A-Colophon+ indice - Centro di Documentazione Del Boca – Fekini
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DELLA<br />
SENTIERI
I SENTIERI DELLA RICERCA<br />
rivista <strong>di</strong> storia contemporanea<br />
EDIZIONI CENTRO STUDI PIERO GINOCCHI CRODO
I Sentieri della Ricerca<br />
è una pubblicazione del <strong>Centro</strong> Stu<strong>di</strong> Piero Ginocchi, Crodo.<br />
Direttore<br />
Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
Con<strong>di</strong>rettori<br />
Giorgio Rochat, Nicola Labanca<br />
Redattrice<br />
Severina Fontana<br />
Comitato scientifico<br />
Aldo Agosti, Mauro Begozzi, Shiferaw Bekele, Gian Mario Bravo, Marco<br />
Buttino, Giampaolo Calchi Novati, Vanni Clodomiro, Basil Davidson,<br />
Jacques <strong>Del</strong>arue, Angelo d’Orsi, Nurud<strong>di</strong>n Farah, Edgardo Ferrari, Mimmo<br />
Franzinelli, Sandro Gerbi, Mario Giovana, Clau<strong>di</strong>o Gorlier, Mario Isnenghi,<br />
Lutz Klinkhammer, Nicola Labanca, Vittorio Lanternari, Marco Lenci, Aram<br />
Mattioli, Gilbert Meynier, Pierre Milza, Renato Monteleone, Marco Mozzati,<br />
Richard Pankhurst, Giorgio Rochat, Massimo Roman<strong>di</strong>ni, Alain Rouaud,<br />
Alberto Sbacchi, Gerhard Schreiber, Enrico Serra, Christopher Seton-<br />
Watson, Francesco Sur<strong>di</strong>ch, Nicola Tranfaglia, Bahru Zewde<br />
3
La rivista esce in fascicoli semestrali<br />
Direttore Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
E<strong>di</strong>trice: <strong>Centro</strong> Stu<strong>di</strong> Piero Ginocchi<br />
Via Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB)<br />
Redazione e stampa: Coop. Vicolo del Pavone<br />
Via Giordano Bruno, 6 - 29100 Piacenza<br />
N. 2 - II Sem. 2005 -<br />
Numero <strong>di</strong> registrazione presso il Tribunale <strong>di</strong> Verbania: 8, in data 9 giugno 2005<br />
Poste italiane spa<br />
Sped. in a.p. D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1<br />
Prezzo <strong>di</strong> copertina euro 12,00<br />
Abbonamento annuale euro 20,00<br />
Abbonamento sostenitore euro 100<br />
C.C.P. n. 14099287 intestato al <strong>Centro</strong> Stu<strong>di</strong> Piero Ginocchi<br />
via Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB)<br />
causale abbonamento: ISDR<br />
La pubblicazione <strong>di</strong> questa rivista<br />
è stata possibile grazie al generoso contributo <strong>di</strong>:<br />
Provincia<br />
Verbano Cusio Ossola Comune <strong>di</strong> Crodo BANCA POPOLARE DI INTRA<br />
4
Sommario<br />
e<strong>di</strong>toriale<br />
7 Un appello ai lettori<br />
<strong>di</strong> Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
storia locale<br />
11 L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
<strong>di</strong> Filippo Colombara<br />
49 Le cartoline e i francobolli delle brigate garibal<strong>di</strong>ne in Valsesia<br />
<strong>di</strong> Edgardo Ferrari<br />
storia nazionale<br />
55 Il peso della storia.<br />
La memoria della Resistenza nell'Italia repubblicana<br />
<strong>di</strong> Giovanni A. Cerutti<br />
79 Le istituzioni militari e la loro evoluzione nella società italiana<br />
contemporanea<br />
<strong>di</strong> Luigi Caligaris<br />
Africa e <strong>di</strong>ntorni<br />
87 L’apartheid nell’Italia fascista<br />
<strong>di</strong> Aram Mattioli<br />
109 L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo.<br />
Tra organizzazione del consenso, <strong>di</strong>sciplinamento del tempo libero e<br />
«prestigio <strong>di</strong> razza»<br />
<strong>di</strong> Gianluca Gabrielli<br />
137 L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville.<br />
Soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
<strong>di</strong> Domenico Letterio<br />
5
167 I nove capi storici algerini del 1954<br />
<strong>di</strong> Gilbert Meynier<br />
6<br />
stu<strong>di</strong> sull’europa<br />
179 Il gioco degli specchi deformanti:<br />
stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
<strong>di</strong> Giorgio Novello<br />
terrorismo, nuove guerre, genoci<strong>di</strong><br />
201 Terrorismo, guerriglia, resistenza:<br />
considerazioni per un <strong>di</strong>battito attuale<br />
<strong>di</strong> Mario Giovana<br />
209 Nuove guerre?<br />
Crisi dello Stato, mercenari, criminalità, interventi umanitari:<br />
uno sguardo d’insieme<br />
<strong>di</strong> Andrea Beccaro<br />
237 Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano.<br />
La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
<strong>di</strong> Chiara Calabri<br />
271 Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano.<br />
La quarantennale lotta <strong>di</strong> Yâsir ’Arafât<br />
e del movimento <strong>di</strong> liberazione palestinese<br />
<strong>di</strong> Stefano Fabei<br />
rassegna bibliografica<br />
287 L’Italia fascista contro tutti<br />
in un ventennio <strong>di</strong> guerre <strong>di</strong>ssennate<br />
<strong>di</strong> Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
291 La fiaba vera e triste della «principessa etiope»<br />
<strong>di</strong> Nicola Labanca<br />
297 Schede <strong>di</strong> Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong>, Sabrina Michelotti, Massimo Roman<strong>di</strong>ni,<br />
Matteo Vecchia, Gaudenzio Barbè, Federica Guazzini<br />
321 Notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero
Un appello ai lettori<br />
<strong>di</strong> Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
Un appello ai lettori<br />
La vita delle riviste <strong>di</strong> cultura, in modo particolare quella delle riviste<br />
<strong>di</strong> storia contemporanea, non è per nulla facile. È risaputo. Salvo<br />
pochissime, che possono godere per la stampa e la <strong>di</strong>stribuzione,<br />
dell’appoggio <strong>di</strong> una casa e<strong>di</strong>trice, tutte le altre debbono affrontare ogni<br />
anno il problema cruciale dei finanziamenti. Generalmente le riviste<br />
usufruiscono del sussi<strong>di</strong>o <strong>di</strong> istituzioni pubbliche e private, non sempre<br />
facile da ottenere e comunque soggette a variazioni, il più delle volte al<br />
ribasso. Altre riviste puntano invece sugli abbonamenti, che garantiscono<br />
un <strong>di</strong>screto afflusso <strong>di</strong> denaro. Ma anche <strong>di</strong>sponendo <strong>di</strong> 500 abbonamenti<br />
non si tiene in vita una rivista.<br />
È quin<strong>di</strong> necessario giungere ad un compromesso: contare sugli<br />
abbonamenti e nello stesso tempo sollecitare le sovvenzioni delle<br />
istituzioni pubbliche e private. Talune riviste, infine, hanno anche fatto<br />
ricorso alla pubblicità, seppure <strong>di</strong> prestigio.<br />
Quando gestivamo «Stu<strong>di</strong> Piacentini», potevamo valerci dell’appoggio,<br />
quasi continuo e generoso, del Comune <strong>di</strong> Piacenza, della Provincia <strong>di</strong><br />
Piacenza e della Fondazione <strong>di</strong> Piacenza e Vigevano, e dell’introito <strong>di</strong><br />
circa 200 abbonamenti (in gran parte sottoscritti dai soci dell’Istituto<br />
Storico della Resistenza e dell’età contemporanea). Poiché le spese della<br />
redazione erano a carico dell’Istituto ed il <strong>di</strong>rettore della rivista ed i<br />
collaboratori non percepivano, come del resto oggi, alcun compenso, la<br />
rivista veniva spe<strong>di</strong>ta gratuitamente a circa 800 fra stu<strong>di</strong>osi, biblioteche,<br />
istituti <strong>di</strong> ricerca, università, archivi storici, centri culturali, in Italia e<br />
all’estero.<br />
Nel trasferirci dall’Emilia al Piemonte, per i motivi che abbiamo già<br />
esposti nell’ultimo numero <strong>di</strong> «Stu<strong>di</strong> Piacentini» e nel primo de «I sentieri<br />
della ricerca», ci siamo subito attivati per la ricerca dei necessari<br />
finanziamenti rivolgendoci, innanzitutto, alle tre più prestigiose e dotate<br />
istituzioni della regione: la Compagnia <strong>di</strong> San Paolo, la Fondazione<br />
7
Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
Banca Popolare <strong>di</strong> Novara per il territorio e l’Assessorato alla Cultura<br />
della Regione Piemonte. Il 21 ottobre 2004 ricevevamo la risposta della<br />
Compagnia <strong>di</strong> San Paolo, a firma del Segretario generale Piero Gastaldo.<br />
Essa <strong>di</strong>ceva: «Pur comprendendo le esigenze manifestate, desideriamo<br />
segnalare in merito che tale forma <strong>di</strong> sostegno non rientra tra le modalità<br />
operative e le priorità <strong>di</strong> intervento della Compagnia». Il 20 giugno<br />
2005 giungeva anche la risposta della Fondazione Banca Popolare <strong>di</strong><br />
Novara, a firma del suo presidente, l’ex ministro Siro Lombar<strong>di</strong>ni.<br />
Diceva: «Pur apprezzando l’attività della tua rivista, è spiaciuto al<br />
Consiglio non poter accogliere la tua richiesta in quanto le motivazioni<br />
rientrano in quelle che il Consiglio ha stabilito <strong>di</strong> non poter considerare».<br />
L’inizio, dunque, non era certo brillante, anche se, nel frattempo,<br />
avevamo ottenuto qualche aiuto, modesto, ma comunque molto gra<strong>di</strong>to,<br />
dalla Provincia del Verbano, Cusio, Ossola, dalla Banca Popolare <strong>di</strong> Intra,<br />
dal Comune <strong>di</strong> Crodo e dalla Comunità Montana Antigorio, Divedro,<br />
Formazza.<br />
Il 20 settembre 2005, infine giungeva la risposta, questa volta positiva,<br />
dell’Assessore alla Cultura della Regione Piemonte, lo storico Gianni<br />
Oliva. Con questo più sostanzioso contributo potevamo lavorare con<br />
maggiore serenità, tuttavia non avevamo ancora raggiunto la piena<br />
copertura delle spese, che è <strong>di</strong> 13-15 mila euro all’anno, per due numeri.<br />
Anche la nostra rivista si trova perciò costretta, per quadrare i bilanci,<br />
ad aprire una campagna per gli abbonamenti. Ci rivolgiamo,<br />
innanzitutto, ai nostri abituali lettori, che per <strong>di</strong>ciotto anni hanno<br />
ricevuto gratuitamente «Stu<strong>di</strong> Piacentini» e i primi due numeri de «I<br />
sentieri della ricerca», e alle istituzioni (biblioteche, università, istituti<br />
<strong>di</strong> ricerca, ecc.) che hanno fruito dello stesso vantaggio. Abbiamo<br />
bisogno, per garantire la continuità della nostra pubblicazione, <strong>di</strong><br />
acquisire almeno 300 abbonamenti. Dall’esito <strong>di</strong> questo appello potremo<br />
trarre anche alcune utili conclusioni. È gra<strong>di</strong>ta questa rivista? Ha trovato<br />
una sua precisa collocazione nel panorama delle pubblicazioni che si<br />
occupano, in modo particolare, dell’Africa e del colonialismo italiano?<br />
In altre parole, ha maturato il <strong>di</strong>ritto alla vita o può tranquillamente<br />
scomparire?<br />
Nel lanciare questo appello ai lettori e alle sopracitate istituzioni, ci<br />
tornano alle mente le parole che l’amico Giorgio Agosti affidava nel<br />
1964 al suo bellissimo <strong>di</strong>ario: «Rifletto malinconicamente sulla parte<br />
che mi è sempre riservata <strong>di</strong> far anticamera presso i potenti della terra,<br />
8
Un appello ai lettori<br />
per cavare gli scarsi aiuti che consentono <strong>di</strong> vivere alle iniziative laiche.<br />
Non chiedo per me, e solo per questo accetto la parte sgradevole. [...]<br />
Questo accattonaggio a volte mi umilia e mi deprime». Ma non a<br />
sufficienza, nel nostro caso, per farci desistere dal proposito <strong>di</strong> proseguire<br />
quella ricerca storica che abbiamo sempre cercato <strong>di</strong> condurre con<br />
metodo, passione, coerenza e senso <strong>di</strong> responsabilità.<br />
9
Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
10
storia locale<br />
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari<br />
del Novarese<br />
<strong>di</strong> Filippo Colombara<br />
La propaganda è la cosa più convincente: guarda anche oggi come ti ossessiona...<br />
e noi ci cre<strong>di</strong>amo tutti! La propaganda presentava il duce come... come si chiama<br />
quello lì... Rambo! Era l’uomo forte, virile, tu lo vedevi trebbiare a braccia nude,<br />
a muscoli scoperti, tutto... Lo vedevi fare qualunque cosa, lui guidava aerei,<br />
guidava... Gli italiani erano un po’ soggetti e si sono riscattati con Mussolini...(Bortolo<br />
Consoli).<br />
Benito Mussolini è certamente uno dei personaggi che più hanno segnato<br />
il destino degli italiani nel Novecento. La sua <strong>di</strong>ttatura, tra le più longeve<br />
d’Europa, ha con<strong>di</strong>zionato la vita dei citta<strong>di</strong>ni allora e anche in seguito,<br />
tramite una memoria indulgente che ha assecondato le ambiguità <strong>di</strong> un<br />
Paese dalla democrazia incompleta.<br />
A breve <strong>di</strong>stanza dall’epilogo del regime si è sviluppato un sentire comune<br />
che ha relativizzato il Ventennio, offuscando gli aspetti coercitivi ed<br />
evidenziando gli elementi <strong>di</strong> progresso e modernizzazione. Nel limbo, ma<br />
con i dovuti <strong>di</strong>stinguo, sono finiti gli ultimi mesi, periodo <strong>di</strong> lunga durata<br />
politica, strumentalizzato e sottoposto a torsioni tali che ancora oggi a<br />
riven<strong>di</strong>care il senso <strong>di</strong> quelle ragioni anziché essere i motivi dello scatenarsi<br />
<strong>di</strong> una guerra civile, sono le violenze che l’hanno caratterizzata.<br />
Da oltre mezzo secolo, a decidere le sorti <strong>di</strong> quel passato sono una serie<br />
<strong>di</strong> memorie complesse, a volte lontane tra loro e conflittuali. L’appartenenza<br />
a esse, però, non ha impe<strong>di</strong>to la con<strong>di</strong>visione <strong>di</strong> alcuni aspetti permeati<br />
dall’azione della propaganda. Il ruolo ricoperto da Mussolini nei ricor<strong>di</strong><br />
della gente comune è <strong>di</strong> primo piano: sia per le responsabilità che si è assunto<br />
nella storia nazionale e sia per l’efficace promozione della sua figura nella<br />
costruzione dell’italiano fascista.<br />
11
Filippo Colombara<br />
Inten<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> questo lavoro è analizzare alcune forme del ricordo,<br />
fornendo elementi su come oggi si è stratificata quell’esperienza. Al centro,<br />
padrone della scena, si staglia Mussolini, o meglio i vari Mussolini, quelli<br />
rappresentati dal suo corpo (visto, toccato, sognato, inventato) e quelli relativi<br />
all’esperienza <strong>di</strong>ttatoriale: il Mussolini prevaricatore che si sovrappone alla<br />
memoria del regime, quello che si scinde <strong>di</strong>stinguendo e ripartendo le<br />
responsabilità, quello travolto dalle efferatezze dell’ultimo conflitto armato e<br />
quello salvifico per quanti non intendono recedere dalla sua visione del mondo.<br />
12<br />
Visto, toccato, sognato<br />
Durante gli anni trenta, poter vedere Mussolini dal vivo in carne e ossa<br />
pare essere un desiderio particolarmente <strong>di</strong>ffuso 1 . La propaganda ha<br />
compiuto un buon lavoro e rispondere a un bisogno del genere, per alcuni<br />
semplice curiosità, per altri vero e proprio dovere morale, è un impegno a<br />
cui pochi si sottraggono.<br />
Anche la provincia <strong>di</strong> Novara, come molti altri territori nazionali, lo<br />
accoglie a più riprese. Nel 1914 vi giunge come <strong>di</strong>rettore dell’«Avanti!»,<br />
alla ricerca <strong>di</strong> sottoscrizioni per il quoti<strong>di</strong>ano; nel 1925, ormai protagonista<br />
istituzionale, si reca all’aeroporto <strong>di</strong> Cameri per le gran<strong>di</strong> manovre; si<br />
ripresenta ancora nel 1932 per l’inaugurazione dell’autostrada Torino-<br />
Milano e nel 1934 in visita ufficiale. Nell’aprile dell’anno successivo partecipa<br />
con i ministri degli Esteri francese e inglese alla conferenza <strong>di</strong> pace <strong>di</strong> Stresa<br />
e quattro anni dopo è nuovamente a Novara.<br />
Per le genti della provincia il ricordo <strong>di</strong> Mussolini si collega in genere a<br />
quest’ultima visita, avvenuta il 18 maggio 1939.<br />
L’organizzazione <strong>di</strong> quella giornata risulta complessa ma ben rodata,<br />
dopo anni <strong>di</strong> manifestazioni simili lungo la penisola. I preparativi seguono<br />
procedure co<strong>di</strong>ficate e il podestà <strong>di</strong> Novara, per far bella figura, obbliga i<br />
citta<strong>di</strong>ni a tinteggiare e intonacare le abitazioni in cattive con<strong>di</strong>zioni situate<br />
lungo il tragitto del corteo 2 . La regia dell’evento è oltremodo impegnativa:<br />
dall’allestimento delle scenografie, come l’arco <strong>di</strong> trionfo e il fascio littorio<br />
<strong>di</strong> cinquanta metri installati in piazza Vittorio Emanuele II, alla tempistica<br />
dei cerimoniali. Fatiche ricompensate dalle parole <strong>di</strong> elogio che il duce<br />
pronuncerà al termine della manifestazione 3 .<br />
L’apparizione <strong>di</strong> Mussolini, per quanti si ammassano nel capoluogo e<br />
nei paesi attraversati dal corteo, dura un attimo brevissimo, ciononostante,
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
la messa in scena del popolo riesce per bene. Il gran numero <strong>di</strong> testimoni<br />
dell’evento sottolinea la capacità degli apparati fascisti, dopo <strong>di</strong>ciassette<br />
anni <strong>di</strong> <strong>di</strong>ttatura, <strong>di</strong> mobilitare le piazze. Soprattutto i giovani cresciuti con<br />
il regime rammentano la giornata, annoverandola tra gli episo<strong>di</strong> storici<br />
vissuti.<br />
Il 18 maggio, quin<strong>di</strong>, dalla pianura e dai paesi <strong>di</strong> montagna ci si muove<br />
per assistere alla venuta <strong>di</strong> Mussolini. A Novara: «Siamo partiti il giorno<br />
prima, abbiamo dormito nel campo sportivo, eravamo in tanti, gente da<br />
tutta la provincia. Alla mattina ci siamo svegliati e siamo andati in piazza,<br />
dove hanno inaugurato l’ufficio postale» (Vincenzo Giovinazzo). «Ero andato<br />
in corriera con la sezione fascista <strong>di</strong> Nonio... Era in grande uniforme.<br />
Bisognava stare attenti solo a <strong>di</strong>re “Alalà, alalà” e basta... per osannarlo»<br />
(Celeste Ar<strong>di</strong>zzi). «C’era tanta gente, ma il duce l’abbiamo visto per poco<br />
tempo. Mi ricordo che passava con la macchina, era in pie<strong>di</strong>» (Maria Cerri).<br />
«Siamo andati giù in treno per vedere il duce. Ero vestita da giovane italiana<br />
e c’era questo uomo, un bell’uomo che ha fatto il <strong>di</strong>scorso… L’ho visto<br />
quella volta lì» (Mariuccia Lilla). «Eravamo vestiti da giovani italiane,<br />
avevamo il cartello con scritto: “Giovani italiane <strong>di</strong> Crusinallo”» (Alma<br />
Puppieni).<br />
La capacità <strong>di</strong> riempire piazze e strade con questo nuovo rito <strong>di</strong> massa è<br />
un impegno non limitato al capoluogo ma si estende ai maggiori centri<br />
della provincia attraversati dal duce. Ad Arona: «È passato <strong>di</strong> lì quando io<br />
ero in collegio. Mi ricordo che eravamo sul viale della stazione, avevano<br />
piazzato delle tribune per vederlo. Come è entrato, arrivava dalla strada<br />
della stazione, si è alzato sulla macchina, ha salutato e poi è andato... Era<br />
tutto imban<strong>di</strong>erato, le ban<strong>di</strong>ere partivano dall’inizio della strada nuova,<br />
quella che arriva a Dormelletto, e lui è andato verso Biella. Era il ’39»<br />
(Nicola Tosi). «Forse l’ho visto ad Arona dove c’era come una festa... Era<br />
prima della guerra. Lui veniva e gridava... c’erano anche i suoi seguaci che<br />
venivano a fare i <strong>di</strong>scorsi per cercare <strong>di</strong> tirare la gente dalla sua parte. Noi<br />
giovani siamo andati a vederlo per curiosità, in quel tempo non avevamo<br />
idee, pensavamo a <strong>di</strong>vertirci» (Roberto Ferretti).<br />
A Borgomanero: «Avevamo il treno gratis, solo per andare sul treno<br />
gratis suma ’ndai vèga ’nca ’l duce. Abbiamo preso il treno a Omegna e<br />
siamo scesi a Borgomanero. Io ero proprio sul corso, là davanti... Un bèl òm<br />
l’éra, un bell’uomo era. Era in macchina, dopo noi siamo andati per conto<br />
nostro... Lo volevo vedere così, una curiosità, lo vedevamo sempre nel cinema<br />
e ’lóra questa volta c’era sul serio e siamo andati» (Angela Pettinaroli) 4 . «È<br />
13
Filippo Colombara<br />
venuto una volta... c’era tutto uno schieramento, noi del collegio siamo<br />
andate a vederlo. C’era tanta gente che gridava: “Duce, duce”, ma niente<br />
altro <strong>di</strong> particolare. Eravamo tutti riuniti in una grande piazza... poi è arrivato<br />
lui su una macchina e ha parlato» (Giuseppina De Micheli). «Io l’ho visto,<br />
ero vestita da piccola italiana. Lui era venuto per inaugurare la Casa del<br />
littorio <strong>di</strong> Borgomanero, che è lì dove c’è il campo sportivo. Siamo andate<br />
tutte noi delle elementari <strong>di</strong> Gozzano» (Anna Maria Ranzini).<br />
A Romagnano Sesia: «La giornata era molto preparata, io ero già fuori<br />
dalla scuola <strong>di</strong> quinta quin<strong>di</strong> non ero già più... tutti i bambini li hanno<br />
portati sul ponte, hanno fatto degli archi e poi sono venute tutte queste<br />
camicie nere, una preparazione stupenda si può <strong>di</strong>re...» (Francesco Rinolfi).<br />
«Mi ricordo che c’era tanta gente per vedere il duce per curiosità eh, è la<br />
curiosità, perché io non potevo vederlo, per <strong>di</strong>re, ma però per la curiosità<br />
ho voluto vederlo anch’io» (Pierino Dariani). «L’è pasà da Rumagnàn tanti<br />
ani fa. Ero una giovinetta e mi e ’l Massimo, a pe’, siamo andati giù sul pónt<br />
da Rumagnàn. L’è pasà ’l Duce, un bèl òm, un bèl muretón» 5 (Cesarina Bonola).<br />
«Mi han vestito da piccola italiana e m’han mandato giù. Ero tutta contenta,<br />
ero piccola ancora, ero tutta contenta e mio papà: “Ti n’acurgiarài”. Ma sì<br />
che sapevo io, andavano tutti, mi sembrava <strong>di</strong> vedere chissà che grande<br />
bella roba. Avevo sette o otto anni, non so» (Rina <strong>Del</strong>la Zoppa) 6 .<br />
I motivi che inducono a presenziare all’evento sono svariati e travalicano<br />
<strong>di</strong>sciplina e adesione al regime: si è attratti per curiosità; spesso le aziende<br />
retribuiscono la giornata lavorativa; si viaggia gratis e in città ci si può<br />
soffermare davanti alle vetrine dei negozi. Sono presenti aspetti lu<strong>di</strong>ci, anche<br />
se la scampagnata si guasta per via della lunga attesa e del freddo - quel<br />
giorno piove -, come racconta una donna <strong>di</strong> Prato Sesia.<br />
Io sono andata a vederlo a Novara, perché la filatura [<strong>di</strong> Grignasco] mi pagava la<br />
giornata. C’era un mio cugino che abitava lì alla Mulògna che lavorava con me e lóra<br />
l’è gniù e l’è dì: «Vardè dòni, se vurì ’v pagu la giurnà». «Ah sì, ’lóra si ni pagu la giurnà,<br />
cià ch’i ’nduma» e infatti siamo andati. Io sono andata a Novara, ci hanno caricate su<br />
un treno che hanno dovuto spingerci sopra, erano i vagoni delle bestie ecco, invece<br />
qui [a Prato Sesia] la Maria, la Adelaide, la Natalina, tüti già morti, sono andate a<br />
Romagnano vestite da massaie rurali.<br />
Quando siamo arrivate giù faceva un freddo e ho detto: «Déh, sun da sté qui ‘n sta<br />
piasa...», tutta circondata da piccole italiane che cantavano «Duce, duce, duce, duce»<br />
e <strong>di</strong>cevo: «Ah no, mi dòne ’dès mi i vagh». «Ma tèi mata neh, se ti vè fö da qui ’t masu...».<br />
Io e una mia amica che lavorava con me siamo andate là, ci siamo sedute su un<br />
paracarro, <strong>di</strong> là un momento arriva uno: «Allarme, allarme arriva il duce!» «Ah sì,<br />
14
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
custa l’è bèla, déh Pulèt suma da livè sü?». «Ma va ’n po’ là va, lasa ch’al pasa». E infatti<br />
uno <strong>di</strong>ce: «Fate il saluto, fate il saluto». Dopu ’n po’ i fagh: «L’è bén inteligént cul lì, ma<br />
l’è da féni criné cul lì». Quell’anno lì c’era persino ancora tre garibal<strong>di</strong>ni, mi ricordo<br />
che era lì al teatro Coccia che siamo andati, ecco sul balcone c’erano ’sti tre garibal<strong>di</strong>ni,<br />
la piazza era grande ma era piena <strong>di</strong> gente, noi ci hanno lasciate là, ci hanno dato un<br />
sacchetto con dentro cioccolato, due aranci, mi ricordo, due michette e la filatura ci<br />
ha pagato la giornata (Albina Baraggiotta ) 7 .<br />
La narrazione della donna, ricca <strong>di</strong> particolari, appare a tratti ironica e<br />
con tanto <strong>di</strong> premonizioni. Come il padre <strong>di</strong> Rina <strong>Del</strong>la Zoppa smorza la<br />
contentezza della figlia <strong>di</strong> vedere Mussolini con un lapidario «Te ne<br />
accorgerai», così Albina Baraggiotta attenua l’eccitazione delle compagne<br />
con la secca frase: »È ben intelligente quello lì, ma ha da farci piangere<br />
quello lì». In entrambi i casi si tratta <strong>di</strong> avvertimenti portatori <strong>di</strong> infausti<br />
presagi. Affermazioni che spiegano il passato posizionando i narratori dalla<br />
parte della storia vincente, a riprova della loro o<strong>di</strong>erna giusta collocazione<br />
ideale. Siano state realmente pronunciate o meno quelle parole, il loro<br />
compito è <strong>di</strong> fungere da verdetto morale e, nello svolgimento narrativo, da<br />
chiosa finale.<br />
Caratteristiche <strong>di</strong> gran parte dei racconti su Mussolini, sono però i tratti<br />
essenziali, la brevità, talora decisamente telegrafica, e l’assenza <strong>di</strong> aneddoti.<br />
È plausibile che i testimoni, allora adolescenti, siano in <strong>di</strong>fficoltà nel costruire<br />
in modo compiuto il ricordo; tuttavia, le descrizioni sommarie si potrebbero<br />
anche interpretare come in<strong>di</strong>sponibilità ad affrontare ulteriori riflessioni su<br />
<strong>di</strong> un fatto che si preferisce porre in secondo piano. L’episo<strong>di</strong>o è stato<br />
significativo ma non ha originato cambiamenti e non si intende aggiungere<br />
nulla.<br />
Nonostante tali limiti, o proprio per via <strong>di</strong> essi, le narrazioni sono<br />
provviste <strong>di</strong> elementi che connotano pregi e <strong>di</strong>fetti del capo del fascismo. I<br />
suoi aspetti fisici, per esempio, meticolosamente promossi da anni <strong>di</strong> regime,<br />
sono ben descritti dagli intervistati. Questo è un ricordo che solo<br />
parzialmente si attiene alla visione del personaggio - ad andar bene intravisto<br />
da lontano - quin<strong>di</strong> si confonde con i gadget <strong>di</strong> propaganda oppure si<br />
corrobora <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi emessi nel dopoguerra: «Era proprio come si vede nelle<br />
foto: piuttosto grosso, non tanto alto, né bello né brutto. Stava nel mazzo<br />
’nsèma j auti. A sentirlo parlare era simpatico» (Cesarina Fioramonti) 8 .<br />
«Ricordo che è passato sulla macchina che sembrava... praticamente come<br />
è stato descritto in tutte le cose, superbo, tutte quelle cose lì, l’impressione<br />
da bambino non si può neanche descrivere bene... eravamo <strong>di</strong>giuni <strong>di</strong> certe<br />
15
Filippo Colombara<br />
cose, antifascismo» (Pier Antonio Agarla). Al più: «Era grosso, tracagnòt. Ha<br />
parlato un bel po’ ma non mi ricordo cosa <strong>di</strong>ceva. Noi dovevamo stare lì in<br />
pie<strong>di</strong> ad ascoltarlo, in silenzio assoluto» (Alma Puppieni) 9 .<br />
Mussolini è percepito come protagonista <strong>di</strong> rilievo e lo si propone tramite<br />
un’immagine <strong>di</strong> maniera che risente degli stereotipi del personaggio: «Era<br />
un bell’uomo, ben tenuto come capo <strong>di</strong> stato. Era <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a altezza... ma<br />
aveva una voce vibrante che si faceva sentire» (Clotilde Rampone). «Aveva<br />
occhi fissi in una maniera agghiacciante... 10 faceva venire la pelle d’oca»<br />
(Anna Maria Ranzini). «Aveva un bel fación. Era grande, con un berretto in<br />
testa, con la <strong>di</strong>visa bella. Era imponente, con le mani sulla vita. Non era<br />
arrabbiato, però faceva un po’ soggezione» (Maria Salvadego) 11 . «Era un<br />
uomo imponente eh... molto imponente, io l’ho visto quella volta lì e basta...<br />
Poverino, ha fatto una brutta fine anche lui» (Nicola Tosi).<br />
Alle aggettivazioni alte e positive coltivate nell’immaginario degli italiani,<br />
<strong>di</strong> uomo dominatore e ideale amante della nazione, si contrappongono<br />
quelle negative prodotte dagli avversari: superbo, arrogante, «pallone<br />
gonfiato». Rammenta un’operaia allora qu<strong>in<strong>di</strong>ce</strong>nne:<br />
Io ho fatto proprio il periodo delle scuole in cui ci hanno infarciti <strong>di</strong> Mussolini e <strong>di</strong> fasci<br />
fino a non poterne più. E quando una cosa è troppa stroppia. Già nella mia famiglia non<br />
eravamo granché propensi, ecco, però dopo col mio ragionamento vedevo che era una...<br />
un pallone, un pallone. L’ho visto, son contenta d’averlo visto, che mio marito <strong>di</strong>ceva:<br />
«Tu sei andata fino a Romagnano per vedere Mussolini, io non avrei neanche fatto un<br />
passo». Io invece sono contenta d’averlo visto, ho visto un bel pavone, ecco. A<br />
Romagnano, nel ’39, quando passò a visitare, forse a tastare il polso che poi l’anno dopo<br />
ha <strong>di</strong>chiarato la guerra. Io ho visto un bel pallone, un bel pallone gonfiato, eppure tutti:<br />
«Viva il duce, viva il duce», non si poteva gridare <strong>di</strong>versamente (Edmea Mora).<br />
Differenti valutazioni, al <strong>di</strong> là delle appartenenze politiche, si avvertono<br />
sul piano generazionale. Le figure proposte dalle donne più giovani, che si<br />
soffermano sugli aspetti estetici, e delle adolescenti, colpite dal comportamento<br />
altero che induce soggezione, contrastano in <strong>di</strong>versi casi con l’immagine delle<br />
trentenni e quarantenni. Tra queste, infatti, prevale la volontà <strong>di</strong> ricondurre<br />
la figura del <strong>di</strong>ttatore nei canoni dell’or<strong>di</strong>nario, <strong>di</strong> quello «stare nel mazzo»<br />
già notato da Cesarina Fioramonti. «Non ricordo bene... Era un uomo<br />
normale, ma aveva un aspetto...» (Angela Zampone); «Aveva delle arie! Era un<br />
uomo normale... però ci faceva fare <strong>di</strong> tutto quel duce» (Maria Cerri). Inoltre,<br />
mentre le giovani sottolineano la prestanza fisica, le anziane in<strong>di</strong>rizzano il<br />
ricordo in un ambito temporale più ampio: «L’ho proprio visto <strong>di</strong> persona...<br />
16
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
Ah, quante cose ormai passate della vita... Sì, signora, nella vita quante cose<br />
che si passano» (Assunta Poletti) 12 ; «Eh sì, l’unica roba che ho visto io nella<br />
mia vita è Mussolini, perché non uscivo mai <strong>di</strong> casa... con tre bambini e il<br />
negozio...» (Carmela Fornara). La memoria del duce appare inserita nella<br />
visione complessiva dell’esperienza in<strong>di</strong>viduale, che contempla anche perio<strong>di</strong><br />
precedenti al fascismo, quando, ricorda un intervistato, «Non si recitavano<br />
preghiere a scuola, a quei tempi là eravamo più liberi» (Giuseppe Arienta).<br />
Senza proporre tesi <strong>di</strong> alterità generazionale 13 , questi brevi cenni sono in<strong>di</strong>cativi<br />
dell’influenza dei gruppi comunitari <strong>di</strong> appartenenza nella costruzione delle<br />
memorie e del debito nei confronti dei quadri sociali a cui si appoggiano 14 .<br />
Le <strong>di</strong>versità tra il ricordo adolescenziale e quello <strong>di</strong> età matura sono evidenti<br />
e determinano la qualità delle narrazioni. Le intervistate allora trentenni,<br />
infatti, con<strong>di</strong>vidono con le più giovani il fascismo, il secondo conflitto<br />
mon<strong>di</strong>ale, la resistenza e con la propria generazione anche i decenni precedenti.<br />
La scelta <strong>di</strong> propendere per un’interpretazione pacata e oculata della figura<br />
del duce tiene conto <strong>di</strong> questi aspetti.<br />
L’insieme dei racconti qui considerati, però, appartiene a generazioni<br />
cresciute o nate con il regime, <strong>di</strong> conseguenza l’immagine <strong>di</strong> Mussolini che<br />
emerge è soprattutto quella promossa dalla propaganda: un’immagine frutto<br />
degli apparati <strong>di</strong> regime la cui influenza dura ancora oggi. La potenza degli<br />
slogan, delle fotografie, dei filmati, dei frammenti <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi riverberano<br />
nel momento in cui si tratta <strong>di</strong> allestire i ricor<strong>di</strong> del periodo. Specie nella<br />
descrizione <strong>di</strong> eventi minori - come in fondo è questo - si fa uso della<br />
propaganda per confezionare il racconto. Al passaggio <strong>di</strong> Romagnano, narra<br />
Cesarina Bonola, allora operaia ventenne, «C’erano dei bambini e ricordo<br />
ben [che] ha detto: “Bambini...” cume dì: bambini che erano soldati <strong>di</strong><br />
domani. Mi ricordo quella roba lì, l’ünica vóta che sun vistlu».<br />
Mussolini, del resto, appare come un capo <strong>di</strong> stato capace <strong>di</strong> accre<strong>di</strong>tare<br />
la propria figura tra la gente comune, un leader partecipe della cultura della<br />
piazza, anzi in grado <strong>di</strong> innovarla mescolando tra<strong>di</strong>zione e modernità,<br />
riversandovi in<strong>di</strong>vidui-massa <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa estrazione nella maniera tipica delle<br />
adunate oceaniche 15 .<br />
Vedere il duce è poi un bisogno psicologico <strong>di</strong> affezione e protezione.<br />
Come per i re, si avverte la sacralità della sua persona - che dopo i falliti<br />
attentati acquista la fama dell’invulnerabilità 16 - e ne consegue l’attribuzione<br />
<strong>di</strong> poteri taumaturgici 17 . Per questi motivi donne in lutto desiderano toccarlo<br />
per propiziare la resurrezione dei loro morti 18 , altre confidano in un suo<br />
intervento per salvare il figlio gravemente malato 19 ; il piccolo sordomuto,<br />
17
Filippo Colombara<br />
protagonista <strong>di</strong> una lettura scolastica, acquista u<strong>di</strong>to e vista osservando<br />
Mussolini annunciare l’impero in piazza Venezia 20 e giovani repubblichini<br />
gli baciano la mano in segno <strong>di</strong> devozione e <strong>di</strong> reverente saluto 21 . Anche<br />
una stretta <strong>di</strong> mano, un buffetto sulla guancia assumono il senso del tocco<br />
regale, se non <strong>di</strong> guarigione almeno <strong>di</strong> protezione e salvezza. Atti che i<br />
testimoni non esplicitano in questi termini ma che risultano centrali nel<br />
racconto. Negli aneddoti che seguono è infatti rimarcato il contatto fisico<br />
realmente avvenuto o solo presunto.<br />
Da bambina sono stata premiata perché ero brava a scuola, era l’ultimo anno <strong>di</strong> scuola,<br />
al teatro Dal Verme <strong>di</strong> Milano ed era presente il duce. [...] Mi ricordo che mi ha<br />
stretto la mano e mi hanno regalato ventimila lire della Cassa <strong>di</strong> risparmio <strong>di</strong> Milano<br />
(Giuseppina Pavan).<br />
Ricordo che quando avevo otto anni, nel 1937, mi hanno fatto vestire con la <strong>di</strong>visa:<br />
gonna blu e camicetta bianca con colletto alla marinara. Ci hanno radunato su l’éra,<br />
sull’aia ricoperta <strong>di</strong> catrame dove si faceva seccare il riso, ce n’era una nella mia frazione,<br />
e abbiamo cantato una canzone: «La bella balina / sfuggita <strong>di</strong> mano / oscilla sul piano<br />
/ qua è là, qua e là». Contemporaneamente facevamo muovere tra una mano e l’altra<br />
una pallina che poi abbiamo buttato in aria. Ci hanno applau<strong>di</strong>to. Era stato fatto in<br />
onore della visita del duce, era la primavera del 1937 ed era accompagnato dal fattore,<br />
signor Bruschi, che era fascista. Noi eravamo in otto o nove, tutte bambine. C’eravamo<br />
solo noi, sembra una favola, invece è la verità. [...] Mi ricordo che il duce mi ha strucà<br />
la mascèla 22 e allora mi è andata via tutta la paura e ho fatto l’inchino. Perché lui se n’è<br />
accorto che volevamo scappare, così ha cercato <strong>di</strong> calmarci. Avevamo fatto tante prove<br />
a scuola con la maestra e siamo state proprio brave. Poi il duce ha fatto un piccolo<br />
<strong>di</strong>scorso, perché aveva premura <strong>di</strong> andare in un altro paese. C’era poca gente perché<br />
da noi [Porto Tolle, Rovigo] c’erano pochi fascisti (Maria Salvadego).<br />
Clotilde Rampone: «Sì, l’ho visto... era per una festa. Siamo andati al casinò <strong>di</strong> Pallanza,<br />
al ricevimento che avevano fatto perché arrivava il duce. Ha fatto il <strong>di</strong>scorso sul balcone<br />
del palazzo municipale, poi è sceso e siamo andati in corteo al mausoleo Cadorna per<br />
l’inaugurazione fatta dal duce».<br />
Virginia Paravati: «Lei l’ha visto bene?».<br />
Clotilde Rampone: «Sì, <strong>di</strong> presenza. Ci ha dato la mano, perché ero vicino a una donnetta<br />
che gridava: “Viva il duce, viva il duce». Così, per il pericolo che fosse una parola<br />
d’or<strong>di</strong>ne per far intervenire qualcuno per <strong>di</strong>sturbare il corteo, i fascisti si sono pro<strong>di</strong>gati<br />
per fermarla, ma il duce ha detto: “No, perché volete fermarla?” e le ha dato la mano<br />
mentre <strong>di</strong>ceva queste parole. Io che ero vicino mi sono trovato con la sua mano offerta<br />
a me. Per questo l’ho apprezzato molto».<br />
18
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
In questi tre racconti si contemplano certamente gli «errori» in cui<br />
incorrono i narratori. Nell’ultimo aneddoto, per esempio, non è vero che<br />
Mussolini partecipa alla traslazione della salma <strong>di</strong> Cadorna nel nuovo<br />
mausoleo. Quel giorno del 1932 sul lungolago <strong>di</strong> Pallanza sono presenti il<br />
duca d’Aosta insieme all’onorevole <strong>Del</strong>croix, che tiene il <strong>di</strong>scorso<br />
commemorativo, e Costanzo Ciano, che legge il messaggio del duce 23 . Ma<br />
anche rispetto agli altri due racconti: è davvero Mussolini il personaggio<br />
che le bambine incontrano o è una costruzione leggendaria fondata su una<br />
propaganda ossessionante?<br />
Alcune descrizioni del 18 maggio 1939, poi, fanno intendere che non si<br />
è assistito a uno spettacolo qualunque, che non si è trattato del passaggio<br />
della storia davanti a dei «senza storia», ma <strong>di</strong> un vero e proprio incontro<br />
tra i due soggetti; una relazione che non si svolge tra «noi» massa anonima<br />
e «lui» ma tra «me» e «lui», in un rapporto <strong>di</strong> accettata sud<strong>di</strong>tanza. Il pronome<br />
personale utilizzato dagli intervistati è spesso plurale, ma talora sottintende<br />
quello singolare, e lo sguardo negli occhi può sancire il contatto: «Aveva<br />
uno sguardo così fisso - mamma mia - faceva paura guardarlo. Girava la<br />
faccia proprio verso <strong>di</strong> noi, mi ricordo. Noi applau<strong>di</strong>vamo» (Anna Maria<br />
Ranzini). A volte il rapporto <strong>di</strong>retto «tu per tu» è chiaro: «L’ho incontrato lì<br />
per andare a Romagnano; ecco che veniva in su, ecco, e tanti che facevano<br />
con la mano così [salutavano] e l’ho visto bene come vedere lei ’desso, per<br />
<strong>di</strong>re» (Pierino Dariani).<br />
In certe narrazioni, corredate da toni familiari, pare <strong>di</strong> trovarsi <strong>di</strong> fronte<br />
a un vero e proprio incontro tra l’umile uomo comune e il capo supremo.<br />
Pierino Dariani <strong>di</strong>chiara <strong>di</strong> averlo «incontrato che veniva in su», un normale<br />
appuntamento a due mentre la calca <strong>di</strong> persone assiepate ai margini della<br />
strada non è altro che contorno scenografico. Allo stesso modo, quando<br />
l’operaia Clotilde Rampone vede Mussolini a Pallanza, è quest’ultimo a<br />
offrire la mano alla donna, la quale apprezza molto il gesto. In ambedue i<br />
casi l’incontro, pur in mezzo alla folla, è singolare e non ha eguali in quanto<br />
valore e prestigio. <strong>Del</strong> resto, come sostiene Maria Salvadego, «c’eravamo<br />
solo noi, sembra una favola, invece è la verità». Un «noi» sempre all’insegna<br />
dell’incontro privilegiato, che in altri casi induce il testimone a immaginare<br />
<strong>di</strong> essere proiettato nella grande storia.<br />
Il duce era una persona che mi era molto simpatica, che aveva un fascino, aveva un<br />
magnetismo particolare, che penso avesse, naturalmente con le debite proporzioni,<br />
anche Napoleone verso i suoi seguaci. Senza spiegare perché c’erano certi momenti<br />
19
Filippo Colombara<br />
che l’essergli vicino mi dava un senso <strong>di</strong> felicità. Questo mi è capitato a un pranzo,<br />
una volta che era venuto a Venezia a Palazzo Reale, con la gente fuori che chiamava<br />
perché venisse al balcone, mi è passato vicino, aveva la sciarpa verde <strong>di</strong> gran ufficiale<br />
e guardava la folla... A me pareva <strong>di</strong> essere una persona storica, che fosse un momento<br />
molto importante della mia vita, una roba che uno si mette in testa, non ha alcuna<br />
spiegazione almeno evidente dal punto <strong>di</strong> vista pratico. È una sensazione che molti<br />
possono provare, penso che anche i comunisti potessero provare qualcosa <strong>di</strong> simile<br />
con Togliatti (Angelo Berenzi).<br />
L’incontro con i personaggi della grande storia, per la gente comune,<br />
avviene anche durante l’esercizio del proprio mestiere. A Cesare Castellano,<br />
per esempio, capita <strong>di</strong> radere la barba al generale Graziani: «Era un tipo<br />
taciturno, quando andavo io non osavo parlare. Tutto il rispetto, gli facevo<br />
la barba, lo ringraziavo, mi pagava volta per volta». A un cuoco <strong>di</strong> Armeno,<br />
invece, succede <strong>di</strong> cucinare per Ciano e Mussolini.<br />
Marco Guarnori: «Noi per lavorare si andava sempre via. Una volta bisognava andare<br />
a Roma, perché c’erano i francesi che insegnavano; allora gli chef erano tutti francesi<br />
ed erano tutti a Roma. Poi ho girato un po’ dappertutto. Io ho conosciuto gente che<br />
avete appena sentito nominare: Mussolini, Ciano».<br />
Studente: «Come erano queste persone a tavola?».<br />
Marco Guarnori: «Erano esigenti, Ciano era molto esigente: a lui bisognava dare,<br />
quando si serviva d’estate, la carne fredda e il prosciutto tutto tagliato a pezzi. Ricordo<br />
che una sera è arrivato a mangiare alle un<strong>di</strong>ci, mi trovavo <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a e non ho potuto<br />
dargli i pezzi, perché li avevo già dati a un’altra persona, ha piantato un pasticcio da<br />
cani!».<br />
Studente: «In che ristorante si trovava?».<br />
Marco Guarnori: «Io mi trovavo all’ambasciata, lì facevano tutti i banchetti del ministero<br />
degli Interni. Mussolini l’ho servito in Sardegna. Allora per servire quella gente lì e<br />
per lavorare bisognava essere iscritti al partito fascista. Mussolini l’ho rivisto durante<br />
la guerra, io ero chef al Principe <strong>di</strong> Torino. Una sera Ciano si trovava lì a dormire, era<br />
d’inverno, faceva freddo e avevano acceso i caloriferi con quel poco gasolio che c’era,<br />
ed è scoppiato un termosifone, con un baccano... proprio nella camera a<strong>di</strong>acente a<br />
quella <strong>di</strong> Ciano. Lui, in pigiama, è arrivato giù nella hall alle tre <strong>di</strong> notte a vedere che<br />
era successo. Dice: “Qua è un attentato!”. Poi c’era sempre Edda Mussolini che veniva<br />
lì perché era una crocerossina, allora era in Piemonte».<br />
Studente: «E Mussolini a tavola?».<br />
Marco Guarnori: «Mussolini era malato <strong>di</strong> ulcera e allora mangiava sempre pesce bollito<br />
e verdura bollita. Quelle quattro o cinque volte che l’ho servito in Sardegna ho preparato<br />
pesce e legumi bolliti».<br />
Studente: «Era gentile verso <strong>di</strong> lei e il personale?».<br />
20
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
Marco Guarnori: «Parlava poco e noi avevamo poco contatto con lui, perché poi stava<br />
tre piani sotto terra. Aveva i suoi camerieri che servivano. Mi ricordo che c’era un<br />
cameriere che veniva lì sempre e raccontava che una volta, durante un convegno a<br />
Stresa con Mussolini e i francesi o gli inglesi non mi ricordo più chi fossero, alla sera<br />
è venuto un temporale fortissimo, proprio mentre Mussolini stava rientrando nel<br />
salone da pranzo, è andata via la luce e si sono trovati tutti con la rivoltella in mano».<br />
In questa narrazione, peraltro, fa capolino il corpus <strong>di</strong> voci sulla salute<br />
<strong>di</strong> Mussolini: <strong>di</strong>cerie sulla sua ulcera 24 che accompagnate a quelle sulla sifilide<br />
sono frutto <strong>di</strong> particolare attenzione da parte degli antifascisti, consci che<br />
la buona salute del regime debba molto a quella del maestro <strong>di</strong> Predappio.<br />
Le voci sulle con<strong>di</strong>zioni fisiche, del resto, lo seguiranno per tutta la vita,<br />
prendendo particolare vigore durante la guerra, al punto che nell’autunno<br />
1942 si parla della sua morte, avvenuta per malattia o a seguito <strong>di</strong> un<br />
intervento chirurgico. Si tratta <strong>di</strong> false notizie ma che rispecchiano il reale<br />
declino politico che sta subendo la sua immagine 25 . Nell’ultimo periodo <strong>di</strong><br />
vita, invece, i supposti sintomi <strong>di</strong> follia, argomento <strong>di</strong> <strong>di</strong>leggio della sinistra,<br />
sono fatti propri da quanti, a destra, utilizzano questa ipotesi per giustificare<br />
gli errori politici e le sconfitte militari, che un capo dalle «qualità<br />
straor<strong>di</strong>narie», qual è sempre stato il duce, non si sognerebbe <strong>di</strong><br />
commettere 26 .<br />
Al Mussolini visto con i propri occhi si affianca, inoltre, quello che si<br />
crede <strong>di</strong> avere incontrato. I meccanismi escogitati dalla propaganda affinché<br />
egli eserciti una forte attrazione sono del resto notevoli; solo così è<br />
giustificabile il consolidarsi in taluni ricor<strong>di</strong> della certezza <strong>di</strong> averlo veduto<br />
persino in luoghi decisamente improbabili.<br />
La leggenda della sua ubiquità è ben presente nella pubblicistica del tempo<br />
e già abbiamo rinvenuto in<strong>di</strong>zi nelle nostre interviste. Mussolini è rintracciabile<br />
ovunque: vicino a ciascuno come padre premuroso piuttosto che come occhio<br />
del grande fratello. In un libro <strong>di</strong> letture per ragazzi si afferma:<br />
Egli appare a quando a quando in quell’angolo d’Italia dov’è meno atteso. Fu visto<br />
nella strada <strong>di</strong> una grande città, al mattino, fermo con volto sorridente, tra i bimbi<br />
che andavano a scuola.<br />
Lo vide, nella notte, sogguardando sotto la visiera dell’elmetto, un soldato che montava<br />
<strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a.<br />
Lo sentì accanto un marinaio, nella sera <strong>di</strong> tempesta.<br />
Lo scorse un conta<strong>di</strong>no accanto a sé quando arava, in ottobre, a reggergli la lunga asta<br />
del vomere e puntare per il solco profondo 27 .<br />
21
Filippo Colombara<br />
Nulla <strong>di</strong> più strano se oggi si può rammentare <strong>di</strong> aver assistito al suo<br />
arringare folle dai balconi del proprio paese o persino sulle sponde del<br />
torrente vicino casa.<br />
«Mi ricordo che il duce con i capi del fascismo <strong>di</strong> Crusinallo e della zona<br />
hanno parlato una volta dal balcone della casa <strong>di</strong> mia zia, che dominava la<br />
piazza <strong>di</strong> Crusinallo» (Maria Pirovano). L’affermazione è una stranezza e<br />
non corrisponde alla realtà, anche se trova conferma da un’altra intervistata:<br />
«Una volta è venuto sul balcone a Crusinallo della casa Pirovano. Faceva la<br />
sua propaganda per il suo partito... Era appena prima della guerra. [...] In<br />
piazza c’era tanta gente che applau<strong>di</strong>va e <strong>di</strong>ceva: “Viva il duce”» (Cesarina<br />
Fioramonti). Esemplare la testimonianza <strong>di</strong> una terza informatrice: «Ho<br />
visto il duce con la Petacci. Erano giù allo Strona <strong>di</strong> Crusinallo. Io ero<br />
ancora piccola, ma andavo già a lavorare, avrò avuto un quin<strong>di</strong>ci anni.<br />
Loro forse erano venuti per la guerra d’Etiopia» (Maria Cerri).<br />
Ma a Crusinallo Mussolini non è mai stato e neppure a Loreglia, in<br />
valle Strona, ciononostante: «L’ho visto a Loreglia. Era andato dove c’è la<br />
scuola, sul balcone e aveva fatto un <strong>di</strong>scorso. Era prima della guerra e<br />
c’era tanta gente a vederlo. Io non sono andata perché lo vedevo da casa<br />
mia... Era un uomo normale, ma aveva un aspetto...» (Angela Zampone).<br />
Sulla venuta nel paesino dell’alto Cusio insiste un’altra intervistata: «Mi<br />
sembra che è passato una volta a Loreglia per fare una visita, ma non sono<br />
sicura. Era con il suo seguito. Non si è fermato, ha continuato. È venuto<br />
a Loreglia perché lì c’era un po’ una base dei fascisti. Mi ricordo che<br />
anche alcuni miei parenti istruiti che erano andati via, in città a lavorare,<br />
ritornavano in paese, si trovavano e così si <strong>di</strong>ffondevano le idee» (Maria<br />
Zamponi).<br />
Un contributo all’ubiquità <strong>di</strong> Mussolini, inoltre, lo forniscono le<br />
imitazioni e le emulazioni <strong>di</strong> gregari e ammiratori. Tra i gerarchi in campo<br />
nazionale, come tra i capi milizia <strong>di</strong> paese, è un susseguirsi <strong>di</strong> riproposizioni<br />
del duce, o meglio, della rappresentazione grottesca del suo corpo 28 . Vi si<br />
atteggiano nell’inflessione della voce, nel modo <strong>di</strong> scan<strong>di</strong>re le frasi durante<br />
i <strong>di</strong>scorsi 29 , in posa davanti alla macchina fotografica, nelle movenze in<br />
pubblico durante le cerimonie - con tanto <strong>di</strong> busto retto e braccia ad anforetta<br />
sui fianchi 30 -, oppure nella sequenziale battaglia del grano 31 . Sono stilemi<br />
che amplificano la parola e soprattutto la presenza del capo in ogni<br />
circostanza. Mo<strong>di</strong> ossessivi <strong>di</strong> permeare la vita <strong>di</strong> ciascuno della sua presenza,<br />
che nella memoria si attualizzano nella ripetizione quoti<strong>di</strong>ana del rituale:<br />
«Tutti andavano in piazza ad applau<strong>di</strong>re il duce e <strong>di</strong>cevano: “Viva il duce”,<br />
22
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
ma lo <strong>di</strong>cevano solo perché avevano paura. Tutte le sere usciva sul balcone<br />
per fare i <strong>di</strong>scorsi sul fascismo» (Aurora Rossari).<br />
Altri aneddoti appartengono alla serie <strong>di</strong> racconti imperniati sul Mussolini<br />
emigrante e fannullone. Confluiscono in questo repertorio vicende <strong>di</strong><br />
matrice socialista e antifascista e può accadere che s’impongano<br />
approssimazione temporali e spaziali nonché la trasposizione ideologica: il<br />
ventenne emigrante Mussolini non è più socialista ma già fascista o, tutt’al<br />
più, un fannullone e liggera.<br />
Liliana Perazzi: «Mio papà aveva un fratello, lo zio Giacomo, che ha lavorato in<br />
Svizzera assieme a Mussolini...».<br />
Giovanni Perazzi (il padre): «È morto pochi anni fa, ha lavorato con Mussolini alla<br />
galleria del Sempione».<br />
Filippo Colombara: «Cosa raccontava suo fratello?».<br />
Giovanni Perazzi: «Raccontava che erano tutti lingéri... 32 sono venuti fino a <strong>Boca</strong> per<br />
bere il vino buono...».<br />
Liliana Perazzi: «Lo zio era uno che lavorava e mangiava, non aveva mai una lira in<br />
tasca, una volta han fatto una colletta per comperargli un paio <strong>di</strong> pantaloni, io ricordo<br />
una volta che mio zio era tornato gli avevo detto: “Io zio fossi al tuo posto gli manderei<br />
una bella lettera, fatti sentire che sei un amico, senti cosa ti <strong>di</strong>ce”, ma lui era contrario».<br />
Filippo Colombara: «Ma cosa <strong>di</strong>ceva <strong>di</strong> Mussolini?».<br />
Luigina Perazzi (altra figlia): «Mah, <strong>di</strong>ceva che era uno che non aveva voglia <strong>di</strong> lavorare<br />
ecco, aveva più voglia <strong>di</strong> comandare che <strong>di</strong> lavorare e ha fatto una brutta fine... però<br />
l’han fatta tanti altri».<br />
Avevo un amico <strong>di</strong> famiglia che faceva il sarto che era andato in Francia ed era nella<br />
medesima camera <strong>di</strong> Mussolini. Erano nella stessa camera assieme e raccontava che il<br />
duce sputava sui muri e bestemmiava, <strong>di</strong>ceva quei particolari lì... Questo signore era<br />
socialista si chiamava Lorenzo Guidetti ed era <strong>di</strong> Agrano, e il duce gli aveva detto: «Se<br />
hai bisogno qualche favore scrivi a me, però con l’in<strong>di</strong>rizzo a sinistra». Così lui sapeva<br />
e apriva la lettera, se no le cestinava. Questo socialista era un pensatore, con quelle<br />
idee un po’ rivoluzionarie... però, nonostante l’idea <strong>di</strong>versa, era amico. Un’altra volta<br />
gli aveva detto: «Perché hai scelto la camicia nera come simbolo del fascismo?». E lui<br />
ci aveva risposto: «Perché è la negazione <strong>di</strong> tutti i colori»... Teste esaltate, dopo è stato<br />
coinvolto anche lui, Hitler e mica Hitler, bah! (Renata Brasola).<br />
Il futuro duce non ha mai lavorato al traforo del Sempione. I suoi perio<strong>di</strong><br />
<strong>di</strong> emigrazione si svolgono in Svizzera: dall’estate 1902 al novembre 1904 e<br />
dal 1908 al 1910, non in modo continuativo. I racconti, pertanto, <strong>di</strong> natura<br />
leggendaria, assolvono al compito <strong>di</strong> contrastare il mito <strong>di</strong> Mussolini; lo<br />
23
Filippo Colombara<br />
colpiscono sul piano etico, sulla propensione al lavoro come valore, aspetto<br />
compreso e con<strong>di</strong>viso dalle classi popolari. Questo del Mussolini fannullone<br />
e vagabondo è uno stereotipo <strong>di</strong>ffuso nel periodo. Tra le <strong>di</strong>cerie <strong>di</strong> paese, nelle<br />
<strong>di</strong>scussioni in osteria si riscontra sovente un repertorio del genere 33 e basta<br />
poco per rischiare la delazione. A San Maurizio d’Opaglio, per esempio, il<br />
socialista Angelo Gioria, detto Capèl tund, viene denunciato per aver <strong>di</strong>chiarato<br />
che il duce «non può rientrare in Isvizzera perché oberato <strong>di</strong> debiti» 34 .<br />
Meno fortunato, invece, il destino <strong>di</strong> Claretta Petacci, sulla quale il<br />
giu<strong>di</strong>zio è a volte con<strong>di</strong>zionato dai pregiu<strong>di</strong>zi del ruolo <strong>di</strong> donna/amante.<br />
«Mussolini era un bell’uomo, grosso. Si <strong>di</strong>ceva che aveva lasciato sua moglie<br />
per andare con la Petacci» (Giuseppina Freschini). «Era una bella signora,<br />
alta ben vestita. Si vede che il duce le passava qualcosa per vestirsi. La<br />
chiamavano la Petacci perché andava con il duce» (Maria Cerri). La fine<br />
drammatica, tuttavia, lascia posto alla pietà e in<strong>di</strong>rettamente forse al riscatto<br />
dell’immagine <strong>di</strong> donna comune coinvolta in vicende troppo gran<strong>di</strong> per<br />
lei. «Mi ricordo che sono andata a Milano a trovare mia sorella a piazzale<br />
Loreto, un paio <strong>di</strong> mesi dopo che la Petacci era stata uccisa. Mi ricordo<br />
perché mi ha sempre fatto male vedere dei vestiti della Petacci appesi al<br />
muro in alto. A terra c’erano dei sassi, si vede che glieli avevano lanciati.<br />
Quel lavoro lì l’hanno fatto quando era già morta, già appesa, che bisogno<br />
c’era? Era solo vandalismo» (Esterina Borioli) 35 .<br />
24<br />
Il buon regime della paura<br />
Nodo centrale del <strong>di</strong>battito sulla memoria <strong>di</strong> Mussolini e uno degli aspetti<br />
rilevabili dalle fonti orali è l’accostamento con l’esperienza della sua <strong>di</strong>ttatura.<br />
Il fascismo, in quanto organizzazione dello Stato piuttosto che<br />
movimento politico, è descritto raramente staccato dall’immagine del capo.<br />
Accade spesso, infatti, che alla richiesta <strong>di</strong> parlare del regime, gli<br />
intervistati conducano la risposta alla figura del duce, proponendo una<br />
connessione o piuttosto una sovrapposizione tra Mussolini e fascismo.<br />
Io sono nata col fascismo, quando andavo a scuola c’era già quello lì. Ad ogni modo<br />
quando c’era il fascismo, che c’era il duce, io non è che voglio lodarlo neh, però ha<br />
fatto tante cose, per i malati ha fatto tanti ricoveri, tanti sanatori, tante colonie per<br />
ragazzi, sono andata anch’io in colonia... Non è che io lodo eh, perché poteva star<br />
fuori benissimo dalla guerra (Giovanna G.).
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
È un uomo che ha fatto tanto anche <strong>di</strong> bene, non solo <strong>di</strong> male: la mutua, le ferie, tutte<br />
quelle cose lì che sono state messe negli stabilimenti (Esterina Borioli).<br />
La pensione, la mutua, tante cose erano buone. Quelle che ha fatto il duce. Lui veniva<br />
criticato perché era lui il capo e su <strong>di</strong> lui andavano tutte le critiche (Settima Fornara).<br />
Faceva cose buone come gli ospedali, le scuole (Carolina Lianò).<br />
Di buono poi il duce ha fatto le pensioni, altro non mi ricordo (Maria Cerri).<br />
Vi è, come si nota, perfetta sintonia con la propaganda; tutti i fermenti<br />
innovativi <strong>di</strong> una società in via <strong>di</strong> modernizzazione passano attraverso le<br />
volontà del suo capo. Egli appare come il fautore <strong>di</strong> uno stato sociale, colui<br />
che ha realizzato un nostrano New Deal, anziché il creatore <strong>di</strong> uno Stato <strong>di</strong><br />
polizia 36 . Uno Stato che anche tramite il rigido controllo sociale dell’azione<br />
assistenziale e previdenziale fonda il potere sugli in<strong>di</strong>vidui. Gli istituti citati<br />
dai nostri interlocutori (pensioni, mutue, colonie per bambini, ecc.) non<br />
erano usufruibili al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> un’adesione al regime controllata dalla «culla<br />
alla bara» dalle innumerevoli organizzazioni del partito-Stato 37 .<br />
La <strong>di</strong>ttatura si autoassolve tramite il leader, il quale richiama su <strong>di</strong> sé tutti<br />
gli elementi positivi dell’esperienza, non lasciando nulla a collaboratori e<br />
gregari. Nel rapporto duce/fascisti, come è stato suggerito in più occasioni,<br />
prevale il para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinzione tra bene e male, tra positività e negatività 38 .<br />
Il passato ricordato impone ai testimoni <strong>di</strong> non tra<strong>di</strong>re quanto si è creduto a<br />
suo tempo e, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> salvare Mussolini, la cui opera era improntata a<br />
conseguire il bene degli italiani e il cui unico errore fu la partecipazione alla<br />
seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, mentre gli apparati dello Stato fascista, costituiti<br />
da in<strong>di</strong>vidui incapaci, ladri e profittatori erano i reali colpevoli <strong>di</strong> ogni sopruso.<br />
Questi pareri esulano dall’adesione degli informatori a correnti politiche e <strong>di</strong><br />
pensiero reazionarie e talvolta, come in quasi tutti i casi sotto riportati,<br />
provengono da una base popolare <strong>di</strong> segno opposto. <strong>Del</strong> resto non è solo un<br />
problema <strong>di</strong> propaganda, occorre anche salvare se stessi agli occhi delle nuove<br />
generazioni per «l’involontaria» compromissione con un siffatto progetto<br />
totalitario; un progetto che narra <strong>di</strong> un tempo lontano, della gioventù, <strong>di</strong><br />
quando bastava essere allineati e coperti per sopravvivere.<br />
Marino M.: «Il fascismo aveva capito fin da allora che alcune cose sono sbagliate ma altre<br />
invece... A parte la <strong>di</strong>struzione delle Camere del lavoro, dei sindacati e tutto il resto, quella<br />
<strong>di</strong> creare organizzazioni che raccogliessero i lavoratori dopo il lavoro, è stata una bella idea<br />
che però non raccoglieva i favori della gente, perché erano tutti i fascisti che vi partecipavano.<br />
25
Filippo Colombara<br />
Io non credo che il fascismo abbia sbagliato tutto, non è assolutamente vero. Noi abbiamo<br />
avuto la mutua nel ’28 e si è cominciato a creare qualcosa che potesse essere il nucleo <strong>di</strong><br />
una futura generazione. Certo che chi lo eseguiva...».<br />
Filippo Colombara: «Riscontri una <strong>di</strong>fferenza tra Mussolini e i gerarchi fascisti?».<br />
Marino M.: «Sì, secondo me Mussolini come idee era vicino al socialismo è che dopo<br />
è stato mal seguito. Che Mussolini per arrivare al potere abbia dovuto far fuori<br />
Matteotti, i fratelli Rosselli... Gramsci, noi ragazzi allora non lo sapevamo, lo abbiamo<br />
saputo dopo. Però in linea <strong>di</strong> massima Mussolini ha fatto una rivoluzione sociale: dal<br />
1915, prima della prima guerra, al 1925, c’è stato un cambiamento gran<strong>di</strong>ssimo,<br />
un’evoluzione culturale, <strong>di</strong> pensiero e tutto il resto».<br />
Edmea Mora: «I fascisti erano dei fanatici secondo me e secondo tanti che la pensano<br />
come me, erano semplicemente dei fanatici e lui probabilmente impartiva un or<strong>di</strong>ne<br />
e quell’or<strong>di</strong>ne poteva anche essere giusto, però loro nella foga <strong>di</strong> fare travisavano<br />
l’or<strong>di</strong>ne ecco, e lì subentrava poi la prepotenza, l’arroganza ecco».<br />
Filippo Colombara: «Il clientelismo».<br />
Edmea Mora: «E appunto: “Se tu paghi la tessera sei dei nostri se no”. Il motto famoso:<br />
“Chi non è con noi è contro <strong>di</strong> noi”, c’era quella <strong>di</strong>fferenza lì e più il fascismo era,<br />
<strong>di</strong>ciamo, zoticone e più era tronfio e più travisava gli or<strong>di</strong>ni ricevuti dall’alto.<br />
Mussolini... onestamente, certe istituzioni avran cambiato nome però ci sono anche<br />
adesso, perciò sotto sotto lui avrebbe voluto non so una cosa in un certo modo e gli<br />
altri i lombrichi, formiconi, che c’erano in giro, han travisato tutto portandolo poi<br />
alla rovina definitiva, ecco...».<br />
Filippo Colombara: «Poi la guerra...».<br />
Edmea Mora: «Poi fu la guerra. Ha fatto degli sbagli enormi, ma ha fatto anche delle<br />
cose giuste, sensate, come l’istituzione delle ferie, cassa mutua, tante cose, i<br />
tubercolosari. Ci sono ‘ste cose, non si possono negare, e queste non le hanno inventate<br />
questi, c’erano già, le otto ore lavorative... Invece prima era d’un’Ave Maria all’altra,<br />
tante cose non bisogna negarlo, però... Ha sbagliato in tante cose, ha sbagliato a far la<br />
guerra... Poi facilone, andava in un posto c’era un gruppo <strong>di</strong> aerei, andava nell’altro<br />
quegli aerei li spostavano <strong>di</strong> là, allora: “Oh, siamo armati”... Mandarli in Russia con<br />
gli scarponi <strong>di</strong> cartone, ecco, tutto lì».<br />
La <strong>di</strong>fferenza tra Mussolini e i fascisti non saprei <strong>di</strong>re, perché io non sono stata in<br />
contatto con loro. Penso però che erano i fascisti che prendevano in mano le re<strong>di</strong>ni e<br />
rovinavano tutto e non lui... erano i suoi coetanei. Ha dato in mano troppo ai suoi<br />
coetanei (Cesarina Fioramonti).<br />
Il fascismo è finito perché quelli che seguivano Mussolini non facevano le cose bene e<br />
allora la gente ha reagito. Però il fascismo aveva troppe cose che facevano paura.<br />
Meglio che è finito (Settima Fornara).<br />
26
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
Questo tipo <strong>di</strong> racconti, a volte estremi, conducono all’agiografia: «Io,<br />
come le <strong>di</strong>co, ero una ragazza, non... Però ho sentito una volta un <strong>di</strong>scorso<br />
<strong>di</strong> Mussolini, appunto che lui <strong>di</strong>ceva... sapeva <strong>di</strong> avere tutti questi uomini<br />
al suo fianco, ma <strong>di</strong>ceva: “Io ho questi uomini con il pugno in tasca”, perché<br />
li pagava. Ed erano tutti quelli importanti. Quello me lo ricordo ma mica<br />
sempre stavo a sentire i <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> Mussolini, sa com’è» (Angiolina A.).<br />
Le opinioni dei testimoni, che del fascismo hanno introiettato i dettami<br />
educativi, sono spesso trasmesse alle generazioni imme<strong>di</strong>atamente successive,<br />
le quali, talvolta, producono risultati speculari sotto il profilo culturale.<br />
Alla domanda <strong>di</strong> cosa abbia rappresentato per l’Italia Mussolini, un operaio<br />
comunista afferma:<br />
Eligio Borella: «Io sono del ’39. Per me Mussolini, dai libri letti, perché mi piace<br />
anche leggere, da quando era <strong>di</strong>rettore dell’ “Avanti” a quando è <strong>di</strong>ventato presidente<br />
del Consiglio praticamente era sempre socialista eh! Però dopo lui - secondo la mia<br />
idea - si è montato un po’ la testa, si è accerchiato <strong>di</strong> certa gente, che si sono montati<br />
la testa anche loro. Ha fatto il famoso sbaglio <strong>di</strong> allearsi insieme a Hitler, cioè prima<br />
con gli agrari... Perché forse forse se Mussolini non faceva il famoso asse al giorno<br />
d’oggi era un eroe d’Italia».<br />
Filippo Colombara: «Perché?».<br />
Eligio Borella: «Perché in fondo in fondo - non è che io adesso lo metto sul pie<strong>di</strong>stallo<br />
- se guar<strong>di</strong>amo tante bonifiche fatte giù dalle parti delle Lepontine... come spiegano i<br />
libri eh, perché io non ero nemmeno nato. Cioè ha sbagliato quella cosa lì. Ci ha<br />
mandati al macello».<br />
Filippo Colombara: «Tu <strong>di</strong>ci l’errore suo è stato quello <strong>di</strong> aver fatto la guerra...».<br />
Eligio Borella: «Quando invece poteva star fuori da tutti».<br />
Filippo Colombara: «Invece i fascisti?».<br />
Eligio Borella: «Ci sono fascisti e fascisti. I fascisti li <strong>di</strong>stinguo in due, cioè quelli che <strong>di</strong>cevano:<br />
“Quelli là sono i più forti e vado <strong>di</strong> là” e poi quelli che si volevano ven<strong>di</strong>care <strong>di</strong> qualcuno:<br />
“Adesso comando io e adesso faccio fuori te”. Quin<strong>di</strong> uno si adeguava al più forte...».<br />
Filippo Colombara: «Senti, non c’era anche un altro tipo <strong>di</strong> fascista, quello convinto<br />
<strong>di</strong> essere dalla parte giusta?».<br />
Eligio Borella: «Sì, i volontari che andavano... ma anche lì bisogna fare una <strong>di</strong>stinzione;<br />
andavano giù [in Africa] anche per fare una certa fortuna eh!».<br />
Filippo Colombara: «Secondo te c’era in Italia un fascista che era convinto <strong>di</strong> essere<br />
dalla parte giusta?».<br />
Eligio Borella: «C’è ancora adesso qua a Omegna... e <strong>di</strong>chiara che è un fascista <strong>di</strong><br />
Mussolini... Io ammiro più queste persone che certa gente...».<br />
Filippo Colombara: «Ho capito, ma volevo chiederti un’altra cosa, c’è <strong>di</strong>fferenza tra i<br />
fascisti in generale e Mussolini?».<br />
27
Filippo Colombara<br />
Eligio Borella: «Per mio conto Mussolini è stato guidato dal Consiglio, perché arrivare<br />
a far fuori suo genero è arrivato perché non era lui che comandava, era il Gran Consiglio<br />
che comandava. In ultimo no, cercava <strong>di</strong> scappare da vigliacco, faceva più bella figura<br />
farsi prendere che scappare...».<br />
Considerazioni <strong>di</strong>verse tra la figura <strong>di</strong> Mussolini e quella dei suoi uomini<br />
rinviano, peraltro, al tra<strong>di</strong>zionale rapporto sovrano/sud<strong>di</strong>ti presente nelle<br />
società europee. Storicamente, infatti, si è consolidato un immaginario sociale<br />
sulla figura del buon sovrano tra i cui canoni rientra quello <strong>di</strong> essere la<br />
rappresentazione della giustizia «poiché un monarca ingiusto è la negazione<br />
della regalità» 39 . Il re, secondo il popolo legittimista, è sempre giusto e se<br />
qualcosa non va, se le tasse sono inique, le colpe ricadono sui cattivi consiglieri<br />
che lo hanno ingannato, siano essi i signorotti locali, i funzionari o il clero 40 .<br />
<strong>Del</strong> resto, lo stesso leggendario Robin Hood non combatte il legittimo sovrano<br />
Riccardo, ma lo sceriffo <strong>di</strong> Nottingham, funzionario statale e per giunta al<br />
servizio dell’usurpatore principe Giovanni. E i popolani, nel corso della storia,<br />
insorgono contro i soprusi e le gabelle in nome dei re e degli zar, senza pensare,<br />
però, «a uno zar reale, o a qualsiasi reale sovrano, ma allo zar ideale del popolo<br />
legittimista, figura che non ha riscontro nella realtà» 41 .<br />
Qualcosa del genere succede con Mussolini e una documentazione <strong>di</strong><br />
rilievo è ormai <strong>di</strong>sponibile non solo nella memoria orale ma anche nelle<br />
fonti coeve: dalle note informative della polizia sui sentimenti degli italiani<br />
verso il regime alla corrispondenza <strong>di</strong> gente comune sottoposta a censura<br />
durante la guerra 42 .<br />
Il giu<strong>di</strong>zio complessivamente positivo dell’azione <strong>di</strong> Mussolini si deve,<br />
poi, all’efficacia <strong>di</strong> una propaganda che trova buona accoglienza nei riceventi,<br />
«a prescindere dal battage e dai mezzi <strong>di</strong>spiegati» 43 , perché capace <strong>di</strong> toccare<br />
le corde giuste, come, per esempio, lo spirito dell’italianità, ambito nel<br />
quale il capo del fascismo riesce a incarnare sogni e bisogni popolari<br />
impiegando orgoglio e fierezza nazionale come elementi salienti del<br />
successo 44 .<br />
La costruzione dell’identità fascista del paese richiede, inoltre,<br />
innumerevoli sforzi che si tramutano, a livello educativo, in un susseguirsi<br />
<strong>di</strong> riti e celebrazioni. Nelle scuole <strong>di</strong> provincia, come in quelle <strong>di</strong> città, tra<br />
gli anni venti e trenta, si accelera il processo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficazione dell’Italia<br />
fascista me<strong>di</strong>ante la pratica dell’anniversario 45 , cioè <strong>di</strong> un sistema <strong>di</strong><br />
organizzazione dell’identità degli italiani attraverso la costante ripetizione<br />
calendariale, anno dopo anno, del ricordo <strong>di</strong> eventi e personaggi cari al<br />
28
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
fascismo e alla monarchia sabauda. Tracce evidenti <strong>di</strong> questi atti<br />
permangono nei Giornali <strong>di</strong> Classe redatti dagli insegnanti. In essi si<br />
elencano le cadenze rituali da rispettare ed emergono le tematiche <strong>di</strong><br />
carattere propagan<strong>di</strong>stico promosse dal regime 46 .<br />
Nella piccola scuola <strong>di</strong> Boleto, per esempio, che tra il 1928 e il 1944<br />
conta una ventina <strong>di</strong> alunni <strong>di</strong>stribuiti tra la prima e la terza classe, la vita<br />
quoti<strong>di</strong>ana trascorre costellata da una miriade <strong>di</strong> ricorrenze. Annota<br />
un’insegnante il 28 ottobre 1930:<br />
Marcia su Roma. Accenno come dopo la guerra l’Italia era caduta in mano a chi non<br />
sapeva guidarla; parlo dei <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ni, degli scioperi, delle ribellioni. Occorreva un uomo<br />
dal polso <strong>di</strong> ferro: Mussolini, il solo condottiero che sapesse guidare l’Italia ai suoi<br />
fulgi<strong>di</strong> destini. E il Re lo nominò suo Primo Ministro 47 .<br />
Dal punto <strong>di</strong> vista delle tematiche storiche l’anno scolastico è<br />
contrad<strong>di</strong>stinto dalle gesta degli eroi: da quelle del piccolo genovese<br />
Giambattista Perasso, detto Balilla, il quale «al grido “La rompe” <strong>di</strong>ede il primo<br />
impulso alla rivoluzione che terminò colla scacciata degli austriaci» 48 , a quelle,<br />
nel giorno della mamma, <strong>di</strong> Carmela Borelli, che «si spogliò delle sue vesti per<br />
riparare dalla bufera le sue bambine, salvandole così da sicura morte e<br />
sacrificando se stessa» 49 . Argomenti <strong>di</strong> attualità sono l’anniversario della morte<br />
del quadrunviro Michele Bianchi, le imprese <strong>di</strong> Italo Balbo nei voli<br />
transoceanici, la guerra in Etiopia e le innumerevoli ricorrenze fasciste: dal<br />
tesseramento alle organizzazioni, alla fondazione dei fasci <strong>di</strong> combattimento,<br />
al Natale <strong>di</strong> Roma, alle inaugurazioni dei gagliardetti, ai saggi ginnici.<br />
Ho <strong>di</strong>stribuito le tessere ai Balilla e alle Piccole Italiane - scrive la maestra - e cercato<br />
(come sempre) <strong>di</strong> far capire ai bambini la nobiltà della loro <strong>di</strong>visa, ma che non basta<br />
portare la <strong>di</strong>visa esternamente, bisogna che i Balilla e le Piccole Italiane imparino, da<br />
piccini, ad essere buoni 50 .<br />
Dopo qualche mese:<br />
23 febbraio 1931. XII anniversario della fondazione dei Fasci Italiani <strong>di</strong> Combattimento<br />
a Milano, per opera del Duce, il 23 marzo 1919. Accenno ai bambini come l’Italia<br />
dopo la grande guerra si trovasse in istato miserrimo, in mano <strong>di</strong> gente <strong>di</strong> mala fede,<br />
<strong>di</strong> sovversivi senza patria che spingevano il popolo allo sciopero, al <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne, alla<br />
rivolta. Ma Id<strong>di</strong>o non abbandonò l’Italia e ci <strong>di</strong>ede in Benito Mussolini il Duce della<br />
riscossa, la salvezza della nostra amata Patria 51 .<br />
29
Filippo Colombara<br />
A fianco della memoria fascista si colloca quella monarchica, anch’essa<br />
non da meno nel segnare i giorni con le varie commemorazioni <strong>di</strong> nascite,<br />
matrimoni, imprese e scomparse degli appartenenti alla famiglia Savoia:<br />
dal genetliaco del re,<br />
Ieri, sabato 11, ho parlato a lungo del nostro Re, della sua vita in trincea, <strong>di</strong> tanto<br />
bene che fece e fa continuamente all’Italia, <strong>di</strong> tutta la Famiglia Reale e <strong>di</strong>ssi anche in<br />
quale occasione dolorosa Egli <strong>di</strong>ventò Re d’Italia. Ho fatto scrivere una cartolina<br />
d’augurio a nome della nostra scuola e l’ho spe<strong>di</strong>ta a Roma al nostro Re. Alcune<br />
bambine portarono dei fiori che vollero mettere sotto il ritratto del Re. Prima d’uscire<br />
dall’aula, i bambini oltre il solito saluto alla Ban<strong>di</strong>era, fecero spontaneamente il saluto<br />
romano al quadro del Re e io feci cantare l’inno alla «Croce <strong>di</strong> Savoia» 52<br />
all’«augusta Principessa <strong>di</strong> Piemonte», la quale, durante la guerra in Etiopia,<br />
«continua le tra<strong>di</strong>zioni delle donne Sabaude. Col piroscafo “Cesarea” è partita<br />
oggi, quale Crocerossina Volontaria, per l’Africa Orientale» 53 .<br />
L’impiego <strong>di</strong> eroi popolari, sia nelle commemorazioni ufficiali sia<br />
soprattutto nella quoti<strong>di</strong>anità scolastica, da affiancare alla mitizzazione dei<br />
personaggi <strong>di</strong> Casa Savoia, nonché <strong>di</strong> Benito Mussolini - sistemato tra i<br />
gran<strong>di</strong> statisti in compagnia <strong>di</strong> Giulio Cesare, Napoleone e Cavour 54 - sono<br />
le prime con<strong>di</strong>zioni per muovere verso la creazione dell’identità nazionale.<br />
Una consonanza <strong>di</strong> aspirazioni che sul senso <strong>di</strong> appartenenza e <strong>di</strong> coesione<br />
tra simili ripone una forza ben maggiore dell’internazionalismo proletario<br />
uscito sconfitto dalla Grande Guerra.<br />
L’identità dell’italiano, del resto, congiuntamente alla legittimazione del<br />
blocco dominante e all’assunzione e propagazione <strong>di</strong> valori positivi da parte<br />
della comunità nazionale, è da porsi tra le funzioni proprie delle idee-guida<br />
del fascismo 55 .<br />
I risultati della <strong>di</strong>vulgazione <strong>di</strong> una visione forte del mondo, anziché <strong>di</strong><br />
una propaganda artificiosa e surrettizia, accompagnati da un’interpretazione<br />
fantastica e leggendaria della figura del capo, costituiscono i se<strong>di</strong>menti culturali<br />
impiegati anche dalle memorie <strong>di</strong> base per la rievocazione del passato.<br />
Mussolini, pertanto, uomo della provvidenza, bravo italiano in grado <strong>di</strong><br />
riscattare la nazione nell’agorà delle società occidentali.<br />
Tuttavia, basta allontanarsi dalla centralità della figura del duce e <strong>di</strong>alogare<br />
su violenza squadrista e guerra civile, perché i giu<strong>di</strong>zi sul fascismo e sui vent’anni<br />
<strong>di</strong> regime producano una <strong>di</strong>versa valutazione. In molti casi, le voci positive<br />
sugli atti <strong>di</strong> carattere sociale (ma all’interno <strong>di</strong> un controllo politico) compiuti<br />
da Mussolini si associano a quelle negative sul resto del suo operato ed<br />
30
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
esprimono critiche nei confronti del Ventennio, talvolta accomunate, come<br />
si è detto, alle azioni dei gregari. Aspetti del genere emergono soprattutto dai<br />
colloqui con informatori che non hanno da tutelare una particolare immagine<br />
pubblica <strong>di</strong> sé, gente comune che <strong>di</strong> quelle vicende ha memoria e non teme<br />
<strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>rsi se per un verso apprezza i risultati <strong>di</strong> una certa politica sociale<br />
e imme<strong>di</strong>atamente dopo traccia il quadro negativo del periodo.<br />
I documenti orali utilizzati per affrontare questo tema, va precisato, sono<br />
tratti in massima parte da interviste realizzate tra gli ospiti <strong>di</strong> una casa <strong>di</strong><br />
riposo dell’alto Cusio, persone anziane che trascorrono l’ultima fase della vita<br />
in modo sufficientemente <strong>di</strong>stante dalle <strong>di</strong>atribe del mondo, un periodo <strong>–</strong><br />
parafrasando Bobbio <strong>–</strong> impiegabile per scavare nei ricor<strong>di</strong>, riflettere sul passato<br />
e marcare meglio la proprio identità 56 .<br />
I fascisti erano terribili. Hanno ucciso mio cognato che si chiamava Leonar<strong>di</strong> Giuseppe<br />
nel periodo della resistenza. Erano tutti vestiti <strong>di</strong> nero, marciavano e cantavano le sue<br />
canzoni, erano a Crusinallo. Si mettevano insieme, facevano una specie <strong>di</strong> marcia e<br />
cantavano e se qualcuno non «andava» lo prendevano. Tra noi ragazze non si parlava<br />
<strong>di</strong> fascismo, perché non si poteva parlare, però eravamo tutti uniti, nessuno voleva il<br />
duce... e allora si lavorava e basta. [...] C’era paura. Venivano anche in casa a vedere se<br />
c’erano delle armi. Sono venuti anche a casa nostra (Maria Cerri).<br />
Ricordo che avevo paura... tutti avevano paura, perché erano momenti brutti, perché<br />
i miei padroni <strong>di</strong>cevano che si aspettavano che succedeva qualcosa <strong>di</strong> brutto. Quando<br />
andavo al mercato vedevo i fascisti con le <strong>di</strong>vise, erano in gruppo, avevo paura, perché<br />
sapevo che davano l’olio <strong>di</strong> ricino, anche se a me non hanno mai fatto niente. Mi dava<br />
fasti<strong>di</strong>o fare il saluto fascista quando li incontravo, però bisognava farlo e stare zitti:<br />
questa era la regola per poter vivere tranquilli (Li<strong>di</strong>a Volpones).<br />
Mi ricordo le camicie nere che andavano a prendere i comunisti con il manganello e<br />
davano l’olio <strong>di</strong> ricino. A Gravellona c’era la caserma dei fascisti e c’era qualche capo<br />
<strong>di</strong> Gravellona. Mi ricordo che andavano anche nelle case per vedere se c’erano nascoste<br />
ban<strong>di</strong>ere rosse. Se le trovavano portavano le persone in caserma e loro avevano paura.<br />
La caserma era proprio vicino a casa mia, c’era poca strada da fare. Ho visto portare<br />
dentro dei comunisti... che paura... due o tre li hanno anche uccisi (Settima Fornara).<br />
C’erano le squadracce, formate da due o tre persone. Prendevano un antifascista, lo<br />
tenevano fermo e giù olio <strong>di</strong> ricino. Mi ricordo, per sentito <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> due meri<strong>di</strong>onali<br />
Sculli e Crocitti, che avevano una trentina d’anni ed erano fascisti. Questi qui hanno<br />
preso uno <strong>di</strong> vicino a Novara che si era chiuso in un gabinetto e l’hanno accoltellato<br />
perché era antifascista (Vincenzo Giovinazzo).<br />
31
Filippo Colombara<br />
Il fascismo è stata una cosa negativa e non positiva, perché c’erano delle restrizioni nella<br />
libertà. Io mi sono sposata nel ’37 e sono andata in viaggio <strong>di</strong> nozze a Ginevra. Era il<br />
primo maggio e mi ha fatto specie vedere nelle stazioni svizzere le ragazze che offrivano<br />
mazzetti <strong>di</strong> mughetti per celebrare il primo maggio, che da noi era una giornata lavorativa.<br />
Il fascismo era un partito totalitario e inducevano a pensarla come loro. Avevo più o<br />
meno quin<strong>di</strong>ci anni e sapevo che persone che non la pensavano come loro erano<br />
sottoposte a vigilanza. Vedevo anche che andavano a perquisire le case per vedere se<br />
c’erano ban<strong>di</strong>ere rosse. Ma <strong>di</strong> queste cose non si parlava, prima <strong>di</strong> tutto perché non si<br />
poteva tanto parlare e poi una donna... cosa vuole (Ermanna Rizzoni).<br />
Manganelli, olio <strong>di</strong> ricino, caccia alle ban<strong>di</strong>ere rosse e affermazioni come:<br />
«avevamo paura», «non si poteva parlare» sono i riman<strong>di</strong> imme<strong>di</strong>ati<br />
all’esperienza vissuta. Aneddoti efficaci per introdurre il ricordo <strong>di</strong> un clima<br />
colmo <strong>di</strong> timori e paure.<br />
A Omegna erano tutti fascisti per forza, perché si aveva paura. Noi non parlavamo <strong>di</strong><br />
fascismo neanche con le amiche perché avevamo paura. [...] Di politica in fabbrica non<br />
si parlava perché c’erano le ruffiane che andavano in ufficio a riferire... era pericoloso.<br />
Quando si usciva dalla fabbrica si andava in fretta a casa e... dentro (Aurora Rossari).<br />
Avevamo paura che venissero in casa a fare <strong>di</strong>sastri... Per quello stavamo zitti. Sono<br />
andati a casa <strong>di</strong> tanti che erano «fissi» con le idee; i fascisti andavano, spaccavano<br />
tutto e davano anche l’olio <strong>di</strong> ricino (Roberto Ferretti).<br />
A quei tempi dovevamo restare in casa perché giravano i fascisti e noi avevamo paura.<br />
Mio papà mi <strong>di</strong>ceva che aveva paura... lui non era fascista (Giuseppina Freschini).<br />
In modo significativo gli intervistati estremizzano le con<strong>di</strong>zioni del vivere<br />
quoti<strong>di</strong>ano, selezionando le parole adeguate a rappresentare sentimenti e<br />
inquietu<strong>di</strong>ni provati.<br />
Volevano solo sol<strong>di</strong> e roba e eravamo tutti schiavi... specialmente gli uomini. [...]<br />
Quando c’era qualche festa bisognava stare attenti a come si parlava. A qualche ubriaco<br />
magari scappava una parola sbagliata e giù botte da orbi. Davanti a tutti, eh! e guai<br />
parlare. Ridere quando ridevano, stare seri quando erano seri. Io rimanevo male quando<br />
vedevo dare le botte... Ho sempre cercato <strong>di</strong> stare zitta, ma mi <strong>di</strong>spiaceva (Santina<br />
Mengozzi).<br />
Allora eravamo come schiavi. Non potevo <strong>di</strong>re qualcosa contro <strong>di</strong> lei, per esempio,<br />
perché riportavano al fascio. Non c’era libertà <strong>di</strong> parola (Celeste Ar<strong>di</strong>zzi).<br />
32
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
Non c’era libertà come adesso. Eravamo schiavi <strong>di</strong> noi stessi! Mi ricordo ancora le<br />
manganellate... (Giuseppe Giovenzani).<br />
C’era un’atmosfera un po’ tesa che dava fasti<strong>di</strong>o, però era bello uscire la domenica.<br />
Era però più bello pensare <strong>di</strong> uscire che non uscire regolarmente, perché avevamo<br />
sempre l’animo triste per via <strong>di</strong> questo clima. La cosa peggiore è stata la mancanza <strong>di</strong><br />
libertà, la tensione che c’era nell’aria e che erano i fascisti a crearla... Tutto un insieme<br />
<strong>di</strong> cose che ci facevano vivere male. Sono contenta <strong>di</strong> aver potuto vivere in un periodo<br />
<strong>di</strong>verso, dove si può esprimersi e, soprattutto... dove non c’è la paura (Li<strong>di</strong>a Volpones).<br />
Come si nota le parole scelte appaiono ferme e chiare: Mengozzi, Ar<strong>di</strong>zzi<br />
e Giovenzani usano senza problemi il termine «schiavi» per affermare la<br />
propria opinione sulla vita durante il fascismo. Termine eccessivo, certo,<br />
ma appropriato per ricordare gli obbligati silenzi e le deprivazioni che hanno<br />
con<strong>di</strong>zionato le culture familiari. Esemplare un altro racconto:<br />
Fiorina F.: «Mio figlio era un balilla, doveva mettere la <strong>di</strong>visa: pantaloni neri corti, il fez e<br />
la camicia nera. Doveva andare alle esercitazioni e anche quando andava a scuola doveva<br />
vestirsi così. Lui era contento perché... sa com’erano i bambini, basta che trovavano da<br />
<strong>di</strong>vertirsi. Per me il fascismo era come un ruìna famìli, perché quello che facevano non era<br />
bello. In fabbrica non si potevano fare <strong>di</strong>scussioni. Bisognava <strong>di</strong>re sempre che era cotta<br />
anche se era cruda, perché c’erano le ruffiane che se sentivano qualcosa andavano in ufficio».<br />
Virginia Paravati: «Suo marito come la pensava?».<br />
Fiorina F.: «È sempre stato comunista e forse anche per quello non trovava lavoro. Lui<br />
tutte le mattine andava in stazione a vedere se c’era qualche lavoro da fare, perché<br />
c’era sempre qualcosa da fare in stazione, così lavorava... e ce la siamo cavata. Nel ’35<br />
è stato assunto alla Cobianchi, dove faceva il capo piazzale. Nessuno lo ha aiutato a<br />
entrare... Avevano bisogno <strong>di</strong> un capo piazzale e così...».<br />
Virginia Paravati: «In casa parlavate <strong>di</strong> fascismo?».<br />
Fiorina F.: «Cercavamo <strong>di</strong> non parlarne neanche quando c’erano i figli, perché - sa<br />
com’è - loro frequentando i gruppi fascisti la pensavano in modo <strong>di</strong>verso, perché<br />
conoscevano solo quello, erano nati con il fascismo».<br />
Le affermazioni della donna, pur nella loro essenzialità offrono un quadro<br />
lucido delle <strong>di</strong>visioni generazionali all’interno delle famiglie: genitori che<br />
non <strong>di</strong>alogano <strong>di</strong> politica in presenza dei figli perché «loro frequentando i<br />
gruppi fascisti la pensavano in modo <strong>di</strong>verso». Anche un’altra intervistata si<br />
sofferma sulle <strong>di</strong>visioni prodotte dal regime nelle comunità: a Loreglia, per<br />
esempio, non si annoverano fascisti tra gli anziani - in<strong>di</strong>vidui formati dalla<br />
tra<strong>di</strong>zione e quin<strong>di</strong> piuttosto riservati - ma tra i giovani, perché «erano stati<br />
33
Filippo Colombara<br />
coltivati così» (Maria Zamponi). Con poche parole le due testimoni<br />
riassumono il significato <strong>di</strong> un mondo privo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti politici e lacerato sul<br />
piano culturale.<br />
Diversamente, per ovviare alle paure e per non rimanere coinvolti in<br />
vicende tragiche, l’unico rime<strong>di</strong>o - indotto e stimolato dal potere - risulta<br />
essere quel farsi gli affari propri, tipico <strong>di</strong> culture già intrise <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualismo<br />
e familismo. Prevale l’amore per il quieto vivere e specie durante i mesi<br />
della repubblica sociale molti decidono <strong>di</strong> evitare scelte <strong>di</strong> parte, attendendo<br />
l’evolversi della situazione ed esponendosi solo dopo, a conflitto concluso.<br />
Il periodo fascista è stato un periodo tranquillo. A casa nostra non si leggeva, alla sera ci<br />
trovavamo tutti insieme, anche con i fratelli. Questa era la nostra vita: <strong>di</strong> giorno si<br />
lavorava e <strong>di</strong> sera stavamo tutti insieme con la lanterna a petrolio. Non si parlava <strong>di</strong><br />
politica anche perché i fascisti ci conoscevano e visto che non <strong>di</strong>sturbavamo ci hanno<br />
sempre lasciati tranquilli (Esterina Borioli).<br />
In quel momento importante era poter andare a lavorare. Di fascismo mio papà non<br />
voleva <strong>di</strong>scorrere, lui voleva essere libero da tutto. Non voleva essere da una parte o<br />
dall’altra e mi séri ’na fiòla... sì che navi a pinsà certi ròb. [...] Mi ricordo questa guerra,<br />
püsè che piànsgia e suspirà... Poi non si poteva neanche parlare. Invece prima della<br />
guerra bastava non molestare e si andava bene 57 (Alma Puppieni).<br />
Bisognava stare attenti a come ci muovevamo nei posti pubblici, perché il fascio avrebbe<br />
voluto che tutti si iscrivessero ma c’erano quelli che non volevano iscriversi. C’era un<br />
clima <strong>di</strong> tensione, non si era liberi. Bisognava stare attenti alla sera... C’era tensione.<br />
Però se li lasciavi stare si poteva vivere. In quei momenti si <strong>di</strong>ceva che il fascismo era<br />
bellissimo e noi siamo cresciuti così. Con la guerra d’Africa e quella <strong>di</strong> Spagna ho<br />
cominciato a pensare a tante cose e il fascismo non sembrava più così bello. [...] Però<br />
la vita era normale, per noi che siamo nati nel fascismo bastava stare quieti, lavorare e<br />
starsene a casa (Giuseppina Pavan).<br />
Il riandare al passato causa anche pesanti censure, tanto che ancora oggi<br />
permangono dei timori nell’essere troppo espliciti. Alla richiesta <strong>di</strong><br />
un’opinione sul fascismo, Maria Cerri risponde: «Io ho sempre lavorato... e<br />
basta» e Giuseppina Freschini: «Più che andare a lavorare... Poi <strong>di</strong>cevano<br />
che [Mussolini] l’avevano appiccicato su un muro e gli sputavano addosso...<br />
Ha sbagliato a fare la guerra».<br />
In altri casi, pur in presenza <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi pronunciati con fermezza, i racconti<br />
sono vistosamente impoveriti, affiorano <strong>di</strong>vagazioni e talora i silenzi. Alle<br />
spalle <strong>di</strong> una descrizione essenziale si cela il non detto, i fatti privati, i drammi<br />
34
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
e le violenze che la guerra civile ha originato. È il lato oscuro <strong>di</strong> queste<br />
memorie, mai pacificate e incapaci <strong>di</strong> negoziare una versione narrabile <strong>di</strong><br />
quelle vicende.<br />
Peraltro verso, sono sorte memorie contrapposte. Com’è intuibile, un<br />
ventennio <strong>di</strong> regime, il suo tragico epilogo e gli anni successivi, tra continuità<br />
e innovazione politica, hanno lasciato pesanti tracce; un’intera generazione è<br />
nata e cresciuta con il fascismo e in taluni casi i suoi appartenenti hanno<br />
elaborato una memoria priva della volontà <strong>di</strong> rivedere criticamente<br />
quell’esperienza. Una memoria che per interpretare la realtà dei fatti si è valsa<br />
<strong>di</strong> una lettura del passato satura <strong>di</strong> rancori, generatrice <strong>di</strong> asti nei confronti<br />
del movimento partigiano e fautrice <strong>di</strong> un certo modo <strong>di</strong> pensare. Ancora<br />
una volta a propendere per il fascismo, a preservarlo dal punto <strong>di</strong> vista<br />
ideologico e storico è il ricordo <strong>di</strong> Benito Mussolini; per chi si pone su posizioni<br />
parecchio moderate - senza <strong>di</strong>chiararsi fascista - è indubbio il suo impiego.<br />
Clara C.: «Credevo nel fascismo perché sono cresciuta sotto la sua dottrina. Anche a<br />
scuola la maestra insegnava il programma che il fascismo rilasciava all’inizio dell’anno<br />
scolastico. Non ho mai capito perché il fascismo fosse così importante nella dottrina<br />
scolastica. Noi entravamo e la maestra magari ci dava un dettato sul duce... e così noi<br />
dovevamo fare il tema. Io ho sempre dato fiducia al duce... Sono i fascisti che hanno<br />
tra<strong>di</strong>to il suo credo!».<br />
Virginia Paravati: «Qual era il suo credo?».<br />
Clara C.: «La giustizia. Noi anche dopo la guerra e ancora per parecchi anni abbiamo<br />
utilizzato il contratto nazionale <strong>di</strong> lavoro stu<strong>di</strong>ato dal duce: mutua, assicurazione, pensione».<br />
Virginia Paravati: «Cos’è che non ha funzionato allora?».<br />
Clara C.: «Quello che non funzionerebbe oggi se andasse al potere un altro: la gelosia<br />
del potere».<br />
Virginia Paravati: «Si ricorda quegli anni in modo positivo?».<br />
Clara C.: «Sì, mi piaceva fare il capo delle giovani italiane, mi piaceva la <strong>di</strong>sciplina...<br />
mi piace ancora adesso avere l’or<strong>di</strong>ne». [...]<br />
Virginia Paravati: «Era normale <strong>di</strong>ventare fascisti?».<br />
Clara C.: «Sì, perché siamo cresciuti sotto quella dottrina».<br />
Virginia Paravati: «E come mai qualcuno non ci credeva?».<br />
Clara C.: «Perché l’idea non è riuscita a superare il carattere <strong>di</strong> quelle persone».<br />
Virginia Paravati: «Lei le stimava quelle persone?».<br />
Clara C.: «Io stimavo il fascismo per quello che scriveva, perché quello che metteva in atto<br />
era un’altra cosa, gli italiani erano altra cosa. Io non facevo politica, stimavo anche le idee<br />
degli altri, perché per me è importante credere nelle idee, credere in qualcosa. <strong>Del</strong> resto<br />
mio papà non era fascista, non è mai stato iscritto al fascio, io sì perché ero obbligata per<br />
ragioni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> lavoro».<br />
35
Filippo Colombara<br />
Angiolina A.: «Ma guar<strong>di</strong>, io ero una ragazza e a me poco interessava <strong>di</strong> Mussolini,<br />
non ne volevo né bene né male, perché sa, se uno parlava male <strong>di</strong> Mussolini andava al<br />
“confine” eh, non si poteva perché c’era la <strong>di</strong>ttatura. Però tutto sommato per me non<br />
era un uomo cattivo, benché non sono mai stata una fascista neh, perché io non ero<br />
un bel niente».<br />
Filippo Colombara: «Cosa vuol <strong>di</strong>re “Non era un uomo cattivo”?».<br />
Angiolina A.: «Non era un uomo cattivo perché si ricor<strong>di</strong> bene che noi si andava a<br />
lavorare ma si lavorava sempre. All’epoca <strong>di</strong> Mussolini ci han dato una settimana <strong>di</strong><br />
ferie, óhu, ma lo sa che festa grande per noi! Una settimana <strong>di</strong> ferie prima non esisteva.<br />
Poi cosa c’è arrivato, la mutua, ma prima ancora per Natale ci ha dato la tre<strong>di</strong>cesima,<br />
e abbiamo comperato qualche cosina eh, mi capisce. Invece, quando avevamo il nostro<br />
Giuanìn caghèta, il nostro re Vittorio Emanuele III, che quello lì lo chiamavamo così<br />
perché era un guerrafondaio, c’era una miseria enorme. Io la fame l’ho fatta in tempo<br />
<strong>di</strong> guerra, <strong>di</strong>co la verità, perché non c’era... Ma però nel periodo <strong>di</strong> Mussolini la fame<br />
a casa mia non l’abbiamo mai fatta, perché noi abitavamo qui nelle case della De<br />
Angeli e si può <strong>di</strong>re che per quello che ci facevano pagare d’affitto la casa era regalata,<br />
poi avevamo la luce a gratis, l’acqua gratis. Sa, Frua 58 era una bravissima persona, dava<br />
tanto a noi operai, invece gli altri <strong>di</strong> Omegna che lavoravano negli altri stabilimenti<br />
non avevano quello che avevamo noi. Poi nelle case avevamo tanto giar<strong>di</strong>no e allora il<br />
tempo non era come adesso, prima il tempo aveva le sue stagioni, perciò avevamo<br />
tanto, tanta verdura, tanta frutta. Si mangiava e si stava bene, ha capito!».<br />
Filippo Colombara: «Da quello che si ricorda negli anni trenta il livello <strong>di</strong> vita è<br />
migliorato, si stava meglio...».<br />
Angiolina A.: «Rispetto a quando c’era il re, io non ero al mondo, ma sentivo mia<br />
mamma che <strong>di</strong>ceva... non mi faccia parlar male. Quello lì ha cominciato nell’11 e nel<br />
’12 la guerra in Libia, poi cosa ha fatto, dal ’15 al ’18, poi c’è stata la rivoluzione fascista<br />
e piütöst che bugià un pè ha lasciato entrare Mussolini a fare la marcia su Roma e “tintintintintintéla”.<br />
Tutto sommato il re l’ha mai fai niente, quello che abbiamo avuto, questa è<br />
la pura e santa verità, l’abbiamo avuto da Mussolini. È lui che ci ha dato, quello che ha<br />
sbagliato questo uomo è mettersi con Hitler, ha rovinato l’Italia, anzi poi dopo il ’35-<br />
’36 abbiamo avuto l’Africa, l’impero e lüi l’è <strong>di</strong>ventà imperatore, pòd ma capì, dopo l’ha<br />
fac’ svèltu a firmà cula del ’40-’45, però è stata finita anche per lui» 59 .<br />
Mariolina M.: «Pensando a quei momenti lì era meglio allora che adesso, perché<br />
adesso a che punto siamo? Se c’era ancora Mussolini, Mussolini non c’era più va beh,<br />
poteva essere un suo figlio non so, ma siamo arrivati al punto che non si è neanche<br />
più sicuri <strong>di</strong> stare in casa e <strong>di</strong> uscire! Dove abito io a [...] rimane un po’ fuori, una<br />
volta era pieno <strong>di</strong> gente e adesso siamo rimasti due famiglie. Ci ve<strong>di</strong>amo al mattino...<br />
e alla sera quando viene notte fa paura, perché isolati e con tutto quello che si sente.<br />
Non c’è mai stato niente e quest’anno per la prima volta hanno rubato in una casa<br />
vicino alla mia... non c’è più la gente, non c’è più la socialità <strong>di</strong> una volta, chi rovina<br />
36
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
è la televisione... Poi la gente è cambiata, non è più quella <strong>di</strong> una volta, sono falsi, le<br />
hanno addosso tutte». [...]<br />
Filippo Colombara: «Volevo chiederle, c’erano delle <strong>di</strong>fferenze tra il duce e i fascisti in<br />
genere, i fascisti locali si comportavano in maniera corretta...».<br />
Mariolina M.: «Da quello che mi ricordo io si sono sempre comportati in maniera<br />
corretta, <strong>di</strong>cevano che ai primi tempi quando è andato su il fascio - ma io non ero<br />
nata - davano l’olio <strong>di</strong> ricino, però non so se è vero perché io non ero nata, questo era<br />
del ’21, ’22».<br />
Filippo Colombara: «Nel suo paese non sa se ci sono state persone che hanno avuto<br />
queste storie?».<br />
Mariolina M.: «Ma sì <strong>di</strong>cevano, però non so se era vero. Dicevano che c’erano...<br />
Difatti c’è stato un mio parente alla lunga, padre <strong>di</strong> due bambini, che in tempo <strong>di</strong><br />
guerra i partigiani l’hanno prelevato, l’hanno portato e l’hanno ucciso perché <strong>di</strong>cevano<br />
che era fascista. Io non ho mai sentito che faceva del male a nessuno, andava via,<br />
lavorava, andava a vendere i polli e se da giovane ha partecipato a quelle cose lì, a dare<br />
l’olio, sempre se è vero perché io non mi ricordo <strong>di</strong> niente, non lo so». [...]<br />
Filippo Colombara: «Volevo chiederle della guerra, nel ’40 c’è stata la <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong><br />
guerra...».<br />
Mariolina M.: «No, nel ’39 nel mese <strong>di</strong> giugno...».<br />
Filippo Colombara: «No era il ’40».<br />
Mariolina M.: «Ah sì, so che era il mese <strong>di</strong> giugno, la data non me la ricordo più. E<br />
quel mese tutti piangevano. Erano preoccupati perché andavano via, chi tre chi quattro<br />
in famiglia, a casa mia in pochi mesi ne sono andati sotto quattro eh».<br />
Filippo Colombara: «<strong>Del</strong> duce cosa si <strong>di</strong>ceva allora?».<br />
Mariolina M.: «In quel momento lì non <strong>di</strong>cevano niente del duce, perché <strong>di</strong>cevano:<br />
“La guerra è sempre stata e sempre sarà”, non <strong>di</strong>cevano niente, né bene né male.<br />
Proprio male male io non ho mai sentito parlare, han parlato poi male in ultimo,<br />
quando c’è stato l’8 settembre del ’43, che è andato giù il fascio. Allora ne parlavano<br />
male e tutte le colpe erano del duce, mentre prima no. <strong>Del</strong> duce e della Petacci, che<br />
aveva questa amante, ecco».<br />
Rossana Mangeruca: «Senta signora, ma qui a [...], dalla parte proprio della gente che<br />
lavorava, il fascismo com’era sentito?».<br />
Ada Milani: «Ma in principio c’è stato sa, sono andati su un po’ con la prepotenza,<br />
allora erano un po’ schisc’, poi quando han visto tante cose, per esempio come le<br />
pensioni, come per i me<strong>di</strong>ci così, cambiavano un po’, ecco. E allora s’évan quasi tüc’<br />
fascista, ecco, a <strong>di</strong>r la verità».<br />
Enrica C.: «Eravamo tutti fascisti, il fatto è che poi non hanno il coraggio <strong>di</strong> ammetterlo,<br />
non so perché, perché o per amore o per forza si doveva essere iscritti al fascismo. [...]<br />
Mio papà era andato a lavorare in Germania e naturalmente la nostra famiglia era tacciata<br />
<strong>di</strong> fascismo. Va bene, siamo cresciuti in quell’ambiente e io <strong>di</strong>co sinceramente che fino<br />
al ’43 sono stata una fascista fervente, perché nata e cresciuta con quell’ideale. Per me il<br />
37
Filippo Colombara<br />
duce era il non plus ultra, dopo naturalmente s’è visto gli sbagli che ha fatto, se sono<br />
stati sbagli, perché bisogna anche vedere l’influenza che ha avuto quell’altro su <strong>di</strong> lui. È<br />
stato forse un po’ succube <strong>di</strong> Hitler. Ma lì si deve anche pensare questo: o sei con me o<br />
sei contro <strong>di</strong> me. E essere contro a quello lì, l’Italia la faceva in un boccone come ha fatto<br />
con la Polonia, vero? Però quando c’è poi la seconda repubblica <strong>di</strong> Salò, naturalmente<br />
tutti gli ideali sono caduti capisci? I fascisti <strong>di</strong> allora io non li potevo vedere perché<br />
erano delinquenti semplicemente, era tutta la feccia poi che si era raggruppata. Comunque<br />
mi hanno anche detto che io ero una spia dei fascisti e sono venuti a prendermi una<br />
sera. Due partigiani mi hanno portato via un’ora, però quello lì era un partigiano all’acqua<br />
<strong>di</strong> rose, era un trombone più che altro, perché era venuto senza un’autorizzazione del<br />
comando, c’era stata una soffiata al comando, però uno <strong>di</strong> [...], quello che ha fatto poi<br />
del male a mio padre, ha detto: “No, vi sbagliate”. Lui doveva venirmi a prelevare e<br />
portarmi su al comando. Ha detto: “No, garantisco io che quella ragazza non se la<br />
intende <strong>di</strong> sicuro con i fascisti”, perché il paese era sempre pieno tutte le notti».<br />
Le testimonianze, <strong>di</strong> cui abbiamo dato un ampio stralcio, appartengono<br />
a quell’area culturale del paese che ha interpretato positivamente<br />
l’esperienza fascista. Dalle parole delle intervistate emergono cenni sulla<br />
gamma <strong>di</strong> temi riaffermati dalla destra fin dal dopoguerra. «Mi piaceva la<br />
<strong>di</strong>sciplina... mi piace ancora adesso avere l’or<strong>di</strong>ne» <strong>di</strong>ce Clara; allora «c’era<br />
più or<strong>di</strong>ne su tutto» riba<strong>di</strong>sce Mariolina, precisando che erano migliori<br />
quei tempi dato che oggi «non si è neanche più sicuri <strong>di</strong> stare in casa e <strong>di</strong><br />
uscire». Clara, ancora, stimava il fascismo «per quello che scriveva», ma<br />
non per quanto realizzava e ciò a causa degli italiani, che «erano un’altra<br />
cosa». La donna, in questo caso, richiama una posizione propria degli<br />
ambienti neofascisti. Si tratta del giu<strong>di</strong>zio evoliano <strong>di</strong> infelice <strong>di</strong>sposizione<br />
<strong>di</strong> gran parte del popolo ai valori fascisti. Gli italiani sono interpretati dal<br />
punto <strong>di</strong> vista antropologico come una nazione pulcinellesca, originata<br />
dall’incrocio <strong>di</strong> molte razze, alcune delle quali caratterizzate da<br />
atteggiamenti furbeschi, prive <strong>di</strong> spirito <strong>di</strong> sacrificio e <strong>di</strong>sposte a cambiare<br />
opinione con estrema leggerezza per il proprio tornaconto. Secondo queste<br />
tesi, i motivi d’insuccesso del fascismo consistono nell’aver sopravvalutato<br />
il carattere degli italiani 60 .<br />
Di seguito compaiono argomentazioni già riscontrate: dal Mussolini<br />
regale e propugnatore <strong>di</strong> giustizia, rammentato da Clara, all’elencazione<br />
delle opere <strong>di</strong> carattere sociale istituite dal duce, ricordate da tutte le<br />
intervistate. Singolari nelle narrazioni sono poi gli atteggiamenti ingenui,<br />
finti o reali, proposti da Clara, che non comprende l’importanza attribuita<br />
dal fascismo all’indottrinamento scolastico, e da Mariolina, la quale non è<br />
38
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
certa che i fascisti dessero l’olio <strong>di</strong> ricino agli avversari, dato che non ha mai<br />
assistito <strong>di</strong> persona a fatti del genere.<br />
Infine, si manifestano le <strong>di</strong>stinzioni sulle responsabilità degli eventi.<br />
Angiolina, per esempio, salva Mussolini e affossa il re, giu<strong>di</strong>cato ambizioso,<br />
poco preoccupato delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> miseria del popolo e colpevole delle<br />
guerre prefasciste, ed Enrica <strong>di</strong>stingue tra il fascismo del Ventennio - a cui<br />
aderì con fervore - e la repubblica sociale, che ha raccolto nelle proprie<br />
schiere un coacervo <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui.<br />
Da queste testimonianze, altre se ne potrebbero aggiungere, appare chiaro<br />
che nel mezzo secolo trascorso dalla fine del regime il <strong>di</strong>battito su<br />
quell’esperienza ha indotto, anche in parte <strong>di</strong> strati popolari, riflessioni<br />
superficiali piuttosto che prese <strong>di</strong> coscienza. Si è preferito accantonare anziché<br />
comprendere quei venti anni <strong>di</strong> storia italiana, per poi, in perio<strong>di</strong> favorevoli,<br />
esibirli nuovamente all’insegna del buon tempo andato e <strong>di</strong> un generico<br />
bisogno <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne.<br />
Io, le <strong>di</strong>rò, per me era meglio quando c’era il fascio che adesso; io non sono fascista,<br />
non tengo a nessun partito, ma per me sì. Perché c’era più or<strong>di</strong>ne. Il duce ha messo<br />
l’ospedale, la pensione, ha fatto le colonie marine dove sono andati tutti, ha fatto<br />
tante cose, ha fatto anche del male perché ha fatto anche lui le sue; ha avuto i tra<strong>di</strong>menti,<br />
ha sbagliato anche lui ma ha fatto anche tante cose belle. E c’era più or<strong>di</strong>ne su tutto,<br />
era una lira era una lira, spettava <strong>di</strong>eci lire spettava <strong>di</strong>eci lire. Adesso, cosa vuole, la<br />
roba continua ad aumentare, la pensione <strong>di</strong>minuisce, non so cosa <strong>di</strong>re io, se possono<br />
portano via anche quella poca pensione come magari avverrà un giorno, altro cosa<br />
c’è? (Mariolina M.)<br />
Note al testo<br />
Il saggio fa parte <strong>di</strong> un progetto <strong>di</strong> ricerca sulla memoria del fascismo e della resistenza<br />
nel Piemonte nord-orientale, che ho in corso da <strong>di</strong>verso tempo. Un primo saggio:<br />
Memorie <strong>di</strong> una guerra infinita. Fonti orali e tipologie <strong>di</strong> trasmissione dell’esperienza è<br />
pubblicato in «Ieri Novara Oggi. Annali <strong>di</strong> ricerca contemporanea», 4-5, 1996, pp.<br />
28-90. Un secondo saggio, che riprende e amplia un paragrafo del precedente, L’identità<br />
del nemico nella memoria resistenziale del Piemonte nord-orientale, è pubblicato nel<br />
volume Introduzione alla storia orale, vol. II, Esperienze <strong>di</strong> ricerca, a cura <strong>di</strong> Cesare<br />
Bermani, Odradek, Roma 2001, pp. 23-39. Un terzo saggio, Il carnevale <strong>di</strong> Mussolini.<br />
25 luglio 1943: simboli e riti <strong>di</strong> una comunità nazionale, è pubblicato in «l’impegno.<br />
Rivista <strong>di</strong> storia contemporanea», 1, 2005, pp. 31-57. Il presente testo, riprende<br />
39
Filippo Colombara<br />
anch’esso un paragrafo del lavoro del 1996, ma lo amplia notevolmente. Per la sua<br />
stesura, occorre ringraziare Virginia Paravati, che ha raccolto e messo a <strong>di</strong>sposizione<br />
numerosi documenti orali e ha <strong>di</strong>scusso parti dell’elaborato.<br />
1 Cfr. LUISA PASSERINI, Mussolini immaginario. Storia <strong>di</strong> una biografia 1915-1939,<br />
Laterza, Roma-Bari 1991, p. 203.<br />
2 Cfr. GAUDENZIO BARBÈ, Mussolini a Novara, supplemento al «Corriere <strong>di</strong> Novara»,<br />
17 marzo 1975, p. 6.<br />
3 Cfr.: «L’Italia Giovane», 17 e 20 maggio 1939; 18 maggio 1939: la visita <strong>di</strong> Mussolini<br />
a Novara e in provincia, realizzazione <strong>di</strong> Ugo Schleifer, Carlo Brezzi, Carlo Viana,<br />
pellicola non sonorizzata, durata: 11’12”, in A passo ridotto. Cineguf, Cinegil ed<br />
esperienze cinematografiche a Novara negli anni ’30 e ’40, video vhs a cura <strong>di</strong> Adolfo<br />
Mignemi e Marco Fontana, in Novara fa da sé. Ascesa e declino della <strong>di</strong>ttatura fascista<br />
in terra novarese 1922-1943, Isrn-Provincia <strong>di</strong> Novara, Novara 1999; La visita <strong>di</strong><br />
Mussolini nel Novarese del 1939, in La scena del <strong>di</strong>ttatore. 8 ottobre 1934: Mussolini a<br />
Novara, cd-rom a cura <strong>di</strong> Adolfo Mignemi, ibid. In quest’ultimo supporto sono<br />
riprodotte anche le immagini del grande arco <strong>di</strong> trionfo realizzato a Orfengo, porta<br />
d’ingresso della provincia, con la scritta: «La Provincia <strong>di</strong> Novara saluta nel Duce il<br />
fondatore dell’Impero».<br />
4 Traduzione: Siamo andati a vedere anche il duce. [...] Era un bell’uomo.<br />
5 Traduzione: È passato da Romagnano tanti anni fa. Ero una giovinetta e io e il<br />
Massimo, a pie<strong>di</strong>, siamo andati giù sul ponte <strong>di</strong> Romagnano. È passato il Duce, un<br />
bell’uomo, un morettone.<br />
6 Traduzione: Te ne accorgerai.<br />
7 Traduzione: C’era un mio cugino che abitava lì alla Mulògna che lavorava con me e<br />
allora è venuto e ha detto: «Guardate donne, se volete vi pagano la giornata». «Ah sì,<br />
allora se ci pagano la giornata, cià che an<strong>di</strong>amo». [...]«tutte già morte» [...]. «Deh,<br />
devo stare qui in questa piazza...» [...]. «Ah no, donne adesso io vado». «Ma sei matta<br />
neh, se vai fuori <strong>di</strong> qui ti ammazzano...» [...]. «Ah sì, questa è bella, deh Poletti<br />
dobbiamo alzarci?». «Ma vai un po’ là vai, lascia che passi». [...] Dopo un po’ <strong>di</strong>co: «È<br />
ben intelligente quello lì, ma ha da farci piangere quello lì».<br />
8 Traduzione: Stava nel mazzo insieme agli altri.<br />
9 Traduzione: Traccagnotto.<br />
40
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
10 Negli occhi si rispecchia il suo «carattere insieme multiforme e irriducibile (o la<br />
pretesa <strong>di</strong> esso)» (LUISA PASSERINI, Mussolini immaginario cit., p.73).<br />
11 Questo incontro, come vedremo più avanti, avviene in una circostanza <strong>di</strong>versa dalla<br />
visita novarese.<br />
12 La testimone vede Mussolini non nel 1939 ma negli anni venti, alla stazione<br />
ferroviaria <strong>di</strong> Domodossola.<br />
13 Cfr. La memoria come oggetto sociologico: intervista ad Alessandro Cavalli a cura <strong>di</strong><br />
Anna Lisa Tota, in La memoria contesa. Stu<strong>di</strong> sulla comunicazione sociale del passato, a<br />
cura <strong>di</strong> Anna Lisa Tota, Franco Angeli, Milano 2001, p. 35. Per un’analisi delle<br />
generazioni, cfr. Età e corso della vita, a cura <strong>di</strong> Chiara Saraceno, Bologna, Il Mulino,<br />
1986.<br />
14 Cfr. MAURICE HALBWACHS, I quadri sociali della memoria [1925], Iperme<strong>di</strong>um, Napoli<br />
1997, pp. 34-35.<br />
15 Cfr. MARIO ISNENGHI, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai<br />
giorni nostri, Mondadori, Milano 1994, pp. 310-313.<br />
16 Cfr. LUISA PASSERINI, Mussolini immaginario cit., pp. 74-75.<br />
17 Sui poteri taumaturgici cfr. MARC BLOCH, I re taumaturghi. Stu<strong>di</strong> sul carattere<br />
sovrannaturale attribuito alla potenza dei re, particolarmente in Francia e in Inghilterra<br />
[1924], Einau<strong>di</strong>, Torino 1973; su quelli <strong>di</strong> Mussolini cfr.: CLAUDIO FOGU, «Il Duce<br />
taumaturgo»: Modernist Rhetorics in Fascist Representations of History, «Representations»,<br />
Winter, 57, 1997, pp. 24-51; SERGIO LUZZATTO, L’immagine del duce. Mussolini nelle<br />
fotografie dell’Istituto Luce, E<strong>di</strong>tori Riuniti-Istituto Luce, Roma 2001, pp. 145-175.<br />
18 Cfr. MARGHERITA SARFATTI, Dux, Mondadori, Milano 1926, pp. 297-298.<br />
19 Cfr. FRANCO CIARLANTINI, Mussolini immaginario, Sonzogno, Milano 1933, p. 114.<br />
20 Cfr. L’italiano nuovo. Letture della II classe elementare, Libreria dello Stato, Vallecchi,<br />
Firenze 1936. Il brano è riportato in LUISA PASSERINI, Mussolini immaginario cit., p.<br />
200.<br />
21 A titolo esemplificativo, cfr. «Un giovane milite della Rsi bacia la mano a Mussolini.<br />
Nord Italia, 1944», immagine fotografica riprodotta in SERGIO LUZZATTO, Il corpo del<br />
duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Einau<strong>di</strong>, Torino 1998, fig. 3.<br />
41
Filippo Colombara<br />
22 Traduzione: Dato un buffetto sulla guancia.<br />
23 <strong>Del</strong>l’evento esistono i seguenti filmati Luce: Giornale muto n. 966; Giornale sonoro<br />
n. 93; Documentario sonoro n. 9031, cfr. ADOLFO MIGNEMI, L’immagine della vita<br />
provinciale nei filmati «Luce» (1928-1944), in Novara fa da sé cit., pp. 59, 62.<br />
24 Cfr. MIRIAM MAFFAI, Pane nero. Donne e vita quoti<strong>di</strong>ana nella seconda guerra mon<strong>di</strong>ale,<br />
Mondadori, Milano 1987, p. 77. Sulla salute del capo del fascismo, cfr. PAUL O’BRIEN,<br />
Al capezzale <strong>di</strong> Mussolini. Ferite e malattia 1917-1945, «Italia contemporanea», 226,<br />
2002, pp. 5-29.<br />
25 Cfr. ANGELO MICHELE IMBRIANI, Gli italiani e il Duce. Il mito e l’immagine <strong>di</strong> Mussolini<br />
negli ultimi anni del fascismo (1938-1943), Liguori, Napoli 1992, pp. 170-172.<br />
26 Cfr. SERGIO LUZZATTO, Il corpo del duce cit., p. 138.<br />
27 ANGELO NIZZA e RICCARDO MORBELLI, La leggenda <strong>di</strong> domani. Racconto per ragazzi,<br />
popolani e soldati, Corbaccio, Milano s.d., citato in LUISA PASSERINI, Mussolini<br />
immaginario cit., pp. 197-198.<br />
28 Cfr. LUISA PASSERINI, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Laterza, Roma-Bari<br />
1984, p. 136.<br />
29 Tra i tanti si veda e si ascolti il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Italo Balbo alla folla <strong>di</strong> emigrati italiani a<br />
New York dopo la trasvolata oceanica del 1933 (uno spezzone è contenuto nel<br />
documentario televisivo Emigranti, <strong>di</strong> Roberto Olla, Raitre, «La Grande Storia», 18<br />
febbraio 2002).<br />
30 Tra le numerose immagini in cui si propone questo stereotipo, per esempio, due<br />
fotografie relative a manifestazioni pubbliche svoltesi nel borgo cusiano <strong>di</strong> Gozzano:<br />
«Cerimonia alle Scuole elementari» in FRANCESCO RUGA, Gozzano. Storie senza Storia.<br />
I primi cinquant’anni <strong>di</strong> vita gozzanese del Ventesimo secolo, Eos E<strong>di</strong>trice, Oleggio 1997,<br />
p. 93; «12 maggio 1935, posa della prima pietra della Casa San Giuseppe» in ID.,<br />
Gozzano. Sguar<strong>di</strong> sul Novecento, Eos E<strong>di</strong>trice, Oleggio 2000, p. 135.<br />
31 Cfr. «Il segretario federale fascista <strong>di</strong> Novara, Gianni Mariggi, raccoglie un covone<br />
<strong>di</strong> grano durante la cerimonia per la trebbiatura in piazza Vittorio Emanuele»,<br />
fotografia riprodotta da ADOLFO MIGNEMI, Immagini per piccole e gran<strong>di</strong> cronache<br />
novaresi: Bonzanini e la fotografia <strong>di</strong> avvenimenti pubblici, in Umberto Bonzanini<br />
1900-1988. Gli occhi <strong>di</strong> un’epoca, a cura <strong>di</strong> Marco Rosci, Eugenio Bonzanini, Novara<br />
2000, p. 192.<br />
42
32 Inteso come liggèra, combriccola <strong>di</strong> scapestrati.<br />
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
33 Cfr. LUISA PASSERINI, Torino operaia e fascismo cit., pp. 128-130.<br />
34 Archivio Comune Castelli Cusiani, XV, 224-3, Circolari e corrispondenze, 1928-<br />
1937, lettera del commissario prefettizio al prefetto <strong>di</strong> Novara del 20 agosto 1929.<br />
Sulle vicende <strong>di</strong> Angelo Gioria, cfr. FILIPPO COLOMBARA, Pietre bianche. Vita e lavoro<br />
nelle cave <strong>di</strong> granito del lago d’Orta, Alberti libraio, Verbania 2004, pp. 181-182.<br />
35 Giu<strong>di</strong>zi femminili sostanzialmente pacati e ben <strong>di</strong>versi da quelli maschili emessi anche<br />
da protagonisti del fascismo all’indomani della Liberazione. Per il giornalista Paolo<br />
Monelli, la donna era una capricciosa «brunetta ricciuta e popputa (proprio il suo tipo)»<br />
(PAOLO MONELLI, Roma 1943 [1945], Einau<strong>di</strong>, Torino 1993, p. 41); per Cesare Rossi,<br />
fascista della prima ora, il deca<strong>di</strong>mento mentale <strong>di</strong> Mussolini era dovuto all’abuso <strong>di</strong><br />
afro<strong>di</strong>siaci impiegati per sod<strong>di</strong>sfare gli appetiti sessuali dell’amante (cfr. CESARE ROSSI,<br />
Mussolini com’era. Ra<strong>di</strong>oscopia dell’ex <strong>di</strong>ttatore, Ruffolo, Roma 1947, p. 279).<br />
36 Cfr. ADRIAN LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza,<br />
Roma-Bari 1974, pp. 481-482.<br />
37 Su questi aspetti, cfr. PAUL CORNER, Fascismo e controllo sociale, «Italia<br />
contemporanea», 228, 2002, pp. 394-402.<br />
38 Su questi aspetti, già <strong>di</strong>battuti in passato, cfr.: LUISA PASSERINI, Torino operaia e<br />
fascismo cit., p. 134; SILVIA PERTEMPI, Montemassi. Terra e miniera in una comunità<br />
della Maremma, Rosemberg & Sellier, Torino 1986, pp. 129, 134; NICOLA TRANFAGLIA,<br />
Labirinto italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Nuova Italia, Firenze 1989, pp.<br />
41-57. Per il Novarese cfr.: FILIPPO COLOMBARA, La terra delle tre lune. Classi popolari<br />
nella prima metà del Novecento in un paese dell’alto Piemonte: Prato Sesia. Storia orale e<br />
comunità, Vangelista, Milano 1989, pp. 224-226; MARTINA MERLO, Piccole e gran<strong>di</strong><br />
storie. Cireggio durante la Resistenza, Amministrazione comunale, Omegna 1992, pp.<br />
15-16.<br />
39<br />
ERIC J. HOBSBAWM, I ribelli. Forme primitive <strong>di</strong> rivolta sociale [1959], Einau<strong>di</strong>, Torino<br />
1974, p. 153.<br />
40 Cfr.: Ibid., pp.152-153; PETER BURKE, Cultura popolare nell’Europa moderna,<br />
Mondadori, Milano 1980, p. 150; BRONISLAW BACZKO, Immaginazione sociale, in<br />
Enciclope<strong>di</strong>a, vol. VII, Einau<strong>di</strong>, Torino 1979, p. 76.<br />
41 ERIC J. HOBSBAWM, I ribelli cit., p. 154.<br />
43
Filippo Colombara<br />
42 Cfr.: Le illusioni la paura la rabbia. Il fronte interno. 1940-1943, a cura <strong>di</strong><br />
Aurelio Lepre, E<strong>di</strong>zioni Scientifiche Italiane, Napoli 1989; SIMONA COLARIZI,<br />
L’opinione degli Italiani sotto il regime, 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 1991;<br />
AURELIO LEPRE, L’occhio del duce. Gli italiani e la censura <strong>di</strong> guerra 1940-1943,<br />
Mondadori, Milano 1992; ANGELO MICHELE IMBRIANI, Gli italiani e il Duce cit.;<br />
PIETRO CAVALLO, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Il<br />
Mulino, Bologna 1997.<br />
43 PIETRO CAVALLO, Italiani in guerra cit., p. 24. Solo nel 1942, precisa l’autore:<br />
«Scompariva quello che era il compito fondamentale della propaganda, orientare e<br />
in<strong>di</strong>rizzare, fornendo modelli <strong>di</strong> comportamento adeguati al momento. Di fronte al<br />
contrasto sempre più evidente tra informazione ed esperienza <strong>di</strong>retta era quest’ultima,<br />
ovviamente, a prevalere» (ibid., p. 250)<br />
44 Cfr. LUISA PASSERINI, Mussolini immaginario cit., pp. 61-70.<br />
45 Cfr. MARIO ISNENGHI, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla<br />
cultura fascista, Einau<strong>di</strong>, Torino 1979, pp. 170-171.<br />
46 Per giornali scolastici del Novarese e Vercellese cfr.: [ADOLFO MIGNEMI], Tenere<br />
menti incolte. Quoti<strong>di</strong>anità scolastica e fascismo, in Sì e no padroni del mondo. Etiopia<br />
1935-36. Immagini e consenso per un impero. Interventi e materiali, a cura <strong>di</strong> Adolfo<br />
Mignemi, Regione Piemonte-Isrn, Torino-Novara 1983, pp. 137-153; «Cronache ed<br />
osservazioni sulla vita della Scuola». Cravagliana 1940-1945, a cura <strong>di</strong> Alberto Lovatto,<br />
«l’impegno», 1, 1991, pp. 42-50; CLAUDIO SAGLIASCHI, Il cerchio <strong>di</strong> ferro e <strong>di</strong> fuoco.<br />
Note sull’impegno pratese durante la 2ª guerra mon<strong>di</strong>ale, Tipolito Valsesia, Romagnano<br />
Sesia 1995, pp. 483-494; TIZIANO BOZIO MADÈ, Libro e moschetto. Cronache quoti<strong>di</strong>ane<br />
dai registri <strong>di</strong> scuola, «l’impegno», 2, 1995, pp. 44-49.<br />
47 Archivio Comune <strong>di</strong> Madonna del Sasso, IX, Boleto, Giornale scolastico 1930-31,<br />
ottobre 1930.<br />
48 Ibid., Giornale scolastico 1929-1930, 5 <strong>di</strong>cembre 1929.<br />
49 Ibid., 12 febbraio 1930.<br />
50 Ibid., Giornale scolastico 1930-31, 5 <strong>di</strong>cembre 1930.<br />
51 Ibid., 23 febbraio 1931.<br />
52 Ibid., Giornale scolastico 1928-29, 11 novembre 1928.<br />
44
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
53 Ibid., Giornale scolastico 1935-36, 26 marzo 1936.<br />
54 Cfr. A.M. [ADOLFO MIGNEMI], Bella copia, brutta copia. Note sulla quoti<strong>di</strong>anità<br />
scolastica, «Ieri Novara Oggi», 4, 1980, pp. 434-463.<br />
55 Cfr. PIER GIORGIO ZUNINO, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella<br />
stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 50 ss.<br />
56 Cfr. NOBERTO BOBBIO, De senectute e altri scritti autobiografici, Einau<strong>di</strong>, Torino<br />
1996, pp. 49-50.<br />
57 Traduzione: io ero una ragazza... sì che andavo a pensare a certe cose. [...] più che<br />
piangere e sospirare.<br />
58 Si tratta <strong>di</strong> Giuseppe Frua, uno dei proprietari dell’azienda tessile De Angeli Frua.<br />
59 Traduzione: piuttosto che muovere un piede [...]. E lui è <strong>di</strong>ventato imperatore,<br />
puoi solo capire, dopo ha fatto in fretta a firmare quella del ’40-’45.<br />
60 Cfr. FRANCESCO GERMINARIO, L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza,<br />
Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 86-90. Sulle posizioni evoliane, cfr. JULIUS EVOLA,<br />
Il fascismo visto dalla destra. Con note sul III Reich [1964], Settimo Sigillo, Roma 1989.<br />
Elenco degli informatori, luoghi e date delle interviste<br />
Le interviste sono state realizzate in varie occasioni e quasi tutte tra la metà degli anni<br />
ottanta e l’inizio del nuovo secolo. Una decina appartengono alla ricerca <strong>di</strong> storia<br />
orale svoltasi a Prato Sesia tra il 1984 e il 1985 da me (FC), con il contributo nella<br />
prima parte <strong>di</strong> Gisa Magenes (GM). Altre interviste sono state raccolte negli anni<br />
seguenti sempre da Colombara e Magenes; in qualche seduta sono presenti il ricercatore<br />
Adolfo Mignemi (AM), e la studentessa Martina Merlo (MM). Un colloquio è stato<br />
condotto da allievi della scuola me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Armeno: Valentina Ceresa, Luca Maio,<br />
Clau<strong>di</strong>o Maulini, Silvia Regalli, coor<strong>di</strong>nati da Gisa Magenes. Rossana Mangeruca<br />
(RM), invece, ha fornito copia <strong>di</strong> una delle sue interviste realizzate ad negli anni<br />
settanta a Gozzano su fascismo e resistenza. Gran parte dei colloqui, infine, sono stati<br />
realizzati nel 2001 da Virginia Paravati (VP) appositamente per questo lavoro.<br />
Gli informatori resi anonimi sono in<strong>di</strong>cati con nomi fittizi racchiusi tra virgolette.<br />
«Angiolina A.» (Omegna, 1923), operaia. Omegna, luglio 2001 (FC).<br />
Pier Antonio Agarla (Romagnano Sesia, 1932), operaio. Romagnano Sesia, 2 febbraio<br />
1985 (FC).<br />
45
Filippo Colombara<br />
Celeste Ar<strong>di</strong>zzi (Nonio, 1908), falegname. Omegna, 11 luglio 2001 (VP).<br />
Giuseppe Arienta (Prato Sesia, 1911), operaio. Prato Sesia, 7 novembre 1985 (FC).<br />
Albina Baraggiotta (Prato Sesia, 1911), operaia. Prato Sesia, 14 febbraio 1985 (FC).<br />
Angelo Berenzi (Rovigo, 1900, res. a Novara), giornalista. Novara, 27 maggio1985<br />
(GM-AM).<br />
Cesarina Bonola (Prato Sesia, 1919), operaia. Prato Sesia, 25 ottobre 1984 (FC).<br />
Eligio Borella (Omegna, 1939), operaio. Omegna, 29 ottobre 1986 (FC).<br />
Esterina Borioli (Omegna, 1907), operaia. Omegna, 6 giugno 2001 (VP).<br />
Renata Brasola (Omegna, 1925), operaia. Omegna, 10 gennaio 2002 (FP-VP).<br />
«Enrica C.» (Gozzano, 1922), operaia. Gozzano, <strong>di</strong>cembre 1979 (RM).<br />
«Clara C.» (1914), impiegata. Omegna, luglio 2001 (VP).<br />
Cesare Castellano (Cassano delle Murge, 1913, res. a Verbania), barbiere. Omegna,<br />
26 luglio 1999 (GM).<br />
Maria Cerri (Lesa, 1907, res. a Omegna,), operaia. Omegna, 28 giugno 2001 (VP).<br />
Bortolo Consoli (Vigolo, 1924, res. a Omegna), operaio. Omegna, 24 giugno 1991<br />
(FC-GM-MM).<br />
Pierino Dariani (Prato Sesia, 1901), operaio. Prato Sesia, 19 febbraio 1985 (FC).<br />
Rina <strong>Del</strong>la Zoppa (Prato Sesia, 1925), operaia. Prato Sesia, 5 ottobre 1984 (FC-<br />
GM).<br />
Giuseppina De Micheli (Crusinallo, 1925), insegnante elementare. Omegna, 13 luglio<br />
2001 (VP).<br />
«Fiorina F.» (Gravellona Toce, 1907), operaia. Omegna, 16 luglio 2001 (VP).<br />
Roberto Ferretti (Tapigliano, 1921, res. ad Armeno), operaio. Omegna, 11 luglio<br />
2001 (VP).<br />
Cesarina Fioramonti (Casale Corte Cerro, 1907), operaia. Omegna, 16 giugno 2001<br />
(VP).<br />
Carmela Fornara (1896), negoziante. Prato Sesia, 7 febbraio 1985 (FC).<br />
Settima Fornara (Gravellona Toce, 1908), operaia. Omegna, 25 agosto 2001 (VP).<br />
Giuseppina Freschini (Agrano, 1912), operaia e conta<strong>di</strong>na. Omegna, 13 luglio 2001<br />
(VP).<br />
«Giovanna G.» (Loreglia, 1924, res. a Omegna), operaia. Omegna, 23 febbraio 1991<br />
(GM).<br />
Giuseppe Giovenzani (Pallanza, 1905), giar<strong>di</strong>niere. Omegna, 26 agosto 1999 (GM).<br />
Vincenzo Giovinazzo (Bovalino Murge, 1916, res. a Omegna), impiegato. Omegna,<br />
13 giugno 2001 (VP).<br />
Marco Guarnori, cuoco. Armeno, 27 gennaio 1995 (Studenti-GM).<br />
Carolina Lianò (Napoli, 1915, res. a Omegna), casalinga. Omegna, 9 luglio 2001<br />
(VP).<br />
Mariuccia Lilla (Sovazza, 1924), conta<strong>di</strong>na e operaia. Omegna, 29 <strong>di</strong>cembre 2001<br />
(VP-FC).<br />
«Marino M.» (1924), operaio. Omegna, giugno 1991 (FC-GM-MM).<br />
46
L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />
«Mariolina M.» (1924), conta<strong>di</strong>na e operaia. Omegna, <strong>di</strong>cembre 2001 (VP-FC).<br />
Santina Mengozzi (Svizzera, 1910, res. a Omegna), operaia. Omegna, 17 luglio 2001<br />
(VP).<br />
Ada Milani (Gozzano, 1898), collaboratrice domestica, sarta, mon<strong>di</strong>na. Gozzano,<br />
<strong>di</strong>cembre 1979 (RM).<br />
Edmea Mora (Prato Sesia, 1924), operaia. Grignasco, 25 ottobre 1984 (FC).<br />
Giuseppina Pavan (Bagnolo <strong>di</strong> Po, 1914, res. a Milano), casalinga. Omegna, 21 agosto<br />
2001 (VP).<br />
Angela Pettinaroli (Omegna, 1923), operaia. Omegna, 12 luglio 2001 (FC).<br />
Giovanni Perazzi (1894), operaio. Romagnano Sesia, 2 febbraio 1985 (FC).<br />
Liliana Perazzi (Prato Sesia, 1934), operaia. Romagnano Sesia, 2 febbraio 1985 (FC).<br />
Luigina Perazzi (Grignasco, 1920), operaia. Romagnano Sesia, 2 febbraio 1985 (FC).<br />
Maria Pirovano (Crusinallo, 1905), operaia. Omegna, 15 giugno 2001 (VP).<br />
Assunta Poletti (Alzo, 1906), operaia. Omegna, 5 aprile 2000 (GM).<br />
Alma Puppieni (Crusinallo, 1920), operaia. Omegna, 18 giugno 2001 (VP).<br />
Clotilde Rampone (Quarna Sotto, 1914), impiegata. Omegna, 5 luglio 2001 (VP).<br />
Anna Maria Ranzini (Cavallirio, 1926, res. a Gozzano), casalinga. Cesara, 30 ottobre<br />
2001 (FC-VP).<br />
Francesco Rinolfi (Prato Sesia, 1926), coltivatore <strong>di</strong>retto. Prato Sesia, 21 febbraio<br />
1985 (FC).<br />
Ermanna Rizzoni (Cireggio, 1914), impiegata. Omegna, 26 giugno 2001 (VP).<br />
Aurora Rossari (Francia, 1907, res. a Omegna), operaia. Omegna, 15 giugno 2001<br />
(VP).<br />
Maria Salvadego (Porto Tolle, 1929), operaia e mon<strong>di</strong>na. Omegna, 6 giugno 2001<br />
(VP).<br />
Nicola Tosi (Paruzzaro, 1926), cameriere. Omegna, 14 luglio 2001 (FC-VP).<br />
Li<strong>di</strong>a Volpones (Pordenone, 1917), collaboratrice domestica. Omegna, 8 giugno 2001<br />
(VP).<br />
Angela Zampone (Loreglia, 1905), operaia. Omegna, 11 luglio 2001 (VP).<br />
Maria Zamponi (Loreglia, 1916), operaia e conta<strong>di</strong>na, 5 luglio 2001 (VP).<br />
47
Filippo Colombara<br />
48
Le cartoline e i francobolli delle brigate garibal<strong>di</strong>ne in Valsesia<br />
Le cartoline e i francobolli delle brigate garibal<strong>di</strong>ne in<br />
Valsesia<br />
<strong>di</strong> Edgardo Ferrari<br />
A sessant’anni <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, può essere ancora <strong>di</strong> qualche interesse<br />
ricostruire, sulla base della documentazione conservata presso l’Istituto per<br />
la storia della Resistenza in provincia <strong>di</strong> Vercelli <strong>di</strong> Borgosesia, le vicende<br />
delle cartoline delle brigate Garibal<strong>di</strong> e dei progetti per l’emissione <strong>di</strong> una<br />
serie <strong>di</strong> francobolli. Facciamo riferimento alle copie della corrispondenza<br />
intercorsa fra Cino Moscatelli, comandante delle <strong>di</strong>visioni garibal<strong>di</strong>ne in<br />
Valsesia, ed Alfredo Dominietto durante i primi mesi del 1945. Cominciamo<br />
pure dalle cartoline, e<strong>di</strong>te comunque dopo il 25 aprile. Si tratta <strong>di</strong> sette<br />
soggetti (mm. 103x148, stampa a sei colori) dal titolo: Ecco il mio stemma!,<br />
Motorizzazione Garibal<strong>di</strong>na, Carburazione Garibal<strong>di</strong>na, Ecco i ban<strong>di</strong>ti...!!,<br />
Pronto soccorso, Pari siamo: Io la scabbia e tu le pulci!, Il <strong>di</strong>lemma... Milanese.<br />
49
Edgardo Ferrari<br />
Al retro recano la scritta: «Brigate Garibal<strong>di</strong>, baciate dalla gloria, le prime<br />
nella lotta, le prime nella vittoria!» e <strong>di</strong> fianco la caratteristica stella alpina.<br />
Furono <strong>di</strong>segnate da Alfredo Dominietto (Gio Rossi è lo pseudonimo)<br />
nell’inverno 1944-45 a Piode in Valsesia ed arieggiano i soggetti delle<br />
cartoline satiriche <strong>di</strong> Bertiglia e <strong>di</strong> altri autori sulla seconda guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />
In data 25 gennaio 1945, Moscatelli, anche a nome <strong>di</strong> Ciro (Gastone) e <strong>di</strong><br />
Aldo (Secchia), scrive ad Alfredo: «Bellissimo l’acquarello delle pulci e della<br />
scabbia, veramente indovinato e l’ho già mandato ad una persona che, con<br />
gli altri, vedrà <strong>di</strong> farmeli riprodurre in cartoline». È facilmente riconoscibile<br />
il risultato finale: si tratta della cartolina dal titolo Pari siamo: Io la scabbia<br />
e tu le pulci. Il 5 aprile Cino sollecita: «Hai smesso la fabbricazione [delle<br />
cartoline]? Guarda che noi abbiamo già trovato chi le stampa. Trova altri<br />
soggetti e butta giù».<br />
Le cartoline furono poi stampate a Milano, nei primi giorni della<br />
Liberazione, dalla Casa d’arte Rota, con la quale la delegazione lombarda<br />
del Comando generale delle brigate Garibal<strong>di</strong> aveva avviato trattative fin<br />
dal febbraio 1945. Diffuse in grande quantità, furono associate anche ad<br />
una lotteria dell’ANPI numerandole in luogo dei biglietti.<br />
Tutti e sette i soggetti furono ristampati, insieme con altro materiale,<br />
nel 1973 a Borgosesia, quando fu concessa la medaglia d’oro al valor militare<br />
alla Valsesia.<br />
E passiamo ai progetti per i francobolli, che sottintendono la volontà <strong>di</strong><br />
essere pronti per la gestione dei servizi civili, ormai prossima, anche in<br />
esecuzione <strong>di</strong> una <strong>di</strong>rettiva del CLNAI, rappresentante del legittimo governo<br />
italiano, a provvedere alla costituzione <strong>di</strong> un potere amministrativo ed al<br />
funzionamento dei servizi essenziali al momento dell’accendersi<br />
dell’insurrezione nazionale popolare.<br />
In gennaio, Moscatelli scrive ad Alfredo: «Anche per i francobolli avrei<br />
bisogno <strong>di</strong> parlarti, perchè siccome <strong>di</strong>spongo solo <strong>di</strong> attrezzatura tipografica<br />
non so se mi sarà possibile riprodurre la soprastampa dei tuoi modelli sui<br />
francobolli».<br />
Ma dal marzo le prospettive sono <strong>di</strong>verse: ecco gli stralci della<br />
corrispondenza al riguardo:<br />
«Come già d’accordo farei una serie completa e precisamente: da cent.<br />
50; lire 1; lire 2; lire 2,50 e in più un francobollo espresso. Credo inutile<br />
fare un francobollo da 50 e 100 lire come tu proponevi. Di ogni tipo <strong>di</strong><br />
francobollo farai due serie complete e su una metterai “Posta Garibal<strong>di</strong>na”<br />
e sull’altra serie metterai “Posta Partigiana” [...] Inoltre dovresti preparare<br />
50
Le cartoline e i francobolli delle brigate garibal<strong>di</strong>ne in Valsesia<br />
delle sovrastampe per i vari tipi <strong>di</strong> francobolli già in corso tenendo conto<br />
che la sovrastampa noi possiamo farla solamente con mezzi tipografici, cioè<br />
senza clichés e quin<strong>di</strong> sia componibile a mano» (18 marzo 1945).<br />
«Ti rimando pure i francobolli. Bellissimo Garibal<strong>di</strong>, meno riuscito i<br />
<strong>di</strong>eci fucilati. [...] mi hanno fatto osservare che bisogna mettere poste italiane<br />
e non garibal<strong>di</strong>ne. Direi quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> mettere “Poste Italiane” e il prezzo a lato<br />
mentre dall’altra può benissimo rimanere la stella alpina o un CLN come<br />
già l’avevi fatto nelle sovrastampe...» (21 marzo 1945).<br />
«Da parte nostra potremo fornire la carta filigrana ingommata. Per i<br />
modelli <strong>di</strong> sovrastampa dei francobolli ti limiterai a fare una <strong>di</strong>citura “Posta<br />
partigiana”. Sia nei francobolli nostri che tu <strong>di</strong>segnerai sia per quelli sui<br />
quali faremo la sovrastampa dovresti ideare tu una sigla CLN (quella che<br />
avevi già fatto andava bene) e stu<strong>di</strong>are il posto migliore per collocarla sul<br />
francobollo» (5 aprile 1945).<br />
L’idea dei francobolli, che non si sono realizzati, viene comunque coltivata<br />
anche a Liberazione avvenuta. Il 30 giugno 1945, su carta del CLN/CVL<br />
intestata Zona Militare «Valsesia» - Comando, Cino Moscatelli manda a<br />
<strong>di</strong>re per lettera a Scoccimarro, ministro delle Finanze del governo Parri: «è<br />
nostro vivo desiderio, poter celebrare la liberazione della Patria colla<br />
emissione <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> francobolli commemorativi delle gesta dei<br />
51
Edgardo Ferrari<br />
52
Le cartoline e i francobolli delle brigate garibal<strong>di</strong>ne in Valsesia<br />
partigiani. A tal uopo ho inviato a Roma un mio incaricato (latore della<br />
medesima) affinché possa ottenere l’autorizzazione per la stampa ed<br />
emissione dei sopradetti francobolli».<br />
L’autorizzazione non venne; i soggetti pre<strong>di</strong>sposti da Dominietto<br />
furono utilizzati per dei chiu<strong>di</strong>lettera, otto in tutto, che recavano la<br />
<strong>di</strong>citura «Poste Garibal<strong>di</strong>ne» accanto al valore (cent. 50, 1 e 2 lire) e che<br />
furono anch’essi ristampati nel 1973.<br />
La considerazione finale su questa vicenda <strong>di</strong> francobolli, stu<strong>di</strong>ati e<br />
non emessi, può essere la seguente: in tutti i protagonisti della Resistenza<br />
era presente l’esigenza <strong>di</strong> legalità (le carte in regola <strong>di</strong> fronte alla storia):<br />
lo prova la <strong>di</strong>scussione sulla <strong>di</strong>citura «Poste Garibal<strong>di</strong>ne» o «Italiane».<br />
D’altra parte la «repubblica» partigiana dell’Ossola non emise suoi<br />
francobolli in attesa delle autorizzazioni richieste e si limitò a far eseguire<br />
delle prove, sulle quali si innescò subito, dopo la rioccupazione, un<br />
tentativo <strong>di</strong> truffal<strong>di</strong>na speculazione dei fascisti. I quali non avevano<br />
mostrato scrupoli con la soprastampa GNR <strong>di</strong> Brescia, effettuata<br />
<strong>di</strong>sinvoltamente, all’insaputa dello stesso ministero delle Poste, nel<br />
<strong>di</strong>cembre 1943 e con l’altra del gennaio successivo, or<strong>di</strong>nata dalla<br />
segreteria del fascio <strong>di</strong> Alessandria.<br />
La lezione <strong>di</strong> rigore morale e <strong>di</strong> senso della responsabilità fornita dal<br />
comando delle brigate Garibal<strong>di</strong> in Valsesia anche a riguardo della vicenda,<br />
che abbiamo brevemente illustrata, non ha perso lo smalto iniziale e può<br />
essere riproposta oggi, valida così, senza aggiustamento alcuno.<br />
53
Edgardo Ferrari<br />
54
storia nazionale<br />
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
Il peso della storia.<br />
La memoria della Resistenza nell’Italia repubblicana<br />
<strong>di</strong> Giovanni A. Cerutti<br />
Tre libri pubblicati in occasione del sessantesimo anniversario della<br />
Liberazione approfon<strong>di</strong>scono la riflessione sul significato della Resistenza<br />
e sulla costruzione <strong>di</strong> una memoria consapevole e svincolata da quello che<br />
Alberto Cavaglion definisce il «labirinto senza via d’uscita che è la<br />
commemorazione, ossia l’adattamento del passato ai bisogni del presente,<br />
con i suoi idoli da venerare, i suoi nemici da aborrire». Si tratta <strong>di</strong> La<br />
resistenza spiegata a mia figlia <strong>di</strong> Alberto Cavaglion, uscito per i tipi de<br />
L’ancora del Me<strong>di</strong>terraneo; 25 aprile. La competizione politica sulla memoria<br />
<strong>di</strong> Roberto Chiarini, uscito per i tipi <strong>di</strong> Marsilio e La guerra della memoria.<br />
La Resistenza nel <strong>di</strong>battito politico italiano dal 1945 ad oggi <strong>di</strong> Filippo Focar<strong>di</strong>,<br />
uscito per i tipi <strong>di</strong> Laterza. Pur nella <strong>di</strong>versità degli approcci scelti e delle<br />
tesi sostenute sono percorsi da una comune sensibilità - già anticipata dal<br />
volume <strong>di</strong> Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, uscito lo scorso anno<br />
per i tipi <strong>di</strong> Einau<strong>di</strong> - segnata dalla consapevolezza <strong>di</strong> vivere la stagione del<br />
passaggio generazionale in cui, per citare ancora Cavaglion, è necessario<br />
«cimentarsi con le ragioni della storia, che non sono le stesse della vita».<br />
La guerra della memoria <strong>di</strong> Filippo Focar<strong>di</strong> - docente <strong>di</strong> Storia<br />
dell’integrazione europea presso l’Università Roma Tre e autore <strong>di</strong> stu<strong>di</strong><br />
sui crimini <strong>di</strong> guerra tedeschi e italiani - è <strong>di</strong>visa in due parti. Nella prima<br />
Focar<strong>di</strong> mette a punto una perio<strong>di</strong>zzazione delle vicende della memoria<br />
della Resistenza nel <strong>di</strong>battito politico italiano; nella seconda - molto corposa,<br />
<strong>di</strong> circa 230 pagine e davvero utile - pubblica gli articoli e i testi dei <strong>di</strong>scorsi<br />
più significativi dei protagonisti <strong>di</strong> quel <strong>di</strong>battito, or<strong>di</strong>nati secondo la<br />
perio<strong>di</strong>zzazione proposta. Sei sono le scansioni temporali in<strong>di</strong>viduate da<br />
55
Giovanni A. Cerutti<br />
Focar<strong>di</strong>: Le origini della narrazione antifascista della guerra. 1943-1947;<br />
Crisi della «narrazione egemonica» antifascista. 1948-1953; Tenuta e rilancio<br />
della «narrazione egemonica» antifascista. 1953-1960; L’affermazione del<br />
«para<strong>di</strong>gma antifascista» e il confronto fra «Resistenza rossa» e «Resistenza<br />
tricolore». 1960-1978; La sfida alla memoria pubblica della Resistenza. Dalla<br />
«grande riforma» <strong>di</strong> Craxi alla proposta <strong>di</strong> riconciliazione <strong>di</strong> Fini; Il<br />
presidente Ciampi e la «rifondazione della memoria della Resistenza». Punto<br />
<strong>di</strong> partenza della ricostruzione <strong>di</strong> Focar<strong>di</strong> è la definizione della memoria<br />
pubblica della guerra elaborata dall’antifascismo, che si sovrappone<br />
all’universo <strong>di</strong> memorie frammentate <strong>di</strong> singoli e <strong>di</strong> gruppi e che è stata in<br />
grado <strong>di</strong> attivare nella società italiana processi <strong>di</strong> identificazione, fino a<br />
<strong>di</strong>ventare memoria collettiva. Una memoria i cui tratti fondamentali<br />
vengono elaborati già all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e<br />
che è costruita per far fronte alle esigenze politiche determinate dal nuovo<br />
scenario che si apre: controbattere la propaganda della Repubblica sociale<br />
imperniata sugli argomenti del tra<strong>di</strong>mento dell’onore nazionale, mobilitare<br />
la società italiana nella lotta contro i tedeschi e ri<strong>di</strong>scutere con gli Alleati, in<br />
vista degli assetti post-bellici, lo status <strong>di</strong> nemico sconfitto, a cui, nonostante<br />
la cobelligeranza, era stata imposta la resa senza con<strong>di</strong>zioni (p. 4). Questi in<br />
sintesi i capisal<strong>di</strong> della «narrazione antifascista»: «il popolo italiano aveva<br />
subito la <strong>di</strong>ttatura fascista ed era stato trascinato da Mussolini e dai suoi<br />
“scherani” in una guerra invisa, a fianco <strong>di</strong> un alleato detestato come la<br />
Germania; i soldati italiani avevano combattuto con valore sacrificandosi<br />
per una guerra condotta in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> grave inferiorità e impreparazione;<br />
si erano <strong>di</strong>stinti dai commilitoni tedeschi per l’umanità <strong>di</strong>mostrata verso le<br />
popolazioni dei paesi occupati; erano stati costantemente tra<strong>di</strong>ti sul campo<br />
<strong>di</strong> battaglia dai camerati germanici; non appena la <strong>di</strong>ttatura mussoliniana<br />
aveva allentato la presa, il popolo italiano aveva mostrato i suoi veri<br />
sentimenti antifascisti; tutto il popolo italiano aveva partecipato alla lotta<br />
<strong>di</strong> liberazione nazionale, non solo le forze armate e i partigiani ma anche i<br />
civili, che avevano sostenuto la Resistenza pagando un grave tributo <strong>di</strong><br />
sangue, come attestavano le numerose stragi perpetrate dai fascisti e dai<br />
tedeschi; gli italiani, al fianco delle truppe alleate, avevano liberato con le<br />
proprie forze le città dell’Italia centro-settentrionale sconfiggendo i tedeschi<br />
e i loro complici fascisti; l’Italia aveva ottenuto con ciò un pieno riscatto,<br />
tanto da poter essere considerata moralmente vincitrice» (p. 11). Secondo<br />
Focar<strong>di</strong>, nell’urgenza della lotta politica venivano elusi alcuni passaggi<br />
fondamentali della storia nazionale, quali l’esistenza <strong>di</strong> un consenso popolare<br />
56
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
al fascismo, il favore dell’opinione pubblica alla guerra a fianco della<br />
Germania in vista <strong>di</strong> una rapida vittoria e il carattere <strong>di</strong> guerra civile della<br />
Resistenza, secondo la lezione <strong>di</strong> Clau<strong>di</strong>o Pavone.<br />
Il lavoro <strong>di</strong> Focar<strong>di</strong>, però, non si concentra sull’analisi critica della<br />
«narrazione antifascista» alla luce delle acquisizioni della ricerca storica,<br />
anche se sullo sfondo resta l’idea - che appare esplicitamente solo in alcuni<br />
accenni nelle conclusioni del saggio - che solo questa in<strong>di</strong>spensabile<br />
rivisitazione sia in grado <strong>di</strong> costruire il futuro della memoria della Resistenza.<br />
Descrive, invece, il modo in cui questa memoria ha attraversate le <strong>di</strong>verse<br />
stagioni politiche della Repubblica. Da subito viene sottoposta a<br />
sollecitazioni violentissime in seguito alla estromissione delle sinistre dal<br />
governo nel 1947, prima, e dal risultato delle prime elezioni politiche del<br />
18 aprile 1948, poi, che, introducendo nel sistema politico italiano le<br />
<strong>di</strong>namiche della guerra fredda, attivano la linea <strong>di</strong> frattura<br />
dell’anticomunismo. La memoria della Resistenza <strong>di</strong>venta terreno <strong>di</strong> aspra<br />
contesa politica all’interno della coalizione che aveva guidato la lotta<br />
antifascista, spezzandosi tra la Resistenza «nel segno della libertà», evocata<br />
dalla Democrazia Cristiana e dalle forze moderate, e la Resistenza come<br />
«rivoluzione interrotta» attorno a cui mobilitarsi, evocata dalle sinistre (p.<br />
27). Focar<strong>di</strong> osserva molto acutamente che la Democrazia cristiana utilizzò<br />
solo parzialmente la risorsa politica della costruzione <strong>di</strong> una memoria<br />
patriottica e attenta al valore morale della Resistenza, così ben ra<strong>di</strong>cata nella<br />
sua cultura politica. Si mosse, invece, più in funzione <strong>di</strong>fensiva, preoccupata<br />
<strong>di</strong> neutralizzare l’uso politico della Resistenza fatto dalle sinistre. Credo si<br />
possa <strong>di</strong>re che questa scelta, probabilmente storicamente necessitata come<br />
vedremo più avanti analizzando il lavoro <strong>di</strong> Chiarini, privando l’opinione<br />
pubblica moderata <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione compiuta a cui riferirsi, ha avuto<br />
conseguenze <strong>di</strong> lungo periodo negative sul consolidarsi della memoria della<br />
Resistenza in ampi strati della società italiana, facendo venir meno una<br />
risorsa in grado <strong>di</strong> legarli solidamente alla scelta della democrazia come<br />
punto <strong>di</strong> non ritorno ere<strong>di</strong>tata in tutta Europa dalla sconfitta del progetto<br />
egemonico <strong>di</strong> Hitler. Nel nuovo clima mutano <strong>di</strong> segno anche le richieste<br />
<strong>di</strong> pacificazione avanzate dalla destra nostalgica, che <strong>di</strong>ventano espliciti inviti<br />
alla riabilitazione in funzione anticomunista, a cui non sono insensibili<br />
settori a cui fa riferimento la maggioranza governativa (p. 28).<br />
La battuta d’arresto della Democrazia cristiana alle elezioni politiche<br />
del 1953, che non riesce a guadagnare il premio <strong>di</strong> maggioranza previsto<br />
dalla nuova legge elettorale, sul fronte politico interno, e la morte <strong>di</strong> Stalin,<br />
57
Giovanni A. Cerutti<br />
che chiude la fase più aspra della guerra fredda, su quello internazionale,<br />
segnano un cambiamento nella percezione della memoria della Resistenza,<br />
che torna a svolgere il ruolo <strong>di</strong> evento legittimante della Repubblica. Simbolo<br />
<strong>di</strong> questo passaggio è il <strong>di</strong>scorso del Presidente della Camera dei Deputati<br />
Giovanni Gronchi, figura <strong>di</strong> spicco dell’antifascismo cattolico, tenuto il 22<br />
aprile 1955 in occasione della celebrazione a Camere riunite del decennale<br />
della Liberazione. In questo <strong>di</strong>scorso, Gronchi non solo riprendeva i car<strong>di</strong>ni<br />
della narrazione antifascista della guerra, ma poneva la Resistenza come<br />
comune punto <strong>di</strong> riferimento per le forze democratiche del paese al <strong>di</strong> là<br />
delle <strong>di</strong>visioni politiche, punto <strong>di</strong> riferimento in grado <strong>di</strong> produrre «“uno<br />
sforzo concorde verso forme, istituti, costumi <strong>di</strong> democrazia sostanziale”<br />
fondati “sulla libertà e la giustizia”, “sulla tolleranza delle opinioni”,<br />
“sull’impero della legge”, “sulla rivalutazione costante <strong>di</strong> quei valori<br />
nazionali” che non avevano niente a che fare “con le infatuazioni<br />
nazionalistiche”, ma rappresentavano piuttosto “il solo terreno fecondo e<br />
l’atmosfera vivificatrice <strong>di</strong> ogni progresso”» (p. 37. Le citazioni del <strong>di</strong>scorso<br />
<strong>di</strong> Gronchi provengono da G. Gronchi, Discorsi parlamentari, Senato della<br />
Repubblica, Roma 1986, pp. 472-480). Di lì a poco Gronchi sarà eletto<br />
Presidente della Repubblica e sotto la sua presidenza inizierà il processo che<br />
è stato definito <strong>di</strong> «<strong>di</strong>sgelo costituzionale», caratterizzato dall’attuazione <strong>di</strong><br />
alcuni istituti, quali il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte<br />
Costituzionale. Questa ricostruzione, che in<strong>di</strong>vidua il punto <strong>di</strong> svolta verso<br />
l’affermazione della memoria antifascista nella società italiana alla metà degli<br />
anni cinquanta, dopo la fine della prima legislatura, rappresenta una delle<br />
novità del lavoro <strong>di</strong> Focar<strong>di</strong>. Generalmente, infatti, il punto <strong>di</strong> svolta è<br />
in<strong>di</strong>viduato nella reazione popolare al governo Tambroni del luglio del 1960,<br />
e nella conseguente apertura della fase dei governi <strong>di</strong> centro-sinistra. Focar<strong>di</strong><br />
sottolinea invece, argomentando la sua tesi con fatti tratti dalla cronaca<br />
politica, che l’allontanamento delle maggioranze centriste dalla narrazione<br />
antifascista trova limiti invalicabili nell’opinione pubblica, che non è <strong>di</strong>sposta<br />
a rimettere in circolo memorie nostalgiche. Ragion per cui nessuna<br />
narrazione alternativa riesce a sostituirsi alla narrazione antifascista, pur<br />
duramente logorata dalle contrapposizioni politiche.<br />
Negli anni sessanta i valori e la memoria della Resistenza <strong>di</strong>ventano<br />
patrimonio con<strong>di</strong>viso della società italiana. Momento culminante <strong>di</strong> questo<br />
processo furono le celebrazioni del ventennale, che segnò l’ufficializzazione<br />
della festa. Per la prima volta venne istituito un comitato nazionale per le<br />
celebrazioni sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica. E<br />
58
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
proprio il <strong>di</strong>scorso del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat,<br />
pronunciato a Milano il 9 maggio 1965 in occasione della manifestazione<br />
più importante tra quelle previste dal programma del ventennale, può essere<br />
considerato il simbolo <strong>di</strong> questa con<strong>di</strong>visione. Dopo aver separato le<br />
responsabilità del popolo italiano da quelle del fascismo e aver reso onore al<br />
valore dei nostri soldati, Saragat riaffermava la continuità tra antifascismo e<br />
Resistenza, descritta come secondo Risorgimento, che aveva coinvolto tutti<br />
i ceti sociali. Quin<strong>di</strong> ripercorreva tutte le tappe della Liberazione, dalle<br />
quattro giornate <strong>di</strong> Napoli all’insurrezione dell’aprile del 1945. Passava<br />
quin<strong>di</strong> a sottolineare «il “significato politico e storico” della Resistenza: non<br />
“lotta <strong>di</strong> un partito per fini <strong>di</strong> partito”, ma “lotta <strong>di</strong> un popolo organizzato<br />
in <strong>di</strong>versi partiti alleati tra <strong>di</strong> loro per la sua assunzione all’autogoverno” e<br />
“atto supremo <strong>di</strong> riconciliazione nella libertà dell’immensa maggioranza<br />
degli italiani”. L’unità dei partiti del Cln aveva significato per Saragat “volontà<br />
<strong>di</strong> accettare una convivenza democratica”. Su questa base era nata la<br />
“Repubblica democratica fondata sul lavoro” nella quale gli italiani si erano<br />
riconosciuti». Saragat concludeva riconoscendo i limiti delle realizzazioni<br />
compiute sulla via del progresso sociale rispetto alle attese nutrite nel 1945,<br />
consegnando alle generazioni successive il compito <strong>di</strong> completare l’opera<br />
iniziata dalla sua generazione con la Resistenza (pp. 45-46. Le citazioni del<br />
<strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Saragat provengono da G. Saragat, Quarant’anni <strong>di</strong> lotta per la<br />
democrazia. Scritti e <strong>di</strong>scorsi 1925-1965, a cura <strong>di</strong> L. Preti, I. De Feo, Mursia,<br />
Milano 1966, pp. 651-662). Parallelamente a questo sforzo unitario, però,<br />
le forze politiche non rinunciarono comunque ad utilizzare la memoria<br />
della Resistenza come strumento <strong>di</strong> mobilitazione politica.<br />
A partire dalla fine degli anni sessanta la memoria della Resistenza torna<br />
ad essere oggetto <strong>di</strong> contesa politica. Prima emerge la sfida del movimento<br />
studentesco, che rifiutava la retorica celebrativa unitaria delle<br />
commemorazioni ufficiali per riven<strong>di</strong>care la <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> classe della lotta<br />
partigiana. Ma questa volta il bersaglio polemico non sono solo i partiti<br />
moderati <strong>di</strong> governo, ma anche il Partito comunista e le forze organizzate<br />
della sinistra, accusate <strong>di</strong> aver imbrigliato le potenzialità rivoluzionarie della<br />
Resistenza (pp. 46-47). Poi negli anni settanta la sfida terroristica alle<br />
istituzioni dello stato porta al centro della contesa proprio il significato<br />
della Resistenza. A partire almeno dal 1972 per una vasta aerea della sinistra<br />
ra<strong>di</strong>cale il 25 aprile <strong>di</strong>venta occasione <strong>di</strong> «mobilitazione antifascista» sia<br />
contro il «fascismo squadrista» del Movimento sociale, sia contro il «fascismo<br />
<strong>di</strong> stato» della Democrazia cristiana. Ma anche «i riformisti del Psi e i<br />
59
Giovanni A. Cerutti<br />
revisionisti del Pci» finiscono sul banco degli accusati, colpevoli <strong>di</strong> «far da<br />
palo alla reazione» (pp. 48-49). Per reagire a questi attacchi, e soprattutto<br />
agli attacchi che nel frattempo crescevano per intensità e qualità delle<br />
formazioni terroriste che si richiamavano alla sinistra e alla strategia eversiva<br />
delle forze legate al neofascismo, i partiti tra<strong>di</strong>zionali scelsero <strong>di</strong> richiamarsi<br />
alla Resistenza in termini fortemente politici. In un quadro <strong>di</strong> sostanziale<br />
convergenza a <strong>di</strong>fesa delle istituzioni minacciate, rafforzata sul finire degli<br />
anni settanta dalla politica <strong>di</strong> «solidarietà nazionale» elaborata da Moro e<br />
Berlinguer - il cui scopo era <strong>di</strong> ristabilire l’intesa fra cattolici e comunisti<br />
del periodo resistenziale interrottasi nel 1947 - e culminata nella formula<br />
dell’«arco costituzionale», ciascun partito <strong>di</strong>spiegò le proprie strategie. Il<br />
Partito comunista e il Partito socialista si appellarono ai valori dell’«unità<br />
antifascista» rimproverando alla Democrazia cristiana l’equi<strong>di</strong>stanza<br />
condensata nella formula degli «opposti estremismi» e pericolose connivenze<br />
con gli ambienti reazionari che all’interno e all’esterno delle istituzioni<br />
pensavano a sbocchi autoritari. La Democrazia cristiana replicava ribadendo<br />
il proprio ruolo storico <strong>di</strong> garante della libertà e della democrazia<br />
riconquistate con la lotta <strong>di</strong> liberazione contro tutte le ideologie totalitarie,<br />
senza rinunciare a lasciar trapelare qualche accusa <strong>di</strong> contiguità ideologica<br />
tra il Partito comunista e il terrorismo <strong>di</strong> sinistra. Ma dopo il drammatico<br />
rapimento e assassinio <strong>di</strong> Aldo Moro e la successiva elezione alla Presidenza<br />
della Repubblica <strong>di</strong> Sandro Pertini, queste contrapposizioni finirono sempre<br />
più sullo sfondo, lasciando al centro della vita politica italiana la memoria<br />
antifascista della Resistenza, unico fondamento possibile delle istituzioni<br />
repubblicane (pp. 50-55).<br />
Un nuovo mutamento <strong>di</strong> quadro politico all’inizio degli anni ottanta,<br />
con l’affermarsi della formula <strong>di</strong> governo detta <strong>di</strong> «pentapartito» che riporta<br />
all’opposizione il Partito comunista, prelude a un attacco senza precedenti,<br />
e per certi versi non ancora terminato, a quello che Nicola Gallerano in un<br />
suo famoso saggio ha definito il «para<strong>di</strong>gma antifascista». Attacco che trae<br />
spunto dalla strategia politica del nuovo segretario del partito socialista<br />
Bettino Craxi, che prevedeva un ra<strong>di</strong>cale cambiamento delle istituzioni<br />
repubblicane, considerate inadeguate rispetto alla nuova fase storica. Per<br />
attuare la «grande riforma» era, però, in<strong>di</strong>spensabile metter mano alla<br />
Costituzione «nata dalla Resistenza», tanto più considerando che era origine<br />
della legittimazione democratica del Partito comunista, che naturalmente<br />
si oppose frontalmente a questa strategia. La <strong>di</strong>scussione serrata sul futuro<br />
della sinistra, <strong>di</strong>venta confronto serrato sulle origini e sulla storia della<br />
60
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
Repubblica, impostato con buone ragioni da Craxi come sfida al Partito<br />
comunista sul nesso antifascismo-democrazia, essendo l’antifascismo<br />
con<strong>di</strong>zione necessaria, ma non sufficiente della democrazia. Ma oltre a<br />
provocare la rottura del fronte dei partiti ere<strong>di</strong> del Cln, che avevano elaborato<br />
la narrazione antifascista, questa azione ha rimesso in circolo nel <strong>di</strong>scorso<br />
pubblico, più o meno consapevolmente, argomenti polemici nei confronti<br />
della memoria della Resistenza che riecheggiavano motivi tipici<br />
dell’anticomunismo della guerra fredda. Sponda autorevole <strong>di</strong> questa<br />
operazione è stato Renzo De Felice, l’autore della monumentale biografia<br />
<strong>di</strong> Mussolini, che già nel 1975 aveva anticipato alcune delle sue tesi nel<br />
volume laterziano Intervista sul fascismo. In due interviste rilasciate a Giuliano<br />
Ferrara e pubblicate dal «Corriere della sera» tra il <strong>di</strong>cembre del 1987 e il<br />
gennaio del 1988, De Felice sosteneva che l’antifascismo <strong>di</strong> matrice<br />
resistenziale era ormai insufficiente e forse dannoso per creare una «autentica<br />
democrazia repubblicana». Il nodo storiografico centrale attorno a cui De<br />
Felice costruisce questa tesi è la descrizione degli avvenimenti del biennio<br />
1943-1945 come guerra civile tra due fazioni minoritarie, subita dalla<br />
maggior parte della popolazione che pensava soltanto alla sopravvivenza<br />
quoti<strong>di</strong>ana. Parallelamente si sviluppava sui gran<strong>di</strong> mezzi <strong>di</strong> comunicazione<br />
<strong>di</strong> massa un’azione tesa a banalizzare il fascismo, proposto soprattutto<br />
attraverso le vicende private dei suoi protagonisti e descritto come un regime<br />
sostanzialmente paternalista che aveva pur sempre rappresentato la via<br />
italiana alla modernizzazione (pp. 57-59). Con il crollo del sistema politico<br />
che aveva caratterizzato il primo cinquantennio repubblicano, l’apparizione<br />
<strong>di</strong> partiti estranei alla lotta resistenziale e soprattutto l’ingresso nell’area <strong>di</strong><br />
governo del Movimento sociale nel 1994, questa offensiva culturale <strong>di</strong>venta<br />
una concreta pressione sulle istituzioni dello stato a dar corso a una nuova<br />
memoria pubblica pacificata, che si lasciasse alle spalle la contrapposizione<br />
ormai logora fascismo/antifascismo, superando le <strong>di</strong>visioni della guerra civile<br />
e riconoscendo in questo modo pari <strong>di</strong>gnità storica e morale alle due parti<br />
in lotta. Ancora una volta l’esigenza è tutta interna al sistema politico e<br />
riguarda la legittimità del nuovo blocco conservatore che si crea in Italia tra<br />
il 1993 e il 1994. Essendone il Movimento sociale, poi Alleanza nazionale,<br />
parte integrante, la sua estraneità ai valori legittimanti della Repubblica<br />
<strong>di</strong>venta un problema <strong>di</strong> tutta la coalizione. Viene, allora, recuperato il<br />
<strong>di</strong>battito sull’identità nazionale alimentato dalle tesi <strong>di</strong> Renzo de Felice e<br />
Ernesto Galli della Loggia, secondo i quali l’8 settembre 1943 aveva<br />
rappresentato la fine dell’idea <strong>di</strong> patria. Di fronte all’incapacità della<br />
61
Giovanni A. Cerutti<br />
Repubblica antifascista <strong>di</strong> ricostruire un’adeguata identità nazionale era<br />
giunto il momento <strong>di</strong> superare l’ere<strong>di</strong>tà della Resistenza per elaborare,<br />
attraverso la riconciliazione, una memoria con<strong>di</strong>visa da tutti gli italiani su<br />
cui fondare una comune identità nazionale (pp. 61-66). A questo proposito<br />
Focar<strong>di</strong> osserva in modo pertinente che è del tutto opinabile l’idea della<br />
necessità <strong>di</strong> una memoria con<strong>di</strong>visa, sostenuta anche da qualche esponente<br />
della sinistra come Luciano Violante, rilevando come tutte le gran<strong>di</strong> nazioni<br />
democratiche che sono nate da traumi e guerre civili si reggono su salde<br />
memorie pubbliche elaborate dalla parte vincitrice (p. 78). Peraltro sembra<br />
che nel caso italiano più che <strong>di</strong> memoria con<strong>di</strong>visa - cioè accettata da tutti<br />
coloro che riconoscono che i valori e la prassi della democrazia siano il<br />
fondamento del patto sociale - si possa parlare <strong>di</strong> memoria contrattata,<br />
fondata sullo scambio <strong>di</strong> reciproci riconoscimenti, in<strong>di</strong>pendentemente dal<br />
ruolo giocato dalle proprie memorie <strong>di</strong> riferimento nel percorso storico<br />
verso l’affermazione della pratica della democrazia in Italia. Ma se l’attacco<br />
al para<strong>di</strong>gma antifascista, già pesantemente indebolito dallo scontro interno<br />
alla sinistra degli anni ottanta, viene condotto con luci<strong>di</strong>tà, l’area politicoculturale<br />
del nuovo blocco conservatore non riesce a elaborare una tra<strong>di</strong>zione<br />
alternativa (p. 67). Si attacca il 25 aprile, ma non si riesce a <strong>di</strong>re con cosa<br />
sostituirlo; si scre<strong>di</strong>ta una classe politica, ma non si in<strong>di</strong>cano quali sono i<br />
modelli a cui far riferimento nella storia italiana; si linciano gli esponenti<br />
della cultura antifascista, pre<strong>di</strong>letti i terribili azionisti, che hanno militato<br />
in un partito sciolto più <strong>di</strong> cinquant’anni fa, ma non si è in grado <strong>di</strong><br />
recuperare all’interno del pensiero democratico una tra<strong>di</strong>zione culturale<br />
alternativa. Restano solo la revanche, le piazze intitolate a Mussolini e<br />
Almirante, e le vie Gramsci cancellate, con uno sguardo ossessivamente<br />
rivolto al passato, che sembra in<strong>di</strong>care che le ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> Alleanza nazionale<br />
affon<strong>di</strong>no comunque ancora molto profondamente nella memoria fascista.<br />
Di fronte a questa pesante sfida, negli anni novanta si è assistito a una<br />
nuova e imponente mobilitazione a <strong>di</strong>fesa della Resistenza, il cui punto <strong>di</strong><br />
partenza è in<strong>di</strong>viduato da Focar<strong>di</strong> nella manifestazione <strong>di</strong> Milano del 25<br />
aprile 1994. E se sul piano dei <strong>di</strong>scorsi ufficiali l’asse portante <strong>di</strong> questa<br />
mobilitazione è stato il canone tra<strong>di</strong>zionale della narrazione antifascista,<br />
negli interventi sulla stampa hanno incominciato a prendere corpo nuove<br />
sfumature. Discutendo le questioni poste dalla storiografia revisionista quali<br />
l’interpretazione dell’8 settembre, il carattere <strong>di</strong> guerra civile della Resistenza,<br />
il ruolo del Partito comunista, i contrasti interni al Cln, il rapporto fra<br />
governi del Cln e partitocrazia la trama della narrazione tra<strong>di</strong>zionale si è<br />
62
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
arricchita - con particolare riguardo ai toni, fermi, ma lontani dall’enfasi<br />
celebrativa degli anni sessanta e settanta - articolandosi meglio, senza mutare<br />
la sostanza. Peraltro un’attenta analisi degli articoli e degli interventi scritti<br />
durante il sessantennio repubblicano mostra come temi quali il carattere <strong>di</strong><br />
guerra civile della Resistenza, il riconoscimento che l’antifascismo e la lotta<br />
resistenziale riguardassero una minoranza rispetto alla massa della<br />
popolazione, le tensioni all’interno delle forze antifasciste e l’importanza<br />
decisiva degli eserciti Alleati nella vittoria finale siano sempre stati presenti,<br />
anche se ricompresi nel momento epico e corale della lotta contro il<br />
nazifascismo (pp. 79-80).<br />
Nuovo coagulo della memoria antifascista è <strong>di</strong>ventato in questi anni il<br />
ricordo delle stragi e delle brutalità dei nazisti e dei repubblichini <strong>di</strong> Salò,<br />
ricordo cui non è estranea quasi nessuna delle comunità del Paese. Si è<br />
riattivata, così, la tra<strong>di</strong>zionale narrazione antifascista, in cui gli italiani sono<br />
descritti come vittime del nazifascismo e viene esaltata la formula del popolo<br />
unito in lotta contro la tirannide. L’involontario risvolto negativo <strong>di</strong> questa<br />
raffigurazione è, però, la rimozione delle colpe degli italiani <strong>di</strong>etro al comodo<br />
alibi del «bravo italiano», eludendo i temi quali il colonialismo italiano, la<br />
persecuzione antiebraica, la partecipazione italiana alla guerra dell’Asse e le<br />
politiche <strong>di</strong> occupazione portate avanti nei territori aggre<strong>di</strong>ti (pp. 83-87).<br />
Argomenti che sono stati al centro della riflessione della storiografia, ma<br />
che non sono riusciti ad alimentare il <strong>di</strong>battito pubblico. Manca<br />
completamente un confronto e una consapevolezza sul ruolo svolto dall’Italia<br />
fascista come stato aggressore e oppressore. È questa la lacuna principale<br />
che impe<strong>di</strong>sce il consolidamento <strong>di</strong> una memoria saldamente ancorata ai<br />
valori democratici, lasciando spazio a una memoria alternativa che ha come<br />
orizzonte la costruzione <strong>di</strong> un nuovo nazionalismo come progetto identitario,<br />
considerato più adatto al mondo post-bipolare. Se nella costruzione della<br />
narrazione antifascista tra<strong>di</strong>zionale la rimozione dei crimini fascisti aveva<br />
una sua ragione d’essere - vuoi politica, il trattato <strong>di</strong> pace, la legittimazione<br />
dei partiti antifascisti, vuoi psicologica, la «rimozione terapeutica», per<br />
consentire agli italiani <strong>di</strong> aderire al nuovo corso democratico - oggi questa<br />
rimozione è <strong>di</strong>ventata l’ostacolo principale alla costruzione <strong>di</strong> un’identità<br />
democratica. Per larghi strati del paese e della sua classe <strong>di</strong>rigente il fascismo<br />
è ancora un regime in fin dei conti benevolo, adeguato all’indole degli italiani<br />
e con alle spalle alcuni meriti storici, che vanno dal ristabilimento della<br />
legge e dell’or<strong>di</strong>ne, alla modernizzazione del paese e non il moderno<br />
esperimento totalitario che è stato. Si tratta del processo che Emilio Gentile<br />
63
Giovanni A. Cerutti<br />
ha definito <strong>di</strong> «defascistizzazione retroattiva», funzionale a un modello <strong>di</strong><br />
identità nazionale rivolto al passato, in cui l’amor <strong>di</strong> patria prescinde dalla<br />
valutazione degli obiettivi che la comunità nazionale persegue (pp. 112-<br />
113).<br />
Un intero capitolo - l’ultimo - è de<strong>di</strong>cato all’azione del Presidente Ciampi,<br />
che viene definito da Focar<strong>di</strong> il «Presidente della Rifondazione della memoria<br />
della Resistenza» (pp. 94-107). La principale preoccupazione <strong>di</strong> Ciampi<br />
viene identificata da Focar<strong>di</strong> nella riaffermazione del significato patriottico<br />
della Resistenza in esplicita contrapposizione alla tesi della «morte della<br />
patria», fino ad entrare in aperta ed esplicita polemica con Galli della Loggia<br />
sulle colonne del «Corriere della sera». In questi anni Ciampi ha riaffermato<br />
il carattere della Resistenza come guerra <strong>di</strong> liberazione nazionale, ispirata<br />
dai valori risorgimentali declinati in senso mazziniano, permeati, cioè, dal<br />
rispetto per gli altri popoli e dal senso <strong>di</strong> fratellanza europea, il cui orizzonte<br />
è stato la conquista della democrazia, che si è tradotta nella Costituzione<br />
repubblicana, tuttora valida e rispondente ai sentimenti del popolo italiano.<br />
I tre capisal<strong>di</strong> del pensiero <strong>di</strong> Ciampi si possono ritrovare nel <strong>di</strong>scorso<br />
pronunciato ad Ascoli Piceno il 25 aprile 2002 e pubblicato da Focar<strong>di</strong> a<br />
pagina 340. Il primo è l’idea <strong>di</strong> «Resistenza allargata», in cui convivono la<br />
resistenza attiva dei soldati e dei partigiani che presero le armi; la resistenza<br />
silenziosa della gente, che prestò aiuto e soccorso a feriti, combattenti e<br />
fuggiaschi, esponendosi a gravi rischi; e la resistenza dolorosa dei prigionieri<br />
nei campi <strong>di</strong> concentramento. Una Resistenza in cui tutti si possono<br />
riconoscere e nessuno può vantare il monopolio. Il secondo è rappresentato<br />
dalla <strong>di</strong>mensione europea della Resistenza, momento cruciale <strong>di</strong> lotta per<br />
la democrazia e la libertà che accomuna gli italiani agli altri popoli europei.<br />
Il terzo è la promozione <strong>di</strong> una memoria intera, che non trascuri nessun<br />
aspetto della storia del paese e che sia fondata sulla giustizia. Se in larga<br />
misura si tratta della riproposizione del canone tra<strong>di</strong>zionale della narrazione<br />
antifascista, con qualche rischio <strong>di</strong> contribuire a una memoria nuovamente<br />
centrata sulle vicende che hanno visto gli italiani nel ruolo <strong>di</strong> vittime, la<br />
salda connessione stabilita da Ciampi tra la Resistenza italiana e le Resistenze<br />
europee - viste come il momento in cui le società europee <strong>di</strong> fronte alla<br />
sfida del nazismo compiono la definitiva scelta verso gli istituti democratici<br />
- sembra essere davvero la nuova frontiera della memoria antifascista.<br />
25 aprile. La competizione politica sulla memoria <strong>di</strong> Roberto Chiarini si<br />
concentra, invece, sull’analisi delle caratteristiche delle memorie che hanno<br />
64
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
attraversato il sessantennio repubblicano e delle <strong>di</strong>namiche che si sono<br />
instaurate fra <strong>di</strong> loro, con particolare riguardo alla contrapposizione tra<br />
quella che viene definita la «memoria iperpolitica» delle sinistre e la «memoria<br />
impolitica» della Democrazia cristiana. Chiarini, docente <strong>di</strong> storia<br />
contemporanea alla facoltà <strong>di</strong> Scienze politiche dell’Università statale <strong>di</strong><br />
Milano, ha a lungo insegnato Storia dei partiti e dei movimenti politici,<br />
integrando nei suoi corsi l’analisi storica con l’attenzione per le <strong>di</strong>mensioni<br />
organizzative dei partiti e per i vincoli sistemici, ed è uno dei pionieri dello<br />
stu<strong>di</strong>o del neofascismo italiano fin dalla ricerca condotta con Paolo Corsini<br />
sul neofascismo bresciano pubblicata nei primi anni ottanta.<br />
Punto <strong>di</strong> partenza dell’analisi <strong>di</strong> Chiarini è la <strong>di</strong>stinzione netta tra la<br />
memoria della guerra 1940-1943 depoliticizzata e la memoria della guerra<br />
civile 1943-1945 iperpoliticizzata. La prima, centrata sulla pietas per le<br />
vittime incolpevoli e sul dolore e i sacrifici degli italiani, ha come obiettivo<br />
<strong>di</strong> descrivere l’Italia come un paese estraneo alla guerra, con lo scopo <strong>di</strong><br />
estrometterla dalla storia nazionale per consegnarla esclusivamente alla storia<br />
del fascismo. La seconda descrive due Italie che si affrontano in nome <strong>di</strong><br />
due idee alternative e inconciliabili <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne istituzionale e politico (pp.<br />
10-11). Nella loro inconciliabilità Chiarini rileva un tratto comune alle<br />
due memorie della guerra civile nella forte carica politica, che fissa in modo<br />
potente l’identità dei militanti, ma specularmente esclude in modo<br />
altrettanto potente la maggior parte dell’opinione pubblica (pp. 12-13).<br />
L’analisi della memoria partigiana della Resistenza mette in luce i tratti<br />
che le impe<strong>di</strong>scono strutturalmente <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare memoria collettiva.<br />
L’esperienza <strong>di</strong> vita della lotta partigiana è descritta da Chiarini, sulla scorta<br />
della letteratura antropologica, come liminare, punto <strong>di</strong> passaggio reale e<br />
simbolico tra un passato da eliminare,il fascismo, e un futuro tutto da<br />
costruire, la democrazia. In questo modo <strong>di</strong>venta occasione per ridefinire<br />
la rete dei rapporti sociali e delle rappresentazioni collettive della vita<br />
associata. La democrazia a cui fa riferimento, in modo del tutto non<br />
consapevole della <strong>di</strong>stinzione, non è la democrazia rappresentativa - pluralista<br />
e procedurale - che ha come orizzonte la me<strong>di</strong>azione nonviolenta dei<br />
conflitti, ma la democrazia <strong>di</strong>retta, in cui, nel microcosmo della banda<br />
partigiana, le voci <strong>di</strong>ssonanti sono assorbite dal senso <strong>di</strong> appartenenza<br />
generato dalla solidarietà comunitaria. L’enorme patrimonio <strong>di</strong> energie<br />
morali generato dalla partecipazione alla guerra partigiana trova, inoltre,<br />
molte <strong>di</strong>fficoltà ad essere speso nella costruzione <strong>di</strong> un progetto sociale dai<br />
contorni definiti. Così la Resistenza finisce per perdere il suo valore<br />
65
Giovanni A. Cerutti<br />
intrinseco, per <strong>di</strong>ventare fonte <strong>di</strong> legittimazione <strong>di</strong> un processo in atto nella<br />
vita politica e sociale italiana, trasformandosi in <strong>di</strong>alettica aperta alla lotta<br />
politica. E per questa via perdere la possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare tra<strong>di</strong>zione civile<br />
unitaria <strong>di</strong> tutto un popolo (pp. 29-31). Valorizzando la natura<br />
strutturalmente conflittuale del para<strong>di</strong>gma antifascista e considerandolo<br />
via privilegiata, se non unica, alla realizzazione della democrazia<br />
repubblicana, questa elaborazione della memoria finisce per cozzare<br />
frontalmente contro l’idea <strong>di</strong> politica prevalente in un paese senza nessuna<br />
esperienza <strong>di</strong> pluralismo sociale e culturale, che le attribuisce lo stesso fine<br />
della morale del padre <strong>di</strong> famiglia, che deve salvaguardare l’unità e la<br />
solidarietà interna al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni motivo <strong>di</strong> <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a. Insistendo sul carattere<br />
<strong>di</strong> prospettiva per il futuro dell’esperienza vissuta, finisce per rendersi estranee<br />
anche le aree più solidali alla Resistenza, che, mosse più da scelte umane<br />
che dall’impegno ideologico, hanno comunque vissuto la guerra come una<br />
trage<strong>di</strong>a. Chiarini evidenzia, quin<strong>di</strong>, una contrad<strong>di</strong>zione all’interno<br />
dell’antifascismo tra una domanda politica <strong>di</strong> inclusione e un’offerta<br />
identitaria <strong>di</strong> esclusione, tra la descrizione, cioè, della Resistenza come lotta<br />
<strong>di</strong> liberazione <strong>di</strong> tutto un popolo, sostenuto dall’impegno morale verso il<br />
riscatto democratico e l’elaborazione <strong>di</strong> una memoria centrata sulla<br />
<strong>di</strong>stinzione tra partigiani rivoluzionari e la maggioranza degli italiani<br />
atten<strong>di</strong>sta (pp. 37-39).<br />
L’ampia fascia della società italiana che la memoria antifascista non riesce<br />
a interpretare è pur tuttavia assolutamente estranea alla memoria neofascista,<br />
che oltre ad essere anch’essa estremamente politicizzata, facendo del conflitto<br />
la prassi dei rapporti sociali, rappresenta un sistema <strong>di</strong> credenze<br />
inesorabilmente consegnato al passato dalla vicende tragiche della guerra.<br />
Inoltre la posizione irriducibilmente antisistemica dei gruppi neofascisti è<br />
totalmente incompatibile con la naturale pre<strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> questi settori<br />
sociali a valutare comunque positivamente l’or<strong>di</strong>ne costituito. È una fascia<br />
maggioritaria nella società italiana, la cui impoliticità si traduce in un <strong>di</strong>ffuso<br />
scetticismo verso i protagonisti della nuova vita politica. La cifra del suo<br />
atteggiamento è la passiva ricezione <strong>di</strong> un orizzonte <strong>di</strong> valori e convincimenti<br />
che affondano le loro ra<strong>di</strong>ci nell’esperienza della sopravvivenza quoti<strong>di</strong>ana<br />
mescolata con elementi ricavati dal magistero esercitato dalle agenzie sociali<br />
tra<strong>di</strong>zionali: la parrocchia, la famiglia, il sistema educativo. Una fascia <strong>di</strong><br />
società italiana profondamente influenzata dalla propaganda del regime,<br />
nei confronti della quale si era trovata completamente esposta, senza alcun<br />
strumento per vagliarla criticamente, i cui stessi quadri <strong>di</strong> percezione della<br />
66
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
realtà erano stati interiorizzati attraverso i processi <strong>di</strong> socializzazione primaria<br />
e secondaria messi in opera dal fascismo. E che non è in grado <strong>di</strong> elaborare<br />
una propria memoria - Chiarini la definisce «memoria immemore», a causa<br />
del rifiuto <strong>di</strong> riprodurre le ragioni del conflitto che si è appena lasciato alle<br />
spalle - perché non ha identità, non è un gruppo sociale definito, ma è<br />
<strong>di</strong>spersa. Non ha quin<strong>di</strong> una <strong>di</strong>retta proiezione politica, ma ha un potenziale<br />
politico altissimo. È orientata naturalmente verso destra dalla sua<br />
<strong>di</strong>sposizione a contrastare le spinte modernizzanti nella vita economica e<br />
sociale e secolarizzanti nella vita culturale (pp. 16-22).<br />
Per la collocazione politica <strong>di</strong> questa «zona grigia» degli impolitici sarà<br />
decisiva la rottura del fronte antifascista consumata nel 1947 e<br />
definitivamente consolidata dalle elezioni del 1948. Nel clima ancora <strong>di</strong><br />
scontro frontale dei mesi imme<strong>di</strong>atamente seguenti la fine della guerra non<br />
ci sono spazi per una «terza scelta» tra fascismo e antifascismo. Tra due vie<br />
entrambe rigettate finisce per <strong>di</strong>sperdersi tra la protesta dell’Uomo<br />
qualunque <strong>di</strong> Giannini, l’astensionismo e il sostegno non troppo convinto<br />
alla Democrazia cristiana, ai liberali e ai monarchici. Ma quando si profila<br />
la nuova frattura dell’anticomunismo trova la sua collocazione nella<br />
Democrazia cristiana, il partito che si presenta ai suoi occhi come garante<br />
dell’or<strong>di</strong>ne, argine alle sinistre e portatore <strong>di</strong> una declinazione debole<br />
dell’antifascismo. Per Chiarini la svolta del 1947-48 è decisiva ed irreversibile<br />
nel tracciare la mappa politica dell’Italia repubblicana. Si rompe il vincolo<br />
della solidarietà antifascista e la sinistra è spinta a ra<strong>di</strong>calizzare la sua lettura<br />
del fenomeno fascista, allontanando irrime<strong>di</strong>abilmente il mondo moderato,<br />
assolutamente incompatibile con ogni visione della politica come conflitto.<br />
Non solo, ma l’antifascismo <strong>di</strong>venta risorsa politica da spendere nella<br />
contrapposizione contro la Democrazia cristiana del centrismo. In questo<br />
passaggio si bruciano tutte le possibilità dell’antifascismo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare la<br />
cultura con<strong>di</strong>visa <strong>di</strong> tutte le forze politiche democratiche dell’Italia<br />
repubblicana, che secondo Chiarini aveva margini <strong>di</strong> praticabilità sulla base<br />
della lettura in due tempi delle vicende della Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale - il<br />
tempo dell’espiazione delle colpe del fascismo (1940-1943) e il tempo del<br />
riscatto democratico (1943-1945) - come percorso dalla <strong>di</strong>ttatura alla libertà,<br />
in grado <strong>di</strong> interpretare attese e sentimenti <strong>di</strong> gran parte dell’opinione<br />
pubblica italiana. E il 25 aprile come festa della nazione democratica, che<br />
celebrava contemporaneamente la fine della guerra e la liberazione del paese,<br />
saldando la guerra <strong>di</strong> liberazione con la pacifica convivenza ristabilita, era<br />
adeguato a impostare una memoria nella quale tutti si potessero riconoscere,<br />
67
Giovanni A. Cerutti<br />
ovviamente tranne i neofascisti irriducibilmente determinati a non<br />
riconoscere legittimità morale, prima ancora che politica, alla Repubblica.<br />
A questo proposito Chiarini, riprendendo una considerazione <strong>di</strong> Sergio<br />
Luzzatto e la riflessione <strong>di</strong> Paul Ricoeur, critica con molta forza il concetto<br />
<strong>di</strong> memoria con<strong>di</strong>visa. Le memorie tra antifascisti e fascisti non possono<br />
essere con<strong>di</strong>vise, non fosse altro perché i fatti sono incancellabili e richiedono<br />
<strong>di</strong> trovare un loro senso per il presente e per il futuro. Non è quin<strong>di</strong> una<br />
memoria con<strong>di</strong>visa quella che è mancata. È mancata semmai, secondo<br />
Chiarini, una memoria egemone, capace <strong>di</strong> trovare orizzonti nel passato e<br />
nel presente, in grado <strong>di</strong> interpretare un fronte <strong>di</strong> sensibilità capace <strong>di</strong><br />
assicurare una larga base <strong>di</strong> legittimità e consenso alla nuova Repubblica e,<br />
in questo modo, <strong>di</strong> integrare anche identità e memorie separate. Inoltre<br />
una società democratica resta tale, se non riduce ad un unica memoria la<br />
pluralistica e conflittuale varietà delle identità politiche e culturali. L’altro<br />
ostacolo alla costruzione <strong>di</strong> una sicura memoria democratica è in<strong>di</strong>viduato<br />
anche da Chiarini, così come da Focar<strong>di</strong>, dall’assenza <strong>di</strong> una strategia tesa a<br />
fare i conti fino in fondo con l’ere<strong>di</strong>tà del fascismo. Addebitando solo al<br />
fascismo la responsabilità della guerra e alla classe <strong>di</strong>rigente la responsabilità<br />
<strong>di</strong> aver portato al potere, prima, e sostenuto, poi, il regime, si sono introdotte<br />
alcune <strong>di</strong>storsioni della memoria che hanno impe<strong>di</strong>to l’incontro tra «l’Italia<br />
nata dalla Resistenza» e l’«Italia uscita dalla sconfitta» (pp. 23-28).<br />
La frattura dell’anticomunismo, sostituendosi a quella antifascista come<br />
criterio <strong>di</strong> organizzazione del sistema politico, introduce un’asimmetria tra<br />
il piano della legittimità politica e il piano della cultura politica <strong>di</strong>ffusa.<br />
L’arena politico-parlamentare è caratterizzata dalla presenza <strong>di</strong> entrambe le<br />
fratture, che produce una logica tripolare, ben descritta da Giovanni Sartori,<br />
fondata sull’illegittimità delle due opposizioni <strong>di</strong> destra e <strong>di</strong> sinistra, che<br />
assegna alla Democrazia cristiana non solo la posizione centrale <strong>di</strong> perno <strong>di</strong><br />
qualsiasi maggioranza <strong>di</strong> governo, ma anche la risorsa <strong>di</strong> depositaria della<br />
legittimità politica. Le correnti dell’opinione pubblica - alimentate da schemi<br />
<strong>di</strong> percezione della realtà in sintonia con il fascismo, che infatti li ha<br />
accuratamente coltivati, agenti a livello pre-cosciente e perciò con una grande<br />
capacità <strong>di</strong> orientare i comportamenti - in<strong>di</strong>viduano il nemico politico come<br />
male sociale, antitetico al proprio sentire semplificato, e faticano ad assimilare<br />
visioni e logiche della retorica antifascista. Da questa asimmetria ne<br />
<strong>di</strong>scendono altre due. La prima, interna alla società politica, riguarda il<br />
<strong>di</strong>verso grado <strong>di</strong> illegittimità tra le due opposizioni, che consente<br />
all’opposizione <strong>di</strong> sinistra, esclusa dal governo sulla base dell’anticomunismo,<br />
68
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
<strong>di</strong> partecipare al gioco parlamentare sulla base dell’antifascismo, mentre<br />
all’opposizione del Movimento sociale non è riconosciuta legittimità alcuna.<br />
La seconda si articola tra la società politica che pratica questa esclusione e la<br />
società civile in cui l’allarme anticomunista stempera la <strong>di</strong>stinzione tra la<br />
memoria fascista e la memoria antifascista, garantendo un forte inse<strong>di</strong>amento<br />
della destra nell’opinione pubblica. In questo modo nell’elaborazione del<br />
ricordo, non solo l’opinione afascista continua ad avere una parte<br />
preponderante, ma resta in circolo anche la memoria neofascista. Si<br />
strutturano, così, due destre. Il Movimento sociale, <strong>di</strong> chiara matrice<br />
neofascista, inserito nell’arena politico-istituzionale, ma completamente<br />
isolato. E una destra presente nella cultura <strong>di</strong>ffusa, completamente<br />
destrutturata e in cui si mescolano suggestioni nostalgiche e domande <strong>di</strong><br />
generica <strong>di</strong>fesa dal pericolo comunista non connotate politicamente. In<br />
questo secondo ambito verranno in contatto le <strong>di</strong>verse memorie non<br />
antifasciste e si fonderanno, per prossimità, tutte le posizioni politiche che<br />
con<strong>di</strong>vidono l’anticomunismo (pp. 44-48).<br />
Una parte rilevante del volume è de<strong>di</strong>cata all’analisi delle <strong>di</strong>verse correnti<br />
<strong>di</strong> pensiero <strong>di</strong> cui è composta questa cultura <strong>di</strong>ffusa, da Giannini a Sogno,<br />
da Longanesi a Montanelli, da Prezzolini a Guareschi mettendone in risalto<br />
i <strong>di</strong>fferenti approcci e la comune <strong>di</strong>stanza dalla memoria neofascista, che<br />
continua a caratterizzarsi per la conflittualità con l’or<strong>di</strong>ne istituzionale<br />
repubblicano e per l’irriducibile vocazione antisistemica. Queste correnti<br />
<strong>di</strong> pensiero hanno in comune l’idea che la politica non ha alcuna capacità<br />
<strong>di</strong> produrre valori e senso, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> svolgere un’azione <strong>di</strong> cambiamento<br />
sociale. Sono antagoniste in forma simmetrica sia all’opzione antifascista<br />
che a quella neofascista, perché <strong>di</strong> entrambe <strong>di</strong>sprezzano il primato che<br />
riservano alla politica. La stringente <strong>di</strong>namica della guerra fredda e l’implicita<br />
vocazione sistemica <strong>di</strong> ogni posizione impolitica le spingono inesorabilmente<br />
verso gli antagonisti della sinistra, ma senza trovare <strong>di</strong>retta rappresentanza<br />
politica. Si accende, quin<strong>di</strong> una competizione tra i soggetti politici meglio<br />
posizionati per intercettarle. La competizione vede protagonisti soprattutto<br />
la Democrazia cristiana e il Movimento sociale, ma anche, nelle <strong>di</strong>verse fasi<br />
della storia repubblicana, i qualunquisti, i monarchici e i liberali, e, in misura<br />
minore e a fasi alterne, i socialdemocratici. Per competere i due principali<br />
antagonisti depotenziano la valenza politica della propria memoria, cercando<br />
<strong>di</strong> attenuare l’una il proprio antifascismo e l’altro il proprio neofascismo.<br />
Ma mentre il Movimento sociale - non avendo la capacità <strong>di</strong> ricomprendere<br />
nella propria memoria anche le ragioni dei vincitori e per questa via giungere<br />
69
Giovanni A. Cerutti<br />
all’accettazione della prassi e dei valori della democrazia - continua ad<br />
oscillare nella contrad<strong>di</strong>zione mai risolta tra la riven<strong>di</strong>cazione orgogliosa<br />
del proprio passato e una pasticciata opera <strong>di</strong> depotenziamento della carica<br />
politica della <strong>di</strong>fesa delle ragioni della Repubblica sociale in grado <strong>di</strong> stabilire<br />
un contatto con la memoria immemore degli afascisti in vista della<br />
costruzione <strong>di</strong> un blocco anticomunista, restando al livello degli espe<strong>di</strong>enti<br />
retorici, riuscendo in questo modo a non scivolare nell’illegalità, ma<br />
continuando a restare nell’illegittimità politica, riuscendo ad interloquire<br />
con la zona grigia dell’opinione pubblica, ma senza <strong>di</strong>ventare un soggetto<br />
cre<strong>di</strong>bile nell’arena politica democratica, la Democrazia cristiana riesce ad<br />
entrare in sintonia con la galassia delle memorie afasciste. Anche la memoria<br />
del tempo <strong>di</strong> guerra elaborata dalla Democrazia cristiana è incompiuta, e,<br />
per <strong>di</strong> più, è esercitata senza convinzione, né sistematicità, ma sono proprio<br />
l’incompiutezza e la leggerezza della sua memoria a <strong>di</strong>ventare risorsa<br />
strategica, consentendole sia <strong>di</strong> depotenziare l’ideologia dell’antifascismo<br />
della sinistra, sia <strong>di</strong> mantenere isolate la destra nostalgica e quella ra<strong>di</strong>cale.<br />
Nella narrazione della Democrazia cristiana la Resistenza è descritta come<br />
testimonianza <strong>di</strong> ideali quali la fratellanza, la libertà, l’in<strong>di</strong>pendenza, l’amor<br />
<strong>di</strong> patria, inclusivi e non <strong>di</strong>scriminanti, pacificatori e non conflittuali, che<br />
originano dalla sua cultura che non interpreta la politica come origine delle<br />
istanze etiche (pp. 84-91).<br />
Il tratto caratterizzante <strong>di</strong> questa memoria è l’idea che la lotta <strong>di</strong><br />
liberazione è un’esperienza storicamente delimitata e politicamente conclusa,<br />
il cui valore storico risiede nella fondazione della democrazia, ma le cui<br />
origini sono <strong>di</strong> natura etica, se non religiosa. Questa lettura ha un importante<br />
risvolto politico. Poggiando l’esperienza resistenziale su valori perenni, che<br />
trascendono le mutevoli ragioni dell’ideologia, <strong>di</strong>venta il fulcro <strong>di</strong> un’azione<br />
<strong>di</strong> ricostruzione ispirata a una solidarietà in grado <strong>di</strong> superare le passate<br />
<strong>di</strong>visioni e per questa via unificare in orizzontale popolo, nazione e<br />
democrazia e in verticale presente, futuro e passato, espungendo la parentesi<br />
del ventennio. Depotenziando la carica <strong>di</strong> rottura del passaggio storico del<br />
biennio 1943-1945 e ricomponendo nell’immaginario emotivo gli strappi<br />
della guerra civile, la Democrazia cristiana riesce a recuperare l’opinione<br />
moderata afascista, saldando una maggioranza larga senza confini a destra,<br />
nostalgici esclusi (pp. 95-106).<br />
L’argomento centrale <strong>di</strong> Chiarini è, quin<strong>di</strong>, che la memoria della<br />
Resistenza si sia <strong>di</strong>visa tra due declinazione provenienti entrambe dal fronte<br />
antifascista, ispirate da due <strong>di</strong>verse concezioni della democrazia. Una<br />
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Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
impolitica, priva <strong>di</strong> spessore storico e politico, carente nel dovere civico <strong>di</strong><br />
chiarire il senso del passaggio al sistema democratico, riluttante a prendere<br />
coscienza del passato, fino a rendere possibile la sua sostanziale rimozione.<br />
L’altra iper-politica, portata a declinare l’antifascismo come <strong>di</strong>mensione<br />
esistenziale della democrazia, fino a farne fonte perenne <strong>di</strong> frattura, risolvibile<br />
solo con un’altamente improbabile rivoluzione non solo politica, ma anche<br />
sociale ed economica. Una <strong>di</strong>visione, secondo Chiarini, sempre tenuta sullo<br />
sfondo, se non nei momenti <strong>di</strong> più acuto scontro politico, come negli anni<br />
del centrismo. Chiarini rileva che entrambe le declinazioni rispondevano<br />
esattamente ai bisogni <strong>di</strong> identità dei rispettivi popoli <strong>di</strong> riferimento, oltre<br />
che alla sensibilità degli elettorati. Erano, cioè, necessitate storicamente. E,<br />
d’altronde, hanno svolto una funzione storica nei confronti della gracile<br />
democrazia italiana. Attraverso il comune richiamo alla Resistenza, pur<br />
<strong>di</strong>fferentemente declinato, hanno costruito nel Paese un tessuto democratico<br />
in grado <strong>di</strong> resistere anche agli strappi più volenti, come quelli della guerra<br />
fredda e del terrorismo. Ma hanno introdotto elementi <strong>di</strong> fragilità, con cui<br />
stiamo ancora facendo i conti. La memoria impolitica ha reso vulnerabile<br />
la democrazia alle minacce eversive, la memoria iper-politica, facendo dei<br />
pericoli <strong>di</strong> un nuovo fascismo la chiave <strong>di</strong> lettura privilegiata della realtà<br />
italiana, le ha impe<strong>di</strong>to <strong>di</strong> vedere con chiarezza natura e origine delle sfide<br />
portate alla democrazia. Così, mentre l’antifascismo della memoria iperpolitica<br />
è apparso agli occhi dei suoi avversari nient’altro che un espe<strong>di</strong>ente<br />
ideologico per neutralizzare l’anticomunismo, l’antifascismo della memoria<br />
impolitica è apparso un comodo riparo <strong>di</strong>etro il quale permettere all’opinione<br />
pubblica moderata <strong>di</strong> continuare a coltivare ambizioni autoritarie. E se<br />
questo quadro, pur fragile, ha permesso alla democrazia italiana <strong>di</strong><br />
consolidarsi, la caduta del comunismo e l’allontanarsi dell’eventualità <strong>di</strong><br />
un ritorno del fascismo storico, ne hanno messo in evidenza tutti i limiti.<br />
Passaggio obbligato, per Chiarini, del superamento <strong>di</strong> questa fase è<br />
l’integrazione della Resistenza nella storia nazionale, come momento del<br />
passaggio alla democrazia, emancipandola dalle connotazioni ideologiche<br />
<strong>di</strong> progetti politici <strong>di</strong> parte, per consentire all’antifascismo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare<br />
l’orizzonte <strong>di</strong> valori <strong>di</strong> ogni democratico (pp. 114-119).<br />
La Resistenza spiegata a mia figlia <strong>di</strong> Alberto Cavaglion è un piccolo libro<br />
davvero prezioso, che ripercorre con uno sguardo carico <strong>di</strong> consapevolezza<br />
le questioni più rilevanti che ci consegnano gli anni della Resistenza. Non<br />
quin<strong>di</strong> un libro sulle vicende della memoria della Resistenza nell’Italia<br />
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Giovanni A. Cerutti<br />
repubblicana come gli altri due, ma su una possibile memoria della<br />
Resistenza. Cavaglion - che lavora presso l’Istituto storico della Resistenza e<br />
della società contemporanea <strong>di</strong> Torino - è un affermato stu<strong>di</strong>oso<br />
dell’ebraismo italiano e ha alle spalle notevoli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> critica letteraria e <strong>di</strong><br />
storia contemporanea. Autorevole specialista <strong>di</strong> Primo Levi, si era già<br />
segnalato con la pubblicazione presso Il Mulino <strong>di</strong> Per via invisibile, una<br />
mirabile ricostruzione delle vicende <strong>di</strong> una famiglia torinese durante la<br />
guerra. Il titolo, sul quale qualche frettoloso recensore ha ironizzato, è meno<br />
<strong>di</strong> maniera <strong>di</strong> quanto appaia. Cavaglion, infatti, è nato nel 1956 e la figlia<br />
Elisa a cui si rivolge nel 1989. Non è, quin<strong>di</strong>, la generazione che ha vissuto<br />
l’epopea che consegna il testimone militante a chi deve continuare la lotta,<br />
e nemmeno una delle generazioni successive marchiate a fuoco dalla<br />
militanza politica che racconta con nostalgia i bei tempi andati o con<br />
<strong>di</strong>sillusione la fine <strong>di</strong> ogni ideale o con cinismo la sua nuova sistemazione<br />
in linea con i tempi nuovi: nel 1968 Cavaglion aveva do<strong>di</strong>ci anni e, per<br />
quanto ne sappiamo, ha speso gli anni settanta stu<strong>di</strong>ando. Gli intenti sono<br />
<strong>di</strong>chiarati con ammirevole nettezza da subito. «Ogni generazione ha il <strong>di</strong>rittodovere<br />
<strong>di</strong> narrare per prima - e come meglio crede - le vicende delle quali è<br />
stata protagonista, ma chi come noi è nato dopo [...] ha un <strong>di</strong>verso <strong>di</strong>rittodovere:<br />
cimentarsi con le ragioni della storia, che non sono le stesse della<br />
vita». «Con questo libro [...] non intendo, nel modo più assoluto, rispondere<br />
a quella specie <strong>di</strong> chiamata alle armi, da più parti richiesta, davanti all’attacco<br />
portato da alcune forze politiche contro il 25 aprile e i cosiddetti “valori<br />
della Resistenza”» (p. 8). Cavaglion <strong>di</strong>chiara esplicitamente <strong>di</strong> aver smesso<br />
<strong>di</strong> partecipare alle manifestazioni pubbliche sul finire degli anni settanta,<br />
urtato dalle evidenti manipolazioni politiche. Ma nello stesso tempo lascia<br />
trasparire tutta la sua malinconia <strong>di</strong> fronte alla solitu<strong>di</strong>ne in cui sono lasciati<br />
oggi i sopravvissuti <strong>di</strong> quella stagione al tramonto, a cominciare da chi<br />
aveva spregiu<strong>di</strong>catamente cavalcato il mito della Resistenza negli anni passati.<br />
La riflessione <strong>di</strong> Cavaglion prende le mosse da una convincente analisi<br />
del fascismo, del quale mette in evidenza il potenziale seduttivo, tipico <strong>di</strong><br />
ogni potere totalitario, appoggiandosi al romanzo breve <strong>di</strong> Thomas Mann<br />
Mario e il mago, nel quale una vicenda <strong>di</strong> cronaca nell’Italia degli anni venti<br />
<strong>di</strong>venta metafora delle con<strong>di</strong>zioni dell’Italia fascista. L’importanza <strong>di</strong> questa<br />
<strong>di</strong>mensione, accanto a quella della forza, impongono una particolare<br />
attenzione a chi voglia opporvisi: i meccanismi dell’incanto sono più <strong>di</strong>fficili<br />
da smontare e cimentarsi in questa impresa richiede molta pazienza.<br />
Cavaglion introduce, quin<strong>di</strong>, due <strong>di</strong>stinzioni fra chi ha subito la menzogna<br />
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Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
fascista. Una prima, che ha grande rilevanza sul piano etico, <strong>di</strong>stingue chi si<br />
è lasciato ingannare da chi non si è lasciato ingannare. Una seconda <strong>di</strong>stingue<br />
tra chi non si è <strong>di</strong>sincantato mai e chi, pur prigioniero fino all’ultimo<br />
dell’incantesimo, riesce alla fine a liberarsi. La <strong>di</strong>fferenza tra chi non vuole<br />
liberarsi e chi si libera, sia pure solo dopo la dura lezione dei fatti, è oggettiva<br />
e non può essere occultata. È questo il caso della Resistenza italiana, che<br />
nasce solo dopo che l’incantesimo ha prodotto danni incalcolabili, ma senza<br />
la quale la libertà che comunque l’Italia avrebbe riconquistato sarebbe stata<br />
peggiore (pp. 15-20).<br />
Lucide anche le considerazioni sul nodo centrale dell’armistizio.<br />
Innanzitutto la consapevolezza che il fascismo è caduto da solo, sotto il<br />
peso dei suoi errori e delle sue sconfitte militari, per una manovra interna al<br />
«Palazzo», senza nessuna sollevazione popolare. Data questa premessa,<br />
<strong>di</strong>venta più semplice capire l’estrema <strong>di</strong>fficoltà in cui si è trovata una<br />
generazione che è arrivata all’appuntamento del 25 luglio prima, e dell’8<br />
settembre poi, senza avere alle spalle un’educazione che la abbia formata ad<br />
essere autonoma. Così la scelta è davvero determinata molte volte da fattori<br />
imponderabili, come mette in evidenza la citazione delle riflessioni del<br />
commissario partigiano Kim, tratte dal Sentiero dei ni<strong>di</strong> <strong>di</strong> ragno <strong>di</strong> Italo<br />
Calvino: «Basta un nulla, un passo falso, una impennata dell’anima e ci si<br />
trova dall’altra parte». Il problema cui quella generazione si trova <strong>di</strong> fronte<br />
è, quin<strong>di</strong>, quello <strong>di</strong> riscoprire la politica dopo anni <strong>di</strong> <strong>di</strong>giuno, sotto<br />
l’incalzare degli eventi: «Corsi accelerati <strong>di</strong> sapienza antifascista», secondo<br />
Luigi Meneghello. Il valore della lotta partigiana sta, allora, anzitutto in<br />
questa occasione <strong>di</strong> ripensare la politica (pp. 21-27). Così come concluderà<br />
la sua riflessione in<strong>di</strong>cando una data inconsueta per ricordare la Liberazione,<br />
Cavaglion in<strong>di</strong>ca come primo gesto della Resistenza italiana il tentativo dei<br />
custo<strong>di</strong>, i cui nomi sono rimasti sconosciuti, del deposito <strong>di</strong> San Paolo<br />
Belsito, una località a una trentina <strong>di</strong> chilometri da Napoli, <strong>di</strong> salvare i<br />
fon<strong>di</strong> più antichi dell’Archivio <strong>di</strong> Stato <strong>di</strong> Napoli, che lì erano stati trasferiti<br />
in previsione della guerra aerea. Nelle ultime ore che precedono la ritirata<br />
tedesca, il 30 settembre 1943, una pattuglia <strong>di</strong> guastatori tedeschi dà fuoco<br />
al Castello dove sono conservati i documenti, impedendo con le armi ai<br />
custo<strong>di</strong> <strong>di</strong> intervenire. Il danno prodotto è incalcolabile, viene perduta tutta<br />
la documentazione più antica dell’intera Italia del Sud, ma quel gesto dei<br />
custo<strong>di</strong> segna l’inizio <strong>di</strong> una nuova consapevolezza (pp. 33-35).<br />
Discutendo le opposte tesi circa l’8 settembre come morte della patria<br />
e l’8 settembre come nuovo inizio, Cavaglion mette in evidenza la fragilità<br />
73
Giovanni A. Cerutti<br />
del terreno su cui nasce la Resistenza, che è originata dalle vicende della<br />
storia italiana, che rimandano a debolezze antiche. Innanzitutto lo stato<br />
italiano era <strong>di</strong> recente formazione e aveva dovuto affrontare la catastrofe<br />
storica della Prima guerra mon<strong>di</strong>ale con solo mezzo secolo <strong>di</strong> vita alle<br />
spalle. Risentiva delle <strong>di</strong>visioni ere<strong>di</strong>tate dalla storia degli stati che lo<br />
avevano formato ed era indebolito da correnti estranee alla storia nazionale.<br />
In primo luogo la <strong>di</strong>visione tra Stato e Chiesa, che lasciava insoluta la<br />
questione della partecipazione dei cattolici alla vita politica nazionale.<br />
Poi il socialismo, fattore <strong>di</strong> sviluppo nella vita sociale e nella cultura, che,<br />
però, aveva introdotto motivi <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione fuori e dentro il partito socialista,<br />
culminati con la scissione <strong>di</strong> Livorno. L’esito tremendo della Prima guerra<br />
mon<strong>di</strong>ale e l’eco della Rivoluzione russa daranno forza a forme<br />
massimalistiche <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>cazione sociale, che provocheranno fratture che<br />
emergeranno in tutta la loro crudezza durante la Resistenza. E infine, il<br />
motivo <strong>di</strong> debolezza più rilevante, il fascismo, che, dopo essersi affermato<br />
in modo violento, aveva instaurato una <strong>di</strong>ttatura autoritaria, cancellando<br />
le libertà in<strong>di</strong>viduali e spezzando il nesso tra nazione e libertà, che aveva<br />
caratterizzato il Risorgimento. È su queste deboli basi politiche che poggia<br />
il movimento partigiano in Italia. La guerra partigiana, quin<strong>di</strong>, non poteva<br />
essere che quella che è stata, e non ha senso, secondo Cavaglion, accusarla<br />
<strong>di</strong> non essere stata ciò che non poteva essere, o magnificarla per ciò che<br />
non può essere stata. L’unità che si raggiunge in banda nel primo autunnoinverno<br />
è già un risultato notevole, ma era naturale che l’obiettivo<br />
unificante <strong>di</strong> combattere il nazifascismo non sarebbe riuscito a superare<br />
<strong>di</strong>visioni così antiche e profonde. I fini e i programmi politici restano<br />
non compatibili e, in più, gli alleati temono, e con qualche ragione, che<br />
da un momento all’altro la situazione precipiti come in Grecia. Chi critica<br />
la Resistenza, così come il Risorgimento, per essere stata opera <strong>di</strong><br />
minoranze non coglie il punto fondamentale, e, cioè, che la gracilità della<br />
nostra costituzione politica e sociale <strong>di</strong>pende proprio da questa ristretta<br />
partecipazione. Assurdo pretendere che il movimento partigiano fosse in<br />
grado <strong>di</strong> porre rime<strong>di</strong>o a debolezze così antiche e profonde, tanto più<br />
nelle con<strong>di</strong>zioni estreme del settembre del 1943. Eppure, pur con questi<br />
vincoli esterni, la Resistenza è <strong>di</strong> gran lunga la pagina più ammirevole<br />
scritta dagli italiani (pp. 42-44).<br />
Fin dall’inizio la Resistenza è caratterizzata dalla sua frammentazione<br />
sul territorio, e in ciò risiede la sua incisività. Le formazioni sono del tutto<br />
autosufficienti e, anche quando la matrice politica è la stessa, il<br />
74
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
coor<strong>di</strong>namento è minimo. Sulla militanza ideologica prevalgono la fiducia<br />
personale e il legame affettivo. I confini della guerra partigiana, prima ancora<br />
che quelli della Nazione, sono quelli della singola valle, o <strong>di</strong> una parte <strong>di</strong><br />
essa. Un effettivo comando superiore riunificato sarà possibile soltanto alla<br />
vigilia della liberazione delle gran<strong>di</strong> città del nord (pp. 46-47).<br />
Cavaglion passa poi a <strong>di</strong>scutere due questioni cruciali. La prima riguarda<br />
le implicazioni dell’approccio che si propone <strong>di</strong> entrare dentro le ragioni<br />
della storia, con particolare riguardo alle vicende della Resistenza. In questa<br />
prospettiva è in<strong>di</strong>spensabile attribuire a tutti i protagonisti uguale <strong>di</strong>gnità<br />
storica, cercando il più possibile <strong>di</strong> liberarsi da qualsiasi valutazione morale<br />
e da ogni passione. Questo non significa restituire la ragione storica a chi<br />
non la può avere, né sostenere necessariamente l’equivalenza delle parti,<br />
ma senza questa premessa <strong>di</strong>venta impossibile ogni ricostruzione <strong>di</strong> quel<br />
periodo. La seconda riguarda il concetto <strong>di</strong> «zona grigia», che è <strong>di</strong>ventata la<br />
categoria etico-politica intorno a cui ruotano la maggior parte delle<br />
interpretazioni della storia italiana tra il 1943 e il 1945. L’espressione<br />
compare per la prima volta come titolo del secondo capitolo dell’ultimo<br />
libro <strong>di</strong> Primo Levi, I sommersi e i salvati, che descrive la zona «dai contorni<br />
mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei<br />
servi», e più in generale riflette sull’ambigua zona <strong>di</strong> confine dentro ciascun<br />
in<strong>di</strong>viduo che separa il bene dal male e che le con<strong>di</strong>zioni estreme del campo<br />
sottopongono a pesanti sollecitazioni e nei confronti della quale Levi invita<br />
a rifuggire da giu<strong>di</strong>zi poco me<strong>di</strong>tati, ma è ormai utilizzata come sostegno<br />
all’assoluzione da ogni colpa, in<strong>di</strong>viduale e collettiva (pp. 55-62).<br />
Centrate sono anche le osservazioni sulla natura dell’antifascismo della<br />
guerra partigiana, un antifascismo <strong>di</strong>verso da quello delle origini, e che si<br />
sovrappone a coloro i quali hanno pagato l’opposizione al fascismo con<br />
lunghi anni <strong>di</strong> carcere. Essendo una scelta dettata dalla lezione dei fatti, è<br />
composto da un intreccio <strong>di</strong> motivazioni ideali e <strong>di</strong> interessi contingenti.<br />
Questo nuovo antifascismo è formato da uomini che, formatisi sotto il<br />
fascismo, se ne sono <strong>di</strong>staccati dopo averne subito il fascino, <strong>di</strong>sgustati dalle<br />
orribili visioni e dalle privazioni della guerra, prima accettata per<br />
l’ammirazione della «Germania che vince sempre». Da ciò <strong>di</strong>scende che la<br />
Resistenza si batte contro un regime che ha solo in minima parte i tratti del<br />
fascismo storico. La guerra contro la Repubblica <strong>di</strong> Salò è inequivocabilmente<br />
vinta il 25 aprile 1945. Molto meno certo è che quel giorno sia stato sconfitto<br />
anche il fascismo andato al potere nel 1922. E forse molte strutture <strong>di</strong><br />
quell’Italia sono funzionanti ancora oggi (pp. 74-75).<br />
75
Giovanni A. Cerutti<br />
L’idea che hanno i partigiani della nuova Italia è per forza <strong>di</strong> cose confusa<br />
e velleitaria. Non è possibile pensare che dopo vent’anni <strong>di</strong> fascismo ci sia<br />
sufficiente luci<strong>di</strong>tà in proposito. Pensare come alcuni settori della Resistenza<br />
<strong>di</strong> riprendere il cammino interrotto nel 1922 - giu<strong>di</strong>cando l’esperienza<br />
dell’Italia prefascista come quello <strong>di</strong> una democrazia in formazione - non<br />
tiene conto delle rotture che la Resistenza al nazismo ha determinato nella<br />
storia delle società europee. Ma anche le prospettive rivoluzionarie, che<br />
nascevano dalla volontà <strong>di</strong> una cesura netta con il passato, coltivate da altri<br />
settori, non avevano alle spalle un’analisi sufficientemente accurata della<br />
storia italiana. Ciò che accade dopo l’8 settembre mette in evidenza la debole<br />
consistenza morale e culturale in cui è precipitato il paese, non l’energia<br />
che precede una rivoluzione. Le coscienze si erano assopite, e non sarebbe<br />
stato semplice riattivarle. Constata l’inadeguatezza <strong>di</strong> entrambe questa<br />
prospettive, Cavaglion propone <strong>di</strong> definire la Resistenza come una<br />
Rivoluzione-Rivelazione. Se il fascismo era stato, secondo la lezione <strong>di</strong><br />
Gobetti, l’autobiografia della nazione, la rivelazione, cioè, dei mali antichi<br />
dell’Italia - <strong>di</strong>ffusa <strong>di</strong>sabitu<strong>di</strong>ne alla lotta politica, in<strong>di</strong>fferenza per i valori<br />
che improntano le istituzioni, scarsa <strong>di</strong>sponibilità ad assumersi le<br />
responsabilità <strong>di</strong> liberi citta<strong>di</strong>ni, inclinazione alla retorica, al conformismo,<br />
al compromesso, alla cortigianeria, al demagogismo - la guerra partigiana è<br />
la rivelazione delle sue virtù sopite. Assomiglia a una rivoluzione per il<br />
sommovimento generale che determina, ma non lo è per il suo carattere <strong>di</strong><br />
scelta imprevista fino a pochi giorni prima, che sparisce quando si torna<br />
alla normalità. La Rivoluzione-Rivelazione è soprattutto uno scatto <strong>di</strong><br />
orgoglio. È una scelta verso la quale i singoli sono spinti dagli avvenimenti<br />
e non da una consapevole preparazione. Cavaglion <strong>di</strong>scute anche la<br />
definizione <strong>di</strong> guerra civile, mettendo in evidenza che nell’Italia del 1943-<br />
1945 la guerra <strong>di</strong>venta civile, non nasce civile. Nelle guerre civili un popolo<br />
è attraversato fin dall’inizio da una spaccatura profonda fra due opzioni<br />
inconciliabili. L’8 settembre, invece, giunge dopo una bruciante sconfitta<br />
in una guerra sostenuta dal consenso generale fino a poche ore prima, e lo<br />
scontento che si genera è provocato dai <strong>di</strong>sagi che la guerra ha provocato e<br />
dalla frustrazione che sempre segue le sconfitte, specie se giungono al posto<br />
<strong>di</strong> vittorie attese come certe. Inoltre la guerra civile non ha avuto le stesse<br />
caratteristiche in tutte le regioni d’Italia. In certe regioni del centro-sud,<br />
liberate quasi subito dopo l’armistizio, non ebbe praticamente luogo. In<br />
Piemonte fu guerra civile in senso stretto e per un periodo relativamente<br />
lungo. In Emilia Romagna la guerra riprese ad essere civile dopo vent’anni<br />
76
Il peso della storia. La memoria della resistenza nell’Italia repubblicana<br />
<strong>di</strong> interruzione. Ma la guerra fu fratricida soprattutto perché ogni partigiano<br />
la combatté innanzitutto contro il fascismo che si portava dentro, come<br />
ben ha messo in evidenza il lavoro <strong>di</strong> Clau<strong>di</strong>o Pavone (pp. 77-89).<br />
Penetranti anche le riflessioni sulla violenza. Cavaglion parte dalla<br />
constatazione che non esiste una violenza buona. La violenza è sempre<br />
violenza, e nei conflitti ci sono sempre vittime innocenti. Ma gli uomini<br />
non possono essere ridotti all’ideologia che servono - su questo piano<br />
l’asimmetria tra tedeschi e alleati, tra partigiani e repubblichini rimane<br />
irriducibile, perché irriducibili sono totalitarismo e libertà - e la causa giusta<br />
non <strong>di</strong>venta comprensibile se i suoi sostenitori sono descritti come<br />
immacolati virtuosi e i suoi avversari come sa<strong>di</strong>ci. Per questo non è<br />
convincente la tesi semplificatrice della «uguaglianza nella morte e<br />
<strong>di</strong>suguaglianza nella vita», perché le ragioni della vita possono essere<br />
convergenti o <strong>di</strong>vergenti nello stesso schieramento (pp. 91-96).<br />
Concludendo la sua riflessione, Cavaglion osserva che non si è mai presa<br />
in considerazione l’idea <strong>di</strong> ricostruire la storia dei libri che sono stati scritti<br />
o pensati durante la Resistenza, il cui valore risiede forse principalmente<br />
nell’avere mutato profondamente il pensiero europeo. Come simbolo <strong>di</strong><br />
quella stagione Cavaglion ricostruisce le tormentate vicende dei materiali<br />
preparatori delle Premesse alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al<br />
1896 <strong>di</strong> Federico Chabod, un’opera che rispecchia in modo icastico la<br />
metamorfosi subita dall’idea <strong>di</strong> Europa negli anni cruciali tra il 1943 e il<br />
1945, inserendo la storia italiana nella storia europea dei limiti del<br />
nazionalismo, che ha generato le trage<strong>di</strong>e del Novecento. Quando sale in<br />
montagna per unirsi alla Resistenza, Chabod si porta le carte e gli appunti<br />
su cui stava lavorando in una baita a Dégioz, in Valsavarenche, non lontana<br />
dagli alpeggi <strong>di</strong> Djouan, posti a 2.150 metri, da dove deriva il ceppo<br />
famigliare degli Chabod. Costretto a riparare in Francia da un rastrellamento<br />
tedesco nel novembre del 1944, decide <strong>di</strong> seppellirli poco lontano dalla<br />
baita. Terminata la guerra, Chabod riesce ad arrivare alla Prefettura <strong>di</strong> Aosta<br />
da Parigi il 10 maggio 1945, dove, per prima cosa, si procurerà un’automobile<br />
per recuperare le sue carte: «Il 10 maggio 1945, quando il manoscritto<br />
viene recuperato a Dégioz, possiamo mettere la parola fine. Da quel giorno<br />
la storia riprende a fare liberamente il suo corso. Per la storia della Resistenza<br />
il 10 maggio ha un significato più elevato del 25 aprile» (p. 103).<br />
Mi sembra che il percorso proposto ci consegni due questioni cruciali<br />
per il futuro della memoria della Resistenza. La prima riguarda quale sia la<br />
77
Giovanni A. Cerutti<br />
sua collocazione nella storia d’Italia. Il biennio 1943-1945 è un crocevia<br />
attraverso il quale le questioni irrisolte della costruzione dello stato unitario<br />
si intrecciano con lo sviluppo del sistema politico nei primi sessant’anni <strong>di</strong><br />
storia repubblicana. In quelle vicende c’è la storia della nascita del nostro<br />
sistema democratico - con le sue rotture e le sue continuità, i suoi punti <strong>di</strong><br />
forza e le sue persistenti debolezze - e la lealtà a questa scelta passa<br />
necessariamente dal rapporto con quelle vicende. La seconda riguarda<br />
l’elaborazione <strong>di</strong> una memoria compiuta del fascismo, che <strong>di</strong>venti<br />
consapevolezza con<strong>di</strong>visa del nostro passato. In questo senso troppe sono<br />
ancora le zone d’ombra all’interno delle quali prosperano equivoci che<br />
indeboliscono la nostra cultura democratica. Zone d’ombra che riguardano<br />
la effettiva natura del regime fascista, quali il ruolo fondamentale assegnato<br />
dal fascismo alla violenza - e, raccogliendo le suggestioni <strong>di</strong> Cavaglion, alla<br />
menzogna - come strumento <strong>di</strong> governo; la politica <strong>di</strong> aggressione condotta<br />
dall’Italia a danno <strong>di</strong> altri paesi, dalle conquiste coloniali alle politiche <strong>di</strong><br />
occupazione messe in opera nei paesi invasi; l’attiva persecuzione dei citta<strong>di</strong>ni<br />
italiani <strong>di</strong> origine ebraica. Ma che riguardano soprattutto questioni cruciali<br />
quali il sostegno ricevuto dal fascismo e dalla guerra condotta a fianco della<br />
Germania, le <strong>di</strong>namiche che portarono alla liquidazione del regime sotto il<br />
peso delle sue contrad<strong>di</strong>zioni e la natura dei rapporti tra l’antifascismo che<br />
caratterizzò il movimento resistenziale e il fascismo storico.<br />
78
Le istituzioni militari e la loro evoluzione nella società italiana contemporanea<br />
Le istituzioni militari e la loro evoluzione nella società italiana<br />
contemporanea<br />
<strong>di</strong> Luigi Caligaris<br />
Non pochi in Italia, consapevoli della crisi <strong>di</strong> cre<strong>di</strong>bilità dello Stato,<br />
prospettano cure politiche o parapolitiche per conferirgli ipso facto<br />
prestigio e cre<strong>di</strong>bilità. Tuttavia sorge il dubbio che spesso si tratti non<br />
già <strong>di</strong> lungimiranti riforme ispirate da senso dello Stato e interesse per<br />
la nazione, quanto <strong>di</strong> accorgimenti contingenti e pragmatici per<br />
assicurarsi il successo elettorale e poi gestire, senza troppi problemi, il<br />
potere così assicurato.<br />
Seppure in ogni democrazia sia fisiologico che le parti politiche facciano<br />
quanto loro è possibile per assicurarsi la conquista del potere e la sua più<br />
agevole gestione, tuttavia le scelte dei percorsi possibili per conseguire<br />
entrambi gli scopi sono dettate dalle culture politiche e istituzionali delle<br />
singole nazioni. Anche se, per tutelare le libertà democratiche e il<br />
buongoverno, ognuna <strong>di</strong> esse <strong>di</strong>spone <strong>di</strong> una sua rete <strong>di</strong> controlli ed equilibri<br />
affine, almeno nelle finalità, ai checks and balances americani, nelle singole<br />
società nazionali e nei <strong>di</strong>versi momenti della loro storia <strong>di</strong>fferiscono i mo<strong>di</strong><br />
per assicurarli e i ruoli assunti da politica e istituzioni.<br />
Gli anglosassoni più che alla norma s’affidano all’autonomia <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio<br />
<strong>di</strong> chi deve attuarla, mentre noi italiani, ere<strong>di</strong> <strong>di</strong> Giustiniano, attribuiamo<br />
più valore alla norma che non a chi deve applicarla. Distinzione non da<br />
poco. Mentre, infatti, nella società e cultura anglosassone gli organismi<br />
istituzionali hanno forte identità e autonomia, in quella italiana essi sono<br />
in sottor<strong>di</strong>ne rispetto alla norma. Nel burocratese il ricorso a termini quali<br />
«dogma», «cattedra» o «verbo», nell’alludere a tesi e testi ufficiali, non è<br />
solo atto d’ossequio verso chi la norma la fa propria e la detta ma rivela la<br />
voglia <strong>di</strong> trovare riparo <strong>di</strong>etro ad essa. Per cambiare corso va detto che il<br />
buon governo del paese non <strong>di</strong>pende solo dalla maestà della politica, dalla<br />
saggezza delle regole o dalla solerte supervisione dello Stato <strong>di</strong> parte <strong>di</strong><br />
illustri garanti. Sono altrettanto importanti la qualità degli attori istituzionali,<br />
la consapevolezza del ruolo coperto e il responsabile modo d’assolverlo.<br />
79
Luigi Caligaris<br />
Infine non meno importante è l’apporto del mondo intellettuale e dei me<strong>di</strong>a<br />
alla formazione e <strong>di</strong>ffusione <strong>di</strong> una cultura politico-istituzionale.<br />
C’è da dubitare che in Italia, da quel che si legge o si sente, una cultura <strong>di</strong><br />
tale tipo ci sia e che vi sia interesse a formarla. Mentre si concedono le prime<br />
pagine alle più marginali vicende della politica, saltuari e <strong>di</strong>stratti sono gli<br />
accenni alle istituzioni. Nel vuoto <strong>di</strong> una cultura <strong>di</strong> tale tipo e livello le<br />
istituzioni sono <strong>di</strong>venute più fragili ed è stato per i partiti più agevole tentare<br />
<strong>di</strong> asservirle. L’accoppiamento fra partiti e burocrazie istituzionali ha dato<br />
alla luce la partitocrazia grazie alla quale le istituzioni hanno ceduto sempre<br />
più spazio ai partiti. Imperdonabile errore. Senza sminuire il ruolo della politica<br />
è ovvio che dall’affidabilità delle istituzioni <strong>di</strong>pendono in non piccola parte<br />
le probabilità <strong>di</strong> successo nel governare lo Stato, cioè il buon governo. È<br />
luogo comune fra i politologi che istituzioni sane e motivate «ottimizzano il<br />
potenziale e l’influenza <strong>di</strong> una nazione» mentre vi sono «nazioni impe<strong>di</strong>te ad<br />
agire tempestivamente dalle loro stesse istituzioni».<br />
Sono gli stessi partiti peraltro a confermare l’ingerenza della politica<br />
nelle istituzioni quando lamentano i tentativi del fronte opposto <strong>di</strong><br />
con<strong>di</strong>zionare le nomine delle alte e me<strong>di</strong>o-alte cariche dello Stato. Nel passato<br />
consociativo si sono tacitate le proteste spartendo fra i partiti e all’interno<br />
degli stessi le cariche dello Stato e del parastato. È così nata la «lottizzazione»<br />
e, assieme ad essa, i funzionari «in quota», tributari della propria nomina a<br />
un partito <strong>di</strong> riferimento.<br />
Non contenti <strong>di</strong> questo, i partiti hanno tentato <strong>di</strong> lottizzare oltre che gli<br />
uomini anche gli apparati delle istituzioni. Quei meto<strong>di</strong> non hanno avuto<br />
comunque sempre successo in quanto la loro veste surrettizia non era allora<br />
accettabile per alcune fra le istituzioni, quali le forze armate, ancora convinte<br />
della statualità del proprio ruolo.<br />
Quando il periodo consociativo ha ceduto il campo a quello bipolare, si<br />
è voluto porre fine alla lottizzazione, non più praticabile nel nuovo contesto.<br />
Un nuovo metodo è stato legittimato e poiché nulla piace in Italia quanto<br />
ciò che viene dall’estero, esso è stato mutuato da una cultura istituzionale<br />
straniera liberal-democratica, quella americana. Fra tamburi e fanfare, lo<br />
spoils system ha fatto solenne ingresso in Italia. Tuttavia, dopo decenni <strong>di</strong><br />
cattive abitu<strong>di</strong>ni, non era realistico persuadere sia i partiti sia i loro seguaci,<br />
adusi a una pratica clientelare che aveva a entrambi giovato, ad abbandonare<br />
criteri <strong>di</strong> scelta partitici a favore <strong>di</strong> altri, meritocratici. Perciò, con la<br />
trasversale complicità delle parti politiche, si continuano a perpetuare, sia<br />
pure in altre forme, i reciproci legami clientelari fra partiti e istituzioni.<br />
80
Le istituzioni militari e la loro evoluzione nella società italiana contemporanea<br />
Alla resa dei conti si è infatti accolta la versione più grezza dello spoils<br />
system che consente <strong>di</strong> rimpiazzare un certo numero <strong>di</strong> funzionari con<br />
altrettanti gra<strong>di</strong>ti alla parte vincente. Si è trascurata invece l’accezione nobile<br />
<strong>di</strong> quel metodo, lo in and outer, stimolante travaso nell’amministrazione<br />
pubblica della cultura ed esperienza della società civile con l’immissione o<br />
aggregazione <strong>di</strong> elementi qualificati. Seppure talvolta vi siano abusi, le<br />
istituzioni e i mass-me<strong>di</strong>a vigilano, la pubblica opinione è sensibilizzata e la<br />
regola è generalmente rispettata. Ci si augura che in Italia, chiamando in<br />
causa il «senso dello Stato» che spesso s’invoca, si sposi tale versione del<br />
metodo americano, che la qualità dei prescelti sia alta, che la loro lealtà<br />
verso lo Stato non sia in subor<strong>di</strong>ne alla parte politica. In caso contrario<br />
quale sarà l’impatto per i servitori dello Stato, specie i meno smaliziati e i<br />
più giovani, quando sapranno che il loro futuro <strong>di</strong>penderà non dal merito<br />
ma dalla benevolenza <strong>di</strong> una parte politica?<br />
L’adozione del nuovo metodo - lo si chiami pure spoils system purché sia<br />
bene applicato - è l’ultima tappa d’un lungo percorso seguito dalla politica<br />
per assicurarsi la parzialità delle istituzioni, sottraendola <strong>di</strong> conseguenza<br />
allo Stato. Ad aprire la via è stato il placet politico che, con la complicità<br />
interessata <strong>di</strong> esponenti delle istituzioni, ha non <strong>di</strong> rado ignorato il merito<br />
nella designazione <strong>di</strong> alte cariche dello Stato. In seguito, con solerte inventiva,<br />
sono stati pensati altri mo<strong>di</strong> per aumentare e confermare il numero dei<br />
proseliti istituzionali. Per confermare la fedeltà impropriamente acquisita<br />
si è provveduto, con crescente frequenza, a prorogare talune cariche oltre il<br />
tempo previsto e l’età <strong>di</strong> congedo.<br />
Eppure la proroga, tranne poche eccezioni, è una scelta sbagliata. Ne era<br />
convinto Niccolò Machiavelli, secondo il quale Roma repubblicana «non<br />
avrebbe lasciata introdurre quella consuetu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> prolungare i magistrati<br />
[…] la qual cosa col tempo rovinò quella repubblica». Seppure venti secoli<br />
siano passati da allora, si può confermare che la proroga è misura eccezionale<br />
per tempi eccezionali e la può motivare solo la ragion <strong>di</strong> Stato. Se alla<br />
designazione <strong>di</strong> alti funzionari per via surrettizia o con uno spoils system<br />
furbesco si somma la proroga e/o l’attribuzione <strong>di</strong> ulteriori cariche a fine<br />
mandato, come non dubitare che la politica, nel costruire carriere infinite,<br />
voglia così assicurarsi sempiterna acquiescenza <strong>di</strong> membri delle istituzioni?<br />
Seppure un dubbio siffatto non possa non inquietare chiunque abbia<br />
senso dello Stato, nessuno pare che se ne preoccupi. L’anomalo abbraccio<br />
fra politica e istituzioni ha anche altre implicazioni. Ovunque, infatti, in<br />
nome <strong>di</strong> una migliore e più tempestiva risposta alle sfide <strong>di</strong> ogni natura che<br />
81
Luigi Caligaris<br />
accrescono la complessità dell’attività <strong>di</strong> governo, si rafforza l’interesse<br />
dell’esecutivo ad aggiu<strong>di</strong>carsi le istituzioni. Tre secoli fa Alexis de Tocqueville,<br />
attento osservatore della democrazia americana, ha messo in guar<strong>di</strong>a gli<br />
Stati Uniti da troppo stretti legami fra maggioranza, governo e istituzioni,<br />
tali da configurare un invisibile Quarto Potere. Il suo monito ha contribuito<br />
a convincere le istituzioni americane a introdurre anticorpi da chiamare in<br />
causa ogniqualvolta tale eventualità si profila.<br />
Fra gli anticorpi naturali vi è quello <strong>di</strong> restituire alle istituzioni identità<br />
e autonomia, sottraendole all’abbraccio insi<strong>di</strong>oso della politica. Su una leale<br />
collaborazione all’insegna della «non ingerenza» reciproca dovrebbe basarsi<br />
il loro rapporto. È forse questo il caso dell’Italia? Vi è anche da tenere conto,<br />
sul piano delle prestazioni, dei problemi causati dalla sottomissione dei<br />
quadri alti e me<strong>di</strong>o-alti alla politica. La voglia <strong>di</strong> compiacere e il timore <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>spiacere contrad<strong>di</strong>cono le esigenze <strong>di</strong> trasparenza, tempestività ed efficacia<br />
alla base <strong>di</strong> ogni serio apparato.<br />
Ora passiamo alle istituzioni militari, o meglio dei corpi armati dello<br />
Stato, forze armate e forze dell’or<strong>di</strong>ne. In Italia raramente <strong>di</strong> loro si parla<br />
come <strong>di</strong> istituzioni e soprattutto inevasa è la definizione del loro rapporto<br />
con la politica.<br />
Su questo argomento, sul quale esiste copiosa e qualificata letteratura<br />
straniera, non vi è in Italia un solo testo comparabile al saggio The sol<strong>di</strong>er<br />
and the State <strong>di</strong> Samuel P. Huntington. Testo a cui attingerò a piene mani<br />
per segnalare cosa s’intenda per il rapporto fra politica e militari. Comincerò<br />
col citare un nostro affermato intellettuale, secondo il quale quel rapporto<br />
non merita attenzione poiché «le cose militari sono problema tecnico, non<br />
politico». Come <strong>di</strong>re che il problema militare consiste unicamente nel gestire<br />
tecnicamente la propria organizzazione così come la politica vuole.<br />
Questa convinzione non è affatto isolata, anzi è ben ra<strong>di</strong>cata nella nostra<br />
cultura. Se i corpi armati dello Stato, <strong>di</strong>versamente da altre e più combattive<br />
istituzioni, sono privi <strong>di</strong> rilevanza politica, essi possono essere rivoltati da<br />
capo a pie<strong>di</strong>, senza che nessuno voglia od osi verificarne conseguenze e<br />
motivi. Dato inoltre che nessuno osa <strong>di</strong>re che le istituzioni sono «tecniche»,<br />
se ne deve desumere che i corpi armati dello Stato sono meno istituzioni<br />
delle altre, avvalorando una percezione che ne sminuisce lo status e ne<br />
mortifica l’autonomia. Di opposto parere, Huntington afferma che «il<br />
<strong>di</strong>battito militare s’incentra su aspetti operativi ma le decisioni <strong>di</strong>pendono<br />
dal modello istituzionale che le regola [...] le istituzioni militari sono soggette<br />
a due sollecitazioni: quelle che derivano dalla minaccia alla sicurezza e quelle<br />
82
Le istituzioni militari e la loro evoluzione nella società italiana contemporanea<br />
delle forze sociali, ideologiche e delle istituzioni dominanti. Istituzioni<br />
militari che riflettono soprattutto valori sociali non sanno assolvere le loro<br />
funzioni, quelle che ubbi<strong>di</strong>scono a imperativi puramente funzionali non<br />
sono accette alla società». Per concludere «le nazioni che sviluppano un<br />
equilibrato rapporto fra civili e militari conseguono un grande vantaggio<br />
nella sicurezza mentre quelle che non ci riescono finiscono per sprecare le<br />
proprie risorse e per correre incalcolabili rischi».<br />
A fronte <strong>di</strong> quanto sopra, alcune domande s’impongono. Si può forse<br />
<strong>di</strong>re che quanto detto da Huntington sia riferibile a organismi privi <strong>di</strong><br />
rilevanza politica? Certo che no. Se il problema militare è solo «tecnico» e<br />
non politico, non è neppure sociale, ideologico o istituzionale? Quanto<br />
all’affermazione che vi sono paesi che non hanno sviluppato un equilibrato<br />
rapporto fra civili e militari, come evitare che il pensiero corra all’Italia?<br />
A questo punto occorre comprendere cosa in Italia abbia provocato tale<br />
sostanziale declassamento del corpo militare, e perché esso si sia confermato<br />
nei successivi perio<strong>di</strong>, con ricadute nient’affatto indolori non solo per esso<br />
ma per lo Stato. La <strong>di</strong>sattenzione verso il corpo militare come strumento <strong>di</strong><br />
sicurezza, negli anni della Guerra Fredda, nasce da due considerazioni: l’alta<br />
marginalità dell’Italia nel contesto militare dell’Alleanza Atlantica e la<br />
prioritaria attenzione da essa prestata all’or<strong>di</strong>ne interno. Le cattive abitu<strong>di</strong>ni<br />
sono dure a morire se, un secolo fa, secondo gli italiani «l’ideale militare era<br />
il carabiniere» e l’esercito doveva essere «forza <strong>di</strong> pace sufficiente ad assicurare<br />
l’or<strong>di</strong>ne pubblico in qualsiasi circostanza». Allora la politica non si è fatta<br />
carico <strong>di</strong> definire in modo chiaro il ruolo che lo strumento militare avrebbe<br />
dovuto assolvere nel contesto alleato. La preoccupazione dominante è stata<br />
<strong>di</strong> assicurare una vasta presenza sul territorio per motivi <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne interno<br />
ed esigenze <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne socio-economico demandando alla Nato le decisioni<br />
operative. Inoltre, con la presenza nel paese e nella politica <strong>di</strong> vene<br />
qualunquiste, minimaliste e pseudopacifiste, i governi che si sono avvicendati<br />
si sono ben guardati dal promuovere un serio <strong>di</strong>battito sul corpo militare e<br />
sul suo rapporto con la società.<br />
Quel <strong>di</strong>battito, invece, è stato condotto negli Stati Uniti per porre termine<br />
«al declinare del prestigio della professione militare e al vacillare del morale<br />
del corpo degli ufficiali». Ne è scaturita la rivalutazione dello spirito e<br />
dell’identità militare nella convinzione che «un forte, integrato, altamente<br />
professionale corpo <strong>di</strong> ufficiali, immune dalla tentazioni della politica,<br />
rispettato per la fermezza del carattere, offre un contributo stabilizzante<br />
alla stessa politica».<br />
83
Luigi Caligaris<br />
Così, nel contesto <strong>di</strong> un’evoluzione intellettuale più favorevole<br />
all’istituzione militare, «le istituzioni militari si inserirono senza serie<br />
<strong>di</strong>fficoltà nella struttura politica, sociale ed economica del paese». Impietoso<br />
un confronto con l’Italia dove non ha mai preso corpo un <strong>di</strong>battito <strong>di</strong> pari<br />
livello su quei contenuti. Né mai vi è stata, a sostegno dei corpi armati<br />
dello Stato, una levata <strong>di</strong> scu<strong>di</strong> analoga a quella che negli Stati Uniti ha<br />
unito il Congresso e i mass-me<strong>di</strong>a, dall’estrema destra all’estrema sinistra,<br />
contro l’ingresso della politica nelle forze armate. Temi come lo «spirito<br />
militare», il «comando», il «morale», rivalutati dal <strong>di</strong>battito americano, sono<br />
stati respinti dalla cultura del nostro paese.<br />
In quel clima politico e culturale il corpo militare ha preferito adottare<br />
un basso profilo <strong>di</strong>segnandosi un ruolo subor<strong>di</strong>nato alla politica. I suoi<br />
vertici non hanno profferto parola contro la propria esclusione, caso unico<br />
in Occidente, dalla consultazione e decisione <strong>di</strong> governo su temi militari.<br />
Nessuno che tuttora si chieda se non è un paradosso che il capo delle Forze<br />
Armate italiane non abbia un accesso istituzionalmente riconosciuto al<br />
Consiglio dei ministri. Si aggiunga che il luogo <strong>di</strong> consultazione e decisione<br />
<strong>di</strong> governo nelle crisi e in guerra, ovverossia il <strong>Centro</strong> <strong>di</strong> decisione nazionale<br />
(CDN), a vent’anni dalla sua nascita è più deserto che mai e che la linea<br />
decisionale segue spesso canali informali. Che, con rara frequenza, il Capo<br />
dello Stato convochi alcune autorità <strong>di</strong> governo assieme ai vertici militari è<br />
dovuto soprattutto al rispetto <strong>di</strong> procedure rituali senza ricadute importanti<br />
sul processo decisionale.<br />
Si potrà <strong>di</strong>re: che importa? Importa, eccome. Tanto per fare un esempio,<br />
il generale Wesley Clarke, ex comandante supremo della Nato nella guerra<br />
del Kossovo, afferma che, in caso <strong>di</strong> offensiva terrestre contro la Serbia,<br />
l’Italia avrebbe contribuito con 3.500 soldati. Che il Governo lo avesse<br />
deciso si è saputo solo con mesi <strong>di</strong> ritardo, a guerra finita, e con l’uscita del<br />
libro <strong>di</strong> Clarke e che le nostre truppe, non tempestivamente preavvisate del<br />
compito, potessero essere preparate e armate a dovere per un impegno<br />
cruento e <strong>di</strong>fficile, è alquanto dubbio. In realtà, nessun governo ha mai<br />
voluto ascoltare in sede collettiva i propri capi militari sui temi <strong>di</strong> loro<br />
competenza, accontentandosi anche sul piano «tecnico» del parere del<br />
ministro della Difesa notoriamente e inevitabilmente scelto fra militesenti.<br />
In realtà ciò avviene quando la classe politica non vuole cedere spazio ai<br />
«tecnici» neppure nel campo dove solo essi dovrebbero essere competenti.<br />
Mai si è ritenuto necessario, come negli Stati Uniti, «dare cultura politica<br />
agli ufficiali, attribuire responsabilità politiche alle Istituzioni militari,<br />
84
Le istituzioni militari e la loro evoluzione nella società italiana contemporanea<br />
<strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> un competente parere militare» per poi chiedersi «se il parere<br />
militare è vitale per la sicurezza nazionale e se generali e ammiragli non<br />
sono chiamati a esporre il loro punto <strong>di</strong> vista, chi mai lo dovrebbe fare in<br />
vece loro?». È anche vero che invitare i militari a parlare non basta, importa<br />
che si siano convinti <strong>di</strong> avere l’obbligo <strong>di</strong> esporre con franchezza il loro<br />
parere, anche quando contrasta con l’opinione corrente o con la posizione<br />
dei loro capi politici. Ma la tendenza ad esporsi in controtendenza alla<br />
decisione politica è oggi sempre più rara, soprattutto in Italia dove i vertici<br />
delle istituzioni militari hanno una remissività eccessiva verso il potere<br />
politico, rifugiandosi nel riduttivo ruolo <strong>di</strong> fornitori tecnici <strong>di</strong> prestazioni.<br />
La ghettizzazione dei militari in un contesto «tecnico», perché ritenuti<br />
dalla classe politica non all’altezza <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogare con l’eccelso Olimpo politico<br />
ha inciso su molte scelte ad essi imposte in chiave solo politica, senza una<br />
seria verifica della loro attuabilità. È tuttora valido, e la crisi del dopoguerra<br />
in Irak lo riconferma, quanto asserito da Karl von Clausewitz centonovanta<br />
anni fa, cioè che «come un uomo che non ha piena padronanza <strong>di</strong> una<br />
lingua straniera trova talvolta <strong>di</strong>fficile esprimersi correttamente, così uomini<br />
<strong>di</strong> Stato emanano or<strong>di</strong>ni che contrad<strong>di</strong>cono lo scopo che si ripromettono<br />
<strong>di</strong> conseguire». Per citare alcune sprovvedute riforme, la smilitarizzazione<br />
della polizia e l’uscita dall’esercito dei carabinieri, due misure <strong>di</strong> cui è <strong>di</strong>fficile<br />
capire sul piano funzionale il perché, la proliferazione <strong>di</strong> modelli della <strong>di</strong>fesa<br />
esibiti da ogni ministro senza che nessuno sia mai andato in porto, le<br />
promesse mai mantenute <strong>di</strong> consistenti aumenti del bilancio della <strong>di</strong>fesa<br />
esiguo e male amministrato, infine la fine del servizio <strong>di</strong> leva, il suo rimpiazzo<br />
con il professionismo all’ombra del trionfo dell’obiezione con tappe<br />
politicamente convenienti ma militarmente nocive. Tale faciloneria influisce<br />
anche nella gestione dei corpi militari che, in assenza <strong>di</strong> chiare in<strong>di</strong>cazioni<br />
sono sbattuti ovunque secondo un presenzialismo <strong>di</strong> politica estera che<br />
contrad<strong>di</strong>ce la razionalità militare. Stessa tendenza per le forze dell’or<strong>di</strong>ne,<br />
chiamate a impegnarsi nelle più varie occasioni con grave <strong>di</strong>spen<strong>di</strong>o <strong>di</strong> risorse,<br />
morali e professionali. È indubbio che un maggiore peso dei rispettivi vertici<br />
nella formulazione delle decisioni contribuirebbe a razionalizzare le decisioni.<br />
Non negli Stati Uniti e neppure in Italia, un metodo analogo allo spoils<br />
system ha investito l’apparato militare tuttavia, mentre quello americano ha<br />
finora opposto, con il pieno sostegno della nazione, precisi limiti all’ingerenza<br />
politica, è <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong>re altrettanto <strong>di</strong> quello italiano. Mai, che io sappia, in<br />
Italia un giornalista <strong>di</strong> rango ha messo in guar<strong>di</strong>a dalla politicizzazione degli<br />
alti gra<strong>di</strong> militari, mentre negli Stati Uniti l’autorevole Walter Lippman ha<br />
85
Luigi Caligaris<br />
denunciato come «intollerabile l’eventualità d’uno scisma fra generali<br />
repubblicani e democratici! Anzi, in Italia non è passato molto tempo da<br />
quando esponenti politici hanno riven<strong>di</strong>cato il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> estendere, sia pure<br />
extra legem, lo spoils system ai vertici dei corpi armati dello Stato e i mass<br />
me<strong>di</strong>a si sono limitati a prendere atto <strong>di</strong> quelle pretese quasi che esse<br />
rientrassero nella normalità del rapporto fra istituzioni e politica. Quelle<br />
riven<strong>di</strong>cazioni sono, a quanto pare, rientrate ma non è arbitrario temere<br />
che si rinnovino alla prima occasione. Si aggiunga inoltre che le tecniche <strong>di</strong><br />
seduzione messe in opera dalla politica per aggiu<strong>di</strong>carsi la lealtà partigiana<br />
delle istituzioni sono state rivolte anche ai corpi armati dello Stato.<br />
Seppure oggi, grazie al Capo dello Stato, il corpo militare sia riproposto<br />
alla nazione, non s’intravedono tentativi significativi per porre rime<strong>di</strong>o alle<br />
vistose carenze della cultura militare. Lo scopo <strong>di</strong> un’offensiva culturale<br />
non deve essere il concedere un premio <strong>di</strong> consolazione ai militari per i<br />
torti subiti o assicurare loro la benevolenza, magari interessata, della cultura<br />
e dei me<strong>di</strong>a. Dopo decenni <strong>di</strong> subalternità è d’obbligo che i militari, forze<br />
armate e forze dell’or<strong>di</strong>ne, si facciano essi stessi promotori convinti e<br />
autorevoli d’un nuovo pensiero militare, d’una forte identità militare, <strong>di</strong><br />
un genuino spirito militare. Negli anni cinquanta, periodo critico per le<br />
forze armate americane, si è così rivolto ai militari Sam Huntington: «Sui<br />
soldati, i <strong>di</strong>fensori dell’or<strong>di</strong>ne, posa una grande responsabilità. Il più grande<br />
servizio che essi possono rendere alla nazione è <strong>di</strong> essere fedeli alle proprie<br />
convinzioni, <strong>di</strong> servire con spirito militare, con coraggio e in silenzio. Se<br />
rinnegano lo spirito militare <strong>di</strong>struggono se stessi e danneggiano la nazione.<br />
Se i civili consentiranno ai militari <strong>di</strong> aderire ai propri valori, le nazioni<br />
stesse potranno tutelare la propria sicurezza facendo propri quegli stessi<br />
valori».<br />
Poco tempo fa così è intervenuto il Capo dello Stato in un suo incontro<br />
con i giornalisti, «la regola è nella propria coscienza, nel mantenere dritta la<br />
propria spina dorsale, la schiena dritta è nel vostro DNA!». Può non esserla<br />
quella delle istituzioni militari?<br />
86
Africa e <strong>di</strong>ntorni<br />
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
<strong>di</strong> Aram Mattioli<br />
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
I. Già solo porre la questione se l’Italia fascista abbia praticato<br />
l’apartheid ancora non molto tempo fa avrebbe provocato espressioni <strong>di</strong><br />
stupore e perplessità e magari anche scettici scuotimenti <strong>di</strong> capo. In effetti<br />
fino a qualche anno fa prevalevano immagini assolutamente deformate e<br />
minimizzanti del razzismo fascista. L’Italia <strong>di</strong> Mussolini appariva a molti<br />
sopravvissuti e a molti storici - che avevano ancora negli occhi la barbarie<br />
senza precedenti del «megasterminio» nazionalsocialista (Gunnar<br />
Heinsohn) - una luminosa eccezione, perché fino al 1938 non sarebbe<br />
riscontrabile nessuna prassi fondata sull’antisemitismo e solo da questa<br />
data, sulla scia dell’avvicinamento politico al Terzo Reich, l’Italia sarebbe<br />
scivolata nella <strong>di</strong>scriminazione della minoranza ebrea, la cui esistenza non<br />
sarebbe comunque mai stata minacciata prima della caduta <strong>di</strong> Mussolini<br />
il 25 luglio 1943. Nel 1942-43 i generali e <strong>di</strong>plomatici italiani in Grecia,<br />
Jugoslavia e nella Francia meri<strong>di</strong>onale, occupate militarmente, si sarebbero<br />
opposti all’olocausto per pura umanità, proteggendo migliaia <strong>di</strong> ebrei<br />
dalla deportazione 1 . Anche dopo l’occupazione tedesca dell’Italia numerosi<br />
piccoli funzionari, preti cattolici e semplici citta<strong>di</strong>ni avrebbero sabotato<br />
la consegna degli ebrei italiani ai tedeschi, salvando così la vita a molti<br />
perseguitati 2 . Questo comportamento andrebbe spiegato come «prodotto<br />
della generale, spontanea umanità <strong>di</strong> un popolo <strong>di</strong> antica civiltà» - così<br />
Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male 3 .<br />
E lo storico Jonathan Steinberg, docente a Cambridge, ha parlato in<br />
questo contesto ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> una «banalità del bene» tipica degli italiani,<br />
noncuranti dell’autorità e incapaci <strong>di</strong> far male a una mosca 4 .<br />
Ovviamente anche gli storici italiani si sono adoperati a tessere la<br />
leggenda degli «italiani brava gente» 5 . La riduttiva e minimizzante<br />
87
Aram Mattioli<br />
interpretazione della <strong>di</strong>ttatura fascista risale inequivocabilmente a Renzo<br />
De Felice, romano e professore <strong>di</strong> storia (1929-1996), che a partire dagli<br />
anni settanta si è fatto un nome in Italia come maggiore storico<br />
contemporaneo grazie a una monumentale biografia <strong>di</strong> Mussolini 6 , nei<br />
cui volumi - che assommano a molte migliaia <strong>di</strong> pagine - l’autore presenta<br />
l’Italia fascista come una <strong>di</strong>ttatura sui generis, assolutamente<br />
imparagonabile al Terzo Reich, perché le <strong>di</strong>fferenze tra i due regimi<br />
sarebbero state «enormi». Si sarebbe trattato <strong>di</strong> due mon<strong>di</strong>, due tra<strong>di</strong>zioni,<br />
due storie nazionali talmente <strong>di</strong>fferenti da rendere straor<strong>di</strong>nariamente<br />
<strong>di</strong>fficile guardare ad esse dallo stesso punto <strong>di</strong> vista 7 . Il fascismo italiano,<br />
secondo De Felice, non avrebbe posseduto né il potenziale <strong>di</strong> violenza né<br />
la volontà razzista <strong>di</strong> sterminio del nazionalsocialismo. Pochi anni dopo<br />
De Felice arrivò a stabilire apo<strong>di</strong>tticamente che Mussolini «non fu mai<br />
razzista e tantomeno fu antisemita» 8 . Non pago <strong>di</strong> ciò, nel 1987 concluse<br />
che l’accusa <strong>di</strong> genoci<strong>di</strong>o non potesse toccare l’Italia, che quin<strong>di</strong> resta al<br />
<strong>di</strong> fuori del cono d’ombra dell’olocausto 9 . E ancora nel 1993, tracciando<br />
un bilancio delle sue decennali ricerche, De Felice delineò la tesi che il<br />
fascismo non potesse definirsi né razzista né tantomeno antisemita 10 . Le<br />
sue conclusioni si basavano sul fatto che durante il «ventennio nero» (dal<br />
1922 al 1943-45) la stragrande maggioranza degli italiani si sarebbe<br />
<strong>di</strong>mostrata immune al virus del razzismo e dell’antisemitismo.<br />
Solo <strong>di</strong> recente nuove ricerche hanno corretto queste insostenibili<br />
valutazioni <strong>di</strong>mostrando che l’Italia fascista ha in realtà portato avanti<br />
una politica ben più intrisa <strong>di</strong> violenza e <strong>di</strong> razzismo <strong>di</strong> quanto non abbiano<br />
voluto far credere la precedente storiografia italiana e tedesca 11 . Quella <strong>di</strong><br />
Mussolini non fu mai una <strong>di</strong>ttatura dal volto umano: la violenza bellica<br />
scatenata in Africa e nei Balcani dall’esercito italiano e il terrore della<br />
successiva occupazione, entrambi fondati su motivazioni <strong>di</strong> stampo<br />
razzista, costarono, entro il 1943, almeno 800.000 vite 12 .<br />
In questo breve saggio si tenterà allora <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare che la violenza<br />
razzista fece parte della quoti<strong>di</strong>anità dell’Italia fascista fin da subito. Inoltre<br />
si porrà in evidenza che - a partire dalla conquista dell’Etiopia, cioè<br />
dall’estate del 1936 - la <strong>di</strong>ttatura <strong>di</strong> Mussolini si sviluppò autonomamente<br />
in un «regime apertamente razzista» (Georg M. Fredrickson). È peraltro<br />
evidente che il razzismo fascista ebbe una propria e peculiare impronta:<br />
<strong>di</strong>versamente che nel Terzo Reich esso si in<strong>di</strong>rizzò inizialmente soprattutto<br />
contro gli slavi e gli africani, prima che ne fossero vittima anche gli ebrei.<br />
È su questa circostanza storica che si fondano le riflessioni che seguono.<br />
88
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
Le leggi razziali del 1938 non piovvero dal cielo, ma furono il risultato <strong>di</strong><br />
uno sviluppo durato a lungo, collegato a precedenti esperienze autoctone.<br />
In effetti il successo del trapasso del 1938 in un sistema <strong>di</strong> «antisemitismo<br />
statale» 13 non può essere adeguatamente spiegato qualora si trascuri il<br />
ruolo <strong>di</strong> battistrada esercitato dell’antislavismo e dal razzismo coloniale.<br />
II. Il pensiero razzista muove dal presupposto che esista un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />
subor<strong>di</strong>nazione - apparentemente biologica - dei <strong>di</strong>versi gruppi etnici e<br />
quin<strong>di</strong> si collega strettamente al dogma dell’ineguaglianza degli uomini 14 .<br />
Il razzismo si manifesta pertanto «quando un gruppo etnico o una<br />
collettività storica domina, esclude o tenta <strong>di</strong> eliminare un altro gruppo<br />
sulla base <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenze che esso ritiene ere<strong>di</strong>tarie e immutabili» 15 . In<br />
concreto, il razzismo serve a motivare e imporre una volontà <strong>di</strong> dominio.<br />
Secondo la sociologa Karin Priester il razzismo può quin<strong>di</strong> essere definito<br />
come «una strategia fondata su basi pseudoscientifiche, intesa a <strong>di</strong>strarre<br />
dai conflitti sociali e volta a legittimare un predominio assoluto» 16 .<br />
Già prima della marcia su Roma era percepibile alla base del fascismo<br />
italiano una corrente razzista <strong>di</strong> questo stampo. La prima forma assunta<br />
dal razzismo fascista fu quella della «slavofobia», la sprezzante<br />
<strong>di</strong>scriminazione degli slavi del Sud, con cui il regno d’Italia aveva in<br />
comune il confine nordorientale già ai tempi della monarchia asburgica.<br />
Già dall’inizio del XX secolo l’o<strong>di</strong>o per gli slavi era particolarmente<br />
marcato in molti degli irredentisti, per i quali il regno d’Italia rimaneva<br />
uno stato nazionale incompleto, anche dopo l’unificazione del paese,<br />
poiché oltre i confini rimanevano ancora numerose «regioni irredente».<br />
In questi circoli nazionalisti l’aspirazione a <strong>di</strong>ffondere l’«italianità» ebbe<br />
da subito forti connotazioni antislave 17 . Molti <strong>di</strong> questi irredentisti<br />
ritenevano gli slavi che vivevano sotto il dominio asburgico una «razza<br />
inferiore», composta da conta<strong>di</strong>ni grossolani e ignoranti, incapaci <strong>di</strong><br />
una cultura evoluta 18 . Non poteva quin<strong>di</strong> essere negata alla superiore<br />
civiltà italiana la giusta pretesa del confine sul Brennero con i territori<br />
del Trentino, le città <strong>di</strong> Trieste e Gorizia, l’Istria e la costa dalmata -<br />
queste erano le richieste che gli irredentisti avanzano prima della Grande<br />
Guerra. Gli esponenti dell’irredentismo sostenevano la superiorità della<br />
civiltà italiana e pensavano usando categorie <strong>di</strong> stampo razzista. Essi<br />
consideravano come territorio esclusivamente italiano anche la<br />
terraferma dell’antica Repubblica <strong>di</strong> Venezia, che fino al 1796 aveva<br />
89
Aram Mattioli<br />
avuto sotto <strong>di</strong> sé tutta la costa dalmata. Solo il possesso dell’intera<br />
Dalmazia avrebbe quin<strong>di</strong> consentito all’Italia <strong>di</strong> raggiungere i propri<br />
confini naturali.<br />
L’o<strong>di</strong>o per gli slavi crebbe quando l’Italia combatté contro l’Austria-<br />
Ungheria, nel cui esercito dovevano servire molti soldati <strong>di</strong> origine slava.<br />
Gli irredentisti percepirono sempre la prima guerra mon<strong>di</strong>ale anche come<br />
un «conflitto razziale» contro i germani e gli slavi che irrompevano dal<br />
Nord. Nel 1919, dopo il crollo della monarchia austro-ungarica l’Italia<br />
ottenne non solo territori posti sul confine nordorientale, con popolazioni<br />
tedesche e slave, ma anche un confine affacciato sulla Jugoslavia, il regno<br />
<strong>di</strong> recente fondazione che raccoglieva serbi, croati e sloveni. Rimase invece<br />
inesau<strong>di</strong>to il sogno <strong>di</strong> avere l’intera costa dalmata, con l’eccezione della<br />
città portuale <strong>di</strong> Zadar e delle isole <strong>di</strong> Lagosta (Lastovo), Cherso (Cres)<br />
e Lussin (Losinj). La tesi propagan<strong>di</strong>stica <strong>di</strong> una «vittoria mutilata» spinse<br />
molti nazionalisti delusi tra le braccia del fascismo. Gli intellettuali<br />
irredentisti Attilio Tamaro, Francesco Salata e Fulvio Suvich, tutti originari<br />
della Venezia Giulia, introdussero l’o<strong>di</strong>o per gli slavi nel movimento<br />
fascista 19 .<br />
I fascisti, che già avevano elevato la slavofobia a programma politico,<br />
una volta preso il potere ne fecero anche una parte della propria politica<br />
<strong>di</strong> governo. Nel 1919 i duri dei fasci <strong>di</strong> combattimento appoggiarono il<br />
colpo <strong>di</strong> mano <strong>di</strong> Gabriele D’Annunzio contro la città portuale <strong>di</strong> Fiume,<br />
vedendovi il primo passo per un’annessione della Dalmazia all’Italia 20 . In<br />
un <strong>di</strong>scorso tenuto a Pola (l’o<strong>di</strong>erna croata Pula), Mussolini <strong>di</strong>chiarò<br />
<strong>di</strong>nanzi ai suoi entusiasti sostenitori: «Davanti a una razza barbara e<br />
inferiore come quella slava non si può agitare la politica dello zuccherino,<br />
ma quella della frusta» 21 . Particolarmente o<strong>di</strong>osa agli occhi delle camicie<br />
nere era la figura dello «slavo-comunista», che riuniva contemporaneamente<br />
due caratteristiche negative; quella <strong>di</strong> appartenere a una razza<br />
inferiore e <strong>di</strong> avere convinzioni politiche detestabili 22 . Tra le prime vittime<br />
dei fasci combattenti vi furono, oltre a comunisti e socialisti, anche sloveni<br />
e croati. Bande <strong>di</strong> picchiatori fascisti, con il pretesto <strong>di</strong> combattere il<br />
bolscevismo, si aggiravano per la Venezia Giulia - quin<strong>di</strong> nelle nuove<br />
province <strong>di</strong> Trieste, Gorizia, Pola e dell’Istria -, aggredendo esponenti e<br />
assalendo istituzioni slave 23 nel tentativo <strong>di</strong> intimi<strong>di</strong>re le popolazioni<br />
con assassini, saccheggi e incen<strong>di</strong> e costringere all’esilio gli o<strong>di</strong>ati uomini<br />
<strong>di</strong> sinistra. Questo fascismo ai confini del paese si <strong>di</strong>stinse già prima della<br />
marcia su Roma per la sua particolare aggressività.<br />
90
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
Subito dopo la presa del potere, nel 1922, si evidenziò che il governo<br />
<strong>di</strong> Mussolini intendeva portare avanti con grande impegno una rigida<br />
politica repressiva nelle nuove province, inserendo così un elemento <strong>di</strong><br />
potenziale conflittualità in una zona dove fino ad allora <strong>di</strong>versi popoli<br />
avevano convissuto relativamente in pace. Trieste per esempio era una<br />
città <strong>di</strong> mare multiculturale, a maggioranza <strong>di</strong> lingua italiana ma con un<br />
territorio circostante <strong>di</strong> impronta fortemente slava 24 . Ora Roma premeva<br />
per «italianizzare» la Venezia Giulia e in particolare la penisola istriana,<br />
abitata in maggioranza da sloveni e croati. L’italianizzazione forzata mirava<br />
a polverizzare la cultura e l’identità degli slavi meri<strong>di</strong>onali 25 . In ultimo, la<br />
politica fascista dell’assimilazione forzata si trasformò in un «genoci<strong>di</strong>o<br />
culturale» 26 .<br />
In nome dell’italianizzazione forzata, l’uso delle lingue slovena e croata<br />
venne quin<strong>di</strong> fortemente limitato e proibito nei documenti ufficiali. A partire<br />
da quel momento, le lezioni scolastiche vennero tenute solo in lingua italiana<br />
e con sussi<strong>di</strong> <strong>di</strong>dattici italiani. Il governo centrale impose alle amministrazioni<br />
locali l’epurazione dei funzionari slavi, chiuse giornali e istituti educativi.<br />
Poco alla volta venne <strong>di</strong>strutta la rete <strong>di</strong> associazioni e organizzazioni culturali<br />
slave, mentre in parallelo si procedeva all’italianizzazione dei nomi <strong>di</strong> località,<br />
piazze e strade e ai sud<strong>di</strong>ti slavi venivano affibbiati nomi italiani 27 . Non<br />
contenta, Roma aumentò la pressione economica e fiscale sulle famiglie<br />
conta<strong>di</strong>ne e i piccoli proprietari, costringendoli a cedere ogni loro avere. Ad<br />
alcuni <strong>di</strong> loro non rimase altro che abbandonare la propria patria, mentre i<br />
loro beni vennero subito trasferiti a famiglie italiane 28 . Il regime fascista<br />
procedette anche contro azioni <strong>di</strong> resistenza con eccezionale durezza. Il<br />
Tribunale speciale per la <strong>di</strong>fesa dello Stato, istituito nel 1926, emanò un<br />
numero superiore alla me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> condanne a morte per slavi definiti «terroristi»<br />
e numerose altre condanne a pesanti pene detentive 29 . La politica<br />
dell’assimilazione forzata venne giustificata con il «<strong>di</strong>ritto naturale del più<br />
forte» e la presunta «superiorità della civiltà italiana».<br />
In breve, l’antislavismo fascista mirava a una società in cui gli italiani<br />
avrebbero avuto il ruolo <strong>di</strong> popolo dominatore e gli slavi quello <strong>di</strong> popolo<br />
dominato. Pierre André Taguieff ha definito una volta questa tipologia base<br />
<strong>di</strong> prassi razzista come «razzismo <strong>di</strong> dominio» contrapponendolo al «razzismo<br />
<strong>di</strong> sterminio» 30 . In effetti si trattava <strong>di</strong> una forma inclusiva <strong>di</strong> esercizio <strong>di</strong><br />
potere: alla popolazione slava non veniva negato in linea <strong>di</strong> principio il<br />
<strong>di</strong>ritto ad esistere nella società dominata dagli italiani, ma doveva comunque<br />
adattarsi alla «politica <strong>di</strong> repressione etnica» o abbandonare il paese. Così,<br />
91
Aram Mattioli<br />
tra il 1919 e il 1939 circa 100.000 dei 440.000 sloveni e croati preferirono<br />
l’emigrazione a una ulteriore permanenza in Italia 31 . Un sistema molto più<br />
ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong> violenza razzista fu invece quello instaurato dai fascisti nell’Africa<br />
Orientale italiana, cui va riservata una particolare attenzione per essere stata<br />
il terreno sperimentale del razzismo fascista.<br />
III. Già nel 1975 lo storico britannico Dennis Mack Smith avanzò la<br />
tesi che il contributo più notevole dell’Italia fascista al colonialismo siano<br />
state la teoria e la prassi dell’apartheid 32 . E in realtà in Africa i fascisti - alla<br />
pari delle altre potenze coloniali - non solo portarono avanti una politica<br />
razziale, ma costruirono un sistema istituzionale <strong>di</strong> segregazione razziale,<br />
che sotto molti aspetti anticipava quello che, dopo la vittoria elettorale del<br />
1948 in Sudafrica dei conservatori, <strong>di</strong>venne universalmente noto come<br />
apartheid 33 . Come poi nella Repubblica sudafricana, anche il sistema fascista<br />
stabiliva l’assoluto predominio culturale, socioeconomico e politico del<br />
conquistatore bianco, condannando la maggioranza della popolazione -<br />
nera - a vivere nell’ombra, priva <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti e relegata ai margini della società.<br />
L’apartheid rappresenta «una forma <strong>di</strong> razzismo che si prefigge <strong>di</strong> ottenere,<br />
tramite opportune misure legislative, la separazione più netta possibile tra<br />
le “razze”, a mezzo della segregazione spaziale, sociale e culturale» 34 .<br />
L’apartheid è espressione <strong>di</strong> una «violenza strutturale» (Johann Galtung).<br />
Fondata su motivazioni razziali e perseguita politicamente, essa lede le chance<br />
esistenziali delle persone <strong>di</strong> colore, respingendole al <strong>di</strong> sotto <strong>di</strong> ogni livello<br />
che sarebbe loro potenzialmente possibile raggiungere 35 . Un vecchio eritreo<br />
intravide con precisione il meccanismo dell’oppressione e della repressione,<br />
quando nel 1993 constatava: «Allora venivamo trattati come cani, come<br />
bestie, non come esseri umani. Ad esempio, per bere non ci davano un<br />
bicchiere, ma un bidone o un secchio <strong>di</strong> latta, non dovevamo fare quello<br />
che facevano i bianchi […]. Al tempo <strong>di</strong> Mussolini abbiamo fatto una vita<br />
davvero da cani; non ci trattavano come uomini» 36 . Non meno chiara è la<br />
<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> un’altra vittima della <strong>di</strong>scriminazione razzista: «Ma il<br />
fascismo non è stato un buon governo, era violento e <strong>di</strong>scriminante, si<br />
potrebbe quasi <strong>di</strong>re che era volgare nel suo atteggiamento verso i nativi<br />
[…]. Ognuno <strong>di</strong> noi si sentiva inferiore, ovunque andasse» 37 .<br />
Ben <strong>di</strong>versamente da quanto racconta la <strong>di</strong>ffusa leggenda <strong>di</strong> un<br />
«colonialismo dal volto umano», una rigida gerarchia razziale improntò da<br />
subito la quoti<strong>di</strong>anità e la società dell’Africa Orientale italiana. Naturalmente<br />
92
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
gli italiani e gli altri europei erano <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto collocati sopra ai nativi neri,<br />
considerati «esseri inferiori». La politica razziale prescritta da Roma partiva<br />
dal principio che anche il più rozzo analfabeta del Mezzogiorno si doveva<br />
sentire una spanna al <strong>di</strong> sopra <strong>di</strong> ogni in<strong>di</strong>geno, anche quando appartenesse a<br />
una famiglia aristocratica o fosse un dotto religioso o un intellettuale educato<br />
in Occidente. Più <strong>di</strong> 12 milioni <strong>di</strong> sud<strong>di</strong>ti neri erano sottomessi a un<br />
sottoproletariato bianco che nel 1940 arrivò a contare circa 300.000 persone 38 .<br />
Il sistema <strong>di</strong> apartheid instaurato dopo il 1936 non fu una invenzione<br />
tutta fascista, ma si rifaceva a singole pratiche segregazioniste che gli italiani<br />
avevano introdotto in Eritrea alla vigilia della prima guerra mon<strong>di</strong>ale. Già nel<br />
1908 la città <strong>di</strong> Asmara era stata sud<strong>di</strong>visa in tre zone residenziali, una delle<br />
quali riservata esclusivamente agli europei. Nello stesso anno nell’ospedale<br />
civile <strong>di</strong> Massaua erano stati allestiti reparti separati per pazienti bianchi e<br />
neri. Nel 1909 la potenza coloniale istituì sistemi scolastici separati per bambini<br />
italiani e africani, giustificati dal ministro degli Esteri, il liberale Antonio Di<br />
San Giuliano, con le capacità intellettive presuntivamente ridotte dei bambini<br />
africani. Nel 1916 poi un decreto proibì l’ingresso degli in<strong>di</strong>geni nel quartiere<br />
europeo dell’Asmara, con l’unica eccezione del personale <strong>di</strong> servizio. Fino al<br />
1930 i cinema eritrei ebbero giorni separati <strong>di</strong> proiezione per gli spettatori<br />
bianchi e neri, un provve<strong>di</strong>mento ritenuto urgentemente necessario dal<br />
governatore italiano per motivi <strong>di</strong> igiene e soprattutto per via dell’«odore» 39 .<br />
Dopo l’annessione dell’Etiopia nel 1936, la politica razziale fascista compì<br />
un vero e proprio balzo quantico. Per la prima volta il regime fascista si<br />
trovò infatti a rendersi conto che molti milioni <strong>di</strong> africani vivevano sotto il<br />
dominio italiano. Pungolato da antropologi fascisti come Li<strong>di</strong>o Cipriani,<br />
che riteneva gli etiopi una «razza inferiore», nel 1936 il regime scoprì la<br />
«questione della razza». Dopo la proclamazione dell’Impero, il <strong>di</strong>ttatore<br />
infarcì sempre più spesso i suoi <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> <strong>di</strong>chiarazioni razziste, ammettendo<br />
pubblicamente l’esistenza <strong>di</strong> una «gerarchia fra le razze» e arrivò a parlare<br />
della popolazione africana come <strong>di</strong> un «complesso inferiore». Per contro si<br />
<strong>di</strong>ede a rappresentare gli italiani, per i quali avrebbe contato solo il «<strong>di</strong>ritto<br />
del più forte», come una «geniale razza <strong>di</strong> conquistatori». Come per tutti i<br />
razzisti, anche per Mussolini i rapporti tra uomini bianchi e donne nere<br />
costituivano una spina nel fianco, perché avrebbero guastato il «prestigio<br />
della razza». Il Duce confidò a una cerchia ristretta: «non si conquista un<br />
impero per degenerare. Non voglio dei mezzosangue» 40 . Nelle file della<br />
<strong>di</strong>rigenza fascista iniziò a metà degli anni trenta un’intensa <strong>di</strong>scussione basata<br />
su concetti fortemente ideologici quali il «prestigio della razza» e<br />
93
Aram Mattioli<br />
l’adeguatezza del comportamento alla razza d’appartenenza 41 . In essa trovò<br />
largo spazio l’ossessione della «mescolanza delle razze», soprattutto perché i<br />
fascisti facevano del «meticciato» il responsabile della morte <strong>di</strong> molti gran<strong>di</strong><br />
imperi storici 42 . Su questo sfondo appariva urgente una politica <strong>di</strong> «<strong>di</strong>fesa<br />
della razza italiana», un’esigenza ideologica che - trasposta nei posse<strong>di</strong>menti<br />
d’Oltremare - portò a praticare una stretta segregazione razziale.<br />
La politica dell’apartheid nell’Africa Occidentale italiana non fu<br />
contrassegnata solo da una progressiva ra<strong>di</strong>calizzazione, ma si esercitò in<br />
settori sempre più ampi della vita sociale 43 . Nell’arco <strong>di</strong> pochi anni essa<br />
passò dai primi provve<strong>di</strong>menti presi all’insegna dell’improvvisazione a un<br />
sistema concluso, che si basava su numerose leggi e decreti. Quando Benito<br />
Mussolini venne a sapere che a Massaua un soldato italiano aveva giocato<br />
a carte con un in<strong>di</strong>geno, <strong>di</strong>ede istruzioni al vicegovernatore dell’Eritrea, il 5<br />
maggio 1936, perché vietasse imme<strong>di</strong>atamente qualunque contatto tra<br />
bianchi e neri. Fortemente preoccupato per il «prestigio della razza» il<br />
<strong>di</strong>ttatore or<strong>di</strong>nò poco dopo che nei ristoranti i camerieri italiani non<br />
dovessero più servire gli in<strong>di</strong>geni e che i camionisti non dovessero più<br />
trasportare i neri 44 . Una prima sistematizzazione della politica <strong>di</strong> apartheid<br />
venne data da una <strong>di</strong>rettiva inviata dal ministro delle Colonie Lessona al<br />
viceré Rodolfo Graziani il 5 agosto 1936, in cui gli si dava mandato <strong>di</strong> fare<br />
della «separazione tra la razza bianca e quella nera» il filo conduttore della<br />
politica italiana 45 . In particolare andava impe<strong>di</strong>ta ogni confidenza tra le<br />
«due razze» e occorreva limitare i contatti quoti<strong>di</strong>ani allo stretto necessario.<br />
Quartieri residenziali e ritrovi dovevano essere tenuti separati e le relazioni<br />
tra italiani e donne nere cessare. Fino a quando non fossero arrivate le<br />
famiglie dall’Italia, potevano essere mantenuti in esercizio bordelli con<br />
«donne <strong>di</strong> razza bianca», or<strong>di</strong>nava ancora Lessona, al fine <strong>di</strong> evitare<br />
indesiderati contatti sessuali 46 . Solo un paio <strong>di</strong> settimane più tar<strong>di</strong> un<br />
capitano dell’esercito veniva condannato a 20 giorni <strong>di</strong> fortezza e al rimpatrio<br />
per aver permesso a una prostituta nera <strong>di</strong> entrare in un campo militare<br />
posto sotto il suo comando 47 .<br />
In seguito, non vi fu quasi nessun ambito della società che non venisse<br />
toccato dalla politica <strong>di</strong> segregazione e <strong>di</strong>scriminazione prescritta da Roma.<br />
L’apartheid si rifletteva anche nell’immagine delle città: ad Ad<strong>di</strong>s Abeba,<br />
Harrar, Jimma, Gondar e Dessiè si giunse a creare quartieri residenziali<br />
separati per bianchi e neri. Solo nella capitale migliaia <strong>di</strong> in<strong>di</strong>geni vennero<br />
costretti a trasferirsi in nuovi quartieri e anche il mercato, che fin dai tempi<br />
dell’imperatore Menelik si teneva nei pressi della cattedrale <strong>di</strong> San Giorgio,<br />
94
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
venne spostato nel quartiere riservato alla gente del luogo 48 . Poco alla volta<br />
sorsero scuole separate, ospedali, ristoranti, bar e negozi, cinema, cimiteri e<br />
perfino bordelli. In autobus i passeggeri neri dovevano sedersi in fondo,<br />
perché la parte davanti era riservata ai bianchi. Gli uffici pubblici avevano<br />
sportelli separati perché era lesivo del «prestigio <strong>di</strong> razza» che un italiano si<br />
mettesse in fila con gli etiopici e aspettasse come tutti. Nel 1940 il viceré<br />
Amedeo <strong>di</strong> Savoia rese noto <strong>di</strong> aver concluso un accordo con il<br />
plenipotenziario della Santa Sede perché in futuro si tenessero messe separate<br />
per bianchi e neri 49 .<br />
Non paga <strong>di</strong> ciò, l’amministrazione coloniale <strong>di</strong>scriminò la<br />
maggioranza nera anche sotto il profilo economico. Ben presto si formò<br />
una gerarchia professionale strutturata per razze e fondata sul principio<br />
delle retribuzioni ineguali 50 . Spesso i neri non ricevevano la stessa paga<br />
per lo stesso lavoro. Essi venivano trattati come una inesauribile riserva<br />
<strong>di</strong> manodopera completamente priva <strong>di</strong> bisogni e ai quali si potevano<br />
assegnare i lavori più gravosi e più ripugnanti. Naturalmente i bambini<br />
neri non ricevevano la stessa educazione dei figli degli impiegati o dei<br />
coloni italiani. La durata della scuola per loro si limitava a tre anni e<br />
del resto per loro quasi non esistevano scuole secondarie. Poche nozioni<br />
<strong>di</strong> matematica, igiene, geografia italiana e storia degli eroi fascisti erano<br />
sufficienti, dato che per loro nella società coloniale erano previsti solo<br />
posti <strong>di</strong> lavoro servili 51 .<br />
Il sistema <strong>di</strong> apartheid venne cementato da apposite leggi razziali. La<br />
prima legge razziale coloniale del 19 aprile 1937 stabiliva che il <strong>di</strong>ffuso<br />
fenomeno del «madamato» - vale a <strong>di</strong>re il concubinato stabile tra citta<strong>di</strong>ni<br />
italiani e donne nere (le madame) - era punibile, allo scopo <strong>di</strong> salvaguardare<br />
così il «prestigio della razza» italiana 52 . L’avviare una relazione amorosa<br />
interrazziale era da quel momento punibile con pene fino a cinque anni <strong>di</strong><br />
carcere. Non ci volle molto prima che venissero emanate le prime sentenze<br />
contro uomini italiani per il nuovo reato. Il 20 maggio 1938 il tribunale <strong>di</strong><br />
Ad<strong>di</strong>s Abeba condannò a 38 mesi <strong>di</strong> detenzione un operaio che aveva avuto<br />
con una ragazza Galla <strong>di</strong> tre<strong>di</strong>ci anni una relazione paramatrimoniale. Il 19<br />
novembre dello stesso anno un tribunale <strong>di</strong> Gondar appioppò un anno <strong>di</strong><br />
carcere a un altro operaio che aveva convissuto per quattro mesi con una<br />
donna nera 53 . Nella motivazione della sentenza del tribunale <strong>di</strong> Ad<strong>di</strong>s Abeba<br />
lo scopo del <strong>di</strong>vieto del «madamato» veniva descritto con parole pregnanti:<br />
«Lo stato <strong>di</strong> superiorità fisica e morale che ogni conquistatore necessariamente<br />
possiede può essere mantenuto e conservato solo evitando ogni<br />
95
Aram Mattioli<br />
mescolanza familiare con le razze inferiori assoggettate» 54 . La mescolanza<br />
delle razze era da evitare non solo perché ne sarebbe conseguito «il formarsi<br />
<strong>di</strong> un popolo <strong>di</strong> meticci e quin<strong>di</strong> un popolo fisicamente inferiore», ma<br />
soprattutto perché gli italiani non <strong>di</strong>ssipassero le proprie qualità <strong>di</strong> «razza<br />
dominante».<br />
La <strong>di</strong>suguaglianza giuri<strong>di</strong>ca tra «razza dominante» e «razza inferiore»<br />
venne accentuata dai decreti antisemiti del 17 novembre 1938, in<strong>di</strong>rizzati<br />
primariamente contro gli ebrei italiani, ma non privi <strong>di</strong> effetti anche sulla<br />
vita coloniale. Da quel momento erano assolutamente vietati i matrimoni<br />
tra citta<strong>di</strong>ni italiani «<strong>di</strong> razza ariana» e «non ariani», quin<strong>di</strong> anche tra italiani<br />
e donne africane. Senza peraltro citarlo espressamente, il <strong>di</strong>ritto matrimoniale<br />
italiano conobbe da allora un nuovo reato, lo «scandalo razziale». La seconda<br />
legge coloniale sulle razze del 29 giugno 1939 puntò a una forma<br />
istituzionalizzata <strong>di</strong> segregazione. Presentata da Mussolini e firmata da<br />
Vittorio Emanuele III, la legge - con il titolo «Sanzioni penali per la <strong>di</strong>fesa<br />
del prestigio <strong>di</strong> razza <strong>di</strong> fronte ai nativi dell’Africa italiana» - dava un assetto<br />
giuri<strong>di</strong>co all’apartheid. La legge si fondava sul presupposto implicito che<br />
esistessero una «gerarchia fra le razze» e una superiorità biologica dei<br />
«bianchi» e che non si trattasse <strong>di</strong> fenomeni temporanei ma <strong>di</strong> realtà<br />
irreversibili 55 . Con la legge del 1939, valida su tutto il territorio dello Stato,<br />
il regime fascista intendeva poi <strong>di</strong>fendere non solo il «prestigio della razza»<br />
italiana, ma tutti i bianchi appartenenti alla «razza ariana». Da quel momento<br />
potevano essere perseguiti tutti gli europei che - per esempio - frequentavano<br />
locali riservati ai neri o avessero accettato dagli in<strong>di</strong>geni lavori lesivi del<br />
prestigio dei bianchi. La legge riprendeva energicamente la lotta contro il<br />
«pericolo del meticciato», rinvigorendo la proibizione del «madamato». In<br />
realtà le condanne per questo delitto calarono <strong>di</strong> numero, anche se il<br />
fenomeno non scomparve affatto e anzi il numero delle nascite <strong>di</strong> bambini<br />
<strong>di</strong> razza mista crebbe ulteriormente 56 .<br />
Nell’opinione pubblica italiana perdura ancor oggi la leggenda che il<br />
colonialismo italiano fosse ben più umano <strong>di</strong> quello britannico, francese<br />
od olandese. Questa persistente menzogna deve essere urgentemente<br />
smentita, perché il sistema <strong>di</strong> apartheid instaurato dai fascisti nell’Africa<br />
Orientale non ha in realtà molti precedenti storici. Solo gli stati del Sud<br />
degli USA, l’Unione Sudafricana e la Germania nazionalsocialista<br />
conobbero forme <strong>di</strong> segregazione razziale già prima del 1939. Nel New<br />
South statunitense il matrimonio e il libero amore tra bianchi e persone<br />
<strong>di</strong> colore vennero proibiti nel 1910, mentre in Sudafrica l’«Immorality<br />
96
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
Act» del 1927 proibì i rapporti sessuali tra persone <strong>di</strong> appartenenza etnica<br />
<strong>di</strong>versa: il <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> matrimoni misti seguì nel 1949. Le Leggi <strong>di</strong><br />
Norimberga decretarono nel 1935 la punibilità dei matrimoni e dei<br />
rapporti sessuali extramatrimoniali tra citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> sangue tedesco ed ebrei.<br />
Ma nelle colonie tedesche in Africa le nozze tra bianchi e neri erano state<br />
proibite ancor prima della Grande Guerra 57 .<br />
Leggi che come queste mirassero alla «purezza della razza» non esistevano<br />
nel resto dell’Africa coloniale, sebbene anche negli inse<strong>di</strong>amenti d’Oltremare<br />
britannici o francesi esistessero quartieri, locali e mezzi <strong>di</strong> trasporto separati e<br />
anche sotto l’autorità inglese o francese fossero proibiti i contatti troppo stretti<br />
tra bianchi e neri. Ma nessuno finiva in carcere per infrazioni a queste regole,<br />
<strong>di</strong>versamente che nell’Africa Orientale italiana. Senza paralleli riscontri nella<br />
legislazione coloniale <strong>di</strong> altri paesi fu anche il tentativo italiano <strong>di</strong> preservare<br />
il «prestigio della razza» a mezzo <strong>di</strong> sanzioni legali. Il «razzismo d’apartheid»<br />
(Wolfgang Schieder) fascista travalicò i limiti del colonialismo tra<strong>di</strong>zionale 58 ,<br />
condannando gli in<strong>di</strong>geni dell’Africa del Nord e dell’Africa Orientale a una<br />
vita separata e priva <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità, che presentava molti tratti simili a quella che<br />
dopo il 1948 condusse la maggioranza <strong>di</strong> colore del Sudafrica.<br />
IV. L’apartheid introdotta e sperimentata in Africa spianò la strada<br />
all’antisemitismo <strong>di</strong> Stato. In un certo modo il sistema segregazionista ripassò<br />
dall’Oltremare alla madrepatria nel 1938, allargandosi fino a comprendere<br />
i citta<strong>di</strong>ni ebrei. Le esternazioni antisemite da parte <strong>di</strong> esponenti del regime<br />
crebbero vistosamente dopo la conquista dell’Impero abissino. Fino a quel<br />
momento l’Italia passava per un paese in cui l’integrazione della minoranza<br />
ebrea nella società era molto avanzata, tanto da costituire quasi un modello.<br />
Con l’Unità, non solo gli ebrei erano <strong>di</strong>venuti citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> pieno <strong>di</strong>ritto, ma<br />
anche - dopo l’abolizione nel 1870 dell’ultimo ghetto della vecchia Europa,<br />
quello romano - erano rapidamente saliti a posizioni sociali <strong>di</strong> vertice 59 .<br />
Già alla vigilia della Grande Guerra si contavano tra <strong>di</strong> essi ministri, generali,<br />
docenti universitari, magistrati e funzionari pubblici, una volta ad<strong>di</strong>rittura<br />
un primo ministro e il sindaco della stessa capitale, cosa questa che nella<br />
coeva Germania gugliemina era impensabile 60 .<br />
La presa del potere dei fascisti non comportò inizialmente un sensibile<br />
peggioramento delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita degli ebrei italiani. Come centinaia<br />
<strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> loro concitta<strong>di</strong>ni, anche fra gli ebrei italiani ve ne furono<br />
alcune centinaia che entrarono nel partito unico dello Stato fascista e altri<br />
97
Aram Mattioli<br />
continuarono a occupare posizioni <strong>di</strong> spicco nella società e nella cultura.<br />
Ancora tra il 1932 e il 1935 un ebreo - il ministro delle Finanze Guido<br />
Jung - era membro del Gabinetto. Alla raccolta delle fe<strong>di</strong> nuziali, con cui il<br />
governo invitò soprattutto le donne coniugate a versare i loro anelli per<br />
sostenere le spese della conquista dell’Etiopia, parteciparono anche le<br />
comunità ebraiche che non volevano rimanere in<strong>di</strong>etro nel generale<br />
entusiasmo per la guerra 61 . Nel primo decennio del suo potere, il Duce si<br />
espresse varie volte contro l’antisemitismo, che sarebbe stato estraneo al<br />
fascismo 62 . D’altra parte Mussolini ebbe una annosa relazione con la critica<br />
d’arte ebrea Margherita Sarfatti 63 . Con l’arrivo al potere dei nazionalsocialisti,<br />
l’Italia <strong>di</strong>venne un rifugio per gli ebrei in fuga, tanto che entro il 1939 il<br />
loro numero arrivò a 18.000 64 . Tutto ciò non deve però portare a false<br />
conclusioni: mirando a una stretta alleanza con la chiesa 65 il Duce infatti<br />
vietò alla pre<strong>di</strong>letta figlia Edda il matrimonio con un ufficiale ebreo, che<br />
riteneva inopportuno in un’Italia intrisa <strong>di</strong> cattolicesimo 66 . E naturalmente<br />
non intervenne nemmeno contro giornali violentemente antisemiti o libri<br />
<strong>di</strong> fascisti ra<strong>di</strong>cali come Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi, Telesio<br />
Interlan<strong>di</strong> e Paolo Orano.<br />
All’apice della sua potenza il fascismo avviò un lento cambiamento <strong>di</strong> corso<br />
verso gli ebrei italiani. Prendendo a pretesto la scoperta effettuata nel 1934 a<br />
Torino dagli organi <strong>di</strong> sicurezza un circolo antifascista, cui appartenevano<br />
numerosi ebrei, tra cui lo scrittore Leone Ginzburg e il pittore Carlo Levi, il<br />
regime scatenò una campagna <strong>di</strong> stampa antisemita 67 . Sempre più spesso il<br />
Duce e i suoi scherani addossavano all’«internazionale giudaica» la responsabilità<br />
<strong>di</strong> tutto quello che andava storto in Italia e nel mondo. Nel febbraio 1936<br />
<strong>di</strong>ede istruzione che dal quel momento venisse rifiutata la citta<strong>di</strong>nanza italiana<br />
agli ebrei <strong>di</strong> recente immigrazione. In questa <strong>di</strong>rettiva traspariva il desiderio <strong>di</strong><br />
non lasciar crescere ulteriormente il numero dei citta<strong>di</strong>ni ebrei. A partire dal<br />
1936 venne attuata una seconda campagna <strong>di</strong> stampa antisemita, che doveva<br />
preparare gli italiani alle imminenti leggi razziali. Contemporaneamente<br />
scomparve dalla pubblicistica la <strong>di</strong>stinzione tra ebrei fascisti e antifascisti, che<br />
da allora vennero in blocco definiti «nemici dello Stato».<br />
Questo cambiamento <strong>di</strong> rotta venne determinato da motivazioni sia <strong>di</strong><br />
politica interna che estera. A giustificare i nuovi provve<strong>di</strong>menti sembrò<br />
bastare che gli ebrei italiani fossero me<strong>di</strong>amente più tiepi<strong>di</strong> verso il regime<br />
dei loro concitta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> fede cattolica 68 . Con l’esclusione degli ebrei dalla<br />
comunità nazionale il Duce sperava <strong>di</strong> portare avanti la formazione del<br />
«nuovo uomo fascista» e <strong>di</strong> riuscire a iniettare negli italiani una «coscienza<br />
98
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
ariana». Credeva che una <strong>di</strong>namica antisemita avrebbe spinto l’Italia un bel<br />
tratto avanti sulla strada del totalitarismo. Inoltre il prestigio dell’Italia<br />
nell’Europa dei <strong>di</strong>ttatori non sarebbe più stato compromesso dalla tolleranza<br />
<strong>di</strong> «comportamenti indegni per la razza». Nel segno <strong>di</strong> un «asse Roma-<br />
Berlino» sempre più stretto, le leggi razziali vennero concepite anche come<br />
un «gesto d’amicizia» 69 spontaneo e assolutamente autonomo verso la<br />
Germania nazionalsocialista.<br />
Il 4 luglio 1938 comparve sul «Giornale d’Italia», con il titolo Il fascismo<br />
e i problemi della razza, il Manifesto degli scienziati razzisti. Redatto nelle<br />
sue parti essenziali sotto istruzioni del Duce dall’antropologo Guido Landra,<br />
il manifesto conteneva una <strong>di</strong>chiarazione pseudoscientifica sull’esistenza<br />
delle razze umane e sulla necessità <strong>di</strong> una politica razzista. Si partiva<br />
dall’astrusa asserzione che esisteva una «pura razza italiana» <strong>di</strong> origine ariana<br />
e che gli ebrei costituivano una razza a parte, non europea, che non si era<br />
mai assimilata in Italia. «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana»,<br />
così suonava la frase chiave 70 . Nel Manifesto si annunciava un razzismo<br />
biologicamente definito. In seguito questo testo raffazzonato ma firmato<br />
da illustri accademici come Li<strong>di</strong>o Cipriani, Nicola Pende e Arturo Donaggio<br />
assurse al ruolo <strong>di</strong> documento fondante dell’antisemitismo <strong>di</strong> Stato fascista.<br />
A partire dalla sua pubblicazione la pressione sui circa 47.000 ebrei italiani<br />
crebbe vistosamente. La persecuzione veniva spacciata per «in<strong>di</strong>spensabile<br />
tutela della razza italiana». Il 22 agosto 1938 il regime fece eseguire il<br />
«censimento speciale nazionale degli ebrei» e poco dopo il Duce emanò<br />
un’intera serie <strong>di</strong> leggi <strong>di</strong>scriminatorie, sempre controfirmate dal re Vittorio<br />
Emanuele III. Con il decreto del 5 settembre 1938 agli insegnanti ebrei<br />
non era più consentito lavorare nelle strutture pubbliche e<br />
contemporaneamente scolari e studenti «<strong>di</strong> razza giudea» venivano esclusi<br />
da scuole e università 71 . Due giorni più tar<strong>di</strong> veniva <strong>di</strong>sposta l’espulsione<br />
della maggior parte degli ebrei stranieri entrati in Italia dopo il 1° giugno<br />
1919. Profughi e immigrati dovevano lasciare il paese entro il termine ultimo<br />
del 12 marzo 1939. Non solo veniva loro ritirata la citta<strong>di</strong>nanza, quando<br />
posseduta 72 , ma da quel momento in poi l’Italia cessava <strong>di</strong> essere un rifugio<br />
per nuovi profughi ebrei.<br />
Con i «Provve<strong>di</strong>menti per la <strong>di</strong>fesa della razza italiana» licenziati il 17<br />
novembre 1938 73 gli ebrei italiani non solo persero la parità <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti ma<br />
subirono restrizioni che ben presto si estesero a tutti gli ambiti della loro<br />
esistenza 74 . In concreto, i provve<strong>di</strong>menti proibivano le nozze tra «citta<strong>di</strong>ni<br />
italiani <strong>di</strong> razza ariana con persone <strong>di</strong> altra razza». Inoltre gli ebrei italiani<br />
99
Aram Mattioli<br />
non potevano più possedere terreni e immobili <strong>di</strong> valore superiore<br />
rispettivamente a 5.000 e 20.000 lire e nemmeno impiegare nelle loro<br />
aziende più <strong>di</strong> 100 persone. Erano esclusi dal servizio militare e non era<br />
loro permesso tenere personale <strong>di</strong> servizio <strong>di</strong> «razza ariana». Non era loro<br />
consentita nessuna attività nell’amministrazione militare e civile, nel partito<br />
e nelle organizzazioni periferiche fasciste come pure nelle amministrazioni<br />
provinciali e comunali e nelle banche e compagnie private <strong>di</strong> assicurazioni.<br />
Nei mesi seguenti il regime <strong>di</strong> <strong>di</strong>scriminazione si allargò a un numero<br />
sempre maggiore <strong>di</strong> ambiti: gli ebrei vennero espulsi da associazioni culturali<br />
e sportive. Non potevano più essere attivi come artisti. Ben presto non fu<br />
più permesso loro <strong>di</strong> affittare stanze ad «ariani» o lavorare con «italiani<br />
ariani». Il loro nome venne cancellato dagli elenchi telefonici, fu loro vietato<br />
<strong>di</strong> entrare nelle biblioteche pubbliche, <strong>di</strong> pubblicare annunci mortuari e <strong>di</strong><br />
a<strong>di</strong>re un’ere<strong>di</strong>tà 75 . Poco a poco i <strong>di</strong>vieti <strong>di</strong> esercitare professioni e mestieri<br />
vennero a comprendere nuovi campi. Inizialmente avevano perso il posto<br />
gli impiegati dello Stato, delle banche e delle compagnie assicurative, ma a<br />
partire dall’agosto 1939 anche notai, revisori dei conti e giornalisti non<br />
poterono più esercitare. Infine vennero interdetti anche librai, fotografi,<br />
guide turistiche e maestri <strong>di</strong> ballo. Dal 1 o marzo 1940 me<strong>di</strong>ci, farmacisti,<br />
veterinari, avvocati, ingegneri, chimici e agronomi ebrei poterono effettuare<br />
prestazioni solo per persone <strong>di</strong> «razza ebrea» 76 .<br />
Passo dopo passo l’antisemitismo <strong>di</strong> Stato sottrasse alle sue vittime tutti<br />
i mezzi <strong>di</strong> sussistenza. Le famiglie benestanti e gli scienziati <strong>di</strong> punta - come<br />
il fisico Enrico Fermi - lasciarono il paese e tentarono <strong>di</strong> rifarsi una vita in<br />
America, mentre quelli rimasti dovettero fare i conti con una violazione dei<br />
loro <strong>di</strong>ritti sempre più sistematica. I Provve<strong>di</strong>menti per la <strong>di</strong>fesa della razza<br />
italiana si rivelarono in breve tempo catastrofici per chi ne era oggetto. Nel<br />
maggio 1939 lo storico dell’arte Paolo D’Ancona, che aveva perso la sua<br />
cattedra, commentò la sua nuova situazione esistenziale con queste parole:<br />
«Di colpo mi venne impe<strong>di</strong>ta ogni attività, come citta<strong>di</strong>no e come stu<strong>di</strong>oso:<br />
espulso dall’esercito, cacciato dall’insegnamento universitario e - con<br />
l’interdetto ai miei libri <strong>di</strong> testo - anche da quello scolastico, assisto alla<br />
<strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> tutto quello che finora ha costituito lo scopo della mia vita» 77 .<br />
Con l’inizio della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale la politica antisemita si inasprì<br />
ulteriormente. Lentamente l’Italia fascista assunse i connotati <strong>di</strong> uno «Stato<br />
ariano e basato sulla razza» 78 . Il Duce non faceva mistero della sua intenzione<br />
<strong>di</strong> sbarazzarsi <strong>di</strong> tutti gli ebrei costringendoli all’emigrazione. Il 9 febbraio<br />
1940 comunicò ufficialmente all’Unione delle Comunità israelitiche italiane<br />
100
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
che entro pochi anni tutti gli ebrei avrebbero dovuto lasciare il paese. Dopo<br />
l’ingresso dell’Italia in guerra, gli ebrei stranieri, cui era stato ritirato il permesso<br />
<strong>di</strong> soggiorno, vennero internati nel campo <strong>di</strong> Ferramonti <strong>di</strong> Tarsia 79 . Lo stesso<br />
destino toccò a tutti gli ebrei italiani classificati come «pericolosi». Ora gli<br />
ebrei non potevano più trattenersi nei centri turistici e sulle spiagge 80 . Nel<br />
1941-42 si ebbero i primi attentati contro sinagoghe, che vennero devastate<br />
come quelle <strong>di</strong> Ferrara, Trieste e Split. L’11 maggio 1942 il regime introdusse<br />
il lavoro obbligatorio per i maschi ebrei, che dovettero effettuare lavori pesanti<br />
su argini e fiumi e anche in cantieri stradali. Le leggi razziali ebbero l’effetto<br />
<strong>di</strong> una nuova ghettizzazione. Quanto alla loro collocazione nel contesto<br />
internazionale, lo storico fiorentino Enzo Collotti è recentemente giunto alla<br />
conclusione che «la legislazione italiana fu - dopo quella tedesca - la legislazione<br />
antisemita più dura in tutto il mondo» 81 .<br />
Comunque l’antisemitismo attuato dallo Stato italiano non mirava<br />
all’eliminazione fisica degli ebrei prima dell’estate 1943 82 . L’idea più ra<strong>di</strong>cale<br />
<strong>di</strong> Mussolini era quella <strong>di</strong> fare dell’Italia uno Stato basato sulla razza e<br />
«purificato dagli ebrei» in un arco <strong>di</strong> tempo limitato e a mezzo della loro<br />
espulsione 83 . Questo atteggiamento rappresenta la <strong>di</strong>fferenza centrale con<br />
l’annientamento <strong>di</strong> massa dell’ebraismo europeo pianificato e sistematicamente<br />
eseguito da Hitler 84 . Questa <strong>di</strong>fferenza non può però essere<br />
ancora a lungo invocata come motivazione per continuare a vedere sotto<br />
una luce troppo mite l’antisemitismo dell’Italia fascista, che fu sì meno<br />
letale, ma comunque ripugnante, quando lo si misuri con i criteri della<br />
democrazia. E in realtà per le sue vittime fu crudele a sufficienza. In alcuni<br />
casi, come la proibizione generale <strong>di</strong> frequentare le scuole pubbliche,<br />
l’espulsione degli ebrei stranieri e le limitazioni alla proprietà <strong>di</strong> aziende e<br />
immobili, le leggi razziali del 1938 volute da Mussolini anticiparono<br />
ad<strong>di</strong>rittura quelle del Terzo Reich 85 .<br />
Le ultime ricerche hanno mostrato che le autorità della Repubblica sociale<br />
italiana prestarono un’efficace collaborazione alla «soluzione finale della<br />
questione ebraica» perseguita dai tedeschi e a partire dall’autunno 1943<br />
mandarono a morte circa 9.500 ebrei 86 . Il regime collaborazionista <strong>di</strong><br />
Mussolini stigmatizzò espressamente gli ebrei come appartenenti a<br />
«nazionalità nemica» e si definì antisemita per principio. Il ministro degli<br />
Interni Guido Buffarini Gui<strong>di</strong> <strong>di</strong>spose <strong>di</strong> confiscare i beni appartenenti ad<br />
ebrei e <strong>di</strong> inviare tutti gli ebrei nei campi <strong>di</strong> concentramento. Ben a<br />
conoscenza <strong>di</strong> quel che aspettava le vittime nelle fabbriche della morte in<br />
Polonia, le forze <strong>di</strong> polizia della Repubblica sociale italiana rinchiusero<br />
101
Aram Mattioli<br />
migliaia <strong>di</strong> ebrei nei campi <strong>di</strong> transito <strong>di</strong> Fossoli e Bolzano e nella Risiera <strong>di</strong><br />
San Saba, prima <strong>di</strong> consegnare quegli sventurati agli occupanti tedeschi. La<br />
macchina della deportazione nell’Italia occupata si <strong>di</strong>mostrò estremamente<br />
efficiente fino alle ultime settimane della guerra. Sebbene i fascisti italiani<br />
non abbiano né progettato né eseguito l’ecci<strong>di</strong>o <strong>di</strong> massa degli ebrei<br />
d’Europa, contribuirono decisamente all’estensione della politica <strong>di</strong><br />
sterminio della potenza occupante anche a sud delle Alpi.<br />
V. Già molto prima dell’occupazione tedesca l’Italia fascista si era<br />
autonomamente evoluta in uno Stato segregazionista, che praticava una<br />
pesante <strong>di</strong>scriminazione verso i suoi sud<strong>di</strong>ti slavi, africani ed ebrei,<br />
costringendoli a vivere appartati e in con<strong>di</strong>zioni indecorose. L’Italia fascista<br />
non si limitò a praticare un’occasionale politica con tratti antislavi, antisemiti<br />
e anticamiti, ma dal 1938 corrispose pienamente a quello che George M.<br />
Fredrikson ha recentemente definito come «regime apertamente razzista».<br />
L’Italia aveva un’ideologia scopertamente razzista, ebbe leggi che derivavano<br />
dall’ideale della «purezza della razza» e proibivano i matrimoni misti.<br />
Discriminazione e segregazione si fondarono su atti legislativi. Il regime<br />
sbarrò l’ingresso alla cariche pubbliche agli appartenenti alle razze<br />
indesiderate e inoltre li mantenne o li costrinse in miseria 87 .<br />
Certo non fu pari al Terzo Reich, ma - sullo stesso piano della<br />
Repubblica Sudafricana e degli stati federali del Sud degli Stati Uniti -<br />
l’Italia <strong>di</strong> Mussolini fece parte a pieno titolo degli stati più improntati al<br />
razzismo nel mondo del XX secolo. Gli storici che allora come adesso lo<br />
negano, minimizzano il fascismo italiano e irridono le centinaia <strong>di</strong> migliaia<br />
<strong>di</strong> vittime che pagarono per la smania espansionistica e il furore razzista<br />
dell’Italia tra il 1922 e il 1943.<br />
Traduzione <strong>di</strong> Massimo Tirotti<br />
102<br />
Note al testo<br />
1 Cfr. JONATHAN STEINBERG, Deutsche, Italiener und Juden. Der italienische Widerstand gegen<br />
den Holocaust, Göttingen 1992; DANIEL CARPI, Between Mussolini and Hitler. The Jews and the<br />
Italian Authorities in France and Tunesia, Hanover (New Hampshire) 1994. In se stessa questa<br />
considerazione non è falsa, ma <strong>di</strong>venta scientificamente insostenibile quando queste azioni <strong>di</strong><br />
salvataggio vengono spiegate con motivi puramente umanitari, acriticamente generalizzate e
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
interpretate come un tipico comportamento italiano. Il generale Mario Roatta per esempio,<br />
che nell’area del suo comando in Dalmazia sottrasse gli ebrei alla deportazione nelle fabbriche<br />
della morte, agì contemporaneamente con durezza indescrivibile contro i «partigiani» jugoslavi.<br />
Ve<strong>di</strong> in proposito le importanti riflessioni <strong>di</strong> Enzo Collotti in Zur Neubewertung des Italienischen<br />
Faschismus, Enzo Collotti im Gespräch mit Lutz Klinkhammer, in «Geschichte und Gesellschaft»,<br />
26 (2000), pp. 285-306.<br />
2 Cfr come esempio <strong>di</strong> questa problematica forma <strong>di</strong> memoria NICOLA CARACCIOLO, Gli ebrei<br />
e l’Italia durante la guerra 1940-1945, Roma 1986.<br />
3 HANNAH ARENDT, Eichmann in Jerusalem. Ein Bericht von der Banalität des Bösen, Monaco<br />
i.B. 1965 2 , p. 220 (Trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano 2004 8 ,<br />
p.186). Analoghe argomentazioni anche in J. STEINBERG, Deutsche, Italiener und Juden cit., pp.<br />
21, 286, 292 s. e 307.<br />
4 Ibidem.<br />
5 Di più in DAVID BIDUSSA, Il mito del bravo italiano, Milano 1994; CARLO MOOS, Die ‘guten<br />
Italiener’ und <strong>di</strong>e Zeitgeschichte in «Historische Zeitschrift», 259 (1994), pp. 671-694; JAMES<br />
WALSTON, History and Memory of the Italian Concentration Camps, in «The Historical Journal»,<br />
40, 1 (1997), pp. 169-183.<br />
6 Cfr. EMILIO GENTILE, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Roma-Bari 2003. Illuminanti<br />
sulle opere tarde <strong>di</strong> De Felice sono le riflessioni <strong>di</strong> BRUNELLO MANTELLI, Faschismus, Geschichte<br />
Italiens, Selbstverständnis der Republik. Kritische Anmerkungen zur jüngsten Debatte über <strong>di</strong>e<br />
Beziehung von Geschichte und Gegenwart, in Faschismus und Faschismen im Vergleich. Wolfgang<br />
Schieder zum 60. Geburtstag, a cura <strong>di</strong> Christoph Dipper et al. Köln 1998, pp. 79-104.<br />
7 RENZO DE FELICE, Der Faschismus. Ein Interview mit Michael Ledeen. Mit einem Nachwort<br />
von Jens Petersen, Stuttgart 1977, p. 30. Cfr. in merito WOLFGANG SCHIEDER, Faschismus als<br />
Vergangenheit. Streit der Historiker in Italien und Deutschland, in Der historische Ort des<br />
Nationalsozialismus. Annäherungen, a cura <strong>di</strong> Walter H. Pehle, Frankfurt am Main 1990,<br />
p.139 ss.; JENS PETERSEN, Der Faschismus im Urteil der Historiker, in Faschismus und Faschismen<br />
cit. p. 50 ss.<br />
8 RENZO DE FELICE, Mussolini il duce. Lo stato totalitario 1936-1940, Torino 1981, p. 312.<br />
9 RENZO DE FELICE, Intervista <strong>di</strong> Giuliano Ferrara a Renzo De Felice in Il fascismo e gli storici<br />
oggi, a cura <strong>di</strong> Jader Jacobelli, Roma-Bari 1988, p. 6. L’ intervista apparve originariamente nel<br />
«Corriere della Sera» del 27 <strong>di</strong>cembre 1987.<br />
10 RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993. Introduzione alla<br />
nuova e<strong>di</strong>zione tascabile, p. IX.<br />
11 Cfr per es. La menzogna della razza, Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo<br />
fascista, <strong>Centro</strong> Furio Jesi, Bologna 1994; Nel nome della razza, Il razzismo nella storia d’Italia<br />
1870-1945, a cura <strong>di</strong> Alberto Burgio, Bologna 1999; ENZO COLLOTTI, Il razzismo negato, in<br />
Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, a sua cura, Roma-Bari 2000, pp.355-<br />
103
Aram Mattioli<br />
375; NICOLA LABANCA, Storia dell’ espansione coloniale italiana, Bologna 2002; ARAM MATTIOLI,<br />
Experimentierfeld der Gewalt. Der Abessinienkrieg und seine internationale Bedeutung 1935-<br />
1941, Zurigo 2005 (in corso <strong>di</strong> stampa).<br />
12 Cfr BRUNELLO MANTELLI, Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943 in Europäische<br />
Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder, a cura <strong>di</strong> Christoph Dipper et al., Berlin<br />
2000, pp. 57-74; ANGELO DEL BOCA, Colonialismo, in Dizionario storico dell’Italia Unita, a<br />
cura <strong>di</strong> Bruno Bongiovanni e Nicola Tranfaglia, Roma-Bari 1996, pp. 157-173; GIULIA BROGINI<br />
KÜNZI, Total Colonial Warfare: Ethiopia, in The Shadows of Total War, Europe, East Asia and the<br />
United States, 1919.1939, a cura <strong>di</strong> Roger Chickering e Stig Förster, Cambridge, New York<br />
2003, pp. 316-326; ARAM MATTIOLI, Entgrenzte Kriegsgewalt. Der italienische Giftgaseinsatzin<br />
Abessinien 1935-1936, in «Viertelsjahrhefte für Zeitgeschichte», 51 (2003), pp. 311-337; ID.,<br />
Die vergessenen Kolonialverbrechen des faschistischen Italien in Libyen 1923-1933, in Völkermord<br />
und Kriegsverbrechen in der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts, Fritz Bauer Institut, Frankfurt a.<br />
M., New York 2004, pp. 203-226.<br />
13 RENZO DE FELICE, Mussolini il duce. Lo stato totalitario 1936-40 cit., p.314.<br />
14 IMMANUEL GEISS, Geschichte des Rassismus, Frankfurt a.M. 1988, p. 25 s.<br />
15 GEORG M. FREDRICKSON, Rassismus. Ein historischer Abriss, Hamburg 2004, p. 173.<br />
16 KARIN PRIESTER, Rassismus. Eine Socialgeschichte, Leipzig 2003, pp. 8 e 11.<br />
17 ENZO COLLOTTI, Sul razzismo antislavo in Nel nome della razza cit., p. 35.<br />
18 Ivi, p. 39 s.<br />
19 Ivi, p. 44.<br />
20 PIERRE MILZA, Mussolini, Parigi 1999, p. 246 ss.<br />
21 BENITO MUSSOLINI, Discorso <strong>di</strong> Pola in LUIGI SALVATORELLI, GIOVANNI MIRA, Storia d’Italia<br />
nel periodo fascista, Torino 1964, p. 161.<br />
22 WOLFGANG WIPPERMANN, War der italienische Faschismus rassistisch? Anmerkungen zur Kritik<br />
an der Verwendung eines allgemeinen Faschismusbegriffes, in Faschismus und Rassismus.<br />
Kontroveresen um Ideologie und Opfer, a cura <strong>di</strong> Werner Röhr, Berlin 1992, p. 117<br />
23 LUIGI SALVATORELLI, GIOVANNI MIRA, Storia d’Italia nel periodo fascista cit., p.191; PIERRE<br />
MILZA, SERGE BERSTEIN, Le fascisme italien 1919-1945, Parigi 1980, p. 99.<br />
24 JAN MORRIS, Trieste o del nessun luogo, Milano 2003, p. 12 s.<br />
25 Cfr LAVO CERMELJ, Sloveni e Croati in Italia tra le due guerre, Trieste 1974; ALBERTO<br />
BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava, in «Storia contemporanea<br />
in Friuli», 26 (1996), pp. 69-87; ENZO COLLOTTI, Sul razzismo antislavo, in Nel nome della<br />
razza, p. 52 ss.<br />
104
26 ELIO APIH, Trieste, Roma-Bari 1988, p. 129.<br />
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
27 PAOLO G. PAROVEL, L’ identità cancellata. L’ italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e<br />
toponimi nella Venezia Giulia dal 1919 al 1945, con gli elenchi delle province <strong>di</strong> Trieste, Gorizia,<br />
Istria ed i dati dei primi 5.300 decreti, Trieste 1985. Così, per es., i cognomi Franceskin e<br />
Petrovich vennero cambiati in Franceschini e Demetrio.<br />
28 ALBERTO BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia cit., p. 77.<br />
29 ELIO APIH, Trieste cit., p. 134.<br />
30<br />
PIERRE-ANDRÉ MAGUIEFF, Die Macht des Vorurteils. Der Rassismus und sein Double, Hamburg<br />
2000, p. 157.<br />
31 ALBERTO BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia cit., pp. 72 e 77.<br />
32 DENIS MACK SMITH, Mussolini’s Roman Empire, Londra-New York 1976, p.123.<br />
33<br />
ANGELO DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 3: La caduta dell’Impero, Roma-Bari<br />
1982, p. 237.<br />
34 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika. Die faschistische Rassenpolitik in den italienischen<br />
Kolonien 1936-1941, Köln 2000, p. 32<br />
35 JOHAN GALTUNG, Strukturelle Gewalt. Beiträge zur Friedens- und Konfliktforschung, Reinbek<br />
bei Hamburg 1982, p. 9 ss.<br />
36 H.Y., nato in Eritrea nel 1909. Testimonianza registrata ad Ad<strong>di</strong> Ugri, giugno 1993, in IRMA<br />
TADDIA, Autobiografie africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Milano 1996, p. 100.<br />
37 S.A., nato in Eritrea nel 1918. Testimonianza registrata ad Asmara, giugno 1993, ivi, p. 90.<br />
38 Cfr. per la stratificazione sociale dell’Africa Orientale italiana: FABIENNE LE HOUÉROU, L’épopée<br />
des soldats de Mussolini en Abyssinie 1936-1938. Les «Ensablés», Parigi 1994, pp. 115-135.<br />
39 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p. 132 ss.<br />
40 VITTORIO GORRESIO, La vita ingenua, Milano 1980, p. 111.<br />
41 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p.149 ss.<br />
42 Cfr. LIDIO CIPRIANI, L’antropologia in <strong>di</strong>fesa dell’impero, in «Corriere della Sera», 16 giugno<br />
1936, riprodotto in GIORGIO ROCHAT, Il colonialismo italiano, Torino 1996, pp. 193-195.<br />
43 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., pp. 157 e 162.<br />
44 Ivi, p. 158.<br />
105
Aram Mattioli<br />
45 ALESSANDRO LESSONA, Le <strong>di</strong>rettive del governo fascista per l’organizzazione dell’ impero, 5 agosto<br />
1936, riprodotto in GIORGIO ROCHAT, Il colonialismo italiano cit., p. 189.<br />
46 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p. 205.<br />
47 Ivi, p. 206.<br />
48 RICHARD PANKHURST, The Ethiopian. A History, Oxford 2001, p. 240.<br />
49 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p. 205.<br />
50 Ivi, p. 220.<br />
51 Ivi, p. 231 s.<br />
52 Cfr BARBARA SORGONI, Parole e corpi. Antropologia, <strong>di</strong>scorso giuri<strong>di</strong>co e politiche sessuali<br />
interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Napoli 1998, pp. 127-138.<br />
53 ANGELO DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 3: La caduta dell’Impero cit., p. 247.<br />
54 «Rivista penale», ottobre 1938, cit. in GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p. 210.<br />
55 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p. 177.<br />
56 ANGELO DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 3: La caduta dell’Impero cit., p. 250.<br />
57 GEORG M. FREDRICKSON, Rassismus cit., pp. 104 e 115.<br />
58 WOLFGANG SCHIEDER, Faschismus als Vergangenheit. Streit der Historiker in Italien und<br />
Deutschland, in Der Historische Ort des Nationalsozialismus, a cura <strong>di</strong> Walter H. Pehle, Frankfurt<br />
a. M. 1990, p. 153: ID., Kriegsregime des 20. Jahrhunderts. Deutschland, Italien und Japan im<br />
Vergleich, in Erinnerungskulturen, Deutschland, Japan und Italien seit 1945, a cura <strong>di</strong> Christoph<br />
Cornelissen et al., Frankfurt a. M. 2003, p. 38: «Il fascismo italiano è comunque rimasto<br />
fermo al razzismo d’apartheid; un razzismo d’annientamento come quello praticato dal<br />
nazionalsocialismo, non si verificò in Italia».<br />
59 Cfr. ARAM MATTIOLI, Das Letzte Ghetto alteuropas. Die Segregationspolitik der Papstkönige in<br />
der «heiligen Stadt» bis 1870, in Katholischer Antisemitismus im 19. Jahrhundert. Ursachen und<br />
Tra<strong>di</strong>tion im internationalem Vergleich, a cura <strong>di</strong> Olaf Blaschke e Aram Mattioli, Zürich 2000,<br />
pp. 111-143.<br />
60 MICHELE SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000,<br />
p.12 s.; CARLO MOOS, Ausegrenzung, Internierung, Deportation. Antisemitismus und Gewalt im<br />
späten italienischen Fascismus (1938-1945), Zürich 2004, p. 11 s. Uno stu<strong>di</strong>o su un caso<br />
particolare è quello <strong>di</strong> ALBERTO ROVIGHI, I militari <strong>di</strong> origine ebraica nel primo secolo <strong>di</strong> vita<br />
dello stato italiano, Roma 1999.<br />
106
L’apartheid nell’Italia fascista<br />
61 PETRA TERHOEVEN, Liebespfand fürs Vaterland. Krieg, Geschlecht und faschistische Nation in<br />
der italienischen Gold- und Eheringsammlung 1935/36, Tübingen 2003, p. 170 s.<br />
62 GABRIELE SCHNEIDER, Mussolini in Afrika cit., p. 65.<br />
63 KARIN WIELAND, Die Geliebte des Duce. Das Leben der Margherita Sarfatti und <strong>di</strong>e Erfindung<br />
des Faschismus, München-Wien 2004.<br />
64 KLAUS VOIGT, Zuflucht auf Widerruf. Exil in Italien 1933-1945, vol. 1, Stuttgart 1989, p. 466.<br />
65 Cfr per le relazioni tra il regime fascista e la chiesa: ARAM MATTIOLI, E salva l’Italia nel Duce.<br />
Die Katholische Kirche im faschistischen Italien 1922-1938, in Katholismus in Geschichte und<br />
Gegenwart, a cura <strong>di</strong> Richard Faber, Berlin 2005 (in corso <strong>di</strong> stampa).<br />
66 MEIR MICHAELIS, On the Jewish Question in Fascist Italy. The Attitude of the Fascist Regime to<br />
the Jews in Italy, in «Yad Vashem Stu<strong>di</strong>es», 4 (1960), p. 11.<br />
67 Cfr ENZO COLLOTTI, Il fascismo e gli ebrei, Roma-Bari 2003, pp. 40-57.<br />
68 MICHELE SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 24: «In estrema sintesi si può osservare<br />
che gli ebrei italiani erano fascisti come gli altri italiani, più antifascisti degli altri italiani».<br />
69<br />
RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993. Introduzione<br />
cit., p. X.<br />
70 Manifesto degli scienziati razzisti, 14 luglio 1938, riprodotto in RENZO DE FELICE, Storia<br />
degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1988, p. 55 ss.<br />
71 Provve<strong>di</strong>menti per la <strong>di</strong>fesa della razza nella scuola fascista, 5 settembre 1938, riprodotto in<br />
ENZO COLLOTTI, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 190 s.<br />
72 KLAUS VOIGT, Zuflucht auf Widerruf cit., p. 280 ss.<br />
73 Provve<strong>di</strong>menti per la <strong>di</strong>fesa della razza italiana, 17 novembre 1938, riprodotto in ENZO<br />
COLLOTTI, Il fascismo e gli ebrei cit., pp. 193-197.<br />
74 L’importanza dei provve<strong>di</strong>menti antisemiti viene presentata e analizzata in modo davvero<br />
pregnante da MICHELE SARFATTI, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani <strong>di</strong> oggi, Torino 2002.<br />
Cfr. anche i romanzi <strong>di</strong> Giorgio Bassani e Rosetta Loy.<br />
75 Ivi, p. 28.<br />
76 Ivi, p. 31 s.<br />
77 PAOLO D’ANCONA. Note personali, 1939 (ine<strong>di</strong>to), citato da MICHELE SARFATTI, Grundzüge<br />
und Ziele der Judengesetzgebung im faschistischen Italien 1938-1943, in «Quellen und<br />
Forschungen aus italienischen Archiven und Biblioteken», 83 (2003), p. 440.<br />
107
Aram Mattioli<br />
78 MICHELE SARFATTI, Le leggi antiebraiche cit., p. 26<br />
79 Cfr. su Ferramonti <strong>di</strong> Tarsia KLAUS VOIGT, Zuflucht auf Widerruf. Exil in Italien 1933-1945,<br />
vol. 2, Stuttgart 1993, pp. 162-174.<br />
80 Cfr. CINZIA VILLANI, Zwischen Rassengesetzen und Deportation. Juden in Südtirol, in Trentino<br />
und in der Provinz Belluno 1933-1945, Innsbruck 2003, p. 140 ss.<br />
81 Zur Neubewertung des italienischen Faschismus. Enzo Collotti im Gespräch mit Lütz<br />
Klinkhammer, in «Geschichte und Gessellschaft», 26 (2000), p. 295.<br />
82 WOLFGANG SCHIEDER, Fascismus als Vergangenheit. Streit der Historiker in Italien und<br />
Deutschland, in Der Historische Ort des Nationalsozialismus, cit.. p. 153; MICHELE SARFATTI,<br />
Grundzüge und Ziele der Judengesetzgebung cit., p. 442: «Va sottolineato che in questa fase il<br />
fascismo mirava all’eliminazione degli ebrei dal paese, non all’eliminazione degli ebrei del<br />
paese».<br />
83 KLAUS VOIGT, Zuflucht auf Widerruf cit., p. 482.<br />
84 Prima dell’estate 1943 l’Italia fascista attuò comunque nei Balcani e in Africa una politica<br />
repressiva molto simile a un genoci<strong>di</strong>o. Cfr. n. 11 e n. 12.<br />
85 MICHELE SARFATTI, Grundzüge und Ziele der Judengesetzgebung cit., p. 439 s.<br />
86 Cfr. ad es. LUTZ KLINKHAMMER, Zwischen Bündnis und Besatzung. Das nationalsozialistiche<br />
Duetschland und <strong>di</strong>e Republik von Salò 1943-1945, Tübingen 1993, pp. 530-553; MICHELE<br />
SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 231-238; CINZIA VILLANI, Zwischen Rassengesetzen<br />
und Deportation cit., pp. 146-178; CARLO MOOS, Ausegrenzung, Internierung, Deportation cit.,<br />
pp. 90-101.<br />
87 GEORG M. FREDRICKSON, Rassismus cit., p. 103.<br />
108
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo.<br />
Tra organizzazione del consenso, <strong>di</strong>sciplinamento del tempo<br />
libero e «prestigio <strong>di</strong> razza»<br />
<strong>di</strong> Gianluca Gabrielli<br />
Negli anni tra le due guerre lo sport in Europa e negli Stati Uniti incontra<br />
uno sviluppo senza precedenti. Grazie alla crescita del tempo libero tra le<br />
classi popolari tanto la pratica <strong>di</strong>retta dell’attività sportiva che l’attenzione<br />
<strong>di</strong> spettatori e appassionati crescono in maniera esponenziale e <strong>di</strong>vengono<br />
fenomeno <strong>di</strong> massa. Le gran<strong>di</strong> manifestazioni internazionali come Olimpia<strong>di</strong><br />
e mon<strong>di</strong>ali <strong>di</strong> calcio e <strong>di</strong> ciclismo si affermano definitivamente polarizzando<br />
l’attenzione <strong>di</strong> ampi settori della popolazione attraverso i giornali sportivi e<br />
le trasmissioni ra<strong>di</strong>o. Anche in Italia la nascita nel 1927 del secondo<br />
quoti<strong>di</strong>ano sportivo, il «Corriere della Sport» e <strong>di</strong> numerosi perio<strong>di</strong>ci attesta<br />
chiaramente la crescita <strong>di</strong> un movimento che lievita anche come numero <strong>di</strong><br />
praticanti. <strong>Del</strong>l’importanza del fenomeno sono consapevoli le gerarchie<br />
fasciste che intervengono massicciamente sia sugli aspetti organizzativi e<br />
infrastrutturali, sia su quelli ideologici del fenomeno. La creazione delle<br />
organizzazioni giovanili, deputate ad esaltare gli aspetti paramilitari della<br />
pratica sportiva, e dell’Opera Nazionale Dopolavoro, in<strong>di</strong>rizzata ad<br />
intervenire sul <strong>di</strong>sciplinamento del tempo libero, costituiscono gli interventi<br />
più importanti nel tentativo <strong>di</strong> utilizzare a fini politici questa nuova<br />
<strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> massa della quoti<strong>di</strong>anità.<br />
La crescente affermazione del fenomeno non rimane confinata negli<br />
Stati Uniti e in Europa ma, seppure in forme particolari e con ritar<strong>di</strong>, giunge<br />
nei territori soggetti a dominio coloniale. I colonizzatori infatti portavano<br />
nel loro «bagaglio» anche le abitu<strong>di</strong>ni e le passioni maturate nei territori<br />
d’origine e vi rimanevano legati proprio in quanto esse funzionavano da<br />
contrappeso alla lontananza e ai <strong>di</strong>fferenti modelli <strong>di</strong> vita che la colonia<br />
imponeva. Le gerarchie coloniali delle <strong>di</strong>verse potenze scelsero<br />
progressivamente <strong>di</strong> intervenire nel governo del movimento sportivo che si<br />
era andato formando e lo fecero in vari mo<strong>di</strong>, potenziando e facilitando le<br />
attività dei colonizzatori ma anche introducendo l’attività fisica e sportiva<br />
tra le popolazioni colonizzate, sia come mera preparazione fisico-militare<br />
109
Gianluca Gabrielli<br />
delle truppe locali, sia anche favorendo, osteggiando o semplicemente<br />
controllando e in<strong>di</strong>rizzando secondo i propri fini l’attività sportiva tra i<br />
sud<strong>di</strong>ti.<br />
La storia sportiva nelle colonie italiane coincide a gran<strong>di</strong> linee con il<br />
periodo fascista; troppo trascurabili infatti sembrano i precedenti<br />
riscontrabili nei poco popolati posse<strong>di</strong>menti dell’età liberale. Si può affermare<br />
che fino agli anni <strong>di</strong>eci del secolo le attività fisiche e sportive nelle colonie<br />
italiane, quando esistono, devono essere considerate come attività saltuarie<br />
facenti parte della fase <strong>di</strong> «standar<strong>di</strong>zzazione e universalizzazione delle<br />
regole» 1 . Dagli anni venti il <strong>di</strong>scorso cambia ra<strong>di</strong>calmente: lo sport entra a<br />
far parte stabilmente dell’identità dell’italiano che si reca in Colonia e<br />
comincia ad esercitare un’attrattiva sulle sparute comunità nazionali del<br />
Corno d’Africa e <strong>di</strong> Libia; la pratica si <strong>di</strong>ffonde dapprima per effetto<br />
dell’organizzazione autonoma dei coloni in società sportive e in seguito,<br />
già dalla fine del decennio, riceve una strutturazione più stabile con le<br />
<strong>di</strong>rettive <strong>di</strong> regime per centralizzarne l’organizzazione negli Enti Sportivi<br />
Coloniali. Nel decennio successivo, con significative anticipazioni e<br />
<strong>di</strong>fferenze tra la Libia e il Corno d’Africa, le gerarchie coloniali organizzano<br />
alcune attività anche tra le comunità in<strong>di</strong>gene, oltre quelli che allora venivano<br />
definiti «confini <strong>di</strong> razza», come forma <strong>di</strong> preparazione fisico-militare, <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>sciplinamento del tempo libero e <strong>di</strong> «educazione» ai costumi nazionali.<br />
In particolare, nel tentare <strong>di</strong> ricostruire la <strong>di</strong>ffusione e le forme della<br />
pratica sportiva ho scelto <strong>di</strong> porre attenzione soprattutto alla <strong>di</strong>versa<br />
funzione che veniva ad assumere per italiani e popolazioni locali. Ho<br />
deciso dunque <strong>di</strong> privilegiare il nodo del razzismo: uno dei principi che,<br />
variamente declinati, sono comunque alla base della strutturazione <strong>di</strong> ogni<br />
società coloniale e a fondamento del sentimento <strong>di</strong> superiorità degli<br />
occupanti. La storia del razzismo coloniale italiano ha visto il massimo<br />
livello <strong>di</strong> co<strong>di</strong>ficazioni regolamentari e legislative negli anni che vanno<br />
dal 1936 fino alla per<strong>di</strong>ta delle colonie durante la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale:<br />
il periodo dell’impero mussoliniano 2 . Ma è evidente che questo razzismo<br />
«<strong>di</strong> Stato» non nasceva dal nulla, bensì affondava le sue ra<strong>di</strong>ci in un<br />
razzismo <strong>di</strong>ffuso e quoti<strong>di</strong>ano che impregnava le forme e i mo<strong>di</strong> dei<br />
rapporti sociali tra coloni e colonizzati. È convinzione <strong>di</strong> chi scrive che<br />
indagando tra le pieghe dei fenomeni sociali quoti<strong>di</strong>ani, <strong>di</strong> cui entra a far<br />
parte lo sport in questo periodo, potremo affinare la nostra comprensione<br />
del ruolo avuto dal razzismo nella riproduzione del dominio e nella<br />
strutturazione delle identità degli attori in campo.<br />
110
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
La ricerca sulla «esportazione» dello sport nei territori coloniali ha da<br />
tempo compiuto i primi passi in altre nazioni con un importante passato<br />
coloniale ed ha stimolato la riflessione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi dei paesi un tempo<br />
sottomessi al dominio 3 . Nel panorama nazionale invece non esiste alcun<br />
lavoro pubblicato da cui partire e su cui fare affidamento per circoscrivere<br />
la vastità dell’oggetto <strong>di</strong> ricerca. Per necessità quin<strong>di</strong> ho potuto solo sfiorare<br />
alcuni aspetti che avrebbero invece meritato seri approfon<strong>di</strong>menti (come,<br />
ad esempio, la pratica fisico-sportiva delle truppe bianche e africane),<br />
rimandandone la trattazione approfon<strong>di</strong>ta ad altri stu<strong>di</strong>osi o a fasi future<br />
della ricerca.<br />
Le fonti utilizzate sono costituite in gran parte dai giornali coloniali<br />
che, da metà degli anni venti a Tripoli e dagli anni trenta nel Corno d’Africa<br />
de<strong>di</strong>carono uno spazio crescente allo sport. In alcuni casi alla fine degli<br />
anni trenta nacquero veri supplementi sportivi ad attestare uno sviluppo<br />
dell’attività in crescita ed un interesse notevole tra la popolazione italiana 4 .<br />
Accanto a queste fonti, certo parziali, alcuni documenti d’archivio aiutano<br />
a meglio comprendere la fase «imperiale» della gestione <strong>di</strong> sport ed<br />
«istruzione fisica» per le popolazioni colonizzate.<br />
Le <strong>di</strong>verse situazioni geografiche hanno richiesto analisi <strong>di</strong>versificate. In<br />
particolare ho scelto <strong>di</strong> effettuare uno spoglio quasi completo (tutta la durata<br />
del regime fascista) dei giornali tripolini; Tripoli infatti è una città<br />
particolarmente significativa per la contemporanea presenza della<br />
popolazione araba, <strong>di</strong> una folta comunità <strong>di</strong> coloni italiani e <strong>di</strong> una comunità<br />
ebraica locale. Riguardo alle colonie del Corno d’Africa ho invece limitato<br />
il confronto tra il 1933 e gli anni dell’impero (quin<strong>di</strong> del razzismo <strong>di</strong> Stato).<br />
Tripoli<br />
Nel 1921 gli italiani presenti nel territorio eritreo erano poco più <strong>di</strong><br />
4000 mentre in Somalia ne venivano segnalati 676. In Tripolitania,<br />
nonostante l’occupazione italiana si limitasse ancora alle zone costiere, gli<br />
italiani erano 19.332, <strong>di</strong> cui 7.315 militari e 370 <strong>di</strong>pendenti pubblici 5 .<br />
Secondo dati del 1932, la popolazione della città <strong>di</strong> Tripoli, vero centro<br />
nevralgico <strong>di</strong> tutta la colonia libica, era composta dalla comunità araba <strong>di</strong><br />
40.000 persone, da quella ebrea libica <strong>di</strong> 5.117 e da quella italiana, militare<br />
e civile, <strong>di</strong> 23.997 6 . La relativamente numerosa presenza italiana e la<br />
conquista dell’entroterra completata già nei primi anni venti furono le<br />
111
Gianluca Gabrielli<br />
con<strong>di</strong>zioni che resero particolarmente precoce (a confronto con le altre<br />
colonie) la normalizzazione della vita citta<strong>di</strong>na e, con essa, l’introduzione<br />
dello sport. Come vedremo, la convivenza delle tre comunità fece sì che<br />
nelle scelte <strong>di</strong> politica sportiva si riflettessero in maniera significativa le<br />
<strong>di</strong>verse fasi della politica <strong>di</strong> colonizzazione attuate dalle gerarchie fasciste.<br />
112<br />
Gli anni venti<br />
Già nel 1924 erano attivi a Tripoli numerosi gruppi sportivi militari<br />
(Cacciatori, Sussistenza, …), ben due associazioni sportive civili (U.S. Italia<br />
e G.S. Fulgor che organizzavano attività varie in una palestra a pagamento 7 ),<br />
una società finalizzata al solo canottaggio (Canottieri Tripoli) e<br />
un’associazione israelita <strong>di</strong> ispirazione sionista (Maccabei). Le manifestazioni<br />
pubbliche registrate sulle pagine del giornale citta<strong>di</strong>no comprendevano boxe,<br />
ippica, nuoto e calcio. Per quest’ultima specialità esisteva un campo sportivo<br />
presso il Molo Sparto e veniva organizzato un campionato che era già alla<br />
terza e<strong>di</strong>zione (anche se non ne risultava ancora automatica l’in<strong>di</strong>zione 8 ).<br />
Le manifestazioni <strong>di</strong> nuoto si <strong>di</strong>sputavano al porto ed erano aperte per la<br />
prima volta alle donne; è inoltre da segnalare l’assidua presenza <strong>di</strong> atleti<br />
israeliti alle competizioni, soprattutto <strong>di</strong> nuoto (il 20 settembre Bice Hassan<br />
giungeva seconda nella gara per «signorine», Elia Habib secondo nei 100<br />
metri maschili, la squadra del Maccabei incontrava in amichevole l’U.S.<br />
Italia nel water polo).<br />
Negli anni seguenti crebbe significativamente la partecipazione degli<br />
atleti militari (nel 1929 si iscrissero al campionato <strong>di</strong> calcio ben 8 squadre<br />
dell’arma composte esclusivamente <strong>di</strong> italiani; uniche squadre civili Fulgor<br />
e Avanguar<strong>di</strong>a 9 ). Tra le specialità sportive si affermarono presto anche il<br />
po<strong>di</strong>smo 10 e il ciclismo su strada (mentre l’atletica e il ciclismo su pista<br />
vennero promossi dopo la costruzione dello sta<strong>di</strong>o nel 1930).<br />
Erano anni in cui si parlava <strong>di</strong>ffusamente delle Olimpia<strong>di</strong> africane,<br />
previste per il 1929 11 , che suscitavano interesse tra gli sportivi italiani 12 . Di<br />
fronte a questa prospettiva nel 1928 veniva creata a Tripoli una Società<br />
Ginnastica che, secondo la vecchia tra<strong>di</strong>zione ottocentesca che ora doveva<br />
scendere a patti con l’atletismo <strong>di</strong> stampo britannico, permettesse la pratica<br />
<strong>di</strong> quest’attività ritenuta alla base e a fondamento <strong>di</strong> tutti gli sport; venivano<br />
così create sezioni <strong>di</strong> ginnastica, acrobatica, atletica e pugilato e a frequentarla<br />
erano ammessi «tutti i citta<strong>di</strong>ni italiani ovunque nati e <strong>di</strong> qualunque
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
religione» e quin<strong>di</strong> ne erano esclusi i sud<strong>di</strong>ti 13 . Il controllo politico<br />
dell’attività in forte crescita era garantito dell’Ente Sportivo Coloniale presso<br />
il Commissariato Generale dal quale dovevano passare tutte le nuove<br />
iniziative e i relativi regolamenti per l’approvazione 14 .<br />
La partecipazione araba alle attività sportive era dapprima limitata a casi<br />
particolari legati al costume e alle tra<strong>di</strong>zioni locali che non entravano in<br />
contrad<strong>di</strong>zione con i ruoli assegnati a tali popolazioni dalla politica coloniale<br />
italiana; ecco così le manifestazioni ippiche dove erano previste gare riservate<br />
a fantini arabi con barracano e bardatura in<strong>di</strong>gena; questo tipo <strong>di</strong> attività<br />
accompagnò in seguito senza mo<strong>di</strong>fiche tutta la storia della colonia, legato<br />
com’era alla necessità <strong>di</strong> valorizzare le qualità militari della cavalleria araba<br />
e <strong>di</strong> incentivare l’allevamento locale 15 .<br />
Nel corso del decennio però la partecipazione <strong>di</strong> atleti arabi alle attività<br />
sportive importate dai colonizzatori era <strong>di</strong>venuta significativa; se nel 1924<br />
un solo calciatore arabo compariva nella formazione militare del G.<br />
Esploratori che incontrava l’U.S. Italia in amichevole, nel gennaio 1929<br />
la squadra del Fulgor giocava in formazione mista, con 5 calciatori arabi 16 .<br />
Allo stesso modo nel pugilato si passava dall’esibizione tra allenatore<br />
italiano e allievo in<strong>di</strong>geno in margine ad una manifestazione del 1924 al<br />
doppio incontro misto (italiano contro arabo) in una serata pugilistica<br />
del 1928 17 . Esempio <strong>di</strong> questa fase <strong>di</strong> parziale apertura agli sportivi locali<br />
è il regolamento della XX Settembre Ciclistica Tripolina <strong>di</strong> fondo del 1928<br />
che era aperta a «qualunque corridore, borghese o militare, metropolitano<br />
o in<strong>di</strong>geno, che risieda in Tripolitania da almeno un mese». D’altra parte,<br />
quando la vittoria della corsa andò all’arabo Mohamed Creui davanti a<br />
Hamed Ben Mohammed mentre Costa, il favorito italiano, giunse solo<br />
quarto, si creò un evidente imbarazzo tra le gerarchie colonizzatrici, espresso<br />
nella cronaca del giornale tripolino: «L’addebito principale che muoveremo<br />
al Costa è specialmente quello che egli abbia troppo facilmente <strong>di</strong>menticato<br />
<strong>di</strong> essere anche in gara una Camicia Nera. È augurabile che a ciò pensino i<br />
suoi superiori e provvedano secondo il caso. Binda e Girardengo sono stati<br />
puniti per l’identica ragione» 18 .<br />
Gli anni <strong>di</strong> Badoglio<br />
Un punto che rimane abbastanza oscuro nei dettagli è quello relativo<br />
alla silenziosa protesta che, a partire dall’estate del 1928, la squadra ebrea<br />
113
Gianluca Gabrielli<br />
del Maccabei inscenò attraverso la rinuncia alla partecipazione alle varie<br />
competizioni. La società sportiva Maccabei era stata fondata dai settori<br />
sionisti della comunità ebraica che, anche attraverso l’attività sportiva e<br />
culturale cercavano <strong>di</strong> sviluppare la propria aggregazione. Di fatto questa<br />
associazione sionista spingeva per la modernizzazione della comunità libica<br />
contrapponendosi ai suoi settori più tra<strong>di</strong>zionalisti. Già attiva dai primi<br />
anni venti, la Società dei Maccabei era fortemente impegnata in numerose<br />
<strong>di</strong>scipline sportive. Eppure, alla vigilia della settima e<strong>di</strong>zione della Traversata<br />
del porto a nuoto che aveva sempre visto gli atleti ebrei tra i protagonisti, il<br />
giornale tripolino annunciava la loro rinuncia. Difficile capire dalle fonti<br />
analizzate se la polemica nacque da questioni sportive (la squadra del<br />
Maccabei era stata da poco squalificata nel torneo calcistico) oppure se vi<br />
fossero state forzature antiebraiche da parte degli organi politici italiani che<br />
però non trapelarono sui giornali. L’assenza polemica degli ebrei o, come si<br />
legge in un articolo del 1933, la loro «esclusione dalle competizioni»<br />
continuò per alcuni anni. Solo nel 1932 ritroviamo Elia Habib tra i<br />
partecipanti alle gare <strong>di</strong> nuoto.<br />
Ma intanto dal gennaio 1929 al governo dell’intera colonia libica era<br />
stato nominato Pietro Badoglio. Negli anni in cui egli fu governatore si<br />
interruppe il processo <strong>di</strong> coinvolgimento degli atleti locali nelle<br />
manifestazioni sportive unitarie; progressivamente, con ritmi <strong>di</strong>versi nelle<br />
<strong>di</strong>verse <strong>di</strong>scipline, furono creati circuiti sportivi paralleli riservati alle<br />
comunità arabe o ebree, anticipando un progetto che fu riproposto con<br />
forza e <strong>di</strong>venne realtà nelle colonie del Corno d’Africa dopo la proclamazione<br />
dell’impero e la promulgazione delle <strong>di</strong>rettive razziste.<br />
Già dal 1930 nei regolamenti <strong>di</strong> numerose specialità comparvero<br />
significative limitazioni: ad esempio il Giro po<strong>di</strong>stico <strong>di</strong> Tripoli o la Traversata<br />
del porto escludevano dai partecipanti sia gli arabi che gli ebrei tripolini («la<br />
gara è riservata ai soli Nazionali e citta<strong>di</strong>ni stranieri» 19 ); oppure, ad un mese<br />
dall’inizio del funzionamento della palestra <strong>di</strong> pugilato del Gruppo pugilistico<br />
fascista tripolino, il giornale sentì il bisogno <strong>di</strong> segnalare che «non è altrettanto<br />
vero che il Gruppo non possa accogliere gli elementi in<strong>di</strong>geni» 20 e nelle<br />
riunioni <strong>di</strong> pugilato gli spora<strong>di</strong>ci atleti africani partecipanti ritornarono a<br />
combattere tra loro 21 . Nel nuovo sta<strong>di</strong>o inoltre vennero organizzate varie<br />
manifestazioni; in due <strong>di</strong> queste «Polisportive» furono <strong>di</strong>sputate anche gare<br />
ciclistiche riservate ad in<strong>di</strong>geni come cornice alle gare per «nazionali» 22 .<br />
Le forzature <strong>di</strong> Badoglio arrivarono al culmine nel 1932 quando venne<br />
indetto un torneo <strong>di</strong> calcio per squadre composte da «sud<strong>di</strong>ti» (arabi e<br />
114
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
israeliti) che ovviamente non trovò realizzazione (tra le due comunità<br />
esistevano tensioni dai tempi della dominazione turca). L’anno seguente si<br />
rime<strong>di</strong>ò sdoppiando l’irrealizzabile torneo unico per sud<strong>di</strong>ti in due tornei<br />
riservati rispettivamente a israeliti e musulmani: la Coppa del Decennale<br />
per gli ebrei e, per i musulmani, la coppa Hassuna Pascià intitolata al sindaco<br />
arabo <strong>di</strong> Tripoli recentemente scomparso, fiancheggiatore degli italiani. Al<br />
torneo per israeliti si iscrissero 5 squadre: Maccabei, Erzel, Ben Iehudà, Tel<br />
Aviv e Tel Hai 23 ; il fatto che le partite del campionato si <strong>di</strong>sputassero il<br />
sabato sottolinea il senso anti-tra<strong>di</strong>zionalista con cui fu proposta dalle<br />
autorità fasciste questa manifestazione che si deve inquadrare tra gli altri<br />
conflitti che Badoglio e, con minore intensità, Balbo ingaggiarono con la<br />
comunità ebrea libica: con essa veniva sancito che anche nello sport gli<br />
ebrei libici «dovevano essere trattati come gli altri in<strong>di</strong>geni» 24 .<br />
1935: Balbo ripropone l’organizzazione unitaria dello sport<br />
Dal 1934 <strong>di</strong>venne governatore Italo Balbo. Egli investì molto nel<br />
potenziamento dell’attività sportiva soprattutto sotto la <strong>di</strong>mensione<br />
spettacolare e turistica, con l’organizzazione <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> manifestazioni aeree,<br />
automobilistiche e ciclistiche <strong>di</strong> livello internazionale. Ma in questa sede<br />
tratteremo soprattutto <strong>di</strong> altri due aspetti innovativi da lui introdotti a partire<br />
dal 1935 nell’organizzazione dello sport tripolino. La prima novità fu la<br />
fondazione, nel mese <strong>di</strong> <strong>di</strong>cembre, dell’Unione sportiva tripolina, società<br />
sportiva che <strong>di</strong>venne la principale organizzatrice delle manifestazioni della<br />
città, seguendo la parola d’or<strong>di</strong>ne: «prima <strong>di</strong> tutto organizzare in ogni campo<br />
degli sport della massa». L’Ust mise in pie<strong>di</strong> nel giro del primo anno <strong>di</strong><br />
attività i campionati <strong>di</strong> calcio della prima e seconda <strong>di</strong>visione e dei ragazzi<br />
(84 partite in tutto), varie amichevoli, <strong>di</strong>eci manifestazioni <strong>di</strong> pugilato,<br />
quattro <strong>di</strong> scherma, ventisei <strong>di</strong> tiro a volo; nella sede vennero allestiti i<br />
biliar<strong>di</strong> e uno spazio per le letture, c’era la possibilità <strong>di</strong> giocare a dama o a<br />
carte e <strong>di</strong> ascoltare la ra<strong>di</strong>o 25 .<br />
L’altra grande novità fu il cambiamento <strong>di</strong> politica sportiva nei confronti<br />
della popolazione colonizzata. Dal 1935 infatti «l’elemento in<strong>di</strong>geno, nel<br />
passato tenuto lontano da ogni competizione a confronto sportivo con<br />
l’elemento metropolitano, è stato [...], con giustezza <strong>di</strong> vedute da parte<br />
delle autorità sportive federali, ammesso a svolgere la sua attività nel quadro<br />
generale dello sport citta<strong>di</strong>no» 26 . Santo Di Gaetano, che si occupava <strong>di</strong><br />
115
Gianluca Gabrielli<br />
sport nel quoti<strong>di</strong>ano <strong>di</strong> Tripoli, sottolineava positivamente questo nuovo<br />
corso: «Nel calcio, nel ciclismo, nel po<strong>di</strong>smo, nel nuoto gli in<strong>di</strong>geni hanno<br />
portato il contributo della loro sana passione sportiva, acuendo lo spirito<br />
agonistico delle varie gare» 27 e da un’intervista a Tosini, responsabile e<br />
allenatore del pugilato nell’Unione sportiva tripolina, cogliamo alcune delle<br />
motivazioni della decisione <strong>di</strong> Balbo: «So che S.E. il Governatore Generale<br />
desidera che anche i musulmani facciano lo sport. Siamo già a buon punto<br />
nel calcio, nel ciclismo e nel pugilato. Anche per questa categoria <strong>di</strong> pugili<br />
- ve ne sono molti che promettono - ho intenzione <strong>di</strong> formare una buona<br />
squadretta e se i componenti saranno degni della mia fiducia in un prossimo<br />
avvenire cercherò <strong>di</strong> portarli in Italia per incontrare dei pugili in Patria» 28 .<br />
Le associazioni sportive per musulmani erano due: la Gioventù araba<br />
del Littorio, istituita sulla formula della Gil e seguita da Ramadan Alì, e la<br />
Belker, seguita dal ciclista e commerciante in attrezzature ciclistiche<br />
Mohamed Creui. I pugili musulmani invece militavano all’interno<br />
dell’Unione sportiva tripolina o del gruppo sportivo militare dell’Autogruppo.<br />
Italo Balbo era convinto che, «gradatamente e in posizione subalterna, i<br />
libici potessero e dovessero essere associati allo sviluppo e al governo del<br />
loro paese» e lo sport costituiva uno degli strumenti <strong>di</strong> questa strategia 29 .<br />
Dalla politica <strong>di</strong> associazione<br />
rimaneva invece escluso il territorio<br />
del sud, definito da Balbo «paese<br />
<strong>di</strong> carattere spiccatamente<br />
coloniale, popolato da gente <strong>di</strong><br />
razza negroide» mentre «gli arabi<br />
e i berberi dei territori costieri<br />
costituiscono invece una popolazione<br />
<strong>di</strong> razza superiore influenzata dalla<br />
civiltà me<strong>di</strong>terranea, capace <strong>di</strong><br />
assimilare lo spirito delle nostre<br />
leggi e <strong>di</strong> evolversi sul piano <strong>di</strong><br />
una più elevata vita sociale» 30 .<br />
116<br />
Alì Bagda<strong>di</strong>, quarto in classifica generale<br />
nella seconda e<strong>di</strong>zione del Gran premio<br />
ciclistico Legnano. «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli»,<br />
28 <strong>di</strong>cembre 1937
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
Questo nuovo corso <strong>di</strong> promozione sportiva senza separazione dovette<br />
comunque incontrare alcuni problemi e resistenze, che dalle pagine del<br />
giornale si possono percepire solamente in modo in<strong>di</strong>retto. Un esempio in<br />
occasione della seconda Coppa Motociclistica della Federazione Fascista: due<br />
settimane prima della gara veniva dato risalto all’innovativa partecipazione<br />
<strong>di</strong> motociclisti appartenenti alle squadre in<strong>di</strong>gene, Gal e Belker, mentre<br />
due giorni prima della gara gli iscritti arabi scomparivano dalle liste 31 . Un<br />
altro esempio in occasione del primo campionato ragazzi, con giocatori al<br />
<strong>di</strong> sotto dei <strong>di</strong>ciassette anni, la cui classifica finale premiava a pari merito<br />
una squadra italiana e una araba per cui veniva previsto lo spareggio; dell’esito<br />
della finale però nulla trapelava sul giornale fino a quando, alcuni giorni<br />
dopo, un <strong>di</strong>spaccio della federazione calcistica comunicava che non si sarebbe<br />
proceduto a stilare alcuna classifica per le varie scorrettezze che avevano<br />
contrad<strong>di</strong>stinto il torneo; così ad una lettera pubblicata <strong>di</strong> Alì ben Mas, che<br />
lamentava la mancata cronaca sul giornale della finale, il giornale rispondeva<br />
attribuendo le infrazioni più numerose alla squadra musulmana (giocatori<br />
con età superiore al limite <strong>di</strong> <strong>di</strong>ciassette anni, mancanza <strong>di</strong> tesserini). <strong>Del</strong><br />
risultato della finale non trapelò comunque nulla (e sembra perciò<br />
presumibile una imbarazzante vittoria della Gal) 32 .<br />
La stagione del razzismo <strong>di</strong> Stato<br />
Anche se le prime misure legislative atte ad inaugurare la stagione del<br />
razzismo <strong>di</strong> Stato fascista risalgono alla primavera del 1936, inizialmente<br />
non ebbero influenza sulle consuetu<strong>di</strong>ni maturate nella pratica sportiva<br />
libica a partire dalle <strong>di</strong>rettive <strong>di</strong> Balbo.<br />
È utile qui ricordare che dal 1936, in base alle <strong>di</strong>rettive <strong>di</strong> Mussolini e del<br />
ministro Lessona, la vita nelle colonie italiane fu impostata sulla separazione<br />
tra la comunità dominante e quella dominata, in onore al principio del<br />
«prestigio <strong>di</strong> razza» che darà il nome, nel 1939, alla legge quadro del razzismo<br />
fascista. Prima <strong>di</strong> essa, nel mese <strong>di</strong> aprile 1937, il regio decreto legge n. 880<br />
istituiva il reato <strong>di</strong> «madamato», cioè <strong>di</strong> unione d’indole coniugale tra italiani<br />
e sud<strong>di</strong>ti, in<strong>di</strong>rizzata esplicitamente a proibire le unioni miste in Africa<br />
Orientale, ma poi estesa nel 1939 anche agli abitanti della Libia.<br />
In coincidenza non casuale con l’approvazione del decreto legge n. 880<br />
Mussolini, accortosi della presenza <strong>di</strong> squadre arabe nel campionato tripolino<br />
117
Gianluca Gabrielli<br />
a fianco <strong>di</strong> squadre composte da italiani, tramite il ministro Lessona fece<br />
pressione su Balbo affinché interrompesse la pratica «promiscua»:<br />
S.E. Capo Governo ha notato su «Avvenite <strong>di</strong> Tripoli» notizia che est in corso campionato<br />
calcio cui partecipano squadre nazionali insieme con squadra gioventù araba Littorio.<br />
S.E. Capo Governo desidera che una volta concluso campionato in corso musulmani<br />
non siano ammessi partecipare gare sportive insieme nazionali. Prego assicurazione 33 .<br />
Balbo, che come abbiamo visto sull’avvicinamento della comunità araba<br />
aveva impostato la sua politica <strong>di</strong> governo, rispose esprimendo molti dubbi<br />
sulla decisione e prendendo tempo:<br />
Sia detto con tutta franchezza mi pare che giovani G.A.L. addestrati militarmente per<br />
combattere nostro fianco possano pure giocare al calcio coi nostri soldati e coi giovani<br />
nostre organizzazioni. Tanto più che in ogni altro ramo <strong>di</strong> sport e specialmente nella<br />
boxe gare promiscue si effettuano con tutta regolarità e senza dar luogo ad obiezioni.<br />
Naturalmente non mancherò ottemperare <strong>di</strong>sposizioni S.E. il Capo del Governo, ma<br />
siccome rivelare ragioni <strong>di</strong>vieto dopo due anni in cui campionato si effettua con<br />
partecipazione squadre musulmane significherebbe provocare ripercussione politica<br />
veramente grave, dovrei regolarmi in modo da rendere inattuabile effettuazione<br />
campionato calcio tripolino, sia facendo ritirare squadre militari, sia con altri espe<strong>di</strong>enti.<br />
Comunque, prima <strong>di</strong> passare attuazione, mi riservo <strong>di</strong> parlarne a Roma alla prossima<br />
occasione con V.E. e il Duce 34 .<br />
Il campionato 1937 si concluse regolarmente e quello del 1938 vide<br />
ugualmente la partecipazione delle squadre arabe: la Gal I nella 1 a Divisione<br />
e la Gal II nella 2 a Divisione 35 . Ancora sul finire del 1937 in occasione dei<br />
campionati <strong>di</strong> pugilato era possibile leggere sull’Avvenire una esplicita<br />
esaltazione della politica sportiva scelta da Balbo:<br />
La partecipazione <strong>di</strong> elementi in<strong>di</strong>geni, fatto non nuovo nel pugilato tripolino, apporta<br />
indubbiamente maggior interesse alla manifestazione. L’elemento in<strong>di</strong>geno, che nel passato<br />
è stato tenuto lontano da ogni competizione a confronto sportivo con l’elemento<br />
metropolitano, già da qualche anno, con giustezza <strong>di</strong> vedute da parte delle Autorità Sportive<br />
Federali, è stato ammesso a svolgere la sua attività nel quadro generale dello sport citta<strong>di</strong>no.<br />
Il risultato <strong>di</strong> questo nuovo andamento <strong>di</strong> cose è stato, come giustamente si prevedeva,<br />
quanto mai ottimo.<br />
Nel calcio, nel ciclismo, nel po<strong>di</strong>smo, nel nuoto gli in<strong>di</strong>geni hanno portato il contributo<br />
della loro sana passione sportiva, acuendo lo spirito agonistico delle varie gare 36 .<br />
118
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
Ma ormai la politica razzista del fascismo stava per arrivare al suo culmine<br />
anche nel regno e non era più possibile temporeggiare. Per gli sportivi ebrei i<br />
ritmi della esclusione si fecero incalzanti: l’ultima partita amichevole della squadra<br />
calcistica del Maccabei si svolse il 16 aprile 1938 con l’Ust 37 ; durante l’estate i<br />
nuotatori ebrei partecipano regolarmente alle prime tre gare, poi l’organizzazione<br />
passò alla Gil e le gare persero per sempre i partecipanti ebrei 38 .<br />
Da aprile del 1938 cessarono sul giornale anche le informazioni sulla<br />
fase finale del campionato <strong>di</strong> calcio. Due mesi dopo venne pubblicata una<br />
lettera firmata «uno sportivo <strong>di</strong> Tripoli» che chiedeva informazioni sul<br />
destino del torneo, ormai interrotto da tempo, lamentando il silenzio dei<br />
<strong>di</strong>rigenti contrapposto all’interesse <strong>di</strong> giocatori e pubblico 39 e quattro giorni<br />
dopo un laconico comunicato del Direttorio della XIX Zona della Figc<br />
«sospende[va] definitivamente i campionati in corso» e decretava che «non<br />
[fosse] stabilita alcuna classifica e quin<strong>di</strong> assegnato alcun titolo» 40 .<br />
In ottobre, dopo tre mesi <strong>di</strong> tambureggiante campagna razzista sulle prime<br />
pagine del giornale, si riapriva il capitolo campionato. Su quello passato non<br />
si faceva chiarezza e le reali ragioni della sospensione sembravano rimanere<br />
un oscuro e scandaloso mistero anche per l’articolista dell’«Avvenire»:<br />
Rivangare le ragioni <strong>di</strong> un tale provve<strong>di</strong>mento è ormai cosa vana. Una cosa sola<br />
dobbiamo aggiungere e cioè che un provve<strong>di</strong>mento del genere arreca un male alla<br />
buona e sana propaganda sportiva e dà a<strong>di</strong>to al <strong>di</strong>sinteresse da parte degli appassionati<br />
al gioco del calcio 41 .<br />
Ma dal regolamento del campionato calcistico 1938-39 si capiva che il<br />
tempo preso da Balbo si era esaurito ed era giunto il momento <strong>di</strong> applicare le<br />
<strong>di</strong>rettive Mussoliniane del 1937 <strong>di</strong>ssimulandone le motivazioni reali per non<br />
entrare in conflitto con la comunità araba. Il nuovo regolamento recitava:<br />
Potranno partecipare soltanto squadre <strong>di</strong> calcio appartenenti a Società Sportive<br />
regolarmente costituite ed alle Organizzazioni del Partito […]. I giocatori partecipanti<br />
ai due campionati dovranno essere tutti tesserati alla FGCI [...]. Potranno essere tesserati<br />
soltanto giocatori <strong>di</strong> nazionalità e citta<strong>di</strong>nanza italiana. Il Direttorio <strong>di</strong> Zona Tripolino<br />
allo scopo <strong>di</strong> dare sempre maggiore impulso alla propaganda calcistica locale<br />
organizzerà, in seguito, un torneo per squadre in<strong>di</strong>geni, un torneo per squadre militari<br />
e un torneo per riserve e ragazzi 42 .<br />
In questo modo, per un anno, dal campionato più popolare in colonia<br />
furono esclusi giocatori locali. Non poterono partecipare le squadre ebree<br />
119
Gianluca Gabrielli<br />
che, come abbiamo visto, non erano state più iscritte dagli anni <strong>di</strong> Badoglio<br />
e la cui associazione sportiva, il Maccabei, fu <strong>di</strong>chiarata fuorilegge con<br />
l’accusa <strong>di</strong> attività sovversiva nel 1941 43 .<br />
Non poté partecipare neppure la Gioventù araba del littorio, esclusa<br />
anch’essa in applicazione delle <strong>di</strong>rettive del razzismo <strong>di</strong> Stato. Nelle altre<br />
<strong>di</strong>scipline sportive, relativamente agli atleti arabi, non si ebbe una netta<br />
interruzione: nel po<strong>di</strong>smo e nel ciclismo continuarono le gare miste con la<br />
partecipazione <strong>di</strong> arabi appartenenti alla Gal e all’Ust, anche se<br />
parallelamente furono istituite manifestazioni riservate agli sportivi arabi<br />
come forma <strong>di</strong> promozione separata 44 . Nel nuoto gli arabi concorrevano in<br />
manifestazioni organizzate solo per essi o tutt’al più in batterie aggiuntive<br />
loro riservate; nel pugilato furono sospesi gli incontri «misti» e si ritornò<br />
agli incontri tra arabi previsti però all’interno <strong>di</strong> manifestazioni basate su<br />
incontri tra italiani. Nel calcio, finita la fase più calda della propaganda<br />
razzista e avvicinatasi la guerra con la necessità <strong>di</strong> utilizzare le truppe africane,<br />
ripresero le partite miste, prima in forma <strong>di</strong> amichevoli (2 aprile 1939) 45<br />
poi anche in forma ufficiale con la nuova ammissione della Gal nel<br />
Campionato tripolino del 1940 46 .<br />
120<br />
Le colonie del Corno d’Africa<br />
Somalia e Eritrea prima del razzismo <strong>di</strong> Stato<br />
In Somalia sul finire dell’anno 1931, con alcuni anni <strong>di</strong> ritardo rispetto<br />
alla Libia, il governatore istituiva la Federazione Sportiva Fascista come<br />
ente <strong>di</strong>rettivo con lo scopo <strong>di</strong> coor<strong>di</strong>nare e <strong>di</strong>sciplinare ogni attività sportiva<br />
nella colonia. Ad essa facevano capo tutte le Società regolarmente costituite,<br />
ed ogni gara o manifestazione doveva ricevere la sua preventiva approvazione.<br />
Una serie <strong>di</strong> articoli apparsi sul «Corriere della Somalia» all’inizio del<br />
1933 ci permette <strong>di</strong> misurare l’attività presente in questi anni 47 . Nel tennis<br />
operava il Tennis club Moga<strong>di</strong>scio che aveva alcuni anni <strong>di</strong> vita, raccoglieva<br />
50 soci che usufruivano <strong>di</strong> due campi recentemente dotati <strong>di</strong> illuminazione;<br />
era in costruzione un terzo campo e il muro <strong>di</strong> allenamento. Nel 1932<br />
aveva organizzato il Campionato Somalo a cui avevano partecipato una<br />
ventina <strong>di</strong> atleti (5 donne). Recentemente anche il Comando Marino aveva<br />
costruito il proprio campo ed erano in costruzione quelli dell’aviazione e<br />
del campo militare <strong>di</strong> Hammar Ger Geb.
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
Il calcio era stato praticato dalla Società Moga<strong>di</strong>scio (che contava 33<br />
soci) e dal Comando Marina in competizioni amichevoli utili a smentire<br />
l’opinione <strong>di</strong>ffusa che non fosse possibile praticarlo in Somalia per il clima<br />
debilitante. Nel 1933 si <strong>di</strong>sputava il 1° Campionato <strong>di</strong> calcio della Somalia<br />
(Coppa federazione sportiva) riservato a «squadre federate e militari<br />
metropolitane»; ad esso partecipavano tre squadre: Milizia, Marina e S.<br />
Moga<strong>di</strong>scio, mentre era in formazione la squadra del R. Corpo truppe<br />
coloniali. 48 Esisteva un campo sportivo con tribunetta che recentemente<br />
era stata a<strong>di</strong>bita a spogliatoio nel basamento.<br />
Veniva inoltre praticata la scherma per tutte le classi <strong>di</strong> età, dai balilla<br />
agli adulti, con culmine dell’attività nell’Annuale schermistico della Somalia<br />
giunto alla seconda e<strong>di</strong>zione, e il tiro al piccione. L’atletica leggera, senza<br />
impianti specifici, nel 1932 aveva visto una sola manifestazione «sociale»<br />
del Comando Marina.<br />
Tutte le attività sportive menzionate erano praticate dai coloni italiani<br />
mentre nessun cenno veniva fatto a manifestazioni per atleti somali.<br />
Non era molto <strong>di</strong>versa la situazione in Eritrea. Nel 1933 il commissario<br />
sportivo Masobello <strong>di</strong>rigeva un’attività molto ridotta. Ormai da due anni<br />
non si <strong>di</strong>sputava più il campionato <strong>di</strong> calcio, né il Bracciale Cona, gara<br />
ciclistica anch’essa interrotta. Si svolgevano invece manifestazioni <strong>di</strong> tiro al<br />
piccione, pugilato, lotta greco-romana e sollevamento pesi 49 . Nelle<br />
manifestazioni ippiche (due nel corso dell’anno) era prevista una gara per<br />
cavalli proprietà <strong>di</strong> in<strong>di</strong>geni e montati da in<strong>di</strong>geni. Le altre attività erano<br />
estemporanee e fungevano da cornice a manifestazioni <strong>di</strong> celebrazione<br />
politica (il 21 aprile, Natale <strong>di</strong> Roma, si svolse ad esempio una gimcana<br />
ciclistica, una motociclistica e una corsa po<strong>di</strong>stica a staffetta tra Giovani e<br />
Piccole italiane; alla scuola Principe <strong>di</strong> Piemonte il saggio ginnico precedeva<br />
la recita della tavola pitagorica e seguiva il canto <strong>di</strong> Giovinezza). Sul finire<br />
dell’anno, su stimolo del giornale locale, il Commissario Politico organizzò<br />
un pomeriggio sportivo con ciclismo, po<strong>di</strong>smo, tiro alla fune e «palla a<br />
sfratto» 50 . È evidente quin<strong>di</strong> che la <strong>di</strong>mensione dell’attività rimaneva limitata<br />
e occasionale, spesso collegata alle organizzazioni giovanili <strong>di</strong> regime, oppure<br />
nasceva attorno a sfide come le marce a squadre <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zione militare 51 .<br />
Tutte le iniziative segnalate sul giornale erano riservate ai bianchi 52 ;<br />
nella manifestazione del 21 aprile le tribune A, B e C erano per la<br />
popolazione metropolitana, mentre «la tribuna D [era] riservata alla<br />
popolazione in<strong>di</strong>gena» a confermare che anche nell’organizzazione del<br />
121
Gianluca Gabrielli<br />
pubblico sportivo una <strong>di</strong>visione netta della società era già ben ra<strong>di</strong>cata<br />
prima della svolta del 1936 53 .<br />
122<br />
Gli anni dell’impero: Somalia e Eritrea<br />
Anche se manca ancora uno spoglio sistematico della documentazione<br />
d’archivio, è certo che gli anni della conquista dell’Etiopia<br />
spinsero le gerarchie fasciste ad attivarsi per organizzare l’attività sportiva<br />
della popolazione in<strong>di</strong>gena maschile in modo stabile, ma secondo il<br />
netto principio della subor<strong>di</strong>nazione e della separazione dalle attività<br />
dei bianchi.<br />
In Somalia nel 1937, accanto all’ennesima e<strong>di</strong>zione del campionato <strong>di</strong><br />
calcio per squadre composte da nazionali, venne organizzato il primo<br />
campionato riservato alle squadre composte da somali. La vittoria andò<br />
all’Amaruini, le altre squadre partecipanti erano Deposito Fanteria, Jacub,<br />
Bena<strong>di</strong>r, Araba 54 . Il campionato fu ripetuto negli anni seguenti (nel 1938<br />
vinse ancora l’Amaruini mentre nel 1939 vinse l’Araba).<br />
«Somalia Sportiva», settimanale sportivo dei Fasci <strong>di</strong> combattimento,<br />
de<strong>di</strong>cò uno spazio regolare alle cronache delle partite tra squadre in<strong>di</strong>gene;<br />
in esse facevano capolino i pregiu<strong>di</strong>zi ra<strong>di</strong>cati nell’immaginario dei<br />
colonizzatori: ad esempio le allusioni alla «mentalità primitiva» dei somali,<br />
ma emergevano anche informazioni sulla nascita delle prime tifoserie e<br />
sull’«assimilazione» degli aspetti che accompagnano lo sviluppo della pratica<br />
calcistica, con polemiche arbitrali, contestazioni e scontri tra tifoserie che<br />
venivano colti dall’articolista con malcelata sod<strong>di</strong>sfazione, ritenendoli parte<br />
integrante del nucleo profondo della pratica calcistica come veniva proposta<br />
dai «colonizzatori-civilizzatori» 55 .<br />
Anche le altre attività sportive per italiani apparivano in crescita in questi<br />
anni. Agli sport già praticati in passato come tennis, scherma e tiro al<br />
piccione, si aggiunsero ciclismo, boxe, atletica, pallacanestro, bocce, nuoto<br />
e automobilismo (nel 1938 il 1° Circuito automobilistico <strong>di</strong> Moga<strong>di</strong>scio<br />
all’interno della Settimana sportiva). Furono organizzate anche le prime<br />
attività nei centri minori, come Baidoa 56 .<br />
In generale l’attività cercava, con fatica, <strong>di</strong> trovare quella continuità che<br />
fino ad allora era completamente mancata, passando dalle «sfide»<br />
estemporanee all’attività programmata anno per anno, come spiegava lo<br />
stesso Ufficio Sportivo Federale della Somalia intervenendo sulla «Somalia
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
sportiva» in polemica con un articolo trionfalistico comparso sul perio<strong>di</strong>co<br />
«Il Pugilatore», stampato e <strong>di</strong>stribuito in Italia 57 .<br />
Per i somali, oltre al calcio <strong>di</strong> cui si è detto, abbiamo notizie <strong>di</strong> due<br />
manifestazioni loro riservate (una natatoria e una <strong>di</strong> atletica) 58 , e degli<br />
incontri <strong>di</strong> apertura delle manifestazioni <strong>di</strong> pugilato, tra i «somali Mallin<br />
Nur ed Isak Barrachin, eterni avversari che da circa due anni si trovano <strong>di</strong><br />
fronte in quasi tutte le riunioni» 59 . Tutte queste attività erano svolte tra<br />
somali, rispettando un imperativo implicito <strong>di</strong> separatezza che si può cogliere<br />
chiaramente anche nella organizzazione logistica delle tribune per il pubblico<br />
del circuito automobilistico: tribune A, B, C, D, E per nazionali, mentre<br />
per la popolazione somala erano <strong>di</strong>sponibili due tribune con <strong>di</strong>versa<br />
<strong>di</strong>slocazione 60 .<br />
Anche in Eritrea, nel 1939, la pratica sportiva sembrava aver acquisito<br />
continuità. Il campionato <strong>di</strong> calcio era sdoppiato in due gironi (Bassopiano e<br />
Altopiano) le cui vincenti si <strong>di</strong>sputavano il titolo <strong>di</strong> campione d’Eritrea; il<br />
Torneo del Bassopiano si <strong>di</strong>sputava tra nove squadre. Venivano inoltre<br />
organizzate manifestazioni <strong>di</strong> tiro a volo, pallacanestro, po<strong>di</strong>smo, ciclismo,<br />
boxe, tamburello, canottaggio e pallacorda. Tutte queste attività erano ormai<br />
riservate agli «ariani» per regolamento: così la federazione ciclistica comunicava<br />
che per «<strong>di</strong>sposizione del C.O.N.I. nello Statuto Sociale della Società deve<br />
essere inserito il seguente articolo: “Con<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>spensabile per poter essere<br />
soci è l’appartenenza alla razza ariana”» 61 . Parallelamente anche qui in alcune<br />
attività è attivato un separato intervento organizzativo verso i sud<strong>di</strong>ti. Nel<br />
calcio viene costituita la Sezione Propaganda per eritrei che si deve occupare<br />
<strong>di</strong> tutte le manifestazioni calcistiche delle società composte <strong>di</strong> sud<strong>di</strong>ti. Ecco<br />
così nascere la Coppa Enrico Toti tra le squadre dell’Hamasien, Savoia, Eritrea<br />
e Ar<strong>di</strong>ta, vincitrice quest’ultima della Coppa del Direttorio per sud<strong>di</strong>ti nel<br />
1938. Nelle altre <strong>di</strong>scipline sportive dallo spoglio giornalistico emergono solo<br />
una competizione per uri e barche <strong>di</strong> porto, <strong>di</strong> contorno alla manifestazione<br />
nautica del 28 ottobre a Massaua 62 , e una gara ciclistica per sud<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> contorno<br />
alla seconda prova del campionato eritreo <strong>di</strong> ciclismo 63 .<br />
Gli anni dell’impero: Etiopia<br />
In Etiopia il 1939 fu l’anno decisivo per la promozione sportiva; nel 1936<br />
infatti, dopo la «<strong>di</strong>chiarata» conquista del territorio, era rimasta attiva una intensa<br />
attività <strong>di</strong> guerriglia, cui fece riscontro la feroce e spietata repressione del viceré<br />
Graziani; anche se negli anni successivi la resistenza etiope non depose le armi,<br />
123
Gianluca Gabrielli<br />
l’arrivo del nuovo viceré Amedeo <strong>di</strong> Savoia-Aosta coincise con un assestamento<br />
progressivo della vita per i numerosi italiani presenti e per la popolazione etiope,<br />
anche se limitato ai gran<strong>di</strong> centri e alle zone «pacificate».<br />
124<br />
Lo sport degli italiani<br />
Già dal 1938 l’attività sportiva dei bianchi aveva mutato forme, da quelle<br />
estemporanee dei reparti militari alla nascita delle prime società sportive;<br />
così nonostante la strutturale carenza <strong>di</strong> impianti, numerose specialità<br />
venivano ormai praticate in maniera costante. Una rassegna generale<br />
dell’attività sportiva dello Scioa pubblicata nell’estate del 1939 sul «Lunedì<br />
dell’Impero» ci permette <strong>di</strong> dare uno sguardo generale all’attività degli italiani<br />
in questa regione 64 . Il calcio, come sempre, era l’attività che quasi<br />
spontaneamente si era affermata con il maggior numero <strong>di</strong> campi sportivi<br />
adatti e <strong>di</strong> praticanti, tanto che il campionato dello Scioa nel 1938 aveva<br />
coinvolto ben 14 squadre 65 ; l’anno seguente la riorganizzazione delle società<br />
gestita dalla Federazione Italiana Gioco Calcio ridusse le squadre dello Scioa<br />
a 7 mentre ben 57 erano le comitive in tutta l’Africa Orientale Italiana<br />
(quin<strong>di</strong> Eritrea e Somalia comprese) con 1.111 tesserati. Più <strong>di</strong>fficile la<br />
situazione degli altri sport; la boxe vide le prime riunioni sul finire del<br />
1937 ed ebbe vicende alterne in seguito ai trasferimenti e rimpatri degli<br />
italiani che avevano animato l’attività: in due anni furono organizzate 8<br />
manifestazioni pubbliche. Il ciclismo, al momento in cui fu scritto l’articolo,<br />
contava solo 21 tesserati e tre gare nella stagione 1939, il tennis metteva in<br />
conto due tornei e una trentina <strong>di</strong> partecipanti. Ancora al palo la scherma,<br />
nonostante la costruzione <strong>di</strong> una pedana nel salone <strong>di</strong> un gruppo rionale,<br />
mentre il po<strong>di</strong>smo aveva sviluppato un intenso calendario <strong>di</strong> gare e staffette<br />
dal settembre 1938, ma soffriva ovviamente la mancanza <strong>di</strong> una pista. Nel<br />
nuoto erano state organizzate due manifestazioni nel lago Biscioftù, a 40<br />
chilometri da Ad<strong>di</strong>s Abeba in un ambiente decisamente ostico e sul giornale<br />
erano ricorrenti le lamentele per l’assenza <strong>di</strong> impianti artificiali.<br />
D’altronde le necessità e<strong>di</strong>lizie <strong>di</strong> base legate all’«e<strong>di</strong>ficazione dell’impero»<br />
ponevano regolarmente l’e<strong>di</strong>lizia sportiva in coda alle altre realizzazioni. Di<br />
fronte a questa situazione spesso era solo l’attivismo organizzativo dei coloni<br />
che cercava <strong>di</strong> sopperire alle carenze impiantistiche, ma limitandosi agli<br />
sport come il calcio, più ra<strong>di</strong>cati e con minori esigenze tecniche.
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
Sempre nel 1939 venne formato l’Ufficio del Coni presso l’Ispettorato<br />
del Partito fascista in Ad<strong>di</strong>s Abeba affidato a Bortolo Castellani e destinato<br />
a dare le in<strong>di</strong>cazioni politiche alle Consulte sportive istituite presso i Fasci<br />
<strong>di</strong> combattimento (mentre sugli aspetti tecnico organizzativi esercitavano<br />
il controllo <strong>di</strong>retto le federazioni sportive) 66 ; Nello stesso periodo il Coni<br />
mise allo stu<strong>di</strong>o un progetto <strong>di</strong> campo sportivo coloniale standard da<br />
realizzarsi nelle terre dell’impero; furono trasferite le competenze sportive<br />
dei gruppi rionali (istituzioni che assolvevano ad attività politiche e sportive)<br />
alle società sportive; venne iniziata dai me<strong>di</strong>ci sportivi la «schedatura clinica»<br />
<strong>di</strong> tutti i tesserati per finalità me<strong>di</strong>co-preventive e razziali (evitare infortuni,<br />
seguire e conoscere l’adattamento della «razza» ad inconsuete latitu<strong>di</strong>ni e<br />
altitu<strong>di</strong>ni) 67 .<br />
Panem et circenses: l’attività sportiva per i sud<strong>di</strong>ti dell’impero fascista<br />
Anche nell’Etiopia dell’impero mussoliniano ogni attività che vedeva<br />
coinvolti atleti italiani era interdetta agli atleti <strong>di</strong> colore; l’unica parziale<br />
eccezione che mi è capitata sotto gli occhi in questo spoglio si riferisce al<br />
pugilato: alla riunione del 30 gennaio 1939 al cinema Impero erano previsti<br />
gli incontri <strong>di</strong> cornice tra gli in<strong>di</strong>geni Cassa-Gabtimer (carta) Avakiam-<br />
Punretian (me<strong>di</strong>), secondo uno stile che abbiamo visto essere in uso anche<br />
in altre colonie italiane e che permetteva la giustapposizione dello «sport<br />
nero» allo «sport bianco» senza mescolarne gli attori. Per il resto l’attività<br />
sportiva degli in<strong>di</strong>geni veniva organizzata dai colonizzatori in luoghi e tempi<br />
separati da quelli dei bianchi, per motivi <strong>di</strong> «prestigio razziale» sanciti ormai<br />
da leggi dello Stato.<br />
Le finalità e le modalità organizzative <strong>di</strong> questa attività sono chiaramente<br />
sintetizzate nelle parole <strong>di</strong> Teruzzi, sottosegretario <strong>di</strong> Stato per l’Africa<br />
Italiana, che riassumeva a Starace, segretario del Partito nazionale fascista, i<br />
primi passi dello sport in<strong>di</strong>geno nei nuovi territori dell’impero:<br />
S.A.R. il Viceré ha curato in modo speciale l’organizzazione sportiva degli in<strong>di</strong>geni,<br />
come mezzo efficace per <strong>di</strong>mostrare l’interessamento del Governo per le popolazioni, ed<br />
anche <strong>di</strong>strarle da altre aspirazioni, coltivando in esse una passione innata, ed applicando<br />
l’adagio romano «panem et circensem» [sic]. Le istruzioni date per Ad<strong>di</strong>s Abeba suonano<br />
così: «Le attività sportive in<strong>di</strong>gene fanno capo esclusivamente al Commissariato <strong>di</strong> Governo;<br />
e ciò in modo tassativo, al fine <strong>di</strong> evitare ogni inopportuna confusione ed ogni inopportuno<br />
parallelismo con le similari organizzazioni italiane [...]. In particolare per Ad<strong>di</strong>s Abeba voi<br />
125
Gianluca Gabrielli<br />
cercherete la collaborazione dei Capi <strong>di</strong> quartiere, affinché per ogni quartiere si costituiscano<br />
le varie squadre sportive che potranno trovare, reciprocamente motivo <strong>di</strong><br />
contestazione [...]. L’organizzazione deve agire sempre ed in ogni circostanza nell’ambito<br />
delle consuetu<strong>di</strong>ni e delle usanze locali, con l’intervento sistematico dei capi in<strong>di</strong>geni<br />
territoriali e dei notabili locali, sempre invitati in prima linea alle cerimonie cui intervengono<br />
i ragazzi». Altre istruzioni prescrivono <strong>di</strong> valorizzare i giuochi in<strong>di</strong>geni tra<strong>di</strong>zionali. Come<br />
si vede, l’organizzazione dell’attività sportiva tra i giovani in<strong>di</strong>geni comporta quoti<strong>di</strong>ani<br />
rapporti con i capi e i notabili; osservanza <strong>di</strong> consuetu<strong>di</strong>ni locali, rispetto, anche, alle<br />
<strong>di</strong>visioni sociali che vietano <strong>di</strong> accomunare, ad esempio, nelle stesse squadre figli <strong>di</strong> capi e<br />
giovani appartenenti alle caste spregiate 68 .<br />
Lo sport in questo periodo era <strong>di</strong>ventato quin<strong>di</strong> uno strumento attivo<br />
della politica portata avanti dal nuovo viceré nei confronti della popolazione<br />
locale ai fini del suo controllo e della sua organizzazione sul modello dei<br />
nazionali ma subor<strong>di</strong>nata ad essi. La possibilità <strong>di</strong> controllare e gestire il<br />
tempo libero <strong>di</strong> ragguardevoli gruppi <strong>di</strong> giovani etiopi, atleti e tifosi,<br />
impegnandoli in un’attività fortemente caratterizzata in senso «occidentale»<br />
veniva a sod<strong>di</strong>sfare una esigenza fondamentale <strong>di</strong> un governo coloniale che<br />
non contasse solamente sulla repressione. Per <strong>di</strong> più la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> ogni<br />
aspetto organizzativo, fino alla decisione sull’entità del coinvolgimento dei<br />
notabili locali collaborazionisti, doveva assicurare il massimo controllo del<br />
fenomeno. L’ambito separato «razzialmente» nel quale veniva organizzata<br />
l’attività ci fornisce inoltre la chiave per interpretare quell’accenno allo sport<br />
come «passione innata» negli africani, da misurare non come un qualsiasi<br />
accenno generico alla capacità trascinante dello sport, ma come precisa<br />
allusione a «caratteri <strong>di</strong>stintivi» <strong>di</strong> una «razza inferiore».<br />
Purtroppo per ora non ho rintracciato gli originali delle in<strong>di</strong>cazioni del<br />
viceré cui si riferisce Teruzzi, quin<strong>di</strong> la datazione rimane approssimativa e<br />
probabilmente precede la primavera del 1939, stagione <strong>di</strong> massimo impegno<br />
organizzativo. In questo periodo infatti il Commissariato <strong>di</strong> Governo <strong>di</strong><br />
Ad<strong>di</strong>s Abeba affidò al Teclai Scium (capo degli in<strong>di</strong>geni, formale figura <strong>di</strong><br />
autogoverno subor<strong>di</strong>nata totalmente ai colonizzatori) l’incarico <strong>di</strong> raccogliere<br />
le iscrizioni dei giovani africani che intendessero partecipare alle gare.<br />
I settori sportivi che vennero attivati furono il ciclismo, il po<strong>di</strong>smo,<br />
l’attività calcistica 69 nonché gare <strong>di</strong> cavalli in<strong>di</strong>geni con fantini in<strong>di</strong>geni 70 .<br />
Più che con intenti sportivi, le gare <strong>di</strong> cavalli furono organizzate poiché<br />
rappresentavano soprattutto una misura per la promozione dell’allevamento<br />
locale, «un primo passo verso quell’incremento da realizzarsi anche nel settore<br />
in<strong>di</strong>geno per poi selezionare e attivare sempre più la riproduzione <strong>di</strong> buone<br />
126
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
razze equine» 71 . La vera attività sportiva per in<strong>di</strong>geni fu quella proposta nella<br />
forma delle «polisportive» domenicali, manifestazioni nelle quali erano<br />
normalmente previste gare <strong>di</strong> ciclismo e po<strong>di</strong>smo. I partecipanti alle gare<br />
ciclistiche erano sud<strong>di</strong>visi nelle categorie «turismo» e «corsa» (probabilmente<br />
in base alla bicicletta e alle qualità dell’atleta), e le gare si svolgevano su<br />
<strong>di</strong>stanze al <strong>di</strong> sotto dei 50 chilometri e spesso in circuito, per favorire il<br />
coinvolgimento del pubblico in<strong>di</strong>geno; le gare po<strong>di</strong>stiche si sviluppavano su<br />
<strong>di</strong>verse <strong>di</strong>stanze dai 100 ai 5.000 metri e solo in un caso compresero anche<br />
una specialità tecnica come il salto in alto. Il calcio fu avviato nel mese <strong>di</strong><br />
giugno 1939 con la creazione <strong>di</strong> due squadre, una copta e l’altra musulmana.<br />
Dopo l’interruzione per la stagione delle piogge l’attività riprese e da<br />
un resoconto del 1940 si apprende che era in piena attività un campionato<br />
in<strong>di</strong>geni anche ad Ad<strong>di</strong>s Abeba 72 . Le manifestazioni polisportive furono<br />
organizzate con grande frequenza (ben sette manifestazioni tra maggio<br />
Una squadra che partecipa al campionato in<strong>di</strong>geni nell’Etiopia italiana.<br />
Nell’originale «Ecco le zebre dello Scioa». «L’Azione Coloniale», X, 7 marzo 1940<br />
127
Gianluca Gabrielli<br />
e agosto 1939) nel tentativo <strong>di</strong> lanciare un’attività <strong>di</strong> massa che<br />
coinvolgesse il numero più grande possibile <strong>di</strong> giovani. Dalle cronache,<br />
che ovviamente sono fonti <strong>di</strong> cui tenere conto con molta cautela, sembra<br />
che la risposta fosse stata notevole e che, soprattutto nelle prove<br />
ciclistiche, si fossero attivati alcuni meccanismi <strong>di</strong> tifo e <strong>di</strong> riconoscimento<br />
dei campioni locali tipici del fenomeno sportivo: la figura <strong>di</strong> Cassa Fa<strong>di</strong>l,<br />
ciclista plurivincitore dalle doti <strong>di</strong> grimpeur, era capace <strong>di</strong> suscitare<br />
entusiasmo nella folla che accompagnava queste manifestazioni. La<br />
partecipazione della popolazione locale venne d’altronde incentivata<br />
mettendo in palio premi in denaro e in capi <strong>di</strong> vestiario e, come già<br />
scritto, attraverso il coinvolgimento <strong>di</strong> importanti notabili locali che<br />
collaboravano con il governo coloniale, a partire dal Teclai Scium <strong>di</strong><br />
Ad<strong>di</strong>s Abeba e da Ras Hailù Tecla Haimanot, onnipresenti alle<br />
manifestazioni insieme alle gerarchie fasciste e titolari essi stessi <strong>di</strong> due<br />
società sportive in<strong>di</strong>gene, e continuando con numerosi altri notabili che<br />
venivano regolarmente elencati nelle corrispondenze de<strong>di</strong>cate agli<br />
avvenimenti dal giornale <strong>di</strong> Ad<strong>di</strong>s Abeba. Una <strong>di</strong> queste iniziative venne<br />
organizzata il 27 settembre nel giorno del mascal in onore del Metropolita,<br />
l’abuna Johannes, e dei vescovi. Tra le personalità <strong>di</strong> rilievo italiane che<br />
presenziarono spesso alle manifestazioni e premiarono i vincitori ritroviamo<br />
figure importanti come il <strong>di</strong>rettore generale degli Affari Politici Franca e<br />
lo stesso vice governatore generale Nasi 73 .<br />
Il coinvolgimento sportivo lasciava però scoperto un altro ambito<br />
decisivo dell’e<strong>di</strong>ficio ginnastico moderno: quello relativo all’educazione<br />
scolastica, che in Italia era gestita dalla Gil e si rivolgeva a tutti, a<br />
prescindere dal livello delle prestazioni, con finalità «eugeniche» e<br />
premilitari. A partire da settembre 1939 un accordo tra Teruzzi e Starace<br />
cercava <strong>di</strong> colmare questa lacuna; con esso si stabiliva che l’istruzione<br />
fisica dei giovani in<strong>di</strong>geni fosse affidata alle strutture del partito, sia<br />
nelle scuole governative che in quelle delle missioni cattoliche. Il senso<br />
<strong>di</strong> questa decisione era evidente<br />
Il Partito dovrebbe riservarsi l’istruzione fisica dei giovani in<strong>di</strong>geni in quanto questa è<br />
la sola che ci interessa per preparare dei buoni ascari 74 .<br />
Per la scelta della denominazione da far assumere a questa nuova<br />
istituzione del partito, Teruzzi spiegava <strong>di</strong> ritenere importante non ricalcare<br />
le formule già adottate in Italia e in Libia (Gil e Gal):<br />
128
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
In quanto alla denominazione non ritengo opportuna [sic] venga adottata quella <strong>di</strong><br />
«Gioventù etiopica del Littorio»; in Libia la «Gioventù araba del Littorio» è stata<br />
fondata con il concetto <strong>di</strong> dare alle popolazioni un riconoscimento del grado <strong>di</strong><br />
evoluzione raggiunto.<br />
Tutti i nativi della Libia hanno la qualifica <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni (libici); alcuni <strong>di</strong> essi godono<br />
<strong>di</strong> una forma <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza che si avvicina in <strong>di</strong>gnità e, entro i confini dei nostri<br />
territori d’Africa, per il contenuto a quella metropolitana.<br />
Ben <strong>di</strong>versa è la situazione nell’A.O.I. dove gli abitanti sono sud<strong>di</strong>ti, il livello <strong>di</strong><br />
evoluzione molto basso, il <strong>di</strong>stacco razziale molto forte.<br />
È, quin<strong>di</strong>, da escludere ogni assimilazione, anche esteriore alle organizzazioni fasciste<br />
metropolitane: assimilazione che porterebbe, in ultima analisi, i nativi ad aspirare,<br />
uscendo dalle organizzazioni giovanili, a passare ad un inquadramento superiore che<br />
non sarebbe consono alla loro posizione.<br />
Ritengo, inoltre, non proprio l’uso della denominazione «Gioventù etiopica del<br />
Littorio» poiché le previdenze da attuare riguardano anche l’Eritrea e la Somalia che<br />
non facevano parte dell’Etiopia.<br />
Mi sembra opportuno che gli istruttori dei giovani in<strong>di</strong>geni facciano capo ai singoli<br />
segretari federali e non ad un unico ente in Ad<strong>di</strong>s Abeba per tutta l’A.O.I. ed anche<br />
entro l’ambito <strong>di</strong> ciascun governo i ragazzi non dovrebbero avere un’unica<br />
denominazione (che potrebbe col tempo creare uno spirito unitario e <strong>di</strong> coesione che<br />
non dobbiamo favorire se non con particolari cautele e limitatamente a taluni effetti),<br />
ma singoli nomi regionali, come ad esempio «ragazzi (non certo Balilla) del<br />
Beghemeder», «Giovani dell’Uollo» ecc. 75<br />
Sono evidenti i timori che guidavano le gerarchie fasciste: ogni<br />
associazione poteva favorire il senso <strong>di</strong> identità comune degli associati e il<br />
passaggio dalla pratica sportiva a quella politica era un rischio immanente a<br />
questa esperienza. La soluzione stava nel frammentare le associazioni, nel<br />
porle in antitesi tra loro e nel riba<strong>di</strong>re la scala gerarchica tra colonizzatore e<br />
colonizzato già fissata dal dominio e cementata dalle teorizzazioni e dalle<br />
legislazioni razziali, evitando ogni simbologia che potesse alludere<br />
all’uguaglianza tra africani e italiani.<br />
Nella lettera <strong>di</strong> Teruzzi traspaiono inoltre alcune preoccupazioni circa i<br />
rapporti tra Segretari federali e Governatori per ciò che riguardava le suddette<br />
attività; egli specificava che i fascisti incaricati dell’istruzione fisica dei giovani<br />
in<strong>di</strong>geni avrebbero dovuto fare capo localmente alle autorità politico<br />
amministrative così «come i Segretari Federali, per questo lato politico,<br />
faranno capo ai Governatori, alle cui <strong>di</strong>rettive in materia ispireranno le loro<br />
linee d’azione» 76 ; ma Starace non <strong>di</strong>ede seguito alla richiesta <strong>di</strong> Teruzzi <strong>di</strong><br />
specificare la <strong>di</strong>versa attribuzione dei compiti nelle <strong>di</strong>sposizioni ai segretari<br />
129
Gianluca Gabrielli<br />
federali, lasciando un’ambiguità foriera, con molta probabilità, <strong>di</strong> conflitti<br />
<strong>di</strong> potere e <strong>di</strong> linea organizzativa 77 .<br />
130<br />
L’atleta «negro»: appunti sull’immagine<br />
Al termine <strong>di</strong> questa prima <strong>di</strong>samina aggiungo qualche parola anche su<br />
una questione che esula dal tema specifico della ricerca ma che vi è<br />
certamente collegata. Quale immagine dell’atleta «negro» circola in Italia<br />
negli anni venti e trenta? Sono anni in cui gli atleti <strong>di</strong> colore raggiungono<br />
affermazioni internazionali <strong>di</strong> grande valore anche simbolico, basti pensare<br />
alle vittorie <strong>di</strong> Jesse Owens a Berlino nel 1936 o alla conquista del titolo <strong>di</strong><br />
campione del mondo <strong>di</strong> boxe da parte dell’«in<strong>di</strong>geno» senegalese Battling<br />
Siki ai danni del francese Carpentier nel 1922… In attesa <strong>di</strong> ricerche<br />
sistematiche che si valgano dei commenti apparsi sui giornali sportivi italiani<br />
in occasione <strong>di</strong> questi gran<strong>di</strong> eventi simbolici, basti in questo contesto<br />
l’analisi dell’articolo <strong>di</strong> Carlo Volpi apparso su «Lo Sport Fascista» del giugno<br />
1929 e intitolato La razza nera nella storia del pugilato. L’articolista ripercorre<br />
la storia dei pugili <strong>di</strong> colore, racconta «l’o<strong>di</strong>o <strong>di</strong> razza» che inglesi e americani<br />
nutrono per i neri ostacolandone la pratica sportiva e gli incontri con pugili<br />
bianchi; sottolinea, al contrario, che «nei paesi latini non esiste questo feroce<br />
o<strong>di</strong>o <strong>di</strong> razza» tanto che numerosi pugili si sono rifugiati in Europa e America<br />
Latina. Ma quando si deve pronunciare sul perché «la loro razza possa dare<br />
al pugilato tanti uomini <strong>di</strong> così eccelsa classe» dal suo <strong>di</strong>scorso emergono i<br />
pregiu<strong>di</strong>zi. Dapprima richiama le caratteristiche fisiche che intervengono<br />
nel pugilato e si premura <strong>di</strong> ricordare che anche quelle che oggi un allenatore<br />
definirebbe <strong>di</strong> tipo «neuromotorio» («una certa rapi<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> riflessi») non<br />
possono chiamarsi «intelligenza» poiché anche «in alcune specie <strong>di</strong> animali»<br />
sono spiccatissime. Poi passa a ricordare la «resistenza al dolore» poiché «è<br />
provato che i negri non solo sono per natura meno sensibili dei bianchi ma<br />
vi sono dei soggetti pressoché insensibili» e quin<strong>di</strong> «in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />
superiorità rispetto all’avversario» 78 . Quin<strong>di</strong>, la conclusione è che solo doti<br />
<strong>di</strong> tipo fisico danno la superiorità al pugile nero, poiché egli «sul ring<br />
<strong>di</strong>mostra spesso <strong>di</strong> essere tutt’altro che intelligente. Tutto al più egli è furbo,<br />
trucchista e tra<strong>di</strong>tore poiché non conosce cosa sia lealtà» ... e continua, in<br />
quella che mi pare una vera lezione traslata <strong>di</strong> etica del colonizzatore:<br />
«Sul ring l’unico modo <strong>di</strong> farsi rispettare da un negro, è quello <strong>di</strong> picchiarlo,<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrargli con la forza la sua inferiorità; allora <strong>di</strong>venta pusillanime;
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
guai se si accorge <strong>di</strong> essere il più forte; egli è cattivo, nel senso che non<br />
risparmia».<br />
Animalizzazioni, richiami alla natura e all’incapacità <strong>di</strong> rispettare le regole<br />
morali...: alcuni tra i pregiu<strong>di</strong>zi pseudoscientifici attivi e <strong>di</strong>ffusi<br />
nell’immaginario, non solo italiano, degli anni venti e trenta. Tali forme<br />
del pensiero non svanirono, come per incanto, con la per<strong>di</strong>ta delle colonie;<br />
non è <strong>di</strong>fficile infatti ritrovarli, mutatis mutan<strong>di</strong>s, anche nelle cronache<br />
sportive <strong>di</strong> oggi: ecco come sulle colonne <strong>di</strong> «la Repubblica», si descrive un<br />
concorrente afro-americano ai campionati mon<strong>di</strong>ali <strong>di</strong> atletica del 1999:<br />
«Accomodatevi, stasera liberano il gorilla più veloce del pianeta»; «questo<br />
urla il tamburo della foresta: [...] Mister Fenomeno stuprerà i cento» 79 .<br />
Quali percorsi sotterranei dell’immaginario, quali mancate rielaborazioni<br />
del passato hanno tenuto tanto in vita questi pregiu<strong>di</strong>zi, da riproporceli<br />
oggi così offensivamente uguali?<br />
1 STEFANO PIVATO, L’era dello sport, Giunti, Firenze 1994, p. 23.<br />
Note al testo<br />
2 GIANLUCA GABRIELLI, Un aspetto della politica fascista nell’impero: il «problema dei meticci»,<br />
«Passato e presente», a. XV (1997), n. 41.<br />
3 Cfr. ad esempio BERNADETTE DEVILLE-DANTHU, Le sport en noir et blanc. Du sport colonial au sport<br />
africain dans les anciens territoires français d’Afrique occidentale (1920-1965), l’Harmattan, Paris<br />
1997; ANDRÉ JEAN BENOIT, Le sport colonial, l’Harmattan, Paris 1996; PETER RUMMELT, Sport im<br />
Kolonialismus <strong>–</strong> Kolonialismus im Sport: zur Genese und Funktion des Sports in Kolonial-Africa von<br />
1870 bis 1918, Pahl-Rugenstein, Koln 1986; HAMAD S NDEE, Sport in Africa: Western Influences,<br />
British Middle-Class Educationa lists and the Diffusion of Adapted Athleticism in Tanzania, «The<br />
international journal of the history of sport», a. 17, n. 1, marzo 2000.<br />
4 «Somalia sportiva», supplemento del lunedì del «Corriere della Somalia» dal 1937; il «Corriere<br />
eritreo sportivo», settimanale del lunedì pubblicato da aprile 1938. Fin dal 1928 invece esisteva una<br />
sezione della rivista «Illustrazione Coloniale» intitolata Rivista sportiva.<br />
5 Riprendo i dati da NICOLA LABANCA, Italiani d’Africa, in Adua. Le ragioni <strong>di</strong> una sconfitta, a cura <strong>di</strong><br />
A. <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong>, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 193 230, cui rimando per un’analisi più approfon<strong>di</strong>ta.<br />
6 Annuario delle Colonie Italiane, Istituto coloniale fascista, Roma, 1933, p. 481.<br />
7 L’U.S. Italia organizza corsi <strong>di</strong> ginnastica svedese, boxe, lotta greco-romana, attrezzi, ciclismo,<br />
po<strong>di</strong>smo, calcio; L’Unione Sportiva Italia, «La Nuova Italia» quoti<strong>di</strong>ano della Libia, 25 settembre<br />
1924.<br />
131
Gianluca Gabrielli<br />
8 Per il Campionato <strong>di</strong> foot-ball in Tripoli, lettera firmata da «Un gruppo <strong>di</strong> appassionati», «La<br />
Nuova Italia», 1 ottobre 1924.<br />
9 Campionato Calcio 1929, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 19 gennaio 1929.<br />
10 Nel 1928 si corre già la sesta e<strong>di</strong>zione del Giro po<strong>di</strong>stico <strong>di</strong> Tripoli con ben 50 concorrenti<br />
iscritti («L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 9 ottobre e 5 novembre 1928).<br />
11 Che poi verranno annullate per l’ennesima volta e mai più riproposte. Cfr. B. DEVILLE-<br />
DANTHU, La dernière bataille de Pierre de Coubertin: la conquête sportive de l’Afrique, in L’Empire<br />
du sport Amarom, Aix en Provence 1992.<br />
12 A.G. TEODORO, A proposito <strong>di</strong> cultura fisica,«L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 10 maggio 1928 e<br />
soprattutto ENZO FORCELLINI, Sport e Colonie, «Illustrazione Coloniale», luglio 1928. Forcellini<br />
era favorevole al coinvolgimento degli atleti <strong>di</strong> colore delle colonie e seguiva con interesse nella<br />
sua rubrica le loro prime affermazioni nelle competizioni sportive internazionali.<br />
13 Società ginnastica,«L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 1° settembre 1928.<br />
14 Ente Sportivo Coloniale, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 11 settembre 1928.<br />
15 Negli anni trenta si affiancheranno alle competizioni in pista altre manifestazioni, come il<br />
Concorso <strong>di</strong> eleganza per pattuglie <strong>di</strong> cavalieri in<strong>di</strong>geni, al fine, come spiega l’articolista, <strong>di</strong><br />
«incrementare la produzione cavallina, purtroppo depauperata, ridestando tra l’elemento<br />
in<strong>di</strong>geno spirito <strong>di</strong> emulazione e passione per l’allevamento equino»; Due importanti<br />
manifestazioni ippiche <strong>di</strong> cavalieri a Misurata, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 2 giugno 1938.<br />
16 Foot-ball, «La Nuova Italia», 12 ottobre 1924 e Il campionato <strong>di</strong> Calcio, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli»,<br />
29 gennaio 1929.<br />
17 La serata pugilistica alla Fiera, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 6 aprile 1928.<br />
18 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 11 e 21 settembre 1928.<br />
19 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 20 settembre 1930.<br />
20 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 28 agosto 1930.<br />
21 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 8 ottobre 1930.<br />
22 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 26 novembre e 9 <strong>di</strong>cembre 1930.<br />
23 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 21 gennaio, 11 febbraio 1933.<br />
24 RENZO DE FELICE, Ebrei in un paese arabo, il Mulino, Bologna 1978, p. 188.<br />
25 Un anno <strong>di</strong> attività dell’U[nione] S[portiva] T[ripolina], «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 7 <strong>di</strong>cembre<br />
1936.<br />
132
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
26 SANTO DI GAETANO, La partecipazione <strong>di</strong> squadre in<strong>di</strong>gene alla prossima 2 a coppa motociclistica<br />
della federazione fascista, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 9 luglio1936.<br />
27 Ibid.<br />
28 SANTO DI GAETANO, Pugilato in colonia, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 27 agosto 1936.<br />
29 GIORGIO ROCHAT, Italo Balbo, UTET, Torino 1986, p. 262.<br />
30 ITALO BALBO, La politica sociale fascista verso gli arabi della Libia, relazione al Convegno<br />
Volta del 1938, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 13 ottobre 1938.<br />
31 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», passim, luglio 1936.<br />
32 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 9 luglio e 5 agosto 1936. Altro caso sospetto riguarda il pugile<br />
professionista Fecti Alì che nel 1937 dovrebbe combattere con il siciliano Praticò invitato<br />
nella colonia; pochi giorni prima dell’incontro però il giornale comunica che «avversario <strong>di</strong><br />
Praticò doveva essere il negretto Fecti Alì, ma ragioni varie hanno consigliato <strong>di</strong> sostituirlo con<br />
l’aitante Licari Mariano», «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 31 agosto 1937.<br />
33 Lettera <strong>di</strong> A. Lessona a I. Balbo, 16 aprile 1937, Archivio Storico Diplomatico Ministero<br />
Affari Esteri, Archivio Storico Ministero Africa Italiana, Gabinetto, b. 70, fasc. Problema razza.<br />
34 Lettera <strong>di</strong> I. Balbo a A. Lessona, 17 aprile 1937, ivi.<br />
35 «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 11 e 12 gennaio 1938; inoltre la squadra dell’Ust comprendeva due<br />
calciatori arabi.<br />
36 I Campionati pugilistici della Tripolitania, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 8 ottobre 1937.<br />
37 UST-Maccabei allo sta<strong>di</strong>o Littorio, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 16 aprile 1938; nell’articolo si<br />
parla <strong>di</strong> «perfetta efficienza della squadra israelita la quale pur non potendo partecipare al<br />
campionato è allenata convenientemente».<br />
38 Sulle manifestazioni <strong>di</strong> nuoto: «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 17 e 31 luglio, 7, 14, 19, 20, 21, 30<br />
agosto. Sciami Mohamed, ranista arabo, verrà invece selezionato nella formazione libica che<br />
partecipa alla Coppa Marcello, un torneo con la finale nazionale in settembre in Italia; ciò<br />
mentre nel regno le persone <strong>di</strong> colore venivano censite e rimandate in colonia per effetto della<br />
campagna razziale; cfr. G. GABRIELLI, Africani in Italia negli anni del razzismo <strong>di</strong> Stato, in Nel<br />
nome della razza, a cura <strong>di</strong> Alberto Burgio, il Mulino, Bologna 1999.<br />
39 Si chiedono notizie del Campionato Tripolino <strong>di</strong> calcio «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 10 giugno<br />
1938.<br />
40 Direttorio XIX Zona, Comunicato n. 21, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 15 giugno 1938.<br />
41 Il campionato <strong>di</strong> 1 a <strong>di</strong>visione, «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 7 ottobre 1938.<br />
133
Gianluca Gabrielli<br />
42 I prossimi campionati <strong>di</strong> calcio tripolini <strong>di</strong> Prima e Seconda Divisione., «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli»,<br />
14 ottobre 1938. Risultano poi iscritte in prima <strong>di</strong>visione Guf, USst, Dopolavoro, Sabauda e<br />
in seconda <strong>di</strong>visione sabauda B, sabauda C e Gil mentre non si hanno più informazioni<br />
sull’ipotizzato campionato in<strong>di</strong>geno. Il regolamento del campionato ragazzi viene aperto ai<br />
«giovani <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza italiana» (L’attività calcistica tripolina. «Campionato ragazzi», «L’Avvenire<br />
<strong>di</strong> Tripoli», 24 novembre 1938).<br />
43 R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., p. 271.<br />
44 Ad esempio Sahab ben Mabruk vince <strong>di</strong> breve misura la corsa po<strong>di</strong>stica Mehari-Castello,<br />
«L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 23 settembre 1938; cfr. inoltre 10 ottobre e 25 <strong>di</strong>cembre 1938, 14<br />
marzo e 4 aprile 1939. È significativo notare che l’attività mista continuò nonostante le<br />
federazioni sportive avessero introdotto sul finire del 1938 la <strong>di</strong>scriminante ariana nei<br />
regolamenti.<br />
45 La forte Sabauda incontrerà oggi la rinnovata squadra della G.A.L., «L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli»,<br />
2 aprile 1939.<br />
46 Aviazione Mhaella batte GAL II per 4 a 1,«L’Avvenire <strong>di</strong> Tripoli», 26 marzo 1940.<br />
47 A. M., L’attività sportiva in Somalia nel 1932, «Corriere della Somalia», 3, 4, 5 gennaio<br />
1933. Commissario sportivo è il rag. Balis.<br />
48 «Corriere della Somalia», 1 e 6 gennaio 1933.<br />
49 «Il quoti<strong>di</strong>ano eritreo», 15 gennaio 1933.<br />
50 «Il quoti<strong>di</strong>ano eritreo», 12 marzo, 18 aprile, 14 ottobre 1933.<br />
51 A. CATONI, Una squadra <strong>di</strong> marciatori compie brillantemente il percorso Asmara-A<strong>di</strong> Ugri, «Il<br />
quoti<strong>di</strong>ano eritreo», 24 ottobre 1933.<br />
52 Su «Illustrazione Coloniale» <strong>di</strong> settembre 1928 erano segnalate manifestazioni sportive cui<br />
avevano partecipato ascari eritrei. Le prove erano previste «con adattamenti particolari alla<br />
mentalità in<strong>di</strong>gena» (p. 398). È probabile che l’attività fisica degli ascari sia continuata con<br />
funzione <strong>di</strong> preparazione militare ma non sia stata riproposta in manifestazioni pubbliche.<br />
Una futura verifica negli archivi delle Forze Armate potrà fornire un quadro più completo<br />
sull’argomento.<br />
53 «Il quoti<strong>di</strong>ano eritreo», 18 aprile 1933.<br />
54 S. R[UELLA], Il calcio fra gli in<strong>di</strong>geni. Amaruini batte deposito fanteria 2-1 (0-1), «Somalia<br />
sportiva», 2 novembre 1937.<br />
55<br />
STEFANO RUELLA, «Corriere della Somalia», 3, 17 gennaio, 7 febbraio, 8 agosto 1938, 28<br />
agosto 1939.<br />
56 ENZO PASCARELLA, Attività sportiva a Baidoa, «Corriere della Somalia», 27 <strong>di</strong>cembre 1937.<br />
134
L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo<br />
57 Ufficio Sportivo Federale, Ritornello: «...le cose a posto!», «Corriere della Somalia», 19 agosto<br />
1938; l’articolo con cui si polemizza è <strong>di</strong> EMANUELE GHIRONI, Attività Somala, «Il Pugilatore»,<br />
n. 40, 28 luglio 1938.<br />
58 «Corriere della Somalia», 15 novembre 1937 e 23 maggio 1938.<br />
59 «Corriere della Somalia», 14 febbraio 1938.<br />
60 Norme per il pubblico, «Corriere della Somalia», 15 agosto 1938.<br />
61 «Corriere eritreo», 5 gennaio 1939.<br />
62 «Corriere eritreo», 28 ottobre 1939.<br />
63 «Corriere eritreo», 5 <strong>di</strong>cembre 1939.<br />
64 CARLO GARBIERI, Rassegna generale sportiva dello Scioa, «Il Lunedì dell’Impero», settimanale<br />
illustrato del «Corriere dell’Impero», 7 agosto 1939.<br />
65 «Il Lunedì dell’Impero», 7 novembre 1938.<br />
66 Il Segretario del Partito riceve il <strong>di</strong>rigente del Coni nell’Impero, «L’Azione coloniale», 2 febbraio<br />
1939.<br />
67 «Il Lunedì dell’Impero», 19 giugno e 25 settembre 1939.<br />
68 Lettera [<strong>di</strong> Teruzzi] a Starace, Roma, luglio 1939, Ministero Affari Esteri, Archivio Storico<br />
Ministero dell’Africa Italiana, Direzione Generale Affari Politici, 1937-1942, b. 92, fasc. Pnf-<br />
Associazioni in AOI, 1939-40; la lettera effettivamente spe<strong>di</strong>ta, non conservata nel fascicolo,<br />
conteneva «leggere varianti», come si legge nell’appunto manoscritto.<br />
69 Ecco le zebre dello Scioa, «L’Azione coloniale», 7 marzo 1940, cit. in La menzogna della razza,<br />
Grafis, Bologna 1994, p. 295.<br />
70 «L’Azione coloniale», 15 febbraio 1940.<br />
71 I risultati della polisportiva per in<strong>di</strong>geni, «Corriere dell’Impero», 13 giugno 1939.<br />
72 Calcio che passione anche in Africa!..., «L’Azione coloniale», 7 marzo 1940.<br />
73 Le informazioni sono tratte dalle cronache in «Corriere dell’Impero», 13 giugno 1939 e «Il<br />
Lunedì dell’Impero», 19, 26 giugno, 3, 31 luglio, 7 agosto 1939. Inoltre altre cronache<br />
dattiloscritte sono in Ministero Affari Esteri, Archivio Storico Ministero dell’Africa Italiana,<br />
Direzione Generale Affari Politici, 1937-1942, b. 92, fasc. Pnf - Associazioni in AOI, 1939-40.<br />
Alcune immagini anonime degli atleti impegnati in queste gare e delle premiazioni in Ad<strong>di</strong>s<br />
Abeba. Manifestazioni sportive dei nativi, «Etiopia latina», III, 9, 1939, p. 27.<br />
135
Gianluca Gabrielli<br />
74 Lettera <strong>di</strong> Teruzzi al Segretario del Pnf, Roma, 17 agosto 1939, Ministero Affari Esteri,<br />
Archivio Storico Ministero dell’Africa Italiana, Direzione Generale Affari Politici, 1937-1942,<br />
b. 92, fasc. Pnf - Associazioni in AOI, 1939-40. Nella bozza della stessa lettera si chiariva che<br />
la preparazione intellettuale degli in<strong>di</strong>geni, che rimaneva compito degli insegnanti delle scuole<br />
governative e delle missioni cattoliche, doveva «essere intonata alle necessità e alle tra<strong>di</strong>zioni<br />
dell’ambiente e tenersi lontana da ogni concetto <strong>di</strong> europeizzazione, in conformità con i principi<br />
razziali», [Teruzzi] a Starace, Roma, luglio 1939, cit.<br />
75 Teruzzi al Segretario del Pnf, Roma, 17 agosto 1939, cit.<br />
76 Ibid.<br />
77 Cfr. Pnf, Foglio <strong>di</strong> <strong>di</strong>sposizioni n. 1411, 17 settembre 1939.<br />
78 Sull’«insensibilità dei negri» ecco come si esprime l’antropologo razzista Li<strong>di</strong>o Cipriani: «i<br />
Negri […] impressionarono talvolta gli osservatori per la resistenza al dolore fisico, benché il<br />
fatto <strong>di</strong>penda forse ad una tendenza a dare reazioni psichiche poco vivaci a certi stimoli intensi<br />
anziché da una ridotta acuità sensoriale», L. CIPRIANI, Considerazioni sopra il passato e l’avvenire<br />
delle popolazioni africane, Bemporad, Firenze 1932, p. 114.<br />
79 EMANUELA AUDISIO, Fast Usa, l’ora dei record, «la Repubblica», 22 agosto1999.<br />
136
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville.<br />
Soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
<strong>di</strong> Domenico Letterio<br />
Il corpo <strong>di</strong> scritti in cui Alexis de Tocqueville si confronta con l’esperienza<br />
coloniale francese in Algeria non ha mai suscitato, tra gli stu<strong>di</strong>osi della sua<br />
opera, un vivo interesse. Se si fa eccezione per la comparsa <strong>di</strong> un volume<br />
delle Œuvres Complètes ad essi in buona parte de<strong>di</strong>cato (1962) e per un<br />
celebre articolo <strong>di</strong> Melvin Richter del 1963, è solo negli ultimi anni che<br />
pare possibile rinvenire le tracce <strong>di</strong> una letteratura che li tenga in qualche<br />
considerazione 1 . La rinnovata attenzione per questi interventi è andata <strong>di</strong><br />
pari passo a una crescita dell’interesse nei confronti <strong>di</strong> altri scritti<br />
tocquevilliani «secondari», come quelli sulla politica estera francese e quelli<br />
sul carcere. Si tratta <strong>di</strong> un fenomeno che sembra dare vita ad una complessiva<br />
revisione delle tassonomie che, nella storia del pensiero politico, hanno<br />
inchiodato il pensatore francese a un ruolo <strong>di</strong> mero idolo <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione<br />
democratico-liberale da contrapporre a Marx e alle filosofie marxiste 2 .<br />
Gli scritti sull’Algeria assumono in questo contesto una particolare<br />
rilevanza, dal momento che sembrano rinviare a un’immagine <strong>di</strong> Tocqueville<br />
assai <strong>di</strong>stante da quella usuale. Un’immagine che poco spazio lascia alla<br />
conciliante figura dell’attento osservatore delle società democratiche e dei<br />
pericoli per la libertà che in esse albergano. Nelle riflessioni sull’Algeria, in<br />
particolare, è possibile in<strong>di</strong>viduare un insieme <strong>di</strong> vettori teorici che,<br />
considerati nel complesso del pensiero politico tocquevilliano, paiono<br />
orientati in <strong>di</strong>rezioni quantomeno <strong>di</strong>vergenti, per non <strong>di</strong>re opposte. È allora<br />
la sfida posta da questa complessità a rendere insufficienti i pur suggestivi<br />
tentativi <strong>di</strong> giustapporre le sue riflessioni «illuminate» e quelle più<br />
sorprendenti sui meto<strong>di</strong> spietati da utilizzare con gli algerini, tentativi volti<br />
a testimoniare una supposta incoerenza o contrad<strong>di</strong>ttorietà del pensiero <strong>di</strong><br />
Tocqueville 3 . Quasi a voler suggerire, in modo quantomeno semplicistico,<br />
che il «vero» pensiero tocquevilliano sia quello imperiale, mentre il resto<br />
non costituisca altro che una copertura ideologica. O al contrario, da parte<br />
dei suoi più strenui <strong>di</strong>fensori, che gli scritti <strong>di</strong> Tocqueville sulle colonie<br />
137
Domenico Letterio<br />
altro non siano che un «incidente <strong>di</strong> percorso» dettato dal clima intellettuale<br />
dell’epoca. In entrambi i casi, l’unica preoccupazione sembra essere quella<br />
<strong>di</strong> un giu<strong>di</strong>zio definitivo sull’ere<strong>di</strong>tà intellettuale <strong>di</strong> Tocqueville, nel tentativo<br />
<strong>di</strong> capire dove egli abbia sbagliato, dove sia in contrad<strong>di</strong>zione, cosa si debba<br />
conservare e cosa rigettare della sua riflessione.<br />
Entrambi gli atteggiamenti sono <strong>di</strong> scarsa utilità a chi cerchi tra le righe<br />
del <strong>di</strong>scorso tocquevilliano una chiave <strong>di</strong> lettura per il presente. Se<br />
un’attenzione filologica ai frammenti sull’Algeria può senz’altro costituire<br />
un elemento utile alla ricostruzione della sua biografia, un’analisi che<br />
pretenda <strong>di</strong> entrare nel merito politico delle affermazioni <strong>di</strong> Tocqueville<br />
deve necessariamente andare al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> una loro semplice ricomposizione.<br />
Essa, in particolare, deve spingersi ad indagare nella filigrana del suo <strong>di</strong>scorso<br />
tanto la logica intrinseca quanto gli squilibri <strong>di</strong> alcune delle categorie<br />
fondamentali del suo pensiero.<br />
I. Rileggere gli scritti algerini <strong>di</strong> Tocqueville significa tornare a indagare<br />
un episo<strong>di</strong>o tra i più significativi del «progetto coloniale dell’occidente» 4 .<br />
Si tratta <strong>di</strong> una vicenda complessa se è vero che, come ha osservato<br />
Abdelmalek Sayad, essa ha dato vita a un «rapporto passionale» tra ex colonia<br />
e metropoli 5 . Un rapporto drammaticamente segnato tanto dalla violenza<br />
materiale del dominio coloniale quanto da una violenza epistemica che ha<br />
investito lo stesso nazionalismo algerino, il quale, nel combattere lo Stato<br />
colonizzatore, ha finito per conformarsi all’or<strong>di</strong>ne da esso imposto,<br />
ere<strong>di</strong>tandone la familiarità all’uso <strong>di</strong> una violenza alienante 6 . Le ra<strong>di</strong>cali<br />
critiche a esso mosse da Sayad tracciano così un solco all’interno del quale<br />
è necessario costringere ogni riflessione sull’Algeria contemporanea, al fine<br />
<strong>di</strong> evitare una lettura estetizzante <strong>di</strong> un nazionalismo che ha teso ad accettare<br />
la perimetrazione dello spazio <strong>di</strong>scorsivo violentemente imposta dal<br />
colonialismo. Tenendo fermo tale punto, è tuttavia lo stesso Sayad a ricordare<br />
che «non è esistito alcun popolo al mondo che sia stato privato della politica<br />
quanto il popolo algerino il quale non ha mai avuto la possibilità <strong>di</strong><br />
partecipare, anche solo in minima parte, al suo destino politico» 7 . È a partire<br />
dal riconoscimento <strong>di</strong> ciò che si ravvisa la necessità <strong>di</strong> un’indagine che si<br />
faccia carico <strong>di</strong> una profonda interrogazione sulle modalità attraverso le<br />
quali la storia della colonizzazione francese in Algeria è stata narrata.<br />
La posizione marginale cui il lavorio critico sull’opera tocquevilliana ha<br />
consegnato gli scritti algerini rivela una delle modalità con le quali, dal<br />
138
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
corpo delle narrazioni che formano la trama della «modernità» occidentale,<br />
sono progressivamente espunti gli elementi che ne interrompono lo<br />
svolgimento lineare. Se gli stu<strong>di</strong> tocquevilliani «classici» si inseriscono<br />
appieno in quel complesso <strong>di</strong> narrazioni, sia pur in<strong>di</strong>candone punti <strong>di</strong> rottura<br />
e limiti intrinseci, il buio in cui sono sprofondati gli scritti sul colonialismo<br />
testimonia <strong>di</strong> come tale tema ne costituisca il rimosso. Essi vanno a costituire<br />
il lato oscuro <strong>di</strong> una specifica forma <strong>di</strong> «modernità», per la quale il<br />
colonialismo è semplicemente una non-questione. L’aver cancellato il fatto<br />
che Tocqueville abbia <strong>di</strong>ffusamente scritto sull’Algeria rientra nel topos che,<br />
nelle parole <strong>di</strong> Paul Gilroy, vede in esperienze come quelle del colonialismo<br />
e della schiavitù «un residuo premoderno che scompare ogni volta che si<br />
rivela fondamentalmente incompatibile con la razionalità illuminata e con<br />
la produzione industriale capitalistica» 8 . Un’incompatibilità costruita in<br />
modo tale da oscurare tanto i meccanismi attraverso i quali la definizione<br />
<strong>di</strong> «modernità» prende corpo quanto le modalità <strong>di</strong> appropriazione del potere<br />
<strong>di</strong> produrla. Si tratta <strong>di</strong> una rimozione nella quale sono coinvolte questioni<br />
che investono nella sua interezza l’ere<strong>di</strong>tà politica e culturale dell’Occidente,<br />
e <strong>di</strong>sconosciuti no<strong>di</strong> costitutivi della sua stessa autocomprensione. Ad essa<br />
sembra allora necessario rispondere con le parole <strong>di</strong> Dipesh Chakrabarty,<br />
secondo il quale bisogna oggi «inscrivere nella storia della modernità le<br />
ambivalenze, le contrad<strong>di</strong>zioni, l’uso della forza, le trage<strong>di</strong>e e ironie che la<br />
riguardano» 9 . Per questo motivo, gli scritti coloniali <strong>di</strong> Tocqueville meritano<br />
molta più attenzione <strong>di</strong> quanta ne sia mai stata loro riservata.<br />
II. Abituato a considerare quella <strong>di</strong> Tocqueville una delle più alte<br />
prestazioni del pensiero politico liberale, l’ammiratore della Democrazia in<br />
America non può non rimanere sorpreso nella lettura degli scritti algerini.<br />
Essi, come hanno osservato Chevallier e Jar<strong>di</strong>n, «mettono a nudo nella sua<br />
riflessione certi tratti politici che inquietano l’idealista e rassicurano il<br />
realista» 10 .<br />
La prima comparsa dell’Algeria tra le pagine tocquevilliane risale<br />
all’ottobre 1828 11 . Ciò avviene in una lettera in<strong>di</strong>rizzata a Kergolay nella<br />
quale Tocqueville, riferendosi alla serie <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> che fecero seguito al famoso<br />
«colpo <strong>di</strong> ventaglio» del dey <strong>di</strong> Algeri Hussein, auspicava che una soluzione<br />
militare ponesse fine a «cette ri<strong>di</strong>cule affaire» 12 . Tale episo<strong>di</strong>o, per lungo<br />
tempo considerato l’antefatto dell’invasione del 1830, si incaricò <strong>di</strong> oscurare<br />
nella storiografia sulla conquista francese i piani del governo ultra del principe<br />
139
Domenico Letterio<br />
<strong>di</strong> Polignac. Questi nutriva infatti l’ambizione <strong>di</strong> consolidare l’influenza<br />
della Francia nell’Africa me<strong>di</strong>terranea occidentale, in modo tale da aprire<br />
i mercati della regione ad un’industria francese in forte crescita. La ricerca<br />
<strong>di</strong> una brillante vittoria all’esterno e la necessità <strong>di</strong> blindare l’opposizione<br />
interna costituirono dunque il motivo principale <strong>di</strong> una proiezione al <strong>di</strong><br />
là del Me<strong>di</strong>terraneo 13 . La rivoluzione <strong>di</strong> luglio rovesciò tuttavia Carlo X<br />
pochi giorni dopo la firma della resa da parte del dey, avvenuta il 5 luglio<br />
del 1830, e il suo successivo esilio. Fu quin<strong>di</strong> Luigi Filippo, nei <strong>di</strong>ciotto<br />
anni del suo regno, a porre le fondamenta del dominio francese in Algeria.<br />
I moderati entusiasmi che accompagnarono la presa <strong>di</strong> Algeri non parvero<br />
interessare il giovane Tocqueville. Nonostante un carteggio con Kergolay,<br />
risalente all’autunno del 1833, testimoniasse <strong>di</strong> un interessamento per un<br />
eventuale acquisto <strong>di</strong> terre nella Mitidja o nel Sahel, fu tuttavia necessario<br />
attendere altri quattro anni perché l’attenzione per il paese africano si<br />
manifestasse chiaramente. Risalgono infatti all’estate del 1837, quin<strong>di</strong> al<br />
periodo che intercorre tra la pubblicazione della prima e quella della seconda<br />
e<strong>di</strong>zione della Democrazia in America 14 , le sue prime riflessioni sull’oramai<br />
avviata avventura francese in Africa. Esse prendono corpo in due scritti<br />
oggi noti come Lettres sur l’Algérie, pubblicati il 23 giugno e il 22 agosto in<br />
un modesto settimanale <strong>di</strong> Versailles <strong>di</strong> cui Tocqueville stesso era azionista,<br />
la Presse de Seine-et-Oise. Tali articoli costituivano il biglietto da visita con il<br />
quale egli si can<strong>di</strong>dava deputato nella circoscrizione <strong>di</strong> Versailles. Nonostante<br />
un insuccesso nelle elezioni fece tardare <strong>di</strong> due anni l’ingresso <strong>di</strong> Tocqueville<br />
nella vita pubblica francese, la scelta <strong>di</strong> scrivere dell’Algeria testimonia la<br />
crescente importanza <strong>di</strong> una questione che cominciava a essere<br />
costantemente presente nei <strong>di</strong>battiti che interessavano l’opinione pubblica<br />
francese.<br />
III. Il processo <strong>di</strong> colonizzazione aveva preso spontaneamente avvio negli<br />
anni imme<strong>di</strong>atamente successivi alla presa <strong>di</strong> Algeri, in modo confuso e<br />
senza alcuna specifica <strong>di</strong>rettiva da parte del governo francese. È solo del<br />
1834 l’or<strong>di</strong>nanza che istituì la carica <strong>di</strong> governatore ufficiale dei posse<strong>di</strong>menti<br />
francesi dell’Africa del Nord, mentre i <strong>di</strong>battiti parlamentari sulle modalità<br />
<strong>di</strong> colonizzazione andarono avanti per lungo tempo. In quegli anni le pianure<br />
più fertili dell’Algeria cominciarono a popolarsi <strong>di</strong> colons en guants jaunes,<br />
così chiamati perché provenienti per lo più dalle file dei legittimisti. Ma<br />
furono anche anni in cui cominciarono a manifestarsi le <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> una<br />
140
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
dominazione che la relativa facilità della presa <strong>di</strong> Algeri aveva fatto credere<br />
assai meno complessa <strong>di</strong> quanto non tardò a rivelarsi. L’estromissione <strong>di</strong><br />
Hussein non aveva infatti in alcun modo significato la sottomissione del<br />
paese. L’Algeria, entità ampiamente autonoma in un Impero Ottomano in<br />
inesorabile declino, era posta sotto l’autorità del dey, costituzionalmente e<br />
territorialmente incerta, resa per <strong>di</strong> più instabile dalla feudalizzazione del<br />
potere e da intromissioni <strong>di</strong> tipo coloniale già da tempo in corso. La<br />
capitolazione della reggenza non fece altro che sfasciare l’ossatura della sua<br />
amministrazione, portando alla luce la natura scarsamente strutturata del<br />
potere. Era dunque complesso lo scenario <strong>di</strong> fronte al quale si trovarono i<br />
generali <strong>di</strong> Luigi Filippo. La conquista si <strong>di</strong>ramò in numerose <strong>di</strong>rezioni<br />
senza alcun progetto unitario, con le forze francesi che si <strong>di</strong>ssanguavano su<br />
tutti i fronti e in particolare nelle regioni più impervie della Cabilia.<br />
È a partire da queste vicende che iniziò a prendere corpo quella <strong>di</strong>alettica<br />
<strong>di</strong> fondo tra dominazione e resistenza che avrebbe costituito la trama<br />
continua delle relazioni coloniali. L’opposizione alla penetrazione francese<br />
andava organizzandosi attorno ad Ahmed ibn Mohammed, nella regione<br />
<strong>di</strong> Costantina, e al giovanissimo emiro Abd el-Kader, nell’Oranese. Questi,<br />
in particolare, fu in grado <strong>di</strong> organizzare un esercito regolare composto da<br />
truppe abili tanto nelle pratiche <strong>di</strong> logoramento quanto negli attacchi rapi<strong>di</strong>.<br />
In lui Tocqueville riconobbe uno<br />
spirito evidentemente della specie più rara e pericolosa, miscuglio <strong>di</strong> entusiasmo sincero<br />
e <strong>di</strong> entusiasmo finto, sorta <strong>di</strong> Cromwell musulmano 15 .<br />
Abd el-Kader si rivelò presto capace <strong>di</strong> riunire attorno a sé popolazioni<br />
assai eterogenee, associando alla lotta contro gli invasori un incessante<br />
scontro con i rivali interni. Egli si mostrò così in grado <strong>di</strong> limitare le forze<br />
centrifughe allargando e consolidando le basi del proprio potere.<br />
Se lo stereotipo <strong>di</strong> un Abd el-Kader «inventato» dai francesi non fa che<br />
re-inscrivere modalità <strong>di</strong> narrazione storica che elidono la soggettività politica<br />
della resistenza algerina, è tuttavia innegabile che i francesi fossero alla ricerca<br />
<strong>di</strong> un simile avversario. Egli, infatti, sembrava essere l’unico capace <strong>di</strong> ridurre<br />
una complessità che loro non sarebbero stati altrimenti in grado <strong>di</strong> governare.<br />
È all’interno <strong>di</strong> questo quadro che si inscrivono gli accor<strong>di</strong> sottoscritti da<br />
Abd el-Kader e dal generale Bugeaud con il Trattato della Tafna del 30<br />
maggio 1837, con il quale i francesi riconobbero all’emiro la posizione<br />
dominante che egli si era conquistato nel paese.<br />
141
Domenico Letterio<br />
IV. All’indomani del Trattato della Tafna furono pubblicate le due Lettres<br />
sur l’Algérie. In esse Tocqueville si mostrava preoccupato per il<br />
riconoscimento accordato ad Abd-el Kader, <strong>di</strong>venuto interlocutore unico<br />
dei francesi, e prefigurava le linee lungo le quali avrebbe sviluppato, nei<br />
<strong>di</strong>eci anni successivi, la propria riflessione sull’esperienza coloniale francese.<br />
Egli considerava la resistenza algerina un residuo che non avrebbe tardato a<br />
essere domato, e si poneva così in primo luogo il problema del governo.<br />
Osservò infatti:<br />
Dopo il combattimento, non tar<strong>di</strong>amo a scoprire che non è sufficiente, per governare<br />
una nazione, averla vinta 16 .<br />
Il più grosso errore compiuto dai francesi fu, a questo proposito, l’aver<br />
fatto tabula rasa del precedente or<strong>di</strong>namento turco che, per quanto precario,<br />
avrebbe potuto costituire uno strumento utile al dominio sugli «in<strong>di</strong>geni».<br />
I quadri della precedente amministrazione, così come le istituzioni culturali<br />
e religiose tra<strong>di</strong>zionali, erano agli occhi <strong>di</strong> Tocqueville essenziali al fine <strong>di</strong><br />
mantenere una qualche presa sulle popolazioni sottomesse. È a partire da<br />
questi elementi che Tocqueville tracciò quelle che avrebbero dovuto essere,<br />
a suo parere, le <strong>di</strong>rettrici della politica coloniale. Egli riteneva anzitutto<br />
necessario ottenere il controllo dell’intero paese, mirando tuttavia a una<br />
colonizzazione ristretta da parte <strong>di</strong> emigranti francesi. Considerava<br />
importante, nel rapporto con i cabili, sviluppare relazioni commerciali e<br />
limitare la tentazione <strong>di</strong> sottometterli militarmente, dal momento che,<br />
proprio in Cabila, i generali francesi stavano incontrando le maggiori<br />
<strong>di</strong>fficoltà. Infine egli si mostrava favorevole all’adozione <strong>di</strong> una strategia <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>vide et impera, che consentisse <strong>di</strong> dominare le popolazioni algerine<br />
lasciandole al tempo stesso vivere sotto le loro leggi.<br />
In chiusura del secondo articolo, Tocqueville si mostrava convinto del<br />
fatto che in Algeria fosse possibile, nel lungo periodo, una fusione della<br />
popolazione autoctona con quella <strong>di</strong> coloni sempre più numerosi sulle sue<br />
coste. A suo giu<strong>di</strong>zio, non vi erano<br />
ragioni <strong>di</strong> credere che il tempo non possa riuscire ad amalgamare le due razze. Dio<br />
non lo impe<strong>di</strong>sce certo, e solo gli errori degli uomini potrebbero mettervi un ostacolo 17 .<br />
Sono parole, queste, perfettamente in linea con l’immagine prevalente<br />
<strong>di</strong> Tocqueville. In esse sembra prefigurato l’uomo che si in<strong>di</strong>gnerà, nel<br />
142
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
rapporto epistolare con Gobineau, nel confrontarsi con la tesi della negazione<br />
dell’unità della razza umana 18 . Tali affermazioni sembrano inoltre entrare<br />
in risonanza con quanto egli era andato affermando nel corso del suo viaggio<br />
in Canada, durante il quale aveva <strong>di</strong>chiarato:<br />
Non sono mai stato più convinto che la più grande e irrime<strong>di</strong>abile sventura per un<br />
popolo sia quella <strong>di</strong> essere conquistato 19 .<br />
V. A cavallo tra il 1840 e il 1843, Tocqueville si interessò alla storia<br />
dell’impero inglese in In<strong>di</strong>a 20 . Si tratta <strong>di</strong> una curiosità senz’altro episo<strong>di</strong>ca,<br />
una sorta <strong>di</strong> entr’acte nella sua carriera politica. Ugualmente episo<strong>di</strong>co fu il<br />
suo interesse per un’altra vicenda che riproduceva l’eterna questione del<br />
rapporto tra razza conquistatrice e razza sottomessa, quello dell’abolizione<br />
della schiavitù nelle Antille francesi 21 . L’emergere <strong>di</strong> tali tematiche nella sua<br />
riflessione è sintomatico <strong>di</strong> tutto un complesso <strong>di</strong> questioni sulle quali egli<br />
andava in quegli anni interrogandosi.<br />
L’interesse <strong>di</strong> Tocqueville per l’In<strong>di</strong>a si manifestò per la prima volta in<br />
una lettera ad Ampère, nella quale egli, ignorando pressoché totalmente la<br />
storia del paese e manifestando il vivo desiderio <strong>di</strong> informarsi, chiedeva<br />
suggerimenti bibliografici all’amico 22 . Nel periodo che seguì Tocqueville<br />
lesse pressappoco tutti i principali lavori al tempo <strong>di</strong>sponibili, arrivando a<br />
progettare il piano <strong>di</strong> un’opera sul subcontinente 23 . Il paese asiatico continuò<br />
a ricorrere spesso nella sua corrispondenza del 1843, per poi scomparire<br />
definitivamente a partire dall’anno successivo. Tocqueville interruppe<br />
ogni progetto avviato sul tema, ma solo alcuni anni più tar<strong>di</strong>, in una<br />
lettera del novembre 1847 a Lord Hatherton, <strong>di</strong>ede una giustificazione<br />
dell’interruzione: la rinuncia a scrivere dell’In<strong>di</strong>a era <strong>di</strong>rettamente collegata<br />
all’impossibilità <strong>di</strong> visitare il paese 24 .<br />
La frammentarietà degli appunti non impe<strong>di</strong>sce l’in<strong>di</strong>viduazione, nelle<br />
pagine de<strong>di</strong>cate all’In<strong>di</strong>a, degli elementi che più suscitavano l’attenzione <strong>di</strong><br />
Tocqueville. Particolarmente rilevante era il fatto che fosse egli stesso a<br />
riconoscere il valore para<strong>di</strong>gmatico dell’esperienza coloniale inglese per una<br />
nazione, la Francia, che da ormai <strong>di</strong>eci anni tentava <strong>di</strong> avere la meglio sulla<br />
tenace resistenza algerina. Scrisse infatti Tocqueville:<br />
Non c’è niente che in Francia sia meno noto delle cause che hanno prodotto e che<br />
sostengono lo straor<strong>di</strong>nario potere degli inglesi in In<strong>di</strong>a. Questo argomento, che è<br />
143
Domenico Letterio<br />
stato interessante in tutti i tempi, lo è in maniera straor<strong>di</strong>naria ora che tutte le gran<strong>di</strong><br />
questioni europee si incentrano in Africa. Lo è in maniera particolare per noi, dal<br />
momento che posse<strong>di</strong>amo la colonia d’Algeria 25 .<br />
Nelle pagine sull’In<strong>di</strong>a, centrali risultano i temi del governo e<br />
dell’amministrazione <strong>di</strong> una «società pietrificata» 26 , così come il ruolo svolto<br />
dalla Compagnia. Ciò che più colpisce, a una prima lettura, è tuttavia<br />
l’emergere <strong>di</strong> una smisurata ammirazione per quanto gli inglesi erano riusciti<br />
a fare in quel lontano continente:<br />
Un paese vasto quasi quanto l’Europa‘è stato conquistato nello spazio <strong>di</strong> sessanta anni<br />
da qualche migliaio <strong>di</strong> europei sbarcati come mercanti sulle sue rive. Trentamila stranieri<br />
governano cento milioni <strong>di</strong> uomini che per leggi, religione, lingua e usi non hanno<br />
alcun punto <strong>di</strong> contatto con loro 27 .<br />
Sono riflessioni nelle quali è <strong>di</strong>fficile non sentir risuonare le Considérations<br />
sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence <strong>di</strong> Montesquieu 28 ,<br />
e che costituiscono l’esatto speculare, invertito <strong>di</strong> segno, del timore<br />
tocquevilliano che la Francia, a partire dal 1815, fosse destinata a un futuro<br />
<strong>di</strong> inarrestabile declino. È un timore, questo, centrale nelle modalità con le<br />
quali Tocqueville visse la politica <strong>di</strong> quegli anni, esplicitato per esempio in<br />
un intervento <strong>di</strong> Tocqueville sulla questione d’Oriente, da egli stesso definita<br />
la «questione del secolo»:<br />
Una nazione che lascia fare senza <strong>di</strong> sé la più grande cosa del secolo, cade al secondo<br />
rango, una nazione che si contenta <strong>di</strong> non perdere ma lascia i propri vicini accrescere<br />
pro<strong>di</strong>giosamente la loro forza, finisce per trovarsene alle <strong>di</strong>pendenze 29 .<br />
Dal tema della decadenza francese presero le mosse molti degli argomenti<br />
tocquevilliani sulla necessità della conquista algerina. Una necessità piuttosto<br />
comprensibile se era vero che il Me<strong>di</strong>terraneo, come Tocqueville stesso<br />
andava scrivendo, era il «mare politico dei nostri giorni» 30 .<br />
VI. L’interesse per l’Algeria generò presto in Tocqueville il vivo desiderio<br />
<strong>di</strong> compiere un viaggio nel paese 31 . Se l’idea iniziale era quella <strong>di</strong> partire<br />
con Beaumont nel settembre 1840, la crisi d’Oriente lo obbligò a rinviare<br />
<strong>di</strong> un anno il suo progetto. Quello in Algeria è un viaggio che, come suo<br />
solito, Tocqueville preparò plume à la main. Avventuratosi già nel corso del<br />
144
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
1838 tra le pagine del Corano, egli non si preoccupò <strong>di</strong> smussare gli angoli<br />
nell’esprimere le convinzioni cui era pervenuto:<br />
Sono emerso con la convinzione che nel complesso, nel mondo, ci fossero poche<br />
religioni altrettanto funeste agli uomini quanto quella <strong>di</strong> Maometto. Essa è, a mio<br />
avviso, la principale causa della decadenza oggi così evidente nel mondo musulmano<br />
e, per quanto meno assurda del politeismo antico, dal momento che a mio modo <strong>di</strong><br />
vedere le sue tendenze sociali e politiche sono infinitamente più temibili, la considero,<br />
rispetto allo stesso paganesimo, una decadenza piuttosto che un progresso 32 .<br />
In questo come in altri passi Tocqueville si mostrava ardentemente<br />
convinto della superiorità della «civilizzazione occidentale e cristiana» su<br />
tutte le altre. È una convinzione che egli sarebbe andato rafforzando nel<br />
tempo, e che fu in grado <strong>di</strong> esprimere nel modo più vigoroso quando, in un<br />
intervento parlamentare nel febbraio 1847 sul dominio francese in Algeria,<br />
<strong>di</strong>chiarò:<br />
La popolazione europea è giunta; la società civilizzata e cristiana è fondata 33 .<br />
Tocqueville e Beaumont partirono da Tolone il 4 maggio 1841, per un<br />
viaggio che sarebbe durato poco più <strong>di</strong> un mese. Un periodo in cui alcune<br />
terribili crisi <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssenteria costrinsero Tocqueville per lungo tempo a letto,<br />
precipitando le sue gran<strong>di</strong> aspettative in poche conversazioni con marinai e<br />
militari e in cinque giorni <strong>di</strong> modesti incontri ad Algeri 34 . Se quello che<br />
giunse in Africa era un «viaggiatore prevenuto» 35 , lo sfortunato esito del<br />
viaggio non poté incidere significativamente sulle opinioni che Tocqueville<br />
era andato maturando in anni <strong>di</strong> letture. Nei suoi scritti successivi si trovano<br />
infatti largamente confermate le impressioni che egli aveva portato con sé<br />
nell’attraversamento del Me<strong>di</strong>terraneo.<br />
Nell’ottobre del 1841, fatto ritorno in Francia, Tocqueville <strong>di</strong>ede corpo<br />
a un lungo scritto, poi <strong>di</strong>venuto noto come Travail sur l’Algérie 36 . Si tratta<br />
<strong>di</strong> un lavoro non destinato alla pubblicazione, cui egli scelse <strong>di</strong> de<strong>di</strong>carsi<br />
per fissare gli elementi principali del proprio pensiero su ciò che aveva<br />
conosciuto della colonizzazione francese. Sono sostanzialmente tre i nuclei<br />
concettuali che sembra possibile in<strong>di</strong>viduare all’interno del Travail. Il primo<br />
<strong>di</strong> essi consiste in una serie <strong>di</strong> considerazioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne strategico, dalle<br />
quali traspare tutta l’angoscia che veniva a Tocqueville dal progressivo<br />
profilarsi <strong>di</strong> una situazione in cui la Francia avrebbe potuto essere<br />
definitivamente declassata a un ruolo <strong>di</strong> potenza <strong>di</strong> «second rang». Sono<br />
145
Domenico Letterio<br />
riflessioni che richiamano quelle cui già si è fatto accenno ma che assumono,<br />
alla luce della cocente umiliazione subita nella soluzione della crisi<br />
d’Oriente 37 , un accento particolarmente drammatico:<br />
Non credo che la Francia possa pensare seriamente ad abbandonare l’Algeria.<br />
L’abbandono che ne farebbe sarebbe, agli occhi del mondo, l’annuncio certo della sua<br />
decadenza. […] Se la Francia in<strong>di</strong>etreggiasse <strong>di</strong> fronte a un’impresa in cui si trova <strong>di</strong><br />
fronte soltanto le <strong>di</strong>fficoltà naturale del paese e l’opposizione delle piccole tribù barbare<br />
che lo abitano, essa sembrerebbe, agli occhi del mondo, piegarsi sotto la propria<br />
impotenza e soccombere per la propria mancanza <strong>di</strong> coraggio. Ogni popolo che<br />
abbandona senza <strong>di</strong>fficoltà ciò che ha conquistato e si ritira tranquillamente da sé nei<br />
propri vecchi confini, proclama che i bei tempi della propria storia sono passati. Entra<br />
evidentemente nel periodo del proprio declino 38 .<br />
Il tema del dominio coloniale chiama necessariamente a sé quello dei<br />
mezzi da utilizzare per assicurarsi una salda presa sugli «in<strong>di</strong>geni». È questo<br />
il secondo argomento del Travail. Tocqueville puntava dritto al nodo della<br />
questione, sostenendo che non si dovesse in alcun modo rinunciare all’uso<br />
<strong>di</strong> qualunque strumento utile alla <strong>di</strong>struzione della potenza <strong>di</strong> Abd el-Kader.<br />
È <strong>di</strong>fficile non rimanere sorpresi nella lettura delle parole scritte su questo<br />
punto:<br />
In Francia ho sempre sentito uomini che rispetto, ma che non approvo, trovare<br />
riprovevole che si brucino i raccolti, che si vuotino i silos e, infine, che ci si impadronisca<br />
degli uomini inermi, delle donne, dei bambini. Queste cose, secondo me, sono necessità<br />
sgradevoli, ma cui ogni popolo che voglia fare la guerra agli arabi sarà costretto a<br />
sottomettersi 39 .<br />
Se da un lato tali affermazioni mettono in luce il lato più buio,<br />
insospettato, della riflessione tocquevilliana, dall’altro esse permettono <strong>di</strong><br />
tratteggiarne con notevole chiarezza la cornice teorica. In particolare se si<br />
considera una delle sue precisazioni:<br />
Se in Europa non si bruciano i raccolti, è perché in generale si fa la guerra ai governi e<br />
non ai popoli. […] Si <strong>di</strong>struggerà la potenza <strong>di</strong> Abd el-Kader soltanto rendendo la<br />
posizione delle tribù a lui soggette talmente insopportabile che esse lo abbandonino 40 .<br />
Tocqueville era convinto che i francesi si trovassero <strong>di</strong> fronte a popolazioni<br />
prive non solo <strong>di</strong> un governo, ma finanche <strong>di</strong> volontà politica e <strong>di</strong> storia: è<br />
in questo che deve essere ricercata la matrice delle sue considerazioni. È<br />
146
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
una convinzione, quella <strong>di</strong> Tocqueville, che trova conferma anche nell’analisi<br />
del «sociale»:<br />
La verità è che non esiste ancora in Africa quello che gli europei intendono per una<br />
società. Vi sono gli uomini, ma non il corpo sociale 41 .<br />
In queste riflessioni tornano le categorie e riecheggiano le tematiche che<br />
hanno fatto grande la Democrazia in America 42 . Tuttavia, se le magistrali<br />
analisi delle società francese e americana del primo Ottocento hanno reso<br />
imperitura la fama <strong>di</strong> un Tocqueville profeta della societé nouvelle, nel caso<br />
dell’Algeria egli non sembra mostrare una briciola dello sforzo analitico ad<br />
esse riservato.<br />
Il terzo tema in<strong>di</strong>viduabile all’interno del Travail è costituito dal rapporto<br />
tra dominazione e colonizzazione. Questa era considerata essenziale ai fini<br />
del mantenimento della conquista, tanto che le due <strong>di</strong>mensioni dovevano,<br />
per Tocqueville, andare <strong>di</strong> pari passo. Egli stesso lo affermò nel modo più<br />
chiaro possibile:<br />
C’è gente che pensa ancora che i francesi dovrebbero limitarsi a dominare in Algeria<br />
senza voler colonizzare. Lo stu<strong>di</strong>o della questione mi ha dato una opinione del tutto<br />
opposta 43 .<br />
«Dominazione totale» e «colonizzazione parziale» erano quin<strong>di</strong> elevate a<br />
obiettivi supremi della politica algerina della Francia 44 .<br />
Tali considerazioni emergevano da una profonda revisione delle<br />
conclusioni cui egli era giunto quattro anni prima in chiusura delle Lettres.<br />
Se allora Tocqueville aveva considerato quasi inevitabile che le popolazioni<br />
francese e algerina sarebbero andate amalgamandosi in terra africana, dopo<br />
il suo viaggio egli parve <strong>di</strong> avviso del tutto <strong>di</strong>verso:<br />
La società musulmana e la società cristiana purtroppo non hanno alcun legame, […]<br />
costituiscono due corpi giustapposti, ma completamente separati. […] La fusione <strong>di</strong><br />
queste due popolazioni è una chimera che si può sognare soltanto se non si è stati sul<br />
posto. Dunque possono e debbono esserci due legislazioni molto <strong>di</strong>stinte in Africa<br />
perché vi si trovano due società ben separate 45 .<br />
Il fatto <strong>di</strong> trovarsi <strong>di</strong> fronte a due società <strong>di</strong>stinte poneva ai francesi l’ine<strong>di</strong>ta<br />
sfida <strong>di</strong> dar vita a un governo che sapesse conciliare la presenza sul medesimo<br />
suolo <strong>di</strong> «razza conquistatrice» e «razza conquistata». Quello dell’incontro<br />
147
Domenico Letterio<br />
violento tra le «razze» è un tema che torna in maniera ossessiva negli scritti <strong>di</strong><br />
Tocqueville. Vi si era soffermato nelle riflessioni sull’America, poi in quelle<br />
sull’abolizione della schiavitù nelle Antille francesi e quin<strong>di</strong> nelle note<br />
sull’In<strong>di</strong>a. È tuttavia evidente che, agli occhi del pensatore francese, l’Algeria<br />
offriva il laboratorio che meglio si prestava all’osservazione del fenomeno.<br />
VII. Persuaso del carattere eterogeneo delle due popolazioni che si<br />
confrontavano sul territorio algerino, Tocqueville <strong>di</strong>ede corpo a un registro<br />
narrativo che le poneva su livelli <strong>di</strong>versi del continuum che costituisce la<br />
«storia del mondo». Una storia concepita in termini lineari, che condannava<br />
le popolazioni algerine al passato remoto o, per utilizzare le parole <strong>di</strong><br />
Tocqueville, alla «prima infanzia» 46 . Se da un lato è ovviamente <strong>di</strong>fficile<br />
parlare <strong>di</strong> una vera e propria filosofia della storia tocquevilliana, è dall’altro<br />
evidente che la prosa dei suoi scritti riproduce sostanzialmente immutate<br />
delle strutture temporali ben ra<strong>di</strong>cate nell’autocomprensione storica dei<br />
liberali del tempo 47 . Metafore come quelle utilizzate da Tocqueville erano<br />
infatti largamente <strong>di</strong>ffuse nelle riflessioni politiche del liberalismo tanto<br />
francese quanto britannico, andando a plasmare tassonomie che costituirono<br />
la trama stessa del potere coloniale. Le popolazioni extra-europee si trovavano<br />
così sequestrate in quella che Dipesh Chakrabarty ha definito una «sala<br />
d’aspetto della storia» 48 . Ma le parole <strong>di</strong> Tocqueville consentono <strong>di</strong> portare<br />
ancora oltre la riflessione. È lui stesso, in un passaggio piuttosto defilato del<br />
Travail sur l’Algérie, a osservare:<br />
Avviene in questo momento, in quei paesi semiselvaggi dell’Africa, un travaglio sociale<br />
molto simile a quello che ha avuto luogo in Europa alla fine del Me<strong>di</strong>oevo. Abd el-<br />
Kader, che probabilmente non ha mai sentito parlare <strong>di</strong> quello che accadeva in Francia<br />
nel secolo XV, agisce nei confronti delle tribù precisamente come i nostri re, e in<br />
particolare Carlo VII, hanno agito contro il feudalesimo 49 .<br />
Non era affatto casuale il periodo richiamato da Tocqueville nel tentativo<br />
<strong>di</strong> trascinare Abd el-Kader e i suoi uomini all’interno <strong>di</strong> una struttura <strong>di</strong><br />
coor<strong>di</strong>nate temporali che un francese del XIX secolo potesse riconoscere.<br />
Le «tribù» algerine erano infatti relegate in uno sta<strong>di</strong>o che la scansione<br />
classica della storia occidentale colloca in una fase imme<strong>di</strong>atamente<br />
precedente a quella dell’età moderna. Esse vivevano quin<strong>di</strong> una struttura<br />
temporale statica, qualitativamente <strong>di</strong>versa da quella <strong>di</strong> una modernità<br />
europea che sola ha conosciuto la nascita del mondo storico. Se la <strong>di</strong>varicazione<br />
148
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
tra «esperienza» e «aspettativa» che sostanzia la temporalità occidentale trova<br />
nell’ideologia del «progresso» il principio in grado <strong>di</strong> significare lo scarto, la<br />
costitutiva impossibilità <strong>di</strong> alcuna processualità produce, nel caso<br />
dell’Algeria, una sostanziale sovrapposizione delle due 50 . Le popolazioni<br />
algerine, nello spazio concettuale tracciato da queste coor<strong>di</strong>nate, erano società<br />
statiche, irriducibilmente altre, che entrarono nella storia solo perché alzate<br />
<strong>di</strong> peso e trascinatevi a viva forza dall’intervento francese.<br />
È esattamente questo intervento ad installare al centro degli argomenti<br />
<strong>di</strong> Tocqueville il «movimento della civilizzazione» 51 . Egli si mostrava convinto<br />
del fatto che il contatto tra «razza civilizzata» e «razza barbara», quantunque<br />
avvenuto nel fragore delle armi, avrebbe segnato in modo irreversibile la<br />
«storia del mondo». Una storia che vedeva protagonista il solo Soggetto<br />
europeo, e che riservava ai popoli africani il ruolo <strong>di</strong> passivi beneficiari<br />
della missione civilizzatrice.<br />
In Africa è accaduto […] quello che accade tutte le volte che c’è un contatto, anche<br />
attraverso la guerra, tra due razze <strong>di</strong> cui l’una è istruita e l’altra ignorante, <strong>di</strong> cui l’una<br />
progre<strong>di</strong>sce, l’altra regre<strong>di</strong>sce. I gran<strong>di</strong> lavori che abbiamo già fatti in Algeria, l’esempio<br />
delle nostre arti, delle nostre idee, della nostra potenza hanno agito potentemente<br />
sullo spirito <strong>di</strong> quelle stesse popolazioni che ci combattono con il più grande ardore e che<br />
respingono con la più grande energia il nostro giogo. […] In una parola, per me, è evidente<br />
che, qualsiasi cosa accada, l’Africa è entrata nel movimento del mondo civilizzato e<br />
non ne uscirà più 52 .<br />
Pare significativo che la penna <strong>di</strong> Tocqueville si mostri incapace <strong>di</strong> passare<br />
sotto silenzio una ambivalenza che egli non intendeva certo evidenziare.<br />
Tanto che, nel momento stesso in cui più alto si fa l’orgoglio tocquevilliano<br />
per quanto il suo paese andava facendo in Africa, egli sembrava costretto a<br />
rilevare il contemporaneo emergere <strong>di</strong> una soggettività antagonista che<br />
ovunque, nei suoi scritti, egli si <strong>di</strong>ede incarico <strong>di</strong> rimuovere. Traspare quin<strong>di</strong><br />
da queste parole come l’ingresso dell’Africa nel «mondo civilizzato» fosse<br />
stato meno trionfale <strong>di</strong> quanto Tocqueville non si sforzasse <strong>di</strong> farlo apparire.<br />
Pare anzi piuttosto <strong>di</strong>fficile negare quanto osservato da Giampaolo Calchi<br />
Novati, per il quale «La conquista coloniale privò l’Algeria dei suoi più<br />
fecon<strong>di</strong> contatti con l’Europa, perché d’ora in poi i modelli stranieri non<br />
saranno più ricercati e assorbiti volentieri e spontaneamente ma saranno<br />
rifuggiti come espressione <strong>di</strong> una dominazione o<strong>di</strong>osa» 53 .<br />
Un’ultima osservazione può essere fatta a proposito delle strutture temporali<br />
che talora affiorano <strong>di</strong> sottotraccia nella riflessione tocquevilliana. Facendo<br />
149
Domenico Letterio<br />
ricorso alle categorie con le quali il pensiero politico europeo è andato<br />
costruendo in età moderna il concetto <strong>di</strong> «sovranità», Tocqueville osserva che<br />
un emiro non comanda, come i re d’Europa, a in<strong>di</strong>vidui ognuno dei quali può venire<br />
isolatamente costretto me<strong>di</strong>ante la forza sociale <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>spone il principe, ma a tribù<br />
che sono piccole nazioni completamente organizzate, <strong>di</strong> solito governabili soltanto<br />
assecondandone le passioni 54 .<br />
Ponendosi in continuità con la dottrina classica che vede nella sovranità<br />
e nell’in<strong>di</strong>viduo i due poli <strong>di</strong> una concettualizzazione tipicamente «moderna»<br />
del potere 55 , Tocqueville sottolinea ancora una volta l’inerenza della<br />
popolazione algerina a una fase che precede il moderno. Sono allora assai<br />
significative le modalità per mezzo delle quali Tocqueville rivela le<br />
preoccupazioni in lui suscitate dal potere crescente del giovane emiro:<br />
È […] molto da temere che Abd el-Kader stia fondando presso gli arabi che ci<br />
circondano un potere più centralizzato, più agile, più forte, più sperimentato e più<br />
stabile <strong>di</strong> tutti quelli che si sono succeduti da secoli in questa parte del mondo 56 .<br />
Ciò che rendeva reale, agli occhi <strong>di</strong> Tocqueville, la minaccia <strong>di</strong> Abd<br />
el-Kader era il fatto che egli sembrava in grado <strong>di</strong> articolare una resistenza<br />
che dava corpo a un potere «centralizzato» e «stabile», che rispondeva a<br />
tutti i crismi della concettualizzazione tipicamente europea della sovranità.<br />
Il dominio francese, quin<strong>di</strong>, sarebbe stato unicamente garantito<br />
dall’estirpazione dell’emergenza polemica <strong>di</strong> un’istanza capace <strong>di</strong> mettere<br />
in <strong>di</strong>scussione le artificiose strutture temporali che relegavano le popolazioni<br />
algerine ai margini della storia.<br />
VIII. L’interesse <strong>di</strong> Tocqueville per l’Algeria non si esaurì nelle pagine<br />
scritte all’indomani del viaggio al <strong>di</strong> là del Me<strong>di</strong>terraneo. La conoscenza<br />
sempre più approfon<strong>di</strong>ta del paese gli fece anzi ottenere la nomina <strong>di</strong><br />
membro della commissione extra-parlamentare per gli affari d’Africa, che<br />
si riunì tra il 1842 e il 1843. All’epoca, le vicende algerine videro una crescita<br />
esponenziale della violenza dei combattimenti, imboccando una strada che,<br />
nel volgere <strong>di</strong> qualche anno, si sarebbe rivelata fatale ad Abd el-Kader. Gli<br />
accor<strong>di</strong> presi nel Trattato della Tafna non furono sufficienti ad impe<strong>di</strong>re<br />
una ripresa delle ostilità, che puntualmente ricominciarono nel novembre<br />
1839. L’esercito francese, accresciuto negli effettivi, era allora guidato dal<br />
pugno <strong>di</strong> ferro del generale Bugeaud, giunto in Algeria in occasione della<br />
150
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
firma del Trattato. Fu lui da allora in avanti a <strong>di</strong>rigere le operazioni nel<br />
paese, facendo subire ad Abd el-Kader e ai suoi una serie <strong>di</strong> rovinose sconfitte.<br />
L’interminabile serie <strong>di</strong> battaglie, intervallata dalla firma del Trattato <strong>di</strong><br />
Tangeri del 1844 e contrad<strong>di</strong>stinta da una tenace controffensiva algerina<br />
nell’anno successivo, si concluse definitivamente il 23 <strong>di</strong>cembre 1847,<br />
allorché Abd el-Kader, in seguito all’ennesima <strong>di</strong>sfatta, si consegnò nelle<br />
mani del generale La Moricière.<br />
Quella del generale Bugeaud è una figura che, come ha osservato Melvin<br />
Richter, «merita più attenzione <strong>di</strong> quanta ne abbia fino a ora ricevuta dagli<br />
storici francesi» 57 . Nonostante molte incertezze contrad<strong>di</strong>stinguano la ricerca<br />
storiografica sul suo conto, consolidato è il riconoscimento dei meto<strong>di</strong><br />
criminali che egli utilizzò nei confronti degli algerini. Tanto che la «razzia»,<br />
nelle parole non solo <strong>di</strong> Bugeaud ma anche <strong>di</strong> Tocqueville, <strong>di</strong>venne una<br />
pratica che chi osava resistere all’avanzata francese imparò presto a<br />
conoscere 58 . È allora significativo che Tocqueville, se da un lato rimproverava<br />
a Bugeaud <strong>di</strong> non aver fatto nulla per «lo stabilirsi <strong>di</strong> una società europea in<br />
Africa», dall’altro riven<strong>di</strong>cava il fatto che egli fosse stato<br />
il primo ad aver saputo applicare ovunque contemporaneamente quel genere <strong>di</strong> guerra<br />
che, ai miei occhi, come anche ai suoi, è il solo genere <strong>di</strong> guerra praticabile in Africa 59 .<br />
Si trattava <strong>di</strong> un «genere <strong>di</strong> guerra» che Tocqueville, come si è visto,<br />
pretendeva capace <strong>di</strong> rendere «insopportabile» la vita agli algerini. Non è allora<br />
un caso se, a capo delle operazioni, v’era chi si mostrava convinto del fatto che<br />
«il solo modo <strong>di</strong> far cedere [i ribelli] è <strong>di</strong> attaccare i loro interessi: in primo<br />
luogo le loro donne» 60 . Bugeaud si incaricava in questo modo <strong>di</strong> dare conferma<br />
al fatto che, come ha osservato Bell Hooks, «la sessualità ha sempre fornito<br />
metafore <strong>di</strong> genere alla colonizzazione. […] Gli uomini del gruppo dominante<br />
violano sessualmente il corpo delle donne presenti nel gruppo dei dominati.<br />
Lo scopo <strong>di</strong> tale atto è <strong>di</strong> ricordare continuamente ai maschi dominati la loro<br />
per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> potere; lo stupro è un gesto <strong>di</strong> castrazione simbolica» 61 .<br />
È <strong>di</strong>fficile pensare che a un osservatore attento come Tocqueville<br />
potessero sfuggire le implicazioni più gravi dell’invito a un uso della violenza<br />
come quello <strong>di</strong> cui egli si fece portatore. Così come <strong>di</strong>fficile è credere che<br />
egli non fosse venuto a conoscenza della ben nota pratica delle cosiddette<br />
enfumades. Tale termine invalse a in<strong>di</strong>care l’uso, da parte dei generali alle<br />
<strong>di</strong>pendenze <strong>di</strong> Bugeaud, <strong>di</strong> sterminare i «ribelli» soffocandoli con il fumo<br />
<strong>di</strong> falò accesi all’imboccatura delle caverne in cui si rifugiavano. Inaugurate<br />
151
Domenico Letterio<br />
da Cavaignac nel 1842, tali pratiche continuarono sino al termine della<br />
guerra coloniale, raggiungendo l’acme nello sterminio <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong><br />
«in<strong>di</strong>geni» or<strong>di</strong>nato da Pélisser nelle grotte <strong>di</strong> Ouled Riah. Si tratta <strong>di</strong> episo<strong>di</strong><br />
che vennero resi noti a Parigi suscitando vivo sconcerto. A titolo <strong>di</strong> esempio,<br />
si ricorda la reazione <strong>di</strong> un membro della commissione d’inchiesta costituita<br />
dal regno <strong>di</strong> Francia nel 1833, il quale <strong>di</strong>chiarò, non appena conosciuti i<br />
fatti: «Abbiamo superato in barbarie i barbari che inten<strong>di</strong>amo civilizzare» 62 .<br />
Su questo punto, tuttavia, Tocqueville tace 63 .<br />
Certo fu lo stesso Tocqueville, come si è avuto modo <strong>di</strong> osservare, a<br />
definire «necessità sgradevoli» le più <strong>di</strong>scutibili pratiche poste in essere<br />
dai generali francesi. Egli riteneva che episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> questo genere fossero<br />
inevitabili al fine <strong>di</strong> raggiungere quello che egli giu<strong>di</strong>cava verosimilmente<br />
un «bene maggiore», vale a <strong>di</strong>re quel movimento che legava in modo<br />
in<strong>di</strong>ssolubile il prestigio per la Francia e la «civilizzazione» per paesi e<br />
popoli che ancora non l’avevano conosciuta. Pare tuttavia quantomeno<br />
singolare il fatto che, accanto a tali <strong>di</strong>chiarazioni, Tocqueville non<br />
tralasciasse <strong>di</strong> mostrare la propria in<strong>di</strong>gnazione per la propensione<br />
all’arbitrio e la me<strong>di</strong>ocrità dei funzionari francesi. È quello che fece, per<br />
esempio, in alcune note prese durante le letture con le quali si preparava<br />
al viaggio del 1941. Egli lamentava il fatto che fosse stata accordata ampia<br />
<strong>di</strong>screzionalità a un’autorità militare, cosa questa che egli riteneva «né<br />
saggia, né umana, e neppure ragionevole» 64 :<br />
È inconcepibile che, ai nostri giorni e da parte <strong>di</strong> una nazione che si definisce liberale,<br />
si sia stabilito, vicino alla Francia e in nome della Francia, un governo così <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nato,<br />
così tirannico, così oppressivo, così profondamente illiberale, […] così estraneo persino<br />
alle nozioni elementari <strong>di</strong> un buon regime coloniale 65 .<br />
Le preoccupazioni <strong>di</strong> Tocqueville si riferivano alla totale assenza, nella<br />
fase embrionale <strong>di</strong> quello che sarebbe <strong>di</strong>venuto il governo coloniale<br />
dell’Algeria, delle più elementari garanzie che lo Stato liberale avrebbe dovuto<br />
offrire. Se si tratta certo <strong>di</strong> preoccupazioni legittime, è tuttavia curioso che<br />
esse prendano corpo accanto a vigorose <strong>di</strong>chiarazioni <strong>di</strong> sostegno alla più<br />
inflessibile repressione nei confronti degli «in<strong>di</strong>geni».<br />
IX. Nel <strong>di</strong>scorso del 9 giugno 1846 sugli stanziamenti straor<strong>di</strong>nari per<br />
l’Algeria, Tocqueville prese sostanzialmente atto <strong>di</strong> una svolta avvenuta nelle<br />
vicende coloniali. Egli <strong>di</strong>chiarò infatti che la guerra «non [era] più un<br />
152
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
pericolo» 66 . La violenta controffensiva che nell’anno precedente aveva<br />
permesso ad Abd el-Kader <strong>di</strong> annientare l’avversario a Si<strong>di</strong>-Brahim era stata<br />
infatti arginata con successo dal generale Bugeaud. Abd el-Kader era stato<br />
costretto alla fuga sulle montagne e ovunque le popolazioni algerine, affamate<br />
e stremate dalla repressione francese, stavano facendo atto <strong>di</strong> sottomissione.<br />
Venute meno le impellenti necessità militari era il momento, per Tocqueville,<br />
<strong>di</strong> lanciare un ambizioso piano <strong>di</strong> colonizzazione 67 .<br />
Con la mente rivolta a questo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> considerazioni Tocqueville,<br />
nell’ottobre 1846, partì nuovamente per l’Algeria. Quello che egli stava per<br />
intraprendere, accompagnato da Madame de Tocqueville e da alcuni colleghi<br />
parlamentari, era un viaggio semi-ufficiale. Un viaggio che Bugeaud, nel<br />
tentativo <strong>di</strong> nascondere almeno in parte le modalità con le quali era andato<br />
conducendo la guerra, cercò <strong>di</strong> organizzare a tappe forzate. Ma l’ormai<br />
noto parlamentare francese, guidato da un giornalista incontrato ad Algeri,<br />
riuscì ad evitare gli ostacoli e a visitare i centri della colonizzazione in Mitidja<br />
e nel Sahel.<br />
Tocqueville trascorse tre mesi in Algeria, de<strong>di</strong>candosi all’osservazione<br />
delle <strong>di</strong>namiche della prima colonizzazione agricola e delle relative forme<br />
<strong>di</strong> organizzazione della proprietà 68 . La più compiuta enunciazione dei suoi<br />
orientamenti sul tema è contenuta nel Rapport del 1847, al quale, tra l’altro,<br />
«è fondamentalmente consegnata la reputazione <strong>di</strong> Tocqueville quale<br />
pensatore coloniale» 69 . Si tratta <strong>di</strong> un insieme <strong>di</strong> due relazioni che Tocqueville<br />
presentò al Parlamento francese in qualità <strong>di</strong> presidente della commissione<br />
incaricata <strong>di</strong> esaminare i <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> legge relativi agli stanziamenti straor<strong>di</strong>nari<br />
per l’Algeria e alla regolamentazione dei campi agricoli gestiti dai militari.<br />
Se nella prima Tocqueville non mancò <strong>di</strong> sottolineare come la recente<br />
«pacificazione» dell’Algeria avesse dato ragione alla sua visione strategica<br />
del progetto colonialista, nella seconda si de<strong>di</strong>cò all’analisi delle con<strong>di</strong>zioni<br />
<strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong> una colonizzazione civile, ritenuta improrogabile dal<br />
momento che si era raggiunto l’obiettivo della «dominazione totale». Egli<br />
riteneva necessario rigettare le ipotesi <strong>di</strong> una colonizzazione militare e creare<br />
le con<strong>di</strong>zioni perché gli Europei potessero sentirsi invogliati a emigrare in<br />
Algeria.<br />
Per Tocqueville, tali con<strong>di</strong>zioni erano un presupposto essenziale alla<br />
creazione <strong>di</strong> quella che nelle due relazioni, riprendendo un termine chiave<br />
della Democrazia in America, era definita la «società nuova». Una società<br />
nella quale si riproduceva sostanzialmente la stessa situazione che egli aveva<br />
conosciuto negli Stati Uniti, cioè la coesistenza su <strong>di</strong> uno stesso territorio <strong>di</strong><br />
153
Domenico Letterio<br />
«razza conquistatrice» e «razza sottomessa». Per la sua costruzione, non si<br />
trattava <strong>di</strong><br />
dare la nascita a un popolo nuovo, con le sue leggi, i suoi usi, i suoi interessi, e presto<br />
o tar<strong>di</strong> una sua nazionalità separata, ma <strong>di</strong> impiantare in Africa una popolazione<br />
simile in tutto a noi stessi 70 .<br />
L’obiettivo da perseguire, per Tocqueville, era quello <strong>di</strong> un’estensione della<br />
Francia stessa al <strong>di</strong> là del Me<strong>di</strong>terraneo. Obiettivo che certo non fu raggiunto,<br />
dal momento che l’unica conseguenza tangibile dell’intervento francese fu<br />
uno «sconvolgimento totale della società colonizzata nel suo insieme, una<br />
massiccia destrutturazione <strong>di</strong> tutte le unità sociali a tutti i livelli» 71 . È <strong>di</strong>fficile<br />
credere fosse questa la «società nuova» cui pensava Tocqueville.<br />
X. Chevallier e Jar<strong>di</strong>n hanno messo in luce l’insistente ricorrere, nel<br />
Rapport del 1847, del concetto «neutro» <strong>di</strong> bon gouvernement. Servendosi<br />
<strong>di</strong> tale termine, Tocqueville intendeva delineare il principio in base al quale<br />
i francesi avrebbero dovuto improntare la loro politica in Algeria. In un<br />
simile contesto un «buon governo» era, per Tocqueville,<br />
un potere che <strong>di</strong>rige gli in<strong>di</strong>geni non solo nel nostro interesse, ma nel loro, che si<br />
mostra realmente attento ai loro bisogni, che cerca con sincerità i mezzi per provvedervi,<br />
che si preoccupa del loro benessere, che tiene presenti i loro <strong>di</strong>ritti, che lavora con<br />
ardore allo sviluppo continuo delle loro società imperfette, che non crede <strong>di</strong> aver<br />
adempiuto al suo compito quando ne ha ottenuto la sottomissione e le imposte, che<br />
li governa, insomma, e non si limita a sfruttarli 72 .<br />
Se in un passaggio come questo è in prima battuta riconoscibile la<br />
«liberalità» universalmente ascritta al pensatore francese, le categorie che<br />
lo sottendono vanno a erigere la più ra<strong>di</strong>cale negazione <strong>di</strong> una libertà<br />
politica intesa, tocquevillianamente, come «un fine e non soltanto uno<br />
strumento; un bene in sé e non soltanto una garanzia» 73 . In esso è infatti<br />
completamente obliterata la soggettività delle popolazioni algerine, materia<br />
inerte e afona nelle mani della missione civilizzatrice francese. Sono<br />
concetti che Tocqueville fu in grado <strong>di</strong> esprimere in modo piuttosto<br />
esplicito, al <strong>di</strong> là del fatto che sia possibile scorgerli chiaramente tra le<br />
righe del suo <strong>di</strong>scorso:<br />
154
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
Non è utile né doveroso lasciare che i nostri sud<strong>di</strong>ti musulmani coltivino idee esagerate<br />
sulla propria importanza né che si convincano che siamo obbligati a trattarli in ogni<br />
circostanza esattamente come se fossero nostri concitta<strong>di</strong>ni e nostri pari 74 .<br />
Nel termine francese sujets, tradotto qui con «sud<strong>di</strong>ti», si annida un<br />
coacervo <strong>di</strong> significati che premono tutti in <strong>di</strong>rezione della sistematica<br />
rimozione della soggettività politica dei colonizzati. Essi sono infatti<br />
«soggetti» nell’accezione esclusivamente negativa del termine, cioè solo in<br />
quanto assoggettati 75 . Il progetto coloniale non lascia alcun margine alla<br />
possibilità <strong>di</strong> una apparizione dei «sud<strong>di</strong>ti» come attori sulla scena della<br />
storia, rifiutando <strong>di</strong> riconoscere i processi <strong>di</strong> soggettivazione che nella loro<br />
presa <strong>di</strong> parola si danno. Esso <strong>di</strong>segna così uno spazio <strong>di</strong> esistenza politica<br />
che li scaraventa a una <strong>di</strong>stanza siderale da quello della citta<strong>di</strong>nanza e<br />
mantiene continuamente operativo un movimento <strong>di</strong> rimozione del nucleo<br />
polemico che si incarna nella resistenza da essi opposta.<br />
XI. Il sujet che la conciliante prosa tocquevilliana tratteggia nei termini<br />
<strong>di</strong> una silenziosa comparsa del teatro coloniale era in realtà protagonista<br />
assoluto <strong>di</strong> una vicenda carica <strong>di</strong> conflitto. Una vicenda che andava<br />
essenzialmente <strong>di</strong>panandosi in una molteplicità <strong>di</strong> pratiche la cui inevitabile<br />
eterogeneità trovava sintesi nel sentimento <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>cale rifiuto del giogo<br />
coloniale. Alla resistenza armata guidata da Abd el-Kader fece infatti seguito,<br />
a partire dalla definitiva conquista del 1847, un continuo emergere delle<br />
più varie pratiche <strong>di</strong> resistenza 76 . In particolare, come ha osservato Benjamin<br />
Stora, «la storia dell’Algeria in quel momento è largamente quella<br />
dell’insurrezione […] delle società <strong>di</strong> villaggio […] per conservare le loro<br />
terre e opporsi all’espropriazione delle terre collettive da parte della<br />
colonizzazione» 77 . Fino alla rivolta <strong>di</strong> El-Mokrani del 1871, che costituisce<br />
«l’ultimo grande tentativo della popolazione rurale per prendere l’iniziativa<br />
politica», quella algerina è una storia <strong>di</strong> continue sollevazioni e <strong>di</strong> una<br />
resistenza endemica all’occupante 78 .<br />
È allora estremamente significativo che una vicenda caratterizzata da<br />
un tale antagonismo resista ad un’analisi che provi ad inquadrarla nelle<br />
categorie amico/nemico notoriamente proposte da Carl Schmitt 79 . La<br />
concettualizzazione dello spazio coloniale proposta da Tocqueville non<br />
istituisce infatti alcun confine tra un «interno» ed un «esterno», ma al<br />
contrario include violentemente i «sud<strong>di</strong>ti» in una posizione subor<strong>di</strong>nata,<br />
155
Domenico Letterio<br />
all’interno <strong>di</strong> uno spazio e <strong>di</strong> un tempo che aspirano a porsi come unitari.<br />
Rifiutando <strong>di</strong> riconoscere in essi finanche degli «avversari», il <strong>di</strong>spositivo<br />
messo in funzione da Tocqueville nega loro la possibilità <strong>di</strong> farsi padroni<br />
del proprio destino politico. È quin<strong>di</strong> tale tentativo <strong>di</strong> riduzione ad uno a<br />
costituire la trama delle relazioni tra dominatori e dominati. Questi sono<br />
ridotti a nuda vita da un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> annullamento che si fa politico nel<br />
momento stesso in cui nega il carattere oppositivo <strong>di</strong> quanto va prendendo<br />
corpo al <strong>di</strong> là del Me<strong>di</strong>terraneo 80 .<br />
La perimetrazione <strong>di</strong> uno spazio e <strong>di</strong> un tempo unitari tende quin<strong>di</strong> ad<br />
oscurare insorgenze che si ra<strong>di</strong>cavano nel rifiuto delle con<strong>di</strong>zioni materiali<br />
<strong>di</strong> esistenza imposte dai dominatori. Tocqueville si mostrava incapace <strong>di</strong><br />
riconoscerne il carattere irriducibilmente politico a semplice motivo della<br />
loro natura frammentaria e sostanzialmente priva <strong>di</strong> carattere nazionale,<br />
caratteristiche che rendevano impossibile una loro sussunzione in categorie<br />
che tendevano a rinvenire nello Stato la forma esclusiva del «politico». È<br />
per tale motivo che lo spontaneo emergere <strong>di</strong> una resistenza alla<br />
colonizzazione è precipitata nella categoria <strong>di</strong> «prepolitico» 81 . La selettiva<br />
rimozione <strong>di</strong> determinate componenti soggettive coinvolte nell’esperienza<br />
coloniale francese riconfigura così i termini fondamentali <strong>di</strong> quella vicenda,<br />
obliterando il potenziale emancipativo <strong>di</strong> quelle che erano essenzialmente<br />
delle lotte per la conquista della libertà.<br />
La più grande sfida che i sujets pongono alle categorie con le quali<br />
pensiamo oggi la politica risiede nel fatto che essi non avanzano alcuna<br />
richiesta <strong>di</strong> riconoscimento nei termini da esse <strong>di</strong>segnati, ma al contrario<br />
agiscono appropriandosi <strong>di</strong> una libertà che è loro altrimenti negata. Alla<br />
loro inclusione violenta e subor<strong>di</strong>nata nello spazio istituito dal progetto<br />
coloniale essi rispondono rifiutando il posto loro assegnato nelle<br />
tassonomie da esso costruite. In questo modo, i sujets oppongono alla<br />
violenza originaria della colonizzazione un’affermazione altrettanto<br />
originaria <strong>di</strong> una loro irriducibilità a mero «altro» del Soggetto<br />
dell’umanesimo occidentale.<br />
XII. Alla luce <strong>di</strong> tali considerazioni, una riflessione critica sul progetto<br />
coloniale non può esimersi da una risalita fino ai fondamenti epistemologici<br />
<strong>di</strong> una <strong>di</strong>sciplina che riserva la «conoscenza» al solo Soggetto europeo,<br />
relegando gli in<strong>di</strong>vidui e le popolazioni «incontrate» nell’esperienza coloniale<br />
<strong>–</strong> sottomesse, sterminate, oppresse <strong>–</strong> nella posizione <strong>di</strong> mero oggetto. A tale<br />
156
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
scopo vale la pena evidenziare come sia lo stesso Tocqueville a mettere in<br />
luce lo stretto legame tra violenza e sapere:<br />
Si possono stu<strong>di</strong>are i popoli barbari soltanto con le armi alla mano. Abbiamo vinto gli<br />
arabi prima <strong>di</strong> conoscerli. È la vittoria che, stabilendo i rapporti necessari e molteplici<br />
tra loro e noi, ci ha fatti penetrare nelle loro usanze, nelle loro idee, nelle loro credenze,<br />
e ci ha infine svelato il segreto per governarli 82 .<br />
Da queste parole emerge il doppio filo che lega le <strong>di</strong>mensioni del dominio<br />
e della conoscenza. Tocqueville intendeva sottolineare come l’uso della forza<br />
costituisse la premessa necessaria ad una «pacificazione» che consentisse<br />
l’osservazione analitica <strong>di</strong> un «altro» ancora sconosciuto. È tuttavia<br />
altrettanto evidente che per Tocqueville «il segreto per governarli» fosse<br />
inevitabilmente riposto in un sapere che sapesse in qualche modo imbrigliare<br />
l’eccedenza soggettiva incarnata nella viva in<strong>di</strong>vidualità <strong>di</strong> chi opponeva<br />
resistenza 83 . «Penetrare nelle loro usanze» non può infatti voler <strong>di</strong>re altro<br />
che operare tale «imbrigliamento» per mezzo <strong>di</strong> una violenta appropriazione<br />
del loro passato. Ciò che ha avuto luogo in Algeria è infatti «una<br />
sovrapposizione violenta del ‘moderno’ su tutto il preesistente, che quando<br />
è riuscito a sopravvivere è stato relegato nella nicchia nascosta del residuale<br />
e irretito nella stigmatizzazione» 84 . Il progetto coloniale dell’Occidente si è<br />
così sostanzialmente impossessato dei riferimenti storici necessari alla<br />
definizione <strong>di</strong> sé degli in<strong>di</strong>vidui e dei popoli che abitavano quelle terre.<br />
Esso ha imposto un canone storiografico per il quale gli stessi riferimenti<br />
all’Africa antica sono stati proclamati prossimi alla storia europea e presentati<br />
come forme antiche <strong>di</strong> colonizzazione. Ciò avviene attraverso un processo<br />
descritto ad esempio da Dipesh Chakrabarty, secondo il quale «con manovre<br />
che ricordano il vecchio trucco ‘<strong>di</strong>alettico’ della ‘negazione della negazione’,<br />
gli storici riescono a negare alla voce dell’ambivalenza la con<strong>di</strong>zione della<br />
soggettività» 85 . In questo modo il progetto coloniale si dà un fondamento<br />
in senso storico facendo dell’Algeria una terra a vocazione coloniale, quin<strong>di</strong><br />
priva <strong>di</strong> un’esistenza politica e nazionale propria. In tale ottica, per<br />
Tocqueville, i francesi non sono altro che dei legittimi successori dei turchi.<br />
Da sempre abituati a una dominazione straniera, gli «arabi» avrebbero<br />
semplicemente dovuto «obbe<strong>di</strong>re ai loro nuovi padroni» 86 .<br />
La negazione <strong>di</strong> uno statuto soggettivo per la resistenza al dominio<br />
coloniale, negazione reiterata in ogni pagina tocquevilliana, costituisce<br />
quin<strong>di</strong> il principale <strong>di</strong>spositivo attraverso il quale essa è automaticamente<br />
157
Domenico Letterio<br />
derubricata al ruolo <strong>di</strong> mero ostacolo al pieno <strong>di</strong>spiegarsi <strong>di</strong> quella che<br />
Hegel definiva Weltgeschichte. Cioè una storia europea che, nel farsi mondo<br />
facendosi singolare collettivo, investe le popolazioni della periferia con un<br />
inau<strong>di</strong>to carico <strong>di</strong> violenza 87 . Tale storia si rivela così costruita senza la<br />
presenza delle popolazioni colonizzate, le quali vi sono inserite attraverso<br />
un movimento che Gayatri Chakravorty Spivak, riprendendo un termine<br />
del vocabolario lacaniano, ha definito forclusione. Un movimento che non<br />
intende semplicemente escluderle, ma che le implica in un unico gesto<br />
teoretico e pratico che le esclude includendole, producendo in questo modo<br />
l’unità del Soggetto europeo 88 .<br />
XIII. Porre il sujet al centro dei tentativi <strong>di</strong> tirare le fila del <strong>di</strong>scorso<br />
tocquevilliano significa sfidare la continua re-inscrizione <strong>di</strong> una<br />
rappresentazione dei gruppi subalterni «come semplice massa <strong>di</strong> manovra<br />
delle élite, coloniali e nazionaliste, o come substrato immobile e passivo<br />
delle vicissitu<strong>di</strong>ni della storia» 89 . La scelta <strong>di</strong> volgere l’attenzione a questi<br />
aspetti scaturisce dal riconoscimento del fatto che la messa in evidenza <strong>di</strong><br />
un Tocqueville fervente colonialista non costituisce, <strong>di</strong> per sé, un nodo <strong>di</strong><br />
particolare interesse storico o politico. Le sue affermazioni più sorprendenti<br />
sulla necessità <strong>di</strong> un dominio spietato erano infatti dettate, per sua stessa<br />
ammissione, dagli imperativi dell’interesse nazionale e della «civilizzazione»<br />
su qualunque altro or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> considerazioni. Se quin<strong>di</strong> il «perché» <strong>di</strong> un<br />
Tocqueville colonialista può, e deve, trovare risposta nel complesso <strong>di</strong><br />
argomenti da lui stesso fornito, l’unica possibilità <strong>di</strong> riflettere criticamente<br />
su questi scritti risiede in una interrogazione sull’insieme dei <strong>di</strong>spositivi<br />
che hanno operato in funzione della produzione, della messa in opera e del<br />
mantenimento <strong>di</strong> un dominio coloniale non solo materiale ma anche<br />
epistemico.<br />
È alla luce <strong>di</strong> queste considerazioni che si è osservato come il principale<br />
limite della riflessione tocquevilliana risieda nella portata soggettiva <strong>di</strong><br />
insorgenze che le categorie da lui impiegate non gli consentivano <strong>di</strong><br />
concettualizzare. Se da un lato era evidente a lui stesso che la resistenza<br />
alla colonizzazione era un fenomeno tanto antico quanto la colonizzazione<br />
stessa, dall’altro essa non era tematizzata nei termini <strong>di</strong> una presa <strong>di</strong> parola<br />
<strong>di</strong> soggetti che rifiutavano lo stato <strong>di</strong> minorità cui il pensiero e le pratiche<br />
coloniali tentavano <strong>di</strong> relegarli. Le istanze <strong>di</strong> libertà che essi incarnavano<br />
non erano riconoscibili per Tocqueville, in quanto vettori orientati in<br />
158
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
una <strong>di</strong>rezione opposta rispetto a quella <strong>di</strong> un «progresso» che, secondo le<br />
categorie del liberalismo ottocentesco, poteva originare unicamente<br />
dall’Europa. In questa ottica, le sollevazioni anti-coloniali sono contingenti<br />
irruzioni che emergono nella trama del «moderno» interrompendone la<br />
continuità.<br />
È allora nel perpetuarsi <strong>di</strong> una artificiosa e violenta separazione tra ciò<br />
che costituisce il «moderno» e ciò che ne è tenuto al <strong>di</strong> fuori che deve essere<br />
indagato il nocciolo <strong>di</strong> <strong>di</strong>namiche che relegano in una posizione subalterna<br />
in<strong>di</strong>vidui e popoli che tuttavia, «una volta portati all’interno <strong>di</strong> questa<br />
vicenda storica dalla violenza del dominio coloniale, […] si sono […] rifiutati<br />
<strong>di</strong> continuare ad occuparne i margini» 90 . Il riconoscimento del protagonismo<br />
che i sujets hanno mostrato deve costituire la prima «mossa» della<br />
ricostruzione <strong>di</strong> cartografie <strong>di</strong> un passato in cui il fatto del dominio, le<br />
pratiche <strong>di</strong> libertà ed i processi <strong>di</strong> soggettivazione che in esse si danno sono<br />
strettamente intrecciati. La «modernità» è fatta <strong>di</strong> antagonismo e non solo<br />
<strong>di</strong> processi espansivi, ed è per questo motivo che la presa <strong>di</strong> parola da parte<br />
dei sujets <strong>di</strong> Tocqueville deve <strong>di</strong>venire parte della sua affermazione. Il carattere<br />
tumultuoso della resistenza da essi opposta al dominio coloniale deve fungere<br />
non da manifestazione <strong>di</strong> una alterità irriducibile, ma da elemento che<br />
illumina nuove possibilità tanto per il nostro mondo della vita quanto per<br />
la ricerca storica.<br />
Note al testo<br />
1 Si fa riferimento ad ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Œuvres Complètes, III,I, Gallimard, Paris 1962,<br />
e a MELVIN RICHTER, Tocqueville on Algeria, in «Review of Politics» XXV(1963), pp. 362-98. Si<br />
nota per inciso che la comparsa <strong>di</strong> tali scritti avviene in anni particolarmente significativi per<br />
la storia algerina. Vale la pena citare le introduzioni alle uniche due e<strong>di</strong>zioni francesi degli<br />
scritti tocquevilliani sull’Algeria: TZVETAN TODOROV, Introduction, in ALEXIS DE TOCQUEVILLE,<br />
De la colonie en Algérie, Complexe, Bruxelles 1989; SELOUA LUSTE BOULBINA, Présentation, in<br />
DE TOCQUEVILLE, Sur l’Algérie, Flammarion, Paris 2003. Tra gli interventi più recenti, JENNIFER<br />
PITTS, L’Empire britannique, un modèle pour l’Algérie française. Nation et civilisation chez<br />
Tocqueville et John Stuart Mill, in L’esclavage, la colonisation, et après…, a cura <strong>di</strong> Patrick Weil<br />
e Stéphane Dufoix, Presses Universitaires de France, Paris 2005; CHERYL B. WELCH, Colonial<br />
violence and the rhetoric of evasion. Tocqueville on Algeria, in «Political Theory» XXXI(2003).<br />
Agli scritti algerini <strong>di</strong> Tocqueville sono infine de<strong>di</strong>cate molte parti <strong>di</strong> OLIVIER LE COUR<br />
GRANDMAISON, Coloniser exterminer. Sur la guerre et l’Etat colonial, Fayard, Paris 2005, e <strong>di</strong><br />
JENNIFER PITTS, A turn to Empire. The rise of imperial liberalism in Britain and France, Princeton<br />
University Press, Princeton 2005.<br />
159
Domenico Letterio<br />
2 Per una panoramica su alcuni dei temi «riscoperti» dagli stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong> Tocqueville si può fare<br />
riferimento al volume a cura <strong>di</strong> Umberto Coldagelli, ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Scritti, note e<br />
<strong>di</strong>scorsi politici, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Un’importante e<strong>di</strong>zione italiana degli scritti<br />
penitenziari è quella curata da Lucia Re, ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Scritti penitenziari, E<strong>di</strong>zioni<br />
<strong>di</strong> Storia e Letteratura, Roma 2002. Vale la pena fare un breve accenno alle affermazioni con le<br />
quali Lucia Re, il cui intento si con<strong>di</strong>vide appieno, conclude l’Introduzione al volume: «riscoprire<br />
oggi gli scritti sul carcere ha […] non solo un valore storiografico e filologico, ma anche<br />
filosofico e politico. Significa restituire alla figura <strong>di</strong> Tocqueville la sua ricchezza e complessità,<br />
ma anche sollecitare il liberalismo a confrontarsi con le sue aporie teorico-politiche, a partire<br />
proprio dai suoi classici più celebrati» (ivi, p. LVII).<br />
3 Il più significativo esempio <strong>di</strong> tale atteggiamento è quello <strong>di</strong> Tzvetan Todorov, per il quale «il<br />
colonialismo <strong>di</strong> Tocqueville è semplicemente il prolungamento internazionale del suo<br />
liberalismo» (TZVETAN TODOROV, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla <strong>di</strong>versità umana,<br />
Einau<strong>di</strong>, Torino 1991, p. 238)<br />
4 Si utilizza tale espressione nell’accezione e con la densità <strong>di</strong> significato con cui l’ha proposta<br />
EDWARD W. SAID, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale<br />
dell’Occidente, Gamberetti, Roma 1998.<br />
5 ABDELMALEK SAYAD, Algeria: nazionalismo senza nazione, Mesogea, Messina 2003, pp. 29-52.<br />
6 Per l’utilizzo del termine «violenza epistemica» si fa riferimento a GAYATRI CHAKRAVORTY<br />
SPIVAK, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004.<br />
7 ABDELMALEK SAYAD, Algeria: nazionalismo senza nazione cit., pp. 57-8.<br />
8 PAUL GILROY, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi,<br />
Roma 2003, p. 117.<br />
9 DIPESH CHAKRABARTY, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004, p. 66.<br />
10 JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction, in Œuvres Complètes, III,I p. 18.<br />
11 Per le note biografiche che seguono, si è fatto riferimento ad ANDRÉ JARDIN, Alexis de<br />
Tocqueville, Jaca Book, Milano 1996, pp. 241-3 e 307-31; a UMBERTO COLDAGELLI, L’Algeria<br />
e la vocazione coloniale della Francia, in ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici,<br />
cit., pp. 341-50; a JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., pp. 7-32; a<br />
SELOUA LUSTE BOULBINA, Présentation cit., pp. 7-41.<br />
12 Œuvres Complètes, XIII, I p. 155. Citato in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 341n.<br />
13 BENJAMIN STORA, Histoire de l’Algérie coloniale, La Découverte, Paris 2004, p. 13.<br />
14 Le due e<strong>di</strong>zioni della più nota opera <strong>di</strong> Tocqueville sono uscite rispettivamente nel 1835 e<br />
nel 1840.<br />
15 Œuvres Complètes, III,I p. 220. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 357.<br />
160
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
16 Ivi, p. 141.<br />
17 Ivi, p. 153. Citato anche in ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., p. 324.<br />
18 Alla corrispondenza tra Tocqueville e Gobineau è de<strong>di</strong>cato un intero volume delle Œuvres<br />
Complètes. Per la più recente e completa e<strong>di</strong>zione italiana dell’epistolario, si faccia riferimento<br />
ad ALEXIS DE TOCQUEVILLE e ARTHUR DE GOBINEAU, <strong>Del</strong> razzismo: carteggio 1843-1859, Donzelli,<br />
Roma 1995.<br />
19<br />
ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Voyage aux États-Unis, citato anche in TZVETAN TODOROV, Noi e gli<br />
altri cit., p. 243. Le più ricche riflessioni sul viaggio in America si trovano in ALEXIS DE<br />
TOCQUEVILLE, Quin<strong>di</strong>ci giorni nel deserto americano, Sellerio, Palermo 1989. Va tuttavia osservato<br />
che nella Democrazia in America la possibilità <strong>di</strong> una integrazione tra «razze» al <strong>di</strong> là dell’Atlantico<br />
è considerata una chimera. Le riflessioni su questo tema si trovano in Œuvres Complètes, I, I<br />
pp. 331-431. Per l’e<strong>di</strong>zione italiana, il riferimento obbligato è all’e<strong>di</strong>zione a cura <strong>di</strong> Nicola<br />
Matteucci, ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, UTET, Torino 1968, pp. 373-<br />
484. Per una con<strong>di</strong>visibile riflessione su queste pagine si rimanda a MASSIMILIANO GUARESCHI,<br />
Il lapsus <strong>di</strong> Tocqueville: un liberale francese, pochi in<strong>di</strong>ani e molti schiavi, in Lo straniero e il<br />
nemico: materiali per l’etnografia contemporanea, a cura <strong>di</strong> Alessandro dal Lago, Costa&Nolan,<br />
Milano 1998, pp. 45-63.<br />
20 Le riflessioni tocquevilliane sull’In<strong>di</strong>a sono contenute in Œuvres Complètes, III, I, pp. 441-<br />
552.<br />
21 Œuvres Complètes, III, I, pp. 41-126. Le parti più rilevanti degli interventi tocquevilliani su<br />
questo tema sono tradotti in italiano in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., pp. 296-340.<br />
22 Œuvres Complètes, VI,I p. 103.<br />
23 Œuvres Complètes, III, I, pp. 476-82.<br />
24 JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., p. 17. La lettera cui si fa<br />
riferimento si trova in Œuvres Complètes, VI, p. 423.<br />
25 Lettera <strong>di</strong> Tocqueville a Buloz del 2 ottobre 1840, citata in ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville<br />
cit., p. 328.<br />
26 Œuvres Complètes, III,I p. 509.<br />
27 Ivi, pp. 443-4.<br />
28 JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., p. 20.<br />
29 Œuvres Complètes, III,II, p. 280. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 234.<br />
30 Œuvres Complètes, III,I p. 216 [corsivo nel testo]. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici<br />
cit., p. 352.<br />
161
Domenico Letterio<br />
31 Per l’importanza del viaggio come costante del pensiero <strong>di</strong> Tocqueville si faccia riferimento<br />
a SHELDON S. WOLIN, Tocqueville Between Two Worlds: The Making of a Political and Theoretical<br />
Life, Princeton University Press, Princeton 2001, in particolare il cap. II, pp. 34-56.<br />
32 Œuvres Complètes, IX p. 69. Citato anche in ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., p. 313.<br />
33 Œuvres Complètes, III,I p. 310. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici, p. 394.<br />
34 ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., pp. 314-5. Le note scritte da Tocqueville su questo<br />
viaggio sono contenute in Œuvres Complètes, III, II, pp. 189-218.<br />
35 ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., p. 314.<br />
36 Œuvres Complètes, III, II, pp. 213-80.<br />
37 ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., pp. 225-33.<br />
38 Œuvres Complètes, III,I pp. 213-4. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., pp.<br />
350-351.<br />
39 Ivi, p. 226. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 364.<br />
40 Ivi [corsivo mio]. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., pp. 364-5.<br />
41 Ivi, p. 268.<br />
42 Data la vastità della bibliografia sull’argomento, ricor<strong>di</strong>amo solo alcuni interventi: SANDRO<br />
CHIGNOLA, Fragile cristallo: per la storia del concetto <strong>di</strong> società, E<strong>di</strong>toriale Scientifica, Napoli<br />
2004; MARIA LAURA LANZILLO, Introduzione, in ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Antologia degli scritti<br />
politici, Carocci, Roma 2004, pp. 9-42. Per ulteriori in<strong>di</strong>cazioni è possibile fare riferimento<br />
alle ampie e aggiornate bibliografie ivi citate.<br />
43 Œuvres Complètes, III,I p. 217. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 354.<br />
44 Ivi, p. 221. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 358.<br />
45 Ivi, p. 275. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., pp. 372-3.<br />
46 Ivi, p. 276. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 373.<br />
47 Su questo punto si può fare riferimento a UDAY SINGH MEHTA, Liberalism and Empire: a<br />
Study in Nineteenth-Century British Liberal Thought, University of Chicago Press, Chicago<br />
1999, in particolare pp. 28-36.<br />
48 DIPESH CHAKRABARTY, Provincializzare l’Europa cit., p. 22.<br />
49 Œuvres Complètes, III,I p. 223. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 360.<br />
162
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
50 Si fa qui uso delle categorie proposte in REINHART KOSELLECK, Spazio <strong>di</strong> esperienza e orizzonte<br />
<strong>di</strong> aspettativa: due categorie storiche, in Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti,<br />
Genova 1986, pp. 300-22.<br />
51 JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., p. 22.<br />
52 Œuvres Complètes, III,I p. 216 [corsivo mio]. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit.,<br />
pp. 352-3.<br />
53 GIAMPAOLO CALCHI NOVATI, Storia dell’Algeria in<strong>di</strong>pendente, Bompiani, Milano 1998, p. 16.<br />
54 Œuvres Complètes, III,I p. 218-9. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici, cit., p. 356.<br />
55 Si veda ad esempio PIERANGELO SCHIERA, Lo Stato. Origini e degenerazioni, CLUEB, Bologna<br />
2004.<br />
56 Œuvres Complètes, III,I p. 224 [corsivo mio]. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit.,<br />
p. 361.<br />
57 MELVIN RICHTER, Tocqueville on Algeria cit., p. 371.<br />
58 Per esempio, scrive Tocqueville nel Travail: «Io credo che il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> guerra ci autorizzi a<br />
devastare il paese e che dobbiamo farlo sia <strong>di</strong>struggendo le messi all’epoca del raccolto, sia in<br />
ogni occasione facendo quelle incursioni rapide che si chiamano razzie e il cui scopo è quello<br />
<strong>di</strong> impadronirsi degli uomini o delle greggi», Œuvres Complètes, III,I p. 226 [corsivo mio].<br />
Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., pp. 365.<br />
59 Discorso alla Camera del 9 giugno 1846. Œuvres Complètes, III,I p. 299. Traduzione in<br />
Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 384.<br />
60 Citato in MOHAMMED HARBI e GILBERT MEYNIER, Le FLN. Documents et histoire 1954-1962,<br />
Fayard, Paris 2004, p. 60.<br />
61 BELL HOOKS, Riflessioni su razza e sesso, in Elogio del margine: razza, sesso e mercato culturale,<br />
Feltrinelli, Milano 1998, p. 36.<br />
62 Citato in BENJAMIN STORA, Histoire de l’Algérie coloniale cit., p. 18.<br />
63 ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., p. 324.<br />
64 Œuvres Complètes, III,I p. 196.<br />
65 Ivi, p. 197.<br />
66 Ivi, p. 293.<br />
67 ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., p. 318.<br />
163
Domenico Letterio<br />
68 JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., p. 15.<br />
69 UMBERTO COLDAGELLI, L’Algeria e la vocazione coloniale della Francia cit., p. 348.<br />
70 Citato in JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., p. 23.<br />
71 ABDELMALEK SAYAD, Algeria: nazionalismo senza nazione cit., p. 25.<br />
72 Citato in JEAN-JACQUES CHEVALLIER e ANDRÉ JARDIN, Introduction cit., p. 24.<br />
73 FRANCESCO M. DE SANCTIS, Tempo <strong>di</strong> democrazia. Alexis de Tocqueville, E<strong>di</strong>zioni Scientifiche<br />
Italiane, Napoli 1986, pp. 342-3.<br />
74 Citato anche in ANDRÉ JARDIN, Alexis de Tocqueville cit., p. 324 [corsivo mio].<br />
75 Si fa qui uso delle categorie <strong>di</strong> soggettivazione/assoggettamento proposte da Michel Foucault,<br />
e attorno alle quali ruota la produzione filosofica <strong>di</strong> quella che si è venuti chiamando la scuola<br />
«post-althusseriana» francese. Un altro riferimento importante per queste riflessioni è costituito<br />
dalla lettura del tema del riconoscimento nella <strong>di</strong>alettica servo/padrone della Fenomenologia<br />
hegeliana proposta da ALEXANDRE KOJÈVE, La <strong>di</strong>alettica e l’idea della morte in Hegel, Einau<strong>di</strong>,<br />
Torino 1991.<br />
76 Per un breve trattazione delle battaglie che videro vincitrici le truppe <strong>di</strong> Abd el-Kader, si<br />
faccia riferimento a BENJAMIN STORA, Histoire de l’Algérie coloniale cit., p. 16.<br />
77 Ivi, p. 19.<br />
78 Ivi, p. 35.<br />
79 CARL SCHMITT, Le categorie del ‘politico’. Saggi <strong>di</strong> teoria politica, a cura <strong>di</strong> Gianfranco Miglio<br />
e Pierangelo Schiera, il Mulino, Bologna 1972.<br />
80 Si utilizza l’espressione «nuda vita» nell’accezione in cui è stata proposta da GIORGIO AGAMBEN,<br />
Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einau<strong>di</strong>, Torino 1995.<br />
81 L’utilizzo sistematico della categoria <strong>di</strong> «prepolitico» è riconducibile al lavoro <strong>di</strong> ERIC J.<br />
HOBSBAWM, I ribelli. forme primitive <strong>di</strong> rivolta sociale, Einau<strong>di</strong>, Torino 1966.<br />
82 Œuvres Complètes, III,I p. 309. Traduzione in Scritti, note e <strong>di</strong>scorsi politici cit., p. 393.<br />
83 Ci si serve del termine «imbrigliamento» prendendolo a prestito dall’uso fattone da Sandro<br />
Mezzadra e Yann Moulier Boutang nell’analisi delle migrazioni contemporanee. Si veda, ad<br />
esempio, SANDRO MEZZADRA, Diritto <strong>di</strong> fuga. Migrazioni, citta<strong>di</strong>nanza, globalizzazione,<br />
Ombrecorte, Verona 2001, pp. 56-60.<br />
84 SALVATORE PALIDDA, Prefazione, in ABDELMALEK SAYAD, Algeria: nazionalismo senza nazione,<br />
cit., p. 6. Su un punto simile, si veda la rilettura operata da Dipesh Chakrabarty delle categorie<br />
164
L’Algeria <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville: soggettività e storia nel progetto coloniale dell’Occidente<br />
marxiane <strong>di</strong> «sussunzione reale» e «sussunzione formale» (DIPESH CHAKRABARTY, Provincializzare<br />
l’Europa cit., pp. 71-103).<br />
85 DIPESH CHAKRABARTY, Provincializzare l’Europa cit., p. 60.<br />
86 MELVIN RICHTER, Tocqueville on Algeria cit., p. 380.<br />
87 Il rapporto tra progetto coloniale e «storia del mondo» è suggestivamente indagato in RANAJIT<br />
GUHA, La storia ai limiti della storia del mondo, Sansoni, Milano 2003. Per il concetto <strong>di</strong> storia<br />
come «singolare collettivo» si faccia riferimento a REINHART KOSELLECK, Punto <strong>di</strong> vista e<br />
temporalità. Contributo all’esplorazione storiografica del mondo storico, in Futuro passato cit., pp.<br />
151-77.<br />
88 GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK, Critica della ragione postcoloniale cit. Su questo punto si faccia<br />
riferimento anche a SANDRO MEZZADRA, Diritto <strong>di</strong> fuga cit., pp. 95-6.<br />
89 MASSIMILIANO GUARESCHI, Presentazione, in RANAJIT GUHA, La storia ai limiti della storia del<br />
mondo cit., p. 8.<br />
90 SANDRO MEZZADRA, Diritto <strong>di</strong> fuga cit., p. 101. Sull’uso del termine «margine» si veda BELL<br />
HOOKS, Elogio del margine, in Elogio del margine: razza, sesso e mercato culturale cit., pp. 62-73.<br />
165
Domenico Letterio<br />
166
I nove capi storici algerini del 1954<br />
<strong>di</strong> Gilbert Meynier<br />
I nove capi storici algerini del 1954<br />
Per parlare del nazionalismo algerino, si sono finora adoperate per<br />
semplificare tre categorie:<br />
- la categoria del nazionalismo pacifista e interclassista: tutti gli uomini<br />
combattono per la stessa causa, siano essi ricchi o poveri, abitanti delle<br />
campagne o delle città. È, questa, la tesi del <strong>di</strong>scorso nazionalista algerino<br />
corrente e della storiografia ufficiale algerina. Donde la formula dello<br />
storico algerino Mahfûz Kaddache: «La Casbah non poteva conoscere i<br />
conflitti sociali poiché tutti i suoi membri erano nazionalisti». Formulazioni<br />
più ambiziose usando un termine proprio della matematica definiscono<br />
il nazionalismo come una «costante» comune alle <strong>di</strong>verse classi sociali.<br />
- la categoria del nazionalismo <strong>di</strong> classe, che si può riassumere in questi<br />
termini: le classi popolari conducono la lotta giusta (nazionalista) contro i<br />
possidenti che collaborano con il colonialismo. Fu questa la categoria più<br />
feconda, sia a livello <strong>di</strong> impegno militante, sia nella ricerca scientifica.<br />
Comprende:<br />
1. il campo classico dello storicismo marxista. Abdel Kader condannò<br />
i feudatari capi <strong>di</strong> tribù perché incarnavano le forze conservatrici contro<br />
un despota illuminato musulmano, il cui progetto statale annichiliva i<br />
loro privilegi. Si sa, gli abbienti hanno poca coscienza nazionale. La classe<br />
popolare algerina, con l’introduzione del modo <strong>di</strong> produzione capitalistico,<br />
<strong>di</strong>ventò quin<strong>di</strong> naturalmente il ricettacolo dell’idea nazionalista. La storia<br />
popolare algerina è improntata a questa visione. Una sua variante è<br />
2. il fanonismo (da Franz Fanon, il teorico della rivoluzione conta<strong>di</strong>na)<br />
che trasforma la povertà e la purezza campagnole in miti sui quali si fonda<br />
una certa politica militante algerina. Vengono esaltati i valori <strong>di</strong> impegno,<br />
<strong>di</strong> abnegazione, <strong>di</strong> frugalità, riconosciuti come valori islamici. Questa visione<br />
non affronta però la questione dell’inquadramento rivoluzionario nazionale:<br />
167
Gilbert Meynier<br />
in effetti, nella storia, non si sono viste mai, né in Algeria, né in altri paesi,<br />
truppe andare da sole all’assalto. Me<strong>di</strong>ante il fanonismo la storia del paese<br />
poté così subire passeggere revisioni marxiste.<br />
3. una variante operaistica. Rimasta a lungo egemonica, questa sostiene<br />
che i quadri politici del nazionalismo venissero dalla classe operaia algerina.<br />
Ora la suddetta classe operaia si è formata più che altro grazie all’emigrazione,<br />
e in Francia. È vero che i primi militanti della Stella Nordafricana (l’Étoile<br />
Nord-Africaine) erano operai algerini <strong>di</strong> Parigi. Ma si sa anche che i suoi<br />
primi quadri non furono proprio operai. Prima dell’epoca dell’ENA,<br />
dall’inizio del Novecento, i primi algerini a contestare il sistema coloniale<br />
erano stati, in Algeria, commercianti, maestri delle elementari, segretari <strong>di</strong><br />
comuni miste (communes mixtes), addetti alla magistratura musulmana o<br />
liberi professionisti (l’élite dei Giovani Algerini - les Jeunes Algériens -, vale a<br />
<strong>di</strong>re gli «evoluti» - les «évolués» -).<br />
4. Questo ha condotto alcuni marxisti a privilegiare, nell’analisi sociale<br />
del nazionalismo algerino, la «piccola borghesia» È pertinente questo<br />
concetto? O se ci si vuol riferire a certe analisi italiane: ci fu nel 1954 un<br />
«blocco storico»? E, se ci fu un blocco, quali ne furono le componenti? E<br />
come si attuò la necessaria neutralizzazione delle tensioni in modo che il<br />
blocco funzionasse? O non sono forse più pertinenti altre teorie, come per<br />
esempio quelle provenienti dall’area anglosassone, che prendono in<br />
considerazione i «notabili», l’élite, le «intellighenzie»?<br />
- il segmentarismo, contro il quale guerreggiarono aspramente i marxisti<br />
e che considera che la società civile come un «groviglio <strong>di</strong> solidarietà» (un<br />
matelas de solidarités, Henri Sanson) tra segmenti sociali. Tra i segmenti<br />
esistono tensioni strutturali permanenti - si veda il sistema <strong>di</strong> alleanze e <strong>di</strong><br />
opposizioni delle vallate dell’Aurès evocato da Pierre Bour<strong>di</strong>eu quando era<br />
strutturalista -, ma siffatte tensioni cesserebbero qualora un aggressore<br />
comune minacciasse l’insieme dei segmenti. L’allargamento del groviglio<br />
delle solidarietà, per intersegmentarismo, darebbe luogo alla solidarietà<br />
nazionale. Ora, la solidarietà nazionale fu più che altro un mito. Il lungo<br />
stu<strong>di</strong>o dell’insurrezione dell’Aurès (1916-17) che ho fatto molti anni fa mi<br />
porta a concludere che l’Aurès <strong>di</strong> Bour<strong>di</strong>eu era alquanto immaginario. Il<br />
che non toglie che il <strong>di</strong>scorso solidaristico resta effettivamente il quadro<br />
ideologico dell’azione degli uomini: se resistevano contro i francesi, gli<br />
uomini proclamavano <strong>di</strong> farlo in nome della solidarietà tra gruppi; se non<br />
lo facevano, avevano cattiva coscienza. Ci si può valere del lavoro <strong>di</strong><br />
168
I nove capi storici algerini del 1954<br />
Bour<strong>di</strong>eu, ma egli confonde, in Sociologie de l’Algérie, l’immaginario degli<br />
uomini con le pratiche sociopolitiche effettive.<br />
Tutte queste formalizzazioni, nonostante la loro importanza sia stata<br />
talvolta esagerata, rispecchiano una certa verità. A <strong>di</strong>re il vero, proviamo<br />
il bisogno <strong>di</strong> prendere in considerazione, con cautela e con le debite<br />
sfumature, <strong>di</strong>versi modelli <strong>di</strong> teorizzazione. Utilizzare un’unica categoria<br />
<strong>di</strong> analisi significherebbe forse rifiutare il <strong>di</strong>verso storico, ossia la<br />
molteplicità dei fattori <strong>di</strong> determinazione. Lo storico non può quin<strong>di</strong><br />
fare a meno <strong>di</strong> svolgere le necessarie indagini; deve stu<strong>di</strong>are dei casi precisi<br />
per vederci chiaro. Ed è quello che intendo fare stu<strong>di</strong>ando quello dei<br />
nove capi storici algerini del 1954.<br />
La scissione del MTLD (Mouvement pour le Triomphe des Libertés<br />
Démocratiques) tra «centralisti» e «messalisti», sancita dal congresso centralista<br />
<strong>di</strong> Algeri nell’agosto 1954, consegue al congresso messalista svoltosi in luglio<br />
a Hornu, in Belgio. Tale rottura lascia la via libera alla corrente attivista,<br />
che aveva animato l’OS (Organisation Spéciale), figlio bastardo del PPA-<br />
MTLD 1 , sgominato dalla polizia francese nel 1950. All’inizio, la decisione<br />
<strong>di</strong> rompere in modo violento con il dominio coloniale è, secondo Ben Bella,<br />
un contratto morale tra nove uomini, contratto generato dal Comitato del<br />
22 (giugno), al quale approda lo scacco del CRUA (Comité Révolutionnaire<br />
pour l’Unité et l’Action), ultimo e vano tentativo - prioritarmente<br />
antimessalista - condotto da Mohammed Bou<strong>di</strong>af nel marzo 1954 per<br />
riunificare il partito. Lo scoppio del MTLD fu un trauma terribile per i<br />
militanti. Lasciò il campo libero agli attivisti.<br />
Presentazione dei nove capi storici<br />
Hanno in comune:<br />
- l’età. Sono militanti abbastanza giovani. Hanno tra i 23 e i 42 anni. Si<br />
tratterebbe, stando alle analisi dell’americano William Quandt, <strong>di</strong> un<br />
fenomeno generazionale: giovani militanti rompono con le <strong>di</strong>visioni e con<br />
le compromissioni del passato. Ma l’età non basta a spiegare tutto, anche se<br />
fu effettivamente questa stessa generazione a dare dei soldati algerini<br />
all’esercito francese durante la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, tra cui fra i nove<br />
169
Gilbert Meynier<br />
tre sottufficiali (Ben Bella, Bou<strong>di</strong>af, Ben Boulaïd) e una recluta dei Chantiers<br />
de jeuness del regime <strong>di</strong> Vichy (Belkacem Krim).<br />
- la ruralità. Tutti sono rurali, tranne Mourad Didouche (ma anche<br />
questo sarebbe da vedere...). Didouche (nato nel 1927) è oriundo della<br />
Cabila; i suoi genitori sono emigrati ad Algeri all’inizio del Novecento.<br />
Stu<strong>di</strong>ò ad Algeri, e poi a Costantina, in una scuola tecnica, ma non ottenne<br />
successi scolastici. Figlio <strong>di</strong> bettolieri della Casbah <strong>di</strong> Algeri, è un «piccolo<br />
borghese», un outsider socioculturale: assiduo frequentatore dei bar,<br />
Didouche; che bazzicò molto con gli europei. Questo giovanotto, il minore<br />
del gruppo, appare come un adolescente amante dei piaceri. «Lo abbiamo<br />
raccolto dalle fogne», <strong>di</strong>ceva Ahmed Mahsas, il suo compagno un po’ più<br />
anziano <strong>di</strong> lui (e il suo capo ad Algeri all’epoca dell’OS). Fu il partito a<br />
dargli una veste rispettabile e ad inculcargli le virtù ritenute islamiche - in<br />
realtà rurali - <strong>di</strong> de<strong>di</strong>zione e <strong>di</strong> frugalità.<br />
- l’appartenenza sociale. Prima <strong>di</strong> entrare nel partito nazionalista, cinque<br />
<strong>di</strong> loro godono <strong>di</strong> una posizione sociale che li <strong>di</strong>stingue nettamente dalla<br />
massa.<br />
Hocine Aït Ahmed (nato nel 1926) proviene da una prestigiosa famiglia<br />
marabuttica <strong>di</strong> Cabila. È nipote dello sceicco Mohand al Hocine. Ma suo<br />
padre fu caid: un po’ come se in Italia un Visconti o un Me<strong>di</strong>ci fosse <strong>di</strong>ventato<br />
un commissario <strong>di</strong> polizia. Aït Ahmed è un grande capo <strong>di</strong> Cabila; sta alla<br />
Cabila come i Jmblatt stanno ai Drusi (anche se l’ascendenza cabile è assai<br />
dubbiosa). Negli stu<strong>di</strong>, ha superato il primo baccalauréat prima <strong>di</strong> impegnarsi<br />
nel militantismo clandestino.<br />
Mohammed Bou<strong>di</strong>af (nato nel 1919) non fa parte non della nobiltà<br />
religiosa, ma viene da una famiglia dell’antica nobiltà <strong>di</strong> spada (al jawâd),<br />
originaria <strong>di</strong> M’sila, nel Sud-Ovest costantinese, i Bou<strong>di</strong>af Sed<strong>di</strong>k. Pure lui<br />
è un declassato. Titolare del primo baccalauréat, lavorò come funzionario<br />
delle tasse prima <strong>di</strong> unirsi alla lotta clandestina nel 1946.<br />
Larbi Ben M’hi<strong>di</strong> (nato nel 1923) si colloca un bel po’ sotto. Esce da<br />
una modesta famiglia marabuttica costantinese, un cui membro fu caid ad<br />
Aïn M’lila. Anche lui è un declassato, che imputa il proprio declassamento<br />
al sistema coloniale. Dovette lavorar sodo dal cognato, sceicco Murad, a<br />
Biskra. Ha interrotto gli stu<strong>di</strong> dopo le scuole me<strong>di</strong>e.<br />
170
I nove capi storici algerini del 1954<br />
Ahmed Ben Bella (nato nel 1918), originario della provincia <strong>di</strong> Orano,<br />
fa parte della categoria dei piccoli notabili. È un rurale senza patrimonio <strong>di</strong><br />
origine, uscito da una zâwiya marocchina. La sua posizione sociale originaria<br />
deriva in gran parte dalla sua affiliazione ad una confraternita religiosa. Ha<br />
il profilo <strong>di</strong> un piccolo <strong>di</strong>gnitario <strong>di</strong> confraternita. Ha smesso <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are<br />
dopo il penultimo anno delle me<strong>di</strong>e francesi. È stato consigliere comunale<br />
<strong>di</strong> Maghnia, dove occupò per qualche tempo un piccolo posto nella polizia<br />
locale.<br />
Mostefa Ben Boulaïd (nato nel 1917), titolare soltanto del Certificat<br />
d’études (<strong>di</strong>ploma finale delle elementari), è un homo novus. La sua posizione<br />
sociale gli deriva dal successo economico. Fu presidente del sindacato dei<br />
mercanti <strong>di</strong> tessuto dell’Aurès; possiede un mulino a Lambèse (oggi Tazoult)<br />
e un’azienda <strong>di</strong> autotrasporti nel Sud della provincia <strong>di</strong> Costantina.<br />
Mohammed Khider (nato del 1912) viene da Biskra. Fu tranviere ad<br />
Algeri, dove si aggregò alla piccola élite sindacale algerina, non raramente<br />
anticamera <strong>di</strong> posti <strong>di</strong>rigenti in seno al Partito Nazionalista.<br />
Rabah Bitat, nato nel 1925 ad Ain Kerma, nella provincia <strong>di</strong> Costantina,<br />
<strong>di</strong> tutti il meno noto, esce da una modesta famiglia originaria dall’oasi del<br />
Suf, vicino al confine tunisino. Lavorò come operaio presso la manufattura<br />
dei tabacchi Bentchicou <strong>di</strong> Costantina.<br />
Belkacem Krim (nato nel 1922) è figlio <strong>di</strong> una guar<strong>di</strong>a campestre della<br />
Cabila che ebbe accesso al caidato (ma suo padre è un piccolo caid <strong>di</strong> bassa<br />
estrazione sociale).<br />
Oltre alla ruralità, tutti hanno un tratto <strong>di</strong>stintivo comune: appartengono<br />
a una classe o hanno una posizione sociale che li <strong>di</strong>stingue dalla massa.<br />
L’appartenenza <strong>di</strong> classe, vale a <strong>di</strong>re la posizione economica, non<br />
neccesariamente è determinante; viceversa, la posizione che deriva dalla<br />
<strong>di</strong>scendenza marabuttica o dall’appartenenza a una confraternita è<br />
importante. Cinque <strong>di</strong> loro portano al PPA-MTLD un «plusvalore» dal<br />
punto <strong>di</strong> visto sociale (Aït Ahmed, Bou<strong>di</strong>af, Ben M’hi<strong>di</strong>, Ben Bella, Ben<br />
Boulaïd). Gli altri quattro devono invece molto, o ad<strong>di</strong>rittura tutto, al partito<br />
(Didouche, Krim, Khider, Bitat).<br />
171
Gilbert Meynier<br />
Dunque, il profilo sociale <strong>di</strong> base non sempre è determinante. Infatti il<br />
partito si incaricò, negli ultimi quattro casi citati, <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>segnare il profilo sociale<br />
dei propri <strong>di</strong>rigenti. Ma tutti hanno una notorietà o ritengono <strong>di</strong> avere talenti<br />
incompatibili con il mantenimento della <strong>di</strong>scriminazione coloniale.<br />
- un certo livello culturale. C’è una eterogeneità e spesso una pluralità<br />
delle fonti dell’identità culturale. Soltanto due sono bravi arabisti (Aït Ahmed<br />
e Khider); Ben M’hi<strong>di</strong> è un arabista <strong>di</strong> competenza me<strong>di</strong>a. Gli altri non<br />
sono arabisti. Tutti hanno fatto le elementari francesi, cinque hanno fatto<br />
anche le me<strong>di</strong>e, due hanno il primo baccalauréat. Per livello <strong>di</strong> istruzione, si<br />
collocano molto al <strong>di</strong> sopra della massa algerina, in cui l’ottantacinque per<br />
cento dei bambini, nel 1954, non va a scuola.<br />
Tutti hanno più o meno una cultura scolastica <strong>di</strong> matrice francese. Ma<br />
culturalmente, Aït Ahmed e Bou<strong>di</strong>af si situano <strong>di</strong> molto sopra gli altri. Sono<br />
gli unici due ad avere un progetto per la società algerina dopo l’in<strong>di</strong>pendenza.<br />
Aït Ahmed legge molto; le sue letture sono numerose ed eclettiche (i<br />
classici francesi, Clausewitz, Rabindranath Tagore...); è anche un cinefilo<br />
entusiasta, amante dei film americani. Durante il suo soggiorno nel Cairo,<br />
venne denunciato dai compagni <strong>di</strong> lotta come «berbero-materialista». È<br />
anche quello che pensa il major Fathi al Dib, il capo dei servizi egiziani (al<br />
mukhabarât) incaricato dei problemi algerini. Politicamente, è praticamente<br />
un giacobino e un laico; o<strong>di</strong>a i bigotti. Preferisce il clan degli intellettuali <strong>di</strong><br />
Belcourt piuttosto che gli sbraitoni ignoranti della Casbah. Ma ha un buon<br />
senso pratico. Nelle sue memorie rivela <strong>di</strong> avere nutrito, un tempo, il<br />
desiderio <strong>di</strong> frequentare la scuola militare francese <strong>di</strong> Saint Cyr.<br />
Bou<strong>di</strong>af fu un giovane quadro <strong>di</strong>rigente (giugno 1953-febbraio 1954)<br />
della federazione francese del MTLD. Venne poi incaricato dal nascente<br />
CRUA <strong>di</strong> coor<strong>di</strong>nare i preparativi del 1° novembre. È l’unico ad insistere<br />
così tanto sulla necessità <strong>di</strong> una formazione politica <strong>di</strong> militanti che hanno<br />
secondo lui «una educazione morale più che politica».<br />
172<br />
- mentalità, principi ed orientamenti politici.<br />
Caso <strong>di</strong> Ben M’hi<strong>di</strong>: è integro, è un asceta; è affascinato dalle competenze<br />
e dalla cultura. Al congresso storico del Fronte <strong>di</strong> Liberazione Nazionale<br />
(FLN) della Soummam (agosto 1956), è impressionato dall’intellettuale<br />
organizzatore Ramdane Abbane. Di cultura me<strong>di</strong>ocre, tende a frequentare<br />
la gente colta.
I nove capi storici algerini del 1954<br />
Caso <strong>di</strong> Ben Bella: da questo punto <strong>di</strong> vista, è l’esatto contrario <strong>di</strong> Ben<br />
M’hi<strong>di</strong>. Originalmente piccolo <strong>di</strong>gnitario <strong>di</strong> confraternita, cerca <strong>di</strong> ampliare<br />
la posizione dell’uomo <strong>di</strong> religione, il ruolo <strong>di</strong> intercessore del marabù (non<br />
lo è per origine famigliare, ma si ispira a questo modello in politica). Professa<br />
vagamente <strong>di</strong> voler fare il bene anche se, per riuscirci, uno deve rassegnarsi<br />
a fare porcherie. Ai suoi occhi, la competenza è assolutamente secondaria.<br />
Obiettivo suo: dar fuoco alla miccia (ich‘âl ul fatîla) il più presto possibile.<br />
La sua è una ideologia della catarsi. Dato che il colonialismo è il male (e gli<br />
vieta <strong>di</strong> tenere la parte cui aspira), occorre rompere con urgenza e violenza<br />
con questo. L’islam professato da Ben Bella ha un taglio sociale, semplice e<br />
popolare. È il tipico populista all’algerina (e non in senso russo: si tratta qui<br />
<strong>di</strong> fare teoricamente il bene del popolo adoperando qualsiasi mezzo, non <strong>di</strong><br />
educarlo).<br />
Caso <strong>di</strong> Ben Boulaïd: è un buon organizzatore, un buon esecutore pratico;<br />
è insieme l’unico borghese - borghese <strong>di</strong> paese, s’intende - facoltoso nel<br />
gruppo e colui che più spontaneamente si conforma alla mentalità popolare.<br />
Ha vissuto quasi sempre in campagna; è l’unico a non essere rimasto mai<br />
molto a lungo a contatto con l’ambiente citta<strong>di</strong>no. Per lo più, la sua visione<br />
della società algerina è improntata all’immaginario sociale delle classi<br />
popolari.<br />
Caso <strong>di</strong> Khider: con Bitat et Krim, rappresenta coloro che sono stati<br />
promossi socialmente dal partito. Ma è l’unico fra essi ad aver portato<br />
qualcosa al partito. Ha reazioni da self-made man; ritiene <strong>di</strong> far parte <strong>di</strong> una<br />
élite non riconosciuta nella cornice coloniale. Khider è magari l’unico vero<br />
musulmano convinto, nel senso che il suo islam è insieme dotto e militante,<br />
un islam politico, maturato grazie alla frequentazione, nel Cairo, dei Fratelli<br />
Musulmani, all’epoca in cui egli era seguace <strong>di</strong> Saiyyd Qutb, autore <strong>di</strong> un<br />
celebre breviario islamico, il best-seller Ma‘âlim ul tarîq. Anche lui ha<br />
un’ideologia sociale e <strong>di</strong> rottura, ma attinge da altre fonti, più intellettuali,<br />
e più arabe, <strong>di</strong> quelle <strong>di</strong> Ben Bella.<br />
Caso <strong>di</strong> Bitat: questi dovette tutto al partito. Il partito gli fornì la<br />
possibilità <strong>di</strong> frequentare ambienti che gli sarebbero rimasti inaccessibili se<br />
non si fosse impegnato nel militantismo anticolonialista. Logicamente,<br />
l’in<strong>di</strong>pendenza fu per lui l’unico fine che gli potesse garantire il<br />
mantenimento e la consolidazione dei vantaggi acquisti. Da questo punto<br />
<strong>di</strong> vista, Bitat rappresentò l’unico caso <strong>di</strong> carriera riuscita: solo in questo tra<br />
173
Gilbert Meynier<br />
i nove capi, <strong>di</strong>ventò ministro - dei trasporti - dopo il 1962, poi presidente<br />
dell’Assemblea Nazionale.<br />
Caso <strong>di</strong> Krim: socialmente, la sua famiglia dovette tutto all’amministrazione<br />
coloniale. Per Krim, era urgente smentire le compromissioni dei familiari<br />
per potersi atteggiare da leader atten<strong>di</strong>bile <strong>di</strong> fronte alla massa del popolo <strong>di</strong><br />
Cabila. Nei cantieri della gioventù, Krim visse l’esperienza della<br />
<strong>di</strong>scriminazione. Propugnatore dei meto<strong>di</strong> sbrigativi, capogruppo attivista,<br />
qualificato nelle memorie del summentovato funzionario egiziano delle<br />
mukhabarât, Fathi al Dib, <strong>di</strong> Qabâ’ilî balîd (cabile ottuso), il lion des djebels<br />
(leone dei gebel), futuro coassassino, con i suoi colleghi colonnelli, della<br />
testa pensante e politica del FLN Ramdane Abbane - l’ideatore e<br />
l’organizzatore del congresso della Soummam - in Marocco nel <strong>di</strong>cembre<br />
1957, sarà al Cairo, poi a Tunisi l’anima del clan dei militari contro i politici.<br />
Caso <strong>di</strong> Didouche: dato un suo passato <strong>di</strong> me<strong>di</strong>ocre fama, il giovane<br />
Didouche tenne certamente a re<strong>di</strong>mersi. Alunno assai scarso, il suo primo<br />
posto fu quello <strong>di</strong> funzionario del partito. Non ne occupò altri. Socialmente,<br />
il partito non lo promosse socialmente perché la sua famiglia godeva già <strong>di</strong><br />
una <strong>di</strong>screta agiatezza. Ma il partito lo riscattò sul piano politico e morale e<br />
gli conferì una posizione rispettabile. Questo giovane attivista non vedeva<br />
l’ora <strong>di</strong> fare i conti con il colonialismo. Si <strong>di</strong>stinse innanzitutto per la propria<br />
bravura nel dar fuoco alle micce; venne usciso nel 1955, a 28 anni, e rimase,<br />
nel FLN, il giovane martire.<br />
174<br />
La rappresentatività dei nove<br />
I nove sposano le ragioni della massa in modo abbastanza fedele per<br />
poterla rappresentare; ma da questa si <strong>di</strong>stinguono quanto basta per poterla<br />
<strong>di</strong>rigere.<br />
Sono rappresentativi per la loro ruralità; uno solo viene dalla città, ma la<br />
sua famiglia vi si è inse<strong>di</strong>ata da poco. Il campione dei nove è uno spaccato<br />
abbastanza fedele dalla massa algerina.<br />
Sono rappresentativi per la ripartizione delle loro origine geografiche.<br />
7 su 9 provengono dalla metà orientale dell’Algeria; l’unico uomo dell’Ovest<br />
è Ben Bella; l’unico abitante della provincia <strong>di</strong> Algeri è Didouche. Due<br />
sono abitanti della Cabila. Cinque sono della provincia <strong>di</strong> Costantina, zona<br />
situata nella parte più remota dell’Algeria, provincia-faro dell’irredentismo
I nove capi storici algerini del 1954<br />
algerino. I costantinesi rappresentano la maggior parte della popolazione<br />
algerina; la loro provincia è quella meno popolata dagli europei; ma la<br />
destrutturazione della società costantinese ad opera del colonialismo è più<br />
recente che nelle altre zone.<br />
Le ra<strong>di</strong>ci profondamente algerine dei nove sono confermate dal fatto<br />
che nessuno dei nove ha conosciuto la ghirba (l’espatrio in Francia):<br />
nessuno che abbia lavorato come operaio in Francia tra <strong>di</strong> loro. Andarono<br />
sì in Francia, ma soltanto come funzionari del partito. La <strong>di</strong>fferenza è<br />
grande con il percorso politico <strong>di</strong> Messali Hadj, il leader della vecchia<br />
Stella Nordafricana, poi del PPA: Messali Hadj si trova in Francia dal<br />
1918; ha una conoscenza profonda della società francese; è stato iscritto<br />
al Partito Comunista; anche se poi ha rotto i rapporti con il movimento<br />
operaio francese, ne ha con<strong>di</strong>viso i valori e ne ha conservato per lo meno<br />
i modelli organizzativi. Per oltre trent’anni, la sua compagna fu Émilie<br />
Busquant, figlia <strong>di</strong> un operaio anarchico sindacalista <strong>di</strong> Neuves-Maisons,<br />
nei pressi <strong>di</strong> Nancy, in Lorena. Viceversa, la formazione dei nove è<br />
estranea al vissuto e alle rappresentazioni che formarono in parte un<br />
Messali Hadj.<br />
Rappresentativa della massa algerina è anche la scarsa <strong>di</strong>mestichezza con<br />
la cultura araba dotta, tranne che per due i loro. Altrettanto rappresentativo<br />
è tuttavia l’orgoglio <strong>di</strong> parlare la lingua araba della quale sentono <strong>di</strong> essere<br />
stati privati dai colonizzatori. Da qui la futura naturale propensione<br />
all’arabizzazione dell’Algeria in<strong>di</strong>pendente. Nonostante questo<br />
l’identificazione culturale lascia al francese uno spazio privilegiato: il francese<br />
costituisce la lingua della lotta politica, la cultura operativa.<br />
Rappresentativa della massa è pure, per i due terzi <strong>di</strong> loro, l’inconsistenza<br />
del loro pensiero politico al <strong>di</strong> là della parola d’or<strong>di</strong>ne dell’in<strong>di</strong>pendenza.<br />
Cinque o sei <strong>di</strong> loro sono armati <strong>di</strong> certezze semplici, sono innanzittutto<br />
attivisti. Cinque sono sopratutto dei party-made men o dei thawra-made<br />
men 2 : Ben Bella, Bitat, Didouche, Khider, Krim.<br />
Rappresentatività o <strong>di</strong>fferenza: tutti sono più o meno segnati dalla cultura<br />
detta musulmana. Ma vi è un solo musulmano per due laici. Per tutti, però,<br />
compreso il «marxista» Bou<strong>di</strong>af, lo slogan islamico rimane il segno <strong>di</strong><br />
riconoscimento più significativo. Pochi sono profondamente credenti, il<br />
che non esclude una tendenza alla bigotteria sociale, al contrario.<br />
Altra <strong>di</strong>fferenza: nonostante l’origine sociale eterogenea, nessuno<br />
appartiene agli spersi bassifon<strong>di</strong> rurali, o comunque nessuno vi è rimasto.<br />
Ma tutti hanno una conoscenza, almeno pratica, dei ceti rurali. Tutti hanno<br />
175
Gilbert Meynier<br />
o ritengono <strong>di</strong> aver talenti; talenti che occorre far legittimare dalla classe<br />
popolare poiché non lo ha fatto il colonizzatore razzista/stupido.<br />
Tutti hanno conosciuto una rottura <strong>di</strong> posizione sociale e/o culturale, in<br />
un senso o nell’altro: arretramento o promozione sociale. Finora è stato<br />
soprattutto il primo a destare interesse. Permette <strong>di</strong> spiegare il rancore <strong>di</strong><br />
fronte alla <strong>di</strong>scriminazione coloniale.<br />
Tre delle figure del gruppo provengono da famiglie che annoverano o<br />
hanno annoverato dei collaborazionisti coloniali (Aït Ahmed, Krim, Ben<br />
M’hi<strong>di</strong>). Donde una verosimile propensione a riscattarsi da simile<br />
ascendenza. Solo uno è un borghese facoltoso <strong>di</strong> paese. Gli spetta giustificare<br />
la propria agiatezza nei confronti della classe popolare prendendone la guida<br />
(Ben Boulaïd).<br />
Quando la promozione sociale non poté essere ottenuta me<strong>di</strong>ante gli<br />
stu<strong>di</strong> presso la scuola coloniale, questa venne sostituita dal partito. Finora,<br />
questo fenomeno <strong>di</strong> promozione sociale tramite il Partito Nazionalista è<br />
stato stu<strong>di</strong>ato poco dagli storici. Meriterebbe invece <strong>di</strong> esserlo giacché i<br />
partiti svolgono un ruolo importante nell’e<strong>di</strong>ficazione <strong>di</strong> qualsiasi burocrazia.<br />
E il FLN fu fondamentalmente un’autentica burocrazia - ed anche <strong>di</strong> più,<br />
in seguito, lo stato algerino in<strong>di</strong>pendente.<br />
176<br />
Prime considerazioni<br />
L’interclassismo o l’intersegmentarismo rappresentano ad un tempo la<br />
<strong>di</strong>fesa e illustrazione del gruppo sociale <strong>di</strong> appartenenza e della società<br />
globale. Nella lotta nazionale o nella lotta del gruppo <strong>di</strong> origine, qual è il<br />
fine e quali sono i mezzi, nella misura in cui si tratta <strong>di</strong> una lotta unica?<br />
I capi rivoluzionari aspirano - almeno inconsciamente - a formare la<br />
futura classe <strong>di</strong>rigente algerina, in una logica <strong>di</strong> sostituzione al potere<br />
coloniale. Aspirare a ciò con la Francia coloniale equivarrebbe a un suici<strong>di</strong>o<br />
sociale, tanto è rigida la barriera coloniale che <strong>di</strong>scrimina gli uomini.<br />
Il nazionalismo non è quin<strong>di</strong> un vero e proprio «interclassismo», poiché<br />
aspirazioni <strong>di</strong> classe e nazionalismo sono vettori orientati nella stessa<br />
<strong>di</strong>rezione. A lunga scadenza, l’interclassismo non deve certamente niente a<br />
un comune denominatore sociale. È percepito in quanto tale finché il<br />
colonialismo sovradeterminante conduce e falsa il gioco. Il nazionalismo<br />
non annulla mai le tensioni sociali, culturali, politiche. Le contiene entro<br />
limiti decenti - che possono anche essere indecenti, come attestano i
I nove capi storici algerini del 1954<br />
sanguinosi regolamenti <strong>di</strong> conti all’interno del FLN o tra il FLN e il MNA<br />
(partito messalista) - e rimanda al futuro l’aperto manifestarsi <strong>di</strong> tali tensioni<br />
strutturali.<br />
Nella storia del nazionalismo algerino, i primi quadri propugnatori<br />
dell’élite sociale della Federazione degli Eletti Musulmani (gli «evoluti» o<br />
Giovani Algerini) hanno perso il treno negli anni trenta. Così anche le<br />
persone <strong>di</strong> estrazione popolare emigrate appartenenti alla generazione della<br />
Stella Nordafricana.<br />
Il blocco storico protagonista del 1954 assimila dei rurali che hanno<br />
però avuto contatti con le città, privilegiati rispetto agli altri, che hanno<br />
vissuto un brusco cambiamento nella loro posizione sociale, per lo più con<br />
una scarsa cultura politica e con una propensione al moralismo e<br />
all’attivismo. Questo blocco è attento alle esigenze della classe popolare,<br />
ma si prefigge anche <strong>di</strong> unire le altre forze nazionalistiche attorno alla propria<br />
ban<strong>di</strong>era per allargare la consistenza del blocco: e così fu il FLN, rafforzato<br />
dai freni e dalle pesantezze coloniali.<br />
Conclusioni<br />
La provenienza sociale, nonché la memoria politica e la se<strong>di</strong>mentazione<br />
culturale sono importanti e determinano l’impegnarsi degli uomini. L’analisi<br />
sociale è necessaria ma non sufficiente tuttavia per spiegare la storia del<br />
nazionalismo algerino.<br />
Le formalizzazioni (lotta <strong>di</strong> classe, interclassismo, intersegmentarismo)<br />
sono indubbiamente utili: sono intuizioni interessanti legittimate da un<br />
sistema retorico (non è forse così per la maggior parte delle teorizzazioni, se<br />
non ad<strong>di</strong>rittura per tutte?). Ma devono essere combinate e verificate<br />
minuziosamente <strong>di</strong> volta in volta. E la combinazione dei molteplici parametri<br />
è in<strong>di</strong>spensabile per lo storico che non sia mosso dalla sola volontà <strong>di</strong><br />
elaborare un sistema.<br />
A sua volta, la storia dell’Algeria fornisce ragguagli sull’Algeria<br />
in<strong>di</strong>pendente: circa le tensioni tra classi e segmenti, circa il permanere delle<br />
solidarietà regionali, circa il wilayisme 3 . Anche adesso, gli alti funzionari<br />
dell’amministrazione e i capi maggiori dell’esercito algerino sono<br />
prevalentemente originari della metà orientale dell’Algeria, soprattutto della<br />
provincia <strong>di</strong> Costantina, mentre è piuttosto la gente originaria della Cabila,<br />
177
Gilbert Meynier<br />
<strong>di</strong> Tlemcen e del M’zab (regione meri<strong>di</strong>onale <strong>di</strong> Ghardaia) a <strong>di</strong>vidersi la<br />
tecnostruttura.<br />
Infine, forse non ho insistito abbastanza sulla cultura militare e sul culto<br />
dell’azione, che mostrano che l’esercito francese ebbe nella società algerina<br />
un’importanza almeno pari - e probabilmente ben superiore per la massa -<br />
a quella della scuola. Non va scordato che il servizio militare, contrariamente<br />
alla scuola, era teoricamente obbligatorio sin dal 1912, e in pratica, dal<br />
1916. Il numero <strong>di</strong> algerini ad essere passati per l’esercito francese fu assai<br />
più alto del numero <strong>di</strong> quelli che frequentarono la scuola. E soprattutto si<br />
combinò con la cultura <strong>di</strong> società profondamente me<strong>di</strong>terranee in cui il<br />
pacifismo non-violento non è ben accetto.<br />
Ad ogni modo, si tratti dell’islam o si tratti delle forme della violenza<br />
nella società, il nazionalismo algerino poggiò su un necessario ripiegamento<br />
verso forme <strong>di</strong> cultura ancestrali: necessario, in mancanza <strong>di</strong> meglio, per<br />
legittimare le audaci iniziative che si muovevano nel segno della modernità;<br />
necessario <strong>di</strong> fronte alla classe popolare per apporre sulla lotta il marchio<br />
algerino.<br />
178<br />
Note al testo<br />
1 Parti du Peuple Algérien-Mouvement pour le Triomphe des Libertés Démocratiques. Il PPA fu,<br />
nel 1937, il successore della Stella Nordafricana, proibita dal governo <strong>di</strong> Front populaire del<br />
Leon Blum. Messo fuori legge nel 1945, il MTLD <strong>di</strong>ventò, in occasione delle elezioni del<br />
1946, la faccia legale del partito.<br />
2 Thawra : la rivoluzione anticoloniale.<br />
3 Patriottismo delle wilâiyyât - i circondari regionali dell’esercito partigiano algerino.
stu<strong>di</strong> sull’europa<br />
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e<br />
autostereotipi tra Italia e Germania<br />
<strong>di</strong> Giorgio Novello<br />
Stereotipi e para<strong>di</strong>gmi<br />
Esiste - se ci si passa il bisticcio - uno stereotipo sugli stereotipi,<br />
intendendosi con questi ultimi (nel contesto <strong>di</strong> questo contributo) modalità<br />
<strong>di</strong> percezione <strong>di</strong> persone o gruppi sociali cristallizzate, rigide e spesso (ma<br />
non sempre) negative, che ostacolano una valutazione obiettiva e possono<br />
condurre ad atteggiamenti ed azioni «irrazionali». Gli stereotipi, si ritiene<br />
comunemente, sono sempre dannosi: comportano costi sociali ed economici<br />
non in<strong>di</strong>fferenti, favoriscono il consolidamento <strong>di</strong> situazioni subottimali,<br />
accrescono le tensioni specie in campo internazionale. Eppure sembrano<br />
ineliminabili. Il termine stereotipo è infatti sì relativamente recente (XVIII<br />
secolo), ed originariamente riguarda l’arte della stampa (in riferimento alle<br />
lastre <strong>di</strong> piombo che riproducono su supporto più stabile e meno facilmente<br />
usurabile le matrici composte con caratteri mobili); ma il fenomeno è antico<br />
quanto l’uomo. Un solo esempio, ma particolarmente autorevole: i Vangeli<br />
non lasciano dubbi su quali fossero gli stereotipi negativi comuni tra gli<br />
abitanti <strong>di</strong> Gerusalemme o del resto della Giudea e <strong>di</strong> cui erano vittime gli<br />
abitanti delle vicine regioni <strong>di</strong> Samaria e Galilea. Poco prima dell’arresto <strong>di</strong><br />
Gesù, a Nicodemo viene ricordato ironicamente che dalla rozza Galilea<br />
non vengono certo profeti 1 . L’impatto emotivo presso i primi ascoltatori<br />
(in Giudea) della parabola del buon samaritano 2 o dell’episo<strong>di</strong>o della donna<br />
samaritana al pozzo 3 si spiegano anche alla luce dell’immagine negativa dei<br />
samaritani stessi, ritenuti <strong>di</strong> origine e credo incerti e dubbi.<br />
Da qui la tentazione <strong>di</strong> considerare gli stereotipi come un male necessario,<br />
con cui convivere o magari sfruttare a proprio vantaggio. Questa è in fondo<br />
la tesi (applicata beninteso ad un settore ben <strong>di</strong>verso da quello qui considerato)<br />
179
Giorgio Novello<br />
<strong>di</strong> Al Ries e Jack Trout, salutata al suo apparire un quarto <strong>di</strong> secolo fa come<br />
una rivisitazione dei fondamenti stessi del marketing e da allora ampliata,<br />
adattata, ritoccata ma non più messa in <strong>di</strong>scussione: «la percezione è la realtà,<br />
e la realtà è la percezione». Nella loro opera fondamentale i due sono chiari:<br />
«La realtà che conta davvero è quella che è già nella mente del cliente. Il<br />
nostro approccio fondamentale non consiste nel produrre qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso,<br />
ma nel mo<strong>di</strong>ficare quello che è già nella testa della gente» 4 .<br />
Ma un uso mirato degli stereotipi può anche prendere la forma (talvolta<br />
meramente strumentale) della loro negazione o del loro ribaltamento spinto<br />
ad absurdum (il che equivale alla fine ad una loro conferma): l’effetto retorico<br />
è assicurato. Lo scrittore cattolico tedesco Martin Mosebach fa <strong>di</strong>re ad un<br />
suo personaggio: «L’Italia è il Paese più freddo del mondo... non in senso<br />
metereologico, ma spirituale, dei sensi, del gusto, culturale ... si può parlare<br />
<strong>di</strong> una pre<strong>di</strong>sposizione storicamente determinata degli italiani alla freddezza».<br />
Un altro suo personaggio chiosa: «In tutti i casi nei quali gli uomini del<br />
nord sono coinvolti emotivamente, gli italiani rimangono <strong>di</strong>staccati e<br />
fred<strong>di</strong>» 5 . Artificio retorico che finisce con l’assomigliare curiosamente<br />
all’esagerazione dello stereotipo positivo, al quale ricorre ad esempio<br />
(garbatamente) Friedrich Christian <strong>Del</strong>ius. Quest’ultimo mette in bocca<br />
una citazione gogoliana al protagonista del suo La passeggiata da Rostok a<br />
Siracusa, che fugge dalla DDR per visitare l’Italia ma poi rimpatria<br />
volontariamente: «L’Italia sta al resto del mondo come una giornata <strong>di</strong> sole<br />
sta ad una settimana <strong>di</strong> pioggia» 6 .<br />
Forse è possibile un approccio più sereno. Gli stereotipi possono anche<br />
essere visti nelle loro potenzialità positive, come piccoli para<strong>di</strong>gmi alla Kuhn:<br />
modalità <strong>di</strong> percezione della realtà, che <strong>di</strong> quest’ultima selezionano alcuni<br />
tratti fondamentali come riferimenti nel perseguimento <strong>di</strong> talune finalità<br />
<strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne cognitivo e pratico (or<strong>di</strong>nare e generalizzare la realtà; comprendere<br />
i nessi <strong>di</strong> causalità; anticipare, o ad<strong>di</strong>rittura prevedere, sviluppi futuri;<br />
<strong>di</strong>stinguere ciò che è importante da ciò che non lo è; in<strong>di</strong>viduare le vie<br />
migliori per raggiungere i propri fini) 7 . La semplificazione della realtà operata<br />
dai para<strong>di</strong>gmi obbe<strong>di</strong>sce ad una necessità cognitiva <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne generale. Come<br />
le carte geografiche, anche essi devono necessariamente essere selettivi: una<br />
carta geografica che riproducesse perfettamente la realtà, tutta la realtà,<br />
sarebbe inutilizzabile ed inutile. Nel momento in cui emergono altri<br />
para<strong>di</strong>gmi, più «utili» perché si <strong>di</strong>mostrano guide più affidabili alla<br />
conoscenza ed all’azione, i para<strong>di</strong>gmi ritenuti vali<strong>di</strong> fino a quel momento<br />
possono essere abbandonati; non necessariamente perché meno «veri» dei<br />
180
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
nuovi, ma perché meno idonei <strong>di</strong> questi ultimi al perseguimento degli stessi<br />
fini. In questo senso anche gli stereotipi possono quin<strong>di</strong> svolgere un ruolo<br />
come chiave <strong>di</strong> accesso graduale a realtà, in<strong>di</strong>viduali e sociali, che per<br />
definizione sono estremamente complesse. Purché, sia chiaro, si riconosca<br />
loro una funzione meramente strumentale.<br />
È questo in fondo l’approccio scelto da un certo numero <strong>di</strong> opere,<br />
apparentemente «leggere», che muovono dagli stereotipi, li mettono in<br />
<strong>di</strong>scussione, li verificano, li combattono, ne constatano i limiti ma in sostanza<br />
se ne servono appunto per decifrare realtà altrimenti incomprensibili. Nella<br />
sua versione più recente, il genere muove probabilmente dal libro <strong>di</strong> George<br />
Mikes, un ungherese che a metà degli anni quaranta descrive in modo<br />
graffiante le <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> integrazione <strong>di</strong> uno straniero in Gran Bretagna 8 , e<br />
arriva fino alle fortunatissime analisi <strong>di</strong> Severgnini sugli inglesi 9 e <strong>di</strong> Giar<strong>di</strong>na<br />
sui tedeschi 10 . Né mancano esempi <strong>di</strong> attenzione agli autostereotipi, quelli<br />
che un popolo (o un gruppo sociale) applica a se stesso, ad esempio nel<br />
libro-pamphlet del tedesco Klaus Stille sui suoi compatrioti (anche se in<br />
filigrana gli italiani vi fanno capolino come termine <strong>di</strong> riferimento:<br />
conseguenza forse della moglie italiana dell’autore; o forse perché, come si<br />
sostiene nei paragrafi che seguono, l’intensità delle correnti sotterranee che<br />
legano i due popoli forse non hanno l’eguale in Europa) 11 .<br />
L’analisi degli stereotipi richiede quin<strong>di</strong> innanzitutto un approccio <strong>di</strong><br />
tipo fattuale. È quanto cerchiamo <strong>di</strong> fare in questo contributo, de<strong>di</strong>cato ad<br />
un caso <strong>di</strong> specie particolarmente rilevante e che abbiamo già implicitamente<br />
focalizzato nelle righe che precedono: le percezioni reciproche tra tedeschi<br />
ed italiani. Su queste ultime molto è stato scritto, e proprio per sottolineare<br />
ora la stabilità, ora la flessibilità degli stereotipi. Sul primo versante, una<br />
menzione particolare merita il contributo <strong>di</strong> Elisabetta Mazza Moneta, che<br />
elabora organicamente un abbondante materiale empirico-quantitativo che<br />
<strong>di</strong>mostra come, all’inizio del terzo millennio, «tedeschi ed italiani <strong>di</strong>spongano<br />
<strong>di</strong> immagini, sia su se stessi che gli uni degli altri, che sono al contempo<br />
molto precise e stabili nel tempo» 12 . Sul secondo versante, Gherardo Ugolini<br />
propone una affascinante carrellata attraverso le non molte pagine de<strong>di</strong>cate<br />
alla Germania dalla letteratura italiana degli ultimi sessanta anni 13 .<br />
Muovendo dal neorealismo <strong>di</strong> Elio Vittorini, del primo Italo Calvino, <strong>di</strong><br />
Renata Viganò, per giungere ai giovani scrittori degli anni novanta, Ugolini<br />
<strong>di</strong>mostra come lo stereotipo del tedesco barbaro e nemico, proprio della<br />
letteratura «resistenziale» dell’imme<strong>di</strong>ato secondo dopoguerra, si evolva via<br />
via in un’immagine più complessa, dapprima <strong>di</strong> un paese privo <strong>di</strong> unità<br />
181
Giorgio Novello<br />
interna, tormentato e nevrotico (La doppia notte dei tigli <strong>di</strong> Carlo Levi,<br />
1959), successivamente <strong>di</strong> una società prospera e con maggior fiducia nel<br />
futuro (La passione <strong>di</strong> Michele <strong>di</strong> Giuseppe Fava, 1980), che assume poi<br />
venature ecologiste e pacifiste (Paso Doble <strong>di</strong> Giuseppe Culicchia, 1995) e<br />
che sfocia in una nazione finalmente in pace con se stessa, culturalmente e<br />
socialmente vibrante, anche se non sempre facile per gli stranieri (La moto<br />
<strong>di</strong> Scanderbeg <strong>di</strong> Carmine Abate, 1999). L’analisi <strong>di</strong> Ugolini conferma a sua<br />
volta un fenomeno <strong>di</strong> più ampia portata: basti ricordare come i tedeschi,<br />
considerati nel ventesimo secolo come l’incarnazione stessa del militarismo<br />
aggressivo, all’alba del <strong>di</strong>ciannovesimo (prima <strong>di</strong> Bismarck) erano visti come<br />
pacifici ed un po’ ottusi abitanti <strong>di</strong> vallate alpine e renane, militarmente<br />
inetti, simpaticamente pronti alla chiacchiera e al sentimentalismo.<br />
La polarità tra flessibilità e rigi<strong>di</strong>tà degli stereotipi costituisce la tela <strong>di</strong><br />
fondo anche <strong>di</strong> questo contributo, che peraltro muove da una prospettiva<br />
storica che prescinde da circostanze <strong>di</strong> stretta attualità e cerca piuttosto <strong>di</strong><br />
sottolineare alcune costanti. Per evitare <strong>di</strong> scadere nella cronaca (o, peggio,<br />
nella polemica spicciola), gli episo<strong>di</strong> più recenti richiamati nel testo risalgono<br />
intenzionalmente ad alcuni anni fa (ma riguardano comunque pur sempre<br />
la Germania riunificata con capitale Berlino). Sarà subito evidente peraltro<br />
che nulla hanno perso della loro freschezza e che, con pochissimi<br />
adattamenti, potrebbero benissimo aver avuto luogo oggi stesso.<br />
182<br />
Immagini e miti <strong>di</strong> fondazione<br />
Problemi reciproci <strong>di</strong> immagine rendono i rapporti italo-tedeschi,<br />
peraltro ottimi in molteplici campi, meno facili <strong>di</strong> quanto potrebbero esserlo.<br />
Ciò riemerge con particolare visibilità nella stampa. Un solo esempio,<br />
volutamente sopra le righe: Hans-Jürgen Schlamp su «Der Spiegel» del 22<br />
maggio 1999 definiva testualmente l’Italia «il campione mon<strong>di</strong>ale<br />
dell’imbroglio statistico», un paese nel quale «le ferrovie, poste ed ospedali<br />
offrono prestazioni da terzo mondo» in cui «l’efficienza del sistema bancario<br />
è pari a quella del Mali» e dove le cifre sul deficit <strong>di</strong> bilancio sono «inventate<br />
<strong>di</strong> sana pianta». Nello stesso periodo, la ADAC (il Touring Club tedesco)<br />
<strong>di</strong>stribuiva ai suoi soci in partenza per vacanze in Italia un opuscolo dal<br />
titolo Italien - oder wie kaotisch ist der Italiener (L’Italia, ovvero: quanto è<br />
caotico l’italiano), mentre la Deutsche Bank metteva in guar<strong>di</strong>a i clienti<br />
con un <strong>di</strong>segno in cui due turisti subivano uno scippo sotto la Torre <strong>di</strong> Pisa.
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
Naturalmente ogni episo<strong>di</strong>o va inserito nel suo contesto: l’articolo <strong>di</strong><br />
Schlamp era stato un incidente in un perio<strong>di</strong>co <strong>di</strong> prestigio (noto peraltro<br />
per la celebre copertina della pistola sul piatto <strong>di</strong> spaghetti), mentre la<br />
brochure dell’ADAC usava un titolo ad effetto per far leggere un testo che<br />
rivela invece affetto ed interesse per l’Italia. Soprattutto il tutto va relativizzato<br />
nel contesto più ampio della normale <strong>di</strong>alettica della vita internazionale.<br />
Qualsiasi tabloid britannico degli ultimi mesi aveva pubblicato attacchi<br />
ben più pesanti alla Germania 14 , mentre il panorama e<strong>di</strong>toriale francese si<br />
era <strong>di</strong>stinto nello stesso periodo per alcuni libri che prospettavano seriamente<br />
il rischio <strong>di</strong> nuove tentazioni egemoniche della Germania e che attirano il<br />
lettore con titoli <strong>di</strong> forte effetto 15 . Ciononostante, nel caso delle relazioni<br />
italo-tedesche il fenomeno si presenta con caratteristiche specifiche che vale<br />
la pena analizzare nelle sue ra<strong>di</strong>ci più profonde.<br />
Si può muovere da due premesse <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne più generale. Innanzitutto, sia<br />
a livello in<strong>di</strong>viduale che a livello <strong>di</strong> popoli, è perfettamente possibile la<br />
coesistenza <strong>di</strong> sentimento contrastanti verso gli «altri», siano essi persone<br />
specifiche o appunto altri popoli. È noto come in Italia e Germania vi siano<br />
anche immagini fortemente positive dell’altro paese e come tra<strong>di</strong>zionalmente<br />
vengano attribuite reciprocamente qualità particolari in determinati campi.<br />
Questo non impe<strong>di</strong>sce che al contempo vi siano immagini anche fortemente<br />
negative su altri aspetti e che queste possano convivere perfettamente, senza<br />
venirne influenzate, con quelle positive. Parimenti, nella stragrande<br />
maggioranza dei casi le immagini negative non conducono ad atteggiamenti<br />
negativi <strong>di</strong>retti specificamente verso citta<strong>di</strong>ni dell’altro paese (con la possibile,<br />
limitata eccezione <strong>di</strong> alcune aree dei Laender dell’ex-DDR, ove peraltro taluni<br />
atteggiamenti xenofobi che riguardano anche gli italiani sono in genere rivolti<br />
agli stranieri in generale ed hanno motivazioni specifiche, sociali più che<br />
economiche). È quin<strong>di</strong> legittimo e metodologicamente corretto de<strong>di</strong>care<br />
un’analisi alle percezioni negative ed alle <strong>di</strong>fficoltà nelle relazioni reciproche<br />
anche se, nella grande maggioranza dei casi, i rapporti bilaterali sia in<strong>di</strong>viduali<br />
che tra paesi sono buoni o ad<strong>di</strong>rittura ottimi.<br />
In secondo luogo, va richiamato brevemente il ruolo dei «miti <strong>di</strong><br />
fondazione» come elemento imprescin<strong>di</strong>bile nei processi <strong>di</strong> identificazione<br />
collettiva <strong>di</strong> entità sociali e qun<strong>di</strong> anche delle nazioni e degli stati. L’allora<br />
ministro federale della Cultura, Michael Naumann, nel corso <strong>di</strong> un intervento<br />
ad un convegno <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> organizzato dalla Presidenza tedesca dell’Unione<br />
Europea a Bonn, nel marzo 1999, sul tema del ruolo della storia nella<br />
formazione <strong>di</strong> un’identità europea, ne aveva sottolineato taluni aspetti <strong>di</strong> rilievo<br />
183
Giorgio Novello<br />
anche per la loro applicabilità imme<strong>di</strong>ata ad una lettura <strong>di</strong> taluni aspetti del<br />
nostro argomento: «Durante la formazione <strong>di</strong> nazioni e Stati, quasi tutti i<br />
popoli europei hanno cercato <strong>di</strong> evidenziare la propria originalità ed unicità.<br />
Tutti i miti storici sono caratterizzati da unificazione verso l’interno e<br />
separazione e <strong>di</strong>stinzione verso l’esterno. Essi cercano <strong>di</strong> giustificare l’unità <strong>di</strong><br />
tutti i membri della comunità in un solo gruppo omogeneo, invocando se<br />
possibile un’origine <strong>di</strong>vina o, quantomeno, una genesi storica che risalga ad<br />
una comunità originaria. I miti assolvono anche alla funzione <strong>di</strong> tracciare<br />
confini rispetto ad altri popoli e i loro miti, svolgendo quin<strong>di</strong> un ruolo centrale<br />
nel plasmare le identità nazionali e fungendo da strumenti poderosi <strong>di</strong><br />
promozione dell’autocoscienza collettiva. Il rivivere comunitario <strong>di</strong> gran<strong>di</strong><br />
momenti del passato rappresenta una parte significativa della vita delle nazioni,<br />
che tornano alla fonte delle loro rispettive esistenze collettive attraverso<br />
celebrazioni, anniversari, commemorazioni <strong>di</strong> ogni genere. A seconda delle<br />
circostanze e dei momenti storici, queste autoidentificazioni collettive possono<br />
condurre a scontri con altre nazioni e con le autoidentificazioni collettive <strong>di</strong><br />
queste ultime». Resta però vero, chiosa Naumann evocando il tema centrale<br />
<strong>di</strong> questo contributo, che «i miti nazionali introducono un elemento <strong>di</strong> rigi<strong>di</strong>tà<br />
nella percezione <strong>di</strong> altri popoli e nazioni ed introducono automatismi che<br />
rendono meno facile la comprensione reciproca» 16 .<br />
Impossibile dar torto a Naumann su quest’ultimo punto. Una volta posti<br />
in essere, i miti <strong>di</strong> cui sopra tendono infatti ad essere molto resistenti e a<br />
sopravvivere spesso annidati al <strong>di</strong> sotto del livello <strong>di</strong> coscienza, sicché i loro<br />
effetti si avvertono molto dopo che essi hanno cessato <strong>di</strong> essere esplicitamente<br />
e <strong>di</strong>rettamente utilizzati come mezzi per la promozione dell’identità<br />
nazionale. Nel caso <strong>di</strong> specie, per il momento in relazione alla sola Germania:<br />
i miti collettivi tedeschi del <strong>di</strong>ciannovesimo secolo (la vittoria sui Romani<br />
nella foresta <strong>di</strong> Teutoburgo, le gesta del Barbarossa) hanno da tempo perso<br />
il loro potenziale aggressivo 17 ; ma, si può proseguire, essi continuano ad<br />
agire ancora in modo in<strong>di</strong>retto, contribuendo ancora a plasmare la percezione<br />
<strong>di</strong> sé dei tedeschi e quin<strong>di</strong> i loro rapporti con altri popoli. Considerazioni<br />
analoghe vanno effettuate per gli italiani, come si vedrà in seguito.<br />
Queste due premesse vanno tenute costantemente presenti<br />
nell’analizzare un elemento fondamentale delle relazioni italo-tedesche.<br />
Tra tutti i principali paesi dell’occidente industrializzato, Italia e Germania<br />
sono quelli che probabilmente vivono con maggiore <strong>di</strong>fficoltà il loro<br />
rapporto con se stessi. Tra le ragioni comunemente addotte al riguardo<br />
vi sono il forte ritardo del processo <strong>di</strong> riunificazione nazionale rispetto<br />
184
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
alle altre gran<strong>di</strong> nazioni europee, che ha condotto ad un debole senso <strong>di</strong><br />
identità nazionale in Italia e ad una continua ricerca <strong>di</strong> un’identità comune<br />
in Germania; le forti identità regionali derivanti anche, in entrambi i<br />
paesi, dalla <strong>di</strong>somogeneità delle esperienze storiche passate; e nel caso<br />
della Germania i rapporti storicamente conflittuali con i paesi vicini.<br />
Come per gli in<strong>di</strong>vidui, anche per i paesi vale la regola per cui più debole<br />
è il senso <strong>di</strong> identità in<strong>di</strong>viduale maggiori sono le <strong>di</strong>fficoltà nella relazione<br />
con l’esterno e maggiore è la valenza emotiva <strong>di</strong> quest’ultima, al punto<br />
da prendere talvolta il sopravvento su una valutazione oggettiva della<br />
realtà. L’incontro tra Italia e Germania si trasforma così alle volte in un<br />
incontro tra due incertezze, che induce a scaricare sull’altro il peso della<br />
propria insicurezza (che nel caso concreto può essere per l’Italia il timore<br />
<strong>di</strong> non ottenere il riconoscimento del suo effettivo potenziale sulla scena<br />
internazionale e per la Germania <strong>di</strong> non essere accettata come un paese<br />
normale ma <strong>di</strong> restare per sempre un «sorvegliato speciale») 18 . Il <strong>di</strong>alogo<br />
bilaterale così ne soffre e i suoi frutti restano inferiori alle potenzialità,<br />
nonostante non vi siano probabilmente altri gran<strong>di</strong> paesi in Europa con<br />
una storia comune paragonabile a quella che unisce Germania ed Italia<br />
(senza che ciò corrisponda necessariamente alla maturazione <strong>di</strong> una<br />
conoscenza storica reciproca altrettanto approfon<strong>di</strong>ta). In particolare,<br />
non esistono altri gran<strong>di</strong> paesi in Europa che per secoli abbiano convissuto<br />
all’interno della stessa struttura politica e che abbiano avuto l’uno per<br />
l’altro la stessa viscerale attrazione che è intercorsa tra Germania ed Italia.<br />
Eventi come le due guerre mondali, l’alleanza tra fascismo e nazismo,<br />
l’occupazione tedesca dell’Italia nel 1943, la resistenza e la sua<br />
celebrazione nell’Italia del dopoguerra, l’emigrazione italiana in<br />
Germania, le vacanze trascorse in Italia dai tedeschi e ora la grande<br />
mobilità all’interno dello spazio europeo, hanno plasmato in modo<br />
decisivo le immagini reciproche; ma si innestano in un sistema <strong>di</strong> relazioni<br />
molto più antico e su immagini reciproche che obbe<strong>di</strong>scono a meccanismi<br />
con ra<strong>di</strong>ci molto più profonde, <strong>di</strong> cui occorre tener adeguato conto nel<br />
giu<strong>di</strong>care la tenacia <strong>di</strong> taluni stereotipi e la <strong>di</strong>fficoltà a correggere<br />
meccanismi se<strong>di</strong>mentati e consolidati da molto più delle quattro o cinque<br />
generazioni del secolo scorso. In particolare, l’arcaicità <strong>di</strong> certe immagini<br />
reciproche può spiegare perché esse resistano anche alla mo<strong>di</strong>fica della<br />
realtà <strong>di</strong>mostrando al contempo una certa flessibilità e capacità <strong>di</strong><br />
adattamento ai «bisogni» ideologici e politici del momento. Grosse e<br />
Trautmann sottolineano al riguardo i <strong>di</strong>versi «accenti» che gli stessi<br />
185
Giorgio Novello<br />
stereotipi (od autostereotipi) possono ricevere in epoche <strong>di</strong>verse, pur in<br />
presenza <strong>di</strong> una sostanziale continuità 19 .<br />
186<br />
Germania e Italia: esse est percipi?<br />
Sul tema delle immagini reciproche tra Italia e Germania non esiste<br />
ancora una ricerca storica completa 20 . Il tema è, nonostante l’apparenza,<br />
molto concreto. Come ricordato all’inizio <strong>di</strong> questo contributo,<br />
l’immagine è ben più <strong>di</strong> una semplice «illusione ottica». Per Grosse e<br />
Trautmann essa è una «costruzione cognitivo-psicologica» (kognitivpsychologisches<br />
Konstrukt) dotata <strong>di</strong> vita propria, naturalmente ra<strong>di</strong>cata<br />
nella <strong>di</strong>fferenza tra le proprietà oggettive <strong>di</strong> una data entità (nel nostro<br />
caso popoli e nazioni) e la riproduzione soggettiva degli stessi da parte <strong>di</strong><br />
determinati gruppi umani sulla base <strong>di</strong> criteri a loro propri e quin<strong>di</strong><br />
manipolabile, come <strong>di</strong>mostrato ampamente da ogni <strong>di</strong>ttatura 21 . Il materiale<br />
empirico comunque raccolto ed analizzato in stu<strong>di</strong> settoriali consente<br />
qualche riflessione <strong>di</strong> carattere generale, che è quanto si cercherà <strong>di</strong> fare<br />
nei paragrafi che seguono, nei quali si ricorrerà il più possibile ad esempi<br />
concreti. Va sottolineato come le relazioni culturali tra le due nazioni<br />
precedano, ovviamente, quelle tra i due giovani Stati nazionali sorti così<br />
tar<strong>di</strong>, e come le relazioni culturali stesse costituiscano la base su cui si<br />
innestano i rapporti più specificamente politici a partire dal 1860-1870.<br />
Va anche sottolineata l’asimmetria tra le percezioni tedesche e le percezioni<br />
italiane, in quanto queste riguardano non solo il modo <strong>di</strong> rapportarsi<br />
all’altro popolo («eterostereotipo») ma anche a se stessi («autostereotipo»).<br />
Anche gli autostereotipi sono importanti nelle relazioni bilaterali, nel quale<br />
ha importanza sostanziale il concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziazione. Allorché due<br />
popoli ritengono <strong>di</strong> essere simili, l’autoidentità, che non può basarsi<br />
efficacemente sull’autopercezione, si basa sulla percezione dell’altro come<br />
<strong>di</strong>verso e quin<strong>di</strong> sull’eterotipo. Nel caso dei tedeschi, la ricerca empirica<br />
ha <strong>di</strong>mostrato la grande importanza della percezione <strong>di</strong> sé incentrata su<br />
caratteristiche positive della collettività, seppure in presenza anche <strong>di</strong><br />
elementi negativi. Martin Greiffenhagen cita ricerche del 1959, del 1978<br />
e del 1988, nelle quali, sia pure in mo<strong>di</strong> e con intensità decrescente, i<br />
tedeschi si <strong>di</strong>mostravano i più convinti tra tutti i principali paesi occidentali<br />
delle loro qualità collettive (Volkseigenschaften), ed al contempo i meno
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
orgogliosi della propria nazionalità 22 . Altre ricerche sembrano in<strong>di</strong>care<br />
che per gli italiani sia vero esattamente il contrario.<br />
Il dato <strong>di</strong> fondo da approfon<strong>di</strong>re è proprio questa singolare compresenza<br />
<strong>di</strong> due elementi apparentemente inconciliabili: la persistenza <strong>di</strong> molteplici<br />
modalità <strong>di</strong> percezione non positive da un lato, una vasta esperienza storica<br />
comune (che si traduce anche in profonda attrazione reciproca) dall’altro.<br />
Gli esempi puntuali utilizzati nel prosieguo cercheranno appunto <strong>di</strong><br />
sottolineare la persistenza <strong>di</strong> certi meccanismi da una fase storica all’altra.<br />
Le parole pesano. Espressioni apparentemente ano<strong>di</strong>ne sono in realtà<br />
ancora profondamente cariche <strong>di</strong> emotività. Gli italiani parlano <strong>di</strong> «invasioni<br />
barbariche»: un termine carico <strong>di</strong> tensione, che sottintende una civiltà<br />
superiore che cade preda <strong>di</strong> popoli più forti fisicamente ma culturalmente<br />
più rozzi. I tedeschi parlano invece <strong>di</strong> «migrazioni <strong>di</strong> popoli»<br />
(Voelkerwanderunge): un concetto neutro, che si concentra in modo asettico<br />
su <strong>di</strong> un dato <strong>di</strong> fatto, minimizza le violenze ed i traumi che tali migrazioni<br />
hanno implicato e non mette necessariamente ed imme<strong>di</strong>atamente in dubbio<br />
(come fa invece l’altro termine) la legittimità storica, morale e giuri<strong>di</strong>ca<br />
dell’accaduto.<br />
Qualunque ne sia la denominazione, l’inse<strong>di</strong>amento dei germani sul<br />
suolo romano fu un evento traumatico che si tradusse in relazioni <strong>di</strong>fficili<br />
tra le due popolazioni. Diverse sono le testimonianze scritte che testimoniano<br />
le continue frizioni tra popolazioni latine e i germani sopravvenuti. È noto<br />
il ritornello in latino e tedesco, che vuol essere offensivo verso i «romani»,<br />
conservato in un glossario romanzo-bavarese del IX secolo («glosse <strong>di</strong><br />
Kassel»):<br />
Stulti sunt romani<br />
Sapunti sunt paioari [bavaresi]<br />
Mo<strong>di</strong>ca est sapientia in roman[is]<br />
Plus habent stultitia quam sapientia 23 .<br />
Più che i versi, che sono una comunissima espressione della <strong>di</strong>fficoltà<br />
della convivenza tra genti <strong>di</strong>verse, è interessante il termine con cui in è<br />
tradotto il termine «romano» nel tedesco del IX secolo: «Walha», destinato<br />
ad avere una enorme fortuna e ad assumere connotazioni spregiative. Ad<br />
esempio, nel coro finale dei Mastri Cantori <strong>di</strong> Norimberga <strong>di</strong> Wagner, i<br />
protagonisti gioiscono per la vittoria sulla perfi<strong>di</strong>a latina (welsche Treue);<br />
al contempo però invocano prosperità per il Sacro Romano Impero,<br />
termine col quale viene ovviamente intesa la nazione tedesca ma che ci<br />
187
Giorgio Novello<br />
offre comunque un interessante caso <strong>di</strong> convivenza tra la deferenza verso<br />
l’ideale della romanità da una parte e il <strong>di</strong>sprezzo per i popoli latini<br />
contemporanei dall’altra. Oggi, il termine «welsch» o «walsch», largamente<br />
usato nella Germania meri<strong>di</strong>onale, in Austria e in Alto A<strong>di</strong>ge come<br />
sinonimo <strong>di</strong> «italiano», ha un significato spregiativo. «Die Walsche» è ad<br />
esempio il titolo del più riuscito romanzo dello scrittore altoatesino Joseph<br />
Zoderer, de<strong>di</strong>cato alla <strong>di</strong>fficile convivenza tra i gruppi etnici appunto in<br />
Alto A<strong>di</strong>ge e tradotto in italiano col titolo neutro (ma errato poiché la<br />
vicenda si svolge in realtà a Bolzano) «La meranese» 24 . Che però,<br />
nonostante le <strong>di</strong>ffidenze reciproche, germani e latini trovassero il modo<br />
<strong>di</strong> convivere, è confermato dalle stesse «Glosse <strong>di</strong> Kassel», che contengono<br />
anche quello che sembra un manuale <strong>di</strong> conversazione su tematiche <strong>di</strong><br />
uso quoti<strong>di</strong>ano, ad esempio: «<strong>di</strong>mmi come si <strong>di</strong>ce questo» (in<strong>di</strong>ca meo<br />
quomodo nomen habet homo iste - sage mir uueo namun habet deser man)<br />
oppure «tagliami la barba» (ra<strong>di</strong> meo parba - skir minan part) o ancora<br />
«tagliami i capelli» (tun<strong>di</strong> meo capilli - skir min fahs).<br />
Anche in italiano si trovano numerosi esempi della persistenza <strong>di</strong><br />
determinati termini, spesso con senso negativo. Innanzitutto le ra<strong>di</strong>ci<br />
germaniche recepite in italiano a seguito delle invasioni barbariche hanno<br />
<strong>di</strong> solito un significato negativo (fetore, stamberga), abnorme rispetto al<br />
termine or<strong>di</strong>nario (zanna, da Zahn, rispetto a dente) o comunque legata<br />
alla violenza (guerra, faida, ordalia, usbergo, agguato, armi bianche) 25 .<br />
Le eccezioni (guardare, guancia) sono poche e si spiegano con la necessità<br />
<strong>di</strong> sostituire i termini latini corrispondenti spesso <strong>di</strong>venuti omofoni <strong>di</strong> altri.<br />
Ancora oggi, millecinquecento anni dopo l’arrivo <strong>di</strong> Teodorico in Italia,<br />
una lingua incomprensibile viene detta «ostrogoto». O ancora, come del<br />
resto in tedesco, un comportamento particolarmente violento ed irrazionale<br />
viene detto «vandalico». A questo proposito può esser ricordata una<br />
campagna promozionale del Comune <strong>di</strong> Roma dei tar<strong>di</strong> anni novanta, intesa<br />
a rafforzare il senso civico dei romani (<strong>di</strong> oggi): «un romano non può essere<br />
un vandalo». Lo slogan, sicuramente molto riuscito, parrebbe postulare<br />
che ancora oggi l’abitante me<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Roma conserva una qualche reminiscenza<br />
(non <strong>di</strong>retta ma veicolata dalla scuola) del saccheggio <strong>di</strong> Roma del quinto<br />
secolo d.C. ad opera dei vandali <strong>di</strong> Alarico e si ritiene inconsciamente l’erede<br />
e il depositario <strong>di</strong> una cultura superiore a quella delle orde germaniche<br />
calate dal Nord. Lo slogan del Comune <strong>di</strong> Roma faceva leva appunto su<br />
questo senso <strong>di</strong> identificazione/<strong>di</strong>stinzione, puntando sul fatto che esso abbia<br />
una eco emotiva ancora sufficiente ad influire su comportamenti quoti<strong>di</strong>ani.<br />
188
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
Vi si percepiscono ancora gli echi delle immagini della letteratura classica:<br />
il «furor teutonicus» <strong>di</strong> Lucano 26 ripreso dal «tedesco furor» <strong>di</strong> Petrarca 27 e,<br />
successivamente, nelle ultime parole del Principe <strong>di</strong> Machiavelli.<br />
Piergiuseppe Scar<strong>di</strong>gli del resto ricorda come l’immagine-tipo del germano<br />
(alto, biondo o rosso, dagli occhi azzurri), l’antitesi nord-sud (da una parte<br />
il sole che splende e la vita facile, dall’altra tristezza e paesaggio desolato),<br />
quelle attitu<strong>di</strong>ni militari «<strong>di</strong> cui l’Europa tutta doveva poi fare prolungata<br />
esperienza», risalgano a Tacito 28 .<br />
Nei paragrafi introduttivi si è fatto riferimento alla funzione dei miti <strong>di</strong><br />
fondazione e alla loro antichità. La realtà storica è al massimo un punto <strong>di</strong><br />
partenza, che viene liberamente riplasmato e «rivissuto». Nei paragrafi che<br />
seguono si sottolinea come le stesse due vicende (le battaglie della selva <strong>di</strong><br />
Teutoburgo e <strong>di</strong> Legnano) siano <strong>di</strong>venute, naturalmente in modo inverso<br />
per tedeschi ed italiani, un momento collettivo fondante e un trascurabile<br />
incidente storico <strong>di</strong> cui è <strong>di</strong>fficile financo conservar traccia (a cominciare<br />
dai libri <strong>di</strong> storia).<br />
Il primo episo<strong>di</strong>o riguarda il capo germano Arminio o Hermann, che<br />
aveva ottenuto la citta<strong>di</strong>nanza romana e militava come ufficiale nell’esercito<br />
imperiale ma che, che nell’anno 9 d.C., attaccò <strong>di</strong> sorpresa e <strong>di</strong>strusse tre<br />
legioni romane nella foresta <strong>di</strong> Teutoburgo (Teutoburgensis saltus),<br />
provocando il contrattacco romano degli anni 14-16 sotto la guida <strong>di</strong><br />
Germanico, figliastro dell’imperatore Tiberio, che nel 16 celebrerà a Roma<br />
il trionfo per le sue vittorie in Germania, e finendo per essere assassinato<br />
dai suoi stessi uomini. Le vicende sono descritte magistralmente da Tacito 29<br />
che nei germani vede ancora presenti quelle virtù che avevano reso grande<br />
Roma 30 . Tacito è il primo glorificatore <strong>di</strong> Arminio, che egli finisce «liberator<br />
haude Germaniae» (senza dubbio liberatore <strong>di</strong> tutta la Germania) 31 .<br />
In<strong>di</strong>menticabile è la descrizione dell’incontro tra Arminio e il fratello, che<br />
continuava a servire come ufficiale nell’esercito romano, che lodano ciascuno<br />
la propria scelta <strong>di</strong> vita e finiscono per rendersi conto <strong>di</strong> appartenere a due<br />
mon<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi ed incomunicabili 32 . Tacito resta comunque relativamente<br />
isolato: non molti sono i classici che si soffermano sul mondo germanico<br />
prima degli sconvolgimenti del V secolo 33 .<br />
La figura <strong>di</strong> Arminio <strong>di</strong>struttore dei soldati <strong>di</strong> élite dell’allora superpotenza<br />
militare rimane una costante nella storia dei germani e riacquista visibilità nel<br />
<strong>di</strong>ciannovesimo secolo, con il risvegliarsi della coscienza nazionale. Ne parla<br />
Fichte nei suoi Discorsi alla nazione tedesca, sostenendo che non solo la storia<br />
della Germania, ma l’intera storia del mondo sarebbe stata <strong>di</strong>versa se Arminio<br />
189
Giorgio Novello<br />
con la sua vittoria non avesse impe<strong>di</strong>to la conquista romana <strong>di</strong> territori tedeschi<br />
tra Reno ed Elba 34 . Ma il culto <strong>di</strong> Arminio raggiunge il punto culminante<br />
durante il secondo impero tedesco, col monumento (<strong>di</strong> quasi 54 metri) opera<br />
<strong>di</strong> Ernst von Bandel ed inaugurato da Guglielmo I il 16 agosto 1875 sulla cima<br />
del Grotenburg, a sud-ovest <strong>di</strong> Detmold. La statua del capo germanico, <strong>di</strong> nove<br />
metri <strong>di</strong> altezza, rivolge al cielo una spada sguainata recante la scritta Deutschlands<br />
Einigkeit meine Staerke-meine Staerke Deutschlands Macht e guarda ad Occidente<br />
(dove una volta erano le legioni romane e all’epoca i francesi). Ai pie<strong>di</strong> della<br />
statua, le parole <strong>di</strong> Tacito (tranne quelle relative all’assassinio <strong>di</strong> Arminio da<br />
parte dei suoi stessi compagni, ansiosi <strong>di</strong> concludere un accordo con Roma).<br />
Hermann è tuttora una figura ben nota nell’immaginario collettivo tedesco. Il<br />
monumento <strong>di</strong> Detmold resta una meta turistica non del tutto secondaria, che<br />
celebra ancora quella che è presentata come la sconfitta più grave <strong>di</strong> tutta la<br />
storia militare romana, che <strong>di</strong>strusse in un colpo solo un quinto dell’intero<br />
esercito imperiale e che inflisse alle legioni un colpo dal quale esse non si<br />
risollevarono mai del tutto. Non meno <strong>di</strong> settecento teorie sono state avanzate<br />
circa l’esatta localizzazione del teatro della battaglia: segno questo <strong>di</strong> un enorme<br />
interesse. Nel corso del Novecento sono stati pubblicati non meno <strong>di</strong> ventidue<br />
opere <strong>di</strong> narrativa aventi ad oggetto le gesta <strong>di</strong> Arminio; solo nel 1998, tra titoli<br />
originali e ristampe, sono apparsi non meno <strong>di</strong> cinque nuovi titoli 35 . Si tratta in<br />
genere <strong>di</strong> opere che non brillano per ricostruzione obiettiva dei fatti; fa eccezione<br />
in parte l’opera <strong>di</strong> Jutta Laroche, che non nasconde come Arminius all’epoca<br />
della battaglia <strong>di</strong> Teutoburgo fosse ancora ufficiale romano, circostanza che<br />
nelle altre opere viene in genere omessa probabilmente per allontanare possibili<br />
accuse <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>mento.<br />
Considerazioni speculari possono essere formulate sul secondo mito <strong>di</strong><br />
fondazione qui considerato: la sconfitta <strong>di</strong> Federico Barbarossa a Legnano. Il<br />
Barbarossa rappresenta una figura significativa per l’immaginario collettivo<br />
tedesco, nel me<strong>di</strong>oevo, nell’epoca guglielmina e ancora durante il Terzo Reich<br />
(si pensi all’operazione «Barbarossa»). Per gli italiani, il suo ricordo rimane<br />
legato invece appunto alla battaglia del 1176, in cui l’Imperatore venne<br />
pesantemente sconfitto da una coalizione <strong>di</strong> Comuni italiani guidati da Milano.<br />
La battaglia <strong>di</strong> Legnano venne glorificata durante il Risorgimento come esempio<br />
<strong>di</strong> concor<strong>di</strong>a e valore nazionale. Naturalmente anche a Legnano vi è un<br />
monumento, eretto nel 1876 quasi contemporaneamente a quello tedesco ad<br />
Arminio; e anche la battaglia è cantata dalla letteratura (italiana) ottocentesca<br />
che <strong>di</strong> fatto equipara tedeschi ed austriaci («a lancia e spada, a lancia e spada il<br />
Barbarossa in campo» del Carducci). Lo stesso Manzoni parla <strong>di</strong> «germani»,<br />
190
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
intendendo ovviamente gli austriaci, nella sua composizione più esplicitamente<br />
risorgimentale (Marzo 1821). Ancora oggi non c’è oggi citta<strong>di</strong>na della Lombar<strong>di</strong>a<br />
che non abbia una via o una piazza intitolata alla Lega Lombarda 36 .<br />
È <strong>di</strong>fficile, oggi, valutare se e in che modo questi miti influiscano ancora<br />
sull’atteggiamento reciproco <strong>di</strong> italiani e tedeschi. Si possono però<br />
formulare due considerazioni generali. Da una parte, né il mito tedesco<br />
<strong>di</strong> Arminio né quello italiano della battaglia <strong>di</strong> Legnano sono sorti<br />
intenzionalmente «contro» l’altra nazione. Come si è sottolineato, il loro<br />
obiettivo era quello comune a tutti i miti <strong>di</strong> fondazione: accre<strong>di</strong>tare<br />
l’esistenza <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ci comuni per popoli caratterizzati invece nella realtà<br />
storica da un grado più o meno elevato (e nel caso <strong>di</strong> specie piuttosto<br />
elevato) <strong>di</strong> frammentazione e <strong>di</strong>visione. Quando, in un secondo momento<br />
(logico o cronologico) gli stessi miti vengono utilizzati «contro» una<br />
popolazione <strong>di</strong>versa, quest’ultima non sempre coincide con quella nei<br />
cui confornti ha avuto luogo l’originario episo<strong>di</strong>o storico nella sua attualità:<br />
Arminio viene recuperato in chiave antifrancese, la battaglia <strong>di</strong> Legnano<br />
in chiave antiaustriaca. D’altra parte, la stessa straor<strong>di</strong>naria resistenza <strong>di</strong><br />
questi specifici miti collettivi rende <strong>di</strong>fficile contestare il fatto che questi<br />
lontani episo<strong>di</strong>, non per sé ma appunto per la lettura storica fattane, hanno<br />
contribuito ancora in tempi non lontani a plasmare l’autopercezione dei<br />
due popoli. L’uno ad esempio ne è stato rafforzato nella convinzione della<br />
propria superiorità collettiva, l’altro nella grandezza delle sue potenzialità<br />
dovute ad un’ere<strong>di</strong>tà culturale e storica senza pari, potenzialità che possono<br />
<strong>di</strong>venire reali in caso <strong>di</strong> convergenza, anche per breve tempo, delle proprie<br />
forze su <strong>di</strong> un obiettivo comune.<br />
Nonostante tutto, una storia comune<br />
La persistenza <strong>di</strong> immagini reciproche negative, sia pure motivate più<br />
dall’aspirazione ad autodefinirsi che da vera ostilità, coesiste peraltro con<br />
una storia per lunghi tratti con<strong>di</strong>visa, peraltro troppo nota perché sia<br />
necessario de<strong>di</strong>carvi qui più che qualche cenno. Il Sacro Romano Impero,<br />
dall’incoronazione <strong>di</strong> Ottone il Grande (962) almeno fino alla morte dello<br />
jesino Federico II (1250) e al tramonto della sua corte siculo-germanica, fu<br />
essenzialmente una struttura italo-tedesca. Come tensione ideale lo rimase<br />
però anche dopo, grazie anche alla mancanza <strong>di</strong> senso storico dei me<strong>di</strong>evali<br />
che in esso vedevano davvero la prosecuzione dell’antico impero romano<br />
191
Giorgio Novello<br />
ma che, muovendo proprio da esso, furono capaci <strong>di</strong> teorizzazioni<br />
ar<strong>di</strong>tamente originali. Dante, che invoca la <strong>di</strong>scesa in Italia dell’Imperatore<br />
tedesco 37 , appare politicamente arcaico, ma in realtà elabora i dati empirci<br />
del suo tempo in una visione lucidamente innovativa. Così come le teorie<br />
sulla sovranità popolare <strong>di</strong> Marsilio da Padova, probabilmente il maggior<br />
pensatore politico me<strong>di</strong>evale, vedono la luce alla corte dell’imperatore<br />
germanico Ludovico il Bavaro, ancora venerato in Baviera come uno dei<br />
co-fondatori dell’identità regionale <strong>di</strong> quel Land 38 .<br />
Ugualmente fondamentale è il comune ricorso al <strong>di</strong>ritto romano,<br />
recuperato, interpretato ed applicato come <strong>di</strong>ritto vigente dell’impero<br />
romano-germanico proprio in base al postulato che quest’ultimo fosse la<br />
continuazione <strong>di</strong> quello romano e che quin<strong>di</strong> poggiasse sullo stesso corpo<br />
normativo. In quest’opera si <strong>di</strong>stinsero le Università italiane già<br />
nell’un<strong>di</strong>cesimo secolo, Bologna e Padova soprattutto, attraverso le scuole<br />
dei glossatori e dei commentatori, intensamente frequentate anche da<br />
studenti germanici almeno fino alla fondazione, sull’esempio italiano, <strong>di</strong><br />
centri universitari per lo stu<strong>di</strong>o del <strong>di</strong>ritto (Heidelberg in primis). Di quei<br />
tempi rimangono numerose testimonianze anche <strong>di</strong> cronaca minuta, in<br />
particolare sui rapporti anche personali (non sempre facili ma costanti ed<br />
intensi) tra studenti tedeschi ed italiani. Interessante al riguardo è ad<br />
esempio la testimonianza <strong>di</strong> Gottfried Conratter, studente a Padova tra il<br />
1557 e il 1578, molto critico nei confronti del suo paese ospite e della<br />
<strong>di</strong>dattica dell’Ateneo patavino 39 . Per lunghi secoli, proprio grazie al travaso<br />
universitario tra Italia e Germania, il <strong>di</strong>ritto romano tornò ad essere<br />
effettivamente <strong>di</strong>ritto vigente: il Tribunale camerale dell’Impero<br />
(Reichskammergericht) istituito a Wetzlar (la città dove più tar<strong>di</strong> l’avvocato<br />
Goethe conobbe Lotte) nel 1495, applicava i <strong>di</strong>ritti romano e canonico<br />
(quest’ultimo a sua volta emanazione <strong>di</strong>retta <strong>di</strong> quello romano) ed era<br />
composto per almeno la metà da esperti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto romano 40 . Come <strong>di</strong>ritto<br />
suppletivo il <strong>di</strong>ritto romano rimase in vigore in Germania fino al 1901.<br />
Il patrimonio giuri<strong>di</strong>co comune italo-tedesco (esteso anche ad altri Paesi<br />
europei non sulla base della potestà <strong>di</strong>retta dello Stato ma esclusivamente<br />
grazie al prestigio da esso acquisito e all’alto livello scientifico delle varie<br />
scuole giuri<strong>di</strong>che) costituisce una base sulla quale il nuovo jus europeum<br />
introdotto dalla Comunità Europea ha potuto in pochi decenni attecchire<br />
e, spesso in via giurisprudenziale (e quin<strong>di</strong> proprio sulla base <strong>di</strong> quei<br />
principi generali ampiamente forgiati dalla lunga e comune frequentazione<br />
del <strong>di</strong>ritto romano) integra o sostituisce ormai in parte rilevante i singoli<br />
192
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
<strong>di</strong>ritti nazionali. In questo senso, la progressiva realizzazione <strong>di</strong> un sistema<br />
giuri<strong>di</strong>co europeo non rappresenta una rivoluzione ma semplicemente<br />
un ritorno all’antico, quell’antico che era stato temporaneamente messo<br />
in ombra, ma non cancellato, dall’enfasi ottocentesca sullo stato nazionale<br />
e, poco prima, dall’ideologia illuministica della co<strong>di</strong>ficazione nazionale<br />
delle leggi.<br />
Un cenno va fatto anche all’uso comune della lingua latina. Keplero<br />
scrive ancora in latino i suoi Astronomia Nova, Harmonice Mun<strong>di</strong>, Epitome<br />
Astronomiae Copernicanae, Leibniz scrive in latino ancora una parte<br />
significativa delle sue opere (De arte combinatoria, Demonstrationes catholicae,<br />
Hypothesis physica nova de rerum originatione...); alla famosa abbazia <strong>di</strong><br />
Maulbronn Hoelderlin venne educato totalmente, e dopo <strong>di</strong> lui Hermann<br />
Hesse parzialmente, in latino. L’uso <strong>di</strong> una lingua comune non significa<br />
solo maggiore facilità <strong>di</strong> circolazione <strong>di</strong> testi e documenti e semplificazione<br />
delle relazioni personali. Ogni lingua costituisce una visione del mondo<br />
tutta particolare ed impregna delle sue strutture lo stesso modo <strong>di</strong> pensare<br />
dei parlanti. La formazione viene fatta <strong>di</strong> norma sugli stessi autori che a<br />
loro volta trasmettono e rafforzano una stessa visione del mondo. In questo<br />
senso la lingua latina utilizzata per quasi tre<strong>di</strong>ci secoli dopo la caduta <strong>di</strong><br />
Roma ha consentito una vera cultura e letteratura europea in cui i contributi<br />
italiani e tedeschi sono talmente intrecciati l’un l’altro da risultare<br />
inseparabili. Basti pensare al primo e al secondo rinascimento carolingio,<br />
opera <strong>di</strong> dotti <strong>di</strong> tutta Europa richiamati alla corte imperiale ma in larga<br />
maggioranza etnicamente germanici (Alcuino <strong>di</strong> York, Paolo Diacono,<br />
Paolino <strong>di</strong> Aquileja, Rabano Mauro, Eginardo...) 41 .<br />
L’uso del latino non eliminava ovviamente la rilevanza dei volgari. Può<br />
essere <strong>di</strong> interesse ricordare, nel contesto della coesistenza ed arricchimento<br />
reciproco tra i due versanti delle Alpi, come il paragrafo conclusivo della<br />
«Bolla d’Oro», il decreto <strong>di</strong> Carlo IV con cui nel 1356, e fino al 1806,<br />
venne fissata la procedura per l’elezione del Sacro Romano Imperatore da<br />
parte <strong>di</strong> sette principi elettori, siano previste <strong>di</strong>sposizioni per l’insegnamento<br />
delle lingue «tedesca, romanica e slava» per i principi imperiali, onde metterli<br />
in grado <strong>di</strong> gestire correttamente gli affari <strong>di</strong> una compagine politica<br />
multietnica e pertanto multilingue. Interessante anche la <strong>di</strong>dattica relativa,<br />
che prevede esplicitamente già all’epoca soggiorni nei paesi in cui si parlano<br />
tali lingue ovvero, in mancanza <strong>di</strong> ciò, quantomeno un contatto <strong>di</strong>retto e<br />
prolungato con persone <strong>di</strong> madrelingua 42 .<br />
193
Giorgio Novello<br />
Perché allora, nelle rispettive opinioni pubbliche ma talvolta anche<br />
in ambiti politici ed accademici specializzati, non vi è piena<br />
consapevolezza della comunanza storica tra Germania ed Italia, che<br />
invece appaiono spesso <strong>di</strong>verse e lontane, depositarie <strong>di</strong> civiltà ma anche<br />
<strong>di</strong> pregi e <strong>di</strong>fetti antitetici e incompatibili?<br />
Ancora una volta, parte della risposta può provenire dalla storia: in<br />
particolare dalla Riforma protestante prima, dal nazionalismo ottocentesco<br />
poi. L’opera <strong>di</strong> Lutero finisce per favorire una visione del Rinascimento<br />
come corruzione, dominato dalla luce sinistra <strong>di</strong> Machiavelli, che<br />
rappresenta una cesura netta col passato comune me<strong>di</strong>evale. Dalla Riforma<br />
in poi la percezione reciproca <strong>di</strong> Italia e Germania si complica, con singolari<br />
fenomeni <strong>di</strong> cecità storica. Lo stesso Goethe non riesce a rapportarsi in<br />
modo sereno col Rinascimento italiano e toscano in particolare. Nel suo<br />
viaggio in Italia evita per due volte <strong>di</strong> soggiornare a lungo a Firenze,<br />
rimpiangendolo poi per il resto della sua vita 43 . Eppure proprio un grande<br />
umanista, Poggio Bracciolini, ci ha lasciato una descrizione notissima ed<br />
idealizzata dell’indole tedesca basata sulle sue esperienze alle terme <strong>di</strong><br />
Baden nella primavera del 1416 44 . Al nazionalismo ottocentesco ci si è<br />
già riferiti più volte. I movimenti nazionali in Italia e Germania furono<br />
<strong>di</strong> fatto alleati (a volte anche formalmente, come nel caso della guerra<br />
italo-prussiana contro l’Austria nel 1866 che portò da una parte<br />
all’estromomissione dell’Austria dalla Confederazione Germanica e<br />
dall’altro alla riunificazione del Veneto al regno d’Italia). Questo dato <strong>di</strong><br />
fatto non venne però all’epoca percepito adeguatamente e non si tradusse<br />
in un avvicinamento anche emotivo tra le due nazioni. La Triplice Alleanza<br />
condusse a recriminazioni reciproche tuttora vive: si veda ad esempio la<br />
ricostruzione delle vicende della Triplice <strong>di</strong> M. Goetemaker 45 .<br />
Fondamentali in ciò furono ovviamente fattori oggettivi quali la<br />
lontananza geografica, lo scarso peso militare e politico dell’Italia <strong>di</strong> allora,<br />
l’assoluta prevalenza delle relazioni (conflittuali) franco-tedesche e italoaustriache<br />
su quelle italo-tedesche 46 . E abbiamo visto in precedenza come<br />
alcuni miti nazionali, ripresi e vissuti dalle due parti rispettivamente contro<br />
Parigi e contro Vienna (da Arminio al Barbarossa), abbiano finito per<br />
incidere <strong>di</strong>rettamente, in modo perverso, proprio sulle relazioni tra Italia<br />
e Germania. Il tutto nonostante il parallelismo storico <strong>di</strong> tante vicende,<br />
non solo nella realtà fattuale ma anche nella loro rappresentazione<br />
collettiva, come Behrenbeck e Nuetzenadel hanno <strong>di</strong>mostrato<br />
brillantemente 47 .<br />
194
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
Conclusione<br />
Nel 1988, Christian Meier mise a nudo l’improponibilità attuale<br />
dei miti <strong>di</strong> fondazione nella loro pura versione ottocentesca, perlomeno<br />
in Germania: se i nostri nonni, scrive Meyer, potevano ancora <strong>di</strong>latare<br />
il concetto <strong>di</strong> «noi» (wir) fino a ricomprendervi Arminio («noi abbiamo<br />
trionfato a Teutoburgo», così come i francesi si identificavano con<br />
Vercingetorige e gli italiani con i romani), i tedeschi <strong>di</strong> oggi non lo<br />
possono più <strong>di</strong>re, o almeno evitano <strong>di</strong> <strong>di</strong>rlo: un «noi» collettivo così<br />
esteso finirebbe per ricomprendere anche la responsabilità della seconda<br />
guerra mon<strong>di</strong>ale e dell’olocausto 48 . Ma la lezione <strong>di</strong> Maier si applica<br />
naturalmente al <strong>di</strong> là del caso tedesco: un «noi» che includa in un solo<br />
concetto in<strong>di</strong>fferenziato ed acritico le generazioni passate e quelle<br />
presenti, se inizialmente può favorire un senso <strong>di</strong> identificazione, oltre<br />
un certo livello finisce quasi fatalmente per trascendere le responsabilità<br />
singole e soli<strong>di</strong>ficare il ben più pericoloso mito delle responsabilità<br />
collettive. La questione ha quin<strong>di</strong> ramificazioni profonde, tanto più<br />
tenaci quanto più il passato in cui affondano precede la rinascita<br />
nazionale e nazionalista dell’Ottocento.<br />
Occorre innanzitutto recuperare la consapevolezza fattuale al riguardo.<br />
A livello specialistico vi è un rifiorire <strong>di</strong> iniziative: la germanistica in Italia e<br />
l’italianistica in Germania vivono un periodo sostanzialmente positivo,<br />
nonostante ricorrenti minacce. Vi sono iniziative specificamente mirate alla<br />
ricostruzione del patrimonio storico comune. Un esempio tra i tanti possibili:<br />
il Centrum Latinitatis Europae <strong>di</strong> Aquileia, che opera proprio per il recupero<br />
della me<strong>di</strong>evalità germano-romanica e <strong>di</strong> cui chi scrive è stato rappresentante<br />
a Berlino. Tuttavia restano <strong>di</strong>verse talune strozzature (la <strong>di</strong>fficoltà della lingua,<br />
la preferenza degli studenti per soggiorni in Gran Bretagna o negli Stati<br />
Uniti) che tolgono inevitabilmente spazio alla riflessione e alla ricerca sulle<br />
cause più profonde <strong>di</strong> tematiche che non possono essere affrontate solo a<br />
livello della quoti<strong>di</strong>anità.<br />
1 GV., 7, 52.<br />
2 LC. 10, 25-37.<br />
3 GV. 4, 1-26.<br />
Note al testo<br />
195
Giorgio Novello<br />
4<br />
AL RIES e JACK TROUT, Positioning: the battle for your mind, 20th anniversary e<strong>di</strong>tion, New<br />
York 2001.<br />
5<br />
MARTIN MOSEBACH, Die schoene Gewonheit zu leben. Eine italienische Reise, Berlino 1997, pp.<br />
10, 15.<br />
6<br />
FRIEDRICH CHRISTIAN DELIUS, Der Spaziergang von Rostock nach Syrakus, Amburgo 1995, p.<br />
143.<br />
7<br />
SAMUEL P. H UNTINGTON, The clash of Civilizations and the remaking of World Order, Londra<br />
1997, p. 30.<br />
8 GEORGE MIKES, How to be an alien, London/New York 1946.<br />
9 BEPPE SEVERGNINI, Inglesi, Milano 1992.<br />
10 ROBERTO GIARDINA, Guida per amare i tedeschi, Milano 1994.<br />
11 KLAUS STILLE, Vom Volke der Deutschen. Eine heillose Legende, Zurigo 2000.<br />
12 ELISABETTA MAZZA MONETA, Deutsche und Italiener. Der Einfluss von Stereotypen auf<br />
interkulturelle Kommunikation, Frankfurt am Main/Berlin/Bern/Bruxelles/New York/Wien<br />
2000, p. 261.<br />
13 GHERARDO UGOLINI, L’immagine dei tedeschi nella letteratura italiana degli anni Ottanta e<br />
Novanta, intervento al convegno «Italia ed Europa: dalla cultura nazionale all’interculturalismo»,<br />
Cracovia, 25-29 agosto 2004, atti in corso <strong>di</strong> stampa.<br />
14 J. KROENIG, Krauts, in «Die Zeit», 40, 30 settembre 1999.<br />
15 PHILIPPE DELMAS, La prochaine Guerre avec l’Allemagne; ALAIN GRIOTTERAY, Voyage au bout de<br />
l’Allemagne-l’Allemagne est inquietante; PIERE MARION, Memoires de l’Ombre, tutti usciti a Parigi<br />
nel 1999.<br />
16 «In the course of forming nations and states, almost all European peoples were constantly at<br />
pains to accentuate their respective uniqueness and incomparability. The historical myths are<br />
characterised throughout by unification inside and demarcation and separation outside. They<br />
attempt to justify the unity of all community members in one homogeneous group by invoking<br />
<strong>di</strong>vine origin if possible, or a kind of historical genesis in an archaic primor<strong>di</strong>al community.<br />
The myths also possessed the function of marking borders to the other nations and their<br />
myths, thus playing a key role in forging national identities and acting as powerful means of<br />
fostering national self-consciousness. [...] Collective revivals of great moments of the past is a<br />
significant part in the lives of nations, which return to the sources of their respective community<br />
existences with the aid of anniversary celebrations, curricula, commemorations of every kind.<br />
Depen<strong>di</strong>ng on circumstances and on historical trends, such collective self-identifications can<br />
lead to confrontation with other nations and with other collective self-identification [...] national<br />
myths introduce an element of rigi<strong>di</strong>ty in the perception of other peoples and nations and<br />
introduce automatisms which make the mutual understan<strong>di</strong>ng less easy»: MICHAEL NAUMANN,<br />
196
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
Europe and his Culture, in The Culture of European History in the 21 st Century, Bonn 1999, pp.<br />
15-16.<br />
17 «heute sind alle sinnstiftenden Mythen [...] zu nichts verfallen»: M. GREIFFENHAGEN, Politische<br />
legitimität in Deutschland, Bonn 1998, p. 67.<br />
18 Ibid., soprattutto pp. 53-63.<br />
19 Ibid., p. 243.<br />
20 «gewiss steht eine historische, systematisch angelete deutsch-italienische Imagologie erst in<br />
den Anfaengen»: ERNST ULRICH GROSSE e GUENTER TRAUTMANN, Italien Verstehen, Darmstadt<br />
1997, pp. 243.<br />
21 Ibid., pp. 240.<br />
22 MARTIN GREIFFENHAGEN, Politische legitimität cit., pp. 71.<br />
23 C. TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, Bologna 1972, pp. 163-164.<br />
24 JOSEPH ZODERER, Die Walsche, Frankfurt am Main 1995; J. HOLZNER (Hg.), Literatur in<br />
Suedtirol, Innsbruck-Wien 1997.<br />
25 Ma si potrebbe osservare anche che panzer è in realtà termine <strong>di</strong> origine veneta, e si riferiva<br />
inizialmente alla parte dell’armatura che proteggeva il ventre.<br />
26 LUCANO, Farsaglia, I 255 ss.<br />
27 PETRARCA, Canzone 128, verso 93.<br />
28 PIERGIUSEPPE SCARDIGLI, Filologia Germanica, Firenze 1975, p. 35.<br />
29 Si veda soprattutto la visita <strong>di</strong> Germanico al campo trincerato <strong>di</strong> Varo <strong>di</strong>strutto dai Germani<br />
e la sepoltura dei resti dei caduti: Annales, I, 61-62.<br />
30 ELISABETTA RISARI, Introduzione alla Germania <strong>di</strong> TACITO, Milano 1991, pp. XV-XVI.<br />
31 TACITO, Annales, II, 88: «Arminius è [...] dolo propinquorum ceci<strong>di</strong>t; liberator haud duibie<br />
Germaniae; [...] proeliis ambiguus, bello non victus, septem et triginta annos vitae, duodecim<br />
potentiae explevit, canitur adhuc barbaras apud gentes».<br />
32 Ibid, II. 9-10.<br />
33 Oltre a Tacito parlano dei germani: Tito Livio, che tratta specificamente della morte in<br />
Germania <strong>di</strong> Druso, figliastro <strong>di</strong> Augusto, e della <strong>di</strong>sfatta <strong>di</strong> Varo nella selva <strong>di</strong> Teutoburgo,<br />
alla fine del libro 142 <strong>di</strong> Ab Urbe Con<strong>di</strong>ta, purtroppo perso; <strong>di</strong> quest’ultimo, come <strong>di</strong> altre<br />
parti dell´opera liviana, ci sono però state tramandate le «perioche», brevi riassunti composti<br />
tra il terzo e il quarto secolo d.C.; Sallustio, forse nel terzo libro delle Historiae, perduto;<br />
197
Giorgio Novello<br />
Velleio Patercolo, comandante della cavalleria in Germania sotto Tiberio, autore delle Historiae,<br />
opera <strong>di</strong> valore scientifico limitato e sostanzialmente panegirico dell’imperatore regnante;<br />
Orosio, storiografo del quinto secolo d.C., convinto che i Germani sarebbero stati ben presto<br />
assorbiti nella cultura romana, e quin<strong>di</strong> storicamente cieco <strong>di</strong> fronte al pericolo delle invasioni;<br />
Salviano, contemporaneo <strong>di</strong> Orosio, autore del De Gubenatione Dei dove rivaluta gli invasori,<br />
considerati più onesti e meno degenerati dei Romani in quanto meno colpevoli per non aver<br />
ricevuto il dono della fede. Ne parla poi Sant’Agostino, nel De Civitate Dei, in cui l’azione<br />
della Provvidenza nella storia, attraverso la nuova <strong>di</strong>cotomia città <strong>di</strong> Dio/città del mondo<br />
supera il contrasto classico romani/barbari. Ma la prospettiva è ovviamente ra<strong>di</strong>calmente <strong>di</strong>versa<br />
da quella dei classici.<br />
34 J.G.FICHTE, Reden an <strong>di</strong>e Deutsche Nation, Hamburg 1972, pp. 136-137.<br />
35 J. LAROCHE, Arminius, prima ed. 1993, seconda ed. 1998; F. DOEHLE, Irmintrut, prima ed.<br />
1906, nuova e<strong>di</strong>zione 1998; W. AUGSBURG, Aemilius Varro-Kommissar in Colonia, prima ed.<br />
1983, nuova ed. 1998; G. SCHWAB, Tisiphone, prima ed. 1888, nuova ed. 1998; J. LEDROIT,<br />
Wismunda, prima ed. 1929, nuova ed. 1998.<br />
36 È perfino superfluo ogni riferimento alla fortuna che il termine stesso Lega Lombarda, ma<br />
anche altri eventi e simboli ad essa collegati, hanno avuto nella vita politica italiana a partire<br />
dalla metà degli anni ottanta.<br />
37 O Alberto tedesco ch’abbandoni/costei ch’è fatta indomita e selvaggia/e dovresti inforcar li suoi<br />
arcioni/giusto giu<strong>di</strong>cio da le stelle caggia/sovra´l tuo sangue, e sia novo e aperto/tal che´l tuo successor<br />
temenza n’aggia!, Purgatorio, VI, 97-102.<br />
38 G.H. SABINE E T.L. THORSON, A history of political Theory, New York 1973, pp. 271-285.<br />
39 A. CAVANNA, Storia del <strong>di</strong>ritto moderno in Europa, I., Milano 1979, pp. 143-144.<br />
40 Ibid., p. 169.<br />
41 K. LANGOSCH, Profile des Lateinischen Mittelalters, Darmstadt 1965; LUIGI ALFONSI, La<br />
letteratura latina me<strong>di</strong>evale, Milano 1988; GIOVANNI CREMASCHI, Guida allo stu<strong>di</strong>o del latino<br />
me<strong>di</strong>oevale, Padova 1959.<br />
42 «[i principi imperiali] incipiendo a septimo etatis sue anno in gramatica, Italica ac slavica<br />
lingwis instruantur, ita quod infra quartum decimum etatis annum existant in talibus iuxta<br />
datam sibi a deo graciam eru<strong>di</strong>ti»: l’e<strong>di</strong>zione critica della Bolla d’Oro è curata da Wolfgang<br />
Fritz, in Monumenta Germaniae Historica, Weimar 1972.<br />
43 M.F. CACIAGLI, Goethe e Firenze. Riflessioni sull’idea <strong>di</strong> Rinascimento nel classicismo weimariano,<br />
comunicazione al Convegno «Goethe und Italien», Bonn 7-9 ottobre 1999.<br />
44 POGGIO BRACCIOLINI, <strong>Del</strong> piacere <strong>di</strong> Vivere, a cura <strong>di</strong> Cecilia Benedetti, traduzione dal latino<br />
<strong>di</strong> Violetta Candani, Milano 1995.<br />
45 M. GOETEMAKER, Deutschland im 19. Jahrhundert, Bonn 1996, pp. 384-386.<br />
198
46 Ibid., p. 384-386.<br />
Il gioco degli specchi deformanti: stereotipi e autostereotipi tra Italia e Germania<br />
47 SABINE BEHRENBECH e ALEXANDER NUETZENADEL (Hg.), Inszenierung des Nationalstaats.<br />
Politische Feiern in Italien und Deutschland seit 1860-71, Koeln 2000.<br />
48 C. MEIER, Was ist nationale Identität? cit. in M. GREIFFENHAGEN, Politische Legitimität cit.,<br />
p. 65.<br />
199
Giorgio Novello<br />
200
Terrorismo, guerriglia, resistenza: considerazioni per un <strong>di</strong>battito attuale<br />
terrorismo, nuove guerre, genoci<strong>di</strong><br />
Terrorismo, guerriglia, resistenza: considerazioni per un<br />
<strong>di</strong>battito attuale<br />
<strong>di</strong> Mario Giovana<br />
Le vicende della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale hanno consegnato alla<br />
storiografia (ed alla nozione comune) un contenuto centrale congruo e<br />
chiaro del concetto <strong>di</strong> «resistenza»: opposizione attiva armata ed anche passiva<br />
all’invasione ed occupazione straniera del suolo nazionale, con i suoi<br />
addentellati interni <strong>di</strong> sud<strong>di</strong>tanze collaborazioniste, aspirazione ad un or<strong>di</strong>ne<br />
sgombro da <strong>di</strong>ttature oppressive. All’interno <strong>di</strong> questo profilo fondamentale<br />
ed unitario - che si ritrova in tutti i movimenti europei riconducibili al<br />
concetto - si collocavano poi nei singoli fenomeni nazionali del tempo una<br />
serie <strong>di</strong>fferente <strong>di</strong> aspirazioni ed in<strong>di</strong>rizzi d’or<strong>di</strong>ne ideale ed ideologico<br />
concernenti la natura degli sbocchi istituzionali, economici e sociali da<br />
conferire ai movimenti emancipatori una volta raggiunto il traguardo della<br />
liberazione. Tuttavia, l’essenza dello scontro e delle forze in contrasto erano<br />
<strong>di</strong> per sé chiaramente in<strong>di</strong>viduabili e, per così <strong>di</strong>re, i fronti in lotta erano<br />
politicamente ben delineati, mentre la sostanza del conflitto si presentava<br />
priva <strong>di</strong> propellenti d’impronta propriamente religiosa e chiesastica (anche<br />
se, naturalmente, ispirazioni e dettati d’indole religiosa concorrevano, ed<br />
in forme spesso rilevanti, ad alimentare il fenomeno dell’opposizione ad un<br />
sistema beluino e <strong>di</strong> ateismo militante quale era il nazismo hitleriano ed al<br />
totalitarismo bellicista e violento quale era il fascismo).<br />
Siamo usi <strong>di</strong> solito a ragionare <strong>di</strong> «resistenza» secondo questi parametri<br />
<strong>di</strong> registrazione <strong>di</strong> un evento connesso alla storia europea della seconda<br />
metà del secolo trascorso; e, <strong>di</strong> per sé, la sostanza dei termini del riferimento<br />
rimane universalmente ammessa come dato costante <strong>di</strong> riconoscimento <strong>di</strong><br />
ogni altra con<strong>di</strong>zione nella quale si riproducano le premesse base da cui<br />
nasca una opposizione all’occupante straniero e si manifestino in varie forme<br />
spinte alla conquista <strong>di</strong> libertà negate da or<strong>di</strong>ni imposti ed estranei a verifiche<br />
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Mario Giovana<br />
della corale volontà degli assoggettati. Adesso, il tema è balzato nuovamente<br />
all’evidenza generale con ampiezza senza precedenti in connessione con la<br />
tragica realtà irachena, sebbene i suoi termini fossero già drammaticamente<br />
alla ribalta da tempo in relazione al conflitto israelo-palestinese in cui<br />
tipologie cruente dello scontro in atto nell’ex dominio <strong>di</strong> Saddam Hussein<br />
hanno trovato anticipazioni protratte e sanguinose. Gli avvenimenti<br />
dell’Irak occupato dagli americani hanno fatto irruzione sulla scena<br />
mon<strong>di</strong>ale invadendo stampa e me<strong>di</strong>a con le cronache violente del loro<br />
quoti<strong>di</strong>ano; e attorno a questa esplosione ininterrotta <strong>di</strong> orrori, in un<br />
paese in cui la <strong>di</strong>sinvolta ed impressionante superficialità - <strong>di</strong> un presidente<br />
- comandante delle forze armate della sua grande potenza aveva <strong>di</strong>chiarato<br />
concluso il processo bellico, si sono aperte controversie interpretative<br />
accese, analisi a tutto campo, feroci scambi <strong>di</strong> anatemi e si sono esercitate<br />
(e si esercitano) tutte le sfumature <strong>di</strong> tendenze <strong>di</strong> un giornalismo<br />
investigativo; non <strong>di</strong> rado mero strumento <strong>di</strong> pregiu<strong>di</strong>ziali politiche <strong>di</strong><br />
parte e non meno <strong>di</strong> rado vittima della proprie particolari vocazioni<br />
esibizionistiche, prive <strong>di</strong> decorosi retroterra culturali quanto <strong>di</strong> scrupoli<br />
professionali, ma, per contro, anche sovente illustrato dalla serietà e dal<br />
coraggio d’indagine <strong>di</strong> soli<strong>di</strong> protagonisti dell’informazione che non si<br />
sono sottratti al dovere <strong>di</strong> registrare le confusioni nelle quali si sono<br />
trovati impantanati evidenziandone i grovigli inestricabili, le limitazioni<br />
ad attingere alla realtà dei fatti, le fitte oscurità e le molte obliquità con le<br />
quali hanno dovuto fare i conti senza, dunque, poter approdare a dati<br />
certi sui quali fissare i proprio giu<strong>di</strong>zi.<br />
In verità, il panorama iracheno è apparso agli osservatori <strong>di</strong>sincantati<br />
e privi <strong>di</strong> pregiu<strong>di</strong>zi più o meno interessati un contenitore <strong>di</strong> tali e tanti<br />
intrecci <strong>di</strong> elementi e fattori <strong>di</strong>fferenti intasati in un involucro incandescente<br />
e magmatico da rendere <strong>di</strong>fficilissimo selezionare le componenti<br />
dell’eruzione e, soprattutto, dal comporre quadri interpretativi dei suoi<br />
fenomeni riportabili a parametri accessibili alla cultura occidentale non<br />
soltanto europea. Cosicché, in questa gigantesca miscela, anche concetti<br />
quali «resistenza» interna, opposizione patriottica, oppure terrorismo allo<br />
stato brado con ra<strong>di</strong>ci nel fondamentalismo religioso o, per contro,<br />
finalizzato ad obiettivi politici specifici, si sono prestati e si prestano ad<br />
interrogativi colmi <strong>di</strong> dubbi, forniscono materia ad accalorate <strong>di</strong>spute<br />
concernenti in primo luogo la legittimità dei titoli appunto <strong>di</strong> opposizione<br />
nazionale da attribuire all’una od all’altra manifestazione <strong>di</strong> rifiuto frontale<br />
dell’occupazione statunitense, alla presenza <strong>di</strong> truppe <strong>di</strong> vari paesi sul<br />
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Terrorismo, guerriglia, resistenza: considerazioni per un <strong>di</strong>battito attuale<br />
territorio e, per estensione, ad ogni forma <strong>di</strong> presenza straniera nei confini<br />
iracheni. La tecnica <strong>di</strong>lagante dei sequestri <strong>di</strong> persone - civili più che<br />
militari, senza <strong>di</strong>stinzione tra uomini e donne, tra citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> paesi alleati<br />
degli USA nell’impresa bellica o formalmente estranei all’occupazione,<br />
come nel caso dell’Italia, quando non appartenenti a nazioni svincolate<br />
da responsabilità per l’invasione e l’occupazione, come la Francia - ha<br />
recato ulteriori elementi <strong>di</strong> <strong>di</strong>sorientamento e <strong>di</strong> incertezza nella<br />
in<strong>di</strong>viduazione delle forze in gioco e nell’attribuzione <strong>di</strong> qualifiche<br />
«partigiane», <strong>di</strong> «combattenti per la libertà» (<strong>di</strong>remmo noi) a questa o<br />
quella violenza insorgente che crivella la realtà irachena. Gli interrogativi,<br />
pertanto, premono da ogni parte: nel <strong>di</strong>sgraziato lembo me<strong>di</strong>o orientale:<br />
è davvero in atto una «resistenza» armata in<strong>di</strong>gena ed in qualche misura<br />
popolare all’occupante ed al governo inse<strong>di</strong>atosi sulle rovine del regime<br />
saddamita? E, se mai si desse per scontato che questo accade, a quali<br />
versanti politici o religiosi appartengono promotori e attori della rivolta?<br />
Ancora: il terrorismo «kamikaze» che uccide spesso esplodendo<br />
in<strong>di</strong>scriminatamente nel mucchio, e quin<strong>di</strong> cagionando in primo luogo<br />
vittime fra gli inermi civili iracheni, è pensabile raccolga militanti e trovi<br />
comunque complicità fra quelle popolazioni, oppure si tratta <strong>di</strong> un<br />
fenomeno essenzialmente d’importazione, ossia <strong>di</strong> infiltrazioni dall’esterno<br />
del paese artatamente organizzate da centrali terroristiche, delle quali una<br />
almeno, Al Kaida, è ormai tristemente ben nota?<br />
Un paesaggio <strong>di</strong> nebbie<br />
L’elemento <strong>di</strong> fondo che manca per una analisi compiuta e sicura del<br />
panorama <strong>di</strong> guerra irakeno (perché <strong>di</strong> capitolo <strong>di</strong> guerra ancora aperto si<br />
tratta, quali che siano le contorsioni propagan<strong>di</strong>stiche in senso contrario),<br />
è costituto dalla carenza <strong>di</strong> informazioni e <strong>di</strong> dati certi per penetrare<br />
l’intrico degli eventi bellici. Gli stessi giornalisti più animosi e scrupolosi<br />
che hanno soggiornato nel paese si sono potuti muovere nell’ambiente in<br />
forma parecchio limitata, sia per l’incombere dovunque <strong>di</strong> rischi gravi (a<br />
Bagdad, ha riferito durante una trasmissione televisiva la volontaria italiana<br />
fortunatamente strappata, con la sua compagna, ai sequestratori, è «perfino<br />
pericoloso attraversare la strada»: il che <strong>di</strong>mostra lo scarso controllo del<br />
territorio da parte degli americani nella stessa capitale), sia per i molti<br />
ostacoli frapposti agli spostamenti a chi ricerca informazioni dai coman<strong>di</strong><br />
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Mario Giovana<br />
militari. Il vuoto più vistoso <strong>di</strong> conoscenze precise deriva proprio dalle<br />
reticenze e dalle molteplici evidenti menzogne in cui si avvolgono le fonti<br />
ufficiali - secondo una prassi tipica <strong>di</strong> tutte le occupazioni del genere -<br />
con<strong>di</strong>zionando al massimo la nozione esatta della situazione reale degli<br />
scontri in atto e delle identità delle forze avversarie che vi si impegnano.<br />
Nessuno, infatti, sembra in grado <strong>di</strong> riferire sulla natura specifica e sulla<br />
consistenza dei gruppi che conducono azioni contro l’occupante (seguaci<br />
<strong>di</strong> Saddam? gente reclutata all’estero? insorti <strong>di</strong> gruppi controllati da<br />
centrali nazionaliste sunnite non necessariamente devote al vecchio<br />
regime?), nessun dettaglio importante ci illumina sullo svolgimento reale<br />
degli scontri che si verificano soprattutto nelle città e lungo le arterie <strong>di</strong><br />
grande traffico del paese, nessuna fonte ha mai precisato alcunché sul<br />
numero esatto degli assalitori catturati nei vari combattimenti e sugli<br />
accertamenti inerenti le loro identità nazionale, collocazione in<br />
organizzazioni politiche o religiose più meno note, eventuali provenienze<br />
estranee al contesto irakeno.<br />
Malgrado le molte falle dei sistemi informativi, sembra azzardato<br />
sostenere che sul teatro irakeno non siano in atto fatti <strong>di</strong> resistenza. Li si<br />
possono imputare a residui del regime saddamista oppure far risalire a<br />
nuclei minoritari <strong>di</strong> fondamentalisti ra<strong>di</strong>cali o, ancora, a cenacoli <strong>di</strong><br />
estremismo nazionalista <strong>di</strong> ceppo soprattutto sunnita insorti dopo<br />
l’avvento dell’occupazione straniera, ma la presenza comunque <strong>di</strong> forme<br />
<strong>di</strong> resistenza organizzata per sabotaggi e guerriglia appare incontrovertibile.<br />
Non è certo che esse godano <strong>di</strong> appoggi popolari estesi ed incon<strong>di</strong>zionati,<br />
specie nelle zone a maggioranza sciita od a presenza curda; ma è altrettanto<br />
innegabile che le loro attività fruiscano <strong>di</strong> omertà e supporti che ne<br />
consentono la sopravvivenza e la mobilità prima e dopo, ad esempio, gli<br />
agguati a convogli militari e gli assalti a caserme delle scalcinate milizie e<br />
centrali <strong>di</strong> polizia del nuovo governo. Imboscate e sabotaggi a getto<br />
continuo non hanno luogo se mancano tessuti in qualche modo in grado<br />
<strong>di</strong> sorreggerli e <strong>di</strong> assicurare loro talune coperture; non cadono in uno<br />
scontro 80 guerriglieri - tutti irakeni, viene comunicato -, come si afferma<br />
da fonti ufficiali statunitensi per uno scontro del 22 marzo 2005, se l’azione<br />
armata ribelle è spora<strong>di</strong>ca e opera <strong>di</strong> infimi nuclei <strong>di</strong> armati. Tutto ciò <strong>di</strong><br />
cruento che si produce nel quadro irakeno viene rubricato sotto la voce<br />
«terrorismo»; ma è una semplificazione che non pare corrispondere a verità<br />
assolute e che, non <strong>di</strong>stinguendo, ad esempio, tra forme <strong>di</strong> guerriglie<br />
«militare» (i combattimenti a Najaf, ad esempio) e atti <strong>di</strong> terrorismo<br />
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Terrorismo, guerriglia, resistenza: considerazioni per un <strong>di</strong>battito attuale<br />
compiuti da singoli, non permette <strong>di</strong> avere nozione precisa <strong>di</strong> quanto<br />
accade nel perimetro irakeno. Esiste una relazione stretta tra iniziative <strong>di</strong><br />
guerriglia quali le imboscate <strong>di</strong> gruppi armati e guerriglie urbane da un<br />
lato e l’irrompere fra la folla dei mercati o l’esplodere davanti ad e<strong>di</strong>fici<br />
governativi <strong>di</strong> suici<strong>di</strong> dall’altro? Si tratta <strong>di</strong> un’unica matrice che articola<br />
le proprie manifestazioni, oppure il primo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> fatti si collega ad<br />
una attività <strong>di</strong> centrali che conducono sistematici interventi bellici, mentre<br />
invece il secondo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> imprese appartiene a centrali aventi puramente<br />
il fine <strong>di</strong> sacrificare vite con testimonianze feroci per <strong>di</strong>mostrare<br />
l’intolleranza verso una con<strong>di</strong>zione ed i suoi responsabili, senza scrupoli<br />
<strong>di</strong> coinvolgere chicchessia nelle mattanze e con il supremo obiettivo <strong>di</strong><br />
seminare vendette e terrore?<br />
La proliferazione dei gesti «kamikaze» - a ritmo pressoché giornaliero<br />
- inaugurati sul suolo palestinese (che hanno conferito alla fisionomia<br />
della «resistenza» caratteri pressoché sconosciuti nel passato all’interno <strong>di</strong><br />
situazioni analoghe <strong>di</strong> conflitti armati) rappresenta senz’altro la cifra più<br />
sconvolgente e mici<strong>di</strong>ale della vicenda scaturita dal caso iracheno. E,<br />
purtroppo, segna una svolta dalle conseguenze impreve<strong>di</strong>bili e <strong>di</strong> lungo<br />
periodo nel rapporto tra tecniche repressive e contrapposti meto<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
attacco insurrezionalistico. Il nemico che si ha <strong>di</strong>nanzi non è soltanto un<br />
essere pronto a sacrificarsi ma che bada, per naturale istinto <strong>di</strong><br />
conservazione, anche a <strong>di</strong>fendersi: è viceversa un predestinato per propria<br />
scelta a morire infallibilmente per cagionare più danno e morte possibili,<br />
e quin<strong>di</strong> a contrassegnarne la massima produttività ai fini della causa<br />
abbracciata. L’abisso della morte fisica è per lui la testimonianza del suo<br />
assoluto annientarsi nel compito assunto e la <strong>di</strong>mostrazione che l’avversario<br />
non ha alcun mezzo valido per contrastarlo proprio in ragione della<br />
inumana straor<strong>di</strong>narietà della tecnica adottata. Sotto questo profilo,<br />
l’assimilazione del termine giapponese «kamikaze» («vento <strong>di</strong>vino») per<br />
qualificare i suici<strong>di</strong>-bomba nel teatro me<strong>di</strong>orientale, può avere una vaga<br />
giustificazione, sebbene sia appena il caso <strong>di</strong> denunciare la forzatura;<br />
perché, nella sua accezione propria, l’attributo giapponese <strong>di</strong> «kamikaze»<br />
era riferito a militari dell’aviazione che si assumevano volontariamente il<br />
compito <strong>di</strong> immolarsi su obiettivi bellici nemici (in particolare, il naviglio<br />
da guerra) non mai puntando a stragi in<strong>di</strong>scriminate che coinvolgessero<br />
civili: e, infatti, non esiste un solo caso <strong>di</strong> aereo recante questi «volontari<br />
della morte» precipitatosi su agglomerati <strong>di</strong> uomini, donne e bambini<br />
fuori dal teatro delle battaglie tra i due eserciti. Non<strong>di</strong>meno, se si vuole,<br />
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Mario Giovana<br />
un sottile fattore <strong>di</strong> legame fra i protagonisti dei suici<strong>di</strong> cui assistiamo in<br />
Me<strong>di</strong>o Oriente ed il retroterra delle motivazioni a cui si rifaceva la logica<br />
sacrificale dei «kamikaze» del Sol Levante è rintracciabile in una sfera<br />
metapolitica: quella del retroterra religioso. L’imperativo <strong>di</strong><br />
autoannientamento che presiedeva al sacrificio dei piloti giapponesi<br />
<strong>di</strong>scendeva dall’assunzione come dogma dell’origine <strong>di</strong>vina del potere<br />
imperiale, e pertanto dell’esigenza sovrumana <strong>di</strong> assicurarne la<br />
conservazione quando le sorti della sua integrità e della sua stessa esistenza<br />
parevano messe a repentaglio dal precipitare ormai degli eventi sfavorevoli<br />
(si rammenti che la pratica «kamikaze» fa la sua comparsa soltanto allorché<br />
il Giappone è sull’orlo della catastrofe militare). I suici<strong>di</strong> dei raid in Israele<br />
sono per lo più preceduti - o seguiti a brevissima <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo - da<br />
riven<strong>di</strong>cazioni affidate a brevi filmati con funzioni, si potrebbe<br />
immaginare, anche testamentarie e «promozionali» del genere <strong>di</strong> iniziative:<br />
il can<strong>di</strong>dato - od i can<strong>di</strong>dati - alla nefasta impresa si presentano<br />
inneggiando alle ragioni del sacrificio in nome <strong>di</strong> Allah, quasi sempre<br />
con il Corano in mano o con versetti del libro sacro stampati su drappi<br />
che sovrastano la scena. Non pare fuori luogo pensare che i can<strong>di</strong>dati a<br />
far esplodere autobombe in Irak, sebbene non illustrino le loro imprese<br />
con manifesti filmistici, appartengano al medesimo filone dei terroristi<br />
palestinesi, per lo più reclutati nella <strong>di</strong>sperazione e nella miseria dei campi<br />
profughi. Il fattore religioso è pertanto la componente <strong>di</strong> spicco <strong>di</strong> questo<br />
genere <strong>di</strong> estremismo e ricalca i moduli che nell’insieme hanno determinato<br />
l’esperienza dei Talebani e che sono pure presenti con varie sfumature<br />
lungo tutto il fronte dell’opposizione irakena. Se si tenta un censimento<br />
degli episo<strong>di</strong> riferiti dalle cronache, ci si avvede facilmente che in questa<br />
ritualità sacrificale come in altre forme <strong>di</strong> rivalsa contro gli occupanti e,<br />
in genere, contro ogni presenza straniera ad essi connessa, mancano quasi<br />
completamente richiami patriottici ed a riven<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> libertà: ritornano<br />
<strong>di</strong> continuo, invece, gli appelli alla grandezza <strong>di</strong> Allah e la condanna degli<br />
«infedeli» aggressori, cosicché emerge una sorta <strong>di</strong> costante polarizzazione<br />
attorno alla legge religiosa, punto <strong>di</strong> coagulo sul quale si incontrano<br />
esasperatamente i convincimenti del ra<strong>di</strong>calismo assassino dei gruppi<br />
terroristici. Tuttavia, la forza <strong>di</strong> siffatta ipoteca non appartiene unicamente<br />
alla paranoia fondamentalista, ma attinge ad una potente stratificazione<br />
estesa che coinvolge anche zone della popolazione irakena estranea alle<br />
pratiche dei cosidetti «kamikaze», come del resto <strong>di</strong>mostra l’esito delle<br />
elezioni svoltesi nel paese. Otto milioni <strong>di</strong> elettori sono accorsi alle urne<br />
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e ciò che è uscito dalle urne è un voto maggioritario verso una soluzione<br />
istituzionalmente confessionale da attuare per l’Irak post-Saddam, tanto<br />
è vero che il presidente sciita eletto dal nuovo parlamento ha preannunciato<br />
l’adozione della legge islamica per il nuovo or<strong>di</strong>ne, <strong>di</strong> fatto proponendo<br />
un assetto costituzionale <strong>di</strong> marca iraniana, e perciò mettendo parecchio<br />
in <strong>di</strong>fficoltà quanti hanno accolto la massiccia affluenza alle urne come il<br />
segnale <strong>di</strong> una raggiunta maturità democratica nell’alveo delle tra<strong>di</strong>zioni<br />
occidentali <strong>di</strong> una parte consistente della popolazione, a vicino<br />
compimento del <strong>di</strong>segno <strong>di</strong> portare il paese del tutto fuori dal suo passato.<br />
Dunque, il fattore religioso è un protagonista potente del conflitto interno<br />
irakeno, dai settori cosidetti moderati all’ala estrema che racchiude, se<br />
non i protagonisti <strong>di</strong>retti, i fedeli dei meto<strong>di</strong> suici<strong>di</strong> in nome <strong>di</strong> Allah;<br />
talché viene da chiedersi quanto i ritornanti e <strong>di</strong>ffusi pronunciamenti<br />
contro lo «straniero invasore ed occupante» non siano, in realtà, avanti<br />
tutto, il rifiuto verso l’«infedele» impersonato dal soldato o dal civile che<br />
calpesta il suolo del paese appartenendo a confessioni religiose <strong>di</strong>verse da<br />
quella mussulmana.<br />
Una mappa <strong>di</strong>fficile da comporre<br />
Fino a che non si saranno decantati in sede politica una serie <strong>di</strong> fattori<br />
che rendono convulsa la geografia dell’incen<strong>di</strong>o che percorre l’Irak o<strong>di</strong>erno,<br />
la coesistenza in quel tribolato quadro <strong>di</strong> fenomeni <strong>di</strong> rivolta e <strong>di</strong><br />
opposizione cruenta renderà estremamente arduo decifrarne fonti, natura<br />
e finalità effettive. Ciò che comunque non si può non registrare è<br />
l’incessante rinnovarsi <strong>di</strong> atti <strong>di</strong> rivolta guerrigliera o <strong>di</strong> spietate tecniche<br />
«punitive» del nemico e <strong>di</strong> chi ne tollera la presenza - e anche <strong>di</strong> chi la<br />
subisce da incolpevole e da inerme assoluto -, senza alcun riguardo per la<br />
in<strong>di</strong>fferenziata bestialità <strong>di</strong>struttiva delle conseguenze. Il fenomeno<br />
«resistenza», quin<strong>di</strong>, in quel contesto, ha assunto <strong>di</strong>mensioni <strong>di</strong> «guerra<br />
globale» che se si trasferissero nella pratica <strong>di</strong> ogni e qualsiasi insorgenza<br />
armata gli conferirebbero connotati <strong>di</strong> «normalità stragista» con effetti <strong>di</strong><br />
imbestialimento senza regole e senza contenimenti degli antagonismi<br />
dettati da razionalità e da sentimenti <strong>di</strong> rispetto umano. È appena il caso<br />
<strong>di</strong> osservare che lo sconfinamento delle contese armate in una sfera del<br />
genere sfugge a qualsivoglia metro <strong>di</strong> misura delle contese ideologiche e<br />
politiche che popolano la storia dei popoli per annodarsi alle follie suscitate<br />
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Mario Giovana<br />
dalle credenze religiose: e qui sta la paurosa prospettiva <strong>di</strong> sviluppo <strong>di</strong><br />
logiche <strong>di</strong> «crociata» che covano in ogni dettato dogmatico, non soltanto<br />
in quelli dei seguaci <strong>di</strong> una interpretazione coranica posta a lievito <strong>di</strong><br />
tendenze sacrificali innestate su tra<strong>di</strong>zioni tribali e governate da paludati<br />
<strong>di</strong>spensatori <strong>di</strong> decreti che ne impongono l’osservanza a scanso <strong>di</strong> anatemi<br />
che comprometterebbero l’anima per l’eternità, sbarrando al reprobo le<br />
porte dei para<strong>di</strong>si <strong>di</strong> ciascuna credenza. Quanto e come i patrimoni <strong>di</strong><br />
civiltà della democrazia siano in grado <strong>di</strong> perforare questa coltre <strong>di</strong> estasi<br />
e <strong>di</strong> terrori del mistero <strong>di</strong>vino, non è proprio semplice pre<strong>di</strong>re. Certamente,<br />
non con i carri armati, i bombardamenti aerei dei quartieri urbani ed i<br />
reticolati <strong>di</strong> Guantanamo.<br />
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Nuove guerre<br />
Nuove guerre?<br />
Crisi dello Stato, mercenari, criminalità, interventi umanitari: uno<br />
sguardo d’insieme<br />
<strong>di</strong> Andrea Beccaro<br />
Questo articolo vuole cercare <strong>di</strong> chiarire alcune delle trasformazioni della<br />
guerra avvenute dopo la fine del periodo bipolare quando, secondo il generale<br />
Carlo Jean, si è sostituito «al pericolo <strong>di</strong> una guerra virtuale praticamente<br />
impossibile, [...] la realtà <strong>di</strong> molte piccole guerre» 1 che hanno moltiplicato le<br />
minacce e gli scenari possibili. Per fare ciò ci avvaleremo <strong>di</strong> una <strong>di</strong>versa gamma<br />
<strong>di</strong> fonti e autori. Metteremo in luce le interpretazioni più fortunate e<br />
cercheremo <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re alcune tematiche specifiche con l’ausilio <strong>di</strong> libri<br />
e saggi d’alcune riviste. In particolar modo saranno prese in considerazione la<br />
rivista trimestrale «Parameters» e le pubblicazioni del Strategic Stu<strong>di</strong>es Institute<br />
(SSI) entrambe legate all’U.S. Army. Affronteremo così il problema della<br />
crisi dello Stato e le sue conseguenze sulla guerra. Già nel 1991 Martin van<br />
Creveld, docente <strong>di</strong> Storia militare presso l’Università <strong>di</strong> Gerusalemme, ha<br />
fatto notare che lo Stato è il protagonista dell’evento bellico solo nell’epoca<br />
seguente alla pace <strong>di</strong> Vestfalia 2 quando «venne sancito il principio <strong>di</strong> sovranità<br />
nazionale e <strong>di</strong> non intervento come norma delle relazioni internazionali» 3 .<br />
Teorico per eccellenza <strong>di</strong> questa situazione è il generale Carl von Clausewitz<br />
secondo cui lo Stato è l’attore principale della guerra e la cornice politica<br />
entro cui la sua stessa teoria politico-strategica s’inserisce. Quando il prussiano<br />
parla <strong>di</strong> politica pensa a quella dello Stato e la considera un agire razionale per<br />
il bene del proprio popolo 4 . Lo Stato nasce nell’Europa moderna grazie ad<br />
un processo che gli consente <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare, secondo la famosa definizione <strong>di</strong><br />
Max Weber, il detentore del monopolio della coercizione fisica legittima su<br />
un determinato e ben delimitato territorio. Lo storico Charles Tilly ha definito<br />
questo rapporto protection racket, in altre parole lo Stato estorce risorse dalla<br />
popolazione per offrire protezione 5 .<br />
Dalla seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, secondo Creveld, il periodo delle guerre<br />
tra stati è tramontato mentre è sorto un «nuovo» tipo <strong>di</strong> conflittualità, i<br />
LIC (Low Intensity Conflict) 6 . Questi conflitti hanno tre caratteristiche:<br />
1. avvengono principalmente nei paesi poco sviluppati, se esplodono in<br />
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Andrea Beccaro<br />
altri paesi sono definiti terrorismo o criminalità; 2. raramente coinvolgono<br />
eserciti regolari da entrambe le parti; 3. non sono combattuti con armi<br />
tecnologicamente avanzate. Per Creveld queste eterogenee forme <strong>di</strong><br />
conflittualità non sono forme ibride <strong>di</strong> guerra ma «Warre nel senso più<br />
elementare e hobbesiano della parola, oltre che la più importante forma <strong>di</strong><br />
guerra del nostro tempo» 7 . Un’altra caratteristica dei LIC è che la maggior<br />
parte delle loro vittime sono civili che non appartengono a nessuna delle<br />
parti in lotta e spesso sono loro stessi le parti in lotta.<br />
Attualmente questa è una forma <strong>di</strong> conflittualità molto <strong>di</strong>ffusa (anche<br />
il dopo guerra iracheno rientra in questa definizione), ma non l’unica.<br />
Se con LIC si può intendere una varietà <strong>di</strong> conflitti (da quelli etnici a<br />
quelli per le risorse) in Occidente si va sempre più verso la <strong>di</strong>gitalizzazione<br />
del campo <strong>di</strong> battaglia. Questo grazie alla Revolution in<br />
Military Affairs (RMA) che, lasciando molto spazio alla tecnologia, si<br />
incentra su attacchi ad alta precisione condotti da lunga <strong>di</strong>stanza;<br />
miglioramento del comando, controllo e intelligence; information<br />
warfare; bassa letalità delle armi 8 .<br />
Secondo gli autori che in un qualche modo parlano <strong>di</strong> «nuove guerre» 9<br />
la forma <strong>di</strong> guerra che aveva in mente Clausewitz sarebbe finita perché oggi<br />
sta morendo il suo attore principale: lo Stato. Così si prospetta la fine<br />
dell’utilità del pensiero del prussiano e in generale del pensiero strategico<br />
occidentale. Concetti come potere aereo, navale o la stessa RMA non<br />
avrebbero più senso in un mondo dominato non più da stati con i loro<br />
eserciti, ma da organizzazioni private. Molti autori sottolineano come questi<br />
concetti non si adattino a situazioni <strong>di</strong> guerriglia, <strong>di</strong> conflitto a bassa intensità<br />
cioè frangenti dove non ci siano due eserciti regolari a scontrarsi. Esempio<br />
<strong>di</strong> ciò può essere la recente esperienza irachena dove lo scontro tra<strong>di</strong>zionale<br />
è stato condotto dall’America seguendo i nuovi concetti strategici ed è stato<br />
vinto facilmente, ma il dopo ha lasciato aperti molti problemi.<br />
Le cause della crisi dello Stato sono molte e Creveld, in un lavoro del<br />
1999, ne identifica almeno quattro 10 . La nascita <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse organizzazioni<br />
internazionali (NATO, ONU, UE) ha limitato la libertà dei membri <strong>di</strong><br />
muovere guerra. Questa è una delle prerogative fondamentali della sovranità<br />
ed è entrata in crisi anche per l’avvento delle armi nucleari. Con esse il<br />
legame tra vittoria e autopreservazione, cioè l’idea, sfondo <strong>di</strong> tutte le guerre,<br />
<strong>di</strong> combattere per poter poi usufruire del successo si rompe. Gli arsenali<br />
nucleari, per Creveld, inibiscono le operazioni militari. Infatti dopo il 1945<br />
non sono scoppiate guerre tra stati <strong>di</strong> una certa rilevanza internazionale 11 .<br />
210
Nuove guerre<br />
Gli stati non sarebbero più in grado <strong>di</strong> compiere gran<strong>di</strong> operazioni<br />
belliche a causa del numero ridotto del personale militare. Mentre la<br />
popolazione mon<strong>di</strong>ale è triplicata dal 1945 ad oggi, gli eserciti attuali sono<br />
molto più piccoli rispetto a quelli della Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale 12 . È vero<br />
che ciò può essere conseguenza dell’adozione <strong>di</strong> sistemi d’arma più precisi<br />
e potenti, ma non spiega, secondo Creveld, perché dalla fine della seconda<br />
guerra mon<strong>di</strong>ale nessun paese sia stato in grado <strong>di</strong> compiere operazioni a<br />
largo raggio e in profon<strong>di</strong>tà o conquistare la capitale nemica 13 .<br />
Creveld sottolinea ancora la sempre minor capacità <strong>di</strong> controllare l’or<strong>di</strong>ne<br />
interno. Gli eserciti più gran<strong>di</strong> e avanzati del mondo sono stati sconfitti in<br />
conflitti a bassa intensità. Mettere in sicurezza da minacce quali quelle del<br />
terrorismo una base militare o un palazzo governativo è tutto sommato<br />
semplice. Non lo è se si vuole proteggere l’intero territorio, cosa che<br />
comporterebbe una spesa enorme (senza peraltro avere la certezza del<br />
risultato) e un abbassamento del tenore <strong>di</strong> vita della popolazione.<br />
L’insicurezza crescente ha portato il privato citta<strong>di</strong>no e le imprese che ne<br />
sentono la necessità a rivolgersi al settore privato 14 .<br />
Un altro elemento che contribuisce alla crisi dello Stato e favorisce le<br />
attuali forme <strong>di</strong> conflittualità è la globalizzazione, cioè «il massiccio<br />
incremento dell’inter<strong>di</strong>pendenza economica e della comunicazione <strong>di</strong> massa,<br />
con il relativo fenomeno <strong>di</strong> compressione del tempo e dello spazio» 15 . La<br />
libertà <strong>di</strong> movimento (<strong>di</strong> persone, merci, capitali) <strong>di</strong>venta un fattore <strong>di</strong><br />
stratificazione sociale tra chi è globale e chi, non essendolo, è un locale<br />
ancorato ai vincoli spaziali. Le multinazionali si spostano dove scorgono<br />
un’occasione <strong>di</strong> profitto, senza avere più basi territoriali definitive. Le élites<br />
sono così sempre più extraterritoriali e slegate dai poteri politici che invece<br />
rimangono ancorati al territorio 16 .<br />
Con la globalizzazione, per Ulrich Beck sociologo alla London School<br />
of Economics, si ha «una collocazione del politico al <strong>di</strong> fuori […] dello<br />
Stato-nazione» 17 . Essa è un insieme <strong>di</strong> processi economici (deregulation,<br />
<strong>di</strong>slocazione e accelerazione della produzione) e politici irreversibili in rapida<br />
evoluzione. La <strong>di</strong>mensione tempo <strong>di</strong>venta irrilevante, così come quella<br />
spazio, ma la spazialità politica moderna è lo Stato che quin<strong>di</strong> cessa <strong>di</strong><br />
essere il centro della politica 18 . Viene a mancare l’organizzazione verticale<br />
del potere, sostituita da flussi trans-nazionali che fanno venir meno le<br />
<strong>di</strong>stinzioni interno sicuro, esterno insicuro. Nasce quella che Carlo Galli,<br />
storico delle dottrine politiche presso l’Università <strong>di</strong> Bologna, ha definito<br />
«l’attuale società del rischio» 19 . Da questa de-spazializzazione <strong>di</strong>scende che<br />
211
Andrea Beccaro<br />
la guerra tende ad essere infinita, proprio perché manca uno spazio politico<br />
che possa neutralizzarla. Il <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne causato dalla globalizzazione non può<br />
contenere il conflitto ma lo crea 20 . Comprimendo la nozione <strong>di</strong> spazio e<br />
tempo la globalizzazione ha grosse ripercussioni anche sulla strategia perché<br />
permette ad azioni molto <strong>di</strong>stanti d’avere effetti locali e viceversa 21 .<br />
La sovranità dei governi è così minacciata da networks apoli<strong>di</strong> che<br />
possono attraversare senza problemi confini porosi. Questi ultimi sono<br />
<strong>di</strong>ventati irrilevanti facilitando enormemente i traffici illegali (armi, droga,<br />
lavaggio <strong>di</strong> denaro sporco, traffico d’uomini) 22 non solo nelle aree dove il<br />
liberismo è stato più devastante, come nell’ex impero sovietico, ma anche<br />
in Occidente. Infatti dov’è la linea del fronte nella guerra alla droga: in<br />
Colombia o nelle nostre città? 23<br />
La nuova economia si occupa <strong>di</strong> beni immateriali, <strong>di</strong> servizi e il settore<br />
dell’informazione è fondamentale perché, come <strong>di</strong>ce il politologo americano<br />
Benjamin R. Barber, chi controlla le informazioni controlla il mondo 24 . Un<br />
ruolo primario, colto perfettamente dai terroristi, è occupato dalla televisione<br />
perché veloce, <strong>di</strong>retta ed omogeneizzante. I terroristi hanno più successo<br />
per ciò che minacciano che per ciò che fanno perché hanno capito che<br />
terrorizzando gli opinion makers «essi terrorizzeranno il resto del mondo<br />
per voi» 25 . Così Al Qaeda si è trasformata, secondo il tenente colonnello<br />
dell’U.S. Army <strong>di</strong>rettore del Strategic Research dell’SSI Antulio J.<br />
Echevarria, in un’arma ideologica che genera propaganda sfruttando proprio<br />
i moderni mezzi <strong>di</strong> comunicazione che grazie ai satelliti trasmettono in<br />
tutto il mondo 26 .<br />
Proprio nella guerra al terrorismo si possono trovare alcune caratteristiche<br />
della globalizzazione come la maggiore mobilità sia delle cose sia delle<br />
persone. I terroristi <strong>di</strong>ventano invisibili per le agenzie <strong>di</strong> sicurezza potendosi<br />
muovere rapidamente e liberamente ovunque desiderino 27 .<br />
Non tutti gli autori però sono convinti che l’era dello Stato moderno<br />
nazionale stia finendo. Una voce in questo senso proviene da Anthony D.<br />
Smith docente a Cambridge, il quale nota che lo Stato nazionale resta l’unica<br />
struttura politica che abbia un riconoscimento internazionale 28 . Se è vero<br />
che le operazioni economiche trascendono i confini nazionali è altrettanto<br />
vero che l’unità base per la regolamentazione restano le economie nazionali.<br />
Per Barber il terrorismo va combattuto globalizzando le istituzioni civili e<br />
democratiche senza però cancellare lo Stato-nazione poiché quest’istituzione<br />
è la migliore garante per la sovranità e dove si è <strong>di</strong>ssolta (ex Jugoslavia,<br />
Somalia, Afghanistan) si è sviluppata solo instabilità 29 .<br />
212
Nuove guerre<br />
Secondo Edward J. Villacres e Cristopher Bassford (il primo capitano<br />
dell’Esercito americano, il secondo professore presso l’Army War College)<br />
le «nuove guerre» non portano alla fine dello Stato, ma creano stati etnici 30 .<br />
Ad esempio in Jugoslavia sono sorti, da uno Stato multietnico, cinque stati,<br />
più piccoli e più omogenei etnicamente. Spesso sono gruppi non statuali<br />
che si combattono, ma lo fanno con l’obiettivo <strong>di</strong> creare una nuova entità<br />
statale. I LIC sarebbero il risultato della fine <strong>di</strong> uno Stato debole, non più<br />
rappresentativo, che porta alla nascita <strong>di</strong> uno più forte e più vicino alla<br />
realtà sociale del paese.<br />
L’esempio della Bosnia, secondo i due autori, <strong>di</strong>mostra che le «nuove<br />
guerre» sono ancora condotte con eserciti regolari guidati da politiche precise<br />
anche se brutali. Anzi, le ragioni della guerra in Jugoslavia vanno proprio<br />
in<strong>di</strong>viduate nella politica. Infatti i leader, con la fine del comunismo,<br />
cercavano nuove basi <strong>di</strong> consenso trovate nell’identificazione etnica che<br />
sfrutta quelle forze irrazionali a cui Clausewitz aveva dato tanto spazio 31 .<br />
Anche il politologo americano John Mearsheimer vede il XXI secolo<br />
dominato dagli stati e dalla loro competizione per la sicurezza 32 . Contesta<br />
l’idea che le istituzioni internazionali possano limitare la sovranità. Critica il<br />
fatto che la globalizzazione porti alla fine degli stati perché essi non stanno<br />
soccombendo a queste forze, ma «stanno facendo gli aggiustamenti necessari<br />
ad assicurare la loro sopravvivenza» 33 . All’orizzonte non vede un’alternativa<br />
allo Stato e infatti il processo d’integrazione europeo, seppur tra mille <strong>di</strong>fficoltà,<br />
sta procedendo lasciando intatte le nazioni membri. Anche la risposta agli<br />
attacchi del 11 settembre è stata data da paesi e composte <strong>di</strong> stati.<br />
Anche per Jean quegli attentati hanno <strong>di</strong>mostrato «l’in<strong>di</strong>spensabilità dello<br />
Stato» giacché è aumentata la domanda <strong>di</strong> sicurezza dei citta<strong>di</strong>ni 34 . L’autore<br />
interpreta l’11 settembre 2001 come un momento <strong>di</strong> rottura che da un lato<br />
ha posto fine ad alcune false credenze sviluppate negli anni novanta («fine<br />
dello Stato, del territorio, della sovranità e della storia» 35 ), dall’altro ha<br />
provocato un riallineamento geopolitico che ha posto fine al periodo<br />
seguente alla fine della guerra fredda 36 .<br />
Certo è che in alcune zone del pianeta l’istituzione Stato è in crisi e per<br />
questo alcuni autori prospettano un futuro dominato dall’anarchia, un<br />
ritorno allo stato <strong>di</strong> natura <strong>di</strong> Hobbes.<br />
La pensa così, per esempio, Robert D. Kaplan 37 che nel 1994 parte<br />
dall’Africa occidentale, dove la criminalità è <strong>di</strong>lagante, per descrivere i<br />
problemi futuri: la scarsità delle risorse, lo scontro etnico con la conseguente<br />
trasformazione della guerra sempre più in<strong>di</strong>stinguibile dal crimine. La stessa<br />
213
Andrea Beccaro<br />
criminalità <strong>di</strong>venterà, anche nei paesi più avanzati, un conflitto a bassa<br />
intensità contro cui gli attuali sistemi <strong>di</strong> giustizia ed eserciti sono impotenti.<br />
La conseguenza sarà il lasciare sempre più spazio alle agenzie <strong>di</strong> sicurezza<br />
privata o alla mafia urbana come avviene nelle città africane. Le città <strong>di</strong><br />
quell’angolo <strong>di</strong> mondo <strong>di</strong> notte si trasformano in un luogo pericolosissimo,<br />
dove qualsiasi attività criminale prolifera e dove «il governo non ha<br />
mandato».<br />
In gran parte dell’Africa Kaplan non vede governi in grado <strong>di</strong> esercitare<br />
alcun tipo <strong>di</strong> controllo. La deforestazione avanza e con essa il degrado<br />
ambientale 38 , le città sono devastate e ricche <strong>di</strong> bidonville che accolgono gli<br />
immigrati in numero sempre crescente permettendo così anche una<br />
propagazione rapida delle malattie.<br />
Il territorio sarà controllato da città Stato e da qualche Stato nazionale,<br />
residuo <strong>di</strong> un epoca ormai passata, entrambi confusi con i cartelli della<br />
droga, con la mafia e con le agenzie <strong>di</strong> sicurezza. Lo spazio politico non sarà<br />
più delimitato da confini, ma da centri <strong>di</strong> potere 39 . Una siffatta mappa<br />
politica non sarà statica, ma in continuo movimento per rappresentare il<br />
caos imperante 40 .<br />
Questa visione può sembrare troppo estrema, ma come cercheremo <strong>di</strong><br />
mettere in luce la criminalità sta assumendo un ruolo rilevante e la<br />
privatizzazione della guerra introduce nuovi attori e problematiche. Come<br />
ha sottolineato nel 1999 Mary Kaldor, ricercatrice della London School of<br />
Economics, le imprese criminali proliferano dove c’è un qualche tipo <strong>di</strong><br />
conflitto o guerra 41 . Quando queste con<strong>di</strong>zioni mancano cercano <strong>di</strong> crearle<br />
per potersi sviluppare tranquillamente. Il caos politico è l’ambiente migliore<br />
per il crimine come <strong>di</strong>mostra il fatto che tre delle guerre civili più lunghe<br />
(Colombia, Afghanistan e Myanmar) si svolgono nei tre paesi che sono i<br />
principali produttori <strong>di</strong> droga al mondo. Sandro Calvani e Martina Melis,<br />
entrambi impegnati nello stu<strong>di</strong>o a livello globale della criminalità,<br />
identificano due con<strong>di</strong>zioni grazie a cui la criminalità oggi riesce a proliferare.<br />
In primo luogo le nuove possibilità <strong>di</strong> spostamento e il decentramento<br />
amministrativo derivanti dalla globalizzazione. Queste fanno sì che i<br />
criminali possano utilizzare lo juris<strong>di</strong>ction hopping (salto continuo <strong>di</strong><br />
giuris<strong>di</strong>zione) per confondere le <strong>di</strong>verse polizie nazionali ancora vincolate<br />
dai confini 42 . La seconda è proprio la crisi profonda in cui versano molti<br />
stati. Così, secondo i due autori, la criminalità non vince scontri <strong>di</strong>retti<br />
contro le forze dell’or<strong>di</strong>ne, ma occupa semplicemente gli spazi lasciati vacanti<br />
da un potere ormai inesistente.<br />
214
Nuove guerre<br />
Paolo Sartori, rappresentante italiano presso la Southeast European<br />
Cooperation Initiative, prende in esame il caso della Transnistria, un classico<br />
esempio <strong>di</strong> come il collasso del potere centrale lasci mano libera a criminali<br />
e terroristi. Questa regione è una striscia <strong>di</strong> terra tra la Repubblica <strong>di</strong><br />
Moldavia, che teoricamente ne avrebbe il controllo, e l’Ucraina. Dopo un<br />
breve conflitto etnico tra il 1991 e il 1992 s’autoproclama in<strong>di</strong>pendente.<br />
Nessun paese al mondo ha riconosciuto questo stato governato da ex agenti<br />
del Kgb e supportato dalla 14 a armata russa. Ciò nonostante le autorità<br />
moldave non hanno poteri nell’area e molti paesi occidentali intrattengono<br />
rapporti commerciali con essa. Dalla Transnistria transita <strong>di</strong> tutto: droga,<br />
armi, auto rubate ecc. Sul suo territorio sono presenti anche molti depositi<br />
militari e tre fabbriche d’armi oltre a materiale chimico e ra<strong>di</strong>oattivo. La<br />
Transnistria risulta legata a molte organizzazioni terroristiche, sia islamiche<br />
sia cecene, e alla criminalità <strong>di</strong> tutto il mondo 43 .<br />
Un altro tipico esempio è quello della Colombia dove la politica è<br />
strettamente collegata al traffico <strong>di</strong> droga, come sottolinea Michael G. Roskin<br />
professore <strong>di</strong> scienza politica presso il Lycoming College 44 . Lo Stato controlla<br />
poche zone del paese e ciò è <strong>di</strong>mostrato dal fatto che dal 1990 al 2001 ci<br />
sono stati più <strong>di</strong> 30.000 omici<strong>di</strong> che fanno della Colombia uno dei luoghi<br />
più sanguinosi del pianeta. Solo il 40 per cento <strong>di</strong> essi sono sottoposti ad<br />
investigazioni e solo il 7 per cento dei casi arriva a una soluzione. Gli stessi<br />
movimenti «rivoluzionari» colombiani ormai hanno poco <strong>di</strong> rivoluzionario,<br />
ma producono droga e ricavano entrate enormi da questo traffico. Le FARC,<br />
per esempio, hanno ottenuto nel 2000 il controllo <strong>di</strong> una zona (grande<br />
quanto la Svizzera) de-militarizzata. Grazie a ciò hanno un introito annuale<br />
pari a circa 300 milioni <strong>di</strong> dollari superiore a quello dello Stato colombiano 45 .<br />
La criminalità sta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>ventando un attore sempre più importante<br />
nell’arena internazionale, ma che cos’è il crimine internazionale? Gli esperti<br />
del settore non sono concor<strong>di</strong> sulla sua definizione. Alcuni preferiscono<br />
utilizzare, anziché il termine internazionale, legato a una relazione legittima<br />
tra stati-nazione, quello <strong>di</strong> transnazionale. Un’organizzazione criminale è<br />
definita dal tenente colonnello dell’U.S. Army Steven R. Pelley come «una<br />
struttura quasi formale, che resiste nel tempo, che si de<strong>di</strong>ca ad un comune<br />
scopo guidata da una leadership riconosciuta al <strong>di</strong> fuori della legge. Spesso<br />
è basata su un’identità familiare […] ed è preparata all’uso della violenza<br />
per promuovere e proteggere i propri interessi» 46 . Tre sono le caratteristiche<br />
fondamentali che trasformano un’organizzazione criminale domestica in<br />
internazionale: l’abilità a compiere operazioni su scala globale; un accordo<br />
215
Andrea Beccaro<br />
con altre organizzazioni da cui nasce la loro cooperazione; infine la forza e<br />
la risoluzione a minacciare <strong>di</strong>rettamente l’autorità dello Stato 47 .<br />
Calcolare con precisione il giro d’affari dell’industria criminale è<br />
impossibile. Una stima può aggirarsi intorno ai 15.000 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> dollari<br />
nel solo 2000 48 . È un volume <strong>di</strong> denaro enorme che <strong>di</strong>mostra come il<br />
crimine, con i suoi legami con terroristi e guerriglieri <strong>di</strong> varia natura, sia un<br />
elemento fondamentale per la comprensione delle future minacce. Per<br />
esempio nel 2003 il giro d’affari stimato per il solo oppio (escludendo<br />
cocaina, droghe sintetiche e cannabis) è stato <strong>di</strong> circa 1,2 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> dollari.<br />
In più la produzione del 90 per cento dell’oppio mon<strong>di</strong>ale è concentrata in<br />
tre soli paesi: Afghanistan, Myanmar e Laos 49 .<br />
Anche il mercato delle armi è molto red<strong>di</strong>tizio. A questo commercio<br />
illegale ha dato una notevole spinta il crollo dell’Unione Sovietica e la fine<br />
della guerra fredda con lo smantellamento e il rinnovamento degli arsenali.<br />
Questo ha immesso sul mercato un numero notevole <strong>di</strong> armi leggere che<br />
negli attuali conflitti rappresentano una delle maggiori minacce, come<br />
sottolinea Michael Klare docente del Peace and World Security Stu<strong>di</strong>es<br />
presso l’Hampshire College del Massachusetts. Si pensi che tra il 1990 e<br />
1999 sono scoppiati 49 conflitti regionali e in ben 46 le sole armi usate<br />
erano armi leggere quali AK-47, M-16, mortai o mine 50 . Secondo l’ONU<br />
nel mondo ci sarebbero 550 milioni <strong>di</strong> armi leggere, ma solo 18 milioni<br />
sono in mano ad eserciti o polizia 51 . Temibili sono anche le bombe IED<br />
(Improvised Explosive Devices) costruite in parte con materiale militare in<br />
parte con ciò che si riesce a trovare sul mercato 52 . Questa tipologia <strong>di</strong> or<strong>di</strong>gni<br />
ha creato problemi alle truppe statunitensi in Iraq tanto che il Pentagono<br />
ha <strong>di</strong>sposto l’invio <strong>di</strong> robot per la loro in<strong>di</strong>viduazione. Sono bombe<br />
ru<strong>di</strong>mentali facili da costruire, ma molto <strong>di</strong>fficili da in<strong>di</strong>viduare perché<br />
collocate ai bor<strong>di</strong> delle strade e fatte esplodere al passaggio delle truppe.<br />
Tale mercato è estremamente pericoloso per due motivi. In primo luogo<br />
offre mezzi <strong>di</strong> offesa efficaci a terroristi, criminali, guerriglieri aumentando<br />
le loro capacità operative e le aspettative <strong>di</strong> sopravvivenza. In secondo luogo<br />
lo fa a prezzi contenuti se messi in relazione ai guadagni derivanti da altri<br />
traffici. Per esempio con 50 euro in Cambogia si può acquistare un AK47.<br />
Un lanciagranate russo RPG7 vale intorno ai 200 euro 53 . Per ottenere invece<br />
un missile terra aria SAM-7 occorrono 4000 euro. Questo è un investimento<br />
più sostanzioso, ma permette, a chi lo compie, <strong>di</strong> spiccare un salto <strong>di</strong> qualità<br />
guadagnando una certa capacità <strong>di</strong> deterrenza nei confronti delle forze <strong>di</strong><br />
sicurezza 54 . Inoltre, a volte, per mutare gli equilibri regionali non sono<br />
216
Nuove guerre<br />
necessari investimenti sostanziosi. Come ha <strong>di</strong>mostrato l’UNITA negli anni<br />
novanta spendendo al mercato nero delle armi i guadagni ottenuti dal traffico<br />
illegale <strong>di</strong> <strong>di</strong>amanti 55 .<br />
Il legame tra criminalità e terrorismo è evidente osservando le <strong>di</strong>verse<br />
modalità con cui i vari gruppi terroristi si finanziano. Oltre ai traffici sopra<br />
elencati risultano <strong>di</strong> particolare importanza i rapimenti con i relativi riscatti.<br />
Emblema <strong>di</strong> quest’attività è l’ENL (il secondo gruppo guerrigliero della<br />
Colombia) che nel solo 2000 ha compiuto ben 3.707 rapimenti 56 . In questi<br />
ultimi anni la criminalità e il terrorismo sono <strong>di</strong>ventati sempre più simili,<br />
ma secondo Fabio Armao, docente <strong>di</strong> Relazioni Internazionali presso<br />
l’Università <strong>di</strong> Torino, li <strong>di</strong>fferenzia ancora l’uso della violenza: più<br />
strumentale per le mafie, più finalizzato ad un progetto sovversivo per il<br />
terrorismo 57 .<br />
Altri traffici molto red<strong>di</strong>tizi sono legati alla pirateria. Questo è un<br />
fenomeno in forte ascesa se pensiamo che nel 2001 ci sono stati 250 atti <strong>di</strong><br />
pirateria mentre nel 2003 nella sola Asia se ne sono registrati 276 <strong>di</strong> cui<br />
121 in Indonesia 58 .<br />
Un’altra figura che si credeva scomparsa ed oggi tornata alla ribalta è<br />
quella del mercenario. Storicamente gli eserciti <strong>di</strong> tutti le epoche ne hanno<br />
fatto uso, ma con la nascita degli stati nazionali e dei rispettivi eserciti<br />
nazionali l’uso dei mercenari si riduce drasticamente fino ad arrivare al<br />
1947 con il protocollo <strong>di</strong> Ginevra che li mette fuori legge, cosicché le<br />
compagnie d’oggi non si definiscono mercenarie. Le <strong>di</strong>fferenze tra queste e<br />
i mercenari del passato sono profonde. Mentre i secon<strong>di</strong> erano assunti per<br />
un solo compito, spesso mancavano <strong>di</strong> coesione, <strong>di</strong>sciplina e quin<strong>di</strong> avevano<br />
un impatto limitato sulle operazioni. Le attuali compagnie, come nota Peter<br />
W. Singer Olin Fellow del Foreign Policy Stu<strong>di</strong>es Program del Brookings<br />
Institution, hanno una forma corporativa, sono gerarchicamente organizzate<br />
e legate a hol<strong>di</strong>ng finanziarie; inoltre offrono una gamma <strong>di</strong> servizi. La<br />
corporazione è l’elemento <strong>di</strong>stintivo tra le moderne compagnie e i vecchi<br />
mercenari il che le rende più efficienti ed efficaci 59 .<br />
Singer in<strong>di</strong>vidua tre ragioni che portano alla privatizzazione del settore<br />
militare. In primo luogo la fine della guerra fredda ha costretto gli eserciti a<br />
ristrutturarsi riducendo il personale e ha lasciato molti paesi, specie in Africa,<br />
senza più alleati e aiuti esterni. In secondo luogo la trasformazione della<br />
guerra con l’introduzione del RMA ha aumentato la necessità <strong>di</strong> tecnologia,<br />
una domanda cui spesso ha dato risposta il settore civile. Inoltre i moderni<br />
e tecnologici eserciti sono molto <strong>di</strong>pendenti dalla logistica, un settore sempre<br />
217
Andrea Beccaro<br />
più occupato da compagnie private. Infine Singer sottolinea il processo <strong>di</strong><br />
privatizzazione che si è affermato dagli anni ottanta. Questa è l’ultima<br />
conseguenza del neo-liberismo base della globalizzazione 60 . Se questi sono<br />
fattori esterni alle compagnie, Francesco Vignarca ne in<strong>di</strong>ca altri che ne<br />
facilitano lo sviluppo. Innanzitutto queste imprese hanno costi <strong>di</strong> valutazione<br />
del personale pari a zero poiché le capacità del singolo possono essere<br />
facilmente dedotte dal suo curriculum e dal suo avanzamento <strong>di</strong> grado<br />
nell’esercito. In secondo luogo la compagnia non ha spese d’addestramento<br />
del personale essendo già addestrato 61 . È importante sottolineare il punto<br />
poiché molte compagnie sono spesso assoldate per addestrare eserciti. Così<br />
guadagnano in un primo momento per il lavoro svolto e successivamente<br />
assumendo una persona già competente ed operativa.<br />
Esiste anche un problema <strong>di</strong> definizione, perché nei primi stu<strong>di</strong> si<br />
<strong>di</strong>stingueva tra Private Military Company e Private Security Company, ma<br />
allo stato attuale sembra più corretta l’interpretazione <strong>di</strong> Singer che parla <strong>di</strong><br />
Private Military Firms. Il termine firms in<strong>di</strong>ca un gruppo economico, dato<br />
che queste organizzazioni sono guidate dal profitto legato al commercio in<br />
servizi professionali in qualche modo inerenti alla guerra 62 .<br />
Si tratta <strong>di</strong> un fenomeno <strong>di</strong>fficilmente arginabile perché sia gli stati sia<br />
altre entità, come organizzazioni internazionali <strong>di</strong> varia natura o compagnie<br />
commerciali, avranno sempre più bisogno <strong>di</strong> servizi militari e <strong>di</strong> sicurezza.<br />
Lo <strong>di</strong>mostrano le cifre. Nel 2003 l’8 per cento del bilancio della Difesa<br />
americano è stato assorbito da contratti privati 63 . Sempre l’America tra il<br />
1994 e il 2002 ha stipulato 3.061 contratti con 12 <strong>di</strong>verse compagnie per<br />
un totale <strong>di</strong> 300 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> dollari 64 . La DynCorp, una delle più importanti<br />
PMF, opera da anni in Qatar e Kuwait ed ora addestra la polizia dell’Iraq<br />
post-Saddam oltre a gestire la sicurezza <strong>di</strong> Ahmid Karzai in Afghanistan 65 .<br />
Singer in<strong>di</strong>vidua tre <strong>di</strong>verse tipologie. La prima è quella delle compagnie<br />
con capacità militari <strong>di</strong>rettamente applicabili ad azioni belliche. Offrono<br />
addestramento, comandanti, capacità <strong>di</strong> combattimento e sono composte<br />
<strong>di</strong> ex ufficiali delle forze speciali o altri militari altamente addestrati. I loro<br />
clienti sono principalmente soggetti, statali o meno, con scarse capacità<br />
militari. Tipica è l’Executive Outcomes nata nel 1989 e composta <strong>di</strong> veterani<br />
sudafricani. La sua prima operazione fu in Angola nel 1992. Dopo le elezioni<br />
l’ONU <strong>di</strong>chiara vincente il MPLA (Movimento Popolare per l’In<strong>di</strong>pendenza<br />
dell’Angola), ma l’UNITA (Unione per la Totale In<strong>di</strong>pendenza dell’Angola)<br />
non accetta il risultato delle urne e imme<strong>di</strong>atamente il conflitto interno si<br />
riaccende. L’UNITA acquista il controllo <strong>di</strong> circa l’80 per cento del paese<br />
218
Nuove guerre<br />
tra cui la riserva petrolifera <strong>di</strong> Soyo. A questo punto <strong>di</strong>verse compagnie<br />
petrolifere assumono l’Executive Outcomes per riconquistarla. Nel maggio<br />
del 1995 la ritroviamo in Sierra Leone dove per conto del governo pianifica<br />
e conduce alcune operazioni tra cui sorveglianza aerea, intercettazioni,<br />
counter-intelligence 66 . Tra i suoi compiti c’era anche quello <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere una<br />
miniera <strong>di</strong> <strong>di</strong>amanti la quale rimase sotto il suo controllo per qualche tempo<br />
perché il governo non è in grado <strong>di</strong> pagarla 67 .<br />
Una seconda tipologia comprende compagnie che offrono consultazioni<br />
e addestramento, servizi per le strutture tattiche, analisi strategiche, operative<br />
e organizzative. Sono composte per lo più da ufficiali in pensione. Non<br />
sono impiegate in combattimento e i loro contratti sono normalmente <strong>di</strong><br />
lunga durata e molto costosi. Celebre è la Military Professional Resources<br />
Inc. (MPRI) per la pianificazione e l’addestramento su larga scala. Fondata<br />
nel 1988 da ex militari americani provvede alla transizione democratica, al<br />
peacekeeping, all’antiterrorismo e alla sicurezza in genere. Sotto contratto<br />
del Dipartimento <strong>di</strong> Stato americano nel 1994, impiegò 45 osservatori in<br />
Croazia dove pianificò l’Operation Storm in Krajina nel 1995 che permise<br />
ai croati <strong>di</strong> respingere i serbi 68 .<br />
Un’ultima tipologia in<strong>di</strong>viduata da Singer è denominata Military Support<br />
Firms. Queste compagnie non partecipano alla pianificazione o all’esecuzione<br />
<strong>di</strong>retta dei combattimenti, ma offrono una serie completa <strong>di</strong> servizi<br />
funzionali: logistica, supporto tecnico e trasporto. I clienti più comuni per<br />
queste compagnie sono degli stati coinvolti in interventi imme<strong>di</strong>ati ma <strong>di</strong><br />
lunga durata 69 .<br />
Diverse sono le conseguenze legate alla privatizzazione dei conflitti e al<br />
sempre crescente ricorso a queste figure. Per prima cosa Singer nota come<br />
queste ultime cerchino il proprio profitto: quin<strong>di</strong> spesso potrebbero essere<br />
tentate, più che <strong>di</strong> portare a termine le operazioni belliche a favore del loro<br />
datore <strong>di</strong> lavoro, <strong>di</strong> perpetuare il conflitto in modo da continuare a<br />
guadagnare. Inoltre, con l’aumento dei rischi, una PMF potrebbe essere<br />
spinta o ad abbandonare la missione o, trovandosi ad operare in failed states<br />
dove spesso è la forza più forte in campo, a <strong>di</strong>fendere i suoi interessi 70 .<br />
L’analista americano Thomas K. Adams, pur evidenziando i problemi legati<br />
a queste compagnie, sostiene che sono solo le braccia degli stati. Singer non<br />
è d’accordo perché se è vero che spesso agiscono per conto <strong>di</strong> stati <strong>di</strong> cui<br />
aumentano la forza, queste compagnie sono attori privati in<strong>di</strong>pendenti che<br />
possono operare anche alle spalle dello Stato. Questo porta Singer a<br />
sottolineare un’altra conseguenza: una nuova fungibilità della forza militare.<br />
219
Andrea Beccaro<br />
Infatti dalla nascita del sistema degli stati in poi si è sempre sostenuto che la<br />
potenza economica non equivaleva imme<strong>di</strong>atamente a quella militare.<br />
Quest’ultima richiede tempo per essere costruita perché bisogna istituire<br />
un esercito, addestrarlo, dotarlo delle migliori armi, <strong>di</strong>slocarlo in zone<br />
strategiche. Oggi chiunque, pagando, può procurarsi una forza militare <strong>di</strong><br />
tutto rispetto nel giro <strong>di</strong> settimane se non <strong>di</strong> giorni 71 . Questo significa che<br />
sia gruppi terroristi sia cartelli della droga possono avere capacità militari.<br />
Esempio <strong>di</strong> ciò è la compagnia israeliana Hod Hananit (punta <strong>di</strong> lancia)<br />
che ha operato a fianco dei cartelli colombiani <strong>di</strong> Medellin e <strong>di</strong> Calì oltre<br />
che per Pablo Escobar 72 . Anche stati con una popolazione ridotta, ma ricchi,<br />
possono crearsi un proprio esercito. Ciò chiaramente può mutare<br />
rapidamente gli equilibri <strong>di</strong> un’area specie in un momento storico come il<br />
nostro in cui i conflitti hanno carattere regionale. Infine anche il peso delle<br />
alleanze potrebbe <strong>di</strong>minuire: se un alleato non viene in soccorso lo Stato<br />
può sempre richiedere l’intervento <strong>di</strong> una PMF come già avvenuto in Papua<br />
Nuova Guinea e nell’ex Jugoslavia 73 . Qui, per esempio, i paesi arabi moderati<br />
volevano aiutare i mussulmani bosniaci. Per farlo, evitando critiche e minacce<br />
d’altri paesi, hanno assoldato la MPRI per addestrare i loro fratelli 74 .<br />
Come si può dedurre dai vari esempi qui riportati questi personaggi,<br />
nuovi solo per quanto riguarda il loro ruolo e peso nell’attuale politica<br />
internazionale, agiscono nelle zone più <strong>di</strong>sparate e sfruttano proprio la<br />
complessità crescente delle moderne operazioni belliche. Le situazioni in<br />
cui si crea un ambiente così caotico sono due: il conflitto etnico e le<br />
operazioni <strong>di</strong> pacificazione (il vero problema delle guerre moderne).<br />
Il conflitto etnico è una delle maggiori minacce per la sicurezza regionale,<br />
ma intervenire è estremamente <strong>di</strong>fficile perché le sue ra<strong>di</strong>ci possono essere<br />
molteplici e spesso tipiche del singolo caso, anche se problemi economici e<br />
ambientali, le conseguenze della fine della guerra fredda e la globalizzazione<br />
sono comuni a tutti 75 . Quest’ultima crea una <strong>di</strong>ssonanza tra chi la vive e chi<br />
la subisce che spesso è portato ad abbracciare politiche dell’identità esclusive.<br />
Se il mondo, come sostiene Serge Latuoche, docente presso l’Università <strong>di</strong><br />
Parigi, si sta occidentalizzando 76 ovvero uniformando al modello occidentale<br />
nel suo complesso, sicuramente una parte della popolazione recupererà le<br />
sue tra<strong>di</strong>zioni locali. Smith ammette che «più il mondo si trasformerà in un<br />
luogo privato delle sue peculiarità locali, più saranno gli in<strong>di</strong>vidui […] in<br />
cerca <strong>di</strong> protezione nelle tra<strong>di</strong>zioni» 77 .<br />
Conseguenze estreme <strong>di</strong> questa opposizione alla globalizzazione sono il<br />
terrorismo e il concetto <strong>di</strong> etnia. Questa è una costruzione simbolica che<br />
220
Nuove guerre<br />
arriva al termine <strong>di</strong> un processo storico-politico voluto e favorito da<br />
determinati gruppi sociali coa<strong>di</strong>uvati da alcuni intellettuali 78 . Il tutto è<br />
facilitato dall’aumentata istruzione e dai moderni mezzi <strong>di</strong> comunicazione<br />
che permettono una <strong>di</strong>ffusione più imme<strong>di</strong>ata, capillare, acritica e continua<br />
delle idee e notizie che si vogliono <strong>di</strong>ffondere 79 . Secondo Roberto Arbitrio,<br />
esperto del <strong>Centro</strong> per la prevenzione internazionale del crimine dell’ONU,<br />
i gruppi sociali interessati creano l’etnia perché «da un punto <strong>di</strong> vista<br />
strategico l’inganno etnico appare un ottimo strumento su cui costruire<br />
una progettualità <strong>di</strong> accesso facilitato al potere e alle risorse» 80 . L’identità<br />
etnica così creata è una contrapposizione violenta che si pone tra l’essere<br />
del proprio gruppo e il non essere dell’altro 81 . Queste guerre implicano<br />
ragioni identitarie e culturali che riguardano le ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> una società, i suoi<br />
valori e quin<strong>di</strong> non sono facilmente negoziabili. Da ciò deriva la loro lunga<br />
durata dal momento che si prolungano me<strong>di</strong>amente sei volte <strong>di</strong> più delle<br />
guerre tra<strong>di</strong>zionali. L’obiettivo è il controllo del territorio che <strong>di</strong> conseguenza<br />
va liberato dalla popolazione autoctona tramite stupri, omici<strong>di</strong> <strong>di</strong> massa,<br />
politiche dell’o<strong>di</strong>o che producono un altissimo numero <strong>di</strong> rifugiati. Queste<br />
sono, come sottolinea Arbitrio, precise strategie, non semplici atti <strong>di</strong> estrema<br />
violenza 82 . Una loro caratteristica peculiare è <strong>di</strong> essere a singhiozzo, per<br />
permettere alle parti <strong>di</strong> recuperare le forze, riorganizzarsi, riarmarsi grazie<br />
anche agli aiuti delle comunità della <strong>di</strong>aspora e riprendere la lotta in<br />
con<strong>di</strong>zioni migliori in un secondo momento 83 .<br />
Spesso il conflitto etnico avviene dove lo Stato non riesce più a controllare<br />
il territorio. Diversi possono essere gli in<strong>di</strong>catori <strong>di</strong> questa situazione:<br />
pressione demografica, ineguale sviluppo economico (spesso l’ineguaglianza<br />
è tracciata proprio da linee <strong>di</strong> demarcazione etnica), riven<strong>di</strong>cazioni per un<br />
qualche torto subito, criminalizzazione dello Stato e conseguente sua<br />
delegittimazione, stagnazione economica, progressivo deterioramento dei<br />
servizi pubblici, sospensione della legge, apparati <strong>di</strong> sicurezza che agiscono<br />
come uno Stato nello Stato 84 . Tutto questo porta anche alla crisi umanitaria<br />
caratterizzata da: carestia, malattie, rifugiati che sovraccaricano sistemi <strong>di</strong><br />
salute pubblica e <strong>di</strong> <strong>di</strong>stribuzione delle risorse già allo stremo 85 .<br />
Come spiega Arbitrio, anche il retaggio coloniale ha la sua importanza<br />
come si è visto nella guerra in Rwanda nel 1994 emblematica per due<br />
motivi 86 . In primo luogo essa ha <strong>di</strong>mostrato come in un conflitto etnico<br />
l’obiettivo non è lo Stato o il vecchio tiranno, ma la popolazione stessa<br />
spaccata da una <strong>di</strong>cotomia precisa tra un sé da <strong>di</strong>fendere e un altro che non<br />
ha <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> vita. In secondo luogo quando un paese è <strong>di</strong>viso da linee <strong>di</strong><br />
221
Andrea Beccaro<br />
demarcazione etniche la conflittualità resterà sempre. Questo perché alle<br />
elezioni si presenteranno partiti etnici che favoriranno la propria etnia<br />
colpendo le altre 87 .<br />
Secondo la Kaldor gli interventi, in ex Jugoslavia e Somalia per fare solo<br />
due esempi, sono finora falliti perché non si è compresa la vera natura del<br />
conflitto 88 . In tali contesti dove l’autorità dello Stato è scomparsa, dove<br />
<strong>di</strong>versi attori agiscono contemporaneamente e dove crimine, violenza e<br />
guerra si fondono non si può ragionare in termini classici. Nell’epoca della<br />
globalizzazione non bisogna vedere l’intervento come una violazione della<br />
sovranità 89 . Si sostiene che non s’interviene in luoghi come il Rwanda perché<br />
lontani da noi, ma il filosofo politico americano Michael Walzer si chiede<br />
«quanto a lungo sopravvivrà la civiltà qui se non c’è già lì?» 90 . Il problema<br />
<strong>di</strong> queste operazioni non dovrebbe essere la democrazia, la libertà,<br />
l’allargamento del mercato o quant’altro ma «fermare azioni che scuotono<br />
la coscienza» 91 . Inoltre spesso è la paura dei rischi a bloccare l’operazione<br />
ma, come nota il filosofo, «interventi incruenti e missioni <strong>di</strong> pace sono una<br />
contrad<strong>di</strong>zione in termini: se fossero possibili non sarebbero necessarie» 92 .<br />
Per Steven Metz, analista presso l’SSI, bisogna avere un obiettivo limitato.<br />
Nel breve periodo si deve puntare a fronteggiare il <strong>di</strong>sastro umanitario e<br />
rispondere ai bisogni basilari. Sul lungo periodo si deve ripristinare il<br />
controllo civile per garantire un minimo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti umani 93 . Per Arbitrio le<br />
forze militari devono mettere in sicurezza alcune zone per ricreare le<br />
con<strong>di</strong>zioni per la convivenza civile. Solo dopo <strong>di</strong> ciò si può iniziare la caccia<br />
ai signori della guerra e tentare <strong>di</strong> ristabilire un or<strong>di</strong>ne giu<strong>di</strong>ziario. Il tutto<br />
però deve essere proporzionato alle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> sicurezza che si possono<br />
garantire 94 . Una missione non può <strong>di</strong>rsi coronata da successo se non riesce<br />
a separare le categorie etniche da quelle politiche. Un altro problema<br />
dell’intervento è che i <strong>di</strong>plomatici occidentali, per aprire delle trattative, si<br />
rivolgono ai signori della guerra locali legittimandoli e innalzando il loro<br />
profilo internazionale. Bisogna considerare che non sempre le parti in causa<br />
hanno la forza e le capacità per imporre quello che firmano 95 .<br />
È fondamentale comprendere che non esiste una formula strategica<br />
comune a tutti i conflitti. Da situazione a situazione variano le cause della<br />
violenza, i protagonisti, l’ambiente geopolitico circostante e il rischio <strong>di</strong><br />
escalation. Ne consegue che ogni conflitto deve avere la sua strategia <strong>di</strong>retta<br />
contro specifiche capacità del nemico e contro il suo centro <strong>di</strong> gravità 96 .<br />
Metz propone una griglia interpretativa identificando tre tipologie <strong>di</strong><br />
conflitto: controllato, accidentale e involontario. Il primo è il più semplice<br />
222
Nuove guerre<br />
perché si tratta <strong>di</strong> una situazione in cui il governo centrale deliberatamente<br />
utilizza mezzi violenti per mantenere la sicurezza interna e consolidare il<br />
regime. In tali frangenti potrebbero bastare pressioni <strong>di</strong>plomatiche per<br />
arrivare a una conclusione 97 .<br />
Più complesso è invece il <strong>di</strong>scorso per gli altri due modelli. Infatti se il<br />
conflitto è accidentale significa che il potere centrale è collassato e quin<strong>di</strong><br />
viene a mancare la controparte con cui <strong>di</strong>alogare. In questo e nel terzo<br />
modello si rende necessario l’intervento militare con tutti i rischi correlati 98 .<br />
Importante è inoltre capire, come Creveld ha fatto notare 99 , che questi<br />
conflitti sono spesso guidati da interessi emotivi e non, come noi siamo<br />
abituati a pensare, da un movente razionale 100 . Già nel 1994 il maggiore<br />
dell’U.S. Army Ralph Peters giungeva alla conclusione che in futuro i soldati<br />
si dovranno sempre più scontrare con «guerrieri» 101 . Le <strong>di</strong>fferenze tra i due<br />
sono molte e profonde, simili a quelle con i mercenari ma non identiche. Il<br />
soldato si sacrifica, mentre il guerriero cerca il bottino, non punta alla<br />
conclusione delle ostilità, ma alla loro prosecuzione per continuare a<br />
guadagnare e a sopravvivere. Il soldato è inserito in una struttura organizzata<br />
e <strong>di</strong>sciplinato 102 . Il guerriero invece è un in<strong>di</strong>vidualista poco o per nulla<br />
<strong>di</strong>sciplinato. Mentre il soldato ubbi<strong>di</strong>sce allo Stato, ad un or<strong>di</strong>ne legale, il<br />
guerriero è legato ad una figura carismatica, ad una causa, a chi lo paga ed<br />
agisce sempre al <strong>di</strong> fuori della legge. Se il soldato cerca <strong>di</strong> ristabilire un<br />
or<strong>di</strong>ne il guerriero punta a <strong>di</strong>struggerlo. I guerrieri rispondono<br />
asimmetricamente, «non giocano secondo le nostre regole» e non rispettano<br />
trattati od or<strong>di</strong>ni. Ne consegue, secondo Peters, che non si può scendere a<br />
compromessi con loro. Una semplice <strong>di</strong>mostrazione <strong>di</strong> forza fatta con lo<br />
scopo <strong>di</strong> «insegnargli una lezione» non ha nessuna vali<strong>di</strong>tà e a <strong>di</strong>mostrarlo<br />
ci sono le esperienze con Milosevic e Saddam. Per loro non esiste una via <strong>di</strong><br />
mezzo: o si vince o si perde 103 .<br />
Intervenire in tali frangenti è complesso e complicato: per questo Metz<br />
sottolinea quattro principi fondamentali. Il primo passo è stabilire quando<br />
intervenire. Molti pensano che sia necessario intervenire il prima possibile.<br />
Sarebbe ancora meglio se si potesse prevenire 104 .<br />
Un secondo principio è <strong>di</strong> avere a <strong>di</strong>sposizione un’ampia gamma <strong>di</strong> mezzi<br />
e forze. Le agenzie civili sono fondamentali e devono essere responsabilizzate<br />
in modo da non sovraccaricare <strong>di</strong> compiti quelle militari che hanno il solo<br />
compito <strong>di</strong> ristabilire l’or<strong>di</strong>ne. Una volta fatto ciò servono a poco, perché il<br />
conflitto etnico o la pacificazione post-bellica richiedono una soluzione<br />
politica non militare 105 . Quello che comunque sembra sempre necessario è<br />
223
Andrea Beccaro<br />
un triplice set <strong>di</strong> forze. Alte capacità militari per <strong>di</strong>struggere le forze ostili.<br />
Forze dell’or<strong>di</strong>ne, <strong>di</strong> polizia o paramilitari, per contenere e controllare la<br />
violenza comune. Giu<strong>di</strong>ci per creare e far funzionare un buon sistema<br />
giu<strong>di</strong>ziario 106 . L’intervento deve sempre essere multinazionale ma l’alleanza<br />
internazionale deve mantenersi compatta. Le truppe sul terreno e i<br />
<strong>di</strong>plomatici devono rimanere equi<strong>di</strong>stanti dalle parti in lotta 107 .<br />
Bisogna saper modulare lo strumento <strong>di</strong>plomatico e militare. A questo<br />
proposito è bene ricordare la frase del generale inglese Sir Micheal Rose<br />
comandante dell’Unprofor in Bosnia nel 1994: «Non si può fare la guerra<br />
nascosti <strong>di</strong>etro veicoli <strong>di</strong>pinti <strong>di</strong> bianco!» 108 . Il generale americano William<br />
A. Stofft sottolinea come i limiti posti dalla politica ai criteri dell’operazione<br />
siano fondamentali. Perché se il centro <strong>di</strong> gravità del nemico è posto al <strong>di</strong><br />
fuori della cornice politica stabilita, l’intervento non potrà avere successo.<br />
Le tipiche costrizioni politiche sono: mancanza <strong>di</strong> supporto, <strong>di</strong> coesione e<br />
l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> evitare obiettivi esterni alla zona <strong>di</strong> intervento. Così, per eludere<br />
il rischio <strong>di</strong> un escalation, se un gruppo guerrigliero ottiene appoggio<br />
dall’esterno non si possono colpire le sue fonti, ma queste rappresentano<br />
proprio uno dei centri <strong>di</strong> gravità che andrebbero eliminati 109 .<br />
Il terzo principio <strong>di</strong> Metz è valutare bene il contributo che l’esercito può<br />
dare. Di fondamentale importanza oltre alla fanteria sono: le operazioni<br />
psicologiche per dare legittimità al nuovo governo; i genieri per i primi<br />
passi della ricostruzione; la polizia militare 110 .<br />
Il quarto principio è la strategia d’uscita. Questo è un problema spinoso<br />
come mette in luce Jeffrey Record, professore all’Air War College in Alabama,<br />
perché la strategia è un piano <strong>di</strong> azione militare per raggiungere un obiettivo<br />
politico 111 . L’uso della forza senza calcolare le possibili reazioni del nemico<br />
non rientra in tale definizione. La strategia richiede la formulazione <strong>di</strong> un<br />
desiderio politico sulla forma della fine del conflitto e <strong>di</strong> conseguenza implica<br />
l’applicazione della forza sufficiente per ottenerlo. Non sempre però si può<br />
avere una strategia d’uscita. Un paese che è attaccato <strong>di</strong>viene l’oggetto<br />
dell’azione militare e non il soggetto, e quin<strong>di</strong> raramente ha una strategia<br />
d’uscita. In secondo luogo la strategia d’uscita è un ostaggio delle attività<br />
militari, <strong>di</strong>fatti una sconfitta o una vittoria sul campo <strong>di</strong> battaglia possono<br />
profondamente mutare gli obiettivi politici. Terzo elemento da considerare<br />
per Record è il fatto che l’intervento implica delle responsabilità nel periodo<br />
post bellico che spesso «richiedono una presenza militare continuata nel<br />
tempo o almeno una cre<strong>di</strong>bile minaccia <strong>di</strong> un ritorno dei militari» 112 . In<br />
sintesi si può scegliere dove e come intervenire ma non la durata del conflitto<br />
224
Nuove guerre<br />
e il suo risultato. Una volta iniziata la guerra la politica <strong>di</strong>viene un ostaggio<br />
dei risultati militari.«Ciò significa che avere in mente una strategia d’uscita<br />
non è la stessa cosa <strong>di</strong> essere in grado <strong>di</strong> realizzarla» 113 .<br />
Molti dei problemi propri <strong>di</strong> queste operazioni si sono riscoperti prima<br />
in Afghanistan poi in Iraq 114 . Qui il problema principale sembra essere la<br />
pianificazione del dopo guerra, come hanno messo in evidenza il generale<br />
Wesley Clark (comandante dell’Operazione Allied Force in Kosovo nel 1999)<br />
a proposito del conflitto iracheno 115 e il generale italiano Fabio Mini circa<br />
il Kosovo e Timor Est. In questi paesi la ricostruzione è ancora lontana:<br />
questo perché l’amministrazione internazionale è «un caos burocratico fra<br />
le varie agenzie i cui funzionari comunque facevano la bella vita tra Range<br />
Rovers climatizzate e altre piacevolezze» 116 . Inoltre dopo più <strong>di</strong> cinque anni<br />
<strong>di</strong> amministrazione internazionale restano da risolvere «seri problemi <strong>di</strong><br />
vuoto legislativo, in particolare nel sistema giu<strong>di</strong>ziario […] e nella legislazione<br />
commerciale» 117 .<br />
Il problema non è la mancanza <strong>di</strong> risorse, ma l’inefficienza con cui sono<br />
sperperate poiché spesso le organizzazioni ne assorbono <strong>di</strong> più per vivere <strong>di</strong><br />
quelle che <strong>di</strong>stribuiscono alla popolazione. Il Kosovo è <strong>di</strong>ventato così per<br />
Mini «un coacervo <strong>di</strong> iniziative umanitarie non coor<strong>di</strong>nate e <strong>di</strong> violenza da<br />
parte <strong>di</strong> irriducibili albanesi, volontari venuti dall’estero, mercenari inglesi,<br />
americani, olandesi, sudafricani ed estremisti islamici» 118 . Le frange più<br />
ra<strong>di</strong>cali dell’UCK si sono date al terrorismo soprattutto nelle zone cuscinetto.<br />
Il governo è completamente corrotto e non funziona. I serbi sono al sicuro<br />
solo nelle zone <strong>di</strong>fese dalla KFOR (la forza multinazionale <strong>di</strong> pace) 119 . La<br />
violenza interna e la criminalità, con un tasso <strong>di</strong> <strong>di</strong>soccupazione del 60 per<br />
cento, sono molti presenti. L’unica istituzione che goda <strong>di</strong> un minimo <strong>di</strong><br />
fiducia è la stessa KFOR 120 .<br />
Mini arriva alla conclusione che l’ONU si mobilita rapidamente, ma<br />
senza un’unità <strong>di</strong> comando e senza aver prima stabilito piani precisi <strong>di</strong><br />
intervento per ottenere degli obiettivi. Di conseguenza investe subito enormi<br />
cifre per creare tutto l’occorrente per far lavorare la sua burocrazia sul luogo<br />
lasciando poco o niente per il prosieguo 121 .<br />
Il fatto incre<strong>di</strong>bile però è che sia il Kosovo che Timor vivono solo sugli<br />
aiuti internazionali che rappresentano le loro uniche entrate, senza le quali<br />
nemmeno la criminalità potrebbe sopravvivere 122 . Visti i risultati sembra<br />
evidente che in questo modo non si stabilizzano le aree <strong>di</strong> conflitto e non si<br />
va in aiuto della popolazione locale, ma si creano solo nuovi luoghi dove<br />
criminalità, terrorismo, insicurezza, violenza e instabilità possono<br />
225
Andrea Beccaro<br />
proliferare 123 . Questo perché ciò che emerge dalle moderne operazioni<br />
militari che vedono coinvolte organizzazioni umanitarie è il peso sempre<br />
crescente che ha assunto il saccheggio contro <strong>di</strong> loro come elemento<br />
principale della logistica 124 . Matthew LeRiche, ricercatore presso l’Università<br />
<strong>di</strong> Londra, definisce «l’uso del sistema degli aiuti umanitari come sistema<br />
<strong>di</strong> supporto logistico per la guerra una delle tattiche più trascurate [dagli<br />
analisti] della guerra moderna» e ciò è causa, secondo l’autore, <strong>di</strong> numerosi<br />
insuccessi 125 . Le <strong>di</strong>verse organizzazioni, pur <strong>di</strong>chiarandosi super partes, in<br />
realtà appoggiano involontariamente una delle due parti in lotta. Infatti i<br />
guerriglieri feriti in combattimento spesso si spacciano per inermi civili<br />
colpiti per sbaglio per essere assistiti. I combattenti cercano <strong>di</strong> <strong>di</strong>rigere i<br />
movimenti delle popolazioni in modo che gli aiuti delle ONG si spostino<br />
in zone prescelte controllate da loro. Anche i governi traggono vantaggi da<br />
questo sistema poiché lasciare il sostentamento e la cura <strong>di</strong> parte della<br />
popolazione ad agenzie esterne alleggerisce le finanze statali permettendo<br />
investimenti in altri settori, quali mercenari ed armi. I campi profughi sono<br />
ideali per gestire attività criminali o per <strong>di</strong>ffondere la propria ideologia.<br />
Inoltre <strong>di</strong>ventano ottimi centri per il reclutamento spesso anche <strong>di</strong> bambini<br />
soldato, un’altra figura delle guerre moderne 126 . Spesso la stessa guerra si<br />
prolunga proprio per continuare ad usufruire degli aiuti umanitari che a<br />
loro volta non cessano finché la guerra prosegue. Le ONG e l’ONU per<br />
operare sono sovente costrette a pagare i combattenti i quali sanno<br />
perfettamente che non potrebbero vivere senza gli aiuti, ma sanno anche<br />
che l’unica minaccia che le ONG possono portare è quella <strong>di</strong> ritirarsi, cosa<br />
che ben <strong>di</strong>fficilmente avverrà 127 .<br />
Per cercare <strong>di</strong> capire questi problemi William Flavin, colonnello e<br />
professore all’US Army Peacekeeping Institute, <strong>di</strong>fferenzia tra cessazione e<br />
risoluzione del conflitto. La prima in<strong>di</strong>ca la conclusione dei combattimenti<br />
militari che possono fermarsi anche senza che le reali cause che li hanno<br />
scatenati siano state risolte. D’altronde già Hobbes <strong>di</strong>ceva che «la guerra<br />
[…] non consiste solo nella battaglia o nell’atto <strong>di</strong> combattersi, ma in uno<br />
spazio <strong>di</strong> tempo in cui la volontà <strong>di</strong> affrontarsi in battaglia è sufficientemente<br />
<strong>di</strong>chiarata» 128 . Così il conflitto, anche se da un punto <strong>di</strong> vista puramente<br />
militare si è concluso, può continuare in altre forme come il terrorismo, la<br />
guerriglia, l’insurrezione, azioni politiche o una semplice <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza<br />
civile 129 . Per evitare che ciò avvenga bisogna eliminare le cause del conflitto,<br />
ma questo è un processo lungo e un problema più civile che militare. Per<br />
Flavin la pianificazione del post conflitto dovrebbe iniziare il prima possibile,<br />
226
Nuove guerre<br />
coinvolgere una pluralità <strong>di</strong> agenzie ed essere multinazionale. Dovrebbe<br />
avere chiari obiettivi, con la consapevolezza che col mutare delle con<strong>di</strong>zioni<br />
questi potrebbero cambiare e che quin<strong>di</strong> sono necessarie adattabilità e<br />
flessibilità. Spesso si insiste per chiari obiettivi politici e precisi limiti <strong>di</strong><br />
tempo, ma Flavin sottolinea come questi due punti siano in realtà un danno.<br />
Infatti porre dei chiari obiettivi politici vorrebbe <strong>di</strong>re non potersi adattare<br />
alle circostanze mutevoli. Il limite <strong>di</strong> tempo è una costrizione ancor più<br />
grave perché i guerriglieri possono semplicemente attendere quella data,<br />
far ritirare le truppe straniere per poi riprendere le loro attività 130 .<br />
Il richiamo a pianificare in anticipo il periodo post-bellico era già stato<br />
formulato da Clausewitz all’inizio del secolo XIX. Infatti il generale prussiano<br />
<strong>di</strong>stingueva due tipi <strong>di</strong> guerra proprio in base alla forma della pace che si<br />
voleva raggiungere: il tentativo <strong>di</strong> abbattere il nemico per imporre una pace<br />
a propria <strong>di</strong>screzione, oppure solo qualche piccola conquista da scambiare<br />
con il nemico durante le trattative 131 .<br />
Come si è cercato <strong>di</strong> mettere in evidenza, l’ambiente delle guerre moderne<br />
è particolarmente complesso. Terroristi si sovrappongono a criminali,<br />
guerriglieri a mercenari, soldati a operatori umanitari. In più bisogna<br />
considerare che tutto ciò non esaurisce il <strong>di</strong>scorso sulla guerra moderna perché<br />
le potenze nucleari stanno aumentando e il concetto <strong>di</strong> deterrenza, anche se<br />
non più a livello globale come in passato, ha ancora una sua importanza su<br />
scala regionale. Potremmo <strong>di</strong>re che oggi convivono tre <strong>di</strong>verse tipologie <strong>di</strong><br />
guerre. Quelle moderne che rappresentano la classica dottrina <strong>di</strong> due o più<br />
eserciti <strong>di</strong> stati rivali che cercano <strong>di</strong> scontrarsi in battaglia manovrando in<br />
terra, cielo e mare. Guerre post-moderne caratterizzate dall’avversione<br />
occidentale verso le proprie per<strong>di</strong>te e quin<strong>di</strong> per evitarle si punta tutto sull’alta<br />
tecnologia. Per molti esperti le vere «nuove guerre» sono proprio queste guidate<br />
dai concetti strategici nati con l’RMA. Questo tipo <strong>di</strong> guerra però ha già<br />
creato il suo antidoto: la guerra asimmetrica intesa non solo come terrorismo<br />
ma anche nell’ottica della proliferazione delle armi <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> massa<br />
oppure <strong>di</strong> operazioni finanziarie 132 . Infine ci sarebbero guerre pre-moderne<br />
dove i fattori sociali hanno un peso maggiore <strong>di</strong> quelli tecnologici. Potrebbero<br />
essere meglio descritte con l’immagine <strong>di</strong> «sangue e ferro» perché sono guerre<br />
dove agisco attori non statali ed etnici 133 .<br />
Da questo percorso ricco <strong>di</strong> sfaccettature e assolutamente non esaustivo<br />
del problema si può comunque dedurre che le forme della guerra sono<br />
cambiate; ma è mutata anche la sua natura? Clausewitz <strong>di</strong>stingueva tra la<br />
natura oggettiva e quella soggettiva. Mentre la seconda è mutevole perché<br />
227
Andrea Beccaro<br />
legata a fattori socio-politici contingenti, la prima è immutabile ed è<br />
caratterizzata dal pericolo, dall’incertezza e dal caso. Un’altra caratteristica<br />
della guerra per il generale prussiano è il suo carattere camaleontico, infatti<br />
nel Libro VIII ci ricorda che «ogni epoca ha le sue proprie forme <strong>di</strong> guerra,<br />
le sue con<strong>di</strong>zioni restrittive, i suoi pregiu<strong>di</strong>zi» 134 .<br />
Se ne deduce che se in questi anni sono cambiati armamenti, attori e<br />
tecnologie non ne consegue che sia veramente mutata la natura profonda<br />
della guerra. Le «nuove guerre» sono forse nuove per quanto riguarda i<br />
mezzi o i protagonisti ma, come sottolinea Colin S. Gray, professore <strong>di</strong><br />
politica internazionale presso l’Università <strong>di</strong> Rea<strong>di</strong>ng, riprendendo<br />
Tuci<strong>di</strong>de, riguardano oggi come nel V secolo a.C.: la paura, l’onore e gli<br />
interessi 135 .<br />
228<br />
Note al testo<br />
1 C. JEAN, L’uso della forza. Se vuoi la pace compren<strong>di</strong> la guerra, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 3.<br />
2 M. VAN CREVELD, The Transformation of War, The Free Press, New York 1991.<br />
3 R. GILPIN, The Theory of Hegemonic War, in «The Journal of Inter<strong>di</strong>sciplinary History», vol.<br />
18, n. 4, 1988, pp. 591-613.<br />
4 G. E. RUSCONI, Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einau<strong>di</strong>,<br />
Torino 1999.<br />
5 C. TILLY, War Making and State Making as Organized Crime, citato in P. P. PORTINARO, Stato,<br />
Il Mulino, Bologna 1999, p. 49.<br />
6 Questa definizione è nata tra gli anni settanta e ottanta all’interno del <strong>di</strong>battito americano.<br />
7 M. VAN CREVELD, The Transformation of War cit., p. 22. Warre in<strong>di</strong>ca proprio confusione,<br />
<strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a o contrasto.<br />
8 S. METZ, J. KIEVIT, Strategy and the Revolution in Military Affairs: from Theory to Policy,<br />
Strategic Stu<strong>di</strong>es Institute US Army College, Carlisle Barracks (PA) June 1995.<br />
9 Per citare i più noti anche se partono da considerazioni <strong>di</strong>verse e non tutti usano il termine<br />
«nuove guerre»: M. VAN CREVELD, The Transformation of War, cit.; M. KALDOR, Le nuove guerre.<br />
La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma 2001; A. TOEFFLER, H. TOEFFLER, War<br />
and Anti-War. Survival at the dawn of 21 st Century, Little, Brown & Co., New York 1993.<br />
10 M. VAN CREVELD, The rise and the decline of the state, University Press, Cambridge 1999.
Nuove guerre<br />
11 Ad esempio nella crisi dei missili a Cuba nel 1962 l’America, pur contando su un vantaggio<br />
<strong>di</strong> 10 a 1 nei sistemi <strong>di</strong> lancio rispetto all’Unione Sovietica, non ha iniziato le ostilità. Ivi, p.<br />
344.<br />
12 Ivi p. 345 La Germania per l’Operazione Barbarossa impiegò 144 <strong>di</strong>visioni, per un totale <strong>di</strong><br />
circa 3,4 milioni d’uomini. Mentre una coalizione <strong>di</strong> più paesi nella guerra del Golfo del 1991<br />
impiegò in tutto 550.000 uomini circa.<br />
13 Questa considerazione è rimasta valida fino al 2001, perché ora sono cadute già due capitali<br />
(Kabul e Baghdad). Inoltre con l’operazione Iraqi Freedom l’esercito americano ha manovrato<br />
su un territorio abbastanza vasto, circa 437.000 chilometri quadrati.<br />
14 Per un approfon<strong>di</strong>mento sulla privatizzazione dei conflitti cfr. F. ARMAO, La rinascita del<br />
privateering: lo Stato e il nuovo mercato della guerra, in A. D’ORSI, Guerre globali. Capire i<br />
conflitti del XXI secolo, Carocci, Roma 2003.; R. MANDEL, The Privatization of Security, in<br />
Armed Forces & Society, vol. 28, n. 1 Fall 2001, pp. 129-151.<br />
15 A. D. SMITH, Nazioni e nazionalismo nell’era globale, Asterios, Trieste 2000 p. 12.<br />
16 Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 1999.<br />
17 U. BECK, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci,<br />
Roma 1999, p.13.<br />
18 C. GALLI, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari 2002.<br />
19 Ivi, p. 48.<br />
20 Ibidem.<br />
21 M. EVANS, From Kadesh to Kandahar. Military Theory and the Future of War, in «Naval War<br />
College Review», Summer 2003, vol. LVI, n. 3, pp. 132-150.<br />
22 M. NAIM, The five Wars of Globalization, in «Foreign Policy», January/February 2003.<br />
23 Ibidem.<br />
24 B. R. BARBER, Guerra santa contro McMondo. La sfida del terrorismo alla democrazia, Marco<br />
Tropea E<strong>di</strong>tore, Milano 2002, p. 60.<br />
25 B. R. BARBER, L’impero della paura. Potenza e impotenza dell’America nel nuovo millennio,<br />
Einau<strong>di</strong>, Torino 2004, p. XXII.<br />
26 A. J. ECHEVARRIA, Globalization and the Nature of War, Strategic Stu<strong>di</strong>es Institute US Army<br />
College, Carlisle Barracks (PA) March 2003.<br />
27 Ibidem.<br />
229
Andrea Beccaro<br />
28 A. D. SMITH, Nazioni e nazionalismo cit., p.116. Dal 1991 sono stati riconosciuti 18 nuove<br />
entità statuali.<br />
29 B. R. BARBER, L’impero della paura cit., p. 54.<br />
30 E. J. VILLACRES, C. BASSFORD, Reclaiming the Clausewitzian Trinity, in «Parameters», vol.<br />
XXV, Autumn 1995, pp. 9-19.<br />
31 Ibidem<br />
32 J. MEARSHEIMER, La logica <strong>di</strong> potenza. L’America, le guerre, il controllo del mondo, Università<br />
Bocconi E<strong>di</strong>tore, Milano 2003, soprattutto il capitolo10.<br />
33 Ivi, p. 331.<br />
34 Jean comunque nota come lo Stato abbia perso in questi ultimi anni il monopolio dell’uso<br />
della forza oltre a quello sull’economia e sull’informazione C. JEAN, Geopolitica del ventunesimo<br />
secolo, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 9.<br />
35 Ivi, p. 21.<br />
36 Ivi, p. VII.<br />
37 R. KAPLAN, The Coming Anarchy, in «Atlantic Monthly», 1994, n. 273, pp. 44-76. Ricor<strong>di</strong>amo<br />
anche il lavoro <strong>di</strong> Z. BRZEZINSKI, Il mondo fuori controllo. Gli sconvolgimenti planetari all’alba<br />
del XXI secolo, TEA, Milano 1995. Secondo l’autore il <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale deriverebbe dal<br />
vuoto geopolitico lasciato dal crollo dell’URSS nel cuore dell’Eurasia.<br />
38 THOMAS F. HOMER-DIXON, On The Threshold: Environmental Changes as Causes of Acute<br />
Conflict, in «International Security», vol. 16, n. 2 (Fall 1991), pp. 76-116.<br />
39 Portando alle estreme conseguenze questa parcellizzazione del potere alcuni teorici hanno<br />
parlato, all’inizio degli anni novanta, <strong>di</strong> Nuovo Me<strong>di</strong>oevo. Cfr. A. MINC, Il nuovo Me<strong>di</strong>oevo,<br />
Sperling & Kupfer, Milano 1994.<br />
40 L’articolo <strong>di</strong> Kaplan risale al 1994 ovvero a più <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci anni fa, nel frattempo l’ONU è<br />
intervenuto in queste aree con alcune operazioni <strong>di</strong> pace (UNAMSIL in Sierra Leone dal<br />
1999; UNMIL in Liberia dal settembre 2004) che hanno certamente attenuato la violenza,<br />
ma non risolto i problemi <strong>di</strong> fondo qui presi in considerazione.<br />
41 M. KALDOR, Le nuove guerre cit.<br />
42 S. CALVANI, M. MELIS, Saccheggio globale. La nuova criminalità del mondo senza frontiere,<br />
Sperling & Kupfer, Milano 2003, p. IX.<br />
43 P. S ARTORI, Il caso della Transnistria: mafie e terroristi nella terra <strong>di</strong> nessuno, in I quaderni<br />
speciali <strong>di</strong> Limes, quaderno speciale n. 1 del 2002 supplemento al n. 3/2002.<br />
230
Nuove guerre<br />
44 M. G. ROSKIN, Crime and Politics in Colombia: Considerations for US Involvement, in<br />
«Parameters», vol. XXI, Winter 2001-02, pp. 126-34<br />
45 Ibidem.<br />
46 S. R. PELLEY, The Impact of International Organized Crime On U.S. National Security Strategy,<br />
U.S. Army War College Carlisle Barracks (PA) March 2001. Per un approfon<strong>di</strong>mento sui<br />
problemi <strong>di</strong> definizione e sulle problematiche legate alla criminalità cfr. F. ARMAO, Il sistema<br />
mafia: dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; F. ARMAO, Le<br />
mafie: una prospettiva cosmpolitica, in Manuale <strong>di</strong> relazioni internazionali, a cura <strong>di</strong> G. J.<br />
Ikenberry, V. E. Parsi. Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 238-255.<br />
47 S. R. PELLEY, The Impact of International Organized Crime cit.<br />
48 S. CALVANI, M. MELIS, Saccheggio globale cit., p. 2.<br />
49 World Drug Report 2004, United Nations Office on Drugs and Crime, p. 65.<br />
50 M. KLARE,The Kalashnikov Age, in «Bulletin of the Atomic Scientist», vol. 55, n. 1, January/<br />
February 1999.<br />
51 M. NAIM, The five Wars of Globalization cit.<br />
52 S. CALVANI, M. MELIS, Saccheggio globale cit., p. 109.<br />
53 La facilità con cui quest’arma può essere acquistata è preoccupante. Se da un lato questo<br />
missile è inefficace contro i moderni mezzi corazzati, la sua maneggevolezza e semplicità d’uso<br />
lo rendono molto pericoloso in centri abitati o contro mezzi non corazzati. Lo <strong>di</strong>mostra<br />
l’esempio del raid americano fallito il 3 ottobre 1993 a Moga<strong>di</strong>scio.<br />
54 S. CALVANI, M. MELIS, Saccheggio globale cit., p. 113.<br />
55 M. KLARE, The Kalashnikov Age cit.<br />
56 Per una panoramica più completa delle modalità <strong>di</strong> finanziamento dei gruppi terroristici cfr.<br />
Patterns of global Terrorism, <strong>di</strong>sponibili in linea sul sito http://www.cia.gov/<br />
57 F. ARMAO, La rinascita del privateering cit., p.100.<br />
58 Il materiale sui pirati è scarso e <strong>di</strong>fficilmente reperibile. Queste statistiche sono state tratte<br />
dal sito http://www.iccwbo.org/ccs/imb_piracy visitato il 20 gennaio 2005. Il sito contiene<br />
anche una cronologia degli attacchi <strong>di</strong> pirati aggiornata settimanalmente.<br />
59 P. W. S INGER, Corporate Warriors: The Rise and Ramifications of the Privatized Military Industry,<br />
in «International Security», vol. 26, n. 3, Winter 2001/2002.<br />
60 Ibidem.<br />
231
Andrea Beccaro<br />
61 F. VIGNARCA, Li chiamano ancora mercenari. La privatizzazione degli eserciti nell’era della<br />
guerra globale, E<strong>di</strong>trice Berti, Piacenza 2004, p. 61.<br />
62 P. W. S INGER, Corporate Warriors cit.<br />
63 F. VIGNARCA, Li chiamano ancora mercenari cit., p. 11.<br />
64 Ivi, p. 18.<br />
65 Ivi, p. 19.<br />
66 E. B. SMITH, The new Condottieri and US Policy: The Privatization of Conflict and Its<br />
Implications, in «Parameters», vol. XXXII, Winter 2002-2003, pp. 104-119.<br />
67 T. K. ADAMS, The New Mercenaries and the Privatization of Conflict, in «Parameters», vol.<br />
XXIX, Summer 1999, pp. 103-116.<br />
68 E. B. SMITH, The new Condottieri and US Policy cit. ma anche T. K. ADAMS, The New<br />
Mercenaries cit.<br />
69 P. W. S INGER, Corporate Warriors cit.<br />
70 Ivi.<br />
71 Ivi.<br />
72 F. VIGNARCA, Li chiamano ancora mercenari cit., p.14.<br />
73 P. W. S INGER, Corporate Warriors cit.<br />
74 Ivi.<br />
75 Ivi.<br />
76 S. LATOUCHE, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1992.<br />
77 A. D. SMITH, Nazioni e nazionalismo cit., p. 12.<br />
78 R. ARBITRIO, Il conflitto etnico. Dinamiche sociali e strategie <strong>di</strong> intervento: il caso della ex<br />
Jugoslavia, Franco Angeli, Milano 1998, p. 15.<br />
79 M. KALDOR, Le nuove guerre cit., p. 92.<br />
80 R. ARBITRIO, Il conflitto etnico cit., p. 16.<br />
81 Ivi p. 19<br />
82 Ivi p. 151<br />
232
Nuove guerre<br />
83 S. P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo or<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale, Garzanti, Milano 2000,<br />
p. 374.<br />
84 P. H. BAKER, J. A. AUSINK, State Collapse and Ethnic Violence: Toward a Pre<strong>di</strong>ctive Model, in<br />
«Parameters», vol. XXVI, Spring 1996, pp. 19-31.<br />
85 S. METZ, Disaster and Intervention in Sub-Saharan Africa: Learning from Rwanda, Strategic<br />
Stu<strong>di</strong>es Institute US Army College, Carlisle Barracks (PA) September 1994.<br />
86 R. ARBITRIO, Il conflitto etnico cit. Per una <strong>di</strong>samina sulle operazioni <strong>di</strong> peacekeeping: M.<br />
KORNPROBST, Explaining Success and Failure of War to Peace Transitions: Revisiting the Angolan<br />
and Mozambican Experience, in «The journal of Conflict Stu<strong>di</strong>es», Fall 2002, pp. 57-82. Per<br />
cercare <strong>di</strong> comprendere come le nuove tecnologie possano mo<strong>di</strong>ficare queste operazioni cfr. E.<br />
SLOAN, Peacekeeping and the Revolution in Military Affairs: A Question of Relevancy, in «The<br />
journal of Conflict Stu<strong>di</strong>es», Fall 2002, pp. 83-98.<br />
87 R. ARBITRIO, Il conflitto etnico cit., p. 57.<br />
88 M. KALDOR, Le nuove guerre cit., p. 130.<br />
89 Ivi, p. 134.<br />
90 M. WALZER, La politica del salvataggio, in M. WALZER, Sulla guerra, Laterza, Roma-Bari<br />
2004, p.4.<br />
91 Ivi p. 69<br />
92 Ivi p. 73<br />
93 S. METZ, Disaster and Intervention in Sub-Saharan Africa cit.<br />
94 R. ARBITRIO, Il conflitto etnico cit., p.183.<br />
95 Ivi, p. 136.<br />
96 W. A. STOFFT, Ethnic Conflict: implications for the Army of the future, Strategic Stu<strong>di</strong>es Institute<br />
US Army College, Carlisle Barracks (PA) March 1994.<br />
97 S. METZ, Disaster and Intervention in Sub-Saharan Africa cit. Mao, Stalin, il governo nigeriano<br />
negli anni sessanta, per fare solo alcuni esempi, utilizzarono la carestia a questo fine.<br />
98 Ivi.<br />
99 M. VAN CREVELD, The Transformation of War cit.<br />
100 W. A. STOFFT, Ethnic Conflict cit.<br />
101 R. PETERS, The New Warrior Class, in «Parameters», vol. XXIV, Summer 1994, pp. 16-26.<br />
233
Andrea Beccaro<br />
102 Per uno sguardo sull’etica e la responsabilità del soldato cfr. M. WALZER, Due tipi <strong>di</strong><br />
responsabilità militare, in M. WALZER, Sulla guerra cit., pp. 25-33.<br />
103 R. PETERS, The New Warrior Class cit.<br />
104 S. METZ, Disaster and Intervention in Sub-Saharan Africa cit. A questo proposito però Luttwak<br />
in<strong>di</strong>vidua due problemi. Da una parte per le élite politiche non è facile ottenere il consenso<br />
per un’operazione che, pur essendo umanitaria, presenta comunque dei rischi. Dall’altra questi<br />
conflitti sono intrisi d’o<strong>di</strong>o e può risultare utile lasciarlo sfogare per evitare un suo riaffiorare<br />
in futuro. E. N. LUTTWAK, Give War a Change, in «Foreign Affairs», vol. 78, n.4 , pp. 36-44.<br />
105 W. A. STOFFT, Ethnic Conflict cit.<br />
106 R. BRONSON, When Sol<strong>di</strong>ers became cops, in «Foreign Affairs», vol. 81, n. 6, pp.122-132.<br />
107 R. ARBITRIO, Il conflitto etnico cit., p. 170.<br />
108 Ivi, p. 176.<br />
109 W. A. STOFFT, Ethnic Conflict cit.<br />
110 S. METZ, Disaster and Intervention in Sub-Saharan Africa cit.<br />
111 J. RECORD, Exit Strategy <strong>Del</strong>usions in «Parameters», vol. XXI, Winter 2001-02, pp. 21-27.<br />
112 Ibidem.<br />
113 Ibidem.<br />
114 Già nel 1977 Ken Organski sottolineava la complessità e la lunga durata <strong>di</strong> tutti i dopo<br />
guerra, cfr. F. K. ORGANSKI, J. KUNGLER, The Cost of Major Wars: the Phoenix Factor, in «The<br />
American Political Science Review», LXXI, 1977.<br />
115 W. CLARK, Vincere le guerre moderne. Iraq, terrorismo e l’impero americano, Bompiani, Milano<br />
2004.<br />
116 F. MINI, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale,<br />
Einau<strong>di</strong>, Torino 2003, p. 181.<br />
117 Ibidem.<br />
118 Ivi, p. 215.<br />
119 Ne sono esempi le tensioni scoppiate nel marzo 2004.<br />
120 F. MINI, La guerra dopo la guerra cit., p. 233.<br />
121 Ivi, p. 246.<br />
234
122 Ivi, p. 240.<br />
123 Ivi, p. 246.<br />
Nuove guerre<br />
124 M. LERICHE, Unintended Alliance: The Co-option of Humanitarian Aid in Conflicts, in<br />
«Parameters», vol. XXIV, Spring 2004, pp. 104-120.<br />
125 Ibidem.<br />
126 P. W. S INGER, Caution: Children at War, in «Parameters», vol. XXI, Winter 2001-02, pp. 40-<br />
56.<br />
127 M. LERICHE, Unintended Alliance cit.<br />
128 T. HOBBES, Il Leviatano, Laterza, Roma-Bari 2004, p.101.<br />
129 W. FLAVIN, Planning for Conflict Termination and Post-Conflict Success, in «Parameters»,<br />
vol.XXXI, Autumn 2003, pp. 95-112.<br />
130 Ibidem.<br />
131 C. VON CLAUSEWITZ, <strong>Del</strong>la guerra, Mondadori, Milano 1970, p. 9.<br />
132 Q. LIANG, W. XIANGSUI, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e<br />
globalizzazione, a cura <strong>di</strong> F. Mini, Libreria E<strong>di</strong>trice Goriziana, Gorizia 2001.<br />
133 Questa tripartizione delle forme <strong>di</strong> guerra è stata tratta da M. EVANS, From Kadesh to Kandahar<br />
cit.<br />
134 C. VON CLAUSEWITZ, <strong>Del</strong>la guerra, cit., p. 794.<br />
135 C. S GRAY, How Has War Changed Since the End of the Cold War?, in «Parameters», vol.<br />
XXXV, Spring 2005, pp. 14-26.<br />
235
Andrea Beccaro<br />
236
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano.<br />
La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
<strong>di</strong> Chiara Calabri<br />
La prima chiave <strong>di</strong> lettura: la guerra etnica<br />
All’inizio dell’aprile del 1994 il Rwanda «arriva» sulle pagine dei giornali<br />
italiani. Un piccolo paese dell’Africa centrale, lontano, geograficamente e<br />
culturalmente dall’Italia, in pochi giorni <strong>di</strong>venta sinonimo <strong>di</strong> violenza<br />
terribile. L’attenzione dei me<strong>di</strong>a si concentra in questo piccolo pezzo d’Africa<br />
<strong>di</strong> cui ben poco si conosce, all’interno dei canali ufficiali e istituzionali<br />
della cultura.<br />
L’analisi <strong>di</strong> quattro testate giornalistiche italiane, prese in considerazione<br />
come significative e rappresentative <strong>di</strong> ambienti politici e culturali <strong>di</strong>versi,<br />
- «Corriere della Sera», «Il manifesto», «Il Messaggero», «Avvenire» -, ha<br />
portato a rilevare un <strong>di</strong>vario: da una parte si è constatata la sostanziale<br />
ignoranza sull’Africa, ed in particolare sulle questioni dell’etnicità in Africa,<br />
<strong>di</strong> quelli che unanimemente sono considerati i giornali più autorevoli e<br />
voce della classe <strong>di</strong>rigente economica e politica, italiana - «Corriere della<br />
Sera» e «Il Messaggero» -; dall’altra in linea generale, si è rintracciata una<br />
maggiore conoscenza e volontà <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>mento sugli eventi e le loro<br />
cause da parte delle testate più <strong>di</strong> «nicchia», rappresentanti <strong>di</strong> fasce meno<br />
larghe o meno emergenti della popolazione italiana, cioè «Avvenire» e «Il<br />
manifesto». Questi due quoti<strong>di</strong>ani si può <strong>di</strong>re che esprimano e attivino essi<br />
stessi la corrente <strong>di</strong> una cultura, per così <strong>di</strong>re, «alternativa» rispetto a quella<br />
delle istituzioni. Essi, muovendosi da due punti <strong>di</strong> partenza opposti, tuttavia<br />
rivelano una comune attenzione per le vicende che coinvolgono paesi non<br />
rientranti nelle tra<strong>di</strong>zionali sfere d’interesse, ed una maggiore capacità <strong>di</strong><br />
comprensione al <strong>di</strong> là delle facili interpretazioni.<br />
Fin dai primi giorni dello scoppio della crisi le <strong>di</strong>fferenze nell’approccio e<br />
nello spazio de<strong>di</strong>cato alla crisi rwandese da ciascuna testata saltano all’occhio.<br />
Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale rwandese che trasportava il<br />
presidente della Repubblica Habyarimana e quello del Burun<strong>di</strong>, Ntaryamira,<br />
237
Chiara Calabri<br />
si schiantò al suolo presso l’aeroporto <strong>di</strong> Kigali. I due presidenti avevano<br />
partecipato a un vertice sulla stabilità dell’area dei Gran<strong>di</strong> Laghi, tenutosi a<br />
Dar es Salam 1 .<br />
Il 7 aprile, i primi quoti<strong>di</strong>ani a dare la notizia che l’aereo si era schiantato<br />
al suolo sono il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero». Questi due quoti<strong>di</strong>ani<br />
danno, brevemente, la notizia dell’abbattimento dell’aereo: «Il Messaggero»<br />
riferisce che l’aereo presidenziale si è schiantato al suolo e che non si conosce<br />
ancora con esattezza la ragione della caduta, mentre il «Corriere della Sera»<br />
sposa in pieno l’ipotesi dell’attentato, fin dal titolo. Nei due articoli si ricorda<br />
che i due presidenti africani stavano tornando da un vertice regionale che si<br />
era svolto a Dar-es-Salam, in Tanzania, per cercare una soluzione all’instabile<br />
situazione burundese 2 . Il «Corriere della Sera» definisce il vertice <strong>di</strong> Dar-es-<br />
Salam come «una riunione sulle crisi politico-etniche tra l’etnia tutsi - i<br />
lunghi “watussi”- e l’etnia hutu - i corti “bantù”- che stanno mettendo a<br />
ferro e fuoco il Burun<strong>di</strong> e il Rwanda» 3 ; «Il Messaggero» ne parla come <strong>di</strong><br />
una <strong>di</strong>scussione intorno a una «soluzione per la guerra civile che oppone i<br />
gruppi etnici del Burun<strong>di</strong>, dove l’esercito <strong>di</strong> cinquemila uomini è comandato<br />
da ufficiali della tribù tutsi» 4 .<br />
È evidente che la lettura che emerge fin dalle prime righe de<strong>di</strong>cate al<br />
Rwanda e alla crisi dei Gran<strong>di</strong> Laghi, è <strong>di</strong> tipo etnico: l’instabilità dell’area è<br />
definita <strong>di</strong> natura politica ed etnica. La coppia semantica «politico-etniche»,<br />
riferita alle crisi in Burun<strong>di</strong>, appare in<strong>di</strong>ssolubile. Lo scontro <strong>di</strong> identità etniche,<br />
come è affermato nell’articolo del «Corriere», o, con più precisione, come<br />
riporta «Il Messaggero», «tribali», è la spiegazione più imme<strong>di</strong>ata e naturale,<br />
che può essere data <strong>di</strong> una situazione d’instabilità in Africa. Ritorna, fra le<br />
righe <strong>di</strong> questi due giornali, la rappresentazione tipica dell’Africa: un’Africa<br />
che non si conosce, lontana, ma le cui «crisi» si ha la pretesa <strong>di</strong> comprendere<br />
e poter catalogare come politiche ed etniche. È come se, per l’Africa, la<br />
politica da sola non bastasse a spiegare i meccanismi delle instabilità: alle<br />
motivazioni politiche si accompagna qualcosa <strong>di</strong> più atavico e irrazionale che<br />
è lo scontro <strong>di</strong> gruppi biologicamente <strong>di</strong>versi e che si autorappresentano in<br />
identità contrapposte. La categoria dell’«etnicità» costituisce il facile strumento<br />
per spiegare realtà che non si conoscono e <strong>di</strong> fronte alle quali, soprattutto,<br />
non ci si vuole porre in maniera problematica e con un atteggiamento<br />
comprensivo, ma si accetta e ci si accontenta <strong>di</strong> utilizzare concetti interpretativi<br />
che rimandano il lettore a una realtà <strong>di</strong>versa, altra, arcaica, selvaggia.<br />
Il linguaggio utilizzato dal «Corriere della Sera» rivela il razzismo che<br />
riemerge non appena si parla <strong>di</strong> Africa: «i lunghi watussi», <strong>di</strong> cui parla<br />
238
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
questo giornale, richiamano, all’immaginario del lettore me<strong>di</strong>o italiano,<br />
«gli altissimi negri» della popolare canzone che ha accompagnato le vacanze<br />
<strong>di</strong> molti. Colpisce il fatto che questa definizione rozza e un po’ grezza sia<br />
riportata proprio da uno dei quoti<strong>di</strong>ani più letti in Italia e rappresentante<br />
della borghesia industriale, ed anche intellettuale, della penisola. Essa<br />
contribuisce a ridurre l’Africa a un’immagine da cartolina ed è sintomo<br />
della mancanza <strong>di</strong> un reale interesse per ciò che sta accadendo, nonché<br />
delle categorie culturali adeguate.<br />
L’8 aprile i due quoti<strong>di</strong>ani concedono una mezza pagina al Rwanda. I<br />
titoli parlano <strong>di</strong> «caos e sangue» 5 , dell’«ora della vendetta» e <strong>di</strong> «violenza<br />
tribale» 6 . L’articolo <strong>di</strong> Riccardo Orizio sul «Corriere della Sera» si apre con<br />
una frase significativa: «Prima il brutale attentato all’aeroporto, poi il caos e<br />
l’o<strong>di</strong>o tribale più sanguinoso» 7 . Le spiegazioni che lungo l’articolo vengono<br />
<strong>di</strong>spensate riguardo alla storia passata del Rwanda, contribuiscono ad<br />
inquadrare l’esplosione <strong>di</strong> «o<strong>di</strong>o tribale» in un passato <strong>di</strong> guerre e violenze<br />
da cui la storia del Rwanda sarebbe caratterizzata, e che costituirebbero il<br />
destino del paese. Il giornalista parla della storia del Rwanda come <strong>di</strong> una<br />
storia caratterizzata da una «trentennale guerra civile tra la maggioranza<br />
hutu e la minoranza tutsi» 8 .<br />
Riguardo ai due presidenti morti nell’abbattimento dell’aereo, afferma<br />
che «entrambi guidavano nazioni tra le più povere del mondo, in <strong>di</strong>fficile<br />
transizione verso la democrazia multipartitica, e che, soprattutto, entrambi<br />
erano dell’etnia hutu, la più numerosa nei due paesi. Erano cioè due “corti”,<br />
quelli che i sottili, alti e aristocratici watussi amano definire “sporchi schiavi<br />
bantù”» 9 . I toni richiamano alla mente le pagine degli etnologi <strong>di</strong> inizio<br />
secolo e dei Rapporti del Ministero delle Colonie belga che giustificavano<br />
il sistema amministrativo coloniale, fondato sull’alleanza con i tutsi, sulla<br />
base <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenze fisiche e morali fra i due gruppi 10 . Sicuramente fra gli<br />
etnologi dell’inizio del Novecento e i giornalisti italiani che nel 1994 si<br />
occuparono del Rwanda corrono molte <strong>di</strong>fferenze. Ma quello che colpisce<br />
nei primi articoli che appaiono sulla stampa italiana a proposito della crisi<br />
rwandese, è il totale appiattimento <strong>di</strong> ogni tentativo <strong>di</strong> spiegazione sulla<br />
linea dell’etnicità e la mancanza <strong>di</strong> qualsiasi interrogativo volto a<br />
comprendere meglio quello che stava accadendo. Emerge una sostanziale<br />
ignoranza che si tenta <strong>di</strong> coprire vendendo un’immagine dell’Africa che è<br />
risultato <strong>di</strong> un collage <strong>di</strong> mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, stereotipi, pregiu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> repertorio.<br />
Le affermazioni erronee che impunemente sono fatte fra le righe degli articoli<br />
del «Corriere della Sera» confermano tutto ciò: non solo è adottata<br />
239
Chiara Calabri<br />
acriticamente la lettura <strong>di</strong> una contrapposizione fra due gruppi etnici, ma<br />
non è possibile ricavare notizie precise neppure sullo scontro fra le etnie:<br />
infatti, nell’articolo del 7 aprile si parla dei «ribelli dell’ex Fronte patriottico»<br />
<strong>di</strong>cendo che sono «in maggioranza <strong>di</strong> etnia hutu» 11 , mentre «Il Messaggero»<br />
parla genericamente <strong>di</strong> «due fazioni in guerra» 12 .<br />
Di primo acchito, dunque, l’idea che i lettori del «Corriere della Sera»<br />
potevano farsi della crisi rwandese, era quella <strong>di</strong> un conflitto che rientrava<br />
nel classico repertorio africano: un continente selvaggio, caratterizzato da<br />
ataviche lotte fra gruppi tribali <strong>di</strong>versi, incapaci <strong>di</strong> trovare una via per lo<br />
sviluppo e per la fuoriuscita dalla guerra endemica e dalla miseria. La<br />
mancanza <strong>di</strong> una prospettiva storica più articolata sul Rwanda, <strong>di</strong> ogni<br />
accenno alle ere<strong>di</strong>tà coloniali banalizzano il <strong>di</strong>scorso e finiscono per <strong>di</strong>storcere<br />
la realtà delle cose.<br />
La banalizzazione attraverso stereotipi è particolarmente evidente nelle<br />
«schede» o «finestre» che si alternano agli articoli e che dovrebbero servire a<br />
dare un’informazione sommaria e esauriente sul paese o sulla realtà <strong>di</strong> cui si<br />
parla.<br />
Le schede sono molto comuni nei giornali italiani e sembrano essere un<br />
modo utile per introdurre il lettore a un argomento <strong>di</strong> cui si sa poco. Schede<br />
sul Rwanda si trovano sia ne «Il Messaggero», sia nel «Corriere della Sera»,<br />
sia ne «Il manifesto» che in «Avvenire». In poche righe non è facile inquadrare<br />
una realtà complessa e lontana come quella del Rwanda senza incorrere in<br />
semplificazioni; ma se si procede a una lettura sinottica delle «schede» dei<br />
quoti<strong>di</strong>ani presi in esame, è interessante confrontare ciò che viene detto e<br />
ciò che viene omesso, i giu<strong>di</strong>zi, che, anche se in poco spazio, emergono, e<br />
quin<strong>di</strong> l’immagine che il lettore ricava da questi «compen<strong>di</strong>» della storia e<br />
della situazione rwandesi.<br />
Anche nelle schede l’attenzione è concentrata principalmente sulla<br />
classificazione etnica e la storia del paese è ridotta a un alternarsi in<strong>di</strong>stinto<br />
- mancano infatti, per lo più, riferimenti cronologici - <strong>di</strong> violenze fra i due<br />
gruppi. Il succo del <strong>di</strong>scorso, che ritorna, è che il Rwanda è caratterizzato<br />
da un destino <strong>di</strong> «violenza e miseria» 13 e da «una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> golpe e guerre<br />
tribali» 14 . Anche «Il manifesto», nella sua scheda dell’8 aprile, pur offrendo<br />
riferimenti più espliciti e precisi al periodo coloniale e a quello successivo<br />
all’in<strong>di</strong>pendenza, tuttavia presenta come lettura principale della storia<br />
rwandese, quella <strong>di</strong> un ripetersi <strong>di</strong> scontri etnici.<br />
Il 9 aprile anche «Avvenire», giornale cattolico, pubblica una scheda del<br />
paese dove oltre ai riferimenti geografici, economici e etnici si fa cenno<br />
240
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
anche alla guerra dell’ottobre 1990. Nella scheda <strong>di</strong> «Avvenire» le <strong>di</strong>namiche<br />
della storia rwandese non sono ridotte allo scontro tra le due etnie, anche<br />
se, pure qui, manca un’interpretazione più completa.<br />
È vero che le brevi notizie riportate nello spazio delle «schede» non<br />
possono che rivelare punti <strong>di</strong> vista limitati e semplificati. Tuttavia da esse si<br />
ricava che tutte le testate sembrano con<strong>di</strong>videre, nei primissimi giorni della<br />
crisi, l’argomento dello scontro etnico, in maniera più o meno uniforme.<br />
L’impressione generale è che ci sia un’imme<strong>di</strong>ata e generalizzata adozione<br />
della lettura più semplice e più banale della violenza rwandese, in termini<br />
etnici e tribali.<br />
Anche «Il manifesto» nella scheda dell’8 aprile, che introduce brevemente<br />
la storia del Rwanda, riprende la vulgata più comune della sud<strong>di</strong>visione<br />
della popolazione in tre gruppi: «il gruppo maggioritario è hutu, ceppo<br />
Bantu, che sostituì gli abitanti autoctoni, i twa, pigmei<strong>di</strong>» 15 . E «Avvenire»,<br />
negli articoli dell’8 aprile, si pone sullo stesso piano, scrivendo che «nel<br />
Rwanda è al potere la maggioranza hutu, <strong>di</strong> ceppo negro-bantù, che ha<br />
massacrato e costretto all’esilio gran parte della minoranza tutsi (meglio<br />
conosciuti come watussi), etnicamente nilotici» 16 .<br />
Ne esce fuori un <strong>di</strong>pinto complessivo del continente africano come<br />
«continente selvaggio e selvaggiamente violento», un’Africa, ancora nel terzo<br />
millennio, popolata da società dagli «strani costumi», da una umanità dolente,<br />
condannata da e per sempre alla penuria, che sembra ritrovare le sue forze<br />
solo nell’esercizio <strong>di</strong> una violenza atavica e irragionevole, naturale e ferina 17 .<br />
Attraverso la chiave <strong>di</strong> lettura dello scontro etnico, indubbiamente, viene<br />
colto un aspetto della crisi rwandese non secondario: l’agitazione del<br />
«fantasma» delle identità contrapposte da parte delle autorità del governo<br />
rwandese e dei me<strong>di</strong>a mobilitò la popolazione in azioni violente contro<br />
quell’immagine dell’«altro» che, a partire dall’epoca coloniale, era stata<br />
costruita come nemica: la campagna d’o<strong>di</strong>o ebbe le sue basi e le sue casse <strong>di</strong><br />
risonanza proprio nell’esasperazione dei sentimenti <strong>di</strong> identità e <strong>di</strong> esclusione,<br />
attraverso l’appropriazione <strong>di</strong> un gioco <strong>di</strong> manipolazione e <strong>di</strong> uso pubblico<br />
della storia che era stato già utilizzato dalle potenze coloniali 18 . Tuttavia,<br />
l’adozione della categoria etnica come chiave <strong>di</strong> volta per spiegare la violenza<br />
che percorse il Rwanda fra l’aprile e il luglio del 1994, spesso pare abbia<br />
dato a<strong>di</strong>to a semplificazioni eccessive, soprattutto in quei quoti<strong>di</strong>ani in cui,<br />
ed è il caso in particolare del «Corriere della Sera» e de «Il Messaggero», gli<br />
approfon<strong>di</strong>menti e le analisi sugli eventi rwandesi sono meno frequenti: il<br />
rischio è stato, là dove ha prevalso l’uso della categoria etnica, quello <strong>di</strong><br />
241
Chiara Calabri<br />
sposare <strong>di</strong> fatto la posizione degli stessi organizzatori del genoci<strong>di</strong>o:<br />
un’adozione senza sfumature del punto <strong>di</strong> vista etnico e l’uso <strong>di</strong> tale chiave<br />
<strong>di</strong> lettura per tutta la storia rwandese hanno fatto rischiare la connivenza<br />
con il regime, organizzatore del genoci<strong>di</strong>o.<br />
La lettura etnica è risultato <strong>di</strong> una pigrizia intellettuale che sembra aver<br />
caratterizzato molti quoti<strong>di</strong>ani e mass me<strong>di</strong>a dell’epoca <strong>di</strong> fronte alla crisi<br />
rwandese, ed in particolare, fra le testate prese in considerazione, «Il<br />
Messaggero» e il «Corriere della Sera». Per i giornali che rappresentano la<br />
voce della borghesia industriale e commerciale italiana, il Rwanda costituisce<br />
un’area estranea a ogni interesse «nazionale», per cui non vale la pena<br />
interrogarsi se non saltuariamente, quando la crisi si fa più violenta e<br />
scandalosa, o quando essa sembra avvicinarsi all’Italia, magari come eventuale<br />
sollecitazione al <strong>di</strong>spiegamento <strong>di</strong> truppe italiane.<br />
Il fatto che i maggiori quoti<strong>di</strong>ani nazionali mostrino poco interesse a<br />
comprendere la crisi rwandese, riflette i limiti non solo del giornalismo ma<br />
anche, e soprattutto, della politica estera e della cultura italiane. La pigrizia<br />
intellettuale che porta ad adottare la lettura più facile, quella etnica, e a non<br />
porsi interrogativi sulle cause dell’esplosione della violenza e a non<br />
contestualizzarla, rivela la mancanza <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione culturale <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> su<br />
aree extraeuropee e non occidentali e, in maniera più <strong>di</strong>ffusa, <strong>di</strong> un senso<br />
comune <strong>di</strong> interessamento al mondo. L’Europa e gli Stati Uniti costituiscono,<br />
sostanzialmente, i due poli su cui si concentra l’attenzione politica - e, <strong>di</strong><br />
conseguenza, culturale - dell’Italia.<br />
D’altra parte una politica estera «nana», incapace <strong>di</strong> proiettarsi su scenari<br />
ampi e spesso ridotta a mero argomento <strong>di</strong> confronto-scontro fra i <strong>di</strong>versi<br />
partiti, non stimola e non ha bisogno <strong>di</strong> una comprensione del mondo più<br />
profonda 19 .<br />
La lettura etnica, nel 1994, era, inoltre, particolarmente a «portata <strong>di</strong><br />
mano» dell’opinione pubblica europea: il dramma che si stava consumando<br />
in Bosnia aveva coor<strong>di</strong>nate <strong>di</strong> spiegazione simili: lo scontro aveva luogo fra<br />
gruppi <strong>di</strong> popolazione che, dopo anni <strong>di</strong> convivenza, si erano identificati<br />
come contrapposti e nemici, generando violenza e caos 20 . Lungo la<br />
narrazione degli eventi rwandesi dei quoti<strong>di</strong>ani analizzati, in vari passaggi<br />
si ritrovano comparazioni fra Kigali e Sarajevo, fra il Rwanda e la Bosnia: la<br />
triste espressione <strong>di</strong> «pulizia etnica» che risulta purtroppo nota all’orecchio<br />
del citta<strong>di</strong>no europeo me<strong>di</strong>o in relazione con le guerre jugoslave, è spesso<br />
utilizzata in riferimento anche al Rwanda.<br />
242
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
Dalla lettura etnica a quella «politica»<br />
Tra le testate analizzate «Avvenire» è quella che non si limita a fornire<br />
una cronaca della crisi rwandese, ma è ricca anche <strong>di</strong> analisi, commenti,<br />
testimonianze che permettono <strong>di</strong> andare oltre la lettura etnica e offrono<br />
altre <strong>di</strong>rettrici <strong>di</strong> analisi della storia rwandese, delle responsabilità interne e<br />
internazionali, a vari livelli, della crisi. Gli approfon<strong>di</strong>menti, le riflessioni,<br />
le analisi <strong>di</strong> «Avvenire» costituiscono strumenti utili per non limitarsi ad<br />
avere una prospettiva falsata.<br />
Rispetto a una cultura dominante che guarda all’Africa e al Terzo Mondo<br />
attraverso cliché banalizzanti, come ad un blocco unico e in<strong>di</strong>fferenziato <strong>di</strong><br />
realtà sostanzialmente sconosciute che possono soltanto suscitare pietà,<br />
commozione o orrore, il tentativo da parte <strong>di</strong> alcune voci, anche se<br />
minoritarie, è quello <strong>di</strong> offrire altri punti <strong>di</strong> vista e elementi <strong>di</strong> conoscenza.<br />
«Il manifesto» segue «Avvenire» nell’interessamento per la comprensione<br />
della crisi e per l’offerta ai lettori degli strumenti adeguati per interpretarla.<br />
Queste due testate esprimono due filoni <strong>di</strong> una cultura alternativa a<br />
quella prevalente della borghesia italiana legata all’impren<strong>di</strong>toria, alla<br />
gestione della politica, al commercio. Si tratta <strong>di</strong> una cultura che tenta <strong>di</strong><br />
interessarsi a ciò che succede nel mondo, con uno sguardo più largo.<br />
L’interesse nasce da due fonti <strong>di</strong>verse: da una parte quella dell’opposizione<br />
tra<strong>di</strong>zionale alla cultura dominante, <strong>di</strong> stampo comunista, dall’altra quella<br />
cattolica e della Chiesa. Questi due ambienti, pur partendo da posizioni<br />
nettamente <strong>di</strong>verse, tuttavia talvolta finiscono per convergere su certi temi<br />
e per avere alcuni punti <strong>di</strong> contatto. La con<strong>di</strong>visione del medesimo interesse<br />
per il mondo e per le aree in situazioni <strong>di</strong>fficili, che da una parte prende il<br />
nome <strong>di</strong> internazionalismo, dall’altra <strong>di</strong> solidarietà cristiana, costituisce un<br />
terreno comune ai due settori e li contrad<strong>di</strong>stingue dalla «cultura<br />
dominante», più lontana rispetto a certi temi 21 . In maniera appropriata si<br />
può parlare <strong>di</strong> una cultura alternativa: una cultura costruita da uomini<br />
animati da un interesse prima <strong>di</strong> tutto umano e solidale per le trage<strong>di</strong>e del<br />
mondo, e che spesso vivono in prima persona esperienze sul campo - come<br />
i missionari ed i volontari laici che si riconoscono in varie posizioni e<br />
associazioni - 22 . Grazie al contributo <strong>di</strong> queste persone, è attivato un circuito<br />
alternativo <strong>di</strong> idee e <strong>di</strong> informazioni che vanno a colmare le deficienze della<br />
cultura «istituzionale» e «istituzionalizzata», rilevabili, in particolare, nel<br />
campo della conoscenza <strong>di</strong> regioni del mondo che esulano dal <strong>di</strong>retto<br />
interesse italiano. Tant’è che le riviste specializzate sulle aree del Terzo Mondo<br />
243
Chiara Calabri<br />
sono in maggioranza riviste missionarie come «Nigrizia», «Mondo e<br />
Missione», «Missione oggi».<br />
La Chiesa, immersa in realtà spesso pericolose, si trova spesso ad essere<br />
toccata, nei suoi stessi membri, dalla violenza che, soprattutto a partire<br />
dagli anni novanta, è esplosa in tante parti del mondo. Molti missionari,<br />
sacerdoti, religiosi ed anche laici, in <strong>di</strong>verse situazioni, si sono trovati ad<br />
essere i soli testimoni <strong>di</strong> realtà <strong>di</strong> violenza estrema da cui assai spesso sono<br />
stati colpiti anche in prima persona.<br />
La Chiesa è stata presente in Rwanda durante tutta la guerra: i missionari,<br />
alcuni dei quali <strong>di</strong> nazionalità italiana, sono stati gli unici a rimanere sul<br />
territorio in mezzo all’imperversare degli ecci<strong>di</strong>. La Chiesa rwandese ha<br />
perso molti dei suoi esponenti ed ha subito una vera e propria decapitazione:<br />
monsignor Vincent Nsengiyumva, arcivescovo <strong>di</strong> Kigali; monsignor<br />
Thaddée Nsengiyumva, vescovo <strong>di</strong> Kabgayi e presidente della Conferenza<br />
episcopale rwandese; monsignor Joseph Ruzindana, vescovo <strong>di</strong> Byumba,<br />
furono uccisi all’inizio <strong>di</strong> giugno da miliziani del Fpr, mentre il 25 per<br />
cento dei sacerdoti rwandesi erano stati uccisi a metà giugno 23 . D’altronde,<br />
molti dei massacri compiuti a danno dei civili tutsi si svolsero all’interno<br />
delle chiese, dove tra<strong>di</strong>zionalmente la popolazione cercava rifugio. L’interesse<br />
<strong>di</strong> «Avvenire» nel conoscere non solo gli avvenimenti ma anche le loro ra<strong>di</strong>ci<br />
è chiaramente collegata a tutti questi elementi.<br />
Accanto alla lettura etnica e tribale degli scontri, che si ritrova fra le<br />
righe dei vari articoli per tutto il periodo in cui si parla del Rwanda,<br />
«Avvenire» e «Il manifesto» mettono sul tavolo questioni <strong>di</strong>verse che<br />
permettono <strong>di</strong> cogliere una comprensione non solo a una <strong>di</strong>mensione, della<br />
crisi rwandese.<br />
Accanto alle «schede» banalizzanti, «Il manifesto» pubblica un’analisi <strong>di</strong><br />
Giampaolo Calchi Novati - uno degli esperti africanisti italiani -, in cui si<br />
legge che il fenomeno della contrapposizione fra hutu e tutsi è connesso<br />
«agli strumenti e agli obiettivi che rimontano ad altri criteri <strong>di</strong> legittimazione<br />
o <strong>di</strong> efficienza, dal colonialismo alla sommaria “democrazia” della<br />
decolonizzazione e alle pratiche dei regimi militari, che hanno<br />
definitivamente alterato gli equilibri» 24 , per concludere che la vulgata della<br />
violenza e dell’instabilità associate alle tensioni insite nella <strong>di</strong>fficile convivenza<br />
fra le due etnie ha del vero, «ma la realtà è molto più complessa» 25 . Le<br />
considerazioni <strong>di</strong> Calchi Novati permettono <strong>di</strong> attenuare il peso delle etnie<br />
e delle identità etniche nella comprensione degli eventi rwandesi, e <strong>di</strong><br />
introdurre un’altra linea interpretativa che è quella della strumentalizzazione<br />
244
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
delle identità per fini politici ed economici da parte <strong>di</strong> coloro che, negli<br />
anni, si sono succeduti alla guida del paese, dai rappresentanti della potenza<br />
coloniale, fino ai membri del governo <strong>di</strong> Habyarimana. Un’analisi <strong>di</strong> Piero<br />
Gheddo apparsa su «Avvenire» del 9 aprile, si intitola così: Non solo o<strong>di</strong>o<br />
tribale ma anche sete <strong>di</strong> potere; in essa si mette in evidenza che «la stampa<br />
occidentale sbrigativamente attribuisce i massacri in Rwanda e Burun<strong>di</strong><br />
all’o<strong>di</strong>o razziale. Indubbiamente c’è anche questa causa ma la sola chiave<br />
tribale non è sufficiente per leggere la serpeggiante guerra civile nei due<br />
paesi. […] In pratica oggi la lotta e i massacri avvengono per motivi politici<br />
interni, non per antichi o<strong>di</strong> tribali. […] La cristallizzazione delle tribù è<br />
stata causata dai belgi che hanno cooptato nell’amministrazione e<br />
nell’esercito e polizia i tutsi, approfondendo il fossato tra le due etnie. […]<br />
L’o<strong>di</strong>o etnico oggi è strumentalizzato da certe fazioni (<strong>di</strong> militari, <strong>di</strong> politici,<br />
<strong>di</strong> capi tra<strong>di</strong>zionali) che lo usano per regolamenti <strong>di</strong> conti» 26 . Considerazioni<br />
analoghe si leggono nell’«Avvenire» del 10 giugno, a opera <strong>di</strong> Rodolfo<br />
Casadei, che sottolinea come, pur essendo passati due mesi dall’inizio della<br />
carneficina, «sulla stampa e sulle tv l’equivoco non è stato ancora chiarito<br />
anzi continua ad incancrenirsi: la trage<strong>di</strong>a che ha investito il piccolo paese<br />
africano continua a essere presentata come una guerra tribale frutto dell’o<strong>di</strong>o<br />
atavico fra le due etnie degli hutu e dei tutsi […]. Bisogna far capire che<br />
quella del Ruanda (come altre guerre africane e non, <strong>di</strong> questi anni novanta)<br />
non è una guerra etnica, ma una guerra dove il fattore etnico è strumentalizzato<br />
in funzione <strong>di</strong> una lotta <strong>di</strong> potere che riguarda soprattutto élites politiche e<br />
militari. L’appartenenza etnica, insomma, non è una realtà sostanziale che<br />
<strong>di</strong> per sé crea contrapposizioni, ma una realtà strumentale che si getta sul<br />
piatto della bilancia e si fa valere nel momento in cui si scatena la<br />
competizione per l’accaparramento <strong>di</strong> risorse materiali e posti <strong>di</strong> potere.<br />
[…] La questione dell’etnicità è stata completamente trasformata dalla<br />
vicenda coloniale […] il colonialismo ha portato l’economia monetaria, la<br />
burocrazia <strong>di</strong> tipo occidentale e un sistema scolastico moderno. Tutto questo<br />
ha omologato le due etnie sia in alto (chi stu<strong>di</strong>ava e si arricchiva) sia in<br />
basso (chi non ha usufruito delle nuove possibilità). Ma ha creato pure una<br />
competizione per l’acquisizione delle nuove fonti <strong>di</strong> potere e prestigio<br />
all’interno della nuova classe degli evoluti: chi aveva <strong>di</strong>ritto alle risorse e ai<br />
posti <strong>di</strong> comando moderni? È qui che sono rispuntate fuori, in modo<br />
strumentale le categorie etniche: i tutsi hanno preteso la totalità del potere<br />
in nome della tra<strong>di</strong>zione, gli hutu hanno preteso la stessa cosa nel nome<br />
della democrazia. Nel 1959 hanno vinto gli hutu, ma i benefici della vittoria<br />
245
Chiara Calabri<br />
sono andati soltanto a un ristretto gruppo <strong>di</strong> potere[…]. La stessa cosa si è<br />
ripetuta ai nostri giorni: il Fpr recluta soprattutto fra i tutsi, ma non certo<br />
nell’interesse dell’etnia, che è stata esposta alle rappresaglie del governo e<br />
delle bande locali, bensì dei suoi leader politico-militari. Gli estremisti hutu,<br />
che hanno istigato le folle a massacrare i tutsi, <strong>di</strong>fendono essi pure interessi<br />
<strong>di</strong> fazione e non genericamente etnici […]. Il massacro etnico, preparato<br />
da tempo a livello propagan<strong>di</strong>stico e organizzativo, serviva da cortina<br />
fumogena per nascondere i reali interessi in gioco, cioè la lotta spietata per<br />
il potere» 27 . Si tratta <strong>di</strong> analisi che paiono serie e puntuali nel mettere in<br />
evidenza i meccanismi che hanno portato all’idealizzazione delle categorie<br />
delle contrapposte identità e alla strumentalizzazione politica, da parte <strong>di</strong><br />
gruppi <strong>di</strong> potere, <strong>di</strong> tali categorie. «Avvenire» sembra dunque offrire una<br />
lettura del conflitto che, pur riconoscendo l’implicazione dell’etnicità nello<br />
scoppio della violenza, riscontra anche l’artificiosità della contrapposizione<br />
identitaria violenta e atavica. Anche nell’analisi <strong>di</strong> Clau<strong>di</strong>o Moffa, che<br />
interviene sullo stesso quoti<strong>di</strong>ano il 3 luglio, emerge una posizione <strong>di</strong> mezzo<br />
fra i «colonialisti» che affibbiano tutta la responsabilità del genoci<strong>di</strong>o ai<br />
rwandesi e i «terzomon<strong>di</strong>sti» che affermano che l’etnia «è categoria inventata<br />
dai colonialisti per <strong>di</strong>videre et imperare» 28 .<br />
Giampaolo Calchi Novati scrive nuovamente su «Il manifesto» che:<br />
«all’origine del dramma del Ruanda c’è uno scontro fra due forze che<br />
coincidono in parte con i due nuclei <strong>di</strong> popolazione che vivono in questo<br />
ex-regno ed ex-posse<strong>di</strong>mento belga, ma che per altri aspetti li attraversano,<br />
identificandosi con riven<strong>di</strong>cazioni che hanno le solite spiegazioni: il potere,<br />
il comando, la promozione sociale» 29 . Molto interessante e chiarificatrice<br />
è l’intervista rivolta all’africanista francese, Jean François Bayart, autore<br />
de L’état en Afrique. La politique du ventre, all’epoca <strong>di</strong>rettore della rivista<br />
«Politique africaine». Bayart è presentato come «un africanista scomodo.<br />
Allergico ai miti e ai pregiu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> cui si alimenta lo sguardo dei me<strong>di</strong>a (e<br />
degli storici) occidentali. Ne contesta innanzitutto le litanie sul tribalismo,<br />
frutto <strong>di</strong> “pigrizia intellettuale”, eurocentriche e fuorvianti, perché<br />
accre<strong>di</strong>tano l’idea che gli africani “non sanno fare altro che scannarsi tra<br />
loro”» 30 . Dice Bayart nell’intervista: «Rimprovero agli autori marxisti <strong>di</strong><br />
non aver mai capito cos’è l’etnicità, vale a <strong>di</strong>re il sentimento <strong>di</strong><br />
appartenenza tribale. Ne hanno sottovalutato l’importanza, giu<strong>di</strong>candola<br />
una forma <strong>di</strong> “falsa coscienza”, prodotta dall’alienazione. La storiografia<br />
liberale ha fatto invece l’operazione contraria: ha sopravvalutato il peso<br />
delle etnie attribuendo ai loro contrasti <strong>di</strong> interesse tutti i conflitti che<br />
246
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
hanno insanguinato l’Africa. La verità è che le etnie in quanto tali non<br />
esistono, ma sono una risposta alle strutture statali create dal colonialismo.<br />
Il sentimento <strong>di</strong> appartenenza tribale, cioè, è un moderno fattore <strong>di</strong><br />
mobilitazione sociale e politico, mutevole d’altronde sia nel tempo che<br />
nello spazio geografico africano. Oggi essere hutu o tutsi in Ruanda ha<br />
valenza ben <strong>di</strong>versa rispetto al XIX secolo: all’epoca dei gran<strong>di</strong> regni<br />
l’appartenenza etnica comportava e garantiva una serie <strong>di</strong> relazioni<br />
economiche, politiche e culturali. […] Oggi […] parlerei <strong>di</strong> “fazioni” più<br />
che <strong>di</strong> etnie, nel senso che in Africa operano oggi leader e impren<strong>di</strong>tori<br />
politici in grado <strong>di</strong> mobilitare le coscienze etniche a fini <strong>di</strong> potere» 31 . «Il<br />
manifesto» pubblica, inoltre, un’intervista a José Kagabo antropologo e<br />
storico rwandese che lavora all’École des Hautes Études en Sciences<br />
Sociales a Parigi, in cui è messa ancora una volta in evidenza la<br />
strumentalizzazione delle identità a fini politici e <strong>di</strong> accaparramento del<br />
potere come pratica ricorrente soprattutto là dove la democrazia è acerba.<br />
L’articolo si intitola Un vuoto politico <strong>di</strong>etro i massacri e Kagabo afferma<br />
che «in mancanza <strong>di</strong> un progetto e <strong>di</strong> un programma politico ci si chiude<br />
nell’identità etnica» 32 . Infine, in un approfon<strong>di</strong>mento de<strong>di</strong>cato all’Africa<br />
da «Il manifesto» del 31 luglio, la giornalista Giuseppina Ciuffreda parla<br />
anche del ruolo dell’Akazu «il clan del presidente», «cervello e braccio»<br />
degli scontri, «deciso a non mollare profitti e privilegi <strong>di</strong> una gestione del<br />
potere durata vent’anni» 33 .<br />
Tirando le fila <strong>di</strong> ciò che si può leggere tra le righe degli articoli dei due<br />
quoti<strong>di</strong>ani presi in considerazione, emerge, dunque, che <strong>di</strong>etro lo scontro<br />
fra le due etnie esiste una volontà politica <strong>di</strong> creare e sfruttare l’o<strong>di</strong>o per<br />
generare caos e favorire l’assunzione del potere <strong>di</strong> una parte o dell’altra e<br />
che questa è stata la politica utilizzata anche durante l’epoca coloniale,<br />
dall’amministrazione tedesca e poi belga.<br />
Una problematizzazione della categoria dello scontro etnico non si ritrova<br />
invece ne «Il Messaggero». Da questo punto <strong>di</strong> vista sembra infatti che<br />
questo quoti<strong>di</strong>ano si ostini a pensare solamente in termini <strong>di</strong> uno scontro<br />
<strong>di</strong> tribù. In un articolo del 16 luglio, data in cui la maggioranza delle uccisioni<br />
aveva già avuto luogo, si arriva ad annunciare che «si profila finalmente un<br />
rallentamento del conflitto tribale» 34 . Il «Corriere della Sera», infine, per lo<br />
più non ospita commenti o analisi vere e proprie, volte a comprendere la<br />
reale natura della violenza rwandese e le implicazioni che esistono <strong>di</strong>etro <strong>di</strong><br />
essa, anche se, talvolta, nel corso degli articoli inserisce qualche commento<br />
del giornalista, che mette in evidenza questo o quell’aspetto della crisi. Ma<br />
247
Chiara Calabri<br />
il nodo della strumentalizzazione politica delle identità etniche non emerge<br />
se non in maniera frammentaria e deduttiva e si continua a usare, lungo<br />
tutto l’arco della crisi, lo stesso linguaggio razzista.<br />
Le implicazioni geopolitiche e il ruolo delle gran<strong>di</strong> potenze e della comunità<br />
internazionale<br />
Solamente in un momento successivo all’esplosione della crisi emerge,<br />
in maniera <strong>di</strong>versa per ogni testata, il riconoscimento delle implicazioni<br />
delle gran<strong>di</strong> potenze nello scoppio del genoci<strong>di</strong>o, il loro ruolo ora<br />
in<strong>di</strong>fferente, ora attivo nel sostenere la violenza, il coinvolgimento <strong>di</strong> interessi<br />
geostrategici nel conflitto rwandese.<br />
Un articolo <strong>di</strong> Meo Elia apparso il 4 giugno su «Avvenire», tenta <strong>di</strong><br />
mettere in chiaro gli «equivoci» sul Rwanda, collocando la crisi in un contesto<br />
<strong>di</strong> guerra già in atto in cui un certo ruolo sarebbe stato giocato da Stati<br />
Uniti, Belgio, Gran Bretagna e Banca Mon<strong>di</strong>ale. Si legge nell’articolo: «Chi<br />
conosce il Rwanda sa che a partire dal primo ottobre 1990 c’è stata una<br />
vera e propria invasione del paese dall’Uganda: un esercito armato <strong>di</strong> esuli<br />
(per la maggior parte tutsi che avevano lasciato il paese alla fine degli anni<br />
cinquanta e membri del Fronte patriottico rwandese) ha invaso il nord-est<br />
del paese dall’Uganda. Va notato che i <strong>di</strong>rigenti del Fpr erano ufficiali<br />
dell’Esercito <strong>di</strong> resistenza nazionale dell’Uganda (Nra) […]. Dall’ottobre<br />
1990 il Fpr ha continuato la sua azione terroristica e destabilizzatrice,<br />
mietendo vittime fra la popolazione civile. Da più parti veniva denunciata<br />
una situazione <strong>di</strong>venuta ormai insostenibile […]. In tutto questo periodo,<br />
mentre la stampa occidentale taceva, le cose non avvenivano senza la<br />
complicità dell’Occidente: il Belgio non ha mai nascosto le sue simpatie<br />
verso la parte tutsi e ha fatto notevoli pressioni presso il governo legittimo<br />
del Ruanda, scaricando tutte le colpe dei <strong>di</strong>sagi della popolazione e della<br />
lentezza delle trattative sul presidente Habyarimana per costringerlo a fare<br />
concessioni all’altra parte. Gli Usa sono coinvolti nell’addestramento <strong>di</strong><br />
numerosi ufficiali del Fpr, mascherati come soldati ugandesi: lo stesso Paul<br />
Kagame, comandante del Fpr, è stato addestrato e <strong>di</strong>plomato sotto il<br />
programma Imet a Leavenworth in Kansas […]. I finanziamenti al Fpr,<br />
mascherati come prestiti all’Uganda, venivano forniti da varie democrazie<br />
occidentali, in particolare Usa, Gran Bretagna e dalla Banca Mon<strong>di</strong>ale. Come<br />
248
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
si vede l’Occidente non è privo <strong>di</strong> colpe, meno palesi ma non meno ciniche<br />
<strong>di</strong> quelle dei <strong>di</strong>sperati rwandesi» 35 .<br />
Qualche giorno più tar<strong>di</strong> appaiono poi articoli che mettono in evidenza<br />
anche il ruolo ricoperto dalla Francia fin dall’inizio degli anni novanta in<br />
questa zona, ed in particolare il legame fra l’élite politica francese e quella<br />
rwandese: «Nel Rwanda sono coinvolti i francesi, soprattutto per ragioni<br />
politiche. Ragioni poco chiare. Si sa che il presidente Mitterand, amico<br />
personale del presidente Juvenal Habyarimana (morto nell’attentato al suo<br />
aereo il 6 aprile scorso), ha appoggiato sottobanco il regime hutu fornendo<br />
armi e anche un appoggio militare <strong>di</strong>retto - fino a 700 specialisti francesi<br />
impegnati nei combattimenti - contro i ribelli tutsi […]. Nell’Africa francofona<br />
i francesi hanno ancora le mani in pasta con le classi <strong>di</strong>rigenti» 36 . La politica<br />
africana costituisce un ambito della politica estera controllato <strong>di</strong>rettamente<br />
dal presidente: la Cellule Africaine è parte dell’ufficio presidenziale stesso e<br />
gode <strong>di</strong> una particolare in<strong>di</strong>pendenza nello stabilire le sue linee <strong>di</strong> azione. Al<br />
tempo della presidenza Mitterand, e dell’invasione del Rwanda da parte del<br />
Rpf, responsabile della Cellule Africaine era il figlio del presidente francese,<br />
Jean-Christophe, amico intimo del figlio del presidente rwandese<br />
Habyarimana. La politica africana francese fu caratterizzata, durante gli anni<br />
della presidenza Mitterand, da un alto grado <strong>di</strong> personalizzazione delle relazioni<br />
con in vari capi africani, come mette ben in evidenza P. Marchesin nel suo<br />
articolo apparso nel numero 58 <strong>di</strong> «Politique africaine» del giugno 1995, dal<br />
significativo titolo Mitterand l’Africain.<br />
Per bocca <strong>di</strong> don Isaia Bellomi, padre bianco intervistato a Roma,<br />
«Avvenire» afferma che «questa guerra non è solo frutto dell’o<strong>di</strong>o tribale<br />
come vogliono farci credere ma <strong>di</strong> un conflitto <strong>di</strong> poteri alimentato<br />
dall’Occidente, dal Belgio, dagli Stati Uniti e dalla Francia». Si ricava che<br />
<strong>di</strong>etro le quinte della contrapposizione etnica c’è uno scontro fra potenze<br />
che sostengono le due parti, in nome <strong>di</strong> interessi economici nell’area e in<br />
nome della <strong>di</strong>fesa <strong>di</strong> aree d’influenza politica e culturale. Scrive infatti<br />
Rodolfo Casadei sempre su «Avvenire»: «Oggi come ieri la Francia sta<br />
applicando alla lettera il dogma della <strong>di</strong>fesa della francofonia, in nome del<br />
quale l’Esagono si ritiene obbligato a intervenire ogni qual volta una regione<br />
del mondo dove si parla la lingua francese rischia <strong>di</strong> essere fagocitata da<br />
entità linguisticamente e culturalmente <strong>di</strong>verse […]. Poiché aveva e ha le<br />
sue basi in Uganda ed effettivamente rappresenta una costola del Nra<br />
(l’esercito <strong>di</strong> Museveni), fin dall’inizio il Fpr è stato presentato come un<br />
“partito anglofilo”, una testa <strong>di</strong> ponte dell’espansionismo anglofono<br />
249
Chiara Calabri<br />
nell’Africa francofona […]. Oggi, in Africa, Parigi ragiona in base agli stessi<br />
criteri della geopolitica <strong>di</strong> cent’anni fa» 37 . La politica francese in Africa è<br />
sempre rimasta su toni simili a quelli coloniali: la Francia non sarebbe stata<br />
se stessa agli occhi del mondo se avesse rinunciato all’Africa.<br />
Anche «Il manifesto» mostra <strong>di</strong> dar cre<strong>di</strong>to al coinvolgimento francese<br />
in Rwanda, facendo riferimento al rapporto Arming Rwanda <strong>di</strong> Frank Smyth,<br />
che documenta «i rapporti assai stretti dell’ex presidente assassinato Juvenal<br />
Habyarimana e del suo clan, l’Akazu, con la Francia. Già nel 1975, due<br />
anni dopo aver preso il potere, Habyarimana firmò un accordo militare<br />
con Parigi, e quando nel 1990 i ribelli del Fronte patriottico sferrarono<br />
un’offensiva dall’Uganda, la Francia inviò truppe e artiglieria a sostegno del<br />
governo […]. Un contratto per 6 milioni <strong>di</strong> dollari firmato a Kigali nel<br />
1992 per l’acquisto <strong>di</strong> armi egiziane, ebbe la garanzia del Cré<strong>di</strong>t Lyonnais» 38 .<br />
Come «Avvenire», anche «Il manifesto» dà cre<strong>di</strong>to all’ipotesi della <strong>di</strong>fesa<br />
della francofonia contro l’avanzata dell’anglofonia. Il 20 maggio è pubblicata<br />
un’intervista allo storico francese Yves Benot, che conclude che «la <strong>di</strong>fesa<br />
della francofonia <strong>di</strong> fronte all’influenza ugandese è stata il pretesto per<br />
assicurare la presenza francese, quando nel 1990 il regime <strong>di</strong> Kigali stava<br />
per crollare per l’azione del Fpr» e che i francesi non agiscono in base a una<br />
razionalità riconoscibile, ma in base alla logica <strong>di</strong> «essere presenti dove<br />
possono al <strong>di</strong> fuori dei paesi dell’ex impero» 39 . Anche il ruolo degli Stati<br />
Uniti nel sostenere una delle due parti è messo in evidenza: «La <strong>di</strong>visione<br />
[fra le due etnie] non è terminata con la fine del colonialismo […], su<br />
questa <strong>di</strong>visione hanno impostato il loro gioco anche le potenze che hanno<br />
tentato <strong>di</strong> sostituirsi all’influenza del Belgio nel paese e nella regione.<br />
Innanzitutto la Francia che ha sempre mantenuto ottime relazioni con<br />
Habyarimana (fino al suo recente assassinio) nella sua lotta contro la<br />
“minaccia anglofona” rappresentata dall’Uganda <strong>di</strong> Museveni, appoggiata,<br />
non a caso, dagli Usa» 40 .<br />
«Avvenire» e «Il manifesto» riconoscono e mettono in evidenza, dunque,<br />
il coinvolgimento <strong>di</strong> alcune gran<strong>di</strong> potenze nell’ipostatizzare e sfruttare le<br />
identità contrastanti, attraverso un impegno nell’area che per certi versi ha<br />
il sapore del vecchio colonialismo. Entrambe le testate non mancano, inoltre,<br />
<strong>di</strong> pubblicare analisi <strong>di</strong> tipo economico, che permettono <strong>di</strong> conoscere la<br />
debolezza dell’economia rwandese, basata sul settore primario e su colture<br />
d’esportazione, ere<strong>di</strong>tà dell’epoca coloniale 41 , e il lascito pesante, per società<br />
fragili come quella rwandese, dei Programmi <strong>di</strong> aggiustamento strutturale<br />
promossi dal Fondo monetario internazionale all’ inizio degli anni novanta 42 .<br />
250
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
«Avvenire» de<strong>di</strong>ca anche un approfon<strong>di</strong>mento sul commercio internazionale<br />
delle armi, affermando che «i massacri che si stanno consumando in Ruanda,<br />
a cui il mondo assiste con angoscia, sono dovuti non solo a ragioni etniche<br />
o a retaggi coloniali, ma anche alle speculazioni dei “mercanti <strong>di</strong> morte”, i<br />
ven<strong>di</strong>tori d’armi» 43 . Non si denuncia, quin<strong>di</strong>, solo la violenza, ma anche le<br />
sue cause, rintracciate non solamente nell’ambito <strong>di</strong> una lotta selvaggia fra<br />
tribù in gara per l’accesso al potere, ma anche in un sistema <strong>di</strong> rapporti<br />
internazionali in cui le gran<strong>di</strong> potenze si impegnano a consolidare ed<br />
estendere le rispettive sfere d’influenza.<br />
Il quadro offerto dagli altri due quoti<strong>di</strong>ani considerati non è altrettanto<br />
chiaro.<br />
«Il Messaggero» soltanto una volta fa riferimento al coinvolgimento <strong>di</strong><br />
interessi internazionali nella guerra in Rwanda, e lo fa in un’intervista al<br />
nipote dell’arcivescovo <strong>di</strong> Kigali rimasto ucciso durante l’attacco sferrato<br />
dai guerriglieri tutsi, a inizio giugno, contro le massime cariche della Chiesa<br />
rwandese. Il giovane rwandese, studente in Italia, afferma <strong>di</strong> fronte al<br />
giornalista: «L’invasione del Ruanda è partita dall’Uganda, la cui popolazione<br />
meri<strong>di</strong>onale è affine ai tutsi rwandesi. Il presidente Museveni è figlio <strong>di</strong> una<br />
tutsi - continua Nsabimana - e il capo del Fronte patriottico, Paul Kagame,<br />
era <strong>di</strong>rettore dei servizi segreti ugandesi. Ma <strong>di</strong>etro ci sono interessi<br />
americani, inglesi, belgi e francesi. Molti militari del Fronte sono stati<br />
addestrati in California. Il vero obiettivo è il controllo dello Zaire orientale 44 ,<br />
ricchissimo <strong>di</strong> petrolio, oro e <strong>di</strong>amanti, che si può ottenere attraverso il<br />
mio paese». E aggiunge «ma il presidente Habyalimana […] si era sempre<br />
rifiutato <strong>di</strong> accettare una qualche sorta <strong>di</strong> protettorato straniero» 45 .<br />
Certamente non mancano anche ne «Il Messaggero» analisi meno faziose,<br />
in cui si riconosce anche il peso del presidente hutu Habyarimana e dei<br />
suoi alleati francesi nello scatenamento della violenza. In particolare analisi<br />
<strong>di</strong> questo tipo si collocano alla vigilia dell’Opération Tourquoise. Il 18 giugno<br />
si riportano le conclusioni che il giornale belga «Le Soir» avrebbe raggiunto<br />
a proposito del coinvolgimento francese in Rwanda. «Il Messaggero» parla<br />
del coinvolgimento del Dami (Distaccamento <strong>di</strong> assistenza militare per<br />
l’addestramento) francese a sostegno dell’esercito governativo e dei rapporti<br />
<strong>di</strong> collaborazione col governo hutu 46 .<br />
Anche il «Corriere della Sera» riconosce il ruolo svolto dalla Francia nel<br />
sostenere Habyarimana e gli organizzatori del genoci<strong>di</strong>o. Secondo il<br />
«Corriere», infatti, «la responsabilità morale più grave è della Francia. Questo<br />
genoci<strong>di</strong>o è stato preparato a lungo dagli estremisti hutu con l’aiuto del<br />
251
Chiara Calabri<br />
governo <strong>di</strong> Parigi, che sta attuando in Africa centrale una sporca politica <strong>di</strong><br />
penetrazione. Ci sono <strong>di</strong> mezzo enormi interessi politici ed economici: il<br />
controllo delle gran<strong>di</strong> risorse minerarie dello Zaire orientale, per esempio,<br />
un territorio che si controlla proprio dai confinanti Ruanda e Burun<strong>di</strong>» 47 e<br />
l’Operazione Turchese, promossa dalla Francia a metà giugno <strong>di</strong>etro il<br />
mandato dell’Onu, fa sospettare «che Parigi spinga per un intervento non<br />
solo a fini umanitari. Il governo francese che molti accusano <strong>di</strong> aver<br />
appoggiato le truppe presidenziali, avrebbe urgenza <strong>di</strong> intervenire per<br />
consolidare la propria influenza sulla regione e per soccorrere i propri<br />
consiglieri militari che già si troverebbero sul territorio rwandese a fianco<br />
degli hutu» 48 ; per il «Corriere» le «intenzioni solamente umanitarie della<br />
Francia suscitano non poche perplessità. C’è chi <strong>di</strong>ce che il governo francese<br />
sia prigioniero <strong>di</strong> due stati d’animo contrapposti: la “sindrome Kouchner”<br />
e la “sindrome Fachoda”. La prima prende il nome da Bernard Kouchner,<br />
l’ex ministro socialista che ha teorizzato l’obbligo dell’intervento umanitario<br />
da parte della comunità internazionale per salvare le popolazioni in pericolo.<br />
La seconda, invece, risale all’epoca coloniale quando l’Africa era infiammata<br />
anche dalla rivalità franco-britannica. Ecco “la sindrome Fachoda”<br />
indurrebbe la Francia a intervenire in Rwanda per impe<strong>di</strong>re che nella regione<br />
si formi una federazione <strong>di</strong> stati la cui leadership avrebbe il suo punto <strong>di</strong><br />
riferimento nell’Uganda, una federazione che vivrebbe sotto l’influenza<br />
britannica» 49 .<br />
«Il Messaggero» riporta i dubbi suscitati dalla missione francese presso i<br />
rappresentanti del Fpr 50 . «Il manifesto» si sofferma a mettere in evidenza le<br />
possibili motivazioni dell’intervento francese in Rwanda: da una parte la<br />
spinta dell’opinione pubblica, <strong>di</strong> fronte ai massacri rwandesi, per un<br />
intervento umanitario imme<strong>di</strong>ato, dall’altra l’esigenza <strong>di</strong> riscattarsi da un<br />
passato <strong>di</strong> sostegno alla fazione che si è macchiata dell’organizzazione e<br />
dell’esecuzione del genoci<strong>di</strong>o 51 , possono aver portato la Francia a proporsi,<br />
<strong>di</strong> fronte anche alla passività e all’incapacità <strong>di</strong> un intervento delle Nazioni<br />
Unite, come «pacificatrice». Giampaolo Calchi Novati scrive che «un<br />
intervento militare può <strong>di</strong>ventare [per la Francia] una scorciatoia per dare<br />
un po’ <strong>di</strong> lustro al suo piglio <strong>di</strong> potenza che non esita se necessario a far<br />
ricorso alla forza» e parla <strong>di</strong> «ombre <strong>di</strong> neocolonialismo» 52 presenti<br />
nell’intervento francese, mentre un altro africanista, Alessandro Aruffo, in<br />
un’intervista sempre sullo stesso quoti<strong>di</strong>ano, afferma che «questo neointerventismo,<br />
comunque camuffato e motivato ideologicamente, sta<br />
portando non solo i francesi a ricompattare i loro tasselli africani, ma alla<br />
252
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
negazione <strong>di</strong> ogni sviluppo autonomo sia economico sia politico dei paesi<br />
del continente» 53 . «Avvenire», in un commento <strong>di</strong> Beppe del Colle, si<br />
domanda quale efficacia possa avere un intervento <strong>di</strong> pacificazione da parte<br />
<strong>di</strong> una potenza, come quella francese, che in Rwanda si è de<strong>di</strong>cata a una<br />
«precisa opera <strong>di</strong> sostegno al regime responsabile in massima parte dei<br />
massacri o<strong>di</strong>erni», e più avanti specifica che «quello che a tutti i costi<br />
l’Occidente, e in particolare l’Europa, devono evitare è suscitare l’impressione<br />
<strong>di</strong> voler agire in Africa secondo i meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> un colonialismo che si vorrebbe<br />
sepolto per sempre» 54 .<br />
Dalle pagine dei quoti<strong>di</strong>ani italiani, quin<strong>di</strong>, in maniera piuttosto<br />
omogenea, il ruolo della Francia in Rwanda appare in tutta la sua ambiguità<br />
<strong>di</strong> ex potenza coloniale che, nel nuovo or<strong>di</strong>ne apertosi all’inizio degli anni<br />
novanta, cerca con tutti i mezzi <strong>di</strong> ridar lustro al suo prestigio <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a<br />
potenza, <strong>di</strong> riaffermare la sua presenza nell’Africa centrale, in nome della<br />
<strong>di</strong>fesa degli interessi materiali e strategici. D’altronde si comprende bene,<br />
anche, come l’Opération Tourquoise si collochi in un vuoto <strong>di</strong> iniziative da<br />
parte della comunità internazionale e in un atteggiamento <strong>di</strong> passività delle<br />
Nazioni Unite 55 , che viene più volte rilevato.<br />
«Avvenire» giunge a denunciare le storture <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne internazionale<br />
in cui, alle <strong>di</strong>verse crisi non si attribuisce un peso equivalente, e in cui alle<br />
varie aree del mondo non viene data la stessa importanza. Si trova scritto:<br />
«si fa prima a marciare contro l’Iraq che ad avventurarsi nella ex Jugoslavia.<br />
Sembra più grave la costruzione <strong>di</strong> una bomba atomica in Corea che la<br />
<strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> un intero popolo in Uganda. Gli equilibri fra le potenze<br />
sembrano più importanti della convivenza fra la gente. Durante tre mesi in<br />
cui sono morte centinaia <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> persone [in Rwanda], l’Onu non è<br />
stata ancora capace <strong>di</strong> prendere una decisione. Nel Consiglio <strong>di</strong> sicurezza<br />
Boutros Ghali non riesce a trovare un appoggio nemmeno per una iniziativa<br />
umanitaria. L’amministrazione Clinton non vuole saperne <strong>di</strong> impegnarsi<br />
in un nuovo intervento in Africa dopo l’esperienza della Somalia. Darà<br />
soltanto eventualmente un “appoggio logistico” […]. In Europa si cerca <strong>di</strong><br />
fare qualcosa all’interno dell’Ueo. Ma solo la Francia, appoggiata negli ultimi<br />
giorni anche dal nostro governo, si agita per mettere in campo una qualche<br />
forza <strong>di</strong> pace. Ma un Mitterand primo della classe in questa impresa lascia<br />
a<strong>di</strong>to a qualche dubbio» 56 . L’inazione <strong>di</strong> Usa e Onu è giu<strong>di</strong>cata colpevole<br />
anche dal «Corriere della Sera»: Ennio Caretto in un suo articolo del 16<br />
maggio scrive che «le atrocità e i massacri mobilitano i me<strong>di</strong>a, la televisione<br />
soprattutto, che a sua volta mobilita la pubblica opinione. Prendono<br />
253
Chiara Calabri<br />
posizione il Papa e le associazioni umanitarie, il congresso si <strong>di</strong>vide. Ma<br />
Clinton non intende ripetere l’errore della Somalia, dove l’intervento<br />
americano fu dettato dall’esterno - allo sbarco a Moga<strong>di</strong>scio i marines<br />
trovarono le televisioni <strong>di</strong> tutto il mondo sulla spiaggia ad aspettarli - e finì<br />
in un grosso fiasco. Due settimane fa Clinton ha posto criteri molto rigi<strong>di</strong><br />
per la partecipazione degli Usa alle operazioni delle Nazioni Unite: che<br />
siano limitate, abbiano obiettivi chiari, siano bene organizzate, e non<br />
presumano <strong>di</strong> risolvere i problemi politici interni del paese. La sua politica<br />
estera è cambiata […] Clinton non vuole <strong>di</strong>ventare il gendarme nel nuovo<br />
or<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale. Il Ruanda è il suo nuovo punto <strong>di</strong> partenza […]». «C’è<br />
un limite a ciò che l’America può fare - ha detto il presidente - e al prezzo<br />
che è <strong>di</strong>sposta a pagare» 57 .<br />
Anche «Il Messaggero», infine, denuncia la mancanza <strong>di</strong> volontà delle<br />
Nazioni Unite <strong>di</strong> intervenire in tempo in Ruanda: Paolo Bonaiuti scrive<br />
che «l’unica <strong>di</strong>mostrazione <strong>di</strong> efficienza sotto la ban<strong>di</strong>era dell’Onu venne<br />
fornita qualche anno fa, contro Saddam Hussein. Ma allora era in gioco<br />
l’energia dell’Occidente. Non le vite <strong>di</strong> bambini, <strong>di</strong> uomini e donne <strong>di</strong>sperati,<br />
<strong>di</strong> qualche religioso» 58 .<br />
254<br />
La <strong>di</strong>stribuzione degli articoli<br />
Dal confronto fra le varie letture ed interpretazioni che si ricavano<br />
dall’analisi delle testate prese in considerazione, a proposito della crisi e del<br />
genoci<strong>di</strong>o rwandesi, si osservano <strong>di</strong>versità nella qualità delle notizie e nei<br />
tentativi <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>mento che fanno risaltare una <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> interesse<br />
a ciò che accadeva in quei giorni in Rwanda e, in maniera allargata, ai<br />
problemi dell’Africa, fra le testate in questione. La <strong>di</strong>versità non è, però,<br />
solo qualitativa ma anche quantitativa, relativa allo spazio de<strong>di</strong>cato alle<br />
notizie rwandesi nei vari giornali.<br />
Dopo aver confrontato la <strong>di</strong>stribuzione degli articoli nei vari quoti<strong>di</strong>ani,<br />
quello che colpisce <strong>di</strong> più è proprio il <strong>di</strong>verso numero <strong>di</strong> articoli in cui,<br />
per ogni quoti<strong>di</strong>ano, si parla del Rwanda. Se il fatto che «Il Messaggero»<br />
non presenti più <strong>di</strong> centotrenta articoli nel periodo che va dal 7 aprile<br />
1994 al 31 luglio 1994, non è troppo stupefacente, pensando che si tratta<br />
<strong>di</strong> un quoti<strong>di</strong>ano con caratteristiche più regionali che nazionali, «Il<br />
manifesto» presenta centocinquantacinque articoli nello stesso periodo, e<br />
il «Corriere della Sera» centoquarantaquattro. Questi ultimi due dati
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
sembrano degni <strong>di</strong> nota: il più grande quoti<strong>di</strong>ano nazionale, non solo per<br />
<strong>di</strong>ffusione ma anche per tra<strong>di</strong>zione, considerato la «voce» della borghesia<br />
emergente industriale e finanziaria italiana, con un formato <strong>di</strong> una me<strong>di</strong>a<br />
<strong>di</strong> quarantadue, quarantaquattro pagine a e<strong>di</strong>zione, dà alla crisi rwandese<br />
uno spazio ridotto, ad<strong>di</strong>rittura, nel periodo che copre i momenti più<br />
cruciali della guerra in Rwanda, inferiore a «Il manifesto», quoti<strong>di</strong>ano<br />
minore, rappresentante <strong>di</strong> una parte della popolazione italiana meno<br />
«emergente», e con un formato che non supera la me<strong>di</strong>a delle venti,<br />
venticinque pagine. Tuttavia «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «Il<br />
manifesto» sono sullo stesso or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> numero d’articoli ciascuno.<br />
«Avvenire», invece, si <strong>di</strong>stanzia notevolmente dalle quote delle altre tre<br />
testate, con un numero <strong>di</strong> articoli che è esattamente doppio rispetto a quello<br />
del «Corriere della Sera». Con i suoi duecentottantasette articoli, «Avvenire»,<br />
anche dal punto <strong>di</strong> vista quantitativo, si <strong>di</strong>fferenzia rispetto agli altri. Un<br />
così ampio spazio, concesso alla guerra in Rwanda, costituisce l’ambito in<br />
cui ricavare interpretazioni più critiche e approfon<strong>di</strong>te, grazie anche al<br />
contributo dei missionari che sono, in particolare nei momenti <strong>di</strong> crisi più<br />
profonda, gli unici testimoni presenti sul terreno, fonte <strong>di</strong> prima mano per<br />
testimoniare l’incubo <strong>di</strong> ciò che hanno visto e vissuto più dal <strong>di</strong> dentro<br />
rispetto agli inviati speciali o ai corrispondenti. D’altronde gli inviati speciali<br />
professionisti non sono molti e soprattutto sono giornalisti del «Corriere<br />
della Sera» e <strong>di</strong> «Avvenire», mentre «Il manifesto» e «Il Messaggero» mancano<br />
<strong>di</strong> tali figure.<br />
I reportage del «Corriere» sono firmati da Riccardo Orizio e da Ettore<br />
Mo. Quest’ultimo è un inviato speciale che si è concentrato sull’area del<br />
Me<strong>di</strong>o Oriente e dell’Afghanistan piuttosto che sull’Africa, mentre Riccardo<br />
Orizio si può definire «lo specialista dell’Africa». Il fatto che un solo<br />
giornalista possa essere definito in questo modo, ci sembra sveli un altro<br />
limite del giornalismo italiano, cioè la mancanza <strong>di</strong> corrispondenti esteri<br />
che «coprano» zone extraeuropee, con una presenza stabile, che, sola,<br />
permette <strong>di</strong> conoscere e comprendere meglio la realtà dei vari paesi. Se<br />
quasi in ogni capitale europea si ha un corrispondente, per l’Africa ci si<br />
accontenta <strong>di</strong> uno o due inviati speciali che, inevitabilmente, non possono<br />
avere una conoscenza completa <strong>di</strong> ogni situazione.<br />
«Avvenire» pubblica numerosi reportage del suo inviato speciale Clau<strong>di</strong>o<br />
Monici: egli si reca sui luoghi delle gran<strong>di</strong> trage<strong>di</strong>e e dei gran<strong>di</strong> massacri e<br />
ne dà testimonianza grazie al supporto prezioso dei missionari che lavorano<br />
in loco e che talvolta lo accompagnano o si fanno intervistare.<br />
255
Chiara Calabri<br />
Un altro elemento che svela l’importanza che viene data alle notizie sul<br />
Rwanda è il numero delle volte in cui questo paese viene citato in prima<br />
pagina. Per «Il Messaggero» il Rwanda costituisce argomento da prima pagina<br />
soltanto in <strong>di</strong>eci occasioni; per «Il manifesto» in do<strong>di</strong>ci; per il «Corriere<br />
della Sera» in tre<strong>di</strong>ci e per «Avvenire» in quarantatre. Anche questo è segno<br />
della priorità che viene data alle notizie e della scelta <strong>di</strong> dare precedenza e<br />
evidenza a certe notizie piuttosto che ad altre.<br />
La guerra rwandese si svolge nello stesso periodo <strong>di</strong> quella fase della<br />
guerra in Bosnia che vedeva scesi in campo gli americani: alla crisi balcanica<br />
sono de<strong>di</strong>cati molti articoli, soprattutto dal «Corriere della Sera». La guerra<br />
bosniaca evidentemente era sentita come più vicina all’Italia e all’Europa,<br />
non solo geograficamente. Fu percepita e riportata come una crisi che più<br />
da vicino toccava anche gli interessi dell’Europa occidentale, in un momento<br />
storico in cui i rapporti fra Europa e America apparivano in via <strong>di</strong><br />
ridefinizione. Tuttavia, anche se in alcuni quoti<strong>di</strong>ani alla crisi nella ex<br />
Jugoslavia viene dato più spazio che a quella in Rwanda, in generale il<br />
limite <strong>di</strong> fondo dei quoti<strong>di</strong>ani considerati è il numero delle pagine de<strong>di</strong>cate<br />
agli esteri. Normalmente, in giorni in cui non sia accaduto qualcosa <strong>di</strong><br />
eclatante nelle zone su cui già è concentrata l’attenzione della stampa e<br />
dell’opinione pubblica, come il Me<strong>di</strong>o Oriente, le pagine degli esteri non<br />
sono più <strong>di</strong> due, e talvolta possono ridursi anche a una 59 . Questo fatto<br />
suggerisce la scarsa importanza che viene data alla politica estera in Italia, e<br />
la tendenza a concentrarsi, da parte della classe politica, su questioni <strong>di</strong><br />
carattere soprattutto interno, talvolta anche non realmente significative,<br />
intorno a cui, però, le <strong>di</strong>scussioni e il <strong>di</strong>battito politico si concentrano,<br />
spesso anche in termini <strong>di</strong> scontro fra le opposizioni.<br />
Elemento sconfortante è poi il fatto che, in particolare via via che la<br />
stagione evolve verso il periodo delle vacanze, ci si rivolga al «gossip<br />
internazionale»: abbondano le notizie sulla vicenda <strong>di</strong> O. J. Simpson, il<br />
campione sportivo accusato <strong>di</strong> violenza sessuale, sulle vacanze <strong>di</strong> Clinton,<br />
sulle pettinature della moglie del presidente americano Hillary 60 e<br />
sull’onnipresente monarchia inglese.<br />
Lungo il periodo dal 7 aprile 1994 al 31 luglio l’attenzione rivolta dai<br />
quattro giornali considerati nei confronti del Rwanda ha delle variazioni <strong>di</strong><br />
livelli che riproducono un andamento on<strong>di</strong>vago: se per un periodo <strong>di</strong> due,<br />
tre giorni l’attenzione si mantiene elevata, raggiungendo una quota <strong>di</strong> più<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>eci articoli, poi per un lasso <strong>di</strong> tempo <strong>di</strong> otto, <strong>di</strong>eci giorni <strong>di</strong>fficilmente<br />
raggiungono gli stessi livelli.<br />
256
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
In un grafico 61 , si potrà avere una rappresentazione, a gran<strong>di</strong> linee<br />
simmetrica, della <strong>di</strong>stribuzione degli articoli <strong>di</strong> tutte le testate, lungo l’arco<br />
<strong>di</strong> tempo considerato. Dove si concentra l’attenzione, «Avvenire», in più <strong>di</strong><br />
un caso, presenta un numero <strong>di</strong> articoli superiore al doppio rispetto alle<br />
altre testate ed anche nei perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> minor attenzione, la quota degli articoli<br />
<strong>di</strong> «Avvenire» è spesso quella più importante.<br />
Scendendo poi nel particolare dell’analisi degli articoli pubblicati nei<br />
giorni in cui si possono in<strong>di</strong>viduare nel grafico dei «picchi <strong>di</strong> attenzione», si<br />
può capire quali siano i motivi che «trascinano» i quoti<strong>di</strong>ani italiani a<br />
interessarsi del Rwanda: ci si accorge che non vi è quasi mai un interesse<br />
«puro» agli avvenimenti rwandesi, semplicemente mosso dalla volontà <strong>di</strong><br />
capire ciò che stava accadendo in quel paese, ma il Rwanda si guadagna<br />
uno spazio maggiore sulle pagine dei giornali considerati, solo nei casi in<br />
cui siano coinvolti nelle vicende rwandesi personaggi italiani o il governo<br />
italiano stesso, oppure altre potenze occidentali, come la Francia e gli Usa,<br />
o se gli eventi hanno caratteristiche <strong>di</strong> macabra e sensazionale spettacolarità.<br />
All’inizio della crisi la copertura degli eventi rwandesi è assicurata da<br />
tutte le testate. Sono i giorni, infatti, in cui, dopo aver riportato la notizia<br />
dell’attentato all’aereo presidenziale e l’inizio dei massacri, l’attenzione della<br />
stampa si rivolge all’evacuazione degli stranieri dal paese. I titoli che si<br />
ritrovano in questi giorni nel «Corriere della Sera» e ne «Il Messaggero», e<br />
che si meritano le prime pagine, parlano <strong>di</strong> «ponte aereo» organizzato dalle<br />
varie nazioni europee per portare in salvo i connazionali residenti nel paese<br />
africano. «Il Messaggero» titola nella prima pagina del 10 aprile: Fuga dal<br />
Rwanda in fiamme. Migliaia <strong>di</strong> morti nella faida etnica fra Hutu e Tutsi.<br />
L’Occidente invia truppe. Tre Hercules da Pisa per salvare gli italiani, e così<br />
anche il «Corriere della Sera» fa riferimento alla partenza degli Hercules<br />
per portare in salvo gli italiani. Nei giorni che seguono l’iniziale esplosione<br />
<strong>di</strong> violenza e che coincidono con le operazioni <strong>di</strong> evacuazione degli europei,<br />
l’attenzione del «Corriere della Sera» e de «Il Messaggero» rimane costante<br />
e non mancano reportage che riportano i «primi racconti <strong>di</strong> morte» 62 . Così<br />
durante i primi giorni dei massacri il Rwanda trova spazio, nei due<br />
quoti<strong>di</strong>ani, soltanto in quanto da quel paese fuggono connazionali e<br />
occidentali per i quali sono organizzati ponti aerei e missioni <strong>di</strong> salvataggio.<br />
In seguito, per alcuni giorni, le notizie sul Rwanda sono riportate in<br />
brevi articoli o trafiletti attraverso cui il lettore è informato, in poche ed<br />
essenziali righe, del continuo ripetersi <strong>di</strong> stragi. L’attenzione si «riaccende»,<br />
in parte, intorno al 28 e al 29 aprile quando giunge la notizia che sono<br />
257
Chiara Calabri<br />
258<br />
30<br />
25<br />
La crisi rwandese nella stampa italiana<br />
20<br />
15<br />
10<br />
numero degli articoli<br />
5<br />
0<br />
Avvenire Corriere della Sera Il Manifesto Il Messaggero
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
arrivati in Italia quarantasei orfani insieme alla volontaria laica vicentina<br />
Amelia Barbieri, grazie a una missione <strong>di</strong> salvataggio organizzata da Maria<br />
Pia Fanfani. I toni eroici attraverso cui la signora Fanfani racconta la vicenda<br />
della cosiddetta «operazione Rwanda» riempiono ben mezza pagina del<br />
«Corriere della Sera» e de «Il Messaggero».<br />
Una rinnovata attenzione alla crisi rwandese si trova nel periodo che va<br />
dal 23 maggio al 27. In quei giorni si svolse, infatti, la visita del ministro<br />
degli Esteri italiano Antonio Martino alla Casa Bianca, con l’obiettivo <strong>di</strong><br />
rilanciare la posizione italiana sul piano della politica estera. Titola, in prima<br />
pagina, il «Corriere della Sera» del 24 maggio: Martino: l’Italia deve contare.<br />
Il titolare degli Esteri presenta agli Stati Uniti la nuova politica «interventista».<br />
Un seggio permanente all’Onu, nel comando in Bosnia, «caschi blu» in<br />
Ruanda 63 . Mentre da Washington arrivano le <strong>di</strong>chiarazioni del ministro<br />
Martino sul nuovo corso della politica estera italiana, da Bruxelles giunge<br />
la notizia che il ministro della Difesa, Previti, «ha <strong>di</strong>chiarato la <strong>di</strong>sponibilità<br />
dell’Italia a partecipare a qualsiasi iniziativa internazionale <strong>di</strong> tipo umanitario<br />
in Ruanda, anche con l’invio <strong>di</strong> nostri Caschi blu» 64 . Nei giorni successivi<br />
lo spazio lasciato alle notizie dal Rwanda è più ampio, ma, soprattutto, il<br />
numero maggiore <strong>di</strong> articoli è de<strong>di</strong>cato alla <strong>di</strong>atriba che scoppia sulle<br />
affermazioni del ministro della Difesa a proposito della <strong>di</strong>sponibilità italiana<br />
a intervenire a fianco dell’Onu in Rwanda. Il 26 maggio «Il Messaggero»<br />
consacra molto spazio proprio al botta e risposta fra Ghali e Previti: i titoli<br />
riportano che Ghali è polemico sulle esternazioni <strong>di</strong> Previti e chiede fatti<br />
all’Italia, mentre, da parte sua, il ministro della Difesa italiano precisa <strong>di</strong><br />
non aver «mai parlato dell’invio dei parà» 65 . La questione dell’eventuale<br />
partecipazione dei militari italiani alla missione Onu in Rwanda si prolunga<br />
per alcuni giorni, fino alla vigilia del 10 giugno. In questa data si concentra<br />
il numero maggiore <strong>di</strong> articoli. Infatti giunge la notizia dell’uccisione <strong>di</strong> tre<br />
vescovi rwandesi da parte dei guerriglieri tutsi del Fpr. Il tragico evento<br />
costituisce l’occasione per «Avvenire» <strong>di</strong> dare spazio anche ad analisi e<br />
approfon<strong>di</strong>mento sugli eventi rwandesi, mentre le altre testate, accanto alla<br />
cronaca dell’omici<strong>di</strong>o dei vescovi, riportano le esternazioni dell’allora primo<br />
ministro Berlusconi e del ministro degli Esteri Martino a proposito <strong>di</strong><br />
un’eventuale partecipazione italiana alla missione Onu in Rwanda.<br />
Solo «Avvenire», pur non mancando <strong>di</strong> dare le notizie sulle missioni <strong>di</strong><br />
intervento umanitario dell’Italia e sulla questione dell’invio delle truppe<br />
italiane, non fa <strong>di</strong> tali argomenti il fulcro della sua attenzione, che rimane<br />
elevata anche a prescindere dalle <strong>di</strong>chiarazioni dei rappresentanti del governo<br />
259
Chiara Calabri<br />
attraverso reportage, interviste a missionari e analisi delle cause della guerra<br />
e del genoci<strong>di</strong>o rwandese.<br />
Ci sembra che tutto ciò riveli una <strong>di</strong>versità nel modo <strong>di</strong> guardare, da<br />
parte delle varie testate, alla crisi rwandese: se «Avvenire» e, anche se in<br />
maniera meno esaustiva, «Il manifesto» riportano notizie a tutto campo sul<br />
Rwanda, l’attenzione del «Corriere della Sera» e de «Il Messaggero» è filtrata<br />
attraverso il binomio «Italia-Rwanda», elemento che rivela il provincialismo<br />
<strong>di</strong> fondo della stampa italiana, specchio <strong>di</strong> una politica internazionale del<br />
governo italiano pressoché inesistente e, in particolare, <strong>di</strong> un interesse per<br />
certe zone del mondo, come l’Africa centrale, che non va al <strong>di</strong> là<br />
dell’opportunismo e dell’occasionalità 66 .<br />
Un altro momento in cui si concentrano gli articoli si situa intorno al<br />
20 giugno, quando si prospetta l’intervento francese nel quadro<br />
dell’Opération Tourquoise. Per tutte le testate analizzate, in quei giorni la<br />
questione dell’intervento francese è prioritaria. Le nuove <strong>di</strong>chiarazioni del<br />
presidente del Consiglio su una possibile scesa in campo dell’Italia a fianco<br />
della Francia, attirano e coagulano nuovamente l’attenzione. I titoli parlano<br />
dell’invio dei parà italiani a fianco dei soldati francesi, fin dalla prima pagina.<br />
Ma su «Avvenire» e su «Il manifesto», accanto a queste notizie, pur presentate<br />
come principali, si continuano a trovare articoli <strong>di</strong> contestualizzazione e <strong>di</strong><br />
analisi del ruolo francese e delle motivazioni che hanno mosso la Francia a<br />
<strong>di</strong>chiararsi pronta ad intervenire in Rwanda e a farsi affidare la missione<br />
dall’Onu; ne «Il Messaggero« e nel «Corriere della Sera» l’attenzione si<br />
concentra, invece, sul possibile coinvolgimento italiano: via, via che tale<br />
prospettiva si allontana l’interesse per il Rwanda e per l’Operation Tourquoise<br />
scema e gli articoli sul Rwanda si fanno meno numerosi e meno ampi.<br />
Dopo un’altra impennata nel livello d’attenzione corrispondente alle<br />
notizie sull’avanzata dei ribelli tutsi verso Kigali e su tutto il paese, l’ultima<br />
concentrazione si ha alla fine <strong>di</strong> luglio, dal 20 al 30. In queste date la<br />
concentrazione degli articoli ha una nuova impennata: sono i giorni in cui<br />
arrivano le immagini e le notizie delle masse dei profughi che si sono riversate<br />
ai confini del paese dopo l’avanzata del Fpr. L’alto rischio <strong>di</strong> esplosione <strong>di</strong><br />
epidemie, i primi morti <strong>di</strong> colera e le pessime con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita nei campi<br />
profughi attirano l’attenzione dei quoti<strong>di</strong>ani. La situazione nei campi<br />
profughi è descritta con toni drammatici: i campi sono definiti da «Il<br />
manifesto», «i quattro campi dell’apocalisse» 67 , il cui aspetto è assimilabile<br />
a quello <strong>di</strong> una «bolgia dantesca» in cui le persone sembrano «zombie senza<br />
volontà» 68 , «corpi sfiniti dalla fatica che neppure la terra vuole accogliere,<br />
260
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
terra dura, vulcanica che impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> seppellire i morti» 69 , «un inferno <strong>di</strong><br />
morte, fame, desolazione», «una trage<strong>di</strong>a biblica» 70 . I reportage sui campi<br />
profughi si susseguono per alcuni giorni. L’impatto delle immagini che<br />
provenivano dai campi profughi e che furono riversate sui teleschermi <strong>di</strong><br />
tutto il mondo fu tale che anche la presidenza americana si trovò in qualche<br />
modo costretta e spinta dall’opinione pubblica ad intervenire in Rwanda. I<br />
giornali italiani riportano la notizia dell’organizzazione <strong>di</strong> un gigantesco<br />
ponte aereo umanitario statunitense che doveva paracadutare viveri sui campi<br />
profughi. L’interessamento americano alla trage<strong>di</strong>a rwandese, insieme alle<br />
terribili immagini e racconti provenienti dai campi al confine col Rwanda,<br />
fungono da elementi catalizzatori dell’attenzione dei quoti<strong>di</strong>ani italiani.<br />
Già alla fine <strong>di</strong> maggio, come abbiamo visto, si era avuto un picco<br />
nell’attenzione alla crisi rwandese: in quel caso l’innalzamento del livello<br />
era stato legato agli interventi dei ministri della Difesa e degli Esteri che<br />
avevano fatto intendere, anche se in maniera ambigua, la <strong>di</strong>sponibilità<br />
italiana a partecipare alla missione Onu. Contemporaneamente, però, si<br />
erano presentate agli occhi del lettore italiano foto che riproducevano corpi<br />
maciullati gettati nel lago Vittoria, che galleggiavano trasportati dalle acque<br />
del fiume Akagera: il Rwanda guadagnava spazio sulle pagine dei giornali<br />
italiani con immagini e racconti raccapriccianti insieme al <strong>di</strong>battito politico<br />
sull’intervento italiano. Similmente, alla fine <strong>di</strong> luglio, l’attenzione è attirata<br />
dagli spettacolari e cru<strong>di</strong> racconti della vita nei campi profughi e, allo stesso<br />
tempo, dall’intervento americano. Spettacolo e coinvolgimento <strong>di</strong> un paese<br />
occidentale sembrano fungere da vettori <strong>di</strong> guida e orientamento per la<br />
maggioranza degli organi <strong>di</strong> stampa italiani nel narrare la guerra in Rwanda.<br />
«Avvenire» in un articolo del 24 maggio, descrive bene tutto questo: «Più <strong>di</strong><br />
un mese e mezzo fa, sei settimane un tempo dentro al quale si è consumata nel<br />
paese delle mille colline una carneficina terribile, più della Jugoslavia, più <strong>di</strong> ogni<br />
altro <strong>di</strong>sgraziato luogo <strong>di</strong> guerra e morte. Si cominciò con l’annuncio <strong>di</strong> 100 mila<br />
morti, poi 200 mila, e ancora 500 mila e poi, ora, forse, un milione <strong>di</strong> vittime.<br />
Ma vi ricordate anche della bolgia <strong>di</strong> corpi nu<strong>di</strong>, martoriati e gonfi che navigavano<br />
sul Kagera, il fiume che sfocia in Tanzania. Anche quelle erano immagini, grida<br />
d’aiuto che venivano dal Ruanda e che abbiamo visto sugli schermi dei nostri<br />
televisori più <strong>di</strong> un mese fa quando l’Onu decise <strong>di</strong> ritirare anche il contingente <strong>di</strong><br />
caschi blu, lasciandone una manciata inutile […]. Conclusa la “fuga” dei “bianchi”,<br />
si chiuse anche la porta dell’informazione sull’inferno del Ruanda. Ecco che ora la<br />
si rispalanca per sbattere in faccia alla gente <strong>di</strong>stratta […] l’“allarme internazionale<br />
per i 40 mila cadaveri che galleggiano sul lago Vittoria”. Vogliamo solo ricordare<br />
261
Chiara Calabri<br />
che questi uomini donne e bambini, dalla pelle saponificata e ossa con brandelli<br />
<strong>di</strong> carne, che ora le tv fanno vedere sono gli stessi cadaveri che scendevano dal<br />
Kagera un mese fa […]. Quelli che non si vedono sono già ossa in fosse comuni.<br />
Un mese e mezzo è trascorso. Dove eravamo prima? Perché solo oggi abbiamo<br />
riaperto la finestra sull’inferno?» 71 .<br />
«Quello che isola definitivamente questi morti non è solo l’attesa <strong>di</strong> una<br />
giustizia nella memoria storica <strong>di</strong> quelle terre, ma anche un’attesa della<br />
pace allontanata dall’ignoranza, dalle omissioni e da banali analisi degli<br />
avvenimenti» 72 .<br />
In troppe occasioni l’informazione italiana si è macchiata, <strong>di</strong> fronte alla<br />
trage<strong>di</strong>a del Rwanda, <strong>di</strong> miopia, <strong>di</strong> omissioni, <strong>di</strong> analisi banali, <strong>di</strong> <strong>di</strong>sinteresse<br />
provinciale. Tutto ciò non è privo <strong>di</strong> conseguenze se è vero, come lo è nel<br />
nostro mondo, che «senza telecamere non esistono <strong>di</strong>sgrazie» 73 . Un’informazione<br />
deficiente contribuisce alla paralisi della politica internazionale. In Italia, il<br />
rapporto fra informazione estera e politica internazionale somiglia a un cane<br />
che si morde la coda: una politica estera <strong>di</strong> per se stessa velleitaria e<br />
inconsistente non stimola la ricerca <strong>di</strong> una conoscenza e <strong>di</strong> una comprensione<br />
più complete del mondo, e si autocondanna a rimanere relegata sempre<br />
sugli stessi scenari, in una posizione tendenzialmente impotente. I canali<br />
della cultura dominante stessa, dall’e<strong>di</strong>toria, all’informazione, dal mondo<br />
accademico a quello politico non sfociano su orizzonti più larghi e che<br />
oltrepassino il «particulare» delle questioni interne, o delle «solite questioni».<br />
Riuscire a ragionare attorno alle crisi che cronicamente avvolgono l’Africa<br />
dei Gran<strong>di</strong> Laghi e il Sud del mondo, nella nostra epoca significa sapere<br />
comprendere il contesto mon<strong>di</strong>ale: si tratta <strong>di</strong> una sfida che anche l’Italia è<br />
chiamata ad affrontare, per un rinnovamento della sua cultura, per poter<br />
agire, con le giuste cognizioni <strong>di</strong> causa, nell’ambito della politica<br />
internazionale.<br />
262<br />
Note al testo<br />
1 Il <strong>di</strong>battito sulle responsabilità dell’attentato fu molto acceso. Per una dettagliata ricostruzione<br />
delle varie ipotesi e posizioni cfr. G. PRUNIER, The Rwanda crisis, 1959-1994. History of a<br />
genocide, Hurst & Company, London 1995.<br />
2 Nell’ottobre 1993 era stato ucciso, in Burun<strong>di</strong>, il primo presidente eletto democraticamente.<br />
3 L’attentato durante l’atterraggio. Abbattuto l’aereo. Uccisi i presidenti <strong>di</strong> Rwanda e Burun<strong>di</strong>,
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
in «Corriere della Sera», 7 aprile 1994, p. 10. In questi primi articoli si accetta, come dato <strong>di</strong><br />
fatto, la classificazione della popolazione rwandese in due gruppi etnici senza porsi la domanda<br />
<strong>di</strong> quale origine avesse tale <strong>di</strong>visione. I colonizzatori occidentali, in tutto il continente africano,<br />
fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, quando si affermò un nuovo tipo<br />
<strong>di</strong> colonizzazione, non più solo commerciale, ma anche politica, contribuirono, imponendo<br />
le loro forme amministrative e organizzative, a creare identità contrapposte in seno a<br />
popolazioni che allora vivevano in un rapporto <strong>di</strong> equilibrio interno che fu sconvolto dalla<br />
dominazione europea. Per uno sguardo generale sui meccanismi <strong>di</strong> contrapposizione<br />
identitaria che gli europei contribuirono a innescare con le loro forme <strong>di</strong> organizzazione<br />
amministrativa e fiscale, cfr. A. M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub<br />
sahariana, Carocci, Roma 1995. Per quanto riguarda invece il caso particolare del Rwanda,<br />
i presupposti culturali e politici della classificazione della popolazione rwandese in due gruppi<br />
etnicamente <strong>di</strong>versi, cfr. G. MORIANI, Il secolo dell’o<strong>di</strong>o, conflitti razziali e <strong>di</strong> classe nel Novecento,<br />
Marsilio, Venezia 1999 (in cui un capitolo è de<strong>di</strong>cato al genoci<strong>di</strong>o rwandese e alla sua genesi);<br />
R.SANDERS, The Hamitic hypotesis: its origin and functions in time perspective, in «The journal<br />
of african history», 1969, vol. X, pag. 521-532; C. G. SELIGMAN, Les races de l’Afrique,<br />
Payot, Paris 1935; G. PRUNIER, The Rwanda crisis cit.: <strong>di</strong> questo testo sono interessanti e<br />
utili per comprendere i brani, riportati a p. 6, del Rapport sur l’administration belge du Ruanda-<br />
Urun<strong>di</strong> (1925) del Ministero delle Colonie belga.<br />
4 L’aereo con i presidenti <strong>di</strong> Ruanda e Burun<strong>di</strong> precipita in fiamme, forse è stato abbattuto, in «Il<br />
Messaggero», 7 aprile 1994, p. 11.<br />
5 Ruanda, caos e sangue, in «Il Messaggero», 8 aprile 1994, p. 12.<br />
6 Ruanda, l’ora della vendetta, in «Corriere della Sera», 8 aprile 1994, p. 9.<br />
7 Ivi. Corsivo mio.<br />
8 Ivi.<br />
9 Ivi.<br />
10 Le caratteristiche fisiche furono catalogate, dai colonizzatori, con estrema precisione e connesse<br />
a <strong>di</strong>fferenti qualità morali: «the Bahutu <strong>di</strong>splay very typical bantu features. [...] They are generally<br />
short and thick-set with a big head, a jovial expression, a wide nose and enormous lips. They<br />
are extroverts who like to laugh and lead a simple life», mentre i tutsi erano definiti come una<br />
razza che non aveva niente a che vedere con quella «negra», eccetto il colore (!): «he [l’uomo<br />
tutsi] is usually very tall, 1.80 m. at least, often 1.90 m. or more. He is very thin [...]. His<br />
feature are fine: a high brow, thin nose and fine lips framing beautiful shining teeth. Batutsi<br />
women are usually lighter-skinned than their husbands, very slender and pretty in their youth,<br />
although they tend to thicken with age. [...] Gifted with a vivacious intelligence, the Tutsi<br />
<strong>di</strong>splays a refinement of feelings wich is rare among primitive people. He is a natural-born<br />
leader, capable of extreme self-control and of calculated goodwill». Cfr. Ministère des Colonies,<br />
Rapport sur l’administration belge du Ruanda- Urun<strong>di</strong> (1925), pp. 26 e 34, citato in G. PRUNIER,<br />
The Rwanda crisis, cit, p.6.<br />
263
Chiara Calabri<br />
11 L’attentato durante l’atterraggio. Abbattuto l’aereo. Uccisi i presidenti <strong>di</strong> Rwanda e Burun<strong>di</strong>, in<br />
«Corriere della Sera», 7 aprile 1994, p. 10.<br />
12 L’aereo con i presidenti <strong>di</strong> Ruanda e Burun<strong>di</strong> precipita in fiamme, forse è stato abbattuto, in «Il<br />
Messaggero», 8 aprile 1994, p. 12.<br />
13 La scheda, in «Il Messaggero», 8 aprile 1994, p. 12.<br />
14 Due nazioni <strong>di</strong>sastrate, in «Corriere della Sera», 8 aprile 1994, p. 9.<br />
15 Ruanda, lunga guerra, in «Il manifesto», 8 aprile 1994, p. 19.<br />
16 Kigali, ribellione a colpi <strong>di</strong> machete, in «Avvenire», 8 aprile 1994, p. 15.<br />
17 M. FUSASCHI, Hutu-Tutsi, alle ra<strong>di</strong>ci del genoci<strong>di</strong>o rwandese, Bollati Boringhieri, Torino<br />
2000, p. 13.<br />
18 Per quanto riguarda la genesi <strong>di</strong> tali sentimenti <strong>di</strong> contrapposizione identitaria e<br />
l’interiorizzazione <strong>di</strong> essa da parte dei due gruppi della popolazione cfr. C. CARBONE,<br />
Colonialismo e neocolonialismo, la vicenda storica del Rwanda e del Burun<strong>di</strong>, Aracne e<strong>di</strong>trice,<br />
Palermo 1974, e G. PRUNIER, The Rwanda crisis cit. Da questi due testi si comprende bene<br />
come l’intervento delle riforme amministrative belghe abbiano contribuito, cristallizzando<br />
<strong>di</strong>fferenze che fino a quel momento si armonizzavano tra loro nella <strong>di</strong>namica della società<br />
rwandese precoloniale, alla nascita del sentimento <strong>di</strong> appartenenza a due gruppi contrapposti.<br />
In particolare per una comprensione del ruolo giocato dalla Chiesa e dai missionari in questo<br />
processo <strong>di</strong> creazione <strong>di</strong> coscienze contrapposte, cfr. I. LINDEN, Christianisme et pouvoirs au<br />
Rwanda 1900-1990, Karthala, Paris 1999. Per una ricostruzione del ruolo giocato dai me<strong>di</strong>a<br />
nel creare un clima <strong>di</strong> insicurezza e paura e poi mobilitare alla violenza cfr. J. P. CHRÉTIEN,<br />
Rwanda. Les mé<strong>di</strong>as du génocide, Karthala, Paris 1995; e A. DES FORGES, Leave none to tell the<br />
story. Genocide in Rwanda, Human Rights Watch 1999.<br />
19 Per un’analisi generale della politica estera italiana si potranno vedere il saggio <strong>di</strong> G. CALCHI<br />
NOVATI, Me<strong>di</strong>terraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia<br />
repubblicana. La trasformazione dell’Italia: sviluppi e squilibri, a cura <strong>di</strong> F. Barbagallo, Einau<strong>di</strong>,<br />
Torino 1995, e il testo <strong>di</strong> C. M. SANTORO, La politica estera <strong>di</strong> una me<strong>di</strong>a potenza. L’Italia<br />
dall’Unità ad oggi, Il Mulino, Bologna 1991.<br />
20 Lo scrittore Amin Maalouf, nel suo saggio intitolato L’identità, proprio parlando della ex<br />
Jugoslavia, dà una chiara spiegazione <strong>di</strong> come i sentimenti <strong>di</strong> appartenenza e <strong>di</strong><br />
autoriconoscimento in una categoria o in un gruppo possano cambiare a seconda del momento<br />
storico ed anche della manipolazione che <strong>di</strong> essi viene fatta. Scrive Maalouf: «Non lasciamo<br />
ancora Sarajevo. Restiamoci, con il pensiero, per un’indagine immaginaria. Osserviamo, per<br />
strada, un uomo sulla cinquantina. Verso il 1980, l’uomo avrebbe <strong>di</strong>chiarato: Sono iugoslavo!,<br />
con fierezza ma senza particolare enfasi; interrogato un po’ più in dettaglio, avrebbe precisato<br />
<strong>di</strong> abitare nella repubblica federata <strong>di</strong> Bosnia-Erzegovina e <strong>di</strong> venire, incidentalmente, da una<br />
famiglia <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zione musulmana. Lo stesso uomo, incontrato do<strong>di</strong>ci anni dopo, quando la<br />
guerra infuriava, avrebbe risposto spontaneamente e con vigore: Sono musulmano! Forse si<br />
sarebbe persino lasciato crescere la barba regolamentare. Avrebbe subito aggiunto <strong>di</strong> essere<br />
264
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
bosniaco, e non avrebbe apprezzato gran che <strong>di</strong> sentirsi ricordare che in passato si <strong>di</strong>chiarava<br />
con fierezza iugoslavo. Oggi, il nostro uomo, interrogato per strada, si <strong>di</strong>chiara prima bosniaco,<br />
poi musulmano; si sta recando per l’appunto alla moschea, preciserebbe; ma ci tiene anche a<br />
<strong>di</strong>re che il suo paese fa parte dell’Europa, e che spera <strong>di</strong> vederlo aderire un giorno all’Unione<br />
europea»: A. MAALOUF, L’identità, Bompiani, Milano 2002, pp. 18-19.<br />
21 Non a caso la maggioranza dei libri che sono stati pubblicati a proposito del Rwanda dal<br />
1994 a oggi sono <strong>di</strong> autori che rappresentano quel mondo <strong>di</strong> intellettuali che si ispirano alla<br />
solidarietà cristiana o all’internazionalismo, ed anche le case e<strong>di</strong>trici che pubblicano tali libri<br />
fanno riferimento allo stesso ambiente. I libri apparsi in questi anni sono i seguenti: R. CAVALIERI,<br />
Balcani d’Africa. Burun<strong>di</strong>, Rwanda, Zaire: oltre la guerra etnica, E<strong>di</strong>zioni Gruppo Abele, Torino<br />
1997; R. CASADEI, A. FERRARI, Rwanda, Burun<strong>di</strong>. Una trage<strong>di</strong>a infinita, perché?, EMI, Bologna<br />
1994; R. CAVALIERI, F. FERRANTE, Goma. Città dei rifugiati, E<strong>di</strong>zioni Alfazeta, Parma 1996; R.<br />
CAVALIERI, A. TOSOLINI, Bujumbura. Città dell’o<strong>di</strong>o, E<strong>di</strong>zioni Alfazeta, Parma 1995; A. FERRARI,<br />
L. SCALETTARI, Storie <strong>di</strong> or<strong>di</strong>nario genoci<strong>di</strong>o. La guerra del Kivu, EMI, Bologna 1996; V.<br />
MISURACA, Ruanda. Diario dall’inferno, Gribau<strong>di</strong>, Milano 1994; A. TOSOLINI, R. CAVALIERI,<br />
Rwanda un anno dopo, volere la pace, E<strong>di</strong>zioni Alfazeta, Parma 1995. L’altro libro uscito nel<br />
1997 è La guerra civile in Rwanda, e<strong>di</strong>to da Franco Angeli, il cui autore, sotto lo pseudonimo<br />
in kinyarwanda Umwantisi, è probabilmente una persona vicina agli ambienti del ministero<br />
della Difesa italiano, e il cui scopo è quello <strong>di</strong> chi si sforza <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziare la posizione governativa<br />
italiana a proposito della guerra in Rwanda, rispetto a quella francese. Nel 2003 è uscito il<br />
libro Istruzioni per un genoci<strong>di</strong>o. Rwanda: cronache <strong>di</strong> un massacro evitabile, scritto da Daniele<br />
Scaglione, presidente della sezione italiana <strong>di</strong> Amnesty International dal 1997 al 2000, ed<br />
e<strong>di</strong>to dalle E<strong>di</strong>zioni Gruppo Abele, mentre quest’anno sono stati pubblicati: B. B. DIOP, Rwanda.<br />
Murambi, il libro delle ossa, e<strong>di</strong>zioni e/o, Roma 2004; P. COSTA, L. SCALETTARI, La lista del<br />
Console, e<strong>di</strong>zioni Paoline, Milano 2004, I. TREVISANI, Lo sguardo oltre le mille colline, Bal<strong>di</strong>ni<br />
Castol<strong>di</strong> 2004; M. FERRARIS, G. SEGNERI, N. BERTOLINO, M. CALDOGNETTO, Rwanda, frammenti<br />
<strong>di</strong> un viaggio, Name e<strong>di</strong>tore 2004. Queste opere prendono per lo più l’avvio dalla domanda:<br />
«che cosa bisogna fare?». Nel panorama delle opere italiane sul Rwanda pare che manchi una<br />
riflessione più profonda, forse più «accademica», che si affianchi alla letteratura <strong>di</strong> stampo<br />
cattolico ed internazionalista, cosa che si ritrova invece in Francia, dove accanto ai reportage<br />
giornalistici e ai dossier delle Ong si trovano pubblicazioni dei centri <strong>di</strong> ricerca che si concentrano<br />
sullo stu<strong>di</strong>o dell’Africa.<br />
22 Esempio significativo <strong>di</strong> questi canali alternativi rispetto alla cultura istituzionale è l’esperienza<br />
della Comunità <strong>di</strong> Sant’Egi<strong>di</strong>o, comunità <strong>di</strong> laici cattolica. Il 4 ottobre 1992 fu firmato a<br />
Roma, presso la sede della Comunità <strong>di</strong> Sant’Egi<strong>di</strong>o, l’accordo <strong>di</strong> pace che pose fine a una<br />
guerra qu<strong>in<strong>di</strong>ce</strong>nnale in Mozambico. Il Mozambico ex colonia portoghese, a partire dal 1975,<br />
anno dell’in<strong>di</strong>pendenza, sprofondò in una guerra che durò per più <strong>di</strong> quin<strong>di</strong>ci anni. Le storie<br />
del Mozambico e del Rwanda sono molto <strong>di</strong>verse ma accomunate dall’aver attraversato perio<strong>di</strong><br />
<strong>di</strong> violenza. Fra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, proprio grazie all’iniziativa<br />
della Comunità <strong>di</strong> Sant’Egi<strong>di</strong>o, fu intrapreso per il Mozambico un processo <strong>di</strong> pace che si<br />
concluse positivamente con la firma dell’accordo <strong>di</strong> pace. Pochi anni dopo, la stessa Comunità<br />
cattolica si occupò della situazione algerina contribuendo alla stesura della «piattaforma <strong>di</strong><br />
Roma», piano che promuoveva l’integrazione politica delle varie forze in campo.<br />
L’interessamento, che nasceva dalla volontà <strong>di</strong> essere solidali con le popolazioni sofferenti, ha<br />
portato, nell’esperienza della Comunità <strong>di</strong> Sant’Egi<strong>di</strong>o, a promuovere azioni concrete per risolvere<br />
determinate situazioni ed anche al coinvolgimento del governo italiano che, in particolare<br />
265
Chiara Calabri<br />
nel caso del Mozambico, fu portato a partecipare prima alle trattative <strong>di</strong> pace e poi, in maniera<br />
attiva, nelle operazioni <strong>di</strong> peacekeeping con l’invio <strong>di</strong> truppe nel paese africano.<br />
23 Cfr. Ucciso un sacerdote su quattro, in «Avvenire», 16 giugno 1994, p. 13.<br />
24 Il destino comune <strong>di</strong> due presidenti, in «Il manifesto«, 8 aprile 1994, p. 19.<br />
25 Ivi.<br />
26 Non solo o<strong>di</strong>o tribale ma anche sete <strong>di</strong> potere, in «Avvenire», 9 aprile 1994, p. 1. In questo<br />
articolo si trova anche scritto che l’interpretazione «della guerra se<strong>di</strong>cente etnica si può applicare<br />
correttamente a molti dei conflitti attuali (Somalia, Liberia, Bosnia, Caucaso ex sovietico)».<br />
27 La <strong>di</strong>versità etnica è solo uno strumento nella lotta per il potere, in «Avvenire», 10 giugno 1994,<br />
pag. 2. Per comprendere meglio questi punti, si leggeranno i testi già citati nella nota 18.<br />
28 Missionari e Impero: o <strong>di</strong> qua o <strong>di</strong> là, in «Avvenire», 3 luglio 1994, p. 19.<br />
29 Mal d’Africa, in «Il manifesto», 15 maggio 1994, p. 2.<br />
30 Africa specchio del mondo, in «Il manifesto», 15 maggio 1994, p. 15.<br />
31 Ivi. L’intervista si conclude con un interrogativo: «Prima <strong>di</strong> dare lezioni agli africani, noi<br />
europei faremmo bene a guardare quello cosa succede in casa nostra, dalla Jugoslavia alla ex<br />
Unione Sovietica. Chi è più primitivo?». Riguardo alla questione dell’«invenzione delle etnie»<br />
si vedano: J. L. AMSELLE, E. M’BOLOKO, Au cœur de l’ethnie. Ethnies, tribalisme et état en Afrique,<br />
La Découverte, Paris 1985 ; L’etnia fra «invenzione» e realtà. Storia e problematiche <strong>di</strong> un <strong>di</strong>battito,<br />
a cura <strong>di</strong> C. Moffa, L’Harmattan Italia, Torino 1999; C. CARBONE, Etnie, storiografia e storia<br />
del Burun<strong>di</strong> e del Rwanda contemporanei, in «Africa», giugno 1997, pp. 159-181.<br />
32 Un vuoto politico <strong>di</strong>etro i massacri, in «Il manifesto», 30 maggio 1994, p. 12.<br />
33 Non solo hutu e tutsi, in «Il manifesto», 31 luglio 1994. Gli anni ottanta furono caratterizzati<br />
da una situazione <strong>di</strong> vuoto <strong>di</strong> potere in cui emersero reti mafiose potenti che, dalla<br />
destabilizzazione e dalla mancanza del rispetto dello stato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, non potevano trarre che<br />
vantaggi e ulteriori margini <strong>di</strong> manovra. Cfr. REYNTJENS, L’Afrique des Grands Lacs en crise,<br />
Rwanda, Burun<strong>di</strong>: 1988-1994, Karthala, Paris 1994; Les crises politiques au Burun<strong>di</strong> et au<br />
Rwanda (1993-1994). Analyses, faits et documents, a cura <strong>di</strong> A. Guichaoua, Karthala, Paris<br />
1995.<br />
34 Ruanda, esodo in attesa del cessate il fuoco, in «Il Messaggero», 16 luglio 1994, p. 12.<br />
35 Gli equivoci sulla trage<strong>di</strong>a del Ruanda, in «Avvenire», 1 giugno 1994, p. 14. Dopo i pogrom<br />
avvenuti sotto il regime <strong>di</strong> Kaybanda, nel 1959 e poi nel 1963-64, la <strong>di</strong>aspora tutsi rwandese si<br />
era <strong>di</strong>ffusa in tutto il mondo: comunità <strong>di</strong> rifugiati tutsi si stabilirono soprattutto nelle aree<br />
vicine, Burun<strong>di</strong>, Uganda, Tanzania, Congo, ma anche negli Stati Uniti, in Svizzera, in Canada.<br />
La <strong>di</strong>aspora tutsi in Uganda sostenne attivamente National Resistence Army <strong>di</strong> Museveni: Paul<br />
Kagame e Fred Rwigyema, profughi tutsi rwandesi, furono tra i primi compagni <strong>di</strong> guerriglia <strong>di</strong><br />
266
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
Museveni, raggiungendo, dopo la presa del potere nel 1986, posizioni chiave nelle forze armate<br />
ugandesi. Alle origini della nascita del Rwandan Patriotic Front, l’esercito ribelle tutsi, si pone<br />
un gioco intricato <strong>di</strong> interessi che vanno oltre quelli regionali e attraggono l’attenzione delle<br />
gran<strong>di</strong> potenze, in particolare degli Usa. Non a caso è dall’Uganda, paese pupillo degli Stati<br />
Uniti e delle gran<strong>di</strong> istituzioni finanziarie mon<strong>di</strong>ali, che sarà sponsorizzata la fondazione del Rpf,<br />
quando non <strong>di</strong>rettamente dagli Stati Uniti stessi. Riguardo tutto ciò si può leggere: N. DE<br />
TORRENTÉ, L’Ouganda et le bailleurs de fonds, in «Politique africaine», ottobre 1999, n. 75; EIR<br />
Investigative Team, Rice caught in Iran-Contra-style capers in Africa, in «Executive Intelligence<br />
Review», 20 novembre 1998, in http://www.hartford-wp.com/archives/30/071.html; U.<br />
FRIESECKE, Strategic considerations of the rwandan catastrophe of 1994, in «Executive Intelligence<br />
Review», 25 giugno 2002, in http://www. larouchepub.com/other/2002/2928 arusha_uwe.html;<br />
M. CHOSSUDOVSKY, The US was behind the Rwandan genocide: Rwanda. Installing a US protectorate<br />
in central Africa, 8 May 2003, in http://globalresearch.ca/articles/CHO305A.html.<br />
36 Offerte speciali al bazar della guerra, in «Avvenire», 11 giugno 1994, p. 2.<br />
37 L’orgoglio francofono poté più del «prezioso uranio», in «Avvenire», 24 giugno 1994, p. 3.<br />
38 Ruanda, missione Usa. Francia compromessa, in «Il manifesto», 4 maggio 1994, p. 16.<br />
39 Ruanda, storia francese, in «Il manifesto», 20 maggio 1994, pag. 17. È possibile ricostruire<br />
un quadro generale dei <strong>di</strong>versi interessi francesi, da quello culturale a quelli geopolitico ed<br />
economico, attraverso vari testi. Ad esempio si potrà vedere: J. F. BAYART, La politique de la<br />
France: de Charybde en Scylla?, in «Politique africaine», marzo 1993, n. 49; D. AMBROSETTI, La<br />
France au Rwanda, un <strong>di</strong>scours de légitimation morale, Karthala, Paris 2000; ed anche R.<br />
CAVALIERI, Balcani d’Africa. Burun<strong>di</strong>, Rwanda, Zaire, oltre la guerra etnica, E<strong>di</strong>zioni gruppo<br />
Abele, Torino 1997.<br />
40 È veramente uno scontro etnico?, in «Il manifesto», 24 maggio 1994, p. 14.<br />
41 Cfr. Repubbliche del caffè, in «Il manifesto», 21 aprile 1994, p. 12.<br />
42 Cfr. Fmi e Banca Mon<strong>di</strong>ale strangolano l’Africa con tagli e svalutazioni, in «Avvenire», 12<br />
maggio 1994, p. 15. Prezioso strumento per comprendere gli effetti delle riforme del Fondo<br />
Monetario Internazionale e della Banca Mon<strong>di</strong>ale sulle economie africane è il testo <strong>di</strong> M.<br />
CHOSSUDOVSKY, La globalizzazione della povertà, l’impatto delle riforme del Fondo Monetario<br />
Internazionale e della Banca Mon<strong>di</strong>ale, e<strong>di</strong>to dalla casa e<strong>di</strong>trice del gruppo Abele a Torino nel<br />
1998. Inoltre si vedano i contributi: T. HORMEKU, US-Africa trade policy: in whose interest?, in<br />
«African Agenda», in http://www.developmentgap.org/afpolicy.html; J. O. IHONVBERE,<br />
Governance, Economics, and Interdependence: costraints and possibilities in Sub-saharan Africa,<br />
giugno 1994, in http://www.hartford <strong>–</strong>hwp.com/archives/30 032.html e A. MBEMBE, L’Afrique<br />
noire va imploser, in «Le Monde <strong>di</strong>plomatique», aprile 1990, pp. 10-11.<br />
43 «Fermate i mercanti <strong>di</strong> morte», in «Avvenire», 12 giugno 1994, p. 2.<br />
44 A proposito della questione del Congo si può leggere E. RAY, U.S. Military and Corporate<br />
Recolonization of the Congo, in «CovertAction Quarterly», in http://www.covertaction,org/<br />
full_text_69_01.htm. e R.CAVALIERI , Balcani d’Africa, Burun<strong>di</strong>, Rwanda, Zaire, oltre la guerra<br />
267
Chiara Calabri<br />
etnica, E<strong>di</strong>zioni gruppo Abele, Torino 1997.<br />
45 «Il capo dei ribelli or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> uccidere l’arcivescovo», in «Il Messaggero», 12 giugno 1994, pag. 13.<br />
46 Cfr. Ruanda, l’Europa si muove, in «Il Messaggero», 18 giugno 1994, pag. 13.<br />
47 Le accuse alla Francia: «Così ha armato i massacratori», in «Corriere della Sera», 24 maggio<br />
1994, p. 6.<br />
48 «I parà francesi sono già in Ruanda», in «Corriere della Sera», 22 giugno 1994, p. 7. Il 4<br />
ottobre 1990, subito dopo l’attacco del Rpf al Rwanda, Belgio e Francia decisero <strong>di</strong> inviare<br />
militari nel quadro <strong>di</strong> un’azione umanitaria che aveva come obiettivo quello <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere e<br />
garantire la partenza dei citta<strong>di</strong>ni stranieri. La presenza delle truppe straniere, in particolare<br />
<strong>di</strong> quelle francesi, permise all’esercito rwandese <strong>di</strong> respingere l’offensiva dell’esercito<br />
patriottico. Pare infatti che, mentre una parte degli uomini dell’esercito francese impe<strong>di</strong>va<br />
l’avanzata verso Kigali del Rpf, un elicottero guidato da un ufficiale della DGSE (Direction<br />
Générale de la Sécurité Extérieure), il controspionaggio francese, bombardasse una colonna<br />
che stava portando rifornimenti al Rpf. Cfr. C. BRAECKMAN, Histoire d’un genocide, in http://<br />
www. reseauvoltaire. net/article6845.html. L’intervento militare francese vide impegnati più <strong>di</strong><br />
500 soldati in Kigali, e fino a 150 consiglieri militari permanenti, col compito <strong>di</strong> addestrare i<br />
soldati delle FAR. Ad ogni offensiva importante del RPF, il contingente francese era rafforzato <strong>di</strong><br />
una o due compagnie che poi si ritiravano non appena la minaccia si attenuava: cfr. F. X. VERSHAVE,<br />
Complicité de génocide? La politique de la France au Rwanda, La Découverte, Paris 1994. Diversi<br />
testimoni rivelarono l’inquietante prossimità <strong>di</strong> istruttori francesi, giunti nell’ambito della<br />
cosiddetta Operation Norôit nell’ottobre 1990, con le milizie Interhamwe, gruppi paramilitari <strong>di</strong><br />
civili armati, tristemente famosi per le loro efferatezze e collegati all’ambiente governativo. Il<br />
ruolo del DAMI, Détachement d’assistance militaire et d’instruction, risultò piuttosto ambiguo:<br />
il suo capo, il luogotenente colonnello Chollet, consigliere <strong>di</strong>retto <strong>di</strong> Habyarimana, nel gennaio<br />
1992 fu nominato capo supremo delle forze armate rwandesi: egli e i suoi uomini furono<br />
<strong>di</strong>rettamente coinvolti nell’addestramento delle reclute rwandesi e, secondo alcune testimonianze,<br />
delle milizie. Se con l’Operation Noroît i militari francesi avevano contribuito a fermare l’offensiva<br />
del RPF, essi rimasero protagonisti attivi della guerra a fianco dell’esercito governativo. I soldati<br />
francesi stessi verificavano ad alcuni posti <strong>di</strong> blocco le identità dei citta<strong>di</strong>ni, sorvegliando coloro<br />
che portavano sulla carta d’identità, la menzione «tutsi», e parteciparono attivamente a degli<br />
interrogatori dei prigionieri del RPF, secondo i mo<strong>di</strong> non <strong>di</strong>plomatici tipici della tra<strong>di</strong>zionale<br />
pratica interrogatoria francese.<br />
49 Parigi: via alla missione Ruanda, in «Corriere della Sera», 23 giugno 1994, p 5.<br />
50 Ruanda, i ribelli <strong>di</strong>cono no a truppe francesi, in «Il Messaggero», 17 giugno 1994, p. 13.<br />
51 Allons enfants, in «Il manifesto», 18 giugno 1994, p. 15.<br />
52 La Legione bianca, in «Il manifesto», 22 giugno 1994, p. 3.<br />
53 Il nuovo or<strong>di</strong>ne coloniale, in «Il manifesto», 20 luglio 1994, p. 16.<br />
54 Protagonismo che deve riscattare i residui <strong>di</strong> colonialismo, in «Avvenire», 23 giugno 1994, p. 1.<br />
268
Notizie da un genoci<strong>di</strong>o lontano. La stampa italiana <strong>di</strong> fronte al dramma del Rwanda<br />
55 La documentazione delle Nazioni Unite riguardo alle missioni in Rwanda, è raccolta in The<br />
United Nations and Rwanda 1993-1996, The United Nations Blue Books Series, New York<br />
1996. B. D Jones , nel suo libro Peacemaking in Rwanda, the dynamics of failure, pubblicato a<br />
Londra nel 2001, e L. R. Melvern, nel testo A people betrayed. The role of the West in Rwanda’s<br />
genocide, e<strong>di</strong>to a New York nel 2000, mettono in evidenza i limiti delle missioni Onu nel paese<br />
africano sconvolto dal genoci<strong>di</strong>o e cercano <strong>di</strong> svelare come la cattiva comprensione, più o<br />
meno volontaria, degli eventi, sia stata alla base del fallimento dell’intervento umanitario.<br />
Nell’articolo <strong>di</strong> SAMANTHA POWER, Bystanders to genocide, why the United States let the rwandan<br />
tragedy happen, in «The Atlantic», settembre 2001, in http://www.theatlantic.com/issues/ 2001/<br />
09/power.htm, l’autrice ricostruisce la volontà politica dell’amministrazione Clinton <strong>di</strong><br />
mantenersi il più possibile al <strong>di</strong> fuori da un coinvolgimento più serio, ed efficace, in una<br />
missione Onu. Il defilarsi degli Stati Uniti, reduci dall’operazione Restore Hope in Somalia,<br />
conclusasi con la morte <strong>di</strong> soldati americani e l’abbandono del paese in mano ai signori della<br />
guerra, fu determinante del fallimento della missione UNAMIR.<br />
56 Tra Onu ed Europa comodo palleggio, in «Avvenire», 19 giugno 1994, p. 1.<br />
57 Le due strategie <strong>di</strong> Clinton e Boutros Ghali, in «Corriere della Sera», 16 maggio 1994, p. 7.<br />
58 Il mattatoio senza fine, in «Il Messaggero», 10 giugno 1994, p. 1. Paolo Bonaiuti è l’attuale<br />
portavoce <strong>di</strong> Forza Italia.<br />
59 In particolare si è riscontrato questo caso nel «Messaggero». Questo quoti<strong>di</strong>ano ha molte<br />
pagine de<strong>di</strong>cate alla politica interna che spesso occupa lo spazio sia del «primo piano» sia<br />
quello specificamente consacrato agli interni.<br />
60 La «rassegna» delle pettinature <strong>di</strong> Hillary Clinton si ritrova sia nel «Corriere della Sera», sia nel<br />
«Messaggero». Ricercando gli articoli in cui si parla <strong>di</strong> un genoci<strong>di</strong>o, ritrovare fra le esigue pagine<br />
de<strong>di</strong>cate agli avvenimenti esteri le <strong>di</strong>squisizioni sul morale <strong>di</strong> Hillary Clinton, dedotto dall’analisi<br />
delle nuove pettinature, è un’esperienza a tratti avvilente. Il fatto che i quoti<strong>di</strong>ani maggiori, come<br />
il «Corriere della Sera» riservino poca attenzione a ciò che succede all’estero, a meno che non<br />
riguar<strong>di</strong> strettamente il mondo occidentale mette in evidenza una delle caratteristiche della stampa<br />
italiana: il provincialismo. In base ad esso «da tempo in molte redazioni, anche serie e impegnate,<br />
si tende a sostenere e <strong>di</strong>mostrare che ai lettori interessano solo gli acca<strong>di</strong>menti del portone accanto<br />
e non quelli che li fanno sentire citta<strong>di</strong>ni del mondo, il gossip più dell’analisi politica<br />
internazionale». G. ALBANESE, Il mondo capovolto, i missionari e l’altra informazione, Einau<strong>di</strong>,<br />
Torino 2003, p. 3. È chiaro che sui quoti<strong>di</strong>ani nazionali la priorità debba essere data alle notizie<br />
interne, ma lo squilibrio fra il numero e la qualità degli articoli che affrontano questioni interne<br />
rispetto a quelli che si occupano del resto del mondo, risulta decisamente eccessivo.<br />
61 Cfr. grafico.<br />
62 Dal Ruanda i primi racconti <strong>di</strong> morte, in «Corriere della Sera», 11 aprile 1994, p. 9.<br />
63 Martino, l’Italia deve contare, in «Corriere della Sera», 24 maggio 1994, p. 1.<br />
64 Ivi.<br />
269
Chiara Calabri<br />
65 Cfr. Ruanda, l’Onu chiede fatti all’Italia e Ma Previti frena: «Mai parlato <strong>di</strong> invio dei parà», in<br />
«Il Messaggero», 26 maggio 1994, p. 11.<br />
66 Sergio Romano, in un articolo del 1992, offriva questa analisi delle caratteristiche generali<br />
della politica estera italiana: «Dalla fine del 1989, con il collasso dell’impero sovietico, la<br />
Guerra fredda, <strong>di</strong> cui ci eravamo così abilmente serviti per affermare la peculiarità della politica<br />
estera italiana, si è conclusa in Europa con la vittoria dell’Occidente. Ed ecco che all’avvento<br />
della pace fra i vecchi rivali in Europa corrisponde, come necessaria conseguenza, lo scoppio<br />
della guerra calda nel Vicino Oriente. I due avvenimenti - la pace in Europa, la guerra in<br />
Oriente - hanno privato la politica estera italiana degli spazi che essa aveva occupato e sfruttato<br />
negli anni precedenti: la pace, perché ha reso inutile la parte del volenteroso paciere che essa<br />
aveva continuamente recitato nei rapporti est-ovest; la guerra, perché ha imposto all’Italia una<br />
scelta a cui essa era politicamente e militarmente impreparata». Fra i limiti della politica estera<br />
dell’Italia, sicuramente uno dei più pesanti è la persistente abitu<strong>di</strong>ne dei partiti «a monetizzare<br />
ogni vicenda internazionale per i loro fini». S. ROMANO, Come è morta la politica estera italiana,<br />
in «Il Mulino», luglio-agosto 1992, n. 342, pp. 718 e 720.<br />
67 I quattro campi dell’apocalisse, in «Il manifesto», 23 luglio 1994, p. 14.<br />
68 Ruanda, ora il flagello della peste, in «Il Messaggero», 23 luglio 1994, p. 13.<br />
69 Parigi: in Ruanda, missione compiuta, in «Avvenire», 20 luglio 1994, p. 15.<br />
70 Ruanda, fuga <strong>di</strong> un popolo, in «Corriere della Sera», 19 luglio 1994, p. 7.<br />
71 Quelle immagini come una finestra sull’inferno, in «Avvenire», 24 maggio 1994, p. 1.<br />
72 R. CAVALIERI, Balcani d’Africa, Burun<strong>di</strong>, Rwanda, Zaire, oltre la guerra etnica, E<strong>di</strong>zioni gruppo<br />
Abele, Torino 1997, p. 16.<br />
73 Ivi, p. 19.<br />
270
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano.<br />
La quarantennale lotta <strong>di</strong> Yâsir ‘Arafât e del movimento <strong>di</strong><br />
liberazione palestinese<br />
<strong>di</strong> Stefano Fabei<br />
Il 5 settembre 1973 ad Algeri la IV Conferenza dei Paesi non allineati<br />
<strong>di</strong>chiarò l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina «rappresentante<br />
unico e legittimo del popolo palestinese». In senso analogo si espressero,<br />
nel febbraio successivo, i Paesi islamici, a Lahore dove - ricorda ‘Abd al-<br />
Muhsen Abû Mayzer, membro della delegazione dell’OLP - il Gran Mufti<br />
<strong>di</strong> Gerusalemme, Hâjj Amîn al-Husaynî, incontrando in albergo, poco prima<br />
dell’inizio dei lavori, Yâsir ‘Arafât, gli <strong>di</strong>sse: «Sarete voi a rappresentare la<br />
Palestina in questa conferenza. Ne ho già parlato con i rappresentanti del<br />
Pakistan». Con queste parole il vecchio leader, prossimo alla morte, passava<br />
il comando nella mani <strong>di</strong> ‘Arafât cui, poche settimane prima della sua<br />
scomparsa, il 4 luglio 1974 a Beirut, raccomandò: «Attento, devi respingere<br />
la risoluzione 242 che liquida il popolo palestinese e i suoi <strong>di</strong>ritti!». ‘Arafât<br />
raccolse il consiglio del prestigioso e rispettato parente e, come lui, da allora<br />
in poi confidò solo sulle forze dei palestinesi, improntando la sua politica<br />
alla loro <strong>di</strong>fesa dalla tutela dei Paesi «fratelli» che avevano creato l’OLP per<br />
garantire soprattutto i loro interessi. Per decenni ‘Arafât e la sua<br />
organizzazione si troveranno spesso schiacciati tra l’avversario arabo e il<br />
nemico israeliano.<br />
A <strong>di</strong>fferenza del Mufti, panarabista e panislamista, ‘Arafât si è<br />
caratterizzato per l’assenza <strong>di</strong> una esplicita ideologia, a parte il nazionalismo,<br />
e a questo fatto sono forse dovuti la longevità politica e il «successo» <strong>di</strong> cui<br />
ha goduto. Generoso e socievole, coraggioso e autoritario, religioso ma<br />
<strong>di</strong>sposto ad allearsi anche con il <strong>di</strong>avolo pur <strong>di</strong> liberare la Palestina, ‘Arafât<br />
è stato un leader pragmatico, dotato <strong>di</strong> un carisma che gli ha garantito il<br />
sostegno del suo popolo, forse anche troppo <strong>di</strong>sposto a perdonargli tutto e<br />
sempre.<br />
Nato il 4 o il 24 agosto del 1929 al Cairo (o forse a Gaza o a<br />
Gerusalemme: lui stesso darà spesso versioni <strong>di</strong>fferenti sia per accrescere il<br />
mistero sulla sua persona, sia per il costante desiderio <strong>di</strong> proteggere la propria<br />
271
Stefano Fabei<br />
sfera privata: «Credo sia vergognoso parlare <strong>di</strong> sé. La nostra rivoluzione ce<br />
lo impe<strong>di</strong>sce. Bisogna parlare solo dei martiri e degli eroi caduti ...» <strong>di</strong>chiarerà<br />
in un’intervista rilasciata a Beirut nel gennaio del 1979), trascorre in Egitto<br />
l’infanzia e l’adolescenza. Attento osservatore <strong>di</strong> quanto accade sulla scena<br />
egiziana e in Palestina, non ancora ventenne, tratta nel deserto l’acquisto<br />
presso i beduini <strong>di</strong> armi e munizioni abbandonate cinque anni prima dagli<br />
italo-tedeschi e dagli inglesi. Questo materiale, destinato all’esercito del<br />
Jihâd guidato da ‘Abd al-Qâ<strong>di</strong>r al-Husaynî, viene raccolto nella casa <strong>di</strong> questi<br />
al Cairo, dove ‘Arafât insegna il Corano al piccolo Faysal, figlio <strong>di</strong> ‘Abd al-<br />
Qâ<strong>di</strong>r.<br />
A Héliopolis, il giovane Yâsir incontra spesso il Mufti, da circa trenta<br />
anni leader della lotta <strong>di</strong> liberazione, al quale gli inglesi non permettono <strong>di</strong><br />
rientrare in Palestina, e nella cui casa si riuniscono i nazionalisti palestinesi.<br />
Nel 1948, a Gaza, ‘Arafât si unisce prima alle forze irregolari della Fratellanza<br />
musulmana quin<strong>di</strong> passa nel Jihâd al-Muqaddas <strong>di</strong> «Abd al-Qâ<strong>di</strong>r che cadrà<br />
in combattimento nel corso della prima guerra arabo-israeliana, <strong>di</strong>ventando<br />
mito e figura simbolo della lotta palestinese. Esistono altre organizzazioni<br />
che fanno riferimento agli Stati arabi vicini e da questi meglio armate, ma<br />
per ‘Arafât questa è l’unica a dare assoluta garanzia <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza e <strong>di</strong>venta<br />
membro del suo servizio segreto. Dalla sconfitta degli eserciti arabi, mal<br />
guidati e male armati, capisce che i palestinesi possono e devono contare<br />
solo sulle proprie forze. Il 1948 è l’anno della catastrofe, della nakba.<br />
Centinaia <strong>di</strong> case arabe sono <strong>di</strong>strutte mentre la popolazione palestinese è<br />
espulsa o deve fuggire ai massacri. Nell’arco <strong>di</strong> pochi mesi un intero mondo<br />
finisce, con lo smantellamento da parte dei sionisti <strong>di</strong> tutte le strutture<br />
civili, economiche, culturali e sociali della Palestina. Prima ancora che l’ONU<br />
l’adotti, il piano <strong>di</strong> spartizione della Terra Santa è rigettato dai palestinesi e<br />
dagli Stai arabi. Per quale ragione 1.400.000 arabi, cristiani e musulmani,<br />
lì residenti da secoli, dovrebbero con<strong>di</strong>videre la Palestina con 600.000 ebrei<br />
da poco immigrati e che possiedono solo il 6 per cento del territorio? Solo<br />
i comunisti, tra i palestinesi, accettano la soluzione proposta da russi e<br />
americani; vi vedono lo strumento per porre fine al mandato britannico.<br />
Quanti tra loro non accettano la linea del partito, appiattito sulle posizioni<br />
<strong>di</strong> Mosca, sono espulsi e in Iraq e in Egitto pagheranno a caro prezzo<br />
l’impegno a favore della spartizione. Neanche i <strong>di</strong>rigenti sionisti, desiderosi<br />
<strong>di</strong> un nuovo or<strong>di</strong>ne demografico, sono per la spartizione: gli arabi devono<br />
essere espulsi e Ben Gurion incoraggia esplicitamente la pulizia etnica.<br />
Al Cairo e a Gaza ‘Arafât dal 1948 scopre il mondo dei rifugiati (750.000<br />
272
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
persone, la metà della popolazione araba <strong>di</strong> Palestina): uomini e donne<br />
<strong>di</strong>sperati che hanno perso tutto e il cui numero è destinato ad aumentare.<br />
Scopre che per il suo popolo le prospettive sono due: rassegnarsi a sparire o<br />
combattere.<br />
Nella striscia <strong>di</strong> Gaza, una sorta <strong>di</strong> ghetto superpopolato, viene costituita<br />
sotto la guida degli Husaynî una Palestina in miniatura il cui governo, che<br />
si presenta come «governo dell’intera Palestina», gode <strong>di</strong> una certa<br />
autonomia, nonostante il controllo militare dell’Egitto. Tutti i Paesi arabi<br />
ne riconoscono la legittimità, tranne la Giordania che teme e pretende <strong>di</strong><br />
rappresentare da sola i palestinesi. Nel 1951 si intensificano gli scontri tra<br />
guerriglieri egiziani e militari britannici stazionanti lungo il Canale <strong>di</strong> Suez.<br />
I Fratelli musulmani e i nazionalisti vogliono che gli inglesi lascino il Paese;<br />
‘Arafât, che ritiene questi ultimi responsabili della nakba, imbraccia il fucile<br />
e partecipa agli attacchi prima <strong>di</strong> tornare al Cairo e continuare gli stu<strong>di</strong>.<br />
Ambendo alla <strong>di</strong>rezione dell’Associazione degli studenti cairoti ‘Arafât<br />
si guadagna l’appoggio dei Fratelli musulmani, dei panarabisti, dei liberali,<br />
del Wafd e dei comunisti. Così nel 1952 la lista palestinese vince le elezioni<br />
e ‘Arafât <strong>di</strong>venta presidente dell’Associazione, carica che manterrà fino al<br />
termine degli stu<strong>di</strong> in Ingegneria del genio civile, nel 1956. A rinvigorire le<br />
speranze dei giovani palestinesi delusi da re Fârûq contribuiscono Jamâl<br />
‘Abd al-Nâser e gli Ufficiali liberi che il 23 luglio 1952 prendono il potere,<br />
proclamando la repubblica e chiedendo l’espulsione degli inglesi. I rapporti<br />
con il nuovo regime non saranno tuttavia sempre i<strong>di</strong>lliaci; quando<br />
nell’ottobre del 1954 scampa a un attentato dei Fratelli musulmani, Nâser<br />
<strong>di</strong>spone l’arresto <strong>di</strong> molti membri e simpatizzanti del gruppo e ‘Arafât finisce<br />
in prigione per un mese.<br />
Allorché il 26 luglio del 1956 il Ra’îs annuncia la nazionalizzazione del<br />
canale <strong>di</strong> Suez e le truppe israeliane, sostenute da Francia e Inghilterra,<br />
entrano in Egitto e occupano il Sinai, dando inizio a un conflitto che finirà<br />
con lo scacco della coalizione tripartita, ‘Arafât si unisce all’esercito egiziano.<br />
A fine guerra, anche grazie all’eco suscitata dalla rivoluzione algerina e dal<br />
montante nazionalismo arabo, ‘Arafât si convince sempre più della necessità<br />
<strong>di</strong> creare un’organizzazione combattente palestinese.<br />
Nel 1957, quando il clima in Egitto è cambiato, perché Israele ha<br />
restituito ad ‘Abd al-Nâser il Sinai e Gaza, dove l’esercito del Ra’îs, timoroso<br />
<strong>di</strong> un possibile oscuramento del nasserismo, controlla le correnti ra<strong>di</strong>cali<br />
palestinesi, ‘Arafât raggiunge il Kuwait; qui il 10 ottobre 1959, con Khalîl<br />
al-Wazîr, Salâh Khalaf e Khâlid al-Hasan, fonderà al-Fatâh. Nei due anni<br />
273
Stefano Fabei<br />
precedenti de<strong>di</strong>ca molto tempo all’attività clandestina cercando <strong>di</strong><br />
guadagnarsi le simpatie dei palestinesi ai quali guardano con interesse varie<br />
forze: dal nasserismo ai panarabisti, dai social-nazionalisti del Ba‘th al<br />
Movimento dei nazionalisti arabi fondato da George Habâsh. Convinto<br />
della priorità <strong>di</strong> formare una struttura militare, oltre che politica,<br />
dall’autunno del 1957 crea nella striscia <strong>di</strong> Gaza con al-Wazîr (nome <strong>di</strong><br />
battaglia Abû Jihâd) uomo preparato militarmente nelle file della Fratellanza<br />
musulmana, il primo gruppo del movimento dei fidâ’iyyîn, da cui nascerà<br />
il Movimento <strong>di</strong> liberazione della Palestina, al-Fatâh. Lo scopo è chiaro e<br />
privo <strong>di</strong> qualunque implicazione ideologica: liberare tutta la Palestina<br />
attraverso la lotta armata e fondarci uno Stato arabo in<strong>di</strong>pendente che<br />
comprenda la Cisgiordania (allora integrata alla Giordania), la striscia <strong>di</strong><br />
Gaza e il territorio <strong>di</strong> quello che è «lo strumento dell’imperialismo, corpo<br />
estraneo trapiantato all’interno del mondo arabo, che bisogna estirpare»,<br />
cioè <strong>di</strong> Israele. Unica parola d’or<strong>di</strong>ne è tahrîr, liberazione, il che significa<br />
fine <strong>di</strong> Israele.<br />
Consapevole del ruolo che possono avere le organizzazioni studentesche,<br />
‘Arafât fonda nel 1959 l’Unione generale degli studenti palestinesi che,<br />
integrata all’Organizzazione internazionale degli studenti <strong>di</strong> derivazione<br />
sovietica, opererà nei Paesi arabi e in Europa. Per far conoscere al-Fatâh e il<br />
suo programma (creare nei Paesi arabi vicini gruppi <strong>di</strong> fidâ’iyyîn in<strong>di</strong>pendenti<br />
che compiano incursioni in Israele e ovunque nel mondo si trovino<br />
istituzioni ebraiche e interessi sionisti) ‘Arafât utilizza prima «Studenti <strong>di</strong><br />
Palestina», un giornale pubblicato al Cairo dall’associazione, poi il<br />
Filastînunâ - Nidâ’ al-Hayât, («Nostra Palestina-Appello alla vita») che esce<br />
a Beirut. Il tema ricorrente è la liberazione della Palestina per giungere<br />
all’unità araba; i contenuti rivelano un carattere nazionalista privo <strong>di</strong><br />
riferimenti all’Islàm. Nel Filastînunâ si citano la Bibbia e il Talmud per<br />
<strong>di</strong>mostrare il razzismo ebraico e compaiono brani dei Protocolli dei savi <strong>di</strong><br />
Sion.<br />
Oltre ai legami con gli algerini che, conquistata l’in<strong>di</strong>pendenza nel 1962,<br />
permettono l’apertura nella capitale dell’Ufficio della Palestina, primo ufficio<br />
<strong>di</strong> al-Fatâh, dando inizio a una collaborazione anche militare,<br />
l’organizzazione palestinese ne stringe altri con chiunque ne con<strong>di</strong>vida<br />
obiettivi, dalla Corea del Nord al Vietnam, da Cuba allo Yemen del sud. Ad<br />
‘Arafât e ad Abû Jihâd, che ad Algeri incontra Che Guevara, non interessa<br />
l’ideologia e la provenienza politica dei potenziali sostenitori. Qualsiasi aiuto,<br />
da qualunque parte provenga va bene purché non sia prevista una<br />
274
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
contropartita. In questa spregiu<strong>di</strong>catezza ‘Arafât è degno erede del Gran<br />
Mufti che non aveva esitato negli anni trenta e quaranta a cercare l’appoggio<br />
dell’Asse, schierate contro i comuni nemici: ebrei, inglesi e francesi. Per lui,<br />
religioso ma non legato come il Mufti a una precisa ideologia o concezione<br />
statuale (al-Husaynî aveva invece in mente un grande Stato panarabo a<br />
struttura califfale e quin<strong>di</strong> basato sulla legge coranica), l’operazione è ancor<br />
più facile.<br />
Il comitato centrale <strong>di</strong> al-Fatâh nel 1963 adotta con voto unanime una<br />
risoluzione in base alla quale l’organizzazione è vietata a qualunque<br />
rappresentante o membro <strong>di</strong> partiti politici, dai quali gli aderenti devono<br />
allontanarsi recidendo ogni legame. L’obiettivo è quello <strong>di</strong> garantire lo spirito<br />
rivoluzionario e <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong> al-Fatâh.<br />
Il summit dei capi <strong>di</strong> Stato arabi, riuniti al Cairo da Nasser tra il 13 e il<br />
17 gennaio 1964, decide <strong>di</strong> sostenere l’«entità palestinese» sia sul piano<br />
militare sia su quello politico creando l’Organizzazione per la Liberazione<br />
della Palestina e l’Esercito <strong>di</strong> Liberazione della Palestina. Le risoluzioni<br />
stabiliscono però che gli organi militari e politici dei rifugiati dovranno<br />
rimanere sotto la tutela dei Paesi ospiti. ‘Arafât, geloso custode della<br />
autonomia palestinese, rifiuta <strong>di</strong> accettare l’idea che al-Fatâh perda la propria<br />
libertà <strong>di</strong> movimento.<br />
‘Abd al-Nâser vuole che a guidare l’OLP sia Ahmad Shuqayrî le cui<br />
simpatie per il Ra’îs e la cui <strong>di</strong>pendenza dall’Egitto sono note a tutti, mentre<br />
siriani e sau<strong>di</strong>ti preferirebbero il Mufti. Tra il 28 maggio e il 2 giugno<br />
Shuqayrî riunisce a Gerusalemme il congresso fondatore dell’OLP - il<br />
Consiglio nazionale palestinese che fungerà da parlamento - la cui carta,<br />
oltre a evocare i <strong>di</strong>ritti dei palestinesi, fa appello alla <strong>di</strong>struzione dell’entità<br />
sionista, rifiuta la partizione e invoca la liberazione della Palestina.<br />
Nonostante le <strong>di</strong>ffidenze nei confronti <strong>di</strong> Shuqayrî - strumento <strong>di</strong> Nâser<br />
e in quanto tale visto con sospetto anche da re Husayn che teme gli si voglia<br />
sottrarre la Cisgiordania - al-Fatâh gli offre la sua cooperazione, proponendo<br />
questa soluzione: l’OLP agirà allo scoperto mentre i fidâ’iyyîn opereranno<br />
nella clandestinità. In cambio alcuni membri <strong>di</strong> al-Fatâh entreranno<br />
nell’organizzazione <strong>di</strong> Shuqayrî che però rifiuta l’offerta, sembra <strong>di</strong>etro<br />
pressioni egiziane. ‘Arafât vuole accelerare i tempi della lotta armata contro<br />
il nemico sionista e non ha fiducia in Shuqayrî e nei suoi sponsor.<br />
Sospetti verso l’OLP e il suo capo, che lui stesso aveva nominato<br />
rappresentante della Palestina alla Lega Araba, nutre anche il Mufti il quale<br />
tra il 27 <strong>di</strong>cembre 1964 e il 2 gennaio 1965 presiede a Moga<strong>di</strong>scio la IV<br />
275
Stefano Fabei<br />
Conferenza islamica, dove è adottata una risoluzione <strong>di</strong> sostegno alla causa<br />
palestinese. Il Mufti che, come ‘Arafât, desidera <strong>di</strong>fendere l’in<strong>di</strong>pendenza<br />
dei palestinesi, non è <strong>di</strong>sposto ad accettare alcuna tutela. Shuqayrî, da parte<br />
sua, volendo dar vita al nuovo organismo, inizia a sottrarsi all’influenza <strong>di</strong><br />
al-Husaynî sempre più ignorato dalla Lega Araba che si rende conto <strong>di</strong> non<br />
poter gestire come vuole. Il Mufti - che ritiene il Supremo Comitato Arabo<br />
il solo rappresentante del popolo palestinese - è certo più rigido come<br />
interlocutore <strong>di</strong> Shuqayrî, pertanto molti Paesi arabi rifiutano <strong>di</strong> cooperare<br />
con lui e con i suoi rappresentanti.<br />
Dopo l’Algeria, nel 1964 anche la Siria permette l’apertura <strong>di</strong> un ufficio<br />
<strong>di</strong> al-Fatâh, non senza con<strong>di</strong>zioni: per preservare il Paese dalle rappresaglie<br />
israeliane i <strong>di</strong>rigenti ba‘thisti <strong>di</strong> Damasco siriano pretendono infatti che le<br />
azioni <strong>di</strong> guerriglia siano condotte partendo dal territorio del Libano e della<br />
Giordania. Il 1° gennaio 1965 viene compiuto il primo attacco all’interno<br />
dei territori occupati, cioè <strong>di</strong> Israele, riven<strong>di</strong>cato da al-’Âsifa, un’organizzazione<br />
sconosciuta <strong>di</strong>etro la quale c’è al-Fatâh. L’operazione, <strong>di</strong> per sé fallimentare,<br />
è comunque accolta con gioia dai palestinesi che battezzano il 1° gennaio il<br />
giorno <strong>di</strong> al-Intilâqa, ovvero l’esplosione, l’inizio della guerra <strong>di</strong> liberazione;<br />
in seguito sarà festeggiato da al-Fatâh, dall’OLP e da tutto il Movimento<br />
nazionale palestinese. Nei giorni successivi altri attentati hanno luogo e <strong>di</strong><br />
fronte al nuovo corso ‘Arafât e il suo movimento non sanno bene se cercare<br />
appoggio presso l’Egitto, il cui Ra’îs cerca <strong>di</strong> evitare la guerra auspicata da<br />
‘Arafât e rifiuta <strong>di</strong> compiere azioni contro Israele, o presso la Siria che i<br />
fidâ’iyyîn sentono più vicina a loro, soprattutto dopo che i ra<strong>di</strong>cali del Ba‘th<br />
prendono il potere il 3 febbraio 1966.<br />
I dubbi e i timori <strong>di</strong> Nâser sembrano trovare conferma nel giugno 1967,<br />
quando nel corso della Guerra dei sei giorni Israele sconfigge la coalizione<br />
araba, al cui fianco combattono alcuni commando <strong>di</strong> fidâ’iyyîn. ‘Arafât deve<br />
prendere atto non solo dell’impreparazione militare degli arabi, ma anche e<br />
soprattutto del fallimento della sua strategia, quella, appunto, <strong>di</strong> trascinare<br />
gli eserciti fratelli in una guerra per liberare la Palestina. Israele ha vinto,<br />
impadronendosi <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> territori, e l’unica speranza da adesso in poi è<br />
che il milione <strong>di</strong> palestinesi che vivono il dramma dell’occupazione si<br />
rivoltino.<br />
Negli anni successivi ‘Arafât sostiene la necessità <strong>di</strong> continuare le<br />
operazioni dei fidâ’iyyîn che non solo, pensa, salveranno il movimento dalla<br />
paralisi in cui è venuto a trovarsi dopo la sconfitta, ma daranno maggiore<br />
visibilità alla questione palestinese. Cerca <strong>di</strong> internazionalizzare la causa<br />
276
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
riproponendo su scala allargata, oltre i limiti del mondo arabo islamico,<br />
una strategia adottata trenta anni prima dal Mufti che con varie iniziative<br />
aveva fatto conoscere il dramma del suo popolo nel mondo islamico,<br />
cercandone l’appoggio, dal Marocco all’In<strong>di</strong>a. Per far ciò è necessario il<br />
sostegno materiale, oltre che politico, dei Paesi arabi, senza tuttavia rinunciare<br />
ai propri principi.<br />
Nell’estate del 1967 Abû Ammâr raggiunge i territori occupati per<br />
organizzare cellule <strong>di</strong> combattenti e a Nablus riesce all’ultimo momento a<br />
sottrarsi agli israeliani che hanno scoperto il suo nascon<strong>di</strong>glio: lo salva,<br />
come accadrà spesso in futuro, il suo proverbiale sesto senso. È la prima <strong>di</strong><br />
una serie <strong>di</strong> fughe, aspetto anche questo che lo accomuna al Mufti.<br />
Il Consiglio <strong>di</strong> sicurezza dell’Onu il 22 novembre 1967 adotta<br />
all’unanimità la risoluzione 242 che, per ricomporre in modo pacifico il<br />
conflitto tra Israele e i Paesi arabi, propone la seguente formula: pace in<br />
cambio dei territori conquistati con l’ultima guerra arabo-israeliana. Per<br />
Nâser e re Husayn <strong>di</strong> Giordania si tratta <strong>di</strong> una soluzione onorevole; per<br />
tutti i palestinesi, da ‘Arafât al Mufti, a Shuqayrî, costituisce la fine <strong>di</strong> tutte<br />
le speranze del <strong>di</strong>ritto alla nazionalità e quin<strong>di</strong> da rifiutare dato che è l’ultimo<br />
tentativo dei Paesi fratelli <strong>di</strong> integrare i rifugiati. Nella IV Conferenza araba<br />
tenuta a Khartoum dal 29 agosto al 1° settembre - <strong>di</strong>versamente dai<br />
precedenti vertici che avevano adottato risoluzioni in cui si riven<strong>di</strong>cava la<br />
liberazione della Palestina dall’imperialismo sionista - si parla <strong>di</strong> liberare i<br />
soli territori occupati e cioè Gaza, Cisgiordania, Sinai e Golan. L’obiettivo,<br />
da conseguire con azioni sul piano politico e <strong>di</strong>plomatico, è assicurare il<br />
ritiro israeliano dalle aree conquistate dopo il 5 giugno.<br />
Un anno dopo la Guerra dei sei giorni finisce la leadership <strong>di</strong> Shuqayrî<br />
all’interno dell’OLP e nel luglio del 1968 i fidâ’iyyîn partecipano in massa<br />
(68 su 100) alla quarta sessione del Cnp, riunita al Cairo, che assume una<br />
posizione rigida, contraria a ogni rappacificazione: la lotta armata è l’unico<br />
strumento per liberare la Palestina e l’azione dei fidâ’iyyîn rappresenta il<br />
«nucleo della lotta <strong>di</strong> liberazione». Gli emendamenti in tal senso alla Carta<br />
nazionale palestinese sono voluti da ‘Arafât e dai suoi che pensano per la<br />
Palestina liberata a uno Stato «democratico» e multiconfessionale. Questo<br />
è l’obiettivo per cui adesso vuole battersi Abû Ammâr la cui popolarità è in<br />
aumento. Unico can<strong>di</strong>dato al ruolo <strong>di</strong> presidente del Comitato esecutivo<br />
dell’OLP, è eletto nel corso del quinto Cnp (1-4 febbraio 1969).<br />
Guidata da ‘Arafât, che inizia ad accumulare funzioni <strong>di</strong> comando, l’OLP,<br />
organo politico rappresentativo e organo militare dei palestinesi, comincia<br />
277
Stefano Fabei<br />
a imporsi tra i Paesi arabi, primo fra tutti l’Arabia Sau<strong>di</strong>ta. Accolto in modo<br />
trionfale dal quinto vertice arabo (Rabat, 21-23 <strong>di</strong>cembre 1969), ‘Arafât,<br />
adesso ha anche il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> voto come i capi <strong>di</strong> Stato i quali gli fanno<br />
gran<strong>di</strong> promesse che però solo gli algerini manterranno. Con grande<br />
<strong>di</strong>sinvoltura incontra intanto gli antimperialisti <strong>di</strong> tutto il mondo, cubani,<br />
cinesi, vietnamiti, non trascurando i rapporti con l’URSS che comunque<br />
sostiene la risoluzione 242, <strong>di</strong>sprezza i fidâ’iyyîn definendoli «avventurieri»,<br />
rifiuta qualsiasi prospettiva <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione dell’entità sionista in Palestina e<br />
solo nel febbraio 1970 accoglierà ‘Arafât molto <strong>di</strong>scretamente. Non a caso<br />
un mese dopo i partiti comunisti iracheno, giordano e libanese avallano la<br />
nascita <strong>di</strong> un’organizzazione comunista <strong>di</strong> fidâ’iyyîn, al-Ansâr (i partigiani),<br />
nel cui comunicato ufficiale non si fa riferimento alla liberazione della<br />
Palestina, ma solo al ritiro dai territori conquistati da Israele nel 1967. Al-<br />
Ansâr chiede <strong>di</strong> entrare nell’OLP, la cosa potrebbe migliorare i rapporti con<br />
Mosca, ma i ra<strong>di</strong>cali si oppongono e qualche anno dopo il gruppo scompare.<br />
Dopo la sconfitta del 1967 gli attacchi <strong>di</strong> al-Fatâh a Israele partono da<br />
Stati limitrofi, quali il Libano, la Giordania e la Siria, dove si trovano il<br />
quartier generale <strong>di</strong> ‘Arafât e campi <strong>di</strong> addestramento dei fidâ’iyyîn. In tutti<br />
e tre i Paesi la presenza <strong>di</strong> questi determinerà una serie <strong>di</strong> situazioni<br />
drammatiche, che confermeranno ancora una volta al <strong>di</strong> là delle promesse<br />
e delle <strong>di</strong>chiarazioni <strong>di</strong> principio dei fratelli arabi, un’amara verità: la<br />
solitu<strong>di</strong>ne dei palestinesi, che verranno <strong>di</strong> volta in volta massacrati dai<br />
giordani, dai libanesi e dai siriani.<br />
Dagli anni settanta in poi l’OLP - che aveva quale suo obiettivo<br />
fondamentale la cancellazione dello Stato <strong>di</strong> Israele per fondare una Palestina<br />
interamente araba, corrispondente a tutto il territorio del mandato<br />
britannico - guidata dal padre-padrone ‘Arafât, la cui leadership è stata spesso<br />
contestata ma mai messa seriamente in <strong>di</strong>scussione, ha portato avanti una<br />
doppia strategia che affiancava alla lotta armata quella <strong>di</strong> una continua,<br />
<strong>di</strong>fficile e sterile serie <strong>di</strong> trattative.<br />
Riportiamo qui <strong>di</strong> seguito, in sintesi, prima i fatti più importanti sul<br />
piano militare, quin<strong>di</strong> le tappe della via politico-<strong>di</strong>plomatica perseguita da<br />
‘Arafât.<br />
In Libano, dopo molti scontri tra fidâ’iyyîn ed esercito libanese, il 21<br />
ottobre 1969 si arriva a un accordo, che regolarizza la presenza armata <strong>di</strong><br />
palestinesi nel Paese, mentre in Giordania s’intensificano gli scontri con<br />
l’esercito <strong>di</strong> re Husayn, che, non tollerando più la presenza <strong>di</strong> uno Stato<br />
(palestinese) nello Stato (giordano), il 17 settembre 1970, con il pretesto<br />
278
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
dei <strong>di</strong>rottamenti compiuti dal Fronte Popolare per la Liberazione della<br />
Palestina, fa attaccare i campi profughi. Con la me<strong>di</strong>azione <strong>di</strong> Nâser si<br />
arriva poi a una tregua, ma il Settembre nero è un duro colpo per ‘Arafât e<br />
i suoi che contano migliaia <strong>di</strong> morti e feriti. Dopo il massacro giordano,<br />
tanto più doloroso perché perpetrato dai fratelli giordani i quali sono in<br />
maggioranza d’origine palestinese, per ‘Arafât si pone la questione <strong>di</strong><br />
ricostruire la resistenza che si riorganizza in Libano, dove al-Fatâh ha 3.000<br />
combattenti. Anche qui negli anni a venire i palestinesi saranno massacrati<br />
dai fratelli libanesi; prima durante la guerra civile del 1975; quin<strong>di</strong> nel<br />
1976, anno in cui si verifica il 22 giugno il massacro <strong>di</strong> Tell ez-Za‘tar. Nel<br />
1978, quando Israele invade il Sud del Libano, centinaia sono i morti<br />
palestinesi, oltre che libanesi; nel 1981 e nel 1982 il massacro continua ad<br />
opera degli israeliani e dei loro alleati falangisti (cristiani-maroniti) che si<br />
scatenano in una caccia all’uomo <strong>di</strong> inau<strong>di</strong>ta ferocia (Sabra e Chatila, 16<br />
settembre 1982). Apriamo una breve parentesi per ricordare che allora gli<br />
israeliani saccheggiarono il <strong>Centro</strong> <strong>di</strong> ricerche palestinesi asportando o<br />
<strong>di</strong>struggendo 25.000 volumi e manoscritti, al chiaro scopo <strong>di</strong> eliminare<br />
non solo l’OLP ma qualsiasi segno dell’identità e della storia del popolo<br />
palestinese. Nel novembre dell’anno successivo ‘Arafât e i suoi sono costretti<br />
subire a Tripoli l’asse<strong>di</strong>o congiunto dei siriani e dei <strong>di</strong>ssidenti del filosiriano<br />
Abû Mûsà; nella primavera del 1985 sono gli sciiti del movimento Amal,<br />
sostenuti dai siriani, a scatenare la «guerra dei campi» attaccando Sabra,<br />
Chatila e Burj al-Barajneh. Gli scontri, con centinaia <strong>di</strong> morti tra i civili<br />
palestinesi, finiranno solo all’inizio del 1988. A questi massacri, perpetrati<br />
dagli arabi, vanno aggiunti gli attacchi degli israeliani che, Guerra del Kippur<br />
a parte, compiono dal 1973 in poi centinaia d’incursioni, terrestri e aeree,<br />
in Libano per eliminare esponenti dell’OLP e combattenti palestinesi i quali<br />
dal luglio del 1981 sono in grado, nella parte meri<strong>di</strong>onale del Paese, non<br />
solo <strong>di</strong> reggere il confronto militare con il nemico e i suoi collaborazionisti<br />
cristiani, ma anche <strong>di</strong> infliggergli per<strong>di</strong>te significative. Con l’operazione<br />
«Pace in Galilea», con cui Sharon, all’inizio <strong>di</strong> giugno del 1982 si propone<br />
la <strong>di</strong>struzione totale dell’OLP, Israele bombarda a tappeto i quartieri<br />
palestinesi <strong>di</strong> Beirut e tutto il Libano meri<strong>di</strong>onale, dal quale si ritirerà nel<br />
giugno del 1985, mantenendo tuttavia una fascia <strong>di</strong> sicurezza tenuta sotto<br />
controllo assieme all’Esercito del Libano del sud dal generale Lahad.<br />
Contemporaneamente a questi eventi militari ‘Arafât e l’OLP,<br />
riconosciuta quale «legittimo rappresentante del popolo palestinese» prima<br />
dal vertice arabo <strong>di</strong> Algeri (26-28 novembre dal 1973), quin<strong>di</strong> dall’ONU il<br />
279
Stefano Fabei<br />
14 ottobre 1974, perseguono sul piano internazionale la propria<br />
legittimazione. Il 13 novembre 1974 ‘Arafât s’impone all’attenzione del<br />
mondo parlando alla tribuna delle Nazioni Unite, che il 10 novembre 1975<br />
condanneranno il sionismo come forma <strong>di</strong> razzismo: «Vengo qui con un<br />
ramoscello d’olivo - <strong>di</strong>ce davanti al consesso internazionale - e una pistola.<br />
Non lasciate che sia il ramoscello a cadermi <strong>di</strong> mano».<br />
Dopo che tra il 12 e il 20 marzo 1977, al XIII Consiglio nazionale<br />
tenuto dall’OLP al Cairo, viene accettata definitivamente l’idea<br />
dell’e<strong>di</strong>ficazione <strong>di</strong> uno Stato in<strong>di</strong>pendente su una parte soltanto della<br />
Palestina storica, l’anno successivo ‘Arafât e la sua organizzazione subiscono<br />
un duro colpo dagli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> Camp David (17 settembre 1978). Questi,<br />
patrocinati dagli USA, prevedono il ritiro israeliano dal Sinai <strong>di</strong>simpegnando<br />
gli israeliani dal fronte sud, e l’inizio <strong>di</strong> negoziati (che non avranno mai<br />
luogo) tra giordani, egiziani, israeliani e palestinesi. Israele nel frattempo<br />
continua a tappe forzate la sua politica <strong>di</strong> colonizzazione in tutti i territori<br />
occupati nel 1967, contro ogni legittimità internazionale, e nel luglio del<br />
1980 proclama Gerusalemme, «intera e unificata», sua capitale.<br />
La rivoluzione islamica del 1979 accende intanto le speranze dei<br />
palestinesi che trovano nell’Iran un altro alleato; ‘Arafât corre a Teheran ad<br />
abbracciare l’Imâm Khomeyni e le autorità del nuovo Stato, molti cui<br />
esponenti si sono addestrati nei campi dei fidâ’iyyîn, mentre lo Shâh sosteneva<br />
apertamente Israele. Vedendo qualche tempo dopo nel conflitto Iran-Iraq<br />
un evento deleterio anche per la lotta dei palestinesi, ‘Arafât cercherà, invano,<br />
<strong>di</strong> me<strong>di</strong>are tra Khomeyni e Saddâm Husayn, al fianco del quale si schiererà<br />
in occasione della guerra successiva all’invasione del Kuwait.<br />
Il 9 settembre 1982, al summit arabo <strong>di</strong> Fez la risoluzione finale adottata<br />
lancia un appello per la creazione <strong>di</strong> uno Stato in<strong>di</strong>pendente, riba<strong>di</strong>sce che<br />
l’OLP è il legittimo rappresentante dei palestinesi e invoca la pace nella<br />
regione. Un<strong>di</strong>ci giorni dopo re Husayn propone la creazione <strong>di</strong> una<br />
«Confederazione giordano-palestinese». Il 31 luglio 1988, preoccupato dal<br />
possibile estendersi dell’intifâda ai suoi territori, annuncerà tuttavia la<br />
decisione <strong>di</strong> rompere i rapporti legali e amministrativi tra le due rive del<br />
Giordano, facendo così svanire la possibilità <strong>di</strong> una trattativa congiunta<br />
giordano-palestinese in vista <strong>di</strong> una confederazione. L’OLP rimarrà così<br />
l’unico interlocutore in campo.<br />
Tra il 14 e il 18 febbraio 1983 il Consiglio nazionale ad Algeri,<br />
riconfermato ‘Arafât presidente, vota un documento su un possibile Stato<br />
palestinese in Cisgiordania e a Gaza lanciando un appello alla trattativa a<br />
280
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
qualsiasi forza israeliana <strong>di</strong>sposta a riconoscere i <strong>di</strong>ritti degli arabi.<br />
Di là dalle speranze e dalle solenni <strong>di</strong>chiarazioni <strong>di</strong> ‘Arafât che, con grande<br />
perizia, riesce a mantenere la leadership nell’organizzazione mostrando note<br />
abilità <strong>di</strong>plomatiche (pensiamo, ad esempio, al Consiglio politico nazionale<br />
tenuto ad Algeri tra il 20 e il 26 aprile 1987, quando le varie forze, eccezion<br />
fatta per la minoritaria fazione filosiriana, si riunificano, riconfermando<br />
così la fiducia nella leadership), i palestinesi, a più <strong>di</strong> 20 anni dalla nascita<br />
dell’OLP, sono costretti a prendere atto che niente per loro è effettivamente<br />
cambiato. La povertà, la <strong>di</strong>sperazione, l’orgoglio <strong>di</strong> un popolo continuamente<br />
offeso e ferito sia da Israele sia dai Paesi ospitanti la sua <strong>di</strong>aspora, determina<br />
lo scoppio, a partire dal 7 <strong>di</strong>cembre 1987, <strong>di</strong> quella grande insurrezione<br />
popolare in Cisgiordania e nella striscia <strong>di</strong> Gaza conosciuta come intifâda.<br />
Iniziata spontaneamente coglie <strong>di</strong> sorpresa la <strong>di</strong>rezione palestinese che<br />
impiegherà dei mesi per riprendere il controllo degli avvenimenti. ‘Arafât e<br />
l’OLP sono quin<strong>di</strong> costretti a sostenere la rivolta, la più vasta dopo quella<br />
degli anni 1936-1939, per non perdere la faccia davanti al loro popolo.<br />
Con l’intifâda emergono nuovi soggetti politici: il Movimento <strong>di</strong><br />
resistenza islamico (Harâkat al-Muqâwamat al-Islâmiyya) Hamâs, creato<br />
nel 1987 dallo sceicco Ahmad Yâsîn e da Muhammad Tâhâ, e il Jihâd<br />
islamico. La prima, organizzazione religiosa a carattere politico-militare,<br />
non ha mai fatto mistero della sua volontà <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere Israele e creare<br />
uno Stato islamico palestinese. Nata come associazione <strong>di</strong> mutuo soccorso<br />
dopo l’occupazione israeliana del 1967, ha sempre osteggiato la politica <strong>di</strong><br />
‘Arafât e per questo è stata inizialmente tollerata dal governo militare<br />
israeliano che a Gaza e in Cisgiordania aveva in<strong>di</strong>viduato nei movimenti<br />
legati alla Fratellanza musulmana uno strumento per indebolire l’OLP e le<br />
formazioni ra<strong>di</strong>cali palestinesi. Successivamente, con i fon<strong>di</strong> provenienti<br />
da alcuni Paesi arabi e islamici, Hamâs cresce anche grazie alle sue strutture<br />
assistenziali e culturali, e assume una posizione ostile al processo <strong>di</strong><br />
pacificazione promosso dall’OLP a partire dalla metà degli anni ottanta.<br />
Dal 1996, a seguito della «linea dura» assunta via via dai premier israeliani<br />
Netanyahu, Barak e Sharon, Hamâs vede aumentare i consensi nei territori<br />
occupati. Pur non aderendo al Comando nazionale unificato dell’Intifâda<br />
collabora con questo e nel 1989 è messa fuori legge dal governo israeliano.<br />
Nonostante alcuni suoi importanti leader, a cominciare da Yâsîn, siano<br />
stati <strong>di</strong> recente eliminati dagli israeliani, Hamâs resta per Israele uno dei<br />
più determinati nemici. Il Jihâd, fondato da Fathî Shikaki (ucciso dagli<br />
israeliani nel 1995) in seguito alla rivoluzione islamica iraniana, lotta per<br />
281
Stefano Fabei<br />
gli stessi obiettivi <strong>di</strong> Hamâs, ma se ne <strong>di</strong>stingue per il fatto <strong>di</strong> de<strong>di</strong>care le sue<br />
risorse solo alla lotta armata, senza impegnarsi sul piano delle istituzioni<br />
sociali.<br />
Con queste due forze che si ispirano per molti aspetti agli ideali e ai progetti<br />
perseguiti dal Gran Mufti, ‘Arafât ha dovuto assumere un atteggiamento <strong>di</strong><br />
volta in volta <strong>di</strong>versificato ma sempre finalizzato a evitare lo scontro<br />
interpalestinese che costituirebbe per il suo popolo non solo un ulteriore fattore<br />
<strong>di</strong> debolezza ma forse un vero e proprio suici<strong>di</strong>o.<br />
Nonostante dal 1988 si sia trovato anche per questo costretto a cavalcare<br />
l’intifâda, per evitare una possibile guerra civile, ‘Arafât non si è voluto<br />
precludere la possibilità <strong>di</strong> continuare gli sforzi sulla via della <strong>di</strong>plomazia e<br />
della ricerca <strong>di</strong> un riconoscimento da parte del nemico <strong>di</strong> sempre.<br />
Nel settembre 1993, dopo trattative segrete tra OLP e Israele me<strong>di</strong>ate<br />
dalla Norvegia, ‘Arafât riesce a ottenere una storica intesa con il premier<br />
israeliano Yitzak Rabin a Washington. Mentre l’OLP riconosce «il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong><br />
Israele a vivere in pace e sicurezza» il governo israeliano riconosce<br />
nell’interlocutore il legittimo rappresentante del popolo palestinese,<br />
impegnandosi a negoziare con esso la pace in Me<strong>di</strong>o Oriente. Il 13 settembre<br />
a Washington, con una cerimonia ufficiale presieduta da Clinton, ‘Arafât e<br />
Rabin firmano una «<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> principi». Non si tratta <strong>di</strong> un accordo <strong>di</strong><br />
pace ma solo <strong>di</strong> un quadro generale al cui interno collocare ulteriori negoziati;<br />
è approvato il 23 settembre dalla Knesset e l’11 ottobre dal Cnp. Un mese<br />
dopo a Taba, in Egitto, iniziano i negoziati ed entra in vigore la <strong>di</strong>chiarazione<br />
dei principi che prevede queste scadenze: - 13 <strong>di</strong>cembre 1993 firma del ritiro<br />
israeliano da Gaza e Gerico; - 13 luglio 1994 elezioni del Consiglio legislativo<br />
palestinese; - 13 <strong>di</strong>cembre 1995 data limite per l’inizio <strong>di</strong> trattative sullo statuto<br />
definitivo dei territori occupati; - <strong>di</strong>cembre 1995 ritiro dell’esercito israeliano<br />
da Hebron. Successivamente alla firma, il 4 maggio (con cinque mesi <strong>di</strong> ritardo<br />
sul calendario previsto) al Cairo, degli accor<strong>di</strong> «Gaza e Gerico prima <strong>di</strong> tutto»,<br />
meglio noti come «accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> Oslo» e rifiutati da Hamâs e Jihâd islamico, il 1°<br />
luglio ‘Arafât, dopo 27 anni <strong>di</strong> esilio, torna a Gaza e assume la guida<br />
dell’Autorità nazionale palestinese. L’accordo gli garantisce, insieme a Peres e<br />
a Rabin (che sarà vittima <strong>di</strong> un attentato da parte <strong>di</strong> un estremista israeliano il<br />
27 ottobre 1995), il Nobel per la pace, il 14 ottobre 1994. Dopo la firma il 28<br />
settembre 1995 degli accor<strong>di</strong> «Oslo II» che prevedono l’estensione<br />
dell’autonomia palestinese in Cisgiordania, il 20 gennaio successivo, con l’87,1<br />
per cento dei voti, è eletto presidente dell’Anp, mentre la sua organizzazione<br />
conquista i due terzi degli 80 seggi del Consiglio legislativo.<br />
282
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
L’entusiasmo per i risultati conseguiti ha però breve durata. Il 29 maggio<br />
1996 Peres e i laburisti perdono, per poche migliaia <strong>di</strong> voti, le elezioni da<br />
cui esce vincitrice la coalizione <strong>di</strong> destra guidata da Benyamin Nétanyahu.<br />
Il programma <strong>di</strong> quest’ultimo non fa alcun riferimento al processo <strong>di</strong> pace<br />
e prevede, fra l’altro, la chiusura dell’Orient House <strong>di</strong> Gerusalemme est<br />
considerata una sorta <strong>di</strong> sede <strong>di</strong> rappresentanza dell’Anp. Il nuovo ministro<br />
delle Finanze, Dan Meridon, il 19 luglio <strong>di</strong>chiara che «la politica <strong>di</strong><br />
colonizzazione <strong>di</strong> massa del Likud non sarà <strong>di</strong>versa da quella dei laburisti<br />
[...] è chiaro che siamo determinati a non tornare alle frontiere del ’67». Il<br />
25 febbraio 1997, in violazione degli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> Oslo, Israele annuncia la<br />
costruzione <strong>di</strong> inse<strong>di</strong>amenti sulle colline <strong>di</strong> Har Homa, nella zona araba <strong>di</strong><br />
Gerusalemme. Gli Stati Uniti pongono il veto a una risoluzione dell’ONU<br />
che invita Israele a rinunciare alla costruzione <strong>di</strong> queste nuove colonie. Il<br />
boicottaggio da parte israeliana costringe ‘Arafât a interrompere i negoziati.<br />
Dopo il fallimento degli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> pace <strong>di</strong> Wye Plantation con<br />
Netanyahu sul ritiro graduale <strong>di</strong> Israele dalla Cisgiordania (23 ottobre 1998),<br />
il 4 maggio 1999, quando scade il periodo <strong>di</strong> autonomia palestinese previsto<br />
dalla <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> principi del 1993, <strong>di</strong>etro pressione statunitense, il<br />
vertice dell’OLP accetta <strong>di</strong> posticipare <strong>di</strong> un anno la scadenza dei termini<br />
per la negoziazione dello statuto finale della Cisgiordania e <strong>di</strong> Gaza, e <strong>di</strong><br />
rinviare quin<strong>di</strong> la proclamazione dello Stato palestinese in<strong>di</strong>pendente.<br />
Successivamente alle elezioni israeliane del 17 maggio, vinte dai laburisti,<br />
«Arafât e il nuovo premier, Ehoud Barak, firmano il 4 settembre gli accor<strong>di</strong><br />
<strong>di</strong> Sharm esh-Sheykh con cui viene ridefinito il calendario dei ritiri e del<br />
ri<strong>di</strong>spiegamento israeliano, l’apertura <strong>di</strong> due collegamenti tra Cisgiordania<br />
e Gaza, l’ulteriore liberazione <strong>di</strong> prigionieri e l’accordo definitivo su tutte le<br />
questioni rimaste in sospeso.<br />
A Camp David, l’11 luglio del 2000, si apre la conferenza per lo statuto<br />
finale <strong>di</strong> Cisgiordania e Gaza. Il vertice però si conclude senza alcun accordo e<br />
senza <strong>di</strong>chiarazioni congiunte; alcune fonti imputano il fallimento alla questione<br />
<strong>di</strong> Gerusalemme e dei Luoghi santi, ma i me<strong>di</strong>atori palestinesi riferiscono che<br />
non c’era accordo su quasi nessun punto in <strong>di</strong>scussione.<br />
Nel settembre del 2000, con l’inizio, della seconda intifâda (scatenata dalla<br />
provocatoria visita <strong>di</strong> Ariel Sharon all’Haram ash-Sharîf) la leadership <strong>di</strong> ‘Arafât<br />
viene ormai apertamente messa in <strong>di</strong>scussione sia da Israele e dagli Stati Uniti,<br />
che lo accusano <strong>di</strong> incoraggiare il terrorismo, sia dai settori palestinesi più ra<strong>di</strong>cali,<br />
che lo considerano troppo morbido con lo Stato ebraico e denunciano la<br />
corruzione della sua gestione politica chiedendo una riforma dell’Anp.<br />
283
Stefano Fabei<br />
Il nuovo governo Sharon, vincitore delle elezioni del 6 febbraio 2001,<br />
intensifica la politica <strong>di</strong> chiusura e isolamento delle zone controllate dall’Anp.<br />
Numerose strade vengono bloccate dall’esercito israeliano che pratica dei<br />
fossati per impe<strong>di</strong>rne l’utilizzo da parte dei palestinesi. Nel giro <strong>di</strong> pochi<br />
mesi, continuando questa vocazione all’apartheid, daranno il via alla<br />
costruzione <strong>di</strong> un muro.<br />
Con un’azione senza precedenti dalla nascita dell’Anp, tra il 16 e il 17<br />
aprile l’esercito israeliano invade le zone a controllo arabo nella striscia <strong>di</strong><br />
Gaza. Vengono colpiti posti <strong>di</strong> polizia palestinese e basi <strong>di</strong> Forza 17, occupata<br />
la zona <strong>di</strong> Beit Hanoun e il territorio della striscia <strong>di</strong> Gaza viene <strong>di</strong>viso in<br />
tre settori con barriere dell’esercito israeliano. L’invasione provoca la reazione<br />
americana e il segretario <strong>di</strong> Stato Powell la giu<strong>di</strong>ca «eccessiva e<br />
sproporzionata»; la sera del 17 gli israeliani si ritirano dalle zone occupate.<br />
Dal <strong>di</strong>cembre del 2001 ‘Arafât viene tenuto confinato nel suo quartier<br />
generale <strong>di</strong> Ramallah (la Muqâta‘a) che fino a maggio 2002 viene asse<strong>di</strong>ato<br />
dai carri armati israeliani per rappresaglia contro i crescenti attentati che<br />
Israele gli rimprovera <strong>di</strong> non fermare.<br />
Su pressione degli Stati Uniti, ideatori della «road map» per la pace in<br />
Me<strong>di</strong>o Oriente, nel marzo 2003, ‘Arafât nomina Primo ministro palestinese<br />
Abû Mazen, ritenuto un interlocutore più cre<strong>di</strong>bile per i negoziati. Tra<br />
‘Arafât e il premier da lui stesso designato si creano però subito dei contrasti<br />
circa la linea da tenere, interpretati dagli osservatori come la <strong>di</strong>mostrazione<br />
che il vecchio Ra’îs non ha nessuna intenzione <strong>di</strong> vedere scavalcata la sua<br />
leadership. Il 6 settembre dello stesso anno Abû Mazen si <strong>di</strong>mette e ‘Arafât<br />
lo sostituisce subito con Abû Ala, presidente del parlamento palestinese e<br />
architetto degli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> Oslo sull’autonomia della Palestina. Pochi giorni<br />
dopo il Governo israeliano decide <strong>di</strong> espellere il presidente dell’Autorità<br />
nazionale palestinese dai Territori, provocando gran<strong>di</strong> manifestazioni <strong>di</strong><br />
protesta da parte dei suoi sostenitori. ‘Arafât in risposta al provve<strong>di</strong>mento<br />
afferma: «Nessuno mi caccerà». Poi il rapido declino nella casa prigione <strong>di</strong><br />
Ramallah, prima dell’ultimo, <strong>di</strong>sperato viaggio a Parigi.<br />
Molti anni prima, quando era lontano dalla Palestina, incontrando in<br />
Tunisia Abû Lughud e Edward Sa‘îd, due intellettuali palestino-americani,<br />
parlando del Gran Mufti aveva detto: «Non vorrei finire la mia vita come<br />
Hajj Amin. Era un uomo rispettabile, ma è morto da rifugiato. Quando<br />
arriverà la mia ora, spero ardentemente <strong>di</strong> lasciare al mio popolo un<br />
passaporto, uno Stato su una parte della nostra terra e un’identità<br />
riconosciuta [...] Hajj Amin era un uomo forte, ha combattuto i suoi nemici<br />
284
Tra l’incu<strong>di</strong>ne araba e il martello israeliano<br />
con mano ferma. Io invece preferisco incoraggiare tutte le correnti che<br />
compongono il mosaico del nostro popolo, perché possano coabitare sotto<br />
il tetto dell’OLP e la nostra lotta prosegua». ‘Arafât è morto lontano dalla<br />
patria dove ha vissuto gli ultimi giorni da asse<strong>di</strong>ato in casa sua, nel «soggiorno<br />
obbligato» <strong>di</strong> Ramallah, e privo <strong>di</strong> quell’autorità che forse Israele non ha<br />
mai veramente pensato <strong>di</strong> riconoscergli.<br />
‘Arafât non ha nominato ufficialmente un vice e la normativa del<br />
Consiglio legislativo palestinese prevede un iter preciso che, pur concedendo<br />
al Presidente del consiglio i poteri lo fa solo per sessanta giorni al termine<br />
dei quali devono svolgersi delle elezioni.<br />
La successione, come <strong>di</strong>mostrano i recenti fatti, sarà probabilmente non<br />
facile. Accetteranno i palestinesi il «moderato» Abû Mâzen che, come Abû<br />
‘Alâ, non ha molto cre<strong>di</strong>to presso il proprio popolo e gode del gra<strong>di</strong>mento<br />
statunitense e israeliano?<br />
Dotato forse <strong>di</strong> un carisma che gli permetterebbe <strong>di</strong> raccogliere l’ere<strong>di</strong>tà,<br />
più che altro simbolica, <strong>di</strong> ‘Arafât, è un membro del Consiglio legislativo e<br />
segretario generale <strong>di</strong> al-Fatâh in Cisgiordania: il leader dei Tanzîm, Marwân<br />
Barghûtî, ospite chissà per quanto tempo delle carceri israeliane, per la<br />
tranquillità dei «moderati». Non esclusa l’eventualità che l’Anp <strong>di</strong>venti l’alter<br />
ego del governo israeliano nei Territori occupati, ad occupare il campo della<br />
resistenza rimarrà probabilmente Hamâs, cui, nonostante la continua<br />
eliminazione dei suoi vertici (o forse proprio per questo), guardano molti<br />
palestinesi; del resto sembra l’unica organizzazione a preoccuparsi <strong>di</strong> dare<br />
scuole, assistenza e servizi concreti alla povera gente.<br />
Leader sanguigno (con la grinta del leone, in mezzo alle macerie del suo<br />
quartier generale, giurava «Vedrò lo Stato palestinese!») che nella sua esistenza<br />
ha alternato sventure e successi, scampando a rivolte intestine, complotti e<br />
attentati, il fortunato ‘Arafât ha visto spesso in faccia la morte che, a <strong>di</strong>fferenza<br />
della malattia, lo ha tuttavia sempre risparmiato: durante il settembre nero<br />
del 1970 in Giordania, durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982,<br />
quando nel 1985 il nemico sferrò contro la sua base <strong>di</strong> Tunisi un raid aereo.<br />
Agli occhi del suo popolo che spesso in passato lo ha adorato, anche perché<br />
lo ha visto scampare alle situazioni più drammatiche, quando tutti lo<br />
<strong>di</strong>cevano finito («Abû Ammâr non è morto!» gridava la folla ai funerali), ha<br />
avuto un unico sogno: la creazione <strong>di</strong> uno Stato palestinese. Per questo<br />
sogno, come gli aveva raccomandato il Mufti, ha rifiutato <strong>di</strong> integrare se<br />
stesso e il suo popolo nel mondo arabo, nonostante la lingua comune e la<br />
retorica del panarabismo. I palestinesi sono sempre stati stranieri, in Egitto,<br />
285
Stefano Fabei<br />
in Tunisia, in Kuwait e tali si sono sentiti. Anche per questo per decenni il<br />
suo popolo lo ha amato, nonostante ne condannasse i ce<strong>di</strong>menti e ritenesse<br />
un fallimento la gestione, spesso corrotta, dell’Autorità autonoma palestinese.<br />
Ha impersonato la speranza del riscatto, facendo rinascere, pur tra tante<br />
sconfitte e umiliazioni, l’orgoglio e l’identità <strong>di</strong> un popolo.<br />
Nonostante la svolta moderata da lui promossa nell’ultimo ventennio<br />
dello scorso secolo <strong>–</strong> svolta che lo ha portato ad accettare le risoluzioni delle<br />
Nazioni Unite sulla Palestina, a riconoscere lo Stato ebraico, a rinunciare<br />
all’arma del terrorismo ...<strong>–</strong> nonostante il progetto <strong>di</strong> un proprio Stato che<br />
avesse sede nei Territori occupati, Abû Ammâr è stato l’ultimo esponente<br />
della «vecchia guar<strong>di</strong>a» dell’OLP, <strong>di</strong> quella mentalità combattiva propria <strong>di</strong><br />
uomini, come Abû Jihâd e Abû ‘Iyâd, che avevano dato la vita per garantire<br />
ai palestinesi una terra, la loro terra, in cui vivere in pace. Pure nelle incertezze<br />
e nelle troppe (o troppo poche, obietterà qualcuno ...) concessioni a Israele,<br />
Abû Ammâr rimane un simbolo, il capo della comunità palestinese.<br />
Bibliografia<br />
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<strong>di</strong> Yasser Arafat, Cronopio, Napoli 2002; FABEI S., Una vita per la Palestina, Mursia,<br />
Milano 2003; FRASER G. T., Il conflitto araboisraeliano, Il Mulino, Bologna 2004;<br />
HART A., Arafat terrorista o pacifista, Frassinelli, Milano 1984; GOWERS A. - WALKER<br />
T., Yasser Arafat e la rivoluzione palestinese. Dalla nascita <strong>di</strong> al Fatah alla storica stretta<br />
<strong>di</strong> mano <strong>di</strong> Washington, Gamberetti, 1994, Gamberetti, Roma 1994; GROSSMAN D.,<br />
La guerra che non si può vincere: Cronache dal conflitto tra israeliani e palestinesi,<br />
Mondadori, Milano 2003; KAPELIOUK A., Arafat l’irriducibile, Ponte alle Grazie, Milano<br />
2004; MORRIS B., Vittime, Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, RCS Libri,<br />
Milano 2001; POLITO E., Arafat e gli altri, Datanews, Roma 2002; REINHART T.,<br />
Distruggere la Palestina, Tropea, Roma 2004; RUBINSTEIN D., Il mistero Arafat, Utet,<br />
Torino, 2003; SAID E. W., Tra guerra e pace, Feltrinelli, Milano 1998; Origini n.18 -<br />
Palestina, S.E.B., Milano 2002; RUBINSTEIN D., Il mistero Arafat, Utet, Torino 2003;<br />
SAID E. W., Tra guerra e pace, Feltrinelli, Milano 1998.<br />
286
assegna bibliografica<br />
L’Italia fascista contro tutti in un ventennio <strong>di</strong> guerre <strong>di</strong>ssennate<br />
L’Italia fascista contro tutti<br />
in un ventennio <strong>di</strong> guerre <strong>di</strong>ssennate<br />
<strong>di</strong> Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
Un particolare, certo non irrilevante, che sfugge sovente ai nostalgici<br />
del fascismo, è che il ventennio <strong>di</strong> Mussolini è stato, senza interruzioni, un<br />
ventennio <strong>di</strong> guerre. Guerre in Africa, in Europa, su scala mon<strong>di</strong>ale, che<br />
hanno depauperato il paese, impe<strong>di</strong>to lo sviluppo del Meri<strong>di</strong>one, causato<br />
danni immani e centinaia <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> morti, provocato o<strong>di</strong> e risentimenti<br />
che il tempo non riesce ancora a cancellare.<br />
Di questo ventennio <strong>di</strong> violenze e <strong>di</strong> sangue ci parla oggi Giorgio Rochat<br />
con il volume Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla <strong>di</strong>sfatta<br />
(Einau<strong>di</strong>, Torino 2005, pp. 460). Si tratta della sintesi più completa, più<br />
aggiornata e più acuta prodotta sino ad oggi e, come precisa l’autore, si<br />
tratta <strong>di</strong> «una storia militare che lasci sullo sfondo la politica estera,<br />
l’economia e la società [...], una storia militare che sia leggibile, senza troppi<br />
tecnicismi». È un compito, quello della leggibilità e della chiarezza, che<br />
Rochat assolve da grande storico, denunciando non soltanto la follia delle<br />
guerre fasciste, ma anche l’incapacità degli Stati maggiori a gestire le forze<br />
armate, la preparazione bellica, la stessa <strong>di</strong>fesa della penisola.<br />
Prima <strong>di</strong> occuparsi dell’aggressione all’Etiopia, nell’ottobre del 1935,<br />
Rochat esamina brevemente le varie fasi della riconquista della Libia, che<br />
era andata quasi totalmente persa nel 1915 in seguito alla «grande rivolta<br />
araba», e giustamente in<strong>di</strong>ca nella deportazione dei 100 mila abitanti del<br />
Gebel Achdar e della Marmarica «forse il crimine più grave del colonialismo<br />
italiano».<br />
Alla conquista dell’Etiopia e all’e<strong>di</strong>ficazione dell’impero nel Corno<br />
d’Africa Rochat de<strong>di</strong>ca un centinaio <strong>di</strong> pagine, sottolineando l’avventurismo<br />
del quadrunviro De Bono, la luci<strong>di</strong>tà del maresciallo Badoglio nell’in<strong>di</strong>care<br />
tempi e mo<strong>di</strong> dell’offensiva, e il ruolo determinante <strong>di</strong> Mussolini nella<br />
287
<strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
preparazione e conduzione dell’impresa. Per questa avventura, che deve<br />
ven<strong>di</strong>care l’onta <strong>di</strong> Adua e dare al regime prestigio e potenza, il duce non<br />
lesina uomini e mezzi, ricorrendo persino alle armi chimiche e ipotizzando<br />
ad<strong>di</strong>rittura l’impiego degli aggressivi batteriologici. Data la straor<strong>di</strong>naria<br />
supremazia delle armate fasciste e l’uso sistematico dell’iprite e del fosgene,<br />
Badoglio e Graziani impiegano soltanto sette mesi a stroncare la resistenza<br />
etiopica ed a costringere l’imperatore Hailè Selassiè a prendere la via<br />
dell’esilio. Molto più <strong>di</strong>fficile e costosa si rivela invece l’impresa <strong>di</strong> occupare<br />
integralmente l’impero, ancora presi<strong>di</strong>ato in talune regioni dai resti<br />
dell’esercito abissino, e dove, col tempo, si sviluppa una nuova opposizione<br />
armata, quella degli «arbegnuoc», dei partigiani, decisi a contrastare con<br />
ogni mezzo la dominazione italiana.<br />
Mussolini continua ad inviare per anni truppe e mezzi in Etiopia e si<br />
in<strong>di</strong>gna nel constatare che i focolai <strong>di</strong> resistenza si moltiplicano anziché<br />
<strong>di</strong>minuire. «Non riusciva a capire - osserva Rochat - quanto fosse <strong>di</strong>fficile<br />
impiantare il dominio italiano su un territorio così vasto, complesso e<br />
tra<strong>di</strong>zionalmente bellicoso; per lui l’impero era soltanto un palcoscenico<br />
per un’esibizione <strong>di</strong> forza e fermezza».<br />
Per quanto il sovrintendente agli Scambi e Valute, Guarneri, non perda<br />
occasione per ripetere a Mussolini «che ogni prelievo <strong>di</strong> oro dalla riserva<br />
segna un passo avanti sulla china verso l’insolvenza, cioè verso l’abisso», il<br />
duce, senza consultare e coinvolgere re Vittorio Emanuele III, il capo <strong>di</strong><br />
Stato maggiore generale Badoglio e lo stesso gruppo <strong>di</strong>rigente fascista, si<br />
getta nel 1936 in una nuova, costosissima avventura, partecipando con 50<br />
mila uomini alla guerra <strong>di</strong> Spagna, ovviamente dalla parte <strong>di</strong> Francisco<br />
Franco. Ed anche in questa «crociata» contro i «rossi» non riscuote in Italia<br />
lo stesso consenso registrato in occasione dell’invasione dell’Etiopia,<br />
Mussolini non bada a spese e svuota i propri arsenali per sostenere lo sforzo<br />
dei nazionalisti. E non lo frena, nel suo intento, neppure la batosta subita<br />
dalle truppe italiane a Guadalajara. Precisa a questo riguardo Rochat:<br />
«Guadalajara fu una sconfitta cercata, non si può <strong>di</strong>re altrimenti <strong>di</strong>nanzi a<br />
una battaglia impostata e condotta con tanta superficialità e una tale<br />
sottovalutazione del nemico e delle con<strong>di</strong>zioni ambientali». Ma ciò che<br />
brucia <strong>di</strong> più a Mussolini è che le sue camicie nere, che dopo l’impresa<br />
d’Etiopia pensava fossero imbattibili, siano state battute, travolte, costrette<br />
alla fuga da altri italiani, non educati all’insegna del littorio ma decisi<br />
oppositori del fascismo.<br />
Tanto la campagna per la conquista dell’Etiopia che il concorso nella<br />
288
L’Italia fascista contro tutti in un ventennio <strong>di</strong> guerre <strong>di</strong>ssennate<br />
guerra civile spagnola non forniscono - fa osservare Rochat - che un solo e<br />
negativo risultato: quello <strong>di</strong> incidere «profondamente sulle riserve materiali<br />
e armamenti dell’esercito». Quando l’Italia, perseverando nella folle politica<br />
espansionistica del duce, entrerà nel 1940 in guerra a fianco della Germania<br />
nazista, si troverà con gli arsenali semivuoti. «Il dato più evidente - scrive<br />
Rochat - riguarda gli automezzi, 16 mila inviati in Etiopia e 7.500 in Spagna,<br />
che mancheranno nel 1940. Il che pone due problemi, la priorità della<br />
politica <strong>di</strong> Mussolini e l’incapacità dell’industria nazionale <strong>di</strong> sostituire questi<br />
materiali». E <strong>di</strong> produrne dei più moderni.<br />
Ma non sono soltanto gli automezzi che mancano alle forze armate.<br />
L’Italia entra in guerra con 54 tipi <strong>di</strong> cannone <strong>di</strong>versi, in gran parte ferri<br />
vecchi; con carri armati da tre tonnellate mentre gli avversari mettono in<br />
campo carri da 20 e 30 tonnellate; con apparecchi da caccia che sviluppano<br />
400 chilometri orari mentre quelli inglesi superano i 600. E se la Marina<br />
può vantare superbe corazzate da 35 mila tonnellate ed una flotta <strong>di</strong><br />
sommergibili <strong>di</strong> tutto rispetto, essa resterà però sempre sulla <strong>di</strong>fensiva per<br />
non essersi dotata dei radar e delle portaerei. Si aggiungano il <strong>di</strong>sastro <strong>di</strong><br />
Taranto e la sconfitta <strong>di</strong> capo Matapan e il quadro dello sfacelo della Marina<br />
sarà completo. «La realtà - scrive Rochat - è che nel primo anno <strong>di</strong> guerra la<br />
Marina pagò il prezzo <strong>di</strong> una ricerca <strong>di</strong> potenza che aveva puntato tutto<br />
sulle gran<strong>di</strong> corazzate e i rapi<strong>di</strong> incrociatori, da impiegare con prudenza<br />
perché insostituibili, senza la necessaria attenzione al ruolo crescente<br />
dell’aviazione e al progresso tecnologico».<br />
Con questa somma <strong>di</strong> errori e <strong>di</strong> deficienze l’Italia fascista non poteva<br />
che collezionare sconfitte su tutti i fronti. La mancanza <strong>di</strong> addestramento e<br />
le scarse motivazioni provocavano, per cominciare, la <strong>di</strong>sastrosa ritirata in<br />
Grecia, seguita dall’indecoroso ripiegamento delle armate <strong>di</strong> Graziani in<br />
Africa Settentrionale. E mentre l’impero, voluto da Mussolini per puro<br />
prestigio, cadeva per l’impossibilità <strong>di</strong> rifornirlo <strong>di</strong> uomini e mezzi, l’Italia<br />
si impegnava nei Balcani senza valutare le enormi <strong>di</strong>fficoltà a fronteggiare<br />
una guerriglia insi<strong>di</strong>osa ed estremamente motivata. Ma il peggior <strong>di</strong>sastro<br />
si registrava in Russia. Una campagna per la quale Mussolini aveva fornito<br />
le armi più moderne e le migliori truppe alpine. Attaccata da quattro armate,<br />
che <strong>di</strong>sponevano <strong>di</strong> 1.170 carri e 5.600 cannoni, l’ARMIR si batteva bene,<br />
ma presto era costretta ad abbandonare la linea del Don e ripiegare per 120<br />
chilometri, senza mezzi <strong>di</strong> trasporto, continuamente battuta dall’artiglieria<br />
e dall’aviazione. Si faceva strada combattendo e seminando <strong>di</strong> morti la steppa<br />
innevata, in un calvario che non ha precedenti nella storia del nostro esercito.<br />
289
<strong>Del</strong> <strong>Boca</strong><br />
Giorgio Rochat conclude la sua accurata ricerca stilando un bilancio<br />
delle vittime del conflitto. Un bilancio che costituisce la più dura e definitiva<br />
condanna del regime fascista. Le per<strong>di</strong>te italiane dal 10 giugno 1940 all’8<br />
settembre 1943 sono così ripartite: morti sul territorio nazionale, 60 mila<br />
(tra cui 25 mila civili); nella guerra contro la Grecia: 20 mila; nel corso<br />
delle occupazioni balcaniche: 10 mila; in Africa Orientale e Settentrionale:<br />
20 mila; nella campagna <strong>di</strong> Russia: 80 mila; morti in mare: 30 mila; per<br />
cause <strong>di</strong>verse: 5 mila. A questi 225 mila morti vanno aggiunti i caduti nel<br />
periodo che va dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla fine della guerra,<br />
che sono altri 230 mila, per un totale <strong>di</strong> 455 mila deceduti. Si aggiungano<br />
i feriti e i prigionieri (più <strong>di</strong> un milione e duecentomila), molti dei quali<br />
trascorsero in cattività sino a sei anni, in con<strong>di</strong>zioni precarie quando non<br />
erano intollerabili.<br />
«La fine della guerra fascista - scrive Giorgio Rochat - fu duramente<br />
pagata dal paese e dalle forze armate, ma anche accompagnata da momenti<br />
e movimenti <strong>di</strong> riscatto e rinnovamento che chiamiamo resistenza, quanto<br />
mai <strong>di</strong>versi, ma uniti contro il nazifascismo. Una resistenza che ha quattro<br />
«fronti». Il primo in or<strong>di</strong>ne cronologico fu la cosiddetta resistenza militare,<br />
i combattimenti contro i tedeschi delle forze armate nel settembre del 1943,<br />
che una minoranza proseguì fino al 1944 con i partigiani jugoslavi e albanesi.<br />
Poi ci furono la guerra partigiana, la resistenza nelle città e nelle fabbriche,<br />
la deportazione politica. Terzo, la partecipazione delle forze armate nazionali<br />
alla guerra <strong>di</strong> liberazione a fianco degli anglo-americani. Infine la resistenza<br />
senz’armi dei 650mila soldati e ufficiali nei campi tedeschi <strong>di</strong> prigionia».<br />
Lo storico valdese non <strong>di</strong>mentica neppure i 7.300 ebrei italiani, «mandati a<br />
morire soltanto perché la bestialità nazifascista li considerava <strong>di</strong> razza<br />
inferiore».<br />
290
La fiaba vera e triste della «principessa etiope»<br />
La fiaba vera e triste della «principessa etiope»<br />
<strong>di</strong> Nicola Labanca<br />
Sappiamo poco della classe <strong>di</strong>rigente etiopica della prima metà del<br />
Novecento, che per semplicità definiamo «aristocrazia» (ma l’Etiopia dei<br />
negus era una terra feudale?) e che forse meglio potremmo chiamare ceto<br />
notabilare.<br />
La documentazione scritta che ne rimane è ristretta, ci <strong>di</strong>cono gli etiopisti.<br />
Mancano le cronache, come quelle antiche. L’assenza <strong>di</strong> queste fonti è<br />
insufficientemente rimpiazzata dagli archivi coloniali, nelle cui carte i nomi<br />
<strong>di</strong> questo o quel ras, <strong>di</strong> questo o quel degiac compaiono nei rapporti degli<br />
osservatori segreti europei o nei documenti, talora imbarazzanti, che<br />
comprovano il collaborazionismo <strong>di</strong> una parte <strong>di</strong> quei notabili. Anche<br />
nell’autobiografia <strong>di</strong> Haile Selassie i nomi e le vicende <strong>di</strong> questa classe<br />
<strong>di</strong>rigente, che pure deteneva il potere (politico, economico, militare,<br />
religioso) a livello regionale, compaiono assai raramente: tutti sono<br />
invariabilmente ossequiosi del negus - cosa che, sappiamo, non sempre<br />
avvenne.<br />
Ora <strong>di</strong>sponiamo della Memoria <strong>di</strong> una principessa etiope (Neri Pozza,<br />
Vicenza 2005, pp. 254): più esattamente <strong>di</strong> Martha, la seconda figlia della<br />
terza moglie <strong>di</strong> degiac Zamanuel Nasibù, nato nel 1895 e <strong>di</strong>venuto kantibai<br />
ad Ad<strong>di</strong>s Abeba accompagnando la modernizzazione voluta da ras Tafari<br />
poi negus Haile Selassie. Nasibù fu uno dei comandanti (assieme a ras Desta)<br />
della guerra etiopica sul fronte somalo nel 1935-36 e uomo <strong>di</strong> fiducia del<br />
negus al punto da essere inviato a Ginevra per fungere da contatto con la<br />
Società delle nazioni, presso la quale l’Etiopia invano protestò contro<br />
l’aggressione italiana. Per via <strong>di</strong> questa missione Nasibù sfuggì alla<br />
deportazione che colpì invece una parte importante dell’«aristocrazia» e del<br />
notabilato etiopico all’indomani dell’invasione italiana: e che colpì anche i<br />
suoi familiari (moglie, figli e parenti) nel 1937. Sfuggito alla deportazione<br />
Nasibù non sfuggì alle conseguenze della guerra, che lo portarono alla morte<br />
appunto a Davos, in Svizzera, nell’ottobre 1936.<br />
291
Nicola Labanca<br />
La figlia Martha Nassibou, che per cultura <strong>di</strong> formazione e per scelta<br />
finale <strong>di</strong> residenza (vive ora a Perpignan) avrebbe usato il francese ma che<br />
qui si firma Nasibù, alla maniera dell’età coloniale, racconta in queste pagine<br />
gli eventi della propria infanzia: l’ambiente in cui nacque e fu cresciuta, il<br />
prestigio sociale e politico guadagnato del padre, le vicende della guerra e<br />
soprattutto la lunga, dolorosa deportazione dall’Etiopia in Italia cui <strong>di</strong> fatto<br />
fu costretta la sua famiglia fra 1937 e 1945: un’Italia, quin<strong>di</strong>, fra fascismo,<br />
guerra, Resistenza e conquista della democrazia.<br />
Se dovessimo fare uno scrutinio filologico dovremmo notare che, nata<br />
del 1931, Martha era troppo piccola per avere ricor<strong>di</strong> precisi dei suoi<br />
primissimi anni: infatti <strong>di</strong>chiara esplicitamente che parte <strong>di</strong> queste memorie<br />
sono la trascrizione dei racconti che la madre Atzede le faceva, forse anche<br />
per tener viva nei figli deportati l’identità etiopica e «nobiliare». Inoltre la<br />
stesura che oggi viene pubblicata pare risentire (beneficamente) non poco<br />
<strong>di</strong> un lungo lavoro <strong>di</strong> «pulitura» <strong>di</strong> Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong>, che sicuramente ha<br />
perfezionato letterariamente l’esposizione e probabilmente vi ha <strong>di</strong>sseminato<br />
qua e là, a beneficio del lettore comune (che altrimenti non avrebbe potuto<br />
orientarsi all’interno della vicenda complessa e poco nota della deportazione<br />
dei notabili etiopici) in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> fatti, date ed elementi fattuali.<br />
Ma è impossibile fermarsi a tale scrutinio soprattutto perche è impossibile<br />
sfuggire al fascino della narrazione <strong>di</strong> Martha Nasibù.<br />
Il libro scorre via come un romanzo e la scrittura è avvolgente, con le<br />
sue descrizioni <strong>di</strong> ambienti, <strong>di</strong> colori, <strong>di</strong> odori così nitidamente impressisi<br />
nella memoria <strong>di</strong> Martha. Una magnifica fotografia <strong>di</strong> copertina la ritrae in<br />
primo piano con occhi gran<strong>di</strong>, neri ed ammiccanti, nella sua giovanile<br />
bellezza adorna <strong>di</strong> un <strong>di</strong>adema tra<strong>di</strong>zionale e <strong>di</strong> uno sciamma can<strong>di</strong>do e vaporoso,<br />
presentandosi proprio come solo una «principessa» sogniamo possa fare.<br />
Il volume si articola in due parti. La prima si concentra sul periodo<br />
precedente all’abbandono dell’Etiopia nel gennaio 1937. In queste pagine<br />
il lettore è introdotto alla singolare commistione <strong>di</strong> usanze tra<strong>di</strong>zionali e <strong>di</strong><br />
aperture moderniste che caratterizzavano la vita quoti<strong>di</strong>ana del notabilato<br />
etiopico dei primi anni trenta. Il rispetto dei riti più antichi e la macchina<br />
Fiat alla porta, l’osservanza dei precetti religiosi più stretti e l’uso della lingua<br />
francese per l’educazione dei figli, l’alimentazione rigorosamente locale e<br />
gli acquisti <strong>di</strong> mobilia e vestiti provenienti (con le <strong>di</strong>fficoltà dei tempi...)<br />
dall’Europa, l’enfasi delle tra<strong>di</strong>zioni guerriere «in<strong>di</strong>gene» e la frequentazioni<br />
delle migliori scuole militari del vecchio Continente (Saint Cyr), la<br />
perpetuazione delle credenze più antiche e meno scientifiche e la curiosità<br />
292
La fiaba vera e triste della «principessa etiope»<br />
seguita dall’adozione dei mezzi tecnologici più aggiornati per il tempo<br />
convivevano nella famiglia Nasibù quale Martha ce la descrive. Ripensando<br />
alla propaganda fascista, tesa a delegittimare e a criminalizzare la figura del<br />
Negus e tutta la classe <strong>di</strong>rigente etiopica bollate <strong>di</strong> «barbarie», «schiavismo»<br />
e «inciviltà», quanto <strong>di</strong>verso è il ritratto dall’interno <strong>di</strong>segnatoci da Martha.<br />
Le pagine o<strong>di</strong>erne <strong>di</strong> Martha riflettono quelli che potevano essere i margini<br />
<strong>di</strong> osservazione <strong>di</strong> una bambina del tempo: non spiegano quin<strong>di</strong> in quanto<br />
tempo, come e sulla base dello sfruttamento <strong>di</strong> quale lavoro conta<strong>di</strong>no si<br />
erano accumulate le straor<strong>di</strong>narie ricchezze dell’«aristocrazia» etiopica dei negus<br />
e dei ras o anche solo del notabilato dei degiac. Il suo sguardo dall’interno,<br />
però, è <strong>di</strong> una straor<strong>di</strong>naria vividezza.<br />
La seconda parte è de<strong>di</strong>cata alle peregrinazioni cui l’abbandono<br />
dell’Etiopia costrinse la<br />
madre <strong>di</strong> Martha (e già la<br />
provenienza <strong>di</strong> questa<br />
donna meriterebbe tutto<br />
un altro libro suo proprio:<br />
figlia del fitaurari Ivan<br />
Babitcheff, venuto dalla<br />
Russia in Etiopia nel<br />
1896 e lì rimasto,<br />
raggiunto poi da altra<br />
nobiltà russa ostile alla<br />
Rivoluzione dell’Ottobre<br />
1917) con i suoi tre figli<br />
e qualche parente più<br />
stretto. Dopo l’occupazione<br />
italiana <strong>di</strong> Ad<strong>di</strong>s<br />
Abeba nel maggio 1936,<br />
alle primi avvisaglie della<br />
«maniera forte» fascista<br />
nei confronti del<br />
notabilato etiopico e<br />
ancor prima delle brutalità<br />
seguite all’attentato a<br />
Graziani del febbraio<br />
1937, la moglie <strong>di</strong> Nasibù<br />
avrebbe chiesto al vicerè Martha Nasibù<br />
293
Nicola Labanca<br />
l’autorizzazione ad accompagnare i propri figli in Italia. Tenuta sott’occhio<br />
in quanto moglie <strong>di</strong> uno dei principali avversari, militari e <strong>di</strong>plomatici,<br />
dell’aggressione fascista, Atzede Nasibù avrà forse voluto - con una scelta<br />
che qui viene presentata autonoma - anticipare, smussare, deviare quelle<br />
che avrebbero potuto essere le eventuali più pesanti decisioni del potere<br />
italiano <strong>di</strong> Ad<strong>di</strong>s Abeba. (Questa vicenda, fra l’altro, suggerisce <strong>di</strong> utilizzare<br />
con cautela i documenti coloniali: chi, imbattendosi negli archivi coloniali<br />
<strong>di</strong> questa supplica, e non avendo a <strong>di</strong>sposizione - come invece adesso ha - la<br />
versione dell’altra soggettività, etiopica, coinvolta, non avrebbe potuto<br />
giu<strong>di</strong>care per collaborazionismo, o per debolezza, una simile scelta?)<br />
Fatto sta che, evitando molto probabilmente conseguenze più<br />
drammatiche e forse fatali, la scelta della famiglia Nasibù aprì una vicenda<br />
nient’affatto «facile». Fra gennaio 1937, quando Martha e i suoi lasciano<br />
l’Etiopia, e l’aprile 1945, quando vi faranno ritorno, moglie e figli <strong>di</strong> Nasibù<br />
vengono rigidamente controllati dalla macchina spionistica del regime,<br />
conoscono la realtà <strong>di</strong> un paese ormai sottoposto ad una legislazione razziale<br />
e in cui la popolazione è <strong>di</strong>visa fra semplici pregiu<strong>di</strong>zi etnografici e veri e<br />
propri razzismi <strong>di</strong>ffusi, soprattutto vengono continuamente spostati da una<br />
località ad un’altra quasi a voler fiaccare definitivamente l’orgogliosa identità<br />
<strong>di</strong> far parte della nobiltà etiopica dei Nasibù, per i quali l’osservanza delle<br />
antiche tra<strong>di</strong>zioni e il mantenimento del precedente stile <strong>di</strong> vita è reso<br />
impossibile. Nei quasi otto anni <strong>di</strong> esilio, essi vengono spostati a Napoli, in<br />
Libia, a Ro<strong>di</strong>, <strong>di</strong> nuovo a Napoli, a Tripoli <strong>di</strong> Libia, a Vigo <strong>di</strong> Fassa, a<br />
Firenze, nella campagna aretina (a san Giustino), <strong>di</strong> nuovo a Firenze e poi<br />
a Pozza <strong>di</strong> Fassa; nell’estate 1944 sono ancora a Firenze, ora liberata, che<br />
poi lasceranno per Roma e Bari, in un campo <strong>di</strong> concentramento profughi<br />
britannico, per lasciare infine la penisola ed arrivare - via Egitto, Sudan ed<br />
Eritrea - alla tanto agognata Ad<strong>di</strong>s Abeba.<br />
È impossibile riassumere qui le vicende patite, i personaggi incontrati,<br />
gli stratagemmi ricercati dalla moglie <strong>di</strong> Nasibù - qui presentata sempre<br />
nella sua soggettività attiva, e non come passiva sopportatrice delle trage<strong>di</strong>e<br />
della persecuzione razziale, del fascismo e della guerra - e dai suoi piccoli,<br />
fra cui appunto Martha, per cercare <strong>di</strong> limitare i danni già enormi dell’esilio.<br />
I ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> Martha e le pagine del volume sono pieni <strong>di</strong> spunti, osservazioni,<br />
immagini <strong>di</strong> una straor<strong>di</strong>naria ricchezza.<br />
L’autrice avrebbe potuto scegliere, se avesse voluto, un tono d’accusa, o<br />
anche <strong>di</strong> recriminazione. Colpisce invece un’aria leggera, quasi giocosa, in<br />
un certo senso incantata che Martha ha voluto lasciare a questi suoi ricor<strong>di</strong><br />
294
La fiaba vera e triste della «principessa etiope»<br />
infantili. Il lettore sa, e capisce, quanto dolore quest’esilio dovette arrecare<br />
alla moglie <strong>di</strong> Nasibù, ai suoi figli strappati dalla propria terra, costretti a<br />
cambiare scuola e amicizie e sogni ogni pochi mesi dalla logica repressiva<br />
del regime: e l’autrice fa sentire il sottofondo <strong>di</strong> dolore della vicenda <strong>di</strong> una<br />
famiglia precipitata dalle stelle dell’«aristocrazia» alle stalle della persecuzione<br />
e delle case d’affitto, dei rifugi antiaerei, dell’intolleranza razziale degli italiani<br />
nei confronti <strong>di</strong> quelli che a loro appaiono solo dei «negri». Felicemente<br />
invece il tono della narrazione rimane aderente a quelle che, forse, furono<br />
allora le sensazioni della piccola Martha: che appena arrivata a Napoli gioca<br />
con i fratellini a riconoscere le macchine che passano sulla via, che vede per<br />
la prima volta la neve, che si entusiasma per gli ottoni luccicanti del piroscafo<br />
che conduce la sua famiglia verso la Libia (e che potrebbe portarla forse ad<br />
una fine drammatica, se non fosse intervenuto un miracoloso contror<strong>di</strong>ne),<br />
che non capisce perche tanti bambini italiani non giochino con lei. Quando<br />
- ormai tornati da qualche tempo ad Ad<strong>di</strong>s Abeba, rientrati nel loro ricercato<br />
milieu e ripresa la strada del Vecchio Continente per intraprendere i propri<br />
stu<strong>di</strong> superiori - il fratellino le chiederà cosa ricordasse dell’Italia, Martha<br />
risponderà: «anch’io ho dei bei ricor<strong>di</strong> dell’Italia!»<br />
Se è un buon libro, un libro <strong>di</strong> memorialistica è sempre sospeso fra la<br />
documentazione e la letteratura. Questo <strong>di</strong> Martha Nassibou è un toccante<br />
documento <strong>di</strong> un passato assai poco noto che però colpisce ancor più proprio per<br />
il tono e per la forma letterari, che farebbero scomodare il film La vita è bella.<br />
Questa Memoria <strong>di</strong> una principessa etiope andrebbe letta nelle scuole e<br />
raccontata agli scolari italiani o<strong>di</strong>erni, coetanei <strong>di</strong> Martha, per capire - anche<br />
se nel registro consapevolmente scelto della fiaba - cosa furono il fascismo,<br />
il colonialismo, il razzismo.<br />
295
Nicola Labanca<br />
296
Le schede<br />
GIORGIO AGOSTI, Dopo il tempo del<br />
furore. Diario 1946-1988, Einau<strong>di</strong>,<br />
Torino 2005, pp. 780<br />
Da pochi giorni ero rientrato da<br />
un lungo viaggio nella Spagna<br />
franchista, ed erano apparsi sulla<br />
«Gazzetta del Popolo» <strong>di</strong> Torino le<br />
prime due puntate della mia<br />
inchiesta spagnola, quando Giorgio<br />
Agosti mi telefonò per invitarmi a<br />
passare dal suo ufficio alla Sip. Era<br />
molto interessato alla mia inchiesta.<br />
Voleva saperne <strong>di</strong> più. Soprattutto<br />
ciò che, per una ragione o per l’altra,<br />
non avrei potuto scrivere.<br />
Ero abituato a questa affettuosa<br />
«convocazione». Era già accaduto<br />
più volte, in occasione <strong>di</strong> altri miei<br />
viaggi all’estero o in seguito alla<br />
pubblicazione <strong>di</strong> alcuni miei libri.<br />
Per me era un piacere e un onore<br />
sedermi con lui, nel suo austero<br />
ufficio, ed anticipargli ciò che avrei<br />
scritto sulle pagine della «Gazzetta»<br />
e riferirgli anche gli episo<strong>di</strong> che avrei<br />
sottaciuto. Il viaggio in Spagna, ad<br />
esempio, aveva avuto una duplice<br />
natura. Ufficialmente ero andato in<br />
Spagna per raccontare il paese a<br />
Le schede<br />
vent’anni dalla fine della guerra<br />
civile, e come salvacondotto potevo<br />
esibire alle autorità franchiste una<br />
<strong>di</strong>chiarazione del parroco della<br />
chiesa <strong>di</strong> Gesù Nazareno che<br />
certificava che ero un buon cristiano.<br />
Ma in Spagna ero andato anche per<br />
un altro motivo. Su incarico <strong>di</strong><br />
Pietro Nenni avrei dovuto prendere<br />
contatto con alcuni esponenti dello<br />
PSOE, i cui in<strong>di</strong>rizzi avevo<br />
imparato a memoria per non<br />
lasciare alcuna traccia nei miei<br />
taccuini. Di questi segreti incontri,<br />
ovviamente, non scrissi nulla, ed<br />
invece ne parlai a lungo con Agosti,<br />
che era, fra l’altro, come il<br />
sottoscritto, uno dei finanziatori del<br />
Ruedo Iberico, la casa e<strong>di</strong>trice degli<br />
antifranchisti in esilio.<br />
A Giorgio Agosti mi legava il<br />
fatto <strong>di</strong> aver militato, durante la<br />
Resistenza, nelle formazioni <strong>di</strong><br />
Giustizia e Libertà, <strong>di</strong> cui lui era<br />
stato commissario politico per il<br />
Piemonte. Un legame che si era<br />
fatto più tenace dopo il tentativo<br />
<strong>di</strong> Tambroni <strong>di</strong> governare l’Italia<br />
con l’appoggio determinante dei<br />
neo-fascisti. In quei giorni<br />
297
Le schede<br />
dell’estate 1960 ci si incontrava<br />
molto spesso nei locali del Circolo<br />
della Resistenza, soprattutto dopo<br />
gli incidenti <strong>di</strong> Genova e i morti <strong>di</strong><br />
Reggio Emilia. Il momento era<br />
particolarmente grave. Bisognava<br />
vigilare. Impe<strong>di</strong>re con ogni mezzo<br />
un ritorno del fascismo. Ricordo<br />
che, fra tutti noi, Agosti era il più<br />
informato, il più accorto, il più<br />
misurato, quello che forniva<br />
suggerimenti concreti. Non per<br />
nulla era stato il primo questore <strong>di</strong><br />
Torino, nell’imme<strong>di</strong>ato dopoguerra,<br />
ed aveva saputo riportare la<br />
calma e la legalità in una città<br />
sconvolta dalla guerra civile.<br />
Frequentandolo, la mia ammirazione<br />
per lui cresceva <strong>di</strong> giorno<br />
in giorno e mi ero abituato a<br />
considerarlo, con Norberto Bobbio<br />
e Alessandro Galante Garrone, uno<br />
dei miei maggiori, ai quali mi<br />
ispiravo costantemente nella mia<br />
attività <strong>di</strong> giornalista e <strong>di</strong> scrittore.<br />
Il mio rispetto e la mia stima per<br />
Agosti crebbero ulteriormente<br />
quando, nel 1990, a cura <strong>di</strong><br />
Giovanni De Luna, apparve il libro<br />
Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-<br />
1945, che raccoglie l’epistolario fra<br />
Giorgio Agosti e Livio Bianco<br />
durante i venti mesi della guerra <strong>di</strong><br />
liberazione. Un carteggio straor<strong>di</strong>nario,<br />
unico, fra due uomini eccezionali.<br />
Quante volte ho riletto la frase che<br />
Giorgio scrive a Livio il 4 aprile<br />
1944: «Questa lotta, proprio per<br />
298<br />
questa sua nu<strong>di</strong>tà, per questo suo<br />
assoluto <strong>di</strong>sinteresse, mi piace. Se<br />
ne usciremo vivi, ne usciremo<br />
migliori; se ci resteremo, sentiremo<br />
<strong>di</strong> aver lavato troppi anni <strong>di</strong><br />
compromesso e <strong>di</strong> ignavia, <strong>di</strong> aver<br />
vissuto almeno qualche mese<br />
secondo un preciso imperativo<br />
morale».<br />
Nel 2005, a tre<strong>di</strong>ci anni dalla sua<br />
scomparsa, usciva da Einau<strong>di</strong>, a<br />
cura del figlio Aldo e con<br />
un’introduzione <strong>di</strong> Giovanni De<br />
Luna, il Diario che Agosti ha tenuto<br />
tra il 1946 e il 1988 e che ha per<br />
titolo una frase ricavata da un testo<br />
<strong>di</strong> Norberto Bobbio: Dopo il tempo<br />
del furore. Si tratta <strong>di</strong> un grosso<br />
volume <strong>di</strong> quasi 800 fitte pagine,<br />
ma il testo originale è molto più<br />
ampio, circa 3500 cartelle.<br />
L’impresa <strong>di</strong> tagliare i quattro<br />
quinti del Diario sarebbe apparsa a<br />
qualsiasi curatore un compito<br />
oltremodo arduo ed ingrato. Ma<br />
Aldo Agosti ha operato efficacemente<br />
unendo alle ben note<br />
capacità dello storico l’affetto per il<br />
padre e la grande conoscenza della<br />
sua storia pubblica e privata,<br />
cosicché si può <strong>di</strong>re che la sua scelta<br />
dei brani è stata come guidata dal<br />
congiunto. Come precisa nella<br />
premessa il curatore, sono state<br />
sacrificate le cronache della vita<br />
famigliare, le pagine de<strong>di</strong>cate ai<br />
viaggi e le annotazioni relative alle<br />
attività <strong>di</strong> Agosti come alto
<strong>di</strong>rigente della Sip e poi dell’Enel.<br />
La prima impressione che si trae<br />
dalla lettura del Diario è la grande,<br />
smisurata curiosità del suo autore.<br />
Egli segue quoti<strong>di</strong>anamente le<br />
vicende della politica italiana ed<br />
estera con la competenza dello<br />
stu<strong>di</strong>oso ed insieme con la<br />
partecipazione appassionata <strong>di</strong> un<br />
uomo che non ha ancora deposto<br />
le armi, che intende vigilare sul<br />
proprio futuro, che avverte <strong>di</strong> essere<br />
abilitato a formulare giu<strong>di</strong>zi, anche<br />
severi, anche taglienti, persino<br />
brutali.<br />
Ma non si accontenta della<br />
lettura dei quoti<strong>di</strong>ani (sembra<br />
pre<strong>di</strong>ligere il parigino «Le Monde»)<br />
e <strong>di</strong>vora libri a centinaia rivelandosi<br />
un lettore esigente ed inflessibile.<br />
Boccia, ad esempio, Lessico famigliare<br />
della Ginzburg e definisce Il tamburo<br />
<strong>di</strong> latta <strong>di</strong> Günther Grass<br />
«un’accozzaglia <strong>di</strong> balordaggini e <strong>di</strong><br />
oscenità». <strong>Del</strong> romanzo <strong>di</strong> Mario<br />
Soldati, Le due città, scrive<br />
lapidariamente che «nel complesso<br />
è un brutto libro». Ma il giu<strong>di</strong>zio<br />
più severo è per I promessi sposi <strong>di</strong><br />
Manzoni: «L’ho dovuto lasciare con<br />
<strong>di</strong>sgusto dopo averne scorso qua e<br />
là <strong>di</strong>verse pagine. Quella morale<br />
rassegnata e servile è ripugnante,<br />
specie nel mondo del Risorgimento».<br />
Ma anche Moravia non<br />
si salva: giu<strong>di</strong>ca La vita interiore<br />
«una porcheria».<br />
Ci sono, invece, libri che lo<br />
Le schede<br />
affascinano e che legge «avidamente».<br />
Come Freccia nell’azzurro,<br />
autobiografia <strong>di</strong> Arthur Koestler; La<br />
vita <strong>di</strong> Galileo <strong>di</strong> Lodovico Geymonat;<br />
Il gattopardo <strong>di</strong> Tomasi <strong>di</strong><br />
Lampedusa; le Lettere dall’America<br />
<strong>di</strong> Gaetano Salvemini; Un giorno <strong>di</strong><br />
fuoco <strong>di</strong> Beppe Fenoglio. Scopre e<br />
ammira Joseph Roth (La cripta dei<br />
cappuccini); Tiziano Terzani (Giaj<br />
Phong); e George Orwell (Giorni in<br />
Birmania). <strong>Del</strong>l’Ultimo fronte <strong>di</strong><br />
Nuto Revelli scrive: «Non si<br />
potrebbe immaginare una condanna<br />
più inesorabile della guerra fascista<br />
e un più pauroso <strong>di</strong>stacco tra la<br />
classe <strong>di</strong>rigente <strong>di</strong> allora e la<br />
popolazione».<br />
Ma più che i giu<strong>di</strong>zi sulle sue<br />
letture colpiscono i commenti <strong>di</strong><br />
taglio politico, i ritratti dei<br />
personaggi, alcuni dei quali<br />
in<strong>di</strong>menticabili. Per cominciare il<br />
laico Giorgio Agosti non risparmia<br />
critiche alla Democrazia Cristiana<br />
e, <strong>di</strong> riflesso, al Vaticano. Dopo un<br />
incontro/scontro con il ministro<br />
degli Interni Mario Scelba, il<br />
questore <strong>di</strong> Torino Agosti<br />
commenta: «Il pugno <strong>di</strong> ferro <strong>di</strong><br />
Scelba non è che un pugno <strong>di</strong> latta;<br />
la sua cosiddetta maniera forte non<br />
serve che a porre ad inutile<br />
repentaglio l’autorità dello Stato».<br />
Particolarmente severo anche<br />
con i capi dello Stato. Dopo <strong>di</strong> aver<br />
definito «ignobile» il messaggio<br />
<strong>di</strong>ffuso da Antonio Segni in<br />
299
Le schede<br />
occasione del 25 aprile del 1959,<br />
Agosti scrive: «Parla della Liberazione<br />
come si parlerebbe <strong>di</strong> una malattia<br />
<strong>di</strong> cui si è guariti». Di Giovanni<br />
Gronchi <strong>di</strong>ce che è «un velleitario<br />
presuntuoso» e che «prende gli<br />
or<strong>di</strong>ni dal Vaticano». Con Giovanni<br />
Leone è spietato: «Quando vedo la<br />
faccia <strong>di</strong> Pulcinella <strong>di</strong> questo<br />
in<strong>di</strong>viduo, che impersona gli aspetti<br />
deteriori del nostro carattere<br />
nazionale e della nostra politica, mi<br />
assale la solita angoscia al ricordo<br />
dei compagni caduti nella<br />
Resistenza per questa Italia».<br />
Con i capi <strong>di</strong> Governo è ancora<br />
più brutale. Definisce Amintore<br />
Fanfani «una canaglia intrigante».<br />
Mariano Rumor gli ricorda «un<br />
mollusco inerte». Giulio Andreotti<br />
viene in<strong>di</strong>cato come «il più viscido<br />
e ambiguo esponente della DC».<br />
Commentando la formazione del<br />
governo Tambroni con il sostegno<br />
dei missini, scrive il 9 aprile 1960:<br />
«È una delle giornate più tristi e<br />
vergognose della storia <strong>di</strong> questo<br />
dopoguerra e segna una condanna<br />
morale senza appello per la<br />
Democrazia Cristiana».<br />
Dei pontefici che si succedono<br />
tra il 1945 e il 1988, Agosti salva<br />
Giovanni XXIII, «un papa moderno<br />
e <strong>di</strong> sinistra», e il polacco Karol<br />
Wojtila. Di papa Pacelli, invece,<br />
scrive: «Rappresenta per me la<br />
costante, coerente, fredda negazione<br />
<strong>di</strong> tutti i valori della Resistenza e del<br />
300<br />
Risorgimento [...]. Non si è<br />
schierato mai se non a favore della<br />
reazione». Pesantissimo, infine, il<br />
giu<strong>di</strong>zio su Paolo VI , espresso il 12<br />
maggio 1967: «II viaggio <strong>di</strong> Paolo<br />
VI a Fatima, in programma per<br />
domani, è una vera porcheria. Non<br />
poteva scegliere miglior servizio a<br />
Salazar e scegliere un peggior<br />
momento per valorizzare una delle<br />
più assurde superstizioni della<br />
Chiesa moderna».<br />
Ma i suoi giu<strong>di</strong>zi non sono tutti<br />
negativi. La sua non è l’invettiva<br />
continua, ossessiva dell’azionista<br />
deluso e amareggiato, che ha visto<br />
affermarsi un’Italia troppo <strong>di</strong>versa da<br />
quella sognata nel «tempo del<br />
furore». Per alcuni personaggi che si<br />
<strong>di</strong>stinguono nel dopoguerra per il<br />
<strong>di</strong>namismo e l’onestà intellettuale ha<br />
anzi parole <strong>di</strong> profonda stima. Scrive,<br />
ad esempio, il 4 ottobre 1966, dopo<br />
aver fatto visita ad Ernesto Rossi,<br />
ricoverato in ospedale: «Val la spesa<br />
<strong>di</strong> aver vissuto in questo secolo<br />
agitato soltanto per avvicinare<br />
uomini come Rossi, Calamandrei,<br />
Salvemini. Se ho un rimpianto, è <strong>di</strong><br />
non averli conosciuti prima e <strong>di</strong> non<br />
aver potuto far nulla per loro negli<br />
anni più oscuri del ventennio».<br />
Scrive <strong>di</strong> Riccardo Lombar<strong>di</strong>:<br />
«Uomini così consentono <strong>di</strong> sperare<br />
nel genere umano anche in tempi <strong>di</strong><br />
rivoltante conformismo».<br />
Una sera <strong>di</strong> gennaio del 1960,<br />
dopo aver ascoltato, estasiato, Carlo
Dionisotti che racconta <strong>di</strong> aver<br />
scoperto un poema cavalleresco <strong>di</strong><br />
Cassio <strong>di</strong> Narni, contemporaneo<br />
dell’Ariosto, Agosti confida al suo<br />
<strong>di</strong>ario: «Come invi<strong>di</strong>o questa<br />
continua eccitante avventura<br />
intellettuale, a cui si abbandonano<br />
gli amici universitari, ogni anno più<br />
padroni dei loro mezzi tecnici, più<br />
maturi nelle loro valutazioni, più<br />
invogliati a proseguire». C’è<br />
ammirazione sincera in queste<br />
parole, ma anche una sottile invi<strong>di</strong>a.<br />
Agosti, infatti, non è sod<strong>di</strong>sfatto per<br />
il lavoro che svolge alla Sip: «L’ansia<br />
con cui vedo giungere la fine della<br />
settimana <strong>di</strong> lavoro è la prova del<br />
peso crescente <strong>di</strong> questo lavoro che<br />
non mi interessa e in cui non vedo<br />
possibilità <strong>di</strong> avvenire. Ogni<br />
tentativo <strong>di</strong> impostare problemi<br />
nuovi con criteri organizzativi<br />
moderni urta contro la <strong>di</strong>visione<br />
della società in compartimenti<br />
stagni, chiusi e ostili fra loro. [...].<br />
Quante energie sorte negli anni<br />
della Resistenza che vanno sciupate<br />
in questo modo!».<br />
Severo con tutti, Agosti lo è in<br />
modo particolare con se stesso.<br />
Scrive nel <strong>di</strong>ario il giorno in cui<br />
lascia definitivamente il lavoro: «È<br />
l’ultima fase della mia vita<br />
lavorativa: e in fondo non si può<br />
<strong>di</strong>re che gli anni passati all’Enel<br />
siano stati per me pieni <strong>di</strong> successi.<br />
Ma quando mai ho avuto successo<br />
nella vita?». Qui l’autocritica<br />
Le schede<br />
raggiunge il culmine, si trasforma<br />
in ingiusta autoflagellazione. Perché<br />
non è vero che Giorgio Agosti non<br />
abbia conseguito successi. Non<br />
soltanto è stato uno dei pilastri della<br />
Resistenza in Piemonte, un<br />
eccellente servitore dello Stato ed un<br />
attivo <strong>di</strong>rigente industriale. È stato<br />
anche un grande animatore <strong>di</strong><br />
cultura attraverso il mensile<br />
«Resistenza» e poi sponsorizzando<br />
il <strong>Centro</strong> stu<strong>di</strong> «Piero Gobetti» e<br />
infine l’Istituto storico della<br />
Resistenza <strong>di</strong> Torino, che oggi porta<br />
il suo nome.<br />
Riflettendo, un giorno, sulla<br />
parte che gli è stata riservata dal<br />
destino <strong>di</strong> «far anticamera presso i<br />
potenti della terra, per cavarne gli<br />
scarsi aiuti che consentono <strong>di</strong> vivere<br />
alle iniziative laiche», annota nel<br />
<strong>di</strong>ario: «Questo accattonaggio a<br />
volte mi umilia e mi deprime; ma<br />
mi angoscia il pensiero che quando<br />
non ci sarò più (o non avrò più la<br />
posizione <strong>di</strong> relativa influenza che<br />
ho attualmente) tutto si fermerà e<br />
il <strong>Centro</strong> non avrà più un soldo».<br />
Severo con se stesso sino al<br />
punto <strong>di</strong> dubitare della stessa<br />
vali<strong>di</strong>tà ed opportunità del proprio<br />
<strong>di</strong>ario, scrive il 17 ottobre 1960:<br />
«Sette anni ormai che scarabocchio<br />
con poco costrutto questi fascicoli,<br />
più per ostinazione contro la voglia<br />
<strong>di</strong> piantar lì che per convinzione.<br />
Sarebbe meglio a un certo punto<br />
bruciar tutto». E invece, fortu-<br />
301
Le schede<br />
natamente per noi, continua a<br />
tenere il <strong>di</strong>ario sino al 9 giugno<br />
1988, quando si arrende e annuncia<br />
malinconicamente: «Penso che<br />
queste saranno le ultime note su<br />
questo inutile <strong>di</strong>ario. La vista va<br />
peggiorando e alle <strong>di</strong>fficoltà della<br />
scrittura si unirà presto l’impossibilità<br />
della lettura. [...]. Senza<br />
ambizioni sono vissuto e con ben<br />
poche illusioni, senza fe<strong>di</strong><br />
trascendenti e con fe<strong>di</strong> immanenti<br />
sempre più incerte e oscillanti. Ma<br />
non può essere lontano il momento<br />
in cui quell’incomprensibile<br />
GIOVANNI PESCE, FABIO MINAZZI,<br />
Attualità dell’antifascismo, La città<br />
del sole, Napoli 2004, pp. 199<br />
FRANCO GIANNANTONI, IBIO<br />
PAOLUCCI, Giovanni Pesce «Visone»<br />
un comunista che ha fatto l’Italia,<br />
E<strong>di</strong>zioni Arterigere-EsseZeta,<br />
Varese 2005, pp. 365<br />
Giovanni Pesce «Visone» è uno dei<br />
più importanti personaggi della<br />
Liberazione italiana: è stato<br />
comandante dei Gruppi <strong>di</strong> azione<br />
patriottica <strong>di</strong> Torino e Milano, ha<br />
compiuto importanti e numerose<br />
azioni contro le forze nazifasciste,<br />
dopo la guerra ha ottenuto la<br />
Medaglia d’oro al valore militare, è<br />
stato responsabile della Commissione<br />
<strong>di</strong> vigilanza del Partito comunista<br />
italiano.<br />
302<br />
comme<strong>di</strong>a della vita volgerà alla<br />
fine».<br />
Giunti alla fine del <strong>di</strong>ario,<br />
avvertiamo impellente il desiderio<br />
<strong>di</strong> leggere l’originale, quella<br />
sterminata cronaca giornaliera <strong>di</strong><br />
3.500 cartelle. Perché vorremmo<br />
saperne <strong>di</strong> più <strong>di</strong> questo<br />
straor<strong>di</strong>nario personaggio che<br />
abbiamo amato e venerato. Ci sarà,<br />
in Italia, un e<strong>di</strong>tore tanto illuminato<br />
e coraggioso da prendere<br />
in considerazione la stampa<br />
integrale <strong>di</strong> Dopo il tempo del furore?<br />
(Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong>).<br />
Il volume Attualità dell’antifascismo<br />
nasce dall’incontro avuto da Pesce<br />
con gli studenti del liceo scientifico<br />
Galileo Ferraris <strong>di</strong> Varese ed in<br />
questo senso è da intendersi come<br />
un invito rivolto alle giovani<br />
generazioni a non <strong>di</strong>menticare ciò<br />
che è stata la Resistenza. Il testo ha<br />
però soprattutto l’obiettivo <strong>di</strong><br />
riba<strong>di</strong>re il valore ed il significato<br />
storico della lotta antifascista contro<br />
il revisionismo volto a negare o<br />
sminuire il portato <strong>di</strong> questo<br />
periodo della storia italiana.<br />
L’opera è strutturata in due parti cui<br />
si aggiunge un poscritto. La prima<br />
- composta da un’intervista -<br />
<strong>di</strong>battito con Pesce, da un saggio<br />
dello stesso e dai contributi <strong>di</strong> Fabio<br />
Minozzi e Franco Giannantoni -<br />
descrive la vita e l’opera del
comandante gappista, tratta il tema<br />
del valore e del significato dei Gap<br />
nella guerra <strong>di</strong> Liberazione, nonché<br />
omaggia la figura <strong>di</strong> Dante Di<br />
Nanni, morto dopo una strenua<br />
battaglia contro un folto gruppo <strong>di</strong><br />
nazifascisti. Nella seconda parte,<br />
invece, Minazzi <strong>di</strong>scute dell’attualità<br />
dell’antifascismo, osservando come<br />
vi sia stata una sconfitta «politica»<br />
della Resistenza, come «nella storia<br />
della genesi della Repubblica<br />
italiana la continuità abbia<br />
nettamente prevalso e si sia<br />
nettamente affermata a <strong>di</strong>scapito<br />
della <strong>di</strong>scontinuità» e come il<br />
fascismo-istituzionale sia uscito<br />
sostanzialmente indenne dalla<br />
bufera seguita al crollo del<br />
«fascismo-<strong>di</strong>-facciata». Infine il<br />
poscritto riba<strong>di</strong>sce quanto ancora<br />
oggi vi sia una forte necessità <strong>di</strong><br />
antifascismo, poiché esso «ha<br />
rappresentato (e rappresenta) il<br />
massimo pericolo per coloro i quali<br />
<strong>di</strong>fendono, invece, un’Italia dei<br />
privilegi, delle caste, del dominio<br />
<strong>di</strong> alcuni specifici ceti e dei<br />
molteplici piccoli <strong>di</strong>ttatori che<br />
sempre si incistano all’interno delle<br />
<strong>di</strong>fferenti strutture istituzionali<br />
facendo strame delle norme e delle<br />
regole».<br />
Giovanni Pesce «Visone» un<br />
comunista che ha fatto l’Italia è,<br />
invece, principalmente un libro<br />
storico, volto a far conoscere a<br />
Le schede<br />
coloro che sono nati dopo la<br />
Resistenza alcuni degli aspetti<br />
fondamentali <strong>di</strong> questa stagione<br />
della storia italiana e mon<strong>di</strong>ale.<br />
Tutto il testo è basato sulle<br />
domande-interviste <strong>di</strong> Franco<br />
Giannantoni e Ibio Paolucci al<br />
comandante dei gappisti torinesi;<br />
l’opera infatti ripercorre tutti i<br />
momenti della vicenda umana,<br />
militare e politica <strong>di</strong> Pesce.<br />
Partendo dall’infanzia passata nelle<br />
miniere francesi, egli accompagna<br />
il lettore tra i suoi ricor<strong>di</strong>: narra così<br />
della sua decisione, maturata nel<br />
1936 nel clima dell’internazionalismo<br />
antifascista, <strong>di</strong> partire<br />
per la Spagna a combattere le truppe<br />
<strong>di</strong> Francisco Franco. Fu questa<br />
l’esperienza che, come egli ha avuto<br />
modo varie volte <strong>di</strong> sottolineare, più<br />
lo segnò nel cuore, e fu anche il<br />
momento in cui conobbe alcune<br />
delle persone che, una volta caduto<br />
il regime fascista faranno assieme a<br />
lui la storia della Resistenza italiana.<br />
Dopo la sconfitta delle forze<br />
repubblicane nella guerra civile<br />
Pesce tornò per breve tempo in<br />
Francia, fino al momento in cui, in<br />
seguito alla vittoria delle truppe<br />
italiane e tedesche, venne insieme<br />
ad altri antifascisti prima<br />
imprigionato e poi relegato al<br />
confino a Ventotene. L’isola pontina<br />
emerge con nitore dalle sue<br />
testimonianze: lì egli conoscerà<br />
ulteriori importanti figure della<br />
303
Le schede<br />
futura Resistenza e della storia<br />
repubblicana italiana quali<br />
Giuseppe Di Vittorio, Sandro<br />
Pertini, Luigi Longo, ma<br />
soprattutto Umberto Terracini,<br />
Arturo Colombi e Camilla Ravera.<br />
Proseguendo sul filo cronologico<br />
che domina l’impostazione del<br />
testo, con il crollo del regime fascista<br />
si apre la stagione gappista <strong>di</strong> Pesce.<br />
Fu proprio a Torino che egli<br />
ricevette per la prima volta l’or<strong>di</strong>ne<br />
<strong>di</strong> colpire un fascista, e fu nei pressi<br />
del torrente torinese Stura che egli<br />
vide la strenua battaglia <strong>di</strong> Dante<br />
<strong>di</strong> Nanni contro le forze nazifasciste.<br />
Poi venne il trasferimento a Milano,<br />
città nella quale vide arrestare colei<br />
che dopo la guerra <strong>di</strong>venterà sua<br />
moglie, Onorina «Sandra»<br />
Brambilla.<br />
Dei primi anni del dopoguerra,<br />
Pesce fa proprie nel racconto le<br />
vicende del travaglio del mondo<br />
partigiano, del fedele rapporto che<br />
ebbe con il Partito comunista anche<br />
quando, pur non con<strong>di</strong>videndola,<br />
accettò la decisione <strong>di</strong> Togliatti <strong>di</strong><br />
concedere l’amnistia agli ex-fascisti.<br />
GIANNI DORE, Scritture <strong>di</strong> colonia.<br />
Lettere <strong>di</strong> Pia Maria Pezzoli<br />
dall’Africa Orientale a Bologna<br />
(1936-1943), Bologna, Pàtron<br />
E<strong>di</strong>tore, 2004, pp. 266.<br />
304<br />
E poi ancora, sempre esplicitate con<br />
chiarezza, altre luci ed ombre del<br />
periodo 1945-48, tra le quali la<br />
vicenda della «Volante rossa» <strong>di</strong><br />
Milano, la medaglia d’oro al valor<br />
militare, la sconfitta del Fronte<br />
popolare e l’incarico come<br />
responsabile della Commissione <strong>di</strong><br />
vigilanza del partito. Ed infine,<br />
giungendo ai giorni nostri, la<br />
personale analisi e la propria<br />
testimonianza sul «caso Seniga»,<br />
sugli anni della tensione,<br />
sull’amicizia con Giangiacomo<br />
Feltrinelli e sulla fine del Pci.<br />
A corredo <strong>di</strong> questo spaccato della<br />
vita <strong>di</strong> colui che <strong>di</strong>venne uno dei<br />
più prestigiosi uomini della<br />
Resistenza, e a corollario della<br />
narrazione <strong>di</strong> più <strong>di</strong> ottant’anni <strong>di</strong><br />
storia d’Italia, il testo contiene in<br />
appen<strong>di</strong>ce ed al proprio interno<br />
un’ampia rassegna <strong>di</strong> fotografie oltre<br />
che approfon<strong>di</strong>te note a piè <strong>di</strong><br />
pagina, volte a illustrare le vicende<br />
biografiche <strong>di</strong> svariati personaggi<br />
dell’opposizione al fascismo (Matteo<br />
Vecchia).<br />
Presso la Biblioteca comunale<br />
dell’Archiginnasio <strong>di</strong> Bologna è<br />
depositato un archivio privato <strong>di</strong><br />
grande rilievo per la ricostruzione<br />
storica del colonialismo italiano in
Africa Orientale. Si tratta del<br />
fondo archivistico denominato<br />
Fondo Speciale Pia Maria Pezzoli e<br />
Giovanni Battista Ellero, donato nel<br />
2004 a tale biblioteca dagli ere<strong>di</strong><br />
dei coniugi bolognesi Pia Maria<br />
Pezzoli e Giovan Battista Ellero,<br />
importante funzionario coloniale<br />
dell’Africa Orientale Italiana.<br />
Questo corpus documentario si<br />
aggiunge idealmente al Fondo <strong>di</strong><br />
etnografia e storia coloniale Ellero-<br />
Pezzoli, conservato presso il<br />
Dipartimento <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> storici<br />
dell’Università degli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
Bologna, dove prolungate indagini<br />
condotte da autorevoli stu<strong>di</strong>osi<br />
hanno già prodotto frutti pregevoli.<br />
Tra questi, Gianni Dore è ben noto<br />
per i suoi stu<strong>di</strong> e le sue pubblicazioni<br />
su Ellero, del quale ha ricostruito la<br />
vicenda, arricchendo il panorama<br />
degli stu<strong>di</strong> etno-antropologici<br />
italiani condotti in epoca coloniale.<br />
Nel 1936, Pia Maria Pezzoli seguì<br />
il marito Giovan Battista Ellero in<br />
Etiopia, con<strong>di</strong>videndone onori e<br />
<strong>di</strong>sagi fino all’internamento <strong>di</strong> lui,<br />
dopo il tracollo delle forze italiane<br />
nel secondo conflitto mon<strong>di</strong>ale, e<br />
alla sua tragica scomparsa<br />
nell’affondamento del Nova Scotia<br />
nel novembre 1942. I carteggi<br />
intrattenuti dalla Pezzoli durante la<br />
sua permanenza in Africa Orientale,<br />
sia con la famiglia in Italia sia con il<br />
marito, nel periodo dell’internamento,<br />
si snodano lungo un arco<br />
Le schede<br />
temporale che ricalca, grosso modo,<br />
l’esistenza dell’Impero coloniale<br />
italiano, avendo come estremi il<br />
1936 e il 1943. L’attento, paziente<br />
spoglio <strong>di</strong> questo epistolario ha<br />
consentito a Gianni Dore <strong>di</strong><br />
ricostruire storicamente aspetti<br />
tanto significativi quanto finora<br />
poco esplorati dalla storiografia: la<br />
visione femminile della colonizzazione<br />
italiana dell’Africa e la<br />
quoti<strong>di</strong>anità del vivere in colonia.<br />
La storia <strong>di</strong> genere per l’ex Africa<br />
italiana annovera ancora pochi<br />
contributi, se si escludono i lavori<br />
<strong>di</strong> Carla Ghezzi e <strong>di</strong> Giulia Barrera<br />
e il rilievo dato da Nicola Labanca<br />
agli scritti autobiografici femminili<br />
sulle esperienze <strong>di</strong> vita vissuta in<br />
Africa, mentre stu<strong>di</strong>ose quali la<br />
stessa Barrera, Gabriella Campassi<br />
e Barbara Sorgoni, hanno posto al<br />
centro delle loro ricerche le relazioni<br />
tra uomini italiani e donne<br />
autoctone. L’epistolario <strong>di</strong> Pia<br />
Maria Pezzoli ci restituisce<br />
un’inusuale quanto più preziosa<br />
testimonianza del quoti<strong>di</strong>ano<br />
coloniale.<br />
Anna Maria Gentili, nella<br />
presentazione al volume Scritture <strong>di</strong><br />
colonia, introduce il ritratto <strong>di</strong><br />
questa donna singolare per cultura<br />
e temperamento, ne coglie acutamente<br />
l’atipicità del suo stare in<br />
colonia «aliena da ogni esotismo»<br />
ed elogia la «sapienza e sensibilità»<br />
<strong>di</strong> Gianni Dore nell’accompagnare<br />
305
Le schede<br />
il lettore tra le righe della Pezzoli.<br />
Esemplare è, infatti, l’articolata<br />
<strong>di</strong>samina del carteggio compiuta da<br />
Dore, il quale decompone (pp. 9-<br />
74) i significativi piani <strong>di</strong> lettura<br />
offerti dall’epistolario con raffinati<br />
strumenti analitici, mettendone<br />
attentamente in luce i sistemi<br />
<strong>di</strong> riferimento e sottolineando<br />
l’importanza della trasmissione<br />
della memoria per una più completa<br />
comprensione del colonialismo<br />
italiano.<br />
Attraverso le lettere e le<br />
fotografie conservate nel fondo<br />
archivistico leggiamo e osserviamo,<br />
sempre sapientemente guidati da<br />
Dore, gli spazi domestici <strong>di</strong> una<br />
residenza periferica dell’Africa<br />
Orientale Italiana. Percepiamo la<br />
«pedagogia coloniale» imposta agli<br />
autoctoni <strong>di</strong> servizio, l’etnografia<br />
spontanea della moglie dell’amministratore<br />
che assiste alle<br />
cerimonie sia del regime sia della<br />
società locale, incontra i colonizzati<br />
<strong>di</strong> vario rango nella gerarchia del<br />
dominio, uomini e donne, e ne<br />
ottiene l’ammirazione per lo spirito<br />
d’adattamento che la contrad<strong>di</strong>stingue<br />
e per la sua non comune<br />
capacità <strong>di</strong> accostarsi alla loro realtà<br />
con una sua propria curiosità che<br />
riesce a <strong>di</strong>scostarsi dagli stereotipi e<br />
dall’ideologia coloniale del regime<br />
fascista. Questa documentazione<br />
consente a Dore <strong>di</strong> offrire uno<br />
spaccato delle problematiche<br />
306<br />
<strong>di</strong>namiche degli italiani d’Africa,<br />
seguendo gli stati d’animo <strong>di</strong> Pia<br />
Maria Pezzoli che volgono dalle<br />
iniziali aspettative <strong>di</strong> serenità<br />
all’incupirsi dei giorni delle leggi<br />
razziali antisemite, per <strong>di</strong>venire <strong>di</strong><br />
drammatica tensione durante la<br />
prigionia del marito, ad opera delle<br />
forze <strong>di</strong> occupazione britanniche.<br />
Veniamo inoltre a conoscere<br />
(pp. 75-86) la biografia e la vita<br />
della Pezzoli reduce dall’Africa, con<br />
Maria Virgilio che ne illustra la<br />
modernità anche nelle scelte<br />
professionali. Iscritta all’albo degli<br />
avvocati, fu dapprima impiegata<br />
alla Banca <strong>di</strong> Cre<strong>di</strong>to Romagnolo<br />
e poi all’Ente per la colonizzazione<br />
del <strong>Del</strong>ta Padano. L’Africa non<br />
cessa però <strong>di</strong> avere uno spazio<br />
neppure in questa fase della vita<br />
della Pezzoli, la quale manterrà e<br />
coltiverà rapporti non solo con<br />
profughi italiani ma anche con<br />
singoli etiopici ed eritrei conosciuti<br />
nel periodo trascorso in colonia.<br />
L’attenta <strong>di</strong>samina <strong>di</strong> Gianni Dore<br />
lascia quin<strong>di</strong> spazio al denso,<br />
selezionato, carteggio, presentandone<br />
una parte cospicua che occupa<br />
le pagine 87-219 del volume,<br />
seguito da un accurato glossario (pp.<br />
219-222). Il volume, elegante<br />
nella veste tipografica e vivace<br />
nell’articolazione interna, è infine<br />
arricchito dall’inventario analitico,<br />
curato da Bruna Viteritti e Maria<br />
Grazia Bollini (pp. 223-256), del
Fondo Speciale Pia Maria Pezzoli e<br />
Giovanni Battista Ellero composto<br />
<strong>di</strong> 254 tra lettere, documenti e<br />
COLETTE DUBOIS et PIERRE<br />
SOUMILLE, Des chrétiens à Djibouti<br />
en terre d’Islam (XIX-XX siècles),<br />
Karthala, Paris 2004 («Mémoire<br />
d’Églises»)<br />
Cinque densi capitoli, più un<br />
dettagliato elenco delle fonti e una<br />
non meno ricca bibliografia,<br />
costituiscono questo interessante<br />
volume che verte su un argomento<br />
<strong>di</strong> sicuro interesse per lo specialista<br />
<strong>di</strong> storia dell’Africa Orientale. I<br />
capitoli sono intitolati: «Les<br />
religions dans le Corne de l’Afrique<br />
au XIX siècle», «La genèse du<br />
catholicisme en Côte française des<br />
Somalis. Une implantation<br />
missionaire laborieuse et tâtonnante<br />
(1884-1913)», «Une consolidation<br />
précaire (1914-1945)», «L’Église,<br />
catholique entre renouveau et repli<br />
(1945-2003)», «Une tard venue,<br />
l’Église protestante évangelique de<br />
Djibouti. Un demi-siécle d’existence».<br />
La prefazione è <strong>di</strong> Claude<br />
Prudhomme che, a p. 6, rileva come<br />
il volume sia soprattutto, oltre ogni<br />
volontà <strong>di</strong> ricostruzione, un invito<br />
«à s’interroger sur les mécanismes<br />
qui ont conduit à l’implantation du<br />
Le schede<br />
materiali fotografici(Federica<br />
Guazzini).<br />
christianisme en pays musulman, à<br />
son developpement en contexte<br />
colonial, enfin au maintien des<br />
Églises au lendemain de<br />
l’indepéndence», quando la<br />
costituzione della neonata<br />
repubblica <strong>di</strong> Gibuti proclamò<br />
l’islam religione <strong>di</strong> Stato nell’ormai<br />
lontano 1992. Una storia<br />
complessa, rileva Prudhomme, che<br />
sfugge alle semplificazioni e si è<br />
nutrita, nei decenni, <strong>di</strong> esitazioni e<br />
particolarità (la chiesa cattolica mise<br />
le sue ra<strong>di</strong>ci nel 1884 dapprima a<br />
Obock, poi a Gibuti), del contesto<br />
coloniale ritenuto portante, dei<br />
contrasti suscitati da una laicità<br />
combattiva e da un islam più che<br />
mai vivo e provocatorio. Il percorso<br />
storico specialistico si snoda<br />
attraverso approfon<strong>di</strong>te ricerche<br />
d’archivio e la consultazione <strong>di</strong> testi<br />
passati e recenti; un lavoro<br />
ampiamente documentato,<br />
strutturalmente valido, con<br />
l’obiettivo <strong>di</strong> riconsiderare<br />
correttamente la storia, finora<br />
appena delineata, della progressiva<br />
evangelizzazione in una parte<br />
dell’Africa dell’Est ra<strong>di</strong>cata sempre<br />
nell’islamismo. Colette Dubois,<br />
stu<strong>di</strong>osa <strong>di</strong> Gibuti e docente <strong>di</strong> storia<br />
307
Le schede<br />
contemporanea all’Università<br />
d’Aix-Marseille 1, e Pierre Soumille,<br />
specialista <strong>di</strong> storia religiosa<br />
dell’Africa, recentemente scomparso,<br />
ma a lungo ricercatore<br />
associato dell’Institut des études<br />
africaines, hanno portato a termine<br />
questo lavoro che conduce alla<br />
scoperta e all’approfon<strong>di</strong>mento<br />
degli aspetti positivi e negativi<br />
dell’evangelizzazione nel territorio<br />
geografico preso in considerazione<br />
e delle sconfitte della cristianità in<br />
Africa nera. Era ora che alla vecchia<br />
storiografia sulle missioni religiose,<br />
volte ad esaltare il ruolo della chiesa<br />
e ad ignorare quello delle resistenze<br />
ANDREA BERRINI, Noi siamo la<br />
classe operaia. I duemila <strong>di</strong><br />
Monfalcone, Bal<strong>di</strong>ni Castol<strong>di</strong> Dalai,<br />
Milano, 2004, pp. 244<br />
Nel 1947 duemila operai dei<br />
cantieri aeronautici e navali <strong>di</strong><br />
Monfalcone partono per Fiume<br />
per andare a lavorare nella<br />
Jugoslavia <strong>di</strong> Tito. La Monfalcone<br />
del dopoguerra è semi<strong>di</strong>strutta<br />
dai bombardamenti, il lavoro<br />
scarseggia, la <strong>di</strong>rezione dei cantieri<br />
si accinge a licenziare. Il licenziamento<br />
trova spesso origine in<br />
ragioni politiche e significa miseria<br />
e fame. Eppure molti dei duemila<br />
sono «mistri» cioè operai specializzati,<br />
capisquadra, con tutto<br />
308<br />
locali, tenesse <strong>di</strong>etro un riesame più<br />
equilibrato e storicamente più<br />
valido. Finita l’epoca dei<br />
compromessi, è oggi possibile<br />
stu<strong>di</strong>are questo capitolo della storia<br />
contemporanea africana e la<br />
presenza cristiana nel Terzo Mondo<br />
non solo sotto il profilo storico, ma<br />
anche antropologico e geografico.<br />
Dopo trent’anni <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza,<br />
Gibuti cerca <strong>di</strong> sviluppare la sua<br />
<strong>di</strong>fficile realtà socio-politica,<br />
garantendo la libertà religiosa e<br />
proponendosi come modello <strong>di</strong><br />
stu<strong>di</strong>o per altre realtà africane<br />
(Massimo Roman<strong>di</strong>ni).<br />
l’orgoglio <strong>di</strong> appartenere ad una<br />
classe, quella operaia, che sa lavorare<br />
e bene, che «sa costruire aerei e<br />
navi». Non è la necessità che li<br />
spinge ma una loro scelta.Tutti<br />
hanno vissuto la <strong>di</strong>ttatura fascista,<br />
molti hanno combattuto con le<br />
brigate partigiane. Partono in massa,<br />
cantando L’Internazionale e Ban<strong>di</strong>era<br />
rossa, per andare a costruire il<br />
socialismo. La maggioranza si <strong>di</strong>rige<br />
ai Cantieri navali 3 maggio <strong>di</strong><br />
Fiume, così chiamati per ricordare la<br />
liberazione della città dal nazismo ad<br />
opera dell’esercito popolare <strong>di</strong><br />
liberazione jugoslavo che comprendeva<br />
anche alcune brigate partigiane<br />
italiane. Molti <strong>di</strong> quegli uomini che<br />
partono erano appartenuti ad una <strong>di</strong>
queste brigate: 1 a Brigata proletaria,<br />
<strong>di</strong>venuta poi il Battaglione triestino,<br />
una brigata composta<br />
esclusivamente da operai <strong>di</strong><br />
Monfalcone.<br />
Alla fine del 1948 la maggior parte<br />
<strong>di</strong> loro rientra in Italia, delusa e<br />
amareggiata. Quello che li aspetta è<br />
l’emarginazione, la <strong>di</strong>scrimi-nazione,<br />
il silenzio. Altri devono aspettare<br />
qualche tempo prima <strong>di</strong> rientrare:<br />
l’appoggio alle tesi del Cominform,<br />
con cui Stalin scomunica Tito e la<br />
<strong>di</strong>rigenza comunista jugoslava, costa<br />
loro l’arresto e la detenzione nei campi<br />
<strong>di</strong> concentramento.<br />
Il passaggio ad Est nel 1947 è<br />
facile, è terra in cui i confini non<br />
hanno mai avuto grande valore, per<br />
lo meno tra la gente comune. I<br />
monfalconesi, come molti loro vicini,<br />
non si sentono italiani fino in fondo,<br />
l’Italia è identificata con il fascismo,<br />
con la <strong>di</strong>ttatura, con la violenza e la<br />
miseria. È <strong>di</strong>ffuso un internazionalismo<br />
che affonda le ra<strong>di</strong>ci<br />
nell’impero austroungarico,<br />
multietnico e multilingue, ed è poi<br />
cresciuto con Marx e il comunismo.<br />
«Un socialismo austromarxista»<br />
sovranazionale. Non a caso i «veci»<br />
intervistati dall’autore raccontano che<br />
«con l’Austria-Ungheria ogni <strong>di</strong>eci<br />
funzionari c’erano 7 maestri e 3<br />
gendarmi. Con l’Italia del fascio 3<br />
maestri e 7 gendarmi».<br />
Andrea Berrini, racconta questa<br />
storia utilizzando la memoria dei<br />
Le schede<br />
monfalconesi che vi parteciparono,<br />
<strong>di</strong> chi non vi partecipò <strong>di</strong>rettamente<br />
ma che potè assistere alla vicenda,<br />
<strong>di</strong> chi non ha assistito ma l’ha<br />
sentito raccontare dai genitori, dagli<br />
zii, dai nonni. Una storia tutta sul<br />
filo <strong>di</strong> quella che Berrini non esita<br />
a definire «memoria grande».<br />
Incontra i protagonisti, i «veci», li<br />
fa parlare, talvolta in <strong>di</strong>aletto, li<br />
ascolta, e insieme a loro ricostruisce<br />
il clima dell’epoca, le vicende<br />
personali e collettive, il prima e il<br />
dopo. È quando chiede il come e<br />
soprattutto il perché che esce una<br />
parola chiave: il sentimento. A<br />
partire da quella parola, la cifra del<br />
libro, l’autore non si sofferma più<br />
solo alla superficie degli eventi ma<br />
scandaglia sempre più approfon<strong>di</strong>tamente<br />
le vite <strong>di</strong> quegli<br />
uomini. Quasi come nella<br />
psicanalisi, si ferma sugli<br />
scivolamenti, sui ritorni, sugli<br />
slittamenti della memoria e del<br />
linguaggio: i lapsus, le rimozioni,<br />
le cancellazioni, le improvvise<br />
rivelazioni <strong>di</strong>ventano la fonte<br />
principale per ricostruire non solo<br />
la storia ma le relazioni in cui si<br />
muovevano gli attori <strong>di</strong> tale storia.<br />
In realtà la vicenda del libro è<br />
stata raccontata più volte nel corso<br />
degli ultimi anni. Eppure Berrini<br />
percepisce una coltre <strong>di</strong> silenzio. È<br />
proprio questo silenzio che vuole<br />
interrogare. «In questi anni è stata<br />
fatta qualche analisi. Ma erano<br />
309
Le schede<br />
sempre analisi <strong>di</strong> sconfitta» <strong>di</strong>ce<br />
uno degli intervistati. Da questa<br />
affermazione parte per raccontare<br />
come i protagonisti <strong>di</strong> allora ben<br />
percepiscano come le loro voci<br />
possano essere <strong>di</strong>storte dall’attuale<br />
polemica politica. Come sempre è<br />
l’oggi a determinare il giu<strong>di</strong>zio<br />
sulle questioni <strong>di</strong> ieri. La questione<br />
sulle foibe ad esempio. E il libro<br />
non esita a descrivere come a<br />
Trieste (e in Italia) sia in atto una<br />
campagna <strong>di</strong> opinione che punta<br />
a rafforzare i legami tra il centro<br />
destra locale e il proprio elettorato,<br />
tra<strong>di</strong>zionalmente sensibile ai temi<br />
dell’italianità ed oggi - con<br />
l’allargamento dei confini ad est<br />
dell’Unione Europea, i problemi<br />
legati all’immigrazione, i nazionalismi<br />
risorgenti - quantomeno<br />
<strong>di</strong>sorientato.<br />
I testimoni interrogati spesso<br />
in<strong>di</strong>viduano le ragioni del loro<br />
silenzio anche, ma non solo, nella<br />
volontà <strong>di</strong> non essere strumentalizzati<br />
dalla destra attuale.<br />
«Cosa può pensare della vostra<br />
partenza un ragazzo <strong>di</strong> oggi?» è la<br />
prima domanda che Berrini pone<br />
agli intervistati. E le risposte non<br />
rivelano un’irrime<strong>di</strong>abile sconfitta.<br />
Nella vita non si vince e non si perde<br />
irrime<strong>di</strong>abilmente. Spesso si allarga<br />
anche il sorriso sulle facce <strong>di</strong> quegli<br />
uomini. C’era l’entusiasmo, la<br />
voglia <strong>di</strong> libertà, il desiderio <strong>di</strong><br />
migliorare la con<strong>di</strong>zione dei propri<br />
310<br />
figli e non vederli asserviti nei<br />
cantieri Cosulich, la volontà <strong>di</strong><br />
costruire il socialismo, e soprattutto<br />
il grande orgoglio <strong>di</strong> appartenere<br />
alla classe operaia, <strong>di</strong> saper costruire<br />
navi e aerei e <strong>di</strong> essere preparati e<br />
competenti nel mestiere.<br />
Seguendo le storie raccontate<br />
dai testimoni, il libro ricostruisce<br />
il prima e il dopo. Si narra<br />
dell’antifascismo e delle persecuzioni<br />
del regime, dell’identificazione<br />
dell’Italia con il fascismo, la<br />
trasformazione dei cognomi locali<br />
in cognomi «italiani». Poi il grande<br />
episo<strong>di</strong>o della Resistenza e la<br />
costruzione <strong>di</strong> una forte identità. Si<br />
ripercorrono le vicende dei rapporti<br />
all’interno del Partito comunista<br />
italiano e <strong>di</strong> quello iugoslavo nel<br />
momento in cui da Mosca Tito<br />
veniva tacciato <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>mento ma<br />
anche quando dalla stessa città<br />
venivano speranze e modelli <strong>di</strong><br />
riferimento. Si rileggono le<br />
persecuzioni e le emarginazioni del<br />
dopoguerra e anche quelle del<br />
ritorno dalla Jugoslavia, ad un anno<br />
dalla partenza per Fiume.<br />
«Ha un senso la ricostruzione<br />
storica, precisa, degli avvenimenti<br />
<strong>di</strong> quegli anni? Da dove viene la<br />
necessità <strong>di</strong> ricostruire punto per<br />
punto, nome per nome, giornata<br />
dopo giornata gli scontri tra partiti<br />
comunisti, tra <strong>di</strong>rigenti, che<br />
portano al Controesodo? […] Le<br />
loro vite sono andate in un certo
modo perché essi così hanno<br />
deciso. L’errore è forse stato l’aver<br />
delegato ad altri le decisioni<br />
politiche, l’essersi affidati alle<br />
<strong>di</strong>rettive altrui invece che cercare<br />
<strong>di</strong> imporne <strong>di</strong> proprie.<br />
Sicuramente, questo è il loro<br />
rimpianto. Ed è anche il loro lascito<br />
più importante, insieme alla<br />
determinazione testarda, alla<br />
vivacità intellettuale che, nei<br />
confronti dei loro padroni e dei loro<br />
tiranni, li ha sempre portati a voler<br />
riflettere, <strong>di</strong>scutere, capire, e<br />
soprattutto agire in prima persona,<br />
mettendo a rischio la propria<br />
GIORGIO BOCCA, L’Italia l’è malada,<br />
Feltrinelli, Milano 2005, pp. 143.<br />
Un libro che non lascia spazio a<br />
compromessi, un’opera che nasce<br />
dall’urgenza <strong>di</strong> denunciare la<br />
situazione in cui si trova l’Italia<br />
d’oggi: questi, in breve sintesi, due<br />
degli elementi fondamentali de<br />
L’Italia l’è malada, il saggio che<br />
Giorgio Bocca ha dato alle stampe<br />
nel primo semestre <strong>di</strong> questo anno.<br />
Per chiarire l’entità delle<br />
caratteristiche sopra delineate, è<br />
sufficiente riportare una frase del<br />
volume: «ciò che pensa e <strong>di</strong>ce un<br />
uomo come Berlusconi, e chi la<br />
Le schede<br />
incolumità. Hanno voluto dare […]<br />
l’assalto al cielo. La grandezza delle<br />
loro storie, il fascino che non<br />
possono non esercitare su chi li ha<br />
seguiti, siano uno stimolo a non<br />
cedere mai all’idea che nel mondo<br />
decidono solo i potenti e i piccoli<br />
uomini debbano stare a guardare,<br />
cercando <strong>di</strong> limitare i danni». Ed è<br />
con queste parole affettuose che<br />
l’autore saluta i protagonisti della<br />
vicenda. Con Renato Sarti ha deciso<br />
<strong>di</strong> farne una trasposizione teatrale<br />
per raccontare la più tragica<br />
sconfitta operaia. Il titolo è: Vittoria<br />
(Sabrina Michelotti).<br />
pensa come lui, è esattamente il<br />
contrario <strong>di</strong> quello che penso io e<br />
quelli come me».<br />
Da questo assunto nasce così un testo<br />
che vaglia con minuzia innumerevoli<br />
aspetti del vivere contemporaneo del<br />
paese: l’eclissi dei valori, il<br />
capitalismo sfrenato, il «fascismo che<br />
ritorna a circolare come un odore<br />
familiare», la presenza della mafia<br />
nella società e la sua collusione col<br />
mondo degli affari, lo<br />
smantellamento della Costituzione,<br />
lo svilimento dei fori giu<strong>di</strong>ziari<br />
pubblici, la liquidazione del<br />
sindacato, la gestione a fini politici<br />
dell’informazione, la guerra in Iraq,<br />
311
Le schede<br />
l’impoverimento della politica, la<br />
fine della solidarietà sociale.<br />
Sono questi, a detta dell’autore, i<br />
principali mali che affliggono l’Italia;<br />
malesseri che hanno origine, secondo<br />
lo scrittore cuneese, in gran parte<br />
dall’attività <strong>di</strong> un’unica figura<br />
politica, quella <strong>di</strong> Silvio Berlusconi,<br />
la stessa persona contro la quale<br />
Bocca aveva rivolto un suo<br />
precedente testo, il Piccolo Cesare<br />
(Feltrinelli, 2002), descrivendo le<br />
ambizioni <strong>di</strong> grandezza <strong>di</strong> colui che<br />
da poco più <strong>di</strong> un anno era <strong>di</strong>ventato<br />
per la seconda volta Presidente del<br />
Consiglio.<br />
Ma la <strong>di</strong>fferenza tra i due libri sta<br />
soprattutto nel loro rapporto con le<br />
vicende narrate: se nel primo testo<br />
Bocca <strong>di</strong>batteva <strong>di</strong> un futuro<br />
preconizzabile ma non ancora<br />
compiuto, con L’Italia l’è malada lo<br />
scrittore afferma stentoreamente che<br />
dopo gli anni del governo della Casa<br />
delle Libertà, l’Italia è «un paese in<br />
cui per le persone civili la vita è<br />
faticosa e meschina. Un paese in cui<br />
è scomparso lo Stato».<br />
In poche parole siamo, <strong>di</strong>ce Bocca<br />
in apertura <strong>di</strong> libro, in un regime,<br />
ovvero «una società classista che finge<br />
<strong>di</strong> essere senza classi, <strong>di</strong> sovversivi che<br />
fingono <strong>di</strong> essere moderati».<br />
Lo stile <strong>di</strong>retto e semplice, ma carico<br />
<strong>di</strong> sprone e <strong>di</strong> spunti <strong>di</strong> riflessione,<br />
che accompagna il lettore nella<br />
<strong>di</strong>samina critica della realtà della<br />
penisola ha un obiettivo ben<br />
312<br />
preciso: eliminare l’atteggiamento<br />
cinico e remissivo <strong>di</strong> gran parte degli<br />
italiani, per i quali è preferibile «la<br />
rinuncia alla libertà pur <strong>di</strong> non avere<br />
grane, <strong>di</strong> viver tranquilli, pronti a<br />
ingoiare tutti i rospi». È forse<br />
questo che spinge l’autore a non<br />
rimanere muto <strong>di</strong> fronte alla<br />
situazione, perché «il regime è anche<br />
assuefazione al peggio, fasti<strong>di</strong>o per<br />
chi si oppone e conserva un minimo<br />
<strong>di</strong> senso critico».<br />
In Bocca la voglia <strong>di</strong> opporsi<br />
all’andamento della realtà si esplica<br />
anche al riguardo dell’interpretazione<br />
dei fatti del passato, un passato che lo<br />
scrittore ha vissuto da militante: una<br />
critica severa è rivolta contro i fautori<br />
del revisionismo storico, ovvero coloro<br />
secondo i quali «la Resistenza non c’è<br />
stata, ma ci fu solo una dura<br />
occupazione tedesca» (come ha avuto<br />
modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re l’ambasciatore Bottai),<br />
o coloro che fanno intendere che «una<br />
guerra <strong>di</strong> popolo con quarantamila<br />
morti e ventimila feriti è un mito, [...]<br />
non è storia, ma una vulgata<br />
propagan<strong>di</strong>stica del Partito Comunista»<br />
(come si evince, secondo Bocca,<br />
dalle <strong>di</strong>chiarazioni del Presidente del<br />
Senato, Marcello Pera).<br />
È, insomma, in questa in<strong>di</strong>gnazione<br />
verso tanti atteggiamenti del vivere<br />
civile e politico della nazione nonché<br />
nell’attività maieutica che da essa<br />
scaturisce, che sta il senso primo <strong>di</strong><br />
L’Italia l’è malada (Matteo Vecchia).
ANTONIO GAMBINO, Esiste davvero<br />
il terrorismo? Fazi e<strong>di</strong>tore, Roma<br />
2005, pp. 79<br />
Antonio Gambino corre lungo<br />
il sentiero del significato del<br />
termine terrorismo rilevando<br />
come a tale concetto spesso<br />
si associ una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />
indeterminatezza e confusione<br />
definitoria.<br />
Esiste davvero il terrorismo? È<br />
innanzitutto un volume che ha<br />
l’intento <strong>di</strong> abbattere a poderose<br />
spallate quel fenomeno che<br />
l’autore definisce «pensiero<br />
unico», cioè quella tendenza della<br />
politica e dell’informazione delle<br />
società occidentali che tratta in<br />
termini univoci gli avvenimenti<br />
che caratterizzano la contemporaneità.<br />
Una strategia che, nei<br />
fatti, produce tre conseguenze:<br />
nella maggior parte dei casi crea<br />
un unanimismo <strong>di</strong> stampo<br />
americano, autoassolve le azioni<br />
dei governi occidentali, e al<br />
contempo si scaglia contro gli<br />
oppositori dell’unilateralità del<br />
pensiero portando il fruitore<br />
dell’informazione alla completa<br />
assuefazione.<br />
A livello contenutisitico, il<br />
terrorismo, dal punto <strong>di</strong> vista della<br />
violenza e della criminalità, è per<br />
Gambino un fenomeno associabile<br />
a tante altre azioni che vengono<br />
compiute dagli stati occidentali e<br />
Le schede<br />
che invece sono considerate dai<br />
me<strong>di</strong>a e dalla politica come lecite.<br />
Proprio su questo aspetto l’autore<br />
insiste particolarmente, constatando<br />
che se fino a prima della<br />
globalizzazione dell’informazione i<br />
governi occidentali potevano<br />
occultare i propri misfatti, ora ciò è<br />
molto più <strong>di</strong>fficile, poiché i me<strong>di</strong>a<br />
hanno una <strong>di</strong>ffusione capillare in<br />
pressoché tutte le aree del globo.<br />
Tuttavia, secondo il saggista, a<br />
questo non corrisponde, a livello<br />
mon<strong>di</strong>ale, un’analisi sgombra da<br />
pregiu<strong>di</strong>zi. Ma da cosa deriva questa<br />
lacuna? In primo luogo dalla già<br />
citata tendenza a considerare il<br />
terrorismo come un crimine <strong>di</strong>verso<br />
dagli altri <strong>di</strong> uguale o maggiore entità<br />
compiuti in passato dalle potenze<br />
occidentali: in questo processo è<br />
parte attiva l’artefatta «per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong><br />
memoria» <strong>di</strong> cui esse soffrono<br />
rispetto alle proprie colpe gravi del<br />
passato. In secondo luogo dal<br />
processo che ha portato, dall’Iran <strong>di</strong><br />
Khomeini in poi, a non considerare<br />
più gli avversari come soggetti<br />
eticamente uguali, ma come «nemici<br />
pubblici numero uno» nei confronti<br />
dei quali le regole che guidano la vita<br />
della comunità internazionale sono<br />
sottomesse all’interesse nazionale: ne<br />
consegue che anche il terrorismo<br />
viene da essi considerato un male<br />
assoluto.<br />
Il fatto <strong>di</strong> considerare l’eversione<br />
internazionale in termini manichei<br />
313
Le schede<br />
<strong>di</strong> totale positività e negatività porta<br />
poi, a detta <strong>di</strong> Gambino, gli stati<br />
dell’Ovest del mondo a legittimare<br />
la propria autoassoluzione tramite<br />
l’utilizzo <strong>di</strong> argomentazioni che<br />
risultano essere fortemente <strong>di</strong> parte,<br />
quali la <strong>di</strong>fferenziazione tra errore e<br />
crimine e il richiamo alla guerra.<br />
Nella categoria degli errori<br />
l’Occidente fa rientrare, a proprio<br />
beneficio, i tre secoli <strong>di</strong> schiavismo,<br />
i due <strong>di</strong> colonialismo, i bombardamenti<br />
contro le popolazioni civili<br />
citta<strong>di</strong>ne durante la seconda guerra<br />
mon<strong>di</strong>ale, gli attacchi col napalm<br />
in Vietnam, nonché gran parte delle<br />
altre macchie del proprio passato;<br />
resta invece definibile come crimine<br />
tutto ciò che - naturalmente<br />
«negativo» - è compiuto dagli<br />
antagonisti. Di pari passo va<br />
l’utilizzo del termine guerra, nel cui<br />
quadro normativo gli stati che<br />
dominano il mondo si arrogano il<br />
<strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> far rientrare tutte le azioni<br />
da essi compiute che presuppongono<br />
il ricorso alla violenza; per<br />
poi non accordare un analogo status<br />
giuri<strong>di</strong>co alle azioni che vengono<br />
compiute spesso come reazione ai<br />
suddetti atteggiamenti.<br />
Dopo avere posto più <strong>di</strong> un<br />
interrogativo su quale sia la vera<br />
essenza del «terrorismo», l’autore<br />
giunge ad una propria valutazione<br />
<strong>di</strong> cosa debba intendersi con il<br />
termine. Si tratta del ricorso alla<br />
violenza e al terrore in un contesto<br />
314<br />
in cui «non si sia <strong>di</strong> fronte a uno<br />
scontro nazionale o etnico [...] ma<br />
piuttosto a una tensione e a una<br />
lotta <strong>di</strong> natura sociale» e che «abbia<br />
un carattere sostanzialmente<br />
democratico [...] e non sia, invece,<br />
una <strong>di</strong>ttatura».<br />
Corollata da tante altre pagine<br />
interessanti, quella <strong>di</strong> Gambino è in<br />
sostanza un’opera che ha la capacità<br />
<strong>di</strong> analizzare la materia da un punto<br />
<strong>di</strong> vista alternativo e <strong>di</strong> sgombrare<br />
il campo dalla retorica della politica<br />
dominante; è inoltre <strong>di</strong> ampio<br />
interesse per ciò che riguarda le<br />
analisi comparatistiche della storia<br />
recente e passata.<br />
Paradossalmente, però, ha il<br />
<strong>di</strong>fetto <strong>di</strong> cadere a sua volta in qualche<br />
eccesso <strong>di</strong> generalizzazione. Ad<br />
esempio, pur nel rispetto delle<br />
esigenze <strong>di</strong> un testo che si presenta<br />
come un pamphlet, necessiterebbero<br />
<strong>di</strong> una più articolata spiegazione frasi<br />
come «chi [...] potrebbe davvero<br />
credere [...] che la secolare arroganza<br />
del mondo occidentale, il suo costante<br />
<strong>di</strong>sprezzo per tutte le culture ‘inferiori’,<br />
ed in particolare per quella islamica,<br />
non abbia provocato nei popoli che<br />
le hanno subite [...] ferite durature»<br />
generando in loro «reazioni <strong>di</strong><br />
frustrazione e <strong>di</strong> rivalsa non sanate e<br />
non facilmente sanabili», così come<br />
l’affermazione sulla «volontà <strong>di</strong> gran<br />
parte del mondo islamico [...] <strong>di</strong> colpirci<br />
al cuore, <strong>di</strong> entrare in guerra contro<br />
<strong>di</strong> noi» (Matteo Vecchia).
DOMENICO SELLITTI, I tarantini scrivevano<br />
a Mussolini, Taranto, e<strong>di</strong>t@,<br />
2004, pp.158.<br />
Il volume è frutto <strong>di</strong> una lunga ricerca,<br />
nata quasi per caso nel solco<br />
<strong>di</strong> un’altra destinata ad approfon<strong>di</strong>re<br />
gli albori del fascismo jonico.<br />
Ma, come accade in questi casi, ne<br />
è nato un altro lavoro altrettanto<br />
accattivante e ricco sia nei contenuti<br />
sia nelle considerazioni che ne<br />
sono scaturite.<br />
Taranto manca tuttora <strong>di</strong> un’attenta<br />
ricostruzione delle vicende locali<br />
legate al Ventennio, pur non mancando<br />
al contrario la documentazione<br />
d’archivio da collegare alle<br />
raccolte private che sono a volte l’ossatura<br />
<strong>di</strong> una ricerca più complessiva.<br />
È il caso <strong>di</strong> questo volume, alla<br />
cui base ci sono soprattutto i documenti<br />
privati, lettere e corrispondenze<br />
varie, densi <strong>di</strong> nomi e fatti.<br />
Si tratta <strong>di</strong> un lavoro paziente, con<br />
risultati convincenti, pur nella certezza<br />
che molto ancora si potrebbe<br />
fare. Esistono, infatti, nella città<br />
bimare documenti importanti, ormai<br />
ingialliti e molto polverosi,<br />
presso numerose famiglie: a volte<br />
semplici appunti, o fogli <strong>di</strong> quaderno<br />
appena leggibili, carte stampate<br />
o dattiloscritte o scritte a mano.<br />
Spesso questi preziosi documenti<br />
che testimoniano le temperie <strong>di</strong><br />
un’epoca passata, si accompagnano<br />
ad una serie inimmaginabile <strong>di</strong> foto<br />
Le schede<br />
ine<strong>di</strong>te e <strong>di</strong> allegati come <strong>di</strong>plomi,<br />
certificati, attestati. I documenti,<br />
come quelli riprodotti nel volume,<br />
sono spesso caratterizzati dalla<br />
spontaneità espressiva, dal sacrificio<br />
della punteggiatura, dalle ripetute<br />
sgrammaticature.<br />
Insomma, si tratta <strong>di</strong> un patrimonio<br />
eccezionale che, nel caso specifico,<br />
riguarda Taranto e i tarantini<br />
che non esitarono a rivolgersi al<br />
Duce (che pare ricevesse 40 mila<br />
lettere <strong>di</strong> questo tenore al mese) o<br />
ai vertici del Partito nazionale fascista.<br />
La corrispondenza Tarantina<br />
era poi <strong>di</strong>rottata alla Federazione dei<br />
fasci <strong>di</strong> Taranto perché le richieste<br />
fossero prese in considerazione.<br />
Così avveniva per tutte le realtà locali,<br />
ciascuna delle quali aveva le sue<br />
lettere in<strong>di</strong>rizzate al Duce. La Segreteria<br />
particolare <strong>di</strong> Mussolini<br />
non poteva reggere il peso della lettura<br />
delle missive, che invadevano i<br />
tavoli <strong>di</strong> Villa Torlonia, <strong>di</strong> Palazzo<br />
Venezia, <strong>di</strong> Palazzo Chigi, della residenza<br />
<strong>di</strong> Salò. Gran parte delle<br />
lettere non arrivava neanche al<br />
Duce, ma si fermava molto prima<br />
alla lettura dei burocrati preposti al<br />
compito e, come avvenne poi, delle<br />
federazioni <strong>di</strong> appartenenza che<br />
controllava la veri<strong>di</strong>cità delle <strong>di</strong>chiarazioni<br />
e delle richieste.<br />
Scrive Sellitti nella premessa che il<br />
volume offre «una richiesta <strong>di</strong> dettagli<br />
e <strong>di</strong> particolari, storici ed umani,<br />
intrisi <strong>di</strong> affetti e <strong>di</strong> <strong>di</strong>spiaceri,<br />
315
Le schede<br />
che formano uno spaccato ine<strong>di</strong>to<br />
della città; brandelli <strong>di</strong> vita, colta attraverso<br />
lamentele, invocazioni e richieste<br />
<strong>di</strong>rette al Duce che, con paternale<br />
devozione, avrebbe dovuto<br />
accontentare tutti in<strong>di</strong>stintamente».<br />
Tante dunque le richieste, e le più<br />
<strong>di</strong>sparate, dei tarantini del<br />
Ventennio. Richieste <strong>di</strong> denaro, <strong>di</strong><br />
sussi<strong>di</strong>o per i bambini a cui la famiglia<br />
non è in grado <strong>di</strong> garantire il<br />
minimo per vivere o per tutta la famiglia<br />
in<strong>di</strong>gente; richieste <strong>di</strong> iscrizione<br />
al partito; denunce <strong>di</strong> soprusi<br />
patiti dalla locale commissione per<br />
il riconoscimento <strong>di</strong> squadrista o<br />
per il mancato inserimento negli<br />
elenchi dei benemeriti del fascismo;<br />
elencazione dei propri meriti fascisti;<br />
lo<strong>di</strong> al Duce che ha mutato i<br />
destini dell’Italia. Vi sono anche<br />
istanze <strong>di</strong> militari che chiedono aiuto<br />
per la carriera; istanze <strong>di</strong> gente<br />
ROSSELLA BOTTINI TREVES, LALLA<br />
NEGRI, Novara ebraica, Novara<br />
2005, pp. 174.<br />
A lettura ultimata <strong>di</strong>Novara<br />
ebraica viene da pensare che le<br />
autrici Rossella Bottini Treves e<br />
Lalla Negri siano veramente<br />
sod<strong>di</strong>sfatte per il lavoro compiuto.<br />
È stata indubbiamente una<br />
ricerca dura da portare a<br />
compimento, perché la bibliografia<br />
locale non offriva basi d’appoggio<br />
316<br />
comune che vorrebbe lavorare e nel<br />
mentre esalta Mussolini, più concretamente<br />
gli chiede qualcosa da<br />
fare per non patire la fame. Non<br />
mancano poi le lettere con richieste<br />
curiose e in linea con i tempi, tipico<br />
esempio <strong>di</strong> un epoca fortunatamente<br />
tramontata, ma nello stesso tempo<br />
significative per la storia.<br />
È importante che Sellitti si sia<br />
astenuto dal «filtrare» questa corrispondenza.<br />
La sua funzione è stata<br />
puramente tecnica: nessun commento,<br />
nessun facile moralismo, ma<br />
solo la presentazione <strong>di</strong> spaccati <strong>di</strong><br />
storia offerti alla libera lettura, e<br />
qualche volta, al sorriso benevolo<br />
del lettore. Il quale non mancherà<br />
<strong>di</strong> ammirare anche le belle foto ine<strong>di</strong>te<br />
che costellano le pagine del<br />
volume, un documento <strong>di</strong> primaria<br />
importanza (Massimo Roman<strong>di</strong>ni).<br />
e pertanto occorreva scavare in ogni<br />
<strong>di</strong>rezione, anche la più remota,<br />
sempre con la speranza <strong>di</strong> un colpo<br />
<strong>di</strong> fortuna consistente in un<br />
Piemonte, ma già con l’epiteto <strong>di</strong><br />
«deici<strong>di</strong>», gente da lasciar vivere, ma<br />
separata dagli altri, tanto da indurre<br />
i duchi <strong>di</strong> Savoia (sec. XV e XVI) a<br />
emanare leggi in proposito.<br />
Le autrici sono riuscite a fornire<br />
una data della loro prima comparsa<br />
in Novara: anno 1448, quando<br />
alcuni <strong>di</strong> loro lasciano memoria
come prestatori <strong>di</strong> denaro, attività<br />
che presto ebbe degli imitatori tra i<br />
cattolici, ma non a pari risultato. La<br />
narrazione entra quin<strong>di</strong> nelle<br />
vicende politiche ed economiche<br />
del territorio con la segnalazione<br />
proprio delle persone, a volte<br />
<strong>di</strong>venute personaggi perché capaci<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>staccarsi dalla massa, fino a<br />
suscitare perplessità per le<br />
concorrenze nel commercio. Sono<br />
pagine che offrono lo spaccato<br />
locale del rapporto con gli ebrei che,<br />
controllati attraverso le leggi e le<br />
opinioni dei cristiani, non subirono<br />
mai veri pogrom come in tante altre<br />
parti d’Europa. Anche l’illiberale<br />
vescovo Marc’Aurelio Balbis<br />
Bertone, che governò la <strong>di</strong>ocesi per<br />
trentadue anni, non si accanì contro<br />
<strong>di</strong> loro, ma si affidò alle leggi regie.<br />
Così <strong>di</strong> secolo in secolo si arriva<br />
all’Ottocento e al Risorgimento con<br />
un <strong>di</strong>scorso lieve, minuzioso nella<br />
ricerca dalla quale risalta<br />
l’importanza che hanno talune<br />
vecchie pubblicazioni, come la<br />
Guida <strong>di</strong> Novara <strong>di</strong> Napoleone<br />
Lenta, un tipografo che ogni anno<br />
aggiornava l’elenco delle attività<br />
economiche e sociali della città, e<br />
verso il quale ogni ricercatore è<br />
quin<strong>di</strong> sempre riconoscente.<br />
Un capitolo è de<strong>di</strong>cato al cimitero<br />
ebraico che ha rappresentato un<br />
punto <strong>di</strong> riferimento per stabilire<br />
intrecci <strong>di</strong> attività e <strong>di</strong> parentela tra<br />
gli ebrei residenti o <strong>di</strong> passaggio, al<br />
Le schede<br />
quale segue quello riguardante le<br />
leggi razziali del 1938, dove si<br />
inquadra chiaramente, pur nella sua<br />
concisione, quel periodo <strong>di</strong><br />
persecuzione menzionato ogni qual<br />
volta viene rievocata la Shoah, o il<br />
«Giorno della memoria» in ricordo<br />
dei deportati nei campi <strong>di</strong><br />
sterminio. Anche a Novara c’erano<br />
ebrei che furono sospesi dalle loro<br />
attività a seguito <strong>di</strong> tali leggi e tra<br />
loro è particolarmente ricordata<br />
l’insegnante <strong>di</strong> lettere Benvenuta<br />
Treves, che dopo la guerra si<br />
impegnò in politica. Ma il punto<br />
focale della ricerca è quello del<br />
settembre 1943, quando Novara fu<br />
occupata dai tedeschi che pretesero<br />
dal Municipio l’elenco degli ebrei che<br />
beneficiavano della «arianizzazione».<br />
Qui occorre una breve, ma<br />
necessaria esplicazione: a seguito<br />
della legge razziale italiana erano<br />
stati espulsi dal territorio nazionale<br />
tutti gli ebrei che non avevano<br />
acquistato benemerenze particolari,<br />
come ad esempio essere stato<br />
combattente durante la prima<br />
guerra mon<strong>di</strong>ale, aver partecipato<br />
alla fondazione del partito fascista,<br />
aver dato lustro alla nazione con<br />
brevetti e scoperte scientifiche, o<br />
aver contratto un matrimonio<br />
misto. Costoro, classificati come<br />
«arianizzati», avevano potuto<br />
continuare le loro attività nel luogo<br />
<strong>di</strong> residenza. Ma i tedeschi queste<br />
clausole non le vollero riconoscere<br />
317
Le schede<br />
per cui seguirono arresti e<br />
deportazioni per raggiungere quella<br />
«soluzione finale» programmata da<br />
Hitler.<br />
Le autrici su questo breve, ma<br />
tragico momento, hanno lavorato<br />
bene e la narrazione è esauriente. Mi<br />
viene spontaneo però aggiungere -<br />
una tantum - anche una mia<br />
testimonianza. Nel libro si parla dei<br />
tedeschi che il 22 settembre si<br />
presentarono alla Banca popolare <strong>di</strong><br />
Novara per confiscare i beni degli<br />
ebrei contenuti nelle cassette <strong>di</strong><br />
sicurezza, oltre al denaro sui conti<br />
correnti ed i libretti <strong>di</strong> risparmio.<br />
Io ero stato assunto in banca a<br />
gennaio, avevo appena compiuto 17<br />
anni, e quella mattina ero sceso nel<br />
caveau, con altri colleghi, per<br />
prelevare determinati registri che<br />
alla sera bisognava riportare giù per<br />
paura dei bombardamenti aerei. Era<br />
un lavoro che toccava ai più giovani<br />
e noi eseguivamo senza fiatare.<br />
Mentre stavamo avviandoci alla<br />
scala per raggiungere i rispettivi uffici,<br />
comparvero i tedeschi comandati dal<br />
tenente SS Helmut Staube, che ci fece<br />
CESARE BERMANI, Non più servi, non<br />
più signori, Ed. Elleu-Musica, Roma<br />
2005<br />
L’argomento che più <strong>di</strong> tanti altri<br />
interessa la storia contempora-<br />
318<br />
cenno <strong>di</strong> depositare ciò che<br />
portavamo allineandoci contro il<br />
muro a destra della porta blindata del<br />
caveau. Al mio fianco avevo un amico<br />
assunto da poco più <strong>di</strong> un mese: era<br />
Ugo Ronfani, che nel luglio<br />
precedente si era <strong>di</strong>plomato all’istituto<br />
magistrale e che dopo la guerra si<br />
sarebbe votato al giornalismo, alla<br />
critica teatrale ed alla stesura <strong>di</strong> libri<br />
<strong>di</strong> saggistica. Avevamo gli occhi<br />
spalancati su quanto stava<br />
succedendo, meravigliati ed increduli.<br />
Ci furono <strong>di</strong>aloghi tra il cassiere<br />
principale, un notaio e qualche altro<br />
funzionario della banca con questo<br />
tenente SS che aveva un interprete <strong>di</strong><br />
fiducia, scattante ad ogni botta e<br />
risposta.<br />
Poi ci fecero cenno che<br />
potevamo salire negli uffici con la<br />
nostra roba: loro prelevarono i beni<br />
degli ebrei custo<strong>di</strong>ti nelle cassette <strong>di</strong><br />
sicurezza e non li vedemmo più. Ma<br />
chi avrebbe osato <strong>di</strong>fendere allora<br />
gli ebrei dopo tutta quella propaganda<br />
antisemita che ci era stata<br />
propinata? Noi giovani eravamo<br />
<strong>di</strong>sorientati (Gaudenzio Barbè).<br />
nea, a partire dalla fine dell’Ottocento,<br />
è indubbiamente quello che<br />
va sotto la definizione <strong>di</strong> «questione<br />
sociale». È stata la rivoluzione<br />
industriale a provocarla quando<br />
l’uomo, sottoposto a ritmi <strong>di</strong> lavo-
o stressanti e con un salario da<br />
fame, ha realizzato la solidarietà con<br />
i suoi simili per limare il <strong>di</strong>vario tra<br />
il datore <strong>di</strong> lavoro e il lavoratore:<br />
sono nati quin<strong>di</strong> partiti e sindacati<br />
propensi allo scopo.<br />
La storia del movimento operaio<br />
e conta<strong>di</strong>no, che oggi sembra<br />
messa un poco in <strong>di</strong>sparte rispetto<br />
agli anni settanta e ottanta del secolo<br />
scorso, riserva sempre buoni<br />
spunti <strong>di</strong> ricerca per le sue origini,<br />
per i motivi della rivolta e, perché<br />
no?, anche per il suo folclore. Nei<br />
gran<strong>di</strong> aggregamenti <strong>di</strong> persone c’è<br />
sempre chi ha la dote del verso, della<br />
rima applicata ad un contenuto ben<br />
preciso. Anche il movimento operaio<br />
ha avuto i suoi cantori e il nostro<br />
storico Cesare Bermani ha voluto<br />
cimentarsi in questo campo<br />
concludendo una ricerca in proposito<br />
che va sotto il titolo: «Non più<br />
servi, non più signori». È un libretto<br />
tascabile <strong>di</strong> cento pagine dove lui<br />
narra, poiché <strong>di</strong> vera narrazione si<br />
tratta, la vicenda dell’inno «L’Internazionale»,<br />
nato in Francia e poi tradotto<br />
in tutto il mondo con più o<br />
meno fortuna, ma comunque sempre<br />
<strong>di</strong>ffuso nei movimenti <strong>di</strong> rivolta<br />
alle pretese del potere.<br />
Bermani è scrupoloso nelle ricerche<br />
e non ha esitato a scendere nelle<br />
vicende più intime, più popolari<br />
sulle origini del testo, elencando le<br />
varie stesure. D’altra parte quante<br />
altre composizioni hanno avuto tra-<br />
Le schede<br />
vagli e mo<strong>di</strong>fiche su spinte esterne<br />
o interessi specifici. Forse che, rimanendo<br />
alla Francia, la «Marsigliese»<br />
non è stata rielaborata più volte?<br />
E così altre canzoni e ballate,<br />
dense <strong>di</strong> peripezie e <strong>di</strong> interrogativi<br />
su chi è stato il vero autore o il vero<br />
musicista. È <strong>di</strong> meno <strong>di</strong> tre anni fa<br />
il riconoscimento al maestro Alfredo<br />
Mazzucchi (1878-1972), (sentenza<br />
del Tribunale dì Torino dell’ottobre<br />
2002), <strong>di</strong> essere stato<br />
coautore della musica <strong>di</strong> «O sole<br />
mio», con Eduardo Di Capua<br />
(1869-1917).<br />
La narrazione <strong>di</strong> Bermani parte<br />
senza ricami; egli espone la biografia<br />
<strong>di</strong> Eugène Edme Pottier (1816-<br />
1887), autore delle parole de «L’Internazionale»,<br />
come si parla <strong>di</strong> una<br />
persona sensibile a quelle mortificazioni<br />
cui erano sottoposti i lavoratori<br />
impegnati dalle do<strong>di</strong>ci alle<br />
quattor<strong>di</strong>ci ore al giorno. Si voleva<br />
il frazionamento delle ventiquattro<br />
ore in tre parti: otto ore <strong>di</strong> lavoro,<br />
otto ore da de<strong>di</strong>care alle faccende<br />
personali (svago o stu<strong>di</strong>o), e otto ore<br />
<strong>di</strong> riposo. Ma non sarebbe bastato<br />
mettere l’argomento in un inno per<br />
risolvere la questione. Pottier scrisse<br />
la definitiva versione de «L’Internazionale»<br />
nel 1877 dopo aver subito<br />
il carcere come sovversivo. La<br />
relazione <strong>di</strong> Bermani ci rimanda, <strong>di</strong><br />
conseguenza, alla storia sociale della<br />
vicina Francia del sec. XIX, dove<br />
la lotta contro il potere non era fa-<br />
319
Le schede<br />
cile, e viene spontaneo un confronto<br />
con quanto accadeva in Italia nel<br />
periodo cosiddetto umbertino.<br />
Più intrigante per «L’Internazionale»<br />
è stata poi la vicenda riguardante<br />
la musica. Quanto tempo è<br />
occorso a Bermani per <strong>di</strong>stricarsi<br />
con i fratelli Degeyter? Ma l’inno<br />
veniva intanto conosciuto tra tutti<br />
i proletari del mondo, boicottato dai<br />
governi e dalla chiesa soprattutto<br />
per quella frase che recitava così:<br />
«Non più supremi salvatori, né re,<br />
né Dio, né tribuni: Salvare noi lavoratori,<br />
spetta ormai solamente a<br />
noi». Era <strong>di</strong>ventato l’inno ufficiale<br />
del 1° Maggio e <strong>di</strong> tutte le assemblee<br />
socialiste d’Europa e degli Stati<br />
Uniti d’America fino agli anni<br />
trenta, dove veniva messo accanto<br />
a «The Star - Spangled Banner», bella<br />
canzone sociale con parole e musica<br />
molto allegra.<br />
La bibliografia consultata da<br />
Bermani <strong>di</strong>mostra l’impegno profuso<br />
nella ricerca svoltasi più in<br />
Francia che in Italia: bisogna dar-<br />
320<br />
gliene merito. Tuttavia ci consenta<br />
un appunto per quanto riguarda la<br />
messa all’In<strong>di</strong>ce dell’inno durante il<br />
fascismo, che manca. Qualche precisazione<br />
ci voleva. Era talmente<br />
vilipeso per cui anche dopo la sua<br />
caduta nel 1943 c’era un certo timore<br />
nel recitarlo.<br />
Racconta Altiero Spinelli che<br />
rientrando liberi da Ventotene a<br />
Gaeta (periodo badogliano) qualcuno<br />
intonò «L’Internazionale»,<br />
ma il seguito fu scarso, per cui si<br />
ripiegò su «Fratelli d’Italia» che<br />
coinvolse tutti.<br />
«L’Internazionale» dalle nuove<br />
generazioni venne conosciuto solo<br />
dopo il 25 aprile 1945, sebbene con<br />
qualche critica sulla marzialità della<br />
musica che richiamava un certo<br />
militarismo da abbandonare. Bisogna<br />
ripercorrere poi le vicende sessantottine<br />
per comprendere quali<br />
entusiasmi ha suscitato. Adesso fa<br />
parte della storia della canzone politica<br />
(Gaudenzio Barbè).
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
GAUDENZIO BARBÈ - Storico novarese, autore del volume Novara nelle vecchie<br />
carte, del 1977. Per il convegno <strong>di</strong> Belgirate del 1993 ha curato un Dizionario<br />
biografico e dei perio<strong>di</strong>ci. Di recente, nel 2002, ha dato alle stampe per le E<strong>di</strong>zioni<br />
Piero Ginocchi il libro Leone Ossola il vescovo che salvò Novara.<br />
ANDREA BECCARO - Laureato in storia nel 2004 presso l’Università degli Stu<strong>di</strong><br />
<strong>di</strong> Torino con una tesi dal titolo Guerra e strategia nel mondo postbipolare:<br />
prospettive, problemi, interpretazioni, attualmente ha in corso ricerche sulle<br />
operazioni <strong>di</strong> peacekeeping e sulle teorie della guerra <strong>di</strong> Clausewitz e Sun tzu, viste<br />
in chiave comparata.<br />
CHIARA CALABRI - Laureata in storia contemporanea a Firenze nel 2003, nella<br />
sua tesi ha affrontato l’opacità della stampa italiana <strong>di</strong> fronte al genoci<strong>di</strong>o<br />
rwandese del 1994. Nel settembre 2005 ha pubblicato un articolo dal titolo Echi<br />
da un genoci<strong>di</strong>o. Rwanda 1994, sul n. 8 della rivista del movimento Sim-Storie in<br />
Movimento, «Zapruder».<br />
LUIGI CALIGARIS - Generale <strong>di</strong> Brigata dell'esercito, è stato anche deputato al<br />
Parlamento europeo. Per un decennio ha collaborato alla RAI ed ai più<br />
importanti quoti<strong>di</strong>ani italiani con articoli <strong>di</strong> politica estera e commenti <strong>di</strong><br />
carattere militare. Fra le sue opere: Paura <strong>di</strong> vincere, Rizzoli, 1995.<br />
GIOVANNI A. CERUTTI - Membro del Comitato scientifico dell'Istituto storico<br />
P. Fornara e responsabile del settore e<strong>di</strong>toriale. Nel 2005 ha curato presso<br />
l’e<strong>di</strong>tore Interlinea la pubblicazione del <strong>di</strong>ario <strong>di</strong> Carolina Bertinotti Ma la<br />
fortuna dei poveri dura poco, che ha vinto la sessione «scaffale» del Premio della<br />
Resistenza «Città <strong>di</strong> Omegna».<br />
FILIPPO COLOMBARA - Dalla seconda metà degli anni settanta si occupa <strong>di</strong> storia<br />
e <strong>di</strong> cultura delle classi popolari collaborando con istituzioni pubbliche e private.<br />
Nell'ambito delle sue attività, svolte in massima parte all’interno <strong>di</strong> progetti <strong>di</strong><br />
storia orale dell'Istituto Ernesto de Martino e degli Istituti storici della resistenza<br />
delle province <strong>di</strong> Novara e Vercelli, ha pubblicato ricerche su comunità locali e<br />
comunità <strong>di</strong> lavoro.<br />
321
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
ANGELO DEL BOCA - Da quarant’anni si occupa <strong>di</strong> storia del colonialismo e dei<br />
problemi dell’Africa d’oggi. Fra i suoi ultimi libri: Gheddafi. Una sfida dal<br />
deserto, Laterza, 1998; Un testimone scomodo, Grossi, 2000; La <strong>di</strong>sfatta <strong>di</strong> Gasr<br />
bu Hà<strong>di</strong>, Mondadori, 2004; Italiani, brava gente?, Neri Pozza, 2005.<br />
STEFANO FABEI - Insegna Lettere all'Istituto tecnico per le attività sociali <strong>di</strong><br />
Perugia. Tra i suoi libri citiamo: Guerra e proletariato, Società E<strong>di</strong>trice<br />
Barbarossa, 1996.<br />
EDGARDO FERRARI - Ex sindaco <strong>di</strong> Domodossola, da anni cura la rivista<br />
«Almanacco storico ossolano».<br />
GIANLUCA GABRIELLI - Insegnante bolognese, da tempo si occupa <strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica<br />
della storia e conduce stu<strong>di</strong> sui temi dell’antisemitismo e del razzismo nelle<br />
colonie italiane. Al riguardo ha scritto Prime ricognizioni sui fondamenti teorici<br />
della politica fascista contro i meticci pubblicate nel volume Stu<strong>di</strong> sul razzismo<br />
italiano, uscito a cura <strong>di</strong> Alberto Burgio e Luciano Casali, Clueb, Bologna<br />
1996.<br />
MARIO GIOVANA - Per lunghi anni giornalista, è autore <strong>di</strong> numerosi saggi, fra<br />
cui Algeria anno settimo, Milano 1961; La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN<br />
Piemontese, Milano 1962; Storia <strong>di</strong> una formazione partigiana, Torino 1964;<br />
Guerriglia e mondo conta<strong>di</strong>no (Bologna 1988). Collabora a riviste italiane e<br />
straniere <strong>di</strong> storia contemporanea.<br />
NICOLA LABANCA - Docente <strong>di</strong> storia contemporanea all’Università <strong>di</strong> Siena,<br />
si occupa <strong>di</strong> storia del colonialismo italiano. Tra i suoi stu<strong>di</strong> più recenti è Posti<br />
al sole. Diari e memorie <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> lavoro dall’Africa Italiana, Rovereto 2001.<br />
Insieme a Angelo <strong>Del</strong> <strong>Boca</strong>, per gli E<strong>di</strong>tori Riuniti, ha curato L’Impero africano<br />
del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma 2002.<br />
FEDERICA GUAZZINI - È dottore <strong>di</strong> ricerca in Storia dell’Africa alla facoltà <strong>di</strong><br />
Scienze politiche dell’Università <strong>di</strong> Siena. Ha scritto : Le ragioni <strong>di</strong> un confine<br />
coloniale. Eritrea, 1898-1908, L’Harmattan Italia, 1999.<br />
DOMENICO LETTERIO - Dottorando <strong>di</strong> ricerca in Storia del pensiero politico<br />
presso il Dipartimento <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> politici dell’Università <strong>di</strong> Torino, si occupa degli<br />
scritti coloniali <strong>di</strong> Alexis de Tocqueville.<br />
322
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
ARAM MATTIOLI - Or<strong>di</strong>nario all’Università <strong>di</strong> Lucerna, si è occupato <strong>di</strong> temi<br />
inerenti la costruzione <strong>di</strong> un’identità nazionale in Svizzera. In proposito<br />
insieme a Guy P. Marchal ha scritto Erfundene Schweiz. Konstruktionen<br />
nationaler Identität, Zürich 1992. Tra i principali suoi interessi <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o sono<br />
anche le ideologie totalitarie, l’antisemitismo e il colonialismo.<br />
SABRINA MICHELOTTI - Laureata in lettere presso l’Università degli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
Parma, insegnante, collabora con il <strong>Centro</strong> stu<strong>di</strong> per la stagione dei movimenti<br />
<strong>di</strong> Parma occupandosi in particolare <strong>di</strong> femminismo e teorie politiche.<br />
GIORGIO NOVELLO - Diplomatico <strong>di</strong> carriera, è attualmente ministro consigliere<br />
della Rappresentanza permanente d’Italia presso l’OSCE a Vienna dopo<br />
aver prestato servizio a Lagos, Londra, Berlino e al ministero degli Esteri tedesco<br />
a Bonn. «Ancien élève» dell’ENA <strong>di</strong> Parigi e M.Phil. della London School of<br />
Economics, è docente <strong>di</strong> metodologia delle relazioni internazionali all’Università<br />
<strong>di</strong> Trieste-Gorizia. È rappresentante della Universala Esperanto Asocio<br />
presso le Nazioni Unite a Vienna.<br />
MASSIMO ROMANDINI - Dirigente scolastico, dal 1969 al 1975 ha insegnato<br />
in Etiopia alle <strong>di</strong>pendenze del ministero degli Esteri. Si occupa <strong>di</strong> storia del<br />
colonialismo italiano in Africa Orientale.<br />
MATTEO VECCHIA <strong>–</strong> Laureato in Scienze internazionali e <strong>di</strong>plomatiche presso<br />
l’Università <strong>di</strong> Trieste, è oggi dottorando <strong>di</strong> ricerca in Storia contemporanea<br />
presso l’Istituto italiano <strong>di</strong> scienze umane (Firenze-Napoli). Sta conducendo<br />
stu<strong>di</strong> sul terrorismo arabo e islamico, e scrive articoli <strong>di</strong> politica internazionale<br />
su quoti<strong>di</strong>ani e riviste italiane.<br />
errata corrige<br />
Nell'e<strong>di</strong>toriale del primo numero della rivista, nel presentare il saggio <strong>di</strong> Gian Mario Bravo,<br />
Antonio Labriola e la questione coloniale, abbiamo erroneamente accostato la figura <strong>di</strong> Antonio<br />
Labriola a quella minore <strong>di</strong> Arturo Labriola. Ci scusiamo con l'autore del saggio e con i lettori.<br />
323
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
324
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
<br />
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325
notizie sugli autori <strong>di</strong> questo numero<br />
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ASSOCIAZIONE RICONOSCIUTA<br />
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EDITORIA<br />
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ENTE GIURIDICO PRIVATO RICONOSCIUTO DALLA REGIONE PIEMONTE<br />
Collana: La Memoria<br />
CENTRO STUDI PIERO GINOCCHI<br />
L’emigrazione, fenomeno comune nel<br />
territorio delle Alpi, investe Antigorio<br />
soprattutto dal XVI secolo in avanti. A<br />
Roma ed a Bologna si formano confraternite<br />
ed associazioni laicali, puntigliosamente<br />
precluse agli estranei, le<br />
quali, oltre a garantire i compagni psicologicamente<br />
e materialmente, hanno<br />
pure lo scopo <strong>di</strong> aiutare i conterranei<br />
rimasti in patria.<br />
Euro 25,00<br />
Per secoli gli abitanti della Valle Antigorio<br />
hanno scavato le loro montagne e<br />
setacciato le sabbie dei loro corsi<br />
d’acqua alla ricerca dell’oro. Ma in realtà<br />
la vera ricchezza della Valle si è rivelata<br />
essere l’acqua delle sorgenti<br />
termali.<br />
30,00 Euro.<br />
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