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Le “imagini” di Bacco, dio del vino

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Le “imagini” di Bacco, dio del vino

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Fernando Rigon

Nessun’altra divinità dei Greci è presente quanto Dioniso nei monumenti

e nella natura della Grecia e dell’Italia, cioè nella tradizione sensibile

che l’antichità ci ha conservato. In questo caso è addirittura lecito parlare

di una onnipresenza dell’elemento dionisiaco.

(K. Kerényi) 1

Gli dèi e i miti sono conoscibili solo in quanto immagini… e le immagini sono

il modo in cui la psiche pagana si rende visibile.

(J. Hillman) 2

1. Nel 1571, a Rinascimento ormai trascorso, esce a Venezia il libro Le imagini de i

dei de gli antichi… di Vincenzo Cartari 3 . La ponderosa monografia, per la prima volta

4 ricca di illustrazioni delineate da Bolognino Zaltieri e dotata di ampio indice analitico,

si impone subito come un discrimine iconografico e come uno spartiacque

tra passato e futuro, diventando tosto punto di riferimento privilegiato per i committenti

e i pittori di mitografia del futuro. Il trattato sistema infatti il pregresso per

facilitare ciò che ha da venire, emendandolo in anticipo da ogni, ormai non più accettabile,

arbitrio. Tanto che il testo avrà numerose ristampe fino ad approdare a

una riedizione aggiornata, uscita ancora a Venezia nel 1647 in cui all’originale dell’autore,

indicato aggiuntivamente come “Reggiano”, si aggiungono appendici di

Lorenzo Pigoria e Cesare Malfatti, entrambi padovani 5 . Le pagine si presentano con

rinnovato – e ben più sofisticato – apparato figurativo, disegnato da Francesco Ferroverde,

mantenendo della prima edizione l’uso delle così utili marcature a esponente

– sul bordo esterno della pagina – dei vari paragrafi, rendendo molto più

agevole la consultazione dell’assunto e più rapido il reperimento degli argomenti

particolari. Al successo dell’opera concorse in modo primario la specificazione, fin

dal titolo, dell’intenzione di focalizzare la trattazione non tanto, o soltanto, sulla natura

degli dèi olimpici, di cui si disponeva già di un ampio repertorio “aggiornato”;

bensì sulle “imagini”, appunto, dei medesimi con un’operazione mirata, almeno

nelle intenzioni, a ricondurre il lettore alle fonti figurative oltre che a quelle letterarie,

giunte superstiti dalla cultura classica. Cioè di visualizzare e veicolare, con un

linguaggio descrittivo facilmente traducibile in figura, la ‘forma’ dei numi del pas-

19


sato, già così testimoniata sul suolo italiano da innumerevoli manufatti, in monumenti

pubblici e in collezioni private, della gloriosa eredità greco-romana, che stavano

parallelamente godendo di una crescente diffusione illustrativa, tramite varie

edizioni a carattere archeologico che ne delineavano il ‘profilo’ e la consistenza in

nutrite antologie ‘cartacee’ 6 . Rispetto a queste Cartari, nei vari capitoli ‘genealogici’

del suo esaustivo e ben strutturato Olimpo antico, enucleava, organizzava, spiegava,

citava, avvalorava sull’autorità dei ‘Padri’ classici, sia scrittori che artisti: rendeva

percepibile, e confermava a sua volta, facendo ‘vedere’ con la parola, al punto

da portare in secondo piano l’”imagine” stessa, nonostante la scansione regolare

delle tavole illustrative di accompagnamento; ma comunque riuscendo a dare

l’illusione di toccare con mano – anche per chi non sapeva il latino, o addirittura

non sapeva leggere, proprio! – la ‘sostanza’ stessa delle divinità convocate e riesumate,

al punto da servire da vera ‘scorciatoia’ in prima istanza, e da ‘autorità’ accreditante

poi, per tutti coloro che si accingevano ad attingere al mito e a ricorrere

ancora alle figure di un armamentario, obiettivamente in scadenza alla vigilia della

nascita della scienza galileiana. Un ‘repertorio’ persistente, tuttavia, nel conferire

lustro nobilitante – non solo culturale! – a chi voleva immagini di dei antichi per

le proprie dimore private e pubbliche, dopo averle sollecitate in chi le sapeva realizzare

confrontandosi con la superiorità artistica inesauribile dei maestri classici e

di coloro tra i contemporanei che tanto li avevano emulati e, in certi casi sommi,

addirittura superati, attingendo tutti, spesso direttamente, in special modo alla letteratura

greco latina, in lingua originale o in traduzione.

Nel pieno dell’applicazione ‘pratica’ dei principi controriformistici, rigorosamente

antipaganeggianti, e di fronte a un fenomeno tanto persistente, il ‘colto’,

devoto e pugnace arcivescovo di Bologna Gabriele Paleotti si vedrà così costretto

a sincronizzarsi con questo clima di perdurante fioritura, ricerca, ‘produzione’ ed

esaltazione (anche percettiva) di figure mitologiche di dei – ancora e sempre dantescamente

“falsi e bugiardi” –, pubblicando quasi in contemporanea un controtrattato

dal titolo Discorso intorno alle imagini sacre e profane… 7 . In esso si può

leggere il seguente, stigmatizzante passo: “Ma de’ padroni che si troveranno in casa

tali pitture, che diremo? Noi, oltre la similitudine di quei che tengono libri proibiti,

[…] vi aggiungiamo che tanto più paiono questi colpevoli, quanto che, col tenere

simili pitture, pare che non solamente appruovino gli errori di esse, ma ancora

che gli tribuiscano certo onore e riputazione, che dalle imagini suole derivarsi”.

Nel novero dei libri ‘proibiti’ Paleotti avrà probabilmente inserito anche il trattato

mitografico, fresco di stampa, del reggiano Cartari, non solo per il suo argomento

in generale, ma anche per un linguaggio talvolta particolarmente esplicito nel riferire

alcuni contenuti scabrosi dei comportamenti fin troppo umani dei personaggi

olimpici.

2. Relativamente al personaggio mitico afferente a questa mostra 8 – anzi al presupposto

olimpico stesso del suo ‘argomento’ – iniziamo dunque a trascorrere il

testo di Cartari, che è ora informaticamente reperibile con facilità in tutte le sue edizioni

originali complete per riscontri e approfondimenti. Dal suo contesto selezioneremo

i passi relativi alle “imagini” di Bacco maggiormente frequentate dall’arte,

dando solo per supposto che la sua opera fosse punto di riferimento principale,

ma non certo obbligato, dei committenti, dei pittori e degli scultori a lui contemporanei

o posteriori che continuavano comunque – soprattutto i primi – ad abbeverarsi

alle ‘genuine’ fonti originali antiche. Si presume che tale selezione sia sufficiente

a restituire la temperie di un clima in cui nasceva, incubava e maturava, fino

al suo assetto definitivo di fissazione in figura, questo repertorio di “imagini”

mitologiche, nella sua complessità e specificità ormai così lontano dalla nostra cul-

tura da conformarsi veramente come un mondo perduto di cui ci si deve accontentare

di percepire solo una rarefatta atmosfera, ma al cui recupero la ‘scienza’ antropologica,

teologica e psicoanalitica moderna è tuttavia riuscita a dare contributi

fondamentali, che saranno nei passaggi cruciali citati in nota 9 con gli opportuni

rimandi bibliografici a corroborare e amplificare la selezione stessa, irrobustendola

di un indispensabile aggiornamento secondo ottiche a noi più pertinenti per una

conoscenza il più completa possibile dei presupposti, senza della quale non è nemmeno

probabile un’intelligenza appropriata ed adeguata dei risultati figurativi.

Va subito detto che Vincenzo Cartari deve fare i conti con l’“imagine” di Bacco

ben prima del capitolo XI, dedicato in esclusiva alla figura mitica e artistica del

dio del vino, così ‘vasta’ e complessa – per colui che, al pari del Sole di Apollo e

della Natura generatrice 10 , è sempre “giovane in viso e senza barba” 11 – da risultare

addirittura pervasiva, anzi “panica”, se non altro per l’incondizionata gratitudine

di numi e di mortali per il dono ‘inebriante’ del suo dolce liquore, superato solo

da quello offerto in natura dalle api con il miele 12 . Ma, è noto fin da Schiller, che

“nessun dio appare mai da solo” 13 : e la metodologia stessa di Cartari lo conferma

a ogni pagina nella sua intricata trama di relazioni tra divinità e divinità.

Anche da quest’angolazione è molto significativa la collocazione del capitolo

dedicato a Bacco dal Reggiano nel suo trattato mitografico. Esso viene subito

dopo quello consacrato a un nume ‘primario’ come Minerva, inclusivo di altre figure

di ‘sommi’ olimpici come ad esempio Marte e Vulcano, che non godono così

di una trattazione ‘autonoma’ quanto Bacco stesso. Al ‘suo’ capitolo segue quello

dedicato alla Fortuna, dea ‘impalpabile’ quanto condizionante l’esistenza umana

in tutti i suoi strati esistenziali e sociali, subito ‘a ruota’ seguito da quelli riservati

a figure della stazza di Cupido e di Venere, vale a dire della potenza generatrice

stessa della vita, tramite l’‘amore’. L’ubicazione la dice lunga non solo sull’importanza

attribuita a Bacco stesso, ma sui significati della sua ‘personalità’ nel senso

etimologico più riposto del termine, che Cartari in qualche modo presagisce, ma

di cui coglie soltanto l’evidenza epidermica rispetto a quanto appurato e approfondito

dalle conoscenze scientifiche a noi contemporanee. Solo, infatti, come

si è anticipato, l’affondo dell’antropologia e della psicologia contemporanea, da

Nietzsche a Otto, da Kerényi a Hillmann, tanto per citare i nomi principali di chi ha

studiato il “dionisiaco” 14 , saprà veramente andare oltre le evidenze, per rivelare dell’argomento

lo ‘spessore’ consustanziale alla natura stessa dell’Uomo, spiegando

tra l’altro la posizione di privilegio del dio nell’immaginario inconscio e conscio, riposto

ed evidente, del medesimo e di tutto quello che implica la manifestazione

della sua “forma”, o anche solo l’allusione ad essa, tramite preventivo o postumo

occultamento “misterico” 15 .

Ciò che vediamo nell’arte della divinità di Dioniso/Bacco – per esserne percettivamente

filtrato – non è quasi mai di più di quello che leggiamo in Cartari e

che ammiriamo e meditiamo direttamente nell’antologia di questa mostra. A eccezione

del mito della sua nascita e dell’incontro con Arianna ai quali – come sorprendentemente

vedremo, obbligandoci a corpose integrazioni sulla scorta di presenze

artistiche tanto numerose rispetto alla ‘lezione’ di Vincenzo – il Cartari dedica

sbrigativi e ‘inadeguati’ paragrafi, rispetto agli interessi suscitati dai due episodi

nell’arte di “disegnare”, come dice lui stesso. Anche se all’interno di questo perimetro

trattatistico (prescelto perché emblematico) cercheremo di contenerci, ben

consci – sull’onda della citazione del Kerényi posta emblematicamente ad apertura

di questo intervento – che l’immaginario gravitante attorno a Bacco e alla sua

manifestazione non hanno forse uguali per nessun’ altra divinità antica, soprattutto

perché la sua figura evoca e rimanda alla sostanza più ‘inebriante’ ed esaltante,

in positivo e in negativo’, nell’ambito di ciò che è più radicale nell’Uomo e al man-

20

21


tenimento della sua vita, sia come bìos sia z ¯oé 16 , cioè il nutrimento o l’alimentazione,

che dir si voglia. E tra le ‘vivande’, posizione tutta speciale occupa la più sfuggente

delle bevande, la meno necessaria e pure la più desiderabile e appetibile,

che ti porta a essere più di te e altro da te, o meno di te fino alla bestialità; a rivelare

la parte sotterranea, cioè ctonia o del sottosuolo della tua personalità individuale

e collettiva, del tuo ego fisiologico, fisionomico e sociale insieme, cioè il vino,

‘inventato’ e veicolato da Bacco 17 .

3. Fin dall’esordio del suo capitolo intitolato a Bacco, Cartari fissa la principale delle

antinomie entro le quali oscillano e si muovono le poliedriche caratteristiche della

‘numinosità’ del figlio di Giove, così variabili e ad ampio spettro da poterlo assimilarle

proprio a quel Pan – dio primordiale e sotterrano “del tutto”, come dice il

nome – i cui simili, i Satiri dalle gambe caprine come lui, sono corteggio frequente,

se non indispensabile, di Dioniso. L’autore infatti, dopo averne messo in primo

piano le qualità di “ardito capitano” soggiogatore di “diverse nazioni”, fa notare

come “fu celebre il nome suo appresso de gli antichi” perché “fu credito ritrovatore

del vino e che innanzi a tutti gli altri ne avesse mostrato l’uso a’ mortali”, i quali

lo adorarono non solo con i nomi di Bacco e Dioniso, ma anche di “Libero padre”

per esprimere “con diversi cognomi gli effetti che fa in noi il vino”, rappresentandolo

perciò, anche in immagine, “in molti simulacri e diverse statoe quando ad un

modo e quando ad un altro”, in una molteplicità di casistiche che autorizzarono anche

gli artisti, contemporanei al mitografo cinquecentesco o a lui posteriori, a prodursi

in una ‘libertà’ di variazioni sul tema che non ha pari per gli altri dei dell’Olimpo

antico. Tutte però aventi per massimo comune denominatore proprio il vino

e ciò che vi attiene dall’angolazione botanica – a cominciare dall’uva, subito dopo

la vite come premessa, con le sue ramificazioni, le sue foglie, i suoi pampini – a quella

produttiva – nella filiera dalla vendemmia alla pigiatura, dalla botte al recipiente,

dal calice alla libagione – esemplificati tutti dalla figura di Bacco in persona, dai

suoi seguaci, dai suoi adepti. Con la premessa di rivendicazione al dio, di essere il

“ritrovatore” stesso del vino che l’“ardito capitano” aveva introdotto in Grecia da

fuori con una operazione che viene costantemente esaltata dai beneficiari tramite

l’allestimento di un apparato trionfale degno di chi è per sua natura condottiero

vittorioso e trascinatore di seguaci. E infatti anche nei prodotti artistici dal Rinascimento

in poi a dominare saranno i soggetti del trionfo del dio con indispensabile

veicolo e relativi traino e corteo, in numero quasi uguali a quelli, più esemplificativi

e più compendiari, dell’assolo della figura di Bacco con tutti i suoi attribuiti ‘vinicoli’

primari.

Cartari immediatamente dopo – anzi, a strettissimo e inscindibile prosieguo

– contraddice quanto affermato nel cap. II sulla perpetua giovinezza del dio 18 e al

cap. I, dedicato a Saturno, dio del Tempo, quando anticipa, relativamente alle quattro

stagioni dell’anno, come Bacco incarni e rappresenti la terza, quella dell’autunno

e della maturazione finale della fruttificazione della terra 19 . Il mitografo afferma

perentoriamente, infatti, accompagnandola con la prima tavola esplicativa

del capitolo (la 65 dell’intero trattato) 20 , che la “sua imagine” ebbe tanta varietà di

raffigurazioni proprio perché “la fecero talora in forma di tenero fanciullo, talora di

feroce giovane e talora di debole vecchio, nuda alle volte et alle volte vestita, e

quando con carro e quando senza” (fig. 1a). Tutte puntualizzazioni che il Nostro argomenterà

in seguito con riferimenti a testi, più letterari che figurati, dato che i primi

erano sopravvissuti ed erano accessibili in maniera infinitamente più numerosa

e di più facile reperimento per lui e per i suoi stessi lettori 21 .

Gli enunciati d’esordio vengono per intanto enucleati e portati – secondo la

citata impostazione tipografica del trattato – in evidenza a bordo pagina con i pri-

Fig. 1 V. Cartari, Le imagini de i dei

de gli antichi…., ill. di B. Zaltieri,

Venezia 1571

a-Tav 65 Le tre età di Bacco.

Primavera, Autunno, Estate *

b. Tav. 67, Bacco, il suo corteggio, i

suoi attributi

c. Tav. 69, Trionfo di Bacco su carro

trainato da pantere; Bacco

‘condottiero’ con tirso e gazza su

elefante; Bacco con ‘ferola’*

mi titoli di paragrafo che sono Bacco ha più cognomi, Bacco di diverse età, Vino inteso

per Bacco.

Sull’autorità di Filostrato e di una sua “tavola”– il primo dei classici antichi da

lui reclutati – l’autore cinquecentesco specifica che ci sono molti modi “da far conoscer

Bacco per chi lo dipinge o scolpisce, perché una ghirlanda di edera con le

sue coccole mostra che egli è Bacco (fig. 1b), due piccole cornette parimente che

spuntino dalle tempie fanno il medesimo, et una pantera ancora che gli si metta

appresso”. Tutti attributi figurativi indispensabili – le cosiddette exuviae dei latini

– per riconoscere e identificare la divinità, anzi “cose per lo più tirate alla natura del

vino, del quale intendono spesso i poeti sotto il nome di Bacco” che mostrò “a’

mortali già da principio come si avevano da raccoglier l’uve dalle viti e spremere il

dolce succo tanto grato et utile ancora a chi temperatamente l’usa sì come a gli disordinati

bevitori apporta gravissimi danni”. Un monito, quindi, moraleggiante, imprescindibile

a tutti i committenti e ai ricercatori di immagini bacchiche che, muovendo

da qualsivoglia motivazione nell’acquisizione di esse, devono assolutamente

tener presente questi avvertimenti per se stessi e per gli altri destinatari, complice

l’eticità degli artisti chiamati a inverare in modo sorvegliato tali figure, al fine di non

perdere mai di vista, come avevano fatto gli antichi stessi, i pericolosi effetti di un

liquore tanto dolce ma, anche, ingannevolmente, tanto nocivo. “Imperoché facendolo

nudo volevano dire che ‘l vino e la ubriachezza spesso scuopre quello che

tenuto fu prima occulto con non poca diligenza, onde ne nacque il proverbio che

la verità sta nel vino” (fig. 1b). La proverbiale Verità, dunque, nuda per definizione!

Avendo a esponente il susseguente, abituale titoletto di paragrafo Bacco perché

vecchio, le argomentazioni di scorta spaziano dalla citazione di una statua del

dio, rappresentato decrepito e calvo per mostrare “che il troppo bere affretta la

vecchiaia e che in questa età beono assai gli uomini”, a una digressione di medicina

galenica sulla perdita di “umidità” con l’avanzare degli anni e sul malaccorto

ricorso al vino “tanto caldo di virtù e in potere che secca e asciuga”, come la più

inappropriata delle compensazioni. E qui non è possibile evitare proprio il binomio

antinomico delle due versioni caravaggesche di Bacco, dalla prorompente salute

alla livida malattia di consunzione 22 (figg. 2-3). Forse debitrici di una probabile specificazione

di Vincenzo stesso che, proprio perché il vino riscalda, si doveva fare

l’immagine di Bacco “per lo più giovane senza barba, allegro e giocondo […] delicato

e tutto molle e rubicondo nel viso perché aveva bevuto troppo, sì che imbriacatosi

non poteva tenere gli occhi aperti”. In ciò simile a quel Como “il dio dei

convivi […] giovane cui cominci apparire la prima lanugine”; banchetti nell’antichità

22

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pieni di fiori di cui il dio Bacco portava una ghirlanda in capo come tutti i commensali

e i “vasi ancora onde bevevano”, entrambi come segni di “letizia e spensieratezza”.

Dopo una estemporanea precisazione che non trova riscontri nell’arte moderna,

che vuole Bacco guida delle Muse come Apollo (e da esse stesse allevato 23 ),

Cartari ci fornisce più pertinente notizia, sulla scorta di Ateneo, circa l’uso di tagliare

il vino con l’acqua, come appreso dal dio stesso da Anfizione, re di Atene. Il “grandissimo

giovamento ai mortali” che derivò dal “vino temperato” 24 condusse tale re

a dedicare a Bacco un altare nel tempio delle Ore che “sono le stagioni dell’anno…[

e che] fanno che la vite cresce e produce frutto” (specificatamente in autunno,

quando Bacco è vecchio!) e un altro alle Ninfe, dee delle “acque de i fonti e de

i fiumi”.

Fig. 2 Caravaggio, Bacco, 1596-97,

Firenze, Galleria degli Uffizi *

Ma il vero pedagogo per antonomasia di Dioniso/Bacco fu, anche per Cartari,

Sileno, in ciò ratificando quanto prevalentemente e quasi costantemente asserito

dalle fonti antiche. L’aio del dio (cat. 60-62), che godeva di pari dignità al punto

di vedersi consacrati templi autonomi rispetto all’olimpico allievo, lo accompagnava

sempre “portato da un asino sì per la età, perché era molto vecchio, sì perché

era anco ubriaco per lo più”, anzi l’emblema stesso dell’“Ubbriachezza che [in

personificazione] gli dava da bere appresso gli Elei” come amarono rappresentare

con soverchia abbondanza gli artisti che si confrontarono con temi dionisiaci, anche

sulla scorta del medesimo Cartari, che completa il ‘ritratto’ del “gran consigliere”,

citando Plauto e “il prologo delle sue Bacchide”. Lo recita Sileno stesso

Fig. 3 Caravaggio, Bacco malato,

1593-94, Roma , Galleria Borghese*

proprio “a cavallo di un asino”, dicendo di essere “sempre amendui di un medesimo

volere”. Citazione ancor più gustosa, anche se generica, è da Virgilio, che lo

fa “anco dio della natura, de i principi della quale […] lo fa cantare sforzato da due

satiretti e da una bella ninfa“ i quali, avendolo trovato ebbro e addormentato in

una caverna “con un gran vaso da bere a canto” (particolare letteralmente saccheggiato

dagli artisti!), gli legarono i piedi con le sue stesse ghirlande di fiori, mentre

la ninfa stessa “gli tinse la faccia, che aveva le vene tutte gonfie di vino, con sanguigne

more, di che egli rise e mostrò di avere piacere poscia che fu svegliato”. Ma

il passo seguente è ben più cruciale per due ragguagli: il primo tira in ballo Mida,

re della Frigia, grande protagonista della pittura, anche se relativamente ad altro

episodio che trova tuttavia premessa proprio nella conoscenza con Sileno 25 ; il secondo

è relativo ai “duo satiretti” (fig. 1b), definiti “bestie”, che “pareva non volessero

dire quello che sapevano, se non forzatamente”. Il re diede loro una lunga

caccia finché catturò “uno di questi Sileni” con l’odore del vino, sparso “in un certo

fonte”, ancora superstite ai tempi di Pausania, sapendo da costui, o da Sileno

stesso, come riferisce Plutarco, “che meglio assai era all’uomo morire presto che

vivere lungamente”.

Il prologo enunciativo che enuclea in qualche modo gli argomenti a seguire

si conclude con una informazione, all’apparenza marginale, che tuttavia esercitò influenza

massima sull’iconografia pittorica, come ad esempio sui dipinti veneziani

tra Sei e Settecento, in base alla quale, sulla scorta di Plinio, nell’isola di Paro “donde

veniva quel bellissimo marmo bianco”, in una cava fu rinvenuto “in un gran pezzo”

una statua già bell’e modellata raffigurante Sileno. Il passo spiega così la presenza

frequentissima, quasi ineludibile, di erme di questo comprimario dionisiaco

che ricevono omaggi floreali dal corteggio bacchico 26 come a un miracoloso evento

che segnala la presenza ab aeterno degli dei olimpici nella natura e nella vita

24

25


Fig. 4, Nascita di Dioniso dalla coscia

di Zeus, fine V- inizio IV sec. av. Cr.,

Cratere apulo, Taranto, Museo

Nazionale

umana, ben prima dell’uomo stesso (fig. 12).

Il rimando all’ampia trattazione sulla figura di Pan, dai connotati caprini nel

sembiante del viso paonazzo (vedi tav. 65, fig. 1b), nella coda e nelle zampe villose

per sapere “come fosse fatta” tale statua, non fa altro che confermare – e perpetuare

– una cronica ambiguità e confusione morfologica sull’aspetto fisico di Sileno,

che non è uno dei Satiri 27 (fig. 1b) o il dio Silvano 28 , in tutto simili a Pan stesso, in

quanto il primo è interamente uomo – obeso e ebbro, fin che si vuole! –, ma con

connotati bestiali limitati alle orecchie appuntite e pelose, barbetta e codetta da

becco, che gli offrono così la prerogativa del posto eminente della combriccola

delle divinità boschive e bestiali del seguito dionisiaco 29 . ‘Contaminazione’ favorita

e aggravata dallo stesso trattatista che, non pago della precedente genericità,

ricorda che Pausania scrive come i Satiri fossero chiamati Sileni “poscia che erano

vecchi”, diventando tali proprio perché pure loro mortali, quantunque dei.

4. La trattazione entra qui nel vivo abbandonando il sincretismo dell’esordio per diventare

analisi specifica degli argomenti enunciati, a costo di ripetizioni come quella

dei “due modi” di fare le statue di Bacco, l’una severa e con barba lunga, l’altra

di bell’aspetto, giovane e allegro, insistendo sul vizio di bere che si aggrava con il

progredire dell’età, rendendo gli uomini “terribili e iracondi”, laddove prima erano

solo “lieti e giocondi”. La constatazione ulteriore della polisemanticità della figura

di Bacco (“non sia stato uno solo, ma due o forse anche tre”), conduce il Nostro

a un’affermazione chiave anche per il vero ‘senso’ di questo intervento: “lasciando

ora da parte” questa questione “perché ciò sarebbe più tosto volere scrivere

istoria di lui che dipingerlo”. Restiamo dunque all’evidenza delle “imagini”,

anche se soverchiamente descritte in parola e da essa offuscate, per un obiettivo

a seguire che nel nostro caso passerà dall’analitico al sintetico, se non altro che per

ragioni di spazio.

Se viene dunque ribadito che Bacco, partecipando del ‘tutto’, va inserito nel

novero degli dei solari, come vuole Macrobio, del Sole godrà di tutte “le diverse

età”, sia diurne sia stagionali e sarà quindi, via via, fanciullo, giovane e vecchio (fig.

1a); con una precisazione straordinariamente anticipatrice della scienza contem-

Fig 5, V. Solis, Giove cuce nella sua

coscia Bacco, estratto dal ventre di

Semele, da

Metamorphoses Ovidii, 1563

Fig. 6 a S, Semele, Lettera capitale

‘parlante’ in L. Mauro, Le antichità

della città di Roma…., Venezia 1558

Fig. 6 b. S, Semele, Lettera capitale

‘parlante’ in D. Barbaro, M.V.

Pollione, I dieci libri

dell’Architettura…..Venezia 1556*

poranea laddove si afferma che “al tempo del solstizio dell’inverno, quando già cominciano

i giorni a crescere si possa dire ch’egli sia piccolo fanciullo” 30 e poi primaverile

giovane, uomo maturo in estate e vecchio autunnale – quando si vendemmia

la ‘sua’ uva, chiosiamo noi – e “non ponno più crescere i giorni” e la luce

del sole va scemando come fanno le forze nell’uomo anziano 31 . Scienza contemporanea

che ha analizzato quell’anno trieterico 32 , composto di un biennio ciclico,

ai primordi del complesso culto dionisiaco di nascita, maturazione, morte e rinascita

che finì per specializzarsi sommariamente nella sequenza di piantagione, fioritura,

fruttificazione e quiescenza dell’albero della vite 33 .

La questione delle corna da attribuire alle raffigurazioni di Bacco è dirimente per

la comprensione di un meccanismo di ekphrasis di andata e ritorno che vede non

solo il passaggio dal testo letterario all’opera d’arte, ma anche quello a senso opposto,

come in fondo stiamo facendo noi ora. Le corna hanno da essere piccole,

talvolta invisibili sotto le ghirlande in capo al dio, ma ci devono essere; si devono

supporre e dare per scontate come attributi connotativi necessari, anche se in filigrana.

Le parole di Cartari in proposito lo lasciano intuire costituendo accesso privilegiato

a tutte le versioni della figura di Dioniso, anche se non strettamente derivate

dal Nostro. Il quale fa capire che non sono componente consustanziale, ma

attributi aggiunti “alle statoe” che alcuni “hanno voluto intendere per queste i raggi

del Sole” 34 . Più terra terra (Diodoro, Marziano) esse deriverebbero dal fatto che

Bacco per primo insegnò agli uomini ad aggiogare i buoi per le arature dei campi,

come conferma anche la falce nella destra del dio, “perché bisogna con questa

purgare le viti che produchino uva largamente” (fig. 1b), con la sinistra a ogni buon

conto già impegnata a reggere un vaso da bere ( o altro recipiente), per mantenere

allegro chi è comunque vincolato alla lavorazione e alla raccolta agricole sotto il

sole (fig. 1b). Ma le corna significano anche l’audacia di chi ha libato in abbondanza

oppure evocano i sacrifici bacchici nei quali si usavano i corni potori per degustare

il vino. Tal che Dioniso poteva anche essere chiamato “toro” 35 in quanto generato

in tale aspetto, secondo alcune versioni, sempre da Giove, ma con la figlia

Proserpina 36 , alla quale si congiunse in forma di serpente. E sarebbe questo il motivo

delle protomi taurine di molti rythà, recipienti per eccellenza delle libagioni

non solo antiche, come induce a credere, e insieme suggerisce, quanto scritto da

Cartari.

La versione ‘primigenia’ della nascita di Dioniso da una divinità infera come

Proserpina viene liquidata dal Nostro in un modo sbrigativo che non soddisfece

certo chi trattò figurativamente il tema. La narrazione mitologica prevalente, infatti,

racconta del tradimento di Giove con Semele, principessa tebana figlia di Cadmo,

e della gelosia di Giunone che perfidamente, sotto le spoglie della nutrice della

rivale, indusse la malcapitata a mettere alla prova l’amore del re degli dei chiedendogli

di abbracciarla come faceva con la sua sposa legittima. Quando ciò avvenne,

il fulmine sotto le cui sembianze il sommo monarca si recò dall’amata, già

incinta di sette mesi, incenerì la poveretta, ma non il bimbo, cioè Bacco. Il feto fu

raccolto dal padre, cucito nella sua stessa coscia e poi, a maturazione fisica avvenuta,

fatto venire al mondo con l’appellativo di “bisnato” 37 (figg. 4-5). La suggestione

esercitata da questa più comune variante incise talmente nell’arte da interessare

persino l’imagérie delle cosiddette lettere capitali ‘parlanti’ dove si riuscì a

miniaturizzare il non facile episodio di Semele, colpita, dalla folgore, in pochi centimetri

quadrati 38 (figg. 6a-6b).

Che Bacco “lascivo e molle” avesse le chiome lunghe – coronate di fiori tra

cui il narciso – come la sua veste talare, dipinta essa stessa di fiori – lo “mostra” Seneca

in alcuni suoi versi 39 “perciocché lo vestirono alcuna volta di abito femminile

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27


Fig. 7 J. Tintoretto, L’Estate, o

l’elemento Acqua: Bacco sposa

Arianna, mentre Venere le toglie la

corona astrale, 1578 c., Seconda tela

della sala dell’Anticollegio, Venezia,

Palazzo Ducale

come lo fa Filostrato nella tavola di Ariadna quando lo dipinge che vada a lei con

bella veste, porpora, lunga e grande, e coronato di rose”. E come possiamo riscontrare

in questa mostra nella versione rigorosamente “filologica “di Carpioni

(cat. 62).

Quanto segue tocca il cuore delle rappresentazioni bacchiche che sempre

privilegiarono, ben prima di Vincenzo, l’incontro con Arianna, piantata in Nasso 40

da Teseo, con il conseguente “atto amoroso” che fu occasione prima, secondo il

nostro autore, della formazione dei “misteri e delle cerimonie che usarono nelle

sue feste, le quali da principio furono celebrate con pompa tale: era portata innanzi

un’anfora di vino con rami di vite e la seguiva chi si traeva dietro un capro, poi veniva

chi si portava una cesta di noci, et in ultimo era il fallo, che fu la imagine del

membro virile” 41 .

Ci addentreremmo in un oceano senza fine se uscissimo dal binario – o, ribadisco,

dalla scorciatoia – del trattato di Cartari, per affrontare la casistica delle fonti

– letterarie e archeologiche – dell’incontro a Nasso e del trionfo di Dioniso su carro

con affollato corteo (figg. 9-10) di “quelli tutti che quasi sempre erano con lui,

come femine ardite e feroci, diverse e vaghe Ninfe, Sileni, Satiri, Silvani et altri simili

(li quali, come scrive Strabone, erano ministri e seguaci di Bacco e chiamavasi

il coro e la compagnia di Ariadna), lo seguitavano gridando con voci liete” – come

compendiariamente illustra la tavola 68 di accompagnamento. Questi due specifici

soggetti dionisiaci, infatti, – incontro e trionfo – sono senza paragoni i più frequentati

in ogni tempo, e tra i prediletti dell’arte cinque-settecentesca, per quanto

attiene all’ambito di nostro riferimento. Limitiamoci al dettato, per quanto assai

riduttivo – e limitativo (ma anche sufficientemente esaustivo) – di Vincenzo stesso

che non manca di arricchire il testo con citazioni dirette, da Catullo ad esempio:

“Andavano scuotendo i verdi tirsi/ Alcuni, alcuni le squarciate membra 42 / Del vitello

portavano 43 , una parte/ Con ritorti serpenti si cingeva 44 / Et una parte ne le cave

ceste/ Portando celebrava i bei misteri,/ I misteri da gli empi indarno cerchi 45 ”. Le

fonti di derivazione di questi ‘baccanali’ sono Plutarco e Ateneo con una fuggevole

citazione (“il riferirla or a me non servirebbe altro che di perdere tempo” 46 ) della

sua descrizione della memorabile “pompa baccanale ambiziosissima” allestita dal

discendente del Macedone Tolomeo Filadelfo in Alessandria, sul modello del trionfo

Fig. 8 Tiziano, Bacco e Arianna in

Nasso. Trasformazione della corona

in costellazione, 1520-23, Londra,

National Gallery

di Dioniso in India, già ricelebrato da Alessandro il Grande nel solenne ingresso in

Babilonia, al ritorno dalla campagna contro re Poro.

L’episodio dell’incontro con Arianna (figg. 7-8, cat. 62) e il rilievo dato alla sua

figura nel trattato del Reggiano sono comunque impari, come nel caso della nascita

del dio, a una tradizione e a un’eredità iconografiche di ben altre proporzioni.

Stupisce infatti che, ad esempio, non ci sia traccia della corona di Arianna che

fu tolta – non imposta, come troppi esegeti hanno creduto e scrivono ancora! – da

Bacco innamorato dal capo dell’amata, per liberarla da un impegno sponsale contratto

con Teseo che gliela aveva donata 47 prima di abbandonarla sull’isola e disimpegnare

così la sventurata fanciulla in vista di nuove nozze, e per di più divine!,

mentre la corona, proiettata in cielo, godeva del celebre catasterismo di trasformazione

in costellazione boreale 48 .

Altro passaggio che conferma una metodologia anticipatrice della scienza

moderna e dei suoi risultati – che vengono solo sfiorati dal Nostro per carenza di

strumentazione di ‘vera’ ricerca – è il successivo quando viene spiegata la funzione

e la sacralità del “cribro”, identificabile con il ventilabro 49 che, “come dice Servio,

credeano gli antichi che giovasse molto i sacramenti di Bacco, alla purgazione

degli animi […] purgati come si purga il grano” (fig. 12, cat. 61). Al cui impiego e al

cui significato già Boccaccio aveva riservato attenzione riferendo come lo strumento

servisse per smaltire l’ubriachezza, considerata tuttavia “sacramento di Bacco”,

passata la quale – commenta il Cartari – “e rassettatosi il cervello pare che l’animo

si abbia scordato ogni travaglio e spogliatosi tutti i noiosi pensieri rimanghi lieto e

tranquillo, come dice Seneca ancora ove scrive della tranquillità dell’animo”.

5. Il capoverso seguente, pur non recando indicazione ‘a esponente’ di paragrafo,

segna una svolta nel tono della trattazione in direzione che potremmo definire più

marcatamente ‘lenticolare’ o focalizzante. Si esordisce meglio specificando la ragione

dell’adozione dell’appellativo di “Libero Padre perché beendo largamente

l’uomo si libera da’ pensieri fastidiosi e parla liberamente assai che quando è sobrio”.

Ma anche perché il dio,come dice Plutarco, “combatté già assai” per la li-

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Fig. 9, Trionfo di Bacco e Arianna,

Mosaico , III sec., Tunisia, Sousse,

Museo

bertà, ricordandoci della sua primordiale natura di condottiero. Ed è anche per questo

motivo che nelle “città libere” si poneva il simulacro di Marsia, “che fu uno dei

Satiri ministri di Bacco”, con una specificazione che molto contribuì a quella contaminazione

anatomica in ragione della quale molti artisti lo rappresentarono con

gambe caprine 50 . La descrizione successiva della contesa alla “piva” con Apollo citaredo

è assai succinta, ma con la novità piuttosto originale della precisazione, rispetto

alla tradizione, che il fiume Marsia porta tale nome perché lo sventurato contendente,

impazzito per la sconfitta, vi affogò dentro, e non per le lacrime versate

nella corrente dai suoi bacchici compagni di brigata 51 .

Di ulteriore messa a fuoco ‘per ingrandimento’ è oggetto la “veste” di Bacco

che “dicono era di donna perché il troppo bere debilita le forze e fa l’uomo molle

et enervato come femina” (cat. 62). Interessate la digressione sull’appellativo di

“Bassareo” attribuito a Bacco, vuoi per la stessa lunghezza della veste detta “bassara”,

simile a quella dei sacerdoti di Lidia, vuoi perché ornata di pelli di volpi (dette

anch’esse “bassare”) di cui si fregiarono poi anche “le Bacche” seguaci del dio,

che “Menade eziandio furono chiamate, che significa pazze e furiose, perché nelle

sue feste andavano co’ capei sparsi e co’ tirsi in mano facendo atti da forsennate”

52 , ripetendo i comportamenti originari di una fase iniziale in cui Bacco “ebbe

seco un esercito di valorose femine” che, nei comuni vagabondaggi, lo coadiuvarono

nello sconfiggere “alcuni re”.

Il prosieguo si rivelò sicuramente fondamentale per gli artisti che si andavano

misurando su tematiche bacchiche in quanto fornisce informazioni puntuali sull’abbigliamento

di questi personaggi femminili del seguito dionisiaco, che oltre alle

pelli di volpi, indossavano soprattutto quelle di pantera e di tigre, portando in

mano il tirso e “spargendo le chiome al vento” (vedi tav. 68) conteste di edera e

“alle volte di bianca pioppa”, creduta albero infernale, nato sulle rive dell’Acheronte.

Con l’occasione viene intanto ribadita in modo unilaterale la nascita di Bacco

da Proserpina, in ciò giustificando il connotato ‘infero’, suo e della pioppa menadica.

Ampliando la casistica degli attributi bacchici Cartari, sulla scorta di Claudiano,

ricorda che il tirso – vero scettro del dio – poteva essere sostituito dalla “lieve

ferola”, la pianta simile alla canna le cui foglie “sono gratissime agli asini”, cari

al corteo dionisiaco (fig. 1b), che fu adottata dal nume per impedire i ferimenti da

percosse che i componenti del suo seguito, in accessi di ebbrezza, si scambiavano

durante le risse. Puntuale esemplificazione iconografica nella tavola 69 (fig. 1c) con

Bacco appoggiato a un bastone di ferula.

6. Consapevole dell’incidenza persistente nell’inconscio collettivo del rito trionfale

antico 53 (fig. 9), il cui fascino poteva essere rinverdito nella finzione artistica grazie

alle sue insite potenzialità ‘scenografiche’ – come in effetti è avvenuto (fig. 10g)!

– e di quelle del suo pomposo convoglio e del relativo, variegato seguito, Vincenzo

Cartari dedica un denso paragrafo a Bacco “vincitore” e “primo trionfatore” che

“si armava nelle guerre et usava alle volte ancora di mettersi intorno le pelli delle

pantere, perciocché non fu egli sempre ubriaco ma combatté spesso e tanto valorosamente

che superò molti re, come Licurgo, Penteo et altri”, in ciò ritornando,

per conferire massimo risalto all’affermazione, proprio alla sua prima definizione

del dio a inizio capitolo, dove venne indicato quale “ardito capitano”. Preminenza

assoluta viene conferita alla campagna bellica per eccellenza di Dioniso quando

“soggiogò tutta l’India, donde ritornandosene […] sopra ad un elefante 54 menò bel

trionfo” (fig. 1c) tirandosi dietro proprio i Satiri, originari dei monti di quel paese,

che trovarono nel vino l’incentivo ideale alla loro congenita libidine, come viene

esplicitato nei paragrafi dedicati a Pan, inseriti nel capitolo IV, intitolato a Giove 55 .

Vittoria memorabile questa e nascita del trionfo stesso poiché si “legge che dinanzi

a lui [Bacco] alcun altro avesse trionfato mai delle vinte guerre”.

Un‘informazione ‘coreografica’ a valenza ornitologica è assai interessante dal

punto di vista storico, sebbene sia risultata di fatto poco suggestiva per gli artisti

che hanno trattato il tema, nonostante la sua presenza addirittura nella relativa tavola

compendiaria (la n. 69, fig. 1c) insieme a Bacco loricato in groppa a un pachiderma;

essa pertiene alla “consacrazione della pica”, cioè della gazza, “uccello garrulo

e loquace, perché ne i trionfi gridava ognuno et ad ognuno era lecito improverare

a chi trionfava gli suoi vizi, e gridando gli si poteva dire ogni male, come scrive

Suetonio di Cesare” 56 .

Tra le ‘evidenze’ tangibili del trionfo dionisiaco accentuato rilievo viene dato

all’edera, con osservazioni che confermano la capacità dell’autore di anticipare risultati

della scienza a noi contemporanea. Bacco inventò le ghirlande d’edera (figg.

1a-1c) da mettersi in testa nel trionfo, in ciò imitato – e per sempre ratificato – da

Alessandro Magno e da tutto il suo esercito al ritorno dall’India. La scelta di questa

pianta ‘fredda’ 57 ha molte motivazioni, tutte riconducibili sia alla sua caratteristica

di sempreverde sia alla sua forma, sia alla stagionalità invernale della sua vegetazione

58 . Sempre giovane è infatti Bacco come il fogliame di questo rampicante

che “lega tutto ciò a che si appiglia così il vino lega le umane menti” avendo in

sé “certa virtù e forza occulta” che “quasi le empie di furore”. Se i pittori e gli scultori

ponevano in capo alle loro rappresentazioni di personaggi dionisiaci l’edera –

pianta che dissimula e insieme simboleggia la forma della vite 59 – e trovavano modo

di evocare la presenza del vino (ben più difficile da raffigurare se non tramite

rappresentazione di un recipiente che lo contiene), potevano sentirsi confermare

anche da Cartari che – per supposto significato dell’originale denominazione greca

di “cisso” 60 – la pianta era segno di libidine “alla quale sono gli uomini incitati

assai dal vino, onde è per proverbio antico che nulla può Venere senza Bacco”. E

così il tirso, il bastone acuminato con punta di ferro, andava “attorniato di edera

[…] che mostrava […] dovere gli uomini co i lacci della pazienza legare le ire et i furori

onde sono tanto facili a fare male altrui” (cat. 62) . L’edera d’altronde ha una caratteristica

che la privilegia rispetto alla “vite, la quale [invece] al tempo dello inverno”

perde le foglie, tanto da farla annoverare tra le piante sacre sempreverdi

come il mirto di Venere e il lauro di Apollo. Se d’altronde Bacco si corona la testa

anche di foglie di fico 61 è per memoria della ninfa Sica, “mutata poi in questo arbore”,

prediletta al pari di “Cisso fanciullo”, e dell’altra ninfa Stafile “che medesimamente

fu cangiata in vite”. Cartari d’altronde non poteva giungere a quanto ci

dice la mitografia moderna sull’origine della pianta del vino nelle versioni “delle

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Fig. 10, A. Carracci, Trionfo di Bacco e

Arianna, 1596-1600,Roma , Palazzo

Farnese

lui assimilati “perché il vino fa gli uomini feroci e terribili come è la natura di questi

animali […] caldissimi che leggermente saltano, come facevano le Bacche e come

sono gli uomini sovente riscaldati dal vino più assai che non è di lor natura” 66 (fig.

1c, cat. 62).

favole” individuate da Kerényi 62 che fu l’albero per antonomasia del dio anche nell’arte

figurativa, grazie alla conformazione stessa dei grappoli, dei tralci con pampini

(gli ampeloi) e degli acini d’uva, così congeniali alla traduzione in figura, anche

per le loro cromie.

Ma è la descrizione del carro trionfale di Bacco con relative motivazioni del

suo assetto a mettere maggiormente alla prova le capacità descrittive di Cartari in

un misto di ‘pittoricità’ e di filologia che raggiungono il diapason con una citazione

da Stazio che vuole il mezzo di locomozione coperto di tralci e con un traino di

pantere e di tigri, asperse di vino (tav. 69, fig. 1c) . Per Boccaccio il veicolo bacchico

non può che essere dotato di ruote che girano “come il cervello a gli uomini”

inebriati dal troppo vino. E per rendere più suggestivo e convincente lo spericolato

accostamento, Cartari si profonde in una lunga digressione per raccontare una

“novella piacevole” di ben due paragrafi in cui si narra di alcuni giovani di Agrigento

“ubriachi solenni”, vittime di una sbornia colossale. Tanto ebbri da gettare

mobilio e suppellettili dalle finestre del luogo del convito, credendo di essere in alto

mare su di una imbarcazione in preda alle onde. La digressione della “buona

ubriachezza” che durò “molti dì, onde quella casa fu chiamata la Galea” merita di

essere anche qui ricordata perché anticipa un paragrafo appena seguente in cui si

racconta – e si illustra alla tav. 70 – il celebre episodio mitologico 63 della “Nave di

Bacco” e la si descrive, sulla scorta della visualizzazione di Filostrato, nei minimi

particolari, con ‘un rumore di fondo’ non esplicitato il quale riconduce le nostre conoscenze

a un carro trionfale per la campagna d’India che era in realtà un carrum

nauale 64 congegnato in modo da poter transitare sul suolo, ma anche da guadare

fiumi e solcare mari. La minuziosa descrizione del Reggiano del vascello di Dioniso

lo vuole dotato di “prora in forma di pantera”, con albero maestro configurato

come un tirso, cui “erano attaccate le porporee e risplendenti vele” con ricamato

sopra in oro “Tmolo monte della Lidia e le Bacche che quivi andavano scorrendo”.

Tutto era coperto di tralci di vite, grappoli d’uva e di rami d’edera, mentre da sotto

coperta “spiccava fuori un fonte di soavissimo vino”. A questa imbarcazione ‘di

cuccagna’ mirarono alcuni malcapitati pirati che sulla scorta del racconto di Ovidio

tentarono di rapire il giovane Bacco vedendosi trasformati in delfini dal dio mentre

il vascello veniva coperto da “edera in copia sì grande che legò tutti i remi e si

distese per l’arbore, per l’antenne e per le vele”. A presidiare il nume – spaventando

enormemente i “corsali” aggressori – stavano “tigri, pantere e liopardi 65 ”, a

Fig. 11, P. Veronese, Bacco con i Lari

e, alle spalle, il Sonno e Tersicore,

musa della danza, 1561-62 c., Maser

(TV), villa Barbaro, Sala di Bacco

7. Dopo l’apice “figurativo” della descrizione dell’imbarcazione dionisiaca il testo

di Cartari va inquinandosi delle sue abituali digressioni che lo conducono ad accorpare

altre divinità collaterali, più o meno minori o pertinenti, al nume principale

cui è dedicato il capitolo. Ne è avvisaglia la pur importante evocazione di un risvolto

bacchico della figura del serpente, già ricordato per il concepimento di Proserpina,

presunta madre di Dioniso. Da due “ferocissimi”, ma inoffensivi serpenti,

inviati dalle Parche, fu avvinto Bacco “fanciullo”; “donde venne poi che le Bacche

celebrando le sue cerimonie maneggiavano gli serpenti senza sentirne alcuna offesa”.

Quelle Baccanti che, cinte di rettili, si abbandonavano alla “misteriosa cerimonia

[…] dello squarciato vitello”, in un rito già ricordato che Cartari ripercorre

narrando il supplizio di Penteo che – sulla scorta di Ovidio, ma non delle Baccanti

di Euripide, probabilmente da lui conosciute – si presentò alla madre, fuori di senno,

facendolo “parere un giovenco, overo un cinghiale” per esserne da lei dilaniato,

aiutata dalle sue compagne.

La più lunga delle divagazioni, assolutamente non afferente a rappresentazioni

artistiche cinque-settecentesche – gravita attorno alla pur intelligente assimilazione

di Bacco alla divinità egiziana di Osiride, con lunghe citazioni probanti da

Tibullo. Tutto il repertorio di animali a lui pertinenti viene sciorinato con dettagliati

particolari, anche relativamente a cerimonie afferenti a Oro (Horus) e a Tifone, di

cui si ricostruiscono genealogie e contiguità con l’Olimpo greco (vedi tav. 71).

Ritornato sui suoi passi, Vincenzo argomenta sull’uccisione di Bacco stesso a

opera dei Titani, mediante uno smembramento messo in relazione ai già ricordati

riti cruenti delle Baccanti che le esegesi moderne hanno appurato avvenivano senza

coltelli, ma con il solo uso delle mani 67 . Scoperta che illumina e chiarisce quanto

il trattato cinquecentesco riferisce sull’omicidio di Bacco, “fatto a pezzi e cotto e

di nuovo poi ritornato insieme e tinto di gesso perché più non fosse conosciuto”.

Significando con ciò “che le uve sono peste e tutte rotte da’ contadini che ne spremono

il vino, il quale bolle purgandosi ne’ gran vasi non solamente di legno ma di

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Fig. 12. G. Carpioni, Seguaci di Bacco

ai piedi del simulacro lapideo di

Sileno, 1645-50 c., Venezia Ca’

Rezzonico, coll. Martini

pietra ancora e talora di gesso, e pare quasi cuocerli, e lo cuocono anco alcuni come

che così poscia si conservi meglio; e sono dopo riposte insieme le stracciate

membra perché la vite al tempo suo riproduce le uve intere”. Dopo questo apprezzabile

saggio di ermeneutica sui significati simbolici e sull’operatività pratica

della vinificazione, il Nostro affila ulteriormente le armi interpretative a sua disposizione

affondandole, a costo di ripetersi, nelle componenti per così dire ‘botaniche’

del mito dionisiaco. “Perché Bacco era anco creduto da alcuni de gli antichi

essere quella virtù occulta che a tutte le piante dà forza di produrre i maturi frutti”

e al dio “erano fatte le corna e lo vestivano da femina per mostrar che nelle piante

sono ambo le virtù, di maschio e di femina” (cat. 62) dato che “generalmente

ogni pianta produce le foglie e gli frutti da sé, senza che altra le si congiunga, il che

non è degli animali”, quasi che ogni vegetale fosse crittogamo. Tale virtù dionisiaca

occulta sarebbe alla base della familiarità del nume “alle Dee Eleusine” che presiedono

alla germinazione, tra suolo e sottosuolo, tronco e radici, come Cerere e

Proserpina, tutrici di quella z¯oè di cui avrebbe argomentato nel nostro presente K.

Kerényi. “La intera virtù seminale che piglia sua forza dal Sole”, con cui Dioniso era

identificato, indusse le “favole” a reputarlo anche padre di Priapo, alla cui figura

Cartari riserva almeno tre pagine di trattazione, qui riassunte nei tratti essenziali, in

considerazione della loro scarsa incidenza artistica a motivo del ritegno suscitato

dal minimo comun denominatore, il “membro fatto del legno del fico, e chiamato

da loro fallo”, anch’esso talvolta rosso, come quel “panno che aveva quel […] calore

qual dà forza al seme fin nelle viscere della terra” (vedi tav. 72). Vincenzo ovviamente

ignora, qui come nel paragrafo relativo al capro 68 , che in questi elementi

c’è già in nuce l’origine dell’orchestra e del coro nell’immenso raggiungimento

artistico della tragedia greca 69 . E pur continuando a dissertare sull’argomento a un

certo punto lo stesso Vincenzo considera, rivelando i limiti delle sue analisi, come

di alcuni aspetti delle cerimonie dei fallofori sia meglio tacere “per degni rispetti

oltre che di nulla servono a disegnare le imagini di Priapo, che fu fanciullo, grasso,

brutto e mal fatto”, avvertendo di essere in procinto di lasciarsi prendere la mano,

come gli capitava spesso.

Un passaggio tuttavia va qui privilegiato per colui che era considerato il dio

tutelare degli orti, “alla guardia dei quali si stava con una lunga canna in testa per

ispaventare gli uccelli” (tav. 72), relativamente alla presenza accompagnatoria dell’asino,

a lui accomunato “per l’odio che portava a questa bestia” (tav. 72 e fig. 1b

di tav. 67) a seguito del famoso episodio del raglio che destò Vesta, insidiata dal

dio come mirabilmente aveva già figurato Bellini nel celebre Baccanale ora a Wa-

Fig. 13 S. Ricci, Baccanale per il

ritrovamento di Arianna in Nasso,

1715, Venezia, Gallerie

dell’Accademia(verificare don dott.

Scarpa anche la data)

shington, sulla scorta di Ovidio 70 .

A onta dei propositi, Cartari tuttavia non omette di riferire sulla somiglianza

tra asino e Priapo relativamente alle dimensioni degli attributi sessuali di ciascuno

(e di tutti i Satiri e Sileni in generale, aggiungiamo noi!) e su come l’animale venisse

sacrificato al dio, spesso sostituito dal capro per identiche ragioni. Su quest’ultimo

e sulla sua forza generativa – che da sempre lo aveva associato e lo assocerà

alla libidine – il Reggiano si dilunga specificando come “col medesimo animale fu

anco mostrato Bacco alle volte perché trovasi ch’egli si cangiò in esso [capro] quando

con gli altri dèi fuggì dalle mani di Tifone in Egitto”. Come del resto era già avvenuto

per Dioniso fanciullo per essere sottratto dal padre Giove alle ire di Giunone

e “perciò fu il capro poi sempre vittima molto grata a Bacco, o pur fu forse perché

questa bestia è grandemente nocevole alle viti”, in ciò ribadendo quanto già

anticipato nei paragrafi dedicati a Pan. Laddove il caprone che bruca e devasta le

vigne è vero tòpos dell’arte, sulla scorta soprattutto di mirabili precedenti archeologici.

8. Cogliendo a pretesto una leggenda bacchica e fallica sulla nascita del re di Roma

Servio Tullio, concepito da una serva dal seme di un Lare, Cartari si profonde in

una lunga digressione sui Lari in generale, sul cane come custode delle case, da

essi tutelate, sui Penati con relativi agganci a Dioniso (tav. 73). Se ne fa menzione

per l’afferenza, se non altro, con le rappresentazioni freschive somme di Palo Veronese

nelle decorazioni dei soffitti delle due stanze meridionali della villa Barbaro

a Maser, dedicati all’Amor coniugale e a Bacco stesso (fig. 11) 71 . La divagazione

si amplifica poi sulla figura del Genio, “nume domestico” anch’egli “che infino dal

loro primo nascimento accompagnava gli uomini sempre”, interessantissimo anche

dal nostro punto di vista con incidenze ad esempio in stampe del Tempesta 72 .

L’inserimento del Genio nel capitolo di Bacco (tav. 74) trova giustificazione nella comune

primordialità radicale della z¯oè e del rinnovamento della nascita, nonché

nella contiguità alla ‘figura’ del dàimon creativo, comune alla genialità e all’ebbrezza;

in aggiunta al particolare, invero accessorio e singolare, che vede il platano,

sacro al Genio, portare foglie molto simile alle bacchiche viti.

Con tutte le sue omissioni e tutti i suoi limiti, dovuti alla ricchezza senza qua-

34

35


1

Kerényi 1992, p. 12.

2

Hillman 2014, pp. 259 e 258.

3

Edizione di riferimento a cura e con introduzione

di Pastore Stocchi 1996.

4

La prima edizione era uscita con solo testo nel

1556 ancora a Venezia per i tipi di F. Marcolini. V.

scheda bibliografica in Pastore Stocchi 1996, pp.

601- 603.

5

Edizione anastatica di riferimento con introduzione

e a cura di M. e M. Bussagli 1987.

6

Tra cui appunto l’appendice integrativa del Pigoria

all’edizione di Cartari del 1647 in cui le “imagini”

erano “ridotte da capo à piedi alle loro reali,

& per non più per l’addietro osseruate somiglianze:

Cavate da’ Marmi, Bronzi, Medaglie, Gioie,

& altre memorie antiche” come da enunciato del

Frontespizio.

7

Il testo uscì nei soli primi due volumi a Bologna

nel 1582.

8

Per un esaustivo profilo non firmato su “Dioniso

e il mondo dionisiaco” vedasi in rete

htpp://volta.valdelsa.net/saggi htm.

9

In questo tipo di note si indicheranno autore citato

e anno, seguiti dalla sigla s.v.i. (sub vocibus indicis).

10

Per la zōè come forza propulsiva universale, distinta

dalla bìos come vita individuale (e quindi anche

come morte) vedi Kerényi 1992, s.v.i.

11

“… onde volendo l’Alciato ne’ suoi Emblemi porre

la giovinezza dipinse Apollo e Bacco, […], onde

Tibullo disse ‘Che Bacco solo e Febo eternamente/Giovani

sono et hanno il capo ornato/Ambi di

bella chioma risplendente”, Cartari 1996, p. 48.

12

Sul miele e il suo impiego rituale Kerényi 1992,

s.v.i.

13

Hillman 2014, p. 257.

14

Per tutti Hillman 2014, soprattutto cap. I Dioniso

negli scritti di Jung, pp. 15-26 con riferimenti bibliografici

specifici agli altri autori qui citati.

15

Kerényi 1992, s.v.i. soprattutto pp. 213 sg., 223-

229 e 336 sgg.

16

Vedi qui la nota 9.

17

Sulle antinomie di Dioniso/ Bacco valga esemplificativamente

il passo da Schiesaro 2008, p. 31:

“Dioniso è il dio del vino e della festa, dell’eb-

si paragoni del materiale mitografico precedente, sia letterario sia artistico, il testo

di Cartari resta traccia privilegiata, se non proprio obbligata, per ogni iconografia

posteriore anche sul dio del vino, senza di necessità dover inibire ogni trasgressione

di committente o artista verso l’una o l’altra delle versioni originali delle numerosissime

fonti, cui attingere direttamente e rigenerativamente.

Piace chiudere questo excursus ricordando come Vincenzo stesso – anche relativamente

alla figura di Bacco, e non solo – abbia trasbordato oltre il capitolo a costui

dedicato con un’‘estensione’, del resto preannunciata nel testo e nell’indice,

in cui ricorda il grande Pausania e la sua notizia che in Delo le statue “di Mercurio

e di Bacco e di Apollo” 73 furono accompagnate dal gruppo delle Grazie, dee del

beneficio, della gratitudine e dell’allegrezza, diventate definitivamente tre in quell’occasione,

da due che erano in precedenza. E piace inferire che ciò sia avvenuto

in conseguenza della triplicazione delle citate divinità olimpiche per l’aggiunta di

Bacco stesso a Mercurio e ad Apollo, creando una ‘doppia forma’ la cui proiezione

visualizzava in “imagine” la parte migliore del “dare-ricevere-restituire” di queste

inedite trinità, all’ombra di un nume in cui sottosuolo, pianta e bevanda costituiscono

l’iter e il ciclo di una sublimazione che conduce alla finale, ‘gratuita’ potenza

rigenerativa e liberatoria del vino.

brezza e dell’oblio, della fertilità e dell’ispirazione;

ma anche un dio temibile e vendicativo, che si immagina

sempre ‘altro’. È straniero […] perché sempre

incute timore e terrore […] che unisce con la

sua persona il presente visibile a un altrove arcano”.

Per cui da Euripide a Otto egli è “un dio assai

terribile per gli uomini e anche assai mite” (Baccanti,

854-856, 861), “una complementarietà di opposti

[…] un dio che arriva […] la follia creatrice, il

fondamento irrazionale del mondo” (Otto

1933/1965, pp. 110-113). Kerényi 1992, p. 13 nota

come, da Nietzsche a Otto, resti tuttavia “precluso

il tratto fondamentale erotico di tutto ciò che è

dionisiaco”.

18

In cap. II, “Apollo, Febo, il Sole”, p. 48.

19

Ibidem, p. 42.

20

Interessantissima l’assenza della tavola nell’edizione

del 1647. Essa infatti era in qualche modo

stata anticipata proprio al capitolo su Saturno, a p.

23 dove l’affermazione relativa alla costante giovinezza

di Bacco, per non venir contraddetta, subisce

una forzatura, nel registro inferiore della composizione.

Superiormente infatti le stagioni sono

impersonate da quattro putti, come germogli persistenti

di vita (la zōè di Kerényi), “con gli animali

a loro sacrati”. Primavera con canestra di fiori e orso

che esce dal letargo; estate con falcetto e Ariete,

autunno con corona della pienezza regale in

mano, grappolo d’uva e Leone; inverno ammantato

con cacciagione e pescato, siglato dallo Scorpione,

segno del mese pluviale dell’inizio della

brutta stagione. Al di sotto tre figure muliebri (il risvolto

della bìos specifica), da Vesta assisa per l’inverno,

a Venere dea del primaverile amore con pomo

del Giudizio e fiori in mano, a Cerere con ardente

facella e canestra di frutti; per finire con un

autunnale Bacco, infante a oltranza nonostante la

stagione della “vecchiaia”, con corona d’edera in

testa, grappolo d’uva in mano e pantera acquattata

ai piedi.

21

Quasi mai vengono dati la ‘collocazione’ e il riferimento

bibliografico dei passi citati dagli autori

convocati, solo talvolta anche con il titolo dell’opera

di riferimento. L’individuazione e il loro reperimento

esula dall’assunto di questo intervento.

Si è preferito perciò evitare – se non in casi di

nomi notissimi e quindi particolarmente ‘autorevoli’

– di riportarli qui, rimandando alla lettura del

testo originale completo di Cartari.

22

Rispettivamente agli Uffizi e alla Galleria Borghese.

23

Non è del tutto esatto che, non tanto le Muse,

quanto le nutrici di Dioniso (cui Kerényi dedica approfondito

spazio) siano assenti dalla pittura, ad

esempio. Va citata una versione tardosecentesca

di Ignoto, ascritta al Vaccaro, raffigurante raffigura

Medea su un carro trascinato da dragoni che ringiovanisce

proprio le Nutrici di Bacco su richiesta

del nume. Il soggetto è ispirato da alcuni fugaci

versi delle Metamorfosi ovidiane (VII, 294-296).

24

C’è chi ha messo in relazione la primordiale adozione

bacchica del termine phallos (in greco ‘eretto’)

non tanto con l’attributo connotativo e apotropaico

cui Cartari dedicherà alcune pagine a fine

trattazione, quanto proprio con il fatto che il vino,

allungato con l’acqua, consente agli adepti più

prudenti e temperanti del dio di stare in piedi, cioè

in posizione eretta. In http://volta.valdelsa.net.

25

È noto che fu Dioniso stesso a conferire a Mida

l’esiziale privilegio di trasformare in oro tutto quello

che il re toccava; ciò in riconoscenza di aver salvato

e accolto Sileno, trovato, in sperdute contrade,

ovviamente ebbro all’ultimo stadio.

26

Vedi Rigon 2008, con elenco delle opere di tale

soggetto nella pittura di Sebastiano Ricci.

27

Per Cartari sono originari dei “monti” dell’India

(Cartari 1996), p. 125.

28

Descrizione e poteri di Pan e dei suoi adepti in

Cartari 1996, pp. 125-126.

29

Uno dei Sileni, con prevalenti connotati umani,

è invece Marsia, come sanno tutti quegli artisti che

lo rappresentano correttamente allo scuoiamento

a opera di Apollo con gambe non caprine. Anche

nella citata opera di Carpioni (fig.12) permane l'ambiguità

relativamente alla figura di Sileno, rappresentato

in simulacro marmoreo. I suoi lombi sono

infatti pelosi e caprini, ma un inserto di vegetazione

cela la terminazione degli arti inferiori, quasi a

non voler prendere posizione.

30

E tale è nella citata tavola dell’edizione di Cartari

del 1647 di cui alla nota 20.

31

Si ricorda qui che tendenzialmente gli antichi

non nominavano la notte e l’inverno, assimilati al

silenzio e alla morte.

32

Era in realtà un biennio che si concludeva con

l’uccisione del dio per cui vedi Kerényi 1992, s.v.i.;

“anno trieterico”.

33

Kerényi fornisce due versioni sull’origine della

vite: nella prima la pianta sarebbe stata partorita

da Maira, cagna di Sirio, stella della costellazione

di Orione (essa stessa talvolta chiamata “cane”,

donde il periodo di ‘canicola’) che sorge il 17 luglio

dando inizio a un nuovo anno con l’esordio

dell’estate e all’inizio della maturazione dell’uva;

vedi Kerényi 1992, p. 154. In una seconda versione

dello stesso autore (1976, II, pp. 120-121) è Oresteo,

l’“uomo dei monti” a possedere una cagna

che partorisce un bastone da lui seppellito. “Si

comprende subito che questo sarebbe diventato

la prima vite. Così anche la cagna non poteva essere

che il cane del cielo, Sirio, che fa appunto maturare

la vite. Il figlio di Oresteo si chiamava Fitio,

‘il piantatore’, e il nipote fu Oineo”, re che nel nome

include l’appellativo stesso di ‘vino’.

34

Per un’esegesi parallela in ambito biblico, con

esiti paralleli in Hillman 2014, “Mosè, l’alchimia,

l’autorità”, pp. 263-269.

35

Per Dioniso/toro sempre Kerényi 1992, s.v.i.

36

Sulla seduzione di Persefone/Proserpina a opera

del padre ancora Kerényi 1992, pp. 118 sg. e 121

sg.

37

Questo, in estrema sintesi, il racconto che trova

diverse lezioni, con molteplici sfumature, in tutta

la letteratura greco-latina, di cui è impossibile qui

citare i troppo numerosi autori. Non infrequenti

anche esempi nella nella pittura vascolare greca

sia a figure nere che a figure rosse.

38

Rigon 1997, p. 85.

39

“Senza vergogna sparge i lunghi crini/ […] Né si

vergogna andar con lento passo/ E trarsi dietro

l’ampia e lunga veste/ Ornata tutta di barbarico

oro”. Cartari come d’abitudine non fornisce gli

estremi della citazione in originale, né della traduzione

in volgare. Cartari 1996, p. 373.

40

Si ricorda l’interpretazione che vuole l’espressione

corrente “piantare in asso” come contrazione

di “in Nasso”.

41

Sulle sue implicazioni simboliche e sulla sua origine

storica da evidenze archeologiche vedi ancora

Kerényi, con reperimento dei numerosissimi

passi sempre tramite indice, che confermano in

ogni caso l’incisività anticipatrice da questa angolazione

del testo di Cartari.

42

Senza coltello dilaniavano la carne, come si faceva

con il grappolo d’uva, in una specie di trasposizione

memoriale o parallela. Sono le Menadi,

figure centrali del mito dionisiaco assimilate

tout court da Cartari alle Baccanti, sempre rappresentate

nell’antichità forsennatamente danzanti

e con membra squarciate delle vittime di turno.

Per la loro figura vedi ancora Kerényi 1992, s.v.i.

‘coltello’, pp. 230 sgg., 248, 250 sgg.

43

Vedi il dipinto di Ricci (fig. 13). In questa tela la

testa mozzata di vitello diventa ariete.

44

Nel Bacco e Arianna di Tiziano ora a Londra il

personaggio maschile ignudo e anziano avvolto

da rettili potrebbe anche assumere la funzione di

rappresentare la costellazione del Serpentario, che

precede quella della Corona d’Arianna, magistralmente

dipinta in cielo sulla sinistra di chi guarda

(fig. 8). Il satiretto al centro tira una testa mozzata

di vitello, in perfetta aderenza alle fonti letterarie.

45

Verso fondamentale che valorizza la centralità

del problema dei misteri dionisiaci su cui si impernia

la ricerca di Kerényi 1992, s.v.i. ‘misteri’ il

quale non manca di far notare come le fonti antiche

sull’argomento siano scarse proprio perché

non veniva violato il mistero in quanto tale.

46

E invece l’avvenimento ha costituito banco di

prova per le ricerche sul “fenomeno” del trionfo

nell’antichità, come da saggio esemplare di Schiesaro

2008, con ampia ricognizione delle fonti letterarie

e archeologiche, quest’ultime soprattutto

relative ai sarcofagi con trionfi bacchici.

47

Le versioni mitiche non sono tutte concordi su

questa origine. Alcune la vogliono dono di Venere

e delle Ore. Igino, ad esempio, nella sua Mitologia

astrale, II, 5, 1-4 riporta oltre a questa, almeno

altre quattro lezioni differenti (fig. 7). Per l’originale

interpretazione mitografica di Tintoretto

qui evocata vedi Rigon 2012.

48

Jacopo Zucchi nelle lunette del soffitto della galleria

romana di Palazzo Ruspoli offre due versioni

dell’episodio, posto alla base dell’origine sia della

costellazione della corona boreale che di quella

australe (Rigon 2011).

49

Illuminanti la ricognizione sul ventilabro,altro nodo

della simbologia e della misteriografia dionisiache,

per il cui vero significato, cui Cartari non

può giungere, vedi ancora Kerényi 1992, s.v.i. lìknon

e Dioniso/Liknìtēs. La 'memoria' del ventilabro

e della sua forma affiora nel grande cembalo,

spesso tenuto in mano da qualche Menade, come

in alcune opere qui citate e illustrate.

50

Il celebre capolavoro di Tiziano dipinge Marsia

con gambe caprine sulla scorta di Igino (Miti 165

e 191) che lo definisce Satiro e convoca a giudice

della contesa con Apollo re Mida. Gli altri mitografi

invece distinguono nettamente tra la contesa

di Apollo con Marsia e quella con Pan, il primo

Sileno, il secondo capo dei Satiri con gambe caprine.

Solo alla seconda contesa, pienamente

olimpica in quanto Pan è un dio immortale, assistette

Mida.

51

Esaustivi elenco e analisi delle fonti in Agnoli

2014.

52

È l’extasis di chi, etimologicamente, esce ‘fuori

di sé’, raggiungendo lo stato di enthousiasmós,

che a sua volta significa ‘essere pieno del dio” (fig.

13).

53

Vedansi i vari saggi del catalogo della mostra

Trionfi romani, Roma 2008.

54

Per le “proprietà” dell’elefante nei bestiari medievali

Rigon 2014, pp. 44-46.

55

Particolarmente pp. 125-127.

56

Sugli uccelli loquaci, portati ai trionfi, in primis

lo psittacus o pappagallo, vedi da ultimo Rigon

2014, pp. 69-88.

57

L’edera sarebbe comparsa subito dopo la nascita

di Dioniso, per riparare l’infante dalle fiamme

del fulmine paterno, attutendone il calore bruciante.

L’edera in testa agli ubriachi ne raffreddava

parimenti gli ardori. In http// volta.valdelsa.net

cit. a nota 1 ai & I e VI.

58

“La vite e l’edera sono sorelle, che pur essendo

sviluppate in direzioni opposte non possono celare

la loro parentela […]. La crescita dell’edera

mostra un dualismo che ricorda la doppia natura

di Dioniso. La si potrebbe definire, al pari suo, la

‘nata due volte’. Il suo fiorire e il suo ricoprirsi di

frutti stanno in singolare rapporto di corrispondenza

e di opposizione rispetto alla vite. L’edera

fiorisce infatti in autunno, quando per la vite è tempo

di vendemmia, e produce frutti in primavera.

Tra i suoi fiori e i suoi frutti sta il tempo dell’epifania

dionisiaca nei mesi invernali. Essa è un ornamento

dell’inverno. Mentre la vite dionisiaca necessita

il più possibile della luce e del calore solare,

l’edera dionisiaca ha un bisogno sorprendentemente

limitato di luce e di calore, e fa germogliare

la sua freschissima verzura anche all’ombra

e al freddo […]. La si è paragonata al serpente […]

nella natura fredda attribuita ad entrambi e nel

movimento di chi striscia nel terreno e si avviticchia

agli alberi” come i serpenti che le Baccanti

portavano con sé, avvolti alle braccia. Da W.F. Otto

1933, p.143 in Kerényi 1992, pp. 78-79.

59

Kerényi 1992, p. 78.

60

Kerényi 1992, per Diònysos Kissòs, p. 189. Per il

kissòs come pianta http://volta.valdelsa.it cap. VI

(“Dall’edera prendeva nome anche una fonte presso

Tebe”, città natale di Dioniso, nato da Semele,

figlia del re Cadmo, “detta appunto Kissousa, dove

le Ninfe avrebbero celebrato la rituale abluzione

del neonato dio, allevato poi sul monte Elikòn,

il cui nome deriva da èlix, che significa propriamente

spirale, ma è anche altro nome dell’edera”.

61

Sul fico come albero dell’Eden e della colpa al

posto del melo, vedi Rigon 2014, pp. 15, 18.

62

Vedi qui nota 32.

63

Celeberrima la kylix di Dioniso su nave con i delfini,

opera di Exechias. Figure nere, 540-530 a.C.,

da Vulci. Staatliche Antikensammlung, Monaco di

Baviera. Interessante ed eccezionale riferimento:

“Vedasi a’ tempi nostri ancora quasi la medesima

nave fatta a bellissime figure di mosaico nella chiesa

di Santa Agnese (fuori le mura, in Roma) che fu

già tempio di Bacco”, in Cartari 1996, p. 384.

64

Si riporta qui la credibile ipotesi filologica che la

parola ‘Carnevale’ derivi da una crasi di carrum

nauale, come origine di festosi cortei, dapprima

mitologici e trionfali, evoluti poi in processioni religiose

e quindi in convogli mascherati.

65

Per il maculato leopardo (figg. 1a e 1c, cat. 62),

simbolo dell’inganno e figlio adulterino della leonessa

e del pardo, animale debole e lussurioso Rigon

2014, pp. 46-50.

66

Nonno (Dionisiache 9.190) segnala il valore simbolico

delle pantere maculate del traino trionfale,

scelte come tiro “per glorificarne l’immagine del

dominio paterno”: le chiazze del pelo ricordano

infatti l’aspetto della volta celeste, regno di Giove,

mentre lo sguardo del dio verso l’alto ne rammemora

la preziosa funzione di tramite tra la realtà

terrena e il mondo uranico. Sulla pantera come

simbolo di ferocità bacchica vedasi anche Otto

1933/1965, p. 111.

67

Vedi nota 42.

68

Al capro Cartari aveva già dedicato ampio spazio

nei paragrafi su Pan alle pp. 126-127, dove tra

l’altri si legge: “In Grecia era fatto onore alla capra…

[poiché] all’apparire della Capra celeste, che

sono alcune stelle le quali […] cominciano a mostrarsi

a calende di maggio [è la costellazione dei

Capretti] era solito di venire sempre gran male addosso

alle vigne”. Nel cap. VI dedicato a “La Gran

Madre” si ribadisce che il capro veniva sacrificato

a Bacco “come animale grandemente nocevole

alle viti”, p. 203 (fig. 1b).

69

Nel termine stesso ‘tragedia’ è incluso quello di

capro (tràgos in greco, unito a canto). Sintesi interpretative

aggiornate sulle origini anche per la

commedia nelle sue componenti dionisiache, sempre

in Kerényi 1992, s.v.i. Orchestra include nel nome

il concetto di danza: la stessa che accompagnava

le falloforie.

70

Non va trascurato il passaggio ‘astrologico’ in

cui si ricorda come “fra le stelle […] due nel segno

del Granchio furono dette Asinelli, un asino insuperbito

già per la favella umana datagli da Bacco

in premio di averlo portato oltre a certo fiume venne

a contesa con Priapo della grandezza del membro

naturale e lo vinse, ma con suo gravissimo danno

perché Priapo sdegnato di ciò l’uccise” seguito

nell’esempio dagli antichi che a lui cominciarono

a sacrificare gli asini.

71

Nell’affresco veronesiano il dio è accompagnato

dal sonno e da Tersicore, dea della danza, personificazioni

dei più immediati effetti del vino.

72

Nell'incisione con il trionfo di Bacco o dell’Autunno

sullo sfondo compare il Genio con due infanti

in braccio che viene incoronato da due Baccanti;

in Rigon 2006, fig. 202c.

73

Cap. XV Le Grazie, p. 491.

36

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