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Note sul pirandellismo di Normanno Soscia e il tentativo di una ...

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<strong>Note</strong> <strong>sul</strong> <strong>pirandellismo</strong> <strong>di</strong> <strong>Normanno</strong> <strong>Soscia</strong><br />

e <strong>il</strong> <strong>tentativo</strong> <strong>di</strong> <strong>una</strong> descrizione<br />

Giovanni Burali D’Arezzo<br />

Lo incontrai <strong>sul</strong> monte tanto tempo fa.<br />

Lo vi<strong>di</strong> alla <strong>di</strong>stanza che avanzava.<br />

Capra capriolo, uomo sfigurato.<br />

Ho sfogliato <strong>il</strong> bellissimo catalogo Mondadori <strong>di</strong> <strong>Normanno</strong> <strong>Soscia</strong>, curato da Paolo Levi.<br />

Buona parte delle sua vasta produzione dagli anni ’60 a oggi per la prima volta riunita.<br />

Dopo aver letto gli apparati critici, che permettono <strong>una</strong> conoscenza complessiva delle letture<br />

fornite della sua pittura, avverto <strong>una</strong> lieve sfasatura rispetto ai giu<strong>di</strong>zi ivi espressi. Diversamente<br />

dalla maggior parte dei critici, davanti ai quadri <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> ho sempre odorato l’ombra, un elemento<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>sturbo. Voglio guardare in quest’ombra, spiegare questa sfasatura. L’esito sarà duplice: la<br />

formulazione <strong>di</strong> un’interpretazione dell’arte <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> che sv<strong>il</strong>uppa la traccia in<strong>di</strong>cata da Levi<br />

quando scrive: “anche nella Coppia Matura <strong>il</strong> tratto realistico delle due figure si <strong>di</strong>sgrega e <strong>di</strong>scolora<br />

in maschere grottesche, che solo per un soffio evitano la caricatura”; e <strong>il</strong> <strong>tentativo</strong> (tentazione?) <strong>di</strong><br />

<strong>una</strong> descrizione. Tenterò <strong>di</strong> tradurre un’immagine in parole. Ma vista l’impossib<strong>il</strong>ità <strong>di</strong> <strong>una</strong><br />

descrizione perfetta, quella che eseguirò si configurerà come <strong>una</strong> specie <strong>di</strong> atto cannibalico. Mi<br />

ciberò delle sue immagini, le costringerò a ridursi nella più o meno ampia osc<strong>il</strong>lazione del segno<br />

linguistico. Così, in sintesi, questa nota <strong>sul</strong>la pittura <strong>di</strong> <strong>Normanno</strong> <strong>Soscia</strong> avrà due facce. La prima<br />

sarà quella del critico e dell’interprete, che pre<strong>di</strong>lige i concetti e “trascura” i quadri; l’altra quello<br />

dello scrittore ossessionato da un quadro in particolare, che tenta <strong>di</strong> descrivere nei minimi dettagli.<br />

Due facce <strong>di</strong> <strong>una</strong> stessa medaglia, però. Perché l’ammenda che deve pagare lo scrittore è <strong>il</strong><br />

riconoscimento dell’altro e della sua definitiva irriducib<strong>il</strong>ità.<br />

Critica della critica<br />

In buona parte degli interventi, l’arte sosciana rischia la riduzione. Il suo senso più profondo<br />

rischia <strong>di</strong> scivolare via: la sua forte materialità pittorica, la potente sensualità, lo splendore figurale,<br />

l’impianto scenografico inducono la maggior parte dei critici, fino ad oggi, ad abbandonarsi ad <strong>una</strong><br />

lettura sensualistica ed edonistica. Ma come avviene in alcuni romanzi in cui la descrizione<br />

minuziosa <strong>di</strong> un volto è talmente esatta e pervicace da sortire l’effetto <strong>di</strong> <strong>una</strong> indecifrab<strong>il</strong>ità<br />

psichica, <strong>di</strong> un enigma esistenziale, l’insieme <strong>di</strong> questi giu<strong>di</strong>zi, nel suo tenersi in superficie, nel suo<br />

indugiare nell’ebbrezza del puro visib<strong>il</strong>e, nel suo <strong>tentativo</strong> <strong>di</strong> astrazione estetizzante sembra uno<br />

schermo, <strong>una</strong> provocazione. Sta <strong>di</strong> fatto, tuttavia, che l’effetto è quello <strong>di</strong> un depotenziamento degli<br />

elementi drammatici, critici e negativi presenti nell’arte <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong>. E ciò va <strong>di</strong> pari passo con un<br />

approccio rapso<strong>di</strong>co, frantumante verso la produzione dell’artista. Raramente <strong>il</strong> critico, infatti,<br />

considera l’arte <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> come processo, come sv<strong>il</strong>uppo che presuppone <strong>una</strong> durata, e quin<strong>di</strong> un<br />

punto zero. Prevale l’idea <strong>di</strong> un’arte non me<strong>di</strong>ata, a-concettuale, in cui la durata è sacrificata<br />

all’attimo, all’hic et nunc dell’opera d’arte che <strong>il</strong> genio artistico cava dalla contingenza e proietta<br />

nel cielo dell’ideale, ipostasi della perfezione. Questo tipo <strong>di</strong> lettura rivela la sua insufficienza là<br />

dove si scontra con la ragione stessa del catalogo, operazione compiuta, si noti, dopo decenni <strong>di</strong><br />

attività artistica: offrire finalmente la possib<strong>il</strong>ità <strong>di</strong> leggere la propria pittura come un libro, come<br />

qualcosa <strong>di</strong> processuale, un insieme <strong>di</strong> quadri per nulla slegato, bensì unito da un grumo sostanziale.<br />

Più che <strong>una</strong> collezione <strong>di</strong> “splen<strong>di</strong><strong>di</strong> pezzi”, la pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> mi appare come lo svolgimento <strong>di</strong><br />

questo grumo. Ignorare questa soli<strong>di</strong>tà soggiacente comporta l’inesorab<strong>il</strong>e neutralizzazione della<br />

sua natura tragica. Questo nocciolo, infatti, corrisponde a <strong>una</strong> frattura, a un trauma, a <strong>una</strong> ferita; la<br />

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sua natura è f<strong>il</strong>osofico-esistenziale. Tutta l’arte <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong>, credo, può essere letta come lo<br />

svolgimento <strong>di</strong> questa frattura. Il costante e continuo <strong>tentativo</strong> <strong>di</strong> elaborarla, <strong>di</strong> rispondere ad essa e,<br />

<strong>di</strong>rei, <strong>di</strong> esorcizzarla. Per questo è un’arte reattiva e per nulla rasserenante, un’arte tesa, ossessiva,<br />

fondata su un genetico fallimento ricompositivo.<br />

Messa in questi termini, l’arte sosciana può essere intesa come intrinsecamente rituale,<br />

ad<strong>di</strong>rittura sacrificale, come si vedrà in seguito. Una ritualità complessa che si serve <strong>di</strong> un sistema<br />

ampio ma limitato <strong>di</strong> oggetti (immagini in apparenza irrelate, che in realtà partecipano a <strong>una</strong><br />

rappresentazione allegorica) e <strong>di</strong> <strong>una</strong> temporalità narrativa perio<strong>di</strong>zzab<strong>il</strong>e, un susseguirsi <strong>di</strong> tappe;<br />

elementi riconoscib<strong>il</strong>i, ripeto, solo a patto <strong>di</strong> considerare l’opera nella sua interezza. Solo a questa<br />

con<strong>di</strong>zione, quella che i critici chiamano teatralità, o scenografia dell’arte sosciana, si emancipa: da<br />

ster<strong>il</strong>e categoria descrittiva acquista la sua efficacia interpretativa. Il grande teatro della pittura<br />

sosciana, infatti, è figlio della scomposizione operata dalle avanguar<strong>di</strong>e; è <strong>il</strong> teatro dell’assurdo, <strong>il</strong><br />

teatro del vuoto metafisico, o più esattamente è <strong>il</strong> teatro <strong>di</strong> Pirandello. <strong>Soscia</strong> si inscrive nella<br />

tra<strong>di</strong>zione dell’arte tragico-umoristica.<br />

Dalla “vita” alla “forma”<br />

Nella maggior parte della produzione <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> le figure umane ritratte portano in sé un<br />

mistero. La loro identità è vaga. I tratti indeci<strong>di</strong>b<strong>il</strong>i. La <strong>di</strong>mensione psichica inafferrab<strong>il</strong>e. Nel corpo<br />

sembrano burattini. Io credo che <strong>il</strong> fantoccio sosciano, che Levi definisce maschera grottesca al<br />

limite della caricatura, sia l’esito patetico <strong>di</strong> un doloroso, luttuoso processo che conduce<br />

all’astrazione dell’in<strong>di</strong>vidualità e alla <strong>di</strong>ssoluzione dell’identità, processo che <strong>il</strong> curatore chiama<br />

<strong>di</strong>sgregazione.<br />

Darò ora seguito ad un appunto che ho trovato tra le carte: “i volti <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> rappresentano la<br />

progressiva negazione dell’umano”. Risalendo la sua produzione dagli anni settanta a oggi noto<br />

infatti un’evoluzione del modo <strong>di</strong> rappresentare <strong>il</strong> volto; le tappe sono:<br />

a) <strong>il</strong> volto nudo (terrore umano)<br />

b) <strong>il</strong> volto pietrificato che si duplica (dalla tensione mitica all’umorismo)<br />

c) la maschera (morte).<br />

Fare <strong>una</strong> storia del volto nella pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> significa osservare <strong>il</strong> processo <strong>di</strong> un<br />

progressivo mascheramento. Invertendo forse <strong>il</strong> percorso dell’autore sic<strong>il</strong>iano, da un punto <strong>di</strong> vista<br />

concettuale <strong>Soscia</strong> parte dalla vita e approda alla forma.<br />

Le prima tappa della storia del volto sosciano mette in scena l’emersione della vita, che<br />

trova <strong>il</strong> suo corrispettivo nella vitalità primitiva della montagna, e lo sgomento metafisico che essa<br />

comporta (<strong>il</strong> volto nudo, tappa a).<br />

La tappa successiva ha, per como<strong>di</strong>tà espositiva, due tempi: assunzione immunizzatrice del<br />

potenziale <strong>di</strong>struttivo della vita attraverso la pietrificazione (tensione mitica) e scomposizione<br />

umoristica. La <strong>di</strong>mensione mitica della pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> non si realizza, come erroneamente<br />

credono molti suoi interpreti, nel recupero del mondo antico (frainteso classicismo, col suo corredo<br />

<strong>di</strong> ricomposizione, pacificazione, serenità ed equ<strong>il</strong>ibrio); bensì nella tensione costante alla vita,<br />

intesa come flusso continuo, movimento profondo e autentico. Lo stesso arcaismo sosciano non è<br />

solo <strong>il</strong> repertorio antropologico delle sue ra<strong>di</strong>ci aurunche, ma traccia archetipica, memoria<br />

involontaria, istinto vitalistico. Questo istinto, questa tensione non ha nulla <strong>di</strong> armonico e<br />

consolatorio; tutt’altro, è un movimento schiettamente tragico, perché intrinsecamente votato alla<br />

sconfitta.<br />

Nella produzione petrosa degli anni settanta, la sola ad essere simbolista, <strong>il</strong> pittore inserisce<br />

nei suoi quadri alcune visioni montane. In esse l’elemento predominante è la pietra. La pietra è un<br />

simbolo assai denso, nel senso che appare come la sintesi <strong>di</strong> forze fortemente contrastanti: è sì fuori<br />

dalla storia, rappresenta cioè l’utopia simbolista del trionfo <strong>sul</strong> <strong>di</strong>venire, ma della natura è anche <strong>il</strong><br />

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termine minimo. La pietra è uno spazio poetico liminare entro <strong>il</strong> quale l’uomo tenta per la prima e<br />

ultima volta <strong>di</strong> attingere alla vita, <strong>di</strong> tenere integro l’ultimo es<strong>il</strong>issimo contatto con la natura.<br />

Nel momento in cui <strong>il</strong> volto si pietrifica, cioè nel momento in cui <strong>il</strong> simbolo viene assunto<br />

nel vivo del volto, la densità si riduce, lo spazio liminare si assottiglia. L’uomo è ormai <strong>di</strong>ventato <strong>di</strong><br />

pietra e la vita si ritrae dal volto. Credo che in questo processo, sostanzialmente sotterraneo e<br />

costante, ma certamente ben visib<strong>il</strong>e in alcuni lavori degli anni settanta, ci sia tensione mitica. Per<br />

mito io intendo, quin<strong>di</strong>, l’iniziale tensione tra vita e forma, che nel momento in cui si spezza, si<br />

pietrifica, smette trasmutandosi in maschera. Mercenario è <strong>una</strong> specie <strong>di</strong> <strong>di</strong>chiarazione poetica in<br />

questo senso. L’asportazione violenta e dolorosa del volto pietrificato del mercenario è <strong>una</strong> presa <strong>di</strong><br />

coscienza f<strong>il</strong>osofica (nella mia lettura, uno snodo) grazie alla quale <strong>il</strong> volto si scompone, si<br />

smaterializza, si astrae infine nella maschera (tappa c dello schema). Nella stragrande maggioranza<br />

dei casi, dagli anni novanta a oggi, i lineamenti del viso appaiono scomposti, strani, e se si isola <strong>il</strong><br />

volto dal resto, ad<strong>di</strong>rittura mostruosi, spiritati, orrifici. Colpiscono <strong>di</strong> queste maschere gli occhi:<br />

buchi, orbite vuote. La pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> è infine segnata dal senso della morte. Lo splendore<br />

figurale, nel vano <strong>tentativo</strong> <strong>di</strong> scongiurarla, la potenzia, decretandone <strong>il</strong> trionfo.<br />

Mercenario, 1974 - Acr<strong>il</strong>ico su tavola, 80 x 70 cm.<br />

Se la maschera dominerà la pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> dagli anni novanta ad oggi, che poi è la parte<br />

della produzione più nota e celebrata, è possib<strong>il</strong>e però osservare che la <strong>di</strong>alettica sotterranea e<br />

generativa vita/forma (la tensione mitica) ritorna prepotentemente nella ritrattistica; genere cruciale,<br />

perché obbliga <strong>il</strong> pittore a <strong>di</strong>sertare la sua mirab<strong>il</strong>e costruzione umoristica. Gli autoritratti in<br />

particolare. A guardarli profondamente e con insistenza, si ha come l’impressione <strong>di</strong> <strong>una</strong> coazione,<br />

<strong>una</strong> specie <strong>di</strong> autodafè. Il viso è sempre manchevole in qualche sua parte, generalmente in un<br />

occhio, <strong>il</strong> derma appare mineralizzato, scaglioso, pietrificato.<br />

D’altro canto, è possib<strong>il</strong>e anche in<strong>di</strong>viduare nell’ultima fase, quella del trionfo della forma e<br />

del tanatos, <strong>una</strong> coerente evoluzione dei motivi. Mi riferisco al ciclo “conviviale”. Negli ultimi anni<br />

<strong>Soscia</strong> <strong>di</strong>pinge banchetti per matrimoni, momenti conviviali, festicciole, feste da ballo. Il tema in<br />

questione appare come l’esito necessario cui approda <strong>il</strong> mascheramento: la <strong>di</strong>mensione della<br />

socialità. Credo che in questi quadri, in cui l’impostazione scenografica si potenzia nella<br />

coreografia delle coppie danzanti, spesso supportata da <strong>una</strong> colonna musicale, rappresentata da<br />

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suonatori e orchestrine, <strong>Soscia</strong> abbia completato la parabola. La maschera, fin qui letta come l’esito<br />

<strong>di</strong> un processo all’apparenza tutto limitato alla sfera in<strong>di</strong>viduale ed esistenziale, rivela la propria<br />

sostanza intersoggettiva. La maschera ha la sua ragion d’essere nello sguardo dell’altro.<br />

Inestricab<strong>il</strong>mente e necessariamente, da esso <strong>di</strong>pende la sua sostanza, che perciò è sostanza<br />

relazionale. Ma nei quadri la relazione appare viziata, corrotta; questi banchetti sono in realtà un<br />

teatro <strong>di</strong> maschere, hanno un’atmosfera enigmatica e contraffatta e più <strong>di</strong> altri lavori producono<br />

nello spettatore un effetto straniante. Tra i convitati non c’è nessun riconoscimento, le figure<br />

afasiche e irrelate rappresentano <strong>il</strong> dominio della forma, la sensualità appare ormai <strong>una</strong> posa sociale,<br />

un gioco <strong>di</strong> società che permette la riproduzione culturale.<br />

Il <strong>tentativo</strong> <strong>di</strong> <strong>una</strong> descrizione.<br />

A metà degli anni settanta <strong>Soscia</strong> <strong>di</strong>pinge <strong>una</strong> serie <strong>di</strong> quadri molto inquietanti. È <strong>il</strong><br />

principio, quando ancora la maschera non c’era e l’uomo era nudo. Uno <strong>di</strong> questi quadri è Pic-nik, <strong>il</strong><br />

quadro più drammatico, a mio avviso, della sua produzione.<br />

Ad esso sono legato per misteriose ragioni; forse per singolare coincidenza è <strong>il</strong> primo quadro<br />

che ho visto. Non ci giurerei ma ero un ragazzo. O forse, a ricordare bene, me lo descrisse che ero<br />

ragazzo un mio amico che frequentava la casa del maestro. Per queste ragioni, che, come si vede,<br />

non hanno nulla a che fare con l’arte, quando si <strong>di</strong>ce <strong>Soscia</strong> io penso a Pic-nik. Ma sospetto che<br />

nella storia tra me e Pic-nik ci siano state altre questioni in ballo. Intendo <strong>di</strong>re che in seguito siano<br />

subentrate anche motivazioni <strong>di</strong> gusto e <strong>di</strong> affinità. Sta <strong>di</strong> fatto che mi sono sempre ripromesso <strong>di</strong><br />

fornire <strong>di</strong> questo quadro <strong>una</strong> descrizione impeccab<strong>il</strong>e.<br />

Non è vero, non ricordo con esattezza, perché non voglio ricordare, se ricordare significa<br />

or<strong>di</strong>nare, introdurre un principio compositivo, razionale nello stratiforme cumulo del vissuto. E<br />

quando potrei guardarlo con attenzione non lo faccio. Lancio un’occhiata e mi prende subito un<br />

turbamento, un timore. Mi sono soffermato, a volte con insistenza, ma era come se la memoria non<br />

registrasse e la mente non vedesse. Ricordo, sì, i suoi elementi, ma non la loro forma esatta, la loro<br />

posizione all’interno del quadro, la loro sostanza pittorica… Nello stesso tempo pulsano,<br />

s’<strong>il</strong>luminano. Cielo, montagna, rocce, gigante <strong>di</strong>steso <strong>di</strong> pietra, tovaglia, ra<strong>di</strong>olina, ma sempre<br />

<strong>di</strong>staccato, inarrivab<strong>il</strong>e. Pic-nik si è scavato <strong>una</strong> nicchia nel mio universo e là risplende, remota<br />

grammatica minima. I<strong>di</strong>llio esploso della mia montagna.<br />

Pic-nik, 1976 - Acr<strong>il</strong>ico su tavola, 170x185 cm.<br />

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Pic-nik è a pagina 119 del catalogo. Solo ora ho la forza particolare <strong>di</strong> guardarlo. Quale<br />

stupore iniziale e quale sfida dolorosa. Ma prima della descrizione, resto ancorato all’assenza,<br />

all’impressione che mi fece nel remoto primo incontro, e che palpita come annega e affiora <strong>una</strong><br />

cosa <strong>sul</strong>la superficie <strong>di</strong> un liquido. È qui aperto <strong>sul</strong>la scrivania come era là, <strong>di</strong>etro la selva <strong>di</strong><br />

cavalletti. Esito, mi <strong>di</strong>lungo, permango <strong>sul</strong>la soglia, sperando che l’invisib<strong>il</strong>e sia fert<strong>il</strong>e, che <strong>il</strong> vago<br />

detti l’esattezza…<br />

Ora che l’incontro sta per accadere si precisa, aff<strong>il</strong>ando le sue vive asperità, l’immagine<br />

plastica e furtiva del plagio. Mi appresto all’esperienza cancellata della violenza. Tra un attimo<br />

violenterò, <strong>di</strong>vorerò, sovvertirò, e seminerò <strong>il</strong> <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne nell’or<strong>di</strong>ne. Operazione <strong>di</strong>sperata, segnata<br />

da un limite che vive come <strong>il</strong> taglio <strong>di</strong> materia organica; che vive, rosseggia, si tinge (questione<br />

d’allarme, d’emergenza). È <strong>il</strong> limite che separa inesorab<strong>il</strong>mente due uomini, <strong>il</strong> taglio che è margine<br />

e abisso insieme, interruzione e apertura.<br />

Pic-nik: <strong>di</strong>stesa l<strong>una</strong>re, o mare raffermo, allagamento <strong>di</strong> sostanza densa, striata, lievemente<br />

ondulante, <strong>di</strong> colore verde tendente al cupo. Occupa circa due terzi della superficie del quadro,<br />

l’altro terzo è occupato dal cielo. Sulla <strong>di</strong>stesa sono <strong>di</strong>sseminate rocce <strong>di</strong> varie <strong>di</strong>mensioni che<br />

suggeriscono invisib<strong>il</strong>i piani prospettici. Le rocce affiorano letteralmente dalla terra, paiono cioè<br />

lievi come fiori posate come sono <strong>sul</strong> manto erboso. Tra esse, due spiccano per le <strong>di</strong>mensioni. Una,<br />

in primissimo piano, emerge a sinistra del margine inferiore, l’altra si erge esattamente nel fuoco<br />

centrale, su <strong>di</strong> essa è posata <strong>una</strong> ra<strong>di</strong>olina la cui antenna si innalza percorrendo l’asse me<strong>di</strong>ano della<br />

composizione. Queste rocce sono del tipo che si incontrano sui Monti Aurunci, d’origine calcarea e<br />

perciò bianche, profondamente erose, scanalate e rugose, sim<strong>il</strong>i a stalagmiti, a monconi <strong>di</strong><br />

antichissime colonne, a moccoli <strong>di</strong> ceri maestosi.<br />

Nel mezzo della <strong>di</strong>stesa c’è <strong>una</strong> tovaglia bianca <strong>di</strong>spiegata, un lenzuolo <strong>di</strong>sposto in modo da<br />

formare un rombo sud<strong>di</strong>viso in se<strong>di</strong>ci quadri dalle linee della piegatura, <strong>una</strong> sorta <strong>di</strong> scacchiera<br />

<strong>di</strong>minuita. Sulla tovaglia ci sono sparuti oggetti <strong>di</strong> circostanza, messi alla rifusa: <strong>una</strong> fetta <strong>di</strong><br />

cocomero lievemente intaccata da piccoli morsi svogliati come <strong>di</strong> uomo ormai sazio, nell’angolo in<br />

alto un mezzo pane, un barattolo azzurro, della frutta sparsa: un melograno, forse un pompelmo, un<br />

fico e altri tre frutti più piccoli. Sulla tovaglia appaiono macchie <strong>di</strong> vino versato, ma in alcuni punti<br />

anche alcune erosioni.<br />

In corrispondenza dei tre angoli del rombo si trovano i tre misteriosi convitati. L’angolo in<br />

basso, centrale, è occupato da un nudo <strong>di</strong> donna seduta <strong>sul</strong>l’erba col busto eretto: <strong>una</strong> gamba è<br />

abbandonata lungamente, <strong>sul</strong>l’altra piegata posa <strong>il</strong> braccio. È un artefatto, un elemento<br />

evidentemente artificiale: la sua sostanza mimetica è sia <strong>di</strong> statua, come lascia intendere l’arto<br />

mozzato, sia <strong>di</strong> affresco, <strong>di</strong> quelli che vengono asportati dalla parete originaria e ricollocati altrove,<br />

lo mostra l’ellisse del braccio: <strong>il</strong> gomito. Della donna rappresentata si vede <strong>il</strong> volto, non la testa che<br />

l’asportazione dell’affresco ha <strong>di</strong>strutto: l’espressione che vi si <strong>di</strong>pinge è <strong>di</strong> timore, sgomento, cupo<br />

presagio in un certo modo contenuto, muto, in<strong>di</strong>cib<strong>il</strong>e.<br />

Sull’angolo <strong>di</strong> sinistra c’è <strong>una</strong> strana figura, un collage <strong>di</strong> elementi composti in modo da<br />

costruire <strong>una</strong> vaga figura <strong>di</strong> donna, del tipo frequentatrice <strong>di</strong> club nella belle epoque: un’asta<br />

aral<strong>di</strong>ca, come <strong>una</strong> lancia del cavaliere della giostra, listata <strong>di</strong> bianco e <strong>di</strong> blu è conficcata nel<br />

terreno o nella roccia in basso, l’asta attraversa un’antica statua acefala, <strong>di</strong> materia fitt<strong>il</strong>e, terra cotta,<br />

o forse granito rosa, dalle <strong>di</strong>mensioni umane, <strong>di</strong> <strong>una</strong> vestale rivolta verso chi guarda. Sulla parte<br />

terminale dell’asta che emerge dal busto è posato un bucranio (a ben guardare i due oggetti non<br />

toccano, <strong>il</strong> bucranio è sospeso nell’aria), dalla calotta del bucranio si <strong>di</strong>parte un corno <strong>di</strong> caprone,<br />

che nell’insieme sembra <strong>una</strong> piuma; sospeso, poco più in alto, a guisa <strong>di</strong> copricapo, un vassoio con<br />

della frutta.<br />

Sull’angolo <strong>di</strong> destra c’è <strong>una</strong> figura d’uomo nudo <strong>di</strong>steso, gli arti inferiori restano fuori dal<br />

quadro <strong>il</strong> cui margine passa all’altezza del sesso. È riverso su un lato, <strong>il</strong> busto erculeo,<br />

michelangiolesco è rivolto verso chi guarda, la testa poggia <strong>sul</strong> braccio piegato, l’altro braccio<br />

s’abbandona <strong>sul</strong> petto, al polso ha un orologio, con le <strong>di</strong>ta sfiora l’erba stringendo <strong>una</strong> sigaretta. Per<br />

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terra davanti a lui ce n’è un pacchetto <strong>di</strong> colore rosso. L’espressione dell’uomo è sim<strong>il</strong>e a quella<br />

della donna-affresco, sgomenta, pietrificata ma con in più un terrore, un senso <strong>di</strong> umana<br />

<strong>di</strong>sperazione. Quest’uomo dal corpo titanico scopre con sgomento e terrore l’immortalità e la<br />

desidera; la tonicità è deformata dall’anelito. Il dolore non sta nella coscienza del limite, ma nel<br />

desiderare, nella brama mostruosa.<br />

La parte superiore del quadro è occupata dal cielo. È un cielo senza trasparenza, metallico,<br />

respingente, privo d’azzurro. Sembra più <strong>una</strong> lastra infiorata dalle corrosioni <strong>di</strong> un acido. Le nubi <strong>di</strong><br />

rame vi si addensano senza minaccia. Non c’è sole o altra sorgente <strong>di</strong> luce, ma <strong>una</strong> luminosità<br />

compatta <strong>di</strong>scende da esso, <strong>una</strong> luce crepuscolare, lievemente alterata, presaga <strong>di</strong> catastrofi.<br />

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