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Alberto Meschiari, La vita: destino o progetto?

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14 febbraio 2011<strong>Alberto</strong> <strong>Meschiari</strong><strong>La</strong> <strong>vita</strong>: <strong>destino</strong> o <strong>progetto</strong>?Le interpretazioni che di un fatto, un evento, una situazione, facciamo nostre, non sono mai neutre,ma hanno sempre un impatto più o meno consapevole sul nostro comportamento, sul nostro mododi condurre la <strong>vita</strong>.L’idea di un <strong>destino</strong> che ci sovrasta e ci attanaglia, ad esempio, va di pari passo con la torbidacredenza che la nostra <strong>vita</strong> sia già scritta da qualche parte prima che la viviamo, che insomma ilcorso delle cose sia previsto e prevedibile e che, di conseguenza, il proposito di prendere in mano iltimone della nostra navicella sia alquanto bislacco. Detto altrimenti, essa presuppone la convinzioneche esista depositata da qualche parte una oggettività data, una verità – che ci riguarda – precedentela nostra venuta al mondo e da noi indipendente, a cui non possiamo sottrarci: questa entitàfantomatica e metafisica che chiamiamo appunto <strong>destino</strong>, sintesi di tutte le cause che ignoriamo, ditutte le responsabilità scansateMa attenzione, perché al di là della questione della “verità” o meno della nostra convinzione, ciòche è in gioco qui è appunto la nostra conduzione della <strong>vita</strong>. <strong>La</strong> convinzione che siamo destinatiproduce un orizzonte chiuso, un impedimento a guardare oltre, ad aprirci a prospettive diverse. Inrealtà il nostro <strong>destino</strong> lo scriviamo in gran parte ogni giorno noi stessi con i piccoli o grandi passiche compiamo o che evitiamo di fare, non prima; privilegiando una strategia d’azione o di inazione,un comportamento piuttosto che un altro.Nell’atmosfera culturale del secondo dopoguerra l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre propose l’deadel <strong>progetto</strong>, di farsi <strong>progetto</strong> a se stessi. Si tratta di un grande <strong>progetto</strong>, a mio modo di vedere, anzidel più grande dei progetti, soggettivamente parlando. E questo <strong>progetto</strong> va nella direzione giusta:diventare se stessi. Un obbiettivo tendenziale, ovviamente, che non si raggiunge mai in manieradefinitiva, perché non sta in fondo a qualcosa, ma è sempre lì davanti a noi come un compito e unasfida.Assumersi come <strong>progetto</strong> è il compito dell’intera <strong>vita</strong>. Se lo si accetta, ci si colloca in un obbiettivodi onestà e chiarezza con se stessi. Assumersi come <strong>progetto</strong> non significa avere in testa un <strong>progetto</strong>per il futuro, bensì perseguire l’obbiettivo della fedeltà a se stessi, un grado crescente di autenticitàsul cammino della nostra individuazione.Questo <strong>progetto</strong> comporta in primo luogo la crescente capacità di riconoscere e risolvere le proprieautoimposture. <strong>La</strong> più evidente delle quali è quella per cui, invece di essere noi stessi, recitiamo unpersonaggio, un ruolo, una parte, quella voluta dalla famiglia d’origine, dal gruppo chefrequentiamo, dalla professione, oppure quella assegnataci dal contesto sociale in cui ci troviamo avivere.<strong>La</strong> concentrazione sul <strong>progetto</strong> qualifica il lungo viaggio della nostra individuazione. Tuttal’attenzione converge sul modo di questo viaggio, sul come del nostro essere al mondo e nel mondo– che poi configura il nostro personale stile di <strong>vita</strong> – sulla qualità delle esperienze che ci chiamanoin causa, delle nostre relazioni con noi stessi e con gli altri, sul privilegiamento di determinati valoripiuttosto che altri.Anche a trasgredire bisogna imparare. È importante saperlo, non sbagliare bersaglio e scagliarsicontro i mulini a vento. Trasgredire che cosa? Tutto ciò che ci porta fuori rotta rispetto al camminodella nostra individuazione, tutto ciò che opera a favore di una nostra omologazione.


In questo senso non è affatto egoistico pensare a se stessi, preoccuparsi del proprio sviluppoindividuale, al contrario: perché imparare a conoscere meglio se stessi aiuta a conoscere meglio e adapprezzare più a fondo anche gli altri e ci mette in grado di dare di più. Nessun effettivomiglioramento della società può prescindere dal libero sviluppo dei suoi membri, dalla possibilità diciascuno di essere se stesso, di affermare la propria autenticità, di esprimere la propria individualità.Divenire ciò che si è è un compito quotidiano, fatto di piccole correzioni successive, ma talvoltaanche di un gesto risoluto, inequivocabile, grazie al quale ci sottraiamo al pericolo di rinunciare apoco a poco a noi stessi e impariamo a diventarci fedeli.Il filosofo danese Søren Kierkegaard «ha bisogno del gesto affinché la sua <strong>vita</strong> diventi più reale diun gioco multiforme e girevole»; attraverso il gesto, un atto libero e responsabile, si sottrae allaserie delle cause e degli effetti e diventa un inizio assoluto; provoca una rottura nella continuitàomogenea del tempo, facendone emergere l’esistenza. Cosa vuol dire questo?L’esserci, sosteneva Heidegger, è l’immediatezza, l’essere semplicemente gettati nel mondo,l’esistenza banalizzata, anonima, che non si fonda e non si giustifica, il trovarsi nella massaanonima senza mai conquistare se stessi. Per esistere è necessario insorgere dal mondo, ricercarsi,comprendersi e trascendersi. E questo insorgere dal mondo a volte richiede, come nel caso diKierkegaard, un gesto risoluto, deciso, di rottura con le convenzioni, con lo sfondo anonimo su cuici confondiamo senza individualità.Assumere come guida l’idea del <strong>progetto</strong> mi permette di avere una parte attiva nella direzione dellamia <strong>vita</strong> intesa come un compito e una serie di possibilità da giocare. E questo è un prerequisitofondamentale per modificare anche il mio atteggiamento nei confronti del mondo: per imparare afare qualcosa nel mondo e per il mondo, per sentirmici coinvolto, invece di considerarlo come losfondo indifferente e inerte su cui casualmente si proietta la mia vicenda personale.Il senso che sempre cerchiamo nell’esistenza, su cui continuamente ci interroghiamo, non ha unostatuto ontologico, non sta nelle cose, non è dato ab origine e chissà dove, ma è il prodottoindividuale e sociale del nostro modo di intendere e di vivere la <strong>vita</strong>. <strong>La</strong> dimensione del senso èsquisitamente simbolica, esiste solo per gli uomini e all’interno delle società umane, vale a dire deimondi culturali. Il senso non esiste precedentemente e indipendentemente dalla nostra capacità diprodurlo. Per cui il senso non è donato dall’esterno o dall’alto a una <strong>vita</strong> che non sia vissuta . Ma èproprio il vivere la <strong>vita</strong> che produce senso.<strong>Alberto</strong> <strong>Meschiari</strong> è ricercatore di Filosofia morale presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.<strong>La</strong>ureatosi in Filosofia all’Università di Bologna nel 1977 con Antonio Santucci, si è perfezionato a Pisa conEugenio Garin, Nicola Badaloni e Remo Bodei.Si è occupato lungamente della filosofia tedesca posthegeliana e di filosofia del linguaggio, compiendo studie ricerche all’estero e soprattutto in Germania. È membro della Società Italiana di Filosofia Morale e didiverse società scientifiche. Ha ideato l’iniziativa Conversazioni in montagna (di filosofia, letteratura,psicologia e altro ancora), che conduce in collaborazione con il Club Alpino Italiano, Sezione di Modena.Al suo attivo ha venti volumi in diversi ambiti disciplinari, fra cui testi di filosofia, di storia della scienza e dinarrativa. Sul tema proposto dal nostro ciclo di incontri ha dato recentemente alle stampe Riprendersi la <strong>vita</strong>.Per un’etica del reincanto, Firenze 2010.

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