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Beolco, Bilora in italiano - Letteratura Italiana

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Angelo <strong>Beolco</strong>detto RuzanteBilórapiango! piango! piango! piango! piango!rido! rido! rido! rido! rido! rido! rido! rido!a cura di Pietro Genes<strong>in</strong>iBilóra non amaaffatto la moglieD<strong>in</strong>a, ma la vuole.Andrónico la vuoleper le sue porcateda vecchio...D<strong>in</strong>a però non sache cosa vuole:sesso o denaro?Chi dei due l’avrà?Volta pag<strong>in</strong>ae lo saprai!PADOVA 1530


<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 2


INDICEIL MONDO DISPERATO DEL CONTADINOPAVANO NELLA COMMEDIA DI RUZANTE.... 51. LA COMMEDIA ITALIANA NELLA PRIMA METÀ DELCINQUECENTO .......................................................... 52. IL MONDO DI ANGELO BEOLCO, DETTO IL RUZANTE.QUASI UNA BIOGRAFIA.............................................. 63. LA BILÓRA ............................................................ 63. DENUNCIA O SPETTACOLO?................................. 64. I PERSONAGGI....................................................... 75. IL NOME DEI PERSONAGGI .................................... 86. IL LINGUAGGIO VERBALE DEI PERSONAGGI .......... 97. FAME DI CIBO E FAME DI SESSO ......................... 118. TRE MONOLOGHI ................................................ 119. OMICIDIO IN SCENA............................................. 1310. UN CONFRONTO CON LA MANDRAGOLA DIMACHIAVELLI .......................................................... 1311. UN CONFRONTO CON LA LENA DI ARIOSTO ..... 1411. IL PUBBLICO DELLA BILÓRA E LA FINIS VENETIAE1513. LA VERSIONE IN ITALIANO................................. 16BILÓRA .................................................................... 17I PERSONAGGI ................................................... 17SCENA PRIMA...................................................... 19SCENA SECONDA ............................................... 19SCENA PRIMA..................................................... 19SCENA SECONDA ................................................. 19SCENA TERZA .................................................... 21SCENA TERZA .................................................... 21SCENA QUARTA................................................. 23SCENA QUARTA................................................. 23SCENA QUINTA .................................................. 25SCENA QUINTA .................................................. 25SCENA SESTA .................................................... 26SCENA SESTA .................................................... 26SCENA SETTIMA ................................................ 27SCENA SETTIMA ................................................ 27SCENA OTTAVA.................................................. 28SCENA NONA...................................................... 28SCENA OTTAVA.................................................. 28SCENA NONA...................................................... 28SCENA DECIMA.................................................. 29SCENA DECIMA.................................................. 29NOTE ...................................................................... 30<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 3


<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 4


del contado e il mondo della città. I due mondi sonocontrastanti. In genere la città sfruttava la campagna,e paradossalmente il contad<strong>in</strong>o poteva trovare più cibo<strong>in</strong> città che nella campagna dove si produceva. Bilóraè <strong>in</strong>esperto del mondo. Perciò, quando giunge <strong>in</strong>città, deve chiedere aiuto. Lo chiede a un cittad<strong>in</strong>osocialmente emarg<strong>in</strong>ato come Pitàro, che tuttavia,non ostante questo, si trova su un grad<strong>in</strong>o sociale e suun grad<strong>in</strong>o di esperienza più alto del suo. Andrónicoè a un livello relativamente più alto: ha un po’ di denaro,ma è escluso dalla vita attiva sia commercialesia culturale. Non accenna mai alle sue fonti di reddito.E decide di fare quel che non ha avuto il tempo, lavoglia o il coraggio di fare da giovane: prendersi unamammola con cui divertirsi.5. Il nome dei personaggiI nomi dei personaggi sono del tutto funzionali aglistereotipi che rappresentano.Nel dialetto pavano il nome o, meglio, il soprannomeBilóra (il nome è molto probabilmente piano) <strong>in</strong>dicala donnola, un animale particolarmente subdolo, aggressivoe sangu<strong>in</strong>ario. Bilóra potrebbe avere il profiloanimalesco e affilato di una donnola. Le occasioniper mangiare <strong>in</strong> abbondanza sono rarissime. La vita<strong>in</strong> campagna e lo scarso contatto con la città e con leregole sociali lo hanno reso un uomo selvatico e denutrito,e la manifestazione di forze della natura primordialie ist<strong>in</strong>tive.Nel dialetto pavano il nome o, meglio, il soprannomePitàro (il nome è certamente piano) <strong>in</strong>dica il cesto o ilvaso di terra. Pitàro è rotondo come un cesto oppureè un vaso di scienza o un vaso per il cibo.In ogni caso il nome allude al carattere o all’aspettodel personaggio. Ma <strong>in</strong> genere il carattere e l’aspettodel personaggio s’identificano. Il motivo è semplice:la cultura o la mancanza di cultura, le esperienze divita, il tenore di vita trovano il loro sfogo e la loromanifestazione esteriore nell’aspetto del personaggio.Ippocrate, che rivolgeva tanta attenzione all’aspetto,non aveva pensato <strong>in</strong>vano, ed era letto giustamentecon attenzione nel C<strong>in</strong>quecento.Andrónico è <strong>in</strong>vece un nome eroico ed elevato, addiritturaè straniero. Ciò dava più prestigio. È un nomecivile, cittad<strong>in</strong>o. Deriva dal sostantivo greco ,ó, uomo + l’aggettivo , , ,v<strong>in</strong>citore. Insomma significa uomo v<strong>in</strong>citore. Nellacommedia si vedrà quanto questo vecchio erotomanesia v<strong>in</strong>citore... È impotente per motivi di età e ci lasciala pelle! Bilóra storpia il nome e lo trasforma <strong>in</strong>Andróchene. A Venezia c’erano molti nomi greci. Icontatti commerciali con la Grecia e l’Oriente lo giustificavano.Poi c’è D<strong>in</strong>a. Il nome è un dim<strong>in</strong>utivo, che poi è statosemplificato. Non ha soprannome: le donne non sonoimportanti. Nessuno fa caso a quel che dicono e aquel che fanno: sono oggetti senza volontà <strong>in</strong> manoad altri.A un livello <strong>in</strong>feriore anche a quello delle donne c’èil servo: Zane, Iohannes, Gioàne, Gioàni, Giàni, Giovanni,l’unico nome ecclesiastico. Neanche lui soprannome.Ma chi si preoccupa dei servi? Ce n’eranotanti e a basso prezzo. Ed erano autómata, oggettiprovvisti di vita autonoma, capaci di essere servizievol<strong>in</strong>ei confronti dei loro padroni. E di poche pretese.Nel Settecento si vantavano della livrea che li rendevasuperiori al volgo. Essi stessi si consideravanocosa vile.Il problema del nome è molto complesso. Nel MedioEvo valeva l’idea che nomen est omen (il nome è unaprevisione sul futuro). E si dava quel nome che piùsembrava confacente al nascituro (o <strong>in</strong> cui si volevache il nascituro si realizzasse). Insomma si cercava didare una mano al dest<strong>in</strong>o e di favorire che il nome sirealizzasse.Si poteva però procedere anche nel senso opposto: sidava il nome che per ironia della sorte era tuttol’opposto dell’<strong>in</strong>dividuo che lo portava. Il fatto è chei nomi ufficiali erano pochi e riservati alle classi elevate:prenomen, nomen, cognomen erano ricordi di unlontano passato. Mille o più anni prima. Al presente,cioè f<strong>in</strong>o al C<strong>in</strong>quecento (e oltre), c’era il nome (Pietro,Paolo, Giovanni, Filippo, Tommaso, <strong>in</strong>somma <strong>in</strong>omi degli apostoli e poco più <strong>in</strong> là), che veniva datoal fronte battesimale. Qu<strong>in</strong>di c’era il secondo nome, ilnome vero, quello che l’<strong>in</strong>dividuo si conquistava neiprimi o nei secondi anni di vita, cioè quando manifestavauna caratteristica o un comportamento che lodifferenziasse dagli altri <strong>in</strong>dividui o dai suoi coetanei.Il secondo nome, il soprannome era attribuito quandosi poteva controllare il risultato dell’<strong>in</strong>contro (o delloscontro) fra carattere orig<strong>in</strong>ale e ambiente <strong>in</strong> cuil’<strong>in</strong>teressato doveva vivere. L’ambiente l’aveva plasmatoo egli si era <strong>in</strong>serito nell’ambiente o c’era statoun plasmarsi reciproco. Era comune conv<strong>in</strong>zione medioevaleche il nome <strong>in</strong>dicasse l’essenza della realtàsia per le cose sia per gli uom<strong>in</strong>i.Bilóra e Pitàro sono soprannomi, cioè sono second<strong>in</strong>omi. Sono nomi sociali, dati agli <strong>in</strong>teressati da chiviveva con loro, li conosceva, li valutava e li semplificava:il soprannome <strong>in</strong>dicava una unica caratteristica,il resto passava <strong>in</strong> secondo piano. Bilóra ha il musoaffilato ed è aggressivo. Forse esprime la violenzache ha <strong>in</strong> animo o forse la trattiene. Ma è un uomoviolento. Non ci sono arg<strong>in</strong>i alla sua violenza. O meglioè talmente abituato alla violenza (<strong>in</strong> genere a subirla),che non ci fa nemmeno caso.Nel mondo contad<strong>in</strong>o ci sono i soprannomi: i contad<strong>in</strong>ihanno tempo e spazio da dedicare agli altri contad<strong>in</strong>i.Il secondo nome è un modo per farsi compagnia,per gli <strong>in</strong>teressati. Questa è la cultura che essi<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 8


accecati dalle forze ist<strong>in</strong>tuali della fame di cibo e disesso. E si sente anche che su di loro è caduto qualcheterm<strong>in</strong>e o qualche espressione della cultura ufficiale,l’hanno orecchiato e hanno cercato di applicarlo,ma sono riusciti a farlo soltanto <strong>in</strong> modo approssimativo.D’altra parte non potevano fare meglio odiversamente.La cultura dei due è estremamente limitata: Bilóracommette un omicidio senza pensarci troppo. Si preoccupadi vendere il tabarro <strong>in</strong> cambio di un cavallo(uno scambio impossibile, ma egli non ha esperienzadi compravendita). Pitàro ha una qualche vaga idea diche cosa sia la captatio benevolentiae. In proposito dàconsigli a Bilóra (ad Andrónico deve dare dell’Illustrissimoecc.), ma poi egli stessi si dimentica di farlo(e dà dell’impotente ad Andrónico, gli dice chiaramenteche la donna non è una pentola per il suo mestolo).Certamente è più avveduto, e lo scarica <strong>in</strong>tempo, prima di esser co<strong>in</strong>volto <strong>in</strong> uno stupido delitto.Stupido per lui e per il suo mondo di città, chesanno pensare alle conseguenze implacabili che esconodalle azioni compiute o decise.Le parole senza significato che sembrano provviste disignificato sono: orbentena, canchero ecc. Ad esse siaggiungono le numerose imprecazioni, che costituisconol’essenza del l<strong>in</strong>guaggio delle classi meno abbienti.Vale la pena d’<strong>in</strong>dicare anche un avverbio, fieramente,che rafforza e rende più viva l’azione. Oalmeno dovrebbe farlo: l’abuso che ne vien fatto lo hasnervato. E il verbo dotto favellare.Inizialmente i term<strong>in</strong>i o le espressioni potevano avereun significato (o nel l<strong>in</strong>guaggio corretto hanno o cont<strong>in</strong>uanoad aver un significato). Nel l<strong>in</strong>guaggio popolareesse sono usate <strong>in</strong> modo approssimativo o improprio:sono fra<strong>in</strong>tese e subiscono un processo di corruzionesia al livello di suono sia al livello di significato.La conv<strong>in</strong>zione che il suono o la parola possa evocarel’oggetto si trasforma nella conv<strong>in</strong>zione che piùparole assemblate divent<strong>in</strong>o magicamente più potentidi una sola. Questo è il processo che conduce allaformazione e all’uso dell’<strong>in</strong>tercalare più comune: orbentena,che deriva da ora + bene + tiene. Le due paroleora + bene hanno dato luogo a orbene anche nell<strong>in</strong>guaggio ufficiale. La forma verbale tieni, usatacome <strong>in</strong> modo improprio, per richiamare l’attenzione,è assemblata con l’altra espressione e i risultati sonouna parola lunga, perciò con capacità magiche ed e-vocative più forti. Un’altra forma assemblata è cacasangue,presente anche nella Mandragola (1518) diMachiavelli. Gli assemblaggi sono contemplati e praticatidalla l<strong>in</strong>gua ufficiale del tempo, dall’<strong>italiano</strong>come dal veneziano. Tuttavia quando sono fatti al livellodi cultura popolare essi rivelano l’imperizia dell’esecutore,che <strong>in</strong>terpreta il pr<strong>in</strong>cipio <strong>in</strong> modo esagerato,ed assembra senza criterio e un numero eccessivodi parole. Il risultato non è più un’espressione comodae maneggevole, ma un mostro l<strong>in</strong>guistico <strong>in</strong>utilizzabilee senza significato.Il potere del l<strong>in</strong>guaggio sta altrove, non <strong>in</strong> se stesso,ma nella sua capacità di essere rete ampia, resistente,con le maglie sottili, perciò capace di pescare la realtà.È superfluo osservare che la stragrande maggioranzadelle <strong>in</strong>tercalari riguarda l’area del sesso: pota (vag<strong>in</strong>a),totani (testicoli o, meglio, palle), culo, merda,smerdare ecc. Ma c’è anche un fantastico pota all’amore,un assemblaggio rituale di term<strong>in</strong>i, <strong>in</strong>traducibileperché privo di significato...E un’altra riguarda l’area religiosa: Dom<strong>in</strong>e Crìbele(Dio Cristo!), al sangue di Dom<strong>in</strong>esteco o Dom<strong>in</strong>esteche(Per il sangue di Dio con te!), Dio ben (Siafatta la volontà di Dio!), Santa Margherita, Cristelèison(O Cristo, pietà!) ecc.La fusione tra le due aree è prevedibile: potta di Crìbele...Le imprecazioni contro la religione, cioè controla Chiesa di Roma, avrebbero fatto particolarepiacere agli spettatori, nobili come popolani...È comprensibilmente presente anche l’altro polo delmondo del contado, cioè il cibo, anzi la fame <strong>in</strong>saziatae <strong>in</strong>saziabile di cibo: al sangue del mal della lupa.La lupa è sempre affamata.Un’altra area è quella delle malattie e della morte:canchero rimanda al cancro, al sangue di... rimandaalle stragi, soprattutto <strong>in</strong> battaglia, che caratterizzavanola vita quotidiana, ma anche al sangue di Cristo,celebrato nel rito della messa, che diviene lentamenteoggetto di culto (il culto del Preziosissimo Sangue).Andrónico è il cittad<strong>in</strong>o con una discreta fortuna didenaro e di parole. Egli usa correttamente la l<strong>in</strong>gua (oil dialetto) ufficiale, ma si diletta e si vanta di poterimpreziosire il suo l<strong>in</strong>guaggio con parole o massimelat<strong>in</strong>e. Proprio come faceva Machiavelli nel Pr<strong>in</strong>cipe...Il lat<strong>in</strong>o è di modesto livello e di poco conto: <strong>in</strong>summa summario, anzi <strong>in</strong> suma sumario (senza ledoppie), breviter, concludendo, tamen ecc. Si tratta divaghi ricordi scolastici o di term<strong>in</strong>i appresi nell’ambientedi lavoro. Gli amici di Andrónico hannopure il cognome – Nicoletto degli Allegri e Pantasileoda Buc<strong>in</strong>oro –, sono dunque persone altolocate! Nonavranno fatto la serrata del Gran Consiglio del 1297,però...Del l<strong>in</strong>guaggio della D<strong>in</strong>a non serve dire niente: essaè succuba del mondo e della cultura di Bilóra e usa unl<strong>in</strong>guaggio che ha le stesse caratteristiche di quelloadoperato dal marito.È più <strong>in</strong>teressante pensare al l<strong>in</strong>guaggio parlato dalservo Zane (nome veneziano) o, meglio Ton<strong>in</strong> (nomepotenzialmente non veneziano, bergamasco). Zane oTon<strong>in</strong> parla bergamasco nelle poche occasioni <strong>in</strong> cui<strong>in</strong>terviene. Una cosa <strong>in</strong>somma è il l<strong>in</strong>guaggio (è larete che designa oggetti o relazioni), un’altra è la l<strong>in</strong>gua(l’<strong>italiano</strong>, il francese, il tedesco, il dialetto pavano,veneziano ecc.).Nella commedia qu<strong>in</strong>di ci sono una l<strong>in</strong>gua o, meglio,un dialetto, cioè il pavano di Bilóra e di D<strong>in</strong>a, e il pa-<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 10


vano-veneziano di Pitàro e ancora di Bilóra e di D<strong>in</strong>a.Insomma c’è il dialetto popolare che si parla <strong>in</strong> campagnae <strong>in</strong> città. C’è un altro dialetto, quello bergamascodel servo. C’è il dialetto veneziano di Andrónico,che per la sua complessità e per la sua articolazionesi avvic<strong>in</strong>a alla condizione di l<strong>in</strong>gua. Inf<strong>in</strong>e cisono reliquie di una l<strong>in</strong>gua morta, ma di grande importanzaculturale, il lat<strong>in</strong>o, che il veneziano recuperadai suoi studi giovanili o dai suoi contatti con il mondodelle lettere.F<strong>in</strong>ora si è parlato di l<strong>in</strong>guaggio, di l<strong>in</strong>gua e di dialetto.In realtà una commedia vive anche (o soprattutto)sulla mimica dei personaggi, e soprattutto sulla mimicadel protagonista (che Ruzante riservava a sé e <strong>in</strong>terpretavadi persona), che era normalmente il puntoforte della commedia. L’abilità dell’attore era semprepiù importante della qualità del testo. Egli doveva farsganasciare dalle risate i nobili spettatori. Che cosac’è di più ridicolo di un contad<strong>in</strong>o di campagna a cuiun nobile o un cittad<strong>in</strong>o veneziano ha portato via lamoglie? E chi assisteva allo spettacolo era nobile, veneziano,cittad<strong>in</strong>o, e andava di persona nei campidell’entroterra a riscuotere le tasse dai contad<strong>in</strong>i edaveva perciò esperienza diretta di quei tipi, di queglistereotipi che il commediografo era riuscito abilmentea portare <strong>in</strong> scena.Il l<strong>in</strong>guaggio di tutti i personaggi rivela l’orig<strong>in</strong>e diclasse anche agli altri livelli: la grammatica, la s<strong>in</strong>tassi,l’ampiezza del lessico, i contenuti ecc. Ma undiscorso anche su questi altri aspetti sarebbe troppolungo e non aggiungerebbe molto a quanto è stato f<strong>in</strong>oradetto. La conclusione è una sola, e tragica: il l<strong>in</strong>guaggioapprossimativo, la cultura <strong>in</strong>esistente, l’esperienza<strong>in</strong>significante della realtà si sovrappongono, sirafforzano reciprocamente e congiurano contro ilcontad<strong>in</strong>o, il cui dest<strong>in</strong>o è <strong>in</strong>evitabilmente quello diessere emarg<strong>in</strong>ato e sfruttato.7. Fame di cibo e fame di sessoCon questa come con le altre commedie Ruzante e-splora il mondo miserabile del contad<strong>in</strong>o pavano. Mai contad<strong>in</strong>i delle altre regioni d’Italia non erano dameno. La vita era durissima, il lavoro o il campicello<strong>in</strong>capace di sostenere la famiglia, la fame era la norma.Le case erano stamberghe di legno, che di tanto<strong>in</strong> tanto il fuoco ripuliva e dis<strong>in</strong>fettava f<strong>in</strong> dalle fondamenta.Gli eserciti al loro passaggio razziavano edistruggevano. E l’<strong>in</strong>verno mieteva <strong>in</strong>esorabilmente ipiù deboli. Era impossibile uscire da questo mondo.Chi abitava a Venezia o <strong>in</strong> città aveva qualche possibilità<strong>in</strong> più: l’aria della città rendeva liberi e capacidi pensare. Se non altro non si moriva di fame: qualcheelemos<strong>in</strong>a era sempre possibile e poi si potevacontare sull’assistenza religiosa e talvolta anche privata.Bilóra è dom<strong>in</strong>ato da due forze ist<strong>in</strong>tuali, la fame dicibo e la fame di sesso. La seconda può anche aspettare,la prima no. Così nel monologo <strong>in</strong>iziale riflette ecommenta su che cosa fa fare a lui e, <strong>in</strong> genere, agliuom<strong>in</strong>i, la forza vitale e ist<strong>in</strong>tuale dell’amore o delsesso. Ha perso la sua donna, e ha deciso di andarselaa riprendere. Nel seguito egli non fa alcuna riflessionesulle cause che hanno sp<strong>in</strong>to la donna a seguire ilvecchio veneziano; <strong>in</strong>vece confronta la sua potenzasessuale di rendere servizi alla donna con l’impotenzadel vecchio danaroso.Anche Pitàro <strong>in</strong>siste sulla dimensione del sesso: ilvecchio si è levata la voglia della ragazza, che la consegnial legittimo proprietario. Non è pentola per ilsuo mestolo.In un mondo ai limiti della sopravvivenza come quellodel contad<strong>in</strong>o pavano e del mediatore veneziano ilsesso è uno dei pochi valori ammissibili e praticabili.E la potenza sessuale era un elemento, una delle pochecose di cui ci si poteva vantare.La fame di sesso aveva un unico concorrente: la famedi cibo. I contad<strong>in</strong>i erano costantemente sottoalimentati,morti di fame. E, quando <strong>in</strong>contra D<strong>in</strong>a, Bilóra sipreoccupa sùbito di scroccarle un tozzo di pane (siaccontenta di poco). Fa anche le sue riflessioni: la fugadella moglie gli può ritornare utile, ci può scappareun qualche guadagno. E, quando riceve alcune monete,si mette a contare con avidità, decide qualespendere (una) e quali risparmiare (tutte le altre).Il denaro, la ricchezza, il possesso di qualcosa sono ilterzo valore che compare nella commedia. Un valoreperò che compare soltanto, che è desiderato, ma che ilprotagonista e il suo protettore non possono praticare.Bilóra non conosce nemmeno il denaro <strong>in</strong> corso e allaf<strong>in</strong>e della commedia fantastica sui vantaggi che glipuò portare la morte di Andrónico: un mantello, cheegli pensa di vendere per comperarsi un cavallo, ilmezzo di trasporto del tempo.8. Tre monologhiLa commedia presenta tre monologhi, disposti ord<strong>in</strong>atamenteagli <strong>in</strong>izi (Bilóra entra <strong>in</strong> scena, fa il monologoe, facendolo, <strong>in</strong>forma anche il pubblico dell’antefatto)(scenaprima), un altro all’entrata <strong>in</strong> scena diAndrónico che rivanga il suo passato e il presente(scena quarta), il terzo alla f<strong>in</strong>e (scena decima), quandoBilóra medita l’omicidio e lo mima.Il primo monologo celebra la potenza dell’amore. Èstato l’amore che ha sp<strong>in</strong>to Bilóra a Venezia, un postopericoloso e sconosciuto. È stata la volontà di ritrovarela sua cristiana che gli ha fatto superare ostacoli<strong>in</strong>enarrabili: tutto ieri, tutta la notte e tutta la matt<strong>in</strong>aè andato per boschi, per siepi e per sterpaglie. Insommal’amore tira più di un paio di buoi. L’amore ènei giovani, ma pizzica anche i vecchi, come quelvecchio di... (egli non ricorda il nome), che gli haportato via la sua donna. Voleva andare a tirare barche,e qualcuno gli ha tirato fuori di casa sua moglie.<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 11


Non vede l’ora di trovarla e di chiederle un pezzo dipane, perché ha fame.F<strong>in</strong> dal monologo emergono i due valori unici e supremidella vita del protagonista: l’amore, cioè il sesso,e la fame.Il monologo di Bilóra è apparentemente ist<strong>in</strong>tivo. Sipuò apprezzare però soltanto tenendo presente che loscrittore vuole far vedere al pubblico il tema dell’amorevisto dagli occhi di un essere <strong>in</strong>civile e semiselvaggio come il contad<strong>in</strong>o pavano. Il testo cita econtemporaneamente fa la celia all’amore cantatodalla cultura letteraria ufficiale e classica. In pocherighe lo scrittore cita l’amore come pena, cioè comebriga, di Andrea Cappellano (sec. XIII), la potenzadell’amore di Virgilio (Omnia vicit amor, et nos cedamusamori) o del Dolce stil novo (all’amore non sipuò resistere). E l’<strong>in</strong>namorato è preso da mistica follia(l’amore folle della poesia provenzale del sec.XIII). Il paragone è però moderno (le armi da fuocoappaiono a metà Quattrocento): neanche una bombarda(il proiettile di una bombarda) si ficcherebbe dovel’<strong>in</strong>namorato si ficca, sp<strong>in</strong>to dall’amore.A questo monologo andrebbe aggiunto il quasi monologodi Bilóra che, rimasto solo, si mette a contare idenari datigli poco prima dalla D<strong>in</strong>a (scena terza).Il monologo di Andrónico è petrarchesco: il personaggiova con il pensiero alla sua giov<strong>in</strong>ezza e ai suoiamici, che gli dicono, tra il rimprovero e l’affetto, cheha la testa tra le nuvole e che deve scendere per terra.E gli danno i buoni consigli: prenditi una donna e divertiticon lei. Queste cose, se non si fanno da giovani,si fanno da vecchi, vedrai! E adesso, che è vecchio,il protagonista lo riconosce: alla natura non sicomanda, ed egli si è preso una mammola, anche se lasua potenza sessuale non è più com’era un tempo.Brutta cosa diventar vecchi! Senectus ipsa morbus(“La vecchiaia stessa è una malattia”) diceva M. TullioCicerone. E anche lui riconosce che l’amore fa faregrandi cose. E qu<strong>in</strong>di racconta per l’ennesima voltaa se stesso (o per la prima volta al pubblico) come haportato via la mammola a suo marito. È <strong>in</strong>dubbiamenteuna donna letteraria: sembra un angelo cherub<strong>in</strong>o(la paragona al coro angelico più elevato) ed ha unaboccuccia che fa venir voglia di baciare. Ora ne è <strong>in</strong>namorato,le vuol bene ed è felice. La donna puòspendere e spandere, che lui non le dice niente. Temesoltanto che il marito voglia venire a riprendersela.Soltanto se va a trescare con lei, egli riesce a fare benei suoi affari. L’amore lo ha fatto r<strong>in</strong>galluzzire e hadato nuovo vigore al suo corpo: potrebbe ballare iquattro tempi del “gioioso” e ballare anche la “ros<strong>in</strong>a”.Ed ha due precisi programmi con la donna per ilfuturo: 1) “mi curerà quando mi viene il mio catarroe anche quando sarò <strong>in</strong>fastidito”; 2) “avrò con chisfogarmi e dire i fatti miei” (scena quarta, monologo).Una visone della donna nella media del tempo o forseanche superiore alla media. È forse un modernofemm<strong>in</strong>ista che vuole la parità dei diritti tra uomo edonna? Neanche un po’. Fa parte di quella fauna maschileche prova piacere a farsi comandare dalle donne.Vuol essere amato e, possibilmente, maltrattato.La donna gli deve fare qualche mo<strong>in</strong>a, qualche carezza,deve essere sempre disponibile ai suoi sbaciucchiamentie ai suoi vani tentativi di amplesso, e glideve dare anche qualche pena, qualche rimprovero,qualche schiaffo.La Venezia del tempo era piena di donne volitive equanti nobili erano comandati e malmenati dalle mogli!Qui Ruzante presenta un personaggio che è postoad una certa distanza sociale rispetto ai nobili spettatori.Così essi si riconoscono discretamente e fannosùbito opera di trasferimento: non sono essi il vecchioimpotente e bavoso, che vive dieci grad<strong>in</strong>i piùsotto nella scala sociale; né, tanto meno, il bifolcopavano, che si fa cornificare e rubare la moglie da unvecchio impotente... La fabula parla di altro e di altri!Ma la vecchiaia è spietata, e colpisce gli abitanti delcontado come quelli della città, i Pitàro come i Tron oi Cornaro o i Gradenigo.Il monologo f<strong>in</strong>ale messo <strong>in</strong> bocca a Bilóra è abile,paradossale, farsesco: il protagonista compie un omicidiosenza rendersi conto di quel che fa. Il tentativodi recuperare la moglie è fallito: egli non era affattosicuro di riuscire nell’impresa, anche se riesce astrapparle la promessa che avrebbe lasciato il vecchio.L’idea di far decidere alla donna, nella conv<strong>in</strong>zioneche mantenesse la promessa, si rivela fallimentare.Le m<strong>in</strong>acce o le offese al vecchio non erano servite.Neanche prendersela con Pitàro, che non era riuscitonel suo compito. La colpa di tutto è del vecchio,dunque Bilóra pensa di prendersela con il vecchio,che gli ha rov<strong>in</strong>ato la vita. Così su due piedi decide difarlo fuori e di toglierselo dai piedi, anche se ha paurache l’impresa non gli riesca bene. Così fa tutti ipreparativi e simula l’omicidio. Tira fuori il coltellodi tasca, controlla se è affilato (è arrugg<strong>in</strong>ito...), sisdoppia e fa le due parti di se stesso e del vecchio.Vuole allenarsi ad eseguire l’omicidio. Lo fa sotto lacasa o meglio sotto le f<strong>in</strong>estre di chi vuole uccidere efa uno strepito enorme, tanto che Andrónico uscendodi casa impreca contro quella bestia che a quell’orava a fare chiasso per strada. Nel simularel’aggressione e l’omicidio, Bilóra pensa anche al suotornaconto: toglierà la gonnella al vecchio, poi lavenderà e comprerà un cavallo, poi si farà soldato,poi andrà al campo, poi... Il suo pensiero va dove loporta il desiderio, non dove dovrebbe portarlo il ragionamento:un omicidio significa che deve fuggirequanto prima, per evitare di f<strong>in</strong>ire <strong>in</strong> mano ai Signoridella Notte e qu<strong>in</strong>di <strong>in</strong> galera. Ma egli non conosce larealtà, né le regole sociali che sono fatte rispettaredallo Stato con la forza e con la pena capitale.Quando il vecchio esce, egli si mette <strong>in</strong> agguato. Hadeciso che deve aspettarlo fuori dell’uscio. Il vecchioesce imprecando, scambia alcune battute con il servo,resta solo. A questo punto Bilóra lo colpisce e lo uc-<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 12


cide. È tutto soddisfatto: “Dammi la mia femm<strong>in</strong>a. Ladovevi lasciar stare [...] Ha cagato i graspi, lui! Tel’avevo detto?”, così commenta parlando tra sé e sé ef<strong>in</strong>endo il monologo (scena decima).Soltanto nella battuta f<strong>in</strong>ale egli ha addotto a se stessouna giustificazione per l’omicidio: Andrónico è colpevoledi avergli preso la donna. Doveva lasciarlastare. Nessun rimprovero a se stesso, che se l’era lasciatascappare a causa delle misere condizioni di vita<strong>in</strong> cui la teneva ed anche a causa delle solenni battutedi cui la onorava.A questo punto per la delizia dei critici e dei filologisi può discutere se l’azione di Bilóra è un omicidio ouna rivalsa contro tutti i soprusi sociali che ha subìto,l’ultimo il furto della moglie fatto da un cittad<strong>in</strong>o benestante.Si può dimostrare quel che si vuole, dimenticandoche il carattere fondamentale della realtà nonè la struttura matematica (Galilei giunge a Venezianel 1592), bensì la non trasparenza, l’ambiguità. E sipuò vedere il rapimento della donna con gli occhi delladonna, con gli occhi del marito, con gli occhi delvecchio (ma anche con gli occhi di Pitàro, di Zane,dei Signori della Notte; ed anche con gli occhi di unnarratore onnisciente, con gli occhi nostri...). Già cosìappaiono tre realtà e tre verità diverse (più tutte le altre).La stessa cosa si deve fare con l’omicidio f<strong>in</strong>ale.Questo poi, a differenza del primo fatto, <strong>in</strong>teressa anchel’ord<strong>in</strong>e pubblico e dovrebbe far <strong>in</strong>tervenire anchelo Stato, che dovrebbe garantirlo, almeno <strong>in</strong> casicosì vistosi di reato commesso da un s<strong>in</strong>golo privatocontro un altro s<strong>in</strong>golo privato. E questi reati sonoquelli più facili da perseguire e da punire...9. Omicidio <strong>in</strong> scenaL’omicidio <strong>in</strong> scena non aveva precedenti. Si trattaqu<strong>in</strong>di di una genu<strong>in</strong>a <strong>in</strong>venzione di Ruzante. Nonaveva precedenti proprio per il carattere edonistico, dievasione e d’<strong>in</strong>trattenimento che ha la commedia. Unomicidio, per quanto a conclusione dell’opera, significafar entrare anche nell’evasione, nel mondodell’<strong>in</strong>trattenimento, nel mondo dell’immag<strong>in</strong>ario laforza brutale della realtà e della storia. Lo scrittore haquesta forza di pensiero e questo lampo creativo.D’altra parte era <strong>in</strong>utile f<strong>in</strong>gere che almeno nell’evasionele cose e la vita potessero andar bene. Dal 1494le cose <strong>in</strong> Italia andavano male, c’erano guerre e <strong>in</strong>vasionicont<strong>in</strong>ue, ed ormai si capiva che i forti Statistranieri si sarebbero stanziati come a casa loro. E gliStati italiani non riescono a trovare un m<strong>in</strong>imo di accordonemmeno davanti ad un nemico o, meglio, amolti nemici comuni. Potenza della stupidità politica,di ieri come di oggi!Le rivolte dei contad<strong>in</strong>i sfruttati erano possibili maassolutamente irreali: la dom<strong>in</strong>azione straniera sarebbestata <strong>in</strong> ogni caso peggiore. Questo è quello chepensavano le classi politiche più c<strong>in</strong>iche o più avvedute.E così la vita cont<strong>in</strong>uava con la lentezza esasperantedi un fiume fangoso giunto ormai alla foce. Daparte loro i contad<strong>in</strong>i morivano di fame, erano assolutamente<strong>in</strong>capaci sia di protestare sia di rivoltarsi controil potere costituito. Non ne avevano le capacità.Non erano tanto preoccupati della rappresaglia chesarebbe senz’altro giunta, semplicemente non conoscevanobene né il l<strong>in</strong>guaggio, né le loro condizionidi sfruttamento, né i modi per uscire da tali condizioni.Si facevano anche fregare la moglie, che giudiziosamentepreferiva un cittad<strong>in</strong>o con un po’ di denaroanche se impotente, piuttosto che morire di stenti <strong>in</strong>qualche topaia, battuta dal marito.L’omicidio con cui Bilóra pone f<strong>in</strong>e al furto della moglie(gli altri contad<strong>in</strong>i preferivano il furto del bestiame)è un atto unico, che esce soltanto dalla mentecolta e acculturata di un cittad<strong>in</strong>o, di un teatrante, diRuzante, il quale professionalmente deve esplorarevie logiche che la realtà può percorrere e che forsenon percorrerà mai, ma che sono sempre lì, pronte, <strong>in</strong>agguato. Sono una sp<strong>in</strong>a nel fianco della ragione,come il coltello, per quanto arrugg<strong>in</strong>ito, che ha trafittoil corpo di Andrónico, come lo sp<strong>in</strong>o amoroso chesi è piantato nei glutei sempre di Andrónico, uno sp<strong>in</strong>oche lo ha portato imprevedibilmente a tirare i lachiti(scena decima).10. Un confronto con la Mandragola di MachiavelliÈ opportuno confrontare brevemente la Bilóra (1530)con la Mandragola (1518) di Machiavelli. Le due o-pere sono quasi contemporanee, ma mostrano duemondi completamente diversi: Venezia e la modestacultura veneziana; Firenze e la grande cultura fiorent<strong>in</strong>a.Il respiro o l’ansito locale della cultura veneziana,il respiro sovraregionale, nazionale ed <strong>in</strong>ternazionaledella cultura fiorent<strong>in</strong>a. Le cose erano così nelQuattrocento e nel Trecento e cont<strong>in</strong>ueranno così s<strong>in</strong>oalla caduta della Serenissima (1797) ed anche oltre.Eppure non mancano a Venezia le tipografie e nonmancano nemmeno gli <strong>in</strong>tellettuali. Ma la cultura nonè considerata un <strong>in</strong>vestimento produttivo, che favorissel’immag<strong>in</strong>e della città e dello Stato.La trama della Mandragola è semplice: Callimaco èun giovane trentenne che vive a Parigi. Sente parlaredelle bellezze di Lucrezia, una fiorent<strong>in</strong>a. Si reca aFirenze e con l’aiuto di un consigliere, Ligurio, sfruttale circostanze (i due coniugi vogliono avere un figlio),aggira tutti gli ostacoli (il marito e soprattuttol’onestà della donna) per possederla. Alla f<strong>in</strong>e riescenello scopo, anzi i due diventano amanti.A prima vista la commedia sembra una semplice e divertentestoria di corna: il giovane <strong>in</strong>traprendente hala meglio sul marito vecchio, stupido e ormai pocosensibile ai piaceri del sesso. In realtà si tratta diun’opera senza bavagli, <strong>in</strong> cui l’autore riprende e approfondiscele riflessioni svolte nel Pr<strong>in</strong>cipe. Nell’operadel 1512-13 aveva sostenuto che il pr<strong>in</strong>cipe ha il<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 13


dovere d’<strong>in</strong>frangere la morale comune, <strong>in</strong> nome di unf<strong>in</strong>e più alto, la difesa e il consolidamento dello Stato.Qui egli scopre che anche i privati possono arrogarsiil diritto d’<strong>in</strong>frangere la morale comune e di comportarsicome il pr<strong>in</strong>cipe, per conseguire i loro f<strong>in</strong>i particolari.Ma i risultati sono socialmente distruttivi: ivalori positivi che stanno alla base della società vengonom<strong>in</strong>ati e demoliti; resta soltanto l’<strong>in</strong>ganno e lacorruzione a regolare i rapporti tra gli <strong>in</strong>dividui.Dopo la Mandragola l’autore non è andato oltre conla riflessione filosofica. Si trovava <strong>in</strong> una difficoltàestrema: da una parte pensava che l’ideale supremodel pr<strong>in</strong>cipe fosse quello di conseguire fama e gloriamilitare, dall’altra vedeva le estreme conseguenze delmondo immorale, che egli aveva portato alla luce, ladistruzione delle basi su cui si regge la società. Mettered’accordo i desideri di gloria del pr<strong>in</strong>cipe e la ricercadi una società stabile era impossibile. Meglioabbandonare la riflessione. L’altra alternativa eraquella d’imporre <strong>in</strong> primo luogo ai cittad<strong>in</strong>i e sùbitodopo anche al pr<strong>in</strong>cipe il dovere di rispettare i valorisu cui si reggeva la società, <strong>in</strong>somma imporre limiti ev<strong>in</strong>coli morali all’azione del pr<strong>in</strong>cipe... O almeno risolverecon un colpo di genio la difficoltà o l’impossibilitàdi conciliare i due term<strong>in</strong>i, libertà di agire delpr<strong>in</strong>cipe e solidità e compattezza della società grazieai valori morali, cioè ai valori sociali. Nella Politica enell’Etica a Nicomaco Aristotele (recepito da Tommasod’Aqu<strong>in</strong>o) non aveva detto cose <strong>in</strong>sulse <strong>in</strong> proposito.Da parte sua Tommaso aveva scritto De regim<strong>in</strong>epr<strong>in</strong>cipum (1263).La Mandragola è poi il più grande esempio letterariodi blitzkrieg e di strategia militare: gli ostacoli sonoattaccati e aggirati seconda le caratteristiche che presentanoe con le soluzioni più adeguate.La Bilóra non è niente di tutto questo. Bilóra va aVenezia a recuperare, se possibile, la moglie fuggitacon un vecchio impotente ma ricco. La moglie nonvuole tornare, perché egli non ama lavorare, le offresoltanto una vita di stenti e la batte, mentre con ilvecchio lei è servita e riverita. Ed egli uccide il vecchio.Così può recuperare un po’ di denaro e forseanche la moglie (che ora, giustizia permettendo, nonpuò fare a meno di seguirlo; o forse egli la deve abbandonare,deve scappare e farsi soldato).La differenza di trama è assoluta. È quella che passatra paese e città, tra città piccola e città cosmopolita.La colpa non è affatto di Ruzante, che anzi sa fare e-gregiamente il suo mestiere di scrittore e di attore; èdel luogo culturalmente, politicamente e monetariamentemodesto <strong>in</strong> cui vive: Padova, che pure ha l’universitàe non è digiuna di cultura; e Venezia che neè priva, perché non vuole essere disturbata dai comportamentigoliardici e chiassosi degli studenti. Già lacorte di Ferrara respirava un’aria più <strong>in</strong>ternazionale,maggiormente rivolta verso le altre grandi città dellapenisola e verso l’Europa.11. Un confronto con la Lena di AriostoUn confronto opportuno si può anche fare con la Lena(1528) di Ariosto, pressoché contemporanea. LaLena è scritta <strong>in</strong> versi, ma la cosa non disturba più ditanto. La trama è molto più complessa.Flavio, figlio di Ilario, ama Lic<strong>in</strong>ia, figlia di Fazio.Per avere la fanciulla, chiede aiuto a Lena, una ruffiana,amante di Fazio. Il marito, Pacifico, la aiuta. Ilregista della trama è Corbolo, che deve persuadereFlavio a sborsare il denaro per persuadere Lena asvolgere il suo compito. Ma Corbolo esagera: perpersuadere Flavio a sborsare altro denaro, <strong>in</strong>venta chePacifico ha sorpreso Flavio <strong>in</strong>sieme con la Lena. Flavioavverte Fazio, che si arrabbia. Ma alla f<strong>in</strong>e tutto sichiarisce, i due giovani si sposano, la Lena ottiene ildenaro e fa la pace con Fazio, il suo maturo amante.La commedia rivela un Ariosto ben diverso dalle nugaedelle satire e dalla compostezza classica di cuipervade l’Orlando furioso. Nel canto XXIII egli <strong>in</strong>terrompela storia della pazzia di Orlando per non disturbareil lettore. Eppure nel poema esiste la morte <strong>in</strong>grande quantità. I saraceni ma anche i cristiani cadonoa bizzeffe sotto le mura di Parigi, come se fosserosoldat<strong>in</strong>i di marzapane. Eppure, non ostante le stragie le morti, anche di personaggi importanti (così è lavita), non si respira quell’aria plumbea, pessimistica erassegnata della commedia. Eppure la commedia haun lieto f<strong>in</strong>e: tutto ritorna com’era, la Lena ritorna aquel rapporto di amore, odio e <strong>in</strong>sofferenza conl’amante che mantiene lei e il marito. Ma l’amante èmeglio del marito, il marito è un semplice scroccone,un mantenuto, da tenere <strong>in</strong> giro per la casa. Tuttaviala situazione è bloccata: anche se il marito se ne andasseal creatore, il rapporto con l’amante non potrebbecambiare. Insomma non ci sono speranze per ilfuturo. Forse per tutti conviene dimenticare le propriepene e sperare che le nuove generazioni abbiano unavita più soddisfacente. Un’illusione!In Ruzzante non c’è questa problematica matura, cheriguarda la coppia, l’uomo, la donna, il tempo chepassa, i figli, gli amori dei figli. In Ariosto si sentemaggiormente l’<strong>in</strong>flusso degli <strong>in</strong>trecci classici, ma sisente anche che la corte ferrarese produce cultura conun respiro ben più vasto. Anche qui è come se ilcommediografo pavano parlasse di problemi del contado,quando esiste già una cultura cittad<strong>in</strong>a che ha ilvento <strong>in</strong> poppa. Venezia non aveva capito l’importanzadella cultura né aveva rimediato al fatto di non a-vere alle spalle i grandi scrittori fiorent<strong>in</strong>i del Trecentoe la grande cultura lat<strong>in</strong>a (e greca) del passato. Nonera però necessario essere Roma, per avere a disposizionela cultura classica. Bastava andare per le biblioteca,come aveva fatto Petrarca. Anzi essa aveva un<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 14


apporto privilegiato con la Grecia e l’Oriente, ma siera preoccupata di stabilire rapporti commerciali, mairapporti culturali. Un suicidio culturale e politico.Eppure alcuni elementi sono gli stessi: il vecchio <strong>in</strong>namorato,il marito cornuto, il servo ecc. Ma Fazio èun uomo geloso e volitivo, mentre Andrónico è unamezza tacca, che vive di ricordi e si fa <strong>in</strong> tarda etàl’amante. Pacifico è <strong>in</strong>differente al tradimento dellamoglie – nomen omen est... –, ben contento di farsimantenere da lei. La Lena è una donna volitiva, chenon si fa pestare o piegare neanche da Fazio, che purela mantiene. Corbolo è un servo astuto e <strong>in</strong>traprendente,forse troppo <strong>in</strong>traprendente. Nella commedia diAriosto poi ci sono i due giovani <strong>in</strong>namorati o qualcosadi simile: Flavio vuole godersi la ragazza e lei èdisponibile; ma, scoperto il rapporto, i genitori li costr<strong>in</strong>gonoprima a sposarsi.La trama della Lena è qu<strong>in</strong>di molto più complessa (ilmeccanismo della commedia è considerato importante)e mostra la contam<strong>in</strong>azione di più commedieclassiche ed anche di altre fonti. I personaggi sonomolto più numerosi. La Bilóra <strong>in</strong>vece ha una strutturae <strong>in</strong>tendimenti molto più semplici, e i personaggi sonosoltanto c<strong>in</strong>que.Anche qui il motivo di risultati così diversi è lo stesso:Ferrara era <strong>in</strong>serita nelle maggiori correnti letterariedel tempo. Venezia era <strong>in</strong>vece una città culturalmenteemarg<strong>in</strong>ata. Nel 1592 viene a darle lustro f<strong>in</strong>oal 1610 un pisano, Galileo Galilei.Qualcosa però accompagna le due, anzi le tre commedie:il realismo sociale o, meglio, l’attenzione versola società e l’ambiente sociale <strong>in</strong> cui si vive. Ariostoparla della corte e della società ferrarese e lo facon totale dis<strong>in</strong>canto e con totale disillusione. Questarealtà è squallida, gli <strong>in</strong>dividui sono mesch<strong>in</strong>i e deditial furto, la giustizia non funziona e i ladri sono garantiti.La corte rivela livelli <strong>in</strong>f<strong>in</strong>iti di degrado fisico emorale, davanti al quale per altro gli spettatori scoppianoa ridere, anche se si vedono rappresentati. Sipreoccupano di capire chi va a colpire l’allusione implicitanel testo, nella scena o nel personaggio. Soltantoil pr<strong>in</strong>cipe si salva, ma unicamente per f<strong>in</strong>zioneletteraria.<strong>Beolco</strong> parla non di Venezia e dei nobili (è troppo pericoloso),ma delle miserabili condizioni dei contad<strong>in</strong>iche vivono sulla terraferma, e che Venezia non riesceo, meglio, non vuole trasformare <strong>in</strong> sudditi che godanodi un tenore di vita migliore, che pagh<strong>in</strong>o più tassee che divent<strong>in</strong>o partecipi alla vita politica. E doveva<strong>in</strong>trodurli sulla scena politica non per motivi di generosità,ma per motivi concreti: la situazione nazionaleitaliana e <strong>in</strong>ternazionale europea e medio-orientale lorichiedeva. A Costant<strong>in</strong>opoli erano arrivati i turchi(1453), si apriva il fronte dei commerci con l’America(1492), l’Italia era divisa e <strong>in</strong>vasa da eserciti stranieri(1494). Invece l’oligarchia veneziana lascia viverei contad<strong>in</strong>i come animali.Machiavelli dietro la storia salace mostra la violenzae la corruzione che dom<strong>in</strong>a la vita politica, compresala Chiesa. Lucrezia era onesta, ma tutto ha tramato –Callimaco, Ligurio, il marito, la madre e il confessore–, per farla cadere nell’adulterio.11. Il pubblico della Bilóra e la f<strong>in</strong>is VenetiaeIl pubblico delle commedie di Ruzante è costituitodai nobili veneziani, anzi dalla parte più progressistadella nobiltà veneziana, quella che faceva capo aCornaro, che era il protettore, il committente e lospettatore dello scrittore. Cornaro aveva adibito a teatrola ricca casa di Padova. D’altra parte a teatro potevanoandare soltanto loro. Altre classi sociali, se fosseroandate a teatro, si sarebbero viste rappresentate.Certamente non si sarebbero divertite né avrebberocapito il comportamento dello sponsor, che spendevadenaro a vedere sulla scena ciò che poteva vederesenza fatica e gratuitamente <strong>in</strong> una calle o <strong>in</strong> un campiello.O nei suoi campi lungo il fiume Brenta.Il problema del protettore o del committente è peròsoltanto un problema che riguarda la commedia, latrama, il contenuto, la scelta del dialetto, la conclusionef<strong>in</strong>ale. Lo scrittore deve fare spettacolo. Questoè il suo primo imperativo categorico. Ma può farlo <strong>in</strong><strong>in</strong>f<strong>in</strong>iti modi diversi, che si possono ridurre a due:può farlo evadendo dalla realtà, può farlo tentandod’<strong>in</strong>terpretare la realtà (politica, sociale ed economica)con le sue forze e i suoi strumenti. Ruzante, comeMachiavelli e come Ariosto (e gli altri scrittori delC<strong>in</strong>quecento), tenta questa seconda via. La commedianon è evasione, è specchio della realtà. Uno specchioche mostra realmente la realtà, anche quando la deforma.Guardando la commedia – questa come le altre –, cisi può divertire e si può evadere o, almeno, illudere dievadere dalla realtà. In realtà questo modo di leggereo di vedere la commedia è superficiale, <strong>in</strong>utile, banale.L’attore è una maschera, <strong>in</strong>dossa la maschera, cioèrecita un altro personaggio sulla scena (le maschere ela Commedia dell’arte appaiono <strong>in</strong> seguito). Egli èperciò il personaggio più capace a togliere la mascheraalla società, ben <strong>in</strong>teso non la piccola maschera degliodi, dei piccoli <strong>in</strong>ganni, dei dispetti e delle ripicche.Troppo banale. Bastavano i preti. Ma quellagrande maschera <strong>in</strong> cui il nostro io sociale è di frontea se stesso e non può <strong>in</strong>gannare se stesso.Venezia era fallita, Venezia era un disastro, Veneziaera già morta, anche se il denaro girava <strong>in</strong> città (manon nel contado). I veneziani potevano sentirsi vivi eonnipotenti perché facevano la bella vita nelle villelungo il Brenta e perché le ville sorgono e cont<strong>in</strong>uanoa sorgere. Ma sono le ultime energie di chi vuole credersi<strong>in</strong> vita quando è già morto. La sp<strong>in</strong>a nel fianco èlì pronta a farsi sentire. Il coltello arrugg<strong>in</strong>ito – bastaun coltello arrugg<strong>in</strong>ito per uccidere – è <strong>in</strong> agguato.Basta un proprio contad<strong>in</strong>o per usarlo contro il suonobile datore di lavoro. Certo il contad<strong>in</strong>o non lo fa<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 15


né lo farà, ma perché è ignorante e perché, anche sesapesse, non riuscirebbe a trovare una soluzione capacedi tirare né se stesso né Venezia fuori dei guai.Non ci sono riusciti neanche coloro che hanno fatto laserrata del 1297 né i loro successori.Così si può fare la bella vita, cont<strong>in</strong>uare a sfruttare icontad<strong>in</strong>i e a <strong>in</strong>sidiare le loro donne. Ma la sp<strong>in</strong>a nelfianco, la m<strong>in</strong>accia resta. Ci si può ubriacare di feste<strong>in</strong> villa o di spettacoli, ma la m<strong>in</strong>accia resta. E la mortearriverà repent<strong>in</strong>a e vergognosa.È ovvio: per darle un senso, basta riuscire a vedere lacommedia nella complessità che è presente <strong>in</strong> essa,voluta o non voluta dall’autore. Niente impedirebbedi leggerla con i quattro sensi delle scritture, con cuiDante e il Medio Evo leggeva la cultura antica. Nienteimpedirebbe di leggerla nel modo più recente e piùgrossolano attuato dagli umanisti e recepito da Machiavell<strong>in</strong>el Pr<strong>in</strong>cipe, che attribuivano agli antichi unparlar velato, un parlare per allegorie.L’opera di <strong>Beolco</strong>, come ogni opera, non vive <strong>in</strong> séma nell’<strong>in</strong>telligenza, nella sensibilità, nella malizia enell’accortezza del lettore o del pubblico.13. La versione <strong>in</strong> <strong>italiano</strong>La versione <strong>in</strong> <strong>italiano</strong> non deve stupire: si tratta deldialetto pavano del C<strong>in</strong>quecento, assolutamente <strong>in</strong>comprensibileanche per coloro che oggi parlano ildialetto patav<strong>in</strong>o.Qualche parola o qualche espressione dialettale è stata<strong>in</strong>tenzionalmente lasciata. Ad esempio: orbentena,barba, favellare. Il motivo è che non ci si deve maidimenticare il l<strong>in</strong>guaggio dei personaggi. Esso èl’<strong>in</strong>dicazione diretta e brutale delle orig<strong>in</strong>i di classedei quattro protagonisti. Inoltre l’autore, come i commediograficontemporanei, rivolge una particolarecura a costruire una l<strong>in</strong>gua specifica per le varie classisociali e per i vari personaggi che le costituiscono. Eproprio nel l<strong>in</strong>guaggio si vede l’appartenenza di Bilóra(e di Pitàro) ad una classe sociale <strong>in</strong>feriore: ess<strong>in</strong>on conoscono il l<strong>in</strong>guaggio, non conoscono né il pavanoné il l<strong>in</strong>guaggio ufficiale parlato da Andrónico.Essi non hanno mai imparato bene la l<strong>in</strong>gua, non sonomai riusciti a stabilire un rapporto diretto, esplicitoe univoco tra parola e oggetto (o relazione). Così essiusano molte espressioni che a loro avviso designanoqualcosa o vorrebbero designare qualcosa e che <strong>in</strong>vecenon dicono niente. Orbentena, cagasangue, cànchero,al sangue di..., potta di questo, potta di quelloe tutte le altre imprecazioni ne sono un esempio. Essi<strong>in</strong> molti casi usano espressioni o assemblano suonicredendo di poterlo correttamente fare e credendo chel’assemblaggio che hanno fatto abbia un significato edica qualcosa.La traduzione ha uniformato il l<strong>in</strong>guaggio dei personaggiche l’autore ha voluto diverso. Questo è ilsuo limite: la commedia è costruita e si apprezza soltantoascoltando i diversi l<strong>in</strong>guaggi parlati dai diversipersonaggi. Ciò vale per tutte le commedie del tempo,e vale soprattutto per una commedia che ha scelto ildialetto come l<strong>in</strong>guaggio ufficiale. Oltre a ciò il l<strong>in</strong>guaggionormale o normalizzato è un l<strong>in</strong>guaggio preciso,che del<strong>in</strong>ea sempre e <strong>in</strong> modo preciso sia i concettisia gli oggetti. È un l<strong>in</strong>guaggio proprio. Il l<strong>in</strong>guaggiodei vari personaggi popolari è costantementeun l<strong>in</strong>guaggio improprio, approssimativo, che nellaversione acquista le caratteristiche del l<strong>in</strong>guaggionormale o normalizzato. Ciò può portare al rischio difra<strong>in</strong>tendere i personaggi, il loro l<strong>in</strong>guaggio e la lorocultura.Ma il testo a fianco permette di cogliere immediatamenteil mondo l<strong>in</strong>guistico che caratterizza il riccocittad<strong>in</strong>o Andrónico, i tre popolani Bilóra, Pitàro eD<strong>in</strong>a, il servo semi straniero.Per altro all’<strong>in</strong>terno di questa gerarchia l<strong>in</strong>guistica(culturale e di carattere) ci sono altre gerarchie: Pitàrosi avvic<strong>in</strong>a al mondo di Andrónico (è cittad<strong>in</strong>o comelui), Bilóra si avvic<strong>in</strong>a alla moglie, e la moglie tendead abbassarsi al livello del servo.La traduzione <strong>in</strong> parte ha mantenuto le <strong>in</strong>tercalari senzasignificato, <strong>in</strong> parte le ha tradotte, nel tentativo didare un’idea, per quanto approssimativa, dell’orig<strong>in</strong>ale.La versione però si propone di essere un semplicestrumento per avvic<strong>in</strong>arsi all’orig<strong>in</strong>ale. E cometale va usata.Per un primo <strong>in</strong>contro con la commedia italiana delprimo C<strong>in</strong>quecento si può ricorrere a Il teatro <strong>italiano</strong>.II. La commedia del C<strong>in</strong>quecento, a cura di G.Davico Bon<strong>in</strong>o, E<strong>in</strong>audi, Tor<strong>in</strong>o 1977, tomo I, checontiene:Bernardo Dovizi da Bibiena, CalandriaNiccolò Machiavelli, MandragolaLudovico Ariosto, LenaRuzante, MoschetaAnonimo, VenexianaL’opera completa di Ruzante, con un’ampia <strong>in</strong>troduzionee bibliografia, è pubblicata <strong>in</strong> RUZANTE, Teatro.Prima edizione completa. Testo, traduzione afronte e note a cura di Ludovico Zorzi, E<strong>in</strong>audi, Tor<strong>in</strong>o1967, 1969 2 .<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 16


BILÓRAI PERSONAGGIBILÓRA, villanoPITÀRO, villanoDINA, moglie di BilóraMESSER ANDRÓNICO, [vecchio] veneziano,amante di D<strong>in</strong>aZANE [o TONIN], bergamasco, servo di Andrónico[La commedia si svolge a Venezia]<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 17


1530Leggenda:Calle di VeneziaA s<strong>in</strong>istra, casa di AndrónicoIn fondo alla via, osteria<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 18


SCENA PRIMABILORA, solo.Orbèntena, on on va uno <strong>in</strong>amorò, e on no se fica;el no se ghe ficherae gnan na sbombarda. Pota anl’amore. Chi harae mè dito che l’amore m’haessetirà sì fieramèn, che ‘l me haesse menò <strong>in</strong> zentech’a no viti mè, e fuora de cà mia? Ch’a no sè onsupia mi. I dise che l’amore no pò fare o che ‘l nosa fare: mo a vezo che ‘l sa fare zò che ‘l vuole. Momi, che na fià mi a vuò dire de mi, se no foesse stòl’amore de vegnìr a véere s’a cato la me cristiana,ch’a no sarae vegnù tuto ieri, tuta sta note, e tuta stadimàn, per buschi, per ciese, e per scatarón, ch’ason tuto <strong>in</strong>scurentò, ch’a non posso pì de la vita.Lagón pur dire, lagón pur anare, che el tire pìl’amore a uno che supia <strong>in</strong>amorò, che non fa tre parede buò. Càncaro, a he bio brombe. L’è na malebrega l’amore. El ghe n’è an che dise che l’amorese fica lomè <strong>in</strong> zòene, e che ‘l fa nare <strong>in</strong> varegagialomè i zòene: a vezo pure mi che ‘l ghe va an d’iviegi. E sì a scherzo che se ‘l n’haesse bu el verìn alculo che ‘l no m’harae menò via la me fémena chegh’el cavasse. C’haésselo cavò el cuore, viegio desborozò.Càncaro el magne elo, e chi el menè <strong>in</strong>quela vile, usularo che l’è! Che no pósselo mè haerelegreza d’i suò d<strong>in</strong>ari, né gnan galdimento pì co ‘lme laga haer mi de me mogiere. Tamentre, al sanguedel càncaro, a n’he squasso male che no me stagheben. A volea pur anare a tirar barche, e de dì ede note, e altri me ha tirò me mugièr fuora de cà ami, che Dio el sa se mè pì la porò véere. Harae fatomiegio haér tirà a cà, ché ghe besognava pì. Ohcàncaro, mo a me vezo pur impazò. A muoro defame e sì a n’he pan, e sì a n’he gniàn d<strong>in</strong>ari decomprarme. Mo almanco saesse on la stà e on ell’ha menà: che la pregherae pur tanto che la medarae un pezato de pan.SCENA SECONDAPITARO, BILORA.PITARO Oh cagasangue, mo situ chù?BILORA A no volea gniàn altri che vu, barba Pitaro,vi.PITARO Ben, an, an...BILORA Mo aldissi dire l’altro dì de quela noela,saìvu?PITARO Se Diè m’aì, no, s’ te no ‘l dì.BILORA Poh, a no saì un tòtene de quela facenda...de... de (aiémelo a dire) de messer Androtene, ch’amenò via la me fémena; de quel viegio, de quelzentil’om de fuora.SCENA PRIMABILORA 1 , solo.Orbèntena 2 , dove non va un <strong>in</strong>namorato, e dove non sificca; non vi si ficcherebbe neanche una bombarda.Potta anche all’amore 3 . Chi avrebbe mai detto chel’amore mi avrebbe trasc<strong>in</strong>ato così fieramente 4 , che miavrebbe condotto tra gente che non ho mai visto e fuoridi casa mia? Non so neanche dove sono 5 . Dicono chel’amore non può fare o che non sa fare 6 . Ma vedo chesa fare ciò che vuole. Ma io, che una volta tanto voglioparlare di me, se non fosse stato per l’amore di venirea vedere se trovo la mia cristiana 7 , non sarei venutotutto ieri, tutta stanotte e tutta stamani, per boschi, persiepi e per sterpaglie, che son tutto nero dai lividi, chenon ne posso più della vita 8 . Lasciamo pure dire, lasciamopure andare, che tira di più l’amore a uno chesia <strong>in</strong>namorato, di quanto non facciano tre paia dibuoi 9 . Cànchero 10 , ne ho avuto delle sus<strong>in</strong>e 11 . È unacattiva briga l’amore 12 . Ce n’è uno che dice chel’amore si ficca soltanto nei giovani, e che fa andare <strong>in</strong>fregola soltanto i giovani. Vedo pure io che va anchedai vecchi 13 . E così credo che, se non avesse avuto unosp<strong>in</strong>o nel culo, non mi avrebbe condotto via la miafemm<strong>in</strong>a perché glielo levasse. Che gli avessero levatoil cuore, vecchio sf<strong>in</strong>ito. Che il cànchero lo mangi, lui echi lo ha portato <strong>in</strong> quella città, usuraio che è 14 ! Chenon possa mai avere allegria dei suoi denari, né gradimentocome lui non ne lascia avere a me di mia moglie.Eppure, al sangue del cànchero, non c’è quasimale che non mi stia bene. Volevo pure andare a tirarbarche 15 , di giorno e di notte, e un altro mi ha tiratomia moglie fuori di casa, a me, che Dio sa se mai più lapotrò vedere. Avrei fatto meglio ad avere tirato a casa,perché ne avevo più bisogno. Oh cànchero, ma mi vedoproprio nei guai. Muoio di fame, e non ho pane e nonho denaro per comprarlo 16 . Ma almeno sapessi comesta e come egli l’ha condotta: la pregherei tanto che midarebbe un pezzo di pane 17 .SCENA SECONDAPITARO 18 , BILORA.PITARO O cagasangue 19 , ma sei qui?BILORA Non volevo altri che voi, barba 20 Pitàro, vedete.PITARO Bene, eh, eh... 21BILORA Ma avete sentito dire l’altro giorno di quellanovità, sapete?PITARO Che Dio mi aiuti, no, se non me lo dici 22 .BILORA Poh, non sapete un cazzo 23 di quella faccenda...di... di (aiutatemi a dire) di messer Androtene 24 ,che ha condotto via la mia femm<strong>in</strong>a; di quel vecchio, diquel gentiluomo di fuori.<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 19


PITARO Sì, sì, de vera. Vah càncaro, di pian, ch’elstà chialondena – vìtu – ch’el no t’aldisse. Chi t’hamenò chialondena?BILORA A ghe son vegnù mi, mi. Negùn no megh’a menò elo. E sì, stà chialondena? Onve? <strong>in</strong>st’usso?PITARO Ma sì, chialò. Ben: che vuòtu fare? che ‘lte la daghe <strong>in</strong> drio? O che vuòtu fare?BILORA Mo a ve dirè el vero mi. Perché n’he piacerede costionezare, com a saì, mi a m’acorderaeontiera pì tosto che far litia, e sì a farè che quel chexe andò, supia andò una bota, purché el me daessequalche marcheto e la femena, <strong>in</strong>tendìvu? Perché elno me varae fuorsi chialondena sbraosare. Bessàche sta fossàm de fuora, l’anarae a n’altro muò; machialondena a no cognosso negùn. El me farae fuorsisofegare <strong>in</strong> t’un de sti fossè, e sì harae guagnò po.PITARO Mo te di ben vero, vitu. L’è n’omo fastibioso.Càncaro vaghe pur con le bone. «Messiérbelo» de qua, «messiér caro» de là.BILORA Che ‘l ha lom «messiér belo»? Mo ‘lm’iera stà dito che l’haea lom Ardochene, unastragna lome.PITARO No, te no <strong>in</strong>tiendi. L’ha ben lom com tedi, ma a no dighe cossì mi. A dighe che faghi careze,che te ghe vaghi con le bone. Daghe de la «Vuostrastilenzia», della «spaternitè lostrissima»; «a merebuto, caro missiér, demela». Intienditu? No sbraosare.BILORA Ah, ah, ben a <strong>in</strong>tendo, càncaro. E sì l’èfastidioso fieramén an. Elo mo fastibioso che ‘l daghe,o pur che ‘l crie?PITARO El dà, càncaro, el mena zò elo ala politevìto.BILORA Mo, a sto muò l’è un mal mato. Donca eldarae cosi <strong>in</strong> tera, co ‘l farae gnan <strong>in</strong> lo muro elo,n’è vero? Vuossi dire a un om? Pota de chi l’hacagò. Mo ‘l m’è doiso ch’a ‘l trarae <strong>in</strong> tera con unspuazo. E sì dà an? Càncaro el magne donca. Ah!mo <strong>in</strong>segnème un può com dego fare a tuorlo debona, ch’à no se dassàm. Saìu se elo l’è <strong>in</strong> cà, eloancora vegnù de plaza?PITARO No che ‘l n’è vegnù. Aldi, che te vuò<strong>in</strong>segnare un bel trato, al sangue de la site.BILORA Ah, ah, di pure, e laghè fare a mi.PITARO Mo aldi: va, sbati che ‘l gh’è lomè la D<strong>in</strong>a<strong>in</strong> cà, e no te far deveoso con ela, ciàmala pur dezò, e mostra che ‘l fato ne supia gnan to.BILORA No, no, laghè pur far a mi.PITARO E dìghe «serore, na bota, vuòto vegnire aca? Te m’hiessi pur lagò». Madessì con te sarè sìfare.BILORA Sì, sì, bone parole, na bota. Mo on volìuch’a ghe faele, <strong>in</strong> su l’usso chivelò? o ch’a vagheentro?PITARO No, <strong>in</strong> su l’usso, chì de fuora, càncaro,che ‘l no t’arciapasse <strong>in</strong> cà e che ‘l t’<strong>in</strong> fesse tare nabona sciav<strong>in</strong>a.PITARO Sì, sì, davvero 25 . Ehi, cànchero, di’ piano, cheabita qui – vedi? – che non ti senta. Chi ti ha condottoqui?BILORA Sono venuto io, io. Nessuno mi ha condotto. Ecosì abita qui? Dove? In questo uscio?PITARO Ma sì, qui. Bene, che cosa vuoi fare? Che te ladia <strong>in</strong>dietro? O che vuoi fare?BILORA Ma vi dirò il vero, io. Perché non mi piacequestionare, come sapete, io mi accorderei volentieripiuttosto che far lite [<strong>in</strong> tribunale], e così farei che quelche è stato, è stato, purché mi desse qualche marchetoe la femm<strong>in</strong>a, <strong>in</strong>tendete 26 ? Perché non mi varrebbe forsefare il bravaccio qui. Certo che, se fossimo di fuori,andrebbe <strong>in</strong> un altro modo; ma qui non conosco nessuno.Mi farebbe forse affogare <strong>in</strong> uno di questi fossati 27 ,e così avrei guadagnato anche questo.PITARO Ma dici ben vero, vedi. È un uomo fastidioso28 . Cànchero, va’ pure con le buone da lui: «Messérbello» di qua, «messér caro» di là 29 .BILORA Che ha nome «messér bello»? Ma mi era statodetto che aveva nome Ardòchene, uno strano nome 30 .PITARO No, tu non <strong>in</strong>tendi. Ha nome come dici, manon dico così io. Dico che tu gli faccia carezze, che vadada lui con le buone. Dagli della «Vostra Eccellenza»,della «Paternità Illustrissima»; «Riverisco, caromessér, datemela». Intendi? Non fare il bravaccio 31 .BILORA Ah, ah, <strong>in</strong>tendo bene, cànchero. E così è fastidiosofieramente, eh! È fastidioso che picchia oppureche grida 32 ?PITARO Picchia, cànchero, picchia giù, lui, alla bella,vedi.BILORA Ma allora è un brutto tipo. Dunque picchierebbe<strong>in</strong> terra, come non farebbe neanche sul muro,lui, non è vero? Voglio dire a un uomo? Potta di chil’ha cagato. Ma sono sicuro che lo manderei per terracon uno sputo. E così picchia, eh? Il cànchero lo mangi,dunque. Ah! Ma <strong>in</strong>segnatemi un po’ come devo farea prenderlo con le buone, <strong>in</strong> modo che non ci picchiamo.Sapete se è <strong>in</strong> casa, o non è ancora tornato dallapiazza 33 ?PITARO No, non è venuto. Senti, che ti voglio <strong>in</strong>segnareun bel modo, al sangue della saetta 34 !BILORA Ah, ah, dite pure, e lasciate fare a me.PITARO Ma senti: va’ e batti che c’è soltanto la D<strong>in</strong>a<strong>in</strong> casa, e non farti vedere sospettoso con lei, chiamalapure giù, e mostra che il fatto non sia neanche tuo 35 .BILORA No, no, lasciate pure fare a me.PITARO E dille: «Sorella, su, vuoi venire a casa? Tumi hai lasciato». Ma come sapresti fare tu.BILORA Sì, sì, buone parole, <strong>in</strong>somma. Ma volete cheglielo dica qui sull’uscio? o che vada dentro?PITARO No, sull’uscio, qui di fuori, cànchero, che nonti sorprenda <strong>in</strong> casa e che non ti faccia dare un buonfracco di botte 36 .<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 20


BILORA An? Ma che crìu vu, crìu che la vegnerà aca?PITARO A no sè, fuorsi anca sì: tamentre l’hafieramén bon tempo con elo. La l’ha pì né briga néfaiga neguna. Ben da bévere e ben da mangiare eben servìa.BILORA Mo de servìa, se Diè m’aì, no scherzo mèche ‘l la serve ben com a fago mi, che el no pò fareun servizio elo.PITARO No, gi ha un famegio, càncaro, che i servetuti e du.BILORA A volea ben dir. Mo an, n’è miegio ch’avaghe? Ghe cavarae qualcuosa dale man <strong>in</strong>anzo che‘l vaghe a cà elo. E sì, no gh’è negùn <strong>in</strong> cà lomè laD<strong>in</strong>a?PITARO No, te dighe. Pota, crìto ch’a te ‘l diesse?Va pure, ch’a vuò nare an mi colà oltra <strong>in</strong> t’un servisio,che com a torne, a tornerè de chì, a véere comt’haveré fato. Ma no star pì, va via.BILORA Moà, anè, ch’a v’aspeto agno muò, vi. Ohpota del càncaro, Dio sa a che muò l’anderà; mopota sì. Tamentre a vuò sbàtere agno muò, stacreesse d’esser fato pì <strong>in</strong> sonde e <strong>in</strong> bocón che fomè rao. Mo che sì; che s’a sbato, che ‘l me saràsbatù fuorsi le cólzere a cerca, e sì van an fuorsi aprìgolo, se ben a no dego havere, de scuódere. Vaghemo com càncaro se vuogia, a me sento a muòverel’amore e revólgerme el bati e le coragie e ‘lpolmón <strong>in</strong> la panza, ch’a g’he un remore che ‘l sonaun fàvero che recalze un gomiero. Meh sì, a me despieromi s’a no sbato. Oh, dale cà...! G’hè negùnchialò? A dighe... Gh’è negùn?SCENA TERZADINA, BILORA.DINA Chi è quelo che sbate? Sìu poareto? Anè conDio.BILORA Sen ben a son poareto, a no anarè zàgniàn via per questo. A son amigo. Arvi ch’a sonmi.DINA Chi sìvu? Chi è quel’amigo? El no gh’èmissiér <strong>in</strong> cà. Anè per con Dio.BILORA An D<strong>in</strong>a, viènme un può avrir, ch’a sonmi, càncaro te magne. Te no me cognussi n’è vero,mate?DINA A dighe: «toìve via de chì» ch’a no ve cognosso,che messiér n’è <strong>in</strong> cà, e andè e fe i fativuostri, se n’haì volontè de briga.BILORA Poh, ti è ben imbavà fieramén. Aldi, viénchì, ch’a te vuò un può faelare de crenza. Indègnateun puoco. A son pur mi, an D<strong>in</strong>a. A son <strong>Bilora</strong>, vìtu?A son el to cristiàn.DINA Deh, grama mi, aldìu an. Mo che sì vegnù afare chialò?BILORA Ben, che dìtu? Vien un può zò, ch’a te vega.BILORA Eh? Ma che credete voi, credete che verrà acasa?PITARO Non saprei, forse anche sì. Però ha fieramentebuon tempo con lui. Non ha più né briga né fatica nessuna.Ha ben da bere e ben da mangiare ed è ben servita37 .BILORA Ma a servirla, che Dio mi aiuti, non credo maiche la serve bene come faccio io, che non può fare uncerto servizio, lui 38 .PITARO No, hanno un famiglio, cànchero, che li servetutti e due.BILORA Volevo ben dire. Ma, eh, non è meglio che vada?Le leverò qualcosa dalle mani prima che vada acasa lui. E così, non c’è alcuno <strong>in</strong> casa, soltanto la D<strong>in</strong>a?PITARO No, ti dico. Potta, credi che te lo direi? Va’pure, che voglio andare anch’io là <strong>in</strong> fondo per un servizio39 che, quando torno, tornerò di qui, per vederecome avrai fatto. Ma non restare più, va’ via.BILORA Via, andate, che vi aspetto <strong>in</strong> ogni modo, vedete.Oh potta del cànchero, Dio sa <strong>in</strong> che modo andràa f<strong>in</strong>ire; ma potta pure così 40 . Ora però voglio battere<strong>in</strong> ogni modo, anche se credessi d’essere fatto più apezzi e a bocconi di quanto non fu mai una rapa. Certoche, se batto, forse mi saranno battuti i panni 41 addosso,e si va anche forse a rischio, anche se non devo ricevere,di riscuotere. Vada pure come cànchero voglia,io mi sento muovere l’amore e rivoltarmisi il cuore, lebudella e i polmoni nella pancia, che c’è un rumoreche sembra un fabbro che r<strong>in</strong>calzi il vomere 42 . Ma sì,io mi dispero se non batto. Oh della casa...! Non c’ènessuno qui? Dico... C’è nessuno?SCENA TERZADINA, BILORA.DINA Chi è quello che batte? Siete un poveretto? Andatecon Dio.BILORA Sebbene sia un poveretto, non andrò neanchevia per questo. Sono un amico. Apri, che sono io.DINA Chi siete? Chi è quell’amico? Non c’è messér <strong>in</strong>casa. Andate pure con Dio.BILORA Eh, D<strong>in</strong>a, vienimi un po’ ad aprire, che sonoio, che il cànchero ti mangi. Non mi riconosci, non èvero, matta 43 ?DINA Dico: «Toglietevi via di qui» che non vi conosco,che messér non è <strong>in</strong> casa, e andate a fare i fatti vostri,se non avete voglia di attaccar briga.BILORA Poh, sei ben <strong>in</strong>furiata fieramente. Senti, vieniqui, che ti voglio un po’ favellare 44 con creanza. Degnatiun poco. Sono proprio io, eh, D<strong>in</strong>a. Sono Bilóra,vedi? Sono il tuo cristiano 45 .DINA O povera me, sentite, eh. Ma che cosa siete venutoa fare qui 46 ?BILORA Ebbene, che dici? Vieni un po’ giù, che ti veda.<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 21


DINA A vegno.BILORA Dà pur mente ch’a ghe caverè qualchebromba dale man mi, qualche soldarelo. Fuorsiserato mo la mia venture, e sì m’olea desperare.DINA Mo me darìu se arvo?BILORA Perché vuòtu ch’a te daga? Na fià, te nogh’iè andà ontiera ti! Viè fuora: sora dela mia fèch’a te torae cossì ancora per bona e per care comte haea <strong>in</strong>anzo, mi.DINA Bona sera. Mo a che muò sìu mè vegnù chialò?Com stèo? Stèo ben?BILORA Ben mi; e ti? T’ he sì bona ciera ti!DINA Se Dio m’aì, a no me sento gniàn tropo ben,s’a volì che ve dighe el vero. A son meza stufa desto viecio, mi.BILORA A te ‘l cherzo mi, el no se può muovere.E po zóene con i veci no s’aven. A s’avegnóm miegiomi e ti.DINA Poh, l’è mezo amalò, tuta la note el sbólsega,che ‘l sona na piègora marza. Mè el no drome,d’agn’ora el me stà <strong>in</strong>roegià a cerca e me ten sbasuzàche el cre ben che habie gran desiderio d’ i suòbasi. Se Diè m’aì, che no ‘l vorae mè véere, sì m’elovegnù <strong>in</strong> disgrazia.BILORA Po el ghe spuza el fià pì che no fa unloamaro. El sà da muorto a mile megia, e sì ha tantavergogna al culo, tamentre la ghe dè esser andò daun lò, n’è vera?DINA Fievra ve magne, a di lomè qualche sporcaria.BILORA Beh, dighe mi... An digo mi: vuòto vegnirea cà toa? Opur me vuòto lagàr stare, e star consto viegio chialò?DINA Mi a ghe vorae ben vegnire mi, mo no vuoleelo. A crezo che ‘l no vuogie mi ch’ a che vegna. S’a veessè le careze che ‘l me fa, sora del’anema mia,a no ve possè dar pase. Fièvera, mo ‘l me vuòfieramèn ben. A g’he fieramèn bon tempo con elomi.BILORA Mo che vuòtu guardare e dire che elo nonvuogia? Càncaro, la <strong>in</strong>sirae ben del manego. Se benelo non vuò, no vuòtu ti? Te me farissi ben catare laanconeta. An dighe, che dìtu?DINA A no sé mi, ala fè: vorae e sì no vorae.BILORA Poh Dio me la mande bona sta sera. Staràloassè a vegnire a cà? vegneràlo tosto?DINA De boto. El no pò star che ‘l no vegne. Alafè a no vorae zà che ‘l me veesse chialò a rengarecon esso mi. Toìve via, caro frelo. Aldì, tornè <strong>in</strong>anzoco’l ghe supia che fuorsi v’acorderìo.BILORA Sì, a s’accorderón <strong>in</strong> lo culo. Guarda ch’as’acordàn, sangue, cha no cato... Domene Cribele!Se me gh’a meto a farè piezo ch’a no fa un soldò. Ate sento ben an ti mi, che te tiri el culo <strong>in</strong>drìo: mono di miga far cossì con qualcun altro, che te vegnael càncaro, stomegosa che ti è ben!DINA Vengo 47 .BILORA Dà pur mente che le caverò qualche sus<strong>in</strong>a 48dalle mani, io, qualche soldarello 49 . Forse sarà la miafortuna, e così mi volevo disperare.DINA Ma mi picchierete, se apro 50 ?BILORA Perché vuoi che ti picchi? Non ci sei andatavolentieri, tu 51 ! Vieni fuori: sopra la mia fede 52 che tiprenderò così ancora per buona e per cara come ti a-vevo <strong>in</strong>nanzi, io.DINA Buona sera. Ma <strong>in</strong> che modo siete mai venutoqui? Come state? State bene?BILORA Bene, io; e tu? Sei <strong>in</strong> buona cera, tu!DINA Che Dio mi aiuti, non mi sento neanche troppobene, se volete che vi dica il vero. Sono mezza stufa diquesto vecchio, io 53 .BILORA Ti credo, io, non si può muovere. E poi giovanicon vecchi non si capiscono. Ci capiamo meglio tued io 54 .DINA Poh, è mezzo ammalato, tutta la notte tossisce,che sembra una pecora marcia. Mai non dorme, ad o-gni ora mi salta addosso e mi vuole baciucchiare ecrede proprio che abbia un gran desiderio dei suoi baci.Che Dio mi aiuti, non lo vorrei mai più vedere, cosìmi è venuto <strong>in</strong> disgrazia 55 .BILORA Poi gli puzza il fiato più che non fa un letamaio.Sa da morto a mille miglia, e ha tanta vergognaal culo 56 , ma gli deve essere andata da un’altra parte,non è vero 57 ?DINA La febbre vi mangi, sapete dire soltanto delleporcherie.BILORA Beh, dico io... Eh, dico io: vuoi venire a casatua? Oppure mi vuoi lasciar stare, e stare con questovecchio qui 58 ?DINA Io ci vorrei ben venire, io, ma non vuole lui 59 .Credo che non voglia che ci venga. Se vedeste le carezzeche mi fa, sopra l’anima mia 60 , non vi potrestedar pace. Per la febbre, ma mi vuol fieramente bene.Ho fieramente buon tempo con lui, io 61 .BILORA Ma che vuoi venirmi a dire che egli non vuole?Cànchero, mi farai uscire ben dal manico 62 . Anchese egli non vuole, non vuoi tu? Tu mi faresti ben tirargiù i santi 63 . Dico, che dici?DINA Non so, io, <strong>in</strong> fede: vorrei e non vorrei 64 .BILORA Poh, Dio me la mandi buona, stasera. Staràmolto a venire a casa? Verrà sùbito?DINA Tra poco. Non può stare senza venire. In fedenon vorrei che mi vedesse qui a discorrere con lui, io 65 .Andate via, caro fratello. Sentite, tornate quando c’è,che forse vi accorderete.BILORA Sì, ci accorderemo nel culo. Guarda che nonci accordiamo, sangue, che non tiro giù i... Dom<strong>in</strong>eCrìbele 66 ! Se mi ci metto, farò peggio di quanto non faun soldato 67 . Sento bene anche te, io, che tiri il culo <strong>in</strong>dietro.Ma non devi mica fare così con qualcun altro,che ti venga il cànchero, schifosa che sei 68 !<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 22


DINA A guagnarè de queste mi, vi, con vu. Te parche ‘l supie imbavà! Aldì, sora de mia fè ch’a nosbertezo: dè de volta <strong>in</strong>s<strong>in</strong>a un pezato che ‘l serà vegnù,e sbatì, e disì ch’a volì faelare a missiere, edighe na bota ch’a volì che a vegne a cà, e vi zò cheve ‘l vuò dire: e se ‘l vorà, Dio con ben, e an co’lno vuogia, e farò com vorè vu mi.BILORA Ala fè, vegnerètu po se ben el no vorà?DINA Sì, ve dighe: sore questa fè che a he a stomondo. Ossù, anè mo via, che ‘l no ve catasse.BILORA Mo dighe mi: harìstu mè un pezato de panda darme? Ché, ala fè, a muoro de fame. A n’ hemagnò da arsera <strong>in</strong> qua, da che vegnì via da cà.DINA Mo se a vossè, a ve dare d<strong>in</strong>ari mi pì ontiera,e sì anarè chialò de cao de sta via, che i ghe tenostaria, e sì a magnarì e sì beverì a vuostr’asio; ch’ano vorae che’l s’imbatesse a vegnire, e véerme adar gniente fuora de cà.BILORA Miedo, dà pur chialò. On stàlo questù,stàlo liunzi?DINA No, no, chì <strong>in</strong> cao; con supiè colà oltra, volzìvea sta man.BILORA Orbentena, gran fato ch’a nol cate? Andighe mi... Moà, l’ha serò ela. A he tanto desieriode magnare che no me son gniàn recordò de dirghes’a dego <strong>in</strong>dusiare assè o puoco a vegnire. Moà, avuò anare a magnare, ch’a ogni muò, <strong>in</strong>anzo ch’am’habì cavò l’apetétolo, a cherzo che ‘l serà vegnù.A vuò pur véere quanti la me n’ha dò. Orbentena,che càncaro è questo? Comenzanto da questo a nosè quel ch’el supia. Ben, càncaro, sì da vera: l’è uncotale da du, sì. A no’l cognossea, e sì l’è la primamonea, che a spendì quando che me commenciè a<strong>in</strong>amorare. Questa è una moragia. E st’altro! Potamo l’è grosso e grande. L’è maòr de sti altri. Cagasangue,el val’assè questa, e si no me ven <strong>in</strong> bocache ‘l supie... Mo... che sì, che l’è un cornachiòn. Esì a cherzo que’l s’<strong>in</strong> cate pì de gi altri d<strong>in</strong>ari. Mo avuò nare a magnare mi. Questa è la porta, na bota:ghe saerégio vegnire ch’a no la perda? Tamentrelàgame un puoco véere sti soldi. Questa è una moneada du; e na moragia, che vuol dir quatro; e uncornachiòn, che vuol dir c<strong>in</strong>que; e un ch’a vuò tegnirper mi, che è sie; e un m’<strong>in</strong> romàn da spendereche vuò dir sete; com serae a dir che ‘l me mancadesnuove marchiti a andare a un tron.DINA Guadagnerò di queste 69 , io, vedete, a starmenecon voi. Ti sembra che sia rabbioso! Sentite, sopra lamia fede, che non scherzo: aspettate un po’ f<strong>in</strong>ché saràvenuto, e battete, e dite che volete favellare a missiere,e ditegli sùbito che volete che venga a casa, e vedeteciò che vi vuole dire: e, se vorrà, è fatta la volontà diDio, e anche se non vorrà, farò come vorrete voi, io 70 .BILORA In fede, verrai poi anche se non vorrà?DINA Sì, vi dico: sopra questa fede che ho a questomondo. Orsù, andate ora via, che non vi trovi.BILORA Ma dico io: non avresti un pezzo di pane dadarmi? Ché, <strong>in</strong> fede, muoio di fame. Non ho mangiatoda iersera <strong>in</strong> qua, da quando sono venuto via dacasa 71 .DINA Ma, se voleste, vi darei denari io più volentieri, ecosì andreste qui all’<strong>in</strong>izio di questa via, dove c’èun’osteria, e così mangerete e berrete a vostro agio;che non vorrei che capitasse di ritorno, e mi vedessedare niente fuori di casa 72 .BILORA Per Dio, dà pur qui. Dove sta quest’oste, stalontano?DINA No, no, qui all’<strong>in</strong>izio; quando siete là <strong>in</strong> fondo,voltatevi a questa mano.BILORA Orbèntena, gran fatto che non la trovo 73 ? Dicoio... Via, ha chiuso, lei. Ho tanto desiderio di mangiareche non mi sono nemmeno ricordato di dirle sedevo <strong>in</strong>dugiare molto o poco a venire. Ora voglio andarea mangiare, che ad ogni modo, prima che mi sialevato l’appetito, credo che sarà venuto. Voglio purevedere quanti me ne ha dati. Orbèntena, che càncheroè questo? Com<strong>in</strong>ciando da questo, non so quel chesia 74 . Bene, cànchero, sì davvero: è un pezzo da due, sì.Non lo riconoscevo, e sì è la prima moneta, che ho spesoquando <strong>in</strong>com<strong>in</strong>ciai a <strong>in</strong>namorarmi. Questa è unamoraglia. E quest’altro! Potta, ma è grosso e grande. Èmaggiore di questi altri. Cagasangue, vale molto questo,e non mi viene <strong>in</strong> bocca che cosa sia... Ma... sì, èun cornacchione. E credo che se ne trov<strong>in</strong>o più che deglialtri denari. Ma voglio andare a mangiare, io. Questaè la porta: ci saprò venire che non la perda? Malasciami vedere ancora un po’ questi soldi. Questa èuna moneta da due; e una moraglia, che vuol dire 4; eun cornacchione, che vuol dire 5; e uno che voglio tenereper me, che fa 6; e uno che mi rimane da spendereche vuol dire 7; come sarebbe a dire che mi manca-19 marchetti per arrivare a un no trono.SCENA QUARTAANDRONICO, ZANE.ANDRONICO Or tandem el xe pur la veritae, alcorpo de mi, che chi no fa so puerizia <strong>in</strong> zoventùe,el besogna farla <strong>in</strong> so vecieza. Mi a me arecordo almio tempo, quando quele bone memorie, massimemissiér Nicoleto di Aliegri e messiér Pantasileo daBucentoro, le so magnificienzie me diseva:SCENA QUARTAANDRONICO, ZANE 75 .ANDRONICO Ora tandem 76 è pure la verità, al corpodi me, che chi non fa la sua puerizia <strong>in</strong> gioventù, la faràda vecchio 77 . Io mi ricordo al mio tempo, quandoquelle buone memorie, specie missiér Nicoletto degliAllegri e messiér Pantasileo da Buc<strong>in</strong>toro, le Loro Ma-mi gnificenze dicevano:<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 23


«Che vuol dir Andronico che ti stà cussì perso, demale voia? Che diavolo no te tròvistu una fìa, a dartepiasere con essa? Quando voràstu aver piaser, nébon tempo; quando non ti porà pì? Te me par unomo a no so che muodo mezo <strong>in</strong>cantao. Mo tiente amente vè: e recòrdate che <strong>in</strong> to vecieza ti farà qualchematerìa per amor può». Com che xe anche stao.E sì saràve squasi pì contento esser <strong>in</strong>amorao adessoche quando giera zòvene, si ‘l no fosse per unacosa che purassé fiae me vasta el dessegno, ché nonrespondent ultima primis. Oh, diavolo, el xe unamale cossa vegnir veci; tamen el me bastaràve l’anemoancora. Basta, mo no pì; perché <strong>in</strong> efeto a noson nianche vecio <strong>in</strong> decrepitae. L’amor fa far degrande cosse Aldì a che modo ho menao via stàmamola e tolta da so marì, e sì son stao a perìcolode lassarghe la vita per haverla, tanto ghe son imbertonaoe tanto ben ghe voio. Ma <strong>in</strong> efeto la xe ancheuna fia breviter concludendo che la par un anzolocherubìn, e sì la ha un bochìn che fa volontaede basàr. In suma sumario me dubito sì nomè deuna cossa, e sì che n’ho cordoio; che qualcun d’ isoi no me la vegna a domandar, ch’el sarà el malvegnùo, el mal trovao: perché ho deliberao de galderlami. No mancando de essa, e pagando el so debito,a ghe farò anche tal parte del mio che la se poràfarsi acontentar, e sì no digo m<strong>in</strong>ga a menùa, adigo <strong>in</strong> grosso, e sì <strong>in</strong>s<strong>in</strong>a adesso la ghe n’ha bonacapara, che la maniza el mio a che muodo la vuolessa, e sì puol spender e spander dentro e fuora decase, che no ghe digo niente, e nianche nessun noha da darghe rasòn, che xe una bela cossa esserdone e madona. La fa alto e basso e comanda, chela non ha fadiga sì nomè de avrir la boca, e bià essasi saverà far con mi. Oh, che pagheràvio che la mehavesse un puoco ascoltao, perché la vedesse l’anemomio! Orsù, a voio andar de suso a vederla unpoco, ché la me ha messo tanto <strong>in</strong> su le gale, <strong>in</strong> sule pavar<strong>in</strong>e che si no vago a trescar con essa, a sonimpazao e farò mal i fati miè. E digo che son sì sula gamba che me basteràve l’anemo de baler quattrotempi del zoioso, e farlo strapassao ancora, e anchela ros<strong>in</strong>a, e farla tuta <strong>in</strong> fioreti, che no saràve m<strong>in</strong>gapuoco. Poh, sì, la serà bona de mile cosse sta fìa.Una, la me restaurerà quando me vién el mio cataro,e quando anche sarò fastidiao. L’altra, haverò conchi sboràr e dir i fati miè. Sbio. Tira. Dio sa nianches’il fante xe ancora zonto con la barca.ZANE Chi è quel che sbat?ANDRONICO Tira, fìa bela... Tira, bestia! Diavo-essa. Aldistu an?lo, credeva che la fosseZANE Che ve piàs?ANDRONICO Hastu impiao fuogo <strong>in</strong> tel mezao?«Che vuol dire, Andrónico, che stai così perso, di malavoglia 78 ? Perché diavolo non ti trovi una figlia, e non tidai piacere con lei? Quando vorrai aver piacere ebuon tempo; quando non potrai più? Mi sembri un uomo(non so <strong>in</strong> che modo) mezzo <strong>in</strong>cantato. Ma tienti amente, veh!, e ricòrdati che nella tua vecchiaia faraiqualche sciocchezza, per amore, poi». Com’è anchestato. E così sarei quasi più contento d’esser <strong>in</strong>namoratoadesso che quand’ero giovane, se non fosse peruna cosa che molte volte mi guasta il disegno, perchénon respondent ultima primis 79 . Oh, diavolo, è unabrutta cosa diventar vecchi, ma mi basterebbe ancoral’animo. Basta, ma non più 80 ; perché <strong>in</strong> effetti non sononeanche vecchio decrepito. L’amore fa fare grandi cose.Sentite <strong>in</strong> che modo ho condotto via questa mammola81 e l’ho tolta a suo marito, e sì sono stato <strong>in</strong> pericolodi lasciarci la vita per averla, tanto ne sono <strong>in</strong>namoratoe tanto bene le voglio. Ma <strong>in</strong> effetti è anche unafiglia breviter concludendo 82 che sembra un angelocherub<strong>in</strong>o, e ha una boccuccia che fa voglia di baciare83 . In somma sommario 84 ho paura soltanto di unacosa (mi viene l’affanno!), che qualcuno dei suoi me lavenga a domandare, che sarà il mal venuto, il mal trovato:perché ho deciso di godermela, io. Non mancandodi essa e pagando il suo debito, le farò anche talparte del mio che potrà forse essere contenta, e non dicomica al m<strong>in</strong>uto, dico <strong>in</strong> grosso, e f<strong>in</strong>o ad ora ne hauna buona caparra, perché maneggia il mio <strong>in</strong> quelmodo che vuole lei, e può spendere e spandere dentro efuori di casa, che non le dico niente, e neanche a nessunonon ha da rendere conto, che è una bella cosa esserdonna e madonna 85 . Fa alto e basso e comanda 86 , enon ha altra fatica che quella di aprir bocca, e beatalei se ci saprà fare con me. Oh, che cosa pagherei chemi avesse un poco ascoltato, perché vedesse l’animomio! Orsù, voglio andare su a vederla un poco, perchémi ha messo tanto <strong>in</strong> festa, <strong>in</strong> delizia, che, se non vadoa trescare con essa, sono impacciato e farò male i fattimiei. E dico che sono così <strong>in</strong> gamba che mi basterebbel’animo di ballare quattro tempi del “gioioso”, e farloanche strisciato, e anche la “ros<strong>in</strong>a” 87 , e farla tutta <strong>in</strong>figure, che non sarebbe m<strong>in</strong>ga poco. Poh, sì, sarà buonaper mille cose, questa figlia. Una, mi curerà quandomi viene il mio catarro e anche quando sarò <strong>in</strong>fastidito.L’altra, avrò con chi sfogarmi e dire i fatti miei. Ehi.Tira 88 . Dio sa se il fante è giunto con la barca.ZANE Chi è quel che batte?ANDRONICO Tira, figlia bella... Tira, bestia 89 ! Dialei.Tu non senti, eh?volo, credevo che fosseZANE Che vi piace 90 ?ANDRONICO Hai acceso il fuoco nel mezzan<strong>in</strong>o 91 ?<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 24


SCENA QUINTABILORA, PITARO, DINA.BILORA Pota, mo a vé muò a séon catè tuti duchialondena.PITARO Beh. .. Hètu ben magnò? L’han un bonv<strong>in</strong>, n’è vero?BILORA Sì, elo, barba Pitaro! Càncaro, l’è bon. Ave se dire che a son p<strong>in</strong>, che se me sbaterae na falzasu’l magòn.PITARO Ben... che vuòtu ch’a faghe? Vuòtu chefaelàn a sto viegio e ch’a vezàm presto e belo che ‘lvuò dire, e cavònsene i piè tosto entro o fuora. Nafià te di che la tosa vegnerà se ben el no vuò...BILORA La m’ha ben dito cossì, se la no fosse momuà d’anemo. La è an ela cossì un può gregiara,<strong>in</strong>tendìu? De so cao.PITARO A <strong>in</strong>tendo ben mi... Mo na fià con pì tostoa s’<strong>in</strong> desbratóm, tanto miegio per nu. A che muòvuòtu ch’ aghe faele? mi per ti, o vuòtu ch’a ghefaelàm tuti du de brigà?BILORA No, mo faelaghe pur vu, che savì miegiodire. E aldì; s’a vi ch’el se tire <strong>in</strong>drio, di vu: «Alsangue de Crìbele, che l’ha un marìo che l’è un malcàncaro, che se no ghe la dé, el v’amazerà»; e dighech’a son stò soldò, che fuorsi haràlo paura.PITARO Or ben, laga far a mi.BILORA Mo aldì. Dighe pur ch’a son sbraoso ebiastemè, e dighe ch’a son stò soldò, no ve ‘l demi,ch’a ghe farè unsmenteghè, vi.PITARO Moà, tìrate da un lò, che ‘l no te vega, chea sbatarè. Làgame pur far aspròlico che ‘l me <strong>in</strong>tenderà.BILORA Vaghe con càncaro se vuogie: sè ‘l me ladà, Dio con ben; se anca no, al sangue della VergheneMalgatera, che ghe parerò el verìn dal culo.Cassì ch’ a ghe fago muzar la lesca per le gambe <strong>in</strong>t’i scossón.PITARO Mo tasi, no anàr pì drio scalognanto. Tuò-muò. messiér Ardo, messiér Ardoche,te via, làgame sbatere. Com ditu che l’ha lome?BILORA Mo a no sè a che muò, càncaro, i ghedighe mi. A crezo che l’ha lome missiér Ardochene.A no sè a chesì, sì, sì...PITARO Sì, sì, da vera sì. Oh de la cà!DINA Chi sbate?PITARO Amigo, figiola. Di ch’a vorae dire na pasonmi, ch’a ghe vuò faelare,role a messiere.DINA Chi sìvu?PITARO Di pur ch’ae l’<strong>in</strong>tenderà ben elo.DINA El vegnirà zò adesso.BILORA Aldì: dighe ch’ a n’he mazà no so quanti,ch’a son sbandizò, saìu?PITARO Moà, moà tasi! Tuòte vie. A m’ hetu<strong>in</strong>stornio.SCENA QUINTABILORA, PITARO, DINA.BILORA Potta, ma vedo che ci siamo ritrovati tutti edue qui 92 .PITARO Beh... Hai mangiato bene 93 ? Hanno un buonv<strong>in</strong>o, non è vero?BILORA Sì, il v<strong>in</strong>o, barba Pitàro! Cànchero, è buono.Vi so dire che sono così pieno, che mi si potrebbe battereuna falce sullo stomaco.PITARO Bene... che vuoi che faccia 94 ? Vuoi che favelliamoa questo vecchio e che vediamo presto e belloche cosa ci vuol dire, e ci leviamo sùbito dai piedi,dentro o fuori. Gli dici sùbito che la tosa verrà via anchese lui non vuole... 95BILORA Mi ha ben detto così, se ora non ha cambiatoidea. È anche lei così un po’ grezza, <strong>in</strong>tendete? Di teperte, o vuoi che gli favelliamo tutti e duesta.PITARO Intendo bene io... Ma più presto ce la sbrighiamo,tanto meglio per noi. In che modo vuoi che glifavelli? Io<strong>in</strong>sieme?BILORA No, favellategli pure voi, che sapete dire meglio96 . E, sentite, se vedete che si tira <strong>in</strong>dietro, ditegli:«Al sangue di Crìbele 97 , che ha un marito che è unbrutto cànchero, che se non gliela date, vi ammazzerà»;e ditegli che sono stato soldato 98 , che forse avràpaura.PITARO Va bene, lascia fare a me.BILORA Ma sentite. Ditegli pure che sono un bravaccioe bestemmiate, e ditegli che sono stato soldato ,99non dimenticatevi, veh.PITARO Via, tìrati da parte, che non ti veda, che battoa me, che gli farò unoalla porta. Lasciami pure faresproloquio 100 che m’<strong>in</strong>tenderà.BILORA Vada come il cànchero vuole: se me la dà, èfatta la volontà di Dio; se non me la dà, al sangue dellaVerg<strong>in</strong>e Margherita, gli strapperò lo sp<strong>in</strong>o dal culo.Così gli faccio fuggire la lisca per le gambe f<strong>in</strong> nellecalze 101 .PITARO Ma taci, smettila d’imprecare 102 . Levati via,lasciami battere. Come dici che ha nome 103 ?BILORA Ma non so <strong>in</strong> che modo, cànchero, lo chiam<strong>in</strong>o,io. Credo che ha nome missiér Ardòchene. Nonche modo. Messér Ardo, messér Ardoche, sì, sì,so <strong>in</strong>sì...PITARO Sì, sì, davvero sì. Oh di casa!DINA Chi batte?PITARO Un amico, figliola. Di’ che vorrei dire una104 .io, che gli vuole favel-parola a messiereDINA Chi siete?PITARO Di’ pure che sonolui.lare 105 , e <strong>in</strong>tenderà bene,DINA Verrà giù adesso.BILORA Sentite: ditegli che ne ho ammazzati non soquanti, che sono un bandito, sapete 106 ?PITARO Via, via, taci! Togliti via. Mi hai stordito.<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 25


SCENA SESTAANDRONICO, PITARO.ANDRONICO Chi xe quelo? Che dìstu?PITARO Bona sera messiere, la Stelenzia vuostra.ANDRONICO Ben vegna Pitaro. Che dìstu?PITARO A vorae un può dirve diese parole dacrenza, messiere, s’a vossè, da mi a vu. Tirève unpuò <strong>in</strong> qua.ANDRONICO Che vùstu? Di su, presto.PITARO Mo a ve ‘l dirè mi, messiere: na fià chivelondenano ghe vale sconderse <strong>in</strong> prè segò. A saìche l’altro dì a meniessi via quela tosa, la mogierede quel puovero toso de <strong>Bilora</strong>, che l’è mezo desperò.Orbentena, con a ve dego dire... a ve vuò pregarela vostra Stelenzia de vu, da so parse d’elo, ch’aghe la daghè; perché arpenseve, caro messiér caro,arpenseve da vu a gi altri, che véerse tuore la mugereel pare fieramén da stragno. Agno muò vu a v’<strong>in</strong>di havèr cavò la vuogia e el peteto, e sì a ve n’haìpossù stufare. E po a darve un bon consegio daamigo, missiere, la n’è pignata per lo vostro menestraoro.Vu si vecio, ela zòvene. Pardoneme parzontenas’a ve parlo avertamén, missiere.ANDRONICO Vùstu che te digha la veritae? Novoio farne niente, perché no la porave mai lassar.Me hastu mo <strong>in</strong>teso? E son deliberao de far la miavita con essa. Có diavolo? Me consergieràstu ti chelassesse vegnir sta fia <strong>in</strong> vile a stentar con quel poltronzonde <strong>Bilora</strong>, che la fa manzàr pì bastonae chepan? E che mi fosse privo de essa? No, no, madenò.Che ghe voio tuto el mio ben, e no’l faràve mai, cheme tegniràve cargo de conscienzia a lassar andar <strong>in</strong>bocca a porci nose muschiae. Nol crèdistu anche ti,che non l’haveràve menà via al muodo che ho fatoper lassarla cossì imediate? Che ho portao lacoraz<strong>in</strong>a e la falda tuto st’<strong>in</strong>stue, armò a muò unSan Zorzi, e star <strong>in</strong> sul armizar de dì e de note, e sìho fato, tante stente a pericolo de esser un zornomalmenao per haverla. Sì che, fio belo, di pur a <strong>Bilora</strong>che proveda per altra via a i fati soi.PITARO Mo, messiere, el gi farà male i fati suò asto muò. A vego che a no volì che ‘l gi faghe tropoben mi.ANDRONICO Mo no mi <strong>in</strong> sto conto, si dovessespender meza la mia facultae, e si dovesse tuorbando de sta tera.PITARO Pota del mal del càncaro! Mo che volìuche ‘l faghe? Volìu che ‘l se despiera?ANDRONICO A no voio che ‘l se despiera nientemi. Sì ‘l xe despierao che ‘l se faga impiràr <strong>in</strong> t’unspeo de rosto. Aldì che diavolo de cossa! El se despererà.Che vùsto che te faze mi? Ti me fa fastidiomi oramai. Presto presto ti me faràve andar <strong>in</strong> colera.Vah diavolo! Orsù, baste, no pì, che me vien lefumane.SCENA SESTAANDRONICO, PITARO.ANDRONICO Chi è quello 107 ? Che dici?PITARO Buona sera, messere, all’Eccellenza Vostra.ANDRONICO Ben venuto, Pitàro 108 . Che dici?PITARO Vorrei un po’ dirvi dieci parole <strong>in</strong> confidenza109 , messere, se volete, da me a voi. Tiratevi un po’<strong>in</strong> qua.ANDRONICO Che vuoi? Di’ su, presto.PITARO Ora ve lo dirò io, messere. Tanto, qui non valenascondersi <strong>in</strong> un prato falciato. Sapete che l’altrogiorno portaste via quella tosa, la moglie di quel poverotoso di Bilóra, che è mezzo disperato. Orbèntena,come vi devo dire... vi voglio pregare la Vostra Eccellenzadi voi, da parte di lui, che gliela ridiate; perché,pensateci, caro messiér caro 110 , pensateci da voi aglialtri 111 , che vedersi prendere la moglie è fieramenteuna cosa strana 112 . Ad ogni modo voi dovete esservilevata la voglia e l’appetito, e ve ne siete potuto stufare.E poi, a darvi un buon consiglio da amico, messere,non è pentola per il vostro mestolo 113 . Voi siete vecchio,lei giovane. Perdonatemi per giunta se vi parloapertamente, messere.ANDRONICO Vuoi che ti dica la verità? Non vogliofarne niente, perché non la potrei mai lasciare. Mi hai<strong>in</strong>teso? E sono deciso di far la mia vita con lei. Chediavolo? Mi consiglieresti che lasciassi ritornare questafiglia nel contado a stentare con quel poltrone diBilóra, che le fa mangiare più bastonate che pane 114 ?E che io fossi privo di essa? No, no, proprio no. Che levoglio tutto il mio bene, e non lo farei mai, perché misentirei un peso sulla coscienza a lasciar andare <strong>in</strong>bocca ai porci noci moscate 115 . Non lo credi anche tu,che non l’avrei condotta via al modo che ho fatto perlasciarla così immediate 116 ? Ho portato la corazz<strong>in</strong>a ela falda 117 tutta quest’estate, armato come un sanGiorgio 118 , e sono stato <strong>in</strong> armi giorno e notte, e hosopportato tanti stenti, con il pericolo di essere ungiorno malmenato, per averla. Sicché, figlio bello, di’pure a Bilóra che provveda per altra via ai fatti suoi.PITARO Ma, messere, li farà male i fatti suoi <strong>in</strong> questomodo. Vedo che non volete che li faccia troppo beneneanch’io 119 .ANDRONICO Ma non io <strong>in</strong> questo conto, neanche sedovessi spendere metà delle mie sostanze e se dovessiessere bandito da questa terra.PITARO Potta del mal del cànchero! Ma che volete chefaccia? Volete che si disperi 120 ?ANDRONICO Non voglio che si dispiedi per niente, io.Se è di... spiedato 121 , che si faccia <strong>in</strong>filare uno spiedodi arrosto. Senti che diavolo di cosa! Si dispererà. Chevuoi che ti faccia, io? Tu mi dai fastidio a me ormai.Presto presto tu mi farai andare <strong>in</strong> collera. Va’ al diavolo!Orsù, basta, non più, che mi vengono le fumane122 .<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 26


PITARO No, no, messiere: no ve scorazè. Aldì,fagòm a sto muò: ciamòm la tosa chialondena eveém zo che la disc. Se la vuò vegnire laghèla vegnire.Se la no vuò, tolivela e févene che save a volì.Che dìvu?ANDRONICO Inf<strong>in</strong>a da mo ti parlè ben. Mo vardano te pentir vè, che credo certo che romagnarà apetao.Questo sarave ben qualcosa. La me ha ditoadesso che la no me lassarave mi per quanti omenixe al mondo; varda mo s’ti vuol che la sia cosìpresto muà de animo. E te voio far sto servizio, e sìno staràve col cuor contento si no vedesse a chemuodo la va. E se questo xe la veritae, el ben che lame mostra de voler. Sbio. Aldistu an? Ti no mealai? Di, fia bela, àldistu?SCENA SETTIMAANDRONICO, PITARO, DINA.DINA Me ciamèvu mi, messiere?ANDRONICO Sì, sì, fìa, vien un puoco zoso. Ediràve ben che le done havesse puoco cervelo, benchéla mazor parte ghe n’ha puoco, se cossì facilmentecustie havesse muà preposito.PlTARO Vìla chì, missiere, che l’è vegnùa.ANDRONICO Beh, fìa bela, che dìstu?DINA De che, messiere? A mo sè mi, a no dighegnente mi.ANDRONICO Aldi: st’omo da ben te xe vegnùo adomandar da parte de to marìo, e sì havemo fato unpato, che s’ti vuol andar, che te lassa andar; si anche ti vuol restar, che ti resti. Ti sa ben quel che tiha con mi e si te lasso mancar. Fa mo co ti vuol ecom te piase. Mi una volta no te digo altro.DINA Che mi vaga con me marìo? Mo on volìoch’a vaghe? A harè agno dì dele bastonè. Ma de <strong>in</strong>bona fè no, ch’a no ghe voò anare. Che se Diè m’aìa no ‘l vorae mè haèr cognessù, che l’è cossì f<strong>in</strong>poltron, com negùn altro che magne pan. Miedio <strong>in</strong>bona fè no. Messiér no, ch’a no ghe vuò anare, checo’l vego, m’è deviso che vega el lovo.ANDRONICO Basta, baste, baste. Vu me havè mo<strong>in</strong>teso. Sèu satisfato? Quando ve digo mi che no lavoleva vegnir, vu no me ‘l volevi crederPITARO Mo aldì, messiere: el me ven lomè ire delacavestrela; che el n’è mez’ora, puoco <strong>in</strong>anzo ch’avegnessè a cà, che l’ha dito a <strong>Bilora</strong> che la ghevolea vegnire, se ben vu a no volivi.DINA Che? A g’he mi dito che a ghe volea venire?A gh’e dito... che me l’haì squaso fato dire (comdisse la bona femena), a g’he dito un tòtene. Laghèlopur dire, che ‘l se l’ha pensò.ANDRONICO Va’ pur <strong>in</strong> camera, e no criemo pì.Basta, andè con Dio. Che ve par mo? Mi l’averaezurao che la no saràve vegnùa. Volìo altro?PITARO No, no, messere: non vi arrabbiate. Sentite,facciamo <strong>in</strong> questo modo: chiamiamo la tosa qui e vediamociò che dice. Se vuole venire, lasciatela venire.Se non vuole, tenetevela e fatevene il sugo che volete123 . Che dite?ANDRONICO Ora parli bene. Ma guarda di non pentirtene,veh, che credo certo che rimarrai appiedato 124 .Questo sarebbe ben qualcosa. Mi ha detto adesso chenon mi lascerebbe per quanti uom<strong>in</strong>i ci sono al mondo;guarda un po’ se vuoi che abbia cambiato idea cosìpresto. E ti voglio far questo servizio, perché non stareicon il cuore contento se non vedessi come andrà a f<strong>in</strong>iree se è vero il bene che mostra di volermi. Ehi, senti,eh? Tu non mi senti? Di’, figlia bella, senti?SCENA SETTIMAANDRONICO, PITARO, DINA.DINA Mi chiamate me, messere 125 ?ANDRONICO Sì, sì, figlia, vieni un po’ giù. Direi beneche le donne hanno poco cervello, benché la maggiorparte delle persone ne abbia poco, se costei avessecambiato idea così facilmente.PITARO Vedetela qui, messere, che è venuta.ANDRONICO Beh, figlia bella, che dici?DINA Di che cosa, messere? Non so, io. Non dico niente,io 126 .ANDRONICO Senti: questo brav’uomo è venuto a domandarti<strong>in</strong>dietro da parte di tuo marito, e così abbiamofatto un patto che, se tu vuoi andare, che ti lasciandare; se vuoi restare, che tu resti. Tu sai bene quelche tu hai con me e se ti lascio mancare qualcosa. Fa’come vuoi e come ti piace. Io da parte mia non ti dicoaltro.DINA Che io vada con mio marito? Ma dove volete chevada? Avrò ogni giorno delle bastonate. Ma, <strong>in</strong> buonafede, no che non ci voglio andare. Che Dio mi aiuti,non vorrei averlo mai conosciuto, che è così poltrone,come nessun altro che mangia pane. Mio Dio, <strong>in</strong> buonafede, no. Messér, no, che non ci voglio andare, che,quando lo vedo, mi pare di vedere il lupo 127 .ANDRONICO Basta, basta, basta. Voi mi avete <strong>in</strong>teso.Siete soddisfatto? Quando io vi dicevo che non volevavenire, voi non mi volevate credere.PITARO Ma sentite, messere: mi fa venire soltantorabbia, questa scapestrata; perché non è mezz’ora, pocoprima che veniste a casa, che ha detto a Bilóra chevoleva venire via, anche se voi non volevate.DINA Che? Io gli ho detto che ci volevo venire? Gliho detto... me lo avete quasi fatto dire (come disse labuona femm<strong>in</strong>a), gli ho detto un cazzo. Lasciatelo puredire, perché se lo è pensato lui 128 .ANDRONICO Va’ pure <strong>in</strong> camera, e non gridiamo più.Basta, andate con Dio. Che vi pare ora? L’avrei giuratoche non sarebbe venuta. Volete altro?<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 27


PITARO Messiér no, mi, che volìvu ch’a vuogia?A vuò dire che <strong>Bilora</strong> è un mal uomo, e che l’hapuoca volontè de far ben, e che a fassè miegio adàrghela.ANDRONICO Beh, che vuol dire ste parole? Ecredo che ghe n’haveremo, mi, de boto. Che me vustumenazar? No me far andar <strong>in</strong> còlera, che digo daseno, che se daremo zò per la testa da bon seno. Time pari una bestia mi, a spazarte <strong>in</strong> puoche parole,e va via de qua, e nétate presto che questa xe unamaxima che no te la voio dar. Me hastu mo <strong>in</strong>teso?Che voio adesso <strong>in</strong> sìr de casa, no te lassar trovar,che <strong>in</strong>travegnerà forsi... Basta. No pì.PITARO Mo anè <strong>in</strong> vento, ch’a no ve vega mè pì.PITARO Messiér no, io, che volete che voglia? Vogliodire che Bilóra è un brutto tipo, e che ha poca volontàdi far bene e che fareste meglio a dargliela 129 .ANDRONICO Beh, che cosa vuol dire questo discorso?Credo che ne avremo abbastanza, tra poco. Mi vuoim<strong>in</strong>acciare? Non farmi andare <strong>in</strong> collera, che dico sulserio, che ce la daremo giù per la testa da vero. Misembri una bestia, a me, a dirtela <strong>in</strong> poche parole, eva’ via di qua, e levati di torno, presto, che questa èuna massima che non ti voglio dare. Mi hai <strong>in</strong>teso? A-desso voglio uscire di casa, non lasciarti trovare, che tipuò capitare forse... Basta. Non più 130 .PITARO Ma andate al vento, che non vi veda maipiù 131 .SCENA OTTAVABILORA, PITARO.BILORA Mo al sangue de Domenesteche! a saì bendire. A on g’haì criò, né dito che a supia sbandizò, esì n’ haì biastemò, nè niente, vu! Miedio, sanguedel mal dela lova, da che cànchero sìvu? S’haessèbiastemò, e se haessè dito ch’a giera sbandizò, a tegnofremamén che ‘l me l’harae dò, perchè com aghe disissi che giera un mal omo e che haea puocodesierio de far ben, el ghe scomenzè a tremolare elsbarbuzale, che ‘l no véeva l’ora de ficarse <strong>in</strong> cà.PITARO Mo te ghe divi vegnìr un può ti, perchè tesbravi! Te me n’<strong>in</strong>caghi ancora. N’è vero?BILORA Mo a no ve n’<strong>in</strong>cago miga, mo a ve n’hesì puoco gra, che l’è ben puocco.PITARO Mo a dighe ben. Moà, moà, vuòtu vegnire?BILORA No mi. Anè pure, ch’a ve sé dire ch’am’haì servìo.SCENA NONABILORA, solo.Al sangue del mal de la zopa, le me va tutte pureala roessa. Mo... cassì... ch’a ‘l roesso elo con lescarpe <strong>in</strong> su. Mo... cassì, ch’a ‘l faghe <strong>in</strong>smerdaredal rise, ch’a ghe faghe lagare i zuòcoli e la beretachivelò. Agno muò che vuògie fare? A son deru<strong>in</strong>ò,ch’a n’he dela vita. L’è miegio ch’al faghe fuora eche a m’<strong>in</strong> cave i piè. Tamentre supiando sì arabià ano vorae che la no butasse ben. Tramentrena a sèben mi zò che a m’he pensò. Com vega che ‘l vegnefuora, a ghe sborirè adosso de fato, e sì a ghe menarèsu le gambe, e lui cairà <strong>in</strong> tera de fato ala belaprima, e man zò per adosso, per longo e per traerso.Gran fato ch’a no ghe faghe borìr gi uogi e la vita.Poh, sì! Meh, sì! l’harà paura se a fago a sto muò. Epo a faelerò da soldò spagnaruolo che i sonerà pìd’oto. L’è miegio che proa un pò a che muò a farè.Orbentena, a cavarè fuora la cortela.SCENA OTTAVABILORA, PITARO.BILORA Ma al sangue di Dom<strong>in</strong>esteche 132 ! Sapete bendire. Non gli avete gridato, né detto che sono statobandito, e non avete bestemmiato, né niente, voi! PerDio, al sangue del mal della lupa 133 , di che càncherosiete buono? Se aveste bestemmiato e se aveste dettoche ero bandito, tengo fermamente 134 che me l’avrebbedata, perché, come gli dicevate che ero un brutto tipo eche avevo poca voglia di far bene, <strong>in</strong>com<strong>in</strong>ciava a tremolarglila bazza 135 , che non vedeva l’ora di ficcarsi <strong>in</strong>casa.PITARO Ma dovevi venirci un po’, tu, che adesso urlicome un bravo! Te la prendi con me ancora, non è vero?BILORA Non me la prendo mica con voi, ma ve ne sonopoco grato, molto poco.PITARO Ma dico bene 136 ! Basta, basta. Vuoi venire?BILORA Io no. Andate pure, che vi posso dire che miavete servito.SCENA NONABILORA, solo.Al sangue del mal della zoppa 137 , mi vanno tutte allarovescia. Ma... lo rovescio io con le scarpe <strong>in</strong> su. Ma...lo faccio smerdare dal ridere, gli faccio lasciare qui glizoccoli e il berretto. Ad ogni modo che voglio fare?Sono rov<strong>in</strong>ato, per tutta la vita. È meglio che lo facciafuori e che me lo tolga dai piedi. Ma, arrabbiato comesono, non vorrei che non buttasse bene 138 . Ma so ben iociò che ho pensato. Come vedo che viene fuori, gli salteròsùbito addosso, lo colpirò sulle gambe, e lui cadràsùbito <strong>in</strong> terra al primo colpo, e allora giù, addosso,per lungo e per traverso. È già molto che non gli facciauscire gli occhi e la vita 139 . Poh, sì! Ma, sì! Avràpaura se faccio <strong>in</strong> questo modo. E poi favellerò da soldatospagnolo che sembreranno più di otto. È meglioche provi un po’ <strong>in</strong> che modo farei. Orbèntena, tireròfuori il coltello 140 .<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 28


Làgame vere se la luse. Càncaro, la n’è tropo lusente.El n’harà tropo paura. E po a meto – verbo grazia– che questo cotale supie elo, e mi supie mi, <strong>Bilora</strong>,che sa ben menare quando el vuole. E sì ascomenzerè a biastemmare e a catare quanti Cristelèisoneè <strong>in</strong> Pava, e la Madrebeata e il Dom<strong>in</strong>esteco.Pota chi te <strong>in</strong>zenderò e de que zodìo, vecio sgureguromaledeto. Che puostu abavare, com a saeràvemé bon. Adesso te vuò cavare el reore del culo.E mena, e dài, tanto che l’harò amazò, e po a ghecaverè la gonela e a ghe la torò mi, e sì al despogiarèda un lò e l’altro mi... e man via corando. E sìa ‘l lagherè chialondena stravacò a muò un granboazón. E sì a venderè po ‘l tabaro mi, e sì me comprerèun cavalo mi, e sì a farè un soldò mi, e sìandarè <strong>in</strong> campo: agno muò a g’he puoca volontède star a cà. Moà, a me conzarè chivelandena mi. Avorae che ‘l vegnisse fuora mi. A no vorae che ‘lstesse pì. Tasì. Vènlo? Elo vegnù fuora? Sì. Ohcàncaro te magne vecio strass<strong>in</strong>ò... Pota de Cribele,mo on elo? A no èlo gnan vegnù? Mo he ben guagnòmo. Guarda che ‘l non ghe vegne pì. Tasì... Alafè me sona che ‘l senta vegnire. El ven, sì. A no meg’arciaperè pì. Faze ch’a no ghe vuò borire adosso<strong>in</strong>s<strong>in</strong>a ch’el n’ha serò l’usso.Lasciami vedere se luccica. Cànchero, non è troppo lucente141 . Non avrà troppo paura. E poi metto, verbigrazia142 , che questo tale sia lui e che io sia io, Bilóra, chesa picchiare bene quando vuole. E così <strong>in</strong>com<strong>in</strong>cerei abestemmiare e a tirar giù quanti Cristelèison 143 ci sonoa Padova, e la Madre beata e il Dom<strong>in</strong>esteco 144 . Pottadi chi ti generò e di quel vecchio giudeo impotente maledetto145 . Che ti possa arrappare come non sarai maibuono. Adesso ti voglio levare lo sp<strong>in</strong>o dal culo 146 . Emena, e dài, f<strong>in</strong> tanto che l’avrò ammazzato. Poi gli leveròla gonnella e gliela prenderò io, e così lo spoglieròda capo a piedi, io... e poi via di corsa 147 . E cosìlo lascerei qui stravaccato come un grande caca dimucca 148 . E così venderò poi il tabarro, io, e così micomprerò un cavallo 149 , io, e così mi farò soldato, io, ecosì andrò al campo 150 : ad ogni modo ho poca vogliadi stare a casa. Via, mi apposterò qui, io. Vorrei chevenisse fuori, io. Non vorrei che ci mettesse tanto tempo.Taci 151 . Viene? È venuto fuori? Sì. Oh il cànchero152 ti mangi, vecchio strasc<strong>in</strong>ato 153 ... Potta di Crìbele,ma dov’è? Non è neanche venuto giù? Ho fatto unbel guadagno, eh. Vuoi vedere che non viene più. Taci...In fede mi sembra di sentirlo venire. Viene, sì. Nonm’<strong>in</strong>gannerò più. Faccio che non voglio saltargli addossof<strong>in</strong>ché non ha chiuso l’uscio.SCENA DECIMAANDRONICO, ZANE, BILORA.ANDRONICO Chi diavolo xe sta bestia che va daste ore smorbizando per le contrae? Qualche imbriago?Col malàn che Dio ghe dia, e la male pasqua,che i me ha fato muover quanto sangue hoadosso. Che pagherae una bela cossa esser signorde note, e catarli, chè ghe darae ben altro che sus<strong>in</strong>e.Aldistu? Ti no alai, Zane?ZANE A son chiloga.ANDRONICO No vegnìr. Resta a casa, fa compagniaa D<strong>in</strong>a, e viènme a tuòr può ale quatr’ore eporta el feràl, sastu?ZANE A vegnirò icsì press quant a porò, naf dé fastidi.ANDRONICO El xe meio che vaga de qua, perchépasserò el tragheto colà, e sì sarò là <strong>in</strong> un trato.Zane, sera la porta.BILORA Ah, te magne el morbo, vecio strass<strong>in</strong>ò,tuò... tuò...ANDRONICO Oh! fio belo, oh! fio belo... Ohimè,ohimè, fuogo, fuogo, fuogo! che son morto... Ohtraditor! Fuogo, fuogo... Ohimè che muoro e sonmorto...BILORA Fuogo, fuogo! A te ‘l parerè ben dal culomi el fuogo. Dame mo la mia fémena. Te la divi lagàrstare. Poh, moà a cherzo che ‘l sea morto mi.Mo no ‘l sbate pì nè pè nè gamba. Poh, l’ha tirà ilachiti elo. Miedio, bondì. L’ha cagò le graspe, elo!Te l’hégi dito?SCENA DECIMAANDRONICO, ZANE, BILORA.ANDRONICO Chi diavolo è questa bestia che va aquest’ora a far chiasso per le strade? Qualche ubriaco?Che Dio gli dia il malanno e la mala Pasqua 154 , mihanno fatto muovere quanto sangue ho addosso. Paghereiuna bella somma per essere Signore di Notte 155 ,e trovarli, perché darei loro ben altro che sus<strong>in</strong>e. Senti?Tu non senti, Zane?ZANE Sono qui 156 .ANDRONICO Non venire. Resta a casa, fa’ compagniaa D<strong>in</strong>a, e vienimi a prendere poi alle quattro 157 e portail fanale, sai?ZANE Verrò più presto che potrò, non datevi pensiero.ANDRONICO È meglio che vada di qua, perché passeròil traghetto laggiù, e sarò di là <strong>in</strong> un momento. Zane,chiudi la porta.BILORA Ah, ti mangi il morbo, vecchio strasc<strong>in</strong>ato 158 ,prendi questo... prendi...ANDRONICO Oh! figlio bello, oh! figlio bello... Ohimè,ohimè, al fuoco 159 , fuoco, fuoco! che sono morto...Oh traditore! Fuoco, fuoco... Ohimè che muoio e sonomorto...BILORA Fuoco, fuoco! Te lo caccerò ben io dal culo ilfuoco. Dammi la mia femm<strong>in</strong>a. La dovevi lasciar stare.Poh, via, credo che sia morto, io. Ma non batte più népiedi né gambe. Poh, ha tirato le cuoia, lui. Mio Dio,buongiorno. Ha cagato i graspi 160 , lui! Te l’avevo detto161 ?<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 29


Note1 Nel dialetto pavano il nome o, meglio, il soprannome Bilóra<strong>in</strong>dica la dònnola, un animale particolarmente subdolo,aggressivo e sangu<strong>in</strong>ario, che ama assalire i pollai e farstrage delle gall<strong>in</strong>e. Il nome è molto probabilmente piano:Bilóra, come Pitàro.2 Corruzione di Orbene, tieni. Il significato orig<strong>in</strong>ale peròè andato perduto e l’espressione è divenuta una <strong>in</strong>tercalare.Il monologo di Bilóra che entra <strong>in</strong> scena si può capire edapprezzare se si tiene presente il successivo monologo cheAndrónico fa quando a sua volta entra <strong>in</strong> scena (scenaquarta): Bilóra si lamenta che l’amore prende non soltantoi giovani, ma anche i vecchi; Andrónico è contento perchénon ha provato l’amore <strong>in</strong> gioventù e lo prova adesso che èvecchio. Il monologo di Bilóra è particolarmente esilaranteper i nobili spettatori, perché tutto <strong>in</strong>tessuto di citazionidotte, che rimandavano alle varie teorie dell’amore dellaletteratura ufficiale presente e passata: l’amore onnipotentedi Ovidio, l’amore come pena di Andrea Cappellano, ilfolle amore della poesia provenzale, l’amore a cui non sipuò resistere del Dolce stil novo. C’è anche la confutazionedell’“amore di terra lontana” di Jaufré Rudel: Bilóra vaa Venezia a prendersi la moglie che gli era stata rapita…3 “Al diavolo anche l’amore! Un accidente anche all’amore!”Bilóra si sente oppresso dall’amore… Potta peròè la vag<strong>in</strong>a, che è divenuta una delle tante <strong>in</strong>tercalari deldiscorso. Ancor oggi essa compare <strong>in</strong> imprecazioni simili.Nel dialetto del protagonista le parole provengono dall’alto,dall’esterno del suo mondo, sono recepite <strong>in</strong> modo approssimativoe distorto, e diventano <strong>in</strong> molti casi semplici<strong>in</strong>tercalari senza significato. Il term<strong>in</strong>e si trova anche nellacoeva Mandragola di N. Machiavelli (II, 6).4 Veramente. L’avverbio è un rafforzativo, per lo più <strong>in</strong>utile.Esso è una <strong>in</strong>tercalare, che al protagonista serve comeidentificazione l<strong>in</strong>guistica e come dimostrazione di cultura.La sua lunghezza contrasta con le parole s<strong>in</strong>copate del dialetto.L’impotenza reale si trasforma <strong>in</strong> rivalsa a livello l<strong>in</strong>guistico:il protagonista è orgoglioso e spavaldo, perchéconosce una parola difficile, che usa per <strong>in</strong>fiorare il l<strong>in</strong>guaggioche adopera.5 Bilóra sa di essere a Venezia: vi è andato per riportare acasa la moglie. Ma non conosce la città e ne è <strong>in</strong>timidito. Èabituato alla realtà della campagna.6 Il protagonista parla dell’amore di cui ha sentito parlare.Un argomento strano, che egli <strong>in</strong>terpreta a suo modo. Quilo scrittore celia con l’amore dotto: fa calare su un contad<strong>in</strong>oignorante l’onnipotenza dell’amore. I risultati, per <strong>in</strong>obili spettatori, sono straord<strong>in</strong>ariamente comici. I precedentiletterari della commedia si trovano nella cultura toscanadel Quattrocento, ad esempio nella Nencia da Barber<strong>in</strong>odi Lorenzo de’ Medici (1447-1492).7 La mia donna, la mia poveretta. C’è un senso di affettonell’espressione. Ma non si va più <strong>in</strong> la di questo po’ diaffetto verbale. Il l<strong>in</strong>guaggio diventa improprio appena ilprotagonista esce dal suo mondo reale e l<strong>in</strong>guistico. Egliusa una term<strong>in</strong>ologia presa dal contesto religioso da cui èstato colonizzato.8 Il viaggio dal contado di Padova a Venezia – circa 40chilometri – è vissuto <strong>in</strong> term<strong>in</strong>i drammatici ed epici:l’impresa lo ha reso stanco di vivere, lo ha stroncato. Così<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 30si mette a parlare tra sé e sé a voce alta. In realtà la pauranon è verso il passato, ma verso ciò che lo attende: si trova<strong>in</strong> una città sconosciuta, che cosa deve fare?9 Qui, ma anche per tutto il monologo, Ruzante sviluppa iltema virgiliano che “omnia vicit Amor, et nos cedamusamori” (Egloghe X, 69-70). Il paragone agricolo è conveniente,ed è entrato nei proverbi. I precedenti letteraripiù vic<strong>in</strong>i si trovano sempre nella Nencia da Barber<strong>in</strong>o diLorenzo de’ Medici (1447-1492) e nella produzione letterariatoscana del Quattrocento.10 Cànchero, come più sopra cagasangue, è un modo amichevolee quasi affettuoso di chiamare o di rivolgersi aqualcuno. Cànchero fa riferimento all’omonima malattia;cagasangue <strong>in</strong>vece alle emorroidi, una quasi malattia. Tuttecose comuni. L’abuso delle due parole ha fatto perdereil significato <strong>in</strong>iziale: sono divenute due semplici emissionidi voci, che non sono sentite come offese da chi è <strong>in</strong>terpellato<strong>in</strong> tal modo.11 Batoste. Qui Bilóra le prende addirittura dal dio Amore,un concetto personificato. Egli si sente come un cane bastonato,che ad ogni momento ha paura di prenderle.12 Lo scrittore fa il verso alla teoria dell’amore come penacantato da Andrea Cappellano (sec. XIII) e ripreso da tantialtri autori del suo tempo.13 Il ragionamento è l<strong>in</strong>eare, l’amore, i giovani, il vecchio.Così appare l’argomento o l’antefatto della commedia: ilvecchio gli ha portato via la moglie. L’ha portata <strong>in</strong> città.Nella Mandragola (1518) di Machiavelli c’è un presentatoreche, svolta la sua funzione, scompare sùbito; e l’antefattoviene fatto conoscere agli spettatori dal dialogo tra ilprotagonista Callimaco e il suo servo.14 Il term<strong>in</strong>e è usato <strong>in</strong> modo offensivo. Ma sùbito dopo ilmotivo si spiega: il vecchio è pieno di denari.15 Lungo i canali dell’entroterra veneziano. Era il lavoroche i contad<strong>in</strong>i facevano piuttosto che rimanere disoccupati.Il lavoro era durissimo, ma era meglio che morire di fame…Il paragone o l’associazione d’idee che segue (moglie-barche)è grottesca ed esilarante.16 Il vecchio è ricco, il protagonista è povero, senza neancheun denaro, e affamato. Fame di cibo e fame di sessosono i punti di riferimento unici e costanti della vita delprotagonista e del mondo contad<strong>in</strong>o a cui appartiene.17 La fame ha la meglio sull’amore. Ben <strong>in</strong>teso, l’idea dipagare non è nemmeno presa <strong>in</strong> considerazione: <strong>in</strong> tascanon ha denari e normalmente non sa che cosa siano.18 Nel dialetto pavano il nome o, meglio, il soprannomePitàro <strong>in</strong>dica il cesto o il vaso di terra. L’allusione è al carattereo all’aspetto del personaggio. Il nome è certamentepiano.19 Pitàro è sorpreso di vedere Bilóra a Venezia, ed esce conquell’espressione. Non si aspettava di trovarlo. L’espressioneè amichevole e si usa tra amici. Si trova già nellaMandragola (1518) di Machiavelli. L’espressione <strong>in</strong>dicauna esperienza molto comune tra la popolazione, aristocraticao popolare che sia: le emorroidi che si gonfiano, fannosoffrire e sangu<strong>in</strong>ano. In questo modo le feci erano frammistea sangue.20 Zio. Bilóra cerca di risolvere il suo problema non rivolgendosia qualche istituzione statale, ma per via privata,rivolgendosi a suo barba. Il term<strong>in</strong>e è usato <strong>in</strong> senso lato


ed esprime rispetto per la persona, che è più importante dichi parla e alla quale si chiede aiuto. Sotto la parola c’èuna captatio benevolentiae, espressa anche da tutta la frase:tu sei più capace e più forte di me, aiutami, sono sicuroche mi puoi aiutare. Bilóra dà del voi a Pitàro, <strong>in</strong>vece Pitàrogli dà del tu. Ugualmente la D<strong>in</strong>a dà del voi al marito,che <strong>in</strong>vece le dà del tu. I rapporti sociali e i rapporti di forzasi vedono anche da questi piccoli particolari.21 Pitàro non gradisce l’<strong>in</strong>contro e non sa che cosa dire.Bilóra è una persona da evitare: è capace soltanto di chiederee mai di contraccambiare.22 Bilóra si aspetta che Pitàro gli legga nel cervello, maquesti cade dalle nuvole e gli chiede di che cosa si tratta.Bilóra pensava che tutti sapessero quel che gli era successo:pensa <strong>in</strong>consapevolmente che il suo mondo sia il mondodi tutti e che esista soltanto il suo mondo e i problemidel suo mondo. Non riesce a capire che esiste anche – esoprattutto – il mondo degli altri, anzi che ognuno ha il suomondo e i suoi problemi. Non capisce nemmeno che il suomondo è <strong>in</strong>significante sia rispetto a tutti gli altri mondimessi <strong>in</strong>sieme, sia rispetto ad un mondo qualsiasi di chi èpiù importante di lui. Forse le stesse cose si potrebbero dire<strong>in</strong> un modo più pregnante. Egli confonde e mescola ilsuo mondo <strong>in</strong>terno e il mondo a lui esterno. E fa questoragionamento: se io so una cosa, la devono sapere anchetutti gli altri; se io ho dimenticato una cosa, basta che lachieda agli altri. Questo modo di pensare si spiega facilmente:il personaggio non ha costituito nessun diaframmatra il suo mondo <strong>in</strong>terno ed il mondo <strong>in</strong>terno. I due mondisi mescolano senza ord<strong>in</strong>e. La confusione del suo mondo<strong>in</strong>terno è dimostrata anche dal cont<strong>in</strong>uo ragionare con sestesso e, <strong>in</strong> séguito, dal fatto che si sdoppia: egli stesso e ilsuo avversario veneziano (scena nona).23 Tòtene o tòtano è un uccello palustre dal collo moltolungo. Il term<strong>in</strong>e è usato <strong>in</strong> sostituzione di un term<strong>in</strong>e soggettoa <strong>in</strong>terdizione sessuale. Ma con poco successo: i tòtanidiventano ben presto i testicoli. L’equivalente odiernoha le stesse caratteristiche di eufemismo: le palle. Ed è u-nisex: ragazzi e ragazze <strong>in</strong>vitano a non rompere loro lepalle. Qualcuna, che ha l’animo della filologa e che odia idiscorsi approssimativi dice le ovaie. La sostanza non cambia,il discorso è e resta sul piano metaforico.24 Bilóra non ha mai sentito un nome così, perciò lo ricordae lo riferisce storpiandolo. Per altro è così disorganizzato,che non ha memorizzato bene neanche il nome di chi gli haportato via la moglie. Poteva soltanto memorizzare il nome:non sapeva certamente scrivere. L’equivoco e la storpiaturadelle parole difficili sono le occasioni che nessunoscrittore di teatro si lascia sfuggire e che anzi si crea <strong>in</strong>tenzionalmenteper far ridere gli spettatori.25 Pitàro non conosce il fatto né conosce Andrónico. Si limitaa confermare quel che gli sembra di avere capito dalleparole di Bilóra, che il rubamogli abita <strong>in</strong> quel portone.26 Bilóra non vuole litigare, non vuole portare la questione<strong>in</strong> tribunale. Si accontenta di riavere <strong>in</strong>dietro la moglie. Eun giusto compenso – pochi marchetti, una moneta di scarsovalore – per i servizi sessuali che questa ha reso al vecchio(glieli addebita anche se prima lo aveva consideratoimpotente, ma gli affari sono affari). Farebbe il bravaccio,ma ha paura che il vecchio se la prenda con lui o lo facciaaffogare <strong>in</strong> qualche canale. Perciò chiede aiuto a Pitàro.27 Sono i canali di Venezia, putridi e <strong>in</strong>qu<strong>in</strong>ati, usati perscaricare rifiuti di tutti i tipi. La morte era sicura...28 Suscettibile.29 Pitàro dà i suoi consigli, ma Bilóra non capisce, non sache cos’è la captatio benevolentiae. Pitàro non dice il nomedel vecchio: non lo conosce, perciò lo chiama messerbello, messer caro. Bilóra fra<strong>in</strong>tende, e non riesce a capireche l’<strong>in</strong>terlocutore dà consigli generici e non ha <strong>in</strong>formazioniprecise sul vecchio.30 Andróchene è corruzione e storpiamento di Andrónico,un nome eroico ed elevato, addirittura straniero: dava piùprestigio. Deriva dal sostantivo greco , ó, uomo+ l’aggettivo , , , v<strong>in</strong>citore. Insommasignifica uomo v<strong>in</strong>citore. Nel seguito si vedrà quantoAndrónico sia v<strong>in</strong>citore (è impotente e ci lascia la pelle)!Forse gli spettatori risalgono al nome, forse no. Intanto ridonoe poi vengono a sapere il nome corretto del vecchioveneziano.31 Lo zio, che è più esperto della vita, dà i consigli: vai achiederla con le buone maniere e mostrandoti rispettoso...Ma per ora non si vuole co<strong>in</strong>volgere <strong>in</strong> prima persona. Prevedegià che Bilóra gli chiederà aiuto…32 La cosa è importante: è uno che si limita a gridare o èuno che si mette a picchiare? Bilóra ha una grande esperienzadelle sus<strong>in</strong>e, cioè delle batoste, dalla vita.33 Piazza san Marco, luogo d’<strong>in</strong>contri e di contrattazioni.34 Anche qui Pitàro risponde con le <strong>in</strong>formazioni che desumeda Bilóra o con ciò che Bilóra si aspetta di sentirsidire. L’espressione di Pitàro è una mezza imprecazione,che è divenuta una <strong>in</strong>tercalare. Come tante altre <strong>in</strong>tercalariha perso qualsiasi riferimento all’oggetto che doveva <strong>in</strong>dicare.Si è trasformata <strong>in</strong> una semplice emissione di voce.Faceva senz’altro riferimento al sangue di Cristo, che ricevevauna particolare attenzione durante la Settimana Santa.Il sangue si trova però anche <strong>in</strong> un’altra mezza imprecazione:cagasangue. Il l<strong>in</strong>guaggio contad<strong>in</strong>o non riesce aduscire dal suono delle parole. Assomiglia ad un “buco nero”,che risucchia quanto <strong>in</strong>contra e non fa uscire nulla dasé. Il l<strong>in</strong>guaggio corretto, proprio, ufficiale è <strong>in</strong>vece deltutto opposto: il term<strong>in</strong>e <strong>in</strong>dica un oggetto e soltanto quello;lo <strong>in</strong>dica <strong>in</strong> un modo specifico ed univoco. Non esistonos<strong>in</strong>onimi <strong>in</strong> senso assoluto, ogni term<strong>in</strong>e sottol<strong>in</strong>eaun’area o un aspetto specifico dell’oggetto <strong>in</strong>dicato. Proprionel Quattrocento <strong>in</strong> seguito allo sviluppo delle stamperiee alla necessità di fare traduzioni i vocabolari bil<strong>in</strong>guio tril<strong>in</strong>gui hanno uno sviluppo enorme.35 F<strong>in</strong>gi di niente, che la cosa non ti riguardi. Un grandeconsiglio.36 La s-ciav<strong>in</strong>a è la sopravveste o una coperta pesante. Pertraslato <strong>in</strong> gergo diventa il cappotto di botte.37 D<strong>in</strong>a ha seguito il vecchio, perché può mangiare, bere edessere “ben servita e riverita” come dice un’altra espressionedel l<strong>in</strong>guaggio popolare. I popolani potevano mangiarepoco, non erano serviti, dovevano servire e riverire.Di qui questi ideali di vita irraggiungibili. Pitàro ricostruisceimmediatamente quello che è successo e perché. È aiutatoanche dalle – poche – <strong>in</strong>formazioni che ha sul vec-<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 31


chio, che conosce almeno di vista: lo avrà <strong>in</strong>crociato piùvolte percorrendo quella strada.38 Bilóra vuole fra<strong>in</strong>tendere: il vecchio non può farle i servizisessuali che sa fare lui. Pitàro precisa: c’è un servo cheli serve tutti e due.39 Va a or<strong>in</strong>are. Così ha la possibilità di sganciarsi da Bilórae di non perdere tempo. Poteva ritornare e poteva fare ameno: l’avrebbe deciso poi. Il motivo di questo andarseneemerge chiaramente <strong>in</strong> seguito. Qui e altrove Pitàro confermasempre ciò che Bilóra vuole sentirsi dire: Andrónicoè impotente, c’è soltanto D<strong>in</strong>a <strong>in</strong> casa... Bilóra non si accorgemai che è lui la fonte delle notizie del bugiardo Pitàro.40 Potta del cànchero è un’espressione oscena, ma è ancheuna comb<strong>in</strong>azione senza senso di parole. “Ma potta purecosì” significa “ma vada pure così”. Nel l<strong>in</strong>guaggio normalizzatole parole hanno un significato diretto e descrittivo,cioè sono usate <strong>in</strong> senso proprio, anche se permettonopoi un oculato uso improprio; <strong>in</strong> quello dialettale hanno<strong>in</strong>vece un significato per lo più <strong>in</strong>diretto ed emotivo. Quicome altrove emerge la pratica scorretta del l<strong>in</strong>guaggio daparte di un appartenente al popolo: la conv<strong>in</strong>zione che leparole si possano assemblare tra loro senza nessun limite esenza nessun divieto. Questa pratica è presente anche <strong>in</strong>seguito.41 Le còlzere sono i pium<strong>in</strong>i per le coperte. È abituato aprenderle.42 Trema dalla paura.43 In senso affettuoso.44 Parlare. La favella è la l<strong>in</strong>gua, il parlato. L’etimologia èlat<strong>in</strong>a: fabulor, parlo. Il term<strong>in</strong>e è popolare. In <strong>italiano</strong> diventaconfabulo, parlo con qualcuno.45 Sopra l’aveva chiamata la mia cristiana, qui si presentacome il tuo cristiano. Il term<strong>in</strong>e cambia però significato: lamia poveretta (<strong>in</strong> senso affettuoso) diventa colui che tivuol bene.46 D<strong>in</strong>a si preoccupa della presenza di Bilóra, ma sùbitodopo gli ubbidisce. L’abitud<strong>in</strong>e alla sottomissione ha il sopravvento.La moglie da del voi al marito, mentre Bilóra ledà del tu.47 La donna obbedisce sùbito. Tra i due non c’è né litigioper la fuga della donna (e per i motivi che l’hanno portataalla fuga) né alcuna manifestazione visibile di affetto. Icontad<strong>in</strong>i non ci sanno fare. Non ci sono abituati. Per farciò, serve cultura. Non ce l’hanno.48 “Dà pure per scontato che la costr<strong>in</strong>gerò a darmi qualcosa.”Bilóra parla tra sé e sé. La sus<strong>in</strong>a è un frutto, ma qui<strong>in</strong>dica qualche soldo, come è detto sùbito dopo, o qualchevantaggio. Altrove <strong>in</strong>dica le batoste che Bilóra si è preso(scena prima). Questo è uno dei tanti casi <strong>in</strong> cui il l<strong>in</strong>guaggioè usato <strong>in</strong> modo non normalizzato, improprio, metaforico.D<strong>in</strong>a si comporta allo stesso modo. Poco dopo rispondecon un “Buonasera!”, che significa “Non ci credoproprio!”. Il potere e l’efficacia sulla realtà del l<strong>in</strong>guaggionormalizzato sono legati proprio al suo uso diretto (ogniterm<strong>in</strong>e <strong>in</strong>dica un unico oggetto) e alla normalizzazionedel suo uso <strong>in</strong>diretto (le figure retoriche). In tal modo sielim<strong>in</strong>a qualsiasi fra<strong>in</strong>tendimento fra chi parla e chi ascolta.49 Bilóra pensa a quel che può guadagnarci: qualcosa, qualchedenaro. È la terza volta che lo dice. La fuga della mogliepuò diventare la sua fortuna economica: bisogna saperesfruttare le occasioni favorevoli... La fame di cibo e lapovertà economica gli fanno dimenticare tutto, il motivoper cui è venuto a Venezia e le capacità amatorie di cui siera vantato poco prima. Egli è capace di pensare soltantouna cosa alla volta, non riesce a pensare <strong>in</strong> modo organizzatoe a largo respiro. Ad esempio: conv<strong>in</strong>co mia moglie atornare a casa e, già che ci sono, cerchiamo <strong>in</strong>sieme di derubarei vecchio.50 La donna è senza volontà: pensa di dovere ubbidire, comeal solito. Ma teme di essere picchiata per quel che hafatto.51 Bilóra la rassicura e trova una giustificazione per lei, maanche per lui: non sei andata via volentieri con il vecchio.Nessun riferimento al fatto che lei faceva la fame e che luiper di più la batteva. Ma i panni sporchi si lavano <strong>in</strong> famiglia!Un’altra omissione è costituita dalle corna che il protagonistasi prende o gli vengono messe <strong>in</strong> testa. Non se neparla mai. Ma, quando lo stomaco brontola di fame, non sipuò guardare a particolari <strong>in</strong>significanti come questo. Nonc’è tempo per il delitto d’onore.52 “Ti giuro sopra la mia fede...” La fede è chiaramente lafede <strong>in</strong> Dio. La cultura contad<strong>in</strong>a deve molta alla culturaecclesiastica. Il rapporto con la religione è però ancipite:accanto alle <strong>in</strong>vocazioni ci sono le imprecazioni. E <strong>in</strong> propositoBilóra, ma anche Pitàro ci sanno fare! I loro discorsisono pieni d’<strong>in</strong>tercalari che uniscono il nome di Dio e deisanti con term<strong>in</strong>i sessuali.53 La donna <strong>in</strong>dica i difetti del vecchio. Li dice al marito,per non toccare i motivi per cui se n’è andata da casa e pernon dire che lì sta meglio. Tutto ciò avrebbe potuto irritareil manesco Bilóra. I difetti sono veri, come risulta anchedal monologo di Andrónico (scena quarta) e la disturbano,ma li usa anche ist<strong>in</strong>tivamente per sviare il discorso e perfarsi compatire. Ha per la testa i piccoli problemi dellanuova casa, mentre del marito ricorda soltanto che la picchiava.54 A partire da questa battuta Bilóra cerca di persuadere lamoglie a tornare a casa. L’argomentazione è <strong>in</strong>diretta (igiovani non si capiscono con i vecchi ). D<strong>in</strong>a non lo ascoltae cont<strong>in</strong>ua con il filo dei suoi pensieri (il vecchio le faschifo). Bilóra allora entra nel discorso di D<strong>in</strong>a (il vecchioè un letamaio). La donna s’<strong>in</strong>albera (sa dire soltanto cosesporche). Bilóra riprende l’opera di persuasione con unaltro argomento, che non è privo di una sottigliezza psicologica(vuoi ritornare a casa tua?). La donna dice che leivorrebbe ma che l’amante non vorrebbe, e riprende a direquel che l’amante le fa. Bilóra <strong>in</strong>siste (ma tu vuoi o nonvuoi?). La donna dà una risposta ancipite (vorrei e nonvorrei). Allora Bilóra devia il discorso sull’amante. Ladonna lo <strong>in</strong>vita ad andare via (caro fratello, andate via...).Bilóra non dice le parole che la controparte vorrebbe sentirsidire (ti voglio bene, ti amo più di lui, a casa nostra staimeglio), perché non le sa dire e perché è vero proprio ilcontrario.55 D<strong>in</strong>a ha anche bisogno di sfogarsi, perché è caduta dallapadella alla brace. Lo può fare soltanto con Bilóra, l’unica<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 32


persona che conosce a Venezia. Se poteva scegliere, l’avrebbefatto con un’altra donna.56 La vergogna o, meglio le vergogne sono gli organi genitali.L’uso traslato si trova già <strong>in</strong> Omero (Odissea, VI,129). Qui però il term<strong>in</strong>e per metonimia <strong>in</strong>dica la merda,che è il soggetto della frase successiva: “...ma [la merda]gli deve essere andata da un’altra parte, non è vero?”. Daun’altra parte, cioè nel membro di Andrónico. Bilóra <strong>in</strong>tendealludere all’impotenza del veneziano e, <strong>in</strong>direttamente,al suo vigore sessuale.57 Bilóra, che non ha capito la piccola strategia della moglie,r<strong>in</strong>cara la dose, ma la donna lo ferma: si comportamale come sempre. Poco dopo la donna gli dice che Andrónicole vuole bene. Bilóra, che ancora non capisce, lechiede un tozzo di pane. La donna si prende un’ultimavendetta...58 Nessuna scenata: vuoi tornare a casa o vuoi rimanerequi? Bilóra si comporta come se la cosa non lo riguardasse.Altrove Pitàro gli aveva detto di comportarsi come se lafuga della moglie non lo riguardasse (scena seconda). Ilcomportamento di Bilóra è comprensibile: non è mai statoprotagonista nella vita, non riesce a capire la realtà, né lamoglie, né Pitàro, né il vecchio.59 La donna non ha una volontà propria: il vecchio nonvuole che lei se ne vada, perciò neanche lei vuole andarsene.Per di più è servita e riverita...60 Lo giuro sopra l’anima mia. Il dialetto e chi parla il dialettoricorre alle ellissi al di là del ragionevole. La l<strong>in</strong>guaufficiale <strong>in</strong>vece fa il contrario: già normalmente le cosesott<strong>in</strong>tese sono troppe, e possono dar luogo ad <strong>in</strong>convenienti.Se poi si va nella direzione opposta di aumentarle...La differenza tra <strong>in</strong>terlocutori normali e <strong>in</strong>terlocutori dialettaliè questa. I primi sanno che nella comunicazione c’èuna fonte emittente e una fonte ricevente e che convieneessere chiari, cioè ridurre al m<strong>in</strong>imo i rumori, le espressioniambigue, i fra<strong>in</strong>tendimenti, sempre <strong>in</strong> agguato e semprepericolosi. I secondi fanno il contrario, credono alla letturadel pensiero, e sono costantemente conv<strong>in</strong>ti che quel chepensano, quel che sanno e quel che vogliono sia immediatamenteconosciuto e capito dalla controparte, nell’accezione<strong>in</strong> cui essi lo pensano e con i sott<strong>in</strong>tesi o i presuppostiche essi vi hanno <strong>in</strong>cluso. Insomma costoro credonoalla telepatia. Il fatto è che non hanno esperienza della comunicazionee, quando succedono fra<strong>in</strong>tendimenti, dannola colpa alla controparte o all’<strong>in</strong>terlocutore, che non li a-vrebbe capiti. Non danno mai la colpa a se stessi, che hannoemesso un messaggio, una comunicazione, che si prestavaanche ad altre <strong>in</strong>terpretazioni.61 Dopo le critiche i complimenti: il vecchio è uno schifoma mi vuole bene e mi fa star bene. La donna aveva bisognoanche di un po’ di amore e di affetto (e di benessere),oltre che di attività sessuale, di stenti e di percosse, a cui lasottoponeva il marito.62 Mi farai andare <strong>in</strong> collera. Più avanti Andrónico, che èun altolocato, avrà <strong>in</strong>vece le fumane.63 Bestemmiare. Bilóra fa una specie di m<strong>in</strong>accia preventiva,per far cedere la donna ai suoi propositi. L’anconéta èl’immag<strong>in</strong>e sacra o l’immag<strong>in</strong>e votiva.64 La donna non sa a quale delle due volontà maschili vuoleo deve sottomettersi. Anche nella risposta successiva siconsidera un semplice oggetto, come se non avesse volontàe come se la decisione non la riguardasse.65 Con Bilóra. D<strong>in</strong>a ha abbassato la voce e parla tra sé e sé.A parole ha ceduto al marito, ma di fatto sceglie di rimanerecon il vecchio. Forse ha pensato che di lì a poco potevamorire e lasciarla unica erede del patrimonio.66 Crìbele vale Cristo. Crìbele è una deformazione eufemisticadi Cristo, che deriva dal tardo lat<strong>in</strong>o criblum (


cora più contento: chiedeva soltanto un pezzo di pane, edora riceve denari e addirittura può andare a mangiareall’osteria!73 “E se (succede che) non la trovo?” Bilóra è preoccupatodal gran fatto di non trovare la locanda <strong>in</strong> fondo alla via.Nel dir questo mostra di non conoscere una proposizionesemplice come quella <strong>in</strong>trodotta dal se. Nel testo la congiunzionese è usata una sola volta, nella forma di sen (scenaterza): la consonante f<strong>in</strong>ale è aggiunta a sproposito, perchéil protagonista non ha dimestichezza con il term<strong>in</strong>e.Mentre egli si volta, D<strong>in</strong>a entra <strong>in</strong> casa e chiude la porta.74 Bilóra ha poca dimestichezza con il denaro, e si mette acontare una per una le monete che ha ricevuto. Ricorda ancorala prima che ha speso: era <strong>in</strong>namorato... La moragliao muraiuola è una moneta di rame o di altra bassa lega, <strong>in</strong>genere scura perché ossidata. Il cornacchione era una monetad’argento che aveva impresso un cimiero con due alispiegate, che sembravano due corna. Il tròn o lira trona erauna moneta coniata a Venezia nel 1472, che recaval’immag<strong>in</strong>e del doge Nicolò Tron. L’unica moneta di unqualche valore.75 Zane, cioè Gianni, Giovanni, è un generico nome di servo.In certi manoscritti si trova Ton<strong>in</strong>, che <strong>in</strong> altre commedieè pure servo o fante bergamasco. Il l<strong>in</strong>guaggio che ilpersonaggio adopera non è mai veneziano.76 Tuttavia. È la solita rem<strong>in</strong>iscenza del lat<strong>in</strong>o studiato <strong>in</strong>gioventù. Tutto il monologo di Andrónico si può capire edapprezzare soltanto confrontandolo con il monologo <strong>in</strong>izialedi Bilóra (scena prima).77 Andrónico si abbandona ai ricordi della sua giov<strong>in</strong>ezza.E ricorda ciò che gli amici gli dicevano: chi non pensa alledonne da giovane, ci penserà da vecchio. E s’immedesima<strong>in</strong> quando era giovane. Quest’evasione lirica fa il verso aF. Petrarca e al petrarchismo del suo tempo.78 Ruzante prende <strong>in</strong> giro l’uomo <strong>in</strong>namorato, che passa iltempo a sospirare e che ha la testa tra le nuvole. Qui peròl’autore fa riferimento non all’uomo <strong>in</strong>namorato, maall’uomo che ha la testa fra le nuvole, che pensa e che nonagisce. Andrónico ha aspettato la vecchiaia per mettersi adagire. Un acido e velenoso riferimento a tanti nobili pocoattivi e rimasti celibi o per <strong>in</strong>appetenza sessuale o per pauradelle donne o perché rimasti attaccati alle gonne dellamadre, che li ha distolti dalle attenzioni verso il sessofemm<strong>in</strong>ile.79 “Le ultime azioni non rispondono alle prime.” Il vecchionon ha più le capacità sessuali della gioventù. È divenutoquasi impotente e un po’ si lamenta. Usa una rem<strong>in</strong>iscenzagiovanile, per descrivere eufemisticamente la sua condizione.Da giovane, quando studiava il lat<strong>in</strong>o, il suo statoera diverso.80 Nec plus ultra, non andiamo più oltre, chiudiamo il discorso,non parliamone più. Andrónico usa più volte questaespressione lat<strong>in</strong>eggiante. Ogni tanto spunta la culturaletteraria e raff<strong>in</strong>ata del vecchio veneziano.81 Ragazza, <strong>in</strong> senso affettuoso. Al tempo significava anchedonna da partito e massaia o fantesca. Andrónico –come più sopra Bilóra – non parla al pubblico, parla tra sée sé, tra sé che parla e sé che ascolta. A voce alta, comenormalmente si fa quando c’è un altro <strong>in</strong>terlocutore. Lalettura silenziosa o il pensiero silenzioso, a bocca chiusa, èuna scoperta che sarà fatta secoli dopo.82 Concludendo brevemente. Andrónico fa parte della classebassa o medio-bassa, ha una cultura <strong>in</strong>farcita di lat<strong>in</strong>o esi esprime usando quella cultura anche quando parla dasolo.83 Ruzante fa il verso alle donne di f<strong>in</strong>e Quattrocento e allepoesie che ricevono dai loro <strong>in</strong>namorati.84 In conclusione. È la consueta rem<strong>in</strong>iscenza lat<strong>in</strong>a delvecchio veneziano.85 Andrónico fa la sua professione di fede a proposito delledonne. La D<strong>in</strong>a gli ha r<strong>in</strong>novato lo spirito e la vita. E, pocodopo, anche le gambe: si sente capace di fare alcuni ballimolto impegnativi.86 La differenza (e la contrapposizione) tra padrone/padronadi casa e servo/serva è ridotta ai term<strong>in</strong>i più essenziali:il padrone comanda, il servo ubbidisce.87 Due danze molto diffuse e molto note nella Venezia deltempo.88 Tira su, alza il chiavistello.89 Andrónico pensa che sia la D<strong>in</strong>a ad aprirgli. Quando siaccorge che è il servo, impreca e cambia rapidamente tonodi voce.90 “Che cosa volete?” Zane (o Ton<strong>in</strong>) non è veneto, nondice “Comandi!”; è bergamasco, dice “Che cosa a voi piace?”.Il verbo e la costruzione francese con plaisir si trovanoanche nel Decameron: “Se vi piace”, “S’il vous plaît”.91 Andrónico sente freddo e vuole le piccole gioie della vita:un po’ di caldo quando è <strong>in</strong> casa. Quando esce, il fuocoviene spento, perché bisogna risparmiare. Egli è ricco, masenza esagerare. Il mezzan<strong>in</strong>o è una stanzetta più piccoladelle altre, situata tra il primo piano e il piano nobile oppuretra due piani più alti. Era usata particolarmente d’<strong>in</strong>verno,perché si riscaldava più facilmente.92 Bilóra non riflette sulla stranezza della cosa: con la scusadi andare a or<strong>in</strong>are, Pitàro l’aveva lasciato solo con i suoiguai. Né si accorge della risposta <strong>in</strong>certa di Pitàro, che nonsa che cosa rispondere e che teme che le sue <strong>in</strong>tenzioni sianotroppo visibili. Inizia con un Beh, e poi commette unaltro errore...93 Pitàro è ritornato, e fa una domanda a cui Bilóra avrebberisposto con soddisfazione: hai mangiato?, e poi chiedepiù precisamente se il v<strong>in</strong>o era buono. Ma come fa a saperetutte queste cose e perché è ritornato? Di nascosto ha assistitoal dialogo tra la D<strong>in</strong>a e Bilóra, ha visto che la donnadava qualche denaro al marito, poi ha visto il marito andareall’osteria. Perciò è ritornato. Ora pensa di... Bilóra cont<strong>in</strong>uaa non <strong>in</strong>sospettirsi. È proprio nato per farsi <strong>in</strong>gannare!94 Pitàro decide d’<strong>in</strong>tervenire: può esserci un qualche guadagno.Così dai consigli passa a proporsi come concreto<strong>in</strong>termediario tra Bilóra e Andrónico.95 Queste parole mostrano che ha spiato l’<strong>in</strong>contro tra maritoe moglie. Mostrano anche che Bilóra prima non si èaccorto di essere spiato, ora non nota queste parole rivelatricidette da Pitàro. Così non può accorgersi se lo zio ètornato con qualche seconda <strong>in</strong>tenzione: farsi pagare oqualcosa di simile. Intanto Pitàro è <strong>in</strong>coraggiante e tra-<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 34


smette a Bilóra la sicurezza che ce l’avrebbero fatta: “Glidici sùbito che la tosa verrà via anche se lui non vuole…”.96 Bilóra pensa che un cittad<strong>in</strong>o sappia difendere le sue ragionimeglio di quanto possa fare lui stesso. È il poteredella cultura, che i contad<strong>in</strong>i non hanno. E la cultura è unaprerogativa della città.97 Per il sangue di Cristo! È una mezza imprecazione. Peril sangue di... è il prefisso di tante altre imprecazioni di Bilórae di Pitàro.98 Bilóra vive il mito del soldato, forte, coraggioso e sicurodi sé. Egli però non è sicuro che la m<strong>in</strong>accia sia efficace.Altrove non è nemmeno sicuro che la D<strong>in</strong>a sia disposta aritornare a casa da lui. Egli non conosce la realtà, né hastrumenti per dom<strong>in</strong>arla. Chiede aiuto a Pitàro e alla f<strong>in</strong>edella commedia si abbandona ad una violenza f<strong>in</strong>e a sestessa. Un po’ di sesso e un po’ di cibo sono gli ideali primied ultimi della sua vita. Il sesso è variato e allietato conun po’ di busse alla moglie. D’altra parte bastonare lemucche (quando si avevano) o bastonare la moglie era lastessa cosa.99 Bilóra forse si vanta o forse è stato effettivamente soldato.Sta di fatto che non ha appreso né il coraggio né comefare a sbrigarsela da solo. Ha bisogno di un cittad<strong>in</strong>o,Pitàro. Più sotto si vanta anche di essere stato bandito. Persicurezza ripete per una seconda volta a Pitàro di dire adAndrónico che è stato soldato.100 Discorso. Il term<strong>in</strong>e è dotto. La cultura contad<strong>in</strong>a s’impossessadei term<strong>in</strong>i che piovono dall’alto.101 Gli organi genitali r<strong>in</strong>secchiti. Gli scofón o scufón sonodei calzerotti di filo grosso o di lana, usati per tenere caldi ipiedi.102 Il verbo deriva dalla cipolla scalogna, che secondo lacultura popolare porta sfortuna. Chi doveva o poteva nutrirsisoltanto di questa cipolla era veramente scalognato,cioè era veramente sfortunato: era un morto di fame.103 Pitàro chiede ancora il nome a Bilóra, che non lo sapevaprima e non lo sa adesso. Così si getta all’avventura, adattaccare l’avversario senza conoscerne nemmeno il nome.Per altro, quando se n’era andato, non ha avuto l’idea dichiedere il nome di chi abitava <strong>in</strong> quel portone. Bilóra noncapisce <strong>in</strong> che mani si è messo.104 Messiere, messiér e missiér, cioè mio signore, è l’espressioneusata dagli <strong>in</strong>terlocutori. Deriva dal lat<strong>in</strong>o meuse senior (mio + comparativo di senex, senis, vecchio), e<strong>in</strong>dica rispetto o sottomissione o capatatio benevolentiaenei confronti dell’<strong>in</strong>terlocutore. Messere o messér o ser èla trasformazione (o la corruzione), piuttosto considerevole,subita dal term<strong>in</strong>e lat<strong>in</strong>o nel l<strong>in</strong>guaggio cittad<strong>in</strong>o o dotto.Il l<strong>in</strong>guaggio popolare, più lento nelle trasformazioni, ètalvolta più vic<strong>in</strong>o all’orig<strong>in</strong>ale. Esso, comunque, risente diun duplice condizionamento: la l<strong>in</strong>gua popolare ereditata,le parole usate da chi è più importante nella gerarchia sociale(cittad<strong>in</strong>o, ecclesiastico, datore di lavoro, padrone).Usare queste parole non è soltanto un atto di riverenza, maanche un modo per diventare importanti e per <strong>in</strong>nalzars<strong>in</strong>ella gerarchia sociale: nelle conv<strong>in</strong>zioni degli <strong>in</strong>teressatibasta cambiare l<strong>in</strong>guaggio, per cambiare classe sociale...Cadendo nell’uso popolare, queste parole dotte sono spessostorpiate.105 Parlare. Pitàro conosce se stesso e conosce il motivodella sua visita. Dà per scontato che sappia le due cose anchel’<strong>in</strong>terlocutore. È cultura e mentalità popolare questaconv<strong>in</strong>zione che le conoscenze e le conv<strong>in</strong>zioni, che unoha, non siano richiuse soltanto nella propria (o nell’altrui)mente, ma siano comuni. La cultura ufficiale <strong>in</strong>vece sa cheniente (o quasi) è ovvio <strong>in</strong> sé né, tanto meno, per le dueparti. Le <strong>in</strong>formazioni vano sempre esplicitate.106 Bilóra si ripete per la terza volta: ora diventa bandito...Un bandito che ha bisogno di aiuto da Pitàro: non capiscela contraddizione. In vita egli non è mai stato protagonista.Ed anche quando una faccenda lo riguarda non è capace diagire <strong>in</strong> prima persona.107 Andrónico parla con D<strong>in</strong>a o, molto più probabilmente,con se stesso. L’aveva già fatto al momento della comparsa<strong>in</strong> scena. L’aveva fatto anche Bilóra agli <strong>in</strong>izi della commedia.Il fatto era normale. Nel Medio Evo si leggeva avoce alta o almeno muovendo le labbra, ed era visto condiffidenza chi leggeva <strong>in</strong> silenzio.108 Pitàro non conosce il vecchio. Gli dà del voi. Andrónico<strong>in</strong>vece lo conosce e lo chiama per nome. Gli dà del tu. Irapporti di classe sono rispettati. I rapporti di forza sonocompletamente sfavorevoli a Pitàro. Andrónico ha il potereche gli deriva dall’<strong>in</strong>formazione, dal sapere. Anche <strong>in</strong> questocaso lo scontro tra i due personaggi si trasforma <strong>in</strong> unoscontro tra due culture e due spazi diversi: cultura cittad<strong>in</strong>ae città, cultura contad<strong>in</strong>a e contado. Ed emerge la superioritàdella cultura cittad<strong>in</strong>a, davanti alla quale il cittad<strong>in</strong>oemarg<strong>in</strong>ato (Pitàro) o il contad<strong>in</strong>o <strong>in</strong>urbato (Bilóra) devonocedere le armi.109 Di credenza, cioè <strong>in</strong> gran segreto. Dieci parole (a D<strong>in</strong>aaveva detto una parola): Pitàro monta la cosa, ma è un po’<strong>in</strong>timidito, perché il vecchio lo conosce di nome, mentrelui lo conosce soltanto di vista (e per quel poco e male chegli ha detto Bilóra). Lo scontro gli si preannuncia già sfavorevole.110 Pitàro cerca di usare un l<strong>in</strong>guaggio ricercato, che nongli viene bene. E fa ridere i nobili spettatori.111 Pitàro suggerisce ad Andrónico di mettersi nei pannidegli altri. Il tentativo di persuasione è modesto: non si vedeperché il vecchio si dovrebbe mettere nei panni deglialtri, di Bilóra danneggiato, se egli ha tutto l’<strong>in</strong>teresse diessersi presa e di tenersi la ragazza.112 Da stranieri, da estranei, qu<strong>in</strong>di una cosa che non si fa.In realtà tra Venezia e Padova c’era la stessa distanza fisicae culturale che c’era tra la terra e la luna. Venezia consideraval’entroterra un semplice territorio da sfruttare o <strong>in</strong>cui far sorgere le ville dove fare la bella vita.113 Pitàro gli r<strong>in</strong>faccia d’essere impotente. Un’osservazioneben poco diplomatica e sicuramente controproducente: egliripete all’<strong>in</strong>teressato ciò che si erano detti Bilóra e lui. Noncapisce che con Bilóra, che si vanta delle sue prestazionisessuali, conviene parlare dell’impotenza del vecchio; mache con il vecchio quello è l’argomento da evitare nel modopiù assoluto: non ha esperienza di vita né di uom<strong>in</strong>i. Enon si accorge, come prima non se n’era accorto Bilóra,che la strategia v<strong>in</strong>cente era un’altra: erano due contro uno,per di più vecchio; dovevano lasciar perdere i discorsi, entrare<strong>in</strong> casa con le buone o con le cattive, portare via conla forza la D<strong>in</strong>a, che al massimo avrebbe gridato e calciato.<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 35


Insomma doveva far valere con la forza i (presunti) dirittidi Bilóra, cioè del marito. Era partito con una discreta captatiobenevolentiae, ed ora dice una cosa vera, ma assaiirritante per le orecchie dell’<strong>in</strong>terlocutore, che giustamentesi offende. Se è impotente sono problemi suoi, che non riguardanoPitàro.114 Bilóra visto da Andrónico.115 Al tempo una delle spezie più preziose e costose.116 Immediatamente. È una delle rem<strong>in</strong>iscenze della culturagiovanile di Andrónico.117 La falda era la parte più <strong>in</strong>feriore dell’armatura. Completavala corazz<strong>in</strong>a proteggendo le reni e le cosce.118 L’uomo forte per Bilóra è rappresentato dal soldato odal bandito. Le figure sociali negative per la società costituitadiventano positive per gli esclusi e gli emarg<strong>in</strong>ati diquesta società. Per Andrónico <strong>in</strong>vece è rappresentato dauna figura più prestigiosa: san Giorgio, che ha spada emantello, i capelli alla moda, un cavallo. Ed è anche santo.119 Pitàro si preoccupa di Bilóra e sùbito dopo di sé, ambeduedanneggiati se Andrónico non lascia la ragazza. Non sichiede perché Andrónico non si dovrebbe tenere la ragazzae fare i suoi <strong>in</strong>teressi, né perché dovrebbe fare gli <strong>in</strong>teressidi Pitàro (e di Bilóra). Se lo faceva, forse trovava qualcheargomento per conv<strong>in</strong>cere l’avversario.120 Gli argomenti di Pitàro sono assolutamente nulli. Il vecchioli può resp<strong>in</strong>gere senza difficoltà. Egli ne cerca altri,ma la qualità non migliora.121 Andrónico gioca senza pietà con le parole: trasformadespiera, cioè dispera, <strong>in</strong> dispieda, cioè si toglie lo spiedo.Nel voluto fra<strong>in</strong>tendimento di Andrónico il testo suona così:PITARO Volete che si dispiedi, che si tolga lo spiedo?ANDRONICO Io non voglio che si tolga lo spiedo. Se èdispiedato, se si è tolto lo spiedo, che vada a farsi <strong>in</strong>filareuno spiedo da arrosto nel culo! Sempre gentile. Sono ivantaggi della propria cultura aristocratica. La battuta èancora più feroce e più volgare se si tiene presente cheAndrónico vuole vendicarsi di Pitàro, che senza educazionegli ha ricordato che il suo mestolo non è fatto per lapentola della D<strong>in</strong>a. Perciò lo <strong>in</strong>vita – visto che è un uomo enon una donna – a provare lui a farselo mettere nel culo.Ma non con una normale attività sodomitica, bensì con unospiedo lungo e tagliente, possibilmente <strong>in</strong>candescente, chelo penetra di retro. Così egli versava sale sulla ferita: losf<strong>in</strong>tere anale aveva già i suoi problemi e le sue lacrime disangue con le emorroidi...122 “Orsù, basta, non vado oltre, altrimenti mi arrabbio sulserio.” Il paragone è agricolo: <strong>in</strong> autunno dai campi aratisorgono le fumane. La terra si riscalda prima dell’aria, perciòl’umidità di cui è <strong>in</strong>trisa evapora e provoca una nebbiol<strong>in</strong>a,appunto la fumana.123 Pitàro pensa di cavarsela <strong>in</strong> questo modo apparentementeneutro: conta sul fatto che la D<strong>in</strong>a ha detto a Bilóra cheavrebbe abbandonato <strong>in</strong> ogni caso il vecchio. Ma non neera sicuro nemmeno Bilóra...124 Apetao significa attaccato, appiccicato al gioco chel’<strong>in</strong>teressato sta tentando. Andrónico avverte Pitàro chenon concluderà niente, si sta sbagliando circa la rispostadella ragazza.125 Al marito da del voi, al vecchio dà del messere. La distanzadi classe per ora resta.126 Come se <strong>in</strong> casa ci fosse qualcun altro... D<strong>in</strong>a, come sopra,cont<strong>in</strong>ua con il suo atteggiamento passivo. O dell’unoo dell’altro, per lei è la stessa cosa. D’altra parte nessunodei due partiti era appetibile: il marito la faceva morire distenti, il vecchio era schifoso. La donna, se mai aveva speratouna vita decente, ora è al di là di ogni speranza. Nullapotrebbe andare peggio di come va la sua vita. Che fare,allora? L’unica possibilità e l’unica via percorribile è quelladi adattarsi.127 Bilóra visto dalla D<strong>in</strong>a. Lei sarebbe la cerbiatta su cui illupo si avventa. L’aspetto ispido e il profilo da donnola diBilóra non era rassicurante nemmeno per la moglie.128 La donna si arrabbia e ribadisce che l’ha costretta lui.Presa dalla foga, si lascia sfuggire di bocca espressioni forti.129 Fallita la captatio benevolentiae e l’accusa d’impotenza,Pitàro ricorre alle m<strong>in</strong>acce: Bilóra è un brutto tipo, èmeglio che gliela diate. La donna resta una cosa su cui discuteree da attribuire al più forte. Non viene ascoltata neanchequando esprime chiaramente la sua volontà.130 “Non dico niente di più!” Andrónico usa ancora l’espressionelat<strong>in</strong>a nec plus ultra.131 “Andate <strong>in</strong> rov<strong>in</strong>a!” Lo dice quando Andrónico è entrato<strong>in</strong> casa. Questa imprecazione mostra l’impotenza e l’<strong>in</strong>successodi Pitàro, che cerca la rivalsa con le parole.132 Corruzione di Dom<strong>in</strong>e, tecum, “O Signore, con te...”.Bilóra rimprovera Pitàro di non avere gridato abbastanza edi non avere detto che è stato bandito: così si faceva <strong>in</strong>tendere.Insomma più uno grida, più possibilità ha di aver ragionee di zittire l’avversario. La giustizia rituale appartieneai tribunali.133 Il mal della lupa è la bulimia, cioè una fame esagerata,<strong>in</strong>saziabile, come quella di una lupa affamata.134 Pro certo habeo, ho per certo che..., sono sicuro che...Si tratta di una costruzione lat<strong>in</strong>a f<strong>in</strong>ita nei pensieri di Bilóra,caduta dal cielo della letteratura dotta o della culturaufficiale.135 Il mento molto sporgente.136 Pitàro risponde irritato e con sarcasmo: vuoi che io tiaiuti e poi mi tratti così?! Egli ha fatto fatica per niente: lapiccola ricompensa – i denari datigli da D<strong>in</strong>a – che si a-spettava da Bilóra è sfumata. Ma lascia perdere e dopo ilmomento di stizza <strong>in</strong>vita Bilóra ad andare con lui, semprenel tentativo di sottrargli qualche moneta. La risposta diBilóra è ugualmente sarcastica e irritata. Sùbito dopo i duesi separano o, meglio, Pitàro se ne va e Bilóra resta solo.137 È un male sconosciuto. Zopa significa zolla di terra. Imali reali non sono sufficienti, se ne <strong>in</strong>ventano anche diimmag<strong>in</strong>ari. Forse il male dei morti? O il male della terra,che non produce? Anche la terra si ammala... Niente affatto:le cose stanno diversamente, e sono molto più semplici.Al sangue di... è un prefisso che si trova <strong>in</strong> molte altre imprecazioniche lo stesso protagonista usa. Per il resto dell’imprecazioneBilóra ha fatto la stessa cosa di tante altrevolte. Ha assemblato ben tre term<strong>in</strong>i, che tra loro non avevanoalcun legame: al sangue di..., per il male di..., e ilterm<strong>in</strong>e f<strong>in</strong>ale zopa, la terra, con cui è quotidianamente <strong>in</strong>contatto. In un momento eccezionale serviva un’espressioneo, meglio, una imprecazione eccezionale: un assemblaggiotriplo poteva andare bene. Così il risultato f<strong>in</strong>ale<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 36


sarebbe stato particolarmente potente. L’espressione cosìformulata, come tutte le altre <strong>in</strong>tercalari di Bilóra e di Pitàro,non ha alcun significato. Questa conclusione non è peròesaustiva. Dietro alle espressioni approssimative o non significantista un uso magico del l<strong>in</strong>guaggio: il l<strong>in</strong>guaggio ècapace di condizionare o di modificare la realtà. Bilóra,Pitàro e la cultura contad<strong>in</strong>a ne sono assolutamente conv<strong>in</strong>ti:lo vedono fare anche da coloro che possiedono lacultura cittad<strong>in</strong>a, che essi si sforzano d’imitare ed anzi diaccentuare – come <strong>in</strong> questo caso – per dotarla di un potered’<strong>in</strong>tervento ancora maggiore. In realtà essi non hanno capitoche il potere della cultura cittad<strong>in</strong>a sulla realtà è di altrotipo: dipende dal rapporto univoco tra parola e cosa <strong>in</strong>dicata,dall’elevato numero di parole per <strong>in</strong>dicare l’elevatonumero di cose, e dalla complessità e dall’articolazionedella rete teorica (la grammatica e la s<strong>in</strong>tassi). Questa è lamagia della cultura cittad<strong>in</strong>a; e soltanto per questi motiviessa è capace di esercitare potere sulla realtà.138 “Non vorrei che non germogliasse bene”, cioè “Nonvorrei che la cosa non andasse per il verso giusto”, come<strong>in</strong>tende Bilóra. Togliendo la litote, la frase diventa: “Nonvorrei che le cose andassero storte (o per il verso sbagliato)”. Questo è un altro esempio di l<strong>in</strong>guaggio improprio,metaforico, da contado.139 Mentre parla, Bilóra gesticola. Da buon contad<strong>in</strong>o, chevive <strong>in</strong> mezzo ai campi, più che parlare, urla, cioè schiamazza.Due contad<strong>in</strong>i <strong>in</strong> mezzo ai campi non si avvic<strong>in</strong>avanomai, quando dovevano parlare. Si mettevano ad urlare,per farsi sentire.140 E fa le prove dell’azione che pensa di fare. Egli non conosceil pensiero astratto e la simulazione nella propriamente. Deve esprimersi normalmente con le parole e con igesti.141 Il coltello è arrugg<strong>in</strong>ito: non lo usa da molto tempo. Leoccasioni di usarlo sono mancate.142 Verbi gratia, cioè per esempio. In qualche modo l’espressionelat<strong>in</strong>a è f<strong>in</strong>ita nel vocabolario di Bilóra…143 Corruzione di Christe, eléison, “O Cristo, pietà.”. Il pianodi battaglia ha quattro fasi: l’aggressione verbale (le bestemmie),l’aggressione fisica (il colpo di coltello), il furtodei vestiti e la fuga.144 Corruzione di Dom<strong>in</strong>e, tecum, “O Signore, con te...”.Bilóra se la prende con la Madonna, poi con Dio e qu<strong>in</strong>dicon la madre di Andrónico, colpevole di averlo generato.Nelle imprecazioni è sistematico e ord<strong>in</strong>ato. Questo è tuttol’ord<strong>in</strong>e di cui è capace.145 Bilóra se la prende prima con la madre e poi con il padredi Andrónico. Offende il padre con l’accusa di essereun giudeo, cioè un usuraio. Gli ebrei, <strong>in</strong> genere usurai, nonsuscitavano simpatia tra la popolazione, che si vedeva depredata.Venezia è una delle prime città che nel Quattrocentoli relega <strong>in</strong> un ghetto.146 Bilóra si prepara psicologicamente allo scontro: studiale mosse e le prova, prima di metterle <strong>in</strong> pratica. In corsivosono le parole che Bilóra si prepara a dire ad Andrónico.Che ti possa arrappare significa “Che tu possa avereun’erezione come non hai mai avuto”. Il senso dell’augurioè però del tutto opposto: “Ben ti sta, che non ce l’hai eche perciò ti lamenti!”. Lo sp<strong>in</strong>o è la voglia di rubare lamoglie a Bilóra. Bilóra si propone di levarglielo di dosso.Dopo l’offesa ai genitori il protagonista passaall’offesa/accusa d’impotenza.147 Bilóra pensa di rubare i vestiti al vecchio. E prepara ilpiano di battaglia e fa già piani per il dopo battaglia: venderei vestiti del vecchio.148 Sono nere, ampie, sottili, odorose. Possono raggiungerecm. 50 di diametro. Si possono anche seccare e usare d’<strong>in</strong>vernocome combustibile. L’immag<strong>in</strong>e agricola rende benel’idea del corpo di Andrónico disteso per terra, <strong>in</strong>animato.149 Un mantello non vale certo un cavallo, ma Bilóra nonha esperienza e non sa fare i conti. Confonde il desideriodi possedere la roba con la realtà di possedere. La culturae la modestia o, meglio, l’impotenza della cultura di Bilórasi rivela anche nella costruzione s<strong>in</strong>tattica, estremamentesemplice: “e così... e così... e così...”.150 Ad arruolarmi come soldato. La D<strong>in</strong>a è dimenticata.Viene detto sùbito dopo. Di D<strong>in</strong>e se ne potevano trovarequante se ne voleva. È dimenticato anche l’affetto. Più sopraaveva detto: “La mia cristiana” e, parlando con la donna,di sé aveva detto: “Sono il tuo cristiano”. Ed ancheaffettuosamente: “Matta!”.151 Bilóra si è sdoppiato. Si dà degli ord<strong>in</strong>i.152 Questo è l’ultimo cànchero, il ventic<strong>in</strong>quesimo. Nellacultura popolare le parole vuote hanno grande spazio. Oltrea questa si devono aggiungere tutte le altre imprecazioni.La parola potta è usata dieci volte; l’espressione alsangue di... almeno otto volte. Il numero delle parole vuoteè direttamente proporzionale all’<strong>in</strong>capacità di controllosulla realtà.153 Strasc<strong>in</strong>ato, perché trasc<strong>in</strong>a male i suoi anni e il suocorpo. E qu<strong>in</strong>di sfasciato, sgangherato.154 Imprecazioni del tempo: “Che Dio gli mandi un accidente!”.Se le scorte di viveri erano f<strong>in</strong>ite, non si superaval’<strong>in</strong>verno e prima di Pasqua si f<strong>in</strong>iva all’altro mondo. Andrónicovorrebbe essere un Signore della Notte, Bilóra <strong>in</strong>vecevorrebbe esser soldato o bandito: ideali diversi e desideridiversi di classi diverse per difendersi o per aggredirela realtà ostile.155 Sono i magistrati che devono preoccuparsi della tuteladel buon costume e della sicurezza notturna. Di notte <strong>in</strong>città uscivano i pipistrelli ed anche coloro che dovevanoguadagnarsi <strong>in</strong> qualche modo la vita. L’illum<strong>in</strong>azione dellestrade era di là da venire, e si faceva gran uso di fanali,cioè di lanterne. La prima città illum<strong>in</strong>ata di notte è Parigiverso la f<strong>in</strong>e dell’Ottocento.156 Il servo è quasi un vegetale. Misura (o risparmia) anchele parole.157 Alle 22.00. Il giorno <strong>in</strong>iziava alle ore 18.00 di oggi.Andrónico lascia a casa la donna, si preoccupa per lei, e vaa fare un giro per le calli o nelle osterie lì vic<strong>in</strong>e. Deve rispettarei riti maschili della vita sociale.158 Bilóra ripete l’imprecazione che <strong>in</strong> precedenza si erapreparato a dire (scena nona, f<strong>in</strong>e: “Oh il cànchero ti mangi,vecchio strasc<strong>in</strong>ato...”). Poi – all’azione verbale seguel’azione fisica – lo colpisce con il coltello arrugg<strong>in</strong>ito. Nonusava né controllava da anni quello strumento. Non ne a-veva cura. Lo teneva, ma si era dimenticato dell’uso percui era stato costruito e per cui lo aveva acquistato.159 “Aiuto! Aiuto!” Andrónico chiede aiuto, ma per attiraredi più l’attenzione grida al fuoco!, una m<strong>in</strong>accia sempre<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 37


<strong>in</strong>combente nelle città del tempo, costituite per lo più dacasupole di legno. Bilóra, che vive nel contado, non riescea capire le parole del cittad<strong>in</strong>o. Nel 1666 Londra è <strong>in</strong>teramentebruciata da un <strong>in</strong>cendio di enormi proporzioni. Ma ilfuoco era un pericolo costante per tutte le città.160 I graspi o raspi sono quel che resta del grappolo d’uvadopo che sono stati tolti gli ac<strong>in</strong>i. I contad<strong>in</strong>i (ma non uncittad<strong>in</strong>o come Andrónico) del grappolo mangiavano tutto,ac<strong>in</strong>i e graspi. I graspi, particolarmente legnosi, non eranoaggrediti dagli acidi dello stomaco, e qu<strong>in</strong>di erano espulsi<strong>in</strong>teri con le feci. L’espressione è usata <strong>in</strong> modo metaforicoed improprio, per dire che qualcuno muore. Ma nelle ultimeparole ci sono altre espressioni metaforiche o improprie:“mio Dio” e “buon giorno”, anzi, “Mio Dio, buongiorno”. Più sopra D<strong>in</strong>a aveva detto “Buona sera” e <strong>in</strong>tendeva“Non ci credo”. L’espressione però, a seconda deicontesti, poteva avere anche altri significati. Qui Bilóra<strong>in</strong>voca Dio, ma senza esprimere il consueto sentimento didevozione, sottomissione o richiesta d’aiuto, che si associaall’<strong>in</strong>vocazione. Dice soltanto una parola vuota, senza significato.E unisce questa parola vuota all’altra parolavuota, senza significato e non pert<strong>in</strong>ente. Anche <strong>in</strong> questocaso particolarmente importante usa, come altrove, più parolevuote per <strong>in</strong>dicarne l’importanza. Bilóra, come D<strong>in</strong>a,non ha capito <strong>in</strong> quale contesto si usano i term<strong>in</strong>i né cheessi si usano <strong>in</strong> modo proprio, per facilitare la reciprocacomprensione e per evitare fra<strong>in</strong>tendimenti. In questo casole diverse espressioni vuote dovrebbero <strong>in</strong>dicare la gioia diessersi vendicato di Andrónico. Chi usa il l<strong>in</strong>guaggio <strong>in</strong>senso proprio si comporta <strong>in</strong> modo del tutto opposto: evitai discorsi metaforici ed usa i term<strong>in</strong>i o le espressioni impropriesoltanto per abbellire o per rendere più efficace ildiscorso.161 Bilóra cont<strong>in</strong>ua a parlare con se stesso. Si potrebbe pensareanche che parli a voce alta, senza pensare a quello chedice (l’espressione, correttamente usata, implica un <strong>in</strong>terlocutore),o che parli al morto (cosa impossibile) oppureche si rivolga al morto per dirgli qualcosa come: “Ti avevoavvisato!”. Aveva appena detto: “Buongiorno”, un’espressionedel tutto fuori luogo e priva di significato <strong>in</strong> questacircostanza, stando ai parametri del l<strong>in</strong>guaggio normalizzato.Più sopra (scena nona, f<strong>in</strong>e) aveva detto a se stesso:“Taci!”. Ma l’ipotesi è <strong>in</strong>adeguata. Il fatto è che Bilóra usacostantemente il l<strong>in</strong>guaggio <strong>in</strong> modo non normalizzato,cioè <strong>in</strong> modo improprio; e che ugualmente ha un cervellonon normalizzato, che confonde <strong>in</strong>terno ed esterno. Nonha una corretta visione della realtà esterna come di una realtàesterna e <strong>in</strong>differente a ciò che egli dice, pensa, desidera.Egli è conv<strong>in</strong>to che le parole abbiano una capacitàmagica di modificare la realtà. Per questo motivo avevafatto più volte accumuli di parole. Invece il rapporto delleparole con la realtà è diverso, è più complesso. Ma egl<strong>in</strong>on lo capisce e non potrà mai capirlo. La sua cultura e lasua esperienza non glielo permettono. Il l<strong>in</strong>guaggio normalizzatopermette un uso proprio come un uso improprio.Tuttavia l’uso improprio non è governato dal caso odall’arbitrio (è il caso di Bilóra), ma rispetta costantementele regole specifiche. Le figure retoriche possono essereconsiderate un esempio di uso improprio. Il cervello nonnormalizzato appare anche nel fatto di non voler capireperché la moglie se n’è andata di casa con un vecchio cittad<strong>in</strong>o(la batteva e le faceva soffrire la fame); nel fatto diaccusare (e di cont<strong>in</strong>uare ad accusare) Andrónico di averglirubato la moglie e nel non voler tenere presente che lamoglie si è rifiutata esplicitamente di tornare da lui; nelfatto di commettere un omicidio per futili motivi (rubare ivestiti al vecchio) e senza tenere conto delle conseguenze(la pena capitale). In Bilóra tutto è stravolto: pensiero, l<strong>in</strong>guaggioe percezione della realtà.<strong>Beolco</strong>, Bilóra, a cura di P. Genes<strong>in</strong>i 38

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