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Figli maestri - La Repubblica

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Domenica<br />

<strong>La</strong><br />

DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

Hu hasei anni, fa la prima elementare in una bella<br />

scuola pubblica in un bel quartiere del centro,<br />

è nato a Roma. I suoi genitori, che nel loro<br />

ristorante stanno in cucina e non servono ai tavoli,<br />

non parlano italiano. Hu tifa Totti, va a<br />

scuola in maglia giallorossa e quando si arrabbia<br />

dice «vamorìammazzato».<br />

Al primo incontro organizzato fra genitori e insegnanti, a<br />

scuola, è arrivato anche lui. Interprete. Tutto il tempo a bisbigliare<br />

nell’orecchio alla mamma. Il direttore didattico si è<br />

intenerito, lo ha avvicinato: lo fai sempre? Sempre. Ora che<br />

la mamma aspetta un bambino l’accompagna anche dalla<br />

ginecologa. Data dell’ultima mestruazione, signora? lui traduce.<br />

Magari con un giro di parole, magari quel vocabolo<br />

esatto in cinese non lo sa. Forse sì, invece: lo sa. I piccoli <strong>maestri</strong><br />

non hanno l’età dell’anagrafe, hanno quella che serve per<br />

vivere.<br />

<strong>La</strong> lingua, prima di tutto. Tutto quel che è nuovo arriva prima<br />

ai bambini e passa da loro. È da loro che i genitori imparano,<br />

quando hanno il tempo di ascoltarli, i nomi dei capi dei<br />

Gormiti, i più recenti eroi dei loro nuovi giochi: non perdere<br />

Sommo luminescente, mi raccomando, se lo scambi deve<br />

essere almeno con Mistica falena.<br />

(segue nelle pagine successive)<br />

di <strong>Repubblica</strong><br />

<strong>Figli</strong><br />

<strong>maestri</strong><br />

CONCITA DE GREGORIO MARINO NIOLA<br />

Il telefono di casa si è ringiovanito di colpo. Un autentico<br />

lifting tecnologico ha cancellato miracolosamente<br />

quell’aspetto vecchio, pesante e tristanzuolo, da oggetto<br />

fatto solo per parlare e ascoltare. Roba ormai antidiluviana<br />

al confronto delle performance stellari di<br />

cui è capace il più economico dei telefonini. E allora,<br />

proprio come un genitore che teme di essere superato dai figli,<br />

l’apparecchio domestico si è rifatto. A immagine e somiglianza<br />

del cellulare. <strong>La</strong> telefonia fissa di ultima generazione<br />

offre, infatti, prestazioni giovanilissime in audio e in video.<br />

Sms, mms, videochiamate, oltre a una memoria prodigiosa<br />

e a un’infinità di altre funzioni.<br />

Si tratta di una evoluzione tecnologica, certo, ma non solo<br />

di questo. Gli oggetti non si limitano mai ad essere dei semplici<br />

oggetti. Le cose sono anche delle rappresentazioni. <strong>La</strong><br />

loro forma, la loro funzione riflettono sempre il carattere della<br />

società che le ha prodotte, i suoi sogni, i suoi desideri, le sue<br />

paure. Tutto materializzato in un semplice apparecchio telefonico.<br />

In questo senso la metamorfosi giovanilista del vecchio<br />

impianto domestico non è solo una innovazione, ma un<br />

segno dei tempi. È un chiaro esempio di quell’inversione della<br />

trasmissione della cultura che rappresenta la grande novità<br />

della condizione postmoderna.<br />

(segue nelle pagine successive)<br />

il fatto<br />

Il fotografo degli orrori khmer<br />

FEDERICO RAMPINI<br />

l’immagine<br />

Peggy Guggenheim, il libro degli ospiti<br />

EMANUELA AUDISIO<br />

Le tecnologie, certo,<br />

ma anche la lingua,<br />

il look, gli stili di vita<br />

Questa generazione<br />

è la prima che inverte<br />

il senso della cultura:<br />

non più dai vecchi<br />

ai giovani ma<br />

dai giovani ai vecchi<br />

la memoria<br />

Lee Miller, la donna dalle troppe vite<br />

NATALIA ASPESI<br />

cultura<br />

L’antica illusione di misurare l’infinito<br />

DANIELE DEL GIUDICE<br />

la lettura<br />

L’ultima guerra dei morti viventi<br />

MAX BROOKS<br />

l’incontro<br />

Jane Fonda: i due errori che non rifarei<br />

ALBERTO FLORES D’ARCAIS<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

ILLUSTRAZIONE DI ALTAN


32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

la copertina<br />

Piccoli <strong>maestri</strong><br />

CONCITA DE GREGORIO<br />

(segue dalla copertina)<br />

Si assiste a scene da film di<br />

Nanni Moretti fuori da scuola:<br />

madri analiste informatiche<br />

e padri bancari che sciorinano<br />

nomi inventati —<br />

Nobilmantis, Devilfenix —<br />

come dicessero astuccio e righello, poi<br />

si guardano complici. Quanti più nomi<br />

sai tanto più sei genitore attento: è una<br />

prova, difatti esibita con orgoglio.<br />

Se è nuovo il paese dove vivi sono i figli<br />

che ti insegnano a parlare. È stato così<br />

per gli italiani d’America, è così oggi<br />

per i cinesi e i peruviani d’Italia. Basta<br />

stare un’ora a una festa di compleanno<br />

di classe. Roger, come si dice moltissime<br />

grazie per questo bell’invito in italiano?<br />

Si dice solo grazie, mamma. E del<br />

resto siamo stati noi a insegnare ai nostri<br />

nonni che non si diceva più «la bolletta<br />

della Teti» perché era Sip, non Teti,<br />

il telefono. Siamo noi che diciamo<br />

«non ho più una lira» e ascoltiamo i ragazzi<br />

dire «sono senza un euro».<br />

Paura di quittare<br />

Sono stati i figli a sgomentarci con i<br />

loro clicca, quitta. Quitta? Sì papà quitta,<br />

esci, chiudi il programma. L’inglese<br />

lo imparano così, come noi lo abbiamo<br />

imparato dai dischi dei Beatles e dei<br />

Rolling Stones. I dischi, quei dischi tra<br />

l’altro non esistono più: il vinile è da<br />

collezione quando va bene, quando va<br />

male da scatolone in cantina.<br />

Le tecnologie, perciò. Il telefono<br />

senza fili poi Internet poi il satellite poi<br />

l’Ipod, le centraline in casa e sei telecomandi,<br />

ci sarebbe anche quello unico<br />

che li raduna tutti ma se si rompe si resta<br />

al buio di telegiornali e di Simpson,<br />

meglio un passo indietro, meglio non<br />

rischiare. I padri telefonano ai ragazzi<br />

in gita scolastica: scusa se ti disturbo<br />

ma come si fa ad uscire da “my memory”<br />

che vorrei vedere il dibattito sul<br />

Primo e qui si è impallato tutto? Non si<br />

è impallato, ovviamente, ci sono tre tasti<br />

da premere in sequenza e comunque<br />

non si chiama «il Primo» da un secolo,<br />

si dice RaiUno.<br />

Settanta in chat<br />

C’è traccia di questo scambio di conoscenze<br />

già in Nel nome del figlio,<br />

scritto ormai più di dieci anni fa a quattro<br />

mani da Massimo Ammanniti, celebre<br />

psicopatologo dell’età evolutiva,<br />

insieme con suo figlio Niccolò, oggi<br />

premio Strega e grandissimo esperto<br />

di videogiochi. Esperto, in una certa fase,<br />

ai limiti della dipendenza. Di videogames<br />

si può anche impazzire, come<br />

ormai persino la pubblicità avverte,<br />

ma poi è da certi videogiochi — quelli<br />

più evoluti, più “colti” — che i ragazzi<br />

imparano la storia antica, la geografia,<br />

i miti greci e le strategie di guerra giapponesi.<br />

Il sapere dei padri e il sapere<br />

dei figli: la lentezza dell’apprendimento<br />

faticoso, quello delle biblioteche,<br />

dei tomi dell’esperienza, e la velocità<br />

della conoscenza istantanea, quella<br />

effimera ma immediatamente gratificante<br />

del mouse.<br />

Anna Simoni è una signora di settant’anni,<br />

ha imparato a chattare l’anno<br />

scorso quando la figlia e il genero<br />

sono stati due mesi in Brasile per adottare<br />

un bambino. «Mi ha insegnato<br />

mio figlio minore, non è difficile e la<br />

prima volta è stato uno spavento. Urlavo<br />

e mio figlio mi diceva: mamma non<br />

devi parlare, devi scrivere. Tanto anche<br />

se urli non ti sente. Io però ho questo<br />

vizio, lo faccio anche al telefono:<br />

tanto più è lontana la persona con cui<br />

parlo tanto più alzo la voce. Ai miei<br />

tempi per parlare con uno lontano si<br />

doveva urlare, altro modo non c’era».<br />

Una volta erano gli adulti a trasmettere ai più giovani<br />

saperi, memoria, competenze. Oggi accade sempre<br />

più spesso il contrario: la cultura non è più soltanto<br />

discendente, dai genitori ai figli, ma in buona parte<br />

ascendente, dai figli ai genitori. Ecco un viaggio<br />

fra i tic, i vantaggi e gli svantaggi di questa nuova stagione<br />

<strong>Figli</strong> dei propri figli<br />

Di videogame si può<br />

anche impazzire<br />

Ma è dai videogame<br />

più “colti”<br />

che i ragazzi<br />

imparano la storia,<br />

i miti, la geografia<br />

Da una parte<br />

la lentezza<br />

dell’apprendimento<br />

faticoso, quello<br />

delle biblioteche<br />

e dell’esperienza<br />

Dall’altra la velocità<br />

della conoscenza<br />

istantanea, quella<br />

effimera ma efficace<br />

del mouse<br />

Ai miei tempi, ai nostri tempi. Ai nostri<br />

tempi centomila canzoni stanno in un<br />

oggetto grande come un francobollo e<br />

la strada per arrivare più in fretta in<br />

macchina te la dice il navigatore ma bisogna<br />

saperli usare, è ovvio: se no si accende<br />

l’autoradio e le indicazioni si<br />

chiedono ai passanti.<br />

È la prima generazione, la nostra,<br />

dove gli insegnanti hanno sedici anni e<br />

gli allievi cinquanta. Nei corsi della circoscrizione<br />

(o si dirà municipio, adesso?<br />

o di nuovo quartiere?) organizzati<br />

per imparare a usare la Rete, nei workshop<br />

avanzati delle aziende per aggiornare<br />

i dipendenti. Ragazzini, i docenti:<br />

studenti che arrotondano. Il Dipartimento<br />

sociale di uno dei più importati<br />

istituti bancari d’Europa, “<strong>La</strong><br />

Caixa”, organizza corsi di informatica<br />

per anziani: 421 “ciberaule” in 564 centri<br />

attrezzati distribuiti in tutta la Spagna.<br />

Trecentomila utenti, al momento:<br />

tutti sopra i sessanta. <strong>La</strong> pubblicità del<br />

corso passa continuamente in tv. Una<br />

coppia di anziani coniugi va in viaggio<br />

a Roma, a Parigi, a Venezia. Lui scatta<br />

una foto a lei che tiene la testa inclinata.<br />

Lei scatta la foto a lui con un braccio<br />

sollevato. Poi tornano a casa e si mettono<br />

al computer. Con “Photoshop”<br />

montano le due immagini, le scontornano,<br />

le incollano: nell’inquadratura<br />

finale marito e moglie si abbracciano<br />

felici.<br />

Amore in photoshop<br />

«Dare agli anziani la possibilità di<br />

maneggiare la nuove tecnologie non è<br />

solo un modo per rendere più ricca la<br />

loro vecchiaia, è un investimento», dice<br />

Xavier Molinas, trentenne, coordinatore<br />

di uno dei gruppi di volontari<br />

che lavorano al progetto. «Un investimento<br />

in senso stretto, economico: se<br />

le persone avanti con gli anni imparano<br />

ad usare una macchina fotografica<br />

digitale e scoprono quanto è più semplice<br />

per esempio non dover montare<br />

il rullino, non doverlo portare allo sviluppo<br />

e stampa, ecco che la comprano,<br />

quella nuova macchina, e poi comprano<br />

un computer dove scaricare le foto<br />

e un programma per gestirle. Un investimento<br />

sociale: dare un nuovo interesse<br />

muove energie altrimenti destinate<br />

a spegnersi, si traduce in maggiore<br />

capacità di interazione con il mondo<br />

esterno e dunque con maggiore autonomia,<br />

in minori costi per chi fa assistenza.<br />

Un anziano che sa usare<br />

Internet, è dimostrato, costa agli addetti<br />

all’assistenza sociale fino al quaranta<br />

per cento di meno». Un bel gesto<br />

e un risparmio. Un’opera buona e insieme<br />

redditizia: non sarà un caso se le<br />

banche ci investono.<br />

Scoperta del sitofono<br />

Francesco Cossiga, presidente emerito<br />

della <strong>Repubblica</strong>, ha l’Iphone e<br />

parla via Sitofono. L’interesse per le<br />

nuove tecnologie non l’ha avuto in dono<br />

dai figli ma dai servizi segreti, sua<br />

grande passione e per molti anni materia<br />

di lavoro. «Un giorno non molto<br />

tempo fa chiesi a uno dei massimi<br />

esperti di telecomunicazioni, l’inventore<br />

della carta prepagata, se sapesse<br />

indicarmi un sistema di comunicazione<br />

via computer non commerciale. Si<br />

meravigliò che non lo conoscessi visto<br />

che lo realizza un’azienda sarda. Ho<br />

scoperto che il presidente della società<br />

era stato un mio studente. Ho tutto sistemato<br />

sul computer, adesso: il sitofono<br />

inoltra le chiamate al mio centralino».<br />

Fantastico, un bel gioco davvero e<br />

però arriva anche il momento in cui del<br />

sapere tiranno dei figli — della modernità<br />

vera o presunta — si diventa schiavi.<br />

«Usare il procedimento di scrittura<br />

T9 sul telefonino mentre si invia una<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

mail dal palmare e contemporaneamente<br />

si è collegati all’Ipod può sembrare<br />

il massimo della connessione<br />

tecnologica ed è invece la nuova forma<br />

di schiavitù», dice Paolo <strong>La</strong>ndi, direttore<br />

della pubblicità Benetton e docente<br />

di marketing allo Iuav di Venezia.<br />

«Mi fa pensare alle tv libere degli<br />

anni Settanta. Si chiamavano libere<br />

perché facevano immaginare che saremmo<br />

stati tali, con più canali e più<br />

possibilità di scelta. Diventavamo<br />

schiavi, invece, di consumi di terza categoria:<br />

aste di tappeti e scioglipancia».<br />

Dopo il successo del suo libro sulla<br />

tv, Ricordati che è lei che guarda te,<br />

<strong>La</strong>ndi ha mandato ora in stampa il volume<br />

Impigliati nella Rete, Bompiani,<br />

veemente e documentato pamphlet<br />

contro la retorica del web. «Il gap digitale<br />

tra padri e figli ha connotazioni<br />

classiste: da un lato i figli che possiedono<br />

l’abilità tecnologica ma spesso<br />

solo quella. Dall’altro i padri meno<br />

competenti in mouse e tastiere ma in<br />

grado di discernere i contenuti. Il divario<br />

tecnologico separa sempre più chi<br />

conosce cento parole da chi ne conosce<br />

mille: tra chi sa e chi consuma. Una<br />

ricerca su Google ci dice che i ragazzi<br />

che passano quattro ore al giorno davanti<br />

allo schermo digitano sempre le<br />

stesse parole. Navigare in Rete è facilissimo<br />

ma se cerchi Divina commedia<br />

escono migliaia di pagine tra cui decine<br />

di ristoranti in Toscana. Devi sapere<br />

chi sia Gianfranco Contini per chiedere<br />

“Commedia-Contini”. Il web<br />

sembra dire tutto ma non dice come<br />

cercare, selezionare, filtrare».<br />

Velocità e lentezza<br />

<strong>La</strong> differenza fra conoscenza e consumo.<br />

In un certo senso quel che separa<br />

le generazioni: di qua la lentezza, la<br />

fatica, la responsabilità di scegliere e di<br />

là la velocità, l’eterno presente, il ma-<br />

Generazioni in testacoda<br />

(segue dalla copertina)<br />

Se una volta erano gli adulti a trasmettere ai più giovani<br />

saperi, esperienze, conoscenze, competenze,<br />

oggi avviene sempre più spesso il contrario. <strong>La</strong> cultura<br />

non è più esclusivamente discendente, dai genitori<br />

ai figli, ma è ormai in buona parte ascendente, dai figli<br />

ai genitori.<br />

Gli stili di vita, i modelli di comportamento, il look,<br />

l’abbigliamento, ma anche le etiche, i valori, i desideri<br />

hanno oggi un carattere giovanilista. E soprattutto ce<br />

l’ha la tecnologia, che di questo capovolgimento è al<br />

tempo stesso il motore e il simbolo. Non sono più i ragazzi<br />

ad imparare dai grandi, a imitarli per diventare come<br />

loro, per prenderne il posto. Sono gli adulti a imitare<br />

i giovani, per diventare come loro, per prenderne il<br />

posto. Forever young, per dirla con Bob Dylan.<br />

Il risultato di tutto questo è che gli adulti sembrano<br />

avere sempre meno da trasmettere e da insegnare ai loro<br />

figli, finendo in molti casi per annullare ogni distanza<br />

tra loro. Un mimetismo generalizzato che fa simili le<br />

generazioni, avvicinandole fino al cortocircuito. Basti<br />

pensare a come è ringiovanito il nostro modo di vestire.<br />

Indossiamo abitualmente tessuti elastici che una volta<br />

erano cose da bambini. O da sportivi, come scarpe da<br />

ginnastica, tute, bandane. Anche il piumino è risalito in<br />

questi anni da una generazione all’altra. Da emblema<br />

dei paninari, che a metà degli anni Ottanta furono i primi<br />

a usare in città un look da discesa libera, ha finito per<br />

spopolare. Adesso signore e signori che si rispettino<br />

hanno il loro bravo monclerino.<br />

Un altro esempio è l’sms. Partito come rituale di socializzazione<br />

adolescenziale, è diventato il modo più<br />

comune per comunicare, senza distinzioni di età. Lo<br />

stesso dicasi per l’Ipod di cui i nostri figli ci hanno svelato<br />

il mistero e fatto conoscere le straordinarie potenzialità.<br />

Una vera iniziazione alla rovescia, dunque, che passa<br />

soprattutto attraverso le nuove tecnologie. È la<br />

straordinaria naturalezza con la quale vivono la dimensione<br />

hi-tech, ad aver trasformato i più giovani, nei nostri<br />

iniziatori e <strong>maestri</strong>. E ad aver fatto diventare i padri<br />

«figli dei propri figli», come diceva il poeta Guillaume<br />

Apollinaire.<br />

<strong>La</strong> facilità e la velocità con cui i più piccoli si sono im-<br />

MARINO NIOLA<br />

VIGNETTE<br />

Le vignette di Altan riprodotte in queste pagine<br />

e nella copertina, dedicate al complesso rapporto<br />

tra genitori e figli, sono state pubblicate su <strong>Repubblica</strong><br />

tra il 2000 e il 2006<br />

padroniti della tecnologia, in maniera quasi istintiva, li<br />

ha proiettati, per la prima volta nella storia, più avanti<br />

dei loro genitori, spiazzando l’idea progressiva di un sapere<br />

cumulativo, da conquistare con sforzo attraverso<br />

tappe intermedie, frutto di una lunga maturazione formativa.<br />

Mentre un ragazzino che digita un sms ha una<br />

velocità, uno slancio vitale quasi irriflesso, istintuale,<br />

che sembra appartenere alla natura più che alla cultura.<br />

Oggi l’essenziale delle conoscenze i ragazzi lo acquisiscono<br />

alla velocità della luce, con la simultaneità, senza<br />

prima e senza poi, che è tipica dei flussi informatici.<br />

E se una volta la scuola con le sue discipline e la famiglia<br />

con le sue regole servivano ad ammaestrare e controllare<br />

questa energia vitale, oggi la tecnologia la asseconda,<br />

perché in realtà hanno entrambe lo stesso bioritmo.<br />

L’effetto è che le ultimissime generazioni si autoeducano,<br />

si autoistruiscono, resettano continuamente<br />

il loro immaginario aggiornando in tempo reale quei<br />

codici necessari a essere sempre in rete. Una rete che è<br />

al tempo stesso connessione informatica e umana,<br />

competenza e appartenenza, comunicazione e emozione,<br />

identità e scambio affettivo. In questo i ragazzi<br />

appaiono molto meno spaesati di quegli adulti che inseguono<br />

affannosamente i giovani, nello sforzo patetico<br />

di catturare la loro attenzione, di intercettare i loro<br />

valori, finendo invece per esserne catturati.<br />

Ragazzini che sembrano già grandi e cinquantenni<br />

adolescenti tutti insieme in un eterno presente che<br />

emerge dalle ceneri dell’idea progressiva del tempo e<br />

della storia. In questa immediatezza da zapping, dove i<br />

modelli culturali rimbalzano da una generazione all’altra,<br />

l’età ha smesso di essere quel timer che, fino a pochi<br />

decenni fa, scandiva inesorabilmente la vita delle persone,<br />

dall’infanzia alla giovinezza, dalla maturità alla<br />

nonnità. Quando a dodici anni si era troppo giovani per<br />

fare quel che facevano gli adulti e a quarant’anni troppo<br />

vecchi. Quando ogni età aveva la sua identità, il suo ruolo.<br />

Immobili, fissi, proprio com’era il posto di lavoro.<br />

Oggi lo scenario è totalmente cambiato. Mobilità e<br />

flessibilità, che sono le due forme profonde del nostro<br />

presente — dall’economia alle relazioni personali, dai<br />

sentimenti alle forme dell’immaginario — diventano<br />

mentalità collettiva. Un nuovo senso comune che impone<br />

giovinezza, leggerezza e novità, alle persone come<br />

alle cose. Ai genitori come ai telefoni.<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />

rasma del tutto insieme sempre. <strong>La</strong>ndi<br />

è stato infamato, sul web, per aver detto<br />

che «You Tube è una boiata pazzesca».<br />

Blogger scatenati. Eppure — sarà<br />

consolatorio e nostalgico, sarà premonitore<br />

e rivoluzionario — lo si starebbe<br />

ad ascoltare per ore. «Un video anche<br />

breve costa lavoro creativo: deve “meritare”<br />

in qualche modo di essere visto.<br />

Bisogna guardarsi dalla mitologia dei<br />

numeri: un milione di video su You Tube<br />

non vuol dire niente, il tuo video là<br />

dentro non è niente. Tu che ce l’hai<br />

messo non per questo sei qualcuno.<br />

Bisogna insegnare ai ragazzi che milioni<br />

di persone, milioni di contatti, milioni<br />

di video da soli non significano<br />

nulla: sono solo enfasi numerica. Ciò<br />

che qualifica un oggetto è il suo contenuto,<br />

non la sua frequenza. Conta cosa<br />

c’è dentro e dunque lì si torna: conta<br />

saper scegliere e imparare alla fine a<br />

usare il computer per quello che serve,<br />

come un microonde e un fax. Per conoscere<br />

il mondo bisogna viaggiare,<br />

stare seduti davanti a un mondo che<br />

sembra offrirsi a noi è un inganno degno<br />

delle peggiori dittature».<br />

Ruoli ribaltati<br />

Per il momento in quasi assoluta solitudine<br />

<strong>La</strong>ndi invita i padri-allievi ad<br />

affrancarsi dai figli-<strong>maestri</strong> e a riprendere<br />

invece il faticoso ruolo che la storia<br />

(familiare, biologica, sociale) assegna<br />

loro: insegnare, educare e a volte,<br />

quando necessario, diffidare dalla facilità.<br />

È una tesi molto impopolare e<br />

certamente minoritaria ma vale la pena<br />

di rifletterci un momento. Non per<br />

questo i figli, in specie quando sono<br />

molto piccoli, smetteranno di essere<br />

<strong>maestri</strong>. Di ascolto e di pazienza, di<br />

scansione dei tempi della vita. Di gerarchie,<br />

di priorità. Di parole e di gesti.<br />

Come si dice «ora devo andare» in italiano,<br />

amore mio? Si dice resta.<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

ILLUSTRAZIONI DI ALTAN


34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

il fatto<br />

Genocidi<br />

FEDERICO RAMPINI<br />

PHNOM PENH<br />

Èuna galleria di fotoritratti unica al mondo. Uno alla<br />

volta, migliaia di volti allineati scrutano l’obiettivo,<br />

impauriti, angosciati, o soltanto attoniti e disorientati.<br />

Tra loro ci sono anche ragazzi e bambine.<br />

Pochi istanti dopo quello scatto sarebbero finiti nelle camere<br />

di tortura per confessare crimini mai commessi. Poi li aspettava<br />

una morte certa: per i supplizi, o la fame, o le malattie. Sono<br />

le istantanee dei prigionieri di Tuol Sleng, il gulag cambogiano<br />

dove i khmer rossi dal 1975 al 1979 sterminarono diciassettemila<br />

prigionieri. Il genocidio fu progettato dal leader dei khmer<br />

rossi, Saloth Sar detto Pol Pot o anche Grande Zio o Primo Fratello,<br />

grazie alla protezione attiva del regime comunista cinese<br />

e alla cinica indifferenza degli americani. Sotto gli ordini di Pol<br />

Pot lavorò un piccolo esercito di aguzzini e carnefici, militanti<br />

fanatici oppure a loro volta disciplinati dal terrore. Uno di loro,<br />

Nhem En, è la persona che guardano tutti quei volti immortalati<br />

in bianco e nero. Per regolamento del carcere nessuno doveva<br />

sfuggire al suo apparecchio fotografico. Altre dittature responsabili<br />

di genocidi hanno tentato di cancellare le prove dell’orrore.<br />

I khmer rossi no. Nella maniacale meticolosità con cui<br />

venivano raccolti e catalogati quei ritratti dei condannati si indovina<br />

una cupa e indomabile certezza, l’orgoglio di una strage<br />

perpetrata in nome di un ideale, per costruire la società perfetta.<br />

Ci furono guardiani dei lager nazisti appassionati cultori di<br />

Mozart e Beethoven, altri che amavano teneramente gli animali.<br />

Il giovanissimo Nhem En aveva il culto della fotografia. Il<br />

mestiere lo apprese nella Cina di Mao dove i khmer rossi lo avevano<br />

mandato a studiare a sedici anni. L’apprendistato rivelò<br />

una vocazione. Il talento c’era: malgrado i mezzi tecnici rudimentali<br />

quei ritratti sono professionali, accurati, gelidamente<br />

oggettivi. <strong>La</strong> mano dell’artista s’indovina dietro lo stile omogeneo,<br />

la luce è sempre perfetta. I visi obbediscono a una fissità<br />

rituale, quasi che la posa venisse accettata come parte di una<br />

cerimonia. Solo gli occhi tradiscono lo smarrimento di quell’attimo:<br />

a Tuol Sleng si entrava ignorando il perché. Il genocidio<br />

di Pol Pot era stato programmato in tempi così rapidi che<br />

molti non ebbero sentore della fine che li aspettava.<br />

Il cambogiano Nhem En aveva poco più di sedici anni quando,<br />

un trentennio fa, il capo del gulag dei khmer rossi di Tuol Sleng<br />

gli ordinò di scattare ritratti di tutti i prigionieri appena arrestati<br />

Migliaia di innocenti che subito dopo sarebbero stati torturati<br />

Immagini che oggi servono come capo d’accusa contro<br />

gli aguzzini nel processo internazionale che si sta preparando<br />

Fototessere dell’orrore<br />

L’unico a sapere, in quel momento di attesa prima dell’orrore,<br />

era Nhem En. Il fotografo-ragazzino era al corrente di tutto.<br />

Di notte sentiva le urla strazianti dei torturati. Era certo che nessuno<br />

dei suoi ospiti sarebbe uscito vivo da quel carcere. Non<br />

disse mai nulla per non guastare la qualità dell’immagine. I volti<br />

non dovevano essere sfigurati da pianti o urli. Lo ha raccontato<br />

lui stesso. A quarantasette anni Nhem Em è uno dei testimoni<br />

che sfilano per le udienze preliminari davanti al tribunale<br />

internazionale che dovrà (forse) giudicare i pochi leader superstiti<br />

dei khmer rossi per i crimini contro l’umanità com-<br />

GENGIS KHAN<br />

E IL TESORO DEI MONGOLI<br />

20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008<br />

Main Sponsor<br />

Chinese Academy of International Culture<br />

Comune di Treviso - Fondazione Italia Cina<br />

Touring Club Italiano<br />

Organizzazione: Sigillum<br />

Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 - www.laviadellaseta.info<br />

Prenotazioni turistiche Tel. +39 0422 422891 - www.marcatreviso.it<br />

messi trent’anni fa. «Me li consegnavano con gli occhi ancora<br />

bendati — ha detto Nhem Em ai giudici — ed ero io a scoprirgli<br />

il viso. Non c’erano altri nella stanza, vedevano solo me. Molti<br />

mi assalivano con le domande: cosa ho fatto di male? perché<br />

sono qui? di cosa sono accusato? Io ignoravo le domande.<br />

Guarda dritto di fronte a te, dicevo. Non inclinare la faccia. Dovevo<br />

dargli tutte le istruzioni perché la foto riuscisse bene. Subito<br />

dopo sarebbero passati nella camera degli interrogatori. Il<br />

mio dovere di fotografo era riuscire a scattare alla perfezione<br />

quelle foto».<br />

Il suo capo era esigente: Kaing Geuk Eav, detto “Duch”, dirigeva<br />

il centro di tortura di Tuol Sleng con un’efficienza implacabile.<br />

«Se avessi perso una sola di quelle foto — ricorda Nhem<br />

En — sarei stato ucciso». L’ottantenne Duch è agli arresti in attesa<br />

del processo, che dovrebbe iniziare nel 2008, e la testimonianza<br />

di Nhem En è entrata nell’istruttoria. Il tribunale internazionale,<br />

che ancora dovrà superare molti ostacoli e boicottaggi<br />

occulti, è l’ultima chance per rendere alla Cambogia almeno<br />

la giustizia della memoria. Questo popolo martoriato<br />

continua a vedersi negata anche la verità storica. Alcuni dei<br />

suoi persecutori sono morti dopo una vecchiaia serena; altri<br />

sono vivi, potenti e rispettati. Grandi atrocità e piccole vigliaccherie<br />

sono rimaste sepolte finora sotto una coltre di omertà,<br />

con il beneplacito delle superpotenze cinese e americana.<br />

Né Phnom Penh, né Pechino, né Washington hanno veramente<br />

voglia di riaprire una pagina del passato così ripugnante.<br />

È il 17 aprile 1975, mentre in Cina si consumano gli ultimi<br />

bagliori della Rivoluzione culturale, quando le milizie dei khmer<br />

rossi dopo anni di guerriglia espugnano Phnom Penh e<br />

prendono il potere in Cambogia. Hanno l’appoggio decisivo di<br />

Mao Zedong. A raccogliere consensi tra la popolazione li ha<br />

aiutati la decisione degli Stati Uniti di estendere il conflitto del<br />

Vietnam bombardando a tappeto anche la Cambogia: 540mila<br />

tonnellate di esplosivi, un’offensiva illegale, una guerra mai<br />

dichiarata, voluta dall’allora segretario di Stato Henry Kissinger<br />

e avallata dal presidente Richard Nixon.<br />

Il leader dei khmer rossi Pol Pot è stato educato in una scuola<br />

di missionari francesi, poi ha studiato a Parigi: là lo hanno reclutato<br />

e indottrinato i comunisti francesi. È di intelligenza mediocre<br />

e ha scarsa preparazione culturale, due qualità “preziose”<br />

in una fase in cui il Pcf diffida degli intellettuali. Rientrato in<br />

Cambogia Pol Pot scopiazza slogan e fobìe della Rivoluzione<br />

culturale cinese, ripetendone le gesta in una versione perfino<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

FOTO REA CONTRASTO


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

più agghiacciante. Esalta le masse contadine e condanna gli<br />

abitanti delle città come borghesi depravati. Isola la Cambogia<br />

da ogni contatto con l’estero, chiude le scuole, gli ospedali e<br />

perfino le fabbriche, abolisce le banche e la moneta, confisca<br />

ogni proprietà privata. Vuole cancellare dalla mente dei cambogiani<br />

ogni traccia della civiltà, creare un “uomo nuovo”.<br />

Quel 17 aprile 1975, quando le milizie khmer entrano a Phnom<br />

Penh, ordinano lo sgombero immediato della capitale. All’inizio<br />

non rivelano le loro vere intenzioni. Ai cittadini annunciano<br />

che occorre spostarli solo di alcuni chilometri per proteggerli<br />

dai bombardamenti americani. Scatta in realtà una deportazione<br />

di massa, di dimensioni senza precedenti nella storia<br />

contemporanea. Le città vengono svuotate, la loro popolazione<br />

costretta a lavorare in comuni agricole. Si instaura un<br />

regime di lavori forzati. I turni di lavoro sono di dodici ore, le razioni<br />

alimentari da campo di concentramento. Sono arrestati,<br />

torturati e sterminati gli intellettuali, i professionisti, chiunque<br />

sia sospettato di avere avuto contatti con l’estero, le minoranze<br />

etniche vietnamite e islamiche, i monaci buddisti. Perfino l’istituto<br />

della famiglia è considerato contrario all’etica dell’“uomo<br />

nuovo”: i nuclei familiari vengono smembrati e sparpagliati,<br />

chi tenta di comunicare con un parente può essere condannato.<br />

Si riempiono così i killing fields, i famigerati campi della<br />

morte. Un liceo trasformato in centro di tortura è il gulag S-21:<br />

vi muoiono in duecentomila, gettati nelle fosse comuni. Il bilancio<br />

delle vittime non è mai stato appurato con precisione. Le<br />

stime variano da 1,7 milioni di morti secondo lo Yale Cambodian<br />

Genocide Project, a 3,3 milioni secondo i vietnamiti. Anche<br />

le stime più prudenti superano comunque un quinto della<br />

popolazione: in proporzione alla piccola nazione cambogiana<br />

(sette milioni di abitanti prima dell’arrivo dei khmer rossi), è un<br />

genocidio superiore a tutte le vittime di Hitler e Stalin.<br />

Il terrore di Pol Pot è durato “solo” tre anni otto mesi e venti<br />

giorni ma alcune zone del paese sono ancora un museo degli<br />

orrori a cielo aperto, dove i sopravvissuti coabitano con gli<br />

aguzzini, la gente dei villaggi traumatizzata ha perso il sonno<br />

perché teme le “incursioni degli spiriti” dalle terre dove giacciono<br />

sepolte montagne di ossa umane. Anche quelli che<br />

scamparono ai killing fields spesso subirono ferite incurabili<br />

nel corpo e nell’animo, le devastazioni psicologiche patite nei<br />

campi di rieducazione. Non c’è famiglia in Cambogia che non<br />

abbia perso qualcuno sotto le armi dei khmer rossi. Con un<br />

quarto di secolo di ritardo, nel gennaio 2001 il Parlamento di<br />

SEGNALETICHE<br />

Le immagini che illustrano queste pagine<br />

sono alcune tra le migliaia di foto<br />

segnaletiche scattate da Nhem En<br />

nel carcere-gulag di Tuol Sleng<br />

in Cambogia tra il 1975 e il 1979<br />

Phnom Penh ha varato una legge per stabilire il principio di un<br />

tribunale straordinario. Le Nazioni Unite ci hanno messo poi<br />

altri due anni e mezzo per adottare una risoluzione che definisse<br />

le regole del tribunale: la composizione mista (cambogiani<br />

e stranieri), le pene previste, la durata di tre anni, i finanziamenti<br />

da ripartire fra più paesi. Intanto Pol Pot è morto, solo<br />

una decina di ex leader dei khmer rossi ancora in vita sono<br />

passibili di incriminazione. «Nella Cambogia di oggi — ha detto<br />

Thomas Hammarberg che vi ha lavorato a lungo come rappresentante<br />

dell’Onu — il più grosso problema dei diritti uma-<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />

ni è l’impunità. Ci sono dei serial killer, degli sterminatori di<br />

massa che girano in tutta libertà, alcuni perfino trattati come<br />

dei Vip».<br />

Il premier Hun Sen, al potere da vent’anni, è un campione di<br />

ambiguità. Nel 1998 prese pubblicamente le distanze dall’idea<br />

del tribunale, bollandola come «il ritorno della guerra civile».<br />

Secondo lui la ricetta giusta è, letteralmente, «scavare un buco<br />

e seppellirci il passato». Che a lui convenga è comprensibile. Ex<br />

khmer rosso, Hun Sen è andato al potere stringendo un patto<br />

con i due più stretti collaboratori di Pol Pot, l’ex premier Khieu<br />

Sampan e Noun Chea. Quest’ultimo, ideologo dei khmer rossi,<br />

a ottantadue anni è stato arrestato il mese scorso e attende il<br />

processo insieme a Duch. Khieu Sampan potrebbe raggiungerli<br />

entro breve tempo. Ma intanto il governo di Phnom Penh<br />

lamenta la mancanza di fondi per portare avanti il processo. È<br />

fondato il sospetto che le autorità tentino nuove manovre dilatorie.<br />

<strong>La</strong> resa dei conti dà fastidio a molti.<br />

Il ritardo del tribunale chiama in causa anche responsabilità<br />

estere. <strong>La</strong> Cina è invisibile in questa vicenda, come se non la riguardasse.<br />

Pechino non ha voglia di veder rivangare le atrocità<br />

commesse dal suo ex vassallo Pol Pot. È un capitolo ignobile<br />

della politica estera di Mao a cui seguirono altre pagine buie:<br />

dopo che i khmer rossi vennero sconfitti e cacciati dall’intervento<br />

dei vietnamiti, Deng Xiaoping lanciò un’aggressione<br />

“punitiva” dell’esercito cinese contro il Vietnam. Seguirono gli<br />

anni dei boat-people, il periodo dei feroci regolamenti dei conti<br />

all’interno di ogni paese e fra regimi comunisti, che oltre ai<br />

milioni di morti costrinsero molti a cercare scampo in una disperata<br />

fuga via mare. Gli Stati Uniti hanno i loro scheletri nell’armadio:<br />

in base alla regola che «il nemico del mio nemico è<br />

mio amico», appena ritiratisi dal Vietnam cominciarono a sostenere<br />

clandestinamente i khmer rossi, perché erano una spina<br />

nel fianco dell’odiato regime di Hanoi.<br />

Nell’attesa del processo maledetto che forse non si farà mai,<br />

almeno le fotografie di Nhem En hanno un merito: danno un<br />

volto e un nome a tante vittime dimenticate. Ricordano gli ultimi<br />

sguardi impauriti degli innocenti che andarono al massacro.<br />

Ma non è di questo che Nhem En va orgoglioso. Felicemente<br />

riciclato come vicesindaco del suo villaggio, grazie alle<br />

complicità della nomenklatura ex comunista, il fotografo dei<br />

condannati ha parole di riguardo verso il suo capo di allora, il<br />

terribile Duch: «Mi stimava e mi apprezzava, perché sono preciso<br />

e organizzato. Per quelle foto mi regalò un Rolex».<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

FOTO EYEDEA<br />

FOTO MICHAEL FREEMAN/CORBIS


36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

l’immagine<br />

Souvenir<br />

Da Picasso a Montale, da Chagall a Rothko, tutti<br />

lasciarono un autografo e un disegno sulla risma di fogli<br />

bianchi rilegati a mano che la Guggenheim, ricchissima<br />

e geniale mecenate del Novecento, teneva nella sua casa<br />

veneziana. Presto queste curiosità saranno in mostra<br />

a Vercelli assieme a cinquanta capolavori<br />

Scarabocchi d’autore<br />

sul libro degli ospiti<br />

di Peggy la Musa<br />

EMANUELA AUDISIO<br />

Cortesie degli ospiti. Due righe<br />

appena, un disegno, un<br />

cavallo di Marino Marini,<br />

una gondola di Rothko,<br />

uno schizzo a matita di Giacometti.<br />

Et voilà, anche<br />

Cocteau. Prove d’artista, anzi d’avanguardia.<br />

E le firme (vere) di Yves Tanguy,<br />

Cocteau, Fernand Léger, De Chirico,<br />

Chagall, Picasso, Ernst, Dalí, Magritte,<br />

Tanguy, Miró, Leonor Fini, Man Ray,<br />

Carrington, Delvaux. Tutta gente che<br />

passava per un saluto, vitto e ospitalità,<br />

metti una sera a cena, appunto, e magari<br />

anche la luna di miele per Giacometti e la<br />

moglie Annette. C’era da tenere compagnia<br />

ai piccoli, a Baby, Cappuccino,<br />

Emily, Foglia, Hong Kong, madame Butterfly,<br />

Sable, Tory, White Angel, ai cani di<br />

Peggy. Per questo serviva il libro degli<br />

ospiti, rilegato a mano, a testimoniare arrivi<br />

e partenze, l’arte che s’inzuppava di<br />

vita e di amicizia. Commenti, ricordi,<br />

poesie, brani. Francobolli di creatività. È<br />

il fotografo Roloff Beny, che abitava a Roma,<br />

a firmare per primo il libro degli ospiti<br />

il 4 maggio1949. Poi attori, scrittori,<br />

musicisti, da Marlon Brando a Ian Fleming,<br />

da Eugenio Montale a Patricia Highsmith,<br />

dal futuro lord Snowdon a Igor<br />

Stravinsky. L’aristocrazia europea, perché<br />

quella locale era restia. Tutti da<br />

Peggy, ricca e collezionista, forte e decisa,<br />

che nel dicembre del ‘48 aveva acquistato<br />

per sessantamila dollari Palazzo Venier<br />

dei Leoni, un edifico incompiuto<br />

lungo il Canal Grande, tra la basilica di<br />

Santa Maria delle Salute e l’Accademia.<br />

Ci avevano abitato due inquiline famose:<br />

la marchesa Luisa Casati, “femme fatale”,<br />

musa di Gabriele D’Annunzio, nota<br />

per tenere in casa due scimmie dal collare<br />

tempestato di diamanti, e poi Diana<br />

Castelrosse, eccentrica viscontessa.<br />

Peggy ristrutturò gli interni, ridisegnò<br />

il giardino, dove fece installare un trono<br />

di granito su cui si faceva fotografare con<br />

i suoi animali. Da allora per i veneziani<br />

diventò la «dogaressa con i cani». Nella<br />

camera da letto, dipinta di turchese,<br />

espose la collezione di orecchini, ai lati<br />

della testiera di letto in argento commissionata<br />

ad Alexander Calder anche lo<br />

Studio per scimpanzè di Francis Bacon.<br />

Ci voleva altro per spaventare Peggy. Suo<br />

padre Benjamin lavorava nella ditta che<br />

installava gli ascensori sulla torre Eiffel e<br />

intanto approfittava di Parigi per tradire<br />

la moglie Florette e per perdere il denaro<br />

che gli era toccato, circa otto milioni di<br />

dollari. Morì nel naufragio del Titanic nel<br />

1912, dopo aver dato il proprio giubbotto<br />

di salvataggio e il posto in scialuppa all’amante<br />

che viaggiava con lui, e che nell’elenco<br />

dei passeggeri figurava come signora<br />

Guggenheim. Lui andò incontro al<br />

destino vestito da gentiluomo, in abito<br />

da sera.<br />

Peggy era nata nel 1898 da due delle famiglie<br />

ebree più ricche di New York, i proprietari<br />

di miniere Guggenheim, emigrati<br />

dalla Svizzera, che controllavano l’85<br />

per cento della produzione mondiale di<br />

argento, rame e piombo, e i banchieri Seligman.<br />

Rimasta orfana a quattordici anni,<br />

soffrì molto per la morte del padre che<br />

adorava e che continuò a cercare negli altri<br />

uomini. Quando scoppia la guerra nel<br />

1914 è in Inghilterra, ospite di un cugino,<br />

spaventato dalla carestia in arrivo, ma lei<br />

risponde con un appetito sfrontato e<br />

stravagante e anzi gli chiede dell’altra<br />

carne per finire la mostarda. Nel ‘19 entra<br />

finalmente in possesso dell’eredità. A<br />

ventidue anni cerca di ingentilire il proprio<br />

naso a melanzana con una plastica,<br />

ma l’operazione non riesce e da allora il<br />

naso si trasforma in una specie di barometro:<br />

«Quando sta per arrivare il cattivo<br />

tempo si gonfia», scrive in una delle tre<br />

autobiografie, Confessioni di una donna<br />

che ha amato l’arte e gli artisti. Sugli artisti<br />

nessuno dubitava. Questo il ricordo<br />

della sua prima esperienza sessuale all’hotel<br />

Plaza-Athénée: «Acconsentii così<br />

rapidamente che la mia mancanza di resistenza<br />

lo sorprese».<br />

Durante i sei mesi in cui lavora a New<br />

GONDOLE E ACQUERELLI<br />

Sopra, Victor Brauner, disegno tratto<br />

dal secondo libro degli ospiti di Peggy<br />

Guggenheim, 1954, acquerello su carta<br />

(collezione privata); accanto, Mark<br />

Rothko, disegno tratto dal primo libro<br />

degli ospiti di Peggy Guggenheim,<br />

1950, inchiostro su carta<br />

(collezione privata)<br />

TALE FIGLIA<br />

Disegno inedito in bianco e nero<br />

di Pegeen, figlia di Peggy,<br />

tratto dal secondo libro degli ospiti<br />

di Peggy Guggenheim, 1954,<br />

matita su carta (collezione privata)<br />

<strong>La</strong> celebre padrona di casa non si limitava<br />

ad acquistare le opere degli artisti:<br />

si occupava di loro, si faceva frequentare<br />

York nella libreria del cugino, che ispira a<br />

Ernest Hemingway un personaggio in<br />

Fiesta, Peggy conosce <strong>La</strong>urence Vail, un<br />

intellettuale franco-americano, re dei<br />

bohémiens. Si trasferisce a Parigi, lui le<br />

chiede la mano in cima alla torre Eiffel, si<br />

sposano nel ‘22 e fanno il viaggio di nozze<br />

da Capri a Saint Moritz. Lei ammette:<br />

«Dovunque accadevano strane cose».<br />

Diventa amica della pittrice Romaine<br />

Brooks e della scrittrice Natalie Barney,<br />

incontra la scrittrice Djuna Barnes, di cui<br />

sarà protettrice per il periodo di composizione<br />

del libro Bosco di Notte,che ha come<br />

tema l’incesto. <strong>La</strong> coppia frequenta<br />

gli ambienti artistici, nascono due figli,<br />

Sindbad e Pegeen, ma anche molti litigi.<br />

Si lasciano nell’estate del ‘28, quando<br />

Peggy, dopo aver ballato sui tavoli di un<br />

locale a Saint Tropez, si mette con lo scrittore<br />

John Holms, che però muore nel ‘34<br />

durante un intervento.<br />

Due anni dopo Peggy apre la sua prima<br />

galleria d’arte a Londra e conosce Samuel<br />

Beckett a una cena dai Joyce a Parigi. Lui<br />

le chiede di distendersi sul divano, fanno<br />

l’amore per due giorni, poi le dice: «Grazie.<br />

È stato bello finché è durato». A Londra<br />

espone le opere di Jean Cocteau, Kandinsky,<br />

René Magritte, Piet Mondrian, e<br />

degli scultori Constantin Brancusi ed<br />

Henry Moore. Poi arrivano Yves Tanguy<br />

e Max Ernst, si innamora del primo, sposa<br />

il secondo. Peggy non si limita ad acquistare<br />

le opere degli artisti: si occupa di<br />

loro, li frequenta, si fa frequentare. Allo<br />

scoppio della Seconda guerra mondiale<br />

torna a Parigi, approfitta del crollo dei<br />

prezzi delle opere d’arte e compra un<br />

quadro al giorno. Tra questi Giacomo<br />

Balla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì,<br />

Francis Picabia e due sculture di Alberto<br />

Giacometti. Dopo l’invasione nazista<br />

della Francia si rifugia a New York con la<br />

sua collezione e aiuta vari intellettuali come<br />

André Breton a scappare negli Stati<br />

Uniti.<br />

Nel ‘42 apre la propria galleria-museo<br />

“Art of this Century” e si dedica alla sua ultima<br />

scoperta, Jackson Pollock: «Era un ti-<br />

po difficile, ma aveva anche un lato angelico,<br />

era come un animale in gabbia». È lei<br />

a sostenere quel pittore, orfano di padre,<br />

che lavora in uno stato di continua eccitazione,<br />

con accanto la bottiglia d’alcol,<br />

mentre ascolta musica jazz, Strawinskij e<br />

John Cage. È lei la prima a commissionargli<br />

un grande dipinto per la sua casa di<br />

New York, la prima a farlo esporre e a passargli<br />

uno stipendio mensile. Peggy capisce<br />

in anticipo la genialità di Pollock: il suo<br />

linguaggio esistenziale, fatto di energia fisica<br />

e mentale, di azione pittorica. Tra i<br />

giovani che valorizza anche il padre di Robert<br />

De Niro. Nel ‘47 Peggy torna in Europa<br />

e si stabilisce a Venezia, alla Biennale<br />

del ‘48 espone la sua collezione. È un successo:<br />

gli italiani reduci dal fascismo non<br />

hanno mai visto tanta arte astratta e surrealista.<br />

Organizza anche una mostra di<br />

sculture nel giardino e sulla terrazza. Tra<br />

le opere esposte anche L’angelo della città<br />

di Marini che raffigura un uomo nudo,<br />

con il pene eretto, a cavallo. Qualche tempo<br />

dopo l’artista prepara un pene separa-<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

© THE SOLOMON R. GUGGENHEIM FOUNDATION, ARCHIVIO CAMERAPHOTOEPOCHE, DONO DELLA CASSA DI RISPARMIO DI VENEZIA, 2005


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

ETEREI<br />

A sinistra, Marc Chagall,<br />

disegno tratto dal primo<br />

libro degli ospiti di Peggy<br />

Guggenheim, 1950,<br />

inchiostro su carta<br />

(collezione privata)<br />

A destra, Joan Miró,<br />

disegno tratto<br />

dal secondo libro<br />

degli ospiti di Peggy<br />

Guggenheim, 1952,<br />

inchiostro su carta<br />

(collezione privata)<br />

TRA I PETALI<br />

Peggy Guggenheim<br />

a Palazzo Venier dei Leoni<br />

con l'opera Arco di petali<br />

(1941) di Alexander<br />

Calder; più in basso,<br />

Scarpa azzurra rovesciata<br />

con due tacchi sotto<br />

una volta nera (1925)<br />

di Jean Arp, (collezione<br />

Peggy Guggenheim,<br />

Venezia)<br />

LA MOSTRA<br />

Apre il 10 novembre a Vercelli,<br />

nella nuova struttura espositiva Arca<br />

nella vecchia chiesa di San Marco,<br />

la mostra Peggy Guggenheim<br />

e l’immaginario surreale:<br />

più di cinquanta capolavori<br />

delle collezioni veneziane<br />

e newyorkesi dei musei Guggenheim<br />

riuniti per la prima volta in questo<br />

allestimento curato da Luca<br />

Massimo Barbero e promosso<br />

dalla Regione Piemonte<br />

In mostra, tra le altre, opere<br />

di Chagall, de Chirico, Picasso, Miró,<br />

Dalí, Max Ernst, Magritte,<br />

Alberto Giacometti, Ives Tanguy,<br />

Duchamp. <strong>La</strong> mostra sarà aperta<br />

fino al 2 marzo 2008<br />

Per informazioni<br />

P.B.S. tel. 02 542754<br />

www.ticket.it/guggenheim<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />

INEDITI<br />

A sinistra, Fabrizio Clerici,<br />

disegno inedito tratto<br />

dal primo libro degli ospiti<br />

di Peggy Guggenheim,<br />

16 agosto 1950,<br />

inchiostro su carta<br />

(collezione privata);<br />

accanto, Leonor Fini,<br />

disegno tratto dal primo<br />

libro degli ospiti di Peggy<br />

Guggenheim, 1949,<br />

inchiostro su carta<br />

(collezione privata)<br />

PROFILI<br />

Sotto, Jean Cocteau,<br />

disegno dal terzo<br />

libro degli ospiti<br />

di Peggy<br />

Guggenheim,<br />

1956, inchiostro<br />

su carta (collezione<br />

privata)<br />

MATITE<br />

A sinistra, Alberto Giacometti, disegno<br />

tratto dal primo libro degli ospiti<br />

di Peggy Guggenheim, 1949,<br />

matita su carta (collezione privata)<br />

to «in modo che potesse essere avvitato<br />

o svitato a piacimento». Per evitare<br />

scandali davanti a visitatori<br />

più tradizionalisti.<br />

Nonna Peggy continuava ad<br />

essere imbarazzante e impegnativa.<br />

Anche dopo la morte,<br />

nel ‘67, della figlia Pegeen, fragile<br />

e depressa, artista anche<br />

lei, per abuso di farmaci. Come<br />

ricorda Karole Vail, la nipote<br />

che la raggiungeva per<br />

le vacanze a Palazzo Venier:<br />

«Nella camera da letto<br />

dove dormivo era appesa<br />

L’Aurora di Paul Delvaux,<br />

quelle donne nude ritratte<br />

per metà come tronchi d’albero<br />

mi facevano così paura,<br />

ma non quanto i quadri surrealisti<br />

di Max Ernst». Karol era un’adolescente,<br />

abitava a Parigi col padre Sindbad,<br />

andava al liceo dalle suore. Ma la<br />

nonna a settant’anni insiste con le domande<br />

imbarazzanti: «Hai un fidanzatino?<br />

Ci sei già andata a letto?». <strong>La</strong> porta in<br />

giro per i canali in gondola, la fa scendere<br />

da sola davanti alle chiese e poi, tornata a<br />

casa, pretende una dettagliata relazione<br />

sulle opere d’arte.<br />

Peggy non si perde niente: va a New<br />

York a vedere l’edificio rotondo che Frank<br />

Lloyd Wright ha progettato nel ‘58 per il<br />

museo Guggenheim. Lo liquida così: «Un<br />

grande garage che si attorciglia come un<br />

serpente maligno». Anche se nel ‘76 accetta<br />

che la propria collezione si unisca a<br />

quella dello zio Solomon. Nel ‘79, pochi<br />

mesi prima di morire, riceve a Venezia lo<br />

scrittore Gore Vidal con Paul Newman e<br />

sua moglie Joan Woodward. Si entusiasma<br />

quando Newman accetta di baciare<br />

una delle sue domestiche. Se ne va a ottantuno<br />

anni, due giorni prima di Natale,<br />

quando Venezia è invasa dall’acqua alta.<br />

Ma resta lì a godersi la vista, le sue ceneri<br />

si trovano nell’angolo del giardino di Palazzo<br />

Venier dove Peggy aveva seppellito<br />

i suoi due amati cagnolini. Eccentrica sì,<br />

ma sveglia. Sconsigliava Venezia per la luna<br />

di miele. «È troppo bella e nel cuore<br />

non resta più posto per altro».<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

la memoria<br />

Primedonne<br />

NATALIA ASPESI<br />

LONDRA<br />

Suo padre Theodore Miller la<br />

fotografò ossessivamente<br />

da piccina ma anche in piena<br />

giovinezza, docile e completamente<br />

nuda; il massimo illustratore<br />

di moda degli anni Venti, Georges<br />

Lepape, disegnò il suo viso perfetto<br />

sotto una calottina viola per una copertina<br />

di Vogue America del 1927;<br />

Edward Steichen, il fotografo più importante<br />

del gruppo editoriale Condé<br />

Nast, ne ritrasse più volte il profilo ardito<br />

che ricordava quello di Marlene<br />

Dietrich nell’Angelo Azzurro; George<br />

Hoyningen-Huené, celebre fotografo<br />

di Vogue Francia, ne rivelò la grazia androgina<br />

riprendendola con le scarpe<br />

da tennis e una tuta da marinaio portata<br />

come un abito da gran sera; nello<br />

stesso anno, il 1930, il suo amante dada-surrealista<br />

Man Ray dedicò studi di<br />

fotografia solarizzata al suo lungo collo<br />

delicato, che dopo uno dei tanti litigi<br />

lui rappresentò sgozzato da una rasoiata<br />

adorna di goccioline di inchiostro<br />

rosso; nel 1931 Jean Cocteau, spalmandola<br />

di gesso, la trasformò in una<br />

statua greca senza braccia, dipingendole<br />

gli occhi sopra le palpebre chiuse,<br />

nel suo primo farraginoso film d’arte Le<br />

sang d’un poète; negli stessi anni Picasso<br />

la ritrasse sei volte, picassianamente,<br />

chiamandola l’Arlésienne. Lei stessa<br />

si fotografò continuamente, come per<br />

un servizio di Vogue del 1933, cerchietto<br />

tra i bei capelli biondi, abito di velluto<br />

bordato di arricciature, accucciata<br />

in una poltrona, aristocratica e languida,<br />

come qualche anno dopo Horst fotografò<br />

Chanel. Ha fatto storia la fotografia<br />

che scattò il fotoreporter di guerra<br />

David E. Sherman nell’aprile del<br />

1945, lei nuda nella vasca da bagno del<br />

modesto appartamento di Hitler al 16<br />

di Prinzregentenplatz a Monaco, gli<br />

stivali militari ben appaiati sul pavimento,<br />

la foto del Führer appoggiata al<br />

bordo della vasca.<br />

Lee Miller era bellissima, gli artisti ne<br />

restavano affascinati e naturalmente se<br />

ne innamoravano, gli obiettivi divoravano<br />

il suo viso chiaro dai grandi occhi azzurri,<br />

la moda si serviva della sua naturale<br />

eleganza, lei usava questa sua luminosa<br />

impareggiabile grazia per metterla al<br />

servizio del suo talento, delle sue ambizioni<br />

e del suo impegno. Fu una di quelle<br />

donne dalla vita prodigiosa che affollarono<br />

la prima metà del secolo scorso e<br />

di cui oggi non se ne rintracciano epigone.<br />

Di vite, anzi, lei ne ebbe tante, una dopo<br />

l’altra, ogni volta diverse, sorprendenti,<br />

vincenti, ogni volta abbandonandole<br />

come fardelli ormai inutili, fino a dimenticarle<br />

lei stessa e a farne perdere le<br />

tracce agli altri. <strong>La</strong> mostra che sino all’8<br />

gennaio il Victoria & Albert Museum le<br />

dedica nel centenario della sua nascita,<br />

1907, e nel trentennale della sua morte,<br />

1977, riunisce tutte queste vite, accompagnata<br />

dal libro The Art of Lee Miller di<br />

Mark Haworth-Booth, poeta e studioso<br />

di fotografia (edizioni V&A, 224 pagine,<br />

35 sterline). Scrive l’autore che «Lee Miller<br />

fu una donna inventata dal Ventesimo<br />

Secolo, indipendente, libera, geniale,<br />

coraggiosa e ricca di talento, ma fu soprattutto<br />

una sua stessa straordinaria invenzione».<br />

<strong>La</strong> sua eccezionale carriera di<br />

artista sfida tutti gli stereotipi. E malgrado<br />

sia stata apprezzata e studiata negli<br />

ultimi decenni, la sua vita continua a rimanere<br />

«un puzzle surrealista» o, come<br />

scrisse lei, «pezzi di un puzzle impregnati<br />

d’acqua, brandelli ubriachi che non si<br />

accordano né nella forma né nel disegno».<br />

In quel puzzle informe fu attrice,<br />

disegnatrice, modella, giornalista, musa,<br />

amante, moglie, madre, ma fu soprattutto<br />

fotografa d’arte e fotoreporter.<br />

<strong>La</strong> Lee Miller più celebre è quella spettinata,<br />

sporca, spericolata e fulgente della<br />

Seconda guerra mondiale, a sua volta<br />

fotografata in divisa militare, bandoliera,<br />

maschera a gas ed elmetto (trent’anni<br />

prima di Oriana Fallaci), cui il figlio<br />

Anthony Penrose ha dedicato il libro Lee<br />

Miller’s war. Nel 1944, quando riesce a<br />

farsi accreditare da British Vogue come<br />

corrispondente di guerra, ha trentasette<br />

anni, vive a Londra con Sir Roland Penrose,<br />

aristocratico artista inglese, adoratore<br />

maltrattato di Picasso e suo biografo.<br />

Lee abbandona la sua magnifica<br />

casa zeppa di Picasso, Braque, Miró,<br />

Tanguy, De Chirico, Brancusi, Giacometti,<br />

Magritte, Ernst, si fa fare in Savile<br />

Row una divisa su misura e non protocollare<br />

che indosserà ininterrottamente<br />

per un anno, e parte: sarà la sola delle sei<br />

donne fotoreporter di guerra a raggiungere<br />

il fronte, seguendo l’avanzata alleata<br />

da Omaha Beach sino ai campi di sterminio.<br />

Il mensile che anche in guerra<br />

propone lussi e raffinatezze pubblica ad<br />

ogni numero i suoi articoli e servizi fotografici:<br />

i corpi straziati dei soldati negli<br />

ospedali da campo, l’assedio di Saint<br />

Malo, la resa degli occupanti tedeschi, la<br />

caccia ai collaborazionisti, Parigi libera<br />

con la gioia, la fame, le rovine e la prima<br />

sfilata di moda di Paquin, la visita all’amico<br />

Picasso che non ha mai lasciato la<br />

Modella-simbolo degli anni Venti, poi musa ispiratrice<br />

dei grandi surrealisti da Cocteau a Magritte, raffinata<br />

fotografa di moda e coraggiosa fotoreporter di guerra,<br />

per finire alcolizzata e dimenticata nelle campagne del Sussex<br />

Ora, a cent’anni dalla nascita e a trenta dalla morte,<br />

il Victoria & Albert Museum le dedica una grande mostra<br />

Lee Miller, una vita non basta<br />

A Parigi si presentò<br />

a Man Ray e gli disse<br />

sfacciatamente: sono<br />

la tua nuova allieva<br />

capitale, lui elegante, lei conciatissima e<br />

ridente, desiderosa solo di un bagno. Poi<br />

l’avanzata alleata in Alsazia sotto la neve,<br />

il procedere tra morti e rovine, l’incontro<br />

con i russi, Buchenwald, dove fotografa<br />

non solo montagne di cadaveri, ma anche<br />

i corpi dei suicidi, i sorveglianti Ss annegati<br />

o impiccati, la giovane bella figlia<br />

del borgomastro di Leipzig che si è avvelenata<br />

e pare dormire riversa su un divano<br />

di pelle.<br />

Le molte vite di Lee Miller cominciano<br />

quando a diciotto anni lascia Poughkeepsie,<br />

New York, per una vacanza<br />

in Francia: nasconde un drammatico<br />

segreto, lo stupro a sette anni da parte di<br />

un amico di famiglia, che l’ha contagiata<br />

di gonorrea. È stata cacciata da più di<br />

una scuola, si è tagliata le lunghe trecce,<br />

accorciata le gonne, quello è l’anno in<br />

cui Anita Loos, un’altra ragazza impaziente<br />

di vivere, ha pubblicato Gli uomini<br />

preferiscono le bionde. Elisabeth, la<br />

futura Lee, è la classica “flapper”, il modello<br />

è quello della diva Louise Brooks. È<br />

il 1925 e Parigi è invasa dal fervore della<br />

Mostra internazionale delle arti decorative,<br />

e lei si iscrive a una scuola sperimentale<br />

di scenografia in cui scopre la<br />

sua vocazione per l’immagine. Al ritorno<br />

a New York, come capita nei film brillanti<br />

ancora muti, un passante la salva<br />

da un’auto che sta per travolgerla. Quel<br />

signore è William Condé Nast, fondatore<br />

di Vogue e nel marzo del 1927 il viso<br />

ventenne di Lee è sulla copertina di quel<br />

mitico mensile di moda come simbolo<br />

della nuova ardente femminilità.<br />

I grandi fotografi di moda se la contendono,<br />

ma fare la modella non le basta,<br />

è la fotografia che le interessa. Come<br />

maestro pretende un artista, vuole che<br />

sia Man Ray, americano trapiantato da<br />

qualche anno in Francia, e va a cercarlo<br />

a Parigi. Lo incontra al famoso locale Le<br />

Bateau Ivre e anni dopo racconterà:<br />

«Sembrava un toro, con un torso straordinario,<br />

sopracciglia e capelli nero intenso.<br />

Gli dissi sfacciatamente che ero la<br />

sua nuova allieva. Rispose che lui non<br />

prendeva allievi e che comunque stava<br />

andando in vacanza. Gli dissi, lo so e io<br />

vengo con lei. Vivemmo insieme per tre<br />

anni». Lei ha venticinque anni, diventa<br />

una delle tante giovani muse dei surrealisti,<br />

i grandi fotografi di moda continuano<br />

a volerla (anche Man Ray la riprende<br />

con un berretto di Patou) e lei intanto<br />

impara, si appassiona, diventa<br />

una fotografa instancabile. Fotografa la<br />

moda, fotografa celebrità come Salvador<br />

Dalì con la compagna Gala, come<br />

Charlie Chaplin, come lo stesso Man<br />

Ray, sceglie soggetti sempre più surrealisti,<br />

che il suo obiettivo rende minacciosi,<br />

crudeli: i cavalli di una giostra, to-<br />

PROVOCAZIONE<br />

Una delle foto più famose che ritraggono Lee Miller mentre fa il bagno nella vasca di Adolf Hitler<br />

<strong>La</strong> foto è di David E. Scherman, Monaco, 1945<br />

LA MOSTRA<br />

Le foto di queste pagine sono tratte da The Art of Lee Miller<br />

di Mark Haworth-Booth (V&A Publications),<br />

il catalogo della mostra in corso fino al 6 gennaio 2008<br />

al Victoria & Albert Museum di Londra. <strong>La</strong> mostra ripercorre<br />

attraverso le immagini del Lee Miller Archive la carriera<br />

di fotografa e la vita di questa donna straordinaria<br />

che seppe trasformarsi da modella e musa di artisti<br />

in artista essa stessa<br />

polini in fila su un’asta, scale, sederi nudi<br />

di donna, persino i macabri resti di<br />

una doppia masterectomia sui piatti di<br />

una tavola apparecchiata.<br />

Nel 1934 c’è un primo matrimonio, a<br />

ventisette anni, con un ricco egiziano<br />

cosmopolita e tollerante, e va a vivere<br />

con lui al Cairo, sempre fotografando<br />

con la sua visione surreale rocce e sabbie,<br />

lumache e rovine, e soprattutto<br />

creando la serie Ritratto dello spazio,<br />

una strana angosciosa rappresentazione<br />

del vuoto che secondo gli esperti<br />

ispirò poi a Magritte il dipinto Le baiser.<br />

Nell’estate del ‘37, tornata per qualche<br />

giorno a Parigi, riallacciati i rapporti coi<br />

surrealisti, ad una festa in costume incontra<br />

Penrose, coi capelli tinti di verde,<br />

una mano tinta di blu e i pantaloni nei<br />

colori dell’arcobaleno. Quella notte<br />

stessa inizia la loro relazione, un grandissimo<br />

amore. Al gentilissimo marito<br />

egiziano, che abbandonerà definitivamente<br />

nel giugno del ’39, ha scritto: «Voglio<br />

l’utopica combinazione di sicurezza<br />

e libertà, e ho il bisogno emotivo di<br />

sentirmi completamente presa dal lavoro<br />

o dall’uomo che amo».<br />

Alla fine della guerra quale vita aspetta<br />

questa donna che si avvicina ai quarant’anni<br />

e ha avuto tanto, attraversando<br />

le avanguardie culturali degli anni<br />

Trenta e gli orrori bellici degli anni Quaranta?<br />

Nel 1947 resta incinta, sposa Penrose<br />

e vanno a vivere nella campagna del<br />

Sussex, dove riceveranno gli amici, tornando<br />

spesso in Francia. Visiting Picasso,<br />

la raccolta di una montagna di lettere<br />

di Penrose all’artista e delle pochissime<br />

dell’artista a lui, curata da Elizabeth<br />

Cowling, è illustrata dalle foto ossessive<br />

di Lee a Picasso: nel suo studio a Vallauris,<br />

con la sua nuova compagna Jacqueline,<br />

davanti alle sue opere, nella casa di<br />

Mougins, mentre srotola un suo arazzo,<br />

assieme a Georges Braque, con il piccolo<br />

Anthony, il figlio che Lee non saprà<br />

amare abbastanza. Per una donna che<br />

ha avuto tanto, forse invecchiare e adattarsi<br />

a una quotidianità non esaltante è<br />

impossibile. Lee è sempre stata una forte,<br />

allegra bevitrice, ma ormai è alcoliz-<br />

Celebre la foto di lei,<br />

aprile ’45 a Monaco,<br />

nuda nella vasca<br />

della casa di Hitler<br />

zata e depressa: si dedica al giardino, diventa<br />

una gran cuoca, progetta banchetti<br />

surrealisti: ma la sua vita è stata altra,<br />

meravigliosa, struggente e perduta.<br />

Così indimenticabile da volerla dimenticare,<br />

nascondere, cancellare.<br />

Anche gli altri l’avevano dimenticata.<br />

Solo alla fine della sua vita, il passato ricominciò<br />

ad emergere attraverso le ricerche<br />

che studiosi o curatori di mostre<br />

facevano di altri artisti surrealisti, come<br />

appunto Man Ray, e cominciarono a<br />

cercarla, come testimone e non come<br />

protagonista. Ma alle lettere non rispondeva,<br />

e del resto era certa che del<br />

suo amatissimo lavoro non fosse rimasto<br />

nulla, «perduto a New York, distrutto<br />

dagli occupanti tedeschi a Parigi,<br />

bombardato e incendiato a Londra durante<br />

il Blitz, e pure la Condè Nast ha<br />

buttato via sia le mie foto di moda che<br />

quelle di guerra… Io stessa non ho ancora<br />

avuto la forza di guardarmi intorno,<br />

e cercare, e pensare al passato». Comunque<br />

non lo fece mai: lo fece dopo la<br />

sua morte il figlio Anthony, con cui si era<br />

riconciliata negli ultimi mesi di vita, e<br />

che solo allora, frugando nel disordine e<br />

nell’abbandono della sua casa nel Sussex,<br />

scoprì che la vecchia, difficile e malata<br />

signora che lo aveva messo al mondo<br />

senza riuscire ad essergli madre, era<br />

stata una mitica bellezza, una star cosmopolita,<br />

una musa dei surrealisti, una<br />

celebre modella, una grande fotografa,<br />

una coraggiosa fotoreporter di guerra,<br />

una donna molto amata, desiderata,<br />

ammirata. Tante, troppe vite in cui non<br />

c’era stato posto per lui, l’unico figlio nato<br />

quando tutte le esperienze erano state<br />

vissute al massimo e non ne era rimasta<br />

nessuna.<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />

PORTFOLIO<br />

Dall’alto a sinistra in senso orario, autoritratto con fermacapelli (1933) • Ritratto di donna sconosciuta (1930) •<br />

Testa fluttuante (Mary Taylor) (1933) • <strong>La</strong> figlia suicida del borgomastro di Lipsia (1945) • Donne con maschere<br />

da saldatore, Downshire Hill, Londra (1941) • Eileen Agar al Royal Pavilion, Brighton (1937)<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

CULTURA*<br />

L’ASTROLABIO<br />

Noto fin dal VI<br />

secolo, permetteva<br />

di calcolare<br />

la latitudine misurando<br />

l’altezza angolare del Sole<br />

Comesempre bisogna partire delle parole<br />

che usiamo e dalla loro origine<br />

antica. In latino, metiri, misurare,<br />

percorrere, e misura sono molto vicini<br />

al greco metische significa prudenza,<br />

saggezza, e sapienza. Come dire<br />

che comprendere ed essere consapevoli equivale a<br />

conoscere la misura delle cose, la loro dimensione.<br />

Misurare ha la stessa radice di mensis, mese, e in<br />

particolare mese lunare. Come dire che la misura<br />

primaria, originaria è quella del tempo che trascorre.<br />

Non siamo dunque lontani da quel che scriveva<br />

Giorgio de Santillana, geniale mitologo e al<br />

tempo stesso scienziato che lavorò per anni al Mit<br />

di Boston. De Santillana, nel suo libro fondamentale,<br />

Il Mulino di Amleto, parlava di un «Carro di Enmesarra»<br />

identificato dagli specialisti di astronomia<br />

babilonese con la costellazione omonima. Enmesarra<br />

è un nome eloquente: En. ME. SARRA è<br />

«Signore di tutti i me», ossia Signore delle «norme e<br />

misure»; è detto anche «Signore dell’Ordine del<br />

Mondo», «Signore dell’Universo e Colui che ha peso<br />

nel mondo infero», nonché «il sovrano del mondo<br />

infero». Lo stesso accade in Grecia, nella versione<br />

degli orfici e, da Esiodo e da altri, nelle versioni<br />

simili di Plutarco e Proclo: Kronos, divinità deputata<br />

al tempo, elargisce al figlio Zeus con paterna<br />

benevolenza «tutte le misure dell’intera creazione».<br />

E così nel mondo semitico: in arabo misura si<br />

dice qadr, e qaddara, misurare, significa anche determinare<br />

e decretare, ed è tra i verbi che esprimono<br />

la facoltà divina del dare a ciascuno quel che gli<br />

spetta secondo l’esatto computo, in questo tempo<br />

e nel tempo dell’aldilà. Questa lingua istituisce una<br />

parentela stretta tra misura, decreto e destino, tra<br />

miqdàr, cioè estensione nel tempo e nello spazio,<br />

qadar, cioè sorte, e al-Qadìr, l’Onnipotente. Però<br />

misura si dice anche qiyàs, che esprime appunto il<br />

rapporto tra una grandezza e una grandezza della<br />

stessa specie, e il primo che misurò il rapporto tra<br />

le cose e le loro grandezze fu Satana. Il tempo è forse<br />

la più percepita tra le cose misurabili, quella di<br />

cui siamo maggiormente consapevoli nella vita di<br />

ogni giorno. Da sempre, fin dal principio, la misura<br />

è stata percepita come misura del tempo; e per<br />

tributargli tutta la nostra stima l’abbiamo insignita<br />

del divino e anche del diabolico.<br />

Platone aveva già diviso l’arte della Misura in due<br />

parti, situando nella prima le arti «che misurano il<br />

numero, la lunghezza, l’altezza, la larghezza e la velocità<br />

in rapporto ai loro contrari», e nella seconda<br />

«le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, al<br />

conveniente, all’opportuno, al doveroso e insomma<br />

a quelle determinazioni che stanno nel mezzo<br />

tra due estremi». Cioè aveva distinto tra numeri e<br />

comportamenti, e in fondo è quello che facciamo<br />

noi quasi senza rendercene conto, da una parte diciamo<br />

misura come quantità e quantitativo, rilevamento,<br />

valutazione, stima ed eventualmente giu-<br />

Il Touring Club Italiano pubblica “Misure, dall’abaco al satellite”,<br />

un libro che documenta la nascita e lo sviluppo degli strumenti<br />

con cui l’umanità, epoca dopo epoca, si è industriata a calcolare<br />

il tempo e lo spazio con sempre maggior accuratezza e precisione. Uno sforzo<br />

che ha spostato via via i confini della conoscenza fino a mettere in crisi l’idea stessa di limite,<br />

come qui racconta uno scrittore che nei suoi romanzi ha spesso affrontato questa sfida<br />

LA SFERA<br />

<strong>La</strong> sfera<br />

armillare,<br />

inventata<br />

dai Greci,<br />

rappresenta<br />

l’universo<br />

Sopra,<br />

un metro<br />

a<br />

I<br />

Ms TOKEN<br />

I “pezzi” in argilla<br />

del Medio Oriente<br />

(1500-800 a.C.)<br />

erano unità di misura<br />

per far di conto<br />

L’illusione<br />

di ingabbiare<br />

l’infinito<br />

DANIELE DEL GIUDICE<br />

IL BAROMETRO<br />

Il barometro<br />

di mercurio<br />

inventato<br />

da Robert<br />

Fitzroy<br />

fu presentato<br />

per la prima<br />

volta nel 1860<br />

i u<br />

d’uomo<br />

dizio, e dall’altra intendiamo una regola della condotta<br />

prudente, una disciplina e un ordine, un condursi<br />

“con misura”, appunto. E lo stesso pensò Aristotele,<br />

misura è da una parte il rapporto tra una<br />

grandezza e l’unità e dall’altra è il criterio o il canone<br />

del vero, cioè il bene, la medietà come quintessenza<br />

della virtù etica.<br />

Più che sul termine misura, che suona già come<br />

un risultato acquisito, conviene attestarsi sul “misurare”,<br />

e in verità il misurare è un verbo sempre in<br />

cammino. Quante misure abbiamo immaginato e<br />

definito e per lo più abbandonato come scarpe<br />

consunte o al contrario mantenute come una fede,<br />

come la linea di fede della bussola: acro, biolca, carato,<br />

cubito, cucchiaio, decade, giornata, iarda, iugero,<br />

libbra, lustro, marco, moggio, oncia, orgìa,<br />

pertica, piede e pollice, quinario, stadio, talento,<br />

versta… Gli scienziati delle misure, i metrologi<br />

d’oggi preferiscono usare la parola “accuratezza”<br />

accanto a “precisione”. Inseguire continuamente<br />

la maggiore accuratezza e la maggiore precisione è<br />

come un destino delle epoche. E nelle maggiori accuratezza<br />

e precisione il misurare incontra, certo,<br />

errore e incertezza. Una volta domandai a Carlo<br />

Rubbia, Nobel per la Fisica nel 1984, chi fosse una<br />

persona davvero competente; mi rispose: «Colui<br />

che ha già compiuto tutti gli errori possibili nel proprio<br />

campo».<br />

Nel nostro tempo, misuriamo ormai lo spazio con<br />

il Gps, Global Positioning System, e la fisica delle<br />

particelle, già dall’ultimo quarto del secolo scorso,<br />

misura il tempo in nanosecondi, lavora cioè con<br />

unità di tempo pari a un miliardesimo di secondo; e<br />

anche in picosecondi, che sono millesimi di un nanosecondo.<br />

Il misurare sembra davvero un cammino<br />

illimitato, e con il passare del tempo è un cammino<br />

sempre più rapido. Negli anni Ottanta, non<br />

così lontani dopotutto, per la navigazione marittima<br />

e aeronautica si usava ancora il Loran, acronimo<br />

di Long Range Navigation, era in servizio nella Seconda<br />

guerra mondiale e poi anche in quella del<br />

Vietnam, e il suo tempo di accuratezza e precisione<br />

era solo in microsecondi. Il Loran, elaborato dagli<br />

Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale come<br />

sistema di navigazione aerea per il Nord Atlantico<br />

e il Pacifico ad uso dell’Army Air Corps, basato<br />

su trasmissioni a media frequenza facilmente propagabili<br />

sugli oceani, era stato convertito alla fine<br />

degli anni Cinquanta sulla bassa frequenza per permettere<br />

anche la propagazione terrestre. Il sistema<br />

si basava sulla trasmissione di impulsi precisamente<br />

spaziati nel tempo, grazie ai quali il navigatore poteva<br />

derivare informazioni relative alla posizione e<br />

alla velocità. Un elemento minimo della catena Loran<br />

includeva tre stazioni posizionate ad alcune<br />

centinaia di chilometri l’una dall’altra, e conoscendo<br />

la posizione delle stazioni trasmittenti e la spaziatura<br />

degli impulsi era possibile convertire la dif-<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

ferenza di tempo in latitudine e longitudine. Ma tornando<br />

all’oggi le pur ottime prestazioni del Loran<br />

sono superate e certo non di poco dal sistema Gps<br />

con la sua copertura di ventiquattro satelliti e la sua<br />

capacità di funzionare in modo differenziale di un<br />

centimetro. Al Cern di Ginevra, si è passati dall’acceleratore<br />

di particelle del “piccolo” PS Sincrotone<br />

per protoni con un’energia fino a 26 GeV (1 GeV è circa<br />

1/1000 della energia cinetica di una zanzara) all’SpS,<br />

il Super sincrotrone per protoni e antiprotoni<br />

che aveva una potenza di 450 GeV, e ancora più con<br />

il LHC, il grande collisore per adroni, che verrà costruito<br />

all’interno del tunnel che ospita il LEP, con<br />

un accelerazione fino a 700 GeV.<br />

Sembra che il misurare sia illimitato e che non<br />

abbiano più alcun senso le antiche teorie come<br />

quelle di Democrito, di Leucippo o di Lucrezio sul<br />

minimum, sull’infinitesimo, sul limite che non dà<br />

ulteriore divisibilità. Ma sarà vero che il nostro<br />

cammino del misurare non ha un termine finale,<br />

che è un indefinito sviluppo? Sarà vero che i suoi<br />

passi successivi sono inesorabili? Il matematico<br />

Paolo Zellini nel libro Breve storia dell’infinito<br />

(Adelphi 1980) scrive un capitolo specifico sul limite,<br />

ripercorre la storia dell’idea di limite. C’è da<br />

chiedersi, allora, se la consapevolezza dell’assenza<br />

di un limite può renderci più felici. O se invece la<br />

nostra grandezza o almeno la nostra quiete sia<br />

quella di eludere la conoscenza della misura, acquisirla<br />

sì, ma poi gettarla via, come nel poema<br />

olandese di Brandaen ricordato da Jacob Grimm<br />

nella Deutsche Mythologie (1953). Brandaen incontra<br />

per mare un uomo alto un pollice, che galleggia<br />

su una foglia e tiene nella mano destra una<br />

ciotola e nella sinistra uno stilo; l’uomo è occupato<br />

a immergere lo stilo nel mare e poi a farlo sgocciolare<br />

dentro la ciotola. Quando la ciotola è piena,<br />

la svuota e ricomincia da capo. Dice che gli è stato<br />

imposto il compito di misurare il mare fino al Giorno<br />

del Giudizio.<br />

<strong>La</strong> sofferenza e insieme l’inanità della misura sono<br />

illustrate dal chimico Primo Levi in un appunto<br />

che prese in seguito alla lettura di una “specification”,<br />

un metodo di controllo tecnico-commerciale<br />

emesso dalla American<br />

FOTO CORBIS ra<br />

LA CLESSIDRA<br />

Le prime clessidre a sabbia<br />

compaiono nel XIV secolo<br />

dipinte dal Lorenzetti<br />

Sopra: un antico quadrante<br />

L’OROLOGIO<br />

Un orologio decimale francese<br />

con numeri romani. A destra,<br />

un compasso per misurare<br />

le palle di cannone<br />

Society for Testing Materials nel 1955. È un appunto<br />

che vale la pena di riprendere. Si intitola <strong>La</strong> misura<br />

di tutte le cose: «Nel Settecento, <strong>La</strong>zzaro Spallanzani<br />

misurava i tempi delle sue celebri esperienze<br />

sugli infusori esprimendoli in credi, si serviva<br />

cioè come unità di misura del tempo necessario<br />

per recitare un Credo. Oggi misuriamo il tempo in<br />

base alle frequenze di emissione dell’atomo di cesio,<br />

e un errore di un secondo ci pare intollerabile.<br />

È una via obbligata: le fondazioni della nostra società<br />

tecnologica devono essere consolidate da misure<br />

e definizioni precise; in questi scantinati, frequentati<br />

solo dagli addetti ai lavori, c’è chi misura<br />

la resistenza alla flessione degli spaghetti crudi e la<br />

resistenza alla trazione degli spaghetti cotti, e<br />

prescrive i rispettivi valori massimo e minimo.<br />

[…] A meno di un improbabile ritorno<br />

nel Settecento, il mostruoso reticolo delle<br />

specificazioni è destinato a crescere<br />

[…]».<br />

Per concludere infine, e ancora a<br />

proposito di Spallanzani, bisogna<br />

ricordare quello che Carlo Emilio<br />

Gadda disse della cultura italiana:<br />

«<strong>La</strong> prima colpa che le faccio<br />

è di essere refrattaria alla storia<br />

naturale, di ignorare le ere<br />

geologiche, il darwinismo, i<br />

classificatori del Settecento<br />

e Ottocento, Malpighi e<br />

Spallanzani […]». Una<br />

cultura quella italiana, secondo<br />

Gadda, fatta «di<br />

toc-toc di impulsi, di<br />

batticuore, della retorica<br />

delle buone intenzioni.<br />

Manca un sottofondo<br />

logico e riflessivo.<br />

Non appoggiataall’esperienza,<br />

ma<br />

al cuore».<br />

IL LIBRO<br />

Misure. Dall’Abaco al satellite: tutti<br />

i modi in cui l’uomo misura se stesso,<br />

il pianeta e l’universo di Andrew<br />

Robinson sarà in libreria dal 7 novembre<br />

per le edizioni Touring Club Italiano<br />

(244 pagine, 25 euro). Il libro uscirà<br />

per i tipi di Thames & Hudson anche<br />

in Gran Bretagna. Le foto di queste<br />

pagine sono state concesse<br />

dal Touring Club Italiano<br />

LA BUSSOLA<br />

È il primo strumento<br />

che indica il Nord magnetico<br />

<strong>La</strong> sua invenzione<br />

si attribuisce<br />

ai cinesi<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

la lettura<br />

Halloween<br />

MAX BROOKS<br />

Il primo caso che vidi fu in un villaggio<br />

remoto che ufficialmente non<br />

aveva nome. Gli abitanti lo chiamavano<br />

“Nuovo Dachang”, più che altro<br />

per una forma di nostalgia. <strong>La</strong> loro<br />

patria precedente, “Vecchio Dachang”,<br />

era esistita sino all’epoca dei Tre<br />

Regni, con fattorie e case e persino alberi<br />

che si diceva fossero secolari. Quando la<br />

Diga delle Tre Gole fu terminata, e le acque<br />

del bacino di riserva cominciarono a salire,<br />

Dachang era già stato in gran parte<br />

smontato, mattone per mattone, e poi ricostruito<br />

su un terreno più elevato. [...]<br />

L’ospedale era tranquillo. [...] Ero stanco,<br />

mi facevano male i piedi e la schiena.<br />

Stavo uscendo a fumare una sigaretta e<br />

guardare l’alba quando sentii fare il mio<br />

nome. <strong>La</strong> centralinista di quella notte era<br />

nuova e non capiva bene il dialetto. C’era<br />

stato un incidente, o una malattia. Era<br />

un’emergenza, questo era chiaro, e se per<br />

favore potevamo mandare subito aiuto.<br />

Che potevo dire? I dottori più giovani, i<br />

ragazzini che pensano che la medicina sia<br />

solo un modo per gonfiare il conto in banca,<br />

non sarebbero certo andati ad aiutare<br />

qualche nongminsolo per il piacere di portare<br />

aiuto. Immagino di essere, in fondo al<br />

cuore, ancora un vecchio rivoluzionario.<br />

«Il nostro dovere è di essere responsabili<br />

nei confronti del popolo». Quelle parole significano<br />

ancora qualcosa per me... e cercai<br />

di ricordarmelo mentre la mia Deer<br />

rimbalzava e sbatteva sulle strade sterrate<br />

che il governo si era impegnato, ma mai accinto,<br />

ad asfaltare. [...]<br />

Ce n’erano sette, tutti su dei lettini, tutti<br />

a malapena coscienti. Gli abitanti del paese<br />

li avevano spostati nella nuova sala riunioni<br />

comunale. Il pavimento e le pareti<br />

erano di nudo cemento. L’aria era fredda e<br />

umida. Ci credo che sono malati, pensai.<br />

Chiesi agli abitanti del paese chi si era preso<br />

cura di loro. Risposero che nessuno l’aveva<br />

fatto, perché non era «sicuro». Notai<br />

che la porta era stata chiusa a chiave da fuori.<br />

Gli abitanti del paese erano chiaramente<br />

terrorizzati. Stavano rannicchiati e bisbigliavano;<br />

alcuni si erano messi in disparte<br />

e pregavano. Il loro atteggiamento<br />

mi riempì di rabbia, non contro di loro, cer-<br />

Max Brooks, figlio del regista Mel, ha sviluppato una genialità<br />

diversa da quella del padre ma altrettanto maniacale:<br />

è il più grande esperto mondiale di zombi. Prima ha scritto<br />

un manuale per combatterli, ora un romanzo in cui l’umanità<br />

è colpita dal solito virus misterioso che sforna cadaveri<br />

ancora in vita. Sembra un horror, forse è una metafora<br />

chi di capire, non contro quegli individui,<br />

ma contro ciò che rivelavano del nostro<br />

paese. Dopo secoli d’oppressione straniera,<br />

sfruttamento e umiliazione, stavamo finalmente<br />

rivendicando il nostro giusto<br />

ruolo di Impero del Mezzo dell’umanità.<br />

Eravamo la superpotenza più ricca e dinamica<br />

del mondo, padroni di tutto, dallo<br />

spazio cosmico al cyberspazio. Era l’alba di<br />

quello che il mondo stava finalmente riconoscendo<br />

come il “Secolo cinese”, eppure<br />

molti di noi vivevano ancora come questi<br />

contadini ignoranti, refrattari e superstiziosi<br />

come i popoli primitivi della cultura<br />

Yangshao.<br />

Ero ancora perso in quella mia pomposa<br />

critica culturale quando mi inginocchiai<br />

per visitare la prima paziente. Aveva la febbre<br />

alta, a quaranta, ed era scossa da tremori<br />

violenti. Appena cosciente, piagnucolò<br />

un po’ quando cercai di muoverle<br />

braccia e gambe. Aveva una ferita sull’avambraccio<br />

destro, il segno di un morso.<br />

Quando la esaminai più da vicino, mi resi<br />

conto che non era stato causato da un animale.<br />

Il raggio del morso e i segni dei denti<br />

erano sicuramente stati causati da un piccolo,<br />

o forse giovane, essere umano. Anche<br />

se ipotizzai che fosse quella la causa dell’infezione,<br />

la ferita in sé era sorprendentemente<br />

pulita. Chiesi, di nuovo, chi si era<br />

preso cura di quelle persone. Di nuovo, mi<br />

risposero nessuno. Sapevo che non poteva<br />

essere vero. <strong>La</strong> bocca umana è zeppa di<br />

batteri, anche più di quella del cane più<br />

sporco. Se nessuno aveva pulito la ferita di<br />

questa donna, perché il taglio non brulicava<br />

di infezioni?<br />

Esaminai gli altri sei pazienti. Mostravano<br />

tutti sintomi simili, avevano tutti ferite<br />

simili in diverse parti del corpo. Chiesi a un<br />

uomo, il più lucido del gruppo, chi o cosa<br />

avesse causato queste ferite. Mi disse che<br />

era successo quando avevano cercato di<br />

«domarlo».<br />

«Domare chi?», chiesi.<br />

Trovai il “paziente zero” dietro la porta<br />

chiusa a chiave di una casa abbandonata<br />

dall’altra parte del paese. Aveva dodici anni.<br />

Polsi e piedi erano legati con della corda<br />

da imballaggio di plastica. Nonostante<br />

avesse sfregato la pelle contro i lacci, non<br />

c’era sangue. Non c’era sangue neanche<br />

nelle altre ferite, nemmeno su quelle più<br />

profonde che aveva su gambe e braccia, né<br />

intorno al grande buco che aveva al posto<br />

dell’alluce destro. Il ragazzino si dimenava<br />

come un animale; un bavaglio attutiva i<br />

suoi grugniti.<br />

Gli abitanti del villaggio cercarono di<br />

trattenermi. Mi avvisarono di non toccarlo,<br />

perché era «maledetto». Li ignorai e presi<br />

guanti e mascherina. <strong>La</strong> sua pelle era<br />

fredda e grigia come il cemento sul quale<br />

giaceva. Non riuscii a trovare il battito cardiaco<br />

né le pulsazioni al polso. Aveva occhi<br />

spiritati, spalancati e affossati nelle orbite.<br />

Rimasero fissi su di me come quelli di una<br />

bestia predatrice. Durante tutta la visita fu<br />

inspiegabilmente ostile, allungava verso<br />

di me le mani legate e provava a mordermi<br />

attraverso il bavaglio. I suoi movimenti<br />

L’ultima guerra dei morti viventi<br />

CULT<br />

Un’immagine<br />

tratta dal film<br />

di George A.<br />

Romero,<br />

<strong>La</strong> notte dei morti<br />

viventi (1968)<br />

erano così violenti che dovetti chiedere a<br />

due tra gli abitanti del paese più robusti che<br />

mi aiutassero a tenerlo fermo. All’inizio<br />

non si mossero, rannicchiati davanti alla<br />

porta come due coniglietti. Spiegai che<br />

non c’era alcun rischio d’infezione se usavano<br />

guanti e mascherina.<br />

Quando scossero la testa, trasformai la<br />

richiesta in un ordine, anche se non avevo<br />

alcuna autorità legale per farlo. Ma bastò. I<br />

due buoi s’inginocchiarono accanto a me.<br />

Uno teneva i piedi del ragazzo, mentre l’altro<br />

gli stringeva le mani. Cercai di prelevare<br />

un campione di sangue e invece tirai<br />

fuori solo una sostanza marrone e viscosa.<br />

Mentre stavo togliendo l’ago, il ragazzo ricominciò<br />

a lottare con violenza.<br />

Uno dei miei<br />

“inservienti”,<br />

quello responsabile<br />

delle<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

braccia, smise di tenerle ferme e pensò che<br />

poteva essere più sicuro se si limitava a<br />

schiacciarle con le ginocchia contro il pavimento.<br />

Ma il ragazzo scattò di nuovo e io<br />

sentii il suo braccio sinistro che si spezzava.<br />

Le estremità frastagliate di radio e ulna<br />

sbucarono fuori dalla carne grigia. Il ragazzo<br />

non strillò, non parve neppure accorgersene,<br />

ma quello spettacolo fu sufficiente<br />

a far balzare indietro i due assistenti, che<br />

scapparono via dalla stanza. Io anche arretrai<br />

istintivamente di qualche passo.<br />

M’imbarazza ammetterlo.<br />

Sono stato dottore per gran parte della<br />

mia vita da adulto. Ero stato addestrato<br />

e... si potrebbe addirittura dire “allevato”<br />

dall’Esercito popolare di liberazione. Ho<br />

curato più ferite di guerra di quante avrei<br />

voluto, ho sfiorato la morte in più di<br />

un’occasione, ed ero terrorizzato, veramente<br />

terrorizzato, da questo gracile esserino.<br />

Il ragazzo cominciò a torcersi verso di<br />

me, il braccio si squarciò fino a staccarsi.<br />

Carne e muscolo si separarono finché<br />

non rimase che il moncherino. Il braccio<br />

destro ora libero, ancora legato alla mano<br />

sinistra troncata, trascinava il corpo lungo<br />

il pavimento.<br />

Mi precipitai fuori, chiudendo a chiave<br />

la porta dietro di me. Cercai di ricompormi,<br />

di controllare la paura e la vergogna.<br />

Mi tremava ancora la voce quando chiesi<br />

come si era infettato. Nessuno rispose.<br />

Cominciai a sentire dei colpi contro la<br />

porta, i pugni del ragazzo che battevano<br />

deboli contro il legno sottile. Riuscii a malapena<br />

a non sobbalzare per quel rumore.<br />

Pregai che nessuno si accorgesse di quanto<br />

ero diventato pallido. Urlai, per paura<br />

quanto per frustrazione, che dovevo sapere<br />

cosa era successo a quel<br />

bambino.<br />

Una giovane si fece avanti,<br />

forse sua madre. Era evidente<br />

che piangeva da giorni;<br />

aveva gli occhi asciutti e<br />

profondamente arrossati. Ammise che<br />

era successo quando il ragazzo e suo padre<br />

stavano «pescando sotto la luna»,<br />

espressione che significava tuffarsi alla ricerca<br />

di tesori tra le rovine sommerse della<br />

Grande riserva, alle Tre Gole. [...] E infine<br />

lei mi spiegò che il ragazzo era tornato<br />

piangendo e con i segni di un morso sul<br />

piede. Non sapeva cosa fosse successo,<br />

l’acqua era troppo scura e fangosa. Suo<br />

padre non fece più ritorno. Presi il cellulare<br />

e composi il numero del dottor Gu Wen<br />

Kuei, un vecchio compagno dei giorni<br />

dell’esercito, che ora lavorava all’Istituto<br />

malattie infettive dell’università di<br />

Chongqing<br />

[...] Gli raccontai tutto: i morsi, la feb-<br />

bre, il ragazzo, il braccio... il suo volto all’improvviso<br />

si irrigidì. Il sorriso scomparve.<br />

Mi chiese di mostrargli gli infetti.<br />

Tornai alla sala riunioni e sventolai la telecamera<br />

del telefono su ogni paziente.<br />

Lui mi chiese di avvicinarla ad alcune ferite.<br />

Lo feci, e quando riportai lo schermo<br />

verso di me vidi che lui aveva interrotto il<br />

contatto video.<br />

«Resta dove<br />

sei», mi disse,<br />

ora ridotto solo<br />

a una voce distaccata<br />

e lontana.<br />

«Prendi i<br />

nomi di tutti<br />

quelli che sono<br />

stati in contatto<br />

con<br />

gli in-<br />

IL LIBRO<br />

Un’epidemia che trasforma gli uomini in zombi<br />

Incomincia in Cina e si diffonde in tutto il mondo<br />

Un romanzo a più voci che racconta la fine di tutto<br />

ciò che l’uomo è abituato a dare per scontato<br />

Ma non è solo questo il libro di Max Brooks<br />

World War Z. <strong>La</strong> guerra mondiale degli zombi (Cooper,<br />

320 pagine, 16 euro). È un atto di denuncia contro<br />

l’indifferenza dell’umanità di fronte a guerre, ingiustizie,<br />

sofferenze e contro la mancanza di un piano<br />

di convivenza planetaria comune anche di fronte<br />

alle tragedie. In libreria il 2 novembre<br />

fetti. Rinchiudi quelli già contaminati. Se<br />

qualcuno è entrato in coma, isolalo in<br />

un’altra stanza e blocca l’uscita». <strong>La</strong> sua<br />

voce era piatta, robotica, come se avesse<br />

già provato quel discorso o lo stesse leggendo.<br />

Mi chiese: «Sei armato?». «Perché<br />

dovrei?», chiesi io. Mi disse che mi avrebbe<br />

richiamato lui, e il suo tono era quello<br />

del pragmatismo assoluto. Disse che doveva<br />

fare qualche telefonata e che avrei ricevuto<br />

«rinforzi» in poche ore.<br />

Non ne passò neppure una che già erano<br />

lì, cinquanta uomini in grandi elicotteri<br />

militari Z-8A, con addosso la tuta di protezione<br />

contro le sostanze tossiche. Dissero<br />

di essere del ministero della Sanità.<br />

Non so chi credessero di prendere in giro.<br />

Con quell’andatura spavalda e prepotente,<br />

con quell’arroganza intimidatoria,<br />

persino gli zotici di quel paesino sperduto<br />

potevano riconoscere i Guoanbu.<br />

Entrarono nella sala riunioni. I pazienti<br />

vennero trasportati fuori in barella,<br />

braccia e gambe in catene, le bocche imbavagliate.<br />

Poi toccò al ragazzo. Uscì in un<br />

sacco di plastica per cadaveri. Sua madre<br />

piangeva mentre lei e il resto del paese venivano<br />

radunati per le “visite”. Presero i<br />

loro nomi, effettuarono prelievi del sangue.<br />

Uno dopo l’altro furono spogliati e<br />

fotografati. L’ultima a venire denudata fu<br />

una vecchia avvizzita. Aveva un corpo<br />

magro e storto, un viso con migliaia di rughe<br />

e piedi minuscoli che dovevano averle<br />

fasciato quando era bambina. Agitava il<br />

pugno ossuto contro i “dottori”. «Questa<br />

è la vostra punizione», urlò. «Questa è la<br />

vendetta per Fengdu!».<br />

Si riferiva alla Città dei Fantasmi, i cui<br />

templi e santuari erano dedicati al mondo<br />

sotterraneo. Come Vecchio Dachang,<br />

era stata uno sfortunato ostacolo per il<br />

nuovo Grande balzo in avanti della Cina.<br />

Era stata evacuata, poi demolita, poi quasi<br />

del tutto sommersa. Io non sono mai<br />

stato superstizioso e non mi sono mai fatto<br />

abbindolare dall’oppio dei popoli. Sono<br />

un dottore, uno scienziato. Credo solo<br />

in ciò che posso vedere e toccare. Per me<br />

Fengdu è sempre stata solo una stupida,<br />

volgare trappola per turisti. Ovviamente<br />

le parole di quell’antico rudere grinzoso<br />

non ebbero nessun effetto su me, ma il<br />

suo tono, la sua rabbia... aveva visto ab-<br />

“ Sono stato dottore per gran parte della mia vita da adulto<br />

Ero stato addestrato e... si potrebbe addirittura dire allevato<br />

dall’Esercito popolare di liberazione. Ho curato più ferite al fronte<br />

di quante avrei voluto ed ero terrorizzato da questo gracile esserino”<br />

bastanza calamità negli anni che aveva<br />

passato sulla Terra: i signori della guerra,<br />

i giapponesi, il folle incubo della Rivoluzione<br />

culturale... sapeva che stava arrivando<br />

un’altra tempesta, anche se la sua<br />

istruzione non le permetteva di riconoscerla.<br />

Il mio collega, il dottor Kuei, l’aveva riconosciuta<br />

fin troppo bene. Aveva persino<br />

rischiato la pelle per avvisarmi, per<br />

darmi almeno il tempo di chiamare e magari<br />

allertare qualcun altro prima che arrivasse<br />

il “ministero della Salute”. E mi<br />

aveva avvisato con una frase... un’espressione<br />

che non usava da tanto,<br />

dai tempi delle “insignificanti”<br />

dispute di confine<br />

con l’Unione Sovietica.<br />

Dal lontano 1969.<br />

Eravamo in un bunker<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />

sotterraneo dal nostro lato dell’Ussuri, a<br />

meno di un chilometro lungo il fiume da<br />

Chen Bao. I russi si preparavano a rimpossessarsi<br />

dell’isola, e la loro potente artiglieria<br />

martellava le nostre forze.<br />

Io e Gu stavamo cercando di togliere i<br />

frammenti di proiettile dalla pancia di<br />

questo soldato non molto più giovane di<br />

noi. Il tratto finale dell’intestino del ragazzo<br />

era tutto squarciato, i nostri camici<br />

erano coperti di sangue ed escrementi.<br />

Ogni sette secondi un colpo di cannone si<br />

abbatteva lì vicino e noi ci dovevamo piegare<br />

sul corpo del giovane per proteggere<br />

la ferita dagli schizzi di terreno, e ogni volta<br />

gli eravamo abbastanza vicini da sentirlo<br />

piagnucolare e chiamare sua madre.<br />

C’erano anche altre voci, provenivano dal<br />

buio profondo oltre l’entrata del nostro<br />

bunker, voci disperate, rabbiose, che non<br />

avrebbero dovuto essere dal nostro lato<br />

del fiume. Avevamo due soldati della fanteria<br />

appostati all’entrata del bunker.<br />

Uno di loro urlò: «Spetsnaz!», e aprì il<br />

fuoco contro il buio. Sentimmo anche altri<br />

spari, senza capire se fossero dei nostri<br />

fucili o dei loro. Arrivò un altro colpo<br />

di cannone, e noi ci piegammo sopra il<br />

ragazzo morente. Il viso di Gu era solo a<br />

pochi centimetri dal mio. Il sudore gli si<br />

riversava dalla fronte. Persino alla luce<br />

fioca di una sola lanterna a cherosene<br />

potevo vedere che stava tremando ed era<br />

pallido. Guardò il paziente, poi il vano<br />

della porta, poi me, e all’improvviso disse:<br />

«Non ti preoccupare, andrà tutto bene».[...]<br />

Adesso eravamo anziani, e qualcosa di<br />

peggio stava per succedere. Usò quell’espressione<br />

subito dopo avermi chiesto<br />

se ero armato. «No», dissi io, «perché dovrei?».<br />

Ci fu un breve silenzio, sono sicuro<br />

che altre orecchie fossero in ascolto.<br />

«Non ti preoccupare», disse lui, «andrà<br />

tutto bene».<br />

Traduzione di Nello Giugliano<br />

(Studio Oblique)<br />

© 2006 Max Brooks - © 2007 Cooper srl<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

FOTO EVERETT COLLECTION


44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

SPETTACOLI<br />

Dal 1991 a oggi il festival di Cannes ha chiesto ogni anno a un grande<br />

regista di tenere una lectio magistralis sulla sua arte,<br />

i suoi trucchi, i suoi metodi. Da Rosi a Pollack ,<br />

da Wenders a Moretti, questi <strong>maestri</strong> hanno preso la parola davanti<br />

a un pubblico affascinato e selezionato. Ora quei seminari vengono<br />

raccolti in un volume. Ne anticipiamo alcuni brani<br />

U na<br />

Il soggetto<br />

WIM WENDERS<br />

In un film, che classicamente si divide<br />

in tre tappe, scrittura, riprese, montaggio,<br />

preferisco quello che c’è prima<br />

della scrittura, quello stato in cui si cerca<br />

l’inizio di un film, in cui si viaggia per trovare<br />

un paesaggio nel quale si sa che si potrà<br />

fare il film... Ancora non c’è niente, ci sono<br />

solo elementi frammentari, piccole storie<br />

che si sono viste, o un paesaggio di cui ci<br />

si ricorda, o un attore con il quale si ha voglia<br />

di lavorare. E poi tutto il resto, quello che viene<br />

dopo, soprattutto la scrittura, mi fa veramente<br />

paura e non mi piace affatto. Non mi<br />

piacciono neanche le riprese, sono troppo angoscianti.<br />

Al contrario, il montaggio è magnifico.<br />

Ma fra il montaggio finale e questa libertà<br />

del punto di partenza in cui ancora non c’è<br />

niente, io non sono a mio agio.<br />

<strong>La</strong> scrittura<br />

MILOS FORMAN<br />

buona sceneggiatura si scrive a più mani.<br />

Ho lavorato con Jean-Claude Carrière, Buck<br />

Henry o, in Cecoslovacchia, con Ivan Passer.<br />

Mi piace questo ambiente di collaborazione, questa<br />

emulazione delle idee. In base alla mia esperienza,<br />

una buona e felice collaborazione su una sceneggiatura<br />

val bene la metà della messa in scena. Si recita<br />

tutto il film in anticipo, prima delle riprese. Mi piace<br />

moltissimo lavorare con sceneggiatori capaci di recitare<br />

tutte le scene mentre scrivono, di dire tutti i dialoghi.<br />

Recitiamo fra di noi, e il mio orecchio può giudicare<br />

se suona vero o falso. Una riga di dialogo può<br />

sembrarvi assolutamente vera sulla carta, ma quando<br />

l’ascoltate suona falsa. È vero anche il contrario:<br />

talvolta, ciò che è scritto sembra falso, ma il parlato lo<br />

rivela come vero. Il passaggio all’orale è la prima verità<br />

di un film. <strong>La</strong> sola sceneggiatura che sia stata interamente<br />

scritta per me, addirittura prima che me<br />

ne interessassi, in cui non ho dovuto toccare neanche<br />

una riga, è <strong>La</strong>rry Flint — Oltre lo scandalo, nel 1996.<br />

Era la prima volta che mi succedeva: un vero e proprio<br />

lavoro su commissione, scritto da Scott Alexander e<br />

<strong>La</strong>rry Karaszewski. Ma non fu sgradevole, perché ho<br />

subito adorato quella sceneggiatura, un’ottima sceneggiatura.<br />

Dalla prima all’ultima pagina, ho esaminato<br />

ogni riga, ogni scena, ogni parola per rendermi<br />

conto se ero in grado di portarla sullo schermo oppure<br />

no. Riesco molto facilmente a visualizzare tutte le<br />

sequenze, tutti i tipi di scena. È così che mi rendo conto<br />

molto presto se corrisponde al mio senso della<br />

realtà. Preferisco sempre adattare una sceneggiatura<br />

alla mia realtà personale.<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

IL LIBRO<br />

Si intitola Lezioni di cinema<br />

e sarà in libreria dal 30 ottobre<br />

Raccoglie le lezioni che dal 1991 a oggi<br />

i grandi registi hanno tenuto in sedici<br />

edizioni del Festival di Cannes. Il libro<br />

(traduzione di Rosa Pavone, 207 pagine,<br />

20 euro) è pubblicato da Il Castoro<br />

In queste pagine anticipiamo alcuni<br />

estratti (© 2007 Festival di Cannes<br />

Editrice Il Castoro)<br />

FOTO CORBIS<br />

B illy<br />

<strong>La</strong> produzione<br />

BERTRAND TAVERNIER<br />

Wilder diceva che, alla fine, un<br />

regista impiega il 98 per cento del<br />

suo tempo a cercare i soldi per fare i<br />

suoi film e il due per cento a lavorare. Non<br />

aveva affatto torto: è più o meno così, purtroppo.<br />

Continuo a constatarlo sulla mia<br />

pelle, anche dopo tredici film. Potrei dire<br />

che, per le otto settimane di riprese di <strong>La</strong> vita<br />

e nient’altro, c’è stato prima un anno di<br />

ricerche di coproduttori, di capitali; un anno<br />

speso a cercare di convincere le persone<br />

che il film che avete dentro è interessante.<br />

E a questo punto, tutte le ipotesi sono<br />

possibili. Alcuni non vi rispondono,<br />

succedeva soprattutto all’inizio, ed è del<br />

tutto normale. Quando ho realizzato L’orologiaio<br />

di Saint-Paul o Che la festa cominciho<br />

subito tutte le umiliazioni che un<br />

autore può subire.<br />

Per esempio, un tipo che prende la sceneggiatura<br />

e che, dopo aver sfogliato tutte<br />

le pagine, dice in vostra presenza: «Caspita!<br />

Com’è grossa!» E il colloquio finisce qui.<br />

Da un produttore, oltre certamente all’aspetto<br />

finanziario, mi attendo una sorta di<br />

dialogo. Visto che non avviene spesso, sono<br />

diventato il mio coproduttore. Ma anche<br />

in questi casi ho bisogno di un dialogo<br />

con un produttore esterno, che somiglia<br />

un po’ a quello con gli attori. Un produttore<br />

è anche qualcuno che mi protegge e che,<br />

nel corso di questo percorso disseminato<br />

d’insidie e di umiliazioni, le sopporta al posto<br />

mio. O almeno con me. Perché ci si trova<br />

quantomeno in uno stato di fragilità<br />

spesso terribile.<br />

S ul<br />

<strong>La</strong> fotografia<br />

OLIVER STONE<br />

set ci sono gli attori, che sono<br />

certamente importanti, ma il per-<br />

sonaggio chiave, il partner fonda-<br />

mentale del regista è il direttore della<br />

fotografia, l’uomo con il quale parla durante<br />

tutte le riprese. È con lui che bisogna<br />

lavorare, preparare le scene, comporre<br />

la luce… Sempre con quel dubbio<br />

che solo il regista può risolvere: che<br />

cosa chiedere al direttore della fotografia?<br />

Ha di fronte una specie di alternativa:<br />

gli dà delle indicazioni molto precise<br />

o, al contrario, lo lascia relativamente<br />

libero nei suoi movimenti e nei suoi<br />

propositi? Perché il direttore della fotografia<br />

è un compagno, un amico, ma è<br />

anche un nemico. Su un set, bisogna<br />

stare attenti a tutte le persone che ci sono<br />

intorno: i collaboratori danno al regista<br />

la sua forza, ma gliela tolgono anche.<br />

Bisogna saper difendere le proprie<br />

idee, perché tutti le cambiano e le trasformano<br />

durante le riprese. Bisogna<br />

assolutamente mantenere una visione<br />

personale, altrimenti il film, alla fine<br />

dei conti, non assomiglierà più al regista.<br />

Se posso darvi un consiglio, eccolo:<br />

quando sarete registi, mantenete le vostre<br />

idee originarie!<br />

I l<br />

L’attore<br />

FRANCESCO ROSI<br />

regista deve ottenere tutto quello che<br />

è possibile da un attore professionista,<br />

e ancora di più da un attore non pro-<br />

fessionista. Se sceglie un non professionista,<br />

significa che è convinto che potrà ottenere<br />

da lui qualcosa in più. Ma bisogna<br />

usare con lui maniere diverse, che possono<br />

essere dolci o violente. Si può arrivare<br />

fino alla collera, agli urli, talvolta a uno<br />

schiaffo. Ma questo succede anche con i<br />

professionisti! E con le attrici! Non potete<br />

immaginare il numero di registi che hanno<br />

preso a schiaffi le loro attrici! Ma questa<br />

forma di crudeltà è, direi, una crudeltà<br />

del tutto “curativa”. Ho lavorato con un<br />

buon numero di attori famosi, Gian Maria<br />

Volonté in cinque film, Rod Steiger in due<br />

film, Sofia Loren, Omar Sharif, Alain Cuny<br />

in tre film, Philippe Noiret, anche lui in tre<br />

film, Vittorio Gassman o Max von Sydow.<br />

E credo di averli sempre aiutati perché li<br />

ho sempre amati. Se non amo l’attore che<br />

scelgo non è possibile per me realizzare<br />

un film. Ho lavorato anche con giovani attori,<br />

Rupert Everett, Ornella Muti, o James<br />

Belushi nel mio ultimo film, Dimenticare<br />

Palermo, nel 1990. È un formidabile attore<br />

americano, con una personalità molto<br />

forte: seguiva esattamente quello che gli<br />

domandavo, ma nello stesso tempo sapeva<br />

servire il suo personaggio “sentendolo”,<br />

“provandolo” dandogli emozioni<br />

proprie. È spesso questo il problema sul<br />

quale l’attore e il regista entrano in conflitto:<br />

quando il primo vuole dare al personaggio<br />

le proprie emozioni.<br />

P er<br />

Il montaggio<br />

SYDNEY POLLACK<br />

me, il montaggio è sempre stata<br />

la chiave del film. Quando si ta-<br />

glia, si dà un ritmo. Funziona o<br />

non funziona; si ride o no; si ha paura<br />

o no. Il centro del bersaglio infatti è<br />

minuscolo e o lo si raggiunge, o non lo<br />

si raggiunge: è il montaggio che permette<br />

di aggiustare il tiro. Tanto più<br />

nel caso dei generi di “film a ritmo”,<br />

come la commedia, il thriller, la suspense,<br />

secondo me i più difficili e i più<br />

accattivanti perché hanno a che vedere<br />

con un certo stato di urgenza. In<br />

questo caso, al montaggio, cercate per<br />

tutto il tempo l’equilibrio tra mistero e<br />

confusione. È un controllo permanente<br />

delle informazioni che si daranno<br />

e del tempo che si impiega a darle.<br />

È tutta una questione di tempismo.<br />

Passo molto tempo al montaggio e ancora<br />

di più nel caso di un film comico.<br />

Fortunatamente, non faccio molti<br />

ciac e non uso molti angoli di ripresa<br />

perché voglio avere tutte le possibilità<br />

aperte. Le mie riprese consistono soprattutto<br />

nel mettere gli attori a loro<br />

agio e nel non impedirmi niente al<br />

montaggio. Cerco di non complicarmi<br />

la vita.<br />

I l<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45<br />

L’inquadratura<br />

THEO ANGHELOPULOS<br />

cinema di montaggio non è mai<br />

stato quello che mi interessava.<br />

Non era affatto quello che cerca-<br />

vo… Avevo bisogno che le inquadrature<br />

durassero a lungo. Ogni volta che vedevo<br />

un film di montaggio, forse era<br />

una peculiarità del mio sguardo, avevo<br />

bisogno che le inquadrature durassero<br />

due secondi di più. È per questo che i<br />

primi film di Antonioni mi hanno<br />

profondamente segnato. L’azione termina<br />

e nonostante ciò c’è qualche secondo,<br />

qualche breve secondo in più,<br />

che qualsiasi montatore al mondo<br />

avrebbe tagliato, ma che Antonioni, ne<br />

L’avventura per esempio, lasciava. Per<br />

me era la cosa più interessante. È per<br />

questo che, quando ho incontrato Antonioni<br />

per la prima volta, gli ho detto<br />

che avevo appena comprato il mio biglietto<br />

per andare a rivedere L’avventuraper<br />

la tredicesima volta. È vero che<br />

all’epoca si diceva: «Andiamo a farci<br />

una dose di Antonioni…» Non era il solo,<br />

c’era anche Orson Welles, con i suoi<br />

magnifici piani sequenza. C’era Murnau,<br />

in L’ultima risata, che iniziava<br />

con un piano sequenza straordinario.<br />

Quindi, fin dall’inizio, ho optato per un<br />

respiro diverso da quello che esiste nei<br />

film di montaggio, e nella maggior parte<br />

dei film cosiddetti “normali”. Cosa<br />

che presupponeva un uso molto diverso<br />

del tempo. Non è un caso se il cinema<br />

che voglio fare si può chiamare un<br />

“cinema del tempo”.<br />

D a<br />

Il pubblico<br />

NANNI MORETTI<br />

sempre il mio “lavoro” di spettatore<br />

ha influenzato il mio la-<br />

voro di regista, le mie esperien-<br />

ze e le mie emozioni di spettatore hanno<br />

influenzato le mie scelte di regista.<br />

Ho visto molti film, e molti brutti film.<br />

Credo che vedere brutti film sia utile,<br />

permette di sviluppare il proprio senso<br />

critico e di cercare di evitare nel proprio<br />

lavoro quello che non piace nel lavoro<br />

degli altri. All’inizio soprattutto,<br />

quando un regista gira i suoi primi film,<br />

è molto importante che sappia quello<br />

che non vuole assolutamente dai suoi<br />

collaboratori: sceneggiatori, attori, direttore<br />

della fotografia, scenografo, responsabile<br />

dei costumi, montatore,<br />

compositore, che, spesso per abitudine,<br />

propongono soluzioni standard,<br />

idee di routine, molto “professionali”,<br />

senza tener conto della personalità del<br />

regista con il quale lavorano. È importante<br />

per un debuttante sapere quello<br />

che vuole fare e, ancora più importante,<br />

sapere quello che non vuole fare<br />

perché l’ha visto duecento volte in film<br />

che non gli sono piaciuti e che sono<br />

ben lontani dal suo modo di sentire le<br />

cose e di raccontarle.<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

i sapori Digestive, stimolanti, drenanti, calmanti, ma soprattutto odorose<br />

Profumi in tazza Nate da cocktail di specie o monodedicate, offrono ristoro<br />

nelle serate più fredde e promettono benefici a grandi e piccini<br />

Antiche come i saperi officinali, le pozioni magiche dell’autunno<br />

non sono più soltanto un must stagionale ma un passaporto<br />

sicuro per il benessere. Bere sano è di moda<br />

Tisane<br />

LICIA GRANELLO<br />

femminista degli anni Settanta a gioco di travestimento<br />

nella notte di Halloween, (l’appuntamento è<br />

per mercoledì prossimo), la figura della strega passa<br />

tremate, le streghe son tornate!». Da slogan<br />

indissolubilmente dalle pozioni magiche, oggi tra-<br />

«Tremate<br />

mutate in fumanti tisane.<br />

Trent’anni fa non si andava molto oltre la buona, vecchia camomilla,<br />

toccasana per grandi e piccini caro ai seguaci di Carosello («Nervi calmi,<br />

sonni belli con Espresso Bonomelli!»). Chiederne una tazza al ristorante<br />

era come dare la patente di indigeribilità alla cena e insinuare più di un<br />

dubbio sull’abilità del cuoco: ci si vergognava un poco, adducendo disturbi<br />

pregressi o insonnie indomabili.<br />

Lontane dalle pubbliche cucine, per scelta ribelle o intuito femminile, le<br />

pasionarie di allora cominciarono a recuperare la tradizione degli infusi benefici<br />

mutuati dalla tradizione contadina: ben prima dei tè verdi e degli intrugli<br />

miracolanti che oggi affollano gli scaffali, calde scodelle di finocchio<br />

& liquirizia accompagnavano chiacchiere leggere e discussioni accanite.<br />

L’arrivo della cucina d’Oriente sulle nostre tavole e la veicolazione delle<br />

informazioni gastronomiche da una parte all’altra del mondo hanno sdoganato<br />

le tisane dal purgatorio delle bevande tristanzuole, promuovendole<br />

a veri e propri compendi del buon mangiare. Con il risultato di rendere<br />

popolari erbe, radici e frutti confinati nei saperi dei botanici o affondati nella<br />

memoria popolare.<br />

Alzi la mano chi conosceva lo zenzero dieci anni fa: nessuno o quasi, al<br />

di là dei primi appassionati di sushi e sashimi. E comunque, sempre considerandolo<br />

un dettaglio esotico (e non sempre piacevole, colpa della marinatura<br />

agrodolce che dilata un sapore per noi inconsueto), insieme al pic-<br />

Le erbe buone delle streghe<br />

<strong>La</strong> tisaniera<br />

I comandamenti della perfetta<br />

tisana prevedono l’uso<br />

di tisaniere acconce: bellissime,<br />

colorate, articolate<br />

come misteriose scatole cinesi<br />

A infusione avvenuta,<br />

il coperchietto si trasforma<br />

in piattino dove appoggiare<br />

la ciotolina bucherellata<br />

a incastro con dentro le erbe<br />

cantissimo wasabi. I più avvertiti ne giustificavano presenza e consumo<br />

come passaporto alla salubrità di un cibo — il pesce crudo — con cui la confidenza<br />

era pochissima. Oggi la tisana di zenzero e miele — antinausea e<br />

antisettica dell’apparato digerente — è diventata un must dei dopocena.<br />

Siamo dannati della dieta. Che c’è di meglio di una bevanda dimagrante<br />

per tentare di arginare le calorie di una supercena, azzerando i sensi di colpa?<br />

<strong>La</strong> padrona di casa, con aria complice e discreta, la chiama “infuso drenante”:<br />

come se il risotto mantecato, il fritto di calamari e un trittico di marron<br />

glacés fossero una questione di acqua trattenuta. In realtà, nella ricetta<br />

dell’erborista, al benemerito finocchio selvatico sono stati aggiunti fucus,<br />

che grazie allo iodio di cui è ricco favorisce il metabolismo dei grassi, e<br />

l’altrettanto benedetta liquirizia, dagli effetti lassativi.<br />

I protagonisti della nuova cucina hanno recepito benissimo il messaggio.<br />

Le tisane di fine pasto — sempre più odorose, ricercate, complesse —<br />

vengono declinate a mo’ di gelatine e spume all’interno del menù. Il talentuoso<br />

Massimiliano Alajmo, Tre Stelle Michelin a un passo da Padova, vanta<br />

tra i suoi piatti più riusciti e amati il rombo ai vapori di verbena con purè<br />

aspro di patate. Giovanni Grasso de <strong>La</strong> Credenza (San Maurizio Canavese)<br />

serve dei finti ravioli di mele verdi con infuso di cannella, il bergamasco Luca<br />

Brasi una ricottina di capra con frutta passita e infuso di rosmarino, Gennaro<br />

Esposito le candele con pesto di gamberi e infuso d’alghe.<br />

Se volete saperne di più, a Igea Marina, Rimini, la signora delle erbe Renata<br />

Spinardi organizza corsi gastronomici sulle infusioni d’erbe per neofiti<br />

e chef. I ribelli della tisana virtuosa, invece, troveranno soddisfazione al<br />

Marco Fadiga Bistrot, Bologna, dove il dessert-culto è la crema leggera al<br />

rum con cialda croccante alla frutta secca e infuso di sigaro Winston Churchill.<br />

In fondo, anche il tabacco è una pianta a suo modo officinale.<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

itinerari<br />

<strong>La</strong> trentina<br />

Eleonora<br />

Cunaccia<br />

è un’appassionata<br />

ricercatrice<br />

di erbe e frutti<br />

spontanei, che raccoglie<br />

tra i boschi e i prati<br />

d’alta quota. A valle,<br />

nell’officina botanica,<br />

il fratello chef Giovanni<br />

realizza infusioni, elisir<br />

creme e composte<br />

LE TIPOLOGIE<br />

Decotto<br />

Il modo migliore per estrarre<br />

le sostanze officinali da parti<br />

dure delle piante – radici,<br />

gambi legnosi, semi interi –<br />

è portarle a bollore con acqua<br />

oligominerale. <strong>La</strong> cottura<br />

con coperchio assicura<br />

la conservazione dei principi<br />

Infuso<br />

Si versa l’acqua bollente<br />

sulle erbe in un recipiente<br />

non ferroso (ceramica o cotto)<br />

e coperto, lasciando riposare<br />

dieci minuti. Poi, filtrare<br />

in un colino o in una garza,<br />

premendo col cucchiaino<br />

Si può addolcire con miele<br />

Macerazione<br />

Il processo di estrazione lenta<br />

in liquidi vari – acqua, olio, vino<br />

– può durare da alcune ore<br />

a giorni interi. Quelle in alcol<br />

si chiamano tinture. Si filtra<br />

e si conserva l’estratto al buio<br />

Tra le ricette: oli aromatizzati<br />

e curativi, aperitivi, amari<br />

Sciroppo<br />

<strong>La</strong> base di acqua e zucchero<br />

in soluzione concentrata<br />

(rapporto 1/1,75) o di alcol<br />

viene addizionata con erbe<br />

e portata a ebollizione fino<br />

a ottenere consistenza densa<br />

Lo zucchero può essere<br />

sostituito in parte con il miele<br />

Spiazzo (Tn)<br />

Costruita intorno<br />

al cinquecentesco santuario<br />

di San Vigilio, si affaccia<br />

a mezza costa<br />

in Val Rendena. Intorno,<br />

il parco dell’Adamello-<br />

Brenta con i suoi pascoli<br />

d’erbe selvatiche. A pochi chilometri Pinzolo<br />

e Madonna di Campiglio<br />

DOVE DORMIRE<br />

LOCANDA MEZZOSOLDO<br />

Località Mortaso<br />

Tel. 0465-801067<br />

Mezza pensione da 55 euro<br />

DOVE MANGIARE<br />

MILDAS<br />

Via Rosmini 7, località Vadaione Sud<br />

Tel. 465-502104<br />

Chiuso a pranzo e lunedì, menù da 32 euro<br />

DOVE COMPRARE<br />

PRIMITIVIZIA<br />

Frazione Borzago 93<br />

Tel. 0465-801373<br />

S ono<br />

andato nel bosco dei castagni giganti,<br />

così grandi che nemmeno dieci<br />

persone riuscirebbero ad abbracciarli,<br />

avranno cinquecento anni. Mi piace pensarli<br />

come testimoni silenziosi ma molto presenti<br />

di un lungo arco di storia. Ho raccolto<br />

qualche chilo dei loro frutti, sono tornato a<br />

casa e li ho cucinati sul fuoco. Ho preparato<br />

una crema delicata di zucca di Hokkaido che<br />

ho profumato con della noce moscata e condita<br />

con della menta che raccolgo spontanea.<br />

Ho accompagnato con i formaggi d’alpeggio<br />

che stagiono nella mia cantina e che<br />

porto a tavola nelle occasioni importanti.<br />

È stata una vera festa e come in ogni festa<br />

eccedo nella quantità. Io ero felice, il mio stomaco<br />

un po’ meno: si prospettava una nottata<br />

movimentata da<br />

grassi sogni. Un caro<br />

parente valtellinese mi<br />

ha regalato una buona<br />

manciata di erba Iva,<br />

una pianta spontanea<br />

che cresce sopra i duemila<br />

metri, dal gusto<br />

amaro ma straordinaria<br />

per la digestione. <strong>La</strong><br />

menta mi ha aiutato a<br />

trovare piacere, dopo<br />

dieci minuti dall’aver<br />

bevuto il mio decotto i<br />

miei sensi di colpa sono<br />

scomparsi e ho dormito benissimo.<br />

A casa ho una piccola collezione d’erbe essiccate:<br />

in parte le raccolgo, come il tiglio che<br />

cresce sul fiume vicino alla mia casa o la camomilla,<br />

quando la trovo. Le altre le acquisto<br />

biologiche. Sia la cultura del biologico che<br />

quella delle tisane è una prerogativa prettamente<br />

europea: se ne trovano quindi moltissime<br />

e di qualità straordinaria. Per apprendere<br />

i loro effetti benefici, consulto Krut und<br />

Ukrut (“Erbe e malerbe”), un libro scritto dal<br />

parroco Kunzle, erborista vissuto in Svizzera<br />

alla fine del Diciottesimo secolo, purtroppo<br />

non ancora tradotto in italiano. Su questo tema,<br />

e sulla tradizione antroposofica, ci sono<br />

comunque molti testi scritti da Rudolf Steiner<br />

e dai suoi confratelli.<br />

Mi piace anche scoprire erbe poco comuni<br />

come il levistico, che riesce ottimo nel mio<br />

risotto di verdure, la lavanda che sposo a un<br />

raviolo al vapore farcito di cavolo nero, il timo<br />

limone per una crema catalana abbinata<br />

ad una torta di mele caramellata. Altrimenti,<br />

Salsomaggiore (Pr) Scicli (Rg)<br />

Grazie al clima temperato<br />

e all’aria fine, la cittadina<br />

situata ai piedi<br />

dell’Appennino parmense<br />

prospera grazie alle cure<br />

salutari e all’ambiente<br />

rilassante. Il giardino<br />

botanico raccoglie quasi cinquecento varietà<br />

di piante aromatiche e officinali<br />

DOVE DORMIRE<br />

AGRITURISMO ANTICA TORRE (con cucina)<br />

Via Case Bussandri 197<br />

Tel. 0524-575425<br />

Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa<br />

DOVE MANGIARE<br />

GIOVANNI<br />

Via Centro 79, Alseno<br />

Tel. 0523-948304<br />

Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro<br />

DOVE COMPRARE<br />

GIARDINO GAVINELL (con cucina e camere)<br />

Località Gaviana 138<br />

Tel. 0524-578348<br />

Cercando<br />

i segreti<br />

del bosco<br />

in grande quantità, aneto, dragoncello,<br />

cerfoglio, erba cedrina, erba cipollina, menta,<br />

timo e rosmarino. Quest’ultimo lo unisco<br />

quasi sempre alla scorza di limone grattugiata,<br />

secondo un binomio che mi caratterizza.<br />

Tranne la menta e il timo, le erbe che utilizzo<br />

per le tisane non le utilizzo in cucina e viceversa.<br />

<strong>La</strong> differenza fondamentale deve essere<br />

comunque che in cucina vanno utilizzate<br />

delle erbe fresche, per le tisane quelle essiccate.<br />

<strong>La</strong> cucina moderna va associata alla freschezza,<br />

la tisana al tepore.<br />

Considero gli infusi un toccasana. Nell’arco<br />

della giornata ne bevo almeno tre: a colazione,<br />

dopo pranzo e al pomeriggio nella<br />

pausa del lavoro. L’attività dei reni si riduce<br />

dopo le diciassette: da quell’ora come regola<br />

non ne bevo più.<br />

Le infusioni le preparo,<br />

sia nella casa di Mila-<br />

no che al ristorante con<br />

acqua di sorgente di<br />

montagna. Nella casa<br />

ticinese basta quella del<br />

rubinetto. L’acqua scelta<br />

deve essere la più delicata<br />

possibile, così<br />

ogni gusto potrà esprimersi<br />

al meglio. Porto<br />

l’acqua a novanta gradi<br />

PETER LEEMAN<br />

e vi lascio le erbe tre minuti,<br />

il tempo giusto per<br />

distinguere profumi e caratteristiche, mantenendo<br />

un gusto rotondo e delicato. Dopo i<br />

cinque minuti, la tisana diventa curativa e<br />

deve essere bevuta per uno scopo preciso.<br />

Nel primo caso non va zuccherata e non va<br />

aggiunto limone, altrimenti poi tutto si assomiglia,<br />

nel secondo il suo effetto può essere<br />

rafforzato dal miele. In ogni caso non va mai<br />

bevuta bollente, sarebbe uno shock per l’organismo.<br />

Se le bevo per piacere, scelgo istintivamente<br />

tra le mie preferite: tiglio, erba cedrina,<br />

melissa e verbena. Le tisane curative, invece,<br />

seguono abbinamenti precisi: l’eucalipto<br />

per il raffreddore, i semi di finocchio per<br />

la digestione, la menta per la lucidità, la camomilla<br />

per rilassare. Del resto, ognuno di<br />

noi, se impara a osservarsi, diventa un ottimo<br />

medico di se stesso, e le tisane lo aiutano, a tavola<br />

e nella vita di tutti i giorni.<br />

L’autore, svizzero, è chef-patron del ristorante<br />

milanese “Joia”, unico locale vegetariano<br />

in Italia a fregiarsi della stella Michelin<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47<br />

Appoggiata sulle colline<br />

davanti al mare a sud<br />

di Ragusa, l’antica Sicla<br />

oltre all’area balneare, vanta<br />

una riserva naturale<br />

Il clima straordinario<br />

e la terra fertile ne fanno<br />

luogo ideale per coltivare erbe anche insolite,<br />

come la dolcissima stevia<br />

DOVE DORMIRE<br />

LA MAGNOLIA B&B<br />

Via Pacini 26<br />

Tel. 0932-833514<br />

Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa<br />

DOVE MANGIARE<br />

POMODORO<br />

Corso Garibaldi 46<br />

Tel. 0932-931444<br />

Chiuso martedì, menù da 30 euro<br />

DOVE COMPRARE<br />

GLI AROMI<br />

Via Berlino 1, Cava D’Aliga<br />

Tel. 0932-851734<br />

LE PREPARAZIONI<br />

Digestiva<br />

Bella, buona e rara, la genziana<br />

ha una radice che, seccata,<br />

è uno stimolatore gastrico<br />

Sue abituali compagne<br />

di tisana: liquirizia, verbena<br />

e carciofo. <strong>La</strong> salvia ha azione<br />

carminativa, lo zenzero<br />

funge da anti-nausea<br />

Antitosse<br />

Il trittico rosa canina-malvaeucalipto<br />

ha poteri antivirali,<br />

espettoranti e antibatterici<br />

esaltati in tisane e decotti<br />

da consumare caldi. Timo,<br />

propoli e pino mugo sono<br />

antibiotici naturali, il basilico<br />

vince raffreddore e sinusite<br />

Drenante<br />

Le tisane anti-gonfiore sono<br />

tra le più gettonate. Erba<br />

regina il finocchio, dalle<br />

qualità detossinanti e antifermentative.<br />

In fitoterapia<br />

si usa la varietà selvatica,<br />

spesso unita a asparago,<br />

lavanda, rosmarino e ortica<br />

Rilassante<br />

Non solo camomilla<br />

per le tisane anti-agitazione<br />

Valeriana, melissa e passiflora<br />

sono sedative e antinervine<br />

Il biancospino, coadiuvante<br />

contro spasmi nervosi,<br />

tachicardia e stanchezza,<br />

si usa per bagni rilassanti<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />

FOTO PETRINA TINSLAY/MEREHURST LTD


48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

le tendenze Nei primi decenni del Novecento erano il simbolo dell’eleganza<br />

Dettagli di moda<br />

Così le donne<br />

sognano di volare<br />

IRENE MARIA SCALISE<br />

MOULIN ROUGE<br />

Sembra arrivare<br />

dal Moulin Rouge<br />

la borsa di Fendi<br />

con catena preziosa<br />

e chiusura pregiata<br />

e del lusso femminile, oggi tornano ad ornare abiti, scarpe<br />

e accessori con la stessa levità di un tempo e un pizzico<br />

di trasgressione in più. Che siano nere o colorate, di struzzo<br />

o sintetiche non ha importanza, ciò che conta - secondo<br />

gli stilisti - è che donino al guardaroba un po’ di allegria<br />

Nei primi anni del “secolo breve” erano la regola, il simbolo dell’eleganza e dello chic. Le donne smaniavano<br />

per averle su abiti e accessori, gli uomini le guardavano con desiderio, annusando il simbolo<br />

della femminilità più leggiadra. Molto tempo dopo Gianfranco Ferré disse: «Vivacizzano i sogni,<br />

esprimono l’armonia del dettaglio, un ideale di bellezza che vive nel particolare». Ed ecco a voi<br />

le piume che, con i primi freddi, tornano ad ornare abiti, accessori e cappotti. Mai come quest’anno,<br />

romantiche ma audaci. Quasi un omaggio alle donne che, stanche della routine, sperano prima<br />

o poi di spiccare il volo. Il significato delle piume nel subconscio, infatti, corrisponde al desiderio d’evasione. Non<br />

a caso le piume si affermarono all’inizio del Novecento, periodo caratterizzato da una rivolta femminile: quella<br />

nei confronti del corsetto. Il massimo del loro splendore arrivò negli anni ruggenti raccontati da Francis Scott Fitzgerald.<br />

Era il momento dell’esplosione della couture parigina con Paquin, Doucet, <strong>La</strong>nvin, Patou,<br />

Chanel e delle grandi muse come Isadora Duncan, Mata Hari e Sarah Bernhardt. Ma anche dell’influenza<br />

orientale di caftani, tuniche, veli e turbanti. A Londra, in occasione di un’asta per sarti, le piume<br />

furono vendute a peso. Ben diciotto chili, con grande scandalo degli ornitologi. Nelle feste scorrevano<br />

fiumi di champagne e le mise delle dame erano un intreccio di ricami e decori. Piumaggi di<br />

struzzo ballavano a ritmo di musica nelle scene del Moulin Rouge.<br />

Non solo libertà però. Le piume sono anche simbolo di potere e di ricchezza, di regalità e di sacro.<br />

Chissà quante di queste recondite simbologie erano note ad attrici come Marlene Dietrich, Ginger<br />

Rogers e Jean Harlow. Donne che, in fatto di piume, osarono l’inimmaginabile: boa, manicotti e ad-<br />

dirittura pellicce completamente piumate. Fatto sta che contribuirono a creare il mito. A quel punto<br />

la moda se ne impadronì senza remore. Sono passati sessant’anni da quando, nel 1947, Christian Dior<br />

fondò la sua casa di moda. Furono proprio le sue prime creazioni, pensate per una donna diva più di<br />

tutte le altre, che influenzarono la femme fatale degli anni Quaranta. Le creature di Dior indossavano<br />

cappelli ornati da piume che ombreggiavano il viso. Quegli stessi decori che ora tornano d’attualità per mano<br />

del suo erede John Galliano.<br />

Le piume non furono amate solo dai grandi couturier. Anzi. Soavi e leggiadre apparivano nelle stampe di Toulouse<br />

<strong>La</strong>utrec e nelle pagine più appassionate di Gabriele D’Annunzio. Hanno trionfato nelle divise dei bersaglieri<br />

con il classico cappello nero a tese larghe, ornato da pennacchi di gallo cedrone, e nella feluca abbellita da piume<br />

verdi di struzzo.<br />

E poi, a fase alterne, sono riapparse come protagoniste del fashion. Negli anni Ottanta hanno avuto un periodo<br />

di gloria, se pur in una versione più “acida”, e oggi tornano impudicamente come nei mitici Venti. Non c’è stilista<br />

che non abbia scelto di riportarle in passerella, spesso non solo come ornamento, ma quale materia prima per<br />

gonne, giacche e cappotti. Magari applicate sulle borse e nei gioielli, incastonate nelle chiusure delle scarpe. Per<br />

augurare a tutte le donne un inverno leggero e poter fingere, grazie a un abito o a un dettaglio, di volare lontano.<br />

VEZZI DA STAR<br />

Piccola e vezzosa<br />

la borsina di Ferragamo<br />

in piume di struzzo<br />

con manico di lucertola<br />

Per portare con sé poche<br />

cose, magari<br />

solo il cellulare<br />

QUALITÀ NASCOSTE<br />

Borsa di raso con inserti<br />

in pelle e piume viola<br />

per Marni. Per le più<br />

sportive nasconde<br />

una tracolla,<br />

perfetta da abbinare<br />

a un paio di jeans<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


ILLUSTRAZIONE DI GRUAU,1956<br />

DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

SENZA FIATO<br />

Per chi vuole lasciare<br />

senza fiato c’è<br />

il cappotto in marabù<br />

di Bottega Veneta<br />

Capo di un’eleganza<br />

indimenticabile<br />

che riporta al primo<br />

ventennio del Novecento<br />

UNA CLIP GIOIELLO<br />

Misura pochi<br />

centimetri la borsa<br />

di Braccialini<br />

per la sera,<br />

ma l’effetto<br />

è assicurato. È arricchita<br />

da una chiusura<br />

gioiello in argento<br />

e da una catena<br />

intrecciata con fili<br />

dello stesso rosa<br />

cipria delle piume<br />

Il pensiero leggero<br />

tra realtà e poesia<br />

DARIA GALATERIA<br />

Èilpiù famoso dramma del teatro No giapponese. Un pescatore trova per caso un vestito di piume (Hagoromo), si innamora<br />

della proprietaria, e la sposa: ma, dopo qualche anno, la moglie trova l’abito in un armadio, lo indossa e vola<br />

via (Se-Ami Motokijo, 1400 c.). Anche nel carme antico-islandese di Völundr, tre principesse, avvolte da piume di<br />

cigno che le fanno volare, si posano in riva al mare, dove sposano tre fratelli, deponendo le piume: passano così otto<br />

anni, al nono le donne volano via. L’abito di piume, il lievissimo chimono di Banana Yoshimoto, ora (Feltrinelli<br />

2005) rovescia, con una scrittura di cristallo e molta amarezza, questo sogno femminile di diserzione: abbandonata<br />

dall’uomo sposato che ha amato a Tokyo per otto anni, Hotaru torna nel villaggio dell’infanzia a ripescare la sua integrità.<br />

Tra i maschi, la piuma non è leggerezza e fuga, ma sintomo di potere: “Tacchi rossi e piume” sono i segni degli uomini di corte<br />

(Vieux habits vieux galons, abiti e galloni del tempo che fu, canzone di Jean Pierre de Béranger). A Versailles il segretario Rose<br />

aveva «il privilegio della piuma» — cioè della penna d’oca: poteva contraffare la scrittura del<br />

re Sole (Saint-Simon, anno 1701 delle Memorie). E tra gli indiani pellerossa, solo il capo sioux<br />

Cavallo Pazzo, biondo come un viso pallido, trascurava le decorazioni di piume, insegna del comando<br />

(Mary Sandoz, biografa nel 1942 di Crazy Horse). Tutto il maledettismo della scapiglia-<br />

tura è riassunto da Emilio Praga nell’assenza di piume: «Noi siamo figli di padri ammalati / Aquile<br />

al tempo di mutar di piume», (Penombre, 1864). Semmai l’oscillazione del simbolo è tra predominio<br />

sociale e potere dell’intelligenza.<br />

Il pifferaio magico che con la sua musichetta “allegra” libera la città dai topi, e ne trascina poi<br />

con sé anche tutti i bimbi, è «un buffo omino con scarpe a punta e cappello con la piuma»<br />

(Grimm, Saghe germaniche, 1818). L’incantatore è un tipo strampalato; nel 1236 della sua apparizione<br />

ha un abito multicolore (Pied Piper); nell’Ottocento dei Grimm è diventato un originale<br />

per via delle scomode scarpe appuntite, inadatte al lavoro, e del cappello piumato: spie aristocratiche.<br />

Nella storia, è stato un reclutatore che conduceva i giovani di Hamelin (Bassa Sassonia) a colonizzare la Germania<br />

orientale; all’epoca di Grimm, il pifferaio già si colora di una superiorità artistica. Corneille invece nel 1644 (Il bugiardo, III,<br />

3) ancora pensa che le ragazze preferiscano un militare a un intellettuale: «il a jugé soudain/ qu’une plume au chapeau vous<br />

plaît mieux qu’à la main» (ha subito pensato che una piuma sul cappello vi piaccia più di una plume-penna d’oca — in mano).<br />

<strong>La</strong> più leggera delle piume mentali è in Mallarmé: il poeta del disagio e della cancellazione del mondo reale nel suo poemadisegno<br />

Un colpo di dadi (1897) rappresenta un naufragio; sola resta a volteggiare sulla tempesta (e su un’intera pagina del<br />

poema) la piuma del cappello nero di Amleto, il principe del dubbio. Più che mai la piuma rappresenta l’estrema rarefazione<br />

del pensiero, che lancia — come un colpo di dado — il suo sogno di una costellazione.<br />

<strong>La</strong> piuma è un peso nel Libro dei morti dell’Antico Egitto: nel solenne giudizio del defunto, il cuore, sede della coscienza,<br />

è posto su un piatto della bilancia; sull’altro, una piuma di struzzo (XVIII dinastia). Leggere di cuore, certe dame dell’Occidente<br />

usano le piume della civetteria, orientando le frecce di Eros: nella prima aria dell’opera buffa <strong>La</strong> Tancia, tratta<br />

da Jacopo Melani dalla commedia del Buonarroti il Giovane (1612) Isabella canta: «Han le piume acuti strali».<br />

PENSANDO ALLE HAWAII<br />

Merita l’Oscar<br />

per la piuma più colorata<br />

questo abito di Kenzo<br />

Sembra appena uscito<br />

dal guardaroba<br />

di una fanciulla<br />

hawaiana. Adatto<br />

per una serata di follie<br />

ANTICHE SCENE<br />

<strong>La</strong> piccolissima spilla<br />

da caccia firmata<br />

Gucci sarebbe<br />

perfettamente inserita<br />

in un quadro inglese<br />

dell’Ottocento<br />

Oggi è pensata<br />

per chi non vuole<br />

stupire con i soliti<br />

eccessi ma preferisce<br />

l’eleganza fatta<br />

di dettagli ineccepibili<br />

INSIEME VINCENTE<br />

È abile nel combinare<br />

gli stili la donna<br />

che sceglie le piume<br />

in versione Prada. Giacca<br />

severa da uomo, bordata<br />

di piume nere al punto<br />

vita e gonna in pelliccia<br />

arancio: insieme originale<br />

IL PORTAFORTUNA<br />

Per un inverno<br />

all’insegna<br />

del total look<br />

anche il portachiavi<br />

si arricchisce<br />

di una vezzosa<br />

piuma. Lo propone<br />

Carpisa che lo abbina<br />

a un fiocco di raso<br />

e a ciondoli portafortuna<br />

DENTRO LA FIABA<br />

Sembra uscita<br />

da una fiaba, magari<br />

quella di Biancaneve,<br />

la dama che indossa<br />

il soprabito-mantella<br />

piumato di Chanel<br />

L’effetto è optical<br />

degno dell’haute couture<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49<br />

CON LE ALI AI PIEDI<br />

Anche la ballerina diventa chic se,<br />

come viene proposto in questo<br />

modello Tod’s in suede nero,<br />

è arricchita con cuciture a contrasto<br />

e con una piuma piccola ma d’effetto<br />

ANNI QUARANTA<br />

Meravigliose piume blu elettrico<br />

maculate in nero come il raso<br />

che dà alle scarpe da sera, firmate<br />

Mambrini, un tocco di antico<br />

glamour. Effetto anni Quaranta<br />

SU LA TESTA<br />

Sembra di rivedere<br />

la testa di Mistinguette,<br />

eroina delle Folies<br />

Bergère, nel cappello<br />

piumato di Jean Paul<br />

Gaultier. Il lusso<br />

del decoro è concesso<br />

solo nel pennacchio<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale


50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />

l’incontro<br />

Non solo cinema<br />

ALBERTO FLORES D’ARCAIS<br />

VIENNA<br />

Ho commesso<br />

due gravi errori:<br />

uno nella vita pubblica,<br />

l’altro in quella pri-<br />

passato? «Il<br />

vata». Jane Fonda si ferma un attimo, si<br />

accarezza i capelli, scuote la testa. Siamo<br />

nella suite 510, quinto piano dell’Hilton<br />

di Vienna, la città dove l’attrice<br />

americana è stata invitata come star<br />

e protagonista assoluta della Viennale,<br />

il festival di cinema; ed è qui che racconta<br />

— in un’intervista esclusiva per<br />

<strong>Repubblica</strong> — la sua vita: quella di ieri,<br />

star di Hollywood e militante politica,<br />

quella di oggi, «di una donna che compie<br />

settanta anni tra meno di due mesi»,<br />

ma che si sente ancora «nel pieno<br />

della vita». E che non si tira indietro nel<br />

parlare della sua carriera, della sua famiglia,<br />

dei suoi ideali, dei suoi amori e<br />

dei suoi progetti nella terza età.<br />

«Perché non partiamo proprio dall’oggi?<br />

Più che terza età io preferisco<br />

chiamarlo il terzo atto, in fondo sono<br />

un’attrice. Quando inizia il terzo atto<br />

una delle cose di cui ti rendi conto è che<br />

il tempo diventa limitato; la cosa peggiore<br />

è fare finta di niente, illudersi che<br />

il terzo atto non sia iniziato, negare che<br />

di fronte a noi, in tempi sempre più ravvicinati,<br />

ci sia la morte. Hallo morte, io<br />

non ho paura di te! Questo mi dico<br />

adesso, ogni giorno, in ogni momento<br />

importante della mia vita. Pensi al<br />

Messico, nella cultura di quel paese,<br />

nelle sue tradizioni, e non solo religiose,<br />

la morte è sempre presente, è un appuntamento<br />

quasi vitale. Se sai cosa<br />

fare, se hai voglia di fare, entrare nel<br />

terzo atto è bello. Quando si pensa alla<br />

morte ci si domanda quali siano i rim-<br />

Jane Fonda<br />

pianti, che cosa uno avrebbe o non<br />

avrebbe dovuto fare nella propria vita.<br />

Ecco, io non voglio avere rimpianti, ho<br />

ancora il tempo per fare tante cose. E<br />

voglio farle».<br />

Icona pacifista negli anni Settanta<br />

(quelli della guerra in Vietnam), attrice<br />

impegnata, femminista militante. Cosa<br />

è diventata oggi Jane Fonda, crede<br />

ancora negli ideali di un tempo? L’attrice<br />

sorride, poi scandisce con calma<br />

le parole: «Prima mi ha chiesto dei miei<br />

errori passati, ora glieli dico. Ce ne sono<br />

due che vorrei non avere mai fatto.<br />

Il primo fa parte della mia vita pubblica,<br />

la vita di Jane Fonda attrice, attivista,<br />

femminista. Quando andai ad Hanoi,<br />

in piena guerra del Vietnam, mi feci<br />

fotografare accanto alla carcassa di<br />

un bombardiere americano abbattuto.<br />

Già, “Hanoi Jane”, la “nemica d’America”,<br />

la traditrice. Credo che fosse<br />

giusto andare ad Hanoi, del resto non<br />

fui la sola in quegli anni, però quella foto<br />

non la dovevo proprio fare. Fu un errore,<br />

un errore grave, diedi l’impressione<br />

di essere contro i nostri soldati,<br />

contro quelli che morivano laggiù in<br />

Vietnam». E il secondo, riguarda la sua<br />

vita privata? «Sì, il secondo errore grave<br />

che ho commesso riguarda mia figlia,<br />

la mia prima figlia. Potevo, dovevo<br />

essere una madre migliore per lei,<br />

invece ero troppo presa dalla mia carriera,<br />

dal mio impegno politico. Per lei<br />

non sono stata una buona madre;<br />

adesso ci siamo riavvicinate, viviamo<br />

ad Atlanta, nella stessa città, lei ha due<br />

figli, cerco di essere almeno una buona<br />

nonna. Non è mai troppo tardi per cercare<br />

di riparare ai propri errori; però<br />

“Hanoi Jane” e la “cattiva madre” sono<br />

due crucci che mi porterò dentro fino<br />

alla morte».<br />

Si è parlato molto di una Jane Fonda<br />

che ha trovato un nuovo equilibrio nella<br />

religione. Una conseguenza dell’inizio<br />

del terzo atto? «Io credo che quando<br />

le donne invecchiano diventino<br />

inevitabilmente più spirituali, non necessariamente<br />

religiose. Ci si domanda:<br />

perché sono qui, c’è qualcuno,<br />

qualcosa più grande di noi? Sono domande<br />

metafisiche; la religione, le religioni<br />

danno alcune risposte. In cosa<br />

credo? Sento che c’è un essere divino,<br />

qualcosa di superiore. Non importa se<br />

lo chiamiamo Dio, Allah, Budda, sono<br />

sicura che non ama le guerre, che non<br />

ama i fondamentalismi. In diversi momenti<br />

della storia i fondamentalisti di<br />

ogni tipo, di ogni religione, si sono resi<br />

responsabili di cose atroci. Anche Gesù,<br />

se tornasse adesso sulla Terra, non<br />

approverebbe molte delle cose che<br />

vengono fatte in suo nome».<br />

Terzo atto e spiritualità non le hanno<br />

fatto perdere però la passione politica<br />

di un tempo, quella non sembra<br />

averla abbandonata. Se le si chiede<br />

delle prossime elezioni per la Casa<br />

Bianca quasi urla «Hillary!», se le si domanda<br />

se l’America è pronta per avere<br />

una donna come “commander in<br />

Settant’anni tra due mesi, una vita<br />

di battaglie e di successi arrivata<br />

al punto che lei, teatralmente,<br />

battezza “terzo atto”. Per spiegare<br />

che non vuol dire tirarsi indietro<br />

ma fare, fare, fare<br />

con più consapevolezza<br />

nella carriera,<br />

nella famiglia,<br />

nell’amore<br />

Ma è anche il punto<br />

dove ci si guarda<br />

indietro e dove l’attriceattivista-femminista<br />

si confessa<br />

e racconta i due errori di gioventù<br />

che volentieri cancellerebbe<br />

chief” risponde senza esitazione: «Assolutamente<br />

sì». L’impegno politico lo<br />

ha nel sangue, glielo ha trasmesso il padre,<br />

il grande attore Henri Fonda, impegnato<br />

con i democratici sin dai tempi<br />

di Franklin Delano Roosevelt. «Sono<br />

sicura che verrà scelta Hillary, ma se<br />

così non fosse andrò a votare lo stesso<br />

e voterò per il candidato democratico,<br />

chiunque esso sia. Ho sempre votato<br />

democratico, come ha sempre votato<br />

democratico mio padre, e continuerò<br />

a farlo».<br />

E l’Iraq, cosa pensa della guerra in<br />

Iraq “Hanoi Jane”? «Sono contraria,<br />

ovviamente, è una guerra che non si<br />

doveva fare e che sta andando in modo<br />

disastroso. I paragoni con il Vietnam?<br />

Ci sono tante differenze, ci sono anche<br />

tante somiglianze. Pensi al draft, alla<br />

leva. Allora era obbligatoria, e anche se<br />

per i “figli di papà” era più facile evitare<br />

di andare a combattere, quasi tutte<br />

le famiglie americane ne furono coin-<br />

In cosa credo? Sento<br />

che c’è un essere<br />

divino. Non importa<br />

se lo chiamiamo Dio,<br />

Allah o Budda,<br />

sono sicura<br />

che non ama<br />

le guerre<br />

né i fondamentalismi<br />

FOTO EYEDEA<br />

volte. Oggi abbiamo un esercito professionale,<br />

ma in qualche modo il draft<br />

è rimasto: è quello che io chiamo la “leva<br />

della povertà”, perché solo i più poveri,<br />

spesso immigrati, ragazzi e ragazze<br />

che non hanno alcun futuro davanti,<br />

si arruolano. In Vietnam non c’era la<br />

Cnn, ma le tv e i giornali di allora raccontavano<br />

più liberamente la realtà di<br />

quella guerra. Oggi, più che i media ufficiali,<br />

quello che avviene in Iraq ce lo<br />

raccontano i blog, i documentari. In<br />

Vietnam non c’erano donne soldato,<br />

questa è un’altra grande differenza,<br />

ma per chi tornava a casa, allora come<br />

oggi, i problemi sono gli stessi. Bush?<br />

Vuole sapere cosa penso del presidente<br />

americano? Mi piacerebbe incontrare<br />

George W. Bush in Texas, magari<br />

in uno di quei grandi barbecue che si<br />

fanno in quello stato. Vorrei parlare<br />

con lui, lo inviterei a venire con me in<br />

Africa per mostrargli le donne e i bambini<br />

che muoiono, fargli vedere i risultati<br />

della sua politica in giro per il mondo.<br />

Bush è un cristiano, anche lui deve<br />

avere una sua umanità».<br />

Quando si parla di politica o di guerra<br />

Jane Fonda risponde con il viso serio,<br />

soppesando le parole. Cambia atteggiamento<br />

se le domande riguardano<br />

il cinema, la sua carriera, il suo<br />

trionfale ritorno sugli schermi dopo<br />

quindici anni di assenza (in passato<br />

aveva anche promesso che non avrebbe<br />

recitato mai più) prima con Monster<br />

in <strong>La</strong>w e quest’anno con Georgia Rule.<br />

Racconta di Klute, uno dei film che<br />

ama di più, il turning point, la svolta<br />

della sua carriera di attrice: da bambola<br />

nelle mani di Roger Vadim ad attrice<br />

e donna impegnata. «Alan Pakula era<br />

un regista talentuoso. Girando quel<br />

film, dove interpreto la parte di una<br />

call-girl, una prostituta d’alto bordo,<br />

mi sono sentita veramente rinascere».<br />

È a Parigi però che nasce la Jane Fonda<br />

«attrice, attivista, femminista», come<br />

le piace definirsi. «Sì, ero in Francia<br />

nel 1968, avevo quasi trent’anni ed ero<br />

incinta. Lì ho conosciuto Simone Signoret:<br />

è lei che mi ha insegnato ad<br />

amare i film impegnati, è lei che mi ha<br />

spiegato la storia del Vietnam, gli errori<br />

dei francesi che gli americani andavano<br />

ripetendo. A Parigi ho conosciuto<br />

Sartre e Simone de Beauvoir, decine<br />

di registi, attori ed intellettuali che<br />

contestavano il mio paese, tanto che<br />

mi trovai spesso sulla difensiva: non<br />

capivo perché ci fosse tanto astio verso<br />

l’America. Quando sono tornata negli<br />

Stati Uniti ero una persona diversa,<br />

cambiata. Quando Alan mi chiamò per<br />

girare Klute non mi sentivo all’altezza;<br />

ho passato ore, giorni a frequentare le<br />

prostitute di Manhattan, ma ero convinta<br />

di non farcela». Per il personaggio<br />

di Bree Daniel, la call-girl, Jane Fonda<br />

vince il suo primo Oscar: «Klute è stato<br />

l’inizio di una nuova carriera, poi sono<br />

venuti altri film che amo molto, come<br />

Coming Home, uno dei film più belli<br />

che parlano del Vietnam, e non lo dico<br />

io». Per Coming Home, ottiene il suo secondo<br />

Oscar, un terzo lo sfiora con Julia.<br />

Poi nel 1981 quello che sarebbe stato<br />

per quindici anni il suo ultimo film,<br />

The Golden Pond. «Il film girato con<br />

mio padre. Non potrò dimenticarlo<br />

mai. Fu difficile, fu emozionante, fu<br />

commovente. Per quel film mio padre<br />

vinse il suo unico Oscar; la statuetta la<br />

ritirai io, lui era ormai troppo malato,<br />

sarebbe morto pochi mesi dopo». Si<br />

commuove ancora parlando del padre,<br />

e di quel film in cui Henry e Jane recitavano<br />

in qualche modo anche la<br />

propria vita privata.<br />

«Se oggi a Hollywood c’è una mia<br />

erede? Ci sono tante brave attrici. Ma è<br />

il mondo del cinema e anche il modo di<br />

girare i film che è cambiato. Oggi un regista<br />

non sta più nella famosa sedia,<br />

dietro la macchina da presa, mentre<br />

reciti praticamente non lo vedi mai. E<br />

poi a Hollywood sono cambiate le celebrities,<br />

i paparazzi vanno in giro a fotografare<br />

ragazzine che magari non hanno<br />

mai girato un film. <strong>La</strong> cosa peggiore<br />

credo che siano i costi. I film sono troppo<br />

cari, escono il venerdì e se il sabato<br />

non hanno avuto successo la domenica<br />

già li tolgono dalla circolazione.<br />

Non si dà tempo a un film di essere capito,<br />

accettato. Gli italiani? Mi piacciono<br />

i grandi, Fellini, Antonioni, tra gli attori<br />

Mastroianni. Lei non me lo chiede<br />

ma glielo dico io: dell’Italia mi piace da<br />

matti il cibo. Quando sono in America<br />

spiego sempre ai miei amici che la cucina<br />

italiana negli States non ha nulla a<br />

che vedere con quella che si può gustare<br />

in Italia». Il futuro? «Fra meno di due<br />

mesi compio settanta anni. Sto scrivendo<br />

le mie memorie, dopo tre matrimoni<br />

ho una vita ricca e felice con il<br />

mio compagno, amo ancora il sesso e<br />

sono pronta per nuovi progetti. <strong>La</strong> vecchiaia<br />

è bella».<br />

‘‘<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale

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