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Intervista a Oreste Forno, alpinista scrittore.

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Andar lassù doveva essere bellissimo: chissà che cosa c'era in cima, e chissàquali, altre montagne avrei potuto vedere da quel punto tanto vicino al cielo blu!Ci andai qualche tempo dopo, solo, con una piccozza della Grivel e un paio diramponi presi in prestito da un amico, e quella fu davvero una delle soddisfazionipiù grandi che io abbia mai provato. Perché scoprivo un mondo nuovo, ma soprattuttoperché scoprivo qualche cosa in me che prima non avevo mai avuto modo di vedere. Misentii grande quando giunsi in cima, e mentre me ne stavo orgogliosamente sedutotra la grande croce arrugginita e la madonnina in bronzo, guardavo le altre cimeancora più alte che si innalzavano di fronte e sognavo di salirle.Piano piano, una dopo l'altra, salii anche quelle. Piano piano perché nella vitac'erano altre cose più importanti, come aiutare la mamma nella casa, con glianimali e la campagna. Quante volte mi sono ritrovato a tornare dai boschi con unfascio di legna sulle spalle! E poi la scuola e il collegio che mi portavanolontano, dove la pianura avvolta dalla nebbia mi riempiva di nostalgia, ma allostesso tempo faceva crescere la fiamma della mia passione per la montagna.Dalle montagne di casa passai alle altre più note delle Alpi, come il Cervino chesalii e scesi solo, in giornata, o il Rosa, o il Bianco, e la soddisfazione dellacima era sempre grande e mi invogliava a cercare sempre di più, e a chiedere a mestesso sempre di più. Così, dopo una facile ma piacevole trasferta con gli scisulle montagne del Grande Atlante, in Marocco, passai al McKinley, una montagnaincredibilmente bella e affascinante dell'Alaska, alta 6.194 metri. Anche lì saliiin vetta con gli sci e vi arrivai da solo, ma a darmi tanto furono anche la lottacontro il grande freddo (la temperatura scendeva spesso intorno ai 40 gradi sottozero) e le bufere violentissime, oltre che al rapporto coi compagni.Continuando a rispondere al richiamo della montagna, o a quello che avevo dentro,l'anno dopo, nel 1984, mi presentai al Pic Lenin, una montagna di 7.134 metri nelPamir sovietico. Anche questa volta salii in cima, insieme a due compagni, e poiscesi fino in fondo con gli sci. Una bellissima esperienza, anche quella del PicLenin, che non fece che accrescere ancora il desiderio di salire in alto, semprepiù in alto. Per questo, l'anno dopo partivo per tentare un Ottomila, lo XixaPangma, ancora con gli sci.Successe però che nel tentativo della vetta caddi in un crepaccio (salivo solo) epassai due ore al suo interno, a tu per tu con la morte. Due ore nelle quali ebbila certezza di morire ma anche modo di sperimentare la serenità della morte. Misalvarono e quella fu per me, anche se me ne sarei reso conto solo anni dopo, unagrandissima esperienza di vita, ma il rischio corso non pose ancora un freno al miosalire. Forse stavo inconsciamente entrando in un brutto giro, quello del desideriodel successo, dal quale poi è difficile uscire.Questo desiderio perlomeno mi aiutò a bruciare i tempi della mia guarigione, e a unanno di distanza ripartivo per un veloce ma importante collaudo in Perù. Lacertezza che ero tornato come prima me la diedero tre importanti cime della zonache salii e scesi con gli sci: fu di nuovo il lancio verso le montagne più altedella terra.Dopo un nuovo tentativo vanificato dai monsoni allo Xixa Pangma, salii così il ChoOyu, con i suoi 8.201 metri la sesta montagna al mondo per altezza. Partii da soloper il balzo finale dall'ultimo campo a 7.000 metri di quota, all'una di notte e,grazie anche alla luna che mi rischiarò il cammino, alle 8,30 del mattino arrivaiin cima. Certo ero contento perché stavo bene e capivo che avrei potuto salireancora, e mi guardai anche in giro, ma il mio pensiero era quello di portare giù leprove che ero andato in cima. Scattai così diverse foto, nonostante il freddointenso, senza rendermi conto che avevo perso la mia libertà, che in qualche mododipendevo dagli altri.Continuai su questa strada anche negli anni successivi, dove ero passato al comandodelle spedizioni, ma durante la salita all'Everest del '91 successe un fatto cheincominciò ad aprirmi gli occhi. Successe che un compagno fu colpito da edemacerebrale quando si trovava a 8350 metri di quota, e ancora una volta vidi lospettro della morte avvicinarsi, ma questa volta in gioco era la vita di un


compagno che io avevo fatto entrare nella squadra, ed io avrei dovuto andare da suamoglie e dalla sua bambina di appena 9 anni per dire loro che la persona che piùamavano era stata inghiottita dalla neve della montagna più alta della terra. Conun soccorso che ha dell'incredibile, durato 5 giorni, lo salvammo, ma intantoincominciavo a chiedermi se era giusto rischiare così forte la propria vita; se eragiusto fregarsene delle persone care che avevamo a fianco nella vita di ognigiorno.Fu quindi con qualche dubbio che due anni dopo affrontai una via difficilissimasulla parete ovest del Makalu, montagna di 8.463 m, ma quando pochi mesi dopo andaia raccogliere le spoglie di Bonali, il mio più grande amico di montagna, ai piedidella parete nord del Huascaran e toccai di persona il dolore provocato dallamorte, capii che la vita era troppo importante e bella per giocarsela così.Cominciai allora a guardare con occhio diverso alla montagna e ad accorgermi cheanche le montagne più semplici potevano darmi le stesse soddisfazioni ed emozioniche avevo pensato di trovare solo su quelle più difficili e dure.È così che sono arrivato qua, sulle "montagnette" di casa dalle quali, con lospirito puro, sono partito un giorno. E se ho potuto ritornare è proprio perchéquesto lungo viaggio, fatto di gioia ma anche di privazione, di sofferenza e didolore, mi ha purificato e ora posso godere a fondo di questo semplice esserequassù.Perché per essere l'uomo più felice del mondo oggi mi basta camminare per le cresteche sovrastano Vignone, o stare seduto davanti alla mia baita ad ascoltare il cuorementre la luce dell'ultimo sole indora i pendii, o mentre le stelle luminose elontane riempiono il cielo e riportano vivo il mio passato. Un passato che ha fattola ricchezza del mio essere uomo; una ricchezza che la montagna mi ha permesso diraccogliere grazie alle salite a volte estreme che hanno temprato il mio carattere,ma anche grazie alla gente più povera e semplice che ho incontrato e che mi haaiutato a capire quali sono i veri valori della vita.<strong>Oreste</strong> <strong>Forno</strong><strong>Oreste</strong> <strong>Forno</strong> è nato a Monastero di Berbenno il 30 dicembre 1951.L'amore per la natura, per gli spazi aperti e per l'avventura l'hanno spinto a dedicarsi perlunghi anni all'alpinismo, ai grandi viaggi e alla fotografia. Istruttore nazionale discialpinismo, è stato tra i promotori dello scialpinismo d'alta quota. Nel suo curriculumfigurano infatti le discese, sci ai piedi, di montagne come il McKinley (6.194 m), ilHuascaran(6.768 m), il PicLenin (7.134 m) e lo Xixa Pangma, da quota 7.000. L'attivitàalpinistica l'ha invece portato al raggiungimento del Cho Oyu (8.201 m) e l'ha vistoleader in diverse spedizioni coronate dal successo. Tra queste quella al Dhaulagiri (8.167m), al Makalu (8.463 m) e all'Everest (8.848 m).Socio accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna (GISM), <strong>Forno</strong> ègiornalista-pubblicista e scrive articoli per giornali e riviste specializzate di montagna,tiene conferenze sull'alpinismo e la montagna, ed è autore ormai affermato con 11 libri alsuo attivo. L'ultimo di questi, Il Paradiso può aspettare sulla morte in montagna e comeaffrontarla, è arrivato in questi giorni in libreria.

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