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Corriere 198 Aprile 2020 def

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198

[Nuova Serie] 1128 - 1131 [2121-2126]

Anno LXIV

A V V I S O A I L E T T O R I

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I C T .198 A 2020

SOMMARIO

In questo numero

Collettività 5-13

- L’Ambasciatore italiano Fanara

primo diplomatico ad incontrare il

neo Ministro Erray.

- Tunisia, l’Italiano in continuo movimento.

I consigli dell’avvocato 14-15

- Covid-19, nuova minaccia per l’economia

tunisina.

In Tunisia 16

- Operaie e operai tunisini volontariamente

confinati in fabbrica per

produrre mascherine.

In Italia 17-19

- Riflessione virale.

Dossier 20-33

- Il contagio ieri e oggi. Intervista a

Salvatore Speziale.

Cultura 34-45

- Non possiamo uscire di casa ma

viaggiare con la memoria ci è permesso.

Una delle ultime “ore d’aria”

a Roma è stata una passeggiata

al Velabro.

- Mostre a Roma.

Musica e spettacolo 46-50

- Cronaca musicale. Concerto sinfonico

di sabato 7 marzo 2019.

Marginalia 51-54

- Strategie ed amuleti contro il nemico.

Sovraffollamento e peste al

tempo di Pericle.

Ambiente e turismo 55-58

- Aumento del livello marino. Al via

la seconda fase del progetto europeo

SAVEMEDCOASTS.

- Transumanza, patrimonio culturale

immateriale dell’Umanità.

Salute e benessere 59-60

- Covid-19. Le raccomandazioni di

igiene del Ministero della Salute

contro il virus.

- Covid-19. Le raccomandazioni di

igiene del Ministero della Salute

sugli animali d’affezione.

Cucina 61

Passatempo 62

EDITORIALE

a cura di Silvia Finzi

Solo quando il confine del mondo è la nostra casa, realizziamo quanto

sia importante il poter andare oltre in un altrove che diventa meta

vicina e seppur lontana per sperare in un domani migliore!

Chissà se questo virus ci permetterà di cambiare il nostro approccio

alla vita, al mondo, ai nostri rapporti con gli altri o se, per tutti coloro

che ce la faranno, tutto riprenderà come prima col treno della nostra

indifferenza, con il desiderio sfrenato di offendere, sminuire, distruggere,

odiare, dominare!

Chissà se come nel Medioevo avremo bisogno di trovare capri espiatori

per alleviare la nostra esistenziale paura della morte!

Chissà se realizzeremo quanto la cosa pubblica sia importante e se i

Governi del mondo futuro penseranno che sanità e ricerca siano priorità

assolute nel budget di uno Stato e se il diritto alla sanità diventerà

uno dei diritti fondamentali ed imprescindibili dell’Uomo.

Si dice che questo coronavirus non guardi in faccia nessuno e che tutti

siano eguali e fratelli nel contagio ma di fatto non siamo eguali e

fratelli nell’affrontare e combattere il nostro isolamento, nella nostra

possibilità di resistere finanziariamente a questa quotidianità senza

lavoro specie per chi lo ha perso (e chissà se e quando lo ritroverà) o

per chi vive alla giornata, senza nessun tipo di tutela sociale ed economica.

Sì, gli Stati stanno cercando di dare risposte ma dopo pochi

giorni di confinamento gli Stati Uniti hanno già dieci milioni di richieste

di sussidio di disoccupazione; in Italia 100 richieste di sussidi al

secondo sul sito dell’INPS per ottenere il bonus di 600 euro, con un

sistema informatico che dopo poche ore è andato in tilt. E in Tunisia,

le misure decise dal governo con 200 dt alle famiglie non abbienti

basteranno a sfamare chi non ha uno stipendio fisso, con il rischio

elevato di disordini sociali? E non parliamo di Paesi come l’India dove

le immagini di esodo “biblico” dalle città sono apocalittiche o dei

senza tetto parcheggiati in spazi riservati alle macchine o dei campi

profughi dove c’è impossibilità di confinamento e nessuna protezione

sanitaria laddove il rischio di contagio è decuplicato.

In questi momenti dolorosi e da non dimenticare domani, quando le

cose (speriamo presto) ritorneranno alla normalità, l’idea di giustizia,

umanità e fratellanza dovrebbero guidare i nostri passi. La nostra intrinseca

vulnerabilità dovrebbe farci prendere coscienza della vulnerabilità

del mondo, dei suoi abitanti, di come un semplice virus sia

capace di trasformare il mondo, noi stessi, e gli altri! Ricordiamocelo

domani, quando la normalità tenterà di cancellare, che non ci si può

salvare se non adottiamo misure unitarie e congiunte! Ricordiamoci

che girare le spalle agli altri non ci protegge anzi ci espone molto, che

ogni giorno superato è una vittoria, che vivere è la priorità di tutti,

che la nostra irrimediabile finitudine è il senso profondo della nostra

esistenza. Che rieccheggi nella nostra coscienza questa frase di Tolstoj

una volta riconquistato il nostro domani: “Siedo sulla schiena di

un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di

convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto

il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile.

Tranne che scendere dalla sua schiena.”

Infine, essendo impossibilitati a pubblicare il giornale in versione cartacea

a causa della quarantena istituita anche in Tunisia e quindi con

la chiusura temporanea della tipografia, pubblicheremo il giornale in

formato digitale sul sito http://www.ilcorriereditunisi.it/ e sulla nostra

pagina Facebook (Il Corriere di Tunisi). Ringrazio tutti coloro che hanno

collaborato a questo numero, il primo in versione digitale, proprio

quando il giornale compie i suoi 64 anni di pubblicazione ininterrotta.

Un ringraziamento particolare va a Cinzia, Marco e Mino che hanno

reso possibile questo numero che sino all’ultimo era rimasto in forse!


Mensile

Creato a Tunisi nel marzo 1956

Edito dalle “Editions Finzi”

SARL . TVA: 587737 T / A / M 000

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3, Rue Kenitra - 1001 Tunis

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Direttore Responsabile: Silvia Finzi

Membro fondatore della F.U.S.I.E.

Aderente alla Federeuropa

Con il contributo (Art.5, co.3, lettera f, D.Lgs 70/2017)

Redazione

Direzione: Silvia Finzi

Capo redattore:

Cinzia Olianas

Redazione:

Paolo Paluzzi, Anna Maria Follis, Mino Rosso

Politica/Economia:

Camera tuniso-italiana di commercio

Dossier:

Michele e Yvonne Brondino

Cultura:

Paolo Paluzzi, Adriana Capriotti

Maghreb e Mediterraneo:

Michele e Yvonne Brondino

Scuola e Università:

Silvia Finzi, Emanuele Minardo

Marginalia:

Franca Giusti

Turismo e ambiente:

Wafa Essahli

Sito Web:

Delfino Maria Rosso

In copertina:

composizione grafica

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Grafica e impaginazione

Mohamed Haddad

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C’

L’A F

M E

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ra i principali temi al centro

dell'incontro dell’11 marzo scorso

tra l'ambasciatore d'Italia in Tunisia,

Lorenzo Fanara e il nuovo Ministro

tunisino degli Affari Esteri, Noureddine

Erray, la cooperazione bilaterale,

la sicurezza regionale, il rilancio

degli investimenti ed il contenimento

del coronavirus. Un comunicato

del Ministero degli Esteri tunisino

ha precisato che per Erray si tratta

del primo colloquio con un ambasciatore

straniero in Tunisia. Questa

è stata l'occasione per passare in rassegna

i diversi aspetti di cooperazione

tra i due Paesi, i rapporti bilaterali

e quelli nel quadro delle istituzioni

europee, nonché per fare il punto sui

preparativi dei prossimi appuntamenti,

in particolare in previsione di

una visita in Tunisia del Ministro degli

Affari Esteri italiano Luigi Di Maio.

L'incontro è stato, inoltre, l'occasione

per discutere delle misure adottate

dai rispettivi governi per contenere

l'espansione del coronavirus. A tal

riguardo, è stata ribadita l'importanza

di promuovere il coordinamento e

la collaborazione tra le autorità tunisine

e quelle italiane nella lotta contro

questo virus, facendo leva sulle

eccellenti relazioni tra i due Paesi. Il

Ministro Erray ha inteso esprimere la

L’A L F ( )

E M N E ( )

solidarietà da parte dei tunisini nei

confronti del popolo italiano di fronte

all'espansione del coronavirus e

ribadito la fiducia della Tunisia nella

capacità del Governo italiano di sconfiggere

tale flagello. Da parte sua,

l'Ambasciatore Fanara si è felicitato

per l'eccellente livello delle relazioni

bilaterali e di amicizia tra Italia e Tunisia,

rinnovando gli auguri italiani al

nuovo Governo tunisino ed ha ricordato

che l'Italia continuerà a sostenere

la Tunisia nelle sue sfide economiche

e di sicurezza. Durante l'incontro

vi è stata anche l'occasione per

discutere di diversi temi, regionali ed

internazionali, di interesse comune,

tra essi particolare attenzione è stata

data all’attuale situazione della vicina

Libia.


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ederico Fellini disse che

“una lingua diversa è una

diversa visione della vita”, in

effetti, ogni lingua codifica la

parte di mondo che conosce,

dunque, divulgare tale lingua

significa anche non perdere

le possibili chiavi di lettura e

di informazione sul mondo

che questa ci può offrire.

Ogni lingua è un veicolo di

rapporti sociali, di arte, di diplomazia,

di affari, di identità;

è uno dei più incisivi strumenti

per preservare e sviluppare

il nostro patrimonio materiale

e immateriale. In quest’ottica,

dunque, si può comprendere

facilmente come ogni

iniziativa, volta a promuovere

la diffusione di una lingua, sia

utile non solo per incoraggiare

la diversità linguistica e

l’educazione multilinguistica,

ma anche per sviluppare una più piena

consapevolezza delle tradizioni

linguistiche e culturali di ogni popolo

e, altresì, per ispirare la solidarietà

basata sulla comprensione, la tolleranza

e il dialogo.

È proprio ispirandosi a questo punto

di vista, coniugato a un grande amore

per la lingua italiana e al desiderio

di preservarla, promuoverla e mantenerla

viva in Tunisia, che Hamadi

Agrebi, Ispettore Generale e formatore

di docenti tunisini di lingua italiana

del Ministero dell’Educazione

tunisino, ha ideato e dato vita a un

Festival teatrale in lingua italiana a


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C’

Tunisi; una rassegna teatrale rivolta

ai giovani tunisini di alcuni licei che

studiano la lingua italiana e, quest’anno,

giunta alla sua ottava edizione.

Questa iniziativa, come ci racconta

Hamadi Agrebi, nasce, inizialmente,

come la “Giornata della Lingua italiana”

per i docenti e gli studenti italianisti

dei licei di Tunisi e, solo in un secondo

momento, prende vita la Rassegna

teatrale, della durata di tre

giorni, nell’ambito della quale alcuni

liceali tunisini italianisti salgono sul

palcoscenico, utilizzando le loro conoscenze

linguistiche e culturali, per

mettere in scena una pièce teatrale.

Durante queste tre giornate, inoltre,

vengono organizzati alcuni laboratori

e spettacoli di danza e di musica,

quest’anno, ad esempio, è stato portato

in scena un balletto con la coreografia

di Khoubeib Jellouli, un

concerto con gli studenti di violino di

Mohamed Anis Dhaouadi e un duetto

della professoressa di canto Zeineb

Oueslati, accompagnata dalla

sua studentessa Syrine.

L’Ispettore Generale ogni anno propone

un diverso tema e i ragazzi,

sotto la guida dei loro docenti di lingua

italiana, e sotto la costante e

preziosa supervisione di Monsieur

Agrebi, scrivono il testo teatrale, lo

portano in scena, non solo recitando,

ma occupandosi di ogni aspetto

relativo alla messa in scena, dai costumi

alla scenografia, dalle luci alla

sonorizzazione.

Grazie a questa Rassegna, gli studenti

non solo apprendono meglio la lingua

italiana, ma comprendono la cultura

di questo Paese, poiché ogni lingua

ha il suo modo di vedere il mondo

ed è il prodotto della propria particolare

storia; diffondere l’italiano

diviene, dunque, un modo anche per

comprendere la cultura dell’altro e

per superare le differenze culturali.

La forza di questo progetto, così come

di altri, quali “Le pietre raccontano

e gli allievi imparano”, grazie al

quale viene promosso l’approccio alla

lingua italiana attraverso l’archeologia,

o il “Dantedì” che l’Ispettore

Generale, con la sua passione, il suo

impegno e la sua dedizione, in questi

anni, ha ideato e portato avanti, è

stata quella di far conoscere la lingua

italiana agli studenti del liceo, di preservarla

e di mantenerla viva in Tunisia.

Il tema proposto per l’ottava edizio-


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C’

ne, che è stata ospitata presso il Centre

Culturel scolaire Mahmoud Messaidi,

agli studenti dei licei secondari,

insieme ai loro docenti tunisini di lingua

italiana, (Delegazioni di Tunisi1,

Mannouba e BenArous), è stato il

“Pentamerone”, conosciuto anche

con il titolo di “Lo cunto de li cunti”,

una raccolta di cinquanta fiabe in lingua

napoletana, scritte nel ‘600 da

Giambattista Basile. Gli studenti, durante

i laboratori teatrali tenuti dai

loro docenti di italiano, hanno scritto

delle pièces in cui si fondeva la musica,

la danza e la recitazione; prendendo

spunto dalle novelle di Basile,

hanno scoperto, e fatto riscoprire,

una parte della cultura e della letteratura

italiana che, nei secoli, ha avuto

un forte impatto letterario, ispirando

una parte della produzione letteraria

del Nord Europa.

In Tunisia l’italiano è una delle molte

lingue opzionali che gli studenti possono

scegliere di studiare durante gli

ultimi tre anni di liceo, vi è una vera e

propria concorrenza tra lingue, dunque,

è necessaria una corretta politica

linguistica, anche creando progetti

pedagogici e culturali che possano

attrarre i giovani e portarli a scegliere

questa lingua piuttosto che un’altra.

D’altra parte vi è una presenza rilevante

di persone che parlano l’italiano

in Tunisia, sia per motivi storici,

non bisogna, infatti, dimenticare l’emigrazione

italiana che vi è stata sin

dall’Ottocento in questo Paese, basti

pensare che un quartiere di Tunisi, La

Goulette, viene, ancora oggi, comunemente

chiamato la Petite Sicile, sia

da un punto di vista sociologico, ovvero

per la presenza della Rai in Tunisia

dagli Anni ‘60. In seguito a un accordo,

in vista dei Giochi Olimpici del

1960, tra la RAI e il Segretario di Stato

all’Informazione tunisina, infatti,

venne installato un ripetitore che

consentiva la visione di Rai1 in Tunisia;

Rai1 divenne, in questo modo, la

prima rete televisiva seguita in questo

Paese, assumendo così una vera

e propria funzione educativa.

Amal El Khazen, una studentessa del

liceo Med Arbi Chammeri Wardia che

ha partecipato alla Rassegna teatrale

con la Professoressa d'italiano Jihen

Trabelsi e la Professoressa di teologia

Amal Akremi, ha affermato, appunto,

di essersi avvicinata alla lingua

italiana poiché da bambina il

nonno le faceva vedere i programmi

di Rai1. Al liceo ha scelto, pertanto, di

entrare nel club d’italiano e nel laboratorio

teatrale in lingua italiana, grazie

al quale ha recuperato le sue conoscenze

della lingua, arricchendole

e apprendendo non solo la grammatica,

ma anche la storia e la letteratura

del nostro Paese.

L’italiano è la lingua dell’arte, della

letteratura, della lirica, tuttavia oggi

non è più possibile attrarre i giovani


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puntando solo sugli aspetti culturali

e sulla musicalità di una lingua, pur

restando uno dei motivi per cui scelgono

di divenire italianisti, è necessario,

al contrario, far comprendere loro

che è una lingua viva e funzionale,

che può favorire l’accesso ad alcuni

settori di eccellenza della vita economica

e culturale.

Hamadi Agrebi ci ricorda che bisogna

tenere presente che i giovani scelgono

di studiare una lingua piuttosto

che un’altra anche per la sua spendibilità,

dunque, è importante che

comprendano che la lingua italiana

non è solo sinonimo di arte e bellezza,

ma che è anche una lingua attiva,

indispensabile per rapporti commerciali

e che può essere un veicolo di

politica economica ed estera e un

mezzo di inserimento professionale.

L’Ispettore Hamadi Agrebi, il quale è

stato invitato e ha preso parte, nel

2014 e nel 2016, agli “Stati Generali

della Lingua Italiana nel Mondo”,

afferma, inoltre, che, ora, è

C’

“necessario attirare l’attenzione dei

giovani, farli innamorare e affezionare

alla lingua e alla cultura italiana,

preservando la presenza dell’italiano

in Tunisia”. Gli “Stati Generali della

lingua italiana nel mondo”, che si sono

svolti per la prima volta nel 2014,

sono stati, in effetti, creati per fare il

punto sulla situazione presente e definire

le strategie future per la diffusione

della lingua italiana a livello

globale. Una corretta politica linguistica

deve, necessariamente, tutelare

l’italiano nell’ambito del multilinguismo

globale, inserendo lo sviluppo

linguistico nel quadro di una politica

coerente e lungimirante; la diffusione

della lingua italiana è tuttora

affidata, in primo luogo, alle comunità

di origine italiana all’estero, comunità

che tramandano non solo l’idioma,

ma anche la tradizione, la cultura,

le abitudini e gli stili di vita del

Paese di origine. È importante mantenere

e preservare la madrelingua,

anche per il ruolo di identità e di collegamento

che una lingua permette.

La lingua è, inoltre, anche il primo

strumento di integrazione per coloro

che scelgono di emigrare in Italia; infine,

la diffusione e promozione della

lingua italiana viene intesa come

strumento di cultura in tutto il mondo.

Quest’ultimo aspetto permette

di diffondere la lingua, rilanciando

anche rapporti con Paesi lontani,

dunque, la domanda di conoscenza


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dell’italiano assume un significato e

un’importanza strategica anche a livello

politico ed economico e bisogna

considerare l’interesse che l’italiano

suscita nel mondo come un’opportunità

straordinaria da non sprecare.

Il ruolo della politica linguistica, negli

anni, si è evoluto, passando dalla sola

promozione della lingua a favore

delle comunità di emigrati italiani

all’estero, alla sua diffusione, prima

attraverso la cultura, la musica, l’arte,

la letteratura in Paesi stranieri,

anche grazie al lavoro degli Istituti di

Cultura Italiani nel mondo e dei Centri

Culturali, poi con un’azione di

diffusione nelle scuole e nelle Università

all’estero, sino a un ruolo

“economico” della lingua italiana,

grazie ai rapporti commerciali, politici,

economici e alle molte imprese

italiane presenti all’estero. Si può dire,

dunque, che la lingua sia uno strumento

di integrazione che offre la

possibilità di accedere al mondo globalizzato.

Gli allievi, anche in Tunisia, scelgono

di studiare l’italiano poiché è la lingua

dell’arte, ma altresì perché viene

mostrata anche come “lingua dell’economia”;

si parla italiano non solo

nel cinema, nella letteratura, nella lirica,

basti pensare che Mozart, in

molte opere, usa libretti in lingua italiana

e che molte opere di Händel sono

in italiano, ma anche nella moda,

C’

nella cucina e in altri settori legati al

commercio. Gli studenti possono così

apprezzarla come un mezzo di inserimento

professionale e, in tal modo,

lo studio della lingua italiana diviene

uno strumento per attrarre

giovani talenti.

La Presidente di Commissione della

giuria della Rassegna teatrale di quest’anno,

Cristina Vergna, ha, in effetti,

posto l’accento sul talento e le incredibili

capacità di questi giovani liceali

tunisini, espressione del futuro

della Tunisia, e sull’importanza di

progetti come questo per avvicinare

e permettere, ai due Paesi, di comunicare,

ma anche perché fanno sì che

questi ragazzi possano conoscere e

apprendere ad amare non solo la lingua,

ma anche la cultura italiana, imparando

a sentirla e a riconoscerla

come parte della loro cultura, divenendo,

in tal modo, italianisti e italofili.

Walid Khalfallah, uno degli studenti

del Liceo Borj Cedria, vincitore del

primo premio per la migliore pièce

teatrale messa in scena con la professoressa

Ines Bel Hadj, aiutata dal

professor Riadh Hableni, ha affermato

che “ha scelto di studiare la lingua

italiana per la sua musicalità, ma anche

per la vicinanza geografica e i

lògos comuni”, riconoscendo, dunque,

nei due Paesi, un’affinità culturale

e una comune appartenenza al

Bacino del Mediterraneo.


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La promozione di una lingua, oggi,

deve adattarsi alle nuove realtà e alla

principale preoccupazione dei giovani,

ovvero la ricerca del lavoro e, dunque,

deve divenire uno strumento

utile a un possibile inserimento professionale;

per questa ragione la politica

linguistica deve, necessariamente,

modificare strategie e mezzi per

attrarre nuovi italianisti. Hamadi

Agrebi è riuscito, grazie all’ideazione

e alla messa in atto di progetti interessanti

e in grado di attrarre i giovani,

a coniugare la cultura e una visione

utile della scelta di una lingua. Nei

licei che hanno abbracciato questi

progetti, infatti, si può riscontrare un

più alto numero di studenti che scelgono

la lingua italiana rispetto alle

altre lingue opzionali. Quella in atto è

una vera e propria concorrenza tra

lingue, dunque, bisogna essere capaci

di appassionare i giovani, di farli innamorare

di una lingua e di una cultura,

ma anche di motivarli e di far sì

C’

che gli studenti siano contenti della

scelta che hanno fatto e che proseguano

nell’apprendimento di tale lingua,

di qui l’importanza di realizzare

questi progetti con i ragazzi del liceo,

così che possano proseguire gli

studi, successivamente, all’Università.

Monsieur Agrebi e la Presidente

di Commissione, Cristina Vergna,

hanno, appunto, messo in rilievo come

ragazzi così giovani abbiano ancora

un entusiasmo, una passione e

un’apertura mentale senza preconcetti,

che, in un momento successivo,

sarà inevitabilmente già condizionata

e, dunque, della necessità di tenere

vivi tali progetti, anche in uno

spirito di collaborazione e sinergia

tra Istituzioni.

Quest’anno, inoltre, le Giornate teatrali

in lingua italiana si sono ulteriormente

arricchite grazie alla collaborazione

con il Centre Culturel International

e grazie al suo direttore

Omar Ferraro, il quale ha organizzato

alcuni laboratori durante i tre giorni

di Festival; questi ateliers di formazione

in arti figurative, musica, danza

e sonorizzazione, messi a disposizione

per i docenti di italiano, e alcuni

aperti anche agli studenti, hanno valorizzato

ancora di più questo progetto,

apportando notevoli competenze

tecniche ai partecipanti. I laboratori

teatrali sono, infatti, tenuti, nei

licei, dai professori di italiano, i quali


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C’

si occupano, con i ragazzi, non solo

del testo teatrale, ma anche della recitazione

e di tutti gli aspetti legati

alla messa in scena di una pièce, costumi,

luci, sonorizzazione… dunque,

attraverso questi laboratori

hanno potuto apprendere alcuni

aspetti tecnici legati all’arte drammatica.

Il laboratorio di iniziazione al disegno

e al ritratto, tenuto dal professor

Salmen Alaya Sghaier, è stato

realizzato affinché i docenti possano

utilizzare il disegno nell’insegnamento

della lingua, mentre grazie alla

formazione in tecniche vocali e in sonorizzazione

del professor Sami Oueslati,

hanno potuto apprendere come

effettuare la presa del suono e in

che modo modulare, padroneggiare

e gestire la voce, sfruttandola al meglio,

anche in funzione dello spazio in

cui si sta recitando.

I docenti, grazie a questi laboratori e

alla prospettiva della rassegna teatrale,

sono riusciti a coinvolgere e a

incoraggiare gli allievi a scegliere la

lingua italiana, così come ci spiega

Ines Bel Hadj, “il metodo ludico ha

fatto sentire i ragazzi protagonisti

dell’apprendimento, facendo sì che

acquisissero una maggiore fiducia in

se stessi, scoprendo al contempo il

fascino del teatro”. La professoressa

Bel Hadj è anche l’insegnante di Amir

Barhoun, vincitore, per due anni consecutivi,

del premio come miglior attore,

ragazzo di grande talento che

ha espresso profonda riconoscenza

nei confronti della sua professoressa

per avergli fatto comprendere, grazie

al laboratorio e a questa lingua,

chi è e quali sono le sue capacità.

Imen Rezgui, studentessa del liceo

Med Arbi Chammeri Wardia, ha spiegato

come abbia “scoperto un altro

mondo e altri modi per imparare l’italiano”;

questa ragazza timida e introversa,

che non avrebbe mai pensato

di avere alcuna capacità nella recitazione,

quest’anno ha vinto il premio

come miglior attrice e ha affermato

come il laboratorio teatrale, e

una professoressa che ha creduto in

lei e nelle sue capacità, l’abbiano

cambiata profondamente, “mi ha

fatto uscire dal mondo in cui mi ero

rinchiusa, migliorando il mio rapporto

con lo studio, con me stessa e con

i compagni”. Questo sano spirito

competitivo e di comunicazione è

stato messo in rilievo da un’altra studentessa,

Saba Ben Farhat, la quale

ha voluto porre l’accento sull’energia

e lo scambio positivo che si è venuto

a creare tra gli studenti dei diversi licei

durante le tre giornate del Festival,

e da Oumaima El Khazen, la quale

ha fatto notare come, grazie al

teatro, abbiano appreso molto più

facilmente, e in modo approfondito,

la lingua, acquisendo la capacità di

mettersi in gioco e di ascoltare, un


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C’

aspetto, decisamente da non sottovalutare,

da insegnare e da far comprendere

a ragazzi così giovani, che

rappresentano il futuro di un Paese.

Una lingua permette di essere competitivi

e conosciuti anche a livello

culturale ed economico, è importante

per questo valorizzare e far conoscere

progetti, quali la Rassegna teatrale,

che hanno il valore aggiunto di

essere nati in un Paese straniero,

ideati e organizzati da tunisini per tunisini,

ma in un clima di partecipazione,

comunicazione e accoglienza.

La promozione, attraverso l’insegnamento

della lingua, necessita di una

sinergia tra istituzioni, siano essi pubblici

o privati, nazionali o esteri; d’altra

parte, per essere competitivi ed

efficaci, è necessario anche sfruttare

la diffusione dell’italiano.

Studiare e imparare una lingua è un

primo grande passo per preservarla

e rafforzarla e deve essere vista, e

vissuta, come un patrimonio da valorizzare;

l’italiano resta per molti una

lingua di cultura, di arte, di turismo,

di emigrazione, ma è anche una risorsa

per il Paese, economica, oltre che

culturale e identitaria.

“La lingua italiana”, ha affermato Hamadi

Agrebi, “può essere una chiave

per il mondo” e progetti come questo

un aiuto per molti giovani; tuttavia

credo che le parole più incisive,

per spiegare il significato della rassegna

teatrale, siano dello studente

Walid Khalfallah, “Sans le théâtre italien,

j’aurais été un passant sans objectifs,

maintenant j’ai des rêves que

je cherche à réaliser”.

Diletta D’Ascia

Articolo tratto da

«Dialoghi Mediterranei»

n.42, marzo 2020

Periodico bimestrale

dell’Istituto Euroarabo

di Mazara del Vallo

www.istitutoeuroarabo.it

marzo 2020


I C T .198 A 2020

CONSIGLI LEGALI

COVID-19

N ’

I

affrontando

un problema

l mondo si sta dirigendo verso una

grave crisi economica a causa della

diffusione del nuovo coronavirus

(COVID-19). Questa pandemia, che

sta causando il caos in tutto il pianeta,

avrà incalcolabili ripercussioni,

poiché l'economia tunisina non può

sopravvivere senza il supporto

dell'Europa. Di fatti secondo il Prof.

Lamari dell’Università del Quebec in

Canada la recessione economica derivante

dall'attuale crisi sanitaria sarà

senza dubbio a doppia cifra, fino a

una perdita del 15% della ricchezza

nazionale (PIL).

Non c’è dubbio nel dire che la diffusione

del virus abbia peggiorato la

situazione in Tunisia, nonostante il

nuovo governo presieduto da Elyes

Fakhfakh abbia adottato misure importanti

per combattere il coronavirus;

Il 2020 sarebbe dovuto essere

l'anno del decollo economico in termini

di crescita e di attrazione degli

investimenti interni ed esterni, a seguito

della nomina del nuovo capo

del governo, ma purtroppo la situazione

sanitaria in Tunisia è critica e

porterà quindi a una diminuzione del

ritmo delle attività finanziarie ed

economiche.

La Tunisia non è certo la sola a soffrire

di questa crisi. Effettivamente, il

mercato europeo sta a sua volta

in termini di

fornitura di

materie prime

a causa

della sospensione

degli

scambi con la

Cina per più

D. G N

di due mesi. La Cina è l’epicentro

economico, in quanto fornisce circa

il 30% delle esigenze industriali del

mondo, che rappresenta il 70% per

alcuni paesi.

Questa grave crisi ha già avuto ripercussione

in materia di lavoro a seguito

della chiusura di diverse fabbriche

e alcune aziende sono state forzate

a ridurre la forza lavoro. La cultura

dello smart working non è estremamente

diffusa e risulta impraticabile

nella maggior parte dei casi. Il Paese

non è infatti attrezzato per questa

tipologia lavorativa, sia per una bassa

connessione internet e poco diffusa,

sia per mancanza di strumenti domestici

quali computer personali

ecc., sia per una predilezione del cartaceo

in tutte le amministrazioni e

nel settore giustizia. Anche i settori

del turismo e della ristorazione

(settori vitali per l’economia tunisina)

sono stati presi di mira dal Coro-


I C T .198 A 2020

navirus e sono seriamente minacciati

a livello economico.

Molte controversie sorgeranno da

polizze assicurative commerciali, relative

all’interpretazione della copertura

offerta dalla polizza per perdite

subite a causa del coronavirus. Le

clausole di esclusione devono essere

attentamente esaminate per garantire

che possano essere effettivamente

attivate. In passato, le conseguenze

di altre pandemie hanno visto un

numero considerevole di controversie

relative all'interpretazione delle

polizze assicurative commerciali.

Il successo o il fallimento di un reclamo

nei confronti dell'assicuratore

può dipendere, non dalla polizza

stessa, ma dalla capacità del suo avvocato

di interpretare i termini della

polizza in base alla situazione causata

dal coronavirus. I chiarimenti del

governo tunisino e azioni successive

saranno anche un fattore nel determinare

se una clausola, come una

clausola di interruzione dell’attività,

possa essere attivata. Il fatto che il

coronavirus sia stato identificato come

una malattia da segnalare è utile,

ma sarà sufficiente per essere di reale

aiuto alle imprese?

Altresì è alto il rischio di contenziosi

internazionali e transfrontalieri tra

aziende italiane e tunisine, poiché

molte aziende non saranno state nella

possibilità di adempiere alle loro

obbligazioni nel produrre e conse-

CONSIGLI LEGALI

gnare la merce, così come numerose

altre avranno problemi di cash flow

e non saranno in grado di far fronte

ai pagamenti di dipendenti e fornitori.

Ad oggi non è possibile conoscere

per certo quando sarà possibile utilizzare

la “causa di forza maggiore”

per giustificare i propri inadempimenti,

poiché questo è verificabile

solo da caso a caso. L’unica cosa certa

è che ci sarà un effetto domino impietoso

su tutte le imprese, siano esse

tunisine siano italiane.

Il governo ha adottato una serie di

misure eccezionali ammontanti a 2,5

miliardi di dinari (800 Mln $) per proteggere

i tunisini e preservare l'economia

del Paese. Queste misure mirano

ad alleviare gli impatti della

pandemia COVID-19, il blocco generale

e il coprifuoco. Queste misure

sostanzialmente sono state cruciali

per preservare l’occupazione, garantire

reddito per lavoratori, dipendenti

e dipendenti pubblici e ridurre la

pressione fiscale.

Sarà praticamente impossibile prevedere

la fine della pandemia ed altrettanto

impossibile prevedere le perdite

economiche che potrà causare

all’economia mondiale e tunisina in

particolare. Non resta che attenersi

alle disposizioni dei governi e al rispetto

della quarantena.

Ce la faremo.

Dott. Ghassen Nouioui

Studio Giambrone SARL


I C T .198 A 2020

IN TUNISIA

O

Succede alla Consomed, una

fabbrica tunisina che produce

dispositivi sanitari di protezione,

dove i lavoratori hanno deciso

di mettersi in autoisolamento

sul luogo di lavoro, al

fine di continuare a produrre

mascherine e protezioni per gli

operatori sanitari in lotta contro

il coronavirus. "Siamo gli

unici a produrre per gli ospedali

tunisini: non possiamo correre

il rischio di contaminare la

fabbrica", spiega il direttore, Hamza Alouini,

all'Afp.

Consomed è stata avviata dieci anni fa da

suo padre e suo fratello vicino a Kairouan,

nella Tunisia centrale, in una zona prevalentemente

rurale e ora, la fabbrica è diventata

il principale sito di produzione nel

Paese e uno dei più importanti in Africa

per maschere, cappellini, tute sterili e altre

protezioni.

La Consomed in queste settimane è stata

messa a dura prova dal continuo aumento

degli ordinativi locali e dall'impegno sempre

maggiore nel rifornire gli ospedali di

tutto il Paese.

Per prevenire la contaminazione da coronavirus

e quindi qualsiasi interruzione della

produzione, Consomed ora opera pressoché

in isolamento: 110 donne e 40 uomini,

tra cui un medico, dei cuochi e lo stesso

direttore, lavorano, mangiano e dormono

in un magazzino di 5.000 metri quadrati.

Dei 240 dipendenti, pagati in media 800

dinari al mese (270 euro), sopra il salario

minimo, 150 hanno risposto alla chiamata.

Lavorano "su base volontaria", sottolinea

Alouini, gli altri hanno impegni o responsabilità

familiari che non consentono loro di

isolarsi. I veicoli che consegnano materie

prime o prodotti alimentari vengono disinfettati,

i loro autisti rimangono all'interno

con i finestrini chiusi e tutti gli oggetti sono

decontaminati, secondo i rigidi standard

richiesti dalle certificazioni internazionali

ottenute dalla fabbrica. La giornata

lavorativa inizia con l'inno nazionale. "Ci

dà l'impressione di essere dei soldati" al

servizio degli assistenti sanitari, afferma

Alouini. Quindi inizia la produzione: alle

solite otto ore di lavoro si aggiungono gli

straordinari pagati, anche in questo caso

"su base volontaria".

Per molti la giornata è lunga: dalle 10 alle

12 ore al giorno, grazie alle esenzioni concesse

dalle autorità. Un dormitorio per uomini,

diversi dormitori per donne a seconda

dei servizi, uno spazio per giocare a calcio,

carte e relax: tutto sembra essere stato

pianificato per poter durare un mese.

"Non possiamo fare di più", ammette

Alouini.

La società - che vende le sue maschere

presso la farmacia centrale a prezzi fissati

in anticipo - non avrà i soldi per continuare

questa costosa operazione. E continuare

questa quarantena potrebbe avere un impatto

anche sul morale dei dipendenti. La

Tunisia ha registrato sinora 227 casi di coronavirus,

inclusi sei decessi secondo il ministero

della Sanità.


I C T .198 A 2020

IN ITALIA

R

F B

“Mentre la peste si stava

recando a Baghdad, lungo

la strada incontrò

Nasruddin.

Quest'ultimo le chiese

dove stesse andando, ed

essa rispose: ‘Vado a Baghdad,

per uccidere diecimila

persone’.

Sulla via del ritorno, incontrò

nuovamente Nasruddin,

che questa volta

la apostrofò però duramente:

‘Mi hai mentito,

peste!

Hai detto che avresti ucciso

diecimila persone,

ed invece ne hai uccise

centomila!’

La peste replicò: ‘Non ti ho mentito,

Nasruddin: io ne ho uccise solo diecimila,

il resto le ha uccise la paura’

(racconto Sufi).”

È vero, la paura può fare molti danni

ed é figlia dell’ignoto, di ciò che non

si conosce. Si trasforma in angoscia

quando si associa all’incertezza,

quando “di doman non v'è certezza”

(Lorenzo de Medici).

Ho vissuto altri coprifuoco: nel

1993/1994 durante il decennio nero

dell'Algeria e nel 2010/2011 nel periodo

della rivolta dei gelsomini in Tunisia.

Tutti hanno in comune il silenzio

e il senso di impotenza. Ma solo

quello attuale ha un nemico che é

invisibile.

Se poi anche chi dovrebbe possedere

la conoscenza e diffonderla per

rasserenare spiriti e menti, si dimostra

incerto e dubbioso, il quadro

raggiunge tinte più oscure. Il valzer

della mascherina ne é stato un

esempio.

Mascherina solo per i contagiati, come

se per definirsi tali bastasse l’autocertificazione,

mascherina obbli-


I C T .198 A 2020

IN ITALIA

gatoria solo per il personale sanitario,

mascherina per tutti. Mascherina

si, mascherina no. E adesso ci dicono

che dovremo metterla per lungo

tempo anche dopo la fine dell’emergenza.

Il Covid-19 sta facendo più morti in

Italia che in ogni parte del mondo,

Cina compresa.

E continuiamo a dirci quanto siamo

bravi e che siamo un modello per

tutto il mondo. È colpa dell'età

avanzata della popolazione, della

genetica, dell'ambiente... Neanche

un accenno di autocritica per ricordare

che i focolai di maggior entità

sono partiti da due ospedali, Codogno

e Alzano, entrambi in Lombardia,

per evidenti negligenze e sottovalutazioni,

sul piano locale, regionale

e nazionale nella gestione del

fenomeno, dopo aver scoperto i primi

casi all'interno dei due ospedali.

Non per caso la Lombardia ha il

maggior numero di contagiati e di

morti. Il resto dell'Italia é percentualmente

in sintonia con il resto

del mondo.

Il Governo italiano, talvolta con ritardo,

talvolta con deficienze comunicative,

ha comunque assunto, e

continua a farlo, provvedimenti di

contenimento del Covid-19 e di assistenza

economica per popolazione

ed imprese. Se sono giusti e sufficienti

solo il tempo lo dirà. Fra l’altro

il reddito di emergenza (REM)

verrà assegnato anche alle migliaia

di lavoratori in nero, soprattutto nel

sud Italia, che ora sono senza entrate.

In mancanza di aiuti si minacciano

delle rappresaglie gestite da ambienti

mafiosi. È giusto dare un contributo

di sussistenza a questa area

di illegali che pure hanno figli da sfamare.

Ma a emergenza Covid-19 finita andrà

trovato un sistema per cui non

restino ancora nell’area del sommerso,

in modo da colpire esecutori

e mandanti del lavoro nero. Senza

un’adeguata pulizia la solidarietà

avrà ceduto al ricatto.

Con tempi di reazione più o meno

lunghi tutti gli Stati in ogni continente

hanno dovuto chinare la testa

e affrontare questo flagello, anche

se certe dichiarazioni di governanti

come Trump, Johnson e Bolsonaro,

meritano sia steso un velo

pietoso.

E l’Europa cosa fa e cosa farà?

Christine Lagarde (Presidente BCE),

Angela Merkel (Cancelliera tedesca),

Ursula von der Leyen

(Presidente Commissione UE), sono

donne con una carriera di potere

importante. Le loro recenti prese di

posizione e dichiarazioni contrarie a

utilizzare strumenti finanziari europei

forti e adeguati per aiutare i

Paesi più colpiti da Covid-19, come


I C T .198 A 2020

l’Italia, contrastano con l’essenza

solidale dello spirito femminile. Forse

il potere logora chi ce l’ha. Bisogna

comunque distinguere ruoli e

compiti della Commissione europea

e dell’Eurogruppo, ques’ultimo formato

dai governanti dei 27 Paesi. La

prima ha solo funzioni di coordinamento

ed il potere reale ce l’ha il secondo

con decisioni che devono essere

prese all’unanimità.

Olanda e Germania sono i capofila

di un gruppo di Stati nord europei

che, come ha detto Conte alla Merkel,

“vedono l’oggi con gli occhiali

del passato”.

Dopo alcuni tentennamenti iniziali

invece la Commissione europea e la

Banca centrale hanno reagito prendendo

decisioni importanti: la sospensione

del patto di stabilità, il

piano da 750 miliardi della Bce, i voli

di rimpatrio per i nostri connazionali,

lo sblocco delle esportazioni di

mascherine, i finanziamenti per il

vaccino, la task force per coordinare

i soccorsi.

Ma un’ombra oscura di democrazia

ferita sta scendendo sul nostro Continente:

il Parlamento ungherese ha

conferito al Primo ministro Viktor

Orbán, portabandiera dei sovranisti

anche nostrani, i pieni poteri senza

limite temporale per la gestione del

Covid-19.

IN ITALIA

L’esercito per strada, il coprifuoco e

limitazioni alla libertà di stampa i

primi provvedimenti.

L’Europa deve battere rapidamente

un colpo, se vuole dimostrare di esistere

ancora e bloccare sul nascere

possibili emuli.

Quello che stiamo vivendo non ci

deve far dimenticare che in quello

che viene definito l'emisfero sud

della terra ogni anno muoiono milioni

di persone, soprattutto bambini,

per malattie come la tubercolosi,

la malaria, il colera o per malnutrizione.

Questo non provoca sconvolgimenti

morali negli abitanti di quello

che é definito il nord del mondo.

Fino al Covid-19 che unisce nel dolore,

colpendo senza distinzioni geografiche.

Nella tragedia si presenta anche un

rovescio della medaglia con un’interrogazione

che sa di mistero: acque

ora più limpide della laguna di

Venezia, foto satellitari che mostrano

un cielo privo di smog in Cina e

Lombardia.

È la natura che, con il virus, ha voluto

fermare la mano distruttiva

dell'umanità, prima che lei stessa,

distruggendo l'ambiente, si suicidi.

Ferruccio Bellicini


I C T .198 A 2020

DOSSIER

I

I S S

P L (1665)

C , , ,

N

el nostro mondo, globalizzato

grazie alla telematica e ridotto ad

un “piccolo villaggio” (cfr. Mac Luhan,

Il medium è il messaggio, Feltrinelli

1967), impera oggi il contagio del Corona

virus (Covid-19) che nel giro di poche

settimane ha contagiato il nostro

pianeta terra. Virus che, imploso in Cina,

sta ora dilagando ovunque, in particolare

sta contagiando l’Italia e i paesi

europei con estrema violenza e rapidità.

Nel nostro articolo “Mediterraneo:

mare di contagi”, pubblicato su questa

rivista nell’aprile 2017, facevamo riferimento

all’imponente ed erudito saggio

Il contagio del contagio. Circolazione

di saperi e sfide bioetiche tra Africa

ed Europa dalla Peste nera all’AIDS, di

Salvatore Speziale, docente di storia

dell’Africa mediterranea e del Vicino

Oriente presso l’Università di Messina,

autore di diversi studi storicoantropologici,

demografici e medicosociali

sulle epidemie nel Mediterraneo.

Potere intervistarlo oggi, ci permette

di cogliere con incisività il fenomeno

del contagio nello spazio e nel tempo.

L’emergenza Corona virus porta inevitabilmente

a pensare alle emergenze

epidemiche del passato. È possibile

trarre insegnamenti,

spunti, considerazioni

dalla loro storia che

siano utili per il presente?

Chi, come me, ha svolto

ricerche sulle epidemie

del passato, rischia

di osservare la

realtà che ci circonda

oggi, nel marzo 2020,

come un qualcosa di

già visto, di innumerevoli

volte ripetuto nel

tempo. Certo, uno

storico deve fare attenzione

ai “contesti”


I C T .198 A 2020

diversi in cui le epidemie sono avvenute

e alle “nature” diverse delle stesse

che rendono ogni episodio un fatto unico

in sé. Tenuto però conto dei limiti

che l’uomo pone alla storia, che non è

(purtroppo) magistra vitae, che non ci

dice come sarà il futuro ma ci fa capire

come si giunge al presente, è tuttavia

innegabile come essa possa suggerirci

di osservare tutta una serie di analogie

e differenze tra quanto è già accaduto

e quanto sta accadendo sotto i nostri

occhi anche quanto non sarebbe dovuto

succedere o avrebbe potuto essere

evitato. Retrodatando quindi il tempo

di osservazione dal 2020 alle prime epidemie

di cui si hanno testimonianze

storiche e dilatando lo spazio a tutte le

società che hanno subito e subiscono

significativi scoppi epidemici, ci si trova

di fronte a un caleidoscopio di azioni e

reazioni, di miti persistenti e di elementi

simbolici, di parametri scientifici e di

strutture mentali che rendono l’insieme

estremamente complesso, denso di

significazioni e di spunti di riflessione

per il cittadino comune oltre che per

storici, sociologi, antropologi e studiosi

di ambiti scientifici.

Può farci dunque esempi di analogie e

differenze che possano in qualche modo

aiutarci a riflettere sulla condizione in

cui ci troviamo, sui rischi di propagazione,

sulle misure adottate dall’uomo nei

vari contesti?

Preferirei partire dalle differenze, che a

mio parere, sono meno numerose rispetto

alle analogie. Una differenza notevole

tra le grandi epidemie del passa-

DOSSIER

to remoto, quelle del passato più prossimo

e quelle del presente, è data dalla

“velocità”. Intesa questa non in senso

assoluto di contrapposizione tra le

“lente” epidemie del passato e le

“veloci” epidemie odierne. Ogni epoca

ha sue “velocità” e sue “lentezze” rapportate

alle proprie condizioni dei trasporti

e ritmi di vita. Si può semmai

affermare che c’è stata una progressiva

velocizzazione della propagazione epidemica

in ragione della malattia in sé e

dei suoi vettori e della progressiva accelerazione

e globalizzazione degli spostamenti

sulla terra. Dalla lenta e inesorabile

peste “orientale”, che aveva bisogno

di anni per diffondersi dai focolai

del Vicino Oriente al Mediterraneo e

all’Europa, seguendo le piste carovaniere

e le rotte delle navi che

“traghettavano” i suoi vettori, pulci e

topi, si è passati al più veloce e spietato

colera “indiano” che, dall’800 in poi, è

stato capace di diffondersi ovunque in

pochi mesi, dal Bengala, dov’era finora

rimasto imprigionato, fino all’Inghilterra

da una parte e al Giappone dall’altra,

facilitato dalla velocità dei nuovi velieri

e dalla mobilità garantita dall’acqua al

vibrione. L’ancora maggiore velocità

caratterizza ogni forma di epidemia

d’influenza, come la Spagnola

del primo dopoguerra, in contesti

“accelerati” dai nuovi mezzi di comunicazione

e da fattori intrinsecamente

epidemici quali l’assenza di intermediari

animali. Il nuovo coronavirus, pertanto,

sfrutta al massimo e in rapporto allo

spazio-tempo globalizzato in cui vivia-


I C T .198 A 2020

mo, sia l’uno che l’altro di questi aspetti:

se gli scoppi epidemici in genere sono

infinitamente più rari del passato, il

passaggio da epidemia a pandemia,

purtroppo, è certamente più facile e

immediato.

Un’altra grande differenza di contesto

è data non solo dall’incremento della

popolazione ma anche dalla sempre

maggiore “densità” abitativa. Dalla Peste

nera di metà Trecento in poi si assiste

a una più o meno costante crescita

della popolazione mondiale, inframezzata

da ricorrenti crisi demografiche,

epidemiche e non, fino alla fine

dell’800. Da quel momento la crescita

I . T 1721

DOSSIER

si impenna e raggiunge ritmi vertiginosi.

Ma insieme alla crescita della popolazione

si assiste a un progressivo svuotamento

delle campagne e a un aumento

costante dell’inurbamento. Il fenomeno,

lo ripeto, parte dalle soglie

dell’età moderna e prosegue tuttora

nelle abnormi concentrazioni delle megalopoli.

Velocità e densità concorrono a rendere

sempre più repentino e meno discontinuo

il contagio, soprattutto se

interumano. Sono due aspetti con i

quali l’uomo si è sempre misurato in

contesti sempre mutati e contro i quali

ha sempre cercato di agire nei modi e

tempi dettati dalla propria epoca, sui

quali bisogna oggi riflettere seriamente

in vista di strategie di contenimento

della diffusione epidemica.

Tra gli elementi di “differenza” un posto

può essere certamente dato alla

medicina visti i continui e significativi

progressi dai tempi delle pestilenze a

oggi. Come vede lei storicamente l’apporto

della medicina occidentale e

orientale, rispetto alle grandi malattie

epidemiche?

Quello che gli storici della medicina

osservano in campo medico è certamente

un imponente sforzo millenario

di comprensione e di lotta - spesso

infruttuoso, sovente deleterio ma alla

lunga proficuo - che si arricchisce

esponenzialmente in occasione di

ogni nuova epidemia e, ancora di più,

di ogni nuova malattia epidemica. L’epidemia,

ieri come oggi, in Occidente

come in Oriente, è un forte catalizza-


I C T .198 A 2020

DOSSIER

tore di energie intellettuali volte alla

ricerca di cause e cure secondo i parametri

scientifici propri di ciascuna epoca

e all’interno del quadro concettuale

di ciascuna società, un quadro complesso

in cui aspetti prettamente medici

si intersecano a questioni di natura

teologica, giuridica e, in parole moderne,

di natura bioetica.

Basti pensare, ad esempio, all’idea principe

di ogni epidemia, quella del

“contagio”. Un concetto che oggi, in

quasi tutto il mondo, può considerarsi

come “acquisito” ma che con grande

fatica, con grandi vittorie e grandi

sconfitte, si è affermato nei termini che

oggi conosciamo solo a partire dalla fine

dell’800. Fino a quel momento, varie

ipotesi di contagio, ben diverse da

quelle odierne, si scontravano con solide

alternative basate sulla concezione

umorale e/o sulla teoria miasmatica e

su ipotesi di stampo igienista, incontrando

il sostegno non solo delle autorità

scientifiche ma anche di quelle religiose,

sia in terra cristiana che in terra

musulmana. Solo la precisa individuazione

dei microorganismi e dei loro vettori,

grazie alla microbiologia da Pasteur

in poi, ha fatto piazza pulita di

queste teorie, proprio quando il concetto

di contagio aveva raggiunto il picco

negativo del sostegno scientifico in

Europa e un grande successo, invece,

in Oriente. E solo la scoperta dei nemici

invisibili che sottostanno a tutte le epidemie,

quali i virus e i batteri, ha consentito

alla medicina di fare un effettivo

balzo in avanti nella cura e nella prevenzione

delle stesse, superando le

“letali” cure sintomatiche del passato.

Unica eccezione è quella del vaiolo che

da lungo tempo aveva suggerito all’uomo

la strada da seguire: la strada del

“vaccino”, ovvero, del “contagio benigno”,

che si diparte dall’Oriente e si dirige

verso l’Occidente nel ‘700. Anche

questo, comunque, è uno strumento

difficile da metabolizzare e non del tutto

metabolizzato oggi, come sappiamo

bene dalle polemiche “no-vax” che fino

ad ora costellano tutta la storia del problematico

concetto stesso di vaccinazione:

contagiare di sicuro un corpo sano

con un male minore, di origine animale

per giunta, per evitare un insicuro

male maggiore. Un puzzle per la bioetica

del passato e del presente.

Certo è che, ieri come oggi, ogni epidemia

ha stimolato e stimola fortemente i

dibattiti scientifici e quindi la ricerca e,

che l’accresciuta velocità di diffusione

dell’epidemia trova come contraltare la

velocità con cui si cercano delle cure e

delle forme di prevenzione, grazie soprattutto

a un network scientifico globale

che consente di scambiare informazioni

in tempo reale. Tutto ciò era

impensabile durante le grandi epidemie

del passato remoto, ma anche del

passato prossimo come la Spagnola del

1918, l’Asiatica del 1957, la pandemia di

Hong Kong del 1968 e perfino l’AIDS

dagli anni ‘80 in poi. Ma la velocità, come

dicevo, è un’arma a doppio taglio: a

fronte dell’ineluttabile durata delle epidemie

del passato cui si soggiaceva

grazie a una diversa concezione del


I C T .198 A 2020

DOSSIER

Q. L N

( )

Q. I

( )

tempo, il perdurare di un’epidemia per

un arco di tempo imparagonabilmente

più breve, così come il perdurare di

un’affannosa ricerca della cura per il

tempo di pochi mesi, sembra inaccettabile.

Tra Occidente e Oriente, comunque, il

“contagio” delle idee, dei saperi, è stato

continuo e non unidirezionale e gli

esempi sarebbero troppi da fare, ma

quel che importa è che questo

“contagio virtuale” sembra ancora più

attuale oggi, a fronte di soluzioni mediche

e sanitarie applicate in estremo

Oriente, in Cina e Corea del Sud, e riprodotte

nella nostra Italia che sembra

essere vista a sua volta come modello

per il resto d’Europa.

L’altro campo, in cui di certo si sono fatti

enormi passi in avanti e che dovrebbe

segnare le distanze tra passato e presente,

potrebbe essere allora quello delle

misure sanitarie di contenimento del

contagio?

Sono d’accordo solo in parte. Se ci riferiamo

alla “tecnologia” che si mette

adesso in campo per creare strumenti

di depistaggio dei contagiati - penso soprattutto

al caso della Corea del Sud

con la tracciatura online dei contagiati

e delle aree a rischio -, di isolamento, di

comunicazione e di controllo del territorio,

concordo decisamente. Se invece

ci riferiamo alle tipologie di misure in

sé, già le parole non possono che farci

tornare indietro nel tempo e mostrarci

la significativa linea di continuità tra

passato e presente: quarantena, lazza-


I C T .198 A 2020

retto, autoisolamento, cordoni sanitari,

ecc. sono tutti termini che risalgono a

un antico passato, a forme di protezione

ideate, perfezionate e imposte sempre

più sistematicamente alla fine del

Medioevo e agli inizi dell’età moderna,

prima in Italia, a Venezia, e poi (guarda

caso) imitate nel resto nel mondo. Un

mondo in cui le epidemie erano una minaccia

costante e in cui strutture e istituzioni

dedicate (lazzaretti, intendenze

sanitarie ecc.) divennero la regola di

ciascuno stato.

La differenza sostanziale era che nel

passato queste drastiche misure venivano

applicate dalle autorità sanitarie

immaginando un nemico invisibile che

potesse viaggiare con l’uomo, nei suoi

mezzi di trasporto e nelle sue merci,

contro coloro che pensavano che il

morbo viaggiasse nell’aria spinto dai

venti. Le quarantene imposte alle navi

DOSSIER

al largo dei porti, gli isolamenti ingiunti

a singoli quartieri, città o regioni, i cordoni

sanitari, come oggi militarizzati,

ordinati a protezione di interi stati,

contemplavano inizialmente quaranta

giorni di blocco. Un periodo che si riduce

via via nel tentativo esperito dalle

autorità statali di conciliare un

indispensabile periodo minimo di

“incubazione” attribuito alle varie malattie

epidemiche che si affacciavano

sulla scena mondiale con il limite di

sopportazione delle compagnie di navigazione,

dei commercianti, dei fruitori

di beni, degli abitanti … ma anche con

le esigenze di una Chiesa per lungo

tempo anticontagionista cui venivano

impedite quelle pratiche devozionali,

processioni e preghiere comuni, ritenute

le sole capaci di mitigare la

“punizione divina”. Come Franco Cardini

ha ben detto in un’intervista recen-

Q


I C T .198 A 2020

te: «un tempo contro le epidemie si

pregava, oggi si chiudono le chiese».

Da che esistono le misure quarantenarie

esistono anche le sanzioni disciplinari

che, in molti casi, contemplavano la

pena capitale. Ciò sta a significare che

in ogni tempo e luogo - anche oggi se si

pensa alle notturne fughe dalle zone

rosse prima dell’applicazione delle misure

restrittive - si è cercato di eludere

le quarantene con “patenti sanitarie”

falsificate, si è tentato di entrare in città

appestate chiuse da cordoni sanitari,

e si è cercato di uscirne. È storia ben

nota anche attraverso la letteratura

che non sto a citare. Meno noto è il fatto

che ai divieti prettamente “laici”

L M

'O E

DOSSIER

ideati dalle autorità civili in Europa e importati

e adattati in terra d’islam, qui si

aggiungeva un divieto di matrice religiosa

risalente a un hadith (detto, fatto

o silenzio del profeta o dei suoi compagni)

di Umar al-Khattab: «se sei in una

città in cui c’è la peste non uscire, ma

se sei fuori, non entrare». Nonostante

questo sommarsi di divieti, oggi ribadito

da autorità religiose e politiche in

paesi musulmani per il Covid-19, le testimonianze

non mancano di fughe dal

contagio, per il passato come per il presente.

Tornando alle misure e alla tecnologia,

anche i dispositivi più comuni e più ricercati

oggi, come mascherine, guanti

e tute protettive, hanno dei nobili antesignani

di cui sono rimasti abbondanti

descrizioni e disegni nei trattati d’ogni

epoca. Al tempo si suggeriva non solo

come evitare di respirare esalazioni nocive

(fomiti, miasmi e quant’altro) ma

anche come evitare quei temibili sternuti,

segni non tanto di raffreddore o

influenza quanto dell’inesorabile peste

polmonare, che tanto hanno segnato

nel profondo le società di tutto il mondo

da indurle a coniare quella reazione

scaramantica che oggi ricompare

nella sua drammatica attualità:

“salute!” (auguro che tu sia in salute e

che lo sternuto quindi non mi porti la

malattia), “à tes souhaits!”, “(god)

bless you”, “rahimaka Allah”…

Da quanto dice sembrerebbe esserci

una grande varietà di reazioni comuni

tra passato e presente, tra Oriente e Occidente:

è l’uomo che porta in sé paure

e reazioni ancestrali?


I C T .198 A 2020

Il timore nei confronti di una epidemia,

conosciuta e tanto più sconosciuta, segna

la storia dell’umanità intera fino a

oggi, come il terrore di una punizione

divina accomuna in una storia simile i

fedeli delle religioni monoteistiche. Nel

mondo islamico, ad esempio, un hadith

basilare recita che «di fronte alle turpitudini,

Dio invia una malattia anche sconosciuta»

consentendo così di contemplare

in un continuum apologetico tutte

le nuove malattie che si propongono

all’umanità, dalla peste al Covid-19, e da

questo alle malattie del futuro. Di conseguenza,

come si è martiri se si muore

di peste, purché “sulla via di dio”, così

lo si è morendo per epidemie sconosciute

al tempo del profeta. Una concezione

del martirio simile si riscontra anche

in terra cristiana in risposta a

quell’anelito universale dell’uomo di

fronte alla paura di una morte

“immeritata”: si pensi ai bambini, alle

persone di indubbia fede, moralità e di

valoroso impegno civile, colpiti da tutte

le epidemie.

A fronte comunque di convergenze

spesso sorprendenti, alcune paure non

“circolano”. Il timore che l’uomo, posseduto

o meno dal demonio, malvagio

in ogni caso, possa essere autore del

“contagio manufatto” o “unzione”,

che tanta parte ha avuto nell’Occidente

cristiano, non filtra nel mondo islamico.

L’idea stessa che qualcuno possa ergersi

al livello di dio, da cui tutto deriva,

ogni male così come ogni sua cura, rende

impermeabile il musulmano alle lusinghe

di questa sciagurata credenza

che si ripresenta immancabilmente con

DOSSIER

la riesumazione simbolica del termine

stesso, puntato verso l’“untore” di turno.

Se nei secoli passati era il nemico

“esterno” come il tataro di Caffa,

l’ebreo, l’arabo e il turco, poi il nemico

“interno” come il barbiere milanese

della Colonna infame e mille altri poveri

malcapitati, recentemente, in una accelerazione

ricca di rovesciamenti simbolici,

lo sono diventati il cinese e il persiano,

poi il lodigiano e il bergamasco, poi

anche l’immigrato meridionale rientrato

di corsa in un sud divenuto salvifico,

poi i francesi fuggiti nottetempo da Parigi

e dispersisi nella province, infine, i

maghrebini allontanatisi dalla Francia

per rientrare nelle terre d’origine.

Il timore per lo scoppio di un’epidemia

è talmente forte da mettere sempre in

azione meccanismi coercitivi di elusione:

chi si erge contro, rischia sulla propria

pelle. È esemplare il caso di Li Wenliang,

oculista di Wuhan, arrestato per

procurato allarme per aver denunciato

nel dicembre 2019 la circolazione di un

nuovo virus in città. Una storia simile,

tra tante altre registrate sulle due

sponde del Mediterraneo, a quella di

un medico napoletano, convertito all’islam,

che diagnostica la peste del 1818

a Tunisi prima e contro il parere di altri

medici del luogo: subisce galera e bastonate

ma si salva, fortunatamente,

dalla pena capitale, e viene presto reintegrato

nelle sue funzioni una volta acclarata

l’amara verità.

Lo scoramento, per chiudere, viene da

tutti e in tutti i tempi visto come

“fattore aggravante” delle epidemie.

Certo i presupposti scientifici sono di-


I C T .198 A 2020

versi: nel passato era lo squilibrio degli

umori causati dall’aumento della bile

nera (mélan+cholé), e quindi della melancolia,

a predisporre al contagio. Nei

lunghi periodi di quarantena bisognava

pertanto evitare di rattristarsi, di cadere

nella trappola della paura, affidandosi

alla fede e a una parca fruizione

dei piaceri del gusto, evitando gli

eccessi dell’ingordigia e gli sconfinamenti

sessuali. Bandite le campane a

morto e le litanie funebri, fior di medici

e sapienti invitavano a godere del piacere

della musica, nel rispetto, sempre,

dei lutti altrui. Passati secoli da

quelle considerazioni, le strade italiane

di oggi sembrano “risuonare” di quegli

antichi insegnamenti.

Lei prima citava la “peste orientale”, il

colera indiano, l’influenza Spagnola,

l’Asiatica …, oggi qualcuno dice “il virus

cinese o di Wuhan”. Sembra che

ogni malattia abbia un marchio di

P M (1630)

G

DOSSIER

“provenienza”?

O forse che il paese o l’area del mondo

indicata come origine sia “marchiato”

a sua volta. Il punto è che ogni epidemia

è un evento così terribile da spingere

chiunque a trovare “capri espiatori”,

spesso contro la logica stessa

dei fatti e con una ricaduta negativa

sulla visione degli usi e costumi degli

abitanti dei territori da cui la malattia

sarebbe nata. Ora, sebbene i focolai

all’origine delle epidemie storiche di

peste fossero realmente distribuiti in

un’area a oriente dell’Europa, tra l’Hijaz

e il Kurdistan, ben altri ne esistevano

(e ne esistono) in vaste aree centrasiatiche,

nell’Africa australe e in alcune

aree dell’America settentrionale

e meridionale, la peste però fu sempre

chiamata “peste levantina” o “peste

orientale”. All’alba dell’età moderna,

si diffuse in Europa una malattia dai

“mille colpevoli” e dai “mille nomi”. Si

tratta della sifilide,

di sicura origine

americana e dalla

subito accertata trasmissione

sessuale,

che in ogni dove

prese il nome di tutti

i paesi tranne

del proprio: “morbo

gálico” in Spagna,

“mal d’Espagne” o

“mal de Naples” in

Francia, “mal francese”

in Italia, malattia

spagnola o

francese in Africa


I C T .198 A 2020

mediterranea e così via. Diverso è il discorso

del colera il cui focolaio originario

era ed è il delta del Gange, il Bengala,

da dove fuoriuscì però solo per via

dell’accelerazione dei traffici prodotta

dai mercanti e dai soldati inglesi durante

l’800. Ma agli inglesi nulla s’imputò

di quanto successo. La tendenza

“discriminatoria” continua fino a tempi

recenti durante i quali, ad esempio, l’influenza

Spagnola prese il nome dello

stato in cui furono pubblicamente dichiarati

per la prima volta i casi, senza

considerare il focolaio originario che a

tutt’oggi è oggetto delle ipotesi più disparate,

dagli USA alla Cina.

Niente di nuovo allora quando si ribattezza

il “neutro” Covid-19 con il nome

di quello che viene comunemente additato

come focolaio originario o dell’intero

paese o della popolazione tutta,

“virus di Wuhan” o “virus cinese”, e

nulla sorprende che si levino voci contrapposte

di un’origine americana della

malattia. Fatto sta che a nessuno ha

mai fatto piacere essere additato come

“untore” di un’epidemia locale o mondiale

- ed essere, in virtù di questo, oggetto

di intimidazioni o di gogna mediatica

come purtroppo è successo anche

in Italia -, né tantomeno nessuno

può accettare supinamente che le proprie

abitudini alimentari e il proprio stile

di vita siano additate come possibili

cause predisponenti alla nascita di una

nuova malattia di origine animale.

La triste “contabilità” quotidiana del

numero dei contagiati, dei morti e, fortunatamente,

dei guariti cui purtroppo

assistiamo oggi presenta analogie con il

DOSSIER

passato?

Quello che si osserva oggi, facendo un

grande sforzo per distaccarmi dalla carica

emotiva che pesa sulla questione,

è un’esasperazione di quanto avveniva

nel passato molto di più in terre cristiane

che in altre terre, come, ad esempio,

quelle musulmane. Dal tempo della peste

e del colera, l’affannosa contabilità -

e l’implicita accusa - partiva, come

oggi, dall’individuazione dei “pazienti

zero” e dei “pazienti uno”, che

“esponenzialmente” più spesso di oggi

si convertivano nei primi decessi. Questa

rendicontazione permea tutta la

documentazione esistente per ogni

scoppio epidemico. La ricerca dell’origine,

della provenienza, rientrava però

non tanto in un quadro scientifico volto

a individuare soluzioni e risposte, come

sembra essere oggi, quanto in quello

che ho detto prima circa la ricerca di

“colpevoli” su cui scaricare il peso di

tutte le perdite e serviva, al massimo, a

bloccare persone provenienti dalle zone

imputate.

Dal momento in cui l’epidemia, nonostante

i tentativi d’elusione già citati,

scoppiava nella sua terribile evidenza,

subito scattava l’ossessione per il numero.

In Occidente esistevano importanti

e variegate fonti quantitative prodotte

da organismi locali e statuali

creati ad hoc, oltre ai registri parrocchiali,

che rendicontavano il triste andamento

del male nella spasmodica attesa

di un picco che portasse alla diminuzione

della mortalità. Una rendicontazione

più “alla buona”, era ricavata

con stratagemmi di fortuna, con siste-


I C T .198 A 2020

C :

I

mi quasi spionistici, dal personale consolare

europeo in terra d’islam dove il

numero esatto dei decessi in sé aveva

decisamente un peso minore rispetto

alla considerazione generale degli

eventi.

Gli europei quindi, in casa o fuori casa,

sentono sempre il bisogno di quantificare

nella speranza che ciascuno scoppio

epidemico rientri in quell’ordine di

cose, in quella sequenza di andamenti

corrispondenti alle conoscenze del

tempo, alla “stagionalità” nota e scandita

nel calendario dal festeggiamento

di santi protettori dalla peste, San Rocco

e San Sebastiano, in primis, la Madonna

e altri, a seguire. L’andamento

DOSSIER

“inconsueto” di malattie epidemiche

ben note, la mancata coincidenza della

decrescita con i calori agostani e la festa

del 15 agosto, causavano un crescendo

di timori e non poche crisi di panico.

Anche perché, dopo una già lunga

quarantena, protrarre l’isolamento in

case anguste e non certo tecnologicamente

equipaggiate come le nostre,

senza la liberazione tanto sperata, rendeva

ancora più insopportabile resistere

senza violare le strette regole imposte

dalle autorità in Europa o autoimposte

dagli europei stessi in altre terre.

Quello cui si assiste oggi, dunque, nella

contabilità non più settimanale, non

più quotidiana e neppure oraria ma sul

filo dei minuti, in tempo reale, è un tentativo

di controbilanciare, oggettivando

asetticamente, e a volte cinicamente

(come nel ribadire le fasce d’età più

colpite o l’incremento avvenuto

“altrove”), quanto in contemporanea è

ossessivamente narrato, e contronarrato,

in termini dal forte impatto emotivo

e perfino psicodemico (come ribadisce

Francesco Pira) da giornalisti, opinionisti,

politici, infettivologi e virologi divenuti

ormai virali.

Quali problemi imputabili al comportamento

dell’uomo, lei ha osservato durante

e dopo le epidemie del passato?

Innanzitutto, il primo problema era e

resta quello dell’osservanza delle quarantene

e dell’autoisolamento. Il fatto

che, ieri come oggi, ci siano continue

infrazioni, nonostante le minacciate pene,

conferma la difficoltà d’imporre

e accettare uno stato di controllo

sempre più foucoltianamente


I C T .198 A 2020

“disciplinare” nella speranza che la rinuncia,

voluta o forzata, a margini sempre

maggiori di libertà possa ridurre il

più possibile il contagio e quindi la durata

della malattia. Una grande differenza

in questo caso si registra tra il

passato remoto e il presente: la fuga

nel medioevo e nell’età moderna era

riservata alle élite che potevano permettersi

di corrompere le guardie, di

viaggiare, di vivere senza lavorare e di

disporre di residenze alternative, Boccaccio

docet! Tutti gli altri erano, volenti

o nolenti, costretti a restare per guadagnarsi

da vivere e sopravvivere. I documenti

raccontano la dolorosa disgregazione

dei legami familiari in una

popolazione residua costretta al

“monadismo” da un sempre più ferreo

controllo militare e dalla paura dell’altro,

che da esterno diventava sempre

più interno: il vicino, il parente. Spesso

quanto di ciò è dolorosamente descritto

dai consoli residenti in varie province

dell’impero ottomano, contrasta con le

vivissime preoccupazioni per i comportamenti

“irresponsabili” dei musulmani

che, noncuranti del contagio, continuavano

ad assistere i parenti, a fare le visite

di condoglianze, a partecipare a preghiere

comuni. D’altro canto, le autorità

religiose cristiane cercavano, in contrasto

con quelle politiche e civili, di ribadire

il proprio ruolo in simili frangenti,

additando le cause divine delle malattie

e cercando di placare le paure

dell’uomo attraverso la replicazione

simbolica e rassicurante di atti esteriori

di culto.

DOSSIER

Quanto accade adesso sotto i nostri occhi,

o sotto gli occhi di migliaia di telecamere

e di droni, è sostanzialmente

diverso ma non per questo meno foriero

di riflessioni. I rapporti sociali, prima

dissipati nella rete virtuale, sono riconfigurati

da una convivenza in carne ed

ossa in unità monadiche rinate per costrizione

le cui conseguenze, sulla lunga

durata, non sono ancora prevedibili.

Certamente una rivoluzione prossemica

è in atto tra i nuovi standardizzati

“distanziamenti sociali” imposti nella

ridimensionata vita all’esterno e le nuove

forzate vicinanze nella vita all’interno

pervase dallo “smart work”. Dal

punto di vista religioso, va annoverato

che la chiesa cattolica, chiuse le chiese

e bandite le occasioni d’incontro in presenza,

si sforza di trovare nuove ed efficaci

parole per “penetrare” le monadi

dei fedeli attraverso i media tradizionali

e il web, non senza incontrare serie

difficoltà (come sostiene Raffaele Manduca).

Dal canto loro, importanti personalità

del mondo islamico, anche appartenenti

a quelle frange più radicali che

hanno sempre osteggiato la valenza

della medicina moderna, sembrano sostenere

all’unisono l’applicazione delle

misure contagioniste più drastiche al

punto di rinunciare, forse per la prima

volta, ai luoghi dedicati alla preghiera e

di ripiegare anche loro sulla rete.

Infine, un’ultima domanda: oltre alle

conseguenze in campo demografico, si

stagliano le conseguenze economiche

alle quali i governi stanno cercando di

reagire. Cosa ci dice la storia delle epi-


I C T .198 A 2020

demie a proposito?

I timori di arrecare danni all’economia

e al commercio sono ieri come oggi al

centro dei pensieri delle autorità politiche

e sanitarie di ogni paese. Ogni sospetto

epidemico innescava una sequenza,

sempre identica a se stessa, di

reazioni: dalla categorica negazione

dei fatti al tentativo di minimizzarli,

per poi, di fronte all’evidenza, giungere

all’applicazione progressivamente

sempre più rigida di misure sanitarie

fino al blocco dei commerci e della produzione.

Lettere consolari, missive di

agenti sanitari, quaderni di bordo, tutta

una massa ingente di documenti testimonia

le preoccupazioni per le conseguenze

che tali misure avevano e

avrebbero avuto sul presente e sul futuro,

e questo nonostante il continuo

allarme e la periodica ricorrenza di

scoppi epidemici. A fronte di queste

inquietudini non voglio riportare la mia

posizione personale che, in questo

frangente, potrebbe sembrare il frutto

di una visione cinica, ma preferisco riferire

semplicemente le analisi degli

storici che hanno studiato le catastrofi

del passato seguendo le orme di pionieri

come C. M. Cipolla o L. Del Panta

a livello italiano, di J. N. Biraben e D.

Panzac, a livello mediterraneo, di W.

Mc Neill, a livello di world history. Ebbene,

per le società del passato il blocco

commerciale, temutissimo da tutte

le autorità politiche e sanitarie, avrebbe

provocato un corto circuito di breve

durata, recuperato presto da una successiva

forte ripresa imputabile a una

DOSSIER

popolazione che si risvegliava paradossalmente

più agiata alla fine di un’epidemia

per via delle eredità ricevute,

per via di un maggiore margine di contrattazione

con i datori di lavoro, causato

dalla riduzione della forza lavoro

stessa, per via di una maggiore disponibilità

di beni alimentari dovuta alla

più o meno drastica diminuzione delle

bocche da sfamare.

I contesti passati sono, è chiaro, enormemente

diversi da quelli presenti, le

crisi di mortalità registrate non sono

minimamente rapportabili a quelle

contemporanee da poter implicare una

così drastica riconfigurazione socioeconomica,

ma, volendo proiettare solo

il positivo di quelle considerazioni, non

si può escludere che la fine del tunnel

non possa indurre una rapida e sostenuta

ripresa economica, ottemperata

da una gestione più libera delle risorse

economiche statali anche in seno ad

un’Europa dal volto più umano.

Permettetemi di concludere che immaginare

quanto delle analisi delle lunghe

e terribili epidemie del passato possa

essere utile alle società del presente,

sfugge al discorso “scientifico e obiettivo”

di uno storico e soprattutto sfugge,

temo, all’interesse della maggioranza,

sempre più pressata dalla

“dittatura totalitaria del presente”

(secondo Tomaso Montanari) di

quanto non lo fossero i nostri antenati.

É mia opinione, comunque, che una crisi

come quella che stiamo vivendo non

ha simili con cui fare un vero confronto

negli ultimi cento anni: la II guerra


I C T .198 A 2020

DOSSIER

mondiale, riportata come termine di

paragone da molti media, è una

“catastrofe” di ben altro livello ma soprattutto

“tutta umana” e per nulla naturale;

le epidemie di Aids e di Ebola

non fanno testo in quanto nascono e

crescono erroneamente nella nostra

mente come “malattie degli altri”; la

Spagnola poi, colpisce non una società

opulenta come la nostra, ma una società

che è appena sopravvissuta all’altra

catastrofe “tutta umana” della I guerra

mondiale. È mia opinione, infine, ma di

semplice cittadino, che, all’indomani

del nostro ritorno all’agognata

“normalità” e della nostra prima

“libera uscita”, ci sentiremo sicuramente

risollevati come gli uomini che scampavano

le epidemie del passato, ma ci

sentiremo anche diversi da prima, meno

sicuri del nostro “assoluto” e

“repentino” progresso tecnologico; più

consapevoli, spero, dei limiti dell’agire

umano, politico e sanitario, e più sensibili

verso l’importanza del nostro progresso

umano: nella riconfigurazione

forzata dei rapporti umani, nella testimoniata

azione di tanti “eroi” della

quotidiana emergenza, nel ri-sentito

anelito all'unità simbolizzata dagli inni

e dai tricolori al di fuori degli stadi,

all’interno però di un Paese, di un’Europa,

di un Mediterraneo e di un mondo

globalizzato, i cui confini sono simbolici,

strumentali e penetrabili, nel bene e

nel male, dal bene e dal male.

18 marzo 2020

intervista realizzata da

Michele Brondino e Yvonne Fracassetti


I C T .198 A 2020

N

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U “ ’” R

V…

U

na cesta arenata sulla riva paludosa

del fiume, due gemelli raccolti

da un pastore…Roma e la sua

storia- leggenda nascono in un luogo

che ancora oggi è ben identificato,

tra il Tevere, il Foro, il Campidoglio, il

Palatino: il Velabro, che prende forse

il nome dal latino velus, palude, oppure

dal luogo dove il fiume lambiva

la terra ed era facile traghettare, velaturam

facere, verso l’altra riva, Trastevere.

Anco Marzio IV re di Roma, in questa

zona fece costruire un ponte di

legno per incentivare i commerci di

stoffe ed alimenti che dalla Suburra

dovevano arrivare di là del fiume. Il

re sabino regnò durante venticinque

anni tra il 641 ed il 616 a.C., e dette

una nuova impronta urbanistica alla

città miticamente fondata il 21 aprile

753 a.C. Il ponte che fece costruire

per superare il guado del fiume si

chiamò Sublicio perché costruito con

tavole di legno, che in lingua volsca

erano le sublicae.

Partiamo quindi dal ritrovamento da

parte del pastore Faustolo dei gemelli

Romolo e Remo, e da tutto

quello che ne seguì: i discendenti di

CULTURA

Enea, figli della sacerdotessa Rea Silva,

da questa zona pianeggiante -

che ancora oggi rimane piuttosto

isolata nonostante sia ad un passo

dal Circo Massimo e dalla chiesa della

Bocca della Verità - furono allevati

dal pastore e dalla moglie Acca Larenzia

sul Palatino.

Un perimetro relativamente limitato

racchiude un lunghissimo periodo di

storia: visitando la piccola piazza dove

oggi sorge una chiesa dedicata a


I C T .198 A 2020

San Giorgio guardiamo stupiti - almeno

io stupita ed ammirata - l’ingresso

della Cloaca Massima, l’arco di Giano,

l’arco degli Argentari…

Era questa zona fuori dalle mura della

città arcaica del VIII secolo a.C., situata

in un incrocio strategico di percorsi

per commerci e contatti: dal viculus

Tuscus, la via che dall’Etruria

arrivava al Circo Massimo, dai tempi

di Tarquinio Prisco nel ‘500 a.C., il

terreno pianeggiante favoriva i commerci

ed era inoltre sede di un’area

sacra: qui infatti sorgeva l’Ara massima

di Ercole, l’Eracle greco.

Gli altari dedicati al semidio che

affrontò le dodici fatiche erano costruiti

spesso vicino a fonti o acque:

Caco, malvagia divinità generato da

Vulcano, rubò ad Ercole al Foro Boario

una mandria di buoi, che il forzuto

eroe recuperò con astuzia uccidendo

il ladro. I resti dell’ antico altare

rituale dedicato all’eroe figlio di

Giove ed Alcmena si trovano oggi

all’interno della Basilica di Santa Maria

in Cosmedin, e datano del 495

a.C.: nel nartece della stessa basilica

CULTURA

si trova la Bocca della Verità.

Cosa significa questo nome, Cosmedin,

che alle nostre orecchie italiche

assume un suono orientale legato al

cosmo, cioè all’ ”ordine”, il cosmos

che si oppone al caos? “Cosmedin”

significa che la Basilica era ornata di

bellezza, grazie alle decorazioni volute

dal pontefice Adriano I nel VIII secolo:

la basilica era frequentata dalla

comunità greca presente a Roma, e

la pietra circolare che racchiude un

volto, la Bocca della Verità, oggi è

grande attrazione turistica pur essendo

in realtà un antico tombino

con l’effige di una divinità.

Tutto questo esiste nelle immediate

vicinanze del Velabro, luogo dal quale

siamo partiti per un’esplorazione

tra mitologia, leggenda, storia ed architettura.

Romolo diventato adulto traccia il

solco invalicabile della sua nuova città,

Remo lo varca e muore, forse ucciso

dallo stesso fratello, come Caino

fece con Abele secondo la Genesi.

Era sul Palatino, a pochi passi dal Velabro,

la terra smossa da quell’aratro:

urvum è la parola antica latina

che identifica il manico dell’aratro,

che segna il confine della città nuova,

l’urbe.

E qui, sulla piazza selciata davanti alla

chiesa di San Giorgio al Velabro,

abbasso gli occhi e vedo un arco,

chiuso da un cancello che immette in

un vialetto in discesa: è l’imbocco


I C T .198 A 2020

della più grande delle fognature, la

Cloaca Massima, che dal VI secolo

a.C. convogliava le acque della città

verso il vicino Tevere, nel quale sfociava

sempre attraverso un arco: l’arco,

che i romani del tempi di Tarquinio

Prisco seppero utilizzare secondo

le indicazioni delle maestranze etrusche.

Le acque che dalla Suburra

( dai colli del Quirinale,Viminale ed

Esquilino) attraversavano il Foro, il

Velabro, il Foro Boario, impedivano

alla zona acquitrinosa di svilupparsi

secondo esigenze urbanistiche e

commerciali: una volta governate ed

imbrigliate in un canale, prima solo

scavato ed in seguito coperto, le acque

resero il vasto tratto pianeggiante

utilizzabile per mercati e scambi,

mantenendo l’area sacra con il tempio

di Ercole dal quale partivano i

trionfi, cortei che raggiungevano il

Campidoglio.

Il tratto della Cloaca Massima scorre

sotterraneo vicino all’arco di Giano,

altro formidabile manufatto che si

trova a pochi metri dalla piazza della

Chiesa. Da questo punto in poi un

collettore moderno convoglia le acque

nel Tevere, dove è ancora visibile

lo sbocco ad arco, in basso accanto

alle arcate del ponte Palatino.

Nel corso dei secoli il tracciato della

fognatura fu sempre mantenuto in

grado di funzionare, al una profondità

di 12 metri sotto il livello dell’attuale

manto stradale, cioè circa 6 metri

CULTURA

al tempo della costruzione dei tempi

di Tarquinio Prisco, costruito in tufo

e peperino, impermeabilizzata con

cocciopesto che i Romani chiamavano

signino, poiché il materiale giungeva

da Signia, l’odierna Segni.

Già dal V secolo sulla piccola piazza

una diaconia di monaci greci si occupava

di distribuire cibo e protezione

ai poveri: una chiesa si sovrappose ai

resti più antichi ed al tempo di Papa

Zaccaria (741-725) vi furono trasportate

le reliquie di san Giorgio, il santo

guerriero della Cappadocia onorato

dai bizantini che vivevano numerosi

presso il Foro Boario. Bizantini che

appartenevano sia agli ordini monastici

orientali fuggiti a Roma dalle

persecuzioni iconoclaste, sia alle

truppe dell’esercito di stanza in città.

La Chiesa dedicata a San Giorgio è

estremamente suggestiva nella sua

semplicità, a tre navate che si restringono

verso l’abside, ritmate da due

file di otto colonne di diversa provenienza

e materiale, che a loro volta

sostengono archi e piccole finestre.

L’abside leggermente rialzata è illuminata

da un oculo che le dà luce dalla

facciata d’ingresso, ed un affresco

raffigura Cristo benedicente tra la

Vergine e san Giorgio, esempio di pittura

romana duecentesco forse eseguito

da Arnolfo di Cambio.

Il campanile romanico si innalza di lato,

e sormonta una piccola porta architravata

che si chiama, chissà per-


I C T .198 A 2020

CULTURA

ché, Arco degli Argentari pur non essendo

un arco.

Pilastri ed architrave superano di poco

i sei metri di altezza, ed il varco

della porta indica il punto dove terminava

il vicus Jugarius verso il Foro

Olitorium: il vicus Jugarium era dedicato

ai costruttori di gioghi per i buoi

e nel Foro Boario si vendevano le

carni così come nel foro olitorium si

svolgeva il mercato di verdure e frutta.

Nel 202 d.C. l’arco degli Argentari

fu costruito e dedicato ai cambiavalute

ed ai negotiantes boarii huius locii,

riccamente ornato di marmi istoriati

con scene di sacrifici e l’imperatore

Settimio Severo, aquile e soldati,

prigionieri barbari ed Ercole. Un

basamento di travertino sostiene

questa porta immaginifica, oggi chiusa

da una cancellata di ferro.

Solenne e poderoso, l’arco di Giano

chiude il perimetro della Chiesa e della

piazza: una porta quadrifronte,

che risale a metà del IV secolo a.C.,

ed era un passaggio, uno ianus, una

struttura quadrifronte, quattro pilastri

rivestiti di marmo che formano

uno spazio coperto con volta a crociera.

Sotto questa volta probabilmente

trovavano riparo cambiavalute,

banchieri e mercanti che affollavano

il vivace mercato della nuova

urbs.

Un’altezza di 16 metri a pianta quadrata

(12 metri sui quattro lati) permette

al monumento di svettare sugli

edifici circostanti: un tempo i pilastri

erano oranti da numerose statue

o busti, incastonati nelle 48 nicchie

decorate che corrono fino all’apice

dei pilastri stessi.

L’arco di Giano conserva molti segreti

ai quali gli archeologi non hanno

saputo rispondere, poiché negli oltre

2000 anni della sua storia il monumento

è stato più volte rimaneggiato,

spoliato, restaurato e molte delle

iscrizioni che lo ornavano non sono

più leggibili.

Poche centinaia di metri quadrati

racchiudono un mondo che corre nei

millenni: Roma è Roma. Sempre meravigliosa.

Barbara Marengo


I C T .198 A 2020

M R

R

oma in un autunno turbolento

per pioggia e vento conforta i

suoi abitanti ed i turisti, appassionati

di arte, con interessanti mostre. Nelle

sale del Museo di Roma in Palazzo

Braschi una mostra dedicata a Canova.

Eterna bellezza risolleva l’animo

del visitatore in un allestimento di

grande impatto visivo, oltre 170 opere

del grande scultore e di alcuni artisti

a lui coevi. È una mostra evento

dedicata a Canova ed al suo legame

con la città di Roma che, fra Sette e

Ottocento, diventò la fucina del suo

genio ed inesauribile fonte di ispirazione.

È una constatazione ovvia che

l’arte a Roma, a cavallo fra Sette e

Ottocento, sia inconcepibile senza

Canova e che l’arte di Canova non

possa considerarsi tale senza Roma.

Eppure, più cresce la bibliografia e si

pubblicano i documenti, più si illumina

il senso di questo binomio. Gioca

a suo favore anche il momento in

cui, intorno alle antichità romane, si

creano, in rapporto dialettico, un

mercato legato anche al restauro e

un sistema di tutela, incentrato sulla

creazione dei musei e sui controlli

all’esportazione, che prefigurano gli

sviluppi moderni. Con l’arrivo nel

1779 e poi con la presenza stabile di

Canova, nell’ambito artistico si determina

una cesura di cui già i contemporanei

sono consapevoli. Nella biografia

di Canova, la storia si intreccia

C. C - T

CULTURA

con la carriera, iniziata con il successo

internazionale, a soli ventisei anni,

del Monumento sepolcrale di Clemente

XIV ai Santi Apostoli, e proseguita

in crescendo, fino a lasciare

traccia in tutte le corti, ad onta degli

avvicendamenti sui troni e, per emulazione,

nelle principali dimore dell’aristocrazia

europea. Proprio perché

fu consacrata a Roma, custode per

eccellenza dell’antico e del bello, la

sua fama si diffuse così velocemente

e resse tanto a lungo: pochissimi artisti

ne hanno goduta altrettanta in vi-


I C T .198 A 2020

A. C - L M

ta. Nel rapporto fra l’artista e la città,

comunque, i paradossi non mancarono.

Cattolicissimo e politicamente

neutrale, Canova era però protagonista

della corrente artistica abbracciata

dai rivoluzionari e ufficializzata da

un imperatore anticlericale. Forse

anche per questo nella Roma restaurata

di Pio VII non trovò dove collocare

la sua colossale statua della Religione,

mentre fu qui che si concluse

felicemente la vicenda di un altro

ambiziosissimo lavoro, l’Ercole e Lica,

destinato prima a Napoli, poi a Verona

e tradotto finalmente in marmo

grazie alla recente ricchezza di Giovanni

Raimondo Torlonia. A Roma,

dunque, Canova divenne lo scultore

più celebre del suo tempo. Il colloquio

di Canova con il mondo classico

è stato profondo e incise su istanze

cruciali, prima fra tutte, la volontà di

far rinascere l’Antico nel Moderno e

CULTURA

di plasmare il Moderno attraverso il

filtro dell’Antico; il loro rapporto è

rievocato in mostra attraverso il confronto

dei marmi di Canova, tra i

quali l’Amorino alato proveniente

dall’Ermitage di San Pietroburgo,

con marmi antichi come l’Eros Farnese

del Museo Archeologico Nazionale

di Napoli. Una sala accoglierà un

focus sul tema del Classico e Neoclassico

e accosterà gessi di celebri

capolavori antichi a quelli di statue

canoviane realizzate per il conte

Alessandro Papafava. L’Apollo del

Belvedere e il Gladiatore Borghese sono

messi a confronto con il Perseo

trionfante e il Pugilatore Creugante di

Antonio Canova. Con l’arrivo di Canova,

Roma si confermò centro

dell’arte moderna: il Monumento di

Clemente XIV, innalzato nella basilica

dei Santi Apostoli nel 1787, fu subito

acclamato come nuovo esempio di

perfezione classica. Al Museo di Roma

si potranno ammirare magnifiche

sculture e numerosi disegni, testimonianza

dell’attività grafica dello scultore.

Le opere di Canova dialogheranno

con quelle realizzate dai maggiori

artisti attivi in città a fine Settecento:

Gavin Hamilton, presente in

mostra con le tele raffiguranti le Storie

di Paride, Pompeo Batoni, del

quale Canova frequentò l’Accademia

di Nudo, Jean-François-Pierre Peyron,

il cui Belisario che riceve ospitalità

di un contadino fu molto ammirato

dallo scultore, che definì il pittore


I C T .198 A 2020

A. R

I M C

CULTURA

francese “il migliore di tutti”. L’atelier

di Canova era una tappa obbligata

per artisti, aristocratici, intenditori

e viaggiatori di passaggio nell’Urbe.

La mostra affronta anche il rapporto

tra lo scultore e la letteratura del suo

tempo: una piccola sezione è dedicata

alla relazione tra Canova e Alfieri,

la cui tragedia Antigone, andata in

scena a Roma nel 1782, presenta più

di uno spunto di riflessione in rapporto

alla rivoluzione figurativa canoviana.

In mostra c’è anche la statua

in gesso di Canova di Amore e

Psiche, tema oggetto di particolare

attenzione da parte di numerosi artisti,

pittori soprattutto, alla fine del

Settecento, ma che solo Canova riuscì

a reinventare connotandolo di significati

filosofici. Nell’ultima sala

della mostra, uno dei marmi più

straordinari di Canova: la Danzatrice

con le mani sui fianchi, proveniente

da San Pietroburgo. Gira sulla sua base,

come Canova desiderava, per di

più in un ambiente rivestito di specchi.

Dal nuovo spazio Generali Valore

Cultura, prodotta e organizzata dal

Gruppo Arthemisia, apre la mostra

Impressionisti segreti. Per celebrare

l’apertura del Palazzo Bonaparte,

che rende fruibile alla città di Roma e

non solo, un nuovo spazio espositivo

nelle meravigliose sale del piano nobile,

ovvero il primo, dove visse Maria

Letizia Ramolino, madre di Napoleone

Bonaparte, sono esposte oltre

50 opere di artisti tra cui Monet, Renoir,

Cézanne, Pissarro, Sisley, Caillebotte,

Morisot, Gonzalès, Gauguin,

Signac, Van Rysselberghe e Cross. Tesori

nascosti al più vasto pubblico,

provenienti da collezioni private raramente

accessibili e concessi eccezionalmente

per questa mostra, sono

esposte proprio a Palazzo Bonaparte,

anch’esso fino a oggi scrigno

privato che apre per la prima volta le

sue porte a veri capolavori del movimento

artistico d’Oltralpe più famoso

al mondo: l’Impressionismo. La

mostra non si pone tanto l’obiettivo

di aggiungere nuove conoscenze su

questo assai noto periodo artistico,

tra i più approfonditi, quanto di offrire

al pubblico la visione di una serie

di dipinti, rimasti finora nelle collezioni

private e mai esposti. In questa

mostra sono esposti quadri ad olio

che appartengono alla seconda fase

dell’Impressionismo, dopo il 1885

quando i pittori impressionisti comin-


I C T .198 A 2020

ciano a perdere l’originaria creatività

che li aveva distinti nei primi anni

Settanta del secolo, ma senza perdere

la bellezza di luci vibranti, ritraendo

le immagini della Parigi di fine Ottocento

e di donne dell’elite dell’epoca.

La cura della mostra è affidata

a due esperti di fama internazionale:

Clair Durand-Ruel e Marianne Mathieu.

Nei prestigiosi spazi del Museo

di Palazzo Cipolla, in via del Corso, si

è aperta la splendida retrospettiva

Corrado Cagli. Folgorazioni e Mutazioni,

dedicata alla ricca e complessa ricerca

dell’artista. Dipinti, disegni,

sculture, bozzetti e costumi teatrali,

ma ancora arazzi e grafiche per un

racconto che presenta circa 200

splendide opere, provenienti da importanti

Istituzioni e prestigiose collezioni

private del panorama culturale

del XX secolo. Molteplici i cicli pittorici

che l’esposizione di Roma ben

rappresenta ed illustra. Il percorso

espositivo permette al pubblico la visione

dei maggiori cicli pittorici realizzati

dall’artista: dai primi lavori giovanili

in maiolica a quelli realizzati a

olio o con altre tecniche del periodo

della Scuola Romana (1928-1938),

dalle prove neometafisiche (1946-

1947) elaborate a New York agli studi

sulla Quarta dimensione (1949), per

poi passare ai Motivi cellulari (1949),

alle impronte dirette e indirette

(1950), alle eteree Metamorfosi

(1957-1968), alle Variazioni orfiche

(1957), alla suggestiva ed enigmatica

CULTURA

L. V

C C S

serie delle Carte (1958-1963) e infine

concludere con le Mutazioni modulari

sviluppate fino alla metà degli anni

Settanta. Alla fine del 1938 fu costretto

per le leggi razziali ad abbandonare

prima Roma, poi Parigi ed infine

rifugiarsi a New York, dove lavora

per circa un anno. Successivamente

si arruola nell’esercito americano

partecipando allo sbarco in Normandia

ed alle campagne in Francia, Belgio

e Germania. Al termine della

Guerra si congeda e si stabilisce nuovamente

a New York. A metà del ’48

ritorna definitivamente in Italia, a Roma,

dove svolge buona parte della

propria attività sino alla sua prematura

scomparsa, avvenuta a Roma il

28 marzo 1976. Cagli nasce ad Ancona

il 23 febbraio 1910, cinque anni dopo

si trasferisce con i genitori a Roma,

dove compie gli studi classici e

frequenta l’Accademia di Belle Arti.

Certamente l’esposizione è un momento

di riflessione e occasione di


I C T .198 A 2020

apertura verso originali prospettive

che osserva e indaga con nuovi strumenti

critici una ricerca che continua

ad essere di stimolo e di ispirazione.

Nella mostra vengono posti in evidenza

alcuni dei momenti iconici della

pittura di Cagli, quali ad esempio

quelli rivolti a dare una identità al

“muralismo” italiano (parallelamente

a Sironi) nella ricerca di

“un’arte ciclica e polifonica”; per

B. M - B

l’occasione sono riuniti alcuni dei

pannelli costituenti il ciclo esposto e

in parte censurato all’Esposizione

Universale di Parigi del 1937. Sono

anche presenti alcune opere esposte

nella mostra di rientro in Italia, dopo

l’esilio americano, allo Studio d’Arte

Palma nel 1947 che suscitò una reazione

di contrasto degli artisti del

gruppo Forma. Infine, in esposizione,

oltre agli arazzi, alle opere plastiche,

ai bozzetti architettonici della

Fontana dello Zodiaco di Terni e a

CULTURA

quelli del Monumento di Göttingen

in Germania, si possono osservare

altresì anche il monumentale cartone

della pittura murale eseguita per

la XXI Biennale di Venezia del

1938, Orfeo incanta le belve, e una sezione

rilevante incentrata sull’attività

di scenografo e costumista teatrale

con un risalto dato all’esperienza

newyorkese della Ballet Society insieme

a George Balanchine. Corrado

Cagli si dedicò nel corso della

sua intensa attività ad una antica

tecnica di pittura: l’encausto,

una tecnica che risale al periodo

greco, che si basa sull’uso di colori

mescolati alla cera attraverso

il calore. Sia Plinio che Vitruvio

descrivono i metodi di esecuzione

dell’encausto. Le Gallerie

Nazionali di Arte Antica presentano

dal 24 ottobre 2019

al 2 febbraio 2020, nella sede

di Galleria Corsini, la mostra

L’enigma del reale. Ritratti e

nature morte dalla Collezione Poletti

e dalle Gallerie Nazionali Barberini

Corsini, a cura di Paola Nicita. L’esposizione

presenta circa trenta opere

mai esposte a Roma provenienti dalla

collezione di Geo Poletti (Milano 9

aprile 1926 - Lenno 13 settembre

2012), storico dell’arte, connoisseur,

pittore e collezionista, messe a confronto

con alcuni dipinti del museo e

un’opera proveniente dal Museo nazionale

di Varsavia. Una mostra fortemente

voluta dalla direttrice Flami-


I C T .198 A 2020

nia Gennari Santori che sottolinea:

“come per la mostra di Mapplethorpe

anche in questa occasione si prosegue

alla Galleria Corsini con l’esplorazione

del collezionismo, sia come

pratica che come categoria culturale”.

Saranno esposte per lo più nature

morte seicentesche, da quelle di ambito

caravaggesco romano, alle

“Cucine” emiliane, dalle più sobrie e

intime nature morte lombarde, fino

alle nature morte di Bernardo Strozzi

e al rinnovato realismo di ispirazione

caravaggesca del bergamasco Evaristo

Baschenis. Due importanti nature

morte raffiguranti Vasi di fiori e

frutta attribuite da Geo Poletti allo

stesso Caravaggio verranno messe a

confronto con una Natura morta con

tuberosa conservata a Palazzo Barberini

e solitamente non esposta al

pubblico. Completa il percorso espositivo

un approfondimento sulla cosiddetta

“Pittura di Realtà”; di grande

interesse il confronto, mai realizzato

prima, delle tre versioni

del Pescivendolo che sventra una rana

pescatrice. Un’occasione imperdibile

di vedere riunite le tre tele (quella

delle Galleria Nazionali, la versione

della Collezione Poletti e la terza,

proveniente dal Museo nazionale di

Varsavia, prestito eccezionale per la

mostra), restituendo loro il contesto

di provenienza e un’inedita lettura,

sia sul piano attribuzionistico che su

quello storico e iconografico, grazie

CULTURA

anche alle indagini diagnostiche

effettuate sulle prime due versioni.

Quella delle Galleria Nazionali, attribuita

prima al romagnolo Guido Cagnacci

e poi al fiorentino Orazio Fidani,

è in realtà opera di un grande pittore

napoletano della metà del XVII

secolo. E anche le altre due versioni,

quella Poletti e quella di Varsavia sono

riconducibili allo stesso ambito

culturale e alla stessa epoca. Sempre

nell’ambito della “Pittura di Realtà”

saranno esposti il Democrito di Jusepe

de Ribera e la Maddalena penitente

di ambito spagnolo, opere segnate

da una forte aderenza ai valori naturalistici

che muove dal mondo caravaggesco.

Le due tele, così come il Bacco e Fauno,

mettono in evidenza la qualità

del collezionismo di Geo Poletti: il

suo occhio e giudizio infallibili, oltre

alla lunga amicizia con il critico Roberto

Longhi, gli permisero di approfondire

soprattutto l’arte del Merisi,

dei caravaggeschi e di tutta la pittura

italiana e spagnola del Seicento. In

conclusione della mostra sarà dedicata

una giornata di studio a Palazzo

Corsini per approfondire la conoscenza

dei dipinti esposti, alla quale

verranno invitati studiosi e specialisti

del settore, nazionali e internazionali.

Non si poteva chiudere questa carrellata

di mostre in questa Roma autunnale

se non con un artista in cui

sfarzo e bellezza sono racchiusi in

una meravigliosa ode di materiali,


I C T .198 A 2020

CULTURA

G P - N

modellati con genialità tra porfido e

lapislazzuli, argento e bronzo dorato,

granito e pietre dure: a Villa Borghese,

salendo la scalinata della Galleria

si trovano due monumentali

lampade che Luigi Valadier (1726-

1785) realizzò per il santuario di Santiago

di Compostela. La Galleria Borghese

ha deciso infatti di dedicare la

grande mostra monografica dell’autunno

a Luigi Valadier (1726-1785),

protagonista del rinnovamento del

gusto a Roma alla metà del ‘700: Valadier:

splendore nella Roma del Settecento.

Quelli e molti altri pezzi preziosi

presenti anche all’interno del

palazzo, testimoniano che tutto ciò

che faceva quel disegnatore di talento,

anche designer, orafo, argentiere

e scultore in bronzo, diventava l'oggetto

del desiderio in una Roma dove,

a differenza di oggi, c’era il gusto,

la ricchezza e l'opulenza, tutti segni

distintivi delle dimore di chi contava

davvero: aristocratici, nobildonne,

sovrani di paesi lontani e, ovviamente,

i Papi.

Questa mostra è un vero e proprio

viaggio in quel mondo attraverso 87

opere esposte, non certo a caso, in

uno dei posti più amati e visitati della

città, visto il forte legame che Valadier

(a cominciare da Giuseppe, papà

di Luigi, noto architetto) aveva con il

principe Marcantonio Borghese che

lo coinvolse nel progetto di riconfigurazione

della villa, affidato all’architetto

Antonio Asprucci. Un percorso

espositivo importante, un

omaggio a quell’artista stimato da

molti, pagato da pochi (si suicidò

proprio per problemi economici gettandosi

nel Tevere) che già lo scorso

anno, la sofisticata Frick Collection,

la casa/museo del magnate dell’acciaio

Henry Frick sulla Quinta Strada,

aveva omaggiato con una mostra in

cui, tra le altre cose, veniva evidenziata

la sua grande bravura anche

nell’usare pietre preziose, smalto, legno

e vetro per creare opere uniche

per i suoi nobili e facoltosi clienti.

Ora sono esposte nelle sale della Galleria

Borghese assieme a disegni,

sculture sacre, arredi liturgici, argenti,

bronzi, centrotavola, metalli dorati

con marmi e pietre dure provenienti

da istituzioni internazionali e

da collezioni private poi raccolte

da Anna Coliva, direttrice del museo

e curatrice della mostra. Per l'occasione

è stato restaurato anche il

bronzo del San Giovanni Battista, in

prestito dal Battistero San Giovanni

in Fonte al Laterano, una rarità visto

che per la prima volta viene esposto


I C T .198 A 2020

al di fuori della sua nicchia. Troveremo

anche candelabri, coppie di tazze,

vasi, posate e centrotavola, come

quello di Caterina II di Russia. C’è

persino una “cantinetta” che altro

non è che un cofano per bottiglie in

argento dorato con lo stemma del

cardinale Enrico Benedetto Stuart,

duca di York, un cucchiaio e una

caffetteria con le iniziali coronate del

principe Camillo Borghese. Non mancano

opere sacre, ad esempio il servizio

per la messa pontificale del Cardinal

Orsini da Muro Lucano, le statue

di santi, San Luigi di Francia, San

Castrense, San Paolo, Santa Rosalia e

San Benedetto, in prestito dall'altare

della cattedrale di Monreale e riproduzioni

di statue antiche che arrivano

direttamente dal Louvre. In un disegno

in inchiostro nero, acquerello

grigio, bruno e rosa si può ammirare

il vassoio che fu realizzato in argento

CULTURA

cesellato proprio per i Borghese intorno

al 1783. Imperdibile, sempre

nella prima sala dopo l’ingresso, l’Erma

di Bacco, bronzo parzialmente

dorato, alabastro a rose, bianco e nero

di Aquitania di proprietà della Galleria

come a coppia di Tavoli dodecagonali

e, proseguendo nelle sale, la

Venere Callipigia, un bronzo che riproduce

un marmo del I secolo a.C.

rinvenuto presso la Domus Aurea,

una copia della Venere “dalle belle

natiche” che Valadier eseguì per Madame

du Barry. Altro pezzo forte,

l’Artemide Efesia in alabastro giallo,

già appartenente alla collezione Farnese,

ma poi trasportata a Napoli nel

1786 per formare il nucleo di antichità

del real Museo Borbonico. Un iter

artistico per in centro di Roma che

ricrea la mente e lo spirito.

Adriana Capriotti

F. Z - S


I C T .198 A 2020

Q

uale più esaltante e

gratificante spettacolo

per un appassionato

cultore della musica classica

quale io sono di vedere

attorno a se un pubblico

affascinato, quasi

ipnotizzato, dal concerto

di cui le ultime note andavano

sfumando, coperte

da calorosi applausi.

Come per tre precedenti

volte, per i tre concerti

diretti da Fayçal Karoui e

da Flavien Boy, mi sono sentito ringiovanito

di oltre 4 decenni, con la marea

di ricordi che affluivano alla mia

mente degli avvenimenti musicali di

altissimo livello vissuti grazie al

“Grand Orchestre Symphonique” degli

anni 1947 a 1960 sotto la direzione

di Louis Gava, Gaston Poulet, Jean

Clergue, l’allora giovanissimo e già

prestigioso Georges Prêtre...; all’

“Orchestre Classique de Tunis” del

“Centre Culturel International” diretto

da Anis Fuleihan dal 1962 al 1969;

dall’ “Orchestre Symphonique Tunisien”

creato nel 1969 da Salah El Mahdi

ed affidato fino al 1978 alla direzione

di Jean-Paul Nicollet.

MUSICA E SPETTACOLO

C 7 2019

C

di Daniele Passalacqua

I M H C (*)

Già da allora incominciava a farsi

sentire lentamente un declino qualitativo

man mano che gli ottimi strumentisti

italiani, e principalmente

quelli a fiato, lasciavano la Tunisia

per far ritorno sulla terra dei loro antenati.

Oggi alfine, con l’indefesso lavoro di

Hafedh Makni alla testa dell’

“Orchestre Symphonique de Carthage”

ed il contributo di eccellenti

Maestri invitati quali Patrice Pinero;

di Chedi Garfi e la sua “Orchestra da

Camera ad archi”, rafforzata secondo

le necessità da vari altri strumentisti;

dell’ “Orchestre Symphonique

Tunisien” sotto la guida del suo Di-


I C T .198 A 2020

rettore Musicale Hichem Amari,

completata dall’apporto di numerosi

fiati venuti dalla Francia e posta sotto

la direzione di grandi Maestri...

ritrovo conferma della rinascita della

musica sinfonica di alto livello e noto

con gran piacere la costituzione

di un pubblico fedele, attento, in costante

crescita numerica, capace di

riempire in due serate successive

tanto il Théâtre Municipal (1.000 posti),

quanto il Théâtre de l’Opéra

(1.800 posti).

Ed è proprio in quest’ultimo che è

stato dato il 7 marzo uno stupendo

concerto al quale consacro questa

mia cronaca, dedicato a Beethoven

MUSICA E SPETTACOLO

nel 250.mo anniversario della nascita,

per il quale è stato fatto appello

a tre talenti internazionali, la violinista

canadese Hélène Collerette, la

pianista francese Elisabeth Sombart

ed il Maestro spagnolo Diego Miguel

-Urzanqui.

Quest’ultimo si è immediatamente

rivelato essere un Direttore ispirato

e dinamico. Sotto il suo galvanizzante

impulso, grazie al suo gesto elegante,

autorevole e comunicativo,

dimostrando piena padronanza delle

opere dirette, l’orchestra (gli ottimi

archi tunisini rafforzati da una

ventina di altrettanto ottimi fiati e

percussionisti francesi) aveva rag-

H C (*)


I C T .198 A 2020

E S (*)

giunto una fusione di rara intensità,

una grande precisione negli attacchi

ed una stupenda qualità del suono,

essendo ammirevole ad ogni istante.

Egli dava così un solidissimo ed altamente

musicale sostegno alle soliste,

contribuendo altamente al successo

della serata, che aveva inizio

con il “Concerto per violino ed orchestra

in re maggiore op.61”, affidato

al talento di Hélène Collerette.

Quest’opera è incontestabilmente

da annoverare fra i maggiori capolavori

in questo campo. Probabilmente

composto in un momento di grande

serenità nella vita dell’autore,

questo “Concerto” è di una assai importante

densità orchestrale, che

tuttavia non sovrasta mai il discorso

del solista, consentendogli di esprimere

tutta la sua virtuosità, tutta la

MUSICA E SPETTACOLO

sua sensibilità.

Ed Hélène Collerette

ne ha

da rivendere.

Traendo con

delle mani di

fata dei sontuosi

suoni dal

Guarnieri del

Gesù del 1732

di cui dispone,

si è immediatamente

imposta

come l’ideale

interprete di

questo

“Concerto”, sin dai primi accenti del

suo intervento nel primo tempo

“Allegro ma non troppo”, subito dopo

il vasto preambolo orchestrale. È

in modo fremente che ne ha esposto

i ricchi ornamenti conducenti alla

monumentale cadenza ed all’ampia

coda, colmando così l’attesa di chi

questi preziosi istanti attendeva,

piazzandola al livello di tanti grandi

che conobbi o ascoltai nel passato.

L’ultimo vibrante accento è stato

sommerso dagli applausi che accomunavano

solista, maestro ed orchestra.

Giunti a questo punto anelavo a veder

prolungati questi istanti di felicità

grazie alla seconda parte della serata

che era stata affidata alla pianista

Elisabeth Sombart, creando così

un ben raro ed eccezionale avveni-


I C T .198 A 2020

MUSICA E SPETTACOLO

E S M (**)

mento.

Non ho difatti ricordo di simili occasioni,

in cui due insigni solisti strumentali

si succedano, ad eccezione

delle serate in cui ci è offerto il

“Triplo concerto in do maggiore

op.56” di Beethoven, in cui pianista,

violinista e violoncellista devono fare

a gara per esaltare la loro musicalità,

il loro talento.

E me ne sono rallegrato poiché anche

con Elisabeth Sombart abbiamo

raggiunto le vette della grande musica

classica.

Ammaliandoci subito con il gran fascino

che emana dalla sua persona,

Elisabeth Sombart si è rivolta al pubblico

con estrema semplicità, evocando

quale ammirazione Victor Hugo

nutriva per Beethoven, parlandoci

dell’importanza che la musica ha

sull’essere umano ed intrattenendoci

della “Fondazione Résonnance”

da lei creata nel 1998, oggi esistente

in 6 paesi europei e nel Libano, la cui

finalità è di “portare la musica là dove

non ce n’è”, offrendo concerti negli

ospedali, nelle case di riposo, nelle

prigioni, nei campi profughi, dei

concerti di beneficenza, creando

delle scuole di insegnamento della

musica. Questo suo intensa compito,

quasi una missione, condiviso da

Diego Miguel-Urzanqui che cappeg-


I C T .198 A 2020

MUSICA E SPETTACOLO

H C ’ (*)

gia il ramo spagnolo, non intralcia

apparentemente in alcun modo l’attività

di concertista internazionale di

questa allieva del grande Bruno Leonardo

Gelber, che ha dato subito

prova del suo immenso talento

affrontando l’interpretazione del

“Concerto in sol maggiore N°4”.

Superando come per incanto l’aridità

di un ingrato strumento, è stata

capace (come lo fu in verità Victorien

Vanoosten il 26 aprile 2019) di

infondergli calore e colore, traendone

delle seducenti sonorità già dai

primi accenti del primo tempo

“Allegro moderato”, nell’esposizione

del tema, spianando con infinita

dolcezza la via all’orchestra, trascinandola

in seguito con ardore.

Nel successivo “Andante con moto”

il dialogo è andato confermandosi e

sviluppandosi

grazie alla grande

complicità fra

solista e direttore,

la prima infondendo

tanta

poesia nelle sue

frasi, esaltando

la bella ed ampia

cadenza, per

passare infine al

“Rondo” finale,

in cui il pianoforte

diviene maestro

con i brillanti

arpeggi che

Elisabeth Sombart affrontava in modo

ammirevole, distillando infinita

poesia e dimostrando contagiosa

energia nel costante dialogo con

l’orchestra, per raggiungere assieme

l’apoteosi di una potente e luminosa

conclusione.

Estasiato da tanta bellezza, il pubblico

riservava allora ad Elisabeth Sombart,

a Diego Miguel-Urzanqui ed

agli orchestrali fragorosi trionfali applausi.

Ed è tanta riconoscenza che

era testimoniata a Hélène Collerette,

Elisabeth Sombart, Diego Miguel-

Urzanqui ed all’orchestra tutta per

averci consentito vivere tali esaltanti

momenti.

(*) foto fornite dal Teatro

(**) foto dell’autore


I C T .198 A 2020

MARGINALIA

note di cultura mediterranea

a cura di Franca Giusti

“è a margine di una pagina d’altri che ci si annota”

[Delino Maria Rosso in www.gliannidicarta.it]

S

S P

“Te l’ho detto anche prima: senza il

popolo non posso agire nemmeno

con il potere che ho”. A parlare così

è Pelasgo, il re di Argo. Pelasgo era

consapevole di essere investito di

ogni potere ed era altresì consapevole

che a tale investitura aveva concorso

il suo popolo, tutto insieme

all’unanimità, πανδημία. Questa è la

parola, il termine utilizzato da Eschilo

ne Le Supplici, al versetto 607.

Eschilo è per lo più conosciuto per

essere uno dei tre autori delle tragedie

greche dell’antichità eppure fu

L M - I


I C T .198 A 2020

MARGINALIA

anche un soldato, partecipe entusiasta

dell’intenso ritmo di vita imposto

dalla progredita costituzione democratica

e dalle vicende politiche e militari

dello Stato ateniese. Eschilo

non si schierò con gli eupatridi impegnati

tra aspirazioni di agoni e banchetti,

egli fece proprio l’ideale degli

opliti ateniesi in lotta contro il barbaro

per la libertà della Grecia e di Atene

e partecipò con la borghesia abbiente

alle battaglie di Maratona, Salamina

e Platea. Il nemico non si vince

con l’inerzia, non stando fermi ad

aspettare ma sfoderando, coralmente,

πανδημία, tutti insieme le armi

da combattimento. Questo era il

principio su cui era fondata la potenza

ateniese, il principio della

πανδημία, tutti insieme all’unisono.

Tutti insieme, o si vince o si muore.

Non solo nelle guerre armate ma anche

in quelle in tempi di pace. Al secondo

anno della guerra del Peloponneso,

quando una vittoria ateniese

sembrava ancora a portata di mano,

un’epidemia di peste colpì la città-stato.

L’Atene periclea fu decimata

da un’epidemia di peste, una pandemia

diversa da quella nobile di cui

parlava Eschilo, un focolaio di peste

entrò forse dal Pireo, il porto che costituiva

la fonte di cibo e rifornimenti.

Il focolaio, sedato nel corso

dell’anno, tornò, sempre d’inverno,

nei due anni successivi. Essendo la

maggior parte dell’attività concentrata

in città ed attorno al porto, furono

in molti ad abbandonare le

campagne e trasferirsi ad Atene, città

per altro già piuttosto affollata,

che diventò una vera fossa comune.

Tra le vittime illustri di quella pandemia

vi fu lo stesso Pericle con tutta la

famiglia, moglie e figli. Il cronista di

allora fu Tucidide. Storico contemporaneo,

fededegno e considerato

uno, anzi il primo, storico scientifico.

Descrisse la malattia nei suoi aspetti

ed avanzò l’ipotesi che la piaga fosse

giunta dall’Etiopia attraverso l’Egitto

e la Libia e osservò l’impotenza dei

medici innanzi al propagarsi di un

contagio di cui non conoscevano la

natura ed essi stessi ne morivano più

di tutti poiché in contatto con i malati.

La disinfestazione consisteva nel

dar alle fiamme i quartieri focolai.

Appena un terzo della popolazione

sopravvisse. I roghi si vedevano anche

da lontano anche dal mare tanto

che gli spartani decisero il ritiro delle

loro truppe. In guerra con un nemico

conosciuto si può decidere come agire

e reagire ma contro l’ignoto no e

gli spartani si ritirarono temendo il

contagio. Molti marinai morirono

con Pericle.

Benché la lucidità di Tucidide non lasciasse

spazio a dubbi sul modus operandi

della malattia, tra gli antichi era

convinzione comune che pandemie

di questo genere fossero punizioni

divine, pene inflitte agli uomini per


I C T .198 A 2020

MARGINALIA

qualche loro grave colpa. Nell’Iliade

si legge di una terribile pestilenza cagionata

da Apollo, il dio che, sul campo

acheo durante la guerra di Troia,

punì così l’offesa di Agamennone. Il

guerriero si dimostrò restio a consegnare

a Crise, al sacerdote di Apollo,

la figlia Criseide ormai schiava di Agamennone.

Atena vendicò la violenza

su Cassandra diffondendo la terribile

pestilenza su tutta la locride.

Il racconto di Tucidide sulla peste di

Atene rende bene l’idea di come

un’epidemia possa incidere sul funzionamento

di una società. Lo storico

descrive non solo il senso di impotenza

e disorientamento della popolazione

davanti a un male sconosciuto,

per il quale non ci sono rimedi,

ma anche l’idea che, non avendo gli

individui più nulla da perdere, fosse

ormai inutile rispettare le leggi.

“Nessuno, dice Tucidide, obbediva

più agli ordini della autorità, nessuno

si preoccupava di raggiungere quegli

obiettivi che prima erano ritenuti importanti”.

Nel racconto dello storico,

la peste diventa anche metafora, immagine

di una crisi profonda dell’umanità.

In tutta l’antichità gli dei puniscono

con la malattia gli uomini

che non seguono i comandamenti divini,

indipendentemente che siano

stati scritti oppure no. Si tratta di diritto

naturale. Nel mito di Antigone,

le norme etiche, nate con l’uomo,

non possono esser violate, nemmeno

se è la legge ad

imporlo. È il quesito

di sempre, cosa è

giusto e cosa noi, chi

stabilisce cosa è giusto

e cosa no.

Idomeneo era re di

Creta. Per ottenere

un favore dagli dei T

durante il viaggio di ritorno, Idomeneo

promise di sacrificare in loro

onore la prima persona che avrebbe

incontrato in patria. Incontrò sua figlia.

Non assecondò l’etica umana

non cedette all’amore paterno, mantenne

la promessa ma gli dei ne furono

sdegnati. L’amore paterno è naturale,

non una regola scritta e gli dei

colpirono l’isola di Creta con un’epidemia

che ebbe termine solo quando

il re andò in esilio. Nella mitologia antica,

al tempo delle divinità capricciose

ed egoiste, l’umana condizione di

malattia e morte era punizione divina

e non caratteristica propria di un

corpo appunto mortale. Nella mitologia

antica e nel comune pensiero

antico, le colpe del singolo ricadono

sulla collettività, su tutta la popolazione.

Abbandonati i tentativi di

comprendere le cause dei contagi

epidemiologici, lo scenario funesto

stimola l’immaginario della società e

diventa lo sfondo di molteplici opere

letterarie di tutti i tempi, la più famosa,

forse, fra tutte, è l’opera manzoniana

de I Promessi Sposi. La criticità


I C T .198 A 2020

C P

MARGINALIA

di una situazione drammatica qual è

quella di un paese di morti, in scacco

ad una pandemia, è terreno fertile

per l’innesco di intrecci complessi

con risvolti politici, economici, culturali

nonché intrecci politici ed economici

con risvolti negativi sulla popolazione

unita nel dramma prima e

nella rabbia dopo. Il nemico attacca

ciascuno singolarmente, lo infetta

con la paura e la malattia, in modo

subdolo ed insidioso, di petto e di

spalle, senza che la collettività riesca

a pareggiare le armi. Nelle pagine di

Tucidide si legge il dramma nel dramma:

la città, nell’emergenza, non riusciva

più a seppellire i morti secondo

i riti tradizionali. Ad Atene, comunque,

nel 430 a.C. il problema era il sovraffollamento:

c’era la guerra con

Sparta, e la città era piena di sfollati

arrivati dalle campagne. Per questo il

contagio si diffuse così rapidamente.

Dentro la città sovraffollata, si alternavano

momenti di disperazione solitaria

e momenti di solidarietà. Scrive

Tucidide: “Se gli ateniesi per paura

non volevano andare l’uno dall’altro,

morivano abbandonati; se invece

si accostavano alle persone, morivano

per il contagio, specie quelli

che cercavano di agire con generosità”.

Uno scenario inquietante quello

che Sparta si trovò innanzi, oltre ai

roghi. Se il morbo arrivasse davvero

dagli dei, dagli stranieri o dalla caratteristica

di esseri “mortali”, la letteratura

si fa specchio di un’umanità

alla ricerca di miracoli. Non importa

da dove possano arrivare, si intona

coralmente l’inno nazionale, la canzone

tormentone dell’anno scorso,

si alternano preghiere in diverse lingue

e fedi. Tucidide sa di cosa parla,

la sua narrazione è lineare perché

egli stesso è un miracolato, sopravvissuto

alla peste, a quella peste arrivata

da lontano. Da lontano arrivarono

anche le pandemie nell’impero

romano. Arrivarono a Roma viaggiando

su navi o carovane che percorrevano

le vie dei commerci quella

che oggi chiamiamo via della seta e

fu così che anche i cittadini dell’antica

Roma convivevano con atteggiamenti

razionali alternati a pulsioni

meno razionali. Da un lato, la necessità

di trovare l’untore, imputare a

qualcuno, al paziente n.0, la colpa

primaria e dall’altro lato, Greci e Romani

cercavano conforto nella protezione

divina oltre che nel consulto

medico. Superstizione e scienza, nel

dubbio, tentare ogni strada.


I C T .198 A 2020

AMBIENTE E TURISMO

A

SAVEMEDCOASTS

L

’INGV ospita il kick off meeting di

SAVEMEDCOASTS-2, la seconda

fase operativa del progetto europeo

volto a mitigare i rischi legati agli

effetti di aumento del livello marino

sulle zone costiere del Mediterraneo.

Si è tenuto all’inizio di quest’anno,

nella Sede di Roma dell’Istituto Nazionale

di Geofisica e Vulcanologia

(INGV) l’incontro tra i partner che ha

dato ufficialmente il via alla seconda

fase operativa del progetto europeo

SAVEMEDCOASTS, partita lo scorso

2 dicembre 2019. Obiettivo del progetto,

prevenire gli effetti dell’aumento

del livello marino globale per

la fine di questo secolo, causato dai

cambiamenti climatici.

SAVEMEDCOASTS-2 (Sea Level Rise

Scenarios along the Mediterranean

Coasts-2), prosegue quindi le attività

del precedente progetto SAVE-

MEDCOASTS realizzato fra il 2017 e il

2019, ed è nuovamente coordinato

dall’INGV con finanziamenti erogati

dalla European Union Humanitarian

Aid and Civil Protection (DG-ECHO)

per il biennio 2019-2021, proponendosi

come sostenitore della prote-

V. A S M


I C T .198 A 2020

zione civile europea nella valutazione

dei rischi costieri.

“Tra le attività previste dal progetto”,

ha spiegato Marco Anzidei, ricercatore

INGV e coordinatore di SA-

VEMEDCOASTS-2, “sensibilizzare le

comunità costiere sugli effetti

dell'aumento del livello marino causato

dai cambiamenti climatici e dalla

subsidenza in zone specifiche del

Mediterraneo, integrando quindi le

proiezioni climatiche nella gestione

dei disastri naturali”.

Nel corso dell’incontro, i partner

INGV, ISOTECH (Cipro), CGIAM

(Italia), AUTH (Università di Salonicco,

Grecia), CTTC (Spagna), Fondazione

CMCC (Italia) e FARBAS (Italia)

e Comune di Venezia (Italia) ha discusso

le attività progettuali, in

particolare l’utilizzo dei dati satellitari

e topografici analizzati insieme

ai dati climatici dell’IPCC

(Intergovernmental Panel on Climate

Change) e di altre ricerche indipendenti

per realizzare scenari di rischio

in aree specifiche, informando i soggetti

interessati.

“In questa seconda fase del progetto”,

ha proseguito Anzidei”, “gli

sforzi saranno concentrati su alcuni

dei principali delta fluviali e zone lagunari

del Mediterraneo, dove la

AMBIENTE E TURISMO

subsidenza naturale e antropica accelera

gli effetti dell’ingressione marina,

con conseguenti maggiori rischi

di sommersione di tratti costieri ad

alto valore naturale ed economico

ed effetti a cascata sulle attività

umane”.

In particolare, con il Comune di Venezia,

partner del progetto, sono

stati valutati i nuovi scenari attesi

per questa città costiera da qui al

2100 per preparare la popolazione

alle emergenze come quella dello

scorso novembre 2019, quando il livello

marino ha raggiunto i 188 cm di

altezza.

Poiché gli effetti esercitati da mareggiate,

alluvioni, erosione costiera e

tsunami saranno amplificati con un

livello marino più alto di quello attuale,

SAVEMEDCOASTS-2 si propone

di mitigare questi rischi, fornendo

scenari multi-temporali dell’ingressione

marina per i prossimi decenni,

preparando le persone e i soggetti

politici ad affrontare questi cambiamenti

anche attraverso campagne di

sensibilizzazione ed educazione mirate.

Valeria De Paola

Capo Ufficio Stampa

Istituto Nazionale

di Geofisica e Vulcanologia (INGV)


I C T .198 A 2020 AMBIENTE E TURISMO

T

P C I 'U

L

’11 dicembre 2019 il Comitato per

il patrimonio culturale immateriale

dell’UNESCO (Organizzazione delle

Nazioni Unite per l’Educazione, la

Scienza e la Cultura), ha dichiarato

la transumanza Patrimonio culturale

immateriale dell’Umanità.

Questa pratica, le cui origini si perdono

nei millenni precedenti, si caratterizza

per il suo forte valore

identitario e culturale ed è strettamente

legata alla territorio e alle

persone ; rappresenta la migrazione

stagionale delle greggi, delle mandrie

e dei pastori che, insieme ai loro

cani e ai loro cavalli, si spostano

in differenti zone climatiche percorrendo

le vie semi-naturali dei tratturi.

Il viaggio dura giorni e si effettuano

soste in luoghi prestabiliti, noti

come "stazioni di posta".

È ancora oggi praticata nel Centro e

Sud Italia, dove sono localizzati i Regi

tratturi, partendo da Amatrice

(nella cui piazza principale si svolgeva

storicamente la grande festa dei

pastori transumanti) e Ceccano nel

Lazio ad Aversa degli Abruzzi e Pescocostanzo

in Abruzzo, da Frosolone

in Molise al Gargano in Puglia.

Pastori transumanti sono ancora in

attività anche nell'area alpina,

in particolare in Lombardia e nel Val

Senales in Alto Adige.

La transumanza continua infatti a vivere

grazie alle famiglie di pastori e

mandriani che continuano a praticarla,

in perfetta armonia con l’ambiente,

praticando un metodo di allevamento

sostenibile ed efficiente.

Il riconoscimento riguarda tutta l'Italia,

dalle Alpi al Tavoliere: le comunità

emblematiche indicate nel dossier

come luoghi simbolici della transu-


I C T .198 A 2020

AMBIENTE E TURISMO

manza sono diverse, tra cui i comuni

di Amatrice (Rieti) da cui è partita la

candidatura subito dopo il devastante

terremoto, Frosolone (Isernia),

Pescocostanzo e Anversa degli

Abruzzi Lacedonia in Alta Irpinia

(Campania), San Marco in Lamis e

Volturara Appula in provincia di Foggia,

insieme a territori della Lombardia,

la Val Senales in Trentino Alto-

Adige, e la Basilicata. I pastori transumanti,

come sottolinea il dossier di

candidatura presentato dall'Italia insieme

a Grecia e Austria, hanno una

conoscenza approfondita dell'ambiente,

dell'equilibrio ecologico tra

uomo e natura e dei cambiamenti climatici.

Questo è il decimo riconoscimento

per l'Italia in questa lista - sottolinea

il curatore del dossier di candidatura,

Pier Luigi Petrillo - e ci porta

il primato mondiale dei riconoscimenti

in ambito agro-alimentare, dopo

l'iscrizione nel Patrimonio Culturale

Immateriale della Dieta Mediterranea,

la Pratica della coltivazione

della vite ad alberello di Pantelleria,

l'Arte del Pizzaiuolo napoletano, della

tecnica dei muretti a secco e dei

paesaggi vitivinicoli delle Langhe e

del Prosecco. Il Molise ora mira a

« trasformare il nostro patrimonio

riconosciuto da immateriale a materiale

grazie a un progetto-pilota che

si spera possa vederci capofila e che

sarà presentato a Parigi a febbraio

2020 » spiega il presidente dell’Agenzia

di Sviluppo Locale Asvir Moligal

diretta da Nicola Di Niro. L’obiettivo

è creare una rete di borghi raggruppati

attorno al tratturo con Ripalimosani,

Santo Stefano e Campobasso. Il

successivo, decisivo step da superare:

il riconoscimento come patrimonio

materiale. E per fare questo si sta

mettendo insieme un progetto complesso,

organico, che racchiuda l’intera

cartografia dei percorsi

‘pecuarie’ d’Europa. In effetti,

il Molise ha l’orgoglio e l’onore di

rappresentare un po’ tutte le transumanze

europee. “Il nostro progetto

riguarda il tratto del tratturo San

Marco in Lamis-Frosolone e la parte

centrale (Ripalimosani - Santo Stefano-Campobasso)

può e deve diventare

un modello di valorizzazione del

borgo. L’obiettivo è creare una rete

fitta tra i borghi che possa costruire

un nuovo sviluppo per la nostra terra”

aggiunge Di Niro. I partner italiani

del progetto sono per ora i territori

di sei regioni: oltre al Molise, alla

Puglia e all’Abruzzo ci sono anche

Lazio, Basilicata e Campania e fra poco

si unirà la Sardegna, e hanno fatto

richiesta dal Nord sia il Veneto che il

Piemonte. A livello europeo sono

presenti Austria e Grecia, oltre alle

richieste giunte da Spagna, Francia,

Bulgaria, Romania e Albania, e nel

Nord Europa Norvegia e Svezia, per

ampliare la candidatura.


I C T .198 A 2020

P

er prevenire il contagio e limitare il

rischio di diffusione del nuovo coronavirus

è fondamentale la collaborazione

e l’impegno di tutti a osservare alcune

norme igieniche. Nel Dpcm pubblicato in

Gazzetta ufficiale il 4 marzo è chiesto a

scuole, università e uffici pubblici di

esporre le seguenti misure di prevenzione

igienico sanitarie, e ai sindaci e alle associazioni

di categoria di promuoverne la

diffusione anche negli esercizi commerciali

(dalle farmacie ai supermercati).

Le raccomandazioni.

- Lavarsi spesso le mani. Si raccomanda di

mettere a disposizione in tutti i locali

pubblici, palestre, supermercati, farmacie

e altri luoghi di aggregazione, soluzioni

idroalcoliche per il lavaggio delle mani.

- Evitare il contatto ravvicinato con persone

che soffrono di infezioni respiratorie

acute.

- Evitare abbracci e strette di mano.

- Mantenimento, nei contatti sociali, di

una distanza interpersonale di almeno un

metro.

- Igiene respiratoria (starnutire e/o tossire

in un fazzoletto evitando il contatto delle

mani con le secrezioni respiratorie).

- Evitare l'uso promiscuo di bottiglie e bicchieri,

in particolare durante l'attività

sportiva.

- Non toccarsi occhi, naso e bocca con le

SALUTE E BENESSERE

C-19

M S

mani.

- Coprirsi bocca e naso se si starnutisce o

tossisce.

- Non prendere farmaci antivirali e antibiotici,

a meno che siano prescritti dal

medico.

- Pulire le superfici con disinfettanti a base

di cloro o alcol.

- Usare la mascherina solo se si sospetta

di essere malati o se si presta assistenza a

persone malate.

Perché le raccomandazioni di distanziamento.

L'Istituto superiore di sanità (Iss) sottolinea

che queste misure di distanziamento

sociale "hanno lo scopo di evitare una

grande ondata epidemica, con un picco di

casi concentrata in un breve periodo di

tempo iniziale che è lo scenario peggiore

durante un'epidemia per la sua difficoltà

di gestione". "Nel caso del coronavirus -

spiega l'Iss - dobbiamo tenere conto, inoltre,

che l'Italia ha una popolazione anziana,

peraltro molto più anziana di quella

cinese, e bisogna proteggerla il più possibile

da contagi. Le misure indicate dalle

autorità quindi vanno seguite nella loro

totalità".

Consultare per aggiornamenti il primo

piano dell'Istituto superiore di sanità:

https://www.iss.it/web/guest/primo-piano/-/

asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/

id/5284618


SALUTE E BENESSERE

C-19

M S

A ’A

I C T .198 A 2020

L

’attuale diffusione del Covid-19 è il risultato

della trasmissione da uomo a

uomo. Ad oggi, non ci sono prove che gli

animali da compagnia possano diffondere

il virus. Pertanto, non vi è alcuna giustificazione

nell’adottare misure contro gli animali

da compagnia che possano comprometterne

il benessere. Tuttavia, dal momento

che gli animali e l’uomo possono

talvolta condividere alcune malattie (note

come malattie zoonotiche), è necessario

sempre e non solo per il timore del Covid-

19, che vengano adottate sempre le normali

misure igieniche raccomandate da

medici e veterinari per evitare la diffusione

delle malattie.

Il Ministero della Salute, in accordo con

quanto espresso da autorevoli Organismi

internazionali, raccomanda il rispetto delle

più elementari norme igieniche quali lavarsi

le mani prima e dopo essere stati a

contatto o aver toccato gli animali, il loro

cibo o le provviste, evitare di baciarli, farsi

leccare o condividere il cibo. Al ritorno

dalla passeggiata, pulire sempre le zampe

evitando prodotti aggressivi e quelli a base

alcolica che possono indurre fenomeni

irritativi. Piccoli accorgimenti che ci permettono

di ridurre al minimo il rischio di

introdurre in casa, al termine di una passeggiata,

patogeni che potrebbero diffondersi

negli spazi comuni. Nelle abitazioni

in cui ci sono soggetti affetti o sottoposti

a cure mediche per Covid-19 si devono evitare,

per quanto possibile, i contatti ravvicinati

con i propri animali così come si fa

per gli altri conviventi e fare in modo che

se ne occupi un altro familiare.

La presenza di un animale in casa può considerarsi

una grande opportunità per tutta

la famiglia, sia da un punto di vista educativo

che sociale.

Grandi e piccini possono trarne benefici,

soprattutto in questo momento di disagio

e difficoltà. L’interazione con gli animali è

fonte di arricchimento interiore, di stimoli

sensoriali ed emozionali; in particolare il

rapporto con il cane è fondato sulla fiducia

e sul rispetto reciproco e contribuisce

a migliorare la qualità della vita che purtroppo

in questi giorni ha subito un cambiamento

repentino.

Il contatto con un animale accresce la disponibilità

relazionale e comunicativa,

contribuendo, attraverso la cura e le attenzioni

verso l’animale, a sviluppare un

impatto positivo sull’umore, riducendo la

solitudine, stati d’ansia e depressione.

Pertanto, è doveroso sottolineare che abbandonare

un animale che abbiamo scelto

come componente della famiglia non è

solo un gesto ignobile e deprecabile ma è

anche un reato sancito dal codice penale

(art. 727 c.p.).


I C T .198 A 2020

Frittelle di cavoliore senza uova

Torta alle pere

CUCINA

Ingredienti (per 4 persone)

- Mezzo cavolfiore

- 4 cipolline a fettine

- Mezza tazza di formaggio parmigiano grattugiato

- 2 cucchiai di farina

- Un pizzico di lievito in polvere

- Sale e pepe q.b.

- Olio di semi per frittura

Procedimento

Pulite e lavate bene il cavolfiore, e poi fatelo

cuocere in abbondante acqua salata.

Fate raffreddare e poi trasferite il cavolfiore

in una terrina capiente.

Aggiungete anche le cipolline, il formaggio,

la farina e il lievito.

Mescolate bene fino a quando gli ingredienti

non risultino ben amalgamati e aggiustate di

sale e pepe.

Una volta ottenuto un composto della giusta

consistenza, fate riscaldare l’olio di semi in

una padella e poi, a poco a poco, prelevate

l’impasto con un cucchiaio e versatelo nell’olio.

Fate friggere fino a quando le frittelle di cavolfiore

risulteranno dorate e poi adagiatele

su un foglio di carta da cucina. Servitele in

tavola ben calde.

Ingredienti

- 2 uova;

- 200 gr. farina 00;

- 80 gr. zucchero (va bene anche quello di canna);

- 2 pere kaiser mature e compatte;

- 1 bustina di lievito per dolci;

- 50 gr. di yogurt bianco (anche di soya);

- un pizzico di sale e di cannella.

Procedimento

In una terrina rompere le uova, aggiungere lo

zucchero e mescolare bene con una forchetta.

Aggiungere la farina gradualmente e mescolare

l’impasto con un cucchiaio per renderlo bello

omogeneo. Se è troppo pastoso versare un

goccio di latte. Potrete aggiungere lo yogurt

(la ricetta prevederebbe burro fuso ma lo yogurt

è decisamente più light), il sale, una spolverata

di cannella e il lievito. Mescolate per

bene finché l’impasto sarà privo di grumi. Aggiungete

poi le due pere tagliate a fette grossolane

e messo da parte in una ciotola. Per insaporirle,

spremervi del limone e lasciarle un

po’ macerare. Inseritele delicatamente nell’impasto

e mescolate. Imburrate una teglia e versateci

l’impatto in modo uniforme. Infornare

per 35 minuti a 180 °C e prima di togliere dal

forno fate la prova dello stuzzicadenti. Fate

raffreddare e servite, se preferite con una

spolverata di zucchero a velo.


I C T .198 A 2020

P

C

PASSATEMPO

Orizzontali

1. Il monte più alto della terra - 7. Percorso di pratica - 11. Il nome di

Banfi - 12. Monasteri - 14. Andato poetico - 15. Tra indice e anulare -

16. Pubblica Sicurezza - 17. Targa di Taranto - 18. Uno dei sette colli

di Roma - 19. Nipote di Abramo - 20. Confeziona abiti su misura - 21.

Taluni sono di coccio - 22. Nome di donna - 23. Membrana che divide

una cavità dall'altra - 24. Carnivori con folta e lunga coda - 25.

Senza vita - 26. Gioco d'azzardo - 27. C'è quella canina - 29. Appello

disperato - 30. Si subiscono ingiustamente - 31. Le prime dell'alfabeto

- 32. Ancona - 33. Contenta, felice - 34. Struzzo australiano - 35.

Aiuto, rimedio - 37. Il dio Marte in Grecia - 38. Animale che se la ride

- 39. Pezzi di legno che ardono.

Verticali

1. La crema della crema - 2. La misura la sarta - 3. Vino nei prefissi - 4.

Lettera dell'alfabeto greco - 5. Preferita ed eletta - 6. Noia - 7. Andato

- 8. Torino - 9. Messo alla vista di tutti - 10. Recalcitrante - 13. Piccolo

fiumiciattolo - 15. Sulle torri delle fortezze antiche - 18. - Pesce

d'acqua dolce - 19. L'alimento principale dei neonati - 20. La città di

un San Francesco - 21. Pezzi di poesia - 22. Possedimenti all'estero di

uno Stato sovrano - 23. Un momento di riposo - 24. Il Giorgio autore

della prima storia dell'arte - 25. Bocche da fuoco di grosso calibro -

27. Tramezzino... esotico - 28. Illeciti - 30. Segue il bis - 31. Vale così

sia - 33. Galleggiante acquatico - 34. Fu amata da Leandro - 36. Sana

senza eguali - 37. La prima e l'ultima dell'alfabeto.

S C

197

Rispettando le cifre inserite, completate il riquadro

così che in ogni riga, colonna e quadrato risultino

tutte le cifre da 1 a 9.



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