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Note sul pirandellismo di Normanno Soscia e il tentativo di una ...

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sua natura è f<strong>il</strong>osofico-esistenziale. Tutta l’arte <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong>, credo, può essere letta come lo<br />

svolgimento <strong>di</strong> questa frattura. Il costante e continuo <strong>tentativo</strong> <strong>di</strong> elaborarla, <strong>di</strong> rispondere ad essa e,<br />

<strong>di</strong>rei, <strong>di</strong> esorcizzarla. Per questo è un’arte reattiva e per nulla rasserenante, un’arte tesa, ossessiva,<br />

fondata su un genetico fallimento ricompositivo.<br />

Messa in questi termini, l’arte sosciana può essere intesa come intrinsecamente rituale,<br />

ad<strong>di</strong>rittura sacrificale, come si vedrà in seguito. Una ritualità complessa che si serve <strong>di</strong> un sistema<br />

ampio ma limitato <strong>di</strong> oggetti (immagini in apparenza irrelate, che in realtà partecipano a <strong>una</strong><br />

rappresentazione allegorica) e <strong>di</strong> <strong>una</strong> temporalità narrativa perio<strong>di</strong>zzab<strong>il</strong>e, un susseguirsi <strong>di</strong> tappe;<br />

elementi riconoscib<strong>il</strong>i, ripeto, solo a patto <strong>di</strong> considerare l’opera nella sua interezza. Solo a questa<br />

con<strong>di</strong>zione, quella che i critici chiamano teatralità, o scenografia dell’arte sosciana, si emancipa: da<br />

ster<strong>il</strong>e categoria descrittiva acquista la sua efficacia interpretativa. Il grande teatro della pittura<br />

sosciana, infatti, è figlio della scomposizione operata dalle avanguar<strong>di</strong>e; è <strong>il</strong> teatro dell’assurdo, <strong>il</strong><br />

teatro del vuoto metafisico, o più esattamente è <strong>il</strong> teatro <strong>di</strong> Pirandello. <strong>Soscia</strong> si inscrive nella<br />

tra<strong>di</strong>zione dell’arte tragico-umoristica.<br />

Dalla “vita” alla “forma”<br />

Nella maggior parte della produzione <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> le figure umane ritratte portano in sé un<br />

mistero. La loro identità è vaga. I tratti indeci<strong>di</strong>b<strong>il</strong>i. La <strong>di</strong>mensione psichica inafferrab<strong>il</strong>e. Nel corpo<br />

sembrano burattini. Io credo che <strong>il</strong> fantoccio sosciano, che Levi definisce maschera grottesca al<br />

limite della caricatura, sia l’esito patetico <strong>di</strong> un doloroso, luttuoso processo che conduce<br />

all’astrazione dell’in<strong>di</strong>vidualità e alla <strong>di</strong>ssoluzione dell’identità, processo che <strong>il</strong> curatore chiama<br />

<strong>di</strong>sgregazione.<br />

Darò ora seguito ad un appunto che ho trovato tra le carte: “i volti <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> rappresentano la<br />

progressiva negazione dell’umano”. Risalendo la sua produzione dagli anni settanta a oggi noto<br />

infatti un’evoluzione del modo <strong>di</strong> rappresentare <strong>il</strong> volto; le tappe sono:<br />

a) <strong>il</strong> volto nudo (terrore umano)<br />

b) <strong>il</strong> volto pietrificato che si duplica (dalla tensione mitica all’umorismo)<br />

c) la maschera (morte).<br />

Fare <strong>una</strong> storia del volto nella pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> significa osservare <strong>il</strong> processo <strong>di</strong> un<br />

progressivo mascheramento. Invertendo forse <strong>il</strong> percorso dell’autore sic<strong>il</strong>iano, da un punto <strong>di</strong> vista<br />

concettuale <strong>Soscia</strong> parte dalla vita e approda alla forma.<br />

Le prima tappa della storia del volto sosciano mette in scena l’emersione della vita, che<br />

trova <strong>il</strong> suo corrispettivo nella vitalità primitiva della montagna, e lo sgomento metafisico che essa<br />

comporta (<strong>il</strong> volto nudo, tappa a).<br />

La tappa successiva ha, per como<strong>di</strong>tà espositiva, due tempi: assunzione immunizzatrice del<br />

potenziale <strong>di</strong>struttivo della vita attraverso la pietrificazione (tensione mitica) e scomposizione<br />

umoristica. La <strong>di</strong>mensione mitica della pittura <strong>di</strong> <strong>Soscia</strong> non si realizza, come erroneamente<br />

credono molti suoi interpreti, nel recupero del mondo antico (frainteso classicismo, col suo corredo<br />

<strong>di</strong> ricomposizione, pacificazione, serenità ed equ<strong>il</strong>ibrio); bensì nella tensione costante alla vita,<br />

intesa come flusso continuo, movimento profondo e autentico. Lo stesso arcaismo sosciano non è<br />

solo <strong>il</strong> repertorio antropologico delle sue ra<strong>di</strong>ci aurunche, ma traccia archetipica, memoria<br />

involontaria, istinto vitalistico. Questo istinto, questa tensione non ha nulla <strong>di</strong> armonico e<br />

consolatorio; tutt’altro, è un movimento schiettamente tragico, perché intrinsecamente votato alla<br />

sconfitta.<br />

Nella produzione petrosa degli anni settanta, la sola ad essere simbolista, <strong>il</strong> pittore inserisce<br />

nei suoi quadri alcune visioni montane. In esse l’elemento predominante è la pietra. La pietra è un<br />

simbolo assai denso, nel senso che appare come la sintesi <strong>di</strong> forze fortemente contrastanti: è sì fuori<br />

dalla storia, rappresenta cioè l’utopia simbolista del trionfo <strong>sul</strong> <strong>di</strong>venire, ma della natura è anche <strong>il</strong><br />

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