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Il tramonto è bello, un racconto di Tiziano Scarpa - Il primo amore

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<strong>Il</strong> <strong>tramonto</strong> è <strong>bello</strong><strong>Tiziano</strong> <strong>Scarpa</strong>La prima volta che abbiamo visto l’AsseMe<strong>di</strong>ano non sapevamo che si chiamasse così.Era l’inverno del 2004. Dovevamo passaredue settimane sulla costiera. Si era liberata<strong>un</strong>a grande casa davanti al mare: amici generosici lasciavano le chiavi <strong>di</strong> <strong>un</strong>a vecchia magionedeserta, nella parte alta della costa, quasisulla sommità <strong>di</strong> <strong>un</strong>a citta<strong>di</strong>na turistica.Siamo arrivati carichi <strong>di</strong> buone intenzioni.La mattina ci alzavamo presto: <strong>un</strong>o preparavala colazione, l’altro andava a comprare i giornali.Poi tornavamo nelle camere a lavorare.Le nostre finestre davano sul mare: ne seguivamoil trascolorare durante la giornata, ognivolta che alzavamo gli occhi dal lavoro per riposarelo sguardo dalle nostre chimere.Nelle ore più tiepide uscivamo sulla terrazza,a guardare dall’alto la superficie dell’acqua,


che si stendeva a <strong>un</strong> centinaio <strong>di</strong> metri da noi.Ci sarebbe piaciuto capirla. Cercavamo <strong>di</strong> raffigurarciil mare tutto intero, dal fondo allasuperficie, come se avessimo potuto tagliarloin verticale per stare a guardarlo con comodo,attraverso la parete vitrea <strong>di</strong> <strong>un</strong> enorme acquario.“Sarebbe utile poter <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> <strong>un</strong> coloratore<strong>di</strong> correnti, che evidenzi le forze antagoniste,le spinte e le controspinte che agitanoquesta grande massa d’acqua”, ci <strong>di</strong>cevamo.Avremmo desiderato comprendere quello chesuccedeva davvero al mare, senza l’aiuto <strong>di</strong>metafore, ma neanche attraverso la me<strong>di</strong>azioneastratta delle formule <strong>di</strong> fisica.Da quella postazione, là in alto, si vedevachiaramente che la superficie dell’acqua era<strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> tessuto in movimento: c’eranoalmeno tre correnti che si muovevano contemporaneamentein <strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse.Le onde maggiori si affrettavano verso laspiaggia, come attirate irresistibilmente dallagravità della terra. A guardarle bene, però, cisi accorgeva che erano tagliate in <strong>di</strong>agonale dapiccole striature parallele. Da dove venivanoquelle on<strong>di</strong>ne secondarie? Sembravano mossedall’abbraccio costrittore dei promontori ai2


due lati del golfo. Come se non bastasse, <strong>un</strong>aterza flotta <strong>di</strong> increspature si <strong>di</strong>rigeva versotutt’altra parte: forse <strong>un</strong> vento minore spalmavala sua forza sull’acqua riuscendo a trovare<strong>un</strong> varco nel vento principale, come <strong>un</strong>avela controvento. Oppure si trattava <strong>di</strong> <strong>un</strong>a resistenzainerziale del mare, provocata dalla rotazionedel nostro pianeta.Qual<strong>un</strong>que fossero le cause <strong>di</strong> quelle spinte,il risultato complessivo era questo: si <strong>di</strong>stingueval’intreccio <strong>di</strong> tre correnti; ed erapossibile seguire il moto <strong>di</strong> ogn<strong>un</strong>a, ma ancheconsiderarle tutte e tre insieme. I loro solchicoabitavano sulla stessa superficie, cosicchécreavano <strong>un</strong>a proliferazione <strong>di</strong> triangoli, che sichiudevano e si allargavano <strong>di</strong> continuo come<strong>di</strong>aframmi <strong>di</strong> <strong>un</strong> obiettivo.La sera il mio amico fotografava il <strong>tramonto</strong>con la macchina <strong>di</strong>gitale, poi trasferival’immagine sullo schermo del suo computer,archiviandola come sfondo <strong>di</strong> apertura. Ognimattina riprendeva a lavorare salutato dal <strong>tramonto</strong>del giorno prima.Avevamo qualche <strong>di</strong>fficoltà nel maneggiarei tramonti, non sapevamo bene dove collocarli.Tutto andava bene finché restavamo aguardarli a bocca aperta, lasciandoli entrare a3


gran<strong>di</strong> quantità nel nostro animo. Poi perònon eravamo capaci <strong>di</strong> esprimerli: ci piacevanomolto nella realtà, ma non conoscevamo ilmodo giusto per rappresentarli. La nostra e-poca non lo prevedeva: era troppo grande il rischio<strong>di</strong> fare torto a <strong>un</strong> <strong>tramonto</strong> de<strong>di</strong>candogli<strong>un</strong> elogio stucchevole. A quanto pareva, nellanostra epoca i tramonti erano considerati sacri,non si potevano raffigurare senza rovinarlicon la pacchianeria del fatto stesso <strong>di</strong> averliraffigurati: come i gabbiani, le margherite, ilvolto <strong>di</strong> Dio e le erezioni degli uomini.La sera ci auguravamo la buonanotte, cichiudevamo ciasc<strong>un</strong>o nella sua camera, doveavevamo lavorato tutto il giorno. Ci stendevamosotto le coperte ad ascoltare il ritmo delmare, che letteralmente cullava il nostro u<strong>di</strong>tofacendoci addormentare. Valeva la pena <strong>di</strong>starlo a sentire. Così mi risvegliavo nel cuoredella notte per la nostalgia <strong>di</strong> quel rumore, cheaveva il potere <strong>di</strong> interrompere il mio riposo:ciò che mi faceva riaprire gli occhi non era <strong>un</strong>improvviso frastuono, ma l’ipnotica quiete delritmo marino. <strong>Il</strong> mare reclamava la mia attenzione,mi voleva sveglio.Non riuscivo a riprendere sonno. Mi alzavodal letto, uscivo nel corridoio in p<strong>un</strong>ta <strong>di</strong> pie<strong>di</strong>4


il proprio corpo <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> liquido <strong>di</strong>stillato dalcorpo <strong>di</strong> <strong>un</strong> animale.Passavamo mezz’ora al giorno a sfidarci a<strong>un</strong> videogioco, facevamo due o tre brevi partitedopo pranzo, prendendo <strong>un</strong> caffè, prima <strong>di</strong>riprendere a lavorare. Un pomeriggio ci siamointerrotti solo quando abbiamo sentito tornarela fame. Faceva già buio. Era ora <strong>di</strong> cena:avevamo giocato per sette ore <strong>di</strong> fila. Lo stessoè successo la mattina seguente, dopo la colazione.Così abbiamo dovuto ammettere chenon avevamo voglia <strong>di</strong> tornare nelle nostrecamere a lavorare. Lo slancio era esaurito, lenostre fantasie si erano <strong>di</strong>sseccate. Non erapiù il caso <strong>di</strong> stare seduti tutto il giorno a picchiettarecon la p<strong>un</strong>ta delle <strong>di</strong>ta sui nostristrumenti <strong>di</strong> lavoro. A quel p<strong>un</strong>to era più saggioriconoscere il fallimento e terminare le nostreferie con qualche giorno <strong>di</strong> anticipo.Abbiamo raccolto le nostre cose e siamo ripartitisubito. <strong>Il</strong> mio amico guidava l’automobile,io gli sedevo a fianco. All’improvviso <strong>un</strong>adeviazione ci ha impe<strong>di</strong>to <strong>di</strong> continuare. Lastrada era bloccata, c’erano dei lavori. Dovevamospingerci nell’entroterra. Abbiamo svoltato<strong>un</strong> po’ a caso. Eravamo spaesati, non avevamo<strong>un</strong>a mappa con noi. Ci siamo addentrati6


in <strong>un</strong>a regione sconosciuta, annusando i cartellistradali. Davanti a noi si è spalancata <strong>un</strong>apianura incrostata <strong>di</strong> schiuma e<strong>di</strong>lizia.L’immagine che mi faceva venire in menteera quella <strong>di</strong> <strong>un</strong> gigante che arriva con <strong>un</strong>’immensacarriola, si arresta, la svuota: dalla carriolascivolano giù scantinati, cubi <strong>di</strong> cementotraforato, condomìni, stanze, box, palazzine,rotolano sulla pianura e si fermano dove capita.<strong>Il</strong> mio amico invece aveva pensato <strong>un</strong>’altracosa: “<strong>Il</strong> piano regolatore che hanno approvatoqui ha <strong>un</strong> nome: si chiama ***” e ha detto<strong>un</strong>a bestemmia. Non la trascrivo, ma è facileimmaginarla, è la bestemmia italiana più <strong>di</strong>ffusa.<strong>Il</strong> suo commento faceva sospettare che ilpaesaggio che avevamo davanti racchiudesse<strong>un</strong> segreto teologico.In questo modo cadevo nella solita trappola.Sopravvalutavo il <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne, lo sfuocato, lacasualità della vita giu<strong>di</strong>candoli più veri della<strong>di</strong>sciplina e del sogno.L’assenza totale <strong>di</strong> legge compositiva, la feroceanarchia e<strong>di</strong>ficatrice, la non-urbanisticara<strong>di</strong>cale mostravano con tutta evidenza chequei luoghi erano orgogliosi <strong>di</strong> essere venuti almondo al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que progetto; ri-7


ven<strong>di</strong>cavano il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> esistere senza obbe<strong>di</strong>rea ness<strong>un</strong> <strong>di</strong>segno mentale. Erano monumentialla spontaneità sociale. Eccolo qui, ilconsorzio umano assoluto, l’aggregarsi degliuomini come semplice coabitazione, il loroaddossarsi sincero, senza filtri. La realtà vincevasul progetto, si manifestava nella sua sostanzapura, quasi metafisica. Quei grumi e<strong>di</strong>lizicon<strong>di</strong>videvano con gli ammassi stellari e leprataglie incolte <strong>un</strong>’affinità maggiore che conle città degli uomini.Continuavamo a girare, affascinati dal paesaggio,ma anche <strong>un</strong> po’ preoccupati. Non riuscivamoa capire che strada prendere. I cartellisembravano farsi beffe <strong>di</strong> noi, e le facce cheincontravamo non ci invogliavano a fermarci achiedere la via.Avevamo incrociato <strong>un</strong>a strada sopraelevata.Costruzioni selvatiche salivano come pianterampicanti appoggiandosi ai piloni <strong>di</strong> cemento.Non erano veramente case, piuttostopile <strong>di</strong> stanze ammonticchiate. I muri servivanosemplicemente a inscatolare gli interni, foderavanogli spazi da abitare senza preoccuparsidell’aspetto esterno. Quelle “case” nonsapevano <strong>di</strong> avere <strong>un</strong>a facciata: il lato esternodelle pareti per loro era come <strong>un</strong>a schiena. Si8


qualcosa che assomigliasse a <strong>un</strong> concettod’insieme, a <strong>un</strong> nome.<strong>Il</strong> mio amico ha fermato l’automobile vicinoa <strong>un</strong>o <strong>di</strong> quei piloni. C’era <strong>un</strong>a scritta su <strong>un</strong>muro che <strong>di</strong>ceva: LA MAGA STA QUA.“E se domandassimo a lei?”, ha propostoin<strong>di</strong>cando la scritta.“Vuoi scherzare?”“Mica tanto. Chi siamo, da dove veniamo,dove an<strong>di</strong>amo...”.“Non <strong>di</strong>re fesserie. E poi è rischioso.”“Che vuoi che sia? Mettiamo dentro la testa<strong>un</strong> attimo.”Siamo scesi dall’auto. Ci siamo avvicinatialla “casa” incastonata addosso al pilone. Lacatasta <strong>di</strong> scatole cementizie era fuori asse: il<strong>primo</strong> piano era più largo del pianoterra,sporgeva da <strong>un</strong> lato <strong>di</strong> <strong>un</strong> metro. La scala e-sterna faceva <strong>un</strong>’ansa per aggirare quella sporgenza.Ci siamo fatti avanti. Su <strong>un</strong> piccolo cartelloera scritto: MAGA. Ci siamo scambiati <strong>un</strong>’occhiata,poi siamo saliti su per la scala. Ci siamoritrovati <strong>di</strong> fronte <strong>un</strong>a porta messa sopral’ultimo gra<strong>di</strong>no, senza terrazzino né pianerottolo.Abbiamo bussato.10


“Chi siete?”, ci ha chiesto <strong>un</strong>a voce femminile.“Ci scusi, cercavamo la maga”.“Sì, ma chi siete?”, ha ripetuto la voce.“Non vi conosco”.“Ci siamo persi. Volevamo solo <strong>un</strong>’in<strong>di</strong>cazioneper l’autostrada. Ma se <strong>di</strong>sturbiamo nonimporta”.Una chiave ha girato nella serratura, laporta si è aperta. Istintivamente siamo scesi <strong>di</strong>qualche gra<strong>di</strong>no.La donna aveva <strong>un</strong>a cinquantina d’anni, ciguardava dall’alto in basso, sulla soglia, duegra<strong>di</strong>ni sopra <strong>di</strong> noi.“Venite dentro”. Indossava <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> pantaloniverde scuro e <strong>un</strong> maglione, le scarpecon <strong>un</strong>a piccola fibbia, i tacchi bassi. Aveva<strong>un</strong>a faccia chiara, senza trucco, con le sopraccigliasbia<strong>di</strong>te, i capelli grigi, lisci, pareggiatiall’altezza del collo.Siamo entrati. Ci siamo guardati intorno.Non c’erano tende screziate da ricami d’oro,né globi <strong>di</strong> vetro. Non si sentiva ness<strong>un</strong> profumo<strong>di</strong> incenso; semmai <strong>un</strong> vago odore <strong>di</strong>caffè. Abbiamo visto la caffettiera sul fornellosopra la bombola a gas, due mensole, <strong>un</strong> lavel-11


lo. La cucina era pulita. Sul tavolo c’era <strong>un</strong>amacchina da scrivere.Ci trovavamo in <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> sottotetto.Una trave <strong>di</strong> cemento spioveva in <strong>di</strong>agonale:l’abbiamo guardata bene, ci siamo resi contoche era <strong>un</strong> braccio del pilastro che sorreggevail viadotto. <strong>Il</strong> soffitto della stanza era la facciainferiore della strada sopraelevata. Sopra lenostre teste passavano automobili e camion, afolate. I motori ritmavano il tempo come <strong>un</strong>arisacca.La donna ci ha invitati a sederci al tavolo,<strong>di</strong> fronte a lei. Ha sfilato <strong>un</strong> foglio dal rullodella macchina da scrivere, ci ha <strong>di</strong>segnato<strong>un</strong>a piccola carta stradale per ritrovare la via<strong>di</strong> casa. Parlava <strong>un</strong> italiano senza inflessioni.Le abbiamo chiesto come mai <strong>un</strong>a personacome lei viveva in <strong>un</strong> posto così.“Sono emigrata da Lugano. Scrivevo poesietroppo fiacche, avevo bisogno <strong>di</strong> <strong>un</strong>’ispirazionepiù sanguigna. Sapete com’è, in Svizzera lecose sono <strong>un</strong> po’ blande. Qui la vita non è cara,mi basta poco, prendo qualche soldo leggendole carte alla gente. Mi hanno accettatasenza <strong>di</strong>fficoltà. A loro il mio modo <strong>di</strong> parlarerisulta esotico, gli ricorda le astrologhe dellatelevisione. Quando gli <strong>racconto</strong> il loro destino12


con il mio italiano forbito, a quanto pare gli faeffetto, mi considerano posseduta dalla linguadei morti. Scusate se non vi ho aperto subito,ci vuole <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> prudenza. Chi abita qui attornomi rispetta, ma ci sono anche i malintenzionati,qualc<strong>un</strong>o che passa per caso, vedeil cartello e pensa che io sia <strong>un</strong>a... Mi capite”.“E com’è che si è fidata <strong>di</strong> noi?”“Per le vostre voci”.La maga svizzera ci ha versato <strong>un</strong> caffè.Mentre lo bevevamo ci ha chiesto se ci facevapiacere che ci leggesse le carte. Le abbiamo rispostoche purtroppo non c’era tempo, dovevamoandare. Le abbiamo messo in mano <strong>un</strong>abanconota che lei non ha rifiutato. L’abbiamoringraziata salutandola dal basso verso l’alto,sulla rampa <strong>di</strong> scale.Ci siamo rimessi in macchina. Usando lesue in<strong>di</strong>cazioni tracciate sul foglio abbiamoraggi<strong>un</strong>to facilmente la strada per Roma.“Anche tu hai fatto finta <strong>di</strong> non accorgertiche <strong>di</strong>etro la mappa che ci ha <strong>di</strong>segnato c’è<strong>un</strong>a poesia?”“Io no. Che <strong>di</strong>ce? Leggila”.<strong>Il</strong> <strong>tramonto</strong> è <strong>bello</strong>,il mare è inafferrabile.13


Quando avrai la forza<strong>di</strong> scrivere frasi come questeavrai vinto la tua partita.Le frasi tuttavia non sonoesattamente queste,non lo saranno mai.Ma per il momento,per questo tuo momentoil <strong>tramonto</strong> è <strong>bello</strong> eil mare è inafferrabile.“E poi?”“Poi basta”.Siamo rimasti per qualche secondo in silenzio.“Però c’è da <strong>di</strong>re anche che il suo caffè nonera <strong>un</strong> granché”.Pubblicato in Napoli asse<strong>di</strong>ata, a cura <strong>di</strong> Giuseppe Montesanoe Vincenzo Trione, Tullio Pironti e<strong>di</strong>tore, 2007.14

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