arte e stato (keynes)

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L'ARTE E LO STATO di John Maynard Keynes Il mondo antico era consapevole che íl popolo aveva bisogno degli spettacoli circensi così come del pane. E, a parte le esigenze politiche, i suoi governanti spendevano, per la propria gloria e soddisfazione, una quota rilevante della ricchezza nazionale per cerimonie, opere d'arte e grandiosi palazzi. Tali politiche, consuetudini e tradizioni non erano confinate al mondo Greco e Romano. Esse ebbero inizio fin da quando l'uomo, che lavorava ancora con le mani nude, cominciò a lasciare testimonianza di sé, e continuarono in forme mutevoli e con vari propositi, da Stonehenge alla Cattedrale di Salisbury, almeno fino all'età di Sir Christopher Wren, Luigi XIV e Pietro il Grande. Nei secoli diciottesimo e diciannovesimo la ricca nobiltà continuò in modo privato, riservato ed attutito quella che era stata l'incombenza del monarca e dello stato, con la Chiesa più o meno in declino. Ma nel diciottesimo secolo si fece strada una nuova visione delle funzioni dello stato e della società, visione che raggiunse l'apice nel diciannovesimo secolo e che ancor oggi appare dominante. Questa visione è rappresentata dall'ideale utilitarista ed economico si potrebbe quasi dire finanziario - come l'unico, rispettabile proposito della comunità nel suo complesso; la più orrida eresia, forse, che abbia mai raggiunto l'orecchio di un popolo civile. Pane e nient'altro che pane, e neanche pane, e pane che si accumula secondo l'interesse composto finché non si è trasformato in pietra. I poeti e gli artisti hanno levato occasionalmente deboli voci contro quest'eresia. Credo che il Principe Consorte fu l'ultimo oppositore che si 25
potesse trovare in alto loco. Ma l'opinione del Tesoro ha prevalso. Non soltanto in pratica. La teoria è ugualmente potente. Ci siamo convinti che è assolutamente perverso per lo stato spendere un centesimo per scopi non economici. Perfino l'istruzione e la sanità pubblica riescono ad essere accettate soltanto per motivi economici, per l'asserzione che esse «pagano». Ancora applichiamo una sorta di frenetica perversione contabile per risolvere il problema se sia più conveniente versare il latte nei tombini o farlo bere agli scolaretti. Una sola forma di spesa invalutabile sopravvive fin dall'età eroica: la guerra. E perfino questa deve, all'occorrenza, fingere di essere economica. Se sorge qualche occasione di spesa non economica che risulterebbe pubblicamente scandaloso perseguire, si ritiene che basti capovolgere il cappello per chiedere l'elemosina ai privati. Questo espediente è talvolta adottato in casi che riterremmo incredibili se non vi fossimo del tutto abituati. Un perfetto esempio è dato dal caso in cui la protezione della natura dallo sfruttamento è necessaria per motivi di salute, svago, amenità o bellezza naturale. Questo è un esempio particolarmente eloquente del modo in cui siamo ossessionati da una perversa teoria dello stato, non soltanto perché non risulta necessaria alcuna spesa di risorse nazionali ma, soprattutto, perché non c'è forse alcun problema attuale sull'importanza e l'urgenza del quale vi sia una tale unanimità nazionale in ogni angolo. Quando un tratto di scogliera, un canale del Tamigi, un declivio vengono destinati alla distruzione, non viene in mente al Primo Ministro che l'ovvio rimedio è che lo stato proibisca il danno e paghi, se del caso, il giusto compenso; ciò risulterebbe antieconomico. Probabilmente non c'è persona che si preoccupi di tale danno più di lui. Ma egli è ostaggio dei subumani esseri che albergano al Tesoro. Non rimane che scrivere una lettera al «Times» e capovolgere il cappello. Amministra perfino un fondo privato di beneficenza, benevolmente fornito da uno straniero, per effettuare quelle elargizioni che potrebbero richiedersi di volta in volta per impedire cose come la conversione della scogliera di 26 Shakespeare in un blocco di cemento. Così in basso siamo caduti oggi nella concezione dei doveri e dei propositi, dell'onore e della gloria dello stato. Guardiamo alla conservazione dei monumenti nazionali ereditati dal passato come una faccenda che debba dipendere dalle donazioni precarie ed insufficienti di individui più attenti al bene pubblico di quanto non lo sia la stessa comunità. Dal momento che la Cattedrale di Lincoln, la quale incorona l'altura che per duemila anni è stata uno dei centri focali d'Inghilterra, potrebbe rovinare al suolo prima che il Tesoro prenda in considerazione un proposito troppo antieconomico da meritare un finanziamento pubblico, non c'è da meravigliarsi che le alte autorità non costruiscano più giardini pensili di Babilonia, non più piramidi, partenoni, colossei, cattedrali, palazzi, e neanche teatri lirici, palcoscenici, colonnati, boulevards e piazze pubbliche. Oggi, il nostro esercizio più grandioso nell'arte della pubblica costruzione sono le strade di grande comunicazione, che, tuttavia, nascono sotto un manto di necessità economica e per il caso che un'imposta speciale ad esse destinata produce guadagni di proporzione inattesa, non tutti decentemente convertibili ad altre finalità. Ancora più importanti, rispetto agli eterni monumenti di dignità e bellezza attraverso i quali ogni generazione dovrebbe esprimere il proprio spirito per rappresentarlo lungo la parabola del tempo, sono le effimere cerimonie, gli spettacoli e i divertimenti da cui l'uomo comune può trarre piacere e svago dopo aver compiuto il proprio lavoro, e che gli possono fare sentire, come nient'altro può, che egli è in sintonia con, e parte di, una comunità più raffinata, più dotata, più radiosa, più spensierata di quanto egli potrebbe essere da solo. La nostra esperienza ha dimostrato chiaramente che tali attività non possono essere portate a compimento se dipendono dal motivo del profitto e del successo finanziario. Lo sfruttamento e l'eventuale distruzione del dono divino dell'uomo di spettacolo che viene fatto prostituire all'obiettivo del guadagno finanziario è uno dei peggiori crimini dell'odierno capitalismo. Come lo stato potrebbe nel modo migliore svolgere il 27 i
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