Numero 39 - Ricre.Org
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ALTA UOTA i più uotati<br />
DA UN’IDEA IL PRESEPE. DAL PRESEPE UN IMPEGNO<br />
Comprendo che parlare di Presepe alla soglia della quaresima<br />
può sembrare fuori tempo, ma prima non ho ritenuto<br />
farlo per scaramanzia: in tutta sincerità non ero sicuro che<br />
ce l’avremmo fatta.<br />
Mi riferisco al Presepe che è comparso nel periodo natalizio<br />
all’interno del nostro Duomo. Vi racconto la sua<br />
storia. Come spesso accade, tutto nasce quasi per caso da<br />
un’idea che accende una passione, che contagia un gruppo<br />
di amici che poi ne fanno una sfida da vincere a tutti i<br />
costi e che alla fine riempie i cuori di soddisfazione e di<br />
buoni proposti per il futuro.<br />
Da lungo tempo tra gli amici che ogni anno si ritrovano<br />
per allestire un piccolo carro di Carnevale ricorreva l’idea<br />
di riprendere con impegno la tradizione del presepe<br />
che si era un po’ spenta a Cervignano. E così alla fine della<br />
scorsa estate, presa la decisione, ci siamo avventurati<br />
nell’impresa.<br />
In effetti rispetto alle più famose e blasonate realizzazioni<br />
conosciute avevamo una difficoltà in più: la mancanza di<br />
una localizzazione stanziale.<br />
Infatti ha assorbito molte energie e condizionato molte<br />
Guglielmo Zorzenon, classe 1923, è nato a Belvedere, ha<br />
vissuto qui fino al 1950 e poi si è trasferito a Cervignano,<br />
a Mossa, a Scodovacca e attualmente vive a Farra d’Isonzo,<br />
località Mainizza. Ha lavorato come contadino,<br />
come dipendente di una ditta di Torviscosa, e poi è entrato<br />
nell’ANAS. Di seguito il suo racconto di uno spezzone<br />
della storia di Cervignano.<br />
«A Cervignano lavoravo<br />
come mezzadro<br />
presso la<br />
famiglia Piani, che<br />
possedeva molti<br />
campi sparsi per<br />
il territorio cervignanese.<br />
Lavoravo<br />
con le regole della<br />
mezzadria, quindi<br />
vivevo in una casa<br />
fornita da loro nella<br />
piazzetta dove<br />
c’è la chiesa di San<br />
Girolamo: ancora<br />
oggi c’è la casa,<br />
ormai diroccata, dove ho abitato in quel periodo. Molte<br />
donne venivano da noi insieme ai bambini, per poter bere<br />
un po’ di latte fresco, infatti potevamo tenere degli animali<br />
da cortile. Ricordo che quando stavo per sposarmi<br />
volevo smettere di lavorare lì, ma serviva un documento<br />
per lavorare da qualche altra parte… alla fine sono dovuto<br />
andare fino dal sindaco! Anche mia sorella abitava lì ed<br />
ha imparato a cucire, faceva la sarta da Pellegrini, un negozio<br />
di abbigliamento, per accorciare o sistemare i vestiti<br />
dei clienti che compravano qualcosa nel negozio». Prima<br />
di questi ricordi cervignanesi, però, ci sono i ricordi<br />
del periodo della guerra: «Nei primi mesi del 1943 sono<br />
partito da Belvedere per andare prima a Trieste, e poi in<br />
Jugoslavia. Ero nel plotone dei mortai da 8, a tiro corto.<br />
Mettevo la spoletta per far esplodere il colpo, mi ricordo<br />
che al soldato davanti a me tremavano troppo le mani: in<br />
effetti era un lavoro pericoloso perché se qualcosa andava<br />
storto, ti scoppiava in mano. Io però non avevo più paura<br />
perché sapevo che lì morivano tante persone ogni giorno<br />
e allora se anche fosse scoppiato… ‘pazienza’. Ricordo<br />
un soldato, Scopelitti di Siracusa: aveva un figlio che non<br />
aveva mai visto perché non poteva tornare a casa perché<br />
là erano già arrivati gli americani. Spesso mi mostrava la<br />
foto e si dispiaceva di non poterlo vederlo dal vivo. Un<br />
giorno eravamo in un’osteria e bevevamo del vino con<br />
l’aranciata. C’era una collina dove si vedeva una casa<br />
capocasale.pdf 15/02/2010 19.42.54<br />
vecchia; io ero di schiena rispetto alla collina, un altro<br />
scelte la necessità di realizzare una struttura modulare e<br />
trasportabile, ma fortunatamente la disponibilità di un<br />
posto dove poter lavorare ed una buona dose di spirito di<br />
adattamento hanno contribuito a risolvere brillantemente il<br />
problema. Anzi, ha permesso a chi ha partecipato di formare<br />
un gruppo, di esprimere abilità diverse, ma anche diverse<br />
sensibilità, contribuendo ad accrescere una comune passione<br />
che ha saldato ancor più amicizie vecchie e nuove.<br />
Dal progetto iniziale al risultato finale, ciò che si voleva<br />
esprimere non doveva suscitare stupore, meraviglia o<br />
soggezione, ma trasmettere emozioni, rendere visibile la<br />
presenza di un Dio che si fa bimbo in mezzo agli uomini.<br />
In effetti proprio chi lo ha realizzato è stato il primo a<br />
coglierne difetti e spazi di miglioramento. È ben chiaro<br />
quali siamo le modifiche ha apportare, ma sono anche<br />
diverse le idee per una futura evoluzione, che ha tutto il<br />
sapore di un impegno per gli anni a venire.<br />
È un impegno che ci prendiamo, ma anche un’apertura al<br />
contributo di chiunque voglia cimentarsi nell’impresa: al<br />
prossimo Natale.<br />
GIUSEPPE ANCONA<br />
la ban a della memoria<br />
GUGLIELMO ZORZENON di Sofia Balducci<br />
soldato era di lato e Scopelitti di fronte. Nell’abitazione<br />
c’erano dei cecchini partigiani che hanno sparato verso di<br />
noi e Scopelitti è morto tra le mie braccia».<br />
Un altro ricordo: «per un periodo dormivamo in un castello,<br />
ma per entrare dovevamo passar davanti alla casa di<br />
un contadino. Io ero già malato da un po’ e dentro la casa<br />
c’era un vecchio a cui donavo le mie sigarette: per questo<br />
motivo mi avevano preso in simpatia e mi volevano<br />
bene, mi hanno portato a casa, mi davano da mangiare e<br />
da bere…mi avevano preso come un figlio anche se eravamo<br />
uno contro l’altro, perché avevano capito che non<br />
volevo fare del male a nessuno.<br />
Dopo l’armistizio mi hanno portato su un camion senza<br />
telo, solo con le sponde. Io ero malato e non sapevano<br />
come sistemarmi, finché hanno deciso di mettermi in uno<br />
scatolone, legato in un angolo del camion. Il nostro mezzo<br />
di trasporto, però, è stato sequestrato dai partigiani che<br />
volevano tutto il carico, quindi ho continuato a piedi e ho<br />
incontrato un gruppo di soldati jugoslavi che mi hanno<br />
preso in simpatia e mi hanno accompagnato verso l’Italia.<br />
Ricordo che ero per terra, malato, con la barba lunga e mi<br />
hanno puntato un faro in faccia, urlando «italiano? con<br />
il Re o con Mussolini?». Se avessi risposto “Mussolini”<br />
il mitra sarebbe già stato pronto a sparare. Questi soldati<br />
volevano aiutarmi perché avevano capito la mia condizione<br />
e mi hanno portato in una famiglia che mi ha accolto e<br />
mi ha sfamato per qualche giorno, finché mi hanno affidato<br />
a un altro gruppo di soldati e via via mi avvicinavo al<br />
confine con l’Italia. Ricordo un partigiano jugoslavo, padre<br />
di due figlie, che mi ha detto che gli avevano bruciato<br />
tutto e che non possedeva più niente. Inoltre devo dire che<br />
io mi sono salvato sia perché ero malato, sia perché non<br />
avevo mai espresso opinioni in modo avventato; chi si dimostrava<br />
più spavaldo contro i soldati jugoslavi lasciava<br />
subito la pelle, infatti mi ricordo che c’erano dei giovani<br />
papaveriepapere.pdf 19/04/2010 16.40.11<br />
militari di 16 anni o poco<br />
più che erano stati chiamati<br />
fuori e uccisi a bruciapelo.<br />
Una volta giunto a Opicina<br />
sono stato tradito da un italiano.<br />
Al mio arrivo c’erano un tedesco e un fascista italiano;<br />
quest’ultimo mi ha indirizzato verso dove c’erano<br />
quelli destinati al campo di concentramento in Germania.<br />
Invece la Croce Rossa mi ha salvato proprio perché avevo<br />
la pleurite, e quindi la febbre molto alta, mangiando stentatamente<br />
da settimane (mi ero trovato costretto a mangiare<br />
anche lumache). Ricordo che alle 5.40 sono partiti i<br />
sani e alle 6.40 i malati. Ma siamo rimasti lì in tre, tra cui<br />
io. Un tedesco ci diceva –Raus! intendendo che la Croce<br />
Rossa era già passata. Successivamente ci hanno messo<br />
su una branda e caricati su una camionetta, in cui ho detto<br />
all’autista che conoscevo una famiglia a Trieste dove potevano<br />
portarmi. Anche gli altri due miei compagni sono<br />
stati accolti in un seminario, finché sono stati recuperati<br />
dalle famiglie. Uno dei due era di Padova e ha detto che<br />
sarebbe subito andato a fare una preghiera a Sant’Antonio.<br />
Quando sono tornato a casa, mio papà mi ha fatto<br />
portare a Grado in ospedale e il dottore mi ha detto che<br />
ero molto malato. Dopo la mia guarigione avevo due scelte:<br />
prendere le armi o lavorare per i tedeschi, avevo già le<br />
carte e infatti ho lavorato per la TOT per due anni».