Figli maestri - La Repubblica
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Domenica<br />
<strong>La</strong><br />
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
Hu hasei anni, fa la prima elementare in una bella<br />
scuola pubblica in un bel quartiere del centro,<br />
è nato a Roma. I suoi genitori, che nel loro<br />
ristorante stanno in cucina e non servono ai tavoli,<br />
non parlano italiano. Hu tifa Totti, va a<br />
scuola in maglia giallorossa e quando si arrabbia<br />
dice «vamorìammazzato».<br />
Al primo incontro organizzato fra genitori e insegnanti, a<br />
scuola, è arrivato anche lui. Interprete. Tutto il tempo a bisbigliare<br />
nell’orecchio alla mamma. Il direttore didattico si è<br />
intenerito, lo ha avvicinato: lo fai sempre? Sempre. Ora che<br />
la mamma aspetta un bambino l’accompagna anche dalla<br />
ginecologa. Data dell’ultima mestruazione, signora? lui traduce.<br />
Magari con un giro di parole, magari quel vocabolo<br />
esatto in cinese non lo sa. Forse sì, invece: lo sa. I piccoli <strong>maestri</strong><br />
non hanno l’età dell’anagrafe, hanno quella che serve per<br />
vivere.<br />
<strong>La</strong> lingua, prima di tutto. Tutto quel che è nuovo arriva prima<br />
ai bambini e passa da loro. È da loro che i genitori imparano,<br />
quando hanno il tempo di ascoltarli, i nomi dei capi dei<br />
Gormiti, i più recenti eroi dei loro nuovi giochi: non perdere<br />
Sommo luminescente, mi raccomando, se lo scambi deve<br />
essere almeno con Mistica falena.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
di <strong>Repubblica</strong><br />
<strong>Figli</strong><br />
<strong>maestri</strong><br />
CONCITA DE GREGORIO MARINO NIOLA<br />
Il telefono di casa si è ringiovanito di colpo. Un autentico<br />
lifting tecnologico ha cancellato miracolosamente<br />
quell’aspetto vecchio, pesante e tristanzuolo, da oggetto<br />
fatto solo per parlare e ascoltare. Roba ormai antidiluviana<br />
al confronto delle performance stellari di<br />
cui è capace il più economico dei telefonini. E allora,<br />
proprio come un genitore che teme di essere superato dai figli,<br />
l’apparecchio domestico si è rifatto. A immagine e somiglianza<br />
del cellulare. <strong>La</strong> telefonia fissa di ultima generazione<br />
offre, infatti, prestazioni giovanilissime in audio e in video.<br />
Sms, mms, videochiamate, oltre a una memoria prodigiosa<br />
e a un’infinità di altre funzioni.<br />
Si tratta di una evoluzione tecnologica, certo, ma non solo<br />
di questo. Gli oggetti non si limitano mai ad essere dei semplici<br />
oggetti. Le cose sono anche delle rappresentazioni. <strong>La</strong><br />
loro forma, la loro funzione riflettono sempre il carattere della<br />
società che le ha prodotte, i suoi sogni, i suoi desideri, le sue<br />
paure. Tutto materializzato in un semplice apparecchio telefonico.<br />
In questo senso la metamorfosi giovanilista del vecchio<br />
impianto domestico non è solo una innovazione, ma un<br />
segno dei tempi. È un chiaro esempio di quell’inversione della<br />
trasmissione della cultura che rappresenta la grande novità<br />
della condizione postmoderna.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
il fatto<br />
Il fotografo degli orrori khmer<br />
FEDERICO RAMPINI<br />
l’immagine<br />
Peggy Guggenheim, il libro degli ospiti<br />
EMANUELA AUDISIO<br />
Le tecnologie, certo,<br />
ma anche la lingua,<br />
il look, gli stili di vita<br />
Questa generazione<br />
è la prima che inverte<br />
il senso della cultura:<br />
non più dai vecchi<br />
ai giovani ma<br />
dai giovani ai vecchi<br />
la memoria<br />
Lee Miller, la donna dalle troppe vite<br />
NATALIA ASPESI<br />
cultura<br />
L’antica illusione di misurare l’infinito<br />
DANIELE DEL GIUDICE<br />
la lettura<br />
L’ultima guerra dei morti viventi<br />
MAX BROOKS<br />
l’incontro<br />
Jane Fonda: i due errori che non rifarei<br />
ALBERTO FLORES D’ARCAIS<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
ILLUSTRAZIONE DI ALTAN
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
la copertina<br />
Piccoli <strong>maestri</strong><br />
CONCITA DE GREGORIO<br />
(segue dalla copertina)<br />
Si assiste a scene da film di<br />
Nanni Moretti fuori da scuola:<br />
madri analiste informatiche<br />
e padri bancari che sciorinano<br />
nomi inventati —<br />
Nobilmantis, Devilfenix —<br />
come dicessero astuccio e righello, poi<br />
si guardano complici. Quanti più nomi<br />
sai tanto più sei genitore attento: è una<br />
prova, difatti esibita con orgoglio.<br />
Se è nuovo il paese dove vivi sono i figli<br />
che ti insegnano a parlare. È stato così<br />
per gli italiani d’America, è così oggi<br />
per i cinesi e i peruviani d’Italia. Basta<br />
stare un’ora a una festa di compleanno<br />
di classe. Roger, come si dice moltissime<br />
grazie per questo bell’invito in italiano?<br />
Si dice solo grazie, mamma. E del<br />
resto siamo stati noi a insegnare ai nostri<br />
nonni che non si diceva più «la bolletta<br />
della Teti» perché era Sip, non Teti,<br />
il telefono. Siamo noi che diciamo<br />
«non ho più una lira» e ascoltiamo i ragazzi<br />
dire «sono senza un euro».<br />
Paura di quittare<br />
Sono stati i figli a sgomentarci con i<br />
loro clicca, quitta. Quitta? Sì papà quitta,<br />
esci, chiudi il programma. L’inglese<br />
lo imparano così, come noi lo abbiamo<br />
imparato dai dischi dei Beatles e dei<br />
Rolling Stones. I dischi, quei dischi tra<br />
l’altro non esistono più: il vinile è da<br />
collezione quando va bene, quando va<br />
male da scatolone in cantina.<br />
Le tecnologie, perciò. Il telefono<br />
senza fili poi Internet poi il satellite poi<br />
l’Ipod, le centraline in casa e sei telecomandi,<br />
ci sarebbe anche quello unico<br />
che li raduna tutti ma se si rompe si resta<br />
al buio di telegiornali e di Simpson,<br />
meglio un passo indietro, meglio non<br />
rischiare. I padri telefonano ai ragazzi<br />
in gita scolastica: scusa se ti disturbo<br />
ma come si fa ad uscire da “my memory”<br />
che vorrei vedere il dibattito sul<br />
Primo e qui si è impallato tutto? Non si<br />
è impallato, ovviamente, ci sono tre tasti<br />
da premere in sequenza e comunque<br />
non si chiama «il Primo» da un secolo,<br />
si dice RaiUno.<br />
Settanta in chat<br />
C’è traccia di questo scambio di conoscenze<br />
già in Nel nome del figlio,<br />
scritto ormai più di dieci anni fa a quattro<br />
mani da Massimo Ammanniti, celebre<br />
psicopatologo dell’età evolutiva,<br />
insieme con suo figlio Niccolò, oggi<br />
premio Strega e grandissimo esperto<br />
di videogiochi. Esperto, in una certa fase,<br />
ai limiti della dipendenza. Di videogames<br />
si può anche impazzire, come<br />
ormai persino la pubblicità avverte,<br />
ma poi è da certi videogiochi — quelli<br />
più evoluti, più “colti” — che i ragazzi<br />
imparano la storia antica, la geografia,<br />
i miti greci e le strategie di guerra giapponesi.<br />
Il sapere dei padri e il sapere<br />
dei figli: la lentezza dell’apprendimento<br />
faticoso, quello delle biblioteche,<br />
dei tomi dell’esperienza, e la velocità<br />
della conoscenza istantanea, quella<br />
effimera ma immediatamente gratificante<br />
del mouse.<br />
Anna Simoni è una signora di settant’anni,<br />
ha imparato a chattare l’anno<br />
scorso quando la figlia e il genero<br />
sono stati due mesi in Brasile per adottare<br />
un bambino. «Mi ha insegnato<br />
mio figlio minore, non è difficile e la<br />
prima volta è stato uno spavento. Urlavo<br />
e mio figlio mi diceva: mamma non<br />
devi parlare, devi scrivere. Tanto anche<br />
se urli non ti sente. Io però ho questo<br />
vizio, lo faccio anche al telefono:<br />
tanto più è lontana la persona con cui<br />
parlo tanto più alzo la voce. Ai miei<br />
tempi per parlare con uno lontano si<br />
doveva urlare, altro modo non c’era».<br />
Una volta erano gli adulti a trasmettere ai più giovani<br />
saperi, memoria, competenze. Oggi accade sempre<br />
più spesso il contrario: la cultura non è più soltanto<br />
discendente, dai genitori ai figli, ma in buona parte<br />
ascendente, dai figli ai genitori. Ecco un viaggio<br />
fra i tic, i vantaggi e gli svantaggi di questa nuova stagione<br />
<strong>Figli</strong> dei propri figli<br />
Di videogame si può<br />
anche impazzire<br />
Ma è dai videogame<br />
più “colti”<br />
che i ragazzi<br />
imparano la storia,<br />
i miti, la geografia<br />
Da una parte<br />
la lentezza<br />
dell’apprendimento<br />
faticoso, quello<br />
delle biblioteche<br />
e dell’esperienza<br />
Dall’altra la velocità<br />
della conoscenza<br />
istantanea, quella<br />
effimera ma efficace<br />
del mouse<br />
Ai miei tempi, ai nostri tempi. Ai nostri<br />
tempi centomila canzoni stanno in un<br />
oggetto grande come un francobollo e<br />
la strada per arrivare più in fretta in<br />
macchina te la dice il navigatore ma bisogna<br />
saperli usare, è ovvio: se no si accende<br />
l’autoradio e le indicazioni si<br />
chiedono ai passanti.<br />
È la prima generazione, la nostra,<br />
dove gli insegnanti hanno sedici anni e<br />
gli allievi cinquanta. Nei corsi della circoscrizione<br />
(o si dirà municipio, adesso?<br />
o di nuovo quartiere?) organizzati<br />
per imparare a usare la Rete, nei workshop<br />
avanzati delle aziende per aggiornare<br />
i dipendenti. Ragazzini, i docenti:<br />
studenti che arrotondano. Il Dipartimento<br />
sociale di uno dei più importati<br />
istituti bancari d’Europa, “<strong>La</strong><br />
Caixa”, organizza corsi di informatica<br />
per anziani: 421 “ciberaule” in 564 centri<br />
attrezzati distribuiti in tutta la Spagna.<br />
Trecentomila utenti, al momento:<br />
tutti sopra i sessanta. <strong>La</strong> pubblicità del<br />
corso passa continuamente in tv. Una<br />
coppia di anziani coniugi va in viaggio<br />
a Roma, a Parigi, a Venezia. Lui scatta<br />
una foto a lei che tiene la testa inclinata.<br />
Lei scatta la foto a lui con un braccio<br />
sollevato. Poi tornano a casa e si mettono<br />
al computer. Con “Photoshop”<br />
montano le due immagini, le scontornano,<br />
le incollano: nell’inquadratura<br />
finale marito e moglie si abbracciano<br />
felici.<br />
Amore in photoshop<br />
«Dare agli anziani la possibilità di<br />
maneggiare la nuove tecnologie non è<br />
solo un modo per rendere più ricca la<br />
loro vecchiaia, è un investimento», dice<br />
Xavier Molinas, trentenne, coordinatore<br />
di uno dei gruppi di volontari<br />
che lavorano al progetto. «Un investimento<br />
in senso stretto, economico: se<br />
le persone avanti con gli anni imparano<br />
ad usare una macchina fotografica<br />
digitale e scoprono quanto è più semplice<br />
per esempio non dover montare<br />
il rullino, non doverlo portare allo sviluppo<br />
e stampa, ecco che la comprano,<br />
quella nuova macchina, e poi comprano<br />
un computer dove scaricare le foto<br />
e un programma per gestirle. Un investimento<br />
sociale: dare un nuovo interesse<br />
muove energie altrimenti destinate<br />
a spegnersi, si traduce in maggiore<br />
capacità di interazione con il mondo<br />
esterno e dunque con maggiore autonomia,<br />
in minori costi per chi fa assistenza.<br />
Un anziano che sa usare<br />
Internet, è dimostrato, costa agli addetti<br />
all’assistenza sociale fino al quaranta<br />
per cento di meno». Un bel gesto<br />
e un risparmio. Un’opera buona e insieme<br />
redditizia: non sarà un caso se le<br />
banche ci investono.<br />
Scoperta del sitofono<br />
Francesco Cossiga, presidente emerito<br />
della <strong>Repubblica</strong>, ha l’Iphone e<br />
parla via Sitofono. L’interesse per le<br />
nuove tecnologie non l’ha avuto in dono<br />
dai figli ma dai servizi segreti, sua<br />
grande passione e per molti anni materia<br />
di lavoro. «Un giorno non molto<br />
tempo fa chiesi a uno dei massimi<br />
esperti di telecomunicazioni, l’inventore<br />
della carta prepagata, se sapesse<br />
indicarmi un sistema di comunicazione<br />
via computer non commerciale. Si<br />
meravigliò che non lo conoscessi visto<br />
che lo realizza un’azienda sarda. Ho<br />
scoperto che il presidente della società<br />
era stato un mio studente. Ho tutto sistemato<br />
sul computer, adesso: il sitofono<br />
inoltra le chiamate al mio centralino».<br />
Fantastico, un bel gioco davvero e<br />
però arriva anche il momento in cui del<br />
sapere tiranno dei figli — della modernità<br />
vera o presunta — si diventa schiavi.<br />
«Usare il procedimento di scrittura<br />
T9 sul telefonino mentre si invia una<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
mail dal palmare e contemporaneamente<br />
si è collegati all’Ipod può sembrare<br />
il massimo della connessione<br />
tecnologica ed è invece la nuova forma<br />
di schiavitù», dice Paolo <strong>La</strong>ndi, direttore<br />
della pubblicità Benetton e docente<br />
di marketing allo Iuav di Venezia.<br />
«Mi fa pensare alle tv libere degli<br />
anni Settanta. Si chiamavano libere<br />
perché facevano immaginare che saremmo<br />
stati tali, con più canali e più<br />
possibilità di scelta. Diventavamo<br />
schiavi, invece, di consumi di terza categoria:<br />
aste di tappeti e scioglipancia».<br />
Dopo il successo del suo libro sulla<br />
tv, Ricordati che è lei che guarda te,<br />
<strong>La</strong>ndi ha mandato ora in stampa il volume<br />
Impigliati nella Rete, Bompiani,<br />
veemente e documentato pamphlet<br />
contro la retorica del web. «Il gap digitale<br />
tra padri e figli ha connotazioni<br />
classiste: da un lato i figli che possiedono<br />
l’abilità tecnologica ma spesso<br />
solo quella. Dall’altro i padri meno<br />
competenti in mouse e tastiere ma in<br />
grado di discernere i contenuti. Il divario<br />
tecnologico separa sempre più chi<br />
conosce cento parole da chi ne conosce<br />
mille: tra chi sa e chi consuma. Una<br />
ricerca su Google ci dice che i ragazzi<br />
che passano quattro ore al giorno davanti<br />
allo schermo digitano sempre le<br />
stesse parole. Navigare in Rete è facilissimo<br />
ma se cerchi Divina commedia<br />
escono migliaia di pagine tra cui decine<br />
di ristoranti in Toscana. Devi sapere<br />
chi sia Gianfranco Contini per chiedere<br />
“Commedia-Contini”. Il web<br />
sembra dire tutto ma non dice come<br />
cercare, selezionare, filtrare».<br />
Velocità e lentezza<br />
<strong>La</strong> differenza fra conoscenza e consumo.<br />
In un certo senso quel che separa<br />
le generazioni: di qua la lentezza, la<br />
fatica, la responsabilità di scegliere e di<br />
là la velocità, l’eterno presente, il ma-<br />
Generazioni in testacoda<br />
(segue dalla copertina)<br />
Se una volta erano gli adulti a trasmettere ai più giovani<br />
saperi, esperienze, conoscenze, competenze,<br />
oggi avviene sempre più spesso il contrario. <strong>La</strong> cultura<br />
non è più esclusivamente discendente, dai genitori<br />
ai figli, ma è ormai in buona parte ascendente, dai figli<br />
ai genitori.<br />
Gli stili di vita, i modelli di comportamento, il look,<br />
l’abbigliamento, ma anche le etiche, i valori, i desideri<br />
hanno oggi un carattere giovanilista. E soprattutto ce<br />
l’ha la tecnologia, che di questo capovolgimento è al<br />
tempo stesso il motore e il simbolo. Non sono più i ragazzi<br />
ad imparare dai grandi, a imitarli per diventare come<br />
loro, per prenderne il posto. Sono gli adulti a imitare<br />
i giovani, per diventare come loro, per prenderne il<br />
posto. Forever young, per dirla con Bob Dylan.<br />
Il risultato di tutto questo è che gli adulti sembrano<br />
avere sempre meno da trasmettere e da insegnare ai loro<br />
figli, finendo in molti casi per annullare ogni distanza<br />
tra loro. Un mimetismo generalizzato che fa simili le<br />
generazioni, avvicinandole fino al cortocircuito. Basti<br />
pensare a come è ringiovanito il nostro modo di vestire.<br />
Indossiamo abitualmente tessuti elastici che una volta<br />
erano cose da bambini. O da sportivi, come scarpe da<br />
ginnastica, tute, bandane. Anche il piumino è risalito in<br />
questi anni da una generazione all’altra. Da emblema<br />
dei paninari, che a metà degli anni Ottanta furono i primi<br />
a usare in città un look da discesa libera, ha finito per<br />
spopolare. Adesso signore e signori che si rispettino<br />
hanno il loro bravo monclerino.<br />
Un altro esempio è l’sms. Partito come rituale di socializzazione<br />
adolescenziale, è diventato il modo più<br />
comune per comunicare, senza distinzioni di età. Lo<br />
stesso dicasi per l’Ipod di cui i nostri figli ci hanno svelato<br />
il mistero e fatto conoscere le straordinarie potenzialità.<br />
Una vera iniziazione alla rovescia, dunque, che passa<br />
soprattutto attraverso le nuove tecnologie. È la<br />
straordinaria naturalezza con la quale vivono la dimensione<br />
hi-tech, ad aver trasformato i più giovani, nei nostri<br />
iniziatori e <strong>maestri</strong>. E ad aver fatto diventare i padri<br />
«figli dei propri figli», come diceva il poeta Guillaume<br />
Apollinaire.<br />
<strong>La</strong> facilità e la velocità con cui i più piccoli si sono im-<br />
MARINO NIOLA<br />
VIGNETTE<br />
Le vignette di Altan riprodotte in queste pagine<br />
e nella copertina, dedicate al complesso rapporto<br />
tra genitori e figli, sono state pubblicate su <strong>Repubblica</strong><br />
tra il 2000 e il 2006<br />
padroniti della tecnologia, in maniera quasi istintiva, li<br />
ha proiettati, per la prima volta nella storia, più avanti<br />
dei loro genitori, spiazzando l’idea progressiva di un sapere<br />
cumulativo, da conquistare con sforzo attraverso<br />
tappe intermedie, frutto di una lunga maturazione formativa.<br />
Mentre un ragazzino che digita un sms ha una<br />
velocità, uno slancio vitale quasi irriflesso, istintuale,<br />
che sembra appartenere alla natura più che alla cultura.<br />
Oggi l’essenziale delle conoscenze i ragazzi lo acquisiscono<br />
alla velocità della luce, con la simultaneità, senza<br />
prima e senza poi, che è tipica dei flussi informatici.<br />
E se una volta la scuola con le sue discipline e la famiglia<br />
con le sue regole servivano ad ammaestrare e controllare<br />
questa energia vitale, oggi la tecnologia la asseconda,<br />
perché in realtà hanno entrambe lo stesso bioritmo.<br />
L’effetto è che le ultimissime generazioni si autoeducano,<br />
si autoistruiscono, resettano continuamente<br />
il loro immaginario aggiornando in tempo reale quei<br />
codici necessari a essere sempre in rete. Una rete che è<br />
al tempo stesso connessione informatica e umana,<br />
competenza e appartenenza, comunicazione e emozione,<br />
identità e scambio affettivo. In questo i ragazzi<br />
appaiono molto meno spaesati di quegli adulti che inseguono<br />
affannosamente i giovani, nello sforzo patetico<br />
di catturare la loro attenzione, di intercettare i loro<br />
valori, finendo invece per esserne catturati.<br />
Ragazzini che sembrano già grandi e cinquantenni<br />
adolescenti tutti insieme in un eterno presente che<br />
emerge dalle ceneri dell’idea progressiva del tempo e<br />
della storia. In questa immediatezza da zapping, dove i<br />
modelli culturali rimbalzano da una generazione all’altra,<br />
l’età ha smesso di essere quel timer che, fino a pochi<br />
decenni fa, scandiva inesorabilmente la vita delle persone,<br />
dall’infanzia alla giovinezza, dalla maturità alla<br />
nonnità. Quando a dodici anni si era troppo giovani per<br />
fare quel che facevano gli adulti e a quarant’anni troppo<br />
vecchi. Quando ogni età aveva la sua identità, il suo ruolo.<br />
Immobili, fissi, proprio com’era il posto di lavoro.<br />
Oggi lo scenario è totalmente cambiato. Mobilità e<br />
flessibilità, che sono le due forme profonde del nostro<br />
presente — dall’economia alle relazioni personali, dai<br />
sentimenti alle forme dell’immaginario — diventano<br />
mentalità collettiva. Un nuovo senso comune che impone<br />
giovinezza, leggerezza e novità, alle persone come<br />
alle cose. Ai genitori come ai telefoni.<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />
rasma del tutto insieme sempre. <strong>La</strong>ndi<br />
è stato infamato, sul web, per aver detto<br />
che «You Tube è una boiata pazzesca».<br />
Blogger scatenati. Eppure — sarà<br />
consolatorio e nostalgico, sarà premonitore<br />
e rivoluzionario — lo si starebbe<br />
ad ascoltare per ore. «Un video anche<br />
breve costa lavoro creativo: deve “meritare”<br />
in qualche modo di essere visto.<br />
Bisogna guardarsi dalla mitologia dei<br />
numeri: un milione di video su You Tube<br />
non vuol dire niente, il tuo video là<br />
dentro non è niente. Tu che ce l’hai<br />
messo non per questo sei qualcuno.<br />
Bisogna insegnare ai ragazzi che milioni<br />
di persone, milioni di contatti, milioni<br />
di video da soli non significano<br />
nulla: sono solo enfasi numerica. Ciò<br />
che qualifica un oggetto è il suo contenuto,<br />
non la sua frequenza. Conta cosa<br />
c’è dentro e dunque lì si torna: conta<br />
saper scegliere e imparare alla fine a<br />
usare il computer per quello che serve,<br />
come un microonde e un fax. Per conoscere<br />
il mondo bisogna viaggiare,<br />
stare seduti davanti a un mondo che<br />
sembra offrirsi a noi è un inganno degno<br />
delle peggiori dittature».<br />
Ruoli ribaltati<br />
Per il momento in quasi assoluta solitudine<br />
<strong>La</strong>ndi invita i padri-allievi ad<br />
affrancarsi dai figli-<strong>maestri</strong> e a riprendere<br />
invece il faticoso ruolo che la storia<br />
(familiare, biologica, sociale) assegna<br />
loro: insegnare, educare e a volte,<br />
quando necessario, diffidare dalla facilità.<br />
È una tesi molto impopolare e<br />
certamente minoritaria ma vale la pena<br />
di rifletterci un momento. Non per<br />
questo i figli, in specie quando sono<br />
molto piccoli, smetteranno di essere<br />
<strong>maestri</strong>. Di ascolto e di pazienza, di<br />
scansione dei tempi della vita. Di gerarchie,<br />
di priorità. Di parole e di gesti.<br />
Come si dice «ora devo andare» in italiano,<br />
amore mio? Si dice resta.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
ILLUSTRAZIONI DI ALTAN
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
il fatto<br />
Genocidi<br />
FEDERICO RAMPINI<br />
PHNOM PENH<br />
Èuna galleria di fotoritratti unica al mondo. Uno alla<br />
volta, migliaia di volti allineati scrutano l’obiettivo,<br />
impauriti, angosciati, o soltanto attoniti e disorientati.<br />
Tra loro ci sono anche ragazzi e bambine.<br />
Pochi istanti dopo quello scatto sarebbero finiti nelle camere<br />
di tortura per confessare crimini mai commessi. Poi li aspettava<br />
una morte certa: per i supplizi, o la fame, o le malattie. Sono<br />
le istantanee dei prigionieri di Tuol Sleng, il gulag cambogiano<br />
dove i khmer rossi dal 1975 al 1979 sterminarono diciassettemila<br />
prigionieri. Il genocidio fu progettato dal leader dei khmer<br />
rossi, Saloth Sar detto Pol Pot o anche Grande Zio o Primo Fratello,<br />
grazie alla protezione attiva del regime comunista cinese<br />
e alla cinica indifferenza degli americani. Sotto gli ordini di Pol<br />
Pot lavorò un piccolo esercito di aguzzini e carnefici, militanti<br />
fanatici oppure a loro volta disciplinati dal terrore. Uno di loro,<br />
Nhem En, è la persona che guardano tutti quei volti immortalati<br />
in bianco e nero. Per regolamento del carcere nessuno doveva<br />
sfuggire al suo apparecchio fotografico. Altre dittature responsabili<br />
di genocidi hanno tentato di cancellare le prove dell’orrore.<br />
I khmer rossi no. Nella maniacale meticolosità con cui<br />
venivano raccolti e catalogati quei ritratti dei condannati si indovina<br />
una cupa e indomabile certezza, l’orgoglio di una strage<br />
perpetrata in nome di un ideale, per costruire la società perfetta.<br />
Ci furono guardiani dei lager nazisti appassionati cultori di<br />
Mozart e Beethoven, altri che amavano teneramente gli animali.<br />
Il giovanissimo Nhem En aveva il culto della fotografia. Il<br />
mestiere lo apprese nella Cina di Mao dove i khmer rossi lo avevano<br />
mandato a studiare a sedici anni. L’apprendistato rivelò<br />
una vocazione. Il talento c’era: malgrado i mezzi tecnici rudimentali<br />
quei ritratti sono professionali, accurati, gelidamente<br />
oggettivi. <strong>La</strong> mano dell’artista s’indovina dietro lo stile omogeneo,<br />
la luce è sempre perfetta. I visi obbediscono a una fissità<br />
rituale, quasi che la posa venisse accettata come parte di una<br />
cerimonia. Solo gli occhi tradiscono lo smarrimento di quell’attimo:<br />
a Tuol Sleng si entrava ignorando il perché. Il genocidio<br />
di Pol Pot era stato programmato in tempi così rapidi che<br />
molti non ebbero sentore della fine che li aspettava.<br />
Il cambogiano Nhem En aveva poco più di sedici anni quando,<br />
un trentennio fa, il capo del gulag dei khmer rossi di Tuol Sleng<br />
gli ordinò di scattare ritratti di tutti i prigionieri appena arrestati<br />
Migliaia di innocenti che subito dopo sarebbero stati torturati<br />
Immagini che oggi servono come capo d’accusa contro<br />
gli aguzzini nel processo internazionale che si sta preparando<br />
Fototessere dell’orrore<br />
L’unico a sapere, in quel momento di attesa prima dell’orrore,<br />
era Nhem En. Il fotografo-ragazzino era al corrente di tutto.<br />
Di notte sentiva le urla strazianti dei torturati. Era certo che nessuno<br />
dei suoi ospiti sarebbe uscito vivo da quel carcere. Non<br />
disse mai nulla per non guastare la qualità dell’immagine. I volti<br />
non dovevano essere sfigurati da pianti o urli. Lo ha raccontato<br />
lui stesso. A quarantasette anni Nhem Em è uno dei testimoni<br />
che sfilano per le udienze preliminari davanti al tribunale<br />
internazionale che dovrà (forse) giudicare i pochi leader superstiti<br />
dei khmer rossi per i crimini contro l’umanità com-<br />
GENGIS KHAN<br />
E IL TESORO DEI MONGOLI<br />
20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008<br />
Main Sponsor<br />
Chinese Academy of International Culture<br />
Comune di Treviso - Fondazione Italia Cina<br />
Touring Club Italiano<br />
Organizzazione: Sigillum<br />
Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 - www.laviadellaseta.info<br />
Prenotazioni turistiche Tel. +39 0422 422891 - www.marcatreviso.it<br />
messi trent’anni fa. «Me li consegnavano con gli occhi ancora<br />
bendati — ha detto Nhem Em ai giudici — ed ero io a scoprirgli<br />
il viso. Non c’erano altri nella stanza, vedevano solo me. Molti<br />
mi assalivano con le domande: cosa ho fatto di male? perché<br />
sono qui? di cosa sono accusato? Io ignoravo le domande.<br />
Guarda dritto di fronte a te, dicevo. Non inclinare la faccia. Dovevo<br />
dargli tutte le istruzioni perché la foto riuscisse bene. Subito<br />
dopo sarebbero passati nella camera degli interrogatori. Il<br />
mio dovere di fotografo era riuscire a scattare alla perfezione<br />
quelle foto».<br />
Il suo capo era esigente: Kaing Geuk Eav, detto “Duch”, dirigeva<br />
il centro di tortura di Tuol Sleng con un’efficienza implacabile.<br />
«Se avessi perso una sola di quelle foto — ricorda Nhem<br />
En — sarei stato ucciso». L’ottantenne Duch è agli arresti in attesa<br />
del processo, che dovrebbe iniziare nel 2008, e la testimonianza<br />
di Nhem En è entrata nell’istruttoria. Il tribunale internazionale,<br />
che ancora dovrà superare molti ostacoli e boicottaggi<br />
occulti, è l’ultima chance per rendere alla Cambogia almeno<br />
la giustizia della memoria. Questo popolo martoriato<br />
continua a vedersi negata anche la verità storica. Alcuni dei<br />
suoi persecutori sono morti dopo una vecchiaia serena; altri<br />
sono vivi, potenti e rispettati. Grandi atrocità e piccole vigliaccherie<br />
sono rimaste sepolte finora sotto una coltre di omertà,<br />
con il beneplacito delle superpotenze cinese e americana.<br />
Né Phnom Penh, né Pechino, né Washington hanno veramente<br />
voglia di riaprire una pagina del passato così ripugnante.<br />
È il 17 aprile 1975, mentre in Cina si consumano gli ultimi<br />
bagliori della Rivoluzione culturale, quando le milizie dei khmer<br />
rossi dopo anni di guerriglia espugnano Phnom Penh e<br />
prendono il potere in Cambogia. Hanno l’appoggio decisivo di<br />
Mao Zedong. A raccogliere consensi tra la popolazione li ha<br />
aiutati la decisione degli Stati Uniti di estendere il conflitto del<br />
Vietnam bombardando a tappeto anche la Cambogia: 540mila<br />
tonnellate di esplosivi, un’offensiva illegale, una guerra mai<br />
dichiarata, voluta dall’allora segretario di Stato Henry Kissinger<br />
e avallata dal presidente Richard Nixon.<br />
Il leader dei khmer rossi Pol Pot è stato educato in una scuola<br />
di missionari francesi, poi ha studiato a Parigi: là lo hanno reclutato<br />
e indottrinato i comunisti francesi. È di intelligenza mediocre<br />
e ha scarsa preparazione culturale, due qualità “preziose”<br />
in una fase in cui il Pcf diffida degli intellettuali. Rientrato in<br />
Cambogia Pol Pot scopiazza slogan e fobìe della Rivoluzione<br />
culturale cinese, ripetendone le gesta in una versione perfino<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO REA CONTRASTO
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
più agghiacciante. Esalta le masse contadine e condanna gli<br />
abitanti delle città come borghesi depravati. Isola la Cambogia<br />
da ogni contatto con l’estero, chiude le scuole, gli ospedali e<br />
perfino le fabbriche, abolisce le banche e la moneta, confisca<br />
ogni proprietà privata. Vuole cancellare dalla mente dei cambogiani<br />
ogni traccia della civiltà, creare un “uomo nuovo”.<br />
Quel 17 aprile 1975, quando le milizie khmer entrano a Phnom<br />
Penh, ordinano lo sgombero immediato della capitale. All’inizio<br />
non rivelano le loro vere intenzioni. Ai cittadini annunciano<br />
che occorre spostarli solo di alcuni chilometri per proteggerli<br />
dai bombardamenti americani. Scatta in realtà una deportazione<br />
di massa, di dimensioni senza precedenti nella storia<br />
contemporanea. Le città vengono svuotate, la loro popolazione<br />
costretta a lavorare in comuni agricole. Si instaura un<br />
regime di lavori forzati. I turni di lavoro sono di dodici ore, le razioni<br />
alimentari da campo di concentramento. Sono arrestati,<br />
torturati e sterminati gli intellettuali, i professionisti, chiunque<br />
sia sospettato di avere avuto contatti con l’estero, le minoranze<br />
etniche vietnamite e islamiche, i monaci buddisti. Perfino l’istituto<br />
della famiglia è considerato contrario all’etica dell’“uomo<br />
nuovo”: i nuclei familiari vengono smembrati e sparpagliati,<br />
chi tenta di comunicare con un parente può essere condannato.<br />
Si riempiono così i killing fields, i famigerati campi della<br />
morte. Un liceo trasformato in centro di tortura è il gulag S-21:<br />
vi muoiono in duecentomila, gettati nelle fosse comuni. Il bilancio<br />
delle vittime non è mai stato appurato con precisione. Le<br />
stime variano da 1,7 milioni di morti secondo lo Yale Cambodian<br />
Genocide Project, a 3,3 milioni secondo i vietnamiti. Anche<br />
le stime più prudenti superano comunque un quinto della<br />
popolazione: in proporzione alla piccola nazione cambogiana<br />
(sette milioni di abitanti prima dell’arrivo dei khmer rossi), è un<br />
genocidio superiore a tutte le vittime di Hitler e Stalin.<br />
Il terrore di Pol Pot è durato “solo” tre anni otto mesi e venti<br />
giorni ma alcune zone del paese sono ancora un museo degli<br />
orrori a cielo aperto, dove i sopravvissuti coabitano con gli<br />
aguzzini, la gente dei villaggi traumatizzata ha perso il sonno<br />
perché teme le “incursioni degli spiriti” dalle terre dove giacciono<br />
sepolte montagne di ossa umane. Anche quelli che<br />
scamparono ai killing fields spesso subirono ferite incurabili<br />
nel corpo e nell’animo, le devastazioni psicologiche patite nei<br />
campi di rieducazione. Non c’è famiglia in Cambogia che non<br />
abbia perso qualcuno sotto le armi dei khmer rossi. Con un<br />
quarto di secolo di ritardo, nel gennaio 2001 il Parlamento di<br />
SEGNALETICHE<br />
Le immagini che illustrano queste pagine<br />
sono alcune tra le migliaia di foto<br />
segnaletiche scattate da Nhem En<br />
nel carcere-gulag di Tuol Sleng<br />
in Cambogia tra il 1975 e il 1979<br />
Phnom Penh ha varato una legge per stabilire il principio di un<br />
tribunale straordinario. Le Nazioni Unite ci hanno messo poi<br />
altri due anni e mezzo per adottare una risoluzione che definisse<br />
le regole del tribunale: la composizione mista (cambogiani<br />
e stranieri), le pene previste, la durata di tre anni, i finanziamenti<br />
da ripartire fra più paesi. Intanto Pol Pot è morto, solo<br />
una decina di ex leader dei khmer rossi ancora in vita sono<br />
passibili di incriminazione. «Nella Cambogia di oggi — ha detto<br />
Thomas Hammarberg che vi ha lavorato a lungo come rappresentante<br />
dell’Onu — il più grosso problema dei diritti uma-<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />
ni è l’impunità. Ci sono dei serial killer, degli sterminatori di<br />
massa che girano in tutta libertà, alcuni perfino trattati come<br />
dei Vip».<br />
Il premier Hun Sen, al potere da vent’anni, è un campione di<br />
ambiguità. Nel 1998 prese pubblicamente le distanze dall’idea<br />
del tribunale, bollandola come «il ritorno della guerra civile».<br />
Secondo lui la ricetta giusta è, letteralmente, «scavare un buco<br />
e seppellirci il passato». Che a lui convenga è comprensibile. Ex<br />
khmer rosso, Hun Sen è andato al potere stringendo un patto<br />
con i due più stretti collaboratori di Pol Pot, l’ex premier Khieu<br />
Sampan e Noun Chea. Quest’ultimo, ideologo dei khmer rossi,<br />
a ottantadue anni è stato arrestato il mese scorso e attende il<br />
processo insieme a Duch. Khieu Sampan potrebbe raggiungerli<br />
entro breve tempo. Ma intanto il governo di Phnom Penh<br />
lamenta la mancanza di fondi per portare avanti il processo. È<br />
fondato il sospetto che le autorità tentino nuove manovre dilatorie.<br />
<strong>La</strong> resa dei conti dà fastidio a molti.<br />
Il ritardo del tribunale chiama in causa anche responsabilità<br />
estere. <strong>La</strong> Cina è invisibile in questa vicenda, come se non la riguardasse.<br />
Pechino non ha voglia di veder rivangare le atrocità<br />
commesse dal suo ex vassallo Pol Pot. È un capitolo ignobile<br />
della politica estera di Mao a cui seguirono altre pagine buie:<br />
dopo che i khmer rossi vennero sconfitti e cacciati dall’intervento<br />
dei vietnamiti, Deng Xiaoping lanciò un’aggressione<br />
“punitiva” dell’esercito cinese contro il Vietnam. Seguirono gli<br />
anni dei boat-people, il periodo dei feroci regolamenti dei conti<br />
all’interno di ogni paese e fra regimi comunisti, che oltre ai<br />
milioni di morti costrinsero molti a cercare scampo in una disperata<br />
fuga via mare. Gli Stati Uniti hanno i loro scheletri nell’armadio:<br />
in base alla regola che «il nemico del mio nemico è<br />
mio amico», appena ritiratisi dal Vietnam cominciarono a sostenere<br />
clandestinamente i khmer rossi, perché erano una spina<br />
nel fianco dell’odiato regime di Hanoi.<br />
Nell’attesa del processo maledetto che forse non si farà mai,<br />
almeno le fotografie di Nhem En hanno un merito: danno un<br />
volto e un nome a tante vittime dimenticate. Ricordano gli ultimi<br />
sguardi impauriti degli innocenti che andarono al massacro.<br />
Ma non è di questo che Nhem En va orgoglioso. Felicemente<br />
riciclato come vicesindaco del suo villaggio, grazie alle<br />
complicità della nomenklatura ex comunista, il fotografo dei<br />
condannati ha parole di riguardo verso il suo capo di allora, il<br />
terribile Duch: «Mi stimava e mi apprezzava, perché sono preciso<br />
e organizzato. Per quelle foto mi regalò un Rolex».<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO EYEDEA<br />
FOTO MICHAEL FREEMAN/CORBIS
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
l’immagine<br />
Souvenir<br />
Da Picasso a Montale, da Chagall a Rothko, tutti<br />
lasciarono un autografo e un disegno sulla risma di fogli<br />
bianchi rilegati a mano che la Guggenheim, ricchissima<br />
e geniale mecenate del Novecento, teneva nella sua casa<br />
veneziana. Presto queste curiosità saranno in mostra<br />
a Vercelli assieme a cinquanta capolavori<br />
Scarabocchi d’autore<br />
sul libro degli ospiti<br />
di Peggy la Musa<br />
EMANUELA AUDISIO<br />
Cortesie degli ospiti. Due righe<br />
appena, un disegno, un<br />
cavallo di Marino Marini,<br />
una gondola di Rothko,<br />
uno schizzo a matita di Giacometti.<br />
Et voilà, anche<br />
Cocteau. Prove d’artista, anzi d’avanguardia.<br />
E le firme (vere) di Yves Tanguy,<br />
Cocteau, Fernand Léger, De Chirico,<br />
Chagall, Picasso, Ernst, Dalí, Magritte,<br />
Tanguy, Miró, Leonor Fini, Man Ray,<br />
Carrington, Delvaux. Tutta gente che<br />
passava per un saluto, vitto e ospitalità,<br />
metti una sera a cena, appunto, e magari<br />
anche la luna di miele per Giacometti e la<br />
moglie Annette. C’era da tenere compagnia<br />
ai piccoli, a Baby, Cappuccino,<br />
Emily, Foglia, Hong Kong, madame Butterfly,<br />
Sable, Tory, White Angel, ai cani di<br />
Peggy. Per questo serviva il libro degli<br />
ospiti, rilegato a mano, a testimoniare arrivi<br />
e partenze, l’arte che s’inzuppava di<br />
vita e di amicizia. Commenti, ricordi,<br />
poesie, brani. Francobolli di creatività. È<br />
il fotografo Roloff Beny, che abitava a Roma,<br />
a firmare per primo il libro degli ospiti<br />
il 4 maggio1949. Poi attori, scrittori,<br />
musicisti, da Marlon Brando a Ian Fleming,<br />
da Eugenio Montale a Patricia Highsmith,<br />
dal futuro lord Snowdon a Igor<br />
Stravinsky. L’aristocrazia europea, perché<br />
quella locale era restia. Tutti da<br />
Peggy, ricca e collezionista, forte e decisa,<br />
che nel dicembre del ‘48 aveva acquistato<br />
per sessantamila dollari Palazzo Venier<br />
dei Leoni, un edifico incompiuto<br />
lungo il Canal Grande, tra la basilica di<br />
Santa Maria delle Salute e l’Accademia.<br />
Ci avevano abitato due inquiline famose:<br />
la marchesa Luisa Casati, “femme fatale”,<br />
musa di Gabriele D’Annunzio, nota<br />
per tenere in casa due scimmie dal collare<br />
tempestato di diamanti, e poi Diana<br />
Castelrosse, eccentrica viscontessa.<br />
Peggy ristrutturò gli interni, ridisegnò<br />
il giardino, dove fece installare un trono<br />
di granito su cui si faceva fotografare con<br />
i suoi animali. Da allora per i veneziani<br />
diventò la «dogaressa con i cani». Nella<br />
camera da letto, dipinta di turchese,<br />
espose la collezione di orecchini, ai lati<br />
della testiera di letto in argento commissionata<br />
ad Alexander Calder anche lo<br />
Studio per scimpanzè di Francis Bacon.<br />
Ci voleva altro per spaventare Peggy. Suo<br />
padre Benjamin lavorava nella ditta che<br />
installava gli ascensori sulla torre Eiffel e<br />
intanto approfittava di Parigi per tradire<br />
la moglie Florette e per perdere il denaro<br />
che gli era toccato, circa otto milioni di<br />
dollari. Morì nel naufragio del Titanic nel<br />
1912, dopo aver dato il proprio giubbotto<br />
di salvataggio e il posto in scialuppa all’amante<br />
che viaggiava con lui, e che nell’elenco<br />
dei passeggeri figurava come signora<br />
Guggenheim. Lui andò incontro al<br />
destino vestito da gentiluomo, in abito<br />
da sera.<br />
Peggy era nata nel 1898 da due delle famiglie<br />
ebree più ricche di New York, i proprietari<br />
di miniere Guggenheim, emigrati<br />
dalla Svizzera, che controllavano l’85<br />
per cento della produzione mondiale di<br />
argento, rame e piombo, e i banchieri Seligman.<br />
Rimasta orfana a quattordici anni,<br />
soffrì molto per la morte del padre che<br />
adorava e che continuò a cercare negli altri<br />
uomini. Quando scoppia la guerra nel<br />
1914 è in Inghilterra, ospite di un cugino,<br />
spaventato dalla carestia in arrivo, ma lei<br />
risponde con un appetito sfrontato e<br />
stravagante e anzi gli chiede dell’altra<br />
carne per finire la mostarda. Nel ‘19 entra<br />
finalmente in possesso dell’eredità. A<br />
ventidue anni cerca di ingentilire il proprio<br />
naso a melanzana con una plastica,<br />
ma l’operazione non riesce e da allora il<br />
naso si trasforma in una specie di barometro:<br />
«Quando sta per arrivare il cattivo<br />
tempo si gonfia», scrive in una delle tre<br />
autobiografie, Confessioni di una donna<br />
che ha amato l’arte e gli artisti. Sugli artisti<br />
nessuno dubitava. Questo il ricordo<br />
della sua prima esperienza sessuale all’hotel<br />
Plaza-Athénée: «Acconsentii così<br />
rapidamente che la mia mancanza di resistenza<br />
lo sorprese».<br />
Durante i sei mesi in cui lavora a New<br />
GONDOLE E ACQUERELLI<br />
Sopra, Victor Brauner, disegno tratto<br />
dal secondo libro degli ospiti di Peggy<br />
Guggenheim, 1954, acquerello su carta<br />
(collezione privata); accanto, Mark<br />
Rothko, disegno tratto dal primo libro<br />
degli ospiti di Peggy Guggenheim,<br />
1950, inchiostro su carta<br />
(collezione privata)<br />
TALE FIGLIA<br />
Disegno inedito in bianco e nero<br />
di Pegeen, figlia di Peggy,<br />
tratto dal secondo libro degli ospiti<br />
di Peggy Guggenheim, 1954,<br />
matita su carta (collezione privata)<br />
<strong>La</strong> celebre padrona di casa non si limitava<br />
ad acquistare le opere degli artisti:<br />
si occupava di loro, si faceva frequentare<br />
York nella libreria del cugino, che ispira a<br />
Ernest Hemingway un personaggio in<br />
Fiesta, Peggy conosce <strong>La</strong>urence Vail, un<br />
intellettuale franco-americano, re dei<br />
bohémiens. Si trasferisce a Parigi, lui le<br />
chiede la mano in cima alla torre Eiffel, si<br />
sposano nel ‘22 e fanno il viaggio di nozze<br />
da Capri a Saint Moritz. Lei ammette:<br />
«Dovunque accadevano strane cose».<br />
Diventa amica della pittrice Romaine<br />
Brooks e della scrittrice Natalie Barney,<br />
incontra la scrittrice Djuna Barnes, di cui<br />
sarà protettrice per il periodo di composizione<br />
del libro Bosco di Notte,che ha come<br />
tema l’incesto. <strong>La</strong> coppia frequenta<br />
gli ambienti artistici, nascono due figli,<br />
Sindbad e Pegeen, ma anche molti litigi.<br />
Si lasciano nell’estate del ‘28, quando<br />
Peggy, dopo aver ballato sui tavoli di un<br />
locale a Saint Tropez, si mette con lo scrittore<br />
John Holms, che però muore nel ‘34<br />
durante un intervento.<br />
Due anni dopo Peggy apre la sua prima<br />
galleria d’arte a Londra e conosce Samuel<br />
Beckett a una cena dai Joyce a Parigi. Lui<br />
le chiede di distendersi sul divano, fanno<br />
l’amore per due giorni, poi le dice: «Grazie.<br />
È stato bello finché è durato». A Londra<br />
espone le opere di Jean Cocteau, Kandinsky,<br />
René Magritte, Piet Mondrian, e<br />
degli scultori Constantin Brancusi ed<br />
Henry Moore. Poi arrivano Yves Tanguy<br />
e Max Ernst, si innamora del primo, sposa<br />
il secondo. Peggy non si limita ad acquistare<br />
le opere degli artisti: si occupa di<br />
loro, li frequenta, si fa frequentare. Allo<br />
scoppio della Seconda guerra mondiale<br />
torna a Parigi, approfitta del crollo dei<br />
prezzi delle opere d’arte e compra un<br />
quadro al giorno. Tra questi Giacomo<br />
Balla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì,<br />
Francis Picabia e due sculture di Alberto<br />
Giacometti. Dopo l’invasione nazista<br />
della Francia si rifugia a New York con la<br />
sua collezione e aiuta vari intellettuali come<br />
André Breton a scappare negli Stati<br />
Uniti.<br />
Nel ‘42 apre la propria galleria-museo<br />
“Art of this Century” e si dedica alla sua ultima<br />
scoperta, Jackson Pollock: «Era un ti-<br />
po difficile, ma aveva anche un lato angelico,<br />
era come un animale in gabbia». È lei<br />
a sostenere quel pittore, orfano di padre,<br />
che lavora in uno stato di continua eccitazione,<br />
con accanto la bottiglia d’alcol,<br />
mentre ascolta musica jazz, Strawinskij e<br />
John Cage. È lei la prima a commissionargli<br />
un grande dipinto per la sua casa di<br />
New York, la prima a farlo esporre e a passargli<br />
uno stipendio mensile. Peggy capisce<br />
in anticipo la genialità di Pollock: il suo<br />
linguaggio esistenziale, fatto di energia fisica<br />
e mentale, di azione pittorica. Tra i<br />
giovani che valorizza anche il padre di Robert<br />
De Niro. Nel ‘47 Peggy torna in Europa<br />
e si stabilisce a Venezia, alla Biennale<br />
del ‘48 espone la sua collezione. È un successo:<br />
gli italiani reduci dal fascismo non<br />
hanno mai visto tanta arte astratta e surrealista.<br />
Organizza anche una mostra di<br />
sculture nel giardino e sulla terrazza. Tra<br />
le opere esposte anche L’angelo della città<br />
di Marini che raffigura un uomo nudo,<br />
con il pene eretto, a cavallo. Qualche tempo<br />
dopo l’artista prepara un pene separa-<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
© THE SOLOMON R. GUGGENHEIM FOUNDATION, ARCHIVIO CAMERAPHOTOEPOCHE, DONO DELLA CASSA DI RISPARMIO DI VENEZIA, 2005
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
ETEREI<br />
A sinistra, Marc Chagall,<br />
disegno tratto dal primo<br />
libro degli ospiti di Peggy<br />
Guggenheim, 1950,<br />
inchiostro su carta<br />
(collezione privata)<br />
A destra, Joan Miró,<br />
disegno tratto<br />
dal secondo libro<br />
degli ospiti di Peggy<br />
Guggenheim, 1952,<br />
inchiostro su carta<br />
(collezione privata)<br />
TRA I PETALI<br />
Peggy Guggenheim<br />
a Palazzo Venier dei Leoni<br />
con l'opera Arco di petali<br />
(1941) di Alexander<br />
Calder; più in basso,<br />
Scarpa azzurra rovesciata<br />
con due tacchi sotto<br />
una volta nera (1925)<br />
di Jean Arp, (collezione<br />
Peggy Guggenheim,<br />
Venezia)<br />
LA MOSTRA<br />
Apre il 10 novembre a Vercelli,<br />
nella nuova struttura espositiva Arca<br />
nella vecchia chiesa di San Marco,<br />
la mostra Peggy Guggenheim<br />
e l’immaginario surreale:<br />
più di cinquanta capolavori<br />
delle collezioni veneziane<br />
e newyorkesi dei musei Guggenheim<br />
riuniti per la prima volta in questo<br />
allestimento curato da Luca<br />
Massimo Barbero e promosso<br />
dalla Regione Piemonte<br />
In mostra, tra le altre, opere<br />
di Chagall, de Chirico, Picasso, Miró,<br />
Dalí, Max Ernst, Magritte,<br />
Alberto Giacometti, Ives Tanguy,<br />
Duchamp. <strong>La</strong> mostra sarà aperta<br />
fino al 2 marzo 2008<br />
Per informazioni<br />
P.B.S. tel. 02 542754<br />
www.ticket.it/guggenheim<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />
INEDITI<br />
A sinistra, Fabrizio Clerici,<br />
disegno inedito tratto<br />
dal primo libro degli ospiti<br />
di Peggy Guggenheim,<br />
16 agosto 1950,<br />
inchiostro su carta<br />
(collezione privata);<br />
accanto, Leonor Fini,<br />
disegno tratto dal primo<br />
libro degli ospiti di Peggy<br />
Guggenheim, 1949,<br />
inchiostro su carta<br />
(collezione privata)<br />
PROFILI<br />
Sotto, Jean Cocteau,<br />
disegno dal terzo<br />
libro degli ospiti<br />
di Peggy<br />
Guggenheim,<br />
1956, inchiostro<br />
su carta (collezione<br />
privata)<br />
MATITE<br />
A sinistra, Alberto Giacometti, disegno<br />
tratto dal primo libro degli ospiti<br />
di Peggy Guggenheim, 1949,<br />
matita su carta (collezione privata)<br />
to «in modo che potesse essere avvitato<br />
o svitato a piacimento». Per evitare<br />
scandali davanti a visitatori<br />
più tradizionalisti.<br />
Nonna Peggy continuava ad<br />
essere imbarazzante e impegnativa.<br />
Anche dopo la morte,<br />
nel ‘67, della figlia Pegeen, fragile<br />
e depressa, artista anche<br />
lei, per abuso di farmaci. Come<br />
ricorda Karole Vail, la nipote<br />
che la raggiungeva per<br />
le vacanze a Palazzo Venier:<br />
«Nella camera da letto<br />
dove dormivo era appesa<br />
L’Aurora di Paul Delvaux,<br />
quelle donne nude ritratte<br />
per metà come tronchi d’albero<br />
mi facevano così paura,<br />
ma non quanto i quadri surrealisti<br />
di Max Ernst». Karol era un’adolescente,<br />
abitava a Parigi col padre Sindbad,<br />
andava al liceo dalle suore. Ma la<br />
nonna a settant’anni insiste con le domande<br />
imbarazzanti: «Hai un fidanzatino?<br />
Ci sei già andata a letto?». <strong>La</strong> porta in<br />
giro per i canali in gondola, la fa scendere<br />
da sola davanti alle chiese e poi, tornata a<br />
casa, pretende una dettagliata relazione<br />
sulle opere d’arte.<br />
Peggy non si perde niente: va a New<br />
York a vedere l’edificio rotondo che Frank<br />
Lloyd Wright ha progettato nel ‘58 per il<br />
museo Guggenheim. Lo liquida così: «Un<br />
grande garage che si attorciglia come un<br />
serpente maligno». Anche se nel ‘76 accetta<br />
che la propria collezione si unisca a<br />
quella dello zio Solomon. Nel ‘79, pochi<br />
mesi prima di morire, riceve a Venezia lo<br />
scrittore Gore Vidal con Paul Newman e<br />
sua moglie Joan Woodward. Si entusiasma<br />
quando Newman accetta di baciare<br />
una delle sue domestiche. Se ne va a ottantuno<br />
anni, due giorni prima di Natale,<br />
quando Venezia è invasa dall’acqua alta.<br />
Ma resta lì a godersi la vista, le sue ceneri<br />
si trovano nell’angolo del giardino di Palazzo<br />
Venier dove Peggy aveva seppellito<br />
i suoi due amati cagnolini. Eccentrica sì,<br />
ma sveglia. Sconsigliava Venezia per la luna<br />
di miele. «È troppo bella e nel cuore<br />
non resta più posto per altro».<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
la memoria<br />
Primedonne<br />
NATALIA ASPESI<br />
LONDRA<br />
Suo padre Theodore Miller la<br />
fotografò ossessivamente<br />
da piccina ma anche in piena<br />
giovinezza, docile e completamente<br />
nuda; il massimo illustratore<br />
di moda degli anni Venti, Georges<br />
Lepape, disegnò il suo viso perfetto<br />
sotto una calottina viola per una copertina<br />
di Vogue America del 1927;<br />
Edward Steichen, il fotografo più importante<br />
del gruppo editoriale Condé<br />
Nast, ne ritrasse più volte il profilo ardito<br />
che ricordava quello di Marlene<br />
Dietrich nell’Angelo Azzurro; George<br />
Hoyningen-Huené, celebre fotografo<br />
di Vogue Francia, ne rivelò la grazia androgina<br />
riprendendola con le scarpe<br />
da tennis e una tuta da marinaio portata<br />
come un abito da gran sera; nello<br />
stesso anno, il 1930, il suo amante dada-surrealista<br />
Man Ray dedicò studi di<br />
fotografia solarizzata al suo lungo collo<br />
delicato, che dopo uno dei tanti litigi<br />
lui rappresentò sgozzato da una rasoiata<br />
adorna di goccioline di inchiostro<br />
rosso; nel 1931 Jean Cocteau, spalmandola<br />
di gesso, la trasformò in una<br />
statua greca senza braccia, dipingendole<br />
gli occhi sopra le palpebre chiuse,<br />
nel suo primo farraginoso film d’arte Le<br />
sang d’un poète; negli stessi anni Picasso<br />
la ritrasse sei volte, picassianamente,<br />
chiamandola l’Arlésienne. Lei stessa<br />
si fotografò continuamente, come per<br />
un servizio di Vogue del 1933, cerchietto<br />
tra i bei capelli biondi, abito di velluto<br />
bordato di arricciature, accucciata<br />
in una poltrona, aristocratica e languida,<br />
come qualche anno dopo Horst fotografò<br />
Chanel. Ha fatto storia la fotografia<br />
che scattò il fotoreporter di guerra<br />
David E. Sherman nell’aprile del<br />
1945, lei nuda nella vasca da bagno del<br />
modesto appartamento di Hitler al 16<br />
di Prinzregentenplatz a Monaco, gli<br />
stivali militari ben appaiati sul pavimento,<br />
la foto del Führer appoggiata al<br />
bordo della vasca.<br />
Lee Miller era bellissima, gli artisti ne<br />
restavano affascinati e naturalmente se<br />
ne innamoravano, gli obiettivi divoravano<br />
il suo viso chiaro dai grandi occhi azzurri,<br />
la moda si serviva della sua naturale<br />
eleganza, lei usava questa sua luminosa<br />
impareggiabile grazia per metterla al<br />
servizio del suo talento, delle sue ambizioni<br />
e del suo impegno. Fu una di quelle<br />
donne dalla vita prodigiosa che affollarono<br />
la prima metà del secolo scorso e<br />
di cui oggi non se ne rintracciano epigone.<br />
Di vite, anzi, lei ne ebbe tante, una dopo<br />
l’altra, ogni volta diverse, sorprendenti,<br />
vincenti, ogni volta abbandonandole<br />
come fardelli ormai inutili, fino a dimenticarle<br />
lei stessa e a farne perdere le<br />
tracce agli altri. <strong>La</strong> mostra che sino all’8<br />
gennaio il Victoria & Albert Museum le<br />
dedica nel centenario della sua nascita,<br />
1907, e nel trentennale della sua morte,<br />
1977, riunisce tutte queste vite, accompagnata<br />
dal libro The Art of Lee Miller di<br />
Mark Haworth-Booth, poeta e studioso<br />
di fotografia (edizioni V&A, 224 pagine,<br />
35 sterline). Scrive l’autore che «Lee Miller<br />
fu una donna inventata dal Ventesimo<br />
Secolo, indipendente, libera, geniale,<br />
coraggiosa e ricca di talento, ma fu soprattutto<br />
una sua stessa straordinaria invenzione».<br />
<strong>La</strong> sua eccezionale carriera di<br />
artista sfida tutti gli stereotipi. E malgrado<br />
sia stata apprezzata e studiata negli<br />
ultimi decenni, la sua vita continua a rimanere<br />
«un puzzle surrealista» o, come<br />
scrisse lei, «pezzi di un puzzle impregnati<br />
d’acqua, brandelli ubriachi che non si<br />
accordano né nella forma né nel disegno».<br />
In quel puzzle informe fu attrice,<br />
disegnatrice, modella, giornalista, musa,<br />
amante, moglie, madre, ma fu soprattutto<br />
fotografa d’arte e fotoreporter.<br />
<strong>La</strong> Lee Miller più celebre è quella spettinata,<br />
sporca, spericolata e fulgente della<br />
Seconda guerra mondiale, a sua volta<br />
fotografata in divisa militare, bandoliera,<br />
maschera a gas ed elmetto (trent’anni<br />
prima di Oriana Fallaci), cui il figlio<br />
Anthony Penrose ha dedicato il libro Lee<br />
Miller’s war. Nel 1944, quando riesce a<br />
farsi accreditare da British Vogue come<br />
corrispondente di guerra, ha trentasette<br />
anni, vive a Londra con Sir Roland Penrose,<br />
aristocratico artista inglese, adoratore<br />
maltrattato di Picasso e suo biografo.<br />
Lee abbandona la sua magnifica<br />
casa zeppa di Picasso, Braque, Miró,<br />
Tanguy, De Chirico, Brancusi, Giacometti,<br />
Magritte, Ernst, si fa fare in Savile<br />
Row una divisa su misura e non protocollare<br />
che indosserà ininterrottamente<br />
per un anno, e parte: sarà la sola delle sei<br />
donne fotoreporter di guerra a raggiungere<br />
il fronte, seguendo l’avanzata alleata<br />
da Omaha Beach sino ai campi di sterminio.<br />
Il mensile che anche in guerra<br />
propone lussi e raffinatezze pubblica ad<br />
ogni numero i suoi articoli e servizi fotografici:<br />
i corpi straziati dei soldati negli<br />
ospedali da campo, l’assedio di Saint<br />
Malo, la resa degli occupanti tedeschi, la<br />
caccia ai collaborazionisti, Parigi libera<br />
con la gioia, la fame, le rovine e la prima<br />
sfilata di moda di Paquin, la visita all’amico<br />
Picasso che non ha mai lasciato la<br />
Modella-simbolo degli anni Venti, poi musa ispiratrice<br />
dei grandi surrealisti da Cocteau a Magritte, raffinata<br />
fotografa di moda e coraggiosa fotoreporter di guerra,<br />
per finire alcolizzata e dimenticata nelle campagne del Sussex<br />
Ora, a cent’anni dalla nascita e a trenta dalla morte,<br />
il Victoria & Albert Museum le dedica una grande mostra<br />
Lee Miller, una vita non basta<br />
A Parigi si presentò<br />
a Man Ray e gli disse<br />
sfacciatamente: sono<br />
la tua nuova allieva<br />
capitale, lui elegante, lei conciatissima e<br />
ridente, desiderosa solo di un bagno. Poi<br />
l’avanzata alleata in Alsazia sotto la neve,<br />
il procedere tra morti e rovine, l’incontro<br />
con i russi, Buchenwald, dove fotografa<br />
non solo montagne di cadaveri, ma anche<br />
i corpi dei suicidi, i sorveglianti Ss annegati<br />
o impiccati, la giovane bella figlia<br />
del borgomastro di Leipzig che si è avvelenata<br />
e pare dormire riversa su un divano<br />
di pelle.<br />
Le molte vite di Lee Miller cominciano<br />
quando a diciotto anni lascia Poughkeepsie,<br />
New York, per una vacanza<br />
in Francia: nasconde un drammatico<br />
segreto, lo stupro a sette anni da parte di<br />
un amico di famiglia, che l’ha contagiata<br />
di gonorrea. È stata cacciata da più di<br />
una scuola, si è tagliata le lunghe trecce,<br />
accorciata le gonne, quello è l’anno in<br />
cui Anita Loos, un’altra ragazza impaziente<br />
di vivere, ha pubblicato Gli uomini<br />
preferiscono le bionde. Elisabeth, la<br />
futura Lee, è la classica “flapper”, il modello<br />
è quello della diva Louise Brooks. È<br />
il 1925 e Parigi è invasa dal fervore della<br />
Mostra internazionale delle arti decorative,<br />
e lei si iscrive a una scuola sperimentale<br />
di scenografia in cui scopre la<br />
sua vocazione per l’immagine. Al ritorno<br />
a New York, come capita nei film brillanti<br />
ancora muti, un passante la salva<br />
da un’auto che sta per travolgerla. Quel<br />
signore è William Condé Nast, fondatore<br />
di Vogue e nel marzo del 1927 il viso<br />
ventenne di Lee è sulla copertina di quel<br />
mitico mensile di moda come simbolo<br />
della nuova ardente femminilità.<br />
I grandi fotografi di moda se la contendono,<br />
ma fare la modella non le basta,<br />
è la fotografia che le interessa. Come<br />
maestro pretende un artista, vuole che<br />
sia Man Ray, americano trapiantato da<br />
qualche anno in Francia, e va a cercarlo<br />
a Parigi. Lo incontra al famoso locale Le<br />
Bateau Ivre e anni dopo racconterà:<br />
«Sembrava un toro, con un torso straordinario,<br />
sopracciglia e capelli nero intenso.<br />
Gli dissi sfacciatamente che ero la<br />
sua nuova allieva. Rispose che lui non<br />
prendeva allievi e che comunque stava<br />
andando in vacanza. Gli dissi, lo so e io<br />
vengo con lei. Vivemmo insieme per tre<br />
anni». Lei ha venticinque anni, diventa<br />
una delle tante giovani muse dei surrealisti,<br />
i grandi fotografi di moda continuano<br />
a volerla (anche Man Ray la riprende<br />
con un berretto di Patou) e lei intanto<br />
impara, si appassiona, diventa<br />
una fotografa instancabile. Fotografa la<br />
moda, fotografa celebrità come Salvador<br />
Dalì con la compagna Gala, come<br />
Charlie Chaplin, come lo stesso Man<br />
Ray, sceglie soggetti sempre più surrealisti,<br />
che il suo obiettivo rende minacciosi,<br />
crudeli: i cavalli di una giostra, to-<br />
PROVOCAZIONE<br />
Una delle foto più famose che ritraggono Lee Miller mentre fa il bagno nella vasca di Adolf Hitler<br />
<strong>La</strong> foto è di David E. Scherman, Monaco, 1945<br />
LA MOSTRA<br />
Le foto di queste pagine sono tratte da The Art of Lee Miller<br />
di Mark Haworth-Booth (V&A Publications),<br />
il catalogo della mostra in corso fino al 6 gennaio 2008<br />
al Victoria & Albert Museum di Londra. <strong>La</strong> mostra ripercorre<br />
attraverso le immagini del Lee Miller Archive la carriera<br />
di fotografa e la vita di questa donna straordinaria<br />
che seppe trasformarsi da modella e musa di artisti<br />
in artista essa stessa<br />
polini in fila su un’asta, scale, sederi nudi<br />
di donna, persino i macabri resti di<br />
una doppia masterectomia sui piatti di<br />
una tavola apparecchiata.<br />
Nel 1934 c’è un primo matrimonio, a<br />
ventisette anni, con un ricco egiziano<br />
cosmopolita e tollerante, e va a vivere<br />
con lui al Cairo, sempre fotografando<br />
con la sua visione surreale rocce e sabbie,<br />
lumache e rovine, e soprattutto<br />
creando la serie Ritratto dello spazio,<br />
una strana angosciosa rappresentazione<br />
del vuoto che secondo gli esperti<br />
ispirò poi a Magritte il dipinto Le baiser.<br />
Nell’estate del ‘37, tornata per qualche<br />
giorno a Parigi, riallacciati i rapporti coi<br />
surrealisti, ad una festa in costume incontra<br />
Penrose, coi capelli tinti di verde,<br />
una mano tinta di blu e i pantaloni nei<br />
colori dell’arcobaleno. Quella notte<br />
stessa inizia la loro relazione, un grandissimo<br />
amore. Al gentilissimo marito<br />
egiziano, che abbandonerà definitivamente<br />
nel giugno del ’39, ha scritto: «Voglio<br />
l’utopica combinazione di sicurezza<br />
e libertà, e ho il bisogno emotivo di<br />
sentirmi completamente presa dal lavoro<br />
o dall’uomo che amo».<br />
Alla fine della guerra quale vita aspetta<br />
questa donna che si avvicina ai quarant’anni<br />
e ha avuto tanto, attraversando<br />
le avanguardie culturali degli anni<br />
Trenta e gli orrori bellici degli anni Quaranta?<br />
Nel 1947 resta incinta, sposa Penrose<br />
e vanno a vivere nella campagna del<br />
Sussex, dove riceveranno gli amici, tornando<br />
spesso in Francia. Visiting Picasso,<br />
la raccolta di una montagna di lettere<br />
di Penrose all’artista e delle pochissime<br />
dell’artista a lui, curata da Elizabeth<br />
Cowling, è illustrata dalle foto ossessive<br />
di Lee a Picasso: nel suo studio a Vallauris,<br />
con la sua nuova compagna Jacqueline,<br />
davanti alle sue opere, nella casa di<br />
Mougins, mentre srotola un suo arazzo,<br />
assieme a Georges Braque, con il piccolo<br />
Anthony, il figlio che Lee non saprà<br />
amare abbastanza. Per una donna che<br />
ha avuto tanto, forse invecchiare e adattarsi<br />
a una quotidianità non esaltante è<br />
impossibile. Lee è sempre stata una forte,<br />
allegra bevitrice, ma ormai è alcoliz-<br />
Celebre la foto di lei,<br />
aprile ’45 a Monaco,<br />
nuda nella vasca<br />
della casa di Hitler<br />
zata e depressa: si dedica al giardino, diventa<br />
una gran cuoca, progetta banchetti<br />
surrealisti: ma la sua vita è stata altra,<br />
meravigliosa, struggente e perduta.<br />
Così indimenticabile da volerla dimenticare,<br />
nascondere, cancellare.<br />
Anche gli altri l’avevano dimenticata.<br />
Solo alla fine della sua vita, il passato ricominciò<br />
ad emergere attraverso le ricerche<br />
che studiosi o curatori di mostre<br />
facevano di altri artisti surrealisti, come<br />
appunto Man Ray, e cominciarono a<br />
cercarla, come testimone e non come<br />
protagonista. Ma alle lettere non rispondeva,<br />
e del resto era certa che del<br />
suo amatissimo lavoro non fosse rimasto<br />
nulla, «perduto a New York, distrutto<br />
dagli occupanti tedeschi a Parigi,<br />
bombardato e incendiato a Londra durante<br />
il Blitz, e pure la Condè Nast ha<br />
buttato via sia le mie foto di moda che<br />
quelle di guerra… Io stessa non ho ancora<br />
avuto la forza di guardarmi intorno,<br />
e cercare, e pensare al passato». Comunque<br />
non lo fece mai: lo fece dopo la<br />
sua morte il figlio Anthony, con cui si era<br />
riconciliata negli ultimi mesi di vita, e<br />
che solo allora, frugando nel disordine e<br />
nell’abbandono della sua casa nel Sussex,<br />
scoprì che la vecchia, difficile e malata<br />
signora che lo aveva messo al mondo<br />
senza riuscire ad essergli madre, era<br />
stata una mitica bellezza, una star cosmopolita,<br />
una musa dei surrealisti, una<br />
celebre modella, una grande fotografa,<br />
una coraggiosa fotoreporter di guerra,<br />
una donna molto amata, desiderata,<br />
ammirata. Tante, troppe vite in cui non<br />
c’era stato posto per lui, l’unico figlio nato<br />
quando tutte le esperienze erano state<br />
vissute al massimo e non ne era rimasta<br />
nessuna.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />
PORTFOLIO<br />
Dall’alto a sinistra in senso orario, autoritratto con fermacapelli (1933) • Ritratto di donna sconosciuta (1930) •<br />
Testa fluttuante (Mary Taylor) (1933) • <strong>La</strong> figlia suicida del borgomastro di Lipsia (1945) • Donne con maschere<br />
da saldatore, Downshire Hill, Londra (1941) • Eileen Agar al Royal Pavilion, Brighton (1937)<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
CULTURA*<br />
L’ASTROLABIO<br />
Noto fin dal VI<br />
secolo, permetteva<br />
di calcolare<br />
la latitudine misurando<br />
l’altezza angolare del Sole<br />
Comesempre bisogna partire delle parole<br />
che usiamo e dalla loro origine<br />
antica. In latino, metiri, misurare,<br />
percorrere, e misura sono molto vicini<br />
al greco metische significa prudenza,<br />
saggezza, e sapienza. Come dire<br />
che comprendere ed essere consapevoli equivale a<br />
conoscere la misura delle cose, la loro dimensione.<br />
Misurare ha la stessa radice di mensis, mese, e in<br />
particolare mese lunare. Come dire che la misura<br />
primaria, originaria è quella del tempo che trascorre.<br />
Non siamo dunque lontani da quel che scriveva<br />
Giorgio de Santillana, geniale mitologo e al<br />
tempo stesso scienziato che lavorò per anni al Mit<br />
di Boston. De Santillana, nel suo libro fondamentale,<br />
Il Mulino di Amleto, parlava di un «Carro di Enmesarra»<br />
identificato dagli specialisti di astronomia<br />
babilonese con la costellazione omonima. Enmesarra<br />
è un nome eloquente: En. ME. SARRA è<br />
«Signore di tutti i me», ossia Signore delle «norme e<br />
misure»; è detto anche «Signore dell’Ordine del<br />
Mondo», «Signore dell’Universo e Colui che ha peso<br />
nel mondo infero», nonché «il sovrano del mondo<br />
infero». Lo stesso accade in Grecia, nella versione<br />
degli orfici e, da Esiodo e da altri, nelle versioni<br />
simili di Plutarco e Proclo: Kronos, divinità deputata<br />
al tempo, elargisce al figlio Zeus con paterna<br />
benevolenza «tutte le misure dell’intera creazione».<br />
E così nel mondo semitico: in arabo misura si<br />
dice qadr, e qaddara, misurare, significa anche determinare<br />
e decretare, ed è tra i verbi che esprimono<br />
la facoltà divina del dare a ciascuno quel che gli<br />
spetta secondo l’esatto computo, in questo tempo<br />
e nel tempo dell’aldilà. Questa lingua istituisce una<br />
parentela stretta tra misura, decreto e destino, tra<br />
miqdàr, cioè estensione nel tempo e nello spazio,<br />
qadar, cioè sorte, e al-Qadìr, l’Onnipotente. Però<br />
misura si dice anche qiyàs, che esprime appunto il<br />
rapporto tra una grandezza e una grandezza della<br />
stessa specie, e il primo che misurò il rapporto tra<br />
le cose e le loro grandezze fu Satana. Il tempo è forse<br />
la più percepita tra le cose misurabili, quella di<br />
cui siamo maggiormente consapevoli nella vita di<br />
ogni giorno. Da sempre, fin dal principio, la misura<br />
è stata percepita come misura del tempo; e per<br />
tributargli tutta la nostra stima l’abbiamo insignita<br />
del divino e anche del diabolico.<br />
Platone aveva già diviso l’arte della Misura in due<br />
parti, situando nella prima le arti «che misurano il<br />
numero, la lunghezza, l’altezza, la larghezza e la velocità<br />
in rapporto ai loro contrari», e nella seconda<br />
«le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, al<br />
conveniente, all’opportuno, al doveroso e insomma<br />
a quelle determinazioni che stanno nel mezzo<br />
tra due estremi». Cioè aveva distinto tra numeri e<br />
comportamenti, e in fondo è quello che facciamo<br />
noi quasi senza rendercene conto, da una parte diciamo<br />
misura come quantità e quantitativo, rilevamento,<br />
valutazione, stima ed eventualmente giu-<br />
Il Touring Club Italiano pubblica “Misure, dall’abaco al satellite”,<br />
un libro che documenta la nascita e lo sviluppo degli strumenti<br />
con cui l’umanità, epoca dopo epoca, si è industriata a calcolare<br />
il tempo e lo spazio con sempre maggior accuratezza e precisione. Uno sforzo<br />
che ha spostato via via i confini della conoscenza fino a mettere in crisi l’idea stessa di limite,<br />
come qui racconta uno scrittore che nei suoi romanzi ha spesso affrontato questa sfida<br />
LA SFERA<br />
<strong>La</strong> sfera<br />
armillare,<br />
inventata<br />
dai Greci,<br />
rappresenta<br />
l’universo<br />
Sopra,<br />
un metro<br />
a<br />
I<br />
Ms TOKEN<br />
I “pezzi” in argilla<br />
del Medio Oriente<br />
(1500-800 a.C.)<br />
erano unità di misura<br />
per far di conto<br />
L’illusione<br />
di ingabbiare<br />
l’infinito<br />
DANIELE DEL GIUDICE<br />
IL BAROMETRO<br />
Il barometro<br />
di mercurio<br />
inventato<br />
da Robert<br />
Fitzroy<br />
fu presentato<br />
per la prima<br />
volta nel 1860<br />
i u<br />
d’uomo<br />
dizio, e dall’altra intendiamo una regola della condotta<br />
prudente, una disciplina e un ordine, un condursi<br />
“con misura”, appunto. E lo stesso pensò Aristotele,<br />
misura è da una parte il rapporto tra una<br />
grandezza e l’unità e dall’altra è il criterio o il canone<br />
del vero, cioè il bene, la medietà come quintessenza<br />
della virtù etica.<br />
Più che sul termine misura, che suona già come<br />
un risultato acquisito, conviene attestarsi sul “misurare”,<br />
e in verità il misurare è un verbo sempre in<br />
cammino. Quante misure abbiamo immaginato e<br />
definito e per lo più abbandonato come scarpe<br />
consunte o al contrario mantenute come una fede,<br />
come la linea di fede della bussola: acro, biolca, carato,<br />
cubito, cucchiaio, decade, giornata, iarda, iugero,<br />
libbra, lustro, marco, moggio, oncia, orgìa,<br />
pertica, piede e pollice, quinario, stadio, talento,<br />
versta… Gli scienziati delle misure, i metrologi<br />
d’oggi preferiscono usare la parola “accuratezza”<br />
accanto a “precisione”. Inseguire continuamente<br />
la maggiore accuratezza e la maggiore precisione è<br />
come un destino delle epoche. E nelle maggiori accuratezza<br />
e precisione il misurare incontra, certo,<br />
errore e incertezza. Una volta domandai a Carlo<br />
Rubbia, Nobel per la Fisica nel 1984, chi fosse una<br />
persona davvero competente; mi rispose: «Colui<br />
che ha già compiuto tutti gli errori possibili nel proprio<br />
campo».<br />
Nel nostro tempo, misuriamo ormai lo spazio con<br />
il Gps, Global Positioning System, e la fisica delle<br />
particelle, già dall’ultimo quarto del secolo scorso,<br />
misura il tempo in nanosecondi, lavora cioè con<br />
unità di tempo pari a un miliardesimo di secondo; e<br />
anche in picosecondi, che sono millesimi di un nanosecondo.<br />
Il misurare sembra davvero un cammino<br />
illimitato, e con il passare del tempo è un cammino<br />
sempre più rapido. Negli anni Ottanta, non<br />
così lontani dopotutto, per la navigazione marittima<br />
e aeronautica si usava ancora il Loran, acronimo<br />
di Long Range Navigation, era in servizio nella Seconda<br />
guerra mondiale e poi anche in quella del<br />
Vietnam, e il suo tempo di accuratezza e precisione<br />
era solo in microsecondi. Il Loran, elaborato dagli<br />
Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale come<br />
sistema di navigazione aerea per il Nord Atlantico<br />
e il Pacifico ad uso dell’Army Air Corps, basato<br />
su trasmissioni a media frequenza facilmente propagabili<br />
sugli oceani, era stato convertito alla fine<br />
degli anni Cinquanta sulla bassa frequenza per permettere<br />
anche la propagazione terrestre. Il sistema<br />
si basava sulla trasmissione di impulsi precisamente<br />
spaziati nel tempo, grazie ai quali il navigatore poteva<br />
derivare informazioni relative alla posizione e<br />
alla velocità. Un elemento minimo della catena Loran<br />
includeva tre stazioni posizionate ad alcune<br />
centinaia di chilometri l’una dall’altra, e conoscendo<br />
la posizione delle stazioni trasmittenti e la spaziatura<br />
degli impulsi era possibile convertire la dif-<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
ferenza di tempo in latitudine e longitudine. Ma tornando<br />
all’oggi le pur ottime prestazioni del Loran<br />
sono superate e certo non di poco dal sistema Gps<br />
con la sua copertura di ventiquattro satelliti e la sua<br />
capacità di funzionare in modo differenziale di un<br />
centimetro. Al Cern di Ginevra, si è passati dall’acceleratore<br />
di particelle del “piccolo” PS Sincrotone<br />
per protoni con un’energia fino a 26 GeV (1 GeV è circa<br />
1/1000 della energia cinetica di una zanzara) all’SpS,<br />
il Super sincrotrone per protoni e antiprotoni<br />
che aveva una potenza di 450 GeV, e ancora più con<br />
il LHC, il grande collisore per adroni, che verrà costruito<br />
all’interno del tunnel che ospita il LEP, con<br />
un accelerazione fino a 700 GeV.<br />
Sembra che il misurare sia illimitato e che non<br />
abbiano più alcun senso le antiche teorie come<br />
quelle di Democrito, di Leucippo o di Lucrezio sul<br />
minimum, sull’infinitesimo, sul limite che non dà<br />
ulteriore divisibilità. Ma sarà vero che il nostro<br />
cammino del misurare non ha un termine finale,<br />
che è un indefinito sviluppo? Sarà vero che i suoi<br />
passi successivi sono inesorabili? Il matematico<br />
Paolo Zellini nel libro Breve storia dell’infinito<br />
(Adelphi 1980) scrive un capitolo specifico sul limite,<br />
ripercorre la storia dell’idea di limite. C’è da<br />
chiedersi, allora, se la consapevolezza dell’assenza<br />
di un limite può renderci più felici. O se invece la<br />
nostra grandezza o almeno la nostra quiete sia<br />
quella di eludere la conoscenza della misura, acquisirla<br />
sì, ma poi gettarla via, come nel poema<br />
olandese di Brandaen ricordato da Jacob Grimm<br />
nella Deutsche Mythologie (1953). Brandaen incontra<br />
per mare un uomo alto un pollice, che galleggia<br />
su una foglia e tiene nella mano destra una<br />
ciotola e nella sinistra uno stilo; l’uomo è occupato<br />
a immergere lo stilo nel mare e poi a farlo sgocciolare<br />
dentro la ciotola. Quando la ciotola è piena,<br />
la svuota e ricomincia da capo. Dice che gli è stato<br />
imposto il compito di misurare il mare fino al Giorno<br />
del Giudizio.<br />
<strong>La</strong> sofferenza e insieme l’inanità della misura sono<br />
illustrate dal chimico Primo Levi in un appunto<br />
che prese in seguito alla lettura di una “specification”,<br />
un metodo di controllo tecnico-commerciale<br />
emesso dalla American<br />
FOTO CORBIS ra<br />
LA CLESSIDRA<br />
Le prime clessidre a sabbia<br />
compaiono nel XIV secolo<br />
dipinte dal Lorenzetti<br />
Sopra: un antico quadrante<br />
L’OROLOGIO<br />
Un orologio decimale francese<br />
con numeri romani. A destra,<br />
un compasso per misurare<br />
le palle di cannone<br />
Society for Testing Materials nel 1955. È un appunto<br />
che vale la pena di riprendere. Si intitola <strong>La</strong> misura<br />
di tutte le cose: «Nel Settecento, <strong>La</strong>zzaro Spallanzani<br />
misurava i tempi delle sue celebri esperienze<br />
sugli infusori esprimendoli in credi, si serviva<br />
cioè come unità di misura del tempo necessario<br />
per recitare un Credo. Oggi misuriamo il tempo in<br />
base alle frequenze di emissione dell’atomo di cesio,<br />
e un errore di un secondo ci pare intollerabile.<br />
È una via obbligata: le fondazioni della nostra società<br />
tecnologica devono essere consolidate da misure<br />
e definizioni precise; in questi scantinati, frequentati<br />
solo dagli addetti ai lavori, c’è chi misura<br />
la resistenza alla flessione degli spaghetti crudi e la<br />
resistenza alla trazione degli spaghetti cotti, e<br />
prescrive i rispettivi valori massimo e minimo.<br />
[…] A meno di un improbabile ritorno<br />
nel Settecento, il mostruoso reticolo delle<br />
specificazioni è destinato a crescere<br />
[…]».<br />
Per concludere infine, e ancora a<br />
proposito di Spallanzani, bisogna<br />
ricordare quello che Carlo Emilio<br />
Gadda disse della cultura italiana:<br />
«<strong>La</strong> prima colpa che le faccio<br />
è di essere refrattaria alla storia<br />
naturale, di ignorare le ere<br />
geologiche, il darwinismo, i<br />
classificatori del Settecento<br />
e Ottocento, Malpighi e<br />
Spallanzani […]». Una<br />
cultura quella italiana, secondo<br />
Gadda, fatta «di<br />
toc-toc di impulsi, di<br />
batticuore, della retorica<br />
delle buone intenzioni.<br />
Manca un sottofondo<br />
logico e riflessivo.<br />
Non appoggiataall’esperienza,<br />
ma<br />
al cuore».<br />
IL LIBRO<br />
Misure. Dall’Abaco al satellite: tutti<br />
i modi in cui l’uomo misura se stesso,<br />
il pianeta e l’universo di Andrew<br />
Robinson sarà in libreria dal 7 novembre<br />
per le edizioni Touring Club Italiano<br />
(244 pagine, 25 euro). Il libro uscirà<br />
per i tipi di Thames & Hudson anche<br />
in Gran Bretagna. Le foto di queste<br />
pagine sono state concesse<br />
dal Touring Club Italiano<br />
LA BUSSOLA<br />
È il primo strumento<br />
che indica il Nord magnetico<br />
<strong>La</strong> sua invenzione<br />
si attribuisce<br />
ai cinesi<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
la lettura<br />
Halloween<br />
MAX BROOKS<br />
Il primo caso che vidi fu in un villaggio<br />
remoto che ufficialmente non<br />
aveva nome. Gli abitanti lo chiamavano<br />
“Nuovo Dachang”, più che altro<br />
per una forma di nostalgia. <strong>La</strong> loro<br />
patria precedente, “Vecchio Dachang”,<br />
era esistita sino all’epoca dei Tre<br />
Regni, con fattorie e case e persino alberi<br />
che si diceva fossero secolari. Quando la<br />
Diga delle Tre Gole fu terminata, e le acque<br />
del bacino di riserva cominciarono a salire,<br />
Dachang era già stato in gran parte<br />
smontato, mattone per mattone, e poi ricostruito<br />
su un terreno più elevato. [...]<br />
L’ospedale era tranquillo. [...] Ero stanco,<br />
mi facevano male i piedi e la schiena.<br />
Stavo uscendo a fumare una sigaretta e<br />
guardare l’alba quando sentii fare il mio<br />
nome. <strong>La</strong> centralinista di quella notte era<br />
nuova e non capiva bene il dialetto. C’era<br />
stato un incidente, o una malattia. Era<br />
un’emergenza, questo era chiaro, e se per<br />
favore potevamo mandare subito aiuto.<br />
Che potevo dire? I dottori più giovani, i<br />
ragazzini che pensano che la medicina sia<br />
solo un modo per gonfiare il conto in banca,<br />
non sarebbero certo andati ad aiutare<br />
qualche nongminsolo per il piacere di portare<br />
aiuto. Immagino di essere, in fondo al<br />
cuore, ancora un vecchio rivoluzionario.<br />
«Il nostro dovere è di essere responsabili<br />
nei confronti del popolo». Quelle parole significano<br />
ancora qualcosa per me... e cercai<br />
di ricordarmelo mentre la mia Deer<br />
rimbalzava e sbatteva sulle strade sterrate<br />
che il governo si era impegnato, ma mai accinto,<br />
ad asfaltare. [...]<br />
Ce n’erano sette, tutti su dei lettini, tutti<br />
a malapena coscienti. Gli abitanti del paese<br />
li avevano spostati nella nuova sala riunioni<br />
comunale. Il pavimento e le pareti<br />
erano di nudo cemento. L’aria era fredda e<br />
umida. Ci credo che sono malati, pensai.<br />
Chiesi agli abitanti del paese chi si era preso<br />
cura di loro. Risposero che nessuno l’aveva<br />
fatto, perché non era «sicuro». Notai<br />
che la porta era stata chiusa a chiave da fuori.<br />
Gli abitanti del paese erano chiaramente<br />
terrorizzati. Stavano rannicchiati e bisbigliavano;<br />
alcuni si erano messi in disparte<br />
e pregavano. Il loro atteggiamento<br />
mi riempì di rabbia, non contro di loro, cer-<br />
Max Brooks, figlio del regista Mel, ha sviluppato una genialità<br />
diversa da quella del padre ma altrettanto maniacale:<br />
è il più grande esperto mondiale di zombi. Prima ha scritto<br />
un manuale per combatterli, ora un romanzo in cui l’umanità<br />
è colpita dal solito virus misterioso che sforna cadaveri<br />
ancora in vita. Sembra un horror, forse è una metafora<br />
chi di capire, non contro quegli individui,<br />
ma contro ciò che rivelavano del nostro<br />
paese. Dopo secoli d’oppressione straniera,<br />
sfruttamento e umiliazione, stavamo finalmente<br />
rivendicando il nostro giusto<br />
ruolo di Impero del Mezzo dell’umanità.<br />
Eravamo la superpotenza più ricca e dinamica<br />
del mondo, padroni di tutto, dallo<br />
spazio cosmico al cyberspazio. Era l’alba di<br />
quello che il mondo stava finalmente riconoscendo<br />
come il “Secolo cinese”, eppure<br />
molti di noi vivevano ancora come questi<br />
contadini ignoranti, refrattari e superstiziosi<br />
come i popoli primitivi della cultura<br />
Yangshao.<br />
Ero ancora perso in quella mia pomposa<br />
critica culturale quando mi inginocchiai<br />
per visitare la prima paziente. Aveva la febbre<br />
alta, a quaranta, ed era scossa da tremori<br />
violenti. Appena cosciente, piagnucolò<br />
un po’ quando cercai di muoverle<br />
braccia e gambe. Aveva una ferita sull’avambraccio<br />
destro, il segno di un morso.<br />
Quando la esaminai più da vicino, mi resi<br />
conto che non era stato causato da un animale.<br />
Il raggio del morso e i segni dei denti<br />
erano sicuramente stati causati da un piccolo,<br />
o forse giovane, essere umano. Anche<br />
se ipotizzai che fosse quella la causa dell’infezione,<br />
la ferita in sé era sorprendentemente<br />
pulita. Chiesi, di nuovo, chi si era<br />
preso cura di quelle persone. Di nuovo, mi<br />
risposero nessuno. Sapevo che non poteva<br />
essere vero. <strong>La</strong> bocca umana è zeppa di<br />
batteri, anche più di quella del cane più<br />
sporco. Se nessuno aveva pulito la ferita di<br />
questa donna, perché il taglio non brulicava<br />
di infezioni?<br />
Esaminai gli altri sei pazienti. Mostravano<br />
tutti sintomi simili, avevano tutti ferite<br />
simili in diverse parti del corpo. Chiesi a un<br />
uomo, il più lucido del gruppo, chi o cosa<br />
avesse causato queste ferite. Mi disse che<br />
era successo quando avevano cercato di<br />
«domarlo».<br />
«Domare chi?», chiesi.<br />
Trovai il “paziente zero” dietro la porta<br />
chiusa a chiave di una casa abbandonata<br />
dall’altra parte del paese. Aveva dodici anni.<br />
Polsi e piedi erano legati con della corda<br />
da imballaggio di plastica. Nonostante<br />
avesse sfregato la pelle contro i lacci, non<br />
c’era sangue. Non c’era sangue neanche<br />
nelle altre ferite, nemmeno su quelle più<br />
profonde che aveva su gambe e braccia, né<br />
intorno al grande buco che aveva al posto<br />
dell’alluce destro. Il ragazzino si dimenava<br />
come un animale; un bavaglio attutiva i<br />
suoi grugniti.<br />
Gli abitanti del villaggio cercarono di<br />
trattenermi. Mi avvisarono di non toccarlo,<br />
perché era «maledetto». Li ignorai e presi<br />
guanti e mascherina. <strong>La</strong> sua pelle era<br />
fredda e grigia come il cemento sul quale<br />
giaceva. Non riuscii a trovare il battito cardiaco<br />
né le pulsazioni al polso. Aveva occhi<br />
spiritati, spalancati e affossati nelle orbite.<br />
Rimasero fissi su di me come quelli di una<br />
bestia predatrice. Durante tutta la visita fu<br />
inspiegabilmente ostile, allungava verso<br />
di me le mani legate e provava a mordermi<br />
attraverso il bavaglio. I suoi movimenti<br />
L’ultima guerra dei morti viventi<br />
CULT<br />
Un’immagine<br />
tratta dal film<br />
di George A.<br />
Romero,<br />
<strong>La</strong> notte dei morti<br />
viventi (1968)<br />
erano così violenti che dovetti chiedere a<br />
due tra gli abitanti del paese più robusti che<br />
mi aiutassero a tenerlo fermo. All’inizio<br />
non si mossero, rannicchiati davanti alla<br />
porta come due coniglietti. Spiegai che<br />
non c’era alcun rischio d’infezione se usavano<br />
guanti e mascherina.<br />
Quando scossero la testa, trasformai la<br />
richiesta in un ordine, anche se non avevo<br />
alcuna autorità legale per farlo. Ma bastò. I<br />
due buoi s’inginocchiarono accanto a me.<br />
Uno teneva i piedi del ragazzo, mentre l’altro<br />
gli stringeva le mani. Cercai di prelevare<br />
un campione di sangue e invece tirai<br />
fuori solo una sostanza marrone e viscosa.<br />
Mentre stavo togliendo l’ago, il ragazzo ricominciò<br />
a lottare con violenza.<br />
Uno dei miei<br />
“inservienti”,<br />
quello responsabile<br />
delle<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
braccia, smise di tenerle ferme e pensò che<br />
poteva essere più sicuro se si limitava a<br />
schiacciarle con le ginocchia contro il pavimento.<br />
Ma il ragazzo scattò di nuovo e io<br />
sentii il suo braccio sinistro che si spezzava.<br />
Le estremità frastagliate di radio e ulna<br />
sbucarono fuori dalla carne grigia. Il ragazzo<br />
non strillò, non parve neppure accorgersene,<br />
ma quello spettacolo fu sufficiente<br />
a far balzare indietro i due assistenti, che<br />
scapparono via dalla stanza. Io anche arretrai<br />
istintivamente di qualche passo.<br />
M’imbarazza ammetterlo.<br />
Sono stato dottore per gran parte della<br />
mia vita da adulto. Ero stato addestrato<br />
e... si potrebbe addirittura dire “allevato”<br />
dall’Esercito popolare di liberazione. Ho<br />
curato più ferite di guerra di quante avrei<br />
voluto, ho sfiorato la morte in più di<br />
un’occasione, ed ero terrorizzato, veramente<br />
terrorizzato, da questo gracile esserino.<br />
Il ragazzo cominciò a torcersi verso di<br />
me, il braccio si squarciò fino a staccarsi.<br />
Carne e muscolo si separarono finché<br />
non rimase che il moncherino. Il braccio<br />
destro ora libero, ancora legato alla mano<br />
sinistra troncata, trascinava il corpo lungo<br />
il pavimento.<br />
Mi precipitai fuori, chiudendo a chiave<br />
la porta dietro di me. Cercai di ricompormi,<br />
di controllare la paura e la vergogna.<br />
Mi tremava ancora la voce quando chiesi<br />
come si era infettato. Nessuno rispose.<br />
Cominciai a sentire dei colpi contro la<br />
porta, i pugni del ragazzo che battevano<br />
deboli contro il legno sottile. Riuscii a malapena<br />
a non sobbalzare per quel rumore.<br />
Pregai che nessuno si accorgesse di quanto<br />
ero diventato pallido. Urlai, per paura<br />
quanto per frustrazione, che dovevo sapere<br />
cosa era successo a quel<br />
bambino.<br />
Una giovane si fece avanti,<br />
forse sua madre. Era evidente<br />
che piangeva da giorni;<br />
aveva gli occhi asciutti e<br />
profondamente arrossati. Ammise che<br />
era successo quando il ragazzo e suo padre<br />
stavano «pescando sotto la luna»,<br />
espressione che significava tuffarsi alla ricerca<br />
di tesori tra le rovine sommerse della<br />
Grande riserva, alle Tre Gole. [...] E infine<br />
lei mi spiegò che il ragazzo era tornato<br />
piangendo e con i segni di un morso sul<br />
piede. Non sapeva cosa fosse successo,<br />
l’acqua era troppo scura e fangosa. Suo<br />
padre non fece più ritorno. Presi il cellulare<br />
e composi il numero del dottor Gu Wen<br />
Kuei, un vecchio compagno dei giorni<br />
dell’esercito, che ora lavorava all’Istituto<br />
malattie infettive dell’università di<br />
Chongqing<br />
[...] Gli raccontai tutto: i morsi, la feb-<br />
bre, il ragazzo, il braccio... il suo volto all’improvviso<br />
si irrigidì. Il sorriso scomparve.<br />
Mi chiese di mostrargli gli infetti.<br />
Tornai alla sala riunioni e sventolai la telecamera<br />
del telefono su ogni paziente.<br />
Lui mi chiese di avvicinarla ad alcune ferite.<br />
Lo feci, e quando riportai lo schermo<br />
verso di me vidi che lui aveva interrotto il<br />
contatto video.<br />
«Resta dove<br />
sei», mi disse,<br />
ora ridotto solo<br />
a una voce distaccata<br />
e lontana.<br />
«Prendi i<br />
nomi di tutti<br />
quelli che sono<br />
stati in contatto<br />
con<br />
gli in-<br />
IL LIBRO<br />
Un’epidemia che trasforma gli uomini in zombi<br />
Incomincia in Cina e si diffonde in tutto il mondo<br />
Un romanzo a più voci che racconta la fine di tutto<br />
ciò che l’uomo è abituato a dare per scontato<br />
Ma non è solo questo il libro di Max Brooks<br />
World War Z. <strong>La</strong> guerra mondiale degli zombi (Cooper,<br />
320 pagine, 16 euro). È un atto di denuncia contro<br />
l’indifferenza dell’umanità di fronte a guerre, ingiustizie,<br />
sofferenze e contro la mancanza di un piano<br />
di convivenza planetaria comune anche di fronte<br />
alle tragedie. In libreria il 2 novembre<br />
fetti. Rinchiudi quelli già contaminati. Se<br />
qualcuno è entrato in coma, isolalo in<br />
un’altra stanza e blocca l’uscita». <strong>La</strong> sua<br />
voce era piatta, robotica, come se avesse<br />
già provato quel discorso o lo stesse leggendo.<br />
Mi chiese: «Sei armato?». «Perché<br />
dovrei?», chiesi io. Mi disse che mi avrebbe<br />
richiamato lui, e il suo tono era quello<br />
del pragmatismo assoluto. Disse che doveva<br />
fare qualche telefonata e che avrei ricevuto<br />
«rinforzi» in poche ore.<br />
Non ne passò neppure una che già erano<br />
lì, cinquanta uomini in grandi elicotteri<br />
militari Z-8A, con addosso la tuta di protezione<br />
contro le sostanze tossiche. Dissero<br />
di essere del ministero della Sanità.<br />
Non so chi credessero di prendere in giro.<br />
Con quell’andatura spavalda e prepotente,<br />
con quell’arroganza intimidatoria,<br />
persino gli zotici di quel paesino sperduto<br />
potevano riconoscere i Guoanbu.<br />
Entrarono nella sala riunioni. I pazienti<br />
vennero trasportati fuori in barella,<br />
braccia e gambe in catene, le bocche imbavagliate.<br />
Poi toccò al ragazzo. Uscì in un<br />
sacco di plastica per cadaveri. Sua madre<br />
piangeva mentre lei e il resto del paese venivano<br />
radunati per le “visite”. Presero i<br />
loro nomi, effettuarono prelievi del sangue.<br />
Uno dopo l’altro furono spogliati e<br />
fotografati. L’ultima a venire denudata fu<br />
una vecchia avvizzita. Aveva un corpo<br />
magro e storto, un viso con migliaia di rughe<br />
e piedi minuscoli che dovevano averle<br />
fasciato quando era bambina. Agitava il<br />
pugno ossuto contro i “dottori”. «Questa<br />
è la vostra punizione», urlò. «Questa è la<br />
vendetta per Fengdu!».<br />
Si riferiva alla Città dei Fantasmi, i cui<br />
templi e santuari erano dedicati al mondo<br />
sotterraneo. Come Vecchio Dachang,<br />
era stata uno sfortunato ostacolo per il<br />
nuovo Grande balzo in avanti della Cina.<br />
Era stata evacuata, poi demolita, poi quasi<br />
del tutto sommersa. Io non sono mai<br />
stato superstizioso e non mi sono mai fatto<br />
abbindolare dall’oppio dei popoli. Sono<br />
un dottore, uno scienziato. Credo solo<br />
in ciò che posso vedere e toccare. Per me<br />
Fengdu è sempre stata solo una stupida,<br />
volgare trappola per turisti. Ovviamente<br />
le parole di quell’antico rudere grinzoso<br />
non ebbero nessun effetto su me, ma il<br />
suo tono, la sua rabbia... aveva visto ab-<br />
“ Sono stato dottore per gran parte della mia vita da adulto<br />
Ero stato addestrato e... si potrebbe addirittura dire allevato<br />
dall’Esercito popolare di liberazione. Ho curato più ferite al fronte<br />
di quante avrei voluto ed ero terrorizzato da questo gracile esserino”<br />
bastanza calamità negli anni che aveva<br />
passato sulla Terra: i signori della guerra,<br />
i giapponesi, il folle incubo della Rivoluzione<br />
culturale... sapeva che stava arrivando<br />
un’altra tempesta, anche se la sua<br />
istruzione non le permetteva di riconoscerla.<br />
Il mio collega, il dottor Kuei, l’aveva riconosciuta<br />
fin troppo bene. Aveva persino<br />
rischiato la pelle per avvisarmi, per<br />
darmi almeno il tempo di chiamare e magari<br />
allertare qualcun altro prima che arrivasse<br />
il “ministero della Salute”. E mi<br />
aveva avvisato con una frase... un’espressione<br />
che non usava da tanto,<br />
dai tempi delle “insignificanti”<br />
dispute di confine<br />
con l’Unione Sovietica.<br />
Dal lontano 1969.<br />
Eravamo in un bunker<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
sotterraneo dal nostro lato dell’Ussuri, a<br />
meno di un chilometro lungo il fiume da<br />
Chen Bao. I russi si preparavano a rimpossessarsi<br />
dell’isola, e la loro potente artiglieria<br />
martellava le nostre forze.<br />
Io e Gu stavamo cercando di togliere i<br />
frammenti di proiettile dalla pancia di<br />
questo soldato non molto più giovane di<br />
noi. Il tratto finale dell’intestino del ragazzo<br />
era tutto squarciato, i nostri camici<br />
erano coperti di sangue ed escrementi.<br />
Ogni sette secondi un colpo di cannone si<br />
abbatteva lì vicino e noi ci dovevamo piegare<br />
sul corpo del giovane per proteggere<br />
la ferita dagli schizzi di terreno, e ogni volta<br />
gli eravamo abbastanza vicini da sentirlo<br />
piagnucolare e chiamare sua madre.<br />
C’erano anche altre voci, provenivano dal<br />
buio profondo oltre l’entrata del nostro<br />
bunker, voci disperate, rabbiose, che non<br />
avrebbero dovuto essere dal nostro lato<br />
del fiume. Avevamo due soldati della fanteria<br />
appostati all’entrata del bunker.<br />
Uno di loro urlò: «Spetsnaz!», e aprì il<br />
fuoco contro il buio. Sentimmo anche altri<br />
spari, senza capire se fossero dei nostri<br />
fucili o dei loro. Arrivò un altro colpo<br />
di cannone, e noi ci piegammo sopra il<br />
ragazzo morente. Il viso di Gu era solo a<br />
pochi centimetri dal mio. Il sudore gli si<br />
riversava dalla fronte. Persino alla luce<br />
fioca di una sola lanterna a cherosene<br />
potevo vedere che stava tremando ed era<br />
pallido. Guardò il paziente, poi il vano<br />
della porta, poi me, e all’improvviso disse:<br />
«Non ti preoccupare, andrà tutto bene».[...]<br />
Adesso eravamo anziani, e qualcosa di<br />
peggio stava per succedere. Usò quell’espressione<br />
subito dopo avermi chiesto<br />
se ero armato. «No», dissi io, «perché dovrei?».<br />
Ci fu un breve silenzio, sono sicuro<br />
che altre orecchie fossero in ascolto.<br />
«Non ti preoccupare», disse lui, «andrà<br />
tutto bene».<br />
Traduzione di Nello Giugliano<br />
(Studio Oblique)<br />
© 2006 Max Brooks - © 2007 Cooper srl<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO EVERETT COLLECTION
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
SPETTACOLI<br />
Dal 1991 a oggi il festival di Cannes ha chiesto ogni anno a un grande<br />
regista di tenere una lectio magistralis sulla sua arte,<br />
i suoi trucchi, i suoi metodi. Da Rosi a Pollack ,<br />
da Wenders a Moretti, questi <strong>maestri</strong> hanno preso la parola davanti<br />
a un pubblico affascinato e selezionato. Ora quei seminari vengono<br />
raccolti in un volume. Ne anticipiamo alcuni brani<br />
U na<br />
Il soggetto<br />
WIM WENDERS<br />
In un film, che classicamente si divide<br />
in tre tappe, scrittura, riprese, montaggio,<br />
preferisco quello che c’è prima<br />
della scrittura, quello stato in cui si cerca<br />
l’inizio di un film, in cui si viaggia per trovare<br />
un paesaggio nel quale si sa che si potrà<br />
fare il film... Ancora non c’è niente, ci sono<br />
solo elementi frammentari, piccole storie<br />
che si sono viste, o un paesaggio di cui ci<br />
si ricorda, o un attore con il quale si ha voglia<br />
di lavorare. E poi tutto il resto, quello che viene<br />
dopo, soprattutto la scrittura, mi fa veramente<br />
paura e non mi piace affatto. Non mi<br />
piacciono neanche le riprese, sono troppo angoscianti.<br />
Al contrario, il montaggio è magnifico.<br />
Ma fra il montaggio finale e questa libertà<br />
del punto di partenza in cui ancora non c’è<br />
niente, io non sono a mio agio.<br />
<strong>La</strong> scrittura<br />
MILOS FORMAN<br />
buona sceneggiatura si scrive a più mani.<br />
Ho lavorato con Jean-Claude Carrière, Buck<br />
Henry o, in Cecoslovacchia, con Ivan Passer.<br />
Mi piace questo ambiente di collaborazione, questa<br />
emulazione delle idee. In base alla mia esperienza,<br />
una buona e felice collaborazione su una sceneggiatura<br />
val bene la metà della messa in scena. Si recita<br />
tutto il film in anticipo, prima delle riprese. Mi piace<br />
moltissimo lavorare con sceneggiatori capaci di recitare<br />
tutte le scene mentre scrivono, di dire tutti i dialoghi.<br />
Recitiamo fra di noi, e il mio orecchio può giudicare<br />
se suona vero o falso. Una riga di dialogo può<br />
sembrarvi assolutamente vera sulla carta, ma quando<br />
l’ascoltate suona falsa. È vero anche il contrario:<br />
talvolta, ciò che è scritto sembra falso, ma il parlato lo<br />
rivela come vero. Il passaggio all’orale è la prima verità<br />
di un film. <strong>La</strong> sola sceneggiatura che sia stata interamente<br />
scritta per me, addirittura prima che me<br />
ne interessassi, in cui non ho dovuto toccare neanche<br />
una riga, è <strong>La</strong>rry Flint — Oltre lo scandalo, nel 1996.<br />
Era la prima volta che mi succedeva: un vero e proprio<br />
lavoro su commissione, scritto da Scott Alexander e<br />
<strong>La</strong>rry Karaszewski. Ma non fu sgradevole, perché ho<br />
subito adorato quella sceneggiatura, un’ottima sceneggiatura.<br />
Dalla prima all’ultima pagina, ho esaminato<br />
ogni riga, ogni scena, ogni parola per rendermi<br />
conto se ero in grado di portarla sullo schermo oppure<br />
no. Riesco molto facilmente a visualizzare tutte le<br />
sequenze, tutti i tipi di scena. È così che mi rendo conto<br />
molto presto se corrisponde al mio senso della<br />
realtà. Preferisco sempre adattare una sceneggiatura<br />
alla mia realtà personale.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
IL LIBRO<br />
Si intitola Lezioni di cinema<br />
e sarà in libreria dal 30 ottobre<br />
Raccoglie le lezioni che dal 1991 a oggi<br />
i grandi registi hanno tenuto in sedici<br />
edizioni del Festival di Cannes. Il libro<br />
(traduzione di Rosa Pavone, 207 pagine,<br />
20 euro) è pubblicato da Il Castoro<br />
In queste pagine anticipiamo alcuni<br />
estratti (© 2007 Festival di Cannes<br />
Editrice Il Castoro)<br />
FOTO CORBIS<br />
B illy<br />
<strong>La</strong> produzione<br />
BERTRAND TAVERNIER<br />
Wilder diceva che, alla fine, un<br />
regista impiega il 98 per cento del<br />
suo tempo a cercare i soldi per fare i<br />
suoi film e il due per cento a lavorare. Non<br />
aveva affatto torto: è più o meno così, purtroppo.<br />
Continuo a constatarlo sulla mia<br />
pelle, anche dopo tredici film. Potrei dire<br />
che, per le otto settimane di riprese di <strong>La</strong> vita<br />
e nient’altro, c’è stato prima un anno di<br />
ricerche di coproduttori, di capitali; un anno<br />
speso a cercare di convincere le persone<br />
che il film che avete dentro è interessante.<br />
E a questo punto, tutte le ipotesi sono<br />
possibili. Alcuni non vi rispondono,<br />
succedeva soprattutto all’inizio, ed è del<br />
tutto normale. Quando ho realizzato L’orologiaio<br />
di Saint-Paul o Che la festa cominciho<br />
subito tutte le umiliazioni che un<br />
autore può subire.<br />
Per esempio, un tipo che prende la sceneggiatura<br />
e che, dopo aver sfogliato tutte<br />
le pagine, dice in vostra presenza: «Caspita!<br />
Com’è grossa!» E il colloquio finisce qui.<br />
Da un produttore, oltre certamente all’aspetto<br />
finanziario, mi attendo una sorta di<br />
dialogo. Visto che non avviene spesso, sono<br />
diventato il mio coproduttore. Ma anche<br />
in questi casi ho bisogno di un dialogo<br />
con un produttore esterno, che somiglia<br />
un po’ a quello con gli attori. Un produttore<br />
è anche qualcuno che mi protegge e che,<br />
nel corso di questo percorso disseminato<br />
d’insidie e di umiliazioni, le sopporta al posto<br />
mio. O almeno con me. Perché ci si trova<br />
quantomeno in uno stato di fragilità<br />
spesso terribile.<br />
S ul<br />
<strong>La</strong> fotografia<br />
OLIVER STONE<br />
set ci sono gli attori, che sono<br />
certamente importanti, ma il per-<br />
sonaggio chiave, il partner fonda-<br />
mentale del regista è il direttore della<br />
fotografia, l’uomo con il quale parla durante<br />
tutte le riprese. È con lui che bisogna<br />
lavorare, preparare le scene, comporre<br />
la luce… Sempre con quel dubbio<br />
che solo il regista può risolvere: che<br />
cosa chiedere al direttore della fotografia?<br />
Ha di fronte una specie di alternativa:<br />
gli dà delle indicazioni molto precise<br />
o, al contrario, lo lascia relativamente<br />
libero nei suoi movimenti e nei suoi<br />
propositi? Perché il direttore della fotografia<br />
è un compagno, un amico, ma è<br />
anche un nemico. Su un set, bisogna<br />
stare attenti a tutte le persone che ci sono<br />
intorno: i collaboratori danno al regista<br />
la sua forza, ma gliela tolgono anche.<br />
Bisogna saper difendere le proprie<br />
idee, perché tutti le cambiano e le trasformano<br />
durante le riprese. Bisogna<br />
assolutamente mantenere una visione<br />
personale, altrimenti il film, alla fine<br />
dei conti, non assomiglierà più al regista.<br />
Se posso darvi un consiglio, eccolo:<br />
quando sarete registi, mantenete le vostre<br />
idee originarie!<br />
I l<br />
L’attore<br />
FRANCESCO ROSI<br />
regista deve ottenere tutto quello che<br />
è possibile da un attore professionista,<br />
e ancora di più da un attore non pro-<br />
fessionista. Se sceglie un non professionista,<br />
significa che è convinto che potrà ottenere<br />
da lui qualcosa in più. Ma bisogna<br />
usare con lui maniere diverse, che possono<br />
essere dolci o violente. Si può arrivare<br />
fino alla collera, agli urli, talvolta a uno<br />
schiaffo. Ma questo succede anche con i<br />
professionisti! E con le attrici! Non potete<br />
immaginare il numero di registi che hanno<br />
preso a schiaffi le loro attrici! Ma questa<br />
forma di crudeltà è, direi, una crudeltà<br />
del tutto “curativa”. Ho lavorato con un<br />
buon numero di attori famosi, Gian Maria<br />
Volonté in cinque film, Rod Steiger in due<br />
film, Sofia Loren, Omar Sharif, Alain Cuny<br />
in tre film, Philippe Noiret, anche lui in tre<br />
film, Vittorio Gassman o Max von Sydow.<br />
E credo di averli sempre aiutati perché li<br />
ho sempre amati. Se non amo l’attore che<br />
scelgo non è possibile per me realizzare<br />
un film. Ho lavorato anche con giovani attori,<br />
Rupert Everett, Ornella Muti, o James<br />
Belushi nel mio ultimo film, Dimenticare<br />
Palermo, nel 1990. È un formidabile attore<br />
americano, con una personalità molto<br />
forte: seguiva esattamente quello che gli<br />
domandavo, ma nello stesso tempo sapeva<br />
servire il suo personaggio “sentendolo”,<br />
“provandolo” dandogli emozioni<br />
proprie. È spesso questo il problema sul<br />
quale l’attore e il regista entrano in conflitto:<br />
quando il primo vuole dare al personaggio<br />
le proprie emozioni.<br />
P er<br />
Il montaggio<br />
SYDNEY POLLACK<br />
me, il montaggio è sempre stata<br />
la chiave del film. Quando si ta-<br />
glia, si dà un ritmo. Funziona o<br />
non funziona; si ride o no; si ha paura<br />
o no. Il centro del bersaglio infatti è<br />
minuscolo e o lo si raggiunge, o non lo<br />
si raggiunge: è il montaggio che permette<br />
di aggiustare il tiro. Tanto più<br />
nel caso dei generi di “film a ritmo”,<br />
come la commedia, il thriller, la suspense,<br />
secondo me i più difficili e i più<br />
accattivanti perché hanno a che vedere<br />
con un certo stato di urgenza. In<br />
questo caso, al montaggio, cercate per<br />
tutto il tempo l’equilibrio tra mistero e<br />
confusione. È un controllo permanente<br />
delle informazioni che si daranno<br />
e del tempo che si impiega a darle.<br />
È tutta una questione di tempismo.<br />
Passo molto tempo al montaggio e ancora<br />
di più nel caso di un film comico.<br />
Fortunatamente, non faccio molti<br />
ciac e non uso molti angoli di ripresa<br />
perché voglio avere tutte le possibilità<br />
aperte. Le mie riprese consistono soprattutto<br />
nel mettere gli attori a loro<br />
agio e nel non impedirmi niente al<br />
montaggio. Cerco di non complicarmi<br />
la vita.<br />
I l<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45<br />
L’inquadratura<br />
THEO ANGHELOPULOS<br />
cinema di montaggio non è mai<br />
stato quello che mi interessava.<br />
Non era affatto quello che cerca-<br />
vo… Avevo bisogno che le inquadrature<br />
durassero a lungo. Ogni volta che vedevo<br />
un film di montaggio, forse era<br />
una peculiarità del mio sguardo, avevo<br />
bisogno che le inquadrature durassero<br />
due secondi di più. È per questo che i<br />
primi film di Antonioni mi hanno<br />
profondamente segnato. L’azione termina<br />
e nonostante ciò c’è qualche secondo,<br />
qualche breve secondo in più,<br />
che qualsiasi montatore al mondo<br />
avrebbe tagliato, ma che Antonioni, ne<br />
L’avventura per esempio, lasciava. Per<br />
me era la cosa più interessante. È per<br />
questo che, quando ho incontrato Antonioni<br />
per la prima volta, gli ho detto<br />
che avevo appena comprato il mio biglietto<br />
per andare a rivedere L’avventuraper<br />
la tredicesima volta. È vero che<br />
all’epoca si diceva: «Andiamo a farci<br />
una dose di Antonioni…» Non era il solo,<br />
c’era anche Orson Welles, con i suoi<br />
magnifici piani sequenza. C’era Murnau,<br />
in L’ultima risata, che iniziava<br />
con un piano sequenza straordinario.<br />
Quindi, fin dall’inizio, ho optato per un<br />
respiro diverso da quello che esiste nei<br />
film di montaggio, e nella maggior parte<br />
dei film cosiddetti “normali”. Cosa<br />
che presupponeva un uso molto diverso<br />
del tempo. Non è un caso se il cinema<br />
che voglio fare si può chiamare un<br />
“cinema del tempo”.<br />
D a<br />
Il pubblico<br />
NANNI MORETTI<br />
sempre il mio “lavoro” di spettatore<br />
ha influenzato il mio la-<br />
voro di regista, le mie esperien-<br />
ze e le mie emozioni di spettatore hanno<br />
influenzato le mie scelte di regista.<br />
Ho visto molti film, e molti brutti film.<br />
Credo che vedere brutti film sia utile,<br />
permette di sviluppare il proprio senso<br />
critico e di cercare di evitare nel proprio<br />
lavoro quello che non piace nel lavoro<br />
degli altri. All’inizio soprattutto,<br />
quando un regista gira i suoi primi film,<br />
è molto importante che sappia quello<br />
che non vuole assolutamente dai suoi<br />
collaboratori: sceneggiatori, attori, direttore<br />
della fotografia, scenografo, responsabile<br />
dei costumi, montatore,<br />
compositore, che, spesso per abitudine,<br />
propongono soluzioni standard,<br />
idee di routine, molto “professionali”,<br />
senza tener conto della personalità del<br />
regista con il quale lavorano. È importante<br />
per un debuttante sapere quello<br />
che vuole fare e, ancora più importante,<br />
sapere quello che non vuole fare<br />
perché l’ha visto duecento volte in film<br />
che non gli sono piaciuti e che sono<br />
ben lontani dal suo modo di sentire le<br />
cose e di raccontarle.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
i sapori Digestive, stimolanti, drenanti, calmanti, ma soprattutto odorose<br />
Profumi in tazza Nate da cocktail di specie o monodedicate, offrono ristoro<br />
nelle serate più fredde e promettono benefici a grandi e piccini<br />
Antiche come i saperi officinali, le pozioni magiche dell’autunno<br />
non sono più soltanto un must stagionale ma un passaporto<br />
sicuro per il benessere. Bere sano è di moda<br />
Tisane<br />
LICIA GRANELLO<br />
femminista degli anni Settanta a gioco di travestimento<br />
nella notte di Halloween, (l’appuntamento è<br />
per mercoledì prossimo), la figura della strega passa<br />
tremate, le streghe son tornate!». Da slogan<br />
indissolubilmente dalle pozioni magiche, oggi tra-<br />
«Tremate<br />
mutate in fumanti tisane.<br />
Trent’anni fa non si andava molto oltre la buona, vecchia camomilla,<br />
toccasana per grandi e piccini caro ai seguaci di Carosello («Nervi calmi,<br />
sonni belli con Espresso Bonomelli!»). Chiederne una tazza al ristorante<br />
era come dare la patente di indigeribilità alla cena e insinuare più di un<br />
dubbio sull’abilità del cuoco: ci si vergognava un poco, adducendo disturbi<br />
pregressi o insonnie indomabili.<br />
Lontane dalle pubbliche cucine, per scelta ribelle o intuito femminile, le<br />
pasionarie di allora cominciarono a recuperare la tradizione degli infusi benefici<br />
mutuati dalla tradizione contadina: ben prima dei tè verdi e degli intrugli<br />
miracolanti che oggi affollano gli scaffali, calde scodelle di finocchio<br />
& liquirizia accompagnavano chiacchiere leggere e discussioni accanite.<br />
L’arrivo della cucina d’Oriente sulle nostre tavole e la veicolazione delle<br />
informazioni gastronomiche da una parte all’altra del mondo hanno sdoganato<br />
le tisane dal purgatorio delle bevande tristanzuole, promuovendole<br />
a veri e propri compendi del buon mangiare. Con il risultato di rendere<br />
popolari erbe, radici e frutti confinati nei saperi dei botanici o affondati nella<br />
memoria popolare.<br />
Alzi la mano chi conosceva lo zenzero dieci anni fa: nessuno o quasi, al<br />
di là dei primi appassionati di sushi e sashimi. E comunque, sempre considerandolo<br />
un dettaglio esotico (e non sempre piacevole, colpa della marinatura<br />
agrodolce che dilata un sapore per noi inconsueto), insieme al pic-<br />
Le erbe buone delle streghe<br />
<strong>La</strong> tisaniera<br />
I comandamenti della perfetta<br />
tisana prevedono l’uso<br />
di tisaniere acconce: bellissime,<br />
colorate, articolate<br />
come misteriose scatole cinesi<br />
A infusione avvenuta,<br />
il coperchietto si trasforma<br />
in piattino dove appoggiare<br />
la ciotolina bucherellata<br />
a incastro con dentro le erbe<br />
cantissimo wasabi. I più avvertiti ne giustificavano presenza e consumo<br />
come passaporto alla salubrità di un cibo — il pesce crudo — con cui la confidenza<br />
era pochissima. Oggi la tisana di zenzero e miele — antinausea e<br />
antisettica dell’apparato digerente — è diventata un must dei dopocena.<br />
Siamo dannati della dieta. Che c’è di meglio di una bevanda dimagrante<br />
per tentare di arginare le calorie di una supercena, azzerando i sensi di colpa?<br />
<strong>La</strong> padrona di casa, con aria complice e discreta, la chiama “infuso drenante”:<br />
come se il risotto mantecato, il fritto di calamari e un trittico di marron<br />
glacés fossero una questione di acqua trattenuta. In realtà, nella ricetta<br />
dell’erborista, al benemerito finocchio selvatico sono stati aggiunti fucus,<br />
che grazie allo iodio di cui è ricco favorisce il metabolismo dei grassi, e<br />
l’altrettanto benedetta liquirizia, dagli effetti lassativi.<br />
I protagonisti della nuova cucina hanno recepito benissimo il messaggio.<br />
Le tisane di fine pasto — sempre più odorose, ricercate, complesse —<br />
vengono declinate a mo’ di gelatine e spume all’interno del menù. Il talentuoso<br />
Massimiliano Alajmo, Tre Stelle Michelin a un passo da Padova, vanta<br />
tra i suoi piatti più riusciti e amati il rombo ai vapori di verbena con purè<br />
aspro di patate. Giovanni Grasso de <strong>La</strong> Credenza (San Maurizio Canavese)<br />
serve dei finti ravioli di mele verdi con infuso di cannella, il bergamasco Luca<br />
Brasi una ricottina di capra con frutta passita e infuso di rosmarino, Gennaro<br />
Esposito le candele con pesto di gamberi e infuso d’alghe.<br />
Se volete saperne di più, a Igea Marina, Rimini, la signora delle erbe Renata<br />
Spinardi organizza corsi gastronomici sulle infusioni d’erbe per neofiti<br />
e chef. I ribelli della tisana virtuosa, invece, troveranno soddisfazione al<br />
Marco Fadiga Bistrot, Bologna, dove il dessert-culto è la crema leggera al<br />
rum con cialda croccante alla frutta secca e infuso di sigaro Winston Churchill.<br />
In fondo, anche il tabacco è una pianta a suo modo officinale.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
itinerari<br />
<strong>La</strong> trentina<br />
Eleonora<br />
Cunaccia<br />
è un’appassionata<br />
ricercatrice<br />
di erbe e frutti<br />
spontanei, che raccoglie<br />
tra i boschi e i prati<br />
d’alta quota. A valle,<br />
nell’officina botanica,<br />
il fratello chef Giovanni<br />
realizza infusioni, elisir<br />
creme e composte<br />
LE TIPOLOGIE<br />
Decotto<br />
Il modo migliore per estrarre<br />
le sostanze officinali da parti<br />
dure delle piante – radici,<br />
gambi legnosi, semi interi –<br />
è portarle a bollore con acqua<br />
oligominerale. <strong>La</strong> cottura<br />
con coperchio assicura<br />
la conservazione dei principi<br />
Infuso<br />
Si versa l’acqua bollente<br />
sulle erbe in un recipiente<br />
non ferroso (ceramica o cotto)<br />
e coperto, lasciando riposare<br />
dieci minuti. Poi, filtrare<br />
in un colino o in una garza,<br />
premendo col cucchiaino<br />
Si può addolcire con miele<br />
Macerazione<br />
Il processo di estrazione lenta<br />
in liquidi vari – acqua, olio, vino<br />
– può durare da alcune ore<br />
a giorni interi. Quelle in alcol<br />
si chiamano tinture. Si filtra<br />
e si conserva l’estratto al buio<br />
Tra le ricette: oli aromatizzati<br />
e curativi, aperitivi, amari<br />
Sciroppo<br />
<strong>La</strong> base di acqua e zucchero<br />
in soluzione concentrata<br />
(rapporto 1/1,75) o di alcol<br />
viene addizionata con erbe<br />
e portata a ebollizione fino<br />
a ottenere consistenza densa<br />
Lo zucchero può essere<br />
sostituito in parte con il miele<br />
Spiazzo (Tn)<br />
Costruita intorno<br />
al cinquecentesco santuario<br />
di San Vigilio, si affaccia<br />
a mezza costa<br />
in Val Rendena. Intorno,<br />
il parco dell’Adamello-<br />
Brenta con i suoi pascoli<br />
d’erbe selvatiche. A pochi chilometri Pinzolo<br />
e Madonna di Campiglio<br />
DOVE DORMIRE<br />
LOCANDA MEZZOSOLDO<br />
Località Mortaso<br />
Tel. 0465-801067<br />
Mezza pensione da 55 euro<br />
DOVE MANGIARE<br />
MILDAS<br />
Via Rosmini 7, località Vadaione Sud<br />
Tel. 465-502104<br />
Chiuso a pranzo e lunedì, menù da 32 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
PRIMITIVIZIA<br />
Frazione Borzago 93<br />
Tel. 0465-801373<br />
S ono<br />
andato nel bosco dei castagni giganti,<br />
così grandi che nemmeno dieci<br />
persone riuscirebbero ad abbracciarli,<br />
avranno cinquecento anni. Mi piace pensarli<br />
come testimoni silenziosi ma molto presenti<br />
di un lungo arco di storia. Ho raccolto<br />
qualche chilo dei loro frutti, sono tornato a<br />
casa e li ho cucinati sul fuoco. Ho preparato<br />
una crema delicata di zucca di Hokkaido che<br />
ho profumato con della noce moscata e condita<br />
con della menta che raccolgo spontanea.<br />
Ho accompagnato con i formaggi d’alpeggio<br />
che stagiono nella mia cantina e che<br />
porto a tavola nelle occasioni importanti.<br />
È stata una vera festa e come in ogni festa<br />
eccedo nella quantità. Io ero felice, il mio stomaco<br />
un po’ meno: si prospettava una nottata<br />
movimentata da<br />
grassi sogni. Un caro<br />
parente valtellinese mi<br />
ha regalato una buona<br />
manciata di erba Iva,<br />
una pianta spontanea<br />
che cresce sopra i duemila<br />
metri, dal gusto<br />
amaro ma straordinaria<br />
per la digestione. <strong>La</strong><br />
menta mi ha aiutato a<br />
trovare piacere, dopo<br />
dieci minuti dall’aver<br />
bevuto il mio decotto i<br />
miei sensi di colpa sono<br />
scomparsi e ho dormito benissimo.<br />
A casa ho una piccola collezione d’erbe essiccate:<br />
in parte le raccolgo, come il tiglio che<br />
cresce sul fiume vicino alla mia casa o la camomilla,<br />
quando la trovo. Le altre le acquisto<br />
biologiche. Sia la cultura del biologico che<br />
quella delle tisane è una prerogativa prettamente<br />
europea: se ne trovano quindi moltissime<br />
e di qualità straordinaria. Per apprendere<br />
i loro effetti benefici, consulto Krut und<br />
Ukrut (“Erbe e malerbe”), un libro scritto dal<br />
parroco Kunzle, erborista vissuto in Svizzera<br />
alla fine del Diciottesimo secolo, purtroppo<br />
non ancora tradotto in italiano. Su questo tema,<br />
e sulla tradizione antroposofica, ci sono<br />
comunque molti testi scritti da Rudolf Steiner<br />
e dai suoi confratelli.<br />
Mi piace anche scoprire erbe poco comuni<br />
come il levistico, che riesce ottimo nel mio<br />
risotto di verdure, la lavanda che sposo a un<br />
raviolo al vapore farcito di cavolo nero, il timo<br />
limone per una crema catalana abbinata<br />
ad una torta di mele caramellata. Altrimenti,<br />
Salsomaggiore (Pr) Scicli (Rg)<br />
Grazie al clima temperato<br />
e all’aria fine, la cittadina<br />
situata ai piedi<br />
dell’Appennino parmense<br />
prospera grazie alle cure<br />
salutari e all’ambiente<br />
rilassante. Il giardino<br />
botanico raccoglie quasi cinquecento varietà<br />
di piante aromatiche e officinali<br />
DOVE DORMIRE<br />
AGRITURISMO ANTICA TORRE (con cucina)<br />
Via Case Bussandri 197<br />
Tel. 0524-575425<br />
Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
GIOVANNI<br />
Via Centro 79, Alseno<br />
Tel. 0523-948304<br />
Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
GIARDINO GAVINELL (con cucina e camere)<br />
Località Gaviana 138<br />
Tel. 0524-578348<br />
Cercando<br />
i segreti<br />
del bosco<br />
in grande quantità, aneto, dragoncello,<br />
cerfoglio, erba cedrina, erba cipollina, menta,<br />
timo e rosmarino. Quest’ultimo lo unisco<br />
quasi sempre alla scorza di limone grattugiata,<br />
secondo un binomio che mi caratterizza.<br />
Tranne la menta e il timo, le erbe che utilizzo<br />
per le tisane non le utilizzo in cucina e viceversa.<br />
<strong>La</strong> differenza fondamentale deve essere<br />
comunque che in cucina vanno utilizzate<br />
delle erbe fresche, per le tisane quelle essiccate.<br />
<strong>La</strong> cucina moderna va associata alla freschezza,<br />
la tisana al tepore.<br />
Considero gli infusi un toccasana. Nell’arco<br />
della giornata ne bevo almeno tre: a colazione,<br />
dopo pranzo e al pomeriggio nella<br />
pausa del lavoro. L’attività dei reni si riduce<br />
dopo le diciassette: da quell’ora come regola<br />
non ne bevo più.<br />
Le infusioni le preparo,<br />
sia nella casa di Mila-<br />
no che al ristorante con<br />
acqua di sorgente di<br />
montagna. Nella casa<br />
ticinese basta quella del<br />
rubinetto. L’acqua scelta<br />
deve essere la più delicata<br />
possibile, così<br />
ogni gusto potrà esprimersi<br />
al meglio. Porto<br />
l’acqua a novanta gradi<br />
PETER LEEMAN<br />
e vi lascio le erbe tre minuti,<br />
il tempo giusto per<br />
distinguere profumi e caratteristiche, mantenendo<br />
un gusto rotondo e delicato. Dopo i<br />
cinque minuti, la tisana diventa curativa e<br />
deve essere bevuta per uno scopo preciso.<br />
Nel primo caso non va zuccherata e non va<br />
aggiunto limone, altrimenti poi tutto si assomiglia,<br />
nel secondo il suo effetto può essere<br />
rafforzato dal miele. In ogni caso non va mai<br />
bevuta bollente, sarebbe uno shock per l’organismo.<br />
Se le bevo per piacere, scelgo istintivamente<br />
tra le mie preferite: tiglio, erba cedrina,<br />
melissa e verbena. Le tisane curative, invece,<br />
seguono abbinamenti precisi: l’eucalipto<br />
per il raffreddore, i semi di finocchio per<br />
la digestione, la menta per la lucidità, la camomilla<br />
per rilassare. Del resto, ognuno di<br />
noi, se impara a osservarsi, diventa un ottimo<br />
medico di se stesso, e le tisane lo aiutano, a tavola<br />
e nella vita di tutti i giorni.<br />
L’autore, svizzero, è chef-patron del ristorante<br />
milanese “Joia”, unico locale vegetariano<br />
in Italia a fregiarsi della stella Michelin<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47<br />
Appoggiata sulle colline<br />
davanti al mare a sud<br />
di Ragusa, l’antica Sicla<br />
oltre all’area balneare, vanta<br />
una riserva naturale<br />
Il clima straordinario<br />
e la terra fertile ne fanno<br />
luogo ideale per coltivare erbe anche insolite,<br />
come la dolcissima stevia<br />
DOVE DORMIRE<br />
LA MAGNOLIA B&B<br />
Via Pacini 26<br />
Tel. 0932-833514<br />
Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
POMODORO<br />
Corso Garibaldi 46<br />
Tel. 0932-931444<br />
Chiuso martedì, menù da 30 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
GLI AROMI<br />
Via Berlino 1, Cava D’Aliga<br />
Tel. 0932-851734<br />
LE PREPARAZIONI<br />
Digestiva<br />
Bella, buona e rara, la genziana<br />
ha una radice che, seccata,<br />
è uno stimolatore gastrico<br />
Sue abituali compagne<br />
di tisana: liquirizia, verbena<br />
e carciofo. <strong>La</strong> salvia ha azione<br />
carminativa, lo zenzero<br />
funge da anti-nausea<br />
Antitosse<br />
Il trittico rosa canina-malvaeucalipto<br />
ha poteri antivirali,<br />
espettoranti e antibatterici<br />
esaltati in tisane e decotti<br />
da consumare caldi. Timo,<br />
propoli e pino mugo sono<br />
antibiotici naturali, il basilico<br />
vince raffreddore e sinusite<br />
Drenante<br />
Le tisane anti-gonfiore sono<br />
tra le più gettonate. Erba<br />
regina il finocchio, dalle<br />
qualità detossinanti e antifermentative.<br />
In fitoterapia<br />
si usa la varietà selvatica,<br />
spesso unita a asparago,<br />
lavanda, rosmarino e ortica<br />
Rilassante<br />
Non solo camomilla<br />
per le tisane anti-agitazione<br />
Valeriana, melissa e passiflora<br />
sono sedative e antinervine<br />
Il biancospino, coadiuvante<br />
contro spasmi nervosi,<br />
tachicardia e stanchezza,<br />
si usa per bagni rilassanti<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO PETRINA TINSLAY/MEREHURST LTD
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
le tendenze Nei primi decenni del Novecento erano il simbolo dell’eleganza<br />
Dettagli di moda<br />
Così le donne<br />
sognano di volare<br />
IRENE MARIA SCALISE<br />
MOULIN ROUGE<br />
Sembra arrivare<br />
dal Moulin Rouge<br />
la borsa di Fendi<br />
con catena preziosa<br />
e chiusura pregiata<br />
e del lusso femminile, oggi tornano ad ornare abiti, scarpe<br />
e accessori con la stessa levità di un tempo e un pizzico<br />
di trasgressione in più. Che siano nere o colorate, di struzzo<br />
o sintetiche non ha importanza, ciò che conta - secondo<br />
gli stilisti - è che donino al guardaroba un po’ di allegria<br />
Nei primi anni del “secolo breve” erano la regola, il simbolo dell’eleganza e dello chic. Le donne smaniavano<br />
per averle su abiti e accessori, gli uomini le guardavano con desiderio, annusando il simbolo<br />
della femminilità più leggiadra. Molto tempo dopo Gianfranco Ferré disse: «Vivacizzano i sogni,<br />
esprimono l’armonia del dettaglio, un ideale di bellezza che vive nel particolare». Ed ecco a voi<br />
le piume che, con i primi freddi, tornano ad ornare abiti, accessori e cappotti. Mai come quest’anno,<br />
romantiche ma audaci. Quasi un omaggio alle donne che, stanche della routine, sperano prima<br />
o poi di spiccare il volo. Il significato delle piume nel subconscio, infatti, corrisponde al desiderio d’evasione. Non<br />
a caso le piume si affermarono all’inizio del Novecento, periodo caratterizzato da una rivolta femminile: quella<br />
nei confronti del corsetto. Il massimo del loro splendore arrivò negli anni ruggenti raccontati da Francis Scott Fitzgerald.<br />
Era il momento dell’esplosione della couture parigina con Paquin, Doucet, <strong>La</strong>nvin, Patou,<br />
Chanel e delle grandi muse come Isadora Duncan, Mata Hari e Sarah Bernhardt. Ma anche dell’influenza<br />
orientale di caftani, tuniche, veli e turbanti. A Londra, in occasione di un’asta per sarti, le piume<br />
furono vendute a peso. Ben diciotto chili, con grande scandalo degli ornitologi. Nelle feste scorrevano<br />
fiumi di champagne e le mise delle dame erano un intreccio di ricami e decori. Piumaggi di<br />
struzzo ballavano a ritmo di musica nelle scene del Moulin Rouge.<br />
Non solo libertà però. Le piume sono anche simbolo di potere e di ricchezza, di regalità e di sacro.<br />
Chissà quante di queste recondite simbologie erano note ad attrici come Marlene Dietrich, Ginger<br />
Rogers e Jean Harlow. Donne che, in fatto di piume, osarono l’inimmaginabile: boa, manicotti e ad-<br />
dirittura pellicce completamente piumate. Fatto sta che contribuirono a creare il mito. A quel punto<br />
la moda se ne impadronì senza remore. Sono passati sessant’anni da quando, nel 1947, Christian Dior<br />
fondò la sua casa di moda. Furono proprio le sue prime creazioni, pensate per una donna diva più di<br />
tutte le altre, che influenzarono la femme fatale degli anni Quaranta. Le creature di Dior indossavano<br />
cappelli ornati da piume che ombreggiavano il viso. Quegli stessi decori che ora tornano d’attualità per mano<br />
del suo erede John Galliano.<br />
Le piume non furono amate solo dai grandi couturier. Anzi. Soavi e leggiadre apparivano nelle stampe di Toulouse<br />
<strong>La</strong>utrec e nelle pagine più appassionate di Gabriele D’Annunzio. Hanno trionfato nelle divise dei bersaglieri<br />
con il classico cappello nero a tese larghe, ornato da pennacchi di gallo cedrone, e nella feluca abbellita da piume<br />
verdi di struzzo.<br />
E poi, a fase alterne, sono riapparse come protagoniste del fashion. Negli anni Ottanta hanno avuto un periodo<br />
di gloria, se pur in una versione più “acida”, e oggi tornano impudicamente come nei mitici Venti. Non c’è stilista<br />
che non abbia scelto di riportarle in passerella, spesso non solo come ornamento, ma quale materia prima per<br />
gonne, giacche e cappotti. Magari applicate sulle borse e nei gioielli, incastonate nelle chiusure delle scarpe. Per<br />
augurare a tutte le donne un inverno leggero e poter fingere, grazie a un abito o a un dettaglio, di volare lontano.<br />
VEZZI DA STAR<br />
Piccola e vezzosa<br />
la borsina di Ferragamo<br />
in piume di struzzo<br />
con manico di lucertola<br />
Per portare con sé poche<br />
cose, magari<br />
solo il cellulare<br />
QUALITÀ NASCOSTE<br />
Borsa di raso con inserti<br />
in pelle e piume viola<br />
per Marni. Per le più<br />
sportive nasconde<br />
una tracolla,<br />
perfetta da abbinare<br />
a un paio di jeans<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
ILLUSTRAZIONE DI GRUAU,1956<br />
DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
SENZA FIATO<br />
Per chi vuole lasciare<br />
senza fiato c’è<br />
il cappotto in marabù<br />
di Bottega Veneta<br />
Capo di un’eleganza<br />
indimenticabile<br />
che riporta al primo<br />
ventennio del Novecento<br />
UNA CLIP GIOIELLO<br />
Misura pochi<br />
centimetri la borsa<br />
di Braccialini<br />
per la sera,<br />
ma l’effetto<br />
è assicurato. È arricchita<br />
da una chiusura<br />
gioiello in argento<br />
e da una catena<br />
intrecciata con fili<br />
dello stesso rosa<br />
cipria delle piume<br />
Il pensiero leggero<br />
tra realtà e poesia<br />
DARIA GALATERIA<br />
Èilpiù famoso dramma del teatro No giapponese. Un pescatore trova per caso un vestito di piume (Hagoromo), si innamora<br />
della proprietaria, e la sposa: ma, dopo qualche anno, la moglie trova l’abito in un armadio, lo indossa e vola<br />
via (Se-Ami Motokijo, 1400 c.). Anche nel carme antico-islandese di Völundr, tre principesse, avvolte da piume di<br />
cigno che le fanno volare, si posano in riva al mare, dove sposano tre fratelli, deponendo le piume: passano così otto<br />
anni, al nono le donne volano via. L’abito di piume, il lievissimo chimono di Banana Yoshimoto, ora (Feltrinelli<br />
2005) rovescia, con una scrittura di cristallo e molta amarezza, questo sogno femminile di diserzione: abbandonata<br />
dall’uomo sposato che ha amato a Tokyo per otto anni, Hotaru torna nel villaggio dell’infanzia a ripescare la sua integrità.<br />
Tra i maschi, la piuma non è leggerezza e fuga, ma sintomo di potere: “Tacchi rossi e piume” sono i segni degli uomini di corte<br />
(Vieux habits vieux galons, abiti e galloni del tempo che fu, canzone di Jean Pierre de Béranger). A Versailles il segretario Rose<br />
aveva «il privilegio della piuma» — cioè della penna d’oca: poteva contraffare la scrittura del<br />
re Sole (Saint-Simon, anno 1701 delle Memorie). E tra gli indiani pellerossa, solo il capo sioux<br />
Cavallo Pazzo, biondo come un viso pallido, trascurava le decorazioni di piume, insegna del comando<br />
(Mary Sandoz, biografa nel 1942 di Crazy Horse). Tutto il maledettismo della scapiglia-<br />
tura è riassunto da Emilio Praga nell’assenza di piume: «Noi siamo figli di padri ammalati / Aquile<br />
al tempo di mutar di piume», (Penombre, 1864). Semmai l’oscillazione del simbolo è tra predominio<br />
sociale e potere dell’intelligenza.<br />
Il pifferaio magico che con la sua musichetta “allegra” libera la città dai topi, e ne trascina poi<br />
con sé anche tutti i bimbi, è «un buffo omino con scarpe a punta e cappello con la piuma»<br />
(Grimm, Saghe germaniche, 1818). L’incantatore è un tipo strampalato; nel 1236 della sua apparizione<br />
ha un abito multicolore (Pied Piper); nell’Ottocento dei Grimm è diventato un originale<br />
per via delle scomode scarpe appuntite, inadatte al lavoro, e del cappello piumato: spie aristocratiche.<br />
Nella storia, è stato un reclutatore che conduceva i giovani di Hamelin (Bassa Sassonia) a colonizzare la Germania<br />
orientale; all’epoca di Grimm, il pifferaio già si colora di una superiorità artistica. Corneille invece nel 1644 (Il bugiardo, III,<br />
3) ancora pensa che le ragazze preferiscano un militare a un intellettuale: «il a jugé soudain/ qu’une plume au chapeau vous<br />
plaît mieux qu’à la main» (ha subito pensato che una piuma sul cappello vi piaccia più di una plume-penna d’oca — in mano).<br />
<strong>La</strong> più leggera delle piume mentali è in Mallarmé: il poeta del disagio e della cancellazione del mondo reale nel suo poemadisegno<br />
Un colpo di dadi (1897) rappresenta un naufragio; sola resta a volteggiare sulla tempesta (e su un’intera pagina del<br />
poema) la piuma del cappello nero di Amleto, il principe del dubbio. Più che mai la piuma rappresenta l’estrema rarefazione<br />
del pensiero, che lancia — come un colpo di dado — il suo sogno di una costellazione.<br />
<strong>La</strong> piuma è un peso nel Libro dei morti dell’Antico Egitto: nel solenne giudizio del defunto, il cuore, sede della coscienza,<br />
è posto su un piatto della bilancia; sull’altro, una piuma di struzzo (XVIII dinastia). Leggere di cuore, certe dame dell’Occidente<br />
usano le piume della civetteria, orientando le frecce di Eros: nella prima aria dell’opera buffa <strong>La</strong> Tancia, tratta<br />
da Jacopo Melani dalla commedia del Buonarroti il Giovane (1612) Isabella canta: «Han le piume acuti strali».<br />
PENSANDO ALLE HAWAII<br />
Merita l’Oscar<br />
per la piuma più colorata<br />
questo abito di Kenzo<br />
Sembra appena uscito<br />
dal guardaroba<br />
di una fanciulla<br />
hawaiana. Adatto<br />
per una serata di follie<br />
ANTICHE SCENE<br />
<strong>La</strong> piccolissima spilla<br />
da caccia firmata<br />
Gucci sarebbe<br />
perfettamente inserita<br />
in un quadro inglese<br />
dell’Ottocento<br />
Oggi è pensata<br />
per chi non vuole<br />
stupire con i soliti<br />
eccessi ma preferisce<br />
l’eleganza fatta<br />
di dettagli ineccepibili<br />
INSIEME VINCENTE<br />
È abile nel combinare<br />
gli stili la donna<br />
che sceglie le piume<br />
in versione Prada. Giacca<br />
severa da uomo, bordata<br />
di piume nere al punto<br />
vita e gonna in pelliccia<br />
arancio: insieme originale<br />
IL PORTAFORTUNA<br />
Per un inverno<br />
all’insegna<br />
del total look<br />
anche il portachiavi<br />
si arricchisce<br />
di una vezzosa<br />
piuma. Lo propone<br />
Carpisa che lo abbina<br />
a un fiocco di raso<br />
e a ciondoli portafortuna<br />
DENTRO LA FIABA<br />
Sembra uscita<br />
da una fiaba, magari<br />
quella di Biancaneve,<br />
la dama che indossa<br />
il soprabito-mantella<br />
piumato di Chanel<br />
L’effetto è optical<br />
degno dell’haute couture<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49<br />
CON LE ALI AI PIEDI<br />
Anche la ballerina diventa chic se,<br />
come viene proposto in questo<br />
modello Tod’s in suede nero,<br />
è arricchita con cuciture a contrasto<br />
e con una piuma piccola ma d’effetto<br />
ANNI QUARANTA<br />
Meravigliose piume blu elettrico<br />
maculate in nero come il raso<br />
che dà alle scarpe da sera, firmate<br />
Mambrini, un tocco di antico<br />
glamour. Effetto anni Quaranta<br />
SU LA TESTA<br />
Sembra di rivedere<br />
la testa di Mistinguette,<br />
eroina delle Folies<br />
Bergère, nel cappello<br />
piumato di Jean Paul<br />
Gaultier. Il lusso<br />
del decoro è concesso<br />
solo nel pennacchio<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 OTTOBRE 2007<br />
l’incontro<br />
Non solo cinema<br />
ALBERTO FLORES D’ARCAIS<br />
VIENNA<br />
Ho commesso<br />
due gravi errori:<br />
uno nella vita pubblica,<br />
l’altro in quella pri-<br />
passato? «Il<br />
vata». Jane Fonda si ferma un attimo, si<br />
accarezza i capelli, scuote la testa. Siamo<br />
nella suite 510, quinto piano dell’Hilton<br />
di Vienna, la città dove l’attrice<br />
americana è stata invitata come star<br />
e protagonista assoluta della Viennale,<br />
il festival di cinema; ed è qui che racconta<br />
— in un’intervista esclusiva per<br />
<strong>Repubblica</strong> — la sua vita: quella di ieri,<br />
star di Hollywood e militante politica,<br />
quella di oggi, «di una donna che compie<br />
settanta anni tra meno di due mesi»,<br />
ma che si sente ancora «nel pieno<br />
della vita». E che non si tira indietro nel<br />
parlare della sua carriera, della sua famiglia,<br />
dei suoi ideali, dei suoi amori e<br />
dei suoi progetti nella terza età.<br />
«Perché non partiamo proprio dall’oggi?<br />
Più che terza età io preferisco<br />
chiamarlo il terzo atto, in fondo sono<br />
un’attrice. Quando inizia il terzo atto<br />
una delle cose di cui ti rendi conto è che<br />
il tempo diventa limitato; la cosa peggiore<br />
è fare finta di niente, illudersi che<br />
il terzo atto non sia iniziato, negare che<br />
di fronte a noi, in tempi sempre più ravvicinati,<br />
ci sia la morte. Hallo morte, io<br />
non ho paura di te! Questo mi dico<br />
adesso, ogni giorno, in ogni momento<br />
importante della mia vita. Pensi al<br />
Messico, nella cultura di quel paese,<br />
nelle sue tradizioni, e non solo religiose,<br />
la morte è sempre presente, è un appuntamento<br />
quasi vitale. Se sai cosa<br />
fare, se hai voglia di fare, entrare nel<br />
terzo atto è bello. Quando si pensa alla<br />
morte ci si domanda quali siano i rim-<br />
Jane Fonda<br />
pianti, che cosa uno avrebbe o non<br />
avrebbe dovuto fare nella propria vita.<br />
Ecco, io non voglio avere rimpianti, ho<br />
ancora il tempo per fare tante cose. E<br />
voglio farle».<br />
Icona pacifista negli anni Settanta<br />
(quelli della guerra in Vietnam), attrice<br />
impegnata, femminista militante. Cosa<br />
è diventata oggi Jane Fonda, crede<br />
ancora negli ideali di un tempo? L’attrice<br />
sorride, poi scandisce con calma<br />
le parole: «Prima mi ha chiesto dei miei<br />
errori passati, ora glieli dico. Ce ne sono<br />
due che vorrei non avere mai fatto.<br />
Il primo fa parte della mia vita pubblica,<br />
la vita di Jane Fonda attrice, attivista,<br />
femminista. Quando andai ad Hanoi,<br />
in piena guerra del Vietnam, mi feci<br />
fotografare accanto alla carcassa di<br />
un bombardiere americano abbattuto.<br />
Già, “Hanoi Jane”, la “nemica d’America”,<br />
la traditrice. Credo che fosse<br />
giusto andare ad Hanoi, del resto non<br />
fui la sola in quegli anni, però quella foto<br />
non la dovevo proprio fare. Fu un errore,<br />
un errore grave, diedi l’impressione<br />
di essere contro i nostri soldati,<br />
contro quelli che morivano laggiù in<br />
Vietnam». E il secondo, riguarda la sua<br />
vita privata? «Sì, il secondo errore grave<br />
che ho commesso riguarda mia figlia,<br />
la mia prima figlia. Potevo, dovevo<br />
essere una madre migliore per lei,<br />
invece ero troppo presa dalla mia carriera,<br />
dal mio impegno politico. Per lei<br />
non sono stata una buona madre;<br />
adesso ci siamo riavvicinate, viviamo<br />
ad Atlanta, nella stessa città, lei ha due<br />
figli, cerco di essere almeno una buona<br />
nonna. Non è mai troppo tardi per cercare<br />
di riparare ai propri errori; però<br />
“Hanoi Jane” e la “cattiva madre” sono<br />
due crucci che mi porterò dentro fino<br />
alla morte».<br />
Si è parlato molto di una Jane Fonda<br />
che ha trovato un nuovo equilibrio nella<br />
religione. Una conseguenza dell’inizio<br />
del terzo atto? «Io credo che quando<br />
le donne invecchiano diventino<br />
inevitabilmente più spirituali, non necessariamente<br />
religiose. Ci si domanda:<br />
perché sono qui, c’è qualcuno,<br />
qualcosa più grande di noi? Sono domande<br />
metafisiche; la religione, le religioni<br />
danno alcune risposte. In cosa<br />
credo? Sento che c’è un essere divino,<br />
qualcosa di superiore. Non importa se<br />
lo chiamiamo Dio, Allah, Budda, sono<br />
sicura che non ama le guerre, che non<br />
ama i fondamentalismi. In diversi momenti<br />
della storia i fondamentalisti di<br />
ogni tipo, di ogni religione, si sono resi<br />
responsabili di cose atroci. Anche Gesù,<br />
se tornasse adesso sulla Terra, non<br />
approverebbe molte delle cose che<br />
vengono fatte in suo nome».<br />
Terzo atto e spiritualità non le hanno<br />
fatto perdere però la passione politica<br />
di un tempo, quella non sembra<br />
averla abbandonata. Se le si chiede<br />
delle prossime elezioni per la Casa<br />
Bianca quasi urla «Hillary!», se le si domanda<br />
se l’America è pronta per avere<br />
una donna come “commander in<br />
Settant’anni tra due mesi, una vita<br />
di battaglie e di successi arrivata<br />
al punto che lei, teatralmente,<br />
battezza “terzo atto”. Per spiegare<br />
che non vuol dire tirarsi indietro<br />
ma fare, fare, fare<br />
con più consapevolezza<br />
nella carriera,<br />
nella famiglia,<br />
nell’amore<br />
Ma è anche il punto<br />
dove ci si guarda<br />
indietro e dove l’attriceattivista-femminista<br />
si confessa<br />
e racconta i due errori di gioventù<br />
che volentieri cancellerebbe<br />
chief” risponde senza esitazione: «Assolutamente<br />
sì». L’impegno politico lo<br />
ha nel sangue, glielo ha trasmesso il padre,<br />
il grande attore Henri Fonda, impegnato<br />
con i democratici sin dai tempi<br />
di Franklin Delano Roosevelt. «Sono<br />
sicura che verrà scelta Hillary, ma se<br />
così non fosse andrò a votare lo stesso<br />
e voterò per il candidato democratico,<br />
chiunque esso sia. Ho sempre votato<br />
democratico, come ha sempre votato<br />
democratico mio padre, e continuerò<br />
a farlo».<br />
E l’Iraq, cosa pensa della guerra in<br />
Iraq “Hanoi Jane”? «Sono contraria,<br />
ovviamente, è una guerra che non si<br />
doveva fare e che sta andando in modo<br />
disastroso. I paragoni con il Vietnam?<br />
Ci sono tante differenze, ci sono anche<br />
tante somiglianze. Pensi al draft, alla<br />
leva. Allora era obbligatoria, e anche se<br />
per i “figli di papà” era più facile evitare<br />
di andare a combattere, quasi tutte<br />
le famiglie americane ne furono coin-<br />
In cosa credo? Sento<br />
che c’è un essere<br />
divino. Non importa<br />
se lo chiamiamo Dio,<br />
Allah o Budda,<br />
sono sicura<br />
che non ama<br />
le guerre<br />
né i fondamentalismi<br />
FOTO EYEDEA<br />
volte. Oggi abbiamo un esercito professionale,<br />
ma in qualche modo il draft<br />
è rimasto: è quello che io chiamo la “leva<br />
della povertà”, perché solo i più poveri,<br />
spesso immigrati, ragazzi e ragazze<br />
che non hanno alcun futuro davanti,<br />
si arruolano. In Vietnam non c’era la<br />
Cnn, ma le tv e i giornali di allora raccontavano<br />
più liberamente la realtà di<br />
quella guerra. Oggi, più che i media ufficiali,<br />
quello che avviene in Iraq ce lo<br />
raccontano i blog, i documentari. In<br />
Vietnam non c’erano donne soldato,<br />
questa è un’altra grande differenza,<br />
ma per chi tornava a casa, allora come<br />
oggi, i problemi sono gli stessi. Bush?<br />
Vuole sapere cosa penso del presidente<br />
americano? Mi piacerebbe incontrare<br />
George W. Bush in Texas, magari<br />
in uno di quei grandi barbecue che si<br />
fanno in quello stato. Vorrei parlare<br />
con lui, lo inviterei a venire con me in<br />
Africa per mostrargli le donne e i bambini<br />
che muoiono, fargli vedere i risultati<br />
della sua politica in giro per il mondo.<br />
Bush è un cristiano, anche lui deve<br />
avere una sua umanità».<br />
Quando si parla di politica o di guerra<br />
Jane Fonda risponde con il viso serio,<br />
soppesando le parole. Cambia atteggiamento<br />
se le domande riguardano<br />
il cinema, la sua carriera, il suo<br />
trionfale ritorno sugli schermi dopo<br />
quindici anni di assenza (in passato<br />
aveva anche promesso che non avrebbe<br />
recitato mai più) prima con Monster<br />
in <strong>La</strong>w e quest’anno con Georgia Rule.<br />
Racconta di Klute, uno dei film che<br />
ama di più, il turning point, la svolta<br />
della sua carriera di attrice: da bambola<br />
nelle mani di Roger Vadim ad attrice<br />
e donna impegnata. «Alan Pakula era<br />
un regista talentuoso. Girando quel<br />
film, dove interpreto la parte di una<br />
call-girl, una prostituta d’alto bordo,<br />
mi sono sentita veramente rinascere».<br />
È a Parigi però che nasce la Jane Fonda<br />
«attrice, attivista, femminista», come<br />
le piace definirsi. «Sì, ero in Francia<br />
nel 1968, avevo quasi trent’anni ed ero<br />
incinta. Lì ho conosciuto Simone Signoret:<br />
è lei che mi ha insegnato ad<br />
amare i film impegnati, è lei che mi ha<br />
spiegato la storia del Vietnam, gli errori<br />
dei francesi che gli americani andavano<br />
ripetendo. A Parigi ho conosciuto<br />
Sartre e Simone de Beauvoir, decine<br />
di registi, attori ed intellettuali che<br />
contestavano il mio paese, tanto che<br />
mi trovai spesso sulla difensiva: non<br />
capivo perché ci fosse tanto astio verso<br />
l’America. Quando sono tornata negli<br />
Stati Uniti ero una persona diversa,<br />
cambiata. Quando Alan mi chiamò per<br />
girare Klute non mi sentivo all’altezza;<br />
ho passato ore, giorni a frequentare le<br />
prostitute di Manhattan, ma ero convinta<br />
di non farcela». Per il personaggio<br />
di Bree Daniel, la call-girl, Jane Fonda<br />
vince il suo primo Oscar: «Klute è stato<br />
l’inizio di una nuova carriera, poi sono<br />
venuti altri film che amo molto, come<br />
Coming Home, uno dei film più belli<br />
che parlano del Vietnam, e non lo dico<br />
io». Per Coming Home, ottiene il suo secondo<br />
Oscar, un terzo lo sfiora con Julia.<br />
Poi nel 1981 quello che sarebbe stato<br />
per quindici anni il suo ultimo film,<br />
The Golden Pond. «Il film girato con<br />
mio padre. Non potrò dimenticarlo<br />
mai. Fu difficile, fu emozionante, fu<br />
commovente. Per quel film mio padre<br />
vinse il suo unico Oscar; la statuetta la<br />
ritirai io, lui era ormai troppo malato,<br />
sarebbe morto pochi mesi dopo». Si<br />
commuove ancora parlando del padre,<br />
e di quel film in cui Henry e Jane recitavano<br />
in qualche modo anche la<br />
propria vita privata.<br />
«Se oggi a Hollywood c’è una mia<br />
erede? Ci sono tante brave attrici. Ma è<br />
il mondo del cinema e anche il modo di<br />
girare i film che è cambiato. Oggi un regista<br />
non sta più nella famosa sedia,<br />
dietro la macchina da presa, mentre<br />
reciti praticamente non lo vedi mai. E<br />
poi a Hollywood sono cambiate le celebrities,<br />
i paparazzi vanno in giro a fotografare<br />
ragazzine che magari non hanno<br />
mai girato un film. <strong>La</strong> cosa peggiore<br />
credo che siano i costi. I film sono troppo<br />
cari, escono il venerdì e se il sabato<br />
non hanno avuto successo la domenica<br />
già li tolgono dalla circolazione.<br />
Non si dà tempo a un film di essere capito,<br />
accettato. Gli italiani? Mi piacciono<br />
i grandi, Fellini, Antonioni, tra gli attori<br />
Mastroianni. Lei non me lo chiede<br />
ma glielo dico io: dell’Italia mi piace da<br />
matti il cibo. Quando sono in America<br />
spiego sempre ai miei amici che la cucina<br />
italiana negli States non ha nulla a<br />
che vedere con quella che si può gustare<br />
in Italia». Il futuro? «Fra meno di due<br />
mesi compio settanta anni. Sto scrivendo<br />
le mie memorie, dopo tre matrimoni<br />
ho una vita ricca e felice con il<br />
mio compagno, amo ancora il sesso e<br />
sono pronta per nuovi progetti. <strong>La</strong> vecchiaia<br />
è bella».<br />
‘‘<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale