SCRITTI - Franco Battiato Archive
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<strong>SCRITTI</strong>
Vanini e l’empietà<br />
Prefazione alla ‘Confutazione delle religioni’ di<br />
Giulio Cesare Vanini<br />
Il naturalismo vaniniano non è un naturalismo<br />
molle e sdilinquito. Non accarezza col termine<br />
natura vecchie fisime, né trasfonde in essa le<br />
paturnie del volgo pensante. “Potentia coeca”, la<br />
natura “appetit et vorat”. Questa voracità della<br />
natura la trasforma in un permanente massacro<br />
dove essa divora se stessa. Così quando Vanini<br />
identifica la natura con Dio il lettore maligno (nota<br />
giustamente Schopenhauer che Vanini fa<br />
assegnamento sulla malignità del suo lettore) il<br />
lettore maligno, dicevamo, sa quello che deve<br />
intendere. In realtà si è afferrato il metodo del<br />
Vanini quando si è capito una volta per tutte che è<br />
la tesi da lui confutata con disdegno e biasimo ad<br />
essere invece quella che egli sostiene. (Anche qui<br />
ci guida Schopenhauer). Hegel, che legge Vanini<br />
senza malignità, può affermare, senza scandalo<br />
alcuno, che il naturalismo del Vanini mostra che<br />
Dio è la natura e che tutte le cose ne sorgono<br />
meccanicamente (Hegel, lezioni sulla storia della<br />
filosofia, trad. it. v. III, 1, Firenze 1934, pp. 230-<br />
233). Semplice. Ma se questa natura è proprio ciò<br />
che sta alla base di quanto poi De Maistre, quest’altra<br />
grande maschera del Theatrum philoso-
phicum, chiama il ‘carnage’ oppure ciò che trascina<br />
tutti gli esseri in mutua funera, non dissimilmente<br />
dal Vanini, allora la faccenda sa di ridicolo. Il quale<br />
si raggiunge pienamente con Voltaire. Nel<br />
Dictionnaire philosophique Vanini viene definito un<br />
povero teologo ortodosso e, aggiunge ancora Voltaire,<br />
“sa notion de Dieu est de la théologie plus saine<br />
et la plus approuvée”. Cosa ancora più grave per la<br />
stima che ne abbiamo, anche il grande Brucker<br />
nella Historia critica philosophiae cade nella stessa<br />
ingenuità: “Quicquid igitur vel in philosophiam,<br />
vel in Christianam fidem peccavit Vaninus,<br />
peccavisse autem levem futilemque scriptorem<br />
plurima fatemur, non tam impietati directa”. Scrittore<br />
futile e leggero si metterebbe nei guai per<br />
questo, ecco per Brucker il succo di tutta la faccenda.<br />
Indubbiamente Vanini ha un modo di filosofare<br />
pieno di segreti. Le ossessionanti citazioni<br />
dal Cardano, dallo Scaligero o da Pompanazzi, per<br />
dirne alcune, servono in realtà a nascondere e a<br />
fare apparire, in un giuoco impertinente, tre o<br />
quattro cose su Dio, tre o quattro battute sulla vita.<br />
Ma in questi fulminanti aforismi, compare<br />
scompare e ricompare il pensiero del Vanini senza<br />
alcuna dissimulazione. Anche Hegel li chiama<br />
“leggeri tratti di spirito” e nient’altro”. Ma il metodo<br />
hegeliano non ammette spazi vuoti e non si<br />
dimentichi che il pensiero di Hamann, ad esempio,<br />
Hegel non lo considererà ‘sapere’ ma ‘umore decomposto’<br />
e ‘furiosi scoppi di collera’. Nelle Pensée<br />
diverses sur la comète c’è un curioso giudizio del
Bayle che va molto vicino: Vanini, dice il Bayle,<br />
“sarebbe stato capace di morire per l’ateismo anche<br />
se fosse stato convinto dell’esistenza di Dio”.<br />
In realtà, per Vanini, tutto fa pensare che Dio<br />
esista. Ma si tratta di una Natura e di una Vita – e<br />
quindi di un Dio – a cui l’uomo è legato come alla<br />
sua maledizione. “Tot tantisque homo repletur miseriis,<br />
ut, ...dicere auderem: si Daemones dantur,<br />
ipsi in hominum corpora transmigrantes, sceleris<br />
poenas luunt” (De admirandis, Dial. L, p. 353; “La<br />
vita dell’uomo è afflitta da così tanta miserie che...<br />
gli stessi demoni, se veramente esistono, oso dire<br />
che transmigrano nei corpi umani per pagare con<br />
l’esistenza le loro colpe”). Sta proprio qui il<br />
segreto del Vanini: l’empio crede a Dio non in<br />
Dio. Secondo questo testo di Agostino infatti:<br />
“Nam et demones credebant ei, et non credebant<br />
in eum. Quid est ergo credere in eum? Credendo<br />
amare, credendo diligere, credendo in eum ire”. (In<br />
Johannis evangelium, XXXIX, 7, 6). Il rifiuto di<br />
‘amare’ Dio: è tutto qui il segreto vaniniano. Un<br />
ateo dunque Vanini? Ne dubitiamo. Un libertin?<br />
Troppo poco. Un esprit fort? Certamente. Ma sicuramente<br />
un empio. O, come abbiamo detto sopra,<br />
uno che non crede in Dio ma solo a Dio. Uno<br />
che giuoca il gioco dell’empietà per intero. Senza<br />
esitazioni. Vanini appartiene dunque alla storia<br />
dell’empietà non alla storia dell’ateismo. Una<br />
storia che è ancora da scrivere. Confusa finora con<br />
la storia dell’ateismo, la storia dell’empietà attende<br />
un taglio, più in alto o più in basso di quello che si
pratica, inferto alla storia stessa del concetto di<br />
Dio. Dio e le leggi dell’urto – la meccanica cioè –<br />
sono questi, per Vanini, le famose radici delle cose.<br />
Ma in Vanini non sono le solite definizioni e i<br />
soliti argomenti, bensì boutades e fulminee scorrerie<br />
a mostrare come stanno le cose: così il paragone<br />
tra il cielo e le sue leggi, ‘fatti’ entrambi da<br />
Dio, e i congegni di un orologio fabbricato da<br />
qualche tedesco ubriaco (“coeli certis statisque<br />
legibus moventur” proprio come “in horologiorum<br />
mechinulis, ab ebrio Germano elaboratis, certa<br />
stataque motus lex viget”, De admirandis, Dial. IV,<br />
p. 21) vengono fulmineamente accostati e dicono<br />
infine la stessa cosa. Nella visione meccanicistica<br />
moderna Vanini ha un posto singolare. Il suo<br />
naturalismo, come abbiamo già detto, non è un<br />
naturalismo esaltato e irresponsabile ma capisce<br />
bene quell’impotenza della natura che secoli più<br />
tardi Hegel teorizza. La teoria dell’imbecillitas<br />
naturae (De admirandis, Dial. XXXIX, p. 247) non<br />
è il piedistallo che innalza l’uomo su di essa (“Nihil<br />
vetat... naturae imbecillitati adminiculari”, ibid.). O<br />
almeno non è solo questo. Non bisogna dimenticare<br />
che tutto si tiene in Vanini. Se la natura è<br />
stupida, Dio è obtus. E non appartiene certo alla<br />
buffonerie del Vanini – così chiamava Renan certi<br />
tratti del suo carattere – né tanto meno alla<br />
‘dissimulazione’, mai da lui in realtà praticata, che<br />
egli nel titolo del De admirandis chiamasse la<br />
Natura ‘Dea’, quella natura che Vanini sapeva<br />
ostile all’uomo e lo dimostrava impietosamente
nella stessa opera. Col suo metodo ironico, tra lo<br />
smaccato elogio del titolo e quanto in realtà vi è<br />
nel testo egli provoca un corto circuito dal quale<br />
scaturisce l’atto stesso di intelligenza. Non diversamente<br />
avviene sul piano del suo singolare copernicanesimo:<br />
la materia dei cieli è la stessa di<br />
quella d’una pulce o di uno scarabeo, egli afferma.<br />
E quanto alla materia dell’uomo essa non è diversa<br />
da quella dello sterco asinino. Chi può distinguerla<br />
infatti da quella di un topo o di un verme? (De<br />
admirandis, Dial. I, p. 10). A questo punto la confutazione<br />
delle religioni, segnatamente nella parte<br />
del De admirandis, ha un ruolo decisivo e diventa il<br />
filo steso ad attraversare e a dare unità all’opera.<br />
L’impossibilità della religione sta nella stessa<br />
impossibilità di ‘venerare’ Dio. Non soltanto mostrando<br />
l’imbecillitas di quella Natura che è Dio<br />
stesso ma adombrando l’essenza della natura come<br />
perpetua distruzione (come al suo solito Vanini<br />
non mette su piramidi di argomenti ma un efficacissimo<br />
apologo: “araneus, qui famelicus patrem<br />
necavit, dum coibat, meditatus est se patrem<br />
futurum..., quare verisimile est et de patris sui, qui<br />
ad ipsum filium relationem dicit, interfectione<br />
aliquid cogitasse; aliquid patricidi imagine in eius<br />
residente imaginativa affecti sunt spiritus, qui,<br />
cum sint forma seminis, consimili perversa specie<br />
decolorantur. Quare foetus inde nascitur paternae<br />
mortis desiderio affectus, atque ita per longissimam<br />
seriem araneorum patricida continuantur”.<br />
(“Un ragno che, affamato, aveva ucciso il padre mentre
faceva l’amore, pensò che sarebbe diventato padre... È<br />
perciò verosimile che egli abbia richiamato alla mente<br />
il pensiero della morte del padre, il cui concetto esprime<br />
la relazione col figlio. Ora, dall’idea del parricidio che<br />
si trovava nella sua immaginazione furono modificati<br />
gli spiriti i quali, essendo forma del seme, lo contaminarono<br />
con la medesima immagine perversa. Perciò ne<br />
nacque un feto, affetto dal desiderio di uccidere il padre.<br />
E così per una lunghissima serie di ragni continuarono<br />
i parricidi”. De admirandis Naturae reginae<br />
deaeque mortalium arcanis, Lutetiae MCDXVI<br />
– Dial. XLIX p. 343, trad. it. F.P. Raimondi – L.<br />
Crudo, Galatina 1990, p.377). Nessuna religione<br />
dunque: ma con ciò Vanini non è su posizioni<br />
‘anticipatrici’ di quell’illuminismo che dà luce ma<br />
non brucia. Non è per far posto alla ragione (laddove<br />
questo aspetto vien fuori, è debole) ma niente<br />
può e deve ‘legarci’ ad una Natura matrigna e<br />
ostile, a questo ‘divertente’ giuoco di vita e di<br />
morte. È qui che si deve far ricorso all’empietà come<br />
specifico concetto se si vuole veramente capire<br />
la posizione di Vanini. Per empietà non si intende<br />
sic et simpliciter, la negazione della creazione del<br />
mondo e della Provvidenza, della spiritualità dell’anima<br />
e della sua immortalità, la distruzione<br />
della credenza ai miracoli, insomma tutti gli intingoli<br />
del libertinismo erudito. Empietà in questo<br />
senso è solo un concetto polemico, un concetto<br />
negativo. In Vanini essa si precisa invece come<br />
uno stato degli affetti, come un atteggiamento<br />
davanti a Dio. La corona delle sue riflessioni è la
negazione imperterrita di quel concetto confuso<br />
che è quello di libertà. La strada della filosofia è<br />
lastricata di desideri ma un filosofo non deve avere<br />
cose care. E davanti a questo concetto, così pieno<br />
di pietà per noi ma così falso, Vanini non ha titubanze:<br />
“si nollet Deus pessimas ac nefarias in orbe<br />
vigere actiones, procul dubio uno nutu extra mundi<br />
limites omnia flagitia exterminater profligaretque:<br />
quis enim nostrum divinae potest resistere<br />
voluntati? Quomodo invito Dio patrantur scelera,<br />
si in actu quoque peccandi scelestis vires subministra?<br />
Ad haec: si contra Dei voluntatem homo<br />
labitur, Deus erit inferior homine, qui ei adversatur,<br />
et praevalet. Hinc deducunt, Deus ita desiderat<br />
hunc mundum, qualis est, si meliorem vellet,<br />
meliorem haberet” (“... Se Dio non volesse che si diffondessero<br />
nel mondo azioni pessime e delittuose, senza<br />
dubbio, con un sol cenno, annienterebbe e bandirebbe<br />
fuori dai confini dell’universo ogni infamia. Chi di noi,<br />
infatti, può resistere alla volontà di Dio? E in che<br />
modo si può commettere un delitto contro la volontà<br />
divina, ammesso anche che nell’atto di peccare Dio fornisca<br />
al reo la forza per farlo? E ancora, dicono, se<br />
l’uomo cade in peccato, contro la volontà di Dio, allora<br />
questi sarà inferiore all’uomo, che riesce ad opporglisi e<br />
a prevalere su di Lui. Da ciò deducono che Dio desidera<br />
questo mondo così come è. Ché se lo volesse migliore,<br />
lo avrebbe”. Amphitheatrum aeternae providentiae,<br />
Lugduni MDCXV, p. 103 – , trad. it. F.P.<br />
Raimondi – L. Crudo, Galatina 1981, p.131).<br />
L’esistenza di Dio non significa dunque né alcuna
‘libertà’ né alcun mondo migliore. Il mondo è<br />
quello che è; Dio è quello che è. Come una grazia<br />
l’empietà scende per un momento su questa massa<br />
compatta di essere – è tutta qui la libertà che<br />
abbiamo davanti a Dio – che subito si richiude su<br />
di essa.
Postfazione<br />
Dal ‘Saggio di un discorso coerente sui rapporti tra<br />
Dio e il mondo’ di Julien Benda<br />
Vi sono opere filosofiche che non rispecchiano i<br />
bisogni dell’epoca e neanche quelli della specie.<br />
Vengono come da un’altra parte e non si annunciano<br />
nemmeno. Ad un tratto qualcuno, non si sa<br />
come, entra in rapporto con esse anche se tutto fa<br />
pensare che non vi possa essere nessun rapporto.<br />
Quale relazione infatti si può immaginare tra questo<br />
Essai e un comune individuo d’oggi? Quale<br />
legame fra un comune filosofo d’oggi e quest’opera?<br />
Sembra tutto scontato: essa è inutile alla<br />
specie, all’individuo, alla filosofia. Certo l’Essai è<br />
un’opera immobile. Dalla prima all’ultima parola<br />
tutto è simultaneo. Chi vi entra, deve tentare di<br />
essere eterno. In ogni caso un atto che si disincarni<br />
è richiesto. La scena è preparata perché<br />
quello che avviene duri solo un istante. Insomma è<br />
richiesto un atto, non un interpretazione. Chi vuole<br />
capire capisca, ma non si tratta di questo. Si sa<br />
che quanto oggi chiamiamo “lettura” è solo un<br />
debole rapporto. Infine di che cosa si tratta? Di un<br />
libro. Ciò attenua la tensione (se mai all’inizio vi è<br />
stata). Tutto diventa una tranquilla faccenda in cui<br />
niente di decisivo può accadere a una mente. Tuttavia<br />
teniamolo presente: davanti a un’opera fi-
losofica le uniche regole che valgono sono quelle<br />
dell’ascesi concettuale. Cade la sua banale realtà di<br />
libro e il nucleo di idee, come se si sorreggesse su<br />
se stesso, appare e ci folgora.<br />
L’idea di Dio e il suo rapporto con l’idea di<br />
mondo è un tema speculativo che la filosofia occidentale<br />
ha da tempo buttato ai cani. Del resto è<br />
scomparsa la stessa idea di realtà. Per il filosofo<br />
comune essa è la sua immagine. La gnoseologia, la<br />
scienza di fantasmi, prese a suo tempo il posto<br />
della teologia, scienza della più “grande” delle realtà.<br />
Di ciò si menò vanto come di una conquista<br />
della riflessione filosofica. Ma non appena il problema<br />
della realtà riacquista il suo diritto alla riflessione,<br />
l’eterno problema si riaffaccia. L’idea che<br />
Benda professa è quella di un infinitismo integrale.<br />
Un infinito in cui tutte le determinazioni vengono<br />
risolte, ogni distinzione ingoiata. Quanto a noi riteniamo<br />
che non si possa mantenere questa idea di<br />
infinito ed evochiamo l’idea di “smisurato” come<br />
più appropriata. È evidente che così tutto cambia.<br />
L’idea di Dio che persegue Benda non è quella del<br />
“nulla” con cui i mistici si beffano da sé stessi. Ma<br />
quella di una possibilità permanente di annullamento.<br />
Questa idea è insidiosa. Essa elogia ogni<br />
attentato all’individualità come un privilegio. Ne<br />
fa il divino stesso. Benda condivide lo sdegno per<br />
l’empietà come uno qualsiasi. “Se l’empietà consiste,<br />
per un essere, nella sua separazione da Dio, il<br />
mondo fenomenale, per il solo fatto che è fenomenale<br />
è nell’empietà”. In altre parole lo stato di
empietà è lo stato di chi vuole sé stesso davanti ad<br />
un infinito che non lo vuole. Per Benda l’individuo<br />
è dunque naturaliter empio. Ma tutto ciò è praticamente<br />
vano se l’oggetto del suo pensiero, come<br />
egli dice, “n’est pas Dieu (substantif)”, ma “c’est le<br />
divin (adjectif appliqué au monde)” (p.37). Noi che<br />
prendiamo le mosse dallo smisurato, assentiamo a<br />
che Dio sia inconcepibile al di fuori del mondo. Ma<br />
riteniamo che il nomen Dei sia il terminus thecnicus<br />
per tutto questo pasticcio e “divino” solo una exornatio.<br />
Si devono in ogni caso tenere stretti alcuni<br />
punti del suo “discours”. In questo sistema, scrive<br />
Benda, Dio non è, come certuni credono, la vacuità<br />
dell’essere, ma la totalità dell’essere: tutti gli stati<br />
del mondo, passati, presenti, futuri, sono in Dio; è<br />
unicamente la loro distinzione che non vi è.<br />
Né io né tu dunque o, secondo le parole del De<br />
divisionae naturae di Scoto Eurigena: “erit enim<br />
Deus omnia in omnibus quando nihil erit nisi solus<br />
Deus”. Noi che pratichiamo la separazione da Dio e<br />
dunque l’empietà stessa vediamo in essa quel<br />
tentativo di essere che solo un Dio annullato potrebbe<br />
far riuscire. Ciò dà un ulteriore ragione a<br />
Benda: il mondo fenomenico non è concepibile in<br />
rapporto a Dio che come separazione da dio; o<br />
anche: il mondo fenomenico non è concepibile in<br />
rapporto a Dio che in stato di avversione a Dio<br />
(pp. 43-45). Si sviluppa qui una teologia che Benda<br />
nemmeno sospetta. L’infinitismo integrale, abbiamo<br />
detto, ci induce ad asserire che Dio non è il<br />
Niente, ma l’Annientante. Ciò mette in dubbio
tutta una tradizione di puri adoratori che va da<br />
Spinoza a Benda stesso. Altri lavoreranno invece<br />
sui dati dell’empietà. Non è ovviamente la via di<br />
Benda. Ma per intanto bisogna fermarsi davanti a<br />
questo Essai. Praticare la santa passività dell’intelligenza.<br />
Lasciare scorrere nella propria mente i<br />
suoi mirabili concetti. Qualcosa accadrà.
Piccola glossa al ‘Trattato della<br />
concupiscenza’<br />
di Jacques-Benigne Bossuet<br />
Le sottili ricognizioni di Bossuet sulla concupiscenza<br />
superano il quadro cristiano-cattolico<br />
non nel senso che ne prescindono ma nel senso<br />
che buttano oltre di esso i germogli. Una cultura<br />
che non esamini le proprie smodatezze, si può mai<br />
concepire? Bossuet non patteggia nemmeno col<br />
suo cattolicesimo. Da vero rappresentante dello<br />
spirito ne esamina anche le sregolatezze e le supponenze.<br />
E su un sapere che sia solo curiosità (e<br />
quanti saperi oggi non sono che indisponente curiosità)<br />
egli lancia l’anatema. Anatema contro ogni<br />
anima curiosa. Sviscerare la concupiscenza suppone<br />
passione. Una passione dello stesso tipo. Anzi<br />
più forte, come aveva avvertito Spinoza. La critica<br />
dei sensi viene dunque affrontata sistematicamente.<br />
Ma ancora sulla curiosità occorre dire<br />
che non è fustigata soltanto quella che immagina<br />
oggetti vani ma la più gloriosa e imponente: quella<br />
dello spirito. Cosa dire infatti del meraviglioso<br />
brano che magari ci strazia le carni ma che subito<br />
dopo riconosciamo riverenti? Sotto giudizio è<br />
infatti la curiosità di quelli che “si immergono<br />
nella storia, nella filosofia o in qualsiasi genere di<br />
lettura, soprattutto se si tratta di novità, di romanzi,<br />
di commedie o libri di poesia, lasciandosi<br />
talmente possedere dal desiderio di conoscere da
non possedersi più essi stessi. Poiché tutto questo<br />
altro non è se non una forma di intemperanza, una<br />
infermità, una sregolatezza dello spirito, un inaridimento<br />
del cuore, una miserabile schiavitù che<br />
non ci lascia l’agio di pensare a noi stessi...”. Il disgusto<br />
della frivolezza che Bossuet ci comunica<br />
non risparmia il lusso dello stesso spirito. Ci sentiamo<br />
dei barbari coi nostri libri, degli idolatri coi<br />
nostri quadri. Subiamo la tentazione delle nostre<br />
teorie, per cui sbaviamo. Bossuet ci induce a sospettare<br />
la fascinatio nugacitatis persino nell’amore<br />
più casto, nell’ ‘amore per la verità’. Anche questa<br />
dunque una tentatio concupiscentiae? Una critica<br />
degli occhi è indispensabile. Bisogna compensare<br />
la delizia di questo senso con la parte del diavolo.<br />
Questi occhi avidi, mai sazi, inseguono le minute<br />
volute delle cose, e si ingozzano di precarie immagini.<br />
Per una parte la vista è inutile. Per questa<br />
parte Bossuet è implacabile: ritira i tuoi occhi da<br />
queste cose illusorie, egli comanda. Sdegna questi<br />
maliziosi allettamenti, egli aggiunge. E infine:<br />
“Non amate il mondo dove tutto è illusione e corruzione<br />
della concupiscenza degli occhi”. In questa<br />
teoria della vista si inseguono elementi che assegnano<br />
al mondo quella parte che il nostro orgoglio<br />
conferma. Noi siamo superiori al mondo.<br />
Insomma l’orgoglio dello spirito ci sembra indiscutibile<br />
e perverso. Bossuet vede solo la perversione.<br />
Qui chi scrive dissente. La caduta dell’uomo<br />
consiste principalmente nell’orgoglio,<br />
scrive Bossuet. “Precipitando dall’alto e decadendo
dalla condizione divina, l’uomo cade essenzialmente<br />
su se stesso”. Queste parole del De civitate<br />
Dei di S. Agostino danno la nostra misura e indicano<br />
il nostro volere. Qui ci opponiamo a S. Agostino<br />
e a Bossuet. Noi vogliamo cadere. Sosteniamo<br />
con tutte le nostre forze il principium individuationis<br />
legato alla caduta. L’orgoglio non è che<br />
un altro nome per la stessa volontà di cadere.<br />
Tutto ciò è descritto dallo stesso Bossuet in modo<br />
mirabile.<br />
Cosa cambia allora? La nostra accettazione al<br />
posto del suo rifiuto. Ma ascoltiamo Bossuet: “Dovevamo<br />
prima cadere su noi stessi perché, come<br />
quel corso d’acqua che si rovescia prima sulla roccia<br />
e scava profondamente nel punto in cui cade,<br />
così l’anima nostra, cadendo su se stessa, produce<br />
dentro di sé una prima piaga profonda. L’impronta<br />
della sua eccellenza, della sua grandezza... vuol<br />
pascersi dello spettacolo della sua perfezione”. Noi<br />
ci fermiamo qui, Bossuet prosegue sino alla condanna.<br />
Ad un certo punto Bossuet ci dà una descrizione<br />
infernale della concupiscenza: “Essa si<br />
muove con movimenti irregolari, a seconda di come<br />
soffia il vento. Non soltanto si vogliono cose<br />
diverse se si è sani o ammalati, se si sta vivendo<br />
l’infanzia o la giovinezza, la maturità o la vecchiaia,<br />
se si è in un periodo buono o cattivo; si vogliono<br />
cose differenti di notte, quando si presentano i<br />
pensieri cupi, o di giorno, quando vengono dissipati.<br />
...Oggi ci si trova diversi da ieri senza sapere<br />
il perché, tranne che si ama il cambiamento. Ma
non si cambia per essere migliori”. Questo è il lato<br />
disprezzabile della concupiscenza e non si può che<br />
convenire con Bossuet. L’altro lato invece è tutto<br />
dalla nostra parte. Vorremmo chiedercelo ancora:<br />
cos’è dunque la concupiscenza? L’amore di sé e<br />
della propria grandezza, infine. La nostra volontà<br />
al posto di quella di Dio, ecco come la definiremo.<br />
Quanto a Bossuet, la concupiscenza deve scomparire<br />
davanti all’amore più alto, all’amore di Dio.<br />
Ma noi abbiamo orrore per Dio e amore per la<br />
nostra grandezza.
Devozione allo spazio<br />
Postfazione a ‘Dello spazio’ di Giuseppe Raciti<br />
La cogenza dell’atto di leggere imprimerebbe a<br />
ciò che si legge il suo stesso suggello. Ma come<br />
uno ne esce veramente non è deciso da abitudini<br />
mentali o dalle proprie viscere ma dall’accanito agire<br />
del pensato. Più il nucleo di pensiero resiste,<br />
più ci perseguita. Chi legge come si deve si espone<br />
a un danno. Ma egli legge come si deve perché<br />
qualcuno pensò come si deve.<br />
Se l’attenzione non deflette ritroviamo lo spazio<br />
sin dall’inizio. Quanto s’è parlato della prossimità!<br />
Quante parole inutili! La distanza tra due esseri<br />
non sarà mai abolita. Lo spazio sarebbe, giusto la<br />
definizione raccolta da Kant e riproposta in proprio,<br />
possibilità di coesistenza. Non appare, ma eguale<br />
è l’intuizione di spazio che sta alla base della<br />
morale kantiana; l’estetica trascendentale, per così<br />
dire, dell’etica. La possibilità di coesistenza è<br />
infatti il taciuto della morale kantiana che, in obbedienza<br />
alla purificazione dell’empirico, non mostra<br />
tutte le sue carte. Lo spazio assicurerebbe la<br />
stessa socievolezza e in ogni caso farebbe coesistere<br />
cose ed esseri empirico-razionali e gli esseri<br />
empirico-razionali fra loro. Lo spazio, come possibilità<br />
di vicinanza, garantisce gli elementi<br />
estetici sui quali opera l’analitica morale. Esso già
assicura quella unità su cui operano ulteriormente<br />
gli imperativi come vere e proprie categorie. Infatti<br />
gli imperativi sarebbero vuoti senza l’intuizione<br />
avvicinante dello spazio. Ma questa visione<br />
non coglie l’elemento determinante dello spazio.<br />
Lo spazio, cioè, come allontanamento, dispersione,<br />
distanza, su cui insiste l’autore di questo libro intelligente.<br />
Una certa devozione allo spazio ci induce<br />
però a resistere alla tentazione di aderire alla<br />
tesi che lo spazio è, esso medesimo, il dominio della<br />
volontà. Abbiamo immaginato questa analisi.<br />
Un quadro occupa uno spazio la cui intelligibilità<br />
ne resta lesa. Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di<br />
occupare è l’atto stesso di esistenza. Senza quest’atto<br />
il quadro non esiste. È solamente là. Lo spazio<br />
dunque respinge il quadro. Se ne avverte la<br />
resistenza allorquando gli occhi che tentano di<br />
posarsi su di esso sono invece sospinti a forza sul<br />
suo rapporto con lo spazio. Ecco che allora tutto si<br />
sovverte. Non è il quadro to timiòtaton, ma lo spazio<br />
che lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il<br />
quadro allora diventa l’occasione perché lo spazio<br />
si mostri. Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce<br />
da protagonista riducendo lo spazio a un mezzo.<br />
Ma di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il<br />
quadro che inizia la sua misera esistenza. In effetti<br />
chi non ‘vede’ lo spazio non vede nemmeno il quadro.<br />
Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo<br />
vuoto. Esso non vorrebbe che fosse mai occupato.<br />
Il vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita<br />
sull’individuo.
All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro<br />
non è nemmeno ‘visto’. Lo spazio e solo ci interessa.<br />
L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato. A<br />
poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa un<br />
essere geometrico. Qualsiasi quadro offende lo<br />
spazio. Turba il grande vuoto che ci invia il suo<br />
appello. Il quadro dunque è un disturbo, un inceppo,<br />
un graffio magari, un segno comunque che<br />
la solennità di questa sovrana omogeneità è turbata.<br />
Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa<br />
ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro nasce<br />
come una malattia dello spazio, un’escrescenza velenosa,<br />
un attentato alla sua divina integrità. Ma<br />
solo se questa offesa si realizza, solo se un quadro<br />
ha questa forza di lacerare il suo ordine segreto,<br />
allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio l’inghiotte,<br />
lo ricompone nella immensa pace, senza<br />
increspature, della sua superficie.<br />
Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio<br />
che minaccia di incorparle. Un quadro deve anzitutto<br />
affermarsi davanti allo spazio. Da un lato<br />
esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se volesse<br />
in qualche modo diminuirne la sorgente<br />
inesausta. Dall’altro sembra che ‘doni’ spazio.<br />
Fermiamoci qui. In questo complesso scambio<br />
sembra il punto più fermo. Un quadro riesce<br />
allorquando dona spazio. Allorché non ruba lo<br />
spazio, ma lo aumenta. Così lo spazio ora lo<br />
accoglie, gli dà ricetto, una nicchia. Lo accoglie<br />
dentro se stesso. Esso vi scompare. Fa ormai parte
dello spazio. Non come prima, però, quando lo<br />
spazio lo cancellava con un gesto indifferente.<br />
Adesso lo spazio lo accoglie. Esso diventa, in qualche<br />
modo, un punto d’onore dello spazio, un suo<br />
luogo privilegiato. Ma in tutto questo agisce ancora<br />
l’essenza dello spazio. Come se un abisso<br />
fosse al di dentro di esso. Infine, ciò che è accolto<br />
dallo spazio vi scompare. Così l’opera d’arte ha a<br />
che fare con lo spazio o può essere solo un segno<br />
avvilente, una cattiva macula, una disomogeneità<br />
senza importanza e scomparire nello spazio come<br />
in un cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio<br />
ma nel senso che anch’essa ormai ne fa parte.<br />
Che lo spazio l’accoglie e la benedice. Questo sprofondare<br />
nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà<br />
di un quadro: immaginiamo lo spazio non<br />
dissimile dalla nolontà...<br />
Questo sorprendente essai esce fuori dalle tiritere<br />
consuete. V’è in esso una squisitezza senza di<br />
cui il pensare non oltrepassa la funzione fisiologica<br />
e lo possiamo lasciare tranquillamente dov’è.<br />
Siamo sempre colpiti dall’ ‘ingiustizia’ di un pensiero<br />
che ci viola, che vuole toglierci la nostra verità<br />
e installarvi la propria. Ma in questi luoghi si<br />
regna uno alla volta.
La malattia dello spazio<br />
Da ‘Insulae, l’arte dell’esilio’<br />
Nel mostrare si mostra il mostrare stesso. Bisogna<br />
distinguere l’atto del mostrare da ciò che si mostra.<br />
Senza questo perdiamo l’essenza del mostrare<br />
ed esso diventa un mero segnale, una povera indicazione.<br />
Ben poco, infine. Comunque non quello<br />
che si vuole.<br />
Si deve anzitutto esporsi al “niente” che si insinua<br />
tra l’atto e la cosa. Soffermarsi su di esso, farne il<br />
tema iniziale di un impegno visivo. Non guardare<br />
ciò che si vede, ma il vedere. Non guardare ciò che<br />
si mostra, ma il mostrare. Il vuoto che si delinea è<br />
uno spazio più spesso. È come se esso fosse pieno<br />
e non vi entrasse più niente. Così il vuoto viene<br />
percepito come resistenza. Come se esso espellesse<br />
ogni altra cosa. Ma cos’è ciò che resiste? Niente.<br />
“Niente” ci resiste.<br />
Lo spazio è occupato, ma da se stesso. Tuttavia se<br />
chi guarda non apprende a guardare prima di tuto<br />
lo spazio, non ci può essere “mostra”. E quelle<br />
“cose” appese a una parete non si “vedono” neppure.<br />
Cosa si mostra dunque nell’atto del mostrare?<br />
Si è detto, il vuoto. Ma come se esso occupasse<br />
lo spazio e non ci fosse posto per altro. Lo<br />
spazio è ingombro di se stesso. Ogni altra cosa è<br />
una intrusa.
Attraverso questi atti che evocano dunque lo spazio,<br />
attraverso questi atti iniziatici, si apprende<br />
man mano l’atto del mostrare. Solo ora si può<br />
guardare. Ciò che c’è emerge dunque dal mostrare.<br />
Se non si mostra il mostrare stesso non si può<br />
“guardare” nulla perché nulla si può “vedere”. Solo<br />
dopo che si è mostrato il mostrare, solo assieme al<br />
mostrarsi del mostrare, si comincia finalmente a<br />
vedere. Solo allora c’è “mostra”.<br />
Una ragionevole domanda di Heidegger – “La<br />
scultura corrisponde (...) alla conquista tecnicoscientifica<br />
dello spazio?” (Die Kunst und der Raum)<br />
– pone non trascurabili problemi. Mentre, nello<br />
stesso tempo in cui lo spazio si affermava con<br />
Galilei e Newton, la letteratura indietreggiava<br />
davanti ad esso – Corneille, ad esempio, parla solo<br />
una volta delle stelle, nel Cid, e Racine solo una<br />
volta del sole – l’arte figurativa si rende conto di<br />
essere arte spaziale. In un primo tempo sembra<br />
che contenda lo spazio allo spazio. In questo senso<br />
essa partecipa alla “conquista” dello spazio.<br />
Ma in questa lotta un quadro, una scultura, alla<br />
fine perdono. Alla fine lo spazio li inghiotte. Se<br />
essi vogliono contendere lo spazio allo spazio non<br />
possono che perdere. Ma se si abbandonano allo<br />
spazio, allora essi vincono assieme allo spazio.<br />
Perché un giorno tutto sarà spazio.<br />
Abbiamo immaginato questa analisi. Un quadro<br />
occupa lo spazio la cui intelligibilità ne resta lesa.<br />
Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di occupare è<br />
l’atto stesso di esistere. Senza quest’atto il quadro
non esiste: è solamente là. Lo spazio dunque respinge<br />
il quadro. Se ne avverte la resistenza allorquando<br />
gli occhi che tentano di posarsi su di esso<br />
sono invece sospinti a forza sul suo rapporto con<br />
lo spazio. Ecco che allora tutto si sovverte. Non è<br />
il quadro la cosa più importante, ma lo spazio che<br />
lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il quadro<br />
allora diventa l’occasione perché lo spazio si mostri.<br />
Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce da<br />
protagonista riducendo lo spazio a un mezzo. Ma<br />
di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il quadro<br />
che inizia la sua misera esistenza. In effetti chi non<br />
“vede” lo spazio non vede nemmeno il quadro.<br />
Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo vuoto.<br />
Esso non vorrebbe che fosse mai occupato. Il<br />
vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita<br />
sull’individuo.<br />
All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro non<br />
è nemmeno “visto”. Lo spazio e solo esso ci interessa.<br />
L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato.<br />
A poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa<br />
un essere geometrico. Qualsiasi quadro offende<br />
lo spazio. Turba il grande vuoto che ci invia<br />
il suo appello. Il quadro dunque è un disturbo, un<br />
inceppo, un graffio magari, un segno comunque<br />
che la solennità di questa sovrana omogeneità è<br />
turbata. Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa<br />
ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro<br />
nasce come una malattia dello spazio, una escrescenza<br />
velenosa, un attentato alla sua divina integrità.<br />
Ma solo se questa offesa si realizza, solo se
un quadro ha questa forza di lacerare il suo ordine<br />
segreto, allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio<br />
l’inghiotte, lo ricompone nell’immensa pace,<br />
senza increspature, della sua superficie.<br />
Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio<br />
che minaccia di incorporarle. Un quadro deve<br />
anzitutto affermarsi davanti allo spazio. Da un<br />
lato esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se<br />
volesse in qualche modo diminuirne la sorgente<br />
inesausta. Dall’altro sembra che “doni” spazio.<br />
Fermiamoci qui. In questo complesso scambio<br />
sembra il punto più fermo. Un quadro riesce allorquando<br />
dona spazio. Allorché non ruba spazio, ma<br />
lo aumenta. Così lo spazio ora lo accoglie, gli dà<br />
un ricetto, una nicchia. Lo accoglie dentro se stesso.<br />
Esso vi scompare. Fa ormai parte dello spazio.<br />
Non come prima, però, quando lo spazio lo cancellava<br />
con un gesto indifferente. Adesso lo spazio<br />
lo accoglie. Esso diventa, in qualche modo, un<br />
punto d’onore dello spazio, un suo luogo privilegiato.<br />
Ma in tutto questo agisce ancora l’essenza<br />
dello spazio. Come se un abisso fosse al di dentro<br />
di esso. Infine, ciò che è accolto dallo spazio vi<br />
scompare. Così l’opera d’arte che ha a che fare con<br />
lo spazio o può essere solo un segno avvilente, una<br />
cattiva macula, una disomogeneità senza importanza<br />
e scomparire nello spazio come in un<br />
cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio ma<br />
nel senso che anch’essa ormai ne fa parte. Che lo<br />
spazio la accoglie e la benedice. Questo spro-
fondare nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà<br />
del quadro.<br />
Sodalizio<br />
E’ vero, due perfetti amici ormai tacciono. Non<br />
hanno più nulla da dirsi. Ma nel senso superiore.<br />
Godono delle loro sembianze stando accanto e<br />
delle loro anime stando lontano. Il mortificante<br />
chiacchiericcio non prevale sulle ragioni profonde<br />
per cui l’esistenza reciproca è assaporata come aria<br />
pura di montagna. Eppure si deve parlare ancora,<br />
e sfidare con turbanti parole l’atroce sordità del<br />
mondo. Ma in ultimo nel momento migliore della<br />
loro amicizia sono solo loro due. Tra essi non si<br />
introduce che l’incanto della Forma che danno a<br />
emozioni comuni.<br />
Una nota<br />
L'immagine filmica fa parte di questa epoca sconvolta<br />
e miserabile. In altri tempi con le immagini<br />
si crearono miti, in altri ancora (già decaduti) religioni.<br />
Il film è ciò che resta dopo che l'essere se n'è<br />
andato e l'apparenza aumenta. Noi viviamo di resti.<br />
Ma ciò che significa? Non accarezzammo un<br />
giorno il torso di una statua corrosa dal tempo come<br />
oggi la silhouette di una immagine? Waterloo
fu forse un allucinazione di Napoleone e di Wellington?<br />
Di chi la combatté? Esiste una battaglia<br />
di Borodino? Anche Tolstoj ne dubitò. Ma un film<br />
può anche indicarne i contorni ed esibire la faccia<br />
di un eroe morente (che non fu dato vedere se non<br />
a un dio), l'elsa di una spada spezzata, il pastrano<br />
inzuppato di sangue di un vecchio sergente della<br />
guardia steso lungo il ciglio della strada. Oggi<br />
l'immagine si trascina stancamente per le strade<br />
delle città mondiali o si introduce nelle nostre case<br />
e lo spettatore guarda senza sapere infine cosa<br />
guarda. Il tentativo di <strong>Battiato</strong> non è di guardare<br />
queste stanche immagini ma attraverso esse, le<br />
idee.<br />
Sui dipinti di Suphan Barzani<br />
Il senso della bellezza torna a occupare un posto<br />
nella nostra vita. La bellezza chiama. Il nichilismo<br />
artistico in cui siamo vissuti è stato soprattutto un<br />
nichilismo pittorico. Per ciò che offriva agli occhi<br />
abbiamo avuto per lo più noia e indifferenza. “Tutti<br />
i quadri sono belli”: 'et omnia bona sunt'. Come<br />
un dio stanco il testimone dell'arte visiva sbadigliava<br />
trovando tutto buono. Cercavamo a volte il<br />
bello ma trovavamo solo ‘abbellimento’. In realtà<br />
la visività oggi è in pericolo. Tutto è indirizzato<br />
agli occhi. L'uomo oculare – l'uomo d'oggi, cioè –<br />
costruisce le sue cose in funzione della sua vista e<br />
si appaga della loro presenza. Ma che forse la vista
è, come egli crede, soltanto ciò che ‘vede’ e ciò che<br />
vede soltanto ‘presenza’? "La vista ha una funzione<br />
profetica. Più che per se stessa ci interessa per<br />
l'indicazione di quanto può avvenire... La vista è<br />
un mezzo per presentare psichicamente ciò che in<br />
realtà è assente, e poiché l'essenza della cosa è ciò<br />
che esiste anche in nostra assenza, la cosa viene<br />
spontaneamente concepita in termini visivi" (Santayana,<br />
The Sense of Beauty). Qui Santayana distribuisce<br />
saggiamente le forze dell'azione visiva.<br />
Chi vede solo ciò che ha davanti agli occhi in realtà<br />
non vede. C'è bisogno di esser platonici? La forza<br />
di un quadro è quella di restituire un'assenza.<br />
Ma vorrei andare un po' più in là. La presenza pittorica<br />
richiami pure l'assenza (che è infine la bellezza)<br />
o no. Ma chi vuole vedere la bellezza cosparsa<br />
sul quadro come magica polvere soffrirà le<br />
pene dell'inferno. Perché il suo desiderio non sarà<br />
appagato. La bellezza è un invito che il quadro le<br />
rivolge pressante: può essergli rifiutato. Le mani<br />
calde della bellezza hanno accarezzato il quadro di<br />
questo pittore. Eppure tutto è "semplice". Il ritmo<br />
della simmetria induce all'equilibro l'occhio che<br />
guarda. I nostri sensi logorati riacquistano vita.<br />
S'intende, non è offerto molto alla loro cupidigia.<br />
Perché ci si possa ubriacare, manca il "pittoresco".<br />
Pittura senza pittoresco: non ne vedevamo da<br />
molto. C'è invece, ne siamo testimoni, quello che il<br />
nobile Santayana (questo quadro ci ha rimandato a<br />
lui e lui a questo quadro) chiama:"la capacità permanente<br />
di piacere". <strong>Battiato</strong> ci vuole infine con-
vincere che riprodurre l'imperfezione – il destino<br />
dei moderni – è da anime ignobili. Forse è vero.<br />
Prefazione<br />
‘Elegia sanremese’ di Tommaso Ottonieri<br />
Il testo di canzone è poesia decaduta. Ma la poesia<br />
gli deve la sua attuale popolarità. Un’estetica che<br />
non ha nulla da perdere – una estetica che ha da<br />
perdere non interessa affatto – scorge nel testo di<br />
canzone nefando e scurrile, oppure levigato a mano<br />
come certi tenui marmi, ciò che dopo La terra<br />
desolata può passare per sonorità verbale di buona<br />
lega. Consummatum est: la poesia non vale niente. Il<br />
nichilismo poetico è in realtà un residuo umanistico:<br />
esso crede all’umano come un tempo si credeva<br />
al divino: con pertinace accanimento. Afferma il<br />
nulla senza realizzarlo. Infine, come Montale, sospira<br />
troppo. Anche gli idilli boschivi affettano il<br />
nichilismo. Dopo che la teoria del bosco è prevalsa<br />
sul bosco (vedi Heidegger e famiglia), la lingua si<br />
appiccica al palato. La poesia di Ottonieri mescola<br />
il sermo humilis del testo di canzone (nella gerarchia<br />
della caduta quello che sta in ultimo: il testo<br />
di canzone sanremese, il ''µὴ ὄν'') al sermo sublimis<br />
rifatto. Un balletto di parole che ti danno fuoco (è
quasi una sua immagine). Alla fine sei preso da una<br />
infinita malinconia e ti diverti fino a crepare.<br />
Piccole note in margine a Salvo Basso<br />
Il dialetto è il momento animale della lingua. Desiderio<br />
di animalità. Smettere di essere uomo.<br />
Tornare animale. Il dialetto come duro linguaggio<br />
della necessità. Mangiare, bere, abitare, fottere.<br />
Il dialetto è mortale (il dialetto è tutto fatto di<br />
morte).<br />
Nel dialetto non si sogna. Anche il sonno è veglia.<br />
Non c'è poesia dialettale. Ma il dialetto è poesia.<br />
(La poesia dialettale è poesia in lingua tradotta in<br />
dialetto).<br />
Chi parla di "musicalità" del dialetto non sa di<br />
cosa parla.<br />
Un dialetto progressivo... Può progredire Dio?<br />
Entrambi rappresentano uno stato eterno delle cose.<br />
La lingua è storica; il dialetto è cosmico.<br />
Per chi muore non c'è altra lingua che il suo dialetto.
Nota introduttiva<br />
‘<strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong>, la Sicilia che profuma d’Oriente’<br />
La sottile epicità a cui si iscrivono queste pagine,<br />
appartiene alla imperitura ”ingenuità” degli antichi<br />
cantori. La stessa, con la quale un tempo si<br />
crearono i miti. “Aber die epiche Naivitat ist icht<br />
nur lige” è scritto in un saggio su di essa. No, certamente,<br />
non solo pia fraus è l’ingenuità epica. Ma<br />
una grazia, una leggerezza la sfiorano a tratti. E<br />
se tutto fosse un idillio? Ebbene, anche se segretamente<br />
i paradisi ci interessano. Anche se per un<br />
istante il quotidiano si interrompe e una pace stregata<br />
ci coinvolge. Perché andare dietro solo a ciò<br />
che ci fa ricordare che siamo solo su una maledetta<br />
terra?<br />
Ciò che ce lo fa dimenticare, sia pure per un momento,<br />
merita e gli diamo un amichevole osanna.<br />
Lettera a un giovane poeta<br />
Un noto pensatore tedesco ha detto che dopo Auschwitz<br />
non si possono scrivere poesie. La responsabilità<br />
davanti alla stessa poesia ci imporrebbe di<br />
riflettere sul divieto. Ma i massacri non hanno mai<br />
fermato i poeti. Stendere la bellezza sulle sciagure,<br />
è parso anzi, come si sa, uno dei compiti dell'arte.
Là dove il bello appare tutto si trasforma: non è<br />
così?<br />
L'impiccagione delle ancelle, nel ventiduesimo<br />
canto dell'Odissea, trasforma in diletto lo stesso<br />
massacro: "Coi piedi scalciavano; per poco, però,<br />
non a lungo". La terribile catarsi l'ha purificato.<br />
Il toro di Falaride sublima in musica le orribili<br />
grida.<br />
In ogni caso, mio giovane poeta, le auguro che sia<br />
presente in lei quello che abbiamo chiamato "responsabilità".<br />
Non si fa poesia impunemente.<br />
Mantrana, un gioco<br />
di Ernst Junger e Klaus Ulrich Leistikov<br />
Questo è un libro di giochi di pensiero. Mentre il<br />
pensiero come gioco, sostenuto oggi da giocatori<br />
maladroits, mostra veramente di essere solo questo.<br />
I giochi di pensiero costruiti da Junger sono<br />
incontri misteriosi dove si possono evocare quegli<br />
incroci astrologici che dilettarono persino Lutero<br />
e Melantone. (La loro fu una riforma mediante gli<br />
astri). Questi giochi, come per miracolo, fanno apparire<br />
tutto il contrario di ciò che visibilmente si<br />
propongono: il pensare come la cosa più seria. Un<br />
impassibile croupier invita alla puntata. Signori, si<br />
pensa. Rien ne va plus.
Sottili turbamenti<br />
‘Il colore della musica’, catalogo della mostra di pitture<br />
di <strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong> e Marco Nereo Rotelli<br />
Le sensazioni che provengono dai metalli rompono<br />
la quiete sonnacchiosa dei sensi. Gli occhi si<br />
spaccano. Trionfa un visibile non di tipo greco,<br />
non un visibile intelligibile come in Platone. Le idee<br />
di acciaio e di oro evocate rimandano a sangue<br />
e potere come omologhe. Rimandano agli squarci<br />
e ai fendenti delle spade. E anche la sensazione<br />
dell’oro invia sottili turbamenti. Il potere si riveste<br />
d’oro: cosa vuole nascondere? Oppure c’è veramente<br />
un ‘oro’ umile e leale? L’età dei metalli, per<br />
quanto essi scintillino, è sempre un’epoca oscura.<br />
Sistemi di morale<br />
Già questo nome evoca delizie. La morale è un libro.<br />
Questa potrebbe essere la definizione della<br />
morale sistematica, quando il bene era considerato<br />
una follia e la sola definizione salvava le anime.<br />
Bonum est diffusivum sui: è così veramente? Cosa<br />
ci importa! Questo concetto si imponeva e la sua<br />
maestà ci costringeva all'ossequio. Il sistema ci<br />
intrappolava e noi eravamo condotti al bene dall'artifizio<br />
di una definizione. Che anime complicate
ci vogliono per rispondere all'appello di una morale<br />
sistematica.<br />
La morale si credette poi appannaggio di deboli e<br />
inferiori. Ma seguire una morale è in tutti i casi<br />
una forma di superiorità ineguagliabile, un lusso<br />
dello spirito, un abbordaggio delle complicate linee<br />
di quello che una volta si chiamava animo umano.<br />
Insomma le morali ci incantano, s'intende nella<br />
loro forma di libro e siamo sempre pronti ad ascoltare<br />
le seduzioni che ci propongono.<br />
L'autore di questo scritto si ricorda delle morali<br />
gesuitiche, di queste morali non euclidee. Non fosse<br />
per altro dobbiamo leggerlo.
INTERVISTE
Dalla forma aforistica de ‘La morte del Sole’ al ‘Dialogo<br />
sul comunismo’. E' indifferente la scelta di un<br />
nuovo genere?<br />
Via via che si scrive, lei sa, si cerca di incardinare<br />
ciò che si pensa, o le proprie emozioni, in un certo<br />
tipo di scrittura, o, meglio, in una certa organizzazione<br />
di scrittura, organizzazione in questo caso<br />
dialogica. Io poi ne ho scritti due di dialoghi,<br />
perché pubblicai un "Dialogo teologico" qualche<br />
anno fa con l' Adelphi, e dicevo che erano dei falsi<br />
dialoghi. In realtà "Augustinus cum Augustinum",<br />
come dice Agostino da qualche parte, cioè era<br />
Agostino che parlava con Agostino. E quindi in<br />
sostanza che ho il sospetto che i dialoghi siano in<br />
realtà falsi dialoghi. Ma in ogni caso, lei dice<br />
perché il dialogo: perché appunto ti permette di<br />
stabilire questa specie di sfalsatura fra te che dici e<br />
un altro te, che indubbiamente c'è - ormai è pacifico<br />
per tutti che i "me" in ciascuno di noi pullulano<br />
-, che in qualche modo fa da cassa di risonanza<br />
o riprende ciò che dici. Quindi la parola<br />
dialogo va presa in senso "losco" direi, non in senso<br />
diretto, cioè va presa, bassamente, per dir così,<br />
per celare, o manifestare, o celare e manifestare,<br />
un certo tipo di operazione, un certo tipo di rete,<br />
con cui agganciare. Perché, infine, se noi scriviamo,<br />
scriviamo sì per ordinare, per dar peso, gravezza,<br />
materia alle idee che altrimenti fluttuerebbero,<br />
anzi forse nemmeno, perché sarebbero solo<br />
una pasticciatissima nebulosa, ma anche per ag-
ganciare il lettore, e questa volta la forma scelta è<br />
stata quella del dialogo.<br />
La sua filosofia appare come diretta più a discepoli che<br />
ad interlocutori...<br />
Lei ha perfettamente ragione.<br />
E quindi la scelta del dialogo non potrebbe a questo<br />
punto apparire come una deviazione, un'apertura verso<br />
un altro tipo di approccio?<br />
Il dialogo è circolare. In realtà non ci sono interlocutori.<br />
L'interlocutore partecipa il minimo<br />
indispensabile perché ci sia questa specie di partita<br />
a tennis. Io scrivevo una volta questo qui, più o<br />
meno. Riportavo un esame di docenza che fece<br />
Schopenhauer in una commissione in cui c'era anche<br />
Hegel. Fu proprio Hegel a porgli la domanda:<br />
se un cavallo si sdraia sulla strada quali motivi vi<br />
sono o cause? e allora nell'incontro tra questi due<br />
grandi filosofi, l'uno la cui grandezza la conosce<br />
solo lui, (Schopenhauer), l'altro la cui grandezza<br />
cominciava ad essere abbastanza diffusa (Hegel), si<br />
danno ad una specie di dialogo veramente buffo: a<br />
stabilire se erano cause, se erano motivi. Cioè mi<br />
parve che questa fosse una contraffazione del dialogo,<br />
che metteva però in evidenza il dialogo così<br />
come effettivamente è, e in ogni caso con questo<br />
mi pare che si chiuda l'era del dialogo in filosofia.<br />
Nata con Platone essa si chiude con questa buffa
faccenda, di due grandi che si incontrano e non<br />
sanno parlare altro che di un cavallo...<br />
Perché proprio un dialogo sul comunismo?<br />
Ecco, e così andiamo all'argomento, perché vorrei<br />
che si chiarisse un equivoco. Comunismo, qui,<br />
vuole indicare esattamente questo: innanzitutto<br />
questo slancio per dir così, che è tipico della nostra<br />
civiltà. Ma voglio indicare piuttosto un pericolo<br />
che in questo momento vi è. C'è una gerarchia<br />
di comunismi, vi sono più comunismi, certamente,<br />
non nel senso storico, ma nel senso ideale.<br />
E questo comunismo di cui mi preoccupo io è<br />
proprio il venir meno e l'individualizzarsi dell'idea<br />
di verità, il crollo della comunità scientifica, che<br />
comincia ad essere individualizzata anche nella<br />
scienza, anche nella fisica. La fisica parla oggi di<br />
principi quasi individuali nel suo ambito, ad esempio<br />
qualcuno ha potuto parlare di una fisica a misura<br />
d'uomo, perché il fine è quello che l'uomo<br />
goda, che abbia piacere, una fisica che stabilisca la<br />
possibilità di una libertà nell'ambito dell'universo:<br />
é una fisica come un'altra, cioè a dire, può essere<br />
benissimo una fisica accettabile. Oggi vi è il nuovo<br />
principio antropico: anche questo obbedisce a esigenze<br />
dell'individuo nell'ambito della fisica, cioè a<br />
proiettare le nostre esigenze di finalità, di soddisfazione,<br />
nell'ambito di una disciplina come la fisica<br />
che era stata altera, si era presentata come un
assoluto sdegno dell'umano. E l'idea di verità, espunta<br />
dal contesto della filosofia o ridotta a un<br />
fatto individuale. Ecco qual è la mia preoccupazione<br />
e qual è il comunismo di cui parlo: tentare di<br />
destare l'allarme per il venir meno di idee di verità<br />
comuni, di un comune senso della scienza, di un<br />
comune senso dell'operare all'interno del sapere. Il<br />
frammentarsi in principi individuali di tutto quanto<br />
l'assetto del sapere, per cui il comunismo in<br />
definitiva - in questa gerarchia di comunismi che<br />
nel libro è più o meno adombrata, per quello che<br />
mi interessa -, è proprio il ristabilirsi di una comune<br />
idea di verità, di cui oggi è impossibile parlare,<br />
perché una cosa del genere fa ridere. Ma, lo ripeto,<br />
soprattutto per quanto riguarda l'ambito del<br />
sapere, laddove esso è frammentato in saperi individualizzati<br />
- e il principio individuationis frusta a<br />
sufficienza non solo le filosofie che sono ormai<br />
quasi personalizzate: ciascuno ha la sua, come ognuno<br />
ha la sua cravatta, la sua donna -, ma anche<br />
in quelle che sono le discipline rettrici della civiltà<br />
occidentale, la matematica, poniamo. Ecco: mentre<br />
gli altri si preoccupano del comunismo dei bisogni,<br />
de la merde, - come io lo chiamo, io mi preoccupo<br />
di questo, che certamente sarà superfluo, ma<br />
che a me dà l'impressione che sia bisognevole di<br />
un occhio attento: perché stiamo perdendo la "comunità"<br />
di questi beni intellegibili, di questi beni<br />
spirituali, che si frammentano e diventano proprietà<br />
di piccoli o grandi proprietari che ne fanno<br />
in qualche modo un fatto personale, a sé.
Quindi un interesse per il comunismo da dove meno ce<br />
lo si aspettava?<br />
Certo, il comunismo per quello che interessava veramente<br />
me.<br />
Lei ha scritto un libro intitolato "Dell'indifferenza in<br />
materia di società". Questo suo interesse per la filosofia<br />
come verità, questo comunismo inteso come ricerca di<br />
verità comuni, ha a che fare invece con un interesse per<br />
la società, può servire alla società?<br />
Io personalmente ritengo che l'interesse per la<br />
società sia un interesse sussidiario e avventizio. Il<br />
primo interesse per l'uomo non credo sia la società,<br />
la società è un dato: ma è un dato questo pavimento,<br />
è un dato che devo aprire la porta se voglio<br />
entrare, è un dato che sono in una società perché<br />
nasco, sono buttato già, nasco in una società: ma<br />
questo non significa che io dirigo le mie intenzioni<br />
e i miei sforzi al pavimento in cui cammino, certo,<br />
se non ci fosse il pavimento io crollerei, se non ci<br />
fosse la società, cioè tutto il complesso, l'organizzazione<br />
che forma la struttura di una società,<br />
probabilmente non soddisferei i miei bisogni, sarei<br />
privo di molte delle cose che formano il mio benessere,<br />
ma questo non significa che io debba ritenere<br />
primaria la società, la società è come il<br />
pavimento, come la porta, strumenti che mi giovano,<br />
che mi servono ma non il mio interesse. Io credo<br />
che l'interesse primario, e qui bisognerebbe
considerarlo all'interno della nostra civiltà, e per<br />
me la civiltà è quella occidentale o non è, non sia<br />
la società ma l'arte, il produrre, anche il generare<br />
può essere interesse primario, ma non sia dia l'interesse<br />
primario alla società, soprattutto non si dia<br />
a quelli che di questa società si fanno per dir così<br />
portatori, i falsi servitori di essa, o quelli che se ne<br />
fanno padroni, cioè il politico, la politica, che è<br />
diventata nel nostro assetto sociale, europeo, talmente<br />
primaria da abbattere qualsiasi interesse o<br />
da ridurlo sotto di sé: questa è per me un'oscurante<br />
sconfitta delle cose dello spirito.<br />
Qual è questa verità comune che lei ravvisa nel comunismo?<br />
Io dico l'idea di verità anzitutto, cioè il perseguire<br />
l'idea di verità, le cui caratteristiche sono, - risibili<br />
per l'uomo comune - ovviamente, l'idea di unicità,<br />
l'idea di eternità. Oggi i filosofi hanno idee più comuni<br />
dell'uomo comune, ritengono che l'idea di<br />
verità sia un ferrovecchio; noi abbiamo perso i<br />
grandi principi che abbiamo, che ci tengono, ma<br />
che noi possiamo ammirare e contemplare, così<br />
come l'uomo della tecnica ammira le più grandi<br />
invenzioni di quest'età tecnologica. Anche l'invenzione<br />
dell'imperativo categorico, della nozione di<br />
legge, in senso fisico come in senso sociale, queste<br />
cose sono proprio il grande patrimonio comune<br />
che si sta smembrando e sta diventando invece<br />
proprietà di singoli, perché ci sono, si, non soltan-
to i grandi proprietari di ricchezze materiali, ci<br />
sono anche i grandi proprietari di ricchezze intellegibili,<br />
delle idee, come se in sostanza delle idee<br />
ne fosse padrone questo o quel filosofo; ecco, se<br />
noi diciamo le automobili della Fiat, ci accorgiamo<br />
dell'onta, del disdoro che c'è nell'affermazione, ma<br />
se diciamo le idee di questo o quel filosofo non ci<br />
accorgiamo quasi di questo senso in cui idee comuni,<br />
patrimonio di intelligibilità, almeno dell'elite<br />
europea, diventano proprietà di uno, di<br />
grandi proprietari del pensiero, i quali ne fanno<br />
l'uso e l'abuso che vogliono. Perché, e con ciò vorrei<br />
concludere, la ricchezza materiale, solo quella,<br />
non è possibile rendere comune, checché se ne dica,<br />
perché essa è strettamente individuale, mentre<br />
è proprio l'altra, la ricchezza spirituale che è comune<br />
in se stessa e che per accidente oggi sta diventando<br />
singola, individuale. E' questa che bisogna<br />
rendere comune.<br />
Ma questa sembra impresa difficile, visto che lei definisce<br />
la scuola "una barriera opposta al male del sapere"<br />
La scuola è in realtà una grande neutralizzatrice.<br />
La scuola pubblica europea nasce con la funzione<br />
di formare, di educare, di istruire, ma in maniera<br />
tale che tutto ciò che viene impartito sia neutralizzato<br />
in partenza: il sapere è il veleno quale può<br />
essere in un trattato di tossicologia, cioè innocuo,<br />
descritto ben bene ma in cui manca proprio l'elemento<br />
primo, la possibilità che se tu tocchi gli
occhi o lo ingerisci muori o resti deturpato: ma<br />
questo non è il volere o non volere dell'insegnante.<br />
E' proprio l'assetto specifico del sapere scolastico:<br />
Essenzialmente neutralizzatore esso deve togliere<br />
l'elemento non formativo, non educativo<br />
che vi è nel sapere: Lei pensi a un Baudelaire, nelle<br />
scuole francesi, preso così per com'è, sarebbe dirompente...<br />
o a Leopardi nelle nostre scuole...<br />
- - -<br />
C'è una grande tensione filosofica, oggi, sulla verità.<br />
L'ermeneutica, per esempio, fa parte dei tentativi di legare<br />
l'estetica alla verità piuttosto che all'emozione e<br />
alla sensibilità.<br />
A me non risulta. Vedo scomparire il concetto di<br />
verità, vedo la prevalenza del concetto di opinione,<br />
quasi identica all’uomo. Il concetto di verità non<br />
ha più autorità. Viene espulso dagli stessi contesti<br />
in cui sembrava fosse essenziale alla vita stessa. Le<br />
grandi prese di posizione di fronte a questo concetto<br />
la scarnificano. Bisogna avere una buona dose<br />
d’ingenuità per poter professare il concetto di<br />
verità, che dovrebbe avere i connotati classici, che<br />
dovrebbe essere filosoficamente piena... come<br />
quella di cui parlava Husserl nelle Ricerche logiche:<br />
la verità che è identica e una per angeli, dèi,<br />
mostri e uomini. Epperò Husserl dice in seguito<br />
anche che il mercante al mercato ha la sua verità.
Che ogni uomo ha la sua verità. Come suo postero<br />
mi accadde di mettere queste due accezioni in stridente<br />
e meccanico contrasto. Il prima e il dopo.<br />
Ma poi Husserl voleva anche lui guarire la civiltà<br />
dai suoi mali, era diventato un "medico" della civiltà.<br />
Le civiltà hanno per essenza limiti intrinseci.<br />
Se oggi sfogliamo il Gibbon, possiamo notare che<br />
la campana suona sempre allo stesso modo: la senescenza<br />
del mondo, i giovani che non ci sono più,<br />
il fatto che si vedano soltanto vecchi, il senato delle<br />
donne, molti danni... La civiltà non ha mali, è<br />
tutto un male che poi sfuma, come ogni altra cosa.<br />
Lei dà un enorme rilievo alla comunicazione del pensiero.<br />
La possibilità di pensare insieme. Comunità di<br />
pensiero, più alto rispetto all’amore e alla sessualità. È<br />
un pensiero o un desiderio?<br />
Io credo sia insito in ogni essere pensante. Filosofare<br />
insieme, io credo anche sul piano dello scambio<br />
emotivo, pur sempre nella vicinanza dei corpi,<br />
è uno splendido momento che ho provato da giovane,<br />
quando filosofare non era un mestiere. Chiedersi<br />
e rispondersi sulle cose stesse. Nel mio rapporto<br />
coi libri la parte dell’odio è stata superiore a<br />
quella dell’amore. Dietro il libro cercavo il conforto<br />
della vita, la corrispondenza con ciò che si chiamava<br />
vivere. Non attraverso il libro, che era un<br />
pericolo, ma attraverso un filosofare comune. Lo<br />
considero un momento di alta possibilità di rapporto.<br />
Ma quanto può interessare... è un rapporto
di pochissimi. Già il fatto che si faccia filosofia solo<br />
nelle università! Laddove si filosofa, quello è il<br />
luogo della filosofia. Può essere un bar, un ospedale.<br />
Lì c’è, e allora quello diventa il luogo. Ciò suppone<br />
una temperie culturale: che sia abbandonato<br />
questo miserabile concetto di cultura; che si ritorni<br />
a una concezione Ottocentesca che illustra meglio<br />
i vari echi del pensiero. Il brillare di luci varie.<br />
Il concetto di Spirito, il luogo dove può avvenire<br />
questo rapporto. Lì dove penso, lì è filosofare. Non<br />
si può filosofare senza luogo; sarebbe portarlo a<br />
un’astrattezza tale...!<br />
Il rapporto tra il filosofo e il potere si va intensificando.<br />
Non ovunque, non un servitore... Ma Cacciari è<br />
sindaco di Venezia, lei ha relazioni con il potere catanese...<br />
Come lo spiega?<br />
A volte mi sembra che il filosofo sia un tiranno fallito.<br />
Ha rapporti con colui il quale può realizzare<br />
ciò che pensa. Avviene che il filosofo si avvicini al<br />
potere. Il potere dei giudizi tende a diventare un<br />
potere dei fatti e delle cose. Il tiranno che è in lui<br />
viene oggettivato nel tiranno politico. Di fronte<br />
alla beffarda realizzazione dell’idea, il filosofo si<br />
ritira. Il tiranno insisterà ma il filosofo si ritira.<br />
Tranne nei casi in cui l’avvicinamento al potere è<br />
coessenziale alla miglior parte. Ma il filosofo non<br />
ha i mezzi per imporre le sue idee. Ha solo il potere<br />
dei giudizi. In momenti come questi, di trasformazione,<br />
il filosofo è al massimo tentato di av-
vicinarsi al potere. È la follia del potere che lo<br />
prende. Potrebbero essere lui e i suoi giudizi a trasformarsi<br />
in potere. E’ un pericolo per lui.<br />
Mi sbaglio o recentemente lei ha riflettuto sul comunismo?<br />
Sì, ho scritto un "Dialogo sul comunismo". La riflessione<br />
è riferita ad un comunismo particolare,<br />
un comunismo della verità, non è il comunismo<br />
rozzo della condivisione e della soddisfazione dei<br />
bisogni. E’ quello in cui in comune sono messe le<br />
cose; è un comunismo dello spirito. Io credo che si<br />
dovrebbe ripristinare il vecchio esercizio spirituale,<br />
l’esercizio della filosofia come nell’età ellenistica.<br />
C’è contemporaneità fra l’età ellenistica e la<br />
nostra. L’esercizio e la disciplina della mente sono<br />
essenziali sul piano del pensare, non solo su quello<br />
dell’essere. Io preferisco il pensiero. Anzi, l’essere<br />
mi fa schifo... ontologicamente parlando. Il pensare<br />
non solo mi diletta, e io credo che sia un’ipotetica<br />
bilancia sulla quale possiamo buttare qualcosa<br />
a favore di questa specie immonda che siamo. Credo<br />
in questo congegno, in questa misteriosa faccenda<br />
che è, infine, il pensare. C’è bisogno di una<br />
disciplina che non proviene dalla pratica, ma dal<br />
teorizzare. È intrinseca al fatto di come vivere meglio<br />
per poter pensare, non come pensare per poter<br />
vivere meglio... Come pensare meglio, questo è<br />
il mio problema.
C’è dolore quando si esce dal pensiero e si entra nella<br />
pratica quotidiana?<br />
Io credo che si possa vivere come un chierico nel<br />
mondo, quasi senza esserci; quindi non c’è lacerazione,<br />
non c’è dolore. Credo anzi che si possano<br />
raggiungere spazi di gioia, riuscendo a disciplinare<br />
il pensare, a vedere in atto questa trasformazione<br />
delle cose in idee, che fu appannaggio di<br />
tutti i filosofi nell’età d’oro della filosofia. Era<br />
l’epoca in cui la meraviglia di trasformare le cose<br />
in idee era ugualmente il loro godimento.<br />
Recentemente ho letto il libro di Kupfer "L’esperienza<br />
come arte", dove si legge un capitolo dedicato all’estetica<br />
della violenza, come un aspetto che connota il<br />
nostro secolo. La violenza, secondo lui, non si produce<br />
più a causa dell’emarginazione, ma si produce perché<br />
questa società non garantisce e non favorisce più la<br />
possibilità di intrattenere relazioni estetiche con il<br />
prossimo e con il mondo. L’isolamento, non quello dell’intellettuale,<br />
ma della gente comune, genera violenza,<br />
che ormai è gratuita, senza più nemico...<br />
Innanzitutto il nemico è l’altro, la sordità dell’altro.<br />
L’altro è sordo non perché lo è diventato, ma<br />
perché noi siamo in una situazione di maggiore<br />
consapevolezza e dunque di maggiore richiesta.<br />
Quindi l’altro, allorquando la porta non si apre,<br />
cerca di sfondarla, di spaccare tutto. La violenza è<br />
un modo, oggi, di attestare che l’altro c’è, ma at-
traverso un’inversione del rapporto classico che ci<br />
attestava l’altro con l’amore. La violenza è questo<br />
capovolgimento che è richiesto dal capovolgimento<br />
delle cose, cioè dal fatto che l’altro, il nostro<br />
prossimo, oggi, è distante. Chissà quanto grande è<br />
questa distanza! Io credo che la violenza sia proprio<br />
dovuta all’aumentata consapevolezza della<br />
sordità che c’è nell’essere altro... ed io nell’essere<br />
altro da lui. Sono elementi che prevalgono in questa<br />
nostra società: come l’esagitazione del coito,<br />
che nel momento dello spasimo ci accerta che noi<br />
abbiamo un rapporto con l’altro, quando l’altro<br />
grida, c’è, e io penso: "sono con uno, sono con l’altro".<br />
Il grido, il mugolio, te l’accerta. Ecco, la violenza<br />
è l’estremo punto a cui giunge chi, quando<br />
bussa dolcemente, non gli si spalanca nulla. Allora<br />
insiste sempre più forte. Al termine dell’atto, c’è<br />
l’altro.<br />
La bellezza è l’attesa, l’attesa dell’altro, di poterlo contemplare?<br />
Io credo che l’attesa, la pazienza, è una lunga linea<br />
che in tempi come questi si vuole accorciare. L’attesa<br />
è deliziosa, si può godere dell’attesa. I nostri,<br />
non sono tempi di attesa.<br />
- - -
Professore, quando nasce il suo amore per la filosofia?<br />
Già all'età di nove anni avverto un amore dissennato<br />
per qualcosa che non conoscevo. M'incapriccio<br />
del mistero che rappresentava la parola 'filosofia',<br />
in una Lentini di tanti anni fa. Scopro che<br />
facevo già filosofia senza saperlo, che dentro di me<br />
vi era un fuoco che bruciava, come in quella splendida<br />
immagine in cui S. Tommaso equipara l'inferno<br />
ad un luogo in cui l'uomo brucia alla semplice<br />
visione del fuoco.<br />
E poi, cosa succede?<br />
Prendo i primi contatti con l'Università e conosco<br />
un professore che parlava, con un ridicolo accento<br />
napoletano, dell'Uno di Plotino. Ne avverto l'assurdità,<br />
di natura estetica! Da giovani certe cose<br />
urtano con la propria sensibilità, per una mancanza<br />
di eleganza interna.<br />
Naturalmente, la filosofia è un'altra cosa!<br />
Ritengo che bisogna tornare al concetto di "natura<br />
filosofica", una disposizione misteriosa a filosofare,<br />
che non vuole essere spiegata, e che ci porta<br />
continuamente a trasformare il problema di ordine<br />
generale in particolare e viceversa. Allora bisogna<br />
lottare per raggiungere un equilibrio all'interno di<br />
questo tramutarsi delle cose nelle loro ombre, nelle<br />
idee.
Quando ha iniziato a scrivere?<br />
Avevo già circa vent'anni e pubblicavo degli articoli<br />
dai temi forti, su una rivista romana, diretta<br />
da Vittorio Chiaromonte e Ignazio Silone, "Tempo<br />
presente", che tra l'altro pagava piuttosto bene,<br />
per quei tempi, mi davano 20.000 lire a colonna,<br />
poi sono passato ai saggi e...<br />
Ha mai percepito la dimensione siciliana come un limite,<br />
anche solo geografico?<br />
No, noi siamo isolati per il fatto che riteniamo di<br />
esserlo e condividiamo una sensazione che ci tramandano,<br />
che viene ben prima del reale isolamento.<br />
Mi racconta com'è avvenuto il suo incontro con la musica<br />
e con <strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong>?<br />
È stato, come spesso accade, un caso. Ci fu commissionata<br />
un'opera dalla Regione Siciliana: "Il<br />
cavaliere dell'intelletto". <strong>Franco</strong> fece le musiche ed<br />
io scrissi il libretto in pochissimo; una nuova febbre,<br />
una nuova malattia. Abbiamo fatto 28 recite,<br />
in diverse parti d'Italia. Poi gli proposi un disco di<br />
musica pop e lui volle musicare tali e quali alcuni<br />
miei testi, che riconosco erano un po' difficoltosi,<br />
così nacque il CD "L'ombrello e la macchina da<br />
cucire", al quale fecero seguito alcuni altri, cui ho<br />
contribuito anche con la mia voce "truce".
Questo episodio mi ricorda una sua frase: "getta la vita<br />
lontano da te e va a riprenderla"….<br />
Sì, accade quando la disperazione dell'uomo diventa<br />
tale che si tramuta in senso dell'avventura, in<br />
una gioia dionisiaca, e cerca un obiettivo sempre<br />
più lontano. È la saggezza dei tempi in cui il soggetto<br />
è solo, e la società è 'dissocietà'.<br />
- - -<br />
"Tibie, rotule, pezzi di teschio dei nostri vecchi greci,<br />
che quasi affioravano nelle campagne e che raccoglievo<br />
per magari lanciarle a un amichetto, come fossero ciottoli".<br />
Un gioco in qualche modo iniziatico, "perché quei<br />
greci di cui poi avrei letto sui manuali di storia antica<br />
(e rammento bene del mio conterraneo Gorgia, nato a<br />
Lentini, un centro che oggi è soltanto uno snodo ferroviario<br />
per Siracusa), io li avevo tenuti in mano. Come<br />
se fossero stati gli eventi della vita, prima d'ogni<br />
altra cosa, a scaraventarmi addosso il passato, con<br />
un'aura di remota nobiltà".<br />
Vien da pensare che gigioneggi con la propria reputazione<br />
di profeta della catastrofe e di funebre distillatore<br />
di concetti "cattivi per scelta", Sgalambro, quando<br />
comincia a introdurti così all'idea di vacanze. E se<br />
richiami alla mente alcune sentenze per le quali va celebre<br />
(del tipo: "L'idea eterna dell'uomo è il suo stesso<br />
cadavere"), ti sembra che tramandare simili avventure
da predestinato, con l'immagine di lui bambino intento<br />
a rovistar tra le ossa dentro il paesaggio calcinato e<br />
senz'ombre della Sicilia, scolpisca con tocchi un po'<br />
troppo furbi e di maniera un autoritratto già di per sé<br />
duro e spigoloso. Invece è dannatamente diretto e disinvolto,<br />
il filosofo. Sia che ripercorra le stagioni dell'infanzia,<br />
sia che focalizzi estati più vicine. Se<br />
chiacchiera ad esempio di Taormina, meta di periodiche<br />
fughe dall'estenuante scirocco di Catania, un ghigno<br />
di disgusto gli si incide subito nel volto.<br />
Può venire voglia di suicidarsi, a Taormina. Come<br />
tanti altri luoghi da vacanza, è un paese trastullo,<br />
una finzione che dovrebbe far divertire, propiziare<br />
sorrisi e muscoli distesi. Ma a me, anziché sentirvi<br />
alitare uno spirito di giocondità e cogliervi un<br />
momentaneo sospendersi delle cose di ogni giorno,<br />
ha sempre dato un senso di malinconia di cui<br />
mi arrabbio. Per un uomo che cerca emozioni concettuali<br />
più che quelle del colore, gli aspetti della<br />
gioia sono differenti. E comunque mi disturba la<br />
stasi, quand'anche riesca a prodursi. Mi dà fastidio<br />
ogni interruzione del mio iter quotidiano, che è<br />
quello di uno che vorrebbe tramutare tutto passandolo<br />
attraverso questo medium riflettente... in<br />
realtà questi sono dei non luoghi, delle arlecchinate,<br />
un po' costa azzurra e un po' Sicilia, un po'<br />
Svizzera e un po' America... ed è forse proprio<br />
questa loro artificiosità a farvi aleggiare una rarefatta<br />
e insopportabile malinconia. Taormina fa<br />
parte di quegli approdi glorificati da una mitologia
che i tempi hanno reso burlesca: quando nel secolo<br />
scorso i pionieri del grand tour cominciarono a<br />
mettervi piede, lo facevano con un atteggiamento<br />
di sacralità che proveniva da ben altre cose che<br />
dalla voglia di svagarsi. Una voglia che nasconde<br />
un alibi, per assentarsi da se stessi. Ecco: dopo l'era<br />
in cui "i morsi della fame distraevano dai morsi<br />
della vita", siamo all'era del superfluo e dunque<br />
del divertimento collettivo obbligatorio. Vorremmo<br />
che si abolisse per legge qualsiasi divertimento.<br />
Vorremmo affidare alla noia questa marmaglia.<br />
Non resisterebbe ventiquattr'ore.<br />
Fedele al suo pessimismo aristocratico, continua a mutuare<br />
l'ottocentesca previsione di Villiers de l'Isle Adam:<br />
"Vivere? I nostri servi lo faranno in vece nostra".<br />
Ossia: vivere per vivere è un fatto servile, solo vivere<br />
per conoscere può esser ancora desiderabile. Un'avventura,<br />
il sublime solipsismo del "pensiero che pensa se<br />
stesso", che gli è toccata con l'evidenza di una folgorazione<br />
quando aveva vent'anni. D'estate. Nei pressi di<br />
Lentini.<br />
Era il 1943. Gli alleati avevano appena liberato la<br />
Sicilia e in qualche modo si ripristinavano le vie di<br />
comunicazione con il resto dell'Italia meridionale.<br />
In punti insoliti della costa arrivavano barche cariche<br />
di tutto: pasta, salumi, stoffe, a volte persino<br />
libri. Ero presente a uno di questi sbarchi, e ricordo<br />
il passar di mano di due volumi di Schopenhauer,<br />
editi da Laterza: Il mondo come volontà e
appresentazione. Li comprai, e fu un incontro decisivo.<br />
La gioia che mi prese, nelle settimane che<br />
seguirono, fu ineffabile. Leggevo, smozzicavo, cercavo<br />
di capire. Fu una vera vacanza dello spirito,<br />
anche se il mio non era adeguatamente esercitato,<br />
allora.<br />
Dunque: l'azione della mente come unico piacere. E l'escursione<br />
dentro se stessi come il solo "turismo" che valga<br />
la pena di tentare.<br />
A quest'idea mi ci abituai sin da quando ero piccolissimo;<br />
ricordo alcune uscite di mio padre e mia<br />
madre, per un pranzo o un concerto a Catania. Da<br />
casa nostra erano ventisette chilometri, un'inezia.<br />
Eppure la nonna se ne lamentava ogni volta, quasi<br />
che partissero per un altro pianeta: 'Oh, li pazzi, li<br />
pazzi'. Le pareva inconcepibile. Quelle serate mi<br />
lasciarono la sensazione che viaggiare fosse follia<br />
e che restar fermi fosse quindi il miglior modo di<br />
muoversi.<br />
Fermo nel suo studio di Lentini o all'ombra dell'agrumeto<br />
che il padre, farmacista, seguiva con l'ansia di<br />
una nutrice: così fino a 39 anni, quando il filosofo s'è<br />
sposato, dopo essersi regalato un'interminabile adolescenza.<br />
Fermo anche d'estate, a parte qualche corsa a<br />
Taormina o qualche passeggiata sull'Etna.<br />
Il vulcano mi piace, dà l'impressione della catastrofe<br />
che incombe. Fa sentir ripristinati terrori
primordiali. Riaccende vecchi rapporti con l'ambiente.<br />
Parla più per immagini che per concetti: il<br />
fruscio del vento tra gli alberi è forse un colloquio<br />
fra gli dei, il bagliore di un'eruzione una danza di<br />
folgori... il giallo dello zolfo, il nero della lava fusa...<br />
mi piace.<br />
- - -<br />
Finché si dubita, finché l'esercizio del dubbio si<br />
compiace di sé ed è fine a se stesso, si fa un esercizio<br />
che non è filosofico. Vengono di qui tutti i debolismi.<br />
Concetto, questo, che a molti accademici - analitici, continentali<br />
e insulari - non lo rendono simpatico. Disposizione<br />
d'animo, del resto, amorevolmente ricambiata:<br />
A Catania, mi dicono, non sono più di sessanta gli<br />
studenti iscritti al corso di laurea in filosofia, a<br />
petto del migliaio di scienze della comunicazione,<br />
della formazione, o che so io... Bene, ciò dimostra<br />
che non c'è filosofia nell'istituzione. La filosofia<br />
nasce dall'urto delle cose.<br />
- - -
Allora, com'è che un filosofo serio come lei si è trovato a<br />
scrivere canzoni?<br />
Bisogna vivere tutte le vite possibili. Una volta<br />
bastava concentrarsi sulle opere, nell'illusione che<br />
qualcosa potesse rimanere. Il filosofo, per esempio,<br />
non doveva far altro che pensare; oggi non è più<br />
così. Sto vivendo una seconda vita da quando, per<br />
caso, sono entrato in un nuovo reparto di cose.<br />
Salgo sul palcoscenico, ho il cachet di coloro che<br />
calcano il palcoscenico, ultimamente ho anche<br />
cantato. L'occasione è tutto. Scrivere un libro e<br />
pubblicarlo che merito è? Il caso, la concatenazione<br />
delle circostanze, l'imponderabile fanno sì<br />
che si diventi qualcosa anziché un'altra.<br />
Io sono pronto ad ogni evenienza, ad ogni nuova partenza:<br />
un viaggiatore che non sa dove sta andando...".<br />
Sono versi suoi. Anche questi: "La gente vive senza più<br />
testa, la specie è in mutazione. E non sappiamo dove<br />
stiamo andando.... come pessimismo non c'è male.<br />
Per forza, nella storia del nostro occidente si è assistito<br />
a una ricorrente mortificazione dell'intelligenza,<br />
a quei momenti in cui 'lo spirito si riposa'.<br />
Questo che stiamo vivendo lo è in maniera assai<br />
più evidente. È terribile, ma nello stesso tempo affascinante.<br />
Qualche anno fa, quand' ero giovane,<br />
regnava una stupidità che potremmo definire<br />
dell'intellettuale di provincia, quella del farmacista<br />
o del professore o dello studente che fa la guerra
alla borghesia. Oggi la stupidità è una sorta di nirvana,<br />
un cullante nulla per poveri.<br />
Forse c'è una specularità fra questo nulla e il pensiero<br />
di coloro i quali dovrebbero colmare questo vuoto.<br />
Già, ma non possiamo alzarci sulle grucce. Il fatto<br />
è che, oggi, siamo consapevoli che la grandezza<br />
dei grandi che ci hanno preceduti era una grandezza<br />
presunta. Nella memoria storica li ritroviamo<br />
uomini come noi. Si è sempre meno consapevoli<br />
che le cose che facciamo siano destinate a rimanere.<br />
Un tempo si diceva: 'Io muoio, ma questa<br />
mia opera resterà'. Oggi sappiamo che non rimane<br />
niente. Per questo bisogna vivere quante più vite<br />
possibili. La vocalità non ha la sua unica espressione<br />
nel canto, ma anche nel pronunciare, nel dire;<br />
un dire sostenuto da una voce espressiva.<br />
Eppure, lei è il filosofo sostenitore del "pensiero che<br />
pensa se stesso", l'autore di libri che non hanno come obiettivo<br />
primario quello di comunicare. Come fa, il<br />
pubblico, a entrare in sintonia?<br />
Quando parlo su un palcoscenico, penso. Il pubblico<br />
segue l'atto mio del pensare, che è sincero e reale.<br />
Del resto, se bleffassi, se fingessi, se ne accorgerebbe<br />
e mi massacrerebbe. Io sto pensando e il<br />
mio pensiero in quel momento non ha scopi, non<br />
ha obiettivi, esprime la sonorità del pensiero stesso.<br />
Ecco dov'è la differenza tra l'espressione e la
comunicazione. Si comunica anche con un rutto, il<br />
fatto espressivo invece è un'altra cosa. Nella<br />
Scienza della logica di Hegel vi sono pagine di<br />
pura melodia. Un po' come ho inteso fare con le<br />
mie poesie su Nietzsche. Mi è capitato, a proposito<br />
di Karl Kraus, di rintracciare un documentario<br />
degli anni trenta: traumatizzante. Le voci di Kraus<br />
e di Hitler sono la stessa cosa. Hitler usava un<br />
microfono più potente del Geloso di cui si serviva<br />
Mussolini. Il risultato era che la sua voce, i suoi<br />
timbri s'imponevano in modo terribile. Kraus usava<br />
lo stesso microfono e, per raggiungere il più<br />
vasto pubblico possibile, impostava la voce allo<br />
stesso modo del suo peggiore nemico. Dico questo<br />
per dimostrare quanto sia importante la vocalità.<br />
Oggi, per fortuna, gli stadi vengono riempiti dai<br />
cantanti.<br />
Per fortuna<br />
Certamente. Ma è un fatto che i leader politici di<br />
oggi non hanno più vocalità. Occupano uno spazio<br />
linguistico misero nell'illusione di comunicare meglio.<br />
Mancano di timbro, di una vera vocalità, della<br />
giusta retorica che alla fine bisogna pur avere.<br />
I grandi matematici non disdegnano la bellezza<br />
estetica dei loro calcoli. Anche la matematica risponde<br />
a criteri di bellezza. I politici oggi credono<br />
di comunicare meglio attraverso una lingua sciatta.<br />
Per questo il rilancio della sonorità del dire,<br />
della vocalità espressiva è lasciato aperto e in futu-
o non riguarderà soltanto i cantanti. Non faccio<br />
l'indovino, ma questo avverrà. Il dire tragico non<br />
raccoglie più folle, ma il bisogno del dire rimane.<br />
- - -<br />
Lei si definisce uno fra i rari epigoni di Schopenhauer,<br />
ma con <strong>Battiato</strong> non disdegna la mondanità e il successo.<br />
Questa collaborazione è interessante, oltre che per<br />
l'aspetto economico (non trascurabile), per quello<br />
culturale, lo spiego in Teoria della canzone (Bompiani,<br />
1997). Il conflitto fra le lingue e fra le età,<br />
ma già l'intelligenza, il gusto, il talento, la bellezza,<br />
la forza, la ricchezza interiore: è lo scomparire<br />
di queste dannate disparità che inseguo. Il fatto<br />
che io 'pensi' mi sembra debba offendere anche più<br />
della ricchezza. Ma vedo che, a differenza della<br />
fanciullezza, dell'adolescenza e della maturità, che<br />
sono in balia del mondo della vita, nella vecchiaia<br />
tutto è compiuto e perciò perfetto: come dico nel<br />
Trattato dell'età (Adelphi, 1999) in essa ci si congeda<br />
dal tempo dell'io, cioè il tempo del desiderio, e<br />
senza l'ansia della riproduzione c'è il vero eros, il<br />
trasalimento. L'apice dell'amore è nella conoscenza<br />
del tempo dei tempi, in cui amore e morte<br />
si abbracciano senza fraintendimenti.<br />
Diceva che scrive all'interno di una precisa tradizione
filosofica e terminologica, quella occidentale. E che<br />
caratteristica di questa è l'essersi costruita intorno<br />
all'idea di inizio.<br />
Sì (forse tutte le culture lo hanno fatto, ma noi ci<br />
occupiamo di quella occidentale). Effettivamente<br />
la nostra cultura è basata sul concetto di inizio. Il<br />
problema è che noi non solo 'traiamo' certezze, ma<br />
abbiamo anche certezze logiche. Il nostro sistema<br />
solare è quello che io definisco l'orizzonte teorico,<br />
da cui si può effettivamente anticipare (La morte<br />
del sole, Adelphi, 1982). Cioè, noi abbiamo con l'inizio<br />
un rapporto di contemporaneità. Per altro verso<br />
anche tra la fine e noi vi può essere un rapporto<br />
di contemporaneità: purché noi facciamo quella<br />
che Kant chiamava un' 'anticipazione della percezione'.<br />
E ci regoliamo fin d'adesso sulla sua base.<br />
Cioè, perché mai di un dio che ha creato il mondo<br />
ex-nihilo, o di un inizio in illo tempore noi facciamo<br />
culto, attorno ci accasiamo, abbiamo fatto unità<br />
attorno all'inizio. E in un momento in cui vediamo<br />
profilarsi più chiaramente la fine di tutto questo,<br />
non riusciamo ad accasarci attorno all'idea di fine -<br />
non all'idea di fine individuale, ma di fine cosmica<br />
- cioè non riusciamo ad avere il senso (che ci dev'essere<br />
dato, fin dall'inizio effettivo e produttivo,<br />
non una misera trovata, anche se la scienza ce lo<br />
mostra, come può), non riusciamo ad avere l'anticipazione<br />
della contemporaneità, il sentimento<br />
della contemporaneità. Questo potrebbe avere un<br />
rilievo quasi simile a quel sentimento di con-
temporaneità con Dio che ha un Kierkegaard. Con<br />
questo sentimento avremmo un bandolo per regolare<br />
i nostri rapporti, stabiliremmo meglio quella<br />
compassione che nel pessimismo classico rimane<br />
senza una base reale - senza quell'unità di tutti che<br />
sempre è presente nelle teorie iniziatrici, nelle riflessioni<br />
che si fanno sull'inizio da cui tutto deriva<br />
per poi moltiplicarsi? E allora il punto è questo,<br />
niente fondamentalismi, almeno per quanto mi<br />
riguarda, niente riflessioni religiose, ma una filosofia<br />
che per esempio s'instaura severamente in un<br />
Kant, prosegue con Hegel, più in là con Schopenhauer<br />
- e che poi si ferma, miseramente strattonata<br />
in un Heidegger.<br />
E Nietzsche?<br />
Nietzsche rimane in tutto ciò colui che ha mandato<br />
tutto all'aria, diciamo così... io ho pubblicato<br />
delle poesie su Nietzsche (Nietzsche, Bompiani,<br />
1998), non quindi in parole che certo corrono qua<br />
e là nei miei scritti, ma in una forma che con un<br />
po' di buona volontà si può chiamare poesia.<br />
Il rapporto della poesia, dunque, con questa sua filosofia<br />
dell'empietà, coerente pessimismo - con una poesia<br />
che in quanto tale deve render conto dei 5 sensi (come si<br />
è detto a Modena i giorni scorsi), la nostra appartenenza<br />
al sistema solare - in De mundo pessimo, (Adelphi,<br />
2005) mi hanno sorpreso i suoi accenni alla "benevolenza"<br />
con cui il sole conferirebbe vitalità agli esseri,
ecc. E la contraddizione essenziale della poesia di oggi<br />
è forse il dover render conto delle emozioni di appartenenza<br />
al sistema solare, e una verità che sempre di più<br />
si fa strada anche nel senso comune della gente - per cui<br />
la sua filosofia non risulta così strana o "pericolosa"...<br />
Dunque: poesia e senso comune della "fine del mondo".<br />
Vorrei cominciare con una precisazione. La filosofia<br />
più nobile ha proseguito con termini come<br />
'essere', che a me non dà affatto i brividi - me li dà<br />
invece lo scoperchiarli e trovare quella molteplicità<br />
di enti che lo costituiscono. Parlando di sistema<br />
solare voglio approcciarmi meglio alla realtà, di<br />
qualcuno che dice 'essere' a qualcosa... qualcosa<br />
che in qualche modo mi cozza contro, non posso<br />
maneggiarlo come un facitore di concetti (e noi<br />
dobbiamo frequentare concetti, null'altro possiamo).<br />
Cosicché a me risulta più 'solido' parlare degli<br />
enti piuttosto che degli esseri. Quanto al modo<br />
di parlarne, ci può essere quello di una poesia 'impoetica'<br />
- c'è una mia poesia, Opus postumissimum<br />
(dove parlo di Kant in definitiva) dove la parola si<br />
rompe spesso - non nel senso della (defunta) avanguardia<br />
italiana o tedesca, ma nel senso dell'immagine<br />
che vuole seguire da vicino il disfarsi di<br />
Kant, il disfarsi del suo cervello, e posso farlo solo<br />
in questa 'impoesia'. L'altra domanda connessa?<br />
Che questa consapevolezza della fine, specialmente dopo<br />
il settembre 2001 e tutto ciò che ne è seguito, diventa<br />
sempre più comune.
E perché no? Lasciamola diventare più comune,<br />
vediamo che frutto possiamo cavarne. Dagli accasamenti<br />
attorno all'idea di inizio non possiamo più<br />
derivarne nulla. Non un dio ci può salvare e non<br />
c'è niente da salvare, in questo mondo che non è<br />
altro che un principio autodistruttivo giorno dopo<br />
giorno - non il 'divenire': il concetto hegeliano di<br />
divenire impallidisce di fronte a quello che in realtà<br />
avviene, e non soltanto nel mondo umano. Questo<br />
è il rovesciamento - pur nel rispetto della<br />
terminologia - che vale più che una storia della filosofia<br />
(dove si vedono muoversi uomini, professori,<br />
cosacce). Nella vera terminologia filosofica<br />
invece si respira aria pura, attraverso di essa si vedono<br />
muoversi cose.<br />
Quello che non mi convince completamente nella sua<br />
presentazione è quando lei parla appunto di questi "enti"<br />
del sistema solare come apsuchon, "senz'anima".<br />
È un'eredità che ricevo dalla Filosofia della natura<br />
di Hegel, mentre trovo che la filosofia di Goethe e<br />
di Schopenhauer la fa sembrare grama, asfittica.<br />
In un punto lei dice che "percepisce" la musica delle sfere.<br />
Musica come rumore di un macchinario, non neoplatoniche<br />
melodie.
Mah. E poi su Spinoza: al posto dell'equazione libertànecessità,<br />
lei pone una "contro-finalità" a questo dio<br />
"distruttore, smisurato e annientante", va bene. Ma da<br />
dove le viene questa "superbia" di credersi "superiore a<br />
dio" perché capace di pensarlo (lo stesso pensare di pensare<br />
non è che semplice pensiero, dico in una mia poesia)<br />
- mentre Spinoza, pur avendolo pensato, non se ne<br />
sarebbe accorto? È un punto molto bello di discussione,<br />
credo.<br />
Avremmo bisogno di giorni e giorni... Certo, come<br />
lei sa, un pensiero tenta di difendersi anzitutto<br />
chiudendosi dentro quello che è il suo modo proprio,<br />
e tutto quello che pesca chiuderlo entro qualcosa.<br />
In questo senso - sistema no, perché il sistema<br />
è impossibile, ma - il sistema è come una<br />
scia che tutte queste cose che uno si porta dietro<br />
fanno, e allora se uno ogni tanto la guarda questa<br />
scia, e dice 'ma guarda, la scia che stanno lasciando<br />
i miei problemi', allora forse può ricompattarle,<br />
darne un senso, i rapporti che hanno l'uno con l'altro.<br />
Questo senso di spezzato, di torsi, come quando<br />
si va in un museo e si vedono torsi di statue, o<br />
pezzi, mani, la testa di uno, di un altro il busto –<br />
tutto questo senso del rimasto, è così che io trascino<br />
i miei problemi, ma non come qualcosa di<br />
assemblato in anticipo, bensì come qualcosa che si<br />
va accumulando sotto un rastrello, fino a costituire<br />
una massa... Che cosa sono queste cose, hanno<br />
un filo conduttore?
La filosofia occidentale legata all'idea di inizio (Cacciari<br />
ci ha scritto un libro, anche se ora ha scritto l'altro,<br />
il termine ad quem, cioè il fine, "toccare il dio").<br />
Ma tutto questo non condiziona forse anche la sua idea<br />
di "morte in comune", questa necessità escatologica, la<br />
"comunità dei morenti"...<br />
Io la intenderei come emozione comune, più che<br />
come una comunità 'predisposta' in un qualche dio<br />
- cioè una comunità 'accidentale', nel senso che<br />
tutti gli uomini hanno delle causalità, ma un punto<br />
ci consente di avere un'emozione comune, quella<br />
che tutti finiremo, in particolare - non m'interessa<br />
di quelli che moriranno fra duemila anni - tutti<br />
quelli che vivono in questo scorcio di tempo, i miei<br />
contemporanei appunto, e che quindi possono<br />
essere tutti - tutti è un termine da barbiere - 'tutti'<br />
possono comunque, avere lo stesso senso della fine...<br />
Noi possiamo ammirare non il grande essere<br />
del mondo, ma il fatto che questo si distrugge. Se<br />
noi consultiamo per esempio un buon numero di<br />
cosmologie che - al posto della metafisica, che ha<br />
dato le dimissioni - tramite grandi matematiche,<br />
sono tentativi di dare delle risposte, congetturali<br />
certo, a domande che hanno per oggetto non il<br />
tutto, ma enti specifici (non fanno come la filosofia,<br />
che parla dell'essere, termine popolare ormai,<br />
dopo la vulgata heideggeriana o severiniana,<br />
non certo aristocratico) - la scienza parla degli<br />
enti, che fanno un aggregato, non un tutto come<br />
se fosse organico, un coacervo di enti, e allora qui,
diciamo, uno s'avvede come la scelta filosofica possa<br />
addentrarsi negli anfratti, nei punti o interstizi<br />
di questo aggregato di enti.<br />
La parola "aggregato" mi spinge a farle un'altra domanda:<br />
anche il buddhismo parla di aggregati, ed è tra<br />
le poche visioni che non ricorre all'idea di inizio. Inoltre,<br />
il suo "sapere beato, in cui tutto sarà dato in una<br />
sola volta, sopraggiungendo in quell'istante da chissà<br />
dove al ramo rinsecchito, che dopo la rinunzia più non<br />
germoglia" mi ricorda le inevitabili "citazioni" orientali<br />
del pessimismo occidentale (Schopenhauer). Pensi<br />
al sat-chit-ananda ("esser-coscienza-beata"), paradigma<br />
vedantico che passa anche al buddhismo.<br />
Come le dicevo, io penso nella terminologia filosofica<br />
occidentale. Lo scandalo filosofico del novecento<br />
è quello di teorie micidiali che sono state<br />
fatte da filosofi come Heidegger, il cui scandalo è<br />
che lui non se ne sia scandalizzato, ma abbia mascherato<br />
il suo tentennamento (in modo da lasciare<br />
ai posteri l'interpretazione della sua opera omnia)<br />
era un uomo che non aveva un grande coraggio<br />
personale, come testimoniano alcune lettere alle<br />
sue allieve amanti (la moglie era sempre presente,<br />
perciò lui doveva esporre delle pezze, dei segnali<br />
per dire 'si può-non si può') - la verità accademica,<br />
che forse è meno dannosa nelle discipline farmacologiche,<br />
la verità accademica filosofica è che<br />
l'università deve formare un soggetto, un uomo<br />
come entità preconfezionata, un cittadino che vive
in una società di cui condivide il principio fondamentale<br />
- mentre il filosofo dovrebbe essere<br />
quello che esprime i dubbi, almeno così ce lo presentava<br />
la filosofia moderna - e questo non significa<br />
esporre il dubbio per cinque secondi ai propri<br />
studenti, significa macerare, magari non nell'ambito<br />
del proprio vissuto, ma nell'ambito del proprio<br />
fare filosofico. Un buon filosofo non espone i<br />
suoi dubbi, ma scrive quando in un modo o nell'altro<br />
crede di averli superati, di non averli più. Oggi<br />
un filosofo deve osare, andare dove lo porta la sua<br />
testa, la sua educazione filosofica, il suo principio,<br />
la sua visione di che cosa significa pensare - i limiti<br />
glieli devono dire gli altri, 'guarda, tu hai saltato<br />
i limiti che il Kant pose... quali delitti stai facendo',<br />
Popper, tu stai dicendo cose non-falsificabili, e<br />
quindi al di là di vero e non-vero, nel senso basso<br />
della fisica. Io sto andando, sto spaccando queste<br />
cose. Poi tu me lo vieti, mi dimostri che con queste<br />
cose che ho spaccato ho disubbidito alla dea.<br />
Quindi ritiene che Emanuele Severino, ad esempio,<br />
questo non lo faccia.<br />
Lo riterrei come ogni filosofo che appartiene all'università<br />
- io mi sono sempre tenuto lontano<br />
dall'università per tenermi, almeno consapevolmente,<br />
lontano da qualcosa che avrebbe agito in<br />
me - l'ho scritto lì, in Della filosofia geniale (postfazione<br />
a La filosofia dell'università di Schopenhauer,<br />
pubblicata da Adelphi tempo fa) - cioè dalla
condivisione di una filosofia generale che ammorba<br />
tutte le filosofie particolari che poi si possono<br />
avere al suo interno. Per forza. Perché la filosofia<br />
non è un progetto di adaequatio del pensiero alla<br />
realtà (abbiamo oltrepassato questo concetto di<br />
verità), è il contro semmai, l'esibire il contro - non<br />
nel senso che l'universo ci sia avverso perché ha una<br />
mente diabolica, ma è un fatto nel suo complesso,<br />
perché esiste e ci opprime, se ne capisci la<br />
grandezza - non l'infinità - ma la smisuratezza.<br />
I nostri cattedratici hanno dovuto eliminare documentazione<br />
su Heidegger tacciandola di propaganda.<br />
Se Heidegger si fosse assunto le sue colpe, dicendo<br />
'sì, io ho commesso gli errori del mio tempo, sono<br />
stato così più capace di voi di capire l'errore, il<br />
male' - difficilmente si può parlare del male se non<br />
si è fatto o subito. I cattedratici forse l'unico male<br />
che hanno subito è quello che faceva dire ad Adorno,<br />
donnaiuolo squisito, che se avesse dovuto<br />
rinascere gli sarebbe piaciuto rinascere playboy.<br />
Torniamo al suo rapporto con questo ambiente, con<br />
Catania e la Sicilia.<br />
Per quanto ne sono consapevole - e di questo solo<br />
rispondo, non delle cose cosiddette inconsce, che<br />
non mi picco d'indagare - non ho 'rapporti', è piuttosto<br />
l'estensione della mia pelle. Mi sono un po'<br />
rivoltato ultimamente contro quei catanesi che
hanno votato nelle ultime elezioni per quello che<br />
hanno già toccato, cioè una politica basata sui<br />
cessi, una 'plebaglia', com'ebbi a dire in un'intervista<br />
che ha suscitato un po' di rumore, e per cui<br />
anche <strong>Battiato</strong> ha deciso di andarsene, ed è stato<br />
perdonato dal sindaco, ma io no, sono ancora imperdonato.<br />
Comunque, certo, quando atterro all'aeroporto<br />
dopo un viaggio, sento piacere, un piacere<br />
naturale, poi tutto finisce, io praticamente vivo<br />
in me stesso in rapporto a questi rumori, mi piace<br />
abitare in questi punti di rumore, fracassi - gli<br />
alberi non li sopporterei. Ho scritto qualcosa sulla<br />
Sicilia. Ma quanto al vivere qui, devo dire che mi<br />
trovo bene, ho un collegamento immediato, da<br />
ragazzino vivevo a Lentini dov'ero nato - non c'erano<br />
i giardini che avrebbero sostituito le pensioncine<br />
- mio padre era farmacista, mio zio avvocato e<br />
aveva delle campagne, dove ogni tanto andavamo.<br />
Ricchissima terra, dove poi ci sono stati ritrovamenti<br />
archeologici, e così mi sono trovato a giocare<br />
con le ossa - dei greci, dei graeculi, di tutti<br />
quelli che vi avevano abitato o comunque erano<br />
passati da lì (si ritrova in un mio poemetto...) ebbene,<br />
mi trovavo bene, mi ci trovo bene in mezzo,<br />
io non sono portato a scrivere osservazioni... ho<br />
scritto della differenza del vivere in società e in<br />
politica... mi sono trovato a vivere in regimi dittatoriali.<br />
Un giorno alla stazione di Lentini vedo un<br />
farmacista che conoscevo, scortato da guardie, che<br />
aveva per le mani moltissime catene, lo stavano<br />
portando al confino, perché considerato un facito-
e di disordini, uno che parlava, parlava. Ma anzi a<br />
me dà fastidio chi parla male della Sicilia, ma ne<br />
parla male perché il giudizio non è tale, è mal motivato,<br />
è piuttosto un qualcosa di non corrisposto,<br />
un risentimento.<br />
Cosa pensa della cultura popolare siciliana, come Ignazio<br />
Buttitta, rievocato in questi giorni da Fabio Monti?<br />
Buttitta non lo frequentai, ma non per scelta di<br />
antipatia, semplicemente non entrava nella mia<br />
strada. Feci un'osservazione su Sciascia che poi mi<br />
è stata da qualcuno imputata (ma altri l'apprezzarono,<br />
come il Corriere della sera), e cioè che lo<br />
scrittore che oggi voglia fare scrittura civile,<br />
diciamo nel suo orizzonte, nella sua fantasia, dovrebbe<br />
uscire da qui, dalla denuncia dei soliti problemi,<br />
la mafia ecc. - si sente la stanchezza della<br />
ripetitività di questi temi, si avverte che non sono<br />
attecchiti né a livello personale, né a livello storico,<br />
per cui reputavo Sciascia diventato una specie<br />
di burattino. Mi fa piacere che sia tornata ora una<br />
scrittura popolare, che sembrava morta e sepolta -<br />
Camilleri – mancavamo da tempo di una scrittura<br />
popolare, mediatrice, nel senso che può circolare<br />
tra milioni di persone - negli anni trenta ci fu un<br />
solo scrittore, la circolazione letteraria era circoscritta,<br />
basti pensare che il primo libro di Montale<br />
fu stampato in 250 copie, ma allora c'era una<br />
veicolazione diversa, un passaparola. Qui man-
chiamo di case editrici, a parte Sellerio, abbiamo<br />
fatto un esperimento con la De Martinis che per<br />
alcuni anni pubblicò cose di rilievo (Contro la musica,<br />
1994), ora c'è Prova d'autore (Nell'antro del<br />
filosofo, 2002) con Mario Grasso, persona molto<br />
simpatica.<br />
- - -
Almeno in una cosa Miglio ha ragione: quando<br />
invita lo stato a lasciare Palermo e i siciliani a 'vedersela<br />
tra loro'. Infatti noi abbiamo davvero bisogno<br />
d'esser messi con le spalle al muro, ormai. Di<br />
essere abbandonati a noi stessi, alla nostra cupezza<br />
e alla nostra disperazione. Solo così potremo<br />
forse trovar la forza di reagire, senza aspettare<br />
sempre i redentori che vengono da lontano. Per<br />
cui alle autorità di Roma io dico: non aiutateci più,<br />
tantomeno con l'esercito, perché altrimenti qui tra<br />
poco spirerà di nuovo aria di vespri. Non aiutateci<br />
perché abbiamo semmai bisogno di esser trattati<br />
male. Fino a quando ci sarà dato un dito, noi lo<br />
succhieremo: tutta l'isola è ancora ferma a uno<br />
stadio infantile, in una situazione amniotica, come<br />
se non fosse completamente nata. Così, lasciateci<br />
provare a nascere, non aiutateci.<br />
- - -<br />
Insomma: hanno ragione quelli che vi vorrebbero abbandonare<br />
al vostro destino?<br />
Forse bisognerebbe abbandonare la Sicilia, lo penso<br />
pure io. Rifletta su un dato: tutti i siciliani chiedono<br />
l'intervento dello stato, come se lo stato non<br />
fossero anche loro, come se un pezzo di questo<br />
stato non fosse già qui. E un altro nostro tipico atteggiamento,<br />
perché ci si appella costantemente<br />
agli altri. La realtà è che dovremmo riconoscere di
essere nelle mani di noi stessi, e di nessun altro. Il<br />
recupero di questa terra non avverrà mai attraverso<br />
l'elargizione di speranze o di parole o di elemosine.<br />
Maturerà solo quando saremo con le spalle al<br />
muro.<br />
- - -<br />
"Un progressista?". Manlio Sgalambro è piuttosto un<br />
"neoreazionario". Il feroce attacco al pensatore siciliano,<br />
noto anche per il sodalizio con il cantautore <strong>Franco</strong><br />
<strong>Battiato</strong> - per il quale ha scritto numerosi testi - viene<br />
dal decano della sociologia italiana <strong>Franco</strong> Ferrarotti.<br />
Sull'ultimo numero della rivista ‘La critica sociologica’,<br />
da lui diretta, Ferrarotti scrive - in un editoriale<br />
intitolato L'intolleranza degli illuminati - che Sgalambro<br />
sta sferrando "un attacco meditato contro la<br />
pratica e l'idea stessa di democrazia", e ne liquida<br />
sprezzantemente le opinioni – contrabbandate "come<br />
verità assolute" - definendole "scatti d'umore personali".<br />
Quindi Ferrarotti rincara la dose, rinfacciando<br />
a Sgalambro di cercare il successo propalando – attraverso<br />
uno stile che sa di "approssimazione oracolare" -<br />
gli "oscuri dettami" di un pessimismo aristocratico che<br />
liquida la democrazia in quanto "ideale illusorio". E<br />
infine gli rimprovera di aver vissuto per decenni nel<br />
seno della mafia senza aver speso una parola contro il<br />
fenomeno della criminalità organizzata. La durezza<br />
delle accuse non sembra tuttavia scomporre più di tanto
il settantunenne filosofo di Lentini, che ribatte pacatamente<br />
dicendo che Ferrarotti non sembra aver afferrato<br />
"il punto angoscioso di chi è costretto a lottare<br />
contro un modo di vivere che fa parte della sua carne:<br />
evidentemente Ferrarotti non ha capito che io sono un<br />
democratico, ma sono un democratico disperato".<br />
Perché disperato?<br />
Perché, non c'è dubbio che la democrazia è comoda.<br />
Nella democrazia io vivo bene, ma il problema<br />
per me, in quanto uomo che pensa, è che in essa è<br />
venuto a distruzione il concetto di verità. Io non<br />
sono un politico, quindi la mia è una lotta interna<br />
a me stesso: la lotta di un democratico disperato<br />
perché pensa che la democrazia, in quanto trionfo<br />
del demos, coincida con la distruzione del concetto<br />
di verità: tutto ciò che forma l'ossatura del pensiero<br />
è ridotto ad assoluta miseria. Pensare questa<br />
antitesi è una cosa angosciosa, una cosa che non si<br />
lascia affatto prendere allegramente, ma devo pensarla<br />
perché ho fatto voto alla verità, non a una<br />
forma di governo.<br />
Ma parchè la democrazia coinciderebbe con la morte<br />
della verità?<br />
Perché, da Hegel alle filosofie 'debolistiche' contemporanee<br />
si è sviluppato tutto il processo di subordinazione<br />
del pensiero alla prassi: la nostra è la<br />
società del primato assoluto della prassi. Ma si po-
trebbe addirittura affermare che il concetto di verità<br />
è morto con il trattato di Westfalia che pose<br />
fine alle guerre di religione: esso è vissuto finché<br />
un semplice contadino poteva combattere in nome<br />
di un concetto astratto come la transustanziazione;<br />
dopo, questi concetti sono stati sacrificati alla<br />
pace. Oggi la democrazia ci lascia vivere, ma ci ha<br />
tolto le motivazioni del vivere.<br />
E come risponde all'accusa di non aver detto una parola<br />
contro la mafia?<br />
Non ne ho parlato perché, in quanto uomo che<br />
pensa, la mafia non mi fa venire in mente nulla. In<br />
quanto uomo che prova delle emozioni, credo di<br />
provare le stesse emozioni che la mafia suscita in<br />
chiunque altro, e mi pare inutile ripetere ciò che<br />
tutti provano. Con il rischio di usare concetti che<br />
appaiono ormai troppo 'larghi', slabbrati, come<br />
dimostra il fatto che si arriva ad assumere l'intera<br />
Sicilia come sinonimo di mafia. Caso mai avrei<br />
qualcosa da dire sul problema del male....<br />
- - -<br />
Provocatorio e caustico, Sgalambro ha rilasciato giorni<br />
fa al Corriere un'intervista dal titolo: Sciascia addio,<br />
non servi più. Sono seguiti anatemi che hanno fatto<br />
sorridere il filosofo. Il quale precisa:
Io ho posto la questione dello scrittore civile e dei<br />
suoi temi, in questo tempo. Il punto è se lo scrittore<br />
civile e i temi che esso addita, hanno ancora<br />
un senso. O se noi dobbiamo trovare il nostro destino<br />
culturale prescindendo anzitutto da questi<br />
maestri, i quali hanno indicato solo un tema. Ipnotizzati,<br />
in questo caso, dal tema della mafia e<br />
non vedendo altro. Io parlo per quelli che fanno<br />
cultura, fissando gli stessi temi che Sciascia fissava<br />
in altro momento, quando c'erano le grandi ideologie.<br />
E allora uno poteva farle, queste incursioni.<br />
Ma oggi non abbiamo più questa nicchia ideologica<br />
e dobbiamo cercarcela. Se Sciascia trovò<br />
nella mafia la sua peste, non è detto che lo sia ancora<br />
oggi. Perciò dico all'uomo di cultura: Vuoi<br />
una peste? Cercatela! Ma che sia un tema a te congeniale<br />
e non ereditato dai grandi maestri del<br />
passato e che tu ti porti addosso!<br />
- - -<br />
Se dovessi riassumere la sua valutazione della mafia, le<br />
sembra qualcosa di schifoso questa parola, lei la usa in<br />
maniera esplicita, parla di "schifo" ma, dal punto di<br />
vista intellettuale o storico di poco significativo, di poco<br />
rilevante, di poco interessante e quindi noioso da<br />
analizzare...<br />
Direi questo anzitutto. Tutto questo fatto mi<br />
ricorda l'osservazione che Stendhal fece, a partire
da una sua teoria, che chiamava ‘della cristallizzazione’.<br />
Lui fa parlare un suo personaggio, il<br />
quale, scorgendo i due che stanno seduti accanto a<br />
lui in una carrozza, un ragazzo e una ragazza, si<br />
accorge che fra di loro c'è ‘qualcosa’. Ma, dice, non<br />
diciamola, perché altrimenti cresce, si sviluppa,<br />
diventa qualcosa a sé. Era l'amore in quel caso.<br />
L'esercizio della parola è un esercizio complesso;<br />
non è soltanto descrittivo ma è anche enfatico, dà<br />
sangue e linfa alle cose di cui ci si occupa. Direi,<br />
che la mafia è una di quelle cose che non bisogna<br />
"nominare invano”.<br />
- - -<br />
La retorica non ci serve più. Se vogliamo che l'economia<br />
mafiosa sia un'esistenza temporanea, se<br />
vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico<br />
della diabolica mafia, non possiamo stare a<br />
contemplarla come una statua immobile. A un<br />
intellettuale si chiede di combatterla in un altro<br />
modo. Il problema non è l'esistenza della mafia: è<br />
la valutazione che se ne fa. Perché c'è tutto questo?<br />
Non cade dal cielo, è un fenomeno economico<br />
ben radicato. E allora gli intellettuali producano<br />
buone opere, i birrai facciano buona birra: inutile<br />
cogitare tutti quanti di mafia, perdere tempo a<br />
parlarne. Lavorare il proprio giardino, alla Candide.<br />
Tu cancelli le ombre della mafia operando più<br />
di lei, meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo.
A te è stato dato questo lavoro, fallo bene, esplodi,<br />
fai vedere che cosa puoi fare anche qui. A noi deve<br />
importare dei ladri di passo?<br />
Allora aveva ragione Sciascia: la Sicilia è una metafora<br />
di quest'Italia un po' narcotizzata, incapace di<br />
reagire...<br />
In un certo senso. Ma non si può vivere a spese di<br />
Sciascia in continuazione. Bisogna adoperare concetti<br />
nuovi. Basta col gioco della spartizione: è<br />
mafioso o no? Domande da periodo di lotte religiose:<br />
è luterano o cattolico? In Sicilia sono arrivati<br />
anche i laici, per fortuna. Ricordo Goethe a<br />
Messina, dopo il terremoto calabro-siculo del<br />
1783: vede per la strada giovani suore che camminano<br />
altere con la pancia. La vita in loro si era risvegliata<br />
al di là dei dogmi e delle tragedie. Esibivano<br />
le loro grandi pance! Qui, la vita riesce a<br />
fare questo. Ma bisogna sprigionarla, levarla dalle<br />
gabbie della banalità.<br />
- - -<br />
Di quale classe dirigente si parla? La sola alla quale<br />
riconosco responsabilità enormi è quella intellettuale.<br />
In questi anni non si è difettato di<br />
politica, ma di idee. È mancata chiarezza, lucidità<br />
di pensieri. La politica, qui da noi, è sempre stata<br />
piccola politica. Oggi si arrestano i ladri, d'accor-
do. Ma quando si arresteranno tutti quegli intellettuali<br />
che hanno disertato dal pensiero? Occorre<br />
aspirare al massimo della forma, del proprio sé e<br />
più che una morale dell'operare servirebbe una<br />
morale dell'intelligenza. Purtroppo viviamo un<br />
periodo di piccole etiche, che spuntano ovunque, e<br />
tutte studiate a tavolino. Non si traducono in nulla.<br />
Bisogna valere, prima ancora di essere. Solo così<br />
si può aspirare all'eccellenza.<br />
- - -<br />
Dove sono gli intellettuali? Dove sono quelli che<br />
io preferisco chiamare chierici? Non ne vedo molti<br />
in giro con gli occhi aperti e le orecchie tese. È venuta<br />
meno la funzione critica del chierico verso i<br />
cosiddetti reggitori della cosa pubblica. Al posto<br />
dei chierici, sono arrivati i clericali. La politica orfana<br />
d'ideologia, si aggrappa alla religione. Non a<br />
una religione, beninteso: alla religione cattolica.<br />
- - -<br />
Credo alla funzione del filosofo come creatore della<br />
coscienza dell'individuo. Che sia come un chierico,<br />
il quale, al di là della propria identità e delle<br />
opacità esistenziali, spinge all'attraversamento di<br />
quelle stesse opacità, ad intraprendere questo<br />
viaggio. È una piccola luce, un tentativo.
- - -<br />
Chi è l'artista? Una cellula del caos odierno che cerca<br />
disperatamente di lasciare più tracce possibili; o non è<br />
più soddisfatto del sapere che ha originato il suo processo<br />
creativo?<br />
È un cambiamento che bisogna interpretare. Penso<br />
che il fenomeno si rafforzerà ancora di più. Vedremo<br />
filosofi che non si accontenteranno più delle<br />
loro cattedre e dei loro libri e cercheranno un<br />
ponte di comunicazione che non sia più quello<br />
tracciato dalle vie canoniche ma che possa essere<br />
inventato: il rapporto diretto con il pubblico, la<br />
lettura dei propri brani. Ma tutto questo perché?<br />
Perché? in questa era di contaminazione si crea un<br />
nuovo modo d'essere. È un fenomeno legato a<br />
questo disamore per i campi separati, a differenza<br />
delle epoche analitiche che non si sognerebbero<br />
mai di confondere il teatro con la filosofia. Il sapere<br />
analitico e distinto è deprezzato da questa epoca...<br />
che tende a mischiare tutto, come in una<br />
sorta di magia oscura che la rende metaforica ed<br />
allegorica. Ma la nozione di futuro per l'artista è<br />
cambiata: 'Morirò io e moriranno anche le mie cose'.<br />
Questo sforzo di lasciare più impronte è l'unico<br />
modo per catturare la dimensione in cui siamo:<br />
'non esisto all'infuori del presente'. La sensazione<br />
è quella che se non esisto nel presente non esisterò<br />
mai più. Per riassumere: questa corsa verso
terreni diversi è un segno di abbandono delle arti<br />
e dei saperi distinti.<br />
Questa era ha provocato un azzeramento, un livellamento<br />
tra le arti, dunque l'esigenza di cimentarsi in<br />
più campi diventa quasi un obbligo?<br />
Una volta si scriveva per fame di immortalità.<br />
Questa fame di permanere ci porta oggi a questa<br />
selezione, non si acquieta più all'interno di una sola<br />
disciplina ma ci spinge oltre. È un periodo di<br />
confusione delle arti e dei saperi e di confusione di<br />
chi li pratica. Così avviene che si fanno romanzi,<br />
quadri, musiche, come per esempio nel caso di Savinio.<br />
Ma tutto questo non ci dà la sensazione<br />
dell'uomo universale del rinascimento, ma è la<br />
condizione dell'uomo disperato, il quale vuole che<br />
le sue opere restino, l'impronta da lui data rimanga<br />
e dunque opera come se volesse abbattere,<br />
lottare contro qualcosa (il tempo probabilmente)<br />
che distruggerà tutto. Siamo intrisi profondamente<br />
di caducità e questa caducità ha invaso ciò che<br />
facciamo, comprese le nostre opere.<br />
E Sgalambro come si pone? Resta un filosofo che dà il<br />
suo servizio alla musica, al teatro, al cinema, o si scopre<br />
improvvisamente autore di canzoni, testi teatrali, sceneggiature?<br />
Credo in effetti di continuare a fare quello che facevo<br />
prima e cerco di occuparmi di queste cose
alla stessa maniera che è tipica del mio modo di<br />
vedere. L'unica differenza è quella che invece di<br />
sviluppare concetti tento di sviluppare sensazioni.<br />
La riflessione mi ha sempre convinto della grande<br />
musicalità di cui è pervasa la stessa logica di Hegel,<br />
come del resto avveniva al giovane Marx, il<br />
quale scrivendo al padre affermava: 'Sto studiando<br />
la logica hegeliana e vi trovo una qualche melodia<br />
rupestre'. Ho una legittimazione di ciò che faccio.<br />
Poiché io non sono un accademico, per me il luogo<br />
della filosofia è dove sono. Se mi metto a far canzoni<br />
il luogo della filosofia è quello, e così se faccio<br />
teatro. L'altro tipo di filosofo ha un luogo.<br />
- - -<br />
Parliamo di Peter Pan, maestro.<br />
A me pare che questi simbolismi del fanciullo<br />
compaiano varie volte nella storia europea. Ma<br />
che vuol dire fanciullo? Prolungare l'età della leggerezza<br />
e del divertimento, dell'irresponsabilità.<br />
Proprio lei ha magnificato l'irresponsabilità.<br />
Ma l'irresponsabilità del filosofo! Ho considerato<br />
che l'irresponsabilità è quel momento in cui uno<br />
mette consapevolmente tutto al muro. È il momento<br />
in cui non si è pressati da responsabilità<br />
oggettive, non si è precondizionati nella grande
iflessione. Ma per il ragazzo, per Peter Pan, che<br />
cosa può essere l'irresponsabilità?<br />
Voler restare fanciullo.<br />
Bisogna fare una scala, dal puer al puer-senex che<br />
non vuole accettare lo scorrere dell'età.<br />
Lei come sente l'età che avanza?<br />
Come una scalata. Se uno decide di scalare una<br />
montagna, salire ancora più in alto è meritorio.<br />
Raggiungere la cima. L'invecchiamento è un passo<br />
necessario per chi vuol percorrere una certa strada.<br />
Non è un passo necessario per chi vuol fare il<br />
girotondo.<br />
Perché si sceglie di restare bambini?<br />
Perché sono crollate le grandi ideologie politiche<br />
dentro cui la vita era posizionata. Oggi tutto questo<br />
è crollato. C'è volontà di divertimento: come<br />
un nirvana addomesticato, come in una discoteca<br />
dove ci si annulla nella musica.<br />
Anche nei grandi concerti c'è quest'obnubilazione. E lei<br />
sale volentieri sui palcoscenici.<br />
Io uso parlare di emigrazione interna, come i tedeschi<br />
quando avevano il nazismo e tuttavia non<br />
volevano emigrare come i Mann e i Werfel, ma
estare ed operare nel loro paese. Questa è la mia<br />
migrazione interna. Perché io non voglio prostituire<br />
il mio pensiero al danaro, ad una professione.<br />
Vuole pensare irresponsabilmente?<br />
Senza avere addosso il pensare istituzionale, che<br />
mi obbliga ad essere civis. Questo io lo considero<br />
un limite, un limite imposto.<br />
E allora lei va fuori, trasgredisce.<br />
È un modo di vivere la mia libertà. Se avessi avuto<br />
cariche accademiche non avrei potuto farlo.<br />
Si sente giovane?<br />
Diciamo che considero l'età con entusiasmo.<br />
Una delle pochissime cose che la entusiasmano... Ma è<br />
sincero?<br />
L'età mi fa vedere di più. O magari credo di vedere<br />
di più.<br />
Non si chiede cosa pensa la gente nel vederla salire su<br />
di un palco?<br />
Non me lo sono mai chiesto. Non esiste una pubblica<br />
opinione cui dar conto.
Deve essere liberatorio, disorientare chi se l'immagina<br />
nei panni del filosofo e lei gli appare in veste di cantante.<br />
Si propone come fenomeno.<br />
Indubbiamente. Il divertimento esiste.<br />
È probabile che si divertano più gli altri, che lei.<br />
E ci sono anche i doveri. Si accumula stanchezza,<br />
ci sono le trasferte giornaliere, i disagi. È pesante.<br />
Sono sacrifici. In cambio ha la soddisfazione di cantare<br />
La mer.<br />
Ci fu uno stoico greco che tradì lo stoicismo per<br />
darsi ai bagordi, alle cose vana et futilia. Fu considerato<br />
un traditore, ma volle dare l'esempio della<br />
libertà del filosofo e di questa possibilità del passare<br />
dal sublime e serioso, alle cose vane e futili.<br />
Alla sua età, è una bella sfida.<br />
Non amo sfidare. Significherebbe considerare l'altro<br />
una parte in qualche modo necessaria al tuo vivere.<br />
Non è il mio caso.<br />
Ma il pubblico è necessario al suo canto. Dovrà cercare<br />
di riuscirgli gradito.<br />
In qualche modo.
Offre canzoni. La cosa più fugace che esista.<br />
Ho scritto un libro, Teoria della canzone. E scrivo<br />
canzoni per <strong>Battiato</strong> dal '94. Questo mi ha portato<br />
a considerare cosa fosse la canzonetta, in un periodo<br />
effimero. Se per caso essa non incarnasse questa<br />
etèra Esmeralda, la delicata farfalla che in tre<br />
minuti sviluppa la sua vita, vive e muore. Questa<br />
fugacità della canzone, il suo darsi come fugace,<br />
anche se poi può durare. Ma il modo in cui appare<br />
è sempre la fugacità. Non potrebbe durare di più,<br />
non può durare che tanto. Il pubblico non la sopporterebbe<br />
più a lungo.<br />
Il tempo d'un refrain.<br />
Questo senso del fugace è quello che mi è piaciuto<br />
di più, che mi ha sfidato. Se sfida mai c'è stata.<br />
Non teme che il cantante possa offuscare la sua immagine<br />
di filosofo?<br />
No, no. Io sono filosofo dalla testa ai piedi, comprese<br />
le scarpe, come avrebbe detto Gentile. Le<br />
due cose coesistono, non interferiscono.<br />
Ma la canzone forse le dà di più. Applausi, se non altro.<br />
Si sente gratificato?<br />
Sì, gli applausi sono piacevoli. Ma anche qui, dura
pochissimo. Un momento dopo, tutto si sfarina e<br />
non c'è più niente. Ma il bello è questo.<br />
Vede altri Peter Pan, nella nostra società?<br />
<strong>Battiato</strong> è un eterno fanciullo. Poi, per la sconsideratezza,<br />
per la leggerezza con cui trattano certe<br />
cose, i politici in genere. Credo che il ceto politico<br />
dominante, globalmente inteso, sia in un momento<br />
di poca formazione, di improvvisazione, quasi un<br />
ceto spontaneistico, che non si è formato, che non<br />
ha le ragioni per essere un nostro rappresentante.<br />
Sentirsi governati da un tal ceto politico, è oltremodo<br />
grave, è gravissimo.<br />
- - -<br />
Che difficoltà ci sono state a musicare i testi di Sgalambro?<br />
B. Non ci possono essere delle difficoltà. E’ un fatto<br />
di sonorità, di ritmo. La difficoltà si ha quando<br />
devi mettere a posto conti che non tornano.<br />
Volevamo chiedere a Sgalambro come mai avesse deciso<br />
di scrivere testi per delle canzoni, ma la risposta forse<br />
l'abbiamo avuta: è stata una richiesta.<br />
S. Questa è uno questio facti, poi vi è un'altra questione.<br />
Io credo che la riflessione, il pensare, in i-
specie il filosofare cerchino in certi periodi, in certi<br />
snodi della loro esistenza, nuove forme. Questo è<br />
un momento, a mio avviso, in cui il fallimento delle<br />
forme abituali dei filosofare (il fatto che la filosofia<br />
in qualche modo ha un'eternità di fatto, un'esistenza<br />
acuta, esiste) spinge chi pratica la filosofia<br />
a sentire l'occorrenza di esplorare vie diverse.<br />
Naturalmente io non pensavo per nulla di esplorare<br />
vie date da canzoni...<br />
Nel suo libro «Del pensare breve» lei dice che la coniugazione<br />
tra la filosofia e la narrazione avviene solamente<br />
con l'epos. Poi afferma che la filosofia non può<br />
più narrare e la letteratura non sa più scrivere. Voi vi<br />
trovate però a collaborare ad un'opera che rientra nella<br />
forma narrativa dell'epos.<br />
S. Il fatto narrativo della filosofia è detto non in<br />
senso trionfale. E’ piuttosto spesso il rimpianto<br />
che essa non possa narrare daccapo. A mio avviso<br />
l'adoperabilità di forme diverse resta sempre, però<br />
bisogna che esse siano in effetti adoperate, che<br />
trovino l'esecutore, un uomo in cui tutte queste<br />
cose si accolgono e con grazia diventino qualche<br />
cosa di semplice. Quindi, è chiaro, «narrare di» è il<br />
«sistema». Cos'è narrare in filosofia? Il vecchio sistema,<br />
il sistema della filosofia idealistica tedesca,<br />
quella narrazione che, si è detto un po' da tante<br />
parti, non può essere più possibile. In realtà questa<br />
narrazione può avvenire anche attraverso diverse<br />
altre maniere. Direi che il piccolo testo di canzoni
può essere una maniera per aggirare e dare oggi,<br />
in un'epoca dove tutto è rimpicciolito, queste piccole<br />
schegge di un sistema. Infine, la canzone porta<br />
al problema dell'oralità, della vocalità delle<br />
cose, è esprimersi mediante la voce, il canto, porta<br />
insomma a problemi non indifferenti.<br />
Tanto per giocare con il titolo di un libro di Sgalambro:<br />
la società dimostra molta indifferenza in materia<br />
di poesia. Dall'Ottocento in poi il ruolo del poeta è<br />
andato scadendo, perdendo presa sulla società. La poesia<br />
sta traslocando nella canzone?<br />
B. Sono assolutamente d'accordo. La società va<br />
sempre per schemi, difficilmente accetta l'idea di<br />
trasformazione delle cose. Si va a cercare la poesia<br />
in un campo dove non esiste più, dove ormai è solamente<br />
imitazione di modelli arcaici e ben riusciti.<br />
E’ quello che è successo anche alla musica contemporanea.<br />
E’ la cecità attuale che non può far<br />
vedere che la musica leggera è la continuazione di<br />
quella classica perché è impensabile, per la gente<br />
così detta colta, una simile caduta, mentre in realtà<br />
non sa accorgersi dell'esistenza di nuovi linguaggi,<br />
nuovi modelli di penetrazione. Ci sono dei<br />
prodotti apparentemente di consumo (tecnodance)<br />
che hanno una intrinseca verità, che però non è riconosciuta<br />
e non è neanche cosciente in chi la produce.
Le vostre frequentazioni con la poesia? Quali autori aveva<br />
in mente?<br />
S. Mi piace molto la Valduga. Mi piace l'impresa<br />
che lei conduce. Però non è questo il punto, è inutile<br />
fare dei nomi.<br />
Ritornando alla canzone, sembra di percepire nell'ultimo<br />
album che i testi di Sgalambro seguano un modello<br />
narrativo molto simile a quello che appartiene a<br />
<strong>Battiato</strong>. Si potrebbe parlare di una destrutturazione<br />
logica che procede attraverso metafore...<br />
B. Attenzione, Sgalambro odia il simbolismo.<br />
Voleva essere una provocazione: diciamo che questo<br />
procedere per immagini ricorda la tecnica dello «stop<br />
gurdjeffiano».<br />
B. E’ curioso, una ragazza che mi ha chiamato ieri<br />
ha letto il suo ultimo libro e mi diceva che sentiva<br />
delle analogie tra Sgalambro e Gurdjieff, ma lui<br />
non sopporta tutta quell'aria. Secondo me Sgalambro<br />
ha raggiunto un alto livello di penetrazione.<br />
E’ inevitabile che il suo modello coincida con quello<br />
di altri, anche se poi li differenziano le conclusioni.<br />
Un mistico conosce la gente, penetra,<br />
Sgalambro vede le stesse cose, ma trae conclusioni<br />
apparentemente opposte.
S. Io sono molto legato alla tradizione europea e<br />
occidentale della filosofia. Per me non c'è salvezza<br />
per la filosofia al di fuori di questa sua tradizione,<br />
e ogni suo debordare non è soltanto tradire, se così<br />
si può dire, la sua intima essenza, ma negarsi.<br />
Dentro la tradizione si possono fare anche testi<br />
per canzoni, ma fuori di essa non si può fare nulla.<br />
Questa tradizione contiene non a caso i poemi di<br />
un Parmenide, di un Empedocle. Oggi il pensiero<br />
occidentale si percorre in una specie di viavai continuo.<br />
Non si arriva ad un punto e si dice «Ecco,<br />
da qui», ma si va per continui ritorni, e come se<br />
qualcuno facesse qualcosa in cui è implicato questo<br />
andare e poi tornare, e poi riandare da capo magari<br />
tracciando vie di altro tipo. Questa soluzione mi<br />
convince, ma fuori dalla mia tradizione non metto<br />
piede.<br />
Allora, rimanendo nell'ambito della tradizione occidentale,<br />
esiste un'etica della scrittura?<br />
S. La scrittura è forse l'attuale situazione in cui<br />
siamo. Attraverso la scrittura possiamo raggiungere<br />
il punto che oggi ci può essere dato come<br />
possibile, e cioè la materialità del pensare. Pensare<br />
si ha appunto nella scrittura. La scrittura è una<br />
costruzione ben visibile, è qualcosa di ponderabile.<br />
Cos'è la «Critica della ragion pura» di Kant? E’ un<br />
libro, cioè un sistema di scrittura, scrittura attraversata<br />
certamente da molteplici sensi.
B. Scusi se la interrompo. E’ un libro, ma lei non<br />
crede nella deformazione di certi pensieri, di alcune<br />
idee che si sviluppano, vanno a sedere nella<br />
gente anche senza che lo sappiano...<br />
S. Sì, senza dubbio, però il momento concreto in<br />
cui la scrittura, il pensare occidentale trova la sua<br />
differenza dal pensare orientale consiste proprio in<br />
questo: che trova la sua etica nella scrittura. Lì è il<br />
suo bene, il suo male, il suo metro di giudizio, la<br />
sua misura. Ma è detto, ripeto, non in senso trionfale.<br />
La scrittura è il nostro limite, il limite però<br />
che consente al pensare di poter essere qualcosa,<br />
altrimenti rischia di rimanere un rimuginìo, un<br />
fatto psicologico.<br />
E la dimensione del concerto? Può essere un luogo concreto<br />
di incontro fra persone, fra filosofia espressa nel<br />
testo di una canzone e pensiero espresso in una composizione<br />
musicale; fra l'altro in «Del pensare breve»<br />
lei dice «pensare divide»: queste due forme di pensiero -<br />
la scrittura e la musica – forse collidono nel luogo, nell'evento<br />
del concerto.<br />
S. Lei ha ragione. Una lezione di filosofia dell'Università<br />
non riesce a realizzare il minimo dei suoi<br />
assunti, cioè quello informativo. Non riesce poi a<br />
realizzare una situazione filosofica, cioè una situazione<br />
d'ascolto, una situazione di dialogo. Ecco,<br />
lei ha ragione in questo: una situazione di incontro<br />
in cui chi proviene dalla filosofia si incontra con
chi proviene dalla musica ed entrambi camminano<br />
quel momento, cioè il concerto, può avere il senso<br />
di un dialogo. Tra una lezione di filosofia fatta da<br />
una cattedra e una canzone cantata da <strong>Battiato</strong> io<br />
preferisco quest'ultimo.<br />
La canzone è più efficace.<br />
S. Non si tratta solo di efficacia, non è solo un fatto<br />
pragmatico. Credo sia anche un fatto intrinseco,<br />
vero.<br />
Probabilmente il pensiero si svolge abbondantemente al<br />
di fuori delle aule universitarie, e quindi anche un concerto<br />
diventa un luogo dove è più facile che i pensieri<br />
siano a confronto. Non dimentichiamo che nell'efficacia<br />
della comunicazione contano entrambi i termini, quindi<br />
spesso c'è più pensiero anche dalla parte del pubblico<br />
di un concerto che non dentro un'aula universitaria.<br />
S. Io parlo di un'aula universitaria perché usualmente<br />
la filosofia, ahimè, si svolge lì. Ciò che chiamiamo<br />
filosofia è legato a un luogo, ma filosofia la<br />
si può insegnare da un lettino d'ospedale, da un<br />
bar, magari con le spalle appoggiate a un angolo.<br />
Ora il luogo occidentale della filosofia, il suo destino<br />
amaro o no (non importa qui dirlo), è appunto<br />
l'accademia.<br />
B. Giusto, ma io non me la sento proprio di perdere<br />
una lezione eterna e determinante datami<br />
magari da un fattorino mentre mi porta i bagagli.
Pensando ai suoi interessi per il sufismo, Rumi ad esempio:<br />
quanto un concerto di questo tipo, concepito in<br />
questo modo si avvicina a quello che è il «Sama» per i<br />
sufi? Forse è un po' azzardato...<br />
B. Non è per niente azzardato, anzi direi che il naturale<br />
ambiente del rito è già questo: la forza della<br />
canzone. Poi è chiaro, bisogna fare delle differenze<br />
naturali: c'è la musica di intrattenimento, c'è il piano-bar,<br />
ogni cosa ha una dose. Ci sono certi concerti<br />
che sono molto vicini a riti iniziatici, in cui<br />
proprio il tutto assume un aspetto inquietante e<br />
impenetrabile, altri in cui l'attenzione è tale che la<br />
parola fa più che comunicare: esprime.<br />
Allora diventa curioso che questa forma di pensiero, che<br />
forse è più della tradizione orientale, entri nelle nostre<br />
sale da concerto attraverso poi dei testi scritti da chi si<br />
dichiara invece della tradizione occidentale.<br />
B. E’ un problema teorico, non pratico. Perché<br />
Sgalambro può dire quello che vuole: pur avendo<br />
una sua posizione netta e operando una divisione<br />
manichea con tutta quell'aria, andando a rileggere<br />
alcune cose che lui ha scritto, anche per delle canzoni,<br />
si trova lo stesso genere di profondità. Mi<br />
viene in mente una canzone, Fornicazione, il cui<br />
testo mi ha pilotato a penetrare in un campo<br />
musicale in qualche maniera inconsueto. Quel testo<br />
descrive ambienti di una profondità misteriosa<br />
che già nell'epoca di Rumi esistevano in maniera
così mistica e che la sua poesia descriveva. Anche<br />
se Sgalambro e Rumi sono due mondi diversi.<br />
Potremmo dire che il mondo è sempre stato molto complesso<br />
e quindi per descrivere, per affrontare questa<br />
complessità una ricchezza di strumenti è solo buona;<br />
quindi non occorre tanto scegliere fra tradizioni differenti<br />
quanto riuscire a farle convivere assieme.<br />
B. Non solo convivere, ma anche farle reagire.<br />
Restringendo questo discorso al campo dell'opera, da<br />
«Genesi» a «Gilgamesh» infine a quest'ultima opera:<br />
il concerto, la possibilità di comunicazione può avvenire<br />
solamente attraverso il mito perché necessario come<br />
ripresa di un archetipo collettivo?<br />
B. Da quando collaboro col nostro professore è<br />
cambiato una cosa determinante nel mio lavoro.<br />
Quando in passato ho preso, come lei definisce, un<br />
archetipo, un eroe d'altri tempi, l'ho fatto perché<br />
avevo bisogno di utilizzare una drammaturgia che<br />
mi servisse per descrivere in un certo modo lo<br />
scopritore di mondi ultraterreni, quindi di utilizzare<br />
una meccanica classica, sempre uguale, sia<br />
per «Genesi» che per «Gilgamesh»: la meccanica<br />
del viaggio. Con l'arrivo dei libretto di Sgalambro,<br />
parlo del «Cavaliere dell'intelletto», non ne ho<br />
avuto più bisogno perché il libretto partiva con<br />
questa straordinaria teoria della Sicilia, di una bellezza<br />
spudorata. Mi accorsi che come compositore
dovevo semplicemente capire quali erano le cose<br />
da musicare. Negli altri percorsi la storia era una<br />
storia parateatrale, una specie di sceneggiata dietro<br />
le quinte. Ad esempio in «Genesi» ho utilizzato<br />
per il testo diverse lingue come il sanscrito<br />
e il persiano proprio perché non me la sentivo di<br />
raccontare in italiano, avevo come il ribrezzo verso<br />
il melodramma tradizionale con tutta la sua<br />
retorica, non sono più tempi, viviamo un epoca<br />
velocissima, abbiamo bisogno di sintesi.<br />
Con Sgalambro abbiamo avuto il miracolo della<br />
comunicazione. Il suo testo l'ho lasciato come teatro<br />
puro e sono intervenuto con la musica solo nei<br />
momenti in cui poteva alleviare le pene della parola.<br />
Quella parola pura mi fece venire in mente<br />
che in effetti stavamo entrando in un nuovo genere<br />
di proposta teatrale, e quando lbn Sab’yn dice a<br />
Federico: «Dio è tutto Federico, unirsi a lui è il fine»<br />
sentivi proprio la platea, era una cosa miracolosa,<br />
- allora lì individui, quando la parola è fatta<br />
con arte e contiene concetti alti, che la musica può<br />
solo disturbare. L'opera ha un bilanciamento bellissimo<br />
tra le parti musicali che alleviano la parola<br />
e l'assoluto rigore di questa parola.<br />
Pensavamo alla frase «mi ispirano paesaggi senza alcuna<br />
idea di movimento» da «Moto browniano». Il<br />
paesaggio nel suo lavoro e nel suo pensiero ha uno svolgimento,<br />
una sua riflessione?
S. Quando uno scrive non è sempre se stesso; se adopero<br />
una chiave nella porta adopero me stesso?<br />
Attraverso me stesso adopero una cosa: la chiave.<br />
Moto browniano: supponiamo che queste due parole<br />
unite assieme formino un corpo oggettivo. E’<br />
qualcosa che va descritto. Ma descritto è poco: che<br />
va sciolta in quelle che sono le sue componenti.<br />
Eppure, in ciò io non faccio un'operazione dove sono<br />
solo io: l'io è subìto dalla cosa, che mi sopporta.<br />
In questa sopportazione che l'oggetto del nostro<br />
scrivere, del nostro poetare, musicare, pensare, ha<br />
verso di noi, in questa sopportazione e nella sua<br />
consapevolezza c'è forse un diverso rapporto, che<br />
in qualche modo fa sì che la cosa non venga ad essere<br />
assorbita in me. Sono io, ma fino ad un certo<br />
punto: sono una sua pedina, se vogliamo, e nemmeno<br />
accettata: sopportata.<br />
Nei discorsi che facevamo attorno al paesaggio sostenevamo<br />
che il soggetto diventava un luogo, non era più<br />
il centro della scrittura ma uno dei luoghi, o meglio una<br />
mappa dei luoghi. Ci potremmo ricollegare a tante<br />
cose che <strong>Battiato</strong> ha scritto, canzoni in cui la geografia<br />
viene prelevata in una specie di cut-up e poi rimontata<br />
in una atmosfera che dà l'immagine del tutto; è una<br />
forma questa di archetipo moderno, di mito collettivo<br />
attraverso il quale si può comunicare a tutti.<br />
B. Mi piacerebbe, ma vorrei rispondere a Sgalambro<br />
dicendogli che se un contenitore è di colore<br />
nero non può dare l'azzurro all’acqua. La cosa
ti può possedere, ma non è importante quanto il<br />
fatto che solo l'occhio attento di un determinato<br />
osservatore può posarsi su certe cose.<br />
S. Supponiamo che ci sia un cammino, un iter. C'è<br />
un momento in questo cammino in cui - parlo di<br />
quello che conosco un po’ meglio, cioè il mio mestiere,<br />
che poi se togli nel filosofare il lato del<br />
mestiere, si toglie la zavorra, e un filosofare che<br />
non avesse la zavorra, la gravezza materiale, se ne<br />
andrebbe chissà dove - un momento in cui chi fa<br />
questo mestiere è un artigiano di cose. Un artigianato<br />
essenziale, e in questo momento uno può<br />
scrivere o può parlare o pensare, può descrivere<br />
questa cosa come se non lo riguardasse. Ma questi<br />
giochetti sono necessari come alla musica di <strong>Battiato</strong><br />
sono necessari certi giochetti perché essa si<br />
componga, si formi con una grana di cose. Allo<br />
stesso modo nel pensare c'è questa granulosità ed<br />
è il momento della cosa; ed è appunto il momento<br />
della cosa che non è una manifestazione mia, un<br />
me che si oblia.<br />
- - -
Nel vederli duettare si poteva anche pensare che le parti<br />
si fossero invertite. L'uno suadente nell'illustrare la sua<br />
teoria del "pensare positivo", l'altro quasi corrucciato<br />
dietro gli occhiali scuri da bluesman. Il rapper e il<br />
filosofo in certi momenti si sono scambiati la parte,<br />
dando vita a un insolito happening. È l'intuizione di<br />
<strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong> per l'apertura dell'estate catanese.<br />
Nulla di più provocatorio: invitare Jovanotti non per<br />
cantare, ma per parlare. E, visto che la sua presenza<br />
richiama migliaia di fan, perché non affiancargli il più<br />
cupo tra i filosofi italiani, il catanese Manlio Sgalambro?<br />
Il bianco e il nero: uno spettacolo che lunedì sera<br />
è andato in scena nel chiostro dell'università. Un incontro<br />
che si è chiuso con Jovanotti a cantare accompagnato<br />
dalla chitarra. Ma la singolarità dell'avvenimento<br />
sta tutta nel contrasto tra i libri dell'uno e le<br />
canzoni dell'altro. "Le arti - ha scritto il filosofo -<br />
sono una magistrale idiozia di chi vuole insegnare a<br />
stare bene nel mondo. Cosa assurda e pericolosa". Il teorico<br />
del pensare positivo dice invece di essere "un ignorantone"<br />
che ha letto I promessi sposi sul Bignami e<br />
ha "guardato le cose di Sgalambro senza capirci nulla".<br />
Forse è solo pretattica, ma funziona. Anche perché<br />
il professore attacca in modo troppo ostico, con i suoi<br />
fogli dattiloscritti e le citazioni latine. Quanto basta<br />
perché Jovanotti possa subito conquistare pubblico e<br />
interlocutore. La prima mezz'ora è un monologo sulle<br />
ragioni del "pensare positivo". "Le canzoni mi nascono<br />
dentro da qualcosa che noto, da una sensazione. Esempio:<br />
Penso positivo è nata ascoltando Bocca di rosa di<br />
De André. Quel ritornello, quella metrica, mi hanno
fatto venire di getto: 'Io penso positivo perché son vivo,<br />
perché son vivo'.... Sgalambro ascolta impassibile, Jovanotti<br />
rilancia: "Attenzione. Il fatto che penso positivo<br />
non vuol dire che io non veda. Vuol dire che credo". La<br />
platea è tutta per lui: si avvicinano per un bacio, per<br />
regalare un libro, per mostrare il look da fedelissimi.<br />
Tanto che c'è chi osa: "Professor Sgalambro, ma chi<br />
glielo ha fatto fare?". E poi chiede: "L'ignoranza trionferà?".<br />
C'è un'ignoranza felice e un sapere corrotto. A<br />
questo preferisco l'ignoranza felice che spero trionfi.<br />
Quella di Lorenzo è solo un'ignoranza metodologica,<br />
che si fa ingenuità per scoprire le cose.<br />
E alla fine la "teoria del pensare positivo" di Jovanotti<br />
riceve quasi la benedizione del filosofo:<br />
Altri l'hanno già teorizzata, ma mentre quelli che<br />
ne scrivono sono spesso sciatti, seguaci di una positività<br />
ottusa, Jovanotti esprime invece una positività<br />
francescana, gioiosa. E c'è una certa differenza.<br />
- - -<br />
Come definirebbe questo suo progetto [Fun club]?<br />
Un cavallo su cui far galoppare con un filo di ironia<br />
ricordi piacevoli. O 'un intreccio di vissuto per
voce e orchestra realizzato con un amico di nome<br />
<strong>Battiato</strong> con il quale da molti anni ci divertiamo e<br />
soffriamo con una sinergia che ha ben pochi eguali<br />
in Italia'. Ma forse la definizione che preferisco è<br />
'ricetta per scrollarsi il peso del presente con 12<br />
calici di buon vino'. Scherzi a parte: in tre minuti<br />
di canzone si può dire quanto in un libro di 400<br />
pagine o in un'opera teatrale completa.<br />
Sono convinto che venderà. Perché non è un disco<br />
particolare e io sono un tipo particolare. Me l'ha<br />
chiesto la Sony: i discografici premiano e castigano<br />
senza dover dare delle ragioni. E io sono<br />
stato beneficato. Il nostro mondo è popolato di<br />
tanti 11 settembre. Io credo che sia doveroso distribuire<br />
bene e fare cose che alleggeriscano la vita<br />
della gente.<br />
- - -
In Der Kuebel Reiter Kafka narra di un uomo che, trascinato<br />
da un secchio, si perde nell’aria. Uscito di casa<br />
in cerca di carbone, si ritrova improvvisamente da una<br />
situazione di privilegio, dalla visione dall’alto, all’essere<br />
perduto, o forse... definitivamente salvato da quel<br />
moto continuo che lo porta lontano.<br />
L’arte per nostra fortuna non comporta, non postula,<br />
la salvezza di nessuno... nemmeno la propria.<br />
L’arte non ha compiti, anzi deve avere il coraggio,<br />
non la speranza, sentimento direi da poco,<br />
del proprio operare. La convinzione che l’arte debba<br />
adempiere a un compito salvifico è quanto<br />
meno assurda!<br />
I termini non sono giocabili fra salvezza e perdizione.<br />
Ciononostante vorrei sapere il suo pensiero sull’impossibile<br />
equazione arte=utilità.<br />
Quando si fa qualcosa, quando si persegue completamente<br />
un’opera ben fatta, ciò è superiore alla<br />
salvezza di un essere. Quando a Brecht fu chiesto<br />
se gli interessava di più la rivoluzione o il suo<br />
teatro urlò: “Il mio teatro! Che dite, il mio teatro!”<br />
Questo chiaramente non significa edonismo o estetismo,<br />
sarebbe stupido intenderla così.<br />
Allora che cosa dobbiamo intendere?<br />
Per i singoli credo vi sia il compito di perseguire<br />
la propria eccellenza.
Cosa intende: il destino?<br />
No. A ‘destino’ preferisco il termine eccellenza. Il<br />
destino, detto così, mi sembra qualcosa a cui bisogna<br />
inchinarsi, che ci impone di curvarci. Un destino<br />
esemplare, allora.<br />
Per Holderlin la tendenza principale dei modi di rappresentazione<br />
è di poter incontrare qualcosa, d’aver<br />
‘fato’ poiché ciò che è privo di destino è la nostra debolezza,<br />
già nella scelta del fare è implicito un destino.<br />
Ma quale fare! Qui tutti si danno da fare, per chi,<br />
perché, per cosa?<br />
Questo vale allora anche per l’arte? Certo siamo lontani<br />
da un compito... forse anche da un contenuto?<br />
Lei deve pensare alla poesia moderna che è nata<br />
buttando alle ortiche l’utilità, cioè un significato<br />
oltre se stessa. Baudelaire faceva poesia per salvare<br />
qualcuno? Qui non si tratta di stabilire un’utilità<br />
sublime. L’arte è come il fuoco che brucia e poi<br />
si spegne, sparisce. Ma perché scompare le sembra<br />
inutile? Bruciare intensamente, questo è il suo<br />
compito, anzi il suo effetto fondante, poiché l’arte<br />
è fondante in quanto ci appare dal non essere, nel<br />
senso heideggeriano. Questo vale certamente anche<br />
per una ricerca scientifica, un’indagine, una<br />
qualsiasi cosa che prima non c’è e poi viene creata<br />
da un atto. Io credo solo al farsi dell’atto, poi, per
quanto fonda, non vale neanche la pena chiedercelo.<br />
Se qualcuno si pone il problema, si chiede<br />
quale sia il vero senso dell’arte, allora è meglio<br />
spiegargli che l’arte è monadologica, un universo<br />
senza porte, né finestre. Una monade, appunto.<br />
Ma l’arte è ‘relativa’ al tempo, nel bene, nel male o al<br />
di là di esso.<br />
Questa, siamo tutti d’accordo, è un’epoca alessandrina.<br />
Oggi vediamo che per cogliere ogni stratificazione<br />
è necessario un codice diverso, siamo in<br />
un sistema babelico, nessuno lo può dimenticare.<br />
La parola speranza è bandita dal tuo pensiero, eppure<br />
ci sono pensieri che sulla speranza hanno fondato una<br />
dimensione oltre il negativo.<br />
La speranza è un sottoprodotto della fede. O si ha<br />
fede e si crede nella speranza o si ha la speranza e<br />
non si ha fede. La speranza è una virtù vile. Ma il<br />
problema fondamentale è questo: io morrò, lei<br />
morrà. La stessa certezza della fine toglie la circostanza<br />
essenziale della speranza. La vita si restringe<br />
alla sua puntualità. All’interno di questa<br />
bisogna valutarsi. Altro che speranza! “Valere” –<br />
non “essere” – è il problema.<br />
Lei in questo senso annulla le possibilità relazionali,<br />
perché la speranza può essere intesa nella sua oggettività,<br />
come un ponte verso l’altro, verso uno spazio, una
dimensione ulteriore. In questo senso Bigongiari scrive:<br />
“Bisogna avanzare con speranza verso una punta senza<br />
speranza”.<br />
Mi sono riletto Plotino, dove si consumano tutte<br />
le possibilità relazionali in un’unica possibilità relazionale,<br />
da solo a solo...<br />
Lei afferma questo nel momento in cui il pensiero di<br />
molti è attento alla chance interattiva.<br />
Io guarderei il problema da un’altra angolatura.<br />
Vede, dobbiamo chiederci quanto ancora è necessario<br />
sostenere e trattenersi ancora in questa civiltà.<br />
Per quanto tempo ancora noi dobbiamo credere<br />
in questa civiltà e sopportarla. Questa civiltà<br />
appare attraverso il Cristianesimo e i suoi ‘buoni’<br />
valori. Se questi valori sono insignificanti allora<br />
perché noi dovremmo festeggiarli? Noi assistiamo<br />
alla riproduzione degli stessi valori: solidarietà,<br />
bontà. La stessa politica di Berlusconi si fonda su<br />
ciò. Paradossalmente questi termini sono essenziali<br />
quando c’è un’assenza di valori, o, meglio,<br />
quando i valori sono ormai intrinseci al funzionamento<br />
di una civiltà. Voglio dire che se codesti<br />
cosiddetti valori non ci sono è perché sono incarnati<br />
nelle stesse cose. Il soggetto cerca solo valori<br />
espressi da questa civiltà, vi è dunque un dominio<br />
globale, che ‘comprende’ anche la sua speranza di<br />
cambiamento... anzi, lei è controllato attraverso<br />
essa. Se lei si ribella perché invece di un dolce sor-
iso riconosce un ghigno, sappia che non ha scoperto<br />
la prova di un’anomalia, poiché quello stesso<br />
ghigno è parte integrante del sistema.<br />
la negazione è necessaria al mantenimento del buon sistema.<br />
Ogni civiltà cerca di essere ‘buona’, ogni civiltà<br />
tende all’auto mantenimento. Come si dice che una<br />
cosa è buona da mangiare, così la civiltà tende a<br />
essere ‘buona’ da vivere. Ma proprio allo stesso livello<br />
attraverso cui si definisce ‘questa cosa è buona<br />
da mangiare’ io mi chiedo se il ‘buon vivere’<br />
altro non sia che la voce della civiltà che predomina<br />
sui civilizzati. La verità è che siamo stritolati<br />
da una macchina di cui non abbiamo una visione<br />
precisa, non perché misteriosa, ma perché è lucidamente<br />
articolata. Per ‘capire’, noi dovremmo<br />
controllare tutti gli ingranaggi della società in cui<br />
viviamo e comprendere quale rotellina siamo, cosa<br />
rappresentiamo, quale è la funzione assegnataci. A<br />
chi è concessa tale consapevolezza, è concesso anche<br />
sapere che il lavoro, intendo il ‘buon lavoro’<br />
attraverso cui ognuno produce per l’altro, è un vero<br />
schifo. Ma si deve veramente lavorare? Credo<br />
che ci si debba fare questa domanda: “Tu che timbri<br />
scartoffie per chi agisci? A chi sei necessario, a<br />
chi dai il tuo tempo?” La ricerca stessa di un lavoro<br />
migliore è una ricerca sbagliata. Il lavoro è<br />
quello che è. La verità è che questo ‘valore’ è una<br />
triste, obbrobriosa necessità.
“Farsi solo pensiero”: lei ha scritto.<br />
Io non parlo di solitudine in senso proprio, ma<br />
intendo dire che l’uomo ‘solo’, parzialmente, può<br />
sfuggire alla logica della confusione con l’altro. Io<br />
intendo con il termine ‘solo’ un’educazione alla alterigia,<br />
alla superbia, a un pensiero, cioè, che non<br />
ha bisogno d’aiuto, ma, al contrario, di imporsi. In<br />
questo senso, l’altro o si piega, si fa schiavo, o se<br />
ne va, o, più precisamente (e lei che è un’artista<br />
probabilmente può intendermi): “Se non vuoi capirmi,<br />
vattene: non mi interessi!”<br />
Freud, parlando di ogni Weltanschauung, di ogni<br />
rappresentazione del mondo, indicava che esse sono<br />
costruzioni intellettuali che pretendono di risolvere unitamente<br />
tutti i problemi della nostra esistenza e dove<br />
di conseguenza è necessaria la difesa di ogni valore.<br />
Ma la ‘verità’, scriveva Freud, non può essere una<br />
tollerante difesa di antiche fissazioni alla credenza.<br />
Noi siamo ancorati a questa logica del cristianesimo,<br />
della sua cupa visione. Ma la logica del<br />
Cristianesimo non sta tanto nel concetto di Dio<br />
quanto nel concetto di ‘Figlio’, attraverso il quale<br />
l’umano si prende la rivincita sul divino. L’amore,<br />
la protezione del figlio è il vero patto, il vero<br />
ordine naturale. Ma è ‘naturale’ fino a un certo<br />
punto. Se all’ingrande le cose vanno così all’inpiccolo<br />
ci sono altre notizie. In America più di<br />
settecento donne avrebbero ucciso in questi ultimi
tempi il proprio figlio: questo è il dato, il riscontro,<br />
il punto. Voglio dire che la natura è muta<br />
e ci lascia muti. E l’ ’essere’ forse ci parla? E la<br />
coscienza che ci dice? Le più alte espressioni di<br />
questa civiltà sono del tutto losche. Alla fine non<br />
il cattivo piccolo e perverso, che fa un male piccolo,<br />
fatto alla sua misura, ma la volontà buona e<br />
operosa produce tutto quel male che si dice ci sia.
OPERE
Il cavaliere dell’intelletto<br />
Opera in 2 atti<br />
dedicata a Federico II di Svevia<br />
nell'ottavo centenario della nascita<br />
(Jesi, 26 dicembre 1194)<br />
per 4 attori, soli, coro e orchestra<br />
Su commissione della Regione Siciliana<br />
Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali<br />
e della Pubblica Istruzione<br />
Prima rappresentazione:<br />
Palermo, Cattedrale, 20 e 21 Settembre 1994<br />
Libretto di Manlio Sgalambro<br />
Musica di <strong>Franco</strong> <strong>Battiato</strong><br />
Edizioni Casa Musicale Sonzogno - Milano<br />
L'Ottava - Giarre
Una voce<br />
Teoria della Sicilia: Là dove domina l’elemento<br />
insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende<br />
impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è<br />
segnata da questa certezza; un’isola può sempre<br />
sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti,<br />
sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della<br />
nave; vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare<br />
è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia<br />
dello stare in un’isola, come modo di vivere,<br />
rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento<br />
primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica<br />
della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe<br />
voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe<br />
vivere. La storia gli passa accanto con i suoi odiosi<br />
rumori. Ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela<br />
una quiete profonda.<br />
Vanità delle vanità è ogni storia! La presenza della<br />
catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi<br />
ideali vegetali, nel suo tedium storico, fattispecie<br />
nel Nirvana.<br />
La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo<br />
nel momento felice dell’arte quest’isola è vera.
ATTO I<br />
Esterno giorno piazza Cattedrale di Palermo, lontano<br />
un gregoriano.<br />
Uno<br />
Dimmi, chi si incorona Re oggi? (Finge di guardare)<br />
Nessuno, non c’è nessuno sul trono, nessuno<br />
nel corteo (un bambino di quattro anni non è nessuno).<br />
In fatto di magie e di incantesimi in quest’isola<br />
tutto è possibile. Maghi e negromanti fate<br />
apparire un Re. Lavorate sul vostro fiato e sul<br />
nostro delirio. Fatto di rugiada e simile alla bocca<br />
di un fiore…. Degno di noi, insomma,… Ma ahimè,<br />
non vedo nessuno (un bambino di quattro anni<br />
non è nessuno)…<br />
Un altro<br />
Zitto, rutto pestifero di un otre piena di putridi<br />
venti, mangiatore di rifiuti, pecora pazza. L’idea di<br />
sovranità si incorona, essa in persona siederà sul<br />
trono. Ascolta.<br />
Un cancelliere (dottorale, compassato)<br />
La lingua delle lingue. Marino da Caramanico, rimanda<br />
a questa fonte, benedetto il Suo nome, al
signor Seneca che nel “De clementia” fa dire al sovrano<br />
dei sovrani, A Nerone s’intende: “Io sono<br />
l’arbitro della vita e della morte dei popoli. Quale<br />
debba essere la sorte e lo stato di ciascun uomo dipende<br />
dalle mie mani. E la fortuna annuncia per<br />
mia bocca ciò che intenda attribuire ad ogni mortale”…<br />
Uno<br />
Re è dunque colui che mi può uccidere in qualunque<br />
momento. Fammi schizzare il cervello fuori<br />
dalla testa, strappami le gambe, appendimi per le<br />
budella in cima a un minareto e in cambio… lasciami<br />
vivere.<br />
Un altro<br />
Sputo di una fogna, continui ancora?!… saggi consiglieri<br />
circondano un Re ed egli porge loro graziosamente<br />
orecchio.<br />
Uno<br />
No, Amico. Il becchino è l’unico ministro che un<br />
Re ascolta.<br />
Coro<br />
“Christus vincit. Christus regnat. Christus imperat”
Le vie di Palermo, vagabondare di bambini, gente.<br />
Daccapo un brusio di lingue, frammenti di parole si<br />
sentono più di altre: ebreo, arabo, greco, tedesco (“un<br />
latrato di cane e gracchiare di cornacchia”). Improvviso<br />
silenzio.<br />
Federico<br />
Dialogo tra Federico e Michele Scoto<br />
Messer Scoto, in nome di Aristotele fermati. I tuoi<br />
ragionamenti vanno in fretta. Bisogna fermarsi.<br />
Fermandosi Aristotele trovò un Dio. Ma io mi<br />
contento di molto meno: chiuderti la bocca per un<br />
momento.<br />
Michele Scoto<br />
La tua maestà sa, signor Re, che il sillogismo è impressionante.<br />
Vola come i tuoi falchi. E’ forte come<br />
una tigre…<br />
Federico<br />
E poi? Cosa distingue qui un ragionamento da un<br />
muggito di bove? Entrambi hanno una forza enorme.<br />
Ascoltami piuttosto. Tutta la volta celeste<br />
della tua filosofia crollerebbe, capiscimi, se dovessimo<br />
aspettare l’ultima mano di calce: l’argomento
decisivo. Lo hai mai tu trovato? (Beffardo) Siamo<br />
nella fase di luna crescente, puoi dunque rispondermi!<br />
Michele Scoto<br />
Maestà, t’ho detto le proprietà dei minerali e dei<br />
metalli, e ti parlai della natura delle droghe e delle<br />
piante. Tu credi che ci arrivai con gli occhi e col<br />
ragionamento?<br />
Federico<br />
Vi sono cose che il tuo ragionare per quanto lo<br />
lanci in alto non acchiapperebbe, come non acchiapperebbe<br />
una mosca. Ti dirò, Michele, non<br />
amo Socrate, inverecondo ciarlone, ma hai sentito<br />
tu di Parmenide? Egli dice con semplicità, ascolta<br />
attentamente: “Io ti comando: l’essere è e il non<br />
essere non è”. Tu sai che su questo si sorregge la<br />
nobile filosofia. Forse dunque su un ragionamento?<br />
No, su un ordine.<br />
Michele Scoto<br />
Tu parli da Re.<br />
Federico<br />
La natura della verità è leggera come quella di una<br />
cortigiana. Tu coi tuoi ragionamenti la corteggi.
Io con i miei ordini la posseggo. Si, mio Scoto, la<br />
verità è cosa da Re non da filosofo.<br />
Un canto<br />
Volò con le ali della durabilità, nell’aria della nonqualità<br />
al di sopra del campo dell’eternità e vide<br />
l’albero dell’unità per realizzare che “tutto quello”<br />
era illusione. (un sufi)<br />
Duello (danza)<br />
Il buffone<br />
Io sono il buffone. Io solo ho diritto a parlare del<br />
passato. Nel comico il destino dell’individuo si palesa<br />
nel riso che destano un eroe preso a pedate o<br />
un Re morto. Il lamento solenne che costituisce<br />
l’essenza della tragedia è sostituito ora dal riso sino<br />
alle lacrime al quale la risata si strozza in gola.<br />
Come fenomeno collettivo il riso si rivela tardi.<br />
Prima che si stampi sulla faccia dell’uomo qualsiasi<br />
come un marchio bestiale il riso è ancora appannaggio<br />
regale. Ora invece l’esperienza del riso<br />
diventa comune. Ridere non è più cosa da eroi che<br />
ridono degli altri. Non ride più solo il Re, il cui diritto<br />
a ridere è consacrato dal buffone che lo segue<br />
come un’ombra. Il riso è profanato. Assieme all’insegna<br />
del Re, la plebaglia si fregia della berretta a
sonagli: il diritto a ridere come immortale principio<br />
non scritto. Ora ognuno ride degli altri. Il riso<br />
idiota subentra al Mugugno. Invece della colpa e<br />
delle offese tragiche. Pedate, al posto di veleni e<br />
pugnali. Gesti invece che azioni. Il succedere del<br />
gesto all’agire segna il trapasso all’età del comico;<br />
è il momento in cui la stessa tragedia cede le armi.<br />
Ora il fuoco, come fa dire Hebbel nella Giuditta,<br />
serve a cucinare i cavoli…<br />
(A un tratto si interrompe, si prende il capo tra le mani<br />
come per un improvviso dolore, si scuote e poi:)<br />
ma il morto squittisce come un topo nel mio cranio,<br />
o Dio la codina si impiglia tra emisfero e emisfero…<br />
Corre su e giù, su e giù, orsù, Federico…<br />
cade nella cavità cerebrale attraverso il plesso<br />
coroideo del terzo ventricolo, titilla la mia immaginazione.<br />
Ora si scarica sul parietale sede della<br />
memoria, lo giuro sull’anatomia del Mondino di là<br />
da venire e paff… piomba sulla mia lingua, chiede<br />
voce, parola. E tutto ciò che egli fece? Le sue azioni?<br />
Com’è vero che non mi chiamo Yorick e pur lo<br />
sono, ciò che resta è parola.<br />
Danzatori e suonatori di tromba irrompono sulla scena<br />
– Abulafia: ”non è difficile supporre che la sua corte<br />
folta di danzatrici e suonatori di tromba musulmani<br />
suscitasse impressioni stravaganti nei visitatori provenienti<br />
dal Nord”.
Isabella<br />
Addio mia Siria, ma patrie addio,<br />
nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie<br />
Soprano<br />
Aria di Isabella<br />
Addio mi Siria, ma patrie addio,<br />
nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie.<br />
La storia ha bisogno anche della mia stinta ombra<br />
Per dare all’insieme alcuni effetti.<br />
Chi fui? Una mano di nulla<br />
Sul ritratto di Federico.<br />
Isabella, petite moi-meme.<br />
Coro<br />
Addio mia Siria, ma patrie addio,<br />
nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie.<br />
Isabella legge la “Lettera di Federico a Michele Scoto”<br />
A me Isabella di Brienne viene affidata la lettera<br />
che Federico scrive nel 1227 a Michele Scoto. Io<br />
morirò un anno dopo.
“Preziosissimo tra i miei maestri, spesso in svariate<br />
maniere abbiamo inteso domande e risposte intorno<br />
ai corpi celesti, il sole, la luna, le stelle fisse,<br />
ed agli elementi, all’anima del mondo, alle genti<br />
pagane e cristiane e le altre creature sotto la terra.<br />
Tuttavia mai abbiamo inteso qualcosa di quei segreti<br />
che appartengono al diletto dello spirito e<br />
della saggezza, vale a dire del Paradiso e dell’Inferno,<br />
delle fondamenta della Terra e delle sue<br />
meraviglie. E se esistano diversi cieli e chi li guidi;<br />
e l’esatta misura che separa un cielo dall’altro e ciò<br />
che esiste al di là dell’ultimo cielo; in quale cielo<br />
Dio, per sua natura, ossia nella sua divina maestà<br />
si trovi. E in che modo egli sia assiso sul trono celeste,<br />
e come gli facciano corona gli angeli e dove<br />
esattamente si trovino l’Inferno, il Purgatorio, il<br />
Paradiso: sotto la Terra, nella Terra o sopra di essa?<br />
E quale differenza intercorra tra le anime che<br />
ogni giorno approdano laggiù. E vogliamo sapere<br />
se un’anima nell’aldilà riconosca un’altra anima e<br />
se taluna di esse possa tornare in vita per parlare<br />
con qualcuno, o mostrarglisi e quante e quali siano<br />
le pene infernali”.<br />
Questo chiede di sapere per bocca mia Isabella, il<br />
mio Federico. Ma per mio conto ho già la certezza<br />
che egli non lo chiederebbe se non lo sapesse già.
Soprano<br />
Aria di Costanza di Aragona<br />
Attraverso l’amplesso partecipo alla tua regalità.<br />
Per le mille vie delle carezze (spezie d’amore) mi<br />
unisco alla tua suprema Idea che consacra all’Ordine<br />
un insieme di canaglie e di assassini generati<br />
da sperma. Ah! Federico, chi amo quanto amo?<br />
Soprano e coro<br />
Abbraccio la tua idea, splendente come l’armatura,<br />
piccolo fermaglio di nozze che ti donai, o il corpo<br />
robusto, forgiato da cacce e guerre anche all’amore<br />
più squisito?<br />
Federico<br />
Messer notaio Jacopo vi faccio arrivare con cavalli<br />
veloci a Lentini, patrietta vostra e di chi sa chi altri,<br />
questo sonetto che non ha nulla di nuovo, vi<br />
giuro, ma come nulla di nuovo vi è nell’eterno cerchio<br />
dei cieli. Spogliatevi, notaio, della vostra doppiezza,<br />
voi e tutti i lentinesi, e temetemi se non mi<br />
direte la verità… “Oi lasso! Non pensai si forte mi<br />
parisse lo dipartire da donna mia; da poi ch’io<br />
m’allontanai…
Coro<br />
Oi lasso! Non pensai<br />
Si forte mi parisse<br />
Basso<br />
Lo dipartire da donna mia;<br />
da poi ch’io m’allontanai,<br />
ben paria ch’io morisse,<br />
membrando di sua dolze compagnia;<br />
e già mai tanta pena non durai,<br />
se non quando alla nave adimorai.<br />
Ed ora mi credo morir certamente,<br />
se da lei non ritorno prestamente…
Il poeta<br />
ATTO II<br />
L’Hohenstaufen dei poeti, il beatissimo Goethe sostiene,<br />
parola mia, ciò che segue (o su per giù). “A<br />
dire il vero non vi sono in poesia personaggi storici,<br />
ma quando il poeta vuole rappresentare il<br />
mondo che ha concepito, fa l’onore a certi individui<br />
che incontra nella storia, di prendere i loro nomi<br />
per applicarli alle figure da lui create”. Nei seguenti<br />
mugolii, che il poeta a voi davanti, un<br />
Gringoire a servirvi, un paltoniere qualsiasi, vi declina,<br />
il nome Federico è inventato, tutto il resto è<br />
vero. O è il contrario?!<br />
(Le ultime parole vengono dette quando è quasi fuori<br />
scena)<br />
Coro<br />
Ragioni metafisiche mi obbligano<br />
a contrastare l’affinità<br />
Soprano<br />
Estraneità<br />
Relazioni fuggevoli
Basso<br />
Ragioni sociali mi obbligano<br />
Soprano<br />
all’amore<br />
Basso<br />
All’ umanità<br />
Soprano e basso<br />
Ragioni abissali<br />
mi obbligano a imporre la verità<br />
Coro<br />
Ragioni sociali mi obbligano<br />
all’amore, all’umanità.<br />
Ragioni abissali mi obbligano.<br />
(Tranche nel porto di Palermo. XII secolo. Un piccolo<br />
angolo, quanto basta a un qualunque marinaio venuto<br />
un giorno dalla Francia a lasciare questa)<br />
“Serénade Sicilienne”
Soprano<br />
Jours siciliens<br />
Envies par le soleil<br />
Fleuvies siciliens<br />
Que brigue aussi la mer<br />
Et toi, ma belle<br />
Contez, nymphes, souvenirs<br />
Las splendides cheuveux,<br />
le baiser, la morsure<br />
de mes dents sur votre<br />
chair de ma chair<br />
Basso<br />
Je t’étérne, mon reve<br />
Mon doute, ma nuit,<br />
Soprano e Basso<br />
Assoupi por ton parfum<br />
Basso<br />
Suffocant de chaleurs<br />
Soprano e basso<br />
… les douces ètreintes…<br />
O bords siciliens.
Soprano<br />
Immobile ile, Dieu<br />
Basso<br />
Tout brule dans le ferveur<br />
Soprano<br />
Conte de fée.<br />
Basso<br />
Sicile<br />
Soprano e basso<br />
Un matelot du treizième siècle<br />
Basso<br />
(ou du vingtième?)<br />
Soprano e Basso<br />
parmi d’obscures espoirs<br />
songe à toi
La danza dei falchi<br />
Voce di Federico (fuori scena)<br />
Saxo Yalla…quf…khatt bajna-s-sama wa-l-ard.<br />
Sahm Muhandis al Muhandisi. Saetta…Geometra<br />
dei geometri …linea tra cielo e terra.<br />
(Due qualsiasi, mentre Federico e Ibn Sab’yn si avvicinano)<br />
Uno<br />
Ecco quei due, è un giorno che parlano andando avanti<br />
e indietro, che pazzia parlare!<br />
L’altro<br />
Sono il Re Ibn Sab’yn, un filosofo…<br />
Uno<br />
I loro discorsi mi danno i brividi, ti dico. Quando<br />
parlano re e filosofi capita sempre qualche sciagura.<br />
I segni del cielo non mi piacciono. Una cometa,<br />
e un re è spacciato. Ma per un poveraccio le stelle<br />
non si scomodano di certo…
L’altro<br />
Ma qui non ci può capitare nulla, compare. Questo<br />
è teatro. Noi siamo al sicuro nella finzione. Protetti<br />
dalla stessa fantasia che ci ha messi qua sopra.<br />
(lontano voce di muezzin)<br />
Ibn Sab’yn<br />
Dio è tutto, Federico, unirsi a Lui è il fine, tutti i<br />
tuoi atti invece sono colpi di spada che dai ai tuoi<br />
legami con Dio.<br />
Federico<br />
Nella risposta che hai dato ad una mia domanda<br />
sei stato più preciso. Hai detto: “Il solo essere che<br />
esiste in realtà essendo Dio, l’uomo, essere limitato,<br />
arrivandovi, perirà”…<br />
Ibn Sab’yn<br />
Ebbene?…<br />
Federico<br />
Tu sai che il sillogismo è per me come una carezza<br />
per l’intelletto, ma terribile è la sua forza. Ciò che
tu non vorresti nemmeno sfiorare esso ti costringe<br />
a pensarlo con la potenza di mille cavalli. Non io<br />
dunque, ma il sillogismo mi spinge a questo<br />
(interrompendosi. Come divagando)… Tu sai quel<br />
che si dice, che io feci visita al Vecchio della Montagna,<br />
al Capo degli Assassini… (Riprende il discorso<br />
che aveva iniziato). Quello che mi hai risposto,<br />
Ibn Sab’yn, non mi ha lasciato in pace un momento…<br />
La forza del ragionamento, spietata come<br />
uno dei miei boia, è arrivata in un lampo a questa<br />
conclusione, ascolta. L’assassinio, la cui traccia<br />
metafisica va seguita con tenacia, rappresenta,<br />
nella sua chiave ultrasegreta, il modo come tutti<br />
moriamo. Il fatto che si distinguano gli assassini<br />
dalle vittime non è che un tributo pagato<br />
all’apparenza. Un tributo per giudici e avvocati.<br />
L’assassinio è certamente nello stesso Principio,<br />
Ibn Sab’yn. Nella matrice di tutte le cose, come hai<br />
detto tu stesso, sta in agguato il loro<br />
annientamento… e il tuo e il mio….<br />
Ibn Sab’yn<br />
(La sua voce è dolce, carezzevole) Che vuoi dire, fanciullo…<br />
Federico<br />
Che ogni morte è un collegamento a un delitto. In<br />
altre parole, tutti moriamo assassinati. (Si ferma.<br />
Sovrappensiero. Poi:) Dio è la stessa morte.
Una voce da sacerdote di “mestiere”, una voce da messa,<br />
ora più alta, ora più bassa, ora chiara, ora appena<br />
un brontolio, biascica:<br />
“…quod potius igniominiose, quam juste habendos<br />
nos dixerit a chatolica fide suspectos, quam<br />
nos, teste supremo judice, in omnibus et singulis,<br />
ejusdem articulis secundum universalem Ecclesiae<br />
disciplinam et approbationem per Romanam Ecclesiam,<br />
et symbolum firmater credimus et profitemur<br />
simpliciter” (Lettera di Federico diretta nel<br />
1246 ai prelati, ai nobili e al popolo di Inghilterra, dopo<br />
la sua condanna e deposizione pronunciata alla presenza<br />
e per opera di Innocenzo IV dal concilio di Lione).<br />
(Nel frattempo Ibn Sab’yn risponde a Federico, la sua<br />
voce è un sussurro. Ai limiti del silenzio, come tutte le<br />
cose degne)<br />
Ibn Sab’yn<br />
Io ti ho ingiuriato e vilipeso nelle mie risposte,<br />
Federico. Ma ora hai bisogno della mia dolcezza.<br />
Voglio carezzare il tuo intelletto, Federico, con<br />
tenerezza di donna… Non Dio è la morte, ma la<br />
morte è Dio. Morendo ci sciogliamo in lui come<br />
nell’abbraccio delle nostre donne nelle notti di<br />
desiderio.
Una voce (senza intonazioni particolari, come se leggesse,<br />
estranea):<br />
Il 28 shawwal dell’anno 668 dell’ègira (1271 d.C)<br />
all’età di cinquantacinque anni Ibn Sab’yn si suicidò<br />
tagliandosi le vene per rientrare al più presto<br />
nel seno di Dio. Il fine dei fini della teologia, egli<br />
aveva detto è l’unione intera con Dio. Il mezzo più<br />
veloce per arrivarvi è la rassegnazione e l’ammissione<br />
dell’impotenza del nostro intelletto. Ma poi<br />
gli apparvero il ricordo della discussione con Federico<br />
e la Verità. Il solo essere che esiste in realtà<br />
essendo Dio, l’uomo non appena vi perviene muore.<br />
Ibn Sab’yn stavolta, per pervenirvi più velocemente,<br />
trasse l’altra conclusione e affrettò la morte.<br />
Costanza<br />
Le carceri di Sicilia e di Puglia si sono riempite di<br />
prigionieri. Federico per non sentirne i lamenti li<br />
farà uccidere.<br />
Federico<br />
C’è qualcosa nel lamento che fa che gli si rifiuti la<br />
natura di linguaggio. E’ come se esso ne fosse al di<br />
qua o al di là. In ogni caso in una zona inospitale,<br />
dove non vorremmo mai mettere piede. Se si interviene<br />
si interviene per farlo tacere. Non per la<br />
pena. E’ come se al di là della sofferenza ci fosse
qualcosa di peggio. Il lamento oltrepassa la soglia<br />
della sofferenza educata e civile (c’è infatti un lamento<br />
che ubbidisce alle buone maniere) e ci conduce<br />
in una zona in cui la sofferenza è sfrenata e<br />
selvaggia. Il lamento penetra per un momento in<br />
questa zona senza difese, dove la sofferenza è pura<br />
e tocca la carne viva. Di fronte a chi si lamenta<br />
siamo perciò pronti a tutto pur di farlo tacere. A<br />
tappargli la bocca fino a farlo morire. (Esce)<br />
Costanza<br />
Gli ho sentito dire una volta: “Lesto di coltello deve<br />
essere un re come lesto di becco un falco”.<br />
Michele Scoto<br />
Tu sai come con l’arte della falconeria Federico<br />
vuole conoscere la natura e penetrarne i segreti<br />
penetrando i segreti del falcone. Ma ti sei mai<br />
chiesta chi è il falcone? Ti sei mai domandata se<br />
non è lui stesso? Il modo come piomba sulla preda,<br />
sia una verità o un nemico mortale, non lo<br />
riconosci? Non è il modo del falco?<br />
(Si avviano dietro le quinte mentre si svolge il dialogo.<br />
Nel frattempo Federico sfoglia il Liber Augustalis)
Federico<br />
Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente<br />
reali. Il resto è sogno interrotto da qualche<br />
insignificante sprazzo di veglia. Tutto ciò che ho<br />
fatto? Vuoti gesti, gusci senza polpa. Agivo? Mi<br />
agitavo, piuttosto. Solo ciò che dicevo era eterno.<br />
Solo la parola resta. Cosa rimane del mio impero<br />
se non le parole di cui era fatto?<br />
Eterna essenza del teatro! Esso divora distanze e<br />
unisce le cose più lontane e di individui chiusi e<br />
sprangati in se stessi, di eventi sparsi e senza nesso,<br />
se non quello che piace a Dio, fa una farsa o<br />
una lunga lagna, in onore di chi poi non si sa. Sulla<br />
scena del mondo appariamo e spariamo, come il<br />
mestruo delle giovani o come in questo teatro e<br />
tutti vogliono sapere perché. Quando la scienza,<br />
ad onore del vero, ci insegna che esso è solo un<br />
balbettio di bambini. Ma cosa unisce un agnello<br />
sgozzato, il volto della mia donna, i miei due maestri,<br />
il mio levriero, la merda dei miei cavalli e il<br />
qui presente? Cosa di questo immane coacervo fa<br />
un levigato specchio in cui si può specchiare persino<br />
un sorriso? Cosa tiene assieme insomma questo<br />
pasticcio? Cosa tiene unito, spero con benevoli<br />
lacci, ciò che su questa scena si è andato svolgendo<br />
(se pure qualcosa si è svolto)? Lo sguardo. Lo<br />
sguardo di Dio o di un nano basta perché ci sia<br />
spettacolo. E per gli Dei, solo spettacolo è la Terra,<br />
e il sidereo, e me e gli altri e questa scena…
Federico<br />
L’accostamento alla morte<br />
Voglio accostarmi alla morte come al mio vino. E<br />
gustarla… Fui nemico ad entrambi, a Dio e alla<br />
morte. Essi sono Uno e una fu la mia inimicizia.<br />
Allargai un impero per allargare me stesso. Per<br />
non offrire alla morte un piccolo bersaglio. Il mio<br />
impero era il mio corpo. Si, per scongiurare Dio e<br />
la morte, mi creai un impero. Anche a Dio è<br />
difficile distruggere un impero. Che strano però!<br />
Nell’atto di morire scompaiono i confini. L’impero<br />
che cercavo, l’impero senza confini, è Dio dunque?<br />
Voce<br />
Mi immergo con voluttà<br />
nel felice mare della mortalità<br />
Nell’assenza perfetta<br />
Soprano e coro<br />
Voglio morire interamente<br />
nessun residuo che non si sciolga<br />
nell’abyssus abyssum del Niente.<br />
Coro<br />
Che il niente lo accolga
Basso<br />
Risolto in Dio, dominerò in Lui<br />
attraverso Lui di nuovo imperatore sarò del mondo.<br />
Coro<br />
Florebat olim – Floribus omnia vestiebantur –<br />
florebat illo tempore.<br />
FINE
Poesie<br />
Edizioni La Pietra Infinita, 1998<br />
I<br />
Dimmi, un attimo prima della<br />
putrefazione<br />
quali evidenze, prove<br />
mi porti della tua sorte?<br />
Mentre la lingua cade marcia<br />
quali parole pronuncia?<br />
Il seno che palpasti è<br />
frollo, sfatto<br />
non ne gode il tatto<br />
come una volta mentre,<br />
dentro di me il tuo pene,<br />
sfrigolava la mia potta.<br />
Lei si volta e mi dice,<br />
sono morta.
II<br />
No, questa parola non basta!<br />
i tuoi occhi sono grumo giallastro,<br />
poltiglia stracca.<br />
Le tue guance un alito le stacca.<br />
No, questa parola non basta!<br />
E’ solo morte, questa?<br />
III<br />
Seduto sotto i terebinti, sai a Mamre<br />
Jahveh mangia a sazietà ricotta<br />
vitello arrosto e pane:<br />
se ne fotte il cane.<br />
IV<br />
Proverò a cominciare dall’inizio,<br />
ha detto Agatha Christie<br />
come un teologo provetto.<br />
Chi mi ha ucciso, dimmi<br />
chi mi ha ucciso?<br />
Scoprilo, tu che hai scoperto<br />
chi uccise John. Chi uccise Muriel…<br />
chi uccise un’infinità di uccisi.<br />
Scopri chi uccise uberhaupt,
si, uccide in generale.<br />
Persa, ogni fatica è persa:<br />
Dio è la morte stessa.<br />
ILLE OMICIDA ERAT AB INITIO.<br />
V<br />
Allora Eud si accostò<br />
al re e gli disse: ho una parola per te,<br />
gli disse – da parte di Dio.<br />
La spada dal fianco trasse<br />
e gliela piantò nel ventre<br />
nel grasso ventre<br />
da parte di Dio. – Giudici, 3.20 – 21<br />
VI<br />
Sfera di cristallo:<br />
stella era, stella<br />
ora imputridita<br />
a causa della vita.<br />
Stella sarà.<br />
Via, per sempre.<br />
Disdici dalla terra<br />
ogni cosa che vive<br />
lascia solo una rosa.<br />
Mi empio di questa terra
che daccapo la luce riprende<br />
risplende, l’ombra scompare<br />
sgombra rientra<br />
nello stanco tango universale.<br />
VII<br />
L’essere è screditabile e saputo.<br />
Via stracci, veli, avvolto<br />
in stracci e garze, ciò che resta<br />
tracce di biancospino attorcigliato<br />
Nudo è Batillo.<br />
Dio e le leggi meccaniche dell’urto,<br />
ecco tutto.<br />
Voglio che dal nostro abbraccio<br />
Trasudi idea<br />
Oltre che carne e scolatura.<br />
Umidori esalano dalla vagina,<br />
dal cervello il problema della verità<br />
matura.<br />
VIII<br />
Ti sei lamentato bene<br />
pattoniere.<br />
Smarrito nelle ceneri<br />
scovavi sostanze
mio Gringoire.<br />
Sui giacigli non stavi<br />
pieni di dubbi e di riposi.<br />
Nei golfi del Sud<br />
non cercavi giardini.<br />
Azzurri scogli dettano rapine<br />
e risposte alla fine.<br />
Mon dèlinquant.