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N°
198
[Nuova Serie] 1128 - 1131 [2121-2126]
Anno LXIV
A V V I S O A I L E T T O R I
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I C T .198 A 2020
SOMMARIO
In questo numero
Collettività 5-13
- L’Ambasciatore italiano Fanara
primo diplomatico ad incontrare il
neo Ministro Erray.
- Tunisia, l’Italiano in continuo movimento.
I consigli dell’avvocato 14-15
- Covid-19, nuova minaccia per l’economia
tunisina.
In Tunisia 16
- Operaie e operai tunisini volontariamente
confinati in fabbrica per
produrre mascherine.
In Italia 17-19
- Riflessione virale.
Dossier 20-33
- Il contagio ieri e oggi. Intervista a
Salvatore Speziale.
Cultura 34-45
- Non possiamo uscire di casa ma
viaggiare con la memoria ci è permesso.
Una delle ultime “ore d’aria”
a Roma è stata una passeggiata
al Velabro.
- Mostre a Roma.
Musica e spettacolo 46-50
- Cronaca musicale. Concerto sinfonico
di sabato 7 marzo 2019.
Marginalia 51-54
- Strategie ed amuleti contro il nemico.
Sovraffollamento e peste al
tempo di Pericle.
Ambiente e turismo 55-58
- Aumento del livello marino. Al via
la seconda fase del progetto europeo
SAVEMEDCOASTS.
- Transumanza, patrimonio culturale
immateriale dell’Umanità.
Salute e benessere 59-60
- Covid-19. Le raccomandazioni di
igiene del Ministero della Salute
contro il virus.
- Covid-19. Le raccomandazioni di
igiene del Ministero della Salute
sugli animali d’affezione.
Cucina 61
Passatempo 62
EDITORIALE
a cura di Silvia Finzi
Solo quando il confine del mondo è la nostra casa, realizziamo quanto
sia importante il poter andare oltre in un altrove che diventa meta
vicina e seppur lontana per sperare in un domani migliore!
Chissà se questo virus ci permetterà di cambiare il nostro approccio
alla vita, al mondo, ai nostri rapporti con gli altri o se, per tutti coloro
che ce la faranno, tutto riprenderà come prima col treno della nostra
indifferenza, con il desiderio sfrenato di offendere, sminuire, distruggere,
odiare, dominare!
Chissà se come nel Medioevo avremo bisogno di trovare capri espiatori
per alleviare la nostra esistenziale paura della morte!
Chissà se realizzeremo quanto la cosa pubblica sia importante e se i
Governi del mondo futuro penseranno che sanità e ricerca siano priorità
assolute nel budget di uno Stato e se il diritto alla sanità diventerà
uno dei diritti fondamentali ed imprescindibili dell’Uomo.
Si dice che questo coronavirus non guardi in faccia nessuno e che tutti
siano eguali e fratelli nel contagio ma di fatto non siamo eguali e
fratelli nell’affrontare e combattere il nostro isolamento, nella nostra
possibilità di resistere finanziariamente a questa quotidianità senza
lavoro specie per chi lo ha perso (e chissà se e quando lo ritroverà) o
per chi vive alla giornata, senza nessun tipo di tutela sociale ed economica.
Sì, gli Stati stanno cercando di dare risposte ma dopo pochi
giorni di confinamento gli Stati Uniti hanno già dieci milioni di richieste
di sussidio di disoccupazione; in Italia 100 richieste di sussidi al
secondo sul sito dell’INPS per ottenere il bonus di 600 euro, con un
sistema informatico che dopo poche ore è andato in tilt. E in Tunisia,
le misure decise dal governo con 200 dt alle famiglie non abbienti
basteranno a sfamare chi non ha uno stipendio fisso, con il rischio
elevato di disordini sociali? E non parliamo di Paesi come l’India dove
le immagini di esodo “biblico” dalle città sono apocalittiche o dei
senza tetto parcheggiati in spazi riservati alle macchine o dei campi
profughi dove c’è impossibilità di confinamento e nessuna protezione
sanitaria laddove il rischio di contagio è decuplicato.
In questi momenti dolorosi e da non dimenticare domani, quando le
cose (speriamo presto) ritorneranno alla normalità, l’idea di giustizia,
umanità e fratellanza dovrebbero guidare i nostri passi. La nostra intrinseca
vulnerabilità dovrebbe farci prendere coscienza della vulnerabilità
del mondo, dei suoi abitanti, di come un semplice virus sia
capace di trasformare il mondo, noi stessi, e gli altri! Ricordiamocelo
domani, quando la normalità tenterà di cancellare, che non ci si può
salvare se non adottiamo misure unitarie e congiunte! Ricordiamoci
che girare le spalle agli altri non ci protegge anzi ci espone molto, che
ogni giorno superato è una vittoria, che vivere è la priorità di tutti,
che la nostra irrimediabile finitudine è il senso profondo della nostra
esistenza. Che rieccheggi nella nostra coscienza questa frase di Tolstoj
una volta riconquistato il nostro domani: “Siedo sulla schiena di
un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di
convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto
il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile.
Tranne che scendere dalla sua schiena.”
Infine, essendo impossibilitati a pubblicare il giornale in versione cartacea
a causa della quarantena istituita anche in Tunisia e quindi con
la chiusura temporanea della tipografia, pubblicheremo il giornale in
formato digitale sul sito http://www.ilcorriereditunisi.it/ e sulla nostra
pagina Facebook (Il Corriere di Tunisi). Ringrazio tutti coloro che hanno
collaborato a questo numero, il primo in versione digitale, proprio
quando il giornale compie i suoi 64 anni di pubblicazione ininterrotta.
Un ringraziamento particolare va a Cinzia, Marco e Mino che hanno
reso possibile questo numero che sino all’ultimo era rimasto in forse!
Mensile
Creato a Tunisi nel marzo 1956
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Politica/Economia:
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Maghreb e Mediterraneo:
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Marginalia:
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Numeri arretrati: il doppio
A
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Perché il Mediterraneo continua ad essere il protagonista
Indiscusso della storia e dell’economia
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ra i principali temi al centro
dell'incontro dell’11 marzo scorso
tra l'ambasciatore d'Italia in Tunisia,
Lorenzo Fanara e il nuovo Ministro
tunisino degli Affari Esteri, Noureddine
Erray, la cooperazione bilaterale,
la sicurezza regionale, il rilancio
degli investimenti ed il contenimento
del coronavirus. Un comunicato
del Ministero degli Esteri tunisino
ha precisato che per Erray si tratta
del primo colloquio con un ambasciatore
straniero in Tunisia. Questa
è stata l'occasione per passare in rassegna
i diversi aspetti di cooperazione
tra i due Paesi, i rapporti bilaterali
e quelli nel quadro delle istituzioni
europee, nonché per fare il punto sui
preparativi dei prossimi appuntamenti,
in particolare in previsione di
una visita in Tunisia del Ministro degli
Affari Esteri italiano Luigi Di Maio.
L'incontro è stato, inoltre, l'occasione
per discutere delle misure adottate
dai rispettivi governi per contenere
l'espansione del coronavirus. A tal
riguardo, è stata ribadita l'importanza
di promuovere il coordinamento e
la collaborazione tra le autorità tunisine
e quelle italiane nella lotta contro
questo virus, facendo leva sulle
eccellenti relazioni tra i due Paesi. Il
Ministro Erray ha inteso esprimere la
L’A L F ( )
E M N E ( )
solidarietà da parte dei tunisini nei
confronti del popolo italiano di fronte
all'espansione del coronavirus e
ribadito la fiducia della Tunisia nella
capacità del Governo italiano di sconfiggere
tale flagello. Da parte sua,
l'Ambasciatore Fanara si è felicitato
per l'eccellente livello delle relazioni
bilaterali e di amicizia tra Italia e Tunisia,
rinnovando gli auguri italiani al
nuovo Governo tunisino ed ha ricordato
che l'Italia continuerà a sostenere
la Tunisia nelle sue sfide economiche
e di sicurezza. Durante l'incontro
vi è stata anche l'occasione per
discutere di diversi temi, regionali ed
internazionali, di interesse comune,
tra essi particolare attenzione è stata
data all’attuale situazione della vicina
Libia.
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C’
T
’I
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ederico Fellini disse che
“una lingua diversa è una
diversa visione della vita”, in
effetti, ogni lingua codifica la
parte di mondo che conosce,
dunque, divulgare tale lingua
significa anche non perdere
le possibili chiavi di lettura e
di informazione sul mondo
che questa ci può offrire.
Ogni lingua è un veicolo di
rapporti sociali, di arte, di diplomazia,
di affari, di identità;
è uno dei più incisivi strumenti
per preservare e sviluppare
il nostro patrimonio materiale
e immateriale. In quest’ottica,
dunque, si può comprendere
facilmente come ogni
iniziativa, volta a promuovere
la diffusione di una lingua, sia
utile non solo per incoraggiare
la diversità linguistica e
l’educazione multilinguistica,
ma anche per sviluppare una più piena
consapevolezza delle tradizioni
linguistiche e culturali di ogni popolo
e, altresì, per ispirare la solidarietà
basata sulla comprensione, la tolleranza
e il dialogo.
È proprio ispirandosi a questo punto
di vista, coniugato a un grande amore
per la lingua italiana e al desiderio
di preservarla, promuoverla e mantenerla
viva in Tunisia, che Hamadi
Agrebi, Ispettore Generale e formatore
di docenti tunisini di lingua italiana
del Ministero dell’Educazione
tunisino, ha ideato e dato vita a un
Festival teatrale in lingua italiana a
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C’
Tunisi; una rassegna teatrale rivolta
ai giovani tunisini di alcuni licei che
studiano la lingua italiana e, quest’anno,
giunta alla sua ottava edizione.
Questa iniziativa, come ci racconta
Hamadi Agrebi, nasce, inizialmente,
come la “Giornata della Lingua italiana”
per i docenti e gli studenti italianisti
dei licei di Tunisi e, solo in un secondo
momento, prende vita la Rassegna
teatrale, della durata di tre
giorni, nell’ambito della quale alcuni
liceali tunisini italianisti salgono sul
palcoscenico, utilizzando le loro conoscenze
linguistiche e culturali, per
mettere in scena una pièce teatrale.
Durante queste tre giornate, inoltre,
vengono organizzati alcuni laboratori
e spettacoli di danza e di musica,
quest’anno, ad esempio, è stato portato
in scena un balletto con la coreografia
di Khoubeib Jellouli, un
concerto con gli studenti di violino di
Mohamed Anis Dhaouadi e un duetto
della professoressa di canto Zeineb
Oueslati, accompagnata dalla
sua studentessa Syrine.
L’Ispettore Generale ogni anno propone
un diverso tema e i ragazzi,
sotto la guida dei loro docenti di lingua
italiana, e sotto la costante e
preziosa supervisione di Monsieur
Agrebi, scrivono il testo teatrale, lo
portano in scena, non solo recitando,
ma occupandosi di ogni aspetto
relativo alla messa in scena, dai costumi
alla scenografia, dalle luci alla
sonorizzazione.
Grazie a questa Rassegna, gli studenti
non solo apprendono meglio la lingua
italiana, ma comprendono la cultura
di questo Paese, poiché ogni lingua
ha il suo modo di vedere il mondo
ed è il prodotto della propria particolare
storia; diffondere l’italiano
diviene, dunque, un modo anche per
comprendere la cultura dell’altro e
per superare le differenze culturali.
La forza di questo progetto, così come
di altri, quali “Le pietre raccontano
e gli allievi imparano”, grazie al
quale viene promosso l’approccio alla
lingua italiana attraverso l’archeologia,
o il “Dantedì” che l’Ispettore
Generale, con la sua passione, il suo
impegno e la sua dedizione, in questi
anni, ha ideato e portato avanti, è
stata quella di far conoscere la lingua
italiana agli studenti del liceo, di preservarla
e di mantenerla viva in Tunisia.
Il tema proposto per l’ottava edizio-
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C’
ne, che è stata ospitata presso il Centre
Culturel scolaire Mahmoud Messaidi,
agli studenti dei licei secondari,
insieme ai loro docenti tunisini di lingua
italiana, (Delegazioni di Tunisi1,
Mannouba e BenArous), è stato il
“Pentamerone”, conosciuto anche
con il titolo di “Lo cunto de li cunti”,
una raccolta di cinquanta fiabe in lingua
napoletana, scritte nel ‘600 da
Giambattista Basile. Gli studenti, durante
i laboratori teatrali tenuti dai
loro docenti di italiano, hanno scritto
delle pièces in cui si fondeva la musica,
la danza e la recitazione; prendendo
spunto dalle novelle di Basile,
hanno scoperto, e fatto riscoprire,
una parte della cultura e della letteratura
italiana che, nei secoli, ha avuto
un forte impatto letterario, ispirando
una parte della produzione letteraria
del Nord Europa.
In Tunisia l’italiano è una delle molte
lingue opzionali che gli studenti possono
scegliere di studiare durante gli
ultimi tre anni di liceo, vi è una vera e
propria concorrenza tra lingue, dunque,
è necessaria una corretta politica
linguistica, anche creando progetti
pedagogici e culturali che possano
attrarre i giovani e portarli a scegliere
questa lingua piuttosto che un’altra.
D’altra parte vi è una presenza rilevante
di persone che parlano l’italiano
in Tunisia, sia per motivi storici,
non bisogna, infatti, dimenticare l’emigrazione
italiana che vi è stata sin
dall’Ottocento in questo Paese, basti
pensare che un quartiere di Tunisi, La
Goulette, viene, ancora oggi, comunemente
chiamato la Petite Sicile, sia
da un punto di vista sociologico, ovvero
per la presenza della Rai in Tunisia
dagli Anni ‘60. In seguito a un accordo,
in vista dei Giochi Olimpici del
1960, tra la RAI e il Segretario di Stato
all’Informazione tunisina, infatti,
venne installato un ripetitore che
consentiva la visione di Rai1 in Tunisia;
Rai1 divenne, in questo modo, la
prima rete televisiva seguita in questo
Paese, assumendo così una vera
e propria funzione educativa.
Amal El Khazen, una studentessa del
liceo Med Arbi Chammeri Wardia che
ha partecipato alla Rassegna teatrale
con la Professoressa d'italiano Jihen
Trabelsi e la Professoressa di teologia
Amal Akremi, ha affermato, appunto,
di essersi avvicinata alla lingua
italiana poiché da bambina il
nonno le faceva vedere i programmi
di Rai1. Al liceo ha scelto, pertanto, di
entrare nel club d’italiano e nel laboratorio
teatrale in lingua italiana, grazie
al quale ha recuperato le sue conoscenze
della lingua, arricchendole
e apprendendo non solo la grammatica,
ma anche la storia e la letteratura
del nostro Paese.
L’italiano è la lingua dell’arte, della
letteratura, della lirica, tuttavia oggi
non è più possibile attrarre i giovani
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puntando solo sugli aspetti culturali
e sulla musicalità di una lingua, pur
restando uno dei motivi per cui scelgono
di divenire italianisti, è necessario,
al contrario, far comprendere loro
che è una lingua viva e funzionale,
che può favorire l’accesso ad alcuni
settori di eccellenza della vita economica
e culturale.
Hamadi Agrebi ci ricorda che bisogna
tenere presente che i giovani scelgono
di studiare una lingua piuttosto
che un’altra anche per la sua spendibilità,
dunque, è importante che
comprendano che la lingua italiana
non è solo sinonimo di arte e bellezza,
ma che è anche una lingua attiva,
indispensabile per rapporti commerciali
e che può essere un veicolo di
politica economica ed estera e un
mezzo di inserimento professionale.
L’Ispettore Hamadi Agrebi, il quale è
stato invitato e ha preso parte, nel
2014 e nel 2016, agli “Stati Generali
della Lingua Italiana nel Mondo”,
afferma, inoltre, che, ora, è
C’
“necessario attirare l’attenzione dei
giovani, farli innamorare e affezionare
alla lingua e alla cultura italiana,
preservando la presenza dell’italiano
in Tunisia”. Gli “Stati Generali della
lingua italiana nel mondo”, che si sono
svolti per la prima volta nel 2014,
sono stati, in effetti, creati per fare il
punto sulla situazione presente e definire
le strategie future per la diffusione
della lingua italiana a livello
globale. Una corretta politica linguistica
deve, necessariamente, tutelare
l’italiano nell’ambito del multilinguismo
globale, inserendo lo sviluppo
linguistico nel quadro di una politica
coerente e lungimirante; la diffusione
della lingua italiana è tuttora
affidata, in primo luogo, alle comunità
di origine italiana all’estero, comunità
che tramandano non solo l’idioma,
ma anche la tradizione, la cultura,
le abitudini e gli stili di vita del
Paese di origine. È importante mantenere
e preservare la madrelingua,
anche per il ruolo di identità e di collegamento
che una lingua permette.
La lingua è, inoltre, anche il primo
strumento di integrazione per coloro
che scelgono di emigrare in Italia; infine,
la diffusione e promozione della
lingua italiana viene intesa come
strumento di cultura in tutto il mondo.
Quest’ultimo aspetto permette
di diffondere la lingua, rilanciando
anche rapporti con Paesi lontani,
dunque, la domanda di conoscenza
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dell’italiano assume un significato e
un’importanza strategica anche a livello
politico ed economico e bisogna
considerare l’interesse che l’italiano
suscita nel mondo come un’opportunità
straordinaria da non sprecare.
Il ruolo della politica linguistica, negli
anni, si è evoluto, passando dalla sola
promozione della lingua a favore
delle comunità di emigrati italiani
all’estero, alla sua diffusione, prima
attraverso la cultura, la musica, l’arte,
la letteratura in Paesi stranieri,
anche grazie al lavoro degli Istituti di
Cultura Italiani nel mondo e dei Centri
Culturali, poi con un’azione di
diffusione nelle scuole e nelle Università
all’estero, sino a un ruolo
“economico” della lingua italiana,
grazie ai rapporti commerciali, politici,
economici e alle molte imprese
italiane presenti all’estero. Si può dire,
dunque, che la lingua sia uno strumento
di integrazione che offre la
possibilità di accedere al mondo globalizzato.
Gli allievi, anche in Tunisia, scelgono
di studiare l’italiano poiché è la lingua
dell’arte, ma altresì perché viene
mostrata anche come “lingua dell’economia”;
si parla italiano non solo
nel cinema, nella letteratura, nella lirica,
basti pensare che Mozart, in
molte opere, usa libretti in lingua italiana
e che molte opere di Händel sono
in italiano, ma anche nella moda,
C’
nella cucina e in altri settori legati al
commercio. Gli studenti possono così
apprezzarla come un mezzo di inserimento
professionale e, in tal modo,
lo studio della lingua italiana diviene
uno strumento per attrarre
giovani talenti.
La Presidente di Commissione della
giuria della Rassegna teatrale di quest’anno,
Cristina Vergna, ha, in effetti,
posto l’accento sul talento e le incredibili
capacità di questi giovani liceali
tunisini, espressione del futuro
della Tunisia, e sull’importanza di
progetti come questo per avvicinare
e permettere, ai due Paesi, di comunicare,
ma anche perché fanno sì che
questi ragazzi possano conoscere e
apprendere ad amare non solo la lingua,
ma anche la cultura italiana, imparando
a sentirla e a riconoscerla
come parte della loro cultura, divenendo,
in tal modo, italianisti e italofili.
Walid Khalfallah, uno degli studenti
del Liceo Borj Cedria, vincitore del
primo premio per la migliore pièce
teatrale messa in scena con la professoressa
Ines Bel Hadj, aiutata dal
professor Riadh Hableni, ha affermato
che “ha scelto di studiare la lingua
italiana per la sua musicalità, ma anche
per la vicinanza geografica e i
lògos comuni”, riconoscendo, dunque,
nei due Paesi, un’affinità culturale
e una comune appartenenza al
Bacino del Mediterraneo.
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La promozione di una lingua, oggi,
deve adattarsi alle nuove realtà e alla
principale preoccupazione dei giovani,
ovvero la ricerca del lavoro e, dunque,
deve divenire uno strumento
utile a un possibile inserimento professionale;
per questa ragione la politica
linguistica deve, necessariamente,
modificare strategie e mezzi per
attrarre nuovi italianisti. Hamadi
Agrebi è riuscito, grazie all’ideazione
e alla messa in atto di progetti interessanti
e in grado di attrarre i giovani,
a coniugare la cultura e una visione
utile della scelta di una lingua. Nei
licei che hanno abbracciato questi
progetti, infatti, si può riscontrare un
più alto numero di studenti che scelgono
la lingua italiana rispetto alle
altre lingue opzionali. Quella in atto è
una vera e propria concorrenza tra
lingue, dunque, bisogna essere capaci
di appassionare i giovani, di farli innamorare
di una lingua e di una cultura,
ma anche di motivarli e di far sì
C’
che gli studenti siano contenti della
scelta che hanno fatto e che proseguano
nell’apprendimento di tale lingua,
di qui l’importanza di realizzare
questi progetti con i ragazzi del liceo,
così che possano proseguire gli
studi, successivamente, all’Università.
Monsieur Agrebi e la Presidente
di Commissione, Cristina Vergna,
hanno, appunto, messo in rilievo come
ragazzi così giovani abbiano ancora
un entusiasmo, una passione e
un’apertura mentale senza preconcetti,
che, in un momento successivo,
sarà inevitabilmente già condizionata
e, dunque, della necessità di tenere
vivi tali progetti, anche in uno
spirito di collaborazione e sinergia
tra Istituzioni.
Quest’anno, inoltre, le Giornate teatrali
in lingua italiana si sono ulteriormente
arricchite grazie alla collaborazione
con il Centre Culturel International
e grazie al suo direttore
Omar Ferraro, il quale ha organizzato
alcuni laboratori durante i tre giorni
di Festival; questi ateliers di formazione
in arti figurative, musica, danza
e sonorizzazione, messi a disposizione
per i docenti di italiano, e alcuni
aperti anche agli studenti, hanno valorizzato
ancora di più questo progetto,
apportando notevoli competenze
tecniche ai partecipanti. I laboratori
teatrali sono, infatti, tenuti, nei
licei, dai professori di italiano, i quali
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C’
si occupano, con i ragazzi, non solo
del testo teatrale, ma anche della recitazione
e di tutti gli aspetti legati
alla messa in scena di una pièce, costumi,
luci, sonorizzazione… dunque,
attraverso questi laboratori
hanno potuto apprendere alcuni
aspetti tecnici legati all’arte drammatica.
Il laboratorio di iniziazione al disegno
e al ritratto, tenuto dal professor
Salmen Alaya Sghaier, è stato
realizzato affinché i docenti possano
utilizzare il disegno nell’insegnamento
della lingua, mentre grazie alla
formazione in tecniche vocali e in sonorizzazione
del professor Sami Oueslati,
hanno potuto apprendere come
effettuare la presa del suono e in
che modo modulare, padroneggiare
e gestire la voce, sfruttandola al meglio,
anche in funzione dello spazio in
cui si sta recitando.
I docenti, grazie a questi laboratori e
alla prospettiva della rassegna teatrale,
sono riusciti a coinvolgere e a
incoraggiare gli allievi a scegliere la
lingua italiana, così come ci spiega
Ines Bel Hadj, “il metodo ludico ha
fatto sentire i ragazzi protagonisti
dell’apprendimento, facendo sì che
acquisissero una maggiore fiducia in
se stessi, scoprendo al contempo il
fascino del teatro”. La professoressa
Bel Hadj è anche l’insegnante di Amir
Barhoun, vincitore, per due anni consecutivi,
del premio come miglior attore,
ragazzo di grande talento che
ha espresso profonda riconoscenza
nei confronti della sua professoressa
per avergli fatto comprendere, grazie
al laboratorio e a questa lingua,
chi è e quali sono le sue capacità.
Imen Rezgui, studentessa del liceo
Med Arbi Chammeri Wardia, ha spiegato
come abbia “scoperto un altro
mondo e altri modi per imparare l’italiano”;
questa ragazza timida e introversa,
che non avrebbe mai pensato
di avere alcuna capacità nella recitazione,
quest’anno ha vinto il premio
come miglior attrice e ha affermato
come il laboratorio teatrale, e
una professoressa che ha creduto in
lei e nelle sue capacità, l’abbiano
cambiata profondamente, “mi ha
fatto uscire dal mondo in cui mi ero
rinchiusa, migliorando il mio rapporto
con lo studio, con me stessa e con
i compagni”. Questo sano spirito
competitivo e di comunicazione è
stato messo in rilievo da un’altra studentessa,
Saba Ben Farhat, la quale
ha voluto porre l’accento sull’energia
e lo scambio positivo che si è venuto
a creare tra gli studenti dei diversi licei
durante le tre giornate del Festival,
e da Oumaima El Khazen, la quale
ha fatto notare come, grazie al
teatro, abbiano appreso molto più
facilmente, e in modo approfondito,
la lingua, acquisendo la capacità di
mettersi in gioco e di ascoltare, un
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C’
aspetto, decisamente da non sottovalutare,
da insegnare e da far comprendere
a ragazzi così giovani, che
rappresentano il futuro di un Paese.
Una lingua permette di essere competitivi
e conosciuti anche a livello
culturale ed economico, è importante
per questo valorizzare e far conoscere
progetti, quali la Rassegna teatrale,
che hanno il valore aggiunto di
essere nati in un Paese straniero,
ideati e organizzati da tunisini per tunisini,
ma in un clima di partecipazione,
comunicazione e accoglienza.
La promozione, attraverso l’insegnamento
della lingua, necessita di una
sinergia tra istituzioni, siano essi pubblici
o privati, nazionali o esteri; d’altra
parte, per essere competitivi ed
efficaci, è necessario anche sfruttare
la diffusione dell’italiano.
Studiare e imparare una lingua è un
primo grande passo per preservarla
e rafforzarla e deve essere vista, e
vissuta, come un patrimonio da valorizzare;
l’italiano resta per molti una
lingua di cultura, di arte, di turismo,
di emigrazione, ma è anche una risorsa
per il Paese, economica, oltre che
culturale e identitaria.
“La lingua italiana”, ha affermato Hamadi
Agrebi, “può essere una chiave
per il mondo” e progetti come questo
un aiuto per molti giovani; tuttavia
credo che le parole più incisive,
per spiegare il significato della rassegna
teatrale, siano dello studente
Walid Khalfallah, “Sans le théâtre italien,
j’aurais été un passant sans objectifs,
maintenant j’ai des rêves que
je cherche à réaliser”.
Diletta D’Ascia
Articolo tratto da
«Dialoghi Mediterranei»
n.42, marzo 2020
Periodico bimestrale
dell’Istituto Euroarabo
di Mazara del Vallo
www.istitutoeuroarabo.it
marzo 2020
I C T .198 A 2020
CONSIGLI LEGALI
COVID-19
N ’
I
affrontando
un problema
l mondo si sta dirigendo verso una
grave crisi economica a causa della
diffusione del nuovo coronavirus
(COVID-19). Questa pandemia, che
sta causando il caos in tutto il pianeta,
avrà incalcolabili ripercussioni,
poiché l'economia tunisina non può
sopravvivere senza il supporto
dell'Europa. Di fatti secondo il Prof.
Lamari dell’Università del Quebec in
Canada la recessione economica derivante
dall'attuale crisi sanitaria sarà
senza dubbio a doppia cifra, fino a
una perdita del 15% della ricchezza
nazionale (PIL).
Non c’è dubbio nel dire che la diffusione
del virus abbia peggiorato la
situazione in Tunisia, nonostante il
nuovo governo presieduto da Elyes
Fakhfakh abbia adottato misure importanti
per combattere il coronavirus;
Il 2020 sarebbe dovuto essere
l'anno del decollo economico in termini
di crescita e di attrazione degli
investimenti interni ed esterni, a seguito
della nomina del nuovo capo
del governo, ma purtroppo la situazione
sanitaria in Tunisia è critica e
porterà quindi a una diminuzione del
ritmo delle attività finanziarie ed
economiche.
La Tunisia non è certo la sola a soffrire
di questa crisi. Effettivamente, il
mercato europeo sta a sua volta
in termini di
fornitura di
materie prime
a causa
della sospensione
degli
scambi con la
Cina per più
D. G N
di due mesi. La Cina è l’epicentro
economico, in quanto fornisce circa
il 30% delle esigenze industriali del
mondo, che rappresenta il 70% per
alcuni paesi.
Questa grave crisi ha già avuto ripercussione
in materia di lavoro a seguito
della chiusura di diverse fabbriche
e alcune aziende sono state forzate
a ridurre la forza lavoro. La cultura
dello smart working non è estremamente
diffusa e risulta impraticabile
nella maggior parte dei casi. Il Paese
non è infatti attrezzato per questa
tipologia lavorativa, sia per una bassa
connessione internet e poco diffusa,
sia per mancanza di strumenti domestici
quali computer personali
ecc., sia per una predilezione del cartaceo
in tutte le amministrazioni e
nel settore giustizia. Anche i settori
del turismo e della ristorazione
(settori vitali per l’economia tunisina)
sono stati presi di mira dal Coro-
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navirus e sono seriamente minacciati
a livello economico.
Molte controversie sorgeranno da
polizze assicurative commerciali, relative
all’interpretazione della copertura
offerta dalla polizza per perdite
subite a causa del coronavirus. Le
clausole di esclusione devono essere
attentamente esaminate per garantire
che possano essere effettivamente
attivate. In passato, le conseguenze
di altre pandemie hanno visto un
numero considerevole di controversie
relative all'interpretazione delle
polizze assicurative commerciali.
Il successo o il fallimento di un reclamo
nei confronti dell'assicuratore
può dipendere, non dalla polizza
stessa, ma dalla capacità del suo avvocato
di interpretare i termini della
polizza in base alla situazione causata
dal coronavirus. I chiarimenti del
governo tunisino e azioni successive
saranno anche un fattore nel determinare
se una clausola, come una
clausola di interruzione dell’attività,
possa essere attivata. Il fatto che il
coronavirus sia stato identificato come
una malattia da segnalare è utile,
ma sarà sufficiente per essere di reale
aiuto alle imprese?
Altresì è alto il rischio di contenziosi
internazionali e transfrontalieri tra
aziende italiane e tunisine, poiché
molte aziende non saranno state nella
possibilità di adempiere alle loro
obbligazioni nel produrre e conse-
CONSIGLI LEGALI
gnare la merce, così come numerose
altre avranno problemi di cash flow
e non saranno in grado di far fronte
ai pagamenti di dipendenti e fornitori.
Ad oggi non è possibile conoscere
per certo quando sarà possibile utilizzare
la “causa di forza maggiore”
per giustificare i propri inadempimenti,
poiché questo è verificabile
solo da caso a caso. L’unica cosa certa
è che ci sarà un effetto domino impietoso
su tutte le imprese, siano esse
tunisine siano italiane.
Il governo ha adottato una serie di
misure eccezionali ammontanti a 2,5
miliardi di dinari (800 Mln $) per proteggere
i tunisini e preservare l'economia
del Paese. Queste misure mirano
ad alleviare gli impatti della
pandemia COVID-19, il blocco generale
e il coprifuoco. Queste misure
sostanzialmente sono state cruciali
per preservare l’occupazione, garantire
reddito per lavoratori, dipendenti
e dipendenti pubblici e ridurre la
pressione fiscale.
Sarà praticamente impossibile prevedere
la fine della pandemia ed altrettanto
impossibile prevedere le perdite
economiche che potrà causare
all’economia mondiale e tunisina in
particolare. Non resta che attenersi
alle disposizioni dei governi e al rispetto
della quarantena.
Ce la faremo.
Dott. Ghassen Nouioui
Studio Giambrone SARL
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IN TUNISIA
O
Succede alla Consomed, una
fabbrica tunisina che produce
dispositivi sanitari di protezione,
dove i lavoratori hanno deciso
di mettersi in autoisolamento
sul luogo di lavoro, al
fine di continuare a produrre
mascherine e protezioni per gli
operatori sanitari in lotta contro
il coronavirus. "Siamo gli
unici a produrre per gli ospedali
tunisini: non possiamo correre
il rischio di contaminare la
fabbrica", spiega il direttore, Hamza Alouini,
all'Afp.
Consomed è stata avviata dieci anni fa da
suo padre e suo fratello vicino a Kairouan,
nella Tunisia centrale, in una zona prevalentemente
rurale e ora, la fabbrica è diventata
il principale sito di produzione nel
Paese e uno dei più importanti in Africa
per maschere, cappellini, tute sterili e altre
protezioni.
La Consomed in queste settimane è stata
messa a dura prova dal continuo aumento
degli ordinativi locali e dall'impegno sempre
maggiore nel rifornire gli ospedali di
tutto il Paese.
Per prevenire la contaminazione da coronavirus
e quindi qualsiasi interruzione della
produzione, Consomed ora opera pressoché
in isolamento: 110 donne e 40 uomini,
tra cui un medico, dei cuochi e lo stesso
direttore, lavorano, mangiano e dormono
in un magazzino di 5.000 metri quadrati.
Dei 240 dipendenti, pagati in media 800
dinari al mese (270 euro), sopra il salario
minimo, 150 hanno risposto alla chiamata.
Lavorano "su base volontaria", sottolinea
Alouini, gli altri hanno impegni o responsabilità
familiari che non consentono loro di
isolarsi. I veicoli che consegnano materie
prime o prodotti alimentari vengono disinfettati,
i loro autisti rimangono all'interno
con i finestrini chiusi e tutti gli oggetti sono
decontaminati, secondo i rigidi standard
richiesti dalle certificazioni internazionali
ottenute dalla fabbrica. La giornata
lavorativa inizia con l'inno nazionale. "Ci
dà l'impressione di essere dei soldati" al
servizio degli assistenti sanitari, afferma
Alouini. Quindi inizia la produzione: alle
solite otto ore di lavoro si aggiungono gli
straordinari pagati, anche in questo caso
"su base volontaria".
Per molti la giornata è lunga: dalle 10 alle
12 ore al giorno, grazie alle esenzioni concesse
dalle autorità. Un dormitorio per uomini,
diversi dormitori per donne a seconda
dei servizi, uno spazio per giocare a calcio,
carte e relax: tutto sembra essere stato
pianificato per poter durare un mese.
"Non possiamo fare di più", ammette
Alouini.
La società - che vende le sue maschere
presso la farmacia centrale a prezzi fissati
in anticipo - non avrà i soldi per continuare
questa costosa operazione. E continuare
questa quarantena potrebbe avere un impatto
anche sul morale dei dipendenti. La
Tunisia ha registrato sinora 227 casi di coronavirus,
inclusi sei decessi secondo il ministero
della Sanità.
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IN ITALIA
R
F B
“Mentre la peste si stava
recando a Baghdad, lungo
la strada incontrò
Nasruddin.
Quest'ultimo le chiese
dove stesse andando, ed
essa rispose: ‘Vado a Baghdad,
per uccidere diecimila
persone’.
Sulla via del ritorno, incontrò
nuovamente Nasruddin,
che questa volta
la apostrofò però duramente:
‘Mi hai mentito,
peste!
Hai detto che avresti ucciso
diecimila persone,
ed invece ne hai uccise
centomila!’
La peste replicò: ‘Non ti ho mentito,
Nasruddin: io ne ho uccise solo diecimila,
il resto le ha uccise la paura’
(racconto Sufi).”
È vero, la paura può fare molti danni
ed é figlia dell’ignoto, di ciò che non
si conosce. Si trasforma in angoscia
quando si associa all’incertezza,
quando “di doman non v'è certezza”
(Lorenzo de Medici).
Ho vissuto altri coprifuoco: nel
1993/1994 durante il decennio nero
dell'Algeria e nel 2010/2011 nel periodo
della rivolta dei gelsomini in Tunisia.
Tutti hanno in comune il silenzio
e il senso di impotenza. Ma solo
quello attuale ha un nemico che é
invisibile.
Se poi anche chi dovrebbe possedere
la conoscenza e diffonderla per
rasserenare spiriti e menti, si dimostra
incerto e dubbioso, il quadro
raggiunge tinte più oscure. Il valzer
della mascherina ne é stato un
esempio.
Mascherina solo per i contagiati, come
se per definirsi tali bastasse l’autocertificazione,
mascherina obbli-
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IN ITALIA
gatoria solo per il personale sanitario,
mascherina per tutti. Mascherina
si, mascherina no. E adesso ci dicono
che dovremo metterla per lungo
tempo anche dopo la fine dell’emergenza.
Il Covid-19 sta facendo più morti in
Italia che in ogni parte del mondo,
Cina compresa.
E continuiamo a dirci quanto siamo
bravi e che siamo un modello per
tutto il mondo. È colpa dell'età
avanzata della popolazione, della
genetica, dell'ambiente... Neanche
un accenno di autocritica per ricordare
che i focolai di maggior entità
sono partiti da due ospedali, Codogno
e Alzano, entrambi in Lombardia,
per evidenti negligenze e sottovalutazioni,
sul piano locale, regionale
e nazionale nella gestione del
fenomeno, dopo aver scoperto i primi
casi all'interno dei due ospedali.
Non per caso la Lombardia ha il
maggior numero di contagiati e di
morti. Il resto dell'Italia é percentualmente
in sintonia con il resto
del mondo.
Il Governo italiano, talvolta con ritardo,
talvolta con deficienze comunicative,
ha comunque assunto, e
continua a farlo, provvedimenti di
contenimento del Covid-19 e di assistenza
economica per popolazione
ed imprese. Se sono giusti e sufficienti
solo il tempo lo dirà. Fra l’altro
il reddito di emergenza (REM)
verrà assegnato anche alle migliaia
di lavoratori in nero, soprattutto nel
sud Italia, che ora sono senza entrate.
In mancanza di aiuti si minacciano
delle rappresaglie gestite da ambienti
mafiosi. È giusto dare un contributo
di sussistenza a questa area
di illegali che pure hanno figli da sfamare.
Ma a emergenza Covid-19 finita andrà
trovato un sistema per cui non
restino ancora nell’area del sommerso,
in modo da colpire esecutori
e mandanti del lavoro nero. Senza
un’adeguata pulizia la solidarietà
avrà ceduto al ricatto.
Con tempi di reazione più o meno
lunghi tutti gli Stati in ogni continente
hanno dovuto chinare la testa
e affrontare questo flagello, anche
se certe dichiarazioni di governanti
come Trump, Johnson e Bolsonaro,
meritano sia steso un velo
pietoso.
E l’Europa cosa fa e cosa farà?
Christine Lagarde (Presidente BCE),
Angela Merkel (Cancelliera tedesca),
Ursula von der Leyen
(Presidente Commissione UE), sono
donne con una carriera di potere
importante. Le loro recenti prese di
posizione e dichiarazioni contrarie a
utilizzare strumenti finanziari europei
forti e adeguati per aiutare i
Paesi più colpiti da Covid-19, come
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l’Italia, contrastano con l’essenza
solidale dello spirito femminile. Forse
il potere logora chi ce l’ha. Bisogna
comunque distinguere ruoli e
compiti della Commissione europea
e dell’Eurogruppo, ques’ultimo formato
dai governanti dei 27 Paesi. La
prima ha solo funzioni di coordinamento
ed il potere reale ce l’ha il secondo
con decisioni che devono essere
prese all’unanimità.
Olanda e Germania sono i capofila
di un gruppo di Stati nord europei
che, come ha detto Conte alla Merkel,
“vedono l’oggi con gli occhiali
del passato”.
Dopo alcuni tentennamenti iniziali
invece la Commissione europea e la
Banca centrale hanno reagito prendendo
decisioni importanti: la sospensione
del patto di stabilità, il
piano da 750 miliardi della Bce, i voli
di rimpatrio per i nostri connazionali,
lo sblocco delle esportazioni di
mascherine, i finanziamenti per il
vaccino, la task force per coordinare
i soccorsi.
Ma un’ombra oscura di democrazia
ferita sta scendendo sul nostro Continente:
il Parlamento ungherese ha
conferito al Primo ministro Viktor
Orbán, portabandiera dei sovranisti
anche nostrani, i pieni poteri senza
limite temporale per la gestione del
Covid-19.
IN ITALIA
L’esercito per strada, il coprifuoco e
limitazioni alla libertà di stampa i
primi provvedimenti.
L’Europa deve battere rapidamente
un colpo, se vuole dimostrare di esistere
ancora e bloccare sul nascere
possibili emuli.
Quello che stiamo vivendo non ci
deve far dimenticare che in quello
che viene definito l'emisfero sud
della terra ogni anno muoiono milioni
di persone, soprattutto bambini,
per malattie come la tubercolosi,
la malaria, il colera o per malnutrizione.
Questo non provoca sconvolgimenti
morali negli abitanti di quello
che é definito il nord del mondo.
Fino al Covid-19 che unisce nel dolore,
colpendo senza distinzioni geografiche.
Nella tragedia si presenta anche un
rovescio della medaglia con un’interrogazione
che sa di mistero: acque
ora più limpide della laguna di
Venezia, foto satellitari che mostrano
un cielo privo di smog in Cina e
Lombardia.
È la natura che, con il virus, ha voluto
fermare la mano distruttiva
dell'umanità, prima che lei stessa,
distruggendo l'ambiente, si suicidi.
Ferruccio Bellicini
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DOSSIER
I
I S S
P L (1665)
C , , ,
N
el nostro mondo, globalizzato
grazie alla telematica e ridotto ad
un “piccolo villaggio” (cfr. Mac Luhan,
Il medium è il messaggio, Feltrinelli
1967), impera oggi il contagio del Corona
virus (Covid-19) che nel giro di poche
settimane ha contagiato il nostro
pianeta terra. Virus che, imploso in Cina,
sta ora dilagando ovunque, in particolare
sta contagiando l’Italia e i paesi
europei con estrema violenza e rapidità.
Nel nostro articolo “Mediterraneo:
mare di contagi”, pubblicato su questa
rivista nell’aprile 2017, facevamo riferimento
all’imponente ed erudito saggio
Il contagio del contagio. Circolazione
di saperi e sfide bioetiche tra Africa
ed Europa dalla Peste nera all’AIDS, di
Salvatore Speziale, docente di storia
dell’Africa mediterranea e del Vicino
Oriente presso l’Università di Messina,
autore di diversi studi storicoantropologici,
demografici e medicosociali
sulle epidemie nel Mediterraneo.
Potere intervistarlo oggi, ci permette
di cogliere con incisività il fenomeno
del contagio nello spazio e nel tempo.
L’emergenza Corona virus porta inevitabilmente
a pensare alle emergenze
epidemiche del passato. È possibile
trarre insegnamenti,
spunti, considerazioni
dalla loro storia che
siano utili per il presente?
Chi, come me, ha svolto
ricerche sulle epidemie
del passato, rischia
di osservare la
realtà che ci circonda
oggi, nel marzo 2020,
come un qualcosa di
già visto, di innumerevoli
volte ripetuto nel
tempo. Certo, uno
storico deve fare attenzione
ai “contesti”
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diversi in cui le epidemie sono avvenute
e alle “nature” diverse delle stesse
che rendono ogni episodio un fatto unico
in sé. Tenuto però conto dei limiti
che l’uomo pone alla storia, che non è
(purtroppo) magistra vitae, che non ci
dice come sarà il futuro ma ci fa capire
come si giunge al presente, è tuttavia
innegabile come essa possa suggerirci
di osservare tutta una serie di analogie
e differenze tra quanto è già accaduto
e quanto sta accadendo sotto i nostri
occhi anche quanto non sarebbe dovuto
succedere o avrebbe potuto essere
evitato. Retrodatando quindi il tempo
di osservazione dal 2020 alle prime epidemie
di cui si hanno testimonianze
storiche e dilatando lo spazio a tutte le
società che hanno subito e subiscono
significativi scoppi epidemici, ci si trova
di fronte a un caleidoscopio di azioni e
reazioni, di miti persistenti e di elementi
simbolici, di parametri scientifici e di
strutture mentali che rendono l’insieme
estremamente complesso, denso di
significazioni e di spunti di riflessione
per il cittadino comune oltre che per
storici, sociologi, antropologi e studiosi
di ambiti scientifici.
Può farci dunque esempi di analogie e
differenze che possano in qualche modo
aiutarci a riflettere sulla condizione in
cui ci troviamo, sui rischi di propagazione,
sulle misure adottate dall’uomo nei
vari contesti?
Preferirei partire dalle differenze, che a
mio parere, sono meno numerose rispetto
alle analogie. Una differenza notevole
tra le grandi epidemie del passa-
DOSSIER
to remoto, quelle del passato più prossimo
e quelle del presente, è data dalla
“velocità”. Intesa questa non in senso
assoluto di contrapposizione tra le
“lente” epidemie del passato e le
“veloci” epidemie odierne. Ogni epoca
ha sue “velocità” e sue “lentezze” rapportate
alle proprie condizioni dei trasporti
e ritmi di vita. Si può semmai
affermare che c’è stata una progressiva
velocizzazione della propagazione epidemica
in ragione della malattia in sé e
dei suoi vettori e della progressiva accelerazione
e globalizzazione degli spostamenti
sulla terra. Dalla lenta e inesorabile
peste “orientale”, che aveva bisogno
di anni per diffondersi dai focolai
del Vicino Oriente al Mediterraneo e
all’Europa, seguendo le piste carovaniere
e le rotte delle navi che
“traghettavano” i suoi vettori, pulci e
topi, si è passati al più veloce e spietato
colera “indiano” che, dall’800 in poi, è
stato capace di diffondersi ovunque in
pochi mesi, dal Bengala, dov’era finora
rimasto imprigionato, fino all’Inghilterra
da una parte e al Giappone dall’altra,
facilitato dalla velocità dei nuovi velieri
e dalla mobilità garantita dall’acqua al
vibrione. L’ancora maggiore velocità
caratterizza ogni forma di epidemia
d’influenza, come la Spagnola
del primo dopoguerra, in contesti
“accelerati” dai nuovi mezzi di comunicazione
e da fattori intrinsecamente
epidemici quali l’assenza di intermediari
animali. Il nuovo coronavirus, pertanto,
sfrutta al massimo e in rapporto allo
spazio-tempo globalizzato in cui vivia-
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mo, sia l’uno che l’altro di questi aspetti:
se gli scoppi epidemici in genere sono
infinitamente più rari del passato, il
passaggio da epidemia a pandemia,
purtroppo, è certamente più facile e
immediato.
Un’altra grande differenza di contesto
è data non solo dall’incremento della
popolazione ma anche dalla sempre
maggiore “densità” abitativa. Dalla Peste
nera di metà Trecento in poi si assiste
a una più o meno costante crescita
della popolazione mondiale, inframezzata
da ricorrenti crisi demografiche,
epidemiche e non, fino alla fine
dell’800. Da quel momento la crescita
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DOSSIER
si impenna e raggiunge ritmi vertiginosi.
Ma insieme alla crescita della popolazione
si assiste a un progressivo svuotamento
delle campagne e a un aumento
costante dell’inurbamento. Il fenomeno,
lo ripeto, parte dalle soglie
dell’età moderna e prosegue tuttora
nelle abnormi concentrazioni delle megalopoli.
Velocità e densità concorrono a rendere
sempre più repentino e meno discontinuo
il contagio, soprattutto se
interumano. Sono due aspetti con i
quali l’uomo si è sempre misurato in
contesti sempre mutati e contro i quali
ha sempre cercato di agire nei modi e
tempi dettati dalla propria epoca, sui
quali bisogna oggi riflettere seriamente
in vista di strategie di contenimento
della diffusione epidemica.
Tra gli elementi di “differenza” un posto
può essere certamente dato alla
medicina visti i continui e significativi
progressi dai tempi delle pestilenze a
oggi. Come vede lei storicamente l’apporto
della medicina occidentale e
orientale, rispetto alle grandi malattie
epidemiche?
Quello che gli storici della medicina
osservano in campo medico è certamente
un imponente sforzo millenario
di comprensione e di lotta - spesso
infruttuoso, sovente deleterio ma alla
lunga proficuo - che si arricchisce
esponenzialmente in occasione di
ogni nuova epidemia e, ancora di più,
di ogni nuova malattia epidemica. L’epidemia,
ieri come oggi, in Occidente
come in Oriente, è un forte catalizza-
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DOSSIER
tore di energie intellettuali volte alla
ricerca di cause e cure secondo i parametri
scientifici propri di ciascuna epoca
e all’interno del quadro concettuale
di ciascuna società, un quadro complesso
in cui aspetti prettamente medici
si intersecano a questioni di natura
teologica, giuridica e, in parole moderne,
di natura bioetica.
Basti pensare, ad esempio, all’idea principe
di ogni epidemia, quella del
“contagio”. Un concetto che oggi, in
quasi tutto il mondo, può considerarsi
come “acquisito” ma che con grande
fatica, con grandi vittorie e grandi
sconfitte, si è affermato nei termini che
oggi conosciamo solo a partire dalla fine
dell’800. Fino a quel momento, varie
ipotesi di contagio, ben diverse da
quelle odierne, si scontravano con solide
alternative basate sulla concezione
umorale e/o sulla teoria miasmatica e
su ipotesi di stampo igienista, incontrando
il sostegno non solo delle autorità
scientifiche ma anche di quelle religiose,
sia in terra cristiana che in terra
musulmana. Solo la precisa individuazione
dei microorganismi e dei loro vettori,
grazie alla microbiologia da Pasteur
in poi, ha fatto piazza pulita di
queste teorie, proprio quando il concetto
di contagio aveva raggiunto il picco
negativo del sostegno scientifico in
Europa e un grande successo, invece,
in Oriente. E solo la scoperta dei nemici
invisibili che sottostanno a tutte le epidemie,
quali i virus e i batteri, ha consentito
alla medicina di fare un effettivo
balzo in avanti nella cura e nella prevenzione
delle stesse, superando le
“letali” cure sintomatiche del passato.
Unica eccezione è quella del vaiolo che
da lungo tempo aveva suggerito all’uomo
la strada da seguire: la strada del
“vaccino”, ovvero, del “contagio benigno”,
che si diparte dall’Oriente e si dirige
verso l’Occidente nel ‘700. Anche
questo, comunque, è uno strumento
difficile da metabolizzare e non del tutto
metabolizzato oggi, come sappiamo
bene dalle polemiche “no-vax” che fino
ad ora costellano tutta la storia del problematico
concetto stesso di vaccinazione:
contagiare di sicuro un corpo sano
con un male minore, di origine animale
per giunta, per evitare un insicuro
male maggiore. Un puzzle per la bioetica
del passato e del presente.
Certo è che, ieri come oggi, ogni epidemia
ha stimolato e stimola fortemente i
dibattiti scientifici e quindi la ricerca e,
che l’accresciuta velocità di diffusione
dell’epidemia trova come contraltare la
velocità con cui si cercano delle cure e
delle forme di prevenzione, grazie soprattutto
a un network scientifico globale
che consente di scambiare informazioni
in tempo reale. Tutto ciò era
impensabile durante le grandi epidemie
del passato remoto, ma anche del
passato prossimo come la Spagnola del
1918, l’Asiatica del 1957, la pandemia di
Hong Kong del 1968 e perfino l’AIDS
dagli anni ‘80 in poi. Ma la velocità, come
dicevo, è un’arma a doppio taglio: a
fronte dell’ineluttabile durata delle epidemie
del passato cui si soggiaceva
grazie a una diversa concezione del
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DOSSIER
Q. L N
( )
Q. I
( )
tempo, il perdurare di un’epidemia per
un arco di tempo imparagonabilmente
più breve, così come il perdurare di
un’affannosa ricerca della cura per il
tempo di pochi mesi, sembra inaccettabile.
Tra Occidente e Oriente, comunque, il
“contagio” delle idee, dei saperi, è stato
continuo e non unidirezionale e gli
esempi sarebbero troppi da fare, ma
quel che importa è che questo
“contagio virtuale” sembra ancora più
attuale oggi, a fronte di soluzioni mediche
e sanitarie applicate in estremo
Oriente, in Cina e Corea del Sud, e riprodotte
nella nostra Italia che sembra
essere vista a sua volta come modello
per il resto d’Europa.
L’altro campo, in cui di certo si sono fatti
enormi passi in avanti e che dovrebbe
segnare le distanze tra passato e presente,
potrebbe essere allora quello delle
misure sanitarie di contenimento del
contagio?
Sono d’accordo solo in parte. Se ci riferiamo
alla “tecnologia” che si mette
adesso in campo per creare strumenti
di depistaggio dei contagiati - penso soprattutto
al caso della Corea del Sud
con la tracciatura online dei contagiati
e delle aree a rischio -, di isolamento, di
comunicazione e di controllo del territorio,
concordo decisamente. Se invece
ci riferiamo alle tipologie di misure in
sé, già le parole non possono che farci
tornare indietro nel tempo e mostrarci
la significativa linea di continuità tra
passato e presente: quarantena, lazza-
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retto, autoisolamento, cordoni sanitari,
ecc. sono tutti termini che risalgono a
un antico passato, a forme di protezione
ideate, perfezionate e imposte sempre
più sistematicamente alla fine del
Medioevo e agli inizi dell’età moderna,
prima in Italia, a Venezia, e poi (guarda
caso) imitate nel resto nel mondo. Un
mondo in cui le epidemie erano una minaccia
costante e in cui strutture e istituzioni
dedicate (lazzaretti, intendenze
sanitarie ecc.) divennero la regola di
ciascuno stato.
La differenza sostanziale era che nel
passato queste drastiche misure venivano
applicate dalle autorità sanitarie
immaginando un nemico invisibile che
potesse viaggiare con l’uomo, nei suoi
mezzi di trasporto e nelle sue merci,
contro coloro che pensavano che il
morbo viaggiasse nell’aria spinto dai
venti. Le quarantene imposte alle navi
DOSSIER
al largo dei porti, gli isolamenti ingiunti
a singoli quartieri, città o regioni, i cordoni
sanitari, come oggi militarizzati,
ordinati a protezione di interi stati,
contemplavano inizialmente quaranta
giorni di blocco. Un periodo che si riduce
via via nel tentativo esperito dalle
autorità statali di conciliare un
indispensabile periodo minimo di
“incubazione” attribuito alle varie malattie
epidemiche che si affacciavano
sulla scena mondiale con il limite di
sopportazione delle compagnie di navigazione,
dei commercianti, dei fruitori
di beni, degli abitanti … ma anche con
le esigenze di una Chiesa per lungo
tempo anticontagionista cui venivano
impedite quelle pratiche devozionali,
processioni e preghiere comuni, ritenute
le sole capaci di mitigare la
“punizione divina”. Come Franco Cardini
ha ben detto in un’intervista recen-
Q
I C T .198 A 2020
te: «un tempo contro le epidemie si
pregava, oggi si chiudono le chiese».
Da che esistono le misure quarantenarie
esistono anche le sanzioni disciplinari
che, in molti casi, contemplavano la
pena capitale. Ciò sta a significare che
in ogni tempo e luogo - anche oggi se si
pensa alle notturne fughe dalle zone
rosse prima dell’applicazione delle misure
restrittive - si è cercato di eludere
le quarantene con “patenti sanitarie”
falsificate, si è tentato di entrare in città
appestate chiuse da cordoni sanitari,
e si è cercato di uscirne. È storia ben
nota anche attraverso la letteratura
che non sto a citare. Meno noto è il fatto
che ai divieti prettamente “laici”
L M
'O E
DOSSIER
ideati dalle autorità civili in Europa e importati
e adattati in terra d’islam, qui si
aggiungeva un divieto di matrice religiosa
risalente a un hadith (detto, fatto
o silenzio del profeta o dei suoi compagni)
di Umar al-Khattab: «se sei in una
città in cui c’è la peste non uscire, ma
se sei fuori, non entrare». Nonostante
questo sommarsi di divieti, oggi ribadito
da autorità religiose e politiche in
paesi musulmani per il Covid-19, le testimonianze
non mancano di fughe dal
contagio, per il passato come per il presente.
Tornando alle misure e alla tecnologia,
anche i dispositivi più comuni e più ricercati
oggi, come mascherine, guanti
e tute protettive, hanno dei nobili antesignani
di cui sono rimasti abbondanti
descrizioni e disegni nei trattati d’ogni
epoca. Al tempo si suggeriva non solo
come evitare di respirare esalazioni nocive
(fomiti, miasmi e quant’altro) ma
anche come evitare quei temibili sternuti,
segni non tanto di raffreddore o
influenza quanto dell’inesorabile peste
polmonare, che tanto hanno segnato
nel profondo le società di tutto il mondo
da indurle a coniare quella reazione
scaramantica che oggi ricompare
nella sua drammatica attualità:
“salute!” (auguro che tu sia in salute e
che lo sternuto quindi non mi porti la
malattia), “à tes souhaits!”, “(god)
bless you”, “rahimaka Allah”…
Da quanto dice sembrerebbe esserci
una grande varietà di reazioni comuni
tra passato e presente, tra Oriente e Occidente:
è l’uomo che porta in sé paure
e reazioni ancestrali?
I C T .198 A 2020
Il timore nei confronti di una epidemia,
conosciuta e tanto più sconosciuta, segna
la storia dell’umanità intera fino a
oggi, come il terrore di una punizione
divina accomuna in una storia simile i
fedeli delle religioni monoteistiche. Nel
mondo islamico, ad esempio, un hadith
basilare recita che «di fronte alle turpitudini,
Dio invia una malattia anche sconosciuta»
consentendo così di contemplare
in un continuum apologetico tutte
le nuove malattie che si propongono
all’umanità, dalla peste al Covid-19, e da
questo alle malattie del futuro. Di conseguenza,
come si è martiri se si muore
di peste, purché “sulla via di dio”, così
lo si è morendo per epidemie sconosciute
al tempo del profeta. Una concezione
del martirio simile si riscontra anche
in terra cristiana in risposta a
quell’anelito universale dell’uomo di
fronte alla paura di una morte
“immeritata”: si pensi ai bambini, alle
persone di indubbia fede, moralità e di
valoroso impegno civile, colpiti da tutte
le epidemie.
A fronte comunque di convergenze
spesso sorprendenti, alcune paure non
“circolano”. Il timore che l’uomo, posseduto
o meno dal demonio, malvagio
in ogni caso, possa essere autore del
“contagio manufatto” o “unzione”,
che tanta parte ha avuto nell’Occidente
cristiano, non filtra nel mondo islamico.
L’idea stessa che qualcuno possa ergersi
al livello di dio, da cui tutto deriva,
ogni male così come ogni sua cura, rende
impermeabile il musulmano alle lusinghe
di questa sciagurata credenza
che si ripresenta immancabilmente con
DOSSIER
la riesumazione simbolica del termine
stesso, puntato verso l’“untore” di turno.
Se nei secoli passati era il nemico
“esterno” come il tataro di Caffa,
l’ebreo, l’arabo e il turco, poi il nemico
“interno” come il barbiere milanese
della Colonna infame e mille altri poveri
malcapitati, recentemente, in una accelerazione
ricca di rovesciamenti simbolici,
lo sono diventati il cinese e il persiano,
poi il lodigiano e il bergamasco, poi
anche l’immigrato meridionale rientrato
di corsa in un sud divenuto salvifico,
poi i francesi fuggiti nottetempo da Parigi
e dispersisi nella province, infine, i
maghrebini allontanatisi dalla Francia
per rientrare nelle terre d’origine.
Il timore per lo scoppio di un’epidemia
è talmente forte da mettere sempre in
azione meccanismi coercitivi di elusione:
chi si erge contro, rischia sulla propria
pelle. È esemplare il caso di Li Wenliang,
oculista di Wuhan, arrestato per
procurato allarme per aver denunciato
nel dicembre 2019 la circolazione di un
nuovo virus in città. Una storia simile,
tra tante altre registrate sulle due
sponde del Mediterraneo, a quella di
un medico napoletano, convertito all’islam,
che diagnostica la peste del 1818
a Tunisi prima e contro il parere di altri
medici del luogo: subisce galera e bastonate
ma si salva, fortunatamente,
dalla pena capitale, e viene presto reintegrato
nelle sue funzioni una volta acclarata
l’amara verità.
Lo scoramento, per chiudere, viene da
tutti e in tutti i tempi visto come
“fattore aggravante” delle epidemie.
Certo i presupposti scientifici sono di-
I C T .198 A 2020
versi: nel passato era lo squilibrio degli
umori causati dall’aumento della bile
nera (mélan+cholé), e quindi della melancolia,
a predisporre al contagio. Nei
lunghi periodi di quarantena bisognava
pertanto evitare di rattristarsi, di cadere
nella trappola della paura, affidandosi
alla fede e a una parca fruizione
dei piaceri del gusto, evitando gli
eccessi dell’ingordigia e gli sconfinamenti
sessuali. Bandite le campane a
morto e le litanie funebri, fior di medici
e sapienti invitavano a godere del piacere
della musica, nel rispetto, sempre,
dei lutti altrui. Passati secoli da
quelle considerazioni, le strade italiane
di oggi sembrano “risuonare” di quegli
antichi insegnamenti.
Lei prima citava la “peste orientale”, il
colera indiano, l’influenza Spagnola,
l’Asiatica …, oggi qualcuno dice “il virus
cinese o di Wuhan”. Sembra che
ogni malattia abbia un marchio di
P M (1630)
G
DOSSIER
“provenienza”?
O forse che il paese o l’area del mondo
indicata come origine sia “marchiato”
a sua volta. Il punto è che ogni epidemia
è un evento così terribile da spingere
chiunque a trovare “capri espiatori”,
spesso contro la logica stessa
dei fatti e con una ricaduta negativa
sulla visione degli usi e costumi degli
abitanti dei territori da cui la malattia
sarebbe nata. Ora, sebbene i focolai
all’origine delle epidemie storiche di
peste fossero realmente distribuiti in
un’area a oriente dell’Europa, tra l’Hijaz
e il Kurdistan, ben altri ne esistevano
(e ne esistono) in vaste aree centrasiatiche,
nell’Africa australe e in alcune
aree dell’America settentrionale
e meridionale, la peste però fu sempre
chiamata “peste levantina” o “peste
orientale”. All’alba dell’età moderna,
si diffuse in Europa una malattia dai
“mille colpevoli” e dai “mille nomi”. Si
tratta della sifilide,
di sicura origine
americana e dalla
subito accertata trasmissione
sessuale,
che in ogni dove
prese il nome di tutti
i paesi tranne
del proprio: “morbo
gálico” in Spagna,
“mal d’Espagne” o
“mal de Naples” in
Francia, “mal francese”
in Italia, malattia
spagnola o
francese in Africa
I C T .198 A 2020
mediterranea e così via. Diverso è il discorso
del colera il cui focolaio originario
era ed è il delta del Gange, il Bengala,
da dove fuoriuscì però solo per via
dell’accelerazione dei traffici prodotta
dai mercanti e dai soldati inglesi durante
l’800. Ma agli inglesi nulla s’imputò
di quanto successo. La tendenza
“discriminatoria” continua fino a tempi
recenti durante i quali, ad esempio, l’influenza
Spagnola prese il nome dello
stato in cui furono pubblicamente dichiarati
per la prima volta i casi, senza
considerare il focolaio originario che a
tutt’oggi è oggetto delle ipotesi più disparate,
dagli USA alla Cina.
Niente di nuovo allora quando si ribattezza
il “neutro” Covid-19 con il nome
di quello che viene comunemente additato
come focolaio originario o dell’intero
paese o della popolazione tutta,
“virus di Wuhan” o “virus cinese”, e
nulla sorprende che si levino voci contrapposte
di un’origine americana della
malattia. Fatto sta che a nessuno ha
mai fatto piacere essere additato come
“untore” di un’epidemia locale o mondiale
- ed essere, in virtù di questo, oggetto
di intimidazioni o di gogna mediatica
come purtroppo è successo anche
in Italia -, né tantomeno nessuno
può accettare supinamente che le proprie
abitudini alimentari e il proprio stile
di vita siano additate come possibili
cause predisponenti alla nascita di una
nuova malattia di origine animale.
La triste “contabilità” quotidiana del
numero dei contagiati, dei morti e, fortunatamente,
dei guariti cui purtroppo
assistiamo oggi presenta analogie con il
DOSSIER
passato?
Quello che si osserva oggi, facendo un
grande sforzo per distaccarmi dalla carica
emotiva che pesa sulla questione,
è un’esasperazione di quanto avveniva
nel passato molto di più in terre cristiane
che in altre terre, come, ad esempio,
quelle musulmane. Dal tempo della peste
e del colera, l’affannosa contabilità -
e l’implicita accusa - partiva, come
oggi, dall’individuazione dei “pazienti
zero” e dei “pazienti uno”, che
“esponenzialmente” più spesso di oggi
si convertivano nei primi decessi. Questa
rendicontazione permea tutta la
documentazione esistente per ogni
scoppio epidemico. La ricerca dell’origine,
della provenienza, rientrava però
non tanto in un quadro scientifico volto
a individuare soluzioni e risposte, come
sembra essere oggi, quanto in quello
che ho detto prima circa la ricerca di
“colpevoli” su cui scaricare il peso di
tutte le perdite e serviva, al massimo, a
bloccare persone provenienti dalle zone
imputate.
Dal momento in cui l’epidemia, nonostante
i tentativi d’elusione già citati,
scoppiava nella sua terribile evidenza,
subito scattava l’ossessione per il numero.
In Occidente esistevano importanti
e variegate fonti quantitative prodotte
da organismi locali e statuali
creati ad hoc, oltre ai registri parrocchiali,
che rendicontavano il triste andamento
del male nella spasmodica attesa
di un picco che portasse alla diminuzione
della mortalità. Una rendicontazione
più “alla buona”, era ricavata
con stratagemmi di fortuna, con siste-
I C T .198 A 2020
C :
I
mi quasi spionistici, dal personale consolare
europeo in terra d’islam dove il
numero esatto dei decessi in sé aveva
decisamente un peso minore rispetto
alla considerazione generale degli
eventi.
Gli europei quindi, in casa o fuori casa,
sentono sempre il bisogno di quantificare
nella speranza che ciascuno scoppio
epidemico rientri in quell’ordine di
cose, in quella sequenza di andamenti
corrispondenti alle conoscenze del
tempo, alla “stagionalità” nota e scandita
nel calendario dal festeggiamento
di santi protettori dalla peste, San Rocco
e San Sebastiano, in primis, la Madonna
e altri, a seguire. L’andamento
DOSSIER
“inconsueto” di malattie epidemiche
ben note, la mancata coincidenza della
decrescita con i calori agostani e la festa
del 15 agosto, causavano un crescendo
di timori e non poche crisi di panico.
Anche perché, dopo una già lunga
quarantena, protrarre l’isolamento in
case anguste e non certo tecnologicamente
equipaggiate come le nostre,
senza la liberazione tanto sperata, rendeva
ancora più insopportabile resistere
senza violare le strette regole imposte
dalle autorità in Europa o autoimposte
dagli europei stessi in altre terre.
Quello cui si assiste oggi, dunque, nella
contabilità non più settimanale, non
più quotidiana e neppure oraria ma sul
filo dei minuti, in tempo reale, è un tentativo
di controbilanciare, oggettivando
asetticamente, e a volte cinicamente
(come nel ribadire le fasce d’età più
colpite o l’incremento avvenuto
“altrove”), quanto in contemporanea è
ossessivamente narrato, e contronarrato,
in termini dal forte impatto emotivo
e perfino psicodemico (come ribadisce
Francesco Pira) da giornalisti, opinionisti,
politici, infettivologi e virologi divenuti
ormai virali.
Quali problemi imputabili al comportamento
dell’uomo, lei ha osservato durante
e dopo le epidemie del passato?
Innanzitutto, il primo problema era e
resta quello dell’osservanza delle quarantene
e dell’autoisolamento. Il fatto
che, ieri come oggi, ci siano continue
infrazioni, nonostante le minacciate pene,
conferma la difficoltà d’imporre
e accettare uno stato di controllo
sempre più foucoltianamente
I C T .198 A 2020
“disciplinare” nella speranza che la rinuncia,
voluta o forzata, a margini sempre
maggiori di libertà possa ridurre il
più possibile il contagio e quindi la durata
della malattia. Una grande differenza
in questo caso si registra tra il
passato remoto e il presente: la fuga
nel medioevo e nell’età moderna era
riservata alle élite che potevano permettersi
di corrompere le guardie, di
viaggiare, di vivere senza lavorare e di
disporre di residenze alternative, Boccaccio
docet! Tutti gli altri erano, volenti
o nolenti, costretti a restare per guadagnarsi
da vivere e sopravvivere. I documenti
raccontano la dolorosa disgregazione
dei legami familiari in una
popolazione residua costretta al
“monadismo” da un sempre più ferreo
controllo militare e dalla paura dell’altro,
che da esterno diventava sempre
più interno: il vicino, il parente. Spesso
quanto di ciò è dolorosamente descritto
dai consoli residenti in varie province
dell’impero ottomano, contrasta con le
vivissime preoccupazioni per i comportamenti
“irresponsabili” dei musulmani
che, noncuranti del contagio, continuavano
ad assistere i parenti, a fare le visite
di condoglianze, a partecipare a preghiere
comuni. D’altro canto, le autorità
religiose cristiane cercavano, in contrasto
con quelle politiche e civili, di ribadire
il proprio ruolo in simili frangenti,
additando le cause divine delle malattie
e cercando di placare le paure
dell’uomo attraverso la replicazione
simbolica e rassicurante di atti esteriori
di culto.
DOSSIER
Quanto accade adesso sotto i nostri occhi,
o sotto gli occhi di migliaia di telecamere
e di droni, è sostanzialmente
diverso ma non per questo meno foriero
di riflessioni. I rapporti sociali, prima
dissipati nella rete virtuale, sono riconfigurati
da una convivenza in carne ed
ossa in unità monadiche rinate per costrizione
le cui conseguenze, sulla lunga
durata, non sono ancora prevedibili.
Certamente una rivoluzione prossemica
è in atto tra i nuovi standardizzati
“distanziamenti sociali” imposti nella
ridimensionata vita all’esterno e le nuove
forzate vicinanze nella vita all’interno
pervase dallo “smart work”. Dal
punto di vista religioso, va annoverato
che la chiesa cattolica, chiuse le chiese
e bandite le occasioni d’incontro in presenza,
si sforza di trovare nuove ed efficaci
parole per “penetrare” le monadi
dei fedeli attraverso i media tradizionali
e il web, non senza incontrare serie
difficoltà (come sostiene Raffaele Manduca).
Dal canto loro, importanti personalità
del mondo islamico, anche appartenenti
a quelle frange più radicali che
hanno sempre osteggiato la valenza
della medicina moderna, sembrano sostenere
all’unisono l’applicazione delle
misure contagioniste più drastiche al
punto di rinunciare, forse per la prima
volta, ai luoghi dedicati alla preghiera e
di ripiegare anche loro sulla rete.
Infine, un’ultima domanda: oltre alle
conseguenze in campo demografico, si
stagliano le conseguenze economiche
alle quali i governi stanno cercando di
reagire. Cosa ci dice la storia delle epi-
I C T .198 A 2020
demie a proposito?
I timori di arrecare danni all’economia
e al commercio sono ieri come oggi al
centro dei pensieri delle autorità politiche
e sanitarie di ogni paese. Ogni sospetto
epidemico innescava una sequenza,
sempre identica a se stessa, di
reazioni: dalla categorica negazione
dei fatti al tentativo di minimizzarli,
per poi, di fronte all’evidenza, giungere
all’applicazione progressivamente
sempre più rigida di misure sanitarie
fino al blocco dei commerci e della produzione.
Lettere consolari, missive di
agenti sanitari, quaderni di bordo, tutta
una massa ingente di documenti testimonia
le preoccupazioni per le conseguenze
che tali misure avevano e
avrebbero avuto sul presente e sul futuro,
e questo nonostante il continuo
allarme e la periodica ricorrenza di
scoppi epidemici. A fronte di queste
inquietudini non voglio riportare la mia
posizione personale che, in questo
frangente, potrebbe sembrare il frutto
di una visione cinica, ma preferisco riferire
semplicemente le analisi degli
storici che hanno studiato le catastrofi
del passato seguendo le orme di pionieri
come C. M. Cipolla o L. Del Panta
a livello italiano, di J. N. Biraben e D.
Panzac, a livello mediterraneo, di W.
Mc Neill, a livello di world history. Ebbene,
per le società del passato il blocco
commerciale, temutissimo da tutte
le autorità politiche e sanitarie, avrebbe
provocato un corto circuito di breve
durata, recuperato presto da una successiva
forte ripresa imputabile a una
DOSSIER
popolazione che si risvegliava paradossalmente
più agiata alla fine di un’epidemia
per via delle eredità ricevute,
per via di un maggiore margine di contrattazione
con i datori di lavoro, causato
dalla riduzione della forza lavoro
stessa, per via di una maggiore disponibilità
di beni alimentari dovuta alla
più o meno drastica diminuzione delle
bocche da sfamare.
I contesti passati sono, è chiaro, enormemente
diversi da quelli presenti, le
crisi di mortalità registrate non sono
minimamente rapportabili a quelle
contemporanee da poter implicare una
così drastica riconfigurazione socioeconomica,
ma, volendo proiettare solo
il positivo di quelle considerazioni, non
si può escludere che la fine del tunnel
non possa indurre una rapida e sostenuta
ripresa economica, ottemperata
da una gestione più libera delle risorse
economiche statali anche in seno ad
un’Europa dal volto più umano.
Permettetemi di concludere che immaginare
quanto delle analisi delle lunghe
e terribili epidemie del passato possa
essere utile alle società del presente,
sfugge al discorso “scientifico e obiettivo”
di uno storico e soprattutto sfugge,
temo, all’interesse della maggioranza,
sempre più pressata dalla
“dittatura totalitaria del presente”
(secondo Tomaso Montanari) di
quanto non lo fossero i nostri antenati.
É mia opinione, comunque, che una crisi
come quella che stiamo vivendo non
ha simili con cui fare un vero confronto
negli ultimi cento anni: la II guerra
I C T .198 A 2020
DOSSIER
mondiale, riportata come termine di
paragone da molti media, è una
“catastrofe” di ben altro livello ma soprattutto
“tutta umana” e per nulla naturale;
le epidemie di Aids e di Ebola
non fanno testo in quanto nascono e
crescono erroneamente nella nostra
mente come “malattie degli altri”; la
Spagnola poi, colpisce non una società
opulenta come la nostra, ma una società
che è appena sopravvissuta all’altra
catastrofe “tutta umana” della I guerra
mondiale. È mia opinione, infine, ma di
semplice cittadino, che, all’indomani
del nostro ritorno all’agognata
“normalità” e della nostra prima
“libera uscita”, ci sentiremo sicuramente
risollevati come gli uomini che scampavano
le epidemie del passato, ma ci
sentiremo anche diversi da prima, meno
sicuri del nostro “assoluto” e
“repentino” progresso tecnologico; più
consapevoli, spero, dei limiti dell’agire
umano, politico e sanitario, e più sensibili
verso l’importanza del nostro progresso
umano: nella riconfigurazione
forzata dei rapporti umani, nella testimoniata
azione di tanti “eroi” della
quotidiana emergenza, nel ri-sentito
anelito all'unità simbolizzata dagli inni
e dai tricolori al di fuori degli stadi,
all’interno però di un Paese, di un’Europa,
di un Mediterraneo e di un mondo
globalizzato, i cui confini sono simbolici,
strumentali e penetrabili, nel bene e
nel male, dal bene e dal male.
18 marzo 2020
intervista realizzata da
Michele Brondino e Yvonne Fracassetti
I C T .198 A 2020
N
.
U “ ’” R
V…
U
na cesta arenata sulla riva paludosa
del fiume, due gemelli raccolti
da un pastore…Roma e la sua
storia- leggenda nascono in un luogo
che ancora oggi è ben identificato,
tra il Tevere, il Foro, il Campidoglio, il
Palatino: il Velabro, che prende forse
il nome dal latino velus, palude, oppure
dal luogo dove il fiume lambiva
la terra ed era facile traghettare, velaturam
facere, verso l’altra riva, Trastevere.
Anco Marzio IV re di Roma, in questa
zona fece costruire un ponte di
legno per incentivare i commerci di
stoffe ed alimenti che dalla Suburra
dovevano arrivare di là del fiume. Il
re sabino regnò durante venticinque
anni tra il 641 ed il 616 a.C., e dette
una nuova impronta urbanistica alla
città miticamente fondata il 21 aprile
753 a.C. Il ponte che fece costruire
per superare il guado del fiume si
chiamò Sublicio perché costruito con
tavole di legno, che in lingua volsca
erano le sublicae.
Partiamo quindi dal ritrovamento da
parte del pastore Faustolo dei gemelli
Romolo e Remo, e da tutto
quello che ne seguì: i discendenti di
CULTURA
Enea, figli della sacerdotessa Rea Silva,
da questa zona pianeggiante -
che ancora oggi rimane piuttosto
isolata nonostante sia ad un passo
dal Circo Massimo e dalla chiesa della
Bocca della Verità - furono allevati
dal pastore e dalla moglie Acca Larenzia
sul Palatino.
Un perimetro relativamente limitato
racchiude un lunghissimo periodo di
storia: visitando la piccola piazza dove
oggi sorge una chiesa dedicata a
I C T .198 A 2020
San Giorgio guardiamo stupiti - almeno
io stupita ed ammirata - l’ingresso
della Cloaca Massima, l’arco di Giano,
l’arco degli Argentari…
Era questa zona fuori dalle mura della
città arcaica del VIII secolo a.C., situata
in un incrocio strategico di percorsi
per commerci e contatti: dal viculus
Tuscus, la via che dall’Etruria
arrivava al Circo Massimo, dai tempi
di Tarquinio Prisco nel ‘500 a.C., il
terreno pianeggiante favoriva i commerci
ed era inoltre sede di un’area
sacra: qui infatti sorgeva l’Ara massima
di Ercole, l’Eracle greco.
Gli altari dedicati al semidio che
affrontò le dodici fatiche erano costruiti
spesso vicino a fonti o acque:
Caco, malvagia divinità generato da
Vulcano, rubò ad Ercole al Foro Boario
una mandria di buoi, che il forzuto
eroe recuperò con astuzia uccidendo
il ladro. I resti dell’ antico altare
rituale dedicato all’eroe figlio di
Giove ed Alcmena si trovano oggi
all’interno della Basilica di Santa Maria
in Cosmedin, e datano del 495
a.C.: nel nartece della stessa basilica
CULTURA
si trova la Bocca della Verità.
Cosa significa questo nome, Cosmedin,
che alle nostre orecchie italiche
assume un suono orientale legato al
cosmo, cioè all’ ”ordine”, il cosmos
che si oppone al caos? “Cosmedin”
significa che la Basilica era ornata di
bellezza, grazie alle decorazioni volute
dal pontefice Adriano I nel VIII secolo:
la basilica era frequentata dalla
comunità greca presente a Roma, e
la pietra circolare che racchiude un
volto, la Bocca della Verità, oggi è
grande attrazione turistica pur essendo
in realtà un antico tombino
con l’effige di una divinità.
Tutto questo esiste nelle immediate
vicinanze del Velabro, luogo dal quale
siamo partiti per un’esplorazione
tra mitologia, leggenda, storia ed architettura.
Romolo diventato adulto traccia il
solco invalicabile della sua nuova città,
Remo lo varca e muore, forse ucciso
dallo stesso fratello, come Caino
fece con Abele secondo la Genesi.
Era sul Palatino, a pochi passi dal Velabro,
la terra smossa da quell’aratro:
urvum è la parola antica latina
che identifica il manico dell’aratro,
che segna il confine della città nuova,
l’urbe.
E qui, sulla piazza selciata davanti alla
chiesa di San Giorgio al Velabro,
abbasso gli occhi e vedo un arco,
chiuso da un cancello che immette in
un vialetto in discesa: è l’imbocco
I C T .198 A 2020
della più grande delle fognature, la
Cloaca Massima, che dal VI secolo
a.C. convogliava le acque della città
verso il vicino Tevere, nel quale sfociava
sempre attraverso un arco: l’arco,
che i romani del tempi di Tarquinio
Prisco seppero utilizzare secondo
le indicazioni delle maestranze etrusche.
Le acque che dalla Suburra
( dai colli del Quirinale,Viminale ed
Esquilino) attraversavano il Foro, il
Velabro, il Foro Boario, impedivano
alla zona acquitrinosa di svilupparsi
secondo esigenze urbanistiche e
commerciali: una volta governate ed
imbrigliate in un canale, prima solo
scavato ed in seguito coperto, le acque
resero il vasto tratto pianeggiante
utilizzabile per mercati e scambi,
mantenendo l’area sacra con il tempio
di Ercole dal quale partivano i
trionfi, cortei che raggiungevano il
Campidoglio.
Il tratto della Cloaca Massima scorre
sotterraneo vicino all’arco di Giano,
altro formidabile manufatto che si
trova a pochi metri dalla piazza della
Chiesa. Da questo punto in poi un
collettore moderno convoglia le acque
nel Tevere, dove è ancora visibile
lo sbocco ad arco, in basso accanto
alle arcate del ponte Palatino.
Nel corso dei secoli il tracciato della
fognatura fu sempre mantenuto in
grado di funzionare, al una profondità
di 12 metri sotto il livello dell’attuale
manto stradale, cioè circa 6 metri
CULTURA
al tempo della costruzione dei tempi
di Tarquinio Prisco, costruito in tufo
e peperino, impermeabilizzata con
cocciopesto che i Romani chiamavano
signino, poiché il materiale giungeva
da Signia, l’odierna Segni.
Già dal V secolo sulla piccola piazza
una diaconia di monaci greci si occupava
di distribuire cibo e protezione
ai poveri: una chiesa si sovrappose ai
resti più antichi ed al tempo di Papa
Zaccaria (741-725) vi furono trasportate
le reliquie di san Giorgio, il santo
guerriero della Cappadocia onorato
dai bizantini che vivevano numerosi
presso il Foro Boario. Bizantini che
appartenevano sia agli ordini monastici
orientali fuggiti a Roma dalle
persecuzioni iconoclaste, sia alle
truppe dell’esercito di stanza in città.
La Chiesa dedicata a San Giorgio è
estremamente suggestiva nella sua
semplicità, a tre navate che si restringono
verso l’abside, ritmate da due
file di otto colonne di diversa provenienza
e materiale, che a loro volta
sostengono archi e piccole finestre.
L’abside leggermente rialzata è illuminata
da un oculo che le dà luce dalla
facciata d’ingresso, ed un affresco
raffigura Cristo benedicente tra la
Vergine e san Giorgio, esempio di pittura
romana duecentesco forse eseguito
da Arnolfo di Cambio.
Il campanile romanico si innalza di lato,
e sormonta una piccola porta architravata
che si chiama, chissà per-
I C T .198 A 2020
CULTURA
ché, Arco degli Argentari pur non essendo
un arco.
Pilastri ed architrave superano di poco
i sei metri di altezza, ed il varco
della porta indica il punto dove terminava
il vicus Jugarius verso il Foro
Olitorium: il vicus Jugarium era dedicato
ai costruttori di gioghi per i buoi
e nel Foro Boario si vendevano le
carni così come nel foro olitorium si
svolgeva il mercato di verdure e frutta.
Nel 202 d.C. l’arco degli Argentari
fu costruito e dedicato ai cambiavalute
ed ai negotiantes boarii huius locii,
riccamente ornato di marmi istoriati
con scene di sacrifici e l’imperatore
Settimio Severo, aquile e soldati,
prigionieri barbari ed Ercole. Un
basamento di travertino sostiene
questa porta immaginifica, oggi chiusa
da una cancellata di ferro.
Solenne e poderoso, l’arco di Giano
chiude il perimetro della Chiesa e della
piazza: una porta quadrifronte,
che risale a metà del IV secolo a.C.,
ed era un passaggio, uno ianus, una
struttura quadrifronte, quattro pilastri
rivestiti di marmo che formano
uno spazio coperto con volta a crociera.
Sotto questa volta probabilmente
trovavano riparo cambiavalute,
banchieri e mercanti che affollavano
il vivace mercato della nuova
urbs.
Un’altezza di 16 metri a pianta quadrata
(12 metri sui quattro lati) permette
al monumento di svettare sugli
edifici circostanti: un tempo i pilastri
erano oranti da numerose statue
o busti, incastonati nelle 48 nicchie
decorate che corrono fino all’apice
dei pilastri stessi.
L’arco di Giano conserva molti segreti
ai quali gli archeologi non hanno
saputo rispondere, poiché negli oltre
2000 anni della sua storia il monumento
è stato più volte rimaneggiato,
spoliato, restaurato e molte delle
iscrizioni che lo ornavano non sono
più leggibili.
Poche centinaia di metri quadrati
racchiudono un mondo che corre nei
millenni: Roma è Roma. Sempre meravigliosa.
Barbara Marengo
I C T .198 A 2020
M R
R
oma in un autunno turbolento
per pioggia e vento conforta i
suoi abitanti ed i turisti, appassionati
di arte, con interessanti mostre. Nelle
sale del Museo di Roma in Palazzo
Braschi una mostra dedicata a Canova.
Eterna bellezza risolleva l’animo
del visitatore in un allestimento di
grande impatto visivo, oltre 170 opere
del grande scultore e di alcuni artisti
a lui coevi. È una mostra evento
dedicata a Canova ed al suo legame
con la città di Roma che, fra Sette e
Ottocento, diventò la fucina del suo
genio ed inesauribile fonte di ispirazione.
È una constatazione ovvia che
l’arte a Roma, a cavallo fra Sette e
Ottocento, sia inconcepibile senza
Canova e che l’arte di Canova non
possa considerarsi tale senza Roma.
Eppure, più cresce la bibliografia e si
pubblicano i documenti, più si illumina
il senso di questo binomio. Gioca
a suo favore anche il momento in
cui, intorno alle antichità romane, si
creano, in rapporto dialettico, un
mercato legato anche al restauro e
un sistema di tutela, incentrato sulla
creazione dei musei e sui controlli
all’esportazione, che prefigurano gli
sviluppi moderni. Con l’arrivo nel
1779 e poi con la presenza stabile di
Canova, nell’ambito artistico si determina
una cesura di cui già i contemporanei
sono consapevoli. Nella biografia
di Canova, la storia si intreccia
C. C - T
CULTURA
con la carriera, iniziata con il successo
internazionale, a soli ventisei anni,
del Monumento sepolcrale di Clemente
XIV ai Santi Apostoli, e proseguita
in crescendo, fino a lasciare
traccia in tutte le corti, ad onta degli
avvicendamenti sui troni e, per emulazione,
nelle principali dimore dell’aristocrazia
europea. Proprio perché
fu consacrata a Roma, custode per
eccellenza dell’antico e del bello, la
sua fama si diffuse così velocemente
e resse tanto a lungo: pochissimi artisti
ne hanno goduta altrettanta in vi-
I C T .198 A 2020
A. C - L M
ta. Nel rapporto fra l’artista e la città,
comunque, i paradossi non mancarono.
Cattolicissimo e politicamente
neutrale, Canova era però protagonista
della corrente artistica abbracciata
dai rivoluzionari e ufficializzata da
un imperatore anticlericale. Forse
anche per questo nella Roma restaurata
di Pio VII non trovò dove collocare
la sua colossale statua della Religione,
mentre fu qui che si concluse
felicemente la vicenda di un altro
ambiziosissimo lavoro, l’Ercole e Lica,
destinato prima a Napoli, poi a Verona
e tradotto finalmente in marmo
grazie alla recente ricchezza di Giovanni
Raimondo Torlonia. A Roma,
dunque, Canova divenne lo scultore
più celebre del suo tempo. Il colloquio
di Canova con il mondo classico
è stato profondo e incise su istanze
cruciali, prima fra tutte, la volontà di
far rinascere l’Antico nel Moderno e
CULTURA
di plasmare il Moderno attraverso il
filtro dell’Antico; il loro rapporto è
rievocato in mostra attraverso il confronto
dei marmi di Canova, tra i
quali l’Amorino alato proveniente
dall’Ermitage di San Pietroburgo,
con marmi antichi come l’Eros Farnese
del Museo Archeologico Nazionale
di Napoli. Una sala accoglierà un
focus sul tema del Classico e Neoclassico
e accosterà gessi di celebri
capolavori antichi a quelli di statue
canoviane realizzate per il conte
Alessandro Papafava. L’Apollo del
Belvedere e il Gladiatore Borghese sono
messi a confronto con il Perseo
trionfante e il Pugilatore Creugante di
Antonio Canova. Con l’arrivo di Canova,
Roma si confermò centro
dell’arte moderna: il Monumento di
Clemente XIV, innalzato nella basilica
dei Santi Apostoli nel 1787, fu subito
acclamato come nuovo esempio di
perfezione classica. Al Museo di Roma
si potranno ammirare magnifiche
sculture e numerosi disegni, testimonianza
dell’attività grafica dello scultore.
Le opere di Canova dialogheranno
con quelle realizzate dai maggiori
artisti attivi in città a fine Settecento:
Gavin Hamilton, presente in
mostra con le tele raffiguranti le Storie
di Paride, Pompeo Batoni, del
quale Canova frequentò l’Accademia
di Nudo, Jean-François-Pierre Peyron,
il cui Belisario che riceve ospitalità
di un contadino fu molto ammirato
dallo scultore, che definì il pittore
I C T .198 A 2020
A. R
I M C
CULTURA
francese “il migliore di tutti”. L’atelier
di Canova era una tappa obbligata
per artisti, aristocratici, intenditori
e viaggiatori di passaggio nell’Urbe.
La mostra affronta anche il rapporto
tra lo scultore e la letteratura del suo
tempo: una piccola sezione è dedicata
alla relazione tra Canova e Alfieri,
la cui tragedia Antigone, andata in
scena a Roma nel 1782, presenta più
di uno spunto di riflessione in rapporto
alla rivoluzione figurativa canoviana.
In mostra c’è anche la statua
in gesso di Canova di Amore e
Psiche, tema oggetto di particolare
attenzione da parte di numerosi artisti,
pittori soprattutto, alla fine del
Settecento, ma che solo Canova riuscì
a reinventare connotandolo di significati
filosofici. Nell’ultima sala
della mostra, uno dei marmi più
straordinari di Canova: la Danzatrice
con le mani sui fianchi, proveniente
da San Pietroburgo. Gira sulla sua base,
come Canova desiderava, per di
più in un ambiente rivestito di specchi.
Dal nuovo spazio Generali Valore
Cultura, prodotta e organizzata dal
Gruppo Arthemisia, apre la mostra
Impressionisti segreti. Per celebrare
l’apertura del Palazzo Bonaparte,
che rende fruibile alla città di Roma e
non solo, un nuovo spazio espositivo
nelle meravigliose sale del piano nobile,
ovvero il primo, dove visse Maria
Letizia Ramolino, madre di Napoleone
Bonaparte, sono esposte oltre
50 opere di artisti tra cui Monet, Renoir,
Cézanne, Pissarro, Sisley, Caillebotte,
Morisot, Gonzalès, Gauguin,
Signac, Van Rysselberghe e Cross. Tesori
nascosti al più vasto pubblico,
provenienti da collezioni private raramente
accessibili e concessi eccezionalmente
per questa mostra, sono
esposte proprio a Palazzo Bonaparte,
anch’esso fino a oggi scrigno
privato che apre per la prima volta le
sue porte a veri capolavori del movimento
artistico d’Oltralpe più famoso
al mondo: l’Impressionismo. La
mostra non si pone tanto l’obiettivo
di aggiungere nuove conoscenze su
questo assai noto periodo artistico,
tra i più approfonditi, quanto di offrire
al pubblico la visione di una serie
di dipinti, rimasti finora nelle collezioni
private e mai esposti. In questa
mostra sono esposti quadri ad olio
che appartengono alla seconda fase
dell’Impressionismo, dopo il 1885
quando i pittori impressionisti comin-
I C T .198 A 2020
ciano a perdere l’originaria creatività
che li aveva distinti nei primi anni
Settanta del secolo, ma senza perdere
la bellezza di luci vibranti, ritraendo
le immagini della Parigi di fine Ottocento
e di donne dell’elite dell’epoca.
La cura della mostra è affidata
a due esperti di fama internazionale:
Clair Durand-Ruel e Marianne Mathieu.
Nei prestigiosi spazi del Museo
di Palazzo Cipolla, in via del Corso, si
è aperta la splendida retrospettiva
Corrado Cagli. Folgorazioni e Mutazioni,
dedicata alla ricca e complessa ricerca
dell’artista. Dipinti, disegni,
sculture, bozzetti e costumi teatrali,
ma ancora arazzi e grafiche per un
racconto che presenta circa 200
splendide opere, provenienti da importanti
Istituzioni e prestigiose collezioni
private del panorama culturale
del XX secolo. Molteplici i cicli pittorici
che l’esposizione di Roma ben
rappresenta ed illustra. Il percorso
espositivo permette al pubblico la visione
dei maggiori cicli pittorici realizzati
dall’artista: dai primi lavori giovanili
in maiolica a quelli realizzati a
olio o con altre tecniche del periodo
della Scuola Romana (1928-1938),
dalle prove neometafisiche (1946-
1947) elaborate a New York agli studi
sulla Quarta dimensione (1949), per
poi passare ai Motivi cellulari (1949),
alle impronte dirette e indirette
(1950), alle eteree Metamorfosi
(1957-1968), alle Variazioni orfiche
(1957), alla suggestiva ed enigmatica
CULTURA
L. V
C C S
serie delle Carte (1958-1963) e infine
concludere con le Mutazioni modulari
sviluppate fino alla metà degli anni
Settanta. Alla fine del 1938 fu costretto
per le leggi razziali ad abbandonare
prima Roma, poi Parigi ed infine
rifugiarsi a New York, dove lavora
per circa un anno. Successivamente
si arruola nell’esercito americano
partecipando allo sbarco in Normandia
ed alle campagne in Francia, Belgio
e Germania. Al termine della
Guerra si congeda e si stabilisce nuovamente
a New York. A metà del ’48
ritorna definitivamente in Italia, a Roma,
dove svolge buona parte della
propria attività sino alla sua prematura
scomparsa, avvenuta a Roma il
28 marzo 1976. Cagli nasce ad Ancona
il 23 febbraio 1910, cinque anni dopo
si trasferisce con i genitori a Roma,
dove compie gli studi classici e
frequenta l’Accademia di Belle Arti.
Certamente l’esposizione è un momento
di riflessione e occasione di
I C T .198 A 2020
apertura verso originali prospettive
che osserva e indaga con nuovi strumenti
critici una ricerca che continua
ad essere di stimolo e di ispirazione.
Nella mostra vengono posti in evidenza
alcuni dei momenti iconici della
pittura di Cagli, quali ad esempio
quelli rivolti a dare una identità al
“muralismo” italiano (parallelamente
a Sironi) nella ricerca di
“un’arte ciclica e polifonica”; per
B. M - B
l’occasione sono riuniti alcuni dei
pannelli costituenti il ciclo esposto e
in parte censurato all’Esposizione
Universale di Parigi del 1937. Sono
anche presenti alcune opere esposte
nella mostra di rientro in Italia, dopo
l’esilio americano, allo Studio d’Arte
Palma nel 1947 che suscitò una reazione
di contrasto degli artisti del
gruppo Forma. Infine, in esposizione,
oltre agli arazzi, alle opere plastiche,
ai bozzetti architettonici della
Fontana dello Zodiaco di Terni e a
CULTURA
quelli del Monumento di Göttingen
in Germania, si possono osservare
altresì anche il monumentale cartone
della pittura murale eseguita per
la XXI Biennale di Venezia del
1938, Orfeo incanta le belve, e una sezione
rilevante incentrata sull’attività
di scenografo e costumista teatrale
con un risalto dato all’esperienza
newyorkese della Ballet Society insieme
a George Balanchine. Corrado
Cagli si dedicò nel corso della
sua intensa attività ad una antica
tecnica di pittura: l’encausto,
una tecnica che risale al periodo
greco, che si basa sull’uso di colori
mescolati alla cera attraverso
il calore. Sia Plinio che Vitruvio
descrivono i metodi di esecuzione
dell’encausto. Le Gallerie
Nazionali di Arte Antica presentano
dal 24 ottobre 2019
al 2 febbraio 2020, nella sede
di Galleria Corsini, la mostra
L’enigma del reale. Ritratti e
nature morte dalla Collezione Poletti
e dalle Gallerie Nazionali Barberini
Corsini, a cura di Paola Nicita. L’esposizione
presenta circa trenta opere
mai esposte a Roma provenienti dalla
collezione di Geo Poletti (Milano 9
aprile 1926 - Lenno 13 settembre
2012), storico dell’arte, connoisseur,
pittore e collezionista, messe a confronto
con alcuni dipinti del museo e
un’opera proveniente dal Museo nazionale
di Varsavia. Una mostra fortemente
voluta dalla direttrice Flami-
I C T .198 A 2020
nia Gennari Santori che sottolinea:
“come per la mostra di Mapplethorpe
anche in questa occasione si prosegue
alla Galleria Corsini con l’esplorazione
del collezionismo, sia come
pratica che come categoria culturale”.
Saranno esposte per lo più nature
morte seicentesche, da quelle di ambito
caravaggesco romano, alle
“Cucine” emiliane, dalle più sobrie e
intime nature morte lombarde, fino
alle nature morte di Bernardo Strozzi
e al rinnovato realismo di ispirazione
caravaggesca del bergamasco Evaristo
Baschenis. Due importanti nature
morte raffiguranti Vasi di fiori e
frutta attribuite da Geo Poletti allo
stesso Caravaggio verranno messe a
confronto con una Natura morta con
tuberosa conservata a Palazzo Barberini
e solitamente non esposta al
pubblico. Completa il percorso espositivo
un approfondimento sulla cosiddetta
“Pittura di Realtà”; di grande
interesse il confronto, mai realizzato
prima, delle tre versioni
del Pescivendolo che sventra una rana
pescatrice. Un’occasione imperdibile
di vedere riunite le tre tele (quella
delle Galleria Nazionali, la versione
della Collezione Poletti e la terza,
proveniente dal Museo nazionale di
Varsavia, prestito eccezionale per la
mostra), restituendo loro il contesto
di provenienza e un’inedita lettura,
sia sul piano attribuzionistico che su
quello storico e iconografico, grazie
CULTURA
anche alle indagini diagnostiche
effettuate sulle prime due versioni.
Quella delle Galleria Nazionali, attribuita
prima al romagnolo Guido Cagnacci
e poi al fiorentino Orazio Fidani,
è in realtà opera di un grande pittore
napoletano della metà del XVII
secolo. E anche le altre due versioni,
quella Poletti e quella di Varsavia sono
riconducibili allo stesso ambito
culturale e alla stessa epoca. Sempre
nell’ambito della “Pittura di Realtà”
saranno esposti il Democrito di Jusepe
de Ribera e la Maddalena penitente
di ambito spagnolo, opere segnate
da una forte aderenza ai valori naturalistici
che muove dal mondo caravaggesco.
Le due tele, così come il Bacco e Fauno,
mettono in evidenza la qualità
del collezionismo di Geo Poletti: il
suo occhio e giudizio infallibili, oltre
alla lunga amicizia con il critico Roberto
Longhi, gli permisero di approfondire
soprattutto l’arte del Merisi,
dei caravaggeschi e di tutta la pittura
italiana e spagnola del Seicento. In
conclusione della mostra sarà dedicata
una giornata di studio a Palazzo
Corsini per approfondire la conoscenza
dei dipinti esposti, alla quale
verranno invitati studiosi e specialisti
del settore, nazionali e internazionali.
Non si poteva chiudere questa carrellata
di mostre in questa Roma autunnale
se non con un artista in cui
sfarzo e bellezza sono racchiusi in
una meravigliosa ode di materiali,
I C T .198 A 2020
CULTURA
G P - N
modellati con genialità tra porfido e
lapislazzuli, argento e bronzo dorato,
granito e pietre dure: a Villa Borghese,
salendo la scalinata della Galleria
si trovano due monumentali
lampade che Luigi Valadier (1726-
1785) realizzò per il santuario di Santiago
di Compostela. La Galleria Borghese
ha deciso infatti di dedicare la
grande mostra monografica dell’autunno
a Luigi Valadier (1726-1785),
protagonista del rinnovamento del
gusto a Roma alla metà del ‘700: Valadier:
splendore nella Roma del Settecento.
Quelli e molti altri pezzi preziosi
presenti anche all’interno del
palazzo, testimoniano che tutto ciò
che faceva quel disegnatore di talento,
anche designer, orafo, argentiere
e scultore in bronzo, diventava l'oggetto
del desiderio in una Roma dove,
a differenza di oggi, c’era il gusto,
la ricchezza e l'opulenza, tutti segni
distintivi delle dimore di chi contava
davvero: aristocratici, nobildonne,
sovrani di paesi lontani e, ovviamente,
i Papi.
Questa mostra è un vero e proprio
viaggio in quel mondo attraverso 87
opere esposte, non certo a caso, in
uno dei posti più amati e visitati della
città, visto il forte legame che Valadier
(a cominciare da Giuseppe, papà
di Luigi, noto architetto) aveva con il
principe Marcantonio Borghese che
lo coinvolse nel progetto di riconfigurazione
della villa, affidato all’architetto
Antonio Asprucci. Un percorso
espositivo importante, un
omaggio a quell’artista stimato da
molti, pagato da pochi (si suicidò
proprio per problemi economici gettandosi
nel Tevere) che già lo scorso
anno, la sofisticata Frick Collection,
la casa/museo del magnate dell’acciaio
Henry Frick sulla Quinta Strada,
aveva omaggiato con una mostra in
cui, tra le altre cose, veniva evidenziata
la sua grande bravura anche
nell’usare pietre preziose, smalto, legno
e vetro per creare opere uniche
per i suoi nobili e facoltosi clienti.
Ora sono esposte nelle sale della Galleria
Borghese assieme a disegni,
sculture sacre, arredi liturgici, argenti,
bronzi, centrotavola, metalli dorati
con marmi e pietre dure provenienti
da istituzioni internazionali e
da collezioni private poi raccolte
da Anna Coliva, direttrice del museo
e curatrice della mostra. Per l'occasione
è stato restaurato anche il
bronzo del San Giovanni Battista, in
prestito dal Battistero San Giovanni
in Fonte al Laterano, una rarità visto
che per la prima volta viene esposto
I C T .198 A 2020
al di fuori della sua nicchia. Troveremo
anche candelabri, coppie di tazze,
vasi, posate e centrotavola, come
quello di Caterina II di Russia. C’è
persino una “cantinetta” che altro
non è che un cofano per bottiglie in
argento dorato con lo stemma del
cardinale Enrico Benedetto Stuart,
duca di York, un cucchiaio e una
caffetteria con le iniziali coronate del
principe Camillo Borghese. Non mancano
opere sacre, ad esempio il servizio
per la messa pontificale del Cardinal
Orsini da Muro Lucano, le statue
di santi, San Luigi di Francia, San
Castrense, San Paolo, Santa Rosalia e
San Benedetto, in prestito dall'altare
della cattedrale di Monreale e riproduzioni
di statue antiche che arrivano
direttamente dal Louvre. In un disegno
in inchiostro nero, acquerello
grigio, bruno e rosa si può ammirare
il vassoio che fu realizzato in argento
CULTURA
cesellato proprio per i Borghese intorno
al 1783. Imperdibile, sempre
nella prima sala dopo l’ingresso, l’Erma
di Bacco, bronzo parzialmente
dorato, alabastro a rose, bianco e nero
di Aquitania di proprietà della Galleria
come a coppia di Tavoli dodecagonali
e, proseguendo nelle sale, la
Venere Callipigia, un bronzo che riproduce
un marmo del I secolo a.C.
rinvenuto presso la Domus Aurea,
una copia della Venere “dalle belle
natiche” che Valadier eseguì per Madame
du Barry. Altro pezzo forte,
l’Artemide Efesia in alabastro giallo,
già appartenente alla collezione Farnese,
ma poi trasportata a Napoli nel
1786 per formare il nucleo di antichità
del real Museo Borbonico. Un iter
artistico per in centro di Roma che
ricrea la mente e lo spirito.
Adriana Capriotti
F. Z - S
I C T .198 A 2020
Q
uale più esaltante e
gratificante spettacolo
per un appassionato
cultore della musica classica
quale io sono di vedere
attorno a se un pubblico
affascinato, quasi
ipnotizzato, dal concerto
di cui le ultime note andavano
sfumando, coperte
da calorosi applausi.
Come per tre precedenti
volte, per i tre concerti
diretti da Fayçal Karoui e
da Flavien Boy, mi sono sentito ringiovanito
di oltre 4 decenni, con la marea
di ricordi che affluivano alla mia
mente degli avvenimenti musicali di
altissimo livello vissuti grazie al
“Grand Orchestre Symphonique” degli
anni 1947 a 1960 sotto la direzione
di Louis Gava, Gaston Poulet, Jean
Clergue, l’allora giovanissimo e già
prestigioso Georges Prêtre...; all’
“Orchestre Classique de Tunis” del
“Centre Culturel International” diretto
da Anis Fuleihan dal 1962 al 1969;
dall’ “Orchestre Symphonique Tunisien”
creato nel 1969 da Salah El Mahdi
ed affidato fino al 1978 alla direzione
di Jean-Paul Nicollet.
MUSICA E SPETTACOLO
C 7 2019
C
di Daniele Passalacqua
I M H C (*)
Già da allora incominciava a farsi
sentire lentamente un declino qualitativo
man mano che gli ottimi strumentisti
italiani, e principalmente
quelli a fiato, lasciavano la Tunisia
per far ritorno sulla terra dei loro antenati.
Oggi alfine, con l’indefesso lavoro di
Hafedh Makni alla testa dell’
“Orchestre Symphonique de Carthage”
ed il contributo di eccellenti
Maestri invitati quali Patrice Pinero;
di Chedi Garfi e la sua “Orchestra da
Camera ad archi”, rafforzata secondo
le necessità da vari altri strumentisti;
dell’ “Orchestre Symphonique
Tunisien” sotto la guida del suo Di-
I C T .198 A 2020
rettore Musicale Hichem Amari,
completata dall’apporto di numerosi
fiati venuti dalla Francia e posta sotto
la direzione di grandi Maestri...
ritrovo conferma della rinascita della
musica sinfonica di alto livello e noto
con gran piacere la costituzione
di un pubblico fedele, attento, in costante
crescita numerica, capace di
riempire in due serate successive
tanto il Théâtre Municipal (1.000 posti),
quanto il Théâtre de l’Opéra
(1.800 posti).
Ed è proprio in quest’ultimo che è
stato dato il 7 marzo uno stupendo
concerto al quale consacro questa
mia cronaca, dedicato a Beethoven
MUSICA E SPETTACOLO
nel 250.mo anniversario della nascita,
per il quale è stato fatto appello
a tre talenti internazionali, la violinista
canadese Hélène Collerette, la
pianista francese Elisabeth Sombart
ed il Maestro spagnolo Diego Miguel
-Urzanqui.
Quest’ultimo si è immediatamente
rivelato essere un Direttore ispirato
e dinamico. Sotto il suo galvanizzante
impulso, grazie al suo gesto elegante,
autorevole e comunicativo,
dimostrando piena padronanza delle
opere dirette, l’orchestra (gli ottimi
archi tunisini rafforzati da una
ventina di altrettanto ottimi fiati e
percussionisti francesi) aveva rag-
H C (*)
I C T .198 A 2020
E S (*)
giunto una fusione di rara intensità,
una grande precisione negli attacchi
ed una stupenda qualità del suono,
essendo ammirevole ad ogni istante.
Egli dava così un solidissimo ed altamente
musicale sostegno alle soliste,
contribuendo altamente al successo
della serata, che aveva inizio
con il “Concerto per violino ed orchestra
in re maggiore op.61”, affidato
al talento di Hélène Collerette.
Quest’opera è incontestabilmente
da annoverare fra i maggiori capolavori
in questo campo. Probabilmente
composto in un momento di grande
serenità nella vita dell’autore,
questo “Concerto” è di una assai importante
densità orchestrale, che
tuttavia non sovrasta mai il discorso
del solista, consentendogli di esprimere
tutta la sua virtuosità, tutta la
MUSICA E SPETTACOLO
sua sensibilità.
Ed Hélène Collerette
ne ha
da rivendere.
Traendo con
delle mani di
fata dei sontuosi
suoni dal
Guarnieri del
Gesù del 1732
di cui dispone,
si è immediatamente
imposta
come l’ideale
interprete di
questo
“Concerto”, sin dai primi accenti del
suo intervento nel primo tempo
“Allegro ma non troppo”, subito dopo
il vasto preambolo orchestrale. È
in modo fremente che ne ha esposto
i ricchi ornamenti conducenti alla
monumentale cadenza ed all’ampia
coda, colmando così l’attesa di chi
questi preziosi istanti attendeva,
piazzandola al livello di tanti grandi
che conobbi o ascoltai nel passato.
L’ultimo vibrante accento è stato
sommerso dagli applausi che accomunavano
solista, maestro ed orchestra.
Giunti a questo punto anelavo a veder
prolungati questi istanti di felicità
grazie alla seconda parte della serata
che era stata affidata alla pianista
Elisabeth Sombart, creando così
un ben raro ed eccezionale avveni-
I C T .198 A 2020
MUSICA E SPETTACOLO
E S M (**)
mento.
Non ho difatti ricordo di simili occasioni,
in cui due insigni solisti strumentali
si succedano, ad eccezione
delle serate in cui ci è offerto il
“Triplo concerto in do maggiore
op.56” di Beethoven, in cui pianista,
violinista e violoncellista devono fare
a gara per esaltare la loro musicalità,
il loro talento.
E me ne sono rallegrato poiché anche
con Elisabeth Sombart abbiamo
raggiunto le vette della grande musica
classica.
Ammaliandoci subito con il gran fascino
che emana dalla sua persona,
Elisabeth Sombart si è rivolta al pubblico
con estrema semplicità, evocando
quale ammirazione Victor Hugo
nutriva per Beethoven, parlandoci
dell’importanza che la musica ha
sull’essere umano ed intrattenendoci
della “Fondazione Résonnance”
da lei creata nel 1998, oggi esistente
in 6 paesi europei e nel Libano, la cui
finalità è di “portare la musica là dove
non ce n’è”, offrendo concerti negli
ospedali, nelle case di riposo, nelle
prigioni, nei campi profughi, dei
concerti di beneficenza, creando
delle scuole di insegnamento della
musica. Questo suo intensa compito,
quasi una missione, condiviso da
Diego Miguel-Urzanqui che cappeg-
I C T .198 A 2020
MUSICA E SPETTACOLO
H C ’ (*)
gia il ramo spagnolo, non intralcia
apparentemente in alcun modo l’attività
di concertista internazionale di
questa allieva del grande Bruno Leonardo
Gelber, che ha dato subito
prova del suo immenso talento
affrontando l’interpretazione del
“Concerto in sol maggiore N°4”.
Superando come per incanto l’aridità
di un ingrato strumento, è stata
capace (come lo fu in verità Victorien
Vanoosten il 26 aprile 2019) di
infondergli calore e colore, traendone
delle seducenti sonorità già dai
primi accenti del primo tempo
“Allegro moderato”, nell’esposizione
del tema, spianando con infinita
dolcezza la via all’orchestra, trascinandola
in seguito con ardore.
Nel successivo “Andante con moto”
il dialogo è andato confermandosi e
sviluppandosi
grazie alla grande
complicità fra
solista e direttore,
la prima infondendo
tanta
poesia nelle sue
frasi, esaltando
la bella ed ampia
cadenza, per
passare infine al
“Rondo” finale,
in cui il pianoforte
diviene maestro
con i brillanti
arpeggi che
Elisabeth Sombart affrontava in modo
ammirevole, distillando infinita
poesia e dimostrando contagiosa
energia nel costante dialogo con
l’orchestra, per raggiungere assieme
l’apoteosi di una potente e luminosa
conclusione.
Estasiato da tanta bellezza, il pubblico
riservava allora ad Elisabeth Sombart,
a Diego Miguel-Urzanqui ed
agli orchestrali fragorosi trionfali applausi.
Ed è tanta riconoscenza che
era testimoniata a Hélène Collerette,
Elisabeth Sombart, Diego Miguel-
Urzanqui ed all’orchestra tutta per
averci consentito vivere tali esaltanti
momenti.
(*) foto fornite dal Teatro
(**) foto dell’autore
I C T .198 A 2020
MARGINALIA
note di cultura mediterranea
a cura di Franca Giusti
“è a margine di una pagina d’altri che ci si annota”
[Delino Maria Rosso in www.gliannidicarta.it]
S
S P
“Te l’ho detto anche prima: senza il
popolo non posso agire nemmeno
con il potere che ho”. A parlare così
è Pelasgo, il re di Argo. Pelasgo era
consapevole di essere investito di
ogni potere ed era altresì consapevole
che a tale investitura aveva concorso
il suo popolo, tutto insieme
all’unanimità, πανδημία. Questa è la
parola, il termine utilizzato da Eschilo
ne Le Supplici, al versetto 607.
Eschilo è per lo più conosciuto per
essere uno dei tre autori delle tragedie
greche dell’antichità eppure fu
L M - I
I C T .198 A 2020
MARGINALIA
anche un soldato, partecipe entusiasta
dell’intenso ritmo di vita imposto
dalla progredita costituzione democratica
e dalle vicende politiche e militari
dello Stato ateniese. Eschilo
non si schierò con gli eupatridi impegnati
tra aspirazioni di agoni e banchetti,
egli fece proprio l’ideale degli
opliti ateniesi in lotta contro il barbaro
per la libertà della Grecia e di Atene
e partecipò con la borghesia abbiente
alle battaglie di Maratona, Salamina
e Platea. Il nemico non si vince
con l’inerzia, non stando fermi ad
aspettare ma sfoderando, coralmente,
πανδημία, tutti insieme le armi
da combattimento. Questo era il
principio su cui era fondata la potenza
ateniese, il principio della
πανδημία, tutti insieme all’unisono.
Tutti insieme, o si vince o si muore.
Non solo nelle guerre armate ma anche
in quelle in tempi di pace. Al secondo
anno della guerra del Peloponneso,
quando una vittoria ateniese
sembrava ancora a portata di mano,
un’epidemia di peste colpì la città-stato.
L’Atene periclea fu decimata
da un’epidemia di peste, una pandemia
diversa da quella nobile di cui
parlava Eschilo, un focolaio di peste
entrò forse dal Pireo, il porto che costituiva
la fonte di cibo e rifornimenti.
Il focolaio, sedato nel corso
dell’anno, tornò, sempre d’inverno,
nei due anni successivi. Essendo la
maggior parte dell’attività concentrata
in città ed attorno al porto, furono
in molti ad abbandonare le
campagne e trasferirsi ad Atene, città
per altro già piuttosto affollata,
che diventò una vera fossa comune.
Tra le vittime illustri di quella pandemia
vi fu lo stesso Pericle con tutta la
famiglia, moglie e figli. Il cronista di
allora fu Tucidide. Storico contemporaneo,
fededegno e considerato
uno, anzi il primo, storico scientifico.
Descrisse la malattia nei suoi aspetti
ed avanzò l’ipotesi che la piaga fosse
giunta dall’Etiopia attraverso l’Egitto
e la Libia e osservò l’impotenza dei
medici innanzi al propagarsi di un
contagio di cui non conoscevano la
natura ed essi stessi ne morivano più
di tutti poiché in contatto con i malati.
La disinfestazione consisteva nel
dar alle fiamme i quartieri focolai.
Appena un terzo della popolazione
sopravvisse. I roghi si vedevano anche
da lontano anche dal mare tanto
che gli spartani decisero il ritiro delle
loro truppe. In guerra con un nemico
conosciuto si può decidere come agire
e reagire ma contro l’ignoto no e
gli spartani si ritirarono temendo il
contagio. Molti marinai morirono
con Pericle.
Benché la lucidità di Tucidide non lasciasse
spazio a dubbi sul modus operandi
della malattia, tra gli antichi era
convinzione comune che pandemie
di questo genere fossero punizioni
divine, pene inflitte agli uomini per
I C T .198 A 2020
MARGINALIA
qualche loro grave colpa. Nell’Iliade
si legge di una terribile pestilenza cagionata
da Apollo, il dio che, sul campo
acheo durante la guerra di Troia,
punì così l’offesa di Agamennone. Il
guerriero si dimostrò restio a consegnare
a Crise, al sacerdote di Apollo,
la figlia Criseide ormai schiava di Agamennone.
Atena vendicò la violenza
su Cassandra diffondendo la terribile
pestilenza su tutta la locride.
Il racconto di Tucidide sulla peste di
Atene rende bene l’idea di come
un’epidemia possa incidere sul funzionamento
di una società. Lo storico
descrive non solo il senso di impotenza
e disorientamento della popolazione
davanti a un male sconosciuto,
per il quale non ci sono rimedi,
ma anche l’idea che, non avendo gli
individui più nulla da perdere, fosse
ormai inutile rispettare le leggi.
“Nessuno, dice Tucidide, obbediva
più agli ordini della autorità, nessuno
si preoccupava di raggiungere quegli
obiettivi che prima erano ritenuti importanti”.
Nel racconto dello storico,
la peste diventa anche metafora, immagine
di una crisi profonda dell’umanità.
In tutta l’antichità gli dei puniscono
con la malattia gli uomini
che non seguono i comandamenti divini,
indipendentemente che siano
stati scritti oppure no. Si tratta di diritto
naturale. Nel mito di Antigone,
le norme etiche, nate con l’uomo,
non possono esser violate, nemmeno
se è la legge ad
imporlo. È il quesito
di sempre, cosa è
giusto e cosa noi, chi
stabilisce cosa è giusto
e cosa no.
Idomeneo era re di
Creta. Per ottenere
un favore dagli dei T
durante il viaggio di ritorno, Idomeneo
promise di sacrificare in loro
onore la prima persona che avrebbe
incontrato in patria. Incontrò sua figlia.
Non assecondò l’etica umana
non cedette all’amore paterno, mantenne
la promessa ma gli dei ne furono
sdegnati. L’amore paterno è naturale,
non una regola scritta e gli dei
colpirono l’isola di Creta con un’epidemia
che ebbe termine solo quando
il re andò in esilio. Nella mitologia antica,
al tempo delle divinità capricciose
ed egoiste, l’umana condizione di
malattia e morte era punizione divina
e non caratteristica propria di un
corpo appunto mortale. Nella mitologia
antica e nel comune pensiero
antico, le colpe del singolo ricadono
sulla collettività, su tutta la popolazione.
Abbandonati i tentativi di
comprendere le cause dei contagi
epidemiologici, lo scenario funesto
stimola l’immaginario della società e
diventa lo sfondo di molteplici opere
letterarie di tutti i tempi, la più famosa,
forse, fra tutte, è l’opera manzoniana
de I Promessi Sposi. La criticità
I C T .198 A 2020
C P
MARGINALIA
di una situazione drammatica qual è
quella di un paese di morti, in scacco
ad una pandemia, è terreno fertile
per l’innesco di intrecci complessi
con risvolti politici, economici, culturali
nonché intrecci politici ed economici
con risvolti negativi sulla popolazione
unita nel dramma prima e
nella rabbia dopo. Il nemico attacca
ciascuno singolarmente, lo infetta
con la paura e la malattia, in modo
subdolo ed insidioso, di petto e di
spalle, senza che la collettività riesca
a pareggiare le armi. Nelle pagine di
Tucidide si legge il dramma nel dramma:
la città, nell’emergenza, non riusciva
più a seppellire i morti secondo
i riti tradizionali. Ad Atene, comunque,
nel 430 a.C. il problema era il sovraffollamento:
c’era la guerra con
Sparta, e la città era piena di sfollati
arrivati dalle campagne. Per questo il
contagio si diffuse così rapidamente.
Dentro la città sovraffollata, si alternavano
momenti di disperazione solitaria
e momenti di solidarietà. Scrive
Tucidide: “Se gli ateniesi per paura
non volevano andare l’uno dall’altro,
morivano abbandonati; se invece
si accostavano alle persone, morivano
per il contagio, specie quelli
che cercavano di agire con generosità”.
Uno scenario inquietante quello
che Sparta si trovò innanzi, oltre ai
roghi. Se il morbo arrivasse davvero
dagli dei, dagli stranieri o dalla caratteristica
di esseri “mortali”, la letteratura
si fa specchio di un’umanità
alla ricerca di miracoli. Non importa
da dove possano arrivare, si intona
coralmente l’inno nazionale, la canzone
tormentone dell’anno scorso,
si alternano preghiere in diverse lingue
e fedi. Tucidide sa di cosa parla,
la sua narrazione è lineare perché
egli stesso è un miracolato, sopravvissuto
alla peste, a quella peste arrivata
da lontano. Da lontano arrivarono
anche le pandemie nell’impero
romano. Arrivarono a Roma viaggiando
su navi o carovane che percorrevano
le vie dei commerci quella
che oggi chiamiamo via della seta e
fu così che anche i cittadini dell’antica
Roma convivevano con atteggiamenti
razionali alternati a pulsioni
meno razionali. Da un lato, la necessità
di trovare l’untore, imputare a
qualcuno, al paziente n.0, la colpa
primaria e dall’altro lato, Greci e Romani
cercavano conforto nella protezione
divina oltre che nel consulto
medico. Superstizione e scienza, nel
dubbio, tentare ogni strada.
I C T .198 A 2020
AMBIENTE E TURISMO
A
SAVEMEDCOASTS
L
’INGV ospita il kick off meeting di
SAVEMEDCOASTS-2, la seconda
fase operativa del progetto europeo
volto a mitigare i rischi legati agli
effetti di aumento del livello marino
sulle zone costiere del Mediterraneo.
Si è tenuto all’inizio di quest’anno,
nella Sede di Roma dell’Istituto Nazionale
di Geofisica e Vulcanologia
(INGV) l’incontro tra i partner che ha
dato ufficialmente il via alla seconda
fase operativa del progetto europeo
SAVEMEDCOASTS, partita lo scorso
2 dicembre 2019. Obiettivo del progetto,
prevenire gli effetti dell’aumento
del livello marino globale per
la fine di questo secolo, causato dai
cambiamenti climatici.
SAVEMEDCOASTS-2 (Sea Level Rise
Scenarios along the Mediterranean
Coasts-2), prosegue quindi le attività
del precedente progetto SAVE-
MEDCOASTS realizzato fra il 2017 e il
2019, ed è nuovamente coordinato
dall’INGV con finanziamenti erogati
dalla European Union Humanitarian
Aid and Civil Protection (DG-ECHO)
per il biennio 2019-2021, proponendosi
come sostenitore della prote-
V. A S M
I C T .198 A 2020
zione civile europea nella valutazione
dei rischi costieri.
“Tra le attività previste dal progetto”,
ha spiegato Marco Anzidei, ricercatore
INGV e coordinatore di SA-
VEMEDCOASTS-2, “sensibilizzare le
comunità costiere sugli effetti
dell'aumento del livello marino causato
dai cambiamenti climatici e dalla
subsidenza in zone specifiche del
Mediterraneo, integrando quindi le
proiezioni climatiche nella gestione
dei disastri naturali”.
Nel corso dell’incontro, i partner
INGV, ISOTECH (Cipro), CGIAM
(Italia), AUTH (Università di Salonicco,
Grecia), CTTC (Spagna), Fondazione
CMCC (Italia) e FARBAS (Italia)
e Comune di Venezia (Italia) ha discusso
le attività progettuali, in
particolare l’utilizzo dei dati satellitari
e topografici analizzati insieme
ai dati climatici dell’IPCC
(Intergovernmental Panel on Climate
Change) e di altre ricerche indipendenti
per realizzare scenari di rischio
in aree specifiche, informando i soggetti
interessati.
“In questa seconda fase del progetto”,
ha proseguito Anzidei”, “gli
sforzi saranno concentrati su alcuni
dei principali delta fluviali e zone lagunari
del Mediterraneo, dove la
AMBIENTE E TURISMO
subsidenza naturale e antropica accelera
gli effetti dell’ingressione marina,
con conseguenti maggiori rischi
di sommersione di tratti costieri ad
alto valore naturale ed economico
ed effetti a cascata sulle attività
umane”.
In particolare, con il Comune di Venezia,
partner del progetto, sono
stati valutati i nuovi scenari attesi
per questa città costiera da qui al
2100 per preparare la popolazione
alle emergenze come quella dello
scorso novembre 2019, quando il livello
marino ha raggiunto i 188 cm di
altezza.
Poiché gli effetti esercitati da mareggiate,
alluvioni, erosione costiera e
tsunami saranno amplificati con un
livello marino più alto di quello attuale,
SAVEMEDCOASTS-2 si propone
di mitigare questi rischi, fornendo
scenari multi-temporali dell’ingressione
marina per i prossimi decenni,
preparando le persone e i soggetti
politici ad affrontare questi cambiamenti
anche attraverso campagne di
sensibilizzazione ed educazione mirate.
Valeria De Paola
Capo Ufficio Stampa
Istituto Nazionale
di Geofisica e Vulcanologia (INGV)
I C T .198 A 2020 AMBIENTE E TURISMO
T
P C I 'U
L
’11 dicembre 2019 il Comitato per
il patrimonio culturale immateriale
dell’UNESCO (Organizzazione delle
Nazioni Unite per l’Educazione, la
Scienza e la Cultura), ha dichiarato
la transumanza Patrimonio culturale
immateriale dell’Umanità.
Questa pratica, le cui origini si perdono
nei millenni precedenti, si caratterizza
per il suo forte valore
identitario e culturale ed è strettamente
legata alla territorio e alle
persone ; rappresenta la migrazione
stagionale delle greggi, delle mandrie
e dei pastori che, insieme ai loro
cani e ai loro cavalli, si spostano
in differenti zone climatiche percorrendo
le vie semi-naturali dei tratturi.
Il viaggio dura giorni e si effettuano
soste in luoghi prestabiliti, noti
come "stazioni di posta".
È ancora oggi praticata nel Centro e
Sud Italia, dove sono localizzati i Regi
tratturi, partendo da Amatrice
(nella cui piazza principale si svolgeva
storicamente la grande festa dei
pastori transumanti) e Ceccano nel
Lazio ad Aversa degli Abruzzi e Pescocostanzo
in Abruzzo, da Frosolone
in Molise al Gargano in Puglia.
Pastori transumanti sono ancora in
attività anche nell'area alpina,
in particolare in Lombardia e nel Val
Senales in Alto Adige.
La transumanza continua infatti a vivere
grazie alle famiglie di pastori e
mandriani che continuano a praticarla,
in perfetta armonia con l’ambiente,
praticando un metodo di allevamento
sostenibile ed efficiente.
Il riconoscimento riguarda tutta l'Italia,
dalle Alpi al Tavoliere: le comunità
emblematiche indicate nel dossier
come luoghi simbolici della transu-
I C T .198 A 2020
AMBIENTE E TURISMO
manza sono diverse, tra cui i comuni
di Amatrice (Rieti) da cui è partita la
candidatura subito dopo il devastante
terremoto, Frosolone (Isernia),
Pescocostanzo e Anversa degli
Abruzzi Lacedonia in Alta Irpinia
(Campania), San Marco in Lamis e
Volturara Appula in provincia di Foggia,
insieme a territori della Lombardia,
la Val Senales in Trentino Alto-
Adige, e la Basilicata. I pastori transumanti,
come sottolinea il dossier di
candidatura presentato dall'Italia insieme
a Grecia e Austria, hanno una
conoscenza approfondita dell'ambiente,
dell'equilibrio ecologico tra
uomo e natura e dei cambiamenti climatici.
Questo è il decimo riconoscimento
per l'Italia in questa lista - sottolinea
il curatore del dossier di candidatura,
Pier Luigi Petrillo - e ci porta
il primato mondiale dei riconoscimenti
in ambito agro-alimentare, dopo
l'iscrizione nel Patrimonio Culturale
Immateriale della Dieta Mediterranea,
la Pratica della coltivazione
della vite ad alberello di Pantelleria,
l'Arte del Pizzaiuolo napoletano, della
tecnica dei muretti a secco e dei
paesaggi vitivinicoli delle Langhe e
del Prosecco. Il Molise ora mira a
« trasformare il nostro patrimonio
riconosciuto da immateriale a materiale
grazie a un progetto-pilota che
si spera possa vederci capofila e che
sarà presentato a Parigi a febbraio
2020 » spiega il presidente dell’Agenzia
di Sviluppo Locale Asvir Moligal
diretta da Nicola Di Niro. L’obiettivo
è creare una rete di borghi raggruppati
attorno al tratturo con Ripalimosani,
Santo Stefano e Campobasso. Il
successivo, decisivo step da superare:
il riconoscimento come patrimonio
materiale. E per fare questo si sta
mettendo insieme un progetto complesso,
organico, che racchiuda l’intera
cartografia dei percorsi
‘pecuarie’ d’Europa. In effetti,
il Molise ha l’orgoglio e l’onore di
rappresentare un po’ tutte le transumanze
europee. “Il nostro progetto
riguarda il tratto del tratturo San
Marco in Lamis-Frosolone e la parte
centrale (Ripalimosani - Santo Stefano-Campobasso)
può e deve diventare
un modello di valorizzazione del
borgo. L’obiettivo è creare una rete
fitta tra i borghi che possa costruire
un nuovo sviluppo per la nostra terra”
aggiunge Di Niro. I partner italiani
del progetto sono per ora i territori
di sei regioni: oltre al Molise, alla
Puglia e all’Abruzzo ci sono anche
Lazio, Basilicata e Campania e fra poco
si unirà la Sardegna, e hanno fatto
richiesta dal Nord sia il Veneto che il
Piemonte. A livello europeo sono
presenti Austria e Grecia, oltre alle
richieste giunte da Spagna, Francia,
Bulgaria, Romania e Albania, e nel
Nord Europa Norvegia e Svezia, per
ampliare la candidatura.
I C T .198 A 2020
P
er prevenire il contagio e limitare il
rischio di diffusione del nuovo coronavirus
è fondamentale la collaborazione
e l’impegno di tutti a osservare alcune
norme igieniche. Nel Dpcm pubblicato in
Gazzetta ufficiale il 4 marzo è chiesto a
scuole, università e uffici pubblici di
esporre le seguenti misure di prevenzione
igienico sanitarie, e ai sindaci e alle associazioni
di categoria di promuoverne la
diffusione anche negli esercizi commerciali
(dalle farmacie ai supermercati).
Le raccomandazioni.
- Lavarsi spesso le mani. Si raccomanda di
mettere a disposizione in tutti i locali
pubblici, palestre, supermercati, farmacie
e altri luoghi di aggregazione, soluzioni
idroalcoliche per il lavaggio delle mani.
- Evitare il contatto ravvicinato con persone
che soffrono di infezioni respiratorie
acute.
- Evitare abbracci e strette di mano.
- Mantenimento, nei contatti sociali, di
una distanza interpersonale di almeno un
metro.
- Igiene respiratoria (starnutire e/o tossire
in un fazzoletto evitando il contatto delle
mani con le secrezioni respiratorie).
- Evitare l'uso promiscuo di bottiglie e bicchieri,
in particolare durante l'attività
sportiva.
- Non toccarsi occhi, naso e bocca con le
SALUTE E BENESSERE
C-19
M S
mani.
- Coprirsi bocca e naso se si starnutisce o
tossisce.
- Non prendere farmaci antivirali e antibiotici,
a meno che siano prescritti dal
medico.
- Pulire le superfici con disinfettanti a base
di cloro o alcol.
- Usare la mascherina solo se si sospetta
di essere malati o se si presta assistenza a
persone malate.
Perché le raccomandazioni di distanziamento.
L'Istituto superiore di sanità (Iss) sottolinea
che queste misure di distanziamento
sociale "hanno lo scopo di evitare una
grande ondata epidemica, con un picco di
casi concentrata in un breve periodo di
tempo iniziale che è lo scenario peggiore
durante un'epidemia per la sua difficoltà
di gestione". "Nel caso del coronavirus -
spiega l'Iss - dobbiamo tenere conto, inoltre,
che l'Italia ha una popolazione anziana,
peraltro molto più anziana di quella
cinese, e bisogna proteggerla il più possibile
da contagi. Le misure indicate dalle
autorità quindi vanno seguite nella loro
totalità".
Consultare per aggiornamenti il primo
piano dell'Istituto superiore di sanità:
https://www.iss.it/web/guest/primo-piano/-/
asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/
id/5284618
SALUTE E BENESSERE
C-19
M S
A ’A
I C T .198 A 2020
L
’attuale diffusione del Covid-19 è il risultato
della trasmissione da uomo a
uomo. Ad oggi, non ci sono prove che gli
animali da compagnia possano diffondere
il virus. Pertanto, non vi è alcuna giustificazione
nell’adottare misure contro gli animali
da compagnia che possano comprometterne
il benessere. Tuttavia, dal momento
che gli animali e l’uomo possono
talvolta condividere alcune malattie (note
come malattie zoonotiche), è necessario
sempre e non solo per il timore del Covid-
19, che vengano adottate sempre le normali
misure igieniche raccomandate da
medici e veterinari per evitare la diffusione
delle malattie.
Il Ministero della Salute, in accordo con
quanto espresso da autorevoli Organismi
internazionali, raccomanda il rispetto delle
più elementari norme igieniche quali lavarsi
le mani prima e dopo essere stati a
contatto o aver toccato gli animali, il loro
cibo o le provviste, evitare di baciarli, farsi
leccare o condividere il cibo. Al ritorno
dalla passeggiata, pulire sempre le zampe
evitando prodotti aggressivi e quelli a base
alcolica che possono indurre fenomeni
irritativi. Piccoli accorgimenti che ci permettono
di ridurre al minimo il rischio di
introdurre in casa, al termine di una passeggiata,
patogeni che potrebbero diffondersi
negli spazi comuni. Nelle abitazioni
in cui ci sono soggetti affetti o sottoposti
a cure mediche per Covid-19 si devono evitare,
per quanto possibile, i contatti ravvicinati
con i propri animali così come si fa
per gli altri conviventi e fare in modo che
se ne occupi un altro familiare.
La presenza di un animale in casa può considerarsi
una grande opportunità per tutta
la famiglia, sia da un punto di vista educativo
che sociale.
Grandi e piccini possono trarne benefici,
soprattutto in questo momento di disagio
e difficoltà. L’interazione con gli animali è
fonte di arricchimento interiore, di stimoli
sensoriali ed emozionali; in particolare il
rapporto con il cane è fondato sulla fiducia
e sul rispetto reciproco e contribuisce
a migliorare la qualità della vita che purtroppo
in questi giorni ha subito un cambiamento
repentino.
Il contatto con un animale accresce la disponibilità
relazionale e comunicativa,
contribuendo, attraverso la cura e le attenzioni
verso l’animale, a sviluppare un
impatto positivo sull’umore, riducendo la
solitudine, stati d’ansia e depressione.
Pertanto, è doveroso sottolineare che abbandonare
un animale che abbiamo scelto
come componente della famiglia non è
solo un gesto ignobile e deprecabile ma è
anche un reato sancito dal codice penale
(art. 727 c.p.).
I C T .198 A 2020
Frittelle di cavoliore senza uova
Torta alle pere
CUCINA
Ingredienti (per 4 persone)
- Mezzo cavolfiore
- 4 cipolline a fettine
- Mezza tazza di formaggio parmigiano grattugiato
- 2 cucchiai di farina
- Un pizzico di lievito in polvere
- Sale e pepe q.b.
- Olio di semi per frittura
Procedimento
Pulite e lavate bene il cavolfiore, e poi fatelo
cuocere in abbondante acqua salata.
Fate raffreddare e poi trasferite il cavolfiore
in una terrina capiente.
Aggiungete anche le cipolline, il formaggio,
la farina e il lievito.
Mescolate bene fino a quando gli ingredienti
non risultino ben amalgamati e aggiustate di
sale e pepe.
Una volta ottenuto un composto della giusta
consistenza, fate riscaldare l’olio di semi in
una padella e poi, a poco a poco, prelevate
l’impasto con un cucchiaio e versatelo nell’olio.
Fate friggere fino a quando le frittelle di cavolfiore
risulteranno dorate e poi adagiatele
su un foglio di carta da cucina. Servitele in
tavola ben calde.
Ingredienti
- 2 uova;
- 200 gr. farina 00;
- 80 gr. zucchero (va bene anche quello di canna);
- 2 pere kaiser mature e compatte;
- 1 bustina di lievito per dolci;
- 50 gr. di yogurt bianco (anche di soya);
- un pizzico di sale e di cannella.
Procedimento
In una terrina rompere le uova, aggiungere lo
zucchero e mescolare bene con una forchetta.
Aggiungere la farina gradualmente e mescolare
l’impasto con un cucchiaio per renderlo bello
omogeneo. Se è troppo pastoso versare un
goccio di latte. Potrete aggiungere lo yogurt
(la ricetta prevederebbe burro fuso ma lo yogurt
è decisamente più light), il sale, una spolverata
di cannella e il lievito. Mescolate per
bene finché l’impasto sarà privo di grumi. Aggiungete
poi le due pere tagliate a fette grossolane
e messo da parte in una ciotola. Per insaporirle,
spremervi del limone e lasciarle un
po’ macerare. Inseritele delicatamente nell’impasto
e mescolate. Imburrate una teglia e versateci
l’impatto in modo uniforme. Infornare
per 35 minuti a 180 °C e prima di togliere dal
forno fate la prova dello stuzzicadenti. Fate
raffreddare e servite, se preferite con una
spolverata di zucchero a velo.
I C T .198 A 2020
P
C
PASSATEMPO
Orizzontali
1. Il monte più alto della terra - 7. Percorso di pratica - 11. Il nome di
Banfi - 12. Monasteri - 14. Andato poetico - 15. Tra indice e anulare -
16. Pubblica Sicurezza - 17. Targa di Taranto - 18. Uno dei sette colli
di Roma - 19. Nipote di Abramo - 20. Confeziona abiti su misura - 21.
Taluni sono di coccio - 22. Nome di donna - 23. Membrana che divide
una cavità dall'altra - 24. Carnivori con folta e lunga coda - 25.
Senza vita - 26. Gioco d'azzardo - 27. C'è quella canina - 29. Appello
disperato - 30. Si subiscono ingiustamente - 31. Le prime dell'alfabeto
- 32. Ancona - 33. Contenta, felice - 34. Struzzo australiano - 35.
Aiuto, rimedio - 37. Il dio Marte in Grecia - 38. Animale che se la ride
- 39. Pezzi di legno che ardono.
Verticali
1. La crema della crema - 2. La misura la sarta - 3. Vino nei prefissi - 4.
Lettera dell'alfabeto greco - 5. Preferita ed eletta - 6. Noia - 7. Andato
- 8. Torino - 9. Messo alla vista di tutti - 10. Recalcitrante - 13. Piccolo
fiumiciattolo - 15. Sulle torri delle fortezze antiche - 18. - Pesce
d'acqua dolce - 19. L'alimento principale dei neonati - 20. La città di
un San Francesco - 21. Pezzi di poesia - 22. Possedimenti all'estero di
uno Stato sovrano - 23. Un momento di riposo - 24. Il Giorgio autore
della prima storia dell'arte - 25. Bocche da fuoco di grosso calibro -
27. Tramezzino... esotico - 28. Illeciti - 30. Segue il bis - 31. Vale così
sia - 33. Galleggiante acquatico - 34. Fu amata da Leandro - 36. Sana
senza eguali - 37. La prima e l'ultima dell'alfabeto.
S C
197
Rispettando le cifre inserite, completate il riquadro
così che in ogni riga, colonna e quadrato risultino
tutte le cifre da 1 a 9.