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qui - Giulio Marcon

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I QUADERNI<br />

Fare pace<br />

Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente:<br />

culture politiche e pratiche del pacifismo dopo il 1989<br />

<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong><br />

14<br />

I LIBRI DE<br />

LO STRANIERO


Fare pace<br />

Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente: culture politiche e<br />

pratiche del pacifismo dopo il 1989<br />

<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong>


© 2011 Edizioni dell’Asino<br />

Isbn 978-88-6357-068-7<br />

Distribuzione PDE spa<br />

Progetto grafico Orecchio Acerbo<br />

Hanno collaborato:<br />

Goffredo Fofi, Francesca Nicora, Sara Nunzi,<br />

Fabio Piccoli, Ilaria Pittiglio, Nicola Villa.<br />

Le Edizioni dell’Asino sono un progetto<br />

frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero<br />

con la partnership di Redattore Sociale<br />

www.gliasini.it


Prefazione<br />

Questo quaderno è diviso in due parti.<br />

La prima include un saggio sulle culture politiche del pacifismo del secondo<br />

dopoguerra. La seconda raccoglie reportage, racconti e diari su alcuni dei<br />

teatri di guerra o di emergenza umanitaria degli ultimi vent’anni, dalla caduta<br />

del muro di Berlino fino a oggi.<br />

L’obiettivo è di fornire una cornice di riferimento generale e di dare un piccolo<br />

quadro – dal di dentro – di alcune vicende e delle conseguenze da queste<br />

prodotte sulle identità e le culture del pacifismo e dell’intervento umanitario:<br />

dalla lunga guerra jugoslava (Bosnia e Kosovo) alla guerra in Iraq, dall’infinito<br />

conflitto israelo-palestinese ai golpe e alle tensioni violente in Russia.<br />

Questo quaderno – insieme a una prima parte analitica delle culture politiche<br />

del pacifismo – racconta alcune vicende – vissute in prima persona – a continuo<br />

confronto con le idee, le convinzioni e le proposte che il pacifismo e l’intervento<br />

umanitario hanno sedimentato in questi anni, con contraddizioni, dilemmi,<br />

conflitti etici e politici.<br />

Cosa succede alla convinzione della nonviolenza, quando ti trovi nella Sarajevo<br />

assediata e i suoi abitanti ti chiedono di rinunciare ai tuoi principi pacifisti<br />

invitandoti a fare qualcosa per far tacere i cecchini che sparano dalle<br />

colline sulle persone in coda per il pane o per riempire una bottiglia d’acqua?<br />

E che cosa deve fare l’operatore umanitario quando un governo inizia una guerra<br />

(Kosovo, 1999) e nello stesso tempo ti propone (grazie alla Missione Arcobaleno)<br />

di coprire con una montagna di soldi la tua organizzazione, soldi da<br />

utilizzare a fin di bene per i profughi? Oppure, cosa succede alla tua storica<br />

convinzione di assoluto sostegno al principio di autodeterminazione del popolo<br />

palestinese, quando la confronti con il diritto alla sicurezza nelle discussioni<br />

in un kibbutz o con i pacifisti israeliani?<br />

Emergono dalle vicende vissute direttamente (e ci riferiamo alla seconda parte<br />

di questo quaderno) dei nodi di carattere più generale: la tensione tra pacifismo<br />

assoluto e pacifismo politico, le ambiguità degli aiuti umanitari, i dilemmi<br />

tra l’aiuto alle vittime della guerra e la difesa dei diritti umani, la crisi del con-<br />

3


cetto di autodeterminazione in un mondo sempre più globalizzato, la fine della<br />

cooperazione internazionale e il nuovo ruolo dei movimenti sociali. Fino al<br />

conflitto doloroso tra credenze ritenute fino a poco tempo prima assolute e inamovibili<br />

e la realtà che le rimette in continua discussione, provocando uno<br />

smottamento, non solo delle ideologie e delle culture politiche, ma anche dei comportamenti<br />

individuali.<br />

Sono stati anni (dal 1989 a oggi) particolarmente complessi e difficili per i<br />

pacifisti e gli operatori umanitari. Le guerre jugoslave hanno moltiplicato, come<br />

in un labirinto a specchi, le “immagini del nemico”, rendendo difficile la vita a<br />

un pacifismo che si è ritrovato senza un’unica e univoca controparte. La guerra in<br />

Iraq ha messo in evidenza, da una parte, l’impatto drammatico di terrorismo e<br />

“guerra permanente” e dall’altro, quanto sia potente la forza (anche se perdente)<br />

di un movimento contro la guerra e quanto debole quella di un movimento per la<br />

costruzione della pace. I conflitti umanitari degli anni ’90 e oltre hanno evidenziato<br />

quanto sia ormai definitiva la connivenza affaristica e governativa di una<br />

parte delle Ong e quanto sia complicato dare vita a un nuovo paradigma della solidarietà<br />

internazionale. E il conflitto israelo-palestinese ha evidenziato quanto sia<br />

complesso per i pacifisti destreggiarsi tra il sacrosanto rispetto dei diritti umani, il<br />

principio dell’autodeterminazione e le ragioni di due popoli in conflitto.<br />

Veniamo ai contenuti dei diversi paragrafi.<br />

Per la prima parte: Le culture politiche del pacifismo è il testo della relazione<br />

al convegno italo-spagnolo (promosso dall’Istituto per la pace catalano) sulle<br />

culture del pacifismo tenutosi nell’ottobre del 2010 a Barcellona.<br />

Riguardo alla seconda parte: I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe è il<br />

breve diario di una giornata: il 19 agosto 1991, il giorno del tentato golpe in<br />

Unione Sovietica contro Gorbaciov, durante l’ultima riunione della End (European<br />

Nuclear Disarmament), il meeting annuale dei pacifisti europei. Si tratta<br />

di un testo che rielabora un articolo scritto per “Linea d’ombra” nel 1991.<br />

Time for Peace è il parziale racconto (<strong>qui</strong> ridotto all’incirca di metà) di<br />

una settimana in Palestina durante l’iniziativa Time for Peace (1989-1990):<br />

incontri, manifestazioni, scontri con la polizia israeliana. Sempre in questo capitolo<br />

si trova un reportage da Israele (2007), da un’iniziativa dei pacifisti e della<br />

sinistra israeliana nel sud del paese sotto i colpi dei missili da Gaza e da un<br />

soggiorno in uno storico kibbutz della sinistra laburista. Uscito in versione ridotta<br />

su “Carta” nel 2007.<br />

Guerre fratricide sono diari, articoli e racconti – raccolti in unico testo – di<br />

tre anni di guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e in particolare delle iniziative<br />

pacifiste e di solidarietà con le vittime della guerra. Parte degli articoli<br />

e degli interventi sono usciti su: “il manifesto”, “l’Unità”, “la Terra vista dalla<br />

luna”, Dopo il Kosovo (Asterios 2000). I diari <strong>qui</strong> riportati rappresentano una<br />

parte limitata (circa un terzo) della loro versione originaria.<br />

4


La guerra umanitaria e il Kosovo è il diario parziale tenuto tra il marzo e<br />

il giugno 1999, durante la guerra in Kosovo. Una piccola parte di questo diario<br />

è uscita ne: Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli 2002). Anche in<br />

questo caso si tratta di circa un terzo della versione originaria (che abbracciava<br />

tutti i giorni dal 24 marzo al 10 giugno 1999).<br />

Iraq, la guerra infinita è il reportage di due viaggi compiuti in Iraq nel<br />

2003, il primo durante il regime di Saddam Hussein (febbraio) e il secondo<br />

dopo la sua caduta e la fine della guerra (luglio). Una parte di questo testo è<br />

uscito su “Lo Straniero”.<br />

Vi erano infine altri testi (originariamente destinati a un altro editore) non<br />

inclusi in questo quaderno: in particolare alcuni reportage sui forum sociali di<br />

Porto Alegre e Bamako (usciti su “il manifesto” e su “Lo Straniero”) e un racconto<br />

(Macchie uscito in piccolo frammento su “Pagine in bottiglia”) ispirato a<br />

un fatto vero (una drammatica storia d’amore tra un serbo e una musulmana<br />

nella Sarajevo assediata del 1993). Non sono stati inclusi nel quaderno per motivi<br />

di brevità, qualità e omogeneità rispetto al resto dei testi.<br />

Questo quaderno è dedicato a Tommaso e ai “magnifici sette” delle sue avventure<br />

pacifiste: Otto, Spartaco, Briegel, Gigi Pagnotta, Serpieri, Buttiglione e Setter.<br />

<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong> è stato – negli anni cui si riferiscono questi scritti – Segretario<br />

della branca italiana del Servizio Civile Internazionale (fino al 1992),<br />

Portavoce dell’Associazione per la pace (dal 1993 al 1998) e Presidente (dal<br />

1997 al 2004) del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics). Attualmente è Portavoce<br />

della campagna Sbilanciamoci!. Ha scritto: Dopo il Kosovo (Asterios<br />

2000), Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli 2002); Come fare politica<br />

senza entrare in un partito (2005) e Le utopie del ben fare (L’ancora del<br />

mediterraneo 2006).<br />

5


Parte prima Le culture politiche del pacifismo<br />

Prima degli anni ottanta<br />

a Tom Benetollo e Josep Palau<br />

Riflettendo sulle culture politiche del pacifismo in Italia e in Europa molti<br />

pensano che il salto di qualità abbia avuto origine negli anni ottanta e<br />

che quegli anni, gli anni della lotta contro gli euromissili, siano gli anni in<br />

cui il pacifismo assume una sua propria dimensione politica in discontinuità<br />

con le esperienze precedenti del movimento per la pace, esperienze, soprattutto<br />

quelle tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta – schiacciate tra<br />

la testimonianza singola o di piccoli gruppi (sostanzialmente quelli ispirati<br />

alla nonviolenza e alla disobbedienza civile) e il variegato movimento dei<br />

“partigiani per la pace”.<br />

In realtà la dimensione politica dell’azione per la pace compare in molte<br />

esperienze, certo minoritarie, ma non per questo meno importanti di quelle<br />

di massa degli anni ottanta. Si pensi solamente all’esperienza della<br />

mobilitazione antinucleare (della Campaign for Nuclear Disarmament-Cnd,<br />

mobilitazione solo formalmente “non politica”) nella Gran Bretagna del<br />

dopoguerra. Da Gandhi a Capitini (che parlava di nonviolenza come “aggiunta<br />

alla politica”) il valore politico dell’azione nonviolenta e per la pace<br />

non solo è riconosciuto, ma assolutamente rivendicato. In India la politica<br />

e la pratica della nonviolenza ebbero un certo impatto sulla lotta di liberazione<br />

e gli assetti postcoloniali di quel paese. E sia in Gandhi che in Capitini<br />

(due filosofi e attivisti prettamente politici) alcuni principi fondamentali<br />

come la “noncollaborazione” e la “nonviolenza” (accanto alla “nonmenzogna”)<br />

rappresentano i capisaldi di una politica della pace – o meglio della<br />

nonviolenza – che poco avevano a che fare con le culture politiche tradizionali.<br />

Proprio Aldo Capitini promuove nel 1961 la prima marcia pacifista da<br />

Perugia ad Assisi, la cui impronta politica è chiara nei suoi obiettivi e nella<br />

sua organizzazione (Capitini, 2010; Gandhi, 1973; Pontara, 1996).<br />

7


La dimensione della protesta pacifista americana degli anni sessanta contro<br />

la guerra in Vietnam e contro le guerre coloniali e imperialiste ha parimenti<br />

un suo forte spessore politico in evidente collegamento con quella<br />

rivoluzione antiautoritaria e libertaria che fu la caratteristica del ’68 americano<br />

(e degli anni precedenti) e dei primissimi passi del ’68 in Italia e in Europa.<br />

Sempre il ’68 (insieme a tante altre lotte per i diritti civili) fa emergere<br />

con chiarezza un movimento antimilitarista fortemente politico in Europa<br />

come negli Stati Uniti, diffondendo – questo grazie, almeno in Italia, all’impegno<br />

dei radicali e dei cattolici più che della sinistra – il fenomeno dell’obiezione<br />

di coscienza al servizio militare e alle spese militari e la pratica<br />

della disobbedienza civile. Un antimilitarismo politico – diverso da quello<br />

della testimonianza religiosa (come nel caso dei Testimoni di Geova) – che<br />

contesta “l’istituzione totale” dell’esercito, come in altri campi i movimenti<br />

antipsichiatrici denunciano l’“istituzione totale” del manicomio e come<br />

gli studenti del ’68 contestano la struttura autoritaria della Scuola e dell’Università<br />

(<strong>Marcon</strong>, 2004; Fofi, 1997).<br />

Prima degli anni ottanta le culture politiche del pacifismo sono dunque<br />

incardinate essenzialmente sulle seguenti pratiche e filoni di pensiero:<br />

il movimento nonviolento, antimilitarista e della disobbedienza civile<br />

che è presente in tutto il secondo dopoguerra (con decine di piccoli gruppi<br />

ignorati sia dalla sinistra che dalle gerarchie della Chiesa cattolica) e diventa<br />

più forte negli anni sessanta e poi a cavallo del ’68 (Martellini 2006);<br />

la tradizione (quella più minoritaria, democratica e per certi versi radicale)<br />

del cattolicesimo sociale di base e delle chiese evangeliche (spesso sovrapposto<br />

all’esperienza dei movimenti nonviolenti), particolarmente forte grazie<br />

alla testimonianza e alla disobbedienza di alcuni sacerdoti (in Italia: don Milani,<br />

padre Balducci, eccetera) e delle esperienze delle comunità di base e di<br />

molte minoranze religiose come i valdesi e i quaccheri;<br />

la tradizione di sinistra e del movimento operaio che, almeno fino agli<br />

anni sessanta, è sostanzialmente strumentale e subalterna alla logica dei blocchi<br />

e del bipolarismo: si veda l’esperienza dei “partigiani per la pace”, un movimento<br />

certo complesso e articolato che però rispondeva a una logica<br />

sostanzialmente bipolare (Bobbio, 2005);<br />

la spinta del movimento studentesco tra gli anni sessanta e gli anni<br />

settanta, che – abbracciando almeno in parte la cultura antimilitarista e<br />

nonviolenta – si incardina sostanzialmente sulla contestazione della guerra<br />

in Vietnam e sulla solidarietà con i movimenti di liberazione anticoloniali<br />

e antimperialisti.<br />

8


Gli anni ottanta<br />

Con gli anni ottanta irrompe il pacifismo come soggetto sociale e politico<br />

di massa (e per certi versi globale) e questo nel contesto di una particolare<br />

situazione internazionale (quella della guerra fredda e del bipolarismo) e grazie<br />

a una vasta percezione del rischio di una guerra nucleare. Il rischio di<br />

una guerra totale (nucleare) è alla base dello sviluppo del forte movimento<br />

pacifista di questo periodo: la sua durata e la sua capacità di mobilitazione<br />

sono essenzialmente legate all’intensità della percezione di questo rischio. Il<br />

movimento cresce rapidamente nella prima metà degli anni ottanta e poi –<br />

una volta installati i missili – declina.<br />

Il movimento degli anni ottanta rappresenta, per le culture politiche<br />

del pacifismo, una sostanziale discontinuità (forse più per l’Italia e meno per<br />

la Gran Bretagna e la Germania) rispetto agli anni precedenti: permangono<br />

elementi del passato, ma emergono con forza elementi nuovi nelle culture<br />

politiche del pacifismo. Questi ruotano sostanzialmente intorno al cambiamento<br />

delle relazioni e degli e<strong>qui</strong>libri tra il ruolo delle forze politiche e sociali<br />

organizzate (partiti, sindacati, eccetera) e la dinamica di movimento che<br />

crea sue soggettività, forme di rappresentanza e di organizzazione sconosciute<br />

negli anni precedenti. C’è una coabitazione – difficile, contrastata, conflittuale<br />

– tra dinamica autonoma di movimento e forme tradizionali di<br />

organizzazione politica che si può ricondurre a partiti, sindacati e grandi associazioni.<br />

Le Chiese, in molti paesi europei (in Italia solo in modesta parte,<br />

molto più sono coinvolte invece le strutture cattoliche di base), giocano<br />

un ruolo significativo nel promuovere e sostenere questo movimento. Emerge<br />

con forza il tentativo di costruire una dimensione politicamente autonoma<br />

del movimento per la pace che, nel secondo dopoguerra, era stato possibile<br />

solo ai margini delle grandi culture politiche (quella comunista e quella cattolica)<br />

per pochi e isolati gruppi nonviolenti.<br />

In questo periodo vi sono alcune significative novità nella costruzione<br />

delle culture politiche del pacifismo. Alcune riguardano le forme politiche,<br />

altre quelle organizzative.<br />

Per quanto concerne l’aspetto politico:<br />

un nuova idea di sicurezza fondata non sulle armi, ma sulla libertà, la<br />

democrazia, i diritti umani (tre temi che rimandano, ovviamente, alla situazione<br />

dei regimi autoritari dell’est europeo), la cooperazione e la giustizia<br />

economica e sociale (Benetollo, 1981);<br />

la cultura, la pratica e la politica della nonviolenza che inizia a permeare,<br />

con maggiore efficacia e intensità, in vasti strati del movimento pacifista<br />

che – lo ricordiamo – in questo periodo è prevalentemente un movimento<br />

contro la guerra e per il disarmo, contro i blocchi;<br />

9


la consapevolezza maggiore del rapporto pace-guerra come chiave di lettura<br />

non solo delle relazioni internazionali, ma del modello di sviluppo, del<br />

rapporto tra economia e società, dei rapporti di dominio e di potere, della<br />

disparità tra Nord e Sud del pianeta;<br />

l’inizio di una relativa contaminazione politico-culturale attraverso l’incontro<br />

del pacifismo con altre culture politiche, come quelle dell’ambientalismo<br />

(proprio degli anni ottanta), dei movimenti della solidarietà internazionale<br />

e dei diritti umani (delle Ong), del femminismo e del volontariato sociale,<br />

che nascono o si sviluppano parallelamente in quegli anni. È <strong>qui</strong> che ha inizio<br />

l’influenza sul movimento per la pace di idee e culture (come quelle del<br />

movimento delle donne, dell’ecologismo e del volontariato internazionale),<br />

fino ad allora assenti nel pacifismo (<strong>Marcon</strong>, 2004). Da ricordare l’ovvio legame<br />

tra le questioni del disarmo e la scienza e tecnologia (determinanti per<br />

la costruzione di nuovi armi sempre più sofisticate e distruttive): in questi<br />

anni nascono nuove organizzazioni di scienziati e ricercatori che si impegnano<br />

per il disarmo, alcune di queste ricollegandosi al movimento Pugwash.<br />

Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo, due sembrano gli elementi<br />

di novità che emergono dal movimento per la pace:<br />

lo sviluppo di modalità di mobilitazione a rete e la costruzione di sedi<br />

organizzative autonome (alle quali partecipano, certamente, anche le organizzazioni<br />

tradizionali) come espressione di questa nuova dinamica e soggettività:<br />

in Italia nascono i comitati e i coordinamenti dei comitati per la<br />

pace a livello locale, regionale e nazionale, ma questo processo è estendibile<br />

a tutto il continente europeo;<br />

l’avvio della costruzione di un percorso associativo autonomo che rispetto<br />

al passato (esperienze, comunque significative, come quelle di tanti piccoli<br />

gruppi della galassia del movimento nonviolento, dell’International<br />

Fellowship of Reconciliation, del Service Civil International, eccetera) ac<strong>qui</strong>sta<br />

una nuova e particolare valenza, quella di rendere impossibile il ritorno<br />

del collateralismo e dell’egemonismo delle forze politiche organizzate: in<br />

Italia nascono, negli anni ottanta, la sezione di Pax Christi, i Beati i Costruttori<br />

di Pace, la Legambiente, e l’esperienza dei comitati per la pace porta<br />

alla creazione dell’Associazione per la pace, (Castellina, 1998).<br />

È un pacifismo che produce una sua cultura politica, sue autonome e<br />

originali forme organizzative e di coordinamento, dei suoi leader, anche a<br />

livello internazionale. L’esperienza della End 1 ne è testimonianza. È un mo-<br />

1 Le convenzioni della European Nuclear Disarmament (End) si tengono dal 1982 al 1991<br />

in diversi paesi europei. Un appello per il disarmo nucleare europeo (elaborato da M.<br />

Kaldor, E.P. Thomson, K. Coates, D. Smith) era stato lanciato nel 1980, dopo la deci-<br />

10


vimento che costringe partiti e politica a confrontarsi con soggettività nuove<br />

nella società civile, autonome e irriducibili ai vecchi collateralismi. I movimenti<br />

pacifisti degli anni ottanta sono in qualche modo il sintomo di una<br />

febbre che sta colpendo l’assetto bipolare e che porterà, con la caduta del<br />

muro di Berlino, alla diffusione della democrazia e dei diritti umani.<br />

È certamente, oltre che un movimento contro i blocchi, un “movimento<br />

contro la guerra” più che un “movimento per la pace”. È un movimento<br />

che – in alcune sue parti – è ancora condizionato da una vena ideologica<br />

antiamericana e antimperialista. È un movimento che ancora non è capace<br />

di assorbire l’esperienza, gli insegnamenti e le pratiche della nonviolenza:<br />

Gandhi, Capitini, la marcia Perugia-Assisi, le pratiche della disobbedienza<br />

civile sono ancora – nonostante le evocazioni e i richiami più o meno formali<br />

– sostanzialmente sullo sfondo delle mobilitazioni 2 .<br />

Nella considerazione delle culture politiche del pacifismo in questo periodo,<br />

non può non essere considerato, con specifico rilievo, il tema del<br />

rapporto tra pacifismo e ambientalismo. E questo per due motivi. In primo<br />

luogo, perché il movimento ambientalista si definisce in molti paesi e tante<br />

sue parti come movimento “ecopacifista”, si pensi solo alla Germania. Non<br />

è solo il tema del nucleare (contro il nucleare “civile e militare”) a unire, ma<br />

la considerazione della guerra atomica come il più grave pericolo di distruzione<br />

totale di un pianeta che deve essere salvato. In secondo luogo, a differenza<br />

del pacifismo, una parte dell’ecologismo degli anni ottanta diventa<br />

forza politica, partito. Sarebbe il caso – in altra occasione – di approfondire<br />

le ragioni della stessa mancata trasformazione del pacifismo in movimento<br />

politico tout court.<br />

L’ambientalismo, più del pacifismo, sembra capace in questi anni di produrre<br />

– e con un grado molto più alto di autonomia dalle tradizionali forze<br />

organizzate – una propria identità e soggettività politica, una sua forza<br />

attrattiva perdurante sul lungo periodo verso l’opinione pubblica, capace di<br />

far permanere la propria iniziativa politica nel tempo, al contrario di un pacifismo<br />

che sembra troppo legato a una dimensione emergenziale: l’installazione<br />

degli euromissili e il rischio di una guerra nucleare.<br />

sione del 1979 della Nato di installare i missili nucleari Pershing e Cruise in Europa. Le<br />

convenzioni, che si tennero durante l’estate, rappresentarono il punto di raccolta e d’incontro<br />

del movimento di massa antinucleare europeo.<br />

2 Con alcune importanti eccezioni come le azioni nonviolente e le manifestazioni di<br />

protesta nei pressi dei siti dove si sarebbero dovuti installare i Cruise e i Pershing.<br />

11


Tra gli anni ottanta e gli anni novanta<br />

La cultura pacifista dopo gli anni ottanta si evolve dovendo confrontarsi<br />

con alcuni cambiamenti fondamentali nelle relazioni internazionali e nel<br />

pianeta: la fine della guerra fredda e il passaggio dal bipolarismo a un unipolarismo<br />

più o meno esplicito, l’emergere della globalizzazione neoliberista,<br />

la dimensione etnica, fratricida e interna delle guerre di questo<br />

decennio. Le categorie degli anni ottanta non funzionano più. E non funzionano<br />

più alcune forme e approcci del pacifismo come il “disarmismo”,<br />

la sola identità “antiguerra”, l’unilateralismo anti-imperialista e anti-americano,<br />

la lettura delle relazioni internazionali guidata da chiavi interpretative<br />

ideologiche. Il pacifismo sembra paradossalmente orfano di quel<br />

bipolarismo e di quella guerra fredda contro cui aveva combattuto negli<br />

anni precedenti. È un problema questo che riguarda non solo il pacifismo,<br />

ma anche la politica, i governi, le istituzioni internazionali. I nuovi<br />

assetti in costruzione sono complessi e di difficile decifrazione. Sembra –<br />

in una stagione in apparenza di speranza e di realizzazione dei “dividendi<br />

di pace” – che il processo di disarmo possa svilupparsi – come quello della<br />

democratizzazione nell’Europa dell’est – ma mantenendo dentro molte<br />

contraddizioni. Globalizzazione e neoliberismo da una parte, costruzione<br />

di un nuovo unipolarismo dall’altra scompaginano le relazioni internazionali,<br />

aprono “vasi di pandora” in tante periferie del mondo, rimettono<br />

in discussione rapporti di potere consolidati (<strong>Marcon</strong>, Pianta 2001). Le<br />

speranze vengono contraddette – appena dopo pochi mesi dal 1989 – da<br />

due eventi paradigmatici delle relazioni internazionali e delle guerre degli<br />

anni a venire: l’intervento armato occidentale contro l’Iraq (1991) e l’inizio<br />

delle guerre jugoslave in Europa (1991).<br />

Vi sono in particolare tre aspetti principali con cui confrontarsi:<br />

la nuova situazione che si è costituita nell’Europa dell’est dopo la caduta<br />

del muro di Berlino: i processi di democratizzazione si intrecciano<br />

con quelli autoritari, l’autodeterminazione dei popoli con la crescita del<br />

nazionalismi, la nascita della società civile con lo sciovinismo populista e<br />

xenofobo;<br />

lo scoppio di nuove guerre etniche e nazionaliste, e non solo nell’est europeo<br />

3 : infatti fine del bipolarismo, globalizzazione e politiche neoliberiste<br />

contribuiscono a portare alla luce conflitti mai risolti, costruzioni nazionali<br />

precarie, dinamiche di esclusione e inclusione che usano la cifra etnica per<br />

3 Le guerre “interne” più drammatiche degli anni novanta sono state il conflitto jugoslavo<br />

(1991-1999), la guerra in Ruanda (1994) e quella in Somalia (1992-1993).<br />

12


nascondere la vera posta in gioco: potere, accesso alle ricchezze, controllo<br />

delle materie prime (Kaldor 1999) 4 ;<br />

l’assenza per tutto un decennio di un nuovo chiaro e<strong>qui</strong>librio post-bipolare:<br />

gli anni novanta iniziano con la guerra in Iraq (prodromo di un nuovo<br />

unipolarismo) ma anche con l’Agenda per la pace di Boutrous Ghali (la speranza<br />

di un mondo multipolare e con un ruolo prevalente delle organizzazioni internazionali<br />

5 ) e si concludono con la guerra umanitaria in Kosovo (la conferma<br />

definitiva dell’unipolarismo e del nuovo ruolo dominante della Nato).<br />

Per quanto riguarda noi europei la guerra in ex Jugoslavia è stata un<br />

aspetto chiave dell’esperienza pacifista e della maturazione di una nuova cultura<br />

politica (<strong>Marcon</strong>, 2010). Non solo perché ci si è confrontati con una<br />

guerra – etnica, nazionale, civile, fratricida, di aggressione – così difficile e<br />

complessa. Ma perché è stata la prima guerra europea, dopo il 1945; è durata<br />

un decennio ed è stata – per usare un’espressione dello scrittore italiano<br />

Luca Rastello – una “guerra in casa” (Rastello, 1998): decine di migliaia di<br />

europei – portando aiuti, promuovendo relazioni tra le comunità, organizzando<br />

manifestazioni, accogliendo i profughi – hanno “abitato” quella<br />

guerra, dal di dentro. Tutto questo ha aiutato, in un certo modo, a cambiare<br />

la percezione, il vissuto, il modo – meno semplicistico, dogmatico,<br />

astratto – dei pacifisti di rapportarsi con la realtà della guerra. La guerra nucleare<br />

era una guerra possibile, quella in Iraq era una guerra lontana, quella<br />

in Jugoslavia era, per l’appunto, una “guerra in casa”.<br />

Di fronte a quella guerra il pacifismo europeo – con alcune importanti<br />

eccezioni: tra queste sicuramente una parte dell’Hca 6 , una parte del pacifi-<br />

4 “Il decennio ha registrato 56 conflitti gravi (major armed conflicts) di cui solo tre hanno<br />

coinvolto degli Stati (Iraq-Kuwait, Etiopia-Eritrea, India-Pakistan), mentre tutti gli<br />

altri sono stati conflitti interni (nazionali, etnici, eccetera). Le guerre di questo decennio,<br />

inoltre, hanno visto crescere sensibilmente il numero di vittime civili (oltre il 90%<br />

del totale), e di rifugiati e sfollati, che alla fine degli anni novanta hanno raggiunto la<br />

soglia di 50 milioni. Questi conflitti sono stati prevalentemente combattuti da eserciti<br />

privati, bande irregolari, gruppi etnici e nazionalistici, che hanno generato una prolungata<br />

e drammatica pressione sulle comunità”. (<strong>Marcon</strong>, 2005)<br />

5 L’Agenda per la pace aveva ingenerato molte speranze nelle organizzazioni pacfiste: si<br />

erano create le aspettative – nel contesto del crollo del bipolarismo, non rimpiazzato a<br />

quel momento da nessun altro e<strong>qui</strong>librio internazionale – di una rapida ed incisiva riforma<br />

del sistema delle Nazioni Unite.<br />

6 La Helsinki Citizens Assembly (Hca) è stata sicuramente una delle esperienze più interessanti<br />

degli anni novanta: luogo di incontro tra esperienze pacifiste, organizzazioni<br />

civiche dei cittadini, gruppi e associazioni per la promozione dei diritti umani dell’est<br />

e dell’ovest. Nata nel 1990 ha organizzato importanti conferenze internazionali a Bratislava<br />

(1991), Ohrid in Macedonia (1993) e Tuzla in Bosnia Herzegovina (1995).<br />

13


smo italiano e anche quello spagnolo (Palau 1996) – arrivò in ritardo, sottovalutò<br />

e non comprese quello che stava succedendo. Allora Alex Langer stigmatizzò,<br />

di fronte alla guerra in Jugoslavia, sia, il cosiddetto pacifismo tifoso<br />

(che ha sempre bisogno di un nemico per scendere in piazza) sia quello dogmatico<br />

(ancorato ai suoi sacri principi) per sottolineare l’importanza di quel<br />

pacifismo concreto che lui tanto apprezzava (Langer 2010). E <strong>qui</strong> c’è un primo<br />

elemento della nuova cultura politica del pacifismo degli anni novanta:<br />

quella costruita intorno al legame con le pratiche della solidarietà concreta,<br />

della diplomazia dal basso, della nonviolenza attiva che così tanto era stata<br />

praticata dal movimento per la pace in ex Jugoslavia (<strong>Marcon</strong>, 2000).<br />

In questo contesto cinque sembrano le culture politiche – che ovviamente<br />

si intrecciano, per cui da non considerare mai del tutto separate –<br />

prevalenti in questo periodo:<br />

la prima, appena ricordata, è quella di un pacifismo concreto che ha<br />

nutrito una parte importante del pacifismo europeo degli anni novanta: diplomazia<br />

dal basso, volontariato e aiuto umanitario, difesa dei diritti umani<br />

e riconciliazione sono alcune delle coordinate attorno alle quali si è costruita<br />

questa esperienza; si pensi alle mobilitazioni per l’ex Jugoslavia, ma anche<br />

in Palestina (la straordinaria esperienza di Time for Peace nel 1989-1990) e<br />

in altri scenari e conflitti di quegli anni (Langer, 2010; <strong>Marcon</strong>, 2004). Naturalmente<br />

va ricordato che la dimensione umanitaria dei conflitti fu utilizzata<br />

anche da chi volle legittimare la guerra “in nome dei diritti umani” e di<br />

un nuovo “umanitarismo militare” (Chomsky, 1999) 7 ;<br />

la seconda è quella di un pacifismo dell’ordine democratico internazionale<br />

che si è concentrato sul tema della democrazia internazionale, della riforma<br />

e del ruolo delle Nazioni Unite, della promozione dei diritti umani,<br />

di una visione politico-istituzionale della promozione della pace a livello planetario;<br />

si pensi all’esperienza internazionale della Campaign for a more Democratic<br />

United Nations (Cadmun) 8 della Tavola della Pace e dell’Onu dei<br />

popoli in Italia, iiniziative che hanno avuto il merito di affrontare un tema<br />

7 L’umanitarismo militare è diventato una costante dei conflitti dell’ultimo decennio.<br />

La nuova dottrina ha avuto il suo banco di prova con la guerra umanitaria in Kosovo<br />

e poi ha trovato altre applicazioni in Afganistan e in Iraq. La Nato, a partire dall’Afganistan,<br />

ha teorizzato la cosiddetta Cimic (Civil-Military Cooperation) allo scopo di far<br />

interagire intervento militare ed aiuto umanitario, cooptando Ong e organizzazioni della<br />

società civile nella strategia dell’intervento armato. La Nato ha creato nell’Europa<br />

meridionale anche una sede di addestramento e coordinamento della Cimic che si trova<br />

a San Motta di Livenza (Italia).<br />

8 Altre campagne internazionali su questi temi: l’Action for Un renewal (Arc) ed il World<br />

Civil Society Forum.<br />

14


importante come quello del vuoto istituzionale internazionale dopo la fine<br />

della guerra fredda (Lotti, Giandomenico, 1996) 9 .<br />

Come variante modesta e minoritaria di queste prime due tendenze, va<br />

registrata l’esistenza di alcune forme di pacifismo interventista., che, di fronte<br />

a conflitti come quelli della ex Jugoslavia o del Ruanda, si fece portavoce<br />

della richiesta dell’uso della forza, per porre fine a queste drammatiche guerre.<br />

L’uso, la legittimità e i vincoli dell’intervento militare sono stati comunque<br />

temi presenti – in modo sofferto – nel dibattito del pacifismo in questi<br />

anni (Langer, 2010).<br />

la terza è quella (in continuità con il passato) di un pacifismo del disarmo<br />

e della sicurezza umana che – anche in collegamento con molte iniziative<br />

e a campagne internazionali 10 – ha privilegiato l’azione per il disarmo:<br />

la campagna contro le mine, contro le armi leggere, contro i bambini-soldato,<br />

eccetera. Anche in questo caso queste iniziative hanno avuto il merito<br />

di costruire network globali e di tenere aperto un problema (quello del<br />

disarmo) che dopo l’89 sembrava essere stato rimosso (Manzocchi, 1992;<br />

Venti di pace, 1991).<br />

la quarta è quella (anche questa in continuità con il passato) di un pacifismo<br />

nonviolento, legato alla promozione delle pratiche dal basso dell’obiezione<br />

di coscienza e della disobbedienza civile, della cultura e dell’educazione<br />

alla pace: pratiche che talvolta – come nel caso della ex Jugoslavia – si confrontano<br />

con interventi quali l’interposizione e l’azione diretta;<br />

infine persiste (come negli anni precedenti) un pacifismo ideologico,<br />

anti-imperialista e unilaterale che ha continuato ad avere una sua forza<br />

e ad interpretare ogni conflitto in chiave amico-nemico e a cercare<br />

nella dinamica pace e guerra sempre e unicamente quel tipo di responsabilità<br />

e di cause.<br />

9 Da evidenziare che in questo filone è prosperato un ambito di pacifismo giuridico che<br />

si è impegnato ad usare lo strumento del diritto internazionale – nel contesto del rispetto<br />

dei diritti umani – dei trattati e dei protocolli internazionali per promuovere la<br />

pace ed i diritti umani. In particolare possono essere messi, tra i risultati di questo tipo<br />

di approccio, l’istituzione dei tribunali internazionali per giudicare i crimini di guerra<br />

nella ex Jugoslavia (1993) e in Ruanda (1994) nonché l’istituzione della Corte Penale<br />

Internazionale, il cui statuto è stato varato nel 1998, anche se solo nel 2002 la Corte<br />

(dopo la ratifica degli Stati) ha iniziato a operare.<br />

10 Le campagne internazionali più importanti in questo decennio sono: l’International<br />

Campaign to Ban Landmines (Icbl), vincitrice del premio nobel per la pace nel 1997,<br />

la campagna International Action Network on Small Arms (Iansa), la Coalition to<br />

Stop the Use of Child Soldiers. Da ricordare anche l’iniziativa dell’Hague Appeal for<br />

Peace (1999). Nel decennio successivo si è sviluppata l’importante campagna contro il<br />

commercio di armamenti: Controlarms.<br />

15


Tutti e questi cinque approcci hanno avuto una dimensione e una declinazione<br />

politica. Si è trattato dunque di un decennio importante dove<br />

queste diverse culture politiche si sono evolute e molto spesso intrecciate,<br />

dando vita a una cultura politica del pacifismo complessa e differenziata,<br />

spesso contaminata anche con esperienze di altri movimenti.<br />

E fino a oggi<br />

L’11 settembre del 2001 e la successiva “guerra permanente” o “infinita” hanno<br />

aperto un nuovo scenario internazionale, ma hanno cambiato solo in parte<br />

le culture politiche consolidate del pacifismo. Si è trattato di una grande<br />

discontinuità nell’ambito delle relazioni internazionali e dell’e<strong>qui</strong>librio mondiale.<br />

Dopo la guerra degli Stati Uniti in Afganistan, la minaccia di una nuova<br />

guerra contro l’Iraq ha provocato la più grande mobilitazione contro la guerra<br />

realizzata dal 1945 a oggi. Tanto che il “New York Times” ha evocato per questo<br />

movimento, dopo le manifestazioni per la pace del 15 febbraio 2003 in<br />

tutto il mondo, l’appellativo di “seconda superpotenza mondiale” 11 . Questi eventi<br />

hanno comportato nel movimento per la pace, uno scarto nella consapevolezza,<br />

la dimensione delle sfide e la complessità della propria azione in un contesto<br />

così drammatico 12 . La guerra in Iraq ha rappresentato un nuovo spartiacque per<br />

il pacifismo europeo e mondiale, un salto di qualità nell’imposizione della guerra<br />

come strumento della politica estera, ma anche dell’opposizione della società<br />

civile alle logiche militari e belliche. Questa riduzione della guerra a strumento<br />

della politica estera ha rappresentato una delle più preoccupanti derive politiche<br />

dell’azione dei governi occidentali, a partire dagli anni novanta: l’interventismo<br />

armato ha rappresentato, nella politica estera americana di questi anni,<br />

uno dei tratti caratteristici della costruzione del suo dominio geopolitico ed economico.<br />

Per un cambiamento significativo di questa impostazione aggressiva e<br />

interventista bisognerà attendere l’elezione di Obama.<br />

In ogni caso le culture politiche che si sono sviluppate, o sono apparse per<br />

la prima volta negli anni novanta, hanno continuato in qualche modo a consolidarsi<br />

e a seguire una traiettoria culturale e pratica abbastanza coerente. Il<br />

11 Patrick E. Tyler, A New Power in the Streets, “New York Times”, 17 febbraio 2003.<br />

12 Movimenti, gruppi e coordinamenti pacifisti sono sorti in tutto il mondo per cercare<br />

di fermare l’intervento americano in Iraq nel 2003. Va ricordata l’importanza della<br />

mobilitazione degli Stati Uniti dove sono state attive organizzazioni come l’United for<br />

Peace & Justice (oltre 1300 gruppi pacifisti di base), Peaceful Tomorrows (organizzazione<br />

delle vittime dell’11 settembre) e Democracy Now!<br />

16


pacifismo umanitario e concreto ha continuato la sua azione nelle aree di conflitto<br />

e si è sempre di più collegato con molte esperienze di solidarietà internazionale;<br />

quello politico-istituzionale ha rafforzato la sua capacità di intervenire<br />

nel merito e con competenza sulle questioni della democrazia e delle istituzioni<br />

internazionali; il pacifismo nonviolento ha accresciuto la sua diffusione – anche<br />

in termini pedagogici ed educativi, pensiamo all’intervento nelle scuole –<br />

tra la società; l’azione di un pacifismo per il disarmo è sempre più necessaria di<br />

fronte alla crescita della spesa per armamenti e del commercio delle armi e<br />

continua a permanere un pacifismo ideologico, dogmatico, unilaterale, tendenza<br />

che – ovviamente – la “guerra permanente” non aiuta a indebolire.<br />

La vera novità – a parte quella così decisiva della “guerra permanente”<br />

e di un così oramai schiacciante unipolarismo americano – è la congiunzione<br />

che si è verificata, a partire dal 2001, tra movimenti pacifisti e movimenti<br />

sociali globali (Pianta, 2001). I forum sociali – da Porto Alegre in poi – hanno<br />

rappresentato un importante laboratorio nella costruzione di questa “alleanza”.<br />

C’è stata, anche in questo caso, una contaminazione che in qualche<br />

modo testimonia il carattere strutturalmente magmatico, permeabile, mobile<br />

di una cultura politica pacifista che è capace, in alcuni frangenti (nelle<br />

emergenze di fronte a conflitti e guerre imminenti), a costruire sul tema pace-guerra<br />

una mobilitazione più larga di quella dei propri confini, salvo poi<br />

non riuscire a continuare a gestire, in un progetto di più lungo periodo,<br />

un’iniziativa politica estesa a tutte le componenti sociali.<br />

Questa contaminazione con le culture politiche dei movimenti sociali<br />

globali è servita ad arricchire le culture politiche del pacifismo su una serie<br />

di aspetti (la natura del neoliberismo e delle relazioni economiche globali,<br />

delle dinamiche del potere del dominio, delle origini delle guerre e dei conflitti)<br />

che in qualche modo hanno reso il pacifismo più pronto e attento ad<br />

affrontare le nuove sfide globali, i conflitti e le evidenti contraddizioni delle<br />

attuali relazioni internazionali.<br />

Quanto invece il pacifismo abbia condizionato e attraversato le culture<br />

politiche dei partiti, dei governi e delle istituzioni è un tema da sviluppare<br />

in altra sede: ovviamente ci sono luci e ombre, passi in avanti e resistenze<br />

insormontabili. È interessante notare come nessuna forza politica ha assunto<br />

un profilo autenticamente pacifista. Quello che a noi interessa però<br />

in questo caso è quanto da questa “lunga marcia del pacifismo” nelle<br />

istituzioni le culture politiche abbiamo tratto in termini di accresciuta consapevolezza<br />

della complessità della costruzione di politiche della pace dentro<br />

i vincoli del sistema internazionale e di norme, disposizioni amministrative,<br />

risorse da impiegare, vincoli istituzionali. La sfida di compenetrare un pacifismo<br />

che nasce dalla società con quello che si può sviluppare nelle istituzioni<br />

è molto importante.<br />

17


La valutazione dell’impatto del pacifismo, in questo contesto, è di complessa<br />

declinazione. Da una parte quasi nessuna guerra è stata impedita o<br />

fermata grazie alla mobilitazione del pacifismo, da l’altra la fine del bipolarismo<br />

negli anni novanta(e l’avvio del processo del disarmo nucleare, anche<br />

grazie all’associazione del movimento pacifista) può essere in qualche modo<br />

ricondotta a una crescita della società civile e della cultura democratica<br />

e dei diritti umani che ha minato le fondamenta della guerra fredda. A livello<br />

internazionale alcune iniziative pacifiste o riconducibili al movimento<br />

per i diritti umani hanno portato a risultati concreti, quali la firma di alcuni<br />

trattati internazionali come quelli sulle mine anti-uomo e sulle armi nucleari<br />

o, a livello giuridico, l’istituzione della Corte penale internazionale e<br />

dei tribunali internazionali per la ex Jugoslavia e il Ruanda (mentre minori<br />

risultati hanno dato l’azione e le campagne per la riforma delle Nazioni Unite).<br />

Un ruolo specifico l’ha avuto il “pacifismo concreto” che, con la sua azione<br />

umanitaria ha avuto il merito di salvare molte vittime e di arginare le<br />

forme più estreme di guerra etnica in vari conflitti locali. L’azione umanitaria<br />

nelle guerre si è molto diffusa a partire dai conflitti degli anni novanta.<br />

Più difficile definire l’impatto del movimento per la pace su temi come la<br />

cultura, la comunicazione e l’educazione. È indubbio, però, che negli ultimi<br />

vent’anni la cultura della pace, della democrazia e dei diritti umani è enormemente<br />

cresciuta ed è diventata patrimonio di sempre più vasti settori delle<br />

nostre comunità.<br />

Il carattere composito, e allo stesso tempo sovrapposto, delle culture politiche<br />

del pacifismo si è evoluto nel corso degli anni grazie a una contaminazione<br />

sempre maggiore tra le varie ispirazioni, evidenziando però una<br />

strutturale difficoltà nel fare massa critica e nell’esprimere una soggettività<br />

politica comune forte. La debolezza del pacifismo – nei momenti di scarsa<br />

mobilitazione – sembra più evidente che per altri movimenti sociali: questo<br />

forse perché la dimensione della protesta contro la guerra sembra avere (ed<br />

è naturale che sia così) una capacità di coagulazione molto più forte della<br />

“pace positiva” nella quotidianità dell’azione sociale collettiva. Il pacifismo<br />

continua a essere un movimento che riemerge nei momenti di frattura e di<br />

rottura dell’ordine dato (conflitti, tensioni internazionali, eccetera), ma che<br />

rimane sotterraneo (nel bene e nel male) di fronte alla stabilità delle condizioni<br />

di dominio o di e<strong>qui</strong>librio interno e internazionale. Sembra si riproponga<br />

<strong>qui</strong> un problema relativo alla capacità del pacifismo di darsi una<br />

“politica della nonviolenza”. Questa ha a che vedere, non solo con i contenuti<br />

della “politica della pace”, ma anche con le forme (il rapporto mezzifini<br />

è centrale per il pacifismo) dell’azione del movimento: nonviolenza attiva,<br />

azioni dirette, disobbedienza civile, non collaborazione, obiezione di coscienza,<br />

eccetera. Si tratta di forme e modalità che permettono alla “politica del-<br />

18


la nonviolenza” di superare quella concezione militarizzata e violenta della<br />

politica – fondata sulla dialettica amico/nemico – che è la caratteristica di<br />

gran parte dell’azione collettiva del Novecento e della “guerra come continuazione<br />

della politica con altri mezzi”. Solo in questo modo il pacifismo<br />

può costruire un terreno di pratica politica (e di cultura politica) sottratta<br />

alle forme politiche tradizionali, che inevitabilmente possono produrre<br />

processi di adattamento all’esistente e, in definitiva, alla realpolitik o anche<br />

solamente di mediazione su principi e valori (come quelli del rifiuto della<br />

guerra) irriducibili a ogni declinazione opportunistica. Infine la cultura del<br />

pacifismo soffre ancora troppo la sua dipendenza da quello a cui si oppone<br />

(la guerra, il riarmo), e la sua incapacità di declinare una “nonviolenza attiva”<br />

(come ci insegnavano Gandhi e Capitini) come costruzione positiva della<br />

pace. La nonviolenza come aggiunta alla politica, diceva Capitini. È<br />

questo uno dei punti su cui le culture politiche del pacifismo devono continuare<br />

a interrogarsi.<br />

19


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20


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21


Parte seconda<br />

I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe<br />

Quando ci svegliamo la mattina del golpe a Mosca, lunedì 19 agosto, all’ex<br />

Ostello del Komsomol (il refettorio dell’organizzazione giovanile comunista<br />

dove è ospite la delegazione pacifista italiana: siamo quasi un centinaio) nella<br />

Ulitza Kibalchicha – un po’ in periferia a una mezz’ora dal centro della città<br />

– il custode della struttura ha l’orecchio attaccato a una radiolina che gracchia<br />

secche frasi seguite da brani di musica classica. Beviamo un caffè in una stanza<br />

dalle pareti scrostate e con un quadro di Gorbaciov un po’ pendente a destra.<br />

Il custode cerca di sintonizzare meglio la radio su una frequenza disturbata<br />

dai fruscii. La musica finisce, il concerto di Haydn viene bruscamente interrotto<br />

e seguito dalle parole di uno speaker che sembra leggere un comunicato<br />

stampa o un annuncio funebre. Il custode, l’inglese non lo parla e scuote<br />

solo la testa mentre fissa il vecchio transistor. Riprende la musica. Forse non<br />

è morto nessuno, non è successo niente.<br />

Passano due inservienti, sono due donne addette alle pulizie che procedono<br />

silenziose con dei pacchi di lenzuola tra le braccia. Da loro non riusciamo<br />

a sapere niente: filano via e non si fermano alle nostre voci. Dal<br />

custode quello che riusciamo a ottenere è solo un cenno al quadro di Gorbaciov<br />

appeso in portineria. Il saluto appena accennato e poi di nuovo ingobbito<br />

ad armeggiare sulla manopola della vecchia radio per azzeccare la<br />

frequenza meno disturbata. Cerchiamo di prendere un taxi: dobbiamo andare<br />

alla Piazza Rossa. Alcuni non si fermano ai nostri richiami, eppure sono<br />

vuoti. Proseguono diritti; sembra anche che scorgendoci, accelerino. È<br />

solo un’impressione. Che siamo occidentali lo si vede a un chilometro di distanza.<br />

Di solito sono loro ad accostarsi senza richiesta e a chiederti se hai<br />

bisogno di un passaggio. Uno riusciamo a fermarlo, si accosta un po’ bruscamente;<br />

il tassista ha il berretto alla Lenin e ci guarda un po’ di sbieco: Krasnaja<br />

Ploscad chiediamo mentre gli mettiamo sotto gli occhi una piantina<br />

spiegazzata. Fa ampi gesti con la mano sporgendosi dal finestrino, dice<br />

23


qualcosa di incomprensibile in russo e riparte senza complimenti. A un secondo<br />

tassista che arriva dopo un po’ – saranno passati altri dieci-<strong>qui</strong>ndici<br />

minuti – non riusciamo nemmeno a parlare. Si accorge che siamo occidentali<br />

solo quando si accosta al marciapiede. Riparte rapidamente senza darci<br />

il tempo di aprire bocca. Non capiamo cosa stia succedendo.<br />

Ce lo spiega venti minuti dopo Artyom, quando arriva sudato e ansimante<br />

dal fondo della via. Artyom ha vent’anni e ci fa da guida a Mosca.<br />

Dire che sia un pacifista forse è eccessivo. È semplicemente un rappresentante,<br />

o meglio un incaricato del Soviet Peace Committee, l’organizzazione<br />

ufficiale del regime sovietico. Ci è stato assegnato come guida. Ed è una<br />

guida vera; non è invadente e soprattutto si capisce subito che non ha niente<br />

a che fare con la polizia e i servizi segreti. Artyom è stato sempre disponibile<br />

ed entusiasta: ricerca cautamente la nostra complicità per scaricare il<br />

suo “mondo a parte” ed essere come noi occidentali. Abbiamo passato i giorni<br />

scorsi a scambiarci opinioni sulla musica, gli scrittori, i viaggi. E ci racconta<br />

molto dei cambiamenti di questa Russia in fibrillazione da tre anni.<br />

Artyom parla un inglese approssimativo. “Stamattina, quando ho acceso la<br />

radio, hanno letto un comunicato che Gorbaciov è malato, si trova in Crimea<br />

e una trojka di dirigenti del Partito ha preso il suo posto. Ma la malattia<br />

non c’entra niente; questo è un golpe. Forse è già morto, non lo so. Ma<br />

sicuramente lo vogliono far fuori. Mi hanno detto che nel centro della città<br />

ci sono già i soldati che presidiano il Cremlino e gli altri palazzi”. Siamo<br />

increduli non solo per il fatto in sé (e comunque per molti di noi Gorbaciov,<br />

fino ad allora, aveva rappresentato la speranza di una trasformazione<br />

del socialismo in senso democratico), ma anche perché sembra che la vita<br />

quotidiana prosegua come sempre: i negozi sono aperti, gli anziani in fila in<br />

posta a spedire lettere e pacchi, le macchine circolano nella solita quantità.<br />

Il golpe ce lo si aspetta in modo diverso: abbiamo in mente il Cile di Pinochet,<br />

i prigionieri nello stadio, i bombardamenti dell’edificio presidenziale,<br />

i militari in ogni angolo della città.<br />

Fino a poche ore prima avevamo discusso animatamente (in sessioni plenarie<br />

un po’ dispersive e ingessate e in tanti workshop più liberi e interessanti)<br />

in un grande palazzo dei congressi; un migliaio di pacifisti europei con<br />

centinaia di esponenti di piccoli e grandi gruppi da varie repubbliche dell’Unione<br />

Sovietica. È la riunione annuale della European Nuclear Disarmament<br />

Convention (la cosiddetta End) che per la prima volta quest’anno<br />

sbarca a Est, con esponenti delle organizzazioni ufficiali e del dissenso dell’<br />

“altra Europa”. Ma, più che occasione di confronto sui temi del momento<br />

– dai postumi della guerra del Golfo alla guerra in ex Jugoslavia appena iniziata<br />

– la Convention è diventata una specie di sfogatoio psico-sociale, di sublimazione<br />

del Super Io collettivo a lungo represso e irreggimentato dall’ideologia<br />

24


comunista e ora tracimato nei mille rivoli di un rito disordinato e catartico<br />

di autocoscienza collettiva. Nelle salette dei gruppi di lavoro si affollano in<br />

tanti: le madri dei soldati sovietici e gli obiettori di coscienza, i tolstojani<br />

nonviolenti e gli ecologisti impegnati contro le centrali nucleari (sono solo<br />

passati quattro anni da Chernobyl), i radicali “transnazionalizzati” (anche<br />

<strong>qui</strong> hanno fatto proseliti) e qualche gruppo femminista. C’è di tutto, anche<br />

un gruppo di barbuti ucraini che ha proposto un workshop sul tema della<br />

“prova scientifica sull’esistenza di Dio”. E ovviamente anche le tendenze meno<br />

folcloristiche e più pericolose come quelle di un gruppo lituano (sciovinista<br />

e razzista) che mellifluamente ha proposto una discussione sull’influenza<br />

del “gotha ebraico e massonico” nell’economia internazionale. Come hanno<br />

fatto ad avere accesso alla Convenzione? Tutto nel pentolone di un informe<br />

zibaldone democratico. Eppure come dice il mio amico Karl – un<br />

volontario tedesco del Servizio civile internazionale di ritorno proprio di un<br />

campo di lavoro in Lituania – non è tanto colpa della democrazia, anzi:<br />

“Questo è il risultato dello stalinismo, della mancanza della democrazia: e poi<br />

nelle situazioni di difficoltà, la risposta è quella di trovarsi un nemico con cui<br />

prendersela, e la xenofobia e il razzismo ben si prestano a questo scopo”.<br />

E d’altronde – anche tra gli occidentali – c’è un po’ di tutto. Nonviolenti<br />

a oltranza e pacifisti tedeschi realos (o realpolitik), femministe e funzionari<br />

di partito, boy scout e anche qualche sindacalista italiano di basso<br />

bordo (e fortunatamente pochi, quelli seri sono molti di più) che intravediamo<br />

a puttaneggiare come agenti di commercio in trasferta, nelle hall<br />

degli alberghi internazionali con ragazze russe in minigonna a sorseggiare<br />

champagne e vodka (tutto a rimborso spese del sindacato, c’è da scommetterci).<br />

Ci sono gli orfani del Pci e i demoproletari in disarmo, qualche radicale,<br />

molti dell’Arci e della Sinistra Giovanile (da poco si chiama così la<br />

Fgci), Legambiente e naturalmente l’Associazione per la pace; e poi tanti<br />

cani sciolti. Si parla molto di est in transizione, di nazionalismi in agguato,<br />

di guerre civili sulla porta di casa (quella jugoslava è iniziata appena<br />

da un mese e mezzo). Ma i “disarmisti” sono ancora in tanti, pensano che<br />

la priorità sia il disarmo nucleare e non lo sfascio che avanza rapidamente<br />

in questa Europa dimenticata oltre cortina. Dietro le <strong>qui</strong>nte, la delegazione<br />

italiana discute e litiga fino a tarda notte sulle solite cose: chi parla<br />

in plenaria e a nome di chi, la frase da limare nel documento finale, l’appuntamento<br />

da mettere in evidenza nell’appello, l’interpretazione dei discorsi<br />

dei leader e tra questi, quelli internazionali come Mary Kaldor, Mient<br />

Jan Faber che, con il loro lavoro sotterraneo, stanno costruendo una nuova<br />

rete europea che unisca le organizzazioni dei cittadini dell’est e dell’ovest.<br />

La End è ormai finita: nata come spazio di coordinamento del<br />

movimento contro gli euromissili nucleari, oggi – dopo l’installazione Per-<br />

25


shing e Cruise e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino – si è aperta<br />

una nuova fase politica e storica.<br />

Quando arriviamo sulla Piazza Rossa un paio di carri armati stazionano<br />

immobili con carristi sperduti e sbarbati che spencolano dinoccolati dalla<br />

torretta. Attorno qualcuno che li apostrofa, e poi molti curiosi e tanti<br />

turisti stranieri. Ci tornano in mente le parole strazianti delle madri dei soldati<br />

ascoltate nella conferenza, con tanto di foto dei loro figli: ogni anno<br />

seimila soldati muoiono negli incidenti e nelle esercitazioni per le violenze<br />

dei superiori. E poi soprattutto l’invasione in Afganistan, iniziata nel 1979<br />

e terminata nel 1989 con decine di migliaia di morti tra i soldati russi. E il<br />

peggio, forse, può ancora arrivare: in Cecenia il presidente Dzohkar Dudaev<br />

vuole portare il paese alla separazione dall’Unione Sovietica e Mosca non<br />

lo permetterà. Altre invasioni, altre guerre, altri morti. Questo ci dicono queste<br />

“madri coraggio” che chiedono: basta con la leva obbligatoria, l’esercito<br />

sia solo professionale. Alcune di queste madri le ritroviamo nella Piazza Rossa:<br />

“Questa volta i soldati non spareranno al popolo”, dice una di loro, agitandosi<br />

in direzione di un capitano dell’Armata Rossa che controlla i soldati.<br />

Da un’altra parte un soldato estrae il caricatore della sua mitraglietta e lo fa<br />

vedere alla gente: “Non lo userò contro di voi”, grida. Applausi, esclamazioni<br />

di gioia; il terrore delle punizioni dei superiori per il momento non c’è.<br />

Ci aggiriamo sperduti, mentre degli ignari turisti americani vanno in giro<br />

per i Gum (i grandi magazzini che si affacciano sul Cremlino) e comprano<br />

balalajke e samovar. La gente sciama verso l’Arbat. C’è una manifestazione<br />

contro il golpe. “Gorbaciov è in Crimea, ma Eltsin resiste”. Ci dicono che<br />

sta parlando da qualche parte, addirittura l’hanno visto salire su un carro<br />

armato con un megafono in mano. Come, hanno arrestato Gorbaciov, e lasciano<br />

che Eltsin, che è più radicale del segretario generale, faccia comizi e<br />

arringhi ai manifestanti? Da altri amplificatori improvvisati stridono appelli<br />

alla mobilitazione. E verso l’Arbat lo sciame della gente si trasforma in manifestazione,<br />

in corteo compatto e ordinato: slogan e urla si rincorrono con<br />

pugni e mani alzate verso il cielo. Molti giovani, e donne. Alla manifestazione<br />

incontriamo un ragazzo che si chiama Kramar, uno dei primi obiettori<br />

di coscienza in Urss: è stato accalappiato dai radicali italiani e cooptato<br />

nel partito radicale transnazionalizzato. Inizia già a scimmiottarne sicumera<br />

e sprezzo politico. Dice in un perfetto inglese: “la colpa è di Gorbaciov,<br />

si è circondato di fascisti”. Artyom –che è con noi – non è d’accordo e confusamente,<br />

un po’ in russo e un po’ in un balbuziente inglese, gli ribatte citando<br />

i meriti del leader sovietico. Ma le polemiche durano poco. Siamo<br />

trascinati via dal fluire della gente.<br />

La situazione è insolitamente statica e il golpe sembra morbido, gli sviluppi<br />

sono incerti. Elhena è una studentessa di biologia di 23 anni, di buo-<br />

26


na famiglia: il padre professore universitario, vacanze estive passate a Porto<br />

Rose in Istria (ben pochi si possono permettere di andare all’estero anche<br />

se questo “estero” è la federazione jugoslava), elegante e curata, anche<br />

lei con il miraggio dell’occidente. L’abbiamo conosciuta qualche sera prima<br />

all’Arbat. Tra le bancarelle che ti smerciano un colbacco dell’Armata<br />

Rossa o le matriosche rimodellate, con quella più grande dal volto di Gorbaciov<br />

e quella più piccola con quello di Lenin (passando per Stalin), Elhena<br />

mi racconta di quello che si augura per la sua vita: viaggiare, conoscere<br />

l’Europa, uscire dal carcere della vita sovietica, leggere libri che a Mosca<br />

non si trovano; e mi chiede molto della letteratura italiana, di Pavese e di<br />

Vittorini. Ha letto già Moravia, La noia e Professione di desiderio. E mi costringe<br />

a raccontarle la mia vita quotidiana e soprattutto il racconto dei<br />

viaggi la fa esclamare di gioia. Facciamo fatica a confrontare i nostri ideali<br />

– la pace, la rivoluzione, cambiare il mondo... – con quelli molto più<br />

concreti di una ragazza che vorrebbe solo la libertà e sa che il modo più<br />

facile per raggiungerla è scappare con un occidentale.<br />

Le parliamo al telefono durante la manifestazione. Ha paura e se ne sta<br />

a casa: “Eltsin e Gorbaciov hanno sbagliato a non fare prima fronte comune.<br />

Ma l’errore più grande l’ha fatto Gorbaciov. Doveva rischiare di più e<br />

abbandonare i conservatori”. Fino a qualche giorno fa Elhena se ne stava a<br />

Porto Rose. Ha visto da vicino la guerra jugoslava, cioè la separazione della<br />

Slovenia dalla Federazione e i brevi combattimenti che hanno interessato soprattutto<br />

Lubiana e i posti di frontiera con l’Italia. Ma anche in Istria ci sono<br />

stati problemi: l’esercito jugoslavo rinchiuso nelle caserme, i serbi lì<br />

residenti timorosi di essere colpiti, i primi profughi. E proprio noi italiani<br />

alla Convenzione pacifista di Mosca abbiamo sostenuto con forza l’idea di<br />

una “carovana per la pace” in Jugoslavia. Dovremmo partire il prossimo 25<br />

settembre da Trieste per arrivare a Sarajevo il 29 settembre e tenere una grande<br />

catena umana per la pace. Mi implora di stare attento, di non uscire dall’albergo,<br />

di andare subito all’aeroporto e partire. Intanto si intuisce una certa<br />

confusione tra i militari. I movimenti dei carri sembrano lenti. Si fermano,<br />

ripartono. Singhiozzano, incespicano. La Piazza Rossa viene chiusa solo alle<br />

11 e la circolazione è comunque assicurata nella città.<br />

C’è rabbia nei russi che manifestano; molti hanno giubbe chiare e magliette<br />

a strisce (come da noi con Tambroni nel 1960) <strong>qui</strong> tornate di moda.<br />

Artyom ci accompagna; è spaesato, ma continua a spiegarci quello che riesce<br />

a capire della situazione in corso. Dietro di noi un carrista appoggiato<br />

alla torretta del suo tank osserva senza capire quello che ci diciamo: è stanco,<br />

tutto fuorché minaccioso, solo la voglia di farla finita al più presto. Almeno<br />

così ci sembra. Molti di noi vorrebbero rimanere, ma dobbiamo andare<br />

all’aeroporto. Il nostro viaggio è già prenotato e non possiamo permetterci<br />

27


di perdere il volo. Artyom ci saluta con un sorriso che è una smorfia. Ci abbracciamo<br />

per qualche secondo. Ci facciamo gli auguri e la promessa di rimanere<br />

in contatto. Un’ultima telefonata a Elhena e l’impegno di rivederci<br />

a Roma. Il taxi cerca di farci uscire dal traffico impazzito del centro. Incontriamo<br />

le facce tristi dei soldati e quelle scure dei manifestanti: sembra di essere<br />

sull’orlo di scontri violenti. Molti sperano ancora in un capovolgimento<br />

democratico, nonviolento, ma mentre ci avviciniamo all’aeroporto una trentina<br />

di blindati spunta da una stradina e, incolonnandosi verso il centro, ci<br />

fa nuovamente sprofondare nell’angoscia. Gli sguardi dei militari che si sporgono<br />

dai camion e dai cingolati sono tesi e determinati. Guardano avanti<br />

senza concedersi agli sguardi di chi, in macchina o in taxi, si sta dirigendo<br />

all’aeroporto. Abbiamo avuto prima l’illusione di un golpe “morbido”, la<br />

speranza della grande compattezza dei manifestanti, il disincanto incoraggiante<br />

dei soldati sulle torrette dei carri. E se ci fossimo sbagliati? “Potranno<br />

anche vincere”, dice il tassista scuotendo la testa, guardandoci dallo<br />

specchietto, “ma non durerà, ormai il tempo è dalla nostra parte”. E ci lascia<br />

all’aeroporto nel caos infernale del terminal con i turisti che vogliono partire,<br />

mentre noi vorremmo rimanere ancora; non si capisce più nulla, mentre<br />

il sole lentamente scende verso l’orizzonte e la sensazione di un mondo sempre<br />

più in disordine – guerra in Iraq, in Jugoslavia, golpe a Mosca, tutto in<br />

pochi mesi – ci avvolge senza il conforto di una risposta consolatoria.<br />

28


Time for Peace<br />

Gerusalemme, Time for Peace (1989-1990)<br />

La partenza. Una volta decollati da Roma e spente le spie delle cinture di sicurezza,<br />

Vittorio Tanzarella e altri esponenti dell’Associazione per la pace si<br />

fanno dare il microfono dalle hostess dell’Alitalia e ci danno le informazioni<br />

essenziali: “Quando arriviamo a Tel Aviv ci saranno dei pullman ad attenderci<br />

e alcune guide: una è Rino La Rocca, della compagnia Dedalus,<br />

l’altra è Randa, palestinese e interprete dall’inglese. Seguiteli e vi porteranno<br />

sul pullman assegnato”. Poi dai microfoni si danno altre informazioni<br />

più politiche: la situazione in Palestina, l’organizzazione dell’iniziativa, la condizione<br />

delle forze di pace israeliane, il significato del movimento dell’Intifada.<br />

Abbiamo per le mani un numero speciale di “Arcipelago” (il giornale<br />

dell’Associazione per la pace) con altre informazioni sulla storia, i problemi<br />

politici, il conflitto in corso. Una volta sbarcati ci ritroviamo nella hall degli<br />

arrivi e poi sul piazzale dell’aeroporto, guardati a vista dalla security dell’aeroporto<br />

che controlla che ogni bagaglio abbia il proprio proprietario.<br />

Dopo una giornata di arrivi di pacifisti italiani (e non solo: sindacalisti,<br />

amministratori locali, giornalisti, politici, eccetera) da Roma e da Milano alla<br />

fine siamo più di novecento. 1990 Time for Peace (una settimana a cavallo<br />

di capodanno) è il titolo dell’iniziativa per la pace in Medio Oriente<br />

promossa e lanciata dalla convenzione End la scorsa estate. Il titolo dell’iniziativa<br />

non è forse originale, ma lo slogan “due popoli, due stati” – alla base<br />

della manifestazione – ha una sua pregnanza per noi che cerchiamo di<br />

andare oltre vecchio terzomondismo filo arabo a favore di una posizione<br />

più equa, a sostegno dei diritti dei due popoli, quello palestinese e quello<br />

israeliano. L’iniziativa è il risultato di più di un anno di frequentazioni, di<br />

mediazioni e compromessi tra le organizzazioni italiane, i comitati palestinesi<br />

dell’Intifada e Peace Now. Il senso è chiaro, l’obiettivo “semplice”: mettere<br />

insieme i palestinesi e gli israeliani, a fianco degli europei, per favorire<br />

il dialogo e promuovere iniziative comuni. Da tre anni in Palestina c’è l’Intifada<br />

e il pacifismo israeliano ha sposato la causa del riconoscimento di<br />

uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Dai tempi della guerra del<br />

Libano nel 1982 Peace Now è diventata una forza importante nel paese.<br />

L’iniziativa è ostacolata dal governo israeliano. I trecento italiani che partono<br />

da Roma con la compagnia israeliana El Al, subiscono cinque ore di interrogatori<br />

con domande del tipo: “Di che partito sei?”, “Chi ti ha dato i<br />

soldi per il biglietto?”, “Conosci palestinesi in Israele?”, e così via. Oltre alla<br />

polizia c’è l’estrema destra. Voleva organizzare una contro-manifestazione,<br />

ma gli è stata vietata. Il giorno dopo il nostro arrivo, quando andiamo<br />

al Yad Vashem, il Museo dell’olocausto di Gerusalemme, troviamo alcuni<br />

29


fanatici oltranzisti, ci accolgono con cartelli e slogan che ci accusano di aiutare<br />

i palestinesi a fare quello che aveva già in mente Hitler: la li<strong>qui</strong>dazione<br />

degli ebrei. Un provocatore con la casacca verde militare ci aggredisce. Giovanni<br />

Bianchi, presidente delle Acli, sale su una panchina, prende un megafono<br />

e pronuncia un breve discorso per calmare le acque. Ricorda: “Bisogna<br />

rimuovere le radici dell’intolleranza, proprio a partire dalla consapevolezza<br />

di quello che ha significato l’olocausto. Dobbiamo lavorare per una pace che<br />

sia alla portata di tutti”. Entriamo nella sala del museo dell’olocausto che ricorda<br />

il milione e mezzo di bambini ebrei sterminati dai nazisti: una stanza<br />

completamente buia, illuminata solo da centinaia di candele inscatolate in<br />

specchi labirintici e impalpabili. Solo una voce profonda rompe il silenzio: è<br />

un nastro che ricorda i nomi e l’età dei bambini sterminati dai nazisti.<br />

L’occupazione. L’occupazione israeliana della Cisgiordania e della striscia<br />

di Gaza è innanzitutto storia di brutalità. Ma non solo nei territori occupati.<br />

A Jaffa, quartiere arabo di Tel Aviv (che sorse nel 1948 a ridosso di<br />

questa antica città araba, che allora contava 70.000 abitanti e oggi ne ha<br />

17.000), si susseguono prepotenze e discriminazioni.<br />

Andrea Marussy, fondatore della Lega degli arabi di Jaffa e insegnante, ci<br />

accoglie nella sua casa ed è quasi divertito dal nostro stupore. “L’obiettivo degli<br />

israeliani – dice – è di cancellare Jaffa ed espellere da questa città la popolazione<br />

araba. Come? È molto semplice. Prendi il problema delle case. Jaffa<br />

sta cadendo a pezzi, ma la municipalità di Tel Aviv proibisce agli arabi di ristrutturare<br />

gli edifici. Le case più fatiscenti vengono rase al suolo. Chiaramente<br />

questo divieto non vale per gli ebrei, che si stanno lentamente insediando<br />

a Jaffa”. Ci facciamo un giro per la città e il suo degrado è indicato da tante<br />

cose: sporcizia, strade sconnesse, edifici scrostati e cadenti. “Ci hanno impedito<br />

anche di ristrutturare alcune piccole moschee. Adesso sono diventate latrine<br />

e ritrovi per prostitute. Visto che non ci mandano i camion per<br />

prendere l’immondizia la raccogliamo da soli. Ogni estate organizziamo un<br />

campo di lavoro internazionale per la manutenzione degli spazi verdi, al quale<br />

partecipano anche i vostri volontari del Servizio Civile Internazionale”.<br />

Nei territori occupati quattrocento ragazzi sono morti in due anni di Intifada<br />

perché sventolavano la bandiera palestinese o perché tiravano dei sassi.<br />

Il cadavere dei ragazzi viene di solito sequestrato dalla polizia israeliana<br />

che ne dispone per alcuni giorni, imponendo poi un funerale segreto a cui<br />

sono ammessi solo genitori e fratelli della vittima. I palestinesi vengono controllati<br />

continuamente. Alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, il giorno<br />

della catena umana (la manifestazione che siamo venuti a organizzare) vediamo<br />

due militari che fermano un palestinese con un casco di banane che<br />

viene inutilmente rovistato. Poi, uno dei soldati stacca una banana e butta<br />

30


la buccia ai piedi del palestinese. Al check point di Betlemme, mentre<br />

aspettiamo in pullman di poter passare, arrivano due bambini palestinesi in<br />

bicicletta. Le ruote delle gomme gli vengono sgonfiate, “per motivi di sicurezza”.<br />

Con il grugno i bambini continuano a piedi.<br />

Dimenticata ormai è la storia delle alture del Golan, strappate da Israele<br />

alla Siria nella guerra del 1967 e annesse nel 1981. Nel 1967 vi vivevano<br />

130mila siriani. In questi anni i villaggi sono stati distrutti e i siriani deportati.<br />

Sono rimasti in 9.mila, ma il futuro è segnato. Il Golan è ormai deserto.<br />

Stanno arrivando solo i coloni israeliani, immigrati da altri paesi.<br />

Passiamo un pomeriggio nell’ultimo villaggio del Golan, a ridosso del<br />

confine siriano. Un paese dimenticato e isolato, dove i soldati israeliani<br />

hanno facile gioco a praticare ogni sorta di angheria. I “grandi vecchi” del<br />

paese (anziani, dalle facce stanche e segnate, baffoni folti e vestiti neri tradizionali)<br />

ci accolgono un po’ frastornati, offrendoci un caffè e una mela nella<br />

piazza del paese. Ci danno una pergamena di cittadinanza onoraria del<br />

villaggio. Ogni tanto due elicotteri militari passano sopra le nostre teste, a<br />

non più di 150 metri. Il villaggio è proprio sul confine ed è separato da un<br />

altro insediamento siriano, come fossero Berlino Ovest e Berlino Est, Gorizia<br />

e Nova Gorica. Dal 1967 amicizie e famiglie si sono separate. Talvolta<br />

vedi amici e parenti che, a cento metri di distanza, si parlano ognuno aggrappato<br />

al proprio reticolato, e lo stesso succede anche gli innamorati. Un<br />

vecchio mi racconta che c’è stato anche un matrimonio per procura, con<br />

una cerimonia svolta con Romeo e famiglia dalla parte del reticolato israeliano<br />

e Giulietta e famiglia dalla parte di quello siriano. Poi hanno festeggiato,<br />

ciascun gruppo dalla propria parte di reticolato.<br />

I campi dei rifugiati che visitiamo assomigliano a degli autentici lager,<br />

con tanto di torrette e cancelli blindati. Le case sono baracche di lamiera o<br />

di altro materiale inaffidabile. Stanze sovraffollate, fogne a cielo aperto, sporcizia<br />

a ogni angolo. Solo le strade sembrano ben curate, larghe e ramificate:<br />

servono al passaggio delle camionette. Per gran parte della giornata nei<br />

campi c’è il coprifuoco. Visitiamo le famiglie dei ragazzi morti durante l’Intifada.<br />

Le madri parlano e si rivolgono soprattutto alle giovani pacifiste e alle<br />

donne italiane.<br />

L’altra Israele. Parlare con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della<br />

Palestina) – in Israele – è reato. Si può andare in galera per farlo. “Ma perché<br />

i palestinesi non se ne vanno in qualche stato arabo? Cosa vogliono da<br />

noi? Questa è la nostra terra. Perché forse gli americani hanno riconosciuto<br />

il diritto degli indiani a farsi un proprio stato?”, ci dice un oltranzista alla<br />

fermata dell’autobus. È un colono, ha un mitra a tracolla, avrà sì e no vent’anni,<br />

un giubbetto da pescatore, una tasca rigonfia da un caricatore di ri-<br />

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cambio. Questa è l’Israele che oggi è maggioranza. Ma c’è anche l’altra<br />

Israele, quella degli obiettori di coscienza che si fanno cinque anni di carcere<br />

per il rifiuto di svolgere il servizio nei territori occupati; l’Israele delle<br />

Women in black, che ogni giorno, vestite di nero e silenziose, in una piazza<br />

di Gerusalemme, chiedono la pace e vengono riempite di sputi e spinte<br />

dagli estremisti di destra; l’Israele di Peace Now e dei pacifisti come Michael<br />

Warschawski che per aver pubblicato sulla sua rivista l’articolo di un leader<br />

palestinese, si fa venti mesi di carcere; l’Israele che dà vita a cooperative<br />

e comunità insieme ai palestinesi. È questo il caso di Neve Shalom-Nevi at<br />

Saalam, una comune di un’ottantina di persone, metà palestinesi e metà ebrei<br />

che vivono, lavorano, educano i propri figli insieme.<br />

Il villaggio è posto sul confine dei territori occupati, la “linea verde” del<br />

1967. Sta su un’altura. È composto di piccoli prefabbricati e oblunghe costruzioni<br />

in muratura, parchi giochi per bambini e molti olivi che si incuneano<br />

sulle strade sterrate e affiancano le costruzioni. È una bella giornata.<br />

Ci vengono incontro in due, un israeliano e un palestinese, naturalmente.<br />

Shai è un medico israeliano. Introduce l’incontro e ci dice che: “Non possiamo<br />

ignorare che palestinesi e israeliani vogliono lo stesso pezzo di terra.<br />

Quindi dobbiamo imparare a convivere e a rispettarci gli uni con gli altri.<br />

Noi <strong>qui</strong>, nel nostro piccolo, abbiamo tentato di metterla in pratica questa<br />

convivenza. Siamo partiti dalle relazioni umane, dalla dimensione educativa”.<br />

Nella scuola della comunità bambini ebrei e arabi studiano insieme (in<br />

Israele vi sono scuole distinte per ebrei e arabi) e si festeggiano tutte le feste<br />

di entrambe religioni, insieme. “I bambini sono contenti, così fanno anche<br />

doppia festa...”, scherza Habet, il portavoce palestinese della comunità.<br />

Nel governo israeliano c’è chi sabota in ogni modo queste prove di convivenza<br />

(creando problemi fiscali, legali, di ogni tipo) e nello stesso tempo<br />

punta deliberatamente a esasperare la protesta palestinese, per poter avviare<br />

la macchina della repressione. Che colpisce il villaggio di Neve Shalom,<br />

ma anche i giornalisti, i pacifisti, gli obiettori di coscienza. Warszawski – durante<br />

un incontro a Gerusalemme est nell’ostello dell’Ymca dove siamo alloggiati<br />

– critica Peace Now per il moderatismo e dice: “Bisogna fare molto<br />

di più, soprattutto per aiutare chi si batte contro questa guerra”. Gli obiettori<br />

di coscienza israeliani in galera sono un centinaio. Da tre a cinque anni<br />

l’ammontare delle condanne per ciascuno.<br />

Il 29 dicembre andiamo a fare una manifestazione a Haifa, di fronte a<br />

un carcere dove ci sono alcuni obiettori rinchiusi ormai da tempo. Saliamo<br />

su una collina e ci sparpagliamo su un terreno incolto che sovrasta il carcere.<br />

Ci inerpichiamo tra rovi e sentieri malmessi, con le nostre bandiere pacifiste.<br />

Piazziamo lì i nostri altoparlanti e un pacifista israeliano si mette a<br />

gridare a squarciagola, per farsi sentire. Poi scandisce slogan: non capiamo<br />

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niente. Agitiamo le nostre bandiere e salutiamo. Alcuni soldati di questo carcere-base<br />

militare ci salutano anch’essi con dei fazzoletti bianchi. Lo fanno<br />

appena le guardie carceriere si voltano. Fanno finta di voltarsi, lo sanno benissimo<br />

che ci stiamo salutando. Forse anche loro sono contro questa guerra,<br />

ma non hanno avuto il coraggio di fare cinque anni di galera. Il giorno<br />

dopo dovrei andare con Luciano Vecchi (un giovane eurodeputato del Pci)<br />

a visitare un obiettore detenuto in un altro carcere. La visita ci viene negata<br />

dalle autorità. È possibile il dialogo tra palestinesi e israeliani? Il caso di<br />

Neve Shalom sembrerebbe suggerire una risposta positiva. Ma è un dialogo<br />

ancora di minoranze. L’unico dialogo possibile, per ora, è allora quello con<br />

l’Altra Israele. Feisal Husseini – leader dei palestinesi dei territori occupati –<br />

nel convegno all’Hotel Tower dice di sperare “nella vittoria delle forze di pace<br />

dell’Israele”. Parla di Alice nel paese delle meraviglie. Non è certo una citazione<br />

classica da comizio politico, è la prima volta che mi capita di<br />

sentirla citare a una manifestazione: “Alice ha superato le proprie paure e la<br />

chiusura in se stessa. Noi con l’Intifada abbiamo superato le nostre paure e<br />

siamo cresciuti e maturati. Ora tocca a voi israeliani”.<br />

Le violenze della polizia. La manifestazione delle Women in black e delle<br />

donne palestinesi e la catena umana del trenta dicembre hanno successo.<br />

Alle due manifestazioni complessivamente, partecipano 40mila persone. Per<br />

la prima volta israeliani e palestinesi sono in piazza insieme per la pace e per<br />

“due popoli, due stati”. Per la prima volta, dopo la guerra in Libano, una<br />

manifestazione di massa in Israele. Durante la manifestazione delle donne<br />

la polizia aspetta l’arrivo del corteo davanti al teatro, dove la strada si stringe<br />

a imbuto. E lì carica. Anche in questo caso la scusa è stata lo sventolio di<br />

una bandiera palestinese. È vietato. Flavio Lotti (dell’Associazione per la<br />

pace) ha cercato di frapporsi tra la polizia e le manifestanti: scaraventato a<br />

terra, manganellato è stato portato in prigione.<br />

La riunione dopo gli incidenti è tesa. Molti pensano che potrebbe accadere<br />

qualcosa di simile l’indomani quando ci sarà la catena umana. Si discute<br />

come fare. Ci si organizza in modo puntuale, dividendosi per gruppi<br />

e alberghi e scegliendo i punti delle mura della città vecchia dove appostarsi<br />

per fare la catena. L’appuntamento per il giorno dopo è al Notre Dame,<br />

il nunzio apostolico di Gerusalemme, dove per precauzione si fanno arrivare<br />

i palestinesi dei territori occupati (il nunzio gode dell’extraterritorialità,<br />

la polizia non vi può entrare). Ma di palestinesi dai territori occupati ne arrivano<br />

ben pochi. I check point israeliani li rimandano tutti indietro. La<br />

polizia carica brutalmente tra la Porta di Damasco e la Porta di Erode.<br />

Manganelli di legno si alternano a colpi di fucile che sparano proiettili di<br />

gomma con l’anima di ferro. Renzo Maffei, dell’Arci di Pontedera, viene col-<br />

33


pito da tre proiettili di gomma sulla nuca mentre sta soccorrendo una palestinese<br />

svenuta. E lo stesso accade a un’ attivista israeliana, quando nel mezzo<br />

delle cariche si ferma, paralizzata dalla paura. Quattro colpi la raggiungono<br />

al corpo. Una francese del nostro albergo viene colpita al gomito: fratturato.<br />

Un camioncino con due mitragliette lancia-flutti (da una parte esce l’acqua,<br />

dall’altra un acido urticante di color verde), opera con continuità sui<br />

manifestanti. A un certo punto, sotto l’albergo Pilgrim (proprio di fronte<br />

alla Porta di Damasco), che ospita una delegazione italiana, un lancia-flutto<br />

si gira su se stesso e stranamente si orienta verso l’alto. Molti di noi rimangono<br />

interdetti, non capiamo subito. Mira a una finestra dell’albergo e<br />

colpisce Marina, una pacifista napoletana che si trova dietro la finestra dell’albergo.<br />

Il getto è violento: colpisce la vetrata che le scoppia davanti al viso.<br />

Perderà l’occhio. Le cariche si susseguono. È caccia all’uomo. Arriviamo<br />

al National Palace Hotel (il quartier generale di Time for Peace) che dista<br />

poche centinaia di metri dalla Porta di Damasco.<br />

Un buddista battendo su un tamburello ha raccolto dietro di sé una trentina<br />

di persone che ordinatamente sul marciapiede scandiscono con lui il ritmo<br />

e strillano “We want peace”. Arrivano trafelati anche i poliziotti –<br />

camionette con le sirene, pulmini con le portiere aperte, pronte a far scendere<br />

i soldati – che si schierano davanti all’albergo. Passa qualche secondo,<br />

noi siamo già dentro la hall. Dall’esterno un poliziotto con un megafono<br />

strilla qualcosa, nessuno capisce. Con Luciano Vecchi, Chiara Ingrao e altri<br />

siamo sulle scalinate dell’albergo con le mani alzate cercando di calmare i<br />

poliziotti, che sembrano pronti ad attaccarci. Infatti dopo qualche secondo<br />

scendono tutti dalle loro camionette e vengono sparati tre candelotti lacrimogeni<br />

all’interno dell’edificio che si riempie di fumo bianco. Tutti piangono<br />

e molti stanno soffocando. Un palestinese è svenuto ed è disteso a terra<br />

sul terrazzino dell’albergo. Forse è stato colpito. Qualcuno ha l’impressione<br />

che sia morto. Sfondiamo le vetrate del terrazzino e lo portiamo dentro. È<br />

solo stordito. Temiamo l’irruzione della polizia, ma dopo pochi secondi se<br />

ne vanno. Usciamo sulla scalinata per fuggire dal fumo dei lacrimogeni, molti<br />

strillano, piangono. Siamo ancora all’Hotel Nazionale, girovaghiamo nella<br />

grande hall che sembra l’atrio di un’università occupata: volantini attaccati<br />

sulle colonne, annunci sulla vetrata del bar, cartelli poggiati sui divani.<br />

Israele (Ashkelon e Sderot), al confine con la striscia di Gaza (2007)<br />

Moderno, efficiente, tran<strong>qui</strong>llo e silenzioso proprio come un tipico campus<br />

per studenti modello. Anche questa oasi di rilassante e produttivo studio ha<br />

ricevuto, nell’estate del 2005, il suo missile kassam proveniente dalla striscia<br />

di Gaza, mentre l’esercito israeliano metteva a ferro e fuoco il territorio<br />

palestinese uccidendo civili e distruggendo abitazioni civili. Da allora la vi-<br />

34


ta al campus non è più la stessa, come anche nella vicina Sderot, poverissima<br />

cittadina israeliana di confine (e da cui proviene l’attuale ministro della<br />

difesa, il laburista Amir Peretz) che per mesi è stata bersagliata da centinaia<br />

di missili e ordigni. Qui, a ridosso della striscia di Gaza, gli abitanti israeliani<br />

di Sderot si sentono in guerra, sotto assedio. E meglio non se la passano<br />

quelli di Zikim o Karmija; e nemmeno quelli della poco più lontana Ashkelon.<br />

In molti chiedono di porre fine a questi continui attacchi. Peretz più<br />

volte è venuto <strong>qui</strong> a promettere il “pugno di ferro” verso Hamas; e ancora<br />

di più quelli del Likud o di Kadima. Per non parlare dei partiti oltranzisti<br />

ultra-religiosi. La guerra continua a essere – nel bene e soprattutto nel male<br />

– il collante della società israeliana: un collante fatto di paura e di immobilismo.<br />

Nato dai molti pionieri arrivati <strong>qui</strong> nel nome dell’egualitarismo e<br />

della solidarietà, questo paese si sta rovinando stritolato dal fondamentalismo<br />

e dalla deriva bellica. A parte Tel Aviv (città europea e secolarizzata, che<br />

vuole stare lontana da questa sporca guerra e dalla linea del fronte) e Haifa<br />

(città industriale e laica, nel nord), gran parte del resto del paese sembra vivere<br />

nelle tenebre di una guerra diffusa e interminabile. E <strong>qui</strong> nel sud (più<br />

che a est, com’era un tempo, ma come al nord verso il Libano e la Siria) che<br />

il paese si sente veramente al fronte, costantemente sotto minaccia da una<br />

striscia di Gaza, non più occupata dai soldati israeliani e nello stesso tempo<br />

segregata dalla limitazione del passaggio di merci e persone.<br />

È <strong>qui</strong> nel sud (come in molte delle aree di prima colonizzazione, come<br />

nel Negev) che si è radicata una certa sinistra laburista che ha trovato proprio<br />

nei kibbutz un luogo privilegiato di insediamento. Nato proprio intorno alla<br />

“scuola regionale” dei kibbutz, il Sapir College –a soli tre chilometri in linea<br />

d’aria dalla striscia di Gaza e a mezz’ora da Ber Sheva, la capitale del deserto<br />

del Negev – ospita da tre anni un importante forum (coordinato dal Zvi Shuldiner<br />

insegnante del Sapir College e antico collaboratore de “il manifesto”)<br />

che mette a confronto una parte dell’intelighenzia democratica del paese e<br />

molti gruppi di base, attivisti sociali e pacifisti. Quest’anno i temi del forum<br />

sono quelli della costruzione di “un altro tipo di politica” e l’impegno contro<br />

“il darwinismo sociale” prodotto dalle politiche neoliberiste.<br />

In Israele i gruppi di base e di quella che potremmo definire la “sinistra<br />

sociale” del paese, non se la passano troppo bene. Non solo per la guerra e<br />

le conseguenze dell’occupazione dei territori palestinesi, ma anche per quella<br />

particolare “guerra interna” che in Israele ha assunto due facce: la militarizzazione<br />

della società e della politica e la riduzione dei diritti sociali e civili.<br />

La declinazione della “questione sociale” in Israele è simile a quella di altri<br />

paesi: privatizzazione dei servizi sociali, riduzione del settore pubblico, precarizzazione<br />

del lavoro (con l’introduzione del cosiddetto “piano Wisconsin”<br />

che privatizza i centri di collocamento), aumento della povertà e delle<br />

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diseguaglianze. Niente di nuovo: è il credo neoliberista che <strong>qui</strong> in Medio<br />

Oriente si accompagna a guerra e a drammatiche discriminazioni.<br />

In Israele ci sono gruppi radicalmente all’opposizione che i pacifisti italiani<br />

hanno imparato a conoscere in questi anni nell’impegno per il riconoscimento<br />

dei diritti del popolo palestinese: da Peace Now ai vari forum e<br />

gruppi di donne, da Gush Shalom all’Alternative Information Center di<br />

Warshanski (che monitora costantemente le violazioni dei diritti umani), da<br />

riviste come “Occupation Magazine” fino al nuovo gruppo degli “Anarchici<br />

contro il muro” (di cui uno dei suoi leader è in carcere per aver manifestato<br />

contro il muro che segrega i territori palestinesi) ai gruppi che monitorano<br />

i cinquecento check point sul territorio palestinese. L’accusa più moderata<br />

che viene fatta dalla destra a questi gruppi è di essere anti-patriottici, antinazionali,<br />

sleali con lo Stato di Israele. E nelle conferenze pubbliche vengono<br />

interrotti e contestati. L’impegno dei gruppi di base israeliani contro la<br />

guerra e per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese è assai difficile<br />

e impervio. Si va dalle accuse di tradimento agli insulti per strada, dalle<br />

minacce fisiche alla censura violenta. Sono prevalentemente gruppi di<br />

giovani e di donne, autentiche piccole minoranze che non sembrano usare<br />

toni particolarmente estremisti: alcuni dicono semplicemente le cose come<br />

stanno, altri sono molto pazienti e argomentano le posizioni anche in modo<br />

molto diplomatico. Ma non c’è niente da fare: ottengono delle risposte<br />

violente, aggressive, incontrollate dai coloni, dagli esponenti di destra, dai<br />

militari. Non c’è modo di trovare un linguaggio comune. Anche per noi<br />

che da sempre diciamo: “due popoli, due stati”, è difficile poter ragionare:<br />

si è trascinati in discussioni dove viene agitata la memoria delle sofferenze e<br />

degli attentati, dei torti subiti, del dramma storico del popolo israeliano. E<br />

l’opinione diversa viene tacciata come filo-palestinese, e non c’è modo di<br />

ragionare oltre.<br />

Ti rendi conto di come il nostro pacifismo (quello occidentale, quello<br />

europeo) sia stato in realtà vittima di due errori (dannosi anche per i rapporti<br />

con la società israeliana). Il primo (fino agli anni ottanta) quello – in<br />

osse<strong>qui</strong>o al mood terzomondista dagli anni sessanta in poi – di un appoggio<br />

unidirezionale all’Olp di Arafat senza comprendere la specificità della situazione<br />

mediorientale. Il secondo – nell’illusione pacificante del dopo ’89 –<br />

la banalizzazione delle pur giuste soluzioni prospettate del conflitto (“due<br />

popoli, due stati”, una specie di mantra), senza un’adeguata consapevolezza<br />

dell’enorme complessità delle questioni in gioco (e della loro difficile e lenta<br />

trasformazione): questioni sociali, culturali ed economiche delle società<br />

israeliana e palestinese. Proposte che venivano via via stravolte non solo dalla<br />

trasformazione della società israeliana, ma anche di quella palestinese, sotto<br />

il peso e la forza dei mutamenti di tutte le società arabe e islamiche.<br />

36


In Israele, oltre a quelli pacifisti, ci sono molti altri gruppi impegnati<br />

sulle questioni sociali, economiche, ambientali. La sofferenza e il disagio<br />

sociale nel paese sono molto estesi e profondi. Frammentati, divisi, minoritari,<br />

questi gruppi cercano comunque di far fronte alla “guerra sociale interna”<br />

fatta a colpi di privatizzazioni, di precarizzazione del lavoro, di riduzione<br />

della spesa pubblica e del welfare. Gadi Algami ha dato vita nel 2000 (dopo<br />

l’inizio della seconda Intifada) insieme a molti suoi amici ebrei e arabi di<br />

Israele all’organizzazione Ta’ayush, che significa in arabo coesistenza, vita in<br />

comune. Una delle prime attività dell’organizzazione è stata quella di portare<br />

aiuti alla popolazione araba dei villaggi assediati e isolati dalle forze militari<br />

israeliane. Partivano convogli di camion all’alba con derrate e altri beni<br />

di prima necessità. Spesso dovevano aspettare ore per entrare nei villaggi:<br />

lunghe colonne ferme giorno e notte in attesa di autorizzazione. Organizzazione<br />

di volontari, ramificata su tutto il paese, ora Ta’ayush è impegnata<br />

contro il muro costruito da Israele per isolare territori occupati: “La guerra<br />

in Libano è stata una catastrofe – dice Gadi Algami, poco più di trent’anni,<br />

vive a Tel Aviv con tre figli, mentre si aggira per le sale della conferenza –<br />

e sempre di più assistiamo a un processo di militarizzazione della politica<br />

che si traduce in una militarizzazione della società: dei suoi modi di pensare,<br />

di comportarsi”.<br />

Gli fa eco Natalia Espanioli, femminista e donna in nero, del centro anti-violenza<br />

di Nazareth: “Bisogna evitare che la guerra sia la logica della politica.<br />

Ci deve essere un’altra possibilità. Altrimenti i problemi sociali e i<br />

diritti della povera gente saranno sempre esclusi dall’agenda della politica.<br />

La logica della guerra è una logica maschilista, dobbiamo riportare nella politica<br />

un’altra logica, quella delle donne, dei bisogni sociali, della quotidianità,<br />

delle relazioni tra le persone”. E questi gruppi di base tentano disperatamente<br />

di tenere insieme l’impegno per la pace con il cambiamento sociale. Ancora<br />

Natalia Espanioli ricorda come: “Dobbiamo farci carico di tutte le sofferenze.<br />

Non ci deve essere competizione le sofferenze nostre e quelle altrui,<br />

o viceversa. La nostra società israeliana è abituata a vedere solo i propri, e<br />

questo non è giusto”. Tanto basta per attirare interruzioni e proteste di una<br />

parte della conferenza del Sapir College. E Natalia ricorda ancora come la<br />

discriminazione sia, non solo verso i palestinesi, ma una costante della società<br />

israeliana: contro gli arabi e i beduini (siamo a ridosso del Negev) e<br />

–ancora oggi – contro gli ebrei provenienti dai paesi africani e arabi. Tanto<br />

che dieci anni è stata formata una “Rainbow Coalition” (di cui è stato proprio<br />

nel forum ricordato l’anniversario della fondazione) al fine di difendere<br />

i loro diritti dalla discriminazione (non solo politica ed economica, ma<br />

anche culturale) praticata a loro danno dagli ebrei di provenienza europea,<br />

che rappresentano l’establishment del paese. È la storica contrapposizione<br />

37


tra ebrei askenaziti (gli ebrei europei: Ashkenaz viene identificata nella Germania<br />

nel giudaismo medievale) e sefarditi (i discendenti degli ebrei cacciati<br />

dalla Spagna nel 1492 e peregrinanti poi nel Maghreb e in altri paesi<br />

arabi), tra le elite politiche e sociali (i primi) e la parte più svantaggiata (i<br />

secondi). Al congresso dei laburisti del 1997 Ehud Barak chiese addirittura<br />

perdono alla comunità sefardita per i torti subiti nel secondo dopoguerra.<br />

Infatti, la cosa può sembrare singolare, il risentimento sefardita si<br />

è indirizzato prevalentemente verso i laburisti e non verso il Likud. Perché?<br />

Ha provato a spiegarlo Abraham Yehoshua, ritornando alle origini<br />

della formazione dello stato di Israele:<br />

38<br />

“Qual è l’ingiustizia commessa dal partito laburista nei confronti degli<br />

immigrati sefarditi e soprattutto di quelli dell’Africa del Nord? Ritengo<br />

che alla radice della questione vi sia la concezione ideologica della sinistra<br />

in base alla quale un essere umano può cambiare, liberarsi dalle sovrastrutture,<br />

delle tradizioni e dei costumi aviti per trasformarsi in qualcosa di nuovo.<br />

La pretesa rivolta agli immigrati del Maghreb di trasformarsi in ebrei<br />

di una nuova sorta pareva agli occhi dei governanti laburisti moralmente<br />

legittima... Ma gli ashkenaziti giunti in Israele non avevano mai preso in<br />

considerazione l’idea che la loro trasformazione in ebrei israeliani dovesse<br />

implicare un cambiamento di cultura. Essi mantennero le proprie abitudini...<br />

e non rinunciarono a Mozart, a Beethoven, a Tolstoj, a Dostoevskij,<br />

a Rembrandt e a Michelangelo. Il governo socialista di allora pretese invece<br />

dagli ebrei sefarditi, e soprattutto da quelli marocchini, un doppio sforzo:<br />

non solo rinnegare la diaspora per trasformarsi in nuovi ebrei, ma<br />

abbandonare le tradizioni orientali per accettarne altre. Non c’era alcun<br />

dubbio che l’infrastruttura dello stato di Israele sarebbe dovuta essere di<br />

stampo occidentale... Gli ebrei giunti dai paesi orientali dovettero non solo<br />

trasformarsi, come tutti, in “ebrei nuovi” ma anche “occidentalizzarsi”.<br />

Questa imposizione era, ed è tuttora, al di là delle possibilità di gran parte<br />

di loro e la sua legittimità morale e altamente discutibile”.<br />

È istruttivo come il sacrosanto riconoscimento dei diritti del popolo<br />

palestinese debba poi – nel nostro caso – affrontare una sorta di “corpo a<br />

corpo” con un altrettanto importante diritto come quello del popolo ebraico<br />

alla sua terra madre: paure, fobie, frustrazioni e sospetti entrano in una<br />

girandola senza fine di accuse e irrazionali recriminazioni. Ti chiedi quanto<br />

il principio di autodeterminazione (di ciascuno) debba essere assoluto o relativo,<br />

quali vincoli e condizioni debba avere, quali procedure e tempi debba<br />

seguire per rispettare i diritti umani e la pace. Chi ci dice dove finisce il


diritto di autodeterminazione di uno e inizia quello dell’altro? E poi, l’autodeterminazione<br />

si deve tradurre per forza nella costituzione di uno Stato?<br />

E siamo sicuri che il principio dell’autodeterminazione debba essere senza<br />

alcun condizionamento? (ad esempio senza essere nonviolenta, concordata,<br />

rispettosa dei diritti delle minoranze?).<br />

I gruppi di base della sinistra israeliana si muovono dentro la crisi della<br />

sinistra israeliana (crisi di cui nel dibattito della conferenza al Sapir College,<br />

si avverte la consistenza) sempre di più considerata distante dai problemi sociali<br />

del paese, spesso identificata come una elite privilegiata. E tale accusa riguarda<br />

anche una parte della sinistra sociale israeliana, quella storicamente<br />

radicatasi con le prime esperienze comunitarie dei coloni. La sinistra israeliana<br />

– come quella di molti altri paesi – sembra avvolta in una pesante crisi di<br />

identità (come d’altronde anche da noi): quello che poteva dare lo ha fatto<br />

con Rabin, e poi è morta con lui. Non si distingue sul terreno coraggioso<br />

della pace, non su quello della secolarizzazione della società, non su quello<br />

della questione sociale (che oggi è pesantissima nel paese). Rischia di essere<br />

considerata snob, elitaria, staccata dalla realtà drammatica del paese.<br />

Paradigmatica in questo senso è la vicenda dei kibbutz (sono circa duecentosettanta<br />

in tutto il paese), gran parte dei quali nati nei primi anni del<br />

secondo dopoguerra proprio in stretta connessione con il movimento laburista<br />

e con un’idea di socialismo comunitaria e collettivista. Chi negli anni<br />

settanta non ha pensato di andare una volta in un kibbutz, una sorta di territorio<br />

libertario in cui i figli vengono allevati da tutti, non sei proprietario<br />

di niente, lavori secondo le tue capacità e ricevi quello di cui hai bisogno?<br />

Ma anche queste isole di egualitarismo sociale e di proprietà collettiva hanno<br />

nel corso del tempo perso la loro ideologia originaria: si sono aperte al<br />

profitto, alle privatizzazioni, all’individualismo più tradizionale.<br />

Dove rimaniamo noi per qualche giorno, nell’agglomerato di Dorot,<br />

non sembra proprio di stare in un kibbutz. Villette a schiera come in un villaggio<br />

turistico, prato all’inglese, un piccolo zoo per i bambini (l’educazione<br />

e la vita in comune dei bambini non c’è più da tempo in gran parte dei<br />

kibbutz), automobiline elettriche (come quelle dei campi di golf) che girano<br />

per i vialetti alberati, qualche Suv parcheggiato. E quello che fino a poco<br />

fa era proprietà condivisa e collettiva ora è in progressivo corso di<br />

smantellamento. Case vendute a chi ci abita, la mensa comune privatizzata<br />

e affidata a una società profit, le industrie (a Dorot ce n’è una di confezionamento<br />

di aglio e di altri prodotti ortofrutticoli) sempre più condotte con<br />

piglio capitalistico. E sempre più lavoratori vengono da fuori, mentre prima<br />

appartenevano alla comunità. È la fine di un’utopia su cui socialisti libertari<br />

e qualche anarchico aveva riposto qualche illusione di una società<br />

diversa. Il comunitarismo libertario e socialista è stato così adeguato alla “mo-<br />

39


dernità” e al benessere individualista e consumista. E così quelli che erano<br />

stati il simbolo di una scelta rude, ma sobria e solidaristica oggi sono diventati<br />

l’emblema di privilegi e di tran<strong>qui</strong>llità borghese. Nei kibbutz non senti<br />

l’angoscia della guerra che incombe, ma se esci dai suoi recinti e fai qualche<br />

chilometro e ti ritrovi a Sderot in attesa di un Kassam da Gaza, allora ti rendi<br />

conto che quella storia è finita per sempre. Rileggendo un testo di Amos<br />

Oz, A Perfect Peace, ambientato in un kibbutz prima della guerra dei sei giorni<br />

(e che riflette bene l’inizio del disorientamento e della crisi del movimento<br />

laburista e dell’identità kibbutzina) ho trovato questo passaggio:<br />

40<br />

“‘Salve. Molto piacere. Mi chiamo Azariah Gitlin. Io... mi piacerebbe<br />

restare <strong>qui</strong>. Vivere da voi, cioè. Ormai solo nei kibbutz c’è giustizia. In<br />

nessun altro posto c’è giustizia, oggigiorno. Vorrei vivere <strong>qui</strong>’. Eitan si<br />

trovò dunque costretto a tendere la mano e toccare, seppure con la punta<br />

delle dita, quella che gli veniva tesa. Gli sembrò strano scambiare una<br />

stretta di mano con quel personaggio un po’ stordito, lì fra le siepi dietro<br />

il magazzino dei fertilizzanti. Azariah Gitlin continuò a spiegare e a chiedere:<br />

‘Guarda, compagno, non vorrei che mi prendessi per quello che<br />

non sono. Non c’entro niente io con quel tipo di persone che arrivano al<br />

kibbutz per motivi personali e cercano chissà cosa. Al kibbutz la gente è<br />

ancora legata, mentre nel resto del mondo si vedono ormai solo odio, gelosia,<br />

volgarità. Per questo sono venuto <strong>qui</strong>, con l’intenzione di unirmi a<br />

voi e cambiare in meglio la mia vita’”.<br />

I kibbutz erano così il simbolo di un’utopia politica, sociale e anche umana.<br />

Tutto questo non c’è più e la storia del protagonista (Yonatan) di A Perfect<br />

Peace, che lascia il kibbutz per avventurarsi nel mondo esterno – alla<br />

vigilia di una nuova guerra arabo/israeliana – è il prototipo del fallimento<br />

di una umanità che ha smarrito per sempre un’utopia che si voleva concreta,<br />

ma che è durata troppo poco. Se i kibbutz appartengono ormai al passato<br />

(almeno per ciò che riguarda il loro significato libertario e socialista), c’è<br />

chi È concentrato sulle sfide dell’oggi. Il rappresentante della sezione israeliana<br />

dell’Oxfam, Ishai Menuchin (un giovane ricercatore e attivista che ha<br />

lavorato con i gruppi del commercio equo e solidale) parla a lungo di un’economia<br />

sociale alternativa a quella capitalista, mentre l’idea di una “banca etica”<br />

(quella italiana, di cui parlo al convegno) suscita un grande entusiasmo<br />

tra tutti i partecipanti. Sono bombardato di domande e informazioni: mi<br />

chiedono di prendere contatti e consigli su come fare una banca etica in<br />

Israele. L’organizzazione Shatil è da tempo impegnata a promuovere diritti<br />

sociali, partecipazione democratica, società civile. Shatil ha anche il ruolo


di Fondazione che finanzia i gruppi di base. In Israele non c’è, come in Italia,<br />

un “Forum del terzo settore”, ma Shatil cerca in qualche modo di coprire<br />

questo vuoto. Fanno attività di microcredito, corsi di partecipazione<br />

democratica, danno vita a gruppi comuni di ebrei e arabi, attività di advocacy<br />

per le minoranze (come i beduini, <strong>qui</strong> nell’area) discriminate. La Direttrice<br />

di Shatil, Rachel Liel, ci dice: “Siamo molto interessati all’esperienza<br />

della finanza etica, vorremmo ora costruire una banca che sia etica, che dia<br />

finanziamenti ai gruppi di base, alle attività sociali. Le vecchie banche nate<br />

dall’esperienza del movimento dei lavoratori, <strong>qui</strong> in Israele sono ormai diventate<br />

delle banche tradizionali che hanno perso il senso della loro origine.<br />

Servirebbe proprio una “banca etica” per dare identità e coerenza ai nostri<br />

interventi sociali”. Tenere vive queste esperienze è anche un modo per sfuggire<br />

alla tenaglia della guerra e di una società sempre più militarizzata. A volte<br />

non sai però, se questo lavoro di una parte della sinistra sociale di base<br />

israeliana su temi come quelli della finanza etica o del commercio equo e<br />

solidale (comune un lavoro assai di nicchia, da molti considerato un po’<br />

esotico) sia effettivamente la scelta che serve per superare le paure prodotte<br />

dalla guerra oppure un diversivo per evitare di confrontarsi con un problema<br />

insolubile e che alimenta spaccature nella società.<br />

Infatti questo rinnovato attivismo sociale (ancora debole e frammentato,<br />

con pochi legami con i movimenti sociali globali di Porto Alegre) si continua<br />

a scontrare pero’ con la mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese<br />

e dell’occupazione della West Bank. L’impressione è quella di una claustrofobia<br />

sociale, di una trappola politica (fatta di impotenza, mancanza di coordinamento,<br />

concorrenza, eccetera) azionata dalla logica di guerra. È per<br />

questo che il titolo di una delle sessioni della conferenza di Sapir “La logica<br />

della guerra. La sola logica?” rischia di essere, purtroppo, ancora tremendamente<br />

vero e mettere ancora una volta nell’angolo la sinistra e i movimenti<br />

sociali della società israeliana. A questa “logica” bisogna resistere con un “altro<br />

modo di fare politica”, come gli esponenti dei gruppi di base auspicano.<br />

Ed è anche uno dei pochi messaggi di ottimismo della conferenza. Anche in<br />

Israele, nella migliore società civile, c’è poca (quasi nessuna) fiducia nei partiti,<br />

e in modo specifico nel Labour. Come dice Natalia Espanioli: “Abbiamo<br />

veramente bisogno di un’altra logica alla base della politica, che non è<br />

quella della guerra, ma del riconoscimento delle reciproche sofferenze di ciascun<br />

individuo e di ciascun popolo”. È questa la base per un “altra Israele”.<br />

E allora “l’altra politica” e la soluzione politica e concreta del conflitto israeliano-palestinese<br />

sembrano sostenersi reciprocamente. La salvezza (non solo<br />

la sicurezza dal terrorismo) della società israeliana può venire solo dall’innescare<br />

questa dinamica virtuosa. Non tutte le guerre (come le crisi) sono eguali: alcune<br />

producono spostamenti benefici (si guardi alla Gran Bretagna nel 1945<br />

41


con lo spostamento a sinistra e la nascita del Welfare) mentre altre producono<br />

conseguenze disastrose (come in Germania dopo il 1918). Israele<br />

sembra, a detta di molti, essersi incamminata su una strada dalle mille incognite.<br />

E da quello che per molti era stato il sogno della nuova frontiera,<br />

sembra ora diventato l’incubo di una trincea permanente.<br />

42


Guerre fratricide<br />

1991 Slovenia e Croazia<br />

Giugno-Luglio<br />

Da Trieste a Belgrado. 30 giugno, due giorni dopo la dichiarazione di indipendenza<br />

della Slovenia, ci ritroviamo per una manifestazione di poche<br />

centinaia di persone in piazza dell’Unità a Trieste. C’è qualche tensione con<br />

alcuni esponenti della comunità slovena. Il 7 luglio a Belgrado ci si riunisce<br />

in duecento. Per l’Italia ci sono delegazioni dell’Associazione per la pace, dell’Arci,<br />

delle Acli, della Cgil, dei Verdi. Dall’Europa ci sono esponenti della<br />

sinistra europea. Dalla Polonia arrivano Geremeck e della Helsinki Citizens<br />

Assembly Mary Kaldor e Mient Jan Faber e discutono con l’anziano Gilas<br />

sul futuro della Jugoslavia. Dice Gilas: “Se la guerra si limiterà alla Slovenia<br />

e alla Croazia ne potremo uscire fuori. Se si estenderà anche alla Bosnia, allora<br />

durerà anni”. Mary Kaldor interviene: “I movimenti nazionali dell’ottocento<br />

erano progressivi, democratici, tendevano a includere, a rompere gli<br />

steccati, erano espressione della borghesia cittadina. I nazionalismi odierni<br />

sono antidemocratici, tendono a escludere, a erigere steccati, espressione dei<br />

ceti arretrati contadini. I movimenti nazionali del secolo scorso avevano<br />

una funzione di liberazione, quelli di oggi sono regressivi”. Sonia Licht, serba<br />

ed ebrea, esponente del ’68, espulsa dalla Lega dei Comunisti, ora leader<br />

del movimento per la pace jugoslavo dice: “Devo fare la Cassandra, ma voi<br />

ancora non avete capito ciò che accadrà <strong>qui</strong>”. I pacifisti a Belgrado – e<br />

ovunque – sono una minoranza. Stretti tra nazionalismo e paura, sono delle<br />

elite intellettuali senza sponda politica. Tra questi piccoli gruppi ci sono<br />

l’Alleanza Civica, la Fondazione Soros, il Belgrade Circle. I media – a eccezione<br />

di qualche giornale o televisione, come il periodico “Vreme” e l’emittente<br />

Studio B 92 – sono stati tra i principali responsabili della guerra. Hanno<br />

alimentato la fobia nazionalista e l’immagine del nemico. Hanno prodotto<br />

l’evento, la guerra, lo hanno fatto precipitare. L’opposizione che conta a<br />

Belgrado non è quella che ci piace. È principalmente quella del monarchico<br />

Draskovic e dello sciovinista Seselj. Gli studenti si mobilitano e fanno<br />

dell’Università il centro della resistenza. Si fanno assemblee, cortei, ci si organizza<br />

per resistere alla deriva nazionalista e di guerra, si creano network e<br />

gruppi di lavoro, si prendono contatti con le altre città europee, ma il movimento<br />

stenta a decollare, e non dura.<br />

Settembre<br />

La carovana della pace. Dopo la Slovenia è toccato alla Croazia. C’è la secessione<br />

delle Krajine e lo scontro tra l’esercito croato e quello federale. Si decide<br />

alla convenzione End di Mosca (agosto) di fare una carovana per la pace<br />

43


da Trieste a Sarajevo. Si parte il 25 settembre del 1992 dalla collina di San<br />

Giusto a Trieste. Dopo qualche discorso di rito di assessori e rappresentanti<br />

locali, la gente – arrivata a Trieste con i treni della notte – cerca il proprio<br />

pullman, e poi via. Segue una troupe del Tg3 e ci sono alcuni parlamentari:<br />

Luciana Castellina, Alex Langer e due deputati austriaci. Oltre ai pullman<br />

ci sono macchine, furgoncini, camper: in tutto trecento pacifisti, sindacalisti,<br />

sacerdoti e boy scout. Il coordinamento non è perfetto e, prima di attraversare<br />

il confine, siamo già in ritardo sui tempi di marcia. In Istria incontriamo<br />

gli esponenti della minoranza italiana a Fiume. L’incontro si tiene in una<br />

grande palestra. C’è poca gente. L’atmosfera è un po’ desolata, la città sembra<br />

assente. “La colpa della guerra è del vecchio sistema” sentenzia con rancore<br />

un rappresentante della comunità italiana. Per bilanciare l’incontro della<br />

prima tappa un gruppo della carovana si incontra con la comunità slovena<br />

(che in questa zona, come d’altronde lungo tutta la linea di confine, è molto<br />

numerosa e anche discriminata) a Villa Opicina: sostengono l’indipendenza<br />

slovena e croata dall’“aggressione jugoslava”. Gli italiani si devono ancora<br />

orientare; sono <strong>qui</strong> per capire. Quelli che intervengono balbettano posizioni<br />

di principio: parliamo di pace, diritti umani, democrazia... Molti parlano<br />

di guerra civile, ma agli sloveni non piace; “è una guerra di indipendenza”.<br />

La sera si arriva a Lubiana, con grande ritardo e si salta la manifestazione<br />

di piazza. Il palco è montato, ma non c’è nessuno sopra. Solo gli operai<br />

che stanno già svitando i primi tubi innocenti. Siamo arrivati troppo tardi.<br />

I nostri pullman arrivano a singhiozzo. I pacifisti vengono dirottati verso i<br />

propri alloggi: parrocchie, ostelli della gioventù, scuole. C’è un gruppo di<br />

obiettori di coscienza italiani che vengono dalla comunità di Papa Giovanni<br />

XXIII, che si trova a Rimini. Non potrebbero uscire fuori dall’Italia. Quando<br />

torneranno si autodenunceranno presso la procura militare. Marco Hren,<br />

del Centro per la cultura della nonviolenza, di Lubiana, si aggira per la piazza.<br />

È critico verso le tradizionali organizzazioni pacifiste jugoslave, accusate<br />

di essere legate ai vecchi regimi. I nonviolenti sloveni ancora non hanno<br />

digerito la parabola di Janez Jansa, da obiettore di coscienza e oppositore<br />

pacifista al regime comunista, a ministro (in tuta mimetica) della difesa territoriale<br />

del nuovo governo post-comunista.<br />

Il 26 settembre, da Lubiana, si parte verso Zagabria. La discussione si<br />

arroventa. Sui pullman c’è polemica. Soprattutto i veneti, Don Albino Bizzotto<br />

(Beati i Costruttori di Pace) in testa, sono critici verso la conduzione<br />

della carovana: troppa poca comunicazione, tutto già deciso, e così via. L’“organizzazione”<br />

mi mette a fare il capo de pullman dove si trova Bizzotto e devo<br />

fare due ore di assemblea permanente per cercare di calmare le acque. Si<br />

arriva a Zagabria che sembra sotto assedio. La guerra <strong>qui</strong>, a differenza di<br />

Lubiana, si vede. Una guerra non ancora civile, ma tra stati. Il centro della<br />

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città è deserto e i pullman raggiungono la sala comunale con prudenza.<br />

Una signora, con un sacchetto di plastica della spesa mezzo vuoto, ci dice<br />

che sono previsti imminenti bombardamenti. Ci consiglia di andare via.<br />

Gli incontri con le autorità locali e i rappresentanti delle associazioni di Zagabria<br />

sono all’insegna del nazionalismo: “Se volete aiutare la pace, fateci<br />

avere le armi per difenderci”, dice uno di loro. Anche le “madri coraggio” –<br />

<strong>qui</strong> molto attive – che tentano di portare via i loro figli dall’armata federale<br />

non sono immuni dal virus nazionalista: i loro discorsi sono molto croati<br />

e alcune di loro viaggiano per l’Europa a spese del governo con lo scopo<br />

di fare propaganda contro l’aggressore serbo. La stampa locale ci accusa di<br />

essere filo-serbi, perché chiediamo come prima cosa il “cessate il fuoco”, non<br />

schierandoci (con loro). Per lo stesso motivo a Belgrado ci accuseranno di<br />

essere agenti sloveni e croati. Chiedono di schierarsi, di non essere imparziali.<br />

A Zagabria rimaniamo solo tre ore.<br />

Il 28 settembre arriviamo a Belgrado, alla Casa della gioventù, zeppa di<br />

ragazzi e ragazze, assordata da musica rock e da annunci gracchiati che escono<br />

da vecchi altoparlanti. Festoni colorati e manifesti, volantini e foto tappezzano<br />

i muri zebrati dai colori di lampadine psichedeliche. Quando<br />

parla, per ricevere i pacifisti italiani, il rappresentante del comune di Belgrado,<br />

è accolto da una salva di fischi dei pacifisti belgradesi. Con noi è Sonia<br />

Licht: “Il fatto fondamentale è che tutte le parti stanno cercando di risolvere<br />

il problema del loro futuro attraverso il rafforzamento del loro Stato. La<br />

premessa del dialogo serbo-albanese è la seguente: dobbiamo evitare che<br />

inizi un’altra guerra in Kosovo”. Ora, però, incombe la ripresa della guerra<br />

tra serbi e croati in Slavonia e l’inizio di un incendio dalle incalcolabili conseguenze<br />

in Bosnia Erzegovina. Aggiunge Sonia: “Ma, se si divide – come si<br />

sta dividendo – la Yugoslavia, si dividerà anche la Bosnia Erzegovina. È inevitabile.<br />

La Bosnia non potrà continuare a essere uno stato multietnico e<br />

multinazionale se sarà circondato da Stati nazionalisti ed etnicisti. Se così<br />

non fosse sarebbe un miracolo”. A Belgrado le donne sono particolarmente<br />

attive. Prendendo esempio dalle donne israeliane (che manifestavano vestite<br />

in nero contro la guerra in Libano) stanno nascendo anche <strong>qui</strong> le Donne<br />

in nero. L’appuntamento è per il prossimo 9 ottobre, quando da ogni mercoledì<br />

si ritroveranno davanti alla Presidenza della Repubblica, vestite di<br />

nero per manifestare contro la guerra. In programma anche una “Maratona<br />

antiguerra belgradese” per organizzare una raccolta di firme per un referendum<br />

contro la guerra. Racconta Stascia delle Donne in nero di Belgrado<br />

dopo una riunione con le donne slovene e croate: “La riunione è stata molto<br />

dolorosa, specialmente per le femministe. Ci siamo rese conto che la guerra<br />

ha fatto cambiare i rapporti tra le donne, alcune femministe si sono<br />

identificate, per prima cosa, con la propria causa nazionale, emarginando e<br />

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scordando l’identificazione di genere. Ci ha colpito profondamente che<br />

non tutte le femministe siano pacifiste, come pensavamo da sempre”.<br />

È l’ora di partire per Sarajevo. Seguiamo il corso della Drina attraversando<br />

splendide gole e corridoi di boschi e colline verdi. Siamo in Bosnia<br />

Erzegovina: la piccola Jugoslavia. Il serpentone di pullman arriva a Sarajevo<br />

e si organizzano le iniziative. Ci sono incontri con la Presidenza della Repubblica<br />

e il Governo. La città è piena di gente. Nella città vecchia turisti<br />

stranieri fanno ac<strong>qui</strong>sti di souvenir. Con l’occasione giunge anche un aereo<br />

speciale da Roma. Ci sono il vice Presidente del Parlamento europeo, Formigoni<br />

e due gruppi musicali: i Nomadi e i Litfiba. Con loro altre trecento<br />

persone (rappresentanti di enti locali, associazioni, sindacati) che si sono<br />

venuti a unire con noi. I musicisti suoneranno per la pace in serata. Una grande<br />

catena umana, con tanta gente di Sarajevo, stringe il centro della città. Il<br />

concerto si tiene in un vecchio piazzale d’oratorio. Augusto Daolio dei Nomadi<br />

canta Auschwitz, ma c’è poca gente. Molti non capiscono l’italiano e i<br />

ragazzini di Sarajevo giocano a rincorrersi sotto il palco. Qui i Nomadi non<br />

sono conosciuti. Si susseguono anche gli incontri politici, con partiti e associazioni.<br />

Un esponente socialdemocratico di Sarajevo ci dice: “Quando<br />

tornate in Europa, chiedete che mandino <strong>qui</strong> i caschi blu dell’Onu. La<br />

prossima tappa della guerra è la Bosnia. E se scoppia <strong>qui</strong>, è una polveriera.<br />

La Bosnia è una Jugoslavia in miniatura. Qui la guerra non finirebbe mai”.<br />

Molti di noi ancora non capiscono. Un giornalista del Tg 1 mi dice: “Torno<br />

in Italia, <strong>qui</strong> ormai i servizi non superano il minuto, c’è poco da fare”.<br />

1992 Bosnia Erzegovina<br />

Giugno<br />

La guerra a Sarajevo. Da due mesi è iniziata la guerra in Bosnia Erzegovina.<br />

Veltroni scrive un articolo su “l’Unità”, dal titolo Ma dove sono i pacifisti?,<br />

lamentandosi della mancanza delle grandi manifestazioni come ai tempi del<br />

Vietnam. L’Associazione per la pace risponde con una lettera privata, ricordandogli<br />

tutte le cose fatte finora – aiuti, iniziative di là, manifestazioni, eccetera<br />

– e soprattutto rimproverandolo del quasi inesistente spazio dato a<br />

raccontare del dramma di questa guerra e delle iniziative di pace sull’Unità.<br />

La nostra lettera è un po’ ruvida e spigolosa. Veltroni chiama un po’ seccato<br />

nel nostro ufficio e promette di seguire meglio quello che facciamo. Ci<br />

vediamo a Padova in assemblea. È il 7 giugno. Ci sono posizioni diverse: c’è<br />

chi difende il diritto all’autodeterminazione e chi vuole ripristinare la Federazione<br />

jugoslava; chi preme perché non sia demonizzata la nazione serba e<br />

chi vuole dare un mandato più forte alle truppe dell’Onu. Rasimelli propone<br />

di lavorare con le opposizioni a Milosevic. Lidia Campagnano, una gior-<br />

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nalista de “il manifesto”, risponde: “Con chi, con Draskovic, l’ultra nazionalista?<br />

Pensi sia meno sciovinista di Milosevic? Dobbiamo sostenere le forze<br />

democratiche, non le forze nazionaliste”. Si parla anche del ruolo dell’Onu,<br />

della possibilità di un’azione militare per fermare la guerra. Il pacifismo è generalmente<br />

anti-interventista e l’ingerenza umanitaria è ancora da digerire.<br />

L’assemblea di Padova decide di organizzare una staffetta, questa volta in<br />

Italia, per fare un po’ di controinformazione su quello che sta succedendo.<br />

Dicembre<br />

Oltre cinquecento persone con Don Bizzotto e Don Tonino Bello partono<br />

per Sarajevo e rompere l’assedio. Don Tonino propone: “Un esercito di pace.<br />

Un esercito costituito da obiettori, parlamentari, ministri, che invada le<br />

zone di guerra. Un cuscinetto umano fatto di gente dotata di forza propositiva”.<br />

Noi come Associazione per la pace e Arci siamo abbastanza scettici<br />

sull’iniziativa: ci appare rischiosa e poco realizzabile. Io decido di non partecipare:<br />

non mi sembra ci siano le condizioni. Invece con dieci pullman il<br />

10 dicembre i volontari partono per Sarajevo, superano il posto di blocco<br />

dei serbi, lasciando in dono un’ambulanza. Nel gruppo dei 500 c’è una parte<br />

che consiglia di fermarsi, perché la situazione è troppo pericolosa. Si fanno<br />

le assemblee e si decide di continuare. Arrivati a pochi chilometri dalla<br />

città assediata, la maggior parte dei partecipanti vuole provare ad arrivarci.<br />

Dieci pullman entrano di notte nella città e fortunatamente i fucili e i mortai<br />

tacciono. Per precauzione i pacifisti hanno messo gli zaini sui finestrini.<br />

Ma non servirebbe a niente se venissero mitragliati. Il giorno dopo si tiene<br />

una manifestazione nel centro della città e i cinquecento si dividono in quattro<br />

gruppi che vanno uno alla cattedrale cattolica, uno alla chiesa ortodossa,<br />

uno alla moschea, l’ultimo alla sinagoga. Il culmine della manifestazione<br />

è al cinema Radnik: intervengono i rappresentanti delle varie fedi e le autorità.<br />

Parla anche Don Tonino Bello: “Noi siamo l’Onu rovesciata, non l’Onu<br />

dei potenti, ma l’Onu dei popoli. La prima entra a Sarajevo fino alle 16.00,<br />

noi siamo entrati dopo le 20.00”. Per la gente di Sarajevo l’11 dicembre è<br />

una giornata senza combattimenti e senza spari, dopo tanto tempo. Qualcuno<br />

ne approfitta per fare rifornimento di acqua e di legna.<br />

Dicembre-gennaio<br />

Trascorre qualche settimana e siamo noi a partire per Sarajevo con una delegazione<br />

di una trentina di persone. Ci sono anche Tom Benetollo, Giovanni<br />

Bianchi, Nichi Vendola, Raffaella Bolini. Nella città si sta combattendo.<br />

Ci si ferma a Ilijda, periferia serba di Sarajevo, in parte distrutta dalle offensive<br />

dei musulmani. Il giorno prima sono giunte nella città le ottanta tonnellate<br />

di aiuti che abbiamo raccolto in Italia: medicine, alimenti, teli di<br />

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plastica per coprire 40mila finestre distrutte. La situazione è disperata; la città<br />

è in ginocchio. Il 31 dicembre fa 15 gradi sotto zero. Mancano acqua, luce,<br />

viveri. Siamo in fila con le macchine per le strade della città, insieme a<br />

un convoglio di cinquanta camion francesi dell’organizzazione umanitaria<br />

E<strong>qui</strong>libre. Io sono in macchina con Mimmo Pinto, Nichi Vendola e Quarto<br />

Trabacchini. Alle 19.00 del 31, si arriva a poche centinaia di metri dal<br />

centro della città si spara, cadono granate. Superiamo il cartello sforacchiato<br />

di Sarajevo. È buio e a fari spenti, a un bivio, prendiamo la strada che<br />

non dovremmo prendere, arrivando a una barricata. Una signora esce da una<br />

casa e gesticola; vuole farci tornare indietro. Dopo qualche attimo, dall’altra<br />

parte della barricata tirano in aria dei razzi che illuminano il cielo e poi<br />

sparano. Torniamo indietro, schivando grossi bossoli di granate. Una pattuglia<br />

serba ci costringe ad accostare e ci fa passare la notte in una viuzza, dove<br />

poco dietro si trovano le postazioni di artiglieria. La cena dell’ultimo<br />

dell’anno consiste una scatoletta di alici, tonno, canditi e grappa; tutto apparecchiato<br />

sul cofano della macchina mentre il freddo fa perdere la sensibilità<br />

alle mani. Alle undici di sera riprendono i combattimenti. I riscaldamenti<br />

delle macchine sono accesi in continuazione per non patire il freddo. Sopra<br />

le nostre teste si infiamma il cielo di lampi di razzi e mitragliate. I musulmani<br />

cercano di accerchiare Ilijda per con<strong>qui</strong>starla e rompere l’assedio. Piccoli<br />

gruppi di miliziani scivolano tra le nostre macchine e sparano dalle fessure<br />

dei camion francesi. Dei miliziani serbi ci fanno tirare giù il finestrino e puntano<br />

con un mitra Nichi Vendola che sta dormendo al posto di guida. Riusciamo<br />

a spiegarci con il miliziano serbo ubriaco e tutto finisce bene. Il<br />

culmine è a mezzanotte; sembra un fuoco d’artificio. Poi con l’inizio del nuovo<br />

anno, tutto si calma.<br />

Entriamo a Sarajevo, il mattino presto. Gli alberi sono quasi tutti tagliati<br />

(usati per riscaldarsi), a eccezione di quelli del giardino di fronte alla<br />

Presidenza della Repubblica e di parti del centro della città. Il palazzo della<br />

presidenza della Bosnia è un altro bersaglio preferito dell’artiglieria serba.<br />

Ci entriamo per gli incontri ufficiali. Molte finestre del palazzo non ci sono<br />

più; continuano a fischiare le granate. Ci sembrano tanto vicine. Dentro<br />

l’edificio non c’è luce e fa sempre più freddo. Muhamed Krejelavovic è<br />

il canuto e ossuto sindaco di Sarajevo, imbacuccato in un vecchio cappotto<br />

grigio, si è appena iscritto al partito radicale transnazionalizzato e ci dice:<br />

“Non permettete l’assedio della nostra città. Senza acqua, luce e viveri siamo<br />

allo stremo”. ricorda: “Serve un maggiore impegno della comunità internazionale<br />

per Sarajevo. Fino al prossimo aprile non avremo acqua. Non<br />

sappiamo se ce la faremo. Stiamo assistendo a un urbicidio e va fermato”.<br />

Nella famiglia che ci ospita per la notte (Ibrhaim, musulmano – un cameriere<br />

che lavora all’Holiday Inn –, Rada, serba e un amico Hari anche lui<br />

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musulmano) al 14esimo piano di un palazzo sfiorato ogni giorno da proiettili<br />

e razzi si parla poco della guerra, ma di Roma e dell’Italia. Insieme a me<br />

c’è Stefano Fassina, della Sinistra Giovanile. Tre pugni di riso e poca acqua<br />

è la nostra cena. “Chi si è mai chiesto a quale etnia appartenessimo?”, si chiede<br />

Hari, medico, che da due mesi non ha notizie di moglie e figli che si sono<br />

trasferiti a Zagabria. Fuma una sigaretta dietro l’altra. Si ritorna a parlare<br />

di guerra. Rada sorride: “Questa non è una guerra tra serbi e musulmani. È<br />

una guerra di estremisti e di minoranze. Qui, la convivenza è ancora una realtà.<br />

La colpa è dei politici nazionalisti”. Le finestre della casa di Rada sono<br />

ricoperte internamente da uno strato di ghiaccio, l’unica luce è quella di un<br />

lumino degli alberi di Natale collegato a una batteria di macchina. Con Stefano<br />

dormiamo, tutti vestiti e con molte coperte addosso, in una stanza con<br />

le finestre rotte; e ormai siamo a venti gradi sotto zero. La notte è interrotta<br />

da bagliori e scoppi; molte coperte, maglioni e giacche a vento non leniscono<br />

un acuto freddo. La faccia è rigida dal gelo. Rada, il mattino dopo<br />

dovrà andare a lavorare alla posta; con lo stipendio (ed è tra i pochi fortunati<br />

a poter lavorare) riesce a comprare in un mese quattro uova al mercato<br />

nero. Prima di andare via ci facciamo una foto, io, Stefano e Rada; dietro a<br />

noi – non ce ne accorgiamo – le croci e i paletti musulmani delle tombe in<br />

quello che prima doveva essere stato un parco. Lasciamo tutto quello che abbiamo:<br />

viveri, dolci, medicine, soldi.<br />

1993 Sarajevo e Mostar<br />

Maggio<br />

Dopo l’inizio della guerra croato-musulmana Gorni Vakuf (Bosnia centrale)<br />

diventa un punto di passaggio strategico. La direttrice Gorni Vakuf-Zavidovici<br />

è segnata da durissimi scontri, si combatte sulla strada e sulle alture<br />

che dominano i passaggi più angusti. Far arrivare, da <strong>qui</strong>, gli aiuti alla Bosnia<br />

Erzegovina è molto più difficile di qualche mese fa. La strada di Jablanica<br />

è interrotta. Arrivare a Sarajevo è quasi impossibile. La guerra<br />

croato-musulmana ha portato a una riduzione dei convogli. Noi non sappiamo<br />

bene come fare, se non correndo dei rischi. I funzionari dell’Alto<br />

Commissariato (in gran parte nord-europei) sono professionali e burocrati.<br />

Litigano in continuazione con i funzionari dei caschi blu e gli esponenti dei<br />

governi dei vari paesi. La concorrenza – in una sorta di agonismo umanitario<br />

– è per chi arriva prima con i propri sacchi con su stampigliato “dono<br />

del governo...” oppure “dono dell’Unhcr...” e via così. Un problema di visibility<br />

(c’è anche questa “voce di spesa” nei progetti umanitari). Intanto al<br />

mercato di Spalato si possono comprare a venti marchi delle lattine di<br />

“Olio italiano. Dono del governo italiano”. Noi con i nostri pulmini e mac-<br />

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chine scassate cerchiamo di raggiungere Mostar, Zenica, Tuzla. Normalmente<br />

i blindo dell’Unprofor non ci scortano, anche se fanno la stessa strada. Se<br />

i volontari fossero attaccati, i caschi blu non li difenderebbero. “Non abbiamo<br />

il mandato per farlo”, dice un soldato spagnolo di stanza a Jablanica,<br />

durante una sosta per rifornirci: “Possiamo rispondere solo per autodifesa o<br />

per proteggere convogli sotto la nostra protezione”.<br />

A Gorni Vakuf il 31 maggio una banda di irregolari musulmani ferma<br />

un camion di volontari bresciani che si dirige verso Zavidovici, città alla quale<br />

le organizzazioni di volontariato di Brescia da tempo portano e distribuiscono<br />

aiuti. Vi sono stati già vari convogli nelle settimane precedenti, senza<br />

nessun problema. Dal 9 maggio (quando croati e musulmani hanno cominciato<br />

a combattersi) la situazione sul campo è cambiata. Ora è molto più<br />

pericoloso. Le strade sono deserte, e passando per quella camionabile si avvertono<br />

normalmente spari e scoppi di granate che non sembrano molto<br />

lontani. Il camion dei volontari bresciani, questa volta, non riesce a giungere<br />

a destinazione. I banditi li fermano e sequestrano il carico: cibo, vestiti,<br />

giocattoli per i bambini. Ordinano ai volontari di scendere e li fanno incamminare<br />

su una strada di montagna e iniziano a sparargli alla schiena. Muoiono<br />

sul colpo Guido Puletti (giornalista freelance), Sergio Lana (piccolo<br />

imprenditore, trasportatore) e Fabio Moreni, obiettore di coscienza della Caritas.<br />

Agostino Zanotti – il quarto del gruppo – riesce a fuggire. Nei giorni<br />

a seguire la stampa e le tv ne parlano diffusamente; seguono riunioni con<br />

Andreatta e la Boniver. Ai funerali dei tre volontari non c’è nessun ministro<br />

od esponente del governo. Chiediamo alla riunione con Andreatta alla Farnesina,<br />

un paio di giorni dopo, che il governo faccia il proprio dovere: inviando<br />

gli aiuti finora non mandati, accogliendo i profughi, sostenendo il<br />

volontariato. Chiediamo un coordinamento vero, di non essere ignorati, ma<br />

non vogliamo la protezione militare. Queste morti aprono anche tra di noi<br />

un dibattito: la necessità di coordinarci e d organizzarci meglio, di prepararci,<br />

di darci una struttura tecnica, evitando di andare in Bosnia, senza una<br />

sufficiente preparazione.<br />

Dopo la morte dei volontari le associazioni di volontariato e pacifiste sono<br />

convocate nuovamente alla Farnesina dal ministro degli Affari Esteri, Beniamino<br />

Andreatta. C’è anche il ministro per gli Affari Sociali, l’avvocato<br />

Fernanda Contri: “Dovete stare più attenti – dice con cipiglio il ministro –<br />

munitevi di caschi e di giubbetti antiproiettile. Consultateci prima di partire.<br />

Forse è il caso di iniziare a pensare di inviare soldati italiani per scortare<br />

i volontari in Bosnia”. Ci fanno intervenire subito dopo Andreatta e lo<br />

critico per tutti gli impegni non mantenuti e per la scarsa iniziativa umanitaria.<br />

“Che fine ha fatto il tavolo di coordinamento? Invece di ramanzine,<br />

ci servirebbe una mano, soprattutto le istituzioni dovrebbero fare il loro do-<br />

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vere”. Ci risponde la Contri, che fino a oggi non ha potuto fare molto: “Non<br />

sono abituata a fare tanti discorsi; vi prometto di convocare un tavolo di coordinamento<br />

entro la fine del mese”. Intanto in Erzegovina si continua a<br />

sparare e la pulizia etnica si aggrava: questa volta sono i croati a farla a danno<br />

dei musulmana. Anche il campo di Posusije viene smantellato dalle milizie<br />

croate. Siamo nella prima metà di luglio – è una domenica – e l’azione,<br />

molto violenta, è nell’aria. I profughi vengono deportati, i volontari caricati<br />

sui camion: destinazione ignota. Questa volta interviene il governo<br />

italiano che si fa carico degli sfollati: saranno ospitati da strutture italiane,<br />

chi in parrocchie, chi in albergo, chi presso delle famiglie. Intanto su “il<br />

manifesto” scriviamo una proposta: mandiamo centomila caschi blu in<br />

Bosnia Erzegovina per cercare di sterilizzare il conflitto. I caschi blu dovrebbero<br />

esigere l’apertura e il mantenimento dei corridoi umanitari con tutti<br />

i mezzi a disposizione, garantendo una presenza a Vitez, Maglai, Goradze<br />

– dove sono assenti – e a Mostar, dove mancano quasi completamente. È<br />

il nostro “piano di pace”.<br />

Agosto<br />

Mir Sada. I Beati i costruttori di pace, sull’onda del risultato positivo della<br />

precedente marcia, ci riprovano otto mesi dopo. Siamo nell’agosto del<br />

1993. Sarajevo 2 si chiama “Mir Sada. Si vive una sola pace”. L’ipotesi è<br />

più ambiziosa: dar vita a una presenza permanente, portare diecimila persone<br />

a Sarajevo, dare maggiore spessore e meno episodicità all’iniziativa.<br />

L’appello della manifestazione dice: “Vogliamo sollecitare l’Onu perché nelle<br />

aree di crisi i caschi blu vengano affiancati da un corpo non armato e<br />

nonviolento per abbassare le tensioni e favorire il dialogo [...] vogliamo offrire<br />

un contributo alla Comunità internazionale per una credibile ripresa<br />

delle trattative di pace”.<br />

Il 12 agosto, dal porto dalmata torneranno in Italia gli ultimi 150. In<br />

tutto 1.600 persone (l’adesione sarà minore del previsto e anche l’associazione<br />

francese E<strong>qui</strong>libre, che aveva promesso di portarne migliaia, si presenterà<br />

all’appuntamento con poche centinaia di persone) che tenteranno<br />

di arrivare a Sarajevo, ma dovranno rinunciarci di fronte ai feroci combattimenti<br />

(ben otto punti di fuoco) che dopo Gorni Vakuf infestano la strada<br />

per la capitale bosniaca. Partner francese dei Beati i Costruttori è per l’appunto<br />

E<strong>qui</strong>libre, una Ong che poi verrà messa sotto inchiesta per malversazioni<br />

e che – per raccogliere i suoi progetti per i suoi progetti in Africa –<br />

scriveva sui suoi poster: “Vi si volevano mostrare gli occhi imploranti di un<br />

bambino ruandese, ma è sempre più difficile trovarne uno vivo”. La manifestazione<br />

è caratterizzata, anche in questo caso, da lunghissime assemblee<br />

e capannelli. Al lago artificiale di Prozor i pacifisti si accampano in attesa di<br />

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proseguire. La località è a poche centinaia di metri dalla linea del fronte e si<br />

sentono le cannonate. Ogni tanto arriva un elicottero che trasporta i feriti<br />

dei combattimenti. In molti si raccomandano – sotto una cappa di caldo<br />

infernale – di non nuotare nel lago e di non assumere atteggiamenti incoerenti<br />

con la missione di pace. Appena si capisce che non si può arrivare a Sarajevo<br />

la delusione e la frustrazione investono molti partecipanti. In 58 su<br />

un pullman decidono di continuare lo stesso. C’è il rischio che i serbi usino<br />

i pacifisti, una volta arrivati a Sarajevo, come ostaggi e scudi umani.<br />

Fare il diario, raccontare quest’esperienza – pur non avendone preso parte<br />

– è relativamente semplice. Non solo per i ricordi dei molti che ci sono<br />

stati, ma per i numerosissimi “appunti di viaggio” dei partecipanti pubblicati<br />

su bollettini e giornali e sui quali è facile seguire l’iniziativa. “Mosaico<br />

di pace”, “Aspe”, “Guerre e pace”, “Fogli di collegamento”, “Rivista Anarchica”,<br />

“Azione nonviolenta”, “Qualevita”, “l’Espresso”, “Tempi di fraternità”,<br />

“Azione sociale”, “Segnosette”, “Missione oggi”, “Confronti”, “il manifesto”,<br />

“Liberazione”, “Adista”, Avvenimenti”, “Smemoranda” dedicano ampio spazio<br />

agli avvenimenti di quei giorni. Soprattutto ospitano in seguito articoli,<br />

riflessioni e lettere dei pacifisti che ci sono stati. Ed è proprio in questi<br />

“appunti di viaggio”, in questi articoli, nei diari che i dubbi e gli scetticismi<br />

verso l’iniziativa e la sua struttura sono più espliciti. Molti mettono l’accento<br />

sul lato soggettivo dell’“impresa” di raggiungere Sarajevo, ma anche sulla<br />

sua vanità. Lo Vecchio è dell’associazione “Gandhi, King, Khan” di Brescia:<br />

“Nel mio gruppo qualcuno non teme di morire per una causa ‘grande’, ma<br />

per una causa ‘inutile’; alcuni pacifisti ritornano indietro ma coloro che rimangono<br />

‘persistono nel Sarajevo-dream’”. Anche Fausto Martinetti sulle<br />

colonne di Mosaico di pace (il mensile di Pax Christi) rievoca il sogno, raccontando<br />

dell’attesa a Spalato: “Si dorme come si può sotto le stelle, sognando<br />

Sarajevo. L’unica cosa di cui si parla”. Ci sono anche comunisti greci che<br />

dicono: “Sarajevo o morte”. Una volta svanito il sogno, la tensione emotiva<br />

viene meno. Ricorda il giornalista Ochetto: “La maggioranza si è reimbarcata<br />

a Spalato con un diffuso senso di frustrazione”. Mentre ancora è incerta<br />

la conclusione dell’iniziativa le cose all’interno dei gruppi di partecipanti<br />

non vanno troppo bene. Disorganizzazione, mancanza di comunicazione,<br />

difetto di democrazia i problemi principali. Fabrizio Forti – uno dei principali<br />

protagonisti dell’iniziativa e stretto collaboratore di Bizzotto – ricorda<br />

le assemblee e le discussioni: “Il seme della guerra è dentro di noi: divisioni,<br />

incomprensioni, violenza verbale”. Una voce tra le più critiche è quella<br />

di Mao Valpiana, del Movimento nonviolento e redattore di Azione nonviolenta,<br />

la rivista fondata da Aldo Capitini. Valpiana fa un bilancio sugli<br />

obiettivi dell’iniziativa e i suoi concreti risultati: “Il volersi porre come forza<br />

di interposizione di pace, ma non esserci riusciti, l’essere stati elemento<br />

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di testimonianza, ma non di cambiamento, l’aver saputo mobilitare persone<br />

e mezzi di grande quantità, per essere poi costretti all’immobilismo di<br />

lunghe assemblee e altrettanto estenuanti trattative deve far riflettere”. Valpiana<br />

parla di bluff nell’aver annunciato dapprima 100.000 pacifisti a Sarajevo<br />

e poi essere in realtà 1.600 e sottolinea il velleitarismo di “fermare la<br />

guerra” con l’interposizione fisica. “La nonviolenza oltre a testimoniare deve<br />

vincere sul piano politico”. Anche Emanuele Rebuffini, sul periodico<br />

“Confronti”, non è meno tenero. Durante la marcia “è emerso un certo fanatismo<br />

in talune persone che si dichiaravano disposte a raggiungere Sarajevo<br />

a ogni costo [...] a ciò si deve aggiungere il comportamento vacanziero<br />

dei turisti di guerra”.<br />

Sarajevo 1 e Mir Sada hanno una coda nei primi di ottobre. Padre Angelo<br />

Cavagna è un padre dehoniano di Bologna; Fu il protagonista alla fine<br />

degli anni ’80 di una prolungata campagna per il riconoscimento del diritto<br />

dell’obiezione di coscienza. Attuò uno sciopero della fame integrale di 26<br />

giorni. Padre Cavagna e altri tre pacifisti decidono di andare sul ponte di<br />

Vrbanja, dove ci fu la prima vittima della guerra. Il ponte divide la città in<br />

due ed è il luogo preferito dai cecchini. Vogliono fare un’azione simbolica:<br />

portare i fiori sul punto in cui fu uccisa la prima vittima. Ma è estremamente<br />

rischioso. Nessuna delle due parti (serbi bosniaci e croati, musulmani) dà<br />

il via libera. Cavagna e gli altri decidono di fare in ogni caso l’azione, nonostante<br />

in molti lo sconsiglino. C’è anche Gabriele Moreno Locatelli, un ex<br />

frate. Lui non è d’accordo con chi vuole andare a tutti i costi sul ponte, ma<br />

ci va lo stesso. Per solidarietà, per non lasciare soli i suoi compagni. Quando<br />

arrivano sul ponte sono accolti da una prima mitragliata di avvertimento.<br />

La seconda colpisce Moreno Locatelli che muore sul colpo. È il quarto<br />

pacifista italiano che muore durante questa guerra. Si apre un dibattito sul<br />

significato di questa morte e sull’utilità di questa azione. A Sarajevo, con i<br />

volontari di pace, c’era il fotografo Mario Boccia, anche lui in molte occasioni<br />

un volontario, che ricorda una frase di Moreno: “Noi non abbiamo il<br />

diritto di essere così presuntuosi da voler insegnare ai cittadini di Sarajevo<br />

come si muore per la pace”. Mario Boccia dice che “quello pagato è un<br />

prezzo troppo alto” ed elenca tutta una serie di punti per sottolineare la<br />

scelleratezza dell’azione: “Non è vero che l’azione era concordata con le parti<br />

in conflitto [...] nessuno nella città sapeva dell’azione del ponte di Vrbanja<br />

[...] che senso ha scegliere per una manifestazione un ponte costantemente<br />

sotto tiro lontani dagli sguardi di qualsiasi civile?”. Don Albino rinvia alla<br />

responsabilità individuale di ciascuno e non accetta critiche. Insieme a Luisa<br />

Morgantini scriviamo un articolo per “il manifesto”: “la morte di Moreno<br />

è un evento che deve interrogarci rispetto a un’azione improvvisata e di<br />

una simbolicità fine a se stessa [...] che non può essere inseguita a ogni co-<br />

53


sto quando sono in gioco vite umane. Che non hanno minor valore quando<br />

si tratti di pacifisti, anziché di vittime della guerra”. Aspettiamo una risposta<br />

pubblica da parte degli organizzatori dell’azione. Che non arriverà<br />

mai.<br />

Ottobre<br />

La guerra a Mostar. È l’inizio di ottobre. Arriviamo a Spalato con un aereo<br />

da Roma. Il volo è insolitamente affollato: molti funzionari delle agenzie<br />

umanitarie, giornalisti, profughi che rientrano. Ci riuniamo presso la sede<br />

della Cooperazione del ministero degli Affari Esteri con Margherita Paolini<br />

e altri volontari. Il Consorzio italiano di solidarietà ha nella città croata<br />

una sede operativa che si trova però in un’altra zona. L’ufficio della Cooperazione<br />

è sul lungomare; una sede spoglia, con molte stanze ma con poche<br />

sedie e qualche computer, con fax e terminali di agenzie. In compenso ci sono<br />

molti elmetti, walkie-talkie e qualche giubbetto antiproiettile. L’obiettivo<br />

per il quale siamo <strong>qui</strong> è portare aiuti ai musulmani di Mostar, che sono<br />

assediati dai croati sulla riva est della Neretva. Accerchiati dalle milizie croate<br />

non hanno contatti con l’esterno. I posti di blocco della Hvo (la milizia<br />

militare croata) impediscono l’arrivo dei convogli. Ormai sono passati cinque<br />

mesi dall’inizio della guerra croato-musulmana. Una parte dei musulmani<br />

è stata deportata nel campo di concentramento dell’“Helodriom”. Con<br />

Margherita Paolini – che lavora alla Cooperazione – si fa l’esame delle difficoltà:<br />

i posti di blocco, i punti critici dove possono sparare i cecchini, i<br />

collegamenti radio, le macchine. Alcuni di noi siedono per terra, altri sui<br />

tavoli. Ragiona in modo meticoloso sui possibili imprevisti, le difficoltà, le<br />

strade da fare. Controlliamo i giubbetti antiproiettile, i caschi. Mario Zichina,<br />

il nostro focal point dell’Ics a Spalato, ci avverte beffardo: “Guardate che<br />

sono giubbetti antischegge, una pallottola li trafigge. Anche con un giubbetto<br />

antiproiettile non ci fate granché contro le granate. Gli elmetti sono solo<br />

una sfoglia d’acciaio”. È lui il conducente della jeep che ci porterà a Mostar.<br />

La mattina, la sveglia è alle cinque e mezzo. Spalato è deserta. Si parte.<br />

Sono in macchina accanto a Gianfranco Bettin. Sul sedile davanti c’è Raffaella<br />

Bolini. Prima tappa Medjugorje: <strong>qui</strong> sono di stanza i soldati dell’Unprofor.<br />

Dovremmo essere inclusi nel convoglio dei caschi blu spagnoli, ma<br />

ce lo impediscono. Si discute e si litiga, Margherita li sfotte. Ma non mollano.<br />

Triste la sorte dei caschi blu in ex Jugoslavia: impotenti e costretti alla<br />

rinuncia. Sono dei vigili urbani della guerra, forse solo dei testimoni al di<br />

sopra delle parti. Non ci vogliono. “Oggi è una giornata particolare. A Mostar<br />

si spara. Non potete venire con noi; ci sono i parlamentari che hanno<br />

bisogno di una particolare protezione. Noi non ci assumiamo la responsabilità”,<br />

ci conferma il comandante spagnolo. Allora noi ci accodiamo. Que-<br />

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sto non ce lo possono impedire. Ma la differenza tra lo stare dentro o alla<br />

fine del convoglio è grande. Nel primo caso, se vieni attaccato, i caschi blu<br />

ti difendono, nel secondo, qualsiasi cosa ti succeda ti abbandonano sul posto.<br />

È frequente: a un posto di blocco fanno passare i mezzi dell’Onu e<br />

quelli umanitari vengono fermati per un controllo dei documenti e dei carichi.<br />

Questi ultimi sono costretti a continuare da soli, senza nemmeno<br />

l’ausilio della vicinanza, che potrebbe essere deterrente dei blindo bianchi<br />

delle Nazioni Unite. Anche oggi succede lo stesso. All’improvviso il convoglio<br />

di caschi blu parte e ci lascia sul posto. Ci organizziamo, prendiamo delle<br />

scorciatoie, corriamo all’impazzata e lo raggiungiamo prima dell’ultimo<br />

posto di blocco dell’Hvo in vista di Mostar. Il convoglio di aiuti umanitari<br />

è organizzato congiuntamente dall’Ics e dalla Cooperazione italiana. Sono<br />

cinque camion. Che portano 37 tonnellate di aiuti (20 di farina, 5 di olio,<br />

5 di fagioli, 1,5 di latte, 1,7 di alimenti per bambini e altro ancora). È già<br />

qualcosa. Il convoglio attraversa i posti di blocco della Hvo e dell’Armija bosniaca<br />

e finalmente giungiamo nelle prossimità di Mostar. Sulla strada incontriamo<br />

case completamente bruciate, accanto a quelle intatte. Sono lì,<br />

ancora dalla prima fase della guerra, archeologia di una pulizia etnica che ha<br />

selezionato le case da distruggere e quelle da salvare. Molti minareti sono<br />

stati rasi al suolo dai serbi. Mostar è in gran parte distrutta. Arriviamo all’aeroporto<br />

– divelto nelle strutture – e, dopo aver percorso la tetra ed esposta<br />

pista dell’aeroporto devastata dai colpi di mortaio e pericolosamente<br />

seminata di mine (sicuramente italiane), ci inoltriamo in una stradina di<br />

campagna. All’improvviso ecco il primo posto di blocco musulmano. I soldati<br />

sono nascosti in trincee e in buche celate dal fogliame. Sono nervosi. È<br />

da tanto tempo che non arriva più un convoglio occidentale. L’Onu è mal<br />

tollerato: detestano i soldatini spagnoli. Passano diversi minuti, ma finalmente<br />

un miliziano ci chiede una sigaretta. È il segno del disgelo.<br />

Sulla riva sinistra della città siamo accolti dai saluti e dalla gente e dai<br />

bambini che corrono verso la strada. “Bonboni, cichlets, sigaret!”, gridano<br />

i bambini correndo pericolosamente a pochi centimetri dai camion e dalle<br />

camionette e allungando le mani dentro i finestrini. Ora c’è il pezzo più pericoloso:<br />

l’attraversamento di uno stradone esposto ai cecchini croati. Lo percorriamo<br />

con l’acceleratore a tavoletta. Tutto bene. Entriamo nel cuore<br />

della città nella tarda mattina a velocità ridotta. Lungo la strada ci sono centinaia<br />

di persone che ci saltano addosso contente; siamo emozionati. Quasi<br />

ogni palazzo è ferito e bucato da proiettili e granate, strade dissestate dai<br />

bombardamenti, mine nei passaggi strategici: è molto peggio di Sarajevo.<br />

Solo un ponte, su sette, è rimasto in piedi: il più vecchio, ha cinquecento<br />

anni di storia. Donne e anziani corrono accovacciati – per paura dei cecchini<br />

– su quell’unico ponte ancora rimasto in piedi, per andare a prendere l’ac-<br />

55


qua a una delle ultime fonti ancora in funzione. I cecchini (croati) li guardano<br />

dai binocoli dei loro fucili. La Carja, il vicolo degli antiquari che porta<br />

al Ponte Vecchio, è desolata e piena di macerie. Un tempo era la via delle<br />

botteghe e degli artigiani.<br />

Dal 9 maggio scorso sono stati quasi settecento i morti musulmani della<br />

guerra a Mostar. Nell’incontro i rappresentanti delle associazioni che lavorano<br />

in progetti di pace e di solidarietà con Mostar (sono più di venti città,<br />

tra cui: Trieste, Forlì, Cesena, Ivrea, Bari, Gambettola, Aosta) hanno distribuito<br />

un messaggio ai cittadini: “Siamo oggi nella parte di sinistra della Neretva,<br />

perché avevamo, abbiamo amici tra voi, perché patite una violenza che<br />

mai potrà essere risarcita. Andremo anche nella parte destra della Neretva<br />

tra la gente come voi, la gente della vita quotidiana che si mescolava nei mercati,<br />

nei bar, nelle strade, nei luoghi di lavoro. Vorremmo essere un ponte<br />

tra voi, ora che i ponti di pietra non ci sono più per passeggiare”.<br />

Le donne ci chiedono come poter fuggire dalla città. I rom sono i più<br />

angosciati. Implorano. Ognuno ci racconta la sua storia. Altri scherzano e<br />

tentano di parlare un italiano che è misto al veneto. Ogni tanto lo sparo di<br />

un cecchino isolato interrompe il silenzio irreale di una calma inattesa. Volti<br />

emaciati, corpi smagriti e sguardi impauriti ci circondano , chiedendo aiuto,<br />

qualcosa da mangiare, la fine di questo calvario. Dopo un paio d’ore –<br />

prima che faccia notte – rientriamo a Spalato.<br />

Dicembre<br />

Tre città, una pace. Altra carovana per la pace: per Sarajevo, passando per Zagabria<br />

e Belgrado. Il 27 si parte da Trieste. Assemblea dei partecipanti. Si discute<br />

e molti chiedono: “Andremo anche a Sarajevo? Sarà possibile andare<br />

nei campi profughi?”. Prima di partire arriva una telefonata: “Sono il console<br />

della repubblica di Jugoslavia a Roma. Fermatevi, non potete partire”.<br />

Perché? “La vostra visita non è gradita. Sarete fermati alla frontiera con l’Ungheria.<br />

La vostra visita viene da noi presa come un’iniziativa antiserba. A Belgrado<br />

c’è molta violenza e delinquenza. Potrebbe essere pericoloso. Ci<br />

preoccupiamo della vostra incolumità”. Segue un battibecco; avverto il ministero<br />

degli Esteri e i deputati pacifisti. La situazione si risolve promettendo<br />

che incontreremo anche il sindaco di Belgrado e finalmente si parte. La<br />

sera si arriva a Zagabria. Il mattino dopo, teniamo due forum. Nel primo si<br />

confrontano le forze di opposizione. Vivono nell’incertezza e sono ancora<br />

poco risolute contro il regime di Tudjman. Parla Ivan Cicak: “Il nazionalismo<br />

è la via d’uscita delle vecchie classi dirigenti comuniste, è il virus che<br />

ha dato il via alla guerra”. Petar Ladevic, presidente del Forum democratico<br />

dei serbi di Croazia ricorda che i serbi di Croazia sono discriminati. Chi ha<br />

un cognome serbo a Zagabria, preferisce cambiarlo. Qualcun altro dice: “<br />

56


Ma se i serbi avevano i migliori posti a Zagabria, sotto Tito!”. Ladevic continua:<br />

“Viviamo in un regime nazionalista di massa. E anche un regime nepotista.<br />

Il figlio di Tudjman è il responsabile dei servizi segreti”. Molti tra i pacifisti<br />

presenti prendono appunti e stabiliscono contatti per invii di aiuti, per gemellaggi<br />

con campi profughi, dove organizzare il volontariato e l’assistenza.<br />

Il 29, in piazza Jelacica si snoda il nostro serpentone di pacifisti con cartelli<br />

e candele. Fino a qualche ora prima si era discussa l’opportunità di tenere<br />

la manifestazione. I pacifisti croati non erano pronti e preferivano che<br />

la manifestazione non si svolgesse. La gente guarda con curiosità e prende i<br />

volantini. Solo qualche mese prima un gruppo di pacifisti tedeschi, per una<br />

iniziativa simile, era stato malmenato da una squadra di fascisti locali. Va<br />

tutto bene, ma è solo una piccola manifestazione simbolica senza seguito.<br />

Il 30 arriviamo – quattro pullman, due minibus e diverse macchine – a<br />

Belgrado. Il traffico non manca, ma i negozi sono vuoti. L’embargo ha prodotto<br />

i suoi devastanti effetti. Dall’inizio della guerra la produzione è diminuita<br />

del 50% e il valore del marco tedesco al mercato nero è aumentato di<br />

5mila volte rispetto al dinaro. I disoccupati sono più di 2 milioni e l’inflazione<br />

cresce dell’1% all’ora. Incontriamo il responsabile serbo dell’agenzia<br />

di protezione dei rifugiati che ci ospita in una sede dall’intonaco scrostato.<br />

La sua segretaria va a prendere lo stipendio. È fatto di molti milioni di dinari:<br />

ovvero quattro marchi. Se non li cambia subito in valuta straniera domani<br />

non valgono nemmeno mezzo marco. Si scusa, prende il cappotto e se<br />

ne va. L’incontro finisce dopo pochi minuti: dobbiamo andare al palazzo che<br />

ospita gli uffici della “Repubblica serba di Bosnia Erzegovina”, dove riusciamo<br />

ad avere i nostri pass per poter entrare nella parte serba della Bosnia.<br />

Dentro gli uffici l’atmosfera è tesa e tetra. Manifesti di propaganda bellica<br />

pendono dalle pareti. Ricordano in qualche modo i manifesti della Dc e del<br />

Pci per le elezioni del 1948. “Se vinceranno i musulmani...”, e un’onda verde<br />

(il colore dei musulmani) di vernice che macchia l’Europa.<br />

Incontro, con Tom e altri 3-4 esponenti del nostro gruppo, Slobodanka<br />

Gruden, sindaca di Belgrado. Non volevamo, ma abbiamo dovuto accettare<br />

un compromesso, altrimenti non ci avrebbero fatto entrare in Serbia.<br />

Siamo sporchi e malmessi, dopo quasi 24 ore di viaggio in pullman. È glaciale<br />

e il volto imbellettato non muove un muscolo della faccia. Le televisioni<br />

ci riprendono e siamo imbarazzati. “Aiutateci, le sanzioni stanno<br />

uccidendo la popolazione. I suicidi tra gli anziani sono aumentati”. Ma le<br />

organizzazioni umanitarie dell’opposizione di lei non si fidano. È una pedina<br />

di Milosevic. Ci impegniamo a inviare medicinali a un ospedale psichiatrico.<br />

Il pomeriggio incontriamo le Donne in nero (una di esse ci rimprovera<br />

l’incontro con la Gruden: “così legittimate il potere e sconfessate noi”, sono<br />

molto arrabbiate) e un giornalista di “Vreme”, che parla delle censure<br />

57


del regime di Milosevic. Siamo in un grande salone della Casa della gioventù<br />

di Belgrado, mezza discoteca e mezza sala giochi, mezzo pub e mezzo circolo<br />

culturale. Stascia, delle Donne in nero, dice: “Ci chiamano puttane<br />

quando manifestiamo in piazza, ma noi continuiamo il nostro lavoro. Aiutiamo<br />

tutte le donne, quelle violentate, quelle che soffrono nei campi profughi”.<br />

Continuiamo il dibattito con esponenti del Depos (il cartello delle<br />

forze di opposizione, tra cui ci sono anche forze nazionaliste e monarchiche),<br />

tra i quali un giovane yuppy balcanico dice: “Non potete capire il problema<br />

del Kosovo. Gli albanesi sono arrivati anche da voi, in Puglia, in<br />

Calabria. E lì, cosa hanno fatto? Mica hanno chiesto l’indipendenza o rivendicato<br />

l’unione con l’Albania! Prima della guerra in Kosovo abitava il<br />

50% di serbi e il 50% di albanesi. Poi ci fu lo spopolamento serbo, anche<br />

perché Tito promise il Kosovo all’Albania. Oggi gli albanesi vogliono la secessione,<br />

ma devono capire che questo è impossibile, a prescindere dal fatto<br />

che sono ormai il 90% della popolazione locale. Ma anche a Miami il<br />

60% sono cubani; cosa succederebbe se anche lì rivendicassero la secessione<br />

o l’unione a Cuba?”. Questi deputati del Depos dovrebbero rappresentare<br />

l’opposizione democratica a Milosevic; ma spesso la lotta è tra due<br />

nazionalismi ugualmente pericolosi. Il loro leader – Vuk (che significa “lupo”)<br />

– Draskovic parla e fa il mistico: “Dio e Patria trionferanno. Costruiremo<br />

la grande nazione serba”.<br />

Partiamo per Sarajevo. Facciamo il viaggio di notte. La neve e la nebbia<br />

ci fanno rallentare. Abbiamo macchine poco affidabili: un pulmino Ford regalato<br />

pieno di aiuti, una Renault 4 vecchia di dieci anni, un’Audi poco adatta<br />

a queste strade di montagna. La guida Mario Boccia, il fotografo freelance,<br />

che ci segue dall’inizio della guerra. Alle tre di notte siamo al confine tra la<br />

Serbia e la Repubblica serba di Bosnia. Per passare il confine siamo costretti a<br />

bere grappa e prenderci pacche sulle spalle – non si sa se rassicuranti o minacciose<br />

– dai soldati ubriachi della baracca di confine che ripetono: “Velika Srbi’ja”<br />

(grande Serbia) davanti ai ritratti di Mladic e Karadzic. Arriviamo infine a<br />

Pale (il quartier generale dei serbi) alle otto del mattino. Dobbiamo fare di<br />

nuovo i pass stampa e saliamo fino a un albergo costruito appositamente per<br />

le olimpiadi invernali di dieci anni fa. Per arrivare a Sarajevo bisogna attraversare<br />

tanti posti di blocco, passare rasenti le colline protette da bandoni di latta<br />

e tronchi di legno. Passiamo accanto alle trincee serbe da dove si domina,<br />

dall’alto, la città. Da <strong>qui</strong> si assedia la gente. È un effetto strano vedere questi<br />

soldati, i loro volti, e associarli – una volta in città – agli anonimi spari dei cecchini<br />

e alle notizie delle tv che ci arrivano in Italia. Hanno barbe lunghe e divise<br />

stracciate. Puzzano d’alcool; sono sguaiati e allegri. Sembra il ritratto<br />

fatto dalla propaganda, ma è proprio così. Sono insieme a dei giornalisti (Luca<br />

Del Re di Video Music, Raffaella Menichini e Marco Calabria de “il ma-<br />

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nifesto”, Fabio Benes dell’Ansa) e alcuni operatori dell’Ics.<br />

Si arriva all’ultimo posto di blocco. Si perde un po’ di tempo per una<br />

consegna che intendiamo fare all’ospedale civile serbo di Sarajevo, non lontano<br />

dalla caserma di Lukavica, quartier generale dei serbi che assediano la<br />

città. È un ospedale completamente abbandonato dalle agenzie umanitarie,<br />

a causa dell’embargo. Privi di attrezzature e di bende, anestetici, siringhe i<br />

medici cercano di operare come meglio possono anziani e bambini colpiti<br />

da granate e fucilate. Sembra un ospedale da campo, ma è pulitissimo e ordinato.<br />

La sala operatoria è un piccolo vano con specchi ossidati e pesanti<br />

attrezzature metalliche opache. Ci guidano delle ragazze, una in divisa militare,<br />

l’altra, l’addetta stampa, si chiama Bjelosnjezka, cioè: Biancaneve. Non<br />

è il suo soprannome, ma il nome di battesimo. Nel suo ufficietto disadorno<br />

è aperto sul tavolo un romanzo di Hermann Hesse (Demian) mentre il giradischi<br />

fa cantare i Doors. Entrambe sono gentili e spiritose. Sono ragazze,<br />

studentesse che potresti incontrare a Torino, Barcellona, Amburgo in una<br />

libreria o in una discoteca. Parlano pianamente, senza il furore bellico degli<br />

uomini. L’altro ieri hanno sparato proprio <strong>qui</strong>, fuori dalla finestra. State attenti<br />

quando uscite”, dice con normalità, senza agitazione, Biancaneve. Se<br />

avesse detto: “Qui fuori, sulla destra, c’è il droghiere”, avrebbe usato lo stesso<br />

tono. La guerra è ormai un dato di fatto, un colpo di un cecchino (in<br />

questo caso un musulmano) è una disgrazia che cade dal cielo: come un tumore<br />

o un incidente in macchina.<br />

Decidiamo di partire: di corsa sulla pista dell’aeroporto con il pedale dell’acceleratore<br />

a tavoletta. È ormai notte e bisogna guidare a fari spenti per<br />

le strade della città. Sono 7-800 metri da fare in pochi secondi. Mentre corriamo<br />

a 110 km sbirciamo un Hercules italiano parcheggiato sulla pista che<br />

sta terminando lo scarico dei pallets di aiuti. Passano pochi secondi e siamo<br />

dall’altra parte dalla pista: ce l’abbiamo fatta. A Sarajevo – al centro della città<br />

– si arriva a notte fonda. Incontriamo Ibrahim Spahic che si sbraccia quando<br />

ci vede. Abbracci, pacche sulle spalle. È dimagrito ancora dall’ultima<br />

volta: i pantaloni senza cintura gli scivolano giù e la camicia è lasca sull’addome.<br />

Poi ci porta subito al nostro alloggio. Siamo ospiti da delle ragazze,<br />

europee, molto simili a quelle incontrate poco prima alla caserma di Lukavica.<br />

Si chiamano Jasna e Diana: sono due sorelle di cui è difficile dire di<br />

che etnia siano. Nella loro genealogia familiare si alternano nonni e bisnonni<br />

serbi, croati, musulmani. Vivono a Sarajevo e dalla città non se ne sono<br />

andate quando è scoppiata la guerra nella capitale bosniaca nell’aprile del<br />

1992. I loro parenti sono invece partiti per la Slovenia e la Croazia, e anche<br />

per la Serbia. I nonni e il figlio di Diana, Goran di quattro anni e mezzo,<br />

vivono a Belgrado. Diana non vede Goran da diciotto mesi. Si commuove<br />

quando ne parla. Jasna e Diana, insieme agli in<strong>qui</strong>lini di un condominio di<br />

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<strong>qui</strong>ndici piani – vicino all’ospedale di Sarajevo, Kosevo – ci ospitano. Le<br />

giornate a Sarajevo si consumano uguali l’una all’altra. Il 1° gennaio centocinquanta<br />

granate, il giorno dopo, mille, dice la radio. La notte ci si sveglia<br />

per gli scoppi. Noi. Ma per loro di Sarajevo è ormai storia ordinaria da venti<br />

mesi. “Non puoi mai dire se e quando arriverà un proiettile o una granata.<br />

Viviamo nell’attesa, così”, dice Jasna.<br />

Stiamo pensando ad altre iniziative di solidarietà: la distribuzione di pacchi-famiglia,<br />

la gestione di una struttura che ospiti bambini orfani di guerra,<br />

l’organizzazione di convogli umanitari. Ma non solo. Ibrahim Spahic<br />

dice: “Abbiamo bisogno non solo di viveri e di medicinali, ma anche di<br />

continuare a sperare. Abbiamo bisogno che giornalisti, artisti, scrittori vengano<br />

<strong>qui</strong> ad ascoltare e a dare un contributo. Anche con il teatro, la musica<br />

e il cinema si deve costruire un legame di solidarietà. È una forma di resistenza<br />

alla guerra che vuole cancellare la vita normale”. Ed ecco alcune idee:<br />

l’organizzazione di una rassegna di video musicali e l’invio di almeno cinquemila<br />

libri a Sarajevo. La biblioteca della città è stata distrutta. Molti dei<br />

volumi sono andati bruciati. Decidiamo insieme a Ibrahim il nome della<br />

campagna “Sarajevo, cuore d’Europa” per raccogliere migliaia di libri, carta<br />

per i giornali, fax e computer. E, di ritorno in Italia, organizziamo gli aiuti<br />

dalle librerie e dalle case editrici. A Siena (dove l’università, rettore Luigi Berlinguer,<br />

per prima aveva lanciato l’idea) si attivano numerose iniziative e si<br />

tenta di coordinare la campagna a livello europeo: analoghe iniziative di solidarietà<br />

si svolgono in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania. Si aggregano<br />

dandoci una mano Ginevra Bompiani (che si attiverà moltissimo<br />

nei mesi successivi) e la Roberta Einaudi che mi vengono a trovare nel nostro<br />

ufficietto dell’Associazione per la pace a Roma. Da Firenze mi mandano<br />

una copia delle partecipazioni di matrimonio di Arianna Papini e Federico<br />

Gasperini, dove c’è scritto: “Arianna e Federico hanno aperto a loro nome<br />

il c/c 1640-00 presso l’agenzia n° 10 della Banca Toscana di Firenze. La somma<br />

raccolta con l’aiuto di parenti e amici andrà a fare parte dell’iniziativa in<br />

atto presso l’Università di Siena volta alla ricostruzione della Biblioteca di<br />

Sarajevo, distrutta dai bombardamenti”.<br />

1994 “Qualcuno dovrà dopo tutto”<br />

Settembre<br />

Morte a Sarajevo. Harris Prolic ha 33 anni. È un giovane regista di Sarajevo<br />

che ha girato un lungo documentario: “Morte a Sarajevo”. Il film, proiettato<br />

al Festival di Taormina di luglio scorso, è piaciuto. Il documentario di<br />

Prolic – un’opera fatta di un massacrante lavoro di montaggio e di sequenze<br />

rappate – riproduce l’inferno di Sarajevo usando la metafora dei gironi<br />

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danteschi, assegnando a ciascuno di questi un corrispondente vizio della<br />

guerra: la pratica criminale dell’assedio, la vigliaccheria infame dei cecchini,<br />

la vergogna dei campi di concentramento... Il film è un bel lavoro, ma<br />

non saprò mai cosa succede negli ultimi tre minuti del girato: va via l’elettricità<br />

e non ritornerà fino alla nostra partenza. Sarajevo è stretta tra una precaria<br />

normalità di città assediata e l’imminente ripresa della guerra, quella<br />

combattuta e quella che porterà l’inverno con il freddo e la mancanza di approvvigionamenti.<br />

Per ora negozi e bar (nel centro) sono aperti, anche se<br />

sono pochi quelli che se lo possono permettere. Sono con Ginevra Bompiani<br />

– dormiamo nella casa di Prolic – per portare avanti il progetto a favore<br />

della Biblioteca di Sarajevo. Siamo arrivati a Sarajevo con un aereo dell’Unprofor<br />

da Zagabria. Con noi c’è anche Predrag Matvejevic. Dinoccolato e<br />

con gli occhi ridotti a piccole fessure tra le segnate borse e le gonfie palpebre,<br />

Prolic commenta: “La morte a Sarajevo non è solo quella dei poveri<br />

ammazzati; è la morte di una città, di una storia, di una cultura. Non c’è<br />

speranza, è tutto finito. Sarajevo è morta, ma anche l’Europa <strong>qui</strong> ha trovato<br />

la sua tomba”.<br />

A Sarajevo è sopravissuta per tanti anni una cultura cittadina: chi abita<br />

a Sarajevo, non è musulmano, serbo, croato, è sarajevese. Ed è proprio l’idea<br />

della cittadinanza a essere stata <strong>qui</strong> sconfitta sotto il peso travolgente delle<br />

identità etniche e nazionali. Protagonista – io narrante – del film/documentario:<br />

“Morte a Sarajevo” è Trvtko Kulenovic, uno scrittore apprezzato a Sarajevo<br />

che ora è presidente del Pen club, l’organizzazione degli scrittori. Parla<br />

un buon italiano, è stato spesso a Siena, Roma, Venezia. Ha avuto la famiglia<br />

falcidiata dalla guerra: moglie e figlia ammazzate. Lui si è salvato. “Un<br />

giorno, mentre stavamo girando il film – ricorda Kulenovic – ho sentito un<br />

grande botto e poi un gran caldo alla coscia; mi sono accorto di un buco dei<br />

pantaloni. Per fortuna il cecchino mi aveva solo sfiorato”. Il Pen club, insieme<br />

al Centro internazionale per la pace ha dato vita quasi due anni fa – nel<br />

pieno della guerra e della mancanza di ogni forma di sostentamento – a<br />

un’iniziativa quasi incredibile: la pubblicazione di una bella antologia dei<br />

poeti della Bosnia ed Erzegovina (che, con l’Associazione per la pace e anche<br />

con l’aiuto di Matvejevic, facciamo tradurre in italiano e gli diamo come<br />

titolo una delle poesie incluse: Qualcuno dovrà dopo tutto). “Per noi la<br />

cultura è vita, è speranza. Un libro, <strong>qui</strong>, è una cosa preziosa e indispensabile,<br />

come il pane e l’acqua”, dice Kulenovic. Ma, nel momento peggiore della<br />

guerra, i libri (molti dicono che fossero solo le bozze di volumi mai<br />

pubblicati) sono stati usati per impacchettare le sigarette. Pagine di Rimbaud<br />

e Tolstoj che avvoltolano un tabacco scadente. Dizdarevic ne ha tratto<br />

ispirazione per un libro: Le sigarette di Sarajevo. Più tardi Miljenko Jergovic<br />

pubblicherà il racconto Le Marlboro di Sarajevo: sigarette di guerra avvolte<br />

61


nei vecchi involucri delle Marlboro prodotte nella ex Jugoslavia. Gli europei,<br />

i giornalisti che sono venuti <strong>qui</strong> le collezionano; sono una specie di reperto<br />

prezioso nella serie dei souvenir più originali di questo turismo di guerra,<br />

che porta ogni giorno centinaia di persone dentro e fuori da Sarajevo. C’è<br />

un giro impressionante (e anche un certo mercato nero) di press card, blue card<br />

e tutto ciò che permette di essere imbarcato sugli aerei Unprofor delle Maybe<br />

airlines, come qualcuno con ironia ha voluto chiamare quei voli.<br />

A Sarajevo si incontrano molti pessimisti come Harris (“niente sarà più<br />

come prima”), ma anche volitivi ottimisti che non rinunciano alla speranza.<br />

Tra questi c’è Sejfudin Tokic. Alto e dinoccolato: sembra un ragazzone<br />

appena uscito dal collegio. È capogruppo, al parlamento di Sarajevo, dell’Unione<br />

socialdemocratica bosniaca. Vive a Tuzla, la Bologna bosniaca. È<br />

amministrata dalle sinistre, l’unica città dove nel 90 hanno vinto i partiti<br />

non nazionalisti. Era con Markovic, a quel tempo. Ma alle elezioni, a parte<br />

a Tuzla, vinsero dappertutto i partiti nazionalisti. Il partito riformista di Markovic<br />

(con loro c’erano anche il regista Emir Kusturica e il poeta Abdullah<br />

Sidran) prese poco più del 10%, ma a Tuzla andò molto meglio e con le altre<br />

forze non nazionaliste andarono al governo della città. E decisero di difendere<br />

la convivenza con serbi e croati. Tokic e Beslagic (che è il sindaco di<br />

Tuzla e presidente dell’Unione socialdemocratica bosniaca) rappresentano<br />

l’alternativa a Izetbegovic, che non a caso ha tentato di rovesciare l’amministrazione<br />

di Tuzla attraverso vari espedienti. Mentre siamo ancora a Sarajevo,<br />

per la cerimonia dei 1000 giorni di assedio, c’è un ricevimento, è la serata<br />

conclusiva. Tokic mi chiede un incontro; per il giorno seguente, all’una, alla<br />

sede del Partito. Ci sarà anche Beslagic.<br />

Il giorno dopo, Sarajevo è calma: la tregua tiene. Sembra quasi che nessuno<br />

spari più. Incredibile, ma si passeggia tran<strong>qui</strong>llamente anche lungo la<br />

Milijacka, il fiume di Sarajevo: è la passerella davanti alle postazioni dei cecchini.<br />

Ogni tanto echeggia un tiro. Puntuali all’una ha inizio l’incontro.<br />

C’è anche Drazena Peranic, è una giornalista e lavora all’Aim (Alternative<br />

Information Media), una rete di giornalisti indipendenti jugoslavi. Scrivono<br />

articoli e li mandano alle agenzie di stampa internazionali. In pochi li riprendono,<br />

solo i periodici specializzati, come il Balkan War Report, che si<br />

pubblica a Londra. Beslagic e Tokic hanno appena tenuto una conferenza<br />

nella città in cui hanno messo sotto accusa il nazionalismo del Partito di<br />

Azione Democratica (Sda). Spiega Tokic: “Izetbegovic ha messo suoi uomini<br />

di partito in ogni posto di potere. C’è un uomo dell’Sda a capo dell’esercito,<br />

della polizia, della televisione. Lui è il nostro Berlusconi”. Tokic viene<br />

al dunque: “Nei territori serbo-bosniaci da tempo c’è un piccolo gruppo di<br />

parlamentari che si oppone a Karadzic. Sono una dozzina. Siamo in contatto<br />

con loro. Abbiamo già fatto un incontro in Macedonia. Con loro comu-<br />

62


nichiamo quando usciamo fuori dalla Bosnia, quando possiamo parlare con<br />

più tran<strong>qui</strong>llità. Finora si è trattato di incontri segreti, ma siamo pronti a<br />

promuovere un incontro pubblico e rendere noto un accordo che stiamo<br />

preparando e che prevede la possibilità di un dialogo per la pace, sulla base<br />

del riconoscimento dell’integrità della Bosnia Erzegovina. Sareste disponibili<br />

a organizzare questo incontro in Italia? Altrimenti c’è la possibilità che<br />

si faccia in Ungheria”.<br />

Proprio così. In venti, trenta secondi Tokic snocciola le tre cose che doveva<br />

dire. Gli italiani e i balcanici hanno questo in comune: di prenderla<br />

sempre alla larga e da lontano e arrivare al punto dopo mezzora. Ma Tokic<br />

non è fatto così. Vale la pena ricordare come è entrato in politica: laureato<br />

in biologia era un esperto delle doti provvidenziali delle erbe curative che si<br />

potevano trovare sulle montagne intorno a Sarajevo. Ne fece anche un libro.<br />

Andò dall’allora premier Markovic per perorarne la causa. Ma Markovic<br />

lo preferì come politico invece che come botanico. Sulle montagne intorno<br />

a Sarajevo, Tokic da quel 6 aprile del 1992 non c’è più tornato. Che da quei<br />

monti, per lui prodighi di virtù curative, ora arrivi la morte è uno dei paradossi<br />

di questa guerra. Beslagic è un contadino furbo e concreto. Sembra lo<br />

zio di Tokic, Insieme sono una coppia piacevole: si fanno le battute e si divertono.<br />

Io parlo. Beslagic annuisce e sorride. Drazena Peranic traduce. Rispondo:<br />

“Mi sembra interessante... può essere lo sbocco... abbiamo sostenuto<br />

sempre le opposizioni... certo, la situazione è delicata...”. Beslagic mangia<br />

una tartina, Tokic tamburella l’indice sul tavolo. Naturalmente, la riposta è:<br />

sì. L’incontro è finito. “Okay, ciao, ciao. Ci sentiamo per telefono, a presto<br />

e buon viaggio”. Esco dalla stanza e guardo l’orologio. L’una e sei minuti.<br />

Sei minuti per un’iniziativa che si può considerare importantissima: si incontrano<br />

i campi “avversari”, seppure a livello delle opposizioni per un accordo<br />

politico. È da tempo che i pacifisti lo dicono: vanno sostenute le<br />

opposizioni democratiche, le forze non nazionaliste e di pace in tutti i territori<br />

della ex Jugoslavia.<br />

1995 Tuzla e Langer<br />

Maggio-luglio<br />

I nemici si incontrano. Organizziamo la riunione. A fine maggio ecco arrivare<br />

Milorad Dodik, il capo dei parlamentari di Pale che si oppongono a Karadzic.<br />

Da parte bosniaca ci sono: Tokic, Kulenovic (direttore di Canale 99<br />

di Sarajevo), Simic (del Consiglio serbo di Tuzla) e Drazena Peranic. L’incontro<br />

si tiene a Perugia, in una località lontana dal centro della città. La<br />

riunione è naturalmente a porte chiuse. Dodik e Tokic si conoscevano da<br />

tempo. Fino al 1992 militavano nello stesso partito riformista di Markovic.<br />

63


Poi la guerra li ha divisi. Tokic ci dice che Dodik non si è macchiato di alcun<br />

crimine di guerra: altrimenti non l’avrebbero incontrato. Sono più o<br />

meno della stessa generazione. Dodik vive tra Banja Luka e Belgrado. È un<br />

imprenditore: ha un mobilificio e un grande magazzino. È molto intimorito.<br />

È teso: parla sottovoce con tono monocorde. Cerchiamo di metterlo a<br />

suo agio, ma senza riuscirci. Dodik scaglia però parole di fuoco contro Karadzic:<br />

“Va riconosciuta l’integrità della Bosnia Erzegovina, anche se andranno<br />

riconosciute più unità costitutive. Dobbiamo sconfiggere il nazionalismo<br />

di Karadzic e costruire una soluzione politica al conflitto; nessuna pace verrà<br />

dalle armi”. Anche le parole di Tokic sono molto dure verso il suo presidente:<br />

“In realtà Izetbegovic e Karadzic si sostengono l’un con l’altro; sanno<br />

che la loro sopravvivenza politica è legata alla guerra. La pace li scalzerebbe<br />

via. Ecco perché entrambi sono favorevoli alla continuazione dei combattimenti”.<br />

L’incontro di Perugia si chiude con una dichiarazione di cinque punti<br />

che prevede l’integrità della Bosnia Erzegovina, l’accettazione del piano<br />

di pace del gruppo di contatto, la punizione di tutti i criminali di guerra, la<br />

continuazione del dialogo tra le opposizioni.<br />

Facciamo un incontro allargato anche a esponenti politici per spiegare<br />

il senso dell’iniziativa. Viene anche Piero Fassino che sminuisce il senso della<br />

nostra operazione: “Serve un accordo per gradi e piccoli passi e con il governo<br />

in carica di Izetbegovic; la vostra rischia di essere un’iniziativa illuminata,<br />

ma senza seguito”. Tokic si arrabbia e gli risponde duramente. Il 25 maggio,<br />

nel momento di rendere pubblica la dichiarazione, scoppia la granata serba<br />

su un bar di Tuzla: oltre ottanta morti. Sono quasi tutti ragazzi. L’atmosfera<br />

dell’incontro è sconvolta e surreale. Tutti chiamano a Tuzla per sapere se<br />

ci sono conoscenti tra i morti: Simic perde due parenti. Tokic e Beslagic<br />

non rappresentano solo una forza politica (i socialdemocratici), ma anche<br />

una città: Tuzla. Ogni sbaglio e ogni pretesto è buono per metterla sotto accusa<br />

da Sarajevo: si aspetta il momento buono per un colpo di mano, dell’Armija,<br />

per porre fine all’amministrazione democratica e commissariarla.<br />

Tuzla è diventata in questi mesi meta di molte nostre iniziative pacifiste e di<br />

solidarietà. A Tuzla il Consorzio italiano di solidarietà ha aperto un proprio<br />

ufficio per seguire un progetto sponsorizzato dall’Unicef: si tratta di fornire<br />

ai neonati e ai bambini del “cibo supplementare”, necessario per la loro<br />

crescita. A Tuzla la Helsinki Citizens Assembly promuove convegni e iniziative,<br />

tra cui la propria assemblea generale, cui partecipano seicento delegati<br />

da quaranta diversi paesi, croati e serbi compresi. A Tuzla si riunisce il<br />

Verona Forum, di cui è ispiratore sin dall’inizio Alex Langer. Spesso Tokic<br />

e Beslagic lo vanno a trovare a Strasburgo e a Bruxelles; organizzano iniziative<br />

insieme. Si sentono di frequente. In Tuzla Langer vede una delle ultime<br />

possibilità di mantenere aperta la via della convivenza, l’ultima fiammella<br />

64


della Bosnia multietnica. Dopo la strage del bar, Langer riceve un biglietto<br />

da Beslagic che lo prega di diffondere tra i parlamentari europei: “Voi, con<br />

la vostra inazione state diventando complici di questo massacro [...] non fate<br />

niente [...] Siamo arrivati a un punto di non ritorno”. Poco più di un mese<br />

dopo Langer si toglie la vita. Non ho fatto in tempo a raccontargli per<br />

bene il senso di questa nostra iniziativa prima della sua morte; solo di sfuggita,<br />

qualche cenno quando a metà giugno l’ho chiamato a Bruxelles per<br />

chiedergli un articolo per La Terra vista dalla Luna (l’ultimo che ha scritto).<br />

Una volta, a un convegno (era il novembre del 1993, a Vicenza) Langer<br />

rispose a tono a chi se la prendeva con i pacifisti per la guerra nella ex Jugoslavia:<br />

“I pacifisti sono presenti più che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno<br />

tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con<br />

un’infinità quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e<br />

quant’altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido<br />

e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perché la vita è complicata,<br />

e la pace non la si ottiene per vie semplicistiche; né con il sostegno<br />

unilaterale alle parti ritenute ‘buone’ e ‘vittime’, e neanche con l’idea che un<br />

massiccio intervento armato esterno potrebbe davvero pacificare la ragione”.<br />

Continuava Langer criticando il pacifismo “tifoso” (quello che ha bisogno<br />

di un nemico per scendere in piazza) e quello “dogmatico” ( che antepone<br />

astratti principi alla realtà). Diceva di preferire “il pacifismo concreto. Credo<br />

che serva di più delle opzioni semplicistiche, buone per accontentare i<br />

tifosi, ma sterili rispetto alla realtà”. E concludeva che il nostro compito è<br />

di “dare voce e appoggio e credito all’altra Serbia, all’altra Croazia e all’altra<br />

Bosnia Erzegovina, a partire dalle quali ricostruire democrazia, diritti, convivenza<br />

e integrazione con il resto d’Europa”. Quante volte – in riunioni,<br />

convegni, manifestazioni – ho usato queste sue parole e quante volte ho rivendicato<br />

l’importanza del pacifismo concreto che ci ha guidato in tutti gli<br />

anni delle guerre jugoslave.<br />

65


La guerra umanitaria e il Kosovo<br />

24 marzo 1999<br />

Ore 20. Inizia la campagna di bombardamenti aerei della Nato chiamata Determinate<br />

Force contro la Repubblica federale di Jugoslavia.<br />

Pomeriggio<br />

Riunione in ufficio sulle iniziative da intraprendere in caso di attacco della<br />

Nato. Siamo in pochi (esponenti di Arci, Associazione per la pace, Cipax,<br />

un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati<br />

– Acnur – in Italia e qualche volontario), forse 7 o 8. Si discute di<br />

un’eventuale manifestazione di protesta, ma si scarta l’idea. La discussione<br />

si concentra sugli aspetti umanitari. Il rappresentante dell’Acnur dice che i<br />

piani preparati dal governo sono un bluff: si potranno accogliere al massimo<br />

due, tremila profughi. Sul campo, in Albania gestiamo due campi profughi<br />

(che sono già arrivati in 20.000 durante l’estate). Vari operatori Ics;<br />

Bruno e Carlo sono già a Burrell e Rubik. Aggiorniamo la riunione.<br />

Sera<br />

Si continua la discussione a cena a casa mia. Con Anna Eva e Paolo parliamo<br />

delle nostre attività sul campo: in caso di guerra che ne sarebbe del<br />

progetto di microcredito con i profughi a Nis? E dell’orfanotrofio Zmaj<br />

di Belgrado, dove mandiamo aiuti? Che ne sarà dei 70 bambini? Sappiamo<br />

dalla televisione dell’inizio dei bombardamenti. Si interrompono le<br />

trasmissioni, compaiono le prime immagini. La Nato ha iniziato i bombardamenti.<br />

Preoccupazione per la sorte dei nostri amici. Bata (nostro aiutante<br />

in ufficio) a Belgrado, che fine avrà fatto, sarà stato richiamato alle<br />

armi? E Nicolas a Nis? Riceviamo le prime telefonate allarmate, le consultazioni<br />

sul da farsi. Il telefonino s<strong>qui</strong>lla fino a tarda notte. La riunione di<br />

domani è confermata.<br />

25 marzo<br />

I capi di governo dei paesi dell’Unione Europea riuniti a Berlino dichiarano il<br />

loro appoggio e sostegno all’azione della Nato.<br />

L’incontro di oggi pomeriggio è molto più affollato. Ci sono una trentina<br />

di gruppi e di organizzazioni: Arci, Acli, Associazione per la pace, Pax Christi,<br />

Papa Giovanni XXIII, Cgil, Ong come Cric, Cospe, Gvc e tante altre sigle<br />

simili. I partiti non sono stati invitati. Si discute sul da farsi, come<br />

mobilitare le associazioni. Prima si parla di un appello contro la guerra: ce<br />

n’è uno che hanno preparato i frati francescani di Assisi e la Tavola per la<br />

pace. Decidiamo di prenderlo come base della mobilitazione. Ma che fare?<br />

Una giornata di protesta in tutta Italia? Una manifestazione nazionale a Roma?<br />

Viene avanzata prudentemente la proposta; promuovere un’iniziativa<br />

66


nazionale per il 3 aprile. Se n’era parlato prima dell’inizio con Tom e Raffaella.<br />

Tom è prudente, mentre Raffaella sembra determinata a fare una manifestazione<br />

a Roma: “Se non la promuoviamo noi, che in questi anni<br />

siamo stati a lavorare in ex Jugoslavia, chi lo fa?”.<br />

26 marzo<br />

Si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un documento di<br />

condanna dell’intervento della Nato viene votato da Cina, Russia e Namibia e<br />

respinto dagli altri 12 membri del Consiglio.<br />

Intorno alle 17 si fa un sit-in davanti al Parlamento. La manifestazione è<br />

improvvisata (200-300 persone). È di fatto una manifestazione autoconvocata:<br />

chi ha voluto, ha aderito. Dopo ci spostiamo in un bar, davanti al cinema<br />

Capranichetta, per riunirci ancora con le associazioni. Con Raffaella<br />

abbiamo già deciso: organizzare una manifestazione nazionale per il 3 aprile.<br />

Serafini di Legambiente invece sostiene un’altra proposta: una marcia in<br />

Campidoglio a metà settimana (per poi fare una manifestazione nazionale<br />

il 10 aprile). Rifondazione vuole fare una manifestazione di studenti. Ci<br />

impuntiamo e ci battiamo per il 3 aprile per fare un corteo promosso dalle<br />

associazioni che si sono impegnate con l’intervento umanitario in questi<br />

anni in ex Jugoslavia. I partiti, se vogliono, aderiranno.<br />

Ma il 3 aprile è il sabato prima di Pasqua: ci sono molte obiezioni. Queste<br />

derivano dal fatto che a proporre tale manifestazione sono le associazioni:<br />

i partiti non hanno ancora detto niente, mentre “il manifesto” punta sul<br />

10 aprile. Noi insistiamo. Pensiamo che la gente ci venga: c’è il clima adatto,<br />

riceviamo tante telefonate che ci invitano a muoverci. La nostra argomentazione<br />

è: i bombardamenti sono iniziati il 24 marzo. Non possiamo<br />

aspettare 17 giorni per fare una manifestazione nazionale. Ironizziamo su<br />

chi invita a essere prudenti: è Pasqua e c’è il rischio che venga meno gente<br />

per le gite fuori porta. Da Piazza Montecitorio, andiamo a via Tomacelli<br />

dove c’è la redazione de “il manifesto”: la riunione si continua in una piccola<br />

stanza, dove lavora Gigi Sullo. La discussione si protrae per qualche ora:<br />

c’è Cremaschi (segretario Fiom del Piemonte) e altri della Fiom di Brescia<br />

(Zipponi) che sono contrari. Loro vogliono farne una per il 10 aprile. Questa<br />

manifestazione (la loro) sarebbe la convergenza di diverse forze: Rifondazione,<br />

il manifesto, Cgil “di sinistra”, pacifismo “antagonista”. Ci sono una<br />

serie di telefonate di Cremaschi e di alcuni del giro de “il manifesto” con<br />

Bertinotti per consultazioni (così ci dicono). I redattori de “il manifesto”<br />

sono divisi: una parte (Gigi Sullo, Tommaso Di Francesco, Roberta Carlini)<br />

è d’accordo con noi, gli altri (tra questi Valentino Parlato) insiste per il<br />

10 aprile. Noi ripetiamo: vogliamo fare una manifestazione gestita dalle associazioni,<br />

senza intrusioni dei partiti. Valentino Parlato cerca di convincer-<br />

67


ci. “Vedrete: non verrà nessuno. Come pensate di fare una manifestazione<br />

senza il sostegno di noi sindacalisti? Chi li organizza i pullman?”, chiede Cremaschi.<br />

Tutta questa discussione ha un effetto sgradevole. Tatticismi, politicismi,<br />

acrobazie di una politica che avevo dimenticato da anni. Alla fine<br />

comunque ci impuntiamo e rischiamo. Non ci sono pullman e non ci sono<br />

soldi. L’Arci ci può mettere qualche milione di lire, ma poco di più. Lo stesso<br />

per l’Ics. Sugli altri non si può contare. Siamo abbastanza soli.<br />

La riunione a “il manifesto” si interrompe, bisogna scappare perché<br />

Lerner ci ha invitato alla sua trasmissione, per parlare della situazione<br />

umanitaria in Kosovo. C’è anche Anna Eva che è molto efficace nel descrivere<br />

l’opera dei volontari in Kosovo. Accenno al fatto che c’è anche<br />

un’”altra” Serbia, democratica e non nazionalista, e un serbo fascistoide<br />

– che viene regolarmente invitato da Lerner perché ha una buona resa televisiva,<br />

una sorta di ventriloquo italiano di Milosevic – mi aggredisce.<br />

Lucio Caracciolo mi difende. In una pausa pubblicitaria chiedo al sottosegretario<br />

Minniti perché non accogliamo in Italia i profughi albanesi cacciati<br />

dal Kosovo dalle bande serbe. “Il problema non si pone...”. La<br />

trasmissione riprende.<br />

27 marzo<br />

Arrivano notizie drammatiche della pulizia etnica delle forze paramilitari serbe<br />

in Kosovo. La Nato, per ora, colpisce obiettivi militari solo in Serbia.<br />

Mattino.<br />

Riunione del Tavolo di coordinamento per gli aiuti al Kosovo presso la<br />

Presidenza del Consiglio. Ci sono ministri, funzionari, militari, rappresentanti<br />

di associazioni di volontariato. Vogliono creare una sorta di coordinamento<br />

permanente per gli aiuti umanitari d’emergenza per i profughi<br />

kosovari. Ci sono il sottosegretario Minniti e la ministra Livia Turco.<br />

Lanciano la Missione Arcobaleno. Mentre bombardano, aiutano i profughi.<br />

Il segno di questa iniziativa è chiaro: ricreare un consenso intorno al<br />

governo sull’azione umanitaria, mentre è in atto una contestazione del<br />

volontariato per la scelta di guerra fatta dal governo di centrosinistra. Il<br />

tutto con un’operazione di immagine, di marketing politico, dove il volontariato<br />

in cambio di un po’ di soldi potrà essere cooptato in modo subalterno<br />

nell’operazione. Quasi tutte le Ong presenti non pongono grandi<br />

problemi: chiedono chiarimenti, domandano come fare a presentare i progetti,<br />

al massimo sollevano qualche dubbio sull’opportunità di lanciare<br />

una sottoscrizione popolare gestita dallo Stato. Sono tutti molto professionali<br />

e operativi. Qualcuno ha qualche cartellina con degli schemi di progetto.<br />

Raffaella fa un intervento durissimo. “Non staremo sotto il vostro<br />

elmetto. Potevate almeno avere il buon gusto di non usare un simbolo<br />

68


della pace, voi che state in guerra. Comunque di fronte al dramma dei profughi<br />

agiremo in autonomia e collaboreremo lealmente con tutti”. La<br />

Turco abbozza: “Raffaella non me l’aspettavo da te...”. Poi le manda un<br />

biglietto: “In questi momenti detesto essere un ministro...”. E perché non<br />

si dimette, allora? Noi (Ics e qualcun altro) siamo isolati: molte altre organizzazioni<br />

non governative sotto quell’elmetto ci si mettono. Ci sono<br />

in ballo soldi e progetti.<br />

29 marzo<br />

Chiediamo un incontro a Walter Veltroni a Botteghe Oscure. Ci viene accordato:<br />

con lui ci sono Roberto Cuillo (funzionario della sezione Esteri) e<br />

Luigi Colajanni, ex capogruppo del Pds a Straburgo. Con me, ci sono Raffella<br />

Bolini, Tom Benetollo, Massimo Serafini, Giampiero Rasimelli, Soana<br />

Tortora. Danno a me il compito di aprire l’incontro. Riassumo le nostre<br />

posizioni contro la guerra e invito comunque a tenere aperta la porta del dialogo.<br />

Ricordo a Veltroni che sin <strong>qui</strong> l’Unità ci ha maltrattato e non ci ha dato<br />

voce. Veltroni allarga le braccia, a dire: e che ci posso fare io? Mentre parlo,<br />

Veltroni ha uno sguardo obliquo, giocherella con la penna e non prende appunti.<br />

Ha lo sguardo corrucciato e ostentatamente triste e dà (vuole dare)<br />

una sensazione di impotenza e rassegnazione.<br />

Intervengono gli altri: Tom Benetollo, Raffaella Bolini che ribadiscono<br />

le posizioni. Tom dice: “Qui nessuno di noi è contrario all’uso della forza<br />

per fermare la violazione dei diritti umani, ma lo deve fare l’Onu. Quello<br />

della Nato è un intervento strumentale”. Luigi Colaianni dice che, sì, quello<br />

della Nato è un intervento illegittimo, ma che altro si poteva fare? “Siamo<br />

al governo e dobbiamo essere responsabili”. E parla per un’altra decina<br />

di minuti di Onu, Nato, diritti umani, senza entrare nel merito delle conseguenze<br />

reali dell’intervento. Sembra girare intorno al problema.<br />

Interviene Veltroni: “Non voglio proprio litigare con voi. Siete quelli sui<br />

quali voglio costruire il nuovo partito. Voi dite: non bisognava bombardare.<br />

E cosa dovevamo fare per fermare l’eccidio dei kosovari? Qual era l’alternativa?<br />

Che altro potevamo fare? Tutti siamo in difficoltà. Tutti dobbiamo<br />

interrogarci; dobbiamo tutti rimetterci in discussione. Anche voi: le vostre<br />

manifestazioni non stanno andando bene. Mi dicono che quella degli studenti<br />

stamattina è stata annullata”.<br />

Qualcuno di noi si guarda e tocca ferro. Tutti siamo infatti in ansia per<br />

la riuscita della manifestazione del 3 aprile. Veltroni interviene di nuovo e ricorda:<br />

“Noi ovviamente non aderiamo alla manifestazione, ma sapete che ha<br />

comunque aderito la Sinistra Giovanile e la sinistra Ds”. Poi, vuole fare un<br />

comunicato stampa congiunto dell’incontro, ma noi non siamo d’accordo.<br />

69


30 marzo<br />

Milosevic offre di ritirare le truppe serbe dal Kosovo in cambio della fine dei<br />

bombardamenti. L’offerta viene rifiutata. Solo da oggi si registrano i primi attacchi<br />

a obiettivi militari serbi in Kosovo, dopo una settimana di pulizia etnica.<br />

Incontro – insieme a Raffaella Bolini, Soana Tortora, la figlia Chiara – Pietro<br />

Ingrao, a casa, per chiedergli di intervenire alla manifestazione, ma sono<br />

raggiunto al telefono dalla notizia di un’altra polemica con i Ds. Stefano<br />

Kovac, direttore di Ics, rilascia dall’Albania una dichiarazione all’Ansa: “Non<br />

prenderemo soldi da una missione come quella Arcobaleno, fatta da un governo<br />

che si è macchiato della responsabilità della guerra”. Si scatena la bufera.<br />

Chiamano ripetutamente i funzionari dei Ds: Calvisi, Amendola, Cuillo<br />

dello staff di Veltroni. Vogliono una smentita, qualcuno che ritratti la dichiarazione<br />

di Kovac. Ovviamente non se ne parla. Scrivo una dichiarazione<br />

più articolata, ma che spiega in tono pacato le nostre posizioni. Mentre<br />

parlo con Calvisi, si sente urlare dalla stanza di Botteghe Oscure da dove sta<br />

chiamando Calvisi: “Eccoli, questo sarebbe il reciproco rispetto, ci accusano<br />

di essere guerrafondai!”. Credo sia Cuillo a sbraitare. Risultato: dalla manchette<br />

de “l’Unità” che invita alla solidarietà vengono tolti i riferimenti dei<br />

nostri campi profughi, il nostro indirizzo e il telefono. Per una polemica<br />

politica, a rimetterci sono i profughi kosovari che sono nei nostri campi.<br />

Sentiamo Stefano Kovac per la polemica sulla sua dichiarazione all’Ansa.<br />

Sembra preoccupato per altro. È sconsolato. “Nei campi non c’è niente da<br />

mangiare. Mandateci della roba; cercate di organizzare qualche convoglio,<br />

altrimenti non sappiamo più come fare. Non sappiamo più dove sistemarli.<br />

Li abbiamo messi anche nelle cucine. Così non possiamo più cucinare pasti<br />

caldi. mandate subito dei camion con della roba da mangiare”.<br />

In Albania stanno arrivando ogni giorno migliaia di profughi. Nel nostro<br />

campo di Burrell nel giro di due ore se ne sono presentati 500. La capienza<br />

delle strutture residenziali in Albania non supera i 25-30.000 posti<br />

letto e le tendopoli non sono ancora state organizzate. I profughi sono già<br />

più di 150-200.000. Molti dormono all’aperto, sotto un albero. A noi questa<br />

polemica con i Ds ha occupato tutta la giornata che per Stefano è passata<br />

invece alla disperata ricerca a Tirana di 500 materassini dove far dormire<br />

i profughi di Burrell. Mi racconta che alla fine ha chiesto anche a un funzionario<br />

della protezione civile italiana a Tirana se poteva prestarceli. “Ma<br />

voi non siete al di fuori della Missione Arcobaleno?”, ha risposto ironico. E<br />

i materassini non ce li hanno dati.<br />

2 aprile<br />

La Russia chiede una riunione del G8.<br />

Domani c’è la manifestazione. Dopo quattro, cinque giorni di paura (pochi<br />

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pullman, lentezza della mobilitazione, mancanza di soldi) adesso siamo tutti<br />

un po’ più tran<strong>qui</strong>lli: riceviamo centinaia di telefonate ogni giorno (ci sono<br />

oltre 350 adesioni di organizzazioni e associazioni), notizie di gruppi<br />

che vogliono partecipare, ne parla la stampa (anche se dice che è una manifestazione<br />

di Rifondazione Comunista). Ormai, quello che potevamo fare<br />

l’abbiamo fatto. Ieri sera siamo andati a fare un altro sopralluogo a Porta San<br />

Paolo, dove terminerà il corteo. Abbiamo scelto il punto dove mettere il<br />

palco. Abbiamo il timore che qualche autonomo o esponente dei Cobas<br />

scateni incidenti. Oggi ho incontrato il capo gabinetto della questura in<br />

una stanza occupata da monitor che trasmettevano le immagini in diretta<br />

sulle vie dove dovrebbe passare il corteo. Ci siamo messi d’accordo su questo<br />

percorso: piazza Esedra, via Cavour, via Merulana, via Ostiense. Ho chiesto<br />

che la loro presenza sia discreto. Ci hanno chiesto di organizzare anche<br />

noi un servizio d’ordine, soprattutto per la testa del corteo. Ci guardiamo incerti:<br />

un servizio d’ordine non ce l’abbiamo. Sono passati i tempi quando il<br />

“Partito” o il “Sindacato” garantiva centinaia di “vigilanti” ai cortei. E poi perché<br />

dovrebbero darceli? Né il “Partito”, né il “Sindacato” aderiscono alla manifestazione.<br />

Finisco di scrivere il mio discorso. Ecco l’ultimo passaggio:<br />

“Da tempo l’avevamo chiesto, noi pacifisti e volontari. Diamo la<br />

parola, la forza e l’autorità all’ Onu. Inviamo delle truppe di interposizione<br />

per proteggere i profughi, le popolazioni civili. Invece si è tolta la<br />

parola all’Onu, si è svuotata l’autorità delle Nazioni Unite. Non siamo<br />

stati ascoltati. Per mesi l’Onu è stata tenuta fuori dal Kosovo. Si è aggiunta,<br />

invece, guerra alla guerra nell’illusione di difendere i diritti umani.<br />

Ma, le bombe non difendono i profughi, non portano alla pace. Portano<br />

e hanno portato ad altre sofferenze; stanno aiutando non le vittime<br />

della guerra, ma i dittatori...”.<br />

3 aprile<br />

100.000 pacifisti manifestano a Roma contro la guerra. Iniziano i bombardamenti<br />

delle forze della Nato dei ponti del Danubio.<br />

Manifestazione a Roma. Ci sarà abbastanza gente? “Se saremo 15mila sarà<br />

già un successo”. Alle 13.30 a piazza Esedra non c’è nessuno; 2-300 persone.<br />

Qualcuno srotola i primi striscioni, vengono montati gli altoparlanti sulle<br />

macchine mentre vengono distribuiti i nostri adesivi arancioni: “Fermare<br />

i massacri in Kosovo”. Un’ora dopo, siamo costretti ad arrivare a via Cavour<br />

con la “testa” del corteo per far incolonnare la gente. Ci sono già 30-40mila<br />

persone, ci sembra. Da dove sono saltate fuori? Improvvisamente c’è una<br />

selva di bandiere, striscioni, cartelli. La ressa in testa: arrivano dirigenti di<br />

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associazioni, giornalisti, persone conosciute. Chiama Tagliente, il capo di<br />

Gabinetto della questura: devo correre a via Genova, proprio lì vicino, in<br />

questura. Informa: “Ci sono 300 autonomi con i caschi e i bastoni; teniamo<br />

la situazione sotto controllo, ma dateci una mano pure voi”. Già, e come?<br />

Davanti ci siamo noi (le associazioni), poi i partiti (Rifondazione) e<br />

dietro gli altri (autonomi, Cobas). Il corteo è proprio diviso in due. Lo si<br />

vede nettamente: all’inizio barriere di ogni colore, striscioni variopinti, slogan<br />

nonviolenti, nella coda del corteo cordoni di militanti agguerriti, slogan<br />

minacciosi, bandiere rosse. I politici per il momento non si vedono.<br />

Alle 16.30 facciamo il die-in vicino al Colosseo, poi si arriva a Porta<br />

San Paolo. Faccio il mio discorso: qualcuno mi fischia quando attacco<br />

Milosevic definendolo un criminale nazionalista. Ciotti e Ingrao sono seduti<br />

su un tavolo vicino. Luisa Morgantini legge una lettera di donne kosovare,<br />

Soana Tortora un messaggio della pacifista serba Sonia Licht. La<br />

tensione nella piazza è evidente. C’è il timore di qualche azione violenta<br />

delle frange più dure. Lanciano pomodori, ne arriva qualcuno sul palco.<br />

Uno mi colpisce. Sembra che vogliano assaltare il palco, si crea un vuoto<br />

proprio sotto di noi, ma in pochi secondi le “donne in nero” con uno striscione<br />

si schierano a difenderci. Alla fine i telegiornali dicono che alla<br />

manifestazione c’erano 100mila persone.<br />

6 aprile<br />

Milosevic annuncia una tregua unilaterale per la Pasqua ortodossa (11 aprile),<br />

ma la Nato decide di andare avanti con i bombardamenti.<br />

Dopo la manifestazione di sabato scorso, oggi abbiamo discusso su come<br />

continuare la mobilitazione contro la guerra. Naturalmente ci sono molte<br />

iniziative locali e il prossimo 10 aprile si terrà a Roma la manifestazione<br />

promossa da Rifondazione e da “il manifesto”. Tra gli ambienti cattolici<br />

(Beati i costruttori di pace) qualcuno sta pensando di organizzare qualche<br />

iniziativa eclatante in Kosovo (sul modello della marcia pacifista nella Sarajevo<br />

assediata del dicembre del 1992). Ma a differenza di Sarajevo del<br />

1992, Pristina del 1999 è impenetrabile e i rischi sono mille volte maggiori.<br />

Discutiamo così l’ipotesi di organizzare un’iniziativa di “diplomazia<br />

popolare”. Perché non andiamo in 500 a Belgrado con una carovana della<br />

pace? L’idea iniziale è di andare oltre che a Belgrado anche a Podgorica<br />

(la capitale del Montenegro) e a Pristina, con l’intento di portare un messaggio<br />

di pace e di solidarietà in tutte le aree del conflitto. Il tentativo è di<br />

andare dai serbi e dai kosovari e cercare di parlare con entrambi e di ricostruire<br />

un ponte di comunicazione. Sarà difficilissimo. C’è un problema<br />

di permessi, di autorizzazioni.<br />

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8 aprile<br />

Oggi, appuntamento con l’ambasciatore jugoslavo, Miograd Lekic. L’ambasciata<br />

ai Parioli è troppo grande (prima era l’ambasciata di tutta la Jugoslavia)<br />

per un piccolo stato in ginocchio. La stanza dove ci riceve è buia, forse un po’<br />

polverosa. I corridoi sono vuoti; di personale ce n’è poco. Siamo venuti <strong>qui</strong><br />

per consegnargli una lettera di protesta per gli eccidi in Kosovo e chiediamo<br />

che venga fermata la pulizia etnica. Lekic è montenegrino (è stato ministro degli<br />

Esteri del Montenegro) ed è una persona cortese e aperta. Non condivide<br />

la politica nazionalista di Milosevic. Alle nostre condanne a Milosevic reagisce<br />

con comprensione; è il massimo che può fare e ce lo fa capire.<br />

10 aprile<br />

Ieri la Nato si è “sbagliata” ancora: ha colpito un convoglio di civili nei pressi<br />

di Pristina: 12 morti. Ha anche bombardato un altro obiettivo civile: la<br />

fabbrica di automobili Zastava: 128 feriti.<br />

Organizziamo l’assemblea dell’Ics, al centro sociale della Maggiolina a Roma,<br />

nel quartiere Nomentano. Discutiamo su come organizzare l’invio degli<br />

aiuti nei campi profughi (ormai ne gestiamo 8, con più di 7mila profughi),<br />

come andare a fare volontariato nei campi, della situazione in Macedonia,<br />

dove da qualche giorno sono al lavoro Giorgio Cardone e Alessandro Pieroni.<br />

I nostri operatori distribuiscono aiuti ai profughi ospiti nelle famiglie.<br />

Lanciamo l’iniziativa della carovana della pace per il 25 aprile a Belgrado<br />

e con una piccola delegazione che vada a Pristina. Serviranno 10 pullman<br />

e bisognerà andare a Belgrado per parlare con il governo e ottenere le autorizzazioni.<br />

Nel pomeriggio, alle 15, c’è la manifestazione promossa da<br />

“il manifesto” e da Rifondazione comunista e da varie altre associazioni.<br />

Le bandiere pacifiste si contano sulle dita di una mano. Quelle rosse sommergono<br />

la piazza.<br />

12 aprile<br />

La Nato colpisce un treno passeggeri che sta attraversando il ponte di Grdelicka:<br />

50 morti carbonizzati.<br />

In ufficio a preparare il viaggio della delegazione per Belgrado. Telefonate<br />

all’ambasciata (sono probabili dei tempi lunghi per farci dare i visti) e incontri<br />

con Raffaella e Soana per coordinarci nella promozione dell’iniziativa.<br />

Chiama Carlo Feltrinelli: mi conferma che sabato prossimo le librerie<br />

Feltrinelli doneranno il 50% dell’incasso ai progetti dell’Ics. Ci informa che<br />

potrebbero entrare in questo modo 300-400 milioni. “Stiamo preparando<br />

un appello degli intellettuali contro la guerra. Compreremo alcune pagine<br />

sui quotidiani. Possiamo dare il vostro riferimento per gli aiuti?”.<br />

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15 aprile<br />

Ieri, altro errore della Nato: una bomba colpisce un convoglio di profughi kosovari<br />

in fuga verso Djakovica: 70 morti e oltre 100 feriti.<br />

Luisa Morgantini, Flavio Mongelli (Arci di Milano) e Paolo Tamiazzo sono<br />

partiti per Belgrado. Vanno in aereo fino a Budapest, poi in macchina fino<br />

a Subotica. Da lì a Belgrado. Devono incontrare i ministri e i funzionari per<br />

ottenere i permessi della carovana. Partano in avanscoperta per noi. Prima<br />

che partano stabiliamo per telefono gli ultimi dettagli: ci mettiamo d’accordo<br />

sul programma degli incontri, sulle cose da dire, i permessi da ottenere.<br />

Dicono che ci sono scarse possibilità di realizzarla.<br />

16 aprile<br />

Il mattino, si tiene un incontro del Tavolo di Coordinamento per il Kosovo,<br />

al Dipartimento per gli Affari Sociali. La saletta di via Veneto è strapiena.<br />

Rappresentanti delle Ong si accalcano: si parla di progetti, interventi,<br />

finanziamenti. Siamo in minoranza: non abbiamo accettato di stare dentro<br />

la Missione Arcobaleno e ne paghiamo le conseguenze. Ci sono organizzazioni<br />

non governative che, di fronte al dramma di un’emergenza profughi<br />

da gestire subito, tirano fuori progetti di adozioni a distanza, bilanci predisposti,<br />

grafici e cronogrammi. Vogliono tutti adottare famiglie, profughi,<br />

bambini: anche se in Albania l’emergenza è imprevedibile e non si sa che fine<br />

faranno i profughi. Nonostante il chiarimento della settimana precedente,<br />

a livello locale siamo discriminati. Nelle riunioni dei comuni e delle regioni<br />

si parla solo di Missione Arcobaleno. L’Ics è costantemente escluso. L’atmosfera<br />

della riunione è deprimente: confusione e mancanza di coordinamento,<br />

futile rincorsa ai finanziamenti, amministrazioni pubbliche allo sbando.<br />

Molti sono stufi e annoiati. Gira tra le sedie un dirigente di un’associazione<br />

di terzo settore, probabilmente candidato alle europee che si sta facendo campagna<br />

elettorale e ci promette una volta eletto “di occuparsi dei profughi”.<br />

Il pomeriggio c’è la riunione con il Comune di Roma. Stanzieranno un<br />

miliardo per la Missione Arcobaleno. Nonostante le nostre richieste di fare<br />

in modo diverso (discutendo insieme le priorità e coinvolgendo il volontariato),<br />

hanno deciso di fare così. “Loro sono contro la guerra, così imparano”,<br />

avrebbe detto un funzionario dei Ds, parlando di noi. Un paio di giorni<br />

fa ho incontrato il segretario particolare di Rutelli, che ha allargato le braccia<br />

come a dire “ve la siete cercata”.<br />

18 aprile<br />

Ci si rende conto che è impensabile poter accogliere tutti i profughi in Albania.<br />

Non ci sono adeguati centri di accoglienza, né tendopoli sufficienti<br />

per tutti. Il sistema delle infrastrutture è fatiscente. In realtà una parte an-<br />

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drebbe portata in Italia, almeno tutti quelli che lo vogliono e che si trovano<br />

in condizioni disperate. Nessuno è in grado di dire oggi quando e come finirà<br />

la guerra. Non si possono tenere centinaia di migliaia di persone per<br />

mesi nei boschi o in tende bucate. Il paradosso è che se i profughi riuscissero<br />

da soli ad arrivare in Italia, sarebbero trattati come immigrati “clandestini”:<br />

altro che “vittime di un genocidio” come sdegnosamente dicono i nostri<br />

uomini e donne di governo. Qualche parlamentare che ci aiuta ha provato<br />

a interpellare il ministro dell’Interno, ma senza risultati. Parlo con Vilma e<br />

Luca Casarini e gli chiedo: “Perché, visto che il governo non vuole ospitare<br />

i profughi kosovari in Italia, non affittiamo una nave e andiamo a prendere<br />

500 profughi kosovari a Valona e li portiamo in Italia? Che faranno, mica<br />

ci fermeranno con le motovedette o ci arresteranno quando arriveremo a Bari<br />

o a Brindisi?”. Ci avevano pensato anche loro, ma ci sono alcuni problemi,<br />

tra tutti trovare un comandante della nave consenziente. Può rischiare<br />

il carcere per traffico illegale di immigrati “clandestini”. Facciamo le prime<br />

telefonate, avviamo i primi contatti. Prime risposte: negative.<br />

20 aprile<br />

Paolo, Luisa e Flavio chiamano da Belgrado. Non hanno buone notizie. La<br />

carovana dei 500 non si può fare, non ci sono i permessi e ci impedirebbero<br />

di andare in massa verso il Montenegro o il Kosovo. Troppo pericoloso:<br />

dicono che hanno paura della Nato. Farebbe scoppiare un incidente per dare<br />

poi la colpa a loro. Ma forse non ci vogliono fare vedere cosa stanno combinando<br />

in quell’inferno. Una delegazione un po’ più ristretta, però, si può<br />

fare. Alla fine si concorda con i responsabili del governo il permesso per organizzare<br />

un pullman con 40 persone: esponenti di associazioni, enti locali,<br />

partiti. Andremo a Belgrado. Poi da lì vedremo come continuare (ci<br />

lasceranno andare in Montenegro e, soprattutto, a Pristina? Questo il punto<br />

che ci preoccupa di più. Stamattina ho parlato con Morozzo della Rocca,<br />

che ha tenuto per la Comunità di Sant’Egidio i contatti con Rugova in<br />

questi anni. Mi ha dato i suoi telefoni di Pristina. Ho provato a chiamare<br />

senza speranza. Infatti, linee interrotte e messaggio sul disco in serbo. Mi ha<br />

dato anche il telefono del suo segretario: niente da fare. Chiamano da tutta<br />

Italia per la carovana. Vorrebbero venire tutti. Ma dobbiamo dirgli di no.<br />

Anche Dario Fo e Franca Rame, ma solo se “siamo più di 500”. La delegazione<br />

minore non gli interessa, la reputano un’iniziativa secondaria, e rinunciano<br />

a parteciparvi.<br />

26 aprile<br />

Ieri la Nato ha festeggiato a Washington i suoi cinquant’anni di vita, confermando<br />

l’intenzione di proseguire i bombardamenti fino alla disfatta di Milosevic.<br />

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Incontro con una delegazione dei 160 parlamentari della maggioranza<br />

(quasi tutti della “sinistra” Ds) che hanno firmato un appello per la tregua,<br />

di cui molti temono le conseguenze politiche. Una settimana fa alcuni<br />

di loro ci avevano promesso di unirsi alla nostra carovana della<br />

pace: “Verremo con voi a Belgrado e a Pristina. Saremo in tanti”. Oggi<br />

rinunciano: paura delle conseguenze, del rischio di venire accusati di negoziare<br />

con il nemico. Qualcuno trova una scusa speciosa: “C’è una deputata<br />

di rifondazione con voi, potremmo essere strumentalizzati”. Oppure:<br />

“Ci sono gli incontri con le autorità jugoslave; poi ci accuserebbero di<br />

essere filo-Milosevic”.<br />

30 aprile<br />

Inizia l’embargo petrolifero dell’Unione Europea contro la federazione jugoslava.<br />

A Ginevra la commissaria Onu per i diritti umani denuncia le conseguenze<br />

prodotte dai bombardamenti in Serbia.<br />

Da Udine, partiamo con la carovana della pace. Prima tappa, Belgrado. E<br />

poi, da lì, a Podgorica e Pristina. Il viaggio è pieno di incognite. Il primo<br />

obiettivo è di arrivare intanto in Serbia. Poi vedremo per Podgorica e Pristina.<br />

Tra di noi c’è anche monsignor Bettazzi e poi sindacalisti e rappresentanti<br />

di vari gruppi e associazioni. L’appuntamento è davanti alla stazione di<br />

Udine, alle otto. Con i nostri zaini pieni di pubblicazioni e vettovaglie, con<br />

stemmi e adesivi pacifisti, con giacche a vento usate già a Sarajevo e in Bosnia<br />

negli ultimi anni, ci mescoliamo con gli studenti udinesi con i loro zainetti<br />

colorati che si affrettano ai pullman o camminano trafelati verso la<br />

scuola. Consultiamo le cartine per individuare le strade migliori da seguire.<br />

Al primo distributore compriamo 5 taniche da 25 litri ciascuna da riempire<br />

di nafta: in Serbia c’è il rischio di non trovarne.<br />

1° maggio<br />

Entriamo da Szeged (ultimo paese dell’Ungheria) in Serbia. Sui viali dei villaggi<br />

ungheresi a ridosso del confine ci sono cicogne accovacciate nei loro<br />

nidi sui pali dell’elettricità o anche su alcuni tetti di case. Una irreale pennellata<br />

di paesaggio bucolico prima di entrare in un territorio sconvolto dagli<br />

uragani dell’embargo e della guerra. Alla frontiera serba pochi problemi:<br />

più che altro sono stati gli ungheresi a farcene. Ultimi arrivati nella Nato,<br />

adesso sono i più zelanti. Il governo ungherese è di centro-destra. Trascorre<br />

un’ora e – dopo accurati controlli – passiamo la dogana. Ci avviciniamo a<br />

Subotica, in Vojvodina. Dovremmo passare per un paesino che si chiama<br />

Palic. Impossibile. Hanno bombardato stanotte la caserma nel centro della<br />

città: ci sono stati dei morti. Passiamo lungo il lago. Il clima è surreale. È<br />

una bella giornata: ci sono ragazzi che giocano su un prato, fidanzati mano<br />

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nella mano, famiglie che arrostiscono cevapcici, bambini in bicicletta. È una<br />

giornata di festa; sembra un quadretto pastorale della “profonda” Serbia,dove<br />

Milosevic ha sempre fatto man bassa di voti.<br />

Arriviamo a Belgrado. Il pullman subisce alcuni controlli, ma tutto fila<br />

liscio. Belgrado non è come Sarajevo: non c’è ovviamente un comparabile<br />

livello di distruzione e di pericolo personale. Qui la minaccia che viene dalle<br />

bombe è di natura diversa da quella violenza medievale fatta di cecchini,<br />

granate, l’assedio che per oltre mille giorni ha afflitto Sarajevo. Siamo in un<br />

albergo, l’Intercontinental (che ci ha imposto il governo serbo, forse per controllarci<br />

meglio), dove in passato la “tigre” Arkan (il criminale serbo a campo<br />

delle bande paramilitari operanti nelle guerre jugoslave sin dal 1991) ha<br />

avuto il suo quartier generale. Nell’albergo c’è poca gente: personaggi e<strong>qui</strong>voci<br />

e brutti ceffi in doppio petto, accompagnati da donne inguainate e pesantemente<br />

truccate.<br />

A Belgrado, come a Sarajevo la vita continua, nonostante la guerra. Mentre<br />

il resto della delegazione partecipa nella sede del sindacato indipendente<br />

(“Nezavisnost” ) all’incontro con una ventina di Ong belgradesi e il sindacato<br />

indipendente (ci sono Nastascia Kandic, delle donne in nero, e Bradislav<br />

Canak, di Nezavisnost, e poi Rada, che è di Mostar: sfuggita da lì durante<br />

la guerra in Bosnia, adesso si trova sotto quest’altra tempesta), Raffaella, Flavio<br />

e io corriamo all’albergo. Ci aspetta Ristic, che è viceministro degli<br />

Esteri, oltre che esponente di spicco della JUL, il partito della sinistra comunista<br />

della Miriana Markovic, moglie di Milosevic. Ristic (azzimato funzionario<br />

fasciato da un gessato ministeriale) ha in realtà il phisique du role di<br />

un agente dei servizi segreti: sfuggente, vagamente minaccioso, sbrigativo.<br />

Dobbiamo concordare il programma. Siamo raggelati dalle sue prime frasi:<br />

“Non potete andare a Pristina e Podogorica; non ci sono le condizioni di sicurezza,<br />

non ve lo permettiamo. Se volete fare degli incontri <strong>qui</strong> a Belgrado,<br />

va bene; vi aiuteremo”. È una notifica, non è l’inizio di un negoziato.<br />

Lo stesso giorno nel sud della Serbia un missile della Nato ha colpito un pullman:<br />

40 morti.<br />

Sera<br />

La sera, sono già le otto, suona il primo allarme aereo. Il suono della sirena è<br />

è la prima volta che lo sento. Usciamo dall’albergo. Un inserviente indica il<br />

cielo: c’è un Awacs ad alta quota che traccia la rotta dei cacciabombardieri che<br />

arriveranno da lì a poco. È come se indicasse una nuova stella cometa, un pianeta<br />

fino ad allora sconosciuto, che solca il cielo ormai da quaranta giorni. È<br />

un appuntamento fisso. Il cameriere, tran<strong>qui</strong>llo e senza malizia nei nostri<br />

confronti, ci informa che gli europei che arrivano a Belgrado non vengono più<br />

salutati con dober dan (buona giornata), ma con Bomberdan.<br />

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2 maggio<br />

Il leader democratico americano Jesse Jackson è a Belgrado. Milosevic gli consegna<br />

3 soldati statunitensi catturati al confine con la Macedonia dalle truppe serbe.<br />

Altro errore della Nato: colpito un pullman con dei profughi a Pristina, 20<br />

morti.<br />

Partecipiamo ad altri incontri. Alle nove del mattino incontro gli esponenti<br />

della Croce Rossa Jugoslava. Decidiamo di fare un convoglio per i profughi<br />

serbi e kosovari. Metà degli aiuti andranno a Nis, gli altri a Pristina. Almeno,<br />

questo in teoria. Bisognerà verificare tutte le fasi. I nostri camion potrebbero<br />

arrivare a Nis, e da lì – con una parte di aiuti – con i camion si andrà a<br />

Pristina. Chiedo che un paio di noi vadano con loro: sono d’accordo. Gli<br />

diamo una donazione di 10 milioni. Che fine faranno questi soldi? Andranno<br />

veramente a chi ne ha bisogno o alimenteranno le casse del regime? La<br />

Croce Rossa serba non è proprio al di sopra di ogni sospetto. A Roma, all’ambasciata<br />

jugoslava ce l’avevano fatto capire. Mica penserete di andare là e aiutare<br />

solamente i vostri amici oppositori? In cambio dei 10 milioni la funzionaria<br />

ci lascia tanto di ricevuta già compilata e timbrata, e una specie di pergamena<br />

in cirillico. Chiediamo che i nostri volontari possano ritornare al lavoro a<br />

Nis e a Belgrado. Non possono rispondere di sì. Mi informano come dobbiamo<br />

fare: bisogna passare per il Commissariato serbo per i rifugiati, inoltrare<br />

regolare domanda e aspettare. “Ma è difficile...”.<br />

Pomeriggio<br />

Ci raggiunge nel pomeriggio Bata, il responsabile nel nostro ufficio a Belgrado.<br />

Non l’avevo conosciuto prima. È altissimo (più di due metri), parla<br />

saggiamente e lentamente: “Stamattina è venuta la polizia: voleva portarci<br />

via il fuoristrada dell’Alto Commissariato. Non mi ha trovato e se ne è andata.<br />

Quando vengono, di solito mi nascondo. Chiudo l’ufficio e me ne vado”.<br />

È già successo a Nis – dove diamo assistenza a oltre 1.000 famiglie di<br />

profughi serbi delle Krajine con dei programmi di microcredito – nel sud<br />

della Serbia: “Lì, ci hanno portato via tutto: due macchine e tutti i computer.<br />

I condomini – che sono tutti ex militari – ci hanno denunciato: dicevano<br />

che avevamo delle apparecchiature per indicare ai paesi della Nato la rotta<br />

degli aerei. Insomma: ci accusavano di essere delle spie”. Gli consegno 6mila<br />

dollari per pagare gli stipendi degli ultimi mesi degli operatori locali e tre<br />

stecche di sigarette. Gli do anche 3mila marchi che abbiamo raccolto tra la<br />

nostra delegazione per l’orfanotrofio Zmaj, con il quale l’Ics lavora da sei anni;<br />

ci sono bambini di tutte le etnie: croati, serbi, albanesi, rom. Gli do anche<br />

un enorme busta alta un metro piena di cioccolatini e caramelle per i<br />

bambini (me l’hanno regalata quelli della elementare romana Badini). Sorride<br />

meravigliato.<br />

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3 maggio<br />

Incontriamo Goran Matic, ministro jugoslavo “senza portafoglio”. Non possiamo<br />

andare in tutti. Siamo in otto. C’è Tom dell’Arci e Marina delle Acli.<br />

Alcuni ministeri sono distrutti, altri sono dei “target”. Perciò ci portano in<br />

un “club” – una sorta di residence ministeriale – che si trova nella zona delle<br />

ambasciate, dove abita anche Milosevic. Raggiungendo il “club” scorgiamo<br />

su un prato di un’elegante villa un cratere dove nella notte è caduto un<br />

missile. Il “club” sembra una vecchia colonia d’altri tempi. Si vede che il luogo<br />

è abbandonato: i fiori sui tavoli sono appassiti. Le stanze sono deserte.<br />

C’è molta polvere sulle poltroncine. È un incontro ufficiale a tutti gli effetti.<br />

La nostra delegazione è su un lato del tavolo; quella del ministro sul lato<br />

opposto. Il ministro è un giovane funzionario; è biondo e ha gli occhi trasparenti.<br />

Ha l’aria dimessa e triste, stanca, così sembra. Ma, quando inizia<br />

a parlare si dimostra un vero aparatcniki: fa mezzora buona di propaganda.<br />

Ha il piglio intransigente. Intervengo a nome della delegazione: condanno<br />

l’intervento della Nato, esprimo la solidarietà a tutte le vittime e dico pure<br />

“Bisogna dare una soluzione al problema del Kosovo; garantire un’autonomia<br />

e smilitarizzare l’area. La Nato deve porre fine ai bombardamenti e devono<br />

finire le azioni militari sul campo, dell’esercito e dell’Uck”. Non risponde.<br />

Interviene Tom: “Dovete prendere un’iniziativa politica, non potete più aspettare”.<br />

Matic non risponde. Tom, con la sua solita intelligenza politica, insiste:<br />

“Accettereste una forza armata internazionale di garanzia in Kosovo,<br />

senza i paesi che hanno partecipato all’azione militare?”. Matic non risponde.<br />

Poi alla fine si limita a dire: “L’Italia e la Grecia possono avere un ruolo<br />

importante per la pace”. È passata un’ora e mezza. Matic fa un cenno e portano<br />

da un’altra stanza un frammento inzaccherato di Tomahawk, un missile<br />

americano piombato sul ministero della Difesa a Belgrado: “Vedete? È<br />

del 1983. Questa guerra è combattuta anche con un altro fine: rinnovare<br />

l’arsenale militare”. Ce lo regala per portarlo in Italia e farlo vedere. Siamo<br />

imbarazzati, ma ce lo portiamo via. Poi se lo prende don Vitaliano per farlo<br />

vedere ai suoi fedeli. Mentre ce ne andiamo – siamo sul corridoio – mi<br />

rivolge una battuta: “Lo sa di che colore è lo Stealth?”. Rispondo che mi sembra<br />

nero. Matic ride: “No, di nessun colore, perché è invisibile”. Infatti è<br />

l’aereo fantasma-invisibile ai radar. Ride come un bambino.<br />

4 maggio<br />

Siamo pronti per partire per Pancevo (pochi chilometri da Belgrado, 130mila<br />

abitanti) dove andiamo a vedere cosa ha bombardato la Nato: per la precisione<br />

un petrolchimico e diversi impianti che contengono gas tossici. Ci<br />

sono stati molti morti, centinaia di feriti, migliaia di persone evacuate dai<br />

quartieri limitrofi. Un pericolo di catastrofe ecologica scampata per un pe-<br />

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lo. Migliaia di operai non hanno più un lavoro. Il petrolchimico della città<br />

è deserto; ci aggiriamo tra gli isolati abbandonati in un ambiente spettrale.<br />

Non un custode, non un operaio. Lentamente, a passo d’uomo il nostro pullman<br />

passa a fianco di serbatoi bruciacchiati, capannoni anneriti, frammenti<br />

di metalli e di muratura in una strada desolata. 8.000 per la precisione<br />

sono le persone rimaste senza lavoro. Nella sede del comune di Pancevo – il<br />

mattino – ci hanno fatto vedere dei video strazianti di persone a brandelli:<br />

sono riprese fatte appena dopo i bombardamenti. All’incontro si affaccia anche<br />

Aleksandar Zograf. È di Pancevo, ha lo sguardo penetrante e intelligente;<br />

una cartella sotto il braccio. Ha disegnato fumetti straordinari (che rendono<br />

benissimo l’ottusità minacciosa del volto di Milosevic, mentre il bianco e<br />

nero delle sue strisce hanno un che di fuligginoso, di grigio, come la sua Pancevo<br />

in<strong>qui</strong>nata), usciti anche in Italia (“il manifesto” sta pubblicando un suo<br />

diario di guerra).<br />

Nessuno capisce come, ma a un certo punto sale sul pullman un prete<br />

ortodosso, si chiama padre Andreas. È un ragazzo alto e dinoccolato di 25-<br />

26 anni, occhi rutilanti, barba lunga ramata, una tonaca grezza e povera che<br />

sembra di stamigna, una specie di giovane Rasputin. Ha fatto qualche cenno<br />

all’autista? Si è messo in mezzo alla strada? Ha convinto qualcuno della<br />

nostra delegazione? Ci spiega allegramente in un italiano stentato, dalla cadenza<br />

teutonica, ma brioso, espressivo. È del patriarcato di Belgrado.<br />

Durante la mattina ha incontrato Bettazzi insieme a Pavle, il patriarca<br />

della chiesa serbo-ortodossa. Adesso capiamo come è salito. Padre Andreas<br />

è Nato in Germania, da padre serbo scappato quando ha vinto Tito<br />

nel 1945. “Mio padre era un anticomunista; ha fatto la resistenza con Mihailovic.<br />

E quando ha vinto Tito è dovuto emigrare”. Andreas parla, parla,<br />

è allegro. Racconta tante cose nel suo italiano stentato. Racconta<br />

anche lui storielle e barzellette. “Sapete? Quando Dio decise di fare gli<br />

stati, disse: non più di dieci. E li fece così: uno per gli stati uniti dell’est,<br />

un altro per gli stati uniti dell’ovest. E gli altri otto per la Jugoslavia”. Ci<br />

accompagna a vedere il suo monastero; alla periferia di Novi Sad. Escono<br />

gli altri monaci; tutti giovani e dalle barbe lunghe. Ci offrono delle grappe.<br />

Siamo in un giardino e la calma del luogo fa dimenticare di essere in<br />

guerra. Il capo dei monaci fa un discorso in cui condanna l’intervento<br />

della Nato e ricorda che questo e altri monasteri sono stati aperti dopo la<br />

caduta del comunismo. Bettazzi, che non ci sente bene, a un certo punto<br />

lo interrompe: “Perché ripete sempre D’Alema?”. Risponde il capo dei monaci:<br />

“ No, ho detto nema che significa, no, nessuno”. “Davvero? D’Alema<br />

significa nessuno?” chiede ancora Bettazzi. Tutti ridono.<br />

Andreas ci porta a vedere i tre ponti distrutti a Novi Sad. Ce n’è uno di<br />

particolare, sul Danubio. Dice il prete: “Qui ci venivano gli innamorati pri-<br />

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ma di sposarsi. Si facevano solenni promesse”. Accanto al ponte distrutto degli<br />

innamorati, ci sono i basamenti di un altro ponte che non esiste più. “Anche<br />

questo distrutto dalla Nato?”, chiede qualcuno. “No – risponde Andreas<br />

– questo è stato distrutto dai nazisti, durante la seconda guerra mondiale”.<br />

Gli innamorati non ci sono più; nessuno sembra più farsi grandi promesse<br />

né tra sospiri, né romanticamente in barca: solo una fila di persone (donne,<br />

anziani, bambini) in attesa di una chiatta che li condurrà dall’altra parte del<br />

fiume. Prima di salutarci Padre Andreas ci trascina a vedere un altro ponte,<br />

sempre appena fuori Novi Sad. È un ponte enorme, un cavalcavia di un’autostrada.<br />

I missili della Nato l’hanno completamente buttato giù. Per arrivarci<br />

dobbiamo superare alcuni sbarramenti e barriere di legno sistemate<br />

dalla polizia. Il pullman arriva fino a un certo punto, troppo pericoloso<br />

proseguire, e non può andare oltre. Scendiamo tutti e ci avviciniamo guardinghi<br />

sull’autostrada deserta e surreale, nel silenzio della campagna rotto<br />

solo dal vento freddo che sibila. Padre Andreas, saltellando, ci invita: “Andiamo,<br />

andiamo”. Arriviamo sull’orlo del precipizio. Una montagna di macerie<br />

di asfalto, tondini, telai di acciaio, blocchi di cemento armato ingombra<br />

la valle, appena un centinaio di metri sotto. Alzo gli occhi: a 150 metri, dopo<br />

il vuoto, l’autostrada solitaria riprende il suo corso.<br />

13 maggio<br />

Dibattito con Stefano Benni a Bergamo. Ci sono 250, forse 300 persone. Si<br />

parla di guerra e di Missione Arcobaleno. Benni spiega al pubblico perché<br />

è meglio dare i soldi al volontariato indipendente che non alla Missione Arcobaleno.<br />

Poi prende in giro Veltroni e i Ds. Li invita a cambiare la bandiera<br />

del partito mutando lo slogan da: “Veniamo da lontano e andiamo lontano”<br />

in: “Che altro potevamo fare?”. Torniamo con Benni a Milano, a notte fonda,<br />

a bordo di una fuoristrada che mi ha consegnato Roberto Bertoli (del<br />

gruppo di solidarietà locale) perché il giorno dopo deve essere consegnato a<br />

Kacanj in Bosnia, dove è attivo da anni un progetto per il rientro dei profughi.<br />

In giornata ci ha chiamato ancora Paolo Landi, di Benetton che ci<br />

aiuterà. Altra ottima notizia: Goffredo Fofi ha trovato 40 milioni dal vecchio<br />

gruppo parlamentare della sinistra Indipendente, fermi su un conto<br />

corrente “dormiente”. L’ha contattato Ada Becchi, l’ultima capogruppo<br />

della sinistra indipendente e hanno pensato a Ics.<br />

18 maggio<br />

Riunione dell’esecutivo dell’Ics. Arriva la notizia della possibile approvazione<br />

di una mozione parlamentare della maggioranza dei parlamentari di centro-sinistra<br />

che chiede la sospensione dei bombardamenti. C’è un clima di<br />

euforia. C’è l’idea che questo sia il risultato anche della nostra mobilitazio-<br />

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ne. Tra poche settimane ci sono le elezioni europee; per chi dovremmo votare?<br />

Siamo assaliti dal rifiuto della politica e di questi partiti.<br />

19 maggio<br />

Parto con Anna Eva per l’Albania. Da molte settimane volevo muovermi per<br />

andare sul campo, sempre impedito da riunioni, scrittura di appelli e articoli,<br />

incontri istituzionali. Arrivo finalmente a Tirana volando su un piccolo<br />

aereo a 12 posti del Wfp (World Food Programme). L’aeroporto è in<br />

condizioni addirittura peggiori dell’ultima visita in Albania, un paio di anni<br />

fa. Un viavai di militari, operatori umanitari con tanto di fasce bianche:<br />

fuori dall’aeroporto sono assalito da bambini che, con dei cartoni in mano,<br />

ti vogliono vendere qualcosa e da altri che ti vogliono portare con un taxi in<br />

città. Già dall’aeroporto l’immagine è quella del racconto che mi hanno fatto<br />

i nostri operatori dal campo: un grande “circo” umanitario con Ong, agenzie<br />

internazionali, governi occidentali ad affannarsi a fare qualcosa di utile,<br />

a spendere i soldi, o a sperare di prenderli (diverse Ong) dalle agenzie internazionali<br />

e dai governi (e ora, dalla Missione Arcobaleno). Molti operatori<br />

di Ong e agenzie sono “griffati”: ciascuno con il proprio distintivo, con il<br />

giubbetto marchiato e il cappello stemmato. Anche la Nato, mentre bombarda<br />

si prende carico dei profughi […]. Monta tende, aiuta le Ong, muove<br />

autobotti per i campi. Sono anche <strong>qui</strong> all’aeroporto. C’è l’allegra brigata<br />

dei volontari della Protezione Civile-Missione Arcobaleno: tutti in divisa<br />

(come i militari), alcuni sono tronfi burocrati di prefetture e ministeri con<br />

tanto di rimborso a piè di lista e indennità di trasferta, altri sono giovani<br />

boy scout o di parrocchia molto volenterosi.<br />

Andiamo in ufficio. Una casetta a due piani, con sei, sette stanze, ingombre<br />

di computer, aiuti sparsi, qualche materassino e zaino appoggiato<br />

ai muri. Sulle pareti, cartine dell’Albania e del Kosovo, i luoghi dei nostri<br />

campi evidenziati. I telefoni non riescono a prendere la linea. Si prova e si<br />

riprova. Si usa anche il Cb per comunicare con i campi, ma non sempre si<br />

riesce. Ci sono persone che vanno e vengono: operatori, volontari, giornalisti,<br />

albanesi che ci danno una mano. C’è un apparente disordine, ma tutto<br />

sembra sotto controllo. In poche decine di minuti in cui mi fermo nell’ufficio<br />

arrivano le richieste più varie. Da Gomel chiedono cosa devono fare con la<br />

Arna (una macchina dell’Alfa Romeo) che ha di nuovo il carburatore rotto.<br />

Poi chiamano dal magazzino: “Che facciamo ne prendiamo uno nuovo, quello<br />

vecchio non basta più a contenere la roba?”. Chiama Vinicio Albanesi dalla<br />

Comunità di Capodarco. Ci aiutate a trovare un palco a Tirana, dobbiamo<br />

fare un concerto con dei gruppi giovanili? Arrivano dei cine-operatori,<br />

stanno facendo delle riprese nei nostri campi, per farne un documentario<br />

della Rai. Mi dicono che quando vanno nei campi chiedono ai nostri vo-<br />

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lontari di “interpretare la parte” per rendere più “vivide” le riprese (a Chiara<br />

hanno chiesto di riprenderla al momento della sveglia, quando va a lavarsi,<br />

la “giornata” della volontaria). Ne ridiamo.<br />

Si va al campo di Gomel, vicino Durazzo. Lo gestisce Chiara, da sola e<br />

con varie difficoltà, non ultima la diffidenza degli uomini del campo, restii<br />

a farsi “comandare” da una donna. Chiara è riuscita anche a far riunire le<br />

donne del campo, guardate a vista dai loro mariti e dai compagni che passeggiano<br />

intorno al cerchio di donne in riunione. Il campo è una specie di<br />

ex-albergo ristrutturato. Con difficoltà vengono organizzate anche attività<br />

di animazione. Il cibo è abbastanza razionato: ci sono delle tabelle con l’indicazione<br />

delle pietanze e delle quantità (e c’è il conteggio delle calorie per<br />

darne almeno 2200 al giorno). Dall’Acnur abbiamo pochi soldi da spendere<br />

(uno-due dollari al giorno per profugo), se non ci fossero gli aiuti dall’Italia<br />

e l’invio continuo di derrate non sapremmo come fare. Il campo è<br />

vicino alla spiaggia di Durazzo (si scorge, a qualche centinaio di metri una<br />

fila di pini, dietro ai quali c’è l’azzurro del mare), ma nessuno ci va. Solo i<br />

bambini sono allegri e giocano (e stanno sempre intorno a Chiara), mentre<br />

le donne hanno il loro da fare (riassettare le stanze, lavare la biancheria, cucinare<br />

qualcosa). Gli uomini vagano assenti; non hanno niente da fare e<br />

non si prestano, a causa della mentalità maschilista, alle attività quotidiane.<br />

Dal campo di Gomel andiamo al magazzino di Durazzo: un nostro volontario<br />

(si è preso l’aspettativa per venire fino a <strong>qui</strong>) che si chiama Martino<br />

(ha un accento del nord, il volto affaticato e la barba lunga: si arrampica sugli<br />

scatoloni mentre ci parla) gestisce il magazzino, sepolto da pacchi di pasta<br />

(che si accatastano sempre di più: gli albanesi ne hanno fin sopra i capelli)<br />

e da pacchi e pacchetti mal confezionati.<br />

20 maggio<br />

Insieme ad Andrea vado a prendere all’aeroporto di Tirana Giuliano Pisapia,<br />

che mi ha chiamato un paio di settimane per andare a fare il volontario<br />

in uno dei nostri campi. Lo manderemo a Rubik: un paesino del centronord<br />

dell’Albania di qualche migliaio di anime. A Rubik ospitiamo 4-500<br />

profughi. Pisapia non vuole che sia resa pubblica la sua presenza al campo<br />

e non vuole nemmeno incontrare i rappresentanti delle istituzioni albanesi.<br />

“Non sono venuto <strong>qui</strong> per fare incontri politici. La mia presenza è un fatto<br />

privato. Voglio solo fare il volontario in un campo”. Vuole andare subito e<br />

non ha interesse a fermarsi a Tirana. Ci mettiamo quasi tre ore per arrivare<br />

al campo: la strada è dissestata. Per fare 20 chilometri ci mettiamo un’ora.<br />

Incontriamo camioncini carichi di ogni tipo di merci, fuoristrada di organizzazioni<br />

umanitarie e internazionali. Ci guida Alì, l’autista dell’Ics, con<br />

una Mercedes sgangherata che impreca: “strada Berisha”. Di Berisha dice<br />

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tutto il male possibile: bestemmie e ogni tanto sputa di fuori quando lo nomina.<br />

Pisapia ride. A Rubik scopriamo che i profughi sono un migliaio, divisi<br />

tra il campo base, composto da alloggi che un tempo erano delle casermette<br />

per le forze armate albanesi e il convitto. Responsabile del campo è Marco<br />

Bruccoleri, già impegnato a Kakanj in Bosnia. Gli presento Pisapia; forse<br />

non ha ben presente chi sia e lo confina in una stanzetta disadorna. Marco<br />

ha già preso in mano la situazione del campo. Ci sono però pochi materassi.<br />

Molti profughi dormono per terra. “Non ho un cellulare, né una macchina.<br />

Se succede qualcosa di notte, non so come fare”. Ne avevamo parlato<br />

anche a Roma. I nostri campi profughi mancano delle cose essenziali: macchine,<br />

telefoni, materassini. È una situazione difficilmente sostenibile a<br />

lungo. Andrea avverte Marco: “Dopodomani ti arrivano cinque tir da Predappio.<br />

Sono delle Anpas, i volontari della Croce Rossa e del Comune”.<br />

Marco imperturbabile sorride ironico: “Speriamo non portino altra pasta.<br />

Se no non sappiamo dove metterla”. Ovunque lo stesso problema: tonnellate<br />

di pasta che non riusciamo a smaltire. Nei magazzini siamo pieni di<br />

vermicelli, fusilli, rigatoni. I kosovari preferiscono le zuppe di legumi e verdure.<br />

Dopo avergli dato pasta per 3-4 giorni di seguito, molti si sono rifiutati<br />

di continuare a mangiarla. Nel campo, c’è chi preferisce dormire sul<br />

camioncino o sul trattore con il quale è scappato dal proprio villaggio. Ci<br />

sarebbero anche i posti (per terra), ma molti preferiscono non allontanarsi<br />

dai propri mezzi di trasporti e dai beni che si sono portati con sé. Nel cassone<br />

di un camion – simile ai nostri lupetti degli anni ’60 – conto 8 persone:<br />

una donna anziana con i capelli raccolti in una crocchia informe mi<br />

guarda con un’espressione vuota, in attesa, mentre due bambini che le sono<br />

vicini si tengono per mano. Stanno per addormentarsi. Gli uomini, invece<br />

anche <strong>qui</strong> si aggirano per il campo, vagano silenziosi, mentre le donne più<br />

giovani lavano i vestiti e accudiscono i figli. Ci sono anche dei volontari, dall’accento<br />

inconfondibile padano. Una ragazza ha attorno a sé uno stuolo di<br />

ragazzini. Ci saluta velocemente: “Sì, li faccio disegnare, facciamo dei giochi<br />

e con una corda ho anche improvvisato una rete di pallavolo”. Pisapia si<br />

guarda intorno; vorrebbe già rendersi utile, e chiede cosa fare a Marco, che<br />

non ha tempo, ha il suo da farsi per seguire le emergenze del campo.<br />

21 maggio<br />

Torno al campo di Chiara, a Golem, dove ci sono ottocento profughi. È in<br />

un bel posto, su un poggio. Domina la vallata sottostante e il mare azzurro<br />

della costa di Durazzo. Il dormitorio è a ferro di cavallo: con al centro un<br />

piazzale delimitato da alti pini marittimi che si stagliano sull’azzurro del cielo<br />

e del mare. Entriamo nelle stanze, in cui vivono i profughi. In una di queste<br />

c’è una donna con un neonato tra le braccia: “Le ha dato nome Chiara...”,<br />

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ci dice. “Invece al primo nato gli hanno dato il nome Golem”, aggiunge Chiara.<br />

“Il problema più delicato che abbiamo <strong>qui</strong> è l’acqua; ce l’abbiamo duetre<br />

ore al giorno. Ma è così per tutta l’area di Durazzo e di Kavaja. Forse ce<br />

la tolgono del tutto e bisognerà provvedere con delle autobotti”. Una soluzione<br />

c’è, chiedere aiuto al campo di Kavaja, della Missione Arcobaleno.<br />

Andiamo allora a Kavaja, a quattro chilometri da Golem. Al campo<br />

della Missione Arcobaleno ci sono 5600 profughi. Dopo aver visitato i nostri<br />

campi (dove ci sono uno/due operatori e tre/quattro volontari, a malapena<br />

una macchina e un telefonino per campo; tutto il resto è auto-organizzato<br />

dai profughi) andare a un campo della Missione Arcobaleno” fa una certa<br />

impressione. Ad esempio nel campo di Kavajia ci sono centinaia di volontari<br />

in divisa e tuta mimetica, ognuno con il proprio walkie-talkie e cartellino<br />

di riconoscimento, decine di mezzi (macchine, jeep, ruspe, autobotti,<br />

ecc), tende e tendoni per attività collaterali. Il campo è un cantiere iperattrezzato<br />

e molto tecnologico. I volontari hanno persino distrutto alcuni bunker<br />

(che in Albania abbondano in ogni dove a migliaia ) per farne le basi di<br />

alcuni barbecue, fatti con grate di tondini di ferro. È un’impressione; ma <strong>qui</strong><br />

i profughi sembrano più tristi di quelli dei nostri “poveri” campi. Più inquadrati,<br />

meno attivi e protagonisti, “assistiti” ogni cinque minuti dai volontari.<br />

A parte il caldo delle tende, tutto è molto più organizzato, ma<br />

anche più anonimo ed eterodiretto, più forzato. I volontari dormono in albergo.<br />

Qualcuno ha anche un rimborso spese dalla propria azienda (municipalizzata,<br />

eccetera). Li vedi aggirarsi per il campo: molti a vuoto, si inventano<br />

cose da fare, cercano profughi da soccorrere. I profughi quando vedono un<br />

medico italiano del campo, fuggono per non farsi fare l’ennesima e inutile<br />

visita giornaliera. Noi, nei nostri campi, nei primi giorni, non avevamo molta<br />

roba da mangiare e, ancora, in alcuni di questi non abbiamo letti e materassi.<br />

Qui, a Kavaja, sembra tutto facile. Parliamo con Piero Moscardini,<br />

romano verace, che è il capo-campo. Sembra una “spalla” di Alberto Sordi<br />

in una commedia all’italiana. È un funzionario della protezione civile. Gioca<br />

ad alternarsi con i volontari burbero e bonario, inflessibile e comprensivo.<br />

È inspiegabilmente gentile con noi e poi ci porta anche a vedere il campo.<br />

Ma lo sa che abbiamo criticato aspramente in Italia la Missione Arcobaleno?<br />

A un certo punto nella tenda dove stiamo discutendo con Moscardini<br />

entra il medico del campo: “Senti Piero, <strong>qui</strong> si avvicina il caldo e ho paura<br />

che possano scoppiare delle epidemie. Forse sarebbe il caso di dare, almeno<br />

ai bambini, una spremuta di arance. Come prevenzione...”. Risponde Moscardini.<br />

“Che te serve?”. “Mah – ribatte il medico – facendo i conti, almeno<br />

due arance al giorno a testa, fa più o meno: 3.500-4.000 arance al giorno”.<br />

Risponde Moscardini: “Compra. Te faccio subito l’autorizzazione. Poi?”. Ancora<br />

il medico: “un paio di spremiagrumi”. Risponde Moscardini “e quan-<br />

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do affitti? Almeno sei. Compra. Te faccio l’ordine...”. L’impiego di mezzi,<br />

risorse e volontari è veramente impressionante. Non è esagerato dire che in<br />

Albania ci siano i campi profughi di serie A (Arcobaleno) e di serie B ( tutti<br />

gli altri). A Scutari c’è stata anche una mezza rivolta degli albanesi contro<br />

i kosovari, cui veniva dato il pane, naturalmente gratis. Lo volevano pure gli<br />

albanesi, disoccupati e affamati. Hanno cosi assaltato il camion che portava<br />

il pane al campo.<br />

Nel pomeriggio arriva la Ministra Turco a visitare i nostri campi. La mandiamo<br />

al dormitorio di Golem. Arrivano una <strong>qui</strong>ndicina di macchine. Ci sono<br />

una cinquantina tra funzionari, giornalisti e ministeriali vari. Ci sono anche<br />

un paio di telecamere. I profughi osservano silenziosi e immobili dalle balaustre<br />

delle terrazze del campo, come fosse la scena di un film. I bambini smettono<br />

di giocare e seguono il codazzo ministeriale. La Ministra chiede a Chiara<br />

informazioni sul campo, abbozza una visita nella struttura, ma si ferma prima<br />

di addentrarsi all’interno delle stanze. Chiara non si fa condizionare e ogni<br />

tanto si distrae dalle sue domande per dare retta e rispondere ai bambini che<br />

le si stringono attorno e a cui dà uguale importanza (grande successo di Chiara<br />

tra i bambini del campo). Dopo 13 minuti (ho cronometrato il tempo),<br />

si riaprono le portiere delle macchine e di corsa vanno tutti (Ministra, scorta,<br />

assistenti, segretarie, politici locali, eccetera) all’aeroporto di Tirana, dove<br />

c’è l’aereo della Presidenza del Consiglio che li aspetta.<br />

22 maggio<br />

Dopo una visita al nostro campo di Burrell (1600 profughi, dove c’è Marco<br />

Donati come responsabile) la sera ritorno a Rubik, dove lascio Federico e Raffaella<br />

al campo. Di nuovo incontro Pisapia, perfettamente integrato e felice<br />

del suo lavoro <strong>qui</strong>, ma questa volta ha un look diverso: ha la barba lunga e i<br />

vestiti inzaccherati, i mocassini da buttare. E forse anche la giacca di lino.<br />

23 maggio<br />

Dall’Albania arrivo in Macedonia, sempre a bordo degli aeroplanini di World<br />

Food Program, che sembrano gracili. Siamo una decina di persone (di più<br />

non ne porta), quasi tutti funzionari delle Nazioni Unite a 15-20 milioni al<br />

mese di stipendio. C’è un’americana che non fa che parlare con una sua collega<br />

del college migliore dove mandare la figlia una volta finite le scuole; poi<br />

passa al suo cottage che si trova in un non-so-quale parco parlando di un<br />

tecnologico sistema di riscaldamento; infine parla delle sue vacanze (un mese<br />

in Belize) e delle spiagge tropicali. Dopo qualche giorno di Albania (che<br />

ha l’aspetto di un paese uscito da una guerra di dieci anni) la Macedonia fa<br />

l’effetto di trovarsi in Svizzera. È un bel paese: verde, rigoglioso e dai paesaggi<br />

che ispirano serenità e anche un certo benessere (ma forse esagero: ho<br />

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ancora in mente il disastro dell’Albania. Il pensiero che viene spontaneo è<br />

questo: ecco, così era la Jugoslavia dieci anni fa, prima della guerra. Un paese<br />

tutto sommato sereno e con maggior benessere rispetto agli altri paesi dell’est.<br />

Poi è arrivato il nazionalismo, la lotta per il potere, il ritorno criminale<br />

della contrapposizione etnica. Tutto intorno ci sono distruzioni, devastazioni,<br />

povertà. In Macedonia c’è un relativo benessere: le strade sono pulite<br />

e ordinate. Skopije fa l’impressione di una bella città tran<strong>qui</strong>lla e sonnacchiosa.<br />

Qui, finora, sono riusciti a evitare la guerra. Andiamo (in macchina con Alessandro<br />

Pieroni, che coordina la missione Ics in Macedonia e Anna Eva, responsabile<br />

delle relazioni esterne e della comunicazione nell’Ics) al confine<br />

tra la Macedonia e il Kosovo: siamo al campo di Blace, di cui nelle scorse<br />

settimane si è tanto parlato per via delle 30-40mila persone che lo affollavano<br />

in condizioni disumane. Il silenzio è assoluto, surreale, come in chiesa;<br />

lo si percepisce, lo si ascolta. Il ronzio delle cineprese e dei registratori,<br />

gli scatti delle macchine fotografiche sono il sottofondo minaccioso di un’attesa<br />

sospesa di eventi da carpire. A un centinaio di metri dal confine, ci sono<br />

una quarantina di fotografi con giganteschi zoom che sembrano cannoni,<br />

cameraman da tutto il mondo in una babele di lingue diverse: inglese, francese,<br />

spagnolo, portoghese, slavo, italiano. Sono in attesa dell’arrivo dei<br />

profughi dall’altra parte, magari nella speranza di qualche scena drammatica:<br />

profughi a piedi, sui cavalli, donne e bambini piangenti. Qualche settimana<br />

fa una macchina è scoppiata su una mina, prima di attraversare il<br />

confine. Fotografi e cameraman sono stati accontentati: lavoro e voyeurismo<br />

di guerra ben miscelati. Di corsa dall’altra parte del confine arrivano degli<br />

uomini saltellanti con una barella fatta di due assi metallici e un telo sbrindellato.<br />

Sopra c’è sdraiata una donna anziana: è una contadina, ha le rughe<br />

profonde sul viso e un fazzoletto che le raccoglie i capelli. È accovacciata<br />

sulla barella e ha gli occhi socchiusi e gonfi. Non sta dormendo: sa di avere<br />

su di lei macchine fotografiche e cineprese e non vorrebbe mostrarsi. Fa una<br />

smorfia come per trattenere il pianto. Due cameraman con una spinta mi<br />

fanno da parte. Finite le riprese si presenta un giornalista del Tg 2: “Sono<br />

<strong>qui</strong> da 20 giorni. Avete qualche cosa interessante da far vedere nei vostri campi?”.<br />

Con me c’è Alessandro che lo tratta un po’ sbrigativamente. Ne sono<br />

sorpreso, anche Anna Eva lo guarda con preoccupazione: tutti noi siamo<br />

sempre molto disponibili (qualche volta servili?) con i giornalisti nella speranza<br />

di una citazione, un articolo, un servizio. Alessandro lo tratta alla pari,<br />

anzi sembra volergli fare capire che abbiamo cose ben più importanti da<br />

fare che dedicargli qualche ora di tempo per un servizio “di colore” di tre<br />

minuti in televisione. Gli fa la descrizione delle nostre attività, ma non gli<br />

dà soddisfazione: “Vieni quando vuoi, ci trovi là”. Alla fine Alessandro gli<br />

dà il suo numero di telefono, ma sbagliato.<br />

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Nel campo di Blace sono ospitate 5-6mila persone; la situazione è drammatica.<br />

I soldati macedoni non vogliono farci entrare, ma poi riusciamo a<br />

convincerli. Alessandro incontra un suo conoscente di Pristina. Si riconoscono<br />

e si abbracciano. È scappato la notte prima, l’hanno portato alla stazione<br />

dei pullman da dove li hanno caricati. Hanno lasciato tutto lì. Si sono<br />

portati l’indispensabile: qualche vestito, i pochi averi, delle pentole per cucinare.<br />

Le donne sono sedute vicino alle tende. Alcune fanno con calma dei<br />

primi lavori: risciacquano delle magliette, lavano delle scodelle. I bambini<br />

non giocano. Gli uomini si aggirano per il campo in cerca di una notizia, di<br />

una conferma, di qualcuno che possa aiutarli. Le varie Ong internazionali<br />

si sono divise il lavoro: chi fa l’ambulatorio, chi la mensa, chi i servizi. I militari,<br />

dopo aver montato le tende, guardano o sono sulle ruspe e i muletti<br />

meccanici a smuovere terra o a portare pacchi.<br />

Ci muoviamo dopo un paio di ore da Blace e andiamo al campo di Stenkovac,<br />

che è lì vicino, a pochi chilometri sulla strada che porta a Skopije. Il<br />

campo è gestito dalla Nato con l’Acnur. È una spianata immensa: centinaia<br />

di tende piantate sulla pista di un vecchio aeroporto. Il clima è completamente<br />

diverso. Sembra un immenso villaggio, uno strapaese balcanico. Ci<br />

sono baracche all’interno dove si vendono sigarette, caramelle, si fanno caffè.<br />

I militari delle Nato e i funzionari delle Nazioni Unite hanno autorizzato<br />

l’apertura di piccoli negozi e c’è un via vai di uomini, attrezzi, macchine,<br />

biciclette. Il campo è spazioso: tra una tenda e l’altra c’è sufficiente distanza.<br />

Non c’è l’ammasso di altre tendopoli. Il campo è diviso in settori: ciascuno<br />

è subappaltato ad altrettante organizzazioni non governative internazionali.<br />

Sciami di persone ci vengono incontro.<br />

Ci dirigiamo verso un punto dove trasmettono con un mixer dell’assordante<br />

musica da discoteca. Vediamo delle bandiere israeliane. Sono<br />

quelle di una organizzazione umanitaria di Tel Aviv che gestisce una sorta<br />

di villaggio di teenager e parco giochi per bambini. Dentro c’è proprio<br />

una discoteca: volontari che ballano con i profughi. In ogni angolo di<br />

questo “parco giochi” ci sono animatori che organizzano esibizioni, giochi<br />

a premi, lotterie. Gli animatori hanno tutti la faccia incredibilmente<br />

sorridente e gioiosa, un po’ forzata, esagerata come quella degli animatori<br />

dei villaggi Valtur. I bambini e i ragazzi profughi in effetti si divertono<br />

tanto: saranno due-trecento.<br />

E gli altri? Uscendo da lì ne vediamo tanti con umore diverso: chi<br />

s’aggira con le mani in tasca, chi consola i propri vecchi, chi è steso sulla<br />

stuoia a fissare il vuoto o ha l’orecchio incollato a una radiolina che dà<br />

le notizie. Anche da <strong>qui</strong> i soldati macedoni, i profughi non li fanno uscire;<br />

solo quando troveranno un posto in Europa.<br />

88


24 maggio<br />

Finalmente vado – sempre insieme ad Alessandro e ad Anna Eva – a visitare<br />

il campo di Senokos, dove l’Ics svolge delle attività di animazione per i bambini.<br />

Ci sono 6-7mila persone. Le condizioni <strong>qui</strong> sono terribili: le tende sono<br />

ammassate l’una sull’altra. I servizi igienici sono insufficienti, i bagni sono delle<br />

buche in gabbiotti appena tirati su. Ogni tanto arriva un trattore e con un<br />

tubo aspirante porta fuori dalle fosse la merda. Il lezzo è insopportabile. I bambini<br />

piccoli vanno, a piedi nudi, a fare i loro bisogni in questi bagni dalle buche<br />

enormi. Giocano in mezzo al fango. È pieno di mosche. Tra un po’ <strong>qui</strong><br />

farà caldo e le malattie saranno inevitabili.<br />

Nelle tende ci sono dieci-dodici gradi in più. E siamo a ventisei-ventisette<br />

gradi all’ombra. Anche <strong>qui</strong> i profughi dal campo non vengono fatti uscire.<br />

Sono dei reclusi. Alessandro mi dice che una delle prossime iniziative sarà con<br />

gli anziani del campo: li porteranno a fare una passeggiata nel bosco adiacente<br />

e a fare una “merenda”, una sorta di scampagnata. Nutro qualche dubbio;<br />

molti di loro hanno fatto decine di chilometri a piedi per scappare dai serbi,<br />

e noi li portiamo a fare una passeggiata? Mi sbaglio. L’iniziativa ha una grande<br />

successo: uscire dalla prigione del campo e respirare dell’aria buona tra gli<br />

alberi (e anche mangiare qualcosa di diverso dalla solita razione) sono buoni<br />

motivi per iscriversi all’iniziativa.<br />

Devo dire che Alessandro – che pure è un po’ ansioso: si preoccupa sempre<br />

eccessivamente di tutto – ci sa fare: ha un buon rapporto con gli operatori<br />

e stabilisce un rapporto diretto con tutti, è sempre sorridente, infonde fiducia<br />

e sicurezza: bambini e profughi, come ai funzionari delle Nazioni Unite.<br />

25 maggio<br />

In ufficio a Skopije sono oggi al lavoro quasi tutti. Ci sono quattro impiegati<br />

locali. Sono tutti molto bravi. C’è Guglielmo, che segue le attività di<br />

animazione – è un napoletano che vive a Milano, lavora nel teatro, s’è<br />

preso un’aspettativa fino alla fine dell’anno – ed è molto bravo; si inventa<br />

sempre nuovi giochi e attività da fare. È molto attivo con i bambini e<br />

ha molta fantasia.<br />

È arrivata oggi anche Susanna, che è la ragazza di Maurizio (che adesso<br />

sta con noi a Podgorica, in Montenegro), si occuperà di contabilità. Anna<br />

Eva e Alessandro lavorano alla stesura della continuazione del programma<br />

dei campi: parlano di cose da fare, di tempi da rispettare, di soldi da richiedere.<br />

L’Acnur è in ritardo sui pagamenti.<br />

6 giugno<br />

La trattativa per porre fine alla guerra avanza. Alla cessazione dei bombardamenti<br />

della Nato, inizierebbe il ritiro delle forze armate serbe in 48-72 ore.<br />

89


La Russia fa resistenza sull’ipotesi che a guidare la forza multinazionale sul<br />

campo sia la Nato.<br />

Manifestazione ad Aviano in Friuli, da dove partono i caccia della Nato per<br />

bombardare la Serbia. La tensione è alle stelle: si temoni incidenti. Le conseguenze<br />

dell’assassinio di D’Antona si fanno ancora sentire: c’è aria di una<br />

nuova caccia alle streghe. Non tutti si fidano di quello che possono combinare<br />

i centri sociali: tenteranno di entrare nella base, di scavalcare le reti?<br />

Per arrivare nel paese, bisogna fare dei complicati giri. Dei posti di blocco<br />

di carabinieri impediscono di costeggiare il perimetro della base. I bar di<br />

Aviano stanno abbassando le saracinesche. In passato più volte ci sono stati<br />

incidenti in paese. Dopo un panino nell’unico bar trovato aperto, facciamo<br />

una riunione sotto un tiglio. I Cobas non vogliono stare in fondo<br />

al corteo. Verranno con caschi e bastoni, ma non li utilizzeranno se non<br />

per difendersi dalla polizia: mi sembra di essere tornato indietro di vent’<br />

anni. Si fronteggiano a muso duro (e volano parole grosse) con Vilma e<br />

Casarini di Padova. I centri sociali duri (Firenze, Torino, Napoli) accusano<br />

più o meno Vilma e Casarini di essere filogovernativi e revisionisti, mentre<br />

i centri sociali del nord-est stigmatizzano questi “duri e puri” come<br />

“residuati”. Parte con difficoltà il corteo: prima le associazioni, poi i centri<br />

sociali del nord-est, poi Rifondazione. Alla fine, gli autonomi. Molta<br />

tensione, ma fortunatamente non succede niente. I militanti dei centri<br />

sociali del nord-est si comportano bene, evitano provocazioni e non fanno<br />

niente che non fosse già stato concordato tra di noi. Migliaia di poliziotti<br />

e carabinieri difendono il perimetro della base. All’interno ci sono<br />

altre forze schierate: poliziotti (o anche americani?). In effetti gli aerei per<br />

due ore non volano. C’è chi la rivendica come una “grande vittoria politica”,<br />

giudizio eclatante, che lascia il tempo che trova. Finita la manifestazione<br />

gli aerei riprendono a volare. La guerra però sta finendo, i serbi hanno<br />

già dichiarato di voler accettare le condizioni della pace.<br />

9 giugno<br />

Ieri riunione del G8 a Colonia. I ministri degli Esteri del G8 mettono a punto<br />

il testo di una risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.<br />

La pace arriva. Sono in ufficio. Anna Eva ha parlato con l’Acnur. Dice che<br />

quando rientreranno in Kosovo ci daranno la leadership della gestione di<br />

tutte le attività con i bambini e gli anziani nei centri dove sono ospitati i<br />

rifugiati. Ci aspetta un lavoro tremendo. Bisogna prevedere di mandare altre<br />

persone anche in Macedonia. Mi chiama Bruno dall’Albania: “L’Acnur<br />

ci vuole affidare altri cinque campi, e <strong>qui</strong> i coordinatori sono stanchi,<br />

bisogna prevedere un ricambio. Ci sono problemi al campo di Golem. Il<br />

Sindaco ha avuto molti screzi con Carlo, che sta coordinando il dormito-<br />

90


io. L’hanno anche minacciato. Che facciamo?”. La sera – dopo due mesi<br />

e mezzo – vado al cinema con Paolo e Maria Silvia. Sono le dieci di sera,<br />

prima di entrare allo spettacolo. Anna Eva chiama Paolo: “Hanno fatto<br />

la pace, hanno annunciato la sospensione dei bombardamenti”. Dopo<br />

il film sento i messaggi sulla segreteria del telefonino cellulare. C’è quello<br />

di Raffaella, e quello di Vilma: “Un abbraccio da Padova. È finita!”.<br />

91


Iraq. La guerra infinita<br />

Bagdad, febbraio 2003<br />

La preparazione è stata tortuosa: vari incontri al consolato iracheno a chiacchierare<br />

con il console per cercare di convincerlo a concederci il visto: si tratta di<br />

una procedura complessa, lunga e non è detto che vada a buon fine. I collo<strong>qui</strong><br />

con il console sono anomali: ti fa accomodare su una poltroncina, ti offre gentilmente<br />

un caffè, si parla per un’ora della situazione internazionale e di quello<br />

che dicono e pensano i politici italiani sull’Iraq (ovviamente la prudenza regna<br />

sovrana e le parole misurate e controllate al millimetro). Solo negli ultimi due<br />

minuti si parla in modo piuttosto sbrigativo delle procedure per il visto. “Faremo<br />

quello che è possibile, è difficile, sa... la situazione complessa...”. Da soli<br />

è praticamente impossibile andare in Iraq. Aggregandosi ai viaggi di Un ponte<br />

per... c’è qualche speranza.<br />

Il visto comunque arriva, due giorni prima della partenza. Ho dovuto<br />

rifare il passaporto perché sopra c’era il visto israeliano. Di Iraq so poco.<br />

Fino a oggi ho frequentato soprattutto Balcani e Palestina. Le differenze sono<br />

sostanziali, ma una è quella che mi pesa di più. Fino a oggi – dove sono<br />

andato in missione umanitaria – è sempre stato possibile avere rapporti<br />

con gruppi di “società civile” e parlare con l’opposizione; <strong>qui</strong> in Iraq siamo<br />

in presenza di un regime, una dittatura, e l’unico interlocutore è il governo<br />

di Saddam Hussein. Il dubbio, allora, ci prende: è possibile fare azione<br />

umanitaria sotto una dittatura? È possibile aiutare i bambini negli ospedali<br />

consegnandosi nello stesso tempo al silenzio di fronte ai massacratori dei<br />

curdi? È possibile fare qualcosa per alcuni che soffrono, sapendo che il prezzo<br />

da pagare è quello di disinteressarti ad un’altra categoria di vittime? È<br />

certo: se parli male di Saddam Hussein vieni ricacciato indietro e <strong>qui</strong> non<br />

ci torni più. Ognuno ha le sue soluzioni: ad esempio quando Medici senza<br />

frontiere ha scoperto di essere utilizzata in Burundi come paravento per<br />

la creazione –attraverso la pulizia etnica – di nuovi campi profughi (fonte<br />

di aiuti internazionali per la dittatura), ha lasciato tutto (anche i malati che<br />

stava curando) e se ne è tornata a casa. L’aiuto umanitario senza i diritti<br />

umani (senza la denuncia della loro violazione) è possibile? E a quale prezzo?<br />

È questo il “dilemma umanitario” in cui molti si trovano, senza trovare<br />

una definitiva risposta. Ne parlo al ritorno del viaggio con David Rieff,<br />

figlio di Susan Sontag, e autore di un bel saggio Un giaciglio per la notte, in<br />

cui mette sotto tiro le ambiguità dell’azione umanitaria: “L’azione umanitaria<br />

– mi dice – è talvolta solo un alibi per la carenza dell’iniziativa politica.<br />

Si mandano aiuti perché non si fa quello che si dovrebbe fare per rimuovere<br />

le cause delle emergenze e dei conflitti. E i diritti umani vengono sacrificati<br />

sull’altare di questo alibi che serve solo alla politica”.<br />

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Quando parto per Bagdad (è il 12 febbraio del 2003), il mio libro per<br />

Feltrinelli: Le ambiguità degli aiuti umanitari è uscito da cinque mesi: metà<br />

della comunità delle Ong mi ha tolto la parola, il direttore di una rivista non<br />

profit mi ha scritto una lettera di quattro pagine accusandomi di essere vanitoso,<br />

arrivista, ambizioso. Un’ importante dirigente dell’Associazione delle<br />

Ong mi lancia messaggi di tipo mafioso: “Guarda, smettila, altrimenti dico<br />

tutte le cose che so di Ics”. Che sa? Cerco di farmelo dire. “Non insistere, altrimenti<br />

finite male”. Avvertimenti paramafiosi. Un ex funzionario delle Nazioni<br />

Unite, che ora fa il volontario con Ics, rompe i rapporti e mi dice che<br />

sono diseducativo verso i giovani. In effetti sono stato impietoso verso i funzionari<br />

delle Nazioni Unite. Ma sono più diseducativi loro con i loro stipendi,<br />

i loro privilegi, il loro arrivismo. Da qualche mese il mondo umanitario<br />

è attraversato da una fibrillazione continua: si sente messo in discussione, i<br />

panni sporchi vengono lavati all’aperto e ci sono degli “infiltrati” che rompono<br />

l’omertà corporativa della “categoria” di quegli operatori umanitari piegati<br />

o al business dell’aiuto o alla logica della guerra umanitaria.<br />

Al posto di blocco tra la Giordania e l’Iraq, il controllo dei passaporti e<br />

della dogana è quello solito dei regimi dittatoriali o in guerra: lunghe attese,<br />

controlli minuziosi, trafile burocratiche senza senso, tra timbri, moduli da<br />

riempire, registri da compilare, visti da ricopiare. Inclusi gli sguardi accigliati<br />

e per niente socievoli dei funzionari e dei soldati su cui incombono – in<br />

stanze disadorne e sciatte come tutte quelle dei posti di frontiera – vari ritratti<br />

di Saddam raffigurato in tutti i modi: solenne e sportivo, cacciatore e animatore<br />

di bambini, sorridente e severo, eccetera. Siamo nel mezzo della<br />

notte – infreddoliti nella landa desertica che separa i due paesi – e dobbiamo<br />

aspettare l’alba – quando riaprirà la frontiera – per poter passare. Il viaggio è<br />

stato sino a ora lungo (quattro ore di aereo e un paio di macchina) e lo sarà<br />

ancora molto (altre otto ore di viaggio in mezzo al deserto). Aerei da Amman<br />

a Bagdad – da tempo – non ce ne sono più, ormai. È l’embargo.<br />

Superiamo finalmente la frontiera. Siamo in Iraq. Attraverso una lunga<br />

autostrada corriamo per sei-sette ore incontrando al massimo una decina di<br />

macchine. Di militari iracheni, nessuna traccia. Bagdad è città ordinata, ritratti<br />

di Saddam sui palazzi e pochi soldati per le strade. Siamo in un grande<br />

e vecchio albergo statale mal messo. Il nostro gruppo – una quarantina<br />

di persone – si riunisce per organizzare le iniziative progettate: incontri e visite,<br />

fino a una manifestazione per la pace – il 15 febbraio – in contemporanea<br />

a quelle che si svolgono in tutto il mondo (e a Roma) contro l’intervento<br />

militare in Iraq. Mi svincolo un po’ dal gruppo per seguire un mio personale<br />

programma di appuntamenti e visite.<br />

Il primo che chiamo – dopo numerose telefonate improvvisamente interrotte:<br />

ovviamente il numero è sotto controllo – è David Bellamy, il re-<br />

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sponsabile dell’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)<br />

a Bagdad. Non lo conosco, ma è affabile e mi invita subito ad andarlo<br />

a trovare. Mi accoglie nella sua sede, tutto sommato semplice e sobria.<br />

Ha i baffi, è alto e sembra un attore di soap della Bbc: una specie di Peter<br />

Sellers meno trasandato. Chiacchieriamo della situazione in Iraq, è giovale<br />

e mi invita a cena per l’indomani. Scopro dopo pochi minuti di conoscenza<br />

la ragione di questa affabilità. A Bagdad è solo: le Nazioni Unite hanno<br />

fatto sloggiare la sua famiglia e anche di funzionari internazionali ne sono<br />

rimasti pochi. Un po’ il cameratismo tra operatori umanitari (governativi e<br />

non), un po’ la solitudine, un po’ la rarità delle visite degli occidentali fanno<br />

di Bellamy un interlocutore disponibile. Parla molto, mi spiega molte cose<br />

dell’Iraq. Ascolto, imparo. È la mia prima volta. Quando siamo nella<br />

sede delle Nazioni Unite, non nomina mai Saddam Hussein, ma si passa la<br />

mano sui baffi per farmi capire che sta parlando di lui. Anche la sede delle<br />

Nazioni Unite è infestata di microfoni del regime. Ha un modo tutto suo<br />

di farsi volere bene dagli iracheni: stringe la mano a tutti in modo particolare,<br />

non caloroso, ma con grande rispetto e dignità. Ogni stretta di mano<br />

sembra un evento importante. Stringe la mano all’autista che ci porta al ristorante,<br />

al cameriere che ci accoglie sulla porta, all’edicolante quando<br />

compra il giornale, al venditore di quadri nella galleria d’arte, al giardiniere<br />

che annaffia le piante di casa. Per ognuno ha un sorriso e un saluto dignitoso.<br />

La sua casa, una grande villa da diplomatici, nel quartiere residenziale<br />

di Mansur è vuota, triste e un po’ angosciante. Ha due piani e una scala<br />

paraboloide che sembra quella delle ville old fashioned del profondo sud degli<br />

Stati Uniti. Seguiamo insieme al notiziario della Cnn il servizio su una<br />

seduta del consiglio di sicurezza in cui si parla di Iraq. Spiega le dinamiche,<br />

i contrasti e le alleanze nelle Nazioni Unite. È a un anno dalla pensione:<br />

racconta dei paesi che ha girato, delle missioni che ha avuto. È comprensivo<br />

verso gli iracheni e critica – in modo diplomatico, ovviamente – gli americani<br />

per l’atteggiamento arrogante e aggressivo verso il paese. Non riesce<br />

a capire le ragioni di questo comportamento. Poi passiamo agli argomenti<br />

di carattere umanitario e al ruolo dell’agenzia delle Nazioni Unite: “Delle<br />

agenzie internazionali l’Unhcr è quello che ha il ruolo minore. Attualmente<br />

l’agenzia ha il mandato sui profughi stranieri residenti in Iraq (iraniani,<br />

curdi-turchi, palestinesi), in sostanza circa 30mila profughi e lavora direttamente<br />

con il governo (che è molto generoso con i profughi) e prioritariamente<br />

con le organizzazioni locali”. Mi racconta che hanno un budget<br />

modestissimo, un milione di dollari. In caso di emergenza umanitaria non<br />

avranno mandato sull’assistenza agli sfollati interni (sarà delle altre agenzie,<br />

in particolare di Unochi, l’agenzia umanitaria dell’Onu per l’Iraq), ne prevedono<br />

600mila (al massimo faranno solo la protection) mentre il grosso dei<br />

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ifugiati previsti (800mila) secondo loro andrà in Iran e in Siria; la Giordania<br />

ha annunciato di chiudere le frontiere. Racconta tutto ciò a cena in ristorante<br />

con una bottiglia di vino che ci siamo portati da casa e che sta sotto<br />

il tavolo avvolta in un foglio di giornale (per rispetto verso i costumi religiosi<br />

locali) accanto a un sacchetto di carta con centinaia di biglietti di dinari iracheni<br />

(l’inflazione è a livelli stratosferici), che serviranno a pagare il conto.<br />

Il giorno successivo, mi inoltro vicino all’Hotel Palestine, dove c’è il capo<br />

missione dell’Unicef, Carel De Rooy, un olandese, determinato e motivato,<br />

abituato a trattare con le Ong in cerca di finanziamenti. È smaliziato,<br />

ma serio. L’Unicef ha un programma più consistente, 10 milioni di dollari<br />

(bilancio proprio), più i fondi che utilizza attraverso l’Unochi (programma<br />

Oil for Food – vendita di petrolio iracheno solo per ac<strong>qui</strong>sto di cibo –, non<br />

ho capito quanti soldi sono, ma devono essere tanti). I loro interventi – tenuto<br />

conto che la malnutrizione infantile non è solo la mancanza di cibo,<br />

ma una dieta povera (60% delle donne sono anemiche), la situazione sanitaria<br />

(le acque in<strong>qui</strong>nate al sud sono un fatto generalizzato), la povertà, la<br />

descolarizzazione per cui il 25% dei bambini e 1/3 delle bambine non vanno<br />

a scuola – sono: a) monitoraggio sulla situazione sanitaria dei bimbi (più<br />

o meno un milione), b) interventi di supplementary feeding per i bimbi, c)<br />

ristrutturazione di scuole (500) e ospedali (63) pediatrici, d) interventi sulla<br />

potabilizzazione delle acque, e) interventi di educazione informale, eccetera.<br />

Lavorano con Ong internazionali (tra cui Care ). Insieme al governo<br />

hanno creato 2.800 centri di monitoraggio e di distribuzione di cibo per i<br />

bambini (Community Child Care Units) che coinvolgono ben 13mila volontari<br />

locali. Ho cercato di capire cosa possiamo fare noi e lui mi ha chiesto<br />

qual è il nostro comparative advantage, rispetto alle altre Ong. Mi dice<br />

che se facessimo qualcosa che ha a che fare con l’educazione di quel 1/3 di<br />

bambine che non vanno più a scuola, loro sarebbero molto contenti. De Rooy<br />

ci consiglia di non disperderci e di concentrarci su un’unica area (in questo<br />

senso Bassora, va molto bene). L’impressione è che si può fare qualcosa<br />

– un progetto, una proposta – con l’Unicef; ma dobbiamo fargli noi una<br />

proposta, una volta fatto l’assessment, rimanendo nell’area di Bassora.<br />

Continuo il pellegrinaggio tra le organizzazioni umanitarie. Il terzo incontro<br />

è quello con il World Food Programme. Vedo il capo missione Torben<br />

Due e il suo collaboratore Tarek Elguindi (cordinator/food observation).<br />

L’incontro è nella sede delle Nazioni Unite: solo sei mesi dopo (in agosto)<br />

verrà distrutta da un attacco terroristico dove perderà la vita il vicesegretario<br />

dell’Onu Sergio Viera de Mello. Sono entrambi molto disponibili, l’atmosfera<br />

è buona. Siamo stati preceduti da una telefonata di un vecchio amico<br />

del Wfp di Roma, Francesco Strippoli, che ci ha presentato. Il loro è un intervento<br />

enorme (da quello che ho capito sono inseriti nella la cornice del<br />

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programma “Oil for Food”(Off) in base al quale il 70% dei ricavi dalla vendita<br />

del petrolio va nell’ac<strong>qui</strong>sto di beni alimentari) dato che di fatto viene<br />

data assistenza alimentare a tutto il paese: tutte le famiglie hanno una tessera<br />

con la quale prelevare la razione di base mensile presso magazzini governativi.<br />

Saddam, per motivi di propaganda, ha già distribuito i buoni-razione<br />

fino a giugno (razioni che poi magari vengono vendute sul mercato). La dinamica<br />

delle relazioni tra la distribuzione gestita direttamente dal governo<br />

e quella che fa il Wfp (World Food Programme) è molto stretta.<br />

Andando all’Hotel Palestine – dove è in funzione l’unico internet point<br />

cui hanno accesso gli occidentali – incontro alcuni rappresentanti delle<br />

Ong internazionali, tra cui Care, Enfants du Monde, Premiere D’Urgence,<br />

Norwegian Aid, eccetera. Medici Senza Frontiere sta aprendo adesso (ancora<br />

in attesa del permesso) un ufficio con sette espatriati. La sede delle Ong<br />

sono praticamente tutte nell’albergo Al Fanar (in Iraq non si possono affittare<br />

case per sedi e alloggio). Delle italiane quelle che si stanno dando da fare<br />

per entrare sono Gvc, Intersos, Cosv e Terres des Hommes. Le Ong in<br />

Iraq non sono molte e rigorosamente sotto controllo: se criticano Saddam<br />

vengono espulse.<br />

Tre giorni passano in fretta ed è ora di ripartire. Notizie dall’Italia:<br />

grande manifestazione di tre milioni di persone a Roma (è il 15 febbraio)<br />

contro la guerra. Speriamo che serva a fermarla. Altre decine di manifestazioni<br />

in giro per il mondo e anche <strong>qui</strong> abbiamo fatto la nostra in un centinaio<br />

di persone (rappresentanti delle Ong internazionali presenti a Bagdad).<br />

Conferenza stampa e ultimi incontri con gli operatori locali. Poi, ultima cena<br />

con il gruppo dei volontari italiani presenti a Bagdad, che rimarrà nella<br />

città ancora un paio di giorni. Parto a mezzanotte con la jeep. Ho l’aereo ad<br />

Amman in mattinata. I pesci di fiume messi a cucinare sulla brace, dopo due<br />

ore non sono ancora cotti. Mangiamo solo pane. Con Giuliana Sgrena (che<br />

è <strong>qui</strong> per conto de “il manifesto”) prendiamo un taxi, ci scambiamo le impressioni<br />

su quello che può succedere da <strong>qui</strong> a breve (anche lei rimane a Bagdad<br />

ancora per alcuni giorni) e ce ne ritorniamo nei nostri alberghi. Mi<br />

aspettano il fuoristrada e molte ore di viaggio verso Amman.<br />

Bagdad e Bassora, luglio 2003<br />

È l’alba quando passiamo il confine giordano-iracheno. Come quattro mesi<br />

fa, poco prima dell’inizio della guerra. Qualche differenza è evidente: un<br />

campo di profughi palestinesi e sudanesi (saranno un migliaio) è spuntato<br />

nella terra di nessuno: scappavano dall’Iraq, ma in Giordania non li fanno<br />

entrare. E indietro non ci vogliono tornare. Non si possono fotografare o riprendere:<br />

i poliziotti giordani ti sequestrano le macchine da presa. Non ci<br />

si può avvicinare. Le tende sono dei lenzuoli leggeri appena appoggiati a del-<br />

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le strutture traballanti. Una spianata sorda e polverosa di centinaia di tende<br />

nel deserto, senza coperture e teloni, al sole dei cinquanta gradi di questo<br />

periodo. Qualche profugo tenta di avvicinarsi alle macchine di passaggio,<br />

ma viene ricacciato indietro dal pronto intervento del guardiano giordano.<br />

Altra differenza: tutti i ritratti di Saddam distrutti o cancellati; in una stanzetta,<br />

di venti metri quadri ce n’era (allora) una <strong>qui</strong>ndicina di diverse fattezze<br />

e colori: foto e dipinti, primi piani e scene di caccia con sempre il dittatore<br />

protagonista. Non ne è rimasta più nessuna. E poi – terza novità – gli americani,<br />

i soldati americani: giovani, giovanissimi, per niente affatto spavaldi,<br />

impauriti, molti sbarbatelli. Guardano sonnacchiosi dai loro blindo impolverati<br />

e da quegli orrendi Humvee (le blindo-jeep piatte e larghissime con<br />

delle mitragliatrici appostate in alto); lasciano fare il personale iracheno che<br />

controlla passaporti e macchine. Per noi, nessun sorriso. Sembrano non<br />

avere parole, sono stanchi; più che “rambo muscoli gonfiati” – sono gracili<br />

nelle divise più grandi, alcuni con gli occhialoni da secchioni e faccette impaurite<br />

– sono dei ragazzi ventenni dalla provincia americana che magari<br />

hanno bisogno di soldi: per avviare un negozio o per pagarsi gli studi.<br />

Dal confine a Bagdad ci sono ancora sei-sette ore di viaggio. Dipende<br />

dalla velocità (folle) con la quale gli autisti delle potenti jeep che ci accompagnano,<br />

guidano. Siamo con una delegazione di organizzazioni umanitarie:<br />

in tutto una <strong>qui</strong>ndicina. L’autostrada fino a Baghdad è a quattro corsie<br />

e scarsamente frequentata (e solo un paio di volte incontreremo qualche colonna<br />

di soldati americani); bisogna proteggersi da eventuali assalti di banditi<br />

e predoni; è già successo a un convoglio di Medecins du Monde che<br />

solo un paio di giorni prima è stato completamente saccheggiato. Soprattutto<br />

nelle vicinanze di Baghdad, intorno a Chaladi e Falluja, i rischi sono<br />

seri: lì ancora si combatte. Ci sono giornalieri attentati e imboscate. Non<br />

incontriamo praticamente nessun mezzo militare (iracheno) distrutto o abbandonato.<br />

Dov’è stata la guerra? Non ci succede niente né a Chaladi, né a<br />

Falluja ed entriamo tran<strong>qui</strong>llamente a Bagdad. La città è più caotica della<br />

volta precedente. Il traffico impazzito, le macchine contro mano. Tanta gente<br />

per strada. Di pattuglie americane non così tante; ovviamente il grosso<br />

dell’esercito americano se ne sta ben rinchiuso nella “zona verde”, inaccessibile<br />

dall’esterno. Un modo per evitare di fare troppo da bersaglio agli attentati<br />

che in questi giorni stanno crescendo. Ministeri e sedi del governo<br />

sono state più o meno tutte colpite; con una certa precisione. Anche perché<br />

generalmente queste si trovano lontano dai quartieri abitati. Passiamo davanti<br />

al ministero del Petrolio; è intatto e controllato massicciamente dai soldati<br />

americani. Qui sembrano più aggressivi, nervosi, pronti a sparare, con<br />

il dito già sul grilletto delle loro mitragliatrici enormi. Lungo il Tigri la strada<br />

impazzisce: vanno tutti contro mano e l’ingorgo è inevitabile. Gli ameri-<br />

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cani hanno bloccato una direzione della strada all’altezza dell’Hotel Palestine<br />

(dove il regime aveva confinato i giornalisti): hanno paura di attentati ed evitano<br />

il passaggio di macchine nelle vicinanze. In alto il muro scheggiato del<br />

balcone dell’Hotel colpito da un carro armato americano, che ha ucciso un<br />

giornalista spagnolo. Avevano detto che il carrista si era sbagliato, scambiando<br />

la macchina da presa per un fucile. Lo sapevano tutti che al Palestine c’erano<br />

solo giornalisti, ma facciamo la prova a occhio nudo: si riconoscerebbe<br />

facilmente la differenza tra un fucile e una macchina da presa. A maggior ragione<br />

con un mirino di precisione di un cannoncino di carro armato.<br />

Iniziano gli incontri politici. Siamo <strong>qui</strong> per capire cosa sta succedendo,<br />

come la pensano gli iracheni, per vedere cosa possiamo fare. Il primo incontro<br />

è con il responsabile esteri dei comunisti iracheni. Un politico di professione.<br />

Ragionevole, intelligente, moderato: contento di essere stato invitato<br />

dalla Madeleine Albraight in Giordania per un convegno di un istituto di<br />

studi americano contrario alla linea di Bush. È per l’economia di mercato e<br />

non è contrario alle privatizzazioni (per lo meno non a tutte). Sarà il politico<br />

più sano e intelligente che incontriamo. I comunisti hanno creato le loro<br />

Ong (come hanno fatto con ben più diffusione gli islamisti) e anche<br />

associazioni di donne come la Women League, che temono di essere discriminate<br />

ed emarginate dalla presa del potere degli islamisti.<br />

Incontriamo esponenti degli altri partiti (islamici, progressisti, eccetera)<br />

del sindacato, delle organizzazioni delle donne (Iraqi Women League),<br />

delle istituzioni religiose sunnite, sciite e cristiano-caldea (il Vescovo della<br />

città), delle Ong locali (Tammuz, vicine al partito comunista iracheno), dei<br />

media indipendenti (Al-Muajaha, un nuovo settimanale finanziato dai pacifisti<br />

americani), le organizzazioni culturali (il Circolo degli Artisti, presenti<br />

pittori, teatranti, scrittori), eccetera. Ci riuniamo anche con gli operatori<br />

delle Ong (Ics, Un Ponte per… Terres des Hommes, Intersos) con le quali<br />

Ics condivide l’ufficio a Baghdad, incontro nel quale facciamo il punto della<br />

situazione umanitaria della città dei progetti in corso, delle difficoltà che<br />

si incontrano sul campo, dei rapporti con le autorità e le istituzioni internazionali.<br />

Ci sono Simona Torretta (che fino a poco tempo prima ci ha aiutato<br />

a coordinare il Tavolo per gli aiuti con il popolo iracheno), Ernesto Bafile<br />

e altri. Simona fino a gennaio, ci aiutava a coordinare – dalla sede romana<br />

del Ponte – il Tavolo di coordinamento per l’Iraq: era un po’ la segretaria<br />

della struttura e si occupava di tenere le comunicazioni e i contatti. Ma è<br />

sempre voluta andare e stare in Iraq; e così a fine febbraio – prima dell’inizio<br />

della guerra – è andata a Bagdad e ci è rimasta sotto le bombe; da allora<br />

non è più tornata in Italia. Dopo la fine della guerra noi abbiamo mandato<br />

Stefano e Marco Bertotto, per fare il primo convoglio di aiuti e poi a operare<br />

sul campo Ernesto e Annalisa. L’Ics continua a co-promuovere (con Un<br />

98


Ponte per… e Terres des Hommes) il progetto Echo di fornitura di ossigeno<br />

agli ospedali della città ed è in contatto con Unicef per la realizzazione<br />

di un progetto per la formazione di operatori sociali a Baghdad e in altre<br />

città del paese. A Bassora l’Ics sostiene con un programma specifico di integrazione<br />

alimentare ai bambini malnutriti le attività del dispensario Sindbad,<br />

istituito nel 1997 da Un Ponte per… e ha rifornito l’ospedale pediatrico della<br />

città di condizionatori d’aria per le stanze dei bambini ricoverati, frigoriferi<br />

per le medicine e altre attrezzature. Il tutto grazie ai fondi raccolti dalla<br />

campagna Nuove Basi in Iraq e al sostegno di gruppi (hanno raccolto molte<br />

migliaia di euro) come Insieme-Zajedno di Roma e Assieme di Calenzano.<br />

Sono in corso contatti per altre possibili attività, ancora da avviare: da<br />

un programma con Unhcr per attività di accompagnamento (microcredito,<br />

integrazione sociale) al rientro dei profughi dall’Iran e un progetto con<br />

Undp per la creazione di un centro giovanile in un’area particolarmente degradata<br />

della città.<br />

Da Bagdad partiamo per Bassora. Arriviamo in città dopo otto ore di<br />

fuori strada costeggiando nell’ultimo tratto il Tigri. Anche a Bassora abbiamo<br />

progetti e attività in corso. Con Un ponte per... seguiamo l’ambulatorio<br />

di Sindbad, che dà assistenza a ad alcune centinaia di bambini. Si affaccia<br />

sul Tigri in una zona tran<strong>qui</strong>lla e silenziosa della città, lungo un viale alberato:<br />

sembrano dei grandi tigli – ma dalle foglie più grandi – quelli che ci<br />

portano un po’ di fresco nella calura di luglio. C’è silenzio, una sensazione<br />

surreale di pace. Non è una zona di traffico, macchine non ne passano. L’ambulatorio<br />

è pulitissimo. Il medico che lo dirige ci spiega i problemi e le esigenze:<br />

le medicine che mancano, le attrezzature ormai inutilizzabili, eccetera.<br />

Prendiamo nota di tutto quello che serve; gli spieghiamo perché ci troviamo<br />

lì, giochiamo con dei bambini in attesa di farsi visitare. Nel pomeriggio<br />

andiamo all’ospedale pediatrico di Bassora, dove ci sono i bambini ricoverati.<br />

L’ospedale è pulito, i medici con camici lindi e sorridenti che ci spiegano<br />

pazientemente tutti i problemi sanitari della zona, le madri silenziose e<br />

meste, i bimbi incuriositi dalla nostra presenza insolita che ci seguono in pigiama.<br />

L’emergenza più grande è quella delle incubatrici: ce ne sono solo<br />

quattro-cinque e ce le fanno vedere: vecchie, incrostate ossidate e consumate<br />

dal tempo, mal messe. “Ne servirebbero almeno cinquanta”, dicono. L’Ics<br />

sta continuando in questi mesi a rifornire l’ospedale di medicinali e altre attrezzature,<br />

ma le incubatrici non sono state ancora mandate. Gli aiuti delle<br />

istituzioni internazionali non arrivano. Da <strong>qui</strong> parte l’idea di un progetto<br />

per ac<strong>qui</strong>stare quelle trenta incubatrici (costano due-trecento dollari l’una)<br />

attraverso una sottoscrizione popolare in Italia (in poche settimane raggiungeremo<br />

l’obiettivo); intanto diamo indicazione agli operatori locali di<br />

Ics di farne arrivare qualcuna dal Kuwait. Hanno anche il problema delle<br />

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ombole d’ossigeno: li manderemo da Bagdad dove – dalla fine della guerra<br />

– abbiamo iniziato a un progetto per riattivare una fabbrica che riforniva<br />

di ossigeno tutti gli ospedali della città. Altra emergenza: mancano i<br />

condizionatori d’aria. Nell’ospedale fa molto caldo: ci sono un po’ di ventilatori<br />

che sono insufficienti. Anche in questo caso ne faremo arrivare un<br />

po’ dal Kuwait (a Bassora si trova ben poco); Annalisa si sta scrivendo su un<br />

piccolo quaderno tutte le cose da fare. Un po’ di soldi li abbiamo raccolti e<br />

siamo in grado si spenderli subito. C’è con noi anche Daniele della Uisp<br />

che ha deciso di allestire una o due “ludoteche” per i bambini malati: manderà<br />

giocattoli, tavolini, sedie, lavagne per farli giocare. Il sistema sanitario<br />

iracheno è vicino al collasso: privo di medicine, ossigeno, attrezzature, con<br />

il personale senza stipendi. Ugualmente disastrosa è la situazione dell’acqua,<br />

in<strong>qui</strong>nata e non potabile, problema crescente in diverse aree del paese<br />

e all’origine di tante malattie. Va ricordato che tutto ciò non è solo il risultato<br />

della guerra, ma di oltre dieci anni di embargo occidentale che ha colpito<br />

anche gli ospedali. Ci si sente male a girare in quell’ospedale con le<br />

nostre macchinette fotografiche e telecamere, vestiti casual da occidentali,<br />

un po’ voyeuristi, anche se le donne del nostro gruppo (una è Simona, una<br />

pediatra che lavora ad Insieme Zajedno, e che con i bambini ha a che fare<br />

tutti i giorni) rompono l’imbarazzo con una spontanea familiarità, per nulla<br />

forzata – fatta di gesti, sorrisi, contatti con le mani – con le madri e i<br />

bambini che le girano intorno. Tra donne le barriere si rompono. Giocano,<br />

scherzano. Mi sento un po’ meglio.<br />

La sera, parliamo di altri progetti e attività. A Bassora è pieno di soldati<br />

inglesi. La sera quando andiamo alla palazzina delle organizzazioni umanitarie<br />

internazionali (dove ci sono computer e telefoni) sentiamo in vicinanza<br />

spari e mitragliate, ma Ernesto e Annalisa (che prima di <strong>qui</strong> si sono fatti<br />

tutta l’emergenza in Kosovo) dicono di non preoccuparci: sono colpi di<br />

avvertimento, non ci sono combattimenti in giro. In ogni caso alle 21 c’è<br />

il coprifuoco e tutti gli alberghi di Bassora sono murati alle finestre e alle<br />

entrate, con le guardie armate la notte. Facciamo brevi riunioni nella hall,<br />

ci scambiamo idee e impressioni, pensiamo alle cose da fare al ritorno in<br />

Italia. Nel nostro albergo ci sono alcuni cinesi, che non sono operatori umanitari:<br />

hanno con sé decine di scatoloni e casse di hi-fi, televisori, computer.<br />

Il business inizia. La mattina ripartiamo per Bagdad e poi per Amman,<br />

quasi venti ore di viaggio a velocità sempre folle in fuori strada. Nel frattempo<br />

cerco di fare mente locale e mettere ordine sui punti politici e operativi<br />

emersi da questo viaggio.<br />

Tra le tante priorità che abbiamo potuto registrare nelle nostre visite ne<br />

emergono tre. La prima: la necessità di arrivare rapidamente a una transizione<br />

politica che riconsegni l’Iraq agli iracheni, attraverso il trasferimento<br />

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di veri poteri di intervento al nuovo (anche con molti limiti) “consiglio legislativo”<br />

(trasformandolo in un vero governo provvisorio), l’indizione di<br />

elezioni politiche entro pochi mesi e il ritiro delle forze occupanti e la consegna<br />

all’Onu di un mandato che permetta all’organizzazione del Palazzo di<br />

Vetro di essere l’unico garante di questo processo, inclusa la sicurezza e il<br />

“mantenimento della pace” nel paese. Tutte le forze politiche che abbiamo<br />

incontrato ci hanno manifestato questa preoccupazione: in assenza di<br />

un’investitura democratica (piena) a un governo provvisorio degli iracheni<br />

le reazioni violente e gli attentati agli americani non potranno che aumentare.<br />

Questi non sono semplicemente il frutto delle azioni di “sbandati” o<br />

di “saddamisti”, ma l’espressione crescente di un’opposizione all’occupazione<br />

anglo-americana del paese. L’atteggiamento anti-americano sta crescendo<br />

e un gruppo di organizzazioni americane che abbiamo incontrato ci hanno<br />

informato di voler costituire un “osservatorio sull’occupazione” per documentare<br />

misfatti e danni degli occupanti. Davanti all’Hotel Palestine (dove<br />

durante la guerra erano ospitati i giornalisti) c’è la piazza simbolo della caduta<br />

del regime, ripresa dai canali internazionali quando fu divelta e buttata<br />

giù la statua di Saddam Hussein. Adesso al posto di quella del dittatore<br />

ce n’è un’altra più neutra sulla quale qualcuno ha scritto con uno spray in<br />

grandi caratteri proprio di fronte ai carri armati americani che la controllano:<br />

“All done. Go home” (tutto fatto, andatevene a casa). Tutti ci hanno detto<br />

che un’occupazione di lungo periodo (oltre l’anno) degli anglo-americani<br />

è insostenibile per il paese e scatenerebbe una reazione sempre di più di massa.<br />

Tra l’altro le azioni militari degli oppositori si vanno via via facendo sempre<br />

di più mirate, organizzate e coordinate.<br />

La seconda: l’impegno a sostenere rapidamente la nascita e lo sviluppo<br />

di organizzazioni della società civile in grado di costruire un tessuto democratico<br />

e laico del paese. Gli americani sono al lavoro per clonare con i dollari<br />

le Ong e le organizzazioni sociali secondo un’idea di “società civile” molto<br />

profit e business oriented. Noi dovremmo cercare di fare esattamente l’opposto:<br />

aiutare a costruire dal basso una “democrazia che si organizza” con corpi<br />

sociali autonomi (associazioni, sindacati, media liberi, gruppi di donne,<br />

eccetera) che possano influire sulla transizione ed essere un’alternativa laica<br />

e civile (o per lo meno un contrappeso) ai nuovi raggruppamenti fondamentalisti,<br />

clanici o affaristi che si sono già formati. In questo contesto la missione<br />

è anche servita per verificare la disponibilità di alcuni interlocutori a<br />

partecipare al forum sul dopoguerra in Iraq che si terrà a Salerno agli inizi<br />

di ottobre, nell’ambito delle iniziative legate alla marcia Perugia-Assisi. Nel<br />

nuovo contesto politico-sociale iracheno a prendere piede sono le organizzazioni<br />

islamiche o legate alle istituzioni religiose. Nell’incontro che abbiamo<br />

avuto con un Imam di un quartiere di Baghdad (noi uomini in una<br />

101


stanza, le donne in un’altra) e con il Partito Islamico (progressista) ci siamo<br />

resi conto dei rischi che corre una visione laica, democratica e di mantenimento<br />

dei diritti delle donne del futuro stato iracheno. E nello stesso tempo,<br />

l’influenza americana sulla vita politica rischia di condizionare e marcare<br />

le caratteristiche di alcune nuove forze politiche, anche se la maggioranza di<br />

queste (tra loro molto litigiose e gelose) è ancora fortemente anti-americana.<br />

Insieme al rischio fondamentalista, vi è quello politico-affaristico (dei<br />

nuovi partiti: tra tutti il Congresso Nazionale Iracheno di Chalabi) legato<br />

alla gestione del business della ricostruzione e dell’aiuto umanitario (e <strong>qui</strong><br />

si danno da fare le nuove Ong irachene filo-americane che si vanno formando<br />

per gestire i soldi degli aiuti).<br />

La terza: dare risposta agli immediati bisogni sociali della salute, della<br />

sopravvivenza economica, dell’istruzione ricercando una propria via alla transizione<br />

economica che non sia la predisposizione (come ci si appresta a fare)<br />

di quelle ricette neoliberiste (privatizzazioni, mercato selvaggio, deregulation<br />

del settore pubblico) che già tanti danni ha fatto nei paesi in via di sviluppo<br />

e nell’est europeo. I bisogni, come già ricordato, sono drammatici. Tutti<br />

sono consapevoli (ce l’hanno detto anche i comunisti iracheni che prima<br />

del regime di Saddam erano una delle forze principali del paese: il dittatore<br />

iracheno ne sterminò diverse centinaia di migliaia di comunisti negli anni<br />

’70) che è necessaria una transizione a un’economia mista di mercato: ma le<br />

privatizzazioni di cui si parla <strong>qui</strong> sono altro, sostanzialmente la spartizione<br />

del bottino (cioè il petrolio) da parte degli occupanti.<br />

In questo quadro la situazione sociale e umanitaria della popolazione<br />

irachena sembra peggiorata e tutto sembra alimentare – come è avvenuto<br />

in situazioni analoghe – un’economia “grigia” fatta di traffici illeciti e criminalità.<br />

A pagare il prezzo è la gran parte della società irachena e in particolare<br />

le categorie più esposte: bambini, anziani, disabili, donne. Nel<br />

frattempo anche i fenomeni di aids e tossicodipendenza (come i bambini<br />

di strada che abbiamo visto sniffare colla) stanno crescendo. Gli americani<br />

pensano alla propria sicurezza, non a quella delle popolazioni e quasi<br />

niente fanno per ristabilire il minimo di infrastrutture civili che permetterebbero<br />

di vivere un po’ meglio in questa fase. Prioritario è dunque inviare<br />

aiuti e rispondere a questi bisogni primari; a maggior ragione se si riesce<br />

unire a questo impegno l’iniziativa a sostegno di gruppi democratici iracheni<br />

della società civile in nascita.<br />

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Indice<br />

3 Prefazione<br />

Parte prima<br />

7 Le culture politiche del pacifismo<br />

Parte seconda<br />

23 I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe<br />

29 Time for peace<br />

43 Guerre fratricide<br />

66 La guerra umanitaria e il Kosovo<br />

92 Iraq, la guerra infinita


Nella stessa collana<br />

Quaderni<br />

1 AA.VV. Terzo settore: la fine di un ciclo<br />

2 Alexander Langer Pacifismo concreto. La guerra in ex Jugoslavia<br />

e i conflitti etnici<br />

3 Bianca Giudetti Serra Contro L’ergastolo. Il processo<br />

alla banda Cavallero<br />

4 Paul Goodman Educazione e Rivoluzione. Per diventare persone<br />

a cura di Vittorio Giacopini<br />

5 AA.VV. Rapporto sull’editoria sociale. Numeri e tendenze di case<br />

editrici, riviste e siti web<br />

6 Claudio Pavone Dal Risorgimento alla Resistenza<br />

7 AA.VV. Necessità e servitù della critica. Cosa cerca l’arte?<br />

A che serve la critica?<br />

8 AA.VV. Quel che gli studenti non sanno e non fanno.<br />

Idee per un movimento<br />

9 Aldo Capitini Agli amici. Lettere 1947-1968<br />

a cura di Goffredo Fofi e Piergiorgio Giacchè<br />

10 Norberto Bobbio Il pensiero di Aldo Capitini<br />

11 Edmondo Marcucci Che cos’è il vegetarismo?<br />

12 Adriano Olivetti Fabbrica e comunità. Scritti autobiografici<br />

a cura di Alberto Saibene<br />

13 Francesco Ciafaloni Destino della classe operaia


Finito di stampare nel mese di settembre 2011


Un saggio sulla storia<br />

del pacifismo italiano dal 1945 a oggi<br />

introduce in questo quaderno<br />

ad alcuni drammatici reportage,<br />

interventi e racconti delle esperienze<br />

del movimento pacifista italiano<br />

ed europeo dai principali luoghi<br />

dei conflitti del dopo 1989: le guerre<br />

in Jugoslavia, i conflitti in Palestina<br />

e in Medio Oriente, la guerra in Iraq,<br />

i conflitti nella ex Unione Sovietica.<br />

Un viaggio “dal di dentro” nella cultura<br />

e nelle pratiche del pacifismo italiano<br />

tra interventi di solidarietà, aiuto<br />

umanitario, nonviolenza<br />

e disobbedienza civile nei maggiori<br />

conflitti degli ultimi venti anni,<br />

raccontato da uno dei suoi protagonisti<br />

e testimoni, senza tacerne<br />

le difficoltà e contraddizioni.<br />

€ 5,00<br />

I QUADERNI<br />

9 788863 570687

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