile di<br />

pubblico con “Eroe per caso” (1992), seguito dal minore “The Snapper” (1993) e il più interessante “Mary Reilly” (1996). Ha meno<br />

fortuna con “The Hi-Lo Country” (1998) e “Due sulla strada” (1996). Ma riprende subito dopo la vecchia vena creativa con “Alta fedeltà”<br />

(2000) e “Liam” (2000). Nello stesso anno realizza “A prova di errore” e poi dirige il delizioso noir “Piccoli affari sporchi” (2002),<br />

Lady Henderson presenta (2005) e il dissacrante “The Queen” (2006 - Helen Mirren, che interpreta la regina, viene premiata con la<br />

coppa Volpi e l’Oscar come migliore attrice) Nel 2009, dopo il film tv “Skip Tracer”, si dedica al progetto e alla realizzazione di “Chéri”,<br />

dramma in costume, ambientato nella Parigi cortigiana di inizio Novecento.<br />

Interpreti: Gemma Arterton, Roger Allam, Bill Camp, Tamsin Greig, Dominic Cooper, Luke Evans, Roger Allam, Tamsin Greig, Jessica<br />

Barden, Charlotte Christie<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Regno Unito<br />

Soggetto: Posy Simmonds<br />

Sceneggiatura: Moira Buffini<br />

Fotografia: Ben Davis<br />

Musica: Alexandre Desplat<br />

Montaggio: Mick Audsley<br />

Durata: 109’<br />

Produzione: Ruby Films, BBC Films, WestEnd Films<br />

Distribuzione: BIM Distribuzione<br />

SOGGETTO: Dopo la morte della madre, una giovane giornalista fa ritorno nel suo paese di origine, nel bel mezzo della campagna<br />

inglese, per scoprire che la casa dove é cresciuta da bambina, é stata messa in vendita. Profondamente cambiata, la ragazza suscita l’interesse<br />

di tutti nel paese, non senza lasciare inevitabili conseguenze...<br />

VALUTAZIONE: Succede di tutto e si ride dal primo all’ultimo minuto. Gli eventi sono scatenati . I dialoghi sono spassosi, le situazioni<br />

geniali. Anche se alcune battute sono prevedibili, bisogna riconoscere la carica di questo film. Ma se sono così prevedibili le battute,<br />

perchè è così difficile far ridere? Tutto è più chiaro, quando si scopre che il testo del film non viene da un libro ma, bensì, da una<br />

graphic novel, disegnata e scritta da quell’altra mente geniale britannica che è Posy Simmons, amica di Frears. Il regista (autore, tra i<br />

più recenti anche di Cheri con Michelle Pfeiffer) ha spiegato che non aveva mai pensato che da quei disegni potesse uscire una sceneggiatura,<br />

“fino a quando non me la sono trovata tra le mani”. Non stupisce poi quando confessa che si è divertito da morire e che ha<br />

amato questo film, “amo quando non devo fare cose noiose”, ha detto.<br />

52


Coming Soon.it - Federico Gironi<br />

Da qualche anno a questa parte Stephen Frears è andato affinando<br />

un tocco per la commedia che se di nuovo o di originale<br />

non ha effettivamente nulla, fa del ritmo, di una leggerezza di<br />

toni e di uno humour squisitamente britannico delle caratteristiche<br />

chiaramente riconoscibili. E il suo ultimo lavoro, Tamara<br />

Drewe, conferma esplicitamente questa tendenza. Tratto dalle<br />

omonime strisce a fumetti di Posy Simmonds pubblicate sul<br />

Guardian e poi raccolte in una graphic novel (a loro volta basate<br />

sul romanzo di Thomas Hardy “Via dalla pazza folla”), il film<br />

è ambientato in una piccola cittadina di campagna inglese, dove<br />

fa ritorno una bella ragazza un tempo brutto anatroccolo locale.<br />

Con sé porterà lo scompiglio, coinvolgendo un vecchio amore,<br />

la celebrità locale (uno scrittore proprietario di una sorta di pensione<br />

per scrittori), il batterista di una band indie rock e altri personaggi;<br />

e a contribuire allo scompiglio, due adolescenti annoiate<br />

e innamorate del batterista che ne combineranno di tutti i<br />

colori. Commedia romantica, degli equivoci, farsesca, a tratti<br />

quasi nera: tutte definizioni che ben si adattano a Tamara Drewe<br />

ma che da sole non esauriscono un film che da un lato omaggia<br />

il wit tutto inglese del romanzo di Hardy e dall’altro ben rispecchia<br />

lo stile e lo spirito della forma fumetto. Nonché la sua iconografia,<br />

come si può constatare da un casting effettuato ricalcando<br />

la fisicità dei personaggi disegnati. Ed ecco che allora il<br />

film di Frears non è certo destinato a lasciare segni profondi<br />

nello spettatore, ma gli è totalmente asservito nel tentativo<br />

(riuscito) di regalargli un paio d’ore di divertimento garbato ma<br />

mai del tutto superficiale, dove il gioco degli intrecci e delle<br />

passioni è sempre ben gestito e mai ostentato, dove la semplicità<br />

e la schiettezza sostanziali di un testo senza tanti sottoappaiono<br />

sincere e rinfrescanti come l’aria di quelle rusticamente<br />

eleganti campagne al mattino. A molti, a Cannes, potrà<br />

sembrare un’eresia: ma le ambizioni modeste, la lieve eleganza<br />

e l’umorismo disarmante di Tamara Drewe restituiscono allo<br />

spettatore tutto quello che Woody Allen ha e si è sottratto con<br />

You Will Meet a Tall Dark Stranger.<br />

Movieplayer.it - Luca Liguori<br />

Dopo le ultime opere passate tra merletti e nobilità, il regista<br />

Stephen Frears torna alla commedia con Tamara Drewe, fedele<br />

trasposizione dell’omonimo graphic novel di Posy Simmonds,<br />

che racconta di un piccolo paesino della campagna inglese in<br />

cui un romanziere specializzato in polizieschi, insieme a sua<br />

moglie, gestisce un tranquillo e pacifico bed and breakfast per<br />

scrittori. Tra mucche, prati e torte sfornate fresche ogni giorno,<br />

la vita scorre tranquilla e la serenità di questo piccolo paradiso<br />

non viene turbata neanche dai continui tradimenti del padrone<br />

di casa, le scenate della moglie o l’impossibilità per alcuni<br />

degli aspiranti scrittori a trovare la giusta ispirazione. Le cose<br />

cambiano nel momento in cui nella villa accanto fa ritorno<br />

dopo tanti anni la Tamara del titolo, una giovane giornalista che<br />

in passato era stata un brutto anatroccolo e ora si è trasformata<br />

in uno splendido cigno, soprattutto grazie al chirurgo che le ha<br />

regalato un nuovo naso. Tra le tante vittime del suo fascino, lo<br />

scrittore fredifrago, un ex innamorato ora contadino tuttofare e<br />

soprattutto una rockstar di passaggio che finirà così con il<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

53<br />

diventare una presenza quasi fissa all’interno del villaggio per<br />

la gioia di due teenager che lo idolatrano e che faranno di tutto<br />

per conquistare la sua attenzione.Il film di Frears fa sorridere<br />

con intelligenza grazie ad una sceneggiatura estremamente fluida<br />

che lascia trasparire un’estrema fedeltà verso il fumetto da<br />

cui proviene ma che al tempo stesso riesce a tratteggiare dei<br />

personaggi tridimensionali ed affascinanti senza limitarsi alla<br />

sola Tamara, che comunque nella bella Gemma Arterton trova<br />

la sua perfetta incarnazione. Ma non bisogna farsi trarre in<br />

inganno dai dialoghi brillanti e lo humour tipico inglese,<br />

Tamara Drewe è sì una commedia ma al tempo stesso è un’opera<br />

che dimostra un grande amore per la letteratura come<br />

dimostrano i continui rimandi alle opere di Thomas Hardy, una<br />

caratteristica già del lavoro di Simmonds amplificata qui dalla<br />

buona messa in scena di Frears e dalle musiche di Alexandre<br />

Desplat che in alcuni momenti conferiscono al film un’atmosfera<br />

davvero senza tempo.<br />

Primissima.it - Nicoletta Gemmi<br />

Leggera e divertente la nuova pellicola del cineasta inglese<br />

Stephen Frears, Tamara Drewe, è stato inserito dal Festival<br />

Fuori Concorso. Il film è tratto dalla graphic novel di Posy<br />

Simmonds, ispirata al romanzo di Thomas Hardy ‘Via dalla<br />

pazz folla’. Gemma Arterton (nella foto a sinistra), protagonista<br />

di Prince of Persia, che ha debuttato come Bond Girl in<br />

Quantum of Solace è una delle interpreti principali insieme a<br />

Dominic Cooper (Mamma Mia!). Con il suo naso rifatto, le sue<br />

lunghe interminabili gambe, il suo lavoro nella stampa e la sua<br />

aspirazione alla celebrità e il suo talento per i cuori infranti:<br />

Tamara Drewe è l’Amazzone londinese del XXI° secolo. Il suo<br />

ritorno al villaggio di origine, dove ha vissuto con la madre, è<br />

un vero e proprio choc per la comunità che ci prospera e ci vive<br />

in santa pace. In quel luogo sorge nel bel mezzo della campagna,<br />

una pensione per scrittori realizzata con tutti i comfort per<br />

ispirare i futuri autori nella preparazione dei loro prossimi libri.<br />

Proprietari sono l’autore di gialli popolari Nicholas (Roger<br />

Allam) e sua moglie Beth (Tamsin Greig), tra gli avventori<br />

Tamara e Ben (Cooper - foto a sinistra). Da quel momento<br />

uomini e donne, bohemienne, contadini, autori di bestsellers,<br />

universitari frustrati, rock star con al seguito i loro fan, sono tutti<br />

attirati da quella factory e, soprattutto, dalla bellezza di Tamara<br />

la cui bellezza incendiaria e le divagazioni sull’amore provocano<br />

passioni e circostanze assurde. Una commedia divertente che<br />

ha conquistato critica e pubblico. Stephen Frears ha amato<br />

immediatamente lo charme particolare e le possibilità offerte dal<br />

romanzo e dalla graphic novel di Posy Simmonds: “Ho adorato<br />

– ha affermato il regista – la sua reale originalità. Christine<br />

Langan (direttore creativo presso la BBC Films) mi ha inviato il<br />

libro dicendomi: “Ho una cosa per te”. Mi è arrivata una busta<br />

e durante un viaggio per New York quando mi sono deciso ad<br />

aprirlo. Dentro c’erano romanzo e fumetto e ho immediatamente<br />

amato quello che stavo vedendo e che poi ho letto con calma.<br />

Mi sono reso conto che tutto ciò stava avvenendo esattamente<br />

allo stesso modo di quando ho realizzato The Snapper. Da quel<br />

momento, ho avuto l’impressione di sognare. È stato davvero un<br />

magnifico regalo avere la possibilità di realizzare questo film”.


24<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

UNA SCONFINATA GIOVINEZZA<br />

di Pupi Avati<br />

5-6 maggio 2011<br />

Bolognese, nato il 3 novembre 1938, Giuseppe Avati, detto Pupi, si laurea in Scienze Politiche, ma insegue fin da ragazzo il sogno<br />

del cinema, frequentando corsi di regia e cimentandosi con la macchina da presa. Nel 1968 debutta nel lungometraggio con<br />

“Balsamus, l’uomo di Satana”, a cui fanno seguito qualche anno più tardi “La mazurka del barone della santa e del fico fiorone”<br />

(1975), con Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio, “La casa dalle finestre che ridono” (1976), e il musical “Bordella” (1976). Con “Una<br />

gita scolastica” (1983), Pupi Avati mette definitivamente a punto il suo stile personale, minimalista e intimo, che diventerà una<br />

costante nella sua produzione successiva. Nascono così “Festa di laurea” (1984), “Noi tre” (1984), premio speciale per i valori tecnici<br />

alla Mostra di Venezia, “Regalo di Natale” (1986), e “Storia di ragazzi e di ragazze” (1989), David di Donatello per la migliore<br />

sceneggiatura. Nel 1991 Avati gira in “America Bix”, biografia di Leon Beiderbecke, uno dei pochi jazzman bianchi, e l’anno<br />

successivo dirige “Fratelli e sorelle”. Nel 1993 presenta a Cannes il suo film più ambizioso, “Magnificat”, poi porta sul grande<br />

schermo “L’amico d’infanzia” (1994), “L’arcano incantatore” (1996) e “Festival” (1996). Dopo “Il testimone dello sposo” (1997),<br />

Avati dirige “La via degli angeli” (1999), ambientato nei primi del Novecento nella campagna emiliana, “I cavalieri che fecero l’impresa”<br />

(2000), tratto da un suo romanzo, e “Il cuore altrove” (2002). Nel 2004 è la volta invece di “La rivincita di Natale”, sequel<br />

a quasi vent’anni di distanza del film sui giocatori di poker. Avati continua negli anni a regalarci il suo universo cinematografico<br />

fatto di storie minimaliste con personaggi spesso proiettati nostalgicamente verso il passato, come in “Quando arrivano le ragazze?”<br />

(2004) o “La seconda notte di nozze” (2005). Nel 2008 torna al cinema (e al festival di Venezia) con il film “Il papà di<br />

Giovanna”. Ambientazione ed epoca sono quelli preferiti del regista: la sua Bologna, e l’Emilia, negli anni trenta. Seguono “Gli<br />

amici del Bar Margherita” (2009) e “Il figlio più piccolo” ( 2010).<br />

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Lino), Francesca Neri (Chicca), Lino Capolicchio (Emilio), Manuela Morabito (Teta), Serena Grandi<br />

(zia Amabile), Gianni Cavina (Preda), Erika Blanc (la vedova), Osvaldo Ruggieri (neurologo), Vincenzo Crocitti (Don Nico), Lucia<br />

Gruppioni (Leda), Marcello Caroli (Leo), Riccardo Lucchese (Nerio), Antonella Ponziani, Chiara Sani, Sandro Dori.<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati<br />

Fotografia: Pasquale Rachii<br />

Musica: Riz Ortolani<br />

Montaggio: Amedeo Salfa<br />

Durata: 98’<br />

Produzione: Antonio Avati per DUEA Film in collaborazione con RAI Cinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Sposati da venticinque anni e senza figli, Lino e Chicca conducono una esistenza serena, quando lui all’improvviso<br />

comincia ad accusare dei vuoti di memoria. Sono le prime avvisaglie della patologia dell’Alzheimer. Col tempo la malattia degenera,<br />

Chicca decide si restargli accanto ma Lino, rincorrendo i propri fantasmi, un giorno riesce ad allontanarsi …….<br />

VALUTAZIONE: “Inquadro il mio rapporto col tempo- dice Avati- sono nella seconda parte del secondo tempo della mia vita, nella<br />

zona del rientro a casa. Ho dunque dismesso la nostalgia per la giovinezza, e fatto un passo avanti, anzi, indietro: la regressione riporta<br />

all’infanzia. Il titolo, appunto, avrebbe dovuto essere ‘Una sconfinata infanzia’”. Se scavalcata é la giovinezza, non lo è dunque la<br />

nostalgia, che si conferma uno dei motori trainanti da sempre dell’ispirazione avatiana. A questo e ad altri punti fermi, il regista non sa<br />

e non vuole rinunciare. Ecco allora l’Emilia, l’inverno, la neve, lo spiare un po’ clandestino le coetanee vicine: elementi ispiratori, un<br />

pentagramma sul quale Avati scrive le note di una melodia dolce e tenerissima. Non ci sono consulti, ricette, ospedali: per il marito<br />

Chicca fa ricorso alla medicina più importante, quella dell’amore.<br />

54


Filmup.com - Francesco Lomuscio<br />

Scorrendo la lunga filmografia di Pupi Avati, tra una “Storia<br />

di ragazzi e di ragazze” (1989) e “Gli amici del Bar<br />

Margherita” (2009), non si può fare a meno d’intuire una<br />

certa, fondamentale importanza che i ricordi hanno per il prolifico<br />

cineasta bolognese classe 1938.Quindi, c’era da immaginarsi<br />

che, prima o poi, dall’autore de “Il regalo di Natale”<br />

(1986) sarebbe arrivata la vicenda del giornalista sportivo<br />

Lino Settembre alias Fabrizio Bentivoglio, il quale, sposato<br />

da venticinque anni con la docente di Filologia Medievale<br />

Chicca, interpretata da Francesca Neri, comincia ad accusare<br />

problemi di memoria, fino a compromettere in modo sempre<br />

più evidente il quotidiano svolgersi delle sue attività professionali<br />

e familiari e ad allontanarsi dal presente.Una vicenda<br />

che, inizialmente, non sembra altro che la versione ribaltata<br />

del riuscito “Away from her-Lontano da lei” (2006) di Sarah<br />

Polley, nel quale era Julie Christie ad essere affetta dal morbo<br />

di Alzheimer, mentre il marito Gordon Pinsent provvedeva ad<br />

accudirla.Ma Avati, che costruisce i circa 98 minuti di visione<br />

alternando il presente e un passato che, come un po’ in tutti<br />

i suoi film, viene raccontato facendo ricorso ad una fotografia<br />

dai toni seppia, prende tutta un’altra strada, mostrandoci una<br />

sorprendente Neri costretta a trasformare il proprio amore<br />

coniugale in un amore materno nei confronti del sempre più<br />

infantile (mentalmente parlando) compagno.Un Bentivoglio<br />

alle prese con una delle sue migliori interpretazioni, quest’ultimo,<br />

contornato da un cast decisamente in forma comprendente<br />

una riscoperta Serena Grandi, il compianto Vincenzo<br />

Crocitti, deceduto proprio a pochi giorni dall’uscita del film<br />

in sala, e gli immancabili Lino Capolicchio e Gianni Cavina,<br />

quasi ospiti fissi dei set avatiani.E, se nel corso della prima<br />

parte, durante la quale si tende a sguazzare tra risate amare e<br />

una certa nostalgia (basterebbe citare la pista per giocare con<br />

i tappi di latta alla gara ciclistica), non si fatica ad avvertire<br />

una narrazione piuttosto fiacca, la bellissima seconda spinge<br />

non poco verso la commozione lo spettatore, talmente coinvolto<br />

nel sempre più accentuato dramma di Lino da provare<br />

quasi l’impressione di rivivere le forti sensazioni degli horror<br />

d’ambientazione rurale sfornati dal regista, qui responsabile<br />

di quello che possiamo tranquillamente definire “un bel film”.<br />

La Repubblica - Roberto Nepoti<br />

Pupi Avati affronta una storia che parla di un evento sconvolgente<br />

come l’ Alzheimer, malattia crudele che separa, cancella,<br />

imprigiona e rende estranei. Lei, Francesca, docente universitaria,<br />

lui, Lino, grande firma del giornalismo sportivo,<br />

sposati da decenni, uniti dalla privazione di non avere figli:<br />

lui è Fabrizio Bentivoglio, lei Francesca Neri. Prime crepe,<br />

vuoti di memoria, poi la diagnosi infausta del neurologo.<br />

Bisognerà prepararsi al peggio, agli articoli impubblicabili,<br />

all’ estraniarsi durante le riprese televisive, alla violenza. Pupi<br />

Avati evoca con grazia e tenerezza i tempi della sua infanzia,<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

55<br />

e scova quei volti antichi, rustici che ancora ha nel cuore,<br />

come non se ne vedono più in questa Italia.<br />

Il Mattino - Valerio Caprara<br />

Si può girare una storia tristissima senza deprimere lo spettatore?<br />

Evidentemente sì, se il fine è stato quello di raggiungere<br />

uno specifico equilibrio tra il tono stilistico e la sostanza<br />

drammaturgica. Pupi Avati, del resto, va considerato un regista<br />

giovane perché più della sua carta d’identità fa fede la filmografia<br />

che ha appena superato la quarantina (di titoli): in<br />

«Una sconfinata giovinezza» lo spettatore potrà ritrovare gli<br />

appigli consueti, andare sul sicuro, insomma, immergendosi<br />

nel microcosmo emiliano dell’eterno ritorno memoriale; ma,<br />

nello stesso tempo, ritrovarsi faccia a faccia con i motivi più<br />

aspri, le riflessioni più sconsolate, le ipotesi meno gratificanti<br />

di cui lo stesso itinerario audiovisivo si è nutrito più o<br />

meno in sottotraccia. Rivelando che il vissuto avatiano s’intreccia<br />

questa volta con la spaventosa patologia<br />

dell’Alzheimer, anticipiamo, infatti, solo una parte dell’impianto<br />

che fa muovere gli eventi e i personaggi e via via li<br />

dirama in altre direzioni e predispone a letture differenti. Lo<br />

testimonia bene il fatto che il finale coincida in modo circolare<br />

con l’inizio: conoscendo già “tutto”, si tratterà di farsi<br />

largo tra quelle evocative nebbie appenniniche e iniziare a<br />

separare nel flusso narrativo le offese portate dal tempo da<br />

quelle inferte a corpo e mente. Il giornalista sportivo Lino<br />

Settembre e la moglie docente universitaria Chicca godono<br />

da venticinque anni di un’intesa perfetta, per nulla incrinata e<br />

anzi rinsaldata dalla mancanza di figli. Quando i sinistri<br />

segnali della demenza degenerativa s’insinuano nella bella<br />

casa romana, s’incrementa il reticolo dei flashback che allontanano<br />

lo sfortunato Lino da una realtà e lo ricollocano in<br />

un’altra: la regressione nell’infanzia e nell’adolescenza del<br />

malato porta con sé, peraltro, non solo la cancellazione del<br />

presente nel passato con il relativo e impietoso raffronto tra<br />

lo stupore, la suspense, il fanatismo dell’età dell’emozione e<br />

il disincanto, la costrizione e l’opportunismo dell’età della<br />

rimozione, ma anche la volontaria e temeraria trasformazione<br />

dell’amore di Chicca da coniugale a materno. La sfida di<br />

Avati sta in questo gioco che rasenta l’enfasi per dimostrasi<br />

infine asciutto e struggente di flash involontari eppure inevitabili-<br />

accentuazione tragica e pessimista delle intermittenze<br />

proustiane- ovviamente in gran parte affidato alle prove davvero<br />

ardue dei protagonisti. Fabrizio Bentivoglio è un<br />

Settembre (che, guarda caso, è il titolo di uno dei più bergmaniani<br />

film di Woody Allen) in grado di superare di slancio<br />

la facile immedesimazione da documentario medico e<br />

Francesca Neri incanta per come dà spessore alle sfumature<br />

più oscure e destabilizzanti del copione; ma spiccano nell’armonia<br />

d’insieme anche gli assoli di rodati interpreti<br />

dell’Avati-touch come Lino Capolicchio, Gianni Cavina,<br />

Erica Blanc e Serena Grandi.


25<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

LA PASSIONE di Carlo Mazzacurati<br />

12-13 maggio 2011<br />

Nato a Padova nel marzo del 1956, Carlo Mazzacurati s’appassiona al cinema sin dal liceo e tenta d’iscriversi al Centro<br />

Sperimentale di Cinematografia per ben tre volte, sempre senza successo. Si trasferisce successivamente a Bologna, dove frequenta<br />

senza grandi risultati il DAMS; ricevuta una piccola eredità, decide d’investirla in un cortometraggio, “Vagabondi” (1979), che<br />

segna il suo esordio nel cinema. In seguito si dedica alla sceneggiatura: collabora allo script che verrà adoperato da Gabriele<br />

Salvatores per “Marrakech express” (1989).Debutta nel lungometraggio con “Notte italiana” (1987) , che vince il Nastro d’argento.<br />

Seguono “Il prete bello” (1989) e “Un’altra vita” (1992) .Ne “Il toro” (1994). Mazzacurati appunta ancora la propria attenzione<br />

su personaggi di perdenti in cerca d’un impossibile riscatto, come pure la protagonista di “Vesna va veloce” (1996) ; mentre<br />

ne “L’estate di Davide” (1998) mette in scena con grande sensibilità l’educazione sentimentale d’un ragazzo in vacanza nel<br />

Polesine. Nel 2000 il regista firma “La Lingua del santo”, presentato in concorso alla 57ª Mostra del cinema di Venezia. Nel 2002<br />

il regista gira “A cavallo della tigre” , rifacimento di una commedia girata da Luigi Comencini nel ‘61. Dirige nel 2004 Stefano<br />

Accorsi e Maya Sansa nel film “L’amore ritrovato”, - liberamente ispirato al romanzo di Carlo Cassola presentato fuori concorso<br />

alla 61ª mostra del cinema di Venezia. Il film è una sorta di esplorazione sulle dinamiche dei rapporti, nello stile tipico del regista.<br />

“La giusta distanza” concorre alla II edizione della Festa del Cinema di Roma.<br />

Interpreti: Silvio Orlando (Gianni Dubois), Giuseppe Battiston (Ramiro), Corrado Guzzanti (Abbruscati), Cristiana Capotondi<br />

(Flaminia Sbarbato), Stefania Sandrelli (Sindachessa), Kasia Smutniak (Caterina), Maria Paiato (Helga), Marco Messeri (Del Ghianda),<br />

Giovanni Mascherini (Jonathan), Fausto Russo Alesi (Pippo)<br />

Genere: Commedia<br />

Origine: Italia<br />

Soggetto: Umberto Contarello, Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Carlo Mazzacurati<br />

Sceneggiatura: Umberto Contarello, Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Carlo Mazzacurati<br />

Fotografia: Luca Bigazzi<br />

Musica: Carlo Crivelli<br />

Montaggio: Paolo Cottignola, Clelio Benevento<br />

Durata: 105’<br />

Produzione: Domenico Procacci per Fandango in collaborazione con RAI Cinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Da alcuni anni Gianni Dubois, regista di cinema, é in crisi di ispirazione. All’improvviso deve correre in Toscana dove<br />

una perdita nel suo appartamento rischia di rovinare un affresco del Cinquecento nella chiesetta adiacente. Per evitare una denuncia e<br />

una pessima figura, Gianni accetta la proposta del sindaco del paese di dirigere la sacra rappresentazione della Settimana Santa. In realtà<br />

non sa da dove cominciare, e solo l’incontro con Ramiro, un ladruncolo ricercato dalla polizia, sembra poter risolvere la situazione.<br />

Tra equivoci e incomprensioni, la Passione va in scena e forse Gianni trova anche la sua nuova storia.<br />

VALUTAZIONE: Dice Carlo Mazzacurati: “A dire il vero all’inizio questa storia non era nata per essere un film. Era semplicemente<br />

un racconto orale che ogni tanto mi capitava di fare. (...)Ci sono personaggi che sento molto vicini. Sono esseri che per sensibilità o<br />

inadeguatezza sono esposti più di altri alle difficoltà della vita. A volte fanno sorridere, a me per lo più commuovono”. Stavolta<br />

Mazzacurati entra a pieno titolo nella commedia, dove si ride amaramente sui problemi quotidiani e la ricerca di un equilibrio diventa<br />

così difficile da suscitare immediata complicità. C’è umorismo in molti passaggi del copione, c’è l’occhio puntato su vizi atavici (trascuratezza,<br />

pressappochismo...), c’é la sensazione che l’arte e la tradizione ‘alta’ possano rappresentare un’ancora di salvezza per la<br />

collettività. Poi c’è l’aspetto del cinema nel cinema, il film da fare, il richiamo felliniano che forse diventa il punto debole della storia.<br />

Bella invece la rappresentazione della Passione, la ‘messa in scena’: momento che fa appello alla nostra umanità fuori dal tempo e dalla<br />

storia, alla capacità di convivenza civile, di essere sempre rispettosi gli uni degli altri.<br />

56


Il Tempo - Gian Luigi Rondi<br />

Carlo Mazzacurati dolceamaro. Incline all’ironia, ma pronto a<br />

suggerire anche l’emozione, specie quando, tra le pieghe della<br />

beffa, si fanno avanti temi seri, come la Passione sul Golgota che<br />

dà il titolo al film.Si comincia sul versante del buffo perché il protagonista,<br />

che è un regista di cinema da cinque anni senza più idee<br />

né film al suo attivo, proprio mentre un produttore gli chiede<br />

finalmente un progetto per una diva acclamata, viene convocato<br />

d’urgenza nel paesino toscano dove ha una casa perché, non avendo<br />

provveduto a fare certe riparazioni, una copiosa perdita d’acqua<br />

sta danneggiando un affresco del Cinquecento in casa di un<br />

suo vicino. Il sindaco - anzi, la sindachessa -non esita a ricattarlo:<br />

o lo denuncia alle Belle Arti o lui si assume il compito dì curare,<br />

di lì a cinque giorni, per il Venerdì Santo, una rappresentazione<br />

della Passione che in quel paese aveva una lunga tradizione interrotta<br />

solo dalla morte del suo ideatore.Da qui un susseguirsi di<br />

eventi che mettono a dura prova il regista: per un verso costretto<br />

a tener a bada il produttore che da Roma chiede con insistenza<br />

notizie e, a un certo momento, anche la stessa diva venuta fin lì<br />

per rendersi conto delle sue idee sul film, per un altro, intento a<br />

metter su alla meglio quella Sacra Rappresentazione che, ad ogni<br />

tappa, accumula contrattempi o disastri, nonostante, ad una svolta,<br />

un ex galeotto pentito si impegni a risolvere anche le situazioni<br />

più ardue, tra cui il fallimento di uno pseudo attore ingaggiato<br />

per interpretare Gesù. Tre croci su un monte e una notte di tempesta<br />

susciteranno alla fine un’atmosfera tutta diversa: coinvolgendo<br />

e commuovendo. Mentre il regista, forse, troverà la sua<br />

strada.Un equilibrio attento di tutti gli elementi: all’inizio le disavventure<br />

del protagonista, ora espresse con partecipazione ora<br />

con umorismo. In seguito la caricatura colorita, però sempre con<br />

misura, di quella cornice quasi rurale in cui tutti i difetti vengono<br />

a galla, suscitando il riso, spesso con commiserazione. Per concludere,<br />

appunto, con quel Golgota paesano che sa vestirsi di<br />

sacro nonostante le cifre quasi opposte di prima e senza uno strappo.<br />

Lo stile di Mazzacurati.Nei panni del regista, Silvio Orlando.<br />

Sulla sua faccia tutti gli echi, i climi, i colori del film. Una interpretazione<br />

esemplare. Cito anche Giuseppe Battiston. Come ex<br />

galeotto poi crocifisso svela più di sempre un’umanità sincera e<br />

profonda. Che conquista.<br />

La Stampa - Lietta Tornabuoni<br />

Una commedia amara intelligente e divertente. Silvio Orlando è<br />

un regista di grande insuccesso: da anni non dirige un film, viene<br />

dimenticato persino negli elenchi di cineasti, una divetta televisiva<br />

può trattarlo malissimo. Nel paese toscano dove ha una casa,<br />

per incidente si trova costretto a dirigere una sacra rappresentazione,<br />

Ultima Cena, Calvario, Crocefissione di Gesù. Non se ne<br />

cura quasi affatto, a tutto provvede l’aiuto Battiston. L’attore-<br />

Gesù, Corrado Guzzanti, è insopportabile; la sindaco Stefania<br />

Sandrelli è implacabile; arrivano i guai, uno dopo l’altro. Ma alla<br />

fine lo spettacolo conquista il pubblico con la forza della propria<br />

evocazione, con la suggestione dell’antica azione, con il fascino<br />

della parola dei Vangeli (l’errore più buffo, ‘Prima che il gatto<br />

canti’ anziché il gallo, è stato corretto durante le prove). La commedia<br />

ben fatta, impasto di risate e tristezza, popolata di persone<br />

di buona volontà, è recitata magnificamente: Silvio Orlando raggiunge<br />

una brusca malinconia sfiduciata, Giuseppe Battiston si<br />

mostra arrivato a una bravura matura e insieme leggera, Corrado<br />

Guzzanti è insuperabile.<br />

Il Messaggero - Fabio Ferzetti<br />

Un regista sull’orlo di una crisi di nervi (Orlando). Un paesino<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

57<br />

sospeso fra tradizione e imbarbarimento (anche la Toscana non è<br />

più quella di una volta). Una sindachessa ipocrita e feroce<br />

(Sandrelli) ma non più della media nazionale. E uno spettacolino<br />

da allestire per ricatto, nello sperduto borgo toscano, che parte<br />

come una trappola ma poi diventa una grande occasione di riscatto<br />

artistico ed esistenziale. Di più: la prova che anche un regista<br />

di sicuro insuccesso, alle prese con le proprie e le altrui miserie,<br />

può ritrovare l’orgoglio per dire malgrado tutto, ‘Noi qui ci mettiamo<br />

l’anima!’. Gli americani hanno il musical, noi la sacra rappresentazione,<br />

ma le cose non cambiano. Se c’è da mettere in<br />

scena a tutti i costi uno spettacolo, la metafora è dietro l’angolo.<br />

‘The show must go on’, e “La Passione” di Mazzacurati riformula<br />

il vecchio mito della provincia foriera di rinascite e riconciliazioni.<br />

Stravolto dalla disoccupazione (e dalle proposte dementi<br />

che intasano la segreteria telefonica), il regista in crisi rompe l’isolamento<br />

scaricando l’isterica divetta tv (Capotondi) e ribaltando<br />

i ruoli. Volete lo spettacolo (la Passione di Cristo, allestita ogni<br />

anno nel paesino)? Benissimo, ma non basta fare gli spettatori.<br />

Dovete anche recitarci, per quanto impreparati e svogliati possiate<br />

essere... Così quel paesino diviso fra autoderisione, rassegnazione<br />

e voglia di farcela, diventa l’emblema di tutto il Bel (?)<br />

paese. Peccato che, se la morale è chiara, la fiaba è un poco fiacca,<br />

le gag spesso stiracchiate, i momenti felici (i bambini delle<br />

scuole messi a copiare a mano il testo, perché le fotocopiatrici del<br />

paesino sono tutte inservibili) si alternano ad altri di grana grossa.<br />

Forse fa parte della metafora. Rinascere si può e si deve. Ma<br />

la strada è ancora lunga.<br />

Il Giornale - Maurizio Cabona<br />

Dopo il passaggio a Venezia, una commedia semplice, dove si<br />

ride e si sorride. A patto, però, di non detestare in modo viscerale<br />

il mondo dello spettacolo e le sue atmosfere. Perché qui di questo<br />

si tratta, d’una riflessione scanzonata sul mestiere del regista, che<br />

se non è arrivato, è nessuno e quindi patisce le pene dell’inferno,<br />

aspettando un ingaggio qualsiasi e rodendosi il fegato. Gianni<br />

Dubois, infatti, interpretato da un Silvio Orlando contenuto e ironico,<br />

da cinque anni non batte chiodo: il telefono tace e di dirigere<br />

un film non se ne parla. Ma la Provvidenza gli aprirà una porta:<br />

ecco una fiction in tivù, con la stella del momento (Cristiana<br />

Capotondi). Idee per il copione, però, zero. In più, lo sfigato protagonista<br />

provoca un incidente domestico, mandando in rovina un<br />

prezioso affresco del Cinquecento, sulla parete d’una chiesetta<br />

adiacente alla sua casa toscana. Il risarcimento? Allestire lo spettacolo<br />

d’una Passione, con processione e tutto, in cinque giorni<br />

appena, manda a dire il sindaco del paesino (Stefania Sandrelli)...<br />

È chiaro il procedimento metaforico di Carlo Mazzacurati, regista<br />

già apprezzato ne “La giusta distanza”. La Passione di Cristo<br />

rappresenta la crisi creativa del cineasta (il povero cristo, appunto),<br />

mentre la Resurrezione coincide con l’agognato provino.<br />

Magari, qua e là, si sopravvaluta la possessione artistica, che colpisce<br />

Gianni, però le battute spiritose non mancano (‘Gli dai un<br />

dito e si prende pure la coscia’) e riesce efficace quel gigione di<br />

Corrado Guzzanti, pettinato come Renato Zero, mentre - da metereologo-attore,<br />

nella parte di Gesù - legge un copione manoscritto<br />

dai bambini d’una scuola, visto che pure la fotocopiatrice ha<br />

dato il due di picche... Ben assortito il cast: dalle graziose Kasia<br />

Smutniak, in veste di barista e Cristiana Capotondi, brava come<br />

stellina rompiscatole, al bonario ex-galeotto pazzo per il teatro<br />

(Giuseppe Battiston), l’oliato meccanismo gira, infine, intorno a<br />

un perno ben noto: la ‘passione’ di chiunque abbia a soffrire a<br />

causa del lavoro, quello assente e quello presente. Tema attuale,<br />

quindi, svolto però con freschezza.


26<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

POTICHE - La bella statuina<br />

di François Ozon<br />

19-20 maggio 2011<br />

(1967 Parigi ). Ozon da giovane inizia a lavorare come modello, ma ben presto si appassiona alla settima arte, si laurea in storia<br />

del cinema nel 1993 alla scuola di cinema La Fémis, in quegli anni inizia a realizzare un elevato numero di cortometraggi, fino al<br />

1998, quando debutta con il suo primo lungometraggio. “Sitcom - La famiglia è simpatica”, che lo pone all’attenzione come uno<br />

dei più interessanti tra i nuovi autori del cinema francese. La sua fama si consolida grazie a pellicole come “Amanti criminali” e<br />

“Gocce d’acqua su pietre roventi”, quest’ultima basata su un’opera scritta R.W.Fassbinder. Nel 2000 dirige “Sotto la sabbia”,<br />

primo film della cosiddetta trilogia del lutto, che si chiude nel 2005 con la pellicola “Il tempo che resta”. Ma il successo internazionale<br />

arriva nel 2002 con “8 donne e un mistero”, dove raduna diverse generazioni di attrici francesi e confeziona uno dei suoi<br />

film più noti al grande pubblico. Nel 2007 dirige “Angel - La vita, il romanzo”, prima produzione girata in lingua inglese. Nel 2009,<br />

invece, dirige la fiaba “Ricky - Una storia d’amore e libertà”, presentato alla 59ª edizione del Festival di Berlino.<br />

Interpreti: Gérard Depardieu, Catherine Deneuve, Judith Godrèche, Jérémie Rénier, Karin Viard, Fabrice Luchini, Évelyne Dandry,<br />

Sinead Shannon Roche<br />

Genere: commedia<br />

Origine: Francia<br />

Soggetto: Ispirato all’omonimo romanzo di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy<br />

Sceneggiatura: François Ozon<br />

Fotografia: Yorick Le Saux<br />

Montaggio: Laure Gardette<br />

Durata: 103’<br />

Produzione: Mandarin Cinéma, Eric Altmayer, Nicoals Altmayer<br />

Distribuzione: BIM<br />

SOGGETTO: 1977, Sainte-Gudule, Francia settentrionale. Robert Pujol, ricco industriale, dirige con pugno di ferro la sua fabbrica di<br />

ombrelli, mostrandosi dispotico anche con i figli e con Suzanne, la “moglie-trofeo”, sottomessa e costretta alla vita domestica. Quando<br />

gli operai entrano in sciopero e sequestrano Robert, Suzanne lo sostituisce alla guida della fabbrica. A sorpresa, la donna rivela una<br />

gran competenza e capacità d’azione. Ma Robert torna dal suo viaggio di riposo in forma smagliante e tutto si complica...<br />

VALUTAZIONE: Potiche, ovvero una lezione di recitazione. E così potremmo continuare a lungo. Il film in questione, ennesima interessante<br />

opera del cineasta francese François Ozon.In ogni caso, Ozon ha realizzato una commedia, vagamente surreale, di raro equilibrio<br />

formale, nonostante la pericolosa (a livello estetico) ambientazione anni settanta e la volontaria tendenza a un’impostazione<br />

visuale kitsch. Pur ammiccando in modo velato alla saga Peppone-Don Camillo, l’incontro scontro tra la padrona/industriale Suzanne<br />

(Catherine Deneuve) e il sindaco comunista/rivoluzionario Babin (Gérard Depardieu) è in realtà la metafora (ma neanche tanto) di quell’accordo<br />

politico avvenuto nei decenni successivi (ottanta/novanta) tra certa sinistra riformista e alcuni potentati economici.Ma è la<br />

forza dei personaggi femminili a farla da padrone in questo lungometraggio, tutti ben delineati, divertenti e ironici.<br />

58


Nonsolocinema - Ilaria Falcone<br />

Potiche è il nuovo film del creativo e brillante regista francese<br />

Francois Ozon, in concorso alla 67. Mostra Internazionale<br />

d’Arte Cinematografica. Per la terza volta, nella sua prolifica<br />

filmografia, Ozon adatta per il grande schermo una piece teatrale<br />

(dopo “Gocce d’acqua su pietre roventi” e “8 donne e un<br />

mistero”).<br />

Il termine “potiche”, equivalente italiano della “bella statuina”,<br />

designa una specie di grosso vaso o altro oggetto decorativo<br />

privo di grande valore, che si mette su un mobile o una<br />

mensola del camino allo scopo di arredare un locale, senza<br />

che abbia una vera utilità. Ed è così che viene considerata<br />

Suzanne (Catherine Deneuve), una moglie tutta casa e famiglia,<br />

consorte dipendente dal marito Robert Pujol (Fabrice<br />

Luchini), che dirige una fabbrica di ombrelli. La figlia stessa<br />

crede che la madre si diletti a fare la bella statuina. L’uomo ha<br />

un atteggiamento freddo e sprezzante, dispotico, nei confronti<br />

della famiglia e dei suoi dipendenti. A seguito di uno sciopero<br />

e del sequestro del marito, Suzanne si ritrova a prendere<br />

in mano le redini della situazione: interagisce con i sindacati,<br />

pianificando la nuova gestione della fabbrica. Con grande<br />

sorpresa di tutti, figli compresi, si rivela una donna intelligente,<br />

con coraggio e determinazione da vendere.Una bella<br />

statuina, ma non certo di porcellana. La situazione si complica<br />

quando Robert ritorna in piena forma, pronto a riprendere<br />

sotto la sua guida tutto e tutti. Anche perché nella vita di<br />

Suzanne si è riaffacciato un antico amore, Babin (Gerard<br />

Depardieu). Potiche è una storia crudele, arguta, divertente,<br />

che arriva dopo Il rifugio, storia di, e su, drammi, sfumate<br />

rinascite, paure incallite e nuove speranze. Ozon ha diretto un<br />

film sul ruolo della donna nella società, sulla sua emancipazione;<br />

tratto dall’opera teatrale di Barillet e Grédy, è ambientato<br />

nel 1977, ma la voglia narrativa di affrontare questo tema<br />

è venuta al regista perché “ volevo evidenziare il maschilismo<br />

che ho visto durante la campagna elettorale che ha contrapposto<br />

Sarkozy a Segolene Royale.” Da questo spunto ha realizzato<br />

un adattamento disinvolto, partendo dalla situazione<br />

della donna negli anni Settanta e sulla divisione di classe:<br />

borghesia e operai.<br />

Potiche è un allegro melodramma, che evoca il tono e la verve<br />

di certe screwball comedies, con quel tocco musicale delicato<br />

e improvviso che alletta gli occhi e allieva l’animo. A coronare<br />

un film, semplicemente squisito e spietato, una coppia<br />

stupenda, la Denueve e Depardieu, che duettano con una maestria<br />

esilarante. L’immedesimazione o l’empatia che si prova<br />

nei confronti di Suzanne è immediata, il suo personaggio<br />

regala risvolti “sovversivi” leggeri e smaglianti. Diretta già da<br />

Ozon in 8 donne e un mistero, qui aggiunge anche quel tocco<br />

di ironia superba, che si plasma su un personaggio magnifico.Potiche<br />

dimostra l’estrosa e sensibile arte di un regista, che<br />

sa passare da un genere all’altro, con amore e passione, dal<br />

dramma alla commedia, con eleganza, curiosità e scioltezza.<br />

La delicata e trascinante forza di Potiche appassiona, dai<br />

colori ai dialoghi spiazzanti, dalla forza che ogni gesto e ogni<br />

sguardo comunica, senza retorica, riuscendo sempre ad alleggerire<br />

armoniosamente la vita.<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

59<br />

Filmup.com - Monica Cabras<br />

Potiche, dal francese, è un vaso, un oggetto decorativo di<br />

poco valore, che non ha alcuna pretesa di essere utile, ma esiste<br />

solo per arredare e ornare un mobile, una mensola, o il<br />

camino.È questo è il ruolo che Francois Ozon ha scelto per<br />

Catherine Deneuve, in un film intitolato, appunto, “Potiche”,<br />

tratto dalla pièce teatrale di Barillet e Grédy, prolifici autori<br />

teatrali del genere francese definito “boulevard”. La celebre<br />

attrice francese, infatti, in questo film interpreta Suzanne,<br />

figlia di un industriale, la cui fabbrica è stata rilevata dal<br />

marito despota e tirannico, e il cui unico scopo è quello di<br />

essere una buona moglie, una buona mamma, senza mai contraddire<br />

nessuno, ma anzi, cercare sempre la mediazione e il<br />

rappacificamento: insomma, una bella statuina, come la definisce<br />

la figlia. I problemi sorgono quando il marito si deve<br />

allontanare dalla fabbrica per motivi di salute, e in un periodo<br />

tumultuoso in cui gli operai chiedono un contratto più adeguato.<br />

La brava Suzanne, supportata dal sindacalista Babin,<br />

(Gerard Depardieu), decide di sedere nel posto che era stato<br />

prima del padre e poi del marito e con il suo spirito accomodante<br />

e arguto riesce a risollevare le sorti della fabbrica, rendendo<br />

felici gli operai e aumentando produzione e<br />

profitti.Sembrerebbe la classica fine da “...e vissero tutti felici<br />

e contenti” se non fosse per il marito, che al rientro dal suo<br />

ritiro sanitario, rivendica la sua poltrona...Ambientato negli<br />

anni ’70, il film descrive bene un’epoca di tumulti individuali<br />

e collettivi, dove la lotta di classe definisce profonde barriere<br />

interpersonali. La regia e la fotografia, così colorate e<br />

frizzanti, si sposano bene con il fermento di quegli anni. I<br />

costumi e le scenografie sono perfetti e così accurati nei dettagli<br />

che ci si chiede come sia possibile che “Potiche” sia un<br />

film girato nel 2010.Ed è appunto questo il problema, il film<br />

risponde talmente bene ai clichè della commedia francese<br />

anni ’70, negli argomenti, nei dialoghi, nelle situazioni comiche,<br />

che finisce per diventare anacronistico. E ad aumentare<br />

questa sensazione, c’è la presenza di due attori come la<br />

Deneuve e Depardieu, che in quel periodo hanno visto l’acme<br />

della propria carriera. Vederli ora così... bisogna dirlo...<br />

invecchiati, che si lanciano sguardi languidi e sorrisi maliziosi,<br />

in memoria di un fugace momento di rovente passione di<br />

gioventù, conferisce al film quell’aria malinconica e nostalgica<br />

che mal si sposa con l’intento di creare una commedia<br />

divertente e pungente. Senza nulla togliere agli amori senili,<br />

e alla dolcezza, tenerezza e passione che si possono sentire e<br />

riscoprire anche in tarda età, ciò che intendo è che in questo<br />

film, la situazione che si crea è quella in cui gli attori, e la loro<br />

fama passata, soggiogano l’attenzione del pubblico, modificando<br />

l’intento dei realizzatori del film, facendo passare in<br />

secondo piano la storia, la sua realizzazione, la caratterizzazione<br />

dei personaggi di contorno, se pur così attenta e ironicamente<br />

preziosa.In conclusione, “Potiche”, è una commedia<br />

semplice, che diverte senza alcuna pretesa, adatta a chi vuol<br />

fare un tuffo nella memoria... una sorta di vaso antico che un<br />

po’ stona con l’arredamento moderno, ma che per motivi<br />

affettivi non possiamo buttare via.


27<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

WE WANT SEX di Nigel Cole<br />

26-27 maggio 2011<br />

(Il film uscirà nelle sale italiane il 3 dicembre 2010)<br />

Nigel Cole (Regno Unito, 1959) ha esordito alla regia con il lungometraggio “Saving Grace” (L’erba di Grace, 2000), che ha vinto<br />

un British Independent Film Award per il Miglior regista e il Premio del pubblico al Sundance Film Festival. Nel 2003 ha realizzato<br />

“Calendar Girls”, che ha ottenuto un enorme riscontro di pubblico e critica. Sono seguiti “A Lot Like Love” (Sballati d’amore,<br />

2005) e “$5 a Day” (2008). Nigel ha diretto la serie di documentari sulla natura “In the Wild” (1993), che ha incluso gli episodi:<br />

Galapagos with Richard Dreyfuss (1996) e Orangutans with Julia Roberts (1998), che ha vinto un Genesis Award per PBS<br />

Documentario dell’anno. Per la televisione ha diretto la serie “Cold Feet” (1997) e il medical drama “Peak Practice” (1993).<br />

Interpreti: Sally Hawkins, Bob Hoskins, Miranda Richardson, Rosamund Pike, Andrea Riseborough, Daniel Mays, Jaime Winstone,<br />

Kenneth Cranham, Rupert Graves, John Sessions, Richard Schiff, Geraldine James, Roger Lloyd Pack<br />

Genere: Drammatico<br />

Origine: Gran Bretagna<br />

Sceneggiatura: William Ivory<br />

Fotografia: John de Borman<br />

Musica: David Arnold<br />

Montaggio: Michael Parker<br />

Durata: 113’<br />

Produzione: Stephen Wooley Elizabeth Karlsen - Number 9 Films<br />

Distribuzione: Lucky Red<br />

SOGGETTO: Rita O’Grady guidò nel 1968 a Ford Dagenham lo sciopero di 187 operaie alle macchine da cucire che pose le basi per<br />

la Legge sulla Parità di Retribuzione. Lavorando in condizioni insostenibili e per lunghe ore rubate all’equilibrio della vita domestica,<br />

le donne della fabbrica della Ford di Dagenham perdono la pazienza quando vengono riclassificate professionalmente come “operaie<br />

non qualificate”. Con ironia, buon senso e coraggio riescono a farsi ascoltare dai sindacati, dalla comunità locale ed infine dal governo.<br />

Rita, la loquace e battagliera leader del gruppo, risulterà un ostacolo non facile per gli oppositori maschi e troverà nella battaglia<br />

della deputata Barbara Castle la sua eco per affrontare il Parlamento, maschilista.<br />

VALUTAZIONE: Una storia che è “Storia”, con la S maiuscola, per un film ben fatto, con un cast all’altezza, una fotografia sbiadita<br />

e vintage, una ricostruzione dell’epoca accettabile ed uno script chiaro nel raccontare i fatti, così come avvennero, ma senza mai entusiasmare.<br />

Nigel Cole da’ la sensazione di non lasciarsi mai andare, di tenere il freno a mano tirato, con la sua proverbiale ironia troppo<br />

spesso trattenuta, facendo così scorrere il film in maniera fluida, senza però coinvolgere eccessivamente lo spettatore. Autentico titolo<br />

femminista, con il ‘girl power’ vero protagonista, il film ha il merito di portare sul grande schermo una pagina fondamentale nella<br />

storia delle battaglie per i diritti, mostrando una donna finalmente consapevole della propria forza e pronta a scendere in strada per chiedere<br />

rispetto ed uguaglianza, troppo spesso, ancora oggi, dimenticati.<br />

60


Eco del Cinema - Domenica Quartuccio<br />

Quello che le donne della fabbrica Ford di Dagenham vogliono<br />

non è il sesso, ma la parità dei sessi nella paga. Siamo nei<br />

sobborghi di Londra, nel 1968, e Rita (Sally Hawkins) è una<br />

brava lavoratrice e anche una brava mamma e moglie. La<br />

situazione lavorativa sua e delle altre 186 donne della fabbrica<br />

(a fronte di una presenza di 500 mila uomini) non è certo<br />

delle migliori: condizioni lavorative insostenibili e paga al di<br />

sotto di quella maschile, nonostante il loro lavoro sia qualificato<br />

quanto quello degli uomini. Queste le premesse che<br />

daranno il via ad una delle lotte sindacali più importanti della<br />

storia inglese e che porteranno, nel 1970, alla legge che parificherà<br />

il trattamento economico tra uomini e donne e faranno<br />

della Ford una delle fabbriche più all’avanguardia in questo<br />

settore. Nigel Cole, già piacevolmente conosciuto grazie a pellicole<br />

quali “L’erba di Grace” del 2000 e “Calendar Girls” del<br />

2003, sceglie di portare alla luce una storia sorprendente che è<br />

rimasta sconosciuta per quasi 42 anni con l’intento proprio di<br />

farla conoscere al grande pubblico. Presentato al Festival del<br />

Film di Roma 2010, nella sezione Fuori Concorso, “We Want<br />

Sex” è una commedia dai toni leggeri ma nello stesso tempo<br />

forti. Quello che queste donne sono riuscite a fare in un’epoca<br />

fortemente maschilista, come quella della fine degli anni 60, è<br />

ammirevole. Il cast è davvero notevole, le protagoniste, Sally<br />

Hawkins e la grande Miranda Richardson, sono convincenti,<br />

interpretano con entusiasmo i loro ruoli e riescono a trasmettere<br />

lo spirito combattivo di cui erano provviste le vere lottatrici<br />

dell’epoca. La pellicola è essenzialmente basata sul concetto<br />

di uguaglianza, quella tra uomini e donne, ma anche<br />

quella tra persone di ceti sociali diversi. È questo che colpisce<br />

della storia, la naturalezza con cui Rita acquisisce pian piano<br />

la consapevolezza di essere come gli altri e, di conseguenza, di<br />

dover pretendere uguaglianza di trattamento. Nel cast anche<br />

un grande Bob Hoskins.<br />

Movieplayer.it - Alessia Starace<br />

1869. Sulle rive del Tamigi sorge lo stabilimento industriale più<br />

grande d’Europa, quello della Ford di Dagenham, che impiega<br />

55.000 operai uomini, e 187 donne, impiegate nell’assemblamento<br />

dei rivestimenti dei sedili delle vetture, e recenti vittime<br />

di un ingiusto declassamento che le pone a un livello subordinato<br />

rispetto a colleghi uomini che hanno mansioni molto meno<br />

specializzate. Questa è la scintilla che innesca un a situazione<br />

potenzialmente esplosiva: spronate dalla timida ma risoluta<br />

Rita O’Grady, le operaie avviano un’azione senza precedenti,<br />

uno sciopero a oltranza che, grazie all’incoraggiamento di un<br />

coraggioso sindacalista, si trasforma in una pionieristica protesta<br />

per ottenere la parità La battagliera Rita - interpretata dall’adorabile<br />

e bravissima Sally Hawkins - guida le fila di un’azione<br />

che, generata dalla volontà unanime delle ragazze di<br />

Dagenham, le portetà inaspettatamente lontano: una storia vera,<br />

quella narrata nel film di Nigel Cole, che paradossalmente in<br />

Inghilterra nessuno conosce. Ma a rendere la terra d’Albione<br />

uno dei paesi democraticamente avanzati sono state persone<br />

come queste, animate da un principio e sostenute dalla solidarietà<br />

reciproca. È con levità e brio che Nigel Cole, già delicato<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

61<br />

narratore di vicende al femminile in Calendar Girls e L’erba di<br />

Grace, dà vita ai ricordi delle scioperanti di Dagenham, ispiratrici<br />

e anima autentica della pellicola. Più che lo spirito degli<br />

Swinging Sixties, il cui glamour ha catturato tanti cineasti, a<br />

Cole e allo sceneggiatore William Ivory interessa ricreare lo<br />

spirito di queste donne, naturalmente unite, capaci di fare per<br />

tanti anni buon viso a cattivo gioco lavorando in condizioni<br />

proibitive nello stabilimento della Ford, e dotate di un distintivo<br />

working class humour. L’entusiasmo e la forza d’animo<br />

delle protagoniste è effettivamente contagioso, e assieme alla<br />

bravura degli interpreti - accanto alla Hawkins, anche un simpatico<br />

Bob Hoskins, uno spigoloso Richard Schiff e una solare<br />

Miranda Richardson (che interpreta il ministro laburista<br />

Barbara Castle) - contribuisce ad abbassare le difese dello spettatore,<br />

a fronte di una sceneggiatura forse un po’ prevedibile e<br />

semplicistica nello sviluppo, e a intrattenere con efficacia, seppure<br />

in maniera epidermica. La leggerezza con cui si affrontano<br />

argomenti importanti e si sfiorano problematiche drammatiche<br />

è comprensibile se si inquadra il film per quello che è, una<br />

commedia indirizzata a un pubblico vasto e poco selettivo.<br />

Peccato che, pur appassionando alle gesta delle protagoniste e<br />

celebrando l’impresa riuscita 42 anni fa a un gruppo di tenaci<br />

donne inglesi, il film faccia poco per risollevare il dibattito su<br />

questioni ancora estremamente attuali.<br />

35mm.it - Silvia Marinucci<br />

Sono forti e determinate le donne di Nigel Cole. La pellicola,<br />

tratta da una storia vera mai raccontata, porta alla luce il primo<br />

sciopero femminile avvenuto nel 1968: un gruppo di operaie<br />

inglesi della Ford chiede ai propri dirigenti la parità salariale.<br />

È ‘colorato’, ironico e avvincente il ritratto di Nigel, la sua<br />

macchina da presa segue passo dopo passo la ‘lotta’ senza<br />

sosta di questo gruppo di ‘ribelli’. Cole dimostra una sensibilità<br />

e un’attenzione particolare al tema della parità sessuale.<br />

Senza mai essere scontato o banale riesce a centrare l’obiettivo.<br />

Non dà giudizi e non ne ha bisogno. Lascia che a parlare<br />

siano i fatti, le immagini, le incredibili interpretazioni delle<br />

protagoniste. Non si tratta di femminismo, ma di ‘lotta sociale’:<br />

il regista inglese regala una ‘lezione di storia’, raccontando<br />

avvenimenti che hanno letteralmente cambiato il futuro<br />

della classe lavoratrice femminile. Non a caso, accanto alle<br />

operaie, c’è una donna (moglie di un manager) - colta - laureata<br />

in storia in una delle migliori università - alla quale non<br />

è permesso esprimere le proprie ambizioni a causa di suo marito.<br />

Ma non solo. La stessa sorte spetta anche a Barbara Castle,<br />

deputata in Parlamento. Ognuna di loro ha ‘combattuto’ in<br />

prima linea per cambiare le cose, con semplicità, senza far<br />

ricorso a partiti o uomini di potere. Impossibile non sorridere,<br />

non partecipare e non emozionarsi. L’ambientazione è perfetta,<br />

la sceneggiatura priva di sbavature. Lontano dai toni grigi<br />

e cupi dei cosiddetti ‘film sociali’, Cole ha il merito di trovare<br />

la giusta chiave di lettura. L’ironia è la sua carta vincente. A<br />

coadiuvarlo nell’impresa un nutrito cast di attrici, tra le quali<br />

emorgono Sally Hawkins (alias Rita O’Grady, a capo della<br />

protesta) e una incisiva e ‘infuocata’ Miranda Richardson. Il<br />

gioco è fatto. La meta raggiunta.


28<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

UNA VITA TRANQUILLA di Claudio Cupellini<br />

9-10 giugno 2011<br />

venerdì 10 giugno 2011 - ore 19,00<br />

Manifestazione di fine stagione e proiezione con premiazione del concorso CineCortoRomano<br />

Il primo spettacolo di venerdì avrà inizio alle ore 15,00<br />

Claudio Cupellini (Padova 1973) è stato allievo di Paolo Virzì e Daniele Lucchetti al Centro Sperimentale di Cinematografia di<br />

Roma. Dal 1999 al 2005 realizza diversi cortometraggi fra cui: “Le diable au vélo”, esordio alla regia, “Chi ci ferma più” (2004)<br />

e “La talpa” (2005). Nel 2006 dirige “La donna del Mister” episodio del film “4-4-2 Il gioco più bello del mondo”. Debutta nel<br />

lungometraggio con la commedia “Lezioni di Cioccolato”, che ottiene la nomination al David di Donatello (2008). “Una vita tranquilla”,<br />

da un soggetto vincitore del Premio Solinas (2001), scritto in collaborazione con Filippo Gravino e Guido Iuculano, è il suo<br />

secondo lungometraggio.<br />

Interpreti: Toni Servillo (Rosario Russo), Marco D’Amore (Diego), Francesco Di Leva (Edoardo), Giovanni Ludeno (Enzino),<br />

Maurizio Donadoni (Claudio), Juliane Kohler (Renate), Leonardo Sprengler (Mathias), Alice Dwyer (Doris)<br />

Genere: drammatico/noir<br />

Origine: Italia/Francia/Germania<br />

Soggetto: Il film è tratto dal soggetto “Il Nemico dell’Acqua” di Filippo Gravino vincitore del Premio Solinas 2003<br />

Sceneggiatura: Claudio Cupellini, Filippo Gravino, Guido Iuculano<br />

Fotografia: Gergely Poharnok<br />

Musica: Teho Teardo<br />

Montaggio: Giuseppe Trepiccione<br />

Durata: 105’<br />

Produzione: Fabrizio Mosca - Acaba Produzioni, Babe Films, Eos Entertainment; in collaborazione con Rai Cinema, Canal +,<br />

Cinecinema<br />

Distribuzione: 01 Distribution<br />

SOGGETTO: Rosario Russo ha poco più di cinquanta anni. Da dodici vive in Germania dove gestisce, insieme alla moglie Renate,<br />

un albergo ristorante. La sua vita scorre serena: ha un bambino (Mathias), un aiuto cuoco (Claudio) che è anche un amico, e molti progetti<br />

per il futuro.Un giorno di febbraio, però, tutto cambia. Nel ristorante di Rosario arrivano due ragazzi italiani. Il primo si chiama<br />

Edoardo ed è il figlio di Mario Fiore, capo di una delle più potenti famiglie di camorra. L’altro si chiama Diego, e Rosario lo riconosce<br />

subito perché Diego è suo figlio. Non si vedono da quindici anni, da quando Rosario si chiamava Antonio De Martino ed era uno<br />

dei più feroci e potenti camorristi del casertano.Allora si era fatto credere morto e si era ricostruito una seconda vita in Germania...<br />

Diego all’epoca aveva dieci anni, ora è cresciuto…<br />

VALUTAZIONE: Claudio Cupellini, che si era già fatto apprezzare con la commedia brillante “Lezioni di cioccolato”, cambia completamente<br />

genere e firma insieme ai bravi Guido Iuculiano e Filippo Gravino, premio Solinas nel 2003, uno straordinario thriller dalle<br />

atmosfere lunari e gelide, con una sceneggiatura strepitosa in cui primeggiano i dialoghi, in italiano, in dialetto napoletano e in tedesco.<br />

Nei ruoli dei protagonisti un impeccabile Toni Servillo, Marco D’Amore, giovane promessa del cinema italiano, nella parte di<br />

Diego, dallo sguardo feroce e malinconico e servo della camorra insieme all’amico d’infanzia Eduardo, interpretato dall’intenso<br />

Francesco Di Leva.<br />

62


Cinematografo.it - Valerio Sammarco<br />

Domani mattina parti per Amburgo. Ti tagli la barba, ti fai<br />

crescere i capelli, impari il tedesco e lavori tutto il giorno. La<br />

sera vai a letto presto, devi diventare un fantasma. E tra un<br />

anno cambi lavoro. Se tutto va bene avrai una vita tranquilla”.<br />

Rosario lo sa, per sopravvivere e tutelare quel figlio ora cresciuto,<br />

d’altronde, quindici anni prima aveva lasciato la<br />

Campania, la moglie e il bambino, per nascondersi in<br />

Germania, rifarsi un nome (il primo, quello vero, era Antonio<br />

De Martino), una famiglia, una vita. Ma nell’albergo-ristorante<br />

tra i boschi che ora conduce, l’arrivo a sorpresa di<br />

Diego, suo figlio, e del “collega” Edoardo, rimette seriamente<br />

in discussione quel lungo periodo di copertura: quel passato<br />

che sperava si fosse scordato di lui è tornato a riprenderselo.Ha<br />

più di qualche merito l’opera seconda di Claudio<br />

Cupellini, Una vita tranquilla: primo tra questi, il sapersi<br />

rivolgere allo spettatore senza costringerlo ai soliti, didascalici<br />

prologhi o eventuali pregressi dei personaggi principali.<br />

Del resto, insieme a Toni Servillo - bravo davvero ad incarnare<br />

il conflitto interiore di un uomo con un passato da<br />

nascondere e un presente da difendere, a mischiare con naturalezza<br />

parlata napoletana e lingua tedesca - e ai due esplosivi<br />

giovani camorristi (Marco D’Amore e Francesco Di Leva,<br />

rabbia e rancore trattenuti uno, istintivo e folle l’altro,<br />

entrambi da continuare a tenere d’occhio), il protagonista<br />

vero del film è proprio quell’ombra, strisciante e pesantissima,<br />

di un’epoca invisibile ma impossibile da dimenticare,<br />

comunque onnipresente e viva, ben resa dall’impianto di una<br />

sceneggiatura (Gravino, Iuculano, Cupellini) che dà il meglio<br />

di sé nella prima parte del racconto. I problemi, paradossalmente,<br />

si presentano dopo, proprio insieme al definitivo arrivo<br />

sulla scena di quel passato fino ad allora solamente sussurrato:<br />

la camorra torna a prendersi Rosario, e con lui il film,<br />

dando il via ad un’escalation di avvenimenti inverosimili<br />

(possibile nessuno si accorga dell’improvvisa sparizione di<br />

Edoardo? Possibile davvero che i sicari, in macchina, non<br />

riescano ad arrivare all’autogrill di Teano dove è rimasto<br />

Mathias, il figlioletto di secondo letto di Rosario, prima del<br />

loro bersaglio, appiedato e ferito?...). Interrogativi che rimangono<br />

senza risposta, come il nuovo “futuro” del protagonista,<br />

nascosto dietro il finestrino di un pullman. Confidiamo invece<br />

in un’avvenire luminoso per Cupellini, che dopo il leggero,<br />

seppur gradevole Lezioni di cioccolato, si confronta con il<br />

dramma di genere a testa alta, con buone idee di messa in<br />

scena e qualche dolly di troppo. Non ne risentono comunque<br />

le atmosfere del film, terzo tra i titoli italiani in Concorso al<br />

Festival .<br />

Mymovies.it - Luca Marra<br />

Al centro della Germania vive Rosario, italiano cinquantenne<br />

che mischia il cinghiale con il granchio nella cucina del suo<br />

albergo. Con un bella moglie e un figlio gentile, vive felice<br />

SCHEDE FILMOGRAFICHE<br />

63<br />

ma ammazza gli alberi con i chiodi perché vuole ampliare il<br />

suo hotel. Quello che si sforza di uccidere è anche il suo passato<br />

di pluriomicida che un giorno gli fa visita sottoforma di<br />

Edoardo e Diego, due giovani di malavita, minacce per la sua<br />

“vita tranquilla”. Complice la solita monumentale prova di<br />

Toni Servillo Una Vita Tranquilla di Claudio Cupellini soffre<br />

troppo di una somiglianza registica e di sceneggiatura con il<br />

Sorrentino di Le conseguenze dell’amore. Servillo è un Titta<br />

Di Girolamo più espansivo ma egualmente torbido che solo<br />

con i muscoli del viso apre al noir di buona fattura. Oltre questo<br />

sensibile ma circoscritto problema cinematografico,<br />

Cupellini passa bene dalla commedia di “dolci” sentimenti e<br />

product placement di Lezioni di Cioccolato al dramma di<br />

genere con profondità emotiva e accennato sfondo di cronaca:<br />

il caso rifiuti in Campania. Pellicola col taglio europeo dal<br />

collaudato tema del passato incancellabile, Una Vita<br />

Tranquilla instilla tensione fotogramma per fotogramma al<br />

ritmo delle ombre dei cattivi ricordi che coprono il plumbeo<br />

cielo tedesco e la coscienza pseudosmacchiata di Rosario. Le<br />

colpe dei padri ricadranno sui figli come pioggia di pallottole<br />

nella nera notte di qualche nonluogo e la salvezza è un’autostrada<br />

che non sappiamo dove finirà. L’unica certezza è il<br />

dubbio: si può vivere una vita tranquilla fuggendo nella nebbia<br />

ma non da se stessi?<br />

Eco del Cinema - Domenica Quartuccio<br />

Rosario (Toni Servillo) conduce una vita tranquilla: va a caccia<br />

di cinghiali che poi cucina nel suo ristorante, è innamorato<br />

della sua bella moglie Renate (Juliane Köhler) e si dedica<br />

al figlio Mathias (Leonardo Sprengler). Un giorno tutto questo<br />

cambia. Dal suo passato ritorna un fantasma, Diego (un<br />

sorprendente volto nuovo, Marco D’Amore), e la vita che credeva<br />

di aver seppellito ritorna in superficie prepotentemente<br />

costringendolo a farci i conti. In concorso al quinto Festival<br />

del Film di Roma, “Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini<br />

(“Lezioni di cioccolato” del 2007 e “4-4-2” del 2006) è davvero<br />

un’ottima pellicola che ha tutte le carte per vincere,<br />

soprattutto per via dell’encomiabile Toni Servillo. Che dire di<br />

lui che non sia già stato detto o scritto? La sua bravura è<br />

ormai innegabile, la sua capacità di diventare davvero<br />

Rosario, un napoletano emigrato in Germania, lascia a bocca<br />

aperta. A tutto questo si unisce la capacità di recitare anche in<br />

tedesco. Una continua conferma. È davvero un momento<br />

d’oro per l’attore, molti degli ultimi film di cui è protagonista<br />

sembrano scritti appositamente per lui. Al suo fianco scopriamo<br />

Marco D’Amore, un giovane attore con anni di teatro alle<br />

spalle. Sono una coppia perfetta. Il centro della storia di “Una<br />

vita tranquilla” è la duplicità dell’essere umano. Davvero ci si<br />

può liberare del proprio passato? Davvero si possono cancellare<br />

con un colpo di spugna errori e fallimenti? Davvero si<br />

può diventare un altro? Forse sì, per vigliaccheria o per coraggio,<br />

chissà. Decidetelo voi.


Appuntamenti in Programma<br />

I DIBATTITI A FINE CICLO: sono previsti sette dibattiti, che si terranno alle ore 18.00 del martedì successivo alla fine di ciascun<br />

ciclo di film , nella saletta conferenze di Via Nomentana 333/c.<br />

IL CALENDARIO:<br />

16 novembre 2010 – “Dimmi la verità. La gente non cade per le scale, succede solo nei film!” (Lluís Homar a Penélope Cruz in<br />

GLI ABBRACCI SPEZZATI)<br />

21 dicembre 2010 – “Cezanne era un primitivo, ma era un primitivo geniale. Se manca il genio, uno rimane solo un primitivo!”.<br />

(il critico d’arte Vito Signorile a Sergio Rubini in L’UOMO NERO)<br />

25 gennaio 2011 – “Il mio analista dice che non si può fare il regista nella vita: la vita non ha regia. Al massimo puoi fare l’attore!”.<br />

(Fabio De Luigi e Valeria Bilello in HAPPY FAMILY)<br />

22 febbraio 2011 – “Gli amori impossibili sono quelli che non finiscono mai, che durano per sempre!” (Ilaria Occhini a Nicole<br />

Grimaudo in MINE VAGANTI)<br />

22 marzo 2011 – “Sai, i tacchi so’ come i parenti: so’ scomodi, però aiutano!”. (la sorella Stefania Montorsi al fratello Elio<br />

Germano in LA NOSTRA VITA)<br />

3 maggio 2011 – “Per 5.000 anni di storia del teatro non sono esistite le pause. Gli attori parlavano o ascoltavano. Recitavano,<br />

non facevano mai pause!”(L’insegnante di recitazione in CITY ISLAND)<br />

8 giugno 2011 – “Un diario non serve quando sei felice!”(Francesca Neri in UNA SCONFINATA GIOVINEZZA)<br />

L’Assemblea annuale dei soci: 14 dicembre 2010 presso la sede di Via Nomentana 333/c<br />

Settimana Culturale: dal 28 marzo al 2 aprile 2011 - ad inviti - “Premio Cinema Giovane & Festival delle opere prime” VII edizione;<br />

Forum e Mostra Concorso di arti figurative<br />

Corsi culturali, organizzati dal’UPTER, presso saletta conferenze del Cinecircolo, calendario a parte<br />

LA MANIFESTAZIONE DI FINE STAGIONE E PREMIAZIONE CINECORTOROMANO:<br />

venerdì 10 giugno 2011, ore 19.00<br />

Eventi speciali ed altre manifestazioni, in data da definire<br />

È in vigore una convenzione tra l’UPTER - Università Popolare di Roma e il Cinecircolo Romano.<br />

Entrambe le organizzazioni hanno interesse a promuovere la cultura cinematografica presso i propri iscritti e più in generale presso la<br />

cittadinanza di Roma e condividono l’impegno a sostenere la promozione reciproca e a sviluppare attività culturali comuni con specifiche<br />

forme di collaborazione. Le associazioni hanno convenuto di porre in essere una collaborazione che riguarderà in particolare:<br />

scambio materiali promozionali, eventi, corsi Upter e agevolazioni per le iscrizioni.<br />

64


PROGRAMMA 46° ANNO<br />

7/8 ottobre – rinnovi Avatar di James Cameron<br />

28/29 ottobre – inaugurazione Hachiko – il tuo migliore amico di Lasse Hallström<br />

4/5 novembre – La prima cosa bella di Paolo Virzì<br />

11/12 novembre – Gli abbracci spezzati di Pedro Almodóvar<br />

18/19 novembre – L’uomo nero di Sergio Rubini<br />

25/26 novembre – Sherlock Holmes di Guy Ritchie<br />

2/3 dicembre – L’uomo che verrà di Giorgio Diritti<br />

9/10 dicembre – An Education di Lone Scherfig<br />

16/17 dicembre – Invictus di Clint Eastwood<br />

mercoledì 22 e giovedì 23 dicembre – Happy Family di Gabriele Salvatores<br />

13/14 gennaio – Innocenti bugie di James Mangold<br />

20/21 gennaio – Crazy Heart di Scott Cooper<br />

27/28 gennaio – L’amante inglese di Catherine Corsini<br />

3/4 febbraio – Mine vaganti di Ferzan Ozpetek<br />

10/11 febbraio – L’uomo nell’ombra di Roman Polanski<br />

17/18 febbraio – Robin Hood di Ridley Scott<br />

24/25 febbraio – The Last Station di Michael Hoffman<br />

3/4 marzo – La nostra vita di Daniele Luchetti<br />

10/11 marzo – Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella<br />

17/18 marzo – Affetti & dispetti – la nana di Sebastián Silva<br />

24/25 marzo – City Island di Raymond de Felitta<br />

da lunedì 28 marzo a sabato 2 aprile 2011<br />

Settimana culturale – Premio Cinema Giovane – 10 film ad inviti<br />

7/8 aprile – Bright Star di Jane Campion<br />

14/15 aprile – Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno di Woody Allen<br />

28/29 aprile – Tamara Drewe – tradimenti all’inglese - di Stephen Frears<br />

5/6 maggio – Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati<br />

12/13 maggio – La Passione di Carlo Mazzacurati<br />

19/20 maggio – Potiche – la bella statuina di François Ozon<br />

26/27 maggio – We Want Sex di Nigel Cole<br />

9/10* giugno – Una vita tranquilla di Claudio Cupellini<br />

* il primo spettacolo di venerdì 10 giugno avrà inizio alle ore 15.00<br />

Venerdì 10 giugno – ore 19.00 - Manifestazione di chiusura<br />

con proiezione e premiazione concorso CineCortoRomano<br />

per info: Via Nomentana 333/c - 068547151 - www.<strong>cinecircoloromano</strong>.it<br />

La segreteria dell’Associazione presso l’Auditorio San Leone Magno<br />

è attiva nei giorni di spettacolo dalle ore 17.00 sino alle ore 21.30,<br />

salvo diversamente indicato (06 8543216)


00198 Roma - V.le Regina Margherita, 176 - Tel. 06/855.39.82<br />

Finito di stampare nel mese di Novembre 2010

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!