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Furio Cerutti - Dipartimento di Filosofia

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

con la collaborazione <strong>di</strong><br />

Elena Pulcini e Monica Toraldo <strong>di</strong> Francia<br />

<strong>Filosofia</strong> politica<br />

Un'introduzione<br />

DISPENSE DEL CORSO PROPEDEUTICO<br />

DEL GRUPPO DI FILOSOFIA POLITICA<br />

(FILOSOFIA POLITICA, FILOSOFIA SOCIALE, BIOETICA,<br />

TEORIE DELLO STATO)<br />

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA<br />

CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA<br />

DELL'UNIVERSITÀ DI FIRENZE<br />

Sesta e<strong>di</strong>zione, settembre 2008


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Premessa<br />

Le presenti <strong>di</strong>spense si basano sulle lezioni <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> politica (come singola <strong>di</strong>sciplina)<br />

tenute nell'a.a. 1994-95, da me riviste ed aggiornate negli anni accademici successivi, e poi<br />

integrate con le voci pertinenti alla <strong>Filosofia</strong> sociale e alla Bioetica, scritte rispettivamente dalle<br />

titolari <strong>di</strong> questi insegnamenti, Elena Pulcini e Monica Toraldo <strong>di</strong> Francia (le voci riguardanti<br />

Teorie dello Stato rientrano evidentemente fra quelle <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> politica). A loro il mio<br />

ringraziamento per questa importante integrazione che permette <strong>di</strong> adeguare le <strong>di</strong>spense alle<br />

esigenze del corso propedeutico, riguardante tutte e quattro le <strong>di</strong>scipline <strong>di</strong> cui si compone<br />

attualmente il Gruppo pluri<strong>di</strong>sciplinare <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> politica (SPS-01 nell’or<strong>di</strong>namento<br />

nazionale).<br />

Quest’ultima e<strong>di</strong>zione 2008 si è arricchita del capitolo su violenza, morte e politica e<br />

dell’excursus sulle ra<strong>di</strong>cali mo<strong>di</strong>fiche che la politica sta vivendo nel passaggio ad un’epoca postmoderna<br />

(e a quelle <strong>di</strong> cui la filosofia politica dovrebbe rendersi conto).<br />

Questo testo nella sua prima versione venne letto da Norberto Bobbio, che ne apprezzò<br />

l’assetto sistematico e mi sollecitò a proseguire nel suo miglioramento in vista della definitiva<br />

pubblicazione come libro. Questa non è ancora avvenuta, ma la carissima memoria dell’amico e<br />

maestro rimane un ulteriore stimolo a porvi mano non appena altri progetti scientifici saranno<br />

ultimati.<br />

Grato rimango altresì alla compianta amica e collega Lucia Cesarini Martinelli, Preside della<br />

Facoltà al momento della prima e<strong>di</strong>zione delle <strong>di</strong>spense, che ne favorì la raccolta e<br />

pubblicazione. Nel corso <strong>di</strong> questi <strong>di</strong>eci anni <strong>di</strong>versi colleghi mi hanno aiutato, con i loro<br />

commenti e critiche, a rivedere le prime e<strong>di</strong>zioni: soprattutto i colleghi dell’allora Seminario<br />

interuniversitario <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> politica, particolarmente Luca Baccelli e Brunella Casalini, e il<br />

prof. Mario Telò dell'Université libre de Bruxelles; ma anche <strong>di</strong>versi studenti. Ad essi si estende<br />

la mia riconoscenza.<br />

Autore e co-autrici saranno grati a chiunque vorrà segnalarci errori o proposte d’integrazione<br />

scrivendo a <br />

<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong>, settembre 2008<br />

2


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

PER CHI PREPARA L’ESAME SU QUESTO TESTO:<br />

Le conoscenze ricavate dalle presenti <strong>di</strong>spense valgono solo se sorrette dalla padronanza, per<br />

sommi capi, della storia politica e sociale almeno dell’Occidente (ripassarla su <strong>di</strong> un manuale<br />

qualsiasi) e della storia della filosofia politica (si consiglia C.Galli, Manuale <strong>di</strong> storia del pensiero<br />

politico, Il Mulino)<br />

Come traccia per la memorizzazione <strong>di</strong> questo testo si possono usare le <strong>di</strong>apositive da me<br />

utilizzate a lezione; esse verranno pubblicate sulla mia pagina del sito del <strong>Dipartimento</strong> al termine del<br />

semestre autunnale 2008.<br />

Informazioni sul Gruppo <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> politica, sui suoi corsi e programmi <strong>di</strong> ricerca,<br />

nonché sui docenti e i loro orari <strong>di</strong> ricevimento (v.” Bacheca delle ultimissime”) si trovano sul sito<br />

del <strong>Dipartimento</strong> <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> (http://www.philos.unifi.it/), unitamente ad un file scaricabile <strong>di</strong> queste<br />

<strong>di</strong>spense<br />

© <strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong> 2008<br />

3


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

In<strong>di</strong>ce<br />

A. FILOSOFIA POLITICA.<br />

Premessa.....................................................................................................................................6<br />

PARTE PRIMA. GLI ELEMENTI<br />

1. Le categorie della filosofia politica.........................................................................................7<br />

2. Definizioni <strong>di</strong> `filosofia politica'..............................................................................................8<br />

3. Una tipologia della filosofia politica..........................................................................................10<br />

4. Che cos'è la politica?............................................................................................................12<br />

5. Potere e potere politico.........................................................................................................18<br />

6. Il potere politico e gli altri: peculiarità e `neutralità'............................................................20<br />

7. Potere, forza, violenza, consenso, coman<strong>di</strong>/norme.……………………………………….....26<br />

8. Due vedute <strong>di</strong>verse: Foucault e Schmitt.................................................................................29<br />

PARTE SECONDA. COME SI ARTICOLA LA POLITICA<br />

9. I fini della politica................................................................................................................31<br />

10. I concetti <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne ed istituzione.........................................................................................32<br />

11. Modelli <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne politico....................................................................................................37<br />

12. Legittimità, identità, simbolismo e mito politico..................................................................46<br />

13. Legittimità e legalità............................................................................................................50<br />

14. L'obbligo politico................................................................................................................54<br />

15. Lo Stato...............................................................................................................................61<br />

PARTE TERZA. MONDO E FUTURO<br />

16. Gli Stati...............................................................................................................................64<br />

17. L'era nucleare.....................................................................................................................72<br />

18. Aspetti politici e filosofici della situazione nucleare............................................................78<br />

19. Pace, pacifismo e governo mon<strong>di</strong>ale....................................................................................84<br />

20. Violenza, morte e politica.........................................................................................................92<br />

21. Modernizzazione, globalizzazione, sfide globali: come cambia la politica...........................95<br />

PARTE QUARTA. LA FILOSOFIA POLITICA NORMATIVA<br />

22. Etica e politica: una mappa delle etiche............................................................................101<br />

23. Idealismo e realismo politico.............................................................................................103<br />

4


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

24. I <strong>di</strong>ritti...............................................................................................................................105<br />

25. Libertà ed eguaglianza......................................................................................................109<br />

26. Giustizia............................................................................................................................112<br />

27. Filosofie politiche normative <strong>di</strong> oggi.................................................................................115<br />

Un epilogo in terra ed uno sotto...................................................................................................118<br />

B. FILOSOFIA SOCIALE.<br />

28. Comunità/società..............................................................................................................120<br />

29. In<strong>di</strong>viduo/soggetto……………………………………………………………………....128<br />

30. Passioni/interessi........................…………………………………………………….....133<br />

C. BIOETICA<br />

31.Vita/morte………………………………………………………………………………..138<br />

32.Responsabilità/cura……….…………………………………………………………......145<br />

5


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

A.<br />

FILOSOFIA POLITICA<br />

Premessa alla parte <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> politica<br />

Il presente testo non ha la pretesa, nonostante il suo procedere sistematico, <strong>di</strong> essere<br />

un'introduzione completa ed esaustiva alla filosofia politica. Di essa vengono qui elaborate, in<br />

chiave <strong>di</strong> terminologia filosofica, le categorie più astratte, e viene poi particolarmente<br />

sviluppata la parte relativa ai problemi posti dalle relazioni internazionali e dai problemi<br />

globali, nonché quella concernente i rapporti fra politica ed etica.<br />

Per tutta una serie <strong>di</strong> nozioni si rimanda via via all'elaborazione svolta da altri autori,<br />

soprattutto da Norberto Bobbio. Anche nelle categorie qui sviluppate sono spesso evidenti e<br />

<strong>di</strong>chiarati i debiti. Ove il riconoscimento non fosse abbastanza chiaro, l'autore se ne scusa fin<br />

d'ora con i colleghi dai quali è andato a prestito.<br />

Dev'esser chiaro agli studenti che queste <strong>di</strong>spense non sostituiscono per nulla lo stu<strong>di</strong>o dei<br />

testi in<strong>di</strong>cati nel programma d'esame, né la frequenza alle lezioni: un obbligo, non un optional,<br />

che - al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> qualsiasi controllo - deriva loro dall'essere fruitori <strong>di</strong> un servizio offerto a costi<br />

bassissimi dallo Stato, cioè dai contribuenti <strong>di</strong> ogni classe e gruppo. Ed anche un'opportunità<br />

vantaggiosa: quella <strong>di</strong> apprendere <strong>di</strong>rettamente dal docente nessi ed accentuazioni in un modo<br />

che la parola scritta non può mai rimpiazzare.<br />

I testi ai quali si fa più spesso riferimento sono:<br />

Bobbio, Norberto, Stato, governo, società, Einau<strong>di</strong>, Torino (originariamente voci<br />

dell’Enciclope<strong>di</strong>a Einau<strong>di</strong>)<br />

Idem, Teoria generale della politica , Einau<strong>di</strong>, Torino<br />

Bobbio, Norberto - Matteucci, Nicola - Pasquino, Gianfranco, Dizionario <strong>di</strong> politica, TEA,<br />

Torino 1990.<br />

Assai utili sono poi:<br />

Scruton, Roger, A Dictionary of Political Thought, Macmillan, London 1996<br />

Evans, Graham and Newnham, Jeffrey, The Penguin <strong>di</strong>ctionary of international relations,<br />

Penguin, London 1998.<br />

Come lettura introduttiva alla riflessione filosofica (ma non solo filosofica) sulle relazioni<br />

internazionali si consiglia il volume:<br />

<strong>Cerutti</strong>, <strong>Furio</strong>, a cura <strong>di</strong>, Gli occhi sul mondo. Le relazioni inter<strong>di</strong>sciplinari in prospettiva<br />

inter<strong>di</strong>sciplinare, Carocci, Roma 2000.<br />

6


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

1. Le categorie della filosofia politica<br />

Per un approccio teoretico e non storiografico alla politica qual è quello proprio della<br />

filosofia politica, il metodo più adeguato per introdurvisi appare quello <strong>di</strong> ricostruire la trama<br />

dei suoi concetti-chiave, quelli che essa usa ai suoi massimi livelli d'astrazione ovvero non usa,<br />

ma, laddove affronti questioni più concrete, sottintende. Cerco insomma <strong>di</strong> <strong>di</strong>segnare la mappa<br />

delle categorie <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>sciplina, ovvero <strong>di</strong> esporne la terminologia filosofica - sullo spunto<br />

fornitomi dalle lezioni <strong>di</strong> Philosophische Terminologie tenute quasi quarant’anni fa da Theodor<br />

Wiesengrund-Adorno all'Università <strong>di</strong> Frankfurt am Main, le quali io ebbi l'occasione <strong>di</strong><br />

seguire.<br />

Ora, entrando nel lessico, ovvero nelle categorie della filosofia politica, per or<strong>di</strong>narle si può<br />

tracciare una <strong>di</strong>stinzione più <strong>di</strong>dascalica che scientifica, che vuole solo fornire un filo<br />

or<strong>di</strong>nativo per l'esposizione: quella tra concetti fondativi e concetti sostantivi.<br />

I concetti fondativi sono quelli che in<strong>di</strong>cano la trama concettuale elementare della filosofia<br />

politica e sono peraltro puri concetti, voglio <strong>di</strong>re che ad essi non corrispondono in generale<br />

entità politiche riconoscibili. Alcuni <strong>di</strong> questi concetti hanno uno status prevalentemente<br />

analitico, sono neutrali dal punto <strong>di</strong> vista del valore: per esempio potere (sebbene vi siano<br />

visioni peggiorative <strong>di</strong> esso), conflitto, istituzione (esistono le istituzioni, ma non l'istituzione),<br />

sicurezza, paura, e ancora obbligo e legittimità, nonché identità politica (sono le categorie delle<br />

parti I e II). Altri <strong>di</strong> questi concetti sono sì fondativi, avendo però inoltre una caratterizzazione<br />

assiologica, cioè, detto in termini latini anziché greci, valutativa. Questi concetti non in<strong>di</strong>cano<br />

solo uno strumento per analizzare la materia che vogliamo comprendere, ma in<strong>di</strong>cano anche un<br />

valore che noi ad essi attribuiamo o che gli attori politici ad essi attribuiscono. Per esempio<br />

libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà (parte IV).<br />

Sono tutti concetti <strong>di</strong> alta astrazione, concetti che in parte non appartengono<br />

esclusivamente alla filosofia politica, giacché quelli assiologici appartengono insieme alla<br />

filosofia morale. Essi sono tali che in<strong>di</strong>cano le trame dei rapporti fondamentali che intercorrono<br />

tra gli uomini quando agiscono politicamente, ma non in<strong>di</strong>cano anche un contenuto, una<br />

materia determinata <strong>di</strong> queste relazioni.<br />

Concetti sostantivi 1 (parte III per lo più) sono Stato, governo, amministrazione, guerra e<br />

pace (in quanto riferibili ad acca<strong>di</strong>menti) e poi le gran<strong>di</strong> classiche definizioni delle forme <strong>di</strong><br />

Stato (patrimoniale, assoluto, liberale, democratico, socialista ecc.) e/o <strong>di</strong> governo (aristocrazia,<br />

monarchia, democrazia, oligarchia, repubblica, <strong>di</strong>ttatura, tirannide, <strong>di</strong>spotismo ed altro). Noi<br />

1<br />

Occorre qui una <strong>di</strong>gressione linguistica preliminare: il termine `sostantivo' usato come aggettivo<br />

comincia solo adesso a far parte del linguaggio filosofico italiano; viene invero dal latino, ma a noi<br />

arriva attraverso l'inglese `substantive'. Non vuol <strong>di</strong>re sostanziale, altrimenti non ci sarebbe nessuna<br />

buona ragione per usare la nuova parola: è invece ciò che riguarda il contenuto, la materia <strong>di</strong> un<br />

rapporto, in opposizione a ciò che riguarda solo la sua forma, le procedure che esso richiede oppure il<br />

metodo con cui ad esso ci avviciniamo. Questa <strong>di</strong>stinzione ha una citta<strong>di</strong>nanza precisa nella lingua<br />

italiana, ma fuori della filosofia, e cioè nel <strong>di</strong>ritto, dove esistono norme procedurali e norme sostantive:<br />

il co<strong>di</strong>ce penale <strong>di</strong>ce quali sono i reati e con quali pene vengono puniti e quin<strong>di</strong> è un co<strong>di</strong>ce sostantivo,<br />

mentre il co<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> procedura penale non ci <strong>di</strong>ce quali sono i reati e quali pene meritano, ma ci <strong>di</strong>ce<br />

come si deve procedere quando si definiscono i reati e quando li si persegue o li si punisce. Sostantivo<br />

in genere si usa in filosofia in opposizione a metodologico o epistemologico.<br />

7


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

non le <strong>di</strong>scuteremo in questo testo, rinviando ai testi <strong>di</strong> Bobbio, ma faremo puntuali riferimenti<br />

alla categoria che più attualmente ci interessa, quella <strong>di</strong> democrazia. Si noti che il presente testo<br />

non è sempre or<strong>di</strong>nato secondo la partizione <strong>di</strong> categorie fondative e sostantive, bensì alcune <strong>di</strong><br />

quelle fondative (libertà, eguaglianza, giustizia) vengono tematizzate solo nella parte finale,<br />

relativa ai nessi <strong>di</strong> etica e politica.<br />

Non mi <strong>di</strong>lungo qui in riflessioni epistemologiche sullo statuto della filosofia politica<br />

rispetto ad altre <strong>di</strong>scipline. Supponendo che il lettore <strong>di</strong> un testo introduttivo non sappia nulla <strong>di</strong><br />

ciò <strong>di</strong> cui si parla, ed in cui vuole appunto introdursi, sarebbe come mettere il carro avanti ai<br />

buoi, o - detto più elegantemente, alla Hegel - staccare il metodo dalla `cosa stessa' e mandare<br />

avanti quello. Differenziazioni e comparazioni emergeranno via via, alcune già nel prossimo<br />

paragrafo. Per ora bastino due rilievi: uno è il rinvio alla <strong>di</strong>stinzione 2 fra filosofia politica e<br />

scienza politica che Bobbio traccia nel § 1 del suo articolo Stato, potere, governo (nel volume<br />

Stato, governo, società), sebbene quella <strong>di</strong>stinzione richieda oggi qualche riformulazione,<br />

essendo ormai meno compatto lo status epistemologico della scienza politica. Aggiungo poi<br />

che qui si tratterà in modo ricorrente della questione dell'`ottima repubblica', ma che io non<br />

con<strong>di</strong>vido l'identificazione, che per me è riduttiva, della filosofia politica con una teoria tutta e<br />

solo normativa <strong>di</strong> che cosa deve stare (la giustizia, la libertà, o quant'altro) alla base delle<br />

istituzioni politiche. Certamente con<strong>di</strong>vido altrettanto poco quel tipo <strong>di</strong> realismo, antiquato e/o<br />

rozzo, che esclude ogni salienza normativa dallo stu<strong>di</strong>o della politica. Ma resta per me futile il<br />

normativismo che si accontenti <strong>di</strong> se stesso, senza cercare tematicamente <strong>di</strong> riconnettere il<br />

<strong>di</strong>scorso su ciò che dev'essere al <strong>di</strong>scorso su ciò che è, che <strong>di</strong>segni costituzioni ideali, statuali o<br />

planetarie, senza fornire strumenti concettuali per esaminare i rapporti <strong>di</strong> potere e per percepire<br />

in <strong>di</strong>mensione storiche le nuove sfide poste alla politica e alla società.<br />

Ferme restando queste mie posizioni, che certo influiscono sull'impostazione complessiva<br />

del testo, la presente terminologia filosofica è scritta in modo il più possibile neutrale fra, ed<br />

informativo su i <strong>di</strong>versi punti <strong>di</strong> vista.<br />

2. Definizioni <strong>di</strong> `filosofia politica'<br />

Cominciamo dal passo più banale e definiamo la filosofia politica, in base ai suoi oggetti,<br />

come quella filosofia che si occupa della politica, cioè dello Stato, delle istituzioni e della<br />

società civile, e che partendo da questo nucleo oggettuale suo proprio si irra<strong>di</strong>a a parlare <strong>di</strong><br />

qualsiasi cosa c'entri con la politica, compresa la vita e la morte degli in<strong>di</strong>vidui, dei gruppi e del<br />

genere umano. Questa definizione è banale perché queste stesse materie sono - almeno in parte<br />

- oggetto <strong>di</strong> altre attività scientifiche, come la scienza della politica, la sociologia politica,<br />

l'antropologia. Quin<strong>di</strong>, come spesso le definizioni oggettuali, che non per questo però vanno<br />

buttate via del tutto, non è sufficientemente specifica 3 .<br />

2 La filosofia politica ricerca l’essenza del politico, ne <strong>di</strong>scute i modelli normativi, ricercando quale<br />

sia l’”ottima repubblica”, e non implica un rinvio meto<strong>di</strong>co e verificabile all’empiria.<br />

3<br />

Dico oggettuali e non oggettive perché i due termini hanno una profonda <strong>di</strong>fferenza e non solo in<br />

politica, ma anche in filosofia in genere: mentre oggettivo si definisce in linea <strong>di</strong> massima per la sua<br />

8


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Cerchiamo <strong>di</strong> restringere la prima definizione, mo<strong>di</strong>ficandola nel senso <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che nella<br />

filosofia politica, se non <strong>di</strong> tutto, <strong>di</strong> molto si può parlare; ma <strong>di</strong> qualunque cosa si parli, cioè<br />

quando si parli <strong>di</strong> problemi o <strong>di</strong> fini o <strong>di</strong> valori che non sono specifici della sfera politica (il<br />

senso della vita, la verità, il bene, la felicità), questi sono sempre posti in rapporto con categorie<br />

propriamente politiche come la libertà, la giustizia, la guerra e la pace, lo Stato e il potere.<br />

Questa sarebbe una definizione oggettuale più raffinata, ma ancora non basta, pur essendo una<br />

buona base <strong>di</strong> definizione. È necessario aggiungere qualcosa, è necessario insomma spostare lo<br />

sguardo dall'oggetto al metodo <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>sciplina; ma è pure necessario tenere assieme la<br />

definizione oggettuale mo<strong>di</strong>ficata appena data con il riferimento al metodo della filosofia<br />

politica. Questa si definisce meglio mettendola in rapporto ad altre <strong>di</strong>scipline che si occupano<br />

della politica, soprattutto la scienza della politica e la storia delle dottrine politiche. Se si<br />

prende, come nel succitato scritto <strong>di</strong> Bobbio, la definizione corrente <strong>di</strong> scienza e in parte anche<br />

<strong>di</strong> sociologia politica, si vede che queste <strong>di</strong>scipline sono caratterizzate anzitutto da<br />

un'intenzione prevalentemente descrittiva ed analitica <strong>di</strong> fenomeni e processi; e il loro piglio<br />

analitico è fondato su <strong>di</strong> un riferimento sistematico all'empiria, all'insieme del mondo empirico<br />

(nel caso della scienza politica esso si congiunge peraltro con l'intento <strong>di</strong> fornire interpretazioni<br />

basate su <strong>di</strong> una teoria generale, per esempio - almeno a fino poco tempo fa - a quella intitolata<br />

al sistema politico). Laddove la filosofia politica, quando è analitica, lo è nel senso che cerca <strong>di</strong><br />

capire le strutture profonde, nascoste, non imme<strong>di</strong>atamente visibili allo sguardo fenomenico. Il<br />

taglio analitico <strong>di</strong> scienza e sociologia politica è caratterizzato da un riferimento costante,<br />

programmatico e metodologicamente regolato ai dati empirici, che possono essere <strong>di</strong> accesso<br />

più o meno vicino alla teoria: la sociologia politica maneggia dati empirici molto più <strong>di</strong> quanto<br />

faccia la scienza politica, ma la stessa scienza della politica tale non sarebbe se non avesse<br />

sempre dentro <strong>di</strong> sé la regola <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care le regole attraverso cui una sua proposizione può<br />

essere empiricamente illustrata, verificata, confermata o falsificata.<br />

Questo riferimento costante e meto<strong>di</strong>co all'empiria non c'è nella filosofia della politica, la<br />

quale parla certo <strong>di</strong> cose che hanno una consistenza empirica, altrimenti parlerebbe<br />

dell'ippogrifo; ma può parlare anche dell'ippogrifo, qualora si pensi che ciò possa servire a<br />

capire certi fenomeni, certi problemi, o certi significati della vita associata. Naturalmente, ciò<br />

non scusa chi parla <strong>di</strong> ippogrifi in modo così astruso, oscuro e pretenzioso che non se ne ricava<br />

alcuna illuminazione per capire la realtà o per <strong>di</strong>rigere il nostro agire<br />

Mentre è giusto <strong>di</strong>re che la filosofia politica è una <strong>di</strong>sciplina concettualizzante, sarebbe<br />

sbagliato <strong>di</strong>re che è l'unica <strong>di</strong>sciplina concettualizzante nei confronti della politica, perché lo è<br />

anche la scienza politica: solo che la formazione dei concetti in filosofia politica e in scienza<br />

politica segue- come si è accennato - strade <strong>di</strong>verse.<br />

Ricapitolando, possiamo <strong>di</strong>re che la filosofia politica è anzitutto filosofia. Una filosofia che<br />

si rivolge alle cose della polis cercando <strong>di</strong> definirle ed interpretarle tramite concetti non<br />

empirici; che, proprio in quanto filosofia, cerca sempre <strong>di</strong> problematizzare ciò che è o appare<br />

contrapposizione a soggettivo, oggettuale invece è ciò che riguarda l'oggetto, proviene dall'oggetto, si<br />

riferisce agli oggetti, <strong>di</strong>fferentemente dal riferirsi ai principi o al metodo. Non c'è il senso <strong>di</strong> una realtà<br />

in<strong>di</strong>pendente da, od opposta a quella del soggetto che c'è invece in oggettivo.<br />

9


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

evidente, usuale e pragmaticamente consigliabile; e che riconnette le sue interpretazioni,<br />

valutazioni e prescrizioni a strutture, valori e scelte ultime, a processi e meccanismi non<br />

apparenti.<br />

3. Una tipologia della filosofia politica<br />

Possiamo in<strong>di</strong>viduare tre o quattro tipi <strong>di</strong> filosofia politica: uno è quello normativo, cioè si<br />

occupa dell'`ottima repubblica', <strong>di</strong> quale sia la forma migliore da dare all'associazione politica 4 e<br />

quali siano dunque i principi, le norme, le prescrizioni, i valori, i fini (si tratta <strong>di</strong> cose <strong>di</strong>verse,<br />

che solamente per ora mettiamo insieme) a cui la politica e le sue forme debbano conformarsi.<br />

Si può <strong>di</strong>re che tutti gli antichi siano filosofi politici normativi, che lo sia gran parte della<br />

tra<strong>di</strong>zione me<strong>di</strong>evale e che questa tra<strong>di</strong>zione si rompa con la filosofia politica moderna, dando<br />

spazio ad altri tipi <strong>di</strong> filosofia politica. Dire che si rompe non vuol <strong>di</strong>re che muore, e nella<br />

filosofia politica moderna abbiamo il ritorno <strong>di</strong> questo, che è uno dei gran<strong>di</strong> filoni della<br />

filosofia politica. Hume, uno dei filosofi meno normativi che si possano immaginare, è un<br />

filosofo cui, nella filosofia pratica complessiva, interessa come si forma e si realizza quel valore<br />

che si chiama giustizia. Inoltre, una parte consistente delle filosofie politiche degli ultimi<br />

trentacinque anni sono normative, sotto il nome <strong>di</strong> filosofie politiche dei <strong>di</strong>ritti o della giustizia:<br />

basta fare il nome illustre <strong>di</strong> John Rawls o quello meno illustre <strong>di</strong> Robert Nozick. In questo tipo<br />

<strong>di</strong> filosofia politica metterei anche quella che <strong>di</strong>ce quale sia il pessimo Stato, cioè quello da<br />

evitare, o che <strong>di</strong>ce ad<strong>di</strong>rittura che lo Stato, l'associazione politica in sé sono da evitare.<br />

Troviamo qui gli anarchici, ma per un certo senso anche Marx, il quale spiega quale forma <strong>di</strong><br />

associazione vada bene e quale vada male, in base ad una sua esplicita filosofia della storia ed<br />

alla sua implicita teoria della giustizia, che <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> non avere, ma in realtà ha. Marx sostiene che<br />

l'associazione politica come tale sia da evitare, come pessimo stato della convivenza sociale<br />

umana. La società civile deve invece riuscire a liberarsi della macchina burocratica che è lo<br />

Stato. Beninteso, la filosofia politica <strong>di</strong> Marx e <strong>di</strong> Engels non va classificata soltanto come<br />

normativa, contenendo anche altri approcci.<br />

Poi ci sono le filosofie politiche <strong>di</strong> tipo <strong>di</strong>verso, in cui almeno programmaticamente<br />

l'aspetto assiologico e normativo non è presente. Parlerei <strong>di</strong> filosofie politiche `analitiche', ma il<br />

termine è da mettere tra virgolette perché altrimenti sembra che ci possano essere filosofie<br />

politiche a base empirico-analitica, e abbiamo già spiegato che la filosofia politica per<br />

definizione non è questo. Possiamo allora usare un altro termine contemporaneo, parlando <strong>di</strong><br />

filosofia politica ricostruttiva, il cui compito è <strong>di</strong> ricostruire concettualmente le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

nascita e morte delle associazioni politiche, nonché quelle <strong>di</strong> legittimità del potere politico e <strong>di</strong><br />

contrazione dell'obbligo politico. Non si <strong>di</strong>ce programmaticamente quale sia la forma politica<br />

che meglio conviene all'umanità o alla società tale o alla nazione talaltra. Si <strong>di</strong>ce semplicemente<br />

che, se si vuole amministrare la cosa pubblica, fondare e, come <strong>di</strong>ceva Machiavelli, “mantenere<br />

lo Stato”, oppure ancora trasformarlo, bisogna sod<strong>di</strong>sfare queste e quelle altre con<strong>di</strong>zioni: se ne<br />

4 O società o comunità politica, ma io preferisco, usando il termine weberiano <strong>di</strong> associazione<br />

(Vergesellschaftung), evitare accenti comunitaristici.<br />

10


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

ricostruisce insomma la logica interna. Di questo tipo analitico o ricostruttivo <strong>di</strong> filosofia<br />

politica fanno parte in primo luogo i contrattualisti <strong>di</strong>scendenti da Hobbes, da Locke, da<br />

Rousseau, dal grande filone, rotto in tanti sottofiloni, della filosofia politica moderna del Sei e<br />

Settecento. In fondo già Machiavelli e in qualche misura i trattatisti del Cinquecento possono<br />

essere considerati appartenenti a questo filone. Questo è un filone che è <strong>di</strong>ventato prevalente<br />

nella filosofia politica moderna, proprio perché le sue caratteristiche sono tutte moderne - si<br />

pensi al suo legame iniziale con la scienza della natura e la sua moderna epistemologia. Oggi<br />

esso si <strong>di</strong>vide il campo con il più classico filone normativo rinato.<br />

Esiste anche un terzo possibile tipo <strong>di</strong> filosofia politica che non si occupa tematicamente né<br />

delle norme cui le associazioni politiche devono conformarsi, né delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> loro<br />

possibilità; si occupa <strong>di</strong> ciò che sta intorno, sotto o sopra, avendo dunque un taglio obliquo<br />

rispetto all'approccio <strong>di</strong>retto dei due primi filoni. È la filosofia politica che consiste nello<br />

svolgere riflessioni sul linguaggio politico, sulle tra<strong>di</strong>zioni politiche, sulle idee politiche e via<br />

<strong>di</strong>scorrendo. Non si occupa in presa <strong>di</strong>retta delle forme politiche e delle normazioni o delle<br />

con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità cui esse sottostanno, ma si occupa <strong>di</strong> ciò che sta al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> queste<br />

forme, <strong>di</strong> ciò in cui le forme politiche messe a fuoco nei due primi filoni sono collocate dal<br />

punto <strong>di</strong> vista del contorno, dell'ambiente culturale, morale, linguistico, comunicativo. È quel<br />

tipo <strong>di</strong> filosofia politica che si potrebbe quasi <strong>di</strong>re consista in un meta-<strong>di</strong>scorso sulla politica.<br />

Meta - dal greco, ciò che va al <strong>di</strong> là - è un termine prevalentemente epistemologico, e in<strong>di</strong>ca<br />

quegli approcci che non si occupano <strong>di</strong>rettamente <strong>di</strong> una cosa, ma se ne occupano investendo il<br />

suo contesto, i suoi aspetti <strong>di</strong> contorno. Vedremo a questo proposito, fra le principali forme <strong>di</strong><br />

etica contemporanea, che l'etica generale si <strong>di</strong>stingue in etica propriamente detta e metaetica,<br />

cioè un <strong>di</strong>scorso al <strong>di</strong> là dell'etica. In linguistica si parla non a caso <strong>di</strong> metalinguaggio.<br />

Dopo aver fatto tante <strong>di</strong>stinzioni bisogna attenuarne il peso per due ragioni: una ragione<br />

fondamentale è che la buona e la grande filosofia politica contiene tutti e tre questi aspetti,<br />

tuttavia non confusi, mescolati, in<strong>di</strong>stinti. La buona o grande filosofia politica consiste <strong>di</strong> solito<br />

nella prevalenza <strong>di</strong> uno <strong>di</strong> questi aspetti, che dà or<strong>di</strong>ne e ispirazione a tutta la teoria; ma essa<br />

contiene, proprio perché si tratta <strong>di</strong> buona filosofia, punti <strong>di</strong> vista, considerazioni, ed esigenze<br />

relative anche agli altri aspetti. Allora non si può fare una filosofia politica normativa ignorando<br />

completamente il fatto che, quali che siano le normazioni che noi cerchiamo <strong>di</strong> argomentare o<br />

<strong>di</strong> pre<strong>di</strong>care, gli Stati poi devono funzionare, e quin<strong>di</strong> occorre occuparsi delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

possibilità, e che comunque questi <strong>di</strong>scorsi sulle normazioni non si possono comprendere e<br />

valutare appieno senza vederne la collocazione storica, gli aspetti linguistici e culturali. Fare<br />

una filosofia politica normativa cieca agli altri aspetti è <strong>di</strong> solito fare una cattiva filosofia<br />

politica, poco informata, poco attenta e poco autorevole. L'autorevolezza nella scienza sta nel<br />

sostenere una determinata cosa, ma tenendo gli occhi aperti su tutte le altre; e chi pretende <strong>di</strong><br />

guadagnare attenzione <strong>di</strong>cendo una cosa sola e chiudendo gli occhi alla complessità sia della<br />

realtà sia delle teorie, <strong>di</strong> solito fa delle opere che possono avere un buon successo temporaneo,<br />

<strong>di</strong> natura ideologica o agitatoria, ma non lasciano gran<strong>di</strong> lezioni.<br />

Due parole sul rapporto, visto da un filosofo politico, fra filosofia politica e sociale. Si può<br />

basarlo sulle <strong>di</strong>versità fra i due oggetti, la politica e la società, ma occorrerebbe svilupparne<br />

tutte le articolazioni, ciò che qui è impossibile. Del resto le basi soltanto oggettuali sono per lo<br />

11


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

più insufficienti ed anche ingannevoli, dunque precisiamo che la filosofia politica guarda alla<br />

vita politica stricto sensu (ma anche a quella della società in senso lato) con l’attenzione<br />

precipua a quanto <strong>di</strong> quest’ultima si coagula in potere ed istituzioni politiche capaci <strong>di</strong> prendere<br />

ed eseguire decisioni che influiscono <strong>di</strong>rettamente ed in<strong>di</strong>rettamente sulla vita della gente<br />

presente e futura. La filosofia sociale guarda non solo ad un oggetto, per così <strong>di</strong>re, più largo, ma<br />

lo fa con lo sguardo rivolto precipuamente alle motivazioni (passioni/interessi), alle forme<br />

aggregative <strong>di</strong> base (comunità/ società) degli attori e al configurarsi <strong>di</strong> questi come in<strong>di</strong>vidui e<br />

soggetti. In ogni caso si tratta <strong>di</strong> due <strong>di</strong>scipline teoretiche la cui trama primaria è costituita da<br />

concetti o forme, non da correnti storiche, autori o testi; la storia del pensiero serve invece da<br />

materiale e sostegno al <strong>di</strong>scorso concettuale, il cui focus <strong>di</strong>retto è la realtà contemporanea o<br />

contemporaneità. Dal punto <strong>di</strong> vista epistemologico lo stesso può <strong>di</strong>rsi della bioetica, le cui<br />

ragioni <strong>di</strong> affiliazione al Gruppo <strong>di</strong> filosofia politica si trovano esposte nella parte relativa.<br />

L'altra cosa da chiarire è una questione <strong>di</strong> uso linguistico. Talvolta uso in questo testo il<br />

termine <strong>di</strong> teoria politica. È un termine generico e un po' confuso rispetto alla decisa<br />

<strong>di</strong>stinzione tra filosofia politica e scienza politica che ho delineato sopra. In realtà per un verso<br />

certe filosofie politiche si avvicinano molto - per la loro attenzione ai processi effettivi e agli<br />

strumenti empirico-analitici che aiutano a comprenderli - alla scienza politica; e certa scienza<br />

politica si allontana molto dalla sua base empirico-analitica, acquistando sensibilità agli aspetti<br />

filosofici. Allora si determina una terra <strong>di</strong> nessuno, ovvero <strong>di</strong> tutti, una zona franca tra filosofia<br />

e scienza politica intese nella loro rigida <strong>di</strong>stinzione: quando si <strong>di</strong>ce teoria politica si in<strong>di</strong>ca<br />

proprio questa zona, ovvero l’insieme degli interessi teorici rivolti alla politica.<br />

4. Che cos'è la politica?<br />

Che cosa è la politica? Verso la fine del paragrafo ne daremo una prima definizione, ma<br />

dobbiamo aprirci la strada verso <strong>di</strong> essa ricostruendone la genesi storica 5 .<br />

Politica anticamente in Grecia e ancora nella tra<strong>di</strong>zione me<strong>di</strong>evale scolastica voleva <strong>di</strong>re<br />

filosofia della politica, scienza della politica, insomma stu<strong>di</strong>o della polis, delle sue leggi, delle<br />

sue regole, dei suoi valori. Si può <strong>di</strong>re che abbia mantenuto quel significato fin che si è usato il<br />

latino, cioè fino al Sei-Settecento. Con l'età moderna acquista il significato della cosa stessa,<br />

non dello stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> essa 6 .<br />

Più importante della storia della parola è ciò che è avvenuto della cosa stessa, cioè della<br />

5<br />

Nel far questo mi appoggio fortemente sul relativo lemma <strong>di</strong> Bobbio nel Dizionario <strong>di</strong> politica,<br />

tenendo altresì presente l'articolo Politica <strong>di</strong> Salvatore Veca nell'Enciclope<strong>di</strong>a Einau<strong>di</strong>. Sull’idea<br />

bobbiana <strong>di</strong> politica, oltre al fondamentale lemma Stato. scritto originariamente per l’Enciclope<strong>di</strong>a<br />

Einau<strong>di</strong> ed ora in Stato, governo e società, si vedano anche i pertinenti capitoli in Teoria generale della<br />

politica, Einau<strong>di</strong>, Torino 1999.<br />

6<br />

Per questi problemi semasiologici il riferimento più accre<strong>di</strong>tato è il Dictionary of the History of the<br />

Ideas, oppure i Geschichtliche Grundbegriffe, il grande lessico prodotto negli ultimi decenni dalla<br />

scuola tedesca della Begriffsgeschichte o storia dei concetti, un esempio tipico <strong>di</strong> meta<strong>di</strong>scorso sulla<br />

politica.<br />

12


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

polis. Mi riferisco anzitutto al processo <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziazione all'interno della polis intesa<br />

genericamente come vita associata, non come città-Stato, come polis fisica, ma nemmeno come<br />

sfera propriamente e restrittivamente politica, bensì come sfera insieme politica, sociale,<br />

economica, religiosa e culturale o ideologica. Non è un processo che cominci oggi né ieri.<br />

Stiamo qui parlando <strong>di</strong> una gran<strong>di</strong>osa schematizzazione, figlia dell'immagine della polis che la<br />

prima autocritica, settecentesca e rivoluzionaria, della modernità politica (assolutistica) ha a<br />

lungo perseguito o vagheggiato, cioè l'immagine della polis greca come una sfera nella quale la<br />

vita associata è pienamente integrata nei suoi vari aspetti e il citta<strong>di</strong>no come decisore, come<br />

soggetto politico, è insieme sacerdote, guerriero, ovvero in termini moderni soggetto e nodo <strong>di</strong><br />

relazioni sociali. Quanto questa immagine sia deformata ed idealizzante mi è <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong>rlo; gli<br />

stu<strong>di</strong> sulla polis non si può <strong>di</strong>re che abbon<strong>di</strong>no, e dopo quelli dei gran<strong>di</strong> filologi tedeschi dell'età<br />

guglielmina e weimariana, soprattutto Werner Jaeger, le gran<strong>di</strong> sintesi sono state un po' messe<br />

da parte. Certamente la polis reale non corrisponde ai vagheggiamenti <strong>di</strong> cui è essa stata fatta<br />

oggetto dal Sette-Ottocento, nel periodo classico della filosofia e della letteratura tedesca,<br />

ovvero in Rousseau e nella Rivoluzione francese, fino ad oggi, per esempio fino ad Hannah<br />

Arendt 7 .<br />

La prima sfera che si <strong>di</strong>stacca da questa maggiore o minore unità integrata che si presume<br />

fosse la vita pubblica nella polis greca, soprattutto ad Atene, è naturalmente la sfera religiosa.<br />

Ciò avviene con il cristianesimo, con la creazione <strong>di</strong> una verità religiosa <strong>di</strong>versa e superiore alla<br />

vicenda mondana e alla vita politica in terra. Certo, nel cristianesimo ci sono tanti atteggiamenti<br />

<strong>di</strong>versi, dall'agostinianesimo più ra<strong>di</strong>cale, teso alla separazione ra<strong>di</strong>cale tra vita ecclesiale e vita<br />

politica, con la assoluta sovraor<strong>di</strong>nazione della vita ecclesiale, della civitas dei alla civitas<br />

hominis, fino al costantinismo, cioè alla fusione reciprocamente strumentale <strong>di</strong> potere politico<br />

e vita ecclesiale che accetta dentro <strong>di</strong> sé la <strong>di</strong>namica del potere. Dovranno passare secoli perché,<br />

all'uscita dal Me<strong>di</strong>oevo (dal 1100 al 1200 in Italia e a partire dal 1300 nei paesi del nord<br />

Europa) un'altra sfera si <strong>di</strong>stingua dall'insieme della vita pubblica associata e si costituisca<br />

sempre <strong>di</strong> più come un insieme <strong>di</strong> leggi, <strong>di</strong> procedure, <strong>di</strong> principi propri; sfera in cui gli attori<br />

aspirano ad autoregolarsi senza essere subor<strong>di</strong>nati, come invece lo saranno ancora per secoli,<br />

alle leggi politiche o politico-religiose, del re, del signore o dell'imperatore. Si tratta ovviamente<br />

della sfera economica, che nella modernità formerà con quella politica una bipolarità che ancor<br />

oggi anima teorie e <strong>di</strong>battiti: il mercato va subor<strong>di</strong>nato allo Stato, venendo da esso regolato in<br />

quanto, se lasciato a se stesso produce più squilibrio che ricchezza, oppure è il mercato il primo<br />

principio <strong>di</strong> sviluppo ed autoregolazione delle relazioni sociali, restando allo Stato solo compiti<br />

residuali?<br />

È solo con la costituzione dello Stato moderno che la segmentazione della presunta<br />

originaria unità della polis raggiunge la sua forma definitiva, cioè la <strong>di</strong>stinzione tra Stato e<br />

società civile. L'espressione entra nel lessico politico europeo con l'opera dello scozzese Adam<br />

Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), e si ritrova pochi decenni più tar<strong>di</strong>,<br />

in lingua tedesca, in uno dei concetti chiave della filosofia hegeliana del <strong>di</strong>ritto e dello Stato,<br />

quello <strong>di</strong> bürgerliche Gesellschaft, da cui poi il termine trapassa in Marx. Mentre in Hegel è<br />

7<br />

Filosofa tedesca, allieva <strong>di</strong> Heidegger, emigrata in America per la persecuzione antiebraica e morta<br />

nel 1975<br />

13


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

una forma autonoma, ma non perfetta <strong>di</strong> associazione degli uomini, e quin<strong>di</strong> deve cedere il<br />

passo a quella struttura suprema che è in Hegel lo Stato, in cui si esprime la sostanza etica del<br />

popolo, in Marx tutto è capovolto, e una delle chiavi <strong>di</strong> lettura della filosofia politica marxiana<br />

è la liberazione della società civile o società tout court dall’ imposizione su <strong>di</strong> essa esercitata<br />

dallo Stato come struttura burocratica oppressiva 8 .Della coppia Stato - società civile Bobbio<br />

<strong>di</strong>ce che è una delle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>cotomie. Bobbio ha l'idea che per capire certi pezzi della realtà il<br />

metodo migliore sia quello <strong>di</strong> articolare la nostra visione in maniera <strong>di</strong>cotomica, o binomica.<br />

Non tutte le <strong>di</strong>cotomie sono gran<strong>di</strong>, ma alcune lo sono, e uno dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are la filosofia<br />

politica che Bobbio pre<strong>di</strong>lige è quello <strong>di</strong> vedere i collegamenti tra le gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>cotomie, ciò che<br />

evidentemente è un po' più complicato che non mettere tutte le gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>cotomie su un girello,<br />

con certi termini tutti sullo spiedo <strong>di</strong> destra e certi altri tutti quanti infilzati sullo spiedo <strong>di</strong><br />

sinistra. Pensando alla <strong>di</strong>cotomia fra la sfera pubblica e la sfera privata non ca<strong>di</strong>amo dunque<br />

nello scolasticismo <strong>di</strong> pensare che Stato sia perfettamente corrispondente a pubblico e società<br />

civile sia perfettamente corrispondente a privato. Talora pensare per <strong>di</strong>cotomie presenta rischi<br />

<strong>di</strong> semplificazione eccessiva, <strong>di</strong> formalismo nel senso peggiorativo <strong>di</strong> questo termine, ma nel<br />

complesso pensare per gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>cotomie è un valido ed educativo metodo <strong>di</strong> pensare le cose.<br />

Su questa <strong>di</strong>stinzione Stato-società civile e su quella ad essa imparentata <strong>di</strong> sociale e<br />

politico, va detto che, se occorre mantenere ferma la <strong>di</strong>stinzione tra politico e sociale, occorre<br />

pure stare attenti a non confondere il politico con lo statuale. Il politico si deve ritenere per un<br />

verso che sia sfera più ampia, e secondo alcuni <strong>di</strong> maggiore spessore, dello statuale. Per un altro<br />

verso nell'epoca moderna c'è una tendenziale, ma pur sempre parziale coincidenza tra il politico<br />

e lo statuale. Si può <strong>di</strong>re allora che tutta la politica si svolge nello Stato, o con riferimento ad<br />

esso. Ripeto che si tratta <strong>di</strong> un processo tendenziale e comunque parziale. Facciamo subito<br />

qualche esempio in cui ciò non è vero: lo si può vedere nell’interpretazione <strong>di</strong> ciò che avviene o<br />

è avvenuto, o nella politica come progettazione del futuro.<br />

A livello storico esistono società cosiddette primitive, in cui alcuni stu<strong>di</strong>osi ritengono con<br />

buone ragioni che la politica, ovvero il sistema politico, sia esistito, ma nelle quali certamente<br />

non è esistito lo Stato. Nel presente ci sono molti che ritengono che la sfera della politica, o del<br />

politico, coinvolga fasce della nostra personalità, del nostro agire, della nostra convivenza più<br />

spesse che non quelle che entrano e giocano nell'istituzione Stato. Si prenda uno slogan che ha<br />

avuto grande fortuna, anzi una funzione quasi rivoluzionaria, nel movimento delle donne degli<br />

anni Sessanta/Settanta: “il personale è politico”. Ovvero: i drammi, i problemi, le pulsioni che<br />

noi abbiamo nella nostra vita personale non è affatto vero che non abbiano rilevanza politica,<br />

possono anzi essere più rilevanti <strong>di</strong> altre funzioni quali andare a votare, osservare e fare le leggi.<br />

Viceversa la sfera personale è attraversata da forze e strutture che provengono dal politico o in<br />

esso si ritrovano, sicché una vera trasformazione della sfera politica non può andare <strong>di</strong>sgiunta<br />

8<br />

Si ricor<strong>di</strong> che quel termine vuol <strong>di</strong>re nella lingua tedesca tanto società civile quanto società borghese.<br />

Citta<strong>di</strong>no in tedesco si <strong>di</strong>ce Bürger, ma ciò vuol <strong>di</strong>re anche borghese (i tedeschi importano per questo<br />

anche il termine francese bourgeois). L'anfibolia (termine usato da Kant: uso equivoco) fra l'aspetto<br />

neutro, società civile, e l'aspetto classista del termine, società borghese, crea un po' <strong>di</strong> problemi e<br />

confusioni nella filosofia politica e sociale tedesca, tanto è vero che si è <strong>di</strong> recente introdotta<br />

l'espressione Zivilgesellschaft.<br />

14


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

da cambiamenti che devono prodursi nella sfera familiare e cosiddetta privata. Il politico a cui<br />

faceva riferimento questo slogan non era certamente coincidente con lo statuale; questo slogan,<br />

e la posizione intellettuale che in esso si esprimeva, è stato un modo per affermare la non<br />

coincidenza dello statuale e del politico, o ad<strong>di</strong>rittura per condannare la restrizione del politico<br />

allo statuale e per riven<strong>di</strong>care una pratica della politica più ampia, più coinvolgente <strong>di</strong> quella<br />

che avviene nelle forme dello Stato.<br />

Infine, volgendoci alla politica come progettazione del futuro, la filosofia politica e le<br />

ideologie politiche moderne abbondano <strong>di</strong> progetti <strong>di</strong> società senza Stato, non come ritorno allo<br />

stato primitivo e prepolitico; anche se i critici <strong>di</strong> queste concezioni temono che davvero si<br />

vagheggi, inconsapevolmente, un ritorno ad una qualche con<strong>di</strong>zione pristina. Queste concezioni<br />

fanno la scommessa che uno sviluppo storico fatto <strong>di</strong> lotte e <strong>di</strong> emancipazione porti a far vivere<br />

la società solo in base alle sue proprie leggi, equilibri ed esigenze interne, senza più la cappa<br />

oppressiva dello Stato. Quin<strong>di</strong> configurano per il futuro una prospettiva <strong>di</strong> politica senza Stato,<br />

ovvero <strong>di</strong> un'organizzazione non politica, ma puramente tecnica od interpersonale della società.<br />

Soprattutto in certe versioni del marxismo, questa prefigurazione è stata letta in termini <strong>di</strong><br />

morte od estinzione non solo dello Stato, ma della politica.<br />

Compiuti questi schiarimenti sull'evoluzione <strong>di</strong> polis e politica, possiamo affrontare la<br />

questione chiave: che cos'è la polis come comunità politica? Non possiamo far niente <strong>di</strong> meglio<br />

che andare a leggere le righe dell'autore che in un modo o nell'altro ha dominato nei secoli il<br />

linguaggio del pensiero politico. La definizione <strong>di</strong> politica è svolta proprio all'inizio (Libro<br />

primo, 1252-53) della Politica <strong>di</strong> Aristotele 9 :<br />

ve<strong>di</strong>amo che ogni polis è una comunità e che ogni comunità si costituisce proponendosi per<br />

scopo un qualche bene (perché tutti compiono ogni loro azione per raggiungere ciò che ad essi<br />

sembra essere un bene). Ciò posto, possiamo <strong>di</strong>re che soprattutto vi tende, e tende al più<br />

eccellente <strong>di</strong> tutti i beni, quella comunità che regge e comprende in sé tutte le altre: e questa è<br />

quella che si chiama polis e comunità politica (politiké koinonìa). Ora, è un uso linguistico<br />

inappropriato quello <strong>di</strong> quanti credono che l'uomo <strong>di</strong> Stato (politikòs), l'amministratore<br />

(oikonomikòs), il re (basilikòs), il padrone (despotikòs) siano la stessa cosa, in quanto le loro<br />

<strong>di</strong>fferenze si baserebbero solo sul maggiore o minore numero delle persone cui sono preposti e<br />

non sulla specificazione delle loro funzioni [...] quasi non ci sia nessuna <strong>di</strong>fferenza tra una<br />

grande casa privata e una piccola polis [...]<br />

Se si stu<strong>di</strong>assero come le cose si evolvono dall'origine anche qui come altrove se ne<br />

avrebbe una visione quanto mai chiara. È necessario in primo luogo unire gli esseri che non<br />

sono in grado <strong>di</strong> esistere separati l'uno dall'altro, per esempio la femmina e il maschio in quanto<br />

strumenti <strong>di</strong> generazione [...] e chi per natura è <strong>di</strong>sposto al comando e chi è naturalmente<br />

<strong>di</strong>sposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono<br />

sopravvivere, [...] sicché la stessa cosa è vantaggiosa al padrone e allo schiavo.<br />

In questa definizione c'è l'in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> uno scopo (il bene comune) che è decisiva, perché<br />

è quella su cui Aristotele fonda l'essenza della polis; c'è la <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> qual’ è l'origine<br />

dell'associarsi, che viene posta nella <strong>di</strong>fferenza e quin<strong>di</strong> nel bisogno: esiste insomma una ratio<br />

d'or<strong>di</strong>ne della comunità che altro non è che la stessa natura. C'è l'idea, in termini moderni (ma la<br />

<strong>di</strong>visione del lavoro nella modernità è andata ben oltre questi termini), che l'unicità della<br />

funzione e quin<strong>di</strong> l'assoluta specificità <strong>di</strong> questa, il fatto che un ente faccia e sappia fare una<br />

9<br />

Cito, con qualche mo<strong>di</strong>fica, dalla traduzione <strong>di</strong> C.A. Viano, UTET, Torino 1966.<br />

15


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

cosa ed una sola, sia il tipo <strong>di</strong> or<strong>di</strong>namento che meglio prepara la perfezione dei risultati.<br />

Fin qui abbiamo visto il finalismo della filosofia politica aristotelica, che altro non è se non<br />

la specificazione del suo più generale teleologismo ontologico. Ora ve<strong>di</strong>amone la caratteristica<br />

più fondamentale, il naturalismo o evoluzionismo naturalistico: dalle comunità o cellule<br />

elementari uomo-donna e padrone-schiavo nasce la casa come centro insieme familiare e<br />

produttivo (oikos), e dall'intrecciarsi <strong>di</strong> più case il villaggio (kome). La comunità perfetta <strong>di</strong> più<br />

villaggi è la polis,<br />

che ha raggiunto l'autosufficienza (autarkeia) e sorge per rendere possibile la vita, ma sussiste<br />

per produrre le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> una buona esistenza. Perciò ogni polis è un'istituzione naturale,<br />

essendolo già le comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine, e la natura <strong>di</strong> una cosa<br />

è il suo fine [...] Ora, lo scopo e il fine sono ciò che vi è <strong>di</strong> meglio, e l'autosufficienza è un fine<br />

e quanto vi è <strong>di</strong> meglio (A 1252b).<br />

Viene infine il peculiare organicismo (cui appartiene anche l’idea <strong>di</strong> un reciproco vantaggio<br />

fra padrone e servo) della Politica aristotelica:<br />

nell'or<strong>di</strong>ne naturale la polis precede l'oikos e ciascuno <strong>di</strong> noi. Infatti il tutto precede<br />

necessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano [...] È dunque<br />

chiaro che la polis è per natura ed è anteriore all'in<strong>di</strong>viduo, perché, se l'in<strong>di</strong>viduo, preso da sé,<br />

non è autosufficiente, starà rispetto al tutto nella relazione in cui stanno le altre parti (1253a).<br />

Si noti che l'organicismo non sta soltanto in questa priorità del tutto rispetto alle parti, ma<br />

pure nel legame <strong>di</strong> reciproco vantaggio fra chi sta sopra e chi sta sotto, fra il governante ed i<br />

governati (si pensi all'apologo, organicistico nel senso della fisiologia, <strong>di</strong> Menenio Agrippa), fra<br />

il padrone ed il servo, <strong>di</strong> cui sopra. Nel modello aristotelico, che ha dominato fino al Cinque-<br />

Seicento il pensiero europeo, la polis è dunque un'entità <strong>di</strong> origine naturale, or<strong>di</strong>nata ad un fine<br />

e sovraor<strong>di</strong>nata come tutto organico alle sue parti: sia alle aggregazioni inferiori, sia agli<br />

in<strong>di</strong>vidui 10 .<br />

Per i moderni invece - s'intenda: per gli approcci contrattualistici e conflittualistici che più<br />

esprimono l'innovazione creata dalla modernità - l'associarsi degli uomini non è un dato, ma un<br />

problema (com'è possibile la società?); non un prodotto della natura, che per i moderni è<br />

comunque costruita mentalmente dagli uomini, ma un artificio umano, che può anche<br />

<strong>di</strong>ssolversi; né risulta da un organico sviluppo <strong>di</strong> entità sovrain<strong>di</strong>viduali, ma vien visto come<br />

atto pattizio `libero' e volontario degli in<strong>di</strong>vidui, ultima ra<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> ogni aggregazione. Pertanto,<br />

dai caratteri e dalle regole del patto derivano i caratteri, le regole (ed i limiti) <strong>di</strong> Stato e politica.<br />

Infine, fra la sfera politica e le altre, come quella morale o teologica, la <strong>di</strong>fferenziazione, o<br />

perfino la separazione è definitiva, e non è detto che la politica continui ad essere considerata la<br />

sfera più alta <strong>di</strong> attività pratica; anzi essa è stata da alcuni recentemente classificata come niente<br />

più che un sub-sistema del più generale sistema sociale, ciò che poi richiama un'altra<br />

<strong>di</strong>fferenziazione tipicamente moderna, quella fra il politico e il sociale, sconosciuta agli antichi.<br />

Base in<strong>di</strong>vidualistica e sviluppo artificiale della polis: a queste due posizioni-chiave della<br />

modernità si accompagna quella che vede l’abbandono del finalismo sostantivo nella<br />

concezione della politica. Con questo termine in<strong>di</strong>co l'approccio che considera la politica<br />

subor<strong>di</strong>nata ad un fine rappresentato da un qualche valore definito in base ad una certa<br />

concezione del mondo, della vita o della storia. Nella tra<strong>di</strong>zione cristiana, e segnatamente<br />

10<br />

Sul tema <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduo e modernità v. oltre la voce In<strong>di</strong>viduo (e soggetto) <strong>di</strong> E. Pulcini.<br />

16


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

tomistica,dell'Occidente questo fine è stato a lungo visto nel `bene comune', attingibile dai<br />

singoli solo in quanto parti della comunità e definito in base ad una qualche gerarchia fra Dio,<br />

uomini e mondo. Caduta l'unità che l'ancoramento teologico dava al pensiero me<strong>di</strong>oevale, e<br />

caduti i poteri universali <strong>di</strong> riferimento, l'Impero ed il Papato, la prima modernità fece<br />

esperienza sia del competere pluralistico <strong>di</strong> svariate concezioni del fine della politica ed in<br />

genere dell'umanità, sia dei troppo alti costi (guerre <strong>di</strong> religione) da pagare tutti, vinti e<br />

vincitori, quando come scopo della politica si vogliano perseguire per intero e senza rinuncia<br />

alcuna i propri fini sostantivi. Nel contempo, sul piano epistemologico, gli approcci rivolti a<br />

comprendere il mondo e le sue parti in ragione dei meccanismi che li governano o delle<br />

funzioni cui assolvono prendevano il sopravvento sugli approcci tesi ad in<strong>di</strong>viduare i loro fini.<br />

Da queste esperienze politiche ed intellettuali nasceva così l'abbandono del finalismo<br />

sostantivo, sostituito dall'idea che l'associazione politica non possa ritenersi or<strong>di</strong>nata che a fini<br />

minimi ad essa intrinseci, e non provenienti da concezioni metafisiche, teologiche o morali, se<br />

non in quanto possa rappresentare il minimo comun denominatore <strong>di</strong> tali concezioni. Ma<br />

nasceva e si sviluppava soprattutto l'idea che una definizione <strong>di</strong> `politica' non possa farsi che in<br />

base ai mezzi o le modalità o procedure che ne sono tipiche in ogni circostanza, anziché in base<br />

ad uno o l'altro dei <strong>di</strong>sparati fini che le sono stati o potranno esserle attribuiti 11 .<br />

Politica può dunque dapprima definirsi come quell'attività che regola la lotta (o il<br />

conflitto; questo concetto-chiave verrà pienamente definito alla fine del capitolo 11) per la<br />

re<strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> risorse scarse e <strong>di</strong>segualmente <strong>di</strong>stribuite tramite i rapporti <strong>di</strong> potere; potere<br />

che a sua volta - in quanto potere specificamente politico - è definito dall'essere in ultima<br />

istanza garantito dal possesso esclusivo (monopolistico) della forza o violenza organizzata.<br />

Questa definizione richiede una serie <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>menti e commenti. Anzitutto, essa lega<br />

la politica alla più complessiva attività sociale degli uomini e delle donne, mirando insieme a<br />

determinarne una peculiarità (cosicché politico e sociale non possono considerarsi equivalenti).<br />

Si basa poi su due con<strong>di</strong>zioni in<strong>di</strong>pendenti: la scarsità delle risorse contese (che non vanno<br />

intese solo come risorse materiali, ma pure sociali o relazionali, per es. il prestigio) e la loro<br />

<strong>di</strong>stribuzione ineguale. Se le risorse fossero illimitate, o se, pur scarse, fossero <strong>di</strong>stribuite<br />

egualitariamente, non vi sarebbe politica (infatti le utopie sociali dell'Ottocento che mirano ad<br />

uno <strong>di</strong> questi due obiettivi prevedono l'eliminazione della politica). La definizione riconosce<br />

poi non già, come pure alcuni fanno, l'identità <strong>di</strong> politica e guerra, bensì che non la convivenza<br />

comunitaria, bensì la lotta (termine preferito in filosofia politica) ovvero il conflitto (termine<br />

più sociologico, cfr. cap. 30) sono elementi essenziali della politica - s'intende come problemi<br />

da affrontare e regolare, non come suoi dati immutabili o `eterne verità'. La politica è<br />

imparentata con la guerra anche nel senso più preciso che del potere politico fa parte l'uso<br />

11<br />

Sia chiaro, per inciso, che la <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> antico e moderno, o moderno e premoderno va presa cum<br />

grano salis: la modernità non è qualcosa <strong>di</strong> monocolore e tanto meno <strong>di</strong> monolitico, anche se talora può<br />

essersi illusa <strong>di</strong> esserlo. Le posizioni premoderne si ritrovano al suo interno, e non possono essere<br />

ridotte a mera residualità o epigonalità, anche se qualche volta <strong>di</strong> questo pur si tratta. Il ripresentarsi<br />

aggiornato ed agguerrito del `bene comune', del finalismo, della `comunità organica' e d'altro articola<br />

spesso un conflitto interno alla modernità, in<strong>di</strong>ca una sua aporia o un <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>o con suoi risultati non<br />

attesi e non intesi.<br />

17


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

attuale o la permanente e cre<strong>di</strong>bile minaccia della forza fisica o violenza, che è appunto la<br />

modalità caratteristica del rapporto bellico. Del resto basta ricordarsi che, finora, molti assetti<br />

del potere politico sono nati come risultati <strong>di</strong> guerre civili e <strong>di</strong> classe o <strong>di</strong> guerre fra popoli e<br />

Stati. La conciliazione-ricomposizione dei <strong>di</strong>versi interessi che alcuni esibiscono come la natura<br />

della politica (cfr. il lemma Politics nel Dictionary <strong>di</strong> Scruton) è soltanto uno dei possibili esiti<br />

dell’attività politica, tanto quanto lo è la guerra esterna o civile, e la <strong>di</strong>versità <strong>di</strong> interessi, idee e<br />

volontà ne rimane il primum ontologico.<br />

Tuttavia, questi primi schiarimenti, pur <strong>di</strong>cendoci <strong>di</strong> quali elementi si compone la politica,<br />

non ci <strong>di</strong>cono ancora come essi vi si or<strong>di</strong>nino, ovvero quale sia la ratio o finalità interna (se ve<br />

n'è una) <strong>di</strong> questa attività umana. Ma prima ancora dobbiamo approfon<strong>di</strong>re due temi capitali <strong>di</strong><br />

questa definizione: il concetto <strong>di</strong> potere ed i suoi rapporti con quello <strong>di</strong> forza.<br />

5. Potere e potere politico<br />

Cerchiamo <strong>di</strong> definire prima <strong>di</strong> tutto che cosa è il potere tout court, non il potere politico,<br />

dato che il termine potere si usa riferito a svariati tipi <strong>di</strong> relazioni, <strong>di</strong>verse da quelle politiche. In<br />

questi sforzi <strong>di</strong> definizione e <strong>di</strong>stinzione sono motivato dal fasti<strong>di</strong>o per gli usi generici ed<br />

onnivalenti del termine `potere' (ovvero <strong>di</strong> pouvoir o <strong>di</strong> Herrschaft, nelle rispettive tra<strong>di</strong>zioni<br />

nazionali), cui nella mia generazione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi indulgevano gli epigoni <strong>di</strong> Foucault o della<br />

Scuola <strong>di</strong> Francoforte, dalla quale peraltro io stesso provengo. Si può <strong>di</strong>re che la filosofia<br />

politica come <strong>di</strong>sciplina autonoma e produttiva stia in pie<strong>di</strong> solo se riesce a fare <strong>di</strong> `potere' un<br />

uso analiticamente valido e maneggiabile, ma insieme filosoficamente consapevole.<br />

Possiamo partire dalla tripartizione compiuta da Bobbio nella voce Stato: una prima<br />

definizione è quella detta sostanzialistica, ma si può anche <strong>di</strong>re strumentalistica del potere;<br />

quella che in<strong>di</strong>ca consistere il potere nei mezzi per conseguire un certo fine. Il possesso, l'uso,<br />

la <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong>/su quei mezzi è ciò che si chiama potere, pertanto il possesso della ricchezza<br />

è il potere economico, il possesso della forza o del prestigio è il potere politico, mentre<br />

l'influenza costituisce il potere, sociale o psicologico, <strong>di</strong> una persona sull'altra; e nel possesso<br />

dei mezzi <strong>di</strong> elaborazione e comunicazione delle idee sta infine il potere culturale. La<br />

definizione si chiama sostanzialistica perché in<strong>di</strong>ca consistere il potere nelle qualità <strong>di</strong> una cosa,<br />

<strong>di</strong> una sostanza.<br />

Poi c'è una definizione soggettiva del potere, che è in realtà più giuri<strong>di</strong>ca che politica, e che<br />

consiste nel <strong>di</strong>re che il potere è l'attribuzione ad un certo soggetto della facoltà <strong>di</strong> fare certe<br />

cose; allora il Presidente della Repubblica nell'or<strong>di</strong>namento italiano ha il potere <strong>di</strong> sciogliere le<br />

camere, <strong>di</strong> in<strong>di</strong>re le elezioni, <strong>di</strong> presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura, il<br />

Consiglio superiore della Difesa e <strong>di</strong> rappresentare l'unità della nazione. Ma questa definizione<br />

potrà sod<strong>di</strong>sfare i giuristi, mentre filosoficamente non regge all'accusa <strong>di</strong> circolarità: il potere è<br />

ciò <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>spone chi lo detiene. Del resto, in teoria politica ciò che interessa è la capacità de<br />

facto <strong>di</strong> fare certe cose, non l'attribuzione de iure della possibilità <strong>di</strong> farle.<br />

L'unica vera alternativa alla definizione sostanzialistica sembra a me quella più astratta e<br />

18


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

quin<strong>di</strong> epistemologicamente vincente, perché definisce il potere con meno elementi possibili e<br />

con meno riferimenti possibili a situazioni concrete o a contenuti particolari. Questa definizione<br />

per esempio evita i <strong>di</strong>fetti della definizione sostanzialistica, cioè <strong>di</strong> impantanarsi nella<br />

<strong>di</strong>scussione se il potere consista davvero in una cosa, oppure consista nelle facoltà <strong>di</strong> una<br />

persona, e se consiste in una cosa, in quale cosa consista etc. Questa è la definizione cosiddetta<br />

relazionale <strong>di</strong> cui le esposizioni sono due: una è quella classica <strong>di</strong> Max Weber 12 . Si tratta<br />

sempre, in Weber, <strong>di</strong> definizioni probabilistiche, fondate sulla nozione <strong>di</strong> chance: il potere<br />

(Herrschaft, in quanto <strong>di</strong>stinta dal più generico concetto <strong>di</strong> Macht o potenza) è la chance <strong>di</strong><br />

trovare in un determinato gruppo sociale obbe<strong>di</strong>enza per un determinato comando. Una<br />

definizione più recente è quella che Bobbio riadatta dal concetto <strong>di</strong> influenza come è stato<br />

definito da Robert Dahl, che è uno dei più rilevanti esponenti della political science americana<br />

nella seconda metà del secolo XX. Il potere è una relazione fra attori, cioè fra soggetti d'azione<br />

13<br />

. Nella relazione <strong>di</strong> potere un attore induce gli altri ad agire in un modo in cui gli altri<br />

altrimenti non agirebbero. È una definizione più raffinata <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Weber, perché Weber<br />

<strong>di</strong>ce “la chance <strong>di</strong> trovare obbe<strong>di</strong>enza ad un determinato comando”, mentre Dahl e Bobbio<br />

eliminano il ricorso a concetti formalizzati come obbe<strong>di</strong>enza o comando e vedono il potere<br />

come la possibilità <strong>di</strong> cambiare il corso delle azioni. Se non c'è relazione <strong>di</strong> potere, A, B, C e D<br />

seguirebbero la linea d'azione x; arriva Z che ha il potere e lo esercita, e allora, invece della<br />

linea d'azione x, viene seguita quella y.<br />

È vero che questa definizione pone gran<strong>di</strong>osi problemi epistemologici: come si fa a capire<br />

quando il mutamento <strong>di</strong> una linea, <strong>di</strong> un comportamento, si deve ascrivere all'influenza<br />

dell'attore Z, e non ad altri fattori più o meno rilevabili? Bisogna trovare delle metodologie per<br />

fare delle ascrizioni corrette e non incerte (a questo problema sono de<strong>di</strong>cati importanti lavori<br />

epistemologici <strong>di</strong> Max Weber). Ma intanto abbiamo dato una definizione per i nostri fini<br />

sod<strong>di</strong>sfacente <strong>di</strong> potere e allora possiamo finalmente fare l'ultimo passo e <strong>di</strong>re in cosa consiste<br />

il potere specificamente politico: qualunque definizione, delle tre o due che si è visto, si scelga<br />

(in realtà il potere politico nella maggior parte dei casi è passibile <strong>di</strong> definizione in base a tutte e<br />

tre le formule sopraddette), esso ha la caratteristica <strong>di</strong> essere garantito, quanto alla sua efficacia,<br />

e <strong>di</strong> essere reso compatto dalla possibilità <strong>di</strong> ricorrere all'uso o alla minaccia della forza fisica o<br />

costrizione fisica legittima (della legittimità si tratterà in apposito paragrafo più avanti). In<br />

questo senso ogni potere politico è coattivo, ma non perché eserciti la coazione fisica in<br />

continuazione; semplicemente, esso ha come ultima (non: unica) garanzia e peculiarità la<br />

possibilità <strong>di</strong> usare <strong>di</strong> fatto o almeno <strong>di</strong> minacciare l'uso della forza fisica: s'intenda della forza<br />

fisica in senso politico, cioè <strong>di</strong> un'organizzazione della forza fisica (forze <strong>di</strong> polizia, esercito,<br />

milizie <strong>di</strong> partito o bande pretoriane; nella storia del mondo si sono trovate le forme più <strong>di</strong>verse<br />

<strong>di</strong> organizzazione <strong>di</strong> questa forza). Due commenti sono subito necessari.<br />

Va notato anzitutto che questa definizione vale appieno per i rapporti politici entro lo Stato:<br />

12<br />

Nel § 16 del Cap. 1 della parte I <strong>di</strong> Wirtschaft und Gesellschaft (Economia e Società, uscita nel1922<br />

due anni dopo la scomparsa del suo autore.<br />

13<br />

Si <strong>di</strong>ce attore per non <strong>di</strong>re soggetto, perché soggetto è un termine troppo carico filosoficamente e con<br />

troppe implicazioni, mentre attore è un termine sociologico, non filosofico, e usarlo in filosofia<br />

permette <strong>di</strong> non imbarcarsi in tutte le allusioni e gli ammiccamenti relativi al “soggetto” e alla<br />

“soggettività”.<br />

19


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

le relazioni <strong>di</strong> potere fra gli Stati sovrani non implicano legittimità, ma piuttosto un adattamento<br />

`realistico' (in senso colloquiale) ovvero prudenziale (per questo termine v. cap. 23) alla<br />

superiorità conferita ad uno Stato dalle sue <strong>di</strong>mensioni e dalla sua potenza economica, ma<br />

sempre sancita dalla capacità <strong>di</strong> esercitare questo potere con abilità politica e <strong>di</strong> garantirlo<br />

tramite l'organizzazione militare. È tuttavia vero che in questo secolo anche fra gli Stati si è<br />

creato un potere legittimo (sebbene troppo raramente efficace): quello della Lega (poi Società)<br />

delle Nazioni, creata nel 1919, in seguito (dal 1945) quello delle Nazioni Unite, per non parlare<br />

delle organizzazioni regionali cui sono stati trasferiti alcuni poteri degli Stati nazionali, e <strong>di</strong> cui<br />

l'Unione (prima: Comunità) europea è l'esempio principe. Come si intenderà più avanti nei<br />

capp. 18 e 21, l'emergere recente <strong>di</strong> momenti <strong>di</strong> globalità nella vita politica, oltre che<br />

economica e culturale, <strong>di</strong> tutti gli abitanti del pianeta potrebbe inoltre 14 rendere sotto alcuni<br />

profili sempre più simili i problemi <strong>di</strong> governo a livello interno 15 . Nel mondo globalizzato, fra<br />

esterno ed interno non esiste più la <strong>di</strong>visione netta propria della politica moderna.<br />

Ancora, va esplicitato il dubbio che la definizione sopra stabilita sia ottusa, e non permetta -<br />

contro ogni evidenza - <strong>di</strong> riconoscere carattere politico al potere che non riguar<strong>di</strong> <strong>di</strong>rettamente<br />

la <strong>di</strong>sposizione sulla forza fisica; come se il potere politico fosse cioè solo quello dello Stato. È<br />

politico - sottolineiamo - ogni potere capace <strong>di</strong> ed intenzionato a mutare la <strong>di</strong>stribuzione delle<br />

chances <strong>di</strong> partecipazione al potere statuale (ivi compreso quello delle organizzazioni<br />

internazionali politiche): per esempio il potere dei partiti, dei leaders, dei gruppi <strong>di</strong> pressione<br />

nazionali e transnazionali, come Greenpeace o la Campagna per l'abolizione delle mine antiuomo.<br />

Riprendendo la terminologia weberiana, potremmo in questi casi parlare, anziché <strong>di</strong><br />

potere politico, <strong>di</strong> potere politicamente orientato.<br />

6. Il potere politico e gli altri: peculiarità e `neutralità'<br />

Il potere politico non può essere appiattito sull'uso o la minaccia della forza, anche se questa<br />

è la sua caratteristica specifica. Abbiamo un problema <strong>di</strong> non oscurare questa specificità, senza<br />

peraltro farla <strong>di</strong>ventare totalità. Possiamo capire qualcosa <strong>di</strong> più riflettendo sulla <strong>di</strong>fferenza fra<br />

il potere politico ed altre forme <strong>di</strong> potere che politiche non sono, come il potere economico e<br />

quello cosiddetto ideologico.<br />

Il potere economico, <strong>di</strong> cui possiamo dare una definizione <strong>di</strong> tipo sostanzialistico o<br />

strumentalistico, consiste nella <strong>di</strong>sposizione sui (non basta la proprietà dei) mezzi <strong>di</strong><br />

produzione. Il che vuol <strong>di</strong>re che se una persona od un gruppo ha il potere economico può, per<br />

ottenere qualcosa, ridurti il tenore <strong>di</strong> vita, o perfino mandarti in rovina, bloccarti<br />

l'approvvigionamento, farti patire la fame. È una forma <strong>di</strong> influenza che passa attraverso<br />

l'esercizio <strong>di</strong> una costrizione, che però non è la costrizione attraverso la forza fisica, e se <strong>di</strong><br />

questa vuol fare impiego, occorre che il potere economico si rivolga al potere politico, che<br />

manderà la forza pubblica a sequestrare i beni <strong>di</strong> un fallito, espellere un inquilino moroso,<br />

14<br />

Si tratta <strong>di</strong> processi in corso, il con<strong>di</strong>zionale è buona norma intellettuale.<br />

15<br />

Domestic politics, si <strong>di</strong>ce in inglese, ma il calco italiano “domestico” che comincia ad affiorare può<br />

solo suscitare il riso.<br />

20


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

ovvero impe<strong>di</strong>rà con le sue forze armate ad un altro paese <strong>di</strong> accedere a risorse per questo<br />

essenziali. (En passant, e a scanso <strong>di</strong> equivoci, l'embargo non è forma <strong>di</strong> potere economico,<br />

bensì un atto <strong>di</strong> potere politico che impiega mezzi economici, peraltro sorretti politicamente,<br />

cioè militarmente o almeno <strong>di</strong>plomaticamente.)<br />

Lo stesso vale per il potere ideologico o culturale, che consiste nella <strong>di</strong>sposizione sui mezzi<br />

<strong>di</strong> riproduzione culturale <strong>di</strong> una società, cioè consiste nel dominare la creazione, la <strong>di</strong>ffusione e<br />

la riproduzione delle idee, delle informazioni e del modo come queste vengono comunicate.<br />

Definizione valida sia nel caso del potere televisivo, sia in quello del potere <strong>di</strong> uno sciamano <strong>di</strong><br />

una società primitiva, essendo una definizione abbastanza generica. Anche qui questo potere<br />

può essere gran<strong>di</strong>ssimo: ci possono essere varie scuole <strong>di</strong> pensiero sul potere o strapotere del<br />

mezzo televisivo, io per esempio evito <strong>di</strong> sopravvalutarlo, ma non si possono avere dubbi sul<br />

potere <strong>di</strong> un pre<strong>di</strong>catore me<strong>di</strong>evale, magari eretico, o sul potere <strong>di</strong> uno sciamano. Eppure anche<br />

questo potere non <strong>di</strong>spone della caratteristica specifica <strong>di</strong> quello politico, cioè della coazione<br />

fisica.<br />

Qui ci si potrebbe imbarcare nello sforzo <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziare il potere in rapporto al suo essere<br />

visibile (<strong>di</strong>chiarato come tale, e presumibilmente legittimo, oltre che provvisto della garanzia<br />

della forza) o invisibile (comunicativo, psicologico, culturale); ciò che non va confuso con il<br />

potere occulto, che è quel potere politico, ma anche economico, che si esercita fuori o contro<br />

l'or<strong>di</strong>namento riconosciuto legittimo. Però tale <strong>di</strong>fferenziazione può aprire la strada ad<br />

un'espansione illimitata della nozione <strong>di</strong> potere (invisibile) che alla fine ci lascia senza<br />

strumenti analitici per capire chi in una certa società ed in un determinato periodo il potere<br />

davvero lo abbia e lo eserciti, e come si possa toglierglielo oppure limitarlo. Non è una via che<br />

io chiuda come assolutamente impercorribile, ma a livello categoriale non mi sembra se ne<br />

possa <strong>di</strong>re <strong>di</strong> più.<br />

* * *<br />

Oggetto, mezzi e modus operan<strong>di</strong> del potere. Cerchiamo ora <strong>di</strong> enunciare alcune<br />

articolazioni del concetto <strong>di</strong> potere: quelle secondo l’oggetto, secondo il mezzo e secondo il<br />

modus operan<strong>di</strong>.<br />

L’oggetto sul quale il potere s’esercita sono sempre le risorse materiali o relazionali che<br />

esso alloca attraverso decisioni dette appunto potestative, ma queste decisioni (non<br />

necessariamente espresse in atti formali o legali) possono assumere due forme <strong>di</strong>stinte: a)<br />

decisioni sul merito dell’allocazione <strong>di</strong> risorse; b) decisioni <strong>di</strong> mettere un tema che riguarda<br />

l’allocazione <strong>di</strong> cui sotto a) all’or<strong>di</strong>ne del giorno (agenda setting power). In un mondo in<br />

rapi<strong>di</strong>ssima trasformazione e posto <strong>di</strong>nanzi a problemi del tutto ine<strong>di</strong>ti come quelli ambientali<br />

poter influenzare l’agenda setting è <strong>di</strong>venuto <strong>di</strong> capitale importanza, come si vede nella<br />

riluttanza della politica internazionale ad occuparsi del cambiamento climatico antropogenico.<br />

Veniamo ora ai mezzi. Va detto anzitutto che, in ognuna delle sue forme sotto esaminate, il<br />

potere impiega o sanzioni punitive (o meglio attese <strong>di</strong> queste) o allettamenti. Si può anche <strong>di</strong>re:<br />

sanzione negativa (un male inflitto come risposta ad un comportamento contrario a quello<br />

desiderato da chi detiene il potere - questa è una traslitterazione politica della nozione giuri<strong>di</strong>ca<br />

<strong>di</strong> sanzione) e sanzione positiva (un bene attribuito come risposta ad un comportamento<br />

21


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

conforme a quello ecc.) Ovviamente le stesse sanzioni negative consistono in cento oltre cose<br />

(sottrazione <strong>di</strong> prebende, <strong>di</strong> segni <strong>di</strong> prestigio conferiti dal potere, e non solo nell'ancien régime,<br />

aumenti fiscali a carico precipuo <strong>di</strong> un gruppo o ceto, cancellazione della clausola <strong>di</strong> nazione<br />

più favorita, mozione <strong>di</strong> condanna votata nel Consiglio <strong>di</strong> sicurezza delle Nazioni Unite) oltre<br />

alle sanzioni fisiche (la carcerazione, l'attacco o contrattacco militare, l'occupazione). Ma,<br />

<strong>di</strong>versamente che negli altri tipi <strong>di</strong> potere (compreso quello interpersonale e particolarmente<br />

erotico, per <strong>di</strong>rla con Max Weber) che pure impiegano sanzioni ed allettamenti, il potere<br />

politico può sempre accompagnare le attese <strong>di</strong> sanzioni positive o negative con l'ulteriore,<br />

cre<strong>di</strong>bile attesa che per eseguirle potrà essere eventualmente adoprata la forza.<br />

Quanto al modus operan<strong>di</strong>, esso si definisce a partire dagli effetti che produce, come<br />

costrizione o <strong>di</strong>ssuasione. Nella costrizione A fa cessare B dal fare ciò che B fa, oppure gli fa<br />

fare ciò che B altrimenti non farebbe (compulsive power). Nella <strong>di</strong>ssuasione A fa sì che B<br />

continui a fare ciò che fa (anche nel caso in cui B vorrebbe fare <strong>di</strong>versamente) ovvero a non<br />

fare ciò che non fa (deterrent power). La <strong>di</strong>ssuasione nucleare, in cui ogni superpotenza viene<br />

indotta a continuare il suo non-uso bellico delle armi nucleari, è solo un caso particolare,<br />

caratterizzato dalla reciprocità (più o meno paritaria e stabile) del potere che l'una esercita<br />

sull'altra per scongiurarne eventuali mire avventurose. Ma potere <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssuasione è anche quello<br />

<strong>di</strong> un partito o <strong>di</strong> un boss elettorale che riesce ad impe<strong>di</strong>re che i suoi elettori cambino<br />

preferenza, facendo loro temere che ne avranno altrimenti meno finanziamenti pubblici o meno<br />

posti <strong>di</strong> lavoro.<br />

Potere istituzionalizzato e cooperazione dei governati. Facciamo un passo ulteriore<br />

nell'osservare la complessità della categoria <strong>di</strong> potere politico e rileviamo che esso usa<br />

presentarsi con caratteristiche <strong>di</strong> continuità, almeno tendenziale: non basta fondare un<br />

principato o repubblica, od instaurare un nuovo regime con un atto <strong>di</strong> forza, essendo problema<br />

politico altrettanto - se non più - fondamentale quello <strong>di</strong> “mantenere lo Stato”, per <strong>di</strong>rla con<br />

Niccolò Machiavelli. Un potere che si continui nel tempo è necessariamente un potere<br />

istituzionalizzato, che si deposita in e riproduce tramite delle istituzioni (v. oltre il paragrafo<br />

pertinente). In questa sua <strong>di</strong>mensione il rapporto <strong>di</strong> potere non è davvero più identificabile con<br />

il mero esercizio della forza da un lato e la mera subor<strong>di</strong>nazione ad essa dall'altro, emergendo<br />

invece in chi agisce conforme a quanto <strong>di</strong>sposto dal detentore del potere alcuni elementi <strong>di</strong><br />

volontarietà: preferisco ubbi<strong>di</strong>re o perché calcolo che a non farlo ci rimetto <strong>di</strong> più, in termini <strong>di</strong><br />

sanzioni fisiche o d'altro genere, o perché, al <strong>di</strong> là d'ogni calcolo, sento, per ragioni psicologiche<br />

o morali o religiose o `mitiche', <strong>di</strong> dover agire come il potere si attende (questi aspetti verranno<br />

riformulati più concettualmente sotto i titoli della legittimità e dell'obbligo politico).<br />

Fra chi il potere detiene e chi ad esso è sottoposto, fra governanti e governati, fra Stato<br />

egemonico o leader e Stati alleati o <strong>di</strong>pendenti o satelliti si crea così un rapporto in cui agli<br />

elementi <strong>di</strong> subor<strong>di</strong>nazione od anche sfruttamento ed oppressione che vengono patiti si<br />

accompagnano elementi <strong>di</strong> convergenza o perfino cooperazione. Gli uni accettano quella<br />

struttura, quei titolari e quei coman<strong>di</strong> del potere faute de mieux, cioè in mancanza <strong>di</strong> meglio<br />

(nell'ipotesi più semplice): a non accettarli ci si perde troppo, per rifiutarli o riformarli il tempo<br />

non è ancora maturo, ovvero in sfere extra-politiche si possono trovare sufficienti<br />

compensazioni agli svantaggi derivanti dai rapporti <strong>di</strong> potere politico. Si può anche vedere la<br />

22


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

cosa in modo meno elementarmente `realistico' e più evolutivo: se come governato posso<br />

concorrere a limitare in via <strong>di</strong> principio il potere (liberalismo, costituzionalismo) e a<br />

codeterminarne strutture, titolari e coman<strong>di</strong> (l'idea originaria della democrazia) ho delle buone<br />

ragioni normative, e non puramente prudenziali (v. oltre per questa terminologia), per rispettare<br />

il potere ed interiorizzarne le norme. A questo punto la volontarietà dell'adesione ai <strong>di</strong>sposti del<br />

potere (le leggi emanate da un Parlamento democratico e le <strong>di</strong>sposizioni emanate da un governo<br />

che goda la fiducia della maggioranza <strong>di</strong> questo) <strong>di</strong>venta meno combattuta e più convinta.<br />

(Mancando inter nationes analoghi canali <strong>di</strong> formazione e legittimazione della volontà politica,<br />

mancando - per fortuna, alcuni pensano - un governo mon<strong>di</strong>ale, non è possibile fare esempi<br />

omologhi nel campo internazionale.) Dalla parte dei governanti, imparare a “mantenere lo<br />

Stato” significa imporsi certe limitazioni nell'esercizio del potere, non comandare o non<br />

sfruttare più che tanto, ed evitare <strong>di</strong> farlo in mo<strong>di</strong> troppo offensivi. Qui farò invece un esempio<br />

internazionalistico: durante la guerra fredda, i due blocchi, Nato e Patto <strong>di</strong> Varsavia, erano<br />

ciascuno subor<strong>di</strong>nati alla volontà dei governi della rispettiva potenza egemone, ma ben <strong>di</strong>versi<br />

erano fra URSS e USA lo `stile <strong>di</strong> comando' e le modalità <strong>di</strong> rapporto con gli alleati. Non è<br />

questa la ragione principale per cui l'un potere si è <strong>di</strong>ssolto e l'altro ha vinto la competizione,<br />

ma non è nemmeno irrilevante.<br />

Una geometria del potere. Della struttura del potere politico (ma si potrebbe anche <strong>di</strong>re:<br />

della sua geometria) due caratteristiche vanno evidenziate: l'esclusività piramidale e<br />

l'universalità. La prima è <strong>di</strong> gran lunga la più importante, e si riferisce in ultima istanza al già<br />

nominato modo esclusivo o monopolistico con cui questo potere (legittimamente) detiene,<br />

usandola o minacciandone l'uso, la forza. Anche se si mantiene una visione pluralistica del<br />

potere (non esservi <strong>di</strong> esso un'unica fonte né un'unica sede, <strong>di</strong>stribuendosi esso invece fra centri<br />

<strong>di</strong>versi nella società e nello Stato), mi pare <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>re che, affinché associazione politica vi<br />

sia, questo monopolio della forza dev'essere mantenuto, e nello Stato moderno <strong>di</strong> solito lo è. La<br />

garanzia ultima tramite la forza ed il rapporto monopolistico con questa danno al potere<br />

politico, <strong>di</strong>fformemente da quello economico e da quello culturale, una configurazione<br />

(tendenzialmente) unitaria, compatta e piramidale. Solo in politica chi l'ha raggiunto può <strong>di</strong>re -<br />

come il Boris Godunov dell'omonima opera <strong>di</strong> Musorgskij (tratta da Puškin), che è una grande<br />

riflessione musicale sul potere - “ho il potere supremo”. Naturalmente questo potere piramidale<br />

(assolutistica o liberal-democratica che sia la sua base) è sempre o spesso limitato de iure e/o<br />

de facto, facendo talora acqua da tutte le parti: ma esso resta il principio ispiratore<br />

dell'associazione politica. Ne deriva a questa una trama (sempre relativamente) unitaria e coesa<br />

<strong>di</strong> rapporti, che fa <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>mensione umana una delle più adatte al perseguimento comune <strong>di</strong><br />

fini e progetti, quali che essi siano. (Hannah Arendt ha definito il potere come `agire in<br />

concerto'. Definizione inaccettabile perché non riconosce l'asimmetria e verticalità propria della<br />

relazione <strong>di</strong> potere, ma che può forse essere vista come riflesso <strong>di</strong> questo carattere<br />

tendenzialmente unitario che il potere dà all'associazione politica.)<br />

Una prima manifestazione <strong>di</strong> questa intima struttura del potere politico sta nella sua<br />

universalità: i coman<strong>di</strong> emessi dal potere politico relativi alla <strong>di</strong>stribuzione delle risorse hanno<br />

valore verso tutti, erga omnes, cioè sono nel suo ambito universali. Efficace <strong>di</strong>venta questa<br />

pretesa, sempre avanzata dal potere politico. solo con il faticoso e cruento instaurarsi dello<br />

23


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Stato assolutistico moderno.<br />

In una compagine definita dall'esclusività della <strong>di</strong>sposizione sulla forza e dall'universalità<br />

dei coman<strong>di</strong> <strong>di</strong>viene possibile proporre/imporre e magari raggiungere fini collettivi: sia quelli<br />

elementari e generali, intrinseci all'associazione politica, che vedremo più avanti parlando <strong>di</strong><br />

or<strong>di</strong>ne e <strong>di</strong> pace, sia quelli particolari per il contenuto e la visione o ideologia che li informa (la<br />

vita buona aristotelica, il rispetto delle leggi naturali e <strong>di</strong>vine, il rischiaramento ed il progresso<br />

civile, l'abolizione della società <strong>di</strong> classe). In tutti e due i casi il potere tende ad in<strong>di</strong>rizzare le<br />

azioni <strong>di</strong> governanti e governati ad un fine, attraverso interventi imperativi che ci <strong>di</strong>cono “per<br />

vivere insieme, o per vivere meglio, dovete fare questo e quest'altro; dovete fare la<br />

<strong>di</strong>chiarazione dei red<strong>di</strong>ti entro il 30 giugno e pagare le tasse per permettere allo Stato <strong>di</strong><br />

funzionare, dovete andare a votare” (in alcuni paesi andare a votare è un imperativo, in altri non<br />

lo è) per formare la `volontà politica', e così via. Questo finalismo (più esattamente:<br />

finalizzabilità) dell'associazione politica organizzata dal potere mi pare corrispondere in<br />

qualche modo a ciò che i giuristi, con un termine non perspicuo, chiamano inclusività del<br />

potere (cfr. Bobbio, voce Politica nel Dizionario <strong>di</strong> politica, pp. 803-4).<br />

* * *<br />

C'è dunque un momento <strong>di</strong> neutralità nel potere politico: esso può essere usato per<br />

opprimere od emancipare, per atterrare i superbi e sollevare i deboli o viceversa. Va aggiunto<br />

subito, ma è quasi un'ovvietà, che il potere politico volto ad opprimere prende forme concrete<br />

<strong>di</strong>verse da quello volto ad emancipare. Inoltre, c'è e ci sarà sempre chi pensa che esso, per la sua<br />

struttura verticale, dall'alto verso il basso, è costituzionalmente inadatto a perseguire fini come<br />

la pace, la liberazione e la cooperazione. Chi la pensa così o ritiene che questi fini vadano<br />

perseguiti non per la via politica, bensì per quella culturale o religiosa, o suppone possibile che<br />

la politica si svolga fra uomini che hanno cancellato ogni residuo egoismo, aspirino seriamente<br />

alla completa eguaglianza e lo facciano in una crescente abbondanza <strong>di</strong> risorse. Il nesso fin qui<br />

descritto <strong>di</strong> politica e potere riguarda invece una con<strong>di</strong>zione in cui nessuna <strong>di</strong> queste tre<br />

con<strong>di</strong>zioni è realizzata o sta per realizzarsi - lasciando impregiu<strong>di</strong>cato, perché irrilevante al fine<br />

<strong>di</strong> incidere sul nostro destino, se mai esse possano, congiunte o parzialmente, avverarsi. Vale<br />

dunque da questo punto <strong>di</strong> vista il detto <strong>di</strong> Max Weber “Wer Politik treibt, erstrebt Macht” (chi<br />

fa politica ricerca il potere): quali che siano i fini, le intenzioni, le ideologie, se si fa politica <strong>di</strong><br />

lì si passa, ed è con il potere proprio ed altrui che ci si deve confrontare. Tenuto fermo questo,<br />

la complessità e la concretezza della politica è data dall'intreccio fra la categoria <strong>di</strong> potere ed<br />

altre fondamentali come or<strong>di</strong>ne, legittimità, obbligo; è data dalla tematica dei limiti del potere e<br />

dal mutarsi delle sue forme e <strong>di</strong>mensioni a seconda delle finalità, delle idee, dei gruppi e delle<br />

persone cui esso <strong>di</strong> volta in volta si lega.<br />

Tutto ciò ci permette <strong>di</strong> capire che è sbagliato ridurre la politica alla ricerca e all'esercizio<br />

del potere: la politica è il perseguimento <strong>di</strong> fini attraverso l'elemento del potere, e si svolge<br />

producendo decisioni, che sono (quasi) sempre fatte <strong>di</strong> elementi autoritativi e <strong>di</strong> cooperativi o<br />

consociativi; ma questo non vuol <strong>di</strong>re che la politica consista nella pura e semplice ricerca <strong>di</strong><br />

risorse <strong>di</strong> potere. Questa può esistere, ma è una forma degenerativa della politica, “il potere per<br />

il potere”. Beninteso, anche questa è politica (non ne stiamo dando una definizione selettiva o<br />

prescrittiva), ma sappiamo storicamente che quando un regime o una classe <strong>di</strong>rigente non fa più<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

uso del suo potere per governare società e Stato con un <strong>di</strong>segno ed uno stile che contentino<br />

molto i suoi sostenitori, ma non scontentino eccessivamente gli altri, ma lo usa solo per<br />

riprodurre la sua posizione, già si trova nella sua fase <strong>di</strong>scendente, preparando suo malgrado il<br />

terreno per un cambiamento. Ma è vera anche la cosa opposta: una politica che venga<br />

presentata come pura ricerca <strong>di</strong> un fine attraverso l'accordo solidale, la persuasione, la fiducia<br />

nelle buone idee, senza cioè fare i conti con quella cosa complessa e storica che è il potere, o è<br />

una politica <strong>di</strong> pura testimonianza, quin<strong>di</strong> apolitica, extramondana, come <strong>di</strong>rebbe Max Weber;<br />

oppure chi la propone è molto facile che tenti <strong>di</strong> confondere se stesso o <strong>di</strong> confonderci, nel<br />

senso che lui <strong>di</strong>ce che gli altri vogliono solo il potere, e solo per i loro egoistici fini, mentre lui<br />

vuole solo raggiungere quei fini comuni e non vuole il potere. Allora si tratta <strong>di</strong> uno che non sa<br />

molto <strong>di</strong> politica e scambia la pre<strong>di</strong>cazione o la testimonianza con la lotta politica; oppure è uno<br />

che tenta <strong>di</strong> imbrogliare, cioè che tenta <strong>di</strong> attrarre la vostra simpatia per una forma <strong>di</strong><br />

cambiamento della politica ra<strong>di</strong>cale e salvifica, cioè tale che alla fine non c'è più bisogno,<br />

scarsità, <strong>di</strong>suguaglianza, e siamo tutti uguali, laddove in realtà ciò che poi resta è il potere,<br />

meno contenuto perché non riconosciuto come tale, del leader rinnovatore.<br />

Dopo esserci sforzati <strong>di</strong> neutralizzare, per quel che è giusto, la nozione <strong>di</strong> potere, ovvero <strong>di</strong><br />

non demonizzarla, dobbiamo metterne in evidenza almeno due aspetti problematici, entrambi<br />

legati al momento della <strong>di</strong>seguaglianza. Uno è un problema assai generalmente filosofico, e<br />

come tale non potremo approfon<strong>di</strong>rlo qui: è la richiesta, rivolta anche al potere politico, come a<br />

quello religioso, psicologico, economico, <strong>di</strong> giustificarsi rispetto ad un'idea <strong>di</strong> libertà e <strong>di</strong><br />

autonomia degli esseri umani. In quanto sia problema <strong>di</strong> libertà politica, vi ritorneremo sopra<br />

nell'apposito paragrafo. L'altro aspetto deriva al potere politico dal suo essere incar<strong>di</strong>nato nella<br />

<strong>di</strong>seguaglianza e scarsità, con<strong>di</strong>zioni che non possono non essere in perenne tensione con<br />

l'ideale <strong>di</strong> un'eguaglianza <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti e <strong>di</strong> poteri che ha animato concezioni e pratiche che vanno<br />

dall'isonomia (essere la legge eguale) greca alla democrazia moderna. Non è solo che le<br />

proclamazioni <strong>di</strong> quella eguaglianza hanno sempre, o quasi, contenuto un momento ideologico,<br />

<strong>di</strong> falsa coscienza: Atene escludeva dalla vita della polis donne, schiavi e meteci, e Thomas<br />

Jefferson, l'estensore della Declaration of Independence (all men are created equal), era<br />

proprietario <strong>di</strong> schiavi. È che la verticalità stessa del potere (alto-basso) sta in contrasto, e per<br />

alcuni in contrad<strong>di</strong>zione, con l'idea <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza - tanto più nella modernità, in cui questa<br />

verticalità da un lato si accentua (altro sono le relazioni quasi `faccia a faccia' nella polis, altro<br />

quelle fra governanti e governati nella grande macchina degli Stati territoriali, cfr. G. Sartori,<br />

La politica, Sugarco, Milano 1979, pp. 189-196), dall'altro <strong>di</strong>viene semplicemente più visibile e<br />

più contestata. Questa tensione, questa necessità <strong>di</strong> giustificare il <strong>di</strong>slivello <strong>di</strong> potere<br />

connaturato all'associazione politica è uno dei temi fondativi della teoria <strong>di</strong> Rousseau, che per<br />

risolverla la estremizza: solo “l'alienazione totale <strong>di</strong> ciascun associato con tutti i suoi <strong>di</strong>ritti a<br />

tutta la comunità” garantisce la perfetta eguaglianza dei sud<strong>di</strong>ti-citta<strong>di</strong>ni, giacché se tutti hanno<br />

alienato tutto senza riserve, a nessuno resta nulla da riven<strong>di</strong>care. Il carattere totale del potere ne<br />

garantisce paradossalmente l'eguaglianza e quin<strong>di</strong> massimamente lo legittima:<br />

infine, chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale<br />

ciascuno non acquisti un <strong>di</strong>ritto pari a quello che egli cede su <strong>di</strong> sé, tutti guadagnano<br />

l'equivalente <strong>di</strong> quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

hanno (Le Contrat social, libro I, cap. VI).<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

7. Potere, forza, violenza, consenso, coman<strong>di</strong>/norme<br />

Possiamo formulare a questo punto una seconda definizione <strong>di</strong> politica comprensiva degli<br />

elementi fin qui illustrati: essa è quell'attività sociale che, in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> scarsità e<br />

<strong>di</strong>seguaglianza, re<strong>di</strong>stribuisce risorse (o beni), materiali e relazionali, allocandole<br />

autoritativamente, cioè tramite un potere legittimo, garantito in ultima istanza (quanto<br />

all’efficacia, non alla legittimità) dal monopolio della forza. Tale allocazione, possiamo<br />

aggiungere, avviene finalizzando gli interventi del potere secondo un <strong>di</strong>segno più generale o più<br />

occasionale e particolare (del resto, anche il politico più ideologicamente pianificatore tiene<br />

presenti le situazioni e le reazioni del momento). Valgono pure qui, s'intenda, le osservazioni<br />

riguardanti la politica fra gli Stati e nel mondo fatte nel cap. 5. E occorre aggiungere che questa<br />

definizione copre la politica così com’è stata fino ad oggi e tuttora è, mentre nella nostra epoca,<br />

che è già al <strong>di</strong> là della modernità, la globalizzazione ed ancor più le sfide globali pongono<br />

ormai alla comunità politica problemi che la politica com’è stata finora non è in grado <strong>di</strong><br />

risolvere. Per tutto questo si veda il cap. 21, che è dunque coessenziale al presente. Definire la<br />

politica non è opera che finisca in questo capitolo, né che si possa fare una volta per tutta<br />

l’eternità.<br />

A questa definizione dobbiamo aggiungere un commento ed alcune specificazioni. Il<br />

commento è che essa, non giuocando su una finalità o senso o valore fondamentale della<br />

politica, bensì sulle sue modalità, non implica tuttavia una scelta a favore <strong>di</strong> una concezione<br />

`realistica', tutta basata sull'egoismo in<strong>di</strong>viduale o <strong>di</strong> gruppo come unica vera fonte dell'attività<br />

politica. I fini particolari, che <strong>di</strong> per sé non ci sembrano in grado <strong>di</strong> definire la politica in modo<br />

scientificamente comprensivo, non ne sono esclusi, tranne che essi tendano a negare (per<br />

utopismo extramondano, o per negazione cinica <strong>di</strong> ogni interesse comune) lo spazio stesso<br />

dell'agire politico; e se essi debbano essere compatibili con l'interesse <strong>di</strong> potenza o <strong>di</strong><br />

arricchimento dei singoli od invece con norme universali <strong>di</strong> giustizia o libertà la definizione<br />

non <strong>di</strong>ce. Dice solo che, quali che siano i fini, perseguirli politicamente significa in ogni caso<br />

compiere le azioni descritte nella definizione stessa.<br />

Una scelta è invece contenuta nella definizione a favore <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sidentificazione del potere<br />

con la mera forza. Abbiamo già offerto argomenti in questo senso, ma altri vanno illustrati. Uno<br />

proviene da un'ulteriore opzione preliminare: le motivazioni <strong>di</strong> chi agisce politicamente (e più<br />

generalmente socialmente) non possono - nemmeno euristicamente - essere ricondotte al mero<br />

calcolo d'utilità compiuto da attori razionali, o a questi per ipotesi assimilabili. La politica è un<br />

impasto <strong>di</strong> calcolo lucido o furbo e <strong>di</strong> pregiu<strong>di</strong>zi, i<strong>di</strong>osincrasie, motivazioni ideali tutte filtrate<br />

attraverso simboli (tema sul quale si rinvia all'apposito paragrafo). In questo senso<br />

l'atteggiamento <strong>di</strong> chi subisce una situazione <strong>di</strong> potere è un atteggiamento in cui c'è il<br />

riconoscimento o <strong>di</strong> una qualche convenienza razionalmente calcolata nell'ubbi<strong>di</strong>re, o <strong>di</strong> una<br />

motivazione ad ubbi<strong>di</strong>re che abbia ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>verse dal calcolo raziocinante della convenienza, per<br />

esempio la suggestione; il potere, grazie al suo simbolismo, ai suoi meccanismi emozionali, ai<br />

miti che riesce a mettere in moto, al fascino che esercita sui propri destinatari può indurli ad<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

agire come il titolare del potere desidera. Questo ha una conseguenza importante perché vuol<br />

<strong>di</strong>re che il potere, proprio perché consiste anche <strong>di</strong> questi elementi, può causare azioni in<br />

positivo, mentre la mera forza, che in quanto coercizione fisica possiamo altrettanto chiamare<br />

violenza, può solo avere effetti omissivi, cioè solo costringere colui su cui si esercita a non fare<br />

certe cose. Inoltre la specificità della violenza e del potere ridotto a mera forza consiste<br />

nell'intervenire o sul corpo stesso dei dominati, mettendo loro le manette, mandandoli in<br />

prigione o <strong>di</strong>etro un filo spinato in un campo <strong>di</strong> concentramento, sparando loro addosso, oppure<br />

agendo sempre in senso fisico sull'ambiente fisico verso il quale i dominati hanno un rapporto<br />

vitale <strong>di</strong> <strong>di</strong>pendenza: per esempio è violenza anche l'impe<strong>di</strong>re a una persona o ad una<br />

popolazione <strong>di</strong> ricevere il cibo o l'acqua. Il potere è invece un'articolata relazione mentale e<br />

motivazionale fra gli attori.<br />

V'è tuttavia in politica un caso in cui il potere si riduce al mero esercizio della forza fisica<br />

da parte <strong>di</strong> un'istituzione politica (Stato o partito, in questo secolo); si ha allora il fenomeno<br />

detto del terrorismo <strong>di</strong> Stato o della violenza terroristica <strong>di</strong> Stato, che ha la caratteristica <strong>di</strong><br />

essere completamente extra legem, al <strong>di</strong> fuori della legge, avendo le caratteristiche dell'assoluta<br />

impreve<strong>di</strong>bilità e smisuratezza, vale a <strong>di</strong>re dell'assoluta irrelazione con le cause, le occasioni e<br />

anche le vittime su cui essa sia applica. È la violenza che proprio per il suo carattere extralegale,<br />

del tutto impreve<strong>di</strong>bile e smisurato, è propria nel mondo moderno solo degli Stati<br />

totalitari. Non che questo esaurisca la definizione <strong>di</strong> totalitarismo, ma ne è uno degli aspetti. Per<br />

quanto riguarda poi la scena internazionale, si vedrà nei capp. 16-18 che la guerra<br />

`clausewitziana', quella intessuta <strong>di</strong> politica, non può propriamente equipararsi al mero<br />

esercizio della forza fisica; questo si può <strong>di</strong>re piuttosto <strong>di</strong> un tipo <strong>di</strong> guerra, la guerra <strong>di</strong><br />

sterminio compresa quella nucleare. Nelle relazioni internazionali insomma la <strong>di</strong>stinzione fra<br />

potere e forza può esser fatta valere, ma non esattamente negli stessi termini qui delineati per la<br />

politica interna ad una comunità. Del resto va oggi aggiunto che la separazione <strong>di</strong> politica<br />

interna ed internazionale si va assottigliando, e sarà presto necessario ripensare tutte queste<br />

<strong>di</strong>stinzioni e relazioni.<br />

Quanto nella relazione <strong>di</strong> potere la parte dell'applicazione della forza sia grande rispetto alla<br />

parte relativa al consenso, e quin<strong>di</strong> al riconoscimento sia <strong>di</strong> una situazione <strong>di</strong> inferiorità da parte<br />

<strong>di</strong> chi il potere lo subisce, sia dell'opportunità <strong>di</strong> un suo volontario adeguamento ai coman<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

chi lo detiene, e quale sia (in termini rozzamente quantitativi) la percentuale che spetti alla<br />

forza ovvero violenza da una parte, e al consenso dall'altra, questa non è una questione teorica,<br />

ma empirica. Teorico è solamente l'assunto che se il potere si riduce a violenza ed elimina<br />

completamente il consenso, si può dubitare che si tratti ancora <strong>di</strong> potere politico, venendo<br />

tendenzialmente a cadere la possibilità <strong>di</strong> legittimarlo. Come <strong>di</strong>ceva Sant'Agostino a questo<br />

livello non c'è più <strong>di</strong>fferenza tra regnum e latrocinium, cioè il potere è come se fosse esercitato<br />

da una banda <strong>di</strong> ladroni perché, aggiungeva Agostino, viene a mancare completamente<br />

l'elemento della giustizia. Non occorre far nostro questo canone normativo (teologico) per<br />

sostenere che, dove rimanga il solo elemento della forza, non c'è più nessuna ragione <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stinguere i regna dai latrocinia. Non a caso il regime nazionalsocialista è stato anche visto<br />

come un Nicht-Staat, un non-Stato.<br />

La questione forza/violenza è una questione in parte lessicale. L'uso corrente, da cui è<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

<strong>di</strong>fficile ricavare una definizione canonica, è orientato verso l'affermazione che, usando `forza',<br />

si sottolinea l'aspetto sia organizzato, sia legittimo della forza medesima, mentre quando si usa<br />

`violenza', si vuole mettere l'accento sul suo aspetto <strong>di</strong> coazione fisica, non necessariamente<br />

contro ogni norma giuri<strong>di</strong>ca, ma in<strong>di</strong>pendentemente dalla presenza o meno <strong>di</strong> una normazione<br />

giuri<strong>di</strong>ca sull'uso della forza fisica.<br />

L'uso corrente ci indurrebbe a parlare <strong>di</strong> forza nei confronti della forza fisica usata da<br />

istituzioni politiche legittime, mentre dovremmo usare violenza quando la forza è usata da<br />

istituzioni non legittime, che <strong>di</strong>ventano latrocinia, oppure viene usata da istituzioni legittime,<br />

ma in modo illegale. Se la polizia reprime un certo reato per il bene comune dei citta<strong>di</strong>ni, si usa<br />

<strong>di</strong>re che lo ha fatto usando la propria forza legittima statuale; se la polizia compie degli abusi o<br />

in casi singoli nello Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, o reprimendo sanguinosamente una manifestazione<br />

popolare democratica in una <strong>di</strong>ttatura, si <strong>di</strong>ce che usa la violenza. Naturalmente tutto si<br />

confonde quando questo linguaggio rientra nel gioco <strong>di</strong> chi vuol <strong>di</strong>mostrare certe tesi, ad<br />

esempio che ogni potere statuale, ed in particolare ogni potere repressivo, al <strong>di</strong> là del manto <strong>di</strong><br />

legittimità o <strong>di</strong> legalità <strong>di</strong> cui si ammanta, altro non è in realtà che violenza. Questa è questione<br />

<strong>di</strong> specifiche posizioni valutative e quin<strong>di</strong> la lasciamo da parte, trovandoci ora sul piano delle<br />

definizioni che, per servire a qualcosa, devono tentare <strong>di</strong> essere avalutative, o me<strong>di</strong>amente<br />

neutrali.<br />

Un altro schiarimento lessicale: norme o coman<strong>di</strong>. La definizione corretta, perché più<br />

comprensiva, è `coman<strong>di</strong>'; il potere emette coman<strong>di</strong>, che nello Stato moderno che noi<br />

conosciamo, e la cui funzione è principalmente la produzione, l'esecuzione e l'accertamento del<br />

<strong>di</strong>ritto, assumono la veste giuri<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> norme. Qui i coman<strong>di</strong> sono espressi attraverso norme<br />

primarie, che ci <strong>di</strong>cono cosa dobbiamo fare o non fare, e norme secondarie, che ci <strong>di</strong>cono come<br />

interpretare, gestire, eseguire le norme primarie. Le norme primarie e secondarie costituiscono<br />

insieme l'or<strong>di</strong>namento giuri<strong>di</strong>co, concetto delicatissimo <strong>di</strong> cui non oso dare ulteriori definizioni.<br />

Se vogliamo una definizione <strong>di</strong> ciò a cui si obbe<strong>di</strong>sce nel potere, una definizione che sia<br />

<strong>di</strong>acronicamente valida, cioè non limitata ad un periodo storico, dobbiamo <strong>di</strong>re `coman<strong>di</strong>'.<br />

Pren<strong>di</strong>amo l'esempio famoso del libro V della Guerra del Peloponneso <strong>di</strong> Tuci<strong>di</strong>de, quando la<br />

città <strong>di</strong> Melo non vuole entrare nell'alleanza antispartana, e gli ateniesi <strong>di</strong>cono che se i meli non<br />

entrano li mettono in pericolo, che se non entrano è peggio per loro: alla fine, visto che i meli<br />

con le loro ragioni si rifiutano, gli ateniesi abbattono Melo stessa (è un luogo famoso per la<br />

concezione del potere nella politica internazionale, e ancor più per <strong>di</strong>scutere il rapporto tra<br />

morale e politica). Quello che gli ateniesi danno ai melii è un comando, <strong>di</strong> fronte al quale, se<br />

non viene ubbi<strong>di</strong>to, sono minacciate e poi imposte sanzioni; ma non è una norma giuri<strong>di</strong>ca,<br />

anche se gli ateniesi offrono un'argomentazione per sostenere la loro richiesta, che rinvia, si<br />

<strong>di</strong>rebbe modernamente, alle ragioni della propria sicurezza nazionale. Insomma, se a proposito<br />

del potere in generale, usiamo la nozione <strong>di</strong> norme anziché quella <strong>di</strong> coman<strong>di</strong>, ci preclu<strong>di</strong>amo la<br />

possibilità <strong>di</strong> includervi il potere non giuri<strong>di</strong>camente organizzato, come parte <strong>di</strong> quello<br />

premoderno, e come quello interstatale - anche se <strong>di</strong> questo occorre <strong>di</strong>re che ormai tende<br />

sempre più ad organizzarsi in forme giuri<strong>di</strong>che.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

8. Due vedute <strong>di</strong>verse (Foucault e Schmitt) e i caratteri <strong>di</strong> quella qui<br />

esposta.<br />

Farò solo un accenno a due altri stu<strong>di</strong>osi le cui vedute della politica e del potere non solo<br />

<strong>di</strong>vergono abbondantemente l'un dall'altra, ma sono <strong>di</strong>verse dalla linea concettuale seguita qui,<br />

e sulla quale farò in fondo alcune osservazioni..<br />

Michel Foucault (1926-1984, autore fra l'altro <strong>di</strong> Storia della follia nell'età classica,<br />

Sorvegliare e punire, Le parole e le cose, Storia della sessualità), se avesse fatto un corso<br />

sistematico <strong>di</strong> filosofia politica, avrebbe presentato il potere in maniera <strong>di</strong>versa da quella qui<br />

adottata, o negli scritti <strong>di</strong> Norberto Bobbio; avrebbe messo in luce il lato nascosto, perverso, e<br />

variegato del potere come lo abbiamo definito in queste lezioni. Il centro dell'interesse <strong>di</strong><br />

Foucault è quello, <strong>di</strong>rò con il Foscolo (che probabilmente nessuno più legge o cita), <strong>di</strong> far<br />

vedere, del potere, “<strong>di</strong> che lacrime gron<strong>di</strong> e <strong>di</strong> che sangue”. Foucault non è interessato<br />

all'aspetto giuri<strong>di</strong>co, formale, strategico della definizione del potere, è interessato a far vedere i<br />

meccanismi, le azioni, i <strong>di</strong>spositivi concreti ed appunto anche psichici e corporei (le pratiche<br />

seguite negli ospedali, nelle carceri, nei manicomi), su cui il potere, soprattutto nelle società<br />

moderne, si fonda. Quin<strong>di</strong>, mentre nella definizione del potere che noi abbiamo dato la violenza<br />

è stata considerata elemento necessario ma non sufficiente, mentre noi abbiamo cercato <strong>di</strong> dare<br />

una definizione complessa del potere ed abbiamo aperto la strada alla tematica della<br />

legittimazione del potere, l'in<strong>di</strong>rizzo foucaultiano è quello <strong>di</strong> mostrare che è la violenza<br />

dell'uomo sull'uomo, e cioè sul corpo dell'uomo, la ra<strong>di</strong>ce ultima del potere, messa in opera o<br />

solo minacciata che essa sia. Foucault <strong>di</strong>ce, rovesciando la frase <strong>di</strong> Clausewitz: “la politica altro<br />

non è che la continuazione della guerra con altri mezzi”. Tutta l'immane opera <strong>di</strong> Foucault -<br />

essa va al <strong>di</strong> là dei confini <strong>di</strong>sciplinari, non è né strettamente filosofia politica, né antropologia,<br />

né filosofia morale, né psicologia, né storia: è tutte queste cose come è proprio dei gran<strong>di</strong><br />

innovatori, nei quali i confini <strong>di</strong>sciplinari si sfaldano - è in<strong>di</strong>rizzata ad analizzare tutta la<br />

convivenza sociale e politica come un meccanismo <strong>di</strong> compressione, <strong>di</strong>storsione,<br />

regolamentazione <strong>di</strong> pulsioni, soprattutto della sessualità, dei bisogni e della corporeità. Questa<br />

è una grande prospettiva, però non è la mia, e non percorrerla non vuol <strong>di</strong>re negarne ogni<br />

vali<strong>di</strong>tà o valore conoscitivo; semplicemente io non sono d'accordo con la visione <strong>di</strong> fondo,<br />

appunto con il Clausewitz rovesciato; penso anzi che il motivo d'interesse fondamentale della<br />

politica stia nel vedere che essa non si identifica con la guerra, o meglio che contiene la guerra,<br />

ma a questa non si riduce. Penso poi che già in Foucault, ma ancora peggio nei suoi seguaci, il<br />

potere venga percepito in maniera talmente onnipresente ed onnipervasiva che esso <strong>di</strong>venta un<br />

processo <strong>di</strong>ffuso, nel senso peggiorativo: qualcosa cioè che ha confini concettuali non<br />

sufficientemente definiti e risulta quin<strong>di</strong> nozione analiticamente poco utilizzabile.<br />

Carl Schmitt (1888-1986, giurista cattolico e poi temporaneamente nazista; qui ricor<strong>di</strong>amo<br />

Der Begriff des Politischen, 1927, tr. it. Le categorie del politico, e Der Nomos der Erde, 1951,<br />

tr. it. Il Nomos della terra) cerca <strong>di</strong> determinare ciò che fa della politica una sfera autonoma<br />

dalle altre (`autonomia del politico', con l'insistenza sull'aggettivo sostantivato), e lo ritrova<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

nell'opposizione amico-nemico che giace a fondo <strong>di</strong> qualsiasi relazione politica ed è<br />

caratteristica soltanto <strong>di</strong> queste (mentre in morale vale quella bene-male, in estetica bello-brutto<br />

ecc.). Il nemico politico (hostis) va tenuto separato da quello privato (inimicus). La guerra è la<br />

realizzazione estrema <strong>di</strong> questa inimicizia, la reale possibilità <strong>di</strong> uccisione fisica. Questa visione<br />

viene contrapposta da Schmitt a quella liberale, che secondo lui <strong>di</strong>ssolve l'inimicizia in<br />

<strong>di</strong>scussione, eticizzando il rapporto, o in concorrenza, spostandolo sul piano dell'economico.<br />

Riporto solo schematicamente il pensiero <strong>di</strong> Schmitt perché occorre darne conto, trattandosi<br />

<strong>di</strong> un classico della filosofia politica del Novecento, pur se non raccogliamo l'impostazione.<br />

Essa, pur sempre un antidoto a visioni troppo ireniche della politica, costituisce tuttavia o una<br />

schematizzazione, impoverita sulla coppia base amico-nemico, del complesso mondo del<br />

potere e della forza; ovvero lo focalizza unilateralmente sull'inimicizia e lo scontro, mentre <strong>di</strong><br />

esso fanno parte pure, ad altro titolo, l'or<strong>di</strong>ne e la pace. Del resto, alla fine del secolo che ha<br />

creato la <strong>di</strong>mensione planetaria e quelli che verranno più in là trattati come `problemi globali',<br />

una visione della politica modellata sui rapporti tra<strong>di</strong>zionalmente antagonistici degli Stati<br />

territoriali appare comunque non in grado <strong>di</strong> coprire le nuove realtà.<br />

* * *<br />

Per quanto infine riguarda la visione della politica partendo dalla quale sono scritte le<br />

presenti <strong>di</strong>spense, è chiaro (e lo sarà ancor più alla fine) il suo debito con la teoria realista, che<br />

ritiene che la politica non si possa capire se non si parte dai problemi <strong>di</strong> sicurezza e<br />

sopravvivenza degli in<strong>di</strong>vidui e delle comunità. Alle spalle sta un certo pessimismo<br />

antropologico: si può non fare politica, ma se la si fa non si può non accettare il peccato<br />

originario del potere, che è quello <strong>di</strong> essere pur sempre potere dell’uomo sull’uomo, anche se<br />

legittimo ed usato a fini benefici (ed anche se ciò non implica ovviamente alcun servaggio<br />

personale). Ciò non taglia alla ra<strong>di</strong>ce la possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>scutere de optima repubblica, ma ritiene<br />

che abbia senso farlo solo se si sa come si formano, si reggono e collassato i governi che gli<br />

uomini si sono effettivamente dati nei secoli. Una teoria della giustizia non informata <strong>di</strong> tutto<br />

questo, e che non si sottoponga alla fatica <strong>di</strong> intrecciare questa conoscenza con la ricerca della<br />

miglior giustizia possibile in una data epoca storica, risulta a questo autore peccare <strong>di</strong> futilità,<br />

accademica o pre<strong>di</strong>catoria, e <strong>di</strong> non prendersi davvero carico delle esigenze <strong>di</strong> giustizia dei<br />

governati.<br />

Questo spiega la centralità della categoria <strong>di</strong> potere, senza la quale nulla della politica si<br />

capisce, né si costruisce una miglior politica. Del potere non possiamo poi fare a meno, oltre<br />

che nell’analisi, nella pratica politica stessa: non solo perché siamo troppo lontani dalla fine<br />

della scarsità e della <strong>di</strong>seguaglianza, che porrebbe termine al conflitto che dalla politica è<br />

regolato; né siamo più vicini ad una purificazione culturale (umanistica, religiosa) <strong>di</strong> uomini e<br />

donne che verrebbero così liberati da ogni interesse o movente particolaristico. Ma anche<br />

perché senza essere governati la vita associata sarebbe così infinitamente più gravosa ed<br />

ingestibile, se cioè venisse meno la funzione <strong>di</strong> “sgravio” (Entlastung, nel senso<br />

dell’antropologo tedesco Arnold Gehlen, 1904-1976) che il <strong>di</strong>spositivo del potere e della<br />

politica esercitano a nostro vantaggio (a costo, s’intende, della nostra rinuncia al totale<br />

autogoverno) rispetto alla complessità enorme della vita associata Alle spalle sta il antiorganicismo:<br />

è un’illusione, talora inconfessata, pensare che la società possa regolarsi da sola in<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

un rapporto fra eguali, anche la più sviluppata democrazia abbisogna dell’asimmetrico (altobasso)<br />

potere politico per sopravvivere e funzionare. L’importante è che le asimmetrie in esso<br />

contenute siano le minori possibili, vengano limitate da vari <strong>di</strong>spositivi e non si perpetuino<br />

Né si può <strong>di</strong>menticare la <strong>di</strong>mensione critica contenuta nella veduta della politica attraverso<br />

il prisma del potere, soprattutto oggi che esso è <strong>di</strong>venuto in Occidente almeno meno crudele e<br />

più sottile: essa ci serve a svelare i meccanismi e le funzionalità della società politica, a capire<br />

meglio non solo chi comanda, ma perché comanda, con quanto assenso cioè dei comandati.<br />

Del resto, nell’accezione qui perseguita potere non è eguale al dominio, non è<br />

automaticamente Herrschaft come in tedesco: tale angolazione ci invita piuttosto a pensare <strong>di</strong><br />

quanto potere ci sia bisogno e <strong>di</strong> quanto possiamo fare a meno, limitandolo e controllandolo.<br />

Questa angolazione contiene dunque l’essenza classica del liberalismo.<br />

Inoltre nello sviluppo in questo volume della riflessione sulla politica del nostro tempo il<br />

lettore troverà che l’ispirazione realista <strong>di</strong> partenza si stempera fino a (hegelianamente)<br />

<strong>di</strong>leguarsi <strong>di</strong>nanzi alle “sfide globali” e ad altri fenomeni globalizzanti (cf. l’omonimo capitolo<br />

20). Queste sfide ripropongono in chiave ine<strong>di</strong>ta <strong>di</strong>lemmi normativi e fin etici alla politica.<br />

9. I fini della politica<br />

Il titolo <strong>di</strong> questo paragrafo sembra contrad<strong>di</strong>re a quanto sopra si è detto a proposito del<br />

carattere non finalistico della definizione <strong>di</strong> politica qui fornita. Non è così, o meglio <strong>di</strong>pende<br />

da che cosa s'intende per fine. Noi non <strong>di</strong>ciamo, per esempio, che fine della politica è <strong>di</strong><br />

produrre il bene degli uomini (e delle donne). E qui sembra opportuno schiarire il concetto <strong>di</strong><br />

bene comune, in cui ci si può imbattere in questo contesto.<br />

Il concetto <strong>di</strong> bene comune è, come tutti sanno, un concetto aristotelico, poi scolastico e poi,<br />

nell'età moderna, un concetto che implica una definizione sostantiva della politica, che in<strong>di</strong>ca<br />

cioè come fine della politica il raggiungimento <strong>di</strong> questo o quel fine ovvero valore, in cui<br />

risiederebbe il bene comune, e, secondo importantissimo aspetto, questo coincide con una<br />

concezione che pone la comunità, <strong>di</strong> cui si vuole fare il bene, al <strong>di</strong> sopra degli in<strong>di</strong>vidui; <strong>di</strong><br />

solito considerando il rapporto tra in<strong>di</strong>vidui e comunità come il rapporto delle membra con<br />

l'organismo intero. Quin<strong>di</strong> si tratta <strong>di</strong> un antin<strong>di</strong>vidualismo organicistico. Il bene della comunità<br />

è superiore agli in<strong>di</strong>vidui ed il bene degli in<strong>di</strong>vidui si fa solo nella comunità come il bene delle<br />

membra è solo possibile nell'insieme del corpo. Nell'età moderna, man mano che la politica<br />

viene ad essere definita piuttosto per le sue modalità, i suoi co<strong>di</strong>ci, i suoi mezzi che non per i<br />

suoi fini, perché <strong>di</strong>venta impossibile trovare un fine, un bene sulla cui delineazione ci sia un<br />

accordo abbastanza largo da poterci fondare la comunità politica moderna, il concetto <strong>di</strong> bene<br />

comune assume connotazioni sempre più tra<strong>di</strong>zionalistiche, con volontà restauratrice <strong>di</strong> una<br />

società armonicamente compatta, vergine <strong>di</strong> conflitti ed egoismi.<br />

Tuttavia nel neocontrattualismo contemporaneo c'è una specie <strong>di</strong> recupero, in questa che è<br />

la corrente più kantiana, e quin<strong>di</strong> più proceduralistica, del concetto <strong>di</strong> bene comune. Per<br />

esempio la definizione che ne dà Rawls è quella che il bene comune consiste nel mantenere le<br />

con<strong>di</strong>zioni e nel conseguire gli obiettivi che è verosimile che concorrano al vantaggio <strong>di</strong><br />

ciascuno: l'esempio che fa Rawls è quello che in una nave è al capitano che è affidato il bene<br />

32


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

comune dell'equipaggio e dei passeggeri. Al <strong>di</strong> là dell'omonimia si tratta dell'opposto del bene<br />

comune aristotelico, o almeno dell'opposto del bene comune come bene della comunità, perché<br />

il common good rawlsiano è il bene comune complessivo dei membri e non della comunità: i<br />

soggetti ultimi, i destinatari <strong>di</strong> questo bene sono i membri della comunità e non la comunità<br />

stessa.<br />

Cosa tutta <strong>di</strong>versa è poi il concetto <strong>di</strong> bene pubblico o bene collettivo, la cui caratteristica è<br />

quella <strong>di</strong> essere in<strong>di</strong>visibile: il go<strong>di</strong>mento e la <strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> questi beni, per la natura stessa <strong>di</strong><br />

essi, non sono asimmetrici e conflittuali (si può anche <strong>di</strong>re antagonistici): l'aria buona è una<br />

cosa <strong>di</strong> cui tutti godono in maniera uguale; la sicurezza pubblica è una cosa <strong>di</strong> cui tutti godono,<br />

ricchi e poveri, vecchi e giovani, uomini e donne. La <strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> beni siffatti non è un<br />

problema perché, se ci sono, essi sono naturaliter <strong>di</strong>stribuiti ugualmente per tutti. Il concetto <strong>di</strong><br />

bene pubblico o bene collettivo può rinviare ad un altro concetto che è quello <strong>di</strong> interesse<br />

<strong>di</strong>ffuso. L'interesse è l'approccio soggettivo ai beni. Gli interessi <strong>di</strong>ffusi sono quelli che<br />

riguardano tutti in<strong>di</strong>stintamente, in<strong>di</strong>pendentemente cioè dalle comuni sud<strong>di</strong>visioni sociali per<br />

età, per sesso, per censo, per status, per etnia; e siccome hanno questo carattere, essi non<br />

trovano nel moderno mercato politico democratico sostenitori e rischiano <strong>di</strong> essere trascurati e<br />

sacrificati. Fino ad adesso l'interesse all'aria pulita è un interesse <strong>di</strong>ffuso, che siccome è <strong>di</strong> tutti<br />

ma <strong>di</strong> nessuno in particolare, e <strong>di</strong> nessuna <strong>di</strong> quelle lobby del cui gioco consiste il mercato<br />

politico nelle democrazie, l'aria pulita fino ad adesso non ha avuto sostenitori e solo <strong>di</strong> recente<br />

qualcosa sta cambiando.<br />

Orbene, non è in un qualche bene comune o in qualche virtù che scorgiamo il fine della<br />

politica. C'è chi lo fa anche oggi - i neoaristotelici come Alasdair MacIntyre (After Virtue,<br />

1981) ed in genere i communitarians, coloro che riven<strong>di</strong>cano l'essenzialità e priorità della<br />

comunità rispetto all'in<strong>di</strong>vidualismo liberal <strong>di</strong> un Rawls - ma noi siamo qui alla ricerca <strong>di</strong> una<br />

definizione la più generalmente accettabile e meno unilaterale possibile della politica. Non ci<br />

poniamo per nulla in un atteggiamento prescrittivo: la politica dev'essere questo o quello.<br />

Cerchiamo solo <strong>di</strong> capire se l'agire politico, qualunque sia l'obiettivo che esso si pone, è tale che<br />

- guardandolo dal <strong>di</strong> fuori come osservatore, non ponendosi al suo interno in modo prescrittivo,<br />

come partecipante (la <strong>di</strong>stinzione osservatore-partecipante è della massima importanza nella<br />

teoria sociale e politica) - si possa tuttavia <strong>di</strong>re che esso produce volens nolens un qualche esito<br />

che sempre si presenta, e del quale si possa dunque <strong>di</strong>re che si tratta <strong>di</strong> una finalità interna della<br />

politica; che insomma da qualunque processo che sia me<strong>di</strong>ato dal potere politico ci si può<br />

attendere che produca quel risultato, vi concorra o no la volontà consapevole degli attori.<br />

Sosterrò nel paragrafo seguente la tesi che quel risultato, che si può considerare la finalità<br />

interna della politica, è l'or<strong>di</strong>ne.<br />

10. I concetti <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne ed istituzione<br />

33


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Or<strong>di</strong>ne è considerato un concetto proprio della destra e quin<strong>di</strong> aborrito dalla sinistra. Credo<br />

che l'i<strong>di</strong>osincrasia, che purtroppo si trova ancora residuale perfino negli ambienti scientifici, a<br />

<strong>di</strong>scutere il problema dell'or<strong>di</strong>ne sia una forma antiscientifica <strong>di</strong> ottusità <strong>di</strong>nanzi a ciò che il<br />

problema dell'or<strong>di</strong>ne è stato ed è. L'or<strong>di</strong>ne è uno dei problemi fondamentali della filosofia<br />

politica e possiamo <strong>di</strong>re che abbia due corni: in uno ci si chiede perché c'è e ci può essere un<br />

or<strong>di</strong>ne anziché il caos, l'isolamento degli attori del processo politico, la mancanza <strong>di</strong> regole e <strong>di</strong><br />

un potere che le faccia rispettare nelle loro interazioni. Ma dell'or<strong>di</strong>ne si può avere anche una<br />

nozione più forte, contrapponendolo non semplicemente al <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne, all'irregolarità nel seguirsi<br />

degli avvenimenti, bensì all'anarchia, nel senso proprio <strong>di</strong> mancanza <strong>di</strong> governo, <strong>di</strong> un potere<br />

comune - come anarchia c'era ed in parte c'è ancora fra gli Stati. Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> queste due facce<br />

descrittive del concetto <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne ve n'è una ulteriore, normativa ovvero qualitativa: l'or<strong>di</strong>ne in<br />

quanto giusto o equo o buono o superiore, cui si accennerà nella parte finale <strong>di</strong> questo testo,<br />

quando ci occuperemo tematicamente <strong>di</strong> norme e valori. Notiamo infine esplicitamente che il<br />

problema dell'or<strong>di</strong>ne politico, più manifestamente degli altri, riguarda tanto le relazioni<br />

politiche fra gli in<strong>di</strong>vidui, quanto le relazioni fra gli enti politici supremi, cioè gli Stati.<br />

L'altro problema è: c'è un or<strong>di</strong>ne specificamente politico? La prima domanda - perché<br />

l'or<strong>di</strong>ne - non è in realtà assolutamente specifica della filosofia politica, riguardando altrettanto<br />

la filosofia della società; anziché <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne politico alcuni preferiscono parlare <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne sociale,<br />

perché gli uomini vivono in società e non vivono isolati o con rapporti occasionali, le cui regole<br />

cioè sono stabilite occasionalmente e non con regolarità. Il secondo corno del problema<br />

dell'or<strong>di</strong>ne ha invece una formulazione esclusivamente interna al terreno politico: c'è un or<strong>di</strong>ne<br />

propriamente politico, oppure l'or<strong>di</strong>ne politico deriva da altri or<strong>di</strong>ni, è il prodotto, il fenomeno,<br />

il deposito <strong>di</strong> altri or<strong>di</strong>ni, come quello della natura, o l'or<strong>di</strong>ne prescritto dal Signore, o l'or<strong>di</strong>ne<br />

dettato dalle leggi dell'economia o dell'evoluzione sociale.<br />

Vedremo nel prossimo paragrafo i modelli <strong>di</strong> risposta a tutte queste domande: il modello<br />

aristotelico, quello hobbesiano e generalmente contrattualistico, poi le variazioni <strong>di</strong> Hegel e <strong>di</strong><br />

Marx e <strong>di</strong> altri. Dapprima tuttavia cerchiamo <strong>di</strong> definire la nozione <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne nel suo significato<br />

più astratto, che valga, per quanto, può valere, tanto per l'or<strong>di</strong>ne interno, quanto per quello<br />

internazionale o mon<strong>di</strong>ale.<br />

L'or<strong>di</strong>ne, nella sua nozione analitica generica, in<strong>di</strong>ca che vi è una qualche regolarità nella<br />

convivenza degli attori politici. In realtà quando parliamo <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne, specie politico, inten<strong>di</strong>amo<br />

qualcosa <strong>di</strong> più <strong>di</strong> un pallido schema <strong>di</strong> regolarità; la nozione ha un significato più intensivo e<br />

pregnante, contiene alcune qualità. Ovvero noi inten<strong>di</strong>amo con or<strong>di</strong>ne una qualità delle entità<br />

politiche specifica ad esse, e capace <strong>di</strong> autostabilizzarsi, cioè <strong>di</strong> riprodursi fin quando ci saranno<br />

i problemi da cui l'or<strong>di</strong>ne si genera. Riconoscere questa qualità <strong>di</strong> autostabilizzazione all'or<strong>di</strong>ne<br />

non vuol <strong>di</strong>re naturalmente implicare che l'or<strong>di</strong>ne sia <strong>di</strong> per sé atemporale, eterno.<br />

Qualità del concetto politico <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne (anch'esso ha in verità status analitico, ma lo<br />

chiameremo per brevità politico) sono quelle <strong>di</strong> consistere non in una regolarità qualsivoglia,<br />

ma in uno schema <strong>di</strong> regolarità che promuove scopi, produce ed osserva regole e lo fa tramite<br />

strumenti specifici che sono le istituzioni; scopi, regole, istituzioni. (In queste lezioni mi<br />

appoggio molto ai teorici delle relazioni internazionali, in particolare al libro ormai classico <strong>di</strong><br />

34


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Hedley Bull, The Anarchical Society, New York 1977, che non con<strong>di</strong>vido del tutto, ma che è un<br />

grande libro, <strong>di</strong> recente tradotto finalmente in italiano dall’e<strong>di</strong>trice Vita e Pensiero. L'altro<br />

autore al quale mi appoggio è un collega prima <strong>di</strong> Harvard e ora <strong>di</strong> Princeton University, Robert<br />

Keohane, soprattutto per International Institutions and State Power, Boulder 1989.)<br />

Gli scopi principali che un or<strong>di</strong>ne politico promuove sono la preservazione della vita, il<br />

contenimento della violenza, l'osservanza dei patti, e, ad un livello evolutivo superiore, la<br />

garanzia della proprietà e la garanzia <strong>di</strong> un benessere minimo. Non si tratta <strong>di</strong> un coerente e<br />

consapevole finalismo: è piuttosto come se gli in<strong>di</strong>vidui umani, od anche - in misura e forme<br />

<strong>di</strong>verse - gli Stati agissero sempre con piena coscienza <strong>di</strong> quello che fanno e <strong>di</strong> dove vogliono<br />

arrivare, è come se per conseguire questi scopi gli in<strong>di</strong>vidui si accordassero per instaurare un<br />

or<strong>di</strong>ne, come se l'or<strong>di</strong>ne fosse funzionale, interno al complesso <strong>di</strong> scopi che sono, anche per una<br />

concezione non teleologica della politica, gli scopi immanenti ad ogni consociazione politica.<br />

Non c'interessa qui sapere quanto questa finzione del `come se' sia <strong>di</strong>stante dalla realtà, e<br />

quanto l'or<strong>di</strong>ne non sia piuttosto il risultato cieco ed inconsapevole, o magari<br />

controintenzionale, <strong>di</strong> azioni umane che non sono ad esso rivolte. Si può fare filosofia politica<br />

anche senza risolvere questa questione <strong>di</strong> filosofia della storia; del resto è probabile trattarsi <strong>di</strong><br />

un cospirare <strong>di</strong> azioni finalizzate all'or<strong>di</strong>ne con altre estranee a questa intenzione. È invece<br />

giusto sottolineare che, essendo il finalismo proprio dell'agire umano, non c'è da meravigliarsi<br />

che esso si ritrovi anche nell'agire politico e nei suoi prodotti, pur avendo noi escluso la finalità<br />

dalla nostra definizione della politica. Questa esclusione riguardava ogni fine storicamente<br />

concreto, pertinente ad una particolare concezione o pratica della politica, assumere il quale<br />

nella definizione avrebbe reso questa non abbastanza estensiva. Gli scopi dei quali parliamo a<br />

proposito <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne sono un minimo comun denominatore, qualcosa che ogni politica,<br />

in<strong>di</strong>pendentemente dai suoi contenuti e visioni, non può in qualche modo(è una rilevazione<br />

fattuale, non una prescrizione) non perseguire.<br />

Qualcuno va più in là e <strong>di</strong>ce che lo scopo fondamentale della politica è quello <strong>di</strong> produrre la<br />

pace. Questa è la tesi - antischmittiana - <strong>di</strong> uno scienziato politico tedesco della generazione fra<br />

Weimar e Bonn, Dolf Sternberger. È un rappresentante della teoria politica liberale tedesca nel<br />

senso conservatore, non certo un uomo <strong>di</strong> sinistra. Non possiamo <strong>di</strong>scutere qui la proposta <strong>di</strong><br />

Sternberger, ma possiamo reinterpretarla osservando che ogni potere, in quanto potenza<br />

superiore che <strong>di</strong>stribuisce a suo modo le risorse e in quanto monopolio della violenza, tende per<br />

corollario a ridurre la frequenza dei conflitti e a renderli meno cruenti, imponendo una certa<br />

regola che viene almeno per un certo tempo osservata.<br />

Il concetto <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne fin qui esposto esprime alcune caratteristiche <strong>di</strong> base dell'associazione<br />

politica, quali risultano ad un osservatore che ne osservi le regolarità. Si parla a suo proposito<br />

anche <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne minimo. La sua importanza per la convivenza politica è che esso stabilizza le<br />

attese degli attori, riducendo l'incertezza su vita e beni propri, della propria comunità ed anche<br />

dei propri <strong>di</strong>scendenti. Questo risultato può essere in qualche misura già conseguito con la mera<br />

regolarità dell'accadere in quanto cospirante a quegli scopi. In questo senso or<strong>di</strong>ne - si <strong>di</strong>ceva -<br />

non è dunque contrapposto ad anarchia, bensì ad irregolarità, caos. Più concretamente è vero<br />

che, perché quegli scopi vengano consistentemente raggiunti, è necessaria per lo più la presenza<br />

<strong>di</strong> un qualche potere comune riconosciuto. In ogni caso l'or<strong>di</strong>ne (minimo) attinge, per<br />

35


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

instaurarsi e consolidarsi, ad una potente risorsa soggettiva o motivazionale: esso contiene,<br />

canalizza, regola quella grande ra<strong>di</strong>ce antropologica della politica che è la paura sia per vita e<br />

beni, sia per la generica, ma minacciosa, incertezza <strong>di</strong> un mondo presente e futuro troppo<br />

variabile per ispirare fiducia in se stessi e negli altri. Per ridurre la paura, o <strong>di</strong>stribuirla in modo<br />

funzionale alla conservazione dell'associazione è necessario - <strong>di</strong>ce la teoria sistemica della<br />

società (Luhmann, in Italia Zolo) - ridurre la complessità dell'ambiente (sociale,<br />

prevalentemente). Paura, fiducia e soprattutto - nel linguaggio proprio della filosofia politica -<br />

sicurezza sono le categorie che definiscono la funzione ed il significato <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne.<br />

(Notiamo a margine che il rapporto con l’antropologia, sia filosofica sia culturale, è uno dei<br />

capitoli nel Novecento meno esplorati, eppure potenzialmente più produttivi della filosofia<br />

politica.)<br />

Ripren<strong>di</strong>amo ora l'analisi delle caratteristiche <strong>di</strong> quest'ultima. L'or<strong>di</strong>ne politico - si <strong>di</strong>ceva -<br />

produce, osserva e fa osservare regole, che possono essere messe in una qualche sequenza<br />

evolutiva nel senso che le une vengono prima, poi le altre derivano dalle prime; ma non bisogna<br />

prendere questa cosa troppo rigidamente. Le prime regole che si possono riscontrare sono<br />

quelle operative, che semplicemente configurano una regolarità dovuta a motivi pragmatici e<br />

d'utilità nel comportamento politico degli attori; uno dei passi successivi delle regole operative<br />

è la trasformazione in regole formalizzate, giuri<strong>di</strong>che. Non bisogna illudersi che questa sia<br />

l'unica spiegazione della nascita delle regole giuri<strong>di</strong>che, essendovene delle altre; così come non<br />

è vero che sempre le regole nascono prima come operative, poi <strong>di</strong>vengono legali e poi, <strong>di</strong>cono<br />

alcuni, alla fine morali. Questo schema può andar bene per certi perio<strong>di</strong>, mentre oggi non pare<br />

che le regole morali che hanno qualche effetto sull'or<strong>di</strong>ne politico nascano da questa sequenza<br />

genetica (operative - legali - morali), che presa come l'abc della regolarità e dell'or<strong>di</strong>ne è una<br />

banalità fasti<strong>di</strong>osa. Inoltre, va ricordato che in ogni caso aver rintracciato la genesi <strong>di</strong> una regola<br />

non equivale ad un giu<strong>di</strong>zio sulla sua vali<strong>di</strong>tà, per frequente che sia la confusione fra genesi e<br />

vali<strong>di</strong>tà<br />

Infine abbiamo detto che l'or<strong>di</strong>ne politico suole funzionare tramite istituzioni. Non si<br />

equivochi: le istituzioni, parlandone a questo livello astratto, non sono lo Stato, la magistratura<br />

o l'O.N.U. Le istituzioni politiche aventi forma giuri<strong>di</strong>camente definita sono solo un punto<br />

d'arrivo. Io cerco <strong>di</strong> saldare una definizione <strong>di</strong> istituzione che gira nella scienza politica<br />

americana con alcune integrazioni non secondarie riprese dalla tra<strong>di</strong>zione continentale,<br />

soprattutto tedesca.<br />

L'istituzione si può considerare un insieme <strong>di</strong> regole <strong>di</strong> comportamento che è persistente nel<br />

tempo (non dura una giornata, ma si protrae nel tempo). È un insieme interconnesso, le cui<br />

regole configurano nel loro intreccio una trama <strong>di</strong> orientamento dell'agire che non sia<br />

contrad<strong>di</strong>ttoria, che non lasci spazi vuoti, che provveda a regole per interi settori dell'agire<br />

sociale e politico. E l'insieme dev'essere dotato <strong>di</strong> senso. Questa è la definizione,<br />

necessariamente complessa, che io darei <strong>di</strong> `istituzione'. Ora ve<strong>di</strong>amone qualche delucidazione<br />

e corollario.<br />

Le regole <strong>di</strong> comportamento configurano un'istituzione quando esse pongono limiti<br />

all'attività <strong>di</strong>cendo: fino a qui sì e oltre no, vai da questa parte e non da quell'altra, pren<strong>di</strong> questa<br />

linea d'azione e non un'altra, e quando definiscono le attese; questo è molto importante. Non<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

configurano solo il nostro agire imme<strong>di</strong>ato, ponendovi limiti, ma contribuiscono a definire<br />

l'intero campo visivo del nostro agire come in<strong>di</strong>vidui e soggetti collettivi. Ci permettono <strong>di</strong><br />

stabilizzare le nostre attese, perché sappiamo che, se un agire è istituzionalizzato, noi ci<br />

comporteremo così, quegli altri si comporteranno in quel modo e faranno questo anche fra due<br />

anni, oppure anche in quest'altra situazione, e se non si verificherà nessuna delle situazioni<br />

previste, ci sarà comunque, nelle regole <strong>di</strong> cui si nutre un'istituzione, una meta-regola che <strong>di</strong>rà<br />

come agire nel caso in cui le regole presenti non bastino.<br />

È bene precisare il modo in cui le istituzioni definiscono le attese: non definiscono solo<br />

cosa mi posso aspettare, ma mi <strong>di</strong>cono insieme in che modo intenderò io (e gli altri) i ruoli, cioè<br />

definiscono il significato, mi fanno sapere in anticipo quali saranno le possibili motivazioni<br />

dell'agire <strong>di</strong> questo o <strong>di</strong> quell'altro, e quin<strong>di</strong> come eventualmente, in base a quella motivazione,<br />

quell'agire cambierà cambiando la situazione. Oltre a definirmi il significato dei ruoli e delle<br />

motivazioni, le istituzioni definiscono il significato degli interessi in gioco, cioè l'intero campo<br />

<strong>di</strong> significati entro cui si iscrive la specifica, concreta attesa <strong>di</strong> questo o <strong>di</strong> quest'altro<br />

comportamento. Definendo in tal modo il nostro campo visivo sociale e politico, le istituzioni<br />

influenzano gli incentivi a cui io come singolo e come Stato sono sottoposto; incentivi in senso<br />

doppio: puoi aspettarti un premio se fai questo e un incentivo negativo, cioè una sanzione, se fai<br />

quest'altro.<br />

È corretto, prima <strong>di</strong> procedere oltre, ricordare che le definizioni fin qui date non sono<br />

assolutamente specifiche della politica, adeguandosi anche ad altri campi dell'agire sociale. Per<br />

`ridurle' alla specificità della politica, si può aggiungere: regole che influenzano o determinano<br />

l'agire rivolto in modo <strong>di</strong>retto (per la sua conquista) o in<strong>di</strong>retto (l'agire che Weber chiama<br />

`politicamente orientato') al potere politico. Dobbiamo inoltre riconoscere, pur non restringendo<br />

le istituzioni a quelle legali, che quelle regole assumono sempre più estesamente il carattere <strong>di</strong><br />

regole giuri<strong>di</strong>che: ciò in forza delle crescente giuri<strong>di</strong>cizzazione e statualizzazione della vita<br />

politica moderna, perfino ormai <strong>di</strong> quella internazionale.<br />

Veniamo ora al punto che è forse il più <strong>di</strong>fficile: un insieme - si è detto nella definizione - <strong>di</strong><br />

regole dotato <strong>di</strong> senso. Perché le istituzioni facciano ciò che si è detto, non basta che come<br />

insieme <strong>di</strong> regole persistano nel tempo e siano interconnesse, ma esse devono altrettanto<br />

risultare comprensibili e significative agli attori. Per agire in un campo definito dalle istituzioni<br />

non mi basta sapere che le istituzioni ci sono e ci saranno e che le loro regole più o meno sono<br />

stabili; devo riconoscere ad esse un senso, una partecipazione al significato più complessivo<br />

che come in<strong>di</strong>viduo o come comunità do al mio agire, alla mia vita futura in rapporto a quella<br />

passata; senso che è definito dalla concezione del mondo, dai valori e dalle norme cui faccio<br />

altrimenti riferimento. Questo va detto per capire perché le istituzioni non possano essere<br />

inventate a tavolino con criteri meramente razionali (utilitaristici o deontologici o che altro) e<br />

poi trasportate senz'altro in un contesto concreto. Per esempio una potenza occupante, coloniale<br />

o no che sia, può inventare le migliori regole per rior<strong>di</strong>nare un paese, ma essendo tali regole<br />

estranee alla cultura sociale e politica <strong>di</strong> quella popolazione, non sarà facile che vengano<br />

davvero con<strong>di</strong>vise e <strong>di</strong>vengano effettive. Oppure: nell’integrazione europea, occorre sempre<br />

chiedersi come le regole “inventate” dalle elites nazionali e sovranazionali che a quel processo<br />

danno forma possano entrare in risonanza con il mondo <strong>di</strong> significati (valori, tra<strong>di</strong>zioni,<br />

37


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

memorie) che le varie popolazioni hanno in mente.<br />

La riconnessione delle istituzioni al tema del senso non si capisce se non tirando in ballo quello<br />

che si vedrà meglio <strong>di</strong>scorrendo della categoria <strong>di</strong> legittimità e <strong>di</strong> quanto attiene al ruolo del<br />

linguaggio simbolico, specificamente in politica (v. cap. 12).<br />

11. Modelli <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne politico<br />

Si considera tra<strong>di</strong>zionalmente che vi siano nella storia della filosofia politica due gran<strong>di</strong><br />

modelli concreti <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne politico; in realtà si potrebbe forse parlare <strong>di</strong> tre o quattro. I modelli<br />

rispondono tutti a queste domande: perché c'è or<strong>di</strong>ne nelle comunità politiche e non caos?<br />

Perché dentro alle comunità politiche ci sono rapporti <strong>di</strong> convivenza e cooperazione e non <strong>di</strong><br />

isolamento e lotta <strong>di</strong> tutti contro tutti, come avviene (ma non è poi - si vedrà meglio oltre - del<br />

tutto vero) tra quelle altre comunità politiche che sono gli Stati?<br />

Il primo modello dell'or<strong>di</strong>ne lo abbiamo in verità già esposto sopra ed è il modello<br />

aristotelico. Ne ricordo alcune caratteristiche generali che sono il finalismo e l'organicismo, che<br />

riguarda tanto la genesi che lo sviluppo <strong>di</strong> questo or<strong>di</strong>ne, per cui le comunità <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne superiore<br />

nascono e si sviluppano naturaliter, organicamente dalle comunità <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne inferiore (dalla<br />

famiglia al villaggio, e <strong>di</strong> qui alla polis). Si tratta <strong>di</strong> un organicismo relativo all'or<strong>di</strong>ne<br />

gerarchico delle comunità, problema rispetto al quale il pensiero aristotelico è quello che il tutto<br />

precede logicamente e assiologicamente le parti, e quin<strong>di</strong> il tutto polis sta sopra alle comunità<br />

inferiori e a fortiori agli in<strong>di</strong>vidui. Se un or<strong>di</strong>ne è naturale e organico, la rottura <strong>di</strong> questo or<strong>di</strong>ne<br />

o le deviazioni da esso non possono essere considerate altro che patologie, malattie.<br />

Queste sono caratteristiche generali e finali dell'or<strong>di</strong>ne aristotelico. Una sua con<strong>di</strong>zione a<br />

monte è quella dell'ineguaglianza dei membri <strong>di</strong> quest'or<strong>di</strong>ne, cioè degli uomini;<br />

un'ineguaglianza economica ma soprattutto antropologica, per cui le donne per un verso,gli<br />

schiavi ed i meteci (lo straniero libero residente) per un altro, sono esclusi dalla partecipazione<br />

autonoma all'or<strong>di</strong>ne della polis.<br />

L'altro grande modello, che è quello che ancora adesso domina la scena, è il modello<br />

hobbesiano o giusnaturalistico. 16<br />

I presupposti del modello hobbesiano o giusnaturalistico (ma io preferisco <strong>di</strong>re:<br />

contrattualistico) sono che gli in<strong>di</strong>vidui sono separati fra <strong>di</strong> loro, non ci sono rapporti organici<br />

che li mettano assieme; che sono irriducibili, cioè l'in<strong>di</strong>viduo è l'ultimo e ineliminabile membro<br />

dell'or<strong>di</strong>ne sociale; che tali membri sono antropologicamente uguali; e che essi sono liberi, cioè<br />

non sono forzati da volontà <strong>di</strong>vine o leggi naturali a mettersi in società, ma che, essendo gli<br />

in<strong>di</strong>vidui liberi, proprio questa caratteristica è quella che più li minaccia. Infatti la libertà, che fa<br />

<strong>di</strong> ogni in<strong>di</strong>viduo un essere sovrano che ha <strong>di</strong>ritto a tutto, è ciò che crea il conflitto ra<strong>di</strong>cale ed<br />

ineliminabile fra gli in<strong>di</strong>vidui stessi, quando i beni da <strong>di</strong>videre sono scarsi. Ciò che tiene<br />

16<br />

Per chi fosse interessato ad approfon<strong>di</strong>re queste cose, la lettura più adatta è Norberto Bobbio -<br />

Michelangelo Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore. Il saggio <strong>di</strong><br />

Bobbio sul modello giusnaturalistico è assolutamente magistrale, ma non c'è un saggio sul modello<br />

aristotelico. Per questo si può vedere la voce Politica scritta da S. Veca per l'Enciclope<strong>di</strong>a Einau<strong>di</strong>.<br />

38


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

assieme gli in<strong>di</strong>vidui hobbesiani non è la natura, ma è un atto <strong>di</strong> volontà e cioè la creazione<br />

artificiale <strong>di</strong> un ente che imita la natura, ma che naturale non è. È il Leviatano, il mostro biblico<br />

a cui Hobbes ha de<strong>di</strong>cato la sua più matura opera politica. Nell'illustrazione che si trova<br />

nell'e<strong>di</strong>zione originale (1651) esso è un uomo artificiale, è un sovrano con lo scettro e la corona,<br />

fatto <strong>di</strong> tanti ometti.<br />

Anche il modello hobbesiano è apparentemente naturalistico, o meglio è materialistico; ma<br />

in realtà la natura <strong>di</strong> Hobbes non è la natura <strong>di</strong> Aristotele, è una natura già “astratta”, propria del<br />

modello meccanicistico della filosofia e della scienza del Sei-Settecento. La natura è una<br />

macchina, e quin<strong>di</strong> il para<strong>di</strong>gma dell'or<strong>di</strong>ne hobbesiano, anche se i termini <strong>di</strong> riferimento sono<br />

quelli del corpo umano, in realtà è più la meccanica che la me<strong>di</strong>cina, come era invece per<br />

Aristotele.<br />

L'or<strong>di</strong>ne politico <strong>di</strong> tipo hobbesiano è meglio detto contrattualistico, in quanto nato da un<br />

contratto, da un atto che gli in<strong>di</strong>vidui fanno fra <strong>di</strong> loro, consistente nel rinunciare alla pienezza<br />

dei loro <strong>di</strong>ritti e nel deferirli, soprattutto quello <strong>di</strong> usare la forza nella regolazione delle loro<br />

controversie, ad un ente che si chiama il sovrano, che può essere un re o un'assemblea. Il<br />

termine `giusnaturalistico' riguarda la premessa, cioè che gli uomini hanno dei <strong>di</strong>ritti naturali a<br />

cui devono parzialmente rinunciare per potersi associare volontariamente nell'or<strong>di</strong>ne politico,<br />

che viene creato per tutelarli; laddove per Locke alcuni <strong>di</strong> questi <strong>di</strong>ritti sono in<strong>di</strong>sponibili<br />

rispetto all'or<strong>di</strong>ne politico stesso.<br />

L'idea <strong>di</strong> Hobbes è che l'or<strong>di</strong>ne politico si costituisce ed è contrapposto o sovrapposto per<br />

un verso allo stato <strong>di</strong> natura, per un altro verso alla stessa società civile, che per Hobbes è fuori<br />

dallo Stato, ma è anche resa possibile dallo Stato: il fatto che la gente si associ e faccia i suoi<br />

traffici non fa parte della vita dello Stato, visto che allo Stato non spetta <strong>di</strong> promuovere queste<br />

cose e spetta piuttosto <strong>di</strong> non interferire in esse. Tuttavia la società civile è resa possibile dal<br />

fatto che non vi sono più guerre fra gli in<strong>di</strong>vidui, perché regna l'or<strong>di</strong>ne garantito dal sovrano.<br />

Come si vede, in Hobbes c'è un rapporto stretto fra or<strong>di</strong>ne e conflitto, l'or<strong>di</strong>ne nasce non<br />

dall'organicismo della natura, ma dalla conflittualità, ed è una risposta alla conflittualità.<br />

Il modello spaziale dell'or<strong>di</strong>ne hobbesiano non è quello dei cerchi concentrici <strong>di</strong>sposti su un<br />

piano orizzontale, delle varie comunità aristoteliche, ma è un modello verticale, precisamente il<br />

modello <strong>di</strong> alto-basso. Nella politica moderna, con l'emergere vigoroso e definitivo della<br />

categoria <strong>di</strong> potere, cambia la struttura spaziale dell'or<strong>di</strong>ne politico, come <strong>di</strong>ce anche Giovanni<br />

Sartori (La politica, Milano 1979, p.193). Se l'or<strong>di</strong>ne hobbesiano è una risposta al conflitto, ciò<br />

vuol <strong>di</strong>re che la politica è per sua definizione al riparo da questo conflitto, cioè al <strong>di</strong> sopra della<br />

<strong>di</strong>suguaglianza economica e delle sue possibili conseguenze conflittuali purché, e questo è un<br />

ulteriore punto caratterizzante, si intenda che nel modello hobbesiano stretto la politica è<br />

identica con lo statuale, cioè la sfera della politica coincide con la sfera della statualità.<br />

La prestazione, la performance del politico (= statuale) è quella <strong>di</strong> produrre leggi <strong>di</strong> contro<br />

alle fazioni e agli interessi, per mantenere l'or<strong>di</strong>ne verso l'interno, e <strong>di</strong> produrre potenza e<br />

vigilanza verso l'esterno, verso gli altri Stati. Nel modello hobbesiano non c'è un'eguale<br />

funzione <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne (come contrario <strong>di</strong> anarchia) nella politica interstatale, perché Hobbes non<br />

vede ragioni sufficienti per ipotizzare, nei rapporti fra gli Stati, le stesse impellenti necessità <strong>di</strong><br />

porre termine al conflitto e <strong>di</strong> stabilire un or<strong>di</strong>ne che si trovano nello stato <strong>di</strong> natura dei rapporti<br />

39


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

in<strong>di</strong>viduali. La ragione è quella che si <strong>di</strong>ce nel cap. 13 del II libro del Leviathan: è vero che i<br />

sovrani, gli Stati fra <strong>di</strong> loro sono in inimicizia tanto quanto gli in<strong>di</strong>vidui, e stanno fra <strong>di</strong> loro<br />

nell'atteggiamento <strong>di</strong> gla<strong>di</strong>atori, ed in più si mandano spie per sorvegliarsi. Ma poiché ciascuno<br />

Stato sostiene l'attività economica e produttiva dei suoi sud<strong>di</strong>ti, la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> questi sud<strong>di</strong>ti<br />

non è tanto miserabile da richiedere una rinuncia al conflitto e quin<strong>di</strong> alla libertà <strong>di</strong> ciascun<br />

singolo Stato. L'altra ragione, ipotizzata da Bobbio, è che mentre tra gli in<strong>di</strong>vidui ciascuno,<br />

anche il più debole, può privare della vita il più forte sorprendendolo nel sonno, così non è fra<br />

gli Stati: lo Stato più debole non può <strong>di</strong>struggere il più forte e quin<strong>di</strong> non c'è fra gli Stati quella<br />

generale e ra<strong>di</strong>cale paura della morte che c'è invece fra gli in<strong>di</strong>vidui, paura che tra gli in<strong>di</strong>vidui<br />

tutti sentono, mentre gli Stati più gran<strong>di</strong> e più forti e vigilanti non hanno bisogno <strong>di</strong> sentirla. C'è<br />

una terza ragione: mentre se un in<strong>di</strong>viduo muore nella guerra <strong>di</strong> tutti contro tutti, lì finisce la<br />

sua storia, fra gli Stati se uno Stato muore, cioè se un sovrano viene ra<strong>di</strong>calmente sconfitto,<br />

muore lui come ente politico, muore lo Stato che egli rappresenta, ma non muoiono gli<br />

in<strong>di</strong>vidui, perché gli in<strong>di</strong>vidui semplicemente vengono sciolti dall'obbligo <strong>di</strong> lealtà nei confronti<br />

<strong>di</strong> un sovrano che non ha fatto il suo mestiere, quello <strong>di</strong> garantire la protezione. Dunque i<br />

sud<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> un sovrano sconfitto non hanno altro da fare che sottomettersi al sovrano vincitore, il<br />

quale garantirà loro più efficientemente l'or<strong>di</strong>ne e sosterrà la loro attività economica.<br />

Per anticipare un tema che svolgerò più avanti: si può pensare oggi che questa ragione<br />

hobbesiana per la mancanza <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne internazionale esplicito e legittimo non valga più,<br />

perché in un universo <strong>di</strong> Stati dotati <strong>di</strong> armamenti nucleari strategici, ciascuno <strong>di</strong> essi, non solo<br />

le superpotenze, possono infliggere agli altri danni insopportabili. Ne deriva quella cosa che<br />

tutti in teoria sanno, e cioè che non si possono più fare guerre, potendo queste preve<strong>di</strong>bilmente<br />

portare ad un conflitto nucleare; oppure che bisogna ad<strong>di</strong>rittura istituire un or<strong>di</strong>ne<br />

internazionale nella forma <strong>di</strong> governo internazionale, prospettiva che cambia completamente la<br />

veduta hobbesiana della politica fra gli Stati.<br />

Veniamo adesso ad alcuni modelli <strong>di</strong>versi ed in<strong>di</strong>pendenti da quelli che ho appena esposto,<br />

pur non essendo tali da costituire altrettanti modelli complessivi dell'or<strong>di</strong>ne (almeno così si<br />

pensa oggi; trent'anni fa quello `<strong>di</strong>alettico', hegeliano o marxiano, sembrava esserlo). Una delle<br />

varianti sta nel non considerare l'or<strong>di</strong>ne politico come or<strong>di</strong>ne supremo, ovvero nel non<br />

considerare il politico come l'unico garante dell'or<strong>di</strong>ne. Abbiamo qui il modello genericamente<br />

illuminisico: la“storia naturale”, tanto della natura come delle società, produce la ricchezza<br />

delle nazioni e quin<strong>di</strong> un progresso che, attraverso lo sviluppo dell'industria e del commercio,<br />

riesce in qualche misura a riequilibrare le <strong>di</strong>seguaglianze sociali, per esempio attraverso l’<br />

oculata e provvidenziale <strong>di</strong>visione del lavoro fra gli in<strong>di</strong>vidui e fra le società. In questo<br />

modello, che è quello dell'illuminismo inglese e scozzese, e soprattutto <strong>di</strong> Adam Smith (Inquiry<br />

into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776), le funzioni dell'or<strong>di</strong>ne sociale sono<br />

compiute soprattutto dalla `mano invisibile' che noi dobbiamo supporre regga i fili dei rapporti<br />

commerciali, politici e quant'altro, in maniera che dallo scontro/incontro dei <strong>di</strong>versi interessi<br />

singoli e particolari nasca il benessere collettivo. Ricor<strong>di</strong>amo ancora che l'eco dell’idea<br />

illuministica <strong>di</strong> una storia naturale che avvia a soluzione non trascendente (religiosa) né politica<br />

i problemi dell'umanità si ritrova in qualche misura nelle idee industrialistiche e positivistiche<br />

(fino al socialdarwinismo) dell'Ottocento, le quali vedono nel progresso inarrestabile<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

dell'industria e della scienza (materialistica, antimetafisica) la garanzia della futura libertà dalla<br />

miseria, dall'ignoranza e dall'inconcludenza della politica (la `riforma sociale'); mentre nella<br />

cooperazione-competizione commerciale starebbe il sostituto progressivo della guerra, tanto più<br />

dove i limiti liberali al potere statuale e la potenza della società civile sono capaci <strong>di</strong> imbrigliare<br />

la <strong>di</strong>sposizione degli Stati alla guerra (Montesquieu, Cobden).<br />

Un'altra idea che <strong>di</strong>minuisce l'importanza del politico come unico ed incontestato<br />

<strong>di</strong>spensatore <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne è l'idea kantiana della pubblicità, della Öffentlichkeit: cioè l'idea che i<br />

citta<strong>di</strong>ni in<strong>di</strong>pendenti, e soprattutto gli intellettuali, debbano e possano esercitare una funzione<br />

<strong>di</strong> limite della politica, che consiste nel non accettare le mosse o le leggi che non possono<br />

essere sostenute <strong>di</strong> fronte alla generalità del pubblico. Questo chiaramente non è un modello<br />

in<strong>di</strong>pendente, perché è una mo<strong>di</strong>ficazione importante <strong>di</strong> quello giusnaturalistico e poi <strong>di</strong>venta -<br />

grazie a quest'idea della limitazione della politica attraverso la funzione <strong>di</strong> critica e <strong>di</strong> controllo<br />

del pubblico - un elemento essenziale dell'or<strong>di</strong>ne liberal-democratico, il quale rinvia per le sue<br />

ra<strong>di</strong>ci al contrattualismo.<br />

Invece l'idea del contratto viene toto coelo respinta in quanto artificiosa ed inutile da parte<br />

<strong>di</strong> un'altra dottrina che mira a limitare l'importanza del politico: è l'utilitarismo, 17 . L'utilitarismo<br />

considera che gli in<strong>di</strong>vidui sono già <strong>di</strong> per sé, nella loro pluralità, trattabili come un unico<br />

in<strong>di</strong>viduo, assumendo che l'utile, in base al quale orientare le azioni,consista nelle utilità<br />

aggregate <strong>di</strong> tutti gli in<strong>di</strong>vidui componenti una società. Nell’utilitarismo originario la ra<strong>di</strong>cale<br />

primazia dell’utile aggregato esclude ogni presenza e rilievo dei <strong>di</strong>ritti fondamentali.<br />

È più <strong>di</strong>fficile classificare Hegel: per un verso c'è in Hegel (Grundlinien der Philosophie<br />

des Rechts, 1821, tr. it. Lineamenti <strong>di</strong> filosofia del <strong>di</strong>ritto) un'idea <strong>di</strong> tipo aristotelico, cioè l'idea<br />

che famiglia, società civile e Stato siano tutti svolgimenti organici dell'idea in quella sua fase <strong>di</strong><br />

sviluppo che Hegel chiama lo spirito oggettivo. Solo che il rapporto tra questi livelli <strong>di</strong><br />

associazione non è <strong>di</strong> continuismo organico, ma è <strong>di</strong> negazione della particolarità e<br />

superamento <strong>di</strong> ciascun livello nel livello superiore e più comprensivo, per cui la famiglia e la<br />

società sono sfere inferiori che sono assorbite e negate nello Stato.<br />

Hegel ritiene, in maniera <strong>di</strong>ametralmente opposta ai liberali britannici o americani, che la<br />

società civile non sia assolutamente in grado <strong>di</strong> governarsi da sola, e che anche quel tanto <strong>di</strong><br />

autogoverno che essa può esprimere, le funzioni che Hegel chiama <strong>di</strong> polizia e <strong>di</strong> or<strong>di</strong>namento<br />

della vita economica e sociale, che oggi noi siamo abituati a considerare funzioni dello Stato e<br />

che Hegel attribuiva alla società civile, non siano per nulla sufficienti a garantire l'or<strong>di</strong>ne, e<br />

tanto meno a conferire senso ad un nesso politico che può richiedere ai citta<strong>di</strong>ni il sacrificio<br />

della vita. Egli pensa che l'atomismo e l'egoismo degli in<strong>di</strong>vidui e delle loro comunità sono<br />

irriducibili, e producono cascami inquinanti, per esempio il pauperismo; finché non compare il<br />

supremo or<strong>di</strong>natore che è lo Stato, l'unico garante della vita etica, o meglio l'unico garante<br />

dell'or<strong>di</strong>ne come elemento della vita etica degli in<strong>di</strong>vidui stessi; pertanto anche l'unico a poter<br />

chiedere loro il sacrificio della vita.<br />

Lo Stato per Hegel è il supremo or<strong>di</strong>ne, perché è la pienezza dell'or<strong>di</strong>ne etico, perché è nella<br />

17 Si trova in Bentham (An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789) ma già<br />

prima in qualche misura in Hume (io non considero Hume il fondatore dell'utilitarismo, ma certamente<br />

in lui ci sono elementi che creano l'ambiente mentale dell'utilitarismo).<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

sovranità dello Stato e specificamente del principe che questa pienezza si concreta; una<br />

pienezza che non ha limiti, se non quelli interni alla sua stessa ratio, iscritti nel <strong>di</strong>ritto. Più<br />

precisamente il limite posto allo Stato è che si tratta pur sempre <strong>di</strong> un momento dello spirito<br />

oggettivo, e al <strong>di</strong> sopra dello spirito oggettivo lo spirito corre un ulteriore percorso, quello dello<br />

spirito assoluto e quin<strong>di</strong> vi sono forme della vita spirituale (la religione, l'arte, la filosofia) che<br />

sono più piene, più ricche, più complete, più assolute che non lo spirito oggettivo, che non lo<br />

Stato.<br />

L'or<strong>di</strong>ne fra gli Stati per Hegel è un or<strong>di</strong>ne fra i popoli, che negli Stati si danno forma<br />

istituzionale, ed è un or<strong>di</strong>ne etico attraverso non la pace, ma la guerra: la guerra è ritenuta da<br />

Hegel un momento <strong>di</strong> scontro tra le volontà degli Stati, non fra le passioni degli in<strong>di</strong>vidui, tanto<br />

che Hegel celebra come una conquista morale la scoperta dell'arma da fuoco perché è solo con<br />

l'arma da fuoco, <strong>di</strong>ce Hegel in un passo abbastanza noto, che il soldato combattente non uccide<br />

il suo nemico in un corpo a corpo in cui si scatenano o<strong>di</strong>, ma lo uccide impersonalmente, senza<br />

manifestazione <strong>di</strong> o<strong>di</strong>o o senza la sanguinosità del corpo a corpo, cioè come mera incarnazione<br />

della volontà politica e quin<strong>di</strong> della sostanza etica dello Stato <strong>di</strong> cui l'in<strong>di</strong>viduo è membro.<br />

Un or<strong>di</strong>ne che solo per gli aspetti filosofici complessivi deriva da quello hegeliano, ma che<br />

per gli altri aspetti ne è del tutto <strong>di</strong>verso, per non <strong>di</strong>re contrario, è quello stu<strong>di</strong>ato e previsto dai<br />

classici del marxismo, Karl Marx e Friedrich Engels 18 . In essi si trovano sia temi scientifici e<br />

analitici a base empirica, sia previsioni ed auspici sul futuro corso delle cose. Qui ritroviamo in<br />

certa misura la posizione, per quanto riguarda il rapporto tra politica e società, che era stata<br />

propria della filosofia politica e sociale del Settecento: l'or<strong>di</strong>ne politico non ha né autonomia né<br />

superiorità rispetto all'or<strong>di</strong>ne sociale, anzi ne è il riflesso, in quanto l'or<strong>di</strong>ne politico è la<br />

sovrastruttura dell'elemento <strong>di</strong> base, il modo in cui <strong>di</strong> volta in volta gli uomini e le società<br />

regolano il `processo sociale <strong>di</strong> vita' (è un termine marxiano).<br />

Marx è un po' <strong>di</strong>verso dal modo in cui i suoi detrattori per un verso e molti dei suoi seguaci<br />

per un altro l'hanno presentato: l'or<strong>di</strong>ne politico, sulle cui caratteristiche non c’è in Marx ed<br />

Engels una riflessione sistematica ed approfon<strong>di</strong>ta, non è riflesso dell'`economia', ma dell'or<strong>di</strong>ne<br />

sociale, del modo in cui gli uomini regolano il complesso della loro esistenza in società, <strong>di</strong> cui<br />

certo il modo <strong>di</strong> regolare la produzione e la riproduzione materiale è l'elemento chiave. Il punto<br />

è che l'or<strong>di</strong>ne sociale come lo vedono Marx ed Engels è quello <strong>di</strong> essere stato finora un or<strong>di</strong>ne<br />

cieco, non previsto né voluto dagli uomini, ma prodotto dalla storia, la storia delle società <strong>di</strong><br />

classe che è solo la preistoria <strong>di</strong> una storia veramente umana. La storia degli uomini fino adesso<br />

ha le stesse caratteristiche della storia naturale, ovvero è una storia naturale della società: due<br />

caratteristiche principali sono quella <strong>di</strong> essere sottoposta a sue leggi, e quella che queste sue<br />

leggi sono cieche, si affermano al <strong>di</strong> sopra e al <strong>di</strong> là delle teste degli in<strong>di</strong>vidui, anche se sono<br />

ricostruibili ex post dallo scienziato sociale.<br />

L'altro elemento <strong>di</strong> questo or<strong>di</strong>ne sociale è quello che esso è un or<strong>di</strong>ne autocontrad<strong>di</strong>ttorio e<br />

quin<strong>di</strong> autonegantesi per la forza stessa delle sue intime contrad<strong>di</strong>zioni: la contrad<strong>di</strong>zione<br />

fondamentale, sempre ripetuta e sempre in termini <strong>di</strong>versi, è quella fra le forze produttive, cioè<br />

tutto ciò che <strong>di</strong> materiale e <strong>di</strong> intellettuale produce la ricchezza <strong>di</strong> una società, e i rapporti <strong>di</strong><br />

18<br />

Oltre alla opere menzionate più avanti, si veda Il manifesto del partito comunista, 1848; Prefazione<br />

(1859) a Sulla critica dell'economia politica; e de Il capitale soprattutto il primo volume, 1867)<br />

42


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

produzione, cioè l'or<strong>di</strong>namento che <strong>di</strong> volta in volta viene dato alle relazioni fra gli uomini<br />

dentro alla produzione, non solo dei beni, ma della vita sociale nel suo complesso. La<br />

contrad<strong>di</strong>zione fra lo sviluppo delle forze produttive ed i vecchi rapporti <strong>di</strong> produzione, gli<br />

or<strong>di</strong>namenti economico-sociali e politici, questa contrad<strong>di</strong>zione è quella che in ogni società<br />

provoca lotte, il <strong>di</strong>laniarsi e alla fine lo sciogliersi dei vecchi rapporti <strong>di</strong> produzione in una<br />

nuova forma.<br />

Due sono dunque nel marxismo classico le caratteristiche dell'or<strong>di</strong>ne sociale: quello <strong>di</strong><br />

essere cieco e naturale e quello <strong>di</strong> essere autocontrad<strong>di</strong>ttorio e autonegantesi. Per un verso<br />

l'or<strong>di</strong>ne politico non costituisce un problema a sé, è un riflesso `ideologico' dell'or<strong>di</strong>ne sociale,<br />

per un altro verso esso ha una sua specificità: in particolare c'è una specificità dello Stato. Per<br />

Marx ed Engels la forma più elementare in cui si <strong>di</strong>fferenzia e organizza la società è quella<br />

della <strong>di</strong>visione tra il lavoro manuale e quello intellettuale; non è una <strong>di</strong>visione puramente<br />

tecnica, ma del più grande impatto ed effetto sociale, in quanto <strong>di</strong>venta in realtà la <strong>di</strong>visione tra<br />

chi pensa, <strong>di</strong>rige, coor<strong>di</strong>na, interpreta la nostra vita associata, insomma il ceto <strong>di</strong>rigente e<br />

intellettuale, e i lavoratori manuali, che sono quelli che non solo lavorano manualmente, ma<br />

eseguono le <strong>di</strong>rettive <strong>di</strong> chi comanda e coor<strong>di</strong>na.<br />

La <strong>di</strong>visione tra lavoro manuale ed intellettuale è per Marx ed Engels la fonte: a)<br />

dell'ideologia, b) della genesi dello Stato.<br />

Ideologia in Marx ha un significato preciso, vuol <strong>di</strong>re la falsa coscienza che una società ha<br />

<strong>di</strong> se stessa, mentre nell'uso corrente inten<strong>di</strong>amo per ideologia la dottrina che corrisponde agli<br />

interessi e al potere <strong>di</strong> un certo gruppo sociale o politico, cioè le dottrine in quanto riferite alla<br />

loro origine sociale o sociopolitica. Lo Stato nasce dal fatto che in società a lavoro <strong>di</strong>viso, che<br />

per produrre ricchezza non possono altro che <strong>di</strong>vidersi in maniera sempre più articolata il<br />

lavoro, esiste il bisogno <strong>di</strong> ricomposizione delle <strong>di</strong>visioni, quella che Marx ed Engels<br />

nell'Ideologia tedesca, chiamano bisogno <strong>di</strong> cooperazione in termini generalissimi.<br />

(L'Ideologia tedesca è un testo scritto da Marx ed Engels nel 1845-46, ma non pubblicato fino<br />

al 1928.)<br />

Col bisogno <strong>di</strong> ricomporre le loro attività <strong>di</strong>vise si profila <strong>di</strong> fronte agli uomini ciò che<br />

viene chiamato un interesse generale, per cui la necessità <strong>di</strong> un'istituzione, <strong>di</strong> un'autorità che lo<br />

rappresenti. Lo Stato è e non è rappresentante e tutore dell'interesse generale: lo Stato è per<br />

Marx ed Engels quell'ente, quell'istituzione che <strong>di</strong> volta in volta la classe dominante ha<br />

costruito e imposto ai dominati, qualcosa che è insieme risposta all'esigenza generale <strong>di</strong><br />

ricomposizione e sod<strong>di</strong>sfazione dei suoi propri interessi particolari <strong>di</strong> classe dominante.<br />

Lo Stato è la macchina organizzativa e repressiva della società <strong>di</strong>visa in classi che si<br />

appropria dell'esigenza generale <strong>di</strong> una ricomposizione, <strong>di</strong> un coor<strong>di</strong>namento della società e lo<br />

afferma nella versione <strong>di</strong> volta in volta pertinente agli interessi particolari della classe<br />

dominante. Lo sottolineo, pur non potendo qui citare i testi, per far piazza pulita delle<br />

definizioni volgarmarxiste dello Stato come una macchina nata esclusivamente a fini repressivi,<br />

oppure dello Stato come imposto in base all'invenzione o alla finzione <strong>di</strong> un interesse generale.<br />

Queste sono spiegazioni volgarmarxiste perché fanno dello Stato o dell'or<strong>di</strong>ne politico una<br />

specie <strong>di</strong> esito propagan<strong>di</strong>stico inventato dai dominanti. Marx non era né rozzo né elementare, e<br />

ci ha dato una spiegazione più complessa della nascita e dell'affermarsi dello Stato, giocata<br />

43


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

sulla presenza <strong>di</strong> un effettiva esigenza <strong>di</strong> ricomposizione della società.<br />

Al problema dei rapporti interstatali da questo punto <strong>di</strong> vista Marx ed Engels non de<strong>di</strong>cano<br />

molta attenzione. Gli de<strong>di</strong>cano una attenzione analitica, perché erano tutti e due abbastanza<br />

esperti <strong>di</strong> politica internazionale, ed Engels era per suo hobby intellettuale un esperto <strong>di</strong> politica<br />

militare e <strong>di</strong> strategia; del resto aveva combattuto nelle armate rivoluzionarie del '48 ed era,<br />

nella coppia dei fondatori del marxismo, il `generale', mentre Marx veniva chiamato il `moro'.<br />

Per loro in realtà i rapporti fra gli Stati sono i rapporti tra le loro classi dominanti, e le lotte che<br />

si compiono sono il riflesso o sottoprodotto delle borghesie nazionali.<br />

La politica marxiana ed engelsiana non si ferma qui: ha una parte pre<strong>di</strong>ttiva e non solo<br />

analitica, una parte che altri chiamano profetica;ancorché Marx ed Engels non avrebbero<br />

accettato <strong>di</strong> essere definiti profeti. La loro pre<strong>di</strong>zione è che quest'ultima società <strong>di</strong> classe, in cui<br />

loro vivevano e cioè la società borghese capitalistica, abbia anch'essa le sue contrad<strong>di</strong>zioni<br />

all'interno; ma questa volta, quando le contrad<strong>di</strong>zioni tra le forze produttive e i rapporti <strong>di</strong><br />

produzione borghesi che essa vuole perpetuare scoppieranno, non si avrà la nascita <strong>di</strong> una<br />

nuova società <strong>di</strong> classe - non avverrà come al passaggio dal feudalesimo al capitalismo, in cui la<br />

borghesia capitalistica ha per un verso sostituito al potere il ceto feudale ed assolutistico, e per<br />

altro verso, rivoluzionando lo Stato, lo ha però rafforzato e reso più repressivo, adeguando la<br />

sua macchina al governo dei nuovi dominati,cioè del proletariato. L'idea <strong>di</strong> Marx e <strong>di</strong> Engels è<br />

che la società borghese sia l'ultima società <strong>di</strong> classe, nel senso che dopo non ci sarà più una<br />

società <strong>di</strong> classe, bensì una società in cui saranno i produttori stessi a regolare i propri rapporti,<br />

associandosi liberamente gli uni con gli altri. Questo or<strong>di</strong>ne sociale non avrà più bisogno <strong>di</strong><br />

or<strong>di</strong>ne politico perché l'or<strong>di</strong>ne politico, ed in particolare lo Stato, per Marx ed Engels è<br />

concepibile solo come prodotto della <strong>di</strong>visione <strong>di</strong> classe. Se la <strong>di</strong>visione <strong>di</strong> classe non c'è più,<br />

non c'è più l'or<strong>di</strong>ne politico, lo Stato deperisce e si estingue.<br />

Resta solo - Marx lo sottolinea 19 ma non abbastanza, e i marxisti spesso se lo sono<br />

<strong>di</strong>menticato - l'esigenza che la <strong>di</strong>struzione che la rivoluzione anticapitalistica farà dello Stato<br />

come macchina repressiva non cancelli le funzioni <strong>di</strong> centralizzazione, prevalentemente<br />

tecniche, <strong>di</strong> una società complessa come è già ai tempi <strong>di</strong> Marx la società industriale, e ai nostri<br />

tempi quella postindustriale. Queste cose si possono fare benissimo con accor<strong>di</strong> e<br />

regolamentazioni all'interno della società, senza bisogno <strong>di</strong> costruire una macchina<br />

organizzativa sovrapposta e contrapposta alla società qual è stato finora lo Stato. Questo perché<br />

nella società senza classi l'or<strong>di</strong>ne sociale sarà contrad<strong>di</strong>stinto da alcune cose fondamentali:<br />

l'assenza <strong>di</strong> conflitti antagonistici, che è tanto quanto <strong>di</strong>re <strong>di</strong> conflitti fra classi contrapposte e,<br />

in una fase suprema della società comunista, il pieno sviluppo della in<strong>di</strong>vidualità, reso possibile<br />

per un verso dalla costituzione antropologica (Gattungswesen, essere generico, <strong>di</strong> genere, nel<br />

senso filosofico del genus, non in quello presente <strong>di</strong> gender) dell'uomo, per un altro verso dal<br />

grado gran<strong>di</strong>oso <strong>di</strong> ricchezza che gli uomini raggiungeranno, una volta che saranno liberati<br />

dalle pastoie proprie delle società <strong>di</strong> classe. Nella prospettiva <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne sociale senz'or<strong>di</strong>ne<br />

politico, che anzi si regge ancora meglio grazie alla mancanza <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne politico, Marx<br />

proietta un valore predominante della filosofia illuministica, e cioè il pieno sviluppo della<br />

in<strong>di</strong>vidualità umana (per la verità gli illuministi lo vedevano soprattutto come un problema <strong>di</strong><br />

19<br />

Nel 18 Brumaio e ne La guerra civile in Francia, scritto a proposito della Comune <strong>di</strong> Parigi del 1871.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

regole, salvo quei pochi illuministi che lo vedevano in maniera utopica, per esempio Charles<br />

Fourier). Per un altro verso Marx toglie da questa sua prospettiva uno dei presupposti necessari<br />

per pensare un or<strong>di</strong>ne politico, ed è la presupposta scarsità dei beni: un or<strong>di</strong>ne politico si rende<br />

necessario quando ci sia un conflitto <strong>di</strong>stributivo al quale dare regole. Se non c'è questo, se c'è<br />

l'assoluta pienezza e l'assoluta possibilità <strong>di</strong> attingere quasi indefinitamente a questa ricchezza<br />

da parte degli in<strong>di</strong>vidui, è facile capire come nella società comunista l'or<strong>di</strong>ne politico si renda<br />

superfluo.<br />

* * *<br />

Questo capitolo riguardante i modelli <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne politico non può chiudersi senza che venga<br />

tematicamente chiarito quel concetto <strong>di</strong> conflitto che abbiamo visto continuamente interagire<br />

con quello <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne, e che nel linguaggio scientifico ha ormai sostituito quello <strong>di</strong> lotta usato<br />

ancora da Marx edda Max Weber.<br />

Per conflitto si intende quella relazione sociale in cui si agisce con il consapevole proposito<br />

<strong>di</strong> affermare le proprie scelte contro la resistenza <strong>di</strong> altri; i mezzi<br />

possono essere pacifici o no, ciò che esclude la frequente equazione colloquiale conflitto =<br />

scontro violento, guerra, questo essendo solo uno dei tipi possibili <strong>di</strong> conflitto. Questa<br />

definizione è molto simile a quella che <strong>di</strong> lotta dà Weber nella Parte I, cap. I, § 8 <strong>di</strong> Wirtschaft<br />

und Gesellschaft; per la tipologia del conflitto che segue mi appoggio invece agli scritti del<br />

maggior sociologo contemporaneo italiano, Alessandro Pizzorno.<br />

1. Il conflitto d'interessi è quello che si accende intorno a risorse contese perché scarse<br />

(è ciò che in Weber viene denominato `concorrenza'). Tali risorse possono essere<br />

sostantive (ricchezza, territorio, impieghi) o relazionali (alcuni <strong>di</strong>cono posizionali:<br />

potere, prestigio). Nel conflitto d'interessi è possibile comportarsi da free rider (colui<br />

che partecipa ad un'impresa collettiva, ma cerca <strong>di</strong> goderne i vantaggi senza<br />

con<strong>di</strong>viderne i costi), però il gruppo cerca <strong>di</strong> rendere <strong>di</strong>fficile tale comportamento<br />

tramite sanzioni.<br />

2. Il conflitto <strong>di</strong> riconoscimento riguarda la nostra identità, che spesso non preesiste,<br />

ma si forma veramente solo nella lotta, e - <strong>di</strong>versamente dagli interessi - non è<br />

negoziabile. È un conflitto non condotto strategicamente, cioè scegliendo razionalmente<br />

i mezzi, ma che fa piuttosto appello a risorse <strong>di</strong> carattere morale, emotivo, religioso o<br />

filosofico. Per la sua natura stessa questo conflitto, che viene detto brachilogicamente<br />

conflitto d’identità, non ammette il free rider. La sua <strong>di</strong>namica però s'intreccia con il<br />

tipo 1: esso spiega come si costituisca una certa categoria (nazioni, gruppi etnici o<br />

movimenti come quello femminista od omosessuale) degli attori che partecipano al<br />

conflitto d'interessi.<br />

3.<br />

4. Il conflitto ideologico contrappone concezioni globali della politica, della storia e<br />

talora della stessa esistenza umana, che si pongono come vere e valide per tutti e mirano<br />

a ridefinire i `veri interessi' dei gruppi, come si è visto negli scontri fra i totalitarismi del<br />

nostro secolo, o la destinazione finale del nostro genere. Tale conflitto esclude non solo<br />

il free rider, ma la stessa legittimità <strong>di</strong> un osservatore scientifico esterno al conflitto.<br />

Chiarito così il termine, possiamo chiederci quali siano le relazioni fra or<strong>di</strong>ne e conflitto. Si<br />

45


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

può cominciare <strong>di</strong>cendo che ogni politica, ogni associazione politica ricerca, per la sua stessa<br />

definizione, una qualche forma <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne, cioè <strong>di</strong> rapporto regolare e regolato fra gli attori<br />

politici. Altri (Kant, Sternberger, per rimanere agli autori già citati) è arrivato a <strong>di</strong>re che il<br />

compito della politica è la pace. In termini negativi l'idea del caos è per definizione antipolitica,<br />

il politico contenendo come suo telos interno sempre un'idea <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne, e in questo senso<br />

l'or<strong>di</strong>ne non può essere posposto al conflitto, perché una conflittualità permanente e priva <strong>di</strong><br />

punti <strong>di</strong> appoggio, <strong>di</strong> coagulo, <strong>di</strong> assestamento, priva <strong>di</strong> un minimo grado <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne, è<br />

politicamente impensabile o è la negazione della politica, qualcosa in cui la <strong>di</strong>stribuzione<br />

(asimmetrica) dei beni e la loro stessa produzione sono impossibili. C'è però un altro senso in<br />

cui or<strong>di</strong>ne e conflitto sono contrapposti, ed è quello che riguarda il modo in cui si arriva alla<br />

politica come or<strong>di</strong>ne, a quella politica che contiene sempre un'idea <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne. Che cosa è<br />

prevalente nella vita politica degli uomini, l'or<strong>di</strong>ne in quanto autoconservantesi o il conflitto<br />

attraverso il quale si arriva <strong>di</strong> volta in volta ad un or<strong>di</strong>ne che contiene in sé la possibilità del<br />

cambiamento? Non si tratta neppure <strong>di</strong> una contrapposizione <strong>di</strong>ametrale, ma <strong>di</strong> uno<br />

spostamento <strong>di</strong> accenti; in ogni caso il punto è che la consistenza e stabilità delle istituzioni<br />

politiche può essere secondo alcuni attinta attraverso quel tipo <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne che neutralizza i<br />

conflitti, li rende o superflui o marginali. Oppure essa può essere pensata come qualcosa che è<br />

or<strong>di</strong>ne, e quin<strong>di</strong> ha chances <strong>di</strong> essere sostenuta e riprodotta, solo in quanto è attraversata dal<br />

conflitto, in quanto è <strong>di</strong> volta in volta risposta a nuovi e <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> conflitto.<br />

Detto in termini sociologici, anziché <strong>di</strong> filosofia politica, nelle società prevale l'integrazione<br />

o prevale il conflitto (un hegeliano <strong>di</strong>rebbe la <strong>di</strong>alettica)? Una cosa è <strong>di</strong>re che <strong>di</strong> fatto le società<br />

funzionano prevalentemente attraverso l'integrazione più o meno completa dei loro membri e<br />

delle forze che li agitano, una cosa invece è <strong>di</strong>re che funzionano meglio quelle società che si<br />

appoggiano prevalentemente sul conflitto. Questa è, per `bobbieggiare' un po', una della gran<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>cotomie del pensiero sociologico, ovvero della filosofia della società, che in termini <strong>di</strong> storia<br />

del pensiero può riassumersi così:<br />

a. Chi ha considerato prevalente l'or<strong>di</strong>ne ovvero l'integrazione (Comte, Spencer, Durkheim,<br />

Pareto e lo struttural-funzionalismo <strong>di</strong> Talcott Parsons) ha ritenuto che lo stato normale del<br />

sistema sociale sia quello dell'equilibrio stabile, con legami <strong>di</strong> funzionalità fra le sue parti ed i<br />

suoi attori (centrale a questo riguardo il concetto <strong>di</strong> ruolo sociale) ed una prevalenza del<br />

consenso; mentre il conflitto rappresenta un <strong>di</strong>sturbo od una patologia del sistema, avente cause<br />

esterne.<br />

b. Chi ha sostenuto la prevalenza del conflitto (Marx, che però dopo la rivoluzione ne<br />

ipotizza la scomparsa, Stuart Mill, Sorel, Simmel e nella sociologia il suo seguace Lewis Coser,<br />

infine Dahrendorf) lo ha fatto per spiegare in questo modo il mutamento storico e la capacità<br />

d'innovazione delle società. Nelle teorie che sostengono il conflitto come premessa <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne<br />

aventi tale caratteristiche (soprattutto nelle società democraticamente governate), il conflitto<br />

non viene soppresso come nelle vedute totalitarie, bensì avviato a soluzione grazie alla sua<br />

regolamentazione, che può fra l'altro assumere le forme della proceduralizzazione (=in<strong>di</strong>care<br />

regole da seguire quando sorge un conflitto) o della ritualizzazione (termine proveniente<br />

dall'etologia); in ogni caso è decisivo ciò che fa il potere come capacità <strong>di</strong> allocazione<br />

autoritativa. Qui l'interesse si sposta sulla questione: come organizzare questo potere?<br />

46


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Da questo punto <strong>di</strong> vista si può <strong>di</strong>re che la modernità politica sia consistita nell'inventare<br />

forme <strong>di</strong> riduzione e soluzione del conflitto: lo Stato moderno, assolutista o no, ha stabilito che<br />

i conflitti li <strong>di</strong>rime un'autorità centrale producendo leggi, e ha creato con la sovranità le<br />

premesse, anche verso l'esterno, per una parziale regolazione del conflitto (<strong>di</strong>ritto<br />

internazionale, bellum iustum, cfr. cap. 16) fra gli Stati. Con il costituzionalismo ed il<br />

liberalismo si è poi stabilito che nessun conflitto può ledere o <strong>di</strong>struggere i <strong>di</strong>ritti fondamentali<br />

degli in<strong>di</strong>vidui stabiliti per legge, mentre con la democrazia si è convenuto che nella soluzione<br />

del singolo conflitto tramite la regola <strong>di</strong> maggioranza (cfr. cap. 14) si riconoscono tutti, la<br />

maggioranza che vince e la minoranza che perde.<br />

12. Legittimità, identità, simbolismo e mito politico<br />

È ormai il momento <strong>di</strong> chiarire quell'attributo <strong>di</strong> legittimità che è già ricorso molte volte in<br />

questo testo, soprattutto a proposito del potere politico nella sua <strong>di</strong>stinzione dalla mera forza.<br />

Intendo per legittimità non (sociologisticamente) il consenso, né tanto meno (per<br />

riduzionismo giuri<strong>di</strong>co <strong>di</strong> un tema filosofico) la legalità, bensì quella risorsa che consiste nella<br />

possibilità (la chance weberiana) <strong>di</strong> ricorrere ad un fondamento giustificativo del potere, al<strong>di</strong>là<br />

della fatticità <strong>di</strong> questo. Tale risorsa può non (aver bisogno <strong>di</strong>) venir attualizzata, ma essa segna<br />

sempre uno scarto rispetto al potere esistente, e almeno potenzialmente lo mette sotto controllo<br />

e perfino lo assilla con la richiesta <strong>di</strong> giustificarsi in base a ragioni extraquoti<strong>di</strong>ane e<br />

metaconvenzionali, che possono essere politiche (come una <strong>di</strong>versa concezione della salus<br />

reipublicae) od anche metapolitiche (quando si rinvii a fondamenti ideali: Weltbilder, valori<br />

religiosi o <strong>di</strong> civiltà).<br />

Introduco poi una <strong>di</strong>stinzione, quella fra le fonti e le con<strong>di</strong>zioni sostantive (non: materiali)<br />

della legittimità. Per fonti intendo quelli che Max Weber chiama i fondamenti, cioè le immagini<br />

o convinzioni ultime su cui si basa la credenza nella legittimità <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>namento politico: in<br />

Weber la legalità delle statuizioni, nel caso del potere burocratico, la sacralità delle tra<strong>di</strong>zioni,<br />

nel caso del potere tra<strong>di</strong>zionale, e la straor<strong>di</strong>narietà sacra od eroica <strong>di</strong> una persona, nel caso del<br />

potere carismatico. Queste sono fonti insieme <strong>di</strong> giustificazione, argomentativa o emotiva,<br />

dell'obbe<strong>di</strong>enza e <strong>di</strong> sua motivazione. Si può variarne la tipologia, ma finora non ci si è molto<br />

<strong>di</strong>scostati da quella weberiana originaria. Per con<strong>di</strong>zioni sostantive invece intendo quattro<br />

con<strong>di</strong>zioni cui un or<strong>di</strong>namento deve sod<strong>di</strong>sfare se vuole reclamare con successo la sua<br />

legittimità, mobilitando processi <strong>di</strong> giustificazione e motivazione che attingeranno ad una o più<br />

delle sue fonti. Introduco queste con<strong>di</strong>zioni perché, <strong>di</strong>versamente da quanto pretende il puro<br />

normativismo, non ritengo che il problema della legittimità sia esaurito quando si è delineata<br />

un'`ottima repubblica', insomma una regola fondamentale <strong>di</strong> convivenza, come la giustizia o la<br />

libertà. Legittimità in senso politico esiste quando il sistema o regime che la pretende,<br />

richiamandosi a quella regola e attivando una <strong>di</strong> quelle fonti, si <strong>di</strong>mostra in ogni caso capace<br />

delle prestazioni elementari che ora esporrò. Se un regime non è legittimo per il solo fatto <strong>di</strong><br />

esistere ed imporsi ai governati, non lo è neppure per il solo merito <strong>di</strong> richiamarsi ad una<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

coerente giustificazione etica. Per <strong>di</strong>rla con il politologo Fritz Scharpf, oltre all’input legitimacy<br />

delle “fonti” con<strong>di</strong>vise occorre che un regime funzioni producendo output legitimacy.<br />

Quelle quattro con<strong>di</strong>zioni - il numero può essere variato, ma senza rinunciare al concetto -<br />

sono, in or<strong>di</strong>ne gerarchico:<br />

1. la sicurezza politica, nel senso hobbesiano della formula “the end of obe<strong>di</strong>ence is<br />

protection”.<br />

2. il benessere, inteso in senso sia assoluto (un minimo che ponga tutti in con<strong>di</strong>zioni non<br />

ferine) sia relativo, comparato cioè con le possibilità <strong>di</strong> produrre ricchezza attribuibili al sistema<br />

produttivo in un certo suo grado <strong>di</strong> sviluppo; inoltre tale benessere non dev’essere <strong>di</strong>stribuito in<br />

modo insopportabilmente <strong>di</strong>seguale. Esso viene logicamente dopo la sicurezza, e non può<br />

sostituirla, essendo questa la sua con<strong>di</strong>zione d’esistenza.<br />

3. la legalità, nel senso della conformità <strong>di</strong> un regime politico alle leggi, o `naturali' o <strong>di</strong>vine<br />

o (e soprattutto) positive che, in una certa civiltà, vengono sentite come giuste, e almeno tali da<br />

permettere una convivenza civile e prosperosa, stabilizzando inoltre comportamenti ed attese.<br />

La quarta con<strong>di</strong>zione non è invece qualcosa che le istituzioni possano produrre in quanto<br />

bene politico o politico-sociale come le prime tre, trattandosi piuttosto <strong>di</strong> una metacon<strong>di</strong>zione:<br />

l'identità per un verso preesiste alle istituzioni politiche, per altri versi ne viene definita e<br />

riprodotta. Salvo situazioni <strong>di</strong> transizione o statu nascenti, nessuna associazione istituzionale -<br />

in particolare, nessuno Stato - può pretendere legittimità se non può fare assegnamento<br />

sull'identità del corpo politico cui si riferisce. Se, insomma, non vi è un soggetto per il cui<br />

universo simbolico e normativo appaia dotato <strong>di</strong> senso lo stare dentro ad un or<strong>di</strong>ne istituzionale<br />

che chiede <strong>di</strong> riconoscere la sua autorità, mobilitando una o più <strong>di</strong> quelle fonti e producendo in<br />

varie proporzioni quelle con<strong>di</strong>zioni.<br />

Nell'identità politica, una sottospecie dell'identità <strong>di</strong> gruppo, noi in<strong>di</strong>viduiamo quegli<br />

elementi del nostro convivere che, con<strong>di</strong>visi con altri, ci permettono <strong>di</strong> <strong>di</strong>re `noi'. Non si tratta<br />

dell'identità (insieme <strong>di</strong> tratti <strong>di</strong>stintivi) riconosciuta da un osservatore esterno, bensì <strong>di</strong> quella<br />

che viene percepita (e costruita) come tale dai soggetti stessi: un'identità riflessiva. Essa non<br />

consiste in primis, come molti (da ultimo Samuel Huntington, autore del fortunato The Clash<br />

of Civilizations) spicciativamente ritengono, in ciò che ci <strong>di</strong>vide da altri o ad essi ci<br />

contrappone, bensì in ciò che noi riconosciamo esser nostro in quanto dà un senso al passato e<br />

al futuro della nostra vita associata (identità-specchio). L'identità è certo sempre anche<br />

principium in<strong>di</strong>viduationis, ciò che ci fa essere Noi e non questo e quell'Altro, altrimenti si<br />

tratterebbe <strong>di</strong> un'identità <strong>di</strong>ffusa (un'eccezione del tutto sui generis può vedersi solo nella<br />

germinante identità del genere umano ormai posto sotto le minacce globali, cfr. cap. 18). È<br />

insomma anche identità-muro, ma è <strong>di</strong>verso se prevale il muro portante o il muro <strong>di</strong> recinzione:<br />

fuor <strong>di</strong> metafora, vi sono identità aperte all'incontro e allo scambio con gli altri, altre che ne<br />

rifuggono o ad<strong>di</strong>rittura consistono solo - e patologicamente - dell'essere il contrario degli altri<br />

(si vedano le recentemente risorte identità etno-nazionalistiche). Un ultimo aspetto da<br />

menzionare è che l'identità politica, soprattutto nelle società ad or<strong>di</strong>namento liberaldemocratico,<br />

non è solo il portato dello sviluppo storico del gruppo, ma contiene altresì un<br />

elemento normativo: l'in<strong>di</strong>cazione, co<strong>di</strong>ficata nelle Costituzioni, <strong>di</strong> ciò che come<br />

48


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

citta<strong>di</strong>ni/citta<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> questa comunità vogliamo essere e riteniamo che si debba essere 20 .<br />

Si è fatto cenno all'universo simbolico. Ora, il tema del simbolismo politico è irto <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>fficoltà e, come <strong>di</strong>rò, scientificamente immaturo; pur tuttavia non posso non fare un tentativo<br />

per schiarirne gli aspetti elementari, non foss'altro che per mettere il nostro <strong>di</strong>scorso al riparo da<br />

equivoci che su questa materia non mancano al giorno d'oggi.<br />

È ben vero che la produzione e riproduzione <strong>di</strong> senso ed il coagularsi <strong>di</strong> identità in<strong>di</strong>viduali<br />

e <strong>di</strong> gruppo non possono che appoggiarsi a simboli, e ciò vale su due livelli del simbolico.<br />

Primo, è quasi banale ricordare che, come ogni comunicazione umana, anche quella politica è<br />

per sua natura me<strong>di</strong>ata simbolicamente, cioè avviene tramite segni che rinviano a qualcos'altro<br />

da se stessi, dando così corpo al carattere universalizzante del linguaggio. Beninteso, ogni<br />

politica contiene anche sempre un messaggio simbolico, ma la politica in generale non si riduce<br />

ad atti simbolici. Un esempio: la guerra come continuazione della politica consiste anche nel<br />

comunicare con atti bellici ai nemici vivi le proprie volontà, intenzioni, minacce, ma a ciò<br />

appunto arriva con atti <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione ed uccisione che per il nemico ammazzato non sono<br />

simbolici. Parimenti una nuova politica fiscale ha certamente significati generali relativi alla<br />

visione della società che essa racchiude, ma consiste pure in trasferimenti <strong>di</strong> quote <strong>di</strong> ricchezza<br />

materiale da un ceto all’altro. Per tutte queste ragioni, chi pretende <strong>di</strong> scoprire il simbolismo<br />

dell'identità politica o sociale contro pretese vedute astratte ed intellettualistiche <strong>di</strong> questa per<br />

un verso sfonda porte aperte, per un altro cerca <strong>di</strong> vendere significati surrettizi. Il generale<br />

simbolismo della comunicazione, specificamente <strong>di</strong> quella legata alla produzionestabilizzazione<br />

<strong>di</strong> identità politiche, non <strong>di</strong>ce infatti niente sul carattere solidale o bellicoso,<br />

tollerante o xenofobo del messaggio che viene messo in circolazione. Neppure è vero che i<br />

simboli, per essere tali, debbano essere necessariamente alogici, sempre rinviando<br />

allusivamente a figure ancestrali o significati arcani della nostra esistenza. Invero quel gruppo<br />

può coltivare simboli runici o rosacroce, quest'altro riunirsi intorno alla falce del conta<strong>di</strong>no e al<br />

martello dell'operaio, quest'altro ancora intorno a simboli meno scenici, ma non meno<br />

espressivi <strong>di</strong> valori ed aspirazioni: la Costituzione recentemente conquistata <strong>di</strong> un paese<br />

democratico, il globo simbolo dell'ONU, <strong>di</strong>segnato sul casco blu <strong>di</strong> un soldato che soccorre<br />

civili vittime <strong>di</strong> un massacro. Qual è allora il rilievo da darsi al simbolismo politico?<br />

Rispetto all'identità politica - eccoci al suo secondo, più specifico livello - esso ci <strong>di</strong>ce che<br />

la politica, lo stare insieme in forme politiche, non sarebbe comprensibile, ovvero non<br />

sussisterebbe, se lo si pensasse soltanto in termini <strong>di</strong> perseguimento calcolatorio (l'agire<br />

cosiddetto strategico) <strong>di</strong> interessi nell'ambito della competizione per la <strong>di</strong>stribuzione delle<br />

risorse (si veda il precedente cap. a proposito del conflitto). Valori comuni <strong>di</strong> carattere nonovvero<br />

post-materialistico, memorie e tra<strong>di</strong>zioni con<strong>di</strong>vise nonché i sentimenti <strong>di</strong> reciproca<br />

appartenenza che ne scaturiscono sono, in misure e proporzioni <strong>di</strong>versissime, pur sempre<br />

necessari per creare e consolidare un'identità <strong>di</strong> gruppo. (Ricor<strong>di</strong>amo che l'appartenenza può<br />

essere ascrittiva, perché cioè la natura o la storia o la convenzione ci ascrive al tale gruppo,<br />

oppure elettiva, se la scelta è nostra.) Riconoscerlo non <strong>di</strong>ce peraltro nulla su come si<br />

conformerà la concreta identità tale o tal'altra, né prescrive che ognuna <strong>di</strong> esse contenga sempre<br />

20<br />

Chi sull'identità politica voglia sapere <strong>di</strong> più veda: F.<strong>Cerutti</strong>, a cura <strong>di</strong>, Identità e politica, Laterza,<br />

Roma-Bari 1996)<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

- si fa per <strong>di</strong>re - almeno il 51% <strong>di</strong> irrazionalismo e <strong>di</strong> simboli ed allegorie ad esso confacenti.<br />

È, per corollario, falso che identità e associazioni politiche non possano reggersi se non si<br />

alimentano <strong>di</strong> un qualche `mito d'origine'. Una cosa è il mito, che può essere o meno presente,<br />

un'altra la narrazione, che è invece impensabile <strong>di</strong> poter eliminare; lo si è già accennato sopra a<br />

riguardo dell'in<strong>di</strong>viduo, quando si è evidenziata la concreta <strong>di</strong>mensione autobiografica della sua<br />

identità, che a sua volta sta in un circuito <strong>di</strong> reciproca alimentazione con la <strong>di</strong>mensione storica<br />

della comunità cui si appartiene. Il mito politico contiene una più o meno consapevolmente<br />

deformata e polarizzata (in senso manicheo) versione dei fatti originari, effettivi o fittizi, <strong>di</strong> una<br />

nazione, Stato o movimento che sia - si tratti della Dolchstoßlegende (la pugnalata nella schiena<br />

che avrebbe condotto alla sconfitta del 1918) nella Germania weimariana o della `vittoria<br />

mutilata' nell'Italia fascista (miti reattivi, verrebbe <strong>di</strong> <strong>di</strong>re) o ancora dell'Ottobre rosso<br />

nell'autocelebrazione dell'URSS. Per narrazione fondativa invece intendo la memoria,<br />

pubblicamente esposta e <strong>di</strong>battuta, dei processi, delle lotte, dei valori e vincoli ivi maturati, e da<br />

cui è scaturita una comunità politica, ovvero una sua nuova fase. La <strong>di</strong>aspora e poi la Shoah<br />

sono in questo senso la narrazione fondativa <strong>di</strong> Israele, come lo sono antifascismo e Resistenza<br />

per la Repubblica italiana. Non vedo quale verità o utilità conoscitiva vi sia nel rifiutare questa<br />

<strong>di</strong>stinzione, mettendo queste narrazioni nell'unico minestrone dei `miti d'origine'. Si tratta <strong>di</strong><br />

una <strong>di</strong>fferenza qualitativa: <strong>di</strong>verso è il loro rapporto con la realtà storica, e soprattutto è <strong>di</strong>verso<br />

il tipo d'in<strong>di</strong>viduo - per esempio il naziskin ed il citta<strong>di</strong>no che contribuisce non solo con il voto<br />

alla vita democratica - alla cui identità politica essi sono correlabili. Una narrazione fondativa -<br />

per quante deformazioni e strumentalizzazioni possa subire, magari sfiorando la mutazione in<br />

mito - è sempre criticabile e rive<strong>di</strong>bile tramite l'uso pubblico della ragione nel <strong>di</strong>battito politico<br />

o intellettuale; così è avvenuto anche con la Resistenza. I miti non sono invece sottoponibili ad<br />

alcun vaglio pubblico o critico: o li si beve come sono, o crolla la legittimità del corpo politico<br />

alla cui compatta ed esclusiva identità essi dovrebbero condurre.<br />

Queste poche note segnano alcuni confini, ma non possono sostituire un'approfon<strong>di</strong>ta<br />

trattazione dei nessi <strong>di</strong> identità, simbolo e mito, tre termini <strong>di</strong> grande rilievo filosofico prima<br />

ancora che politico. Vorrei solo, rifiutati i mitologismi, aggiungere che la restante letteratura<br />

poco ci aiuta. Da Harold Lasswell a Edelman, per nominare due testi-chiave 21 , prevale<br />

l'approccio che vede in qualsivoglia simbolismo politico un instrumentum regni o comunque<br />

una deviazione dalla politica realistica e razionale. Più recentemente, i lavori sulle symbolic<br />

policies (il far efficacemente politica tramite puri atti simbolici, anziché incidendo sui termini<br />

effettivi del problema) hanno arricchito l'aspetto analitico, ma non soppiantato quell'approccio.<br />

Ad esso, forse per miopia realista verso una teoria generale dell'agire, manca la comprensione<br />

della me<strong>di</strong>azione simbolica, e quin<strong>di</strong> fatta <strong>di</strong> narrazioni ed elementi alogici, propria <strong>di</strong> ogni<br />

politica; me<strong>di</strong>azione che va <strong>di</strong>fferenziata al suo interno meglio <strong>di</strong> quanto non si sia potuto far<br />

qui, ma che alla politica (certo non solo ad essa) è connaturata, lungi dall'essere un optional da<br />

impiegare, quando occorre, strumentalmente. La presa <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza<br />

dalla presunta onnipresenza postmoderna del mito e dalla<br />

21<br />

H. Lasswell, World Politics and Personal Insecurity, New York 1935, e M. Edelman, The Symbolic<br />

Uses of Politics, Champaign 1976.<br />

50


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

confusione fra esso ed il simbolo non può oscurare questo punto<br />

fondamentale.<br />

51


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

13. Legittimità e legalità<br />

Prima <strong>di</strong> procedere oltre mi pare opportuno raccordare quanto ho esposto sopra con una<br />

versione più classica della questione, per la quale riprendo largamente i termini della voce<br />

Legittimità scritta da Bobbio per il Dizionario <strong>di</strong> politica.<br />

In questo senso classico, il problema della legalità o legittimità (per ora ne parlo in modo<br />

in<strong>di</strong>fferenziato) rientra nella sfera sulla quale potremmo mettere l'etichetta `limiti del potere'.<br />

Parlare <strong>di</strong> legalità, <strong>di</strong> leggi a cui il potere è sottoposto, oppure parlare <strong>di</strong> criteri <strong>di</strong> legittimità,<br />

attraverso cui esaminarlo, vuol <strong>di</strong>re essere convinti che il potere non debba essere assoluto,<br />

sciolto da ogni regola, ma debba invece avere delle limitazioni nelle quali tutti possiamo ovvero<br />

dobbiamo riconoscerci.<br />

Nel linguaggio normale o colloquiale, ed anche in base al linguaggio giuri<strong>di</strong>co, legalità e<br />

legittimità si equivalgono ampiamente, e i giuristi spesso si arrampicano sugli specchi per fare<br />

una <strong>di</strong>stinzione. In ogni caso per la teoria giuri<strong>di</strong>ca la legalità riguarda il modo in cui viene<br />

esercitato il potere, sicché il potere legale è quello che viene esercitato secondo le leggi, mentre<br />

opposto ad esso è il potere esercitato arbitrariamente cioè extra legem o contra legem. Si ba<strong>di</strong><br />

che questo non vuol <strong>di</strong>re che ogni potere che viene esercitato come piace al `principe' (può<br />

anche essere un principe collettivo) è <strong>di</strong> per sé potere arbitrario, perché può anche essere<br />

stabilito nella legge che il titolare del potere abbia, nell'ambito <strong>di</strong> un esercizio conforme a legge<br />

del suo potere, margini <strong>di</strong> <strong>di</strong>screzionalità. Il potere si <strong>di</strong>ce invece legittimo quando noi<br />

consideriamo che chi lo detiene abbia una giustificazione nel farlo, cioè non lo faccia as a<br />

matter of fact, ma agisca in base ad un principio che giustifica il fatto che egli detenga il potere.<br />

Dunque legalità: esercizio; legittimità: titolarità. Potere legale versus potere arbitrario; potere<br />

legittimo versus potere <strong>di</strong> fatto. Così li classifica Bobbio.<br />

Per <strong>di</strong>re ora del potere legittimo, ma non legale, l'esempio più nitido è quello del potere<br />

rivoluzionario: il potere rivoluzionario nasce per lo più in maniera che è chiaramente contraria<br />

alle leggi vigenti e produce peraltro subito una propria legalità, anzi non c'è rivoluzione che non<br />

faccia al più presto così. Quando i rivoluzionari russi assaltavano nel febbraio 1917 i palazzi del<br />

potere zarista erano fuori della legalità, pur essendo perfettamente legittimo, in nome della<br />

libertà, fare questo, tanto è vero che tutto il mondo applaudì; e perfino quando qualche mese<br />

dopo i bolscevichi presero il potere sottraendolo, con l'assalto d'ottobre al Palazzo d'inverno,<br />

agli altri rivoluzionari, non c'è dubbio che attuarono più d'una illegalità, compresa quella <strong>di</strong><br />

chiudere l'assemblea costituente, ma non c'è nemmeno dubbio che da una parte notevole della<br />

popolazione russa questo fatto fu riconosciuto come legittimo, perché giustificato con ideali <strong>di</strong><br />

eguaglianza e <strong>di</strong> pace.<br />

Più interessanti forse, e certamente storicamente più rilevanti, sono gli episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> potere non<br />

legittimo, eppure legale, giacché questo secolo ne ha visti due clamorosi, cominciati con un<br />

episo<strong>di</strong>o istituzionale, ma tali che poi hanno provocato quasi la fine d'Europa. L'incarico <strong>di</strong><br />

formare un nuovo governo che Vittorio Emanuele III il 28 ottobre del 1922 conferì<br />

all'onorevole Benito Mussolini era un atto legale compiuto dall'autorità suprema dello Stato<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

italiano secondo la legge vigente che era lo Statuto albertino; ma non c'è dubbio che per il modo<br />

in cui questo incarico venne preparato, cioè l'atto insurrezionale della marcia su Roma, e per le<br />

vie che il governo fascista poi percorse, si trattava e si trattò sempre più <strong>di</strong> un potere non<br />

legittimo, in quanto <strong>di</strong>strusse lo stesso tessuto democratico (anche se non troppo) e<br />

costituzionale dell'Italia liberale. Ancor più eclatante fu il cancellierato <strong>di</strong> Adolf Hitler, che il 31<br />

gennaio 1933 gli fu conferito da chi aveva il potere <strong>di</strong> darglielo, cioè dal Presidente del Reich, il<br />

maresciallo von Hindenburg, e fu poi confermato dal Reichstag e dalle elezioni del marzo del<br />

1933. Cosa c'era <strong>di</strong> più legale del potere del cancelliere Hitler? Ed è sempre per via <strong>di</strong> leggi<br />

debitamente approvate che egli si trasformò poi da cancelliere in Führer, cioè nel capo <strong>di</strong> un<br />

regime, e poi (per qualche anno) <strong>di</strong> un impero continentale, che oppresse e sterminò decine <strong>di</strong><br />

milioni <strong>di</strong> uomini.<br />

Questo secolo insomma ci ha insegnato che la legalità <strong>di</strong> un regime non garantisce il<br />

rispetto delle minime regole <strong>di</strong> convivenza in base alle quali gli in<strong>di</strong>vidui lo vivono come<br />

legittimo od esecrabile. Gli episo<strong>di</strong> cui si è accennato si possono peraltro iscrivere in un'antica<br />

<strong>di</strong>atriba, che è quella se il potere, una volta conferito legalmente, autorizzi chi lo detiene a farne<br />

un uso che sia contrario non alle leggi vigenti, al <strong>di</strong>ritto positivo vigente, bensì ai fondamenti<br />

giuri<strong>di</strong>ci, politici, morali e culturali <strong>di</strong> una certa comunità. Gli antichi usavano porre questo<br />

tema nell'ambito più generale del <strong>di</strong>lemma: “è meglio il governo degli uomini o il governo delle<br />

leggi?”.<br />

La soluzione proposta dai maggiori autori dell'antichità - dall'isonomia (eguaglianza <strong>di</strong>nanzi<br />

alla legge) dei Greci a Cicerone - è quella della superiorità del governo delle leggi, a cui gli<br />

uomini sono sottoposti. La formula canonica <strong>di</strong> questa superiorità è lex facit regem, per un<br />

verso, e per un altro verso che il principe non è al <strong>di</strong> sopra delle leggi, cioè non è legibus<br />

solutus. Contro la superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini si è levata la<br />

voce <strong>di</strong> chi <strong>di</strong>ce che se gli uomini non sono giusti, buoni e non vogliono il bene comune, non<br />

c'è legge che tenga, qualsiasi legge può essere evasa, <strong>di</strong>storta, cosicché l'elemento definitivo è la<br />

qualità degli uomini che governano. Questa è un'antica tra<strong>di</strong>zione che arriva fino a oggi; in<br />

qualche misura le contemporanee teorie delle élite potrebbero essere considerate una versione<br />

modernissima <strong>di</strong> questo antico problema. Esse ci <strong>di</strong>cono che un governo non è buono quando<br />

non funziona bene, e non sono le leggi che contano, ma la qualità della formazione e selezione<br />

dei governanti, in quanto classe decisamente ristretta o <strong>di</strong> cui sono decisivi i criteri <strong>di</strong><br />

riproduzione. Contro la teoria del sovrano che non è mai legibus solutus si leva tutta la teoria<br />

della sovranità propria dell'assolutismo, <strong>di</strong> cui la giustificazione più gran<strong>di</strong>osa pare ancora oggi<br />

quella data da T. Hobbes.<br />

Un altro aspetto della problematica <strong>di</strong> legge e potere, e più specificamente della soluzione<br />

che in<strong>di</strong>ca la superiorità delle leggi rispetto agli uomini, e quin<strong>di</strong> considera il governo in primis<br />

come governo delle leggi, è la determinazione del tipo <strong>di</strong> legge a cui le leggi particolari devono<br />

conformarsi, perché siano leggi sotto il cui governo si possa vivere in comunità. Questo<br />

riguarda sia la legge nella sua struttura, sia la legge nella sua applicazione o esecuzione. Nella<br />

sua struttura la concezione della legge come quella che è supremamente capace <strong>di</strong> governare gli<br />

uomini è l'idea della legge come <strong>di</strong>sposizione astratta e generale che riguarda in<strong>di</strong>fferentemente<br />

tutti coloro che appartengono al corpo politico, alla comunità.<br />

53


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

A questa legge che riguarda tutti e che è formulata in modo astratto non si può derogare<br />

altro che per giustificazioni che vengono esposte nella stessa legge derogatoria, e per motivi che<br />

rientrano in quelli fondativi della stessa legge generale. Si può derogare solo per rendere più<br />

efficace e più universale la legge generale.<br />

Questa è una problematica giuri<strong>di</strong>co-politica, ma anche filosofica; la si ritrova fra l'altro in<br />

Rawls, allorché egli si chiede quale tipo <strong>di</strong> <strong>di</strong>seguaglianza sia ammissibile in base ad una teoria<br />

della giustizia che ha come canone fra i più importanti quello dell'uguaglianza. Un esempio più<br />

comune: tutti i citta<strong>di</strong>ni hanno <strong>di</strong>ritto ad uno sgravio fiscale in base a quanti sono i membri<br />

della famiglia; legge <strong>di</strong> cui si lederebbe la legittimità se vi si derogasse con una legge che<br />

<strong>di</strong>cesse ad esempio che tutti i citta<strong>di</strong>ni che hanno il naso aquilino hanno uno sgravio del 10% e<br />

tutti i citta<strong>di</strong>ni che hanno il naso camuso hanno uno sgravio del 5%. Questa sarebbe una legge<br />

<strong>di</strong>scriminatoria. Tanto meno si possono fare leggi <strong>di</strong> carattere concretistico e cioè non astratto,<br />

che <strong>di</strong>cano ad esempio che tutte le persone che hanno la pelle bianca e il naso aquilino e il cui<br />

nome comincia per F e il cognome per N hanno <strong>di</strong>ritto a maggiori sgravi fiscali, perché questo<br />

vorrebbe <strong>di</strong>re che attraverso una forma pseudouniversalistica, pseudogenerale noi vogliamo<br />

favorire il signor Fer<strong>di</strong>nando Neri, che è non solo <strong>di</strong> pelle bianca, ma ha anche il naso aquilino.<br />

Però si può fare una legge in cui si <strong>di</strong>ce che tutti i citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> questa o quella provincia<br />

alluvionata che hanno subito danni per l'alluvione hanno <strong>di</strong>ritto a sgravi fiscali <strong>di</strong> tot fino alla<br />

data tale. Questa legge non è <strong>di</strong>scriminatoria perché sod<strong>di</strong>sfa le finalità <strong>di</strong> eguaglianza e<br />

perequazione cui aspira la legge astratta e generale che <strong>di</strong>ce che tutti i citta<strong>di</strong>ni devono pagare le<br />

tasse e prima <strong>di</strong> pagarle hanno <strong>di</strong>ritto ad uno sgravio fiscale <strong>di</strong> tot rispetto a questi criteri<br />

generali e astratti. Se non facessimo la legge che riguarda i citta<strong>di</strong>ni alluvionati<br />

commetteremmo un'ingiustizia e creeremmo una <strong>di</strong>suguaglianza a loro carico.<br />

L'altro aspetto è che la legge va applicata secondo giustizia e non secondo equità o, detto in<br />

altri termini, va applicata secondo giustizia formale e non giustizia materiale. Decisive non<br />

sono ancora una volta le sole norme primarie, quelle che <strong>di</strong>cono che chi non paga le tasse è<br />

soggetto prima ad un'ammenda, poi ad una multa, poi ad una pena carceraria, ma lo è anche il<br />

modo in cui si <strong>di</strong>ce come in<strong>di</strong>viduare chi non paga le tasse, come intimargli <strong>di</strong> pagarle, come<br />

perseguirlo se non le ha pagate, rispettando eventualmente situazioni particolari. Anche questo<br />

deve essere dettato da norme astratte che si chiamano norme secondarie o procedurali. Qui sta il<br />

carattere in<strong>di</strong>spensabile ed egualitario del formalismo giuri<strong>di</strong>co.<br />

La giustizia materiale è invece è quella che procede secondo criteri (intuitivi e `situazionali')<br />

<strong>di</strong> equità (da non confondersi con l'equità come fairness delle teorie della giustizia). Essa nasce<br />

in sistemi giuri<strong>di</strong>ci sottosviluppati o in realtà antigiuri<strong>di</strong>che: in una banda <strong>di</strong> ladri sarà il<br />

capoban<strong>di</strong>to a fare le parti, non ci saranno norme, co<strong>di</strong>ci impersonali <strong>di</strong> <strong>di</strong>stribuzione. In<br />

formazioni rivoluzionarie sono i capi che all'inizio, prima che si formi un sistema giuri<strong>di</strong>co,<br />

esercitano la giustizia. Non è dunque un'alternativa complessiva, ma nasce come risposta ai<br />

<strong>di</strong>fetti e alle insod<strong>di</strong>sfazioni che ci provoca il formalismo giuri<strong>di</strong>co. L'esempio famoso è quello<br />

del Re Salomone, ripreso modernamente da B. Brecht nel dramma Il cerchio <strong>di</strong> gesso del<br />

Caucaso nella figura del popolare e avvinazzato giu<strong>di</strong>ce Azdak. La <strong>di</strong>atriba nasce fra la madre<br />

ricca che aveva abbandonato il bambino, e che però secondo la legge normale aveva <strong>di</strong>ritto a<br />

riaverlo, e la nutrice che lo aveva cresciuto, aveva creato legami affettivi, ma in base alla legge<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

avrebbe dovuto renderlo su richiesta alla madre. Il giu<strong>di</strong>ce fa la prova della spada (metà<br />

bambino a ciascuna) e la nutrice,che ha il legame affettivo autentico, rinuncia, cosicché si<br />

capisce chi merita <strong>di</strong> essere madre <strong>di</strong> questo bambino, che viene dato alla nutrice. Da secoli in<br />

Europa la giustizia è formale; il processo <strong>di</strong> trapasso dalla giustizia materiale, che spesso è<br />

correlato con le forme tra<strong>di</strong>zionalistiche <strong>di</strong> potere, alla giustizia formale, che correla pienamente<br />

con il governo burocratico, legale, o razionale, per usare termini weberiani, è stato un processo<br />

enorme. Chi legge Economia e società <strong>di</strong> Max Weber vede la grande importanza storica, ma<br />

anche teorica, che Weber dà al processo <strong>di</strong> passaggio da quella che lui chiama la giustizia del<br />

Kadì, il giu<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> quartiere o <strong>di</strong> città musulmano, alla giustizia formale (caso limite ideale) <strong>di</strong><br />

quello che lui chiama il Paragraphenautomat, una macchina in cui si infila la causa e da cui si<br />

può raccogliere poi la sentenza. Oggi che si è ampiamente informatizzata la giustizia, rimane il<br />

problema dell'interpretazione, dell'ermeneutica della legge, che non ha ancora trovato una<br />

soluzione tecnica o meccanica, né forse mai la troverà.<br />

Non insisto sulla <strong>di</strong>stinzione tra legalità e legittimità, ma voglio far notare che non tutte le<br />

forme e i nomi della legalità, cioè della conformità <strong>di</strong> un regime politico a leggi, sono la stessa<br />

cosa: nel mondo anglosassone c'è il concetto della rule of law, che tra noi viene tradotto con<br />

Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto. Non abbiamo altra traduzione i<strong>di</strong>omatica e possiamo accettare <strong>di</strong> adoperare<br />

questa, ma non possiamo <strong>di</strong>menticare che, <strong>di</strong>versamente dalla tra<strong>di</strong>zione concettuale dello<br />

`Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto', la rule of law della tra<strong>di</strong>zione britannica, ed ancor più nella tra<strong>di</strong>zione<br />

americana, non in<strong>di</strong>ca la semplice conformità alle leggi ed alle procedure in quanto<br />

positivamente date, ma in quanto in esse sono racchiusi e si perpetuano certi valori pre<strong>di</strong>cati dal<br />

giusnaturalismo, ovvero riconosciuti nel patto costituzionale: i valori fondamentali della libertà<br />

e della <strong>di</strong>gnità dell'uomo.<br />

Lo Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, che altro non è che la traduzione dell'espressione tedesca Rechtsstaat, è<br />

un concetto che dal positivismo giuri<strong>di</strong>co è stato in molti casi piegato fino a trovare nella pura<br />

effettività e positività del <strong>di</strong>ritto statuale, quale che sia, un sufficiente motivo <strong>di</strong> legittimazione<br />

<strong>di</strong> questo <strong>di</strong>ritto e dello Stato o del regime politico su <strong>di</strong> esso costituito. Molto <strong>di</strong>versamente<br />

dalla rule of law, una parte della tra<strong>di</strong>zione che si richiama al concetto <strong>di</strong> Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto è <strong>di</strong><br />

tra<strong>di</strong>zione fortemente positivistica e le basta la conformità <strong>di</strong> un regime, cioè dei suoi<br />

or<strong>di</strong>namenti supremi alle leggi positive per <strong>di</strong>chiarare la presenza <strong>di</strong> uno Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto e la<br />

intangibilità <strong>di</strong> esso. Per esempio il concetto <strong>di</strong> Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, <strong>di</strong> Rechtsstaat è stato assai<br />

vigorosamente e polemicamente usato dai teorici conservatori dello Stato liberale contro la<br />

trasformazione sociale e democratica dello Stato stesso - soprattutto nella dottrina politicogiuri<strong>di</strong>ca<br />

tedesca degli anni Venti, durante la repubblica <strong>di</strong> Weimar, ed anche negli anni<br />

Cinquanta e Sessanta nella repubblica <strong>di</strong> Bonn (per la verità questo è avvenuto, nei primi anni<br />

Trenta, anche nella giurisprudenza della U.S. Supreme Court). Lo Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto è stato<br />

invocato come barriera proibitiva verso la legislazione solidaristica, perché sociale in questa<br />

accezione vuol <strong>di</strong>re sostanzialmente solidaristica, cioè che lo Stato prende, se non <strong>di</strong>rettamente<br />

ai ricchi, ma comunque pescando dal gran calderone fiscale per trattare un po' meglio sul piano<br />

delle esigenze sociali (salute, istruzione, vecchiaia) coloro che sono maltrattati dalle `libere'<br />

leggi <strong>di</strong> mercato.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

14. L'obbligo politico<br />

L'obbligo non è una categoria universalmente stu<strong>di</strong>ata. È fortemente legata alla tra<strong>di</strong>zione<br />

della political philosophy britannico-americana, col termine <strong>di</strong> political obligation. Ma in<br />

buona parte della teoria politica tedesca, per esempio, questa categoria non è stu<strong>di</strong>ata, anzi<br />

neppure esiste un termine tedesco pregnante. Anche in Italia è stato stu<strong>di</strong>ato abbastanza poco:<br />

l'unico che l'ha un poco trattato è un gran signore un po' pigro che più <strong>di</strong> tanto non ha scritto,<br />

Alessandro Passerin d'Entrèves, <strong>di</strong> cui si può trovare qualcosa sull'obbligo nel libro principale<br />

che si intitola La dottrina dello Stato (Torino 1967), o in un altro libro intitolato Il palchetto<br />

assegnato agli statisti (Milano 1979), ancora più introvabile ormai.<br />

Che cos'è l'obbligo politico? (Qui bisogna sempre mettere l'aggettivo, perché può anche<br />

esserci un altro obbligo che non sia quello politico). È l'obbligo a cui è sottoposto l'uomo in<br />

quanto sud<strong>di</strong>to o citta<strong>di</strong>no, in quanto membro <strong>di</strong> una comunità socialmente coesiva e<br />

giuri<strong>di</strong>camente organizzata.<br />

Giuri<strong>di</strong>camente organizzata vuol <strong>di</strong>re che c'è un or<strong>di</strong>namento giuri<strong>di</strong>co che non solo ha la<br />

sua vali<strong>di</strong>tà, ma che ha anche la sua efficacia, cioè che le sue leggi in qualche modo vengono<br />

osservate. Socialmente coesiva vuol <strong>di</strong>re una comunità in cui la gente non vive col timore <strong>di</strong><br />

star sola o <strong>di</strong> essere sbranata dai lupi, ma in cui c'è un certo grado <strong>di</strong> solidarietà o cooperazione<br />

sociale. In comunità <strong>di</strong> questo genere le leggi si ubbi<strong>di</strong>scono non solo perché si ha paura della<br />

sanzione e della forza che generalmente le impongono, ma perché se ne con<strong>di</strong>vidono in qualche<br />

misura, magari un po' obtorto collo, i fini ed i principi, o perché si riconosce, nel peggiore dei<br />

casi, che nell'obbe<strong>di</strong>rvi vi è una qualche ragionevolezza.<br />

L'obbligo politico è un tema propriamente filosofico perché è la filosofia politica che si<br />

interessa, da sempre, delle ragioni per cui gli uomini obbe<strong>di</strong>scono alle leggi; anzi, più<br />

generalmente, ai coman<strong>di</strong> dell'autorità. La fondazione dell'obbligo politico è un tema classico, e<br />

forse eterno della filosofia politica. Alla filosofia politica non importa <strong>di</strong> per sé niente che qua o<br />

là gli uomini obbe<strong>di</strong>scano o no alle leggi, cioè il fatto positivo, empiricamente rilevabile, non<br />

interessa in prima istanza questa <strong>di</strong>sciplina. In altre parole: quello che interessa è perché si<br />

obbe<strong>di</strong>sce; se sì o se no, quanti sì e quanti no, non interessa. È come tale una categoria che non<br />

ha una grande notorietà, ma a livello concettuale ha molta importanza, perché è una categoriaperno,<br />

nel senso che ci ruotano attorno <strong>di</strong>verse cose. Per un verso l'obbligo politico è l'altra<br />

faccia del potere in quanto legittimo, e ci fa vedere il potere dalla parte <strong>di</strong> chi non ce l'ha, <strong>di</strong> chi<br />

lo patisce, anziché dalla parte <strong>di</strong> chi lo esercita. Pertanto essa rinvia imme<strong>di</strong>atamente alla<br />

legittimità. Queste categorie, legittimità ed obbligo, hanno rilievo non in ogni e qualsiasi<br />

filosofia politica, ma solo se ci mettiamo nell'ottica <strong>di</strong> considerare l'associazione politica non<br />

una mera questione <strong>di</strong> forza, <strong>di</strong> manipolazione o <strong>di</strong> baionetta. Se noi pensiamo che la politica<br />

sia solo o inganno ed artificio o terrore ed oppressione e violenza, queste categorie ci<br />

interessano poco, non hanno rilievo. Se invece, senza escludere gli estremi in cui esistono e si<br />

possono osservare regimi politici che si fondano prevalentemente sull'inganno o sulla mera<br />

violenza, e senza negare il fatto che quasi nessun regime politico può fare a meno <strong>di</strong> un po' <strong>di</strong><br />

56


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

inganno, manipolazione e violenza (non so se per sua natura non può, ma <strong>di</strong> fatto finora è stato<br />

così), noi incliniamo a credere che il potere politico sia una cosa più complessa ed anche più<br />

sottile che non un potere consistente in mera forza e/o manipolazione. Inoltre l'obbligo politico<br />

implica anche e sempre la questione della libertà politica, pur senza essere questa una coppia<br />

opposizionale, ciò che sarebbe un abbaglio. Infine, insieme ad altre, l'obbligo politico si può<br />

considerare una delle fonti, delle con<strong>di</strong>zioni soggettive per il formarsi dell'or<strong>di</strong>ne politico.<br />

Dell'obbligo politico bisogna <strong>di</strong>re che è politico, quin<strong>di</strong> non morale e non giuri<strong>di</strong>co,<br />

sebbene a questi possa venir in vario modo raccordato. È <strong>di</strong>verso ed anche più vasto rispetto<br />

all'obbligo giuri<strong>di</strong>co, perché quest'ultimo contempla sempre la possibilità della sanzione<br />

coercitiva: io devo fare questo perché se non lo faccio mi danno l'ammenda, la multa, mi<br />

infliggono la prigione, mentre nell'obbligo politico l'adesione a ciò per cui ci si sente obbligati è<br />

anche e sempre una questione <strong>di</strong> scelta. Appunto non esiste un obbligo politico che sia solo<br />

coercizione: chi osserva l'obbligo politico si sente anche sempre obbligato. Qui "si sente"<br />

segnala che c'è una compartecipazione soggettiva, e che si tratta <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne interiorizzato.<br />

Anche se per tutto il resto la cosa può non andarci affatto a genio, però troviamo sempre dentro<br />

<strong>di</strong> noi qualche ragione per sod<strong>di</strong>sfare a quest'obbligo. Viceversa l'obbligo politico ha una<br />

estensione minore dell'obbligo morale, perché riguarda il comportamento, non le ragioni e non<br />

le convinzioni libere e <strong>di</strong>rette <strong>di</strong> chi agisce. È rilevante sapere che la gente osserva queste e<br />

quest’ altre leggi in queste e queste altre con<strong>di</strong>zioni in questi e questi tempi: se vedo questo e<br />

capisco perché questo avviene, posso parlare <strong>di</strong> obbligo politico. Mentre se io vedo che uno si<br />

comporta conformemente alla legge morale, io non posso mai essere sicuro che lo faccia per<br />

ragioni morali, perché ne ha l'obbligo morale, giacché <strong>di</strong> fatto lo può fare per mera convenienza<br />

o per bizzarria, o per gusto estetico o perché altrimenti teme chissà quali sanzioni. L'obbligo<br />

morale non è questione <strong>di</strong> comportamento. E c'è <strong>di</strong> più.<br />

L'obbligo politico è relativamente stabile, cioè una volta che un regime politico ne abbia<br />

costruite le con<strong>di</strong>zioni - finché non le <strong>di</strong>strugge o esso stesso, o perché viene meno o perché le<br />

cose si sviluppano in maniera nuova ed il regime non è più in grado <strong>di</strong> farvi fronte -<br />

l'osservanza dell'obbligo politico è assicurata. Noi non ci chie<strong>di</strong>amo ogni giorno perché<br />

dobbiamo obbe<strong>di</strong>re alle leggi, se dobbiamo e in che modo: ogni tanto facciamo delle riflessioni,<br />

il giorno delle elezioni ci chie<strong>di</strong>amo chi creerà le con<strong>di</strong>zioni migliori per cambiare le leggi o per<br />

farci obbe<strong>di</strong>re meglio ad esse, ma <strong>di</strong> solito non ci chie<strong>di</strong>amo se vogliamo rifiutare ogni `obbligo<br />

politico' e <strong>di</strong>ventare anarchici, antisociali o terroristi o quant'altro. Tanto meno ce lo chie<strong>di</strong>amo<br />

quoti<strong>di</strong>anamente. L'obbligo morale è <strong>di</strong>verso, non ha questa relativa staticità o questa<br />

ripetitività dell'obbligo politico, ed ogni volta, <strong>di</strong> fronte ad ogni singola situazione, noi ci<br />

chie<strong>di</strong>amo o almeno siamo tenuti e abilitati a chiederci come dobbiamo agire. L'obbligo politico<br />

non riguarda le convinzioni intime, le con<strong>di</strong>zioni libere, l'intenzione retta, come in<strong>di</strong>cavano gli<br />

scolastici, ma investe solo il comportamento esterno. Lo <strong>di</strong>mostra il fatto che ci può essere<br />

sod<strong>di</strong>sfazione dell'obbligo politico anche in una situazione in cui abbia qualche parte quella<br />

categoria tra<strong>di</strong>zionale, ma mai del tutto abbandonata dalla politica, che è la menzogna, mentre<br />

non è possibile pensare che ci sia una morale in cui la menzogna alberga o è accettata come una<br />

delle possibili regole o dei fattori del gioco.<br />

* * *<br />

57


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Dopo aver chiarito in termini definitori che cos'è l'obbligo politico e fatto cenno, anche con<br />

il rinvio al tema della legittimità, alla tematica della sua giustificazione, vorrei adesso illustrare<br />

con un esempio eminente l'altro problema ad esso connesso, quello della sua attuazione e<br />

gestione: ammesso che l'obbligo verso un determinato regime o istituzione possa venir<br />

inizialmente fondato, per capire perché esso venga adempiuto nella vita quoti<strong>di</strong>ana e<br />

continuativa del regime o dell'istituzione è necessario in<strong>di</strong>viduare le regole (esplicite e<br />

co<strong>di</strong>ficate o meno che siano) in base alle quali l'obbligo, che i citta<strong>di</strong>ni si assumono, <strong>di</strong> ubbi<strong>di</strong>re<br />

alle leggi si concili, o meglio si ingrani con i loro <strong>di</strong>versi e mutevoli motivi ed interessi. Pur<br />

nella <strong>di</strong>versità da quello morale, anche l'obbligo politico è sottoposto a tensioni e deve in<br />

momenti critici potersi rigiustificare: allora le regole, il modo in cui esso viene gestito non sono<br />

estranei alla sua stessa sussistenza.<br />

Il regime <strong>di</strong> cui ora parlerò è la democrazia e l'esempio è quello della regola <strong>di</strong><br />

maggioranza.<br />

22<br />

Prima bisogna sgombrare il terreno da equivoci e false credenze; una falsa credenza<br />

potrebbe essere che la regola <strong>di</strong> maggioranza è identica alla democrazia o le è coestensiva (dove<br />

c'è democrazia c'è regola <strong>di</strong> maggioranza e viceversa). È vero che dove c'è democrazia c'è<br />

regola <strong>di</strong> maggioranza, ma non è vero l'inverso.<br />

Il Gran Consiglio del Fascismo, come si vide la notte del 24 luglio del 1943, quando fu<br />

approvata la mozione presentata da Dino Gran<strong>di</strong> e altri che chiedeva il ritiro del Duce e<br />

l'armistizio, funzionava in base alla regola <strong>di</strong> maggioranza. Eppure niente vi era <strong>di</strong> più lontano<br />

dalla democrazia del regime fascista e del suo Gran Consiglio. Inoltre in un'assemblea <strong>di</strong><br />

condominio si vota a maggioranza, ma nulla è più lontano dalla democrazia <strong>di</strong> un assemblea <strong>di</strong><br />

condominio perché, non solo per ragioni culturali, vi manca l'uguaglianza, un carattere<br />

essenziale della democrazia in cui vige `one man one vote', mentre invece nelle assemblee <strong>di</strong><br />

condominio si vota in base ai millesimi, cioè il caseggiato viene <strong>di</strong>viso in millesimi ed ognuno<br />

ha tanto potere elettorale quanti millesimi egli detiene in quanto proprietario.<br />

La regola <strong>di</strong> maggioranza ha dunque un'estensione <strong>di</strong>versa e più larga della democrazia,<br />

tanto è vero che si adotta in consessi tutt'altro che democratici o perché sono a-democratici, tipo<br />

l'assemblea <strong>di</strong> condominio, o perché sono anti-democratici. Peraltro la stessa affermazione<br />

“dovunque c'è democrazia c'è regola <strong>di</strong> maggioranza” è vera e non è vera, a seconda dei livelli<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso: è vera nel senso della nostra convinzione basilare che un'assemblea politica<br />

democratica, o costituente o legislativa, così come un corpo elettorale sovrano, se vogliono<br />

mantenersi democratici, devono votare secondo la regola <strong>di</strong> maggioranza. Qui si assume, ai fini<br />

della giustificazione e del funzionamento del sistema democratico, che in ogni momento ogni<br />

22<br />

Faccio stretto riferimento ad un testo <strong>di</strong> Bobbio, La regola <strong>di</strong> maggioranza: limiti ed aporie,<br />

contenuto nel volume <strong>di</strong> Bobbio et al., (et alii non è la <strong>di</strong>citura usata nella bibliografia italiana,<br />

la usano piuttosto gli americani e gli inglesi; ma non si vede perché non la dovremmo usare noi,<br />

dato che è latina, e soprattutto che è cento volte meglio della <strong>di</strong>citura orribile `autori<br />

vari' (AA.VV.), che io invito a non usare mai essendo del tutto insensata, perché nessun signor<br />

AA.VV. ha mai preso in mano una penna o battuto su <strong>di</strong> una tastiera, e tanto meno partorito<br />

idee da mettere per iscritto), Democrazia, maggioranza e minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981.<br />

58


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

citta<strong>di</strong>no o citta<strong>di</strong>na sia eguale a tutti gli altri/altre, e che questa sia la base migliore per la<br />

<strong>di</strong>stribuzione del potere.<br />

Ma ci sono negli Stati Uniti teorie minoritarie, formulate soprattutto da teoriche femministe,<br />

che affermano che, per assicurare una vera e autentica giustizia, bisogna riequilibrare la società<br />

ed anche le istituzioni, in cui l'eguaglianza è solo assunta, ma non è reale. Allora bisognerebbe,<br />

almeno per un tempo limitato, cambiare le regole del gioco, mettendo in sonno un presupposto<br />

essenziale della regola <strong>di</strong> maggioranza, l'eguaglianza <strong>di</strong> tutti gli in<strong>di</strong>vidui, e dando per un certo<br />

periodo doppio voto alle donne e agli afroamericani. Si vede qui che una cosa è il sapere<br />

fondativo o manualistico, il quale ci <strong>di</strong>ce che la regola <strong>di</strong> maggioranza è sempre la regola dei<br />

processi elettorali delle assemblee democratiche; una cosa è fare un'indagine a livello più critico<br />

e <strong>di</strong>namico, in cui bisogna renderci conto che le cose non sono mai definitivamente formulate,<br />

almeno concettualmente, e che possono presentarsi mutamenti anche <strong>di</strong> quelle che<br />

consideravamo le più solide costanti (in re) e le più <strong>di</strong>ffuse convinzioni soggettive.<br />

Non è vero inoltre che in una democrazia ci debba essere un estendersi continuo ed<br />

illimitato della regola <strong>di</strong> maggioranza: questo io lo ritengo uno sciagurato abbaglio concettuale<br />

ed anche politico. Io ritengo che molte democrazie contemporanee, certamente quella italiana,<br />

si siano fatte molto danno estendendo la regola <strong>di</strong> maggioranza dalle assemblee propriamente<br />

politiche ad ambiti deliberativi <strong>di</strong> tipo esecutivo-gestionale, oppure legati a saperi specialistici,<br />

dove la regola <strong>di</strong> maggioranza non c'entra niente, e soprattutto non si deve nominare invano la<br />

democrazia, perché si tratta al più <strong>di</strong> collegialità. Ritengo che, una volta presa la decisione<br />

politica d'in<strong>di</strong>rizzo, la sua esecuzione (e soprattutto le sue conseguenze) debba essere sottoposta<br />

ai maggiori controlli democratici, ma debba avvenire non in base ai criteri della<br />

rappresentatività partitica degli esecutori, ma in base ai criteri dell'efficienza; per efficienza<br />

intendendosi che il pubblico dei citta<strong>di</strong>ni titolari <strong>di</strong> interessi legittimi abbia anzitutto <strong>di</strong>ritto<br />

all'esecuzione rapida, professionale e non inutilmente costosa <strong>di</strong> quanto è stato deliberato, si<br />

tratti <strong>di</strong> una nuova regola del processo penale o <strong>di</strong> una nuova legge sull'Università. Questa è la<br />

prima ragione per cui non è vero che la regola <strong>di</strong> maggioranza e la democrazia siano<br />

coestensive.<br />

La seconda ragione deriva da un cambiamento abbastanza recente del sistema politico e<br />

sociale, che più che escludere mette da parte, quasi rende superflua la regola <strong>di</strong> maggioranza.<br />

Cominciamo osservando che nella formazione delle deliberazioni con cui si allocano risorse<br />

esistono in realtà due procedure fondamentali: una è quella della legge, che configura tutti i<br />

rapporti politici come rapporti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto pubblico, in cui il legislatore e il suo prodotto, la legge,<br />

hanno una posizione super partes. La legge viene formata attraverso la regola <strong>di</strong> maggioranza,<br />

il che presuppone che vi sia chi in una deliberazione e nel suo effetto legislativo perde e chi<br />

guadagna: una minoranza che perde, una maggioranza che guadagna. Ma ovviamente alla legge<br />

tutti, maggioranza e minoranza, si piegano. L'obbligo politico viene qui gestito attraverso una<br />

procedura giuspubblicistica; essa è ricavata dal modello <strong>di</strong> tipo inglese, detto quin<strong>di</strong><br />

`westminsteriano', <strong>di</strong> democrazia, e rinvia più <strong>di</strong> ogni altro a due presupposti della democrazia<br />

liberale: i limiti del potere e l'effettivo alternarsi dei partiti al governo. In realtà sappiamo già da<br />

tempo che esiste una seconda procedura, teoricamente concorrenziale, ma in realtà<br />

concomitante con la prima, <strong>di</strong> tipo pattizio o contrattuale, in cui non c'è una lex super partes,<br />

59


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

bensì un pactum inter partes, cioè una figura <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto privato in cui dal compromesso tutti<br />

guadagnano qualcosa e nessuno ha soltanto per<strong>di</strong>te da sopportare. Dal punto <strong>di</strong> vista della teoria<br />

dei giuochi banalizzata, la procedura giuspubblicistica è un gioco a somma zero (in una<br />

operazione algebrica uno guadagna <strong>di</strong>eci, l'altro perde <strong>di</strong>eci e la somma del gioco è zero). La<br />

procedura giusprivatistica, compromissoria o pattizia, è un gioco a somma positiva, in cui<br />

ognuno guadagna qualcosa e quin<strong>di</strong> la somma algebrica complessiva è superiore a zero. Questa<br />

seconda procedura, che ha portato modelli privatistici nel campo eminentemente (almeno una<br />

volta) pubblico della politica ha preso largo campo, non soppiantando la regolazione via leggi,<br />

via maggioranza-minoranza, ma erodendo lo spazio riservato a questi processi. Negli Stati del<br />

benessere contemporanei si assiste così ad un processo sociale e politico risoltosi in ciò che gli<br />

stu<strong>di</strong>osi chiamano neocorporatismo: un tipo <strong>di</strong> gestione dei conflitti sociali e politici in cui non<br />

c'è il pubblico, la legge, il parlamento, il governo che sta fuori dal gioco e lascia che sindacati e<br />

patronato si mettano d'accordo o si scontrino quanto vogliano, a meno che non <strong>di</strong>ano fuoco alle<br />

fabbriche o a i municipi. La posizione tra<strong>di</strong>zionale sarebbe quella <strong>di</strong> tenersi fuori, garantendo il<br />

rispetto dell'or<strong>di</strong>ne pubblico o al massimo intervenendo con la legge per fissare super partes le<br />

con<strong>di</strong>zioni generali in base alle quali accordarsi. La funzione del governo in situazione<br />

neocorporatista è invece quella <strong>di</strong> essere insieme me<strong>di</strong>atore, (non arbitro che <strong>di</strong>ce alle altre due<br />

parti sociali in conflitto “tu per<strong>di</strong>, tu vinci”, ma uno che li mette d'accordo) e parte in causa,<br />

perché lo Stato stesso è datore <strong>di</strong> lavoro nell'enorme settore dell'impiego pubblico, e perché lo<br />

Stato provvede con provve<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> tipo finanziario (sgravi fiscali, fiscalizzazione degli oneri<br />

sociali) a <strong>di</strong>stribuire sull'intera comunità i costi del compromesso fra le due gran<strong>di</strong> corporazioni<br />

dei datori <strong>di</strong> lavoro e dei lavoratori.<br />

Questo è il neocorporatismo: un gioco a tre in cui il potere pubblico non riveste più una<br />

funzione super partes tra<strong>di</strong>zionale, ma è esso stesso parte in gioco e me<strong>di</strong>atore, anche <strong>di</strong>sposto<br />

a pagare in parte i costi della me<strong>di</strong>azione. Una parentesi problematica: questo tipo <strong>di</strong> regime,<br />

ovvero <strong>di</strong> costituzione materiale a cui ci siamo abituati dal dopoguerra, è in parte eroso dalla<br />

crisi fiscale dello Stato del benessere, dal <strong>di</strong>slocarsi del conflitto sociale dallo scenario<br />

tra<strong>di</strong>zionale (fra classe operaia o lavoratori <strong>di</strong>pendenti e padronato o datori <strong>di</strong> lavoro) a quello<br />

sempre più definito da un largo settore della società che non entra neppure nel gioco<br />

neocorporatista: i <strong>di</strong>soccupati, i poveri, gli immigrati, gli emarginati, quelli che sono in<br />

posizione debole sul mercato del lavoro o che ne sono stati espulsi. Uno dei problemi attuali,<br />

oltre quelli <strong>di</strong> crisi fiscale, che rende dall'esterno non più resistentissimo il neocorporatismo<br />

come costituzione materiale, è ciò che è stato figurativamente chiamato il costituirsi della<br />

società dei due terzi. Alla società bipolare <strong>di</strong> capitalisti e operai, lavoratori <strong>di</strong>pendenti e<br />

possessori dei mezzi <strong>di</strong> produzione, come forma centrale dello scontro sociale, si è sostituita la<br />

società <strong>di</strong>visa sì in due, ma non più fra il 50% e l'altro 50%, o meglio fra il 70% e il 20%. Nel<br />

66% della società dei due terzi ci stanno i lavoratori <strong>di</strong>pendenti con posizione più o meno<br />

consolidata tanto quanto gli impren<strong>di</strong>tori piccoli e gran<strong>di</strong>, i membri della varie burocrazie<br />

pubbliche e semi-pubbliche, e così via. L'altro terzo della società, fra cui i giovani senza lavoro<br />

o con lavoro totalmente precario, è completamente fuori da queste coor<strong>di</strong>nate e l'esserne fuori<br />

completamente rende socialmente, e in prospettiva politicamente, più precaria la società<br />

postindustriale contemporanea. È un problema <strong>di</strong> crisi e precarietà della democrazia<br />

60


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

contemporanea nella sua costituzione materiale.<br />

Veniamo ora ad un terzo momento - per importanza è il primo - in cui democrazia e regola<br />

<strong>di</strong> maggioranza non sono coestensive. Occorre chiedersi quali sono le con<strong>di</strong>zioni preliminari<br />

senza le quali non è pensabile che la regola <strong>di</strong> maggioranza esista. Ci sono due con<strong>di</strong>zioni<br />

fondamentali: (a.) che vi sia un accordo unanime sull'accettazione della regola. Ma alle spalle<br />

dell'uso della regola <strong>di</strong> maggioranza ci deve essere (b.) qualcosa che sia un patto sociale, che<br />

non consista solo nell'accettazione della regola, ma anche nell'esclusione della sua possibile<br />

abolizione una volta conquistato il potere in base ad essa (più esattamente non sarebbe la regola<br />

a venir abolita, bensì la sua applicazione permanente e garantita). Perché sia una regola<br />

accettata e con<strong>di</strong>visa non solo una volta, ma una volta per tutte, la devo accettare sia che perda<br />

(essendo oggi in minoranza, ma con la possibilità effettiva <strong>di</strong> non esserlo più domani) sia che<br />

guadagni (essendo oggi in maggioranza, ma dovendo agire nel rischio <strong>di</strong> non esserlo più<br />

domani). Ad<strong>di</strong>rittura potremmo porre delle sanzioni su chi vuole abolirla per rendere più forte<br />

questa con<strong>di</strong>visione della regola come con<strong>di</strong>zione essenziale del suo funzionamento; delle<br />

sanzioni su chi promettesse e propagandasse con le parole o con i fatti <strong>di</strong> abolire la regola <strong>di</strong><br />

maggioranza, una volta che abbia conquistato il potere. Questo è il problema <strong>di</strong> come e quanto<br />

la democrazia, come quel regime che fondamentalmente non può fare a meno della regola <strong>di</strong><br />

maggioranza, debba <strong>di</strong>fendersi da chi la vuole abolire. Ma qui <strong>di</strong> problemi se ne apre un altro:<br />

se debba valere <strong>di</strong> più la costanza ed intangibilità delle regole, oppure un'altra cosa, che non è<br />

una regola, ma un principio fondamentale della democrazia, in quanto democrazia liberale: il<br />

principio del free speech, cioè della libertà <strong>di</strong> opinione e <strong>di</strong> manifestazione del pensiero. Da<br />

questo punto <strong>di</strong> vista può essere considerato ammissibile che io <strong>di</strong>ca in democrazia che se<br />

vincerò abolirò la regola; se poi lo faccio mi tiro addosso la sanzione, ma se soltanto lo <strong>di</strong>co, se<br />

<strong>di</strong>co che è bene abolire la democrazia una volta che io abbia vinto in base alla regola <strong>di</strong><br />

maggioranza, potrei anche uscirne senza sanzioni, se ci si mette d'accordo <strong>di</strong> far prevalere il<br />

principio della libertà <strong>di</strong> opinione. Su questa cosa si è molto <strong>di</strong>scusso soprattutto negli anni<br />

Cinquanta-Settanta, per armare la rinnovata democrazia contro coloro che <strong>di</strong>cevano o parevano<br />

<strong>di</strong>re <strong>di</strong> volerla abolire; questo ha portato per esempio all'esclusione (meramente nominale nel<br />

primo caso) del partito fascista dalla politica italiana, <strong>di</strong> quello comunista dalla politica tedesca.<br />

Il problema è cruciale: se metto i <strong>di</strong>ritti fondamentali e inalienabili sotto la regola <strong>di</strong><br />

maggioranza è come se accettassi che un domani la regola <strong>di</strong> maggioranza venga abolita,<br />

insieme a cose ancor più importanti <strong>di</strong> essa. La libertà <strong>di</strong> non essere ucciso dall'autorità statale o<br />

carcerato senza processo, la libertà <strong>di</strong> opinione, <strong>di</strong> produrre e leggere la stampa che voglio, e<br />

infine <strong>di</strong> poter deliberare politicamente senza paura per i miei beni più essenziali: tutte queste<br />

cose non possono essere subor<strong>di</strong>nate alla maggioranza che <strong>di</strong> volta in volta governa un paese.<br />

Dobbiamo tutti quanti riconoscere che essi sono <strong>di</strong>ritti inviolabili <strong>di</strong> ciascuno sia come uomo o<br />

donna, cioè come essere umano, sia come membro della comunità politica e cioè citta<strong>di</strong>no:<br />

ecco - per riprendere il linguaggio della Rivoluzione francese - i <strong>di</strong>ritti inalienabili dell'uomo e<br />

del citta<strong>di</strong>no. Tutelarli non è propriamente - come si <strong>di</strong>ce nel linguaggio comune - il mestiere<br />

della democrazia, la democrazia riguardando piuttosto i rapporti <strong>di</strong> potere e quin<strong>di</strong> la<br />

partecipazione <strong>di</strong> tutti al potere, alla sua sud<strong>di</strong>visione e gestione. La dottrina dei <strong>di</strong>ritti<br />

inalienabili e fondamentali è piuttosto il prodotto, il centro focale del liberalismo. Noi siamo<br />

61


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

abituati a veder andare il liberalismo e la democrazia abbastanza <strong>di</strong> conserva, almeno in<br />

Occidente. In verità per molto tempo <strong>di</strong> conserva non ci sono andati: ci sono stati decenni <strong>di</strong><br />

polemica da parte dei democratici contro la ristrettezza della concezione meramente liberale dei<br />

rapporti civili, che si contentava <strong>di</strong> stabilire quelle astratte norme sui <strong>di</strong>ritti fondamentali, ma<br />

non si occupava della <strong>di</strong>stribuzione del potere e quin<strong>di</strong> della effettiva produzione <strong>di</strong> questi<br />

<strong>di</strong>ritti. Così come c'è stata per decenni una polemica intensa dei liberali contro il carattere<br />

tendenzialmente autoritario della democrazia, proprio perché la democrazia, e quin<strong>di</strong> la<br />

maggioranza che <strong>di</strong> volta in volta si forma, si pensava che potesse mettere a rischio libertà e<br />

<strong>di</strong>ritti fondamentali<br />

23.<br />

Occorrono certe con<strong>di</strong>zioni perché si arrivi allo sposalizio <strong>di</strong> liberalismo e democrazia.<br />

Esso può avvenire al meglio dove ci sia:<br />

a) una cultura in<strong>di</strong>vidualistica, cioè l'in<strong>di</strong>viduo sia ritenuto il portatore ultimo e supremo <strong>di</strong><br />

valori, <strong>di</strong>ritti e interessi.<br />

b) un regime <strong>di</strong> tolleranza, nato se non altro dalla stanchezza, dopo che per alcuni decenni o<br />

secoli ci si è scannati fra vicini <strong>di</strong> casa, o fra una città e l'altra in nome <strong>di</strong> questa o quella<br />

versione <strong>di</strong> un passo del Vangelo o delle Lettere degli Apostoli o del Corano; ciò non è<br />

pensabile se non vi è stato un certo processo <strong>di</strong> laicizzazione.<br />

c) una qualche omogeneità culturale, nel senso che, almeno fino ad adesso, si osserva che<br />

fuori dei paesi toccati, o per sviluppo autonomo o per lunga dominazione coloniale, dalla civiltà<br />

giudaico-cristiana non si verifica un impiantarsi in profon<strong>di</strong>tà della democrazia e del<br />

liberalismo.<br />

Cultura in<strong>di</strong>vidualistica, tolleranza, omogeneità culturale sono in gran parte tre aspetti<br />

<strong>di</strong>versi <strong>di</strong> una stessa Koiné culturale, o - si <strong>di</strong>ca pure - antropologica. Queste sono con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

carattere prevalentemente culturale; ma devo ricordare che ogni lotta politica regolata nelle<br />

maniere rispettose <strong>di</strong> ciascuno, come è quella che avviene in regimi liberali e democratici, ha<br />

una premessa materiale, e cioè<br />

d) che la scarsità dei beni sia moderata. Tra la gente che muore <strong>di</strong> fame, anche se educata<br />

cristianamente, è <strong>di</strong>fficile che prolifichi e si impianti il seme delle libertà democratiche. Scarsità<br />

moderata è a sua volta premessa del fatto che vi sia una certa eguaglianza o non eccessiva<br />

<strong>di</strong>suguaglianza <strong>di</strong> benessere, che il rapporto fra chi sta molto bene e chi sta molto male non<br />

superi un tot, perché evidentemente, se io penso soltanto alla mia fame, non accetterò <strong>di</strong><br />

rispettare la regola <strong>di</strong> maggioranza, e probabilmente non mi interesserà nulla della democrazia e<br />

della vita politica. Ora, a rendere più moderata la scarsità ha provveduto finora meglio <strong>di</strong> altre<br />

l'economica <strong>di</strong> tipo capitalistico; ed in effetti la democrazia liberale si è meglio impiantata nei<br />

paesi ad economia capitalistica matura, imponendo tuttavia alla <strong>di</strong>namica economica<br />

capitalistica certe regole volte anche ad evitare le minacce che da tale <strong>di</strong>namica possono<br />

derivare alla vita democratica.<br />

Dove esistono queste premesse è probabile che si produca una meta-premessa, una<br />

23<br />

La storia dei rapporti non facili tra liberalismo e democrazia si può leggere utilmente in un libro <strong>di</strong><br />

Bobbio, Liberalismo e democrazia, pubblicato da Franco Angeli.<br />

62


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

premessa <strong>di</strong> livello logico superiore:<br />

e) la permanente prevalenza <strong>di</strong> un interesse generale a mantenere quelle regole e a tutelare<br />

quei valori-base della democrazia. La prevalenza deve essere permanente, l'interesse deve<br />

essere generale e questo vuol <strong>di</strong>re che nell'interesse dei più non deve prevalere la scelta che è<br />

meglio scannarsi piuttosto che sottoporsi al giuoco <strong>di</strong> maggioranza e minoranza e <strong>di</strong> rispetto<br />

reciproco tra maggioranza e minoranza. Né deve prevalere l'attitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> <strong>di</strong>re: finché sono<br />

minoranza sto buono, cerco <strong>di</strong> sbarcare il lunario, appena prendo la maggioranza abolisco il<br />

rispetto della regola stessa. `Interesse generale' vuol <strong>di</strong>re che, se non tutti, la stragrande<br />

maggioranza dei partecipanti al gioco politico deve avere interesse materiale, morale e culturale<br />

al mantenimento delle regole del gioco così come stanno. In altre parole bisogna essere convinti<br />

che continuando a stare assieme, pur con una <strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> potere fra maggioranza e<br />

minoranza, pur avendo alcuni che stanno meglio e altri che stanno peggio, restando tutti<br />

assieme con quelle regole si cresce ciascuno <strong>di</strong> più che non <strong>di</strong>videndosi e sbranandosi.<br />

15. Lo Stato<br />

Questo tema capitale verrà qui trattato in modo assai succinto per due ragioni. La prima è<br />

che,tranne la sovranità, tutte le categorie-chiave del politico, che spesso si espongono a partire<br />

dallo Stato, sono già state esposte sopra ad un maggiore livello d'astrazione, e basterà - quando<br />

occorra - richiamarle. La seconda ragione è che per una serie <strong>di</strong> temi classici (il termine Stato;<br />

continuità o meno fra Stati antichi e moderni; forme <strong>di</strong> Stato e forme <strong>di</strong> governo) si preferisce<br />

rinviare alla trattazione, ormai altrettanto classica, che Bobbio ne dà nel capitolo Stato, potere e<br />

governo del suo libro Stato, governo, società. Verrà invece svolta qui ampiamente la tematica<br />

dello Stato al plurale, che trova insufficiente trattazione ed attenzione concettuale nei testi<br />

sistematici <strong>di</strong> filosofia politica.<br />

Ma cominciamo con la definizione. Lo Stato (s'intenda sempre lo Stato moderno - questa ed<br />

altre definizioni contengono molti elementi vali<strong>di</strong> anche per gli Stati dell'antichità, ma valgono<br />

pienamente solo per lo Stato moderno) è quell'istituzione che detiene il monopolio della forza<br />

legittima su <strong>di</strong> un determinato territorio e nei confronti <strong>di</strong> una determinata popolazione. Esso<br />

non ha al <strong>di</strong> sopra <strong>di</strong> sé nessun altro ente o istituzione (è dunque superiorem non recognoscens)<br />

e quin<strong>di</strong> gode <strong>di</strong> piena sovranità, la quale ha limiti solo materiali, cioè vi sono materie sulle<br />

quali la sovranità non si esercita o per limiti naturali (limite mobile, non essendo più<br />

necessariamente vero che il Parlamento inglese tutto può decidere nella sua legislazione, salvo<br />

che un uomo <strong>di</strong>venga donna) oppure limiti imposti alla sovranità dall'or<strong>di</strong>namento stesso, limiti<br />

che lo Stato si impone da solo (per es. il Parlamento, inglese od altro, potrebbe domani decidere<br />

una legge costituzionale che neghi a se stesso il potere <strong>di</strong> deliberare interventi biogenetici).<br />

Insieme ai limiti interni allo Stato vi sono i limiti imposti dall'essere la sua sovranità relativa ad<br />

un territorio e ad una popolazione. Questo elemento sembra puramente aggiuntivo, geografico,<br />

ed invece è un elemento concettuale importante: il limite della sovranità dello Stato è dato dagli<br />

altri Stati, dal fatto che, come qualcuno ha detto, essendo la terra sferica e non un piano<br />

63


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

illimitato, non vi possono essere - se si esclude una monarchia o <strong>di</strong>ttatura planetaria - altro che<br />

molti Stati, il potere dell'uno essendo sempre delimitato da quello degli altri, e dovendosi<br />

confrontare l'uno con gli altri.<br />

Ricor<strong>di</strong>amo altre caratteristiche proprie dello Stato all'interno. Anzitutto, gli attori della vita<br />

statuale, secondo la teoria moderna contrattualistica, sono gli in<strong>di</strong>vidui, mentre gli enti, i<br />

cosiddetti corpi interme<strong>di</strong>, e secondo alcuni anche la società civile, sono secondari rispetto agli<br />

in<strong>di</strong>vidui umani. Secondo, lo Stato è una unità politica relativamente stabile nel tempo e nello<br />

spazio: <strong>di</strong>co relativamente perché gli Stati possono consensualmente <strong>di</strong>vidersi, essere sottoposti<br />

a secessione e possono essere inglobati in un altro, o <strong>di</strong>sciogliersi in una federazione. Gli Stati<br />

moderni (in verità, ciò vale <strong>di</strong> tutti gli Stati che abbiano una qualche Costituzione, come Atene<br />

e Sparta, ed una configurazione giuri<strong>di</strong>ca, come Roma; non vale per regimi personali, satrapieet<br />

similia.) consistono <strong>di</strong> istituzioni impersonali e permanenti. Ogni Stato ha delle funzioni, non<br />

tutti hanno dei fini, nel senso che possono o no darsi obiettivi in<strong>di</strong>cati da una particolare<br />

concezione politica, ideologica, religiosa o quant'altro. Le funzioni dello Stato moderno sono la<br />

produzione, l'accertamento e l'attuazione del <strong>di</strong>ritto: lo Stato funziona prevalentemente<br />

attraverso la legge, non nel senso <strong>di</strong> essere un `robot <strong>di</strong> commi <strong>di</strong> legge' (Paragraphenautomat,<br />

Max Weber), bensì perché gli interessi, le volontà, i rapporti <strong>di</strong> potere <strong>di</strong> cui esso si sostanzia<br />

debbono sempre e comunque, per <strong>di</strong>venire atto dello Stato, potersi presentare in forma <strong>di</strong> legge<br />

o riconducibile ad una legge.<br />

Si suppone insomma che il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> volta in volta prodotto dallo Stato sia valido e<br />

vincolante per tutti. Certo, in con<strong>di</strong>zioni eccezionali esso può essere non valido perché fondato<br />

su autorità cui manca qualcosa, per esempio il titolo per fare la legislazione oppure perché un<br />

attore (un gruppo sociale o nazionale o dottrinale) rivoluzionario si rifiuta <strong>di</strong> sottostare a quel<br />

<strong>di</strong>ritto della cui produzione lo Stato precipuamente si occupa. Sono casi eccezionali che non<br />

mutano la regola, perché prima o dopo (certo, nel frattempo possono avvenire terremoti) quel<br />

gruppo o viene riassorbito o fa davvero la rivoluzione e crea un nuovo <strong>di</strong>ritto.<br />

Torniamo al tema della sovranità, per trattarlo in modo più <strong>di</strong>retto. Con esso si in<strong>di</strong>ca il<br />

potere statuale in quanto sommo all'interno e in<strong>di</strong>pendente con riguardo a quanto è fuori dello<br />

Stato. La sovranità in quanto summa potestas è pensabile solo nella società politica, perché<br />

soltanto in essa - come sappiamo da quanto si è detto sul potere politico - esiste questo<br />

or<strong>di</strong>namento verticale e piramidale del potere. Nella sua versione classica, si usano anche<br />

aggettivazioni più specifiche: essa è assoluta, non sottoposta cioè a leggi (almeno a leggi<br />

positive) d'altra fonte che quelle fatte dal sovrano medesimo. È una, non essendo sud<strong>di</strong>visa fra<br />

un potere centrale, i ceti, i corpi interme<strong>di</strong>, ma risedendo tutta nello Stato in quanto fonte unica,<br />

al che non fa contrasto che i poteri dello Stato possano essere delegati (ma non ceduti) a questa<br />

o quella istanza. È perpetua ed inalienabile, non essendo lo Stato proprietà personale del<br />

principe, e si può perdere - come scrisse Leibnitz - solo “par la force des armes”. In quanto<br />

sovrano, lo Stato ha la plenitudo potestatis che una volta toccava solo al sacro romano<br />

imperatore.<br />

Detto che cos'è la sovranità, ci resta da <strong>di</strong>re in che cosa si manifesta e dove risiede. Sono<br />

due domande capitali della teoria politica classica, ma ne abbiamo già trattato sotto altro titolo e<br />

qui ci limiteremo a richiamare alcune cose. A riguardo della prima domanda, si usa sud<strong>di</strong>videre<br />

64


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

le risposte in due tipi basilari: quella data da Jean Bo<strong>di</strong>n, il primo teorizzatore della sovranità<br />

come tale (Six livres de la République, 1562) e poi più pienamente formulata da Rousseau,<br />

secondo i quali la sovranità consiste nel fare e <strong>di</strong>sfare le leggi, e si incarna dunque<br />

primariamente nel potere legislativo. L'altra risposta è quella dei teorici della forza, che vedono<br />

la sovranità soprattutto come monopolio della forza, risedendo essa dunque eminentemente nel<br />

potere esecutivo. Si va da Thomas Hobbes a Carl Schmitt (“sovrano è colui che decide dello<br />

stato <strong>di</strong> emergenza”).<br />

All'altra domanda si sono date tante risposte quante sono le epoche e le dottrine dello Stato<br />

moderno. La sovranità risiede nel re dell'assolutismo, o nel `King in Parliament' della tra<strong>di</strong>zione<br />

costituzionale inglese, o nel popolo, come recita da ultimo la nostra Costituzione (art 1, comma<br />

2), ma già duecento anni fa enunciavano quelle degli Stati uniti d'America (“We, the people of<br />

the United States”, sebbene il potere legislativo vi sia tutto deferito al Congresso) e della<br />

Francia rivoluzionarie.<br />

Che la sovranità risieda nel popolo o ad esso appartenga è risultato del maggior<br />

cambiamento storico in questo campo dopo la nascita dello Stato sovrano dalle ceneri<br />

dell'universale Sacro Romano Impero e prima dell'attuale crisi della sovranità. Tale<br />

cambiamento prese la forma <strong>di</strong> una congiunzione fra statualità e nazionalità: quest'ultima<br />

<strong>di</strong>venne la formula politica in cui il popolo sostituì il principe come titolare della suprema<br />

potestà e legittimità. Non che le nazioni, come vogliono le dottrine nazionalistiche,<br />

preesistessero allo Stato e reclamassero forma statuale (in<strong>di</strong>pendenza, unità, potenza). C'è stato<br />

invece un nation-buil<strong>di</strong>ng parallelo o successivo allo state-buil<strong>di</strong>ng, e questo intreccio è<br />

risultato vincente perché ha fuso insieme il nuovo principio <strong>di</strong> sovranità e legittimità, il popolo<br />

come demos, con un'entità in cui preesistenti elementi etnici e culturali (lingua, tra<strong>di</strong>zioni,<br />

talora religione) venivano fusi ed esaltati nella nuova figura della nazione, del popolo come<br />

ethnos. È stato in questo alveo che si sono potute vincere le lotte per l'in<strong>di</strong>pendenza da poteri<br />

estranei o assoluti, e per la creazione <strong>di</strong> una citta<strong>di</strong>nanza in termini <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti civili, politici ed<br />

infine sociali. Ancora cinquant'anni fa, molti hanno potuto intendere la Resistenza italiana<br />

come `secondo Risorgimento'.<br />

In questa luce, la nazione non è un'entità etnica (biologica), o mitico-spirituale (una<br />

`comunità <strong>di</strong> destini') o un organico ed inelu<strong>di</strong>bile frutto <strong>di</strong> storia e tra<strong>di</strong>zioni che preesista od<br />

esista in<strong>di</strong>pendentemente dallo Stato. Essa è piuttosto un atto <strong>di</strong> volontà comune, un “plebiscito<br />

<strong>di</strong> tutti i giorni” (Ernest Renan, 1881) o una “comunità immaginata” (Bene<strong>di</strong>ct Anderson,<br />

1983), prodotto <strong>di</strong> un'operazione, <strong>di</strong> una costruzione culturale e politica svolta dalle élites<br />

intellettuali, che prende realtà in uno Stato preesistente (Francia, Spagna) o in uno Stato in<br />

costruzione o ricostruzione (Germania, Italia, Polonia nell'Ottocento). Storicamente, il `popolo'<br />

cui la nazione ha voluto dar forma è stato concepito privilegiando nel modello tedesco i legami<br />

<strong>di</strong> sangue e tra<strong>di</strong>zione (ius sanguinis) ed in quello francese i valori e le leggi (“liberté, égalité,<br />

fraternité”) in cui chi sta in Francia (ius soli) o chi parla francese (nelle élites dell'Africa<br />

francofona, per esempio) si riconosce.<br />

L'idea <strong>di</strong> nazione ha rifondato la sovranità, trasferendola dal principe al popolo, così<br />

fornendo un cemento unitario <strong>di</strong> rilegittimazione agli Stati esistenti od in via <strong>di</strong> creazione. Che<br />

in Europa gli Stati in gran parte esistessero non si doveva allo spirito nazionale, bensì allo<br />

65


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

sviluppo del sistema politico europeo fra Me<strong>di</strong>oevo e prima modernità. Esso vide il definitivo<br />

smembrarsi dell'unità politica universale, il Sacro Romano Impero, aggravata dallo smembrarsi<br />

della cristianità con la Riforma protestante; fattori politico-<strong>di</strong>nastici, religiosi, economici e<br />

geopolitici (l'essere l'Europa relativamente protetta dalle invasioni, una volta esauritasi quella<br />

tartara) condussero alla creazione <strong>di</strong> Stati in<strong>di</strong>pendenti (in quello che chiameremo più in là il<br />

`sistema vestfaliano'), che sopravvissero poi alla fine dell'antico regime con cui erano<br />

concresciuti.<br />

Tutto questo s'intenderà meglio una volta trattate le relazioni internazionali e le categorie<br />

che ne derivano. Un cenno va fatto al nazionalismo, <strong>di</strong> cui la prima metà <strong>di</strong> del ventesimo<br />

secolo ha visto i trionfi e gli orrori in Europa occidentale, mentre ad altri abbiamo poi assistito<br />

nella parte orientale del continente (ex-Jugoslavia). Per un verso esso si spiega come ideologia<br />

compensatoria - con la fornitura <strong>di</strong> un'identità tanto forte quanto mitico-emotiva ed escludente -<br />

della frammentazione sociale e psicologica creata, in società sempre più <strong>di</strong> massa,<br />

dall'economia <strong>di</strong> mercato (mon<strong>di</strong>ale) e dal regime industriale. Per altro verso esso ha coinciso<br />

con, anzi ha stimolato l'implosione del sistema vestfaliano, rivelatosi nelle due guerre mon<strong>di</strong>ali<br />

ormai del tutto incapace <strong>di</strong> regolare i rapporti internazionali con un or<strong>di</strong>ne pur minimo. Non a<br />

caso queste esperienze hanno dato vita sul nostro continente alla svolta politica e culturale<br />

verso l'unificazione europea.<br />

16. Gli Stati<br />

Considero questa parte come fondamentale e ritengo un errore della filosofia e della scienza<br />

politica la separazione tra l'aspetto interno e quello internazionale della politica; considero una<br />

povertà della scienza politica quello <strong>di</strong> ignorare quasi l'aspetto della scienza politica che<br />

riguarda le relazioni internazionali e che si chiama teoria delle relazioni internazionali. Finché<br />

sia possibile rispetto allo stato degli stu<strong>di</strong>, e finché non risulti forzato rispetto ai dati <strong>di</strong> fatto, mi<br />

sforzo <strong>di</strong> definire le categorie politiche con pari riguardo all'aspetto interno ed a quello<br />

internazionale, convinto che le loro <strong>di</strong>fferenze strutturali non giustifichino <strong>di</strong> ignorare i<br />

problemi <strong>di</strong> una possibile teoria generale della politica.<br />

Fatta questa premessa epistemologica, comincio con alcuni dati <strong>di</strong> fatto.<br />

Gli Stati alla fine del congresso <strong>di</strong> Vienna nel 1816 erano 23, nel 1980 erano <strong>di</strong>ventati 155 e<br />

oggi (2005)sono circa 192, tutti membri dell'O.N.U., tranne il Vietnam, le due Coree e, finora,<br />

la Svizzera che per costituzione non poteva farne parte, anche se <strong>di</strong> fatto vi collabora (Ginevra è<br />

la seconda sede dell'O.N.U.).<br />

Tra gli Stati non c'è il monopolio effettivo della forza, tanto meno il monopolio legittimo.<br />

Quello può esistere per un certo tempo in una certa zona, ma non c'è mai nell'intero orbe<br />

terracqueo, e comunque si tratta sempre <strong>di</strong> un monopolio effettivo, ma non legittimo. Se non<br />

sono riconducibili al modello infrastatuale, se non si vuole cioè scivolare in un’ingenua<br />

domestic analogy, con quali concetti osserviamo le relazioni interstatali?<br />

66


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Ora, <strong>di</strong> siffatte relazioni si può parlare soltanto laddove esista un sistema internazionale,<br />

cioè un quadro entro il quale certi Stati si conoscono ed interagiscono fra <strong>di</strong> loro<br />

(eventualmente anche guerreggiando) in una misura che sia per essi rilevante. Diverso è il caso<br />

in cui il sistema si sia sviluppato in <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> (almeno un ru<strong>di</strong>mento <strong>di</strong>) società<br />

internazionale, entro la quale gli Stati anzitutto si riconoscono - e fanno pure altre cose che<br />

vedremo. Riconoscersi è <strong>di</strong>verso dal conoscersi, che significa sapere che l'altro Stato esiste e<br />

tenerne conto come elemento su cui basare i propri calcoli politici; riconoscere significa dare a<br />

quello Stato un certo attributo <strong>di</strong> legittima esistenza, ammettendone dunque la sovranità.<br />

Dopo la pace <strong>di</strong> Vestfalia, che nel 1648 pose fine alla Guerra dei trent'anni, ognuno degli<br />

Stati moderni europei era considerato sovrano. Gli imperatori <strong>di</strong> Cina e Giappone<br />

consideravano invece le potenze esterne o come possibili sud<strong>di</strong>ti, oppure come estranei alla<br />

propria sfera <strong>di</strong> interesse e interazione; mentre da un certo punto in avanti gli europei si misero<br />

a proiettare le loro categorie su tutto il mondo, facendole precedere o seguire da galere ed<br />

armate; quin<strong>di</strong> si posero il problema se considerare o meno gli Stati extraeuropei nel modo<br />

stesso in cui consideravano gli Stati europei, cioè ognuno come perfecta communitas<br />

superiorem non recognoscens. Tra questi attori non esiste un <strong>di</strong>ritto che li leghi assieme: lo<br />

stesso elemento essenziale del patto giuri<strong>di</strong>co e cioè la clausola “pacta sunt servanda” non vale,<br />

perché dentro ciascuno <strong>di</strong> essi, guardando verso l'esterno, vi è un principio superiore a quello<br />

“pacta sunt servanda” che è il principio “salus rei publicae suprema lex”, e quin<strong>di</strong> la sicurezza<br />

esterna dello Stato impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> riconoscere come norma suprema la fedeltà ai patti, che<br />

possono essere rotti quando si presume che la sicurezza dello Stato lo richieda perché sono<br />

cambiate le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> quadro entro cui vennero stipulati: pertanto pacta sunt servanda<br />

rebus sic stantibus. Quando gli Stati entrano in conflitto tra <strong>di</strong> loro vi possono essere negoziati,<br />

compromessi, vi possono anche essere richiami a dottrine giuri<strong>di</strong>che o a norme giuri<strong>di</strong>che, nel<br />

senso <strong>di</strong> esistenti patti e trattati; ma se l'interesse dei contendenti lo richiede, tutto questo viene<br />

spazzato via e la risoluzione del conflitto viene affidata allo scontro violento, cioè alla guerra.<br />

Se fallisce la negoziazione e la moderazione bilaterale o multilaterale, non c'è nessuno che<br />

imponga ai due o agli n contendenti una norma, un principio o anche solo un compromesso: nei<br />

rapporti internazionali c'è l'assenza del Terzo. Ci sono tante figure <strong>di</strong> Terzo nella filosofia<br />

politica; ciò che ci interessa è che manca la figura del tertius super partes, cioè <strong>di</strong> colui che ha<br />

autorità e insieme forza sufficiente per imporre una soluzione e farla rispettare imponendo<br />

sanzioni a chi non la osserva. Così stavano ed in parte stanno ancora le cose nel mondo<br />

moderno.<br />

Quello che già ho detto si può ri<strong>di</strong>re in altri termini propri della teoria politica: si può <strong>di</strong>re<br />

che tra gli Stati esista quello Stato <strong>di</strong> natura, quel bellum omnium contra omnes (non come<br />

actual fighting, <strong>di</strong>ce Hobbes, ma come known <strong>di</strong>sposition thereto), che nella raffigurazione<br />

contrattualistica descrive la con<strong>di</strong>zione degli in<strong>di</strong>vidui umani prima del patto societario. Si<br />

accetti o no la metafora dello stato <strong>di</strong> natura per descrivere questa situazione, si può certamente<br />

<strong>di</strong>re che i rapporti internazionali sono connotati dalla mancanza <strong>di</strong> un governo comune, <strong>di</strong> un<br />

potere comune. Vi può persino essere un qualche principio giuri<strong>di</strong>co che la teoria sostenga<br />

essere capace <strong>di</strong> regolarli, ma non c'è nessun potere che lo faccia rispettare. Vuol <strong>di</strong>re che in<br />

linea <strong>di</strong> principio fra gli Stati regna l'anarchia. Anarchia ha qui il significato tecnico della teoria<br />

67


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

politica, non vuol <strong>di</strong>re anarchia in senso colloquiale, o la confusione e il caos. Vi possono<br />

essere tanti rapporti relativamente regolati tra gli Stati, ma fra questi non c'è l'archia o l'archòs,<br />

cioè non c'è un potere, un governo comune che faccia rispettare leggi e imponga soluzioni. In<br />

questo schema elementare dei rapporti fra gli Stati, è sempre possibile il ricorso alla forza<br />

organizzata, non alla forza tout court, ma alla forza statualmente organizzata, usata per piegare<br />

la volontà dell'altro, per fargli fare le cose che altrimenti non farebbe. Si vede qui che la guerra<br />

è un altro esempio della relazione <strong>di</strong> potere, perché, se ripren<strong>di</strong>amo la definizione relazionale<br />

del potere, ve<strong>di</strong>amo che esso è ciò che usando qualsivoglia strumenti, anche bellici o comunque<br />

violenti, permette ad a <strong>di</strong> far fare a b ciò che b senza quell'intervento <strong>di</strong> a non avrebbe mai<br />

fatto. Vale qui a maggior ragione la <strong>di</strong>stinzione tra costrizione e deterrenza.<br />

Quando si parla <strong>di</strong> guerra in filosofia politica è in<strong>di</strong>spensabile ricorrere al filosofo della<br />

guerra per eccellenza e cioè a Carl von Clausewitz che ha scritto Vom Kriege. 24 . La guerra, <strong>di</strong>ce<br />

Clausewitz nel primo libro <strong>di</strong> Della guerra, è “un atto <strong>di</strong> violenza volto a piegare l'avversario al<br />

sod<strong>di</strong>sfacimento del nostro volere”. Già in questa definizione si <strong>di</strong>ce che la violenza è il mezzo<br />

per realizzare un fine, che è quello <strong>di</strong> piegare il nemico, allo scopo evidentemente <strong>di</strong><br />

raggiungere il nostro fine politico. La guerra è e non è pura violenza, ovvero non si attua<br />

sempre e solo in quella che Clausewitz chiama la sua forma astratta <strong>di</strong> “guerra assoluta”. Non<br />

essendo atto isolato nel tempo e nella vita dello Stato, la politica la attraversa me<strong>di</strong>andosi con la<br />

natura del mezzo-violenza; la “guerra effettiva” è dunque “la continuazione della politica con<br />

altri mezzi”. Questa è la celebre formula del pensiero clausewitziano, la Formule così<br />

battezzata da Raymond Aron nel suo monumentale Penser la guerre. Clausewitz (1976).<br />

Quanto sia complesso il fenomeno della guerra Clausewitz lo <strong>di</strong>ce in un'altra nota<br />

formulazione: essa è una `trinità' <strong>di</strong> violenza e o<strong>di</strong>o (la parte del popolo), <strong>di</strong> giuoco <strong>di</strong><br />

probabilità e caso (la parte del condottiero e dell'armata), infine <strong>di</strong> mezzo della politica<br />

sottoposto all'intelletto (la parte del governo).<br />

Sono dunque le relazioni fra gli Stati compiutamente descritte da categorie quali l'anarchia e<br />

la possibilità <strong>di</strong> guerra? Non v'è in esse or<strong>di</strong>ne alcuno, né in senso analitico né in senso<br />

valutativo? La risposta non può essere che ambivalente, avrebbe dovuto esserlo già da tempo,<br />

lo deve essere tanto più ora che siamo in un'epoca nuova, l'era nucleare, che è forse un'epoca <strong>di</strong><br />

transizione. La struttura elementare delle relazioni fra gli Stati resta l'anarchia, la mancanza <strong>di</strong><br />

un potere comune legittimo ed efficace, ma ad essa si sono sovrapposti, mo<strong>di</strong>ficandola<br />

profondamente, elementi <strong>di</strong> altro genere, dall'`addomesticamento' della guerra al crearsi <strong>di</strong> una<br />

società internazionale fino al ruolo presente delle istituzioni internazionali. Elementi che<br />

dapprima seguiremo nella loro evoluzione moderna, per <strong>di</strong>scuterne poi la sorte paradossale<br />

nell'epoca contemporanea o nucleare.<br />

Mentre la Guerra dei trent'anni aveva devastato l'Europa, soprattutto quella centrale,<br />

coinvolgendo ampiamente le popolazioni negli scontri militari (invasioni, saccheggi, massacri e<br />

persecuzioni religiose), dopo Vestfalia il sistema europeo tende ad assestarsi su <strong>di</strong> uno schema<br />

regolare <strong>di</strong> azione e reazione (l'`equilibrio <strong>di</strong> potenza'), la cui conservazione è interesse <strong>di</strong> tutti,<br />

24 Clausewitz era un generale prussiano del tempo delle guerre napoleoniche, morto nel 1831, anche lui<br />

<strong>di</strong> colera come Hegel; la vedova, Marie von Clausewitz, pubblicò un anno dopo, nel 1832, questo<br />

trattato incompiuto<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

insieme con nuove regole, fattuali o co<strong>di</strong>ficate, <strong>di</strong> contenimento della violenza, i temperamenta<br />

belli. Che non vi sia più semplice interazione fra gli Stati, ma che fra <strong>di</strong> essi si stabiliscano<br />

alcuni, seppur ristretti, fini comuni significa che al <strong>di</strong> là del sistema si sta formando una società<br />

internazionale (prendo questa terminologia dal libro-chiave <strong>di</strong> Hedley Bull, The Anarchical<br />

Society, 1977). Il contenimento della violenza quando c'è la guerra ed il mantenimento della<br />

pace finché non sono toccati gli interessi <strong>di</strong> sicurezza degli Stati, la preservazione della loro<br />

sovranità (della tua, della sua e per reciprocità della mia) e della stessa società (contro suoi<br />

sovvertitori come Napoleone o Hitler), quin<strong>di</strong> il rispetto dei patti rebus sic stantibus: ecco i fini<br />

della società internazionale che si sono venuti formando nella storia moderna, dando corpo a<br />

quella che Bull chiama - raffigurandone efficacemente l'ambivalenza - “società anarchica”.<br />

Tutti insieme essi configurano l'or<strong>di</strong>ne internazionale.<br />

Veniamo ora ad illustrare e schiarire alcune cose appena richiamate. Il contenimento della<br />

violenza rispetto alla Guerra dei trent'anni e alle precedenti guerre <strong>di</strong> religione,<br />

l'“addomesticamento della guerra” (Carl Schmitt in Der Nomos der Erde, 1951) avvenne dentro<br />

e grazie alla figura del sistema internazionale più nota nel suo nome inglese <strong>di</strong> balance of<br />

power. Che cosa significa esattamente questo equilibrio?<br />

Fra Stati <strong>di</strong> potenza <strong>di</strong>versa, ma in equilibrio fra <strong>di</strong> loro, la nozione a cui equilibrio fa<br />

opposizione è supremazia. L'equilibrio <strong>di</strong> potenza vuol <strong>di</strong>re un sistema in cui non si afferma la<br />

supremazia <strong>di</strong> uno Stato. Non si afferma attraverso quel meccanismo che, qualora uno o un<br />

gruppo dei membri del sistema cerchi <strong>di</strong> conseguire una supremazia, porta gli altri ad allearsi<br />

pro tempore e ad hoc, cioè per contrastare con tutti i mezzi politici e anche militari l'ascesa alla<br />

supremazia <strong>di</strong> quell'altro attore o gruppo <strong>di</strong> attori. Questo è un equilibrio che da un lato nasce<br />

dai rapporti effettivi, nasce dalle cose, ma ad un certo punto <strong>di</strong>venta anche dottrina e concetto,<br />

<strong>di</strong>venta ad<strong>di</strong>rittura principio giuri<strong>di</strong>co con il Trattato <strong>di</strong> Utrecht del 1713 che pone termine alla<br />

guerra <strong>di</strong> successione spagnola, dove si presenta proprio il termine `iustum potentiae<br />

equilibrium'. Del resto il primo episo<strong>di</strong>o evidente <strong>di</strong> equilibrio <strong>di</strong> potenza era stato il sistema<br />

politico degli Stati italiani fra il 1454, la pace <strong>di</strong> Lo<strong>di</strong>, e l'invasione in Italia nel 1494 da parte <strong>di</strong><br />

Carlo VIII <strong>di</strong> Francia. L'equilibrio <strong>di</strong> potenza è correlato in qualche modo con altre dottrine e<br />

fenomeni politici, primariamente con la ragion <strong>di</strong> Stato, cioè con la dottrina che ritiene che la<br />

salus rei publicae giustifichi (pur nel quadro complessivo della sottomissione della politica alla<br />

morale, quale viene idealmente mantenuta nella cultura del Cinque-Seicento) comportamenti<br />

opportunistici, cioè giustifichi l'abbandono <strong>di</strong> un'alleanza, la non osservanza <strong>di</strong> un patto e il<br />

voltafaccia, la mobilità delle alleanze, perché <strong>di</strong> volta in volta è <strong>di</strong>verso lo Stato che sembra che<br />

puntare alla supremazia, cosicché <strong>di</strong> volta in volta <strong>di</strong>verse devono essere le alleanze. Ancora<br />

una notazione storica: il concetto <strong>di</strong> equilibrio <strong>di</strong> potenza è grosso modo attuato nel sistema<br />

politico europeo tra il 1648, pace <strong>di</strong> Vestfalia, e, a voler essere ra<strong>di</strong>cali nella veduta, il 1914.<br />

Alcuni limitano la vali<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> questo concetto al Sei-Settecento; nella sua accezione più astratta<br />

è ovviamente vero che l'equilibrio <strong>di</strong> potenza si rompe con Napoleone, ma si può altrettanto<br />

sostenere che quella <strong>di</strong> Napoleone fu un'avventura alla fine della quale si ristabilì con il<br />

congresso <strong>di</strong> Vienna l'equilibrio <strong>di</strong> potenza. Si può sostenere peraltro che ciò che si ristabilisce<br />

a Vienna nel 1815 non è più l'equilibrio <strong>di</strong> potenza, ed in effetti il nuovo assetto verrà poi<br />

chiamato in maniera <strong>di</strong>versa: il Concerto delle Nazioni. Questo fu il primo atto rilevante in cui i<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

partecipanti, i membri del sistema politico europeo, che poi vuol <strong>di</strong>re in quel periodo il sistema<br />

politico mon<strong>di</strong>ale, si mettono assieme per sancire ufficialmente che non sono solo membri <strong>di</strong><br />

un sistema, ma membri <strong>di</strong> una società, e che l'equilibrio non si reggerà più su <strong>di</strong> un meccanismo<br />

<strong>di</strong> riequilibrio cieco, ma cercando <strong>di</strong> determinare in maniera preventiva, e non post factum, cosa<br />

si può fare e cosa non si può fare, quali cambiamenti ci possono essere e quali no - pur meglio<br />

restando che non vi sia nessun cambiamento. A questo una parte dei partecipanti al Congresso<br />

<strong>di</strong> Vienna pone anche un sigillo ideologico, la Santa Alleanza, che naturalmente non coincide<br />

con il Concerto delle Nazioni, che comprende tutti. La Santa Alleanza riguarda le potenze<br />

arciconservatrici: l'Impero asburgico, la Prussia e la Russia, ma è a sua volta una forma <strong>di</strong><br />

società internazionale che, <strong>di</strong>versamente dalle alleanze del Sei/Settecento che avevano un fine<br />

prevalentemente e <strong>di</strong>chiaratamente programmatico (cioè impe<strong>di</strong>vano la troppa potenza dell'uno,<br />

quali che fossero le affinità o <strong>di</strong>sparità <strong>di</strong> fede fra amici ed avversari del momento), ha anche un<br />

fine e un'ispirazione ideologica.<br />

Il Concerto delle Nazioni - nuova e più matura versione delle politiche <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne<br />

internazionale, in quanto introduce il tentativo <strong>di</strong> prevenire e pianificare lo sviluppo<br />

internazionale, ma il cui fine rimane quello del mantenimento dell'equilibrio <strong>di</strong> potenza - dura<br />

fino al 1914, data-limite evidente. La prima guerra mon<strong>di</strong>ale non può che spezzare l'equilibrio,<br />

anche se si assume la versione più continuistica, guardando a quelle che gli storici francesi<br />

chiamano tendenze <strong>di</strong> lunga durata. Oltre il 1914 mi pare proprio impossibile allungare la vita<br />

dell'equilibrio <strong>di</strong> potenza come principio regolativo. Si tenta infatti <strong>di</strong> sostituirlo con la Società<br />

delle Nazioni, che è un primo sistema <strong>di</strong> sicurezza collettiva. La nuova etichetta del sistema<br />

internazionale è la sicurezza collettiva: facciamo tutti parte <strong>di</strong> una stessa società internazionale<br />

e invece <strong>di</strong> guardare ciascuno alla sicurezza <strong>di</strong> sé e solo <strong>di</strong> sé e al massimo dei suoi alleati,<br />

garantiamo la sicurezza <strong>di</strong> tutti. Ognuno è impegnato a intervenire per garantire questa<br />

sicurezza, dovunque sia minacciata. Noi siamo ancora in regime <strong>di</strong> sicurezza collettiva; almeno<br />

nel senso che la nozione, la mentalità politica, giuri<strong>di</strong>ca, strategica che dà forma e legittimità<br />

all'agire della stragrande maggioranza degli Stati e soprattutto delle organizzazioni<br />

internazionali, ancora adesso è la sicurezza collettiva, con aggiunta oggi della sicurezza<br />

comune. L'organizzazione più efficace nel garantire collettivamente sicurezza ai suoi membri è<br />

stata la NATO (North Atlantic Treaty Organization). Alla sicurezza collettiva si ispira<br />

ovviamente la stessa ONU, ma il suo tasso <strong>di</strong> efficienza è purtroppo assai minore <strong>di</strong> quello delle<br />

organizzazioni parziali o regionali.<br />

Veniamo ora all'altra faccia <strong>di</strong> questa limitazione della guerra, <strong>di</strong> questo temperamento<br />

dell'anarchia internazionale. Si tratta della dottrina della guerra giusta o bellum iustum che non<br />

va confusa, come molti hanno fatto per loro comodo polemico, con l'apologia della guerra. Nel<br />

suo sviluppo la dottrina della guerra giusta può anche essere stata soggetta a questa torsione, ma<br />

nella sua genesi è una dottrina della limitazione della guerra, <strong>di</strong> restrizione delle occasioni in cui<br />

si può fare la guerra e del modo in cui è ammesso farla. La nozione <strong>di</strong> guerra giusta comincia<br />

con Agostino e poi con Tommaso e si consolida in una tra<strong>di</strong>zione che attraversa il Me<strong>di</strong>oevo e<br />

poi il Rinascimento con i gran<strong>di</strong> trattatisti del Cinquecento, come lo spagnolo Vitoria, e del<br />

Seicento, come l'olandese Groot (Grozio). È giusta la guerra che ha le seguenti caratteristiche<br />

(riepilogate in una standard version a fini <strong>di</strong>dattici): è <strong>di</strong>chiarata da un'autorità legittima; è<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

motivata da una giusta causa; è condotta dai belligeranti con retta intenzione, cioè per<br />

raggiungere quel fine <strong>di</strong>chiarato e non uno subdolamente nascosto; è necessaria perché non vi è<br />

altro modo <strong>di</strong> risolvere le controversie, è l'ultima ratio; ed è condotta con mezzi proporzionali,<br />

anche se questo non è sullo stesso piano logico, ai fini che si vogliono raggiungere, giustificati<br />

dalle con<strong>di</strong>zioni precedenti. Questa è grosso modo la nozione che dà forma e giustificazione, e<br />

in qualche misura anche restrizione, alla guerra nei primi secoli della modernità. È una dottrina<br />

che riguarda la guerra tra gli Stati cristiani, cattolici o protestanti, non riguarda i rapporti con<br />

Stati, popoli, potenze extra-europei, né riguarda gli scontri fra gli Stati cristiani nelle colonie.<br />

Gli scontri nei territori coloniali sono al <strong>di</strong> là della amity-line, della linea <strong>di</strong> amicizia che<br />

dovrebbe reggere fondamentalmente i rapporti tra gli Stati cristiani (qui seguo C. Schmitt, Der<br />

Nomos der Erde). Questa dottrina, così come l'ho sommariamente esposta, è una dottrina che<br />

prevalentemente, salvo cioè che nell'aspetto che decreta la proporzionalità dei mezzi, determina<br />

quando e a quali con<strong>di</strong>zioni è giusto fare la guerra. È quin<strong>di</strong> una dottrina dello ius ad bellum.<br />

Fra gli Stati cristiani essa viene in realtà generalizzata e formalizzata tanto da perdere<br />

significato, perché in realtà essa viene così piegata alle esigenze <strong>di</strong> attori ciascuno sovrano e<br />

ciascuno cristiano, ciascuno cioè dotato <strong>di</strong> titoli per far guerra, che non c'è alla fine più nessuno<br />

tra questi attori che non trovi modo <strong>di</strong> muover guerra trovando comunque una giustificazione<br />

dottrinale.<br />

Pertanto la dottrina dello ius ad bellum perde interesse, anche se è interessante notare che<br />

alcuni dei suoi concetti vengono recuperati nel sistema <strong>di</strong> sicurezza collettiva, venendo però<br />

sottoposti ad altri principi (tale sistema, introdotto dapprima dalla Lega delle Nazioni, vuole<br />

fare della sicurezza legittima <strong>di</strong> ogni singolo qualcosa che viene gestito e <strong>di</strong>feso da tutti). Il<br />

principio della giusta causa si ritrova nel capo VII dello Statuto della Nazioni Unite art. 51, che<br />

è quello che prevede che se uno Stato è aggre<strong>di</strong>to ha il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> rispondere, <strong>di</strong> far guerra<br />

all'aggressore, e gli altri Stati suoi alleati hanno il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> appoggiare l'aggre<strong>di</strong>to contro<br />

l'aggressore, ma con il limite, dovuto al regime <strong>di</strong> sicurezza collettiva, che questo è lecito finché<br />

non intervengano i mezzi militari provvisti dall'organizzazione internazionale stessa; in quel<br />

momento le iniziative dei singoli Stati dovrebbero cessare. L'art. 51 è quello che ha permesso<br />

l'intervento degli occidentali in Corea nel 1950 e poi, più recentemente, per cacciare<br />

l'aggressore iracheno dal Kuwait nel 1991. Così come l'art. 43 attribuisce all'organizzazione<br />

delle Nazioni Unite il potere <strong>di</strong> utilizzare mezzi militari per ristabilire il <strong>di</strong>ritto internazionale<br />

infranto e ristabilire il rispetto dei fini dell'organizzazione, anche se gli strumenti (come il<br />

Comitato dei capi <strong>di</strong> stato maggiore) che sono pure previsti dal capo VII non sono stati mai<br />

creati, né tanto meno messi a <strong>di</strong>sposizione dai singoli Stati aggre<strong>di</strong>ti o minacciati.<br />

Il concetto <strong>di</strong> autorità legittima subisce un primo peculiare allargamento del periodo postcoloniale,<br />

cioè da quando alla fine degli anni Sessanta - inizio degli anni Settanta<br />

l'organizzazione delle Nazioni Unite riconosce una quasi personalità giuri<strong>di</strong>ca, e quin<strong>di</strong> un<br />

quasi <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> fare guerra, ai movimenti <strong>di</strong> liberazione nazionale, che pure non sono attori<br />

statali o membri dell'O.N.U. Segnalate queste tendenze <strong>di</strong> segno cambiato nello ius ad bellum,<br />

va detto poi che l'aspetto del bellum iustum che più si sviluppa effettivamente nel Settecento ed<br />

Ottocento, e poi nel nostro secolo, è lo ius in bello, cioè l'idea <strong>di</strong> fare la guerra secondo principi<br />

giuri<strong>di</strong>ci. Il che ad alcuni può sembrare una contrad<strong>di</strong>zione in termini, ed in effetti lo è perché<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

nulla vi è <strong>di</strong> più antigiuri<strong>di</strong>co del conflitto bellico: silent inter arma leges, si <strong>di</strong>ceva una volta,<br />

oppure all is fair in love and war. Si tratta <strong>di</strong> regole consuetu<strong>di</strong>narie <strong>di</strong> comportamento che alla<br />

fine <strong>di</strong>ventano norme, ad<strong>di</strong>rittura trattati o convenzioni internazionali. Esse definiscono molte e<br />

<strong>di</strong>verse materie. Definiscono il titolo e i <strong>di</strong>ritti-doveri del neutrale, principalmente il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong><br />

non essere aggre<strong>di</strong>to purché non faccia certe cose che configurerebbero appoggio ai<br />

belligeranti. Determinano altre norme che la guerra sia posta in forma, cioè non che uno la<br />

mattina si alza e invade l'altro, bensì la guerra va <strong>di</strong>chiarata e terminata con un atto giuri<strong>di</strong>co: la<br />

<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> guerra e il trattato <strong>di</strong> pace. Ancora le potenze naziste e fasciste hanno fatto<br />

guerra osservando queste forme: Mussolini il 10 giugno del 1940 concluse il suo celebre (e<br />

famigerato) <strong>di</strong>scorso da Palazzo Venezia annunciando che “la <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> guerra è stata<br />

presentata agli ambasciatori <strong>di</strong> Francia e Gran Bretagna”. Hitler con la Polonia fu meno<br />

formale, iniziando semplicemente a sparare, ma <strong>di</strong>cendo che erano stati i polacchi a sparare per<br />

primi, e facendo un comunicato su cui era scritto che dalle 5.45 del 1 settembre 1939 si<br />

rispondeva al fuoco. Non parliamo dei giapponesi che presentarono a Washington una<br />

<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> guerra quando i loro aerei erano già in volo per l'attacco a Pearl Harbor (7<br />

<strong>di</strong>cembre 1941). Oggi, dato anche il carattere etnico o civile della maggior parte dei conflitti<br />

armati, la <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> guerra non si usa quasi più. Delle regole dello ius in bello fa poi<br />

parte, ed è forse la più rilevante dal punto <strong>di</strong> vista morale, la definizione <strong>di</strong> chi è combattente<br />

legittimo e chi non lo è, originando quin<strong>di</strong> uno statuto giuri<strong>di</strong>co che mira a definire addosso a<br />

chi si può sparare e addosso a chi non si può sparare. Ciò tutela la sfera delle popolazioni civili,<br />

e mira anche alla tutela dei combattenti che non siano truppe regolari, ma partigiani e<br />

guerriglieri, che possono essere messi semplicemente al muro se non gli si riconosce lo status <strong>di</strong><br />

combattenti. Questo si ritrova anche nell'età nucleare perché definisce giuri<strong>di</strong>camente la<br />

nozione <strong>di</strong> innocenti, cioè dei non combattenti che andrebbero preservati dall'effetto delle<br />

esplosioni nucleari. Lo ius in bello definisce quali sono i mezzi <strong>di</strong> condotta leciti e quali non,<br />

quin<strong>di</strong> esclude un certo tipo <strong>di</strong> armi, o un certo comportamento nei confronti del nemico,<br />

proibisce le sofferenze non necessarie, soprattutto se ne possono restare vittima i civili; regola<br />

una serie <strong>di</strong> altre materie quali il rispetto dei feriti e dei prigionieri, il rispetto dell'uniforme,<br />

delle ban<strong>di</strong>ere, dei luoghi d'arte e <strong>di</strong> cura, delle località non <strong>di</strong>fese, le cosiddette città aperte.<br />

Il problema dello ius in bello è duplice: uno è che esso è sempre sottoposto alla clausola si<br />

omnes, cioè esso è valido se alla vali<strong>di</strong>tà e alla osservanza <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>ritto aderiscono tutti,<br />

tanto che se uno non vi aderisce, l'altro ha <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> infrangere anch'esso le regole: se tu mi<br />

bombar<strong>di</strong> le popolazioni civili io bombardo le tue, se tu attacchi i miei prigionieri, io fucilo i<br />

tuoi prigionieri e così via (<strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> rappresaglia). L'altro punto debole è che non esiste un<br />

giu<strong>di</strong>ce, un'istanza autonoma che indaghi le infrazioni ed imponga le sanzioni. Il giu<strong>di</strong>zio e la<br />

punizione espressi da un tertius super partes che non c'è sono sostituiti dalla rappresaglia, che<br />

naturalmente colpisce più efficacemente i vinti, ma non necessariamente i colpevoli. Oppure la<br />

tutela delle norme giuri<strong>di</strong>che non viene affidata ad un tribunale internazionale, ma alla giustizia<br />

nazionale che <strong>di</strong> solito non è molto efficace ed equanime; qualche volta funziona, ma tar<strong>di</strong> ed in<br />

maniera quin<strong>di</strong> poco incisiva. Ce ne sono pochi esempi, uno è la Corte marziale dell'esercito<br />

degli Stati Uniti, che con molto ritardo e blandamente punì gli ufficiali responsabili del<br />

massacro <strong>di</strong> My Lai, uno dei peggiori massacri <strong>di</strong> popolazioni civili durante la guerra del<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Vietnam, perpetrato da truppe degli Stati Uniti.<br />

Il rispetto dello ius in bello ha una sua storia che è quella <strong>di</strong> regole effettivamente osservate,<br />

ma senza, dapprima, una normazione precisa e senza un apparato sanzionatorio, senza essere<br />

dunque ius cogens. È un sistema <strong>di</strong> regole che prima vengono osservate <strong>di</strong> fatto, poi <strong>di</strong>ventano<br />

convenzioni più o meno tacite, poi ad un certo punto vengono co<strong>di</strong>ficate come norme, ma per<br />

arrivare ad una loro co<strong>di</strong>ficazione nel senso non bilaterale, ma plurilaterale, bisogna arrivare al<br />

Congresso <strong>di</strong> Bruxelles del 1874 e soprattutto alle Conferenze dell'Aia del 1899 e del 1907,<br />

peraltro del tutto inefficaci, perché sanciscono il <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> usare gas ed armi aeree, cosa che<br />

invece viene ben presto fatta nella Grande Guerra; e via proseguendo con la Convenzione <strong>di</strong><br />

Ginevra del 1925 sulle armi chimiche, ora soppiantata dal recente Trattato che è molto più<br />

incisivo. Un processo in corso, dal quale si potranno imparare <strong>di</strong>verse cose se si hanno in testa<br />

le giuste categorie, è la campagna internazionale volta a proibire le mine antiuomo. Un punto<br />

d'approdo importante sono state le quattro convenzioni <strong>di</strong> Ginevra del 1949 riguardanti il<br />

`<strong>di</strong>ritto umanitario', e occorre <strong>di</strong>re che sono per un verso co<strong>di</strong>ficazioni dello ius in bello, per un<br />

altro verso sono qualcosa <strong>di</strong> più, cioè sono co<strong>di</strong>ficazioni non solo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto internazionale, ma<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto cosmopolitico, cioè <strong>di</strong> quello che riguarda gli esseri umani come tali,<br />

in<strong>di</strong>pendentemente dallo Stato cui essi appartengono o nel quale si trovano.<br />

Quanto sopra avvalora le affermazioni che, insieme e contro all'anarchia, esiste nel mondo<br />

moderno un or<strong>di</strong>ne internazionale ed una società internazionale. Dobbiamo qui aggiungere che,<br />

fin dagli albori della modernità (Erasmo da Rotterdam), esiste fra filosofi e uomini <strong>di</strong> religione,<br />

fra artisti ed uomini comuni, ma talora anche fra i politici, l'aspirazione a qualcosa che vada al<br />

<strong>di</strong> là dell'or<strong>di</strong>ne internazionale, il quale continua ad andare a braccetto con la sovranità e con<br />

l'anarchia, e crei invece un or<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale (si <strong>di</strong>ce mon<strong>di</strong>ale per intendere che esso, in quanto<br />

fondato su principi normativi, ha pretese <strong>di</strong> universalità) che è ispirato non ai rapporti reali <strong>di</strong><br />

potenza tra gli Stati, ma a principi morali e giuri<strong>di</strong>ci universalistici: la pace permanente, la<br />

giustizia, la libertà, la solidarietà, la <strong>di</strong>fesa del debole e quant'altro. I gran<strong>di</strong> episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> questo<br />

profilarsi <strong>di</strong> un filone <strong>di</strong> `or<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale', che comprende anche la tematica del <strong>di</strong>ritto<br />

cosmopolitico, sono lo scritto kantiano del 1795 Sulla pace perpetua e i 14 punti<br />

programmatici proclamati da Woodrow Wilson, presidente degli USA, alla fine della prima<br />

guerra mon<strong>di</strong>ale, come pure la Carta delle Nazioni Unite (1945), là dove essa proclama la<br />

volontà dei firmatari <strong>di</strong> tenere lontano dai popoli `il flagello della guerra'. Anche l’intenzione<br />

del presidente degli USA (dal 2000 al 2008) <strong>di</strong> produrre un ”mutamento <strong>di</strong> regime” (regime<br />

change) in senso democratico negli Stati non-democratici per <strong>di</strong>minuire il pericolo che essi<br />

possono rappresentare per gli Stati uniti e l’Occidente rientra nella tipologia dell’or<strong>di</strong>ne<br />

mon<strong>di</strong>ale.<br />

* * *<br />

Due schiarimenti terminologici sono a questo punto necessari.<br />

Primo, conformemente all’inequivoco uso inglese, io adopero “realistico” quale aggettivo<br />

<strong>di</strong> “realismo” in senso generico e colloquiale, e “realista” quale aggettivo <strong>di</strong> “realismo politico”.<br />

Secondo, internazionale viene qui usato sia nel senso generico <strong>di</strong> “ciò che va al <strong>di</strong> là dei<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

meri confini della nazione” sia in quello stretto <strong>di</strong> “ciò che riguarda i rapporti fra nazioni<br />

sovrane che tali rimangono”. Per questo caso la locuzione più precisa è “intergovernativo”.<br />

“Sopranazionale” viene rigorosamente usato solo per entità che superino almeno parzialmente<br />

la sovranità nazionale: per esempio nell’Unione europea vi sono elementi intergovernativi<br />

accanto ad elementi sopranazionali o comunitari. Nel suo uso generico, “internazionale”<br />

comprende sia “intergovernativo” sia “sopranazionale” sia “globale”, che più precisamente è<br />

ciò che riguarda gli affari planetari ovvero dell’umanità in<strong>di</strong>pendentemente dalle sovranità<br />

nazionali, per esempio il global warming.<br />

17. L'era nucleare<br />

Quanto segue è un riepilogo storico, necessaria premessa - data la <strong>di</strong>ffusa carenza <strong>di</strong><br />

conoscenze precise al riguardo - alle considerazioni teoriche che seguiranno.<br />

L'età nucleare si può far cominciare il 6 agosto del 1945, quando l'aviazione degli USA<br />

sgancia la prima bomba da 20 Kiloton su Hiroshima, seguita da quella <strong>di</strong> Nagasaki due giorni<br />

dopo. Le bombe erano state inventate e costruite (e sperimentate a metà luglio nel deserto del<br />

New Mexico) nei laboratori <strong>di</strong> Los Alamos, nel New Mexico, da un team <strong>di</strong> scienziati civili, in<br />

buona parte europei (fra questi Enrico Fermi), nell'ambito del progetto chiamato in co<strong>di</strong>ce<br />

Manhattan. Esso era entrato in funzione nel 1942, a seguito <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> sollecitazioni, la<br />

prima rivolta da Albert Einstein al Presidente Roosevelt nel 1939. Qui Einstein, non <strong>di</strong> sua<br />

iniziativa, ma spinto da due suoi colleghi, segnalava a Roosevelt che i recenti progressi della<br />

fisica nucleare potevano portare alla costruzione <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>gno <strong>di</strong> straor<strong>di</strong>naria potenza,<br />

ovviamente da parte dei possibili avversari degli USA, che in quel momento non erano in<br />

guerra con nessuno, mentre in Europa stava iniziando la guerra mon<strong>di</strong>ale. Ci vogliono tre anni<br />

perché la macchina politico-burocratica americana si muova. L'iniziativa <strong>di</strong> Einstein fu dovuta<br />

al timore che gli scienziati tedeschi costruissero una bomba nucleare per Hitler, cosa che fu<br />

anche tentata, ma con poca convinzione e con scarso successo, forse anche perché i fisici<br />

nucleari tedeschi sabotarono le ricerche, o almeno non vollero darsi da fare abbastanza - la<br />

questione è ancora aperta, soprattutto per quanto riguarda Werner Heisenberg.<br />

Quando esplode la bomba su Hiroshima la guerra con la Germania è già finita (8 maggio<br />

1945) e ci sono ad<strong>di</strong>rittura un paio <strong>di</strong> scienziati (fra questi Jozsef Rotblat, premio Nobel per la<br />

pace nel 1995) che si ritirano dal progetto Manhattan perché con la sconfitta <strong>di</strong> Hitler hanno<br />

ultimato il loro compito e non vogliono che la bomba venga usata contro altri nemici. Perché la<br />

bomba sia stata usata contro il Giappone è uno dei gran<strong>di</strong> problemi storici dell'età nucleare. Le<br />

due versioni sono: è stata usata per vincere la resistenza del Giappone che stava per essere<br />

invaso con previsione <strong>di</strong> una guerra <strong>di</strong> occupazione lunga e sanguinosissima, come era stata<br />

lunga la guerra per scacciare il Giappone dai paesi asiatici e dalla sua stessa isola <strong>di</strong> Okinawa<br />

nei mesi precedenti. Si prevedeva un macello sia per l'esercito e la popolazione giapponese sia<br />

per l'esercito e la marina degli Stati Uniti. Di qui il calcolo tragico: meglio 150-200 mila morti<br />

giapponesi per le due bombe nucleari che queste centinaia <strong>di</strong> migliaia o milioni <strong>di</strong> morti<br />

americani e giapponesi. Uno dei migliori `storici della mentalità'. Paul Fussell, che è molto noto<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

anche in Italia, era un giovane ufficiale della fanteria americana e il suo reparto, terminata la<br />

guerra in Europa, attendeva <strong>di</strong> essere trasferito in Giappone. Fussell ha scritto anni fa un<br />

articolo poi pubblicato in libro, “Grazie a Dio per la bomba atomica”, perché come combattente<br />

in Francia, dove venne ferito, ritiene che la sua vita e quella dei suoi commilitoni sia stata<br />

salvata dalla conclusione rapida della guerra. Altre ragioni sono interne alla strategia: la<br />

proposta <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> fisici era stata quella <strong>di</strong> farla esplodere in un sito deserto, invitando i<br />

giapponesi a vederne l'effetto, in modo da fare impressione su <strong>di</strong> loro in questo modo e<br />

convincerli alla resa. La proposta fu scartata perché, se la bomba poi non fosse scoppiata, la<br />

<strong>di</strong>mostrazione non avrebbe avuto effetto, anzi sarebbe stata considerata un bluff, e il Giappone<br />

avrebbe ripreso baldanza. L'altra versione è che la bomba sia stata usata per fare impressione<br />

all'Unione Sovietica, la quale era entrata molto tar<strong>di</strong>vamente in guerra con il Giappone, e solo<br />

per pressione degli alleati, mentre era in procinto <strong>di</strong> imporre il suo dominio ai paesi europei con<br />

un espansionismo <strong>di</strong> cui già si profilavano i caratteri, soprattutto sulla questione polacca. Era in<br />

corso durante i giorni dell'esperimento <strong>di</strong> Alamogordo la Conferenza <strong>di</strong> Potsdam, la città<br />

tedesca sede storica dello Stato prussiano dove gli alleati, a Germania vinta e occupata, si<br />

riunirono. C'erano Truman, Stalin e Churchill che in quei giorni fu bocciato alle elezioni e<br />

sostituito dal labourista Attlee. La strategia americana durante la Conferenza fu più marcata e<br />

più decisa grazie al fatto che Roosevelt aveva avuto notizia segreta del favorevole successo<br />

della prima esplosione <strong>di</strong> una bomba atomica. La versione estremizzata è che il massacro <strong>di</strong><br />

Hiroshima e Nagasaki avvenne per interesse <strong>di</strong> potenza degli Stati Uniti, già proiettati nella<br />

imminente guerra fredda (anche se ancora non si sapeva che si sarebbe chiamata così).<br />

Il 1946-47 vide il fallimento dei piani <strong>di</strong> mettere l'energia atomica, <strong>di</strong> cui si era <strong>di</strong>mostrata<br />

la <strong>di</strong>struttività, sotto controllo internazionale, soprattutto vide il fallimento del piano Baruch,<br />

che era un grande banchiere e statista americano. Il suo intento era quello <strong>di</strong> mettere l'energia<br />

nucleare tutta sotto controllo dell'O.N.U., e fu rifiutato dall'Unione Sovietica con l'argomento<br />

che l'unico paese ad avere l'energia nucleare e a sapere come si faceva la bomba rimanevano gli<br />

Stati Uniti. Questo capitolo <strong>di</strong> nuclear history è interessantissimo, in esso si vedono i problemi<br />

<strong>di</strong> una gestione mon<strong>di</strong>ale <strong>di</strong> una nuova tecnologia, problemi che non hanno smesso <strong>di</strong><br />

ripresentarsi da allora ad oggi, si pensi oggi alla bioingegneria. La storia prende un'altra strada e<br />

nel 1949 l'Unione Sovietica fa esplodere la sua prima bomba atomica e nel 1952-53 tutte e due<br />

le superpotenze si dotano della bomba termonucleare all'idrogeno.<br />

Alla fine degli anni Cinquanta abbiamo il cambiamento <strong>di</strong> vettore, dalle sole `fortezze<br />

volanti' si passa ai missili tattici e intercontinentali o strategici, sia lanciati da terra, dove i<br />

lanciatori sono in<strong>di</strong>viduabili e possono essere <strong>di</strong>strutti, sia lanciati dal mare, dove è pressoché<br />

impossibile in<strong>di</strong>viduare i sommergibili, che <strong>di</strong>ventano a loro volta a propulsione nucleare.<br />

L'unico altro grande fatto tecnologico si ha verso la fine degli anni Sessanta-primi anni Settanta:<br />

per un verso si affina parecchio la gestione dell'intelligence, della sorveglianza e del controllo<br />

<strong>di</strong> una possibile guerra nucleare, affidandola ad una rete satellitare, e inoltre si crea il cosiddetto<br />

MIRV (le testate nucleari portate dai missili non hanno più un'ogiva ogni missile, ma ogni<br />

missile porta cinque, <strong>di</strong>eci ogive in<strong>di</strong>pendenti). Aumenta enormemente la potenza <strong>di</strong>struttiva e<br />

si rende enormemente più <strong>di</strong>fficile il conteggio e quin<strong>di</strong> il controllo degli armamenti, sul quale<br />

si delineano accor<strong>di</strong> basati sul numero dei vettori.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Questa è la storia tecnologica delle armi nucleari, che non è d'interesse meramente<br />

tecnologico, perché senza conoscerla non possiamo capire quali sfide lo sviluppo tecnicoscientifico<br />

ha posto ad ogni sua tappa all'intelligenza e alla volontà politica. Volgiamoci ora alla<br />

storia politico-strategica: fino alla metà degli anni Cinquanta, ancora durante la guerra <strong>di</strong> Corea,<br />

l'uso della bomba nucleare per risolvere i conflitti convenzionali è considerato possibile nelle<br />

dottrine politiche e militari, anche se poi non viene adottato. Fino ad allora l'arma nucleare ha<br />

ancora l'aspetto della più grande bomba o del più bel cannone che esista. I francesi nel 1954,<br />

quando stanno per essere espulsi dall'Indocina, dal paese <strong>di</strong> Ho Chi Minh, chiedono appoggio<br />

agli americani, e si legano al <strong>di</strong>to per molti anni avvenire il fatto che gli americani non vogliano<br />

usare le armi nucleari contro il governo comunista del Vietnam; da questa esperienza trarranno<br />

motivi per dotarsi <strong>di</strong> un loro proprio arsenale nucleare. Chi ha le armi nucleari, oltre le due<br />

superpotenze, è prima <strong>di</strong> tutto la Gran Bretagna, molto <strong>di</strong>pendente dalla tecnologia americana, e<br />

poi la Francia, del tutto in<strong>di</strong>pendente dalla tecnologia americana, che si dota <strong>di</strong> armi nella prima<br />

metà degli anni Sessanta, durante gli anni più trionfanti del governo <strong>di</strong> De Gaulle, tornato al<br />

potere nel 1958; viene infine, sempre negli anni Sessanta, la Cina. Queste sono le cinque<br />

potenze ufficialmente nucleari, che sono anche i membri permanenti e con <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> veto delle<br />

Nazioni Unite, perché sono le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale. Molti<br />

negli anni Cinquanta cercano <strong>di</strong> entrare nella tecnologia nucleare, anche l'Argentina e il Brasile:<br />

chi ci arriva effettivamente sono Israele, come è noto, il Sud Africa, che però <strong>di</strong> recente vi ha<br />

rinunciato, l'In<strong>di</strong>a e il Pakistan.<br />

Per riprendere dagli anni Cinquanta: una volta che si <strong>di</strong>ffondono le bombe termonucleari e<br />

la <strong>di</strong>fferenziazione dei vettori (bombar<strong>di</strong>eri, missili intercontinentali lanciati da terra e dal mare)<br />

si crea, prima <strong>di</strong> fatto e poi come dottrina, quella cosa che viene chiamata MAD, Mutually<br />

Assured Destruction, <strong>di</strong>struzione reciproca assicurata, ma l'acronimo significa altresì `folle';<br />

mentre la dottrina precedente era stata quella che in caso <strong>di</strong> grave lesione degli interessi <strong>di</strong> una<br />

superpotenza o <strong>di</strong> un attacco <strong>di</strong>retto ad essa sarebbe intervenuta la rappresaglia massiccia.<br />

Questa è la dottrina della metà degli anni Cinquanta; alla fine <strong>di</strong> questi, svanisce la possibilità <strong>di</strong><br />

usare l'arma nucleare per colpire e trarne vantaggi, e cresce la sicurezza che usando l'arma<br />

nucleare si <strong>di</strong>strugge l'avversario, ma si viene anche <strong>di</strong>strutti, perché l'avversario, se è<br />

superpotenza, è dotato della cosiddetta capacità <strong>di</strong> secondo colpo, cioè si è dotato in precedenza<br />

della possibilità, pur avendo ricevuto un attacco nucleare <strong>di</strong> vasta portata che lo lasci in pezzi,<br />

<strong>di</strong> una rappresaglia che <strong>di</strong>strugga a sua volta chi lo ha colpito in maniera insopportabile - il che<br />

vuol <strong>di</strong>re più del 50% della popolazione e più del 30% del potenziale economico-industriale. Di<br />

fronte al fatto che <strong>di</strong>venta sempre più preclusa la possibilità <strong>di</strong> vincere una guerra nucleare, si<br />

passa dall'idea <strong>di</strong> un uso militare dell'arsenale, nel senso <strong>di</strong> una rappresaglia massiccia, all'idea<br />

<strong>di</strong> un uso politico, che vuol <strong>di</strong>re che l'arma nucleare non è più destinata ad essere usata in<br />

guerra, ma è destinata a sconsigliare, <strong>di</strong>ssuadere l'avversario possibile dall'usarla contro <strong>di</strong> noi,<br />

sia de facto, con un attacco effettivo, sia politicamente, cioè aumentando il nostro potenziale,<br />

facendoglielo vedere e <strong>di</strong>cendogli “anche se io non ti attacco sono molto più forte <strong>di</strong> te e quin<strong>di</strong><br />

ti devi piegare al mio volere politico”. Sulla base tecnica della MAD si crea l'equilibrio del<br />

terrore e la dottrina dell'uso politico per fini <strong>di</strong> deterrenza dell'arma nucleare. Il che vuol <strong>di</strong>re<br />

che l'arma nucleare viene costruita, sviluppata e migliorata non per essere usata, ma per<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

deterrere, per <strong>di</strong>ssuadere l'altro.<br />

Una volta che si instaura questo regime <strong>di</strong> deterrenza portato agli estremi termini <strong>di</strong> un<br />

equilibrio del terrore, si apre anche la strada al cosiddetto controllo delle armi, cioè all'idea che,<br />

pur mantenendosi l'avversità politica e ideologica tra i gran<strong>di</strong> blocchi politici, militari, nucleari,<br />

è possibile, sulla base della comune consapevolezza della insopportabile <strong>di</strong>struttività dell'arma<br />

nucleare, cercare <strong>di</strong> trovare degli accor<strong>di</strong> per limitarne la <strong>di</strong>ffusione; insomma una via<br />

tecnologica al contenimento della <strong>di</strong>struttività dell'arma nucleare, pur restando eguali le<br />

con<strong>di</strong>zioni politiche. Oggi noi a posteriori, con l'occhio <strong>di</strong> storici, ve<strong>di</strong>amo che l'arms control<br />

ha deluso la comunità dei suoi sostenitori, degli strateghi, dei tecnici e degli scienziati perché<br />

sono mancate le con<strong>di</strong>zioni politiche. La verità storica è che l'arms control è stato inventato e<br />

sviluppato non senza alcuni successi, in un periodo in cui sembrava che esistessero anche<br />

alcune con<strong>di</strong>zioni politiche, come il <strong>di</strong>sgelo dell'Unione sovietica con Krušcëv, dal 1953 al<br />

1964, la <strong>di</strong>stensione e la dottrina sovietica della coesistenza pacifica. Invero la limitazione degli<br />

armamenti è avvenuta in maniera spesso ambigua e inefficace: le limitazioni venivano<br />

sostanzialmente vanificate dalla nascita <strong>di</strong> nuove possibilità tecnologiche, non contemplate<br />

negli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> limitazione degli armamenti, ad esempio la pluralizzazione (MIRV) delle<br />

testate che rese vano l'accordo SALT 1 del 1972 (Strategic Arms Limitation Talks). I veri<br />

accor<strong>di</strong> non più solo <strong>di</strong> limitazione degli armamenti futuri, ma anche <strong>di</strong> <strong>di</strong>minuzione degli<br />

armamenti esistenti avvengono solo dopo il 1985, cioè con Gorbacëv e la perestroika da una<br />

parte e dall'altra parte con Reagan e Bush, cioè con il cambiamento delle con<strong>di</strong>zioni politiche<br />

complessive. Questo getta una luce limitativa sulla strategia dell'arms control e quin<strong>di</strong><br />

sull'illusione che i pacifisti da un lato, e la comunità dei fisici dall'altro hanno covato per<br />

decenni, che si potesse cioè arrivare ad un mondo non nucleare in cui le armi nucleari fossero<br />

non troppo minacciose grazie alla limitazione.<br />

Da un lato quel tanto <strong>di</strong> paura reciproca creato dal MAD, dall'altro qualche minimo<br />

elemento <strong>di</strong> <strong>di</strong>stensione, ma soprattutto quel sovrappiù <strong>di</strong> paura creato dalla crisi <strong>di</strong> Cuba<br />

dell'ottobre del 1962, aprono negli anni Sessanta prospettive un po' <strong>di</strong>verse. La crisi <strong>di</strong> Cuba si<br />

ebbe quando i sovietici si allearono con il nuovo regime rivoluzionario cubano: Fidel Castro e i<br />

suoi avevano cacciato il <strong>di</strong>ttatore Batista nel 1959, ma erano entrati in uno scontro duro con gli<br />

Stati Uniti, e si rivolsero quin<strong>di</strong> all'Unione sovietica. Krušcëv tentò allora con una mossa<br />

avventata <strong>di</strong> istallare a Cuba missili nucleari sovietici, cioè <strong>di</strong> portare la minaccia nucleare sotto<br />

le porte <strong>di</strong> casa degli Stati Uniti, così come peraltro negli anni Cinquanta gli americani e la<br />

Nato avevano istallato in Turchia e in Italia missili nucleari <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a gittata. Nella crisi che<br />

seguì, la più minacciosa dal 1945 a tutt'oggi, si sfiorò lo scontro nucleare totale. In questa<br />

esperienza venne evitato il peggio in quanto i due fratelli Kennedy si <strong>di</strong>mostrarono due persone<br />

con la testa sul collo e riuscirono a tenere fermi i politici e i militari, e perché Kruščëv, vista la<br />

mala parata, decise <strong>di</strong> ritirarsi. Questo creò l'atmosfera in cui nel 1963 venne concluso il<br />

Trattato che proibisce gli esperimenti nucleari atmosferici: TBT (Test Ban Treaty) e pochi anni<br />

più tar<strong>di</strong>, nel 1967, il trattato <strong>di</strong> non proliferazione NPT (Non-Proliferation Treaty), che è stato<br />

rinnovato ed esteso nel 1996.<br />

In questo periodo, negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta pare aprirsi la strada della<br />

limitazione; tuttavia la sviluppo della tecnologia nucleare prosegue ininterrotto e quin<strong>di</strong> la<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

<strong>di</strong>stensione, la limitazione degli armamenti, è sempre sottoposta a docce fredde, a passi<br />

in<strong>di</strong>etro. Queste hanno poi il loro culmine nella seconda metà degli anni Settanta, quando i<br />

sovietici decidono <strong>di</strong> modernizzare i loro missili a me<strong>di</strong>a gittata e la Nato risponde con la<br />

decisione <strong>di</strong> proporre all'Unione Sovietica <strong>di</strong> eliminare i missili a me<strong>di</strong>a gittata, ovvero <strong>di</strong><br />

provvedersi a sua volta <strong>di</strong> missili <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a gittata che in Europa non esistevano, perché i missili<br />

<strong>di</strong> corta gittata collocati nella fine degli anni Cinquanta in Turchia ed in Italia erano stati in<br />

realtà ritirati tacitamente dall'amministrazione Kennedy dopo la crisi <strong>di</strong> Cuba (fu una delle<br />

clausole non dette, ma non sappiamo quanto esplicite, fra l'amministrazione Kennedy e<br />

Kruš_ëv). Siccome i sovietici non ci stanno e procedono all'installazione degli euromissili, ciò<br />

porta nel 1983 all'installazione anche in Italia <strong>di</strong> missili balistici <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a gittata o <strong>di</strong> missili da<br />

crociera, che volano seguendo una certa tecnologia paralleli al terreno e alla superficie delle<br />

acque. Questa è l'ultima corsa agli armamenti che porta <strong>di</strong> nuovo la temperatura a livelli<br />

pericolosi, anche perché falliscono i tentativi <strong>di</strong> arms control e le trattative a Ginevra si<br />

spezzano. Tutto cambia con l'avvento <strong>di</strong> Gorbačëv, <strong>di</strong> Ševarnadze al ministero degli esteri<br />

dell'URSS e con i trattati del 1987 siglati a Washington da Reagan e Gorbačëv che ci liberano<br />

dagli euromissili, fino ai più recenti trattati non <strong>di</strong> limitazione dello sviluppo, ma per la prima<br />

volta <strong>di</strong> riduzione degli armamenti strategici fra Stati Uniti e Russia. Si è in qualche modo<br />

ridotta la mostruosa proliferazione <strong>di</strong> testate nucleari che aveva portato ad una mostruosa<br />

capacità, come si <strong>di</strong>ce, <strong>di</strong> overkill, <strong>di</strong> sterminare cioè molta più gente <strong>di</strong> quanta sia `necessaria'<br />

per <strong>di</strong>struggere l'avversario. Nonostante questo, quello in cui ci troviamo attualmente è sempre<br />

un regime <strong>di</strong> deterrenza nucleare, sorretto dalla capacità <strong>di</strong> secondo colpo, affidata<br />

prevalentemente, se non esclusivamente, ai missili che partono dai sottomarini: quin<strong>di</strong> chi non<br />

ha sottomarini non ha capacità <strong>di</strong> secondo colpo e viceversa chi riuscisse a scoprire tecniche <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>viduazione tempestiva e affondamento dei sottomarini nucleari, toglierebbe all'altro la<br />

capacità <strong>di</strong> secondo colpo e sarebbe il padrone del mondo. La capacità <strong>di</strong> secondo colpo ce<br />

l'hanno solo le cinque potenze nucleari “ufficiali”.<br />

Il regime <strong>di</strong> deterrenza, seppure in termini più razionali, rimane il regime dominante la<br />

politica mon<strong>di</strong>ale per quanto riguarda le armi, la possibilità <strong>di</strong> guerra. Il regime <strong>di</strong> deterrenza<br />

vuol <strong>di</strong>re capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione completa dell'avversario, non solo politica, e <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione<br />

mia, perché l'avversario ha capacità <strong>di</strong> secondo colpo. Regime <strong>di</strong> deterrenza nucleare significa,<br />

se non capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione del genere umano nella sua consistenza biologica, certamente<br />

della civiltà umana affidata agli Stati sovrani.<br />

L'età nucleare che cambiamento porta prima <strong>di</strong> tutto nella teoria e nella filosofia politica?<br />

Cominciamo dai cambiamenti particolari: emerge dal breve schizzo storico fatto sopra dello<br />

sviluppo dell'età nucleare che esiste nelle armi nucleari un perenne, e fino ad adesso irrisolto,<br />

contrasto fra la loro duplice natura: quella politica e quella militare. La loro natura militare<br />

sarebbe quella <strong>di</strong> essere, come qualsiasi arma, uno strumento <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione dell'avversario e<br />

quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> coercizione della sua volontà. Ma abbiamo visto che essendo per un verso il<br />

potenziale <strong>di</strong>struttivo <strong>di</strong>fficilmente limitabile, e peraltro essendo il potenziale nucleare<br />

<strong>di</strong>stribuito su due o più soggetti politico-strategici, quello che ha cambiato completamente la<br />

situazione è la retroazione delle armi nucleari su chi le usa per primo, cercando <strong>di</strong> trarre<br />

vantaggi dal loro uso bellico. Le conseguenze sono che esse, invece <strong>di</strong> far vincere una guerra,<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

infliggono orribili <strong>di</strong>struzioni alla stessa parte che ne detenga <strong>di</strong> più o le detenga da più lungo<br />

tempo e possa infliggere eventualmente <strong>di</strong>struzioni maggiori all'altra parte. Anche in questo<br />

caso le <strong>di</strong>struzioni subite dalla parte che ha proporzionalmente meno danno sono <strong>di</strong>struzioni<br />

intollerabili perché aggre<strong>di</strong>scono alla ra<strong>di</strong>ce il potenziale economico, civile ed umano <strong>di</strong> un<br />

paese. Tuttavia dagli anni Cinquanta in avanti si è sviluppata, e poi per fortuna stabilizzata, la<br />

natura politica delle armi nucleari, cioè quella <strong>di</strong> essere armi <strong>di</strong> deterrenza, <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssuasione,<br />

capaci non <strong>di</strong> vincere la guerra, ma <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>re che una guerra avvenga.<br />

Ora, fra uso politico e uso militare delle armi nucleari esistono nessi complessi:<br />

a) c'è stata un'alternanza, nella storia dell'età nucleare, fra il prevalere (nelle dottrine<br />

politiche e militari degli attori) dell'uno e dell'altro uso. Se da tempo prevale l'uso politico, ciò<br />

non è garantito per sempre: è la loro natura stessa <strong>di</strong> armi (cioè <strong>di</strong> strumenti che promettono un<br />

vantaggio <strong>di</strong> potenza) che contiene la possibilità <strong>di</strong> quella alternanza (che durante la guerra<br />

fredda è stata un'alternanza quasi ciclica).<br />

b) al fondo della dottrina dell'uso politico c'è pur sempre l'idea che, se la deterrenza fallisse,<br />

subentrerebbe l'uso bellico `punitivo' <strong>di</strong> quelle armi. E la deterrenza poteva fallire e, in un<br />

futuro riacutizzarsi del contrasto fra i vecchi (o fra i nuovi) Leviatani nucleari, potrebbe fallire.<br />

Ed è ben improbabile che possa allora verificarsi l'ipotesi, solo mentale, ma normalmente<br />

giustificabile, del bluff: che la parte attaccata <strong>di</strong>ca “abbiamo bluffato e ci è andata male, a<br />

questo punto anziché rispondervi con il nostro `secondo colpo' e finire in un `omnici<strong>di</strong>o'<br />

preferiamo arrenderci, fate <strong>di</strong> noi quel che volete pur <strong>di</strong> non scatenare una guerra nucleare”.<br />

Io con<strong>di</strong>vido dunque con molti l'idea che la deterrenza non ha risolto in maniera<br />

sod<strong>di</strong>sfacente i problemi politici e morali che l'età nucleare ci pone. Altri la pensano<br />

<strong>di</strong>versamente, pensano che la deterrenza sia definitivamente stabile, che ci garantisca per<br />

sempre; oppure pensano che se la deterrenza fallisse sarebbe una bruttissima cosa ma non così<br />

spaventosa perché ci si potrebbe risollevare da uno scontro nucleare. Si ricor<strong>di</strong> che, se è finito il<br />

bipolarismo politico, non lo è quello nucleare: alla fine, del resto non raggiunta né garantita, del<br />

processo START (Strategic Arms Reduction Talks;) USA e Russia resteranno pur sempre con<br />

3500 testate ciascuno. Alcuni pensano infine che tutti i paesi con una certa potenza economica<br />

debbano avere armi nucleari. Dopo il 1989 uno stu<strong>di</strong>oso, John Mearsheimer, scrisse un articolo<br />

per suggerire, quasi per imporre alla Germania <strong>di</strong> dotarsi <strong>di</strong> armamenti nucleari per aumentare<br />

la stabilità dell'Europa e del mondo. Io ritengo al contrario che le armi nucleari e la deterrenza<br />

rimangano un problema vitale, anzi letale, anche dopo la fine della guerra fredda, anche dopo la<br />

fine del bipolarismo politico.<br />

79


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

18. Aspetti politici e filosofici della situazione nucleare<br />

Con le armi nucleari sono cambiate alcune categorie importanti dell'assetto politico della<br />

modernità, cioè della razionalità politica moderna: prima <strong>di</strong> tutto la guerra, cioè un istituto<br />

attraverso cui con lo scontro fisico si decidono i contrasti politici, in una situazione <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stribuzione asimmetrica e quin<strong>di</strong> conflittuale del potere. La guerra, per rovesciare Clausewitz,<br />

non è più la continuazione della politica con altri mezzi, perché anzi rischia <strong>di</strong> far fuori la<br />

politica nel senso che se la guerra nucleare, invece <strong>di</strong> risistemare i rapporti politici fra gli Stati,<br />

cancella i soggetti, questo istituto regolatore non funziona più a livello <strong>di</strong> guerra totale,<br />

strategica, scontro tra le gran<strong>di</strong> potenze. Le guerre ci sono, ma hanno cambiato natura.<br />

Cambiando l'istituto della guerra cambia anche quello della vittoria: si può anche vincere<br />

una guerra nucleare, ma è una vittoria che uno non fa a tempo a constatare perché è già morto <strong>di</strong><br />

leucemia lui stesso e, se non lui in persona, i suoi parenti ed i suoi concitta<strong>di</strong>ni. Cade anche la<br />

categoria, assai rilevante, <strong>di</strong> neutralità: tutto l'assetto politico moderno nei rapporti interstatali è<br />

governato, insieme alla possibilità <strong>di</strong> scontrarsi fisicamente e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> vedere chi è il più forte e<br />

quin<strong>di</strong> avrà più potere politico, dalla possibilità <strong>di</strong> non partecipare allo scontro. Osserviamo poi<br />

la sorte delle regole elaborate dal <strong>di</strong>ritto internazionale: la neutralità non esiste più perché<br />

nell'età nucleare gli effetti fisici sono tali da superare ogni confine, anche i mari e gli oceani, e<br />

sconvolgere non solo i paesi vicini ma - oltre un certo livello <strong>di</strong> scontro - l'intero globo<br />

attraverso l'effetto cosiddetto <strong>di</strong> inverno nucleare. Già alla fine del Cretaceo la scomparsa dei<br />

<strong>di</strong>nosauri fu dovuta probabilmente ad un fenomeno <strong>di</strong> `inverno' dovuto ad un asteroide caduto<br />

vicino ad un'isola dello Yucatán, in Messico, che produsse effetti <strong>di</strong> nuvole <strong>di</strong> polvere e <strong>di</strong><br />

vento così enormi da cambiare la temperatura <strong>di</strong> vaste zone del pianeta e da creare con<strong>di</strong>zioni<br />

invivibili per i <strong>di</strong>nosauri. Qualcuno ha fatto l'ipotesi che la specie umana abbia potuto evolversi<br />

grazie al fatto che questo tipo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> rettili sia stato eliminato per caso dall'asteroide.<br />

Altre categorie ancora più generali: sovranità, sicurezza e paura, sono anch'esse messe in<br />

forse. Sono le categorie che nella teoria delle istituzioni sono chiavi <strong>di</strong> volta dell'or<strong>di</strong>namento<br />

politico moderno. Gli Stati sovrani - con l'eccezione delle superpotenze nucleari - non sono in<br />

realtà più in grado <strong>di</strong> prendere decisioni autonome intorno alla loro più elementare (e<br />

legittimante) prestazione: provvedere alla sicurezza dei citta<strong>di</strong>ni. L'alternativa fra neutralità ed<br />

adesione all'alleanza con una superpotenza non è una vera alternativa: in entrambi i casi le<br />

decisioni sovrane sulla sicurezza e sopravvivenza vengono <strong>di</strong> fatto prese altrove: il paese leader<br />

in un'alleanza ha, rispetto ai paesi alleati, un sovrappiù <strong>di</strong> sovranità che rende la sovranità<br />

statale degli altri paesi fortemente limitata su un punto così essenziale come la <strong>di</strong>fesa fisica<br />

stessa dei propri citta<strong>di</strong>ni.<br />

Anche il particolare nesso <strong>di</strong> sicurezza e paura che abbiamo visto essere alla ra<strong>di</strong>ce della<br />

giustificazione moderna dello Stato viene, se non a crollare, ad indebolirsi fortemente perché<br />

per un verso la sicurezza, che anche il più forte Stato può procurare ai suoi citta<strong>di</strong>ni, è una<br />

sicurezza assai modesta: una sicurezza relativa nel senso che non li può garantire dagli effetti<br />

<strong>di</strong>struttivi <strong>di</strong> uno scontro nucleare da cui anche quello Stato esca vincitore o comunque<br />

(nell'ipotesi più favorevole) non totalmente malconcio. Per un altro verso quella funzione<br />

80


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

statuale per cui l'unica paura che dovrebbe rimanere dopo il patto sarebbe quella dei citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong><br />

fronte alla legge si incrina, perché attraverso questo tipo <strong>di</strong> sistema <strong>di</strong> sicurezza, la deterrenza<br />

nucleare, lo Stato rischia <strong>di</strong> aumentare la paura anziché <strong>di</strong>minuirla. Gli effetti possibili <strong>di</strong> questo<br />

sistema <strong>di</strong> sicurezza, dove esso debba concretamente venir messo in atto, crea molta più paura<br />

che non quella che lo Stato riesca ad assorbire e neutralizzare, che non la paura derivante dalla<br />

situazione <strong>di</strong> possibile guerra civile, <strong>di</strong> possibile <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne sociale. È una paura più astratta,<br />

infinitamente più impersonale, ma non per questo meno pesante e terribile.<br />

Queste sono, rapidamente, le conseguenze politiche delle armi nucleari e ci potremmo<br />

fermare qui se facessimo pura teoria politica; ma siccome facciamo un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> filosofia<br />

politica, dobbiamo ancora parlare degli aspetti più universali e filosofici <strong>di</strong> questa situazione.<br />

`Situazione nucleare' è la formula che uso per sintetizzare uno stato <strong>di</strong> cose avente il suo<br />

nucleo filosofico nel fatto che non questo o quello Stato, ma tutti gli Stati, cioè il genere umano,<br />

è arrivato ad un punto che, per garantire al massimo grado la sicurezza dei singoli Stati nei<br />

rapporti interstatali, si mette cre<strong>di</strong>bilmente in pericolo la sopravvivenza del genere umano<br />

stesso. Per sopravvivenza del genere umano non si intende, né esclusivamente né<br />

principalmente, la sopravvivenza biologica che rischia <strong>di</strong> essere cancellata dagli effetti <strong>di</strong> una<br />

guerra nucleare totale; un evento che non è sicuramente preve<strong>di</strong>bile che si verifichi, così come<br />

non si può scientificamente escluderlo. In ogni caso da questa previsione scientifica degli<br />

effetti, si accetti o no la specifica dottrina dell'inverno nucleare, si può ricavare la certezza della<br />

<strong>di</strong>struzione pressoché totale della civiltà umana. Gli inglesi usano l'espressione “riportare a<br />

forza <strong>di</strong> bombe il genere umano nell'età della pietra” (to bomb humankind back into the stone<br />

age).<br />

Della situazione nucleare si danno <strong>di</strong>verse spiegazioni: o che derivi dagli imperialismi <strong>di</strong><br />

questa o quella potenza, oppure da una logica economico-sociale interna al processo <strong>di</strong><br />

industrializzazione, oppure ancora l'idea non legata ad un'ipotesi storica, ma antropologica, che<br />

essa derivi dall'esaltazione <strong>di</strong> una cosa che c'è sempre stata, cioè l'aggressività umana.<br />

L'ultima <strong>di</strong> queste spiegazioni è ideologica, nel senso che deriva da una<br />

sovrainterpretazione in termini <strong>di</strong> filosofia della civiltà, <strong>di</strong> aspetti o categorie che sono<br />

importanti nello stu<strong>di</strong>o della natura (biologia dell'aggressività); ma una categoria che viene<br />

estrapolata dal suo terreno specifico e resa categoria filosofica generale è vittima <strong>di</strong> un processo<br />

<strong>di</strong> ideologizzazione.<br />

Le spiegazioni risalenti all'imperialismo e all'industrializzazione sono insufficienti nel senso<br />

che si tengono al <strong>di</strong> sotto del livello <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>mento che una cosa così drammatica come la<br />

situazione nucleare richiede. A me sembrano appiattimenti economicistici o sociologistici: sono<br />

processi storici e sociali specifici <strong>di</strong> un'epoca, che non spiegano come non questo o quel paese,<br />

non questa o quella regione, non questa o quella classe sociale, ma l'intera umanità arrivi al<br />

punto <strong>di</strong> mettere in forse con le sue proprie mani la propria esistenza e sopravvivenza. Per<br />

capire questo ci vuole qualcosa <strong>di</strong> più che l'estrapolazione <strong>di</strong> processi sociologici ed economici<br />

che riguardano il periodo <strong>di</strong> duecento o trecento anni della modernità.<br />

Dobbiamo ricorrere a spiegazioni <strong>di</strong> tipo filosofico. Ci troviamo <strong>di</strong> fronte un panorama non<br />

uniforme: alcuni recepiscono la drammaticità intrinseca alla situazione nucleare così come<br />

viene definita e <strong>di</strong>cono che questo <strong>di</strong>pende o dal materialismo o dal nichilismo o dalla<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

modernità che si auto<strong>di</strong>strugge. Credo che queste interpretazioni abbiano il <strong>di</strong>fetto opposto agli<br />

appiattimenti <strong>di</strong> cui abbiamo appena parlato, avendo un effetto <strong>di</strong> vanificazione olistica. Di un<br />

fenomeno, <strong>di</strong> un processo che è specifico della nostra epoca, a cui l'umanità è arrivata nella<br />

nostra epoca, e che si deve cercare <strong>di</strong> capire nella sua logica specifica, esse danno una<br />

spiegazione attraverso megacategorie, ovvero megadefinizioni della situazione umana, che in<br />

realtà vanificano la specificità del processo che ha prodotto la situazione nucleare, e con alcuni<br />

filosofemi sulla sorte dell'umanità e della civiltà vanificano anche il contributo specifico che<br />

può venire dalla filosofia politica. Dall'altro lato tali interpretazioni falliscono il bersaglio,<br />

perché per esempio tutta la tematica, <strong>di</strong> cui alcuni filosofi più o meno post-moderni si <strong>di</strong>lettano,<br />

del nichilismo, non ha pressoché niente a che fare con la annichilazione <strong>di</strong> cui la situazione<br />

nucleare ci offre la possibilità: non c'è nessun nesso riconoscibile scientificamente fra il<br />

cosiddetto nichilismo, cioè in una parola il sovvertimento e la ridefinizione <strong>di</strong> tutti i valori, la<br />

Umwertung aller Werte <strong>di</strong> Nietzsche, e la <strong>di</strong>namica che ha portato alla situazione nucleare. Una<br />

battuta cattiva: per stu<strong>di</strong>are i problemi gravi dell'epoca moderna e la sua crisi e la sua<br />

conclusione, anche i filosofi avrebbero fatto bene a stu<strong>di</strong>are le <strong>di</strong>namiche e le possibilità <strong>di</strong><br />

annichilazione e un po' meno il nichilismo: guardando insomma in faccia il nihil che<br />

effettivamente esiste come potenzialità dei nostri prodotti, e non pensando che esso derivi per<br />

qualche magico influsso dalla crisi d'identità dei ceti intellettuali che hanno compiuto o che si<br />

<strong>di</strong>battono nella Umwertung aller Werte. Ma <strong>di</strong> solito i filosofi preferiscono parlare dei filosofi<br />

ad altri filosofi e non parlare filosoficamente delle sorti del genere umano e dei singoli<br />

in<strong>di</strong>vidui.<br />

Finita la parte polemica, vorrei <strong>di</strong>re che io ritengo che le ra<strong>di</strong>ci della situazione nucleare<br />

siano nella `<strong>di</strong>alettica' ovvero nel paradosso della sicurezza, nel security <strong>di</strong>lemma, cioè nel<br />

produrre massima insicurezza come risultato delle nostre misure prese per garantire la<br />

sicurezza. Ma queste sono solo le ra<strong>di</strong>ci: occorre aggiungere la circostanza evolutiva che questa<br />

sicurezza è stata largamente delegata alla tecnica e precisamente alla tecnica senza regolazioni,<br />

senza istituzioni adeguate per controllare il nesso contemporaneo <strong>di</strong> tecnica e sicurezza. Da<br />

questa prospettiva si vede che la situazione nucleare pone quattro questioni che non sono solo<br />

<strong>di</strong> filosofia politica, e la cui definizione ha le ra<strong>di</strong>ci nella filosofia politica, ma che poi mobilita<br />

la filosofia tout court e non solo la filosofia. Le questioni sono quelle della tecnica, del genere<br />

umano, della pace perpetua e quella del rapporto tra idealismo e realismo.<br />

Si tratta anzitutto del problema eminentemente filosofico <strong>di</strong> che cosa la tecnica rivela<br />

dell'uomo e del suo rapporto con il cosmo: da un lato con la realtà fisica e dall'altro con gli altri<br />

uomini. Detto in maniera storiografica si va dal poiein aristotelico alla riflessione heideggeriana<br />

sulla tecnica (fine degli anni Quaranta). Oggi sono due gli elementi principali. Primo, gli<br />

uomini sono arrivati a penetrare e sovvertire quelli che almeno adesso a noi, al nostro stato<br />

attuale della conoscenza, risultano i livelli ultimi della materia. Non solo il nucleo dell'atomo,<br />

ma ciò che sta sotto, la struttura della materia, sono nozioni in continua evoluzione. Io detesto il<br />

continuo rinvio alle eterne verità e figure della filosofia e della letteratura e mitologia, perché<br />

penso che il mondo sia realmente cambiato e che il filosofare non sia il filosofare sull'eterno, su<br />

autori eterni o categorie eterne. Ritengo che pensare questo sia un vizio idealistico e mi schiero<br />

decisamente con la tra<strong>di</strong>zione materialistica moderna che pensa che la realtà sia qualcosa che<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

viene fuori dall'impatto con la natura e con gli altri e che, pur essendoci dei problemi costanti in<br />

questo impatto, le configurazioni e le categorie che ne vengono fuori, e che servono per capire<br />

questo impatto, cambino nel tempo. Ciononostante, nel rapporto dell'uomo con la natura non si<br />

può eliminare il richiamo al mito: è tema filosofico <strong>di</strong> Prometeo.<br />

Secondo tema della filosofia della tecnica: a che cosa porta l'essere penetrati così a fondo<br />

nella struttura della materia e, ciò che più conta, esserci impadroniti in maniera così gran<strong>di</strong>osa e<br />

nello stesso tempo suicida delle forze della natura? Che cosa ciò riveli e che cosa tutto ciò abbia<br />

<strong>di</strong> effetto sulla formazione del sé, ovvero dell'identità in<strong>di</strong>viduale e poi anche dell'identità <strong>di</strong><br />

gruppo. È il grande tema della <strong>di</strong>alettica dell'illuminismo - Dialektik der Aufklärung - che<br />

Horkheimer e Adorno hanno scritto nel 1944 e che rimane uno dei gran<strong>di</strong> libri filosofici<br />

dell’ultimo secolo, anche se <strong>di</strong> una stagione filosofica che non è più la nostra.<br />

Terzo aspetto <strong>di</strong> questo primo tema evocato dalla situazione nucleare, la tecnica: il<br />

problema della responsabilità, cioè il problema che i livelli <strong>di</strong> potenza e <strong>di</strong> <strong>di</strong>struttività raggiunti<br />

dalla nostra tecnica, in<strong>di</strong>pendentemente da come si interpreti metafisicamente il nostro<br />

atteggiamento tecnico verso il mondo, ci esortano a cambiare il nostro approccio morale alla<br />

tecnica, che non è più moralmente e politicamente neutra come nella prima modernità.<br />

Il problema è dunque se non dobbiamo inventarci un'etica del tutto nuova nei confronti<br />

della manipolazione della realtà fisica, e quin<strong>di</strong> degli altri come realtà fisica, un'etica della<br />

responsabilità. Hans Jonas, <strong>di</strong> cui io non con<strong>di</strong>vido l'impostazione ontologica aristotelica, ha<br />

avuto il merito <strong>di</strong> mettere sul tavolo in forma compatta questo tema, la responsabilità,<br />

implicante aspetti trasversali che attraversano anche i punti successivi. Responsabilità rispetto a<br />

chi? Rispetto ai singoli, al genere umano? Chi è il genere umano? Solo quelli che vivono<br />

adesso, o anche quelli che sono vissuti prima e/o quelli che vivranno dopo?<br />

L'ultimo aspetto della tecnica è un aspetto meno filosofico, ma <strong>di</strong> scienza politica con<br />

implicazioni filosofiche o almeno etiche. Dato e non concesso (questo è un problema etico che<br />

lasciamo aperto) che vogliamo, dobbiamo moralmente controllare scienza e tecnologia, siamo<br />

in grado <strong>di</strong> farlo, e come si fa? Quali sono gli istituti politici che dobbiamo inventarci, e che<br />

non sono mai esistiti nella storia del mondo?<br />

Per venire ora al tema del genere umano, è opportuno che io riprenda ed approfon<strong>di</strong>sca la<br />

nozione <strong>di</strong> sopravvivenza. È chiaro <strong>di</strong> cosa tratta la sopravvivenza: la possibilità <strong>di</strong> una<br />

riproduzione della nostra specie attraverso i normali meccanismi <strong>di</strong> riproduzione. `Normali'<br />

perché i meccanismi stanno già cambiando e <strong>di</strong>ventando non anormali, ma artificiali. La<br />

riproduzione della vita umana sotto questo riguardo è il contrario dell'estinzione.<br />

Gli zoologi e gli etologi <strong>di</strong>cono che l'estinzione è il normale destino delle specie viventi e in<br />

effetti ogni giorno si estinguono migliaia <strong>di</strong> specie vegetali e animali, e non c'è dubbio che la<br />

antropizzazione del paesaggio terrestre ha accelerato il tasso <strong>di</strong> estinzione. Alcuni <strong>di</strong>cono perciò<br />

che l'estinzione della specie umana è in questo senso sicura, perché è il normale destino delle<br />

specie viventi e quin<strong>di</strong> che non c'è da preoccuparsi né da stupirsi. Ma in verità lo stupirsi, il<br />

meravigliarsi è, come <strong>di</strong>ce Platone, l'origine della filosofia, del pensiero, ascrivendo questa<br />

meraviglia ad una ninfa o dea, Iride. Ora, se noi consideriamo zoologicamente l'umanità non c'è<br />

da meravigliarsi, né da far gran<strong>di</strong> pensate filosofiche sull'estinzione possibile della specie<br />

umana.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Questa è un'opinione rispettabile, non falsa in zoologia. Ma è falsa nel contesto <strong>di</strong> filosofia<br />

politica e filosofia morale in cui non ci interessa il destino biologico o zoologico dell'umanità,<br />

ma guar<strong>di</strong>amo l'umanità dal punto <strong>di</strong> vista morale, metafisico e politico. Metafisico per il<br />

significato che tale destino ha; morale per quanto esso <strong>di</strong>penda dalle nostre scelte <strong>di</strong> fare o non<br />

fare, <strong>di</strong> omettere; politico in quanto il destino degli uomini possa essere fatto oggetto <strong>di</strong> nuovi<br />

progetti ed istituzioni politiche: intendo non il destino dei singoli uomini, ma della specie.<br />

In questa sede morale e politica, che è la sede per ogni <strong>di</strong>scorso culturale, non ci interessa la<br />

sopravvivenza meramente biologica. Ma poi credo, senza invadere più <strong>di</strong> tanto il terreno delle<br />

scienze naturali, che si possa sostenere con buone ragioni dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> zoologia ed<br />

etologia, che non è possibile rappresentare la vita umana e la sua riproduzione se non entro<br />

con<strong>di</strong>zioni culturali, cioè non è possibile rappresentarla come qualcosa che si riproduce per<br />

mero risultato <strong>di</strong> pulsioni istintuali, quando qualsiasi filosofo, antropologo culturale, etologo,<br />

primatologo sa che, se vogliamo veramente definire la vita umana, non possiamo definirla altro<br />

che ascrivendo costituzionalmente alle sue con<strong>di</strong>zioni e alla sua riproduzione i fattori culturali,<br />

cioè cose che noi creiamo e trasformiamo.<br />

Dal punto <strong>di</strong> vista `zoologico', si è detto, non c'è da meravigliarsi dell'estinzione possibile;<br />

per un verso l'estinzione è sicura perché è il destino biologicamente naturale della specie e<br />

quin<strong>di</strong> statisticamente sicura, e poi è sicura per ragioni più specificamente fisiche,<br />

cosmologiche, cioè perché ad un certo punto il sistema solare si raffredderà e in poco tempo,<br />

nel senso cosmico, scompariranno le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> temperatura necessarie alla riproduzione<br />

della vita umana e della vita tout court, non solo sul nostro pianeta, ma nel sistema solare<br />

intero.<br />

Quanto all'estinzione della vita umana per via <strong>di</strong> uno scontro termonucleare, è certamente<br />

vero che le previsioni scientifiche implicano riserve fallibilistiche. Si tratta però qui <strong>di</strong> un<br />

fallibilismo un po' sui generis perché, mentre il fallibilismo scientifico `normale' affida la<br />

contestazione della tesi ad un esperimento, in questo caso nessuna esperienza è possibile, né<br />

auspicabile, o può essere messa in conto, come se si trattasse <strong>di</strong> una normale procedura<br />

scientifica; provare a fare una guerra termonucleare per vedere come va a finire, se poi ci<br />

estinguiamo veramente o no, è una cosa priva <strong>di</strong> ogni senso comune. Gli stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong>cono che, si<br />

accetti o no la teoria dell'inverno nucleare, gli effetti sono tali e l'incertezza degli effetti è tale,<br />

che non si può escludere l'estinzione nello stesso puro senso biologico e zoologico.<br />

A questo punto come filosofi possiamo <strong>di</strong>re che, anche se dovessimo ritenere bassa la<br />

probabilità sia che avvenga un conflitto termonucleare e ne nasca l'estinzione della specie<br />

umana, oppure se dovessimo ritenere bassissima la possibilità che scoppi un qualsiasi conflitto<br />

termonucleare, in<strong>di</strong>pendentemente dalle sue conseguenze, dal punto <strong>di</strong> vista filosofico il fatto<br />

che esso possa scoppiare, e che possa avere queste conseguenze, è filosoficamente<br />

rilevantissimo, perché l'estinzione della vita umana ha dei significati filosofici che non sono<br />

mai esplicitati fino in fondo. Tutta la filosofia, quando si è occupata della morte, si è occupata<br />

della morte dell'in<strong>di</strong>viduo, compreso l'esistenzialismo (si pensi al Sein-zum-Tode <strong>di</strong> Heidegger),<br />

non della morte della specie. È rilevante filosoficamente e antropologicamente che la specie<br />

umana debba vivere con questa possibilità al suo fianco. Questo la specie umana lo fa già,<br />

perché alcuni pensano che il Creatore possa ripetere Sodoma e Gomorra o il Diluvio e perché<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

altri pensano, con qualche fondamento, che, se non nel novero dei nostri 60, 70, 80 anni <strong>di</strong> vita,<br />

almeno negli anni <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> altre generazioni, possa comparire un'asteroide che si schiacci sulla<br />

terra e ci faccia fare la stessa fine dei <strong>di</strong>nosauri. Questo è un tema filosofico abbastanza<br />

corrente, la precarietà dell'esistenza umana nelle sue con<strong>di</strong>zioni cosmiche. Quella che non è<br />

corrente è la riflessione filosofica sul significato <strong>di</strong> una precarietà fatta in casa, che ci siamo noi<br />

stessi procurati, che fino a pochi decenni fa non esisteva. Per alcuni migliaia <strong>di</strong> anni gli uomini<br />

hanno vissuto, e i filosofi hanno pensato, che il pericolo massimo fosse lo scontro con un<br />

asteroide, adesso è possibile, oltre lo scontro con un asteroide, la catastrofe nucleare, cioè<br />

prodotta da cose che noi stessi abbiamo creato, usato, messo in circolazione.<br />

Questo è il significato <strong>di</strong> sopravvivenza o <strong>di</strong> minaccia alla specie, quello <strong>di</strong> dover vivere<br />

con la possibilità che, seppur non scompaia la specie nel senso della mera vita vegetativa,<br />

scompaiano tutte o la maggior parte delle con<strong>di</strong>zioni lato sensu culturali <strong>di</strong> vita della nostra<br />

specie, e che questo avvenga per opera <strong>di</strong> nostri artefatti.<br />

La tematica kantiana degli esseri finiti acquista nel nostro secolo una connotazione <strong>di</strong>versa,<br />

perché è una finitu<strong>di</strong>ne che può riguardarci anche in altri significati che non quelli kantiani. Se<br />

ancora Kant poteva pensare come prolungamento del nostro agire morale al regno dei fini, che a<br />

quell'agire dava senso, è un po' più <strong>di</strong>fficile pensare ad un senso del nostro agire morale se<br />

dobbiamo pensare che fra le possibilità in esso insite vi sia la fine culturale, e magari anche<br />

biologica, della specie, per effetto del nostro stesso operato.<br />

Quin<strong>di</strong> il secondo gruppo <strong>di</strong> problemi che nascono dalla situazione nucleare sono quelli che<br />

possiamo intitolare al genere umano. Perché il genere umano? Perché esso viene minacciato<br />

nella sua sopravvivenza e proprio perché viene minacciato si può pensare che esso esista per la<br />

prima volta realiter e non semplicemente come ens rationis, che esista un nesso tanto materiale<br />

quanto invincibile, quello della minaccia e della paura dell'estinzione, che ci tiene per la prima<br />

volta assieme come mai hanno potuto fare tutti i nessi morali, religiosi, civili che ci siamo<br />

potuti immaginare. Allora, se il genere umano esiste ben più realmente <strong>di</strong> una volta, proprio<br />

perché la sua sopravvivenza non è più né sicura né <strong>di</strong> per sé evidente, nascono alcuni problemi<br />

più particolari. Da chi è costituito il genere umano? Solo dai presenti sulla terra, dai nostri<br />

contemporanei, oppure dobbiamo ammettere che esso sia costituito in quanto attore morale,<br />

soggetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti e doveri, anche dalle generazioni future? Qui c'è molta letteratura filosofica,<br />

molta contemporanea ma anche non contemporanea, che ormai sta <strong>di</strong>ventando anche<br />

politicamente rilevante, perché le generazioni future sono un importante punto <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione,<br />

un coprotagonista, un attore giovane che dà un po' fasti<strong>di</strong>o al capocomico. Questo si vede anche<br />

nelle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>scussioni etico politiche sulla <strong>di</strong>stribuzione della ricchezza, che ha molti aspetti,<br />

dei quali uno è se la <strong>di</strong>stribuzione attuale debba essere giu<strong>di</strong>cata ed eventualmente cambiata<br />

non solo e non tanto rispetto ai contemporanei, ma in vista <strong>di</strong> come essa impatterà sulle<br />

generazioni future. Questo per ciò che riguarda la <strong>di</strong>stribuzione della ricchezza, dell'energia,<br />

dell'alimentazione. Un altro punto importante è sorto anche in un paese che arriva sempre<br />

ultimo a nuove formulazioni, cioè l'Italia: nella <strong>di</strong>scussione sul sistema pensionistico, uno dei<br />

punti <strong>di</strong> vista più avanzati è che il sistema è iniquo nei confronti delle generazioni future,<br />

perché erode in anticipo la ricchezza a cui tali generazioni dovrebbero potere aver parte. La<br />

cosa curiosa è che negli altri paesi l'argomento delle generazioni future è stato un argomento<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

progressista, in Italia nel campo della questione pensionistica viene - meno come argomento e<br />

più come slogan - portato in campo da forze <strong>di</strong> destra. L'altro aspetto se le generazioni future<br />

facciano parte o no del genere umano è relativo ai danni che con la nostra tecnologia stiamo<br />

infliggendo al pianeta: rischiamo <strong>di</strong> consegnare alle generazioni future una terra ridotta ad una<br />

<strong>di</strong>scarica o ad una stufa, a seconda del problema che si mette in rilievo (rifiuti o global<br />

warming).<br />

Altro subtema del tema `genere umano' è se valga la pena <strong>di</strong> assicurarne la sopravvivenza, e<br />

se sì a quali costi. L'assunzione della sopravvivenza del genere umano come valore può essere<br />

contestata, il mestiere dei filosofi è quello <strong>di</strong> prendere sul serio ogni domanda e nessuna<br />

soluzione.<br />

La terza serie <strong>di</strong> problemi che derivano dalla situazione nucleare è quello della pace<br />

nucleare perpetua e qui devo fare un'ampia <strong>di</strong>gressione su pace e pacifismo.<br />

19. Pace, pacifismo e governo mon<strong>di</strong>ale<br />

Sulla definizione <strong>di</strong> pace ci si può rompere il capo senza cavarne una risposta affidabile:<br />

esiste una definizione negativa <strong>di</strong> pace, come assenza <strong>di</strong> conflitto armato o <strong>di</strong> guerra, ed una<br />

positiva, come assenza <strong>di</strong> conflitto, ed esistenza o promozione <strong>di</strong> una situazione in cui sono<br />

sra<strong>di</strong>cate le cause del conflitto, in primis la cosiddetta violenza strutturale che l'ineguaglianza<br />

economica, civile, razziale e quant'altro fa a chi ne è vittima. È un tema messo in circolazione<br />

dallo stu<strong>di</strong>oso norvegese Johan Galtung, uno dei fondatori della peace research. In teoria<br />

politica è conveniente attenersi in primis alla definizione negativa, con cui si pone un problema<br />

preciso: come evitare la trasformazione <strong>di</strong> conflitti incruenti in guerre, e si afferma che evitare<br />

la per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> vite umane è il primo e fondamentale compito della politica, dell’or<strong>di</strong>ne politico.<br />

Senza che ciò impe<strong>di</strong>sca <strong>di</strong> esplorare le presunte cause profonde dei conflitti cruenti e no. Da<br />

questo punto <strong>di</strong> vista è utile ricordare la sistemazione data al realismo politico negli anni<br />

Cinquanta da Kenneth Waltz, lo stu<strong>di</strong>oso americano che venne poi ed è tuttora considerato il<br />

padre, negli anni Sessanta e Settanta, del cosiddetto neorealismo: la causa permissiva, che cioè<br />

permette le guerre, sta nell’anarchia del sistema internazionale, mentre le loro cause imme<strong>di</strong>ate<br />

o efficienti stanno nell’antropologia umana e nel regime interno degli Stati 25.<br />

Invece azzardo la definizione <strong>di</strong> pacifismo, <strong>di</strong>cendo che è un termine ambivalente e <strong>di</strong> cui<br />

bisogna sciogliere l'ambivalenza. Il pacifismo può essere inteso come perseguimento attivo<br />

della pace come scopo della politica, nell'ambito <strong>di</strong> un <strong>di</strong>segno complessivo <strong>di</strong> questo scopo e<br />

dei mezzi per arrivarci. Il pacifismo in questo primo senso presuppone che come scopo della<br />

politica sia considerata la regolazione ed il contenimento dei conflitti. Ma se assumiamo<br />

interpretativamente, come si è fatto sopra, che la politica abbia per telos intrinseco la pace,<br />

basta far politica e dovremmo essere considerati pacifisti? No, perché il pacifismo è<br />

perseguimento attivo, significa cioè mettere al centro della propria azione politica la ricerca<br />

25 K.Waltz, Man, the State and War,1959, tr. it. Giuffré, Milano 1998.<br />

86


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

della pace e mettercela però nell'ambito <strong>di</strong> un <strong>di</strong>segno complessivo: alla pace si arriva non<br />

ripetendone il nome come slogan salvifico, ma come prodotto <strong>di</strong> una strategia che tenga<br />

presente la situazione politica, economica, sociale nella sua intera complessità e <strong>di</strong>fficoltà. Ciò<br />

include la possibilità dell'uso della forza, per esempio per impe<strong>di</strong>re ad un paese <strong>di</strong> attaccarne o<br />

ricattarne altri dotandosi <strong>di</strong> armi nucleari, o per proteggere popolazioni vittime <strong>di</strong> massacri o<br />

genoci<strong>di</strong>o. La pace è in questo senso una categoria politica, per fare la pace occorre un potere<br />

ad essa or<strong>di</strong>nato. L'altra definizione <strong>di</strong> pacifismo è quella che considera la pace nel senso nel<br />

non-ricorso alla violenza armata come unico ed indefettibile principio: se vuoi la pace sii<br />

sempre pacifico. Questo pacifismo ammette come unico mezzo il comportamento pacifico, la<br />

non-violenza. Esso si presenta in due versioni molto <strong>di</strong>fferenti: una extra-mondana, per <strong>di</strong>rla<br />

con Weber, che rifiuta le logiche del mondo ed esprime solo una testimonianza morale o<br />

religiosa <strong>di</strong> fratellanza e solidarietà. L’altra versione, il pacifismo ra<strong>di</strong>cale come strategia<br />

politica, si risolve spesso e necessariamente (la politica contenendo necessariamente la<br />

violenza) nel condannare le guerre degli uni ma non degli altri, o nell’ignorare che proclamando<br />

che non si useranno mai gli strumenti militari si rafforzano i regimi che tolgono vita e libertà ai<br />

citta<strong>di</strong>ni loro o <strong>di</strong> altri paesi. Il ce<strong>di</strong>mento (in verità l’ultimo <strong>di</strong> una serie) a Hitler e Mussolini,<br />

attuato in nome del mantenimento della pace dai governi britannico e francese negli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

Monaco del 1938, contribuì <strong>di</strong>rettamente alle ulteriori aggressioni che portarono alla seconda<br />

guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />

Con l'avvento prima della guerra totale, poi della guerra termonucleare e quin<strong>di</strong> della<br />

possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione della civiltà, il fattore tempo è <strong>di</strong>ventato un elemento decisivo nel<br />

valutare la bontà <strong>di</strong> questa o <strong>di</strong> quella politica, soprattutto <strong>di</strong> un progetto <strong>di</strong> pace, che si deve<br />

misurare anche dai tempi in cui esso è in grado <strong>di</strong> raggiungere il proprio scopo, cioè <strong>di</strong><br />

consolidare in senso pacifico le relazioni tra gli uomini e le loro comunità. La pace perpetua nel<br />

senso dominante, cioè non assoluta assenza <strong>di</strong> conflitti, ma pace in cui il conflitto bellico non è<br />

più la soluzione principale, ed è solo l'ultima ratio per la risoluzione dei conflitti, è nell'età<br />

nucleare <strong>di</strong>venuto una questione <strong>di</strong> tempo, perché vi sono buone ragioni per ritenere che più<br />

dura un regime basato sul possesso delle armi nucleari in mano agli Stati nazionali e sulla stessa<br />

deterrenza, più aumentano le chances <strong>di</strong> un uso bellico <strong>di</strong> queste armi. Una politica <strong>di</strong> pace oggi<br />

va scelta o respinta anche in base alle attese cre<strong>di</strong>bili che essa può suscitare intorno alla rapi<strong>di</strong>tà<br />

con cui porta alla pace perpetua, in primis come pace nucleare.<br />

Un altro argomento contro il pacifismo ra<strong>di</strong>cale come atteggiamento politico è che esso è<br />

una dottrina che, per usare un termine <strong>di</strong> Bobbio, si avvicina molto al pacifismo strumentale,<br />

cioè a quello che si propone <strong>di</strong> raggiungere e consolidare la pace tramite la manipolazione <strong>di</strong><br />

uno degli strumenti <strong>di</strong> guerra: per esempio la pace via <strong>di</strong>sarmo o per mezzo del controllo delle<br />

armi. È pacifismo strumentale perché si pensa che dal controllo o dall'abolizione dello<br />

strumento, <strong>di</strong>sarmo parziale o totale, si possa conseguire la pace. Ma anche il pacifismo che si<br />

propone più generalmente <strong>di</strong> arrivare alla pace tramite la non-violenza ha alcuni caratteri del<br />

pacifismo strumentale, nel senso che considera la violenza, che è uno strumento della politica,<br />

un <strong>di</strong>svalore. Quin<strong>di</strong> da questo punto <strong>di</strong> vista partecipa dei vantaggi e/o svantaggi del pacifismo<br />

strumentale.<br />

87


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Questa critica dei tempi può essere usata anche nei confronti <strong>di</strong> un'altra forma <strong>di</strong> pacifismo<br />

che è il cosiddetto pacifismo culturale: l'idea che la via maestra alla pace sia l'educazione alla<br />

pace, la crescita della cultura della pace, posizione che spesso è imparentata con il pacifismo<br />

ra<strong>di</strong>cale ed extra-politico, ma non lo è necessariamente: si può pensare che la cultura della pace<br />

sia un aspetto, un capitolo importante <strong>di</strong> un pacifismo politico o meno. Se uno non pensa al<br />

pacifismo culturale come un valore, una via maestra, può comunque pensare che sia una via<br />

secondaria o uno svincolo importante della via maestra, si può pensare che è meglio avere un<br />

pacifismo politico, ma che tuttavia questo non basta, che il pacifismo politico è necessario, ma<br />

non sufficiente e il pacifismo culturale è complemento necessario e non sufficiente del primo. Il<br />

pacifista culturale più illustre forse è Sigmund Freud, 26 . L'unica via, <strong>di</strong>ce Freud, che possiamo<br />

vedere tra tutte le vie politiche e strumentali è il cambiamento <strong>di</strong> un atteggiamento culturale e<br />

un aumento ed ispessimento <strong>di</strong> legami tra in<strong>di</strong>vidui e fra gran<strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui, cioè fra gli Stati. È<br />

uno scritto sconsolato; Freud non si è mai fatto illusioni su niente e su nessuno. Egli scrive che<br />

l'unica via che può portare a una sostanziale <strong>di</strong>minuzione della guerra rischia <strong>di</strong> essere la<br />

macina <strong>di</strong> un mulino che va troppo piano, e che quin<strong>di</strong> quando ha macinato tutta la farina<br />

necessaria per sfamare la gente, la gente è già morta <strong>di</strong> fame. Nello stesso momento in cui vede<br />

il pacifismo culturale come unico momento che effettivamente garantisca la pace, Freud stesso<br />

denuncia che i tempi dei processi <strong>di</strong> trasformazione culturale e antropologica sono <strong>di</strong>fformi da<br />

quelli della politica, perché questi possono arrivare prima e fare piazza pulita degli attori. Nel<br />

1932 non c'erano le armi nucleari, ma era tale l'eco delle <strong>di</strong>struzioni gran<strong>di</strong>ose della prima<br />

guerra mon<strong>di</strong>ale in termini <strong>di</strong> vite umane <strong>di</strong> soldati, non tanto <strong>di</strong> potenziale economico e <strong>di</strong><br />

civili, nelle battaglie <strong>di</strong> logoramento sui fronti orientali, occidentale, e su quello italiano del<br />

Carso, che Freud stesso in quel contesto fa l'ipotesi non <strong>di</strong> estinzione del genere, ma <strong>di</strong> una<br />

<strong>di</strong>struttività inarrestabile e totale delle future guerre: quasi un presentimento. Il pacifismo che<br />

ho chiamato politico possiamo chiamarlo anche pacifismo istituzionale, con un termine più<br />

preciso, usato anche da Bobbio 27 Pacifismo istituzionale significa che la pace perpetua, il<br />

contenimento della guerra vengono pensati principalmente in termini <strong>di</strong> nuove istituzioni<br />

sociali e/o politiche che mutino i processi <strong>di</strong> aggregazione e <strong>di</strong> conflitto.<br />

Pacifismo politico e pacifismo istituzionale non sono sinonimi e appartengono a due <strong>di</strong>versi<br />

or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> definizioni: quello politico è tale in contrapposizione a quello extra politico, il<br />

pacifismo istituzionale è invece <strong>di</strong>stinto dal pacifismo strumentale e culturale. In realtà non<br />

sono sinonimi perché uno può anche inventarsi un pacifismo istituzionale extra politico, se uno<br />

pensa che la pace perpetua possa derivare da un governo mon<strong>di</strong>ale fedele al Signore retto dal<br />

Papa o dal Sommo Sacerdote bud<strong>di</strong>sta e or<strong>di</strong>nato teocraticamente: questo sarebbe un pacifismo<br />

istituzionale ma extra-politico. La stessa cosa sarebbe l'idea <strong>di</strong> una istituzione che sia una<br />

fratellanza universale con un Grande Fratello a capo, il consiglio dei Gran<strong>di</strong> Fratelli come<br />

26<br />

Freud ha scritto due volte sulla guerra, una volta nel 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e <strong>di</strong><br />

nuovo nel 1932 Perché la guerra? in un volume curato per conto della Lega delle Nazioni da Albert<br />

Einstein.<br />

27<br />

Nel volume Il problema della guerra e le vie della pace (Bologna 1979) che raccoglie una serie <strong>di</strong><br />

scritti <strong>di</strong> Bobbio nella prima fase (anni Sessanta) della stupefazione e dell'in<strong>di</strong>gnazione del mondo, e<br />

della paura del mondo e degli intellettuali, <strong>di</strong> fronte al pericolo nucleare e al MAD che si stava<br />

e<strong>di</strong>ficando in quegli anni.<br />

88


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

organo legislativo (sto inventando fantasie a scopo euristico), e fondato sull'amore e la<br />

fratellanza degli uomini.<br />

Si può poi <strong>di</strong>stinguere un pacifismo istituzionale in senso giuri<strong>di</strong>co da uno in senso sociale;<br />

è quello che vede la con<strong>di</strong>zione sufficiente per la pace perpetua in una trasformazione sociale,<br />

putacaso in una rivoluzione.<br />

La pace non nasce né dalla fratellanza né dallo Stato, che Marx pensava si sarebbe ridotto e<br />

poi <strong>di</strong>ssolto: il marxismo riteneva che, essendo la lotta <strong>di</strong> classe la vera ultima ra<strong>di</strong>ce del<br />

conflitto, la sua eliminazione passasse attraverso una rivoluzione sociale che eliminasse<br />

l'antagonismo <strong>di</strong> classe per un verso e la macchina statuale per l'altro. Anche se, come ha detto<br />

Marx nel 1852 in uno scritto <strong>di</strong> riflessione dopo la rivoluzione del 1848, alla sconfitta della<br />

borghesia produttrice <strong>di</strong> guerra si può arrivare solo dopo decenni “<strong>di</strong> guerre <strong>di</strong> classe e <strong>di</strong><br />

popoli”. L'altro pacifismo più propriamente istituzionale è quello giuri<strong>di</strong>co, che vede la pace<br />

perpetua frutto o <strong>di</strong> un governo mon<strong>di</strong>ale o <strong>di</strong> un ispessimento delle organizzazioni<br />

internazionali.<br />

A metà fra pacifismo sociale e giuri<strong>di</strong>co c'è l'idea dell'eliminazione del conflitto attraverso il<br />

commercio. Oggi questa non si sente più propagandare, perché si è visto nel terribile secolo<br />

ventesimo non ha funzionato; ma essa ha avuto grande peso nella storia delle dottrine politiche<br />

da Montesquieu ai liberali. Per quasi due secoli l'umanità ha creduto che la sostituzione delle<br />

relazioni commerciali a quelle politico-<strong>di</strong>plomatico-militari come guida delle relazioni<br />

internazionali fosse la via maestra;l'opinione liberale classica ha visto nella politica, nella<br />

<strong>di</strong>plomazia e ovviamente nei militari, le ra<strong>di</strong>ci e i riproduttori principali della guerra, insomma i<br />

principali agenti belligeni, in<strong>di</strong>viduando invece nel commercio un forte e determinante agente<br />

<strong>di</strong> pace.<br />

Adesso che questa dottrina non c'è più si può invece <strong>di</strong>re che abbia avuto qualche successo.<br />

L'integrazione europea ha eliminato tendenze belligene tra i paesi dell'Europa Occidentale<br />

e ,negli anni Novanta, anche <strong>di</strong> quella centrale e orientale. È un processo che non avrebbe avuto<br />

lo sviluppo e il consolidamento politico che ha avuto (con i trattati <strong>di</strong> Roma del 1957 e con le<br />

riforme degli anni Sessanta, lo stabilizzarsi della Commissione europea, l'andare a regime del<br />

Consiglio europeo, cioè della riunione dei capi <strong>di</strong> Stato e <strong>di</strong> governo, più tar<strong>di</strong> con l'Atto unico<br />

e da ultimo con i Trattati <strong>di</strong> Maastricht, Amsterdam e Nizza e con il Trattato costituzionale del<br />

2004), se non ci fosse stata l'unione commerciale, doganale ed economica a sostenerla: i<br />

politici, gli intellettuali, i retori, si sarebbero messi a litigare e avrebbero rotto questo processo o<br />

lo avrebbero bloccato. Il processo invece è andato avanti, pur se in modo incompleto ed<br />

insufficiente. Di questo processo noi talora ve<strong>di</strong>amo soprattutto gli aspetti spiacevoli, <strong>di</strong><br />

regolazione commerciale e industriale, che sembrano predominavare sull'aspetto politico ed<br />

ideale del processo d’integrazione. È la manifestazione <strong>di</strong> un grosso deficit <strong>di</strong> politica, ma darne<br />

la colpa alle forze economiche, è un po' ingeneroso: la cosa deriva invece più da carenze<br />

politiche e culturali dei singoli paesi europei e dall'Unione europea tutta assieme che non dalla<br />

cattiva genia dei `bottegai' o dei “burocrati <strong>di</strong> Bruxelles”. Secondo, molte volte se non ci<br />

fossero stati i `bottegai' e i “burocrati”, che per i loro interessi hanno fatto sì che l'Europa<br />

andasse avanti e soprattutto non si spezzasse, i politici forse l'avrebbero spezzata. Detto in<br />

termini meno colloquiali e più teorici: le spinte <strong>di</strong> carattere commerciale, doganale, economico<br />

89


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

che hanno portato all'unificazione europea sono spinte, per usare un linguaggio <strong>di</strong> politologia<br />

contemporanea, <strong>di</strong> carattere sistemico o funzionale, cioè <strong>di</strong> un sistema che funziona<br />

in<strong>di</strong>pendentemente dalla volontà politica. Gli imperativi sistemici - si veda la Scuola <strong>di</strong><br />

Francoforte - vengono spesso accre<strong>di</strong>tati <strong>di</strong> tutti i mali possibili, ed il sovrastare delle spinte<br />

sistemiche in terreni che non possono essere assoggettati alla razionalizzazione <strong>di</strong> questo tipo è<br />

un serio e grave problema. Ma, pur tenendo presente questo problema centrale degli effetti<br />

degenerativi delle spinte sistemiche sul tessuto umano e culturale, dobbiamo anche non<br />

<strong>di</strong>menticarci che le spinte e gli imperativi sistemici possono avere una ricaduta fortemente<br />

positiva sul terreno che sistemico non è, cioè quello della politica, della società, della cultura e<br />

così via. Da questo punto <strong>di</strong> vista tali imperativi funzionali o sistemici, che nell'Unione si sono<br />

affermati, e a cui la cultura politica, filosofica, e storica ha dato una adeguata veste politica, dai<br />

trattati <strong>di</strong> Roma (1957) a quelli <strong>di</strong> Maastricht (1991), Amsterdam (1997) e Nizza (2000), hanno<br />

evitato che si potesse ripetere qualcosa <strong>di</strong> simile al 1914-18 o al 1939-45.<br />

Più fortunata <strong>di</strong> quella che si richiama al commercio appare la dottrina che ritiene essere la<br />

trasformazione democratica dei regimi interni degli Stati la base più sicura per garantirne un<br />

comportamento non bellicoso; non perché gli Stati democratici non facciano guerre, anzi ne<br />

hanno fatto <strong>di</strong> molto accanite contro Stati <strong>di</strong>ttatoriali, ma perché essi non usano farsi guerra fra<br />

<strong>di</strong> loro. Lo <strong>di</strong>mostra l’esperienza storica tanto quanto la <strong>di</strong>mostrazione teorica <strong>di</strong> questa tesi,<br />

che va sotto il nome <strong>di</strong> dottrina della “pace democratica”. La sua prima origine è nel progetto <strong>di</strong><br />

trattato Sulla pace perpetua scritto da Kant nel 1795, laddove Kant affida la pacificazione<br />

permanente dei conflitti interstatali alla trasformazione “repubblicana” dei regimi, al<br />

federalismo e all’affermarsi del <strong>di</strong>ritto cosmopolitico, riguardante il rapporto fra gli Stati e gli<br />

abitanti del globo.<br />

Per concludere sulla pace in epoca nucleare, si può pensare che essa non derivi né da una<br />

moralizzazione in senso kantiano della politica (che forse non arriverà mai, ma che, anche se<br />

arrivasse, potrebbe essere - s'è visto - troppo tar<strong>di</strong>) né dal prevalere <strong>di</strong> una superpotenza,<br />

vittoriosa nella guerra fredda e capace <strong>di</strong> fare da Terzo o da gendarme nucleare; non si sa se gli<br />

USA abbiano le forze per fare questo, o se ne abbiano la volontà, e soprattutto non si sa per<br />

quanto tempo le possano o la possano avere. E la pace nucleare o è perpetua o non è.<br />

Si può pensare invece che a fungere da Terzo sia il nocciolo medesimo dell'età nucleare e<br />

cioè il terrore come base dell'equilibrio. In verità noi stiamo assistendo dal 1945, dal punto <strong>di</strong><br />

vista nucleare, alla pace perpetua, che sarà un po' tetra, ma è stata pace. Non voglio <strong>di</strong>re che la<br />

deterrenza nucleare sia la garanzia della pace, perché anzi io la penso in maniera opposta, ma<br />

voglio <strong>di</strong>re che stiamo assistendo ad un primo periodo fattuale <strong>di</strong> pace perpetua. Naturalmente<br />

tutto questo può essere affermato solo se si <strong>di</strong>fferenzia fortemente fra guerra nucleare e guerra<br />

convenzionale, e quin<strong>di</strong> anche fra pace convenzionale e pace nucleare. La pace nucleare non ha<br />

impe<strong>di</strong>to che guerre sanguinose (Indocina, Afghanistan, Iran-Iraq o Prima guerra del Golfo)<br />

avvenissero durante la Guerra fredda, né tanto meno dopo il suo termine. Dal 1989 inoltre le<br />

guerre classiche, interstatali o civili, che pure non mancano (Etiopia-Eritrea, per non <strong>di</strong>rne che<br />

una) sembrano avere minore frequenza e importanza rispetto alle guerre <strong>di</strong> nuovo tipo, a sfondo<br />

etnico o religioso o <strong>di</strong> “scontro fra civiltà”, e spesso condotte da attori non-statali (Osama bin<br />

Laden contro gli USA) e con largo impiego <strong>di</strong> meto<strong>di</strong> terroristici.<br />

90


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Ora, io ritengo che la pace nucleare sia un valore in sé, il quale si è nei passati cinquant'anni<br />

<strong>di</strong> fatto affermato, per effetto <strong>di</strong> un fattore impersonale, il terrore nucleare, fonte <strong>di</strong> equilibrio: il<br />

terrore della <strong>di</strong>struzione non solo del nemico ma anche propria, e <strong>di</strong> tutti. Io non ritengo invece<br />

che la pace convenzionale sia un valore assoluto in sé, ma un valore strumentale, che deve poter<br />

essere accordato con altri beni come il mantenimento <strong>di</strong> un minimo <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne internazionale<br />

legittimo e quin<strong>di</strong>, come prevede lo stesso Statuto delle Nazioni Unite, la violenza militare deve<br />

poter essere impiegata per reprimere le grossolane violazioni dell'or<strong>di</strong>namento legittimo: atti <strong>di</strong><br />

aggressione, invasioni, occupazioni. Inoltre deve poter essere impiegata per preservare l'altro<br />

valore che ritengo assoluto, cioè la pace nucleare: contro uno o più Stati che volessero crearsi<br />

un potenziale nucleare per usarlo poi a fini o <strong>di</strong> attacco o <strong>di</strong> ricatto, la comunità internazionale<br />

ha tutto il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> usare mezzi militari convenzionali. Se abbia anche il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> usare mezzi<br />

nucleari è cosa <strong>di</strong> cui si deve <strong>di</strong>scutere; ma per <strong>di</strong>ssuadere una potenza che vorrebbe <strong>di</strong>ventare<br />

nucleare dal procacciarsi armi nucleari, basta un forte armamento convenzionale da parte <strong>di</strong> chi<br />

lo vuole impe<strong>di</strong>re.<br />

Un ultimo cenno va de<strong>di</strong>cato al tema del governo mon<strong>di</strong>ale. Rammentiamo anzitutto che,<br />

oltre a quella <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne internazionale che garantisca puramente la sopravvivenza, esistono<br />

altre idee dell'or<strong>di</strong>ne internazionale, or<strong>di</strong>nate a valori come la giustizia o la solidarietà tra i<br />

popoli o la libertà. Di questo occorre parlare fra le questioni <strong>di</strong> etica pubblica<br />

Nella sua versione classica la questione del governo mon<strong>di</strong>ale è vecchia quasi quanto la<br />

filosofia politica moderna e comprende tre temi fondamentali: a. se esso sia possibile, cioè se vi<br />

siano forze, attori e tendenze <strong>di</strong> cui si possa pensare che si verranno a congiungere e a<br />

sintetizzare dando vita a un governo mon<strong>di</strong>ale; b. se esso sia funzionante, che è una cosa<br />

<strong>di</strong>versa, perché può essere possibile la sua genesi e poi quando esso va a regime ci si rende<br />

conto che non funziona, che si autoparalizza o provoca effetti contro-intenzionali, ad esempio<br />

più conflitti <strong>di</strong> quanti non riesca a prevenire; infine una terza questione, c. che è quella più nota<br />

<strong>di</strong> cui fa cenno anche Kant, cioè che esso, ammesso che sia possibile e funzionante, non sia<br />

gravido del pericolo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare una tirannide su scala planetaria. Alcune <strong>di</strong> queste domande e<br />

<strong>di</strong> risposte negative: che è impossibile, che non funzionerebbe, che sarebbe tirannico, vengono<br />

rivolte non solo nei confronti dell'idea vera e propria del governo mon<strong>di</strong>ale, cioè <strong>di</strong> una<br />

sovraistituzione con poteri complessivi <strong>di</strong> governo, ma anche nei confronti dell'altra idea, <strong>di</strong><br />

istituzioni singole <strong>di</strong> tipo federativo. C'è chi pensa che qualsiasi globalizzazione politica sia,<br />

tanto nella forma <strong>di</strong> un governo complessivo, organico e unitario, tanto nella forma <strong>di</strong> singole<br />

istituzioni a scopi limitati, una forma che va verso la servitù 28 .<br />

Un corollario importante della situazione nucleare è il capitolo, scritto assai poco dai<br />

filosofi politici, che riguarda gli effetti della situazione nucleare su democrazia e sovranità<br />

popolare, cioè due car<strong>di</strong>ni dell'or<strong>di</strong>namento politico contemporaneo. Si può pensare, ma<br />

andrebbe stu<strong>di</strong>ato meglio, che la deterrenza nucleare vi incida seriamente, anche se non sempre<br />

esplicitamente e visibilmente, perché essa tende a sottrarre alla sovranità popolare e alla<br />

decisione democratica intere sfere vitali, a cominciare da quella della vita e della morte, nonché<br />

del benessere <strong>di</strong> intere popolazioni. Tende a sottrarre alla vita comune quel senso dello stare<br />

28 Si veda D. Zolo, Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

assieme, del rispettare limiti, della solidarietà e del cercare <strong>di</strong> progre<strong>di</strong>re assieme che è la risorsa<br />

in<strong>di</strong>spensabile della vita politica democratica.<br />

Infine, un capitolo importante della filosofia politica contemporanea che prende spunto<br />

dalle relazioni internazionali, ma che poi ha un raggio più vasto, è quello del rapporto fra<br />

or<strong>di</strong>ne e giustizia. Consiste sostanzialmente nell'intendere come legittimo non qualsiasi or<strong>di</strong>ne,<br />

ma solo un or<strong>di</strong>ne che abbia questa caratterizzazione della giustizia: un or<strong>di</strong>ne giusto. Questo<br />

vuol <strong>di</strong>re assumere esplicitamente un punto <strong>di</strong> vista normativo nei confronti della politica<br />

internazionale e quin<strong>di</strong> collide con la tra<strong>di</strong>zione realista secondo cui ogni punto <strong>di</strong> vista<br />

normativo è estraneo alla politica e a quella internazionale più che mai. Però le cose cambiano e<br />

oggi questo approccio ha una sua consistenza e legittimità nelle <strong>di</strong>scussioni filosofiche sulla<br />

politica internazionale, pur non essendo né l'unico né il prevalente. Il porre il problema del<br />

rapporto tra or<strong>di</strong>ne e giustizia dà origine a quella letteratura, largamente sconosciuta sul vecchio<br />

continente e <strong>di</strong>ffusa negli Stati Uniti e in genere nel mondo anglofono, che si chiama etica<br />

internazionale. Si può parlare <strong>di</strong> approcci normativi che riguardano tre aree sostantive: uno è<br />

quello delle sanzioni economiche e/o militari per il mantenimento dell'or<strong>di</strong>ne internazionale e<br />

dell'intervento umanitario, detto anche ingerenza umanitaria, negli affari sovrani <strong>di</strong> un altro<br />

Stato. Questa è in parte una ripresa, sotto segni abbastanza nuovi, perché è cambiato lo scenario<br />

(sono cambiate le armi, ma in parte è cambiata anche la cultura) della tra<strong>di</strong>zione del bellum<br />

iustum.<br />

Un altro capitolo importante è quello dei <strong>di</strong>ritti umani nei loro tre o più livelli: <strong>di</strong>ritti civili,<br />

politici, sociali e ormai si parla <strong>di</strong> una quarta categoria o quarta generazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti, quelli<br />

ambientali, e anche <strong>di</strong> una quinta cioè quella dei <strong>di</strong>ritti riproduttivi. I <strong>di</strong>ritti civili sono quelli che<br />

riguardano che cosa lo Stato non ha <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> fare, i <strong>di</strong>ritti politici riguardano che cosa il<br />

citta<strong>di</strong>no ha il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> fare, quanto potere gli spetta, qual è la sua giusta parte nella spartizione<br />

del potere. Infine i <strong>di</strong>ritti sociali: alcuni <strong>di</strong>cono che i <strong>di</strong>ritti sociali alla tutela della famiglia,<br />

all'educazione, al lavoro, alla casa, all'assistenza, alla previdenza, devono essere considerati alla<br />

pari degli altri e che quin<strong>di</strong> l'associazione politica deve essere or<strong>di</strong>nata a produrli, ed essa non è<br />

perfetta se, oltre a produrre la libertà del citta<strong>di</strong>no, il potere democratico nel prendere decisioni,<br />

non produce anche la sua effettiva possibilità <strong>di</strong> essere un citta<strong>di</strong>no responsabile, educato ecc.<br />

Altri pensano che questi non siano <strong>di</strong>ritti nel senso proprio, ma siano con<strong>di</strong>zioni importanti o<br />

necessarie per il go<strong>di</strong>mento degli altri <strong>di</strong>ritti civili e politici. In ogni caso sul piano<br />

internazionale la tutela <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti umani, non solo dei propri citta<strong>di</strong>ni, ma dei citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> tutto il<br />

mondo 29 , sta <strong>di</strong>ventando un punto <strong>di</strong> vista importante nell'orientamento sugli affari<br />

internazionali. Volendo parlare con un lessico <strong>di</strong>verso, che sta assumendo anche in Italia una<br />

qualche <strong>di</strong>ffusione, si può <strong>di</strong>re che si tratta <strong>di</strong> questioni <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza: della questione <strong>di</strong><br />

definire a livello universale che cosa faccia parte della citta<strong>di</strong>nanza (se per essere citta<strong>di</strong>no uno<br />

debba essere solo fruitore <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti politici e civili o anche dei <strong>di</strong>ritti sociali), <strong>di</strong> quando è che<br />

l'essere citta<strong>di</strong>no sia veramente tale. Ma la citta<strong>di</strong>nanza è anche un problema <strong>di</strong> appartenenza,<br />

perché io posso avere uno Stato liberale e per molti aspetti democratico come quello<br />

29<br />

Cioè un problema, per <strong>di</strong>rla con Kant, <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto cosmopolitico, che non riguarda le relazioni fra gli<br />

Stati né le relazioni fra i citta<strong>di</strong>ni e i singoli Stati, ma le relazioni fra i citta<strong>di</strong>ni del mondo con tutti gli<br />

Stati.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

configurato nella Costituzione degli Stati Uniti, e poi avere gli schiavi in casa, oppure posso<br />

avere una bellissima polis in cui tutti sono citta<strong>di</strong>ni e poi tenere le donne chiuse in casa e gli<br />

schiavi nel cortile. La questione non è solo della <strong>di</strong>mensione verticale della citta<strong>di</strong>nanza, ma<br />

anche della sua <strong>di</strong>mensione orizzontale, cioè della delimitazione del gruppo <strong>di</strong> popolazione a<br />

cui si riconoscono i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza, che può andare da quelli che fanno parte del mio<br />

gruppo o ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> alcune classi o ceti particolarmente designati del mio gruppo; l'altro<br />

estremo è che tutti gli abitanti della terra abbiano pari <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza: esistono solo<br />

citta<strong>di</strong>ni del mondo.<br />

Il terzo capitolo delle etiche internazionali, che poi è uno sviluppo della questione dei <strong>di</strong>ritti<br />

sociali a livello planetario, contiene le etiche della giustizia internazionale, più esattamente<br />

della giusta <strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> beni, <strong>di</strong> risorse alimentari, energetiche. Qui c'è un sotto-capitolo<br />

riguardante le etiche demografiche, un punto <strong>di</strong> vista etico sul problema della popolazione. Ne<br />

fa parte anche l'argomento della scialuppa <strong>di</strong> salvataggio (lifeboat ethics) inventato da uno<br />

stu<strong>di</strong>oso americano, G. Har<strong>di</strong>n, che <strong>di</strong>ce che è sbagliato aiutare i paesi poveri, gli affamati a<br />

sopravvivere, perché questo non fa altro che incrementare la loro riproduzione e la<br />

irresponsabilità nei confronti della riproduzione, e quin<strong>di</strong> non fa altro che peggiorare nel futuro<br />

sia le con<strong>di</strong>zioni dei loro posteri, sia degli eventuali donatori. La logica è quella che in una<br />

scialuppa <strong>di</strong> salvataggio (la Terra) che tiene 100 persone, quando ce ne sono già 100 o 110 non<br />

se ne fanno salire altre. Ma prevalgono gli approcci che argomentano invece il dovere o degli<br />

in<strong>di</strong>vidui o degli Stati <strong>di</strong> provvedere ad una più equa re<strong>di</strong>stribuzione delle risorse.<br />

* * *<br />

Al termine <strong>di</strong> un capitolo sul moderno credo utile una ricapitolazione del suo rapporto con<br />

il conflitto, elemento con il quale la modernità può leggersi come un confronto continuo, <strong>di</strong> cui<br />

rammento qui quattro momenti:<br />

1. In quanto nascita del Leviatano la modernità politica è stata uno sforzo massimo <strong>di</strong><br />

rime<strong>di</strong>are alla <strong>di</strong>struttività del conflitto civile con la creazione del potere supremo e<br />

l’attribuzione ad esso del monopolio della forza, ciò che – prescindendo dal “<strong>di</strong>lemma della<br />

sicurezza” – ha prodotto altresì un <strong>di</strong>spositivo per sopravvivere e/o negoziare nel conflitto<br />

interstatale.<br />

2. Con il costituzionalismo si è poi creato un antidoto ad una pacificazione illimitata ed<br />

oppressiva del conflitto politico in quanto elemento costitutivo e vivificante della politica<br />

stessa. Nello Stato costituzionale il conflitto è possibile senza essere <strong>di</strong>struttivo.<br />

3. Con il liberalismo la modernità ha cercato <strong>di</strong> porre l’in<strong>di</strong>viduo al riparo dalle<br />

conseguenze oppressive sia dell’or<strong>di</strong>ne leviatanico sia del conflitto non regolato.<br />

4. Nel quadro definito da 1-3 la democrazia ha introdotto un <strong>di</strong>spositivo per così <strong>di</strong>re<br />

tecnico, la regola <strong>di</strong> maggioranza, per risolvere il conflitto senza lasciare che esso paralizzi o<br />

<strong>di</strong>strugga la polis, allocando cioè via via il potere secondo la mutevole maggioranza. Ma ciò ha<br />

senso solo come democrazia liberale, limitata dalla costituzione e dai <strong>di</strong>ritti in<strong>di</strong>viduali.<br />

Altrimenti quella regola perde legittimità, dando origine alla <strong>di</strong>ttatura della maggioranza.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

20. Violenza, morte e politica<br />

Questo capitolo non introduce per lo più cose nuove, ma vuole evidenziare i punti<br />

d’intersezione che la politica ha con forze ed eventi d’importanza esistenziale per gli essere<br />

umani quali la violenza e la morte dell’in<strong>di</strong>viduo o <strong>di</strong> molti in<strong>di</strong>vidui. Nella concettualizzazione<br />

necessariamente astratta delle sue forme occorre non perder <strong>di</strong> vista che la politica può incidere<br />

in modo <strong>di</strong>retto o in<strong>di</strong>retto, ma decisivo sul destino dei singoli. Queste intersezioni hanno la<br />

loro spiegazione sistematica in tutti o quasi i capitoli <strong>di</strong> questo manuale, ma vengono qui<br />

raccolte con una veduta trasversale.<br />

Possiamo <strong>di</strong>stinguere tali incidenze della politica in base al loro operare in modo <strong>di</strong>retto o<br />

in<strong>di</strong>retto, e fra le prime <strong>di</strong>stingueremo ancora in ragione del loro carattere legittimo o<br />

illegittimo.<br />

1.Incidenza <strong>di</strong>retta della politica su morte e violenza<br />

Nel resoconto che ce ne dà il contrattualismo, la politica produce lo Stato precipuamente<br />

per salvare la vita e le membra dei citta<strong>di</strong>ni dalle conseguenze letali del prolungamento dello<br />

stato <strong>di</strong> natura. Non è dunque sul piano della sicurezza interna che la politica può uccidere,<br />

tranne che lo Stato ritenga la pena <strong>di</strong> morte non solo legittima, ma essenziale al proprio<br />

mantenimento. La morte rientra senza freni in scena al momento in cui la politica fallisce, cioè<br />

nella guerra civile.<br />

Nella modernità il luogo classico nel quale lo Stato può chiedere ai suoi citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> uccidere<br />

e <strong>di</strong> farsi uccidere è la sicurezza esterna, la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> essenziale anarchia nella quale esso si<br />

confronta con gli altri Stati. Non a caso Hegel fa <strong>di</strong> quella richiesta la <strong>di</strong>scriminante fra<br />

l’autorità amministrativa e giu<strong>di</strong>ziaria formatasi già nella società civile e il vero e proprio Stato,<br />

la cui sostanza etica (esprimere lo spirito <strong>di</strong> un popolo in quanto momento del farsi dell’Idea)<br />

soltanto può giustificare la richiesta stessa.<br />

Finora questo ricorso alla morte violenta da parte dello Stato è stato ritenuto legittimo,<br />

anche se non se n’è con<strong>di</strong>visa la misura (i morti e le rovine “in eccesso” delle guerre<br />

napoleoniche o della Grande guerra non hanno prodotto in Europa una delegittimazione <strong>di</strong><br />

principio <strong>di</strong> Stato e guerra). Ma dopo la Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale e l’introduzione dell’arma<br />

nucleare la delegittimazione invece si è messa in marcia, come in<strong>di</strong>ca il fatto che nella maggior<br />

parte degli Stati d’Europa e negli stessi USA (dopo il Vietnam) non è stato possibile mantenere<br />

la coscrizione obbligatoria. Con questo cambiamento, si noti, la funzione statuale <strong>di</strong> uccidere e<br />

farsi uccidere non è sparita, ma si è solo trasferita su <strong>di</strong> una classe <strong>di</strong> professionisti, spesso<br />

provenienti dalle classi o le regioni meno agiate, che svolgono tale funzione per vocazione al<br />

servizio dello Stato sotto le armi e/o per procacciarsi un posto <strong>di</strong> lavoro.<br />

Al secondo posto fra le incidenze legittime si trova il ricorso alla violenza letale per<br />

raggiungere la liberazione <strong>di</strong> una nazione o gruppo dall’occupazione straniera o da un regime<br />

totalitario o comunque oppressivo. Spesso questo ricorso ha per esito la creazione <strong>di</strong> un nuovo<br />

Stato, e in qualche misura questo secondo tipo si può considerare concettualmente derivante<br />

anch’esso dalla sicurezza esterna. Esso però contiene un problema specifico: chi <strong>di</strong>ce che<br />

l’autoaffermazione nazionale sia matura, o che il regime sia da abbattere perché<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

insopportabilmente ed irrime<strong>di</strong>abilmente oppressivo? In mancanza <strong>di</strong> se<strong>di</strong> istituzionali<br />

trasparenti in cui <strong>di</strong>scuterne e deliberarne, tali questioni, una volta sollevate, si prestano a<br />

cadere in preda <strong>di</strong> minoranze e perfino gruppuscoli estremistici, che si arrogano <strong>di</strong> decidere ed<br />

agire per conto <strong>di</strong> tutti, innescando spirali <strong>di</strong> azioni violente da una parte e dall’altra, che non<br />

riescono poi più a gestire.<br />

L’estremismo spesso si alimenta <strong>di</strong> fanatismo che può essere <strong>di</strong> carattere religioso o<br />

ideologico o moralistico (“solo la violenza può scar<strong>di</strong>nare e purificare un mondo così ingiusto”)<br />

e ignora o <strong>di</strong>sprezza quella fondamentale virtù politica, prima che morale, che è la<br />

responsabilità. Solo una salda ed equilibrata leadership politica può gestire in modo<br />

responsabile la violenza durante una guerra <strong>di</strong> liberazione o civile, e così avvenne nella<br />

Resistenza italiana e soprattutto dopo la guerra, quando Palmiro Togliatti, personaggio pur<br />

coinvolto nel regime staliniano, negò l’appoggio del Partito comunista all’ipotesi <strong>di</strong> trasformare<br />

la guerra civile in guerra socialrivoluzionaria, ciò che risparmiò all’Italia le sciagure che<br />

toccarono invece alla Grecia. Eppure nemmeno quella leadership riuscì ad evitare nel 1945 le<br />

stragi sia <strong>di</strong> ex-fascisti sia <strong>di</strong> persone comuni.<br />

Eccoci così arrivati alla zona grigia fra ricorso legittimo o illegittimo alla violenza da parte<br />

della politica. La forma estrema <strong>di</strong> quest’ultimo è il terrorismo, cioè l’impiego della violenza<br />

letale verso la popolazione civile (in senso giuri<strong>di</strong>co, i non-combattenti) del nemico, allo scopo<br />

<strong>di</strong> piegarne la volontà o <strong>di</strong>mostrarne l’impotenza accendendo la confusione e il panico, come<br />

nelle bombe esplose in Italia fra il 1969 a Milano e il 1980 alla stazione <strong>di</strong> Bologna. La<br />

<strong>di</strong>struzione delle Twin Towers a New York City l’11 settembre 2001 da parte <strong>di</strong> al-Qaeda con<br />

circa 3000 vittime ne è l’esempio più gran<strong>di</strong>oso, ed illustra insieme il caso in cui il nemico non<br />

è il ben in<strong>di</strong>viduato Altro in un conflitto fra Stati, bensì un’intera civiltà; che venne bersagliata<br />

nuovamente con i successivi attentati qae<strong>di</strong>sti a Bali, Londra e Madrid.<br />

La fenomenologia del terrorismo è larghissima e molto controversa ne è la definizione. Qui<br />

ricor<strong>di</strong>amo ancora quella che si riferisce all’assassinio esercitato contro rappresentanti dello<br />

Stato o delle organizzazioni della società civile (giornalisti, avvocati) in paesi democratici, nei<br />

quali dunque il <strong>di</strong>ssenso può esprimersi ed organizzarsi liberamente in forma politica cioè<br />

pacifica. Esso può avere riferimenti etnici (l’ETA basca), ma si fonda soprattutto su <strong>di</strong> una<br />

immagine ideologicamente deformata o pervertita della realtà, alimentata dalla rozzezza<br />

intellettuale e dall’ignoranza della complessità. I documenti teorici con le quali le Brigate rosse<br />

ed altre organizzazioni del terrorismo “rosso” italiano ed europeo negli anni 1970-80<br />

motivavano la loro violenza erano prima <strong>di</strong> tutto un colossale cumulo <strong>di</strong> i<strong>di</strong>ozie e un’offesa alla<br />

teoria marxista cui si richiamavano. Occorre poi non <strong>di</strong>menticare che per continuare ad agire<br />

sotto la controffensiva dello Stato siffatti gruppi hanno bisogno non solo <strong>di</strong> deliri ideologici, ma<br />

<strong>di</strong> assassini nati, in<strong>di</strong>vidui che danno senso alla propria vita sopprimendo quella <strong>di</strong> altri in<strong>di</strong>fesi<br />

e ignari. Occorre non fissarsi su <strong>di</strong> una veduta puramente politica del terrorismo, soprattutto <strong>di</strong><br />

quello ideologico dell’Occidente, che possa indebitamente nobilitarlo, e convocare dove<br />

occorre la psicopatologia e la criminologia. Ciò andrebbe fatto anche <strong>di</strong>nanzi agli attentatori<br />

suici<strong>di</strong> <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ce islamista, dei quali l’interpretazione estremistica del Corano (la ricerca del<br />

martirio) non basta a spiegare la <strong>di</strong>sponibilità all’auto<strong>di</strong>struzione stragistica.<br />

Ancora più complessa è la questione del terrorismo <strong>di</strong> Stato, definizione che riserverei<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

all’uso in<strong>di</strong>scriminato ed appunto terrorizzante della violenza da parte degli apparati statali o <strong>di</strong><br />

partito (come nel caso delle SS naziste o delle Brigate nere della Repubblica sociale italiana,<br />

entrambe <strong>di</strong>pendenti dai partiti e non dallo Stato, a <strong>di</strong>fferenza del KGB, il Comitato per la<br />

sicurezza dello Stato sovietico, e delle sigle che lo precedettero) allo scopo <strong>di</strong> mantenere la<br />

popolazione intera, e non solo i <strong>di</strong>ssidenti od oppositori, in uno stato <strong>di</strong> permanente e<br />

paralizzante timore <strong>di</strong>nanzi ad uno Stato assoluto e tirannico, ovvero totalitario, come ormai da<br />

tempo si <strong>di</strong>ce. La <strong>di</strong>fferenza primaria fra Stato totalitario (un esempio presente: la Corea del<br />

nord e prima l’Iraq <strong>di</strong> Saddam Hussein) ed autoritario (la Libia <strong>di</strong> Gheddafi, il Portogallo<br />

salazarista fino al 1974, la Spagna <strong>di</strong> Franco fino al 1975) sta appunto nel controllo completo<br />

che il regime cerca d’esercitare non solo sulla politica, ma sulla società intera tramite gli<br />

apparati terroristici. Per sfiorare una querelle che ogni tanto risorge, il fascismo italiano voleva<br />

essere totalitario, ma fu (per fortuna) velleitario anche in questo, finendo per essere più<br />

autoritario che altro – anche perché non poté mai eliminare la presenza <strong>di</strong> forze ad esso estranee<br />

come la monarchia e la Chiesa cattolica.<br />

Esiterei invece ad usare il termine <strong>di</strong> terrorismo <strong>di</strong> Stato per il terrore usato come arma<br />

bellica fra gli Stati, si tratti dei massacri <strong>di</strong> civili da sempre usati per intimorire o dei<br />

bombardamenti a tappeto (con effetto “fire storm”) delle città tedesche e <strong>di</strong> Tokyo da parte<br />

degli Alleati o infine delle bombe atomiche esplose su Hiroshima e Nagasaki. Che in guerra si<br />

cerchi <strong>di</strong> indebolire il nemico anche deprimendone il morale fa parte della <strong>di</strong>namica della<br />

guerra. Lo stesso <strong>di</strong>casi per gli “effetti collaterali” sui civili <strong>di</strong> azioni miranti al suo nerbo<br />

militare ed economico, anche se questa formula <strong>di</strong>viene talora un passepartout per giustificare<br />

modalità d’offesa che potrebbero <strong>di</strong>scriminare fra combattenti e non-combattenti, ma in realtà<br />

non lo fanno. Che lo si faccia colpendo <strong>di</strong>rettamente ed in<strong>di</strong>scriminatamente i civili e con mezzi<br />

estremamente <strong>di</strong>struttivi costituisce una lesione delle leggi della “guerra giusta” (giustificata) ed<br />

in particolare della proporzionalità fra i mezzi ed i fini leciti dell’azione bellica, fra i quali<br />

ultimi non rientra quello <strong>di</strong> terrorizzare la popolazione. Ma eccedere in violenza quando già si è<br />

in guerra è cosa <strong>di</strong>versa dal rompere la pace civile ammazzando i presunti nemici e cercando <strong>di</strong><br />

scatenare una guerra intestina.<br />

2.Forme d’incidenza in<strong>di</strong>retta<br />

Qui metto al primo posto l’omessa o ritardata regolazione <strong>di</strong> aspetti della vita associata che<br />

contengono potenziali esiti letali: sicurezza nei processi lavorativi e nell’ambiente <strong>di</strong> lavoro,<br />

sanità pubblica, traffico. Dalla <strong>di</strong>minuzione degli esiti mortali che solitamente consegue da<br />

nuove e più adatte leggi, regolamenti e finanziamenti si può inferire che con ogni ritardo (per<br />

l’opposizione d’interessi particolaristici, o perché non si è aggiornata in tempo l’agenda<br />

legislativa) la politica ha lasciato accadere più morti che non fosse necessario in base alle<br />

conoscenze e agli strumenti esistenti. Se è sproporzionato e demagogico gridare in questi casi ai<br />

“politici assassini”, è pur vero che qui risiede un problema etico e politico <strong>di</strong> responsabilità<br />

della politica e dei politici solitamente eluso dai <strong>di</strong>battiti sia politici sia etici; anche qui, in una<br />

sede meno drammatica <strong>di</strong> quella delle “sfide globali”, la politica e l’etica contemporanee<br />

stentano ad adeguare la propria sensibilità ai problemi incessantemente creati ex novo dalla<br />

sviluppo tecnico ed economico.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Al secondo posto viene invece ciò <strong>di</strong> cui, tanto più nel paese ove ha sede la suprema<br />

autorità della Chiesa cattolica, sempre più si parla e talora si strilla: la legislazione sulla bioetica<br />

umana, dalle terapie genetiche ai problemi <strong>di</strong> fine vita, ed ivi incluso l’aborto. Senza<br />

addentrarci ora in tali questioni, come avviene invece negli ultimi due capitoli <strong>di</strong> queste<br />

<strong>di</strong>spense, notiamo che questo è un altro luogo supremo dell’incontro fra decisione politica<br />

(compresa la formazione della decisione) e vita/morte, spettando da qualche tempo ad essa non<br />

solo approvare o negare – come sempre è stato - la liceità dell’aborto (con le connesse<br />

questioni <strong>di</strong> che cosa possa chiamarsi vita), ma il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> creare la vita e perfino quale vita<br />

(problema dell’eugenetica) al <strong>di</strong> fuori dei processi “naturali” o <strong>di</strong> far cessare ogni processo<br />

vitale quando la “vita” che resta appaia priva <strong>di</strong> qualità e <strong>di</strong>gnità umane.<br />

Le piaccia o no, anche la politica più prosaicamente votata alla spartizione delle risorse e<br />

aliena da o incapace <strong>di</strong> affrontare questioni supreme non può più fare meno <strong>di</strong> affrontare queste<br />

ultime. Dal primo all’ultimo giorno della nostra vita, anche la più pacifica e <strong>di</strong> routine che sia,<br />

la politica ci accompagna anche quando non lo vorremmo o non ce ne ren<strong>di</strong>amo conto.<br />

21. Modernizzazione, globalizzazione e sfide globali: come cambia la<br />

politica<br />

Abbiamo visto la rivoluzione introdotta nelle con<strong>di</strong>zioni-base della politica dalle minacce<br />

globali, primariamente quella rappresentata dalle armi nucleari. Resta ora da chiarire come<br />

giuochi tutto questo con la tematica nota sotto il titolo <strong>di</strong> globalizzazione, ciò che verrà fatto in<br />

questo paragrafo. Resta inoltre da approfon<strong>di</strong>re il nuovo rapporto fra politica e morale segnalato<br />

dall'acuirsi del problema <strong>di</strong> un giusto or<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale. Questo tuttavia non potremo farlo senza<br />

aver prima schiarito in generale questo rapporto, e sarà qui passo preliminare quello <strong>di</strong> chiarire<br />

il quadro complessivo delle teorie etiche contemporanee; lo faremo a partire dal cap. 22.<br />

Veniamo dunque alla globalizzazione, ma premettiamovi - per evitare confusioni non<br />

improbabili - uno sguardo ad un termine che ha con essa qualche rapporto: modernizzazione.<br />

Nei passati decenni questo termine è stato proposto, come termine scientificamente neutrale, in<br />

alternativa a quello <strong>di</strong> capitalismo. A sua volta chi preferiva `capitalismo' vedeva in<br />

`modernizzazione' qualcosa come un velo ideologico steso sui veri rapporti <strong>di</strong> classe - oggi mi<br />

pare che questa contrapposizione sia svanita. Ed in verità io penso che si possano usare<br />

entrambi i concetti non come opposti, bensì integrandoli. Il concetto <strong>di</strong> modernizzazione è nato<br />

nella sociologia degli ultimi cinquant'anni e vi ricorre continuamente: le teorie del capitalismo<br />

possono ritenersi essere particolari teorie della modernizzazione, particolari perché hanno una<br />

concrezione storica maggiore della teoria della modernizzazione tout court, spiegando i<br />

processi <strong>di</strong> modernizzazione con una più alta densità storica ed una più intensa connessione fra<br />

economia e società.<br />

Il concetto sociologico <strong>di</strong> modernizzazione (si veda il relativo lemma nel Dizionario <strong>di</strong><br />

politica) consiste <strong>di</strong> due nozioni principali: l'aumento della capacità e velocità <strong>di</strong> innovazione<br />

da parte <strong>di</strong> un sistema sociale, politico e tecnologico, ossia si fanno più innovazioni e si fanno<br />

innovazioni che si susseguono più rapidamente. L'altro aspetto importante è l'aumento della<br />

<strong>di</strong>fferenziazione funzionale. In società premoderne, o in luoghi ancora premoderni <strong>di</strong> una<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

società pur modernizzata, nell'ambito <strong>di</strong> un organismo sociale, politico, civile e culturale le<br />

<strong>di</strong>verse funzioni non sono né <strong>di</strong>vise né <strong>di</strong>stinte, ma tendenzialmente tutti fanno tutto, o almeno<br />

tutti i governanti facevano tutte le funzioni <strong>di</strong> governo, oppure, in un certo processo produttivo,<br />

tutti gli artigiani od operai manifatturieri facevano quasi l'intera sequenza delle operazioni<br />

necessarie per conseguire un certo obiettivo tecnico-produttivo. Rispetto a questo,<br />

<strong>di</strong>fferenziazione funzionale vuol <strong>di</strong>re che le <strong>di</strong>verse funzioni implicite in quella che era un'unità<br />

più o meno in<strong>di</strong>stinta si presentano <strong>di</strong>stinte, si <strong>di</strong>fferenziano, si dotano <strong>di</strong> procedure standard,<br />

specifiche ad esse; nell'ambito <strong>di</strong> quel sistema o <strong>di</strong> quel processo, si compie così la<br />

<strong>di</strong>fferenziazione degli operatori dalle funzioni. Nella fabbrica manifatturiera - come ha<br />

illustrato più nitidamente Marx - già esiste una <strong>di</strong>fferenziazione <strong>di</strong> funzioni rispetto<br />

all'artigiano, per cui un operaio manifatturiero fa prevalentemente solo quel gruppo <strong>di</strong> funzioni,<br />

e non tutte quelle che faceva l'artigiano <strong>di</strong> una volta; nella fabbrica meccanica capitalistica è<br />

tutto un unico processo <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziazione fino alla segmentazione del processo produttivo in<br />

tante piccolissime funzioni e in tanti gruppi o in<strong>di</strong>vidui che fanno solo quella operazione. Da<br />

questo punto <strong>di</strong> vista la modernizzazione significa prevalentemente la rottura dell'assetto<br />

tra<strong>di</strong>zionale e si svolge in maniera non graduale, ma ogni volta che emerge un nuovo problema,<br />

una nuova sfida che provoca prima o dopo un salto, cioè una crisi. In una parola, la<br />

modernizzazione pone sfide e procede per crisi. La modernizzazione dell'Italia è proceduta per<br />

crisi, perché la fine della guerra e la rottura dell'assetto fascista e monarchico e l'immissione nel<br />

circuito europeo e mon<strong>di</strong>ale hanno provocato <strong>di</strong> colpo sfide al sistema produttivo, fino ad allora<br />

agrario-industriale, e al sistema scolastico e culturale italiano: l'espulsione dei conta<strong>di</strong>ni dalle<br />

terre, l'emigrazione <strong>di</strong> massa degli anni Cinquanta e Sessanta, l'avvento della TV hanno<br />

scatenato crisi non solo economiche, ma anche <strong>di</strong> modelli culturali, nonché una crisi della<br />

famiglia, crisi le quali hanno poi portato a nuovi e <strong>di</strong>versi livelli <strong>di</strong> integrazione sociale.<br />

Questo è il concetto generale, trans<strong>di</strong>sciplinare <strong>di</strong> modernizzazione. Si parla poi <strong>di</strong> tre<br />

versioni <strong>di</strong>sciplinari, più contenutistiche, della modernizzazione. La modernizzazione<br />

economica consiste sostanzialmente nell'aumento della razionalità e dell'efficienza, cioè nel<br />

raggiungimento <strong>di</strong> migliori risultati con le stesse risorse. Marx lo definisce come aumento <strong>di</strong><br />

produttività. La modernizzazione politica è l'aumento del livello <strong>di</strong> interazione cooperativa (non<br />

semplicemente <strong>di</strong> coesistenza) fra citta<strong>di</strong>ni che sono più eguali <strong>di</strong> quanto non fossero negli<br />

assetti tra<strong>di</strong>zionali, almeno formaliter, e le cui relazioni sono regolate da leggi, cioè da norme<br />

valide erga omnes; queste leggi sono poi amministrate e fatte eseguire da autorità che hanno<br />

aumentato la loro capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione della società e della macchina statale. Il passaggio dai<br />

curiales del Me<strong>di</strong>oevo alle gran<strong>di</strong> organizzazioni burocratiche degli Stati contemporanei<br />

significa che le funzioni sono meglio <strong>di</strong>fferenziate perché appunto il curialis faceva tutto,<br />

mentre l'alto <strong>di</strong>rigente <strong>di</strong> uno Stato contemporaneo sa fare solo quella cosa: o amministrare il<br />

debito pubblico o provvedere agli acquisti per la <strong>di</strong>fesa militare o gestire i fon<strong>di</strong> agricoli. La<br />

modernizzazione culturale è un processo contrad<strong>di</strong>stinto dall'alfabetizzazione, dalla <strong>di</strong>ffusione<br />

dei mezzi <strong>di</strong> comunicazione <strong>di</strong> massa e dalla <strong>di</strong>struzione, o come alcuni più elegantemente<br />

<strong>di</strong>cono, destrutturazione delle credenze e degli schemi mentali tra<strong>di</strong>zionali: quello che Weber<br />

chiama il <strong>di</strong>sincanto del mondo. Uno dei gran<strong>di</strong> problemi è il rapporto tra modernizzazione<br />

economica, modernizzazione politica e modernizzazione culturale perché questi tre processi<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

non è detto che procedano <strong>di</strong> pari passo e che dove ci sia l'una ci siano anche le altre. Ci può<br />

essere la modernizzazione economica che funziona benissimo, almeno per un certo tempo,<br />

senza modernizzazione politica; ci può essere una modernizzazione culturale che non si traduce<br />

in modernizzazione economica, perlomeno entro tempi preve<strong>di</strong>bili e previsti. Queste <strong>di</strong>scrasie<br />

temporali provocano <strong>di</strong>sarmonie sociali e scontri politici e dottrinari (su quale sia la `vera'<br />

modernizzazione su cui puntare).<br />

Le teorie del capitalismo - sostenevo prima - si possono anche intendere come teorie della<br />

modernizzazione. A me sembra in particolare che si possa leggere la gran<strong>di</strong>osa teoria marxiana<br />

della genesi storica e della struttura logica del modo <strong>di</strong> produzione capitalistico come una<br />

grande teoria della modernizzazione, e mi sembra sciocco contrapporre le teorie sociologiche<br />

della modernizzazione al `vecchio e antiquato' Marx, perché uno dei primi che ha fornito una<br />

grande ricostruzione della modernizzazione è appunto Karl Marx - non nella sua filosofia<br />

giovanile, che va bene per i filosofi o per gli storici della filosofia, ma nella teoria racchiusa nel<br />

Capitale e nelle Teorie sul plusvalore 30 . Ne farò ora un brevissimo riassunto.<br />

Per Marx il modo <strong>di</strong> produzione capitalistico è un’epoca, la più recente, ma non l'ultima,<br />

della formazione economica della società, insomma del processo continuo attraverso cui la<br />

società prende le sue <strong>di</strong>verse forme storiche. Marx ha l'idea che il processo sociale <strong>di</strong> vita,<br />

quello attraverso cui la vita degli in<strong>di</strong>vidui e delle società si produce, si sostenta e si riproduce,<br />

consista <strong>di</strong> due aspetti. Uno è l'aspetto materiale che sostanzialmente è l'interazione con la<br />

natura: strappare alla natura materie o <strong>di</strong>rettamente, oppure materie già usate, residui <strong>di</strong><br />

precedenti processi lavorativi, e tras-formarle ai fini pertinenti alla riproduzione umana. Questo<br />

è quello che Marx chiama il ricambio organico fra uomo e natura, il processo attraverso cui<br />

avviene la copertura dei bisogni umani ed è un processo eterno, che c'è sempre, perché se non ci<br />

fosse il genere umano sparirebbe, anche se la sua scala e le sue forme tecniche cambiano<br />

perché, <strong>di</strong>ce Marx, è <strong>di</strong>verso mangiare la carne cruda con le mani o cuocerla e mangiarla con la<br />

forchetta e il coltello. Questo è l'aspetto contenutistico; poi c'è l'aspetto che lui chiama formale<br />

del processo produttivo, in genere del `processo sociale <strong>di</strong> vita', il fatto cioè che esso prenda<br />

forma economica (la `formazione economica della società'), una forma che ovviamente non è<br />

sempre la stessa, trasformandosi nei secoli. In questo cambiamento si possono ravvisare alcune<br />

gran<strong>di</strong> epoche: c'è il modo <strong>di</strong> produzione orientale, quello antico, quello feudale, poi quello<br />

capitalistico, ma da come sono andate le cose si può prevedere che ce ne sarà un altro, quello<br />

comunista. Il modo specifico capitalistico coincide con un grande fenomeno, una grande<br />

trasformazione formale, cioè il fatto che tutti gli elementi del processo produttivo prendono la<br />

forma <strong>di</strong> merce, sulla quale Marx compie la sua famosa analisi ispirata alla logica hegeliana (si<br />

veda il pezzo forte del Capitale, la prima sezione del primo libro, Merce e denaro). Ma quello<br />

che è più importante, e che veramente definisce il capitalismo come capitalismo, è che a<br />

prendere la forma <strong>di</strong> merce è la stesso forza lavoro, che <strong>di</strong>venta la merce forza lavoro, che può<br />

essere venduta dal lavoratore e comprata dal capitalista. È con questo mutamento strutturale,<br />

alle ra<strong>di</strong>ci stesse dei rapporti fra gli uomini, che il capitalismo si costituisce come epoca nuova,<br />

è qui - <strong>di</strong>remmo noi - la ra<strong>di</strong>ce o almeno una delle ra<strong>di</strong>ci della modernizzazione.<br />

30 Marx pubblicò soltanto il vol. I del Capitale nel 1867, gli altri due volumi e le Teorie sul<br />

plusvalore, che dovevano essere il quarto, uscirono postumi.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Prima <strong>di</strong> procedere, occorre ricordare che oltre al concetto <strong>di</strong> modernizzazione, <strong>di</strong> origine<br />

sociologica, in filosofia politica impieghiamo altresì quello filosofico <strong>di</strong> modernità. Esso<br />

riguarda principalmente l'assetto che da alcuni secoli ad oggi (o ad ieri, secondo i pensatori<br />

postmoderni) abbiamo dato al nostro mondo mentale, dopo la scomparsa o l'allontanarsi del<br />

Dio me<strong>di</strong>oevale e l'allargarsi infinito del cosmo; vi emerge soprattutto la questione del soggetto<br />

o della soggettività, nata dalla crescente centralità ed autonomia dell'essere umano, ma anche<br />

dal suo `spaesamento' in un mondo non più or<strong>di</strong>nato da presenze trascendenti e da poteri<br />

assoluti. Tale questione si è poi appuntata, già nel pensiero del Seicento e Settecento, sul<br />

rapporto <strong>di</strong> interessi e passioni e sul loro <strong>di</strong>sciplinamento e ha avuto un altro punto saliente<br />

nella crisi del senso della vita in<strong>di</strong>viduale ed associata indotta dal `<strong>di</strong>sincanto' weberiano. Nel<br />

suo complesso, una teoria della modernità (o meglio una rassegna delle teorie, comprese quelle<br />

postmoderne sulla sua fine) non può essere trattata in questo testo, nel quale si è invece più<br />

volte fatto riferimento alla modernità specificamente politica, e alla crisi dei suoi assetti. Lo<br />

stesso ragionamento svolto sull'era nucleare riguarda la questione se la modernità sia giunta a<br />

termine, e che cosa, degli elementi della modernità stessa, abbia a questo termine condotto;<br />

ovvero se la crisi del progetto moderno <strong>di</strong> un rior<strong>di</strong>namento razionale e benefico del mondo<br />

possa essere superata attraverso una riflessione critica su tale progetto.<br />

Tornando ora a termini più analitici <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso, la modernizzazione tecnica, economica, ma<br />

anche culturale e politica è una delle premesse logiche e storiche della globalizzazione, e<br />

quest'ultima per converso ha, quando impatta con aree arretrate, effetti modernizzanti. Ma i<br />

legami fra i due fenomeni non sono <strong>di</strong> causa ed effetto, o comunque strettissimi.<br />

Per globalizzazione si intende che una serie <strong>di</strong> processi e relazioni hanno assunto<br />

<strong>di</strong>mensione mon<strong>di</strong>ale, e che così facendo hanno realizzato un mutamento qualitativo oltre che<br />

<strong>di</strong>mensionale. Sarebbe meglio parlare <strong>di</strong> mon<strong>di</strong>alizzazione anziché <strong>di</strong> globalizzazione, per non<br />

confondere questa (nel mio modo <strong>di</strong> vedere le cose - v. oltre in questo paragrafo) con le sfide<br />

globali; ma ormai quel termine si è imposto. Si possono <strong>di</strong>stinguere tre gruppi <strong>di</strong> fenomeni <strong>di</strong><br />

globalizzazione.<br />

1. Globalizzazione economico-finanziaria:<br />

• liberalizzazione dei mercati finanziari e loro forte inter<strong>di</strong>pendenza (es. valute), nonché<br />

crescente peso del capitale finanziario nel finanziamento delle imprese.<br />

• forte inter<strong>di</strong>pendenza tecnologica a <strong>di</strong>mensione mon<strong>di</strong>ale nei settori avanzati.<br />

• omogeneizzazione della logica organizzativa nella produzione e nella <strong>di</strong>stribuzione,<br />

ormai con una prevalenza <strong>di</strong> quella propria del capitalismo anglosassone piuttosto che<br />

giapponese o renano.<br />

• aumento del circa 4% annuo degli scambi mon<strong>di</strong>ali, con una decisiva caduta dei costi <strong>di</strong><br />

trasporto e <strong>di</strong> comunicazione.<br />

• relativa liberalizzazione ed inter<strong>di</strong>pendenza del mercato del lavoro a livello mon<strong>di</strong>ale.<br />

• integrazione <strong>di</strong> attività economiche localizzate sotto il comando finanziario e gestionale<br />

<strong>di</strong> imprese, multinazionali o no, operanti nell'intero mondo.<br />

2. Globalizzazione culturale:<br />

• la creazione del global village (TV, Internet).<br />

• la <strong>di</strong>ffusione mon<strong>di</strong>ale degli stessi modelli culturali e <strong>di</strong> consumo, dallo star system alla<br />

10


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Coca Cola.<br />

• la circolazione mon<strong>di</strong>ale degli stessi `dogmi' o parole-chiave, comunque interpretati: per<br />

es. `democrazia', `lotta all'inflazione'.<br />

3. Globalizzazione sociale o politica:<br />

• l'infittirsi ed estendersi <strong>di</strong> organizzazioni informali o "reti" transnazionali: per prendere<br />

solo esempi estremi, mafie, scacchisti, terroristi ideologici <strong>di</strong> varia osservanza, pedofili.<br />

• lo stesso per quanto riguarda organizzazioni intergovernative ed anche sovranazionali<br />

(nel più recente uso terminologico queste sono le due specie del genere<br />

"internazionale").<br />

Ho scelto un approccio descrittivo alla globalizzazione perché filosoficamente <strong>di</strong> essa -<br />

<strong>di</strong>versamente dalla coppia modernizzazione-capitalismo - è <strong>di</strong>fficile poter già <strong>di</strong>re qualcosa <strong>di</strong><br />

sensato o ad<strong>di</strong>rittura definitivo. Per <strong>di</strong>rla sbrigativamente, essa può portare ad una Cosmopolis<br />

democratica ovvero ad una <strong>di</strong>spotica, così come può invece scatenare reazioni <strong>di</strong> tipo<br />

tribalistico, giacché la globalizzazione culturale non significa necessariamente<br />

omogeneizzazione su scala mon<strong>di</strong>ale, provocando anche un rifiuto oppure una trasformazione<br />

localistica delle immagini culturali globalizzanti (nel contesto <strong>di</strong> Brazzaville o <strong>di</strong> Wu Han la<br />

Coca Cola può avere un senso <strong>di</strong>verso che in quello newyorkese). La modernizzazione indotta<br />

dalla globalizzazione, insomma, non vuol <strong>di</strong>re necessariamente occidentalizzazione.<br />

In ogni caso, è frettoloso, sul piano delle previsioni, ma anche degli auspici, dedurre dalla<br />

globalizzazione lo sviluppo <strong>di</strong> una citta<strong>di</strong>nanza o <strong>di</strong> un governo mon<strong>di</strong>ale. Sono comunque<br />

questioni troppo problematiche e complesse per trattarne in un'introduzione alla filosofia<br />

politica.<br />

Diversa previsione si può fare invece per le sfide globali che ho sopra in<strong>di</strong>cato - rebus sic<br />

stantibus - risiedere nelle armi nucleari e nel riscaldamento globale dell’atmosfera con tutti i<br />

suoi possibili sviluppi più o meno sicuramente preve<strong>di</strong>bili e tutte le sue conseguenze<br />

climatiche, biologiche, economiche (fame per sommersione o desertificazione <strong>di</strong> terre), sociali<br />

(<strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nate migrazioni <strong>di</strong> massa) e politiche (reazioni polemogene e/o <strong>di</strong>ttatoriali alla risultante<br />

insicurezza). Se è vero che queste minacce riguardano, più o meno in<strong>di</strong>stintamente, tutti gli<br />

abitanti della terra, e che solo sulla base della cooperazione <strong>di</strong> tutti possono essere affrontate<br />

con qualche speranza <strong>di</strong> successo, vi è in esse una possibilità <strong>di</strong> configurare il genere umano<br />

come una comunità non-volontaristica, e quin<strong>di</strong> potenzialmente politica. Non è il caso qui <strong>di</strong><br />

sviluppare questa tesi, chi voglia la può trovare ampiamente trattata nel mio Global Challenges<br />

for Leviathan: A Political Philosophy of Nuclear Weapons and Global Warming, 2007<br />

(trad.ital. in preparazione per il 2009), ma era necessario enunciarla per illuminare quanto<br />

viene detto sotto sulla mo<strong>di</strong>fica post-moderna della politica.<br />

Il mio punto <strong>di</strong> vista qui non è prescrittivo, cioè del tipo: per risolvere questi nuovi<br />

problemi come vuole la ragione o la legge morale occorrono istituzioni <strong>di</strong> tale o tal'altra fatta.<br />

Neppure è del tipo che chiamerei esigenzialistico: siccome la sovranità statuale è indebolita,<br />

siccome i processi hanno assunto scala mon<strong>di</strong>ale, siccome gli uomini starebbero meglio se<br />

governati in quest'altro modo, allora oggi enunciamo la necessità <strong>di</strong> istituzioni nuove ed<br />

adeguate e domani le otterremo. Adottando il punto <strong>di</strong> vista che all'inizio <strong>di</strong> questo testo ho<br />

chiamato analitico o ricostruttivo, cerco soltanto <strong>di</strong> <strong>di</strong>re - ma con lo sguardo rivolto al futuro,<br />

10


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

dunque <strong>di</strong> prevedere - qual tipo <strong>di</strong> istituzioni possa essere richiesto ed alla fine imposto dai<br />

nuovi problemi in ragione della loro struttura e della loro cogenza. Orbene, credo si possa <strong>di</strong>re<br />

che i problemi posti dalla mon<strong>di</strong>alizzazione-globalizzazione verranno più o meno bene gestiti<br />

da istituzioni internazionali o interstatali o intergovernative (qui li uso come sinonimi).<br />

Istituzioni (formali-legali o informali come i `regimi internazionali', per es. quello <strong>di</strong> nonproliferazione<br />

nucleare) che cioè nascono da un accordo fra gli Stati e non richiedono una<br />

formale e totale rinuncia alla propria sovranità; esse sono in grado <strong>di</strong> deliberare solo<br />

all'unanimità, ed uno Stato membro può sempre, sebbene non facilmente, ritirarsi in fase <strong>di</strong><br />

approvazione od esecuzione <strong>di</strong> una decisione (in gergo si chiama opting out). Sulla gestione<br />

delle due sfide globali la previsione è molto più incerta: poiché una sola rilevante defezione da -<br />

poniamo - un accordo <strong>di</strong> <strong>di</strong>sarmo nucleare o <strong>di</strong> riduzione <strong>di</strong> emissioni gassose a tutela<br />

dell'ecosfera può far saltare l'intero accordo e riacutizzare conflitti deleteri, sembra perciò che le<br />

sfide globali possano essere affrontate con sufficiente garanzia <strong>di</strong> successo solo da istituzioni<br />

sovranazionali, aventi un potere <strong>di</strong> decisione e <strong>di</strong> esecuzione autonomo rispetto agli Stati, o<br />

meglio rispetto a veti o comportamenti defettivi ed opportunistici da parte <strong>di</strong> singoli Stati. A<br />

livello mon<strong>di</strong>ale queste istituzioni non esistono, né in tempi politici le si può pensare in<br />

gestazione seguita da un parto; l'ONU è ben <strong>di</strong>stante dalla sovranazionalità, <strong>di</strong> cui vi sono in<br />

essa solo alcuni palli<strong>di</strong> elementi. A livello continentale (regionale, come si usa <strong>di</strong>re) elementi <strong>di</strong><br />

sovranazionalità si trovano solo nell'Unione europea, o più esattamente nella parte comunitaria<br />

(l'acquis communautaire), nella quale si decide a maggioranza. Essi non riguardano la parte <strong>di</strong><br />

high politics della costruzione europea, non essendovi alcun elemento <strong>di</strong> sovranazionalità (e<br />

talora neppure <strong>di</strong> un'unitaria cooperazione intergovernativa) nella politica estera e <strong>di</strong> sicurezza,<br />

in quella finanziaria e in quella fiscale dell'UE. Queste aree sono sottratte alla competenza<br />

dell’Unione oppure vi rientrano solo se c’è l’unanimità.<br />

Per la filosofia politica un aspetto può tuttavia <strong>di</strong>ventare interessante nei prossimi anni: lo<br />

svilupparsi delle esistenti o imminenti istituzioni internazionali in un senso che - per forza <strong>di</strong><br />

cose, in<strong>di</strong>pendentemente dalle ripetute proteste <strong>di</strong> intangibile sovranità da parte dei membri - va<br />

al<strong>di</strong>là dei descritti limiti <strong>di</strong> tali istituzioni e rende meno netta e cognitivamente meno produttiva<br />

la <strong>di</strong>visione internazionale-sovranazionale. Se le cose vanno avanti così, per concettualizzarle<br />

occorrerà rivedere profondamente la moderna teoria dello Stato. A questa esigenza del resto<br />

cospirano altresì altri fattori come l'attenuazione od obsolescenza della separazione fra politica<br />

e morale, soprattutto in prospettiva mon<strong>di</strong>ale.<br />

Concludendo: che la politica moderna con il suo Stato sovrano non sia più in grado si far<br />

fronte alle due maggiori sfide che la modernità stessa ha prodotto deriva, si è detto, dalla scala<br />

globale, letale e futuribile (proiettata nel futuro) delle sfide stesse. Spieghiamoci: la politica<br />

come concepita da un Machiavelli o un Hobbes, da un Richelieu o un Cavour aveva due<br />

caratteristiche. Poteva affidarsi ad un ambiente fisico e perfin sociale relativamente stabile e<br />

pertanto, pur sovvertendo qua e là gli equilibri <strong>di</strong> potere, non aveva bisogno <strong>di</strong> chiedersi quali<br />

fossero i suoi effetti pericolosi nel futuro lontano, come oggi invece dobbiamo fare decidendo<br />

<strong>di</strong> emissioni <strong>di</strong> anidride carbonica o testate nucleari. Inoltre, quella politica aveva come oggetto<br />

la re<strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> risorse scarse e <strong>di</strong>seguali, come si <strong>di</strong>ce nella definizione che apre questo<br />

testo; mentre oggi essa deve occuparsi anche <strong>di</strong> cosa affatto <strong>di</strong>versa, la salvaguar<strong>di</strong>a per noi ed i<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

posteri <strong>di</strong> risorse in<strong>di</strong>visibili (non soggette a conflitti <strong>di</strong>stributivi).<br />

Ma una politica per la post-modernità è <strong>di</strong> là da venire, e non è detto che si formi, e che si<br />

formi prima che sia troppo tar<strong>di</strong> – prima che una o l’altra delle sfide globali o le conseguenze<br />

perturbative della globalizzazioni economica abbiano gettato il genere umano in un vortice da<br />

cui sia troppo <strong>di</strong>fficile risollevarsi. Deprecare, piangere, sperare in un terreno afflato <strong>di</strong><br />

redenzione non è, <strong>di</strong>nanzi a questa situazione, il compito della filosofia politica, né della<br />

politica stessa. Lo sono l’analisi, la messa dei problemi all’or<strong>di</strong>ne del giorno, l’argomentazione<br />

seria ma lucida, e non da ultimo il tentativo attento ed appassionato <strong>di</strong> cogliere e rafforzare gli<br />

spunti eventualmente emergenti <strong>di</strong> una politica per il futuro, che sarebbe un ine<strong>di</strong>to,<br />

ra<strong>di</strong>calmente <strong>di</strong>verso dalla politica moderna, ormai limitata troppo spesso ad essere una politica<br />

per le prossime elezioni.<br />

22. Etica e politica: una mappa delle etiche<br />

Per occuparsi del rapporto <strong>di</strong> etica e politica oggi occorre essere orientati nel panorama<br />

dell'etica contemporanea, che è <strong>di</strong>verso da quello del tempo <strong>di</strong> Machiavelli o <strong>di</strong> Kant. Prima<br />

ancora, per occuparsi <strong>di</strong> questo rapporto è necessario preliminarmente riconoscere autonomia e<br />

consistenza al polo `etica'. Per fare questo occorre sod<strong>di</strong>sfare a due con<strong>di</strong>zioni.<br />

Occorre - primo - presupporre che la morale non sia vanificata o sostituita da una filosofia<br />

della storia che pretenda <strong>di</strong> contenerla come suo momento meno maturo (tale è il rapporto <strong>di</strong><br />

moralità ed eticità come filosofia della società e dello Stato in Hegel) o ad<strong>di</strong>rittura falso - le<br />

morali sono altrettante ideologie funzionali della lotta <strong>di</strong> classe in Marx, anche se poi in lui<br />

come, in misura forse minore, in Engels c'è parecchio normativismo latente, ed anche se è poi<br />

potuto esistere fra Ottocento e Novecento un `marxismo etico'.<br />

Occorre poi riconoscere che il punto <strong>di</strong> vista morale ha un senso, cioè che ha un senso -<br />

semplifico la definizione del moral point of view data da Kurt Baier - agire per ragioni <strong>di</strong><br />

principio, non essere egoisti, considerare il bene altrui <strong>di</strong> eguale <strong>di</strong>gnità del proprio ed essere<br />

<strong>di</strong>sposti ad universalizzare le proprie massime dell'agire. Viceversa, occorre respingere l'idea<br />

(normativa) che dobbiamo sempre e solo cercare il nostro piacere o felicità in<strong>di</strong>viduale<br />

(egoismo edonistico, egoismo dell'atto nelle definizioni tecniche). Le ragioni per far questo<br />

possono essere a. che <strong>di</strong> fatto non è vero che sia così (abbiamo sentimenti morali), b. che non<br />

può essere così per le aporie che si aprirebbero: da un lato renderemmo impossibile la<br />

cooperazione o la stessa convivenza con gli altri, danneggiando anche noi stessi, dall'altro (sono<br />

due argomenti connessi, ma non identici) per raggiungere la nostra felicità dobbiamo sapere che<br />

essa è legata anche a quella altrui.<br />

Fatte salve queste scelte preliminari, osserviamo che <strong>di</strong> morale possiamo <strong>di</strong>scorrere per<br />

sapere come dobbiamo scegliere <strong>di</strong> agire (etica), oppure per giustificare tale scelta, per<br />

stu<strong>di</strong>arne i significati e per vederne i rapporti con altre sfere dell'agire od altri approcci ad esso<br />

(meta-etica). In generale, la morale ci <strong>di</strong>ce che cosa è giusto, oppure che cosa è bene, oppure<br />

ancora che cosa è virtuoso fare. Possiamo infatti <strong>di</strong>stinguere fra etiche del giusto o del bene e<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

della virtù.<br />

Le etiche che rispondono alla domanda “che cosa è giusto fare?” pronunciano norme capaci<br />

<strong>di</strong> regolare i nostri atti in base ad un principio o a più principi interconnessi, in<strong>di</strong>pendentemente<br />

dai fini che gli attori possono proporsi in rapporto ad una qualche concezione del mondo, della<br />

vita terrena od ultraterrena, della storia ecc. Queste etiche normative si <strong>di</strong>stinguono in<br />

deontologiche e consequenzialistiche.<br />

Le etiche deontologiche ci <strong>di</strong>cono che un atto è giusto o ingiusto, lecito od illecito in base<br />

alla sua qualità intrinseca, rapportata ad un principio o regola generale dell'agire: un'idea della<br />

ragione in morale ovvero ragion pratica, un'idea della <strong>di</strong>gnità umana o altro. Il tipo-base <strong>di</strong><br />

queste etiche è quella kantiana. Ad esso si richiamano oggi sia la teoria della giustizia <strong>di</strong> John<br />

Rawls sia l'etica del <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas.<br />

Le etiche consequenzialistiche chiamano giusto quell'atto che produce il miglior esito<br />

complessivo, visto da un punto <strong>di</strong> vista impersonale che dà egual peso all'interesse <strong>di</strong> ognuno.<br />

Di queste etiche il tipo fondamentale è l'utilitarismo, che identifica quel miglior esito<br />

complessivo con il saldo netto più alto <strong>di</strong> piacere umano aggregato (piaceri meno dolori, e<br />

riguardante la totalità degli in<strong>di</strong>vidui).<br />

L'utilitarismo ha subito in seguito una grande quantità <strong>di</strong> mutamenti, più ancora delle teorie<br />

deontologiche. Per un certo aspetto si può <strong>di</strong>re che esso oggi sopravviva in due cose largamente<br />

separate: un utilitarismo filosofico e prevalentemente metaetico da un lato, ed è questo un esito<br />

molto sbia<strong>di</strong>to rispetto all'utilitarismo sensista dei fondatori (Bentham, Stuart Mill). Per altro<br />

verso l'utilitarismo è uscito dalla filosofia ed è <strong>di</strong>ventato una pura e semplice teoria della scelta<br />

razionale: theory of rational choice, che è una trattatistica relativa a come prendere le migliori<br />

decisioni, sviluppata nei terreni specifici dell'economia, in parte anche delle politiche<br />

pubbliche, o in sotto settori come quello militare.<br />

L'approccio utilitaristico si può anche definire una teoria che giu<strong>di</strong>ca le azioni in base al<br />

bene che producono, e non c'è dubbio che esso contiene un elemento <strong>di</strong> correlazione dei mezzi<br />

al fine, fine che uno sceglie come definizione dell'utilità.<br />

Facciamo le seguenti osservazioni: 1) l'utilitarismo parla <strong>di</strong> bene,ma quando parla <strong>di</strong> bene<br />

questo è esclusivamente un bene non morale, scelto cioè in base al gusto, in base alle<br />

sensazioni, in base ai valori <strong>di</strong> una civiltà, ma non è compito <strong>di</strong> una teoria morale stessa<br />

sceglierlo. Inoltre esso è un bene aggregato, cioè - si <strong>di</strong>ceva una volta - derivante da piaceri, più<br />

avanti si <strong>di</strong>sse scelte e oggi si <strong>di</strong>ce preferenze in<strong>di</strong>viduali.<br />

Occorre tenere a mente queste cose perché impe<strong>di</strong>scono <strong>di</strong> confondere l'utilitarismo con il<br />

teleologismo. Le teorie teleologiche, o etiche del bene, <strong>di</strong>cono che c'è un bene comune, ovvero<br />

un bene supremo, che viene definito in base ad una qualche teoria o religiosa o metafisica o <strong>di</strong><br />

filosofia della storia e che è considerato al <strong>di</strong> sopra e al <strong>di</strong> fuori delle preferenze in<strong>di</strong>viduali, sia<br />

come bene supremo <strong>di</strong> ciascun singolo in<strong>di</strong>viduo, sia come bene proprio della comunità. L'agire<br />

morale <strong>di</strong> queste teorie consiste dunque nell'or<strong>di</strong>nare finalisticamente, non solo tutti i nostri atti,<br />

ma tutta la nostra vita al conseguimento <strong>di</strong> quel bene, cioè al conseguimento, all'avvicinamento<br />

della nostra vita personale al modello <strong>di</strong> vita buona o - nel greco <strong>di</strong> Aristotele - `eu zen'.<br />

Aristotele resta la base delle etiche teleologiche, <strong>di</strong> cui abbiamo <strong>di</strong> recente visto una<br />

riproposizione negli autori detti appunto neoaristotelici (Alasdair MacIntyre, Charles Taylor).<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Dovrebbero risultare evidenti ed incolmabili le <strong>di</strong>fferenze fra<br />

consequenzialismo/utilitarismo e teorie teleologiche, ma ne <strong>di</strong>co ancora una: mentre il<br />

consequenzialismo resta una teoria normativa che giu<strong>di</strong>ca ogni singolo atto, il punto <strong>di</strong> vista<br />

delle teorie teleologiche è l'intero arco della nostra vita, del nostro agire morale, cioè non il<br />

singolo atto, ma l'habitus; in una parola le teorie teleologiche sono, non sempre ma spesso,<br />

teorie della virtù o, come meglio si <strong>di</strong>ce, prendendo il termine aretè dal greco, che significa<br />

virtù, teorie aretaiche.<br />

Questo quadro d'assieme ci permette ora <strong>di</strong> riconsiderare meglio ciò che sta al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong><br />

esso ed è però rilevante per i comportamenti politici, cioè per i rapporti tra morale e politica. Ne<br />

stanno al <strong>di</strong> fuori le dottrine che non ci chiedono <strong>di</strong> conformare il nostro comportamento né al<br />

giusto né al bene, ma a ciò che è opportuno dal punto <strong>di</strong> vista del nostro benessere egoistico<br />

quanto all'obiettivo e delle regole <strong>di</strong> saggezza ed astuzia ricavate dall'esperienza quanto al<br />

metodo. Per una serie <strong>di</strong> rigiri della storia delle idee e delle parole, ad una certo punto il<br />

concetto e soprattutto il termine greco per saggezza pratica, non astratta, ma che consiste nel<br />

bene muoversi nelle cose della vita, cioè phronesis (una virtù intellettuale per Aristotele), si è<br />

staccato dalla matrice originaria ed è venuto ad in<strong>di</strong>care questa saggezza pratica nel senso <strong>di</strong><br />

una saggezza <strong>di</strong>versa ed ad<strong>di</strong>rittura opposta al punto <strong>di</strong> vista morale; siccome poi phronesis è<br />

stata tradotta dal tardo me<strong>di</strong>oevo in avanti con prudentia, allora nella filosofia politica il punto<br />

<strong>di</strong> vista prudenziale è venuto ad in<strong>di</strong>care precisamente il punto <strong>di</strong> vista dell'opportunità, in<br />

quanto altro rispetto al bene e al giusto. L'approccio prudenziale è caratteristico del realismo<br />

politico.<br />

23. Idealismo e realismo politico<br />

Questa è una delle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>cotomie della filosofia politica: se il nostro approccio<br />

intellettuale e pratico alla politica debba fondarsi sulla possibilità e desiderabilità <strong>di</strong> farvi<br />

<strong>di</strong>rettamente valere valori e norme proprie <strong>di</strong> una nostra visione <strong>di</strong> come essa dovrebbe essere<br />

in base a principi civili e morali, oppure no. Poiché tali norme e valori possono essere morali,<br />

ma anche giuri<strong>di</strong>ci (<strong>di</strong> un <strong>di</strong>ritto che si pretende razionale o giusto, non del <strong>di</strong>ritto dei<br />

giuspositivisti), si parla più generalmente <strong>di</strong> normativismo. Si noti che idealismo e<br />

normativismo trattano della nostra azione come azione politica, perché se noi <strong>di</strong>ciamo che della<br />

politica non ci importa niente, e che siamo uomini religiosi che vogliono puramente rendere<br />

testimonianza della propria fede, allora questo non riguarda il rapporto tra morale e politica, che<br />

ci interessa se si presenta come qualcosa che vuole influenzare la politica, agendo all'interno <strong>di</strong><br />

essa. Ancora una volta, il tipo-base dell'idealismo o normativismo politico è rappresentato da<br />

Immanuel Kant, che - si veda fra l'altro lo scritto del 1795 Sulla pace perpetua - si pone non<br />

solo il problema <strong>di</strong> cosa dev'essere la politica in or<strong>di</strong>ne a ragione, morale e <strong>di</strong>ritto, ma altresì<br />

quello <strong>di</strong> come essa possa <strong>di</strong>ventare conforme alle norme ed ai valori della ragione.<br />

Dalla parte opposta <strong>di</strong> idealismo e normativismo sta il realismo politico. È quella teoria che<br />

pensa che la politica proceda secondo principi propri quali che essi siano, ma essendo essi<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

comunque <strong>di</strong>versi da quelli morali: la prudenza degli in<strong>di</strong>vidui, l'interesse o degli in<strong>di</strong>vidui o<br />

delle nazioni o delle classi, il rapporto amico-nemico. Ci sono varie sfumature del realismo:<br />

una che ritiene che siccome il principio della politica, il suo telos è il potere in sé e non in vista<br />

<strong>di</strong> qualcosa d'altro, ogni moralità è non solo estranea e impotente, ma non vera: poiché la<br />

politica è quella cosa e solo quella cosa, ciò che in essa si presenta come moralità, in realtà non<br />

è che ideologia (falsa coscienza) ed instrumentum regni. Esiste poi una forma più moderata <strong>di</strong><br />

realismo che ritiene che il potere sia la sostanza ed il principio procedurale della politica, ma<br />

non come fine a se stesso, bensì in vista <strong>di</strong> un bene collettivo terreno, come la sicurezza, la<br />

gloria, l'onore o comunque che il potere sia un reme<strong>di</strong>um mali: pensano così i teorici della<br />

ragion <strong>di</strong> Stato che sono da ascriversi alla tra<strong>di</strong>zione del realismo politico. Questa versione più<br />

equilibrata del realismo ritiene che, in un mondo in cui originariamente non v'è altro che<br />

insicurezza e paura, si possono bensì aver in mente le idee più generose, ma prioritario resta<br />

assicurare a sé ed al proprio gruppo la sopravvivenza, nonché con<strong>di</strong>zioni migliorabili<br />

d'esistenza. Per far questo occorrono il potere e la forza, raccolti nell'istituzione Stato, la cui<br />

esistenza e <strong>di</strong>fesa costi quel che costi (inganni, delitti e massacri compresi) è con<strong>di</strong>zione<br />

irrinunciabile per ogni perseguimento del bene comune ed in<strong>di</strong>viduale. Questo tipo standard <strong>di</strong><br />

realismo può essere più finemente sotto<strong>di</strong>stinto in realismo a base antropologica e realismo a<br />

base strutturale. Il primo si giustifica considerando che negli attori politici, gli in<strong>di</strong>vidui umani<br />

anzitutto, la tendenza all'egoismo o alla supremazia-sopraffazione-arricchimento prevalga sulla<br />

solidarietà e benevolenza, e dunque sia necessaria la regolazione tramite il potere coattivo, <strong>di</strong><br />

cui la forza <strong>di</strong>venta elemento fortemente caratterizzante o perfino dominante, per evitare il<br />

peggio. L'altro sotto-tipo prescinde da assunzioni pertinenti all'antropologia filosofica e vede la<br />

ragione del prevalere della Machtpolitik (politica <strong>di</strong> potenza) nel permanere <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

anarchia fra gli attori - il riferimento principale qui è alla politica fra gli Stati. Ciò permette <strong>di</strong><br />

pensare che, se mai l'anarchia venisse superata o attenuata (come abbiamo visto che sta in<br />

effetti accadendo), anche la primazia `realistica' della potenza, del self-interest, della logica<br />

prudenziale dovrebbe essere ri<strong>di</strong>scussa.<br />

Queste ultime considerazioni aprono la strada ad una terza versione del realismo politico,<br />

quella che <strong>di</strong>ce che i valori morali possono farsi strada nella politica ed avere forte influenza su<br />

<strong>di</strong> essa, solo se si tengono fuori dal quoti<strong>di</strong>ano e comune accadere politico, se non pretendono<br />

<strong>di</strong> guidare precettisticamente e moralisticamente il nostro agire politico, ma solo <strong>di</strong> ispirarne i<br />

principi. Questo è il punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> chi non vede un'alternativa assoluta ed eterna tra realismo<br />

politico e normativismo, sia perché molte delle con<strong>di</strong>zioni sotto cui lo Stato moderno ha<br />

tutelato la salus reipublicae si sono sostanzialmente (si pensi solo alle sfide globali, o alla più<br />

generale per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> neutralità etica per quanto riguarda la tecnica) mo<strong>di</strong>ficate; sia perché quella<br />

contrapposizione non tiene conto del maggior articolarsi delle dottrine morali <strong>di</strong>sponibili. Si<br />

noti per esempio che i realisti politici, quando parlano <strong>di</strong> una morale che non ha niente a che<br />

fare con la politica, hanno della morale una visione assai semplificata e mal informata: per loro<br />

la morale è quella deontologica e quella soltanto, né hanno essi nozione delle recenti tendenze<br />

al pluralismo morale (<strong>di</strong>versi approcci morali a <strong>di</strong>verse sfere <strong>di</strong> azione e <strong>di</strong> relazioni; da non<br />

confondersi con l'eclettismo).<br />

Comunque si sviluppi in avvenire la controversia fra normativismo e realismo, non si può<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

chiudere la trattazione dei rapporti <strong>di</strong> etica e politica senza ricordarne un celebre, ed ancor<br />

significativo (comunque lo si rielabori oggi) episo<strong>di</strong>o teorico, affidato allo scritto Politik als<br />

Beruf (Politica come professione/vocazione - questa sarebbe la traduzione esatta) che Max<br />

Weber compose nel 1918, alla fine della Grande Guerra. Si tratta dell'ammissione da parte <strong>di</strong><br />

Weber (che i realisti considerano un loro padre spirituale) che il vero uomo politico, lungi dal<br />

poter fare a meno <strong>di</strong> qualsiasi considerazione etica, <strong>di</strong> qualsiasi riflessione sull'orientamento del<br />

proprio agire, deve nutrirsi <strong>di</strong> due etiche concorrenti, eppure in<strong>di</strong>ssolubilmente legate; è il<br />

mezzo specificamente politico della violenza a dare risalto al problema etico nella politica. La<br />

Gesinnungsethik (etica della convinzione intima) ha dalla sua che anche la politica non si fa<br />

solo con il cervello, come <strong>di</strong>ce Weber, cioè con il mero calcolo strategico, e che una fede<br />

sincera nella propria causa impe<strong>di</strong>sce alla politica, che per Weber è questione <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> scelte<br />

(siamo in anni <strong>di</strong> guerre e rivoluzioni), <strong>di</strong> ridursi ad opportunismo prudenziale tutto de<strong>di</strong>to al<br />

culto del potere. Ma tale etica sconfina facilmente nell'utopia millenaristica, e soprattutto nella<br />

copertura offerta sia a mezzi altrimenti ingiustificabili, sia a vantaggi incontrollati <strong>di</strong> cui il<br />

Gesinnungspolitiker ed i suoi seguaci vanno a godere, se riescono ad affermarsi, sotto il manto<br />

delle loro alte convinzioni. Perciò si possono far valere in politica le proprie convinzioni,<br />

sostiene Weber, solo se si considerano quali saranno o sono state le conseguenze del proprio<br />

agire e ci se ne assume la responsabilità, anziché scaricarla sulla nequizia od immaturità del<br />

genere umano o dei propri concitta<strong>di</strong>ni. Con il nostro linguaggio, potremmo <strong>di</strong>re che un<br />

approccio normativo, e specialmente deontologico, ai problemi etici, alle gran<strong>di</strong> e talora<br />

tragiche scelte che si pongono in politica, è giustificabile solo se si è in grado <strong>di</strong> sostenerne le<br />

conseguenze, commisurando mezzi e fini, intenzioni ed effetti controintenzionali o - come si<br />

<strong>di</strong>ce - perversi (non si tratta <strong>di</strong> consequenzialismo morale, che è una delle etiche normative e<br />

per il quale pure si porrebbero problemi <strong>di</strong> `etica della convinzione').<br />

Il nesso fra le due etiche <strong>di</strong>venta questione drammatica quando i convincimenti intimi non<br />

verificati dall’intelligenza politica e dalla sapienza storica si pongono in contrasto irrefrenabile<br />

con la realtà e cercano <strong>di</strong> spezzare l’impasse sia ricorrendo al <strong>di</strong>sprezzo per la realtà e per i suoi<br />

abitatori, gli altri uomini, amici o avversari che siano, sia usando senza freni della violenza per<br />

<strong>di</strong>mostrare a se stessi e al proprio gruppo <strong>di</strong> esistere e <strong>di</strong> contare. Si produce allora una delle<br />

forme più perverse <strong>di</strong> quel fenomeno del fanatismo che è una patologia insieme della psicologia<br />

(in<strong>di</strong>viduale e <strong>di</strong> gruppo), della cultura e della politica, e che ha connotato buona parte della<br />

terribile storia del Novecento, ma si può considerare una costante o un elemento ricorrente<br />

nella storia. Lo ritroviamo oggi non solo nelle perversioni delle religioni, da Al Qaeda ai<br />

fanatici induisti e ai cristiani fondamentalisti (quasi solo americani) che uccidono i me<strong>di</strong>ci che<br />

praticano l’aborto; ma anche in quel terrorismo <strong>di</strong> matrice ideologica <strong>di</strong> cui si parla nel cap. 20.<br />

24. I <strong>di</strong>ritti<br />

Nel venire conclusivamente a parlare <strong>di</strong> tre gran<strong>di</strong> categorie come libertà, eguaglianza e<br />

giustizia, preferisco non partire da una definizione filosofica, bensì dal modo come la prima<br />

<strong>di</strong> esse si presenta nella vita politica moderna. In essa non ci imbattiamo invero ne `la' libertà,<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

salvo che in momenti in cui essa è totalmente negata e la sua riconquista <strong>di</strong>viene un fine ed<br />

una lotta unica e complessiva. In tempi normali ci imbattiamo ne `le' libertà, quelle<br />

fondamentali ed inviolabili, non solo nel senso che non devono venir lese, ma che non sono<br />

neppure passibili <strong>di</strong> revisione. Si usa <strong>di</strong>stinguerle in base alla loro sfera <strong>di</strong> allocazione:<br />

- libertà civili, fra cui primeggiano quelle personali, e fra queste anzitutto l'habeas<br />

corpus, cioè la libertà rispetto al potere politico <strong>di</strong> non essere detenuti o uccisi se non per<br />

forza <strong>di</strong> legge; seguono le libertà <strong>di</strong> parola, religione, stampa, assemblea, associazione e i<br />

<strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietà, alla <strong>di</strong>fesa (nella tra<strong>di</strong>zione anglosassone risalente alla Magna Charta del<br />

1215 corrisponde all’incirca alla nozione del due process of law) e ad un processo equo (fair<br />

trial), infine alla tutela della propria sfera privata (privacy). La libertà della stampa e in<br />

genere dei me<strong>di</strong>a si classifica anche come libertà strumentale, riguardando gli strumenti<br />

in<strong>di</strong>spensabili attraverso i quali si esplicano alcune delle altre libertà precedenti (sul rapporto<br />

fra libertà e <strong>di</strong>ritti v. sotto).<br />

- libertà politiche: si riassumono nella libertà <strong>di</strong> non obbe<strong>di</strong>re ad autorità se non<br />

legittime, intrecciandosi dunque con il tema dell'obbligo politico.<br />

Uno sviluppo <strong>di</strong> alcune <strong>di</strong> queste libertà si trova nelle libertà economiche, principalmente<br />

quella <strong>di</strong> comprare e vendere quel che ci appartiene, compresa la nostra forza-lavoro,<br />

ommerciando con tutti, e quella <strong>di</strong> produrre senza monopoli statali o privati che ce lo<br />

impe<strong>di</strong>scano <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto o <strong>di</strong> fatto. Queste libertà sono pienamente riconosciute ed attuate<br />

soltanto nei paesi a pieno sviluppo capitalistico e dotati <strong>di</strong> un regime liberale e democratico.<br />

Le libertà fondamentali che abbiamo fino ad adesso catalogato prendendole dalla realtà<br />

politica e costituzionale, in quanto vengano riconosciute dagli altri e dalle istituzioni entro le<br />

quali viviamo, <strong>di</strong>ventano <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà o come oggi più generalmente si <strong>di</strong>ce, <strong>di</strong>ritti umani<br />

(ma se si intendono i <strong>di</strong>ritti in senso proprio, cioè giuri<strong>di</strong>camente vali<strong>di</strong> e vincolanti, occorre<br />

<strong>di</strong>re “<strong>di</strong>ritti fondamentali”). Prima <strong>di</strong> tutti vengono i <strong>di</strong>ritti civili che sono tutti negativi, cioè<br />

che derivano dalla astensione <strong>di</strong> altri soggetti dal fare certe cose che possono limitare questi<br />

<strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà: particolarmente derivano dalla astensione dello Stato a fare atti aventi effetti<br />

limitativi. A questi <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà negativi corrisponde, da parte <strong>di</strong> chi si deve astenere, un<br />

dovere: ed è una corrispondenza piena, cioè si tratta <strong>di</strong> doveri perfetti e assoluti, non<br />

occasionali e non <strong>di</strong>screzionali.<br />

I <strong>di</strong>ritti civili sono i <strong>di</strong>ritti personali già detti, i <strong>di</strong>ritti riguardanti l'inviolabilità del domicilio,<br />

della corrispondenza, la libertà <strong>di</strong> movimento, <strong>di</strong> riunione, <strong>di</strong> associazione, <strong>di</strong> religione, <strong>di</strong><br />

pensiero e della sua espressione, quin<strong>di</strong> quello che si chiamava <strong>di</strong>ritto alla libera stampa e che<br />

adesso deve trovare un altro nome, non essendo più la stampa in senso tecnico ad essere l'unico<br />

strumento <strong>di</strong> espressione del pensiero. C'è poi il <strong>di</strong>ritto ad essere giu<strong>di</strong>cato, cioè il <strong>di</strong>ritto al<br />

giu<strong>di</strong>zio come parte lesa; questo è un <strong>di</strong>ritto fondamentale che è integrato dal <strong>di</strong>ritto ad essere<br />

giu<strong>di</strong>cato solo dal giu<strong>di</strong>ce naturale e quin<strong>di</strong> non da un giu<strong>di</strong>ce inventato lì per lì, né tale che<br />

proceda fuori dalle regole dello Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, per esempio il cadì: tanto meno un giu<strong>di</strong>ce fatto<br />

apposta per colpire gli oppositori <strong>di</strong> un certo partito, come era il Tribunale speciale fascista per<br />

la <strong>di</strong>fesa dello Stato, o analoghe corti in analoghe <strong>di</strong>ttature. I <strong>di</strong>ritti civili si potrebbero ancora<br />

sud<strong>di</strong>videre in base alla loro genesi non storica ma logica. O sono <strong>di</strong>ritti che preesistono allo<br />

Stato; o derivano da un'autolimitazione dello Stato, come il <strong>di</strong>ritto all'inviolabilità della<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

corrispondenza; o sono <strong>di</strong>ritti nati per contratto.<br />

L'altra specie del genere `<strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà' sono i <strong>di</strong>ritti politici, fondamentalmente quelli alla<br />

citta<strong>di</strong>nanza, derivanti dal fatto che uno è nato in un certo posto: ius soli. Però certi Stati, come<br />

quelli me<strong>di</strong>evali in genere, ma anche alcuni Stati moderni come la Germania, mantengono lo<br />

ius sanguinis, cioè si è citta<strong>di</strong>ni non perché si è nati lì, ma perché si <strong>di</strong>scende da genitori o<br />

progenitori <strong>di</strong> quel ceppo 31 ; il che porta poi, se preso sul serio, a problemi mostruosi <strong>di</strong> fronte a<br />

popolazioni <strong>di</strong> lontanissima origine tedesca, come quelle dell'Asia centrale, che volevano e in<br />

parte sono riuscite a “rientrare” in Germania.<br />

Altri <strong>di</strong>ritti politici sono il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> voto e <strong>di</strong> organizzarsi politicamente, cioè <strong>di</strong> riunirsi in<br />

partiti. Questi <strong>di</strong>ritti riguardano tanto la libertà quanto il potere, cioè riguardano il <strong>di</strong>ritto dei<br />

citta<strong>di</strong>ni ad agire in maniera tale da influenzare la sud<strong>di</strong>visione del potere. Quin<strong>di</strong> sono <strong>di</strong>ritti<br />

già molto <strong>di</strong>versi da quelli civili e non sono <strong>di</strong>ritti negativi; anzi, alcune cose occorre che lo<br />

Stato le faccia, ad esempio che organizzi le elezioni. Questi sono i <strong>di</strong>ritti che alcuni, come<br />

Bobbio, chiamano <strong>di</strong> prima generazione.<br />

Poi vengono i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> seconda generazione, alludendo al fatto che l'emergenza dei <strong>di</strong>ritti è<br />

un fatto storico, evolutivo. I <strong>di</strong>ritti sui quali si è costituita la moderna idea <strong>di</strong> stato sono i <strong>di</strong>ritti<br />

<strong>di</strong> prima generazione. Questo non ci deve impe<strong>di</strong>re <strong>di</strong> riconoscere che con l'evoluzione altre<br />

cose, che prima nessuno pensava che potessero essere considerati <strong>di</strong>ritti, lo sono, oppure sono<br />

sub iu<strong>di</strong>ce, cioè tutti ritengono che siano cose importanti, ma non tutti ritengono che siano<br />

<strong>di</strong>ritti: si tratta dei <strong>di</strong>ritti sociali al lavoro, all'istruzione, all'assistenza <strong>di</strong> vecchi e <strong>di</strong> invali<strong>di</strong>.<br />

C'è chi vede ancora due generazioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti, quin<strong>di</strong> si arriva alla terza e alla quarta<br />

generazione. La terza sarebbe quella dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> solidarietà, allo sviluppo che è qualcosa <strong>di</strong> più<br />

che l'istruzione; alla preservazione dell'ambiente; alla preservazione dell'identità <strong>di</strong> gruppo<br />

attraverso la libera comunicazione e alla pace. La quarta generazione sarebbe <strong>di</strong> nuovo fatta <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ritti negativi, <strong>di</strong> preservazione dagli interventi <strong>di</strong> bioingegneria. Non mi <strong>di</strong>ffondo sulla terza e<br />

quarta generazione perché sono sub iu<strong>di</strong>ce e lo resteranno ancora per decenni.<br />

Qual è il problema relativamente alla questione dei <strong>di</strong>ritti sociali? Se solo si trattasse <strong>di</strong><br />

riconoscerli come <strong>di</strong>ritti, tutti gli uomini <strong>di</strong> buona volontà, dotati <strong>di</strong> spirito <strong>di</strong> solidarietà e <strong>di</strong><br />

simpatia verso i propri simili, li riconoscerebbero come <strong>di</strong>ritti. Il problema è che questi <strong>di</strong>ritti<br />

sociali sono molto <strong>di</strong>fformi dagli altri e possono avere effetti perversi. I <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà<br />

abbiamo detto che sono garantiti dal non intervento dello Stato: lo Stato interviene solo per<br />

organizzare la fruizione <strong>di</strong> questi <strong>di</strong>ritti, per organizzare le elezioni, oppure lo Stato interviene<br />

per reprimere gli abusi. Vorrei sottolineare che i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> prima generazione si hanno verso lo<br />

Stato, ma prima verso i propri concitta<strong>di</strong>ni, gli altri in<strong>di</strong>vidui che <strong>di</strong>ventano concitta<strong>di</strong>ni nel<br />

momento in cui fanno il patto con noi e ci riconosciamo reciprocamente come titolari <strong>di</strong> questi<br />

<strong>di</strong>ritti. Da questo momento io ammetto che tu sei citta<strong>di</strong>no al pari mio e quin<strong>di</strong> non devo<br />

invadere la tua libertà, tu non devi invadere la mia, però fermo questo ciascuno <strong>di</strong> noi può avere<br />

possibilità <strong>di</strong> fare quello che meglio crede per potersi sviluppare. Per fare tutto questo ci<br />

costruiamo un uomo artificiale, come <strong>di</strong>ce Hobbes nel Leviatano, che ci garantirà la gestione <strong>di</strong><br />

questo patto, e se domani o a te o ai tuoi figli verrà in mente <strong>di</strong> ledere quei <strong>di</strong>ritti che ora stai<br />

rispettando, lo Stato interverrà.<br />

31<br />

Lo ius sanguinis è stato attenuato nella recente legislazione tedesca degli anni Duemila.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

I <strong>di</strong>ritti sociali invece, per non parlare <strong>di</strong> quelli <strong>di</strong> terza generazione (solidarietà, sviluppo)<br />

richiedono non l'astensione, ma l'intervento <strong>di</strong>retto e attivissimo dello Stato che deve darsi<br />

molto da fare per dare lavoro a tutti, per dare istruzione a tutti, per garantire a tutti pensioni <strong>di</strong><br />

invali<strong>di</strong>tà e <strong>di</strong> vecchiaia. Una cosa è riconoscere il rilievo, l'importanza <strong>di</strong> queste pretese, per<br />

esempio delle riven<strong>di</strong>cazioni del lavoro e della pensione in quanto con<strong>di</strong>zioni per la piena<br />

fruizione dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà. Questo crea per lo Stato, e ancora prima per la società civile, un<br />

dovere, ma non perfetto e assoluto, a fare il possibile per dare a ciascuno lavoro, istruzione,<br />

pensione in maniera da permettergli <strong>di</strong> essere lui un citta<strong>di</strong>no optimo iure, e ai suoi figli <strong>di</strong><br />

godere pienamente delle possibilità <strong>di</strong> sviluppo. Questa è una cosa su cui più o meno siamo tutti<br />

d'accordo. Un'altra cosa è attribuire a quelle riven<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioni, riconosciute<br />

importanti per la fruizione stessa dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà, il carattere <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti. Questa è un'altra<br />

cosa, perché, se si tratta <strong>di</strong> un <strong>di</strong>ritto, configura da parte dello Stato un dovere perfetto e<br />

assoluto quanto quello <strong>di</strong> non mandarmi la polizia alle tre <strong>di</strong> notte per arrestarmi senza un<br />

mandato <strong>di</strong> un giu<strong>di</strong>ce, <strong>di</strong> non aprire la mia corrispondenza, <strong>di</strong> non venire a bruciare le mie<br />

Chiese o Sinagoghe. Riconoscerli come <strong>di</strong>ritti significa obbligare lo Stato a garantire quelle<br />

prestazioni a tutti, perché altrimenti ciascun citta<strong>di</strong>no può andare <strong>di</strong> fronte ad una corte e<br />

reclamare con successo <strong>di</strong> avere comunque un lavoro, una pensione, un'istruzione per i suoi<br />

figli. Questo richiede che lo Stato si carichi, non come libera scelta <strong>di</strong>screzionale, ma come<br />

dovere politico-giuri<strong>di</strong>co <strong>di</strong> compiti che prima <strong>di</strong> tutto lo espandono enormemente dal punto <strong>di</strong><br />

vista sia della sua amministrazione sia, soprattutto, della fiscalità: uno Stato che deve fare tutte<br />

queste cose <strong>di</strong>venta uno Stato fiscalmente esosissimo, che ha bisogno <strong>di</strong> una grande e costosa<br />

amministrazione finanziaria e pubblica. In Italia abbiamo l'esempio <strong>di</strong> una situazione<br />

particolarmente insod<strong>di</strong>sfacente nei confronti dei citta<strong>di</strong>ni, ma anche negli altri paesi le<br />

amministrazioni sono simili, seppur talora più efficienti. È possibile che lo Stato debba, per<br />

adempiere a questi compiti, portare delle limitazioni <strong>di</strong> tipo burocratico ai <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà, per<br />

esempio tutte le limitazioni che spogliano il citta<strong>di</strong>no della sua in<strong>di</strong>vidualità e lo rendono, per<br />

<strong>di</strong>rla in maniera grossolana ma efficace, un numero e niente più che un numero, come fruitore<br />

della macchina assistenziale dello Stato. L'altra cosa <strong>di</strong>stinta è che i compiti sociali <strong>di</strong> cui lo<br />

Stato si carica, contengono un notevole rischio <strong>di</strong> inefficienza nel senso tecnico, cioè <strong>di</strong> un<br />

rapporto mezzi/fini inadeguato; dati quei mezzi non si raggiungono i fini che con quei mezzi si<br />

dovrebbero poter raggiungere, oppure dati quei fini si sono scelti mezzi, per sottostima oppure<br />

qualitativamente, inadatti a raggiungere quei fini: questa è inefficienza, da <strong>di</strong>stinguere<br />

dall'inefficacia, che riguarda il raggiungimento o meno <strong>di</strong> un obiettivo in<strong>di</strong>pendentemente dai<br />

costi. Inefficienza vuol <strong>di</strong>re che può verificarsi che le risorse dei citta<strong>di</strong>ni, non solo quelle<br />

fiscali, ma certo queste prevalentemente, vengano per un verso sottoposte ad un'enorme<br />

pressione, per un altro vengano allocate autoritativamente, cioè da un'autorità centrale, nella<br />

fattispecie lo Stato, che certo ha il titolo per farlo, ma che non ha l'obbligo <strong>di</strong> sottoporsi ad un<br />

vaglio <strong>di</strong> efficienza; non v'è cioè un'istanza neutrale ed esperta che verifichi se le risorse usate<br />

per fini sociali siano state usate in maniera tale da sod<strong>di</strong>sfare almeno gli obiettivi minimi per i<br />

quali sono state estratte dai singoli citta<strong>di</strong>ni e gestite dallo Stato.<br />

Inoltre riconoscere le riven<strong>di</strong>cazioni sociali come <strong>di</strong>ritti può peggiorare la cosiddetta crisi<br />

fiscale dello Stato, cioè una situazione per cui, in<strong>di</strong>pendentemente dalla volontà, per sole<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

questioni <strong>di</strong> proporzioni tra chi paga le tasse, quanto le paga, la potenzialità produttiva <strong>di</strong><br />

un'economia e le prestazioni <strong>di</strong> uno Stato, ci sia una sproporzione tale per cui lo Stato, anche<br />

mettendo il massimo delle imposte, non riesca mai o a coprire le prestazioni sociali che<br />

vengono richieste, e allora è possibile che si abbia una crisi <strong>di</strong> legittimità perché la gente <strong>di</strong>rà:<br />

noi vogliamo questo, ti abbiamo eletto per questo, paghiamo le tasse per questo e tu, Stato, non<br />

dai ciò che noi ve<strong>di</strong>amo altri Stati sono in grado <strong>di</strong> dare? Oppure, per dare questo a tutti e<br />

quin<strong>di</strong> evitare la crisi <strong>di</strong> legittimità, lo Stato può indebitarsi in maniera tale che il debito non sia<br />

più coperto dal gettito fiscale e quin<strong>di</strong> sia inarrestabile, arrivando a livelli economicamente<br />

insopportabili, come quello <strong>di</strong> superare l'intero prodotto interno lordo, cose che sono pur<br />

successe.<br />

25. Libertà ed eguaglianza<br />

Un problema classico del pensiero politico riguarda il rapporto fra libertà ed eguaglianza e<br />

precisamente, visto che molto spesso libertà ed eguaglianza sul piano empirico sono in<br />

contrasto, c'è da stare attenti a non trarre affrettate conclusioni dal piano empirico al piano<br />

teorico, e da chiedersi se esse siano necessariamente in conflitto. Che esse possano essere in<br />

conflitto dobbiamo darlo per scontato, ciò che non dobbiamo dare per scontato è che esse<br />

debbano essere in conflitto e siano insomma irreconciliabili. Dico questo perché ogni seria<br />

teoria politica deve avere forte il senso dell'ostacolo; soprattutto se si tratta <strong>di</strong> teoria normativa,<br />

deve avere il senso che le cose non sono così semplici e che non scorrono così lisce come<br />

sembra ai teorici, come sembra agli utopisti e come sembra a coloro che, come <strong>di</strong>rebbe Hegel,<br />

vorrebbero mettere la brache al mondo. Questo lo <strong>di</strong>co perché le teorie che non hanno il senso<br />

dell'ostacolo, sono teorie <strong>di</strong> bassa qualità, non solo sono utopistiche o cervellotiche. Una seria<br />

teoria politica o sociale, anche se ha una forte ispirazione normativa, un forte ideale da far<br />

avanzare o <strong>di</strong>mostrare, è come teoria robusta e convincente nella misura in cui abbia pieno il<br />

senso degli ostacoli che sul piano teorico e sul piano fattuale si oppongono alla realizzazione<br />

dei propri ideali, dei propri valori e delle proprie norme.<br />

Detto questo, cerco ora <strong>di</strong> chiarire in tre punti i termini teorici che ho appena enunciato:<br />

prima <strong>di</strong> tutto evocherò la <strong>di</strong>stinzione più grossa nel campo della teoria politica; tra i concetti <strong>di</strong><br />

libertà la più nota definizione è quella formulata da Isaiah Berlin. Si tratta della <strong>di</strong>stinzione tra<br />

libertà negativa e libertà positiva, detto in modo più banale le libertà `da', cioè dai vincoli non<br />

naturali ma umani, dalle regole interattive che sono imposte dagli or<strong>di</strong>namenti, oppure le libertà<br />

che rispondono alla domanda: che cosa sono libero <strong>di</strong> fare? Queste sono le libertà derivanti<br />

tipicamente dal pensiero liberale, dalla concezione liberale della politica e della società, e sono<br />

sostanzialmente le libertà dei citta<strong>di</strong>ni dai vincoli, dai poteri <strong>di</strong> chi governa. Ad ogni libertà dei<br />

citta<strong>di</strong>ni `da' corrisponde un limite del governo.<br />

Le altre libertà sono le libertà positive, le libertà `<strong>di</strong>' o `per', le libertà <strong>di</strong> essere questa o<br />

quest'altra cosa, <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare questa o quest'altra cosa, <strong>di</strong> realizzare la propria personalità, <strong>di</strong><br />

conquistare una posizione nella società, <strong>di</strong> raggiungere un certo livello <strong>di</strong> educazione. Si tratta<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

insomma delle libertà <strong>di</strong> autodeterminarsi secondo un piano o progetto, delle libertà che<br />

consistono nell'autorealizzazione dell'in<strong>di</strong>viduo, ovvero degli in<strong>di</strong>vidui associati in un gruppo,<br />

attraverso un'obbligazione assunta verso se stessi: sono libero <strong>di</strong> fare questa cosa perché la<br />

voglio fare, perché mi impongo <strong>di</strong> farla e solo io la impongo a me stesso, ovvero noi la<br />

imponiamo a noi stessi. Qui stanno le risposte alla domanda: chi governa e per che cosa? Sono<br />

queste le libertà tipiche del pensiero democratico e socialista, sia che le si ascriva a Rousseau,<br />

in cui l'idea dell'autorealizzazione riceve la sua versione più ra<strong>di</strong>cale, sia che non la si persegua<br />

dentro la tra<strong>di</strong>zione rousseauiana. Il problema è che tra queste due libertà esistono quantomeno<br />

delle tensioni: esse non si accordano così facilmente e secondo alcuni ad<strong>di</strong>rittura non possono<br />

che scontrarsi. Infatti lo sforzo <strong>di</strong> realizzare le libertà `<strong>di</strong>', che ci permettono la<br />

autorealizzazione, può implicare, e spesso implica, l'aumento del government, dell'autorità<br />

pubblica, e quin<strong>di</strong> limita le libertà `da', che massimamente fioriscono quanto più piccolo è il<br />

governo, sia come quantità <strong>di</strong> vincoli e <strong>di</strong> proibizioni o imposizioni, sia anche come piccola<br />

<strong>di</strong>mensione dell'apparato governativo.<br />

Io ritengo, in larga compagnia, che il tipo <strong>di</strong> rapporto tra queste libertà, cioè fra le forme<br />

politiche che le incarnano oggi, sia quello <strong>di</strong> un nesso interno reciprocante, nel senso che tuttora<br />

non si può pensare ad un pieno sviluppo delle libertà `da', delle libertà liberali, se non<br />

nell'ambito della democrazia, della partecipazione universale alle scelte <strong>di</strong> chi governa.<br />

Viceversa la democrazia non è democrazia se non è costruita non solo rispettando, ma<br />

arricchendo il terreno delle libertà `da', delle libertà negative. Dalla critica marxiana in avanti, e<br />

soprattutto nella sua vulgata socialista e comunista, si è creduto che la democrazia potesse fare<br />

largamente a meno, superandole in una libertà più alta, delle libertà `da', e che l'unica vera<br />

libertà fosse quella, democratica, <strong>di</strong> essere citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> uno Stato pienamente democratico,<br />

proletario ed operaio. Uno Stato in cui tutti, grazie alla <strong>di</strong>ffusione universale del cibo, della<br />

salute e dell'istruzione, potessero più pienamente realizzarsi che non nei vecchi regimi in cui<br />

alcuni erano, vuoi materialmente, vuoi culturalmente pienamente sviluppati, mentre gran parte<br />

della popolazione restava nel sottosviluppo sociale ed intellettuale.<br />

Si è così contrapposta una democrazia sostanziale o sociale ad una democrazia formale.<br />

Questa è stata una vera <strong>di</strong>sgrazia per lo sviluppo della democrazia e del pensiero socialista, nel<br />

senso che è un'operazione fallita nel corso <strong>di</strong> decenni e decenni, in cui sono state vanamente<br />

buttate energie e sparso sangue. Da questo punto <strong>di</strong> vista il crollo dei regimi comunisti ha<br />

<strong>di</strong>mostrato che le pretese `democrazie popolari' ovvero sostanziali non erano solo regimi <strong>di</strong><br />

illibertà, che negavano le libertà `da', le libertà negative, liberali; anzi la scoperta storica più<br />

rivelatrice per chi non lo sapeva o non lo voleva sapere è che esse erano insieme quelle che<br />

meno permettevano lo sviluppo pieno dei citta<strong>di</strong>ni.<br />

Si è visto cioè che la stessa base dell'eguaglianza, insomma la creazione delle migliori<br />

con<strong>di</strong>zioni sociali e culturali per la partecipazione <strong>di</strong> tutti al potere, non è possibile se non<br />

facendo partecipare tutti, e non solo retoricamente, ma effettivamente, al potere stesso,<br />

lasciandoli liberi dalle oppressioni <strong>di</strong> un governo <strong>di</strong>spotico e burocratico e lasciando che tutti si<br />

esprimano come vogliono. Ciò vuol <strong>di</strong>re che bisogna riconoscere che tutti i citta<strong>di</strong>ni non si<br />

potranno mai esprimere come `tutti', ma si esprimeranno come questi e quegli altri, cioè si<br />

esprimeranno <strong>di</strong>visi in partiti, in opinioni che devono avere la possibilità <strong>di</strong> partecipare, <strong>di</strong>visi<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

fra chi si occupa <strong>di</strong> politica e chi vive nella società e si occupa <strong>di</strong> questa o quella funzione<br />

sociale. Tutti devono poter partecipare in piena libertà alla spartizione del potere, quin<strong>di</strong> alla<br />

vita politico-istituzionale, alle elezioni, perché si è visto che senza la piena garanzia delle<br />

libertà liberali, non si hanno due cose che sono essenziali allo stesso sviluppo economico e<br />

sociale e quin<strong>di</strong> alla piena realizzazione dei citta<strong>di</strong>ni e, s'intende, delle citta<strong>di</strong>ne. Non si ha<br />

sufficiente informazione sullo stato del paese dei citta<strong>di</strong>ni, <strong>di</strong> quello che essi vogliono o non<br />

vogliono. La vita politica liberale è prima <strong>di</strong> tutto un grande fenomeno <strong>di</strong> osmosi e<br />

comunicazione fra chi governa e chi è governato: se si tolgono e si riducono le libertà, l'osmosi<br />

si ferma, le informazioni non vengono più passate e i governanti fanno <strong>di</strong> testa loro e spesso se<br />

la rompono. L'imbrigliamento delle libertà `da' impe<strong>di</strong>sce la cosa più elementare <strong>di</strong> un regime<br />

politico che implementi i principi del liberalismo e cioè il controllo sul governo; se non ci<br />

fossero sindacati liberi che possono fare sciopero quando vogliono, se non si avessero partiti<br />

che possono fare l'opposizione in Parlamento, se non si avesse anzitutto una libera stampa, non<br />

si avrebbe un controllo sul governo.<br />

Per illuminare pienamente la relazione <strong>di</strong> libertà ed eguaglianza conviene ora approfon<strong>di</strong>re<br />

concettualmente il secondo termine. Si possono fare tante <strong>di</strong>stinzioni fra i vari concetti <strong>di</strong><br />

eguaglianza, si può fare una <strong>di</strong>stinzione tra un'eguaglianza sostantiva e un'eguaglianza<br />

procedurale: l'eguaglianza sostantiva è quella che consiste nell'attribuire a ciascuno una certa<br />

quantità <strong>di</strong> beni, secondo criteri <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> eguagliamento o, come si <strong>di</strong>ce in un italiano un po'<br />

sindacale, <strong>di</strong> perequazione o, in maniera più teorica, <strong>di</strong> re<strong>di</strong>stribuzione. Per fare l'eguaglianza<br />

sostantiva ci sono criteri <strong>di</strong>versi (numerica, proporzionale) che sono esposti nella voce<br />

Uguaglianza del Dizionario <strong>di</strong> politica. L'eguaglianza procedurale consiste invece non nel <strong>di</strong>re:<br />

“ti do tot in base al criterio y per portarti alla situazione tendenzialmente egualitaria o meno<br />

<strong>di</strong>seguale z”, ma consiste nel <strong>di</strong>re semplicemente: “qualunque cosa ti <strong>di</strong>a o non ti <strong>di</strong>a, vi tratterò<br />

tutti in modo eguale, finché non vi siano ragioni che giustifichino <strong>di</strong> trattarvi in maniera<br />

<strong>di</strong>seguale”. Oggi però la coppia concettuale più nota e più utile in filosofia politica è la coppia<br />

eguaglianza <strong>di</strong> posizioni o <strong>di</strong> benessere - eguaglianza <strong>di</strong> opportunità: l'eguaglianza <strong>di</strong> posizioni<br />

è quella che Ronald Dworkin, uno dei massimi filosofi del <strong>di</strong>ritto dei nostri giorni, chiama<br />

trattamento eguale, cioè l'eguaglianza che consiste nel fare in modo che tutti abbiano<br />

tendenzialmente la stessa quantità <strong>di</strong> beni, anche re<strong>di</strong>stribuendo il prodotto in maniera<br />

necessariamente <strong>di</strong>seguale a fini perequativi. Sulla base <strong>di</strong> questo concetto <strong>di</strong> eguaglianza si<br />

costruisce un forte apparato re<strong>di</strong>stributivo e quin<strong>di</strong> uno Stato fortemente <strong>di</strong>rigistico, come si<br />

<strong>di</strong>ce in maniera polemica, e soprattutto un grande apparato burocratico che deve prendersi cura<br />

<strong>di</strong> tutti e fare in modo che tutti stiano tendenzialmente allo stesso modo.<br />

L'altra eguaglianza è quella <strong>di</strong> opportunità o <strong>di</strong> risorse, che certamente include sempre<br />

l'eguaglianza <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti fondamentali, ma non si riduce a questa. Essa non vuol <strong>di</strong>re trattare tutti<br />

in modo eguale, ma vuol <strong>di</strong>re trattare tutti con eguale rispetto e considerazione, considerare<br />

legittime e degne <strong>di</strong> tutela le aspirazioni e le preferenze <strong>di</strong> tutti e <strong>di</strong> ciascuno, e provvedere tutti<br />

e ciascuno dei mezzi basilari per poter sviluppare queste preferenze, talenti, aspirazioni. En<br />

passant, se lo Stato sociale, che in altre versioni si chiama welfare state o anche Stato<br />

assistenziale, che è già una forma degenerativa <strong>di</strong> Stato sociale, è stato la grande figura, l'idea<br />

dominante gli anni Quaranta-Settanta <strong>di</strong> questo secolo, avendo beninteso ra<strong>di</strong>ci nei decenni<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

precedenti, oggi sia per sviluppi interni al pensiero democratico, sia per la critica durissima dei<br />

neoliberali, siamo piuttosto in una fase in cui l'idea dell'eguaglianza abbandona l'idea<br />

`egualitaristica' <strong>di</strong> eguaglianza re<strong>di</strong>stributiva <strong>di</strong> posizioni, e si riavvicina a questa versione, che<br />

chiamerei liberale, dell'eguaglianza <strong>di</strong> opportunità, <strong>di</strong> risorse, <strong>di</strong> punti <strong>di</strong> partenza per tutti.<br />

26. Giustizia<br />

Con questa categoria <strong>di</strong> massimo impegno teorico abbiamo ancor più problemi che con<br />

libertà ed eguaglianza, con le quali essa viene spesso posta in una triade. La complessità del<br />

tema è tale che, in un testo introduttivo come questo, conviene limitarsi ad elencarne ed<br />

illustrarne brevemente un certo numero <strong>di</strong> significati, senza nemmeno tentarne un'esposizione<br />

sistematicamente unitaria. Basti infatti pensare che - prescindendo dalla possibilità od<br />

opportunità <strong>di</strong> tematizzare la <strong>di</strong>stinzione fra giustizia come sostantivo e come aggettivazione<br />

(giusto-ingiusto) - questa categoria è rilevante tanto per la politica quanto per la morale e il<br />

<strong>di</strong>ritto, e non sarà nemmeno possibile <strong>di</strong>stricare sempre questi tre piani. Cominciamo dunque<br />

l'elencazione.<br />

1. Giustizia, libertà ed eguaglianza sono tre valori, ma mentre questi ultimi due possono<br />

anche venir semplicemente descritti (il tale regime è libero, nella tale società v'è eguaglianza) in<br />

base a certi criteri che definiscono cosa è libertà e che cosa eguaglianza, la giustizia implica<br />

sempre anche un aspetto normativo: “il tale regime è ingiusto, la tale società giusta” significano<br />

un obbligo a condannare o combattere il primo e a riconoscere o promuovere la seconda.<br />

È opportuno porre attenzione a non confondere i tre termini, soprattutto giusto ed eguale:<br />

una <strong>di</strong>stribuzione eguale <strong>di</strong> beni non significa eo ipso trattarsi <strong>di</strong> una <strong>di</strong>stribuzione giusta, se a)<br />

questi beni vengono <strong>di</strong>stribuiti egualmente a soggetti <strong>di</strong> ineguale con<strong>di</strong>zione, oppure b) la<br />

<strong>di</strong>stribuzione eguale, o anche quella perequativa (dare <strong>di</strong> più a chi ha <strong>di</strong> meno), lede altri valori,<br />

come la libertà, che uno può considerare pari o superiore all'eguaglianza.<br />

2. Il punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> ciò che è giusto o ingiusto caratterizza ogni filosofia politica<br />

normativa, quale che ne sia la concreta configurazione - questo vale per Platone come per<br />

Agostino, per Aristotele come per Rawls, per restare a pensatori <strong>di</strong> cui proposizioni riguardanti<br />

la giustizia sono citate in questo testo. Assumere quel punto <strong>di</strong> vista implica una presa <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stanza critica rispetto all'assetto <strong>di</strong> fatto del potere e la richiesta che esso si legittimi in base ad<br />

un criterio metafattuale o perfino metapolitico (morale, teologico, giusnaturalistico). Questa<br />

giustificazione in base a criteri <strong>di</strong> giustizia è fondamentale fra i criteri <strong>di</strong> legittimità (v. sopra nei<br />

capp. 12-13) in base ai quali esaminare un regime politico<br />

Ripeto peraltro qui la duplice valutazione che una filosofia politica che escluda<br />

ra<strong>di</strong>calmente, come fa il realismo politico tra<strong>di</strong>zionale, questo punto <strong>di</strong> vista risulta ottusa, sia<br />

rispetto alla complessità della politica moderna, per capire ed orientarci nella quale abbiamo<br />

bisogno, in prima istanza, tanto <strong>di</strong> Machiavelli quanto <strong>di</strong> Kant, sia rispetto alla politica<br />

contemporanea, che sta andando comunque al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> Kant e <strong>di</strong> Machiavelli. Ma ritengo<br />

altrettanto essere futile una filosofia politica che si ritenga filosofica solo perché esalta il<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

momento normativo e <strong>di</strong> esso, cioè <strong>di</strong> una qualche teoria della giustizia o della democrazia<br />

come dovrebbe essere, si appaga, quasi che le questioni <strong>di</strong> paura/sicurezza, potere e<br />

conflitto/guerra non riguardassero lo sforzo <strong>di</strong> pensare filosoficamente la politica.<br />

3. In ragione <strong>di</strong> quanto detto sotto (1), si deve <strong>di</strong>stinguere fra a. concezioni sostantive della<br />

giustizia, che la identificano con la conformità <strong>di</strong> atti, norme, leggi, regimi ecc. con certi valori<br />

sostantivi come l'eguaglianza (in una delle sue <strong>di</strong>verse versioni), od un certo or<strong>di</strong>ne cosmico,<br />

come nel pensiero greco, od un or<strong>di</strong>ne naturale fondamentale, come quello ipotizzato nel<br />

giusnaturalismo; e b. concezioni procedurali, che la identificano con una massima formale,<br />

adattabile a qualsiasi situazione - l'interpretazione della situazione e il modo <strong>di</strong><br />

quell'adattamento sono, come ormai sappiamo, così problematici che rendono altamente<br />

fungibili, e dunque soggetti alle più varie torsioni, quelle massime.<br />

Fra queste ricor<strong>di</strong>amo quelle del <strong>di</strong>ritto romano, che in<strong>di</strong>viduano il comportamento giusto<br />

in quello che dà a ciascuno il suo (unicuique suum) o che non reca offesa ad alcuno (neminem<br />

laedere) - come illustrazione dell'adattabilità <strong>di</strong> queste massime si ricor<strong>di</strong> che la prima (Jedem<br />

das Seine) poté venire scritta dai nazisti sul cancello d'entrata dei campi <strong>di</strong> sterminio. Nella<br />

tra<strong>di</strong>zione giudaico-cristiana, la suprema norma <strong>di</strong> giustizia è la Regola aurea, enunciata da<br />

Gesù Cristo nel Discorso della montagna: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi,<br />

anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (Matteo 7, 12), ovvero “con la<br />

misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Luca 6, 38). Nell'imperativo<br />

categorico kantiano “agisci in modo che la massima della tua azione possa <strong>di</strong>venire fondamento<br />

<strong>di</strong> una legislazione universale” (i filosofi morali o<strong>di</strong>erni lo chiamano test <strong>di</strong> universalizzabilità)<br />

può vedersi una rielaborazione <strong>di</strong> quella norma.<br />

4. In filosofia politica, ma non solo qui, rimane fondamentale la <strong>di</strong>stinzione aristotelica fra<br />

giustizia commutativa e <strong>di</strong>stributiva.<br />

La giustizia commutativa o retributiva riguarda il modo <strong>di</strong> trattare un singolo (in<strong>di</strong>viduo o<br />

gruppo) in una data situazione secondo un criterio che possa essere adottato per tutti i singoli<br />

che si trovino in pari situazione. È una giustizia <strong>di</strong> scambio o fra beni o fra mali, 32 . Nei classici<br />

del pensiero politico e sociale rimane celebre la critica all'apparente `giusto scambio' <strong>di</strong> capitale<br />

e forza-lavoro nel Libro primo del Capitale <strong>di</strong> Marx.<br />

La giustizia <strong>di</strong>stributiva riguarda invece la <strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> beni, materiali od immateriali,<br />

fra più attori (in<strong>di</strong>vidui o gruppi) nell'ambito <strong>di</strong> un insieme: la società per la giustizia fra classi o<br />

ceti, il globo per la giustizia fra Stati e/o popolazioni 33 . Criteri classici nelle dottrine relative alla<br />

giustizia <strong>di</strong>stributiva sono “ad ognuno secondo il suo merito” (se ne trova eco ovunque, anche<br />

nell'art. 33, comma 3 della nostra Costituzione, che attribuisce gli aiuti statali per raggiungere i<br />

gra<strong>di</strong> più alti dell'istruzione ai “capaci e ai meritevoli”); oppure, per restare a Marx, “ad ognuno<br />

secondo il suo lavoro” (nella prima fase della società comunista) e “ad ognuno secondo i suoi<br />

bisogni” (fase più avanzata <strong>di</strong> questa società; si veda Critica del programma <strong>di</strong> Gotha, del<br />

1875).<br />

32<br />

Come spiega Bobbio in La grande <strong>di</strong>cotomia: pubblico/privato, in idem, Stato, governo, società,<br />

Torino 1985.<br />

33 Si parla allora <strong>di</strong> giustizia internazionale, un'area <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> e <strong>di</strong> proposte che si è venuta sviluppando<br />

solo recentemente in or<strong>di</strong>ne ai cosiddetti rapporti Nord-Sud del mondo: cfr. L. Bonanate, Etica e<br />

politica internazionale, Torino 1992.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Nel nostro secolo, fallite ed ancor prima rifiutate - anche dal movimento operaio<br />

occidentale - le rivoluzioni che avrebbero dovuto portare al comunismo, l'idea della giustizia<br />

<strong>di</strong>stributiva congiunta a quella dell'eguaglianza è venuta a presentarsi come compito assegnato<br />

allo Stato (Stato, appunto, sociale) per compensare le ineguaglianze prodotte dall'economia<br />

capitalistica <strong>di</strong> mercato, cui anche la sinistra veniva riservando la funzione <strong>di</strong> produrre<br />

efficienza economica, cioè sempre più ricchezza con sempre minor impiego <strong>di</strong> risorse.<br />

Efficienza-mercato e giustizia sociale-Stato sono stati per decenni la formula vincente (si pensi<br />

all'`economia sociale <strong>di</strong> mercato' tedesca) nei paesi occidentali, soprattutto europei, almeno fino<br />

alla correzione o capovolgimento <strong>di</strong> questa linea imposti a partire dal 1979 in Gran Bretagna<br />

dal governo conservatore <strong>di</strong> Margaret Thatcher (poi John Major) e dal 1981 negli USA dalla<br />

cosiddetta reaganomics (Reagan's economics) del presidente repubblicano eletto nel 1980.<br />

Ritorneremo nel paragrafo seguente sulla giustizia <strong>di</strong>stributiva sotto il profilo teorico.<br />

5. Ritengo opportuno segnalare un'ulteriore <strong>di</strong>stinzione emergente nell'uso linguistico, <strong>di</strong><br />

cui non svolgo però qui le possibili implicazioni filosofiche; si tratta <strong>di</strong> una <strong>di</strong>stinzione<br />

trasversale rispetto ad altre qui ricordate.<br />

C'è un senso <strong>di</strong> `giusto' che implica semplicemente un agire corretto rispetto ad una legge o<br />

a criteri comunque formalizzati. Abbiamo visto nel cap. 16 la `guerra giusta', cioè giustificata in<br />

or<strong>di</strong>ne a certi criteri restrittivi. Abbiamo menzionato il `giusto salario' nello scambio fra capitale<br />

e lavoro nonché la critica marxiana all'ingiustizia-ineguaglianza ivi contenuta. È d'uso comune<br />

la nozione <strong>di</strong> `giusta sanzione penale'. Giusto significa qui soltanto un obbligo, determinatasi<br />

una certa situazione, ad agire nel suo ambito rispettando certi criteri; non un obbligo e tanto<br />

meno una motivazione a fare qualcosa. Ci si muove qui prevalentemente sul piano della<br />

giustizia commutativa/retributiva, anche se non parlerei <strong>di</strong> un'identità con siffatto piano.<br />

C'è poi un senso più enfatico <strong>di</strong> `giusto' in cui la giustizia è associata, più o meno<br />

tacitamente o surrettiziamente, con altri valori, come l'eguaglianza nel caso della giustizia<br />

sociale, o con ideali evolutivi come il progresso o la rivoluzione. Qui `giusto' implica una<br />

doverosità a fare qualcosa, prendendo l'iniziativa e avanzando fino al compimento. “Fiat<br />

iustitia, pereat mundus” è il motto del deontologismo morale ra<strong>di</strong>cale; “ribellarsi è giusto” era<br />

una massima centrale nel pensiero politico <strong>di</strong> Mao Zedong; “creare una società giusta” è stato<br />

ed è l'ideale del socialismo democratico; `Giustizia e libertà' è stato il binomio che ha dato<br />

nome ad una delle forze principali dell'antifascismo e poi della Resistenza in Italia.<br />

Sempre sul piano linguistico, ulteriori lumi verrebbero dalle riflessioni che si possono fare<br />

sui <strong>di</strong>versi corrispondenti <strong>di</strong> `giusto' nelle lingue germaniche (right/just, recht/gerecht), nonché<br />

sulla coppia, ancora da menzionare, equity/fairness.<br />

6. Anche sul piano giuri<strong>di</strong>co la giustizia si presenta come un metalivello normativo rispetto<br />

al <strong>di</strong>ritto. Per sod<strong>di</strong>sfarla non basta che il <strong>di</strong>ritto sia la legge, anziché la volontà <strong>di</strong> un capo o <strong>di</strong><br />

un popolo o <strong>di</strong> una rivoluzione. Occorre altresì che il <strong>di</strong>ritto non si limiti alla legge positiva, a<br />

ciò che è comandato dall'autorità politica pur legittima, ma incarni qualche principio civile,<br />

morale o religioso <strong>di</strong> giustizia (ius non iussum, sed iustum).<br />

Altra cosa è la giustizia intesa come realizzazione-amministrazione del principale valore<br />

intrinseco ad ogni or<strong>di</strong>namento giuri<strong>di</strong>co. Qui si presenta l'alternativa fra la giustizia identificata<br />

con la corretta applicazione <strong>di</strong> una legge in quanto norma generale (propria <strong>di</strong> rule of law -<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Rechtsstaat - Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, cfr. sopra cap. 13) e l'equità (equity), cioè una gestione del <strong>di</strong>ritto<br />

affidata alla flessibilità, senso della concretezza dei casi e <strong>di</strong>screzionalità <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>ci e corti (si<br />

ricor<strong>di</strong>, per un caso estremo <strong>di</strong> equità, il brechtiano giu<strong>di</strong>ce Azdak citato nel cap. 13<br />

34..<br />

7. Si <strong>di</strong>ce nel linguaggio comune che agire secondo giustizia è l'opposto dell'agire secondo<br />

criteri d'utilità. Ciò è vero se s'intende l'utilità, il tornaconto momentaneo <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo.<br />

L'utilitarismo come filosofia morale invece conosce come suo criterio essenziale la giustizia, o<br />

meglio la giustezza (rightness) delle azioni che più contribuiscono ad ottimizzare il piacere o la<br />

felicità aggregate degli in<strong>di</strong>vidui.<br />

27. Filosofie politiche normative <strong>di</strong> oggi<br />

Fra le filosofie politiche normative contemporanee quella <strong>di</strong> maggior influenza, per le<br />

adesioni e le critiche che ha suscitato, è certamente la teoria della giustizia, intesa come perno<br />

del liberalismo politico, dell'americano John Rawls 35 Qui ci limitiamo a tratteggiare<br />

brevemente l'aspetto più propriamente politico del pensiero <strong>di</strong> Rawls e <strong>di</strong> pochi altri.<br />

Il neocontrattualismo <strong>di</strong> Rawls intende la giustizia come l'attributo essenziale dell'ipotetico<br />

contratto sociale che ci lega, e le cui con<strong>di</strong>zioni ideali (normative) <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>tà possono essere<br />

meglio stu<strong>di</strong>ate ponendoci nella `posizione originaria': quella in cui ci poniamo come citta<strong>di</strong>ni<br />

(astratti) puramente razionali <strong>di</strong>etro un `velo d'ignoranza' che ci impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> conoscere tutte le<br />

informazioni su quello che potrebbe essere <strong>di</strong> nostro vantaggio egoistico (<strong>di</strong> che paese siamo, <strong>di</strong><br />

che razza, <strong>di</strong> che con<strong>di</strong>zione sociale ecc.). Solo in questa posizione possiamo stabilire come<br />

giuste regole del contratto quelle che siano eque (nel senso <strong>di</strong> imparziali) verso tutti (justice as<br />

fairness). Due principi risultano allora essere fondamentali: 1) ogni persona ha un eguale <strong>di</strong>ritto<br />

alla più larga libertà che sia compatibile con quella <strong>di</strong> ciascun altro; 2) trattamenti ineguali sono<br />

ammessi solo se il principio 1 è sod<strong>di</strong>sfatto, e se ci si può ragionevolmente attendere che essi<br />

servano a migliorare la posizione dei meno avvantaggiati (ecco un caso <strong>di</strong> equità<br />

dell'ineguaglianza!). Rawls tenta dunque <strong>di</strong> riconciliare nella teoria il liberalismo classico con<br />

un principio <strong>di</strong> giustizia sociale re<strong>di</strong>stributiva.<br />

Alla teoria della giustizia <strong>di</strong> Rawls non si oppongono solo coloro che - come Robert Nozick<br />

- ritengono che il principio re<strong>di</strong>stributivo leda il rispetto delle libertà basilari, tutelabili solo in<br />

uno `Stato minimo', e che giuste possano essere considerate solo certe regole che <strong>di</strong>sciplinano il<br />

passaggio della proprietà da una mano all'altra, non quelle che impongono una stato finale <strong>di</strong><br />

eguaglianza o minor <strong>di</strong>seguaglianza (Anarchy, State and Utopia, 1974). I principali avversari<br />

34<br />

Per approfon<strong>di</strong>re questa <strong>di</strong>fferenza, ma anche la sua evoluzione, cfr. la voce Giustizia scritta da M.<br />

Cappelletti per l'Enciclope<strong>di</strong>a delle Scienze Sociali della Fondazione Treccani, vol. IV, Roma 1996.<br />

35<br />

A Theory of Justice, 1971; Political Liberalism, 1993, entrambi tradotti, e più tar<strong>di</strong> i Collected<br />

Papers. Gli aspetti etici del pensiero <strong>di</strong> Rawls, come degli altri autori sotto menzionati, possono esser<br />

visti in E. Lecaldano, Etica, Utet 1995; ed una rassegna critica (dal punto <strong>di</strong> vista normativistico) <strong>di</strong><br />

quelle filosofie si trova in W. Kymlicka, Contemporary Political Philosophy. An Introduction, Oxford<br />

1990, trad. it. Feltrinelli, Milano 1996.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

del razionalismo normativo (deontologico, ma con elementi pur tratti dalla sua critica<br />

dell'utilitarismo) del liberal Rawls sono i communitarians come (con molte <strong>di</strong>fferenze fra <strong>di</strong><br />

loro) Michael Walzer, Michael Sandel, il canadese Charles Taylor ed il già menzionato<br />

Alasdair MacIntyre. Essi ritengono che le astratte regole del contratto sociale siano insufficienti<br />

a tenere insieme gli in<strong>di</strong>vidui, <strong>di</strong> cui verrebbero anzi aumentati l'atomizzazione e l'orientamento<br />

all'utile in<strong>di</strong>viduale. Non lo Stato liberal-democratico (che non viene rifiutato, ma giu<strong>di</strong>cato<br />

insufficiente e burocraticamente impersonale), bensì l'identità organica (non mera sommatoria<br />

degli in<strong>di</strong>vidui) della comunità etnica e/o locale e/o religiosa, con la forza delle sue tra<strong>di</strong>zioni e<br />

la concretezza personale delle sue relazioni, può rime<strong>di</strong>are alla <strong>di</strong>sgregazione sociale. Il<br />

comunitarismo - come viene ora chiamato in italiano - è un fenomeno culturale tipico della<br />

storia e della sociologia degli Stati uniti, mentre per l'aspetto teorico gli argomenti contro<br />

l'astrattezza normativa si trovano già svolti, ad alto livello filosofico, nella critica hegeliana<br />

della morale kantiana; inoltre alcuni <strong>di</strong> questi autori ignorano che le loro posizioni ripetono<br />

topoi del pensiero romantico, anticapitalistico e antimoderno, o peggio dell'organicismo sociale<br />

che in Europa ha preceduto le ideologie fasciste. Ciononostante la <strong>di</strong>sputa liberalscommunitarians<br />

è <strong>di</strong>ventata un passaggio obbligato della filosofia politica, anche fuori del suo<br />

terreno originario americano. 36<br />

Fuori dal terreno appena descritto, la principale filosofia politica normativa, ben nota in<br />

Europa come in America e nel resto del mondo, è quella <strong>di</strong> Jürgen Habermas, la cui opera<br />

principale è Teoria dell'agire comunicativo del 1981 37 . Habermas è considerato il punto d'arrivo<br />

della cosiddetta scuola <strong>di</strong> Francoforte, cioè <strong>di</strong> quel gruppo <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi, quasi tutti ebrei e quasi<br />

tutti francofortesi, originari o assimilati, e comunque membri dell'Istituto per la ricerca<br />

sociale, 38 fondato a Francoforte sul Meno nel 1923, che sotto il nazismo si trasferì a New York.<br />

Quello americano fu il periodo più ricco e più vitale dell'istituto, il cui nome ufficiale è `teoria<br />

critica della società', che più o meno voleva <strong>di</strong>re marxismo critico e non-ufficiale, ma poi<br />

assunse il significato <strong>di</strong> un punto <strong>di</strong> vista autonomo. La figura leader era quella <strong>di</strong> Max<br />

Horkheimer, la cui principale attività si svolse negli anni Trenta-Quaranta.. Poi c'erano<br />

Friedrich Pollock, l'economista, l'ex-allievo <strong>di</strong> Heidegger, Herbert Marcuse, e Theodor<br />

Wiesengrund-Adorno, che era il più giovane e versatile o geniale (musicologo, sociologo,<br />

critico letterario, ma prima <strong>di</strong> tutto filosofo). L'opera principale della teoria critica, che è la<br />

Dialettica dell'illuminismo (Dialektik der Aufklärung), scritta nel 1944, pubblicata nel 1947 e<br />

venuta alla notorietà negli anni '60, non è scritta, come molti banalmente <strong>di</strong>cono in or<strong>di</strong>ne<br />

alfabetico, da Adorno e Horkheimer, è scritta invece - come si vede dal frontespizio - da<br />

Horkheimer e Adorno: quest'or<strong>di</strong>ne ha un senso preciso nella genesi della teoria critica. Altri<br />

membri sono, per la teoria politica, Otto Kirchheimer e Frank Neumann, che ha scritto un<br />

grande libro sul nazismo (Behemoth, 1942) ed un importante articolo su paura (o angoscia) e<br />

36<br />

Per riassumere le posizioni esposte fin qui nel presente paragrafo mi sono in parte servito dei<br />

corrispondenti lemmi in R. Scruton, A Dictionary of Political Thought, MacMillan, London 1996.<br />

37 Habermas ha scritto tante altre cose che sono tutte tradotte in italiano, anche l'ultima opera<br />

sistematica, che riguarda la teoria della democrazia e del <strong>di</strong>ritto: Fatti e norme, il cui titolo originale è<br />

un po' <strong>di</strong>verso (Faktizität und Geltung, 1993)<br />

38<br />

Institut für Sozialforschung\Institute for Social Research.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

politica nel 1954, anno in cui Neumann morì prematuramente in un incidente d'auto.<br />

Il problema della teoria critica è <strong>di</strong> dare conto, <strong>di</strong> riformulare alcuni gran<strong>di</strong> temi sulla sorte<br />

della modernità, quei gran<strong>di</strong> temi che Marx aveva espresso in termini <strong>di</strong> reificazione, cioè<br />

sostituzione ai rapporti umani ed interpersonali dei rapporti cosali che si istituiscono tra i<br />

prodotti del nostro lavoro appena questi prendono la forma <strong>di</strong> merce. Reificazione fa coppia<br />

con feticismo, fenomeno che si ha quando le cose, i rapporti <strong>di</strong> merce e <strong>di</strong> denaro si presentano<br />

come fossero essi stessi rapporti sociali. Un altro grande tema è quello che Max Weber, l'altro<br />

grande interprete della modernità e del capitalismo in alternativa a Marx, aveva espresso in<br />

termini <strong>di</strong> razionalizzazione, prima <strong>di</strong> tutto della nostra condotta <strong>di</strong> vita (L'etica protestante e lo<br />

spirito del capitalismo, 1905), o come <strong>di</strong>sincanto, razionalizzazione e burocratizzazione del<br />

mondo, figlie <strong>di</strong> una razionalità incapace <strong>di</strong> interrogarsi sui propri fini e rivolta solo alla scelta<br />

dei mezzi. Questo è lo sfondo principale su cui nasce la teoria critica, <strong>di</strong> cui il documento<br />

principale, la già citata Dialettica dell'illuminismo, sostiene la tesi che la razionale scienza<br />

moderna, che si pretende <strong>di</strong>versa da e superiore al mito, ricade invece nella mitologia (fra<br />

l'altro, con l'esaltazione positivistica dei `fatti'), non essendo capace <strong>di</strong> riconoscere i limiti della<br />

ragione ed il nesso fra il dominio dell'uomo sull'altro uomo, quello dell'uomo sulla natura e<br />

quello dell'uomo su se stesso. Si aggiunge poi, in successivi scritti <strong>di</strong> Horkheimer, la critica<br />

della ragione strumentale, la critica alle irrazionalità e agli orrori prodotte dalla ragione quando<br />

essa si chiuda nella scelta dei mezzi, ai soli fini del potere sulla natura e del potere sugli altri<br />

uomini, e non sia più rischiarata da un ideale illuministico pieno. Quello che poi Habermas<br />

risusciterà chiamandolo il progetto della modernità, il progetto <strong>di</strong> dare alla modernità, al<br />

capitalismo, allo Stato moderno un'anima razionale nella sostanza, che non si esaurisca in<br />

quella razionalità strumentale o tecnica che secondo la vecchia teoria critica ha portato - fra<br />

l'altro - ad Auschwitz.<br />

Habermas a partire dai tar<strong>di</strong> anni Sessanta la pensa <strong>di</strong>versamente: per spiegare la società<br />

non si può ricorrere ad un unico principio o schema, nemmeno a quello che la ragione<br />

illuministica incapace <strong>di</strong> autocritica produce <strong>di</strong>sumanità. La società va invece ormai intesa in<br />

base a quello che Habermas chiama uno schema binario, composto <strong>di</strong> sistema e Lebenswelt, il<br />

mondo della vita, che è un concetto husserliano che arriva ad Habermas attraverso la sociologia<br />

fenomenologica <strong>di</strong> Alfred Schütz (o Schutz, come scrivono in USA, dove questo ebreo<br />

viennese emigrò). La Lebenswelt è l'insieme <strong>di</strong> linguaggio, conoscenze, concezioni tramite cui<br />

noi capiamo il mondo, e da cui noi, attivandole come motivazioni e forme comunicative,<br />

caviamo gli orientamenti per la nostra vita <strong>di</strong> tutti i giorni. La modernità consiste nel portare<br />

dentro il mondo della vita, e soprattutto entro alcuni suoi settori, un forte impulso alla<br />

razionalizzazione, che Habermas ritiene processo irreversibile per quanto riguarda i due<br />

subsistemi <strong>di</strong> cui è formato il sistema sociale: quello economico e quello politico, in cui non<br />

contano le personalità, gli inten<strong>di</strong>menti o le norme, ma quelli che Luhmann e i pensatori<br />

sistemici come lui (da cui qui Habermas alla fine attinge, pur essendone un critico sostanziale)<br />

chiamano i due co<strong>di</strong>ci, che sono per il sistema politico il potere, e per il sistema economico il<br />

denaro. Si tratta <strong>di</strong> subsistemi che sono dominati dall'agire strategico, cioè dall'agire volto a<br />

<strong>di</strong>sporre le nostre relazioni con le cose e con gli altri uomini in conformità al fine che ci siamo<br />

noi stessi, per nostra esclusiva scelta od interesse, proposti. Al <strong>di</strong> fuori dei subsistemi<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

rimangono gli ambiti della riproduzione sociale: la cultura, l'educazione e le relazioni personali,<br />

che sono regolate dall'agire comunicativo, cioè da quello che è volto all'intesa con gli altri<br />

attraverso procedure argomentative libere da istanze <strong>di</strong> dominio, e quin<strong>di</strong> non manipolative o<br />

persuasive, quelle in cui ho già deciso cosa voglio che l'altro faccia o ciò <strong>di</strong> cui voglio che l'altro<br />

si convinca.<br />

Questo è un agire in cui l'istanza ultima non è l'istanza dell'utilità, dell'egoismo e neppure<br />

della scelta razionale dei mezzi, ma è la ricerca dell'intesa fra i molti soggetti partecipi. È questa<br />

una teoria critica che è passata attraverso la svolta linguistica della filosofia e che pertanto si<br />

vanta <strong>di</strong> avere sostituito come schema fondamentale lo schema intersoggettivo e comunicativo<br />

a più soggetti a quello tra<strong>di</strong>zionale e monologico <strong>di</strong> soggetto-oggetto, proprio della filosofia<br />

della coscienza, come la chiama Habermas. Comunicazione e intesa si sviluppano non in base<br />

agli interessi fra cui cercare un compromesso, ma in base alle pretese argomentabili <strong>di</strong> verità tra<br />

i soggetti. Il punto è che questa binarietà <strong>di</strong> sistema e Lebenswelt non è così pacifica: dai due<br />

subsistemi, politico-burocratico ed economico, partono quelli che Habermas chiama imperativi<br />

sistemici, che cercano <strong>di</strong> sottomettere alla logica <strong>di</strong> potere e <strong>di</strong> denaro le stesse sfere intoccabili<br />

della riproduzione: la cultura, l'educazione, e la riproduzione personale, rischiando <strong>di</strong><br />

impoverirne e <strong>di</strong>sseccarne la linfa e il senso. Queste sono tematiche che Habermas ha chiamato<br />

il pericolo della colonizzazione della Lebenswelt.<br />

L'ultimo sforzo <strong>di</strong> Habermas è quello <strong>di</strong> riprendere la teoria dell'agire comunicativo per<br />

svilupparne una teoria della democrazia e della sovranità popolare. La filosofia politica <strong>di</strong><br />

Habermas si accompagna ad una teoria morale che egli ha sviluppato insieme con Karl-Otto<br />

Apel e che si chiama `etica del <strong>di</strong>scorso': si tratta <strong>di</strong> una teoria costruttivistica, universalistica,<br />

quin<strong>di</strong> kantiana, ma strettamente proceduralistica, e qui sta l'innovazione rispetto al kantismo.<br />

Un epilogo in terra ed uno sotto<br />

Echeggiando in modo semiserio il prologo in cielo e quello in terra del Faust (prima parte,<br />

1808) <strong>di</strong> Goethe comincio dall’epilogo sotterraneo, che contiene infatti un riepilogo dei<br />

moventi che stanno <strong>di</strong>etro o sotto alle azioni che gli esseri umani compiono in politica, ovvero<br />

che li muovono a fare politica:<br />

1. l’interesse autocentrato ovvero egoistico (self-interest) all’autoconservazione, al<br />

predominio <strong>di</strong> potere come miglior tutela della propria sicurezza; interesse gestito dalla<br />

prudenza ovvero da un agire strategico o strumentale più o meno razionalmente<br />

raffinato.<br />

2. passioni sia <strong>di</strong>struttive (figlie freu<strong>di</strong>anamente <strong>di</strong> Thanatos) sia aggregative (figlie <strong>di</strong><br />

Eros), da contenere e regolare razionalmente o da reimmettere come antidoto agli<br />

eccessi della razionalità strategica o della Ragione. Di queste ultime fa parte la ricerca<br />

legami sociali “gratuiti” come lo spirito <strong>di</strong> comunità, la solidarietà, il dono.<br />

3. motivazioni universalistiche <strong>di</strong> natura morale o religiosa o civile che si sforzano <strong>di</strong><br />

rifinalizzare la politica mossa da 1) e da 2) al perseguimento <strong>di</strong> fini non egoistici<br />

dominati da una concezione o senso della giustizia.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

E’ vano voler in<strong>di</strong>care una priorità fra queste motivazioni, essendo l’essere umano il<br />

coacervo che è ed essendo la politica uno specchio fedele <strong>di</strong> questa pluralità <strong>di</strong> moventi e dei<br />

loro sviluppi. Il tentativo <strong>di</strong> riportare tutto a spiegazioni in termine <strong>di</strong> “scelta razionale”, proprio<br />

<strong>di</strong> una buona parte della scienza politica soprattutto americana, appare a questo autore ottuso.<br />

Resta che non si può capire l’agire politico soprattutto dei gruppi (partiti, Stati, alleanze) se non<br />

si tiene fermo che 1) è sempre presente. Si noti che alcune <strong>di</strong> tali questioni vengono riprese<br />

nelle voci <strong>di</strong> <strong>Filosofia</strong> sociale.<br />

Risaliamo sulla superficie della terra. Qui i nostri concitta<strong>di</strong>ni (nazionali, europei, del<br />

mondo) fanno politica in mo<strong>di</strong> e secondo moduli a cui è meglio non applicare <strong>di</strong>rettamente in<br />

chiave esplanatoria le categorie sviluppate in questa introduzione alla filosofia politica, perché<br />

non funzionerebbe. Prima <strong>di</strong> tutto si tratta appunto <strong>di</strong> categorie, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> concetti altamente<br />

astratti, senza i quali ci perderemmo nella selva dell’accadere concreto, ma che per essere messi<br />

a frutto per capire quest’ultimo abbisognano – come <strong>di</strong>ceva Marx – <strong>di</strong> “una massa <strong>di</strong> termini<br />

interme<strong>di</strong>” concettuali, storici, geografici ed altro. Inoltre nell’affrontare il mondo sub specie<br />

filosofia politica (per illuminarne la specificità e produttività) si è dovuto mettere da parte quei<br />

nessi che nella politica effettiva contano moltissimo, anzitutto quelli con l’agire economico:<br />

dall’aumento del profitto d’impresa alla ricerca <strong>di</strong> nuovi finanziamenti, dalla ricerca <strong>di</strong> lavoro a<br />

migliori trattamenti stipen<strong>di</strong>ali e pensionistici, queste sono le preoccupazioni principali che la<br />

gente ha in testa quando va a votare (insieme ad altre <strong>di</strong> carattere identitario, ideologico o etico)<br />

e quando i politici trattano fra <strong>di</strong> loro con la mente al successo e alla rielezione. Ma<br />

l’interpretazione dei propri interessi è profondamente influenzata dai modelli culturali che la<br />

gente ha in testa, e che talora la portano a fare il contrario <strong>di</strong> quello che sarebbe utile a quegli<br />

interessi. La politica è così intessuta anche <strong>di</strong> percezioni deformanti (misperceptions), <strong>di</strong> cecità,<br />

rodomontate, ricerca dell’exploit me<strong>di</strong>atico, <strong>di</strong> astuzie che talora sono tali e talaltra si risolvono<br />

in <strong>di</strong>sastri per chi pretende che lo siano. Su questo influiscono non solo i modelli culturali, ma<br />

le personalità in<strong>di</strong>viduali – soprattutto dei leaders - con i loro vizi e virtù.<br />

Non ci si può attendere dalla filosofia politica che essa sia in grado <strong>di</strong> restituire il senso ed il<br />

sapore <strong>di</strong> tutti gli aspetti della politica. Chi vi sia interessato deve visitare altre scienze, dalla<br />

scienza politica alla psicologia ed antropologia. Ma soprattutto deve leggere libri <strong>di</strong> storia,<br />

cominciando con Tuci<strong>di</strong>de, memorie e (auto)biografie, acquisendo il gusto per recuperare<br />

attraverso tali letture l’intero spessore della politica senza <strong>di</strong>menticarne la trama concettuale. Il<br />

cinema, dove c’è un lungo filone <strong>di</strong> ottimi film politici, e la migliore televisione (sui networks<br />

internazionali; in Italia non esiste) sono altre fonti che possono restituire quello spessore. Le<br />

categorie si capiscono meglio e c’è più gusto a stu<strong>di</strong>arle se si hanno<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

B. FILOSOFIA SOCIALE <strong>di</strong> Elena Pulcini<br />

Questa parte, che tocca soltanto alcune categorie fondamentalissime della filosofia<br />

sociale (un introduzione più ampia viene tenuta nel corso <strong>di</strong> livello 1 <strong>di</strong> questa materia), è<br />

organizzata intorno a coppie concettuali <strong>di</strong> cui però solo la prima e la terza (comunità/società,<br />

passioni/interessi) possono <strong>di</strong>rsi <strong>di</strong>cotomie nel senso definito da Norberto Bobbio: coppie<br />

opposizionali i cui termini sono reciprocamente esclusivi e pretendono, presi insieme,<br />

d’essere esaustivi della realtà cui si riferiscono.<br />

28. Comunità/società<br />

1.<br />

Attraverso la coppia concettuale comunità/società è possibile riassumere quelle che sono<br />

state, nel corso dello sviluppo storico, le fondamentali forme <strong>di</strong> socializzazione.<br />

In generale il termine “comunità” designa un insieme <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui legati dal possesso <strong>di</strong> una o<br />

più caratteristiche comuni, come territorio, lingua, etnia, religione, cultura.<br />

Ma c’è un più preciso significato <strong>di</strong> comunità che si afferma a partire dal romanticismo<br />

tedesco e che verrà ratificato dal classico libro <strong>di</strong> F. Tönnies, Comunità e società (1887) 39 :<br />

una forma <strong>di</strong> socializzazione nella quale gli in<strong>di</strong>vidui, sulla base <strong>di</strong> una stessa appartenenza<br />

etnica, della prossimità locale o <strong>di</strong> valori comuni, con<strong>di</strong>vidono una forma <strong>di</strong> coesione<br />

solidale, affettivamente fondata.<br />

Al contrario, “società” in<strong>di</strong>ca una forma <strong>di</strong> socializzazione in cui gli in<strong>di</strong>vidui si<br />

rapportano gli uni agli altri con atteggiamento strumentale, mirando al fine della reciproca<br />

massimizzazione degli interessi e dell’utile in<strong>di</strong>viduale 40 . Si noti peraltro che della “società”<br />

esistono concezioni <strong>di</strong>verse rispetto a questa, che è quella preferita da chi scrive in quanto<br />

consente <strong>di</strong> meglio sottolineare il contrasto con il concetto <strong>di</strong> comunità; esse (come in Max<br />

Weber, v. sotto) evidenziano il suo fondarsi su <strong>di</strong> un nesso aggregante che poggia su valori<br />

razionalmente con<strong>di</strong>visi e/o su norme giuri<strong>di</strong>che piuttosto che sul self interest gestito dalla<br />

razionalità strumentale.<br />

Questa <strong>di</strong>stinzione, su cui torneremo, trova eco nella <strong>di</strong>stinzione tematizzata da Max<br />

Weber tra la comunità, nella quale “la <strong>di</strong>sposizione dell’agire sociale poggia (…) su una<br />

comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tra<strong>di</strong>zionale) degli in<strong>di</strong>vidui che ad<br />

essa partecipano”, e l’associazione, nella quale “la <strong>di</strong>sposizione all’agire sociale poggia su<br />

39<br />

Fer<strong>di</strong>nand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 1912; trad. it. Comunità e società, Ed. <strong>di</strong><br />

Comunità, Milano 1979.<br />

40<br />

Axel Honneth (filosofo tedesco), Comunità, in “<strong>Filosofia</strong> politica”, aprile 1999.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

una identità <strong>di</strong> interessi, oppure su un legame <strong>di</strong> interessi motivato razionalmente (rispetto al<br />

valore o rispetto allo scopo)” 41 .<br />

Possiamo dunque <strong>di</strong>re che comunità implica un legame profondo e affettivo tra<br />

l’in<strong>di</strong>viduo e la collettività; è con<strong>di</strong>visione, compartecipazione, senso <strong>di</strong> appartenenza ad una<br />

comune realtà 42 .<br />

2.<br />

Ma fino all’inizio del XX sec. non si trova nella filosofia politica una <strong>di</strong>stinzione tra<br />

“comunità” e “società”.<br />

In Aristotele comunità, koinonia, in<strong>di</strong>ca tutte le forme <strong>di</strong> socializzazione dell’uomo 43 :<br />

l’uomo è per natura un “animale sociale”, un essere politico, e agisce nell’orizzonte dato della<br />

polis, dove in base al ceto e alla professione realizza <strong>di</strong>verse modalità <strong>di</strong> associazione. A<br />

partire <strong>di</strong> qui, koinonia in<strong>di</strong>ca tanto i <strong>di</strong>fferenti tipi <strong>di</strong> associazione umana legati a un patto<br />

(promessa, contratto), quanto le forme spontanee <strong>di</strong> convivenza nella casa, nel villaggio, nella<br />

tribù.<br />

Non c’è dunque alcuna <strong>di</strong>stinzione tra un legame fondato sugli “interessi” e un legame<br />

fondato sui “sentimenti” .<br />

Questo concetto ampio <strong>di</strong> koinonia domina anche il pensiero della tarda antichità e del<br />

me<strong>di</strong>oevo. Nella città me<strong>di</strong>evale la <strong>di</strong>mensione della comunità è inscin<strong>di</strong>bile da quella della<br />

“società”. La città viene rappresentata, secondo una visione <strong>di</strong>ffusa, attraverso il simbolo del<br />

“corpo”, in cui l’idea dell’unità e della con<strong>di</strong>visione che unisce la parte al tutto implica anche<br />

l’idea <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sposizione or<strong>di</strong>nata a gerarchica delle parti stesse. La civitas è sostenuta da<br />

un’etica che esalta il valore dell’unità, della concor<strong>di</strong>a dei citta<strong>di</strong>ni, della loro comune<br />

appartenenza, ma impegna anche il corpo politico a proteggere e <strong>di</strong>fendere i propri membri. Il<br />

soggetto, i suoi doveri e <strong>di</strong>ritti sono rappresentati attraverso il filtro dell’appartenenza, e<br />

questa a sua volta si realizza in un’incorporazione dalla quale <strong>di</strong>pende la rappresentazione<br />

politico-giuri<strong>di</strong>ca del soggetto.<br />

La koinonia (tradotto sia con “societas” sia con “communitas”) resta la quintessenza <strong>di</strong><br />

tutte le forme <strong>di</strong> unione sociale in cui gli uomini stanno insieme sia in vista del<br />

perseguimento dei loro interessi, sia sulla base <strong>di</strong> un vincolo affettivo.<br />

Con la modernità, e la nascita del <strong>di</strong>ritto naturale moderno, c’è un mutamento ra<strong>di</strong>cale. Si<br />

delinea infatti un concetto sempre più chiaro <strong>di</strong> “società”, intesa come ciò che si istituisce<br />

tramite un contratto al fine <strong>di</strong> garantire i <strong>di</strong>ritti fondamentali, come la vita (Hobbes 44 ), la<br />

41<br />

Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 1922; trad. it. Economia e società, ed. <strong>di</strong> Comunità,<br />

Milano 1980, 5 voll., vol. I, Parte prima, cap. I, § 9.<br />

42<br />

Pietro Costa (storico del pensiero politico), Citta<strong>di</strong>nanza e comunità, in “<strong>Filosofia</strong> politica”, aprile<br />

1999.<br />

43<br />

Aristotele, Etica nicomachea, in Id.,Opere, Laterza, Roma-Bari 1983, vol.7.<br />

44 Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987; e The<br />

Elements of Law, natural and Politic (1640); trad.it. Elementi <strong>di</strong> legge naturale e politica, La Nuova<br />

Italia, Firenze 1985.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

proprietà (Locke 45 ), l’uguaglianza (Rousseau 46 ).<br />

La comunità entra in una zona <strong>di</strong> indefinibilità che o la sovrappone semanticamente a<br />

“società”; o la esclude (in quanto stato naturale) a favore dell’istituzione statale.<br />

Nel giusnaturalismo - che segna una frattura con la visione me<strong>di</strong>evale del “corpo”– la<br />

relazione fondativa della società civile è data dal rapporto tra gli in<strong>di</strong>vidui, con i loro <strong>di</strong>ritti e<br />

doveri, con la sovranità politica dello Stato, che garantisce or<strong>di</strong>ne e sicurezza.<br />

Con Hobbes scompare ogni forma <strong>di</strong> legame sociale che non sia quello tra in<strong>di</strong>vidui e<br />

società civile o politica (Stato), uniti dalla relazione protezione-obbe<strong>di</strong>enza. Anzi in Hobbes,<br />

come vedremo, la società politica, istituita da un contratto, pone fine ai pericoli intrinseci alla<br />

comunità “naturale” (stato <strong>di</strong> natura) degli in<strong>di</strong>vidui.<br />

In Rousseau la società civile e politica si costituisce me<strong>di</strong>ante un contratto sociale che gli<br />

in<strong>di</strong>vidui/citta<strong>di</strong>ni stipulano per dar vita ad una convivenza giuri<strong>di</strong>camente or<strong>di</strong>nata 47 .<br />

In Kant lo Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto moderno si spiega a partire dall’idea <strong>di</strong> una costituzione che è il<br />

nucleo fondamentale <strong>di</strong> tutte le leggi prodotte da un’autorità politica sovrana, le quali<br />

consentono alla libertà <strong>di</strong> ognuno <strong>di</strong> coesistere con quella <strong>di</strong> ogni altro 48 .<br />

Insomma la socialità è data dalla istituzione della società politica, che vede l’in<strong>di</strong>viduo<br />

detentore <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti e doveri <strong>di</strong> fronte al potere politico-statuale; e ciò richiama semmai il<br />

concetto <strong>di</strong> “citta<strong>di</strong>nanza”, inteso come la relazione giuri<strong>di</strong>ca e politica che collega il soggetto<br />

alla società politica come tale e il regime <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti e doveri che ne scaturiscono. I vincoli<br />

comunitari <strong>di</strong>ventano in generale secondari e subor<strong>di</strong>nati.<br />

Bisogna però precisare due aspetti. In primo luogo la comunità pre-politica (per es. la<br />

famiglia) gioca in alcuni autori un ruolo <strong>di</strong> coesione sociale e politica: sia in Rousseau che in<br />

Locke si configura nettamente l’idea <strong>di</strong> “famiglia” come comunità affettiva, in cui gli<br />

in<strong>di</strong>vidui trovano forme <strong>di</strong> solidarietà, fiducia, costruzione morale del soggetto in<strong>di</strong>rettamente<br />

funzionali all’equilibrio della società.<br />

Ma soprattutto, restano tracce del modello comunitario nella stessa costituzione dell’idea<br />

<strong>di</strong> società civile e politica. Permane cioè l’esigenza <strong>di</strong> rappresentare la forza coesiva e<br />

inclusiva <strong>di</strong> una collettività che trova espressione nella metafora del “corpo”; o, in altre<br />

parole, resta imporante la <strong>di</strong>mensione della appartenenza del soggetto ad una comunità.<br />

Persino in Hobbes, che pure rappresenta la teorizzazione più ra<strong>di</strong>cale del ruolo decisisvo<br />

dello Stato, permangono tracce dell’idea <strong>di</strong> comunità: la stessa creazione della sovranità dello<br />

Stato implica la sussunzione “<strong>di</strong> molte volontà in una” 49 , un processo <strong>di</strong> unificazione della<br />

volontà dei molti nella volontà del sovrano, la realizzazione <strong>di</strong> un “corpo politico o società<br />

civile” che “i greci chiamano polis, vale a <strong>di</strong>re città” 50 , cioè <strong>di</strong> un’entità politica che proprio a<br />

45<br />

John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,<br />

Stu<strong>di</strong>o tesi, Pordenone 1991.<br />

46<br />

Jean Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, 1755; trad. it.<br />

Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970.<br />

47<br />

Jean Jacques Rousseau, Du contrat social, 1762; trad.it. Il contratto sociale, in Id., Scritti politici,<br />

cit.<br />

48<br />

Cfr. Immanuel Kant, Scritti politici, Utet , Torino1965.<br />

49 Hobbes, Elementi <strong>di</strong> legge naturale e politica, cit. , p.99.<br />

50<br />

Ibidem, p. 160.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

causa della sua volontà unificante può <strong>di</strong>rsi propriamente una “persona civile” 51 . Si tratta<br />

dunque della costituzione artificiale <strong>di</strong> un “corpo” politico operata dal sovrano; né si può qui<br />

parlare <strong>di</strong> vincoli affettivi perché ciò che lega gli in<strong>di</strong>vidui al sovrano è solo un rapporto<br />

reciprocamente funzionale <strong>di</strong> potere-obbe<strong>di</strong>enza. Tuttavia restano tracce, anche in Hobbes,<br />

dell’esigenza <strong>di</strong> valorizzare il momento ‘inclusivo’ nella rappresentazione della collettività<br />

politica.<br />

Ancora più forte quest’esigenza appare nella linea Spinoza-Rousseau 52 .<br />

Il contratto, che fonda la sovranità dello Stato e con essa l’identità giuri<strong>di</strong>co-politica dei<br />

soggetti, istituisce allo stesso tempo una solidarietà tra i soggetti e il corpo sociale e politico.<br />

Dice Rousseau che con il contratto “ciascuno <strong>di</strong> noi mette in comune la sua persona e tutto il<br />

suo potere sotto la suprema <strong>di</strong>rezione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo<br />

ciascun membro come parte in<strong>di</strong>visibile del tutto” 53 . Il contratto sociale provoca un passaggio<br />

istantaneo dalla con<strong>di</strong>zione ‘privata’ alla con<strong>di</strong>zione ‘pubblica’ e dà luogo alla nascita <strong>di</strong> un<br />

“Io comune”, <strong>di</strong> una “persona pubblica” che, aggiunge Rousseau, “prendeva un tempo il<br />

nome <strong>di</strong> città e prende oggi quello <strong>di</strong> repubblica o <strong>di</strong> corpo politico” 54 . Popolo, sovrano, Stato,<br />

repubblica sono nomi per qualcosa che nasce ed esiste grazie al movimento che include i<br />

soggetti nel corpo politico e li rende obbe<strong>di</strong>enti alla sua volontà.<br />

In altri termini, nonostante l’idea da tutti con<strong>di</strong>visa che la coesione sociale sia affidata al<br />

patto razionale e all’istituzione giuri<strong>di</strong>ca e politica dello Stato, tesa a garantire il rispetto dei<br />

<strong>di</strong>ritti in<strong>di</strong>viduali e la realizzazione <strong>di</strong> un equilibrio tra interesse in<strong>di</strong>viduale e interesse<br />

comune, l’esigenza comunitaria permane; senza tuttavia che si espliciti in forma sistematica<br />

una qualche opposizione tra comunità e società.<br />

Un importante momento <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziazione lo troviamo in Hegel, che cerca <strong>di</strong> fondere in un<br />

unico approccio i <strong>di</strong>versi elementi tra<strong>di</strong>zionali 55 . Per Hegel ogni forma <strong>di</strong> unione sociale, che<br />

Locke, Rousseau e Kant avevano inteso contrattualisticamente come società <strong>di</strong> liberi e uguali<br />

citta<strong>di</strong>ni, rappresenta soltanto una delle sfere costitutive della società moderna: accanto al<br />

“sistema dei bisogni” (sfera economica) compaiono la sfera privata della famiglia e la sfera<br />

sovraor<strong>di</strong>nata dello Stato. Hegel concepisce la “società civile” secondo il modello contrattuale<br />

moderno, la “famiglia” secondo il modello romantico dell’unione, e lo “Stato” secondo la<br />

concezione aristotelica della koinonia. La società moderna comprende dunque tre forme <strong>di</strong><br />

socializzazione: nella famiglia gli in<strong>di</strong>vidui sono tenuti insieme dall’amore, nella sfera<br />

economica sono uniti solo dalla “libertà negativa” dei rapporti contrattuali, nello Stato dal<br />

comune legame ad un fine sovraor<strong>di</strong>nato.<br />

Ma una sistematica <strong>di</strong>stinzione tra comunità e società non compare fino a Tönnies, che<br />

raccoglie le istanze critiche – anti-in<strong>di</strong>vidualistiche - già presenti nel preromanticismo tedesco<br />

(da Müller a Stein, Savigny). Qui si affermava infatti (sebbene ancora senza una precisa<br />

51<br />

Ibidem, p.180.<br />

52<br />

Baruch Spinoza, Tractatus politicus, 1677; trad.it. Trattato politico, Laterza, Roma-Bari 1991;<br />

Rousseau, Il contratto sociale, cit.<br />

53<br />

Rousseau, Il contratto sociale, cit., libro I. cap.VI.<br />

54<br />

Ibidem.<br />

55<br />

G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts,1821; trad. it. Lineamenti <strong>di</strong> filosofia del<br />

<strong>di</strong>ritto, Laterza, Roma-Bari 1994.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

<strong>di</strong>stinzione concettuale) la <strong>di</strong>fferenza tra società e comunità: mentre nel contesto giuri<strong>di</strong>co<br />

della società gli in<strong>di</strong>vidui si rapportano l’uno all’altro perseguendo vicendevolmente i loro<br />

fini o interessi, nelle unioni “naturali” (come famiglia, tribù, popolo) essi sono<br />

reciprocamente legati da vincoli pre-razionali, come quelli prodotti dai sentimenti, dai<br />

costumi e dalle tra<strong>di</strong>zioni.<br />

E’ importante sottolineare che il tema della comunità (<strong>di</strong>versamente declinato a seconda<br />

dei contesti teorici) interviene all’altezza della crisi e della critica del para<strong>di</strong>gma<br />

in<strong>di</strong>vidualistico e meccanicistico sul quale, a partire dal giusnaturalismo classico (a livello<br />

teorico) e dalla rivoluzione francese (a livello storico-politico), si era andata delineando la<br />

concettualizzazione della moderna razionalità politica.<br />

Tönnies, valendosi <strong>di</strong> numerose innovazioni concettuali e prospettive teoriche prodotte<br />

dallo sviluppo della teoria sociale dopo Hegel, tematizza dunque l’opposizione<br />

comunità/società. “Comunità” in<strong>di</strong>ca l’insieme delle relazioni organiche tra gli in<strong>di</strong>vidui, che<br />

hanno il loro para<strong>di</strong>gma nei rapporti familiari; allude cioè all’unità delle volontà umane come<br />

presupposto naturale, solo in riferimento alla quale le parti (le singole volontà) possono avere<br />

una collocazione. La “società” invece, in<strong>di</strong>ca l’insieme delle relazioni meccaniche tra gli<br />

in<strong>di</strong>vidui, il cui para<strong>di</strong>gma è fornito dalle relazioni commerciali e contrattuali che poggiano<br />

sullo scambio <strong>di</strong> prestazioni.<br />

Tönnies propone la tesi seguente: che nel corso dell’affermazione del capitalismo le sfere<br />

d’azione “della società” (gesellschaftlich) avrebbero minacciato o <strong>di</strong>ssolto progressivamente<br />

quelle delle relazioni sociali (sozial). Egli non voleva né affermare l’inevitabilità <strong>di</strong> un<br />

determinato sviluppo, né esprimere nostalgie per le comunità rurali, ma esplorare le<br />

possibilità sociali (sozial) della creazione <strong>di</strong> comunità (come corporazioni e sindacati)<br />

adeguate all’epoca industriale.<br />

In questa <strong>di</strong>rezione va anche alcuni anni dopo Emile Durkheim, attento alla crisi morale<br />

della società industriale. Durkheim non parla propriamente <strong>di</strong> comunità/società, ma i suoi<br />

concetti <strong>di</strong> solidarietà “meccanica” e “organica” riflettono questa <strong>di</strong>stinzione: mentre nelle<br />

con<strong>di</strong>zioni della solidarietà meccanica regna tra i soggetti una concor<strong>di</strong>a emotiva e cognitiva<br />

così alta che l’integrazione sociale può compiersi sulla base stabile <strong>di</strong> una coscienza<br />

collettiva, nelle con<strong>di</strong>zioni della solidarietà organica le <strong>di</strong>fferenze in<strong>di</strong>viduali tra i soggetti<br />

sono tanto gran<strong>di</strong> che l’integrazione sociale viene garantita solo dalla costrizione cooperativa<br />

della <strong>di</strong>visione del lavoro 56 .<br />

Ma mentre Tönnies auspica un equilibrio tra le due forme, Durkheim le vede in<br />

successione storica. E si pone quin<strong>di</strong> il problema <strong>di</strong> introdurre correttivi ad un’integrazione<br />

sociale fondata solo sulla <strong>di</strong>visione del lavoro, e quin<strong>di</strong> carente <strong>di</strong> convinzioni morali comuni.<br />

Di qui, prima la sua proposta <strong>di</strong> una <strong>di</strong>visione del lavoro più “giusta”, poi la necessità <strong>di</strong><br />

ricorrere ad una sorta <strong>di</strong> fusione collettiva 57 .<br />

A questo si ispirerà l’anticapitalismo romantico (Francia e Germania), identificando<br />

56<br />

Emile Durkheim (sociologo francese), De la <strong>di</strong>vision du travail social, 1893; trad.it. La <strong>di</strong>visione<br />

del lavoro sociale, ed. <strong>di</strong> Comunità, Milano 1962.<br />

57<br />

Emile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912; trad.it. Le forme elementari<br />

della vita religiosa, Comunità, Milano 1977.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

sempre più la comunità con qualsiasi forma <strong>di</strong> unione sociale nella quale i soggetti, attraverso<br />

legami dati biologicamente o consolidati storicamente, sviluppano reciprocamente vincoli<br />

affettivi più forti che nei meri rapporti giuri<strong>di</strong>ci (famiglia, comune rurale me<strong>di</strong>evale, setta<br />

religiosa): ciò sfocia, a sinistra nella creazione <strong>di</strong> una classe lavoratrice politicizzata; a destra,<br />

nella realizzazione politica <strong>di</strong> una “comunità popolare”, non più legata allo Stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto.<br />

L’idea <strong>di</strong> comunità viene ad assumere così una connotazione ideologica, con l’unica<br />

eccezione <strong>di</strong> Helmuth Plessner, che propone una riflessione, in prospettiva liberale, sui “limiti<br />

della comunità” 58 . La comunità viene ad essere identificata con specifiche realtà nazionali e<br />

razziali; come testimoniano i miti del “sangue e suolo” (Blut und Boden) che faranno da<br />

sfondo al tentativo <strong>di</strong> costruzione <strong>di</strong> una “comunità <strong>di</strong> popolo” (Volksgemeinschaft) negli<br />

anni Trenta. Sarà questa la deriva mitica e totalitaria della comunità, la cui ossessiva<br />

evocazione sarà soltanto in<strong>di</strong>ce del suo compiuto esaurimento come categoria esplicativa dei<br />

moderni fenomeni politici, almeno in ambito continentale.<br />

Contemporaneamente, però, negli Stati Uniti si sviluppa un <strong>di</strong>verso concetto <strong>di</strong> comunità:<br />

la questione centrale è qui fino a che punto una società democratica potesse perdere ogni<br />

vincolo con le communities locali o religiose, senza perdere anche i presupposti della sua<br />

stessa esistenza. Emerge un uso più libero del concetto <strong>di</strong> comunità, privo <strong>di</strong> implicazioni<br />

nostalgiche e ideologiche, che consente <strong>di</strong> concepire la stessa società democratica come un<br />

progetto “comunitario”, al quale cioè partecipano attivamente le <strong>di</strong>verse communities.<br />

Momento importante <strong>di</strong> sintesi <strong>di</strong> questa tra<strong>di</strong>zione è la riflessione <strong>di</strong> J. Dewey 59 e la sua<br />

visione della democrazia come community of communities, fondata dunque su un concetto <strong>di</strong><br />

comunità reinterpretato in senso liberale. Per communities si devono intendere infatti quelle<br />

forme <strong>di</strong> unione sociale nelle quali i soggetti producono, attraverso la partecipazione<br />

democratica, valori e fini che li fanno sentire uguali e legati da vincoli comuni.<br />

Dopo la IIa Guerra mon<strong>di</strong>ale il concetto <strong>di</strong> comunità subisce una eclissi teorica pressoché<br />

completa, salvo che nel pensiero cattolico, per non <strong>di</strong>re <strong>di</strong> quello islamico (la Umma dei<br />

credenti).<br />

Esso è riemerso solo <strong>di</strong> recente nel contesto <strong>di</strong> quell’insieme <strong>di</strong> autori <strong>di</strong> area<br />

anglosassone, definiti appunto “communitarians” 60 , che si contrappongono al modello<br />

in<strong>di</strong>vidualistico della tra<strong>di</strong>zione liberale.<br />

Qui ritorna il contrasto comunità/società: mentre con “società” (a partire da Locke, Kant<br />

o Hegel) viene intesa una forma <strong>di</strong> unione sociale in cui i soggetti si rispettano<br />

reciprocamente come portatori <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti, “comunità” in<strong>di</strong>ca una sorta <strong>di</strong> unità nella quale i<br />

58<br />

Helmuth Plessner (filosofo tedesco, 1892-1985), Grenzen der Gemeinschaft, 1924; trad.it. I<br />

limiti della comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.<br />

59<br />

John Dewey (filosofo statunitense, 1859-1952), The Public and its Problems, 1946; trad. it.<br />

Comunità e potere, la Nuova Italia, Firenze 1971.<br />

60<br />

Alasdair MacIntyre (filosofo scozzese), After Virtue, Univ. of Notre Dame Press 1981; trad. it.<br />

Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988; Michael Sandel (filosofo americano), Liberalism and the<br />

Limits of Justice, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1982; trad.it. Il liberalismo e i limiti della<br />

giustizia, Feltrinelli, Milano 1994; Charles Taylor (filosofo anglo-canadese), Sources of the Self,<br />

Cambridge Univ. Press, 1989; trad.it. Ra<strong>di</strong>ci dell’Io, Feltrinelli, Milano 1993; Michael Walzer<br />

(filosofo statunitense), Spheres of Justice: a Defence of Pluralism and Equality, Basic Books, New<br />

York 1983; trad.it. Sfere <strong>di</strong> giustizia, Feltrinelli, Milano 1987.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

soggetti in un modo o nell’altro sviluppano vincoli positivi.<br />

Partendo dal presupposto che la comunità favorisce la fioritura delle capacità personali,<br />

che essa è l’espressione <strong>di</strong> quella funzione psicologica che consente agli in<strong>di</strong>vidui <strong>di</strong><br />

adempiere al loro sviluppo più pieno, la critica comunitarista al liberalismo (soprattutto nella<br />

riproposta fattane da J. Rawls in Teoria della giustizia 61 ) si incentra dunque su due punti<br />

fondamentali: in primo luogo, il rifiuto del modello liberale, in<strong>di</strong>vidualistico ed egoistico, che<br />

enfatizza unicamente l’autonomia della persona configurando un in<strong>di</strong>viduo svincolato ed<br />

astratto, sra<strong>di</strong>cato dai contesti <strong>di</strong> appartenenza. Al “<strong>di</strong>sengaged (o “unencumbered”) Self“<br />

liberale, i comunitaristi oppongono un “sé contestuale”, ra<strong>di</strong>cato nei concreti luoghi <strong>di</strong><br />

appartenenza. In secondo luogo, la critica della priorità del “giusto” sul bene”, vale a <strong>di</strong>re <strong>di</strong><br />

una prospettiva che privilegi il tema della giustizia e il problema della <strong>di</strong>stribuzione delle<br />

risorse sul problema del bene comune e della “vita buona”. “Comunità” in<strong>di</strong>ca dunque un<br />

gruppo <strong>di</strong> persone aggregate da un fine comune che non è coincidente con i loro interessi<br />

egoistici, ma è con<strong>di</strong>viso dagli altri membri della comunità al punto che tale fine <strong>di</strong>viene il<br />

loro fine. Perseguire il fine comune rappresenta una pratica che impegna i membri della<br />

comunità non perché genera un guadagno in<strong>di</strong>viduale, ma perché produce un vantaggio<br />

con<strong>di</strong>viso e in<strong>di</strong>visibile per i membri della comunità, uniti appunto da vincoli positivi.<br />

Ma, in primo luogo, non è chiaro in che cosa consistano questi vincoli, se derivino da<br />

sentimenti con<strong>di</strong>visi, da convinzioni comuni o dalla memoria storica. Inoltre, sebbene alcuni<br />

aspetti della critica al liberalismo da parte dei communitarians, tra cui soprattutto la critica<br />

del “<strong>di</strong>sengaged Self”, siano con<strong>di</strong>visibili e apprezzabili, è importante segnalare i rischi<br />

intrinseci a questa prospettiva normativa: tra cui il pericolo <strong>di</strong> una coercizione da parte della<br />

tra<strong>di</strong>zione e della riduzione della libera scelta, l’assenza <strong>di</strong> pluralismo, la tendenza alla<br />

legittimazione tout court <strong>di</strong> ogni comunità, in<strong>di</strong>pendentemente dai valori <strong>di</strong> cui è portarice, e<br />

l’assenza <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio critico su principi e tra<strong>di</strong>zioni della comunità <strong>di</strong> appartenenza.<br />

3.<br />

Si tratta dunque <strong>di</strong> recepire l’invito dei communitarians a ripensare la comunità e il suo<br />

ruolo all’interno della società contemporanea, tenendo fermi i presupposti liberali<br />

dell’autonomia e della libertà <strong>di</strong> scelta; coniugando cioè, si potrebbe <strong>di</strong>re, “citta<strong>di</strong>nanza” e<br />

“appartenenza”, acquisizione e <strong>di</strong>fesa dei <strong>di</strong>ritti da un lato, e coesione sociale e solidale<br />

dall’altro.<br />

La necessità <strong>di</strong> fare chiarezza sul concetto <strong>di</strong> comunità, sottraendolo sia alla rimozione in<br />

cui spesso incorre il pensiero liberale, sia ai rischi del comunitarismo, si pone tanto più oggi,<br />

nella società globale, nella quale ci troviamo <strong>di</strong> fronte a fenomeni <strong>di</strong>ffusi <strong>di</strong> un “ritorno della<br />

comunità”.<br />

Si assiste infatti al riemergere <strong>di</strong> un “bisogno <strong>di</strong> comunità” 62 che assume forme<br />

molteplici, e che in generale si può interpretare come risposta alle patologie prodotte dai<br />

61<br />

John Rawls (filosofo statunitense, 1921-2004), A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard<br />

Univ. Press, Cambridge 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1997.<br />

62<br />

Zigmunt Bauman (sociologo inglese <strong>di</strong> origine polacca), Missing Community, 2001; trad. it. Voglia<br />

<strong>di</strong> comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

processi <strong>di</strong> globalizzazione.<br />

Queste patologie, per sintetizzare brevemente, sono riconducibili essenzialmente a due:<br />

l’erosione dell’identità, del legame sociale e del senso generata dall’omologazione e<br />

dall’in<strong>di</strong>fferenziazione globale; e le nuove forme <strong>di</strong> esclusione prodotte dalla <strong>di</strong>namica della<br />

globalizzazione.<br />

In entrambi i casi il bisogno <strong>di</strong> comunità <strong>di</strong>viene il sintomo più evidente della rinascita<br />

del “locale” dentro il configurarsi <strong>di</strong> una <strong>di</strong>mensione “globale”; il sintomo cioè <strong>di</strong> una<br />

“resistenza” , come <strong>di</strong>ce Manuel Castells 63 , <strong>di</strong> un bisogno <strong>di</strong> appartenenza e solidarietà da un<br />

lato, <strong>di</strong> inclusione e <strong>di</strong> riconoscimento dall’altro, che rispondono entrambi ad un forte bisogno<br />

identitario, <strong>di</strong>satteso dalla società globale.<br />

E’ indubbio che questo bisogno assume oggi forme per lo più regressive e <strong>di</strong>struttive.<br />

Esso genera infatti, dentro e fuori dall’Occidente, “comunità della paura” 64 , vale a <strong>di</strong>re forme<br />

<strong>di</strong> coesione prodotte dalla con<strong>di</strong>visione dell’ansia e dalla costruzione <strong>di</strong> “capri espiatori”;<br />

oppure dà origine, come nel caso delle comunità etniche, religiose, nazionalistiche, al ritorno<br />

a “lealtà primor<strong>di</strong>ali” 65 e a forme <strong>di</strong> alleanza entropiche e fusionali produttrici <strong>di</strong> conflitti e<br />

violenza.<br />

E ciò vuol <strong>di</strong>re che il revival comunitario si configura come l’origine principale<br />

dell’esplosione dei “conflitti identitari” (etnici, religiosi, nazionalistici) che attraversano il<br />

pianeta dando origine a forme ra<strong>di</strong>cali <strong>di</strong> violenza.<br />

Allo stesso tempo però il “bisogno <strong>di</strong> comunità” non può essere liquidato come un illiberale<br />

residuo arcaico; ma va assunto in tutta la sua problematicità in una prospettiva normativa che<br />

sappia ripensare la comunità non più come Gemeinschaft, residuo premoderno e naturalmente<br />

ascritto, ma come oggetto <strong>di</strong> una libera scelta, come risposta al desiderio inelu<strong>di</strong>bile <strong>di</strong><br />

riconoscimento e <strong>di</strong> appartenenza…<br />

In questo senso la comunità si configura come momento costitutivo e permanente del sociale<br />

che coesiste, quale luogo <strong>di</strong> coesione e <strong>di</strong> solidarietà tra gli in<strong>di</strong>vidui, con la società, quale luogo<br />

dei rapporti giuri<strong>di</strong>ci e contrattuali; in quanto, al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni logica oppositiva, esse sono<br />

entrambe, come aveva già intuito John Dewey, <strong>di</strong>mensioni in<strong>di</strong>spensabili per il buon<br />

funzionamento delle democrazie moderne.<br />

63<br />

Manuel Castells (sociologo <strong>di</strong> origine catalana), The Power of Identity, II vol. <strong>di</strong> The Information<br />

Age, Blackwell, Oxford 1997, 3 voll.; trad. it. Il potere dell’identità, Univ.Bocconi, Milano 2003.<br />

64<br />

Zigmunt Bauman, Voglia <strong>di</strong> comunità, cit., ed anche Id., In Search of Politics, Polity Press,<br />

Cambridge 1999; trad.it.La solitu<strong>di</strong>ne del citta<strong>di</strong>no globale, Feltrinelli, Milano 2000; Ulrich Beck<br />

(sociologo tedesco), Risikogesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986; trad.it. La società del<br />

rischio, Carocci, Roma 2000.<br />

65 Clifford Geertz (antropologo inglese), Mondo globale, mon<strong>di</strong> locali, Il Mulino, Bologna,<br />

1999.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

29. In<strong>di</strong>viduo/soggetto<br />

1.<br />

Genericamente il termine in<strong>di</strong>viduo sta ad in<strong>di</strong>care un essere vivente, in<strong>di</strong>visibile,<br />

irriducibile l’uno all’altro, singolo nel sentire, pensare, agire.<br />

In questo senso, potremmo <strong>di</strong>re, sono sempre esistiti “in<strong>di</strong>vidui”, mentre il<br />

riconoscimento dell’in<strong>di</strong>viduo come valore sociale è un evento relativamente tardo, connesso<br />

all’origine stessa della modernità. Possiamo anzi <strong>di</strong>re che l’ “in<strong>di</strong>viduo”, inteso come entità<br />

autonoma e in<strong>di</strong>pendente, è forse la maggiore conquista della modernità che ne fa il punto <strong>di</strong><br />

partenza inelu<strong>di</strong>bile <strong>di</strong> ogni prospettiva etica, sociale o politica.<br />

L’emergere del valore dell’in<strong>di</strong>viduo, a partire dal XVII secolo, genera la rottura della<br />

visione olistica del mondo, fortemente ancorata (dalla polis greca alle società feudali) alla<br />

struttura olistica della società. Secondo questa visione, l’in<strong>di</strong>viduo è parte <strong>di</strong> un tutto; è<br />

subor<strong>di</strong>nato al “tutto” organico della comunità che è rigidamente gerarchizzata; è vincolato<br />

agli altri contro la propria volontà, sottomesso a tra<strong>di</strong>zioni, leggi e valori che non ha egli<br />

stesso prodotto. In questo contesto, premoderno appunto, il “noi” prevale sull”Io” e lo<br />

precede, determinandone scelte, orientamenti, condotta.<br />

Ciò non vuol <strong>di</strong>re che non ci siano tracce premoderne del valore dell’in<strong>di</strong>viduo 66 : si pensi<br />

al “conosci te stesso” socratico; allo stoicismo e alla figura del saggio; al cristianesimo e alla<br />

valorizzazione dell’interiorità. E ancora all’assunzione, nei sec. XIII-XIV, dell’in<strong>di</strong>viduo<br />

come categoria fondamentale del <strong>di</strong>ritto (cfr. il nominalismo <strong>di</strong> Guglielmo da Ockam,<br />

secondo il quale esistono solo esseri singoli ciascuno dei quali è assolutamente uno,<br />

in<strong>di</strong>viduum). Infine, soprattutto, si pensi alla Riforma protestante e alla genesi del sé<br />

ascetico 67 .<br />

Ma è solo con la modernità che l’in<strong>di</strong>viduo si afferma pienamente, <strong>di</strong>venendo un valore<br />

sociale in corrispondenza dei tre gran<strong>di</strong> processi che segnano l’origine e il <strong>di</strong>spiegamento<br />

dell’età moderna: nascita della scienza, sviluppo del mercato, origine dello Stato.<br />

L’emergere dell’in<strong>di</strong>viduo, quale entità autonoma e in<strong>di</strong>pendente, o per meglio <strong>di</strong>re, come<br />

entità sovrana, trova a questo punto un’imme<strong>di</strong>ata connessione con l’affermarsi dell’idea <strong>di</strong><br />

“soggetto”: questo viene inteso cartesianamente come coscienza razionale e pensante (cogito<br />

ergo sum), separata dal corpo e dal mondo, dotata <strong>di</strong> libero arbitrio e capace <strong>di</strong> costruire<br />

autonomamente le proprie certezze e verità.<br />

Non a caso nella riflessione filosofica i due termini vengono spesso usati in modo<br />

intercambiabile. Ma sebbene ciò sia generalmente legittimo, dal punto <strong>di</strong> vista della filosofia<br />

sociale, la nozione <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduo è <strong>di</strong>stinta da quella <strong>di</strong> soggetto ed è, soprattutto, più<br />

pertinente; in quanto “soggetto” evoca la <strong>di</strong>mensione epistemologica e cognitiva (si pensi alla<br />

coppia oppositiva soggetto/oggetto), mentre “in<strong>di</strong>viduo” evoca la <strong>di</strong>mensione sociale (si pensi<br />

66<br />

Cfr. Louis Dumont (antropologo e filosofo francese, 1911-1998), Essais sur l’in<strong>di</strong>vidualisme,<br />

Seuil, Paris 1983; trad.it. Saggi sull’in<strong>di</strong>vidualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia<br />

moderna (1983), Adelphi, Milano 1993.<br />

67<br />

cfr. Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1922; trad.it. L’etica<br />

protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1977 (Ia ed.1945).<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

alla coppia in<strong>di</strong>viduo/società).<br />

L’in<strong>di</strong>viduo moderno è in prima istanza colui che è dotato <strong>di</strong> una duplice forma <strong>di</strong><br />

libertà: la libertà “da” (norme, valori, co<strong>di</strong>ci precostituiti e tessuti comunitari), e la libertà<br />

“<strong>di</strong>” (<strong>di</strong> decidere, scegliere, programmare la propria vita).<br />

La libertà è dunque il <strong>di</strong>ritto naturale per eccellenza, ma non è il solo. Attraverso la<br />

metafora dello “stato <strong>di</strong> natura” il pensiero moderno, contrattualistico e liberale, costruisce<br />

l’immagine <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo dotato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti naturali fondamentali (libertà, vita, uguaglianza,<br />

proprietà) che <strong>di</strong>ventano imprescin<strong>di</strong>bili per la costruzione dell’or<strong>di</strong>ne sociale e politico. Il<br />

riconoscimento dei <strong>di</strong>ritti è il primo presupposto che, tra il XVII e XVIII secolo, accomuna<br />

autori come Hobbes e Locke, Rousseau e Kant.<br />

Il secondo presupposto riguarda la legittimità del perseguimento degli interessi:<br />

l’in<strong>di</strong>viduo moderno viene qui a coincidere con la figura dell’homo oeconomicus, utilitarista e<br />

calcolatore, razionalmente capace <strong>di</strong> realizzare la sod<strong>di</strong>sfazione dei propri interessi.<br />

L’attenzione prevalente a questi due attributi (<strong>di</strong>ritti e interessi) da parte della tra<strong>di</strong>zione<br />

liberale, ha finito per co<strong>di</strong>ficare l’immagine <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo autonomo, razionale e<br />

previdente; un in<strong>di</strong>viduo dotato <strong>di</strong> quella “razionalità rispetto allo scopo” (Zweckrationalität),<br />

per <strong>di</strong>rla con Max Weber, che lo rende strumentalmente capace <strong>di</strong> aderire ad un contratto<br />

sociale e <strong>di</strong> costruire le istituzioni necessarie (lo Stato) a garantire la salvaguar<strong>di</strong>a dei propri<br />

<strong>di</strong>ritti e a permettere la sod<strong>di</strong>sfazione dei propri interessi.<br />

Questa immagine, riassumibile appunto nel modello dell’homo oeconomicus, ha finito<br />

per oscurare quella che vorrei definire la costitutiva e originaria ambivalenza dell’in<strong>di</strong>viduo<br />

moderno: per il quale la conquista della libertà è anche, come ci <strong>di</strong>ce Hans Blumenberg 68 ,<br />

“per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne”, scoperta del proprio sra<strong>di</strong>camento, smarrimento delle proprie certezze <strong>di</strong><br />

fronte al crollo <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne cosmico che lo pone <strong>di</strong> fronte all’onere delle proprie scelte.<br />

Fin dalle origini della modernità insomma, l’in<strong>di</strong>viduo si presenta sovrano a carente ad<br />

un tempo, autoaffermativo e debole, progettuale e bisognoso.<br />

La “per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne” va intesa in senso duplice: l’in<strong>di</strong>viduo è esposto non solo<br />

all’ignoto del mondo, data la possibilità, come <strong>di</strong>ce ancora Blumenberg, <strong>di</strong> spingersi “al <strong>di</strong> là<br />

delle colonne d’Erole”, ma anche al caos delle proprie passioni.<br />

Questa ambivalenza era già stata tematizzata da Montaigne nella seconda metà del XVI<br />

secolo 69 : il “Moi” descritto negli Essais appare orgoglioso, autoaffermativo, libero <strong>di</strong> agire e<br />

<strong>di</strong> pensare in piena autonomia, ma allo stesso tempo posto “fuori asse”, <strong>di</strong>sorientato,<br />

sra<strong>di</strong>cato, carente, in preda al <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne provocato dalle proprie passioni.<br />

In virtù <strong>di</strong> quello stesso processo che gli conferisce la propria ine<strong>di</strong>ta libertà, <strong>di</strong>gnità,<br />

sovranità, l’in<strong>di</strong>viduo scopre il proprio vuoto, la propria vulnerabilità e mancanza. E<br />

soprattutto egli scopre la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> controllare e gestire le proprie passioni, che, a partire<br />

dalla modernità <strong>di</strong>ventano legittime (si veda lo stesso trattato <strong>di</strong> Descartes sulle Passions de<br />

l’ame 70 ), ma portatrici <strong>di</strong> pericoli sia per la costruzione dell’identità in<strong>di</strong>viduale sia per la<br />

68<br />

Hans Blumenberg (filosofo tedesco, 1920-1996), Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt<br />

am Main 1966; trad.it. La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.<br />

69<br />

Michel de Montaigne, Essais, 1588; trad.it. Saggi, Adelphi, Milano 1992.<br />

70<br />

René Descartes, Passions de l’ame (1649); trad.it. Le passioni dell’anima, in Id., Opere filosofiche,<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

convivenza sociale.<br />

Possiamo allora <strong>di</strong>re, riassumendo, che l’in<strong>di</strong>viduo moderno è colui che è dotato <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ritti, interessi e passioni; e che dall’intreccio tra questi tre aspetti, legittimi e irrinunciabili,<br />

si delinea un’immagine molto più complessa <strong>di</strong> quella dell’homo oeconomicus, progettuale e<br />

razionale.<br />

Il <strong>di</strong>ritto infatti contiene in sé un elemento conflittuale e <strong>di</strong> dominio (cfr. lo jus in omnia<br />

<strong>di</strong> Thomas Hobbes 71 ); gli interessi sono “contaminati” dalle passioni (in particolare da quella<br />

passione peculiare della modernità che è l’”amore <strong>di</strong> sé” nelle sue molteplici manifestazioni),<br />

che spingono gli uomini a condotte irrazionali e <strong>di</strong>struttive (Hobbes: nella <strong>di</strong>fesa della vita gli<br />

uomini tendono alla ricerca del potere; Locke: la ricerca dei beni materiali <strong>di</strong>venta oggetto <strong>di</strong><br />

un desiderio illimitato <strong>di</strong> acquisizione e appropriazione 72 ; Rousseau: il desiderio <strong>di</strong> eccellere<br />

spinge l’Io alla costruzione <strong>di</strong> una falsa identità 73 ).<br />

Ne emerge l’immagine <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo conflittuale, che tenta <strong>di</strong> colmare la propria<br />

carenza attraverso l’acquisizione e il dominio, e che vede nell’altro essenzialmente il nemico<br />

(Hobbes) o il rivale (Locke, Rousseau, Smith).<br />

La stessa soluzione a questa situazione conflittuale (l’uscita dallo stato <strong>di</strong> natura) non è,<br />

in prima istanza, l’esito <strong>di</strong> una decisione razionale, ma è me<strong>di</strong>ata dalle passioni: si pensi al<br />

ruolo della paura in Hobbes, “passione ragionevole”, è stato detto 74 , senza la quale gli<br />

in<strong>di</strong>vidui non sarebbero indotti al patto che e<strong>di</strong>fica lo Stato; o al ruolo dell’amore <strong>di</strong> sé in<br />

Rousseau che consente all’in<strong>di</strong>viduo <strong>di</strong> combattere la <strong>di</strong>struttività dell’amor proprio.<br />

Ciò vuol <strong>di</strong>re, correggendo in parte la tesi <strong>di</strong> Hirschman secondo la quale nella modernità<br />

si combattono le passioni con gli interessi 75 , che le passioni si combattono con le passioni. E<br />

che questa <strong>di</strong>namica emotiva <strong>di</strong> “controbilanciamento” prelude al patto razionale.<br />

E’ vero comunque che, nella prima modernità, gli in<strong>di</strong>vidui sono capaci, se non altro in<br />

ultima istanza, <strong>di</strong> porre in atto una decisione razionale e consapevole che, attraverso la<br />

negoziazione con l’altro e la costruzione dell’or<strong>di</strong>ne politico, garantisca la sod<strong>di</strong>sfazione dei<br />

loro interessi.<br />

2.<br />

Questo modello entra in crisi nella seconda modernità (o post-modernità), ed ha a suo<br />

fondamento la crisi stessa dell’in<strong>di</strong>viduo.<br />

L’in<strong>di</strong>viduo post-moderno viene descritto da gran parte della sociologia contemporanea<br />

(da David Riesman a Richard Sennett, da Christopher Lasch a Robert Bellah, da Gilles<br />

Utet, Torino 1981.<br />

71<br />

Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987.<br />

72<br />

John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,<br />

Stu<strong>di</strong>o tesi, Pordenone 1991.<br />

73<br />

Jean Jacques Rousseau, Discours sur les sciences et les arts, 1750; trad.it. Discorso sulle scienze e<br />

sulle arti, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970; e Discours sur l’origine et les fondements de<br />

l’inégalité, 1755; trad. it. Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, in Id., Scritti<br />

politici, cit.<br />

74<br />

Raymon Polin, Politique et philosophie chez Thomas Hobbes, Vrin, Paris 1977 (Ia ed. 1953).<br />

75<br />

Albert O.Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton Univ. Press, Princeton 1977;<br />

trad.it.Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Lipovetski a Charles Taylor) come un in<strong>di</strong>viduo edonista e narcisista, teso alla ricerca <strong>di</strong><br />

un’autorealizzazione senza limiti, slegato dal sociale e estraneo all’altro, in<strong>di</strong>fferente alla<br />

sfera pubblica, incapace <strong>di</strong> progettualità e <strong>di</strong> decisione politica. Si parla ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> “fine<br />

dell’in<strong>di</strong>viduo”, con accenti spesso nostalgici dell’in<strong>di</strong>viduo (hobbesiano e prometeico) della<br />

prima modernità.<br />

Ma più che <strong>di</strong> “fine dell’in<strong>di</strong>viduo”, siamo in presenza <strong>di</strong> quelle che vorrei definire<br />

patologie dell’in<strong>di</strong>vidualismo: vale a <strong>di</strong>re <strong>di</strong> sviluppi “degenerativi” 76 <strong>di</strong> aspetti della<br />

modernità che sono da sempre potenzialmente iscritti al loro interno.<br />

Alcuni autori – come Sennett e Lasch 77 - tendono a ricondurre l’origine della crisi<br />

dell’in<strong>di</strong>viduo alla comparsa (verso la fine del XVIII sec.) dell’ideale dell’autenticità, visto<br />

come eccessiva enfasi sull’Io.<br />

Ma così si finisce per condannare quella che è una legittima aspirazione dell’in<strong>di</strong>viduo:<br />

un’aspirazione che emerge, a partire già da Rousseau, in una fase più matura della modernità;<br />

quando la ricerca dell’autenticità esprime appunto un bisogno singolare <strong>di</strong> autorealizzazione,<br />

e testimonia la presenza <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo – come ha ben notato Georg Simmel 78 - consapevole<br />

della propria unicità e originalità.<br />

Il problema non sta nella ricerca dell’autenticità in quanto tale che appare, a partire dalla<br />

riflessione rousseauiana, come un legittimo bisogno <strong>di</strong> “fedeltà a se stessi”, ma – come<br />

sostiene Charles Taylor 79 - nella sua degenerazione verso patologie narcisistiche.<br />

Alle cause <strong>di</strong> questa degenerazione si può qui solo accennare: dal processo <strong>di</strong><br />

burocratizzazione della società alla crisi della famiglia, dal <strong>di</strong>lagare <strong>di</strong> una società dei<br />

consumi all’incapacità delle istituzioni (soprattutto politiche) <strong>di</strong> garantire sicurezza,<br />

dall’emergere <strong>di</strong> fenomeni <strong>di</strong> spettacolarizzazione alle chances illimitate offerte dallo<br />

sviluppo tecnologico.<br />

Tutto questo provoca quella trasformazione patologica dell’amore <strong>di</strong> sé in senso sempre<br />

più autoreferenziale che è stata definita “processo <strong>di</strong> personalizzazione” 80 e che genera un<br />

in<strong>di</strong>viduo narcisistico, preoccupato unicamente della propria autorealizzazione, onnipotente e<br />

vuoto allo stesso tempo.<br />

Non si tratta tuttavia né <strong>di</strong> un tra<strong>di</strong>mento della modernità e <strong>di</strong> una sua “irrazionalistica”<br />

inversione <strong>di</strong> rotta, come affermano alcuni sociologi 81 , né <strong>di</strong> un liberatorio superamento dei<br />

76<br />

Sul concetto <strong>di</strong> “patologie del sociale”, cfr. Axel Honneth (filosofo tedesco), Patologie del<br />

sociale.Tra<strong>di</strong>zione e attualità della filosofia sociale, in “Iride”, Il Mulino, ag. 1996, n.18.<br />

77<br />

Richard Sennett (sociologo statunitense), The Fall of Public Man, Norton New York 1976;<br />

trad.it.Il declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano 1982; Christopher Lasch (sociologo<br />

statunitense), The Culture of Narcissism, Norton New York 1979; trad.it. La cultura del narcisismo,<br />

Bompiani, Milano 1981.<br />

78<br />

Georg Simmel, (filosofo e sociologo tedesco, 1858-1918), Die beiden Formen des In<strong>di</strong>vidualismus,<br />

1901-1902; trad. it. Le due forme dell’in<strong>di</strong>vidualismo, in Id., La legge in<strong>di</strong>viduale e altri saggi, a cura<br />

<strong>di</strong> F.Andolfi, Pratiche ed., Parma 1995.<br />

79<br />

Charles Taylor (filosofo anglo-canadese), The Malaise of Modernity, Cana<strong>di</strong>an Broadcasting Corp.,<br />

1991; trad.it. Il <strong>di</strong>sagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994.<br />

80<br />

Gilles Lipovetski (sociologo francese), L’ère du vide, Gallimard, Paris 1983-93; trad.it. L’era del<br />

vuoto. Saggi sull’in<strong>di</strong>vidualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995.<br />

81<br />

Tra cui i già citati Sennett e Lasch.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

suoi presupposti <strong>di</strong>sciplinari e razionalistici, come vorrebbe il pensiero postmoderno 82 ; bensì,<br />

appunto, <strong>di</strong> un processo “degenerativo” degli stessi presupposti della modernità.<br />

L’origine <strong>di</strong> questo processo era già stata in<strong>di</strong>viduata da Alexis de Tocqueville 83 che ne<br />

vede l’intrinseca connessione con lo sviluppo della società democratica e lo tematizza<br />

efficacemente come passaggio dall’”egoismo” all’”in<strong>di</strong>vidualismo”.<br />

Assumendo la <strong>di</strong>stinzione tocquevilliana, possiamo <strong>di</strong>re che all’in<strong>di</strong>viduo “egoista” della<br />

prima modernità, acquisitivo e strumentale, progettuale e conflittuale, e capace <strong>di</strong> costruire un<br />

or<strong>di</strong>ne sociale e politico che sappia conciliare interesse in<strong>di</strong>viduale e bene comune, subentra<br />

un soggetto “in<strong>di</strong>vidualista”, edonistico e narcisista, in<strong>di</strong>fferente all’altro e alla sfera pubblica,<br />

atomistico e privo <strong>di</strong> progettualità; un in<strong>di</strong>viduo apatico e delegante che <strong>di</strong>viene<br />

inconsapevolmente vittima dei poteri “morbi<strong>di</strong>” che attraversano le società democratiche<br />

(economico, massme<strong>di</strong>ale, tecnologico, informatico), quale moltiplicazione e proliferazione<br />

del “<strong>di</strong>spotismo mite” <strong>di</strong> cui parlava Tocqueville 84 .<br />

Le patologie dell’in<strong>di</strong>vidualismo contemporaneo si potrebbero ricondurre essenzialmente<br />

a due figure-chiave: quella dell’ in<strong>di</strong>viduo consumatore, che intrattiene col mondo, ridotto ad<br />

immensa raccolta <strong>di</strong> merci, una relazione essenzialmente parassitaria; e quella dell’in<strong>di</strong>viduo<br />

spettatore, che si estranea dal mondo e assiste agli eventi senza poterli dominare né guidare,<br />

sempre più pervaso dall’angoscia <strong>di</strong> fronte alla per<strong>di</strong>ta della sua capacità <strong>di</strong> decisione e <strong>di</strong><br />

con<strong>di</strong>visione.<br />

Si arriva così al paradosso che l’in<strong>di</strong>viduo sovrano, capace <strong>di</strong> autodeterminazione,<br />

<strong>di</strong>venta un in<strong>di</strong>viduo che si lascia facilmente assoggettare, che anzi esprime un bisogno<br />

d’or<strong>di</strong>ne e <strong>di</strong> tutela, in quanto incapace sia <strong>di</strong> esercitare la propria volontà e la propria<br />

capacità <strong>di</strong> scelta, sia <strong>di</strong> azione e progetto comune. L’in<strong>di</strong>viduo della tarda modernità vede<br />

allo stesso tempo l’indebolimento della propria identità e la per<strong>di</strong>ta del legame sociale: la<br />

per<strong>di</strong>ta cioè <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>mensione dell’infra, dell’essere-con e della relazione pubblica in cui<br />

Hannah Arendt ha riconosciuto la più preoccupante patologia della modernità 85 .<br />

3.<br />

Può dunque apparire paradossale che, proprio nel momento <strong>di</strong> massima corrosione della<br />

propria sovranità e autonomia, l’in<strong>di</strong>viduo venga assunto dalla riflessione contemporanea<br />

come l’irrinunciabile depositario <strong>di</strong> nuove istanze etiche e politiche.<br />

Si pensi in particolare alle etiche della responsabilità - Hans Jonas, Emmanuel Lévinas,<br />

Zigmunt Bauman 86 - che in<strong>di</strong>cano nella figura dell’in<strong>di</strong>viduo responsabile il modello<br />

82<br />

Cfr. Michel Maffesoli (sociologo francese), Le temps des tribus, Librairie générale française, Paris<br />

1991; trad.it. Il tempo delle tribù. Il declino dell’in<strong>di</strong>viduo, Armando, Roma 1988.<br />

83 Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835-40; trad. it. La democrazia in<br />

America, in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968.<br />

84<br />

Cfr. Elena Pulcini, L’in<strong>di</strong>viduo senza passioni. In<strong>di</strong>vidualismo moderno e per<strong>di</strong>ta del legame<br />

sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001<br />

85<br />

Hannah Arendt (filosofa tedesca <strong>di</strong> origine ebraica, 1906-1975), The Human Con<strong>di</strong>tion, Univ. of<br />

Chicago Press, Chicago 1958; trad. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1991 (3° e<strong>di</strong>z.).<br />

86<br />

Hans Jonas (filosofo tedesco <strong>di</strong> origine ebraica, 1903-1993); Das Prinzip Verantwortung, Insel,<br />

Frankfurt am Main 1979; trad. it. Il principio responsabilità, Einau<strong>di</strong>, Torino 1990; Emmanuel<br />

Lévinas (filosofo francese <strong>di</strong> origine ebraico-lituana, 1906-1995), Totalité et infini, Nijhoff, La Haye<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

adeguato a far fronte alle sfide generate dalle patologie della modernità.<br />

Il concetto <strong>di</strong> “responsabilità” è particolarmente interessante laddove si ricor<strong>di</strong> che esso<br />

contiene una duplice valenza: esso implica infatti la massima attribuzione <strong>di</strong> valore<br />

all’in<strong>di</strong>vidualità (l’imputabilità all’Io dei suoi atti e delle sue omissioni: nessuno può essere<br />

responsabile al mio posto) e l’apertura all’alterità (responsabilità come cura dell’altro,<br />

“risposta” all’altro). Nel primo caso si tratta <strong>di</strong> una riassunzione della propria autonomia<br />

intesa anche come capacità <strong>di</strong> “rendere conto” del proprio agire; nel secondo caso si tratta <strong>di</strong><br />

una rottura dell’entropia e dell’in<strong>di</strong>fferenza attraverso la presa in cura dell’altro, la capacità <strong>di</strong><br />

rispondere, potremmo <strong>di</strong>re con Lévinas, alla “chiamata” dell’altro.<br />

Inoltre, in quanto implica la capacità <strong>di</strong> tener conto degli effetti e delle conseguenze delle<br />

proprie azioni, la responsabilità contiene un elemento <strong>di</strong> progettualità e <strong>di</strong> previsione che<br />

sembra specularmente opporsi alla patologie dell’in<strong>di</strong>viduo consumatore e spettatore: tra cui<br />

quella che potremmo definire una per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> futuro.<br />

Non a caso sull’idea <strong>di</strong> responsabilità Hans Jonas ha costruito un’etica per le<br />

“generazioni future” che possa essere all’altezza dei problemi generati dallo sviluppo della<br />

tecnica e dall’emergere dei rischi globali.<br />

Tuttavia, proprio a causa delle patologie dell’in<strong>di</strong>vidualismo, qualsiasi proposta o<br />

modello <strong>di</strong> etica della responsabilità non può fondarsi su un astratto dover essere e su<br />

premesse deontologiche, ma deve fare i conti con le trasformazioni antropologiche in atto,<br />

per riuscire a pensare una responsabilità che sia, in primo luogo, emotivamente fondata; come<br />

in parte fa lo stesso Jonas quando vede nella riattivazione della paura, <strong>di</strong> fronte ai rischi che<br />

l’umanità deve affrontare nella società tecnologica, la fonte emotiva della cura e della<br />

responsabilità.<br />

Un in<strong>di</strong>viduo responsabile si configura dunque non tanto come un in<strong>di</strong>viduo capace <strong>di</strong><br />

aderire ad una norma, ma come un in<strong>di</strong>viduo capace <strong>di</strong> correggere le patologie<br />

dell’in<strong>di</strong>fferenza e dell’atomismo, riattivando in primo luogo la <strong>di</strong>namica delle passioni.<br />

30. Passioni/Interessi.<br />

1.<br />

L’intreccio passioni/interessi è <strong>di</strong> grande rilevanza per la filosofia sociale in quanto<br />

consente <strong>di</strong> tematizzare il problema delle motivazioni che stanno a fondamento dell’agire<br />

sociale e politico: aspetto per lo più trascurato dalla riflessione contemporanea.<br />

Ma se il problema della passione è al centro del pensiero filosofico fin dalle origini, il<br />

tema dell’interesse <strong>di</strong>venta centrale solo a partire dalla modernità, quando esso viene ad<br />

assumere il significato definitivo <strong>di</strong> “utile”, o “vantaggio materiale”.<br />

A partire da Hobbes 87 , il perseguimento dell’interesse <strong>di</strong>venta il corollario stesso <strong>di</strong> quella<br />

figura para<strong>di</strong>gmatica della modernità che è l’homo oeconomicus: vale a <strong>di</strong>re dell’in<strong>di</strong>viduo<br />

1961; trad. it. Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1977; Zigmunt Bauman (sociologo inglese <strong>di</strong><br />

origine polacca), Postmodern Ethics, Blackwell Publishers, Oxford (UK)-Cambridge (USA), 1993;<br />

trad. it. Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996.<br />

87<br />

Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987; e The<br />

Elements of Law, Natural and Politic (1640); trad. it. Elementi <strong>di</strong> legge naturale e politica, La Nuova<br />

Italia, Firenze 1985.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

calcolatore e razionale, previdente e progettuale, legittimamente teso alla realizzazione del<br />

proprio utile, in funzione del quale egli si rende <strong>di</strong>sponibile al patto e alla costruzione <strong>di</strong> un<br />

or<strong>di</strong>ne sociale e politico (cfr. In<strong>di</strong>viduo/soggetto).<br />

Il problema però consiste nel fatto che il pensiero liberale moderno, fino ai nostri giorni, ha<br />

finito per identificare il modello dell’homo oeconomicus con questa peculiare motivazione,<br />

oscurando <strong>di</strong> fatto il ruolo delle passioni. La tra<strong>di</strong>zione liberale ha posto l’accento<br />

essenzialmente sul problema della conciliazione tra interesse in<strong>di</strong>viduale e interesse collettivo,<br />

proponendo il concetto <strong>di</strong> “interesse ben inteso”; ma ha fortemente sottovalutato l’aspetto<br />

emotivo delle motivazioni in<strong>di</strong>viduali - che pure è centrale nel pensiero moderno a partire dal<br />

modello hobbesiano -, co<strong>di</strong>ficando l’immagine <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo essenzialmente razionale.<br />

Perfino nella più sofisticata proposta <strong>di</strong> Hirschman 88 , che tiene evidentemente conto delle<br />

passioni, viene però riba<strong>di</strong>ta l’idea che nella modernità le passioni vengono “controbilanciate” e<br />

sostituite dagli interessi, che si delineano sempre più, con lo sviluppo del capitalismo, in senso<br />

prettamente economico.<br />

E’ opportuno allora soffermarsi sul concetto <strong>di</strong> “passione”, ricostruendo il ruolo centrale che<br />

esso ha nel pensiero sociale e politico.<br />

2.<br />

Dal greco pathos, la passione è un moto <strong>di</strong> attrazione o repulsione con cui un soggetto<br />

reagisce a situazioni <strong>di</strong> piacere o <strong>di</strong> dolore causate da un oggetto. Si tratta dunque <strong>di</strong><br />

un’energia affettiva che, in quanto involontaria e subìta dal soggetto, provoca <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne,<br />

alterando gravemente l’esercizio della ragione, offuscando il giu<strong>di</strong>zio, paralizzando la<br />

volontà.<br />

In questo senso le passioni costituiscono, fin dalle origini, un problema per il pensiero<br />

filosofico, che sull’opposizione passione/ragione fonda sia la formazione del soggetto morale<br />

sia la costruzione dell’or<strong>di</strong>ne politico. In Platone e in Aristotele le passioni, pericolose per<br />

l’equilibrio della polis, sono tuttavia fenomeni naturali, energie (cfr. l’eros e l’ira) che non<br />

vanno amputate, ma sottoposte ad un controllo razionale che ne corregga gli eccessi;<br />

consentendo così la formazione del citta<strong>di</strong>no ben integrato nella polis 89 .<br />

Con lo stoicismo, il problema delle passioni viene sottratto alla prospettiva sociale e<br />

politica e riportato ad una <strong>di</strong>mensione soggettiva. Alla crisi della polis e della libertà politica,<br />

si risponde con la ricerca <strong>di</strong> una sfera in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong> libertà che implica un interrogarsi in<br />

termini ra<strong>di</strong>calmente nuovi sull’Io e sulle passioni Queste perdono ogni attributo <strong>di</strong> naturalità<br />

per <strong>di</strong>ventare pure “<strong>di</strong>storsioni della ragione”, “malattie dell’anima” da estirpare per poter<br />

vivere in conformità con la natura, che è perfettamente razionale. Alla figura del “citta<strong>di</strong>no”<br />

subentra quella del “saggio”, che <strong>di</strong>venta padrone <strong>di</strong> se stesso solo attraverso una severa<br />

repressione delle passioni 90 .<br />

88<br />

Albert O.Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton Univ. Press, Princeton 1977; trad.<br />

it. Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979.<br />

89<br />

Platone, Simposio, in Id., Opere complete, 8 voll., Laterza, Bari, 1971, vol. 3; e Id., La Repubblica,<br />

in Id., Opere complete, cit., vol.6; Aristotele, Etica Nicomachea, in Id., Opere, Laterza, Roma-Bari<br />

1983, vol.7.<br />

90<br />

Questa concezione delle passioni è presente, con evidenti <strong>di</strong>fferenze, sia nello stoicismo greco<br />

13


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

La costruzione del soggetto morale resta al centro del pensiero cristiano sulle passioni<br />

che, a partire da Agostino fino alla grande sintesi <strong>di</strong> Tommaso in epoca me<strong>di</strong>evale, attenua il<br />

rigorismo stoico; e affida non al potere repressivo della ragione ma alla qualità della volontà<br />

(guidata, secondo la formula agostiniana, dall’amor Dei e non dall’amor sui) la soluzione al<br />

problema delle passioni 91.<br />

Ed è ancora in una prospettiva morale, del tutto separata da ogni <strong>di</strong>mensione politica, che<br />

le passioni vengono trattate agli inizi dell’età moderna: prima in Montaigne 92 poi in<br />

Cartesio 93 , solo in parte influenzati dallo stoicismo, il riconoscimento della naturalità e<br />

dell’utilità delle passioni è parallelo alla condanna <strong>di</strong> ogni eccesso. E sfocia nella<br />

elaborazione <strong>di</strong> strategie <strong>di</strong> perfezionamento morale, fondate sul loro buon uso, cui<br />

corrisponde tuttavia un sostanziale conservatorismo politico.<br />

E’ solo con Hobbes, come si è già accennato, che il problema delle passioni investe<br />

imme<strong>di</strong>atamente la sfera sociale e politica. La metafora dello “stato <strong>di</strong> natura” descrive una<br />

situazione caotica e conflittuale nella quale le passioni (gloria, desiderio <strong>di</strong> potere) sono<br />

legittime in virtù dei <strong>di</strong>ritti naturali dell’in<strong>di</strong>viduo, ma sono anche ciò che minaccia l’or<strong>di</strong>ne<br />

sociale. La risposta al problema delle passioni e allo stato <strong>di</strong> guerra che ne deriva, non più<br />

affidabile all’esercizio soggettivo della volontà o della ragione, è lo Stato, istituzione<br />

artificiale fondata su un patto razionale tra gli in<strong>di</strong>vidui, stimolato dalla passione della paura.<br />

La sua funzione è quella <strong>di</strong> garantire l’or<strong>di</strong>ne proteggendo gli in<strong>di</strong>vidui da se stessi.<br />

L’opposizione passioni/ragione si traduce in quella <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne/or<strong>di</strong>ne, o natura/artificio<br />

che ritroviamo alla base del contrattualismo <strong>di</strong> Locke 94 o Spinoza 95 , sebbene con toni meno<br />

pessimistici che in Hobbes. Si può allora <strong>di</strong>re che il politico moderno nasce come risposta al<br />

problema delle passioni<br />

L’interesse agisce in questo contesto, come momento normativo: è ciò che induce in<br />

ultima istanza gli in<strong>di</strong>vidui a rinunciare o controllare le proprie passioni affidandosi<br />

all’istituzione artificiale dello Stato.<br />

Il modello contrattualistico non esaurisce tuttavia il quadro della modernità sociale e<br />

politica. L’altro grande modello, spesso ignorato dalla riflessione contemporanea, è quello<br />

elaborato dalla Political Economy; nel quale il ruolo del politico si ri<strong>di</strong>mensiona fortemente e<br />

le passioni sono oggetto non solo <strong>di</strong> una realistica legittimazione, ma <strong>di</strong> una ine<strong>di</strong>ta<br />

valorizzazione.<br />

antico (Zenone, Crisippo, III e II sec. a.C.), sia nello stoicismo romano (Epitteto, Marco Aurelio, I-III<br />

esc. d.C.). Cfr. per tutti Marco Aurelio, Ricor<strong>di</strong>, Rizzoli (BUR), Milano 1984 (Ia ed. 1953).<br />

91 Agostino, De Civitate Dei, 413-426; trad. it. La città <strong>di</strong> Dio, Einau<strong>di</strong>, Torino 1992; Tommaso<br />

d’Aquino, Summa theologiae, iniziata nel 1269 e incompiuta; trad. it. La Somma teologica, Bologna<br />

ESD, 1985, 35 voll., vol III, “Le passioni”.<br />

92<br />

Michel de Montaigne, Essais, 1588; trad.it. Saggi, Adelphi, Milano 1992.<br />

93<br />

René Descartes, Passions de l’ame (1649); trad. it. Le passioni dell’anima, in Id., Opere<br />

filosofiche, Utet, Torino 1981.<br />

94<br />

John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,<br />

Stu<strong>di</strong>o tesi, Pordenone 1991.<br />

95<br />

Baruch Spinoza, Tractatus politicus, 1677; trad. it. Trattato politico, Laterza, Roma-Bari 1991.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Prima in Mandeville 96 , poi in Smith 97 , le passioni (self-love) <strong>di</strong>ventano stimoli<br />

in<strong>di</strong>spensabili del progresso e della “ricchezza delle nazioni”. La soluzione delle loro<br />

manifestazioni <strong>di</strong>struttive non richiede un patto razionale, ma scaturisce da una spontanea<br />

selezione che presuppone però la capacità <strong>di</strong> gestire le proprie emozioni, adeguandole a<br />

quella “middle conformation” che consente una equilibrata convivenza sociale. La “mano<br />

invisibile”, in virtù della quale gli interessi in<strong>di</strong>viduali lavorano inintenzionalmente al bene<br />

comune, ben lungi dall’essere un meccanismo automatico, esige la capacità in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong><br />

convertire il self-love in una passione “societaria”, empiricamente adattata alle aspettative e<br />

alle esigenze dell’altro.<br />

Questa visione positiva delle passioni subisce un ra<strong>di</strong>cale momento <strong>di</strong> crisi in Rousseau 98<br />

il quale mostra come le passioni competitive esaltate dalla Political Economy (amor proprio)<br />

producano un falso sé, un’identità inautentica; e propone un ritorno alla passioni naturale<br />

dell’”amore <strong>di</strong> sé” quale ra<strong>di</strong>ce emotiva <strong>di</strong> quella soggettività virtuosa su cui si fonda la<br />

società giusta del Contratto sociale.<br />

Rousseau inaugura un modello più complesso in quanto suggerisce l’idea che le passioni<br />

(desiderio <strong>di</strong> eccellenza e <strong>di</strong> riconoscimento) possano essere più forti degli interessi; o meglio<br />

che le passioni identitarie possano prevalere sugli interessi materiali: intuizione che può<br />

rivelarsi quanto mai feconda nell’analisi dei conflitti che attraversano la società<br />

contemporanea.<br />

La vera e propria condanna delle passioni in età moderna si deve a Kant che, in linea con<br />

lo stoicismo, riporta la riflessione sulle passioni su <strong>di</strong> un piano morale; e le vede come<br />

malattia e follia, come “cancro” della ragion pratica, capaci <strong>di</strong> ledere il principio stesso della<br />

moralità che è la libertà umana 99 . Con Kant ha inizio quel processo <strong>di</strong> patologizzazione delle<br />

passioni che le rende oggetto privilegiato prima del <strong>di</strong>scorso me<strong>di</strong>co e, successivamente, della<br />

psichiatria.<br />

Nel pensiero filosofico non mancano tuttavia, dopo Kant, momenti <strong>di</strong> riabilitazione delle<br />

passioni, come in Hegel, Fourier o Nietzsche; fino ad Ernst Bloch 100 , il quale coglie il ruolo<br />

emancipativo ed utopico delle passioni (“affetti d’attesa”), in quanto espressioni della<br />

“coscienza anticipante” e della sua tensione verso il meglio.<br />

Ma <strong>di</strong> particolare interesse, in una prospettiva filosofico-sociale, è la riflessione <strong>di</strong> A. de<br />

Tocqueville 101 , che riflette criticamente sull’indebolimento delle passioni in una società<br />

96<br />

Bernard Mandeville, The Fable of the Bees, 1723; trad. it. La favola delle api, Laterza, Roma-Bari<br />

1987.<br />

97<br />

Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments, 1759; trad. it. Teoria dei sentimenti morali, Istituto<br />

dell’Enciclope<strong>di</strong>a Italiana, Roma 1991.<br />

98<br />

Jean Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, 1755; trad. it.<br />

Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970; e<br />

Id., Emile, 1762; trad. it. Emilio, Armando, Roma 1981.<br />

99<br />

Immanuel Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, 1798; trad. it. Antropologia pragmatica,<br />

Laterza, Bari 1985.<br />

100<br />

Ernst Bloch (filosofo tedesco <strong>di</strong> origine ebraica, 1885-1977), Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp,<br />

Frankfurt am Main 1959; trad. it. Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, vol. I<br />

101<br />

Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835-40; trad. it. La democrazia in<br />

America, in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

democratica e vi riconosce una delle principali cause delle patologie della democrazia. La<br />

scomparsa <strong>di</strong> passioni forti (soprattutto pubbliche) è all’origine <strong>di</strong> quel ripiegamento<br />

“in<strong>di</strong>vidualistico” peculiare delle società democratiche che produce sia la crisi dell’in<strong>di</strong>viduo<br />

(apatia, passività) sia la crisi del legame sociale (solitu<strong>di</strong>ne, atomismo), consentendo<br />

l’emergere <strong>di</strong> forme <strong>di</strong> “<strong>di</strong>spotismo mite”, esercitato dal potere politico, a cui l’in<strong>di</strong>viduo si<br />

assoggetta inconsapevolmente.<br />

L’indebolimento delle passioni equivale in altri termini alla incapacità, da parte degli<br />

in<strong>di</strong>vidui, <strong>di</strong> riconoscere il loro stesso interesse, privandoli <strong>di</strong> fatto della loro sovrana<br />

capacità <strong>di</strong> decisione e partecipazione.<br />

Tocqueville intuisce così “profeticamente” un fenomeno che assumerà consistenza nelle<br />

società democratiche postmoderne: vale a <strong>di</strong>re la messa in atto <strong>di</strong> comportamenti in<strong>di</strong>viduali<br />

irrazionali (contrari al proprio interesse) originati non dalla forza delle passioni, ma dalla loro<br />

debolezza; come possiamo vedere dall’espandersi delle patologie narcisistiche.<br />

3.<br />

Che le passioni possano avere un ruolo positivo sia per la formazione dell’identità sia per<br />

la costruzione del legame sociale è un assunto che, <strong>di</strong> recente, sembra essere sempre più<br />

con<strong>di</strong>viso dalle scienze sociali. Si assiste ad una grande riscoperta da parte <strong>di</strong> varie <strong>di</strong>scipline<br />

del ruolo cognitivo e comunicativo delle passioni e quin<strong>di</strong> al superamento della tra<strong>di</strong>zionale<br />

<strong>di</strong>cotomia p/ragione. Da Niklas Luhmann 102 alla Sociology of Emotions statunitense 103 , la<br />

rivalutazione del ruolo tutt’altro che residuale delle passioni nell’agire sociale tende a<br />

prefigurare un <strong>di</strong>verso e più complesso para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> razionalità.<br />

Interessante dal punto <strong>di</strong> vista della filosofia sociale e politica è la proposta <strong>di</strong> Martha<br />

Nussbaum nel suo recente L’intelligenza delle emozioni 104 . Il riconoscimento del valore<br />

conoscitivo e valutativo delle passioni consente <strong>di</strong> pensare un’idea <strong>di</strong> ragione non<br />

<strong>di</strong>sincarnata, sensibile alla vulnerabilità dell’in<strong>di</strong>viduo, in quanto <strong>di</strong>pendente dal mondo, dagli<br />

altri in<strong>di</strong>vidui e dalla contingenza della storia. Il rispetto delle inclinazioni emotive<br />

in<strong>di</strong>viduali <strong>di</strong>viene componente essenziale per la fondazione <strong>di</strong> una teoria normativa liberale,<br />

che si basi sulla comprensione della “bisognosità” (nee<strong>di</strong>ness) dell’uomo, e che assuma a suo<br />

fondamento non solo il concetto <strong>di</strong> “<strong>di</strong>ritto” ma anche quello <strong>di</strong> “capacità” (cfr. il<br />

Capabilities Approach con<strong>di</strong>viso con Amartya Sen).<br />

102<br />

Niklas Luhmann, Liebe als Passion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982; trad. it. Amore come<br />

passione, Laterza, Bari 1984.<br />

103<br />

Sulla Sociology of emotions, cfr. Gabriella Turnaturi (a cura <strong>di</strong>), La sociologia delle emozioni,<br />

Anabasi, Milano 1995.<br />

104<br />

Martha C. Nussbaum (filosofa statunitense), The Upheavals of Thought. The Intelligence of<br />

Emotions, Cambridge Univ.Press, Cambridge 2001; trad. it. L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino,<br />

Bologna 2004.<br />

13


<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

C. BIOETICA <strong>di</strong> Monica Toraldo <strong>di</strong> Francia<br />

31. Vita/morte<br />

La <strong>di</strong>cotomia concettuale vita/morte, da sempre oggetto della riflessione filosofica,<br />

riveste una particolare rilevanza nell’ambito <strong>di</strong> quel nuovo settore del pensiero filosofico che<br />

va sotto il nome <strong>di</strong> bioetica. La bioetica viene definita dall'Encyclopae<strong>di</strong>a of Bioethics come<br />

“lo stu<strong>di</strong>o sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della cura<br />

della salute quando tale condotta è esaminata alla luce <strong>di</strong> valori e <strong>di</strong> principi morali”. Essa è<br />

un’area <strong>di</strong>sciplinare, o meglio inter<strong>di</strong>sciplinare, che si confronta in modo sistematico con i<br />

problemi filosofici, etico-politici e giuri<strong>di</strong>ci sollevati dalla rivoluzione me<strong>di</strong>co-biologica degli<br />

ultimi cinquant’anni e dai più recenti sviluppi <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>sciplina <strong>di</strong> frontiera che è ormai<br />

<strong>di</strong>ventata la genetica (la scienza che stu<strong>di</strong>a i caratteri ere<strong>di</strong>tari e le loro modalità <strong>di</strong><br />

trasmissione). Si parla a questo proposito <strong>di</strong> una seconda rivoluzione scientifica, i cui tratti<br />

salienti sono in<strong>di</strong>viduabili:<br />

1. nelle trasformazioni avvenute negli ambiti della procreazione, del curarsi e del<br />

morire degli esseri umani: tecniche <strong>di</strong> crioconservazione <strong>di</strong> gameti e <strong>di</strong> ovuli fecondati,<br />

tecniche <strong>di</strong> fecondazione assistita, in vivo e in vitro, macchine vicarianti, temporaneamente o<br />

definitivamente, funzioni vitali dell’organismo, trapianti <strong>di</strong> vario tipo, nuove e sempre più<br />

sofisticate tecnologie <strong>di</strong>agnostiche applicabili sia in fase prenatale che postnatale;<br />

2. nel salto qualitativo rappresentato dall’estensione del potere <strong>di</strong> intervento tecnico<br />

dalla natura esterna alla natura interna, che ha aperto ine<strong>di</strong>te possibilità <strong>di</strong> controllo e <strong>di</strong><br />

mo<strong>di</strong>ficazione della struttura genetica degli esseri viventi, uomo incluso, e reso più cogente il<br />

tema <strong>di</strong> una ridefinizione delle nostre responsabilità nei confronti della natura (mantenimento<br />

della bio<strong>di</strong>versità) e della qualità della vita, se non della sopravvivenza, delle generazioni<br />

future.<br />

Tutti gli ambiti della bioetica ruotano pertanto intorno a questioni relative ai processi<br />

della vita: per quanto riguarda la vita umana, centrali sono le questioni relative al suo inzio e<br />

alla sua fine, alla sua creazione extracorporea, al suo prolungamento artificiale, alla sua<br />

interruzione o prevenzione, alla sua mo<strong>di</strong>ficazione genetica; ma <strong>di</strong> rilevanza bioetica sono<br />

anche i problemi che riguardano altri piani <strong>di</strong> vita come quello degli interventi sulla vita<br />

vegetale, sugli animali non umani, sulla brevettabilità degli organismi viventi; anche se, si<br />

deve aggiungere, le questioni ambientali e quelle del trattamento degli animali non umani<br />

sono ormai oggetto <strong>di</strong> una vasta letteratura specifica tanto da costituire dei veri e propri<br />

settori a sé (rispettivamente, etica ambientale ed etica degli animali).<br />

Il termine vita, decontestualizzato e non ulteriormente qualificato, si presenta tuttavia<br />

come un termine tanto carico <strong>di</strong> connotazioni da non definire più nulla <strong>di</strong> preciso, ‘un termine<br />

<strong>di</strong> gomma’ che si presta a un uso fortemente retorico e persuasivo, carico <strong>di</strong> valore emotivo:<br />

‘la vita’, ‘una vita’ sono espressioni spesso impiegate nel <strong>di</strong>battito ideologico e politico sulle<br />

nuove biotecnologie (ma anche sull’interruzione volontaria <strong>di</strong> gravidanza) per evocare<br />

l’immagine <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> sostantivato da proteggere e tutelare, qualcosa dotato <strong>di</strong> valore<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

intrinseco a cui riconoscere la titolarità <strong>di</strong> un <strong>di</strong>ritto soggettivo senza che sia necessario<br />

addurre motivazioni adeguate.<br />

Anche limitandosi al solo ambito delle scienze biologiche sembra <strong>di</strong>fficile dare una<br />

definizione oggettiva del termine-concetto vita ed è più corretto considerare tale nozione<br />

come una nozione artificiale, o convenzionale, cui facciamo riferimento per <strong>di</strong>stinguere<br />

fenomeni <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa natura (E. Lecaldano, a cura <strong>di</strong>, Enciclope<strong>di</strong>a <strong>di</strong> bioetica).<br />

In questi termini i criteri <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinzione fra esseri viventi e non viventi non potranno<br />

essere considerati oggettivi e la lista degli esseri viventi potrà essere più o meno ampia a<br />

seconda della definizione <strong>di</strong> vita che si assume e delle caratteristiche che vengono incluse<br />

come rilevanti per qualificarla: una determinata essenza, riducibile al co<strong>di</strong>ce genetico, cioè<br />

all’informazione biologica racchiusa nella macromolecola del DNA, che costituisce il<br />

materiale responsabile della trasmissione e dell’espressione dei caratteri ere<strong>di</strong>tari; o invece<br />

determinate qualità e capacità come quelle <strong>di</strong> riproduzione, evoluzione, crescita e sviluppo,<br />

metabolismo, autoregolazione, reattività agli stimoli esterni.<br />

Se poi si passa dall’ambito delle scienze biologiche a quello della riflessione etica, in cui<br />

si pongono domande relative ai nostri obblighi e alle nostre responsabilità come agenti<br />

morali, la questione si complica ulteriormente; non solo dobbiamo impegnarci a <strong>di</strong>stinguere<br />

analiticamente i <strong>di</strong>versi contesti e ambiti problematici in cui ci poniamo interrogativi<br />

riguardo ai nostri comportamenti nei confronti della ‘vita’, qualificando in modo preciso l’<br />

ambito <strong>di</strong> riferimento semantico del termine, ma dobbiamo anche essere <strong>di</strong>sposti a<br />

giustificare con argomentazioni e ragioni la rilevanza morale <strong>di</strong> determinate caratteristiche,<br />

qualità, capacità che, in quel determinato contesto, poniamo alla base della pretesa <strong>di</strong> più<br />

specifiche forme <strong>di</strong> trattamento e <strong>di</strong> considerazione morale e/o giuri<strong>di</strong>ca (es. la con<strong>di</strong>visione<br />

come specie <strong>di</strong> un determinato patrimonio genetico, o la capacità <strong>di</strong> provare piacere e dolore,<br />

<strong>di</strong> avere emozioni, <strong>di</strong> relazionarsi, o ancora la capacità, ai livelli superiori, <strong>di</strong> avere preferenze<br />

riflessive, <strong>di</strong> autodeterminazione).<br />

Sono molti i filosofi morali che oggi concordano nel considerare come nucleo essenziale<br />

della bioetica la riflessione sulla novità irriducibile delle o<strong>di</strong>erne opzioni etiche che si<br />

presentano nelle società occidentali, per quanto riguarda le con<strong>di</strong>zioni del nascere, curarsi e<br />

morire degli esseri umani. Sono infatti proprio le situazioni <strong>di</strong> frontiera, con i <strong>di</strong>fficili quesiti<br />

decisionali che pongono, a mettere alla prova la vali<strong>di</strong>tà dell’ etica teorica tra<strong>di</strong>zionale, nelle<br />

sue versioni normative sia consequenzialiste che deontologiche: a mettere, cioè, alla prova la<br />

sua capacità <strong>di</strong> fornire delle linee-guida sod<strong>di</strong>sfacenti per orientare il nostro giu<strong>di</strong>zio morale<br />

e i nostri comportamenti, in<strong>di</strong>viduali e collettivi, quando ci troviamo <strong>di</strong> fronte alle nuove<br />

possibilità <strong>di</strong> scelta e ai <strong>di</strong>lemmi che sollevano. Ci si chiede se essa ci possa essere ancora <strong>di</strong><br />

aiuto, oppure se i principi, le norme, i valori che abbiamo ere<strong>di</strong>tato debbano essere integrati,<br />

abbandonati o rivisti alla luce dei nuovi poteri <strong>di</strong> cui ci troviamo ormai depositari e dei casi<br />

esemplari della riflessione bioetica.<br />

Lo sviluppo delle biotecnologie umane, che con il loro potere <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>segnare<br />

continuamente la linea <strong>di</strong> confine fra caso e scelta, fra ciò che è naturalmente dato e ciò che<br />

viene a ricadere nell’ambito dell’agire intenzionale e del controllo umano, stanno cambiando<br />

in profon<strong>di</strong>tà le nostre esistenze, costituisce una sfida non solo per l’etica strettamente intesa.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Quest’ accelerato sviluppo pone sotto una <strong>di</strong>versa prospettiva anche la questione dei<br />

vincoli che lo Stato, o altre istituzioni sovranazionali o internazionali, possono<br />

legittimamente imporre alla libertà <strong>di</strong> scelta dei citta<strong>di</strong>ni, come pure alla libertà,<br />

costituzionalmente protetta, della scienza. Si aprono riaprono così interrogativi <strong>di</strong> fondo del<br />

tipo:<br />

1. qual è il ruolo del <strong>di</strong>ritto nelle società liberal-democratiche e ‘multietiche’? deve<br />

solo ratificare i mutamenti che si registrano nella società, lasciando alla libertà-responsabilità<br />

in<strong>di</strong>viduale il più ampio spazio possibile per le decisioni che riguardano il nascere, il curarsi<br />

(o non curarsi) e il morire, o deve invece cercare <strong>di</strong> influenzarli esprimendo e imponendo<br />

scelte <strong>di</strong> valore anche se non con<strong>di</strong>vise da tutti, o con<strong>di</strong>vise solo dalla maggioranza (es. le<br />

questioni che riguardano i requisiti per l’accesso alle tecniche <strong>di</strong> riproduzione me<strong>di</strong>calmente<br />

assistita e le modalità della loro applicazione, o quelle che concernono le c.d. decisioni <strong>di</strong><br />

‘fine vita’)?<br />

2. le nuove situazioni rese possibili dalla ricerca me<strong>di</strong>ca e biologica, che, proprio per<br />

la loro novità, non possono essere risolte col solo riferimento al dettato costituzionale, in che<br />

senso correggono, o spingono a rivedere il modo <strong>di</strong> impostare la questione dei limiti fissati<br />

dai <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> libertà dei citta<strong>di</strong>ni all’intervento dello Stato? o meglio, fino a che punto arrivano<br />

i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> autonomia <strong>di</strong> ciascuno degli esseri umani coinvolti nelle nuove situazioni e dove<br />

comincia l’ambito in cui l’intervento dello Stato, con <strong>di</strong>vieti, obblighi, regolamenti, è<br />

necessario?<br />

3. alla luce <strong>di</strong> possibili futuri scenari <strong>di</strong> rischio per le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita, la sicurezza e<br />

la libertà delle generazioni a venire, si deve far valere un principio politico <strong>di</strong> precauzione che<br />

censuri in anticipo, in modo autoritativo, in<strong>di</strong>rizzi e obbiettivi della ricerca e della<br />

sperimentazione in campo biome<strong>di</strong>co? e, in caso affermativo, secondo quali criteri, con quali<br />

procedure?<br />

Non casualmente il contrasto più ra<strong>di</strong>cale nell’ambito bioetico si è esplicitato intorno al<br />

tema cruciale della <strong>di</strong>sponibilità/in<strong>di</strong>sponibilità della vita umana, che ha messo in luce una<br />

contrapposizione decisiva: quella fra una prospettiva etica, propria della filosofia della vita <strong>di</strong><br />

matrice cattolica, che considera la vita umana come un bene in<strong>di</strong>sponibile in ogni suo sta<strong>di</strong>o,<br />

dal momento della fecondazione fino alla morte naturale dell’'organismo biologico', e teorie<br />

etiche ‘laiche’ che ritengono invece, almeno in linea <strong>di</strong> principio, che l’uomo ne possa<br />

<strong>di</strong>sporre, ma che si trovano poi a <strong>di</strong>fferenziarsi sulla questione dei limiti, più o meno ampi, da<br />

porre a questo potere <strong>di</strong> <strong>di</strong>sposizione e sulla loro possibile giustificazione.<br />

Per far capire la portata <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>visione si può far riferimento alla <strong>di</strong>scussione che si è<br />

sviluppata, a livello etico prima e poi istituzionale, intorno agli inizi della vita umana<br />

in<strong>di</strong>viduale e alla questione della liceità o meno <strong>di</strong> sperimentare su ‘embrioni’ umani, in<br />

particolare su quelli creati in eccesso con la fecondazione in vitro e crioconservati, che sono<br />

comunque destinati a perire (per alcuni protagonisti del <strong>di</strong>battito in materia si dovrebbe<br />

comunque parlare <strong>di</strong> ‘pre-embrione’ e non <strong>di</strong> ‘embrione’ per i primi sta<strong>di</strong> <strong>di</strong> moltiplicazione<br />

cellulare).<br />

Ritornata alla ribalta con la scissione fra procreazione e sessualità ed il perfezionamento<br />

delle tecniche <strong>di</strong> fecondazione extracorporea, la questione dello statuto ontologico e/o morale<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

e giuri<strong>di</strong>co dell’embrione costituisce uno dei temi più controversi della <strong>di</strong>scussione bioetica<br />

per le sue molteplici implicazioni pratiche: da quelle relative al futuro della ricerca in uno dei<br />

settori d’avanguar<strong>di</strong>a nella lotta contro le malattie e il loro carico <strong>di</strong> sofferenza, compresa la<br />

ricerca sulla c.d. ‘clonazione terapeutica’, a quelle più <strong>di</strong>rettamente attinenti al<br />

<strong>di</strong>sciplinamento del corpo femminile e del processo procreativo. In modo schematico e<br />

semplificatorio, su un versante si schierano quanti tendono, in definitiva, a porre l'accento,<br />

sulla rilevanza morale della presenza <strong>di</strong> un patrimonio genetico in<strong>di</strong>vidualizzante: lo zigote,<br />

la cellula uovo fecondata, è già ‘identità biologica’, da rispettare come 'persona', o trattare<br />

come tale sotto il profilo etico e giuri<strong>di</strong>co, riconoscendogli la titolarità <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti soggettivi, in<br />

primo luogo <strong>di</strong> un inviolabile <strong>di</strong>ritto alla vita che la legge civile avrebbe l’obbligo <strong>di</strong> recepire<br />

e proteggere. Sull'altro versante si collocano quanti invece hanno sottolineato, seppure da<br />

prospettive filosofiche anche molto <strong>di</strong>verse, l’importanza dell'aspetto biografico e relazionale<br />

della vita umana in<strong>di</strong>viduale, che ha la sua matrice nella gestazione; o quanti hanno<br />

quantomeno sostenuto, anche sulla base dei più recenti stu<strong>di</strong> sullo sviluppo fisico e mentale<br />

del feto nella fase prenatale, la rilevanza della presenza <strong>di</strong> stati neurologici e psicologici. I<br />

sostenitori <strong>di</strong> questa seconda prospettiva, pur riconoscendo in genere la necessità <strong>di</strong> una tutela<br />

dell'embrione fin dal concepimento, postulano sempre una qualche teoria della gradualità del<br />

valore della vita umana, variamente argomentata sul piano filosofico, da cui far <strong>di</strong>scendere la<br />

liceità <strong>di</strong> una tutela <strong>di</strong>fferenziata dei <strong>di</strong>versi sta<strong>di</strong> <strong>di</strong> sviluppo dell'essere umano in formazione<br />

e quin<strong>di</strong> la possibilità <strong>di</strong> bilanciare, in alcune situazioni, la tutela dell’ embrione ai primissimi<br />

sta<strong>di</strong> con altri beni e <strong>di</strong>ritti in gioco (ad es., la libertà procreativa della donna, o il <strong>di</strong>ritto alla<br />

salute).<br />

Di fronte ai possibili scenari futuri che l’incontro fra biologia della riproduzione e<br />

ingegneria genetica rende ipotizzabili (<strong>di</strong> embrioni selezionati secondo certi standard <strong>di</strong><br />

perfezione biologica, o <strong>di</strong> bambini programmati con un determinato corredo genetico in base<br />

alle preferenze e aspirazioni dei genitori, o generati con le tecniche <strong>di</strong> clonazione) si può<br />

tuttavia arrivare ad argomentare la necessità <strong>di</strong> una limitazione preventiva, da parte della<br />

morale e del <strong>di</strong>ritto, tanto della libertà <strong>di</strong> ricerca e <strong>di</strong> sperimentazione della comunità<br />

scientifica quanto della libertà procreativa dei singoli, facendo ricorso a una strategia<br />

concettuale più complessa, che prescinde dalla questione, indeci<strong>di</strong>bile, dello statuto<br />

dell’embrione; ed è questa la via seguita da Jürgen Habermas. Nell’argomentazione<br />

habermasiana la contingenza delle origini della vita biologica in<strong>di</strong>viduale, cioè la ‘naturalità’<br />

del processo procreativo, dovrebbe, in via <strong>di</strong> principio, essere tutelata e resa in<strong>di</strong>sponibile alla<br />

sua oggettivazione tecnica, in quanto con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità dei nostri or<strong>di</strong>namenti morali,<br />

della nostra libertà etica e della nostra coscienza <strong>di</strong> quel che siamo come esseri-<strong>di</strong>-genere,<br />

ovvero della nostra identità propriamente umana <strong>di</strong> esseri responsabili e comunicativi. Tale<br />

tutela andrebbe poi garantita con l’inclusione fra i <strong>di</strong>ritti fondamentali, universalmente<br />

riconosciuti e protetti, del <strong>di</strong>ritto a ere<strong>di</strong>tare un patrimonio genetico non mo<strong>di</strong>ficato<br />

artificialmente (<strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> quarta generazione).<br />

Lo sviluppo <strong>di</strong> sempre nuove e più efficaci tecnologie nell’ambito delle scienze della vita<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

e della cura della salute ha imposto non solo un ripensamento del significato e delle<br />

implicazioni filosofiche dell’inizio della vita umana in<strong>di</strong>viduale, ma ha anche indotto a<br />

ridefinire le basi stesse su cui fondare la definizione <strong>di</strong> morte degli esseri umani.<br />

Le nuove tecnologie <strong>di</strong> ‘rianimazione’ e il perfezionamento <strong>di</strong> strumenti <strong>di</strong> supporto o <strong>di</strong><br />

sostituzione <strong>di</strong> funzioni vitali dell’organismo irreversibilmente compromesse, ma anche i<br />

progressi nell’ambito dei trapianti, hanno condotto, nel corso della seconda metà del XX<br />

secolo, ad una revisione del modo tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> caratterizzare, in ambito me<strong>di</strong>co, la fine<br />

della vita e alla ricerca <strong>di</strong> nuovi criteri per la definizione <strong>di</strong> morte dell’in<strong>di</strong>viduo umano,<br />

considerato come un organismo fornito <strong>di</strong> una sua unità, specificità e <strong>di</strong> una sua vicenda<br />

biologica con un inizio e un termine. E’ del 1968 la proposta della Commissione della<br />

Harvard Me<strong>di</strong>cal School <strong>di</strong> adottare una nuova definizione che identifica la morte dell’essere<br />

umano con la cessazione dell’attività cerebrale nel suo complesso e non più con l’arresto<br />

irreversibile e definitivo delle gran<strong>di</strong> funzioni car<strong>di</strong>o-respiratorie. Sebbene questa nuova<br />

definizione sia stata poi acquisita, sul piano legislativo, dalla maggior parte dei paesi<br />

occidentali (Italia compresa), essa lascia spazio a non poche obbiezioni ed è bene pertanto<br />

tenere <strong>di</strong>stinto il problema filosofico della definizione <strong>di</strong> morte da quello della sua<br />

definizione clinica e del suo accertamento tecnico. Lo testimonia l’ampio <strong>di</strong>battito in corso in<br />

cui si confrontano <strong>di</strong>fferenti concezioni riguardo alla natura della morte degli esseri umani: la<br />

morte come processo, piuttosto che come singolo evento, come ‘fatto’ o come ‘decisione<br />

etica’, come collegabile alla cessazione irreversibile dell’attività car<strong>di</strong>aca, o invece<br />

dell’attività cerebrale nel suo complesso, o, ancora, alla cessazione permanente della sola<br />

attività corticale, considerata da alcuni decisiva perché, col suo venire meno, viene meno la<br />

possibilità stessa <strong>di</strong> una vita propriamente umana, ossia cosciente; rimane, cioè, una vita solo<br />

vegetativa che può essere prolungata per moltissimi anni .<br />

Il problema etico centrale relativo alla morte degli esseri umani non è tuttavia, come<br />

rileva Eugenio Lecaldano (filosofo morale, <strong>di</strong> impostazione analitica, da tempo impegnato nel<br />

<strong>di</strong>battito bioetico), quello <strong>di</strong> decidere se essi siano vivi o morti, ma piuttosto <strong>di</strong> chiederci se<br />

siamo legittimati a fare azioni che comportino, <strong>di</strong>rettamente o in<strong>di</strong>rettamente, la morte <strong>di</strong><br />

qualcuno (noi stessi o altri), o la sua agevolazione e, segnatamente, quali sono i casi <strong>di</strong> morte<br />

che chiamano in causa giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> illiceità morale. Ed è proprio il progressivo avanzare della<br />

me<strong>di</strong>cina tecnico-scientifica sul terreno della fine della vita a rendere urgente e lacerante la<br />

<strong>di</strong>scussione pubblica sulla possibilità o meno <strong>di</strong> riconoscere un <strong>di</strong>ritto morale a morire, che la<br />

morale tra<strong>di</strong>zionale non ha mai ammesso e che, se riconosciuto, dovrebbe portare a una<br />

revisione delle nostre leggi (come in alcuni paesi europei è già avvenuto; emblematico è il<br />

caso dell’Olanda che ha mo<strong>di</strong>ficato il suo co<strong>di</strong>ce penale per rendere legale, in determinate<br />

situazioni, sia l’eutanasia che il suici<strong>di</strong>o me<strong>di</strong>calmente assistito).<br />

In <strong>di</strong>scussione, nel nuovo orizzonte aperto dall’età della tecnica, non è più solo se uno<br />

Stato possa imporre la morte per un fine altro da sé, ma se possa imporre autoritativamente la<br />

vita.<br />

Intorno a questo interrogativo centrale si articolano poi una serie <strong>di</strong> interrogativi più<br />

specifici: sulla liceità o meno <strong>di</strong> interrompere i trattamenti che tengono in vita pazienti in<br />

coma vegetativo permanente, <strong>di</strong> considerare come vincolanti per la pratica me<strong>di</strong>ca le c.d.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

<strong>di</strong>rettive anticipate (o testamento biologico), <strong>di</strong> ammettere in alcuni casi il suici<strong>di</strong>o assistito<br />

(l’aiuto dato intenzionalmente dal me<strong>di</strong>co al paziente attraverso il rifornimento <strong>di</strong> farmaci, da<br />

autoamministrarsi, a seguito della richiesta volontaria e competente della persona che vuol<br />

porre fine alla propria vita), o anche l’eutanasia (per eutanasia in senso proprio si intende l’<br />

“uccisione intenzionale da parte del me<strong>di</strong>co <strong>di</strong> una persona attraverso la somministrazione <strong>di</strong><br />

farmaci a seguito <strong>di</strong> una richiesta volontaria e competente della persona stessa” in specifiche<br />

circostanze cliniche).<br />

Il confronto con questi temi così controversi e coinvolgenti, in cui si scontrano <strong>di</strong>fferenti<br />

concezioni sostantive <strong>di</strong> cosa si intende per ‘vita degna <strong>di</strong> essere vissuta’, ha avuto anche<br />

l’effetto <strong>di</strong> costringere a ripensare il senso stesso dell’impresa bio-me<strong>di</strong>ca contemporanea;<br />

ogni presa <strong>di</strong> posizione filosoficamente me<strong>di</strong>tata sui drammatici <strong>di</strong>lemmi etici suscitati dalle<br />

nuove situazioni <strong>di</strong> ‘fine vita’ non può più prescindere da una riflessione critica sugli stessi<br />

obbiettivi e valori perseguiti dalla me<strong>di</strong>cina scientifico-tecnologica occidentale, nella sua<br />

interazione con le aspettative crescenti della società in cui si trova a operare, sulla sua<br />

‘sostenibilità’ a lungo termine (tema che si collega con quello della crisi dello Stato sociale)<br />

ed anche sui suoi paradossi. Numerosissimi sono gli stu<strong>di</strong> che oggi si confrontano col<br />

mutamento in atto, nelle società industriali avanzate, tanto delle con<strong>di</strong>zioni empiriche del<br />

processo del morire, dovuto a gran<strong>di</strong> trasformazioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne economico-sociale e agli<br />

straor<strong>di</strong>nari successi della me<strong>di</strong>cina occidentale, quanto delle rappresentazioni culturali della<br />

morte e degli atteggiamenti, in<strong>di</strong>viduali e sociali, che vi corrispondono e che, a loro volta,<br />

alimentano la corsa verso sempre nuovi e più problematici traguar<strong>di</strong> della ricerca biome<strong>di</strong>ca<br />

sul terreno delle situazioni <strong>di</strong> confine fra vita/morte.<br />

Al <strong>di</strong> là della <strong>di</strong>versità degli approcci <strong>di</strong>sciplinari due tratti significativi emergono da<br />

questi stu<strong>di</strong>:<br />

i. da un lato, al dato <strong>di</strong> un generale allungamento delle aspettative <strong>di</strong> vita si affiancano<br />

altri dati meno positivi; dati che mettono in luce come le nuove possibilità <strong>di</strong> curare, o<br />

almeno <strong>di</strong> tenere sotto controllo, malattie prima incurabili, e <strong>di</strong> sostituire con macchine<br />

funzioni organiche irreversibilmente compromesse, non sempre consentano un accettabile<br />

livello <strong>di</strong> qualità della vita dei pazienti <strong>di</strong> cui si riesce a procrastinare la morte;<br />

i.i. dall’altro lato si evidenzia la crescente <strong>di</strong>fficoltà per l’uomo occidentale, che non si<br />

perita a mettere a repentaglio con le sue azioni la possibilità della sopravvivenza della propria<br />

e delle altre specie, <strong>di</strong> accettare, e non solo <strong>di</strong> combattere, l’inevitabile precarietà e<br />

limitatezza temporale della sua esistenza. Tale <strong>di</strong>fficoltà spinge a coltivare l’illusione <strong>di</strong> un<br />

progresso me<strong>di</strong>co virtualmente infinito, capace <strong>di</strong> sconfiggere sofferenza e malattia, e, al<br />

limite, <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>segnare la nostra stessa natura <strong>di</strong> esseri mortali, destinati ad ammalarsi, ad<br />

invecchiare e a morire. Ma la ricerca dell’autoconservazione ad oltranza può rovesciarsi, alla<br />

fine, nella negazione <strong>di</strong> ciò che ad un’esistenza in<strong>di</strong>viduale dà ancora un senso e un valore<br />

rendendoci, anche in senso non metaforico, delle semplici appen<strong>di</strong>ci delle nostre nuove<br />

tecnologie.<br />

La crescente specializzazione e tecnologizzazione della me<strong>di</strong>cina contemporanea, che la<br />

rende sempre più efficace, se ha prodotto indubbi benefici, almeno per una parte dei citta<strong>di</strong>ni<br />

delle società occidentali, ha comportato anche un prezzo molto alto in termini <strong>di</strong><br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

<strong>di</strong>sumanizzazione della stessa pratica me<strong>di</strong>ca; essa ha, cioè, condotto, come effetto<br />

controintenzionale, ad un progressivo allentamento dell’attenzione per il malato in quanto<br />

persona, per i suoi bisogni, paure, sofferenze, e, in alcuni casi, all’ abbandono <strong>di</strong> questi al<br />

rapporto impersonale ed estraniante con le macchine, utilizzate a fini <strong>di</strong>agnostici e/o <strong>di</strong><br />

sostituzione <strong>di</strong> funzioni vitali. Come ha sottolineato Hans Jonas, uno dei filosofi più attenti<br />

agli effetti perversi delle nuove tecniche <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferimento della morte, non è solo al malato<br />

sofferente e ‘senza speranza’ che può capitare <strong>di</strong> trovarsi, a causa della sua impotenza fisica<br />

<strong>di</strong> paziente sottoposto alle norme e controlli dell’istituzione ospedaliera, nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

prigioniero: prigioniero <strong>di</strong> “una terapia <strong>di</strong> sopravvivenza che gli fa dono <strong>di</strong> una vita che egli<br />

non ritiene più degna <strong>di</strong> essere vissuta”. Prigioniero delle nuove tecnologie <strong>di</strong>viene, infatti, il<br />

me<strong>di</strong>co stesso che, in alcuni casi, può sentirsi trasformato in “tirannico e a sua volta<br />

tirannizzato padrone del paziente”.<br />

Si può allora concludere <strong>di</strong>cendo che la riflessione filosofica sull’ambivalenza dei<br />

successi della tecnica moderna e dei suoi più recenti prodotti nell’ambito delle<br />

biotecnoscienze ha messo in evidenza come il problema dell’eutanasia (letteralmente ‘buona<br />

morte’) acquisti un valore para<strong>di</strong>gmatico per quello che rivela dell’uomo contemporaneo e<br />

del suo rapporto col mondo: esso rappresenta il modo in cui la nostra stessa epoca è stata<br />

costretta, suo malgrado, a confrontarsi col problema della morte e con le <strong>di</strong>fficoltà derivanti<br />

dal compito che abbiamo affidato alla me<strong>di</strong>cina, quello <strong>di</strong> non farci morire mai. Un compito<br />

<strong>di</strong> cui ormai abbiamo cominciato a dubitare.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

32. Responsabilità/cura<br />

Nel <strong>di</strong>battito o<strong>di</strong>erno sulle problematiche sollevate dalle biotecnologie e sulle modalità<br />

del passaggio dalla ‘bioetica’ al ‘bio<strong>di</strong>ritto’ una categoria morale ha assunto un ruolo centrale:<br />

quella <strong>di</strong> responsabilità. Ma anche in questo caso ci troviamo davanti a un concetto<br />

polivalente, che si presta a essere usato con significati molto <strong>di</strong>versi per dar corpo a<br />

prospettive normative sostantive -sia sotto il profilo etico che politico-giuri<strong>di</strong>co, che risultano<br />

<strong>di</strong>ssimili o <strong>di</strong>vergenti.<br />

Quando si parla <strong>di</strong> responsabilità dal punto <strong>di</strong> vista morale, e non giuri<strong>di</strong>co, si fa<br />

riferimento a una nozione che, sotto il profilo dei suoi caratteri formali, tiene insieme più<br />

elementi: l’attribuzione <strong>di</strong> responsabilità a qualcuno non equivale a limitarsi solo alla<br />

considerazione della relazione causale che connette l’agente alle conseguenze delle sue<br />

azioni, ma “coinvolge anche le intenzioni e i motivi <strong>di</strong> quella persona e la risposta che suscita<br />

nell’agente lo stato <strong>di</strong> cose che si è prodotto” (E. Lecaldano, a cura <strong>di</strong>, Dizionario <strong>di</strong><br />

bioetica).<br />

L’assunzione <strong>di</strong> responsabilità viene ad in<strong>di</strong>care, più generalmente, un atteggiamento<br />

dell’agente morale che include non solo l’impegno a farsi carico <strong>di</strong> qualcosa e a rispondere<br />

interamente dei propri atti, ma anche la <strong>di</strong>sponibilità a fornire ragioni per le proprie credenze<br />

e per le proprie azioni.<br />

Per molti rappresentanti della c.d. ‘bioetica laica’, le cui teorie convergono su un<br />

para<strong>di</strong>gma comune che valorizza la nozione <strong>di</strong> autonomia del soggetto morale, l’implicazione<br />

sul piano pubblico del concetto <strong>di</strong> responsabilità comporta che alle persone venga<br />

riconosciuto “lo status <strong>di</strong> persone capaci <strong>di</strong> una vita riflessiva e critica”, sulla base <strong>di</strong> ben<br />

ponderate convinzioni. Fermo restando che le scelte che procurano danno agli altri debbono<br />

essere oggetto <strong>di</strong> regolamentazione e sanzione giuri<strong>di</strong>ca, a tutti i citta<strong>di</strong>ni andrebbe garantita,<br />

pertanto, la più ampia possibilità <strong>di</strong> sviluppare e esercitare la propria responsabilità morale<br />

anche nei nuovi contesti della bioetica, evitando, cioè, il ricorso a norme severe, invasive<br />

della sfera personale e privata <strong>di</strong> chi è coinvolto in prima persona. Sarebbe l’obiettivo stesso<br />

dello sviluppo della personalità e dell’autostima, considerato come obiettivo irrinunciabile<br />

delle liberaldemocrazie contemporanee, a postulare l’esercizio dell’autodeterminazione e la<br />

correlata assunzione <strong>di</strong> responsabilità, specie per le questioni che segnano il profilo<br />

complessivo <strong>di</strong> un’esistenza e che si rivelano, nei singoli casi concreti, caratterizzate dal<br />

conflitto reale fra più istanze e fra lealtà <strong>di</strong>verse. Una posizione esemplare <strong>di</strong><br />

quest’impostazione è quella <strong>di</strong>fesa da Ronald Dworkin in Life’s Dominion, un testo che si<br />

confronta con la questione del ‘giusto’ modo <strong>di</strong> gestire il conflitto sociale fra concezioni<br />

confliggenti in materia <strong>di</strong> aborto e <strong>di</strong> eutanasia. Alla domanda se una comunità politica debba<br />

o meno rendere i valori intrinseci una questione <strong>di</strong> decisione collettiva anziché <strong>di</strong> decisione<br />

in<strong>di</strong>viduale, Dworkin risponde che compito <strong>di</strong> uno Stato liberaldemocratico non è quello <strong>di</strong><br />

imporre ai citta<strong>di</strong>ni cosa dovrebbero pensare sui valori etici e spirituali, bensì quello <strong>di</strong><br />

incoraggiare gli in<strong>di</strong>vidui a <strong>di</strong>ventare responsabili delle loro scelte nelle decisioni cruciali per<br />

la loro vita personale, quali le decisioni sul se, come e quando procreare e sul come e quando<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

morire.<br />

Se vi è una convergenza <strong>di</strong> massima nell’argomentazione a favore <strong>di</strong> una politica che<br />

rispetti il pluralismo morale e culturale, garantendo a ciascuno la possibilità <strong>di</strong> vivere (e <strong>di</strong><br />

morire) in accordo con i propri valori e credenze, <strong>di</strong>verse sono invece, anche nell’ambito<br />

‘laico’, le configurazioni sostantive dell’in<strong>di</strong>viduo responsabile a seconda che l’accento<br />

venga a cadere sulla sovranità dell’agente, intesa come autosufficienza, o sulla natura<br />

intrinsecamente relazionale del soggetto morale, un soggetto che è sempre parte <strong>di</strong> una rete <strong>di</strong><br />

relazioni, variamente articolate. In questa seconda prospettiva il concetto <strong>di</strong> responsabilità si<br />

presenta, nei suoi contenuti, complesso e pluri<strong>di</strong>mensionale: include in sé non solo la<br />

<strong>di</strong>mensione della reciprocità, che comporta il rispetto della libertà dell’altro e la <strong>di</strong>sponibilità<br />

al <strong>di</strong>alogo, al confronto delle ragioni, ma anche quella dell’asimmetria delle posizioni, dei<br />

rapporti in cui l’ altro, chiunque egli sia, è un soggetto debole, vulnerabile, <strong>di</strong>pendente dal<br />

nostro potere, e della cui sussistenza, benessere e crescita ci impegniamo a farci carico. Così<br />

inteso il concetto in esame mostra in modo più <strong>di</strong>retto la sua connessione con un' altra<br />

nozione, quella <strong>di</strong> limite: il comportamento responsabile richiede anche la capacità <strong>di</strong><br />

autolimitazione, nelle proprie scelte e nell’esercizio del proprio potere, comunque questo si<br />

configuri.<br />

Pensare la responsabilità come correlata ai concetti <strong>di</strong> relazionalità e <strong>di</strong> limite ci consente<br />

il passaggio a un <strong>di</strong>verso piano della riflessione sulle nuove tecnologie, che sposta il centro<br />

d’attenzione dalla <strong>di</strong>mensione in<strong>di</strong>viduale a quella sociale-collettiva della responsabilità<br />

nell’età della tecnica e dell’inter<strong>di</strong>pendenza planetaria: responsabilità nei confronti <strong>di</strong> chi pur<br />

lontano nello spazio esiste già ed è influenzato dalle nostre azioni, ma anche nei confronti <strong>di</strong><br />

chi non esiste ancora.<br />

In quest’orizzonte <strong>di</strong> più ampio raggio si colloca la proposta <strong>di</strong> Hans Jonas <strong>di</strong> una<br />

riformulazione dell’etica che sia all’altezza vuoi dei rischi globali con cui oggi ci dobbiamo<br />

confrontare, vuoi delle nuove minacce alla continuazione <strong>di</strong> una vita autenticamente umana<br />

sul pianeta, come quelle che possono derivare da uno sviluppo incontrollato delle<br />

biotecnologie e delle neuroscienze.<br />

La riflessione critica <strong>di</strong> Jonas sui nuovi e inquietanti poteri <strong>di</strong> cui ci siamo dotati, sul<br />

cambiamento qualitativo dell’agire umano e sull’enormità degli effetti cumulativi delle azioni<br />

dell’uomo occidentale, effetti che per la prima volta nella storia dell’umanità appaiono<br />

irreversibili, consente <strong>di</strong> mettere a fuoco il novum etico <strong>di</strong> cui lo sviluppo tecnico-scientifico<br />

ci ha fatto carico: l’irrompere <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni<br />

quoti<strong>di</strong>ane pratico-terrene. E’ questo novum etico a rendere necessaria, per Jonas, una<br />

ridefinizioni dei nostri valori e obblighi sulla base <strong>di</strong> un principio cruciale, quello <strong>di</strong><br />

responsabilità nei confronti delle generazione future, che supera la visione antropocentrica<br />

per collegare il bene umano alla protezione dell’intera biosfera, con tutta la ricchezza e<br />

vulnerabilità delle sue specie.<br />

La mutata ottica, che pone al centro della scena etica il precetto <strong>di</strong> non lasciare ai<br />

<strong>di</strong>scendenti un’ere<strong>di</strong>tà devastata, eleva a valore <strong>di</strong> importanza decisiva per il mondo <strong>di</strong><br />

domani l’esercizio o<strong>di</strong>erno, come singoli e come collettività, dell’autolimitazione, che deve<br />

poter progre<strong>di</strong>re da una moderazione nell’uso del potere a una moderazione nella sua<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

acquisizione. In altri termini, è questo l’appello <strong>di</strong> Jonas, se si vuole riportare la corsa<br />

tecnologica sotto controllo extratecnologico, come esige il principio <strong>di</strong> responsabilità verso le<br />

generazioni future, ma anche l’amore della <strong>di</strong>gnità e dell’ autonomia umana, la quale richiede<br />

che noi posse<strong>di</strong>amo noi stessi e non ci facciamo possedere dalle nostre opere. si deve riuscire<br />

a concordare, a livello mon<strong>di</strong>ale, una politica <strong>di</strong> ricerca più restrittiva e l’imposizione <strong>di</strong> freni<br />

all’applicazione <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> risultati scientifici, riconoscendo, quale nuovo criterio guida,<br />

la regola ferrea ‘in dubio pro malo’ (nel dubbio si deve dare ascolto alla prognosi peggiore).<br />

Molte sono le critiche che sono state mosse al criterio <strong>di</strong> precauzione formulato da Jonas<br />

per trattare l’incertezza in ambito tecnico-scientifico, come pure alla sua fondazione<br />

ontologico-metafisica del dovere umano, ma quello che qui interessa evidenziare è il<br />

peculiare carattere del principio posto a car<strong>di</strong>ne della nuova etica della responsabilità e la sua<br />

connessione con un altro concetto: quello <strong>di</strong> cura. Questo principio, sulla cui base si<br />

ridefinisce l’estensione dei nostri doveri, lega infatti l’idea <strong>di</strong> responsabilità a una relazione<br />

asimmetrica, che esclude la possibilità della reciprocità: il mio obbligo non trova un<br />

corrispondente nel dovere dell’altro. E’ l’umanità futura, che non farà niente in nostro favore,<br />

a essere rimessa integralmente alla nostra custo<strong>di</strong>a, ovvero alle nostre cure. Non a caso Jonas<br />

in<strong>di</strong>vidua nella responsabilità genitoriale il modello originario <strong>di</strong> ogni altra forma <strong>di</strong><br />

responsabilità, identificando in tal modo l’agire responsabile con l’agire che si assume la<br />

‘cura’ del debole e del vulnerabile (i bambini, le generazione future, la vita extraumana del<br />

pianeta).<br />

Il tema della cura e del ‘prendersi cura’ è un tema che attraversa, con percorsi non lineari<br />

e <strong>di</strong>verse declinazioni, molti ambiti della riflessione filosofica del XX secolo. Se in un primo<br />

periodo la sua presenza rimane circoscritta all’esperienza teorica <strong>di</strong> alcuni settori del pensiero<br />

europeo continentale –sotto l’influenza <strong>di</strong> quegli in<strong>di</strong>rizzi che hanno posto l’accento sugli<br />

aspetti <strong>di</strong> fragilità, vulnerabilità, <strong>di</strong>pendenza e insicurezza dell’ ‘essere umano’- negli ultimi<br />

decenni ha acquistato visibilità e rilevanza anche nel <strong>di</strong>battito etico-politico e bioetico<br />

dell’area angloamericana. In questo passaggio <strong>di</strong> sponda un ruolo <strong>di</strong> rilievo è giocato dalla<br />

svolta che si verifica all’interno della filosofia analitica che segna una ripresa <strong>di</strong> interesse per<br />

i temi della filosofia pratica e per le questioni <strong>di</strong> etica applicata a casi concreti (come ad es.<br />

quelli al centro della riflessione bioetica).<br />

Pur nella <strong>di</strong>versità dei percorsi filosofici e delle proposte teoriche e normative,<br />

l’attenzione per il tema della ‘cura’ -cura <strong>di</strong> sé, cura dell’Altro, cura del mondo - si articola<br />

sempre in una prospettiva <strong>di</strong> problematizzazione critica delle strutture e dei presupposti<br />

dell’etica ‘moderna’, nelle sue versioni utilitariste e deontologiche, e della visione del<br />

soggetto egemonico e unitario che ne sta al centro. Il modello del soggetto autonomo e capace<br />

<strong>di</strong> legislazione universale, perché capace <strong>di</strong> trascendere il suo ra<strong>di</strong>camento in un corpo e la<br />

sua collocazione storica e relazionale, è messo in <strong>di</strong>scussione e contestato in quanto<br />

espressione <strong>di</strong> una visione troppo atomistica e astratta della figura dell’agente morale. E a<br />

questa critica spesso si coniuga non solo un recupero del valore, morale e cognitivo, delle<br />

emozioni e dei sentimenti, ma anche una maggiore consapevolezza filosofica della<br />

complessità dell’esperienza morale, ossia della natura ‘poliedrica’ dell’etica, e della varietà<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

delle risposte possibili, eticamente rilevanti, al riconoscimento da parte <strong>di</strong> ciascuno del<br />

legame con gli altri: altri come noi e insieme necessariamente <strong>di</strong>versi da noi; da considerare,<br />

cioè, tanto nelle loro caratteristiche astratte <strong>di</strong> agenti capaci <strong>di</strong> linguaggio, <strong>di</strong> azione, <strong>di</strong><br />

autoprogettazione, quanto nella loro concreta <strong>di</strong>fferenza e unicità biografica.<br />

Ma anche per la ‘cura’, come sigla della con<strong>di</strong>zione umana, vi è un mito originario, che si<br />

presta a essere letto secondo un duplice registro interpretativo, dando luogo a una <strong>di</strong>versità<br />

<strong>di</strong> sviluppi teorici e a peculiari intersezioni.<br />

Il racconto sulle origini della cura, tratto da un testo latino e ripreso nel tempo da più autori,<br />

narra che:<br />

la cura stava attraversando un fiume quando scorse del fango cretoso. Pensierosa,<br />

ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre stava riflettendo su cosa<br />

avesse fatto, ecco che interviene Giove. A questo punto, la cura prega Giove <strong>di</strong><br />

infondere lo spirito a ciò che essa ha fatto senza però sapere cosa sia. Giove<br />

acconsente volentieri, però poi la cura pretende <strong>di</strong> imporre il nome a ciò che ha<br />

fatto e Giove non è d’accordo. Mentre Giove e la cura litigano interviene la Terra<br />

che reclama il battesimo <strong>di</strong> ciò che è stato fatto in quanto parte del suo corpo, il<br />

corpo della Terra. I <strong>di</strong>sputanti eleggono Saturno, il Tempo, come giu<strong>di</strong>ce. La<br />

decisione <strong>di</strong> Saturno, incontestabile, è la seguente: Tu, Giove, hai dato lo spirito e<br />

al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, hai dato il corpo e riceverai<br />

il corpo; poiché per prima fu la cura che <strong>di</strong>ede forma a quest’essere, finché esso<br />

vive, lo possieda la cura. Per tutta la vita l’uomo è l’essere della cura e visto che<br />

proviene dalla Terra, dall’humus, il suo nome è homo<br />

Il primo registro interpretativo del racconto rimanda alla lettura heideggeriana del mito:<br />

l’uomo, in quanto essere per la morte, è al mondo come uomo della cura, dell’ angoscia per<br />

la morte a venire. Il concetto <strong>di</strong> ‘cura’ intesa come angoscia, ansia, affanno, traccia un primo<br />

percorso <strong>di</strong> sviluppo <strong>di</strong> questo tema.<br />

Il racconto dell’origine può tuttavia esser letto anche in altra chiave, come mito ‘pre’ o<br />

‘anti-cartesiano’, come una ‘parabola che sottolinea l’inscin<strong>di</strong>bilità <strong>di</strong> psiche e soma, <strong>di</strong><br />

spirito e passione, secondo una visione olistica del soggetto-oggetto della cura. Ed è<br />

soprattutto quest’ultima interpretazione a trovare spazio nella <strong>di</strong>scussione filosoficoscientifica<br />

degli ultimi decenni, volta a (ri)costruire, nel non facile <strong>di</strong>alogo fra varie<br />

competenze <strong>di</strong>sciplinari, una visione più integrata dell’in<strong>di</strong>vidualità umana, o meglio una<br />

visione globale dell’uomo, quale necessario prelu<strong>di</strong>o per una trasformazione, teorica e<br />

pratica, anche delle <strong>di</strong>scipline biome<strong>di</strong>che e dei loro modelli epistemologici.<br />

In questa seconda prospettiva l’attenzione per il il tema della ‘cura’ si sviluppa allora<br />

nella <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> una specificazione più dettagliata del senso e delle componenti - cognitive,<br />

etiche ed empatiche- del ‘prendersi cura’ come pratica relazionale, <strong>di</strong> scambio comunicativo,<br />

i cui fini sono plurimi e mutevoli, <strong>di</strong>pendentemente dal <strong>di</strong>verso status dei soggetti della<br />

relazione e dalle situazioni particolari: ripristinare uno stato precedente, lenire le sofferenze e<br />

non lasciare che il dolore del corpo e della mente restringa i confini del ‘sé’ fino a rendere<br />

impossibile ogni rapporto col ‘mondo’, sostenere e rispettare, nella relazione terapeutica, la<br />

capacità <strong>di</strong> autodeterminazione dei c.d. ‘pazienti’, ma anche agevolare una trasformazione<br />

evolutiva, una crescita (l’analogia più <strong>di</strong>retta , in questo senso, è con le cure materne e con la<br />

relazione madre-bambina/o).<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

L’esigenza <strong>di</strong> ricomposizione dei vari aspetti dell’in<strong>di</strong>vidualità del soggetto-oggetto<br />

delle cure me<strong>di</strong>che in un sapere e una pratica che sia in grado <strong>di</strong> ricongiungere competenza<br />

tecnica e interesse umano per l’aspetto biografico della malattia (nella lingua inglese illness è<br />

la malattia vissuta, mentre <strong>di</strong>sease è la malattia in senso organico), insomma <strong>di</strong> ricomporre<br />

cure e care, è tratto <strong>di</strong>stintivo anche <strong>di</strong> quel filone della bioetica nordamericana che più ha<br />

contribuito a riaprire una riflessione critica sui caratteri della me<strong>di</strong>cina scientifico-tecnologica<br />

occidentale, sui suoi valori e scopi prioritari come sui suoi modelli formativi. Ed è anche<br />

grazie a questi orientamenti e alla loro convergenza con istanze ed elaborazioni teoriche del<br />

pensiero femminista che il tema della cura, nella sua accezione <strong>di</strong> ‘prendersi cura’, acquista<br />

una crescente rilevanza nell’ambito della filosofia morale e etico-politica dell’area<br />

angloamericana.<br />

Una tappa importanta <strong>di</strong> questo processo è segnata dall’uscita, negli anni ottanta, dell’<br />

opera <strong>di</strong> Carol Gilligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s<br />

Development, e dal <strong>di</strong>battito che ne è seguito, che ha funzionato da volano per una più vasta<br />

e articolata riflessione su lacune e insufficienze delle teorie etiche egemoni e per<br />

l’esplorazione <strong>di</strong> nuove prospettive capaci <strong>di</strong> coniugare un’ etica delle virtù, o del carattere,<br />

con un’etica del rispetto dei <strong>di</strong>ritti e delle libertà fondamentali.<br />

Schematicamente, due sono i principali obiettivi del testo <strong>di</strong> Gilligan :<br />

i .il primo è quello <strong>di</strong> svelare la parzialità delle teorie evolutive dell’identità e del<br />

senso morale che hanno considerato il comportamento maschile come la norma e il<br />

comportamento femminile come una sorta <strong>di</strong> devianza da tale norma; questi modelli della<br />

crescita umana, che dai tempi <strong>di</strong> Freud hanno dominato nel panorama della psicologia dello<br />

sviluppo, sono criticati per la loro visione squilibrata dell’ essere umano adulto, che fa<br />

coincidere la maturità con l’acquisizione della consapevolezza della propria in<strong>di</strong>pendenza e<br />

autonomia morale, mentre scarsa attenzione viene prestata invece alla sensibilità per i<br />

sentimenti altrui e al riconoscimento dell’importanza dei legami e del nostro essere-inconnessione.<br />

In particolare, nel lavoro <strong>di</strong> Gilligan viene messa in <strong>di</strong>scussione la ‘scientificità’ delle<br />

teorie dello psicologo Lawrence Kohlberg e la pretesa neutralità del suo modello standard <strong>di</strong><br />

maturità psicologica e morale, identificata con la capacità <strong>di</strong> assumere un punto <strong>di</strong> vista<br />

imparziale da cui riflettere sui valori societari e pervenire, seguendo una procedura formale,<br />

all’identificazione <strong>di</strong> principi <strong>di</strong> giustizia universalmente applicabili. Modello che costituisce<br />

il corrispondente, sul piano della teoria psicologico-evolutiva, della concezione della ‘persona<br />

morale’ <strong>di</strong> John Rawls e del normativismo astratto dei filosofi liberal;<br />

ii. l’ulteriore e più ambizioso scopo è quello <strong>di</strong> delineare gli aspetti rilevanti<br />

<strong>di</strong> una prospettiva morale contestuale e relazionale: una care ethics fondata sul valore della<br />

responsabilità verso l’altro, pur nel rispetto e fedeltà verso <strong>di</strong> sé, che si propone non come<br />

alternativa all’etica astratta dei <strong>di</strong>ritti e delle regole, ma come <strong>di</strong> essa integrativa, nel suo<br />

riconoscimento dell’universalità del bisogno <strong>di</strong> compassione e cura.<br />

Due ideali <strong>di</strong> rapporto umano sottendono questa più complessa concettualizzazione<br />

dell’impegno morale: se il primo prevede che il sé e l’altro saranno considerati ugualmente<br />

degni e trattati con equità, nonostante le possibili <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> potere, il secondo prefigura<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

che ciascuno riceverà risposta e verrà incluso, nessuno sarà lasciato solo e fatto soffrire. Due<br />

visioni in tensione reciproca che, per Gilligan, riflettono la verità paradossale dell’esperienza<br />

umana: il fatto che ci possiamo conoscere come in<strong>di</strong>vidui separati solo nella misura in cui<br />

viviamo in connessione con altri e che possiamo avere esperienza del rapporto soltanto nella<br />

misura in cui impariamo a <strong>di</strong>fferenziare l’altro da noi.<br />

In questo senso la proposta <strong>di</strong> Gilligan trova significativi riscontri in quel filone della<br />

riflessione bioetica <strong>di</strong> cui Daniel Callahan è forse l’esponente più noto, quello che più si è<br />

impegnato a promuovere un progetto <strong>di</strong> ‘riumanizzazione’ dell’istituzione me<strong>di</strong>ca fondato<br />

proprio sulla valorizzazione del concetto <strong>di</strong> ‘care’.<br />

I termini care e caring conoscono oggi una grande fortuna, tanto da esser entrati nel<br />

lessico quoti<strong>di</strong>ano ma, come accade per tutti i termini non facilmente definibili e oltremodo<br />

suggestivi, corrono anche il pericolo <strong>di</strong> esser impiegati, nei più <strong>di</strong>versi contesti, con una<br />

valenza fortemente retorica che finisce per svuotarli, ancora una volta, <strong>di</strong> ogni contenuto<br />

significativo. Può essere utile pertanto mettere in evidenza come nel concetto <strong>di</strong> care, nel<br />

senso <strong>di</strong> caring, <strong>di</strong> prendersi cura, ciò che rileva è soprattutto il riferimento a un insieme <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>sposizioni umane e morali (virtù) quali: il senso <strong>di</strong> responsabilità e l’impegno nei confronti<br />

del benessere altrui, la <strong>di</strong>sponibilità a identificarsi con la sofferenza degli altri, la solidarietà<br />

nella con<strong>di</strong>visione<br />

In questo senso l’agire morale, sia nella sfera personale-privata sia in quella sociale e<br />

pubblica, viene a configurarsi come questione non solo <strong>di</strong> ragioni ‘appropriate’, ma anche <strong>di</strong><br />

emozioni e <strong>di</strong> sentimenti ‘appropriati’, all’interno <strong>di</strong> contesti relazionali <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa natura, che<br />

possono sempre facilitarne o inibirne lo sviluppo nel tempo.<br />

Se forte è la somiglianza fra le <strong>di</strong>sposizioni qualificanti la ‘relazione <strong>di</strong> cura’ nell’uno e<br />

nell’altro in<strong>di</strong>rizzo, tanto da aver dato luogo a una loro crescente e proficua interazione,<br />

<strong>di</strong>verse sono invece le matrici a cui si fa riferimento.<br />

Per il pensiero femminista l’attitu<strong>di</strong>ne al caring è ricondotta a un insieme <strong>di</strong> qualità<br />

intellettuali e affettive specificamente femminili, anche se poi vi è sull’origine ultima <strong>di</strong> tali<br />

<strong>di</strong>sposizioni una <strong>di</strong>visione, che riflette una più profonda <strong>di</strong>vergenza circa la natura della<br />

<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> genere sessuale: da una parte le esponenti del filone del maternal thinking<br />

ra<strong>di</strong>cano tali qualità e competenze nel corredo psichico e corporeo <strong>di</strong> ogni donna perché le<br />

collegano all’esperienza della maternità, dall’altra le correnti ‘antiessenzialistiche’ tendono<br />

piuttosto a evidenziare i con<strong>di</strong>zionamenti storico-sociali e culturali dell’ ‘identità femminile’<br />

e delle attitu<strong>di</strong>ni ad essa ascritte.<br />

Per gli orientamenti interni al pensiero ‘bioetico’ che si sono impegnati a ridefinire il<br />

modello epistemologico e operativo della professione me<strong>di</strong>ca l’intento è stato invece, quello<br />

<strong>di</strong> promuovere un modello <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina ancora capace <strong>di</strong> articolare al suo interno conoscenza<br />

tecnica e sapere pratico, scienza e ‘arte’ della salute, rivalutandone, in questa <strong>di</strong>rezione, l’<br />

originaria <strong>di</strong>sposizione al ‘prendersi cura’ e alla costruzione <strong>di</strong> una relazione terapeutica<br />

fondata sul <strong>di</strong>alogo e sulla solidarietà interpersonale; perché è proprio questa <strong>di</strong>sposizione,<br />

considerata fondativa del senso stesso della professione me<strong>di</strong>ca in tutta la fase della me<strong>di</strong>cina<br />

classica, che poco aveva da offrire in termini <strong>di</strong> terapie efficaci, ad essere compromessa dagli<br />

sviluppi e successi della me<strong>di</strong>cina scientifico-tecnologica o<strong>di</strong>erna, che tendono a trasformare<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

il me<strong>di</strong>co in un tecnico della patologia.<br />

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

Riferimenti bibliografici per le voci <strong>di</strong> Bioetica<br />

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*** Per il concetto <strong>di</strong> cura:<br />

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Donghi, P, Preta L. ( a cura <strong>di</strong> ), In principio era la cura, Laterza, Roma-bari 1995<br />

Gilligan C., In a Different Voice. Psychological Theory and Women Development (1982),<br />

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bioetica, Carocci, Roma 2003<br />

Veca S., La penultima parola e altri enigmi. Questioni <strong>di</strong> filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001<br />

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