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SCRITTI - Franco Battiato Archive

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<strong>SCRITTI</strong>


Vanini e l’empietà<br />

Prefazione alla ‘Confutazione delle religioni’ di<br />

Giulio Cesare Vanini<br />

Il naturalismo vaniniano non è un naturalismo<br />

molle e sdilinquito. Non accarezza col termine<br />

natura vecchie fisime, né trasfonde in essa le<br />

paturnie del volgo pensante. “Potentia coeca”, la<br />

natura “appetit et vorat”. Questa voracità della<br />

natura la trasforma in un permanente massacro<br />

dove essa divora se stessa. Così quando Vanini<br />

identifica la natura con Dio il lettore maligno (nota<br />

giustamente Schopenhauer che Vanini fa<br />

assegnamento sulla malignità del suo lettore) il<br />

lettore maligno, dicevamo, sa quello che deve<br />

intendere. In realtà si è afferrato il metodo del<br />

Vanini quando si è capito una volta per tutte che è<br />

la tesi da lui confutata con disdegno e biasimo ad<br />

essere invece quella che egli sostiene. (Anche qui<br />

ci guida Schopenhauer). Hegel, che legge Vanini<br />

senza malignità, può affermare, senza scandalo<br />

alcuno, che il naturalismo del Vanini mostra che<br />

Dio è la natura e che tutte le cose ne sorgono<br />

meccanicamente (Hegel, lezioni sulla storia della<br />

filosofia, trad. it. v. III, 1, Firenze 1934, pp. 230-<br />

233). Semplice. Ma se questa natura è proprio ciò<br />

che sta alla base di quanto poi De Maistre, quest’altra<br />

grande maschera del Theatrum philoso-


phicum, chiama il ‘carnage’ oppure ciò che trascina<br />

tutti gli esseri in mutua funera, non dissimilmente<br />

dal Vanini, allora la faccenda sa di ridicolo. Il quale<br />

si raggiunge pienamente con Voltaire. Nel<br />

Dictionnaire philosophique Vanini viene definito un<br />

povero teologo ortodosso e, aggiunge ancora Voltaire,<br />

“sa notion de Dieu est de la théologie plus saine<br />

et la plus approuvée”. Cosa ancora più grave per la<br />

stima che ne abbiamo, anche il grande Brucker<br />

nella Historia critica philosophiae cade nella stessa<br />

ingenuità: “Quicquid igitur vel in philosophiam,<br />

vel in Christianam fidem peccavit Vaninus,<br />

peccavisse autem levem futilemque scriptorem<br />

plurima fatemur, non tam impietati directa”. Scrittore<br />

futile e leggero si metterebbe nei guai per<br />

questo, ecco per Brucker il succo di tutta la faccenda.<br />

Indubbiamente Vanini ha un modo di filosofare<br />

pieno di segreti. Le ossessionanti citazioni<br />

dal Cardano, dallo Scaligero o da Pompanazzi, per<br />

dirne alcune, servono in realtà a nascondere e a<br />

fare apparire, in un giuoco impertinente, tre o<br />

quattro cose su Dio, tre o quattro battute sulla vita.<br />

Ma in questi fulminanti aforismi, compare<br />

scompare e ricompare il pensiero del Vanini senza<br />

alcuna dissimulazione. Anche Hegel li chiama<br />

“leggeri tratti di spirito” e nient’altro”. Ma il metodo<br />

hegeliano non ammette spazi vuoti e non si<br />

dimentichi che il pensiero di Hamann, ad esempio,<br />

Hegel non lo considererà ‘sapere’ ma ‘umore decomposto’<br />

e ‘furiosi scoppi di collera’. Nelle Pensée<br />

diverses sur la comète c’è un curioso giudizio del


Bayle che va molto vicino: Vanini, dice il Bayle,<br />

“sarebbe stato capace di morire per l’ateismo anche<br />

se fosse stato convinto dell’esistenza di Dio”.<br />

In realtà, per Vanini, tutto fa pensare che Dio<br />

esista. Ma si tratta di una Natura e di una Vita – e<br />

quindi di un Dio – a cui l’uomo è legato come alla<br />

sua maledizione. “Tot tantisque homo repletur miseriis,<br />

ut, ...dicere auderem: si Daemones dantur,<br />

ipsi in hominum corpora transmigrantes, sceleris<br />

poenas luunt” (De admirandis, Dial. L, p. 353; “La<br />

vita dell’uomo è afflitta da così tanta miserie che...<br />

gli stessi demoni, se veramente esistono, oso dire<br />

che transmigrano nei corpi umani per pagare con<br />

l’esistenza le loro colpe”). Sta proprio qui il<br />

segreto del Vanini: l’empio crede a Dio non in<br />

Dio. Secondo questo testo di Agostino infatti:<br />

“Nam et demones credebant ei, et non credebant<br />

in eum. Quid est ergo credere in eum? Credendo<br />

amare, credendo diligere, credendo in eum ire”. (In<br />

Johannis evangelium, XXXIX, 7, 6). Il rifiuto di<br />

‘amare’ Dio: è tutto qui il segreto vaniniano. Un<br />

ateo dunque Vanini? Ne dubitiamo. Un libertin?<br />

Troppo poco. Un esprit fort? Certamente. Ma sicuramente<br />

un empio. O, come abbiamo detto sopra,<br />

uno che non crede in Dio ma solo a Dio. Uno<br />

che giuoca il gioco dell’empietà per intero. Senza<br />

esitazioni. Vanini appartiene dunque alla storia<br />

dell’empietà non alla storia dell’ateismo. Una<br />

storia che è ancora da scrivere. Confusa finora con<br />

la storia dell’ateismo, la storia dell’empietà attende<br />

un taglio, più in alto o più in basso di quello che si


pratica, inferto alla storia stessa del concetto di<br />

Dio. Dio e le leggi dell’urto – la meccanica cioè –<br />

sono questi, per Vanini, le famose radici delle cose.<br />

Ma in Vanini non sono le solite definizioni e i<br />

soliti argomenti, bensì boutades e fulminee scorrerie<br />

a mostrare come stanno le cose: così il paragone<br />

tra il cielo e le sue leggi, ‘fatti’ entrambi da<br />

Dio, e i congegni di un orologio fabbricato da<br />

qualche tedesco ubriaco (“coeli certis statisque<br />

legibus moventur” proprio come “in horologiorum<br />

mechinulis, ab ebrio Germano elaboratis, certa<br />

stataque motus lex viget”, De admirandis, Dial. IV,<br />

p. 21) vengono fulmineamente accostati e dicono<br />

infine la stessa cosa. Nella visione meccanicistica<br />

moderna Vanini ha un posto singolare. Il suo<br />

naturalismo, come abbiamo già detto, non è un<br />

naturalismo esaltato e irresponsabile ma capisce<br />

bene quell’impotenza della natura che secoli più<br />

tardi Hegel teorizza. La teoria dell’imbecillitas<br />

naturae (De admirandis, Dial. XXXIX, p. 247) non<br />

è il piedistallo che innalza l’uomo su di essa (“Nihil<br />

vetat... naturae imbecillitati adminiculari”, ibid.). O<br />

almeno non è solo questo. Non bisogna dimenticare<br />

che tutto si tiene in Vanini. Se la natura è<br />

stupida, Dio è obtus. E non appartiene certo alla<br />

buffonerie del Vanini – così chiamava Renan certi<br />

tratti del suo carattere – né tanto meno alla<br />

‘dissimulazione’, mai da lui in realtà praticata, che<br />

egli nel titolo del De admirandis chiamasse la<br />

Natura ‘Dea’, quella natura che Vanini sapeva<br />

ostile all’uomo e lo dimostrava impietosamente


nella stessa opera. Col suo metodo ironico, tra lo<br />

smaccato elogio del titolo e quanto in realtà vi è<br />

nel testo egli provoca un corto circuito dal quale<br />

scaturisce l’atto stesso di intelligenza. Non diversamente<br />

avviene sul piano del suo singolare copernicanesimo:<br />

la materia dei cieli è la stessa di<br />

quella d’una pulce o di uno scarabeo, egli afferma.<br />

E quanto alla materia dell’uomo essa non è diversa<br />

da quella dello sterco asinino. Chi può distinguerla<br />

infatti da quella di un topo o di un verme? (De<br />

admirandis, Dial. I, p. 10). A questo punto la confutazione<br />

delle religioni, segnatamente nella parte<br />

del De admirandis, ha un ruolo decisivo e diventa il<br />

filo steso ad attraversare e a dare unità all’opera.<br />

L’impossibilità della religione sta nella stessa<br />

impossibilità di ‘venerare’ Dio. Non soltanto mostrando<br />

l’imbecillitas di quella Natura che è Dio<br />

stesso ma adombrando l’essenza della natura come<br />

perpetua distruzione (come al suo solito Vanini<br />

non mette su piramidi di argomenti ma un efficacissimo<br />

apologo: “araneus, qui famelicus patrem<br />

necavit, dum coibat, meditatus est se patrem<br />

futurum..., quare verisimile est et de patris sui, qui<br />

ad ipsum filium relationem dicit, interfectione<br />

aliquid cogitasse; aliquid patricidi imagine in eius<br />

residente imaginativa affecti sunt spiritus, qui,<br />

cum sint forma seminis, consimili perversa specie<br />

decolorantur. Quare foetus inde nascitur paternae<br />

mortis desiderio affectus, atque ita per longissimam<br />

seriem araneorum patricida continuantur”.<br />

(“Un ragno che, affamato, aveva ucciso il padre mentre


faceva l’amore, pensò che sarebbe diventato padre... È<br />

perciò verosimile che egli abbia richiamato alla mente<br />

il pensiero della morte del padre, il cui concetto esprime<br />

la relazione col figlio. Ora, dall’idea del parricidio che<br />

si trovava nella sua immaginazione furono modificati<br />

gli spiriti i quali, essendo forma del seme, lo contaminarono<br />

con la medesima immagine perversa. Perciò ne<br />

nacque un feto, affetto dal desiderio di uccidere il padre.<br />

E così per una lunghissima serie di ragni continuarono<br />

i parricidi”. De admirandis Naturae reginae<br />

deaeque mortalium arcanis, Lutetiae MCDXVI<br />

– Dial. XLIX p. 343, trad. it. F.P. Raimondi – L.<br />

Crudo, Galatina 1990, p.377). Nessuna religione<br />

dunque: ma con ciò Vanini non è su posizioni<br />

‘anticipatrici’ di quell’illuminismo che dà luce ma<br />

non brucia. Non è per far posto alla ragione (laddove<br />

questo aspetto vien fuori, è debole) ma niente<br />

può e deve ‘legarci’ ad una Natura matrigna e<br />

ostile, a questo ‘divertente’ giuoco di vita e di<br />

morte. È qui che si deve far ricorso all’empietà come<br />

specifico concetto se si vuole veramente capire<br />

la posizione di Vanini. Per empietà non si intende<br />

sic et simpliciter, la negazione della creazione del<br />

mondo e della Provvidenza, della spiritualità dell’anima<br />

e della sua immortalità, la distruzione<br />

della credenza ai miracoli, insomma tutti gli intingoli<br />

del libertinismo erudito. Empietà in questo<br />

senso è solo un concetto polemico, un concetto<br />

negativo. In Vanini essa si precisa invece come<br />

uno stato degli affetti, come un atteggiamento<br />

davanti a Dio. La corona delle sue riflessioni è la


negazione imperterrita di quel concetto confuso<br />

che è quello di libertà. La strada della filosofia è<br />

lastricata di desideri ma un filosofo non deve avere<br />

cose care. E davanti a questo concetto, così pieno<br />

di pietà per noi ma così falso, Vanini non ha titubanze:<br />

“si nollet Deus pessimas ac nefarias in orbe<br />

vigere actiones, procul dubio uno nutu extra mundi<br />

limites omnia flagitia exterminater profligaretque:<br />

quis enim nostrum divinae potest resistere<br />

voluntati? Quomodo invito Dio patrantur scelera,<br />

si in actu quoque peccandi scelestis vires subministra?<br />

Ad haec: si contra Dei voluntatem homo<br />

labitur, Deus erit inferior homine, qui ei adversatur,<br />

et praevalet. Hinc deducunt, Deus ita desiderat<br />

hunc mundum, qualis est, si meliorem vellet,<br />

meliorem haberet” (“... Se Dio non volesse che si diffondessero<br />

nel mondo azioni pessime e delittuose, senza<br />

dubbio, con un sol cenno, annienterebbe e bandirebbe<br />

fuori dai confini dell’universo ogni infamia. Chi di noi,<br />

infatti, può resistere alla volontà di Dio? E in che<br />

modo si può commettere un delitto contro la volontà<br />

divina, ammesso anche che nell’atto di peccare Dio fornisca<br />

al reo la forza per farlo? E ancora, dicono, se<br />

l’uomo cade in peccato, contro la volontà di Dio, allora<br />

questi sarà inferiore all’uomo, che riesce ad opporglisi e<br />

a prevalere su di Lui. Da ciò deducono che Dio desidera<br />

questo mondo così come è. Ché se lo volesse migliore,<br />

lo avrebbe”. Amphitheatrum aeternae providentiae,<br />

Lugduni MDCXV, p. 103 – , trad. it. F.P.<br />

Raimondi – L. Crudo, Galatina 1981, p.131).<br />

L’esistenza di Dio non significa dunque né alcuna


‘libertà’ né alcun mondo migliore. Il mondo è<br />

quello che è; Dio è quello che è. Come una grazia<br />

l’empietà scende per un momento su questa massa<br />

compatta di essere – è tutta qui la libertà che<br />

abbiamo davanti a Dio – che subito si richiude su<br />

di essa.


Postfazione<br />

Dal ‘Saggio di un discorso coerente sui rapporti tra<br />

Dio e il mondo’ di Julien Benda<br />

Vi sono opere filosofiche che non rispecchiano i<br />

bisogni dell’epoca e neanche quelli della specie.<br />

Vengono come da un’altra parte e non si annunciano<br />

nemmeno. Ad un tratto qualcuno, non si sa<br />

come, entra in rapporto con esse anche se tutto fa<br />

pensare che non vi possa essere nessun rapporto.<br />

Quale relazione infatti si può immaginare tra questo<br />

Essai e un comune individuo d’oggi? Quale<br />

legame fra un comune filosofo d’oggi e quest’opera?<br />

Sembra tutto scontato: essa è inutile alla<br />

specie, all’individuo, alla filosofia. Certo l’Essai è<br />

un’opera immobile. Dalla prima all’ultima parola<br />

tutto è simultaneo. Chi vi entra, deve tentare di<br />

essere eterno. In ogni caso un atto che si disincarni<br />

è richiesto. La scena è preparata perché<br />

quello che avviene duri solo un istante. Insomma è<br />

richiesto un atto, non un interpretazione. Chi vuole<br />

capire capisca, ma non si tratta di questo. Si sa<br />

che quanto oggi chiamiamo “lettura” è solo un<br />

debole rapporto. Infine di che cosa si tratta? Di un<br />

libro. Ciò attenua la tensione (se mai all’inizio vi è<br />

stata). Tutto diventa una tranquilla faccenda in cui<br />

niente di decisivo può accadere a una mente. Tuttavia<br />

teniamolo presente: davanti a un’opera fi-


losofica le uniche regole che valgono sono quelle<br />

dell’ascesi concettuale. Cade la sua banale realtà di<br />

libro e il nucleo di idee, come se si sorreggesse su<br />

se stesso, appare e ci folgora.<br />

L’idea di Dio e il suo rapporto con l’idea di<br />

mondo è un tema speculativo che la filosofia occidentale<br />

ha da tempo buttato ai cani. Del resto è<br />

scomparsa la stessa idea di realtà. Per il filosofo<br />

comune essa è la sua immagine. La gnoseologia, la<br />

scienza di fantasmi, prese a suo tempo il posto<br />

della teologia, scienza della più “grande” delle realtà.<br />

Di ciò si menò vanto come di una conquista<br />

della riflessione filosofica. Ma non appena il problema<br />

della realtà riacquista il suo diritto alla riflessione,<br />

l’eterno problema si riaffaccia. L’idea che<br />

Benda professa è quella di un infinitismo integrale.<br />

Un infinito in cui tutte le determinazioni vengono<br />

risolte, ogni distinzione ingoiata. Quanto a noi riteniamo<br />

che non si possa mantenere questa idea di<br />

infinito ed evochiamo l’idea di “smisurato” come<br />

più appropriata. È evidente che così tutto cambia.<br />

L’idea di Dio che persegue Benda non è quella del<br />

“nulla” con cui i mistici si beffano da sé stessi. Ma<br />

quella di una possibilità permanente di annullamento.<br />

Questa idea è insidiosa. Essa elogia ogni<br />

attentato all’individualità come un privilegio. Ne<br />

fa il divino stesso. Benda condivide lo sdegno per<br />

l’empietà come uno qualsiasi. “Se l’empietà consiste,<br />

per un essere, nella sua separazione da Dio, il<br />

mondo fenomenale, per il solo fatto che è fenomenale<br />

è nell’empietà”. In altre parole lo stato di


empietà è lo stato di chi vuole sé stesso davanti ad<br />

un infinito che non lo vuole. Per Benda l’individuo<br />

è dunque naturaliter empio. Ma tutto ciò è praticamente<br />

vano se l’oggetto del suo pensiero, come<br />

egli dice, “n’est pas Dieu (substantif)”, ma “c’est le<br />

divin (adjectif appliqué au monde)” (p.37). Noi che<br />

prendiamo le mosse dallo smisurato, assentiamo a<br />

che Dio sia inconcepibile al di fuori del mondo. Ma<br />

riteniamo che il nomen Dei sia il terminus thecnicus<br />

per tutto questo pasticcio e “divino” solo una exornatio.<br />

Si devono in ogni caso tenere stretti alcuni<br />

punti del suo “discours”. In questo sistema, scrive<br />

Benda, Dio non è, come certuni credono, la vacuità<br />

dell’essere, ma la totalità dell’essere: tutti gli stati<br />

del mondo, passati, presenti, futuri, sono in Dio; è<br />

unicamente la loro distinzione che non vi è.<br />

Né io né tu dunque o, secondo le parole del De<br />

divisionae naturae di Scoto Eurigena: “erit enim<br />

Deus omnia in omnibus quando nihil erit nisi solus<br />

Deus”. Noi che pratichiamo la separazione da Dio e<br />

dunque l’empietà stessa vediamo in essa quel<br />

tentativo di essere che solo un Dio annullato potrebbe<br />

far riuscire. Ciò dà un ulteriore ragione a<br />

Benda: il mondo fenomenico non è concepibile in<br />

rapporto a Dio che come separazione da dio; o<br />

anche: il mondo fenomenico non è concepibile in<br />

rapporto a Dio che in stato di avversione a Dio<br />

(pp. 43-45). Si sviluppa qui una teologia che Benda<br />

nemmeno sospetta. L’infinitismo integrale, abbiamo<br />

detto, ci induce ad asserire che Dio non è il<br />

Niente, ma l’Annientante. Ciò mette in dubbio


tutta una tradizione di puri adoratori che va da<br />

Spinoza a Benda stesso. Altri lavoreranno invece<br />

sui dati dell’empietà. Non è ovviamente la via di<br />

Benda. Ma per intanto bisogna fermarsi davanti a<br />

questo Essai. Praticare la santa passività dell’intelligenza.<br />

Lasciare scorrere nella propria mente i<br />

suoi mirabili concetti. Qualcosa accadrà.


Piccola glossa al ‘Trattato della<br />

concupiscenza’<br />

di Jacques-Benigne Bossuet<br />

Le sottili ricognizioni di Bossuet sulla concupiscenza<br />

superano il quadro cristiano-cattolico<br />

non nel senso che ne prescindono ma nel senso<br />

che buttano oltre di esso i germogli. Una cultura<br />

che non esamini le proprie smodatezze, si può mai<br />

concepire? Bossuet non patteggia nemmeno col<br />

suo cattolicesimo. Da vero rappresentante dello<br />

spirito ne esamina anche le sregolatezze e le supponenze.<br />

E su un sapere che sia solo curiosità (e<br />

quanti saperi oggi non sono che indisponente curiosità)<br />

egli lancia l’anatema. Anatema contro ogni<br />

anima curiosa. Sviscerare la concupiscenza suppone<br />

passione. Una passione dello stesso tipo. Anzi<br />

più forte, come aveva avvertito Spinoza. La critica<br />

dei sensi viene dunque affrontata sistematicamente.<br />

Ma ancora sulla curiosità occorre dire<br />

che non è fustigata soltanto quella che immagina<br />

oggetti vani ma la più gloriosa e imponente: quella<br />

dello spirito. Cosa dire infatti del meraviglioso<br />

brano che magari ci strazia le carni ma che subito<br />

dopo riconosciamo riverenti? Sotto giudizio è<br />

infatti la curiosità di quelli che “si immergono<br />

nella storia, nella filosofia o in qualsiasi genere di<br />

lettura, soprattutto se si tratta di novità, di romanzi,<br />

di commedie o libri di poesia, lasciandosi<br />

talmente possedere dal desiderio di conoscere da


non possedersi più essi stessi. Poiché tutto questo<br />

altro non è se non una forma di intemperanza, una<br />

infermità, una sregolatezza dello spirito, un inaridimento<br />

del cuore, una miserabile schiavitù che<br />

non ci lascia l’agio di pensare a noi stessi...”. Il disgusto<br />

della frivolezza che Bossuet ci comunica<br />

non risparmia il lusso dello stesso spirito. Ci sentiamo<br />

dei barbari coi nostri libri, degli idolatri coi<br />

nostri quadri. Subiamo la tentazione delle nostre<br />

teorie, per cui sbaviamo. Bossuet ci induce a sospettare<br />

la fascinatio nugacitatis persino nell’amore<br />

più casto, nell’ ‘amore per la verità’. Anche questa<br />

dunque una tentatio concupiscentiae? Una critica<br />

degli occhi è indispensabile. Bisogna compensare<br />

la delizia di questo senso con la parte del diavolo.<br />

Questi occhi avidi, mai sazi, inseguono le minute<br />

volute delle cose, e si ingozzano di precarie immagini.<br />

Per una parte la vista è inutile. Per questa<br />

parte Bossuet è implacabile: ritira i tuoi occhi da<br />

queste cose illusorie, egli comanda. Sdegna questi<br />

maliziosi allettamenti, egli aggiunge. E infine:<br />

“Non amate il mondo dove tutto è illusione e corruzione<br />

della concupiscenza degli occhi”. In questa<br />

teoria della vista si inseguono elementi che assegnano<br />

al mondo quella parte che il nostro orgoglio<br />

conferma. Noi siamo superiori al mondo.<br />

Insomma l’orgoglio dello spirito ci sembra indiscutibile<br />

e perverso. Bossuet vede solo la perversione.<br />

Qui chi scrive dissente. La caduta dell’uomo<br />

consiste principalmente nell’orgoglio,<br />

scrive Bossuet. “Precipitando dall’alto e decadendo


dalla condizione divina, l’uomo cade essenzialmente<br />

su se stesso”. Queste parole del De civitate<br />

Dei di S. Agostino danno la nostra misura e indicano<br />

il nostro volere. Qui ci opponiamo a S. Agostino<br />

e a Bossuet. Noi vogliamo cadere. Sosteniamo<br />

con tutte le nostre forze il principium individuationis<br />

legato alla caduta. L’orgoglio non è che<br />

un altro nome per la stessa volontà di cadere.<br />

Tutto ciò è descritto dallo stesso Bossuet in modo<br />

mirabile.<br />

Cosa cambia allora? La nostra accettazione al<br />

posto del suo rifiuto. Ma ascoltiamo Bossuet: “Dovevamo<br />

prima cadere su noi stessi perché, come<br />

quel corso d’acqua che si rovescia prima sulla roccia<br />

e scava profondamente nel punto in cui cade,<br />

così l’anima nostra, cadendo su se stessa, produce<br />

dentro di sé una prima piaga profonda. L’impronta<br />

della sua eccellenza, della sua grandezza... vuol<br />

pascersi dello spettacolo della sua perfezione”. Noi<br />

ci fermiamo qui, Bossuet prosegue sino alla condanna.<br />

Ad un certo punto Bossuet ci dà una descrizione<br />

infernale della concupiscenza: “Essa si<br />

muove con movimenti irregolari, a seconda di come<br />

soffia il vento. Non soltanto si vogliono cose<br />

diverse se si è sani o ammalati, se si sta vivendo<br />

l’infanzia o la giovinezza, la maturità o la vecchiaia,<br />

se si è in un periodo buono o cattivo; si vogliono<br />

cose differenti di notte, quando si presentano i<br />

pensieri cupi, o di giorno, quando vengono dissipati.<br />

...Oggi ci si trova diversi da ieri senza sapere<br />

il perché, tranne che si ama il cambiamento. Ma


non si cambia per essere migliori”. Questo è il lato<br />

disprezzabile della concupiscenza e non si può che<br />

convenire con Bossuet. L’altro lato invece è tutto<br />

dalla nostra parte. Vorremmo chiedercelo ancora:<br />

cos’è dunque la concupiscenza? L’amore di sé e<br />

della propria grandezza, infine. La nostra volontà<br />

al posto di quella di Dio, ecco come la definiremo.<br />

Quanto a Bossuet, la concupiscenza deve scomparire<br />

davanti all’amore più alto, all’amore di Dio.<br />

Ma noi abbiamo orrore per Dio e amore per la<br />

nostra grandezza.


Devozione allo spazio<br />

Postfazione a ‘Dello spazio’ di Giuseppe Raciti<br />

La cogenza dell’atto di leggere imprimerebbe a<br />

ciò che si legge il suo stesso suggello. Ma come<br />

uno ne esce veramente non è deciso da abitudini<br />

mentali o dalle proprie viscere ma dall’accanito agire<br />

del pensato. Più il nucleo di pensiero resiste,<br />

più ci perseguita. Chi legge come si deve si espone<br />

a un danno. Ma egli legge come si deve perché<br />

qualcuno pensò come si deve.<br />

Se l’attenzione non deflette ritroviamo lo spazio<br />

sin dall’inizio. Quanto s’è parlato della prossimità!<br />

Quante parole inutili! La distanza tra due esseri<br />

non sarà mai abolita. Lo spazio sarebbe, giusto la<br />

definizione raccolta da Kant e riproposta in proprio,<br />

possibilità di coesistenza. Non appare, ma eguale<br />

è l’intuizione di spazio che sta alla base della<br />

morale kantiana; l’estetica trascendentale, per così<br />

dire, dell’etica. La possibilità di coesistenza è<br />

infatti il taciuto della morale kantiana che, in obbedienza<br />

alla purificazione dell’empirico, non mostra<br />

tutte le sue carte. Lo spazio assicurerebbe la<br />

stessa socievolezza e in ogni caso farebbe coesistere<br />

cose ed esseri empirico-razionali e gli esseri<br />

empirico-razionali fra loro. Lo spazio, come possibilità<br />

di vicinanza, garantisce gli elementi<br />

estetici sui quali opera l’analitica morale. Esso già


assicura quella unità su cui operano ulteriormente<br />

gli imperativi come vere e proprie categorie. Infatti<br />

gli imperativi sarebbero vuoti senza l’intuizione<br />

avvicinante dello spazio. Ma questa visione<br />

non coglie l’elemento determinante dello spazio.<br />

Lo spazio, cioè, come allontanamento, dispersione,<br />

distanza, su cui insiste l’autore di questo libro intelligente.<br />

Una certa devozione allo spazio ci induce<br />

però a resistere alla tentazione di aderire alla<br />

tesi che lo spazio è, esso medesimo, il dominio della<br />

volontà. Abbiamo immaginato questa analisi.<br />

Un quadro occupa uno spazio la cui intelligibilità<br />

ne resta lesa. Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di<br />

occupare è l’atto stesso di esistenza. Senza quest’atto<br />

il quadro non esiste. È solamente là. Lo spazio<br />

dunque respinge il quadro. Se ne avverte la<br />

resistenza allorquando gli occhi che tentano di<br />

posarsi su di esso sono invece sospinti a forza sul<br />

suo rapporto con lo spazio. Ecco che allora tutto si<br />

sovverte. Non è il quadro to timiòtaton, ma lo spazio<br />

che lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il<br />

quadro allora diventa l’occasione perché lo spazio<br />

si mostri. Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce<br />

da protagonista riducendo lo spazio a un mezzo.<br />

Ma di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il<br />

quadro che inizia la sua misera esistenza. In effetti<br />

chi non ‘vede’ lo spazio non vede nemmeno il quadro.<br />

Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo<br />

vuoto. Esso non vorrebbe che fosse mai occupato.<br />

Il vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita<br />

sull’individuo.


All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro<br />

non è nemmeno ‘visto’. Lo spazio e solo ci interessa.<br />

L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato. A<br />

poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa un<br />

essere geometrico. Qualsiasi quadro offende lo<br />

spazio. Turba il grande vuoto che ci invia il suo<br />

appello. Il quadro dunque è un disturbo, un inceppo,<br />

un graffio magari, un segno comunque che<br />

la solennità di questa sovrana omogeneità è turbata.<br />

Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa<br />

ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro nasce<br />

come una malattia dello spazio, un’escrescenza velenosa,<br />

un attentato alla sua divina integrità. Ma<br />

solo se questa offesa si realizza, solo se un quadro<br />

ha questa forza di lacerare il suo ordine segreto,<br />

allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio l’inghiotte,<br />

lo ricompone nella immensa pace, senza<br />

increspature, della sua superficie.<br />

Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio<br />

che minaccia di incorparle. Un quadro deve anzitutto<br />

affermarsi davanti allo spazio. Da un lato<br />

esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se volesse<br />

in qualche modo diminuirne la sorgente<br />

inesausta. Dall’altro sembra che ‘doni’ spazio.<br />

Fermiamoci qui. In questo complesso scambio<br />

sembra il punto più fermo. Un quadro riesce<br />

allorquando dona spazio. Allorché non ruba lo<br />

spazio, ma lo aumenta. Così lo spazio ora lo<br />

accoglie, gli dà ricetto, una nicchia. Lo accoglie<br />

dentro se stesso. Esso vi scompare. Fa ormai parte


dello spazio. Non come prima, però, quando lo<br />

spazio lo cancellava con un gesto indifferente.<br />

Adesso lo spazio lo accoglie. Esso diventa, in qualche<br />

modo, un punto d’onore dello spazio, un suo<br />

luogo privilegiato. Ma in tutto questo agisce ancora<br />

l’essenza dello spazio. Come se un abisso<br />

fosse al di dentro di esso. Infine, ciò che è accolto<br />

dallo spazio vi scompare. Così l’opera d’arte ha a<br />

che fare con lo spazio o può essere solo un segno<br />

avvilente, una cattiva macula, una disomogeneità<br />

senza importanza e scomparire nello spazio come<br />

in un cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio<br />

ma nel senso che anch’essa ormai ne fa parte.<br />

Che lo spazio l’accoglie e la benedice. Questo sprofondare<br />

nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà<br />

di un quadro: immaginiamo lo spazio non<br />

dissimile dalla nolontà...<br />

Questo sorprendente essai esce fuori dalle tiritere<br />

consuete. V’è in esso una squisitezza senza di<br />

cui il pensare non oltrepassa la funzione fisiologica<br />

e lo possiamo lasciare tranquillamente dov’è.<br />

Siamo sempre colpiti dall’ ‘ingiustizia’ di un pensiero<br />

che ci viola, che vuole toglierci la nostra verità<br />

e installarvi la propria. Ma in questi luoghi si<br />

regna uno alla volta.


La malattia dello spazio<br />

Da ‘Insulae, l’arte dell’esilio’<br />

Nel mostrare si mostra il mostrare stesso. Bisogna<br />

distinguere l’atto del mostrare da ciò che si mostra.<br />

Senza questo perdiamo l’essenza del mostrare<br />

ed esso diventa un mero segnale, una povera indicazione.<br />

Ben poco, infine. Comunque non quello<br />

che si vuole.<br />

Si deve anzitutto esporsi al “niente” che si insinua<br />

tra l’atto e la cosa. Soffermarsi su di esso, farne il<br />

tema iniziale di un impegno visivo. Non guardare<br />

ciò che si vede, ma il vedere. Non guardare ciò che<br />

si mostra, ma il mostrare. Il vuoto che si delinea è<br />

uno spazio più spesso. È come se esso fosse pieno<br />

e non vi entrasse più niente. Così il vuoto viene<br />

percepito come resistenza. Come se esso espellesse<br />

ogni altra cosa. Ma cos’è ciò che resiste? Niente.<br />

“Niente” ci resiste.<br />

Lo spazio è occupato, ma da se stesso. Tuttavia se<br />

chi guarda non apprende a guardare prima di tuto<br />

lo spazio, non ci può essere “mostra”. E quelle<br />

“cose” appese a una parete non si “vedono” neppure.<br />

Cosa si mostra dunque nell’atto del mostrare?<br />

Si è detto, il vuoto. Ma come se esso occupasse<br />

lo spazio e non ci fosse posto per altro. Lo<br />

spazio è ingombro di se stesso. Ogni altra cosa è<br />

una intrusa.


Attraverso questi atti che evocano dunque lo spazio,<br />

attraverso questi atti iniziatici, si apprende<br />

man mano l’atto del mostrare. Solo ora si può<br />

guardare. Ciò che c’è emerge dunque dal mostrare.<br />

Se non si mostra il mostrare stesso non si può<br />

“guardare” nulla perché nulla si può “vedere”. Solo<br />

dopo che si è mostrato il mostrare, solo assieme al<br />

mostrarsi del mostrare, si comincia finalmente a<br />

vedere. Solo allora c’è “mostra”.<br />

Una ragionevole domanda di Heidegger – “La<br />

scultura corrisponde (...) alla conquista tecnicoscientifica<br />

dello spazio?” (Die Kunst und der Raum)<br />

– pone non trascurabili problemi. Mentre, nello<br />

stesso tempo in cui lo spazio si affermava con<br />

Galilei e Newton, la letteratura indietreggiava<br />

davanti ad esso – Corneille, ad esempio, parla solo<br />

una volta delle stelle, nel Cid, e Racine solo una<br />

volta del sole – l’arte figurativa si rende conto di<br />

essere arte spaziale. In un primo tempo sembra<br />

che contenda lo spazio allo spazio. In questo senso<br />

essa partecipa alla “conquista” dello spazio.<br />

Ma in questa lotta un quadro, una scultura, alla<br />

fine perdono. Alla fine lo spazio li inghiotte. Se<br />

essi vogliono contendere lo spazio allo spazio non<br />

possono che perdere. Ma se si abbandonano allo<br />

spazio, allora essi vincono assieme allo spazio.<br />

Perché un giorno tutto sarà spazio.<br />

Abbiamo immaginato questa analisi. Un quadro<br />

occupa lo spazio la cui intelligibilità ne resta lesa.<br />

Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di occupare è<br />

l’atto stesso di esistere. Senza quest’atto il quadro


non esiste: è solamente là. Lo spazio dunque respinge<br />

il quadro. Se ne avverte la resistenza allorquando<br />

gli occhi che tentano di posarsi su di esso<br />

sono invece sospinti a forza sul suo rapporto con<br />

lo spazio. Ecco che allora tutto si sovverte. Non è<br />

il quadro la cosa più importante, ma lo spazio che<br />

lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il quadro<br />

allora diventa l’occasione perché lo spazio si mostri.<br />

Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce da<br />

protagonista riducendo lo spazio a un mezzo. Ma<br />

di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il quadro<br />

che inizia la sua misera esistenza. In effetti chi non<br />

“vede” lo spazio non vede nemmeno il quadro.<br />

Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo vuoto.<br />

Esso non vorrebbe che fosse mai occupato. Il<br />

vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita<br />

sull’individuo.<br />

All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro non<br />

è nemmeno “visto”. Lo spazio e solo esso ci interessa.<br />

L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato.<br />

A poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa<br />

un essere geometrico. Qualsiasi quadro offende<br />

lo spazio. Turba il grande vuoto che ci invia<br />

il suo appello. Il quadro dunque è un disturbo, un<br />

inceppo, un graffio magari, un segno comunque<br />

che la solennità di questa sovrana omogeneità è<br />

turbata. Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa<br />

ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro<br />

nasce come una malattia dello spazio, una escrescenza<br />

velenosa, un attentato alla sua divina integrità.<br />

Ma solo se questa offesa si realizza, solo se


un quadro ha questa forza di lacerare il suo ordine<br />

segreto, allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio<br />

l’inghiotte, lo ricompone nell’immensa pace,<br />

senza increspature, della sua superficie.<br />

Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio<br />

che minaccia di incorporarle. Un quadro deve<br />

anzitutto affermarsi davanti allo spazio. Da un<br />

lato esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se<br />

volesse in qualche modo diminuirne la sorgente<br />

inesausta. Dall’altro sembra che “doni” spazio.<br />

Fermiamoci qui. In questo complesso scambio<br />

sembra il punto più fermo. Un quadro riesce allorquando<br />

dona spazio. Allorché non ruba spazio, ma<br />

lo aumenta. Così lo spazio ora lo accoglie, gli dà<br />

un ricetto, una nicchia. Lo accoglie dentro se stesso.<br />

Esso vi scompare. Fa ormai parte dello spazio.<br />

Non come prima, però, quando lo spazio lo cancellava<br />

con un gesto indifferente. Adesso lo spazio<br />

lo accoglie. Esso diventa, in qualche modo, un<br />

punto d’onore dello spazio, un suo luogo privilegiato.<br />

Ma in tutto questo agisce ancora l’essenza<br />

dello spazio. Come se un abisso fosse al di dentro<br />

di esso. Infine, ciò che è accolto dallo spazio vi<br />

scompare. Così l’opera d’arte che ha a che fare con<br />

lo spazio o può essere solo un segno avvilente, una<br />

cattiva macula, una disomogeneità senza importanza<br />

e scomparire nello spazio come in un<br />

cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio ma<br />

nel senso che anch’essa ormai ne fa parte. Che lo<br />

spazio la accoglie e la benedice. Questo spro-


fondare nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà<br />

del quadro.<br />

Sodalizio<br />

E’ vero, due perfetti amici ormai tacciono. Non<br />

hanno più nulla da dirsi. Ma nel senso superiore.<br />

Godono delle loro sembianze stando accanto e<br />

delle loro anime stando lontano. Il mortificante<br />

chiacchiericcio non prevale sulle ragioni profonde<br />

per cui l’esistenza reciproca è assaporata come aria<br />

pura di montagna. Eppure si deve parlare ancora,<br />

e sfidare con turbanti parole l’atroce sordità del<br />

mondo. Ma in ultimo nel momento migliore della<br />

loro amicizia sono solo loro due. Tra essi non si<br />

introduce che l’incanto della Forma che danno a<br />

emozioni comuni.<br />

Una nota<br />

L'immagine filmica fa parte di questa epoca sconvolta<br />

e miserabile. In altri tempi con le immagini<br />

si crearono miti, in altri ancora (già decaduti) religioni.<br />

Il film è ciò che resta dopo che l'essere se n'è<br />

andato e l'apparenza aumenta. Noi viviamo di resti.<br />

Ma ciò che significa? Non accarezzammo un<br />

giorno il torso di una statua corrosa dal tempo come<br />

oggi la silhouette di una immagine? Waterloo


fu forse un allucinazione di Napoleone e di Wellington?<br />

Di chi la combatté? Esiste una battaglia<br />

di Borodino? Anche Tolstoj ne dubitò. Ma un film<br />

può anche indicarne i contorni ed esibire la faccia<br />

di un eroe morente (che non fu dato vedere se non<br />

a un dio), l'elsa di una spada spezzata, il pastrano<br />

inzuppato di sangue di un vecchio sergente della<br />

guardia steso lungo il ciglio della strada. Oggi<br />

l'immagine si trascina stancamente per le strade<br />

delle città mondiali o si introduce nelle nostre case<br />

e lo spettatore guarda senza sapere infine cosa<br />

guarda. Il tentativo di <strong>Battiato</strong> non è di guardare<br />

queste stanche immagini ma attraverso esse, le<br />

idee.<br />

Sui dipinti di Suphan Barzani<br />

Il senso della bellezza torna a occupare un posto<br />

nella nostra vita. La bellezza chiama. Il nichilismo<br />

artistico in cui siamo vissuti è stato soprattutto un<br />

nichilismo pittorico. Per ciò che offriva agli occhi<br />

abbiamo avuto per lo più noia e indifferenza. “Tutti<br />

i quadri sono belli”: 'et omnia bona sunt'. Come<br />

un dio stanco il testimone dell'arte visiva sbadigliava<br />

trovando tutto buono. Cercavamo a volte il<br />

bello ma trovavamo solo ‘abbellimento’. In realtà<br />

la visività oggi è in pericolo. Tutto è indirizzato<br />

agli occhi. L'uomo oculare – l'uomo d'oggi, cioè –<br />

costruisce le sue cose in funzione della sua vista e<br />

si appaga della loro presenza. Ma che forse la vista


è, come egli crede, soltanto ciò che ‘vede’ e ciò che<br />

vede soltanto ‘presenza’? "La vista ha una funzione<br />

profetica. Più che per se stessa ci interessa per<br />

l'indicazione di quanto può avvenire... La vista è<br />

un mezzo per presentare psichicamente ciò che in<br />

realtà è assente, e poiché l'essenza della cosa è ciò<br />

che esiste anche in nostra assenza, la cosa viene<br />

spontaneamente concepita in termini visivi" (Santayana,<br />

The Sense of Beauty). Qui Santayana distribuisce<br />

saggiamente le forze dell'azione visiva.<br />

Chi vede solo ciò che ha davanti agli occhi in realtà<br />

non vede. C'è bisogno di esser platonici? La forza<br />

di un quadro è quella di restituire un'assenza.<br />

Ma vorrei andare un po' più in là. La presenza pittorica<br />

richiami pure l'assenza (che è infine la bellezza)<br />

o no. Ma chi vuole vedere la bellezza cosparsa<br />

sul quadro come magica polvere soffrirà le<br />

pene dell'inferno. Perché il suo desiderio non sarà<br />

appagato. La bellezza è un invito che il quadro le<br />

rivolge pressante: può essergli rifiutato. Le mani<br />

calde della bellezza hanno accarezzato il quadro di<br />

questo pittore. Eppure tutto è "semplice". Il ritmo<br />

della simmetria induce all'equilibro l'occhio che<br />

guarda. I nostri sensi logorati riacquistano vita.<br />

S'intende, non è offerto molto alla loro cupidigia.<br />

Perché ci si possa ubriacare, manca il "pittoresco".<br />

Pittura senza pittoresco: non ne vedevamo da<br />

molto. C'è invece, ne siamo testimoni, quello che il<br />

nobile Santayana (questo quadro ci ha rimandato a<br />

lui e lui a questo quadro) chiama:"la capacità permanente<br />

di piacere". <strong>Battiato</strong> ci vuole infine con-


vincere che riprodurre l'imperfezione – il destino<br />

dei moderni – è da anime ignobili. Forse è vero.<br />

Prefazione<br />

‘Elegia sanremese’ di Tommaso Ottonieri<br />

Il testo di canzone è poesia decaduta. Ma la poesia<br />

gli deve la sua attuale popolarità. Un’estetica che<br />

non ha nulla da perdere – una estetica che ha da<br />

perdere non interessa affatto – scorge nel testo di<br />

canzone nefando e scurrile, oppure levigato a mano<br />

come certi tenui marmi, ciò che dopo La terra<br />

desolata può passare per sonorità verbale di buona<br />

lega. Consummatum est: la poesia non vale niente. Il<br />

nichilismo poetico è in realtà un residuo umanistico:<br />

esso crede all’umano come un tempo si credeva<br />

al divino: con pertinace accanimento. Afferma il<br />

nulla senza realizzarlo. Infine, come Montale, sospira<br />

troppo. Anche gli idilli boschivi affettano il<br />

nichilismo. Dopo che la teoria del bosco è prevalsa<br />

sul bosco (vedi Heidegger e famiglia), la lingua si<br />

appiccica al palato. La poesia di Ottonieri mescola<br />

il sermo humilis del testo di canzone (nella gerarchia<br />

della caduta quello che sta in ultimo: il testo<br />

di canzone sanremese, il ''µὴ ὄν'') al sermo sublimis<br />

rifatto. Un balletto di parole che ti danno fuoco (è


quasi una sua immagine). Alla fine sei preso da una<br />

infinita malinconia e ti diverti fino a crepare.<br />

Piccole note in margine a Salvo Basso<br />

Il dialetto è il momento animale della lingua. Desiderio<br />

di animalità. Smettere di essere uomo.<br />

Tornare animale. Il dialetto come duro linguaggio<br />

della necessità. Mangiare, bere, abitare, fottere.<br />

Il dialetto è mortale (il dialetto è tutto fatto di<br />

morte).<br />

Nel dialetto non si sogna. Anche il sonno è veglia.<br />

Non c'è poesia dialettale. Ma il dialetto è poesia.<br />

(La poesia dialettale è poesia in lingua tradotta in<br />

dialetto).<br />

Chi parla di "musicalità" del dialetto non sa di<br />

cosa parla.<br />

Un dialetto progressivo... Può progredire Dio?<br />

Entrambi rappresentano uno stato eterno delle cose.<br />

La lingua è storica; il dialetto è cosmico.<br />

Per chi muore non c'è altra lingua che il suo dialetto.


Nota introduttiva<br />

‘<strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong>, la Sicilia che profuma d’Oriente’<br />

La sottile epicità a cui si iscrivono queste pagine,<br />

appartiene alla imperitura ”ingenuità” degli antichi<br />

cantori. La stessa, con la quale un tempo si<br />

crearono i miti. “Aber die epiche Naivitat ist icht<br />

nur lige” è scritto in un saggio su di essa. No, certamente,<br />

non solo pia fraus è l’ingenuità epica. Ma<br />

una grazia, una leggerezza la sfiorano a tratti. E<br />

se tutto fosse un idillio? Ebbene, anche se segretamente<br />

i paradisi ci interessano. Anche se per un<br />

istante il quotidiano si interrompe e una pace stregata<br />

ci coinvolge. Perché andare dietro solo a ciò<br />

che ci fa ricordare che siamo solo su una maledetta<br />

terra?<br />

Ciò che ce lo fa dimenticare, sia pure per un momento,<br />

merita e gli diamo un amichevole osanna.<br />

Lettera a un giovane poeta<br />

Un noto pensatore tedesco ha detto che dopo Auschwitz<br />

non si possono scrivere poesie. La responsabilità<br />

davanti alla stessa poesia ci imporrebbe di<br />

riflettere sul divieto. Ma i massacri non hanno mai<br />

fermato i poeti. Stendere la bellezza sulle sciagure,<br />

è parso anzi, come si sa, uno dei compiti dell'arte.


Là dove il bello appare tutto si trasforma: non è<br />

così?<br />

L'impiccagione delle ancelle, nel ventiduesimo<br />

canto dell'Odissea, trasforma in diletto lo stesso<br />

massacro: "Coi piedi scalciavano; per poco, però,<br />

non a lungo". La terribile catarsi l'ha purificato.<br />

Il toro di Falaride sublima in musica le orribili<br />

grida.<br />

In ogni caso, mio giovane poeta, le auguro che sia<br />

presente in lei quello che abbiamo chiamato "responsabilità".<br />

Non si fa poesia impunemente.<br />

Mantrana, un gioco<br />

di Ernst Junger e Klaus Ulrich Leistikov<br />

Questo è un libro di giochi di pensiero. Mentre il<br />

pensiero come gioco, sostenuto oggi da giocatori<br />

maladroits, mostra veramente di essere solo questo.<br />

I giochi di pensiero costruiti da Junger sono<br />

incontri misteriosi dove si possono evocare quegli<br />

incroci astrologici che dilettarono persino Lutero<br />

e Melantone. (La loro fu una riforma mediante gli<br />

astri). Questi giochi, come per miracolo, fanno apparire<br />

tutto il contrario di ciò che visibilmente si<br />

propongono: il pensare come la cosa più seria. Un<br />

impassibile croupier invita alla puntata. Signori, si<br />

pensa. Rien ne va plus.


Sottili turbamenti<br />

‘Il colore della musica’, catalogo della mostra di pitture<br />

di <strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong> e Marco Nereo Rotelli<br />

Le sensazioni che provengono dai metalli rompono<br />

la quiete sonnacchiosa dei sensi. Gli occhi si<br />

spaccano. Trionfa un visibile non di tipo greco,<br />

non un visibile intelligibile come in Platone. Le idee<br />

di acciaio e di oro evocate rimandano a sangue<br />

e potere come omologhe. Rimandano agli squarci<br />

e ai fendenti delle spade. E anche la sensazione<br />

dell’oro invia sottili turbamenti. Il potere si riveste<br />

d’oro: cosa vuole nascondere? Oppure c’è veramente<br />

un ‘oro’ umile e leale? L’età dei metalli, per<br />

quanto essi scintillino, è sempre un’epoca oscura.<br />

Sistemi di morale<br />

Già questo nome evoca delizie. La morale è un libro.<br />

Questa potrebbe essere la definizione della<br />

morale sistematica, quando il bene era considerato<br />

una follia e la sola definizione salvava le anime.<br />

Bonum est diffusivum sui: è così veramente? Cosa<br />

ci importa! Questo concetto si imponeva e la sua<br />

maestà ci costringeva all'ossequio. Il sistema ci<br />

intrappolava e noi eravamo condotti al bene dall'artifizio<br />

di una definizione. Che anime complicate


ci vogliono per rispondere all'appello di una morale<br />

sistematica.<br />

La morale si credette poi appannaggio di deboli e<br />

inferiori. Ma seguire una morale è in tutti i casi<br />

una forma di superiorità ineguagliabile, un lusso<br />

dello spirito, un abbordaggio delle complicate linee<br />

di quello che una volta si chiamava animo umano.<br />

Insomma le morali ci incantano, s'intende nella<br />

loro forma di libro e siamo sempre pronti ad ascoltare<br />

le seduzioni che ci propongono.<br />

L'autore di questo scritto si ricorda delle morali<br />

gesuitiche, di queste morali non euclidee. Non fosse<br />

per altro dobbiamo leggerlo.


INTERVISTE


Dalla forma aforistica de ‘La morte del Sole’ al ‘Dialogo<br />

sul comunismo’. E' indifferente la scelta di un<br />

nuovo genere?<br />

Via via che si scrive, lei sa, si cerca di incardinare<br />

ciò che si pensa, o le proprie emozioni, in un certo<br />

tipo di scrittura, o, meglio, in una certa organizzazione<br />

di scrittura, organizzazione in questo caso<br />

dialogica. Io poi ne ho scritti due di dialoghi,<br />

perché pubblicai un "Dialogo teologico" qualche<br />

anno fa con l' Adelphi, e dicevo che erano dei falsi<br />

dialoghi. In realtà "Augustinus cum Augustinum",<br />

come dice Agostino da qualche parte, cioè era<br />

Agostino che parlava con Agostino. E quindi in<br />

sostanza che ho il sospetto che i dialoghi siano in<br />

realtà falsi dialoghi. Ma in ogni caso, lei dice<br />

perché il dialogo: perché appunto ti permette di<br />

stabilire questa specie di sfalsatura fra te che dici e<br />

un altro te, che indubbiamente c'è - ormai è pacifico<br />

per tutti che i "me" in ciascuno di noi pullulano<br />

-, che in qualche modo fa da cassa di risonanza<br />

o riprende ciò che dici. Quindi la parola<br />

dialogo va presa in senso "losco" direi, non in senso<br />

diretto, cioè va presa, bassamente, per dir così,<br />

per celare, o manifestare, o celare e manifestare,<br />

un certo tipo di operazione, un certo tipo di rete,<br />

con cui agganciare. Perché, infine, se noi scriviamo,<br />

scriviamo sì per ordinare, per dar peso, gravezza,<br />

materia alle idee che altrimenti fluttuerebbero,<br />

anzi forse nemmeno, perché sarebbero solo<br />

una pasticciatissima nebulosa, ma anche per ag-


ganciare il lettore, e questa volta la forma scelta è<br />

stata quella del dialogo.<br />

La sua filosofia appare come diretta più a discepoli che<br />

ad interlocutori...<br />

Lei ha perfettamente ragione.<br />

E quindi la scelta del dialogo non potrebbe a questo<br />

punto apparire come una deviazione, un'apertura verso<br />

un altro tipo di approccio?<br />

Il dialogo è circolare. In realtà non ci sono interlocutori.<br />

L'interlocutore partecipa il minimo<br />

indispensabile perché ci sia questa specie di partita<br />

a tennis. Io scrivevo una volta questo qui, più o<br />

meno. Riportavo un esame di docenza che fece<br />

Schopenhauer in una commissione in cui c'era anche<br />

Hegel. Fu proprio Hegel a porgli la domanda:<br />

se un cavallo si sdraia sulla strada quali motivi vi<br />

sono o cause? e allora nell'incontro tra questi due<br />

grandi filosofi, l'uno la cui grandezza la conosce<br />

solo lui, (Schopenhauer), l'altro la cui grandezza<br />

cominciava ad essere abbastanza diffusa (Hegel), si<br />

danno ad una specie di dialogo veramente buffo: a<br />

stabilire se erano cause, se erano motivi. Cioè mi<br />

parve che questa fosse una contraffazione del dialogo,<br />

che metteva però in evidenza il dialogo così<br />

come effettivamente è, e in ogni caso con questo<br />

mi pare che si chiuda l'era del dialogo in filosofia.<br />

Nata con Platone essa si chiude con questa buffa


faccenda, di due grandi che si incontrano e non<br />

sanno parlare altro che di un cavallo...<br />

Perché proprio un dialogo sul comunismo?<br />

Ecco, e così andiamo all'argomento, perché vorrei<br />

che si chiarisse un equivoco. Comunismo, qui,<br />

vuole indicare esattamente questo: innanzitutto<br />

questo slancio per dir così, che è tipico della nostra<br />

civiltà. Ma voglio indicare piuttosto un pericolo<br />

che in questo momento vi è. C'è una gerarchia<br />

di comunismi, vi sono più comunismi, certamente,<br />

non nel senso storico, ma nel senso ideale.<br />

E questo comunismo di cui mi preoccupo io è<br />

proprio il venir meno e l'individualizzarsi dell'idea<br />

di verità, il crollo della comunità scientifica, che<br />

comincia ad essere individualizzata anche nella<br />

scienza, anche nella fisica. La fisica parla oggi di<br />

principi quasi individuali nel suo ambito, ad esempio<br />

qualcuno ha potuto parlare di una fisica a misura<br />

d'uomo, perché il fine è quello che l'uomo<br />

goda, che abbia piacere, una fisica che stabilisca la<br />

possibilità di una libertà nell'ambito dell'universo:<br />

é una fisica come un'altra, cioè a dire, può essere<br />

benissimo una fisica accettabile. Oggi vi è il nuovo<br />

principio antropico: anche questo obbedisce a esigenze<br />

dell'individuo nell'ambito della fisica, cioè a<br />

proiettare le nostre esigenze di finalità, di soddisfazione,<br />

nell'ambito di una disciplina come la fisica<br />

che era stata altera, si era presentata come un


assoluto sdegno dell'umano. E l'idea di verità, espunta<br />

dal contesto della filosofia o ridotta a un<br />

fatto individuale. Ecco qual è la mia preoccupazione<br />

e qual è il comunismo di cui parlo: tentare di<br />

destare l'allarme per il venir meno di idee di verità<br />

comuni, di un comune senso della scienza, di un<br />

comune senso dell'operare all'interno del sapere. Il<br />

frammentarsi in principi individuali di tutto quanto<br />

l'assetto del sapere, per cui il comunismo in<br />

definitiva - in questa gerarchia di comunismi che<br />

nel libro è più o meno adombrata, per quello che<br />

mi interessa -, è proprio il ristabilirsi di una comune<br />

idea di verità, di cui oggi è impossibile parlare,<br />

perché una cosa del genere fa ridere. Ma, lo ripeto,<br />

soprattutto per quanto riguarda l'ambito del<br />

sapere, laddove esso è frammentato in saperi individualizzati<br />

- e il principio individuationis frusta a<br />

sufficienza non solo le filosofie che sono ormai<br />

quasi personalizzate: ciascuno ha la sua, come ognuno<br />

ha la sua cravatta, la sua donna -, ma anche<br />

in quelle che sono le discipline rettrici della civiltà<br />

occidentale, la matematica, poniamo. Ecco: mentre<br />

gli altri si preoccupano del comunismo dei bisogni,<br />

de la merde, - come io lo chiamo, io mi preoccupo<br />

di questo, che certamente sarà superfluo, ma<br />

che a me dà l'impressione che sia bisognevole di<br />

un occhio attento: perché stiamo perdendo la "comunità"<br />

di questi beni intellegibili, di questi beni<br />

spirituali, che si frammentano e diventano proprietà<br />

di piccoli o grandi proprietari che ne fanno<br />

in qualche modo un fatto personale, a sé.


Quindi un interesse per il comunismo da dove meno ce<br />

lo si aspettava?<br />

Certo, il comunismo per quello che interessava veramente<br />

me.<br />

Lei ha scritto un libro intitolato "Dell'indifferenza in<br />

materia di società". Questo suo interesse per la filosofia<br />

come verità, questo comunismo inteso come ricerca di<br />

verità comuni, ha a che fare invece con un interesse per<br />

la società, può servire alla società?<br />

Io personalmente ritengo che l'interesse per la<br />

società sia un interesse sussidiario e avventizio. Il<br />

primo interesse per l'uomo non credo sia la società,<br />

la società è un dato: ma è un dato questo pavimento,<br />

è un dato che devo aprire la porta se voglio<br />

entrare, è un dato che sono in una società perché<br />

nasco, sono buttato già, nasco in una società: ma<br />

questo non significa che io dirigo le mie intenzioni<br />

e i miei sforzi al pavimento in cui cammino, certo,<br />

se non ci fosse il pavimento io crollerei, se non ci<br />

fosse la società, cioè tutto il complesso, l'organizzazione<br />

che forma la struttura di una società,<br />

probabilmente non soddisferei i miei bisogni, sarei<br />

privo di molte delle cose che formano il mio benessere,<br />

ma questo non significa che io debba ritenere<br />

primaria la società, la società è come il<br />

pavimento, come la porta, strumenti che mi giovano,<br />

che mi servono ma non il mio interesse. Io credo<br />

che l'interesse primario, e qui bisognerebbe


considerarlo all'interno della nostra civiltà, e per<br />

me la civiltà è quella occidentale o non è, non sia<br />

la società ma l'arte, il produrre, anche il generare<br />

può essere interesse primario, ma non sia dia l'interesse<br />

primario alla società, soprattutto non si dia<br />

a quelli che di questa società si fanno per dir così<br />

portatori, i falsi servitori di essa, o quelli che se ne<br />

fanno padroni, cioè il politico, la politica, che è<br />

diventata nel nostro assetto sociale, europeo, talmente<br />

primaria da abbattere qualsiasi interesse o<br />

da ridurlo sotto di sé: questa è per me un'oscurante<br />

sconfitta delle cose dello spirito.<br />

Qual è questa verità comune che lei ravvisa nel comunismo?<br />

Io dico l'idea di verità anzitutto, cioè il perseguire<br />

l'idea di verità, le cui caratteristiche sono, - risibili<br />

per l'uomo comune - ovviamente, l'idea di unicità,<br />

l'idea di eternità. Oggi i filosofi hanno idee più comuni<br />

dell'uomo comune, ritengono che l'idea di<br />

verità sia un ferrovecchio; noi abbiamo perso i<br />

grandi principi che abbiamo, che ci tengono, ma<br />

che noi possiamo ammirare e contemplare, così<br />

come l'uomo della tecnica ammira le più grandi<br />

invenzioni di quest'età tecnologica. Anche l'invenzione<br />

dell'imperativo categorico, della nozione di<br />

legge, in senso fisico come in senso sociale, queste<br />

cose sono proprio il grande patrimonio comune<br />

che si sta smembrando e sta diventando invece<br />

proprietà di singoli, perché ci sono, si, non soltan-


to i grandi proprietari di ricchezze materiali, ci<br />

sono anche i grandi proprietari di ricchezze intellegibili,<br />

delle idee, come se in sostanza delle idee<br />

ne fosse padrone questo o quel filosofo; ecco, se<br />

noi diciamo le automobili della Fiat, ci accorgiamo<br />

dell'onta, del disdoro che c'è nell'affermazione, ma<br />

se diciamo le idee di questo o quel filosofo non ci<br />

accorgiamo quasi di questo senso in cui idee comuni,<br />

patrimonio di intelligibilità, almeno dell'elite<br />

europea, diventano proprietà di uno, di<br />

grandi proprietari del pensiero, i quali ne fanno<br />

l'uso e l'abuso che vogliono. Perché, e con ciò vorrei<br />

concludere, la ricchezza materiale, solo quella,<br />

non è possibile rendere comune, checché se ne dica,<br />

perché essa è strettamente individuale, mentre<br />

è proprio l'altra, la ricchezza spirituale che è comune<br />

in se stessa e che per accidente oggi sta diventando<br />

singola, individuale. E' questa che bisogna<br />

rendere comune.<br />

Ma questa sembra impresa difficile, visto che lei definisce<br />

la scuola "una barriera opposta al male del sapere"<br />

La scuola è in realtà una grande neutralizzatrice.<br />

La scuola pubblica europea nasce con la funzione<br />

di formare, di educare, di istruire, ma in maniera<br />

tale che tutto ciò che viene impartito sia neutralizzato<br />

in partenza: il sapere è il veleno quale può<br />

essere in un trattato di tossicologia, cioè innocuo,<br />

descritto ben bene ma in cui manca proprio l'elemento<br />

primo, la possibilità che se tu tocchi gli


occhi o lo ingerisci muori o resti deturpato: ma<br />

questo non è il volere o non volere dell'insegnante.<br />

E' proprio l'assetto specifico del sapere scolastico:<br />

Essenzialmente neutralizzatore esso deve togliere<br />

l'elemento non formativo, non educativo<br />

che vi è nel sapere: Lei pensi a un Baudelaire, nelle<br />

scuole francesi, preso così per com'è, sarebbe dirompente...<br />

o a Leopardi nelle nostre scuole...<br />

- - -<br />

C'è una grande tensione filosofica, oggi, sulla verità.<br />

L'ermeneutica, per esempio, fa parte dei tentativi di legare<br />

l'estetica alla verità piuttosto che all'emozione e<br />

alla sensibilità.<br />

A me non risulta. Vedo scomparire il concetto di<br />

verità, vedo la prevalenza del concetto di opinione,<br />

quasi identica all’uomo. Il concetto di verità non<br />

ha più autorità. Viene espulso dagli stessi contesti<br />

in cui sembrava fosse essenziale alla vita stessa. Le<br />

grandi prese di posizione di fronte a questo concetto<br />

la scarnificano. Bisogna avere una buona dose<br />

d’ingenuità per poter professare il concetto di<br />

verità, che dovrebbe avere i connotati classici, che<br />

dovrebbe essere filosoficamente piena... come<br />

quella di cui parlava Husserl nelle Ricerche logiche:<br />

la verità che è identica e una per angeli, dèi,<br />

mostri e uomini. Epperò Husserl dice in seguito<br />

anche che il mercante al mercato ha la sua verità.


Che ogni uomo ha la sua verità. Come suo postero<br />

mi accadde di mettere queste due accezioni in stridente<br />

e meccanico contrasto. Il prima e il dopo.<br />

Ma poi Husserl voleva anche lui guarire la civiltà<br />

dai suoi mali, era diventato un "medico" della civiltà.<br />

Le civiltà hanno per essenza limiti intrinseci.<br />

Se oggi sfogliamo il Gibbon, possiamo notare che<br />

la campana suona sempre allo stesso modo: la senescenza<br />

del mondo, i giovani che non ci sono più,<br />

il fatto che si vedano soltanto vecchi, il senato delle<br />

donne, molti danni... La civiltà non ha mali, è<br />

tutto un male che poi sfuma, come ogni altra cosa.<br />

Lei dà un enorme rilievo alla comunicazione del pensiero.<br />

La possibilità di pensare insieme. Comunità di<br />

pensiero, più alto rispetto all’amore e alla sessualità. È<br />

un pensiero o un desiderio?<br />

Io credo sia insito in ogni essere pensante. Filosofare<br />

insieme, io credo anche sul piano dello scambio<br />

emotivo, pur sempre nella vicinanza dei corpi,<br />

è uno splendido momento che ho provato da giovane,<br />

quando filosofare non era un mestiere. Chiedersi<br />

e rispondersi sulle cose stesse. Nel mio rapporto<br />

coi libri la parte dell’odio è stata superiore a<br />

quella dell’amore. Dietro il libro cercavo il conforto<br />

della vita, la corrispondenza con ciò che si chiamava<br />

vivere. Non attraverso il libro, che era un<br />

pericolo, ma attraverso un filosofare comune. Lo<br />

considero un momento di alta possibilità di rapporto.<br />

Ma quanto può interessare... è un rapporto


di pochissimi. Già il fatto che si faccia filosofia solo<br />

nelle università! Laddove si filosofa, quello è il<br />

luogo della filosofia. Può essere un bar, un ospedale.<br />

Lì c’è, e allora quello diventa il luogo. Ciò suppone<br />

una temperie culturale: che sia abbandonato<br />

questo miserabile concetto di cultura; che si ritorni<br />

a una concezione Ottocentesca che illustra meglio<br />

i vari echi del pensiero. Il brillare di luci varie.<br />

Il concetto di Spirito, il luogo dove può avvenire<br />

questo rapporto. Lì dove penso, lì è filosofare. Non<br />

si può filosofare senza luogo; sarebbe portarlo a<br />

un’astrattezza tale...!<br />

Il rapporto tra il filosofo e il potere si va intensificando.<br />

Non ovunque, non un servitore... Ma Cacciari è<br />

sindaco di Venezia, lei ha relazioni con il potere catanese...<br />

Come lo spiega?<br />

A volte mi sembra che il filosofo sia un tiranno fallito.<br />

Ha rapporti con colui il quale può realizzare<br />

ciò che pensa. Avviene che il filosofo si avvicini al<br />

potere. Il potere dei giudizi tende a diventare un<br />

potere dei fatti e delle cose. Il tiranno che è in lui<br />

viene oggettivato nel tiranno politico. Di fronte<br />

alla beffarda realizzazione dell’idea, il filosofo si<br />

ritira. Il tiranno insisterà ma il filosofo si ritira.<br />

Tranne nei casi in cui l’avvicinamento al potere è<br />

coessenziale alla miglior parte. Ma il filosofo non<br />

ha i mezzi per imporre le sue idee. Ha solo il potere<br />

dei giudizi. In momenti come questi, di trasformazione,<br />

il filosofo è al massimo tentato di av-


vicinarsi al potere. È la follia del potere che lo<br />

prende. Potrebbero essere lui e i suoi giudizi a trasformarsi<br />

in potere. E’ un pericolo per lui.<br />

Mi sbaglio o recentemente lei ha riflettuto sul comunismo?<br />

Sì, ho scritto un "Dialogo sul comunismo". La riflessione<br />

è riferita ad un comunismo particolare,<br />

un comunismo della verità, non è il comunismo<br />

rozzo della condivisione e della soddisfazione dei<br />

bisogni. E’ quello in cui in comune sono messe le<br />

cose; è un comunismo dello spirito. Io credo che si<br />

dovrebbe ripristinare il vecchio esercizio spirituale,<br />

l’esercizio della filosofia come nell’età ellenistica.<br />

C’è contemporaneità fra l’età ellenistica e la<br />

nostra. L’esercizio e la disciplina della mente sono<br />

essenziali sul piano del pensare, non solo su quello<br />

dell’essere. Io preferisco il pensiero. Anzi, l’essere<br />

mi fa schifo... ontologicamente parlando. Il pensare<br />

non solo mi diletta, e io credo che sia un’ipotetica<br />

bilancia sulla quale possiamo buttare qualcosa<br />

a favore di questa specie immonda che siamo. Credo<br />

in questo congegno, in questa misteriosa faccenda<br />

che è, infine, il pensare. C’è bisogno di una<br />

disciplina che non proviene dalla pratica, ma dal<br />

teorizzare. È intrinseca al fatto di come vivere meglio<br />

per poter pensare, non come pensare per poter<br />

vivere meglio... Come pensare meglio, questo è<br />

il mio problema.


C’è dolore quando si esce dal pensiero e si entra nella<br />

pratica quotidiana?<br />

Io credo che si possa vivere come un chierico nel<br />

mondo, quasi senza esserci; quindi non c’è lacerazione,<br />

non c’è dolore. Credo anzi che si possano<br />

raggiungere spazi di gioia, riuscendo a disciplinare<br />

il pensare, a vedere in atto questa trasformazione<br />

delle cose in idee, che fu appannaggio di<br />

tutti i filosofi nell’età d’oro della filosofia. Era<br />

l’epoca in cui la meraviglia di trasformare le cose<br />

in idee era ugualmente il loro godimento.<br />

Recentemente ho letto il libro di Kupfer "L’esperienza<br />

come arte", dove si legge un capitolo dedicato all’estetica<br />

della violenza, come un aspetto che connota il<br />

nostro secolo. La violenza, secondo lui, non si produce<br />

più a causa dell’emarginazione, ma si produce perché<br />

questa società non garantisce e non favorisce più la<br />

possibilità di intrattenere relazioni estetiche con il<br />

prossimo e con il mondo. L’isolamento, non quello dell’intellettuale,<br />

ma della gente comune, genera violenza,<br />

che ormai è gratuita, senza più nemico...<br />

Innanzitutto il nemico è l’altro, la sordità dell’altro.<br />

L’altro è sordo non perché lo è diventato, ma<br />

perché noi siamo in una situazione di maggiore<br />

consapevolezza e dunque di maggiore richiesta.<br />

Quindi l’altro, allorquando la porta non si apre,<br />

cerca di sfondarla, di spaccare tutto. La violenza è<br />

un modo, oggi, di attestare che l’altro c’è, ma at-


traverso un’inversione del rapporto classico che ci<br />

attestava l’altro con l’amore. La violenza è questo<br />

capovolgimento che è richiesto dal capovolgimento<br />

delle cose, cioè dal fatto che l’altro, il nostro<br />

prossimo, oggi, è distante. Chissà quanto grande è<br />

questa distanza! Io credo che la violenza sia proprio<br />

dovuta all’aumentata consapevolezza della<br />

sordità che c’è nell’essere altro... ed io nell’essere<br />

altro da lui. Sono elementi che prevalgono in questa<br />

nostra società: come l’esagitazione del coito,<br />

che nel momento dello spasimo ci accerta che noi<br />

abbiamo un rapporto con l’altro, quando l’altro<br />

grida, c’è, e io penso: "sono con uno, sono con l’altro".<br />

Il grido, il mugolio, te l’accerta. Ecco, la violenza<br />

è l’estremo punto a cui giunge chi, quando<br />

bussa dolcemente, non gli si spalanca nulla. Allora<br />

insiste sempre più forte. Al termine dell’atto, c’è<br />

l’altro.<br />

La bellezza è l’attesa, l’attesa dell’altro, di poterlo contemplare?<br />

Io credo che l’attesa, la pazienza, è una lunga linea<br />

che in tempi come questi si vuole accorciare. L’attesa<br />

è deliziosa, si può godere dell’attesa. I nostri,<br />

non sono tempi di attesa.<br />

- - -


Professore, quando nasce il suo amore per la filosofia?<br />

Già all'età di nove anni avverto un amore dissennato<br />

per qualcosa che non conoscevo. M'incapriccio<br />

del mistero che rappresentava la parola 'filosofia',<br />

in una Lentini di tanti anni fa. Scopro che<br />

facevo già filosofia senza saperlo, che dentro di me<br />

vi era un fuoco che bruciava, come in quella splendida<br />

immagine in cui S. Tommaso equipara l'inferno<br />

ad un luogo in cui l'uomo brucia alla semplice<br />

visione del fuoco.<br />

E poi, cosa succede?<br />

Prendo i primi contatti con l'Università e conosco<br />

un professore che parlava, con un ridicolo accento<br />

napoletano, dell'Uno di Plotino. Ne avverto l'assurdità,<br />

di natura estetica! Da giovani certe cose<br />

urtano con la propria sensibilità, per una mancanza<br />

di eleganza interna.<br />

Naturalmente, la filosofia è un'altra cosa!<br />

Ritengo che bisogna tornare al concetto di "natura<br />

filosofica", una disposizione misteriosa a filosofare,<br />

che non vuole essere spiegata, e che ci porta<br />

continuamente a trasformare il problema di ordine<br />

generale in particolare e viceversa. Allora bisogna<br />

lottare per raggiungere un equilibrio all'interno di<br />

questo tramutarsi delle cose nelle loro ombre, nelle<br />

idee.


Quando ha iniziato a scrivere?<br />

Avevo già circa vent'anni e pubblicavo degli articoli<br />

dai temi forti, su una rivista romana, diretta<br />

da Vittorio Chiaromonte e Ignazio Silone, "Tempo<br />

presente", che tra l'altro pagava piuttosto bene,<br />

per quei tempi, mi davano 20.000 lire a colonna,<br />

poi sono passato ai saggi e...<br />

Ha mai percepito la dimensione siciliana come un limite,<br />

anche solo geografico?<br />

No, noi siamo isolati per il fatto che riteniamo di<br />

esserlo e condividiamo una sensazione che ci tramandano,<br />

che viene ben prima del reale isolamento.<br />

Mi racconta com'è avvenuto il suo incontro con la musica<br />

e con <strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong>?<br />

È stato, come spesso accade, un caso. Ci fu commissionata<br />

un'opera dalla Regione Siciliana: "Il<br />

cavaliere dell'intelletto". <strong>Franco</strong> fece le musiche ed<br />

io scrissi il libretto in pochissimo; una nuova febbre,<br />

una nuova malattia. Abbiamo fatto 28 recite,<br />

in diverse parti d'Italia. Poi gli proposi un disco di<br />

musica pop e lui volle musicare tali e quali alcuni<br />

miei testi, che riconosco erano un po' difficoltosi,<br />

così nacque il CD "L'ombrello e la macchina da<br />

cucire", al quale fecero seguito alcuni altri, cui ho<br />

contribuito anche con la mia voce "truce".


Questo episodio mi ricorda una sua frase: "getta la vita<br />

lontano da te e va a riprenderla"….<br />

Sì, accade quando la disperazione dell'uomo diventa<br />

tale che si tramuta in senso dell'avventura, in<br />

una gioia dionisiaca, e cerca un obiettivo sempre<br />

più lontano. È la saggezza dei tempi in cui il soggetto<br />

è solo, e la società è 'dissocietà'.<br />

- - -<br />

"Tibie, rotule, pezzi di teschio dei nostri vecchi greci,<br />

che quasi affioravano nelle campagne e che raccoglievo<br />

per magari lanciarle a un amichetto, come fossero ciottoli".<br />

Un gioco in qualche modo iniziatico, "perché quei<br />

greci di cui poi avrei letto sui manuali di storia antica<br />

(e rammento bene del mio conterraneo Gorgia, nato a<br />

Lentini, un centro che oggi è soltanto uno snodo ferroviario<br />

per Siracusa), io li avevo tenuti in mano. Come<br />

se fossero stati gli eventi della vita, prima d'ogni<br />

altra cosa, a scaraventarmi addosso il passato, con<br />

un'aura di remota nobiltà".<br />

Vien da pensare che gigioneggi con la propria reputazione<br />

di profeta della catastrofe e di funebre distillatore<br />

di concetti "cattivi per scelta", Sgalambro, quando<br />

comincia a introdurti così all'idea di vacanze. E se<br />

richiami alla mente alcune sentenze per le quali va celebre<br />

(del tipo: "L'idea eterna dell'uomo è il suo stesso<br />

cadavere"), ti sembra che tramandare simili avventure


da predestinato, con l'immagine di lui bambino intento<br />

a rovistar tra le ossa dentro il paesaggio calcinato e<br />

senz'ombre della Sicilia, scolpisca con tocchi un po'<br />

troppo furbi e di maniera un autoritratto già di per sé<br />

duro e spigoloso. Invece è dannatamente diretto e disinvolto,<br />

il filosofo. Sia che ripercorra le stagioni dell'infanzia,<br />

sia che focalizzi estati più vicine. Se<br />

chiacchiera ad esempio di Taormina, meta di periodiche<br />

fughe dall'estenuante scirocco di Catania, un ghigno<br />

di disgusto gli si incide subito nel volto.<br />

Può venire voglia di suicidarsi, a Taormina. Come<br />

tanti altri luoghi da vacanza, è un paese trastullo,<br />

una finzione che dovrebbe far divertire, propiziare<br />

sorrisi e muscoli distesi. Ma a me, anziché sentirvi<br />

alitare uno spirito di giocondità e cogliervi un<br />

momentaneo sospendersi delle cose di ogni giorno,<br />

ha sempre dato un senso di malinconia di cui<br />

mi arrabbio. Per un uomo che cerca emozioni concettuali<br />

più che quelle del colore, gli aspetti della<br />

gioia sono differenti. E comunque mi disturba la<br />

stasi, quand'anche riesca a prodursi. Mi dà fastidio<br />

ogni interruzione del mio iter quotidiano, che è<br />

quello di uno che vorrebbe tramutare tutto passandolo<br />

attraverso questo medium riflettente... in<br />

realtà questi sono dei non luoghi, delle arlecchinate,<br />

un po' costa azzurra e un po' Sicilia, un po'<br />

Svizzera e un po' America... ed è forse proprio<br />

questa loro artificiosità a farvi aleggiare una rarefatta<br />

e insopportabile malinconia. Taormina fa<br />

parte di quegli approdi glorificati da una mitologia


che i tempi hanno reso burlesca: quando nel secolo<br />

scorso i pionieri del grand tour cominciarono a<br />

mettervi piede, lo facevano con un atteggiamento<br />

di sacralità che proveniva da ben altre cose che<br />

dalla voglia di svagarsi. Una voglia che nasconde<br />

un alibi, per assentarsi da se stessi. Ecco: dopo l'era<br />

in cui "i morsi della fame distraevano dai morsi<br />

della vita", siamo all'era del superfluo e dunque<br />

del divertimento collettivo obbligatorio. Vorremmo<br />

che si abolisse per legge qualsiasi divertimento.<br />

Vorremmo affidare alla noia questa marmaglia.<br />

Non resisterebbe ventiquattr'ore.<br />

Fedele al suo pessimismo aristocratico, continua a mutuare<br />

l'ottocentesca previsione di Villiers de l'Isle Adam:<br />

"Vivere? I nostri servi lo faranno in vece nostra".<br />

Ossia: vivere per vivere è un fatto servile, solo vivere<br />

per conoscere può esser ancora desiderabile. Un'avventura,<br />

il sublime solipsismo del "pensiero che pensa se<br />

stesso", che gli è toccata con l'evidenza di una folgorazione<br />

quando aveva vent'anni. D'estate. Nei pressi di<br />

Lentini.<br />

Era il 1943. Gli alleati avevano appena liberato la<br />

Sicilia e in qualche modo si ripristinavano le vie di<br />

comunicazione con il resto dell'Italia meridionale.<br />

In punti insoliti della costa arrivavano barche cariche<br />

di tutto: pasta, salumi, stoffe, a volte persino<br />

libri. Ero presente a uno di questi sbarchi, e ricordo<br />

il passar di mano di due volumi di Schopenhauer,<br />

editi da Laterza: Il mondo come volontà e


appresentazione. Li comprai, e fu un incontro decisivo.<br />

La gioia che mi prese, nelle settimane che<br />

seguirono, fu ineffabile. Leggevo, smozzicavo, cercavo<br />

di capire. Fu una vera vacanza dello spirito,<br />

anche se il mio non era adeguatamente esercitato,<br />

allora.<br />

Dunque: l'azione della mente come unico piacere. E l'escursione<br />

dentro se stessi come il solo "turismo" che valga<br />

la pena di tentare.<br />

A quest'idea mi ci abituai sin da quando ero piccolissimo;<br />

ricordo alcune uscite di mio padre e mia<br />

madre, per un pranzo o un concerto a Catania. Da<br />

casa nostra erano ventisette chilometri, un'inezia.<br />

Eppure la nonna se ne lamentava ogni volta, quasi<br />

che partissero per un altro pianeta: 'Oh, li pazzi, li<br />

pazzi'. Le pareva inconcepibile. Quelle serate mi<br />

lasciarono la sensazione che viaggiare fosse follia<br />

e che restar fermi fosse quindi il miglior modo di<br />

muoversi.<br />

Fermo nel suo studio di Lentini o all'ombra dell'agrumeto<br />

che il padre, farmacista, seguiva con l'ansia di<br />

una nutrice: così fino a 39 anni, quando il filosofo s'è<br />

sposato, dopo essersi regalato un'interminabile adolescenza.<br />

Fermo anche d'estate, a parte qualche corsa a<br />

Taormina o qualche passeggiata sull'Etna.<br />

Il vulcano mi piace, dà l'impressione della catastrofe<br />

che incombe. Fa sentir ripristinati terrori


primordiali. Riaccende vecchi rapporti con l'ambiente.<br />

Parla più per immagini che per concetti: il<br />

fruscio del vento tra gli alberi è forse un colloquio<br />

fra gli dei, il bagliore di un'eruzione una danza di<br />

folgori... il giallo dello zolfo, il nero della lava fusa...<br />

mi piace.<br />

- - -<br />

Finché si dubita, finché l'esercizio del dubbio si<br />

compiace di sé ed è fine a se stesso, si fa un esercizio<br />

che non è filosofico. Vengono di qui tutti i debolismi.<br />

Concetto, questo, che a molti accademici - analitici, continentali<br />

e insulari - non lo rendono simpatico. Disposizione<br />

d'animo, del resto, amorevolmente ricambiata:<br />

A Catania, mi dicono, non sono più di sessanta gli<br />

studenti iscritti al corso di laurea in filosofia, a<br />

petto del migliaio di scienze della comunicazione,<br />

della formazione, o che so io... Bene, ciò dimostra<br />

che non c'è filosofia nell'istituzione. La filosofia<br />

nasce dall'urto delle cose.<br />

- - -


Allora, com'è che un filosofo serio come lei si è trovato a<br />

scrivere canzoni?<br />

Bisogna vivere tutte le vite possibili. Una volta<br />

bastava concentrarsi sulle opere, nell'illusione che<br />

qualcosa potesse rimanere. Il filosofo, per esempio,<br />

non doveva far altro che pensare; oggi non è più<br />

così. Sto vivendo una seconda vita da quando, per<br />

caso, sono entrato in un nuovo reparto di cose.<br />

Salgo sul palcoscenico, ho il cachet di coloro che<br />

calcano il palcoscenico, ultimamente ho anche<br />

cantato. L'occasione è tutto. Scrivere un libro e<br />

pubblicarlo che merito è? Il caso, la concatenazione<br />

delle circostanze, l'imponderabile fanno sì<br />

che si diventi qualcosa anziché un'altra.<br />

Io sono pronto ad ogni evenienza, ad ogni nuova partenza:<br />

un viaggiatore che non sa dove sta andando...".<br />

Sono versi suoi. Anche questi: "La gente vive senza più<br />

testa, la specie è in mutazione. E non sappiamo dove<br />

stiamo andando.... come pessimismo non c'è male.<br />

Per forza, nella storia del nostro occidente si è assistito<br />

a una ricorrente mortificazione dell'intelligenza,<br />

a quei momenti in cui 'lo spirito si riposa'.<br />

Questo che stiamo vivendo lo è in maniera assai<br />

più evidente. È terribile, ma nello stesso tempo affascinante.<br />

Qualche anno fa, quand' ero giovane,<br />

regnava una stupidità che potremmo definire<br />

dell'intellettuale di provincia, quella del farmacista<br />

o del professore o dello studente che fa la guerra


alla borghesia. Oggi la stupidità è una sorta di nirvana,<br />

un cullante nulla per poveri.<br />

Forse c'è una specularità fra questo nulla e il pensiero<br />

di coloro i quali dovrebbero colmare questo vuoto.<br />

Già, ma non possiamo alzarci sulle grucce. Il fatto<br />

è che, oggi, siamo consapevoli che la grandezza<br />

dei grandi che ci hanno preceduti era una grandezza<br />

presunta. Nella memoria storica li ritroviamo<br />

uomini come noi. Si è sempre meno consapevoli<br />

che le cose che facciamo siano destinate a rimanere.<br />

Un tempo si diceva: 'Io muoio, ma questa<br />

mia opera resterà'. Oggi sappiamo che non rimane<br />

niente. Per questo bisogna vivere quante più vite<br />

possibili. La vocalità non ha la sua unica espressione<br />

nel canto, ma anche nel pronunciare, nel dire;<br />

un dire sostenuto da una voce espressiva.<br />

Eppure, lei è il filosofo sostenitore del "pensiero che<br />

pensa se stesso", l'autore di libri che non hanno come obiettivo<br />

primario quello di comunicare. Come fa, il<br />

pubblico, a entrare in sintonia?<br />

Quando parlo su un palcoscenico, penso. Il pubblico<br />

segue l'atto mio del pensare, che è sincero e reale.<br />

Del resto, se bleffassi, se fingessi, se ne accorgerebbe<br />

e mi massacrerebbe. Io sto pensando e il<br />

mio pensiero in quel momento non ha scopi, non<br />

ha obiettivi, esprime la sonorità del pensiero stesso.<br />

Ecco dov'è la differenza tra l'espressione e la


comunicazione. Si comunica anche con un rutto, il<br />

fatto espressivo invece è un'altra cosa. Nella<br />

Scienza della logica di Hegel vi sono pagine di<br />

pura melodia. Un po' come ho inteso fare con le<br />

mie poesie su Nietzsche. Mi è capitato, a proposito<br />

di Karl Kraus, di rintracciare un documentario<br />

degli anni trenta: traumatizzante. Le voci di Kraus<br />

e di Hitler sono la stessa cosa. Hitler usava un<br />

microfono più potente del Geloso di cui si serviva<br />

Mussolini. Il risultato era che la sua voce, i suoi<br />

timbri s'imponevano in modo terribile. Kraus usava<br />

lo stesso microfono e, per raggiungere il più<br />

vasto pubblico possibile, impostava la voce allo<br />

stesso modo del suo peggiore nemico. Dico questo<br />

per dimostrare quanto sia importante la vocalità.<br />

Oggi, per fortuna, gli stadi vengono riempiti dai<br />

cantanti.<br />

Per fortuna<br />

Certamente. Ma è un fatto che i leader politici di<br />

oggi non hanno più vocalità. Occupano uno spazio<br />

linguistico misero nell'illusione di comunicare meglio.<br />

Mancano di timbro, di una vera vocalità, della<br />

giusta retorica che alla fine bisogna pur avere.<br />

I grandi matematici non disdegnano la bellezza<br />

estetica dei loro calcoli. Anche la matematica risponde<br />

a criteri di bellezza. I politici oggi credono<br />

di comunicare meglio attraverso una lingua sciatta.<br />

Per questo il rilancio della sonorità del dire,<br />

della vocalità espressiva è lasciato aperto e in futu-


o non riguarderà soltanto i cantanti. Non faccio<br />

l'indovino, ma questo avverrà. Il dire tragico non<br />

raccoglie più folle, ma il bisogno del dire rimane.<br />

- - -<br />

Lei si definisce uno fra i rari epigoni di Schopenhauer,<br />

ma con <strong>Battiato</strong> non disdegna la mondanità e il successo.<br />

Questa collaborazione è interessante, oltre che per<br />

l'aspetto economico (non trascurabile), per quello<br />

culturale, lo spiego in Teoria della canzone (Bompiani,<br />

1997). Il conflitto fra le lingue e fra le età,<br />

ma già l'intelligenza, il gusto, il talento, la bellezza,<br />

la forza, la ricchezza interiore: è lo scomparire<br />

di queste dannate disparità che inseguo. Il fatto<br />

che io 'pensi' mi sembra debba offendere anche più<br />

della ricchezza. Ma vedo che, a differenza della<br />

fanciullezza, dell'adolescenza e della maturità, che<br />

sono in balia del mondo della vita, nella vecchiaia<br />

tutto è compiuto e perciò perfetto: come dico nel<br />

Trattato dell'età (Adelphi, 1999) in essa ci si congeda<br />

dal tempo dell'io, cioè il tempo del desiderio, e<br />

senza l'ansia della riproduzione c'è il vero eros, il<br />

trasalimento. L'apice dell'amore è nella conoscenza<br />

del tempo dei tempi, in cui amore e morte<br />

si abbracciano senza fraintendimenti.<br />

Diceva che scrive all'interno di una precisa tradizione


filosofica e terminologica, quella occidentale. E che<br />

caratteristica di questa è l'essersi costruita intorno<br />

all'idea di inizio.<br />

Sì (forse tutte le culture lo hanno fatto, ma noi ci<br />

occupiamo di quella occidentale). Effettivamente<br />

la nostra cultura è basata sul concetto di inizio. Il<br />

problema è che noi non solo 'traiamo' certezze, ma<br />

abbiamo anche certezze logiche. Il nostro sistema<br />

solare è quello che io definisco l'orizzonte teorico,<br />

da cui si può effettivamente anticipare (La morte<br />

del sole, Adelphi, 1982). Cioè, noi abbiamo con l'inizio<br />

un rapporto di contemporaneità. Per altro verso<br />

anche tra la fine e noi vi può essere un rapporto<br />

di contemporaneità: purché noi facciamo quella<br />

che Kant chiamava un' 'anticipazione della percezione'.<br />

E ci regoliamo fin d'adesso sulla sua base.<br />

Cioè, perché mai di un dio che ha creato il mondo<br />

ex-nihilo, o di un inizio in illo tempore noi facciamo<br />

culto, attorno ci accasiamo, abbiamo fatto unità<br />

attorno all'inizio. E in un momento in cui vediamo<br />

profilarsi più chiaramente la fine di tutto questo,<br />

non riusciamo ad accasarci attorno all'idea di fine -<br />

non all'idea di fine individuale, ma di fine cosmica<br />

- cioè non riusciamo ad avere il senso (che ci dev'essere<br />

dato, fin dall'inizio effettivo e produttivo,<br />

non una misera trovata, anche se la scienza ce lo<br />

mostra, come può), non riusciamo ad avere l'anticipazione<br />

della contemporaneità, il sentimento<br />

della contemporaneità. Questo potrebbe avere un<br />

rilievo quasi simile a quel sentimento di con-


temporaneità con Dio che ha un Kierkegaard. Con<br />

questo sentimento avremmo un bandolo per regolare<br />

i nostri rapporti, stabiliremmo meglio quella<br />

compassione che nel pessimismo classico rimane<br />

senza una base reale - senza quell'unità di tutti che<br />

sempre è presente nelle teorie iniziatrici, nelle riflessioni<br />

che si fanno sull'inizio da cui tutto deriva<br />

per poi moltiplicarsi? E allora il punto è questo,<br />

niente fondamentalismi, almeno per quanto mi<br />

riguarda, niente riflessioni religiose, ma una filosofia<br />

che per esempio s'instaura severamente in un<br />

Kant, prosegue con Hegel, più in là con Schopenhauer<br />

- e che poi si ferma, miseramente strattonata<br />

in un Heidegger.<br />

E Nietzsche?<br />

Nietzsche rimane in tutto ciò colui che ha mandato<br />

tutto all'aria, diciamo così... io ho pubblicato<br />

delle poesie su Nietzsche (Nietzsche, Bompiani,<br />

1998), non quindi in parole che certo corrono qua<br />

e là nei miei scritti, ma in una forma che con un<br />

po' di buona volontà si può chiamare poesia.<br />

Il rapporto della poesia, dunque, con questa sua filosofia<br />

dell'empietà, coerente pessimismo - con una poesia<br />

che in quanto tale deve render conto dei 5 sensi (come si<br />

è detto a Modena i giorni scorsi), la nostra appartenenza<br />

al sistema solare - in De mundo pessimo, (Adelphi,<br />

2005) mi hanno sorpreso i suoi accenni alla "benevolenza"<br />

con cui il sole conferirebbe vitalità agli esseri,


ecc. E la contraddizione essenziale della poesia di oggi<br />

è forse il dover render conto delle emozioni di appartenenza<br />

al sistema solare, e una verità che sempre di più<br />

si fa strada anche nel senso comune della gente - per cui<br />

la sua filosofia non risulta così strana o "pericolosa"...<br />

Dunque: poesia e senso comune della "fine del mondo".<br />

Vorrei cominciare con una precisazione. La filosofia<br />

più nobile ha proseguito con termini come<br />

'essere', che a me non dà affatto i brividi - me li dà<br />

invece lo scoperchiarli e trovare quella molteplicità<br />

di enti che lo costituiscono. Parlando di sistema<br />

solare voglio approcciarmi meglio alla realtà, di<br />

qualcuno che dice 'essere' a qualcosa... qualcosa<br />

che in qualche modo mi cozza contro, non posso<br />

maneggiarlo come un facitore di concetti (e noi<br />

dobbiamo frequentare concetti, null'altro possiamo).<br />

Cosicché a me risulta più 'solido' parlare degli<br />

enti piuttosto che degli esseri. Quanto al modo<br />

di parlarne, ci può essere quello di una poesia 'impoetica'<br />

- c'è una mia poesia, Opus postumissimum<br />

(dove parlo di Kant in definitiva) dove la parola si<br />

rompe spesso - non nel senso della (defunta) avanguardia<br />

italiana o tedesca, ma nel senso dell'immagine<br />

che vuole seguire da vicino il disfarsi di<br />

Kant, il disfarsi del suo cervello, e posso farlo solo<br />

in questa 'impoesia'. L'altra domanda connessa?<br />

Che questa consapevolezza della fine, specialmente dopo<br />

il settembre 2001 e tutto ciò che ne è seguito, diventa<br />

sempre più comune.


E perché no? Lasciamola diventare più comune,<br />

vediamo che frutto possiamo cavarne. Dagli accasamenti<br />

attorno all'idea di inizio non possiamo più<br />

derivarne nulla. Non un dio ci può salvare e non<br />

c'è niente da salvare, in questo mondo che non è<br />

altro che un principio autodistruttivo giorno dopo<br />

giorno - non il 'divenire': il concetto hegeliano di<br />

divenire impallidisce di fronte a quello che in realtà<br />

avviene, e non soltanto nel mondo umano. Questo<br />

è il rovesciamento - pur nel rispetto della<br />

terminologia - che vale più che una storia della filosofia<br />

(dove si vedono muoversi uomini, professori,<br />

cosacce). Nella vera terminologia filosofica<br />

invece si respira aria pura, attraverso di essa si vedono<br />

muoversi cose.<br />

Quello che non mi convince completamente nella sua<br />

presentazione è quando lei parla appunto di questi "enti"<br />

del sistema solare come apsuchon, "senz'anima".<br />

È un'eredità che ricevo dalla Filosofia della natura<br />

di Hegel, mentre trovo che la filosofia di Goethe e<br />

di Schopenhauer la fa sembrare grama, asfittica.<br />

In un punto lei dice che "percepisce" la musica delle sfere.<br />

Musica come rumore di un macchinario, non neoplatoniche<br />

melodie.


Mah. E poi su Spinoza: al posto dell'equazione libertànecessità,<br />

lei pone una "contro-finalità" a questo dio<br />

"distruttore, smisurato e annientante", va bene. Ma da<br />

dove le viene questa "superbia" di credersi "superiore a<br />

dio" perché capace di pensarlo (lo stesso pensare di pensare<br />

non è che semplice pensiero, dico in una mia poesia)<br />

- mentre Spinoza, pur avendolo pensato, non se ne<br />

sarebbe accorto? È un punto molto bello di discussione,<br />

credo.<br />

Avremmo bisogno di giorni e giorni... Certo, come<br />

lei sa, un pensiero tenta di difendersi anzitutto<br />

chiudendosi dentro quello che è il suo modo proprio,<br />

e tutto quello che pesca chiuderlo entro qualcosa.<br />

In questo senso - sistema no, perché il sistema<br />

è impossibile, ma - il sistema è come una<br />

scia che tutte queste cose che uno si porta dietro<br />

fanno, e allora se uno ogni tanto la guarda questa<br />

scia, e dice 'ma guarda, la scia che stanno lasciando<br />

i miei problemi', allora forse può ricompattarle,<br />

darne un senso, i rapporti che hanno l'uno con l'altro.<br />

Questo senso di spezzato, di torsi, come quando<br />

si va in un museo e si vedono torsi di statue, o<br />

pezzi, mani, la testa di uno, di un altro il busto –<br />

tutto questo senso del rimasto, è così che io trascino<br />

i miei problemi, ma non come qualcosa di<br />

assemblato in anticipo, bensì come qualcosa che si<br />

va accumulando sotto un rastrello, fino a costituire<br />

una massa... Che cosa sono queste cose, hanno<br />

un filo conduttore?


La filosofia occidentale legata all'idea di inizio (Cacciari<br />

ci ha scritto un libro, anche se ora ha scritto l'altro,<br />

il termine ad quem, cioè il fine, "toccare il dio").<br />

Ma tutto questo non condiziona forse anche la sua idea<br />

di "morte in comune", questa necessità escatologica, la<br />

"comunità dei morenti"...<br />

Io la intenderei come emozione comune, più che<br />

come una comunità 'predisposta' in un qualche dio<br />

- cioè una comunità 'accidentale', nel senso che<br />

tutti gli uomini hanno delle causalità, ma un punto<br />

ci consente di avere un'emozione comune, quella<br />

che tutti finiremo, in particolare - non m'interessa<br />

di quelli che moriranno fra duemila anni - tutti<br />

quelli che vivono in questo scorcio di tempo, i miei<br />

contemporanei appunto, e che quindi possono<br />

essere tutti - tutti è un termine da barbiere - 'tutti'<br />

possono comunque, avere lo stesso senso della fine...<br />

Noi possiamo ammirare non il grande essere<br />

del mondo, ma il fatto che questo si distrugge. Se<br />

noi consultiamo per esempio un buon numero di<br />

cosmologie che - al posto della metafisica, che ha<br />

dato le dimissioni - tramite grandi matematiche,<br />

sono tentativi di dare delle risposte, congetturali<br />

certo, a domande che hanno per oggetto non il<br />

tutto, ma enti specifici (non fanno come la filosofia,<br />

che parla dell'essere, termine popolare ormai,<br />

dopo la vulgata heideggeriana o severiniana,<br />

non certo aristocratico) - la scienza parla degli<br />

enti, che fanno un aggregato, non un tutto come<br />

se fosse organico, un coacervo di enti, e allora qui,


diciamo, uno s'avvede come la scelta filosofica possa<br />

addentrarsi negli anfratti, nei punti o interstizi<br />

di questo aggregato di enti.<br />

La parola "aggregato" mi spinge a farle un'altra domanda:<br />

anche il buddhismo parla di aggregati, ed è tra<br />

le poche visioni che non ricorre all'idea di inizio. Inoltre,<br />

il suo "sapere beato, in cui tutto sarà dato in una<br />

sola volta, sopraggiungendo in quell'istante da chissà<br />

dove al ramo rinsecchito, che dopo la rinunzia più non<br />

germoglia" mi ricorda le inevitabili "citazioni" orientali<br />

del pessimismo occidentale (Schopenhauer). Pensi<br />

al sat-chit-ananda ("esser-coscienza-beata"), paradigma<br />

vedantico che passa anche al buddhismo.<br />

Come le dicevo, io penso nella terminologia filosofica<br />

occidentale. Lo scandalo filosofico del novecento<br />

è quello di teorie micidiali che sono state<br />

fatte da filosofi come Heidegger, il cui scandalo è<br />

che lui non se ne sia scandalizzato, ma abbia mascherato<br />

il suo tentennamento (in modo da lasciare<br />

ai posteri l'interpretazione della sua opera omnia)<br />

era un uomo che non aveva un grande coraggio<br />

personale, come testimoniano alcune lettere alle<br />

sue allieve amanti (la moglie era sempre presente,<br />

perciò lui doveva esporre delle pezze, dei segnali<br />

per dire 'si può-non si può') - la verità accademica,<br />

che forse è meno dannosa nelle discipline farmacologiche,<br />

la verità accademica filosofica è che<br />

l'università deve formare un soggetto, un uomo<br />

come entità preconfezionata, un cittadino che vive


in una società di cui condivide il principio fondamentale<br />

- mentre il filosofo dovrebbe essere<br />

quello che esprime i dubbi, almeno così ce lo presentava<br />

la filosofia moderna - e questo non significa<br />

esporre il dubbio per cinque secondi ai propri<br />

studenti, significa macerare, magari non nell'ambito<br />

del proprio vissuto, ma nell'ambito del proprio<br />

fare filosofico. Un buon filosofo non espone i<br />

suoi dubbi, ma scrive quando in un modo o nell'altro<br />

crede di averli superati, di non averli più. Oggi<br />

un filosofo deve osare, andare dove lo porta la sua<br />

testa, la sua educazione filosofica, il suo principio,<br />

la sua visione di che cosa significa pensare - i limiti<br />

glieli devono dire gli altri, 'guarda, tu hai saltato<br />

i limiti che il Kant pose... quali delitti stai facendo',<br />

Popper, tu stai dicendo cose non-falsificabili, e<br />

quindi al di là di vero e non-vero, nel senso basso<br />

della fisica. Io sto andando, sto spaccando queste<br />

cose. Poi tu me lo vieti, mi dimostri che con queste<br />

cose che ho spaccato ho disubbidito alla dea.<br />

Quindi ritiene che Emanuele Severino, ad esempio,<br />

questo non lo faccia.<br />

Lo riterrei come ogni filosofo che appartiene all'università<br />

- io mi sono sempre tenuto lontano<br />

dall'università per tenermi, almeno consapevolmente,<br />

lontano da qualcosa che avrebbe agito in<br />

me - l'ho scritto lì, in Della filosofia geniale (postfazione<br />

a La filosofia dell'università di Schopenhauer,<br />

pubblicata da Adelphi tempo fa) - cioè dalla


condivisione di una filosofia generale che ammorba<br />

tutte le filosofie particolari che poi si possono<br />

avere al suo interno. Per forza. Perché la filosofia<br />

non è un progetto di adaequatio del pensiero alla<br />

realtà (abbiamo oltrepassato questo concetto di<br />

verità), è il contro semmai, l'esibire il contro - non<br />

nel senso che l'universo ci sia avverso perché ha una<br />

mente diabolica, ma è un fatto nel suo complesso,<br />

perché esiste e ci opprime, se ne capisci la<br />

grandezza - non l'infinità - ma la smisuratezza.<br />

I nostri cattedratici hanno dovuto eliminare documentazione<br />

su Heidegger tacciandola di propaganda.<br />

Se Heidegger si fosse assunto le sue colpe, dicendo<br />

'sì, io ho commesso gli errori del mio tempo, sono<br />

stato così più capace di voi di capire l'errore, il<br />

male' - difficilmente si può parlare del male se non<br />

si è fatto o subito. I cattedratici forse l'unico male<br />

che hanno subito è quello che faceva dire ad Adorno,<br />

donnaiuolo squisito, che se avesse dovuto<br />

rinascere gli sarebbe piaciuto rinascere playboy.<br />

Torniamo al suo rapporto con questo ambiente, con<br />

Catania e la Sicilia.<br />

Per quanto ne sono consapevole - e di questo solo<br />

rispondo, non delle cose cosiddette inconsce, che<br />

non mi picco d'indagare - non ho 'rapporti', è piuttosto<br />

l'estensione della mia pelle. Mi sono un po'<br />

rivoltato ultimamente contro quei catanesi che


hanno votato nelle ultime elezioni per quello che<br />

hanno già toccato, cioè una politica basata sui<br />

cessi, una 'plebaglia', com'ebbi a dire in un'intervista<br />

che ha suscitato un po' di rumore, e per cui<br />

anche <strong>Battiato</strong> ha deciso di andarsene, ed è stato<br />

perdonato dal sindaco, ma io no, sono ancora imperdonato.<br />

Comunque, certo, quando atterro all'aeroporto<br />

dopo un viaggio, sento piacere, un piacere<br />

naturale, poi tutto finisce, io praticamente vivo<br />

in me stesso in rapporto a questi rumori, mi piace<br />

abitare in questi punti di rumore, fracassi - gli<br />

alberi non li sopporterei. Ho scritto qualcosa sulla<br />

Sicilia. Ma quanto al vivere qui, devo dire che mi<br />

trovo bene, ho un collegamento immediato, da<br />

ragazzino vivevo a Lentini dov'ero nato - non c'erano<br />

i giardini che avrebbero sostituito le pensioncine<br />

- mio padre era farmacista, mio zio avvocato e<br />

aveva delle campagne, dove ogni tanto andavamo.<br />

Ricchissima terra, dove poi ci sono stati ritrovamenti<br />

archeologici, e così mi sono trovato a giocare<br />

con le ossa - dei greci, dei graeculi, di tutti<br />

quelli che vi avevano abitato o comunque erano<br />

passati da lì (si ritrova in un mio poemetto...) ebbene,<br />

mi trovavo bene, mi ci trovo bene in mezzo,<br />

io non sono portato a scrivere osservazioni... ho<br />

scritto della differenza del vivere in società e in<br />

politica... mi sono trovato a vivere in regimi dittatoriali.<br />

Un giorno alla stazione di Lentini vedo un<br />

farmacista che conoscevo, scortato da guardie, che<br />

aveva per le mani moltissime catene, lo stavano<br />

portando al confino, perché considerato un facito-


e di disordini, uno che parlava, parlava. Ma anzi a<br />

me dà fastidio chi parla male della Sicilia, ma ne<br />

parla male perché il giudizio non è tale, è mal motivato,<br />

è piuttosto un qualcosa di non corrisposto,<br />

un risentimento.<br />

Cosa pensa della cultura popolare siciliana, come Ignazio<br />

Buttitta, rievocato in questi giorni da Fabio Monti?<br />

Buttitta non lo frequentai, ma non per scelta di<br />

antipatia, semplicemente non entrava nella mia<br />

strada. Feci un'osservazione su Sciascia che poi mi<br />

è stata da qualcuno imputata (ma altri l'apprezzarono,<br />

come il Corriere della sera), e cioè che lo<br />

scrittore che oggi voglia fare scrittura civile,<br />

diciamo nel suo orizzonte, nella sua fantasia, dovrebbe<br />

uscire da qui, dalla denuncia dei soliti problemi,<br />

la mafia ecc. - si sente la stanchezza della<br />

ripetitività di questi temi, si avverte che non sono<br />

attecchiti né a livello personale, né a livello storico,<br />

per cui reputavo Sciascia diventato una specie<br />

di burattino. Mi fa piacere che sia tornata ora una<br />

scrittura popolare, che sembrava morta e sepolta -<br />

Camilleri – mancavamo da tempo di una scrittura<br />

popolare, mediatrice, nel senso che può circolare<br />

tra milioni di persone - negli anni trenta ci fu un<br />

solo scrittore, la circolazione letteraria era circoscritta,<br />

basti pensare che il primo libro di Montale<br />

fu stampato in 250 copie, ma allora c'era una<br />

veicolazione diversa, un passaparola. Qui man-


chiamo di case editrici, a parte Sellerio, abbiamo<br />

fatto un esperimento con la De Martinis che per<br />

alcuni anni pubblicò cose di rilievo (Contro la musica,<br />

1994), ora c'è Prova d'autore (Nell'antro del<br />

filosofo, 2002) con Mario Grasso, persona molto<br />

simpatica.<br />

- - -


Almeno in una cosa Miglio ha ragione: quando<br />

invita lo stato a lasciare Palermo e i siciliani a 'vedersela<br />

tra loro'. Infatti noi abbiamo davvero bisogno<br />

d'esser messi con le spalle al muro, ormai. Di<br />

essere abbandonati a noi stessi, alla nostra cupezza<br />

e alla nostra disperazione. Solo così potremo<br />

forse trovar la forza di reagire, senza aspettare<br />

sempre i redentori che vengono da lontano. Per<br />

cui alle autorità di Roma io dico: non aiutateci più,<br />

tantomeno con l'esercito, perché altrimenti qui tra<br />

poco spirerà di nuovo aria di vespri. Non aiutateci<br />

perché abbiamo semmai bisogno di esser trattati<br />

male. Fino a quando ci sarà dato un dito, noi lo<br />

succhieremo: tutta l'isola è ancora ferma a uno<br />

stadio infantile, in una situazione amniotica, come<br />

se non fosse completamente nata. Così, lasciateci<br />

provare a nascere, non aiutateci.<br />

- - -<br />

Insomma: hanno ragione quelli che vi vorrebbero abbandonare<br />

al vostro destino?<br />

Forse bisognerebbe abbandonare la Sicilia, lo penso<br />

pure io. Rifletta su un dato: tutti i siciliani chiedono<br />

l'intervento dello stato, come se lo stato non<br />

fossero anche loro, come se un pezzo di questo<br />

stato non fosse già qui. E un altro nostro tipico atteggiamento,<br />

perché ci si appella costantemente<br />

agli altri. La realtà è che dovremmo riconoscere di


essere nelle mani di noi stessi, e di nessun altro. Il<br />

recupero di questa terra non avverrà mai attraverso<br />

l'elargizione di speranze o di parole o di elemosine.<br />

Maturerà solo quando saremo con le spalle al<br />

muro.<br />

- - -<br />

"Un progressista?". Manlio Sgalambro è piuttosto un<br />

"neoreazionario". Il feroce attacco al pensatore siciliano,<br />

noto anche per il sodalizio con il cantautore <strong>Franco</strong><br />

<strong>Battiato</strong> - per il quale ha scritto numerosi testi - viene<br />

dal decano della sociologia italiana <strong>Franco</strong> Ferrarotti.<br />

Sull'ultimo numero della rivista ‘La critica sociologica’,<br />

da lui diretta, Ferrarotti scrive - in un editoriale<br />

intitolato L'intolleranza degli illuminati - che Sgalambro<br />

sta sferrando "un attacco meditato contro la<br />

pratica e l'idea stessa di democrazia", e ne liquida<br />

sprezzantemente le opinioni – contrabbandate "come<br />

verità assolute" - definendole "scatti d'umore personali".<br />

Quindi Ferrarotti rincara la dose, rinfacciando<br />

a Sgalambro di cercare il successo propalando – attraverso<br />

uno stile che sa di "approssimazione oracolare" -<br />

gli "oscuri dettami" di un pessimismo aristocratico che<br />

liquida la democrazia in quanto "ideale illusorio". E<br />

infine gli rimprovera di aver vissuto per decenni nel<br />

seno della mafia senza aver speso una parola contro il<br />

fenomeno della criminalità organizzata. La durezza<br />

delle accuse non sembra tuttavia scomporre più di tanto


il settantunenne filosofo di Lentini, che ribatte pacatamente<br />

dicendo che Ferrarotti non sembra aver afferrato<br />

"il punto angoscioso di chi è costretto a lottare<br />

contro un modo di vivere che fa parte della sua carne:<br />

evidentemente Ferrarotti non ha capito che io sono un<br />

democratico, ma sono un democratico disperato".<br />

Perché disperato?<br />

Perché, non c'è dubbio che la democrazia è comoda.<br />

Nella democrazia io vivo bene, ma il problema<br />

per me, in quanto uomo che pensa, è che in essa è<br />

venuto a distruzione il concetto di verità. Io non<br />

sono un politico, quindi la mia è una lotta interna<br />

a me stesso: la lotta di un democratico disperato<br />

perché pensa che la democrazia, in quanto trionfo<br />

del demos, coincida con la distruzione del concetto<br />

di verità: tutto ciò che forma l'ossatura del pensiero<br />

è ridotto ad assoluta miseria. Pensare questa<br />

antitesi è una cosa angosciosa, una cosa che non si<br />

lascia affatto prendere allegramente, ma devo pensarla<br />

perché ho fatto voto alla verità, non a una<br />

forma di governo.<br />

Ma parchè la democrazia coinciderebbe con la morte<br />

della verità?<br />

Perché, da Hegel alle filosofie 'debolistiche' contemporanee<br />

si è sviluppato tutto il processo di subordinazione<br />

del pensiero alla prassi: la nostra è la<br />

società del primato assoluto della prassi. Ma si po-


trebbe addirittura affermare che il concetto di verità<br />

è morto con il trattato di Westfalia che pose<br />

fine alle guerre di religione: esso è vissuto finché<br />

un semplice contadino poteva combattere in nome<br />

di un concetto astratto come la transustanziazione;<br />

dopo, questi concetti sono stati sacrificati alla<br />

pace. Oggi la democrazia ci lascia vivere, ma ci ha<br />

tolto le motivazioni del vivere.<br />

E come risponde all'accusa di non aver detto una parola<br />

contro la mafia?<br />

Non ne ho parlato perché, in quanto uomo che<br />

pensa, la mafia non mi fa venire in mente nulla. In<br />

quanto uomo che prova delle emozioni, credo di<br />

provare le stesse emozioni che la mafia suscita in<br />

chiunque altro, e mi pare inutile ripetere ciò che<br />

tutti provano. Con il rischio di usare concetti che<br />

appaiono ormai troppo 'larghi', slabbrati, come<br />

dimostra il fatto che si arriva ad assumere l'intera<br />

Sicilia come sinonimo di mafia. Caso mai avrei<br />

qualcosa da dire sul problema del male....<br />

- - -<br />

Provocatorio e caustico, Sgalambro ha rilasciato giorni<br />

fa al Corriere un'intervista dal titolo: Sciascia addio,<br />

non servi più. Sono seguiti anatemi che hanno fatto<br />

sorridere il filosofo. Il quale precisa:


Io ho posto la questione dello scrittore civile e dei<br />

suoi temi, in questo tempo. Il punto è se lo scrittore<br />

civile e i temi che esso addita, hanno ancora<br />

un senso. O se noi dobbiamo trovare il nostro destino<br />

culturale prescindendo anzitutto da questi<br />

maestri, i quali hanno indicato solo un tema. Ipnotizzati,<br />

in questo caso, dal tema della mafia e<br />

non vedendo altro. Io parlo per quelli che fanno<br />

cultura, fissando gli stessi temi che Sciascia fissava<br />

in altro momento, quando c'erano le grandi ideologie.<br />

E allora uno poteva farle, queste incursioni.<br />

Ma oggi non abbiamo più questa nicchia ideologica<br />

e dobbiamo cercarcela. Se Sciascia trovò<br />

nella mafia la sua peste, non è detto che lo sia ancora<br />

oggi. Perciò dico all'uomo di cultura: Vuoi<br />

una peste? Cercatela! Ma che sia un tema a te congeniale<br />

e non ereditato dai grandi maestri del<br />

passato e che tu ti porti addosso!<br />

- - -<br />

Se dovessi riassumere la sua valutazione della mafia, le<br />

sembra qualcosa di schifoso questa parola, lei la usa in<br />

maniera esplicita, parla di "schifo" ma, dal punto di<br />

vista intellettuale o storico di poco significativo, di poco<br />

rilevante, di poco interessante e quindi noioso da<br />

analizzare...<br />

Direi questo anzitutto. Tutto questo fatto mi<br />

ricorda l'osservazione che Stendhal fece, a partire


da una sua teoria, che chiamava ‘della cristallizzazione’.<br />

Lui fa parlare un suo personaggio, il<br />

quale, scorgendo i due che stanno seduti accanto a<br />

lui in una carrozza, un ragazzo e una ragazza, si<br />

accorge che fra di loro c'è ‘qualcosa’. Ma, dice, non<br />

diciamola, perché altrimenti cresce, si sviluppa,<br />

diventa qualcosa a sé. Era l'amore in quel caso.<br />

L'esercizio della parola è un esercizio complesso;<br />

non è soltanto descrittivo ma è anche enfatico, dà<br />

sangue e linfa alle cose di cui ci si occupa. Direi,<br />

che la mafia è una di quelle cose che non bisogna<br />

"nominare invano”.<br />

- - -<br />

La retorica non ci serve più. Se vogliamo che l'economia<br />

mafiosa sia un'esistenza temporanea, se<br />

vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico<br />

della diabolica mafia, non possiamo stare a<br />

contemplarla come una statua immobile. A un<br />

intellettuale si chiede di combatterla in un altro<br />

modo. Il problema non è l'esistenza della mafia: è<br />

la valutazione che se ne fa. Perché c'è tutto questo?<br />

Non cade dal cielo, è un fenomeno economico<br />

ben radicato. E allora gli intellettuali producano<br />

buone opere, i birrai facciano buona birra: inutile<br />

cogitare tutti quanti di mafia, perdere tempo a<br />

parlarne. Lavorare il proprio giardino, alla Candide.<br />

Tu cancelli le ombre della mafia operando più<br />

di lei, meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo.


A te è stato dato questo lavoro, fallo bene, esplodi,<br />

fai vedere che cosa puoi fare anche qui. A noi deve<br />

importare dei ladri di passo?<br />

Allora aveva ragione Sciascia: la Sicilia è una metafora<br />

di quest'Italia un po' narcotizzata, incapace di<br />

reagire...<br />

In un certo senso. Ma non si può vivere a spese di<br />

Sciascia in continuazione. Bisogna adoperare concetti<br />

nuovi. Basta col gioco della spartizione: è<br />

mafioso o no? Domande da periodo di lotte religiose:<br />

è luterano o cattolico? In Sicilia sono arrivati<br />

anche i laici, per fortuna. Ricordo Goethe a<br />

Messina, dopo il terremoto calabro-siculo del<br />

1783: vede per la strada giovani suore che camminano<br />

altere con la pancia. La vita in loro si era risvegliata<br />

al di là dei dogmi e delle tragedie. Esibivano<br />

le loro grandi pance! Qui, la vita riesce a<br />

fare questo. Ma bisogna sprigionarla, levarla dalle<br />

gabbie della banalità.<br />

- - -<br />

Di quale classe dirigente si parla? La sola alla quale<br />

riconosco responsabilità enormi è quella intellettuale.<br />

In questi anni non si è difettato di<br />

politica, ma di idee. È mancata chiarezza, lucidità<br />

di pensieri. La politica, qui da noi, è sempre stata<br />

piccola politica. Oggi si arrestano i ladri, d'accor-


do. Ma quando si arresteranno tutti quegli intellettuali<br />

che hanno disertato dal pensiero? Occorre<br />

aspirare al massimo della forma, del proprio sé e<br />

più che una morale dell'operare servirebbe una<br />

morale dell'intelligenza. Purtroppo viviamo un<br />

periodo di piccole etiche, che spuntano ovunque, e<br />

tutte studiate a tavolino. Non si traducono in nulla.<br />

Bisogna valere, prima ancora di essere. Solo così<br />

si può aspirare all'eccellenza.<br />

- - -<br />

Dove sono gli intellettuali? Dove sono quelli che<br />

io preferisco chiamare chierici? Non ne vedo molti<br />

in giro con gli occhi aperti e le orecchie tese. È venuta<br />

meno la funzione critica del chierico verso i<br />

cosiddetti reggitori della cosa pubblica. Al posto<br />

dei chierici, sono arrivati i clericali. La politica orfana<br />

d'ideologia, si aggrappa alla religione. Non a<br />

una religione, beninteso: alla religione cattolica.<br />

- - -<br />

Credo alla funzione del filosofo come creatore della<br />

coscienza dell'individuo. Che sia come un chierico,<br />

il quale, al di là della propria identità e delle<br />

opacità esistenziali, spinge all'attraversamento di<br />

quelle stesse opacità, ad intraprendere questo<br />

viaggio. È una piccola luce, un tentativo.


- - -<br />

Chi è l'artista? Una cellula del caos odierno che cerca<br />

disperatamente di lasciare più tracce possibili; o non è<br />

più soddisfatto del sapere che ha originato il suo processo<br />

creativo?<br />

È un cambiamento che bisogna interpretare. Penso<br />

che il fenomeno si rafforzerà ancora di più. Vedremo<br />

filosofi che non si accontenteranno più delle<br />

loro cattedre e dei loro libri e cercheranno un<br />

ponte di comunicazione che non sia più quello<br />

tracciato dalle vie canoniche ma che possa essere<br />

inventato: il rapporto diretto con il pubblico, la<br />

lettura dei propri brani. Ma tutto questo perché?<br />

Perché? in questa era di contaminazione si crea un<br />

nuovo modo d'essere. È un fenomeno legato a<br />

questo disamore per i campi separati, a differenza<br />

delle epoche analitiche che non si sognerebbero<br />

mai di confondere il teatro con la filosofia. Il sapere<br />

analitico e distinto è deprezzato da questa epoca...<br />

che tende a mischiare tutto, come in una<br />

sorta di magia oscura che la rende metaforica ed<br />

allegorica. Ma la nozione di futuro per l'artista è<br />

cambiata: 'Morirò io e moriranno anche le mie cose'.<br />

Questo sforzo di lasciare più impronte è l'unico<br />

modo per catturare la dimensione in cui siamo:<br />

'non esisto all'infuori del presente'. La sensazione<br />

è quella che se non esisto nel presente non esisterò<br />

mai più. Per riassumere: questa corsa verso


terreni diversi è un segno di abbandono delle arti<br />

e dei saperi distinti.<br />

Questa era ha provocato un azzeramento, un livellamento<br />

tra le arti, dunque l'esigenza di cimentarsi in<br />

più campi diventa quasi un obbligo?<br />

Una volta si scriveva per fame di immortalità.<br />

Questa fame di permanere ci porta oggi a questa<br />

selezione, non si acquieta più all'interno di una sola<br />

disciplina ma ci spinge oltre. È un periodo di<br />

confusione delle arti e dei saperi e di confusione di<br />

chi li pratica. Così avviene che si fanno romanzi,<br />

quadri, musiche, come per esempio nel caso di Savinio.<br />

Ma tutto questo non ci dà la sensazione<br />

dell'uomo universale del rinascimento, ma è la<br />

condizione dell'uomo disperato, il quale vuole che<br />

le sue opere restino, l'impronta da lui data rimanga<br />

e dunque opera come se volesse abbattere,<br />

lottare contro qualcosa (il tempo probabilmente)<br />

che distruggerà tutto. Siamo intrisi profondamente<br />

di caducità e questa caducità ha invaso ciò che<br />

facciamo, comprese le nostre opere.<br />

E Sgalambro come si pone? Resta un filosofo che dà il<br />

suo servizio alla musica, al teatro, al cinema, o si scopre<br />

improvvisamente autore di canzoni, testi teatrali, sceneggiature?<br />

Credo in effetti di continuare a fare quello che facevo<br />

prima e cerco di occuparmi di queste cose


alla stessa maniera che è tipica del mio modo di<br />

vedere. L'unica differenza è quella che invece di<br />

sviluppare concetti tento di sviluppare sensazioni.<br />

La riflessione mi ha sempre convinto della grande<br />

musicalità di cui è pervasa la stessa logica di Hegel,<br />

come del resto avveniva al giovane Marx, il<br />

quale scrivendo al padre affermava: 'Sto studiando<br />

la logica hegeliana e vi trovo una qualche melodia<br />

rupestre'. Ho una legittimazione di ciò che faccio.<br />

Poiché io non sono un accademico, per me il luogo<br />

della filosofia è dove sono. Se mi metto a far canzoni<br />

il luogo della filosofia è quello, e così se faccio<br />

teatro. L'altro tipo di filosofo ha un luogo.<br />

- - -<br />

Parliamo di Peter Pan, maestro.<br />

A me pare che questi simbolismi del fanciullo<br />

compaiano varie volte nella storia europea. Ma<br />

che vuol dire fanciullo? Prolungare l'età della leggerezza<br />

e del divertimento, dell'irresponsabilità.<br />

Proprio lei ha magnificato l'irresponsabilità.<br />

Ma l'irresponsabilità del filosofo! Ho considerato<br />

che l'irresponsabilità è quel momento in cui uno<br />

mette consapevolmente tutto al muro. È il momento<br />

in cui non si è pressati da responsabilità<br />

oggettive, non si è precondizionati nella grande


iflessione. Ma per il ragazzo, per Peter Pan, che<br />

cosa può essere l'irresponsabilità?<br />

Voler restare fanciullo.<br />

Bisogna fare una scala, dal puer al puer-senex che<br />

non vuole accettare lo scorrere dell'età.<br />

Lei come sente l'età che avanza?<br />

Come una scalata. Se uno decide di scalare una<br />

montagna, salire ancora più in alto è meritorio.<br />

Raggiungere la cima. L'invecchiamento è un passo<br />

necessario per chi vuol percorrere una certa strada.<br />

Non è un passo necessario per chi vuol fare il<br />

girotondo.<br />

Perché si sceglie di restare bambini?<br />

Perché sono crollate le grandi ideologie politiche<br />

dentro cui la vita era posizionata. Oggi tutto questo<br />

è crollato. C'è volontà di divertimento: come<br />

un nirvana addomesticato, come in una discoteca<br />

dove ci si annulla nella musica.<br />

Anche nei grandi concerti c'è quest'obnubilazione. E lei<br />

sale volentieri sui palcoscenici.<br />

Io uso parlare di emigrazione interna, come i tedeschi<br />

quando avevano il nazismo e tuttavia non<br />

volevano emigrare come i Mann e i Werfel, ma


estare ed operare nel loro paese. Questa è la mia<br />

migrazione interna. Perché io non voglio prostituire<br />

il mio pensiero al danaro, ad una professione.<br />

Vuole pensare irresponsabilmente?<br />

Senza avere addosso il pensare istituzionale, che<br />

mi obbliga ad essere civis. Questo io lo considero<br />

un limite, un limite imposto.<br />

E allora lei va fuori, trasgredisce.<br />

È un modo di vivere la mia libertà. Se avessi avuto<br />

cariche accademiche non avrei potuto farlo.<br />

Si sente giovane?<br />

Diciamo che considero l'età con entusiasmo.<br />

Una delle pochissime cose che la entusiasmano... Ma è<br />

sincero?<br />

L'età mi fa vedere di più. O magari credo di vedere<br />

di più.<br />

Non si chiede cosa pensa la gente nel vederla salire su<br />

di un palco?<br />

Non me lo sono mai chiesto. Non esiste una pubblica<br />

opinione cui dar conto.


Deve essere liberatorio, disorientare chi se l'immagina<br />

nei panni del filosofo e lei gli appare in veste di cantante.<br />

Si propone come fenomeno.<br />

Indubbiamente. Il divertimento esiste.<br />

È probabile che si divertano più gli altri, che lei.<br />

E ci sono anche i doveri. Si accumula stanchezza,<br />

ci sono le trasferte giornaliere, i disagi. È pesante.<br />

Sono sacrifici. In cambio ha la soddisfazione di cantare<br />

La mer.<br />

Ci fu uno stoico greco che tradì lo stoicismo per<br />

darsi ai bagordi, alle cose vana et futilia. Fu considerato<br />

un traditore, ma volle dare l'esempio della<br />

libertà del filosofo e di questa possibilità del passare<br />

dal sublime e serioso, alle cose vane e futili.<br />

Alla sua età, è una bella sfida.<br />

Non amo sfidare. Significherebbe considerare l'altro<br />

una parte in qualche modo necessaria al tuo vivere.<br />

Non è il mio caso.<br />

Ma il pubblico è necessario al suo canto. Dovrà cercare<br />

di riuscirgli gradito.<br />

In qualche modo.


Offre canzoni. La cosa più fugace che esista.<br />

Ho scritto un libro, Teoria della canzone. E scrivo<br />

canzoni per <strong>Battiato</strong> dal '94. Questo mi ha portato<br />

a considerare cosa fosse la canzonetta, in un periodo<br />

effimero. Se per caso essa non incarnasse questa<br />

etèra Esmeralda, la delicata farfalla che in tre<br />

minuti sviluppa la sua vita, vive e muore. Questa<br />

fugacità della canzone, il suo darsi come fugace,<br />

anche se poi può durare. Ma il modo in cui appare<br />

è sempre la fugacità. Non potrebbe durare di più,<br />

non può durare che tanto. Il pubblico non la sopporterebbe<br />

più a lungo.<br />

Il tempo d'un refrain.<br />

Questo senso del fugace è quello che mi è piaciuto<br />

di più, che mi ha sfidato. Se sfida mai c'è stata.<br />

Non teme che il cantante possa offuscare la sua immagine<br />

di filosofo?<br />

No, no. Io sono filosofo dalla testa ai piedi, comprese<br />

le scarpe, come avrebbe detto Gentile. Le<br />

due cose coesistono, non interferiscono.<br />

Ma la canzone forse le dà di più. Applausi, se non altro.<br />

Si sente gratificato?<br />

Sì, gli applausi sono piacevoli. Ma anche qui, dura


pochissimo. Un momento dopo, tutto si sfarina e<br />

non c'è più niente. Ma il bello è questo.<br />

Vede altri Peter Pan, nella nostra società?<br />

<strong>Battiato</strong> è un eterno fanciullo. Poi, per la sconsideratezza,<br />

per la leggerezza con cui trattano certe<br />

cose, i politici in genere. Credo che il ceto politico<br />

dominante, globalmente inteso, sia in un momento<br />

di poca formazione, di improvvisazione, quasi un<br />

ceto spontaneistico, che non si è formato, che non<br />

ha le ragioni per essere un nostro rappresentante.<br />

Sentirsi governati da un tal ceto politico, è oltremodo<br />

grave, è gravissimo.<br />

- - -<br />

Che difficoltà ci sono state a musicare i testi di Sgalambro?<br />

B. Non ci possono essere delle difficoltà. E’ un fatto<br />

di sonorità, di ritmo. La difficoltà si ha quando<br />

devi mettere a posto conti che non tornano.<br />

Volevamo chiedere a Sgalambro come mai avesse deciso<br />

di scrivere testi per delle canzoni, ma la risposta forse<br />

l'abbiamo avuta: è stata una richiesta.<br />

S. Questa è uno questio facti, poi vi è un'altra questione.<br />

Io credo che la riflessione, il pensare, in i-


specie il filosofare cerchino in certi periodi, in certi<br />

snodi della loro esistenza, nuove forme. Questo è<br />

un momento, a mio avviso, in cui il fallimento delle<br />

forme abituali dei filosofare (il fatto che la filosofia<br />

in qualche modo ha un'eternità di fatto, un'esistenza<br />

acuta, esiste) spinge chi pratica la filosofia<br />

a sentire l'occorrenza di esplorare vie diverse.<br />

Naturalmente io non pensavo per nulla di esplorare<br />

vie date da canzoni...<br />

Nel suo libro «Del pensare breve» lei dice che la coniugazione<br />

tra la filosofia e la narrazione avviene solamente<br />

con l'epos. Poi afferma che la filosofia non può<br />

più narrare e la letteratura non sa più scrivere. Voi vi<br />

trovate però a collaborare ad un'opera che rientra nella<br />

forma narrativa dell'epos.<br />

S. Il fatto narrativo della filosofia è detto non in<br />

senso trionfale. E’ piuttosto spesso il rimpianto<br />

che essa non possa narrare daccapo. A mio avviso<br />

l'adoperabilità di forme diverse resta sempre, però<br />

bisogna che esse siano in effetti adoperate, che<br />

trovino l'esecutore, un uomo in cui tutte queste<br />

cose si accolgono e con grazia diventino qualche<br />

cosa di semplice. Quindi, è chiaro, «narrare di» è il<br />

«sistema». Cos'è narrare in filosofia? Il vecchio sistema,<br />

il sistema della filosofia idealistica tedesca,<br />

quella narrazione che, si è detto un po' da tante<br />

parti, non può essere più possibile. In realtà questa<br />

narrazione può avvenire anche attraverso diverse<br />

altre maniere. Direi che il piccolo testo di canzoni


può essere una maniera per aggirare e dare oggi,<br />

in un'epoca dove tutto è rimpicciolito, queste piccole<br />

schegge di un sistema. Infine, la canzone porta<br />

al problema dell'oralità, della vocalità delle<br />

cose, è esprimersi mediante la voce, il canto, porta<br />

insomma a problemi non indifferenti.<br />

Tanto per giocare con il titolo di un libro di Sgalambro:<br />

la società dimostra molta indifferenza in materia<br />

di poesia. Dall'Ottocento in poi il ruolo del poeta è<br />

andato scadendo, perdendo presa sulla società. La poesia<br />

sta traslocando nella canzone?<br />

B. Sono assolutamente d'accordo. La società va<br />

sempre per schemi, difficilmente accetta l'idea di<br />

trasformazione delle cose. Si va a cercare la poesia<br />

in un campo dove non esiste più, dove ormai è solamente<br />

imitazione di modelli arcaici e ben riusciti.<br />

E’ quello che è successo anche alla musica contemporanea.<br />

E’ la cecità attuale che non può far<br />

vedere che la musica leggera è la continuazione di<br />

quella classica perché è impensabile, per la gente<br />

così detta colta, una simile caduta, mentre in realtà<br />

non sa accorgersi dell'esistenza di nuovi linguaggi,<br />

nuovi modelli di penetrazione. Ci sono dei<br />

prodotti apparentemente di consumo (tecnodance)<br />

che hanno una intrinseca verità, che però non è riconosciuta<br />

e non è neanche cosciente in chi la produce.


Le vostre frequentazioni con la poesia? Quali autori aveva<br />

in mente?<br />

S. Mi piace molto la Valduga. Mi piace l'impresa<br />

che lei conduce. Però non è questo il punto, è inutile<br />

fare dei nomi.<br />

Ritornando alla canzone, sembra di percepire nell'ultimo<br />

album che i testi di Sgalambro seguano un modello<br />

narrativo molto simile a quello che appartiene a<br />

<strong>Battiato</strong>. Si potrebbe parlare di una destrutturazione<br />

logica che procede attraverso metafore...<br />

B. Attenzione, Sgalambro odia il simbolismo.<br />

Voleva essere una provocazione: diciamo che questo<br />

procedere per immagini ricorda la tecnica dello «stop<br />

gurdjeffiano».<br />

B. E’ curioso, una ragazza che mi ha chiamato ieri<br />

ha letto il suo ultimo libro e mi diceva che sentiva<br />

delle analogie tra Sgalambro e Gurdjieff, ma lui<br />

non sopporta tutta quell'aria. Secondo me Sgalambro<br />

ha raggiunto un alto livello di penetrazione.<br />

E’ inevitabile che il suo modello coincida con quello<br />

di altri, anche se poi li differenziano le conclusioni.<br />

Un mistico conosce la gente, penetra,<br />

Sgalambro vede le stesse cose, ma trae conclusioni<br />

apparentemente opposte.


S. Io sono molto legato alla tradizione europea e<br />

occidentale della filosofia. Per me non c'è salvezza<br />

per la filosofia al di fuori di questa sua tradizione,<br />

e ogni suo debordare non è soltanto tradire, se così<br />

si può dire, la sua intima essenza, ma negarsi.<br />

Dentro la tradizione si possono fare anche testi<br />

per canzoni, ma fuori di essa non si può fare nulla.<br />

Questa tradizione contiene non a caso i poemi di<br />

un Parmenide, di un Empedocle. Oggi il pensiero<br />

occidentale si percorre in una specie di viavai continuo.<br />

Non si arriva ad un punto e si dice «Ecco,<br />

da qui», ma si va per continui ritorni, e come se<br />

qualcuno facesse qualcosa in cui è implicato questo<br />

andare e poi tornare, e poi riandare da capo magari<br />

tracciando vie di altro tipo. Questa soluzione mi<br />

convince, ma fuori dalla mia tradizione non metto<br />

piede.<br />

Allora, rimanendo nell'ambito della tradizione occidentale,<br />

esiste un'etica della scrittura?<br />

S. La scrittura è forse l'attuale situazione in cui<br />

siamo. Attraverso la scrittura possiamo raggiungere<br />

il punto che oggi ci può essere dato come<br />

possibile, e cioè la materialità del pensare. Pensare<br />

si ha appunto nella scrittura. La scrittura è una<br />

costruzione ben visibile, è qualcosa di ponderabile.<br />

Cos'è la «Critica della ragion pura» di Kant? E’ un<br />

libro, cioè un sistema di scrittura, scrittura attraversata<br />

certamente da molteplici sensi.


B. Scusi se la interrompo. E’ un libro, ma lei non<br />

crede nella deformazione di certi pensieri, di alcune<br />

idee che si sviluppano, vanno a sedere nella<br />

gente anche senza che lo sappiano...<br />

S. Sì, senza dubbio, però il momento concreto in<br />

cui la scrittura, il pensare occidentale trova la sua<br />

differenza dal pensare orientale consiste proprio in<br />

questo: che trova la sua etica nella scrittura. Lì è il<br />

suo bene, il suo male, il suo metro di giudizio, la<br />

sua misura. Ma è detto, ripeto, non in senso trionfale.<br />

La scrittura è il nostro limite, il limite però<br />

che consente al pensare di poter essere qualcosa,<br />

altrimenti rischia di rimanere un rimuginìo, un<br />

fatto psicologico.<br />

E la dimensione del concerto? Può essere un luogo concreto<br />

di incontro fra persone, fra filosofia espressa nel<br />

testo di una canzone e pensiero espresso in una composizione<br />

musicale; fra l'altro in «Del pensare breve»<br />

lei dice «pensare divide»: queste due forme di pensiero -<br />

la scrittura e la musica – forse collidono nel luogo, nell'evento<br />

del concerto.<br />

S. Lei ha ragione. Una lezione di filosofia dell'Università<br />

non riesce a realizzare il minimo dei suoi<br />

assunti, cioè quello informativo. Non riesce poi a<br />

realizzare una situazione filosofica, cioè una situazione<br />

d'ascolto, una situazione di dialogo. Ecco,<br />

lei ha ragione in questo: una situazione di incontro<br />

in cui chi proviene dalla filosofia si incontra con


chi proviene dalla musica ed entrambi camminano<br />

quel momento, cioè il concerto, può avere il senso<br />

di un dialogo. Tra una lezione di filosofia fatta da<br />

una cattedra e una canzone cantata da <strong>Battiato</strong> io<br />

preferisco quest'ultimo.<br />

La canzone è più efficace.<br />

S. Non si tratta solo di efficacia, non è solo un fatto<br />

pragmatico. Credo sia anche un fatto intrinseco,<br />

vero.<br />

Probabilmente il pensiero si svolge abbondantemente al<br />

di fuori delle aule universitarie, e quindi anche un concerto<br />

diventa un luogo dove è più facile che i pensieri<br />

siano a confronto. Non dimentichiamo che nell'efficacia<br />

della comunicazione contano entrambi i termini, quindi<br />

spesso c'è più pensiero anche dalla parte del pubblico<br />

di un concerto che non dentro un'aula universitaria.<br />

S. Io parlo di un'aula universitaria perché usualmente<br />

la filosofia, ahimè, si svolge lì. Ciò che chiamiamo<br />

filosofia è legato a un luogo, ma filosofia la<br />

si può insegnare da un lettino d'ospedale, da un<br />

bar, magari con le spalle appoggiate a un angolo.<br />

Ora il luogo occidentale della filosofia, il suo destino<br />

amaro o no (non importa qui dirlo), è appunto<br />

l'accademia.<br />

B. Giusto, ma io non me la sento proprio di perdere<br />

una lezione eterna e determinante datami<br />

magari da un fattorino mentre mi porta i bagagli.


Pensando ai suoi interessi per il sufismo, Rumi ad esempio:<br />

quanto un concerto di questo tipo, concepito in<br />

questo modo si avvicina a quello che è il «Sama» per i<br />

sufi? Forse è un po' azzardato...<br />

B. Non è per niente azzardato, anzi direi che il naturale<br />

ambiente del rito è già questo: la forza della<br />

canzone. Poi è chiaro, bisogna fare delle differenze<br />

naturali: c'è la musica di intrattenimento, c'è il piano-bar,<br />

ogni cosa ha una dose. Ci sono certi concerti<br />

che sono molto vicini a riti iniziatici, in cui<br />

proprio il tutto assume un aspetto inquietante e<br />

impenetrabile, altri in cui l'attenzione è tale che la<br />

parola fa più che comunicare: esprime.<br />

Allora diventa curioso che questa forma di pensiero, che<br />

forse è più della tradizione orientale, entri nelle nostre<br />

sale da concerto attraverso poi dei testi scritti da chi si<br />

dichiara invece della tradizione occidentale.<br />

B. E’ un problema teorico, non pratico. Perché<br />

Sgalambro può dire quello che vuole: pur avendo<br />

una sua posizione netta e operando una divisione<br />

manichea con tutta quell'aria, andando a rileggere<br />

alcune cose che lui ha scritto, anche per delle canzoni,<br />

si trova lo stesso genere di profondità. Mi<br />

viene in mente una canzone, Fornicazione, il cui<br />

testo mi ha pilotato a penetrare in un campo<br />

musicale in qualche maniera inconsueto. Quel testo<br />

descrive ambienti di una profondità misteriosa<br />

che già nell'epoca di Rumi esistevano in maniera


così mistica e che la sua poesia descriveva. Anche<br />

se Sgalambro e Rumi sono due mondi diversi.<br />

Potremmo dire che il mondo è sempre stato molto complesso<br />

e quindi per descrivere, per affrontare questa<br />

complessità una ricchezza di strumenti è solo buona;<br />

quindi non occorre tanto scegliere fra tradizioni differenti<br />

quanto riuscire a farle convivere assieme.<br />

B. Non solo convivere, ma anche farle reagire.<br />

Restringendo questo discorso al campo dell'opera, da<br />

«Genesi» a «Gilgamesh» infine a quest'ultima opera:<br />

il concerto, la possibilità di comunicazione può avvenire<br />

solamente attraverso il mito perché necessario come<br />

ripresa di un archetipo collettivo?<br />

B. Da quando collaboro col nostro professore è<br />

cambiato una cosa determinante nel mio lavoro.<br />

Quando in passato ho preso, come lei definisce, un<br />

archetipo, un eroe d'altri tempi, l'ho fatto perché<br />

avevo bisogno di utilizzare una drammaturgia che<br />

mi servisse per descrivere in un certo modo lo<br />

scopritore di mondi ultraterreni, quindi di utilizzare<br />

una meccanica classica, sempre uguale, sia<br />

per «Genesi» che per «Gilgamesh»: la meccanica<br />

del viaggio. Con l'arrivo dei libretto di Sgalambro,<br />

parlo del «Cavaliere dell'intelletto», non ne ho<br />

avuto più bisogno perché il libretto partiva con<br />

questa straordinaria teoria della Sicilia, di una bellezza<br />

spudorata. Mi accorsi che come compositore


dovevo semplicemente capire quali erano le cose<br />

da musicare. Negli altri percorsi la storia era una<br />

storia parateatrale, una specie di sceneggiata dietro<br />

le quinte. Ad esempio in «Genesi» ho utilizzato<br />

per il testo diverse lingue come il sanscrito<br />

e il persiano proprio perché non me la sentivo di<br />

raccontare in italiano, avevo come il ribrezzo verso<br />

il melodramma tradizionale con tutta la sua<br />

retorica, non sono più tempi, viviamo un epoca<br />

velocissima, abbiamo bisogno di sintesi.<br />

Con Sgalambro abbiamo avuto il miracolo della<br />

comunicazione. Il suo testo l'ho lasciato come teatro<br />

puro e sono intervenuto con la musica solo nei<br />

momenti in cui poteva alleviare le pene della parola.<br />

Quella parola pura mi fece venire in mente<br />

che in effetti stavamo entrando in un nuovo genere<br />

di proposta teatrale, e quando lbn Sab’yn dice a<br />

Federico: «Dio è tutto Federico, unirsi a lui è il fine»<br />

sentivi proprio la platea, era una cosa miracolosa,<br />

- allora lì individui, quando la parola è fatta<br />

con arte e contiene concetti alti, che la musica può<br />

solo disturbare. L'opera ha un bilanciamento bellissimo<br />

tra le parti musicali che alleviano la parola<br />

e l'assoluto rigore di questa parola.<br />

Pensavamo alla frase «mi ispirano paesaggi senza alcuna<br />

idea di movimento» da «Moto browniano». Il<br />

paesaggio nel suo lavoro e nel suo pensiero ha uno svolgimento,<br />

una sua riflessione?


S. Quando uno scrive non è sempre se stesso; se adopero<br />

una chiave nella porta adopero me stesso?<br />

Attraverso me stesso adopero una cosa: la chiave.<br />

Moto browniano: supponiamo che queste due parole<br />

unite assieme formino un corpo oggettivo. E’<br />

qualcosa che va descritto. Ma descritto è poco: che<br />

va sciolta in quelle che sono le sue componenti.<br />

Eppure, in ciò io non faccio un'operazione dove sono<br />

solo io: l'io è subìto dalla cosa, che mi sopporta.<br />

In questa sopportazione che l'oggetto del nostro<br />

scrivere, del nostro poetare, musicare, pensare, ha<br />

verso di noi, in questa sopportazione e nella sua<br />

consapevolezza c'è forse un diverso rapporto, che<br />

in qualche modo fa sì che la cosa non venga ad essere<br />

assorbita in me. Sono io, ma fino ad un certo<br />

punto: sono una sua pedina, se vogliamo, e nemmeno<br />

accettata: sopportata.<br />

Nei discorsi che facevamo attorno al paesaggio sostenevamo<br />

che il soggetto diventava un luogo, non era più<br />

il centro della scrittura ma uno dei luoghi, o meglio una<br />

mappa dei luoghi. Ci potremmo ricollegare a tante<br />

cose che <strong>Battiato</strong> ha scritto, canzoni in cui la geografia<br />

viene prelevata in una specie di cut-up e poi rimontata<br />

in una atmosfera che dà l'immagine del tutto; è una<br />

forma questa di archetipo moderno, di mito collettivo<br />

attraverso il quale si può comunicare a tutti.<br />

B. Mi piacerebbe, ma vorrei rispondere a Sgalambro<br />

dicendogli che se un contenitore è di colore<br />

nero non può dare l'azzurro all’acqua. La cosa


ti può possedere, ma non è importante quanto il<br />

fatto che solo l'occhio attento di un determinato<br />

osservatore può posarsi su certe cose.<br />

S. Supponiamo che ci sia un cammino, un iter. C'è<br />

un momento in questo cammino in cui - parlo di<br />

quello che conosco un po’ meglio, cioè il mio mestiere,<br />

che poi se togli nel filosofare il lato del<br />

mestiere, si toglie la zavorra, e un filosofare che<br />

non avesse la zavorra, la gravezza materiale, se ne<br />

andrebbe chissà dove - un momento in cui chi fa<br />

questo mestiere è un artigiano di cose. Un artigianato<br />

essenziale, e in questo momento uno può<br />

scrivere o può parlare o pensare, può descrivere<br />

questa cosa come se non lo riguardasse. Ma questi<br />

giochetti sono necessari come alla musica di <strong>Battiato</strong><br />

sono necessari certi giochetti perché essa si<br />

componga, si formi con una grana di cose. Allo<br />

stesso modo nel pensare c'è questa granulosità ed<br />

è il momento della cosa; ed è appunto il momento<br />

della cosa che non è una manifestazione mia, un<br />

me che si oblia.<br />

- - -


Nel vederli duettare si poteva anche pensare che le parti<br />

si fossero invertite. L'uno suadente nell'illustrare la sua<br />

teoria del "pensare positivo", l'altro quasi corrucciato<br />

dietro gli occhiali scuri da bluesman. Il rapper e il<br />

filosofo in certi momenti si sono scambiati la parte,<br />

dando vita a un insolito happening. È l'intuizione di<br />

<strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong> per l'apertura dell'estate catanese.<br />

Nulla di più provocatorio: invitare Jovanotti non per<br />

cantare, ma per parlare. E, visto che la sua presenza<br />

richiama migliaia di fan, perché non affiancargli il più<br />

cupo tra i filosofi italiani, il catanese Manlio Sgalambro?<br />

Il bianco e il nero: uno spettacolo che lunedì sera<br />

è andato in scena nel chiostro dell'università. Un incontro<br />

che si è chiuso con Jovanotti a cantare accompagnato<br />

dalla chitarra. Ma la singolarità dell'avvenimento<br />

sta tutta nel contrasto tra i libri dell'uno e le<br />

canzoni dell'altro. "Le arti - ha scritto il filosofo -<br />

sono una magistrale idiozia di chi vuole insegnare a<br />

stare bene nel mondo. Cosa assurda e pericolosa". Il teorico<br />

del pensare positivo dice invece di essere "un ignorantone"<br />

che ha letto I promessi sposi sul Bignami e<br />

ha "guardato le cose di Sgalambro senza capirci nulla".<br />

Forse è solo pretattica, ma funziona. Anche perché<br />

il professore attacca in modo troppo ostico, con i suoi<br />

fogli dattiloscritti e le citazioni latine. Quanto basta<br />

perché Jovanotti possa subito conquistare pubblico e<br />

interlocutore. La prima mezz'ora è un monologo sulle<br />

ragioni del "pensare positivo". "Le canzoni mi nascono<br />

dentro da qualcosa che noto, da una sensazione. Esempio:<br />

Penso positivo è nata ascoltando Bocca di rosa di<br />

De André. Quel ritornello, quella metrica, mi hanno


fatto venire di getto: 'Io penso positivo perché son vivo,<br />

perché son vivo'.... Sgalambro ascolta impassibile, Jovanotti<br />

rilancia: "Attenzione. Il fatto che penso positivo<br />

non vuol dire che io non veda. Vuol dire che credo". La<br />

platea è tutta per lui: si avvicinano per un bacio, per<br />

regalare un libro, per mostrare il look da fedelissimi.<br />

Tanto che c'è chi osa: "Professor Sgalambro, ma chi<br />

glielo ha fatto fare?". E poi chiede: "L'ignoranza trionferà?".<br />

C'è un'ignoranza felice e un sapere corrotto. A<br />

questo preferisco l'ignoranza felice che spero trionfi.<br />

Quella di Lorenzo è solo un'ignoranza metodologica,<br />

che si fa ingenuità per scoprire le cose.<br />

E alla fine la "teoria del pensare positivo" di Jovanotti<br />

riceve quasi la benedizione del filosofo:<br />

Altri l'hanno già teorizzata, ma mentre quelli che<br />

ne scrivono sono spesso sciatti, seguaci di una positività<br />

ottusa, Jovanotti esprime invece una positività<br />

francescana, gioiosa. E c'è una certa differenza.<br />

- - -<br />

Come definirebbe questo suo progetto [Fun club]?<br />

Un cavallo su cui far galoppare con un filo di ironia<br />

ricordi piacevoli. O 'un intreccio di vissuto per


voce e orchestra realizzato con un amico di nome<br />

<strong>Battiato</strong> con il quale da molti anni ci divertiamo e<br />

soffriamo con una sinergia che ha ben pochi eguali<br />

in Italia'. Ma forse la definizione che preferisco è<br />

'ricetta per scrollarsi il peso del presente con 12<br />

calici di buon vino'. Scherzi a parte: in tre minuti<br />

di canzone si può dire quanto in un libro di 400<br />

pagine o in un'opera teatrale completa.<br />

Sono convinto che venderà. Perché non è un disco<br />

particolare e io sono un tipo particolare. Me l'ha<br />

chiesto la Sony: i discografici premiano e castigano<br />

senza dover dare delle ragioni. E io sono<br />

stato beneficato. Il nostro mondo è popolato di<br />

tanti 11 settembre. Io credo che sia doveroso distribuire<br />

bene e fare cose che alleggeriscano la vita<br />

della gente.<br />

- - -


In Der Kuebel Reiter Kafka narra di un uomo che, trascinato<br />

da un secchio, si perde nell’aria. Uscito di casa<br />

in cerca di carbone, si ritrova improvvisamente da una<br />

situazione di privilegio, dalla visione dall’alto, all’essere<br />

perduto, o forse... definitivamente salvato da quel<br />

moto continuo che lo porta lontano.<br />

L’arte per nostra fortuna non comporta, non postula,<br />

la salvezza di nessuno... nemmeno la propria.<br />

L’arte non ha compiti, anzi deve avere il coraggio,<br />

non la speranza, sentimento direi da poco,<br />

del proprio operare. La convinzione che l’arte debba<br />

adempiere a un compito salvifico è quanto<br />

meno assurda!<br />

I termini non sono giocabili fra salvezza e perdizione.<br />

Ciononostante vorrei sapere il suo pensiero sull’impossibile<br />

equazione arte=utilità.<br />

Quando si fa qualcosa, quando si persegue completamente<br />

un’opera ben fatta, ciò è superiore alla<br />

salvezza di un essere. Quando a Brecht fu chiesto<br />

se gli interessava di più la rivoluzione o il suo<br />

teatro urlò: “Il mio teatro! Che dite, il mio teatro!”<br />

Questo chiaramente non significa edonismo o estetismo,<br />

sarebbe stupido intenderla così.<br />

Allora che cosa dobbiamo intendere?<br />

Per i singoli credo vi sia il compito di perseguire<br />

la propria eccellenza.


Cosa intende: il destino?<br />

No. A ‘destino’ preferisco il termine eccellenza. Il<br />

destino, detto così, mi sembra qualcosa a cui bisogna<br />

inchinarsi, che ci impone di curvarci. Un destino<br />

esemplare, allora.<br />

Per Holderlin la tendenza principale dei modi di rappresentazione<br />

è di poter incontrare qualcosa, d’aver<br />

‘fato’ poiché ciò che è privo di destino è la nostra debolezza,<br />

già nella scelta del fare è implicito un destino.<br />

Ma quale fare! Qui tutti si danno da fare, per chi,<br />

perché, per cosa?<br />

Questo vale allora anche per l’arte? Certo siamo lontani<br />

da un compito... forse anche da un contenuto?<br />

Lei deve pensare alla poesia moderna che è nata<br />

buttando alle ortiche l’utilità, cioè un significato<br />

oltre se stessa. Baudelaire faceva poesia per salvare<br />

qualcuno? Qui non si tratta di stabilire un’utilità<br />

sublime. L’arte è come il fuoco che brucia e poi<br />

si spegne, sparisce. Ma perché scompare le sembra<br />

inutile? Bruciare intensamente, questo è il suo<br />

compito, anzi il suo effetto fondante, poiché l’arte<br />

è fondante in quanto ci appare dal non essere, nel<br />

senso heideggeriano. Questo vale certamente anche<br />

per una ricerca scientifica, un’indagine, una<br />

qualsiasi cosa che prima non c’è e poi viene creata<br />

da un atto. Io credo solo al farsi dell’atto, poi, per


quanto fonda, non vale neanche la pena chiedercelo.<br />

Se qualcuno si pone il problema, si chiede<br />

quale sia il vero senso dell’arte, allora è meglio<br />

spiegargli che l’arte è monadologica, un universo<br />

senza porte, né finestre. Una monade, appunto.<br />

Ma l’arte è ‘relativa’ al tempo, nel bene, nel male o al<br />

di là di esso.<br />

Questa, siamo tutti d’accordo, è un’epoca alessandrina.<br />

Oggi vediamo che per cogliere ogni stratificazione<br />

è necessario un codice diverso, siamo in<br />

un sistema babelico, nessuno lo può dimenticare.<br />

La parola speranza è bandita dal tuo pensiero, eppure<br />

ci sono pensieri che sulla speranza hanno fondato una<br />

dimensione oltre il negativo.<br />

La speranza è un sottoprodotto della fede. O si ha<br />

fede e si crede nella speranza o si ha la speranza e<br />

non si ha fede. La speranza è una virtù vile. Ma il<br />

problema fondamentale è questo: io morrò, lei<br />

morrà. La stessa certezza della fine toglie la circostanza<br />

essenziale della speranza. La vita si restringe<br />

alla sua puntualità. All’interno di questa<br />

bisogna valutarsi. Altro che speranza! “Valere” –<br />

non “essere” – è il problema.<br />

Lei in questo senso annulla le possibilità relazionali,<br />

perché la speranza può essere intesa nella sua oggettività,<br />

come un ponte verso l’altro, verso uno spazio, una


dimensione ulteriore. In questo senso Bigongiari scrive:<br />

“Bisogna avanzare con speranza verso una punta senza<br />

speranza”.<br />

Mi sono riletto Plotino, dove si consumano tutte<br />

le possibilità relazionali in un’unica possibilità relazionale,<br />

da solo a solo...<br />

Lei afferma questo nel momento in cui il pensiero di<br />

molti è attento alla chance interattiva.<br />

Io guarderei il problema da un’altra angolatura.<br />

Vede, dobbiamo chiederci quanto ancora è necessario<br />

sostenere e trattenersi ancora in questa civiltà.<br />

Per quanto tempo ancora noi dobbiamo credere<br />

in questa civiltà e sopportarla. Questa civiltà<br />

appare attraverso il Cristianesimo e i suoi ‘buoni’<br />

valori. Se questi valori sono insignificanti allora<br />

perché noi dovremmo festeggiarli? Noi assistiamo<br />

alla riproduzione degli stessi valori: solidarietà,<br />

bontà. La stessa politica di Berlusconi si fonda su<br />

ciò. Paradossalmente questi termini sono essenziali<br />

quando c’è un’assenza di valori, o, meglio,<br />

quando i valori sono ormai intrinseci al funzionamento<br />

di una civiltà. Voglio dire che se codesti<br />

cosiddetti valori non ci sono è perché sono incarnati<br />

nelle stesse cose. Il soggetto cerca solo valori<br />

espressi da questa civiltà, vi è dunque un dominio<br />

globale, che ‘comprende’ anche la sua speranza di<br />

cambiamento... anzi, lei è controllato attraverso<br />

essa. Se lei si ribella perché invece di un dolce sor-


iso riconosce un ghigno, sappia che non ha scoperto<br />

la prova di un’anomalia, poiché quello stesso<br />

ghigno è parte integrante del sistema.<br />

la negazione è necessaria al mantenimento del buon sistema.<br />

Ogni civiltà cerca di essere ‘buona’, ogni civiltà<br />

tende all’auto mantenimento. Come si dice che una<br />

cosa è buona da mangiare, così la civiltà tende a<br />

essere ‘buona’ da vivere. Ma proprio allo stesso livello<br />

attraverso cui si definisce ‘questa cosa è buona<br />

da mangiare’ io mi chiedo se il ‘buon vivere’<br />

altro non sia che la voce della civiltà che predomina<br />

sui civilizzati. La verità è che siamo stritolati<br />

da una macchina di cui non abbiamo una visione<br />

precisa, non perché misteriosa, ma perché è lucidamente<br />

articolata. Per ‘capire’, noi dovremmo<br />

controllare tutti gli ingranaggi della società in cui<br />

viviamo e comprendere quale rotellina siamo, cosa<br />

rappresentiamo, quale è la funzione assegnataci. A<br />

chi è concessa tale consapevolezza, è concesso anche<br />

sapere che il lavoro, intendo il ‘buon lavoro’<br />

attraverso cui ognuno produce per l’altro, è un vero<br />

schifo. Ma si deve veramente lavorare? Credo<br />

che ci si debba fare questa domanda: “Tu che timbri<br />

scartoffie per chi agisci? A chi sei necessario, a<br />

chi dai il tuo tempo?” La ricerca stessa di un lavoro<br />

migliore è una ricerca sbagliata. Il lavoro è<br />

quello che è. La verità è che questo ‘valore’ è una<br />

triste, obbrobriosa necessità.


“Farsi solo pensiero”: lei ha scritto.<br />

Io non parlo di solitudine in senso proprio, ma<br />

intendo dire che l’uomo ‘solo’, parzialmente, può<br />

sfuggire alla logica della confusione con l’altro. Io<br />

intendo con il termine ‘solo’ un’educazione alla alterigia,<br />

alla superbia, a un pensiero, cioè, che non<br />

ha bisogno d’aiuto, ma, al contrario, di imporsi. In<br />

questo senso, l’altro o si piega, si fa schiavo, o se<br />

ne va, o, più precisamente (e lei che è un’artista<br />

probabilmente può intendermi): “Se non vuoi capirmi,<br />

vattene: non mi interessi!”<br />

Freud, parlando di ogni Weltanschauung, di ogni<br />

rappresentazione del mondo, indicava che esse sono<br />

costruzioni intellettuali che pretendono di risolvere unitamente<br />

tutti i problemi della nostra esistenza e dove<br />

di conseguenza è necessaria la difesa di ogni valore.<br />

Ma la ‘verità’, scriveva Freud, non può essere una<br />

tollerante difesa di antiche fissazioni alla credenza.<br />

Noi siamo ancorati a questa logica del cristianesimo,<br />

della sua cupa visione. Ma la logica del<br />

Cristianesimo non sta tanto nel concetto di Dio<br />

quanto nel concetto di ‘Figlio’, attraverso il quale<br />

l’umano si prende la rivincita sul divino. L’amore,<br />

la protezione del figlio è il vero patto, il vero<br />

ordine naturale. Ma è ‘naturale’ fino a un certo<br />

punto. Se all’ingrande le cose vanno così all’inpiccolo<br />

ci sono altre notizie. In America più di<br />

settecento donne avrebbero ucciso in questi ultimi


tempi il proprio figlio: questo è il dato, il riscontro,<br />

il punto. Voglio dire che la natura è muta<br />

e ci lascia muti. E l’ ’essere’ forse ci parla? E la<br />

coscienza che ci dice? Le più alte espressioni di<br />

questa civiltà sono del tutto losche. Alla fine non<br />

il cattivo piccolo e perverso, che fa un male piccolo,<br />

fatto alla sua misura, ma la volontà buona e<br />

operosa produce tutto quel male che si dice ci sia.


OPERE


Il cavaliere dell’intelletto<br />

Opera in 2 atti<br />

dedicata a Federico II di Svevia<br />

nell'ottavo centenario della nascita<br />

(Jesi, 26 dicembre 1194)<br />

per 4 attori, soli, coro e orchestra<br />

Su commissione della Regione Siciliana<br />

Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali<br />

e della Pubblica Istruzione<br />

Prima rappresentazione:<br />

Palermo, Cattedrale, 20 e 21 Settembre 1994<br />

Libretto di Manlio Sgalambro<br />

Musica di <strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong><br />

Edizioni Casa Musicale Sonzogno - Milano<br />

L'Ottava - Giarre


Una voce<br />

Teoria della Sicilia: Là dove domina l’elemento<br />

insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende<br />

impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è<br />

segnata da questa certezza; un’isola può sempre<br />

sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti,<br />

sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della<br />

nave; vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare<br />

è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia<br />

dello stare in un’isola, come modo di vivere,<br />

rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento<br />

primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica<br />

della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe<br />

voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe<br />

vivere. La storia gli passa accanto con i suoi odiosi<br />

rumori. Ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela<br />

una quiete profonda.<br />

Vanità delle vanità è ogni storia! La presenza della<br />

catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi<br />

ideali vegetali, nel suo tedium storico, fattispecie<br />

nel Nirvana.<br />

La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo<br />

nel momento felice dell’arte quest’isola è vera.


ATTO I<br />

Esterno giorno piazza Cattedrale di Palermo, lontano<br />

un gregoriano.<br />

Uno<br />

Dimmi, chi si incorona Re oggi? (Finge di guardare)<br />

Nessuno, non c’è nessuno sul trono, nessuno<br />

nel corteo (un bambino di quattro anni non è nessuno).<br />

In fatto di magie e di incantesimi in quest’isola<br />

tutto è possibile. Maghi e negromanti fate<br />

apparire un Re. Lavorate sul vostro fiato e sul<br />

nostro delirio. Fatto di rugiada e simile alla bocca<br />

di un fiore…. Degno di noi, insomma,… Ma ahimè,<br />

non vedo nessuno (un bambino di quattro anni<br />

non è nessuno)…<br />

Un altro<br />

Zitto, rutto pestifero di un otre piena di putridi<br />

venti, mangiatore di rifiuti, pecora pazza. L’idea di<br />

sovranità si incorona, essa in persona siederà sul<br />

trono. Ascolta.<br />

Un cancelliere (dottorale, compassato)<br />

La lingua delle lingue. Marino da Caramanico, rimanda<br />

a questa fonte, benedetto il Suo nome, al


signor Seneca che nel “De clementia” fa dire al sovrano<br />

dei sovrani, A Nerone s’intende: “Io sono<br />

l’arbitro della vita e della morte dei popoli. Quale<br />

debba essere la sorte e lo stato di ciascun uomo dipende<br />

dalle mie mani. E la fortuna annuncia per<br />

mia bocca ciò che intenda attribuire ad ogni mortale”…<br />

Uno<br />

Re è dunque colui che mi può uccidere in qualunque<br />

momento. Fammi schizzare il cervello fuori<br />

dalla testa, strappami le gambe, appendimi per le<br />

budella in cima a un minareto e in cambio… lasciami<br />

vivere.<br />

Un altro<br />

Sputo di una fogna, continui ancora?!… saggi consiglieri<br />

circondano un Re ed egli porge loro graziosamente<br />

orecchio.<br />

Uno<br />

No, Amico. Il becchino è l’unico ministro che un<br />

Re ascolta.<br />

Coro<br />

“Christus vincit. Christus regnat. Christus imperat”


Le vie di Palermo, vagabondare di bambini, gente.<br />

Daccapo un brusio di lingue, frammenti di parole si<br />

sentono più di altre: ebreo, arabo, greco, tedesco (“un<br />

latrato di cane e gracchiare di cornacchia”). Improvviso<br />

silenzio.<br />

Federico<br />

Dialogo tra Federico e Michele Scoto<br />

Messer Scoto, in nome di Aristotele fermati. I tuoi<br />

ragionamenti vanno in fretta. Bisogna fermarsi.<br />

Fermandosi Aristotele trovò un Dio. Ma io mi<br />

contento di molto meno: chiuderti la bocca per un<br />

momento.<br />

Michele Scoto<br />

La tua maestà sa, signor Re, che il sillogismo è impressionante.<br />

Vola come i tuoi falchi. E’ forte come<br />

una tigre…<br />

Federico<br />

E poi? Cosa distingue qui un ragionamento da un<br />

muggito di bove? Entrambi hanno una forza enorme.<br />

Ascoltami piuttosto. Tutta la volta celeste<br />

della tua filosofia crollerebbe, capiscimi, se dovessimo<br />

aspettare l’ultima mano di calce: l’argomento


decisivo. Lo hai mai tu trovato? (Beffardo) Siamo<br />

nella fase di luna crescente, puoi dunque rispondermi!<br />

Michele Scoto<br />

Maestà, t’ho detto le proprietà dei minerali e dei<br />

metalli, e ti parlai della natura delle droghe e delle<br />

piante. Tu credi che ci arrivai con gli occhi e col<br />

ragionamento?<br />

Federico<br />

Vi sono cose che il tuo ragionare per quanto lo<br />

lanci in alto non acchiapperebbe, come non acchiapperebbe<br />

una mosca. Ti dirò, Michele, non<br />

amo Socrate, inverecondo ciarlone, ma hai sentito<br />

tu di Parmenide? Egli dice con semplicità, ascolta<br />

attentamente: “Io ti comando: l’essere è e il non<br />

essere non è”. Tu sai che su questo si sorregge la<br />

nobile filosofia. Forse dunque su un ragionamento?<br />

No, su un ordine.<br />

Michele Scoto<br />

Tu parli da Re.<br />

Federico<br />

La natura della verità è leggera come quella di una<br />

cortigiana. Tu coi tuoi ragionamenti la corteggi.


Io con i miei ordini la posseggo. Si, mio Scoto, la<br />

verità è cosa da Re non da filosofo.<br />

Un canto<br />

Volò con le ali della durabilità, nell’aria della nonqualità<br />

al di sopra del campo dell’eternità e vide<br />

l’albero dell’unità per realizzare che “tutto quello”<br />

era illusione. (un sufi)<br />

Duello (danza)<br />

Il buffone<br />

Io sono il buffone. Io solo ho diritto a parlare del<br />

passato. Nel comico il destino dell’individuo si palesa<br />

nel riso che destano un eroe preso a pedate o<br />

un Re morto. Il lamento solenne che costituisce<br />

l’essenza della tragedia è sostituito ora dal riso sino<br />

alle lacrime al quale la risata si strozza in gola.<br />

Come fenomeno collettivo il riso si rivela tardi.<br />

Prima che si stampi sulla faccia dell’uomo qualsiasi<br />

come un marchio bestiale il riso è ancora appannaggio<br />

regale. Ora invece l’esperienza del riso<br />

diventa comune. Ridere non è più cosa da eroi che<br />

ridono degli altri. Non ride più solo il Re, il cui diritto<br />

a ridere è consacrato dal buffone che lo segue<br />

come un’ombra. Il riso è profanato. Assieme all’insegna<br />

del Re, la plebaglia si fregia della berretta a


sonagli: il diritto a ridere come immortale principio<br />

non scritto. Ora ognuno ride degli altri. Il riso<br />

idiota subentra al Mugugno. Invece della colpa e<br />

delle offese tragiche. Pedate, al posto di veleni e<br />

pugnali. Gesti invece che azioni. Il succedere del<br />

gesto all’agire segna il trapasso all’età del comico;<br />

è il momento in cui la stessa tragedia cede le armi.<br />

Ora il fuoco, come fa dire Hebbel nella Giuditta,<br />

serve a cucinare i cavoli…<br />

(A un tratto si interrompe, si prende il capo tra le mani<br />

come per un improvviso dolore, si scuote e poi:)<br />

ma il morto squittisce come un topo nel mio cranio,<br />

o Dio la codina si impiglia tra emisfero e emisfero…<br />

Corre su e giù, su e giù, orsù, Federico…<br />

cade nella cavità cerebrale attraverso il plesso<br />

coroideo del terzo ventricolo, titilla la mia immaginazione.<br />

Ora si scarica sul parietale sede della<br />

memoria, lo giuro sull’anatomia del Mondino di là<br />

da venire e paff… piomba sulla mia lingua, chiede<br />

voce, parola. E tutto ciò che egli fece? Le sue azioni?<br />

Com’è vero che non mi chiamo Yorick e pur lo<br />

sono, ciò che resta è parola.<br />

Danzatori e suonatori di tromba irrompono sulla scena<br />

– Abulafia: ”non è difficile supporre che la sua corte<br />

folta di danzatrici e suonatori di tromba musulmani<br />

suscitasse impressioni stravaganti nei visitatori provenienti<br />

dal Nord”.


Isabella<br />

Addio mia Siria, ma patrie addio,<br />

nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie<br />

Soprano<br />

Aria di Isabella<br />

Addio mi Siria, ma patrie addio,<br />

nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie.<br />

La storia ha bisogno anche della mia stinta ombra<br />

Per dare all’insieme alcuni effetti.<br />

Chi fui? Una mano di nulla<br />

Sul ritratto di Federico.<br />

Isabella, petite moi-meme.<br />

Coro<br />

Addio mia Siria, ma patrie addio,<br />

nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie.<br />

Isabella legge la “Lettera di Federico a Michele Scoto”<br />

A me Isabella di Brienne viene affidata la lettera<br />

che Federico scrive nel 1227 a Michele Scoto. Io<br />

morirò un anno dopo.


“Preziosissimo tra i miei maestri, spesso in svariate<br />

maniere abbiamo inteso domande e risposte intorno<br />

ai corpi celesti, il sole, la luna, le stelle fisse,<br />

ed agli elementi, all’anima del mondo, alle genti<br />

pagane e cristiane e le altre creature sotto la terra.<br />

Tuttavia mai abbiamo inteso qualcosa di quei segreti<br />

che appartengono al diletto dello spirito e<br />

della saggezza, vale a dire del Paradiso e dell’Inferno,<br />

delle fondamenta della Terra e delle sue<br />

meraviglie. E se esistano diversi cieli e chi li guidi;<br />

e l’esatta misura che separa un cielo dall’altro e ciò<br />

che esiste al di là dell’ultimo cielo; in quale cielo<br />

Dio, per sua natura, ossia nella sua divina maestà<br />

si trovi. E in che modo egli sia assiso sul trono celeste,<br />

e come gli facciano corona gli angeli e dove<br />

esattamente si trovino l’Inferno, il Purgatorio, il<br />

Paradiso: sotto la Terra, nella Terra o sopra di essa?<br />

E quale differenza intercorra tra le anime che<br />

ogni giorno approdano laggiù. E vogliamo sapere<br />

se un’anima nell’aldilà riconosca un’altra anima e<br />

se taluna di esse possa tornare in vita per parlare<br />

con qualcuno, o mostrarglisi e quante e quali siano<br />

le pene infernali”.<br />

Questo chiede di sapere per bocca mia Isabella, il<br />

mio Federico. Ma per mio conto ho già la certezza<br />

che egli non lo chiederebbe se non lo sapesse già.


Soprano<br />

Aria di Costanza di Aragona<br />

Attraverso l’amplesso partecipo alla tua regalità.<br />

Per le mille vie delle carezze (spezie d’amore) mi<br />

unisco alla tua suprema Idea che consacra all’Ordine<br />

un insieme di canaglie e di assassini generati<br />

da sperma. Ah! Federico, chi amo quanto amo?<br />

Soprano e coro<br />

Abbraccio la tua idea, splendente come l’armatura,<br />

piccolo fermaglio di nozze che ti donai, o il corpo<br />

robusto, forgiato da cacce e guerre anche all’amore<br />

più squisito?<br />

Federico<br />

Messer notaio Jacopo vi faccio arrivare con cavalli<br />

veloci a Lentini, patrietta vostra e di chi sa chi altri,<br />

questo sonetto che non ha nulla di nuovo, vi<br />

giuro, ma come nulla di nuovo vi è nell’eterno cerchio<br />

dei cieli. Spogliatevi, notaio, della vostra doppiezza,<br />

voi e tutti i lentinesi, e temetemi se non mi<br />

direte la verità… “Oi lasso! Non pensai si forte mi<br />

parisse lo dipartire da donna mia; da poi ch’io<br />

m’allontanai…


Coro<br />

Oi lasso! Non pensai<br />

Si forte mi parisse<br />

Basso<br />

Lo dipartire da donna mia;<br />

da poi ch’io m’allontanai,<br />

ben paria ch’io morisse,<br />

membrando di sua dolze compagnia;<br />

e già mai tanta pena non durai,<br />

se non quando alla nave adimorai.<br />

Ed ora mi credo morir certamente,<br />

se da lei non ritorno prestamente…


Il poeta<br />

ATTO II<br />

L’Hohenstaufen dei poeti, il beatissimo Goethe sostiene,<br />

parola mia, ciò che segue (o su per giù). “A<br />

dire il vero non vi sono in poesia personaggi storici,<br />

ma quando il poeta vuole rappresentare il<br />

mondo che ha concepito, fa l’onore a certi individui<br />

che incontra nella storia, di prendere i loro nomi<br />

per applicarli alle figure da lui create”. Nei seguenti<br />

mugolii, che il poeta a voi davanti, un<br />

Gringoire a servirvi, un paltoniere qualsiasi, vi declina,<br />

il nome Federico è inventato, tutto il resto è<br />

vero. O è il contrario?!<br />

(Le ultime parole vengono dette quando è quasi fuori<br />

scena)<br />

Coro<br />

Ragioni metafisiche mi obbligano<br />

a contrastare l’affinità<br />

Soprano<br />

Estraneità<br />

Relazioni fuggevoli


Basso<br />

Ragioni sociali mi obbligano<br />

Soprano<br />

all’amore<br />

Basso<br />

All’ umanità<br />

Soprano e basso<br />

Ragioni abissali<br />

mi obbligano a imporre la verità<br />

Coro<br />

Ragioni sociali mi obbligano<br />

all’amore, all’umanità.<br />

Ragioni abissali mi obbligano.<br />

(Tranche nel porto di Palermo. XII secolo. Un piccolo<br />

angolo, quanto basta a un qualunque marinaio venuto<br />

un giorno dalla Francia a lasciare questa)<br />

“Serénade Sicilienne”


Soprano<br />

Jours siciliens<br />

Envies par le soleil<br />

Fleuvies siciliens<br />

Que brigue aussi la mer<br />

Et toi, ma belle<br />

Contez, nymphes, souvenirs<br />

Las splendides cheuveux,<br />

le baiser, la morsure<br />

de mes dents sur votre<br />

chair de ma chair<br />

Basso<br />

Je t’étérne, mon reve<br />

Mon doute, ma nuit,<br />

Soprano e Basso<br />

Assoupi por ton parfum<br />

Basso<br />

Suffocant de chaleurs<br />

Soprano e basso<br />

… les douces ètreintes…<br />

O bords siciliens.


Soprano<br />

Immobile ile, Dieu<br />

Basso<br />

Tout brule dans le ferveur<br />

Soprano<br />

Conte de fée.<br />

Basso<br />

Sicile<br />

Soprano e basso<br />

Un matelot du treizième siècle<br />

Basso<br />

(ou du vingtième?)<br />

Soprano e Basso<br />

parmi d’obscures espoirs<br />

songe à toi


La danza dei falchi<br />

Voce di Federico (fuori scena)<br />

Saxo Yalla…quf…khatt bajna-s-sama wa-l-ard.<br />

Sahm Muhandis al Muhandisi. Saetta…Geometra<br />

dei geometri …linea tra cielo e terra.<br />

(Due qualsiasi, mentre Federico e Ibn Sab’yn si avvicinano)<br />

Uno<br />

Ecco quei due, è un giorno che parlano andando avanti<br />

e indietro, che pazzia parlare!<br />

L’altro<br />

Sono il Re Ibn Sab’yn, un filosofo…<br />

Uno<br />

I loro discorsi mi danno i brividi, ti dico. Quando<br />

parlano re e filosofi capita sempre qualche sciagura.<br />

I segni del cielo non mi piacciono. Una cometa,<br />

e un re è spacciato. Ma per un poveraccio le stelle<br />

non si scomodano di certo…


L’altro<br />

Ma qui non ci può capitare nulla, compare. Questo<br />

è teatro. Noi siamo al sicuro nella finzione. Protetti<br />

dalla stessa fantasia che ci ha messi qua sopra.<br />

(lontano voce di muezzin)<br />

Ibn Sab’yn<br />

Dio è tutto, Federico, unirsi a Lui è il fine, tutti i<br />

tuoi atti invece sono colpi di spada che dai ai tuoi<br />

legami con Dio.<br />

Federico<br />

Nella risposta che hai dato ad una mia domanda<br />

sei stato più preciso. Hai detto: “Il solo essere che<br />

esiste in realtà essendo Dio, l’uomo, essere limitato,<br />

arrivandovi, perirà”…<br />

Ibn Sab’yn<br />

Ebbene?…<br />

Federico<br />

Tu sai che il sillogismo è per me come una carezza<br />

per l’intelletto, ma terribile è la sua forza. Ciò che


tu non vorresti nemmeno sfiorare esso ti costringe<br />

a pensarlo con la potenza di mille cavalli. Non io<br />

dunque, ma il sillogismo mi spinge a questo<br />

(interrompendosi. Come divagando)… Tu sai quel<br />

che si dice, che io feci visita al Vecchio della Montagna,<br />

al Capo degli Assassini… (Riprende il discorso<br />

che aveva iniziato). Quello che mi hai risposto,<br />

Ibn Sab’yn, non mi ha lasciato in pace un momento…<br />

La forza del ragionamento, spietata come<br />

uno dei miei boia, è arrivata in un lampo a questa<br />

conclusione, ascolta. L’assassinio, la cui traccia<br />

metafisica va seguita con tenacia, rappresenta,<br />

nella sua chiave ultrasegreta, il modo come tutti<br />

moriamo. Il fatto che si distinguano gli assassini<br />

dalle vittime non è che un tributo pagato<br />

all’apparenza. Un tributo per giudici e avvocati.<br />

L’assassinio è certamente nello stesso Principio,<br />

Ibn Sab’yn. Nella matrice di tutte le cose, come hai<br />

detto tu stesso, sta in agguato il loro<br />

annientamento… e il tuo e il mio….<br />

Ibn Sab’yn<br />

(La sua voce è dolce, carezzevole) Che vuoi dire, fanciullo…<br />

Federico<br />

Che ogni morte è un collegamento a un delitto. In<br />

altre parole, tutti moriamo assassinati. (Si ferma.<br />

Sovrappensiero. Poi:) Dio è la stessa morte.


Una voce da sacerdote di “mestiere”, una voce da messa,<br />

ora più alta, ora più bassa, ora chiara, ora appena<br />

un brontolio, biascica:<br />

“…quod potius igniominiose, quam juste habendos<br />

nos dixerit a chatolica fide suspectos, quam<br />

nos, teste supremo judice, in omnibus et singulis,<br />

ejusdem articulis secundum universalem Ecclesiae<br />

disciplinam et approbationem per Romanam Ecclesiam,<br />

et symbolum firmater credimus et profitemur<br />

simpliciter” (Lettera di Federico diretta nel<br />

1246 ai prelati, ai nobili e al popolo di Inghilterra, dopo<br />

la sua condanna e deposizione pronunciata alla presenza<br />

e per opera di Innocenzo IV dal concilio di Lione).<br />

(Nel frattempo Ibn Sab’yn risponde a Federico, la sua<br />

voce è un sussurro. Ai limiti del silenzio, come tutte le<br />

cose degne)<br />

Ibn Sab’yn<br />

Io ti ho ingiuriato e vilipeso nelle mie risposte,<br />

Federico. Ma ora hai bisogno della mia dolcezza.<br />

Voglio carezzare il tuo intelletto, Federico, con<br />

tenerezza di donna… Non Dio è la morte, ma la<br />

morte è Dio. Morendo ci sciogliamo in lui come<br />

nell’abbraccio delle nostre donne nelle notti di<br />

desiderio.


Una voce (senza intonazioni particolari, come se leggesse,<br />

estranea):<br />

Il 28 shawwal dell’anno 668 dell’ègira (1271 d.C)<br />

all’età di cinquantacinque anni Ibn Sab’yn si suicidò<br />

tagliandosi le vene per rientrare al più presto<br />

nel seno di Dio. Il fine dei fini della teologia, egli<br />

aveva detto è l’unione intera con Dio. Il mezzo più<br />

veloce per arrivarvi è la rassegnazione e l’ammissione<br />

dell’impotenza del nostro intelletto. Ma poi<br />

gli apparvero il ricordo della discussione con Federico<br />

e la Verità. Il solo essere che esiste in realtà<br />

essendo Dio, l’uomo non appena vi perviene muore.<br />

Ibn Sab’yn stavolta, per pervenirvi più velocemente,<br />

trasse l’altra conclusione e affrettò la morte.<br />

Costanza<br />

Le carceri di Sicilia e di Puglia si sono riempite di<br />

prigionieri. Federico per non sentirne i lamenti li<br />

farà uccidere.<br />

Federico<br />

C’è qualcosa nel lamento che fa che gli si rifiuti la<br />

natura di linguaggio. E’ come se esso ne fosse al di<br />

qua o al di là. In ogni caso in una zona inospitale,<br />

dove non vorremmo mai mettere piede. Se si interviene<br />

si interviene per farlo tacere. Non per la<br />

pena. E’ come se al di là della sofferenza ci fosse


qualcosa di peggio. Il lamento oltrepassa la soglia<br />

della sofferenza educata e civile (c’è infatti un lamento<br />

che ubbidisce alle buone maniere) e ci conduce<br />

in una zona in cui la sofferenza è sfrenata e<br />

selvaggia. Il lamento penetra per un momento in<br />

questa zona senza difese, dove la sofferenza è pura<br />

e tocca la carne viva. Di fronte a chi si lamenta<br />

siamo perciò pronti a tutto pur di farlo tacere. A<br />

tappargli la bocca fino a farlo morire. (Esce)<br />

Costanza<br />

Gli ho sentito dire una volta: “Lesto di coltello deve<br />

essere un re come lesto di becco un falco”.<br />

Michele Scoto<br />

Tu sai come con l’arte della falconeria Federico<br />

vuole conoscere la natura e penetrarne i segreti<br />

penetrando i segreti del falcone. Ma ti sei mai<br />

chiesta chi è il falcone? Ti sei mai domandata se<br />

non è lui stesso? Il modo come piomba sulla preda,<br />

sia una verità o un nemico mortale, non lo<br />

riconosci? Non è il modo del falco?<br />

(Si avviano dietro le quinte mentre si svolge il dialogo.<br />

Nel frattempo Federico sfoglia il Liber Augustalis)


Federico<br />

Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente<br />

reali. Il resto è sogno interrotto da qualche<br />

insignificante sprazzo di veglia. Tutto ciò che ho<br />

fatto? Vuoti gesti, gusci senza polpa. Agivo? Mi<br />

agitavo, piuttosto. Solo ciò che dicevo era eterno.<br />

Solo la parola resta. Cosa rimane del mio impero<br />

se non le parole di cui era fatto?<br />

Eterna essenza del teatro! Esso divora distanze e<br />

unisce le cose più lontane e di individui chiusi e<br />

sprangati in se stessi, di eventi sparsi e senza nesso,<br />

se non quello che piace a Dio, fa una farsa o<br />

una lunga lagna, in onore di chi poi non si sa. Sulla<br />

scena del mondo appariamo e spariamo, come il<br />

mestruo delle giovani o come in questo teatro e<br />

tutti vogliono sapere perché. Quando la scienza,<br />

ad onore del vero, ci insegna che esso è solo un<br />

balbettio di bambini. Ma cosa unisce un agnello<br />

sgozzato, il volto della mia donna, i miei due maestri,<br />

il mio levriero, la merda dei miei cavalli e il<br />

qui presente? Cosa di questo immane coacervo fa<br />

un levigato specchio in cui si può specchiare persino<br />

un sorriso? Cosa tiene assieme insomma questo<br />

pasticcio? Cosa tiene unito, spero con benevoli<br />

lacci, ciò che su questa scena si è andato svolgendo<br />

(se pure qualcosa si è svolto)? Lo sguardo. Lo<br />

sguardo di Dio o di un nano basta perché ci sia<br />

spettacolo. E per gli Dei, solo spettacolo è la Terra,<br />

e il sidereo, e me e gli altri e questa scena…


Federico<br />

L’accostamento alla morte<br />

Voglio accostarmi alla morte come al mio vino. E<br />

gustarla… Fui nemico ad entrambi, a Dio e alla<br />

morte. Essi sono Uno e una fu la mia inimicizia.<br />

Allargai un impero per allargare me stesso. Per<br />

non offrire alla morte un piccolo bersaglio. Il mio<br />

impero era il mio corpo. Si, per scongiurare Dio e<br />

la morte, mi creai un impero. Anche a Dio è<br />

difficile distruggere un impero. Che strano però!<br />

Nell’atto di morire scompaiono i confini. L’impero<br />

che cercavo, l’impero senza confini, è Dio dunque?<br />

Voce<br />

Mi immergo con voluttà<br />

nel felice mare della mortalità<br />

Nell’assenza perfetta<br />

Soprano e coro<br />

Voglio morire interamente<br />

nessun residuo che non si sciolga<br />

nell’abyssus abyssum del Niente.<br />

Coro<br />

Che il niente lo accolga


Basso<br />

Risolto in Dio, dominerò in Lui<br />

attraverso Lui di nuovo imperatore sarò del mondo.<br />

Coro<br />

Florebat olim – Floribus omnia vestiebantur –<br />

florebat illo tempore.<br />

FINE


Poesie<br />

Edizioni La Pietra Infinita, 1998<br />

I<br />

Dimmi, un attimo prima della<br />

putrefazione<br />

quali evidenze, prove<br />

mi porti della tua sorte?<br />

Mentre la lingua cade marcia<br />

quali parole pronuncia?<br />

Il seno che palpasti è<br />

frollo, sfatto<br />

non ne gode il tatto<br />

come una volta mentre,<br />

dentro di me il tuo pene,<br />

sfrigolava la mia potta.<br />

Lei si volta e mi dice,<br />

sono morta.


II<br />

No, questa parola non basta!<br />

i tuoi occhi sono grumo giallastro,<br />

poltiglia stracca.<br />

Le tue guance un alito le stacca.<br />

No, questa parola non basta!<br />

E’ solo morte, questa?<br />

III<br />

Seduto sotto i terebinti, sai a Mamre<br />

Jahveh mangia a sazietà ricotta<br />

vitello arrosto e pane:<br />

se ne fotte il cane.<br />

IV<br />

Proverò a cominciare dall’inizio,<br />

ha detto Agatha Christie<br />

come un teologo provetto.<br />

Chi mi ha ucciso, dimmi<br />

chi mi ha ucciso?<br />

Scoprilo, tu che hai scoperto<br />

chi uccise John. Chi uccise Muriel…<br />

chi uccise un’infinità di uccisi.<br />

Scopri chi uccise uberhaupt,


si, uccide in generale.<br />

Persa, ogni fatica è persa:<br />

Dio è la morte stessa.<br />

ILLE OMICIDA ERAT AB INITIO.<br />

V<br />

Allora Eud si accostò<br />

al re e gli disse: ho una parola per te,<br />

gli disse – da parte di Dio.<br />

La spada dal fianco trasse<br />

e gliela piantò nel ventre<br />

nel grasso ventre<br />

da parte di Dio. – Giudici, 3.20 – 21<br />

VI<br />

Sfera di cristallo:<br />

stella era, stella<br />

ora imputridita<br />

a causa della vita.<br />

Stella sarà.<br />

Via, per sempre.<br />

Disdici dalla terra<br />

ogni cosa che vive<br />

lascia solo una rosa.<br />

Mi empio di questa terra


che daccapo la luce riprende<br />

risplende, l’ombra scompare<br />

sgombra rientra<br />

nello stanco tango universale.<br />

VII<br />

L’essere è screditabile e saputo.<br />

Via stracci, veli, avvolto<br />

in stracci e garze, ciò che resta<br />

tracce di biancospino attorcigliato<br />

Nudo è Batillo.<br />

Dio e le leggi meccaniche dell’urto,<br />

ecco tutto.<br />

Voglio che dal nostro abbraccio<br />

Trasudi idea<br />

Oltre che carne e scolatura.<br />

Umidori esalano dalla vagina,<br />

dal cervello il problema della verità<br />

matura.<br />

VIII<br />

Ti sei lamentato bene<br />

pattoniere.<br />

Smarrito nelle ceneri<br />

scovavi sostanze


mio Gringoire.<br />

Sui giacigli non stavi<br />

pieni di dubbi e di riposi.<br />

Nei golfi del Sud<br />

non cercavi giardini.<br />

Azzurri scogli dettano rapine<br />

e risposte alla fine.<br />

Mon dèlinquant.

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