Batsceba Hardy - The-Apartment

Batsceba Hardy
e Apartment
L’appartamento
PPH

Copyright © Batsceba Hardy 2019
Graphic Design: Batsceba Hardy, Massimo Giacci
English Translation: Batsceba Hardy, Michael Haugh
Progressive Publishing House
All texts and illustrations contained in this book are subjected to copyright.
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e photographs in this book are realized by capturing moments of daily life in public places and
have been realized without a lucrative purpose with exclusively cultural and artistic intent.

e Apartment
Batsceba Hardy
L’appartamento
PPH

L’appartamento

L’appartamento
Non so perché vi racconto questa storia. Qualcuno passando per caso dal mio
caffè, potrebbe riconoscermi.
Mi chiamo Maria. Maria come milioni di altre Marie. In realtà avrei anche
un altro nome, come quasi tutte le Marie – soprattutto quelle con madre sudamericana
– ma da quando ho la residenza qui, a Berlino, l’ho seppellito insieme
alla vecchia carta d’identità lungo le rive del Nikolassee in una notte di
luna piena…
Sì, come no? L’ho seppellita sul fondo di un cassetto nel mio appartamento
sulla Danziger Straße, fra la Prenzlauer Allee e la Schönhauser Allee, quarto
piano senza ascensore. Lato al sole, in una di quelle rare case grigie residuate
della DDR che resiste ancora, non si sa per quanto, alla pressione del renoviert
e del saniert e dove i ragni hanno intessuto lunghissime autostrade di ragnatele
fra i tubi esterni, grandi e stretti, orizzontali e verticali.
Sono nata a Parigi e ho trascorso la mia adolescenza a Roma. Mia madre
è ecuadoriana e mio padre è di Boston. Ho sempre avuto il dubbio che appartenesse
alla CIA, e per questo motivo me ne sono andata di casa non appena
ho potuto.
Così ho fatto un bachelor e un master a Londra, non importa in cosa. Poi
ho cercato di ambientarmi a Copenaghen, inseguendo una ragazza dagli occhi
gialli. E infine sono approdata a Berlino est, nel cuore di Prenzlberg.
Non chiedetemi perché. Non ho mai vissuto ragionando. Forse mi ha guidata
quello che io chiamo il mio gene Spia, quello che ho ereditato da mio
padre, oltre all’altezza, un metro e ottanta senza tacchi. Dove avrei potuto
L’appartamento /

L’appartamento

assecondare il mio istinto di ficcare il naso, se non nella patria della Stasi?
Credo non ci sia bisogno di spiegare cosa sia il Ministerium für Staatssicherheit,
o chi sia il capitano Gerd Wiesler di Das Leben der Anderen.
Di Berlino parlano tutti e troppo. Tutti arrivano. Pochi imparano il tedesco.
E meno ancora si fermano. È una città di transito. Per me è stata una
meta.
Anche loro sono arrivati per caso. Sebastian è arrivato per primo. È entrato
nel mio bar in una giornata di vento, portando con sé una folata fredda.
Si è seduto sulla poltrona sfondata nell’angolo della saletta posteriore, vicino
al vecchio jukebox. Ha poggiato a terra la borsa di pelle, una di quelle non costose,
di un colore fra il marrone e il vinaccia. Orribile. Si guardava attorno con
l’aria del venditore di case in cerca di clienti. Ormai li riconosco alla prima occhiata.
Qui a Berlino è una professione delle più frequenti, perché tutta la città
è in svendita. Gli investitori si dice comprino addirittura indicando con il dito
l’oggetto sulla carta, senza nemmeno vederlo. Italiani, greci, e gli immancabili
giapponesi. Comprano quello che i danesi hanno acquistato subito dopo la caduta
del muro e ora rivendono. Insomma la solita storia capitalista che non ho
intenzione di spiegare. So solo che se non riuscirò più a pagare l’affitto del mio
locale chiederò a mio padre di investire a Berlino. Sì, come no?
Tornando a Sebastian, avevo capito che si trattava di un agente immobiliare,
ma non che non fosse tedesco. Insomma, non aveva la tipica faccia del
trentenne italiano che cerca di sopravvivere nella città più accogliente d’Europa:
niente naso importante e niente pochi capelli disordinati in testa. E soprattutto
niente grasso attorno alla vita, direi piuttosto il contrario: le ossa
spuntavano sotto i vestiti. I capelli lunghi, leggermente brizzolati, che teneva
raccolti a codino e l’aspetto, alquanto distonico, hanno completato l’inganno.
Mi sono rivolta a lui con una battuta: – Troppo vento per godere il sole. –
A cui non ha risposto se non con un sorriso.
– Un espresso – ha detto poi, ordinando un caffè, e allora ho capito.
Sono stata io a ribattezzarlo Sebastian, senza la o finale.
– Fatti addirittura così i biglietti da visita – l’ho consigliato e siamo diventati
subito amici. Più che amici, direi complici. Lui mi prestava le chiavi degli
L’appartamento /

appartamenti più belli in vendita e io gli offrivo il rifornimento di cibo giornaliero.
Sebastian appariva all’ora di chiusura per l’ultimo caffè (non ho la licenza
per gli alcolici) e mi consegnava la busta con le chiavi che passava a ritirare la
mattina seguente con il primo cappuccino e un schoko croissant caldo.
Parlando ho scoperto che veniva da Trieste, era figlio unico, di una maestra
e di uno psichiatra, la sua passione era la fotografia e stava cercando di crearsi
un curriculum.
– Come fotografo non sono riuscito a trovare lavoro. Fare il commesso non
credo abbia senso. Ero ormai agli sgoccioli con i risparmi, quando ecco che un
giorno, seduto sul muretto della Kollwitzplatz, hai presente quella rotonda di
fronte a dove si ferma il giovedì il furgoncino della panetteria Weichardt? –
Non aveva nemmeno aspettato una mia risposta e aveva continuato affastellando
le vocali: – Ecco lì. Seduta di fianco a me una tipa in tailleur mangiava
una pizzetta al cartoccio fumando una sigaretta col bocchino. Non l’ho guardata
molto, non era il mio tipo. Troppo aggressiva. Be’, lei deve aver guardato
me, invece. E mi ha ascoltato parlare al cellulare con il mio compagno di stanza.
Gli stavo raccontando di un appartamento tipicamente berlinese che avevo
visto e che mi sarebbe piaciuto affittare da solo. Fatto sta che mi ha chiesto: tu
cerchi lavoro? Certo, ho risposto. E così sono diventato agente immobiliare.
Tutto perché mastico tre lingue e so cos’è la stanza berlinese. Incredibile no?
Devo seguire i clienti italiani e quelli francesi. Ma ormai me ne capitano anche
di tedeschi.
– Hai poi preso l’appartamento che ti piaceva? – gli avevo chiesto, spiazzandolo.
No, non ci era riuscito e viveva ancora in una stanza d’affitto con un compagno
francese, aspettando la donna con cui dividere la vita.
E la donna con cui avrebbe voluto dividere la vita è approdata al mio locale
un sabato mattina, tre mesi dopo. Lo ricordo bene, perché il sabato mattina
nella bella stagione è la giornata in cui lavoro meno per via del mercato.
Così apro la botola e ne approfitto per riordinare le casse di succhi. Sono sbucata
con la cassa di Waldnieler Fruchtsaft e me la sono trovata davanti seduta
di fronte alla vetrina, piegata sul quadernetto su cui ha continuato a scrivere
senza mai alzare gli occhi.
/ L’appartamento

Emma. Aveva di fianco una vecchia valigia di pelle, come quelle che trovi
al Trödelmarkt di Arkonaplatz. Indossava un vestitino a pois bianchi e blu,
anni Cinquanta, e un cappellino in testa con la veletta. Anche le scarpe le aveva
comprate usate, leggermente più lunghe del suo piede, con la punta in su e i
tacchetti consumati. Nemmeno lei aveva l’aria di essere italiana. Francese forse.
Tedesca no. Troppo minuta, con i capelli castani e le mani bianche. Si era comunque
perfettamente adattata alla città. Berlino è la patria di questi esseri
fuori tempo, li incontri sui mezzi pubblici, nei parchi, nei locali. E ogni volta
li noti, ma non pensi che siano ridicoli o fuori luogo, come ti capiterebbe di
pensare a Milano, e persino a Parigi o Londra, dove le stranezze sono di casa.
Questi personaggi hanno cucita addosso la rete Senhsucht che intreccia le vite
della città. Una serena tristezza che sgocciola dal cielo, quasi sempre bianco. Inspiegabile.
Fuoriesce dalle cantine, dai pavimenti delle strade. La respiri nei
parchi, sulle rive dei laghetti. E l’attraversi con leggerezza, perché non si può
essere più tristi della tristezza.
Emma da quel primo giorno è sempre tornata nel mio locale. Praticamente
ci soggiornava, taccuino sulle ginocchia e valigia al fianco. Aveva tre vestiti e li
indossava a turno. Solo le scarpe restavano immutate, anche durante i tipici
acquazzoni berlinesi, quando solo uno scafandro da immersione potrebbe salvarti.
Mi ero limitata a chiedere nome e provenienza, come si fa con qualsiasi
cliente. – Arrivo da Milano e non so nemmeno una parola di tedesco – mi ha
risposto, e poi ha continuato come per prevenire ogni altra mia domanda: –
Forse mi sono fermata qui a Berlino, perché per raggiungere i treni non esistono
barriere da attraversare e non si ha la sensazione di far parte di una mandria
diretta al macello. E il suono delle voci straniere diventa un tappeto su
cui i miei pensieri rotolano senza distrazioni. Mi piace questo stato di non
appartenenza. È come avere la patente di invisibilità. E io mi sono sempre sentita
invisibile.
Ho colto il messaggio. Non le ho più rivolto la parola se non per i soliti grazie
e prego e mi sono limitata a spiare i minuscoli segni con cui riempiva il taccuino,
ogni volta che mi piegavo per portarle il latte macchiato e il solito
brownie. E l’annusavo. Profumava di biscotto allo zenzero. All’ora di chiusura,
con la maniglia della valigia stretta nel pugno, arrivava in fondo al marciapiede
L’appartamento / 9

10 / L’appartamento

e svoltando verso Helmholtzplatz, spariva nel suo mistero. Non avevo ancora
capito di che tipo fosse il mio interesse per lei, ma presto avevo scoperto che
c’era qualcun altro molto più interessato di me. Il mio amico Sebastian.
Fra un appuntamento e l’altro passava a trovarmi, si piazzava di fronte a
Emma e rimaneva a guardarla. Poi estraeva la Nikon dalla sua custodia e cominciava
a scattare. Uno due tre… non riuscivi a contare i click. L’unica che
non sembrava sentire era lei.
È stato quando ho visto la ruga in mezzo alla fronte di Sebastian spianarsi,
che ho deciso di prendere in mano la situazione. Così, senza dire nulla a lui ho
cominciato a usare i miei incantesimi su di lei. Gli insegnamenti di mia madre
che aveva imparato dalla sua, una vera curandera, sono serviti a qualcosa.
Giorno dopo giorno. Qualche frammento di pelle, unghie, capelli e soprattutto
usando la forza del pensiero, perché è quella la prima vera arma di una
magia. E quando mi chiedeva un tè, non perdevo l’occasione di sbriciolarci
dentro qualche foglia di hierbabuena e hierba de milenramas. Sul suo tavolino
portavo sempre una candelina azzurra, cosparsa di olio di Venere, in un sostegno
a forma di cuore, molto kitsch, che avevo trovato al Mauerpark, il più
grosso mercato delle pulci di tutta Berlino. E con la forza del pensiero ho iniziato
a comunicarle il nome: Sebastian.
Una mattina, senza alcun motivo, ha alzato gli occhi e si è guardata attorno:
– Chi è Sebastian? – ha mormorato.
L’incantesimo si era avverato.
– Il ragazzo con il codino e i capelli brizzolati – le ho detto, da dietro il
banco. – Quello che scatta sempre foto.
Quel pomeriggio, quando Sebastian è giunto con la sua Nikon già in mano,
per la prima volta i loro sguardi si sono incrociati, mescolando il verde sottobosco
di lui con il color nocciola di lei. Hanno cominciato a parlarsi sottovoce,
fitto fitto. Lei non ha scritto più una parola e lui ha riposto la Nikon nella
borsa.
All’ora di chiusura sono usciti dal caffè affiancati. Li ho visti fermarsi all’angolo,
vibrare nella luce bianca, attraversare la strada e dirigersi verso la Wasserturm.
Quando sono svaniti mi sono improvvisamente ricordata che
Sebastian non mi aveva allungato la solita busta.
Segno che qualcosa avrebbe dovuto cambiare anche nel mio destino?
L’appartamento / 11

Mi sono sempre chiesta se senza il mio intervento sarebbe accaduto lo
stesso. Quanto sia possibile intervenire nel destino degli altri. E perché non ero
ancora riuscita a intervenire nel mio.
Forse perché a differenza di Sebastian non avevo più alcun interesse nel
cercare l’anima gemella. La mia l’ho lasciata a Copenaghen, pietrificata come
la Sirenetta. Sapevamo entrambe che il nostro amore sarebbe stato per sempre.
E non voglio discutere. Spiegare ciò che non è. Ma vivere ciò che è. Ho
sempre pensato che la vita è quella che ti sta accadendo sotto il naso e che non
devi raggelarla in un rapporto. Esistono altre persone là fuori che potresti incontrare
ancora. E ancora. E ogni volta accenderti di nuova passione. E amarle
e lasciarle andare e ritrovarle e perderle e dimenticarle e tenerle dentro.
Per questo usavo le chiavi che mi lasciava Sebastian, per portare in un luogo
senza appartenenza colei che accendeva la mia passione. Era come aprire la
porta del nulla. Un non spazio. Un non tempo. E ogni volta in fondo la stessa
stupida speranza. Quel per sempre non detto, che scompare all’alba, fra i liquidi
e gli odori di due corpi che si sono amati.
Occhi gialli mi aveva introdotto a un piacere nuovo. Da lei ho imparato che
l’amore consumato in luoghi sconosciuti è il più disarmato. Non basta liberarsi
dai vestiti. Bisogna togliersi la prima pelle, quella che ti sei cucita addosso
per affrontare la vita. La pellicola delle sicurezze. Il trucco dell’attore.
Non era la nostra prima volta. E non era ancora finito l’incanto febbricitante
del reciproco sfiorarsi.
Mi ha detto: seguimi. E l’ho seguita sul taxi come se fossi legata e bendata.
Nella stanza anonima di un motel per turisti con ingresso indipendente ha voluto
la luce accesa. Un neon freddo. Mi ha detto: spogliati. E mi sono spogliata,
i suoi occhi sul mio corpo, come dita che frugavano, esponevano. Ho
lasciato che i vestiti scivolassero disordinatamente sul pavimento. Allora lei ha
cominciato a imitarmi. Con naturalezza. E mi sono sentita come se in quel
luogo fossi nata e cresciuta, se su quella moquette avessi fatto i primi passi. Se
quella luce fosse il mio sole. Se lì e solo lì io potessi sentirmi bellissima.
Ci siamo lavate insieme, abbiamo fatto pipì ascoltandoci. Poi mi ha condotto
nella stanza, mi ha fatto sedere sul letto, nel mezzo, con le gambe aperte.
Si è inginocchiata davanti a me e ha cominciato a accarezzarmi un piede. Uno
12 / L’appartamento

strano gioco di specchi mi faceva vedere la scena: lei china davanti a me e io
che provavo piacere. Non avevo mai visto quella espressione sul mio volto.
Quando si è messa in bocca l’alluce e ha iniziato a succhiarlo ho provato un
piacere ignoto, il desiderio che quel piede venisse divorato. Glielo spingevo
dentro, con forza, muovendolo sotto le carezze della sua lingua. Con le dita giocava
con le mie aperture. E io vibravo e gemevo. E quando la lingua ha cominciato
a salire, salire, salire, mi sono abbandonata sulle lenzuola mentre le sue
mani s’impadronivano delle mie natiche e la sua bocca giocava con il mio clitoride.
Poi con la lingua piatta ha accarezzato le mie cavità, aprendole come
l’esploratrice di terre sconosciute.
Questo mi ha insegnato occhi gialli e questo io offrivo alle mie conquiste,
negli appartamenti in vendita di Sebastian. Notti d’esplorazione. Non sempre
la fiamma si accendeva, ma quando accadeva ritrovavo il mio amore. E per un
attimo ero felice.
Mi sarebbe piaciuto vedere i ritratti di Sebastian e leggere i taccuini di
Emma. Entrare nella loro intimità, insomma. E dato che una delle mie doti è
la pazienza, avevo la certezza che ciò sarebbe accaduto presto.
Seguendo il mio suggerimento, i due innamorati avevano scelto di andare
a vivere in una delle case di Sebastian. Un appartamento invendibile, sfitto da
mesi ormai, in uno di quei vecchi edifici berlinesi al di là del ponte pedonale
sopra la Kopenhagener, con il portone ricoperto da graffiti psichedelici e nelle
cui cantine probabilmente albergava il fungo del legno dal bellissimo nome:
serpula lacrimans. La cosa eccezionale era che nessuno aveva ancora chiuso
acqua luce e gas, perché la proprietaria che l’aveva messo in vendita era morta
il giorno dopo essersi ritirata in una casa di cura. Nessun erede si era fatto vivo,
l’Agenzia si era dimenticata di avere quell’oggetto e Sebastian aveva imbucato
le carte. Anche gli altri inquilini, tutti sempre silenziosi e nascosti, probabilmente
erano degli abusivi che avevano ereditato l’affitto da vecchi ormai morti.
Il luogo perfetto per l’invisibilità di Emma.
Il patto fra me e Sebastian perdurava come sempre: una busta con chiave
e indirizzo in cambio di cibo. In realtà, le chiavi avevo smesso di usarle da
qualche tempo, ero troppo presa dalla loro storia. Me ne sentivo artefice e passavo
la sera a immaginarli nella loro intimità. Riuscivo a farli muovere nello
L’appartamento / 1

1 / L’appartamento

spazio, che avevo aiutato a ripulire, prima nella cucina con la credenza bianca,
su cui spiccava una fila di vasetti di ceramica con i nomi scritti in gotico che
avrebbero fatto gola a uno dei mille piccoli antiquari del quartiere. Poi nel
bagno lungo e stretto e infine nella stanza con il materasso appoggiato alle assi
sconnesse su cui dormivano abbracciati. Li spogliavo e giocavo con i loro corpi.
Erano diventati la mia ossessione. Avevano sostituito occhi gialli nei miei
pensieri. Avrei solo voluto essere lì su quel letto. Invisibile. Insegnare loro a
togliersi la prima pelle. E far durare quell’amore per sempre.
Temevo che potesse accadere loro qualcosa. Che venissero scoperti. Che me
li portassero via. Non avrei sopportato di non vedermeli più davanti, di non respirare
la loro aria. E così ho cominciato a pensare che l’unica soluzione fosse
renderli davvero invisibili. O almeno renderli invisibili in quella casa. Rendere
invisibile la casa.
Ho cominciato a cercare in tutti i libri esoterici l’incantesimo dell’invisibilità.
Ma nessuno ne parlava. Ho creduto che la leggenda dei Nibelunghi, con
il Tarnkappe (mantello magico) del nano Alberico mi avesse confuso i ricordi.
Era la storia preferita di mia madre, me la raccontava a puntate le sere in cui
restava a casa con me. È stato ripensando alla mia infanzia che ho capito cosa
stava dicendomi la memoria. Dovevo cercare fra racconti magici della nonna
curandera, e nel piccolo baule da viaggio che mi aveva spedito prima di morire,
con i due tamburi, i suoi appunti, qualche foglia secca e un biglietto scritto in
shuar, l’antica lingua.
Me l’aveva insegnata da piccola, durante le lunghe vacanze trascorse sola
con lei a Guayaquil, mentre mia madre e mio padre giravano il mondo. Mi
chiamava il suo piccolo jeecham, pipistrello. E non ho mai capito perché. Era
stata portata via dal suo villaggio sulle montagne, dal nonno, un bellissimo
musicista tedesco, proprio di Berlino lo avevo scordato, buffo, a cui probabilmente
aveva fatto uno dei suoi incantesimi.
Non rammentavo nemmeno più l’esistenza di quel biglietto:
– Ricordati sempre che la porta per l’altra realtà è dentro ognuno di noi. E
il luogo magico farà il resto – ho letto ad alta voce dopo aver recuperato il
baule da sotto il letto.
Non restava che fossero loro a oltrepassare quella porta, io potevo solo aiutarli
a trovarla.
L’appartamento / 1

Così ho aspettato la notte adatta, come avrebbe detto Snoopy, una notte
buia e tempestosa, e mi sono presentata alla loro porta, con i due tamburi e il
tè allucinogeno nel thermoskanne.
Hanno aspettato qualche minuto prima di aprire. Devono aver guardato
nello spioncino senza che li sentissi avvicinare. Lei con una maglietta di lui
come pigiama e lui in canottiera e boxer. Gli occhi bloccati in un’espressione
di stupore misto a paura.
Non ho spiegato nulla. Sono entrata in casa e li ho obbligati subito a bere
con me il tè. Poi sono entrata nella loro stanza e ho ammirato le pareti. Le
avevano tappezzate di foto e fogli scritti a mano. Una mappa fatta di volti e parole.
Un luogo magico, ho pensato.
– Vi fidate di me? – ho chiesto.
Hanno annuito entrambi.
Allora mi sono spogliata, lentamente. E sono rimasta nuda in piedi davanti
a loro che restavano immobili, senza reazioni. Ho sfilato la maglietta a
lei, facendole alzare le braccia. I capezzoli sono apparsi timidamente, simmetrici
piccoli e rattrappiti. Non mostrava imbarazzo. Credo si sentisse già invisibile.
Sebastian ci fissava con le labbra aperte, senza riuscire a controllare un’erezione
nascosta solo dalla stoffa tesa.
L’ho fatto sedere a terra e gli ho messo davanti i due piccoli tamburi. Simili
a due bonghi.
– Suona – gli ho ordinato.
Non so se lo avesse mai fatto prima di allora, ma ha iniziato a muovere le
mani a tempo, incrociandole e creando ritmi sempre diversi, in un crescendo
che metteva voglia di ballare. Ed è quello che abbiamo fatto io e Emma, liberando
tutte le nostre energie, sinuose come due puma. Fissavo i rivoli di sudore
scorrere sulla sua pelle e mi perdevo nel suo ombelico.
Quando ho sentito che eravamo esauste l’ho fatta sedere sul materasso con
le gambe aperte e le ho preso i piedi fra le mani. Poi li ho portati alla bocca e
ho iniziato a leccarli. Prima uno e poi l’altro. Lei me lo ha lasciato fare, mentre
Sebastian continuava a battere le mani sui tamburi, con lo sguardo di chi
ha già varcato la porta della realtà e stava aspettando solo noi.
Sentivo le sue dita muoversi nella mia bocca. E non mi sono interrotta.
1 / L’appartamento

Il rumore secco della pioggia contro il vetro accompagnava la musica dei
tamburi e ogni tanto una luce abbagliante squassava il cielo, seguita da un
tuono immortale.
E abbiamo varcato la porta dell’irrealtà.
Non posso raccontarvi cosa abbiamo trovato dall’altra parte. Ma l’incantesimo
ha funzionato. Emma e Sebastian continuano a vivere nell’appartamento
invisibile. Lei aspetta un bambino, lui suona i tamburi. E io? Io faccio caffè e
frullati e toast e panini e persino biscotti al limone, aspettando che qualcuno
mi tolga la prima pelle di nuovo e di nuovo ancora.
L’appartamento / 1

1 / e Apartment

e Apartment
I don’t know why I’m telling you this story. Someone, passing by my Café, may
recognize me.
My name is Maria. Maria as millions other Marias. In fact I do have a
second name, like almost all Marias – especially those born from a South
American mother – but since I took residence here in Berlin, I buried it
together with my old ID card, along the banks of the Nikolassee River on a
night of full moon …
Yes, why not? I buried it at the bottom of a drawer in my apartment, a
fourth floor walk-up on Danziger Straße, between Prenzlauer Allee and
Schönhauser Allee. Sunny side of one of those rare gray buildings, a residue
of the DDR, standing who knows for how long, enduring the pressure of the
renoviert and saniert where spiders have woven extremely long cobweb
highways along the external pipes, wide and narrow, horizontal and vertical.
I was born in Paris and spent my teenage years in Rome. My mother is
from Ecuador and my father from Boston. I always suspected he was part of
the CIA, and that is why I left home as soon as I could.
ereafter I took a bachelor’s and a master’s degree in London, it does not
matter in what. en I tried to settle in Copenaghen while chasing that
Yellow-eyed Girl. Eventually I ended up in East Berlin, in the heart of
Prenzlberg.
Don’t ask me why. Reasoning never led my life. What I call my “spy gene”
might have guided me, the one I inherited from my father, along with his
e Apartment / 19

20 / e Apartment

height, five feet nine with no heels. Where could I embrace my instinct of
snooping, if not in the homeland of the Stasi? I believe there is no need to
explain what the Ministerium für Staatssicherheit is, or who captain Gerd
Wiesler of Das Leben der Anderen is.
Everybody talks about Berlin, even too much. Everybody eventually comes
here. Only few learn German. And even fewer stay. It’s a gateway city. For me,
it was my destination.
ey also got here by chance. Sebastian arrived first. He walked into my
Café on a windy day, letting in a cold gush of air. He sat on a worn-out
armchair in the corner of the back room, beside the old jukebox. He put his
leather bag on the ground, a cheap one of unknown color somewhere between
red wine and dark brown. Horrible. He glanced around just like a real estate
salesman hunting for clients. Over the years I’ve learned how to spot them at
first sight. Here in Berlin, where the whole city is for sale, it’s one of the most
common jobs. ey say investors just point their finger at the object on paper
and buy it, without even looking. Italians, Greeks, and Japanese, of course.
ey buy what the Danish bought right after the Wall came down and are
now reselling. To make a long story short, that’s how capitalism works. All I
know is that if I’m ever unable to continue paying the rent for my Café, I will
ask my father to invest in Berlin. You bet!
As for Sebastian, though I realized he was a real estate agent, I missed the
fact that he was not German. Well, he didn’t have the face typical of a 0-
year-old Italian man who is trying to survive in the most homelike city of
Europe: no big nose and no messy hair. Most of all he had no fat around his
waist, on the contrary his bones stuck out of his clothes. His long grayish hair,
up in a small ponytail, and his weird aspect carried out the bluff.
I addressed him with a joke: – Too much wind to enjoy the sun. – He
simply smiled back.
– An espresso – he ordered, and that’s how I realized he was Italian.
I am the one who called him Sebastian, without the “o” at the end.
– You should make your own business cards like that – I suggested to him
and we immediately became friends. More than friends, mates I would say.
He lent me the keys of the most beautiful apartments on sale and in return I
provided him a daily supply of food.
e Apartment / 21

Sebastian would show up at the Café right before closing time for a last
coffee (I’m not licensed to sell alcohol). He would hand over an envelope with
the keys inside and pick them up the following morning along with his first
cappuccino and a warm schoko croissant.
He told me he was an only child from Trieste, his mother was a teacher and
his father a psychiatrist. Photography was his passion and he was trying to
build his resume.
– I couldn’t find a job as a photographer. I don’t believe working as a clerk
would make any sense. My savings were almost finished when one day, sitting
on the wall on Kollwitzplatz, you know that roundabout where the Weichardt
bakery van stops every ursday? – Without even waiting for my reply he went
on, bundling up his vowels: – ere she was. A woman in a suit sitting next to
me, eating a slice of pizza and smoking a cigarette with a holder. I didn’t really
look at her that much, she wasn’t my type.Too aggressive.Well, she noticed me,
instead. And also listened while I was talking to my new roomie on the phone.
I was telling him about a typical Berlin apartment I had seen that I wanted to
rent on my own. She asked me: are you looking for a job? Sure, I answered.
at’s how I became a real estate agent. Just because I can manage three
languages and I know what a Berlin room is. Incredible, don’t you think? I deal
with the Italian and French clients. But I get a few Germans as well by now.
– And did you manage to get that apartment you liked? – I asked, and it
gave him a start.
No, he did not. He still lived in a rented room with his French roommate,
waiting for the woman with whom wanted to share his life.
And on a Saturday morning, three months later, the woman walked into
my Café. I remember it well, because, during the summer, Saturday mornings
aren’t busy. In fact, I usually open my closet and rearrange my juice boxes.at
day I came out holding a case of Waldnieler Fruchtsaft and found her sitting
in front of the window. Bent over her notebook, she was filling the pages, not
once lifting her eyes.
Emma. An old leather suitcase stood beside her, like those you find at
Trödelmarkt in Arkonaplatz. She wore a polka-dotted white and blue dress,
190s style, and a small hat with a veil over her head. Her shoes must have
been second-hand, slightly longer than her foot, with the tip pointed up and
22 / e Apartment

the heels worn. She didn’t look Italian either. French, maybe. Not German.
Too petite, with brown hair and white hands. She fit perfectly in into the city.
Berlin is home for those who are out of time; you see them on buses, in parks,
in clubs. And you always notice them, but you never think of them as
ridiculous or out of place, as you would if you were in Milan, or even Paris and
London where oddity is almost the norm. ese people wear the Senhsucht
net, which interweaves the lives of the city. A kind of peaceful sadness dripping
from the sky, almost always white. Unaccountable. It spills over cellars and
sidewalks. You can breathe it in parks, by the lakesides. And pass through it
with lightness, because you cannot be sadder than sadness itself.
Emma, has always come back to my Café, after that first day. She
practically lived there, notebook on her knees and suitcase at her side. She had
three dresses and she would wear them in turns. Only her shoes would never
change, even during the typical Berlin rain-showers, when only a diving suit
could save you.
I asked her name and where she was from, as I would do with any other
customer. – I’m from Milan and I can’t speak a word of German, she answered,
and then she went on talking as if she wanted to avoid any other question: –
Maybe I ended up in Berlin because there are no barriers to cross to get to the
trains and you don’t get the feeling of being part of a herd of cattle heading to
a slaughterhouse. e sound of foreign voices is like a carpet on which my
thoughts roll on with no distractions. I like this state of non-belonging. As if
your holding an invisibility license. But I have always felt invisible.
I got the message. But for the usual thank you and you’re welcome, I didn’t
speak to her again and limited myself to snooping. Leaning to serve her a
brownie and her Latte Macchiato, I would try to see what she was writing.
And I would smell her. She had the fragrance of a ginger cookie. At closing
time, gripping the handle of her suitcase, she would walk to the corner and
turn towards Helmholtzplatz, disappearing in her mystery. I couldn’t yet say
what my feelings were about her, but soon learned there was someone far more
interested in her than myself.
Between meetings, Sebastian would stop in to say hello. Sitting at a nearby
table, often right in front of her, he would look at her for what seemed hours.
He would then take his Nikon out of its case and start shooting. One, two,
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three… you couldn’t keep up with the clicks. She never seemed to care.
Eventually, when I noticed how the wrinkle in the middle of Sebastian’s
forehead relaxed, I decided to take the matter into my hands. So, without
saying a word to him, I began charming her with my magic spells.
My mother’s teachings, which she had learned from her own mother, a
real curandera, turned out to be useful.
Day after day. Some skin, nail, hair fragments and especially my thought
power, since that is the first true weapon of magic. Every time I made her tea,
I would furtively crumble a few leaves of hierbabuena and hierba de milenramas
in the cup.
I always placed a light blue candle, sprinkled in Venus oil, on her table,
standing it in a very kitsch heart-shaped candleholder I had found at
Mauerpark, Berlin’s biggest flea market. And with my thought power I would
start telling her his name: Sebastian.
One morning she lifted her eyes up, looking around, and murmered: –
Who is Sebastian?
My spell had worked.
– e guy with grayish hair in a ponytail, I told her from behind the
counter. – e one always taking pictures.
at afternoon, when Sebastian came in, his Nikon already in hand, their
gazes met for the first time, his wood green eyes blending with her hazelnut
brown. ey started whispering. She stopped writing and he put his Nikon
back in its case.
At closing time they left side by side. I saw them stop at the corner, blurry
in the white light, crossing the street and then heading towards Wasserturm.
As they went out of sight, I realized Sebastian hadn’t left me the envelope.
Did this mean my destiny would be changing as well?
I’ve always wondered if it would have happened even without my
intervention. One can shape other people’s destiny only up to a point. I would
wonder at my lack of ability to influence my own. Perhaps it was because,
unlike Sebastian, I was no longer interested in finding my soul mate. I had left
her in Copenaghen, petrified just like the Mermaid. We both knew our love
would have been eternal.
I don’t want to discuss it. Explain what is not. But live what it is. I’ve always
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thought life is what’s happening to you under your nose and you must not
freeze it in a relationship. ere are still other people out there you ought to
meet. Many more. And each time you can burn with new passion. Love them
and let them go and find them again and then lose them and forget them and
keep them inside.
at’s what I did with the keys. I would take a girl who was presently
lighting up my fire to a place that no one owned. It was like opening a door
to nowhere. A no-place. In a no-time.
And have the same old stupid hope. e eternal unsaid words that vanish
at dawn, among fluids and scents of two bodies that have loved each other.
e Yellow-eyed Girl introduced me to a new pleasure. She taught me that
love consumed in unknown places is the most disarming.Taking your clothes
off is not enough. You have to take your first skin off, the one you sew on to
face life. A safety wrap. e actor’s make-up.
at was not our first time. And the feverish enchantment of mutual
touching was not over yet.
She said: follow me. I followed her into the taxi as if I were tied up and
blindfolded. She wanted the lights on, in an anonymous room of a tourist
motel with a discrete entrance. A cold neon light. She said: take your clothes
off. I complied, her eyes on the body my fumbling fingers exposed. I let my
clothes slip messily to the floor. en she began doing the same. In such a
natural way. And I soon felt as if I had been born and raised in that place, as
if I took my first steps on that carpet. As if that light was my sun. ere, only
in that room, I could feel beautiful.
We bathed together; we listened to each other pissing.en she made me
sit on the bed, in the middle, with my legs spread. She got on her knees in
front of me and started caressing my foot.
I could watch the scene reflected in the mirror directly across from me, her
bending over while I was feeling pleasure with a look I had never seen on my
face before. I felt a new pleasure when she took my big toe in her mouth and
begun sucking on it, a desire that she would devour the whole foot. I pushed
it inside her mouth, forcing it, moving it while her tongue was caressing it.
Her fingers playing in my cavities. And I was shaking and moaning. And when
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her tongue found her way up, up and up I let myself go lying down on the
sheets while her hands took possession of my buttocks and her mouth played
with my clitoris. en, keeping her tongue flat she caressed my cavities,
opening them as if she was an explorer of unknown lands.
at was what e Yellow-eyed Girl taught me and what I offered then to
my conquests, in those apartments Sebastian had up for sale. Nights of
exploration.e flame would not always light up, but when it did I would find
my love again. And for an instant be happy.
I would have liked to see the portraits Sebastian had taken and read
Emma’s notes. To be intimate with them, I mean. And since one of my gifts
is patience, I knew that ultimately it would happen.
e two lovers decided to move in one of Sebastian’s properties, as I had
suggested. An apartment that was impossible to sell, vacant for months, located
in one of those old Berlin buildings beyond the pedestrian bridge above the
Kopenhagener, with the front door covered with psychedelic graffiti and the
basement probably inhabited by the wood mushroom which goes by a
beautiful name: serpula lacrimans.e amazing thing was that no one had shut
off the gas and electricity. According to Sebastian the owner who was selling
the apartment had died the day after checking in a retirement home. ere
were no heirs, the agency forgot about the apartment and Sebastian filed away
the documents. e other tenants were elderly people and squatters, always
very quiet and discrete.
e perfect place for Emma’s invisibility.
e deal between Sebastian and me was still on, but lately I hadn’t been
using the keys, having become too involved in their progress. I thought of
myself I was the master of their destiny and spent my evenings picturing them
in their intimacy. I could make them move in that space I had helped clear,
starting from the kitchen with the white cupboard, on top of which was a row
of ceramic jars with the names written in Gothic letters. ey would have
surely interested an owner of one of the dozens of antique shops in the
neighborhood. en into the long and narrow bathroom and finally in the
bedroom with the mattress resting on disconnected boards where I would undress
them and play with their bodies. And they would sleep hugging each other.
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ey became my obsession. ey replaced e Yellow-eyed Girl in my
mind. I only wanted to be with them on that bed. Invisible. Teaching them
how to take off their first skin. And making that love last forever.
I feared something bad could happen to them. at they somehow would
get caught. at someone could take them away from me. I couldn’t bear the
thought of not having them before me anymore, of not breathing the same
air they did. I began thinking that the only solution would have be to make
them invisible. Or, at least, to make them invisible in that house.To make that
house invisible.
I started looking for an invisibility spell in all the esoteric books. But no
text mentioned one. Perhaps the legend of the Nibelungs, with the Tarnkappe
(magic mantle) of the dwarf Alberich, had confused my memories. It was my
mother’s favorite tale. She used to tell me the story in different episodes every
night that she stayed home with me.inking about my childhood prompted
my memory. I began to search all the magic tales my curandera grandmother
used to tell us, and go through that small trunk she had sent me right before
she died, containing her two drums, her notes, some dry leaves and a card
written in shuar, the antique language of her people.
She taught it to me when I was little, during the long vacations I spent
alone with her in Guayaquil, while my mother and father traveled around the
world. She called me her little jeecham: bat. I never understood why. My
grandfather had taken her away from her village on the mountains, he was a
handsome German musician, from Berlin – it’s funny that I forgot all about
it – she had probably cast one of her spells on him.
I couldn’t even recall that the card existed:
– Always remember that the door to the other reality is inside you. And the
magic place will do the rest – I read it out loud after getting the suitcase from
under the bed.
ey had to be the ones to go beyond that door; only I could help them
find it.
erefore I waited for a night that was just right, as Snoopy would have
said, a dark and stormy night, to knock on their door holding my two drums
and my hallucinogenic tea in my thermoskanne.
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A few minutes passed before they opened the door.ey must have looked
in the peephole; I did not hear their steps coming closer. She had his shirt on;
he was in boxers and undershirt. A look of amazement mixed with fear in their
eyes.
I did not explain a thing. As soon as I was inside I forced them to drink
my tea with me.en I went into their bedroom and surveyed the walls.ey
had covered them with photos and handwritten pages. A map made out of
words and faces. A magic place, I thought.
– Do you trust me? – I asked.
ey both nodded.
So I slowly removed my clothes. As I stood naked before them they
showed no reaction. ey just stood still. I made her lift her arms for me and
took her shirt off. Her small nipples were symmetrical and shyly contracted.
She was not embarrassed. I think she was already starting to feel invisible.
Sebastian stared at us with his mouth open, unable to control an erection
that was covered only by a thin layer of fabric. I made him sit down on the floor
and put my two drums in front of him. Like two bongos.
– Play – I ordered him.
I didn’t know if he had ever played drums before, but he started moving his
hands to a beat, crossing them and creating so many different rhythms, in a
crescendo, that made you just want to get up and dance. And that is what
Emma and I did, freely letting out all of our energies, as sinuous as two
mountain lions. I stared at the pearls of sweat rolling down her skin, my gaze
soon lost in her navel. When I believed we were both exhausted, I made her
sit down on the mattress with her legs spread open and took her feet in my
hands. I began licking them, my lips going back and forth between them,
putting them in my mouth. She acquiesced, while Sebastian continued beating
on the drums, gazing at us as though he had already gone beyond the door of
Reality and was only waiting for us.
I felt her toes moving in my mouth. I was relentless.
e sharp sound of the rain against the windows accompanied the beats
and every so often a bolt of lightning would strike in the sky, followed by an
immortal thunder.
And so we crossed the door, entering the realm of unreality.
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I can’t tell you what we found on the other side. But the spell worked.
Emma and Sebastian are still living in the invisible apartment. She is pregnant,
he plays the drums. And what about me? I prepare coffee and smoothies and
toasts and sandwiches and even lemon cookies, waiting for someone to take off
my first skin again and again.
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© Robert Bannister
Batsceba Hardy writes stories in images and tells visions in words
I don’t consider myself as an artist, I’d rather consider myself as an artisan. If I should really be forced
to come up with a definiton, it’d be “artist of Irreality”.
It means that I’m allowed to stay outside, beyond things. Living eternally in the interspaces, those
places carved in Space and Time that can be captured on camera or on paper, telling stories. It means
having no boundaries nor impositions.
In many of my works I tackle the subjects of Invisibility, transparency. Empty and full. Both in a narrative
and visual way. Photography and writing are just two different ways to depict all this. That is, Absence.
As a matter of fact, I think and state that is completely unnecessary that writers attend the launch of
their books, talk about them to a bored or excited audience, or photographers become the main
attraction at the opening of their last exhibition.
Authors live in their works, don’t they?
I don’t like to appear because I exist in what I create, in my writings, in my photographs. I communicate,
I show things, I suggest things. I tell things. I confess myself and play with Fiction: because we are what
we imagine.
Thus I don’t feel compelled to justify my absence, today. I’m not the first nor I’ll be the last.
But as an author I don’t want to be put on sale, in the consumeristic society we live in.
She is the creator of the Progressive-Street Facebook page, the official website, the
ProgressivE-zine, and the Progessive Publishing House (PPH).
PPH