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SENECA<br />
La brevità della vita (T8, pp. 54-60)<br />
FALSE LAMENTELE (pp. 55-57).<br />
La maggior parte dei mortali, Paolino, si lamenta dell’avarizia della natura, del fatto che siamo generati a<br />
vivere per qualche istante, del fatto che, si dice, questi spazi del tempo concessoci scorrono con velocità<br />
talmente violenta nel trascinarci via, che, eccettuati pochissimi, tutti gli altri sono lasciati in asso dalla vita<br />
proprio mentre si preparano a vivere. E questo presunto male a tutti comune non ha strappato gemiti soltanto<br />
alla massa e al volgo stolto: questo sentimento ha provocato le lagnanze anche di uomini illustri. Di<br />
qui proviene la famosa esclamazione del più grande dei medici, che «la vita è breve, lunga l’arte»; di qui la<br />
questione, per nulla degna di un sapiente, sollevata da Aristotele nel suo processo alla natura: essa avrebbe<br />
«concesso agli animali di vivere tanto da trascorrere cinque o dieci generazioni ciascuno, mentre per l’uomo,<br />
generato a compiere tante e tanto grandi cose, la pietra di confine è infissa tanto più al di qua». Non è<br />
che abbiamo poco tempo: ne abbiamo perso molto. La vita ci è stata data lunga a sufficienza, ed anzi in abbondanza<br />
per la realizzazione delle cose più grandi, se fosse tutta investita bene; ma quando si disperde<br />
nello spreco che se ne fa o nella noncuranza che se ne ha, quando non la si spende per nessuna cosa buona,<br />
soltanto sotto la stretta della necessità finale ci accorgiamo che è passata oltre, quella vita di cui non ci siamo<br />
resi conto che stava passando. Sì: non è breve, la vita che riceviamo, ma breve l’abbiamo resa, e di essa<br />
non siamo poveri, ma prodighi. Come ricchezze grandi e regali, giunte nelle mani di un cattivo padrone, in<br />
un attimo vengono dilapidate, e invece ricchezze quanto si voglia modeste, se affidate a un buon amministratore,<br />
crescono con l’impiego, così la durata della nostra vita per chi sa programmarla bene ha una<br />
grande estensione. […]<br />
Effettivamente tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. Non danno tregua e incalzano da ogni parte,<br />
i vizi, e non permettono di rialzarsi né di levar su gli occhi a veder chiaramente il vero, ma tengono<br />
schiacciati giù e conficcati nella brama. Non è possibile mai, a quelle persone, ritornare a se stesse; se mai<br />
càpita loro un momento, per caso, di pace, come in alto mare, dove c’è agitazione anche dopo il vento, ondeggiano<br />
e non hanno mai stabile tregua dalle loro brame. […]<br />
In che, dunque, va cercata la responsabilità? Vivete come se foste destinati a vivere sempre, non vi viene<br />
mai in mente la vostra fragilità, non notate quanto tempo sia già passato; ne perdete come se ne aveste<br />
una riserva intera e abbondante, e invece forse proprio quel giorno che viene regalato a qualche persona o<br />
faccenda che sia, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, avete brama di tutto come immortali. Udrai<br />
moltissimi dire: «Compiuti cinquant’anni, mi ritirerò in riposo; i sessant’anni mi congederanno dagli obblighi<br />
sociali». E che garanzia hai, di grazia, di una vita più lunga? Chi lascerà che codeste cose vadano così<br />
come tu le programmi? Non ti vergogni di riservare per te stesso gli avanzi della vita, e di destinare a perfezionarti<br />
moralmente solo quel tempo che non può essere impiegato per nessuna faccenda? Com’è tardi<br />
cominciare a vivere allorché si deve finire! Che stupida dimenticanza del proprio destino di morte differire<br />
ai cinquanta e ai sessant’anni le sane risoluzioni, e voler dare avvio alla vita dall’età a cui pochi l’hanno fatta<br />
arrivare!».<br />
LA GALLERIA DEGLI OCCUPATI (p. 59)<br />
Domandi forse chi io definisca occupati? Io non parlo soltanto, credimi, di quelli che solo i cani sguinzagliati<br />
riescono a cacciar fuori dalla basilica; di quelli che vedi schiacciati o, con più spicco, in mezzo alla folla<br />
dei loro clienti o, più anonimamente, entro la folla dei clienti altrui; di quelli che gli obblighi sociali chiamano<br />
fuori dalle case loro per sbatterli sulle soglie altrui; di quelli che l’asta del pretore fa lavorare senza<br />
tregua in vista di un lucro infamante e che prima o poi non mancherà di far suppurazione. Di certuni, è<br />
“occupato” il tempo che hanno a disposizione dalle occupazioni: nella loro villa o nel loro letto, in piena<br />
solitudine, benché si siano ritirati lontano da tutti, è di se stessi che provano fastidio; il loro non è da definirsi<br />
un vivere lontano dalle occupazioni, ma un essere occupati nel non far niente. Tu lo chiami uno che<br />
ha tempo a disposizione chi con maniacale precisione colloca ben in ordine vasi di Corinto, preziosi per la<br />
follia di pochi, e consuma la maggior parte dei suoi giorni fra laminette arrugginite? chi nel ceroma – infatti,<br />
che vergogna!, neppure romani sono i vizi di cui soffriamo – se ne sta seduto a non perdersi una mossa<br />
di ragazzi che fanno la lotta? chi divide i branchi dei suoi (lottatori) spalmati d’olio in coppie di uguale<br />
età e colore della pelle? chi dà da mangiare agli atleti più di moda?
PETRONIO<br />
Una brutta figura di Encolpio (T2, pp.125-126)<br />
Io frattanto, ritirato in me stesso, mi stillavo il cervello, perché mai il cinghiale fosse entrato col berretto.<br />
Poi che dunque ebbi dato fondo a tutte le babbole possibili, ardii di proporre al mio consigliere l’atroce<br />
quesito. Ma quello: «Eh via, anche il tuo schiavo potrebbe spiegartelo, ché non è certo un indovinello, ma<br />
una cosa che balza agli occhi. Ieri questo cinghiale fu chiamato in causa che la cena era alla fine e i commensali<br />
lo misero in libertà: naturalmente oggi è come liberto che torna in tavola». Maledissi la mia balordaggine<br />
e non chiesi più nulla, per non dar l’impressione ch’io non avessi mai pranzato con gente di riguardo.<br />
Una battuta di Trimalchione (T3, pp. 126-127)<br />
Mentre noi così parlavamo, un valletto affascinante, redimito di pampini e di edere, che ora si dava a conoscere<br />
come Bromio, ora come Lieo e come Evio, portava in giro dell’uva in un cestello e tirava fuori poesie<br />
del suo signore con la voce più stridula del mondo. A quel suono Trimalcione si volse: «Dioniso, – disse, –<br />
va libero!». Tolse il valletto il berretto al cinghiale e se lo mise in testa. Allora Trimalcione fece ancora una<br />
giunta: «Non potete negare – disse – ch’io ho il padre Libero». Applaudimmo alla battuta e baciamo di tutto<br />
cuore il valletto che fa il giro. Dopo questa portata Trimalcione si alzò per andare sul vaso.<br />
Tentativo di fuga (T5, pp. 129-130)<br />
Io, volgendomi ad Ascilto, «Che ne pensi? – gli chiesi. – Per me, se vedo un bagno, rendo l’anima<br />
all’istante». «Assecondiamoli, – fece quello, – e, mentre loro si dirigono al bagno, noi nella confusione ce la<br />
battiamo». Approvato questo piano, raggiungemmo, guidati lungo il portico da Gitone, l’ingresso, dove un<br />
cane alla catena ci accolse con un tale baccano, che Ascilto addirittura andò a cascare nella fontana. Ebbro<br />
del pari io pure, che del resto anche di un cane dipinto avevo avuto paura, mentre cercavo di aiutare il<br />
naufrago, finii trascinato nel medesimo gorgo. Ci salvò ad ogni modo il maggiordomo, che con il suo intervento<br />
calmò per un verso il cane e ci trasse per l’altro tutti tremanti in secco. […]<br />
In séguito, poiché mezzo congelati chiedemmo al maggiordomo che ci accompagnasse comunque alla porta,<br />
«Sbagli, – disse, – se credi di poter uscire per dove sei venuto. Mai che si accompagni un commensale<br />
alla medesima porta: da una si entra, da un’altra si esce».<br />
Che fare, poveri disgraziati, chiusi in quel labirinto di nuovo genere, ora che di un’abluzione si incominciava<br />
ad aver voglia? Fummo noi perciò a pregarlo di condurci al bagno.<br />
TACITO<br />
LA lotta contro gli ultimi Britanni (T4, pp. 341-346)<br />
UN AMMUTINAMENTO (p. 342)<br />
Nella stessa estate una coorte di Usipi, arruolata nelle Germanie e inviata in Britannia, osò un'impresa<br />
grande e memorabile. Ucciso un centurione e i soldati che, inseriti nei manipoli per trasmettere la disciplina,<br />
erano tenuti come esempio e guida, si imbarcarono su tre liburniche, dopo avervi spinto a forza i piloti;<br />
poi, dato che due dei piloti, resisi sospetti, erano stati uccisi, uno solo dirigeva la navigazione e, non essendosi<br />
ancora diffusa la notizia dell'accaduto, procedevano come un'apparizione prodigiosa. In seguito, sbarcati<br />
per fare acqua e bottino del necessario, venuti a battaglia con molti Britanni che difendevano le loro<br />
cose e spesso vincitori, infine respinti, giunsero a tal punto di penuria da cibarsi dei più deboli tra loro, e in<br />
seguito di quelli estratti a sorte. E così, circumnavigata la Britannia, perse le navi per l'incapacità di governarle,<br />
trattati come predoni, furono catturati prima dagli Svevi, poi dai Frisi. E ci furono alcuni che, venduti<br />
nei mercati e portati fino alla nostra riva del Reno di compratore in compratore, furono resi famosi dalla<br />
rivelazione di una vicenda così straordinaria.<br />
SCONTRO FRA DUE CULTURE AI CONFINI DEL MONDO (pp. 342-346)<br />
Ogniqualvolta esamino le cause della nostra guerra e la necessità in cui ci troviamo, nutro grande fiducia<br />
che questa giornata e il vostro accordo segnino l’inizio della liberazione per l’intera Britannia. Infatti voi vi<br />
siete raccolti tutti insieme, e siete ancora immuni dal servaggio, e al di là di noi non c’è più terra alcuna: e<br />
neppure nel mare vi è sicurezza, perché ci sta addosso la flotta romana. Così la lotta a mano armata, decoro<br />
dei forti, è anche il partito più sicuro per gli imbelli. Nelle battaglie precedenti, combattute con varia fortuna<br />
contro i Romani, i Britanni avevano in noi una speranza e una possibilità di aiuto: perché noi, i più<br />
nobili di tutta l’isola, e situati come tali nella parte di essa più remota, da cui non si scorgono le rive asservite,<br />
avevamo puri anche gli occhi dal contatto con la tirannide. Noi, abitatori estremi della terra e ultimi<br />
liberi, siamo stati difesi fino ad oggi dal nostro stesso isolamento e dall’oscurità del nome: ora il termine<br />
della Britannia è scoperto, e tutto ciò che è ignoto passa per prodigioso: ma al di là non c’è più alcun popolo,<br />
null’altro vi è se non onde e scogli, e più ostili di essi i Romani, dalla cui tracotanza cercheresti invano<br />
di salvarti con l’ossequio e la sottomissione. Predatori del mondo, da quando alla devastazione totale sono
venute meno le terre, sprofondano lo sguardo anche nel mare; per avidità se il nemico è facoltoso, per vanagloria<br />
se è povero, tanto che né l’Oriente né l’Occidente li sazierebbe. Soli fra tutti, guardano con occhio<br />
ugualmente cupido alle ricchezze e alla povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo<br />
di impero: e là dove fanno il deserto, gli dànno il nome di pace.<br />
I boni mores dei Germani (T6, pp. 350-354)<br />
LE ABITUDINI CONIUGALI (p. 351-352)<br />
Per altro i rapporti coniugali sono severi e, nei loro costumi, nulla v'è che meriti altrettanta lode. Infatti,<br />
quasi soli fra i barbari, sono paghi di una sola moglie, salvo pochissimi, e non per sete di piacere, ma perché,<br />
a causa della loro nobiltà, sono oggetto di molte offerte di matrimonio. La dote non la porta la moglie<br />
al marito, ma il marito alla moglie. Intervengono i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per soddisfare<br />
i piaceri femminili o perché se ne adorni la nuova sposa, ma consistenti in buoi, in un cavallo bardato,<br />
in uno scudo con framea e spada. Come corrispettivo di tali doni si riceve la moglie, che, a sua volta,<br />
porta qualche arma al marito: questo è il vincolo più solido, questo l'arcano rito, queste le divinità nuziali.<br />
E perché la donna non si creda estranea ai pensieri di gloria militare o esente dai rischi della guerra, nel<br />
momento in cui prende avvio il matrimonio, le si ricorda che viene come compagna nelle fatiche e nei pericoli,<br />
per subire e affrontare la stessa sorte, in pace come in guerra: questo significano i buoi aggiogati,<br />
questo il cavallo bardato, questo il dono delle armi. Così deve vivere, così morire: sappia di ricevere armi<br />
che dovrà consegnare inviolate e degne ai figli, che le nuore riceveranno a loro volta, per trasmetterle ai<br />
nipoti.<br />
LE DONNE DEI GERMANI (p. 353)<br />
Vivono dunque in riservata pudicizia, non corrotte da seduzioni di spettacoli o da eccitamenti conviviali.<br />
Uomini e donne ignorano egualmente i segreti delle lettere. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli adulterii,<br />
la cui punizione è immediata e affidata al marito: questi le taglia i capelli, la denuda e, alla presenza dei<br />
parenti, la caccia di casa e la incalza a frustate per tutto il villaggio. Non esiste perdono per la donna disonorata:<br />
non le varranno bellezza, giovinezza, ricchezza, per trovare un marito. Perché là i vizi non fanno<br />
sorridere e il corrompere e l'essere corrotti non si chiama moda. Ancora più austere sono le tribù in cui<br />
solo le vergini si sposano e la speranza e l'attesa del matrimonio si appagano una volta sola. Un solo marito<br />
ricevono così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero non vada oltre e non si<br />
prolunghi il desiderio e perché amino non tanto il marito, bensì il matrimonio. Limitare il numero dei figli<br />
o ucciderne qualcuno dopo il primogenito è considerata colpa infamante e lì hanno più valore i buoni costumi<br />
che non altrove le buone leggi.<br />
La seduttrice (T10, pp. 365-366)<br />
Uno scandalo non meno degno di nota diede principio in quell’anno a gravi sciagure per lo Stato. Viveva a<br />
Roma Sabina Poppea, figliuola di T. Ollio: essa aveva però assunto il nome dell’avo materno, Poppeo Sabino,<br />
che per la gloria del consolato e del trionfo aveva lasciato grande e splendido ricordo, mentre Ollio era<br />
stato rovinato dall’amicizia con Seiano quando non aveva ancora percorso per intero la carriera degli onori.<br />
Questa donna ebbe ogni pregio femminile, tranne l’onestà. La madre, che aveva superato in bellezza tutte<br />
le donne del suo tempo, le aveva dato rinomanza e avvenenza insieme; i suoi mezzi non erano inadeguati<br />
alla nobiltà della schiatta. Piacevole il parlare, acuto l’ingegno; ostentava modestia, ma aveva abitudini<br />
licenziose. Appariva raramente in pubblico e col volto in parte velato, per non mostrarsi del tutto agli<br />
sguardi o perché questo le si addiceva. Non si preoccupò mai della reputazione, non distinguendo i mariti<br />
dagli amanti; non dominata dal proprio né dall’altrui sentimento, trasferiva il suo capriccio là dove credeva<br />
di scorgere un vantaggio. Benché fosse maritata al cavaliere romano Rufrio Crispino, dal quale aveva<br />
avuto un figlio, pure Otone la sedusse colla gioventù e la dissolutezza e per il fatto d’esser ritenuto amico<br />
intimo di Nerone: e all’adulterio tenne dietro senza ritardo il matrimonio.<br />
Il matricidio (T11, pp. 368-378)<br />
LA SCELTA DEL PIANO DELITTUOSO (pp. 369-370)<br />
Quindi Nerone evitava di incontrarsi da solo con lei, e quando essa si recava ai suoi giardini oppure in campagna,<br />
sia a Tusculo, sia ad Anzio, lodava il suo proposito di prendersi un po’ di svago. Infine, giudicandola<br />
pericolosa ovunque si trovasse, decise di ucciderla, incerto solamente se col veleno, col pugnale, o con quale<br />
altra forma di violenza. Dapprima gli parve preferibile il veleno. Ma, se le fosse stato propinato alla mensa<br />
dell’imperatore, la morte non sarebbe potuta apparire casuale, dato che tale era già stata la fine di Britannico,<br />
e sembrava impresa non facile corrompere i servi di una donna, che la pratica del delitto rendeva<br />
cauta contro le insidie; inoltre essa si era immunizzata coll’uso preventivo di antidoti. Come si potesse mascherare<br />
una morte di pugnale, nessuno sapeva escogitare, e Nerone temeva che l’uomo scelto per l’esecuzione<br />
di un delitto così grave venisse meno al mandato. Offerse infine una sua macchinazione il liberto
Aniceto, prefetto della flotta di Miseno, già istitutore di Nerone durante la fanciullezza, che Agrippina<br />
odiava e dal quale era odiata. Egli mostrò come si potesse costruire un’imbarcazione così fatta che, una<br />
volta al largo, una parte si aprisse mediante un apposito congegno e di sorpresa facesse cadere Agrippina<br />
nel mare, dove può accadere qualsiasi incidente. Se infatti ella fosse scomparsa in un naufragio, chi sarebbe<br />
stato così malevolo da attribuire a mano delittuosa la colpa del vento e delle onde? L’imperatore avrebbe<br />
innalzato alla defunta un tempio e degli altari, e reso ogni altra testimonianza di devozione filiale.<br />
UN DELITTO IMPERFETTO (pp. 370-372)<br />
Vollero gli dèi che la notte fosse quieta e risplendente di stelle, e placido il mare, quasi per non lasciare<br />
dubbi sul delitto. La nave non si era ancora allontanata molto ed erano con Agrippina due soli dei suoi familiari:<br />
Crepereio Gallo stava ritto presso il timone, e Acerronia, china ai piedi di lei coricata, si compiaceva<br />
nel ricordarle il pentimento del figlio ed il favore da lui restituito alla madre, quand’ecco, a un segnale<br />
stabilito, precipitare il tetto del padiglione, aggravato da una massa di piombo. Crepereio rimase sotto e<br />
morì immediatamente; Agrippina ed Acerronia furono salvate dalle spalliere alte del letto, che il caso volle<br />
fossero troppo solide per cedere al peso. Ma lo sfasciamento del vascello non avveniva, perché, nello scompiglio<br />
generale, i molti ignari della manovra impacciavano quelli che la conoscevano. Parve allora ai rematori<br />
che fosse bene far piegare l’imbarcazione tutta su di un fianco e tentar così di affondarla: ma non furono<br />
pronti ad accordarsi per quell’azione imprevista, e, dato che altri facevano forza in senso contrario, la<br />
caduta in mare avvenne con minor violenza. Acerronia, la quale, non comprendendo nulla, gridava che<br />
Agrippina era lei e che soccorressero la madre dell’imperatore, venne finita a colpi di pertica e di remo e di<br />
qualsiasi attrezzo navale messo lì dal caso. Agrippina, nuotando silenziosa, non fu riconosciuta (ricevette<br />
però una ferita alla spalla) e da barche di pescatori sopraggiunte fu portata al lago Lucrino; di là si ricondusse<br />
alla sua villa.<br />
NERONE SALVATO DA UN LIBERTO (pp. 373-374)<br />
Frattanto Nerone aspettava ansioso la notizia che il delitto era stato compiuto. Gli riferiscono invece che la<br />
madre si è salvata, leggermente ferita, e avendo corso quel tanto di pericolo che era sufficiente a non lasciarle<br />
dubbio sull’autore di esso. Tramortì allora dallo spavento, e gridava che già se la vedeva venir contro,<br />
smaniosa di vendetta, sia che armasse gli schiavi o eccitasse l’ardore dei soldati, sia che ricorresse al<br />
senato ed al popolo, rinfacciandogli il naufragio, il colpo ricevuto, gli amici assassinati. Contro questo, che<br />
difesa vi sarebbe stata per lui? A meno che qualche cosa escogitassero Burro e Seneca, che aveva fatto sùbito<br />
chiamare; è incerto se prima non ne sapessero nulla. Entrambi rimasero a lungo in silenzio, o per non<br />
spendere parole inutili a cercare di dissuaderlo, o perché ritenevano Nerone ridotto a tal punto che era finita<br />
per lui, se non si agisse prima di Agrippina. Il più risoluto fu poi Seneca, soltanto però fino a levare gli<br />
occhi su Burro e a domandargli se si dovesse dare ai soldati l’ordine di ucciderla. Quegli rispose che i pretoriani,<br />
troppo affezionati a tutta la casa dei Cesari e memori di Germanico, non avrebbero osato alcuna violenza<br />
contro la figlia di lui: pensasse Aniceto a mantenere il suo impegno. Costui, senza esitare, si assume<br />
l’incarico dell’impresa. Ciò udendo, Nerone esclamò che solo in quel giorno gli si dava veramente il potere<br />
e che un così gran dono gli veniva da un liberto: andasse sùbito e conducesse con sé i più risoluti ad eseguire<br />
gli ordini. Quanto a lui, saputo dell’arrivo di Agermo col messaggio di Agrippina, prepara di sua iniziativa<br />
la scena del delitto. Mentre l’inviato fa la sua relazione, gli getta tra i piedi una spada: poi comanda che<br />
lo si incateni, come colto in flagrante, per far credere che la madre avesse macchinato di ucciderlo e poi,<br />
per la vergogna derivante dalla scoperta dell’attentato, si fosse data di sua mano la morte.<br />
LA TRAGEDIA SI CONCLUDE (pp. 374-375)<br />
Divulgatasi intanto la voce del rischio corso da Agrippina, come per incidente, man mano che ognuno ne<br />
aveva notizia accorreva alla spiaggia. Gli uni salgono sulle sporgenze del molo, altri sulle barche vicine: chi<br />
s’inoltra in mare fin dove gli consente la sua statura, chi tende le braccia; tutto il litorale è pieno di lamenti,<br />
d’invocazioni, del chiasso di domande contrastanti e di risposte malcerte; accorre un’enorme folla munita<br />
di fiaccole, e allorché si viene a sapere che Agrippina è sana e salva, tutti si avviano per andare a festeggiarla:<br />
ma il sopraggiungere d’una schiera in armi, dall’aspetto minaccioso, li induce a sbandarsi. Aniceto<br />
fa accerchiare da guardie la villa, e, sfondata la porta, fa trascinar via tutti i servi che incontra; finché<br />
giunse alla soglia della camera di Agrippina, custodita ormai da pochi, perché tutti gli altri erano stati messi<br />
in fuga dallo spavento dell’irruzione. Nella camera, debolmente illuminata, v’era una sola ancella; e<br />
Agrippina era sempre più inquieta per il fatto che nessuno venisse a lei da parte del figlio, e che neppure<br />
Agermo tornasse. Un evento lieto si sarebbe presentato con ben altro volto; ora, solitudine, rumori improvvisi,<br />
tutti gli indizi d’una catastrofe. Poiché l’ancella si allontanava, ella aveva appena detto: – Mi abbandoni<br />
anche tu? –, quando scorse Aniceto, accompagnato da Erculeio, capitano d’una trireme, e dal centurione<br />
della flotta Obarito. Agrippina disse che, se egli era venuto a visitarla, poteva annunziare la sua<br />
guarigione; se invece a compiere un delitto, essa non poteva crederne autore il figlio: questi certo non ave-
va comandato il matricidio. Gli esecutori circondano il letto, e per primo Erculeio la percuote sul capo con<br />
una mazza; mentre il centurione alza il pugnale per finirla, essa protende il ventre, esclamando: – Colpisci<br />
questo! – e muore, trafitta da molte ferite.<br />
APULEIO<br />
La Metamorfosi: da uomo ad asino (T5, p.406)<br />
Fotide entrò, tutta tremante d’emozione, nella stanza e tirò fuori dall’armadietto un barattolo. Io, avutolo<br />
tra le mani, me lo strinsi al cuore, lo baciai, lo pregai di concedermi un prospero volo. Poi in fretta e furia<br />
mi levai di dosso tutti i vestiti, vi intinsi avidamente la mano, e, presa una buona dose di quell’unguento,<br />
me ne spalmai tutta la persona. Cominciai allora a fare qualche prova di volo e, annaspando l’aria or con<br />
l’uno or con l’altro braccio, cercavo di sollevarmi a mo’ di uccello. Ma piume non ne vedevo, di penne<br />
neanche l’ombra. Piuttosto i miei peli cominciarono a ispessirsi a mo’ di setole, la mia pelle, quella mia pelle<br />
delicata, si indurisce come un cuoio, all’estremità delle mani le mie dita cominciano a non distinguersi<br />
più, ma s’attaccano tra loro e ne vien fuori un unico unghione; e dal basso della schiena si protende in fuori<br />
una coda grandiosa. Ed ecco la faccia mi si fa enorme, il muso mi si allunga, si spalancano tanto di narici, le<br />
labbra mi vengon giù penzoloni; nell’aria si levano smisurate orecchie irte di peli. Ah, disastrosa metamorfosi,<br />
nella quale, per quanto cercassi, nulla trovavo di che compiacermi! Solo quell’affare, giusto ora che<br />
non potevo più avere Fotide, me lo vedevo crescere, crescere, a dismisura.<br />
AGOSTINO<br />
L'incontro con la filosofia (T1, pp. 555-557)<br />
Erano questi i compagni di un’età ancora oscillante, che trascorsi studiando i libri d’arte oratoria: in cui<br />
aspiravo a emergere, col fine fatuo e deplorevole di godermi i fasti della vanità umana. E già, secondo il<br />
consueto ordine degli studi, mi era venuto in mano un libro di un certo Cicerone, la cui lingua è oggetto di<br />
universale ammirazione: cosa che non si può dire del suo spirito. Ma quel suo libro contiene un’esortazione<br />
alla filosofia: Ortensio, è intitolato. Ed è proprio quel libro che ha mutato il mio modo di sentire: ha convogliato<br />
verso di te, mio signore, tutte le mie suppliche e mi ha fatto nascere altre ambizioni, altri progetti.<br />
Erano all’improvviso senza alcun valore, tutte quelle speranze della mia vanità: e nel mio cuore divampò<br />
un’incredibile passione per l’immortalità della sapienza. Cominciava il risveglio che mi avrebbe ricondotto<br />
a te. Quel libro io non lo usai per affinare il mio linguaggio, cioè per l’acquisto cui parevano destinati i soldi<br />
di mia madre: avevo diciott’anni, e mio padre era morto due anni prima. Non lo usai per affinare il mio linguaggio:<br />
perché era ciò che diceva ad avermi persuaso, e non come lo diceva.<br />
Che incendio, mio Dio, che incendio questo in cui mi struggevo di levarmi in volo per ritornare a te, via<br />
dalle cose terrene, e non sapevo cosa volevi far di me! Sta presso di te la Sapienza. Ma l’amore della sapienza<br />
ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo. Si può sedurre, con la filosofia:<br />
c’è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e<br />
quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all’autore, sono segnalati e bollati in quel libro.<br />
Là si mostra salutare il consiglio donato dal tuo spirito per bocca del tuo buon servo devoto: Badate che<br />
nessuno vi inganni con la filosofia e la vana seduzione conforme alla tradizione umana, conforme agli elementi di questo<br />
mondo e non conforme a Cristo, perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. A quel tempo,<br />
lo sai, lume del mio cuore, ancora non conoscevo queste parole dell’Apostolo: ma in quell’esortazione bastava<br />
ad avvincermi l’invito, che il discorso mi faceva, ad amare non questa o quella setta ma la sapienza<br />
stessa, dovunque fosse: e a cercarla, conseguirla, possederla e stringerla a sé con forza. Quel discorso mi<br />
accendeva e mi faceva ardere, e in tanto fuoco una cosa sola mi raffreddava, che non vi comparisse il nome<br />
di Cristo, perché questo nome – secondo la tua bontà, Signore – questo nome del mio Salvatore, tuo figlio,<br />
il mio cuore ancora intatto l’aveva fiduciosamente succhiato col latte materno e lo conservava nel profondo.<br />
E senza questo nome qualunque opera, per quanto dotta e raffinata e veridica, non mi conquistava del<br />
tutto.<br />
«Prendi e leggi» (T2, pp. 557-560)<br />
Ma quando una profonda meditazione ebbe tratto dal fondo misterioso dell'anima ed ebbe accumulato davanti<br />
agli occhi del mio cuore tutta la miseria, si scatenò una tempesta che portava una grande pioggia di<br />
lacrime. E per versarla tutta con i suoi lamenti, mi alzai allontanandomi da Alipio – la solitudine mi si presentava<br />
più adatta allo sfogo del pianto – e mi appartai in un luogo troppo lontano perché anche la sua<br />
presenza potesse essermi gravosa. Così stavo allora, e lui se ne accorse: non so che cosa avevo detto, credo,<br />
da cui il suono della mia voce appariva ormai carico di pianto, e così mi ero alzato. Lui dunque rimase là<br />
dove eravamo seduti, molto stupito. Io, non so come, mi stesi sotto un albero di fico e allentai le briglie alle<br />
lacrime, e proruppero i fiumi dei miei occhi, come sacrificio a te gradito, e non proprio con queste parole,<br />
ma secondo questo senso ti dissi molte cose: E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai adirato,
sino alla fine? Non ricordare le nostre iniquità passate. Sentivo infatti di essere prigioniero di queste. Emettevo<br />
lamenti miserevoli: «Quanto tempo ancora, quanto tempo ancora "domani e domani"? Perché non ora?<br />
Perché non adesso la fine della mia vergogna?».<br />
Dicevo queste cose e piangevo con amarissima contrizione del mio cuore. Ed ecco sento una voce da una<br />
casa vicina, come di un bambino o una bambina, non so, che diceva cantando e ripeteva più volte: «Prendi<br />
e leggi, prendi e leggi». E subito, cambiata espressione, cominciai a pensare con grandissima concentrazione<br />
se i bambini fossero soliti in qualche loro tipo di gioco canticchiare un simile ritornello, e non mi veniva<br />
assolutamente in mente di averlo udito in qualche luogo e, posto un freno allo sgorgare delle lacrime, mi<br />
alzai congetturando che per divina ispirazione mi veniva ordinato niente altro se non aprire il libro e leggere<br />
il primo capoverso che avessi trovato. Avevo infatti sentito di Antonio, che aveva ricevuto un avvertimento<br />
da una lettura del Vangelo a cui era arrivato, come se ciò che leggeva fosse detto apposta per lui –<br />
Va', vendi tutto ciò che hai , dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni e seguimi – e che per tale voce divina si<br />
era immediatamente convertito a te. Così tornai emozionato in quel posto dove stava Alipio: lì infatti avevo<br />
lasciato il libro dell'Apostolo, quando mi ero alzato di là. Presi, aprii e lessi in silenzio il primo passo su<br />
cui caddero i miei occhi: Non in gozzoviglie e in ubriachezze, non tra alcove e impudicizie, non nelle contese<br />
e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nei suoi desideri. Non<br />
volli leggere oltre né ce n'era bisogno. Subito infatti, terminata la lettura di questo passo, come se nel mio<br />
cuore si fosse diffusa una luce di tranquillità, tutte le tenebre dell'incertezza si dileguarono.<br />
I regni ingiusti sono magna latrocinia (T12, pp. 597-598)<br />
Eliminata dunque la giustizia, che cosa sono i regni se non grandi bande di ladri? Perché le stesse bande di<br />
ladri che cosa sono se non piccoli regni? Anche essi sono un gruppo di uomini, guidato dal potere di un<br />
capo, legato da un patto sociale, e il bottino si divide secondo una regola accettata. Se questo male si<br />
espande, per l'ingresso di uomini disonesti, tanto da controllare territori, stabilire basi, occupare città,<br />
soggiogare popoli, più chiaramente assume il nome di regno, che chiaramente ormai gli conferisce non la<br />
perdita dell'avidità ma l'aggiunta dell'impunità. Infatti un pirata catturato rispose brillantemente e con<br />
parole veritiere a quel famoso Alessandro Magno. Infatti poiché il re in persona gli aveva chiesto perché<br />
avesse deciso di infestare il mare, quello, con franca sfacciataggine disse: «Lo stesso motivo per cui tu hai<br />
deciso di infestare il mondo: ma siccome io lo faccio con una piccola nave, sono chiamato pirata; poiché tu<br />
lo fai con un grande esercito, sei chiamato generale».