ANNO XV N. - Poeti del Parco

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eriferie
direttore Achille Serrao fondatori Bruno Cimino e Vincenzo Luciani
Redazione: via Lepetit 213/1 - Roma -TRIMESTRALE - Reg. Trib. Roma 623/96 del 13/12/96
GENN./MARZO 2010
euro 5,00
ANNO XV N.
53

eriferie
ANNO XV N. 53
GENNAIO/MARZO 2010
TRIMESTRALE
DIRETTORE RESPONSABILE
Bruno Cimino
DIRETTORE Achille Serrao
COMITATO DI REDAZIONE
Rino Caputo, Sergio D’Amaro
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Sommario
Periferie Gennaio/Marzo 2010
EDITORIALE 3
La dialettalità negata di Pietro Civitareale
AVVENIMENTI
I dialetti della Valle dell’Aniene 4
RICORDO DI...
Tito Maniacco 5
IL LIBRO
La realtà sofferta del comico di L. Attolico 7
POESIA IN DIALETTO
Franco Pinto: il personaggio e il poeta 11
La cumeta di R. Pennisi, di Franco Loi 13
POESIA IN LINGUA
‘A che titolo’ di Brunella Bruschi 20
RECENSIONI E NOTE
In liquida luce, di Marcello Marciani 23
Voci del Promontorio: Serricchio
Granatiero e D’Amaro, di Cosma Siani 25
Dialetto e poesia nei Castelli Romani 28
CONCORSI LETTERARI 29-31
COME RICEVERE PERIFERIE - INVIARE 20,00 euro sul
c/c/p/ 59612879 intestato a Associazione Periferie,
via Nino Ilari 11 - 00169 Roma o richiederlo al tel.
06.2253179.
CENTRO POESIA DIALETTALE
“VINCENZO SCARPELLINO”
Il Centro di documentazione della poesia dialettale “Vincenzo
Scarpellino” (presso la Biblioteca G. Rodari, in via
Francesco Tovaglieri 237a - 00155 Roma - tel. 06-
2286204) invita ad inviare e a far inviare gratis testi dialettali
(poesie, antologie, riviste, monografie, dizionari e
grammatiche, materiali video e audio).
Il bollettino dei libri del Centro è sul sito www.poetidelparco.it
(sezione Poeti in dialetto: “Centro di documentazione”
del menù).

Periferie Gennaio/Marzo 2010 3 EDITORIALE
La dialettalità negata di P. Civitareale
“Gli scritti raccolti in questo
volume sono stati redatti dal 1978
al 2008”. Esordisce con queste
parole Pietro Civitareale nella breve
premessa a questo prezioso volume
(Edizioni Cofine, 2009, 128 pagine,
euro 12), il cui esplicativo sottotitolo
è: Annotazioni critiche sulla poesia
dialettale contemporanea. E prosegue:
“Le motivazioni di queste
pagine vanno ricercate in un sentimento
elettivo che nutro nei confronti
di un genere letterario con il
quale è nato e cresciuto il mio interesse
per la letteratura, e cioè la
poesia in dialetto.”
Nato a Vittorito (AQ) nel 1934 e
residente a Firenze, Pietro Civitareale
è poeta e narratore, saggista e
critico letterario, curatore di antologie
di poeti contemporanei e studioso
della poesia in dialetto; tradotti
in varie lingue, i suoi scritti si
trovano su riviste italiane e straniere.
L’autore parte dalle considerazioni:
che “lo scrittore dialettale d’oggi è in
genere un operatore più evoluto sul
piano intellettuale” e pertanto
“capace di assorbire, nella sua
ricerca poetica, stimoli e motivazioni
legati ad una cultura meno circoscritta”;
che “nell’intento di riappropriarsi
delle proprie caratteristiche
antropologiche” il fenomeno
dialettale “ha assunto un carattere
universale, inquadrandosi nella più
generale questione della difesa dei
patrimoni culturali autoctoni”, sfatata
una volta per tutte “l’equazione
‘poesia dialettale = poesia minore’”
che “si è rilevata abbastanza falsa”.
Non è dunque un caso che “la poesia
dialettale d’oggi stia a mano a mano
occupando lo spazio di quella in
lingua”.
di Marco Scalabrino
In cinque capitoli
(oltre la citata
premessa e il
pratico indice dei
nomi), egli traccia
“un quadro
abbastanza credibile
della straordinariafioritura
della poesia in
dialetto in Italia
alla quale abbiamo
assistito in
questi ultimi decenni.”
Assai bella la
copertina, che
presenta in tanti piccoli riquadri le
foto di una ventina degli autori che
verranno trattati.
Altre validissime osservazioni costellano
tutto il corpo del libro. Basilare
quella che “non è lo strumento
linguistico che fa la poesia, ma le
capacità creative del poeta e l’uso
che egli è in grado di fare della propria
lingua”. A seguire quelle altre
che solo “difendendo la propria specificità,
la poesia in dialetto può competere
con quella in lingua e continuare
ad affermare una propria
ragione di essere”; che “rinunciando
alla mimesi delle forme epico-realistiche
e spogliandosi dei panni del
populismo” la poesia ‘neo-dialettale’
“si vota alla soggettività lirica con
tutti i suoi ingorghi psicologici e le
sue lacerazioni esistenziali” e diventa
“una linea manieristica di resistenza.”
Passando ai nomi: Tolmino Baldassari,
Nino De Vita, Salvatore Di
Marco, Franco Loi, Vincenzo Luciani,
Dante Maffia, Biagio Marin, Mario

EDITORIALE
Mastrangelo, Giacomo Noventa, Pier
Paolo Pasolini, Franco Scataglini,
Achille Serrao, Rocco Vacca, Andrea
Zanzotto, in tutto oltre duecento, e
quindi alle note sugli stessi, ecco:
“la durezza morale di Guerra, il realismo
popolare di Buttitta, il virile
idillismo di Clemente, il descrittivismo
cupo e tagliente di Pierro, il
realismo lirico di Pascarella, la favola
moralistica di Trilussa”. Mentre, più
estesamente “Mario Dell’Arco,
oppone una delicatezza sentimentale
e un piglio descrittivo sospesi
tra stilizzazione e naturalezza”, “il
Pasolini delle prime poesie in dialetto
offre, in un linguaggio raccolto
e colorito, uno psicodramma impressionante
della vita”, “quella di Elio
Bartolini è una poesia estremamente
intensa nella sua razionale perspicuità,
che presenta zone di una forte
incisività, a dimostrazione di una
maniera con la quale lo stile può
essere assunto a esplicazione dello
AVVENIMENTI
Dialetti a confronto
Venti dialetti della Valle dell’Aniene
a confronto, il 20 e 21 febbraio ad
Anticoli Corrado (provincia di Roma),
in un convegno con la partecipazione
di: Ugo Vignuzzi (Università Roma
La Sapienza), Cosma Siani (Università
Roma Tor Vergata e Cassino),
Vincenzo Luciani (Centro Vincenzo
Scarpellino), degli studiosi: Walter
Pulcini (Arsoli), Giovanna Mastrecchia
(Cerreto Laziale), Giulio Sforza
(Vivaro Romano), Giuseppe Pani-
4
Periferie Gennaio/Marzo 2010
stato delle cose, a metafora di un
rapporto con la situazione. Da qui
l’uso, peraltro avarissimo, dell’aggettivazione
in funzione sempre di
‘correzione’ della realtà”. E ancora
Giovanni Nadiani il quale “con una
tragica e lucida percezione della
realtà, sceglie di testimoniare il disordine
che cade sotto il suo sguardo,
il forte sentimento del destino
umano, il senso desertico dell’immaginario
collettivo, nei termini di
una tensione espressiva omologabile
con una rappresentazione estremamente
verticalizzata del mondo.”
“Della poesia in dialetto si è impossessata
l’editoria che conta”; ma
altrettanto vero, asserisce Pietro
Civitareale, è che la poesia che conta
non è “appannaggio esclusivo della
grande editoria”, anzi non di rado
“l’editoria di provincia è in grado di
esibire poeti di valore.”
molle (Agosta) e Luigi Scialanca
(Anticoli C.) e dei gruppi teatrali di
Sambuci, Subiaco e Anticoli C.
In conclusione reading con testi
dei poeti: Giovanni Censi (Gerano),
Domenico Cianti (Cineto), Antonietta
De Angelis e Angelo Prosperi (Anticoli
C.), Aurora Fratini (Sambuci),
Filippo Greggi (Montecelio), Mario
Jannucci (Riofreddo), Alessandro
Moreschini (Castel Madama), Marco
Occhigrossi e Biagio Mutrilli (Marano
Equo), Luigi Pompili (Bellegra), Vittorio
Peruzzi (Vivaro); Achille Pannunzi,
Romolo Lozzi e Benedetto
Lupi (Subiaco).
Gli Atti (con allegato Dvd) sono in
pubblicazione a cura dell’Assoc.
Santa Vittoria di Anticoli, organizzatrice
dell’evento, cofinanziato dalla
Regione Lazio

Periferie Gennaio/Marzo 2010 5 RICORDO DI...
Ricordando Tito Maniacco
di Nelvia Di Monte
Il 23 gennaio 2010 si è spento a
Udine Tito Maniacco (1932-2010),
importante e coerente figura di
scrittore e intellettuale profondamente
legato alla sua terra. È
autore di diversi libri di saggistica,
tra i quali I senza storia. Storia del
Friuli (Newton Compton, Roma
1985) e L’ideologia friulana. Critica
dell’immaginario collettivo (KappaVu,
Udine 1995), di quattro
romanzi (da L’uomo dei canali del
1993 a Figlio del secolo del 2008),
libri di favole e racconti. Alcuni poemetti
(Gentiluomo nello studio,
1996; Mediterraneo, 1998; Patriarca
nella nebbia, 2004) sono stati pubblicati
dal Circolo culturale Menocchio
di Montereale Valcellina. Alla
riflessione storico-sociale e alla
scrittura ha affiancato una
costante attività di artista.
Lo vogliamo ricordare presentando
la sua ultima raccolta poetica,
Oltris (Circolo Culturale
Menocchio, Montereale Valcellina,
2009), in cui la poesia in italiano e
in friulano si fonde con le immagini
da lui dipinte.
Nel cerchio magico di Oltris
L’artistico volumetto contiene
due sezioni di poesie, Poesie d’acqua
in italiano e Poesiis a Oltris in
friulano, separate dalla riproduzione
di ventidue opere pittoriche
dello stesso autore. Tito Maniacco
è profondo conoscitore della storia
e della cultura del Friuli (su cui ha
scritto diverse opere), poeta, romanziere,
critico letterario e di arti
figurative, lui stesso artista. Una
vasta cultura, la sua, meditata non
da una comoda oggettività super
partes ma
dalla prospettiva
di una
scelta coerente,
propria
di chi osserva
la realtà dalla
parte dei sotans,
coloro
che si sentono
sottomessi a qualche forma di
imposizione (come i contadini un
tempo sottoposti ai padroni delle
terre). Lo sguardo si fa dunque
essenziale e incisivo, pronto a rapportare
il pensiero alla vita concreta
e civile, con una giusta dose
di disincanto che elimina i fronzoli
e punta diritto al cuore del problema.
Oltris è un paese nelle Alpi Carniche,
e il suo nome già rimanda
ad un ‘oltre’, un superamento di
confini geografici, temporali e linguistici.
Le riflessioni sul tempo e
sull’uomo trovano origine e misura
– non limite – nell’ambiente naturale,
con le sue montagne, gli orti
e i frutteti, gli animali, i fenomeni
atmosferici, le stagioni, “questo io
vedo / a Oltris / ogni mattina / che
dio respira”. Niente di nuovo sotto
il sole (per citare il Qohèlet, a
Maniacco molto caro) ma l’esercizio
di sottrazione è indispensabile per
cogliere il senso schietto dell’esserci,
“un pensiero immoto / che il
vento della pioggia / frusciando /
dilava”. L’apparente semplicità di
alcuni testi è raggiunta con un processo
di decantazione attraverso il
confronto continuo con altri (scrittori,
filosofi, scienziati, la Bibbia) e
la consapevolezza che la finitudine
del tempo umano è dentro una

È così ovvio
Oltris?
Se al di là
fosse al di qua
dell’esperienza
prima di ogni dopo
del big bang?
RICORDO DI...
temporalità universale
di cui non si
può venire a capo,
come avviene nella
poesia La freccia del
tempo, con l’antico
paradosso rivisitato
in chiave esistenzialista
“dove l’andare
/ ostenta l’arrivato
/ il tempo sarà / cedevole cenere
/ e i nostri affanni non esistiti”.
Per quel radicamento dell’autore
al Friuli – non di localismo si tratta,
ma di un ben definito ambito scelto
per scandagliare il mondo – forse
sono le poesie friulane quelle che
meglio riescono a rendere la particolare
atmosfera espressiva, la continua
oscillazione tra riferimenti
colti e sintesi essenziali, umanamente
condivisibili e, quindi,
spesso impietosamente – e ironicamente
– tragiche. In una nota
conclusiva Maniacco motiva l’uso,
per lui insolito, del friulano con
l’immagine derivata da Goethe di
essersi trovato in un cerchio
magico. Come dire che, sufficientemente
lontano dalla dispersiva e
superficiale attualità, a Oltris il
tempo quotidiano può rapportarsi
in modo diretto e naturale ai grandi
quesiti della fisica, della storia e
del sacro visti da un’ottica che
riduce le distanze e dà corpo ai
concetti attraverso una lingua che
è come “la cjâr che reste intôr a
l’uès dal brût – la carne che resta
intorno all’osso da brodo”. Il mordere
indica nutrimento e distruzione,
l’inevitabile ossimoro proprio
della vita, e “cui dinc’ de la memorie
– con i denti della memoria” la
parola può strappare quanto resta
di ciò che è ormai perso. Il viâr, il
verme che si gode la dolce polpa
della mela credendola il mondo
finché il frutto non viene mangiato
e il verme sputato, è il pretesto per
6
Periferie Gennaio/Marzo 2010
una riflessione sul migliore dei
mondi possibili; o, specularmente,
è l’immagine della corrosione fisica
che avviene nel corpo umano come
nell’intero universo, soggetti alla
medesima entropia.
Antilirica e non nostalgica (poco
‘neo-dialettale’), la poesia di Maniacco
è comunicativa, non cerca
la difficoltà stilistica fine a se stessa
ma racconta e medita partendo da
semplici esperienze connaturate al
luogo, su cui si innestano riflessioni
di disparate provenienze e
direzioni. Si attraversano i suoi
testi con la sensazione che planc
planc (adagio adagio) abbiano
messo in fibrillazione corde profonde
di un immaginario antico, di
una sapienza ancestrale, come la
figura del vicino che taglia l’erba
non con una macchinetta nevrastenica
ma con quella falce che,
inevitabilmente, riporta all’iconografia
medievale: “seâ a l’ûl dî siarasi
/ tal cercli magic / e balâ cui
odôrs de la muart – falciare significa
chiudersi / nel cerchio magico
/ e danzare con gli odori della
morte”.
I pensieri trascolorano uno
dentro l’altro come i colori d’autunno,
quando “il vert al cjamine /
pal troi dal ’zâl / e il ’zâl al si brusarà
/ tal ros des fueis – il verde
cammina / per il sentiero del giallo
/ e il giallo brucerà / nel rosso delle
foglie”. La tecnica ad acquerello è
quella prevalentemente usata da
Maniacco nelle opere qui riprodotte,
paesaggi reali i cui colori si
dilatano sullo sfondo mentre l’inchiostro
nero si addensa sui contorni
a segnare profili di montagne,
rami e tronchi contorti, gocce di
pioggia... e parole che annotano sui
margini i momenti vissuti: ciò che
si vede insieme a ciò che si intravvede.
A Oltris.

Periferie Gennaio/Marzo 2010 7 IL LIBRO
Attolico: la realtà
sofferta del comico
Dell’ultima raccolta poetica di Leopoldo
Attolico, La realtà sofferta del comico
(Aìsara, 2009, pagg.113), proponiamo qui
la bella Postfazione di Gio Ferri e alcuni
testi.
Caro Leopoldo, ho letto e riletto, preso
e ripreso questa tua raccolta assai variabile
( non eclettica ) e complessa, La realtà
sofferta del comico.
Già nello scriverti in prima battuta usai
tre attributi, che ritrovo puntualmente ad
una osservazione più attenta: sarcasmo,
disillusione e, gran qualità per queste specifiche
condizioni, leggerezza.
In questa condizione, appunto, leggendo
poesia per piacere e per mestiere tutti i
giorni, sono costretto a rilevare che l’atteggiamento
generale, per giovani e maturi,
ma soprattutto per i giovani (hainoi!),
è assai greve. Da qualche altra parte, scrivendo
di tanta poesia contemporanea, mi
è capitato di valutarla (almeno per quanto
posso capire) quale un perpetuo e lamentoso
epicedio. Perché, vedi, c’è pure una
giustificata disillusione (dati i tempi che
viviamo, o non viviamo). E qualche volta,
fortunatamente, non manca il sarcasmo,
sovente “immorale”, sboccato, quanto
moralistico – ma è ovvio che non ne faccio
una questione bassamente etica, quanto
di carenza di energia naturale, sincera,
costruttivamente irata, e di proprietà formale.
C’è in giro una generazione di giovani
(poeti per autoproclamazione o per
benedicente consenso da parte di certi
vecchi e stanchi baroni – non credere che
sia così maligno, la questione è seria, da
voler giocare con facili anagrammi…!) che
vuole saltare a piè pari un secolo di straordinarie,
seppur sovente drammatiche,
esperienze (non solo poetiche, ovviamente)
per rifarsi al solipsismo egocentrico più
demotivante e, per il lettore, disperatamente
noioso.
LEOPOLDO ATTOLICO vive ed opera a
Roma, ove è nato il 5 marzo 1946.
I suoi titoli di poesia: Piccolo spacciatore,
Il Ventaglio, 1987, raccolta antologica di
versi giovanili premiata l’anno successivo
con il Mecenate; Il parolaio, Campanotto,
1994, con prefazione di Luigi Fontanella;
Scapricciatielle, El Bagatt, 1995, compendio
di poesia performativa, con una nota di
Vito Riviello e due chine di Giacomo Porzano,
premio Franco Matacotta; Calli amari,
Edizioni di Negativo, Bologna, 2000; Mix,
Signum, Edizioni d’Arte, 2001, con sette
disegni di Ermes Meloni; Siamo alle solite,
Fermenti, 2001, con prefazione di Giorgio
Patrizi; I colori dell’oro, Caramanica, 2004,
con una nota di Giuliano Manacorda; La
cicoria, Ogopogo Edizioni d’Arte, 2004; Mi
(S)consenta, Signum Edizioni d’Arte, 2009,
con sette opere di Ester Ciammetti.
Ebbene, con questa introduzione in
negativo sul generale stato dei lavori, in
qualche modo ho già detto molto della tua
poesia: basta rovesciare il giudizio, e prendere
atto – ma è facile farlo – nel leggerti,
che tu soggiorni esattamente agli antipodi
di questa disperata landa deserta,
ove si sono spenti anche gli ultimi fuochi
del (a mio avviso) grande rivoluzionario
tempo trascorso.
Basterebbe citare la poesia (programmatica)
che intitoli Diciamoci la verità, trascritta
in forma lapidaria (proprio in

IL LIBRO
quanto programmatica):
Se passando di qui vi imbatteste
in cifre capovolte
in vigili urbani che procedon contromano
in curve di mare blu concupite dalle ruspe
e vedeste il cielo delirare incanutire
o imbottirsi di cotone emostatico
non cadete in deliquio:
aggettivate il tutto con l’enfasi del caso
corroborate esecrazione e smoccolate
col piglio che ci vuole
ma poi prendete il cuore per il bavero
fategli un liscio e busso
e aprite il rubinetto alla requisitoria:
non è forse lui il responsabile?
Non ha memoria il suo disimpegno
di sognatore stordito
o quantomeno così spesso irretito
da quel suo cielo che non è mai finito
che è sempre dipinto di fresco?
Mi scrivesti una volta: “Spero (non dispero)
di essere riuscito a tenere a bada
le famose istanze dell’ego”. Ebbene qui ti
inviti a realizzare la speranza e ci riesci.
E ci riesci secondo poesia, straordinariamente
non tanto rinunciando al discorso
per elaborare un oggetto asintattico,
ambiguo e difficilmente leggibile nelle
ellissi (prassi di ricerca, ovviamente legittima,
e peculiare, e talvolta preziosa del
lavoro della poesia valida degli ultimi cinquant’anni)
– quanto avvalorando alcune
istanze immaginifiche che, anche fuor di
metrica moderna o classica che sia, fanno
la parola, il discorso medesimo, in sé,
oggettivamente, non solo vivo nel significante,
ma ricco di significati (individuali,
collettivi e storici), una proposizione decisamente
meta-fisica e meta-discorsiva.
Voglio dire che la discorsività (abusata
dagli pseudomontaliani, per es.) acquista
qui valore di sintesi poetica, perciò umana
più che umana, grazie al paradosso delle
immagini che straniano il quotidiano.
Qualcosa di simile al paese delle meraviglie
di Alice. Tutto questo con quel fantastico
piglio che ci vuole (e che manca,
come abbiamo osservato, a molta della
giovane poesia contemporanea), con
8
Periferie Gennaio/Marzo 2010
quella, in fondo caritatevole e generosa
(com’è naturale) requisitoria antisentimentale:
“…prendete il cuore per il
bavero/ fategli un liscio e busso…Poiché
il cielo non è sempre dipinto di fresco”.
Inviterei il lettore a partire da questa
poesia (una vera e propria chiave di lettura)
per capire e godere tutto il resto.
Qui c’è tutto ciò che nella raccolta, di pagina
in pagina, di verso in verso… raccoglie
non solo il piacere della parola, del
segno poetico, bensì anche l’ossessione
che ci coinvolge a partire dai turbamenti
personali a quelli collettivi, da una pace
distruttivamente globalizzante a una guerra
assurda e crudele e mortale per i...
morti e frustrante e crudele per i vivi.
Qui è preannunciato tutto ciò che nella
raccolta cerca di esorcizzare il dramma
della vita e della storia affidandosi non
tanto alla crudeltà dell’ironia, seppur
intelligente e appropriata, quanto all’autoironia,
coscienti – il poeta, il lettore – della
debolezza dei propri sentimenti che, privi
del coraggio dell’azione, si sperdono in
reiterati e inutili sentimentalismi.
E la netta differenza (non sempre da
tutti recepita) fra il vano e lagnoso, insopportabile
sentimentalismo e il sentimento
(o meglio, sentimento poetico, meglio
ancora se scoppiettante come quello che
in questa raccolta hai esaltato, giustamente
senza pudori) è gustosamente ( o
disgustosamente?) recitato in Verticale:
(…) quindi, ti prego
non parlarmi addosso a perpendicolo
mi dai una strana sensazione
[di soffocamento:
come le bollicine di spumante
orfane del tappo
rimandate indietro da un dito sentenzioso
che alla poesia del gioco ha posto il veto
d’una filosofia seriosa ad alzo zero
cocciutamente contraria allo scoppio!
Questo tuo libro è un libro importante.
Mi piacerebbe che diventasse un viatico
per tutti quelli che pretendono d’esser
poeti dimenticandosi che la poesia è un
gioco. Mica un gioco da niente! Un gioco

Periferie Gennaio/Marzo 2010 9 IL LIBRO
di parola, come quel Fiat che giocò a
modellare (dal fango, appunto!) una vita
di per sé assolutamente ridicola, se non
finisse sempre in tragedia. Ridicola perché
senza fine, senza scopo, sempre malgiocata.
Eppure da quel fango, da quella
creta chi voglia – rinunciando tuttavia alle
altre voglie strumentali e utilitaristiche –
può ricavare appunto il gioco, che è la
poesia dell’inutile, ultimo, estremo, (abissale)
baluardo dell’indicibile verità.
In conclusione consiglierei al lettore,
fra le altre, anche a prova della coerenza
dell’autore, la non nuova composizione (è
del 1977) dal titolo Colloquio preliminare:
Dilettuosamente
Ero giovane, volonteroso, referenziato
timoroso di Dio; una perla rara:
riprendendo in particolare quei versi:
Ma tutto avevo di domestico fuorché
[lo sguardo
che sapeva di rapina, e guardava in fondo
[al cuore
È lo sguardo di rapina, del poeta crudelissimo,
che sa di verità, perciò guarda
in fondo al cuore e aggredisce ogni buon
senso comune: lo fa, certamente, con una
buona dose di cattiveria… “Famiglia Cristiana”
permettendo!
Bella pretesa una poesia senza errori
una poesia perfetta.
Non è così che si fa
– quando è proprio la lieve imperfezione
che cresce su se stessa
a fare dell’ape e delle sue cellette
l’unica chance d’amore sufficiente
il redde rationem che ti salva dalla tangente (…)
Colloquio preliminare
Ero giovane, volonteroso, referenziato
timoroso di Dio; una perla rara:
proprio come desiderava l’annuncio
di Famiglia Cristiana.
Mi presentai come domestico.
Ma tutto avevo di domestico fuorché lo sguardo
che sapeva di rapina e guardava in fondo al cuore
atterrando in percussione
con la delicatezza di una perforatrice.
La padrona di casa se ne accorse
e si sentì aggredita, indagata
letta tra le righe
e da ultimo privata della biancheria (dell’anima).
Per dissimulare, maldestra
appoggiò le terga ad una tenda e andò a tappeto
con la tenda a rovinargli in testa un sipario

IL LIBRO
curiosamente trasformato, nel mio cuore
in saracinesca inibitrice delle mie velleità di
domestico
e dei buoni uffici di Famiglia Cristiana
(che dio l’abbia in gloria)
1977
10
[Poeta, dove vai?]
Periferie Gennaio/Marzo 2010
Poeta, dove vai?
Come un asso da stiro
non sai mai dove metterti
dove ti metti impicci
nei secoli dei secoli
la tua ubicazione domestica
è una ipotesi che non si addomestica mai
è un vitalizio di precarietà
un destino di provvisorietà
di inadeguatezza nomade, zingaresca
quando infesti casa con i tuoi libretti
con i tuoi foglietti
con la tua poetry à porter
e nel turbine collezioni rimbrotti
mugugni, qualche volta anatemi
quando va bene teoremi di fulgidi sfottò…
Ma i tuoi angiomi cartacei immedicabili
marcano il territorio e non ne vogliono sapere.
Sono squilli teneri di neve
in un falò
A Sbarbaro e Ungaretti
Un intero tragitto
Montesacro-Porta Pia
nel costipato inverecondo “36”
con l’afrore mefitico di cipolla
respiratomi in viso da una donna cannone
ho fatto pensieri liberatori molto vicini
ai profumi colorati dei licheni di Camillo.
Non sono stato mai
tanto
attaccato alla vita.

Periferie Gennaio/Marzo 2010 11 POESIA IN DIALETTO
Franco Pinto: il personaggio e il poeta
di Anna Elisa De Gregorio
Ho ascoltato per la prima volta
Franco Pinto a Ischitella, mentre
leggeva le sue poesie, nell’estate del
2009, ospite della rassegna “Garganoletteratura”,
la settimana di
manifestazioni gravitanti intorno
ai premi nazionali di poesia dialettale
“Ischitella-Pietro Giannone” e
di narrativa “Città di Vico del Gargano-Sezione
romanzi brevi”.
Appariva quasi timido fra colleghi
più noti e divulgati, ma non più di
lui poeti. Subito struggimento e
senso di perdita, mescolati all’incanto
verso la natura, in quella
voce schiva ed emozionata sotto i
riflettori, mi sono sembrati familiari
come se già sapessi di lui e
della sua scrittura.
Ho intuito in questo falegname
che scrive nel dialetto garganico di
Manfredonia una rara sostanza
poetica, incontaminata, quasi primordiale,
una predisposizione al
silenzio e alla meditazione, a un
dialogo continuo con la vita e la
morte. Facile, forse scontato, l’accostamento
alla figura biblica del
falegname Giuseppe che accetta il
suo destino senza voler tutto comprendere;
quante volte Franco dice
nella sua poesia: Nen ’nzacce (Non
so) L’ucchje ne ’nganosce (L’occhio
non conosce), Nulla posso…
Franco Pinto scrive nel dialetto
garganico di Manfredonia perché
abita a Manfredonia, è nato lì (nel
1943) come suo padre, pescatore,
come i suoi più vecchi padri; quel
dialetto è la sua madrelingua, e la
scrittura che ne scaturisce è scrittura
“intera”, non “schizofrenica”,
scrittura di corpo e anima.
Pinto non si è nutrito del come
eravamo e del come non siamo più,
ma di un mondo magico,
visionario, pieno di simboli,
di solitudini e di moltitudini
che frequentano
la sua fantasia, ombre che
neanche lui riesce a definire,
dalle quali piuttosto
si lascia guidare come il saggio che
non combatte, ma si fa spettatore
elementare: Se sunne ji stéte/ji
stéte nu sunne / belle / s’angôre
vôte / u mónne / cûme nu uagnungille
(Se sogno è stato / è stato un
sogno / bello / se ancora vedo il
mondo / come un bambino), dal
volume del 2004 Méije cûme e mo’
(Mai come adesso).
Nel suo primo libro U chiamatore
(Il chiamatore), del 1983, dedicato
al padre, il mare (topos ricorrente
e percussivo nell’opera di Pinto)
prende sembianze di esseri mitici
buoni o spaventosi confusi a voci
d’infanzia, e il verso a volte ansimante,
accompagna il movimento
perenne delle onde (A matizze, Il
temporale, Mèzzanotte ’nganna
mére, Mezzanotte in riva al mare):
Il titolo (molto evocativo) di questa
raccolta fa riferimento all’antico
mestiere del pescatore capobranco,
che dà l’ordine di partenza ai compagni
a seconda delle condizioni
del mare; ed è come se da lì fosse
nato il compito del nostro Franco
di fare il chiamatore della poesia.
Ancora una volta s’impone l’accostamento
alla figura biblica di
Pietro pescatore e chiamatore di
anime.
Il componimento che incastonerei
a simbolo del volume è “U
Giaiande” (Il gigante), dove l’amoreossessione
per il mare di Pinto si
chiarisce attraverso una immagine
FOTO R. RUZZA

Nella Foto
Franco Pinto
con Luciani,
Serrao, Loi
(seminascosto)
e
Farabbi a
Ischitella,
settembre
2009
POESIA IN DIALETTO
12
di grande poesia e solitudine: Nu
pagghjére / sôpe a na mundagne /
e llà ’spetté / c’a tèrre gnotte u sôle
/…../ che sarrje! se putèsse purté
pe mè / pûre lu mére. (Un pagliaio
/ su di una montagna / e là aspettare
che la terra ingoi il sole: /…./
che sogno! / se potessi portare
lassù / con me il mare.)
La parola del dialetto ha bisogno
di voce e di rappresentazione per
completarsi, e non a caso Franco
Pinto ha una passione per il teatro
e, attraverso il teatro, parla spesso
con i bambini, suoi com-pari.
A pûpe (La bambola), dedicato
alla madre (mescolanza di racconti,
dialoghi, versi, in stupefacente
libertà), con una trama da “sceneggiata”,
per magia diventa fra le
mani di Pinto rappresentazione di
una storia antica, che riverbera
atmosfere vicine a Lo cunto de li
cunti.
Nel volume Nu corje Dôje memorie
(Una pelle due memorie) abbiamo
la sorpresa di un tu, di un interlocutore
donna, in continua metamorfosi,
inafferrabile: la donna è
poesia, dolore, abbandono, mare,
vita e, soprattutto, eros e morte.
Alcune sono poesie brevi, schegge
di bellezza. “U vinde” così recita:
Sinde sinde?! / Fé carte u vinde. /
Parle de tè. / Ma tô ne nzì ’cchessì
(Senti un po?! / Fa carte il vento.
Periferie Gennaio/Marzo 2010
/ Parla di te. / Ma tu non sei così.).
L’altra, folgorante nella sua luce
poetica, “Sûle”: “Da mò de nanze /
ninde chiô pîse / e velanze pa chése
/ ninde chiô sande / appîse a li
mûre / ninde chiô fite / de citte e
citte / ninde de ninde / je e tè sûle
/ a lo scûre/cûme na volte.” (“Da
adesso in poi / niente più pesi / e
bilance per casa / niente più santi
/ appesi ai muri / niente più odore
/ di belletto / niente di niente / io
e te soli / al buio / come una
volta”). In questo volume davvero
preziosa e puntuale è la prefazione
di Cosma Siani, necessaria alla
comprensione del nostro complesso
uomo-poesia: a volte si ha l’impressione
che sia egli stesso donna,
vento, mare in uno svolare di cento
anime l’una nell’altra. Immedesimazione
e annullamento sublime.
Nella poesia tratta dalla raccolta
Mèje cûme e mo’ (Mai come adesso)
dal titolo “Duluréte”, Pinto, con la
competenza di una sarta di
mestiere, sciorina parole come
nghjûme, drôte ponde e sopraggitte
(dietro punti e sopraggitti) con
divertita pignoleria. Scelgo un’ altra
poesia ironica tratta dallo stesso
volume: “Ajire sunnéve” con questo
incipit: Ajire sunnéve, pe la misèrje
(ieri sognavo per la miseria) e con
questo verso finale: Sunnéve ajire
pe la misérje (sognavo ieri per la
miseria); il componimento è in
ottave con andamento da filastrocca
e un finale a chiasmo. La
sua maestria è notevole proprio
perché passa inosservata tanto è
strettamente legata al testo e al
contesto.
Vrà vigghje e sunne (Tra veglia e
sonno) è l’ultimo libro fino ad oggi
pubblicato. In questo volume, dedicato
al fratello “grusse”, qualcosa
cambia: quel modo così personale
di andare a ruota libera per strade

Periferie Gennaio/Marzo 2010 13 POESIA IN DIALETTO
di immagini e di suoni raggiunge
vertici sempre più alti fino a un non
sense tragico e limpido. Scelgo la
breve “Ma tô ce pinze?”: Chi fuse /
grusse / ji stéte stìpé / quidd’ucchje
schétte / mizze u facciulètte / du
vestîte blô… / ma tô ce pinze tô
(Che errore / grande / è stato conservare
/ quegli occhi schietti / in
mezzo al fazzoletto / del vestito
blu… / ma tu ci pensi?). Nelle sue
liriche abbiamo assonanze e rime
sempre più necessarie al senso che
è contemporaneamente ritmo.
Alcuni versi sono cortissimi, quasi
un battito di piede. Appare un’ironia
amara, a volte durissima
insieme ad un’ironia più lieve e fanciullesca
in una mescolanza sorprendente.
L’incipit di “No spisse”:
No spisse / fisse / ce nàzzeche
nvônne u mére / na navicule / fatte
de corve spére / de trabbacule /
d’erva ricce / u paliaricce (Non
spesso / fisso / si ninna sul fondo
il mare / una culla / fatta di
costole spaiate / di trabaccolo /
d’alga riccia) ci rasserena, quasi ci
fa sorridere; poi il tono cambia, si
susseguono immagini di morte:
criatûre murte nd’i fasse / passe /
ruffanille de vamméce / sènza péce
(neonati morti in fasce / passi /
orfanelli di bambage / senza pace).
No spisse
No spisse
fisse
ce nàzzeche nvônne u mére
na navicule
fatte de corve spére
de trabbacule
d’erva ricce
u pagliaricce
tôle de vôle
pe lenzóle
e pe cuérte
còzzele vocc’apèrte.
Andamento ossimorico: giochi tragici,
piccole lapidi di parole lievi.
Delirio lirico, preghiera reiterata
e accorata è l’ultima poesia rivolta
a una entità imprecisata: “Pe n’ata
volte, l’ótîme” dove il poeta chiede
aiuto, richiama vento, pioggia,
barca, Bellezza, Poesia e morte fino
a un ribaltamento dove la poesia
può essere vita e morte in un
amore uno e trino (come spiegato
nella premessa), in una più alta
unità spirituale e fisica. Franco
Pinto vede le cose da una prospettiva
lontana, come lui stesso confessa,
si assopisce, temporeggia,
lascia che le cose accadano, rifiutando
l’effimero momento di gloria,
l’effimero richiamo mondano.
Finisco con i versi iniziali della
premessa a quest’ultimo volume
(pubblicato da Cofine editore di
Roma, e curato, come tutti gli altri
di Pinto, da Mariantonietta Di
Sabato), versi che hanno l’andamento
e la leggerezza di un haiku
e suonano come un augurio per un
prossimo “fare poetico”: Sembe
cchiù chiére / ce fé u sune da cambéne
/ e je tènghe angôre / tanda
côse pi méne (Sempre più chiaro /
si fa il suono della campana / e io
ho ancora / tante cose per le mani).

POESIA IN DIALETTO
14
Mûpe u mére nàzzeche
e tàzzeche
avanze de paranze
de speranze
papunne
sunne
criatûre murte nd’i fasse
passe
ruffanille de vamméce
sènza péce.
E nàzzeche
e tàzzeche
e màzzeche
e au vinde
cande
u mére
-s’u sinde
te scappe u chiandeninne
e canzûne amére
ai pisce fûme
ai sènza nûme
a chi ca pôte.
Toste ji du scugghje a prôte!
NON SPESSO - Non spesso / fisso / si ninna sul fondo il mare / una culla /
fatta di costole spaiate / di trabaccolo / d’alga riccia / il pagliericcio / tela di
vele / le lenzuola / e per coperte / cozze a bocca aperta. // Caparbio il mare
culla / e accarezza / resti di paranze / di speranze / paure / sogni / neonati
morti in fasce / passi / orfanelli di bambagie / senza pace. // E culla / e accarezza
/ e minaccia / e al vento / canta / il mare / - se l’ascolti / ti vien da
piangere - / ninne e canzoni amare / ai pesci fumo / ai senza nome / a chi
può. // Dura è dello scoglio la pietra!
Ma tô ce pinze?
Chi fusse
grusse
ji stéte stìpé
quidd’ucchje schétte
mizze u facciulètte
du vestîte blô…
ma tô ce pinze tô?
Periferie Gennaio/Marzo 2010
MA TU CI PENSI? - Che errore / grande / è stato conservare / quegli occhi
schietti / in mezzo al fazzoletto / del vestito blu… / ma tu ci pensi?

Periferie Gennaio/Marzo 2010 15 POESIA IN DIALETTO
La cumeta di Renato Pennisi
di Franco Loi*
1. Ci sono due serie di versi in questo
libro che da sole offrono tre motivazioni
per la nascita di questa poesia. La prima
riguarda la lingua: Pirchì a me matri / non
cci parru ‘n latinu. / A me matri non parru
ccu grammatica / e allitterazioni, a me
matri parru / ccu lu silenziu e ccu lu ciauru
/ di sucu ppi la casa (Perché a mia madre
/ non ci parlo in latino. / A mia madre
non parlo secondo grammatica / e allitterazioni,
a mia madre parlo / col silenzio
e col profumo del sugo sparso per la casa).
Dunque una lingua che si mescola da
subito con l’affetto per la madre, la casa
e la memoria delle cose. Non una lingua
veicolo di qualcosa, ma una lingua dentro
le cose.
Anche se la poesia non ha bisogno di
queste giustificazioni perché indifferente
alle lingue, io ritengo questi versi non
superflui, ma semplicemente aderenti a
ciò che muove ogni vera poesia: esprime
un’unità tra contenuto e forma, tra la
lingua e la materia trattata.
Il secondo tema apre all’altro da sé, al
dialogo con l’altro – anche se qui si tratta
forse dei due figli dell’autore – a me
sembra che molto più ampio sia il senso
di questi versi: Allura, pigghiu un libbru
nicu, / cci scrivu chiddu ca liggiti, / cci attaccu
un filu / e daccussì all’aria! (Allora,
prendo questo libro piccolo / ci scrivo
quello che leggete, / ci lego un filo / e, così,
in aria!). Si scrive per se stessi, ma si
scrive anche per un ignoto qualcuno che
non conosciamo e che, forse, si riconoscerà
nei nostri versi. E, poi, ecco la terza
cosa: Scrissi chiddu c’hava a diri [...] c’è
chiddu ca c’è, la vita stissa (Ho scritto ciò
che dovevo dire [...] c’è quello che c’è, la
vita stessa). Lo scrivere è una necessità
e un bisogno: siamo portati a dire e sentiamo
che dentro di noi c’è “Qualcuno” –
come scrive Marina Cvetaeva – che “vuole
essere”. Non c’è solo l’intenzione dell’Io
cosciente, “qualcosa
o Qualcuno” dentro
di noi raccoglie nel
vivere molto più di
quanto la nostra
mente possa registrare
della esperienza.
La poesia opera un lavoro occulto
che dà espressione a ciò che il corpo, il
pensiero e l’emozione hanno accumulato
in noi e ce lo restituisce nei versi. Non
solo i significati palesi, ma anche attraverso
i suoni.
2. Due mi sembrano le più frequentate
tradizioni della versificazione in Sicilia:
quella dei cantastorie – e vi annetto anche
l’esperienza teatrale dei pupari – e quella
dei poeti veri e propri, da Antonio Veneziano
al Meli ai Buttitta, Battaglia, Basso.
In queste belle poesie le due tradizioni si
fondono e danno vita a sequenze narrative
o liriche che, appunto, coinvolgono
la vita stessa dell’autore, vicende di amici,
episodi che appartenevano alla città, considerazioni
filosofiche, rabbie sociali,
amori. Dice Renato Pennisi: “L’idea di scrivere
la suite La Cumeta mi ha rincorso
per molti anni”, e proprio di una suite si
tratta, una sequenza, un’emissione di fiato
che vorrebbe tutto comprendere di quanto
suggerisce la memoria – e si può aggiungere
l’altro significato di suite, sèguito, la
continuazione di un rapporto infinito con
la propria storia, le persone, le cose, la
città.
Ciò che colpisce di più in questi versi,
oltre naturalmente la ricchezza della
lingua, è la frenesia che sembra percorrerli,
come se il poeta volesse tutto esternare,
non tralasciare niente. L’ho detto
spesso: si sente il bisogno di protrarre nel
tempo e tutto fagocitare; si ha sempre
l’impressione di tralasciare qualcosa,
come se qualcuno o qualcosa fosse in

POESIA IN DIALETTO
16
attesa della parola che li nomini: Si parru,
si mi veni / di diri di scriviri d’accussi / è
pirchì mi scurdai cu’ sugnu, / mi scurdai
di parrari (Se parlo se ho voglia / di dire,
di scrivere così / è perché ho dimenticato
chi sono, / ho dimenticato di parlare): c’è
come l’ansia di inseguire (la suite ritorna)
ogni briciola del nostro vissuto, è insieme
stanare il proprio Io nascosto, la propria
presenza nel tempo e nel mondo. Mi
sembra perfetto quanto aggiunge Pennisi
in fine di questa sequela: Quannu mi
cerchi / e non m’attrovi / talìa stu fogghiu,
/ ju sugnu ccà / chiusu dintra sta parola
(Quando mi cerchi / e non mi trovi, /
guarda questo foglio, / sono qui / chiuso
dentro questa parola)”.
3. Mi accorgo di dover aggiungere qualcosa
sulla lingua. Certo la poesia nasce
dal personale rapporto che un uomo ha
con lingua e con la vita. Eppure chi scrive
in una lingua popolare ha qualcosa in
più: può convogliare nel suo dire la ricchezza
linguistica di un popolo e anche
la forza di un’esperienza collettiva. Dice
Leopardi nello Zibaldone – cito a memoria
– che “occorre star vicini al popolo quando
parla perché più vicino alla natura e privo
di logica” e Dante nell’esaminare la varietà
delle parlate popolari in Italia le indica
come una “ricchezza utile allo scrivere”.
Che significato hanno queste due osservazioni?
Forse che di per sé le parlate
sono atte alla poesia? Questo è l’errore
spesso degli scriventi in dialetto. Non è la
parlata a dare di per sé lustro alla lingua
poetica, ma la scelta che ne viene fatta e
la capacità d’impiego del poeta. Sia Dante
che Leopardi si riferiscono sia alla naturalezza
che alla appropriatezza del linguaggio
popolare, e alla sua vicinanza alle
cose. Ma certo che di queste qualità
occorre tener conto nel valutare la gran
messe di poesia dialettale che in questi
tempi ha arricchito la letteratura italiana.
Senza tenere conto dell’alimentazione
incessante della lingua nazionale.
4. Ciò che è essenziale, anche sotto
Periferie Gennaio/Marzo 2010
questo aspetto, è l’assoluta libertà del
dire, una piena immersione dentro la vita
e la furia del dire, raccontare. Ed è tutto
insieme, storia individuale e storia corale,
e gli uomini e le cose. Ne dò un esempio
significativo: Catania havi na strata / ca
la spacca dritta ‘n dui, / na strata tutta
niura, tutta cresi, / tutta malocchi, vuciliziu,
/ tutta acchianata, na strata / ritta
ma ti cci perdi, / ti cunfunni, cchiù / vai
avanti cchiù sì persu / cchiù sì sulu, / ccà
c’è ‘n munnu fintu, ‘n occhiatura, / ccà
tuttu pari esseri e non c’è nenti. / Nascii
ccà (Catania ha una strada / che la
spacca in due, / una strada tutta nera,
tutta chiese, / tutta malocchi, confusione,
/ tutta in salita, una strada / dritta ma
ti ci perdi, / ti confondi, più vai avanti
più sei smarrito / più sei solo, / qui c’è
un mondo finto, un incantesimo, / qui
sembra che c’è tutto e non c’è niente. /
Sono nato qui).
Si noti come il suo ricordo non può che
essere ricordo di altri, ognuno solo, nell’assenza,
tutta moderna, di una vera
città, di una comunità solidale. Non si
tratta di egotismo, ma di protesta umana,
collettiva.
5. Pennisi ha già detto tutto quando
afferma che C’è na puisia pinsata, / c’è
na puisia puisia,/ e c’è na puisia e basta
(C’è una poesia pensata, / c’è una poesia
poesia, / e c’è una poesia e basta). Il che
non significa spontaneismo. C’è lavoro
letterario, c’è cultura, c’è sensibilità, e
una propria musicalità della lingua. Come
si lascia andare a precisare in questa
stessa poesia: Pigghiu na parola, / na
parola di chiddi / ccu tutti li robbi strazzati,
/ la scotulu, la comminu, l’abbessu,
/ la stricu, l’asciucu addumannu lu phon,
/ la prufumu di Trussardi, / è pronta, /
addivintau puisia (Afferro una parola, /
una parola di quelle / con tutti i vestiti
strappati, / scrollo la polvere, la vesto, la
sistemo, / la strofino, / l’asciugo accendendo
il phon, / la profumo di Trussardi,
/ è pronta, / è diventata poesia). Penso

Periferie Gennaio/Marzo 2010 17 POESIA IN DIALETTO
che quel “profumo di Trussardi” sia da
una parte sonorità, dall’altra emozione
individuale.
Egli vuol dire che si lavora. Prima e
dopo. Certo che l’amore muove, che lui
bisogna ascoltare. Ma dietro c’è lettura,
studio, sapienza letteraria, attenzione e
capacità di cogliere quanto l’amore ha dettato,
e far risaltare il senso profondo dell’ascolto.
6. Appropriato è il titolo La cumeta, l’aquilone.
La metafora è chiara. Non c’è solo
il simbolo pascoliano. Molto simile è la
sorte della poesia: si gettano parole nell’aria,
qualcuno alza gli occhi per vedere
o le orecchie per ascoltare, qualcuno si
sofferma e ne segue con ansia le evoluzioni,
qualcuno si spinge a costruire altri
aquiloni, qualcuno cambia strada per
vedere meglio, capire di più, qualcuno si
distrae, qualcuno si dedica ad altro ma
ha tuttavia imparato qualcosa dall’immagine
indimenticabile dell’aquilone.
Non si diverte solo chi tiene il filo dell’aquilone
– spesso sono i padri a costruire
gli aquiloni - , si riconosce anche chi sta
lì a guardare. E’ un altro modo per riconoscersi.
E’ come uno specchio quell’insieme
di fogli e stecche e colla, più o meno
a colori, che vola nel cielo e riflette realtà,
voci, speranze.
7. Ju cci nn’haiu cchiù d’una di menzi
storii, / ca si li junciu fannu sempri /
menza storia (Ne ho più d’una di mezze
storie, / e se le metto insieme fanno
sempre / mezza storia) scrive il poeta, in
quella sequenza che comincia Me matri
mi circava (Mia madre mi cercava). E’
sempre troppo poco quel che si scrive.
Non si tratta di quantità, ma del desiderio,
cui abbiamo già accennato, di dire tutto
di sé, di non tralasciare niente, di offrire
tutti i risvolti, tutte le sfumature di una
vita che comunque sfugge alla nostra
ansia di verità. Ci sembra sempre che
manchi l’essenziale. Anche questo testimonia
l’autenticità di un poeta, la qua-
lità della sua spinta poetica.
Così, quando l’autore parla d’amore,
esprime un dolore. E’ una delle più belle
significative poesie di questa raccolta Ti
vardu e non canti (Ti guardo e non canti).
E’ la più profonda delusione dell’amore:
il mancato riscontro nell’altro della gioia
che ci muove verso di lui. La natura non
si ‘mpara, / la luci nasci dintra (La natura
non si impara, / la luce nasce dentro):
troppo spesso amiamo una forma, o una
carne, o un riflesso dei nostri bisogni. Ma
anche, soprattutto, quando amiamo, scopriamo
che non c’è luce nell’altro, che ci
siamo sbagliati, che quel movimento verso
l’altro non incontra che il buio. Questo
non uccide l’amore, ma lo rende impotente.
Qualcosa si è mosso in superficie,
ma è nel funnu cchiù funnu (profondo più
profondo) che cumincia lu suli (ha inizio
il sole).
Oh quanto si può dire attorno a questo
versi! La luci nasci dintra: è qualcosa che
prorompe e vorrebbe tutto illuminare, e
incontrare altra luce e sentirsi illuminare.
Ed è certo il buio che si accumula a buio
il più grande male di questi tempi. La
mancanza di luce attorno a noi fa sentire
quella solitudine della città , cui si è
accennato.
8. Queste poche note vengono dettate
non solo dalla stima, ma anche dal piacere
di aver trovato in questi versi tanto
fuoco di pensiero e di sentimenti.
Naturalmente c’è ancora tanto da lavorare.
Si sa che non si finisce mai di lavorare
in poesia. Come ha già detto bene
Sebastiano Addamo, qui citato, c’è na sula
manera ppi capiri la puisia, / scriviri puisii
(c’è un solo modo per comprendere la
poesia, / scrivere poesie). Ed è anche il
solo modo di comprendere se stessi, per
un poeta.
* Premessa al libro di Renato Pennisi
La cumeta (L’aquilone), Edizioni l’Obliquo,
Brescia, 2009, euro 11,00)

La Cumeta
POESIA IN DIALETTO
18
Dda parola ca non potti attruvari
I.
Si parru, si mi veni
di diri di scriviri d’accussì
è pirchì mi scurdai cu’ sugnu,
mi scurdai di parrari,
si parru d’accussì
è pirchì mi scurdai di parrari,
mi scurdai di mia stissu,
cu’ sugnu, chi fazzu.
II.
C’è na puisia pinsata,
c’è na puisia puisia,
e c’è na puisia e basta.
Periferie Gennaio/Marzo 2010
III.
Ricuminciu da zeru,
menu mali ca c’è lu zeru,
si non cci fussi lu zeru
non si putissi ricuminciari.
IV.
Pigghiu na parola,
na parola di chiddi
ccu tutti li robbi strazzati,
la scotulu, la cumminu, l’abbersu,
la stricu, l’asciucu addumannu lu phon,
la prufumu di Trussardi,
è pronta,
addivintau puisia.
V.
La puisia è comu lu Paradisu,
non c’è nicu e non c’è granni,
non c’è primu e mancu ultimu,
tutti li paroli sunnu uguali,
però la puisia havi na disgrazia,
cci nn’è picca.
VI.
Lu cercaturi di puisia
è misu a la ribba ccu lu crivu,
lu çiumi cci sdirrubba tutta la munnizza,
roti di machina, pezzi di soggira,
preservativi, buatti,
e poi ppi sbagghiu
na puisia.

Periferie Gennaio/Marzo 2010 19 POESIA IN DIALETTO
VII.
E si qualcunu s’arritrova
nta sti paroli
sugnu cuntentu,
e si non s’arritrova
trona e ventu.
VIII.
Di paroli non si campa,
semu d’accordu,
ma macari lu pani è na parola.
IX.
Quannu mi cerchi
e non m’attrovi
talìa stu fogghiu,
ju sugnu ccà
chiusu dintra sta parola.
QUELLA PAROLA CHE NON HO POTUTO TROVARE – I. Se parlo se ho voglia
/ di dire, di scrivere così / è perché ho dimenticato chi sono, / ho dimenticato
di parlare, / se parlo così / è perché ho dimenticato di parlare, / ho dimenticato
me stesso / chi sono, cosa faccio. / II. C’è una poesia pensata, / c’è una
poesia poesia, / e c’è una poesia e basta. / III. Ricomincio da zero, / meno
male che c’è lo zero, / se non ci fosse lo zero / non si potrebbe ricominciare.
/ IV. Afferro una parola, / una parola di quelle / con tutti i vestiti strappati,
/ scrollo la polvere, la vesto, la sistemo / la strofino, l’asciugo accendendo il
phon, / la profumo di Trussardi, / è pronta, / è diventata poesia. / V. La poesia
è come il Paradiso, / non c’è piccolo e non c’è grande, / non c’è primo e neppure
ultimo, / tutte le parole sono uguali, / però la poesia ha una disgrazia,
ce n’è poca. / VI. Il cercatore di poesia / sta sulla riva col setaccio, / il fiume
gli scaraventa tutta la spazzatura, / ruote di automobile, pezzi di suocera, /
preservativi, lattine, / e poi per sbaglio / una poesia. / VII. E se qualcuno si
ritrova / in queste parole / sono contento, / e se non si ritrova / tuoni e vento.
/ VIII. Di parole non si vive, / siamo d’accordo, / ma anche il pane è una parola.
/ IX. Quando mi cerchi / e non mi trovi / guarda questo foglio, / sono qui /
chiuso dentro questa parola.
Finiu
Finiu.
Ccu tuttu ssu cchiffari.
Lassu la pinna, la posu,
la salutu,
quanno vidu
RENATO PENNISI è nato a
Catania nel 1957. “Premio
Eugenio Montale” nel 1986
per la poesia inedita con la
raccolta Letture senza spartito,
poi inserita nell’antologia
7 Poeti del Premio Montale
(Scheiwiller, 1987), ha pubblicato
i libri di poesia in
lingua La correzione del saggio
(Tringale, 1990) e Mai più e
ancora (Ed. l’Obliquo, 2003) e
in dialetto siciliano Allancallaria
(Prova d’Autore, 2001,
Premio Vann’Antò-Saitta) e
Menzi storii (Mezze storie) (Ed,
Cofine, 2006, Premio Città di
Ischitella-Pietro Giannone).
È FINITA - È finita. / Con tutto quello che c’è da fare. / Lascio la penna, la
poso, / la saluto, / quando vedo

POESIA IN LINGUA
20
‘A che titolo’ di Brunella Bruschi
Pubblichiamo la prefazione al volume A
che titolo di Brunella Bruschi (in uscita
da Morlacchi editore, nella collana di
poesia “La chioma di Berenice”).
[…] In quest’ultima raccolta poetica,
A che titolo, la Realtà, Divinità/Totem,
che tutto inghiotte, mutando forma, per
ritrovarsi poi uguale e diversa, e a cui
l’essere umano si rivolge insicuro, come
a madre estranea, è trascorsa con maturità
dolente, a ciglio asciutto, quasi
senza perché, conservando però lo stupore
per nefandezze o meraviglie impensabili.
[…] In ciascuna delle sei sezioni delle
raccolta si leggono secchi titoli che indicano
delle realtà - cose, entità umane,
astrazioni – ad esempio Molecole, Finestre,
Monitor, Cinque Terre, Clandestini,
Galeotto, Maternità, Domande, Tecne,
Otium, affermate come bersagli da non
ignorare. Anche nelle poesie che sembrano
nascere da emozioni private, o da
ricordi brucianti niente è concesso al
lirismo, ma tutto è piegato ad una tensione
morale che dall’esperienza trae
canto di riflessione e d’ammonimento.
Come nella grande poesia del ‘900. La
tenerezza dell’imperfetto di verbi che
suggeriscono abbandoni Mi chiedevo, si
percepiva, mi sentivo, sorrideva, usato
soprattutto nella sezione Il navigatore,
si colloca in un orizzonte di razionalità
laica, non sgomenta, né dominata dal
senso del mistero, e sempre la morbidezza
espressiva finisce per essere
stretta nelle lucide affermazioni di uno
spirito presente a se stesso, alieno da
facili illusioni, padrone della propria
storia: Ci sono boe ancora emerse, L’ala
del sonno è bianca.
Nel tessuto poetico così governato
irrompe talvolta una particolare ironia,
Periferie Gennaio/Marzo 2010
come nella sezione intitolata Connessione
non eseguita, che mescola il divertissement
allo sgomento di un pensiero
serio, paesaggio desolato / di surreali
comunicazioni o di un dato inoppugnabile
dell’oggi, mi balzano addosso immagini
senza identità, in una sorta di passo
a due bisticciato tra la mossa umana e
il ballet mécanique.
Attrice e spettatrice del suo mondo,
sceneggiatrice e spettatrice / alacre del
viaggio, la poetessa lo svela attraverso
una seria poetica della forma classicamente
lavorata non per rappresentare,
ma per creare un altrove che consola e
riscatta, si deve…andare a passeggiare
/ tra le carte, Come piccole pietre del
mosaico/ voci si componevano / dal
rumore / come quando il danzatore /
accenna i passi/ frusciando sulle tavole
di legno / prima della musica, luoghi di
un silenzio / che ha surrogato il racconto.
Per urgenza di mistero taluni poeti
evocano la carnalità della vita quasi
solamente come uno spunto da mettere
via subito; la poesia di Brunella invece
– tutta – pur impiantata su una tensione
raziocinante, nasce da una sensualità
completa, totale, sottile e spietata
verso sé e gli altri: il corpo umano
è percepito nel suo fulgore, nella sua
debolezza, nella sua malattia ed è
immerso in una geografia reale di
rumori e di colori. Intorno alla fisicità –
propria e altrui – si svolgono spirali di
rappresentazioni che hanno la fermezza
di dolorose e ineluttabili sentenze.
L’immaginazione conduce di continuo
la poetessa a poli essenziali intorno ai
quali si focalizza la sua memoria: le
esperienze reali della propria vita, l’universo
degli affetti, la relazione seria,
cioè attiva e critica, con il proprio tempo,
gli strati culturali della classicità e della

Periferie Gennaio/Marzo 2010 21 POESIA IN LINGUA
modernità. Specialmente nelle sezioni
Senza vessillo e Contrassegno l’irrompere
del decadimento di un genitore,
dell’indefinibile complessità dell’essere
madre, frammenti di desiderio e di
memorie antiche s’intrecciano con
vivace interloquire con un vecchio film,
con la poesia di Umberto Saba o di
Giorgio. Caproni, con il pensiero di Giordano.
Bruno, con l’opera della Yourcenar,
con un quadro di Picasso, ma
nulla è semplicemente esperienza psicologica,
sentimentale o intellettuale:
tutto viene poi condensato in una sentenza
chiara e personale governata dalla
tensione di verità, L’esistenza arriva a
chi / la percepisce / come un comprendere.
Mentre il titolo della raccolta resta
sospeso in un’ambiguità tra interrogativo
ed esclamativo, quasi per un understatement
della poetessa alla fatica dell’indagare,
nello svolgimento l’opera presenta
una tenuta coerente e incalzante
che porta a leggerla come una storia
marcata da diverse avventure complementari
le une alle altre, un itinerario
personale, ma nel comune – spesso tragico
- scenario contemporaneo.
Pause di riflessione strettamente poetica
ritornano nelle sezioni a segnare
l’indefinibile senso dell’affidarsi a parole
e immagini per avvicinare la vita. “Se
non raccolte le parole / cadono a terra
/ s’infrangono sulle pareti / del tunnel
/ …e danno luogo / a silenzi febbricitanti.
/ Silenzio / morte è ciò che la
poesia esorcizza”.
Il programma di quest’opera, nella
varietà dei poli d’ispirazione, si può
cogliere in un distacco dalla materia per
giungere a una lucidità concettuale,
capace di fermare il senso dell’esperienza,
nella ricerca di un ritmo interno
particolare, che va dall’abbandono dolce
ad un affanno studiato, risolto con retorica
colta ed elegante che frena l’impulso
BRUNELLA
BRUSCHI è
nata e vive a
Perugia. Laureata
in Lettere
classiche, ha
insegnato in
un liceo scientifico,coordinando
anche
laboratori di
lettura poetica,
teatro e cinema.
Scrive poesia, critica letteraria e traduce
dal francese poesia e prosa.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: Gioco
d’attesa, Ed. Umbria; Testi Pretesti
Lineature, Fonema Editrice; Il bistro e
la sabbia, 1997 Ed. Thyrus; Drama, Ed
Tracce 2000; Deep Focus, Ed. Guerra
2005; Lune Persuase, Ed. Fara 2007;
Befane, maghi, rospi, rane e… altre creature
per niente strane, Re-active, 2008.
passionale a gridare, a piangere, a
sognare. C’è dunque un’ architettura
solida della forma che fa sì che nulla si
risolva in lirismi sfumati o in facili simbolismi
e che ruota intorno a nuclei
semantici (nomi forti, di lotta, di sangue
e di sofferenza, astrazioni di densità esistenziale:
precarietà – oblio – débacle –
ardui saperi – afasia; nomi di vita, d’amore,
di memoria, di morte - l’onda
bruna – uccelli abbattuti – morbo), ritornanti
in costruzioni a volte ardite, a volte
classicheggianti, a volte epigrammatiche,
a volte snodate come poemetti.
Su tanta materia respira soprattutto
il piacere/missione del poetare: “Mi
piace pensare alla poesia come / a un
navigatore a più voci / di disparate
lingue / che si districa / nelle maglie
del cammino / per una sua vocazione
all’ipotesi”.
Giusi Checcaglini

In famiglia
POESIA IN LINGUA
Mia madre aveva un volto
invadente
consumava l’aria
aveva da fare cose
così giuste
e mio fratello piccolo
le dava la mano
e ascoltava
invece era una cosa mia
un gingillo grazioso
un verme imbelle senza
un suo segreto.
La mia mano cercava qualcosa
quando ha colpito
all’impazzata
voleva un senso lavava
l’ingiuria.
Così consiste l’amore
22
Inquietudine e pienezza
le tue movenze di mare e d’ombra
e l’aspra onda della parola
(duna sussulto e sferza)
ci ha riportato a riva
solo quando nel figlio ho visto
l’altro e non gli intrecci
di somiglianze
ho riconosciuto il mondo
nella sfida di nuove solitudini.
Così consiste l’amore
che brucia il residuo
la fascia del provvisorio errore
per dare alimento alle gemme
d’agrumi sempreverdi
a linfe custodite nella scorza
che sono afrore e luce.
Periferie Gennaio/Marzo 2010
Il segreto
Pensavo il Bambino come l’ombra
della stufa spenta
ad osservarmi dormire
come un adulto schivo nel dire
e pieno di disegni furtivi.
Nel buio gli occhi né aperti
né chiusi
paura e voglia di penetrare
quel vuoto
dell’immaginazione
mi stupivo che il respiro
fosse il bagnasciuga della notte
ma lui sapeva bene
il segreto
ed io vedevo ciò che restava
a distanza da me.
Vastità
Il nome è l’assenza
il macigno della tua pena
che ci separa dalla vita
è pietà che vuol mettere in salvo
la schiva vastità del tuo sorriso.
Il nome è la cancellatura
di chi vorrebbe dire l’amore
e l’ha lasciato nei giorni.
Dei fiori non coglievi il nome
ma l’incontro fra dono
e promessa
fra colore e carezza.

Periferie Gennaio/Marzo 2010 23 RECENSIONI E NOTE
In liquida luce
Una sorprendente coerenza
interiore e formale salda le
“tre stagioni” di questo “quadernetto”
lirico, che raccoglie
ventinove componimenti scritti
lungo l’arco di una vita. Studioso e analista
di vicende e opere letterarie, Renato
Parente scioglie solo adesso il riserbo sulla
totalità della sua scrittura in versi, apparsa
finora per lacerti su riviste e altri spazi, e
dona al lettore un raro esempio di misura e
necessità creative, una lezione di rigore ideologico
e stilistico che dovrebbe far riflettere
i tanti versificanti che intasano le patrie editorie.
L’ordinamento dell’opera in blocchi cronologicamente
decrescenti (la prima sezione
raggruppa testi scritti fra il 2007 e il 2009,
la seconda fra il 1966 e il 1967, la terza fra
il 1956 e il 1958) porta a considerare il tema
portante del Tempo, vero contenitore polisemico
che ingloba tutti i motivi da esso derivanti,
come una sorta di imbuto in cui poter
ritrovare à rebours le stratificate semenze
dell’humus poetico. Pertanto il nitore e l’asciuttezza
di dettato della prima sezione testimoniano
una maturità decantata da ogni
rimando stretto ad autori e correnti, una leggerezza
di tocco che è la risultante di un
lungo cammino conoscitivo e linguistico, che
ha attraversato e assorbito esperienze e letture.
Perché l’autore vuole mostrare onestamente
il suo percorso se, partendo dall’eredità
leopardiana, metabolizza alcune
numinose presenze del nostro novecento
(Montale, Luzi, Sereni, il primo Pasolini),
spazia fra suggestioni di varia provenienza
(i fermenti innovativi degli anni sessanta, il
gusto anglosassone per il landscape, gli echi
eliotiani) per far proprie le diverse ascendenze
e approdare a una originale poetica
dell’attesa e della sospensione, a una estetica
del frammento che usa i singoli componimenti
come tessere di un puzzle che rimanda
ad altro, allo “scarto tra ciò che
appare e ciò/ che s’allarga sino a divenire/
un baratro luminoso”, come si legge nel toccante
“Ricordo e sogno del padre”. L’aura di
silenzio, di inespresso, che avvolge molti testi
della prima e della seconda sezione, permette
alla parola di echeggiare in direzioni plurime,
in accostamenti imprevisti data anche la
rarefazione della punteggiatura, e l’uso di
una metrica sciolta, che alterna classici endecasillabi
a versi di sfaccettata misura, genera
straniate dissonanze e aritmie che accentuano
quel senso di stupita ricerca di una
“lingua/ parlata in un altrove trasparente”.
Ma non si creda che questa sia una poesia
dell’assenza, protesa verso un’algida pur se
raffinata astrazione: Parente non perde mai
di vista la realtà fenomenica né quella affettivo-memoriale,
al punto che la scrittura si
fa indagine tenace sui vari piani e tempi di
un mondo che muta e sfugge al senso
comune, “rileva essenze ad altri non parventi.”
E fra parvenza e sostanza, fisicità e
interiorità, viene giocata una partita inconcludibile,
che acquista progressivamente
vigore proprio dalla rastremazione del linguaggio,
dal “passo sottile di sorpresa” di
una “grazia” poetica che, filtrando i dati esperiti,
riesce a provocare “frane nella memoria,
faglie nell’inconscio, suggerire sensi fantasie
ragioni, e richiamare la voragine della vita
che si spalanca, il risucchio, il buco nero dell’esistere”,
come dichiara l’autore stesso nella
“Premessa ad un inventario”. E in versi di
lampante chiarezza precisa ulteriormente il
suo pensiero: “Perché muove dalla vita interiore/
il visibile parlare delle cose “. Dove la
citazione dantesca assurge a vessillo etico di
una lingua icastica, che cerca ed esplora le
“cose”, intendendo per esse sia le forme vegetali
(“una ressa di ciclamini”, “la fuga delle
erbe”, le “alghe sommosse da empiti lievi”, i
“giacinti alla De Pisis”) che quelle animali (“il
volo delle prime rondini”, “una farfalla che
il vento inghiotte”,“uno scricciolo/ dal ramo”,
“gli uccelli di passo”), sia i liquidi e i secreti
(ricorrenti sono termini come saliva, latte,
miele, sangue, lungo l’asse metaforico
nascita/crescita/morte) che gli oggetti e gli
spazi (”aquilone”, “alianti e monoplani”, le
molte “vetrine”, “la stanza pallida”) e i dettagli
delle figure amate (“la crocchia sulla
nuca” della madre, il “sorriso” del padre, “la
fiera scontrosa dignità” di B., “il fiore appena
aperto del mattino” sul volto della figlia, la
nascita del figlio “in grumi cremisi e cristallo”).
Eppure questa lingua, così dentro
alle forme e al tempo stesso lampeggiante

RECENSIONI E NOTE
24
“in un bagliore ultimo”, “provoca crolli nelle
sabbie mobili/ della mente”, in essa “palpita
un’ eco che non torna”, è percorsa da lontananze
abissali “come da stella a stella”, può
mutarsi in“filastrocca” che “cullava nell’anteriore
vita/ e persuadeva al sonno”: ecco
dunque che concretezza e impalpabilità si
intrecciano, si è colti da flashes lancinanti
e teneri esplosi dalla “remota riva” in cui rivivono
le presenze materne e paterne, e all’orizzonte
si mescolano le correnti del presente
e del passato, della vita e della morte, si parla
in modo “visibile” per coniugare insieme logos
e psychè, perché le cose in fondo non sono
che “sostanze disciolte in liquida luce”. C’è
una trepidazione attonita nel verso, un
pudore nel sondare l’ineffabile che acuisce
la concentrazione del vuoto e della perdita:
“l’ala mi sfiora della tua mitezza/ la stanza
se ne inonda che fu tua/ messa a soqquadro
all’alba/ da gridi di volatili”. Il motivo del volo
viene ripreso in vari segmenti della raccolta,
trascinando con sé la carica allegorica dello
slancio vitale e della morte, come accade nella
vertigine conclusiva della prima sezione,
“Variazioni su un tema di Parcerisas”, una
delle vette liriche del Quadernetto, dove l’invadenza
stridula delle rondini e l’intermittenza
delle lucciole gridano l’ossessione del
tempo passato, e il paesaggio diventa – come
in tutti i momenti en plein air del libro - la
proiezione vivida dell’ “anima” (parola chiave
in Parente), aprendo squarci di sofferta visionarietà,
di dilatazione crescente fra percezione
fisica e riflessione cosmica: “perché ora
già fanno anni che tutto quel tempo è passato/
sbandite dalle sere d’estate/ fitte al
cuore e intermittenze di rondini e/ lucciole
transitanti trasvolanti/ per queste ripe// ora
lungo giorni e notti l’anima/ sosta immota/
così sui colli posa/ come neve la luce della
luna”.
In apertura alla sezione seconda stupisce
un componimento che, per valenze formali
e semantiche, si discosta notevolmente da
quanto è stato letto in precedenza. Scritto a
metà anni sessanta, “Sui luoghi della Ginestra”
respira il clima di insofferenza socioculturale
dell’epoca con un guizzo forse premonitore
del disagio sessantottino. Stravagante
nel contesto anche per l’insolita pro-
Periferie Gennaio/Marzo 2010
sodia a stacchi e distici, che parcellizza pensieri
e immagini, si snoda in versi sardonici
e acidi, di indignata sapidità: “solleva ora il
capo sulla sozzura universale/ senti il fumo
caldo del cratere”.
Quasi a contrasto, il fulgido terzetto che
segue nasce da occasioni intime, ma il respiro
denso della creazione linguistica “appanna/
i vetri” perfino alle stanze più recondite
del corridoio biografico, che perdono ogni
traccia privata per mutarsi in assorte elegie
sul mistero della gestazione, del “circolo” biologico
e della nascita, e delegano al solo piglio
didascalico di almeno due titoli l’origine famigliare:
“Un sogno di mia moglie incinta di tre
mesi”, “Ringraziamento e richiesta al figlio
appena nato”. È già palese in queste pagine,
pur se in modi diversi (l’assetto timbrico è
più marcato rispetto alla levigata scarnezza
dei testi recenti), quell’attenzione vibrante
alle radici dell’esistere che il poeta riprenderà
un quarantennio più tardi, nelle struggenti
epifanie del ricordo e dell’altrove, tanto
da poter disegnare da qui un’ideale parabola
che connetta negli anni i temi del principio
e della fine vita, del sentirsi ab ovo o ad
inferos.
La sezione finale permette di rintracciare
nella microstoria del ragazzo Renato l’abbondanza
germinativa che porterà ai frutti
e agli arbusti delle successive stagioni. Ma
non è del tutto appropriato definire germi i
versi di questo canzoniere giovanile che
impressiona per la compattezza e la tenuta
dei temi, per l’abilità metrica e la ricchezza
lessicale, rare in un autore attorno ai diciottovent’anni.
Certo il lascito leopardiano è evidente
(esemplare al riguardo è “Risveglio”,
che presenta stilemi tipici del poeta di Recanati),
come è ancora fresca la memoria ermetica,
soprattutto quella del primo Luzi. Ma
la sicurezza nel comporre, attorno a un preciso
“pensiero poetante”, i movimenti di una
partitura scandita dalle note del vento, della
beltà, della luce e del buio, sul tema di un
amore rincorso e inappagato, accordando
disinvoltamente endecasillabi novenari e settenari,
non è solo un risultato di buone letture
formative e di un diligente tirocinio,
perché il nutrimento culturale ha irrorato
alla base la sensibilità inquieta e interroga-

Periferie Gennaio/Marzo 2010 25 RECENSIONI E NOTE
tiva del giovane “archivista del negativo”, gli
ha fatto scoprire e riconoscere, dal fondo
della sua “tana-osservatorio”, quei “lacerti
di luce” che erano già suoi e aspettavano solo
il momento propizio per illuminare la sua
segreta “camera”: “La mia camera ha pudori
e silenzi verginali/ ma imbianca la vanessa
i miei silenzi/ vaneggia sulla più raccolta
ardenza;/ se mi accosto al balcone la beltà/
profuma di miele e di malva, la notte/ vergine
intiepidiscono le sterminate stelle”. Il
ritmo è ancora scandito sulla misura-base
dell’endecasillabo, ma è singolare l’accrescimento
sillabico dato dai versi lunghi di apertura
e chiusura, e notevole è quell’accordo
già precisato fra cose e pensieri, parola e
silenzio, che verrà sottoposto a molteplici
variazioni negli anni successivi. In altri
momenti di questo poemetto, che procede
per accumulazioni o riprese del tema amoroso,
è frequentissimo l’uso dell’anastrofe
che, invertendo com’è noto l’ordine del soggetto
o di altre parti del discorso, accentua
quell’andamento avvolgente di ricerca, di
incalzante inchiesta esistenziale, tipico di
queste appassionate e ventose interrogazioni:
“Ma dal profondo calice notturno/ da che
lontana stella un roseo lume/ trapela nell’interno
della stanza?/ quale sorte mi porta?
mai s’affioca/ la lucerna che veglio e per cui
vivo?” Dove il residuo d’enfasi romantica, del
tutto assente nel Parente attuale, va adeguatamente
storicizzato e rapportato all’interno
di composizioni mosse da un’ autentica
“tentazione” di scrittura:
“A fiore dell’assenza, ai fiori/ disadorni del
sonno – è una nube lo sciame/ nube il giglio
dell’estate – la nebbia/ bionda del tuo sorriso
di miele/ m’appassiona. Guardo le irte
ore, il cielo/ uguale, ho vent’anni, ardo e
ragiono, spero appena.” La nube, la nebbia,
il miele: elementi che trasfigurano lo sciame,
il giglio e il sorriso. L’energia dello sguardo
ventenne (il petrarchesco “ardo e ragiono”)
rende già “disciolte in liquida luce” quelle
“cose” mosse “dalla vita interiore”.
Marcello Marciani
Renato Parente, Quadernetto di tre stagioni,
Edizioni Noubs, Chieti 2009
Voci del Promontorio:
Serricchio, Granatiero
D’Amaro
Voci da generazioni distanti fra loro, quelle
qui presentate avrebbero – a voler confrontare
– qualcosa in comune anche oltre l’appartenenza
alla stessa terra, che è il promontorio
del Gargano: profili del paesaggio,
echi della memoria, vibrazioni della sensibilità,
che dall’angolo di provincia a cui si riferiscono
mandano barbagli di vasta portata,
riflettendo gusti e poetiche d’un arco di tempo
che va dal primo al secondo Novecento.
Voci note e affermate, del resto, di cui qui
possiamo attestare la continuità di produzione
e di timbro raccogliendo esempi da
pubblicazioni recenti.
Cristanziano Serricchio,
in un volume intitolato Una
terra una vita (pref. Sergio
D’Amaro, postf. Emerico
Giachery, risvolto Daniele
M. Pegorari, Sentieri Meridiani
Edizioni, Foggia 2008)
antologizza la propria vasta
produzione, che si estende
su un sessantennio, da una raccoltina del
1950, Nubilo et sereno, al poemetto Nel 2022,
qui incluso dopo la publicazione in plaquette
del 2006 (non contemplata, perché venuta
dopo, la raccolta). Operazione opportuna
perché di Serricchio non si può dire che una
raccolta (delle due decine che annovera)
superi le altre e sia rappresentativa della sua
espressione più tipica. C’è continuità e uniformità
di timbro dall’una all’altra, e i brani
che costituiscono il suo meglio vanno selezionati
da ciascuna. Il titolo di questa (un
richiamo alla propria terra, il Gargano, e a
quanto abbia influito sull’opera) è solo apparentemente
il principio organizzatore della
selezione. Tutte le sue composizioni sono
impregnate in misura diversa dei luoghi dove
l’autore è nato, cresciuto e vissuto (come
dice, parafrasando in termini brillanti, il prefatore
D’Amaro), fino all’ultimissima raccolta,
La prigione del sole (Marietti 2009), qui non
contemplata per ragioni cronologiche.
Dunque la raccolta qui presentata offre “il

RECENSIONIB E NOTE
26
meglio di Serricchio”? Un po’ scherzando, un
po’ provocando, qualcuno potrebbe dire che
in genere l’autore non è il più adatto a selezionarsi,
e che l’immagine che si fanno pubblico
leggente e critica può divergere da quella
che uno vuole dare di sé. Ma qui in effetti
troviamo tutte le movenze tipiche di questo
autore di lungo corso, che potremmo riassumere
così: un registro di fondo che è un
atteggiamento contemplativo assorto e pensoso,
nitidezza di immagini leggere legate a
sensazioni eteree, la proiezione mitica, la tensione
metafisica, l’interrogazione esistenziale,
l’osservazione minuta e amorosa degli angoli,
dei gesti, del minimo quotidiano, l’ansia allo
scorrere del tempo e all’annullamento che
porta, accentuatasi nei versi per la scomparsa
della compagna di vita, Villa Delia,
Manni 2002.
La formazione poetica di Serricchio è
improntata alla stagione primonovecentesca.
Come suoi modelli sono stati fatti i nomi,
ovvi, di Ungaretti, Montale, Cardarelli, Quasimodo,
Saba; e poi, forse più a ragion
veduta, Rebora e Betocchi, ai quali aggiungerei,
e con rilievo, Diego Valeri; e infine,
ancor più opportunamente, i nomi dei suoi
corregionali pugliesi Comi e Fallacara.
Teso a un verso suadente, non metrico ma
intimamente musicale, alieno dal disincanto,
mai lusingato dall’esperimento ma tentato
dal dialetto (qui presente con alcune composizioni,
eco di una intera raccolta di anni
recenti), Serricchio prolunga questa eredità
nel secondo Novecento; ad essa resta fedele,
in mezzo a climi poetici mutati e mutevoli,
elaborandola in proprio appunto con un forte
senso della terra, della provincia, della storia
dei luoghi dove è sempre vissuto (ha al suo
attivo ricerche storiche e archeologiche relative
alla propria realtà locale; e anche quattro
opere narrative, di cui bisogna ricordare
almeno il romanzo L’Islam e la Croce, 2002,
sul sacco turco della città di Manfredonia,
dove Serricchio vive).
Già tempo addietro è stato sottolineato di
questo autore il linguaggio lirico che non
ambisce a punte di originalità, a soluzioni
perentoriamente personali, ma si rifà a un
diffuso paradigma novecentesco (B. Pento).
È quello che qualifica la sua poesia, e le con-
Periferie Gennaio/Marzo 2010
ferisce – a non avere pregiudiziali – tratti
anche memorabili. Questo è un guizzo antico,
ma ancora tipico e valido del suo poetare:
“Ora il giorno è rapido crollo d’ombre. / Vano
il profilo, nitido, dei tetti / dove il tocco del
sole era qualcosa / e non era” (Scendeva sui
miei giochi).
Anche di Francesco Granatiero,
medico-poeta garganico
vivente a Torino e
ben noto ai lettori di Periferie,
una raccolta recente e
corposa, Passéte (con una
nota di Giovanni Tesio,
Interlinea Edizioni, Novara
2008), contenente settantacinque
brani, per metà inediti, conferma il
carattere di fondo. Ma ci dice anche qualcosa
di più.
Il carattere di fondo è un sapore di terra
intriso nella parola (il postfatore Tesio usa
le espressioni terrigena e, ripetendo un verso
di p. 13, afrore di terra), e immesso fin nel
titolo, Passéte, “tracce del passaggio” anche
in forma di deiezioni animali. L’autore ottiene
questo carattere essenzialmente attraverso
il lessico rurale, accumulando lemmi legati
non tanto da un ordine apparente di rappresentazione,
bensì dal filo interiore della
sua emozione. E la sua emozione di base è
quella che sembra memoria della sua terra
ed è invece (come in tutti i consapevoli) senso
lancinante del tempo passato e perduto, e
tentativo di stabilire un tempo ritrovato
costruendosi appunto la propria casa di
parole, senza cadere nella trappola della
poesia vernacolare che rimpiange il bel tempo
antico, lamenta i tempi cambiati, e si bea del
colore locale.
L’accorta scelta, anche in base alla sonorità,
e l’accumulo di parole costituiscono un
mezzo formidabile di intensificazione. Il risultato
è un’addensarsi di lessemi in poco
spazio, che sfida – io credo – la competenza
linguistica dello stesso parlante dialettale (il
garganico di Mattinata in provincia di Foggia);
e ci ricorda il Granatiero compilatore di un
dizionario e una grammatica della sua parlata,
e raccoglitore dei proverbi della sua
zona.

Periferie Gennaio/Marzo 2010 27 RECENSIONI E NOTE
Lo schizzo paesaggistico “Terra jarse/Terra
bruciata” nel breve giro di quattro settenari
(verso privilegiato in questa raccolta) contiene
un esempio sia dell’intensificazione
sonora, che dell’accumulazione lessicale:
“ummèisce na cupésce. / Na lènze de bbianghite.
/ [...] / Da la mascèdde pènne / currèisce
de spresórde” (“romba un nido di calabroni.
/ Una striscia di magreta. / [...] / Dal
ramo carico pende/cinghia d’aspide sordo”).
Altrove Granatiero offre colti cataloghi botanici.
Altrove ancora, la sonorità è servita
anche da rime scaltramente manovrate e
spesso disposte in metri chiusi: quartine,
terzine.
Se queste sono le sue intenzioni e tecniche,
quali gli esiti, i brani che più convincono?
Quelli in cui l’evento, il pensiero o l’associazione
mentale si risolvono in sequenze fatte
di immagini caleidoscopiche o idee all’apparenza
slegate, perfino oscure ma ricche di
suggestione, come nei sonetti settenari
“Murèisce katà murèisce/Fotogramma per
fotogramma” e “Desírte/Deserto”. Ma soprattutto
quelli in cui il comporre non si esaurisce
nell’accumulazione lessicale, pur
impressionante, ma si assottiglia e sfuma in
una svolta lirica, che può essere un pensiero
improvviso, un’immagine inaspettata, un
accostamento non logico ma analogico.
Il ripetersi di questo tratto aggiunge infatti
un che di nuovo alla qualità poetica che già
conoscevamo. Esempio è nel brano “La varde
/Il basto”: dopo la figurazione agricola del
basto, rurale della muriccia a secco, paesaggistica
del tepore solare in un angolo di
campagna, si fa strada una dichiarazione
che non spiega nulla (“io so dove si è fatto
terra”), ma permette di passare alla bella
nozione di una “terra” dove i morti si fondono
e rinascono nelle piante. Tra i brani
compiuti indichiamo “Ciappítte/Scarabocchi”,
“La passéte/L’orma”, “Veddecòuse/Vitalba”,
“Cúrpe/Tronchi”, “Lu uéte/Il guado”, ma
soprattutto l’esempio principe, “L’arie/L’aria”,
altro sonetto settenario, che vogliamo additare
come migliore della raccolta e fra i
migliori di tutta la produzione dell’autore.
A due sostanziose raccolte già al suo attivo
(Il ponte di Heidelberg, 1990, Beatles, 2004),
Sergio D’Amaro aggiunge Fotografie e altre
istantanee (postf. Salvatore
Ritrovato, Foggia, Sentieri
Meridiani, 2008), subito
seguito da 20 th Century Vox.
Poema cinematografico in
nove scenari (Lanciano,
Carabba, 2009), già presentato
in Periferie N. 52, ott.dic.
2009. D’Amaro si ripresenta e ripropone
all’insegna di simboli del proprio tempo e di
sensazioni preziosamente espresse.
Nella silloge del 2008 scopre il fianco dei
suoi meccanismi, svelando un po’ della propria
officina compositiva. Questo breve
appunto: “Casa, finestra, interno. / Tavolo,
lampada, / fascio di luce sulla mano al telefono
/ mentre l’altra scrive sul foglio”, è registrazione
ordinata di oggetti che cadono sotto
gli occhi. Due pagine dopo l’osservazione è
trasformata metaforizzando: “Case case case.
/ Stupore di porta sorriso di finestra / bocca
di balcone / con rosse labbra di fiori”, e
grumi psichici complicano il gioco delle metafore:
“Intime cecità / cemento di sentimenti
/ covo di patimenti”.
Nulla di straordinario: un comune processo
associativo, che però segna il passaggio
verso una sua poetica, e il mutarsi degli
oggetti del suo mondo in correlativi oggettivi
del proprio stato emozionale. Nello stesso
giro di figure, pensieri, sensazioni: “Le voci
della casa/il tamburo dei tuoni/e il pianoforte
azzurro/di un’altra sera arrivata troppo
presto”. È l’ambiente dei gesti quotidiani e
degli oggetti consueti, reso complesso da procedimenti
analogici, in un gioco di incroci
personalissimi, sotterranei, che nella loro
apparente sconnessione si compongono in
un quadro intimamente armonico e restituiscono
un senso non di racconto finito o
descrizione ordinata, ma di composizione
caleidoscopica che ha una propria compiutezza,
e in questo il suo senso. Ecco le strade
di paese percorse all’infinito: “Dopo vent’anni
le strade/sono ancora giovani. Solo i
capelli/hanno il grigio consenso dell’età”. E
il tempo che passa nella cerchia opprimente
superata attraverso la conoscenza e le aspirazioni
intellettuali: “Peccato che il secolo si
chiuda così / che non rispetti il Bois de Boulogne
/ e i pinnacoli di Notre-Dame”.
E sullo stesso registro, nella raccolta del

RECENSIONI E NOTE
2009: “Quell’anno aveva l’ala degli dei. / Partivi,
bambino, sull’onda della radio / coi
suoni immersi in fondo all’anima”; con
momenti sbigottiti: “Che cosa ci faceva l’abete
/ in mezzo ai giardini dei fiori d’arancio
/ in mezzo ai carrubi che nitrivano di bacche
lucenti?”. Fino a inventariare gli oggettimerce
in cui non si reifica ma si identifica:
“Vola lo ‘Sputnik’, così la ‘500’ / nel cielo
dipinto di blu / Modugno ha una gola d’argento
/ splendono Elvis e i Platters / lo
spleen sa di rock e di ‘My way’. / Così si
arriva a sera / girando le stazioni / facendo
della vita una lenta trasmissione”.
La lingua corrente in uso ripetutamente
si condensa in concetto e anche concettosità,
unita a un sottotono abilmente giocato
che è altro carattere qualificante di questa
poesia, del resto comune al poetare novecentesco,
e correttamente circoscritto dal
postfatore Ritrovato, quando parla di “movenze
ora ermetiche ora elegiache ora gnomiche”,
e ricollega questi versi a una temperie meridionale
(Quasimodo-Bodini) latamente
postermetica. D’Amaro gioca infatti su miti
e mitizzazioni, compreso lo stesso fare poetico,
con abilità e levità. Ma per lui sono cose
ben lungi dall’evasione; sono anzi i “luoghi”
che egli si impianta per la propria esistenza,
quelli in cui si riconosce, e che riconduce
alla propria misura di essere pensante, e
oppone allo straniamento prodotto dal
sistema di mercato, in cui quelle forme
mediatiche, che pure sono gli oggetti del suo
esprimersi, vengono imposte quali “nonluoghi”
alienanti.
Cosma Siani
LIBRI RICEVUTI
28
Periferie Gennaio/Marzo 2010
Poesia e dialetto nei Castelli
Romani e litorale
sud di Roma
Vincenzo Luciani e Riccardo Faiella hanno
avviato negli ultimi mesi del 2009 la ricerca
su poesia e dialetto nei comuni dei Castelli
romani e del Litorale sud di Roma che si concluderà
entro giugno 2010.
Si tratta dei comuni di: Albano, Anzio,
Ardea, Ariccia, Castel Gandolfo, Ciampino,
Colonna, Frascati, Genzano di Roma, Grottaferrata,
Lanuvio, Lariano, Marino, Monte
Compatri, Monte Porzio Catone, Nemi, Nettuno,
Pomezia, Rocca di Papa, Rocca Priora,
Velletri.
Gli autori sono disponibili a ricevere informazioni
e segnalazioni su testi in dialetto e
sui dialetti dei 21 comuni oggetto dell’indagine
(poeti@fastwebnet.it e tel. 06.2253179)
Negli scorsi anni, con il contributo della
Provincia di Roma, si è fatto il punto sullo
stato della poesia e delle espressioni dialettali
(testi poetici, teatro, antologie, dizionari,
raccolte di proverbi, modi di dire, materiali
filmici e audio, tradizioni popolari, ecc.) in
oltre 90 comuni (sui complessivi 120 della
provincia di Roma). I risultati sono pubblicati
nei volumi: Poesia dialettale nella Provincia
di Roma. Civitavecchia – Periferia
Urbana – Monti Lucretili (2005), Le parole recuperate,
poesia e dialetto dei Monti Prenestini
e Lepini ( 2007), Poesia e dialetto nella Valle
dell’Aniene (2008), Le parole salvate. Poesia
e dialetto nella Provincia di Roma. Litorale
nord, Tuscia romana, Valle del Tevere (2009).
Silvio Ornella, Il paesagiu sculpìt, Grafiche Sedran, S.Vito al Tagliamento, 2007
Paolo Cagnetta, Basta cose, Excogita editore, Vaprio d’Adda, 2007
Giuseppe Zoppelli, Lettere valdostane, Edizioni Vida, Valle d’Aosta, 2009
Giuseppe Zoppelli, Etica della parola poetica, Campanotto Editore, Udine, 2009
Shafiq Naz (a c. di), Calendario della poesia italiana, Alhambra Publishing, Belgio, 2009
Gabriele Ghiandoni, Monologo, Lacerqua, Fano, 2009
Umberto Migliorisi, L’America di mio padre, Centro Studi F. Rossitto, Ragusa, 2009
Giuseppe Rosato, Lu scure che s’attonne, Raffaelli Editore, Rimini, 2009
Giuseppe Rosato, La distanza, Book Editore, 2009
Loretto Mattonai, La strada bianca, Gazebo, Firenze, 2009
Renato Pennisi, La cumeta, Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2009
Alessandro Moreschini, Antichi giochi e giocattoli, conte e cante, Ed. “Il Centauro”, 2009
Ombretta Ciurnelli, Si curron le formiche, Guerra Edizioni, Perugia, 2010

Periferie Gennaio/Marzo 2010 29
CONCORSI
Premio nazionale di poesia dialettale
Ischitella-Pietro Giannone 2010
per una raccolta inedita nei dialetti d’Italia.
Scadenza 15 maggio 2010
Il Comune di Ischitella (FG), in collaborazione con l’associazione Periferie,
bandisce la VII edizione del premio nazionale di poesia in dialetto “Città di
Ischitella-Pietro Giannone”.
Partecipazione e scadenza. Inviare una raccolta inedita (minimo 20 – massimo
35 pagine, max 30 versi per pagina) di poesie in dialetto (con in calce
la traduzione in lingua italiana).
Spedire n. 3 copie dattiloscritte, con le generalità complete, il numero telefonico
ed eventuale e-mail a: Comune di Ischitella – Segreteria del Premio
nazionale di poesia in dialetto – via 8 settembre 71010 Ischitella (FG). Le
copie dovranno pervenire entro il 15 maggio 2010 (fa fede il timbro postale).
Quota adesione. Nessuna. La partecipazione è gratuita.
PREMI
All’opera vincitrice sarà assegnato il Premio “Città di Ischitella-Pietro Giannone”
consistente nella sua pubblicazione in 500 copie a cura di Edizioni
Cofine, nell’assegnazione al vincitore di 100 copie e nel soggiorno gratuito
per 2 giorni per 2 persone a Ischitella in occasione della premiazione.
Il secondo e terzo classificato avranno in premio il soggiorno gratuito per
2 giorni per 2 persone in occasione della premiazione e prodotti della tradizione
enogastronomica locale.
I premi dovranno essere ritirati personalmente (pena l’esclusione) nel corso
della Premiazione che avverrà il 27 agosto 2010 ad Ischitella
I risultati saranno resi noti attraverso la stampa ed altri canali di informazione
e sul sito www.poetidelparco.it
La giuria è composta da: Franzo Grande Stevens, Presidente onorario,
Dante Della Terza, Presidente, (Università di Harvard e Napoli), Rino Caputo
(Università di Roma Tor Vergata), Giuseppe Gaetano Castorina (Università
Roma La Sapienza), Franco Trequadrini (Università L’Aquila), Achille Serrao
(scrittore e poeta), Cosma Siani (Università di Cassino), Francesco Bellino
(Università di Bari), Franca Pinto Minerva (Università di Foggia), Vincenzo
Luciani (poeta).
Patrocini: Comune di Ischitella, Regione Puglia, Provincia di Foggia, Ente
Parco Nazionale del Gargano, Eurolinguistica Sud,
Per informazioni ulteriori tel. 06-2253179; e-mail poeti@fastwebnet.it
L’assessore alla Cultura Il sindaco
Anna Maria Agricola Piero Colecchia
Comune
di
Ischitella
Associzione
Periferie

Gruppo
Donatori di
Sangue
Fratres
Comune
di Vico del
Gargano
CONCORSI
30
Periferie Gennaio/Marzo 2010
PREMIO FRATRES - VICO DEL GARGANO
II Concorso nazionale di poesia inedita sulla “donazione”
Il Gruppo Donatori di Sangue Fratres, in collaborazione con il Comune di
Vico del Gargano (FG), bandisce un Concorso nazionale per una poesia inedita
inerente al tema “Donazione” nel senso più lato della parola, ma che
sviluppi tale concetto in termini di “sentimento umano”.
Modalità di partecipazione. – La partecipazione è gratuita ed aperta a
tutti. I partecipanti dovranno inviare un’unica poesia, inedita, non superiore
a 30 versi. La poesia potrà essere sia in italiano che in dialetto (con relativa
traduzione).
L’elaborato, inviato in 3 copie, contrassegnato dal titolo, dovrà essere anonimo.
Le generalità dell’autore (titolo della poesia, cognome e nome, data e
luogo di nascita, indirizzo, recapito telefonico, e-mail) dovranno essere indicate
in busta chiusa a parte e allegata alle copie degli elaborati.
I testi non saranno restituiti e saranno archiviati nella Biblioteca di Vico
del Gargano.
Scadenza. – Gli elaborati, con le modalità prima indicate, dovranno pervenire
entro e non oltre il 15 Maggio 2010 al seguente indirizzo: 2° Premio
di poesia Fratres c/o Comune di Vico del Gargano, piazza S. Domenico,
71018 Vico del Gargano (FG).
Premi. – Alla poesia vincitrice sarà assegnato il Premio consistente nella
sua pubblicazione, nel calendario artistico curato dalla Fratres, in un compenso
di 300 euro ed un pernottamento per un week-end gratuito per 2 persone.
(Altri eventuali accompagnatori dovranno provvedere direttamente al
proprio pernottamento).
Il premio dovrà essere ritirato personalmente (pena l’esclusione) nel corso
della cerimonia di premiazione che si terrà in Vico del Gargano sabato
28 agosto 2010, promossa da Fratres in collaborazione con il Comune.
Un attestato di partecipazione sarà inviato a tutti i partecipanti esclusivamente
tramite posta elettronica.
Giuria. – Il premio sarà attribuito, a giudizio insindacabile della giuria
composta da: Domenico Cofano - Università di Foggia, presidente; Grazia
D’Altilia – scrittrice; Achille Serrao – narratore, poeta, critico letterario; Rino
Caputo – Università Roma Tor Vergata; Giuseppe Massara – Università Roma
La Sapienza; Michele Afferrante – giornalista e autore televisivo; Vincenzo
Luciani – editore.
Informazioni. – Per ulteriori informazioni: tel. 06-2286204, 06-2253179,
e-mail poeti@fastwebnet.it, oppure: cell. 320.4345789, delconte.pi@tiscali.it
L’esito del concorso sarà reso noto attraverso la stampa e altri canali di
informazione, sui siti www.comune.vicodelgargano.fg.it e www.poetidelparco.it

Periferie Gennaio/Marzo 2010 31
CONCORSI
12° Premio nazionale “Vico del Gargano”
per romanzo breve inedito
Le opere dovranno pervenire entro il 15 maggio 2010
Il Comune di Vico del Gargano (FG), bandisce un Concorso per il conferimento
del 12° Premio Letterario “Città di Vico del Gargano” al miglior
romanzo breve, inedito.
Modalità di partecipazione. La partecipazione è gratuita ed aperta a
tutti. I partecipanti dovranno inviare un unico elaborato non superiore alle
50.000 battute (33 cartelle di 25 righe da 60 battute ciascuna, spazi inclusi).
Esso dovrà essere inedito, pena la perdita del premio. Non potranno partecipare
i vincitori del primo premio delle precedenti cinque edizioni del concorso.
Gli elaborati, inviati in 3 copie, contrassegnati dal titolo, dovranno essere
anonimi. Le generalità dell’autore (titolo dell’opera, cognome e nome, data
e luogo di nascita, indirizzo, recapito telefonico, e-mail) dovranno essere
indicate in busta chiusa a parte e allegata alle copie degli elaborati.
I testi non saranno restituiti e saranno archiviati nella Biblioteca di Vico
del Gargano nel Fondo di documentazione del Premio.
Scadenza. Gli elaborati, con le modalità prima indicate, dovranno pervenire
entro e non oltre il 15 maggio 2010 a: 12° Premio Letterario “Città
di Vico del Gargano” c/o Comune di Vico del Gargano, piazza S. Domenico,
71018 Vico del Gargano (FG).
Premi. I: All’opera vincitrice, scelta tra una cinquina di finaliste, sarà
assegnato il Premio “Città di Vico del Gargano” consistente nella sua pubblicazione,
in 500 copie, a cura della Edizioni Cofine, nell’assegnazione
all’autore di 100 copie del libro e di un compenso di 400 euro. II classificato:
200 euro. III classificato: 100 euro. IV e V classificato: prodotti della
tradizione enogastronomica vichese.
I premi dovranno essere ritirati personalmente (pena l’esclusione) nel
corso della manifestazione che si terrà in Vico del Gargano domenica 29
agosto 2010. Nel corso della cerimonia saranno letti brani tratti dai romanzi
vincitori e sarà effettuata una ripresa filmata della manifestazione.
I cinque finalisti avranno in premio il soggiorno gratuito per un week end
a Vico del Gargano, in occasione della premiazione.
Giuria. Il premio sarà attribuito, a giudizio insindacabile della giuria composta
da: Domenico Cofano - Università di Foggia, presidente; Grazia D’Altilia
– scrittrice; Achille Serrao – narratore, poeta, critico letterario; Rino
Caputo – Università Roma Tor Vergata; Giuseppe Massara – Università Roma
La Sapienza; Michele Afferrante – giornalista e autore televisivo; Vincenzo
Luciani – editore.
Informazioni: tel. 06-2286204, 06-2253179; e-mail poeti@fastwebnet.it.
L’esito del concorso sarà reso noto attraverso la stampa e altri canali di
informazione, sui siti: www.poetidelparco.it e www.comune.vicodelgargano.fg.it
Comune
di Vico del
Gargano
EDIZIONI
COFINE

Pietro Civitareale,
Poeti in romagnolo
del Novecento.
Antologia, pp. 128,
€ 12,00
Rocco Brindisi,
Morte de nu fra ca
uardava, poesie in
lucano, Premio
Ischitella 2007, pp.
32, € 6,00
Benito Galilea, Ju
nenti (Quel niente),
poesie in dialetto
calabrese, Premio
Ischitella 2009, pp.
48, € 6,00.
EDIZIONI COFINE poesia 2007-2009
Vincenzo Luciani,
Le parole recuperate.
Poesia e dialetto
nei Monti Prenestini
e Lepini, pp.
96, € 10,00
Maurizio Noris.,
Dialèt de nòcc,
d’amùr, in dialetto
bergamasco, Premio
Ischitella 2008,
pp. 32, € 6,00
Achille Serrao, Poeti
di Periferie, critiche,
saggi, profili di poeti
in lingua e in dialetto
pp. 128, € 12,00.
A. Serrao (a c.d.), Torino
& Roma: poeti
e autori ‘periferici’
(Isler, Brofferio, Alfieri,
Tartufari, Olivero,
Lattes, Luciani, p. 96,
illustrazioni, € 12,00
V. Luciani, Dialetto
e poesia nella Valle
dell’Aniene, indagine
sui testi dialettali
di 26 comuni,
pp. 128, € 10,00.
Pietro Civitareale, La
dialettalità negata. Annotazioni
critiche sulla
poesia dialett. contemporanea,
pp. 128, € 12,00.
Per i lettori € 10,00 cad.
Giovanna Giovannini,
Ho bevuto in
una foglia. La
poesia a scuola:
un’esperienza, illustrazioni
colori, pp.
64, € 10,00
Franco Pinto, Nvrà
vigghje e sunne
(Tra veglia e sonno),
poesie in dialetto di
Manfredonia, pp.
56, € 7,00.
Rosangela Zoppi,
Roma: la memoria
delle strade, illustrazioni,
pp. 144, €
15,00
V. Luciani e R. Faiella,
Le parole salvate. Dialetto
e poesia nella
provincia di Roma,
Litorale Nord, Tuscia romana,
Valle del Tevere,
pp. 144, € 10,00
EDIZIONI COFINE
PER ACQUISTARE I LIBRI versare
l’importo sul c/c/p 34330001
(Cofine srl via Vicenza 32 - 00185
Roma) indicando il titolo del volume
che verrà inviato a stretto giro
di posta.
Info: cofine@poetidelparco.it - tel.
06.2253179
www.poetidelparco.it
(sezione “I NOSTRI LIBRI”)