Ferruccio Masini - Walter Benjamin 0.2
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<strong>Ferruccio</strong> <strong>Masini</strong><br />
La città labirinto di <strong>Benjamin</strong>.<br />
Dall'autocomprensione critica della borghesia all'impegno rivoluzionario<br />
Rinascita n.25 [22 giugno 1973]<br />
L'ambivalenza di Saturno, signore delle antitesi, che presiede ai nebbiosi reami della<br />
malinconia, da un lato, e all'intelligenza della contemplazione utopica, dall'altro, potrebbe<br />
essere avvicinata alla singolare e contraddittoria complessità della personalità di <strong>Benjamin</strong>, se<br />
non ci fosse in quest'ultima una tensione dialettica capace di ricondurre all'unità anche le<br />
antitesi estreme. È tuttavia indubbio che in essa agiscono due ottiche dominanti<br />
apparentemente estranee l'una all'altra e destinate invece a sovrapporsi fino a coincidere<br />
verticalmente: quella «micologica», della saturniana lentezza e del dettaglio, della prospettiva<br />
isolata e straniata nel frammento emblematico e nel geroglifico, e quella del «tempo-ora», cioè<br />
dell'esplosione rivoluzionaria che fa saltare il continuo della storia; è questa la prospettiva della<br />
lotta di classe per la quale il progresso non può più essere concepito come evoluzione di una<br />
catena di eventi, ma come tempesta, come quel vento di tempesta che «spira dal paradiso» e<br />
spinge irresistibilmente l'«angelo» nel futuro.<br />
Sarà l'ottica del materialismo storico, così come viene messa a fuoco nelle scansioni<br />
nudamente aforistiche delle Tesi di filosofia della storia, a costruire, per il <strong>Benjamin</strong> che si è<br />
posto al servizio della lotta di classe, una prospettiva definitiva; in essa l'idea messianica della<br />
redenzione si trasforma nell'immanenza di un compito che fa giustizia dello stesso passato,<br />
allorché l'autentico soggetto della storia, il proletariato, «rimette in questione ogni vittoria che<br />
sia toccata nel tempo ai dominatori».<br />
T.W. Adorno e G. Scholem hanno corso anche il rischio di trasgredire alle regole della<br />
buona filologia allorché nell'edizione delle lettere di <strong>Benjamin</strong> (Briefe, 2 voll., Frankfurt a.M.<br />
Surkamp 1967) si sono sforzati di limitare quanto più possibile l'ampiezza e la portata di<br />
questa seconda prospettiva. A parte l'esclusione delle lettere inviate da <strong>Benjamin</strong> a Asia Lacis,<br />
la regista lettone conosciuta nel 1924 a Capri, e la ridottissima rappresentanza di quelle<br />
indirizzate a Brecht (all'una come all'altro lo stesso <strong>Benjamin</strong> attribuiva un ruolo determinante<br />
nella sua adesione al marxismo), è ben noto con quanta timorosa preoccupazione Adorno<br />
paventasse l'amicizia di <strong>Benjamin</strong> per quest'ultimo e quale severo giudizio pronunciasse
Scholem in ordine alle «catastrofiche» conseguenze di quest'amicizia sulla produzione<br />
benjaminiana. Ma quel che qui ci preme sottolineare non riguarda tanto l'assunzione più o<br />
meno ortodossa e sistematica del marxismo come struttura portante della meditazione<br />
filosofica e critica di <strong>Benjamin</strong> nel corso degli anni venti, bensì la saldatura intima delle due<br />
prospettive, cui si è accennato, all'interno di una evoluzione intellettuale in certo modo<br />
esemplare per quanto riguarda il passaggio dall'autocomprensione critica della borghesia<br />
all'impegno rivoluzionario. Va da sé che il materialismo storico non fu mai, per <strong>Benjamin</strong>, un<br />
«dogma», bensì il momento decisivo di un'autointerpretazione dialettica della cultura cui era<br />
necessario appunto il possesso di uno strumento metodologico in grado di mordere nella<br />
realtà dell'essere sociale e delle contraddizioni di classe. In una lettera del 7 marzo 1931 a<br />
Max Rychner, egli dichiara con la massima semplicità il valore che assume il marxismo anche<br />
per uno studioso della Thora come lui. Se è vero che la dottrina talmudica riferisce a ogni<br />
passo della Thora quarantanove gradi di significato, ebbene «la più logora piattezza<br />
comunista» è capace di ospitare in sé questa «gerarchia del significato» molto più di quanto<br />
possa fare la tanto conclamata perspicacia intellettuale della borghesia che perviene soltanto<br />
ad un unico gradino di significato, quello dell'apologetica.<br />
Risulta evidente anche da queste parole l'innesto tipico, in <strong>Benjamin</strong>, di teologia ebraico-<br />
messianica e marxismo, o meglio l'assunzione del marxismo come risoluzione estrema di un<br />
processo di secolarizzazione che non si è privato delle risorse ermeneutiche proprie del<br />
pensiero teologico ma le ha trasvalutate nella loro funzione, dialettizzandole in senso<br />
materialista. Contrariamente a quanto pensava Scholem, è la stessa qualità del metodo critico<br />
benjaminiano a esigere il trasferimento dei propri parametri interpretativi dall'universo<br />
allegorico del dramma barocco tedesco a quello della metropoli, della folla, della merce, della<br />
«poesia senz'aura» (Baudelaire), quasi questo metodo non potesse articolarsi se non in<br />
rapporto ad un progressivo approfondimento del proprio orizzonte storico-mondano; in realtà<br />
le dimensioni obiettive di questo sono costituite da connessione di significati di cui occorre<br />
disseppellire gli strati sempre più prossimi alla dinamica della prassi materiale perché possa<br />
realizzarsi il riconoscimento di quell'«idea vivente» - e non «antiquariato di curiosità» - che è la<br />
storia.<br />
È indubbio che la formazione idealistica (si pensi ai contatti con Gustav Wyneken e la<br />
Jugendbewegung) e la vicinanza spirituale a poeti e scrittori come George, Proust, Kafka,
Hofmannsthal, Rilke hanno concorso ad affinare in <strong>Benjamin</strong> quella sensibilità capillare per le<br />
ambiguità del nichilismo e delle sue sublimazioni da cui discende un magistrale quanto insolito<br />
approccio all'opera d'arte capace di coglierne, quasi allo stato radioattivo, le vibrazioni più<br />
segrete. Sotto questo profilo è evidente che il momento privilegiato del dettaglio, cioè<br />
dell'estensività chiusa nell'«intensivo», va ben oltre il gusto antiquario e l'acribia cabalista<br />
propri di <strong>Benjamin</strong> e si connette strettamente all'intervento creativo della «fantasia critica»,<br />
capace di dispiegare «a ventaglio» la preistoria e la storia avvenire sigillate nel linguaggio. È<br />
dal fondo di questa dilatazione semantica operata dalla dialettica dell'interpretazione che<br />
emergono quei contenuti utopico-umani in cui - come avviene per Ernst Bloch (conosciuto da<br />
<strong>Benjamin</strong> nel 1918) - il materialismo storico risolve il senso delle esperienze «trasgressive»<br />
nascoste nelle tensioni escatologiche del pensiero mistico-teologico, come nel linguaggio<br />
cifrato dell'arte. Per questa ragione la cautela con cui è stato introdotto <strong>Benjamin</strong> in Italia, con<br />
la preoccupazione di preservare, per usare le parole di Renato Solmi, «la impostazione<br />
umanistica di Lukács», che sarebbe la sola a «permettere d'intendere gli sviluppi complessivi<br />
dell'evoluzione in una prospettiva veramente storica», risulta, a mio parere, una postuma<br />
sedimentazione di pregiudizi storicistici. Il nome e l'indiscussa autorità di Lukács finiscono per<br />
accreditare, in siffatta prospettiva, quella tendenza ad assolutizzare il problema della continuità<br />
culturale alla quale si oppone, con un deciso passo oltre Hegel, il compito della<br />
relativizzazione scientifico-rivoluzionaria di questa continuità e quindi di una reinterpretazione<br />
dialettica dei momenti in cui essa fa ribaltare le varie mitologie umanistiche o pseudo-<br />
umanistiche fabbricate dalla borghesia nel suo corso storico, e pertanto transeunte, di civiltà.<br />
Per questo l'accento messianico-rivoluzionario del discorso religioso s'inserisce come<br />
elemento non emarginabile nel contesto della benjaminiana «filosofia della storia» la cui<br />
feconda incidenza problematica a livello d'analisi marxista sta nell'aver riportato, attraverso la<br />
«via tortuosa» del linguaggio allegorico e delle sue astrazioni nullificanti, le articolazioni<br />
dell'ideologia e i suoi «arcani» alle categorie dialettiche della reificazione e della estraniazione<br />
dell'uomo nella società capitalistica.<br />
Se il modulo euristico dell'allegoria costituisce la nervatura sottile del pensiero critico e<br />
filosofico di <strong>Benjamin</strong>, esso è anche il filtro suggestivo delle sue straordinarie pagine<br />
autobiografiche risalenti alla prima metà degli anni trenta e parzialmente pubblicate nella<br />
Frankfurter Zeitung. Mi riferisco agli scritti dell'Infanzia berlinese (trad. it. di M. Bertolini
Peruzzi, Torino, Einaudi, 1973) che costituiscono insieme alle Immagini di città, il momento più<br />
alto di una meditazione lirica, di una recherche legata insieme dal filo d'oro del ricordo, le cui<br />
immagini terse e insieme sfuggenti si costruiscono come tessere musicali di una grande<br />
parabola del tempo. Un tempo sepolto nella memoria, ma ben lontana dall'essere una<br />
rievocazione favolosa, satura di trasfigurazioni decadenti alla Hofmannsthal, di quella città-<br />
labirinto in cui si sono compiuti i primi prodigi della conoscenza infantile. Infatti qui presagi ed<br />
enigmi diventano termini di una riscoperta di significati che sono annidati nella profondità del<br />
futuro, quasi l'alfabeto magico di un ritrovamento che non è e non può essere mai semplice<br />
ripetizione del dimenticato, archeologia del ricordo.<br />
È nel campo magnetico di un passato indisgiungibile dal futuro (come ha finemente<br />
osservato P. Szondi nella sua nota all'edizione italiana delle Immagini di città) che le cose<br />
possono sprigionare quei profumi tenaci, quegli indovinamenti trasognati e casti che costellano<br />
il cielo dell'infanzia, l'odissea inenarrabile delle sue emozioni e percezioni segrete. Colui che<br />
nell'Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica aveva diagnosticato con sicuro<br />
intuito la perdita dell'aura, cioè dell'unicità dell'opera d'arte, allorché si dissolve la forma rituale<br />
della sua articolazione nel contesto tradizionale, propone nelle immagini della vecchia Berlino,<br />
dal mercato coperto di piazza Magdeburgo al giardino zoologico, al Kaiserpanorama, l'attimo<br />
estatico in cui l'aura stessa delle cose trascolora e svanisce. Ma questa magia del passato ha<br />
un potere che lo trascende: lo dicono le cariatidi della legge sui cortili del Westen berlinese<br />
«che potevano abbandonare per un momento il loro posto per cantare […] una canzone che<br />
niente, è vero, conteneva di ciò che più tardi mi aspettava, ma tuttavia recava la parola magica<br />
in virtù della quale sempre poi l'atmosfera dei cortili esercita su di me una sorta di malìa».<br />
Quello di <strong>Benjamin</strong> non è tuttavia lo struggente vagheggiamento di un mondo e di un<br />
tempo perduti: ancora una volta quel viaggio nel passato è un modo per ricostruire la storia e<br />
per riafferrare la sua nascosta genealogia di significato: quella malìa del tempo è troppo carica<br />
di futuro perché l'infanzia resti perpetuamente annegata in essa: il suo è soltanto un<br />
pronunciarsi allegorico del segreto che l'infanzia teneva dentro di sé come una indistruttibile<br />
ansia di compimento.