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Un uomo vivo nella citt dei morti - Fazi Editore

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«Sono ingiusto, lo so», dice Pahor con l’oggettività classica del grande scrittore.<br />

Necropoli, annoverato da decenni fra i capolavori della letteratura dello sterminio, è un<br />

libro eccezionale, che riesce a fondere l’assoluto dell’orrore – sempre qui e ora, presente<br />

e bruciante, eterno davanti a Dio – con la complessità della storia, la relatività delle<br />

situazioni e i limiti dell’intelligenza e della comprensione umana. I turisti che visitano il<br />

Lager, la guida che si guadagna il pane illustrandolo (mostrando ad esempio un tavolo di<br />

dissezione sul quale un professore universitario di Strasburgo effettuava vivisezioni e<br />

prove batteriologiche sui deportati, specialmente ma non soltanto zingari) o due<br />

innamorati che si baciano davanti al reticolato turbano il sopravvissuto in modo stridente.<br />

Ma – con la sua classica capacità di afferrare la totalità – Pahor subito dice a se stesso<br />

«che è puerile voler trasferire questi due innamorati nel mondo di una volta. Come non<br />

avrebbe senso chiedersi a chi, allora, sarebbe mai venuto in mente che un giorno qui<br />

avrebbero passeggiato coppiette innamorate. Noi eravamo immersi in una totalità<br />

apocalittica, <strong>nella</strong> dimensione del nulla; quei due invece galleggiano <strong>nella</strong> vastità<br />

dell’amore, che è altrettanto infinito, e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia<br />

sulle cose, le esclude o le esalta».<br />

Con questo grande libro Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa (quantomeno<br />

sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato; incubo che tanto sembra aver pesato<br />

sul grandissimo Primo Levi, quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a<br />

fondo la Gorgone e chi l’ha vista non è tornato.<br />

Consapevole di tale lacerazione, Boris Pahor l’assume su di sé ma non vi soccombe.<br />

Quando visita il magazzino <strong>dei</strong> <strong>morti</strong> e vede le tenaglie con cui essi, allora, venivano<br />

portati via, pensa a Ivo, un suo compagno di prigionia che non è tornato, e alla distanza<br />

che c’è fra la propria sopravvivenza e la sua morte. «Fra Ivo e me ci sono i miei sandali<br />

leggeri, i miei pantaloni estivi, la penna a sfera con cui annoto in fretta il nome di un<br />

oggetto appena adocchiato. Fra Ivo e me c’è la Fiat 600 che mi aspetta all’uscita, sulla<br />

quale a Roiano passo spesso davanti al magazzino in cui lui vendeva carbone. Così<br />

capisco che se volessi ridiventare degno della sua amicizia dovrei privarmi di ogni<br />

comodità e infilare di nuovo gli zoccoli della nostra miseria. Allora forse smetterebbe di<br />

essere invisibile e non si risentirebbe del fatto che io frequenti la marina di Trieste; e<br />

forse non pretenderebbe che la mia fedeltà a lui arrivi al punto di farmi rinunciare alla<br />

gioia che provo nel guardare la pelle abbronzata <strong>dei</strong> bagnanti, nell’ascoltare lo sciabordio<br />

del mare ai piedi della scogliera di Barcola».<br />

È infedeltà essere sopravvissuto e vivere – nonostante quell’inferno attraversato –<br />

pienamente e anche lietamente, con piacere sensuale? A questa grande domanda, Pahor<br />

dà una grande, complessa e completa risposta umana. Non nasconde, non nega la colpa<br />

metafisica di aver lasciato in quell’inferno tanti compagni. Si interroga sul «peccato» –<br />

come egli dice, nel sogno finale, alla muta turba di ombre che gli passa accanto senza<br />

guardarlo e senza vederlo, quasi il fatto di essere <strong>vivo</strong> non facesse più di lui uno di loro,<br />

di quella gente cui pur appartiene per sempre più che a ogni altra – di aver scambiato<br />

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