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I QUADERNI<br />
Fare pace<br />
Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente:<br />
culture politiche e pratiche del pacifismo dopo il 1989<br />
<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong><br />
14<br />
I LIBRI DE<br />
LO STRANIERO
Fare pace<br />
Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente: culture politiche e<br />
pratiche del pacifismo dopo il 1989<br />
<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong>
© 2011 Edizioni dell’Asino<br />
Isbn 978-88-6357-068-7<br />
Distribuzione PDE spa<br />
Progetto grafico Orecchio Acerbo<br />
Hanno collaborato:<br />
Goffredo Fofi, Francesca Nicora, Sara Nunzi,<br />
Fabio Piccoli, Ilaria Pittiglio, Nicola Villa.<br />
Le Edizioni dell’Asino sono un progetto<br />
frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero<br />
con la partnership di Redattore Sociale<br />
www.gliasini.it
Prefazione<br />
Questo quaderno è diviso in due parti.<br />
La prima include un saggio sulle culture politiche del pacifismo del secondo<br />
dopoguerra. La seconda raccoglie reportage, racconti e diari su alcuni dei<br />
teatri di guerra o di emergenza umanitaria degli ultimi vent’anni, dalla caduta<br />
del muro di Berlino fino a oggi.<br />
L’obiettivo è di fornire una cornice di riferimento generale e di dare un piccolo<br />
quadro – dal di dentro – di alcune vicende e delle conseguenze da queste<br />
prodotte sulle identità e le culture del pacifismo e dell’intervento umanitario:<br />
dalla lunga guerra jugoslava (Bosnia e Kosovo) alla guerra in Iraq, dall’infinito<br />
conflitto israelo-palestinese ai golpe e alle tensioni violente in Russia.<br />
Questo quaderno – insieme a una prima parte analitica delle culture politiche<br />
del pacifismo – racconta alcune vicende – vissute in prima persona – a continuo<br />
confronto con le idee, le convinzioni e le proposte che il pacifismo e l’intervento<br />
umanitario hanno sedimentato in questi anni, con contraddizioni, dilemmi,<br />
conflitti etici e politici.<br />
Cosa succede alla convinzione della nonviolenza, quando ti trovi nella Sarajevo<br />
assediata e i suoi abitanti ti chiedono di rinunciare ai tuoi principi pacifisti<br />
invitandoti a fare qualcosa per far tacere i cecchini che sparano dalle<br />
colline sulle persone in coda per il pane o per riempire una bottiglia d’acqua?<br />
E che cosa deve fare l’operatore umanitario quando un governo inizia una guerra<br />
(Kosovo, 1999) e nello stesso tempo ti propone (grazie alla Missione Arcobaleno)<br />
di coprire con una montagna di soldi la tua organizzazione, soldi da<br />
utilizzare a fin di bene per i profughi? Oppure, cosa succede alla tua storica<br />
convinzione di assoluto sostegno al principio di autodeterminazione del popolo<br />
palestinese, quando la confronti con il diritto alla sicurezza nelle discussioni<br />
in un kibbutz o con i pacifisti israeliani?<br />
Emergono dalle vicende vissute direttamente (e ci riferiamo alla seconda parte<br />
di questo quaderno) dei nodi di carattere più generale: la tensione tra pacifismo<br />
assoluto e pacifismo politico, le ambiguità degli aiuti umanitari, i dilemmi<br />
tra l’aiuto alle vittime della guerra e la difesa dei diritti umani, la crisi del con-<br />
3
cetto di autodeterminazione in un mondo sempre più globalizzato, la fine della<br />
cooperazione internazionale e il nuovo ruolo dei movimenti sociali. Fino al<br />
conflitto doloroso tra credenze ritenute fino a poco tempo prima assolute e inamovibili<br />
e la realtà che le rimette in continua discussione, provocando uno<br />
smottamento, non solo delle ideologie e delle culture politiche, ma anche dei comportamenti<br />
individuali.<br />
Sono stati anni (dal 1989 a oggi) particolarmente complessi e difficili per i<br />
pacifisti e gli operatori umanitari. Le guerre jugoslave hanno moltiplicato, come<br />
in un labirinto a specchi, le “immagini del nemico”, rendendo difficile la vita a<br />
un pacifismo che si è ritrovato senza un’unica e univoca controparte. La guerra in<br />
Iraq ha messo in evidenza, da una parte, l’impatto drammatico di terrorismo e<br />
“guerra permanente” e dall’altro, quanto sia potente la forza (anche se perdente)<br />
di un movimento contro la guerra e quanto debole quella di un movimento per la<br />
costruzione della pace. I conflitti umanitari degli anni ’90 e oltre hanno evidenziato<br />
quanto sia ormai definitiva la connivenza affaristica e governativa di una<br />
parte delle Ong e quanto sia complicato dare vita a un nuovo paradigma della solidarietà<br />
internazionale. E il conflitto israelo-palestinese ha evidenziato quanto sia<br />
complesso per i pacifisti destreggiarsi tra il sacrosanto rispetto dei diritti umani, il<br />
principio dell’autodeterminazione e le ragioni di due popoli in conflitto.<br />
Veniamo ai contenuti dei diversi paragrafi.<br />
Per la prima parte: Le culture politiche del pacifismo è il testo della relazione<br />
al convegno italo-spagnolo (promosso dall’Istituto per la pace catalano) sulle<br />
culture del pacifismo tenutosi nell’ottobre del 2010 a Barcellona.<br />
Riguardo alla seconda parte: I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe è il<br />
breve diario di una giornata: il 19 agosto 1991, il giorno del tentato golpe in<br />
Unione Sovietica contro Gorbaciov, durante l’ultima riunione della End (European<br />
Nuclear Disarmament), il meeting annuale dei pacifisti europei. Si tratta<br />
di un testo che rielabora un articolo scritto per “Linea d’ombra” nel 1991.<br />
Time for Peace è il parziale racconto (<strong>qui</strong> ridotto all’incirca di metà) di<br />
una settimana in Palestina durante l’iniziativa Time for Peace (1989-1990):<br />
incontri, manifestazioni, scontri con la polizia israeliana. Sempre in questo capitolo<br />
si trova un reportage da Israele (2007), da un’iniziativa dei pacifisti e della<br />
sinistra israeliana nel sud del paese sotto i colpi dei missili da Gaza e da un<br />
soggiorno in uno storico kibbutz della sinistra laburista. Uscito in versione ridotta<br />
su “Carta” nel 2007.<br />
Guerre fratricide sono diari, articoli e racconti – raccolti in unico testo – di<br />
tre anni di guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e in particolare delle iniziative<br />
pacifiste e di solidarietà con le vittime della guerra. Parte degli articoli<br />
e degli interventi sono usciti su: “il manifesto”, “l’Unità”, “la Terra vista dalla<br />
luna”, Dopo il Kosovo (Asterios 2000). I diari <strong>qui</strong> riportati rappresentano una<br />
parte limitata (circa un terzo) della loro versione originaria.<br />
4
La guerra umanitaria e il Kosovo è il diario parziale tenuto tra il marzo e<br />
il giugno 1999, durante la guerra in Kosovo. Una piccola parte di questo diario<br />
è uscita ne: Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli 2002). Anche in<br />
questo caso si tratta di circa un terzo della versione originaria (che abbracciava<br />
tutti i giorni dal 24 marzo al 10 giugno 1999).<br />
Iraq, la guerra infinita è il reportage di due viaggi compiuti in Iraq nel<br />
2003, il primo durante il regime di Saddam Hussein (febbraio) e il secondo<br />
dopo la sua caduta e la fine della guerra (luglio). Una parte di questo testo è<br />
uscito su “Lo Straniero”.<br />
Vi erano infine altri testi (originariamente destinati a un altro editore) non<br />
inclusi in questo quaderno: in particolare alcuni reportage sui forum sociali di<br />
Porto Alegre e Bamako (usciti su “il manifesto” e su “Lo Straniero”) e un racconto<br />
(Macchie uscito in piccolo frammento su “Pagine in bottiglia”) ispirato a<br />
un fatto vero (una drammatica storia d’amore tra un serbo e una musulmana<br />
nella Sarajevo assediata del 1993). Non sono stati inclusi nel quaderno per motivi<br />
di brevità, qualità e omogeneità rispetto al resto dei testi.<br />
Questo quaderno è dedicato a Tommaso e ai “magnifici sette” delle sue avventure<br />
pacifiste: Otto, Spartaco, Briegel, Gigi Pagnotta, Serpieri, Buttiglione e Setter.<br />
<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong> è stato – negli anni cui si riferiscono questi scritti – Segretario<br />
della branca italiana del Servizio Civile Internazionale (fino al 1992),<br />
Portavoce dell’Associazione per la pace (dal 1993 al 1998) e Presidente (dal<br />
1997 al 2004) del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics). Attualmente è Portavoce<br />
della campagna Sbilanciamoci!. Ha scritto: Dopo il Kosovo (Asterios<br />
2000), Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli 2002); Come fare politica<br />
senza entrare in un partito (2005) e Le utopie del ben fare (L’ancora del<br />
mediterraneo 2006).<br />
5
Parte prima Le culture politiche del pacifismo<br />
Prima degli anni ottanta<br />
a Tom Benetollo e Josep Palau<br />
Riflettendo sulle culture politiche del pacifismo in Italia e in Europa molti<br />
pensano che il salto di qualità abbia avuto origine negli anni ottanta e<br />
che quegli anni, gli anni della lotta contro gli euromissili, siano gli anni in<br />
cui il pacifismo assume una sua propria dimensione politica in discontinuità<br />
con le esperienze precedenti del movimento per la pace, esperienze, soprattutto<br />
quelle tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta – schiacciate tra<br />
la testimonianza singola o di piccoli gruppi (sostanzialmente quelli ispirati<br />
alla nonviolenza e alla disobbedienza civile) e il variegato movimento dei<br />
“partigiani per la pace”.<br />
In realtà la dimensione politica dell’azione per la pace compare in molte<br />
esperienze, certo minoritarie, ma non per questo meno importanti di quelle<br />
di massa degli anni ottanta. Si pensi solamente all’esperienza della<br />
mobilitazione antinucleare (della Campaign for Nuclear Disarmament-Cnd,<br />
mobilitazione solo formalmente “non politica”) nella Gran Bretagna del<br />
dopoguerra. Da Gandhi a Capitini (che parlava di nonviolenza come “aggiunta<br />
alla politica”) il valore politico dell’azione nonviolenta e per la pace<br />
non solo è riconosciuto, ma assolutamente rivendicato. In India la politica<br />
e la pratica della nonviolenza ebbero un certo impatto sulla lotta di liberazione<br />
e gli assetti postcoloniali di quel paese. E sia in Gandhi che in Capitini<br />
(due filosofi e attivisti prettamente politici) alcuni principi fondamentali<br />
come la “noncollaborazione” e la “nonviolenza” (accanto alla “nonmenzogna”)<br />
rappresentano i capisaldi di una politica della pace – o meglio della<br />
nonviolenza – che poco avevano a che fare con le culture politiche tradizionali.<br />
Proprio Aldo Capitini promuove nel 1961 la prima marcia pacifista da<br />
Perugia ad Assisi, la cui impronta politica è chiara nei suoi obiettivi e nella<br />
sua organizzazione (Capitini, 2010; Gandhi, 1973; Pontara, 1996).<br />
7
La dimensione della protesta pacifista americana degli anni sessanta contro<br />
la guerra in Vietnam e contro le guerre coloniali e imperialiste ha parimenti<br />
un suo forte spessore politico in evidente collegamento con quella<br />
rivoluzione antiautoritaria e libertaria che fu la caratteristica del ’68 americano<br />
(e degli anni precedenti) e dei primissimi passi del ’68 in Italia e in Europa.<br />
Sempre il ’68 (insieme a tante altre lotte per i diritti civili) fa emergere<br />
con chiarezza un movimento antimilitarista fortemente politico in Europa<br />
come negli Stati Uniti, diffondendo – questo grazie, almeno in Italia, all’impegno<br />
dei radicali e dei cattolici più che della sinistra – il fenomeno dell’obiezione<br />
di coscienza al servizio militare e alle spese militari e la pratica<br />
della disobbedienza civile. Un antimilitarismo politico – diverso da quello<br />
della testimonianza religiosa (come nel caso dei Testimoni di Geova) – che<br />
contesta “l’istituzione totale” dell’esercito, come in altri campi i movimenti<br />
antipsichiatrici denunciano l’“istituzione totale” del manicomio e come<br />
gli studenti del ’68 contestano la struttura autoritaria della Scuola e dell’Università<br />
(<strong>Marcon</strong>, 2004; Fofi, 1997).<br />
Prima degli anni ottanta le culture politiche del pacifismo sono dunque<br />
incardinate essenzialmente sulle seguenti pratiche e filoni di pensiero:<br />
il movimento nonviolento, antimilitarista e della disobbedienza civile<br />
che è presente in tutto il secondo dopoguerra (con decine di piccoli gruppi<br />
ignorati sia dalla sinistra che dalle gerarchie della Chiesa cattolica) e diventa<br />
più forte negli anni sessanta e poi a cavallo del ’68 (Martellini 2006);<br />
la tradizione (quella più minoritaria, democratica e per certi versi radicale)<br />
del cattolicesimo sociale di base e delle chiese evangeliche (spesso sovrapposto<br />
all’esperienza dei movimenti nonviolenti), particolarmente forte grazie<br />
alla testimonianza e alla disobbedienza di alcuni sacerdoti (in Italia: don Milani,<br />
padre Balducci, eccetera) e delle esperienze delle comunità di base e di<br />
molte minoranze religiose come i valdesi e i quaccheri;<br />
la tradizione di sinistra e del movimento operaio che, almeno fino agli<br />
anni sessanta, è sostanzialmente strumentale e subalterna alla logica dei blocchi<br />
e del bipolarismo: si veda l’esperienza dei “partigiani per la pace”, un movimento<br />
certo complesso e articolato che però rispondeva a una logica<br />
sostanzialmente bipolare (Bobbio, 2005);<br />
la spinta del movimento studentesco tra gli anni sessanta e gli anni<br />
settanta, che – abbracciando almeno in parte la cultura antimilitarista e<br />
nonviolenta – si incardina sostanzialmente sulla contestazione della guerra<br />
in Vietnam e sulla solidarietà con i movimenti di liberazione anticoloniali<br />
e antimperialisti.<br />
8
Gli anni ottanta<br />
Con gli anni ottanta irrompe il pacifismo come soggetto sociale e politico<br />
di massa (e per certi versi globale) e questo nel contesto di una particolare<br />
situazione internazionale (quella della guerra fredda e del bipolarismo) e grazie<br />
a una vasta percezione del rischio di una guerra nucleare. Il rischio di<br />
una guerra totale (nucleare) è alla base dello sviluppo del forte movimento<br />
pacifista di questo periodo: la sua durata e la sua capacità di mobilitazione<br />
sono essenzialmente legate all’intensità della percezione di questo rischio. Il<br />
movimento cresce rapidamente nella prima metà degli anni ottanta e poi –<br />
una volta installati i missili – declina.<br />
Il movimento degli anni ottanta rappresenta, per le culture politiche<br />
del pacifismo, una sostanziale discontinuità (forse più per l’Italia e meno per<br />
la Gran Bretagna e la Germania) rispetto agli anni precedenti: permangono<br />
elementi del passato, ma emergono con forza elementi nuovi nelle culture<br />
politiche del pacifismo. Questi ruotano sostanzialmente intorno al cambiamento<br />
delle relazioni e degli e<strong>qui</strong>libri tra il ruolo delle forze politiche e sociali<br />
organizzate (partiti, sindacati, eccetera) e la dinamica di movimento che<br />
crea sue soggettività, forme di rappresentanza e di organizzazione sconosciute<br />
negli anni precedenti. C’è una coabitazione – difficile, contrastata, conflittuale<br />
– tra dinamica autonoma di movimento e forme tradizionali di<br />
organizzazione politica che si può ricondurre a partiti, sindacati e grandi associazioni.<br />
Le Chiese, in molti paesi europei (in Italia solo in modesta parte,<br />
molto più sono coinvolte invece le strutture cattoliche di base), giocano<br />
un ruolo significativo nel promuovere e sostenere questo movimento. Emerge<br />
con forza il tentativo di costruire una dimensione politicamente autonoma<br />
del movimento per la pace che, nel secondo dopoguerra, era stato possibile<br />
solo ai margini delle grandi culture politiche (quella comunista e quella cattolica)<br />
per pochi e isolati gruppi nonviolenti.<br />
In questo periodo vi sono alcune significative novità nella costruzione<br />
delle culture politiche del pacifismo. Alcune riguardano le forme politiche,<br />
altre quelle organizzative.<br />
Per quanto concerne l’aspetto politico:<br />
un nuova idea di sicurezza fondata non sulle armi, ma sulla libertà, la<br />
democrazia, i diritti umani (tre temi che rimandano, ovviamente, alla situazione<br />
dei regimi autoritari dell’est europeo), la cooperazione e la giustizia<br />
economica e sociale (Benetollo, 1981);<br />
la cultura, la pratica e la politica della nonviolenza che inizia a permeare,<br />
con maggiore efficacia e intensità, in vasti strati del movimento pacifista<br />
che – lo ricordiamo – in questo periodo è prevalentemente un movimento<br />
contro la guerra e per il disarmo, contro i blocchi;<br />
9
la consapevolezza maggiore del rapporto pace-guerra come chiave di lettura<br />
non solo delle relazioni internazionali, ma del modello di sviluppo, del<br />
rapporto tra economia e società, dei rapporti di dominio e di potere, della<br />
disparità tra Nord e Sud del pianeta;<br />
l’inizio di una relativa contaminazione politico-culturale attraverso l’incontro<br />
del pacifismo con altre culture politiche, come quelle dell’ambientalismo<br />
(proprio degli anni ottanta), dei movimenti della solidarietà internazionale<br />
e dei diritti umani (delle Ong), del femminismo e del volontariato sociale,<br />
che nascono o si sviluppano parallelamente in quegli anni. È <strong>qui</strong> che ha inizio<br />
l’influenza sul movimento per la pace di idee e culture (come quelle del<br />
movimento delle donne, dell’ecologismo e del volontariato internazionale),<br />
fino ad allora assenti nel pacifismo (<strong>Marcon</strong>, 2004). Da ricordare l’ovvio legame<br />
tra le questioni del disarmo e la scienza e tecnologia (determinanti per<br />
la costruzione di nuovi armi sempre più sofisticate e distruttive): in questi<br />
anni nascono nuove organizzazioni di scienziati e ricercatori che si impegnano<br />
per il disarmo, alcune di queste ricollegandosi al movimento Pugwash.<br />
Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo, due sembrano gli elementi<br />
di novità che emergono dal movimento per la pace:<br />
lo sviluppo di modalità di mobilitazione a rete e la costruzione di sedi<br />
organizzative autonome (alle quali partecipano, certamente, anche le organizzazioni<br />
tradizionali) come espressione di questa nuova dinamica e soggettività:<br />
in Italia nascono i comitati e i coordinamenti dei comitati per la<br />
pace a livello locale, regionale e nazionale, ma questo processo è estendibile<br />
a tutto il continente europeo;<br />
l’avvio della costruzione di un percorso associativo autonomo che rispetto<br />
al passato (esperienze, comunque significative, come quelle di tanti piccoli<br />
gruppi della galassia del movimento nonviolento, dell’International<br />
Fellowship of Reconciliation, del Service Civil International, eccetera) ac<strong>qui</strong>sta<br />
una nuova e particolare valenza, quella di rendere impossibile il ritorno<br />
del collateralismo e dell’egemonismo delle forze politiche organizzate: in<br />
Italia nascono, negli anni ottanta, la sezione di Pax Christi, i Beati i Costruttori<br />
di Pace, la Legambiente, e l’esperienza dei comitati per la pace porta<br />
alla creazione dell’Associazione per la pace, (Castellina, 1998).<br />
È un pacifismo che produce una sua cultura politica, sue autonome e<br />
originali forme organizzative e di coordinamento, dei suoi leader, anche a<br />
livello internazionale. L’esperienza della End 1 ne è testimonianza. È un mo-<br />
1 Le convenzioni della European Nuclear Disarmament (End) si tengono dal 1982 al 1991<br />
in diversi paesi europei. Un appello per il disarmo nucleare europeo (elaborato da M.<br />
Kaldor, E.P. Thomson, K. Coates, D. Smith) era stato lanciato nel 1980, dopo la deci-<br />
10
vimento che costringe partiti e politica a confrontarsi con soggettività nuove<br />
nella società civile, autonome e irriducibili ai vecchi collateralismi. I movimenti<br />
pacifisti degli anni ottanta sono in qualche modo il sintomo di una<br />
febbre che sta colpendo l’assetto bipolare e che porterà, con la caduta del<br />
muro di Berlino, alla diffusione della democrazia e dei diritti umani.<br />
È certamente, oltre che un movimento contro i blocchi, un “movimento<br />
contro la guerra” più che un “movimento per la pace”. È un movimento<br />
che – in alcune sue parti – è ancora condizionato da una vena ideologica<br />
antiamericana e antimperialista. È un movimento che ancora non è capace<br />
di assorbire l’esperienza, gli insegnamenti e le pratiche della nonviolenza:<br />
Gandhi, Capitini, la marcia Perugia-Assisi, le pratiche della disobbedienza<br />
civile sono ancora – nonostante le evocazioni e i richiami più o meno formali<br />
– sostanzialmente sullo sfondo delle mobilitazioni 2 .<br />
Nella considerazione delle culture politiche del pacifismo in questo periodo,<br />
non può non essere considerato, con specifico rilievo, il tema del<br />
rapporto tra pacifismo e ambientalismo. E questo per due motivi. In primo<br />
luogo, perché il movimento ambientalista si definisce in molti paesi e tante<br />
sue parti come movimento “ecopacifista”, si pensi solo alla Germania. Non<br />
è solo il tema del nucleare (contro il nucleare “civile e militare”) a unire, ma<br />
la considerazione della guerra atomica come il più grave pericolo di distruzione<br />
totale di un pianeta che deve essere salvato. In secondo luogo, a differenza<br />
del pacifismo, una parte dell’ecologismo degli anni ottanta diventa<br />
forza politica, partito. Sarebbe il caso – in altra occasione – di approfondire<br />
le ragioni della stessa mancata trasformazione del pacifismo in movimento<br />
politico tout court.<br />
L’ambientalismo, più del pacifismo, sembra capace in questi anni di produrre<br />
– e con un grado molto più alto di autonomia dalle tradizionali forze<br />
organizzate – una propria identità e soggettività politica, una sua forza<br />
attrattiva perdurante sul lungo periodo verso l’opinione pubblica, capace di<br />
far permanere la propria iniziativa politica nel tempo, al contrario di un pacifismo<br />
che sembra troppo legato a una dimensione emergenziale: l’installazione<br />
degli euromissili e il rischio di una guerra nucleare.<br />
sione del 1979 della Nato di installare i missili nucleari Pershing e Cruise in Europa. Le<br />
convenzioni, che si tennero durante l’estate, rappresentarono il punto di raccolta e d’incontro<br />
del movimento di massa antinucleare europeo.<br />
2 Con alcune importanti eccezioni come le azioni nonviolente e le manifestazioni di<br />
protesta nei pressi dei siti dove si sarebbero dovuti installare i Cruise e i Pershing.<br />
11
Tra gli anni ottanta e gli anni novanta<br />
La cultura pacifista dopo gli anni ottanta si evolve dovendo confrontarsi<br />
con alcuni cambiamenti fondamentali nelle relazioni internazionali e nel<br />
pianeta: la fine della guerra fredda e il passaggio dal bipolarismo a un unipolarismo<br />
più o meno esplicito, l’emergere della globalizzazione neoliberista,<br />
la dimensione etnica, fratricida e interna delle guerre di questo<br />
decennio. Le categorie degli anni ottanta non funzionano più. E non funzionano<br />
più alcune forme e approcci del pacifismo come il “disarmismo”,<br />
la sola identità “antiguerra”, l’unilateralismo anti-imperialista e anti-americano,<br />
la lettura delle relazioni internazionali guidata da chiavi interpretative<br />
ideologiche. Il pacifismo sembra paradossalmente orfano di quel<br />
bipolarismo e di quella guerra fredda contro cui aveva combattuto negli<br />
anni precedenti. È un problema questo che riguarda non solo il pacifismo,<br />
ma anche la politica, i governi, le istituzioni internazionali. I nuovi<br />
assetti in costruzione sono complessi e di difficile decifrazione. Sembra –<br />
in una stagione in apparenza di speranza e di realizzazione dei “dividendi<br />
di pace” – che il processo di disarmo possa svilupparsi – come quello della<br />
democratizzazione nell’Europa dell’est – ma mantenendo dentro molte<br />
contraddizioni. Globalizzazione e neoliberismo da una parte, costruzione<br />
di un nuovo unipolarismo dall’altra scompaginano le relazioni internazionali,<br />
aprono “vasi di pandora” in tante periferie del mondo, rimettono<br />
in discussione rapporti di potere consolidati (<strong>Marcon</strong>, Pianta 2001). Le<br />
speranze vengono contraddette – appena dopo pochi mesi dal 1989 – da<br />
due eventi paradigmatici delle relazioni internazionali e delle guerre degli<br />
anni a venire: l’intervento armato occidentale contro l’Iraq (1991) e l’inizio<br />
delle guerre jugoslave in Europa (1991).<br />
Vi sono in particolare tre aspetti principali con cui confrontarsi:<br />
la nuova situazione che si è costituita nell’Europa dell’est dopo la caduta<br />
del muro di Berlino: i processi di democratizzazione si intrecciano<br />
con quelli autoritari, l’autodeterminazione dei popoli con la crescita del<br />
nazionalismi, la nascita della società civile con lo sciovinismo populista e<br />
xenofobo;<br />
lo scoppio di nuove guerre etniche e nazionaliste, e non solo nell’est europeo<br />
3 : infatti fine del bipolarismo, globalizzazione e politiche neoliberiste<br />
contribuiscono a portare alla luce conflitti mai risolti, costruzioni nazionali<br />
precarie, dinamiche di esclusione e inclusione che usano la cifra etnica per<br />
3 Le guerre “interne” più drammatiche degli anni novanta sono state il conflitto jugoslavo<br />
(1991-1999), la guerra in Ruanda (1994) e quella in Somalia (1992-1993).<br />
12
nascondere la vera posta in gioco: potere, accesso alle ricchezze, controllo<br />
delle materie prime (Kaldor 1999) 4 ;<br />
l’assenza per tutto un decennio di un nuovo chiaro e<strong>qui</strong>librio post-bipolare:<br />
gli anni novanta iniziano con la guerra in Iraq (prodromo di un nuovo<br />
unipolarismo) ma anche con l’Agenda per la pace di Boutrous Ghali (la speranza<br />
di un mondo multipolare e con un ruolo prevalente delle organizzazioni internazionali<br />
5 ) e si concludono con la guerra umanitaria in Kosovo (la conferma<br />
definitiva dell’unipolarismo e del nuovo ruolo dominante della Nato).<br />
Per quanto riguarda noi europei la guerra in ex Jugoslavia è stata un<br />
aspetto chiave dell’esperienza pacifista e della maturazione di una nuova cultura<br />
politica (<strong>Marcon</strong>, 2010). Non solo perché ci si è confrontati con una<br />
guerra – etnica, nazionale, civile, fratricida, di aggressione – così difficile e<br />
complessa. Ma perché è stata la prima guerra europea, dopo il 1945; è durata<br />
un decennio ed è stata – per usare un’espressione dello scrittore italiano<br />
Luca Rastello – una “guerra in casa” (Rastello, 1998): decine di migliaia di<br />
europei – portando aiuti, promuovendo relazioni tra le comunità, organizzando<br />
manifestazioni, accogliendo i profughi – hanno “abitato” quella<br />
guerra, dal di dentro. Tutto questo ha aiutato, in un certo modo, a cambiare<br />
la percezione, il vissuto, il modo – meno semplicistico, dogmatico,<br />
astratto – dei pacifisti di rapportarsi con la realtà della guerra. La guerra nucleare<br />
era una guerra possibile, quella in Iraq era una guerra lontana, quella<br />
in Jugoslavia era, per l’appunto, una “guerra in casa”.<br />
Di fronte a quella guerra il pacifismo europeo – con alcune importanti<br />
eccezioni: tra queste sicuramente una parte dell’Hca 6 , una parte del pacifi-<br />
4 “Il decennio ha registrato 56 conflitti gravi (major armed conflicts) di cui solo tre hanno<br />
coinvolto degli Stati (Iraq-Kuwait, Etiopia-Eritrea, India-Pakistan), mentre tutti gli<br />
altri sono stati conflitti interni (nazionali, etnici, eccetera). Le guerre di questo decennio,<br />
inoltre, hanno visto crescere sensibilmente il numero di vittime civili (oltre il 90%<br />
del totale), e di rifugiati e sfollati, che alla fine degli anni novanta hanno raggiunto la<br />
soglia di 50 milioni. Questi conflitti sono stati prevalentemente combattuti da eserciti<br />
privati, bande irregolari, gruppi etnici e nazionalistici, che hanno generato una prolungata<br />
e drammatica pressione sulle comunità”. (<strong>Marcon</strong>, 2005)<br />
5 L’Agenda per la pace aveva ingenerato molte speranze nelle organizzazioni pacfiste: si<br />
erano create le aspettative – nel contesto del crollo del bipolarismo, non rimpiazzato a<br />
quel momento da nessun altro e<strong>qui</strong>librio internazionale – di una rapida ed incisiva riforma<br />
del sistema delle Nazioni Unite.<br />
6 La Helsinki Citizens Assembly (Hca) è stata sicuramente una delle esperienze più interessanti<br />
degli anni novanta: luogo di incontro tra esperienze pacifiste, organizzazioni<br />
civiche dei cittadini, gruppi e associazioni per la promozione dei diritti umani dell’est<br />
e dell’ovest. Nata nel 1990 ha organizzato importanti conferenze internazionali a Bratislava<br />
(1991), Ohrid in Macedonia (1993) e Tuzla in Bosnia Herzegovina (1995).<br />
13
smo italiano e anche quello spagnolo (Palau 1996) – arrivò in ritardo, sottovalutò<br />
e non comprese quello che stava succedendo. Allora Alex Langer stigmatizzò,<br />
di fronte alla guerra in Jugoslavia, sia, il cosiddetto pacifismo tifoso<br />
(che ha sempre bisogno di un nemico per scendere in piazza) sia quello dogmatico<br />
(ancorato ai suoi sacri principi) per sottolineare l’importanza di quel<br />
pacifismo concreto che lui tanto apprezzava (Langer 2010). E <strong>qui</strong> c’è un primo<br />
elemento della nuova cultura politica del pacifismo degli anni novanta:<br />
quella costruita intorno al legame con le pratiche della solidarietà concreta,<br />
della diplomazia dal basso, della nonviolenza attiva che così tanto era stata<br />
praticata dal movimento per la pace in ex Jugoslavia (<strong>Marcon</strong>, 2000).<br />
In questo contesto cinque sembrano le culture politiche – che ovviamente<br />
si intrecciano, per cui da non considerare mai del tutto separate –<br />
prevalenti in questo periodo:<br />
la prima, appena ricordata, è quella di un pacifismo concreto che ha<br />
nutrito una parte importante del pacifismo europeo degli anni novanta: diplomazia<br />
dal basso, volontariato e aiuto umanitario, difesa dei diritti umani<br />
e riconciliazione sono alcune delle coordinate attorno alle quali si è costruita<br />
questa esperienza; si pensi alle mobilitazioni per l’ex Jugoslavia, ma anche<br />
in Palestina (la straordinaria esperienza di Time for Peace nel 1989-1990) e<br />
in altri scenari e conflitti di quegli anni (Langer, 2010; <strong>Marcon</strong>, 2004). Naturalmente<br />
va ricordato che la dimensione umanitaria dei conflitti fu utilizzata<br />
anche da chi volle legittimare la guerra “in nome dei diritti umani” e di<br />
un nuovo “umanitarismo militare” (Chomsky, 1999) 7 ;<br />
la seconda è quella di un pacifismo dell’ordine democratico internazionale<br />
che si è concentrato sul tema della democrazia internazionale, della riforma<br />
e del ruolo delle Nazioni Unite, della promozione dei diritti umani,<br />
di una visione politico-istituzionale della promozione della pace a livello planetario;<br />
si pensi all’esperienza internazionale della Campaign for a more Democratic<br />
United Nations (Cadmun) 8 della Tavola della Pace e dell’Onu dei<br />
popoli in Italia, iiniziative che hanno avuto il merito di affrontare un tema<br />
7 L’umanitarismo militare è diventato una costante dei conflitti dell’ultimo decennio.<br />
La nuova dottrina ha avuto il suo banco di prova con la guerra umanitaria in Kosovo<br />
e poi ha trovato altre applicazioni in Afganistan e in Iraq. La Nato, a partire dall’Afganistan,<br />
ha teorizzato la cosiddetta Cimic (Civil-Military Cooperation) allo scopo di far<br />
interagire intervento militare ed aiuto umanitario, cooptando Ong e organizzazioni della<br />
società civile nella strategia dell’intervento armato. La Nato ha creato nell’Europa<br />
meridionale anche una sede di addestramento e coordinamento della Cimic che si trova<br />
a San Motta di Livenza (Italia).<br />
8 Altre campagne internazionali su questi temi: l’Action for Un renewal (Arc) ed il World<br />
Civil Society Forum.<br />
14
importante come quello del vuoto istituzionale internazionale dopo la fine<br />
della guerra fredda (Lotti, Giandomenico, 1996) 9 .<br />
Come variante modesta e minoritaria di queste prime due tendenze, va<br />
registrata l’esistenza di alcune forme di pacifismo interventista., che, di fronte<br />
a conflitti come quelli della ex Jugoslavia o del Ruanda, si fece portavoce<br />
della richiesta dell’uso della forza, per porre fine a queste drammatiche guerre.<br />
L’uso, la legittimità e i vincoli dell’intervento militare sono stati comunque<br />
temi presenti – in modo sofferto – nel dibattito del pacifismo in questi<br />
anni (Langer, 2010).<br />
la terza è quella (in continuità con il passato) di un pacifismo del disarmo<br />
e della sicurezza umana che – anche in collegamento con molte iniziative<br />
e a campagne internazionali 10 – ha privilegiato l’azione per il disarmo:<br />
la campagna contro le mine, contro le armi leggere, contro i bambini-soldato,<br />
eccetera. Anche in questo caso queste iniziative hanno avuto il merito<br />
di costruire network globali e di tenere aperto un problema (quello del<br />
disarmo) che dopo l’89 sembrava essere stato rimosso (Manzocchi, 1992;<br />
Venti di pace, 1991).<br />
la quarta è quella (anche questa in continuità con il passato) di un pacifismo<br />
nonviolento, legato alla promozione delle pratiche dal basso dell’obiezione<br />
di coscienza e della disobbedienza civile, della cultura e dell’educazione<br />
alla pace: pratiche che talvolta – come nel caso della ex Jugoslavia – si confrontano<br />
con interventi quali l’interposizione e l’azione diretta;<br />
infine persiste (come negli anni precedenti) un pacifismo ideologico,<br />
anti-imperialista e unilaterale che ha continuato ad avere una sua forza<br />
e ad interpretare ogni conflitto in chiave amico-nemico e a cercare<br />
nella dinamica pace e guerra sempre e unicamente quel tipo di responsabilità<br />
e di cause.<br />
9 Da evidenziare che in questo filone è prosperato un ambito di pacifismo giuridico che<br />
si è impegnato ad usare lo strumento del diritto internazionale – nel contesto del rispetto<br />
dei diritti umani – dei trattati e dei protocolli internazionali per promuovere la<br />
pace ed i diritti umani. In particolare possono essere messi, tra i risultati di questo tipo<br />
di approccio, l’istituzione dei tribunali internazionali per giudicare i crimini di guerra<br />
nella ex Jugoslavia (1993) e in Ruanda (1994) nonché l’istituzione della Corte Penale<br />
Internazionale, il cui statuto è stato varato nel 1998, anche se solo nel 2002 la Corte<br />
(dopo la ratifica degli Stati) ha iniziato a operare.<br />
10 Le campagne internazionali più importanti in questo decennio sono: l’International<br />
Campaign to Ban Landmines (Icbl), vincitrice del premio nobel per la pace nel 1997,<br />
la campagna International Action Network on Small Arms (Iansa), la Coalition to<br />
Stop the Use of Child Soldiers. Da ricordare anche l’iniziativa dell’Hague Appeal for<br />
Peace (1999). Nel decennio successivo si è sviluppata l’importante campagna contro il<br />
commercio di armamenti: Controlarms.<br />
15
Tutti e questi cinque approcci hanno avuto una dimensione e una declinazione<br />
politica. Si è trattato dunque di un decennio importante dove<br />
queste diverse culture politiche si sono evolute e molto spesso intrecciate,<br />
dando vita a una cultura politica del pacifismo complessa e differenziata,<br />
spesso contaminata anche con esperienze di altri movimenti.<br />
E fino a oggi<br />
L’11 settembre del 2001 e la successiva “guerra permanente” o “infinita” hanno<br />
aperto un nuovo scenario internazionale, ma hanno cambiato solo in parte<br />
le culture politiche consolidate del pacifismo. Si è trattato di una grande<br />
discontinuità nell’ambito delle relazioni internazionali e dell’e<strong>qui</strong>librio mondiale.<br />
Dopo la guerra degli Stati Uniti in Afganistan, la minaccia di una nuova<br />
guerra contro l’Iraq ha provocato la più grande mobilitazione contro la guerra<br />
realizzata dal 1945 a oggi. Tanto che il “New York Times” ha evocato per questo<br />
movimento, dopo le manifestazioni per la pace del 15 febbraio 2003 in<br />
tutto il mondo, l’appellativo di “seconda superpotenza mondiale” 11 . Questi eventi<br />
hanno comportato nel movimento per la pace, uno scarto nella consapevolezza,<br />
la dimensione delle sfide e la complessità della propria azione in un contesto<br />
così drammatico 12 . La guerra in Iraq ha rappresentato un nuovo spartiacque per<br />
il pacifismo europeo e mondiale, un salto di qualità nell’imposizione della guerra<br />
come strumento della politica estera, ma anche dell’opposizione della società<br />
civile alle logiche militari e belliche. Questa riduzione della guerra a strumento<br />
della politica estera ha rappresentato una delle più preoccupanti derive politiche<br />
dell’azione dei governi occidentali, a partire dagli anni novanta: l’interventismo<br />
armato ha rappresentato, nella politica estera americana di questi anni,<br />
uno dei tratti caratteristici della costruzione del suo dominio geopolitico ed economico.<br />
Per un cambiamento significativo di questa impostazione aggressiva e<br />
interventista bisognerà attendere l’elezione di Obama.<br />
In ogni caso le culture politiche che si sono sviluppate, o sono apparse per<br />
la prima volta negli anni novanta, hanno continuato in qualche modo a consolidarsi<br />
e a seguire una traiettoria culturale e pratica abbastanza coerente. Il<br />
11 Patrick E. Tyler, A New Power in the Streets, “New York Times”, 17 febbraio 2003.<br />
12 Movimenti, gruppi e coordinamenti pacifisti sono sorti in tutto il mondo per cercare<br />
di fermare l’intervento americano in Iraq nel 2003. Va ricordata l’importanza della<br />
mobilitazione degli Stati Uniti dove sono state attive organizzazioni come l’United for<br />
Peace & Justice (oltre 1300 gruppi pacifisti di base), Peaceful Tomorrows (organizzazione<br />
delle vittime dell’11 settembre) e Democracy Now!<br />
16
pacifismo umanitario e concreto ha continuato la sua azione nelle aree di conflitto<br />
e si è sempre di più collegato con molte esperienze di solidarietà internazionale;<br />
quello politico-istituzionale ha rafforzato la sua capacità di intervenire<br />
nel merito e con competenza sulle questioni della democrazia e delle istituzioni<br />
internazionali; il pacifismo nonviolento ha accresciuto la sua diffusione – anche<br />
in termini pedagogici ed educativi, pensiamo all’intervento nelle scuole –<br />
tra la società; l’azione di un pacifismo per il disarmo è sempre più necessaria di<br />
fronte alla crescita della spesa per armamenti e del commercio delle armi e<br />
continua a permanere un pacifismo ideologico, dogmatico, unilaterale, tendenza<br />
che – ovviamente – la “guerra permanente” non aiuta a indebolire.<br />
La vera novità – a parte quella così decisiva della “guerra permanente”<br />
e di un così oramai schiacciante unipolarismo americano – è la congiunzione<br />
che si è verificata, a partire dal 2001, tra movimenti pacifisti e movimenti<br />
sociali globali (Pianta, 2001). I forum sociali – da Porto Alegre in poi – hanno<br />
rappresentato un importante laboratorio nella costruzione di questa “alleanza”.<br />
C’è stata, anche in questo caso, una contaminazione che in qualche<br />
modo testimonia il carattere strutturalmente magmatico, permeabile, mobile<br />
di una cultura politica pacifista che è capace, in alcuni frangenti (nelle<br />
emergenze di fronte a conflitti e guerre imminenti), a costruire sul tema pace-guerra<br />
una mobilitazione più larga di quella dei propri confini, salvo poi<br />
non riuscire a continuare a gestire, in un progetto di più lungo periodo,<br />
un’iniziativa politica estesa a tutte le componenti sociali.<br />
Questa contaminazione con le culture politiche dei movimenti sociali<br />
globali è servita ad arricchire le culture politiche del pacifismo su una serie<br />
di aspetti (la natura del neoliberismo e delle relazioni economiche globali,<br />
delle dinamiche del potere del dominio, delle origini delle guerre e dei conflitti)<br />
che in qualche modo hanno reso il pacifismo più pronto e attento ad<br />
affrontare le nuove sfide globali, i conflitti e le evidenti contraddizioni delle<br />
attuali relazioni internazionali.<br />
Quanto invece il pacifismo abbia condizionato e attraversato le culture<br />
politiche dei partiti, dei governi e delle istituzioni è un tema da sviluppare<br />
in altra sede: ovviamente ci sono luci e ombre, passi in avanti e resistenze<br />
insormontabili. È interessante notare come nessuna forza politica ha assunto<br />
un profilo autenticamente pacifista. Quello che a noi interessa però<br />
in questo caso è quanto da questa “lunga marcia del pacifismo” nelle<br />
istituzioni le culture politiche abbiamo tratto in termini di accresciuta consapevolezza<br />
della complessità della costruzione di politiche della pace dentro<br />
i vincoli del sistema internazionale e di norme, disposizioni amministrative,<br />
risorse da impiegare, vincoli istituzionali. La sfida di compenetrare un pacifismo<br />
che nasce dalla società con quello che si può sviluppare nelle istituzioni<br />
è molto importante.<br />
17
La valutazione dell’impatto del pacifismo, in questo contesto, è di complessa<br />
declinazione. Da una parte quasi nessuna guerra è stata impedita o<br />
fermata grazie alla mobilitazione del pacifismo, da l’altra la fine del bipolarismo<br />
negli anni novanta(e l’avvio del processo del disarmo nucleare, anche<br />
grazie all’associazione del movimento pacifista) può essere in qualche modo<br />
ricondotta a una crescita della società civile e della cultura democratica<br />
e dei diritti umani che ha minato le fondamenta della guerra fredda. A livello<br />
internazionale alcune iniziative pacifiste o riconducibili al movimento<br />
per i diritti umani hanno portato a risultati concreti, quali la firma di alcuni<br />
trattati internazionali come quelli sulle mine anti-uomo e sulle armi nucleari<br />
o, a livello giuridico, l’istituzione della Corte penale internazionale e<br />
dei tribunali internazionali per la ex Jugoslavia e il Ruanda (mentre minori<br />
risultati hanno dato l’azione e le campagne per la riforma delle Nazioni Unite).<br />
Un ruolo specifico l’ha avuto il “pacifismo concreto” che, con la sua azione<br />
umanitaria ha avuto il merito di salvare molte vittime e di arginare le<br />
forme più estreme di guerra etnica in vari conflitti locali. L’azione umanitaria<br />
nelle guerre si è molto diffusa a partire dai conflitti degli anni novanta.<br />
Più difficile definire l’impatto del movimento per la pace su temi come la<br />
cultura, la comunicazione e l’educazione. È indubbio, però, che negli ultimi<br />
vent’anni la cultura della pace, della democrazia e dei diritti umani è enormemente<br />
cresciuta ed è diventata patrimonio di sempre più vasti settori delle<br />
nostre comunità.<br />
Il carattere composito, e allo stesso tempo sovrapposto, delle culture politiche<br />
del pacifismo si è evoluto nel corso degli anni grazie a una contaminazione<br />
sempre maggiore tra le varie ispirazioni, evidenziando però una<br />
strutturale difficoltà nel fare massa critica e nell’esprimere una soggettività<br />
politica comune forte. La debolezza del pacifismo – nei momenti di scarsa<br />
mobilitazione – sembra più evidente che per altri movimenti sociali: questo<br />
forse perché la dimensione della protesta contro la guerra sembra avere (ed<br />
è naturale che sia così) una capacità di coagulazione molto più forte della<br />
“pace positiva” nella quotidianità dell’azione sociale collettiva. Il pacifismo<br />
continua a essere un movimento che riemerge nei momenti di frattura e di<br />
rottura dell’ordine dato (conflitti, tensioni internazionali, eccetera), ma che<br />
rimane sotterraneo (nel bene e nel male) di fronte alla stabilità delle condizioni<br />
di dominio o di e<strong>qui</strong>librio interno e internazionale. Sembra si riproponga<br />
<strong>qui</strong> un problema relativo alla capacità del pacifismo di darsi una<br />
“politica della nonviolenza”. Questa ha a che vedere, non solo con i contenuti<br />
della “politica della pace”, ma anche con le forme (il rapporto mezzifini<br />
è centrale per il pacifismo) dell’azione del movimento: nonviolenza attiva,<br />
azioni dirette, disobbedienza civile, non collaborazione, obiezione di coscienza,<br />
eccetera. Si tratta di forme e modalità che permettono alla “politica del-<br />
18
la nonviolenza” di superare quella concezione militarizzata e violenta della<br />
politica – fondata sulla dialettica amico/nemico – che è la caratteristica di<br />
gran parte dell’azione collettiva del Novecento e della “guerra come continuazione<br />
della politica con altri mezzi”. Solo in questo modo il pacifismo<br />
può costruire un terreno di pratica politica (e di cultura politica) sottratta<br />
alle forme politiche tradizionali, che inevitabilmente possono produrre<br />
processi di adattamento all’esistente e, in definitiva, alla realpolitik o anche<br />
solamente di mediazione su principi e valori (come quelli del rifiuto della<br />
guerra) irriducibili a ogni declinazione opportunistica. Infine la cultura del<br />
pacifismo soffre ancora troppo la sua dipendenza da quello a cui si oppone<br />
(la guerra, il riarmo), e la sua incapacità di declinare una “nonviolenza attiva”<br />
(come ci insegnavano Gandhi e Capitini) come costruzione positiva della<br />
pace. La nonviolenza come aggiunta alla politica, diceva Capitini. È<br />
questo uno dei punti su cui le culture politiche del pacifismo devono continuare<br />
a interrogarsi.<br />
19
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21
Parte seconda<br />
I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe<br />
Quando ci svegliamo la mattina del golpe a Mosca, lunedì 19 agosto, all’ex<br />
Ostello del Komsomol (il refettorio dell’organizzazione giovanile comunista<br />
dove è ospite la delegazione pacifista italiana: siamo quasi un centinaio) nella<br />
Ulitza Kibalchicha – un po’ in periferia a una mezz’ora dal centro della città<br />
– il custode della struttura ha l’orecchio attaccato a una radiolina che gracchia<br />
secche frasi seguite da brani di musica classica. Beviamo un caffè in una stanza<br />
dalle pareti scrostate e con un quadro di Gorbaciov un po’ pendente a destra.<br />
Il custode cerca di sintonizzare meglio la radio su una frequenza disturbata<br />
dai fruscii. La musica finisce, il concerto di Haydn viene bruscamente interrotto<br />
e seguito dalle parole di uno speaker che sembra leggere un comunicato<br />
stampa o un annuncio funebre. Il custode, l’inglese non lo parla e scuote<br />
solo la testa mentre fissa il vecchio transistor. Riprende la musica. Forse non<br />
è morto nessuno, non è successo niente.<br />
Passano due inservienti, sono due donne addette alle pulizie che procedono<br />
silenziose con dei pacchi di lenzuola tra le braccia. Da loro non riusciamo<br />
a sapere niente: filano via e non si fermano alle nostre voci. Dal<br />
custode quello che riusciamo a ottenere è solo un cenno al quadro di Gorbaciov<br />
appeso in portineria. Il saluto appena accennato e poi di nuovo ingobbito<br />
ad armeggiare sulla manopola della vecchia radio per azzeccare la<br />
frequenza meno disturbata. Cerchiamo di prendere un taxi: dobbiamo andare<br />
alla Piazza Rossa. Alcuni non si fermano ai nostri richiami, eppure sono<br />
vuoti. Proseguono diritti; sembra anche che scorgendoci, accelerino. È<br />
solo un’impressione. Che siamo occidentali lo si vede a un chilometro di distanza.<br />
Di solito sono loro ad accostarsi senza richiesta e a chiederti se hai<br />
bisogno di un passaggio. Uno riusciamo a fermarlo, si accosta un po’ bruscamente;<br />
il tassista ha il berretto alla Lenin e ci guarda un po’ di sbieco: Krasnaja<br />
Ploscad chiediamo mentre gli mettiamo sotto gli occhi una piantina<br />
spiegazzata. Fa ampi gesti con la mano sporgendosi dal finestrino, dice<br />
23
qualcosa di incomprensibile in russo e riparte senza complimenti. A un secondo<br />
tassista che arriva dopo un po’ – saranno passati altri dieci-<strong>qui</strong>ndici<br />
minuti – non riusciamo nemmeno a parlare. Si accorge che siamo occidentali<br />
solo quando si accosta al marciapiede. Riparte rapidamente senza darci<br />
il tempo di aprire bocca. Non capiamo cosa stia succedendo.<br />
Ce lo spiega venti minuti dopo Artyom, quando arriva sudato e ansimante<br />
dal fondo della via. Artyom ha vent’anni e ci fa da guida a Mosca.<br />
Dire che sia un pacifista forse è eccessivo. È semplicemente un rappresentante,<br />
o meglio un incaricato del Soviet Peace Committee, l’organizzazione<br />
ufficiale del regime sovietico. Ci è stato assegnato come guida. Ed è una<br />
guida vera; non è invadente e soprattutto si capisce subito che non ha niente<br />
a che fare con la polizia e i servizi segreti. Artyom è stato sempre disponibile<br />
ed entusiasta: ricerca cautamente la nostra complicità per scaricare il<br />
suo “mondo a parte” ed essere come noi occidentali. Abbiamo passato i giorni<br />
scorsi a scambiarci opinioni sulla musica, gli scrittori, i viaggi. E ci racconta<br />
molto dei cambiamenti di questa Russia in fibrillazione da tre anni.<br />
Artyom parla un inglese approssimativo. “Stamattina, quando ho acceso la<br />
radio, hanno letto un comunicato che Gorbaciov è malato, si trova in Crimea<br />
e una trojka di dirigenti del Partito ha preso il suo posto. Ma la malattia<br />
non c’entra niente; questo è un golpe. Forse è già morto, non lo so. Ma<br />
sicuramente lo vogliono far fuori. Mi hanno detto che nel centro della città<br />
ci sono già i soldati che presidiano il Cremlino e gli altri palazzi”. Siamo<br />
increduli non solo per il fatto in sé (e comunque per molti di noi Gorbaciov,<br />
fino ad allora, aveva rappresentato la speranza di una trasformazione<br />
del socialismo in senso democratico), ma anche perché sembra che la vita<br />
quotidiana prosegua come sempre: i negozi sono aperti, gli anziani in fila in<br />
posta a spedire lettere e pacchi, le macchine circolano nella solita quantità.<br />
Il golpe ce lo si aspetta in modo diverso: abbiamo in mente il Cile di Pinochet,<br />
i prigionieri nello stadio, i bombardamenti dell’edificio presidenziale,<br />
i militari in ogni angolo della città.<br />
Fino a poche ore prima avevamo discusso animatamente (in sessioni plenarie<br />
un po’ dispersive e ingessate e in tanti workshop più liberi e interessanti)<br />
in un grande palazzo dei congressi; un migliaio di pacifisti europei con<br />
centinaia di esponenti di piccoli e grandi gruppi da varie repubbliche dell’Unione<br />
Sovietica. È la riunione annuale della European Nuclear Disarmament<br />
Convention (la cosiddetta End) che per la prima volta quest’anno<br />
sbarca a Est, con esponenti delle organizzazioni ufficiali e del dissenso dell’<br />
“altra Europa”. Ma, più che occasione di confronto sui temi del momento<br />
– dai postumi della guerra del Golfo alla guerra in ex Jugoslavia appena iniziata<br />
– la Convention è diventata una specie di sfogatoio psico-sociale, di sublimazione<br />
del Super Io collettivo a lungo represso e irreggimentato dall’ideologia<br />
24
comunista e ora tracimato nei mille rivoli di un rito disordinato e catartico<br />
di autocoscienza collettiva. Nelle salette dei gruppi di lavoro si affollano in<br />
tanti: le madri dei soldati sovietici e gli obiettori di coscienza, i tolstojani<br />
nonviolenti e gli ecologisti impegnati contro le centrali nucleari (sono solo<br />
passati quattro anni da Chernobyl), i radicali “transnazionalizzati” (anche<br />
<strong>qui</strong> hanno fatto proseliti) e qualche gruppo femminista. C’è di tutto, anche<br />
un gruppo di barbuti ucraini che ha proposto un workshop sul tema della<br />
“prova scientifica sull’esistenza di Dio”. E ovviamente anche le tendenze meno<br />
folcloristiche e più pericolose come quelle di un gruppo lituano (sciovinista<br />
e razzista) che mellifluamente ha proposto una discussione sull’influenza<br />
del “gotha ebraico e massonico” nell’economia internazionale. Come hanno<br />
fatto ad avere accesso alla Convenzione? Tutto nel pentolone di un informe<br />
zibaldone democratico. Eppure come dice il mio amico Karl – un<br />
volontario tedesco del Servizio civile internazionale di ritorno proprio di un<br />
campo di lavoro in Lituania – non è tanto colpa della democrazia, anzi:<br />
“Questo è il risultato dello stalinismo, della mancanza della democrazia: e poi<br />
nelle situazioni di difficoltà, la risposta è quella di trovarsi un nemico con cui<br />
prendersela, e la xenofobia e il razzismo ben si prestano a questo scopo”.<br />
E d’altronde – anche tra gli occidentali – c’è un po’ di tutto. Nonviolenti<br />
a oltranza e pacifisti tedeschi realos (o realpolitik), femministe e funzionari<br />
di partito, boy scout e anche qualche sindacalista italiano di basso<br />
bordo (e fortunatamente pochi, quelli seri sono molti di più) che intravediamo<br />
a puttaneggiare come agenti di commercio in trasferta, nelle hall<br />
degli alberghi internazionali con ragazze russe in minigonna a sorseggiare<br />
champagne e vodka (tutto a rimborso spese del sindacato, c’è da scommetterci).<br />
Ci sono gli orfani del Pci e i demoproletari in disarmo, qualche radicale,<br />
molti dell’Arci e della Sinistra Giovanile (da poco si chiama così la<br />
Fgci), Legambiente e naturalmente l’Associazione per la pace; e poi tanti<br />
cani sciolti. Si parla molto di est in transizione, di nazionalismi in agguato,<br />
di guerre civili sulla porta di casa (quella jugoslava è iniziata appena<br />
da un mese e mezzo). Ma i “disarmisti” sono ancora in tanti, pensano che<br />
la priorità sia il disarmo nucleare e non lo sfascio che avanza rapidamente<br />
in questa Europa dimenticata oltre cortina. Dietro le <strong>qui</strong>nte, la delegazione<br />
italiana discute e litiga fino a tarda notte sulle solite cose: chi parla<br />
in plenaria e a nome di chi, la frase da limare nel documento finale, l’appuntamento<br />
da mettere in evidenza nell’appello, l’interpretazione dei discorsi<br />
dei leader e tra questi, quelli internazionali come Mary Kaldor, Mient<br />
Jan Faber che, con il loro lavoro sotterraneo, stanno costruendo una nuova<br />
rete europea che unisca le organizzazioni dei cittadini dell’est e dell’ovest.<br />
La End è ormai finita: nata come spazio di coordinamento del<br />
movimento contro gli euromissili nucleari, oggi – dopo l’installazione Per-<br />
25
shing e Cruise e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino – si è aperta<br />
una nuova fase politica e storica.<br />
Quando arriviamo sulla Piazza Rossa un paio di carri armati stazionano<br />
immobili con carristi sperduti e sbarbati che spencolano dinoccolati dalla<br />
torretta. Attorno qualcuno che li apostrofa, e poi molti curiosi e tanti<br />
turisti stranieri. Ci tornano in mente le parole strazianti delle madri dei soldati<br />
ascoltate nella conferenza, con tanto di foto dei loro figli: ogni anno<br />
seimila soldati muoiono negli incidenti e nelle esercitazioni per le violenze<br />
dei superiori. E poi soprattutto l’invasione in Afganistan, iniziata nel 1979<br />
e terminata nel 1989 con decine di migliaia di morti tra i soldati russi. E il<br />
peggio, forse, può ancora arrivare: in Cecenia il presidente Dzohkar Dudaev<br />
vuole portare il paese alla separazione dall’Unione Sovietica e Mosca non<br />
lo permetterà. Altre invasioni, altre guerre, altri morti. Questo ci dicono queste<br />
“madri coraggio” che chiedono: basta con la leva obbligatoria, l’esercito<br />
sia solo professionale. Alcune di queste madri le ritroviamo nella Piazza Rossa:<br />
“Questa volta i soldati non spareranno al popolo”, dice una di loro, agitandosi<br />
in direzione di un capitano dell’Armata Rossa che controlla i soldati.<br />
Da un’altra parte un soldato estrae il caricatore della sua mitraglietta e lo fa<br />
vedere alla gente: “Non lo userò contro di voi”, grida. Applausi, esclamazioni<br />
di gioia; il terrore delle punizioni dei superiori per il momento non c’è.<br />
Ci aggiriamo sperduti, mentre degli ignari turisti americani vanno in giro<br />
per i Gum (i grandi magazzini che si affacciano sul Cremlino) e comprano<br />
balalajke e samovar. La gente sciama verso l’Arbat. C’è una manifestazione<br />
contro il golpe. “Gorbaciov è in Crimea, ma Eltsin resiste”. Ci dicono che<br />
sta parlando da qualche parte, addirittura l’hanno visto salire su un carro<br />
armato con un megafono in mano. Come, hanno arrestato Gorbaciov, e lasciano<br />
che Eltsin, che è più radicale del segretario generale, faccia comizi e<br />
arringhi ai manifestanti? Da altri amplificatori improvvisati stridono appelli<br />
alla mobilitazione. E verso l’Arbat lo sciame della gente si trasforma in manifestazione,<br />
in corteo compatto e ordinato: slogan e urla si rincorrono con<br />
pugni e mani alzate verso il cielo. Molti giovani, e donne. Alla manifestazione<br />
incontriamo un ragazzo che si chiama Kramar, uno dei primi obiettori<br />
di coscienza in Urss: è stato accalappiato dai radicali italiani e cooptato<br />
nel partito radicale transnazionalizzato. Inizia già a scimmiottarne sicumera<br />
e sprezzo politico. Dice in un perfetto inglese: “la colpa è di Gorbaciov,<br />
si è circondato di fascisti”. Artyom –che è con noi – non è d’accordo e confusamente,<br />
un po’ in russo e un po’ in un balbuziente inglese, gli ribatte citando<br />
i meriti del leader sovietico. Ma le polemiche durano poco. Siamo<br />
trascinati via dal fluire della gente.<br />
La situazione è insolitamente statica e il golpe sembra morbido, gli sviluppi<br />
sono incerti. Elhena è una studentessa di biologia di 23 anni, di buo-<br />
26
na famiglia: il padre professore universitario, vacanze estive passate a Porto<br />
Rose in Istria (ben pochi si possono permettere di andare all’estero anche<br />
se questo “estero” è la federazione jugoslava), elegante e curata, anche<br />
lei con il miraggio dell’occidente. L’abbiamo conosciuta qualche sera prima<br />
all’Arbat. Tra le bancarelle che ti smerciano un colbacco dell’Armata<br />
Rossa o le matriosche rimodellate, con quella più grande dal volto di Gorbaciov<br />
e quella più piccola con quello di Lenin (passando per Stalin), Elhena<br />
mi racconta di quello che si augura per la sua vita: viaggiare, conoscere<br />
l’Europa, uscire dal carcere della vita sovietica, leggere libri che a Mosca<br />
non si trovano; e mi chiede molto della letteratura italiana, di Pavese e di<br />
Vittorini. Ha letto già Moravia, La noia e Professione di desiderio. E mi costringe<br />
a raccontarle la mia vita quotidiana e soprattutto il racconto dei<br />
viaggi la fa esclamare di gioia. Facciamo fatica a confrontare i nostri ideali<br />
– la pace, la rivoluzione, cambiare il mondo... – con quelli molto più<br />
concreti di una ragazza che vorrebbe solo la libertà e sa che il modo più<br />
facile per raggiungerla è scappare con un occidentale.<br />
Le parliamo al telefono durante la manifestazione. Ha paura e se ne sta<br />
a casa: “Eltsin e Gorbaciov hanno sbagliato a non fare prima fronte comune.<br />
Ma l’errore più grande l’ha fatto Gorbaciov. Doveva rischiare di più e<br />
abbandonare i conservatori”. Fino a qualche giorno fa Elhena se ne stava a<br />
Porto Rose. Ha visto da vicino la guerra jugoslava, cioè la separazione della<br />
Slovenia dalla Federazione e i brevi combattimenti che hanno interessato soprattutto<br />
Lubiana e i posti di frontiera con l’Italia. Ma anche in Istria ci sono<br />
stati problemi: l’esercito jugoslavo rinchiuso nelle caserme, i serbi lì<br />
residenti timorosi di essere colpiti, i primi profughi. E proprio noi italiani<br />
alla Convenzione pacifista di Mosca abbiamo sostenuto con forza l’idea di<br />
una “carovana per la pace” in Jugoslavia. Dovremmo partire il prossimo 25<br />
settembre da Trieste per arrivare a Sarajevo il 29 settembre e tenere una grande<br />
catena umana per la pace. Mi implora di stare attento, di non uscire dall’albergo,<br />
di andare subito all’aeroporto e partire. Intanto si intuisce una certa<br />
confusione tra i militari. I movimenti dei carri sembrano lenti. Si fermano,<br />
ripartono. Singhiozzano, incespicano. La Piazza Rossa viene chiusa solo alle<br />
11 e la circolazione è comunque assicurata nella città.<br />
C’è rabbia nei russi che manifestano; molti hanno giubbe chiare e magliette<br />
a strisce (come da noi con Tambroni nel 1960) <strong>qui</strong> tornate di moda.<br />
Artyom ci accompagna; è spaesato, ma continua a spiegarci quello che riesce<br />
a capire della situazione in corso. Dietro di noi un carrista appoggiato<br />
alla torretta del suo tank osserva senza capire quello che ci diciamo: è stanco,<br />
tutto fuorché minaccioso, solo la voglia di farla finita al più presto. Almeno<br />
così ci sembra. Molti di noi vorrebbero rimanere, ma dobbiamo andare<br />
all’aeroporto. Il nostro viaggio è già prenotato e non possiamo permetterci<br />
27
di perdere il volo. Artyom ci saluta con un sorriso che è una smorfia. Ci abbracciamo<br />
per qualche secondo. Ci facciamo gli auguri e la promessa di rimanere<br />
in contatto. Un’ultima telefonata a Elhena e l’impegno di rivederci<br />
a Roma. Il taxi cerca di farci uscire dal traffico impazzito del centro. Incontriamo<br />
le facce tristi dei soldati e quelle scure dei manifestanti: sembra di essere<br />
sull’orlo di scontri violenti. Molti sperano ancora in un capovolgimento<br />
democratico, nonviolento, ma mentre ci avviciniamo all’aeroporto una trentina<br />
di blindati spunta da una stradina e, incolonnandosi verso il centro, ci<br />
fa nuovamente sprofondare nell’angoscia. Gli sguardi dei militari che si sporgono<br />
dai camion e dai cingolati sono tesi e determinati. Guardano avanti<br />
senza concedersi agli sguardi di chi, in macchina o in taxi, si sta dirigendo<br />
all’aeroporto. Abbiamo avuto prima l’illusione di un golpe “morbido”, la<br />
speranza della grande compattezza dei manifestanti, il disincanto incoraggiante<br />
dei soldati sulle torrette dei carri. E se ci fossimo sbagliati? “Potranno<br />
anche vincere”, dice il tassista scuotendo la testa, guardandoci dallo<br />
specchietto, “ma non durerà, ormai il tempo è dalla nostra parte”. E ci lascia<br />
all’aeroporto nel caos infernale del terminal con i turisti che vogliono partire,<br />
mentre noi vorremmo rimanere ancora; non si capisce più nulla, mentre<br />
il sole lentamente scende verso l’orizzonte e la sensazione di un mondo sempre<br />
più in disordine – guerra in Iraq, in Jugoslavia, golpe a Mosca, tutto in<br />
pochi mesi – ci avvolge senza il conforto di una risposta consolatoria.<br />
28
Time for Peace<br />
Gerusalemme, Time for Peace (1989-1990)<br />
La partenza. Una volta decollati da Roma e spente le spie delle cinture di sicurezza,<br />
Vittorio Tanzarella e altri esponenti dell’Associazione per la pace si<br />
fanno dare il microfono dalle hostess dell’Alitalia e ci danno le informazioni<br />
essenziali: “Quando arriviamo a Tel Aviv ci saranno dei pullman ad attenderci<br />
e alcune guide: una è Rino La Rocca, della compagnia Dedalus,<br />
l’altra è Randa, palestinese e interprete dall’inglese. Seguiteli e vi porteranno<br />
sul pullman assegnato”. Poi dai microfoni si danno altre informazioni<br />
più politiche: la situazione in Palestina, l’organizzazione dell’iniziativa, la condizione<br />
delle forze di pace israeliane, il significato del movimento dell’Intifada.<br />
Abbiamo per le mani un numero speciale di “Arcipelago” (il giornale<br />
dell’Associazione per la pace) con altre informazioni sulla storia, i problemi<br />
politici, il conflitto in corso. Una volta sbarcati ci ritroviamo nella hall degli<br />
arrivi e poi sul piazzale dell’aeroporto, guardati a vista dalla security dell’aeroporto<br />
che controlla che ogni bagaglio abbia il proprio proprietario.<br />
Dopo una giornata di arrivi di pacifisti italiani (e non solo: sindacalisti,<br />
amministratori locali, giornalisti, politici, eccetera) da Roma e da Milano alla<br />
fine siamo più di novecento. 1990 Time for Peace (una settimana a cavallo<br />
di capodanno) è il titolo dell’iniziativa per la pace in Medio Oriente<br />
promossa e lanciata dalla convenzione End la scorsa estate. Il titolo dell’iniziativa<br />
non è forse originale, ma lo slogan “due popoli, due stati” – alla base<br />
della manifestazione – ha una sua pregnanza per noi che cerchiamo di<br />
andare oltre vecchio terzomondismo filo arabo a favore di una posizione<br />
più equa, a sostegno dei diritti dei due popoli, quello palestinese e quello<br />
israeliano. L’iniziativa è il risultato di più di un anno di frequentazioni, di<br />
mediazioni e compromessi tra le organizzazioni italiane, i comitati palestinesi<br />
dell’Intifada e Peace Now. Il senso è chiaro, l’obiettivo “semplice”: mettere<br />
insieme i palestinesi e gli israeliani, a fianco degli europei, per favorire<br />
il dialogo e promuovere iniziative comuni. Da tre anni in Palestina c’è l’Intifada<br />
e il pacifismo israeliano ha sposato la causa del riconoscimento di<br />
uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Dai tempi della guerra del<br />
Libano nel 1982 Peace Now è diventata una forza importante nel paese.<br />
L’iniziativa è ostacolata dal governo israeliano. I trecento italiani che partono<br />
da Roma con la compagnia israeliana El Al, subiscono cinque ore di interrogatori<br />
con domande del tipo: “Di che partito sei?”, “Chi ti ha dato i<br />
soldi per il biglietto?”, “Conosci palestinesi in Israele?”, e così via. Oltre alla<br />
polizia c’è l’estrema destra. Voleva organizzare una contro-manifestazione,<br />
ma gli è stata vietata. Il giorno dopo il nostro arrivo, quando andiamo<br />
al Yad Vashem, il Museo dell’olocausto di Gerusalemme, troviamo alcuni<br />
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fanatici oltranzisti, ci accolgono con cartelli e slogan che ci accusano di aiutare<br />
i palestinesi a fare quello che aveva già in mente Hitler: la li<strong>qui</strong>dazione<br />
degli ebrei. Un provocatore con la casacca verde militare ci aggredisce. Giovanni<br />
Bianchi, presidente delle Acli, sale su una panchina, prende un megafono<br />
e pronuncia un breve discorso per calmare le acque. Ricorda: “Bisogna<br />
rimuovere le radici dell’intolleranza, proprio a partire dalla consapevolezza<br />
di quello che ha significato l’olocausto. Dobbiamo lavorare per una pace che<br />
sia alla portata di tutti”. Entriamo nella sala del museo dell’olocausto che ricorda<br />
il milione e mezzo di bambini ebrei sterminati dai nazisti: una stanza<br />
completamente buia, illuminata solo da centinaia di candele inscatolate in<br />
specchi labirintici e impalpabili. Solo una voce profonda rompe il silenzio: è<br />
un nastro che ricorda i nomi e l’età dei bambini sterminati dai nazisti.<br />
L’occupazione. L’occupazione israeliana della Cisgiordania e della striscia<br />
di Gaza è innanzitutto storia di brutalità. Ma non solo nei territori occupati.<br />
A Jaffa, quartiere arabo di Tel Aviv (che sorse nel 1948 a ridosso di<br />
questa antica città araba, che allora contava 70.000 abitanti e oggi ne ha<br />
17.000), si susseguono prepotenze e discriminazioni.<br />
Andrea Marussy, fondatore della Lega degli arabi di Jaffa e insegnante, ci<br />
accoglie nella sua casa ed è quasi divertito dal nostro stupore. “L’obiettivo degli<br />
israeliani – dice – è di cancellare Jaffa ed espellere da questa città la popolazione<br />
araba. Come? È molto semplice. Prendi il problema delle case. Jaffa<br />
sta cadendo a pezzi, ma la municipalità di Tel Aviv proibisce agli arabi di ristrutturare<br />
gli edifici. Le case più fatiscenti vengono rase al suolo. Chiaramente<br />
questo divieto non vale per gli ebrei, che si stanno lentamente insediando<br />
a Jaffa”. Ci facciamo un giro per la città e il suo degrado è indicato da tante<br />
cose: sporcizia, strade sconnesse, edifici scrostati e cadenti. “Ci hanno impedito<br />
anche di ristrutturare alcune piccole moschee. Adesso sono diventate latrine<br />
e ritrovi per prostitute. Visto che non ci mandano i camion per<br />
prendere l’immondizia la raccogliamo da soli. Ogni estate organizziamo un<br />
campo di lavoro internazionale per la manutenzione degli spazi verdi, al quale<br />
partecipano anche i vostri volontari del Servizio Civile Internazionale”.<br />
Nei territori occupati quattrocento ragazzi sono morti in due anni di Intifada<br />
perché sventolavano la bandiera palestinese o perché tiravano dei sassi.<br />
Il cadavere dei ragazzi viene di solito sequestrato dalla polizia israeliana<br />
che ne dispone per alcuni giorni, imponendo poi un funerale segreto a cui<br />
sono ammessi solo genitori e fratelli della vittima. I palestinesi vengono controllati<br />
continuamente. Alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, il giorno<br />
della catena umana (la manifestazione che siamo venuti a organizzare) vediamo<br />
due militari che fermano un palestinese con un casco di banane che<br />
viene inutilmente rovistato. Poi, uno dei soldati stacca una banana e butta<br />
30
la buccia ai piedi del palestinese. Al check point di Betlemme, mentre<br />
aspettiamo in pullman di poter passare, arrivano due bambini palestinesi in<br />
bicicletta. Le ruote delle gomme gli vengono sgonfiate, “per motivi di sicurezza”.<br />
Con il grugno i bambini continuano a piedi.<br />
Dimenticata ormai è la storia delle alture del Golan, strappate da Israele<br />
alla Siria nella guerra del 1967 e annesse nel 1981. Nel 1967 vi vivevano<br />
130mila siriani. In questi anni i villaggi sono stati distrutti e i siriani deportati.<br />
Sono rimasti in 9.mila, ma il futuro è segnato. Il Golan è ormai deserto.<br />
Stanno arrivando solo i coloni israeliani, immigrati da altri paesi.<br />
Passiamo un pomeriggio nell’ultimo villaggio del Golan, a ridosso del<br />
confine siriano. Un paese dimenticato e isolato, dove i soldati israeliani<br />
hanno facile gioco a praticare ogni sorta di angheria. I “grandi vecchi” del<br />
paese (anziani, dalle facce stanche e segnate, baffoni folti e vestiti neri tradizionali)<br />
ci accolgono un po’ frastornati, offrendoci un caffè e una mela nella<br />
piazza del paese. Ci danno una pergamena di cittadinanza onoraria del<br />
villaggio. Ogni tanto due elicotteri militari passano sopra le nostre teste, a<br />
non più di 150 metri. Il villaggio è proprio sul confine ed è separato da un<br />
altro insediamento siriano, come fossero Berlino Ovest e Berlino Est, Gorizia<br />
e Nova Gorica. Dal 1967 amicizie e famiglie si sono separate. Talvolta<br />
vedi amici e parenti che, a cento metri di distanza, si parlano ognuno aggrappato<br />
al proprio reticolato, e lo stesso succede anche gli innamorati. Un<br />
vecchio mi racconta che c’è stato anche un matrimonio per procura, con<br />
una cerimonia svolta con Romeo e famiglia dalla parte del reticolato israeliano<br />
e Giulietta e famiglia dalla parte di quello siriano. Poi hanno festeggiato,<br />
ciascun gruppo dalla propria parte di reticolato.<br />
I campi dei rifugiati che visitiamo assomigliano a degli autentici lager,<br />
con tanto di torrette e cancelli blindati. Le case sono baracche di lamiera o<br />
di altro materiale inaffidabile. Stanze sovraffollate, fogne a cielo aperto, sporcizia<br />
a ogni angolo. Solo le strade sembrano ben curate, larghe e ramificate:<br />
servono al passaggio delle camionette. Per gran parte della giornata nei<br />
campi c’è il coprifuoco. Visitiamo le famiglie dei ragazzi morti durante l’Intifada.<br />
Le madri parlano e si rivolgono soprattutto alle giovani pacifiste e alle<br />
donne italiane.<br />
L’altra Israele. Parlare con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della<br />
Palestina) – in Israele – è reato. Si può andare in galera per farlo. “Ma perché<br />
i palestinesi non se ne vanno in qualche stato arabo? Cosa vogliono da<br />
noi? Questa è la nostra terra. Perché forse gli americani hanno riconosciuto<br />
il diritto degli indiani a farsi un proprio stato?”, ci dice un oltranzista alla<br />
fermata dell’autobus. È un colono, ha un mitra a tracolla, avrà sì e no vent’anni,<br />
un giubbetto da pescatore, una tasca rigonfia da un caricatore di ri-<br />
31
cambio. Questa è l’Israele che oggi è maggioranza. Ma c’è anche l’altra<br />
Israele, quella degli obiettori di coscienza che si fanno cinque anni di carcere<br />
per il rifiuto di svolgere il servizio nei territori occupati; l’Israele delle<br />
Women in black, che ogni giorno, vestite di nero e silenziose, in una piazza<br />
di Gerusalemme, chiedono la pace e vengono riempite di sputi e spinte<br />
dagli estremisti di destra; l’Israele di Peace Now e dei pacifisti come Michael<br />
Warschawski che per aver pubblicato sulla sua rivista l’articolo di un leader<br />
palestinese, si fa venti mesi di carcere; l’Israele che dà vita a cooperative<br />
e comunità insieme ai palestinesi. È questo il caso di Neve Shalom-Nevi at<br />
Saalam, una comune di un’ottantina di persone, metà palestinesi e metà ebrei<br />
che vivono, lavorano, educano i propri figli insieme.<br />
Il villaggio è posto sul confine dei territori occupati, la “linea verde” del<br />
1967. Sta su un’altura. È composto di piccoli prefabbricati e oblunghe costruzioni<br />
in muratura, parchi giochi per bambini e molti olivi che si incuneano<br />
sulle strade sterrate e affiancano le costruzioni. È una bella giornata.<br />
Ci vengono incontro in due, un israeliano e un palestinese, naturalmente.<br />
Shai è un medico israeliano. Introduce l’incontro e ci dice che: “Non possiamo<br />
ignorare che palestinesi e israeliani vogliono lo stesso pezzo di terra.<br />
Quindi dobbiamo imparare a convivere e a rispettarci gli uni con gli altri.<br />
Noi <strong>qui</strong>, nel nostro piccolo, abbiamo tentato di metterla in pratica questa<br />
convivenza. Siamo partiti dalle relazioni umane, dalla dimensione educativa”.<br />
Nella scuola della comunità bambini ebrei e arabi studiano insieme (in<br />
Israele vi sono scuole distinte per ebrei e arabi) e si festeggiano tutte le feste<br />
di entrambe religioni, insieme. “I bambini sono contenti, così fanno anche<br />
doppia festa...”, scherza Habet, il portavoce palestinese della comunità.<br />
Nel governo israeliano c’è chi sabota in ogni modo queste prove di convivenza<br />
(creando problemi fiscali, legali, di ogni tipo) e nello stesso tempo<br />
punta deliberatamente a esasperare la protesta palestinese, per poter avviare<br />
la macchina della repressione. Che colpisce il villaggio di Neve Shalom,<br />
ma anche i giornalisti, i pacifisti, gli obiettori di coscienza. Warszawski – durante<br />
un incontro a Gerusalemme est nell’ostello dell’Ymca dove siamo alloggiati<br />
– critica Peace Now per il moderatismo e dice: “Bisogna fare molto<br />
di più, soprattutto per aiutare chi si batte contro questa guerra”. Gli obiettori<br />
di coscienza israeliani in galera sono un centinaio. Da tre a cinque anni<br />
l’ammontare delle condanne per ciascuno.<br />
Il 29 dicembre andiamo a fare una manifestazione a Haifa, di fronte a<br />
un carcere dove ci sono alcuni obiettori rinchiusi ormai da tempo. Saliamo<br />
su una collina e ci sparpagliamo su un terreno incolto che sovrasta il carcere.<br />
Ci inerpichiamo tra rovi e sentieri malmessi, con le nostre bandiere pacifiste.<br />
Piazziamo lì i nostri altoparlanti e un pacifista israeliano si mette a<br />
gridare a squarciagola, per farsi sentire. Poi scandisce slogan: non capiamo<br />
32
niente. Agitiamo le nostre bandiere e salutiamo. Alcuni soldati di questo carcere-base<br />
militare ci salutano anch’essi con dei fazzoletti bianchi. Lo fanno<br />
appena le guardie carceriere si voltano. Fanno finta di voltarsi, lo sanno benissimo<br />
che ci stiamo salutando. Forse anche loro sono contro questa guerra,<br />
ma non hanno avuto il coraggio di fare cinque anni di galera. Il giorno<br />
dopo dovrei andare con Luciano Vecchi (un giovane eurodeputato del Pci)<br />
a visitare un obiettore detenuto in un altro carcere. La visita ci viene negata<br />
dalle autorità. È possibile il dialogo tra palestinesi e israeliani? Il caso di<br />
Neve Shalom sembrerebbe suggerire una risposta positiva. Ma è un dialogo<br />
ancora di minoranze. L’unico dialogo possibile, per ora, è allora quello con<br />
l’Altra Israele. Feisal Husseini – leader dei palestinesi dei territori occupati –<br />
nel convegno all’Hotel Tower dice di sperare “nella vittoria delle forze di pace<br />
dell’Israele”. Parla di Alice nel paese delle meraviglie. Non è certo una citazione<br />
classica da comizio politico, è la prima volta che mi capita di<br />
sentirla citare a una manifestazione: “Alice ha superato le proprie paure e la<br />
chiusura in se stessa. Noi con l’Intifada abbiamo superato le nostre paure e<br />
siamo cresciuti e maturati. Ora tocca a voi israeliani”.<br />
Le violenze della polizia. La manifestazione delle Women in black e delle<br />
donne palestinesi e la catena umana del trenta dicembre hanno successo.<br />
Alle due manifestazioni complessivamente, partecipano 40mila persone. Per<br />
la prima volta israeliani e palestinesi sono in piazza insieme per la pace e per<br />
“due popoli, due stati”. Per la prima volta, dopo la guerra in Libano, una<br />
manifestazione di massa in Israele. Durante la manifestazione delle donne<br />
la polizia aspetta l’arrivo del corteo davanti al teatro, dove la strada si stringe<br />
a imbuto. E lì carica. Anche in questo caso la scusa è stata lo sventolio di<br />
una bandiera palestinese. È vietato. Flavio Lotti (dell’Associazione per la<br />
pace) ha cercato di frapporsi tra la polizia e le manifestanti: scaraventato a<br />
terra, manganellato è stato portato in prigione.<br />
La riunione dopo gli incidenti è tesa. Molti pensano che potrebbe accadere<br />
qualcosa di simile l’indomani quando ci sarà la catena umana. Si discute<br />
come fare. Ci si organizza in modo puntuale, dividendosi per gruppi<br />
e alberghi e scegliendo i punti delle mura della città vecchia dove appostarsi<br />
per fare la catena. L’appuntamento per il giorno dopo è al Notre Dame,<br />
il nunzio apostolico di Gerusalemme, dove per precauzione si fanno arrivare<br />
i palestinesi dei territori occupati (il nunzio gode dell’extraterritorialità,<br />
la polizia non vi può entrare). Ma di palestinesi dai territori occupati ne arrivano<br />
ben pochi. I check point israeliani li rimandano tutti indietro. La<br />
polizia carica brutalmente tra la Porta di Damasco e la Porta di Erode.<br />
Manganelli di legno si alternano a colpi di fucile che sparano proiettili di<br />
gomma con l’anima di ferro. Renzo Maffei, dell’Arci di Pontedera, viene col-<br />
33
pito da tre proiettili di gomma sulla nuca mentre sta soccorrendo una palestinese<br />
svenuta. E lo stesso accade a un’ attivista israeliana, quando nel mezzo<br />
delle cariche si ferma, paralizzata dalla paura. Quattro colpi la raggiungono<br />
al corpo. Una francese del nostro albergo viene colpita al gomito: fratturato.<br />
Un camioncino con due mitragliette lancia-flutti (da una parte esce l’acqua,<br />
dall’altra un acido urticante di color verde), opera con continuità sui<br />
manifestanti. A un certo punto, sotto l’albergo Pilgrim (proprio di fronte<br />
alla Porta di Damasco), che ospita una delegazione italiana, un lancia-flutto<br />
si gira su se stesso e stranamente si orienta verso l’alto. Molti di noi rimangono<br />
interdetti, non capiamo subito. Mira a una finestra dell’albergo e<br />
colpisce Marina, una pacifista napoletana che si trova dietro la finestra dell’albergo.<br />
Il getto è violento: colpisce la vetrata che le scoppia davanti al viso.<br />
Perderà l’occhio. Le cariche si susseguono. È caccia all’uomo. Arriviamo<br />
al National Palace Hotel (il quartier generale di Time for Peace) che dista<br />
poche centinaia di metri dalla Porta di Damasco.<br />
Un buddista battendo su un tamburello ha raccolto dietro di sé una trentina<br />
di persone che ordinatamente sul marciapiede scandiscono con lui il ritmo<br />
e strillano “We want peace”. Arrivano trafelati anche i poliziotti –<br />
camionette con le sirene, pulmini con le portiere aperte, pronte a far scendere<br />
i soldati – che si schierano davanti all’albergo. Passa qualche secondo,<br />
noi siamo già dentro la hall. Dall’esterno un poliziotto con un megafono<br />
strilla qualcosa, nessuno capisce. Con Luciano Vecchi, Chiara Ingrao e altri<br />
siamo sulle scalinate dell’albergo con le mani alzate cercando di calmare i<br />
poliziotti, che sembrano pronti ad attaccarci. Infatti dopo qualche secondo<br />
scendono tutti dalle loro camionette e vengono sparati tre candelotti lacrimogeni<br />
all’interno dell’edificio che si riempie di fumo bianco. Tutti piangono<br />
e molti stanno soffocando. Un palestinese è svenuto ed è disteso a terra<br />
sul terrazzino dell’albergo. Forse è stato colpito. Qualcuno ha l’impressione<br />
che sia morto. Sfondiamo le vetrate del terrazzino e lo portiamo dentro. È<br />
solo stordito. Temiamo l’irruzione della polizia, ma dopo pochi secondi se<br />
ne vanno. Usciamo sulla scalinata per fuggire dal fumo dei lacrimogeni, molti<br />
strillano, piangono. Siamo ancora all’Hotel Nazionale, girovaghiamo nella<br />
grande hall che sembra l’atrio di un’università occupata: volantini attaccati<br />
sulle colonne, annunci sulla vetrata del bar, cartelli poggiati sui divani.<br />
Israele (Ashkelon e Sderot), al confine con la striscia di Gaza (2007)<br />
Moderno, efficiente, tran<strong>qui</strong>llo e silenzioso proprio come un tipico campus<br />
per studenti modello. Anche questa oasi di rilassante e produttivo studio ha<br />
ricevuto, nell’estate del 2005, il suo missile kassam proveniente dalla striscia<br />
di Gaza, mentre l’esercito israeliano metteva a ferro e fuoco il territorio<br />
palestinese uccidendo civili e distruggendo abitazioni civili. Da allora la vi-<br />
34
ta al campus non è più la stessa, come anche nella vicina Sderot, poverissima<br />
cittadina israeliana di confine (e da cui proviene l’attuale ministro della<br />
difesa, il laburista Amir Peretz) che per mesi è stata bersagliata da centinaia<br />
di missili e ordigni. Qui, a ridosso della striscia di Gaza, gli abitanti israeliani<br />
di Sderot si sentono in guerra, sotto assedio. E meglio non se la passano<br />
quelli di Zikim o Karmija; e nemmeno quelli della poco più lontana Ashkelon.<br />
In molti chiedono di porre fine a questi continui attacchi. Peretz più<br />
volte è venuto <strong>qui</strong> a promettere il “pugno di ferro” verso Hamas; e ancora<br />
di più quelli del Likud o di Kadima. Per non parlare dei partiti oltranzisti<br />
ultra-religiosi. La guerra continua a essere – nel bene e soprattutto nel male<br />
– il collante della società israeliana: un collante fatto di paura e di immobilismo.<br />
Nato dai molti pionieri arrivati <strong>qui</strong> nel nome dell’egualitarismo e<br />
della solidarietà, questo paese si sta rovinando stritolato dal fondamentalismo<br />
e dalla deriva bellica. A parte Tel Aviv (città europea e secolarizzata, che<br />
vuole stare lontana da questa sporca guerra e dalla linea del fronte) e Haifa<br />
(città industriale e laica, nel nord), gran parte del resto del paese sembra vivere<br />
nelle tenebre di una guerra diffusa e interminabile. E <strong>qui</strong> nel sud (più<br />
che a est, com’era un tempo, ma come al nord verso il Libano e la Siria) che<br />
il paese si sente veramente al fronte, costantemente sotto minaccia da una<br />
striscia di Gaza, non più occupata dai soldati israeliani e nello stesso tempo<br />
segregata dalla limitazione del passaggio di merci e persone.<br />
È <strong>qui</strong> nel sud (come in molte delle aree di prima colonizzazione, come<br />
nel Negev) che si è radicata una certa sinistra laburista che ha trovato proprio<br />
nei kibbutz un luogo privilegiato di insediamento. Nato proprio intorno alla<br />
“scuola regionale” dei kibbutz, il Sapir College –a soli tre chilometri in linea<br />
d’aria dalla striscia di Gaza e a mezz’ora da Ber Sheva, la capitale del deserto<br />
del Negev – ospita da tre anni un importante forum (coordinato dal Zvi Shuldiner<br />
insegnante del Sapir College e antico collaboratore de “il manifesto”)<br />
che mette a confronto una parte dell’intelighenzia democratica del paese e<br />
molti gruppi di base, attivisti sociali e pacifisti. Quest’anno i temi del forum<br />
sono quelli della costruzione di “un altro tipo di politica” e l’impegno contro<br />
“il darwinismo sociale” prodotto dalle politiche neoliberiste.<br />
In Israele i gruppi di base e di quella che potremmo definire la “sinistra<br />
sociale” del paese, non se la passano troppo bene. Non solo per la guerra e<br />
le conseguenze dell’occupazione dei territori palestinesi, ma anche per quella<br />
particolare “guerra interna” che in Israele ha assunto due facce: la militarizzazione<br />
della società e della politica e la riduzione dei diritti sociali e civili.<br />
La declinazione della “questione sociale” in Israele è simile a quella di altri<br />
paesi: privatizzazione dei servizi sociali, riduzione del settore pubblico, precarizzazione<br />
del lavoro (con l’introduzione del cosiddetto “piano Wisconsin”<br />
che privatizza i centri di collocamento), aumento della povertà e delle<br />
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diseguaglianze. Niente di nuovo: è il credo neoliberista che <strong>qui</strong> in Medio<br />
Oriente si accompagna a guerra e a drammatiche discriminazioni.<br />
In Israele ci sono gruppi radicalmente all’opposizione che i pacifisti italiani<br />
hanno imparato a conoscere in questi anni nell’impegno per il riconoscimento<br />
dei diritti del popolo palestinese: da Peace Now ai vari forum e<br />
gruppi di donne, da Gush Shalom all’Alternative Information Center di<br />
Warshanski (che monitora costantemente le violazioni dei diritti umani), da<br />
riviste come “Occupation Magazine” fino al nuovo gruppo degli “Anarchici<br />
contro il muro” (di cui uno dei suoi leader è in carcere per aver manifestato<br />
contro il muro che segrega i territori palestinesi) ai gruppi che monitorano<br />
i cinquecento check point sul territorio palestinese. L’accusa più moderata<br />
che viene fatta dalla destra a questi gruppi è di essere anti-patriottici, antinazionali,<br />
sleali con lo Stato di Israele. E nelle conferenze pubbliche vengono<br />
interrotti e contestati. L’impegno dei gruppi di base israeliani contro la<br />
guerra e per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese è assai difficile<br />
e impervio. Si va dalle accuse di tradimento agli insulti per strada, dalle<br />
minacce fisiche alla censura violenta. Sono prevalentemente gruppi di<br />
giovani e di donne, autentiche piccole minoranze che non sembrano usare<br />
toni particolarmente estremisti: alcuni dicono semplicemente le cose come<br />
stanno, altri sono molto pazienti e argomentano le posizioni anche in modo<br />
molto diplomatico. Ma non c’è niente da fare: ottengono delle risposte<br />
violente, aggressive, incontrollate dai coloni, dagli esponenti di destra, dai<br />
militari. Non c’è modo di trovare un linguaggio comune. Anche per noi<br />
che da sempre diciamo: “due popoli, due stati”, è difficile poter ragionare:<br />
si è trascinati in discussioni dove viene agitata la memoria delle sofferenze e<br />
degli attentati, dei torti subiti, del dramma storico del popolo israeliano. E<br />
l’opinione diversa viene tacciata come filo-palestinese, e non c’è modo di<br />
ragionare oltre.<br />
Ti rendi conto di come il nostro pacifismo (quello occidentale, quello<br />
europeo) sia stato in realtà vittima di due errori (dannosi anche per i rapporti<br />
con la società israeliana). Il primo (fino agli anni ottanta) quello – in<br />
osse<strong>qui</strong>o al mood terzomondista dagli anni sessanta in poi – di un appoggio<br />
unidirezionale all’Olp di Arafat senza comprendere la specificità della situazione<br />
mediorientale. Il secondo – nell’illusione pacificante del dopo ’89 –<br />
la banalizzazione delle pur giuste soluzioni prospettate del conflitto (“due<br />
popoli, due stati”, una specie di mantra), senza un’adeguata consapevolezza<br />
dell’enorme complessità delle questioni in gioco (e della loro difficile e lenta<br />
trasformazione): questioni sociali, culturali ed economiche delle società<br />
israeliana e palestinese. Proposte che venivano via via stravolte non solo dalla<br />
trasformazione della società israeliana, ma anche di quella palestinese, sotto<br />
il peso e la forza dei mutamenti di tutte le società arabe e islamiche.<br />
36
In Israele, oltre a quelli pacifisti, ci sono molti altri gruppi impegnati<br />
sulle questioni sociali, economiche, ambientali. La sofferenza e il disagio<br />
sociale nel paese sono molto estesi e profondi. Frammentati, divisi, minoritari,<br />
questi gruppi cercano comunque di far fronte alla “guerra sociale interna”<br />
fatta a colpi di privatizzazioni, di precarizzazione del lavoro, di riduzione<br />
della spesa pubblica e del welfare. Gadi Algami ha dato vita nel 2000 (dopo<br />
l’inizio della seconda Intifada) insieme a molti suoi amici ebrei e arabi di<br />
Israele all’organizzazione Ta’ayush, che significa in arabo coesistenza, vita in<br />
comune. Una delle prime attività dell’organizzazione è stata quella di portare<br />
aiuti alla popolazione araba dei villaggi assediati e isolati dalle forze militari<br />
israeliane. Partivano convogli di camion all’alba con derrate e altri beni<br />
di prima necessità. Spesso dovevano aspettare ore per entrare nei villaggi:<br />
lunghe colonne ferme giorno e notte in attesa di autorizzazione. Organizzazione<br />
di volontari, ramificata su tutto il paese, ora Ta’ayush è impegnata<br />
contro il muro costruito da Israele per isolare territori occupati: “La guerra<br />
in Libano è stata una catastrofe – dice Gadi Algami, poco più di trent’anni,<br />
vive a Tel Aviv con tre figli, mentre si aggira per le sale della conferenza –<br />
e sempre di più assistiamo a un processo di militarizzazione della politica<br />
che si traduce in una militarizzazione della società: dei suoi modi di pensare,<br />
di comportarsi”.<br />
Gli fa eco Natalia Espanioli, femminista e donna in nero, del centro anti-violenza<br />
di Nazareth: “Bisogna evitare che la guerra sia la logica della politica.<br />
Ci deve essere un’altra possibilità. Altrimenti i problemi sociali e i<br />
diritti della povera gente saranno sempre esclusi dall’agenda della politica.<br />
La logica della guerra è una logica maschilista, dobbiamo riportare nella politica<br />
un’altra logica, quella delle donne, dei bisogni sociali, della quotidianità,<br />
delle relazioni tra le persone”. E questi gruppi di base tentano disperatamente<br />
di tenere insieme l’impegno per la pace con il cambiamento sociale. Ancora<br />
Natalia Espanioli ricorda come: “Dobbiamo farci carico di tutte le sofferenze.<br />
Non ci deve essere competizione le sofferenze nostre e quelle altrui,<br />
o viceversa. La nostra società israeliana è abituata a vedere solo i propri, e<br />
questo non è giusto”. Tanto basta per attirare interruzioni e proteste di una<br />
parte della conferenza del Sapir College. E Natalia ricorda ancora come la<br />
discriminazione sia, non solo verso i palestinesi, ma una costante della società<br />
israeliana: contro gli arabi e i beduini (siamo a ridosso del Negev) e<br />
–ancora oggi – contro gli ebrei provenienti dai paesi africani e arabi. Tanto<br />
che dieci anni è stata formata una “Rainbow Coalition” (di cui è stato proprio<br />
nel forum ricordato l’anniversario della fondazione) al fine di difendere<br />
i loro diritti dalla discriminazione (non solo politica ed economica, ma<br />
anche culturale) praticata a loro danno dagli ebrei di provenienza europea,<br />
che rappresentano l’establishment del paese. È la storica contrapposizione<br />
37
tra ebrei askenaziti (gli ebrei europei: Ashkenaz viene identificata nella Germania<br />
nel giudaismo medievale) e sefarditi (i discendenti degli ebrei cacciati<br />
dalla Spagna nel 1492 e peregrinanti poi nel Maghreb e in altri paesi<br />
arabi), tra le elite politiche e sociali (i primi) e la parte più svantaggiata (i<br />
secondi). Al congresso dei laburisti del 1997 Ehud Barak chiese addirittura<br />
perdono alla comunità sefardita per i torti subiti nel secondo dopoguerra.<br />
Infatti, la cosa può sembrare singolare, il risentimento sefardita si<br />
è indirizzato prevalentemente verso i laburisti e non verso il Likud. Perché?<br />
Ha provato a spiegarlo Abraham Yehoshua, ritornando alle origini<br />
della formazione dello stato di Israele:<br />
38<br />
“Qual è l’ingiustizia commessa dal partito laburista nei confronti degli<br />
immigrati sefarditi e soprattutto di quelli dell’Africa del Nord? Ritengo<br />
che alla radice della questione vi sia la concezione ideologica della sinistra<br />
in base alla quale un essere umano può cambiare, liberarsi dalle sovrastrutture,<br />
delle tradizioni e dei costumi aviti per trasformarsi in qualcosa di nuovo.<br />
La pretesa rivolta agli immigrati del Maghreb di trasformarsi in ebrei<br />
di una nuova sorta pareva agli occhi dei governanti laburisti moralmente<br />
legittima... Ma gli ashkenaziti giunti in Israele non avevano mai preso in<br />
considerazione l’idea che la loro trasformazione in ebrei israeliani dovesse<br />
implicare un cambiamento di cultura. Essi mantennero le proprie abitudini...<br />
e non rinunciarono a Mozart, a Beethoven, a Tolstoj, a Dostoevskij,<br />
a Rembrandt e a Michelangelo. Il governo socialista di allora pretese invece<br />
dagli ebrei sefarditi, e soprattutto da quelli marocchini, un doppio sforzo:<br />
non solo rinnegare la diaspora per trasformarsi in nuovi ebrei, ma<br />
abbandonare le tradizioni orientali per accettarne altre. Non c’era alcun<br />
dubbio che l’infrastruttura dello stato di Israele sarebbe dovuta essere di<br />
stampo occidentale... Gli ebrei giunti dai paesi orientali dovettero non solo<br />
trasformarsi, come tutti, in “ebrei nuovi” ma anche “occidentalizzarsi”.<br />
Questa imposizione era, ed è tuttora, al di là delle possibilità di gran parte<br />
di loro e la sua legittimità morale e altamente discutibile”.<br />
È istruttivo come il sacrosanto riconoscimento dei diritti del popolo<br />
palestinese debba poi – nel nostro caso – affrontare una sorta di “corpo a<br />
corpo” con un altrettanto importante diritto come quello del popolo ebraico<br />
alla sua terra madre: paure, fobie, frustrazioni e sospetti entrano in una<br />
girandola senza fine di accuse e irrazionali recriminazioni. Ti chiedi quanto<br />
il principio di autodeterminazione (di ciascuno) debba essere assoluto o relativo,<br />
quali vincoli e condizioni debba avere, quali procedure e tempi debba<br />
seguire per rispettare i diritti umani e la pace. Chi ci dice dove finisce il
diritto di autodeterminazione di uno e inizia quello dell’altro? E poi, l’autodeterminazione<br />
si deve tradurre per forza nella costituzione di uno Stato?<br />
E siamo sicuri che il principio dell’autodeterminazione debba essere senza<br />
alcun condizionamento? (ad esempio senza essere nonviolenta, concordata,<br />
rispettosa dei diritti delle minoranze?).<br />
I gruppi di base della sinistra israeliana si muovono dentro la crisi della<br />
sinistra israeliana (crisi di cui nel dibattito della conferenza al Sapir College,<br />
si avverte la consistenza) sempre di più considerata distante dai problemi sociali<br />
del paese, spesso identificata come una elite privilegiata. E tale accusa riguarda<br />
anche una parte della sinistra sociale israeliana, quella storicamente<br />
radicatasi con le prime esperienze comunitarie dei coloni. La sinistra israeliana<br />
– come quella di molti altri paesi – sembra avvolta in una pesante crisi di<br />
identità (come d’altronde anche da noi): quello che poteva dare lo ha fatto<br />
con Rabin, e poi è morta con lui. Non si distingue sul terreno coraggioso<br />
della pace, non su quello della secolarizzazione della società, non su quello<br />
della questione sociale (che oggi è pesantissima nel paese). Rischia di essere<br />
considerata snob, elitaria, staccata dalla realtà drammatica del paese.<br />
Paradigmatica in questo senso è la vicenda dei kibbutz (sono circa duecentosettanta<br />
in tutto il paese), gran parte dei quali nati nei primi anni del<br />
secondo dopoguerra proprio in stretta connessione con il movimento laburista<br />
e con un’idea di socialismo comunitaria e collettivista. Chi negli anni<br />
settanta non ha pensato di andare una volta in un kibbutz, una sorta di territorio<br />
libertario in cui i figli vengono allevati da tutti, non sei proprietario<br />
di niente, lavori secondo le tue capacità e ricevi quello di cui hai bisogno?<br />
Ma anche queste isole di egualitarismo sociale e di proprietà collettiva hanno<br />
nel corso del tempo perso la loro ideologia originaria: si sono aperte al<br />
profitto, alle privatizzazioni, all’individualismo più tradizionale.<br />
Dove rimaniamo noi per qualche giorno, nell’agglomerato di Dorot,<br />
non sembra proprio di stare in un kibbutz. Villette a schiera come in un villaggio<br />
turistico, prato all’inglese, un piccolo zoo per i bambini (l’educazione<br />
e la vita in comune dei bambini non c’è più da tempo in gran parte dei<br />
kibbutz), automobiline elettriche (come quelle dei campi di golf) che girano<br />
per i vialetti alberati, qualche Suv parcheggiato. E quello che fino a poco<br />
fa era proprietà condivisa e collettiva ora è in progressivo corso di<br />
smantellamento. Case vendute a chi ci abita, la mensa comune privatizzata<br />
e affidata a una società profit, le industrie (a Dorot ce n’è una di confezionamento<br />
di aglio e di altri prodotti ortofrutticoli) sempre più condotte con<br />
piglio capitalistico. E sempre più lavoratori vengono da fuori, mentre prima<br />
appartenevano alla comunità. È la fine di un’utopia su cui socialisti libertari<br />
e qualche anarchico aveva riposto qualche illusione di una società<br />
diversa. Il comunitarismo libertario e socialista è stato così adeguato alla “mo-<br />
39
dernità” e al benessere individualista e consumista. E così quelli che erano<br />
stati il simbolo di una scelta rude, ma sobria e solidaristica oggi sono diventati<br />
l’emblema di privilegi e di tran<strong>qui</strong>llità borghese. Nei kibbutz non senti<br />
l’angoscia della guerra che incombe, ma se esci dai suoi recinti e fai qualche<br />
chilometro e ti ritrovi a Sderot in attesa di un Kassam da Gaza, allora ti rendi<br />
conto che quella storia è finita per sempre. Rileggendo un testo di Amos<br />
Oz, A Perfect Peace, ambientato in un kibbutz prima della guerra dei sei giorni<br />
(e che riflette bene l’inizio del disorientamento e della crisi del movimento<br />
laburista e dell’identità kibbutzina) ho trovato questo passaggio:<br />
40<br />
“‘Salve. Molto piacere. Mi chiamo Azariah Gitlin. Io... mi piacerebbe<br />
restare <strong>qui</strong>. Vivere da voi, cioè. Ormai solo nei kibbutz c’è giustizia. In<br />
nessun altro posto c’è giustizia, oggigiorno. Vorrei vivere <strong>qui</strong>’. Eitan si<br />
trovò dunque costretto a tendere la mano e toccare, seppure con la punta<br />
delle dita, quella che gli veniva tesa. Gli sembrò strano scambiare una<br />
stretta di mano con quel personaggio un po’ stordito, lì fra le siepi dietro<br />
il magazzino dei fertilizzanti. Azariah Gitlin continuò a spiegare e a chiedere:<br />
‘Guarda, compagno, non vorrei che mi prendessi per quello che<br />
non sono. Non c’entro niente io con quel tipo di persone che arrivano al<br />
kibbutz per motivi personali e cercano chissà cosa. Al kibbutz la gente è<br />
ancora legata, mentre nel resto del mondo si vedono ormai solo odio, gelosia,<br />
volgarità. Per questo sono venuto <strong>qui</strong>, con l’intenzione di unirmi a<br />
voi e cambiare in meglio la mia vita’”.<br />
I kibbutz erano così il simbolo di un’utopia politica, sociale e anche umana.<br />
Tutto questo non c’è più e la storia del protagonista (Yonatan) di A Perfect<br />
Peace, che lascia il kibbutz per avventurarsi nel mondo esterno – alla<br />
vigilia di una nuova guerra arabo/israeliana – è il prototipo del fallimento<br />
di una umanità che ha smarrito per sempre un’utopia che si voleva concreta,<br />
ma che è durata troppo poco. Se i kibbutz appartengono ormai al passato<br />
(almeno per ciò che riguarda il loro significato libertario e socialista), c’è<br />
chi È concentrato sulle sfide dell’oggi. Il rappresentante della sezione israeliana<br />
dell’Oxfam, Ishai Menuchin (un giovane ricercatore e attivista che ha<br />
lavorato con i gruppi del commercio equo e solidale) parla a lungo di un’economia<br />
sociale alternativa a quella capitalista, mentre l’idea di una “banca etica”<br />
(quella italiana, di cui parlo al convegno) suscita un grande entusiasmo<br />
tra tutti i partecipanti. Sono bombardato di domande e informazioni: mi<br />
chiedono di prendere contatti e consigli su come fare una banca etica in<br />
Israele. L’organizzazione Shatil è da tempo impegnata a promuovere diritti<br />
sociali, partecipazione democratica, società civile. Shatil ha anche il ruolo
di Fondazione che finanzia i gruppi di base. In Israele non c’è, come in Italia,<br />
un “Forum del terzo settore”, ma Shatil cerca in qualche modo di coprire<br />
questo vuoto. Fanno attività di microcredito, corsi di partecipazione<br />
democratica, danno vita a gruppi comuni di ebrei e arabi, attività di advocacy<br />
per le minoranze (come i beduini, <strong>qui</strong> nell’area) discriminate. La Direttrice<br />
di Shatil, Rachel Liel, ci dice: “Siamo molto interessati all’esperienza<br />
della finanza etica, vorremmo ora costruire una banca che sia etica, che dia<br />
finanziamenti ai gruppi di base, alle attività sociali. Le vecchie banche nate<br />
dall’esperienza del movimento dei lavoratori, <strong>qui</strong> in Israele sono ormai diventate<br />
delle banche tradizionali che hanno perso il senso della loro origine.<br />
Servirebbe proprio una “banca etica” per dare identità e coerenza ai nostri<br />
interventi sociali”. Tenere vive queste esperienze è anche un modo per sfuggire<br />
alla tenaglia della guerra e di una società sempre più militarizzata. A volte<br />
non sai però, se questo lavoro di una parte della sinistra sociale di base<br />
israeliana su temi come quelli della finanza etica o del commercio equo e<br />
solidale (comune un lavoro assai di nicchia, da molti considerato un po’<br />
esotico) sia effettivamente la scelta che serve per superare le paure prodotte<br />
dalla guerra oppure un diversivo per evitare di confrontarsi con un problema<br />
insolubile e che alimenta spaccature nella società.<br />
Infatti questo rinnovato attivismo sociale (ancora debole e frammentato,<br />
con pochi legami con i movimenti sociali globali di Porto Alegre) si continua<br />
a scontrare pero’ con la mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese<br />
e dell’occupazione della West Bank. L’impressione è quella di una claustrofobia<br />
sociale, di una trappola politica (fatta di impotenza, mancanza di coordinamento,<br />
concorrenza, eccetera) azionata dalla logica di guerra. È per<br />
questo che il titolo di una delle sessioni della conferenza di Sapir “La logica<br />
della guerra. La sola logica?” rischia di essere, purtroppo, ancora tremendamente<br />
vero e mettere ancora una volta nell’angolo la sinistra e i movimenti<br />
sociali della società israeliana. A questa “logica” bisogna resistere con un “altro<br />
modo di fare politica”, come gli esponenti dei gruppi di base auspicano.<br />
Ed è anche uno dei pochi messaggi di ottimismo della conferenza. Anche in<br />
Israele, nella migliore società civile, c’è poca (quasi nessuna) fiducia nei partiti,<br />
e in modo specifico nel Labour. Come dice Natalia Espanioli: “Abbiamo<br />
veramente bisogno di un’altra logica alla base della politica, che non è<br />
quella della guerra, ma del riconoscimento delle reciproche sofferenze di ciascun<br />
individuo e di ciascun popolo”. È questa la base per un “altra Israele”.<br />
E allora “l’altra politica” e la soluzione politica e concreta del conflitto israeliano-palestinese<br />
sembrano sostenersi reciprocamente. La salvezza (non solo<br />
la sicurezza dal terrorismo) della società israeliana può venire solo dall’innescare<br />
questa dinamica virtuosa. Non tutte le guerre (come le crisi) sono eguali: alcune<br />
producono spostamenti benefici (si guardi alla Gran Bretagna nel 1945<br />
41
con lo spostamento a sinistra e la nascita del Welfare) mentre altre producono<br />
conseguenze disastrose (come in Germania dopo il 1918). Israele<br />
sembra, a detta di molti, essersi incamminata su una strada dalle mille incognite.<br />
E da quello che per molti era stato il sogno della nuova frontiera,<br />
sembra ora diventato l’incubo di una trincea permanente.<br />
42
Guerre fratricide<br />
1991 Slovenia e Croazia<br />
Giugno-Luglio<br />
Da Trieste a Belgrado. 30 giugno, due giorni dopo la dichiarazione di indipendenza<br />
della Slovenia, ci ritroviamo per una manifestazione di poche<br />
centinaia di persone in piazza dell’Unità a Trieste. C’è qualche tensione con<br />
alcuni esponenti della comunità slovena. Il 7 luglio a Belgrado ci si riunisce<br />
in duecento. Per l’Italia ci sono delegazioni dell’Associazione per la pace, dell’Arci,<br />
delle Acli, della Cgil, dei Verdi. Dall’Europa ci sono esponenti della<br />
sinistra europea. Dalla Polonia arrivano Geremeck e della Helsinki Citizens<br />
Assembly Mary Kaldor e Mient Jan Faber e discutono con l’anziano Gilas<br />
sul futuro della Jugoslavia. Dice Gilas: “Se la guerra si limiterà alla Slovenia<br />
e alla Croazia ne potremo uscire fuori. Se si estenderà anche alla Bosnia, allora<br />
durerà anni”. Mary Kaldor interviene: “I movimenti nazionali dell’ottocento<br />
erano progressivi, democratici, tendevano a includere, a rompere gli<br />
steccati, erano espressione della borghesia cittadina. I nazionalismi odierni<br />
sono antidemocratici, tendono a escludere, a erigere steccati, espressione dei<br />
ceti arretrati contadini. I movimenti nazionali del secolo scorso avevano<br />
una funzione di liberazione, quelli di oggi sono regressivi”. Sonia Licht, serba<br />
ed ebrea, esponente del ’68, espulsa dalla Lega dei Comunisti, ora leader<br />
del movimento per la pace jugoslavo dice: “Devo fare la Cassandra, ma voi<br />
ancora non avete capito ciò che accadrà <strong>qui</strong>”. I pacifisti a Belgrado – e<br />
ovunque – sono una minoranza. Stretti tra nazionalismo e paura, sono delle<br />
elite intellettuali senza sponda politica. Tra questi piccoli gruppi ci sono<br />
l’Alleanza Civica, la Fondazione Soros, il Belgrade Circle. I media – a eccezione<br />
di qualche giornale o televisione, come il periodico “Vreme” e l’emittente<br />
Studio B 92 – sono stati tra i principali responsabili della guerra. Hanno<br />
alimentato la fobia nazionalista e l’immagine del nemico. Hanno prodotto<br />
l’evento, la guerra, lo hanno fatto precipitare. L’opposizione che conta a<br />
Belgrado non è quella che ci piace. È principalmente quella del monarchico<br />
Draskovic e dello sciovinista Seselj. Gli studenti si mobilitano e fanno<br />
dell’Università il centro della resistenza. Si fanno assemblee, cortei, ci si organizza<br />
per resistere alla deriva nazionalista e di guerra, si creano network e<br />
gruppi di lavoro, si prendono contatti con le altre città europee, ma il movimento<br />
stenta a decollare, e non dura.<br />
Settembre<br />
La carovana della pace. Dopo la Slovenia è toccato alla Croazia. C’è la secessione<br />
delle Krajine e lo scontro tra l’esercito croato e quello federale. Si decide<br />
alla convenzione End di Mosca (agosto) di fare una carovana per la pace<br />
43
da Trieste a Sarajevo. Si parte il 25 settembre del 1992 dalla collina di San<br />
Giusto a Trieste. Dopo qualche discorso di rito di assessori e rappresentanti<br />
locali, la gente – arrivata a Trieste con i treni della notte – cerca il proprio<br />
pullman, e poi via. Segue una troupe del Tg3 e ci sono alcuni parlamentari:<br />
Luciana Castellina, Alex Langer e due deputati austriaci. Oltre ai pullman<br />
ci sono macchine, furgoncini, camper: in tutto trecento pacifisti, sindacalisti,<br />
sacerdoti e boy scout. Il coordinamento non è perfetto e, prima di attraversare<br />
il confine, siamo già in ritardo sui tempi di marcia. In Istria incontriamo<br />
gli esponenti della minoranza italiana a Fiume. L’incontro si tiene in una<br />
grande palestra. C’è poca gente. L’atmosfera è un po’ desolata, la città sembra<br />
assente. “La colpa della guerra è del vecchio sistema” sentenzia con rancore<br />
un rappresentante della comunità italiana. Per bilanciare l’incontro della<br />
prima tappa un gruppo della carovana si incontra con la comunità slovena<br />
(che in questa zona, come d’altronde lungo tutta la linea di confine, è molto<br />
numerosa e anche discriminata) a Villa Opicina: sostengono l’indipendenza<br />
slovena e croata dall’“aggressione jugoslava”. Gli italiani si devono ancora<br />
orientare; sono <strong>qui</strong> per capire. Quelli che intervengono balbettano posizioni<br />
di principio: parliamo di pace, diritti umani, democrazia... Molti parlano<br />
di guerra civile, ma agli sloveni non piace; “è una guerra di indipendenza”.<br />
La sera si arriva a Lubiana, con grande ritardo e si salta la manifestazione<br />
di piazza. Il palco è montato, ma non c’è nessuno sopra. Solo gli operai<br />
che stanno già svitando i primi tubi innocenti. Siamo arrivati troppo tardi.<br />
I nostri pullman arrivano a singhiozzo. I pacifisti vengono dirottati verso i<br />
propri alloggi: parrocchie, ostelli della gioventù, scuole. C’è un gruppo di<br />
obiettori di coscienza italiani che vengono dalla comunità di Papa Giovanni<br />
XXIII, che si trova a Rimini. Non potrebbero uscire fuori dall’Italia. Quando<br />
torneranno si autodenunceranno presso la procura militare. Marco Hren,<br />
del Centro per la cultura della nonviolenza, di Lubiana, si aggira per la piazza.<br />
È critico verso le tradizionali organizzazioni pacifiste jugoslave, accusate<br />
di essere legate ai vecchi regimi. I nonviolenti sloveni ancora non hanno<br />
digerito la parabola di Janez Jansa, da obiettore di coscienza e oppositore<br />
pacifista al regime comunista, a ministro (in tuta mimetica) della difesa territoriale<br />
del nuovo governo post-comunista.<br />
Il 26 settembre, da Lubiana, si parte verso Zagabria. La discussione si<br />
arroventa. Sui pullman c’è polemica. Soprattutto i veneti, Don Albino Bizzotto<br />
(Beati i Costruttori di Pace) in testa, sono critici verso la conduzione<br />
della carovana: troppa poca comunicazione, tutto già deciso, e così via. L’“organizzazione”<br />
mi mette a fare il capo de pullman dove si trova Bizzotto e devo<br />
fare due ore di assemblea permanente per cercare di calmare le acque. Si<br />
arriva a Zagabria che sembra sotto assedio. La guerra <strong>qui</strong>, a differenza di<br />
Lubiana, si vede. Una guerra non ancora civile, ma tra stati. Il centro della<br />
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città è deserto e i pullman raggiungono la sala comunale con prudenza.<br />
Una signora, con un sacchetto di plastica della spesa mezzo vuoto, ci dice<br />
che sono previsti imminenti bombardamenti. Ci consiglia di andare via.<br />
Gli incontri con le autorità locali e i rappresentanti delle associazioni di Zagabria<br />
sono all’insegna del nazionalismo: “Se volete aiutare la pace, fateci<br />
avere le armi per difenderci”, dice uno di loro. Anche le “madri coraggio” –<br />
<strong>qui</strong> molto attive – che tentano di portare via i loro figli dall’armata federale<br />
non sono immuni dal virus nazionalista: i loro discorsi sono molto croati<br />
e alcune di loro viaggiano per l’Europa a spese del governo con lo scopo<br />
di fare propaganda contro l’aggressore serbo. La stampa locale ci accusa di<br />
essere filo-serbi, perché chiediamo come prima cosa il “cessate il fuoco”, non<br />
schierandoci (con loro). Per lo stesso motivo a Belgrado ci accuseranno di<br />
essere agenti sloveni e croati. Chiedono di schierarsi, di non essere imparziali.<br />
A Zagabria rimaniamo solo tre ore.<br />
Il 28 settembre arriviamo a Belgrado, alla Casa della gioventù, zeppa di<br />
ragazzi e ragazze, assordata da musica rock e da annunci gracchiati che escono<br />
da vecchi altoparlanti. Festoni colorati e manifesti, volantini e foto tappezzano<br />
i muri zebrati dai colori di lampadine psichedeliche. Quando<br />
parla, per ricevere i pacifisti italiani, il rappresentante del comune di Belgrado,<br />
è accolto da una salva di fischi dei pacifisti belgradesi. Con noi è Sonia<br />
Licht: “Il fatto fondamentale è che tutte le parti stanno cercando di risolvere<br />
il problema del loro futuro attraverso il rafforzamento del loro Stato. La<br />
premessa del dialogo serbo-albanese è la seguente: dobbiamo evitare che<br />
inizi un’altra guerra in Kosovo”. Ora, però, incombe la ripresa della guerra<br />
tra serbi e croati in Slavonia e l’inizio di un incendio dalle incalcolabili conseguenze<br />
in Bosnia Erzegovina. Aggiunge Sonia: “Ma, se si divide – come si<br />
sta dividendo – la Yugoslavia, si dividerà anche la Bosnia Erzegovina. È inevitabile.<br />
La Bosnia non potrà continuare a essere uno stato multietnico e<br />
multinazionale se sarà circondato da Stati nazionalisti ed etnicisti. Se così<br />
non fosse sarebbe un miracolo”. A Belgrado le donne sono particolarmente<br />
attive. Prendendo esempio dalle donne israeliane (che manifestavano vestite<br />
in nero contro la guerra in Libano) stanno nascendo anche <strong>qui</strong> le Donne<br />
in nero. L’appuntamento è per il prossimo 9 ottobre, quando da ogni mercoledì<br />
si ritroveranno davanti alla Presidenza della Repubblica, vestite di<br />
nero per manifestare contro la guerra. In programma anche una “Maratona<br />
antiguerra belgradese” per organizzare una raccolta di firme per un referendum<br />
contro la guerra. Racconta Stascia delle Donne in nero di Belgrado<br />
dopo una riunione con le donne slovene e croate: “La riunione è stata molto<br />
dolorosa, specialmente per le femministe. Ci siamo rese conto che la guerra<br />
ha fatto cambiare i rapporti tra le donne, alcune femministe si sono<br />
identificate, per prima cosa, con la propria causa nazionale, emarginando e<br />
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scordando l’identificazione di genere. Ci ha colpito profondamente che<br />
non tutte le femministe siano pacifiste, come pensavamo da sempre”.<br />
È l’ora di partire per Sarajevo. Seguiamo il corso della Drina attraversando<br />
splendide gole e corridoi di boschi e colline verdi. Siamo in Bosnia<br />
Erzegovina: la piccola Jugoslavia. Il serpentone di pullman arriva a Sarajevo<br />
e si organizzano le iniziative. Ci sono incontri con la Presidenza della Repubblica<br />
e il Governo. La città è piena di gente. Nella città vecchia turisti<br />
stranieri fanno ac<strong>qui</strong>sti di souvenir. Con l’occasione giunge anche un aereo<br />
speciale da Roma. Ci sono il vice Presidente del Parlamento europeo, Formigoni<br />
e due gruppi musicali: i Nomadi e i Litfiba. Con loro altre trecento<br />
persone (rappresentanti di enti locali, associazioni, sindacati) che si sono<br />
venuti a unire con noi. I musicisti suoneranno per la pace in serata. Una grande<br />
catena umana, con tanta gente di Sarajevo, stringe il centro della città. Il<br />
concerto si tiene in un vecchio piazzale d’oratorio. Augusto Daolio dei Nomadi<br />
canta Auschwitz, ma c’è poca gente. Molti non capiscono l’italiano e i<br />
ragazzini di Sarajevo giocano a rincorrersi sotto il palco. Qui i Nomadi non<br />
sono conosciuti. Si susseguono anche gli incontri politici, con partiti e associazioni.<br />
Un esponente socialdemocratico di Sarajevo ci dice: “Quando<br />
tornate in Europa, chiedete che mandino <strong>qui</strong> i caschi blu dell’Onu. La<br />
prossima tappa della guerra è la Bosnia. E se scoppia <strong>qui</strong>, è una polveriera.<br />
La Bosnia è una Jugoslavia in miniatura. Qui la guerra non finirebbe mai”.<br />
Molti di noi ancora non capiscono. Un giornalista del Tg 1 mi dice: “Torno<br />
in Italia, <strong>qui</strong> ormai i servizi non superano il minuto, c’è poco da fare”.<br />
1992 Bosnia Erzegovina<br />
Giugno<br />
La guerra a Sarajevo. Da due mesi è iniziata la guerra in Bosnia Erzegovina.<br />
Veltroni scrive un articolo su “l’Unità”, dal titolo Ma dove sono i pacifisti?,<br />
lamentandosi della mancanza delle grandi manifestazioni come ai tempi del<br />
Vietnam. L’Associazione per la pace risponde con una lettera privata, ricordandogli<br />
tutte le cose fatte finora – aiuti, iniziative di là, manifestazioni, eccetera<br />
– e soprattutto rimproverandolo del quasi inesistente spazio dato a<br />
raccontare del dramma di questa guerra e delle iniziative di pace sull’Unità.<br />
La nostra lettera è un po’ ruvida e spigolosa. Veltroni chiama un po’ seccato<br />
nel nostro ufficio e promette di seguire meglio quello che facciamo. Ci<br />
vediamo a Padova in assemblea. È il 7 giugno. Ci sono posizioni diverse: c’è<br />
chi difende il diritto all’autodeterminazione e chi vuole ripristinare la Federazione<br />
jugoslava; chi preme perché non sia demonizzata la nazione serba e<br />
chi vuole dare un mandato più forte alle truppe dell’Onu. Rasimelli propone<br />
di lavorare con le opposizioni a Milosevic. Lidia Campagnano, una gior-<br />
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nalista de “il manifesto”, risponde: “Con chi, con Draskovic, l’ultra nazionalista?<br />
Pensi sia meno sciovinista di Milosevic? Dobbiamo sostenere le forze<br />
democratiche, non le forze nazionaliste”. Si parla anche del ruolo dell’Onu,<br />
della possibilità di un’azione militare per fermare la guerra. Il pacifismo è generalmente<br />
anti-interventista e l’ingerenza umanitaria è ancora da digerire.<br />
L’assemblea di Padova decide di organizzare una staffetta, questa volta in<br />
Italia, per fare un po’ di controinformazione su quello che sta succedendo.<br />
Dicembre<br />
Oltre cinquecento persone con Don Bizzotto e Don Tonino Bello partono<br />
per Sarajevo e rompere l’assedio. Don Tonino propone: “Un esercito di pace.<br />
Un esercito costituito da obiettori, parlamentari, ministri, che invada le<br />
zone di guerra. Un cuscinetto umano fatto di gente dotata di forza propositiva”.<br />
Noi come Associazione per la pace e Arci siamo abbastanza scettici<br />
sull’iniziativa: ci appare rischiosa e poco realizzabile. Io decido di non partecipare:<br />
non mi sembra ci siano le condizioni. Invece con dieci pullman il<br />
10 dicembre i volontari partono per Sarajevo, superano il posto di blocco<br />
dei serbi, lasciando in dono un’ambulanza. Nel gruppo dei 500 c’è una parte<br />
che consiglia di fermarsi, perché la situazione è troppo pericolosa. Si fanno<br />
le assemblee e si decide di continuare. Arrivati a pochi chilometri dalla<br />
città assediata, la maggior parte dei partecipanti vuole provare ad arrivarci.<br />
Dieci pullman entrano di notte nella città e fortunatamente i fucili e i mortai<br />
tacciono. Per precauzione i pacifisti hanno messo gli zaini sui finestrini.<br />
Ma non servirebbe a niente se venissero mitragliati. Il giorno dopo si tiene<br />
una manifestazione nel centro della città e i cinquecento si dividono in quattro<br />
gruppi che vanno uno alla cattedrale cattolica, uno alla chiesa ortodossa,<br />
uno alla moschea, l’ultimo alla sinagoga. Il culmine della manifestazione<br />
è al cinema Radnik: intervengono i rappresentanti delle varie fedi e le autorità.<br />
Parla anche Don Tonino Bello: “Noi siamo l’Onu rovesciata, non l’Onu<br />
dei potenti, ma l’Onu dei popoli. La prima entra a Sarajevo fino alle 16.00,<br />
noi siamo entrati dopo le 20.00”. Per la gente di Sarajevo l’11 dicembre è<br />
una giornata senza combattimenti e senza spari, dopo tanto tempo. Qualcuno<br />
ne approfitta per fare rifornimento di acqua e di legna.<br />
Dicembre-gennaio<br />
Trascorre qualche settimana e siamo noi a partire per Sarajevo con una delegazione<br />
di una trentina di persone. Ci sono anche Tom Benetollo, Giovanni<br />
Bianchi, Nichi Vendola, Raffaella Bolini. Nella città si sta combattendo.<br />
Ci si ferma a Ilijda, periferia serba di Sarajevo, in parte distrutta dalle offensive<br />
dei musulmani. Il giorno prima sono giunte nella città le ottanta tonnellate<br />
di aiuti che abbiamo raccolto in Italia: medicine, alimenti, teli di<br />
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plastica per coprire 40mila finestre distrutte. La situazione è disperata; la città<br />
è in ginocchio. Il 31 dicembre fa 15 gradi sotto zero. Mancano acqua, luce,<br />
viveri. Siamo in fila con le macchine per le strade della città, insieme a<br />
un convoglio di cinquanta camion francesi dell’organizzazione umanitaria<br />
E<strong>qui</strong>libre. Io sono in macchina con Mimmo Pinto, Nichi Vendola e Quarto<br />
Trabacchini. Alle 19.00 del 31, si arriva a poche centinaia di metri dal<br />
centro della città si spara, cadono granate. Superiamo il cartello sforacchiato<br />
di Sarajevo. È buio e a fari spenti, a un bivio, prendiamo la strada che<br />
non dovremmo prendere, arrivando a una barricata. Una signora esce da una<br />
casa e gesticola; vuole farci tornare indietro. Dopo qualche attimo, dall’altra<br />
parte della barricata tirano in aria dei razzi che illuminano il cielo e poi<br />
sparano. Torniamo indietro, schivando grossi bossoli di granate. Una pattuglia<br />
serba ci costringe ad accostare e ci fa passare la notte in una viuzza, dove<br />
poco dietro si trovano le postazioni di artiglieria. La cena dell’ultimo<br />
dell’anno consiste una scatoletta di alici, tonno, canditi e grappa; tutto apparecchiato<br />
sul cofano della macchina mentre il freddo fa perdere la sensibilità<br />
alle mani. Alle undici di sera riprendono i combattimenti. I riscaldamenti<br />
delle macchine sono accesi in continuazione per non patire il freddo. Sopra<br />
le nostre teste si infiamma il cielo di lampi di razzi e mitragliate. I musulmani<br />
cercano di accerchiare Ilijda per con<strong>qui</strong>starla e rompere l’assedio. Piccoli<br />
gruppi di miliziani scivolano tra le nostre macchine e sparano dalle fessure<br />
dei camion francesi. Dei miliziani serbi ci fanno tirare giù il finestrino e puntano<br />
con un mitra Nichi Vendola che sta dormendo al posto di guida. Riusciamo<br />
a spiegarci con il miliziano serbo ubriaco e tutto finisce bene. Il<br />
culmine è a mezzanotte; sembra un fuoco d’artificio. Poi con l’inizio del nuovo<br />
anno, tutto si calma.<br />
Entriamo a Sarajevo, il mattino presto. Gli alberi sono quasi tutti tagliati<br />
(usati per riscaldarsi), a eccezione di quelli del giardino di fronte alla<br />
Presidenza della Repubblica e di parti del centro della città. Il palazzo della<br />
presidenza della Bosnia è un altro bersaglio preferito dell’artiglieria serba.<br />
Ci entriamo per gli incontri ufficiali. Molte finestre del palazzo non ci sono<br />
più; continuano a fischiare le granate. Ci sembrano tanto vicine. Dentro<br />
l’edificio non c’è luce e fa sempre più freddo. Muhamed Krejelavovic è<br />
il canuto e ossuto sindaco di Sarajevo, imbacuccato in un vecchio cappotto<br />
grigio, si è appena iscritto al partito radicale transnazionalizzato e ci dice:<br />
“Non permettete l’assedio della nostra città. Senza acqua, luce e viveri siamo<br />
allo stremo”. ricorda: “Serve un maggiore impegno della comunità internazionale<br />
per Sarajevo. Fino al prossimo aprile non avremo acqua. Non<br />
sappiamo se ce la faremo. Stiamo assistendo a un urbicidio e va fermato”.<br />
Nella famiglia che ci ospita per la notte (Ibrhaim, musulmano – un cameriere<br />
che lavora all’Holiday Inn –, Rada, serba e un amico Hari anche lui<br />
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musulmano) al 14esimo piano di un palazzo sfiorato ogni giorno da proiettili<br />
e razzi si parla poco della guerra, ma di Roma e dell’Italia. Insieme a me<br />
c’è Stefano Fassina, della Sinistra Giovanile. Tre pugni di riso e poca acqua<br />
è la nostra cena. “Chi si è mai chiesto a quale etnia appartenessimo?”, si chiede<br />
Hari, medico, che da due mesi non ha notizie di moglie e figli che si sono<br />
trasferiti a Zagabria. Fuma una sigaretta dietro l’altra. Si ritorna a parlare<br />
di guerra. Rada sorride: “Questa non è una guerra tra serbi e musulmani. È<br />
una guerra di estremisti e di minoranze. Qui, la convivenza è ancora una realtà.<br />
La colpa è dei politici nazionalisti”. Le finestre della casa di Rada sono<br />
ricoperte internamente da uno strato di ghiaccio, l’unica luce è quella di un<br />
lumino degli alberi di Natale collegato a una batteria di macchina. Con Stefano<br />
dormiamo, tutti vestiti e con molte coperte addosso, in una stanza con<br />
le finestre rotte; e ormai siamo a venti gradi sotto zero. La notte è interrotta<br />
da bagliori e scoppi; molte coperte, maglioni e giacche a vento non leniscono<br />
un acuto freddo. La faccia è rigida dal gelo. Rada, il mattino dopo<br />
dovrà andare a lavorare alla posta; con lo stipendio (ed è tra i pochi fortunati<br />
a poter lavorare) riesce a comprare in un mese quattro uova al mercato<br />
nero. Prima di andare via ci facciamo una foto, io, Stefano e Rada; dietro a<br />
noi – non ce ne accorgiamo – le croci e i paletti musulmani delle tombe in<br />
quello che prima doveva essere stato un parco. Lasciamo tutto quello che abbiamo:<br />
viveri, dolci, medicine, soldi.<br />
1993 Sarajevo e Mostar<br />
Maggio<br />
Dopo l’inizio della guerra croato-musulmana Gorni Vakuf (Bosnia centrale)<br />
diventa un punto di passaggio strategico. La direttrice Gorni Vakuf-Zavidovici<br />
è segnata da durissimi scontri, si combatte sulla strada e sulle alture<br />
che dominano i passaggi più angusti. Far arrivare, da <strong>qui</strong>, gli aiuti alla Bosnia<br />
Erzegovina è molto più difficile di qualche mese fa. La strada di Jablanica<br />
è interrotta. Arrivare a Sarajevo è quasi impossibile. La guerra<br />
croato-musulmana ha portato a una riduzione dei convogli. Noi non sappiamo<br />
bene come fare, se non correndo dei rischi. I funzionari dell’Alto<br />
Commissariato (in gran parte nord-europei) sono professionali e burocrati.<br />
Litigano in continuazione con i funzionari dei caschi blu e gli esponenti dei<br />
governi dei vari paesi. La concorrenza – in una sorta di agonismo umanitario<br />
– è per chi arriva prima con i propri sacchi con su stampigliato “dono<br />
del governo...” oppure “dono dell’Unhcr...” e via così. Un problema di visibility<br />
(c’è anche questa “voce di spesa” nei progetti umanitari). Intanto al<br />
mercato di Spalato si possono comprare a venti marchi delle lattine di<br />
“Olio italiano. Dono del governo italiano”. Noi con i nostri pulmini e mac-<br />
49
chine scassate cerchiamo di raggiungere Mostar, Zenica, Tuzla. Normalmente<br />
i blindo dell’Unprofor non ci scortano, anche se fanno la stessa strada. Se<br />
i volontari fossero attaccati, i caschi blu non li difenderebbero. “Non abbiamo<br />
il mandato per farlo”, dice un soldato spagnolo di stanza a Jablanica,<br />
durante una sosta per rifornirci: “Possiamo rispondere solo per autodifesa o<br />
per proteggere convogli sotto la nostra protezione”.<br />
A Gorni Vakuf il 31 maggio una banda di irregolari musulmani ferma<br />
un camion di volontari bresciani che si dirige verso Zavidovici, città alla quale<br />
le organizzazioni di volontariato di Brescia da tempo portano e distribuiscono<br />
aiuti. Vi sono stati già vari convogli nelle settimane precedenti, senza<br />
nessun problema. Dal 9 maggio (quando croati e musulmani hanno cominciato<br />
a combattersi) la situazione sul campo è cambiata. Ora è molto più<br />
pericoloso. Le strade sono deserte, e passando per quella camionabile si avvertono<br />
normalmente spari e scoppi di granate che non sembrano molto<br />
lontani. Il camion dei volontari bresciani, questa volta, non riesce a giungere<br />
a destinazione. I banditi li fermano e sequestrano il carico: cibo, vestiti,<br />
giocattoli per i bambini. Ordinano ai volontari di scendere e li fanno incamminare<br />
su una strada di montagna e iniziano a sparargli alla schiena. Muoiono<br />
sul colpo Guido Puletti (giornalista freelance), Sergio Lana (piccolo<br />
imprenditore, trasportatore) e Fabio Moreni, obiettore di coscienza della Caritas.<br />
Agostino Zanotti – il quarto del gruppo – riesce a fuggire. Nei giorni<br />
a seguire la stampa e le tv ne parlano diffusamente; seguono riunioni con<br />
Andreatta e la Boniver. Ai funerali dei tre volontari non c’è nessun ministro<br />
od esponente del governo. Chiediamo alla riunione con Andreatta alla Farnesina,<br />
un paio di giorni dopo, che il governo faccia il proprio dovere: inviando<br />
gli aiuti finora non mandati, accogliendo i profughi, sostenendo il<br />
volontariato. Chiediamo un coordinamento vero, di non essere ignorati, ma<br />
non vogliamo la protezione militare. Queste morti aprono anche tra di noi<br />
un dibattito: la necessità di coordinarci e d organizzarci meglio, di prepararci,<br />
di darci una struttura tecnica, evitando di andare in Bosnia, senza una<br />
sufficiente preparazione.<br />
Dopo la morte dei volontari le associazioni di volontariato e pacifiste sono<br />
convocate nuovamente alla Farnesina dal ministro degli Affari Esteri, Beniamino<br />
Andreatta. C’è anche il ministro per gli Affari Sociali, l’avvocato<br />
Fernanda Contri: “Dovete stare più attenti – dice con cipiglio il ministro –<br />
munitevi di caschi e di giubbetti antiproiettile. Consultateci prima di partire.<br />
Forse è il caso di iniziare a pensare di inviare soldati italiani per scortare<br />
i volontari in Bosnia”. Ci fanno intervenire subito dopo Andreatta e lo<br />
critico per tutti gli impegni non mantenuti e per la scarsa iniziativa umanitaria.<br />
“Che fine ha fatto il tavolo di coordinamento? Invece di ramanzine,<br />
ci servirebbe una mano, soprattutto le istituzioni dovrebbero fare il loro do-<br />
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vere”. Ci risponde la Contri, che fino a oggi non ha potuto fare molto: “Non<br />
sono abituata a fare tanti discorsi; vi prometto di convocare un tavolo di coordinamento<br />
entro la fine del mese”. Intanto in Erzegovina si continua a<br />
sparare e la pulizia etnica si aggrava: questa volta sono i croati a farla a danno<br />
dei musulmana. Anche il campo di Posusije viene smantellato dalle milizie<br />
croate. Siamo nella prima metà di luglio – è una domenica – e l’azione,<br />
molto violenta, è nell’aria. I profughi vengono deportati, i volontari caricati<br />
sui camion: destinazione ignota. Questa volta interviene il governo<br />
italiano che si fa carico degli sfollati: saranno ospitati da strutture italiane,<br />
chi in parrocchie, chi in albergo, chi presso delle famiglie. Intanto su “il<br />
manifesto” scriviamo una proposta: mandiamo centomila caschi blu in<br />
Bosnia Erzegovina per cercare di sterilizzare il conflitto. I caschi blu dovrebbero<br />
esigere l’apertura e il mantenimento dei corridoi umanitari con tutti<br />
i mezzi a disposizione, garantendo una presenza a Vitez, Maglai, Goradze<br />
– dove sono assenti – e a Mostar, dove mancano quasi completamente. È<br />
il nostro “piano di pace”.<br />
Agosto<br />
Mir Sada. I Beati i costruttori di pace, sull’onda del risultato positivo della<br />
precedente marcia, ci riprovano otto mesi dopo. Siamo nell’agosto del<br />
1993. Sarajevo 2 si chiama “Mir Sada. Si vive una sola pace”. L’ipotesi è<br />
più ambiziosa: dar vita a una presenza permanente, portare diecimila persone<br />
a Sarajevo, dare maggiore spessore e meno episodicità all’iniziativa.<br />
L’appello della manifestazione dice: “Vogliamo sollecitare l’Onu perché nelle<br />
aree di crisi i caschi blu vengano affiancati da un corpo non armato e<br />
nonviolento per abbassare le tensioni e favorire il dialogo [...] vogliamo offrire<br />
un contributo alla Comunità internazionale per una credibile ripresa<br />
delle trattative di pace”.<br />
Il 12 agosto, dal porto dalmata torneranno in Italia gli ultimi 150. In<br />
tutto 1.600 persone (l’adesione sarà minore del previsto e anche l’associazione<br />
francese E<strong>qui</strong>libre, che aveva promesso di portarne migliaia, si presenterà<br />
all’appuntamento con poche centinaia di persone) che tenteranno<br />
di arrivare a Sarajevo, ma dovranno rinunciarci di fronte ai feroci combattimenti<br />
(ben otto punti di fuoco) che dopo Gorni Vakuf infestano la strada<br />
per la capitale bosniaca. Partner francese dei Beati i Costruttori è per l’appunto<br />
E<strong>qui</strong>libre, una Ong che poi verrà messa sotto inchiesta per malversazioni<br />
e che – per raccogliere i suoi progetti per i suoi progetti in Africa –<br />
scriveva sui suoi poster: “Vi si volevano mostrare gli occhi imploranti di un<br />
bambino ruandese, ma è sempre più difficile trovarne uno vivo”. La manifestazione<br />
è caratterizzata, anche in questo caso, da lunghissime assemblee<br />
e capannelli. Al lago artificiale di Prozor i pacifisti si accampano in attesa di<br />
51
proseguire. La località è a poche centinaia di metri dalla linea del fronte e si<br />
sentono le cannonate. Ogni tanto arriva un elicottero che trasporta i feriti<br />
dei combattimenti. In molti si raccomandano – sotto una cappa di caldo<br />
infernale – di non nuotare nel lago e di non assumere atteggiamenti incoerenti<br />
con la missione di pace. Appena si capisce che non si può arrivare a Sarajevo<br />
la delusione e la frustrazione investono molti partecipanti. In 58 su<br />
un pullman decidono di continuare lo stesso. C’è il rischio che i serbi usino<br />
i pacifisti, una volta arrivati a Sarajevo, come ostaggi e scudi umani.<br />
Fare il diario, raccontare quest’esperienza – pur non avendone preso parte<br />
– è relativamente semplice. Non solo per i ricordi dei molti che ci sono<br />
stati, ma per i numerosissimi “appunti di viaggio” dei partecipanti pubblicati<br />
su bollettini e giornali e sui quali è facile seguire l’iniziativa. “Mosaico<br />
di pace”, “Aspe”, “Guerre e pace”, “Fogli di collegamento”, “Rivista Anarchica”,<br />
“Azione nonviolenta”, “Qualevita”, “l’Espresso”, “Tempi di fraternità”,<br />
“Azione sociale”, “Segnosette”, “Missione oggi”, “Confronti”, “il manifesto”,<br />
“Liberazione”, “Adista”, Avvenimenti”, “Smemoranda” dedicano ampio spazio<br />
agli avvenimenti di quei giorni. Soprattutto ospitano in seguito articoli,<br />
riflessioni e lettere dei pacifisti che ci sono stati. Ed è proprio in questi<br />
“appunti di viaggio”, in questi articoli, nei diari che i dubbi e gli scetticismi<br />
verso l’iniziativa e la sua struttura sono più espliciti. Molti mettono l’accento<br />
sul lato soggettivo dell’“impresa” di raggiungere Sarajevo, ma anche sulla<br />
sua vanità. Lo Vecchio è dell’associazione “Gandhi, King, Khan” di Brescia:<br />
“Nel mio gruppo qualcuno non teme di morire per una causa ‘grande’, ma<br />
per una causa ‘inutile’; alcuni pacifisti ritornano indietro ma coloro che rimangono<br />
‘persistono nel Sarajevo-dream’”. Anche Fausto Martinetti sulle<br />
colonne di Mosaico di pace (il mensile di Pax Christi) rievoca il sogno, raccontando<br />
dell’attesa a Spalato: “Si dorme come si può sotto le stelle, sognando<br />
Sarajevo. L’unica cosa di cui si parla”. Ci sono anche comunisti greci che<br />
dicono: “Sarajevo o morte”. Una volta svanito il sogno, la tensione emotiva<br />
viene meno. Ricorda il giornalista Ochetto: “La maggioranza si è reimbarcata<br />
a Spalato con un diffuso senso di frustrazione”. Mentre ancora è incerta<br />
la conclusione dell’iniziativa le cose all’interno dei gruppi di partecipanti<br />
non vanno troppo bene. Disorganizzazione, mancanza di comunicazione,<br />
difetto di democrazia i problemi principali. Fabrizio Forti – uno dei principali<br />
protagonisti dell’iniziativa e stretto collaboratore di Bizzotto – ricorda<br />
le assemblee e le discussioni: “Il seme della guerra è dentro di noi: divisioni,<br />
incomprensioni, violenza verbale”. Una voce tra le più critiche è quella<br />
di Mao Valpiana, del Movimento nonviolento e redattore di Azione nonviolenta,<br />
la rivista fondata da Aldo Capitini. Valpiana fa un bilancio sugli<br />
obiettivi dell’iniziativa e i suoi concreti risultati: “Il volersi porre come forza<br />
di interposizione di pace, ma non esserci riusciti, l’essere stati elemento<br />
52
di testimonianza, ma non di cambiamento, l’aver saputo mobilitare persone<br />
e mezzi di grande quantità, per essere poi costretti all’immobilismo di<br />
lunghe assemblee e altrettanto estenuanti trattative deve far riflettere”. Valpiana<br />
parla di bluff nell’aver annunciato dapprima 100.000 pacifisti a Sarajevo<br />
e poi essere in realtà 1.600 e sottolinea il velleitarismo di “fermare la<br />
guerra” con l’interposizione fisica. “La nonviolenza oltre a testimoniare deve<br />
vincere sul piano politico”. Anche Emanuele Rebuffini, sul periodico<br />
“Confronti”, non è meno tenero. Durante la marcia “è emerso un certo fanatismo<br />
in talune persone che si dichiaravano disposte a raggiungere Sarajevo<br />
a ogni costo [...] a ciò si deve aggiungere il comportamento vacanziero<br />
dei turisti di guerra”.<br />
Sarajevo 1 e Mir Sada hanno una coda nei primi di ottobre. Padre Angelo<br />
Cavagna è un padre dehoniano di Bologna; Fu il protagonista alla fine<br />
degli anni ’80 di una prolungata campagna per il riconoscimento del diritto<br />
dell’obiezione di coscienza. Attuò uno sciopero della fame integrale di 26<br />
giorni. Padre Cavagna e altri tre pacifisti decidono di andare sul ponte di<br />
Vrbanja, dove ci fu la prima vittima della guerra. Il ponte divide la città in<br />
due ed è il luogo preferito dai cecchini. Vogliono fare un’azione simbolica:<br />
portare i fiori sul punto in cui fu uccisa la prima vittima. Ma è estremamente<br />
rischioso. Nessuna delle due parti (serbi bosniaci e croati, musulmani) dà<br />
il via libera. Cavagna e gli altri decidono di fare in ogni caso l’azione, nonostante<br />
in molti lo sconsiglino. C’è anche Gabriele Moreno Locatelli, un ex<br />
frate. Lui non è d’accordo con chi vuole andare a tutti i costi sul ponte, ma<br />
ci va lo stesso. Per solidarietà, per non lasciare soli i suoi compagni. Quando<br />
arrivano sul ponte sono accolti da una prima mitragliata di avvertimento.<br />
La seconda colpisce Moreno Locatelli che muore sul colpo. È il quarto<br />
pacifista italiano che muore durante questa guerra. Si apre un dibattito sul<br />
significato di questa morte e sull’utilità di questa azione. A Sarajevo, con i<br />
volontari di pace, c’era il fotografo Mario Boccia, anche lui in molte occasioni<br />
un volontario, che ricorda una frase di Moreno: “Noi non abbiamo il<br />
diritto di essere così presuntuosi da voler insegnare ai cittadini di Sarajevo<br />
come si muore per la pace”. Mario Boccia dice che “quello pagato è un<br />
prezzo troppo alto” ed elenca tutta una serie di punti per sottolineare la<br />
scelleratezza dell’azione: “Non è vero che l’azione era concordata con le parti<br />
in conflitto [...] nessuno nella città sapeva dell’azione del ponte di Vrbanja<br />
[...] che senso ha scegliere per una manifestazione un ponte costantemente<br />
sotto tiro lontani dagli sguardi di qualsiasi civile?”. Don Albino rinvia alla<br />
responsabilità individuale di ciascuno e non accetta critiche. Insieme a Luisa<br />
Morgantini scriviamo un articolo per “il manifesto”: “la morte di Moreno<br />
è un evento che deve interrogarci rispetto a un’azione improvvisata e di<br />
una simbolicità fine a se stessa [...] che non può essere inseguita a ogni co-<br />
53
sto quando sono in gioco vite umane. Che non hanno minor valore quando<br />
si tratti di pacifisti, anziché di vittime della guerra”. Aspettiamo una risposta<br />
pubblica da parte degli organizzatori dell’azione. Che non arriverà<br />
mai.<br />
Ottobre<br />
La guerra a Mostar. È l’inizio di ottobre. Arriviamo a Spalato con un aereo<br />
da Roma. Il volo è insolitamente affollato: molti funzionari delle agenzie<br />
umanitarie, giornalisti, profughi che rientrano. Ci riuniamo presso la sede<br />
della Cooperazione del ministero degli Affari Esteri con Margherita Paolini<br />
e altri volontari. Il Consorzio italiano di solidarietà ha nella città croata<br />
una sede operativa che si trova però in un’altra zona. L’ufficio della Cooperazione<br />
è sul lungomare; una sede spoglia, con molte stanze ma con poche<br />
sedie e qualche computer, con fax e terminali di agenzie. In compenso ci sono<br />
molti elmetti, walkie-talkie e qualche giubbetto antiproiettile. L’obiettivo<br />
per il quale siamo <strong>qui</strong> è portare aiuti ai musulmani di Mostar, che sono<br />
assediati dai croati sulla riva est della Neretva. Accerchiati dalle milizie croate<br />
non hanno contatti con l’esterno. I posti di blocco della Hvo (la milizia<br />
militare croata) impediscono l’arrivo dei convogli. Ormai sono passati cinque<br />
mesi dall’inizio della guerra croato-musulmana. Una parte dei musulmani<br />
è stata deportata nel campo di concentramento dell’“Helodriom”. Con<br />
Margherita Paolini – che lavora alla Cooperazione – si fa l’esame delle difficoltà:<br />
i posti di blocco, i punti critici dove possono sparare i cecchini, i<br />
collegamenti radio, le macchine. Alcuni di noi siedono per terra, altri sui<br />
tavoli. Ragiona in modo meticoloso sui possibili imprevisti, le difficoltà, le<br />
strade da fare. Controlliamo i giubbetti antiproiettile, i caschi. Mario Zichina,<br />
il nostro focal point dell’Ics a Spalato, ci avverte beffardo: “Guardate che<br />
sono giubbetti antischegge, una pallottola li trafigge. Anche con un giubbetto<br />
antiproiettile non ci fate granché contro le granate. Gli elmetti sono solo<br />
una sfoglia d’acciaio”. È lui il conducente della jeep che ci porterà a Mostar.<br />
La mattina, la sveglia è alle cinque e mezzo. Spalato è deserta. Si parte.<br />
Sono in macchina accanto a Gianfranco Bettin. Sul sedile davanti c’è Raffaella<br />
Bolini. Prima tappa Medjugorje: <strong>qui</strong> sono di stanza i soldati dell’Unprofor.<br />
Dovremmo essere inclusi nel convoglio dei caschi blu spagnoli, ma<br />
ce lo impediscono. Si discute e si litiga, Margherita li sfotte. Ma non mollano.<br />
Triste la sorte dei caschi blu in ex Jugoslavia: impotenti e costretti alla<br />
rinuncia. Sono dei vigili urbani della guerra, forse solo dei testimoni al di<br />
sopra delle parti. Non ci vogliono. “Oggi è una giornata particolare. A Mostar<br />
si spara. Non potete venire con noi; ci sono i parlamentari che hanno<br />
bisogno di una particolare protezione. Noi non ci assumiamo la responsabilità”,<br />
ci conferma il comandante spagnolo. Allora noi ci accodiamo. Que-<br />
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sto non ce lo possono impedire. Ma la differenza tra lo stare dentro o alla<br />
fine del convoglio è grande. Nel primo caso, se vieni attaccato, i caschi blu<br />
ti difendono, nel secondo, qualsiasi cosa ti succeda ti abbandonano sul posto.<br />
È frequente: a un posto di blocco fanno passare i mezzi dell’Onu e<br />
quelli umanitari vengono fermati per un controllo dei documenti e dei carichi.<br />
Questi ultimi sono costretti a continuare da soli, senza nemmeno<br />
l’ausilio della vicinanza, che potrebbe essere deterrente dei blindo bianchi<br />
delle Nazioni Unite. Anche oggi succede lo stesso. All’improvviso il convoglio<br />
di caschi blu parte e ci lascia sul posto. Ci organizziamo, prendiamo delle<br />
scorciatoie, corriamo all’impazzata e lo raggiungiamo prima dell’ultimo<br />
posto di blocco dell’Hvo in vista di Mostar. Il convoglio di aiuti umanitari<br />
è organizzato congiuntamente dall’Ics e dalla Cooperazione italiana. Sono<br />
cinque camion. Che portano 37 tonnellate di aiuti (20 di farina, 5 di olio,<br />
5 di fagioli, 1,5 di latte, 1,7 di alimenti per bambini e altro ancora). È già<br />
qualcosa. Il convoglio attraversa i posti di blocco della Hvo e dell’Armija bosniaca<br />
e finalmente giungiamo nelle prossimità di Mostar. Sulla strada incontriamo<br />
case completamente bruciate, accanto a quelle intatte. Sono lì,<br />
ancora dalla prima fase della guerra, archeologia di una pulizia etnica che ha<br />
selezionato le case da distruggere e quelle da salvare. Molti minareti sono<br />
stati rasi al suolo dai serbi. Mostar è in gran parte distrutta. Arriviamo all’aeroporto<br />
– divelto nelle strutture – e, dopo aver percorso la tetra ed esposta<br />
pista dell’aeroporto devastata dai colpi di mortaio e pericolosamente<br />
seminata di mine (sicuramente italiane), ci inoltriamo in una stradina di<br />
campagna. All’improvviso ecco il primo posto di blocco musulmano. I soldati<br />
sono nascosti in trincee e in buche celate dal fogliame. Sono nervosi. È<br />
da tanto tempo che non arriva più un convoglio occidentale. L’Onu è mal<br />
tollerato: detestano i soldatini spagnoli. Passano diversi minuti, ma finalmente<br />
un miliziano ci chiede una sigaretta. È il segno del disgelo.<br />
Sulla riva sinistra della città siamo accolti dai saluti e dalla gente e dai<br />
bambini che corrono verso la strada. “Bonboni, cichlets, sigaret!”, gridano<br />
i bambini correndo pericolosamente a pochi centimetri dai camion e dalle<br />
camionette e allungando le mani dentro i finestrini. Ora c’è il pezzo più pericoloso:<br />
l’attraversamento di uno stradone esposto ai cecchini croati. Lo percorriamo<br />
con l’acceleratore a tavoletta. Tutto bene. Entriamo nel cuore<br />
della città nella tarda mattina a velocità ridotta. Lungo la strada ci sono centinaia<br />
di persone che ci saltano addosso contente; siamo emozionati. Quasi<br />
ogni palazzo è ferito e bucato da proiettili e granate, strade dissestate dai<br />
bombardamenti, mine nei passaggi strategici: è molto peggio di Sarajevo.<br />
Solo un ponte, su sette, è rimasto in piedi: il più vecchio, ha cinquecento<br />
anni di storia. Donne e anziani corrono accovacciati – per paura dei cecchini<br />
– su quell’unico ponte ancora rimasto in piedi, per andare a prendere l’ac-<br />
55
qua a una delle ultime fonti ancora in funzione. I cecchini (croati) li guardano<br />
dai binocoli dei loro fucili. La Carja, il vicolo degli antiquari che porta<br />
al Ponte Vecchio, è desolata e piena di macerie. Un tempo era la via delle<br />
botteghe e degli artigiani.<br />
Dal 9 maggio scorso sono stati quasi settecento i morti musulmani della<br />
guerra a Mostar. Nell’incontro i rappresentanti delle associazioni che lavorano<br />
in progetti di pace e di solidarietà con Mostar (sono più di venti città,<br />
tra cui: Trieste, Forlì, Cesena, Ivrea, Bari, Gambettola, Aosta) hanno distribuito<br />
un messaggio ai cittadini: “Siamo oggi nella parte di sinistra della Neretva,<br />
perché avevamo, abbiamo amici tra voi, perché patite una violenza che<br />
mai potrà essere risarcita. Andremo anche nella parte destra della Neretva<br />
tra la gente come voi, la gente della vita quotidiana che si mescolava nei mercati,<br />
nei bar, nelle strade, nei luoghi di lavoro. Vorremmo essere un ponte<br />
tra voi, ora che i ponti di pietra non ci sono più per passeggiare”.<br />
Le donne ci chiedono come poter fuggire dalla città. I rom sono i più<br />
angosciati. Implorano. Ognuno ci racconta la sua storia. Altri scherzano e<br />
tentano di parlare un italiano che è misto al veneto. Ogni tanto lo sparo di<br />
un cecchino isolato interrompe il silenzio irreale di una calma inattesa. Volti<br />
emaciati, corpi smagriti e sguardi impauriti ci circondano , chiedendo aiuto,<br />
qualcosa da mangiare, la fine di questo calvario. Dopo un paio d’ore –<br />
prima che faccia notte – rientriamo a Spalato.<br />
Dicembre<br />
Tre città, una pace. Altra carovana per la pace: per Sarajevo, passando per Zagabria<br />
e Belgrado. Il 27 si parte da Trieste. Assemblea dei partecipanti. Si discute<br />
e molti chiedono: “Andremo anche a Sarajevo? Sarà possibile andare<br />
nei campi profughi?”. Prima di partire arriva una telefonata: “Sono il console<br />
della repubblica di Jugoslavia a Roma. Fermatevi, non potete partire”.<br />
Perché? “La vostra visita non è gradita. Sarete fermati alla frontiera con l’Ungheria.<br />
La vostra visita viene da noi presa come un’iniziativa antiserba. A Belgrado<br />
c’è molta violenza e delinquenza. Potrebbe essere pericoloso. Ci<br />
preoccupiamo della vostra incolumità”. Segue un battibecco; avverto il ministero<br />
degli Esteri e i deputati pacifisti. La situazione si risolve promettendo<br />
che incontreremo anche il sindaco di Belgrado e finalmente si parte. La<br />
sera si arriva a Zagabria. Il mattino dopo, teniamo due forum. Nel primo si<br />
confrontano le forze di opposizione. Vivono nell’incertezza e sono ancora<br />
poco risolute contro il regime di Tudjman. Parla Ivan Cicak: “Il nazionalismo<br />
è la via d’uscita delle vecchie classi dirigenti comuniste, è il virus che<br />
ha dato il via alla guerra”. Petar Ladevic, presidente del Forum democratico<br />
dei serbi di Croazia ricorda che i serbi di Croazia sono discriminati. Chi ha<br />
un cognome serbo a Zagabria, preferisce cambiarlo. Qualcun altro dice: “<br />
56
Ma se i serbi avevano i migliori posti a Zagabria, sotto Tito!”. Ladevic continua:<br />
“Viviamo in un regime nazionalista di massa. E anche un regime nepotista.<br />
Il figlio di Tudjman è il responsabile dei servizi segreti”. Molti tra i pacifisti<br />
presenti prendono appunti e stabiliscono contatti per invii di aiuti, per gemellaggi<br />
con campi profughi, dove organizzare il volontariato e l’assistenza.<br />
Il 29, in piazza Jelacica si snoda il nostro serpentone di pacifisti con cartelli<br />
e candele. Fino a qualche ora prima si era discussa l’opportunità di tenere<br />
la manifestazione. I pacifisti croati non erano pronti e preferivano che<br />
la manifestazione non si svolgesse. La gente guarda con curiosità e prende i<br />
volantini. Solo qualche mese prima un gruppo di pacifisti tedeschi, per una<br />
iniziativa simile, era stato malmenato da una squadra di fascisti locali. Va<br />
tutto bene, ma è solo una piccola manifestazione simbolica senza seguito.<br />
Il 30 arriviamo – quattro pullman, due minibus e diverse macchine – a<br />
Belgrado. Il traffico non manca, ma i negozi sono vuoti. L’embargo ha prodotto<br />
i suoi devastanti effetti. Dall’inizio della guerra la produzione è diminuita<br />
del 50% e il valore del marco tedesco al mercato nero è aumentato di<br />
5mila volte rispetto al dinaro. I disoccupati sono più di 2 milioni e l’inflazione<br />
cresce dell’1% all’ora. Incontriamo il responsabile serbo dell’agenzia<br />
di protezione dei rifugiati che ci ospita in una sede dall’intonaco scrostato.<br />
La sua segretaria va a prendere lo stipendio. È fatto di molti milioni di dinari:<br />
ovvero quattro marchi. Se non li cambia subito in valuta straniera domani<br />
non valgono nemmeno mezzo marco. Si scusa, prende il cappotto e se<br />
ne va. L’incontro finisce dopo pochi minuti: dobbiamo andare al palazzo che<br />
ospita gli uffici della “Repubblica serba di Bosnia Erzegovina”, dove riusciamo<br />
ad avere i nostri pass per poter entrare nella parte serba della Bosnia.<br />
Dentro gli uffici l’atmosfera è tesa e tetra. Manifesti di propaganda bellica<br />
pendono dalle pareti. Ricordano in qualche modo i manifesti della Dc e del<br />
Pci per le elezioni del 1948. “Se vinceranno i musulmani...”, e un’onda verde<br />
(il colore dei musulmani) di vernice che macchia l’Europa.<br />
Incontro, con Tom e altri 3-4 esponenti del nostro gruppo, Slobodanka<br />
Gruden, sindaca di Belgrado. Non volevamo, ma abbiamo dovuto accettare<br />
un compromesso, altrimenti non ci avrebbero fatto entrare in Serbia.<br />
Siamo sporchi e malmessi, dopo quasi 24 ore di viaggio in pullman. È glaciale<br />
e il volto imbellettato non muove un muscolo della faccia. Le televisioni<br />
ci riprendono e siamo imbarazzati. “Aiutateci, le sanzioni stanno<br />
uccidendo la popolazione. I suicidi tra gli anziani sono aumentati”. Ma le<br />
organizzazioni umanitarie dell’opposizione di lei non si fidano. È una pedina<br />
di Milosevic. Ci impegniamo a inviare medicinali a un ospedale psichiatrico.<br />
Il pomeriggio incontriamo le Donne in nero (una di esse ci rimprovera<br />
l’incontro con la Gruden: “così legittimate il potere e sconfessate noi”, sono<br />
molto arrabbiate) e un giornalista di “Vreme”, che parla delle censure<br />
57
del regime di Milosevic. Siamo in un grande salone della Casa della gioventù<br />
di Belgrado, mezza discoteca e mezza sala giochi, mezzo pub e mezzo circolo<br />
culturale. Stascia, delle Donne in nero, dice: “Ci chiamano puttane<br />
quando manifestiamo in piazza, ma noi continuiamo il nostro lavoro. Aiutiamo<br />
tutte le donne, quelle violentate, quelle che soffrono nei campi profughi”.<br />
Continuiamo il dibattito con esponenti del Depos (il cartello delle<br />
forze di opposizione, tra cui ci sono anche forze nazionaliste e monarchiche),<br />
tra i quali un giovane yuppy balcanico dice: “Non potete capire il problema<br />
del Kosovo. Gli albanesi sono arrivati anche da voi, in Puglia, in<br />
Calabria. E lì, cosa hanno fatto? Mica hanno chiesto l’indipendenza o rivendicato<br />
l’unione con l’Albania! Prima della guerra in Kosovo abitava il<br />
50% di serbi e il 50% di albanesi. Poi ci fu lo spopolamento serbo, anche<br />
perché Tito promise il Kosovo all’Albania. Oggi gli albanesi vogliono la secessione,<br />
ma devono capire che questo è impossibile, a prescindere dal fatto<br />
che sono ormai il 90% della popolazione locale. Ma anche a Miami il<br />
60% sono cubani; cosa succederebbe se anche lì rivendicassero la secessione<br />
o l’unione a Cuba?”. Questi deputati del Depos dovrebbero rappresentare<br />
l’opposizione democratica a Milosevic; ma spesso la lotta è tra due<br />
nazionalismi ugualmente pericolosi. Il loro leader – Vuk (che significa “lupo”)<br />
– Draskovic parla e fa il mistico: “Dio e Patria trionferanno. Costruiremo<br />
la grande nazione serba”.<br />
Partiamo per Sarajevo. Facciamo il viaggio di notte. La neve e la nebbia<br />
ci fanno rallentare. Abbiamo macchine poco affidabili: un pulmino Ford regalato<br />
pieno di aiuti, una Renault 4 vecchia di dieci anni, un’Audi poco adatta<br />
a queste strade di montagna. La guida Mario Boccia, il fotografo freelance,<br />
che ci segue dall’inizio della guerra. Alle tre di notte siamo al confine tra la<br />
Serbia e la Repubblica serba di Bosnia. Per passare il confine siamo costretti a<br />
bere grappa e prenderci pacche sulle spalle – non si sa se rassicuranti o minacciose<br />
– dai soldati ubriachi della baracca di confine che ripetono: “Velika Srbi’ja”<br />
(grande Serbia) davanti ai ritratti di Mladic e Karadzic. Arriviamo infine a<br />
Pale (il quartier generale dei serbi) alle otto del mattino. Dobbiamo fare di<br />
nuovo i pass stampa e saliamo fino a un albergo costruito appositamente per<br />
le olimpiadi invernali di dieci anni fa. Per arrivare a Sarajevo bisogna attraversare<br />
tanti posti di blocco, passare rasenti le colline protette da bandoni di latta<br />
e tronchi di legno. Passiamo accanto alle trincee serbe da dove si domina,<br />
dall’alto, la città. Da <strong>qui</strong> si assedia la gente. È un effetto strano vedere questi<br />
soldati, i loro volti, e associarli – una volta in città – agli anonimi spari dei cecchini<br />
e alle notizie delle tv che ci arrivano in Italia. Hanno barbe lunghe e divise<br />
stracciate. Puzzano d’alcool; sono sguaiati e allegri. Sembra il ritratto<br />
fatto dalla propaganda, ma è proprio così. Sono insieme a dei giornalisti (Luca<br />
Del Re di Video Music, Raffaella Menichini e Marco Calabria de “il ma-<br />
58
nifesto”, Fabio Benes dell’Ansa) e alcuni operatori dell’Ics.<br />
Si arriva all’ultimo posto di blocco. Si perde un po’ di tempo per una<br />
consegna che intendiamo fare all’ospedale civile serbo di Sarajevo, non lontano<br />
dalla caserma di Lukavica, quartier generale dei serbi che assediano la<br />
città. È un ospedale completamente abbandonato dalle agenzie umanitarie,<br />
a causa dell’embargo. Privi di attrezzature e di bende, anestetici, siringhe i<br />
medici cercano di operare come meglio possono anziani e bambini colpiti<br />
da granate e fucilate. Sembra un ospedale da campo, ma è pulitissimo e ordinato.<br />
La sala operatoria è un piccolo vano con specchi ossidati e pesanti<br />
attrezzature metalliche opache. Ci guidano delle ragazze, una in divisa militare,<br />
l’altra, l’addetta stampa, si chiama Bjelosnjezka, cioè: Biancaneve. Non<br />
è il suo soprannome, ma il nome di battesimo. Nel suo ufficietto disadorno<br />
è aperto sul tavolo un romanzo di Hermann Hesse (Demian) mentre il giradischi<br />
fa cantare i Doors. Entrambe sono gentili e spiritose. Sono ragazze,<br />
studentesse che potresti incontrare a Torino, Barcellona, Amburgo in una<br />
libreria o in una discoteca. Parlano pianamente, senza il furore bellico degli<br />
uomini. L’altro ieri hanno sparato proprio <strong>qui</strong>, fuori dalla finestra. State attenti<br />
quando uscite”, dice con normalità, senza agitazione, Biancaneve. Se<br />
avesse detto: “Qui fuori, sulla destra, c’è il droghiere”, avrebbe usato lo stesso<br />
tono. La guerra è ormai un dato di fatto, un colpo di un cecchino (in<br />
questo caso un musulmano) è una disgrazia che cade dal cielo: come un tumore<br />
o un incidente in macchina.<br />
Decidiamo di partire: di corsa sulla pista dell’aeroporto con il pedale dell’acceleratore<br />
a tavoletta. È ormai notte e bisogna guidare a fari spenti per<br />
le strade della città. Sono 7-800 metri da fare in pochi secondi. Mentre corriamo<br />
a 110 km sbirciamo un Hercules italiano parcheggiato sulla pista che<br />
sta terminando lo scarico dei pallets di aiuti. Passano pochi secondi e siamo<br />
dall’altra parte dalla pista: ce l’abbiamo fatta. A Sarajevo – al centro della città<br />
– si arriva a notte fonda. Incontriamo Ibrahim Spahic che si sbraccia quando<br />
ci vede. Abbracci, pacche sulle spalle. È dimagrito ancora dall’ultima<br />
volta: i pantaloni senza cintura gli scivolano giù e la camicia è lasca sull’addome.<br />
Poi ci porta subito al nostro alloggio. Siamo ospiti da delle ragazze,<br />
europee, molto simili a quelle incontrate poco prima alla caserma di Lukavica.<br />
Si chiamano Jasna e Diana: sono due sorelle di cui è difficile dire di<br />
che etnia siano. Nella loro genealogia familiare si alternano nonni e bisnonni<br />
serbi, croati, musulmani. Vivono a Sarajevo e dalla città non se ne sono<br />
andate quando è scoppiata la guerra nella capitale bosniaca nell’aprile del<br />
1992. I loro parenti sono invece partiti per la Slovenia e la Croazia, e anche<br />
per la Serbia. I nonni e il figlio di Diana, Goran di quattro anni e mezzo,<br />
vivono a Belgrado. Diana non vede Goran da diciotto mesi. Si commuove<br />
quando ne parla. Jasna e Diana, insieme agli in<strong>qui</strong>lini di un condominio di<br />
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<strong>qui</strong>ndici piani – vicino all’ospedale di Sarajevo, Kosevo – ci ospitano. Le<br />
giornate a Sarajevo si consumano uguali l’una all’altra. Il 1° gennaio centocinquanta<br />
granate, il giorno dopo, mille, dice la radio. La notte ci si sveglia<br />
per gli scoppi. Noi. Ma per loro di Sarajevo è ormai storia ordinaria da venti<br />
mesi. “Non puoi mai dire se e quando arriverà un proiettile o una granata.<br />
Viviamo nell’attesa, così”, dice Jasna.<br />
Stiamo pensando ad altre iniziative di solidarietà: la distribuzione di pacchi-famiglia,<br />
la gestione di una struttura che ospiti bambini orfani di guerra,<br />
l’organizzazione di convogli umanitari. Ma non solo. Ibrahim Spahic<br />
dice: “Abbiamo bisogno non solo di viveri e di medicinali, ma anche di<br />
continuare a sperare. Abbiamo bisogno che giornalisti, artisti, scrittori vengano<br />
<strong>qui</strong> ad ascoltare e a dare un contributo. Anche con il teatro, la musica<br />
e il cinema si deve costruire un legame di solidarietà. È una forma di resistenza<br />
alla guerra che vuole cancellare la vita normale”. Ed ecco alcune idee:<br />
l’organizzazione di una rassegna di video musicali e l’invio di almeno cinquemila<br />
libri a Sarajevo. La biblioteca della città è stata distrutta. Molti dei<br />
volumi sono andati bruciati. Decidiamo insieme a Ibrahim il nome della<br />
campagna “Sarajevo, cuore d’Europa” per raccogliere migliaia di libri, carta<br />
per i giornali, fax e computer. E, di ritorno in Italia, organizziamo gli aiuti<br />
dalle librerie e dalle case editrici. A Siena (dove l’università, rettore Luigi Berlinguer,<br />
per prima aveva lanciato l’idea) si attivano numerose iniziative e si<br />
tenta di coordinare la campagna a livello europeo: analoghe iniziative di solidarietà<br />
si svolgono in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania. Si aggregano<br />
dandoci una mano Ginevra Bompiani (che si attiverà moltissimo<br />
nei mesi successivi) e la Roberta Einaudi che mi vengono a trovare nel nostro<br />
ufficietto dell’Associazione per la pace a Roma. Da Firenze mi mandano<br />
una copia delle partecipazioni di matrimonio di Arianna Papini e Federico<br />
Gasperini, dove c’è scritto: “Arianna e Federico hanno aperto a loro nome<br />
il c/c 1640-00 presso l’agenzia n° 10 della Banca Toscana di Firenze. La somma<br />
raccolta con l’aiuto di parenti e amici andrà a fare parte dell’iniziativa in<br />
atto presso l’Università di Siena volta alla ricostruzione della Biblioteca di<br />
Sarajevo, distrutta dai bombardamenti”.<br />
1994 “Qualcuno dovrà dopo tutto”<br />
Settembre<br />
Morte a Sarajevo. Harris Prolic ha 33 anni. È un giovane regista di Sarajevo<br />
che ha girato un lungo documentario: “Morte a Sarajevo”. Il film, proiettato<br />
al Festival di Taormina di luglio scorso, è piaciuto. Il documentario di<br />
Prolic – un’opera fatta di un massacrante lavoro di montaggio e di sequenze<br />
rappate – riproduce l’inferno di Sarajevo usando la metafora dei gironi<br />
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danteschi, assegnando a ciascuno di questi un corrispondente vizio della<br />
guerra: la pratica criminale dell’assedio, la vigliaccheria infame dei cecchini,<br />
la vergogna dei campi di concentramento... Il film è un bel lavoro, ma<br />
non saprò mai cosa succede negli ultimi tre minuti del girato: va via l’elettricità<br />
e non ritornerà fino alla nostra partenza. Sarajevo è stretta tra una precaria<br />
normalità di città assediata e l’imminente ripresa della guerra, quella<br />
combattuta e quella che porterà l’inverno con il freddo e la mancanza di approvvigionamenti.<br />
Per ora negozi e bar (nel centro) sono aperti, anche se<br />
sono pochi quelli che se lo possono permettere. Sono con Ginevra Bompiani<br />
– dormiamo nella casa di Prolic – per portare avanti il progetto a favore<br />
della Biblioteca di Sarajevo. Siamo arrivati a Sarajevo con un aereo dell’Unprofor<br />
da Zagabria. Con noi c’è anche Predrag Matvejevic. Dinoccolato e<br />
con gli occhi ridotti a piccole fessure tra le segnate borse e le gonfie palpebre,<br />
Prolic commenta: “La morte a Sarajevo non è solo quella dei poveri<br />
ammazzati; è la morte di una città, di una storia, di una cultura. Non c’è<br />
speranza, è tutto finito. Sarajevo è morta, ma anche l’Europa <strong>qui</strong> ha trovato<br />
la sua tomba”.<br />
A Sarajevo è sopravissuta per tanti anni una cultura cittadina: chi abita<br />
a Sarajevo, non è musulmano, serbo, croato, è sarajevese. Ed è proprio l’idea<br />
della cittadinanza a essere stata <strong>qui</strong> sconfitta sotto il peso travolgente delle<br />
identità etniche e nazionali. Protagonista – io narrante – del film/documentario:<br />
“Morte a Sarajevo” è Trvtko Kulenovic, uno scrittore apprezzato a Sarajevo<br />
che ora è presidente del Pen club, l’organizzazione degli scrittori. Parla<br />
un buon italiano, è stato spesso a Siena, Roma, Venezia. Ha avuto la famiglia<br />
falcidiata dalla guerra: moglie e figlia ammazzate. Lui si è salvato. “Un<br />
giorno, mentre stavamo girando il film – ricorda Kulenovic – ho sentito un<br />
grande botto e poi un gran caldo alla coscia; mi sono accorto di un buco dei<br />
pantaloni. Per fortuna il cecchino mi aveva solo sfiorato”. Il Pen club, insieme<br />
al Centro internazionale per la pace ha dato vita quasi due anni fa – nel<br />
pieno della guerra e della mancanza di ogni forma di sostentamento – a<br />
un’iniziativa quasi incredibile: la pubblicazione di una bella antologia dei<br />
poeti della Bosnia ed Erzegovina (che, con l’Associazione per la pace e anche<br />
con l’aiuto di Matvejevic, facciamo tradurre in italiano e gli diamo come<br />
titolo una delle poesie incluse: Qualcuno dovrà dopo tutto). “Per noi la<br />
cultura è vita, è speranza. Un libro, <strong>qui</strong>, è una cosa preziosa e indispensabile,<br />
come il pane e l’acqua”, dice Kulenovic. Ma, nel momento peggiore della<br />
guerra, i libri (molti dicono che fossero solo le bozze di volumi mai<br />
pubblicati) sono stati usati per impacchettare le sigarette. Pagine di Rimbaud<br />
e Tolstoj che avvoltolano un tabacco scadente. Dizdarevic ne ha tratto<br />
ispirazione per un libro: Le sigarette di Sarajevo. Più tardi Miljenko Jergovic<br />
pubblicherà il racconto Le Marlboro di Sarajevo: sigarette di guerra avvolte<br />
61
nei vecchi involucri delle Marlboro prodotte nella ex Jugoslavia. Gli europei,<br />
i giornalisti che sono venuti <strong>qui</strong> le collezionano; sono una specie di reperto<br />
prezioso nella serie dei souvenir più originali di questo turismo di guerra,<br />
che porta ogni giorno centinaia di persone dentro e fuori da Sarajevo. C’è<br />
un giro impressionante (e anche un certo mercato nero) di press card, blue card<br />
e tutto ciò che permette di essere imbarcato sugli aerei Unprofor delle Maybe<br />
airlines, come qualcuno con ironia ha voluto chiamare quei voli.<br />
A Sarajevo si incontrano molti pessimisti come Harris (“niente sarà più<br />
come prima”), ma anche volitivi ottimisti che non rinunciano alla speranza.<br />
Tra questi c’è Sejfudin Tokic. Alto e dinoccolato: sembra un ragazzone<br />
appena uscito dal collegio. È capogruppo, al parlamento di Sarajevo, dell’Unione<br />
socialdemocratica bosniaca. Vive a Tuzla, la Bologna bosniaca. È<br />
amministrata dalle sinistre, l’unica città dove nel 90 hanno vinto i partiti<br />
non nazionalisti. Era con Markovic, a quel tempo. Ma alle elezioni, a parte<br />
a Tuzla, vinsero dappertutto i partiti nazionalisti. Il partito riformista di Markovic<br />
(con loro c’erano anche il regista Emir Kusturica e il poeta Abdullah<br />
Sidran) prese poco più del 10%, ma a Tuzla andò molto meglio e con le altre<br />
forze non nazionaliste andarono al governo della città. E decisero di difendere<br />
la convivenza con serbi e croati. Tokic e Beslagic (che è il sindaco di<br />
Tuzla e presidente dell’Unione socialdemocratica bosniaca) rappresentano<br />
l’alternativa a Izetbegovic, che non a caso ha tentato di rovesciare l’amministrazione<br />
di Tuzla attraverso vari espedienti. Mentre siamo ancora a Sarajevo,<br />
per la cerimonia dei 1000 giorni di assedio, c’è un ricevimento, è la serata<br />
conclusiva. Tokic mi chiede un incontro; per il giorno seguente, all’una, alla<br />
sede del Partito. Ci sarà anche Beslagic.<br />
Il giorno dopo, Sarajevo è calma: la tregua tiene. Sembra quasi che nessuno<br />
spari più. Incredibile, ma si passeggia tran<strong>qui</strong>llamente anche lungo la<br />
Milijacka, il fiume di Sarajevo: è la passerella davanti alle postazioni dei cecchini.<br />
Ogni tanto echeggia un tiro. Puntuali all’una ha inizio l’incontro.<br />
C’è anche Drazena Peranic, è una giornalista e lavora all’Aim (Alternative<br />
Information Media), una rete di giornalisti indipendenti jugoslavi. Scrivono<br />
articoli e li mandano alle agenzie di stampa internazionali. In pochi li riprendono,<br />
solo i periodici specializzati, come il Balkan War Report, che si<br />
pubblica a Londra. Beslagic e Tokic hanno appena tenuto una conferenza<br />
nella città in cui hanno messo sotto accusa il nazionalismo del Partito di<br />
Azione Democratica (Sda). Spiega Tokic: “Izetbegovic ha messo suoi uomini<br />
di partito in ogni posto di potere. C’è un uomo dell’Sda a capo dell’esercito,<br />
della polizia, della televisione. Lui è il nostro Berlusconi”. Tokic viene<br />
al dunque: “Nei territori serbo-bosniaci da tempo c’è un piccolo gruppo di<br />
parlamentari che si oppone a Karadzic. Sono una dozzina. Siamo in contatto<br />
con loro. Abbiamo già fatto un incontro in Macedonia. Con loro comu-<br />
62
nichiamo quando usciamo fuori dalla Bosnia, quando possiamo parlare con<br />
più tran<strong>qui</strong>llità. Finora si è trattato di incontri segreti, ma siamo pronti a<br />
promuovere un incontro pubblico e rendere noto un accordo che stiamo<br />
preparando e che prevede la possibilità di un dialogo per la pace, sulla base<br />
del riconoscimento dell’integrità della Bosnia Erzegovina. Sareste disponibili<br />
a organizzare questo incontro in Italia? Altrimenti c’è la possibilità che<br />
si faccia in Ungheria”.<br />
Proprio così. In venti, trenta secondi Tokic snocciola le tre cose che doveva<br />
dire. Gli italiani e i balcanici hanno questo in comune: di prenderla<br />
sempre alla larga e da lontano e arrivare al punto dopo mezzora. Ma Tokic<br />
non è fatto così. Vale la pena ricordare come è entrato in politica: laureato<br />
in biologia era un esperto delle doti provvidenziali delle erbe curative che si<br />
potevano trovare sulle montagne intorno a Sarajevo. Ne fece anche un libro.<br />
Andò dall’allora premier Markovic per perorarne la causa. Ma Markovic<br />
lo preferì come politico invece che come botanico. Sulle montagne intorno<br />
a Sarajevo, Tokic da quel 6 aprile del 1992 non c’è più tornato. Che da quei<br />
monti, per lui prodighi di virtù curative, ora arrivi la morte è uno dei paradossi<br />
di questa guerra. Beslagic è un contadino furbo e concreto. Sembra lo<br />
zio di Tokic, Insieme sono una coppia piacevole: si fanno le battute e si divertono.<br />
Io parlo. Beslagic annuisce e sorride. Drazena Peranic traduce. Rispondo:<br />
“Mi sembra interessante... può essere lo sbocco... abbiamo sostenuto<br />
sempre le opposizioni... certo, la situazione è delicata...”. Beslagic mangia<br />
una tartina, Tokic tamburella l’indice sul tavolo. Naturalmente, la riposta è:<br />
sì. L’incontro è finito. “Okay, ciao, ciao. Ci sentiamo per telefono, a presto<br />
e buon viaggio”. Esco dalla stanza e guardo l’orologio. L’una e sei minuti.<br />
Sei minuti per un’iniziativa che si può considerare importantissima: si incontrano<br />
i campi “avversari”, seppure a livello delle opposizioni per un accordo<br />
politico. È da tempo che i pacifisti lo dicono: vanno sostenute le<br />
opposizioni democratiche, le forze non nazionaliste e di pace in tutti i territori<br />
della ex Jugoslavia.<br />
1995 Tuzla e Langer<br />
Maggio-luglio<br />
I nemici si incontrano. Organizziamo la riunione. A fine maggio ecco arrivare<br />
Milorad Dodik, il capo dei parlamentari di Pale che si oppongono a Karadzic.<br />
Da parte bosniaca ci sono: Tokic, Kulenovic (direttore di Canale 99<br />
di Sarajevo), Simic (del Consiglio serbo di Tuzla) e Drazena Peranic. L’incontro<br />
si tiene a Perugia, in una località lontana dal centro della città. La<br />
riunione è naturalmente a porte chiuse. Dodik e Tokic si conoscevano da<br />
tempo. Fino al 1992 militavano nello stesso partito riformista di Markovic.<br />
63
Poi la guerra li ha divisi. Tokic ci dice che Dodik non si è macchiato di alcun<br />
crimine di guerra: altrimenti non l’avrebbero incontrato. Sono più o<br />
meno della stessa generazione. Dodik vive tra Banja Luka e Belgrado. È un<br />
imprenditore: ha un mobilificio e un grande magazzino. È molto intimorito.<br />
È teso: parla sottovoce con tono monocorde. Cerchiamo di metterlo a<br />
suo agio, ma senza riuscirci. Dodik scaglia però parole di fuoco contro Karadzic:<br />
“Va riconosciuta l’integrità della Bosnia Erzegovina, anche se andranno<br />
riconosciute più unità costitutive. Dobbiamo sconfiggere il nazionalismo<br />
di Karadzic e costruire una soluzione politica al conflitto; nessuna pace verrà<br />
dalle armi”. Anche le parole di Tokic sono molto dure verso il suo presidente:<br />
“In realtà Izetbegovic e Karadzic si sostengono l’un con l’altro; sanno<br />
che la loro sopravvivenza politica è legata alla guerra. La pace li scalzerebbe<br />
via. Ecco perché entrambi sono favorevoli alla continuazione dei combattimenti”.<br />
L’incontro di Perugia si chiude con una dichiarazione di cinque punti<br />
che prevede l’integrità della Bosnia Erzegovina, l’accettazione del piano<br />
di pace del gruppo di contatto, la punizione di tutti i criminali di guerra, la<br />
continuazione del dialogo tra le opposizioni.<br />
Facciamo un incontro allargato anche a esponenti politici per spiegare<br />
il senso dell’iniziativa. Viene anche Piero Fassino che sminuisce il senso della<br />
nostra operazione: “Serve un accordo per gradi e piccoli passi e con il governo<br />
in carica di Izetbegovic; la vostra rischia di essere un’iniziativa illuminata,<br />
ma senza seguito”. Tokic si arrabbia e gli risponde duramente. Il 25 maggio,<br />
nel momento di rendere pubblica la dichiarazione, scoppia la granata serba<br />
su un bar di Tuzla: oltre ottanta morti. Sono quasi tutti ragazzi. L’atmosfera<br />
dell’incontro è sconvolta e surreale. Tutti chiamano a Tuzla per sapere se<br />
ci sono conoscenti tra i morti: Simic perde due parenti. Tokic e Beslagic<br />
non rappresentano solo una forza politica (i socialdemocratici), ma anche<br />
una città: Tuzla. Ogni sbaglio e ogni pretesto è buono per metterla sotto accusa<br />
da Sarajevo: si aspetta il momento buono per un colpo di mano, dell’Armija,<br />
per porre fine all’amministrazione democratica e commissariarla.<br />
Tuzla è diventata in questi mesi meta di molte nostre iniziative pacifiste e di<br />
solidarietà. A Tuzla il Consorzio italiano di solidarietà ha aperto un proprio<br />
ufficio per seguire un progetto sponsorizzato dall’Unicef: si tratta di fornire<br />
ai neonati e ai bambini del “cibo supplementare”, necessario per la loro<br />
crescita. A Tuzla la Helsinki Citizens Assembly promuove convegni e iniziative,<br />
tra cui la propria assemblea generale, cui partecipano seicento delegati<br />
da quaranta diversi paesi, croati e serbi compresi. A Tuzla si riunisce il<br />
Verona Forum, di cui è ispiratore sin dall’inizio Alex Langer. Spesso Tokic<br />
e Beslagic lo vanno a trovare a Strasburgo e a Bruxelles; organizzano iniziative<br />
insieme. Si sentono di frequente. In Tuzla Langer vede una delle ultime<br />
possibilità di mantenere aperta la via della convivenza, l’ultima fiammella<br />
64
della Bosnia multietnica. Dopo la strage del bar, Langer riceve un biglietto<br />
da Beslagic che lo prega di diffondere tra i parlamentari europei: “Voi, con<br />
la vostra inazione state diventando complici di questo massacro [...] non fate<br />
niente [...] Siamo arrivati a un punto di non ritorno”. Poco più di un mese<br />
dopo Langer si toglie la vita. Non ho fatto in tempo a raccontargli per<br />
bene il senso di questa nostra iniziativa prima della sua morte; solo di sfuggita,<br />
qualche cenno quando a metà giugno l’ho chiamato a Bruxelles per<br />
chiedergli un articolo per La Terra vista dalla Luna (l’ultimo che ha scritto).<br />
Una volta, a un convegno (era il novembre del 1993, a Vicenza) Langer<br />
rispose a tono a chi se la prendeva con i pacifisti per la guerra nella ex Jugoslavia:<br />
“I pacifisti sono presenti più che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno<br />
tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con<br />
un’infinità quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e<br />
quant’altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido<br />
e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perché la vita è complicata,<br />
e la pace non la si ottiene per vie semplicistiche; né con il sostegno<br />
unilaterale alle parti ritenute ‘buone’ e ‘vittime’, e neanche con l’idea che un<br />
massiccio intervento armato esterno potrebbe davvero pacificare la ragione”.<br />
Continuava Langer criticando il pacifismo “tifoso” (quello che ha bisogno<br />
di un nemico per scendere in piazza) e quello “dogmatico” ( che antepone<br />
astratti principi alla realtà). Diceva di preferire “il pacifismo concreto. Credo<br />
che serva di più delle opzioni semplicistiche, buone per accontentare i<br />
tifosi, ma sterili rispetto alla realtà”. E concludeva che il nostro compito è<br />
di “dare voce e appoggio e credito all’altra Serbia, all’altra Croazia e all’altra<br />
Bosnia Erzegovina, a partire dalle quali ricostruire democrazia, diritti, convivenza<br />
e integrazione con il resto d’Europa”. Quante volte – in riunioni,<br />
convegni, manifestazioni – ho usato queste sue parole e quante volte ho rivendicato<br />
l’importanza del pacifismo concreto che ci ha guidato in tutti gli<br />
anni delle guerre jugoslave.<br />
65
La guerra umanitaria e il Kosovo<br />
24 marzo 1999<br />
Ore 20. Inizia la campagna di bombardamenti aerei della Nato chiamata Determinate<br />
Force contro la Repubblica federale di Jugoslavia.<br />
Pomeriggio<br />
Riunione in ufficio sulle iniziative da intraprendere in caso di attacco della<br />
Nato. Siamo in pochi (esponenti di Arci, Associazione per la pace, Cipax,<br />
un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati<br />
– Acnur – in Italia e qualche volontario), forse 7 o 8. Si discute di<br />
un’eventuale manifestazione di protesta, ma si scarta l’idea. La discussione<br />
si concentra sugli aspetti umanitari. Il rappresentante dell’Acnur dice che i<br />
piani preparati dal governo sono un bluff: si potranno accogliere al massimo<br />
due, tremila profughi. Sul campo, in Albania gestiamo due campi profughi<br />
(che sono già arrivati in 20.000 durante l’estate). Vari operatori Ics;<br />
Bruno e Carlo sono già a Burrell e Rubik. Aggiorniamo la riunione.<br />
Sera<br />
Si continua la discussione a cena a casa mia. Con Anna Eva e Paolo parliamo<br />
delle nostre attività sul campo: in caso di guerra che ne sarebbe del<br />
progetto di microcredito con i profughi a Nis? E dell’orfanotrofio Zmaj<br />
di Belgrado, dove mandiamo aiuti? Che ne sarà dei 70 bambini? Sappiamo<br />
dalla televisione dell’inizio dei bombardamenti. Si interrompono le<br />
trasmissioni, compaiono le prime immagini. La Nato ha iniziato i bombardamenti.<br />
Preoccupazione per la sorte dei nostri amici. Bata (nostro aiutante<br />
in ufficio) a Belgrado, che fine avrà fatto, sarà stato richiamato alle<br />
armi? E Nicolas a Nis? Riceviamo le prime telefonate allarmate, le consultazioni<br />
sul da farsi. Il telefonino s<strong>qui</strong>lla fino a tarda notte. La riunione di<br />
domani è confermata.<br />
25 marzo<br />
I capi di governo dei paesi dell’Unione Europea riuniti a Berlino dichiarano il<br />
loro appoggio e sostegno all’azione della Nato.<br />
L’incontro di oggi pomeriggio è molto più affollato. Ci sono una trentina<br />
di gruppi e di organizzazioni: Arci, Acli, Associazione per la pace, Pax Christi,<br />
Papa Giovanni XXIII, Cgil, Ong come Cric, Cospe, Gvc e tante altre sigle<br />
simili. I partiti non sono stati invitati. Si discute sul da farsi, come<br />
mobilitare le associazioni. Prima si parla di un appello contro la guerra: ce<br />
n’è uno che hanno preparato i frati francescani di Assisi e la Tavola per la<br />
pace. Decidiamo di prenderlo come base della mobilitazione. Ma che fare?<br />
Una giornata di protesta in tutta Italia? Una manifestazione nazionale a Roma?<br />
Viene avanzata prudentemente la proposta; promuovere un’iniziativa<br />
66
nazionale per il 3 aprile. Se n’era parlato prima dell’inizio con Tom e Raffaella.<br />
Tom è prudente, mentre Raffaella sembra determinata a fare una manifestazione<br />
a Roma: “Se non la promuoviamo noi, che in questi anni<br />
siamo stati a lavorare in ex Jugoslavia, chi lo fa?”.<br />
26 marzo<br />
Si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un documento di<br />
condanna dell’intervento della Nato viene votato da Cina, Russia e Namibia e<br />
respinto dagli altri 12 membri del Consiglio.<br />
Intorno alle 17 si fa un sit-in davanti al Parlamento. La manifestazione è<br />
improvvisata (200-300 persone). È di fatto una manifestazione autoconvocata:<br />
chi ha voluto, ha aderito. Dopo ci spostiamo in un bar, davanti al cinema<br />
Capranichetta, per riunirci ancora con le associazioni. Con Raffaella<br />
abbiamo già deciso: organizzare una manifestazione nazionale per il 3 aprile.<br />
Serafini di Legambiente invece sostiene un’altra proposta: una marcia in<br />
Campidoglio a metà settimana (per poi fare una manifestazione nazionale<br />
il 10 aprile). Rifondazione vuole fare una manifestazione di studenti. Ci<br />
impuntiamo e ci battiamo per il 3 aprile per fare un corteo promosso dalle<br />
associazioni che si sono impegnate con l’intervento umanitario in questi<br />
anni in ex Jugoslavia. I partiti, se vogliono, aderiranno.<br />
Ma il 3 aprile è il sabato prima di Pasqua: ci sono molte obiezioni. Queste<br />
derivano dal fatto che a proporre tale manifestazione sono le associazioni:<br />
i partiti non hanno ancora detto niente, mentre “il manifesto” punta sul<br />
10 aprile. Noi insistiamo. Pensiamo che la gente ci venga: c’è il clima adatto,<br />
riceviamo tante telefonate che ci invitano a muoverci. La nostra argomentazione<br />
è: i bombardamenti sono iniziati il 24 marzo. Non possiamo<br />
aspettare 17 giorni per fare una manifestazione nazionale. Ironizziamo su<br />
chi invita a essere prudenti: è Pasqua e c’è il rischio che venga meno gente<br />
per le gite fuori porta. Da Piazza Montecitorio, andiamo a via Tomacelli<br />
dove c’è la redazione de “il manifesto”: la riunione si continua in una piccola<br />
stanza, dove lavora Gigi Sullo. La discussione si protrae per qualche ora:<br />
c’è Cremaschi (segretario Fiom del Piemonte) e altri della Fiom di Brescia<br />
(Zipponi) che sono contrari. Loro vogliono farne una per il 10 aprile. Questa<br />
manifestazione (la loro) sarebbe la convergenza di diverse forze: Rifondazione,<br />
il manifesto, Cgil “di sinistra”, pacifismo “antagonista”. Ci sono una<br />
serie di telefonate di Cremaschi e di alcuni del giro de “il manifesto” con<br />
Bertinotti per consultazioni (così ci dicono). I redattori de “il manifesto”<br />
sono divisi: una parte (Gigi Sullo, Tommaso Di Francesco, Roberta Carlini)<br />
è d’accordo con noi, gli altri (tra questi Valentino Parlato) insiste per il<br />
10 aprile. Noi ripetiamo: vogliamo fare una manifestazione gestita dalle associazioni,<br />
senza intrusioni dei partiti. Valentino Parlato cerca di convincer-<br />
67
ci. “Vedrete: non verrà nessuno. Come pensate di fare una manifestazione<br />
senza il sostegno di noi sindacalisti? Chi li organizza i pullman?”, chiede Cremaschi.<br />
Tutta questa discussione ha un effetto sgradevole. Tatticismi, politicismi,<br />
acrobazie di una politica che avevo dimenticato da anni. Alla fine<br />
comunque ci impuntiamo e rischiamo. Non ci sono pullman e non ci sono<br />
soldi. L’Arci ci può mettere qualche milione di lire, ma poco di più. Lo stesso<br />
per l’Ics. Sugli altri non si può contare. Siamo abbastanza soli.<br />
La riunione a “il manifesto” si interrompe, bisogna scappare perché<br />
Lerner ci ha invitato alla sua trasmissione, per parlare della situazione<br />
umanitaria in Kosovo. C’è anche Anna Eva che è molto efficace nel descrivere<br />
l’opera dei volontari in Kosovo. Accenno al fatto che c’è anche<br />
un’”altra” Serbia, democratica e non nazionalista, e un serbo fascistoide<br />
– che viene regolarmente invitato da Lerner perché ha una buona resa televisiva,<br />
una sorta di ventriloquo italiano di Milosevic – mi aggredisce.<br />
Lucio Caracciolo mi difende. In una pausa pubblicitaria chiedo al sottosegretario<br />
Minniti perché non accogliamo in Italia i profughi albanesi cacciati<br />
dal Kosovo dalle bande serbe. “Il problema non si pone...”. La<br />
trasmissione riprende.<br />
27 marzo<br />
Arrivano notizie drammatiche della pulizia etnica delle forze paramilitari serbe<br />
in Kosovo. La Nato, per ora, colpisce obiettivi militari solo in Serbia.<br />
Mattino.<br />
Riunione del Tavolo di coordinamento per gli aiuti al Kosovo presso la<br />
Presidenza del Consiglio. Ci sono ministri, funzionari, militari, rappresentanti<br />
di associazioni di volontariato. Vogliono creare una sorta di coordinamento<br />
permanente per gli aiuti umanitari d’emergenza per i profughi<br />
kosovari. Ci sono il sottosegretario Minniti e la ministra Livia Turco.<br />
Lanciano la Missione Arcobaleno. Mentre bombardano, aiutano i profughi.<br />
Il segno di questa iniziativa è chiaro: ricreare un consenso intorno al<br />
governo sull’azione umanitaria, mentre è in atto una contestazione del<br />
volontariato per la scelta di guerra fatta dal governo di centrosinistra. Il<br />
tutto con un’operazione di immagine, di marketing politico, dove il volontariato<br />
in cambio di un po’ di soldi potrà essere cooptato in modo subalterno<br />
nell’operazione. Quasi tutte le Ong presenti non pongono grandi<br />
problemi: chiedono chiarimenti, domandano come fare a presentare i progetti,<br />
al massimo sollevano qualche dubbio sull’opportunità di lanciare<br />
una sottoscrizione popolare gestita dallo Stato. Sono tutti molto professionali<br />
e operativi. Qualcuno ha qualche cartellina con degli schemi di progetto.<br />
Raffaella fa un intervento durissimo. “Non staremo sotto il vostro<br />
elmetto. Potevate almeno avere il buon gusto di non usare un simbolo<br />
68
della pace, voi che state in guerra. Comunque di fronte al dramma dei profughi<br />
agiremo in autonomia e collaboreremo lealmente con tutti”. La<br />
Turco abbozza: “Raffaella non me l’aspettavo da te...”. Poi le manda un<br />
biglietto: “In questi momenti detesto essere un ministro...”. E perché non<br />
si dimette, allora? Noi (Ics e qualcun altro) siamo isolati: molte altre organizzazioni<br />
non governative sotto quell’elmetto ci si mettono. Ci sono<br />
in ballo soldi e progetti.<br />
29 marzo<br />
Chiediamo un incontro a Walter Veltroni a Botteghe Oscure. Ci viene accordato:<br />
con lui ci sono Roberto Cuillo (funzionario della sezione Esteri) e<br />
Luigi Colajanni, ex capogruppo del Pds a Straburgo. Con me, ci sono Raffella<br />
Bolini, Tom Benetollo, Massimo Serafini, Giampiero Rasimelli, Soana<br />
Tortora. Danno a me il compito di aprire l’incontro. Riassumo le nostre<br />
posizioni contro la guerra e invito comunque a tenere aperta la porta del dialogo.<br />
Ricordo a Veltroni che sin <strong>qui</strong> l’Unità ci ha maltrattato e non ci ha dato<br />
voce. Veltroni allarga le braccia, a dire: e che ci posso fare io? Mentre parlo,<br />
Veltroni ha uno sguardo obliquo, giocherella con la penna e non prende appunti.<br />
Ha lo sguardo corrucciato e ostentatamente triste e dà (vuole dare)<br />
una sensazione di impotenza e rassegnazione.<br />
Intervengono gli altri: Tom Benetollo, Raffaella Bolini che ribadiscono<br />
le posizioni. Tom dice: “Qui nessuno di noi è contrario all’uso della forza<br />
per fermare la violazione dei diritti umani, ma lo deve fare l’Onu. Quello<br />
della Nato è un intervento strumentale”. Luigi Colaianni dice che, sì, quello<br />
della Nato è un intervento illegittimo, ma che altro si poteva fare? “Siamo<br />
al governo e dobbiamo essere responsabili”. E parla per un’altra decina<br />
di minuti di Onu, Nato, diritti umani, senza entrare nel merito delle conseguenze<br />
reali dell’intervento. Sembra girare intorno al problema.<br />
Interviene Veltroni: “Non voglio proprio litigare con voi. Siete quelli sui<br />
quali voglio costruire il nuovo partito. Voi dite: non bisognava bombardare.<br />
E cosa dovevamo fare per fermare l’eccidio dei kosovari? Qual era l’alternativa?<br />
Che altro potevamo fare? Tutti siamo in difficoltà. Tutti dobbiamo<br />
interrogarci; dobbiamo tutti rimetterci in discussione. Anche voi: le vostre<br />
manifestazioni non stanno andando bene. Mi dicono che quella degli studenti<br />
stamattina è stata annullata”.<br />
Qualcuno di noi si guarda e tocca ferro. Tutti siamo infatti in ansia per<br />
la riuscita della manifestazione del 3 aprile. Veltroni interviene di nuovo e ricorda:<br />
“Noi ovviamente non aderiamo alla manifestazione, ma sapete che ha<br />
comunque aderito la Sinistra Giovanile e la sinistra Ds”. Poi, vuole fare un<br />
comunicato stampa congiunto dell’incontro, ma noi non siamo d’accordo.<br />
69
30 marzo<br />
Milosevic offre di ritirare le truppe serbe dal Kosovo in cambio della fine dei<br />
bombardamenti. L’offerta viene rifiutata. Solo da oggi si registrano i primi attacchi<br />
a obiettivi militari serbi in Kosovo, dopo una settimana di pulizia etnica.<br />
Incontro – insieme a Raffaella Bolini, Soana Tortora, la figlia Chiara – Pietro<br />
Ingrao, a casa, per chiedergli di intervenire alla manifestazione, ma sono<br />
raggiunto al telefono dalla notizia di un’altra polemica con i Ds. Stefano<br />
Kovac, direttore di Ics, rilascia dall’Albania una dichiarazione all’Ansa: “Non<br />
prenderemo soldi da una missione come quella Arcobaleno, fatta da un governo<br />
che si è macchiato della responsabilità della guerra”. Si scatena la bufera.<br />
Chiamano ripetutamente i funzionari dei Ds: Calvisi, Amendola, Cuillo<br />
dello staff di Veltroni. Vogliono una smentita, qualcuno che ritratti la dichiarazione<br />
di Kovac. Ovviamente non se ne parla. Scrivo una dichiarazione<br />
più articolata, ma che spiega in tono pacato le nostre posizioni. Mentre<br />
parlo con Calvisi, si sente urlare dalla stanza di Botteghe Oscure da dove sta<br />
chiamando Calvisi: “Eccoli, questo sarebbe il reciproco rispetto, ci accusano<br />
di essere guerrafondai!”. Credo sia Cuillo a sbraitare. Risultato: dalla manchette<br />
de “l’Unità” che invita alla solidarietà vengono tolti i riferimenti dei<br />
nostri campi profughi, il nostro indirizzo e il telefono. Per una polemica<br />
politica, a rimetterci sono i profughi kosovari che sono nei nostri campi.<br />
Sentiamo Stefano Kovac per la polemica sulla sua dichiarazione all’Ansa.<br />
Sembra preoccupato per altro. È sconsolato. “Nei campi non c’è niente da<br />
mangiare. Mandateci della roba; cercate di organizzare qualche convoglio,<br />
altrimenti non sappiamo più come fare. Non sappiamo più dove sistemarli.<br />
Li abbiamo messi anche nelle cucine. Così non possiamo più cucinare pasti<br />
caldi. mandate subito dei camion con della roba da mangiare”.<br />
In Albania stanno arrivando ogni giorno migliaia di profughi. Nel nostro<br />
campo di Burrell nel giro di due ore se ne sono presentati 500. La capienza<br />
delle strutture residenziali in Albania non supera i 25-30.000 posti<br />
letto e le tendopoli non sono ancora state organizzate. I profughi sono già<br />
più di 150-200.000. Molti dormono all’aperto, sotto un albero. A noi questa<br />
polemica con i Ds ha occupato tutta la giornata che per Stefano è passata<br />
invece alla disperata ricerca a Tirana di 500 materassini dove far dormire<br />
i profughi di Burrell. Mi racconta che alla fine ha chiesto anche a un funzionario<br />
della protezione civile italiana a Tirana se poteva prestarceli. “Ma<br />
voi non siete al di fuori della Missione Arcobaleno?”, ha risposto ironico. E<br />
i materassini non ce li hanno dati.<br />
2 aprile<br />
La Russia chiede una riunione del G8.<br />
Domani c’è la manifestazione. Dopo quattro, cinque giorni di paura (pochi<br />
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pullman, lentezza della mobilitazione, mancanza di soldi) adesso siamo tutti<br />
un po’ più tran<strong>qui</strong>lli: riceviamo centinaia di telefonate ogni giorno (ci sono<br />
oltre 350 adesioni di organizzazioni e associazioni), notizie di gruppi<br />
che vogliono partecipare, ne parla la stampa (anche se dice che è una manifestazione<br />
di Rifondazione Comunista). Ormai, quello che potevamo fare<br />
l’abbiamo fatto. Ieri sera siamo andati a fare un altro sopralluogo a Porta San<br />
Paolo, dove terminerà il corteo. Abbiamo scelto il punto dove mettere il<br />
palco. Abbiamo il timore che qualche autonomo o esponente dei Cobas<br />
scateni incidenti. Oggi ho incontrato il capo gabinetto della questura in<br />
una stanza occupata da monitor che trasmettevano le immagini in diretta<br />
sulle vie dove dovrebbe passare il corteo. Ci siamo messi d’accordo su questo<br />
percorso: piazza Esedra, via Cavour, via Merulana, via Ostiense. Ho chiesto<br />
che la loro presenza sia discreto. Ci hanno chiesto di organizzare anche<br />
noi un servizio d’ordine, soprattutto per la testa del corteo. Ci guardiamo incerti:<br />
un servizio d’ordine non ce l’abbiamo. Sono passati i tempi quando il<br />
“Partito” o il “Sindacato” garantiva centinaia di “vigilanti” ai cortei. E poi perché<br />
dovrebbero darceli? Né il “Partito”, né il “Sindacato” aderiscono alla manifestazione.<br />
Finisco di scrivere il mio discorso. Ecco l’ultimo passaggio:<br />
“Da tempo l’avevamo chiesto, noi pacifisti e volontari. Diamo la<br />
parola, la forza e l’autorità all’ Onu. Inviamo delle truppe di interposizione<br />
per proteggere i profughi, le popolazioni civili. Invece si è tolta la<br />
parola all’Onu, si è svuotata l’autorità delle Nazioni Unite. Non siamo<br />
stati ascoltati. Per mesi l’Onu è stata tenuta fuori dal Kosovo. Si è aggiunta,<br />
invece, guerra alla guerra nell’illusione di difendere i diritti umani.<br />
Ma, le bombe non difendono i profughi, non portano alla pace. Portano<br />
e hanno portato ad altre sofferenze; stanno aiutando non le vittime<br />
della guerra, ma i dittatori...”.<br />
3 aprile<br />
100.000 pacifisti manifestano a Roma contro la guerra. Iniziano i bombardamenti<br />
delle forze della Nato dei ponti del Danubio.<br />
Manifestazione a Roma. Ci sarà abbastanza gente? “Se saremo 15mila sarà<br />
già un successo”. Alle 13.30 a piazza Esedra non c’è nessuno; 2-300 persone.<br />
Qualcuno srotola i primi striscioni, vengono montati gli altoparlanti sulle<br />
macchine mentre vengono distribuiti i nostri adesivi arancioni: “Fermare<br />
i massacri in Kosovo”. Un’ora dopo, siamo costretti ad arrivare a via Cavour<br />
con la “testa” del corteo per far incolonnare la gente. Ci sono già 30-40mila<br />
persone, ci sembra. Da dove sono saltate fuori? Improvvisamente c’è una<br />
selva di bandiere, striscioni, cartelli. La ressa in testa: arrivano dirigenti di<br />
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associazioni, giornalisti, persone conosciute. Chiama Tagliente, il capo di<br />
Gabinetto della questura: devo correre a via Genova, proprio lì vicino, in<br />
questura. Informa: “Ci sono 300 autonomi con i caschi e i bastoni; teniamo<br />
la situazione sotto controllo, ma dateci una mano pure voi”. Già, e come?<br />
Davanti ci siamo noi (le associazioni), poi i partiti (Rifondazione) e<br />
dietro gli altri (autonomi, Cobas). Il corteo è proprio diviso in due. Lo si<br />
vede nettamente: all’inizio barriere di ogni colore, striscioni variopinti, slogan<br />
nonviolenti, nella coda del corteo cordoni di militanti agguerriti, slogan<br />
minacciosi, bandiere rosse. I politici per il momento non si vedono.<br />
Alle 16.30 facciamo il die-in vicino al Colosseo, poi si arriva a Porta<br />
San Paolo. Faccio il mio discorso: qualcuno mi fischia quando attacco<br />
Milosevic definendolo un criminale nazionalista. Ciotti e Ingrao sono seduti<br />
su un tavolo vicino. Luisa Morgantini legge una lettera di donne kosovare,<br />
Soana Tortora un messaggio della pacifista serba Sonia Licht. La<br />
tensione nella piazza è evidente. C’è il timore di qualche azione violenta<br />
delle frange più dure. Lanciano pomodori, ne arriva qualcuno sul palco.<br />
Uno mi colpisce. Sembra che vogliano assaltare il palco, si crea un vuoto<br />
proprio sotto di noi, ma in pochi secondi le “donne in nero” con uno striscione<br />
si schierano a difenderci. Alla fine i telegiornali dicono che alla<br />
manifestazione c’erano 100mila persone.<br />
6 aprile<br />
Milosevic annuncia una tregua unilaterale per la Pasqua ortodossa (11 aprile),<br />
ma la Nato decide di andare avanti con i bombardamenti.<br />
Dopo la manifestazione di sabato scorso, oggi abbiamo discusso su come<br />
continuare la mobilitazione contro la guerra. Naturalmente ci sono molte<br />
iniziative locali e il prossimo 10 aprile si terrà a Roma la manifestazione<br />
promossa da Rifondazione e da “il manifesto”. Tra gli ambienti cattolici<br />
(Beati i costruttori di pace) qualcuno sta pensando di organizzare qualche<br />
iniziativa eclatante in Kosovo (sul modello della marcia pacifista nella Sarajevo<br />
assediata del dicembre del 1992). Ma a differenza di Sarajevo del<br />
1992, Pristina del 1999 è impenetrabile e i rischi sono mille volte maggiori.<br />
Discutiamo così l’ipotesi di organizzare un’iniziativa di “diplomazia<br />
popolare”. Perché non andiamo in 500 a Belgrado con una carovana della<br />
pace? L’idea iniziale è di andare oltre che a Belgrado anche a Podgorica<br />
(la capitale del Montenegro) e a Pristina, con l’intento di portare un messaggio<br />
di pace e di solidarietà in tutte le aree del conflitto. Il tentativo è di<br />
andare dai serbi e dai kosovari e cercare di parlare con entrambi e di ricostruire<br />
un ponte di comunicazione. Sarà difficilissimo. C’è un problema<br />
di permessi, di autorizzazioni.<br />
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8 aprile<br />
Oggi, appuntamento con l’ambasciatore jugoslavo, Miograd Lekic. L’ambasciata<br />
ai Parioli è troppo grande (prima era l’ambasciata di tutta la Jugoslavia)<br />
per un piccolo stato in ginocchio. La stanza dove ci riceve è buia, forse un po’<br />
polverosa. I corridoi sono vuoti; di personale ce n’è poco. Siamo venuti <strong>qui</strong><br />
per consegnargli una lettera di protesta per gli eccidi in Kosovo e chiediamo<br />
che venga fermata la pulizia etnica. Lekic è montenegrino (è stato ministro degli<br />
Esteri del Montenegro) ed è una persona cortese e aperta. Non condivide<br />
la politica nazionalista di Milosevic. Alle nostre condanne a Milosevic reagisce<br />
con comprensione; è il massimo che può fare e ce lo fa capire.<br />
10 aprile<br />
Ieri la Nato si è “sbagliata” ancora: ha colpito un convoglio di civili nei pressi<br />
di Pristina: 12 morti. Ha anche bombardato un altro obiettivo civile: la<br />
fabbrica di automobili Zastava: 128 feriti.<br />
Organizziamo l’assemblea dell’Ics, al centro sociale della Maggiolina a Roma,<br />
nel quartiere Nomentano. Discutiamo su come organizzare l’invio degli<br />
aiuti nei campi profughi (ormai ne gestiamo 8, con più di 7mila profughi),<br />
come andare a fare volontariato nei campi, della situazione in Macedonia,<br />
dove da qualche giorno sono al lavoro Giorgio Cardone e Alessandro Pieroni.<br />
I nostri operatori distribuiscono aiuti ai profughi ospiti nelle famiglie.<br />
Lanciamo l’iniziativa della carovana della pace per il 25 aprile a Belgrado<br />
e con una piccola delegazione che vada a Pristina. Serviranno 10 pullman<br />
e bisognerà andare a Belgrado per parlare con il governo e ottenere le autorizzazioni.<br />
Nel pomeriggio, alle 15, c’è la manifestazione promossa da<br />
“il manifesto” e da Rifondazione comunista e da varie altre associazioni.<br />
Le bandiere pacifiste si contano sulle dita di una mano. Quelle rosse sommergono<br />
la piazza.<br />
12 aprile<br />
La Nato colpisce un treno passeggeri che sta attraversando il ponte di Grdelicka:<br />
50 morti carbonizzati.<br />
In ufficio a preparare il viaggio della delegazione per Belgrado. Telefonate<br />
all’ambasciata (sono probabili dei tempi lunghi per farci dare i visti) e incontri<br />
con Raffaella e Soana per coordinarci nella promozione dell’iniziativa.<br />
Chiama Carlo Feltrinelli: mi conferma che sabato prossimo le librerie<br />
Feltrinelli doneranno il 50% dell’incasso ai progetti dell’Ics. Ci informa che<br />
potrebbero entrare in questo modo 300-400 milioni. “Stiamo preparando<br />
un appello degli intellettuali contro la guerra. Compreremo alcune pagine<br />
sui quotidiani. Possiamo dare il vostro riferimento per gli aiuti?”.<br />
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15 aprile<br />
Ieri, altro errore della Nato: una bomba colpisce un convoglio di profughi kosovari<br />
in fuga verso Djakovica: 70 morti e oltre 100 feriti.<br />
Luisa Morgantini, Flavio Mongelli (Arci di Milano) e Paolo Tamiazzo sono<br />
partiti per Belgrado. Vanno in aereo fino a Budapest, poi in macchina fino<br />
a Subotica. Da lì a Belgrado. Devono incontrare i ministri e i funzionari per<br />
ottenere i permessi della carovana. Partano in avanscoperta per noi. Prima<br />
che partano stabiliamo per telefono gli ultimi dettagli: ci mettiamo d’accordo<br />
sul programma degli incontri, sulle cose da dire, i permessi da ottenere.<br />
Dicono che ci sono scarse possibilità di realizzarla.<br />
16 aprile<br />
Il mattino, si tiene un incontro del Tavolo di Coordinamento per il Kosovo,<br />
al Dipartimento per gli Affari Sociali. La saletta di via Veneto è strapiena.<br />
Rappresentanti delle Ong si accalcano: si parla di progetti, interventi,<br />
finanziamenti. Siamo in minoranza: non abbiamo accettato di stare dentro<br />
la Missione Arcobaleno e ne paghiamo le conseguenze. Ci sono organizzazioni<br />
non governative che, di fronte al dramma di un’emergenza profughi<br />
da gestire subito, tirano fuori progetti di adozioni a distanza, bilanci predisposti,<br />
grafici e cronogrammi. Vogliono tutti adottare famiglie, profughi,<br />
bambini: anche se in Albania l’emergenza è imprevedibile e non si sa che fine<br />
faranno i profughi. Nonostante il chiarimento della settimana precedente,<br />
a livello locale siamo discriminati. Nelle riunioni dei comuni e delle regioni<br />
si parla solo di Missione Arcobaleno. L’Ics è costantemente escluso. L’atmosfera<br />
della riunione è deprimente: confusione e mancanza di coordinamento,<br />
futile rincorsa ai finanziamenti, amministrazioni pubbliche allo sbando.<br />
Molti sono stufi e annoiati. Gira tra le sedie un dirigente di un’associazione<br />
di terzo settore, probabilmente candidato alle europee che si sta facendo campagna<br />
elettorale e ci promette una volta eletto “di occuparsi dei profughi”.<br />
Il pomeriggio c’è la riunione con il Comune di Roma. Stanzieranno un<br />
miliardo per la Missione Arcobaleno. Nonostante le nostre richieste di fare<br />
in modo diverso (discutendo insieme le priorità e coinvolgendo il volontariato),<br />
hanno deciso di fare così. “Loro sono contro la guerra, così imparano”,<br />
avrebbe detto un funzionario dei Ds, parlando di noi. Un paio di giorni<br />
fa ho incontrato il segretario particolare di Rutelli, che ha allargato le braccia<br />
come a dire “ve la siete cercata”.<br />
18 aprile<br />
Ci si rende conto che è impensabile poter accogliere tutti i profughi in Albania.<br />
Non ci sono adeguati centri di accoglienza, né tendopoli sufficienti<br />
per tutti. Il sistema delle infrastrutture è fatiscente. In realtà una parte an-<br />
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drebbe portata in Italia, almeno tutti quelli che lo vogliono e che si trovano<br />
in condizioni disperate. Nessuno è in grado di dire oggi quando e come finirà<br />
la guerra. Non si possono tenere centinaia di migliaia di persone per<br />
mesi nei boschi o in tende bucate. Il paradosso è che se i profughi riuscissero<br />
da soli ad arrivare in Italia, sarebbero trattati come immigrati “clandestini”:<br />
altro che “vittime di un genocidio” come sdegnosamente dicono i nostri<br />
uomini e donne di governo. Qualche parlamentare che ci aiuta ha provato<br />
a interpellare il ministro dell’Interno, ma senza risultati. Parlo con Vilma e<br />
Luca Casarini e gli chiedo: “Perché, visto che il governo non vuole ospitare<br />
i profughi kosovari in Italia, non affittiamo una nave e andiamo a prendere<br />
500 profughi kosovari a Valona e li portiamo in Italia? Che faranno, mica<br />
ci fermeranno con le motovedette o ci arresteranno quando arriveremo a Bari<br />
o a Brindisi?”. Ci avevano pensato anche loro, ma ci sono alcuni problemi,<br />
tra tutti trovare un comandante della nave consenziente. Può rischiare<br />
il carcere per traffico illegale di immigrati “clandestini”. Facciamo le prime<br />
telefonate, avviamo i primi contatti. Prime risposte: negative.<br />
20 aprile<br />
Paolo, Luisa e Flavio chiamano da Belgrado. Non hanno buone notizie. La<br />
carovana dei 500 non si può fare, non ci sono i permessi e ci impedirebbero<br />
di andare in massa verso il Montenegro o il Kosovo. Troppo pericoloso:<br />
dicono che hanno paura della Nato. Farebbe scoppiare un incidente per dare<br />
poi la colpa a loro. Ma forse non ci vogliono fare vedere cosa stanno combinando<br />
in quell’inferno. Una delegazione un po’ più ristretta, però, si può<br />
fare. Alla fine si concorda con i responsabili del governo il permesso per organizzare<br />
un pullman con 40 persone: esponenti di associazioni, enti locali,<br />
partiti. Andremo a Belgrado. Poi da lì vedremo come continuare (ci<br />
lasceranno andare in Montenegro e, soprattutto, a Pristina? Questo il punto<br />
che ci preoccupa di più. Stamattina ho parlato con Morozzo della Rocca,<br />
che ha tenuto per la Comunità di Sant’Egidio i contatti con Rugova in<br />
questi anni. Mi ha dato i suoi telefoni di Pristina. Ho provato a chiamare<br />
senza speranza. Infatti, linee interrotte e messaggio sul disco in serbo. Mi ha<br />
dato anche il telefono del suo segretario: niente da fare. Chiamano da tutta<br />
Italia per la carovana. Vorrebbero venire tutti. Ma dobbiamo dirgli di no.<br />
Anche Dario Fo e Franca Rame, ma solo se “siamo più di 500”. La delegazione<br />
minore non gli interessa, la reputano un’iniziativa secondaria, e rinunciano<br />
a parteciparvi.<br />
26 aprile<br />
Ieri la Nato ha festeggiato a Washington i suoi cinquant’anni di vita, confermando<br />
l’intenzione di proseguire i bombardamenti fino alla disfatta di Milosevic.<br />
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Incontro con una delegazione dei 160 parlamentari della maggioranza<br />
(quasi tutti della “sinistra” Ds) che hanno firmato un appello per la tregua,<br />
di cui molti temono le conseguenze politiche. Una settimana fa alcuni<br />
di loro ci avevano promesso di unirsi alla nostra carovana della<br />
pace: “Verremo con voi a Belgrado e a Pristina. Saremo in tanti”. Oggi<br />
rinunciano: paura delle conseguenze, del rischio di venire accusati di negoziare<br />
con il nemico. Qualcuno trova una scusa speciosa: “C’è una deputata<br />
di rifondazione con voi, potremmo essere strumentalizzati”. Oppure:<br />
“Ci sono gli incontri con le autorità jugoslave; poi ci accuserebbero di<br />
essere filo-Milosevic”.<br />
30 aprile<br />
Inizia l’embargo petrolifero dell’Unione Europea contro la federazione jugoslava.<br />
A Ginevra la commissaria Onu per i diritti umani denuncia le conseguenze<br />
prodotte dai bombardamenti in Serbia.<br />
Da Udine, partiamo con la carovana della pace. Prima tappa, Belgrado. E<br />
poi, da lì, a Podgorica e Pristina. Il viaggio è pieno di incognite. Il primo<br />
obiettivo è di arrivare intanto in Serbia. Poi vedremo per Podgorica e Pristina.<br />
Tra di noi c’è anche monsignor Bettazzi e poi sindacalisti e rappresentanti<br />
di vari gruppi e associazioni. L’appuntamento è davanti alla stazione di<br />
Udine, alle otto. Con i nostri zaini pieni di pubblicazioni e vettovaglie, con<br />
stemmi e adesivi pacifisti, con giacche a vento usate già a Sarajevo e in Bosnia<br />
negli ultimi anni, ci mescoliamo con gli studenti udinesi con i loro zainetti<br />
colorati che si affrettano ai pullman o camminano trafelati verso la<br />
scuola. Consultiamo le cartine per individuare le strade migliori da seguire.<br />
Al primo distributore compriamo 5 taniche da 25 litri ciascuna da riempire<br />
di nafta: in Serbia c’è il rischio di non trovarne.<br />
1° maggio<br />
Entriamo da Szeged (ultimo paese dell’Ungheria) in Serbia. Sui viali dei villaggi<br />
ungheresi a ridosso del confine ci sono cicogne accovacciate nei loro<br />
nidi sui pali dell’elettricità o anche su alcuni tetti di case. Una irreale pennellata<br />
di paesaggio bucolico prima di entrare in un territorio sconvolto dagli<br />
uragani dell’embargo e della guerra. Alla frontiera serba pochi problemi:<br />
più che altro sono stati gli ungheresi a farcene. Ultimi arrivati nella Nato,<br />
adesso sono i più zelanti. Il governo ungherese è di centro-destra. Trascorre<br />
un’ora e – dopo accurati controlli – passiamo la dogana. Ci avviciniamo a<br />
Subotica, in Vojvodina. Dovremmo passare per un paesino che si chiama<br />
Palic. Impossibile. Hanno bombardato stanotte la caserma nel centro della<br />
città: ci sono stati dei morti. Passiamo lungo il lago. Il clima è surreale. È<br />
una bella giornata: ci sono ragazzi che giocano su un prato, fidanzati mano<br />
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nella mano, famiglie che arrostiscono cevapcici, bambini in bicicletta. È una<br />
giornata di festa; sembra un quadretto pastorale della “profonda” Serbia,dove<br />
Milosevic ha sempre fatto man bassa di voti.<br />
Arriviamo a Belgrado. Il pullman subisce alcuni controlli, ma tutto fila<br />
liscio. Belgrado non è come Sarajevo: non c’è ovviamente un comparabile<br />
livello di distruzione e di pericolo personale. Qui la minaccia che viene dalle<br />
bombe è di natura diversa da quella violenza medievale fatta di cecchini,<br />
granate, l’assedio che per oltre mille giorni ha afflitto Sarajevo. Siamo in un<br />
albergo, l’Intercontinental (che ci ha imposto il governo serbo, forse per controllarci<br />
meglio), dove in passato la “tigre” Arkan (il criminale serbo a campo<br />
delle bande paramilitari operanti nelle guerre jugoslave sin dal 1991) ha<br />
avuto il suo quartier generale. Nell’albergo c’è poca gente: personaggi e<strong>qui</strong>voci<br />
e brutti ceffi in doppio petto, accompagnati da donne inguainate e pesantemente<br />
truccate.<br />
A Belgrado, come a Sarajevo la vita continua, nonostante la guerra. Mentre<br />
il resto della delegazione partecipa nella sede del sindacato indipendente<br />
(“Nezavisnost” ) all’incontro con una ventina di Ong belgradesi e il sindacato<br />
indipendente (ci sono Nastascia Kandic, delle donne in nero, e Bradislav<br />
Canak, di Nezavisnost, e poi Rada, che è di Mostar: sfuggita da lì durante<br />
la guerra in Bosnia, adesso si trova sotto quest’altra tempesta), Raffaella, Flavio<br />
e io corriamo all’albergo. Ci aspetta Ristic, che è viceministro degli<br />
Esteri, oltre che esponente di spicco della JUL, il partito della sinistra comunista<br />
della Miriana Markovic, moglie di Milosevic. Ristic (azzimato funzionario<br />
fasciato da un gessato ministeriale) ha in realtà il phisique du role di<br />
un agente dei servizi segreti: sfuggente, vagamente minaccioso, sbrigativo.<br />
Dobbiamo concordare il programma. Siamo raggelati dalle sue prime frasi:<br />
“Non potete andare a Pristina e Podogorica; non ci sono le condizioni di sicurezza,<br />
non ve lo permettiamo. Se volete fare degli incontri <strong>qui</strong> a Belgrado,<br />
va bene; vi aiuteremo”. È una notifica, non è l’inizio di un negoziato.<br />
Lo stesso giorno nel sud della Serbia un missile della Nato ha colpito un pullman:<br />
40 morti.<br />
Sera<br />
La sera, sono già le otto, suona il primo allarme aereo. Il suono della sirena è<br />
è la prima volta che lo sento. Usciamo dall’albergo. Un inserviente indica il<br />
cielo: c’è un Awacs ad alta quota che traccia la rotta dei cacciabombardieri che<br />
arriveranno da lì a poco. È come se indicasse una nuova stella cometa, un pianeta<br />
fino ad allora sconosciuto, che solca il cielo ormai da quaranta giorni. È<br />
un appuntamento fisso. Il cameriere, tran<strong>qui</strong>llo e senza malizia nei nostri<br />
confronti, ci informa che gli europei che arrivano a Belgrado non vengono più<br />
salutati con dober dan (buona giornata), ma con Bomberdan.<br />
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2 maggio<br />
Il leader democratico americano Jesse Jackson è a Belgrado. Milosevic gli consegna<br />
3 soldati statunitensi catturati al confine con la Macedonia dalle truppe serbe.<br />
Altro errore della Nato: colpito un pullman con dei profughi a Pristina, 20<br />
morti.<br />
Partecipiamo ad altri incontri. Alle nove del mattino incontro gli esponenti<br />
della Croce Rossa Jugoslava. Decidiamo di fare un convoglio per i profughi<br />
serbi e kosovari. Metà degli aiuti andranno a Nis, gli altri a Pristina. Almeno,<br />
questo in teoria. Bisognerà verificare tutte le fasi. I nostri camion potrebbero<br />
arrivare a Nis, e da lì – con una parte di aiuti – con i camion si andrà a<br />
Pristina. Chiedo che un paio di noi vadano con loro: sono d’accordo. Gli<br />
diamo una donazione di 10 milioni. Che fine faranno questi soldi? Andranno<br />
veramente a chi ne ha bisogno o alimenteranno le casse del regime? La<br />
Croce Rossa serba non è proprio al di sopra di ogni sospetto. A Roma, all’ambasciata<br />
jugoslava ce l’avevano fatto capire. Mica penserete di andare là e aiutare<br />
solamente i vostri amici oppositori? In cambio dei 10 milioni la funzionaria<br />
ci lascia tanto di ricevuta già compilata e timbrata, e una specie di pergamena<br />
in cirillico. Chiediamo che i nostri volontari possano ritornare al lavoro a<br />
Nis e a Belgrado. Non possono rispondere di sì. Mi informano come dobbiamo<br />
fare: bisogna passare per il Commissariato serbo per i rifugiati, inoltrare<br />
regolare domanda e aspettare. “Ma è difficile...”.<br />
Pomeriggio<br />
Ci raggiunge nel pomeriggio Bata, il responsabile nel nostro ufficio a Belgrado.<br />
Non l’avevo conosciuto prima. È altissimo (più di due metri), parla<br />
saggiamente e lentamente: “Stamattina è venuta la polizia: voleva portarci<br />
via il fuoristrada dell’Alto Commissariato. Non mi ha trovato e se ne è andata.<br />
Quando vengono, di solito mi nascondo. Chiudo l’ufficio e me ne vado”.<br />
È già successo a Nis – dove diamo assistenza a oltre 1.000 famiglie di<br />
profughi serbi delle Krajine con dei programmi di microcredito – nel sud<br />
della Serbia: “Lì, ci hanno portato via tutto: due macchine e tutti i computer.<br />
I condomini – che sono tutti ex militari – ci hanno denunciato: dicevano<br />
che avevamo delle apparecchiature per indicare ai paesi della Nato la rotta<br />
degli aerei. Insomma: ci accusavano di essere delle spie”. Gli consegno 6mila<br />
dollari per pagare gli stipendi degli ultimi mesi degli operatori locali e tre<br />
stecche di sigarette. Gli do anche 3mila marchi che abbiamo raccolto tra la<br />
nostra delegazione per l’orfanotrofio Zmaj, con il quale l’Ics lavora da sei anni;<br />
ci sono bambini di tutte le etnie: croati, serbi, albanesi, rom. Gli do anche<br />
un enorme busta alta un metro piena di cioccolatini e caramelle per i<br />
bambini (me l’hanno regalata quelli della elementare romana Badini). Sorride<br />
meravigliato.<br />
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3 maggio<br />
Incontriamo Goran Matic, ministro jugoslavo “senza portafoglio”. Non possiamo<br />
andare in tutti. Siamo in otto. C’è Tom dell’Arci e Marina delle Acli.<br />
Alcuni ministeri sono distrutti, altri sono dei “target”. Perciò ci portano in<br />
un “club” – una sorta di residence ministeriale – che si trova nella zona delle<br />
ambasciate, dove abita anche Milosevic. Raggiungendo il “club” scorgiamo<br />
su un prato di un’elegante villa un cratere dove nella notte è caduto un<br />
missile. Il “club” sembra una vecchia colonia d’altri tempi. Si vede che il luogo<br />
è abbandonato: i fiori sui tavoli sono appassiti. Le stanze sono deserte.<br />
C’è molta polvere sulle poltroncine. È un incontro ufficiale a tutti gli effetti.<br />
La nostra delegazione è su un lato del tavolo; quella del ministro sul lato<br />
opposto. Il ministro è un giovane funzionario; è biondo e ha gli occhi trasparenti.<br />
Ha l’aria dimessa e triste, stanca, così sembra. Ma, quando inizia<br />
a parlare si dimostra un vero aparatcniki: fa mezzora buona di propaganda.<br />
Ha il piglio intransigente. Intervengo a nome della delegazione: condanno<br />
l’intervento della Nato, esprimo la solidarietà a tutte le vittime e dico pure<br />
“Bisogna dare una soluzione al problema del Kosovo; garantire un’autonomia<br />
e smilitarizzare l’area. La Nato deve porre fine ai bombardamenti e devono<br />
finire le azioni militari sul campo, dell’esercito e dell’Uck”. Non risponde.<br />
Interviene Tom: “Dovete prendere un’iniziativa politica, non potete più aspettare”.<br />
Matic non risponde. Tom, con la sua solita intelligenza politica, insiste:<br />
“Accettereste una forza armata internazionale di garanzia in Kosovo,<br />
senza i paesi che hanno partecipato all’azione militare?”. Matic non risponde.<br />
Poi alla fine si limita a dire: “L’Italia e la Grecia possono avere un ruolo<br />
importante per la pace”. È passata un’ora e mezza. Matic fa un cenno e portano<br />
da un’altra stanza un frammento inzaccherato di Tomahawk, un missile<br />
americano piombato sul ministero della Difesa a Belgrado: “Vedete? È<br />
del 1983. Questa guerra è combattuta anche con un altro fine: rinnovare<br />
l’arsenale militare”. Ce lo regala per portarlo in Italia e farlo vedere. Siamo<br />
imbarazzati, ma ce lo portiamo via. Poi se lo prende don Vitaliano per farlo<br />
vedere ai suoi fedeli. Mentre ce ne andiamo – siamo sul corridoio – mi<br />
rivolge una battuta: “Lo sa di che colore è lo Stealth?”. Rispondo che mi sembra<br />
nero. Matic ride: “No, di nessun colore, perché è invisibile”. Infatti è<br />
l’aereo fantasma-invisibile ai radar. Ride come un bambino.<br />
4 maggio<br />
Siamo pronti per partire per Pancevo (pochi chilometri da Belgrado, 130mila<br />
abitanti) dove andiamo a vedere cosa ha bombardato la Nato: per la precisione<br />
un petrolchimico e diversi impianti che contengono gas tossici. Ci<br />
sono stati molti morti, centinaia di feriti, migliaia di persone evacuate dai<br />
quartieri limitrofi. Un pericolo di catastrofe ecologica scampata per un pe-<br />
79
lo. Migliaia di operai non hanno più un lavoro. Il petrolchimico della città<br />
è deserto; ci aggiriamo tra gli isolati abbandonati in un ambiente spettrale.<br />
Non un custode, non un operaio. Lentamente, a passo d’uomo il nostro pullman<br />
passa a fianco di serbatoi bruciacchiati, capannoni anneriti, frammenti<br />
di metalli e di muratura in una strada desolata. 8.000 per la precisione<br />
sono le persone rimaste senza lavoro. Nella sede del comune di Pancevo – il<br />
mattino – ci hanno fatto vedere dei video strazianti di persone a brandelli:<br />
sono riprese fatte appena dopo i bombardamenti. All’incontro si affaccia anche<br />
Aleksandar Zograf. È di Pancevo, ha lo sguardo penetrante e intelligente;<br />
una cartella sotto il braccio. Ha disegnato fumetti straordinari (che rendono<br />
benissimo l’ottusità minacciosa del volto di Milosevic, mentre il bianco e<br />
nero delle sue strisce hanno un che di fuligginoso, di grigio, come la sua Pancevo<br />
in<strong>qui</strong>nata), usciti anche in Italia (“il manifesto” sta pubblicando un suo<br />
diario di guerra).<br />
Nessuno capisce come, ma a un certo punto sale sul pullman un prete<br />
ortodosso, si chiama padre Andreas. È un ragazzo alto e dinoccolato di 25-<br />
26 anni, occhi rutilanti, barba lunga ramata, una tonaca grezza e povera che<br />
sembra di stamigna, una specie di giovane Rasputin. Ha fatto qualche cenno<br />
all’autista? Si è messo in mezzo alla strada? Ha convinto qualcuno della<br />
nostra delegazione? Ci spiega allegramente in un italiano stentato, dalla cadenza<br />
teutonica, ma brioso, espressivo. È del patriarcato di Belgrado.<br />
Durante la mattina ha incontrato Bettazzi insieme a Pavle, il patriarca<br />
della chiesa serbo-ortodossa. Adesso capiamo come è salito. Padre Andreas<br />
è Nato in Germania, da padre serbo scappato quando ha vinto Tito<br />
nel 1945. “Mio padre era un anticomunista; ha fatto la resistenza con Mihailovic.<br />
E quando ha vinto Tito è dovuto emigrare”. Andreas parla, parla,<br />
è allegro. Racconta tante cose nel suo italiano stentato. Racconta<br />
anche lui storielle e barzellette. “Sapete? Quando Dio decise di fare gli<br />
stati, disse: non più di dieci. E li fece così: uno per gli stati uniti dell’est,<br />
un altro per gli stati uniti dell’ovest. E gli altri otto per la Jugoslavia”. Ci<br />
accompagna a vedere il suo monastero; alla periferia di Novi Sad. Escono<br />
gli altri monaci; tutti giovani e dalle barbe lunghe. Ci offrono delle grappe.<br />
Siamo in un giardino e la calma del luogo fa dimenticare di essere in<br />
guerra. Il capo dei monaci fa un discorso in cui condanna l’intervento<br />
della Nato e ricorda che questo e altri monasteri sono stati aperti dopo la<br />
caduta del comunismo. Bettazzi, che non ci sente bene, a un certo punto<br />
lo interrompe: “Perché ripete sempre D’Alema?”. Risponde il capo dei monaci:<br />
“ No, ho detto nema che significa, no, nessuno”. “Davvero? D’Alema<br />
significa nessuno?” chiede ancora Bettazzi. Tutti ridono.<br />
Andreas ci porta a vedere i tre ponti distrutti a Novi Sad. Ce n’è uno di<br />
particolare, sul Danubio. Dice il prete: “Qui ci venivano gli innamorati pri-<br />
80
ma di sposarsi. Si facevano solenni promesse”. Accanto al ponte distrutto degli<br />
innamorati, ci sono i basamenti di un altro ponte che non esiste più. “Anche<br />
questo distrutto dalla Nato?”, chiede qualcuno. “No – risponde Andreas<br />
– questo è stato distrutto dai nazisti, durante la seconda guerra mondiale”.<br />
Gli innamorati non ci sono più; nessuno sembra più farsi grandi promesse<br />
né tra sospiri, né romanticamente in barca: solo una fila di persone (donne,<br />
anziani, bambini) in attesa di una chiatta che li condurrà dall’altra parte del<br />
fiume. Prima di salutarci Padre Andreas ci trascina a vedere un altro ponte,<br />
sempre appena fuori Novi Sad. È un ponte enorme, un cavalcavia di un’autostrada.<br />
I missili della Nato l’hanno completamente buttato giù. Per arrivarci<br />
dobbiamo superare alcuni sbarramenti e barriere di legno sistemate<br />
dalla polizia. Il pullman arriva fino a un certo punto, troppo pericoloso<br />
proseguire, e non può andare oltre. Scendiamo tutti e ci avviciniamo guardinghi<br />
sull’autostrada deserta e surreale, nel silenzio della campagna rotto<br />
solo dal vento freddo che sibila. Padre Andreas, saltellando, ci invita: “Andiamo,<br />
andiamo”. Arriviamo sull’orlo del precipizio. Una montagna di macerie<br />
di asfalto, tondini, telai di acciaio, blocchi di cemento armato ingombra<br />
la valle, appena un centinaio di metri sotto. Alzo gli occhi: a 150 metri, dopo<br />
il vuoto, l’autostrada solitaria riprende il suo corso.<br />
13 maggio<br />
Dibattito con Stefano Benni a Bergamo. Ci sono 250, forse 300 persone. Si<br />
parla di guerra e di Missione Arcobaleno. Benni spiega al pubblico perché<br />
è meglio dare i soldi al volontariato indipendente che non alla Missione Arcobaleno.<br />
Poi prende in giro Veltroni e i Ds. Li invita a cambiare la bandiera<br />
del partito mutando lo slogan da: “Veniamo da lontano e andiamo lontano”<br />
in: “Che altro potevamo fare?”. Torniamo con Benni a Milano, a notte fonda,<br />
a bordo di una fuoristrada che mi ha consegnato Roberto Bertoli (del<br />
gruppo di solidarietà locale) perché il giorno dopo deve essere consegnato a<br />
Kacanj in Bosnia, dove è attivo da anni un progetto per il rientro dei profughi.<br />
In giornata ci ha chiamato ancora Paolo Landi, di Benetton che ci<br />
aiuterà. Altra ottima notizia: Goffredo Fofi ha trovato 40 milioni dal vecchio<br />
gruppo parlamentare della sinistra Indipendente, fermi su un conto<br />
corrente “dormiente”. L’ha contattato Ada Becchi, l’ultima capogruppo<br />
della sinistra indipendente e hanno pensato a Ics.<br />
18 maggio<br />
Riunione dell’esecutivo dell’Ics. Arriva la notizia della possibile approvazione<br />
di una mozione parlamentare della maggioranza dei parlamentari di centro-sinistra<br />
che chiede la sospensione dei bombardamenti. C’è un clima di<br />
euforia. C’è l’idea che questo sia il risultato anche della nostra mobilitazio-<br />
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ne. Tra poche settimane ci sono le elezioni europee; per chi dovremmo votare?<br />
Siamo assaliti dal rifiuto della politica e di questi partiti.<br />
19 maggio<br />
Parto con Anna Eva per l’Albania. Da molte settimane volevo muovermi per<br />
andare sul campo, sempre impedito da riunioni, scrittura di appelli e articoli,<br />
incontri istituzionali. Arrivo finalmente a Tirana volando su un piccolo<br />
aereo a 12 posti del Wfp (World Food Programme). L’aeroporto è in<br />
condizioni addirittura peggiori dell’ultima visita in Albania, un paio di anni<br />
fa. Un viavai di militari, operatori umanitari con tanto di fasce bianche:<br />
fuori dall’aeroporto sono assalito da bambini che, con dei cartoni in mano,<br />
ti vogliono vendere qualcosa e da altri che ti vogliono portare con un taxi in<br />
città. Già dall’aeroporto l’immagine è quella del racconto che mi hanno fatto<br />
i nostri operatori dal campo: un grande “circo” umanitario con Ong, agenzie<br />
internazionali, governi occidentali ad affannarsi a fare qualcosa di utile,<br />
a spendere i soldi, o a sperare di prenderli (diverse Ong) dalle agenzie internazionali<br />
e dai governi (e ora, dalla Missione Arcobaleno). Molti operatori<br />
di Ong e agenzie sono “griffati”: ciascuno con il proprio distintivo, con il<br />
giubbetto marchiato e il cappello stemmato. Anche la Nato, mentre bombarda<br />
si prende carico dei profughi […]. Monta tende, aiuta le Ong, muove<br />
autobotti per i campi. Sono anche <strong>qui</strong> all’aeroporto. C’è l’allegra brigata<br />
dei volontari della Protezione Civile-Missione Arcobaleno: tutti in divisa<br />
(come i militari), alcuni sono tronfi burocrati di prefetture e ministeri con<br />
tanto di rimborso a piè di lista e indennità di trasferta, altri sono giovani<br />
boy scout o di parrocchia molto volenterosi.<br />
Andiamo in ufficio. Una casetta a due piani, con sei, sette stanze, ingombre<br />
di computer, aiuti sparsi, qualche materassino e zaino appoggiato<br />
ai muri. Sulle pareti, cartine dell’Albania e del Kosovo, i luoghi dei nostri<br />
campi evidenziati. I telefoni non riescono a prendere la linea. Si prova e si<br />
riprova. Si usa anche il Cb per comunicare con i campi, ma non sempre si<br />
riesce. Ci sono persone che vanno e vengono: operatori, volontari, giornalisti,<br />
albanesi che ci danno una mano. C’è un apparente disordine, ma tutto<br />
sembra sotto controllo. In poche decine di minuti in cui mi fermo nell’ufficio<br />
arrivano le richieste più varie. Da Gomel chiedono cosa devono fare con la<br />
Arna (una macchina dell’Alfa Romeo) che ha di nuovo il carburatore rotto.<br />
Poi chiamano dal magazzino: “Che facciamo ne prendiamo uno nuovo, quello<br />
vecchio non basta più a contenere la roba?”. Chiama Vinicio Albanesi dalla<br />
Comunità di Capodarco. Ci aiutate a trovare un palco a Tirana, dobbiamo<br />
fare un concerto con dei gruppi giovanili? Arrivano dei cine-operatori,<br />
stanno facendo delle riprese nei nostri campi, per farne un documentario<br />
della Rai. Mi dicono che quando vanno nei campi chiedono ai nostri vo-<br />
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lontari di “interpretare la parte” per rendere più “vivide” le riprese (a Chiara<br />
hanno chiesto di riprenderla al momento della sveglia, quando va a lavarsi,<br />
la “giornata” della volontaria). Ne ridiamo.<br />
Si va al campo di Gomel, vicino Durazzo. Lo gestisce Chiara, da sola e<br />
con varie difficoltà, non ultima la diffidenza degli uomini del campo, restii<br />
a farsi “comandare” da una donna. Chiara è riuscita anche a far riunire le<br />
donne del campo, guardate a vista dai loro mariti e dai compagni che passeggiano<br />
intorno al cerchio di donne in riunione. Il campo è una specie di<br />
ex-albergo ristrutturato. Con difficoltà vengono organizzate anche attività<br />
di animazione. Il cibo è abbastanza razionato: ci sono delle tabelle con l’indicazione<br />
delle pietanze e delle quantità (e c’è il conteggio delle calorie per<br />
darne almeno 2200 al giorno). Dall’Acnur abbiamo pochi soldi da spendere<br />
(uno-due dollari al giorno per profugo), se non ci fossero gli aiuti dall’Italia<br />
e l’invio continuo di derrate non sapremmo come fare. Il campo è<br />
vicino alla spiaggia di Durazzo (si scorge, a qualche centinaio di metri una<br />
fila di pini, dietro ai quali c’è l’azzurro del mare), ma nessuno ci va. Solo i<br />
bambini sono allegri e giocano (e stanno sempre intorno a Chiara), mentre<br />
le donne hanno il loro da fare (riassettare le stanze, lavare la biancheria, cucinare<br />
qualcosa). Gli uomini vagano assenti; non hanno niente da fare e<br />
non si prestano, a causa della mentalità maschilista, alle attività quotidiane.<br />
Dal campo di Gomel andiamo al magazzino di Durazzo: un nostro volontario<br />
(si è preso l’aspettativa per venire fino a <strong>qui</strong>) che si chiama Martino<br />
(ha un accento del nord, il volto affaticato e la barba lunga: si arrampica sugli<br />
scatoloni mentre ci parla) gestisce il magazzino, sepolto da pacchi di pasta<br />
(che si accatastano sempre di più: gli albanesi ne hanno fin sopra i capelli)<br />
e da pacchi e pacchetti mal confezionati.<br />
20 maggio<br />
Insieme ad Andrea vado a prendere all’aeroporto di Tirana Giuliano Pisapia,<br />
che mi ha chiamato un paio di settimane per andare a fare il volontario<br />
in uno dei nostri campi. Lo manderemo a Rubik: un paesino del centronord<br />
dell’Albania di qualche migliaio di anime. A Rubik ospitiamo 4-500<br />
profughi. Pisapia non vuole che sia resa pubblica la sua presenza al campo<br />
e non vuole nemmeno incontrare i rappresentanti delle istituzioni albanesi.<br />
“Non sono venuto <strong>qui</strong> per fare incontri politici. La mia presenza è un fatto<br />
privato. Voglio solo fare il volontario in un campo”. Vuole andare subito e<br />
non ha interesse a fermarsi a Tirana. Ci mettiamo quasi tre ore per arrivare<br />
al campo: la strada è dissestata. Per fare 20 chilometri ci mettiamo un’ora.<br />
Incontriamo camioncini carichi di ogni tipo di merci, fuoristrada di organizzazioni<br />
umanitarie e internazionali. Ci guida Alì, l’autista dell’Ics, con<br />
una Mercedes sgangherata che impreca: “strada Berisha”. Di Berisha dice<br />
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tutto il male possibile: bestemmie e ogni tanto sputa di fuori quando lo nomina.<br />
Pisapia ride. A Rubik scopriamo che i profughi sono un migliaio, divisi<br />
tra il campo base, composto da alloggi che un tempo erano delle casermette<br />
per le forze armate albanesi e il convitto. Responsabile del campo è Marco<br />
Bruccoleri, già impegnato a Kakanj in Bosnia. Gli presento Pisapia; forse<br />
non ha ben presente chi sia e lo confina in una stanzetta disadorna. Marco<br />
ha già preso in mano la situazione del campo. Ci sono però pochi materassi.<br />
Molti profughi dormono per terra. “Non ho un cellulare, né una macchina.<br />
Se succede qualcosa di notte, non so come fare”. Ne avevamo parlato<br />
anche a Roma. I nostri campi profughi mancano delle cose essenziali: macchine,<br />
telefoni, materassini. È una situazione difficilmente sostenibile a<br />
lungo. Andrea avverte Marco: “Dopodomani ti arrivano cinque tir da Predappio.<br />
Sono delle Anpas, i volontari della Croce Rossa e del Comune”.<br />
Marco imperturbabile sorride ironico: “Speriamo non portino altra pasta.<br />
Se no non sappiamo dove metterla”. Ovunque lo stesso problema: tonnellate<br />
di pasta che non riusciamo a smaltire. Nei magazzini siamo pieni di<br />
vermicelli, fusilli, rigatoni. I kosovari preferiscono le zuppe di legumi e verdure.<br />
Dopo avergli dato pasta per 3-4 giorni di seguito, molti si sono rifiutati<br />
di continuare a mangiarla. Nel campo, c’è chi preferisce dormire sul<br />
camioncino o sul trattore con il quale è scappato dal proprio villaggio. Ci<br />
sarebbero anche i posti (per terra), ma molti preferiscono non allontanarsi<br />
dai propri mezzi di trasporti e dai beni che si sono portati con sé. Nel cassone<br />
di un camion – simile ai nostri lupetti degli anni ’60 – conto 8 persone:<br />
una donna anziana con i capelli raccolti in una crocchia informe mi<br />
guarda con un’espressione vuota, in attesa, mentre due bambini che le sono<br />
vicini si tengono per mano. Stanno per addormentarsi. Gli uomini, invece<br />
anche <strong>qui</strong> si aggirano per il campo, vagano silenziosi, mentre le donne più<br />
giovani lavano i vestiti e accudiscono i figli. Ci sono anche dei volontari, dall’accento<br />
inconfondibile padano. Una ragazza ha attorno a sé uno stuolo di<br />
ragazzini. Ci saluta velocemente: “Sì, li faccio disegnare, facciamo dei giochi<br />
e con una corda ho anche improvvisato una rete di pallavolo”. Pisapia si<br />
guarda intorno; vorrebbe già rendersi utile, e chiede cosa fare a Marco, che<br />
non ha tempo, ha il suo da farsi per seguire le emergenze del campo.<br />
21 maggio<br />
Torno al campo di Chiara, a Golem, dove ci sono ottocento profughi. È in<br />
un bel posto, su un poggio. Domina la vallata sottostante e il mare azzurro<br />
della costa di Durazzo. Il dormitorio è a ferro di cavallo: con al centro un<br />
piazzale delimitato da alti pini marittimi che si stagliano sull’azzurro del cielo<br />
e del mare. Entriamo nelle stanze, in cui vivono i profughi. In una di queste<br />
c’è una donna con un neonato tra le braccia: “Le ha dato nome Chiara...”,<br />
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ci dice. “Invece al primo nato gli hanno dato il nome Golem”, aggiunge Chiara.<br />
“Il problema più delicato che abbiamo <strong>qui</strong> è l’acqua; ce l’abbiamo duetre<br />
ore al giorno. Ma è così per tutta l’area di Durazzo e di Kavaja. Forse ce<br />
la tolgono del tutto e bisognerà provvedere con delle autobotti”. Una soluzione<br />
c’è, chiedere aiuto al campo di Kavaja, della Missione Arcobaleno.<br />
Andiamo allora a Kavaja, a quattro chilometri da Golem. Al campo<br />
della Missione Arcobaleno ci sono 5600 profughi. Dopo aver visitato i nostri<br />
campi (dove ci sono uno/due operatori e tre/quattro volontari, a malapena<br />
una macchina e un telefonino per campo; tutto il resto è auto-organizzato<br />
dai profughi) andare a un campo della Missione Arcobaleno” fa una certa<br />
impressione. Ad esempio nel campo di Kavajia ci sono centinaia di volontari<br />
in divisa e tuta mimetica, ognuno con il proprio walkie-talkie e cartellino<br />
di riconoscimento, decine di mezzi (macchine, jeep, ruspe, autobotti,<br />
ecc), tende e tendoni per attività collaterali. Il campo è un cantiere iperattrezzato<br />
e molto tecnologico. I volontari hanno persino distrutto alcuni bunker<br />
(che in Albania abbondano in ogni dove a migliaia ) per farne le basi di<br />
alcuni barbecue, fatti con grate di tondini di ferro. È un’impressione; ma <strong>qui</strong><br />
i profughi sembrano più tristi di quelli dei nostri “poveri” campi. Più inquadrati,<br />
meno attivi e protagonisti, “assistiti” ogni cinque minuti dai volontari.<br />
A parte il caldo delle tende, tutto è molto più organizzato, ma<br />
anche più anonimo ed eterodiretto, più forzato. I volontari dormono in albergo.<br />
Qualcuno ha anche un rimborso spese dalla propria azienda (municipalizzata,<br />
eccetera). Li vedi aggirarsi per il campo: molti a vuoto, si inventano<br />
cose da fare, cercano profughi da soccorrere. I profughi quando vedono un<br />
medico italiano del campo, fuggono per non farsi fare l’ennesima e inutile<br />
visita giornaliera. Noi, nei nostri campi, nei primi giorni, non avevamo molta<br />
roba da mangiare e, ancora, in alcuni di questi non abbiamo letti e materassi.<br />
Qui, a Kavaja, sembra tutto facile. Parliamo con Piero Moscardini,<br />
romano verace, che è il capo-campo. Sembra una “spalla” di Alberto Sordi<br />
in una commedia all’italiana. È un funzionario della protezione civile. Gioca<br />
ad alternarsi con i volontari burbero e bonario, inflessibile e comprensivo.<br />
È inspiegabilmente gentile con noi e poi ci porta anche a vedere il campo.<br />
Ma lo sa che abbiamo criticato aspramente in Italia la Missione Arcobaleno?<br />
A un certo punto nella tenda dove stiamo discutendo con Moscardini<br />
entra il medico del campo: “Senti Piero, <strong>qui</strong> si avvicina il caldo e ho paura<br />
che possano scoppiare delle epidemie. Forse sarebbe il caso di dare, almeno<br />
ai bambini, una spremuta di arance. Come prevenzione...”. Risponde Moscardini.<br />
“Che te serve?”. “Mah – ribatte il medico – facendo i conti, almeno<br />
due arance al giorno a testa, fa più o meno: 3.500-4.000 arance al giorno”.<br />
Risponde Moscardini: “Compra. Te faccio subito l’autorizzazione. Poi?”. Ancora<br />
il medico: “un paio di spremiagrumi”. Risponde Moscardini “e quan-<br />
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do affitti? Almeno sei. Compra. Te faccio l’ordine...”. L’impiego di mezzi,<br />
risorse e volontari è veramente impressionante. Non è esagerato dire che in<br />
Albania ci siano i campi profughi di serie A (Arcobaleno) e di serie B ( tutti<br />
gli altri). A Scutari c’è stata anche una mezza rivolta degli albanesi contro<br />
i kosovari, cui veniva dato il pane, naturalmente gratis. Lo volevano pure gli<br />
albanesi, disoccupati e affamati. Hanno cosi assaltato il camion che portava<br />
il pane al campo.<br />
Nel pomeriggio arriva la Ministra Turco a visitare i nostri campi. La mandiamo<br />
al dormitorio di Golem. Arrivano una <strong>qui</strong>ndicina di macchine. Ci sono<br />
una cinquantina tra funzionari, giornalisti e ministeriali vari. Ci sono anche<br />
un paio di telecamere. I profughi osservano silenziosi e immobili dalle balaustre<br />
delle terrazze del campo, come fosse la scena di un film. I bambini smettono<br />
di giocare e seguono il codazzo ministeriale. La Ministra chiede a Chiara<br />
informazioni sul campo, abbozza una visita nella struttura, ma si ferma prima<br />
di addentrarsi all’interno delle stanze. Chiara non si fa condizionare e ogni<br />
tanto si distrae dalle sue domande per dare retta e rispondere ai bambini che<br />
le si stringono attorno e a cui dà uguale importanza (grande successo di Chiara<br />
tra i bambini del campo). Dopo 13 minuti (ho cronometrato il tempo),<br />
si riaprono le portiere delle macchine e di corsa vanno tutti (Ministra, scorta,<br />
assistenti, segretarie, politici locali, eccetera) all’aeroporto di Tirana, dove<br />
c’è l’aereo della Presidenza del Consiglio che li aspetta.<br />
22 maggio<br />
Dopo una visita al nostro campo di Burrell (1600 profughi, dove c’è Marco<br />
Donati come responsabile) la sera ritorno a Rubik, dove lascio Federico e Raffaella<br />
al campo. Di nuovo incontro Pisapia, perfettamente integrato e felice<br />
del suo lavoro <strong>qui</strong>, ma questa volta ha un look diverso: ha la barba lunga e i<br />
vestiti inzaccherati, i mocassini da buttare. E forse anche la giacca di lino.<br />
23 maggio<br />
Dall’Albania arrivo in Macedonia, sempre a bordo degli aeroplanini di World<br />
Food Program, che sembrano gracili. Siamo una decina di persone (di più<br />
non ne porta), quasi tutti funzionari delle Nazioni Unite a 15-20 milioni al<br />
mese di stipendio. C’è un’americana che non fa che parlare con una sua collega<br />
del college migliore dove mandare la figlia una volta finite le scuole; poi<br />
passa al suo cottage che si trova in un non-so-quale parco parlando di un<br />
tecnologico sistema di riscaldamento; infine parla delle sue vacanze (un mese<br />
in Belize) e delle spiagge tropicali. Dopo qualche giorno di Albania (che<br />
ha l’aspetto di un paese uscito da una guerra di dieci anni) la Macedonia fa<br />
l’effetto di trovarsi in Svizzera. È un bel paese: verde, rigoglioso e dai paesaggi<br />
che ispirano serenità e anche un certo benessere (ma forse esagero: ho<br />
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ancora in mente il disastro dell’Albania. Il pensiero che viene spontaneo è<br />
questo: ecco, così era la Jugoslavia dieci anni fa, prima della guerra. Un paese<br />
tutto sommato sereno e con maggior benessere rispetto agli altri paesi dell’est.<br />
Poi è arrivato il nazionalismo, la lotta per il potere, il ritorno criminale<br />
della contrapposizione etnica. Tutto intorno ci sono distruzioni, devastazioni,<br />
povertà. In Macedonia c’è un relativo benessere: le strade sono pulite<br />
e ordinate. Skopije fa l’impressione di una bella città tran<strong>qui</strong>lla e sonnacchiosa.<br />
Qui, finora, sono riusciti a evitare la guerra. Andiamo (in macchina con Alessandro<br />
Pieroni, che coordina la missione Ics in Macedonia e Anna Eva, responsabile<br />
delle relazioni esterne e della comunicazione nell’Ics) al confine<br />
tra la Macedonia e il Kosovo: siamo al campo di Blace, di cui nelle scorse<br />
settimane si è tanto parlato per via delle 30-40mila persone che lo affollavano<br />
in condizioni disumane. Il silenzio è assoluto, surreale, come in chiesa;<br />
lo si percepisce, lo si ascolta. Il ronzio delle cineprese e dei registratori,<br />
gli scatti delle macchine fotografiche sono il sottofondo minaccioso di un’attesa<br />
sospesa di eventi da carpire. A un centinaio di metri dal confine, ci sono<br />
una quarantina di fotografi con giganteschi zoom che sembrano cannoni,<br />
cameraman da tutto il mondo in una babele di lingue diverse: inglese, francese,<br />
spagnolo, portoghese, slavo, italiano. Sono in attesa dell’arrivo dei<br />
profughi dall’altra parte, magari nella speranza di qualche scena drammatica:<br />
profughi a piedi, sui cavalli, donne e bambini piangenti. Qualche settimana<br />
fa una macchina è scoppiata su una mina, prima di attraversare il<br />
confine. Fotografi e cameraman sono stati accontentati: lavoro e voyeurismo<br />
di guerra ben miscelati. Di corsa dall’altra parte del confine arrivano degli<br />
uomini saltellanti con una barella fatta di due assi metallici e un telo sbrindellato.<br />
Sopra c’è sdraiata una donna anziana: è una contadina, ha le rughe<br />
profonde sul viso e un fazzoletto che le raccoglie i capelli. È accovacciata<br />
sulla barella e ha gli occhi socchiusi e gonfi. Non sta dormendo: sa di avere<br />
su di lei macchine fotografiche e cineprese e non vorrebbe mostrarsi. Fa una<br />
smorfia come per trattenere il pianto. Due cameraman con una spinta mi<br />
fanno da parte. Finite le riprese si presenta un giornalista del Tg 2: “Sono<br />
<strong>qui</strong> da 20 giorni. Avete qualche cosa interessante da far vedere nei vostri campi?”.<br />
Con me c’è Alessandro che lo tratta un po’ sbrigativamente. Ne sono<br />
sorpreso, anche Anna Eva lo guarda con preoccupazione: tutti noi siamo<br />
sempre molto disponibili (qualche volta servili?) con i giornalisti nella speranza<br />
di una citazione, un articolo, un servizio. Alessandro lo tratta alla pari,<br />
anzi sembra volergli fare capire che abbiamo cose ben più importanti da<br />
fare che dedicargli qualche ora di tempo per un servizio “di colore” di tre<br />
minuti in televisione. Gli fa la descrizione delle nostre attività, ma non gli<br />
dà soddisfazione: “Vieni quando vuoi, ci trovi là”. Alla fine Alessandro gli<br />
dà il suo numero di telefono, ma sbagliato.<br />
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Nel campo di Blace sono ospitate 5-6mila persone; la situazione è drammatica.<br />
I soldati macedoni non vogliono farci entrare, ma poi riusciamo a<br />
convincerli. Alessandro incontra un suo conoscente di Pristina. Si riconoscono<br />
e si abbracciano. È scappato la notte prima, l’hanno portato alla stazione<br />
dei pullman da dove li hanno caricati. Hanno lasciato tutto lì. Si sono<br />
portati l’indispensabile: qualche vestito, i pochi averi, delle pentole per cucinare.<br />
Le donne sono sedute vicino alle tende. Alcune fanno con calma dei<br />
primi lavori: risciacquano delle magliette, lavano delle scodelle. I bambini<br />
non giocano. Gli uomini si aggirano per il campo in cerca di una notizia, di<br />
una conferma, di qualcuno che possa aiutarli. Le varie Ong internazionali<br />
si sono divise il lavoro: chi fa l’ambulatorio, chi la mensa, chi i servizi. I militari,<br />
dopo aver montato le tende, guardano o sono sulle ruspe e i muletti<br />
meccanici a smuovere terra o a portare pacchi.<br />
Ci muoviamo dopo un paio di ore da Blace e andiamo al campo di Stenkovac,<br />
che è lì vicino, a pochi chilometri sulla strada che porta a Skopije. Il<br />
campo è gestito dalla Nato con l’Acnur. È una spianata immensa: centinaia<br />
di tende piantate sulla pista di un vecchio aeroporto. Il clima è completamente<br />
diverso. Sembra un immenso villaggio, uno strapaese balcanico. Ci<br />
sono baracche all’interno dove si vendono sigarette, caramelle, si fanno caffè.<br />
I militari delle Nato e i funzionari delle Nazioni Unite hanno autorizzato<br />
l’apertura di piccoli negozi e c’è un via vai di uomini, attrezzi, macchine,<br />
biciclette. Il campo è spazioso: tra una tenda e l’altra c’è sufficiente distanza.<br />
Non c’è l’ammasso di altre tendopoli. Il campo è diviso in settori: ciascuno<br />
è subappaltato ad altrettante organizzazioni non governative internazionali.<br />
Sciami di persone ci vengono incontro.<br />
Ci dirigiamo verso un punto dove trasmettono con un mixer dell’assordante<br />
musica da discoteca. Vediamo delle bandiere israeliane. Sono<br />
quelle di una organizzazione umanitaria di Tel Aviv che gestisce una sorta<br />
di villaggio di teenager e parco giochi per bambini. Dentro c’è proprio<br />
una discoteca: volontari che ballano con i profughi. In ogni angolo di<br />
questo “parco giochi” ci sono animatori che organizzano esibizioni, giochi<br />
a premi, lotterie. Gli animatori hanno tutti la faccia incredibilmente<br />
sorridente e gioiosa, un po’ forzata, esagerata come quella degli animatori<br />
dei villaggi Valtur. I bambini e i ragazzi profughi in effetti si divertono<br />
tanto: saranno due-trecento.<br />
E gli altri? Uscendo da lì ne vediamo tanti con umore diverso: chi<br />
s’aggira con le mani in tasca, chi consola i propri vecchi, chi è steso sulla<br />
stuoia a fissare il vuoto o ha l’orecchio incollato a una radiolina che dà<br />
le notizie. Anche da <strong>qui</strong> i soldati macedoni, i profughi non li fanno uscire;<br />
solo quando troveranno un posto in Europa.<br />
88
24 maggio<br />
Finalmente vado – sempre insieme ad Alessandro e ad Anna Eva – a visitare<br />
il campo di Senokos, dove l’Ics svolge delle attività di animazione per i bambini.<br />
Ci sono 6-7mila persone. Le condizioni <strong>qui</strong> sono terribili: le tende sono<br />
ammassate l’una sull’altra. I servizi igienici sono insufficienti, i bagni sono delle<br />
buche in gabbiotti appena tirati su. Ogni tanto arriva un trattore e con un<br />
tubo aspirante porta fuori dalle fosse la merda. Il lezzo è insopportabile. I bambini<br />
piccoli vanno, a piedi nudi, a fare i loro bisogni in questi bagni dalle buche<br />
enormi. Giocano in mezzo al fango. È pieno di mosche. Tra un po’ <strong>qui</strong><br />
farà caldo e le malattie saranno inevitabili.<br />
Nelle tende ci sono dieci-dodici gradi in più. E siamo a ventisei-ventisette<br />
gradi all’ombra. Anche <strong>qui</strong> i profughi dal campo non vengono fatti uscire.<br />
Sono dei reclusi. Alessandro mi dice che una delle prossime iniziative sarà con<br />
gli anziani del campo: li porteranno a fare una passeggiata nel bosco adiacente<br />
e a fare una “merenda”, una sorta di scampagnata. Nutro qualche dubbio;<br />
molti di loro hanno fatto decine di chilometri a piedi per scappare dai serbi,<br />
e noi li portiamo a fare una passeggiata? Mi sbaglio. L’iniziativa ha una grande<br />
successo: uscire dalla prigione del campo e respirare dell’aria buona tra gli<br />
alberi (e anche mangiare qualcosa di diverso dalla solita razione) sono buoni<br />
motivi per iscriversi all’iniziativa.<br />
Devo dire che Alessandro – che pure è un po’ ansioso: si preoccupa sempre<br />
eccessivamente di tutto – ci sa fare: ha un buon rapporto con gli operatori<br />
e stabilisce un rapporto diretto con tutti, è sempre sorridente, infonde fiducia<br />
e sicurezza: bambini e profughi, come ai funzionari delle Nazioni Unite.<br />
25 maggio<br />
In ufficio a Skopije sono oggi al lavoro quasi tutti. Ci sono quattro impiegati<br />
locali. Sono tutti molto bravi. C’è Guglielmo, che segue le attività di<br />
animazione – è un napoletano che vive a Milano, lavora nel teatro, s’è<br />
preso un’aspettativa fino alla fine dell’anno – ed è molto bravo; si inventa<br />
sempre nuovi giochi e attività da fare. È molto attivo con i bambini e<br />
ha molta fantasia.<br />
È arrivata oggi anche Susanna, che è la ragazza di Maurizio (che adesso<br />
sta con noi a Podgorica, in Montenegro), si occuperà di contabilità. Anna<br />
Eva e Alessandro lavorano alla stesura della continuazione del programma<br />
dei campi: parlano di cose da fare, di tempi da rispettare, di soldi da richiedere.<br />
L’Acnur è in ritardo sui pagamenti.<br />
6 giugno<br />
La trattativa per porre fine alla guerra avanza. Alla cessazione dei bombardamenti<br />
della Nato, inizierebbe il ritiro delle forze armate serbe in 48-72 ore.<br />
89
La Russia fa resistenza sull’ipotesi che a guidare la forza multinazionale sul<br />
campo sia la Nato.<br />
Manifestazione ad Aviano in Friuli, da dove partono i caccia della Nato per<br />
bombardare la Serbia. La tensione è alle stelle: si temoni incidenti. Le conseguenze<br />
dell’assassinio di D’Antona si fanno ancora sentire: c’è aria di una<br />
nuova caccia alle streghe. Non tutti si fidano di quello che possono combinare<br />
i centri sociali: tenteranno di entrare nella base, di scavalcare le reti?<br />
Per arrivare nel paese, bisogna fare dei complicati giri. Dei posti di blocco<br />
di carabinieri impediscono di costeggiare il perimetro della base. I bar di<br />
Aviano stanno abbassando le saracinesche. In passato più volte ci sono stati<br />
incidenti in paese. Dopo un panino nell’unico bar trovato aperto, facciamo<br />
una riunione sotto un tiglio. I Cobas non vogliono stare in fondo<br />
al corteo. Verranno con caschi e bastoni, ma non li utilizzeranno se non<br />
per difendersi dalla polizia: mi sembra di essere tornato indietro di vent’<br />
anni. Si fronteggiano a muso duro (e volano parole grosse) con Vilma e<br />
Casarini di Padova. I centri sociali duri (Firenze, Torino, Napoli) accusano<br />
più o meno Vilma e Casarini di essere filogovernativi e revisionisti, mentre<br />
i centri sociali del nord-est stigmatizzano questi “duri e puri” come<br />
“residuati”. Parte con difficoltà il corteo: prima le associazioni, poi i centri<br />
sociali del nord-est, poi Rifondazione. Alla fine, gli autonomi. Molta<br />
tensione, ma fortunatamente non succede niente. I militanti dei centri<br />
sociali del nord-est si comportano bene, evitano provocazioni e non fanno<br />
niente che non fosse già stato concordato tra di noi. Migliaia di poliziotti<br />
e carabinieri difendono il perimetro della base. All’interno ci sono<br />
altre forze schierate: poliziotti (o anche americani?). In effetti gli aerei per<br />
due ore non volano. C’è chi la rivendica come una “grande vittoria politica”,<br />
giudizio eclatante, che lascia il tempo che trova. Finita la manifestazione<br />
gli aerei riprendono a volare. La guerra però sta finendo, i serbi hanno<br />
già dichiarato di voler accettare le condizioni della pace.<br />
9 giugno<br />
Ieri riunione del G8 a Colonia. I ministri degli Esteri del G8 mettono a punto<br />
il testo di una risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.<br />
La pace arriva. Sono in ufficio. Anna Eva ha parlato con l’Acnur. Dice che<br />
quando rientreranno in Kosovo ci daranno la leadership della gestione di<br />
tutte le attività con i bambini e gli anziani nei centri dove sono ospitati i<br />
rifugiati. Ci aspetta un lavoro tremendo. Bisogna prevedere di mandare altre<br />
persone anche in Macedonia. Mi chiama Bruno dall’Albania: “L’Acnur<br />
ci vuole affidare altri cinque campi, e <strong>qui</strong> i coordinatori sono stanchi,<br />
bisogna prevedere un ricambio. Ci sono problemi al campo di Golem. Il<br />
Sindaco ha avuto molti screzi con Carlo, che sta coordinando il dormito-<br />
90
io. L’hanno anche minacciato. Che facciamo?”. La sera – dopo due mesi<br />
e mezzo – vado al cinema con Paolo e Maria Silvia. Sono le dieci di sera,<br />
prima di entrare allo spettacolo. Anna Eva chiama Paolo: “Hanno fatto<br />
la pace, hanno annunciato la sospensione dei bombardamenti”. Dopo<br />
il film sento i messaggi sulla segreteria del telefonino cellulare. C’è quello<br />
di Raffaella, e quello di Vilma: “Un abbraccio da Padova. È finita!”.<br />
91
Iraq. La guerra infinita<br />
Bagdad, febbraio 2003<br />
La preparazione è stata tortuosa: vari incontri al consolato iracheno a chiacchierare<br />
con il console per cercare di convincerlo a concederci il visto: si tratta di<br />
una procedura complessa, lunga e non è detto che vada a buon fine. I collo<strong>qui</strong><br />
con il console sono anomali: ti fa accomodare su una poltroncina, ti offre gentilmente<br />
un caffè, si parla per un’ora della situazione internazionale e di quello<br />
che dicono e pensano i politici italiani sull’Iraq (ovviamente la prudenza regna<br />
sovrana e le parole misurate e controllate al millimetro). Solo negli ultimi due<br />
minuti si parla in modo piuttosto sbrigativo delle procedure per il visto. “Faremo<br />
quello che è possibile, è difficile, sa... la situazione complessa...”. Da soli<br />
è praticamente impossibile andare in Iraq. Aggregandosi ai viaggi di Un ponte<br />
per... c’è qualche speranza.<br />
Il visto comunque arriva, due giorni prima della partenza. Ho dovuto<br />
rifare il passaporto perché sopra c’era il visto israeliano. Di Iraq so poco.<br />
Fino a oggi ho frequentato soprattutto Balcani e Palestina. Le differenze sono<br />
sostanziali, ma una è quella che mi pesa di più. Fino a oggi – dove sono<br />
andato in missione umanitaria – è sempre stato possibile avere rapporti<br />
con gruppi di “società civile” e parlare con l’opposizione; <strong>qui</strong> in Iraq siamo<br />
in presenza di un regime, una dittatura, e l’unico interlocutore è il governo<br />
di Saddam Hussein. Il dubbio, allora, ci prende: è possibile fare azione<br />
umanitaria sotto una dittatura? È possibile aiutare i bambini negli ospedali<br />
consegnandosi nello stesso tempo al silenzio di fronte ai massacratori dei<br />
curdi? È possibile fare qualcosa per alcuni che soffrono, sapendo che il prezzo<br />
da pagare è quello di disinteressarti ad un’altra categoria di vittime? È<br />
certo: se parli male di Saddam Hussein vieni ricacciato indietro e <strong>qui</strong> non<br />
ci torni più. Ognuno ha le sue soluzioni: ad esempio quando Medici senza<br />
frontiere ha scoperto di essere utilizzata in Burundi come paravento per<br />
la creazione –attraverso la pulizia etnica – di nuovi campi profughi (fonte<br />
di aiuti internazionali per la dittatura), ha lasciato tutto (anche i malati che<br />
stava curando) e se ne è tornata a casa. L’aiuto umanitario senza i diritti<br />
umani (senza la denuncia della loro violazione) è possibile? E a quale prezzo?<br />
È questo il “dilemma umanitario” in cui molti si trovano, senza trovare<br />
una definitiva risposta. Ne parlo al ritorno del viaggio con David Rieff,<br />
figlio di Susan Sontag, e autore di un bel saggio Un giaciglio per la notte, in<br />
cui mette sotto tiro le ambiguità dell’azione umanitaria: “L’azione umanitaria<br />
– mi dice – è talvolta solo un alibi per la carenza dell’iniziativa politica.<br />
Si mandano aiuti perché non si fa quello che si dovrebbe fare per rimuovere<br />
le cause delle emergenze e dei conflitti. E i diritti umani vengono sacrificati<br />
sull’altare di questo alibi che serve solo alla politica”.<br />
92
Quando parto per Bagdad (è il 12 febbraio del 2003), il mio libro per<br />
Feltrinelli: Le ambiguità degli aiuti umanitari è uscito da cinque mesi: metà<br />
della comunità delle Ong mi ha tolto la parola, il direttore di una rivista non<br />
profit mi ha scritto una lettera di quattro pagine accusandomi di essere vanitoso,<br />
arrivista, ambizioso. Un’ importante dirigente dell’Associazione delle<br />
Ong mi lancia messaggi di tipo mafioso: “Guarda, smettila, altrimenti dico<br />
tutte le cose che so di Ics”. Che sa? Cerco di farmelo dire. “Non insistere, altrimenti<br />
finite male”. Avvertimenti paramafiosi. Un ex funzionario delle Nazioni<br />
Unite, che ora fa il volontario con Ics, rompe i rapporti e mi dice che<br />
sono diseducativo verso i giovani. In effetti sono stato impietoso verso i funzionari<br />
delle Nazioni Unite. Ma sono più diseducativi loro con i loro stipendi,<br />
i loro privilegi, il loro arrivismo. Da qualche mese il mondo umanitario<br />
è attraversato da una fibrillazione continua: si sente messo in discussione, i<br />
panni sporchi vengono lavati all’aperto e ci sono degli “infiltrati” che rompono<br />
l’omertà corporativa della “categoria” di quegli operatori umanitari piegati<br />
o al business dell’aiuto o alla logica della guerra umanitaria.<br />
Al posto di blocco tra la Giordania e l’Iraq, il controllo dei passaporti e<br />
della dogana è quello solito dei regimi dittatoriali o in guerra: lunghe attese,<br />
controlli minuziosi, trafile burocratiche senza senso, tra timbri, moduli da<br />
riempire, registri da compilare, visti da ricopiare. Inclusi gli sguardi accigliati<br />
e per niente socievoli dei funzionari e dei soldati su cui incombono – in<br />
stanze disadorne e sciatte come tutte quelle dei posti di frontiera – vari ritratti<br />
di Saddam raffigurato in tutti i modi: solenne e sportivo, cacciatore e animatore<br />
di bambini, sorridente e severo, eccetera. Siamo nel mezzo della<br />
notte – infreddoliti nella landa desertica che separa i due paesi – e dobbiamo<br />
aspettare l’alba – quando riaprirà la frontiera – per poter passare. Il viaggio è<br />
stato sino a ora lungo (quattro ore di aereo e un paio di macchina) e lo sarà<br />
ancora molto (altre otto ore di viaggio in mezzo al deserto). Aerei da Amman<br />
a Bagdad – da tempo – non ce ne sono più, ormai. È l’embargo.<br />
Superiamo finalmente la frontiera. Siamo in Iraq. Attraverso una lunga<br />
autostrada corriamo per sei-sette ore incontrando al massimo una decina di<br />
macchine. Di militari iracheni, nessuna traccia. Bagdad è città ordinata, ritratti<br />
di Saddam sui palazzi e pochi soldati per le strade. Siamo in un grande<br />
e vecchio albergo statale mal messo. Il nostro gruppo – una quarantina<br />
di persone – si riunisce per organizzare le iniziative progettate: incontri e visite,<br />
fino a una manifestazione per la pace – il 15 febbraio – in contemporanea<br />
a quelle che si svolgono in tutto il mondo (e a Roma) contro l’intervento<br />
militare in Iraq. Mi svincolo un po’ dal gruppo per seguire un mio personale<br />
programma di appuntamenti e visite.<br />
Il primo che chiamo – dopo numerose telefonate improvvisamente interrotte:<br />
ovviamente il numero è sotto controllo – è David Bellamy, il re-<br />
93
sponsabile dell’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)<br />
a Bagdad. Non lo conosco, ma è affabile e mi invita subito ad andarlo<br />
a trovare. Mi accoglie nella sua sede, tutto sommato semplice e sobria.<br />
Ha i baffi, è alto e sembra un attore di soap della Bbc: una specie di Peter<br />
Sellers meno trasandato. Chiacchieriamo della situazione in Iraq, è giovale<br />
e mi invita a cena per l’indomani. Scopro dopo pochi minuti di conoscenza<br />
la ragione di questa affabilità. A Bagdad è solo: le Nazioni Unite hanno<br />
fatto sloggiare la sua famiglia e anche di funzionari internazionali ne sono<br />
rimasti pochi. Un po’ il cameratismo tra operatori umanitari (governativi e<br />
non), un po’ la solitudine, un po’ la rarità delle visite degli occidentali fanno<br />
di Bellamy un interlocutore disponibile. Parla molto, mi spiega molte cose<br />
dell’Iraq. Ascolto, imparo. È la mia prima volta. Quando siamo nella<br />
sede delle Nazioni Unite, non nomina mai Saddam Hussein, ma si passa la<br />
mano sui baffi per farmi capire che sta parlando di lui. Anche la sede delle<br />
Nazioni Unite è infestata di microfoni del regime. Ha un modo tutto suo<br />
di farsi volere bene dagli iracheni: stringe la mano a tutti in modo particolare,<br />
non caloroso, ma con grande rispetto e dignità. Ogni stretta di mano<br />
sembra un evento importante. Stringe la mano all’autista che ci porta al ristorante,<br />
al cameriere che ci accoglie sulla porta, all’edicolante quando<br />
compra il giornale, al venditore di quadri nella galleria d’arte, al giardiniere<br />
che annaffia le piante di casa. Per ognuno ha un sorriso e un saluto dignitoso.<br />
La sua casa, una grande villa da diplomatici, nel quartiere residenziale<br />
di Mansur è vuota, triste e un po’ angosciante. Ha due piani e una scala<br />
paraboloide che sembra quella delle ville old fashioned del profondo sud degli<br />
Stati Uniti. Seguiamo insieme al notiziario della Cnn il servizio su una<br />
seduta del consiglio di sicurezza in cui si parla di Iraq. Spiega le dinamiche,<br />
i contrasti e le alleanze nelle Nazioni Unite. È a un anno dalla pensione:<br />
racconta dei paesi che ha girato, delle missioni che ha avuto. È comprensivo<br />
verso gli iracheni e critica – in modo diplomatico, ovviamente – gli americani<br />
per l’atteggiamento arrogante e aggressivo verso il paese. Non riesce<br />
a capire le ragioni di questo comportamento. Poi passiamo agli argomenti<br />
di carattere umanitario e al ruolo dell’agenzia delle Nazioni Unite: “Delle<br />
agenzie internazionali l’Unhcr è quello che ha il ruolo minore. Attualmente<br />
l’agenzia ha il mandato sui profughi stranieri residenti in Iraq (iraniani,<br />
curdi-turchi, palestinesi), in sostanza circa 30mila profughi e lavora direttamente<br />
con il governo (che è molto generoso con i profughi) e prioritariamente<br />
con le organizzazioni locali”. Mi racconta che hanno un budget<br />
modestissimo, un milione di dollari. In caso di emergenza umanitaria non<br />
avranno mandato sull’assistenza agli sfollati interni (sarà delle altre agenzie,<br />
in particolare di Unochi, l’agenzia umanitaria dell’Onu per l’Iraq), ne prevedono<br />
600mila (al massimo faranno solo la protection) mentre il grosso dei<br />
94
ifugiati previsti (800mila) secondo loro andrà in Iran e in Siria; la Giordania<br />
ha annunciato di chiudere le frontiere. Racconta tutto ciò a cena in ristorante<br />
con una bottiglia di vino che ci siamo portati da casa e che sta sotto<br />
il tavolo avvolta in un foglio di giornale (per rispetto verso i costumi religiosi<br />
locali) accanto a un sacchetto di carta con centinaia di biglietti di dinari iracheni<br />
(l’inflazione è a livelli stratosferici), che serviranno a pagare il conto.<br />
Il giorno successivo, mi inoltro vicino all’Hotel Palestine, dove c’è il capo<br />
missione dell’Unicef, Carel De Rooy, un olandese, determinato e motivato,<br />
abituato a trattare con le Ong in cerca di finanziamenti. È smaliziato,<br />
ma serio. L’Unicef ha un programma più consistente, 10 milioni di dollari<br />
(bilancio proprio), più i fondi che utilizza attraverso l’Unochi (programma<br />
Oil for Food – vendita di petrolio iracheno solo per ac<strong>qui</strong>sto di cibo –, non<br />
ho capito quanti soldi sono, ma devono essere tanti). I loro interventi – tenuto<br />
conto che la malnutrizione infantile non è solo la mancanza di cibo,<br />
ma una dieta povera (60% delle donne sono anemiche), la situazione sanitaria<br />
(le acque in<strong>qui</strong>nate al sud sono un fatto generalizzato), la povertà, la<br />
descolarizzazione per cui il 25% dei bambini e 1/3 delle bambine non vanno<br />
a scuola – sono: a) monitoraggio sulla situazione sanitaria dei bimbi (più<br />
o meno un milione), b) interventi di supplementary feeding per i bimbi, c)<br />
ristrutturazione di scuole (500) e ospedali (63) pediatrici, d) interventi sulla<br />
potabilizzazione delle acque, e) interventi di educazione informale, eccetera.<br />
Lavorano con Ong internazionali (tra cui Care ). Insieme al governo<br />
hanno creato 2.800 centri di monitoraggio e di distribuzione di cibo per i<br />
bambini (Community Child Care Units) che coinvolgono ben 13mila volontari<br />
locali. Ho cercato di capire cosa possiamo fare noi e lui mi ha chiesto<br />
qual è il nostro comparative advantage, rispetto alle altre Ong. Mi dice<br />
che se facessimo qualcosa che ha a che fare con l’educazione di quel 1/3 di<br />
bambine che non vanno più a scuola, loro sarebbero molto contenti. De Rooy<br />
ci consiglia di non disperderci e di concentrarci su un’unica area (in questo<br />
senso Bassora, va molto bene). L’impressione è che si può fare qualcosa<br />
– un progetto, una proposta – con l’Unicef; ma dobbiamo fargli noi una<br />
proposta, una volta fatto l’assessment, rimanendo nell’area di Bassora.<br />
Continuo il pellegrinaggio tra le organizzazioni umanitarie. Il terzo incontro<br />
è quello con il World Food Programme. Vedo il capo missione Torben<br />
Due e il suo collaboratore Tarek Elguindi (cordinator/food observation).<br />
L’incontro è nella sede delle Nazioni Unite: solo sei mesi dopo (in agosto)<br />
verrà distrutta da un attacco terroristico dove perderà la vita il vicesegretario<br />
dell’Onu Sergio Viera de Mello. Sono entrambi molto disponibili, l’atmosfera<br />
è buona. Siamo stati preceduti da una telefonata di un vecchio amico<br />
del Wfp di Roma, Francesco Strippoli, che ci ha presentato. Il loro è un intervento<br />
enorme (da quello che ho capito sono inseriti nella la cornice del<br />
95
programma “Oil for Food”(Off) in base al quale il 70% dei ricavi dalla vendita<br />
del petrolio va nell’ac<strong>qui</strong>sto di beni alimentari) dato che di fatto viene<br />
data assistenza alimentare a tutto il paese: tutte le famiglie hanno una tessera<br />
con la quale prelevare la razione di base mensile presso magazzini governativi.<br />
Saddam, per motivi di propaganda, ha già distribuito i buoni-razione<br />
fino a giugno (razioni che poi magari vengono vendute sul mercato). La dinamica<br />
delle relazioni tra la distribuzione gestita direttamente dal governo<br />
e quella che fa il Wfp (World Food Programme) è molto stretta.<br />
Andando all’Hotel Palestine – dove è in funzione l’unico internet point<br />
cui hanno accesso gli occidentali – incontro alcuni rappresentanti delle<br />
Ong internazionali, tra cui Care, Enfants du Monde, Premiere D’Urgence,<br />
Norwegian Aid, eccetera. Medici Senza Frontiere sta aprendo adesso (ancora<br />
in attesa del permesso) un ufficio con sette espatriati. La sede delle Ong<br />
sono praticamente tutte nell’albergo Al Fanar (in Iraq non si possono affittare<br />
case per sedi e alloggio). Delle italiane quelle che si stanno dando da fare<br />
per entrare sono Gvc, Intersos, Cosv e Terres des Hommes. Le Ong in<br />
Iraq non sono molte e rigorosamente sotto controllo: se criticano Saddam<br />
vengono espulse.<br />
Tre giorni passano in fretta ed è ora di ripartire. Notizie dall’Italia:<br />
grande manifestazione di tre milioni di persone a Roma (è il 15 febbraio)<br />
contro la guerra. Speriamo che serva a fermarla. Altre decine di manifestazioni<br />
in giro per il mondo e anche <strong>qui</strong> abbiamo fatto la nostra in un centinaio<br />
di persone (rappresentanti delle Ong internazionali presenti a Bagdad).<br />
Conferenza stampa e ultimi incontri con gli operatori locali. Poi, ultima cena<br />
con il gruppo dei volontari italiani presenti a Bagdad, che rimarrà nella<br />
città ancora un paio di giorni. Parto a mezzanotte con la jeep. Ho l’aereo ad<br />
Amman in mattinata. I pesci di fiume messi a cucinare sulla brace, dopo due<br />
ore non sono ancora cotti. Mangiamo solo pane. Con Giuliana Sgrena (che<br />
è <strong>qui</strong> per conto de “il manifesto”) prendiamo un taxi, ci scambiamo le impressioni<br />
su quello che può succedere da <strong>qui</strong> a breve (anche lei rimane a Bagdad<br />
ancora per alcuni giorni) e ce ne ritorniamo nei nostri alberghi. Mi<br />
aspettano il fuoristrada e molte ore di viaggio verso Amman.<br />
Bagdad e Bassora, luglio 2003<br />
È l’alba quando passiamo il confine giordano-iracheno. Come quattro mesi<br />
fa, poco prima dell’inizio della guerra. Qualche differenza è evidente: un<br />
campo di profughi palestinesi e sudanesi (saranno un migliaio) è spuntato<br />
nella terra di nessuno: scappavano dall’Iraq, ma in Giordania non li fanno<br />
entrare. E indietro non ci vogliono tornare. Non si possono fotografare o riprendere:<br />
i poliziotti giordani ti sequestrano le macchine da presa. Non ci<br />
si può avvicinare. Le tende sono dei lenzuoli leggeri appena appoggiati a del-<br />
96
le strutture traballanti. Una spianata sorda e polverosa di centinaia di tende<br />
nel deserto, senza coperture e teloni, al sole dei cinquanta gradi di questo<br />
periodo. Qualche profugo tenta di avvicinarsi alle macchine di passaggio,<br />
ma viene ricacciato indietro dal pronto intervento del guardiano giordano.<br />
Altra differenza: tutti i ritratti di Saddam distrutti o cancellati; in una stanzetta,<br />
di venti metri quadri ce n’era (allora) una <strong>qui</strong>ndicina di diverse fattezze<br />
e colori: foto e dipinti, primi piani e scene di caccia con sempre il dittatore<br />
protagonista. Non ne è rimasta più nessuna. E poi – terza novità – gli americani,<br />
i soldati americani: giovani, giovanissimi, per niente affatto spavaldi,<br />
impauriti, molti sbarbatelli. Guardano sonnacchiosi dai loro blindo impolverati<br />
e da quegli orrendi Humvee (le blindo-jeep piatte e larghissime con<br />
delle mitragliatrici appostate in alto); lasciano fare il personale iracheno che<br />
controlla passaporti e macchine. Per noi, nessun sorriso. Sembrano non<br />
avere parole, sono stanchi; più che “rambo muscoli gonfiati” – sono gracili<br />
nelle divise più grandi, alcuni con gli occhialoni da secchioni e faccette impaurite<br />
– sono dei ragazzi ventenni dalla provincia americana che magari<br />
hanno bisogno di soldi: per avviare un negozio o per pagarsi gli studi.<br />
Dal confine a Bagdad ci sono ancora sei-sette ore di viaggio. Dipende<br />
dalla velocità (folle) con la quale gli autisti delle potenti jeep che ci accompagnano,<br />
guidano. Siamo con una delegazione di organizzazioni umanitarie:<br />
in tutto una <strong>qui</strong>ndicina. L’autostrada fino a Baghdad è a quattro corsie<br />
e scarsamente frequentata (e solo un paio di volte incontreremo qualche colonna<br />
di soldati americani); bisogna proteggersi da eventuali assalti di banditi<br />
e predoni; è già successo a un convoglio di Medecins du Monde che<br />
solo un paio di giorni prima è stato completamente saccheggiato. Soprattutto<br />
nelle vicinanze di Baghdad, intorno a Chaladi e Falluja, i rischi sono<br />
seri: lì ancora si combatte. Ci sono giornalieri attentati e imboscate. Non<br />
incontriamo praticamente nessun mezzo militare (iracheno) distrutto o abbandonato.<br />
Dov’è stata la guerra? Non ci succede niente né a Chaladi, né a<br />
Falluja ed entriamo tran<strong>qui</strong>llamente a Bagdad. La città è più caotica della<br />
volta precedente. Il traffico impazzito, le macchine contro mano. Tanta gente<br />
per strada. Di pattuglie americane non così tante; ovviamente il grosso<br />
dell’esercito americano se ne sta ben rinchiuso nella “zona verde”, inaccessibile<br />
dall’esterno. Un modo per evitare di fare troppo da bersaglio agli attentati<br />
che in questi giorni stanno crescendo. Ministeri e sedi del governo<br />
sono state più o meno tutte colpite; con una certa precisione. Anche perché<br />
generalmente queste si trovano lontano dai quartieri abitati. Passiamo davanti<br />
al ministero del Petrolio; è intatto e controllato massicciamente dai soldati<br />
americani. Qui sembrano più aggressivi, nervosi, pronti a sparare, con<br />
il dito già sul grilletto delle loro mitragliatrici enormi. Lungo il Tigri la strada<br />
impazzisce: vanno tutti contro mano e l’ingorgo è inevitabile. Gli ameri-<br />
97
cani hanno bloccato una direzione della strada all’altezza dell’Hotel Palestine<br />
(dove il regime aveva confinato i giornalisti): hanno paura di attentati ed evitano<br />
il passaggio di macchine nelle vicinanze. In alto il muro scheggiato del<br />
balcone dell’Hotel colpito da un carro armato americano, che ha ucciso un<br />
giornalista spagnolo. Avevano detto che il carrista si era sbagliato, scambiando<br />
la macchina da presa per un fucile. Lo sapevano tutti che al Palestine c’erano<br />
solo giornalisti, ma facciamo la prova a occhio nudo: si riconoscerebbe<br />
facilmente la differenza tra un fucile e una macchina da presa. A maggior ragione<br />
con un mirino di precisione di un cannoncino di carro armato.<br />
Iniziano gli incontri politici. Siamo <strong>qui</strong> per capire cosa sta succedendo,<br />
come la pensano gli iracheni, per vedere cosa possiamo fare. Il primo incontro<br />
è con il responsabile esteri dei comunisti iracheni. Un politico di professione.<br />
Ragionevole, intelligente, moderato: contento di essere stato invitato<br />
dalla Madeleine Albraight in Giordania per un convegno di un istituto di<br />
studi americano contrario alla linea di Bush. È per l’economia di mercato e<br />
non è contrario alle privatizzazioni (per lo meno non a tutte). Sarà il politico<br />
più sano e intelligente che incontriamo. I comunisti hanno creato le loro<br />
Ong (come hanno fatto con ben più diffusione gli islamisti) e anche<br />
associazioni di donne come la Women League, che temono di essere discriminate<br />
ed emarginate dalla presa del potere degli islamisti.<br />
Incontriamo esponenti degli altri partiti (islamici, progressisti, eccetera)<br />
del sindacato, delle organizzazioni delle donne (Iraqi Women League),<br />
delle istituzioni religiose sunnite, sciite e cristiano-caldea (il Vescovo della<br />
città), delle Ong locali (Tammuz, vicine al partito comunista iracheno), dei<br />
media indipendenti (Al-Muajaha, un nuovo settimanale finanziato dai pacifisti<br />
americani), le organizzazioni culturali (il Circolo degli Artisti, presenti<br />
pittori, teatranti, scrittori), eccetera. Ci riuniamo anche con gli operatori<br />
delle Ong (Ics, Un Ponte per… Terres des Hommes, Intersos) con le quali<br />
Ics condivide l’ufficio a Baghdad, incontro nel quale facciamo il punto della<br />
situazione umanitaria della città dei progetti in corso, delle difficoltà che<br />
si incontrano sul campo, dei rapporti con le autorità e le istituzioni internazionali.<br />
Ci sono Simona Torretta (che fino a poco tempo prima ci ha aiutato<br />
a coordinare il Tavolo per gli aiuti con il popolo iracheno), Ernesto Bafile<br />
e altri. Simona fino a gennaio, ci aiutava a coordinare – dalla sede romana<br />
del Ponte – il Tavolo di coordinamento per l’Iraq: era un po’ la segretaria<br />
della struttura e si occupava di tenere le comunicazioni e i contatti. Ma è<br />
sempre voluta andare e stare in Iraq; e così a fine febbraio – prima dell’inizio<br />
della guerra – è andata a Bagdad e ci è rimasta sotto le bombe; da allora<br />
non è più tornata in Italia. Dopo la fine della guerra noi abbiamo mandato<br />
Stefano e Marco Bertotto, per fare il primo convoglio di aiuti e poi a operare<br />
sul campo Ernesto e Annalisa. L’Ics continua a co-promuovere (con Un<br />
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Ponte per… e Terres des Hommes) il progetto Echo di fornitura di ossigeno<br />
agli ospedali della città ed è in contatto con Unicef per la realizzazione<br />
di un progetto per la formazione di operatori sociali a Baghdad e in altre<br />
città del paese. A Bassora l’Ics sostiene con un programma specifico di integrazione<br />
alimentare ai bambini malnutriti le attività del dispensario Sindbad,<br />
istituito nel 1997 da Un Ponte per… e ha rifornito l’ospedale pediatrico della<br />
città di condizionatori d’aria per le stanze dei bambini ricoverati, frigoriferi<br />
per le medicine e altre attrezzature. Il tutto grazie ai fondi raccolti dalla<br />
campagna Nuove Basi in Iraq e al sostegno di gruppi (hanno raccolto molte<br />
migliaia di euro) come Insieme-Zajedno di Roma e Assieme di Calenzano.<br />
Sono in corso contatti per altre possibili attività, ancora da avviare: da<br />
un programma con Unhcr per attività di accompagnamento (microcredito,<br />
integrazione sociale) al rientro dei profughi dall’Iran e un progetto con<br />
Undp per la creazione di un centro giovanile in un’area particolarmente degradata<br />
della città.<br />
Da Bagdad partiamo per Bassora. Arriviamo in città dopo otto ore di<br />
fuori strada costeggiando nell’ultimo tratto il Tigri. Anche a Bassora abbiamo<br />
progetti e attività in corso. Con Un ponte per... seguiamo l’ambulatorio<br />
di Sindbad, che dà assistenza a ad alcune centinaia di bambini. Si affaccia<br />
sul Tigri in una zona tran<strong>qui</strong>lla e silenziosa della città, lungo un viale alberato:<br />
sembrano dei grandi tigli – ma dalle foglie più grandi – quelli che ci<br />
portano un po’ di fresco nella calura di luglio. C’è silenzio, una sensazione<br />
surreale di pace. Non è una zona di traffico, macchine non ne passano. L’ambulatorio<br />
è pulitissimo. Il medico che lo dirige ci spiega i problemi e le esigenze:<br />
le medicine che mancano, le attrezzature ormai inutilizzabili, eccetera.<br />
Prendiamo nota di tutto quello che serve; gli spieghiamo perché ci troviamo<br />
lì, giochiamo con dei bambini in attesa di farsi visitare. Nel pomeriggio<br />
andiamo all’ospedale pediatrico di Bassora, dove ci sono i bambini ricoverati.<br />
L’ospedale è pulito, i medici con camici lindi e sorridenti che ci spiegano<br />
pazientemente tutti i problemi sanitari della zona, le madri silenziose e<br />
meste, i bimbi incuriositi dalla nostra presenza insolita che ci seguono in pigiama.<br />
L’emergenza più grande è quella delle incubatrici: ce ne sono solo<br />
quattro-cinque e ce le fanno vedere: vecchie, incrostate ossidate e consumate<br />
dal tempo, mal messe. “Ne servirebbero almeno cinquanta”, dicono. L’Ics<br />
sta continuando in questi mesi a rifornire l’ospedale di medicinali e altre attrezzature,<br />
ma le incubatrici non sono state ancora mandate. Gli aiuti delle<br />
istituzioni internazionali non arrivano. Da <strong>qui</strong> parte l’idea di un progetto<br />
per ac<strong>qui</strong>stare quelle trenta incubatrici (costano due-trecento dollari l’una)<br />
attraverso una sottoscrizione popolare in Italia (in poche settimane raggiungeremo<br />
l’obiettivo); intanto diamo indicazione agli operatori locali di<br />
Ics di farne arrivare qualcuna dal Kuwait. Hanno anche il problema delle<br />
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ombole d’ossigeno: li manderemo da Bagdad dove – dalla fine della guerra<br />
– abbiamo iniziato a un progetto per riattivare una fabbrica che riforniva<br />
di ossigeno tutti gli ospedali della città. Altra emergenza: mancano i<br />
condizionatori d’aria. Nell’ospedale fa molto caldo: ci sono un po’ di ventilatori<br />
che sono insufficienti. Anche in questo caso ne faremo arrivare un<br />
po’ dal Kuwait (a Bassora si trova ben poco); Annalisa si sta scrivendo su un<br />
piccolo quaderno tutte le cose da fare. Un po’ di soldi li abbiamo raccolti e<br />
siamo in grado si spenderli subito. C’è con noi anche Daniele della Uisp<br />
che ha deciso di allestire una o due “ludoteche” per i bambini malati: manderà<br />
giocattoli, tavolini, sedie, lavagne per farli giocare. Il sistema sanitario<br />
iracheno è vicino al collasso: privo di medicine, ossigeno, attrezzature, con<br />
il personale senza stipendi. Ugualmente disastrosa è la situazione dell’acqua,<br />
in<strong>qui</strong>nata e non potabile, problema crescente in diverse aree del paese<br />
e all’origine di tante malattie. Va ricordato che tutto ciò non è solo il risultato<br />
della guerra, ma di oltre dieci anni di embargo occidentale che ha colpito<br />
anche gli ospedali. Ci si sente male a girare in quell’ospedale con le<br />
nostre macchinette fotografiche e telecamere, vestiti casual da occidentali,<br />
un po’ voyeuristi, anche se le donne del nostro gruppo (una è Simona, una<br />
pediatra che lavora ad Insieme Zajedno, e che con i bambini ha a che fare<br />
tutti i giorni) rompono l’imbarazzo con una spontanea familiarità, per nulla<br />
forzata – fatta di gesti, sorrisi, contatti con le mani – con le madri e i<br />
bambini che le girano intorno. Tra donne le barriere si rompono. Giocano,<br />
scherzano. Mi sento un po’ meglio.<br />
La sera, parliamo di altri progetti e attività. A Bassora è pieno di soldati<br />
inglesi. La sera quando andiamo alla palazzina delle organizzazioni umanitarie<br />
internazionali (dove ci sono computer e telefoni) sentiamo in vicinanza<br />
spari e mitragliate, ma Ernesto e Annalisa (che prima di <strong>qui</strong> si sono fatti<br />
tutta l’emergenza in Kosovo) dicono di non preoccuparci: sono colpi di<br />
avvertimento, non ci sono combattimenti in giro. In ogni caso alle 21 c’è<br />
il coprifuoco e tutti gli alberghi di Bassora sono murati alle finestre e alle<br />
entrate, con le guardie armate la notte. Facciamo brevi riunioni nella hall,<br />
ci scambiamo idee e impressioni, pensiamo alle cose da fare al ritorno in<br />
Italia. Nel nostro albergo ci sono alcuni cinesi, che non sono operatori umanitari:<br />
hanno con sé decine di scatoloni e casse di hi-fi, televisori, computer.<br />
Il business inizia. La mattina ripartiamo per Bagdad e poi per Amman,<br />
quasi venti ore di viaggio a velocità sempre folle in fuori strada. Nel frattempo<br />
cerco di fare mente locale e mettere ordine sui punti politici e operativi<br />
emersi da questo viaggio.<br />
Tra le tante priorità che abbiamo potuto registrare nelle nostre visite ne<br />
emergono tre. La prima: la necessità di arrivare rapidamente a una transizione<br />
politica che riconsegni l’Iraq agli iracheni, attraverso il trasferimento<br />
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di veri poteri di intervento al nuovo (anche con molti limiti) “consiglio legislativo”<br />
(trasformandolo in un vero governo provvisorio), l’indizione di<br />
elezioni politiche entro pochi mesi e il ritiro delle forze occupanti e la consegna<br />
all’Onu di un mandato che permetta all’organizzazione del Palazzo di<br />
Vetro di essere l’unico garante di questo processo, inclusa la sicurezza e il<br />
“mantenimento della pace” nel paese. Tutte le forze politiche che abbiamo<br />
incontrato ci hanno manifestato questa preoccupazione: in assenza di<br />
un’investitura democratica (piena) a un governo provvisorio degli iracheni<br />
le reazioni violente e gli attentati agli americani non potranno che aumentare.<br />
Questi non sono semplicemente il frutto delle azioni di “sbandati” o<br />
di “saddamisti”, ma l’espressione crescente di un’opposizione all’occupazione<br />
anglo-americana del paese. L’atteggiamento anti-americano sta crescendo<br />
e un gruppo di organizzazioni americane che abbiamo incontrato ci hanno<br />
informato di voler costituire un “osservatorio sull’occupazione” per documentare<br />
misfatti e danni degli occupanti. Davanti all’Hotel Palestine (dove<br />
durante la guerra erano ospitati i giornalisti) c’è la piazza simbolo della caduta<br />
del regime, ripresa dai canali internazionali quando fu divelta e buttata<br />
giù la statua di Saddam Hussein. Adesso al posto di quella del dittatore<br />
ce n’è un’altra più neutra sulla quale qualcuno ha scritto con uno spray in<br />
grandi caratteri proprio di fronte ai carri armati americani che la controllano:<br />
“All done. Go home” (tutto fatto, andatevene a casa). Tutti ci hanno detto<br />
che un’occupazione di lungo periodo (oltre l’anno) degli anglo-americani<br />
è insostenibile per il paese e scatenerebbe una reazione sempre di più di massa.<br />
Tra l’altro le azioni militari degli oppositori si vanno via via facendo sempre<br />
di più mirate, organizzate e coordinate.<br />
La seconda: l’impegno a sostenere rapidamente la nascita e lo sviluppo<br />
di organizzazioni della società civile in grado di costruire un tessuto democratico<br />
e laico del paese. Gli americani sono al lavoro per clonare con i dollari<br />
le Ong e le organizzazioni sociali secondo un’idea di “società civile” molto<br />
profit e business oriented. Noi dovremmo cercare di fare esattamente l’opposto:<br />
aiutare a costruire dal basso una “democrazia che si organizza” con corpi<br />
sociali autonomi (associazioni, sindacati, media liberi, gruppi di donne,<br />
eccetera) che possano influire sulla transizione ed essere un’alternativa laica<br />
e civile (o per lo meno un contrappeso) ai nuovi raggruppamenti fondamentalisti,<br />
clanici o affaristi che si sono già formati. In questo contesto la missione<br />
è anche servita per verificare la disponibilità di alcuni interlocutori a<br />
partecipare al forum sul dopoguerra in Iraq che si terrà a Salerno agli inizi<br />
di ottobre, nell’ambito delle iniziative legate alla marcia Perugia-Assisi. Nel<br />
nuovo contesto politico-sociale iracheno a prendere piede sono le organizzazioni<br />
islamiche o legate alle istituzioni religiose. Nell’incontro che abbiamo<br />
avuto con un Imam di un quartiere di Baghdad (noi uomini in una<br />
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stanza, le donne in un’altra) e con il Partito Islamico (progressista) ci siamo<br />
resi conto dei rischi che corre una visione laica, democratica e di mantenimento<br />
dei diritti delle donne del futuro stato iracheno. E nello stesso tempo,<br />
l’influenza americana sulla vita politica rischia di condizionare e marcare<br />
le caratteristiche di alcune nuove forze politiche, anche se la maggioranza di<br />
queste (tra loro molto litigiose e gelose) è ancora fortemente anti-americana.<br />
Insieme al rischio fondamentalista, vi è quello politico-affaristico (dei<br />
nuovi partiti: tra tutti il Congresso Nazionale Iracheno di Chalabi) legato<br />
alla gestione del business della ricostruzione e dell’aiuto umanitario (e <strong>qui</strong><br />
si danno da fare le nuove Ong irachene filo-americane che si vanno formando<br />
per gestire i soldi degli aiuti).<br />
La terza: dare risposta agli immediati bisogni sociali della salute, della<br />
sopravvivenza economica, dell’istruzione ricercando una propria via alla transizione<br />
economica che non sia la predisposizione (come ci si appresta a fare)<br />
di quelle ricette neoliberiste (privatizzazioni, mercato selvaggio, deregulation<br />
del settore pubblico) che già tanti danni ha fatto nei paesi in via di sviluppo<br />
e nell’est europeo. I bisogni, come già ricordato, sono drammatici. Tutti<br />
sono consapevoli (ce l’hanno detto anche i comunisti iracheni che prima<br />
del regime di Saddam erano una delle forze principali del paese: il dittatore<br />
iracheno ne sterminò diverse centinaia di migliaia di comunisti negli anni<br />
’70) che è necessaria una transizione a un’economia mista di mercato: ma le<br />
privatizzazioni di cui si parla <strong>qui</strong> sono altro, sostanzialmente la spartizione<br />
del bottino (cioè il petrolio) da parte degli occupanti.<br />
In questo quadro la situazione sociale e umanitaria della popolazione<br />
irachena sembra peggiorata e tutto sembra alimentare – come è avvenuto<br />
in situazioni analoghe – un’economia “grigia” fatta di traffici illeciti e criminalità.<br />
A pagare il prezzo è la gran parte della società irachena e in particolare<br />
le categorie più esposte: bambini, anziani, disabili, donne. Nel<br />
frattempo anche i fenomeni di aids e tossicodipendenza (come i bambini<br />
di strada che abbiamo visto sniffare colla) stanno crescendo. Gli americani<br />
pensano alla propria sicurezza, non a quella delle popolazioni e quasi<br />
niente fanno per ristabilire il minimo di infrastrutture civili che permetterebbero<br />
di vivere un po’ meglio in questa fase. Prioritario è dunque inviare<br />
aiuti e rispondere a questi bisogni primari; a maggior ragione se si riesce<br />
unire a questo impegno l’iniziativa a sostegno di gruppi democratici iracheni<br />
della società civile in nascita.<br />
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Indice<br />
3 Prefazione<br />
Parte prima<br />
7 Le culture politiche del pacifismo<br />
Parte seconda<br />
23 I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe<br />
29 Time for peace<br />
43 Guerre fratricide<br />
66 La guerra umanitaria e il Kosovo<br />
92 Iraq, la guerra infinita
Nella stessa collana<br />
Quaderni<br />
1 AA.VV. Terzo settore: la fine di un ciclo<br />
2 Alexander Langer Pacifismo concreto. La guerra in ex Jugoslavia<br />
e i conflitti etnici<br />
3 Bianca Giudetti Serra Contro L’ergastolo. Il processo<br />
alla banda Cavallero<br />
4 Paul Goodman Educazione e Rivoluzione. Per diventare persone<br />
a cura di Vittorio Giacopini<br />
5 AA.VV. Rapporto sull’editoria sociale. Numeri e tendenze di case<br />
editrici, riviste e siti web<br />
6 Claudio Pavone Dal Risorgimento alla Resistenza<br />
7 AA.VV. Necessità e servitù della critica. Cosa cerca l’arte?<br />
A che serve la critica?<br />
8 AA.VV. Quel che gli studenti non sanno e non fanno.<br />
Idee per un movimento<br />
9 Aldo Capitini Agli amici. Lettere 1947-1968<br />
a cura di Goffredo Fofi e Piergiorgio Giacchè<br />
10 Norberto Bobbio Il pensiero di Aldo Capitini<br />
11 Edmondo Marcucci Che cos’è il vegetarismo?<br />
12 Adriano Olivetti Fabbrica e comunità. Scritti autobiografici<br />
a cura di Alberto Saibene<br />
13 Francesco Ciafaloni Destino della classe operaia
Finito di stampare nel mese di settembre 2011
Un saggio sulla storia<br />
del pacifismo italiano dal 1945 a oggi<br />
introduce in questo quaderno<br />
ad alcuni drammatici reportage,<br />
interventi e racconti delle esperienze<br />
del movimento pacifista italiano<br />
ed europeo dai principali luoghi<br />
dei conflitti del dopo 1989: le guerre<br />
in Jugoslavia, i conflitti in Palestina<br />
e in Medio Oriente, la guerra in Iraq,<br />
i conflitti nella ex Unione Sovietica.<br />
Un viaggio “dal di dentro” nella cultura<br />
e nelle pratiche del pacifismo italiano<br />
tra interventi di solidarietà, aiuto<br />
umanitario, nonviolenza<br />
e disobbedienza civile nei maggiori<br />
conflitti degli ultimi venti anni,<br />
raccontato da uno dei suoi protagonisti<br />
e testimoni, senza tacerne<br />
le difficoltà e contraddizioni.<br />
€ 5,00<br />
I QUADERNI<br />
9 788863 570687