Note sul pirandellismo di Normanno Soscia e il tentativo di una ...

Note sul pirandellismo di Normanno Soscia
e il tentativo di una descrizione
Giovanni Burali D’Arezzo
Lo incontrai sul monte tanto tempo fa.
Lo vidi alla distanza che avanzava.
Capra capriolo, uomo sfigurato.
Ho sfogliato il bellissimo catalogo Mondadori di Normanno Soscia, curato da Paolo Levi.
Buona parte delle sua vasta produzione dagli anni ’60 a oggi per la prima volta riunita.
Dopo aver letto gli apparati critici, che permettono una conoscenza complessiva delle letture
fornite della sua pittura, avverto una lieve sfasatura rispetto ai giudizi ivi espressi. Diversamente
dalla maggior parte dei critici, davanti ai quadri di Soscia ho sempre odorato l’ombra, un elemento
di disturbo. Voglio guardare in quest’ombra, spiegare questa sfasatura. L’esito sarà duplice: la
formulazione di un’interpretazione dell’arte di Soscia che sviluppa la traccia indicata da Levi
quando scrive: “anche nella Coppia Matura il tratto realistico delle due figure si disgrega e discolora
in maschere grottesche, che solo per un soffio evitano la caricatura”; e il tentativo (tentazione?) di
una descrizione. Tenterò di tradurre un’immagine in parole. Ma vista l’impossibilità di una
descrizione perfetta, quella che eseguirò si configurerà come una specie di atto cannibalico. Mi
ciberò delle sue immagini, le costringerò a ridursi nella più o meno ampia oscillazione del segno
linguistico. Così, in sintesi, questa nota sulla pittura di Normanno Soscia avrà due facce. La prima
sarà quella del critico e dell’interprete, che predilige i concetti e “trascura” i quadri; l’altra quello
dello scrittore ossessionato da un quadro in particolare, che tenta di descrivere nei minimi dettagli.
Due facce di una stessa medaglia, però. Perché l’ammenda che deve pagare lo scrittore è il
riconoscimento dell’altro e della sua definitiva irriducibilità.
Critica della critica
In buona parte degli interventi, l’arte sosciana rischia la riduzione. Il suo senso più profondo
rischia di scivolare via: la sua forte materialità pittorica, la potente sensualità, lo splendore figurale,
l’impianto scenografico inducono la maggior parte dei critici, fino ad oggi, ad abbandonarsi ad una
lettura sensualistica ed edonistica. Ma come avviene in alcuni romanzi in cui la descrizione
minuziosa di un volto è talmente esatta e pervicace da sortire l’effetto di una indecifrabilità
psichica, di un enigma esistenziale, l’insieme di questi giudizi, nel suo tenersi in superficie, nel suo
indugiare nell’ebbrezza del puro visibile, nel suo tentativo di astrazione estetizzante sembra uno
schermo, una provocazione. Sta di fatto, tuttavia, che l’effetto è quello di un depotenziamento degli
elementi drammatici, critici e negativi presenti nell’arte di Soscia. E ciò va di pari passo con un
approccio rapsodico, frantumante verso la produzione dell’artista. Raramente il critico, infatti,
considera l’arte di Soscia come processo, come sviluppo che presuppone una durata, e quindi un
punto zero. Prevale l’idea di un’arte non mediata, a-concettuale, in cui la durata è sacrificata
all’attimo, all’hic et nunc dell’opera d’arte che il genio artistico cava dalla contingenza e proietta
nel cielo dell’ideale, ipostasi della perfezione. Questo tipo di lettura rivela la sua insufficienza là
dove si scontra con la ragione stessa del catalogo, operazione compiuta, si noti, dopo decenni di
attività artistica: offrire finalmente la possibilità di leggere la propria pittura come un libro, come
qualcosa di processuale, un insieme di quadri per nulla slegato, bensì unito da un grumo sostanziale.
Più che una collezione di “splendidi pezzi”, la pittura di Soscia mi appare come lo svolgimento di
questo grumo. Ignorare questa solidità soggiacente comporta l’inesorabile neutralizzazione della
sua natura tragica. Questo nocciolo, infatti, corrisponde a una frattura, a un trauma, a una ferita; la
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sua natura è filosofico-esistenziale. Tutta l’arte di Soscia, credo, può essere letta come lo
svolgimento di questa frattura. Il costante e continuo tentativo di elaborarla, di rispondere ad essa e,
direi, di esorcizzarla. Per questo è un’arte reattiva e per nulla rasserenante, un’arte tesa, ossessiva,
fondata su un genetico fallimento ricompositivo.
Messa in questi termini, l’arte sosciana può essere intesa come intrinsecamente rituale,
addirittura sacrificale, come si vedrà in seguito. Una ritualità complessa che si serve di un sistema
ampio ma limitato di oggetti (immagini in apparenza irrelate, che in realtà partecipano a una
rappresentazione allegorica) e di una temporalità narrativa periodizzabile, un susseguirsi di tappe;
elementi riconoscibili, ripeto, solo a patto di considerare l’opera nella sua interezza. Solo a questa
condizione, quella che i critici chiamano teatralità, o scenografia dell’arte sosciana, si emancipa: da
sterile categoria descrittiva acquista la sua efficacia interpretativa. Il grande teatro della pittura
sosciana, infatti, è figlio della scomposizione operata dalle avanguardie; è il teatro dell’assurdo, il
teatro del vuoto metafisico, o più esattamente è il teatro di Pirandello. Soscia si inscrive nella
tradizione dell’arte tragico-umoristica.
Dalla “vita” alla “forma”
Nella maggior parte della produzione di Soscia le figure umane ritratte portano in sé un
mistero. La loro identità è vaga. I tratti indecidibili. La dimensione psichica inafferrabile. Nel corpo
sembrano burattini. Io credo che il fantoccio sosciano, che Levi definisce maschera grottesca al
limite della caricatura, sia l’esito patetico di un doloroso, luttuoso processo che conduce
all’astrazione dell’individualità e alla dissoluzione dell’identità, processo che il curatore chiama
disgregazione.
Darò ora seguito ad un appunto che ho trovato tra le carte: “i volti di Soscia rappresentano la
progressiva negazione dell’umano”. Risalendo la sua produzione dagli anni settanta a oggi noto
infatti un’evoluzione del modo di rappresentare il volto; le tappe sono:
a) il volto nudo (terrore umano)
b) il volto pietrificato che si duplica (dalla tensione mitica all’umorismo)
c) la maschera (morte).
Fare una storia del volto nella pittura di Soscia significa osservare il processo di un
progressivo mascheramento. Invertendo forse il percorso dell’autore siciliano, da un punto di vista
concettuale Soscia parte dalla vita e approda alla forma.
Le prima tappa della storia del volto sosciano mette in scena l’emersione della vita, che
trova il suo corrispettivo nella vitalità primitiva della montagna, e lo sgomento metafisico che essa
comporta (il volto nudo, tappa a).
La tappa successiva ha, per comodità espositiva, due tempi: assunzione immunizzatrice del
potenziale distruttivo della vita attraverso la pietrificazione (tensione mitica) e scomposizione
umoristica. La dimensione mitica della pittura di Soscia non si realizza, come erroneamente
credono molti suoi interpreti, nel recupero del mondo antico (frainteso classicismo, col suo corredo
di ricomposizione, pacificazione, serenità ed equilibrio); bensì nella tensione costante alla vita,
intesa come flusso continuo, movimento profondo e autentico. Lo stesso arcaismo sosciano non è
solo il repertorio antropologico delle sue radici aurunche, ma traccia archetipica, memoria
involontaria, istinto vitalistico. Questo istinto, questa tensione non ha nulla di armonico e
consolatorio; tutt’altro, è un movimento schiettamente tragico, perché intrinsecamente votato alla
sconfitta.
Nella produzione petrosa degli anni settanta, la sola ad essere simbolista, il pittore inserisce
nei suoi quadri alcune visioni montane. In esse l’elemento predominante è la pietra. La pietra è un
simbolo assai denso, nel senso che appare come la sintesi di forze fortemente contrastanti: è sì fuori
dalla storia, rappresenta cioè l’utopia simbolista del trionfo sul divenire, ma della natura è anche il
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termine minimo. La pietra è uno spazio poetico liminare entro il quale l’uomo tenta per la prima e
ultima volta di attingere alla vita, di tenere integro l’ultimo esilissimo contatto con la natura.
Nel momento in cui il volto si pietrifica, cioè nel momento in cui il simbolo viene assunto
nel vivo del volto, la densità si riduce, lo spazio liminare si assottiglia. L’uomo è ormai diventato di
pietra e la vita si ritrae dal volto. Credo che in questo processo, sostanzialmente sotterraneo e
costante, ma certamente ben visibile in alcuni lavori degli anni settanta, ci sia tensione mitica. Per
mito io intendo, quindi, l’iniziale tensione tra vita e forma, che nel momento in cui si spezza, si
pietrifica, smette trasmutandosi in maschera. Mercenario è una specie di dichiarazione poetica in
questo senso. L’asportazione violenta e dolorosa del volto pietrificato del mercenario è una presa di
coscienza filosofica (nella mia lettura, uno snodo) grazie alla quale il volto si scompone, si
smaterializza, si astrae infine nella maschera (tappa c dello schema). Nella stragrande maggioranza
dei casi, dagli anni novanta a oggi, i lineamenti del viso appaiono scomposti, strani, e se si isola il
volto dal resto, addirittura mostruosi, spiritati, orrifici. Colpiscono di queste maschere gli occhi:
buchi, orbite vuote. La pittura di Soscia è infine segnata dal senso della morte. Lo splendore
figurale, nel vano tentativo di scongiurarla, la potenzia, decretandone il trionfo.
Mercenario, 1974 - Acrilico su tavola, 80 x 70 cm.
Se la maschera dominerà la pittura di Soscia dagli anni novanta ad oggi, che poi è la parte
della produzione più nota e celebrata, è possibile però osservare che la dialettica sotterranea e
generativa vita/forma (la tensione mitica) ritorna prepotentemente nella ritrattistica; genere cruciale,
perché obbliga il pittore a disertare la sua mirabile costruzione umoristica. Gli autoritratti in
particolare. A guardarli profondamente e con insistenza, si ha come l’impressione di una coazione,
una specie di autodafè. Il viso è sempre manchevole in qualche sua parte, generalmente in un
occhio, il derma appare mineralizzato, scaglioso, pietrificato.
D’altro canto, è possibile anche individuare nell’ultima fase, quella del trionfo della forma e
del tanatos, una coerente evoluzione dei motivi. Mi riferisco al ciclo “conviviale”. Negli ultimi anni
Soscia dipinge banchetti per matrimoni, momenti conviviali, festicciole, feste da ballo. Il tema in
questione appare come l’esito necessario cui approda il mascheramento: la dimensione della
socialità. Credo che in questi quadri, in cui l’impostazione scenografica si potenzia nella
coreografia delle coppie danzanti, spesso supportata da una colonna musicale, rappresentata da
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suonatori e orchestrine, Soscia abbia completato la parabola. La maschera, fin qui letta come l’esito
di un processo all’apparenza tutto limitato alla sfera individuale ed esistenziale, rivela la propria
sostanza intersoggettiva. La maschera ha la sua ragion d’essere nello sguardo dell’altro.
Inestricabilmente e necessariamente, da esso dipende la sua sostanza, che perciò è sostanza
relazionale. Ma nei quadri la relazione appare viziata, corrotta; questi banchetti sono in realtà un
teatro di maschere, hanno un’atmosfera enigmatica e contraffatta e più di altri lavori producono
nello spettatore un effetto straniante. Tra i convitati non c’è nessun riconoscimento, le figure
afasiche e irrelate rappresentano il dominio della forma, la sensualità appare ormai una posa sociale,
un gioco di società che permette la riproduzione culturale.
Il tentativo di una descrizione.
A metà degli anni settanta Soscia dipinge una serie di quadri molto inquietanti. È il
principio, quando ancora la maschera non c’era e l’uomo era nudo. Uno di questi quadri è Pic-nik, il
quadro più drammatico, a mio avviso, della sua produzione.
Ad esso sono legato per misteriose ragioni; forse per singolare coincidenza è il primo quadro
che ho visto. Non ci giurerei ma ero un ragazzo. O forse, a ricordare bene, me lo descrisse che ero
ragazzo un mio amico che frequentava la casa del maestro. Per queste ragioni, che, come si vede,
non hanno nulla a che fare con l’arte, quando si dice Soscia io penso a Pic-nik. Ma sospetto che
nella storia tra me e Pic-nik ci siano state altre questioni in ballo. Intendo dire che in seguito siano
subentrate anche motivazioni di gusto e di affinità. Sta di fatto che mi sono sempre ripromesso di
fornire di questo quadro una descrizione impeccabile.
Non è vero, non ricordo con esattezza, perché non voglio ricordare, se ricordare significa
ordinare, introdurre un principio compositivo, razionale nello stratiforme cumulo del vissuto. E
quando potrei guardarlo con attenzione non lo faccio. Lancio un’occhiata e mi prende subito un
turbamento, un timore. Mi sono soffermato, a volte con insistenza, ma era come se la memoria non
registrasse e la mente non vedesse. Ricordo, sì, i suoi elementi, ma non la loro forma esatta, la loro
posizione all’interno del quadro, la loro sostanza pittorica… Nello stesso tempo pulsano,
s’illuminano. Cielo, montagna, rocce, gigante disteso di pietra, tovaglia, radiolina, ma sempre
distaccato, inarrivabile. Pic-nik si è scavato una nicchia nel mio universo e là risplende, remota
grammatica minima. Idillio esploso della mia montagna.
Pic-nik, 1976 - Acrilico su tavola, 170x185 cm.
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Pic-nik è a pagina 119 del catalogo. Solo ora ho la forza particolare di guardarlo. Quale
stupore iniziale e quale sfida dolorosa. Ma prima della descrizione, resto ancorato all’assenza,
all’impressione che mi fece nel remoto primo incontro, e che palpita come annega e affiora una
cosa sulla superficie di un liquido. È qui aperto sulla scrivania come era là, dietro la selva di
cavalletti. Esito, mi dilungo, permango sulla soglia, sperando che l’invisibile sia fertile, che il vago
detti l’esattezza…
Ora che l’incontro sta per accadere si precisa, affilando le sue vive asperità, l’immagine
plastica e furtiva del plagio. Mi appresto all’esperienza cancellata della violenza. Tra un attimo
violenterò, divorerò, sovvertirò, e seminerò il disordine nell’ordine. Operazione disperata, segnata
da un limite che vive come il taglio di materia organica; che vive, rosseggia, si tinge (questione
d’allarme, d’emergenza). È il limite che separa inesorabilmente due uomini, il taglio che è margine
e abisso insieme, interruzione e apertura.
Pic-nik: distesa lunare, o mare raffermo, allagamento di sostanza densa, striata, lievemente
ondulante, di colore verde tendente al cupo. Occupa circa due terzi della superficie del quadro,
l’altro terzo è occupato dal cielo. Sulla distesa sono disseminate rocce di varie dimensioni che
suggeriscono invisibili piani prospettici. Le rocce affiorano letteralmente dalla terra, paiono cioè
lievi come fiori posate come sono sul manto erboso. Tra esse, due spiccano per le dimensioni. Una,
in primissimo piano, emerge a sinistra del margine inferiore, l’altra si erge esattamente nel fuoco
centrale, su di essa è posata una radiolina la cui antenna si innalza percorrendo l’asse mediano della
composizione. Queste rocce sono del tipo che si incontrano sui Monti Aurunci, d’origine calcarea e
perciò bianche, profondamente erose, scanalate e rugose, simili a stalagmiti, a monconi di
antichissime colonne, a moccoli di ceri maestosi.
Nel mezzo della distesa c’è una tovaglia bianca dispiegata, un lenzuolo disposto in modo da
formare un rombo suddiviso in sedici quadri dalle linee della piegatura, una sorta di scacchiera
diminuita. Sulla tovaglia ci sono sparuti oggetti di circostanza, messi alla rifusa: una fetta di
cocomero lievemente intaccata da piccoli morsi svogliati come di uomo ormai sazio, nell’angolo in
alto un mezzo pane, un barattolo azzurro, della frutta sparsa: un melograno, forse un pompelmo, un
fico e altri tre frutti più piccoli. Sulla tovaglia appaiono macchie di vino versato, ma in alcuni punti
anche alcune erosioni.
In corrispondenza dei tre angoli del rombo si trovano i tre misteriosi convitati. L’angolo in
basso, centrale, è occupato da un nudo di donna seduta sull’erba col busto eretto: una gamba è
abbandonata lungamente, sull’altra piegata posa il braccio. È un artefatto, un elemento
evidentemente artificiale: la sua sostanza mimetica è sia di statua, come lascia intendere l’arto
mozzato, sia di affresco, di quelli che vengono asportati dalla parete originaria e ricollocati altrove,
lo mostra l’ellisse del braccio: il gomito. Della donna rappresentata si vede il volto, non la testa che
l’asportazione dell’affresco ha distrutto: l’espressione che vi si dipinge è di timore, sgomento, cupo
presagio in un certo modo contenuto, muto, indicibile.
Sull’angolo di sinistra c’è una strana figura, un collage di elementi composti in modo da
costruire una vaga figura di donna, del tipo frequentatrice di club nella belle epoque: un’asta
araldica, come una lancia del cavaliere della giostra, listata di bianco e di blu è conficcata nel
terreno o nella roccia in basso, l’asta attraversa un’antica statua acefala, di materia fittile, terra cotta,
o forse granito rosa, dalle dimensioni umane, di una vestale rivolta verso chi guarda. Sulla parte
terminale dell’asta che emerge dal busto è posato un bucranio (a ben guardare i due oggetti non
toccano, il bucranio è sospeso nell’aria), dalla calotta del bucranio si diparte un corno di caprone,
che nell’insieme sembra una piuma; sospeso, poco più in alto, a guisa di copricapo, un vassoio con
della frutta.
Sull’angolo di destra c’è una figura d’uomo nudo disteso, gli arti inferiori restano fuori dal
quadro il cui margine passa all’altezza del sesso. È riverso su un lato, il busto erculeo,
michelangiolesco è rivolto verso chi guarda, la testa poggia sul braccio piegato, l’altro braccio
s’abbandona sul petto, al polso ha un orologio, con le dita sfiora l’erba stringendo una sigaretta. Per
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terra davanti a lui ce n’è un pacchetto di colore rosso. L’espressione dell’uomo è simile a quella
della donna-affresco, sgomenta, pietrificata ma con in più un terrore, un senso di umana
disperazione. Quest’uomo dal corpo titanico scopre con sgomento e terrore l’immortalità e la
desidera; la tonicità è deformata dall’anelito. Il dolore non sta nella coscienza del limite, ma nel
desiderare, nella brama mostruosa.
La parte superiore del quadro è occupata dal cielo. È un cielo senza trasparenza, metallico,
respingente, privo d’azzurro. Sembra più una lastra infiorata dalle corrosioni di un acido. Le nubi di
rame vi si addensano senza minaccia. Non c’è sole o altra sorgente di luce, ma una luminosità
compatta discende da esso, una luce crepuscolare, lievemente alterata, presaga di catastrofi.
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