LEIBOVITZ - La Repubblica
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Domenica<br />
<strong>La</strong><br />
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
MICHELE SMARGIASSI<br />
Il 29 luglio scorso la notizia del possibile “crac Leibovitz”<br />
colpì l’America come un monito, un segnale, un simbolo.<br />
Quel giorno Art Capital, una finanziaria specializzata in<br />
prestiti agli artisti, citò la golden lady della fotografia americana<br />
di fronte alla Suprema Corte dello Stato di New York<br />
per un debito di ventiquattro milioni di dollari. Spiccioli in<br />
confronto alle migliaia di miliardi divorati dalla Grande Crisi.<br />
Ma la notizia fece il giro del mondo. Annie Leibovitz non è la<br />
Lehman Brothers, né la Merrill Lynch, è solo una fortunata professionista,<br />
non una corazzata del capitalismo mondiale. Ma a<br />
suo modo, anche lei è una banca: dell’immaginario americano,<br />
quindi globale. Una banca del glamour, del successo, dell’esserequalcuno.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
ANNIE <strong>LEIBOVITZ</strong><br />
di <strong>Repubblica</strong><br />
Comprai un appartamento a Parigi. Ci avevo lavorato<br />
per Vogue, e cominciavo a pensare di volere un figlio.<br />
Avevo Rhinebeck. Avevo tutto ciò che avevo sempre<br />
desiderato e volevo che anche Susan avesse qualcosa<br />
che aveva sempre desiderato. Sin dagli anni Sessanta<br />
Susan aveva vissuto per brevi periodi a Parigi<br />
e parlava spesso di andarci a vivere. Le piaceva lasciare New York<br />
quando scriveva.<br />
Comunicammo agli agenti immobiliari di non mostrarci appartamenti<br />
in stabili senza ascensore, perché a quel tempo Susan<br />
aveva già problemi a camminare. <strong>La</strong> chemioterapia dovuta alla seconda<br />
recrudescenza del cancro, nel 1998, le aveva provocato una<br />
neuropatia ai piedi.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
l’attualità<br />
Le biciclette di Rimini<br />
GIAN LUCA FAVETTO e JENNER MELETTI<br />
cultura<br />
Lo splendore delle corti dei Maharaja<br />
NATALIA ASPESI<br />
Un nuovo libro<br />
intreccia<br />
le due opposte vite<br />
della grande<br />
fotografa:<br />
così lontane,<br />
così inseparabili<br />
<strong>LEIBOVITZ</strong><br />
Segreti<br />
di<br />
famiglia<br />
spettacoli<br />
Gianna Nannini: ricomincio da me<br />
GINO CASTALDO e GIANNA NANNINI<br />
i sapori<br />
Funghi d’autunno, un jolly a tavola<br />
LICIA GRANELLO e CARLO PETRINI<br />
le tendenze<br />
Kartell, i sessant’anni di un mito<br />
ENRICO REGAZZONI e IRENE MARIA SCALISE<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO © ANNIE <strong>LEIBOVITZ</strong>/CONTACT
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
la copertina<br />
Segreti di famiglia<br />
MICHELE SMARGIASSI<br />
(segue dalla copertina)<br />
Le sue azioni sono le migliaia di scatti accumulati in<br />
quarant’anni di carriera da ritrattista superstar<br />
delle icone superstar. Attori, politici, rocker, atleti:<br />
nel portafogli della fotografa di punta di Rolling<br />
Stone e poi di Vanity Fair figurano solo grandi vincenti.<br />
Si entra a invito, qualche volta anche pagando<br />
(centomila dollari per una sola seduta) ma ci si garantisce<br />
l’impagabile dividendo della celebrità consacrata. Per questo<br />
il temuto crollo del Pantheon Leibovitz (per ora scongiurato da<br />
una dilazione in extremis) ha spaventato gli osservatori come<br />
un nefasto presagio di declino del sogno americano.<br />
Qualcuno però ha sofferto di meno per questi suoi guai. Non<br />
piace a tutti la spigolosa Annie, l’irraggiungibile Annie, l’irascibile<br />
Annie. «Forse questa crisi le farà bene», ha commentato gelida<br />
il critico fotografico del Times, Joanna Pitman. Gli ingredienti<br />
poco simpatici del suo tocco magico, del resto, sono noti.<br />
Perfezionismo ossessivo: centinaia di scatti, prove e riprove<br />
prima del risultato che la soddisfi. Grandeur hollywoodiana e<br />
costosissima di molti suoi set, quasi mai in studio e sempre più<br />
spesso pieni di accessori bizzarri e introvabili, piogge e nevi artificiali,<br />
animali esotici (per non dire delle decine di galloni di<br />
latte tiepido in cui fece nuotare Whoopi Goldberg). Sfrontata<br />
sicurezza dei suoi giudizi estetici: sfidò il delitto di lesa maestà<br />
chiedendo alla regina Elisabetta di togliersi la corona perché la<br />
trovava troppo dressed up, troppo formale. Tirannia implacabile<br />
delle sue sedute, interminabili fino allo sfinimento: chiedere<br />
ad Arnold Schwarzenegger, lasciato semiassiderare in tshirt<br />
per ore sulle cime nevose dell’Idaho. Ne esce un teatro delle<br />
meraviglie senza scopo, un’esteriorità senza spessore, un<br />
mondo di cartapesta placcata d’oro: così almeno pensano di lei<br />
(alcuni lo scrivono) i critici severi.<br />
Ma c’è un’altra storia dietro le quinte, sotto lo smalto luccicante.<br />
È la storia di Anna-Lou Leibovitz di Waterbury, Connecticut,<br />
dinoccolata occhialuta e ambiziosa ragazza della provincia<br />
americana del dopoguerra (sessant’anni compiuti due<br />
giorni fa), figlia di un aviatore militare e di una danzatrice, come<br />
dire di creatività e disciplina. <strong>La</strong> storia dei suoi affetti, dei<br />
suoi difetti, delle sue passioni e dei suoi dolori mai confessati.<br />
Una storia svelata d’improvviso al mondo solo tre anni fa, e finalmente<br />
ora anche ai suoi ammiratori italiani, da un volume<br />
poderoso che si presenta come Fotografie d’una vita, ma che in<br />
realtà ne racconta solo una piccola parte, quella più intensa e<br />
tormentata, dal 1990 al 2005. Ovverosia gli anni trascorsi al fianco<br />
di Susan Sontag, sua amica e amante (ma guai a dire compagna<br />
o partner), guru e maestra.<br />
S’incontrarono nel 1989, già all’apice delle rispettive carriere,<br />
per un ritratto da retrocopertina (quello di L’Aids e le sue metafore).<br />
Opposte, s’attrassero di colpo: la fotografa jet-set dei divi<br />
e la saggista radical del Greenwich Village, la donna delle immagini<br />
e quella delle parole; le dividevano sedici anni e due<br />
mondi. Sontag disse: «Sei brava, ma puoi fare di meglio». E Leibovitz<br />
incredibilmente non s’arrabbiò. Vissero in simbiosi affettiva<br />
e intellettuale per un quindicennio. Le loro case neoclassiche<br />
sull’undicesima strada stavano spalla a spalla, poi ne<br />
affittarono una assieme a Parigi, vista Senna. Viaggiarono molto,<br />
scrivendo e fotografando, volevano ricavarne un libro, il Libro<br />
della bellezza. Poi un cancro divorò Susan. Sei settimane<br />
dopo, se ne andò anche Samuel, il padre di Annie. Lei li fotografò<br />
entrambi sul letto di morte, «quasi in trance», tra le lacrime.<br />
Aveva cercato di vietarselo. Non ci riuscì. «Sapevo solo che<br />
dovevo farlo. Non puoi mai smettere di essere fotografa». Persino<br />
quando partorì col cesareo Sarah, la prima delle sue tre figlie<br />
(tutte concepite senza notizia di un padre, le due gemelle<br />
Susan e Samuelle con l’aiuto di una madre surrogata) l’anestesia<br />
non le impedì di sollevare la Leica sopra il telo del chirurgo.<br />
Le venne poi voglia di fare un volumetto di ricordi intimi,<br />
qualche copia da donare agli amici comuni, con quelle immagini<br />
strazianti, che credeva poche. Dalle scatole di provini traboccò<br />
invece una quantità travolgente di immagini private,<br />
scattate e poi dimenticate. Scossa dal ritorno del tempo perduto,<br />
l’algida Annie, l’impenetrabile Annie, scelse di mostrarsi a<br />
tutti. Di esibire <strong>La</strong> vita di una fotografa, come suona il titolo originale<br />
di quella che all’inizio fu una mostra, accolta con attenzione<br />
e sconcerto dai critici, con sorprendente passione dal<br />
pubblico. Centinaia e centinaia di scatti in grossolano ordine<br />
cronologico, senza distinzione fra momenti privati e lavori professionali,<br />
intimità e palcoscenico, spontaneità e artificio. «<strong>La</strong><br />
mia vita è una sola, il lavoro su commissione e le foto personali<br />
ne fanno parte in eguale misura».<br />
Come darle torto? Ogni vita è «un mix esoterico», solo le agiografie<br />
scorrono lisce come l’olio. Ma che spaesamento: Nicole<br />
Kidman sirenetta dorata, volta la carta e c’è la smorfia di dolo-<br />
Fotografa dei divi, fotografa glamour, fotografa di successo<br />
e ora in crisi finanziaria. Ma dietro la Leibovitz pubblica<br />
ce n’è un’altra: quella delle sue città, i figli, il padre, il fratello<br />
E la Sontag, la grande amica e amante alla quale rimase accanto<br />
fino alla fine. Ora un libro per immagini, pubblicato<br />
da De Agostini, racconta due anime che in realtà sono una sola<br />
L’unica doppia vita di Annie<br />
Parigi all’alba<br />
e Susan che mi guarda<br />
ANNIE <strong>LEIBOVITZ</strong><br />
(segue dalla copertina)<br />
Ma un giorno un agente immobiliare<br />
ci accompagnò a vedere una casa<br />
che aveva un appartamento<br />
in vendita al secondo piano. Ci arrivammo<br />
passando per un cortile che si apriva su una<br />
strada laterale e salimmo circa trenta gradini,<br />
Susan con qualche difficoltà e pensando entrambe<br />
che fosse una perdita di tempo.<br />
Poi la porta si aprìe noi due ci guardammo.<br />
Dava proprio sul Quai des Grands Augustins,<br />
dalle grandi finestre del salotto si vedevano<br />
la Senna e Place Dauphine e la guglia<br />
della Sainte-Chapelle. Costruita nel 1640<br />
ed era stata una stamperia. Ed era un rudere,<br />
che è proprio ciò che io amo. Ci tornammo<br />
il giorno dopo per dire al proprietario<br />
che volevamo comprarla.<br />
Poi trovammo una fotografia che Atget<br />
aveva scattato della casa e uscendo girammo<br />
intorno all’edificio e trovammo una targa<br />
in cui si diceva che Picasso aveva dipinto<br />
Guernica proprio lì. Più avanti trovammo<br />
una fotografia della nostra via di notte che<br />
aveva scattato Brassaï. <strong>La</strong> fotografia di Susan<br />
che guarda verso l’appartamento dall’altra<br />
riva del fiume fu scattata la mattina in cui<br />
tornammo a New York. Ci avevano detto che,<br />
per la sua posizione, non era esposto alla luce<br />
diretta, ma sulla via per l’aeroporto<br />
ci fermammo a guardarlo e lo vedemmo<br />
immerso nel sole. Ne fummo così<br />
emozionate.<br />
Traduzione Valeria Raimondi<br />
(©2006 by Annie Leibovitz - all rights<br />
reserved. This translation published<br />
by arrangement with Random House,<br />
an imprint of The Random House Publishing<br />
Group, a division of Random House, Inc.<br />
Published by arrangement<br />
with Roberto Santachiara Literary Agency)<br />
IN LIBRERIA<br />
Si intitola Fotografie di una vita<br />
1990-2005 (472 pagine, 89 euro)<br />
il libro edito da De Agostini<br />
che raccoglie centinaia di scatti<br />
di Annie Leibovitz. Oltre ai ritratti<br />
di personaggi famosi — da Johnny<br />
Cash a Nicole Kidman a Keith<br />
Richards — per i quali la fotografa<br />
è nota, immagini familiari<br />
e personali, paesaggi e reportage<br />
da Sarajevo nei primi anni Novanta<br />
In libreria il 15 ottobre<br />
re di Susan dopo la mastectomia; mamma e papà Leibovitz<br />
curvi e anziani sparecchiano la cucina, volta la carta e c’è Scarlett<br />
Johansson languida odalisca. Il contrasto è quasi intollerabile,<br />
vien voglia di ribellarsi a questa apparente schizofrenia, di<br />
scegliere la “verità” dello sguardo privato contro la “falsità” di<br />
quello commerciale, la carne contro la plastica, il ruvido contro<br />
il liscio, la terra contro le stelle, le lacrime contro il make-up.<br />
E ad essere onesti, la commossa Annie delle sequenze in bianconero,<br />
degli splendidi ritratti intimi di Susan, delle carezze visuali<br />
a genitori, fratello e figlie, sembra davvero più sincera e<br />
profonda della superpagata professionista Ms. Leibovitz. Alla<br />
quale è stata spesso rimproverata, non senza ragione, la rinuncia<br />
a uno stile riconoscibile (non la rudezza di un Karsh, non<br />
l’apparente cinismo di un Avedon, non la calligrafia di un Newman)<br />
a favore di un eclettismo lasciato all’intuizione del momento,<br />
capace di produrre colpi di genio (l’abbraccio di John<br />
Lennon nudo e latteo a Yoko Ono vestita di nero, preso sei ore<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
prima dell’omicidio dell’ex Beatle), celebri trasgressioni (il nudo<br />
di Demi Moore vistosamente incinta, che Sontag pretese e<br />
ottenne di far finire sulla copertina di Vanity Fair), istanti di intensa<br />
introspezione (uno splendido Al Pacino in una scura<br />
stanza spoglia); ma anche pose prevedibili (Bill Gates davanti<br />
a un computer), stucchevoli cliché (Cindy Crawford come Eva<br />
abbracciata a un serpente) e originalità divertenti ma senza<br />
spessore (Jack Nicholson che gioca a golf in vestaglia e ciabatte).<br />
Difetti che svaniscono d’incanto nel suo lavoro privato e segreto,<br />
preso a mano libera, con macchine di piccolo formato,<br />
senza stage, «senza l’obbligo di dover scattare», foto affettive,<br />
da album di famiglia, destinate alla memoria privata e all’intimo<br />
rimpianto. Ma anche nei paesaggi, sparsi nel libro a mo’ di<br />
parentesi, per allentare la tensione narrativa; e soprattutto nei<br />
rari, duri reportage, come quello nella Sarajevo sotto assedio,<br />
BIANCO E NERO<br />
Nella foto grande, Provini, Annie Leibovitz fotografata<br />
da Susan Sontag, Venezia 1994; in alto da sinistra,<br />
la Sontag nel Quai des Grands Augustins, Parigi,<br />
dicembre 2003; My brother Philip and my father,<br />
Silver Spring, Maryland, 1988<br />
In copertina, Annie Leibovitz con le figlie Sarah,<br />
Susan e Samuelle<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />
glamour e insegnarle a «spogliare la realtà».<br />
Ma non sarebbe giusto né rispettoso. C’è una sola Annie Leibovitz,<br />
e lei stessa ci sfida a prenderla tutta, o lasciarla. Questo<br />
diario è «la cosa più vicina a me tra tutte quelle che io abbia mai<br />
fatto». Ci chiede di apprezzarla solo così, tutta intera. Ma forse<br />
vuole dirci qualcosa di più. Questo catalogo di un quindicennio<br />
di vita, del resto, è stato composto «come se Susan fosse dietro<br />
le mie spalle», e Sontag è l’autrice di saggi fondamentali per<br />
comprendere la fotografia. Questo libro di poche parole ci spiega<br />
semplicemente che è tutta quanta la fotografia (la sua storia,<br />
la sua ambiguità) che dobbiamo accettare, senza snobismi, se<br />
vogliamo avere in cambio qualcosa da lei. <strong>La</strong> fotografia che inganna<br />
e quella che rivela, quella che racconta e quella che finge,<br />
quella che inquieta e quella che appaga, sono in fondo la<br />
stessa cosa: lo specchio fatato che lusinga le nostre brame e, sull’altra<br />
faccia, quello impietoso che ci svela la nostra fragilità.<br />
dove Susan la portò per aiutarla a sfuggire all’intossicazione da © RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO © ANNIE <strong>LEIBOVITZ</strong>/CONTACT
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
l’attualità<br />
Pedalare<br />
JENNER MELETTI<br />
RIMINI<br />
la mamma-trattore.<br />
Il piccolo davanti, col ciuccio,<br />
sul seggiolino agganciato<br />
al manubrio e riparato dal<br />
anche C’è<br />
parabrezza. Il figlio di cinque anni mangia una<br />
banana sul seggiolone di plastica dietro la sella.<br />
<strong>La</strong> figlia di undici anni ha i pattini ai piedi e si fa<br />
trainare, come se la mamma in bicicletta fosse<br />
un autocarro. «Asilo, materna e la figlia che è andata<br />
a pattinare sul lungomare. In mezz’ora —<br />
dice la signora Arianna — riesco a fare il giro e a<br />
riportare a casa tutta la figliolanza». Basta mettersi<br />
qui, dove via Garibaldi incrocia i Bastioni<br />
occidentali, per capire perché a Rimini, con gli<br />
incentivi del ministero, in tre giorni siano state<br />
vendute 1.050 biciclette, contro le 1.041, ad<br />
esempio, di una città come Roma. Qui, in bicicletta,<br />
si fa tutto. Si portano e si ritirano i figli a<br />
scuola, si va a fare la spesa, si va e si torna dall’ufficio,<br />
si pedala verso i bar di piazza Tre Martiri<br />
per la partita e alle cinque del pomeriggio<br />
si corre al porto, perché arrivano i pescherecci<br />
con le sardine, le triglie e le canocchie ancora<br />
vive.<br />
«<strong>La</strong> bicicleta (da queste parti ha una sola t)<br />
— dice Ernesto, sui sessantacinque e rotti —<br />
innanzitutto bisogna tenersela stretta». Davanti<br />
al negozio Semprini di via Saffi — venditori<br />
e riparatori di biciclette da tre generazioni<br />
— c’è più fila che davanti all’ambulatorio<br />
del medico nei giorni di influenza. «Ci sono<br />
i romeni che sono capaci di tutto. Passa<br />
uno con un tronchesino e zac. Subito dopo<br />
un altro prende la bici come se fosse la sua.<br />
Io la mia però l’ho ritrovata. Sono andato in<br />
quella piazzetta là in fondo, dove arrivano i<br />
furgoni dalla Romania. Scaricano i pacchi e<br />
caricano le bici rubate. Io ho detto: quella<br />
Condor lì è mia. O me la date o chiamo i carabinieri.<br />
Ma adesso sono qui a comprare<br />
un’altra catena. Quelle buone costano anche<br />
50 euro».<br />
Il negozio Semprini è anche un pronto soccorso.<br />
Si comprano un pedale, un copertone, una<br />
gomma, una sella, il filo di un freno. Si ammirano<br />
le biciclette nuove e «quelle di una volta». «Questa<br />
è una perfetta riproduzione della “Umberto Dei<br />
Milano”. Sella Brooks di cuoio, freni a bacchetta,<br />
cromature dorate. È uguale a quella degli anni<br />
Trenta. Costa 1500 euro». Le nuove sono in alluminio,<br />
leggerissime. Non hanno più la dinamo,<br />
che frenerebbe la corsa. Fanalino alogeno, con la<br />
pila. «Anche da noi c’è stato un boom di vendite. Il<br />
trenta per cento di sconto è una manna. Ne hanno<br />
approfittato chi aveva la ciclo troppo vecchia e anche<br />
tanti anziani che si sono comprati la bici “a pedalata<br />
assistita”, con il motorino elettrico che ti dà<br />
un aiuto. <strong>La</strong> voglia di pedalare resta sempre, ma le<br />
gambe…».<br />
Da queste parti la bicicletta è quasi una religione.<br />
«A Bologna — dice Tiziano Arlotti, cinquant’anni,<br />
consigliere comunale che quando era<br />
assessore ha moltiplicato le piste ciclabili — per<br />
sciogliere un voto si sale a piedi verso San Luca. Qui<br />
invece si va in bici «a fare le coste di Sgrigna», una<br />
strada piena di curve e salite che da Rimini arriva a<br />
Verucchio. Venticinque chilometri e il voto è sciolto».<br />
Venti chilometri di piste ciclabili nel 2001<br />
(quando l’assessore iniziò il suo mandato ai lavori<br />
pubblici), settanta oggi, ma già ci sono progetti per<br />
arrivare a centoventi. «Il centro della città è un invito<br />
alle due ruote. Dall’Arco di Augusto al Ponte di<br />
Tiberio c’è appena un chilometro. Ma le piste delle<br />
bici sono necessarie soprattutto fuori. Ce n’è<br />
una bellissima che dal mare porta a Torriana, immersa<br />
nel verde del greto del Marecchia. Ne abbiamo<br />
un’altra fra l’Ausa e Montescudo, sull’asse<br />
del Marano. <strong>La</strong> domenica è uno spettacolo, con le<br />
famiglie in gita. Il papà davanti, i figli dietro e la<br />
mamma che chiude la comitiva. Sulla strada verso<br />
Sogliano, in primavera, quando fioriscono le acacie<br />
e i sambuchi, ti sembra di sentire i profumi del<br />
paradiso. Per qualche anno, con il boom delle automobili,<br />
i riminesi si erano dimenticati, come si<br />
dice qui, di esser “nati in bicicletta”. Adesso l’hanno<br />
riscoperta, perché la bici la parcheggi dove<br />
vuoi, non ha fumi di scarico e alla fine è più veloce<br />
di un fuoristrada. Una nuova pista ciclabile ti cambia<br />
la vita. Quando ne apri una nuova, cambi la vita<br />
della gente: auto che restano in garage, bici che<br />
escono dalle cantine. E se trovi anche il trenta per<br />
Con gli incentivi del governo, la città romagnola ha fatto incetta<br />
di quelle che qui si chiamano ancora “biciclete”, con una sola t<br />
E ora ha il rapporto due ruote per abitante più alto d’Italia<br />
Sconti, coscienza verde, piste ciclabili, ma soprattutto una tradizione<br />
da rispettare quasi come una religione, da Casadei a Oriani a Pantani<br />
Le biciclette di Rimini<br />
FOTO ARCHIVIO FONDAZIONE FELLINI<br />
cento di sconto…».<br />
Sul lungomare, bimbi in bici con le ruotine fanno<br />
le prime pedalate. «Noi — ricorda Tiziano Arlotti<br />
— imparavamo con le biciclette dei grandi,<br />
quelle con il cannone. Ci si infilava sotto, di traverso,<br />
con le mani sul manubrio là in alto. Si frenava<br />
con il tallone delle scarpe. Poi, quando avevi la<br />
“tua”<br />
bici, arrivava la felicità. Correvi sul ghiaino, scivolavi<br />
in curva e ti scorticavi dappertutto ma a casa<br />
non dicevi niente altrimenti prendevi anche uno<br />
scapaccione. Quelli che non avevano la bici ti correvano<br />
dietro, se eri buono gliela facevi provare».<br />
«Quando salgo in bicicletta — qui a Rimini ricor-<br />
“Caricavi la morosa<br />
sul cannone, prendevi<br />
la discesa… Se cadevi<br />
nel fosso - c’era chi<br />
lo faceva apposta - avevi<br />
l’occasione di rotolarti<br />
un po’ con lei… <strong>La</strong> bici<br />
è anche maestra di vita”<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
dano che come presidente delle case popolari invece<br />
di un’auto di rappresentanza feci acquistare<br />
due biciclette — io torno ragazzo. Sulle due ruote<br />
sembra di essere dentro un film di Sergio Leone,<br />
con le inquadrature lente. E senti gli odori: l’erba<br />
appena tagliata, la terra arata, la polvere quando<br />
inizia a piovere… Una sola cosa è cambiata: quasi<br />
nessuno è più in grado di riparare il proprio mezzo.<br />
Dietro la sella, un tempo, c’era il borsellino di<br />
cuoio. Dentro, le due leve di ferro per togliere il copertone,<br />
la carta vetrata, il tubetto del mastice e i<br />
pezzi di camera d’aria pronti per tappare le forature.<br />
A dieci anni sapevi aggiustare la tua bicicletta<br />
e la pulivi ogni domenica mattina, con lo strac-<br />
cio bagnato nella nafta del trattore».<br />
«Un bès in bicicleta», cantava Secondo Casadei.<br />
«Caricavi la morosa sul cannone, prendevi la<br />
discesa… Se cadevi nel fosso — c’era chi lo faceva<br />
apposta — avevi l’occasione di rotolarti un po’ con<br />
lei… <strong>La</strong> bici è anche maestra di vita. Ti insegna a<br />
misurare le forze, a fare il passo secondo le gambe.<br />
Trovi quello che va più piano e anche quello che ti<br />
sorpassa e non lo vedi più. Ormai lo dicono tutti:<br />
hai voluto la bici… “T’è vlù la bicicleta, adess pidela”.<br />
I nostri padri ce lo dicevano sempre. Per farci<br />
capire che la vita può essere anche fatica ma che,<br />
se pedali con il passo giusto, ce la puoi fare».<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
FELLINI<br />
Un disegno di Toulouse-<br />
<strong>La</strong>utrec su una gara<br />
in bicicletta. Nell’altra pagina<br />
un giovanissimo Federico<br />
Fellini (in giacca)<br />
in bicicletta nella sua città<br />
e due poster<br />
di manifestazioni<br />
cicloturistiche a Rimini<br />
FOTO ©RICCARDO GALLINI<br />
IN SPIAGGIA<br />
Qui sopra e in alto,<br />
immagini di ciclisti<br />
per le strade<br />
e sulle spiagge<br />
di Rimini<br />
FOTO CORBIS<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
Così l’uomo in bilico<br />
si riprende la libertà<br />
GIAN LUCA FAVETTO<br />
<strong>La</strong> bicicletta racconta geografie oltre che storie,<br />
racconta territori. Li ridisegna, mentre li attraversa.<br />
Ne coglie voci e lineamenti. Lo fa lavorando<br />
sul tuo sguardo di viaggiatore. Di pedalatore.<br />
Lo sguardo di chi pedala parte dai piedi, e risale lungo<br />
le caviglie, i polpacci, le cosce, l’anca, tutto il busto,<br />
le spalle, il collo, fino a impegnare le braccia e le mani.<br />
È uno sguardo completo, molto fisico, che riconosce e<br />
misura fatica, piacere, concentrazione. E non rinuncia<br />
a un po’ di poesia. Uno sguardo che prende tempo e ha<br />
il ritmo dei pensieri. Guardare l’orizzonte da una bicicletta<br />
è come guardare il mare da una barca a vela.<br />
Essendo poi i territori, in fondo, le persone che li abitano,<br />
essendo segnati dalle relazioni fra tutti coloro che<br />
li vivono, la bicicletta racconta anche i cittadini di quel<br />
paesaggio. Racconta uomini e donne, vecchi e bambini,<br />
il loro carattere di individui che pure appartengono<br />
a un gruppo. <strong>La</strong> bicicletta è gruppo e individuo insieme,<br />
è anarchia e comunità. Ecco perché racconta bene<br />
la Romagna e i romagnoli.<br />
È a Forlì che i repubblicani, nel 1902, invitano ad approfittare<br />
del ciclismo come sport «per stringere maggiormente<br />
i vincoli di amicizia e di fratellanza tra i compagni<br />
di fede e per difendere ovunque l’idea repubblicana».<br />
È qui che, ancora all’inizio del Novecento, si costituiscono<br />
le prime sezioni dei ciclisti rossi, ed è a Imola,<br />
nel 1913, che nasce la Federazione nazionale.<br />
Non solo un mezzo di trasporto, e quindi di comunicazione,<br />
la bicicletta, ma anche uno strumento di appartenenza:<br />
più che a una classe, a un popolo. Lo dicono<br />
i fatti e gli scritti, lo fa capire il modo in cui viene usata<br />
e il modo in cui viene cantata. Due esempi fra i molti:<br />
Alfredo Oriani, classe 1852, che in bici ha viaggiato e<br />
ha pubblicato, nel 1902, una raccolta di novelle intitolata<br />
Bicicletta, e Marco Pantani, classe 1970, che a colpi<br />
di pedale ha scritto storie e incarnato leggende, l’ultimo<br />
dei magnifici sette, con Coppi, Anquetil, Merckx,<br />
Hinault, Roche, Indurain, ad avere vinto nello stesso<br />
anno, il 1998, Giro d’Italia e Tour de France.<br />
«Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà,<br />
forse meglio di una liberazione — scrive Oriani<br />
ormai cinquantenne —. Andarsene ovunque, ad ogni<br />
momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio...<br />
<strong>La</strong> bicicletta siamo ancora noi che<br />
vinciamo lo spazio ed il tempo; stiamo in bilico<br />
e quindi nella indecisione di un giuoco colla<br />
tranquilla sicurezza di vincere; siamo soli<br />
senza nemmeno il contatto colla terra, che le<br />
nostre ruote sfiorano appena». Poco oltre,<br />
aggiunge una nota non smentibile un secolo<br />
più tardi: «Domani la carrozzella automobile<br />
ci permetterà viaggi più rapidi e più lunghi,<br />
ma non saremo più né così liberi, né così<br />
soli: l’automobile non potrà identificarsi<br />
con noi come la bicicletta, non saranno le<br />
nostre gambe che muovono gli stantuffi...<br />
Ci darà il senso doloroso del limite, appunto<br />
perché separata da noi, sospinta da una<br />
forza che non può fondersi colla nostra».<br />
Identificarsi con noi.<br />
Questo fanno le due ruote<br />
con sellino, catena e<br />
manubrio. Più di tutti, si<br />
sono identificate con<br />
Marco Pantani. Il Pirata<br />
aveva quel fisico speciale<br />
che completa la bicicletta.<br />
A piedi era uno scricciolo<br />
improbabile, uno scheletrico<br />
elefantino. In sella diventava<br />
tutt’uno con il mezzo<br />
meccanico, aveva la perfezione<br />
di un centauro che fondeva<br />
umanità e tecnologia.<br />
Fisicamente perfetto per la bici,<br />
come lui, prima di lui, solo<br />
Fausto Coppi, il Campionissimo.<br />
Pantani è l’uomo che ha<br />
messo le montagne ai suoi piedi<br />
e tutta la sua passione, forza<br />
e la fragilità, nel ciclismo. Come<br />
ogni grande scalatore, era<br />
innamorato della solitudine.<br />
Scattava in salita e andava<br />
veloce per abbreviare l’agonia,<br />
raccontava. Forse diceva<br />
il vero. Puro istinto, la bici<br />
per lui non era un mezzo,<br />
ma una parte di sé. Senza,<br />
si sentiva monco, dimezzato.<br />
Come se gli staccassero<br />
l’anima. Ha portato<br />
un pezzo di Romagna sul<br />
Mortirolo, sul Galibier,<br />
sul Mont Ventoux, anche ad Oropa,<br />
dove nel 1999, a inizio salita, perde la catena,<br />
sessanta posizioni e quasi un minuto dagli avversari.<br />
Ma in pochi ruggenti chilometri, si riprende tutto, danzando<br />
sui pedali fino alla vittoria. Libero, anarchico e<br />
felice. Almeno per un po’.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
CULTURA*<br />
Elefanti dalle zanne tempestate di gioielli, sovrani<br />
che ordinavano a Cartier diademi con migliaia<br />
di diamanti e a Hermès interni per auto di lusso<br />
Grandi ricchezze ostentate contro il regime coloniale. Una mostra<br />
al Victoria & Albert Museum di Londra racconta come il contatto<br />
con l’Europa fece nascere un paese delle meraviglie<br />
C’era una volta<br />
l’India delle favole<br />
NATALIA ASPESI<br />
<strong>La</strong> principessa Sita Devi di Kapurtala aveva<br />
scelto Cecil Beaton per farsi fotografare, nel<br />
1940, in tutto lo splendore della sua delicata<br />
bellezza e dei suoi enormi gioielli. Nel<br />
1929 il maharaja Yeshwant Rao Holkar II di<br />
Indore, giovane uomo di assoluta eleganza<br />
déco, aveva chiesto a Bernard Boutet de Monvel, allora<br />
celebre illustratore di Vogue e ritrattista molto alla moda,<br />
di dipingerlo sia carico di perle e diamanti in un candido<br />
abito tradizionale indiano con uno strano turbante<br />
rosso, sia nel più perfetto dei tight europei, con mantella<br />
nera foderata di seta bianca. Nella sua autobiografia,<br />
la marani Sunity Devi scriveva nel 1921: «Adesso viviamo<br />
nel nuovo palazzo, giudicato uno dei più belli di<br />
tutta l’India, disegnato da un architetto occidentale e costruito<br />
in stile eclettico». <strong>La</strong> spericolata viaggiatrice inglese<br />
Rosita Forbes raccontava nel 1939: «Il maharaja di<br />
Patiala amava la vita, il cibo, le donne e i gioielli, e siccome<br />
era così splendido, e ricco, e stravagante, così generoso<br />
e ospitale, e poiché sparava bene e guidava enormi<br />
automobili a una velocità fantastica e le fermava di colpo<br />
se il più povero dei suoi sudditi desiderava parlargli,<br />
poiché rideva e gettava denaro nelle mani dei mendicanti,<br />
il popolo lo amava sinceramente».<br />
L’India fiabesca e sontuosa delle meraviglie, l’India<br />
degli elefanti dalle zanne avvolte in fili di rubini, l’India<br />
dei maharaja che si facevano pesare e distribuivano il<br />
corrispettivo in oro agli indigenti, l’India che per un secolo<br />
fu una lontana colonia inglese il cui esotismo faceva<br />
parte dell’immaginario popolare, invade il Victoria &<br />
Albert Museum di Londra con la grandiosa mostra<br />
Maharaja: lo splendore della corte reale indiana (10 ottobre<br />
2009-17 gennaio 2010), curata da Anna Jackson<br />
del dipartimento di arte asiatica del museo in collaborazione<br />
con Amin Jaffer, direttore internazionale per<br />
l’arte asiatica di Christie’s.<br />
E una grande parte sarà dedicata proprio alla passione<br />
dei monarchi della miriade di corti indiane per le<br />
massime raffinatezze europee, che davano un tocco di<br />
modernità al loro vivere in una tradizione di opulenza e<br />
dominio, nei costumi sontuosi e nei riti antichi che li<br />
rendevano sacri al loro popolo miserabile e sottomesso.<br />
I produttori del lusso più straordinario, soprattutto<br />
inglesi e francesi, creavano oggetti speciali solo per loro:<br />
certe Rolls-Royce Silver Wraith James Young, che andavano<br />
ad aggiungersi alle decine accumulate in diverse<br />
scuderie reali sin dall’inizio del secolo scorso, che potevano<br />
essere la Citroën 5CV Vitesse con le mascotte di<br />
cristallo di <strong>La</strong>lique disegnate da Red Ashay nel 1925 e og-<br />
TURBANTE<br />
A destra, un sarpech,<br />
ornamento<br />
per turbante<br />
della metà<br />
del Diciottesimo<br />
secolo: oro, rubini,<br />
smeraldi, diamanti,<br />
zaffiri e perle;<br />
in basso, un howda,<br />
la portantina<br />
che si metteva<br />
sul dorso<br />
degli elefanti<br />
Tutte le immagini<br />
di queste pagine<br />
sono tratte<br />
dal catalogo<br />
della mostra (Photo V&A<br />
Art Museum)<br />
IN RASSEGNA<br />
Si intitola Maharaja. The Splendour of India’s Royal<br />
Courts la mostra al Victoria & Albert Museum<br />
di Londra che apre il 10 ottobre e durerà fino<br />
al 17 gennaio 2010. Duecentocinquanta tra oggetti<br />
di vita quotidiana, gioielli, dipinti che risalgono<br />
al periodo che va dall’inizio del Diciottesimo<br />
alla metà del Ventesimo secolo<br />
Un viaggio attraverso<br />
la trasformazione della figura<br />
dei maharaja che<br />
entravano in contatto<br />
con il gusto,<br />
la cultura<br />
e la politica<br />
occidentali<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
Paquin, le sorelle Callot, Jean Patou,<br />
Madeleine Vionnet, Elsa Schiaparelli,<br />
Molyneau, vestivano le marani<br />
per i ricevimenti alla corte inglese<br />
con abiti ricamati con fili di platino<br />
gi vendute all’asta a caro prezzo, o la Delahaye 175 a sei<br />
cilindri con l’interno arredato da Hermès nel 1947.<br />
I gioiellieri lavoravano ininterrottamente per maharaja<br />
e marani e rani, che inviavano loro casse di diamanti,<br />
rubini, topazi, zaffiri, smeraldi, di purezza e grossezza<br />
mai viste. E Cartier, per esempio, nel 1928 confezionò<br />
per il maharaja Bhupinder Singh di Patiala — un<br />
giovanotto dai baffi all’insù che si faceva fotografare da<br />
Vandyk con un turbante grondante smeraldi ed aigrettes,<br />
il petto ricoperto di fili di enormi perle con, incasto-<br />
MicroMega 5/09<br />
MARCO ZERBINO<br />
C’è del marcio<br />
in Danimarca<br />
<strong>La</strong> prima grande inchiesta<br />
sull’Italia dei valori, regione per<br />
regione, e sullo scontro tra vecchi<br />
potentati partitocratici e nuovi iscritti<br />
che vengono dai movimenti.<br />
nata nei diamanti, una miniatura della regina Vittoria<br />
— una collana cerimoniale composta originariamente<br />
da 2.930 diamanti per un valore di mille carati, con un<br />
diamante paglierino centrale di 234,65 carati. Paquin, le<br />
sorelle Callot, Jean Patou, Madeleine Vionnet, Elsa<br />
Schiaparelli, Jeanne <strong>La</strong>nvin, Edward Molyneau, vestivano<br />
le marani per i ricevimenti alla corte inglese con<br />
abiti ricamati con fili di platino e pietre preziose, su cui<br />
queste solitamente bellissime, diafane signore dalla<br />
carnagione di luce e dai grandi occhi neri, portavano fili<br />
e fili di perle, mentre i loro consorti erano affezionati<br />
clienti di John Lobb per le scarpe di forma occidentale,<br />
e di Van Cleef & Arpels o Jaeger-LeCoultre per gli orologi<br />
disegnati solo per loro.<br />
L’India della mostra è soprattutto quella esotica che<br />
stupiva e appassionava gli occidentali, l’India che a partire<br />
dal Diciottesimo secolo, dovette cedere alla Compagnia<br />
delle Indie Orientali il commercio locale e l’amministrazione<br />
dei tanti piccoli regni. Dal 1858 il controllo<br />
politico e commerciale passò direttamente alla<br />
Corona britannica, e la Regina Vittoria, che aveva imparato<br />
l’hindu ma non mise mai piede nell’immenso<br />
paese, ne divenne imperatrice nel 1877. <strong>La</strong> mostra, che<br />
espone duecentocinquanta oggetti per la maggior parte<br />
mai arrivati prima in Europa, si apre con la rappresentazione<br />
di una processione regale indiana, che comprende<br />
il modello di un elefante a grandezza naturale,<br />
tutto ingioiellato, con sul dorso una antica portantina<br />
d’argento lavorato: lungo il percorso si incontrano il trono<br />
d’oro del maharaja Ranjit Singh, le armature cesellate<br />
del sultano del Mysore, il palanchino di seta da viaggio<br />
proveniente dal Jodhpur per portare la moglie del<br />
maharaja, l’incredibile tappeto di perle, rubini e diamanti,<br />
che nel 1903 venne utilizzato per un fastoso ricevimento<br />
dal maharaja di Baroda.<br />
Ma molti dei sovrani che nei primi decenni del<br />
secolo scorso sembravano interessati solo ai<br />
bauli di Vuitton o ai mobili déco di Ruhlmann,<br />
in realtà adulando gli inglesi appoggiavano<br />
la rivoluzione pacifica di<br />
Gandhi e si prodigavano per l’indipendenza<br />
che di fatto fu conquistata<br />
nel 1947. I viceré inglesi disprezzavano<br />
quei maharaja, hindu, e quei nababbi,<br />
musulmani, che si consolavano della<br />
sudditanza con lo sfarzo delle loro vite.<br />
Parevano, come diceva Lord Curzon,<br />
delle marionette, e tale pare in fotografia<br />
Sayajirao Garkwad III di Baroda,<br />
con una vestina di seta ricoperta di<br />
gioielli e il turbante pure ingioiellato<br />
con a lato un fiocco di fili di perle.<br />
Eppure fu lui che nel 1911, davanti<br />
a Giorgio V e alla regina Mary, rifiutò<br />
di inchinarsi e di retrocedere<br />
senza voltarsi. Assieme alla moglie<br />
Chimnabai rese la scuola obbligatoria,<br />
costruì ospedali, biblioteche, ferrovie,<br />
impianti di irrigazione, e per<br />
pagare tutto questo fece fondere i cannoni<br />
d’argento e vendette pezzi del<br />
famoso tappeto di perle. Grande<br />
fautore dell’indipendenza dell’India,<br />
lo fu anche dei diritti<br />
delle donne, proibendo la<br />
poligamia e le spose bambine,<br />
mandando le ra-<br />
FUCILE<br />
Un fucile Toredar,<br />
offerto alla East<br />
India Company<br />
dal Maharaja<br />
di Marwar, metà<br />
Diciannovesimo<br />
secolo: acciaio,<br />
legno e oro<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45<br />
REVERSO<br />
Due orologi<br />
“reverso”<br />
degli anni Trenta<br />
Jaeger-LeCoultre<br />
in acciaio e oro;<br />
nell’immagine<br />
grande,<br />
un acquerello<br />
raffigurante<br />
il maharaja<br />
Amar Singh I<br />
di Mewar<br />
che si sottomette<br />
al principe<br />
Khurram<br />
Nella pagina<br />
a sinistra, ritratto<br />
del maharaja<br />
Krishnaraja<br />
di Mysore<br />
gazze a studiare a<br />
Cambridge e inserendole<br />
nel parlamento.<br />
Il voto fu concesso<br />
alle donne indiane<br />
nel 1935, undici<br />
anni prima che alle<br />
italiane.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
SPETTACOLI<br />
Sfrontata, smodata, battagliera,<br />
pronta a dare tutto sul palco,<br />
la più trasgressiva rocker italiana<br />
sta cambiando pelle al giro dei suoi cinquant’anni: più saggia,<br />
matura, disponibile al sorriso e alle melodie d’amore<br />
Ora un libro di fotografie e testi accompagna questa<br />
metamorfosi che il pubblico ha già mostrato di gradire<br />
Ricomincio<br />
da me<br />
Gianna<br />
GINO CASTALDO<br />
Se volessimo trovare il momento preciso in<br />
cui è iniziata la seconda (seconda, terza o ennesima<br />
se preferite) vita di Gianna Nannini,<br />
dovremmo ritornare al febbraio del 2006. In<br />
quei giorni nelle radio si cominciò a sentire<br />
Sei nell’anima, un pezzo di quelli che non la-<br />
certe sbavature di tono erano diventate in qualche modo<br />
proverbiali, giustificate dall’irruenza, dalla voglia di dare<br />
tutto, a volte anche troppo, a prezzo di concerti sempre<br />
al limite dello svenimento, ora il canto era più sicuro, più<br />
rotondo, rabbioso come di consueto, ma più controllato.<br />
Se prima a ogni esibizione sembrava dover per forza gettare<br />
il cuore oltre l’ostacolo, ora si avvertiva una inedita<br />
saggezza, una gestione attenta e ben dosata. Ascoltando<br />
sciano scampo, un pugno melodico che riportava il no- bene si percepiva perfino un’estensione maggiore, prome<br />
di Gianna al primo posto della classifica dopo sedici piziata dalla maturità e da un rinnovato studio di canto.<br />
anni. Pubblico al tappeto, nuova partita, quattrocento- Da allora non ne ha sbagliata una. Due enormi sucmila<br />
copie andate via in poco tempo (cifra notevole nei cessi radiofonici, Attimo e Maledetto Ciao, la grande hit<br />
IN LIBRERIA<br />
bollettini del nuovo millennio), disco più venduto del- dell’estate — dal doppio platino Giannadream-Solo i so-<br />
Gianna Nannini<br />
l’anno e soprattutto, numeri a parte, un’aria nuova, una gni sono veri”, e il tour a cui ha dovuto raddoppiare le da-<br />
Stati d’anima<br />
pienezza dei sensi, una pacificata disponibilità al sorrite dei concerti di Roma (30 e 31 ottobre) e Milano (13 e 14<br />
(Bompiani, 424 pagine, so, alla melodia d’amore, che l’inquieta cantautrice non novembre). Il periodo felice continua e lei sembra sem-<br />
29 euro) è un libro mostrava da molto tempo, se mai l’aveva mostrata fino pre più stabilmente padrona del suo successo. Non che<br />
di testi e immagini in fondo. A quel punto era vicina a compiere i cin- fosse mai del tutto scomparsa, il suo nome tornava sem-<br />
che contiene pensieri quant’anni, il centro avanzato della vita, la data che simpre, sotto forma delle Notti magiche cantate con Edoar-<br />
della Nannini (alcuni bolicamente segnala la maturità. Ma si può associare do Bennato per i mondiali di calcio del 1990, o in un pro-<br />
raccolti nella pagina questa idea di maturità alla più scarmigliata delle nostre vocatorio concerto per Greenpeace improvvisato di for-<br />
accanto), un racconto voci femminili? Difficile, ma non impossibile.<br />
za a Roma sui balconi di palazzo Farnese, dove lei sem-<br />
di Edoado Nesi<br />
Se poi si andava a vederla in concerto, si scopriva un albrava una furiosa Erinni, e poi dischi, riscoperte, versio-<br />
con il progetto visivo tro elemento nuovo. Al di là di ogni ragionevole dubbio, ni acustiche, autobiografie. Ma una potenza di fuoco del<br />
di Alberto Bettinetti cantava meglio. Se prima aveva puntato tutto sul tempe- genere non si avvertiva almeno dai tempi di Fotoroman-<br />
In libreria il 7 ottobre ramento e non certo sulla finezza vocale, al punto che za (1984) che già aveva rappresentato un ritorno trion-<br />
fale sulle scene italiane dopo qualche anno di<br />
infatuazione con l’Europa del nord, Germania<br />
in testa, propiziata dal manager svizzero<br />
Peter Zumsteg e dal produttore Connie<br />
Plank.<br />
<strong>La</strong> Gianna, ragazza di buona famiglia senese,<br />
ribelle per indole, scarmigliata ed eccessiva, poco avvezza<br />
alle convenzioni della scena italica, si è sempre<br />
sentita in fondo una cittadina del mondo. Non dimentichiamo<br />
che il suo primo album di successo, California,<br />
portava in copertina una statua della libertà con in mano<br />
un vibratore a stelle e strisce. A molti fece uno strano<br />
effetto perché a quel tempo le trasgressioni erano accettate<br />
sì, ma preferibilmente dagli uomini. Una donna così<br />
sfrontata metteva in imbarazzo, anche quando in<br />
quello stesso disco cantava «lui allunga la mano e si tocca<br />
l’America», urlando come una forsennata. E in imbarazzo<br />
aveva messo anche il padre, comprensibilmente<br />
se consideriamo che il signor Nannini era un noto e rispettabile<br />
industriale della città e per di più presidente<br />
del Siena calcio. Ci fu un inevitabile conflitto, risolto negli<br />
ultimi anni, al punto che nel 2006, nel disco del<br />
trionfo, significativamente intitolato Grazie, aveva inserito<br />
un pezzo, Babbino caro, per l’appunto dedicato al<br />
padre, scomparso poi l’anno seguente.<br />
Dunque era per così dire naturale che l’indomita fanciulla<br />
cercasse comprensione altrove, in paesi meno<br />
pruriginosi del nostro. Dove poter essere rock, smodata,<br />
sudata, donna, urlatrice, battagliera. In fondo un cliché<br />
che, a ben analizzare la sua carriera, regge fino a un certo<br />
punto. In passato ha interpretato Brecht, si è laureata<br />
con una tesi sulle relazioni tra corpo e gestualità, sull’esempio<br />
di Janis Joplin e dei canti etnici. E alla sua appartenenza<br />
non ha mai rinunciato, a cominciare dalla parlata<br />
senese (è nata nella contrada dell’Oca), da una sincerità<br />
maliziosa e sboccata che è tutta toscana, e anzi negli<br />
ultimi anni ha sempre più decisamente riscoperto le<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
CHITARRA<br />
In alto, foto<br />
di classe<br />
alle elementari<br />
(Archivio<br />
GNG Musica)<br />
A destra, Gianna<br />
a sedici anni<br />
(Galliano<br />
Passerini)<br />
e tre copertine<br />
dei suoi dischi<br />
sue radici musicali, canti tradizionali, ottave in rima, e su<br />
questo verseggiare ci ha scritto addirittura un’opera, Pia<br />
de’ Tolomei, eroina senese uccisa in Maremma, simbolo<br />
della sofferenza e dell’ingiustizia subita dalle donne.<br />
In fondo, sembra il ritratto di una combattente, di<br />
un’intellettuale da trincea, di una poetessa testa calda,<br />
ma che non disdegna affatto, quando le capita, una melodia<br />
capace di viaggiare sull’onda del sentimento popolare.<br />
Può essere un amore che è «una camera a gas»,<br />
TERZA LICEO<br />
I disegni di queste pagine sono illustrazioni del diario<br />
di Gianna Nannini in terza liceo scientifico (Archivio<br />
GNG Musica). A sinistra, Gianna da bambina (Archivio<br />
GNG Musica). Nell’altra pagina, la Nannini Live<br />
at Shepherds Bush Empire, Londra 2007<br />
(Foto Gerald Jenkins)<br />
può essere la civetteria di Bello e impossibile, o l’esplosione<br />
solare e contagiosa di Sei nell’anima. Ma è anche<br />
vero che la maturità porta consiglio. Questa idea comincia<br />
a starle addosso, non è più rifiutata a priori per congenita<br />
ribalderia. Sembra quasi che ci goda ad apparire<br />
più assennata. Lo sguardo si è fatto più consapevole, lungimirante.<br />
L’ennesima rinascita si sviluppa nel segno della stabilità.<br />
Anzi, si può dire che alla prova dei fatti anche nel<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47<br />
Perché noi si è<br />
come ci pare<br />
GIANNA NANNINI<br />
Che feste che girotondi che risate con le<br />
bambine raccolte per il mio compleanno.<br />
Una torta per Gianna, regalo<br />
costante del mio papà, si perché ai regali veri<br />
e propri ci pensa la mamma. Vestitini... poi,<br />
io con questi vestitini alla marinara ci faccio<br />
sempre la pizza.<br />
Ma se non ci fosse stata Anna, mia zia<br />
della Maremma, come avrei fatto ad andare<br />
a cantare: a Certaldo, a Massarosa, a<br />
Viareggio, per esibirmi voce e chitarra.<br />
Lei che di nascosto mi invitava a casa sua<br />
a dormire così la sera potevo cantare nei<br />
locali. Tredicianni vergine e scalmanata:<br />
il miì babbo si incazza.<br />
«Venga qua, ieri sera ha portato la<br />
mia figliola... guardi io non voglio che<br />
lei la porti in quei postacci a cantare!».<br />
«Ma perché se le piace...».<br />
«Non ce la deve portare più».<br />
«No io ce la porto. Le piace, perché<br />
non la devo fare cantare».<br />
«Non voglio che...».<br />
Voleva che io stessi nell’azienda,<br />
non voleva che io<br />
prendessi questa strada. «E<br />
invece», dice ora la mia zia al<br />
telefono «s’è come ci pare» eh<br />
eh... «e andava via tutto torto...<br />
camminava a gobboni smanettava<br />
e andava via a capo basso».<br />
Grazie Zia Anna.<br />
***<br />
Le meraviglie si trovano solo in fondo<br />
al mare, quando ti immergi, perché<br />
inizi un viaggio che non sai dove<br />
ti porta. Non sai mai dove ti porta il<br />
mare.<br />
***<br />
Sogno e mi immergo in altre<br />
dimensioni esistenti, chissà<br />
quante ce ne sono? È come essere<br />
su una radio frequenza, e se<br />
cambi stazioni sei su un’altra<br />
onda, ma la radio che sentivi prima<br />
e che ora non senti, esiste ancora.<br />
Passo attraverso lo specchio,<br />
per raggiungere la meraviglia, un<br />
luogo dove mi va di svanire o trasformarmi...<br />
***<br />
«Che divento il tuo piccolo gigante, nell’aria<br />
sei un diamante, nell’aria a piedi nudi.<br />
Sogno che entra il mare in questo bosco di<br />
frattali ed io conosco i funghi e tu raccogli i<br />
fondi.<br />
Ci sarà qualcosa nei tuoi occhi viola,<br />
ci sarà qualcosa nella vita per cui valga la<br />
pena».<br />
(© 2009 Rcs Libri Spa / Bompiani)<br />
rock, arte per eccellenza attribuita alla intemperanza<br />
giovanile, i cinquant’anni possano essere un’età perfetta.<br />
E Gianna Nannini ne è un esempio lampante. I fatti lo<br />
dimostrano. Di giovani capaci di scalzare la vecchia generazione<br />
non se ne vedono molti, e non è detto che anche<br />
questo fattore non stimoli, come dire, un certo senso<br />
di responsabilità. Rinascere è bello e dopo i cinquanta<br />
il sapore può essere ancora più inebriante.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
i sapori<br />
Autunno a tavola<br />
Risotto funghi e fichi<br />
Chicco Cerea (Da Vittorio, Brusaporto,<br />
Bergamo) abbina profumi e consistenze:<br />
la croccantezza mantecata del risotto<br />
allo zafferano, la morbida dolcezza<br />
del carpaccio di fichi e la fragranza dei finferli<br />
LICIA GRANELLO<br />
Spuntano come funghi, si dice. E in effetti funziona<br />
così: il giorno prima, il bosco sembra orfano dei<br />
suoi piccolissimi puff colorati di arancio e marrone,<br />
e il giorno dopo è tutto un fiorire di prataioli,<br />
porcini&co. <strong>La</strong> stagione, cominciata al rallentatore,<br />
promette molto bene, per la gioia di chi pratica<br />
la cucina fungaiola con approccio adorante. Perché è il concetto<br />
stesso di fungo a pretendere che ci si schieri: democratici<br />
ma al limite del tossico, suadenti ma traditori, esserne affascinati<br />
o detestarli può essere una questione di pochi bocconi.<br />
Comunque, chi li ama, li ama davvero. E li aspetta, spesso tenendo<br />
a portata di mano scarponcini e cesto di vimini. Composto<br />
di raccoglitori coscienziosi e golosi senza ansia di gite<br />
campagnole, l’eden dei buongustai autunnali riesce tanto più<br />
godurioso se si è coscienti che le cappelle fritte o grigliate rappresentano<br />
sì la parte più glamour, ma sicuramente anche<br />
quella minoritaria, nel panorama della gastronomia porcina<br />
(e non solo).<br />
Certo, pochi alimenti come il fungo sanno essere protagonisti<br />
eleganti e carnali nei piatti monodedicati. Esempi di a-solo<br />
come gli ovuli crudi in insalata o i porcini spadellati<br />
fanno rabbrividire gli adepti di piacere. Ma non c’è<br />
cuoco che di fronte alla Grande Sfida — utilizzarli così,<br />
come natura li ha creati, o inserirli nel vivo di una<br />
ricetta — scelga la prima opzione e non si getti anima<br />
e mestoli anche nella seconda.<br />
Perché i funghi — senza competizioni e classifiche<br />
di forme e varietà, se non quelle dettate dal proprio<br />
palato — sanno essere protagonisti indimenticabili,<br />
ma anche eccellenti comprimari, ingredienti insoliti<br />
e preziosi di mille preparazioni diverse, pronti a stupire,<br />
veri jolly gourmand da spendere in cucina.<br />
Questione di feeling fungaiolo. A un passo dalla superstar<br />
boletus e dai magnifici reali, non si può ignorare l’allegra brigata<br />
di funghi e funghetti pronti a stupire, a partire da orecchiette<br />
e chiodini. A vederli così, sembrano nulla, eppure — se<br />
di prima scelta, il fungo non ammette ammaccature né vecchiezza<br />
— hanno la straordinaria capacità di cambiare faccia<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>La</strong> stagione, partita al ralenti, ora promette molto bene<br />
e garantisce ai gourmet un’ampia gamma di piatti golosi<br />
Perché pochi alimenti come questi piccoli regali del bosco<br />
sanno essere protagonisti assoluti e insieme eccellenti<br />
comprimari. Ma attenzione, la regola per ottenere il meglio<br />
è comunque fissa: mano leggera e preparazioni veloci<br />
Millimetro di polenta ai funghi<br />
Alfredo Russo (Dolce Stil Novo, Reggia<br />
di Venaria Reale, Torino), stende nel piatto<br />
una spuma di toma di <strong>La</strong>nzo. Sopra, crema<br />
di chiodini, finferli stufati e porcini arrostiti<br />
Copertura con polenta affettata finissima<br />
Jolly da giocare<br />
Funghi<br />
in cento ricette<br />
a un piatto.<br />
Le regole sono poche, e vanno rigorosamente rispettate: una<br />
volta accertato che siano felicemente commestibili — mai sopravvalutare<br />
la propria abilità nel riconoscerli — richiedono<br />
mano leggera e preparazioni veloci. Guai a lavaggi prolungati<br />
e a cotture insensate, sì a spadellate che li lasciano croccanti e<br />
‘‘<br />
profumati, risotti dove tocchetti e lamelle riescono consisten- Italo Calvino<br />
ti e aromatici sotto i denti, fritti dove l’impanatura corrobori in- Un giorno, sulla striscia<br />
vece di appiattire e banalizzare.<br />
I più bravi tra i fornelli si spingono più in là, trasformando i d’aiola d’un corso cittadino,<br />
protagonisti di cento ricette in incredibili correttori di sapore.<br />
Li spadellano con un filo di extravergine profumato d’aglio, li capitò chissà donde<br />
frullano e voilà, la magia è in tavola: in un sugo, una crema di una ventata di spore,<br />
verdure, una carne brasata, un minestrone, stuzzicano, armonizzano,<br />
esaltano.<br />
e ci germinarono dei funghi<br />
Se grembiule e tagliere vi riescono estranei, basta dispiega- Nessuno se ne accorse tranne<br />
re la mappa dello stivale e puntare la matita: dalla Val d’Aosta<br />
alle isole, non c’è regione dove manchi un’orgogliosa tradizio- il manovale Marcovaldo<br />
ne fungaiola. E che il fritto misto sia con voi.<br />
Da Marcovaldo<br />
Trippa di baccalà ai funghi<br />
Valeria Piccini (Da Caino, Montemerano,<br />
Grosseto) compone un piatto succulento<br />
con la trippa lessata, tagliata a listarelle,<br />
avvolta nella pancetta e spadellata<br />
Servita con finferli saltati e cipollotti<br />
L’appuntamento<br />
Appuntamenti sparsi per celebrare<br />
i funghi. Oggi, festa del porcino a Valle<br />
del Bagnone, nel cuore della Lunigiana<br />
Nel prossimo fine settimana, ancora porcini<br />
in passerella a Casale di Pari, Grosseto, mentre<br />
nell’ultimo weekend del mese, golosi e cercatori<br />
si ritroveranno a Mammola, Reggio Calabria<br />
Negli stessi giorni, a Dello, Brescia, mercato<br />
in piazza e degustazioni dei chiodini con la polenta<br />
Medaglie ai finferli<br />
Marcello Leoni (Locanda del Sole, Trebbo<br />
sul Reno, Bologna), elabora delle soffici<br />
medaglie di acqua di pomodoro, impreziosite<br />
dai finferli e da un piccolo sarago. Completa<br />
il piatto una salsa al formaggio squacquerone<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
itinerari<br />
Agata Parisella<br />
è la valente chef<br />
di “Agata<br />
e Romeo”,<br />
storico ristorante<br />
d’autore a pochi<br />
passi dalla stazione<br />
Termini, a Roma<br />
Tra i suoi antipasti<br />
più appetitosi, la mousse<br />
di porcini e chiodini<br />
con pane tostato<br />
Almè (Bg)<br />
I funghi sono ingrediente<br />
principe della cucina<br />
autunnale in tutta l’area<br />
bergamasca. Paolo Frosio<br />
usa i porcini locali per farcire<br />
il coniglio disossato, servito<br />
con polenta allo strachitunt<br />
(antenato del gorgonzola)<br />
DOVE DORMIRE<br />
BUONGUSTO B&B<br />
Via Mayr 3, località Mozzo<br />
Tel. 035-618824<br />
Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
FROSIO<br />
Piazza Lemine 1<br />
Tel. 035-541633<br />
Chiuso merc. e giov. a pranzo menù da 40 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
ORTOFRUTTA LE PRIMIZIE<br />
Via Masone 1, Bergamo<br />
Tel. 035-249318<br />
Risotto<br />
Cento varianti per il primo piatto<br />
che accetta anche i funghi secchi,<br />
messi a bagno in acqua tiepida<br />
o brodo vegetale<br />
(si filtra prima dell’uso in cottura)<br />
Il risotto va mantecato<br />
con burro e parmigiano<br />
Sasso Marconi (Bo)<br />
I boschi dell’Appennino toscoemiliano<br />
sono ricchissimi<br />
di funghi. Mille le ricette<br />
sfiziose dei migliori chef locali<br />
Aurora Mazzucchelli serve<br />
gli scampi crudi in un lieve<br />
brodo di funghi<br />
con cagliata affumicata<br />
DOVE DORMIRE<br />
LOCANDA DEL CASTELLO<br />
Palazzo de' Rossi<br />
Tel. 051-6781172<br />
Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
MARCONI<br />
Via Porrettana 291<br />
Tel. 051-846216<br />
Chiuso domenica sera e lunedì menù da 50 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
ORTOFRUTTA FOGLI<br />
Via dello Sport 1/b<br />
Tel. 051-841364<br />
Brasato<br />
Cottura lenta e morbidissima<br />
per il taglio di manzo<br />
(noce, scamone) rosolato<br />
con verdure e irrorato di vino<br />
Funghi aggiunti dopo metà<br />
cottura. Salsa da tirare prima<br />
di bagnare le fette<br />
Pappardelle<br />
Sugo bianco (extravergine<br />
e profumo d’aglio) per la pasta<br />
fresca e porosa, da spadellare<br />
dopo breve bollitura. Rifinitura<br />
con parmigiano, pepe fresco<br />
e una manciata di prezzemolo<br />
tagliato finissimo<br />
Orvieto (Tr)<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49<br />
<strong>La</strong> regina delle città slow<br />
è al centro di una campagna<br />
dove regnano olio, funghi<br />
e vino. Nel menù<br />
di Giangiacomo Blesio,<br />
un’ottima zuppa di funghi<br />
e patate profumata al tartufo<br />
nero di Norcia<br />
DOVE DORMIRE<br />
ALBERGO FILIPPESCHI<br />
Via Filippeschi 19<br />
Tel. 0763-343275<br />
Camera doppia da 95 euro, colazione esclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
AL SAN GIOVENALE<br />
Piazza San Giovenale 6<br />
Tel. 0763-340641<br />
Chiuso lunedì, menù da 25 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
I SAPORI DELL’UMBRIA<br />
Corso Cavour 119<br />
Tel. 0763-342076<br />
Polenta<br />
Il piatto-culto della cucina<br />
di montagna associa la farina<br />
di mais (fine o grossa, bianca<br />
o gialla, cottura morbida o soda,<br />
con burro o formaggi)<br />
ai funghi trifolati, in umido<br />
o mantecati con panna<br />
Meglio crudo o cotto?<br />
Querelle sul porcino<br />
CARLO PETRINI<br />
Appartengo alla generazione che poteva andare in<br />
cerca di funghi in maniera libera e incondizionata,<br />
e l’ho fatto parecchio, con gioia e soddisfazione<br />
sia nel trovare, sia nel mangiare. Tuttavia con gli anni ho<br />
smesso, perché una certa massificazione del fenomeno e<br />
l’imperizia di molti che raccolgono come se pescassero<br />
con unAa rete a strascico ha reso necessarie limitazioni e<br />
regolamenti sacrosanti: i funghi sono gli spazzini del bosco,<br />
la loro presenza è fondamentale per mantenere vivo<br />
l’humus e il fragile ecosistema in cui sono inseriti.<br />
Ricordo quella piccola ansia che si provava al ritorno a<br />
casa durante le prime spedizioni. Con il tempo e con l’esperienza<br />
l’occhio si affina e diventa più facile riconoscere<br />
le varietà commestibili, ma all’inizio qualche dubbio<br />
restava sempre. Il fido verduriere sotto casa era la nostra<br />
garanzia contro le intossicazioni e gli avvelenamenti:<br />
vagliava la cavagna (il cesto) e devo dire che in fondo<br />
eravamo bravi, perché capitava raramente di buttare via<br />
qualcosa.<br />
Tuttavia anche molti funghi commestibili mantengono<br />
un certo grado di tossicità e lo sa bene chi ha avuto problemi<br />
di fegato: un altro motivo per cui ho dovuto rinunciare<br />
quasi del tutto al piacere di mangiarli e soprattutto<br />
crudi, come nel caso degli ovuli. In stagione era un piacere<br />
indimenticabile un’insalata di ovuli reali al Belvedere<br />
di <strong>La</strong> Morra, quando alla guida del ristorante c’era il<br />
mio amico Gian Bovio. A volte nell’insalata Bovio ci metteva<br />
anche dei porcini crudi, e qui si sarebbe potuto aprire<br />
un dibattito infinito con un altro grande della ristorazione<br />
piemontese, Renato Dominici del mitico Le Carmagnole,<br />
acceso sostenitore del fatto che i porcini vanno<br />
rigorosamente consumati cotti.<br />
<strong>La</strong> mia amica torinese Enza Cavallero, storica, micologa,<br />
ampelografa e scrittrice, mi ha detto come sia curioso<br />
che il gusto di certi funghi mortali, come la famigerata<br />
amanita falloide, sia delizioso esattamente come quello<br />
degli ovuli che mi servivano al Belvedere. Però sarei curioso<br />
di sapere come hanno fatto a scoprirlo.<br />
È un mondo immenso quello dei funghi, non ancora<br />
del tutto compreso dall’uomo, che si sviluppa tra ecologia<br />
e gastronomia, con in mezzo un po’ di tutto: ce ne sono<br />
alcuni, come l’amanita muscaria (quello con la cappella<br />
rossa puntinata di bianco) che a seconda del terreno<br />
e delle caratteristiche ambientali possono diventare<br />
commestibili, tossici o addirittura allucinogeni. Ma non<br />
sono consigliabili rischiosi esperimenti gastronomicopsichedelici:<br />
niente a che vedere con il peyote messicano,<br />
la rituale “carne degli dei”, ma sicuramente qualcosa<br />
di più simile alla segale cornuta che, oltre ad aver fatto milioni<br />
morti in passato, è responsabile anche di molte allucinazioni<br />
che colsero le povere donne poi bollate e giustiziate<br />
come streghe.<br />
Meglio godere tranquillamente di un piatto di morilles<br />
(le spugnole) nel Giura francese: senza dubbio i migliori<br />
funghi che abbia mai mangiato e dei quali conservo<br />
il miglior ricordo.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
le tendenze<br />
Anniversari<br />
SEDIA COLOMBO<br />
È stata la prima sedia<br />
prodotta utilizzando un solo<br />
stampo. L’ha ideata Joe<br />
Colombo con geniali incavi<br />
per impilarle senza fatica<br />
ENRICO REGAZZONI<br />
VICO MAGISTRETTI<br />
Architetto urbanista e uno tra i primi<br />
designer. Tra i suoi lavori più famosi,<br />
la lampada Atollo e la sedia Selene<br />
Diceva per esprimere<br />
la sua concezione: “Le rotaie<br />
del tram sono design”<br />
SPREMIAGRUMI<br />
Coloratissimo, un perno<br />
centrale e taglienti<br />
zigrinature. Così, nel 1957,<br />
Gino Colombini ha cambiato<br />
il look degli elettrodomestici<br />
Riflessioni sulla plastica, sfogliando il<br />
catalogo per i sessant’anni della Kartell<br />
insieme a Michele De Lucchi, architetto<br />
e designer tra i più sensibili<br />
al rapporto tra forme e materiali. E<br />
subito una domanda, che forse è “la”<br />
domanda: che fine ha fatto la scommessa della plastica,<br />
che doveva sfondare il mercato al centro, con<br />
ottimo design e bassi costi di un’economia di scala?<br />
E che invece oggi vive in due mondi lontanissimi<br />
fra loro, quello anonimo dell’usa e getta e quello<br />
superfirmato di oggetti glamour non proprio a<br />
buon mercato?<br />
«Se la scommessa è stata perduta, non lo è stata<br />
così drasticamente», risponde De Lucchi, con la<br />
speciale gentilezza dei suoi modi. «Cosa ci ha dato<br />
la plastica? Prima di tutto la plasticità. Che non è<br />
tanto il materiale, ma l’idea delle sue forme: lavorando<br />
il legno, il marmo, il vetro, la forma morbida<br />
era difficile da raggiungere. <strong>La</strong> plastica ha liberato<br />
tutto questo, consentendo forme più antropometriche,<br />
avvolgenti, e anche ergonomiche. Un materiale<br />
che ha sempre avuto bisogno di farsi vedere<br />
GNOMI<br />
Si chiamano Attila,<br />
Napoleon e Saint-<br />
Esprit. Sono i tre<br />
sgabelli tavolino<br />
ideati da Philippe<br />
Starck. Sono pensati<br />
come piani<br />
di appoggio<br />
o come semplici<br />
sgabelli. Adatti<br />
a ogni ambiente<br />
RONAN E ERWAN BOUROULLEC<br />
Francesi e fratelli ma soprattutto giovanissimi<br />
Il loro design, semplice ma non minimalista,<br />
è fatto di colore e poesia. Nati nel 1971 e nel 1976,<br />
le loro creazioni fanno parte delle collezioni<br />
permanenti del Centre Georges Pompidou<br />
e del Museum of Modern Art di New York<br />
FERRUCCIO LAVIANI<br />
Ha realizzato il concept del museo<br />
di Kartell, premiato in tutto il mondo<br />
come uno dei migliori musei aziendali<br />
Nato a Cremona, ha collaborato<br />
e collabora con marchi<br />
come Foscarini e Flos<br />
ALZAIMMONDIZIE<br />
Ha rivoluzionato il modo<br />
di raccogliere la spazzatura<br />
Grazie alla retroflessione<br />
il manico è più agevole<br />
È tra gli oggetti più venduti<br />
COMPONIBILI<br />
Gli elementi componibili<br />
di Anna Castelli Ferrieri<br />
hanno arredato bagni<br />
e cucine ma anche<br />
camere da letto e salotti<br />
come novità: e la novità era nel coraggio di pensare<br />
a stampi sempre più complessi, che hanno condotto<br />
quel materiale a esiti incredibili».<br />
Nella lettura di De Lucchi, la plastica emerge dalla<br />
sua storia come una vera musa del design, più che<br />
un semplice materiale. Una storia anche molto<br />
concreta, dove a ogni conquista tecnologica corrispondono<br />
nuove possibilità espressive. «<strong>La</strong> radio<br />
disegnata da Castiglioni per Brionvega era bellissima,<br />
ma presentava delle rotondità un po’ timide,<br />
dettate da motivi tecnici. <strong>La</strong> forma plastica tradizionale,<br />
proprio per la difficoltà di estrazione dallo<br />
stampo, doveva infatti avere delle svasature e delle<br />
conicità di sformo che erano orribili, e difficilissime<br />
da evitare. Disegnare le macchine dell’Olivetti<br />
era sempre una sfida a mascherare le conicità. Sottsass,<br />
per esempio, aveva lavorato moltissimo sulla<br />
Valentina per ridurre l’“aspetto carrozzeria” della<br />
carrozzeria. Fare belle scatole di plastica era un’impresa:<br />
ci riusciva solo George Sowden, e noi ci chiedevamo<br />
come facesse». Tema cruciale, all’epoca,<br />
era quello del giunto. E qui si ricorda la soluzione<br />
forte proposta da Enzo Mari nella sua zuccheriera<br />
per Danese: senza giunto, appunto.<br />
«Quando si fanno delle forme di plastica, c’è<br />
Quando il design incontrò il suo amore di plastica<br />
PATRICIA URQUIOLA<br />
Ha portato un tocco di femminilità<br />
nel mondo del design. E inventato<br />
una nuova idea del soggiorno<br />
Per lei i mobili si possono spostare<br />
e mescolare, l’importante è stare<br />
insieme, e starci comodi<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
a cura di IRENE MARIA SCALISE<br />
TAKE<br />
Icona classica dell’abat-jour<br />
da comodino rivista<br />
da Ferruccio <strong>La</strong>viani. Grazie<br />
a una plissettatura interna,<br />
crea un gioco di riflessi<br />
PHILIPPE STARCK<br />
Ha nobilitato la plastica<br />
e si è guadagnato il titolo di più grande<br />
designer vivente. Geniale autodidatta,<br />
si considera paladino del design<br />
democratico. Per alcuni è un "divo",<br />
per altri un replicante<br />
LOUIS GHOST<br />
Disegnata da Philippe Starck<br />
nel 2002, è stata prodotta<br />
anche piccola, a misura<br />
di bambino. Indistruttibile<br />
e perfettamente ergonomica<br />
sempre una riga nel punto in cui i giunti si separano.<br />
Il primo che ha pensato di utilizzare questa riga,<br />
che è un vero limite, è stato Starck, che in un tavolo<br />
della Kartell, lavorando sullo stampo, l’ha trasformata<br />
in onde: bellissimo. Starck è bravo, e con<br />
la sua disinibizione sa introdurre nel mondo della<br />
plastica forme antiche, magari banali, che rifatte<br />
con la perfezione di questo materiale diventano<br />
belle. Ecco un’altra caratteristica: è perfetta. <strong>La</strong> plastica<br />
imperfetta viene buttata via. Guardi questa<br />
sedia, è così lucida che sembra un legno laccato da<br />
un artigiano giapponese. Solo che se lo fosse costerebbe<br />
moltissimo. Fin dagli inizi la Kartell di Giulio<br />
Castelli ha lavorato perché la plastica fosse sempre<br />
più bella. Pensi alle trasparenze delle nuove plastiche:<br />
da lontano puoi scambiarle per vetro. Infine,<br />
l’introduzione del superdimensionato, che è di pochi<br />
anni fa. Una volta non si potevano fare grandi<br />
stampi, perché erano molto costosi e richiedevano<br />
troppa potenza di iniezione. Oggi, con le tecniche<br />
rotazionali, si possono produrre oggetti molto<br />
grandi, come questi divani. E si aprono nuove possibilità<br />
formali».<br />
Perfezione del superlucido, nuova trasparenza,<br />
grandi formati. E i difetti? «Uno, soprattutto: che ri-<br />
PIERO LISSONI<br />
Ha fatto dell’astrazione il suo biglietto<br />
da visita, ricercando nelle linee pure<br />
le chiavi per concepire gli spazi<br />
Autentico maestro di stile, non ama<br />
definirsi un semplice designer,<br />
semmai un architetto<br />
CENERENTOLA<br />
Nella versione in plastica<br />
trasparente le Glue Cinderella<br />
ricordano la scarpina<br />
di Cenerentola. Prodotte<br />
con Normaluisa<br />
spetto a tutti gli altri materiali la plastica invecchia<br />
male. <strong>La</strong> bachelite di una volta, che era un tipo di<br />
plastica non polimerizzata, invecchiava bene.<br />
Quella odierna, no. Sono curioso di vedere cosa<br />
succederà con il corian, la nuova plastica in fogli<br />
che si taglia e si leviga come il legno. Si tratta di un<br />
materiale bello e costoso, con cui si fanno mobili.<br />
Al Museo del Design tutti gli elementi espositivi fatti<br />
da Citterio sono in corian. Potrebbe essere un<br />
materiale che invecchia bene».<br />
Nella sua lotta contro le rughe, la plastica è dunque<br />
costretta a sceneggiare un eterno presente. Per<br />
questo c’è un’aria ostentatamente preziosa, e fin<br />
glamour, in questo catalogo Kartell, che sfida la<br />
percezione comune di un materiale venale e difficilmente<br />
riciclabile. Ma perché nessuno investe<br />
idee e denaro nel design dell’usa e getta? Qualche<br />
decennio fa, Joe Colombo disegnava le posate di<br />
plastica dell’Alitalia, e oggi? «Oggi ci sono degli<br />
esperimenti interessanti, e anche dei successi, con<br />
le plastiche ecologiche. Plastiche non ricavate dal<br />
petrolio ma dal mais o dal riso, che si decompongono<br />
in un anno e non lasciano scorie. <strong>La</strong> più nota<br />
è il mater b: una mia collaboratrice, Daniela Danzi,<br />
ha messo su un’azienda che si chiama Pandora De-<br />
T-TABLE<br />
Una linea di piccoli tavoli,<br />
simili a un centrino di pizzo<br />
con vuoti e pieni alternati<br />
È nata dalla creatività<br />
di Patricia Urquiola<br />
ANTONIO CITTERIO<br />
Nel 1999 fonda la "Antonio Citterio<br />
and Partners", studio multidisciplinare<br />
di progettazione per l'architettura<br />
Ha realizzato alberghi, complessi<br />
residenziali e commerciali,<br />
stabilimenti industriali<br />
sign e fa oggetti per il catering proprio in mater b.<br />
Con il suo Moscardino, un cucchiaio-forchetta, ha<br />
vinto il Compasso d’oro. Buttandolo via, dopo l’uso,<br />
non pensi di inquinare, ma di concimare». Lodevoli<br />
avanguardie, ma al momento il design di<br />
massa resta orientato su altri materiali. Lo spremiagrumi,<br />
che anni fa fu di plastica, è tornato a essere<br />
di vetro; il raccatta-immondizie è in alluminio;<br />
e lo scolapiatti lo compri in legno, all’Ikea.<br />
«È un po’ come il tema dell’energia: nessuno è<br />
più convinto che ci sarà un’unica alternativa al petrolio.<br />
Useremo energia solare, eolica, geologica, e<br />
magari quella delle correnti sottomarine. <strong>La</strong> plastica<br />
si è dovuta costruire un suo spazio in un mondo<br />
in cui arrivano tanti materiali diversi. Il nuovo legno,<br />
ad esempio, non è più quello degli artigiani<br />
medievali: è compensato, medium density, impiallacciature<br />
sempre più sottili… Per non dire dell’alluminio,<br />
che ha lo straordinario vantaggio di<br />
poter essere rigenerato. E poi il vetro, il marmo, materiali<br />
che continuano a evolversi. Con le nuove lavorazioni<br />
oggi si ottengono piastrelle in marmo<br />
bellissime, e che costano poco perché fatte a macchina.<br />
Tante possibilità materiche, insomma, che<br />
BOOKWORM<br />
Ha scandalizzato il mondo<br />
degli amanti delle librerie<br />
classiche e poi li ha fatti<br />
innamorare. È il serpente<br />
da muro firmato Ron Arad<br />
ANNA CASTELLI FERRIERI<br />
È stata l’ispiratrice<br />
delle sperimentazioni del marchio<br />
Kartell, fondato dal marito Giulio<br />
Castelli. Regina della plastica,<br />
l’ha trasformata e plasmata<br />
con tecnologie all’avanguardia<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51<br />
queste. Ecco perché fa bene Claudio Luti, oggi al timone<br />
della Kartell, a seguire questa strada, visto<br />
che la plastica non deve competere con la povera<br />
plastica, ma con il grande legno, il grande vetro, il<br />
grande alluminio. Ed è anche corretto che chieda<br />
ai suoi prodotti di lottare contro il tempo assorbendo<br />
il massimo della contemporaneità, al limite<br />
della stravaganza».<br />
Dalla sua la plastica ha il vantaggio di quei colori<br />
forti, impattanti e mai volgari, che le valsero un posto<br />
in prima fila ai tempi dell’insurrezione di<br />
Memphis (cui prese parte lo stesso De Lucchi) contro<br />
i rigori del moderno. «Il nostro obiettivo era<br />
quello di rompere con le convenzioni, e mostrare<br />
che il design era il miglior testimone del nostro tempo.<br />
Così scegliemmo i laminati plastici per le decorazioni,<br />
per affermare con forza che l’ornamento<br />
non è delitto, come sosteneva Loos». Prima ancora,<br />
però, quegli stessi colori avevano animato la nostra<br />
vita domestica proprio grazie alla Kartell. Una sedia<br />
rossa, un comodino giallo, un secchio blu. «Castelli<br />
aveva intuito che con la plastica poteva rendere<br />
belli gli oggetti banali. Fu la sua mossa vincente. E,<br />
in questo senso, fu il primo a scoprire il design».<br />
vogliono liberare il pianeta. E la plastica è una di © RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Mari, Magistretti, Starck, Urquiola: sono solo alcuni dei creativi<br />
che dal 1949 a oggi hanno lavorato per l’azienda che ha rivoluzionato<br />
il look del nostro arredamento e animato la nostra vita domestica<br />
E ancora adesso, al tempo dei materiali ecologicamente corretti,<br />
la sfida resta la stessa: rendere belli gli oggetti più banali<br />
LAMPADA TERRA<br />
<strong>La</strong> lampada da terra<br />
disegnata da Marco Zanuso<br />
nel 1961 ha illuminato<br />
gli ambienti con eleganza<br />
Base e cielo simmetrici<br />
RON ARAD<br />
Per primo ha modellato l’acciaio<br />
temperato in nuove forme<br />
Originale, innovativo e coraggioso,<br />
la sua creatività influenza l’evoluzione<br />
del design. Per Kartell ha disegnato<br />
icone come la sedia Fpe<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2009<br />
l’incontro<br />
Premi Oscar<br />
Il grande regista, premiato<br />
per il suo cinema “viaggiante”,<br />
racconta tutti i suoi “altrove”:<br />
il “marchio a fuoco” della prima visita<br />
in Oriente; la Cina<br />
Bernardo Bertolucci de “L’ultimo imperatore”;<br />
il Marocco di Bowles<br />
e del “Tè nel deserto”<br />
“Il viaggio – spiega –<br />
può avere una misura<br />
terrificante e tragica<br />
e il viaggiatore, a differenza<br />
del turista, non torna a casa<br />
calamitato dal fascino dell’ignoto”<br />
STEFANO MALATESTA<br />
ROMA<br />
Qualche giorno fa ero seduto<br />
sul divano nella casa romana<br />
di Bernardo Bertolucci,<br />
ascoltando il regista che<br />
con voce soave diceva che da ragazzo, e<br />
anche da grandicello, non era mai stato<br />
un viaggiatore. «Non erano viaggiatori<br />
mio padre e mia madre, non lo ero io. Ho<br />
letto da qualche parte, in uno dei libri di<br />
Paul Bowles, che la differenza tra il turista<br />
e il viaggiatore sta nel ritorno a casa. Il<br />
turista arriva sul posto, ma dopo qualche<br />
tempo sente lo stimolo della nostalgia e<br />
si affretta a riprendere la strada del paesello<br />
natio. Il viaggiatore, invece, vuole<br />
andare avanti e sempre più avanti, perché<br />
il fascino dell’ignoto è più forte del ricordo<br />
della home».<br />
«Conosco bene Parigi, una città che<br />
quelli nati, come me, a Parma considerano<br />
la loro capitale, e alcuni miei film sono<br />
stati girati tra i magnifici caffè all’aperto,<br />
le brasserie, le uscite della metropolitana,<br />
i viali alberati e i piccoli alberghi<br />
incantevoli e un po’ sudici. <strong>La</strong> prima volta<br />
che ci sono andato avevo diciannove<br />
anni e il viaggio era un premio per aver<br />
passato la maturità. Guidavo una Cinquecento,<br />
ero in compagnia di mio cugino<br />
Giovanni e allora — ma anche adesso<br />
— questa trasferta da Parma a Parigi aveva<br />
assunto le dimensioni di un’impresa<br />
epica, paragonabile a un canto omerico.<br />
Da allora sono tornato un’infinità di volte<br />
in questa città avendo sempre la sensazione<br />
di essere finito in un luogo remoto.<br />
Eppure, quando passeggio per Rue du<br />
Bac o lungo il Boulevard Saint-Germain,<br />
riconosco anche le pietre e potrei indicare<br />
quali sono le brasserie dove vendono i<br />
migliori croissant».<br />
Non vedevo Bernardo da qualche anno,<br />
da quando ci eravamo trovati in due<br />
casali confinanti in un angolo splendido<br />
della Val d’Orcia. <strong>La</strong> sera, se l’elegante e<br />
bella padrona di casa di cui ero ospite acconsentiva<br />
a trasformarsi in una cuoca<br />
provetta, si cenava insieme, con sua moglie<br />
Claire e qualcuno dei suoi collaboratori,<br />
che costituivano una piccola e allegra<br />
corte. Le conversazioni spaziavano<br />
fino ai consueti brevi cenni sull’universo,<br />
anche se non ricordo che si parlasse<br />
di viaggi. E avevo dato per acquisito che<br />
uno della cultura del regista — con moglie<br />
inglese, con aiutanti poliglotti, intimo<br />
amico di Alberto Moravia e di Pier<br />
Paolo Pasolini, che adorava Conrad e<br />
che avrebbe voluto girare un film sulla<br />
Shanghai del 1927 ululante di rivoluzionari<br />
professionisti e di aristocratiche<br />
russe bianche in fuga dal regime sovietico<br />
che servivano molto scollate nei locali<br />
notturni — non poteva che essere stato<br />
un grande viaggiatore.<br />
Ma quel giorno in casa sua mi accorsi<br />
che una certa perplessità, molto simile<br />
allo sgomento, trapelava dalla faccia di<br />
chi mi aveva accompagnato da Bertolucci.<br />
<strong>La</strong> Società Geografica Italiana gli aveva<br />
appena conferito il premio alla carriera<br />
“<strong>La</strong> Navicella d’Oro” per il suo cinema<br />
viaggiante, diciamo così, e noi eravamo lì<br />
esattamente perché illustrasse tutte le<br />
sue trasferte in modo da arricchirle con<br />
particolari eccitanti o spiritosi e con coloriture<br />
che solo lui era in grado di dare.<br />
Ed ora Bernardo stava spiegando che il<br />
suo viaggio preferito, da ragazzo, era stato<br />
quello intorno a una sedia o a una stanza.<br />
E si era messo a ripetere che sapeva assai<br />
poco della letteratura di viaggio, che<br />
confondeva gli autori e che, in fondo, non<br />
era poi molto interessato.<br />
Poi aggiunse: «Ma certo con Conrad<br />
uno si accorge che il viaggio può avere<br />
una dimensione terrificante, anche tragica».<br />
Era l’occasione che stavo aspettando.<br />
Sullo scrittore polacco l’intervista<br />
poteva essere raddrizzata e chiesi a Bernardo<br />
se, leggendo Lord Jim, aveva capito<br />
nelle prime trenta pagine del libro cosa<br />
stesse veramente succedendo. Lui rispose<br />
che Conrad scriveva in inglese ma<br />
il suo genere letterario rispondeva a misteriosi<br />
itinerari barocchi molto polacchi<br />
e molto più complicati e oscuri di<br />
quelli che avrebbe seguito un anglosassone.<br />
Lord Jimera stato pensato come la<br />
tragedia dell’inadeguatezza — il protagonista<br />
era un capitano incapace di affrontare<br />
situazioni d’emergenza — ma<br />
tutto era detto in modo indiretto, attraverso<br />
volute e passaggi tenebrosi che facevano<br />
l’originalità del testo.<br />
Finalmente avevo ritrovato il viaggiatore.<br />
Nel 1973 sua moglie Claire riesce a<br />
convincerlo a partire per un glorioso<br />
viaggio in Estremo Oriente: Singapore,<br />
Bali, Bangkok e poi anche Katmandu, in<br />
Nepal. «Erano contrade non ancora<br />
contagiate dal turismo di massa. Lì ho<br />
scoperto che viaggiare mi piaceva moltissimo.<br />
È stata un’esperienza simile a<br />
quella che si prova entrando per la prima<br />
volta nel deserto e che i francesi hanno<br />
chiamato le bapteme de la solitude. O<br />
fuggivi via e non tornavi mai più o venivi<br />
affascinato da quelle lande desolate. Il<br />
viaggio s’impresse su di me con la forza<br />
di un imprint,quello di cui parla il famoso<br />
etologo Lorenz: un marchio a fuoco<br />
che rimane per sempre. Qualche tempo<br />
dopo, a metà degli anni Ottanta fu la volta<br />
della Cina, dove andai con i due sceneggiatori<br />
del film L’ultimo imperatore.<br />
Questo primo viaggio fu sconvolgente.<br />
Mi innamorai dei cinesi, di quello che vedevo.<br />
Prima di partire avevo incontrato<br />
Michelangelo Antonioni il regista che<br />
aveva girato Chunkuo, il primo grande<br />
documentario occidentale sulla Cina<br />
chiusa ancora agli stranieri. Le riprese<br />
non erano molto piaciute ai cinesi e Antonioni<br />
fu messo all’indice, insieme alla<br />
musica di Beethoven e alle opere di Confucio.<br />
Antonioni era molto orgoglioso di<br />
quella illustre compagnia e si congedò<br />
con una battuta di cui mi sarei ricordato<br />
solo più tardi: «<strong>La</strong> Cina più la conosci e<br />
Conosco bene Parigi,<br />
ci sono tornato<br />
infinite volte. Eppure,<br />
quando ci cammino,<br />
ho sempre<br />
la sensazione<br />
di essere finito<br />
in un luogo remoto<br />
FOTO GRAZIA NERI<br />
meno la capisci».<br />
«Ma all’inizio a Pechino ero tutto preso<br />
dalla mia nuova esperienza e facevo a<br />
tutti le stesse domande: se sapevano<br />
qualcosa del “Figlio del cielo” che era diventato<br />
giardiniere all’Orto botanico di<br />
Pechino, e che cosa gli avevano fatto, come<br />
si erano comportati durante la Rivoluzione<br />
culturale. Andando a cena con<br />
dei giovani registi poteva succedere che<br />
le nostre conversazioni si trasformassero<br />
di colpo in una serie di psicodrammi,<br />
con pianti e mea culpa recitati senza ritegno.<br />
Il regista di Addio mia concubina<br />
raccontò che a quindici anni era una fanatica<br />
Guardia rossa che aveva denunciato<br />
suo padre, capo dell’associazione<br />
dei registi cinesi».<br />
«Per il film ho girato molto non solo in<br />
Cina ma anche in Manciuria, dove l’ultimo<br />
imperatore era stato incoronato per<br />
la seconda volta dai giapponesi, come<br />
fantoccio. Al museo di Chan Chi mi è capitato<br />
di vedere una piccola decorazione<br />
che riuniva il simbolo di quattro paesi: il<br />
fascio, la svastica, il sol levante, l’orchidea<br />
del Manchukuo. Alcune scene sono<br />
ambientate nelle sale deco del Centro<br />
sperimentale di cinematografia, nella<br />
periferia romana, più manciuriane di<br />
quelle vere. Non ho mai amato girare nei<br />
teatri di posa come faceva Kubrick, ho<br />
sempre scelto non di copiare dal vero ma<br />
di inventare dal vero. Fellini ha girato a<br />
Ostia tutte le scene de I Vitelloniche si dovrebbero<br />
svolgere a Rimini, e che sembrano<br />
più reali e credibili di quelle vere».<br />
«Ai cinesi avevo proposto non una, ma<br />
due pellicole, e avevo anche fatto tradurre<br />
la sceneggiatura della seconda, tratta<br />
da <strong>La</strong> condition humaine di Malraux.<br />
Malraux, oltre ad avere un indubbio genio<br />
che si mostrava solo a tratti, presentava<br />
una personalità a più facce: era un<br />
fenomenale raccontatore di balle e da<br />
giovane era stato arrestato per aver portato<br />
via alcune sculture da Angkor Wat.<br />
Ma era riuscito a incantare una quantità<br />
di uomini illustri tra cui Charles De Gaulle.<br />
E il libro, anche se ondeggiava in qualche<br />
contraddizione, descriveva in maniera<br />
impareggiabile la rivolta del ‘27 dei<br />
giovani comunisti di Shanghai. <strong>La</strong> rivolta<br />
era stata schiacciata dalle truppe del<br />
Kuomintang guidate da Chang Kaishek,<br />
ma prima di essere fucilati i capi rivoluzionari,<br />
tutti giovani molto attraenti<br />
per ingegno e coraggio, avevano fatto<br />
in tempo a farsi ammirare e a diventare<br />
un mito per tutta la sinistra europea occidentale.<br />
Ma i dirigenti cinesi non avevano<br />
nessuna voglia di mettere in discussione<br />
o più semplicemente di mettere<br />
mano alla storia ufficiale e il film naturalmente<br />
non si fece».<br />
Parlammo successivamente del Nord<br />
Africa e di Paul Bowles ed eravamo d’accordo<br />
sul fatto che abitava in uno dei posti<br />
più squallidi e tristi che avessimo mai<br />
visto. Ma, quando io avevo chiesto allo<br />
scrittore perché non fosse andato a abitare<br />
nella più confortevole Medina, lui<br />
era diventato di colpo gelido: «Alla Medina<br />
ci abitano gli antiquari svizzeri».<br />
Bernardo si mise a ridere: «In effetti Paul<br />
era un tremendo snob, un dandy come<br />
se ne incontravano solo negli anni Trenta.<br />
Sempre curato nella persona e nei vestiti<br />
come se stesse in un ufficio di New<br />
York. E tu eri andato a sfruculiarlo su un<br />
tema delicato. Era arrivato in Europa al<br />
seguito di Harold Copland e poi era andato<br />
a stabilirsi a Tangeri su consiglio di<br />
Gertrude Stein. Si era sposato con una<br />
scrittrice dotata e fino a un certo punto il<br />
matrimonio funzionò: lui aveva sposato<br />
una lesbica per liberarsi delle donne e lei<br />
un omosessuale per liberarsi degli uomini».<br />
Nel suo film Il tè nel deserto Bernardo<br />
era riuscito a cogliere con esattezza<br />
le chiavi di lettura del libro di Bowles:<br />
inaudite atrocità svolte in luoghi dove<br />
non esisteva nessuna possibilità di aiuto<br />
e dove la pietà era sconosciuta, raccontate<br />
in modo impersonale, quasi freddo,<br />
da anatomo-patologo.<br />
L’intervista a Bernardo era stata preparata<br />
come sostitutiva della sua presenza<br />
al Festival della Letteratura di<br />
Viaggio. Il regista non usciva quasi più di<br />
casa e ci aveva dato poche speranze di<br />
vederlo alla premiazione al Palazzo delle<br />
Esposizioni. Poi quella sera vidi qualcuno<br />
che entrava nella sala affollata e<br />
buia e si sistemava sotto al palcoscenico.<br />
Dopo pochi secondi la luce si accese e gli<br />
spettatori si trovarono di fronte Bertolucci<br />
seduto su una sedia a rotelle, piuttosto<br />
emozionato. Ci fu un attimo di totale<br />
silenzio, poi tutti si alzarono battendo<br />
le mani. Non per una standing ovation,<br />
ma per un affettuosissimo, sentito<br />
e anche commovente ringraziamento.<br />
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