Su Aristotele, De anima
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«Ouj mnhmoneuvomen dev...»<br />
<strong>Su</strong> <strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25 ∗<br />
1. Il contesto: <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 4-5<br />
Le linee del <strong>De</strong> <strong>anima</strong> che intendo considerare qui si collocano alla conclusione<br />
della ben nota e temibile sequenza argomentativa costituita dai capitoli 4-5 del<br />
terzo libro dell’opera. Mi limito a ricordarne in rapida successione i principali<br />
nuclei tematici. Dopo aver introdotto nel capitolo 4 l’esame della facoltà<br />
intellettiva – «la parte dell’<strong>anima</strong> con cui l’<strong>anima</strong> conosce e riflette» (tou<br />
morivou tou th" yuch" w/| ginwvskei te hJ yuch; kai; fronei, 429a10-11) –,<br />
ed aver posto d’emblée a proposito di essa la questione fondamentale, vale a dire<br />
se essa sia (1) separabile oppure no (ei[te cwristou o[nto" ei[te mh;<br />
cwristou) ed eventualmente (2) se lo sia in senso fisico, rispetto alla sua<br />
concreta estensione di grandezza, o soltanto in senso logico, per astrazione<br />
mentale (kata; mevgeqo" – kata; lovgon, 429a11-12), <strong>Aristotele</strong> affronta<br />
direttamente il problema della natura del pensare e delle sue modalità, come<br />
pure, d’altro canto, quello della determinazione del suo statuto epistemologico e<br />
dei suoi contenuti. Ed è precisamente in ragione di questo obiettivo che,<br />
prendendo a trattare della natura del pensare stabilendo un’analogia con il<br />
processo della percezione sensibile (eij dhv ejsti to; noein wsper to;<br />
aijsqavnesqai..., 429a13-14; wsper to; aijsqhtiko;n pro;" ta; aijsqhtav, outw<br />
to;n noun pro;" ta; nohtav, 429a17-18, curiosa riformulazione, a medi ed<br />
estremi invertiti, di Tim. 29C3: otiper pro;" gevnesin oujsiva, touto pro;"<br />
pivstin ajlhvqeia), egli afferma il suo carattere sostanzialmente passivo: come la<br />
percezione consiste nella “passione” subita dall’organo di senso quando,<br />
appunto, “patisce” il contatto dell’oggetto sensibile essendone così affetto e, per<br />
così dire, “deformato”, allo stesso modo il pensare dovrà consistere nella<br />
“passione” subita dall’intelletto, che è l’organo pensante, nel suo «patire da<br />
parte dell’oggetto intellegibile» (pavscein ti […] uJpo; tou nohtou, 429a14-<br />
15).<br />
L’affermazione della “passività” dell’intelletto va tuttavia mitigata in base<br />
all’ovvia constatazione che, in quanto l’intera sfera del pensiero (il soggetto<br />
pensante, l’intelletto, gli oggetti pensati, gli intellegibili, e la loro relazione) è di<br />
natura, appunto, intellegibile e non sensibile, ossia formale e non materiale o<br />
<br />
Il testo del <strong>De</strong> <strong>anima</strong> è citato secondo l’edizione di D. Ross, Aristotle, <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, edited, with<br />
introduction and commentary, by Sir D. R., Oxford Univ. Press, Oxford 1961; la traduzione,<br />
salvo indicazione contraria, è mia (anche se ho mantenuto come costante punto di riferimento<br />
la traduzione italiana del <strong>De</strong> <strong>anima</strong> commentata da G. Movia, <strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong>,<br />
traduzione, introduzione e commento a cura di G. M., Loffredo, Napoli 1991 2 ).
2<br />
Francesco Fronterotta<br />
non corporea (come è infatti precisato poco oltre, in 429a24-25, l’intelletto «non<br />
è mescolato al corpo», oujde; memicqai […] aujto;n tw/ swvmati, ma «senza<br />
corpo», a[neu swvmato", ossia, si aggiunge, da esso «separabile», cwristov",<br />
429b5, cfr. anche 429b21-22), nessuna “passività” è in questo contesto davvero<br />
possibile 1 ; si dovrà dunque trattare, per l’intelletto e nell’intelletto, di una sorta<br />
di capacità o disposizione «ricettiva» (dektikovn, 429a15), compatibile con la sua<br />
«impassibilità» (ajpaqev", 429a15), ossia con la sua immaterialità o non<br />
corporeità. La passività solo “analogica” 2 di questo impassibile ricettivo –<br />
impassibile perché immateriale, ricettivo perché deve accogliere o ricevere le<br />
forme intellegibili, ciò in cui consiste propriamente il noein – si spiega più<br />
propriamente attraverso il meccanismo della potenza e dell’atto: prima di<br />
accoglierle o di riceverle, l’intelletto è, in potenza, tutte le forme intellegibili<br />
che può, appunto, accogliere o ricevere; una volta che le ha accolte o ricevute,<br />
esso sarà, in atto, quelle stesse forme intellegibili. Ecco perché <strong>Aristotele</strong> ne<br />
conclude che, considerata di per sé, «la natura dell’intelletto non è altro che di<br />
essere in potenza» (aujtou ei\nai fuvsin mhdemivan ajll’ h tauvthn, oti<br />
dunatov", 429a21-22), donde le tradizionali (eppure ambigue, se non perfino<br />
fuorvianti) denominazioni di intelletto “passivo” (paqhtikov"), “ricettivo”<br />
(dektikov") o “potenziale” (dunatov"), nessuna di per sé errata, ma che occorre<br />
contestualizzare e maneggiare con una certa prudenza. Tale descrizione<br />
dell’intelletto si completa infine con l’ulteriore carattere della “purezza”: infatti,<br />
nella misura in cui deve accogliere o ricevere tutte le forme e, così facendo,<br />
divenire tutte le forme che accoglie o riceve, bisogna che l’intelletto sia privo di<br />
qualunque forma preesistente (letteralmente: «non misto» ad alcunché, ajmighv" –<br />
con un termine che <strong>Aristotele</strong> trae da Anassagora, cfr. 429a18-19; 24-29; e,<br />
quanto ad Anassagora, soprattutto il fr. 12 DK). In sintesi, la natura immateriale<br />
e priva di corpo dell’intelletto ne implica l’impassibilità, la sua funzione<br />
conoscitiva ne impone la ricettività e la sua condizione di assoluta potenzialità<br />
ne esige la purezza. Il resto del capitolo 4 (429a29-430a9), che lascio<br />
completamente da parte, è dedicato all’esame di alcuni aspetti che una simile<br />
1<br />
È sufficiente attenersi, senza cercare troppo lontano, ai significati di pavqo" e di paqein<br />
elencati in Metaph. D 21, 1022b15-21, che, tutti, hanno a che fare con le nozioni di<br />
“alterazione” (ajlloivwsi") e dell’“alterarsi” (ajlloiousqai), che, come è noto, riguardano a<br />
loro volta esclusivamente la materia di cui qualcosa si compone e non la sua forma (cfr. Phys.<br />
I 6, 190b8, ove si definisce l’alterazione come un mutamento che presuppone una<br />
trasformazione della materia di un oggetto e non solo una scomposizione e ricomposizione<br />
delle sue parti, e V 2, 226a26-b2). Affermare la “passività” tout court dell’intelletto<br />
implicherebbe, a qualche titolo, una sua alterazione; e una qualunque alterazione<br />
dell’intelletto dovrebbe necessariamente riguardare la sua materia: ne deriverebbe perciò<br />
l’impossibile conclusione di una “materialità” dell’intelletto.<br />
2<br />
Una passività “analogica”, nel senso che può essere posta solo a patto di intendere la<br />
“passività” dell’intelletto non nel suo significato proprio (perché, come spiegato nella nota<br />
precedente, ciò implicherebbe un’impossibile “materialità” dell’intelletto), ma soltanto per<br />
analogia con la percezione e con gli organi di senso, che, essi sì, devono essere detti “passivi”<br />
in senso proprio.
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
3<br />
concezione dell’intelletto pone in rilievo e alla soluzione dei problemi che<br />
rispetto a essa possono essere sollevati 3 . Si badi che, qui, non si ha ancora<br />
sentore della possibilità che, accanto all’intelletto impassibile, ricettivo,<br />
potenziale e non misto finora tratteggiato, sussista un’altra funzione intellettiva,<br />
né tantomeno un altro intelletto, di differente natura e statuto.<br />
Il delicato compito di introdurre l’ancor più intricata questione del cosiddetto<br />
intelletto “attivo” o “agente” tocca infatti, come è noto, al capitolo seguente.<br />
Ecco di seguito questo celebre e difficile passo, che conviene riprodurre per<br />
intero:<br />
G 5, 430a<br />
10 ∆Epei; d∆ ªw{sperº ejn aJpavsh/ th'/ fuvsei ejsti; ªtiº to; me;n u{lh<br />
eJkavstw/ gevnei (tou'to de; o} pavnta dunavmei ejkei'na), e{teron de;<br />
to; ai[tion kai; poihtikovn, tw'/ poiei'n pavnta, oi|on hJ tevcnh<br />
pro;" th;n u{lhn pevponqen, ajnavgkh kai; ejn th'/ yuch'/ uJpavrcein<br />
tauvta" ta;" diaforav": kai; e[stin oJ me;n toiou'to" nou'" tw'/ pavnta<br />
15 givnesqai, oJ de; tw'/ pavnta poiei'n, wJ" e{xi" ti", oi|on to; fw'":<br />
trovpon gavr tina kai; to; fw'" poiei' ta; dunavmei o[nta crwvmata<br />
ejnergeiva/ crwvmata. kai; ou|to" oJ nou'" cwristo;" kai;<br />
ajpaqh;" kai; ajmighv", th'/ oujsiva/ w]n ejnevrgeia: ajei; ga;r timiwvteron<br />
to; poiou'n tou' pavsconto" kai; hJ ajrch; th'" u{lh". ªto; d∆<br />
20 aujtov ejstin hJ kat∆ ejnevrgeian ejpisthvmh tw'/ pravgmati: hJ de;<br />
kata; duvnamin crovnw/ protevra ejn tw'/ eJniv, o{lw" de; oujde; crovnw/,<br />
ajll∆ oujc oJte; me;n noei' oJte; d∆ ouj noei'.º cwrisqei;" d∆ ejsti; movnon<br />
tou'q∆ o{per ejstiv, kai; tou'to movnon ajqavnaton kai; aji?dion (ouj<br />
mnhmoneuvomen dev, o{ti tou'to me;n ajpaqev", oJ de; paqhtiko;"<br />
25 nou'" fqartov"): kai; a[neu touvtou oujqe;n noei'.<br />
Non è il caso di proporre una traduzione o un commento di un testo così difficile<br />
e controverso. Nuovamente, mi limito a ripercorrerne schematicamente lo<br />
svolgimento.<br />
430a10-14 — Come nella realtà fisica (ejn aJpavsh/ th'/ fuvsei), in cui ogni cosa si costituisce<br />
in virtù del rapporto fra una materia e un principio causale che tale materia informa e<br />
determina, un rapporto, questo, che a sua volta implica una relazione fra potenza e atto – in<br />
modo tale che, in ogni cosa, vi è una materia che corrisponde alla condizione potenziale (to;<br />
me;n u{lh eJkavstw/ gevnei – tou'to de; o} pavnta dunavmei ejkei'na) e un principio causale,<br />
responsabile del passaggio dalla potenza all’atto (e{teron de; to; ai[tion kai; poihtikovn, tw'/<br />
3<br />
Si incontrano nell’ordine: un’analisi ulteriore dell’analogia e della differenza fra percezione<br />
sensibile e facoltà intellettiva, del loro carattere ricettivo e dell’impassibilità dei loro rispettivi<br />
organi (429a29-b5); una precisazione relativa alla condizione potenziale e attuale<br />
dell’intelletto (429b5-9); una nuova spiegazione della distinzione di ruoli e di contenuti fra<br />
percezione e pensiero (429b10-22); esame di due possibili difficoltà: se l’intelletto è<br />
impassibile, e se il pensare è una specie di patire, come potrà pensare l’intelletto? E<br />
l’intelletto è a sua volta intellegibile? (429b23-430a9). Rispetto a simili questioni, e alla loro<br />
relazione con la dottrina anassagorea del nou", si veda F.A. Lewis, Is there room for<br />
Anaxagoras in an Aristotelian theory of Mind?, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy»,<br />
XXV (2003), pp. 89-129.
4<br />
Francesco Fronterotta<br />
poiei'n pavnta) –, ebbene, allo stesso modo, è verosimile supporre che un’analogo rapporto<br />
sussista sul piano psicologico dell’<strong>anima</strong> (ejn th'/ yuch/).<br />
430a14-17 — Ammesso che sussista nell’<strong>anima</strong> questo rapporto fra una materia “potenziale”<br />
e un principio causale “attualizzante”, tale rapporto dovrà essere esteso anche all’intelletto e a<br />
esso applicato. Vi sarà perciò un intelletto potenziale, «tale da divenire tutte le cose» (oJ me;n<br />
toiou'to" nou'" tw'/ pavnta givnesqai), di cui sappiamo fin dal capitolo precedente che è<br />
analogo alla materia (ma solo analogo a essa, giacché l’intelletto non è materiale o corporeo) 4 ,<br />
e un intelletto “attualizzante”, «tale da produrre tutte le cose» (oJ de;
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
5<br />
de; kata; duvnamin), che consiste nella possibilità o nella capacità non ancora realizzate di<br />
acquisire la conoscenza – con la precisazione che, checché se ne possa credere, la conoscenza<br />
in atto precede sempre e a ogni titolo quella in potenza –, così, l’intelletto “attualizzante”, che,<br />
essendo atto per essenza, non si discosta dalla sua propria condizione attuale, quella del<br />
pensare, e non cessa perciò mai di pensare, precede sempre e a ogni titolo l’intelletto<br />
potenziale: l’uno, pertanto, coincide con l’oggetto pensato, l’altro con il sostrato suscettibile<br />
di accoglierlo.<br />
430a22-23 e 25 — <strong>Aristotele</strong> torna, alla conclusione del capitolo, sullo statuto dell’intelletto<br />
“attualizzante”, con alcune rapidissime notazioni e con una sintassi tanto ellittica da aver reso<br />
possibili le interpretazioni più diverse. Solo questo intelletto, «separato» o «separabile»<br />
(cwrisqeiv"), è «ciò che è» (o{per ejstiv), «immortale» (ajqavnaton) ed «eterno» (aji?dion) 6 . Le<br />
ultime parole del capitolo accennano nuovamente al ruolo di agente della conoscenza di<br />
questo intelletto: «senza di esso, nulla pensa» (a[neu touvtou oujqe;n noei').<br />
Ho lasciato appositamente da parte le linee 430a23-25, che sono proprio quelle<br />
che intendo sottoporre a indagine, perché editori, traduttori e commentatori,<br />
6<br />
Senza addentrarmi in nessun modo nel conflitto interpretativo suscitato intorno a queste<br />
linee, mi limito a presentarne le tre letture e traduzioni grammaticalmente possibili. Mi pare<br />
che tutto dipenda dal significato che si intende attribuire al participio aoristo passivo<br />
cwrisqeiv", che può essere sciolto in tre modi diversi: (1) con significato temporale («Quando<br />
è separato…»); (2) con significato causale («Poiché è separato…[oppure: poiché è<br />
separabile…]»); (3) con significato ipotetico («Se è separato…[oppure: se è separabile…]»).<br />
La traduzione (1), scelta dalla stragrande maggioranza dei traduttori, è, con ogni evidenza, la<br />
più brutalmente “interpretativa”, perché non solo conduce direttamente all’ammissione netta<br />
di una forma di immortalità ed eternità dell’intelletto “attualizzante”, ma lo fa insinuando<br />
nell’argomentazione di <strong>Aristotele</strong> una scansione temporale che nulla lascia fin qui sospettare<br />
(come se, alla maniera di un’<strong>anima</strong> individuale immortale, l’intelletto prima appartenesse al<br />
resto dell’<strong>anima</strong> unita al corpo, poi, alla morte di questo, potesse distaccarsene); la traduzione<br />
(2) costituisce in qualche modo una versione più raffinata e sottile della (1), in quanto<br />
permette di affermare che, a conclusione della sequenza costituita dai capitoli 4-5, <strong>Aristotele</strong><br />
giunge a fornire la risposta all’interrogativo formulato al principio del capitolo 4: l’intelletto è<br />
separato (o separabile) oppure no e, se lo è, lo è in senso fisico o in senso logico (429a11-12)?<br />
Ecco la risposta, invero alquanto contratta: poiché è separato (o separabile) e lo è in senso<br />
fisico, questo intelletto è l’unica realtà immortale, eterna e così via. Non è questa, tuttavia,<br />
l’unica possibile interpretazione del passo. La traduzione (3), suggeritami da Giovanna Sillitti,<br />
indica un’altra direzione plausibile: <strong>Aristotele</strong> potrebbe semplicemente, alla fine dei capitoli<br />
4-5, riconoscere di non aver adeguatamente dissolto tutte le difficoltà e di non aver trovato<br />
una soddisfacente soluzione del problema; in tal caso, la sua conclusione non potrebbe che<br />
assumere una forma ipotetica ed essere, parafrasandola, la seguente: poiché l’intelletto<br />
“attualizzante” è superiore e di maggior valore di quello potenziale, solo esso può aspirare a<br />
una vera e propria sussistenza separata; se, in ultima analisi, fosse davvero separato (o<br />
separabile), esso solo sarebbe immortale, eterno e così via; ma ciò rimane in fin dei conti<br />
indimostrato e perciò incerto. Contrariamente alle tesi più diffuse nel dibattito critico su<br />
questo punto delicato, <strong>Aristotele</strong> non avrebbe dunque potuto o voluto dare una risposta<br />
definitiva alla domanda relativa alla concreta separabilità o separazione della funzione<br />
intellettuale dal resto dell’<strong>anima</strong> e dal corpo. Si veda, ultimo in ordine di tempo, lo status<br />
quaestionis tratteggiato da L.P. Gerson, The unity of intellect in Aristotle’s <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, in<br />
«Phronesis», XLIX (2004/4), pp. 348-73.
6<br />
Francesco Fronterotta<br />
antichi e moderni, considerano, a mio avviso con ogni ragione, questa frase<br />
come un inciso che interrompe la sequenza argomentativa ormai avviata a<br />
conclusione e che, quindi, cade in qualche modo fra parentesi.<br />
2. Ouj mnhmoneuvomen dev...<br />
Riproduco dunque qui di seguito le linee 430a23-25:<br />
ouj mnhmoneuvomen dev, o{ti tou'to me;n ajpaqev", oJ de; paqhtiko;" nou'" fqartov".<br />
Attribuendo al dev iniziale un valore lievemente avversativo, avremo: «Ma noi<br />
non ricordiamo, perché questo [scil.: l’intelletto “attualizzante”] è impassibile,<br />
mentre l’intelletto passivo è corruttibile». La frase non pone a prima vista<br />
particolari difficoltà di comprensione: poiché <strong>Aristotele</strong> ha appena stabilito, in<br />
una forma più meno ipotetica 7 , l’immortalità e l’eternità dell’intelletto<br />
“attualizzante”, si potrebbe avvertire l’esigenza di questa precisazione. Il senso<br />
sarebbe in tal caso che, anche se una delle funzioni intellettuali che competono<br />
alla nostra <strong>anima</strong> umana appare candidata all’immortalità e all’eternità, noi non<br />
possiamo né avere memoria dell’eternità già trascorsa 8 né conservare memoria<br />
per l’eternità futura 9 , perché la funzione intellettuale in questione è ajpaqev",<br />
mentre l’altro intelletto, quello paqhtikov", è fqartov". La spiegazione più<br />
immediata è dunque questa: delle due funzioni intellettuali, dei due intelletti che<br />
caratterizzano l’<strong>anima</strong> umana, l’uno è impassibile, e perciò incompatibile con il<br />
processo della memoria, che consiste nell’“incidere”, come in un sostrato<br />
7<br />
Cfr. la nota precedente.<br />
8<br />
Questa è l’interpretazione difesa da Trendelenburg (Aristotelis, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> libri tres, ed. F.A.<br />
Trendelenburg, Walz, Jena 1833 [editio altera emendata et aucta, Weber, Berlin 1877;<br />
Akademische Druck und Verlagsanstalt, Graz 1957, pp. 403-04]) e da Biehl (Aristotelis, <strong>De</strong><br />
<strong>anima</strong> libri III, recognovit G. Biehl, Teubner, Lipsiae 1884, ad loc.), secondo i quali<br />
<strong>Aristotele</strong> vorrebbe precisare qui che, nonostante l’immortalità di una parte o di una funzione<br />
della nostra <strong>anima</strong>, non possiamo conservare memoria delle esperienze e delle conoscenze<br />
passate né tantomeno di eventuali vite passate.<br />
9<br />
Secondo questa interpretazione, simmetrica a quella presentata nella nota precedente,<br />
<strong>Aristotele</strong> insisterebbe qui sul fatto che, nonostante l’immortalità di una parte o di una<br />
funzione della nostra <strong>anima</strong>, non potremo ricordare, dopo la morte del corpo, esperienze e<br />
conoscenze passate. Sostenitori di questa lettura, nell’antichità, Temistio, In Aristot. de <strong>anima</strong><br />
paraphrasis (CAG, V 3 Heinze) Z 100.37-102.29 (ad 430a24; che corrisponde, nella versione<br />
latina di Guglielmo di Moerbecke, a VI 229.91-233.64 Verbeke) e Simplicio, In libros<br />
Aristot. de <strong>anima</strong> commentaria (CAG, XI Hayduck; ma la paternità del commento è incerta)<br />
246.15-248.17 (ad 430a24; di esemplare chiarezza la conclusione, in 248.8-10: dio; ejn th<br />
peri; twn mnhmoneuetwn nohvsei deovmeqa pavntw" tou mevcri fantasiva" proiovnto"<br />
lovgou kai; a[neu touvtou oujde; oJ ajpaqh;" twn mnhmoneutwn ti nohvsei); e, fra i<br />
commentatori moderni, Rodier (Aristote, Traité de l’âme, traduit et annoté par G. Rodier,<br />
Leroux, Paris 1900, Tome II, Notes, pp. 465-66) e Tricot (Aristote, <strong>De</strong> l’âme, trad. nouvelle et<br />
notes par J. Tricot, Vrin, Paris 1934, pp. 183-84, n. 2).
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
7<br />
ricettivo, delle tracce da conservare 10 ; quanto all’altro invece, se anche potesse,<br />
in virtù della propria passività, accogliere e conservare delle tracce ricevute,<br />
come un sostrato “informato” e perciò “scolpito” dalle forme degli oggetti<br />
memorizzati, tale sua capacità si rivelerebbe inutile, giacché, essendo di per sé<br />
corruttibile, finirebbe per disperdere, insieme con se stesso, i propri ricordi 11 . Ma<br />
è davvero certo che si possa considerare chiusa la questione? In realtà, non mi<br />
pare che tutte le difficoltà siano state sanate né tutti i dubbi placati: rimangono<br />
infatti almeno un piccolo problema di coerenza e un innocente sospetto.<br />
Il piccolo problema di coerenza: non era stato detto nel capitolo 4, e ribadito<br />
nelle linee iniziali del capitolo 5, che anche l’intelletto potenziale è impassibile<br />
(ajpaqev", 419a15), in quanto esso pure incorporeo (429a24-25; 429b5; 429b21-<br />
22), e che è “passivo” soltanto in quanto è ricettivo (dektikov", 419a15) delle<br />
forme intellegibili? E, se è così, non si dovrà concludere allora che (1) neanche<br />
10<br />
Ciò che è impassibile, dunque, in quanto non “patisce” né “subisce” alcunché, non potrà<br />
conservare traccia di impressioni “patite” o “subite” in sé né, pertanto, potrà ricordare. Molto<br />
esplicito in questa direzione An. Post. II 19, 99b35-100a10, dove <strong>Aristotele</strong> tratteggia,<br />
ripercorrendone rapidamente le tappe, l’intero percorso della conoscenza, dalla sensazione<br />
immediata all’apprensione dei principi della dimostrazione. Al livello inferiore del percorso,<br />
egli osserva come si assista in alcuni <strong>anima</strong>li a una “persistenza” della percezione sensibile,<br />
senza la quale sarebbe impossibile andare oltre la facoltà semplicemente percettiva; in virtù di<br />
questa “persistenza” della sensazione, invece, avviene che, anche dopo la cessazione della<br />
sensazione in atto, rimane qualcosa nell’<strong>anima</strong>. Una volta che molte di queste “persistenze”<br />
rimangano impresse nell’<strong>anima</strong>, una volta che, insomma, l’<strong>anima</strong> conservi molte di queste<br />
impressioni, sorge in alcuni <strong>anima</strong>li una capacità di gestione razionale di tale insieme di<br />
impressioni, che, a questo livello, si fa ricordo e memoria; la ripetizione del ricordo produce<br />
l’esperienza (questo stesso schema epistemologico è rapidamente riproposto in Metaph. A 1,<br />
980a28-29). Ma il quadro più dettagliato e la posizione più esplicita in proposito si trovano<br />
nell’operetta <strong>De</strong> memoria et reminiscentia, in cui la memoria è descritta come un fenomeno<br />
comparabile all’incisione su una tabula – operata, nell’<strong>anima</strong>, a partire dalla facoltà sensibile<br />
nel suo complesso, e, nel corpo, dalle forme sensibili che giungono direttamente nella parte<br />
del corpo in cui si trovano gli organi di senso –, come il “possesso” di un’affezione, come il<br />
movimento prodotto da un oggetto esterno che si imprime come un’impronta, alla maniera di<br />
un sigillo apposto su un sostrato (1, 450a26-b1). Cfr. anche infra, n. 15.<br />
11<br />
Questa interpretazione, che non tiene conto delle difficoltà cui faccio riferimento subito<br />
oltre, individua nella semplice spiegazione dell’argomento aristotelico l’unico significato del<br />
passo, senza curarsi troppo dei motivi per cui <strong>Aristotele</strong> può averlo introdotto qui: si veda per<br />
esempio Aristotle, <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, ed. R.D. Hicks, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1907<br />
(1990 2 ), pp. 507-08; e, in ultimo, L.P. Gerson, The unity of intellect in Aristotle’s <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, p.<br />
368. Analoga a questa, in quanto si concentra esclusivamente sulla possibile ragione<br />
dell’assenza di memoria, è una quarta interpretazione, difesa nell’antichità da Plutarco in<br />
Filopono, In Aristot. de <strong>anima</strong> libros commentaria (CAG, XV Hayduck) 541.20-542.5 (ad<br />
430a24; che corrisponde, nella versione latina di Guglielmo di Moerbecke, a 61.65-63.36<br />
Verbeke), e oggi, a quanto pare, da R. Bodéüs, Aristote, <strong>De</strong> l’âme, traduction et présentation<br />
par R. B., GF-Flammarion, Paris 1993, p. 230, n. 1 (ad 430a23-25): secondo questa curiosa<br />
interpretazione, il “non ricordare” di cui <strong>Aristotele</strong> fa menzione qui dipenderebbe<br />
semplicemente ed esclusivamente da improvvisi “salti” di memoria, dovuti alla malattia o alla<br />
vecchiaia.
8<br />
Francesco Fronterotta<br />
questo intelletto può ricordare, giacché esso risulta ajpaqev" allo stesso titolo<br />
dell’altro, e che (2) è quindi errato o quantomeno incoerente concluderne, come<br />
<strong>Aristotele</strong> fa, che essendo corruttibile, esso disperde, corrompendosi, i suoi<br />
ricordi, lasciando intendere così che forse, di per sé, esso potrebbe però<br />
ricordare? L’innocente sospetto: quali sono precisamente il significato d’insieme<br />
e la funzione teorica di questo inciso relativo al nostro (non) ricordare, sia in<br />
vista dell’argomentazione svolta finora, sia rispetto alla collocazione<br />
epistemologica del processo della memoria? E, di conseguenza, è proprio sicuro<br />
che la memoria, introdotta qui ex abrupto, abbia qualcosa a che fare con lo<br />
statuto e con la funzione conoscitiva della facoltà intellettuale di cui <strong>Aristotele</strong> si<br />
sta occupando in questo contesto?<br />
Lascio per il momento in sospeso l’esame di tali questioni nell’ambito delle<br />
linee del capitolo 5 sottoposte a indagine e prendo in considerazione un passo<br />
parallelo al nostro che si trova nel capitolo 4 del primo libro e in cui, assai<br />
significativamente, si trova l’unica altra occorrenza del verbo mnhmoneuvw nel <strong>De</strong><br />
<strong>anima</strong>, ancora riferito alla facoltà intellettuale, ma, in questo caso, con più ampia<br />
trattazione del fenomeno del ricordo, posto a sua volta in relazione con la<br />
ajnavmnhsi", termine di cui ricorre qui l’unica occorrenza nel <strong>De</strong> <strong>anima</strong>.<br />
Conviene perciò riportare tale passo, denso di possibili indicazioni, per intero:<br />
A 4, 408a-b<br />
a30<br />
kata;<br />
sumbebhko;" de; kinei'sqai, kaqavper ei[pomen, e[sti, kai; kinei'n<br />
eJauthvn, oi|on kinei'sqai me;n ejn w|/ ejsti, tou'to de; kinei'sqai<br />
uJpo; th'" yuch'": a[llw" d∆ oujc oi|ovn te kinei'sqai kata; tovpon<br />
aujthvn. eujlogwvteron d∆ ajporhvseien a[n ti" peri; aujth'" wJ" ki-<br />
b1 noumevnh", eij" ta; toiau'ta ajpoblevya": fame;n ga;r th;n yuch;n<br />
lupei'sqai caivrein, qarrei'n fobei'sqai, e[ti de; ojrgivzesqaiv<br />
te kai; aijsqavnesqai kai; dianoei'sqai: tau'ta de; pavnta<br />
kinhvsei" ei\nai dokou'sin. o{qen oijhqeivh ti" a]n aujth;n kinei'sqai:<br />
5 to; d∆ oujk e[stin ajnagkai'on. eij ga;r kai; o{ti mavlista to; lupei'-<br />
sqai h] caivrein h] dianoei'sqai kinhvsei" eijsiv, kai; e{kaston kinei'sqaiv<br />
ti touvtwn, to; de; kinei'sqaiv ejstin uJpo; th'" yuch'", oi|on to;<br />
ojrgivzesqai h] fobei'sqai to; th;n kardivan wJdi; kinei'sqai, to;<br />
de; dianoei'sqai h[ ti toiou'ton i[sw" h] e{terovn ti, touvtwn de; sum-<br />
10 baivnei ta; me;n kata; foravn tinwn kinoumevnwn, ta; de; kat∆<br />
ajlloivwsin (poi'a de; kai; pw'", e{terov" ejsti lovgo"), to; dh; levgein<br />
ojrgivzesqai th;n yuch;n o{moion ka]n ei[ ti" levgoi th;n yuch;n<br />
uJfaivnein h] oijkodomei'n: bevltion ga;r i[sw" mh; levgein th;n<br />
yuch;n ejleei'n h] manqavnein h] dianoei'sqai, ajlla; to;n a[nqrw-<br />
15 pon th'/ yuch'/: tou'to de; mh; wJ" ejn ejkeivnh/ th'" kinhvsew" ou[sh",<br />
ajll∆ oJte; me;n mevcri ejkeivnh", oJte; d∆ ajp∆ ejkeivnh", oi|on hJ me;n<br />
ai[sqhsi" ajpo; twndiv, hJ d∆ ajnavmnhsi" ajp∆ ejkeivnh" ejpi; ta;" ejn<br />
toi'" aijsqhthrivoi" kinhvsei" h] monav".<br />
oJ de; nou'" e[oiken ejggivnesqai<br />
oujsiva ti" ou\sa, kai; ouj fqeivresqai. mavlista ga;r ejfqeivret∆ a]n<br />
20 uJpo; th'" ejn tw'/ ghvra/ ajmaurwvsew", nu'n d∆ w{sper ejpi;<br />
tw'n aijsqhthrivwn sumbaivnei: eij ga;r lavboi oJ presbuvth" o[mma<br />
toiondiv, blevpoi a]n w{sper kai; oJ nevo". w{ste to; gh'ra" ouj<br />
tw'/ th;n yuchvn ti peponqevnai, ajll∆ ejn w|/, kaqavper ejn mevqai"
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
9<br />
kai; novsoi". kai; to; noei'n dh; kai; to; qewrei'n maraivnetai<br />
25 a[llou tino;" e[sw fqeiromevnou, aujto; de; ajpaqev" ejstin. to; de; dianoei'sqai<br />
kai; filei'n h] misei'n oujk e[stin ejkeivnou pavqh, ajlla; toudi;<br />
tou' e[conto" ejkei'no, h|/ ejkei'no e[cei. dio; kai; touvtou fqeiromevnou<br />
ou[te mnhmoneuvei ou[te filei': ouj ga;r ejkeivnou h\n, ajlla; tou' koinou',<br />
o} ajpovlwlen: oJ de; nou'" i[sw" qeiovterovn ti kai; ajpaqev" ejstin.<br />
Procedo ancora una volta a una ricapitolazione schematica del contenuto di<br />
questo passo.<br />
408a30-b15 — <strong>Aristotele</strong> ha appena concluso un esame critico di alcune dottrine a lui<br />
precedenti sulla natura dell’<strong>anima</strong> e pone adesso il problema di un eventuale movimento<br />
dell’<strong>anima</strong> all’interno del corpo, che sia appunto causa del movimento del corpo: questo,<br />
infatti, sarebbe l’unico possibile movimento dell’<strong>anima</strong>. Ma si muove davvero l’<strong>anima</strong>?<br />
Parrebbe di si, visto che noi affermiamo che essa prova dei sentimenti, percepisce e ragiona;<br />
ora, se è vero che queste affezioni sono movimenti (tau'ta de; pavnta<br />
kinhvsei" ei\nai dokou'sin), se ne deve concludere che l’<strong>anima</strong> si muove (o{qen oijhqeivh ti"<br />
a]n aujth;n kinei'sqai). Tuttavia, anche ammettendo che queste affezioni siano movimenti e<br />
che siano davvero causati dall’<strong>anima</strong> (to; de; kineisqai ... uJpo; th'" yuch'"), diffondendosi<br />
poi attraverso certi organi (l’ira o il timore nel cuore, il ragionamento in un altro organo e così<br />
via), ciò non permette di concluderne che l’<strong>anima</strong> sia essa stessa in movimento: non è infatti<br />
l’<strong>anima</strong> direttamente a provare sentimenti, percepire o ragionare (come non è l’<strong>anima</strong> in<br />
prima persona a costruire una casa); l’<strong>anima</strong> fornisce l’impulso, appunto, psichico del<br />
movimento in questione, ma è «l’uomo attraverso l’<strong>anima</strong>» (to;n a[nqrwpon th'/ yuch'/) che<br />
prova emozioni, percepisce e ragiona (o costruisce una casa).<br />
408b15-18 — Precisazione della precedente dimostrazione: l’<strong>anima</strong> può essere principio o<br />
termine di un movimento (quando invia un impulso psichico al corpo o da esso le giunge<br />
qualche segnale), ma senza essere di per sé in movimento. Per esempio, la percezione di<br />
oggetti esterni attraverso gli organi di senso giunge dal corpo fino all’<strong>anima</strong>, mentre la<br />
ajnavmnhsi" dipende da un impulso contrario: è l’<strong>anima</strong> che dispone il richiamo alla memoria<br />
di dati sensibili precedentemente acquisiti tramite gli organi di senso. In entrambi i casi, che<br />
l’<strong>anima</strong> sia principio o termine del movimento, è il corpo o un qualche organo corporeo a<br />
essere mosso.<br />
408b18-25 — <strong>Aristotele</strong> passa a esaminare adesso il ruolo dell’intelletto, che pare «insorgere<br />
come un’essenza e non è soggetto a corruzione» (ejggivnesqai oujsiva ti" ou\sa, kai; ouj<br />
fqeivresqai). Infatti, la vecchiaia, la malattia o altre affezioni possono danneggiare, per<br />
esempio, gli organi di senso e il corpo, ma non l’<strong>anima</strong>, perché si tratta, appunto, di affezioni<br />
capaci di aggredire esclusivamente un sostrato materiale che permetta loro di attecchire e di<br />
diffondersi. L’intelletto è in sé incorporeo e impassibile (ajpaqev") e dunque esente da<br />
corruzione; ma naturalmente, se si corrompe il soggetto in cui la facoltà intellettuale insorge e<br />
si esercita, anche se l’intelletto è incorruttibile, la sua attività, il pensare, verrà meno (to;<br />
noei'n dh; kai; to; qewrei'n maraivnetai), perché tale attività dell’intelletto incorruttibile, che<br />
si realizza nel concreto pensare esercitato da un soggetto individuale, da un corpo dotato di<br />
<strong>anima</strong>, non può fare a meno del soggetto individuale di cui è il pensiero e viene dunque a<br />
mancare al corrompersi di questo 12 .<br />
12<br />
Si potrebbe sostenere, teoricamente, che, se l’intelletto incorruttibile fosse capace di pensare<br />
da sé e di esercitare autonomamente il pensiero, questo suo pensare sarebbe certo<br />
incorruttibile come l’intelletto stesso che lo esercita, ma non sarebbe più, appunto, il pensare
10<br />
Francesco Fronterotta<br />
408b25-27 — Ecco perché <strong>Aristotele</strong> può dedurne che tutte queste affezioni, «il ragionare,<br />
l’amare o l’odiare» (to; de; dianoei'sqai kai; filei'n h] misei'n), non appartengono<br />
all’intelletto in quanto intelletto, all’intelletto considerato indipendentemente dal soggetto<br />
concreto in cui si trova, ma sono proprie del soggetto individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo<br />
«che possiede l’intelletto» (toudi; tou' e[conto" ejkei'no [scil.: l’intelletto]), proprio «in<br />
quanto lo possiede» (h|/ ejkei'no e[cei), ossia precisamente nella misura in cui tale soggetto<br />
individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo, possedendo l’intelletto, può esercitare una funzione<br />
intellettuale.<br />
408b27-29 — La conclusione segue a questo punto per rigorosa necessità: quando il soggetto<br />
individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo si corrompe (touvtou fqeiromevnou), l’intelletto di per<br />
sé non esercita più tali attività – «non ricorda né ama» (ou[te mnhmoneuvei ou[te filei') –,<br />
giacché tali attività, come sopra spiegato, non erano sue proprie, ma del soggetto individuale<br />
composto di <strong>anima</strong> e corpo che si è corrotto (tou' koinou', o} ajpovlwlen). E ciò anche se,<br />
lascia intendere <strong>Aristotele</strong>, per l’intelletto impassibile, in quanto è «forse qualcosa di più<br />
divino» (i[sw" qeiovterovn ti), si può immaginare una sorte diversa dalla corruzione.<br />
L’amare e l’odiare, il ricordare e il ragionare, appartengono dunque al soggetto<br />
individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo che si corrompe e non alla sola <strong>anima</strong> né<br />
tantomeno alla sua facoltà intellettuale. Questa conclusione vale senza dubbio<br />
collettivamente e indistintamente per tutte le affezioni citate. Ma, per quanto<br />
concerne esclusivamente il ricordare, è forse possibile aggiungere una<br />
considerazione ulteriore e specifica. Poco sopra (408b15-18), infatti, la<br />
ajnavmnhsi" (termine di cui, come ho già segnalato, ricorre qui, in 408b17,<br />
l’unica occorrenza nel <strong>De</strong> <strong>anima</strong>) è stata posta esplicitamente in relazione con la<br />
sensazione, giacché consiste nel richiamo inviato, da parte dell’<strong>anima</strong> (ajp∆<br />
ejkeivnh"), ai dati sensibili precedentemente percepiti – più precisamente «ai<br />
movimenti o alle tracce conservati negli organi di senso» (ejpi; ta;" ejn toi'"<br />
aijsqhthrivoi" kinhvsei" h] monav"); se ne deduce perciò che essa necessita<br />
inevitabilmente del medium corporeo dell’organo di senso, in quanto non opera,<br />
si potrebbe dire, che dia; tou swvmato" 13 . Diversamente dalle altre affezioni<br />
citate in questo passo, quindi, il ricordare soltanto è fatto oggetto di una<br />
precisazione che lo riguarda specificamente e che conduce a una conclusione a<br />
parte rispetto a quella che coinvolge le altre affezioni citate: il ricordare non<br />
sussiste dopo la corruzione del corpo non perché, pur essendo, come il ragionare<br />
e il pensare (to; dianoeisqai, to; noein), una facoltà intellettuale, apparteneva<br />
però al soggetto individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo che si è corrotto, ma<br />
perché, essendo connesso intimamente alla facoltà sensibile – potendosi<br />
realizzare concretamente soltanto dia; tou swvmato" –, apparteneva proprio a<br />
di un soggetto individuale concreto composto di <strong>anima</strong> e corpo, ossia il nostro pensare. <strong>Su</strong>lla<br />
relazione fra <strong>anima</strong> e corpo, rispetto al movimento e, più in generale, alle altre funzioni del<br />
composto, che <strong>Aristotele</strong> pare costruire stabilendo un confronto serrato con la psicologia<br />
platonica, cfr. S. Menn, Aristotle’s definition of the soul and the <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, in «Oxford Studies<br />
in Ancient Philosophy», XXII (2002), pp. 83-139, soprattutto 99-102.<br />
13<br />
Non uso a caso questa espressione platonica del Fedone (79C5), su cui tornerò infra, § 3.
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
11<br />
quella parte del soggetto individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo che si è<br />
certamente corrotta, ossia al corpo. Questa è la vera e più forte ragione per cui<br />
<strong>Aristotele</strong> può concludere qui (408b28) che l’intelletto, corrotto il soggetto<br />
individuale di cui era appunto la facoltà intellettuale (touvtou fqeiromevnou),<br />
ou[te mnhmoneuvei ou[te filei'.<br />
Che le cose stiano propriamente in questi termini risulta chiaro anche da un<br />
confronto con l’operetta <strong>De</strong> memoria et reminiscentia, dedicata all’esame del<br />
fenomeno della memoria e della reminiscenza. Viene infatti affermato<br />
esplicitamente (1, 450a10-25) che la memoria appartiene all’intelletto solo<br />
accidentalmente, mentre appartiene invece per sé esclusivamente alla facoltà<br />
sensibile, il che spiega perché anche altri <strong>anima</strong>li oltre l’uomo possono<br />
ricordare. D’altro canto, appare evidente che la memoria non è una delle facoltà<br />
intellettive dell’<strong>anima</strong>, ma si intreccia in qualche modo con la facoltà<br />
immaginativa e con la produzione di immagini mentali della fantasiva: dunque,<br />
si ripete (1, 451a15-18), essa dipende dai sensi 14 . Ora, prosegue <strong>Aristotele</strong> (2,<br />
451a-b), se la memoria può seguire immediatamente la percezione sensoriale del<br />
dato sensibile acquisito tramite i sensi, la ajnavmnhsi", invece, si distingue da<br />
quella perché richiede un lasso di tempo ulteriore, nel corso del quale il dato<br />
sensibile percepito possa venire dimenticato, per essere poi, appunto, ricordato.<br />
La reminiscenza presuppone perciò un che di aggiuntivo rispetto alla semplice<br />
acquisizione dei dati, sufficiente all’esercizio della memoria (2, 453a): (1) un<br />
punto di partenza ulteriore, che si tratti di un’altra esperienza, esperita<br />
attualmente o a sua volta ricordata, a partire dalla quale muovere al recupero<br />
dell’informazione ricercata; (2) una facoltà di tipo immaginativo, capace di<br />
produrre immagini mentali, per costituire un sostrato all’associazione dei dati<br />
sensibili non più attuali recuperati attraverso il ricordo. Il punto che occorre<br />
sottolineare con forza, tuttavia, è il seguente: nonostante le loro differenze, la<br />
memoria e la reminiscenza condividono un fondamento epistemologico senza<br />
dubbio alcun sensoriale 15 .<br />
14<br />
Con l’importante precisazione che non ogni “ri-conoscenza” di qualcosa è necessariamente<br />
reminiscenza, visto che è ben possibile conoscere nuovamente la stessa cosa, nel frattempo<br />
dimenticata, non solo ricordandola, ma anche, appunto, conoscendola ancora come la prima<br />
volta, dunque percependola nuovamente.<br />
15<br />
Per quanto riguarda la memoria, cfr. anche supra, n. 10; e, per la ajnavmnhsi", le altre<br />
occorrenze del termine nel corpus aristotelico non mutano questa prospettiva. Eccone un<br />
elenco: <strong>De</strong> mem. et remin., 449b7; 449b8; 451a6; 451a21; 451b1; 451b10; 451b20; 451b28;<br />
452a1; 452a8; 453a5; 453a15; 453a17; <strong>De</strong> long. et brev. vit. 465a22 (dove si precisa che la<br />
ajnavmnhsi" distrugge l’ignoranza, come nel caso di contrari che si sostituiscono<br />
reciprocamente senza che ne risulti affetto il soggetto di essi); Eth. Nic. III 13, 1118a13 (dove<br />
si pone come base della ajnavmnhsi" un insieme di esperienze realizzate). Questo elenco si<br />
completa con le occorrenze segnalate qui di seguito, che non appaiono particolarmente<br />
significative: Metaph. K 12, 1068a31; Phys. V 2, 225b32; Probl. 886a25; Rhet. II 8, 1386a2;<br />
III 16, 1417b14; 19, 1419b13; b27; Soph. el. 34, 183a35; Frammenti 1.4.38.7; 3.22.133.8;<br />
3.24.145.8.
12<br />
Francesco Fronterotta<br />
Se tutto ciò è vero, abbiamo ottenuto un’inquietante conferma del problema di<br />
coerenza e dell’innocente sospetto proposti sopra in relazione al nostro passo di<br />
<strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5. Non solo, infatti, l’intelletto di per sé, indipendentemente dal<br />
corpo, non esercita nessuna delle attività e delle funzioni che appartenevano al<br />
soggetto individuale composto di <strong>anima</strong> e corpo, fra cui anche il ricordare (come<br />
stabiliva già A 4, 408b25-29); ma la memoria e il ricordo presentano un motivo<br />
in più, rispetto ad altre attività e affezioni, per essere esclusi dalle possibilità<br />
dell’intelletto, in quanto non costituiscono, come il pensare, una facoltà<br />
propriamente intellettuale; si tratta anzi, al contrario, di una facoltà intimamente<br />
connessa alla sensibilità (come suggeriscono A 4, 408b15-18 e soprattutto i<br />
passi citati del <strong>De</strong> memoria et reminiscentia): come potrebbe allora esercitarla<br />
l’intelletto di per sé, tanto l’intelletto “attualizzante” quanto l’intelletto<br />
potenziale, senza il corpo? E, se le cose stanno così – se l’intelletto di per sé,<br />
tanto l’intelletto “attualizzante” quanto l’intelletto potenziale, senza il corpo,<br />
non può in ogni caso esercitare la memoria –, perché chiamarla in causa nel<br />
nostro passo, introducendovi il tema dell’impossibilità del ricordo per<br />
l’intelletto? Se, insomma, il “ricordare” nel <strong>De</strong> <strong>anima</strong> (e, si direbbe, nel pensiero<br />
di <strong>Aristotele</strong> in generale) è posto in relazione con la facoltà sensibile e non con<br />
l’intelletto, risulta allora del tutto ovvio affermare, in A 4, che l’intelletto ouj<br />
mnhmoneuvei (ou[te filei), richiamandone brevemente le ragioni, perché tale<br />
affermazione è funzionale, in quel contesto, alla definitiva chiusura della<br />
polemica con alcuni predecessori relativamente al presunto movimento<br />
dell’<strong>anima</strong> e al suo rapporto con il corpo e con gli organi corporei; ma sarà<br />
invece del tutto fuori luogo ribadire la stessa affermazione in G 5, dove il solo<br />
intelletto è in questione, indipendentemente dal corpo, e dove, almeno<br />
apparentemente, null’altro ne giustifica la ripetizione – una ripetizione che, anzi,<br />
pone un ulteriore problema di coerenza argomentativa 16 .<br />
Come spiegare tali difficoltà? Ho accennato in precedenza ad alcune<br />
interpretazioni antiche e moderne di questo passo, che occorre adesso richiamare<br />
almeno nelle loro grandi linee: alcune di esse, al di là della loro maggiore o<br />
minore verosimiglianza 17 , si limitano a proporre una spiegazione dell’argomento<br />
16<br />
Si badi che il fatto che in A 4 il riferimento alla memoria sia correttamente posto in<br />
relazione con l’esercizio della sensibilità, mentre in G 5 il nostro (non) ricordare riguarda<br />
invece, verosimilmente, le forme intelligibili, anzi, propriamente, quegli “indivisibili” di cui è<br />
questione subito oltre, in G 6, aggrava ulteriormente, forse duplica, l’aporia. In primo luogo,<br />
infatti, l’impossibilità del ricordo non dipende qui dalla natura dell’oggetto-contenuto della<br />
memoria (sensibile o intellegibile), ma dalla struttura stessa del soggetto-contenitore,<br />
dell’intelletto (precisamente dalla sua impassibilità); in secondo luogo, l’esclusione in A 4 di<br />
ogni ricordo dei sensibili, per l’intelletto, rende ancor più paradossale che la questione<br />
riemerga in G 5 relativamente agli intelligibili. L’intelletto di per sé, indipendentemente dal<br />
composto <strong>anima</strong>-corpo, non può infatti conservare nessun ricordo – e ciò vale in generale; ma,<br />
aggiuntivamente, gli intelligibili non ricadono in ogni caso, per loro natura, nell’ambito<br />
dell’ordinario processo della memoria (che ha a che fare con i sensibili).<br />
17<br />
Cfr. supra, n. 8-9 e 11; e infra, § 3, n. 21-32. La tesi plutarchea dell’assenza di ricordi a<br />
causa di salti di memoria dovuti alla malattia o alla vecchiaia, all’apparenza (e non solo
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
13<br />
aristotelico dell’impossibilità del ricordo, senza neanche tentare di giustificare la<br />
sua collocazione in questo contesto (se è già ovvio e scontato che l’intelletto non<br />
ha a che fare con la memoria, perché ripetere qui nuovamente lo stesso concetto,<br />
ossia che, pur ammettendo un’eventuale eternità dell’intelletto, «noi non<br />
ricordiamo»?); altre interpretazioni, invece, attribuiscono ad <strong>Aristotele</strong><br />
l’intenzione di negare che vi possa essere memoria del tempo precedente o del<br />
tempo seguente alla vita presente: ora, entrambe queste tesi sono certamente<br />
vere (infatti, è certamente vero che «noi non ricordiamo» né il tempo precedente<br />
né il tempo seguente alla vita presente), ma, ancora una volta, si tratta di<br />
un’interpretazione insufficiente in quanto fondata su una spiegazione non<br />
necessaria: se la memoria non appartiene all’intelletto, ma alla facoltà sensibile<br />
(come è già ampiamente noto), e se l’unico candidato a una possibile<br />
immortalità è l’intelletto (come è stato appena mostrato nelle linee che<br />
precedono), risulta già di per sé del tutto evidente l’assenza di ogni possibile<br />
ricordo (del passato o per il futuro).<br />
3. JH mavqhsi" oujk a[llo ti h ajnavmnhsi" — Ouj mnhmoneuvomen dev...<br />
Conviene dunque riprendere l’esame di G 5, 430a23-25, muovendo da quello<br />
che mi pare il limite comune alle interpretazioni appena citate, perché si può<br />
forse scorgere qui un’indicazione plausibile per la soluzione dell’enigma. Le<br />
interpretazioni citate trascurano infatti un dato assai significativo: perché<br />
<strong>Aristotele</strong> dichiara qui che la ragione dell’assenza di ricordi è l’impassibilità<br />
dell’intelletto “attualizzante” (o{ti tou'to me;n ajpaqev") e la corruttibilità<br />
dell’intelletto potenziale (oJ de; paqhtiko;" nou'" fqartov"), quando, invece,<br />
l’esercizio della memoria e il fenomeno del ricordare non riguardano<br />
propriamente né l’uno né l’altro intelletto, indipendentemente dall’eventuale<br />
immortalità ed eternità dell’uno e dalla corruttibilità e dalla mortalità dell’altro?<br />
Sembra in effetti che, alla distinzione già messa in atto fin dall’inizio del<br />
capitolo (1) fra un intelletto “attualizzante” e un intelletto potenziale, se ne<br />
sovrapponga a un tratto qui una seconda, (2) fra un intelletto immortale ed<br />
eterno e un intelletto corruttibile e mortale: ma queste due coppie di termini<br />
distinti, considerate dal punto di vista dell’argomento presente dell’assenza dei<br />
ricordi e dell’impossibilità del ricordare, non si equivalgono affatto. (1)<br />
L’intelletto “attualizzante” e l’intelletto potenziale, infatti, sono esclusi<br />
dall’esercizio della memoria per identiche ragioni (perché la memoria dipende<br />
dalla facoltà sensibile e l’uno e l’altro intelletto sono sempre, appunto,<br />
all’apparenza) così inverosimile, si spiega forse tenendo presente che nel passo esaminato di<br />
A 4, precisamente in 408b18-25, <strong>Aristotele</strong> introduce la possibilità che vecchiaia, malattia o<br />
ubriachezza, danneggiando il corpo e gli organi corporei, possano compromettere la<br />
continuità e la regolarità delle attività dell’intero soggetto individuale composto di <strong>anima</strong> e<br />
corpo, fra la quali dunque anche la memoria. Ciò che peraltro, con ogni evidenza, non ha<br />
molto a che vedere con la spiegazione del nostro passo di G 5.
14<br />
Francesco Fronterotta<br />
“intelletto” e non certo “sensibilità”); (2) l’intelletto immortale ed eterno e<br />
l’intelletto corruttibile e mortale, invece, sono esclusi dall’esercizio della<br />
memoria per ragioni diverse (l’intelletto immortale ed eterno, perché<br />
l’immortalità e l’eternità esigono l’impassibilità e, con essa l’immaterialità o<br />
incorporeità, caratteristiche che sappiamo incompatibili con l’esercizio della<br />
memoria; l’intelletto corruttibile e mortale, non perché anch’esso impassibile,<br />
come pure dovrebbe essere ed effettivamente è, ma perché soggetto a corruzione<br />
e dunque, sebbene capace di ricordare, condannato poi a disperdere tale ricordo<br />
corrompendosi). Proprio questa inappropriata sovrapposizione di argomenti,<br />
questa “sfasatura” logica e teorica, o piuttosto l’esigenza di tentarne una<br />
giustificazione, se non una vera e propria spiegazione, mi induce a proporre<br />
un’interpretazione del nostro passo diversa da quelle richiamate finora.<br />
Ritengo che <strong>Aristotele</strong> introduca qui, nel corso della sua riflessione intorno<br />
alla natura e alla funzione della facoltà più alta dell’<strong>anima</strong>, al suo ruolo di<br />
soggetto proprio della conoscenza intellegibile e alla sua possibile durata eterna<br />
(dunque indipendentemente dalla durata limitata della vita presente), un<br />
argomento polemico contro la dottrina platonica che affronta e chiarisce gli<br />
stessi problemi, ossia la dottrina della reminiscenza. Solo ammettendo questa<br />
ipotesi, diviene possibile comprendere le “oscillazioni” argomentative segnalate<br />
sopra. In effetti, «noi non ricordiamo» – non possiamo in nessun modo<br />
ricordare – perche la facoltà o la parte più alta della nostra <strong>anima</strong>, l’intelletto,<br />
non può esercitare la memoria: (1) l’intelletto “attualizzante” che aspira<br />
all’eternità, in quanto la sua impassibilità, che ne garantisce l’incorruttibilità, lo<br />
rende anche non “informabile” e perciò incapace di “trattenere” la forma o la<br />
traccia di alcunché; (2) l’intelletto potenziale e corruttibile, in quanto la sua<br />
corruttibilità, che ne permette la capacità ricettiva e passiva, la “passibilità”, e<br />
che lo rende quindi “informabile” e suscettibile di trattenere in sé la forma o la<br />
traccia dei propri oggetti, ne impone anche la mortalità e, con essa, la necessità<br />
di disperdere con la morte ogni eventuale ricordo. Tutto ciò diviene<br />
perfettamente coerente, se tradotto nei termini di una polemica anti-platonica<br />
contro la dottrina della reminiscenza: se Platone ha inteso la vera conoscenza<br />
intellegibile come null’altro che il ricordo (hJ mavqhsi" oujk a[llo ti h<br />
ajnavmnhsi") di conoscenze precedentemente acquisite e successivamente<br />
dimenticate, egli deve aver posto un’<strong>anima</strong> (razionale) immortale ed eterna,<br />
incorruttibile e auto-identica, come soggetto epistemologico di tale conoscenza;<br />
a una simile ricostruzione, che corrisponde del resto largamente alla prospettiva<br />
articolata nei dialoghi platonici 18 , <strong>Aristotele</strong> obietta che, se le cose stanno<br />
davvero così, per poter concepire l’<strong>anima</strong> (razionale) come una realtà immortale<br />
e incorruttibile, Platone deve averla considerata immateriale e, s’intende,<br />
impassibile, e dunque, in ultima analisi, incapace di esercitare la memoria e di<br />
18<br />
I luoghi canonici dell’esposizione platonica della dottrina della reminiscenza sono<br />
naturalmente Men. 81A-86C; e soprattutto Phaed. 72E-76A; Phaedr. 246E-251A.
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
15<br />
ricordare alcunché 19 . Ne segue necessariamente l’assoluta impossibilità della<br />
reminiscenza dell’<strong>anima</strong> stabilita da Platone: un’<strong>anima</strong> immortale non potrebbe<br />
esercitare la memoria; un’<strong>anima</strong> mortale non potrebbe che disperdere i propri<br />
ricordi con la morte e la sua “memoria” sarebbe perciò del tutto inutile.<br />
Il valore dell’argomento, ad accettarne questa interpretazione anti-platonica,<br />
starebbe fra l’altro nel fatto che si tratterebbe dell’unica dimostrazione<br />
effettivamente rigorosa e radicale reperibile nel corpus aristotelico contro la<br />
dottrina della reminiscenza, vale a dire, è bene sottolinearlo, contro il vero<br />
fondamento teorico dell’epistemologia di Platone. I luoghi canonici in cui<br />
<strong>Aristotele</strong> allude alla reminiscenza presentano infatti argomenti notoriamente<br />
poco stringenti, se non perfino banali. Ne ricordo alcuni: in An. Pr. II 21, 67a22,<br />
si afferma perentoriamente che l’impressione di riconoscimento<br />
(ajnagnwrivzonta") degli oggetti esaminati nel corso dell’ejpagwghv dipende da<br />
una particolare forma di conoscenza universale e non certo da un ricordo,<br />
perché, contrariamente a quel che vuole il Menone, la mavqhsi" non è<br />
ajnavmnhsi". In An. Post. II 19, viene costruito un argomento più articolato: una<br />
volta posto il problema di capire come si conoscano i principi della<br />
dimostrazione, occorre soprattutto stabilire se si conoscano a loro volta per via<br />
dimostrativa, se siano oggetto di un diverso genere di conoscenza oppure se<br />
siano innati (99b20-25); quest’ultima eventualità, che è quella che ci interessa<br />
qui, è immediatamente esclusa, perché sarebbe come se possedessimo delle<br />
conoscenze superiori anche alla dimostrazione senza esserne consapevoli, il che<br />
parrebbe tanto paradossale da poter essere considerato impossibile; ma non si<br />
può neanche credere che noi acquistiamo tali facoltà conoscitive senza<br />
possederle dal principio, giacché – dice <strong>Aristotele</strong> – si incorrerebbe di fatto<br />
nell’aporia del Menone: come si può imparare e insegnare ad altri, senza partire<br />
da qualcosa di già noto?; il che significa: come potremo cercare ed<br />
eventualmente sapere di aver trovato, se non conosciamo nulla affatto<br />
dell’oggetto della nostra ricerca (99b25-30)? Ne segue una conclusione<br />
intermedia: tali facoltà conoscitive dei principi non sono innate né si sviluppano<br />
19<br />
Come ho ampiamente spiegato supra, soprattutto § 2, il fatto che una realtà impassibile<br />
(ajpaqev") sia esclusa dall’esercizio della memoria (e dell’ajnavmnhsi") è una tesi che discende<br />
dalla concezione da <strong>Aristotele</strong> difesa intorno al processo della formazione dei ricordi e del<br />
loro richiamo alla mente (i ricordi sono “impressioni” o “affezioni” prodotte dai dati percepiti<br />
dagli organi di senso e conservate come tracce incise su un sostrato materiale). È interessante<br />
osservare come Platone difenda, almeno in relazione alla dottrina della reminiscenza, una tesi<br />
apparentemente contraria a quella aristotelica, quando afferma (cfr. Phaed. 75D-77B; Phaedr.<br />
250A-B), che la conoscenza che l’<strong>anima</strong> ha accumulato nella sua vita precedente alla discesa<br />
nel corpo viene dimenticata alla nascita, dunque nel momento stesso della discesa nel corpo,<br />
per essere poi gradualmente recuperata nel corso della vita mortale. La memoria, secondo<br />
Platone, pare allora appartenere all’<strong>anima</strong>, mentre il corpo sembra costituire un ostacolo alla<br />
sua conservazione, con un esatto capovolgimento rispetto alla posizione di <strong>Aristotele</strong> (in<br />
realtà, la questione è più complessa, perché Platone pare avanzare altrove una ben diversa<br />
concezione della memoria e del ricordo, intesi, alla maniera aristotelica, come tracce incise su<br />
una specie di “blocco di cera”, cfr. Theaet. 191C-E).
16<br />
Francesco Fronterotta<br />
successivamente in tutti gli uomini (99b30-35). Questa conclusione condanna di<br />
fatto, implicitamente ma definitivamente, l’epistemologia platonica fondata sulla<br />
preconoscenza dell’<strong>anima</strong> ammessa dalla dottrina della reminiscenza e anche,<br />
ciò che pochi hanno rilevato, la sua potenziale “apertura” universale, tale per cui<br />
l’ignoranza “attuale” di un individuo, lo schiavo del Menone per esempio, non<br />
impedisce che la sua <strong>anima</strong> abbia molto conosciuto prima della discesa nel<br />
corpo e che quindi molto possa ricordare, divenendo così un vero sapiente.<br />
L’obiezione di <strong>Aristotele</strong> è ispirata al buon senso: il punto di riferimento per<br />
valutare le potenzialità conoscitive di un individuo è, appunto, “attuale”, e non<br />
può certo dipendere da un’eventuale preesistenza e preconoscenza della sua<br />
<strong>anima</strong> 20 . Se così non fosse, conclude lapidariamente il noto passo di Metaph. A<br />
9, 993a1-2, eij kai; tugcavnoi suvmfuto" ou\sa, qaumasto;n pw" lanqavnomen<br />
e[conte" th;n krativsthn twn ejpisthmwn.<br />
L’argomento di <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, se la mia interpretazione è corretta, va ben<br />
oltre la constatazione della semplice paradossalità della posizione di Platone e<br />
dell’esercizio di buon senso che induce a respingere l’ipotesi di una conoscenza<br />
tanto fondamentale, quanto curiosamente “nascosta”, perché dispiega e svolge<br />
una dimostrazione rigorosa e agguerrita che non intende lasciare scampo alla<br />
dottrina della reminiscenza, combinata con la tesi della preesistenza e della<br />
preconoscenza dell’<strong>anima</strong>. Può essere interessante rivolgersi allora, ancora una<br />
volta, ai commentatori del <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, per esaminare, da questo punto di vista e<br />
in questa prospettiva, se essi abbiano in qualche modo proposto o almeno<br />
parzialmente anticipato una simile lettura del nostro passo. L’elemento da<br />
ricercare nei commenti antichi e moderni è quindi, adesso, un possibile<br />
riferimento a Platone e alla sua dottrina della reminiscenza. Bisogna in primo<br />
luogo riconoscere che l’interesse dei commentatori antichi, nell’analisi di queste<br />
linee conclusive di G 5, si concentra essenzialmente sull’ammissione o meno, da<br />
parte di <strong>Aristotele</strong>, di un intelletto immortale e, di conseguenza, sullo statuto<br />
proprio dell’eventuale intelletto immortale. <strong>Su</strong> questo fronte, non è strano<br />
trovare in Temistio e Simplicio, immediatamente dopo la spiegazione del nostro<br />
passo, ampie riflessioni dedicate, da Temistio (Z 105.34-107.7), al confronto fra<br />
Platone e <strong>Aristotele</strong> rispetto alla possibilità dell’immortalità dell’intelletto, cui<br />
Platone avrebbe fatto riferimento stabilendo la celebre analogia fra il bene e il<br />
sole, entrambi produttori di luce 21 , e dedicate invece, da Simplicio (246.15-<br />
20<br />
Altre difficoltà da <strong>Aristotele</strong> sollevate, più o meno allusivamente, contro la dottrina<br />
platonica della reminiscenza si trovano, sempre negli Analitici secondi, in I 1.<br />
21<br />
Evidentemente, il bene produce una lux intellegibilis che, diversamente dalla luce generata<br />
dal sole, è in grado di illuminare non gli occhi, ma l’<strong>anima</strong>, mettendola in condizione di<br />
conoscere. Ecco perché Temistio può porre in relazione questa analogia platonica con<br />
l’affermazione di <strong>Aristotele</strong> (430a15-17), secondo cui l’intelletto “attualizzante” e la sua<br />
funzione possono essere paragonati alla luce e alla sua capacità di “illuminazione”. È<br />
interessante osservare che, in questo contesto, Temistio fa anche riferimento alla dottrina<br />
platonica della reminiscenza (Z 107.1), richiamata però soltanto come prova dell’immortalità<br />
dell’<strong>anima</strong> (cfr. Phaed. 72E).
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
17<br />
248.17; ma la paternità del commento al <strong>De</strong> <strong>anima</strong> è incerta), alla consonanza<br />
fra i due filosofi relativamente all’immortalità dell’<strong>anima</strong>, nonostante la loro<br />
radicale divergenza sul tema del suo movimento (e auto-movimento). Ma nulla<br />
di più esplicito si trova in questi due commenti 22 . Alessandro di Afrodisia (da<br />
quel che si può comprendere dalle sue opere sul tema a noi pervenute), come più<br />
tardi Filopono (ma il terzo libro del suo commento al <strong>De</strong> <strong>anima</strong> andrebbe<br />
attribuito a Stefano di Alessandria) e Prisciano di Lidia o non prestano<br />
particolare attenzione a questo passo oppure non fanno nessuna menzione,<br />
nell’affrontarne l’esame, di Platone 23 . Ciò conduce ai commenti composti in età<br />
medievale: nella tradizione greco-bizantina, Sofonia dichiara lapidariamente che<br />
ouj mnhmoneuvei hJ yuch; ajpoluqeisa tou swvmato", ma senza sviluppare poi<br />
in nessun modo questa espressione, il cui sapore prettamente platonico avrebbe<br />
fatto ben sperare 24 ; e, pur offrendo ricchi e raffinati commenti di questi luoghi<br />
22<br />
Cfr. in proposito anche supra, n. 9.<br />
23<br />
Mi riferisco naturalmente, quanto ad Alessandro, al <strong>De</strong> <strong>anima</strong> liber cum Mantissa (CAG,<br />
<strong>Su</strong>ppl. II 1 Bruns) e al <strong>De</strong> sensu (CAG, III 1 Wendland). Si vedano, di Filopono, In Aristot.<br />
de <strong>anima</strong> libros commentaria (CAG, XV Hayduck), 164.15-165.15 (ad 408b18-30, con una<br />
spiegazione della questione) e 541.20-542.5 (ad 430a24, che riporta l’interpretazione di<br />
Plutarco, cfr. supra, n. 11), e, di Prisciano di Lidia, Metaphrasis in Theophrastum (CAG,<br />
<strong>Su</strong>ppl. I 2 Bywater), in cui non si trova alcun riferimento ai nostri passi del <strong>De</strong> <strong>anima</strong>.<br />
24<br />
Cfr. Sofonia, In Aristot. de <strong>anima</strong> paraphrasis (CAG, XXIII 1 Hayduck), 29.3-13 (ad<br />
408b18-30) e 134.33-37 (ad 430a24). Il fatto che Sofonia parli qui di “<strong>anima</strong>” più che di<br />
intelletto e che lo scioglimento della sua relazione con il corpo sia espresso con il participio<br />
ajpoluqeisa (dal verbo ajpoluvw, utilizzato nello stesso senso in diversi passi cruciali del<br />
Fedone, cfr. 65a1; 67a6; 81d3) sono a mio avviso due importanti segnali del carattere<br />
platonico della sua osservazione.
18<br />
Francesco Fronterotta<br />
cruciali del <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, la tradizione latina 25 e la tradizione araba 26 si limitano, sul<br />
nostro problema, a una più o meno rigorosa spiegazione del testo. Analogo, in<br />
generale, il caso dei commenti umanistico-rinascimentali, tra il XV e il XVII<br />
secolo 27 . I commenti ottocenteschi e novecenteschi conservano a loro volta il<br />
quadro esegetico descritto fin qui, seguendo essenzialmente le linee<br />
interpretative già delineate. Si può distinguere almeno fra quanti non dedicano al<br />
nostro passo nessuna attenzione 28 e quanti invece, pur non offrendo nessuno<br />
spunto in vista di un possibile riferimento alla dottrina platonica della<br />
25<br />
Si vedano innanzitutto Alberto Magno, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> (ed. C. Stroick, in Opera Omnia, VII, 1,<br />
Münster 1968), lib. 3, tract. 2, cap. 19, 25-30; Tommaso d’Aquino, In Aristot. librum de<br />
<strong>anima</strong> commentarium (cura ac studio A.M. Pirotta, Marietti, Roma 1948), III 4; Egidio<br />
Romano, Annotationes in libros III Aristotelis de <strong>anima</strong>, (in Aegidii Romani Commentationes<br />
physicae et metaphysicae), Venetiis 1496, ad loc. Il XIII secolo ha conosciuto un’ampia<br />
fioritura di commenti al <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, nella forma di lecturae costruite attraverso la<br />
combinazione di un esame testuale serrato e l’approfondimento di alcune quaestiones di<br />
particolare rilevanza, a opera di un Magister che nella gran parte dei casi ci rimane ignoto:<br />
segnalo soltanto qui, per la loro importanza e influenza, la Anonymi Magistri Artium Lectura<br />
in librum de <strong>anima</strong>, a quodam discipulo reportata (databile intorno al 1245-1250; Ms Rom.<br />
Naz VE 828, éd. par R.A. Gauthier, Collegii S. Bonaventurae ad Claras Aquas, Grottaferrata<br />
1985), III. 2. 5; i Trois commentaires anonymes sur le Traité de l’âme d’Aristote, edd. M.<br />
Giele, F. van Steenberghen et B. Bazan, Peeters, Louvain 1971 (databili intorno al 1275, il<br />
primo e il terzo dei quali, averroista l’uno e anti-averroista l’altro, non forniscono elementi di<br />
rilievo per il nostro problema; mentre il secondo, attribuito a Sigieri di Brabante, si impegna a<br />
respingere la tesi della reminiscenza, connessa a suo avviso a una posizione innatista che<br />
sarebbe stata ammessa dai teologi ma respinta da <strong>Aristotele</strong>, senza però fare riferimento al<br />
nostro passo: cfr. Qaestiones de <strong>anima</strong> III 20, p. 338, 27-36); e Nicola Oresme, Expositio et<br />
quaestiones in Aristotelis de <strong>anima</strong>, (éd. par B. Patar et C. Gagnon, Peeters, Louvain-Paris<br />
1995), liber III, tractatus I, cap. II.<br />
26<br />
Avicenna, Liber de <strong>anima</strong> seu sextus de naturalibus (ed. S. van Riet, II voll., Brill, Leiden<br />
1968-1972), V 3-4, difende in realtà una tesi assai particolare, secondo la quale l’<strong>anima</strong> non è<br />
eterna, in quanto generata e non pre-esistente al corpo, ma è tuttavia immortale in quanto<br />
sopravvive al corpo, conservando per sempre, pur senza conoscere nuove reincarnazioni, le<br />
connotazioni individuali in essa prodottesi durante l’incarnazione; Averroè, Commentarium<br />
magnum in Aristotelis <strong>De</strong> <strong>anima</strong> libros, ed. F. Stuart Crawford, The Mediaeval Academy of<br />
America, Cambridge (Mass.) 1953, III comm. 20 (ad 430a20-25), fa a sua volta riferimento a<br />
Platone e precisamente alla sua concezione della conoscenza degli intellegibili come<br />
reminiscenza, ma soltanto in parallelo e in una certa misura in opposizione all’esegesi di<br />
Temistio.<br />
27<br />
Mi riferisco a S. Mauro, <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, J. Argyropulo Byzantio interprete, in Aristotelis Opera<br />
Omnia quae extant (brevi paraphrasi et litterae perpetuo inhaerente expositione illustrata a S.<br />
M., ed. A. Bringmann, IV, Parisiis 1886), tomus IV (in de <strong>anima</strong> III), cap. IV, 8 (p. 95); al<br />
Cajetano (Tommaso di Vio), Commentaria in libros Aristotelis <strong>De</strong> <strong>anima</strong> libri III, éd. G.<br />
Picard et G. Pelland, Bruges-Paris 1965; e ai Commentarii Collegii Conimbricensis in tres<br />
libros de <strong>anima</strong>, A. Baba, Venetiis 1616, Capitis quinti explanatio (pp. 283-84), che si<br />
limitano a una spiegazione piana del nostro passo, pur sostenendo poco oltre (nella Quaestio<br />
IV, Articulus II, V Argumentum, pp. 299-300) la tesi che si dà tuttavia una memoria che non è<br />
connessa alla sensibilità, ma che riguarda propriamente gli intellegibili, facendo riferimento a
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
19<br />
reminiscenza, si diffondono tuttavia in un esame più o meno ampio di queste<br />
linee dell’opera 29 .<br />
Ho lasciato in ultimo gli unici commentatori del <strong>De</strong> <strong>anima</strong> che sembrano<br />
avere intuito quella che, a mio avviso, è la strada giusta: Zabarella e<br />
Trendelenburg. Il primo, nel suo commento, presenta una rassegna delle<br />
principali interpretazioni antiche e medievali del nostro passo, fra cui quella<br />
secondo cui <strong>Aristotele</strong> starebbe escludendo la possibilità che, pur dandosi un<br />
intelletto immortale, sussista però nel tempo attuale il ricordo di vite e<br />
conoscenze passate. Approvando questa lettura, Zabarella annota: «Adde quod<br />
optimam habuit causam huius quaestionis, quia Plato dixit omnem nostram<br />
scientiam quam in hac vita acquirimus, esse reminiscentiam eorum, quae ante<br />
hanc vitam acta sunt»; ecco perché, prosegue Zabarella, non è implausibile<br />
trovare proprio qui, nel contesto di un’indagine intorno all’<strong>anima</strong>, alla sua<br />
funzione intellettuale e alla sua mortalità o immortalità, un argomento contro la<br />
reminiscenza 30 . Il riferimento polemico a Platone risulterebbe perciò un’aggiunta<br />
cursoria e occasionale nel corso del ragionamento che <strong>Aristotele</strong> sta<br />
autonomamente svolgendo. Dal canto suo, Trendelenburg (che potrebbe<br />
dipendere da Zabarella, pur non citandolo) osserva come la dimostrazione<br />
aristotelica dell’eternità dell’intelletto “attualizzante” apra alla conclusione di G<br />
5 questa nuova difficoltà: «Si pars aliqua nostri aeterna est, quaeritur sane, quid<br />
sit quod nihil meminerimus», che <strong>Aristotele</strong> non potrebbe evitare di<br />
fronteggiare, perché «eaque quaestio Aristoteli eo gravior est, quod ita Plato, ut<br />
(una certa interpretazione di) <strong>De</strong> mem. et rem. 2, 451a25-30; e a J. Pacius a Beriga, Aristotelis<br />
Opera Omnia quae extant, graece et latine, (La Rovière, Ginevra 1606-1607, II voll.).<br />
Considero a parte, subito oltre, il commento di Zabarella.<br />
28<br />
Si vedano, nell’ordine: Aristotelis de <strong>anima</strong> libri III, recognovit G. Biehl, cit.; <strong>Aristotele</strong>s,<br />
Von der Seele, v. O. Gigon, Artemis Verlag, Zürich 1950; Aristote, <strong>De</strong> l’âme, texte établi par<br />
A. Jannone et traduit par E. Barbotin, Les Belles Lettres, Paris 1966; The complete works of<br />
Aristotle, ed. by J. Barnes, Princeton Univ. Press, Princeton 1984, vol. I.<br />
29<br />
Rientrano in questa categoria i seguenti commenti: Aristotle’s Psychology, by E. Wallace,<br />
Cambridge Univ. Press, Cambridge 1882, pp. 161 e 272; Aristote, Traité de l’âme, traduit et<br />
annoté par G. Rodier, cit., Tome II, Notes, pp. 465-66; Aristotelis de <strong>anima</strong> libri III, graece et<br />
latine, vol. III, ed. P. Siwek, Pont. univ. Gregoriana, Roma 1933, pp. 326-27, n. 404; Aristote,<br />
<strong>De</strong> l’âme, trad. nouvelle et notes par J. Tricot, cit., pp. 183-84, n. 2; <strong>Aristotele</strong>s, Über die<br />
Seele, übersetzt von W. Theiler, Akademie Verlag, Berlin 1966 2 , p. 144; Aristotle, <strong>De</strong> <strong>anima</strong>,<br />
ed. with introd. and comm. by Sir D. Ross, cit., pp. 198-99 e 295; Aristotle’s <strong>De</strong> <strong>anima</strong> books<br />
II-III, translated with introduction and notes by D.W. Hamlyn, Clarendon Press, Oxford 1968,<br />
pp. 141-42; <strong>Aristotele</strong>, L’<strong>anima</strong>, traduzione, introduzione e commento a cura di G. Movia,<br />
cit.; Aristote, <strong>De</strong> l’âme, traduction et présentation par R. Bodéüs, cit., pp. 119, n. 2, 230, n. 1.<br />
30<br />
Cfr. I. Zabarella, In tres Aristotelis libros <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, F. Bolzetta, Venetiis 1605, liber III,<br />
textus XX, pp. 66-68, particolarmente p. 67. In realtà, una traccia importante, ma di cui non ho<br />
potuto trovare nessuno sviluppo significativo, emergeva già nella citata Anonymi Magistri<br />
Artium Lectura in librum de <strong>anima</strong> (cfr. supra, n. 25), in cui la spiegazione del nostro passo si<br />
conclude ambiguamente così (III. 2. 5): «item, non sequitur quod addiscere sit reminisci»,<br />
senza che, tuttavia, tale riferimento sia in qualche modo sviluppato o chiarito, né sia fatta<br />
nessuna menzione di Platone – ciò che impedisce di valutarne la reale portata.
20<br />
Francesco Fronterotta<br />
in Menone, animum praeteritae vitae reminisci statuit». Ecco il motivo per cui<br />
<strong>Aristotele</strong> deve aggiungere, per respingere la potenziale obiezione platonica, il<br />
suo inciso: «Quod aeterna mentis pars nihil patitur, memoriae subiecta non est;<br />
pateretur enim; nihil igitur memineris quod non cum intellectu patiente<br />
coniunctum est; hic vero intercidit»; con la conclusione di Trendelenburg: «Ita<br />
quidem Platonis doctrina relinquitur, qui summam cogitationem in recordatione<br />
posuit». La recisa affermazione di 430a23-24 – «Ma noi non ricordiamo…» –<br />
costituirebbe perciò la risposta all’immaginaria domanda che il background<br />
filosofico rappresentato dalla dottrina platonica della reminiscenza farebbe<br />
sorgere spontaneamente alla mente di <strong>Aristotele</strong>: «Se una certa funzione della<br />
nostra <strong>anima</strong> è immortale ed eterna, perché noi non ricordiamo?» 31 . Da notare,<br />
infine, che altri due commentatori, sulla scia di Trendelenburg, fanno menzione,<br />
in questo passo, di un possibile riferimento a Platone e di un’auto-difesa, da<br />
parte di <strong>Aristotele</strong>, dall’obiezione della reminiscenza, l’uno, Kirchmann,<br />
correggendo in parte l’interpretazione di Trendelenburg, l’altro, Hicks,<br />
respingendola invece del tutto 32 .<br />
Vi è però un aspetto di queste due letture che non mi pare del tutto<br />
convincente, ed è l’idea che <strong>Aristotele</strong> stia qui ragionando sulla possibilità che<br />
l’intelletto eserciti a qualche titolo la memoria, dunque sull’ipotesi che possa<br />
ricordare la vita passata o conservare ricordi per la vita futura, e che esattamente<br />
per tale ragione gli venga a mente di aggiungere una puntualizzazione critica<br />
intorno alla reminiscenza platonica (come vuole Zabarella) o di replicare<br />
polemicamente a un’immaginaria obiezione derivante da un potenziale<br />
sostenitore della reminiscenza platonica (come suggerisce Trendelenburg). Ciò<br />
mi sembra paradossale perché, avendo già negato che l’intelletto possa<br />
31<br />
Cfr. Aristotelis de <strong>anima</strong> libri tres, ed. F.A. Trendelenburg, cit., pp. 403-04. In questa<br />
direzione va anche una cursoria notazione di I. During, <strong>Aristotele</strong>s. Darstellung und<br />
Interpretation seines <strong>De</strong>nkens, Carl Winter, Heidelberg 1966 (trad. it. di P. Donini, Mursia,<br />
Milano 1976), secondo il quale «la […] frase significa o a) non esiste alcuna forma di<br />
reminiscenza come Platone ammetteva, oppure b) la parte immortale dell’<strong>anima</strong> dopo la<br />
morte non può portare con sé nell’al di là alcuna reminiscenza della vita terrena», con<br />
l’ulteriore precisazione che, a suo avviso, è l’interpretazione (a) a essere la più plausibile (p.<br />
655 e n. 144). Ringrazio Paolo Accattino per questa indicazione.<br />
32<br />
Si vedano <strong>Aristotele</strong>s, Drei Bücher über die Seele, V. Kirchmann, pp. 168-69, n. 252: «Plato<br />
hatte, dem entgegen, alles Wissen als Erinnern aufgefasst, wie namentlich in seinem Dialog<br />
Menon ausgeführt wird. Trendelenburg meint, dass A. hier dem Plato entgegen eine andere<br />
Ansicht habe geltend machen wollen. Allein Plato nimmt die Erinnerung in seiner Darstellung<br />
auch nur als ein Wiederauftreten der allgemeinen Gesetze und Begriffe, welche dem <strong>De</strong>nken<br />
von Ewigkeit innewohnen, genau so, wie A. es sich denkt, und auch Plato will damit nicht<br />
sagen, dass der Mensch bei der Anwendung dieser Gesetze und Begriffe sich bewusstsei, dass<br />
er zeitlich schon früher diese Begriffe besessen und zu einer bestimmtent Zeit oder bei einer<br />
bestimmten Gelegenheit ausgeübt habe. Plato und A. stimmen also hier in der Sache überein<br />
und weichen nur in den Worten von einander ab»; e Aristotle <strong>De</strong> <strong>anima</strong>, ed. R.D. Hicks, cit.,<br />
pp. 507-08, in cui Hicks ricorda l’ipotesi di Trendelenburg che egli considera tuttavia come<br />
del tutto implausibile.
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
21<br />
esercitare la memoria in A 4, <strong>Aristotele</strong> ha già escluso in quel capitolo la<br />
possibilità che esso conservi il ricordo della vita passata o per la vita futura e<br />
dunque, implicitamente e negativamente, che esso possa configurarsi come<br />
soggetto della reminiscenza: non avrebbe allora alcun senso ritenere che il<br />
filosofo stia nuovamente tornando in G 5 su un problema già affrontato e risolto<br />
in A 4. Al contrario, come spero risulti ormai chiaro 33 , sostengo che tale<br />
argomento sia qui richiamato per dimostrare esplicitamente e positivamente<br />
l’impossibilità della reminiscenza, e, con essa, dell’intera epistemologia di<br />
Platone: se infatti la memoria ha un fondamento sensoriale e appartiene perciò<br />
alla facoltà sensibile (come <strong>Aristotele</strong> non esita a ribadire molte volte nel <strong>De</strong><br />
<strong>anima</strong> e altrove), è già del tutto chiaro che, pur immortale ed eterno, l’intelletto<br />
di per sé, disgiunto da una facoltà sensibile, non potrà avere nessun ricordo né<br />
tantomeno potremo averne noi, un noi che, dopo la morte del corpo, non sussiste<br />
evidentemente più; l’inciso aristotelico di 430a23-25 non potrà essere allora<br />
un’aggiunta occasionale o la risposta a un’immaginaria obiezione, tale da<br />
spiegare il riferimento a Platone come una reazione puramente incidentale o<br />
difensiva, ma dovrà essere inteso invece come un rigoroso attacco rivolto a<br />
Platone, una radicale confutazione della dottrina della reminiscenza, cioè del<br />
fondamento teorico della sua epistemologia.<br />
Ho illustrato sopra come vi sia, nel nostro passo, un sensibile slittamento dalla<br />
distinzione propriamente aristotelica fra un intelletto “attualizzante” e un<br />
intelletto potenziale a una distinzione fra un intelletto immortale, eterno e perciò<br />
impassibile e un intelletto passivo, corruttibile e perciò mortale. Questo<br />
slittamento, che solleva un notevole problema di coerenza nella dimostrazione<br />
aristotelica dell’impossibilità della memoria e del ricordo, si spiega ammettendo<br />
che, se la distinzione fra intelletto “attualizzante” e intelletto potenziale sarebbe<br />
certo ampiamente sufficiente per il successo della dimostrazione (perché<br />
l’intelletto “attualizzante” e l’intelletto potenziale, già solo in quanto intelletto,<br />
non accedono all’esercizio della memoria), il fatto che si vada invece ben oltre<br />
(mostrando che l’intelletto immortale ed eterno e l’intelletto mortale e<br />
corruttibile non accedono all’esercizio della memoria per ragioni diverse), con<br />
un argomento tanto superfluo per la posizione di <strong>Aristotele</strong> da suscitare perfino<br />
una certa incoerenza, si può giustificare soltanto con un’esigenza teorica<br />
ulteriore, quella, appunto, di una polemica contro la dottrina platonica della<br />
reminiscenza 34 . Ma procediamo ancora. Che l’intelletto immortale, eterno e<br />
impassibile e l’intelletto mortale e corruttibile, discretamente e abusivamente, si<br />
insinuino nelle pieghe del discorso, sostituendo la coppia “originale” di intelletto<br />
“attualizzante” e intelletto potenziale, è dunque funzionale alla confutazione<br />
messa in atto da <strong>Aristotele</strong>; ciò mi pare però ulteriormente confermato, e<br />
filosoficamente meglio argomentato, se si tiene conto del singolare riscontro<br />
offerto da un celebre passo del Fedone, in cui il Socrate platonico, a conclusione<br />
33<br />
Cfr. supra, § 2.<br />
34<br />
Cfr. supra, l’inizio di questo § 3.
22<br />
Francesco Fronterotta<br />
di un’ampia dimostrazione, stabilisce la sostanziale duplicità dell’<strong>anima</strong>, che<br />
può sussistere in forma “pura”, quando si trova in sé e per sé sciolta dal corpo, e<br />
in forma “impura”, quando si trova invece “incorporata”. Ecco il passo del<br />
Fedone:<br />
79C2-D8<br />
C2<br />
Oujkou'n kai; tovde pavlai ejlevgomen, o{ti hJ yuchv, o{tan me;n<br />
tw'/ swvmati proscrh'tai eij" to; skopei'n ti h] dia; tou' oJra'n h]<br />
dia; tou' ajkouvein h] di∆ a[llh" tino;" aijsqhvsew" — tou'to gavr<br />
5 ejstin to; dia; tou' swvmato", to; di∆ aijsqhvsew" skopei'n ti —<br />
tovte me;n e{lketai uJpo; tou' swvmato" eij" ta; oujdevpote kata;<br />
taujta; e[conta, kai; aujth; plana'tai kai; taravttetai kai; eijliggia'/<br />
w{sper mequvousa, a{te toiouvtwn ejfaptomevnh…<br />
Pavnu ge.<br />
D ”Otan dev ge aujth; kaq∆ auJth;n skoph'/, ejkei'se oi[cetai eij"<br />
to; kaqarovn te kai; ajei; o]n kai; ajqavnaton kai; wJsauvtw" e[con,<br />
kai; wJ" suggenh;" ou\sa aujtou' ajei; met∆ ejkeivnou te givgnetai,<br />
o{tanper aujth; kaq∆ auJth;n gevnhtai kai; ejxh'/ aujth'/, kai; pevpautaiv<br />
5 te tou' plavnou kai; peri; ejkei'na ajei; kata; taujta; wJsauvtw" e[cei,<br />
a{te toiouvtwn ejfaptomevnh: kai; tou'to aujth'" to; pavqhma frovnhsi"<br />
kevklhtai…<br />
Pantavpasin, e[fh, kalw'" kai; ajlhqh' levgei", w\ Swvkrate".<br />
Il taglio epistemologico di questo passo è molto netto. Quando l’<strong>anima</strong> «si serve<br />
del corpo» (tw'/ swvmati proscrh'tai), nell’esercizio della propria funzione<br />
conoscitiva, non potrà che procedere attraverso organi corporei, attraverso i<br />
sensi, perché l’indagine condotta per mezzo del corpo (dia; tou' swvmato") è<br />
un’indagine percettiva (di∆ aijsqhvsew"); in tal caso, però, la sintonia con il corpo<br />
sconvolge l’attività dell’<strong>anima</strong> e ne compromette l’efficacia, conducendola<br />
verso cose mutevoli e instabili e verso conoscenze che non hanno nessuna<br />
certezza. Quando invece l’<strong>anima</strong> non si serve che di se stessa nell’esercizio della<br />
propria funzione conoscitiva (aujth; kaq∆ auJth;n skoph'/), allora accede a quegli<br />
oggetti puri, immobili, eterni e immortali, ai quali essa è congenere e dai quali<br />
scaturisce la vera conoscenza; in tal caso, l’<strong>anima</strong> pura e sciolta dal corpo<br />
assume la condizione degli oggetti eterni e immutabili con cui è in contatto<br />
(peri; ejkei'na ajei; kata; taujta; wJsauvtw" e[cei, a{te toiouvtwn ejfaptomevnh)<br />
e attua una condizione di perfetta “intelligenza” (tou'to aujth'" to; pavqhma<br />
frovnhsi" kevklhtai). Se si tiene conto del fatto che la prima di queste due<br />
condizioni è quella che caratterizza l’<strong>anima</strong> nel corso della sua vita nel corpo,<br />
mentre la seconda è quella in cui l’<strong>anima</strong> si trova quando è libera dal corpo,<br />
prima della sua discesa in esso o dopo la sua uscita da esso, risulterà chiaro,<br />
credo, come questo passo del Fedone costituisca il pendant di <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5.<br />
Infatti, una volta stabilita la netta distinzione platonica fra un’<strong>anima</strong> impura e<br />
compromessa con il corpo, incapace di realizzare una vera conoscenza, e<br />
un’<strong>anima</strong> pura e sciolta dal corpo, cui spetta il compito di attingere alla verità e<br />
all’intelligenza, e una volta postulato che queste due condizioni dell’<strong>anima</strong> sono
<strong>Aristotele</strong>, <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, 430a23-25<br />
23<br />
fra loro tanto alternative da potersi realizzare pienamente, ciascuna, in tempi<br />
diversi, l’una durante la vita mortale, l’altra prima o dopo di essa, Platone non<br />
potrà che condannare l’<strong>anima</strong> “incorporata” all’ignoranza e all’insipienza totali<br />
(con catastrofiche conseguenze per la sua concezione dell’individuo, della città e<br />
della storia) oppure dovrà porre la reminiscenza come un “ponte”<br />
epistemologico fra le due distinte condizioni dell’<strong>anima</strong>: l’<strong>anima</strong> impura<br />
“incorporata”, benché esclusa dalla concreta e “attuale” acquisizione della verità<br />
e della conoscenza, potrà però riportare alla luce, con l’esercizio della filosofia,<br />
quelle conoscenze acquisite quando sussisteva invece pura e in sé e per sé e<br />
allora fissate nella memoria. Quanto l’<strong>anima</strong> immortale sciolta dal corpo ha<br />
potuto “toccare” della verità e conoscere davvero, tanto l’<strong>anima</strong> vincolata al<br />
corpo nel corso della sua vita mortale potrà ricordare e, quindi, realmente<br />
conoscere.<br />
Ebbene, con il suo argomento di <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, <strong>Aristotele</strong> colpisce e abbatte<br />
precisamente questo “ponte” epistemologico: anche a voler difendere una<br />
posizione non troppo dissimile da quella platonica nell’ammissione di una<br />
distinzione fra una facoltà intellettuale immortale e indipendente dal corpo,<br />
capace di conoscere la verità, e una facoltà intellettuale corruttibile e connessa al<br />
corpo, incapace di conoscere la verità, è del tutto impossibile concedere che la<br />
memoria costituisca il medium epistemologico fra queste due funzioni,<br />
permettendo la trasmissione della conoscenza realizzata dall’una all’altra. E ciò<br />
è inaccettabile, dimostra <strong>Aristotele</strong>, perché la memoria rimane estranea a<br />
entrambe le funzioni dell’intelletto, a entrambe le condizioni dell’<strong>anima</strong> poste da<br />
Platone: l’<strong>anima</strong> immortale, se è davvero tale, deve essere immateriale, dunque<br />
impassibile e perciò non ricettiva né “informabile”; l’<strong>anima</strong> “incorporata”, in<br />
quanto «si serve del corpo» (tw'/ swvmati proscrh'tai), potrà, sì, accedere<br />
all’esercizio della memoria, che si attua attraverso organi corporei (dia; tou'<br />
swvmato"), ma, essendo il suo legame con il corpo solo temporaneo, una volta<br />
sciolto questo e conclusa la sua vicenda mortale, disperderà inevitabilmente ogni<br />
ricordo acquisito tramite il corpo ormai corrotto.<br />
Si noti come, fatta cadere la mediazione della reminiscenza, il meccanismo<br />
che regola l’epistemologia di Platone, secondo il quale l’<strong>anima</strong> in sé e per sé può<br />
attingere alla verità e alla scienza, per condividerle parzialmente con il corpo<br />
durante la sua temporanea unione con esso – garanzia, questa, della possibilità<br />
della conoscenza umana –, cessa di funzionare. Sottoposta alla critica di<br />
<strong>Aristotele</strong>, l’epistemologia platonica rimane così imprigionata in una dicotomia<br />
irrisolta di <strong>anima</strong> e corpo o, piuttosto, in una goffa ed estrinseca sovrapposizione<br />
fra due realtà indipendenti e diverse, incapaci di comunicare fra loro. Non<br />
sfuggirà, credo, come questa conclusione rispecchi fedelmente, in ambito<br />
epistemologico, la critica principale e più generale che <strong>Aristotele</strong> rivolge alla<br />
concezione platonica dell’<strong>anima</strong> tout court, soprattutto in <strong>De</strong> <strong>anima</strong> A 3: Platone<br />
ha trattato l’<strong>anima</strong> come una grandezza “aggiunta” o “sovrapposta” al corpo<br />
come un estrinseco deus-ex-machina, quasi giustapponendo <strong>anima</strong> e corpo come
24<br />
Francesco Fronterotta<br />
due sostanze indipendenti costrette in qualche modo a interagire (406b25-<br />
408a25); mentre, è ben noto, <strong>Aristotele</strong> considera il soggetto individuale<br />
concreto composto di <strong>anima</strong> e corpo come un’unica sostanza, dotata di una<br />
forma, l’<strong>anima</strong>, e di una materia, il corpo. È chiaro, tornando in ambito<br />
epistemologico, come la concezione aristotelica dell’<strong>anima</strong> semplifichi<br />
decisamente il quadro, perché, anche se affida a una funzione intellettuale in atto<br />
il compito di “attualizzare” un’altra facoltà intellettuale solo in potenza, dando<br />
così avvio alla conoscenza delle forme intellegibili, tale conoscenza non potrà<br />
svolgersi effettivamente se non con il concorso della facoltà intellettuale in<br />
potenza e, più in generale, dell’intero organismo umano composto di <strong>anima</strong> e<br />
corpo. Questo contrasto non è del resto affatto strano: la dottrina della<br />
reminiscenza fornisce in qualche modo il segno di una concezione della<br />
conoscenza, quella platonica, potenzialmente chiusa e ben definita, in quanto<br />
teoricamente già data, che il soggetto conoscente può soltanto aspirare a<br />
ricordare; mentre <strong>Aristotele</strong> sostiene invece una concezione della conoscenza<br />
assai più aperta e intende difendere un principio di creatività epistemologica<br />
secondo cui la scienza si accresce, si rinnova e progredisce continuamente.<br />
Tutto ciò dovrebbe contribuire a spiegare in modo nuovo e più appropriato<br />
l’inciso di <strong>De</strong> <strong>anima</strong> G 5, con alcune acquisizioni ulteriori: si tratta di<br />
un’interpretazione coerente con la concezione aristotelica della memoria e, fra<br />
l’altro, in armonia con l’abitudine di <strong>Aristotele</strong> di introdurre un argomento<br />
polemico contro predecessori o avversari all’interno del suo quadro teorico e nel<br />
corso del suo ragionamento, servendosene per avanzare nella sua indagine.<br />
Infine, se la mia interpretazione è corretta, avremo qui quella rigorosa e<br />
definitiva confutazione della dottrina della reminiscenza che non si trova in<br />
nessun altro luogo del corpus, e ciò ricorrendo a un argomento che risulta essere<br />
una fedele traduzione o un’applicazione, in chiave epistemologica, della<br />
principale critica rivolta nel <strong>De</strong> <strong>anima</strong> alla concezione platonica dell’<strong>anima</strong>.<br />
Francesco Fronterotta