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L'AUTONOMIA DEI SANI E L'AUTONOMIA DEI MALATI

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L’AUTONOMIA <strong>DEI</strong> <strong>SANI</strong> E L’AUTONOMIA <strong>DEI</strong> <strong>MALATI</strong>(Fabrizio Turoldo)2. Il principio di autonomia in medicinaTra le varie discipline che in epoca moderna hanno accolto il principio diautonomia, una tra le ultime è stata senza dubbio la medicina. Un taleprincipio, infatti, inizialmente estraneo alla tradizione e alla pratica medica, neè venuto progressivamente a far parte attraverso le molte sentenze giudizialiaventi per oggetto la pratica clinica. Tale processo di trasferimento delprincipio di autonomia dall’etica giuridica all’etica medica è statoparticolarmente intenso nella seconda metà dell’800, quando la comparsadell’anestesia chirurgica ha iniziato a sollevare gravi problemi di consensoinformato. L’anestesia chirurgica, infatti, veniva inizialmente usata non soloper evitare il dolore, ma anche per vincere la resistenza dei malati contro leoperazioni. I medici del secolo scorso, com’è infatti noto, ritenevano che ilrifiuto di una cura efficace manifestasse la palese incompetenza del pazientee che, dunque, fosse lecito procedere, per il bene di quel paziente, contro lasua volontà. Nello scorcio finale dell’800 i tribunali americani si videroletteralmente assediati dalle denunce di pazienti che si ritenevano vittimeinvolontarie della chirurgia. Agli inizi del ‘900 si era posto inoltre il problemadelle vaccinazioni obbligatorie, con i conseguenti conflitti morali relativiall’autonomia. Alcuni paesi, inoltre, sempre nella prima metà del ‘900,avevano proceduto alla sterilizzazione obbligatoria dei ritardati mentali,sollevando ulteriori conflitti e discussioni sul tema dell’autonomia. Il fatto,comunque, che decise in modo irreversibile dell’imprescindibilità del dirittoall’autonomia fu il nazismo. Al processo di Norimberga (1946) vennero postiall’attenzione della comunità internazionale i terribili casi di esperimenti suesseri umani condotti nei campi di concentramento nazisti. Sul banco degliaccusati, assieme ai gerarchi nazisti, sedevano infatti anche 20 medici.Durante il processo emerse, con sempre maggiore chiarezza, il carattere


cruciale della regola del consenso informato fornito dal paziente, asalvaguardia del valore imprescindibile della sua autonomia. Alla fine delprocesso la Corte fissò alcuni principi fondamentali, che entrarono a far partedel cosiddetto «Codice di Norimberga», al cui primo punto si trova scritto che«il consenso volontario del soggetto umano è assolutamenteimprescindibile». Il suggello definitivo al riconoscimento del valoredell’autonomia è infine venuto dalle battaglie civili degli anni ‘60 e ‘70. Questebattaglie sono iniziate negli Stati Uniti, dove, proprio in quegli anni, sicominciava ad avvertire una reazione al crescente potere di uno stato chestava tragicamente fallendo nella guerra del Vietnam. I movimenti civili sorti inquegli anni avevano tra le proprie parole d’ordine l’individualità, la libertà,l’autonomia e la creatività. Nascevano, in quel clima, movimenti cheavrebbero portato avanti importanti battaglie sociali e civili: il movimento diliberazione della donna, il movimento ecologico, il movimento in difesa deiconsumatori, il movimento per i diritti dei malati, ecc. In Europa le battagliesessantottine si concentrarono soprattutto nelle università, sulla scia dellemanifestazioni del Maggio francese. Tutte queste battaglie avevano comecomune denominatore la rivendicazione del diritto all’autonomia, contro ilpaternalismo e l’autoritarismo che avevano caratterizzato sino ad allora laclasse docente.3. Il valore dell’autonomia3.1. L’autonomia è necessaria all’umanizzazione della medicinaIl principio che ha guidato la prassi medica sin dal suo nascere non èstato il principio di autonomia, ma piuttosto quello di beneficenza. Nel corsodella storia, inoltre, il principio di beneficenza è stato inteso secondo diverse


curvature interpretative, alcune delle quali si sono poste in aperto contrastocon il principio di autonomia. Si può sinteticamente dire che nella culturagreca, latina e cristiano-medievale è prevalsa un’interpretazionepaternalistica del principio di beneficenza, dalla quale ci si è liberati solo nellatarda modernità, quando si è iniziato a valorizzare il punto di vista del malato,prendendo in considerazione la sua rivendicazione dell’autonomiadecisionale. Grazie a questo cambiamento di prospettiva il malato oggi non èpiù percepito come un semplice paziente, ossia come colui che deve subirepassivamente l’azione del medico, ma come una persona il cui punto di vistava ascoltato e preso nella massima considerazione. Questa mutazionenell’etica e nella prassi medica costituisce una delle grandi conquiste dellanostra epoca: essa va nella direzione di una giusta ed opportunavalorizzazione dei rapporti intersoggettivi anche nella pratica clinica. Ilrapporto tra medico e paziente non è più inteso in modo univoco, secondouna direzione senza ritorno, che va solo dal medico al paziente e nonviceversa, ma secondo un movimento biunivoco, in base al quale medico epaziente devono essere capaci di ascoltarsi e di vestire l’uno i panni dell’altro.Ascoltare il paziente significa non renderlo oggetto di un anonimo eimpersonale trattamento medico. Il paziente che viene ascoltato dal suomedico ha la sensazione di non essere solo un corpo-oggetto che deveessere curato (in inglese “to cure”), ma una persona, intesa nella suaglobalità, di cui ci si deve prendere cura (in inglese “to care”). Da questopunto di vista si deve dire che la valorizzazione dell’autonomia del pazientecostituisce uno degli elementi indispensabili nel processo di umanizzazionedella medicina.3.2. Il principio di autonomia è coerente con l’odierna epistemologia medica


Il mutamento nell’impostazione delle basi logiche della medicina, verificatosi nelsecolo scorso, costituisce un altro elemento fondamentale a favore dell’autonomia. Lamedicina ha subito infatti, nel corso del ‘900, una rivoluzione interna che l’hacondotta a ripensare le sue basi epistemologiche e, di conseguenza, il modo diintendere il rapporto medico-paziente. La vecchia logica clinica era determinista estabiliva una relazione necessaria tra l’eziologia, la specie morbosa e la cura dellamalattia. Questa impostazione conduceva inevitabilmente al paternalismo, perché ilmedico credeva di sapere molto bene quello che doveva fare e di non avere alcunanecessità di consultarsi con il paziente. Più recentemente invece la logicadeterminista è stata sostituita, in medicina, da una logica probabilistica e statistica.Oggi si ritiene infatti che per la gran parte delle malattie molte siano le cause possibilie, di conseguenza, che molte siano anche le cure adottabili. I casi che escono dallevecchie norme deterministe risultano essere sempre più frequenti, al punto chel’eccezione, ossia il caso dubbio, diventa sempre più la regola. Il medico è costretto aprendere delle decisioni in situazioni di incertezza, basandosi, perlopiù, sul calcolodelle probabilità. Stando così le cose si rende assolutamente necessario coinvolgerenella cura gli stessi pazienti, esponendo loro un ventaglio di possibilità diagnostiche,di prognosi e di terapie sul caso, in modo che essi stessi diventino responsabili,assieme al medico, di una scelta che per forza di cose è sempre rischiosa.3.3. L’autonomia costituisce il fine stesso della medicinaGli esseri umani non nascono autonomi, ma lo diventano, attraverso un processo incui hanno un ruolo fondamentale le relazioni con gli altri. Sono gli altri che ci aiutanoad acquisire autonomia. Questo è particolarmente evidente nell’educazione dei figli:gli si insegna a mangiare da soli, a camminare, a parlare, a riconoscere i pericoli delmondo esterno, perché, ad un certo momento, possano rendersi autonomi e farsi laloro vita. Gli psicologi insegnano infatti che è un cattivo genitore quello cheimpedisce ad un figlio di rendersi autonomo, creando con lui un rapporto di tipo


simbiotico. Oltre alla famiglia, però, esistono anche altre istituzioni sociali deputatealla promozione dell’autonomia degli individui: lo scopo della scuola, ad esempio, èquello di formare soggetti autonomi, che siano in grado di sviluppare pienamente leloro potenzialità umane. Ma, allora, non si può dire lo stesso anche della medicina?Se la malattia è qualcosa che ci impedisce di essere autonomi, di realizzare i nostrifini e di perseguire la piena realizzazione delle nostre potenzialità umane, neconsegue che la medicina, che combatte la malattia, promuove, al tempo stessol’autonomia. Affermare questo significa legare l’autonomia alla medicina in unamaniera più organica e significativa rispetto a quella usuale, che vede semplicementel'appello all'autonomia come fondamento di vincoli esterni al modo in cui la medicinaviene praticata. Noi invece continuiamo a vedere la nozione di autonomia come unfattore che si è sovrapposto dall'esterno all'impresa medica, in quanto estraneo allasua "essenza" e persino in potenziale conflitto coi fini tradizionali della medicina, conil rischio che la nozione, e le pretese normative su di essa fondate, vengano non solomarginalizzate - come nella pratica medica spesso accade - ma anche espunte, comeinutili e persino dannose, dalla relazione medico-paziente. Negli ospedali americani e,ora, anche se in misura minore, anche da noi, l’autonomia del paziente viene invocatae rispettata in funzione “difensiva”, per evitare guai con la magistratura. Il consensoinformato, ad esempio, non costituisce spesso uno strumento che consente divalorizzare l’autonomia del paziente, ma un documento da firmare (qualcuno lodefinisce ironicamente “consenso firmato”) per mettere al riparo il medico daeventuali ripercussioni penali.4. I limiti dell’autonomia


4.1. Primo limite: la concezione individualistica dell’autonomia presente inalcune prospettive della letteratura bioetica contemporaneaIl diritto all’autonomia costituisce uno dei fondamenti imprescindibili dellamorale, perché senza autonomia non c’è soggetto morale e senza soggettomorale non c’è etica. L’utilitarismo è stata una delle correnti filosofiche che hasottolineato con più forza questo concetto, facendo del principio di autonomiail proprio vessillo. Per gli utilitaristi l’autonomia viene concepita come unaspecificazione di un più generale diritto a non subire sofferenze inutili e nonvolute. L’autonomia, secondo questi autori, sarebbe giustificata dal fatto cheessa protegge i migliori interessi del soggetto a cui viene riconosciuta.Ciascuna persona, anche se talvolta agisce imprudentemente, sa, meglio dichiunque altro, quali siano i propri interessi; per questo, la sua autonomia nonpuò essere conculcata per alcun motivo, nemmeno per il suo presunto bene.L’autonomia, secondo gli utilitaristi, dovrebbe generare, nel lungo periodo, uncomportamento che, nel suo complesso, sarà sicuramente conforme aimigliori interessi del soggetto che la esercita. Nella prospettiva utilitaristicanon c’è, dunque, conflitto tra autonomia e beneficenza. Ciascuno sa qual è ilsuo bene e la collettività non può far prevalere un proprio diverso criterio dibene su quello del singolo individuo. John Stuart Mill riteneva che lo stato nondovesse mai interferire con la libertà dell’individuo, nemmeno per un suopresunto bene oggettivo, ma solo per impedire danni a terzi.Un’altra versione del principio di autonomia, basata sulla nozione di«integrità», è offerta da filosofo americano Ronald Dworkin, incontrapposizione alla tesi utilitarista, da lui definita «evidenziale». SecondoDworkin la tesi utilitarista sull’autonomia non è condivisibile per il semplicefatto che il fine dell’autonomia spesso non è affatto quello di proteggere ilbene dell’agente. Ci sono infatti delle persone che decidono in pienaautonomia di sacrificare la propria vita per gli altri, oppure, molto più


semplicemente, ci sono molte persone che fumano per una vita intera pursapendo, fin dall’inizio, che fumare non è nel loro migliore interesse. Talvoltachi agisce autonomamente contro il proprio interesse viene persino lodato, seil suo è uno scopo altruistico. Per queste ragioni il fine dell’autonomia deveessere indipendente dalla tesi evidenziale secondo cui una personageneralmente sa qual è il suo migliore interesse meglio di chiunque altro. E,sempre per queste ragioni, un demente può ben aver diritto all’autonomia,anche se può sbagliarsi riguardo ai suoi migliori interessi. Dworkin proponeuna concezione dell’autonomia basata sull’integrità, piuttosto che sulbenessere dell’agente che sceglie. Ecco infatti come egli si esprime: «Ilvalore dell’autonomia deriva dalla capacità che viene in tal modo protetta: lacapacità di esprimere il proprio carattere nella vita che si conduce (valore,impegni, convinzioni, interessi critici così come interessi di esperienza).Riconoscere un diritto individuale all’autonomia rende possibilel’autocreazione. Permette a ciascuno di noi di essere responsabile di darforma alla propria vita secondo la propria coerente o incoerente, macomunque peculiare, personalità. Ci permette di condurre la nostra vita,anziché essere trascinati da essa, cosicché ciascuno di noi possa essere, perquanto può renderlo possibile uno schema di diritti, ciò che ha fatto di sestesso. Permettiamo che una persona scelga la morte invecedell’amputazione totale o di una trasfusione di sangue, se questo è il suodesiderio consapevole, perché le riconosciamo il diritto a una vita strutturatasui suoi valori. La concezione dell’autonomia basata sull’integrità (…)riconosce che le persone fanno spesso scelte che riflettono debolezza,indecisione, capriccio o evidente irrazionalità» 1 .Il limite delle due prospettive sopra esposte consiste essenzialmentenel loro individualismo. In entrambe manca una considerazione della1 R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni diComunità, Milano 1994, p. 309.


dimensione relazionale della vita morale in cui il principio di autonomia siinserisce. Trascurando le implicazioni intersoggettive dell’autonomia ineoutilitaristi e Dworkin hanno perso di vista il significato originario chel’autonomia aveva acquisito nel pensiero di Kant, il quale aveva per primofornito un’autentica dignità filosofica a questa nozione. L’autonomia a cuipensa Kant è infatti l’autonomia di una persona razionale, che vuoleliberamente la legge morale universale e che dispone di ragioni moraliuniversalizzabili per giustificare le sue opzioni. Kant lega la figuradell’autonomia all’universalità della ragion pratica che si esprimenell’imperativo categorico, ossia nella legge intesa come «fatto della ragione»(Factum der Vernunft). Questo «fatto», però, non è inteso come un prodottodel singolo e della sua ragione, così come avviene nella tesi dell’integralitàproposta da Dworkin, ma come un dato che la ragione deve assumere, ossiacome qualcosa che trova la sua origine in un ordine universale esterno aisingoli individui empirici. Uno dei pilastri di questo ordine è l’uomo come fine,così come si afferma nella seconda delle tre formulazioni della legge moraleesposte nella Fondazione della metafisica dei costumi: «Agisci in modo datrattare l’umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro,sempre e a un tempo come fine, e mai semplicemente come mezzo». Ma, sel’autonomia deve esercitarsi guardando ad un fine, e se questo fine èanch’esso incondizionato, allora non si può dire che l’autonomia siaassolutamente incondizionata. Per Kant, infatti, noi siamoincondizionatamente autonomi solo al fine di trattare incondizionatamente glialtri come nostro fine. Per questo non c’è, in Kant, identità tra sceltaindividuale e scelta morale, e l’individuo non può mai essere norma a sestesso. Il filosofo Tom Beauchamp, scrive, a questo proposito, moltocategoricamente che «ogni filosofia nella quale un diritto all’autonomiaindividuale può legittimamente superare i dettami dei principi morali oggettivi


del dovere è aliena dalla teoria morale di Kant» 2 . La concezioneindividualistica dell’autonomia, secondo Beauchamp, «non è quella di Kant. Èattribuita a Kant in letteratura solo attraverso l’acritica confusione di un’ampiafamiglia di idee associate all’autonomia nella contemporanea filosofia moralee del diritto: i diritti di libertà individuale e di privacy, la libera scelta, loscegliere per sé, l’essere una persona unica, creare una propria posizionemorale, assumere la responsabilità finale per le proprie idee morali, e simili» 3 .Anche secondo Massimo Reichlin, «la nozione contemporanea di autonomiaha (…) radici individualistiche, rintracciabili in Hume, nella filosofia libertina enella concezione milliana della libertà» 4 .4.2 Un secondo limite:l’ipertrofia cognitiva della nozione moderna di autonomiaL’autonomia a cui pensano i moderni è un’autonomia intesa in sensocognitivo: è l’autonomia di un soggetto adulto, sano, perfettamente in grado diintendere e di volere. Questa autonomia, così sbilanciata sul piano cognitivo,fonda, secondo alcuni, lo stesso concetto di dignità umana, quasi che nonavesse più dignità chi, a causa di qualche malattia psicoinvalidante, nonfosse più in grado di garantire un tale tipo di autonomia. Ecco che allora unodei compiti più importanti per la bioetica, oggi, consiste proprio nel mettere indiscussione un’autonomia viziata da una forte ipertrofia cognitiva, a partiredalla sfida lanciata al pensiero dalle malattie neurodegenerative. I malatiterminali, i malati affetti da malattie neurodegenerative, come ad esempiol’Alzheimer, esprimono infatti un’autonomia non lineare, ma puntuale,2 T. BEAUCHAMP, Suicide and Eutanasia. Historical and Contemporary Themes, KluwerAcademic, Dordrecht 1989, p. 214.3 Ivi, p. 212.4 M. REICHLIN, Autonomia e responsabilità nella sfera procreativa, in Bioetiche in dialogo.La dignità della vita umana e l’autonomia degli individui, Zadig, Milano 1999, p. 182.


un’autonomia del momento, un’autonomia residuale. L’attenzione a questotipo di autonomia sviluppa in chi sta di fronte al malato una capacità dientrare responsabilmente all’interno di sistemi di comunicazione differenziati,che permettono di entrare in dialogo con il malato.Ma come si fa, nel concreto, ad entrare in dialogo con chi non può piùparlare, per cogliere questa forma residuale di autonomia? Quali modalitàcomunicative ci rimangono a disposizione in questi casi?1)Una prima risposta ce la potrebbe dare una qualsiasi madre, perché ognimadre comunica intensamente con il suo bambino, anche se il piccolo non è in gradodi parlare. Se il bambino piange, la mamma si rattrista con lui; se il bambino ride, lamamma gioisce con lui. La mamma sa ascoltare, osservare, comunicare con lecarezze, i baci, la mimica del volto. Il bambino non capisce le parole della mamma,ma la mamma gli parla, perché comunica attraverso il tono della voce, la dolcezzadelle parole. Ma se la mamma fa questo con il figlio piccolo, non può fare altrettantoquesto figlio quando, divenuto adulto, si trova ad accudire la madre malata? Non sitratta dello stesso tipo di comunicazione?2)Una risposta più articolata ed approfondita potrebbe venire dai testi di alcunimedici e psicologi che hanno studiato approfonditamente le modalità dicomunicazione non verbale con soggetti che si trovano all’inizio o alla fine della vita.Penso, ad esempio, al medico olandese, Frans Veldman, che ha ideato una pratica diapproccio psicotattile a cui ha dato il nome di “aptonomia”, cioè “scienzadell’affettività espressa attraverso il contatto” (dal greco hapsis, “tocco” e nomos,“regola”). Veldman utilizzava questa tipo di approccio per favorire le relazioni tra igenitori ed il loro bambino, dal concepimento alla nascita, sino al periodo post-natale.Da poco meno di vent’anni la disciplina ideata da Veldman è stata applicata consuccesso anche alla fase finale della vita. Una delle più strenue sostenitrici dell’utilitàdell’approccio aptonomico anche alle fasi finali della vita è Marie de Hennezel,autrice de La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire 5 . Le analogie tra la5 M. DE HENNEZEL, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano 1998.


fase finale e quella iniziale della vita sono infatti evidenti: sono questi i momenti incui si è più fragili e vulnerabili, in cui la comunicazione e le relazioni con gli altriavvengono prevalentemente od esclusivamente attraverso il canale non verbale, in cuisi ha più bisogno della cura e della presenza attenta ed amorosa degli altri. Lepercezioni sensoriali sono al centro dell’affettività e l’affettività è amplificata neimomenti della vita in cui si è più vulnerabili. Nelle persone allettate le capacitàpercettive si acuiscono in modo del tutto particolare. Il contatto aptonomico, offrendouna conferma affettiva al soggetto, gli consente di acquisire una “sicurezza di base”,che mette in moto una serie di fenomeni psicofisici positivi, che possono modificareanche la capacità di rispondere alle malattie e di vivere il tempo del morire.Chi si pone al livello del malato è in grado di cogliere anche la sua autonomiaresiduale, autonomia che il malato comunica essenzialmente attraverso il linguaggionon verbale. Nella lingua tedesca esiste un espressione molto interessante e ricca, chedefinisce molto bene questo tipo di autonomia: “Die autonomie des Augenblicks”(L’autonomia del momento, dell’istante. L’autonomia che si offre a tratti, in modopuntuale). Augenblick (momento, istante, attimo), contiene in sé il termine “Blick”,ovvero sguardo, occhiata. Augenblick, dunque, è il momento che gli altri possonocogliere con lo sguardo, ma solo se il loro sguardo è allenato. Merleau-Ponty parla diuna sorgente di autonomia che non emerge da ciò che io sono capace di percepire, madalla capacità che io ho di essere percepito. Allo sesso modo Paul Ricoeur parla diuna “attestazione”, di una fiducia, nel nostro poter fare, che consiste nelriconoscimento e nell’approvazione che ciascuno di noi riceve da se stesso e daglialtri. Dunque, esiste una duplice fonte dell’autonomia: c’è l’autonomia che io riescoad esercitare e c’è l’autonomia che gli altri mi riconoscono.Questo discorso raffinato dei filosofi trova riscontri nella pratica quotidiana eanche nelle vicende di cronaca. Il caso Terry Schiavo, ad esempio, è il classico casoin cui si confrontano e si scontrano tra di loro due diverse concezioni dell’autonomia.Da un lato l’ex marito faceva riferimento ad una volontà espressa in un lontano


passato, quando Terry era nel pieno delle sue capacità cognitive. Dall’altro latoc’erano i genitori, che facevano appello ad una diversa autonomia, che Terryesprimeva attraverso lo sguardo, il contatto fisico. Attraverso questa autonomiaresiduale Terry diceva di voler rimanere in vita, protraendo quel rapporto così intensocon i genitori che la accudivano. E allora a quale autonomia occorre dare ascolto, aquella in cui si esprime l’identità personale attuale, o a quella espressa da una identitàpersonale che non appartiene più a quella persona? È possibile che una persona vengacondannata a morte per una sentenza emessa da un’altra persona che non è più lei, econ cui lei non è più d’accordo?La conclusione di quanto osservato sopra è che il malatoapparentemente privo di autonomia non è un problema per se stesso, masono gli altri, che gli stanno accanto, che possono diventare un problema perlui, nella misura in cui non lo considerano più come una persona in grado diesprimere un autonomia residuale e come una persona meritevole di rispetto,anche quando non dovesse essere più in grado di percepire le ferite infertealla sua autostima.L’uomo, finché vive, è sempre unità di anima e corpo. Noi siamo abituati a unarappresentazione sempre contemporanea di tutto il corpo in tutta l’anima, ma ci sonoinvece degli stadi di oblio dell’anima, in cui l’anima resta sullo sfondo e il corporinuncia a parlare dei linguaggi, perché l’anima non gli è totalmente presente. Eppureanche questa è unità di corpo e anima. La nostra cultura, purtroppo, ci porta ad unaconsiderazione eccessiva per i fattori cognitivi. Sembra che, quando una persona nonè più in grado di esprimere pensieri e parole (o non lo è ancora), essa non abbia lostesso valore o non meriti lo stesso rispetto di chi è in grado di esercitare questefacoltà. Alcuni bioeticisti giustificano l’eutanasia, l’aborto e a volte persinol’infanticidio anche in base al minor valore attribuito alla vita di chi non esercitacapacità cognitive e linguistiche 6 . Alcuni di questi teorici dicono infatti che la vita6 Sono arcinote, ad esempio, le posizioni assunte da P. SINGER a questo proposito (cfr. Eticapratica, Liguori, Napoli 1989, oppure Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Rizzoli,


iologica va distinta dalla vita biografica e che quando vengono meno le capacitàcognitive, allora è venuta meno la vita biografica e ci si trova di fronte ad un merodato biologico, ad un corpo oggetto che si può tranquillamente sopprimere. Taliteorizzazioni trovano sostegno in un’errata ipertrofia del cognitivo. In realtà, invece,quando ad una persona si spegne il cervello, non per questo si spegne anche il cuore,perché il cuore si perde solo con la morte.Milano 1996). Ma Singer è solo il più noto di una lunga schiera di teorici che affermano idee moltosimili alle sue.

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