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Stare nelle incertezze - Felice Di Lernia - Cura e Cultura

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Il dubbio<strong>Felice</strong> <strong>Di</strong> <strong>Lernia</strong><strong>Stare</strong> <strong>nelle</strong> <strong>incertezze</strong>1.Il counseling (come idea ecome bisogno, non come metodoné come pratica) prendecorpo in uno spazio epistemologico(storico e concreto) caratterizzatoda una potente ubriacaturatecnologica, la stessa che ha resopossibile e favorito la definitivatrasformazione semantica deiconcetti di salute e malattia (e,dunque, di cura e di medicina). Inquesto spazio epistemologico (o,se si preferisce, in questo pensierostorico e generale) infatti si dannole condizioni per il compimento didue macro-fenomeni antropologicistrettamente connessi tra diloro e talmente determinanti losviluppo della cultura successivache potremmo forzare la mano edefinirli “fatti sociali totali”:1. si perdono le tracce di una delleesperienze fondamentali dellavita individuale: il dolore;2. la sfera di competenza dellepratiche di cura si estende finoa coprire l’intero campo dellaNessuna certezza èdove non si po’ applicareuna delle scienze matematiche(Leonardo Da Vinci)esistenza umana dando vita auno stato di medicalizzazioneuniversale.Il dolore cessa di essere un mododi stare nel mondo (ponte sinestesicotra realtà e significato, espressionevitale di sé…) e diventa limitetout court. E i limiti, si sa, sononegativamente performativi: sisuperano o si negano. L’umanitàche produce e accetta la scomparsadel dolore è una umanità che haidealizzato se stessa e le sue possibilità,che aspira alla purezza ealla perfezione, che massimizzai profitti e i risultati, che legge lapropria esistenza come performance.È, dunque, una umanitàdebole e angosciata in cerca dirassicurazioni. Insicura in cercadi certezze, questa specifica umanità– come un battello nella tormenta- anela un approdo qualeche sia ed è disposta a orientare lesue vele in direzione di una luce,di un suono, di una promessa difelicità.La medicina (intesa come praticagenerale della cura) cessa di occuparsidella malattia ed estende lasua pretesa di controllo anche allasalute, coprendo e trasformandodi fatto con la propria competenzaanche fenomeni universalmente eda sempre considerati espressionifisiologiche della esistenza umana(la nascita, la sepoltura, la cadutadei capelli, la dimensione dei glutei,la fertilità …).In questo clima psicologico dimassa l’ubriacatura tecnologicaè al tempo stesso causa ed effettodel delirio di onnipotenza chetanto ha caratterizzato le pratichedi cura post-moderne ed ancoracaratterizza le peggiori traqueste. Un delirio di onnipotenzaefficace perché speculare al bisognodi onnipotenza di questaumanità compulsivamente orientataall’imprinting.Per inciso: nell’agone delle modernepratiche di cura si fronteggianosenza sosta due concorrentiagguerriti e, non raramente,feroci. Da una parte la fede nellascienza, nella sua esattezza, nellasua religiosa indiscutibilità, nellasua indiscutibile autorità (suquesto fronte la scienza è al tempostesso verbo e manifestazionedel sacro, annunciazione e compimentodell’attesa). Dall’altra parte31


Il dubbiole credenze, un pluriverso mondopopolato da tutto ciò che la scienzaufficiale (e dunque bianca e occidentale)considera altro-da-sée bolla come medicine ingenue(ufficialmente perché arcaiche,magiche, contadine e tradizionalima in realtà nel confronto-scontroentra tutto il novero delle curenon allineate alle logiche dellebiomedicine occidentali: alternative,olistiche, new-age, psicosomatiche,ecc…).Paradossalmente si fronteggianodue sistemi di pensiero performativoentrambi fondati sulle granitichebasi del credo, che è moltopiù di quanto possa sembrare aprima vista essendo il suo significatooriginario una dichiarazionedi totale devozione e sottomissionee non la generica manifestazionedi una opinione (è solo conla modernità che il verbo crederesfuma vieppiù la sua perentorietàe viene dapprima circoscritto alsolo campo religioso, poi consideratoattestazione di fiducia e poiancora addirittura utilizzato perdire dell’inattendibile).Dunque che si tratti di crederenella scienza o che si tratti di credere<strong>nelle</strong> sue alternative, il rapportotra credente e autorità è unrapporto di subalternità, fondatosulla certezza (spontanea o indottache sia). E gli studi antropologicisul comportamento nella curalo confermano: placebo e compliance,per limitarsi solo a queste,sono due modi/formule/categoriedella relazione terapeuticache dimostrano che, nella cura, ilproblema della certezza viene assolutamenteprima di quello dellaverità.Ho fatto bene a venire a parlare con te?Non lo so!Ho nostalgia di quando mi rispondevi sì o no…Anch’io!(dialogo tra Clark Kent e sua madre in Smallville)2.In questo quadro complessivoè cosa buona e giusta, nostrodovere e fonte di salvezza (perchi lo pratica e per chi ne fruisce)estrapolare il ragionamento sulcounseling riconoscendo a questapratica di cura una sua originalespecificità che è quella di ritagliarenel campo semantico generaledella salute lo spazio operativo -ambiguo e di difficile definizionema strategico - dello stare bene.Operazione di ritaglio che, se portataa consapevolezza, consentirebbedi ridurre l’aggressività32


Il dubbiodeterminista (Pasolini direbbeche la tendenza ad essere “certi”esprime una coscienza aggressivadelle proprie capacità/competenze)e di tenere sotto controllonon solo il desiderio di potenzama anche l’apprendista stregoneche è in ogni counselor. Operazionedi ritaglio che, se concettualizzataepistemologicamente,consentirebbe di attingere il propriostatuto metodologico non piùalla scienza ma all’arte (in particolaresi tratterebbe di studiare ilcounseling come una scienza e diattuarlo come un’arte, per dire delcounseling ciò che Jaspers scrissedell’interpretazione).Non è questione da poco: l’artenon ha una sua epistemologia,non cerca la verità, il suo scoponon è risolvere problemi (che è loscopo della scienza), semmai essali annuncia, li anticipa e li esplora;e dunque chi pratica l’arte accettadi non avere soluzioni, di nonavere risposte. John Keats, un poetaromantico della prima metàdell’ottocento, definì negative capabilityquesta attitudine dell’artista:“stare <strong>nelle</strong> <strong>incertezze</strong>, neimisteri, nei dubbi, senza essereimpaziente di pervenire a fatti ea ragioni”. Nello specifico dellepratiche di cura, essere dotati dinegative capability significa, perusare le parole di Lanzara, “restareimpassibili di fronte all’assenzao alla perdita di senso [...], accettaremomenti di indeterminatezzae di assenza di direzione. [...]Questo stato di sospensione [...]dispone a lasciare che gli eventiseguano il loro corso, restando invigile attesa, e a lasciarsi andarecon essi senza pretendere di determinarnea priori e a tutti i costila direzione, il ritmo, o il puntod’arrivo”. La negative capabilitymoltiplica gli sguardi, costringead attenzioni multiple e a stare,nella pratica di cura, con un atteggiamentocostante di attesa, diricerca, di curiosità.Essa è generativa perché aprealle molte possibilità. È rivoluzionariaperché rompe, sovvertendolo,l’Ordine Costituito rappresentatodalla cultura del risultatoa tutti i costi, del prodotto comemisura di sé, dell’adesione acriticae scimmiottante a modelli preconfezionatiche impedisce la ricercaoriginale e personale di unapropria identità professionale, delsuccesso quantitativo che oscurala ricerca della qualità.È una capacità che presuppone,a sua volta, un’altra capacità:quella di stare nell’ansia. <strong>Di</strong> starenell’ansia dell’incertezza che derivadall’assenza e dall’attesa, adesempio: c’è poco spazio nell’artee nel counseling per chi non savivere il momento in cui, comescrisse Maria Zambrano “il temposi fa deserto” giacché la relazionedi cura avviene nel deserto; maanche di stare nell’ansia dell’incertezzache deriva dall’eccessoe dal caos. C’è poco spazio ancheper chi non sa attraversare la forestadei segni di ogni relazione dicura.Nell’ansia della creazione, insomma.Come percorso che ha neltempo la sua dimensione principale:il tempo del Qohelet (C’è untempo per ogni cosa) e il tempodella ragionevolezza evangelica(Quanto amore nel seminare,quanta speranza nell’aspettare,quanta fatica nel mietere il granoe vendemmiare).Concretamente la negative capabilityo, se si preferisce, l’attitudineartistica al counseling,consente di abitare le domandedell’altro, di sostarvi, fuggendo latentazione di risolverle, consentedi dissuadersi dal portare l’altrolimitandosi ad accompagnarlo.La convinzione, a quantopare,è un lusso che si puòpermettere chi non ècoinvolto…(William Parker a JohnNash in A beautiful mind)3.Il counselor, nell’atto di prendersicura di qualcuno, sipone essenzialmente comeoperatore della conoscenza perchèla pratica di cura è una praticadella conoscenza. Non solo: ancheil prendersi cura di sé è una praticadella conoscenza e chi si rivolgead un counselor si sta prendendocura di sé. Il counselor si prendecura (sviluppa una pratica di conoscenza)di chi si sta prendendocura di sé (sta sviluppando unapratica di conoscenza): la cura,dunque, come conoscenza dellaconoscenza o, se si preferisce,meta-conoscenza.Ciò detto, appare evidente che lariflessione sulla cura in generale esul counseling in particolare deveessere condotta preliminarmentesu un piano epistemologico, che èappunto il piano della conoscenza(a livello teorico e di studio, giacché– come già detto - a livellooperativo il counselor dovrebbestare su una dimensione artistica).Ed è proprio lo sguardo epistemologicoa sgomberare il campo daqualunque pretesa di certezza. Ilparadigma secondo il quale osservatoree osservato stanno sudue campi distinti, in due mondiautonomi e non reciprocamenteinterferenti, è superato da moltotempo (primissimi decenni del1900, se si accetta di considerareWittgenstein uno dei principaliartefici di questo superamento).33


Il dubbioLe acquisizioni della cosiddettaepistemologia sperimentale hannosquarciato il velo che coprivail semplicismo lineare del continuumosservatore-osservato edhanno dimostrato la inseparabilitàdei due poli della conoscenza,il loro essere una cosa sola: l’osservatoresta nel mondo dell’altroe con il solo atto dell’osservarlo lotrasforma inevitabilmente (ognicounselor dovrebbe ispirarsi alprincipio di indeterminazione diHeisenberg: non si può osservareun sistema 1 senza determinarneuna mutazione).Quale certezza è possibile, dunque,se ciò che osservo è in partedeterminato da me e al tempostesso mi ri-determina in una spiraleche apparentemente non hafine?Quale certezza è possibile se,come nel counseling, l’unico materialedisponibile è l’esperienzaaltrui e la narrazione che l’altro fadella sua esperienza? Se si tratta,giocoforza, di materiale più voltemanipolato, dall’altro e da me,entrambi inermi al cospetto dellaincommensurabilità di ciascunaesperienza, della sua inenarrabilità2 ?Il counselor che aspiri alla calmanirvanica può trovare in Morin(I sette saperi necessari all’edu-1 Detto per inciso, torna qui la questionedell’ansia: i sistemi (organizzativi oautopoietici, micro o macro che siano)svolgono una funzione ambivalentein quanto producono ansia in misuradirettamente proporzionale alla lorocomplessità ma vengono utilizzati perdifendersi da essa, per contenerla (da quiil tentativo di governare la complessitàorganizzandola, di trasformare il kaos inekos).2 Chi volesse, stimolato dalla propriaimpotenza, approfondire la questionedella irriducibilità della esperienzanella narrazione e la questione dellacontaminazione reciproca tra mondo cheosserva e mondo osservato, dovrebbegodere, a scopo didattico, della visionedi due capolavori del cinema: Rashomondi Akira Kurosawa (1950) e La parola aigiurati di Sidney Lumet (1957)cazione del futuro) due fondamentaliansiolitici (la cecità dellaconoscenza e l’imprevedibilità alungo termine) dai quali derivanoalcuni frammenti di saggezzaoperativa:“Quale certezza èpossibile, dunque, seciò che osservo è inparte determinatoda me e al tempostesso mi ri-determinain una spirale cheapparentemente nonha fine?”È sorprendente che l’educazione,che mira a comunicareconoscenze, sia cieca su ciòche è la conoscenza umana,su ciò che sono i suoi dispositivi,le sue menomazioni, lesue difficoltà, le sue propensioniall’errore e all’illusione,e che non si preoccupi affattodi far conoscere cosa è conoscere.[…]. Si tratta di armareogni mente nel combattimentovitale per la lucidità.Un’osservazione questa che valeegualmente per il counseling.E poi:Le scienze ci hanno fatto acquisiremolte certezze, ma nelcorso del XX secolo ci hannoanche rivelato innumerevolicampi di incertezza. […] Sidovrebbero insegnare principidi strategia che permettanodi affrontare i rischi, l’inattesoe l’incerto, e di modificarnel’evoluzione grazie alle infor-mazioni acquisite nel corsodell’azione. Bisogna apprenderea navigare in un oceanodi <strong>incertezze</strong> attraverso arcipelaghidi certezza. La formuladel poeta greco Euripide,antica di venticinque secoli, èpiù attuale che mai: “L’attesonon si compie, all’inatteso undio apre la via”.3L’invito di Morin a portarsi “negliavamposti dell’incertezza” è uninvito che, paradossalmente, placal’ansia: sapere di non sapere,essere certi di non avere certezze,desiderare di non desiderare…Da leggere: F <strong>Di</strong> <strong>Lernia</strong> –Ho perso le parole: poteree dominio <strong>nelle</strong> pratiche dicura, Edizioni La Meridiana,Molfetta 2008 (consigliato daCHANGE)3 Il corsivo (non presente nell’originale) diquesta seconda citazione esplicita il nucleoprofondo della urgenza metodologica diqualunque pratica di cura e dunque diqualunque counseling: concepire l’attodel prendersi cura dell’altro come unastrategia di ricerca-intervento che consentedi conoscere un fenomeno nel mentre siinterviene per cambiarlo e di cambiarlo nelmentre lo si conosce. Questo paradigmaè molto efficacemente descritto, seppurin forma didascalica, dalle vicendediagnostiche del Dr. House.34

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