Archeologia del museo - Istituto per i Beni Artistici, Culturali e ...

ER MUSEI E TERRITORIO
Materiali
e ricerche
ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI
CULTURALI E NATURALI
DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA
Archeologia del museo
I caratteri originali del museo
e la sua documentazione storica fra
conservazione e comunicazione
a cura di
Fiamma Lenzi e Andrea Zifferero

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ER MUSEI E TERRITORIO
Materiali
e ricerche
ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI
CULTURALI E NATURALI
DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

In copertina
Torino, Museo universitario di Zoologia
Allestimento di un salone, intorno al 1950
(Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo
dell’Università di Torino).
Impaginazione
Liliana Parma
© 2004 Materiali e Ricerche
Istituto per i beni artistici culturali e naturali
della Regione Emilia-Romagna
Via Galliera 21 - 40121 Bologna
www.ibc.regione.emilia-romagna.it
© 2004 Editrice Compositori
via Stalingrado 97/2 - 40128 Bologna
tel. 051 3540111 - fax 051 327877
e-mail: 1865@compositori.it
http://www.compositori.it
ISBN 88-7794-413-7

ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI
DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA
Archeologia del museo
I caratteri originali del museo
e la sua documentazione storica fra
conservazione e comunicazione
a cura di
Fiamma Lenzi e Andrea Zifferero

Archeologia del museo
I caratteri originali del museo e la sua documentazione
storica fra conservazione e comunicazione
Atti del Convegno Internazionale di studi
Ferrara, 5-6 aprile 2002
Promosso e realizzato dall’Istituto per i Beni Artistici Culturali
e Naturali della Regione Emilia-Romagna
Con il patrocinio di
International Council of Museums - Italia
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Associazione Nazionale Musei Scientifici
Associazione Nazionale Musei Italiani
Associazione Nazionale Musei Locali e Istituzionali
Comitato Scientifico
Laura Carlini - Michele Lanzinger - Fiamma Lenzi -
Cristiana Morigi Govi - Giovanni Pinna - Giuseppe Sassatelli -
Anna Maria Visser Travagli - Andrea Zifferero
Coordinamento scientifico ed editoriale: Fiamma Lenzi
Coordinamento redazionale: Isabella Giacometti

Indice
IX Presentazione
Laura Carlini
X Introduzione
Fiamma Lenzi
Museografie allo specchio
3 Il museo verso l’ignoto
Giovanni Pinna
11 The importance of being wise or could “Museum archaeology” help us be better professionals
Tomislav Sˇola
17 Tendencias de museografía en España: el proyecto del “Museo de la naturaleza y el hombre”
en Santa Cruz de Tenerife
Enric Franch
39 La conservazione delle dimore storiche
Rosanna Pavoni
44 Quali restauratori per le case-museo?
Annalisa Zanni
50 Il museo civico: attualità di un modello superato
Anna Maria Visser Travagli
59 Allestimenti museografici e identità storica dei musei
Andrea Zifferero
80 in appendice: Proposta per una scheda di censimento degli allestimenti storici
Cristina Cecconi
82 Il museo scientifico in Italia tra orizzontalità locale e globalità verticale
Michele Lanzinger
89 L’antiquaria e l’antropologia. I pensieri del museografo e gli allestimenti
del museo tra cambiamento e conservazione
Pietro Clemente
96 Per una storia della comunicazione primaria nei musei italiani
Maria Antonella Fusco
102 Il progetto “Museologia on line” del Comitato italiano
dell’International Council of Museums (ICOM)
Elena Corradini, Anna Benassi
125 Dallo scavo al museo e ritorno
Mirella Marini Calvani

VI Il passato del museo
Esperienze e progetti sul filo della memoria
133 Trasformazioni novecentesche di Castelvecchio. Dal museo di ambientazione
al dopo Scarpa
Paola Marini
138 La Pietà Rondanini come paradigma della museografia contemporanea:
da BBPR ad Alvaro Siza
Sonja Moceri
150 Museo e forme di gestione. L’Accademia Carrara di Bergamo
Francesco Rossi
162 Il Museo Querini Stampalia da collezione visitabile a macchina della memoria:
l’allestimento ripensato nella nuova organizzazione dei servizi
Babet Trevisan
181 Identità del museo, riorganizzazione museografica, comunicazione:
il Museo dei Ragazzi in Palazzo Vecchio
Chiara Silla
186 Il Palazzo dei Musei di Varallo Sesia: tradizione in rapporto
con il territorio
Simone Baiocco
199 “Discentium commodo advenarum spectaculo”: i Musei Civici di Reggio Emilia
“per l’utile di chi studia e il diletto di chi entra”
Silvia Chicchi, Elisabetta Farioli, Roberto Macellari, Attilio Marchesini
218 Dal Palazzo della Missione al San Domenico. La vicenda storica dei Musei Civici di Forlì
in vista dei nuovi progetti
Luciana Prati
235 Tra innovazione e tradizione. L’uso culturale di un museo d’interesse locale:
il caso della Pinacoteca di Ripatransone
Tiziana Maffei, Antonella Nonnis
241 Verso il nuovo Museo Regionale di Messina: una storia lunga quasi un secolo
Gioacchino Barbera
257 Il Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro (VE).
Un pregevole esempio di “museo-monumento” tardo-ottocentesco
Emanuele Masiello
271 Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte dell’Università di Padova.
Alla riscoperta di Gio Ponti
Alessandra Menegazzi (a cura di)
279 Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze tra passato, presente e futuro
Anna Rastrelli
296 Dal segno alla memoria
Valeria Cicala
309 Nemi (RM) - Il Museo delle Navi Romane
Giuseppina Ghini, Enrico del Fiacco
320 Sperlonga. Un museo per l’“Odissea di marmo”
Nicoletta Cassieri
332 Il Museo oraziano di Licenza: una testimonianza museale dei primi del ’900
“sospesa” tra passato e futuro
Bruna Amendolea

343 “Rimembranze di infinite cose”. L’esposizione delle monete
al Museo Archeologico Nazionale di Napoli tra passato e presente
Renata Cantilena
353 Il Museo di Scienze Naturali di Torino: tradizione e rinnovamento
Pietro Passerin d’Entrèves
364 La storia della geologia in Liguria attraverso i documenti e le collezioni
dell’Università di Genova
Maria Cristina Bonci, Marco Firpo, Cristiano Queirolo, Giammarino Stani
378 I musei universitari e il loro passato: il caso delle collezioni mineralogiche
dell’Università di Genova
Maria Cristina Bonci, Marco Firpo, Gabriella Lucchetti, Pietro Marescotti, Cristiano Queirolo
386 Verso un Museo delle Scienze dell’Università degli Studi di Ferrara
Carmen Loriga, Carlo Peretto
399 Le radici storiche di un museo: ispirazione e forza per il futuro
Elisabetta Cioppi, Marta Poggesi
406 Recupero e conservazione della memoria: l’esperienza del Museo
di Storia Naturale di Ferrara
Fausto Pesarini
410 La collezione di tavole didattiche del Museo di Storia Naturale e del Territorio -
Università di Pisa
Silvia Battaglini, Rossella Gensini
413 Paesaggi della cultura materiale: progetti ed esperienze museali in Piemonte
Alessandro Massarente
427 “Con Verdi in Casa Barezzi”. Appunti per un percorso tematico a Busseto
Alberto Bordi, Sauro Rossi, Marco Zarotti
438 Casa Cervi di Gattatico. Da casa contadina a moderno museo di Storia della Resistenza
nelle campagne e dei movimenti contadini
Paola Varesi
449 Il Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto” tra passato, presente e futuro
Maurizio Biordi, Laura Laurencich Minelli
462 Dalla “Società Archeologica” a museo territoriale: evoluzione dei luoghi
e dei modi della cultura al Museo Archeologico “A. Crespellani” di Bazzano (BO)
Rita Burgio, Sara Campagnari
470 Il passato del territorio, il futuro del museo. Il Museo “Luigi Donini”
di San Lazzaro di Savena alla sua terza età
Gabriele Nenzioni
485 Il Museo Archeologico “L. Fantini” di Monterenzio: un museo dalla doppia identità
Federica Guidi, Caterina Taglioni, Stefania Vellani
493 In cammino verso il Museo Archeologico: esperienze e attività a Rimini dal 1980
Pier Luigi Foschi
501 I musei archeologici del Sistema Museale Senese
Gianni Resti
504 La Carta dei Musei della Provincia di Roma
Bruna Amendolea, Laura Indrio
508 Dal sito al museo. Percorsi fisico-mentali di museologia archeologica.
Il caso particolare dell’arte rupestre
Dario Seglie
VII

VIII 521 Musealizzare l’ambiente storico: un GIS della conoscenza
Alberto Monti
535 Percorsi attivi e percorsi passivi, percezione attiva e percezione passiva:
soluzioni museologiche alternative tra esposizione tradizionale ed esperimenti
di archeologia sperimentale. Alcune esperienze
Carla Corti
547 La Meridiana nel tempo
Cinzia Cavallari
555 Un “archeo-suono” per i musei. «Synaulia»: l’incanto di antichi suoni per antichi oggetti
Mario Giannitrapani

Premessa
Sfogliare Archeologia del museo potrebbe assomigliare ad un’esplorazione della Galleria dell’Evoluzione,
in cui rintracciare i mutamenti occorsi alla specie museo.
In effetti, scorrere i testi e le immagini di questo libro è compiere un excursus all’interno
della museografia/logia otto-novecentesca, non limitata alla semplice presentazione dei progetti
di allestimento nel momento della loro prima realizzazione, ma mirata piuttosto a testimoniarne
la dinamica, che evidenzia il farsi del museo, il ripensare continuo dei criteri espositivi
e conservativi, in ottemperanza alle esigenze di conoscenza e di comunicazione che pubblici
sempre più esigenti richiedono, in accordo con il progresso delle conoscenze in materia
di conservazione e di sicurezza e alle sollecitazioni imposte dalle nuove tecnologie.
Il volume di atti è il frutto del convegno Archeologia del museo, organizzato dall’Istituto
per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, in occasione dell’edizione 2002 del Salone
del Restauro di Ferrara. Sono stati raccolti più di cinquanta contributi, di cui una decina
a carattere teorico e d’inquadramento generale sull’evoluzione e le prospettive della
museografia contemporanea in ambito europeo e nazionale, e quaranta interventi d’illustrazione
di casi di studio puntuali.
I testi e le immagini pubblicate ci rimandano una molteplicità di esempi, sia settoriali:
musei d’archeologia, di storia, d’arte, di scienze, ecc., sia di diversa entità dimensionale, sia
di varia collocazione geografica e differente titolarità. Ne risulta una mappatura ricca e composita
per un atlante della museografia italiana in grado di rinviarne un’immagine il più possibile
variegata e significativa.
Soprattutto, il volume fa emergere con evidenza il tema della tutela degli allestimenti
storici nel momento in cui si rende necessario un aggiornamento delle esposizioni. Si tratta,
sovente, di splendide testimonianze della concezione ostensiva ottocentesca e novecentesca
che, a giusto titolo, meritano di essere preservate quale parte integrante del museo, di
cui evidenziano la filosofia costitutiva e l’identità peculiare.
L’Istituto desidera esprimere viva riconoscenza a tutti i relatori per i loro pregevoli saggi,
che concorrono a donarci un quadro vivo, esauriente e anche minuzioso dell’evoluzione
verificatasi nel mondo dei musei dall’origine ai giorni nostri, e ringraziare i curatori, che con
competenza e passione hanno organizzato in modo organico la ricca messe d’informazioni
e di sapere che la generosità di tutti gli studiosi partecipanti al convegno ha apportato.
Confidiamo che il volume possa contribuire a documentare lo sviluppo degli studi sui
musei e anche a mantenere alto l’interesse sui progressi e i problemi posti dalla conservazione
degli allestimenti storici.
Laura Carlini
Responsabile del Servizio Musei e Beni Culturali

Introduzione
Processi sempre più rapidi di trasformazione e di attualizzazione del museo e dei suoi servizi
culturali, difficilmente controllabili negli effetti a lungo termine, stanno ormai troppo spesso
attenuando l’attenzione sul fatto che in molti casi si tratta di organismi viventi dalla storia
davvero lunga, talora secolare, e molto sedimentata. In quanto tali, essi costituiscono un vero
e proprio palinsesto di linguaggi museografici di rimarchevole valore documentario.
A questi fenomeni non sembrano sfuggire neppure i musei nati o rifondati negli ultimi
40-50 anni. Sino a ieri considerati espressione di moderne concezioni museografiche, essi
rischiano forse più di altre realtà, maggiormente consolidate in termini storici, di cadere sotto
i colpi del rinnovamento e della sostituzione, senza lasciare alcuna traccia di sé e di ciò
che hanno rappresentato nel loro tempo e per il loro pubblico.
Grava sui musei una sorta di eterna, quasi congenita, contraddizione. Il moltiplicarsi degli
sforzi verso orizzonti sempre più “sociali” non pare riuscire a sgretolare definitivamente
il diffuso luogo comune dei musei come ricettacoli di polverose dismissioni di una realtà in
continuo divenire. La sopravvivenza di questa radicata convinzione e il passaggio – con ritmi
a dir poco incalzanti – dall’era industriale alla società dell’informazione pretendono dunque
che si ponga al primo posto del loro ragionare e del loro operare l’aziendalistico modello
della “qualità totale”, ovvero il soddisfacimento tout court del “cliente”.
All’altro capo sta la non meno profonda certezza, coltivata individualmente da ciascuno
di noi, ma al tempo stesso parte viva dell’intero corpo sociale, dei musei come luoghi per
eccellenza della memoria e della identità. Per dirla con Andrea Emiliani, all’interno della
«prima triade del pensiero illuminista (la bilioteca, l’archivio, il museo)… [questi ultimi sono
ancora] …stabilmente tra noi, a garantire più forte d’ogni altra tensione, la volontà di essere della
comunità, il significato e l’indirizzo stesso del suo cammino». Non può certo trascurarsi il
fatto che negli ultimi decenni le politiche museali sono entrate stabilmente a far parte delle
politiche del governo locale e che sempre più la progettazione museale si occupa e si
preoccupa di far sì che le aree, sottoposte senza tregua a processi incalzanti di urbanizzazione
e di sviluppo, mantengano i caratteri originari e conservino la propria memoria, per contrastare
i fenomeni inarrestabili di omologazione, di abbandono, di scadimento qualitativo.
Per molte realtà territoriali i processi di modernizzazione hanno significato una cancellazione,
talora progressiva, ma in qualche caso addirittura istantanea e brutale, della propria
memoria. Per contrasto, la perdita dell’identità territoriale, divenuta sempre più labile e incerta
sotto i colpi delle grandi trasformazioni economiche, ha raggiunto uno dei picchi forse
più alti proprio nel momento in cui l’innalzamento delle condizioni generali di vita, la
diffusione delle infrastrutture e l’espandersi delle attività industriali e artigianali si offrivano
come gli elementi d’elezione del costituirsi di nuove comunità locali – più ampie e composite
– che di un’identità comune e di valori riconosciuti e riconoscibili avrebbero appunto
avuto bisogno per riannodare il filo della memoria.

Se è vero, dunque, che di una società – o, perlomeno, di una considerevole parte di essa
– i musei disegnano l’immagine e l’identità per ogni tempo, interpretando e comunicando
ciò che fummo ieri e siamo oggi, ma anche ciò che vogliamo essere domani, ben difficilmente
si potrà separare il “passato conservato”, dal “passato rappresentato”, così come l’unicità
di un individuo dipende, insieme, dai suoi geni e dalla personalità che il background
gli ha conferito. L’intreccio di contenuto / contenitore / forma è – che lo si voglia o no –
intrinseco al progetto stesso del museo e, quindi, alla sua essenza più vera, quella da cui ha
tratto spirito e forza vitale. Questa essenza non può mai dirsi del tutto scomparsa; si è forse
talora smarrita o il tempo l’ha offuscata e allontanata da noi, tuttavia continua a suggellarne
il carattere. Ammodernato o aggiornato che sia, sulla linea d’orizzonte del museo rimangono,
ineludibili, a contrassegnarlo per sempre l’identità originaria e la vocazione con
la quale ha visto la luce. Che siano poi l’esclusività e le personalizzazioni del collezionismo
piuttosto che il complotto del positivismo e dell’estetica crociana per farne il luogo della vera
conoscenza e della vera scienza, lo sforzo enciclopedico di racchiudervi un intero universo
disciplinare oppure la celebrazione del contributo dato all’Unità nazionale, l’autoaffermazione
della società che lo esprime, o l’incarnazione della politica di una classe dirigente
oppure ancora, viceversa, l’espressione di culture subalterne – se è concesso dirlo – poco importa.
Nel senso che, allontanato ogni possibile, astorico e aprioristico atteggiamento conservativo,
occorrerà comunque ammettere che con questo “vissuto” si deve necessariamente
fare i conti, per quanto radicale si presenti il rinnovamento o arduo l’obiettivo di avvicinare
e far comprendere al pubblico allestimenti ormai storicizzati.
Il tema del rapporto fra passato, presente e futuro delle istituzioni museali, così complesso
e ricco di implicazioni, è stato posto al centro di una serie di intense considerazioni
sull’oggetto “museo”, ripensato nella sua cifra stilistica e architettonica, negli aspetti espositivi
e nei criteri di allestimento adottati, nella cospicua mole di materiali documentari e didattici
prodotti nel tempo – testimonianze preziose dell’avvicendarsi delle “forme” e degli
“usi” culturali, sociali e perfino economici di questi organismi e del loro patrimonio.
Il confronto dialettico fra le varie e talora contrastanti linee di tendenza della museografia,
italiana e non, stimola, nella prima parte del volume, la riflessione sulla “archeologia del
museo”, intesa come elemento di valorizzazione e di coniugazione fra passato e futuro. Museologi
e conservatori si interrogano su quali vie stanno imboccando i musei e verso quali
obiettivi tendono nell’ambito delle nuove politiche culturali, ma anche quali saranno le
prassi operative e le strategie del museo contemporaneo/futuro, visto con gli occhi delle diverse
museologie.
Con l’idea che – al pari dell’uomo del Petrarca – il museo per oggi e per domani dovrebbe
essere un soggetto «simul ante retroque prospiciens», dovrebbe cioè guardare avanti,
non trascurando di volgersi contemporaneamente all’indietro, ci si è inoltre proposti di verificare
se e come sia possibile preservare, recuperare e comunicare al pubblico il “vissuto”
del museo, senza venir meno alle istanze di attualizzazione, così da trasformare il passato in
una opportunità ulteriore di conoscenza, capace di costituire una vera e propria risorsa aggiuntiva
rispetto alle potenzialità già in sé racchiuse nei beni musealizzati.
Una vasta rassegna di exempla ricostruisce, nella seconda parte del volume, la ricchezza
e la varietà delle fisionomie che i musei hanno via via assunto col tempo e sottolinea l’importanza
della loro identità culturale nel cuore stesso della società: prestigiosi musei muni-
XI

XII cipali e realtà di provincia, “minori” solo in termini puramente geografici, avanguardistiche
istituzioni dalla storia più che secolare e nuove fondazioni, che nel territorio hanno rintracciato
il proprio “passato”, grandi musei universitari di marca positivista – meravigliosi e al
tempo stesso difficilissimi –, musei che narrano la storia di “appena” ieri, dimore di artisti e
connoisseur, luoghi del potere, manierismi collezionistici alla Guatelli, ecomusei.
Il dipanarsi della narrazione si accompagna ad una straordinaria galleria iconografica
che, come un grande “Repertorio delle forme”, rivisita – veridico e immediatamente percepibile
– il cammmino museografico compiuto. Abituati come siamo a leggere i musei soprattutto
attraverso le raffigurazioni dei loro capolavori o di segmenti omogenei del patrimonio,
è davvero un’occasione rara, anche per gli operatori del settore, cogliere in un fluire
quasi filmico, e nella fisica tangibilità del “com’era e dov’era” restituita dalle immagini, la
molteplicità dei manifestarsi del museo, ove si sono mescolati insieme le raffinate lezioni
scarpiane e gli affastellati accrochage settecenteschi, il rigore razionalista e le calde atmosfere
d’antan di luoghi che furono “case di uomini” prima ancora di essere “case di memoria collettiva”,
gli innumerevoli tentativi, talvolta falliti o rimasti ingiustamente nell’ombra, di restituire
significato e dignità a linguaggi museografici ormai incapaci di parlare ad un pubblico,
nel frattempo divenuto diverso.
Con mutar d’accenti e di sfumature, la carrellata di esperienze raccolte ribadisce quanto
sia viva nei musei la consapevolezza che, nella storia degli uomini e delle idee che stanno sul
medesimo sfondo, negli accadimenti del territorio di riferimento, nelle proprie stagioni museografiche
e nei caratteri storici derivanti, nelle iniziative di salvaguardia e di recupero della
notevole documentazione storica, realizzata durante le abituali attività educative e di ricerca,
sia possibile trovare incentivi allo sviluppo innovativo e al rafforzamento dei programmi
e dei servizi destinati al pubblico.
La molteplicità di esperienze mostra, infine, come non esista e non debba esistere un’unica
soluzione, da proporre come “ricetta” rischiosamente omologante, ma un’infinità di
tragitti e di vie, in grado di esplorare tutti i livelli e tutte le opzioni, affinché il passato possa
“trasfondersi” nel futuro, in una nuova visione del museo che ne garantisca la ridefinizione
e la riprogettazione in piena sintonia con la stagione odierna e con quella che verrà.
E mentre è un piacere ringraziare i molti Colleghi, che con il loro pensiero e con i loro
scritti hanno letteralmente “costruito” questa impresa, profondendovi spesso sentimenti nutriti
ben oltre le scelte di campo professionali, vogliamo fare anche nostra la frase – ricordata
da uno degli autori del volume – che Tomasi di Lampedusa pone in bocca al principe
di Salina.
«Affinché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Fiamma Lenzi

Museografie allo specchio

Il museo verso l’ignoto
Giovanni Pinna
Presidente Comitato Nazionale italiano dell’ICOM
RIASSUNTO
L’intervento cerca di analizzare quali siano gli indirizzi per il futuro dei musei, quali obiettivi si prefiggano
e quali elementi siano causa delle violente trasformazioni subite da questi organismi negli ultimi anni.
Gli avvenimenti che hanno coinvolto prestigiose istituzioni europee come il Museo del Prado, il Musée
de l’Homme, i musei austriaci e olandesi, sembrano indicare che le politiche culturali della maggior
parte dei paesi industrializzati tendono oggi a enfatizzare una supposta redditività economica dei musei.
Da ciò derivano la volontà di delegare a soggetti privati la gestione del patrimonio culturale pubblico, la
tendenza ad affidare i musei ad una gestione manageriale, mettendo in secondo piano le finalità culturali
rispetto ad obiettivi di mercato, e la propensione ad incanalare la maggior parte delle risorse nella spettacolarizzazione,
a scapito dei compiti fondamentali dei musei. Che sono – è necessario ricordarlo, la creazione
del patrimonio culturale e dei suoi significati e la comunicazione al pubblico di tali significati.
Questo orientamento al marketing che ha originato i “musei-monumento”, assolutamente disinteressati
al contenuto (divenuto un elemento che è del tutto subordinato al contenitore e minimizza la capacità
del museo di essere luogo di identificazione delle comunità) si arresterà solo quando le teorie dell’economia
della cultura sceglieranno una linea di maggiore ragionevolezza, che consiste nell’accettare che il
prodotto del museo è la cultura individuale e collettiva, unica cosa al mondo che non sia acquistabile.
SUMMARY
The paper attempts to analyse the future trends and objectives for museums and to identify the possible reasons
underlying the deep changes museums have gone through over the last few years.
The choices made by prestigious European institutions – such as Museo del Prado, Musée de l’Homme, Austrian
and Dutch museums – show that profit-making, marketing-oriented cultural policies are today adopted
by museums in most industrialised countries. Hence, the decision to appoint private bodies for the management
of the public cultural heritage. A corporate management philosophy, market-oriented policies, a show-business
approach seem to prevail to the detriment of the cultural objectives and of the main tasks that should be accomplished
by museums – i.e. the enhancement of the cultural heritage as such and of its significance and role
in getting this message through to the public.
This marketing-oriented approach has led to the development of the so-called “monument-museums”, which
have no interest at all in contents (which have become subordinate to the container, thus belittling the museum’s
function to serve as the identification place for its community). This attitude will change only when the
cultural economics theories become more aware, namely when they recognise that the museum product is the individual
and collective culture, which is the only asset in the world that cannot be bought.
Quale via stanno imboccando i musei? Verso quali obiettivi si stanno muovendo, e quali sono
i motori responsabili di queste violente modificazioni?
Se vogliamo schematizzare, possiamo ricordare che nel corso degli anni Ottanta e Novanta
erano identificabili tre principali strategie politiche nei confronti dei patrimoni culturali
nazionali, della loro gestione e della loro conservazione.

4 Nel Regno Unito la Thatcher aveva impostato una politica basata sulla redditività diretta
dei servizi pubblici e quindi anche delle istituzioni culturali, e questa politica aveva innescato
la rincorsa verso fonti alternative di finanziamento, verso lo sviluppo del marketing
museale e verso una politica museale di grandi eventi di richiamo. Molti musei furono abbandonati
in balia del mercato, e ciascuno di essi fu obbligato a porsi alla disperata ricerca
di una redditività diretta e immediata. Il che portò da un lato alla ricerca dell’evento shock,
dall’altro alla disneyzzazione di alcune strutture museali, quali il vecchio e glorioso museo
di storia naturale di Londra che negli anni ha sacrificato alle necessità di bilancio ampi tratti
delle esposizioni, realizzando vaste superfici di vendita di gadget e che ha sostituito numerosi
ricercatori con specialisti nella comunicazione visiva.
Per contro in Francia si perseguiva una politica di crescita dell’autorevolezza culturale
della Nazione attraverso gli investimenti dei Grands Travaux, una politica che per quanto riguarda
i musei si è risolta in una successione di realizzazioni dello Stato (Beaubourg, Cité
des Sciences et de l’Industrie, Musée d’Orsay, Grand Louvre, Grand Galerie de l’Evolution,
Musée des arts e métiers, Musée Guimet, il costruendo museo des Arts Premières al quai
Branly), ma anche in una valorizzazione della provincia (Musei di Nantes, di Caen, di Metz,
di Marsiglia, di Digione e di Corte, l’ipotizzato spostamento a Marsiglia del Musée des arts
et traditions populaires). Operazioni non sempre indolori, e non immuni da polemiche, come
è stata l’installazione di un settore di arte extraeuropea al Louvre, voluto dal Presidente
Jaques Chirac, e l’istituzione del Musée des Arts Premières al quai de Branly. In quegli anni
anche la Francia non è stata immune dall’idea che potesse impostarsi attorno al patrimonio
e ai musei una economia della cultura. Fu così creata la Réunion des Musées Nationaux,
un’organizzazione commerciale e di produzione che avrebbe dovuto, con i suoi introiti,
dare impulso all’acquisto di opere d’arte per i musei.
Negli Stati Uniti la vita dei musei proseguiva il suo iter caratteristico, basato sull’azione
di fondazioni private no profit e sulla legislazione federale che permettevano l’incremento
dell’attività dei musei senza ricorrere a una commercializzazione particolare della gestione
del patrimonio. Una novità che caratterizzò il paese d’oltre Atlantico fu l’inizio della politica
espansionista della fondazione Guggenheim, che doveva portare, in pochi anni, alla moltiplicazione
delle sue strutture museali e contribuire allo sviluppo della concezione della
centralità dell’architettura nella realizzazione dei musei.
Parallelamente a queste politiche culturali, già a partire dagli anni Ottanta si sviluppò in
diversi paesi la tendenza alla costruzione di grandi musei monumentali, non intesi come introduzione
aulica ai contenuti secondo lo stile architettonico museale classico – stile British
Museum per intenderci – ma come contenitori indipendenti dai contenuti, la cui importanza
doveva risiedere sulla capacità attrattiva della forma esteriore. L’architettura prese
così la supremazia sul museo, la forma divenne più importante del contenuto, i musei si dovettero
piegare alle nuove tendenze urbanistiche, alla teoria architettonica in auge o alle autoriflessioni
dei singoli architetti. Tutto ciò è stato evidente soprattutto in Germania, con la
costruzione di musei che, fin dagli anni Ottanta, hanno dimostrato un’attenzione maggiore
all’edificio museo che ai suoi contenuti, con il risultato di contribuire alla creazione del
museo prototipo di fine secolo, il museo-monumento che Horst Bredekamp ha definito
museo di se stesso 1, e le cui maggiori espressioni – ai due opposti di una catena ipotetica rappresentati
dal monumentalismo commerciale e dal simbolismo puro – sono il museo Gug-

genheim di Bilbao e lo Jüdisches Museum di Berlino. Questi musei dell’anno Duemila si
caratterizzano per la quasi totale minimizzazione del significato socio-culturale delle esposizioni
e del patrimonio che custodiscono, in rapporto al significato simbolico assunto dall’edificio
museo. Anche se ciò avviene in forme e con motivazioni diverse. Così, il museo
ebraico di Berlino è un edificio commemorativo, la cui architettura fortemente simbolica
respinge l’immissione al suo interno di esposizioni museali, come ben sanno i conservatori
del museo che si sono trovati di fronte a uno dei più interessanti problemi di allestimento
museologico di questi ultimi anni. Per contro il museo di Bilbao è un contenitore che accoglie
a rotazione le opere della Fondazione Guggenheim, una sorta di circo equestre che
espone opere estratte dai loro contesti originari, con lo scopo principale, come ha suggerito
Enric Franch 2 di una continua crescita del loro valore di mercato. I volumi incrociati ricoperti
di lastre al titanio a cavallo dello scalo merci di Bilbao sono il prototipo del museo inteso
come strumento economico e di potere, un monumento in grado di far crescere il valore
delle proprie collezioni, di attirare in una città – indipendentemente dai propri contenuti
– migliaia di visitatori, e di orientare il pubblico verso un’identità globale.
Con l’affermarsi del museo-monumento, finalizzato al consumo o al consenso, è nato il
museo mediatico, la cui finalità sovrana è quella di promuovere chi lo costruisce, sia essa
un’amministrazione cittadina, un uomo politico o un’industria. Esso nasce da un’inversione
dei valori che da sempre avevano sovrinteso alla nascita e all’attività dei musei. Mentre
un tempo queste istituzioni venivano fondate attorno ad una collezione, attorno alla quale
si costruiva poi un edificio destinato a conservare gli oggetti e a esporne i significati, il moderno
museo mediatico prende l’avvio dalla costruzione di un edificio, indipendentemente
da quali oggetti vi verranno conservati, da quale idea il museo dovrà esprimere e diffondere
e da quale pubblico verrà a visitarlo. Sono molti i musei nati recentemente in questo modo:
musei che non hanno collezioni, che sono semplici spazi per mostre temporanee, e che
possiedono solo risibili collezioni permanenti. A parte i già citati esempi dei musei di Bilbao
e di Berlino, in questo modo è nato il Museu d’Art Contemporani di Barcellona, frutto
di un fortuito incontro in un aeroporto fra l’architetto Richard Meier e il sindaco della
città, e con una procedura analoga sta per nascere il Centro delle Culture Extraeuropee di
Milano, creato a tavolino senza tenere conto della tradizione cittadina, ed al quale l’amministrazione
comunale milanese tenta di dare una certa consistenza acquistando sul mercato
antiquario collezioni d’arte etnografica di non sublime qualità.
Nel commissionare questi musei, l’ottica dei grandi committenti era di tipo promozionale-politico,
ma anche di tipo economico: i nuovi monumenti museali dovevano servire
per attrarre pubblico, indipendentemente dalle collezioni che potevano proporre e, soprattutto,
indipendentemente dai significati che questi musei riponevano nelle opere esposte.
Essi erano assoggettati a una logica di sviluppo turistico. Una logica tuttavia pericolosa, poiché
queste istituzioni, la cui fortuna è legata all’esteriorità estetica e alla moda del momento,
ed è quindi effimera, rischiano di creare economie indotte instabili e, nel caso di Bilbao,
determinate da scelte non operate localmente.
Proprio nella mancanza di contenuti e di una strategia della comunicazione del patrimonio
culturale alberga il grande fallimento sociale, ed anche la grande pericolosità, di questa
museologia monumentale. I musei-monumento, costruiti in primo luogo per mostrare
se stessi, e solo secondariamente per contenere frammenti del patrimonio culturale, non so-
5

6 no infatti in grado di svolgere i compiti essenziali del museo: creare il patrimonio culturale
e diffonderne i significati, all’interno e all’esterno della società in cui il museo è insediato.
Ho parlato di pericolosità a ragion veduta, poiché ritengo che la politica di alcune grandi
istituzioni private conduca alla creazione di un’identità globale che produce come risultato
la distruzione delle identità culturali delle singole comunità.
Quale è stato in questi stessi anni lo sviluppo dei musei in Italia? Quale politica culturale è
stata portata avanti dallo Stato italiano?
L’Italia, grazie alla sua politica di conservazione, non ha neppure tentato di inserirsi nel
quadro europeo, e la sola politica culturale espressa, sia a livello centrale, sia a livello periferico,
è consistita nell’inseguire un’improbabile redditività diretta dei musei, minimizzando
perciò il valore culturale delle istituzioni e del potere economico che da questo deriva in termini
di aumento dell’autorevolezza del paese e di crescita del livello medio di educazione
dei cittadini. In Italia si è guardato al modello americano, interpretandolo erroneamente. Si
è creduto che negli Stati Uniti il sostentamento dei musei derivasse dalla loro capacità di
redditività diretta o dall’abilità nel richiamare finanziamenti privati, e si è sempre sostenuta
la totale assenza di finanziamenti pubblici. Non si è tenuto conto però che i finanziamenti
privati che arricchiscono i musei americani derivano dalla possibilità di detassazione concessa
dallo Stato, cosicché tali finanziamenti – tolti alle casse dell’erario – sono di fatto soldi
pubblici. Considerate le cose sotto questo aspetto si può dire che i musei americani sono
quelli che godono di maggiori finanziamenti statali.
Il presupposto teorico secondo cui i musei devono essere macchine redditizie sul piano
economico affonda le radici nello sviluppo dell’economia della cultura, una teoria economica
che, mettendo in rapporto l’aumento del tempo libero con la necessità individuale di
impiegarlo, considera l’offerta culturale un prodotto facilmente vendibile e carico di promesse,
sia dal punto di vista strettamente economico, sia in campo occupazionale. In Italia,
nel corso degli anni Novanta, trattati, riviste, corsi universitari dedicati all’economia della
cultura e singole scuole economiche hanno prodotto il miraggio di un intervento massiccio
dei privati nel campo delle attività culturali; soprattutto del mondo industriale, che avrebbe
dovuto essere spinto ad agire da una molla economica e non dall’unico possibile incentivo,
e cioè la deducibilità fiscale dei fondi investiti nella cultura. Parallelamente decine di
corsi di laurea in beni culturali e in economia della cultura, di corsi di specializzazione in
museologia organizzati dalle facoltà di architettura, di economia, di lettere e di scienze, da
enti locali e da organizzazioni private hanno formato centinaia di giovani che difficilmente
hanno trovato una collocazione dignitosa nel mondo del lavoro, poiché questa attività di
formazione non è mai stata preceduta da un’analisi delle reali necessità del mercato, ma si è
sempre mossa sull’onda di un’aspettativa di nuova occupazione nel campo dei beni culturali
che, a lungo termine, si è rivelata una chimera. I giovani che si sono inseriti nell’ambito
dei musei lo hanno fatto attraverso lavori precari gestiti da associazioni o da cooperative, o
lavorando per cordate vincitrici degli appalti per i cosiddetti servizi aggiuntivi (in cui si mescolano
la didattica, la sorveglianza, la gestione dei book-shop e dei bar), ove sono impiegati
come guide didattiche sottopagate, come custodi o come commessi di libreria.
Così, convenzioni e patti sono stati firmati fra le associazioni degli industriali e i ministeri
competenti, senza tuttavia che tali documenti divenissero in qualche modo operativi.

Senza uno scopo per investire nelle istituzioni pubbliche, se non le ragioni legate direttamente
a un ritorno di immagine, il mondo imprenditoriale ha preferito in molti casi realizzare
direttamente i propri musei. Sono nati così i musei d’azienda, molti dei quali sono
sorti con motivazioni legate profondamente a una cultura d’impresa, ma molti altri sono
stati realizzati con finalità squisitamente pubblicitarie. Comunque sia, nessuno di questi
musei ha una redditività che giustifichi la sua creazione dal punto di vista economico: il recente
museo della Piaggio a Pontedera conta poche decine di visitatori la settimana, la maggior
parte dei quali sono specializzatissimi appassionati della Vespa.
Nella pubblica amministrazione il miraggio produttivista ha condotto ad un’autocritica
distruttiva. Minimizzando il valore intrinseco del patrimonio, inteso come memoria della
società, e quindi come catalizzatore sociale, le amministrazioni locali hanno posto l’accento
sulla necessità di snellire le procedure per giungere a una maggiore economicità di gestione
e possibilmente a una maggiore redditività. Tuttavia, invece di seguire la via della deflazione
burocratica, ci si è volti alla managerializzazione delle istituzioni museali, agendo in due
direzioni: facendo ricorso a varie forme di privatizzazione, e sostituendo nella gestione dei
musei il personale intellettuale con personale orientato alla gestione del rapporto costi/ricavi;
il che a sua volta sta per condurre non solo a una diminuzione del potere di produzione
e di diffusione culturale dei musei, ma anche a paradossi pericolosi per l’integrità del patrimonio.
Vale la pena di citare qui un articolo, pubblicato sulla rivista “Economia della Cultura”
nel quale la proposta per migliorare i bilanci dei musei è la vendita del patrimonio. I
due autori sostengono che i musei italiani dovrebbero cedere a musei esteri le opere di autori
italiani conservate nei depositi «in modo che i nostri artisti possano essere presenti in musei
e collezioni estere: in cambio noi potremmo avere opere estere, per migliorare l’offerta museale
integrandola ed aggiornandola. Una parte dei proventi di queste vendite potrebbe essere impiegata
per restaurare le opere che si stanno perdendo, per ampliare le nostre sale espositive, per
poter acquistare attrezzature per conservazione».
L’emarginazione del personale intellettuale dalla conduzione dei musei non è un fenomeno
solo italiano. Nel 1999, per la prima volta dopo oltre 200 anni di storia, un non scienziato
è stato messo a capo del Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi. Immediatamente
il prestigioso museo parigino, nato da un editto della Convenzione che ne stabiliva
le finalità di educazione pubblica e di studio, ha visto entrare nei suoi ranghi esperti di comunicazione
visiva, uomini di teatro, personaggi che poco hanno a che fare con la scienza
e l’educazione. Ciò è comprensibile se si pensa che una gestione manageriale, non scientifica,
orientata al successo (in termini economici, o politicamente in termini di presenze), ha
il fine di attrarre il maggior numero possibile di visitatori, e per far ciò deve rendere il museo
il più attraente possibile. Ciò è quanto avviene a Parigi, ove il piano di strutturazione
della nuova direzione ha innescato un conflitto fra lo staff scientifico e tecnico e la direzione,
che al Musée de l’Homme è sfociata in una vera e propria rivolta.
In Italia si tenta la privatizzazione facendo ricorso all’istituto della Fondazione; come ha
fatto il Museo della Scienza e della Tecnica (ora Tecnologia) di Milano e come il Comune
di Milano aveva pensato di fare per i suoi numerosi musei. La trasformazione dei musei in
fondazioni tocca però alcuni aspetti importanti del rapporto fra patrimonio e società; soprattutto
il diritto della società a gestire la propria eredità culturale attraverso rappresentanti
eletti, e il divieto morale a questi rappresentanti di disporre del patrimonio della comu-
7

8 nità. Un freno morale che dovrebbe impedire di alienare anche un solo oggetto, sia pure per
ragioni politiche, senza un preventivo voto del Parlamento, o di consegnare a gruppi privati
la gestione del patrimonio.
L’alienazione fisica del patrimonio e l’alienazione dell’uso del patrimonio sono due gradi
di una stessa azione che con estrema facilità possono succedersi l’uno all’altro, nel senso
che una volta stabilito che per ragioni economiche è possibile fare a meno dell’uso del patrimonio,
è assai facile giungere a considerare economicamente vantaggiosa anche l’alienazione
fisica degli oggetti. La cosa non è irreale, come dimostrano gli ultimi provvedimenti
legislativi italiani.
Per tornare all’Italia, in questi ultimi due decenni, ogni azione effettuata a favore dei musei,
anche i prestigiosi restauri della Galleria Borghese o di Palazzo Altemps, si è mossa in
un’ottica economica, il che ha condotto a una noiosa tendenza alla commercializzazione dei
musei. Con l’entrata in vigore delle leggi che hanno permesso di diffondere anche nei musei
italiani librerie, caffè, negozietti carichi di ninnoli che raramente hanno a che fare con il
contenuto delle esposizioni che il visitatore si accinge a percorrere, è iniziata un’opera di privatizzazione
della gestione del patrimonio culturale che ha raggiunto punte inconcepibili.
Assieme alle librerie, ai ristoranti, alle biglietterie e ai servizi di sorveglianza, sono concessi
in gestione a società private, a associazioni o a cooperative attività delicate e strettamente
connesse con la funzione culturale del museo, quali la realizzazione delle esposizioni e tutta
l’attività collegata con la comunicazione, e in particolare l’attività didattica rivolta al
mondo della scuola. In tal modo la comunità, che lo Stato rappresenta, abdica alla sua funzione
educativa, affidandola a gruppi che non necessariamente interpretano la cultura, le
radici e i bisogni della comunità. L’abdicazione dello Stato italiano alle sue responsabilità
nella gestione del patrimonio culturale ha poi toccato il suo apice con l’ipotesi di concessione
dei musei ai privati contenuta nella finanziaria del 2002.
L’economia di mercato induce alla commercializzazione totale dei musei; la necessità di far
quadrare i bilanci (cosa peraltro impossibile come dimostrano le statistiche di tutti i musei del
mondo) produce la crescita dei servizi a pagamento e gli allettamenti commerciali. Il museo
diviene una sorta di grande magazzino che spinge al consumo, assumendosi la responsabilità
di agire in contrasto con la sua funzione educativa. Per le scolaresche, nel mondo industrializzato,
il momento più atteso e più vissuto della visita al museo è divenuta la tappa finale, e
cioè la visita al book-shop o alla boutique. Di conseguenza il logo è divenuto indispensabile al
museo, più di quanto siano importanti i suoi contenuti e il suo significato.
Con la commercializzazione il museo gioca il suo paradosso. Se come è riconosciuto da
tutti, anche da coloro che sostengono la necessità di una gestione del museo in chiave economica,
la funzione dei musei consiste nell’essere luoghi di identificazione per la comunità,
che concorrono a mantenere le identità comunitarie attraverso la diffusione della specifica
cultura che il museo stesso ha creato, la cultura dovrebbe essere il prodotto primario del museo
commerciale, di un eventuale museo-impresa. Tuttavia la cultura è un bene non acquistabile,
e non è quindi un prodotto vendibile. Il museo-impresa non può dunque vendere
il suo prodotto primario. Per essere economicamente produttivo deve perciò vendere prodotti
secondari: la sua utilizzazione sotto forma di biglietti di accesso, che non corrisponde
alla vendita di cultura (esattamente come chi vende sapone non vende pulizia!), e altri pro-

dotti che nulla hanno a che fare con la finalità di diffusione culturale del museo, gadget, guide
a stampa, cartoline, frequentazione dei bar, o dei ristoranti. La necessità di vendere una
quantità sufficiente di prodotti secondari per raggiungere una redditività accettabile innesca
una spirale che porta alla diminuzione della qualità dell’offerta culturale del museo. Il
museo è infatti forzato a vendere il diritto di utilizzazione e gli altri prodotti secondari ad
un numero di persone tale da alimentare la redditività della struttura, deve cioè mantenere
una quota di mercato, facendo fronte alla concorrenza esercitata dal numero crescente di
musei e da altri modi di utilizzo del tempo libero. Il mantenimento della quota di mercato
può essere conseguito in vari modi, pubblicità, acquisizione di pezzi spettacolari, unici, e soprattutto
adeguamento dei contenuti del museo ai gusti e al livello culturale del pubblico
(anche per mantenere ciò che viene promesso nella pubblicità). I musei si riducono quindi
ad agire come le televisioni commerciali: offrono al pubblico ciò che il pubblico vuole, e così
facendo non contribuiscono alla crescita culturale della comunità, si trasformano da istituzioni
culturali in anonimi luoghi di svago. La gestione dei musei in un’ottica esclusivamente
economica espropria le comunità dei loro patrimoni, poiché ne impedisce la formazione
o ne cancella il significato simbolico: in ciò essa può essere considerata un vero e proprio
saccheggio.
L’espropriazione dell’identità di una comunità, è il vero pericolo cui si può andare incontro
quando si persiste nel considerare il solo aspetto economico nella gestione del patrimonio.
Dietro il miraggio di una crescita economica legata all’uso del patrimonio, all’istituzione
di nuovi musei, alla produzione di brillanti esposizioni temporanee, può celarsi una
realtà ben diversa, un disegno di egemonia culturale e politica le cui finalità sono facilmente
intuibili in un’ottica di mondializzazione dei mercati. L’intento dei poteri economici è
quello di trasformare i musei in tribune di comunicazione, in telegiornali materiali in grado
di imporre a tutte le comunità riunite in un ammasso indistinto, senza distinzioni e senza
delicatezze, il totem del villaggio economico globale. In un articolo apparso su “La Repubblica”
del 31 luglio 2001, Achille Bonito Oliva ha scritto: «Da qui, Nord America, parte
una strategia globalizzante per quanto riguarda i musei dell’arte contemporanea che ormai
sviluppano piani di livello internazionale per poter affrontare i costi di mantenimento. Alcuni
musei europei cercano di mettersi al passo per diventare competitivi e conservare l’autorità culturale
in un sistema di informazione globale, fuori dal quale gli artisti rischiano un destino brutalmente
territoriale. Esiste dunque una sorta di G8 museografico che comprende il Metropolitan,
il MoMa e il Whitney di New York, il Guggenheim nelle sue varie sedi, la New Tate di Londra,
il Beaubourg di Parigi, il Ludwig di Colonia e il nuovo centro museografico di Vienna. Tali
strutture ormai monopolizzano la formazione del gusto sociale a livello internazionale mediante
un sistema espositivo che evidenzia maggiormente il momento estetico della fruizione artistica,
performativa e spettacolare. Quando invece si mostrano tendenze e movimenti, si favoriscono
pratiche in prevalenza legate alla protesi tecnologica e all’atteggiamento analitico, espressione
di una cultura egemone, quella anglosassone».
In questi primi anni del nuovo millennio le vecchie strategie sembrano dunque declinare
a favore di nuovi scenari. Ciò che appare sempre più evidente è il fallimento della chimera
della redditività economica dei musei, se questi vengono considerati nelle loro funzioni
di creatori del patrimonio culturale, luoghi di identificazione delle comunità e di trasmissione
intergenerazionale della cultura. In Francia la Corte dei Conti ha messo sotto ac-
9

10 cusa la gestione fallimentare la Réunion des Musées Nationaux che, lungi dal produrre ricchezza
a favore dei musei, ha sottratto ricchezze al Louvre, solo istituto in grado di avere
una passabile redditività economica, ed ha distribuito equamente deficit fra tutti i musei dello
Stato. Inoltre la grandi istituzioni museali realizzate negli anni passati si sono dimostrate
ingestibili sul piano economico: un terzo del Louvre è sempre chiuso al pubblico per mancanza
di personale. Conscio della impossibilità di una gestione economica dei musei, nel
Regno Unito lo Stato ha decretato la gratuità dei musei, puntando sulla loro redditività sul
piano sociale e culturale; sbalorditivamente l’uso reiterato dei musei gratuiti ha incrementato
le vendite delle loro librerie e dell’uso dei loro caffè, il che a prodotto – come ha scritto
il direttore della National Gallery – più entrate da parte dei privati di quanto non producessero
i biglietti d’ingresso.
Nonostante ciò, in questi ultimi anni è in atto un braccio di ferro fra coloro che spingono
verso un uso commerciale della cultura e coloro che sostengono che il vero valore del
patrimonio sia quello che si riflette nella crescita culturale delle comunità. Un braccio di ferro
che si ripercuote nel mondo dei musei e contrappone i pubblici poteri che hanno una
concezione manageriale delle istituzioni culturali e che vogliono scalzare la cultura dalla
conduzione dei musei, ai conservatori dei musei che incarnano questa cultura tradizionale.
I segni di questo contrasto sono molteplici: il direttore del Museo del Prado ha lasciato la
direzione del museo per protestare contro una riorganizzazione troppo mirata alla produttività
economica; i conservatori e tutto il personale del Musée de l’Homme hanno scioperato
per mesi per protestare contro la fondazione di un museo des Arts Premières che ritengono
enfatizzare il senso estetico dei reperti etnografici, e quindi favorire il mercato, a
scapito del significato scientifico delle collezioni; in Francia una furiosa polemica sulla gestione
dei musei ha contrapposto il direttore del Louvre al ministro della cultura; infine, come
ho già accennato, in Italia le amministrazioni locali tendono a subordinare il personale
scientifico dei musei al personale amministrativo, quando non chiedono agli storici dell’arte
di dare elegantemente e volontariamente le dimissioni dai loro incarichi direttivi, per
spianare la via a gestioni più direttamente commerciali, come un recente caso milanese ha
dimostrato.
1 H. Bredekamp, Il museo di se stesso,
in “Nuova Museologia”, 4,
1999, pp. 19-21.
2 E. Franch, Musei e comunicazione.
Il caso Guggenheim di Bilbao, in
“Nuova Museologia”, 5, 2001, pp.
7-9.

The importance of being wise or could
“Museum archaeology” help us be better professionals
Tomislav Sˇola
University of Zagreb, Department of Information Sciences
European Heritage Association - Zagreb - Croatia
RIASSUNTO
Dopo aver passato in rassegna alcuni dei momenti che caratterizzano la storia del museo sino al presente,
si riflette sull’opportunità che una perfetta consapevolezza del passato e dei propri principi fondatori –
intesi non come mera conoscenza di fatti ed eventi, ma come reale comprensione del contesto –
rappresenti per i musei un ottimo viatico per affrontare nel modo più corretto il futuro e introdurre quei
cambiamenti che esso pretende.
Si affronta successivamente il tema di ciò che i musei dovrebbero idealmente diventare alla luce di una
delle questioni odierne di maggiore rilievo: la mercificazione della cultura propugnata dai sostenitori dell’approccio
neoliberista. Fra la perpetuazione di un modello di museo come tutore, pur scientificamente
autorevole, dei momenti cruciali e delle memorie materiali di culture definitivamente devitalizzate e la resa
alla logica del profitto che li spinge a trasformarsi in industrie dell’intrattenimento, benché basate sui
beni culturali, esiste forse una terza via.
La questione sembra ruotare soprattutto intorno alla “mission” di una nuova odierna professione della
tutela dei beni culturali dai contorni certamente più vasti che coniuga insieme gestione e comunicazione.
Occorre dunque elaborare una strategia e un prodotto comuni in sintonia con i bisogni delle nostre società.
L’insieme degli operatori museali di oggi e di domani ha bisogno di nuove teorie e di pratiche attive e creative,
ma soprattutto di un nuovo sistema valoriale per dare vita ad una professione autonoma e sicura di sé.
La lunga lista delle azioni da realizzare inizia con la formazione professionale e quest’ultima, a sua volta, inizia
con la comprensione del ruolo correttivo e di recupero dei musei nella società moderna.
RÉSUMÉ
Après avoir passé en revue les moments principaux de l’histoire des musées jusqu’au présent, l’auteur propose une
réflexion sur la nécessité qu’une connaissance parfaite du passé et de leurs principes fondateurs – pas dans le sens
de la seule connaissance des faits et des événements, mais au contraire comme une vraie compréhension du
contexte – puisse représenter pour les musées un viatique optimal afin de faire face de la manière la plus correcte
au futur et aux changements qu’il s’attend.
A suivre, on développe la discussion sur ce que les musées pourraient idéalement devenir à la lumière d’une
des principales questions qu’ils se posent: la “merchandisation” de la culture soutenue par les défenseurs du néoliberisme.
Entre la perpétuation d’un modèle qui veut les musées dans le rôle de simples conservateurs, aussi influents
du point de vue scientifique, des moments cruciaux et des souvenirs de cultures désormais sans vie et la
reddition à la logique du profit, qui pousse les musées à se transformer en industries d’amusement, bien que basées
sur les biens culturels, il existe – peut-être – une troisième possibilité. La question se déroule surtout autour
de la “mission” d’une nouvelle et actuelle profession de la sauvegarde des biens culturels, aux profils certainement
plus étendues, conjuguant dans le même temps le management et la communication.
Il faut donc élaborer une stratégie et un produit communs convenables aux besoins des sociétés modernes. Les
opérateurs des musées d’aujourd’hui et du futur ont besoin de théories nouvelles et de pratiques actives et créatives,
mais surtout d’un système de valeurs nouveaux pour donner la vie à une profession indépendante e sûre de son
fait. La longue liste des actions à réaliser commence par la formation professionnelle. A son tour, la formation
commence par la compréhension du rôle correctif et de rétablissement des musées dans la société moderne.

12 HOW AND WHY THE MUSEUMS CAME ABOUT?
If we would divide the history of museum genesis into three phases 1 the first could be
named after the prevalent principle that guided the creation of the first museum-like places:
the principle of possession. It was entirely dominated by the greed, power building, power
demonstration and the prestige these hoards could generate. To call these treasures museums
would be wrong as they may have looked like them, but the motives that made them
were in no way the same as those that created modern museum institution. Yet, the organisational
and psychological characteristics of these places, coloured the existence of what we
now call museum institution.
The second phase, that took place in Europe and America, in the span of two last
centuries (depending upon the economic and political processes in different countries),
is what can and should be called museum institution. It was a societal institution built
upon the motives of collective pride and at the same time of triumphal individualism
(in the persons of scientists and collectioners), as well as upon the urge to preserve from
vanishing what seemed to be disappearing irreversibly from the immediate reality. The
ascent of Change as the way of living and the discovery of memory institutions as the
ways to oppose the entropy of oblivion established museum institutions as donjons of defence.
That institution was founded upon the sacrosanct ideals of the ascending modern
science.
The third phase is partly our reality and partly a possibility we have in front of us. It is
“reality” because if some museums and other heritage institutions make it such, – they practice
it. Yet, it remains the possibility because we are aware that the real world around requires
practice, which may be far and getting still further from the professional ideals.
Therefore, many an institution remains a possible alternative to some of the present unfavourable
trends in our “profession”. To name just the core of the problem: are culture and
the memory substance of it going to become commodity, mere goods at the market or will
it remain the domain of freedom and human virtue? The attack at this by the neoliberalist
falangue is in its full sway.
But, before going into the theme of what museums should become, let us conclude
the “archaeological” experience of museums. Why did museums happen? The simplified,
and yet exact, answer would be: to save the memory and evidence of what was found to
be disappearing, and secondly, to record the advance, the conquest that human race (read:
the western world), accomplished during the centuries of discovery and industrial revolution.
SHOULD THEIR HISTORY BE LEFT TO THE CURIOUS STUDENTS OF MUSEOLOGY?
Hopefully not. Yet, this seems to be happening. But museums can learn about themselves
a lot and then by transferring the primary motives that created them into the context of
their present, – they may undertake the necessary adjustments or changes with good
prospect of doing the right thing. The problem is that museums know little more than mere
facts about their own genesis and, curiously, very little beyond the facts, about their pres-

ent. In brief, museum people are so immersed into their practices that they fail to know and
understand the context: be it past or present.
Museum should sometimes return to the primary inspiration that made them what
they are and sometimes make a drift, a deflection from it. Knowing the past is not knowing
the facts about it but the wisdom of it. So, seeing a museum only where the plaque
at the wall says so, is not what we are after. We are after the meaning of the past and its
part that we are willing to carry with us: the heritage. By knowing the history of institutions
we shall probably understand that what they took away from life should be given
back to it: not by selling or giving away, but by serving life and its noble needs. There
is no single (museum) object that made the history: all of them are just means, tools, testimonies,
documents or ruinous remnants of that history. The Theatrum Mundi has its
changing protagonists, its scenography and its machinery that tells about it a lot, but is
not the theatre itself.
The best museum practice has it that every museum that wishes to be a handy, effective
tool of learning, sensibilisation and awareness, feels rightly that its users should
know it well enough to be able to use it correctly. The school is a proper place to learn
the meaning of heritage and its role in society. The history should be taught, not as more
or less engineered sequence of “useless holocausts” (Voltaire) but as wisdom one could retrieve
from the sedimentation of human experience. The collective memory that schools
usually transfer in the form of official, mainstream history is instrumentalized hatred used
in many ways by the dominant group or class. Knowing how to use museums would be
a great chance for museums. The least they can do is to try to do it themselves. Some
show the intention by placing a brief introductory panel at the beginning of their permanent
exhibition.
ARE MUSEUMS BUILDERS OF FUTURE OR JUST A PASSIVE MEMORY?
Culture is seen and supposed to become yet another commodity: goods to be created, made
instant, made pret-a-porter, reproduced sold and re-sold, exported etc. To become such, all
culture and identity have to be first annihilated, taxidermized, de-contextualized and turned
into an artificial, manipulative and manageable set of values. Traditional museums unconsciously
play their part in euthanasing the agonising richness of the world. By incarcerating
the physical substance of cultures and identities in the gloom of their vaults or at, best, into
their glossy glass cases, they consented to their further degradation “out there” (where
they make sense), indeed, – only when alive.
THE ENDANGERED WORLD AND ITS ETHICS: OR, ABOUT MAIN TRENDS
IN OUR PROFESSION
Museums started as institutionalised possessiveness, continued as prestige, then became
temples of science and, at least, some are about to turn into playgrounds. Some will,
though, stay decorative relics of the world gone by. That is the unspoken, spontaneous
13

14 scheme of New right, of the “consumerist democracy”, of the globalising non-culture, of the
“non-ideological” world succumbed to the only God left in the developed world: the
Almighty Profit and its Church of Holly Corporation.
Ethics of heritage becomes a key issue of today’s world. Among many fronts at which we
have to fight, one is genetic engineering of humans and nature, and the other is the manipulation
of the inherited values, of the complex human experience. Both problems are relevant
to museums, but the second concerns museums more. Consenting to irresponsible
musealisation of the world, we render cultures powerless, unable to live and defend themselves.
The planet thus turns from living richness and divine variety into Planet Hollywood:
an illusionist cabaret of multinational corporate business. The culture becomes mere enactment.
What you are hardly resembles what you might have been if left to the spontaneity
inner logic of your own development: you are what business finds more attractive, the way
the business likes it and what sells better.
Museum profession is held hostage to its stakeholders, to the donors, patrons, maecena,
and corporate sponsors. We are given the role of securing mementoes and souvenirs of the
daily-exterminated richness we have inherited (giving it the scientific seriousness), while
scrupulously ignoring what is happening around our museums. Or, we can choose to join
and serve the bosses openly by turning into the entertainment, though heritage based, – industry.
In brief: we can be either elegant, scowling undertakers or silly clowns. The first position
will always guarantee some sort of protective aura as official, mainstream science will
always have its official support: diminuating one, but socially and politically recognised for
a long time to come. The second position is an obvious treason of what are the principles
that made heritage necessary. Yet, it seems to guarantee us more money and bigger presence
in the media. But, is there a third possibility?
THE THIRD POSSIBILITY
Some are, and we all can become, part of the corrective force, part of the wisdom needed,
an endeavour towards harmonious development and common wealth. Heritage institutions
can become vehicles of reclaiming the quality already lost, a powerful mechanism of regaining
balance, – a sort of corrective to the forces of change. Whole culture must be the
consciousness of the science. We can probably regain some control of the world’s destiny
and serve as a powerful means of democracy: as its way of insight through understanding
what is happening and as its quality tool in decision making.
The entire matter of museums and other heritage institutions is about the mission of
the nascent mega-profession of heritage care (management and communication). If we
design common strategy and our product according to the needs of our societies, we may
serve their harmonious development. The museums long analysed the world while the
point is how to understand it, how to preserve its rich variety and serve the continuity
of its creative forces. If we mean to do our mission we should turn from servants of the
governing forces of society into their partners. To do that, we need new theory, creative,
counter-active practice and the renewed set of ideals for a self-confident, autonomous profession.

THE TRENDS THAT HELP US UNDERSTAND/REALISE OUR MISSION
The trends are double: those of the world around and ours as reaction to them. As museums
are at one time picture of the world and its corrective wisdom, knowing both sets of
trends is essential.
New religious fundamentalism is part of the neurotic reaction to institutions, be them
religious or scientific or any other, – to their inability of delivering, their role in treason
of the ordinary citizen. Once the technology reached the level of being able to help us,
we want technology serve us, – not to be the means of our new enslavement. Once the
Church confirmed its alliance with The Profit machine administrators, and with the impoverished,
puppet state, the citizen lost its last traditional consolation. Can societal institutions
help? The privatised schools? The privatized hospitals? The privatized communal
services? Unlikely. Their aim and driving force of their motives is profit, – not the
public good.
Where are the museums in all that: The service sector that cares for the common welfare
is where they exercise their beneficial influence upon society. If they do, indeed. Museums
are burdened with inner incapacity to fight for their community. It is a long list of
problems. The solution to them is equally long but the list of actions starts with professional
training and the training starts with understanding the remedially, corrective, indeed, cybernetic
role of museums in the modern society.
SOME TRENDS AS ELEMENTS OF THE VALUE SHIFT 2
GENERAL APPROACH
Object Concept
Product Process
Specialist Synthetic
Information Communication
Possession Dissemination
Problems of science Problems of community
TYPE OF ACTION
Informative Evaluative
Educational Participatory
Didactic Critical
Consecutive Cybernetic
THEORETICAL APPROACH
Museology Heritology (Mnemosophy)
The solution is the upgrading, as re-conquering the nature of museum adventure: regaining
poetry and simple usefulness of museums. Sort of “rational amusement” 3 that later
became a vision of community museum 4. It is a complex process that begins with understanding
of heritage, its role in the society and its mechanisms of action. Putting these convictions
into practice continues it. To make it there has to be a re-conceptualisation of museums
5 through the definition of:
15

16 1. Quality (that is not entirely centred upon the excellence of scientific research and method)
2. Product (that is neither scientific achievement, nor knowledge produced and distributed;
nor it is, to make it clear, educational effect or amusement offered; it all that but still more:
the beneficiary impact upon the community, its dignity, prosperity and democratic insight...)
3. Profession (that it is not the self obvious fact: museum people still do not represent a
profession but an occupation; one day they may become such but in a much wider context)
4. Field (the field of museums is not specialist facet corresponding with some scientific
branch, but the totality of heritage)
5. Job (is neither defined as scientific, nor educational nor, indeed, entertainment; with elements
of all that it is the communication of heritage that applies best to what they do: a
sort of a specific, responsible scientific theatre)
6. Moral (contrary to the usual notion of scientific correctness, the moral of heritage institutions
is coloured by responsibility for the well being of its community)
7. Customer (defined as target group or not, the museum is apt to cherish this notion of
user-centred meaning of its own existence)
8. Object (that is not only the museum object, but the meaning of it and the use in the real-time
circumstances that can be assigned to its information potential)
9. Strategy (is what is a new circumstance: as strategy of professional practice and as the
strategy of development that heritage institution has to be a part of)
10. Mission (is what can be called a manifest statement of purpose, set of good reasons why
would anybody wish to work in that institution and set of reasons why would anybody
think of spending public money on it)
11. Theory (that makes it all possible as sublimation of experience and compressed,
analysed practice, is neither museography, nor museology); it has to flourish upon distinct
concept that links all into the entity and gives meaning to the effort: totality of heritage; ergo:
heritology, or for those who resent simplicity: a general theory of heritage. What is the
true meaning of theory? The transfer of quality professional experience is enough to start
with its importance.
If this metanoia is not done, museums become an easy prey to the masters of profit. They
already seem to be puzzled by their logic and almost ready to be regarded as any profit making
enterprises. The moment this happens will be the end of museum cause and of their history.
In The Global Empire of Business, culture should become just another market goods,
a commodity that is made and sold, invented or interpreted the way the engineered market
requires. That, of course is the entrance into Nothingness, a long introduction to culturelike
entertainment, a “somma” as described so visionary in “The Brave New World”.
1 The phases, whichever way understood
or taken are rationalisations.
They only denote certain
prevalence of elements. All can be
found everywhere and at any time.
2 © Tomislav Sˇola, 1990/1992/98.
3 Charles Wilson Peale, who
founded a museum in the second
half of 19 th century, in America,
who believed that “teaching is sublime
ministry inseparable from human
happiness”.
4 John Cotton Dana, was a prominent
museum person and museo-
logical visionary, who was a director
of Newark Museum, in the first
decades of 20 th century.
5 © Tomislav Sˇola 1995: the explanations
in the form are new.

Tendencias de museografía en España:
el proyecto del “Museo de la naturaleza y el hombre”
en Santa Cruz de Tenerife
Enric Franch
DPC- Disseny i Produccions Culturals - Barcelona
RIASSUNTO
Nella prima parte dell’intervento si traccia un quadro d’insieme dello stato dei musei e della museografia
in Spagna, entrambi condizionati da una serie di fattori di natura politica, legati all’instaurarsi nel paese
di un nuovo regime democratico, e di questioni di carattere istituzionale, dovute all’articolazione del sistema
statale spagnolo. Si esamina successivamente la situazione di alcuni musei di nuova fondazione,
analizzando i modelli a cui essi guardano e cercando di ricostruire il contesto e le politiche culturali entro
cui sono maturati tali organismi museali.
Nella seconda parte viene presentato il progetto che ha portato alla creazione del Museo dell’Uomo e
dell’Ambiente a Santa Cruz di Tenerife, del quale si pone in risalto l’intenso lavoro preliminare che ha
preceduto la stesura vera e propria del progetto e che ha permesso di definire con chiarezza obiettivi, finalità,
contenuti della nuova realizzazione museale.
SUMMARY
The first part of this paper provides an overview of the state-of-the-art of museums and museography in Spain.
Both of them are characterised by a set of political factors linked to the establishment of a new democratic regime
in the country and to a few institutional questions related to the organisation of the Spanish State system.
Then, a few newly founded museums and their underlying models are taken into account. The framework
and the cultural policies within which these museums have been established are also analysed.
The second part will be devoted to the presentation of the project related to the creation of the Museum of
Man and Environment in Santa Cruz of Tenerife. A special highlight will be the intense preliminary work that
has preceded the drafting of the project itself, which has allowed to clearly define objectives, aims and contents
of the new museum project.
Primera parte
LA PRÁCTICA MUSEOLÓGICA Y MUSEOGRÁFICA
APROXIMACIÓN CRÍTICA
Proyectos y tendencias: Alternativas
Definir con precisión el estado de la cuestión de los museos y la museografía en España es
harto difícil y arriesgado.
El crecimiento y la dinámica de este sector de la vida cultural durante los últimos años
ha sido fuerte, como también lo ha sido en todo el mundo, principalmente en Europa. El
viejo continente ha querido, probablemente, mantener su posición, digamos de faro, en el
panorama de la vida cultural occidental. De todas formas me arriesgaré a mostrar, aunque
sea de forma provisional, la evolución y el carácter de las maneras de hacer que parecen más

18 significativas del caso español. Lo voy a hacer desde una perspectiva crítica e introduciendo
lo que entendemos que, desde nuestra perspectiva podrían ser alternativas.
Nuestro objetivo no es hacer historia sino propiciar una reflexión entre todos, pensando
que ello pueda ayudar a descubrir nuevos caminos para avanzar en una disciplina, la práctica
museística, hoy llena de paradojas.
Nuestro punto de vista es, debo aclarar, la del diseñador, del proyectista y es por ello que
finalmente este discurso se plantea desde las dudas que surgen de la práctica formalizadora
y constructiva.
A nuestro entender la situación de la actividad patrimonializadora y expositiva en España
está condicionada y es el reflejo de una serie de cuestiones, muchas de ellas externas a la
estricta profesión, que creemos que hay que discutir, aunque sea de forma breve y esquematizada.
Situación. Punto de partida
– Cambio político
La transición de un estado autoritario al establecimiento de la democracia crea la necesidad
de introducir mecanismos de institucionalización de la nueva estructura de gobierno. Esta
dinámica impulsa una serie de cambios y de nuevos proyectos, muchos de ellos de carácter
estrictamente formal y de imagen; proyectos de diseño de imagen institucional para corporaciones
e industrias públicas, proyectos de exposiciones universales, juegos olímpicos, intervenciones
en espacios públicos y por descontado museos y grandes y pequeñas exposiciones.
–Tres administraciones. Competencia
La redefinición de los tres niveles de organización del estado; local, autonómica (nacional)
y estatal y la no coincidencia en muchos casos del color político de los respectivos gobiernos
de cada uno introducen una competencia dinamizadora. Esta situación tiende, sobre todo
en el ámbito de las políticas culturales, a priorizar los aspectos más superficiales de los
proyectos, la rentabilidad vista desde el punto de vista del número de visitantes y el impacto
mediático de la imagen de los mismos.
–Otros aspectos importantes
Esta tensión se manifiesta también por el enfrentamiento centro-periferia radicalizándose en
los territorios donde este enfrentamiento es históricamente más evidente (Cataluña-Estado
Central, País Vasco-Estado central).
En el caso Catalán otro aspecto dinamizador es el papel que han jugado muchas instituciones
privadas o semi privadas (por ejemplo “La Caixa”).
Estas, muy ligadas al territorio y a la comunidad en el régimen anterior desarrollaron una
actividad muy particular con un carácter más propio del sector público que del privado.
Llenando en muchos casos los huecos que dejaba un gobierno alejado de la sensibilidad y
necesidades de una parte muy importante de la población. Esta situación después del cambio
político trastocó la relación público-privado minando las raíces de un aspecto fundamental
en la tradición de la práctica de la democracia.

Esta particular situación ha propiciado el desarrollo de unos modelos que hay que considerar
con detalle.
En el contexto internacional se hicieron presentes dos grandes operaciones, la creación
de la Isla de los Museos en Frankfurt a finales de los 70 e inicio de los 80 y el desarrollo de
las grandes operaciones arquitectónicas en París (1983-1986 Proyecto de La Villette. A.
Fainsilber y 1984-1989 Intervención en el Louvre, I.M. Pei). Ambas y sobretodo la experiencia
francesa han estado explícitos o implícitamente presentes en todos los trabajos de estos
últimos años.
En el territorio de los hechos hay algunas referencias concretas y que hay que destacar:
en Marzo de 1979 se presenta el “Llibre blanc dels museus de Barcelona”, dos semanas antes
de las primeras elecciones municipales democráticas 1 . En la ciudad de Barcelona existían
en este momento veinticuatro museos de titularidad municipal, muy diferentes o desiguales
en importancia. El objetivo del informe era poner las bases para la confección de un
plan director de los museos. El estudio proponía una nueva articulación basada en:
–Museo nacional, museo urbano, museo de barrio
– La tierra, la vida, los hombres
–Museos monográficos.
Con la creación de tres grandes museos
–Museo nacional Catalán.
–Museo de Barcelona.
–Museo de la Ciencia y la Técnica.
El informe ha funcionado como un punto de referencia constante, pero no se ha avanzado
un paso. Hay que esperar veinte años para que en 1999, el ICUB (Institut de Cultura de
Barcelona-Área de Cultura del Gobierno Municipal), apruebe una nueva organización de
los museos de la ciudad todavía sin contenidos concretos.
En el contexto del gobierno de Cataluña se establece entre 1980 y 1982 por decreto el
“Servei de Museus” dentro de la “Direcció General del Patrimoni Artistic” 2. El servicio tiene
como objetivo tres tareas fundamentales:
–Planificar, establecer y coordinar los museos nacionales, la red de museos comarcales de
Cataluña y los demás museos que dependen directamente del departamento.
– Coordinar y asegurar la actuación de los museos de Cataluña.
–Vigilar y asegurar la conservación, documentación, estudio y difusión de los bienes muebles
que forman parte del patrimonio artístico catalán.
Entre 1980 y 1982 la Red de Museos Comarcales estaba formada por 11 museos y 25
estaban en trámite de integración. La propuesta ampliamente asumida por los técnicos de
museos recogía la tradición de “La Junta de Museos” creada antes de 1936 por la Generalitat
Republicana.
La “Llei de Museus” surgida en el mismo contexto aprobada en 1990, planteaba la constitución
de cuatro grandes museos nacionales que respondían a la síntesis de la historia, la
naturaleza y el hombre. Los cuatro museos eran:
–Museu Arqueológic de Catalunya
–Museu de la Ciencia i de la Tècnica
–Museu Nacional Arqueologic de Tarragona
19

20 –Museu d’Art de Catalunya
Con la posibilidad de desarrollar dos más:
–Museu de Ciencia de la Natura
–Museu Nacional Catalá.
El impulso que dió la creación de la Red de Museos Comarcales fue notable, potenciando
una sensibilización del trabajo en museos de ámbito territorial concreto particularmente
realista. Hoy el “Servei de Museus” prácticamente está desmantelado.
En el terreno de las realizaciones quisiéramos poner una particular atención en: el montaje
del “Museu de la Ciencia” entre 1979-1980, en Barcelona. El proyecto arquitectónico
de Jordi Garces y Enric Soria proponía transformar un antiguo asilo de invidentes en un
museo moderno del tipo “Centro de Ciencia”.
El promotor la “Fundación la Caixa” a través del servicio técnico de conservadores adaptó
el modelo de “Exploratorium” de San Francisco a la mentalidad de una institución financiera.
El éxito ha sido más que notable y el modelo propuesto se ha convertido en un
punto de referencia indiscutible.
Hoy su actual director explica en el primer punto de Los Principios Fundamentales de
la Museología Científica Moderna, que «un museo de ciencia es un espacio dedicado a crear,
al visitante, estímulos a favor del conocimiento y del método científico (cuestión que se
consigue con las exposiciones) y a promover la opinión científica en el ciudadano (cuestión
que se consigue con la credibilidad y el prestigio que las exposiciones dan al resto de las actividades
que se hacen en el museo: conferencias, debates, seminarios, congresos...). Enseñar,
formar, informar, proteger el patrimonio, divulgar son otras vocaciones del museo, aunque
ninguna es prioritaria. Lo que es prioritario es crear una diferencia entre el antes y el
después de la visita que cambie la actitud delante de todas estas actividades y de otras relacionadas
con la misma, como lo son: viajar, pasear por una librería, preguntar a clase, seleccionar
canales de revisión, etc.» 3 .
En el 2003 está prevista la inauguración de una nueva implantación con una superficie
cinco veces mayor.
En el “Museo de la Ciencia” la práctica museográfica se centra prioritariamente en estimular
las siguientes tres clases de interactividad en el visitante:
1. Interactividad manual o de emoción provocadora (Hands on).
2. Interactividad mental o de emoción inteligible (Minds on).
3. Interactividad cultural o de emoción cultural (Heart on).
«Interactividad significa conversación, experimentar es conversar con la naturaleza, reflexionar
es conversar con uno mismo. Un buen rincón en el museo dispara la conversación entre
los visitantes. Un buen museo de la ciencia se hace despertando emociones, pero no emociones
de cualquier manera, sino emociones sobres la inteligibilidad del mundo» 4.
El modelo de “La Caixa” asume la tradición de tipo, hoy ya podríamos decir universal,
que es el Centro de Ciencia con sus posibilidades y limitaciones. La fuerte impronta que
provoca trastoca en España un entorno confundido. Por un lado introduce una cierta desorientación
en lo que debería ser la práctica y objetivos de una verdadera institución museal.
Por otro sí bien la base teórica sobre la que se basa puede ser estimulante, la actividad
museográfica orientada a la creación de estímulos privados se diluye en un entorno difuso,
en discursos poco articulados, ahistóricos y acríticos. El instrumento y las tecnologías se

convierten en el mensaje final. La fuerte dinámica de actuación del museo estimulada por
una saneada economía y una buena política mediática ha ido propiciando directa e indirectamente
la formación de un número importante de técnicos, gestores y empresas que defienden
una orientación similar.
También la política de expansión de “La Caixa” (que evidentemente no se limita únicamente
a este sector) a hecho posible la difusión rápida del modelo. La creación del Museo
de la Ciencia y el Cosmos, en La Laguna, Tenerife en 1989-93, el Museo Domus en La Coruña
en 1994-95, el Museo de las Ciencias Príncipe Felipe en Valencia en el 2001 (este último
caso es particularmente especial por lo que deberíamos poner mayor atención), y muchos
otros son un buen ejemplo de ello.
Se ha hablado mucho sobre el modelo Centro de Ciencia, de sus limitaciones, de su frágil
discurso crítico-científico y en consecuencia de su fuerte carácter ideológico. Pero a nuestro
entender, sobre todo en el contexto español, su mayor limitación es su pretendida universalidad
que en la práctica se traduce inevitablemente en una alineación respecto al contexto
que lo acoge.
Un ejemplo claro de ello es el “Centre Cultural Europeu de la Natura” inaugurado en
1999 en pleno Parque Natural del Montseny, una zona de amplio interés naturalístico y cultural
(el punto alpino más bajo del área mediterránea). El centro con un modelo totalmente
urbano no ha sido capaz de conectar con las posibilidades que ofrecía el entorno. En estos
momentos, después de tres años, se está pensando en la remodelación del mismo.
Otro punto de referencia, en otro sentido, es el proyecto del Museo Nacional de Arte
Romano de Mérida. El edificio inaugurado en Septiembre de 1986 diseñado por el arquitecto
Rafael Moneo, nos parece que instaura en España un modelo de implantación centrado
en la creación de una arquitectura de autor. El proyecto de Moneo fundamentado sobre
los modos constructivos romanos plantea un edificio que se sobrepone a un yacimiento
romano de gran calidad.
Aquí la tensión entre lo viejo y lo nuevo es fundamental, pero finalmente el proyecto arquitectónico
domina sobre el conjunto y la implantación museográfica queda en segundo
plano. El ejemplo es de gran contundencia y a pesar de que la calidad de la obra arquitectónica
es remarcable, se pone en evidencia una manera de hacer en la que la visión específica
y alejada del arquitecto domina el conjunto del proyecto. La arquitectura se impone al
posible discurso del museo.
Otro modelo de actuación surge por el interés de captar el coleccionismo privado, accediendo
de una forma rápida a colecciones de mas o menos prestigio y/o a la creación de nuevos
museos. El primer ejemplo de ello es el acuerdo para disponer de la colección Tyssen-
Bornemiza, en Madrid y Barcelona entre 1990 y 1993. El acuerdo se concretó con la instalación
de 800 piezas representativas de la historia del arte en el Palacete del Duque de Villahermosa
en el centro de Madrid frente al Museo del Prado. La instalación en el remodelado
y ampliado edificio, diseñado por Rafael Moneo, es un ejemplo claro y típico de este
modelo. En esta operación la tensión entre Madrid y Barcelona se hace transparente. El
Ayuntamiento de Barcelona consigue que una pequeña parte de la colección se instale en el
Monasterio de Pedrables.
En esta misma línea de actuación la creación del Museo de Arte Pre-colombino a partir
de la colección Barbier-Müller en Barcelona en 1997 es otro caso significativo. Un ejemplo
21

22 en el extremo es el proyecto del archiconocido Museo Guggenheim Bilbao en el país Vasco.
Evidentemente este último representa también un referente claro del uso de la arquitectura
y de la capacidad de su imagen de convertirse en un medio de gran impacto mediático sobre
un contexto específico 5 .
La propuesta desde nuestra perspectiva conecta directamente con la dinámica que se inicia
en Francia con los grandes proyectos del Estado en París. Este modelo aparte de los convencionalismos
que arrastra desde la perspectiva museológica y museográfica, plantea serias
dudas visto en relación a su sentido social.
En la mayoría de los casos y en los ejemplos mencionados sucede que, por un lado son
propuestas totalmente ajenas al patrimonio de la comunidad que las acoge, y por otro parece
que tienden más a solucionar los problemas del propio coleccionista, de los gestores y
de los políticos y partidos que las propician que los propios del lugar donde se ubican.
Otra línea de actuación viene ilustrada por el proyecto del “Museu d’Art Contemporani
de Barcelona” inaugurado en 1991. El proyecto del MACBA nos muestra por primera
vez y de manera contundente que hoy, el interés de los museos de arte contemporáneo no
radica en su contenido sino en el continente 6 . El edificio proyectado por el arquitecto americano
Richard Meyer se presenta a la ciudad completamente vacío, registrando en las sesiones
de puertas abiertas una afluencia de 30,000 personas.
El escritor Sergi Pamies 7 escribía sobre el fomento «Sin que exista precedentes, una ciudad
ha tenido la osadía de subvertir el orden establecido y ofrecer a sus ciudadanos la posibilidad
de visitar el museo perfecto: el museo vacío». Y propone «Luchemos pues, para que
el MACBA no se convierta en un museo mas, con su servicio de guardarropa antipático, sus
guardias de seguridad mal humorados, su tenderete de camisetas modernas y su cafetería
aséptica».
Pero el ejemplo del MACBA muestra también como se realiza el “cumplimiento” de las
políticas culturales con acciones de imagen, de maquillaje, en lugar de buscar soluciones
quizá arriesgadas y dando contenido a las mismas.
Este desequilibrio estructural que arrastra el museo desde el principio se ha puesto en
evidencia continuamente sobre todo en el trabajo museográfico haciendose imposible conciliar
la arquitectura con la presentación de los materiales expositivos.
Durante los primeros años el edificio se imponía a las necesidades de presentación de las
obras. Últimamente desde que se ha ido consolidando una política más coherente de actividades,
el espacio tiende a degradarse. Las necesidades obvias que surgen al construir discursos
claros y contundentes obligan a la arquitectura a enfrentarse a una actividad que la
confunde.
Finalmente otro suceso que ha generado una dinámica que hay que considerar es la Exposición
Universal de Sevilla. Es cierto que el carácter de los proyectos y montajes propios
de las grandes exposiciones universales no representan una novedad. No incorporan realmente
tipologías nuevas, pero en el caso español, la exposición en Sevilla significa la aceptación
y la defensa de un modelo de modernización y dinamización muy preciso por parte
de la “izquierda” más moderna. De un modelo que ya había dado todo lo que podía dar de
sí, pero que se aceptó unánimemente por el gobierno. En el contexto del 92 pocas voces críticas
lo vieron como un modelo obsoleto. La exposición propició por un lado que algunas
de las empresas y profesionales que hoy operan en el sector se consolidaran en el mercado y

por otro que se creara una cierta opinión pública dispuesta a aceptar que los medios que incorporó
se utilizaran en territorios estrictamente culturales.
Sevilla 92 incorpora directa o indirectamente a la actividad museológica y museográfica
modelos basados en discursos estereotipados, modernidad, nuevas tecnologías, ecología, naturaleza,
interculturalidad, etc., y las técnicas expositivas propias de la industria del espectáculo
y el entretenimiento. En esta línea en extremos distintos y variaciones diversas encontramos
un gran número de pequeños y grandes proyectos. El Museo de Altamira en Santillana
del Mar y el Museo Arqueológico de Alicante, inaugurados en el 2001, son un ejemplo
de ello.
Las constantes que se manifiestan en estas propuestas y de muchas otras que no hemos
mencionado por falta de espacio tienen un carácter ciertamente ambiguo.
Si vemos en conjunto todo este extenso trabajo realizado, no podemos menos que decir
que: por un lado es evidente que se ha creado un impacto positivo en la percepción que se
tenía de una España raptada por un régimen dictatorial, resaltando el esfuerzo modernizador
de las nuevas fuerzas democráticas, sea cual sea el partido político del que surgían. Por
otro lado la realidad se manifiesta poniendo en evidencia una cierta incapacidad para llegar
a los estratos más profundos de la actividad cultural; ni las nuevas infraestructuras alcanzan
los niveles de los países más desarrollados de Europa, ni los instrumentos para la práctica
cotidiana se han modernizado lo suficiente.
Un rasgo común en todos los ejemplos presentados es que siempre surge de fuera del
medio donde se desarrolla realmente la actividad cultural, en este caso en concreto la actividad
patrimonializadora.
Son propuestas decididas y planteadas con objetivos que se imponen desde fuera de las reales
fuerzas productoras del sector. En realidad no plantean soluciones, sino que son soluciones
que utilizan los museos para resolver problemas que en muchos casos le son ajenos; la creación
de imagen, la utilización de la arquitectura como prestigio, la dinamización del territorio
o la solución de problemas de gestión de instituciones distantes. Finalmente nos atreveremos
a decir que son un ejemplo del “uso de los museos” no de la “creación de museo”.
En nuestra opinión si queremos fortalecer, prestigiar y rentabilizar este sector hay que
buscar alternativas a esta situación. Y éstas creemos que deben surgir y fundamentarse sobre
los puntos siguientes:
–Profundizar en el museo como máquina productiva de patrimonio y trabajar globalmente
en la secuencia: – Museo-Patrimonio-Identidad – entendiendo la identidad desde el
consenso y la diferencia y poniendo una mayor atención en el proceso de patrimonialización
y de los cambios reales que provoca en los individuos de la colectividad. Es por ello que la
práctica museográfica debería atender más a los mecanismos de ritualización y al papel del
museo como lugar de reunión-debate, o sea, como medio de creación de opinión pública.
–Poner en el centro de los proyectos el trabajo del museo, la cultura específica de cada centro,
la cultura que surge del trabajo y del estudio de las colecciones y de la relación de éstas
con el territorio entendido “como lugar” y como “comunidad”.
–Incorporar en los proyectos y trabajos una crítica a los medios, sea el mismo museo o sean
los medios de producción y de transmisión de información que utiliza.
23

24 Los museos han de ser capaces de desarrollar una forma de comunicación específica, una retórica
propia distinta y diferenciada de los otros medios de comunicación propios como son
la T.V., la industria del entretenimiento y del ocio, del consumo turístico, de los video-juegos,
etc.
–Desarrollar una política de gestión y de desarrollo poniendo el acento en el producto central
(Patrimonio) pero incorporando y desarrollando productos periféricos (productos que
potencian el producto central y que al mismo tiempo tienen posibilidades en el mercado,
un mercado que hoy ya es muy amplio y suculento).
–Poner mayor atención en políticas culturales de formación, coordinación, racionalización,
gestión por encima de los gestos fáciles y de carácter mediático, o sea potenciar el espíritu
que dominaba los primeros años de la transición, por encima del espectáculo y la
competencia partidista.
Finalmente en la práctica, a nuestro entender, una de las mejores formas de potenciar
la cultura museística desde el proyecto y el diseño es intentar actuar desde dentro de la
propia estructura cultural y productiva de las instituciones patrimonializadoras. Éste es
nuestro reto.
Segunda parte
PROYECTAR DESDE DENTRO. EL PROYECTO DE IMPLANTACIÓN Y MUSEOGRAFÍA
DEL “MUSEO DE LA NATURALEZA Y EL HOMBRE”
Introducción
Un museo es una entidad viva y de gran complejidad, es un medio de comunicación, y también
mucho más, es sobre todo una institución patrimonializadora y por ello productora de
eventos, de procesos de ritualización, en definitiva es una herramienta generadora de identidades.
Un museo es una entidad orgánica que esta ligada:
–A un lugar y a una comunidad concreta.
–A un edificio y a la trama urbana donde esta ubicado.
–A unos restos patrimoniales, a unas colecciones.
Y también:
– Al trabajo productivo de un conjunto amplio y heterogéneo de personas que configuran
un complejo sistema generador de información y de discursos especializados.
Cada museo es realmente una entidad única, con especificidades propias, y dinámicas
también distintas; cada museo tiene su historia. Nos atreveríamos ha decir por ello que, cada
museo es un universo concreto con una cultura propia 8 . Es por ello que los trabajos de
diseño en el museo y/o en un extremo proyectar un museo entero es un problema de muy
amplio abasto.
En los problemas simples, el diseñador, por su condición de persona culta, por su experiencia
personal o por su especialización profesional, llega a disponer de una información
interiorizada suficiente que le permite tomar decisiones solo y desarrollar el proyecto de ma-

nera individualizada, pero en los problemas complejos si no quiere fracasar irremediablemente
debe trabajar de forma distinta.
El diseñador en los problemas complejos debe ser capaz de realizar su trabajo dentro de
un colectivo numeroso y heterogéneo, y tomar decisiones en tensión continua con otras disciplinas.
El diseño de problemas complejos, y el diseño de un museo lo es, obligan al diseñador
a situarse adecuadamente dentro de un sistema amplio y poco conocido, que debe
comprender globalmente, actuando como analista dentro de él y como crítico y proyectista
desde fuera del mismo.
En el contexto cambiante donde se desarrolla la práctica museística actual, el trabajo de
diseño, además, debe a nuestro entender comprometerse y tomar una orientación precisa.
El diseñador, situado por la naturaleza de su disciplina en medio del proceso productivo,
debe ser capaz de tener una visión global de los problemas a los que se acerca y sin renunciar
a su vocación formalizadora adoptar una actitud de mediador, dinamizando los procesos de
proyectación. Desde esta óptica, gestión y diseño deben entenderse como una sola disciplina
utilizando sus recursos de forma entrelazada y complementariamente 9 . Debe ser capaz de encontrar
las herramientas adecuadas, y superando los procesos tradicionales de causa-efecto,
poder comprender y actuar creativamente sobre el conjunto y las partes de cada problema. Finalmente
también, ha de incorporar una actitud crítica en los procesos de diseño, principalmente,
como comunicador, orientandola a los medios y a las representaciones.
El diseño ha de entenderse como un proceso, y el proyecto como una síntesis donde se
realiza el consenso de todos aquellos que han intervenido en su concreción.
El diseño ha de asegurar la coherencia interna del proyecto y el rigor en su formalización.
Al mismo tiempo el promotor, museo o institución, ha de entender que el diseño no es
simplemente un hecho superficial, ornamental, que busca solamente influir en la apariencia
externa de las cosas, si no que es un hecho constitutivo, un medio racionalizador, que
puede y debe influir de forma positiva en la calidad de los productos, procesos de comunicación
y producción de información y por tanto cabe pensar que hay que aportar los medios
para que ello sea posible.
El diseño nunca puede ser una práctica aislada, pero sobre todo en los museos el diseño
debe entenderse como un proceso integrado al conjunto del aparato productivo – cultural
de la institución.
Es por esto que proyectar un museo solo puede hacerse desde dentro. En un museo el
proyecto no puede imponerse como una solución, sino que ha de fluir orgánicamente destilando
la cultura propia de la institución.
Un museo concreto es siempre el resultado de un conocimiento generado por el estudio
y el trabajo de una colección determinada, ligada a su entorno preciso.
El museo y su formalización como edificio, como producto/s y servicio/s, como medio
de comunicación, siempre es un resultado de un trabajo y de una situación previa. El diseño,
precisamente ha de hacer posible esta síntesis, en sus distintas representaciones, utilizando
el proyecto como instrumento.
Proyectar desde dentro, pero, es sobre todo una filosofía y requiere por tanto una praxis
concreta, lo que quiere decir desarrollar el proceso de diseño de una determinada manera
buscando instrumentos precisos y adecuados para ello.
25

26 Desde nuestra perspectiva el proyecto del “Museo de la Naturaleza y el Hombre” es un
intento particularmente interesante en este sentido.
Proyectar desde dentro
Proyectar desde dentro quiere decir ante todo diseñar progresando orgánicamente con el
proyecto. Proyectar desde dentro requiere disponer de un consenso previo que deberá reforzarse
hasta alcanzar su cenit con la concreción del proyecto.
En el caso del proyecto del MNH esta situación se busca mediante tres ejes de actuación
distintos. El primero se desarrolla a partir de la redacción de un documento que define un
proyecto conceptual o sea una propuesta marco. Este documento ha de explicar:
– Como funciona el museo, las áreas de actividad y el trabajo que se realiza
–Donde se trabaja, los espacios de trabajo, los espacios complementarios, laboratorios, talleres,
almacenes y también los espacios públicos.
–Cuales son las infraestructuras necesarias, los medios técnicos y las condiciones de los
equipamientos.
–Que se produce, cuales son los productos y servicios que realiza el museo.
Este documento no debe entenderse como una propuesta cerrada que hay que aceptar totalmente
si no que ha de verse como un punto de partida, y deberá modificarse en la medida
que vaya aumentando el conocimiento sobre el museo que se quiere según avance el
proyecto.
En nuestro caso la redacción del mismo se realizó mediante una serie de reuniones de
discusión con los distintos responsables de los museos, directores, conservadores y técnicos,
tanto de Arqueología como de Ciencias Naturales y de la Administración.
En las sesiones de trabajo se habló de las necesidades prácticas de cada área de trabajo,
pero también, de los conceptos generales que debían regir el futuro museo, y también
de la forma en que debería desarrollarse el proyecto. De este largo y amplio debate surgió
un texto que contenía los parámetros para la rehabilitación del edificio, el diseño de
las instalaciones y la definición de los espacios interiores.También introducía las cuestiones
fundamentales para la concreción de la imagen institucional, el diseño interior y el
trabajo museográfico.
En resumen el contenido concreto de este documento es:
0. Introducción
I. Datos para la implantación
II. Datos sobre los objetivos museológicos y museográficos
III.Observaciones sobre el museo como institución pública y como medio de comunicación
global
IV. El edificio para el futuro museo
V. Observaciones sobre las condiciones de los espacios para la implantación del “Museo de
la Naturaleza y el Hombre” en el edificio del antiguo hospital
VI.Esquemas y gráficos.
Las consecuencias inmediatas y más importantes de la realización de este primer paso fueron:
acordar y integrar en un único centro dos museos distintos, el de Arqueología y el de

Ciencias Naturales, ambos de una gran entidad y larga trayectoria en el contexto tinerfeño,
canario y español.
Esta nueva situación debía producirse conservando la identidad de ambos y su gestión
independiente. Es por ello que se propuso la creación de una nueva entidad, el “Museo de
la Naturaleza y el Hombre” articulada por el Organismo Autónomo de Museos y Centros,
y presentada mediante una imagen institucional que daba coherencia y forma a su doble
condición. El MNH debía presentar sus colecciones y discursos en un edificio común.
La propuesta museográfica contempla en consecuencia espacios comunes y espacios específicos
ofreciendo al visitante un paisaje muy amplio de lo que es la realidad cultural, la
Arqueología y el entorno natural de Tenerife y de las Islas Canarias.
El programa básico de funcionamiento general para todo el edificio insiste en nueve
puntos, que son esenciales para el funcionamiento de los espacios de presentación museográfica.
Tales datos permitieron desarrollar el proyecto de rehabilitación arquitectónica del
antiguo hospital de forma eficiente y ágil. Los nueve puntos son:
1. Circuitos básicos y conexiones entre áreas principales
2. Sala de exposiciones, organización del espacio y conexiones
3. Vestíbulo amplio. Zona de distribución de visitas, público y privado
4. Esquema de distribución, salas comunes y salas de contenidos especializados
5. Plantas piso, primera y segunda. Propuesta de circulación
6. Aulas de recepción, información complementaría y talleres didácticos
7. CEDOAC. Esquema de organización de los espacios y conexiones
8. Sistema de la red de la información informática
9. Esquema de circulación vertical con recorridos alternativos.
Tenemos que insistir en lo importante que fue este trabajo previo. Permitió también concretar
tres programas fundamentales para el desarrollo del proyecto:
1. Programa de funcionamiento del edificio, base para el encargo arquitectónico
2. Redacción del proyecto de imagen institucional del museo definiendo su integración
con el programa de comunicación del Organismo Autónomo de Museos y Centros
3. Programa básico de mobiliario estándar, señalización y implantación museográfica.
Definición de contenidos, interpretación y proyecto de acondicionamiento de los espacios
de presentación museográfica.
Cada uno de estos es también un mecanismo de consenso en la medida que su redacción se
realizó intentando incorporar mediante distintos instrumentos los conocimientos e inquietudes
del equipo de trabajo del museo. El conjunto de los tres se incluyen en lo que seria
realmente el proyecto museológico.
El plan general permitió también pensar en desarrollar en conjunto de los trabajos de proyecto
e implantación por fases y partes manteniendose la coherencia de la propuesta global.
El segundo eje fluye a partir de la particular posición del diseñador, su concepción del
diseño, su actitud y de los instrumentos que utiliza 10.
Pensar en una dirección se traduce en un actuar y finalmente en la realización de un producto
concreto. Es por esto que este eje es fundamentalmente el eje del proceso de producción
del proyecto.
27

28 En el caso del MNH el proceso de realización del encargo se realizó en cuatro partes distintas:
1. Realización del programa marco
2. Proyecto de rehabilitación y arquitectura del edificio
3. Proyecto de imagen institucional
4. Proyecto de implantación y museografía.
Y en distintas fases. Estas pueden enumerarse de la siguiente manera:
1. Rehabilitación entrada y segunda planta
2. Puesta en marcha del programa básico de difusión
3. Proyecto de implantación y museografía de la segunda planta
4. Rehabilitación planta baja, patios y servicios
5. Proyecto de implantación y museografía planta 0. Tienda
6. Rehabilitación primera planta
7. Proyecto de implantación y museografía de la primera planta.
Los puntos de inflexión de este proceso, en los que la participación de la dirección de los
museos y del Organismo, de todos los equipos de especialistas, de la Administración y de
técnicos especializados ha sido fundamental son:
1. La realización del programa marco
2. La concreción del programa de la imagen institucional
3. La definición de los contenidos del discurso correspondientes a la planta cero, primera
y segunda. La elaboración de la estructura expositiva para estos tres amplios conjuntos y
para sus partes más importantes.
Teniendo en cuenta que el material fundamental del proyecto es la información se ha
puesto una especial atención en definir una base objetiva para:
1. Recoger y documentar la información necesaria para dar contenido al proyecto
2. Presentar la información para la ejecución de la fase de redacción material del proyecto
3. Concretar los instrumentos de interpretación o sea los útiles para realizar el paso que va
de una información conceptual a una forma concreta de representación de la misma.
Estos mecanismos consensuados previamente han servido también como herramientas
fundamentales para la participación de todos los agentes implicados en el proyecto.
El proceso de proyecto, desarrollado según el modelo que defendemos, implica en sí mismo
una serie de mediaciones. Unas son interrelaciones de carácter muy general, otras son
de ámbito más localizado y mucho más especificas. Todas ellas funcionan también como
formas de consenso.
Ejemplos de las primeras son las relaciones que se establecen en el ámbito del trabajo interno
del museo, entre la gerencia, la administración, la gestión y la dirección científica, la
investigación, el estudio y la conservación de las colecciones. También, en otro plano, todas
ellas con el edificio y el entorno del museo. El trabajo científico y las colecciones con los receptores
de los programas de difusión según sean los productos específicos que se traten y
el programa de imagen institucional. Una buena gestión de diseño y del proyecto debe parte
por parte, y caso por caso, establecer acuerdos entre estos ámbitos de conocimiento y actividad
habitualmente bastante aislados y distantes.

Las segundas conexiones están relacionadas principalmente con la presentación de los
discursos del museo, al concretarse los mecanismos de interrelación de los conceptos que
proponen los especialistas como discurso con los materiales a exponer; la forma expresiva y
la formalización de su representación; los materiales gráficos, los soportes, unidades expositivas
y estas con el espacio arquitectónico. Los medios bi y tridimensionales y los medios audiovisuales
de distinto soporte 11 .
El proyecto del museo presenta ejemplos de todos ellos que nos parecen particularmente
interesantes, también son interesantes los mecanismos que se han utilizado, con más o
menos fortuna para garantizar su éxito.
En nuestra opinión el proyecto desarrollado en esta línea adquiere un sentido más amplio
ya que cubre una doble función:
– Obtener un producto de calidad, consistente y adecuado para la posterior ejecución de los
trabajos de realización material
– Mejora, fortalecimiento y consolidación de la cultura del museo. Dado que el proceso ha
obligado a la estructuración de grupos de trabajo especiales. Ha incrementado y mejorado
el pool de conocimiento y de experiencia de las personas que han participado en el proyecto.
Ha estimulado el crecimiento del rendimiento en el trabajo, etc, etc.
El proyecto también ha asegurado un dispositivo que ha funcionado ordenando la actuación
en el tiempo, posibilitando la ejecución por fases, y la realización del trabajo a distancia
y a largo plazo.
Finalmente el tercer eje conlleva la definición de una estructura de gestión del diseño,
en relación a la estructura productiva del museo. La aceptación de que los trabajos de diseño
y comunicación como una técnica específica y un instrumento útil para proyectar y/o
gestionar un museo, es imprescindible para realizar un trabajo realmente integrado. Es por
esto que el organigrama de gestión del museo ha de incluir el diseño como un aspecto más
de su actividad.
Las formas de hacerlo son amplias y distintas, la evolución de las industrias productivas
hacia productos de calidad y de alto valor añadido nos muestran un extenso abanico de posibilidades,
a veces no exento de conflictos, por lo que su adaptación requiere una revisión
crítica.
La incorporación del diseño en la cultura del museo no excluye la posibilidad de realizar
proyectos con diseñadores externos si no al contrario, para problemas complejos o especializados
la intervención desde fuera puede ser un estímulo y una forma de adquirir más
experiencia. Experiencia que con el trabajo común y diario de la institución posiblemente
seria difícil de adquirir.
Esta situación mixta es la que se da en el proyecto del MNH. En él la existencia de un
área especializada en el interior del museo ha sido una condición fundamental para su éxito,
actuando de promotor a veces, de dinamizador otras, y siempre llenando los huecos de
las continuas necesidades del día a día. Esta situación es la que ayuda a mejorar la conexión
del proyecto y su desarrollo con la propia cultura del museo, manteniendo la coherencia del
proyecto desde dentro.
29

30 Notas sobre los contenidos del discurso del museo correspondientes a la planta 0, primera
y segunda.
La elaboración de la estructura expositiva para estos tres amplios conjuntos y para sus
partes más importantes.
En el primer documento elaborado a lo largo del proyecto la propuesta concretaba los contenidos
a presentar en las salas de exposición permanentes del museo.
Estos según las plantas eran los siguientes:
Éstos se ubicaban en los espacios del museo según una propuesta de circulación precisa.

Cada área temática y las unidades de información se entienden como unidades independientes
y al mismo tiempo complementarias.
De este modo se consigue que la visita pueda hacerse de una forma lineal, cerrada y también
de manera más abierta y mediante múltiples itinerarios opcionales. El discurso tenía
que ser claro, global y a la vez con posibles lecturas parciales.
Finalmente este esquema se fue concretando al detalle a medida que se cumplían las fases
de desarrollo del proyecto.
PLANTA 0
Área 0 El museo como herramienta.
Aula didáctica
Área 1 Origen y naturaleza del Archipiélago Canario
1.1 Escala del tiempo
1.2 Canarias: un archipiélago en el Atlántico
1.3 Un volcán. Funcionamiento de un volcán
1.4 Formación de una isla volcánica. Evolución geomorfológica
1.5 Formación de las Islas Canarias. Las islas recién formadas
1.6 El poblamiento de las islas
1.7 El clima en Canaria
1.8 Los ecosistemas de Tenerife
1.9 El hombre, el entorno y los seres vivos
31

32 PLANTA PRIMERA
ARQUEOLOGÍA CIENCIAS NATURALES
Área 0 Las islas - Entornos singulares
Área 1 Las colecciones Área 1 Botánica
Área 2 Arqueología de Tenerife Área 2 Invertebrados terrestres
Área 3 Grabados rupestres en Canarias Área 3 Vertebrados
Área 4 Aula didáctica Área 4 Aula didáctica
PLANTA SEGUNDA
ARQUEOLOGÍA CIENCIAS NATURALES
Área 0 Canarias a través del tiempo
Área 1 Las colecciones Área 1 Conservemos nuestro patrimonio
Área 2 Prehistoria de Canarias Área 2 Minerales, rocas y fósiles
Área 3 Antropología biológica Área 3 Biología marina
Área 4 Aula didáctica Área 4 Aula didáctica

Notas sobre la concreción de los instrumentos de interpretación o sea, los útiles para
realizar el paso que va de una información conceptual a una forma concreta de representación
de la misma.
El discurso museográfico ha seguido un proceso complejo. Su objetivo fundamental es la realización
del discurso del museo integrando con rigor los objetos de la colección con los soportes,
textos y elementos de información en el espacio arquitectónico. El punto fundamental
sobre el que gira este proceso es la interpretación.
33

38 Como un ejemplo significativo presentamos los pasos seguidos para el diseño del ámbito de
Prehistoria de Canarias (segundo piso).
Hay que tener en cuenta que a pesar de que el proceso se ilustra paso a paso y en una estricta
linealidad, en realidad se ha realizado de forma mucho más compleja; después de la
internalización de los datos e informaciones recibidas en una primera fase se propone un esquema
global de organización de la información. Después mediante sucesivos pasos de crítica,
depuración y síntesis, de idas y venidas, se consensua una organización definitiva. Esta
primera fase del proceso se corresponde al punto 3.
Los pasos sucesivos son de carácter más técnico.
1 F. Roca 1979, Llibre blanc dels
museus de Barcelona, Ajuntament
de Barcelona, Serveis de cultura,
Barcelona.
2 Memoria Departament de Cultura,
Generalitat de Catalunya, Serveis
de Publicacións, Barcelona
1982.
3 J. Wagensberg 2001, Principios
fundamentales de la museología científica
moderna, in “Barcelona. Metrópolis
Mediterránea”, Abril-Ju-
nio, 55, Ajuntament de Barcelona,
pp. 42-44.
4 J. Wagensberg, op. cit.
5 E. Franch 2001, Musei e comunicazione.
Il caso Guggenheim de Bilbao,
in “Nuova Museologia”, Noviembre,
5, Milán, pp. 7-9.
6 S. Pamies 1991, El museo vacio,
en Diseño Interior. Museografías,
Madrid, p. 15.
7 Pamies, op. cit.
8 G. Pinna 1997, Fondamenti teo-
rici per un museo di storia naturale,
Editorial Jaca Book, Milano, p.
27.
9 E. Franch 2000, Nuevos espacios
para la cultura en Europa, Editorial
Milenio, Diputación de Barcelona,
Lérida, p. 15.
10 E. Franch, op. cit.
11 E. Franch 2000, Il linguaggio
espositivo: tre tipologie di base, in
“Nuova Museologia”, Junio, 2, Milán,
p. 2.

La conservazione delle dimore storiche
Rosanna Pavoni
President ICOM’s International Committee of Historic House Museums
(DEMHIST) - Milano
RIASSUNTO
Il Comitato Internazionale Dimore Storiche Museo (DEMHIST) nasce all’interno dell’ICOM nel 1998
come “luogo” per sviluppare il dibattito sulle problematiche legate alle dimore storiche divenute musei.
Alla casa e ai suoi arredi e decori è stato riconosciuto il compito di conservare la memoria non solo di chi
vi ha abitatato, ma anche di tutta la società che ha costituito lo sfondo degli eventi avvenuti tra le sue mura,
in un inscindibile legame di senso tra il contenitore architettonico e gli oggetti e i decori che gli appartengono.
Per valorizzare al meglio la specificità delle singole tipologie di dimore occorre valutare quale sia l’approccio
più proficuo a tutti gli ambiti museologici, dal restauro, alla didattica, alla comunicazione con il
pubblico, affinché il racconto che si snoda attraverso la casa raggiunga il suo obiettivo. A questo scopo il
Demhist ha elaborato e lanciato un progetto di classificazione che, grazie al confronto tra le diverse forme
di musealizzazione, arrivi a restituire in un quadro comparativo la ricchezza di strumenti a disposizione,
così da permettere di finalizzare al meglio l’impegno e lo sforzo di offrire a un pubblico vasto il racconto
di una o più storie entro le pareti di una abitazione. Di tutto questo si gioverà in definitiva il visitatore
al quale sarà comunicato in forma chiara e con strumenti adeguati il contenuto della casa museo:
sarà cioè fornita una chiave di lettura che renderà quella visita una esperienza gratificante e non sovrapponibile
ad altre.
SUMMARY
The International Committee of Historic House Museums (DEMHIST) is part of ICOM. It was set up in
1998 to open a discussion forum on the issues related to historical houses that have been turned into museums.
Historical houses, as well as their furnishings and decorations, have been entrusted with the task to preserve the
memory not only of their dwellers, but also of society as a whole, which has been the backdrop of the events that
have taken place inside those places. This highlights a close tie between the architectural container and its objects
and furnishings.
To better enhance the specificity of each individual mansion, it is of course important to assess what is the
best approach to be adopted in presenting historical houses covering all the museological aspects, ranging from
restoration to education and communication to the public. To this purpose, Demhist has developed a classification
project based on a comparative study of the various museum approaches to outline a full overview of the
available solutions and to better target and enhance the message to be provided to a large public, focusing on
one or more stories related to that specific house. Visitors will be the final beneficiaries of this approach, who
will receive a clear and suitable presentation of the museum-house. A proper interpretation key will have to be
used to make this experience a very pleasant and unique one.
È ormai un dato acquisito come negli ultimi decenni la “dimora” abbia richiamato su di sé
un grande interesse come strumento in grado di raccontare con un linguaggio proprio
aspetti della storia artistica, economica, sociale e della cultura di ambienti e epoche diverse:
aspetti che, se delegati ad altri strumenti di indagine, andrebbero persi 1 .

40 Alla casa, ai suoi arredi, ai suoi decori è stato riconosciuto il ruolo di conservare la memoria
non solo di chi la ha abitata, ma anche di tutta la società che ha fatto da sfondo agli
eventi avvenuti tra le sue mura; è stata riconosciuta all’insieme degli oggetti che con la struttura
architettonica costituiscono il “sistema casa”, la capacità di astrarre dal contingente il
senso di un percorso di gusto e di cultura a cui ricondurre esperienze abitative tra loro apparentemente
distanti.
In definitiva, alla casa sempre più sono stati attribuiti specifici valori e finalità museali,
quali tutelare, conservare, divulgare, senza che questo abbia però sminuito le qualità proprie
di comunicazione e di coinvolgimento cognitivo e emozionale delle abitazioni.
Una volta riconosciuta e ammessa la peculiare tipologia museale delle case-museo – in
sintesi una tipologia che vede sopra a tutto un inscindibile legame di senso tra il contenitore
architettonico e gli oggetti e i decori che vi sono conservati; una tipologia museale che
vede un’irrinunciabile relazione tra il susseguirsi delle stanze come luoghi della vita e il procedere
dell’apprendimento – occorre soffermarsi sulle interpretazioni museologiche che della
dimora possono essere date.
La complessità e la ricchezza dei racconti che possono essere comunicati al pubblico da
una casa museo hanno infatti stimolato negli “addetti ai lavori” una ulteriore riflessione: la
molteplicità e diversità delle dimore oggi museo è assai vasta, poiché si passa dai palazzi reali
alle residenze di campagna, dagli appartamenti di città agli studi/abitazioni degli artisti, e
così via. A ciascuna di queste (e molte altre) tipologie corrisponde una propria specifica qualità
di “risonanza”, cioè corrisponde una peculiare capacità di stimolare nel visitatore una serie
di rimandi che lo porteranno ad avvicinarsi, e nel migliore dei casi, a comprendere una
cultura, una società anche attraverso il suo modo di abitare.
Per valorizzare al meglio la specificità delle singole tipologie occorre applicare strumenti
e metodologie coerenti con la narrazione che si desidera venga espressa dalla casa museo:
occorre cioè valutare quale sia l’approccio e il racconto più proficuo che primariamente attraverso
la casa si vuole comunicare (per esempio, sottolineare una storia familiare, oppure
valorizzare la rappresentazione del gusto dell’abitare e del collezionare del periodo in cui la
dimora fu realizzata, oppure far emergere la personalità dell’uomo illustre che l’abitò). Per
raggiungere questo obiettivo si devono utilizzare tutti gli strumenti museologici a disposizione,
dal restauro, alla didattica, alla comunicazione con il pubblico 2 .
Per chiarire in quale misura differenti approcci possano incidere nella visione complessiva
dell’identità e della specificità della dimora musealizzata, porterò alcuni esempi nel campo del
restauro e della conservazione.
Mi concentrerò sulle tappezzerie e sulle stoffe utilizzate nell’arredamento, elementi che
si dimostrano assai rappresentativi di come scelte di conservazione siano indiscutibilmente
legate ai contenuti di storia e di cultura che si intendono far narrare dalla casa. Il primo caso
preso in esame è l’Olana State Historic Site, la casa con annesso studio del pittore Frederic
Edwin Church, a 130 miglia da New York City 3 . La dimora rappresenta perfettamente
la tipologia della casa d’artista: realizzata negli anni Novanta dell’Ottocento, la villa fu progettata
da Church dopo un viaggio durato venti mesi in Europa e in Medio Oriente. In essa
l’artista riassume e ripropone in una sintesi personale i decori visti, le architetture visitate,
gli oggetti collezionati durante i viaggi, così che un cronista la definì «Persian adopted to
the Occident». Ogni ambiente, in cui arredi funzionali dell’American Aesthetic Movement

si mescolano a importanti pezzi esotici o lasciano il posto a collezioni di maestri del passato,
era stato ideato fin nei minimi particolari come una composizione in cui colori, oggetti,
spazi interni e esterni (importantissimo era il paesaggio circostante la villa come parte integrante
del disegno) restituissero l’immagine estetica del pittore. Nella sala da pranzo, per
esempio, dove le pareti erano coperte di dipinti antichi, «everything was toned down to four
hundred years back» – come scrisse lo stesso Church – per far corrispondere l’ambiente all’idea
di galleria di famiglia in un immaginifico passato.
Nella musealizzazione di questo progetto in cui vita e attività artistica si intrecciano, le
tappezzerie – e più in generale i tessili di arredamento – il loro colore, la loro sontuosa ricchezza
– una elaborata miscela tra Oriente e Occidente – rivestono un ruolo importante per
restituire l’identità del luogo: la casa in cui l’artista ha dato forma tridimensionale alla propria
poetica pittorica.
Come è stato giustamente notato, Church sicuramente pianificò la scelta dei colori e delle
tonalità delle tappezzerie e dei tessuti in armonia con i decori e con le tinte delle pareti:
è quindi determinante che questi tessuti, che hanno perso il colore originale, vengano restaurati
in totale sintonia con il restauro delle cromie delle pareti e degli altri decori pittorici,
in modo da ricreare quello schema di colori che era stata la “firma” della creazione di
Church.
Passando all’Inghilterra, l’English Heritage ha fatto scelte diametralmente opposte in alcune
sue proprietà: si è passati cioè dalla conservazione alla sostituzione o alla replica coerentemente
con il racconto che si è inteso far passare attraverso ogni singola dimora. In molti
casi si è optato per un totale rifacimento degli apparati tessili, privilegiando l’aspetto della
opulenza e della ricchezza decorativa, strumenti idonei a comunicare un certo racconto
storico (familiare, epocale, economico). Diversa scelta è stata fatta invece per Brodsworth
Hall, una dimora Vittoriana acquisita nel 1990 dall’English Heritage 4 . Dopo un intenso dibattito,
è stato scelto di sottolineare per i visitatori non tanto la valenza di questa dimora
come museo delle arti decorative del periodo vittoriano – scelta questa che avrebbe richiesto
un restauro integrativo per riportarla al suo originale splendore – quanto piuttosto è stata
privilegiata una lettura legata alla storia sociale. È stato cioè sottolineato il ruolo esemplare
della casa per raccontare il declino nel tempo di una famiglia, proprietaria originariamente
di una proprietà con trenta persone di servizio, fino ad arrivare all’ultima discendente
che vi viveva con il solo maggiordomo. Da questa idea è disceso anche il criterio di conservazione
degli apparati decorativi: mantenere la casa e tutto il suo patrimonio così come era
stato trovato, comprese le tende e le tappezzerie. Ciò ha significato interventi paradossalmente
assai impegnativi per mantenere in loco appunto tessuti completamente infragiliti e
rovinati e ha comportato strumenti didattici assai chiari per spiegare al visitatore, stupito e
incuriosito di fronte a questo stato di degrado, il pensiero che vi stava dietro.
Rifacimento o conservazione a oltranza possono dunque essere due differenti strumenti
per uno stesso progetto: narrare l’identità di una casa e esaltarne il suo potenziale narrativo.
Ed è con questa consapevolezza che a mio avviso vanno affrontati gli interventi finalizzati
alla tutela di ogni dimora storica, del suo patrimonio, del suo “senso”. Consapevolezza che
dovrebbe condurci anche ad affrontare il tema dei professionisti impegnati in cantieri complessi
come le case museo. Complessità che deriva da una molteplicità di obiettivi da raggiungere:
conservazione del patrimonio, conservazione del senso e della narrazione che dal
41

42 patrimonio materiale e visibile – oggetti – ma ancor più da quello immateriale e allusivo –
abitabilità, riti sociali, “gusto” – discende, approcci differenti per materiali differenti su cui
intervenire.
In questi cantieri sarebbe auspicabile che si operasse con un sistema di restauro integrato,
un restauro cioè in grado di raggiungere la conservazione dell’insieme, rispettandone e
proteggendone le differenti componenti. Chiaramente ciò comporta la formazione di restauratori
specificamente preparati a lavorare con questi parametri e in questo sistema, restauratori
formati nel progetto della conservazione di un insieme di cui ogni singolo apparato
mobile e fisso è elemento fondante. Gli importanti cantieri ora aperti o in fase di apertura
in residenze e palazzi storici sul territorio nazionale possono rappresentare una grande
opportunità per sperimentare questo tipo di formazione.
Tornando al punto di partenza di questo intervento, focalizzato sulle differenti tipologie
di dimore museo oggi esistenti, il DEMHIST ha elaborato e lanciato un progetto per coinvolgere
i professionisti impegnati nella gestione delle dimore museo: un progetto di classificazione,
appunto, delle differenti tipologie di dimore oggi musei 5 . L’obiettivo è quello di
analizzare le differenti forme di musealizzazione delle dimore (le differenti strategie di allestimento,
di percorsi, di coinvolgimento del pubblico, di restauro, di ricerca scientifica e di
divulgazione) che derivano appunto dalle specifiche caratteristiche che sono proprie di ciascuna
tipologia. Per fare un esempio, il coinvolgimento del pubblico in un castello di cui si
voglia far rivivere la vita che vi si svolgeva potrà prevedere performances con attori in costume,
scelta che potrebbe risultare non proficua se applicata alla casa di un collezionista,
attraverso cui si voglia far emergere il gusto dell’abitare e del collezionare di una classe sociale.
Il confronto tra le differenti forme di musealizzazione sicuramente accrescerà la consapevolezza
della ricchezza degli strumenti a disposizione tra i responsabili delle dimore museo,
valorizzando l’impegno e lo sforzo di offrire a un pubblico vasto il racconto di una o
più storie entro le pareti di una abitazione. Di tutto questo si gioverà in definitiva il visitatore
al quale sarà comunicato in forma chiara e con strumenti adeguati il contenuto della
casa museo: sarà cioè fornita una chiave di lettura che faccia di quella visita una esperienza
gratificante e non sovrapponibile ad altre.
Questa scheda rappresenta un primo passo verso la progressiva e approfondita individuazione
delle differenti “sotto categorie” di dimore museo, alle quali già corrispondono, e
nel futuro corrisponderanno con sempre maggiore consapevolezza, altrettanto specifiche
scelte in termini museologici.
1 Il Comitato Internazionale Dimore
Storiche Museo (DEMHIST), è
stato istituito nel 1998: il Comitato
fa parte dell’ICOM (International
Council of Museums) e ha per scopo
la creazione di un forum per il dibattito
sulle problematiche legate alle
dimore storiche divenute musei e il
confronto di esperienze professiona-
li tra colleghi. Per maggiori informazioni
sul DEMHIST, ci si può rivolgere
al seguente indirizzo: secretarytreasurer@demhist.icom.museum.
2 Il tema delle differenti tipologie
di dimore museo oggi esistenti è
stato affrontato in R. Pavoni, O.
Selvafolta, La diversità delle dimore
museo: opportunità di una riflessio-
ne, in L. Leoncini, F. Simonetti (a
cura di) 1998, Abitare la Storia, Atti
del convegno, Genova 20-22 novembre
1997, Umberto Allemandi
& C., Torino, pp. 32-36.
3 Per una approfondita analisi della
dimora e del suo valore documentario,
rimando a K. Zukowski
1999, Creating art and Artists: late

nineteenth-century American Artists’
Studios, master thesis Graduate Faculty
in Art History the City University
of New York.
4 Cfr. J. Bryant 2001, An Englishman’s
home is his Castle, in R. Pavoni
(editor), Historic House Museums
speak to the public: spectacular exhibits
versus a philological interpretation
of history, Acts of annual Conference
Demhist, Genoa 1-4 november
2000, Bergamo, pp. 29-33.
5 Per un approfondimento sul pro-
getto, si vedano R. Pavoni 2001,
Towards a definition and typology of
historic house museums, in “Museum
International”, n. 210, pp.
16-21; R. Pavoni 2001, Order out
of chaos: the Historic House Museums
categorization project, in R.
Pavoni (editor), Historic House Museums
speak to the public: spectacular
exhibits versus a philological interpretation
of history, op. cit., pp. 64-
70. In questo articolo è pubblicata
la prima scheda di classificazione.
R. Pavoni 2003, The second phase of
the categorisation Project: understanding
your House trough sub-categories,
in R. Pavoni (editor), Historic
House Museums as Witness of National
and Local Identities, Acts of the
Third Annual Demhist Conference,
Amsterdam 14-16 October
2002, Amsterdam, pp. 117-122.
Per ulteriori informazioni sul progetto
di classificazione, ci si può rivolgere
a: chair@demhist.icom.
museum.
43

Quali restauratori per le case-museo?
Annalisa Zanni
Museo Poldi Pezzoli – Milano
RIASSUNTO
Le case-museo hanno acquisito in questi ultimi tempi una maggiore consapevolezza dell’importanza di
individuare la propria identità culturale e le proprie caratteristiche tipologiche all’interno dell’unica grande
categoria in cui sono state finora ricondotte. Da questo mutato atteggiamento deriva una filosofia museologica
e museografica che connota tutti gli interventi all’interno delle case-museo, anche quelli legati
alla conservazione e al restauro.
Come si è evidenziato in alcuni interventi emblematici nei musei Poldi Pezzoli, Bagatti Valsecchi, e
Palazzo Reale a Milano, oltre che in altre città italiane, la compatibilità tra esigenze espositive e tutela dei
manufatti crea numerosi problemi; primo fra tutti la necessità di reintegrare e/o evocare interventi significativi
avvenuti nel passato e di cui restano solo testimonianze documentarie.
Nelle case-museo rilevante è poi la presenza di decorazioni ornamentali, arredi, oggetti d’uso in materiali
cui è stata dedicata minore attenzione nelle riflessioni metodologiche (es. cuoio, stucco, tessuto per
tappezzerie), che richiedono oggi invece competenze professionali specialistiche poco diffuse in Italia. Ciò
pone ovviamente il problema della formazione di tali competenze per creare una nuova categoria di restauratori
di cui il nostro patrimonio ha sempre più bisogno.
SUMMARY
Over the last few years, museum houses have acquired a greater awareness of the importance to identify their
own cultural identity and typical characteristics within the category they belong to. A new museological and
museographical philosophy has been developed which applies to all the conservation and restoration actions inside
museum houses.
As pointed out by a few significant actions in the Poldi Pezzoli and Bagatti Valsecchi museums and in the
Royal Palace in Milan, as well as in other Italian cities, it is not easy to reconcile exhibition needs with artefact
protection requirements and especially with the need to re-integrate and/or evoke significant actions that
were undertaken in the past, of which only documentary evidence still remains today.
Furthermore, museum houses are characterised by the presence of a wide range of ornamental decorations,
furniture and objects of everyday use made of materials which have received less attention in the methodological
analyses (i.e. leather, stucco, tapestry fabrics), that require highly specialised professionals skills that are not
yet easily available in Italy. This highlights the need to put in place a specific training to educate a new category
of restoration experts that are ever more requested for the protection of our heritage.
Questo intervento desidera proporre una riflessione su un’importante questione di metodo
relativa alla professione del restauratore nelle case-museo. Una professione che, applicata a
queste realtà non omologabili che sono le case-museo, non esiste nei tradizionali percorsi di
scuola-formazione in Italia (tranne per alcune tecniche e metodologie proposte nei due
grandi centri di ricerca, l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e l’Istituto Centrale del Restauro
di Roma). Una professionalità sempre più necessaria, che dovrebbe seguire percorsi

formativi diversi e garantire dei requisiti, delle competenze e, a monte, delle consapevolezze
finora poco acquisite o, ancor peggio, date per scontate, sottovalutate o eluse.
La restituzione di un arredo, un affresco, una tappezzeria, un arazzo in un museo di arti
decorative o in una casa-museo richiede comportamenti specifici e deve essere trattata secondo
modalità differenti. In ancora troppo pochi casi in Italia, dove l’identità è stata individuata
dal direttore della casa-museo, l’intervento viene realizzato correttamente e, di conseguenza,
può essere spiegato e compreso anche dal pubblico. Quando si parla di identità
del museo, è necessario fare una precisazione: anche la casa-museo ha molte anime e quella
individuata dal suo responsabile – la cui competenza professionale, insieme a quella dei
diversi tecnici e professionisti, è l’unica davvero in grado di identificare – non è comunque
la sola possibile ma quella scelta e coerentemente motivata; quella che meglio dovrebbe consentire
una lettura della storia, della formazione e delle trasformazioni che la casa e gli oggetti
hanno subito a contatto con l’usura del tempo e con le persone.
Personalmente ritengo sempre indispensabile che una grande coerenza e un metodo rigoroso
guidino tutte le operazioni all’interno delle case-museo: a maggior ragione dovendo
tener conto delle operazioni compiute in esse nel passato, non sempre condivisibili, ma di
fatto esistenti. Deve essere sempre possibile capire il perché di una certa scelta, cui è sottesa
una tesi, una dimostrazione, la rivelazione di una delle tante anime e significati di quel
luogo, delle opere che accoglie e di chi l’ha creato.
Fig. 1. Museo Bagatti Valsecchi:
particolare della Sala da pranzo con
alle pareti arazzi e tele dipinte con
le storie di Ciro.
45

46 Si tratta, come scriveva Gombrich, di accettare «il nobile sacrificio di lasciare le cose al loro
posto»? Oppure, dove le condizioni conservative o le tesi che si vogliono dimostrare lo rendano
necessario, si può decidere di cambiare, sostituire, evocare, compiere cioè un’operazione
interpretativa, mantenendo comunque la testimonianza e la memoria della storia, anche
attraverso strumenti che la restituiscano attraverso una realtà virtuale? Ogni operazione museografica
è sempre interpretativa: così come lo è ogni intervento di restauro. E questo non
perché le case-museo debbano necessariamente diventare altro (un luogo di divertimenti, di
ricevimenti, di occasioni per la comunicazione…) adeguandosi alle richieste del mercato e alle
nuove strategie-trappole per i visitatori; ma perché anch’esse rappresentano la storia che
fluisce continua e non si ferma, ma altera, a volte elimina, … e soprattutto crea.
Trovare la propria identità all’interno della grande tipologia delle case-museo e delle dimore
storiche sparse nel mondo non è né semplice né automatico. Il Demhist (Comitato
Internazionale Dimore Storiche) dell’ICOM ha proposto un metodo di classificazione, che
ricomponga categorie omogenee di dimore-museo: di questo importante progetto è responsabile
Rosanna Pavoni. Il riconoscersi in una categoria potrà costituire un criterio in
più di valutazione delle scelte da compiersi anche nella conservazione e restauro degli oggetti
delle dimore storiche; abbandonando lo spontaneismo, il terribile “buon senso”, il “si
è sempre fatto così nella nostra casa” che caratterizza ancor oggi alcuni modelli di gestione
di importanti case-museo.
Riconosciamo finalmente una professionalità e competenze di ruoli sia ai responsabili delle
case-museo che ai restauratori che vi intervengono! La professionalità nulla toglie ma anzi
consapevolmente rinforza l’aura meravigliosa, il racconto emozionale della storia, la piacevole
sensazione di familiarità della casa e di accudimento che accoglie il visitatore, e sottolinea
coerentemente le scelte consapevoli e continuamente aggiornate di chi ne è responsabile.
A proposito del restauro, poi, un problema con cui si deve misurare la competenza dei
restauratori è quello della compatibilità tra esigenze espositive e tutela dei manufatti, spesso
non compatibili. Spesso sono numerose da superare le difficoltà legate anche alla compresenza
di oggetti e di materiali con necessità conservative profondamente differenti.
Un altro tema tra i più affascinanti è senz’altro quello legato alla necessità di restituire
e/o evocare interventi significativi avvenuti nel passato e di cui restano solo testimonianze
documentarie.
Alcuni esempi ci confortano: al Museo Bagatti Valsecchi di Milano, nella sala da pranzo
tre arazzi fiamminghi della metà del XVI secolo con storie di Ciro furono fatti tagliare e integrare
con tele dipinte a imitazione degli arazzi, per essere ricomposti sulle pareti come una
tappezzeria 1 : doveroso il consolidarli e mantenerne in loco la testimonianza; così come è stato
fatto anche nella camera da letto di Giuseppe e Carolina Borromeo con il fregio a grottesche
che corre lungo le pareti. Il fregio è composto in parte da un affresco strappato del
XVI secolo, in parte da una raffinatissima integrazione a tempera della fine dell’Ottocento,
che restituisce l’idea del Rinascimento che i fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi avevano
concepito. Durante i lavori di apertura del museo al pubblico, avvenuta nel 1994, i restauri
hanno riportato alla luce anche la patinatura grigia, voluto segno di “antichizzazione”
e quindi della nuova, rivisitata immagine del Rinascimento 2 .
Mentre nel Gabinetto dantesco di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, altra è la storia: in un
palinsesto di interventi realizzati rispettivamente tra il 1949 e il 1951 e tra il 1975-76, era-

Fig. 2. Museo Bagatti Valsecchi: particolare del fregio a grottesche nella camera da letto di Giuseppe e Carolina
Borromeo.
no stati non solo reinventati l’idea stessa dello studiolo, l’iconografia di Dante e degli altri
artisti e artieri protagonisti della decorazione e addirittura le tempere di Scrosati e di Bertini
con colori più sobri e meno squillanti. Nel caso del primo intervento, quello realizzato
dopo il bombardamento del 1943, erano state nascoste anche tutte le tracce dei disegni e
dei colori originali. Si era poi passati dall’invenzione/reinterpretazione post-bellica del restauratore
e direttore del Museo Guido Gregorietti ad un intervento archeologico degli anni
Settanta 3. Certo, negli anni Cinquanta povertà di mezzi e fretta erano stati determinanti:
ma come non notare la perduta capacità tecnica di rifare lo stucco, le dorature, di trattare
il bronzo della caminiera?
La scelta operata oggi, resa possibile soprattutto grazie al ritrovamento di documenti, di
tracce dei colori originari, di buone fotografie, è stata quella di recuperare la pittura ottocentesca,
l’atmosfera dello studiolo, con le sue vetrate, i colori vivaci, oro dappertutto e il
busto neoclassico della madre del collezionista, Rosina Trivulzio, realizzato da Lorenzo Bartolini...
Ma i draghi, la caminiera, il trattamento dell’oro sulle parti a rilievo? Paola Zanolini
e la sua équipe del Centro di Restauro s.r.l. si sono dovute ristudiare le tecniche antiche,
provare e riprovare i materiali, le forme, i colori… Questo è stato però l’unico modo per
suggerire ed evocare l’“aura” della casa-museo, l’anima del collezionista con le sue raccolte
di oggetti nello scrigno-studiolo.
Come trattare i marmi dei camini, le stufe, le tappezzerie, gli arazzi? I casi Bagatti Valsecchi,
Poldi Pezzoli, Palazzo Reale sono emblematici delle molte soluzioni adottate. Le tappezzerie
tagliate e messe in misura dell’uno sono state protette con un tulle colorato, consolidate
e rimesse al loro posto, per restituire l’integrità del “Rinascimento Bagatti”; gli arazzi
del Poldi, inchiodati alle pareti e, nel caso dei tappeti, fortunosamente non tagliati, han-
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Fig. 3. Museo Poldi Pezzoli: Giuseppe Bertini, I tre artieri
fiorentini, 1853-1855.
Fig. 5. Museo Poldi Pezzoli: I tre artieri fiorentini, dopo
il restauro del 1975-1976.
Fig. 6. Museo Poldi Pezzoli: I tre artieri fiorentini, dopo
il restauro del 2002.
Fig. 4. Museo Poldi Pezzoli: I tre artieri fiorentini, dopo
la ricostruzione di Guido Gregorietti, 1949-1951.

no seguito la storia del palazzo ferito e indissolubilmente segnato dalla distruzione bellica.
Quindi, perdute le decorazioni originarie, sono ora esposti a rotazione nelle sale storiche,
evocando l’antico rivestimento soffice; o, nel caso dei frammenti di tessuti antichi dal XV
al XIX secolo, sono protetti entro teche e esposti per piccole mostre a tema a pianterreno
nel nuovo museo dei tessili, che riprende l’idea originaria di Giuseppe Bertini, il primo direttore
del Museo.
A Palazzo Reale è recente la riesposizione degli arazzi con le storie di Giasone disegnati
da Michel Audran, direttore della manifattura dei Gobelins che, a partire dal 1769, fece eseguire
gli arazzi conservati a lungo a Villa Carlotta. Questi manufatti erano prima appesi nelle
sale del Piermarini decorate su disegni dell’Albertolli con i bordi ripiegati per mantenere
visibili le ricche cornici neoclassiche destinate a contenerli. Nella restituzione del museo della
reggia, si è scelta la salvaguardia degli arazzi, che ora sono esposti a bandiera, subordinando
ai problemi di conservazione il loro ruolo di oggetti d’arredo.
Molte sono quindi le soluzioni e i “compromessi” necessari: indispensabile è invece la
consapevolezza dell’identità del luogo durante la direzione dei lavori di restauro e la necessità
del recupero di conoscenze e competenze che sono andate perdute, nella mancanza di
pratica e di una vera scuola. Bisogna ristudiare e reinterpretare le tecniche e le tipologie di
intervento, alla luce delle nuove straordinarie innovazioni scientifiche, degli stucchi, dei
cuoi, della lavorazione dei metalli (agemina, niello…), delle tappezzerie evitando, ove possibile,
la loro sostituzione come è accaduto all’Isabella Stewart Gardner Museum per restituire
l’idea della bellezza, del lusso, dell’integrità, con tessuti fatti fare a Venezia secondo un
disegno rinascimentale, purtroppo in alcuni casi di colore diverso da quello voluto dalla fondatrice.
Dove creare un cantiere di lavoro, di sperimentazione? Forse è giunto il momento di utilizzare
a questo scopo le grandi regge, i palazzi che in tutta Europa si vogliono ora finalmente
recuperare, dove scuole di formazione potrebbero operare direttamente sul campo (sotto
un’attenta e rigorosa direzione scientifica), restituendo con il proprio intervento sui manufatti
l’idea o l’aura di chi quella dimora, quel palazzo, quel magico luogo aveva voluto.
1 Cfr. Rosanna Pavoni 1987, Le
tappezzerie del Palazzo Bagatti Valsecchi
di Milano: problemi museologici,
in Le tappezzerie nelle dimore
storiche. Studi e metodi di conservazione,
Atti del IV convegno del
Centro italiano per lo studio della
storia del tessuto, sezione Toscana,
Torino, Umberto Allemandi & C.,
pp. 48-55; R. Pavoni 1994, Museo
Bagatti Valsecchi a Milano. Guida,
Milano, p. 56.
2 Pavoni 1994, p. 40.
3 L’analisi di tutta la complessa vi-
cenda del Gabinetto dantesco è
raccolta in “Quaderni di studi e restauri
del Museo Poldi Pezzoli”, L.
M. Galli Michero (a cura di) 2002,
Lo studiolo del collezionista restaurato,
Museo Poldi Pezzoli e Intesa
Bci.
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Il museo civico: attualità di un modello superato
Anna Maria Visser Travagli
Associazione Nazionale Musei Locali e Istituzionali
Facoltà di Economia – Università degli Studi di Ferrara
RIASSUNTO
Il museo civico formatosi nel Settecento e nell’Ottocento, espressione dell’orgoglio cittadino, attento alle
memorie e alle bellezze locali, esercita una straordinaria azione di tutela e di salvaguardia della città,
congiunta alla promozione della ricerca storica e scientifica, di cui l’organismo museale costituisce strumento
e modello culturale e sociale. Nell’Italia unita il lungo processo di definizione della legislazione di
tutela, sancita con criteri centralistici nel 1939, determina l’appannarsi o lo spegnersi della vitalità dei musei
civici, che non hanno più forza e strumenti per promuovere un’azione culturale incisiva.
Nel Dopoguerra si assiste ad una forte ripresa del ruolo e della funzione del museo civico con l’istituzione
delle Regioni dal 1970, quando si impone anche una nuova cultura della conservazione attenta
ai centri storici, al paesaggio agrario, ai beni culturali. Il museo riprende, con connotazioni nuove, la sua
funzione di deposito e di laboratorio della memoria storica locale. Tale impulso viene però frenato dall’interruzione
dell’iter di regionalizzazione dei beni culturali e dal diluirsi nel tempo della dialettica Stato-Regioni.
A ciò si aggiunga che la politica dell’effimero, praticata negli anni Ottanta e Novanta dalle amministrazioni
locali, ha sottratto risorse ai musei, indebolendoli.
In questi ultimi anni l’imporsi sulla scena politica delle istanze di autonomia e di decentramento offre
nuovamente straordinarie opportunità al museo civico, quale strumento di interpretazione e comunicazione
delle identità cittadine e territoriali. Una nuova stagione può aprirsi: essa avrà tanto più senso ed
efficacia, se la storia densa e complessa del museo verrà assunta come elemento cardine della sua ridefinizione
e riprogettazione.
SUMMARY
Municipal Museums were set up between the 18th and 19th century. The municipal museum is the expression
of the city pride. It is attentive to the local beauties and memories; it exerts an extraordinary action of protection
of the city heritage and it also promotes its scientific and historical research. The museum serves as the cultural
and social model and means. After the birth of the United Italy a long process was set in motion that ultimately
led to the definition of the protection legislation at a national level, set forth by the 1939 centralisation
standards. This translated into the waning or depletion of the dynamism of municipal museums at a local
level, which were left with no resources and tools to promote an effective cultural action.
In the post-war period a strong recovery took place that enhanced the role and function played by municipal
museums, upon the setting up of the Regional Authorities in 1970. A that time a new cultural approach
emerged that fostered an adequate conservation of historical centres, of farmland and of the cultural heritage as
a whole. Yet, this trend was slowed down by the discontinuation of the regionalisation process of the cultural
heritage and by the weakening of the State-Regions dialogue. The museums’ role and resources were even more
weakened by the mere cosmetic policy adopted by local authorities during the Eighties and Nineties.
Over the past few years, the renewed decentralisation and autonomy processes have again provided municipal
museums with an extraordinary revival opportunity, thus being able again to strengthen their role in interpreting
and communicating the city assets and their local identity.
A new season was inaugurated: it could become ever more effective and meaningful if the complex history
of the museum could be left free to play a vital role in its redefinition and re-designing process.

Il titolo di questa relazione, “Il museo civico, attualità di un modello superato”, richiede un
chiarimento. Non saprei dire se è frutto di coraggio o di incoscienza il proposito di affrontare
il tema del museo civico, perché la situazione attuale è molto critica. Il museo civico è
minacciato da forze convergenti che rischiano di indebolirlo o addirittura di eliminarlo, ma
nello stesso tempo le condizioni politiche e istituzionali offrono opportunità che potrebbero
valorizzarne il ruolo e la funzione.
Mi spiego meglio. L’interpretazione distorta e l’applicazione acritica delle recenti disposizioni
legislative sul riordino degli enti locali hanno trasformato i musei, già configurati come
istituti culturali, in semplici uffici, omologandoli, con una semplificazione colpevole,
agli altri servizi dell’amministrazione, all’interno di una organizzazione verticistica e sempre
più burocratizzata. Ne conseguono come effetto perverso l’appiattimento e la dequalificazione
del personale, che mortificano le professionalità museali e negano di fatto lo svolgimento
delle funzioni culturali, che costituiscono il compito istituzionale dei musei. Ma nel
contempo il processo di decentramento dei poteri, che nella dialettica fra Autonomie Locali
e Stato centrale ha portato nel campo dei beni culturali a configurare da un lato la tutela
saldamente mantenuta ed esercitata dallo Stato e dall’altro la valorizzazione affidata alle Regioni,
offre l’opportunità di un rilancio del museo civico, quale interprete privilegiato per
sua stessa origine e storia delle identità locali 1.
Attualità del museo civico dunque, ma perché? Per rispondere bisogna tenere presenti alcune
antinomie. La prima antinomia è globale-locale.
È evidente che in un mondo globalizzato tutto si appiattisce, si omologa, si banalizza, i valori
tradizionali si alterano e subiscono mutazioni. Viviamo ormai da tempo nell’età post-industriale,
in una fase del capitalismo maturo, che non è più fondata esclusivamente sull’accaparramento
delle risorse, per trasformarle in beni commerciabili da vendere sul mercato. Oggi
ciò che più interessa è la mercificazione del tempo, delle esperienze, della cultura, e l’industria
del turismo l’ha compreso molto bene. Questa trasformazione, nel nuovo mercato della
cultura, induce a concepire la storia come un contenitore. Dalla storia si prende di tutto, in
modo frammentato, fuori contesto, per manipolarlo ad uso e consumo di masse anonime di
consumatori. “Non ci si preoccupa più di fare la storia, bensì di elaborare storie interessanti
da vivere. E mancando un’architettura storica, che spieghi interamente la natura e la società,
l’interesse per la storia svanisce. La storia non è più lo strumento per la comprensione del passato
e l’interpretazione del futuro, ma un’accozzaglia di frammenti, di racconti che possono
essere riciclati ed integrati nella trama sociale contemporanea” 2.
Tutti i professionisti museali comprendono esattamente di cosa si tratta, perché verificano
come la frammentazione degli argomenti, l’estrapolazione dal contesto, la spettacolarizzazione
esasperata abbiano penetrato la cinematografia, la produzione televisiva e radiofonica,
il mondo dell’informazione e della comunicazione multimediale, e come su queste
premesse siano stati creati, con grande successo di pubblico, parchi tematici, che offrono per
il divertimento scenografie e ricostruzioni falsate e misteriose, relative ad esempio ai dinosauri,
agli Egizi, al medioevo celtico o a quant’altro sia di moda.
Quali sono le conseguenze per il museo della crisi della storia? Le conseguenze negative
sono la mitizzazione, e il feticismo. Infatti vengono riproposti, in modo quasi automatico,
nell’editoria, nelle grandi mostre, nei grandi eventi, gli stessi autori, le stesse opere, gli stessi
temi, per lo più monografie di artisti famosi e sintesi sui grandi popoli del passato. L’iso-
51

52
lamento delle opere che vengono presentate come una sequenza di “capolavori”, quindi tolte
da quella trama di significati in cui erano inserite all’interno del museo, che ne facevano
delle testimonianze storiche complesse. Oppure si adottano tecniche di spettacolarizzazione
selvaggia dell’esposizione, dove i reperti e le opere vengono messi in ombra da scenografie e
ambientazioni, diventano pretesti per ricostruzioni spesso discutibili. Purtroppo anche istituti
museali di grande prestigio sono stati contagiati da queste tendenze nella revisione dell’ordinamento
e dell’allestimento. La finalità è trasformare la visita in un avvenimento, per
cui assume sempre più importanza la drammatizzazione dell’esperienza che si vive all’interno
del museo: tutto diventa teatro.
Ci sono però anche delle conseguenze positive. Diventa necessario infatti per i musei sviluppare
nuove strategie e nuove tecniche di comunicazione, che siano in grado di parlare ad
un pubblico che è profondamente mutato, socialmente mutato. Gli strumenti tradizionali,
come i pannelli e le didascalie, non sono più sufficienti e adatti ad un pubblico di massa,
che ha perduto i riferimenti ad un sistema di valori consacrato dalla tradizione, e nel contempo
non ha acquisito una cultura strutturata e organica, ma solo un’istruzione debole, in
conseguenza della dequalificazione della scuola e dell’imporsi dell’omologazione indotta da
un sistema televisivo, che rincorre il gradimento in funzione della raccolta di pubblicità. Si
impone anche la necessità di sperimentare allestimenti innovativi per trovare i modi idonei
per comunicare i contenuti del museo, proposti in modo da ricostruire la trama spazio-temporale,
in cui erano inserire le opere, con tutti i possibili riferimenti multidisciplinari. Le attività
didattiche dovranno stimolare il pubblico, con un’azione intelligente ed equilibrata,
che sappia favorire un clima idoneo all’apprendimento, attraverso un intrattenimento gradevole
e interattivo all’interno del museo, con un approccio che coinvolga anche la sfera
emotiva 3.
Ma l’appiattimento e l’omologazione, nel mondo globalizzato, hanno prodotto anche il
loro antidoto, perché riemerge il bisogno di individuare e difendere le identità locali.
Riemerge il bisogno di storia, ma come? Anche in questo caso registriamo aspetti positivi
e aspetti negativi. Se questo atteggiamento assume aspetti devianti scatta il rifugio in un
campanilismo ottuso che sfiora l’intolleranza e il rifiuto per il diverso, e che si esprime attraverso
un folclorismo antistorico: non basta indossare un abito rinascimentale per ritenere
di sapere tutto sulla storia del Rinascimento. Questi atteggiamenti possono portare ad una
chiusura delle comunità locali e ad un rifugio nell’irrazionale, che può sfociare nel nazionalismo
e nel razzismo
Gli aspetti positivi consistono invece nel forte rifiuto dell’omologazione e nella volontà di
valorizzare l’identità. Così si spiega, credo, in modo più profondo di quanto si faccia di solito
la crescente attenzione per le mostre, per i musei, per i beni culturali, che non dipende
deterministicamente solo da politiche di marketing e da investimenti in pubblicità. Così si
spiega anche il crescente aumento dell’associazionismo culturale, in organizzazioni nazionali
e locali, il successo di tutte le iniziative, volte a far conoscere e valorizzare sedi e ambienti
normalmente non fruibili o poco noti, a scoprire itinerari nella cosiddetta Italia minore,
al successo dell’editoria di viaggi e di guide turistiche tematiche 4.
In base a queste considerazioni si può affermare quindi che il museo civico può svolgere
un ruolo molto forte nelle comunità locali. Bisogna chiedersi allora, che cosa è oggi il museo
civico, quale funzione, o meglio, quali funzioni può avere nella società contemporanea.

Per museo civico si intende, naturalmente, una istituzione che sia espressione e creazione
di una comunità, urbana o territoriale, e non, banalmente, solo un museo di proprietà
del Comune o della Provincia.
Il museo civico ha una lunga storia. Figlio della cultura illuministica si è formato nel Settecento
ed ha avuto un forte sviluppo nell’Ottocento, in modo particolare nei decenni immediatamente
precedenti e successivi all’Unità d’Italia. Le sue collezioni si sono formate
prevalentemente in virtù delle soppressioni, sia quelle del periodo napoleonico, ma ancor
più quelle realizzate dopo il 1861 ed estese nel 1866 all’intero territorio nazionale. Gli oggetti
e le opere, che a causa delle soppressioni monastiche e dell’eversione dell’antico assetto
sociale erano state rimosse dalle sedi originarie, furono ricoverati nei musei per salvaguardali
e assicurarne la fruizione al pubblico.
Il museo civico spesso ha avuto origine o forte incremento per le donazioni e i lasciti di
cittadini, consapevoli di compiere un dovere sociale nel garantire alla comunità la conservazione
e la fruizione di un patrimonio artistico e storico sedimentato nei secoli dalla cultura
del luogo. Questo atteggiamento affondava le sue radici nella erudizione di carattere locale
del Settecento, ma ancor più nei sentimenti di amor patrio esaltati dagli ideali rivoluzionari
e in seguito dalla cultura del romanticismo, che hanno rafforzato la concezione democratica
del museo.
Inoltre il museo civico attraverso un lungo depositarsi di studi e di pratiche è stato strumento
e testimone del formarsi dell’archeologia come scienza, della storia dell’arte come
scienza, dell’evoluzione della storia naturale verso uno statuto disciplinare moderno.
Infine bisogna ricordare come l’orgoglio cittadino, attento alle memorie e alle bellezze
locali, che attraverso organizzazioni come le deputazioni di storia patria, le commissioni di
ornato, le associazioni per la difesa del decoro urbano, ha esercitato un’azione straordinaria
di salvaguardia della città e del territorio, congiunta alla promozione della ricerca storica e
scientifica, abbia trovato nel museo civico il modello e lo strumento culturale e sociale 5.
Se riteniamo che queste considerazioni, peraltro sintetiche e incomplete, siano ancora
valide per definire il museo civico, allora facilmente ne comprendiamo le caratteristiche che
lo connotano Il museo civico, è sostanzialmente a-tipologico, a-gerarchico, a-selettivo.
È a-tipologico, perché raccogliendo tutti i materiali e le testimonianze del contesto cittadino
e territoriale, è contemporaneamente pinacoteca, museo archeologico, museo scientifico,
museo storico ecc. Spesso il museo civico è congiunto alla biblioteca, all’archivio, alla
scuola d’arte o all’accademia. Ancora oggi prestigiose istituzioni hanno mantenuto inalterato
questo legame, basti pensare al Museo Civico, alla Biblioteca e all’Archivio di Bassano del
Grappa, alla Fondazione Querini-Stampalia di Venezia, dove convivono pinacoteca e biblioteca,
o alla Pinacoteca e all’Accademia “Carrara” di Bergamo.
Il museo civico è a-gerarchico, perché tutti gli autori e tutte le opere, essendo espressione
della cultura del luogo, hanno lo stesso diritto di cittadinanza all’interno dell’istituzione;
il criterio del valore estetico non prevarica quello del valore storico, che è essenziale per la
comunità che si rispecchia nel museo.
Di conseguenza, non producendo attraverso il giudizio di valore estetico un’esclusione o
un’emarginazione di opere, il museo risulta a-selettivo. Accoglie ogni tipologia di manufatti:
dipinti, sculture, antichità, oggetti d’arte e di artigianato, materiali naturalistici ed etnografici
memorie, cimeli, documenti di ogni tipo, che testimoniano anche aspetti minimi
53

54 della vita della città, aspetti del costume e vicende di personaggi tipici. È quindi un museo
in cui si è accumulata e sedimentata la stratificazione della storia, è un documento globale.
Per questo il museo civico è stato ed è tuttora, qualora si voglia valorizzarlo, strumento
formidabile di governo del territorio, presidio di tutela, luogo di conservazione della memoria
collettiva, luogo di produzione e diffusione di cultura. È un’istituzione flessibile, che
non rientra pienamente in nessuna tipologia museale specifica, ma costituisce una tipologia
in sé; è un istituto di confine, di cerniera, offre plurime possibilità di lettura, quindi plurime
opportunità di attività e di azione. Questa è la sua debolezza, ma è anche la sua forza.
I suoi destini poi nel corso dei secoli e degli anni si sono giocati attraverso un’altra antinomia
fortissima: centro-periferia o meglio, attualizzando i termini: centralismo statale e decentramento
locale.
Non è il caso di dilungarsi su aspetti storici, che sono largamente noti, è sufficiente ricordare
il momento di fioritura dei musei civici nell’Ottocento, i nodi critici che si sono determinati
con il passaggio dalle legislazioni degli Stati preunitari a quella del Regno d’Italia,
che ha avuto una gestazione lenta e sofferta. Il lungo processo di definizione delle leggi nazionali
di tutela, che iniziano ad essere emanate solo nei primi anni del Novecento, giunge
a compimento con le leggi del 1939, che sanciscono definitivamente l’accentramento amministrativo
di tutto il patrimonio culturale italiano. Si tratta di una forzatura per un paese
che ha creato la sua unità da una pluralità di stati e il cui tessuto culturale è costituito da
una miriade di espressioni, di tradizioni, di scuole artistiche locali, di sostrati di civiltà diverse.
Questo accentramento omologante determina l’appannarsi o lo spegnersi della vitalità
dei musei civici, che non hanno più forza e strumenti per promuovere un’azione culturale
incisiva 6.
I musei locali hanno poi ripreso vigore dopo il 1970 con l’istituzione delle Regioni a statuto
ordinario, in concomitanza con il diffondersi di una nuova cultura della conservazione,
attenta ai centri storici, al paesaggio agrario, ai beni culturali e non soltanto alle antichità
e alle belle arti, secondo il lessico in uso fino al secondo dopoguerra. I musei locali
hanno ritrovato senso e scopo, aggiornati nei loro obiettivi e nei loro metodi.
Questa spinta propulsiva, che consente al museo locale di riprendere con connotazioni
nuove la sua funzione di laboratorio e deposito della memoria storica, viene però frenata
dalla contraddizione insita nel contrasto in atto fra Stato e Regioni. Infatti mentre veniva
realizzato il processo di regionalizzazione con il decentramento dei poteri, contestualmente
veniva istituito il Ministero per i Beni Culturali, che riproponeva il mantenimento del centralismo
amministrativo in materia di tutela, a cui andavano soggetti anche i musei locali 7.
Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da un lato dai progetti speciali, che hanno destinato
rilevanti risorse straordinarie ai beni culturali e ai musei, e dall’altro dall’imporsi della
politica “dell’effimero”, praticata dalle amministrazioni locali, che hanno finanziato grandi
manifestazioni temporanee, sottraendo risorse ai musei, che ne sono usciti indeboliti 8.
Negli anni Novanta l’imporsi sulla scena politica delle istanze di autonomia e di decentramento
hanno generato, anche con virulenza, la ripresa del dibattito sui beni culturali. La
legislazione ha risposto sostanzialmente proponendo un dualismo inconciliabile. Nel contrasto
fra centro e periferia, per il momento, è stato rafforzato il centro con il mantenimento
della tutela allo Stato 9. Su questo punto c’è stato un sostanziale accordo di tutti gli addetti
ai lavori. Anche l’Associazione Nazionale dei Musei Locali e Istituzionali ha sotto-

scritto un documento in tal senso, ritenendo la tutela una funzione nazionale, per cui è lo
Stato che deve emanare gli indirizzi e le norme generali di tutela, anche se le modalità di applicazione
e di esercizio della stessa possono e debbono essere discussi e regolamentati in
modo da coinvolgere le Regioni e gli Enti Locali.
È stato emanato il Testo Unico dei Beni Culturali, utilissimo ed importante, ma che è
sostanzialmente la riproposizione delle leggi di tutela del 1939, deludendo le speranze di
una vera riforma, attesa dal 1979 10. Anche gli ordinamenti e i regolamenti del nuovo Ministero
per i Beni e le Attività Culturali lasciano più o meno inalterati i poteri delle Regioni e
propongono un riaccentramento amministrativo, con un appesantimento della struttura
centrale, dovuto all’aumento delle Direzioni Generali, e un’articolazione dell’amministrazione
decentrata sul territorio esclusivamente burocratica, con l’aumento del numero dei dirigenti
in seguito all’istituzione dei Soprintendenti Regionali 11.
Il Decreto Legislativo 112/98 ha definito le attività di tutela, di gestione, di valorizzazione
e di promozione, separando in modo artificioso funzioni strettamente interconnesse,
che rinviano le une alle altre in una circolarità di processi, non chiaramente distinguibili gli
uni dagli altri. È stata prefigurata la possibilità di trasferire alle Regioni, alle Province o ai
Comuni musei o altri beni culturali statali limitatamente alla sola funzione di gestione. Per
rendere attuabile questo trasferimento il Ministero si è impegnato a definire i criteri tecnico-scientifici
e gli standard minimi di gestione dei musei 12. Il provvedimento è fortemente
restrittivo, e a tutt’oggi nessun museo o bene culturale statale è stato trasferito in gestione
agli Enti locali, ma ha generato l’Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard
di funzionamento e sviluppo dei musei, valido per tutti i musei italiani, indipendentemente
dalle amministrazioni di appartenenza 13. Si tratta di un documento di grande importanza,
che per la prima volta in Italia riconosce i problemi e le necessità di gestione dei musei, fornendo
indicazioni specifiche e parametri oggettivi.
Recentemente poi le modifiche al Titolo V della Costituzione assegnano alle Regioni la
possibilità di legiferare in materia di valorizzazione e promozione dei beni culturali e ambientali
e di organizzazione di attività culturali, opportunità che sembra aprire nuovi scenari
per gli enti locali 14.
È un bilancio fatto di luci ed ombre quello che si può delineare, però il museo civico
continua ad essere “servo di due padroni”, da un lato dello Stato per la tutela, dall’altro della
Regione per la gestione, ma allora in che misura può esprimere le sue potenzialità? Per rispondere
a questa domanda vorrei inserire un passo tratto dall’intervento del professor Michele
D’Elia, che è stato direttore dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, pubblicato
negli Atti del convegno organizzato dalla nostra associazione a Bari nel novembre del 2000,
che anche a distanza di circa due anni conserva inalterato il suo valore: «Sono convinto di
una cosa: che non sia giusto partire da paletti prefissati. Si dice, per esempio, che la tutela
spetta allo Stato. Non sono per niente convinto di questo, e mi spiego: da giovane ho fatto
l’ispettore di Soprintendenza, sono uno di quelli che hanno una strana storia, vengo dall’Università,
poi sono stato conservatore della Pinacoteca provinciale [di Bari], poi sono passato
all’Amministrazione dello Stato. L’esperienza in Provincia mi è stata molto utile, mi ha
insegnato che non si può tutelare un monumento, non si può tutelare un ambiente senza il
coinvolgimento della società. Potete moltiplicare il numero degli ispettori, metterne quanti
ne volete, ma una chiesa rupestre che si trova in un posto difficilmente raggiungibile co-
55

56
me la tutelate? E non parliamo della conservazione. Io cercavo di responsabilizzare dei gruppi
di lavoro, che chiamavo gruppi di ricerche, costituiti da persone che avevano soltanto il
desiderio di fare qualcosa per la loro città, e riuscivo a gestire la tutela solo in questo modo…
Solo così sono riuscito a tenere in mano una situazione in un momento estremamente
difficile e ho capito una verità: non si salva una città senza il concorso dei cittadini, non
si salva una casa a dispetto di chi la abita. E questo è un fatto fondamentale, se partiamo da
questa posizione dobbiamo rivedere un po’ tutte le nostre idee. Non si può parlare da una
parte di centro, dall’altra di periferie, ma le periferie sono altrettanti centri… La tutela è
inattuabile senza il concorso della gente» 15.
Io credo che in queste parole sia sintetizzato chiaramente quello che può essere il futuro
del museo civico, che coincide poi con il suo passato, con la sua vocazione originaria. Il museo
civico offre un modello sul quale vale la pena scommettere, bisogna riproporne la centralità
per progettare il futuro delle città e del territorio. Il recupero della storia del museo
diventa allora essenziale per la difesa globale della storia, anche se questa deve essere riproposta
in forme nuove, aderenti alle caratteristiche della società odierna. Per questo il museo
ha bisogno di autonomia – autonomia scientifica, tecnica, amministrativa, contabile – deve
tornare ad essere una istituzione culturale che conserva il patrimonio ed elabora cultura
e non un semplice servizio dipendente dalle amministrazioni, bisogna ridare al personale e
ai professionisti museali la possibilità di esprimersi liberamente senza omologazioni e mortificazioni
burocratiche, senza inseguire un modello aziendalistico di efficienza fine a se stesso,
che in nome di un razionalismo cieco e sordo alla storia e ai valori di civiltà penalizza il
museo fino a produrne mutazioni pericolose. Bisogna introdurre anche in Italia la figura del
museologo, il professionista del museo, che esiste in tutti gli altri paesi europei.
Il momento storico che stiamo vivendo è certamente molto critico, ma offre nuovamente
straordinarie occasioni al museo civico, quale strumento di interpretazione e comunicazione
delle identità cittadine e territoriali, se le opportunità legislative saranno pienamente
colte dalle Regioni e dagli Enti Locali. Una nuova stagione può aprirsi, che avrà tanto
più senso ed efficacia, se la storia densa e complessa del museo verrà assunta come elemento
cardine della sua ridefinizione e riprogettazione.
Addenda
I provvedimenti legislativi e normativi emanati nel tempo intercorso fra lo svolgimento del
convegno e la pubblicazione degli atti impongono alcuni aggiornamenti.
Dal 1 maggio 2004 è entrato in vigore il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs.
22 gennaio 2004, n. 42) in sostituzione del Testo Unico del 1999. Contestualmente è stato
nuovamente riformato il Ministero (D.Lgs. 8 gennaio 2004, n. 3 Riorganizzazione del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
L’interpretazione delle modifiche del Titolo V della Costituzione in materia di tutela e
valorizzazione dei beni culturali ha alimentato un dibattito vivace, concretizzatosi anche in
ricorsi alla Corte Costituzionale e in proposte legislative di iniziativa regionale. Ora il nuovo
Codice ridefinisce la tutela e la valorizzazione, sancisce un doppio regime di competenze
per i beni, gli istituti e i luoghi della cultura statali e per quelli regionali e locali, stabilendo

solo a valle un raccordo fra i diversi livelli di governo. L’esercizio della tutela, di competenza
statale, può avvalersi della cooperazione delle regioni e degli altri enti territoriali, mentre
il coordinamento delle attività di valorizzazione è demandato ad accordi su base regionale.
Questa logica ribadisce per la tutela oltre alla potestà legislativa dello Stato, anche la sua
gestione amministrativa, che era stata prefigurata come possibile materia concorrente nel
documento Più tutela, più valorizzazione del patrimonio culturale, proposto dalle Regioni, e
mortifica le potenzialità di esercizio della tutela sul territorio dei musei locali. Inoltre viene
normata la possibilità di stringere accordi sulla valorizzazione, con una logica macchinosa e
burocratica, che non tiene conto dell’intreccio delle proprietà e delle competenze, che si registrano
in numerosi musei locali.
Le Regioni hanno acquisito importanti attribuzioni in materia di valorizzazione e un
ruolo strategico nell’applicazione degli standard ai musei locali, con un processo che è stato
avviato dalla Regione Lombardia (DGR 20 dicembre 2002, n.7/11643) dalla Regione Emilia-Romagna
((DGR 3 marzo 2003, BUR 18 aprile 2003) dalla Regione Veneto (DGR 18
settembre 2003, n.2863), dalla Regione Marche per quanto riguarda la formazione di personale
qualificato (DGR 13 febbraio 2003, n. 1495).
1 Si fa riferimento al complesso di
leggi noto come “le Bassanini” dal
nome del suo estensore; l’intera
materia è stata di recente riorganizzata
nel Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali, Decreto
Legislativo dell’8 agosto
2000, n. 267.
2 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione
della new economy, Milano,
Mondadori Oscar, 2001, p.
259. Inoltre sulla crisi dell’insegnamento
della storia, causa ed effetto
delle situazioni descritte, si veda L.
Russo, Segmenti e bastoncini. Dove
sta andando la scuola?, Milano, Elementi/Feltrinelli,
1998.
3 In particolare sulla questione si
veda A. Di Mauro, L’education nei
musei: esempi europei e applicazioni
locali, in Il museo come laboratorio
della storia. Per una didattica dell’arte,
a cura di M. Cisotto Nalon, Padova,
Il Poligrafo, 2000, pp. 57-72.
4 Mi riferisco ad iniziative come le
Giornate di Primavera organizzate
dal Fondo per l’Ambiente Italiano,
che apre al pubblico sedi chiuse o
poco note, o come la Penisola del
tesoro e gli incontri e le visite gui-
date dei consoli del Touring Club
Italiano, che propongono mete e
itinerari minori, come a tutti gli
enti e le istituzioni italiane che sul
modello delle aperture periodiche
al pubblico del Quirinale, di Montecitorio
e di palazzo Madama,
aprono alla visita dei cittadini le loro
sedi.
5 La bibliografia relativa al museo
civico non è particolarmente nutrita
e quella più significativa risale
agli anni Settanta. Si veda in particolare:
A. Emiliani, Musei e museologia,
in Storia d’Italia, vol. V, 2,
Torino, Einaudi ed., 1973, pp.
1613-1656; I musei, a cura di A.
Emiliani, in Capire l’Italia - I Musei,
Touring Club Italiano, Milano,
1980; A. Emiliani, I musei civici: significato
storico di un modello italiano,
in La gestione dei musei civici.
Pubblico o privato, a cura di C. Morigi
Govi, A. Mottola Molfino, Torino,
Allemandi ed., 1996, pp. 17-
23; A.M. Visser Travagli, Il museo
locale in Italia. Caratteristiche e funzioni,
in L’Italia dei cento musei, catalogo
della mostra, Roma, Castel
Sant’Angelo, 19 aprile-30 maggio
2000, Roma, De Luca ed., 2000,
pp. 17-19.
6 Per la legislazione degli Stati
preunitari si veda: A. Emiliani, Leggi,
bandi e provvedimenti per la tutela
dei beni artistici e culturali negli
antichi stati italiani 1571-1860,
Bologna, Nuova Alfa ed., 1978.
Per la legislazione dall’Ottocento
ad oggi: D. Jallà, Il museo contemporaneo.
Introduzione al nuovo sistema
museale italiano, Torino, UTET
ed., 2000.
7 Per le deleghe regionali si veda:
D.P.R. 14 gennaio 1972, n. 3, Trasferimento
alle Regioni a statuto ordinario
delle funzioni amministrative
statali in materia di assistenza scolastica
e di musei e biblioteche di enti
locali e dei relativi personali e uffici;
Legge 22 luglio 1975, n. 382,
Norme sull’ordinamento regionale e
sulla riorganizzazione della pubblica
amministrazione; D.P.R. 24 luglio
1977, n. 616, Attuazione della delega
di cui all’articolo 1 della L. 22 luglio
1975, n. 382. Per il Ministero
si veda: D.Lgs. 14 dicembre 1974,
n. 657, Istituzione del Ministero per
i beni culturali e per l’ambiente;
57

58 Legge 29 gennaio 1975, n. 5, Conversione
in legge con modificazioni
del D.L. 14 dicembre 1974, n. 657,
concernente l’istituzione del Ministero
per beni culturali e ambientali.
8 Rapporto sull’economia della cultura
in Italia 1980-1990, a cura di
C. Bodo, Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Dipartimento per
l’informazione e l’editoria, 1994.
9 Si fa riferimento alla Legge 15
marzo 1997, n. 59, Delega al governo
per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni ed enti locali, per
la riforma della pubblica amministrazione
e per la semplificazione
amministrativa.
10 D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490,
Testo unico delle disposizioni legisla-
tive in materia di beni culturali e
ambientali.
11 D.Lgs. 20 ottobre 1998, n. 368,
Istituzione del Ministero per i beni e
le Attività Culturali; D.P.R. 29 dicembre
2000, 441, Regolamento recante
norme di organizzazione del
Ministero per i Beni e le Attività
Culturali; D.M. 11 maggio 2001,
Articolazione della struttura centrale
del segretariato generale e delle direzioni
generali del Ministero per i Beni
e le Attività Culturali.
12 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112,
Conferimento di funzioni e compiti
amministrativi dello Stato alle regioni
e agli enti locali.
13 D.M. 10 maggio 2001, Atto di
indirizzo sui criteri tecnico-scientifi-
ci e sugli standard di funzionamento
e sviluppo dei musei (Art. 150, comma
6, D.Lgs. n. 112/1998). È stato
avviato dalle Regioni il processo
di recepimento del decreto per la
sua approvazione nel contesto delle
legislazioni regionali.
14 Legge cost. 18 ottobre 2001, n.
3, Modifiche al Titolo V della parte
seconda della Costituzione.
15 M. D’Elia, Intervento in Musei
2000, Formazione universitaria e
professionalità museale - Problematiche
di gestione dei musei italiani centro-meridionali,
Atti del XXV Convegno
Nazionale, Bari 9-11 novembre
2000, a cura di C. Gelao,
ANMLI - Centro Di, Firenze,
2001, p. 144.

Allestimenti museografici
e identità storica dei musei
Andrea Zifferero
Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti
Università degli Studi – Siena
Con appendice di
Cristina Cecconi
Proposta per una scheda di censimento degli allestimenti storici
RIASSUNTO
Questo contributo intende sottolineare e discutere in modo critico alcuni aspetti dei caratteri formanti
l’identità di un museo, al fine di sviluppare e di offrire alla sperimentazione un “codice di fruizione”
che possa tutelare effettivamente gli allestimenti storici. Il progresso delle ricerche nel settore della
museologia e della museografia fa emergere sempre di più una apparente difformità tra le necessità
di mantenimento dell’identità storica di un museo ed i crescenti bisogni di un consumo di massa dei
beni culturali.
Sempre più sentito è oggi il bisogno di far chiaramente emergere i criteri di esposizione e di interpretazione
degli oggetti di un museo, all’interno di quel sistema di relazioni e di fenomeni che è
proprio di ogni disciplina ed è quindi soggetto, se non a mutare, almeno a seguire il naturale progresso
dei metodi di ogni disciplina. Questa necessità si avverte soprattutto nei settori della museologia delle
scienze umane, così ricca di rimandi ai metodi di analisi degli oggetti che spesso sono dati per sottintesi.
Verrebbe perciò da chiedersi se non valga la pena mantenere i primitivi allestimenti per chiarire i principi
di storia della scienza e del progresso scientifico, accanto a nuovi progetti museologici, con criteri museografici
più rispondenti ai metodi odierni delle discipline. Emerge in ogni caso la necessità di avviare
un’azione di tutela che sia prima di tutto basata sulla conoscenza e sul censimento degli allestimenti storici
dei musei italiani.
SUMMARY
This contribution intends to highlight and critique some of the characteristics that identify a museum. Upon
examination, various aspects of museological and museographical consideration emerge as contradictory,
such as between the necessity to maintain a museum’s historical identity and the need for public services
necessary to accommodate an increasing mass consumption of cultural goods. Today, it seems urgent to
establish criteria for the exhibition and interpretation of museum objects that is rooted in a system which
takes into consideration the phenomena unique to each discipline and is thus subject to, if not complete
alteration, at least to a natural evolution of the methods used in all disciplines. This necessity is indicated
above all in the field of humanistic museology which favors an analytical approach to the study of objects.
One might ask, however, if it is worthwhile to maintain the original installations in order to illustrate
the historical principles of the science of museology and scientific progress in this field, in addition to
museological projects that reflect current methodologies. In every case, it appears necessary to initiate a protective
action primarily based on an understanding and a comprehensive survey of the entire history of the
organization of Italian museums.

60 1. IL MUSEO ITALIANO DELL’ETÀ MODERNA: UN PROBLEMA DI IDENTITÀ
«I grandi musei del secondo Ottocento, come tutte le storie del museo raccontano, sono profondamente
coinvolti dal momento politico, ma anche dallo sviluppo economico e dalla rivoluzione
industriale: l’idea di progresso, la grande catena della continuità temporale, è ancora ben salda.
Questo atteggiamento, ben lungi dall’esaurirsi col volgere del secolo, proietta la sua tensione progressista
anche nel nostro. Il risultato si sostanzia in quella che gli studiosi definiscono la “narrativa
lineare” tipica dei musei tradizionali, ancora legati all’idea ottocentesca delle cosiddette ‘sorti
progressive’. I musei d’arte sono quindi demandati a documentare la “storia dell’arte”, i musei
della tecnologia la ‘storia della tecnologia’, e perfino i musei sistematici di scienze si chiamano
‘musei di storia naturale’. Questo approccio diacronico, sequenziale, o, come lo definisce Woronoff,
“internalista” (in quanto concentrato sullo sviluppo interno delle singole discipline, dei singoli
manufatti, delle singole ricerche e scoperte), si traduce nel fatto che il museo viene considerato
un ‘testo’, anzi, un trattato disciplinare. L’aspirazione di questo trattato… è spesso quella di
assumere un carattere pressoché enciclopedico, anche se il risultato, talvolta… può essere più simile
alla sinteticità di un dizionario, ove ad ogni oggetto corrisponde una definizione, leggasi etichetta.
A ‘monolinear frame of references’, definisce questo tipo di allestimenti Eilean Hooper-
Greenhill. In entrambi i casi, l’espressione concreta di questo approccio conoscitivo è la cosiddetta
‘galleria progressiva’ tipica dei musei ottocenteschi e primo-novecenteschi, nata dalla concretizzazione
spaziale ed architettonica del principio di identità fra linearità della storia, linearità
del percorso mentale e linearità del percorso deambulatorio» (Ruggieri Tricoli 2000, p. 74).
La complessità delle chiavi di lettura del museo ottocentesco, espressione di un pensiero
scientifico che è ormai saldamente strutturato nei suoi principi epistemologici, emerge con
grande chiarezza dalla sintesi che ne fa M.C. Ruggieri Tricoli: il museo come spazio fisico
di una disciplina, ordinato dalla teoria della conoscenza. Non più, quindi, luogo privilegiato
di otium del collezionista del Rinascimento, o recesso dello studioso del Seicento separato
dal resto degli uomini, ma spazio pensato e progettato per la fruizione collettiva.
Quali sono i caratteri originali e l’eredità culturale del museo che è costruito come un
trattato scientifico e spesso si è conservato fino ad oggi nell’allestimento originale? Quali sono
le ragioni che ci permettono di distinguere tra un museo di questo tipo e un museo ispirato
dal sapere enciclopedico del Settecento? In altri termini, in che misura un allestimento
museale rende manifesti i principi di una disciplina scientifica, oltre a presentare gli oggetti
che contiene?
Tutte le possibili risposte non potranno prescindere da una considerazione: l’identità o
meglio le identità di un museo emergono dall’esistenza di relazioni dirette tra il contenuto
e il contesto di esposizione, tra l’oggetto mostrato e il luogo fisico della sua ostensione. È
merito della più recente ricerca museologica l’aver spostato almeno parzialmente l’attenzione
dalla semantica dell’oggetto al suo rapporto storico con l’allestimento: il tema diviene più
concreto e urgente nel momento di procedere ad un restauro museografico dell’allestimento
o nei casi estremi ad un suo completo rinnovamento: bisogna perciò distinguere e/o tentare
di restituire alcune delle identità di un museo, attraverso una chiave di lettura che ne
ponga in risalto gli elementi compositivi (Rescigno 1994; Di Valerio 1999; Huber 1999;
Bruno 2002).

In tema di identità, il museo italiano soffre ancora oggi le conseguenze di una crisi iniziata
alla fine dell’Ottocento, con le trasformazioni nella macchina amministrativa all’indomani
della creazione dello Stato unitario, quando la necessità di uniformare normativa, pratica
di conservazione e tutela di reperti e opere d’arte, produce un cambiamento decisivo.
Da luogo di studio e ricerca, di educazione e formazione dei giovani, in piena sintonia con
i principi dell’enciclopedismo settecentesco, nel corso dei decenni finali dell’Ottocento il
museo muta condizione attraverso pochi ma decisi passaggi: forse il più gravido di conseguenze
negative è la sua sottrazione (su scala nazionale) al controllo dell’amministrazione
scolastica, seguito dall’adozione di un biglietto d’ingresso, allo scopo di favorirne un auspicato
e generale quanto ambiguo ed irrealizzato “pubblico godimento” (Emiliani 1973).
Fig. 1. Il museo-studiolo seicentesco
secondo J.A. Comenius, dove lo
studioso conduce i suoi studi in solitudine,
secretus ab hominibus (fonte:
Huber 1999).
61

62 Nel processo si coglie e in qualche modo si prefigura il distacco prossimo venturo del
museo statale dalla comunità dei cittadini, a vantaggio di un uso limitato e quasi esclusivo
degli oggetti e delle opere da parte di un’élite intellettuale che, tra forme diverse di governo
e di regime nel corso del Novecento, rimuoverà con pochi sensi di colpa una disattesa responsabilità
a costruire e mantenere la tensione scientifica e civile tra il museo e il cittadino,
con i risultati (e i problemi di gestione) che tutti oggi abbiamo sotto gli occhi.
Il taglio di questo lavoro vuole offrire soltanto un parziale contributo a una discussione
sul metodo che ancora attende di essere affrontata in modo adeguato: quella della conservazione
degli allestimenti museali. Se infatti molta ricerca museologica ha indagato in
profondità caratteri e contesto storico del collezionismo d’arte e archeologico, non mi pare
sia stata praticata con altrettanto rigore o almeno portata al confronto e alla discussione nei
consessi scientifici una “epistemologia della classificazione”, applicata al settore degli studi
umanistici con particolare riguardo all’analisi degli apparati museografici.
Le ragioni di tale lacuna sono varie e se ne può forse individuare qualcuna: tra le prime,
il fatto che la museologia e la museografia siano in effetti discipline accademiche a cavallo
di saperi diversi, con la conseguenza di produrre occasioni di incontro e di osmosi limitate
ad argomenti molto specifici, di taglio eccessivamente specialistico. Una seconda è la scarsa
Fig. 2. Roma: l’Antiquarium sul Palatino ripreso da J.H. Parker (1879) (negativo e riproduzione DAI - Rom, Inst.
Neg. PK 2292).

attenzione (alimentata dal fiorente mercato degli allestitori), che suscita il recupero di allestimenti
“vecchi” e obsoleti (armadi e teche in legno, vetrine, corpi illuminanti nelle sale,
etichette, pannellistica e segnaletica d’epoca), il cui aspetto attuale suggerisce quella praticata
definizione di “luogo polveroso”, colpevole di indurre un senso di noia nel visitatore e
quindi di stimolare l’estro dell’architetto di grido per far piazza pulita dell’esistente, rimpiazzandolo
con un allestimento moderno, benché privo della minima identità storica e culturale
(cfr. in generale la raccolta dei saggi contenuta in appendice a Schaer 1996).
Se c’è una colpa da imputare agli studiosi di museologia e museografia, è di non aver
esaltato abbastanza l’importanza del contesto di esposizione dell’oggetto, rispetto al valore e ai
significati possibili dei reperti e delle opere offerte al pubblico. A ciò si aggiunga il desiderio
di incrementare la funzione formativa del proprio museo attraverso un malinteso senso
della modernità: un fatto che sempre più spesso spinge il decisore culturale e/o amministrativo
dell’istituzione a disfarsi del “vecchio” allestimento, senza conservarne porzioni magari
limitate e spesso trascurando di documentarne per immagini la struttura originaria: eppure
quell’allestimento rispondeva a precisi criteri di classificazione degli oggetti e delle opere,
suggeriti a suo tempo da un progetto scientifico o almeno dalla supervisione di uno specialista
o di un cultore della materia.
Nel caso degli allestimenti museali, non si tratta certamente di perseguire una filosofia
“estrema” di conservazione dell’esistente, ispirata alla “lampada della memoria” di concezione
ruskiniana e trasferita dall’architettura dei volumi a quella degli allestimenti: si potrebbe
quasi sostenere che un allestimento di buona qualità non dovrebbe essere toccato mai più,
se non nella manutenzione, in quanto strettamente collegato alla memoria del luogo che lo
ospita (definizione sviluppata in Ruggieri Tricoli 2000, p. 62 s.; cfr. anche Ruskin 1891, pp.
320-360). Al contrario, sembra opportuno considerare i caratteri e la natura dei singoli allestimenti
alla luce di alcune necessità oggettive: nel contesto specifico merita, come è stato
già sottolineato (si rimanda p.e. al contributo di M. Lanzinger in questo stesso volume),
produrre qualche elemento di riflessione sul rapporto tra identità del museo e necessità dei
consumi di massa.
2. IDENTITÀ DEI MUSEI E CONSUMI DI MASSA: QUALCHE NOTA SULL’ESPERIENZA
ANGLOSASSONE E NORD-EUROPEA
Il progresso della ricerca in ambito museologico e museografico fa emergere sempre di più
un’apparente difformità tra le necessità di mantenimento dell’identità storica di un museo
e i bisogni crescenti di un consumo di massa dei beni culturali, quale è stato definito quello
attuale (Lumley 1989). Il concetto di identità di un museo è stato messo a fuoco con criteri
e parametri molto diversi: è però abbastanza evidente come in linea di principio tale
concezione sia subordinata alle culture e alle condizioni politiche dei paesi che presiedono
alla sua istituzione e gestione. Nel panorama della museologia italiana, si è insistito recentemente
sul valore da attribuire all’identità (culturale, scientifica e sociale) di un museo e sul
fatto che spesso si trascuri di far emergere con chiarezza la sua natura più profonda, mettendo
a rischio tutto il meccanismo di trasmissione delle informazioni al pubblico (Becchetti,
Lanciano, 1999).
63

64 Proprio il dibattito sul valore e sui significati del museo nella società contemporanea ha
favorito invece un’estesa riflessione nel mondo anglosassone (soprattutto nord-americano),
sul tema dell’identità e delle sue ragioni d’essere nella società contemporanea (Karp et Alii
1999). Una recente definizione di I. Karp ribalta in un certo senso il problema, fissando l’identità
e in qualche modo anche la personalità dei musei (in generale nord-americani), nel
bisogno di autorappresentazione della comunità che li esprime: è quindi un’identità fortemente
variabile nella visione dell’autore, a seconda del rapporto tra culture dominanti e culture
subalterne (Karp 1999).
Ne emerge un quadro stimolante e a tinte forti, accentuate nel caso statunitense dall’età
relativamente giovane della nazione, a fronte di una patente composizione multietnica della
popolazione. È interessante osservare come spetti talvolta al museologo americano il compito
di fissare di volta in volta nello spazio espositivo e nel tempo della narrazione i conflitti,
i paradossi e le incongruenze della società contemporanea, espressione delle diverse identità
delle comunità. Musei intesi cioè come luoghi della “memoria etnica”, nei quali si amplifica
e si alimenta quel legame inscindibile che esiste tra il museo e lo spazio geografico e
quindi tra il museo e gli stessi abitanti (Ruggieri Tricoli 2000, pp. 20-22).
Probabilmente non esiste termine di paragone europeo per valutare gli effetti prodotti
sull’articolata società statunitense da quei particolari istituti che sono i children museums oppure
i musei di clan e di comunità, spesso messi in ombra dalla dominante cultura anglosassone,
da cui tendono a distinguersi con orgoglio proprio nello spazio museale di cui dispongono:
luogo di per sé espressione di una gerarchia, soltanto per il fatto di dover fissare
e proporre i termini di una cultura nello spazio risicato e condizionato di un ambiente museale,
pur di garantirne la sopravvivenza in un contesto sociale fortemente stratificato.
Il difficile equilibrio tra civiltà dominanti e subalterne emerge con forza nel mainstream
della cultura nord-americana e si percepisce costantemente nella letteratura museologica che
mi è nota (non soltanto scientifica, ma soprattutto divulgativa), connessa anche all’archeologia
e all’antropologia: è sufficiente sfogliare distrattamente Common Ground (newsletter
ufficiale del National Park Service statunitense), per cogliere in filigrana la delicatezza delle
relazioni tra gli organi federali di gestione dei parchi e le comunità dei nativi americani, nei
limiti fissati al prelievo delle informazioni sul campo e all’accesso degli studiosi o dei visitatori
ai luoghi sacri delle comunità indigene (sul tema cfr. Carmichael et Alii 1996; Di Valerio
2000).
In tema di gerarchie culturali, è interessante sottolineare la distanza (non soltanto geografica)
percepibile tra il dibattito nord-americano e la discussione sviluppata dalla museologia
europea, che soltanto da poco ha iniziato a interrogarsi sui rapporti di rango costruiti
dagli individui all’interno e al di fuori delle comunità di appartenenza: non è un caso che
tali rapporti siano materia di studio e di rappresentazione museografica soprattutto nell’ampio
comparto della ricerca antropologica ed etnografica (una sintesi in Clemente
1999a). Questo è anzi terreno d’elezione per una riflessione sulla diversità ma soprattutto
sulle condizioni di sopravvivenza delle culture subalterne rispetto a quelle egemoni, della civiltà
rurale rispetto a quella urbana, sui valori dell’ambiente rispetto al contesto di formazione
e sviluppo delle comunità (Papa 2000).
Scaturisce così un quadro delle identità che è naturalmente composito, permeato di valori
in apparenza in contrasto ma in fondo ricostruito tenendo sempre a mente gli elemen-

ti geografici dello spazio e quelli demografici del territorio storico, con il fine di illuminare
processi e fenomeni in base alle risorse e ai valori del pensiero dominante. Il museo antropologico
o etnografico diviene così una sorta di “luogo della memoria oggettuale”, secondo
una felice definizione di J. Assmann (1997), cioè quella forma di ricordo che unisce la memoria
delle immagini a quella dei significati, in un impasto di esperienze individuali, fatto
di odori, sensazioni tattili, rumori.
Se tutto ciò ha stimolato una rilettura critica dei metodi e delle strategie dell’indagine
antropologica ed etnografica, siamo lontani dall’aver avviato un dibattito sui significati e le
finalità della museografia archeologica italiana, tuttora fortemente legata alla storia dell’arte
e ancora oggi incapace di esprimersi nel potenziale ampio ventaglio di interpretazioni e
di applicazioni che un oggetto archeologico presenta. Il nostro paese infatti è stato sfiorato
appena dal dibattito sulla teoria, sollevato prima dalla New Archaeology e poi dall’archeologia
contestuale propugnata da I. Hodder, senza tuttavia restarne molto coinvolto, con qualche
eccezione nel settore della preistoria e protostoria: in realtà uno degli obiettivi comuni
di queste scuole di pensiero è il riconoscimento e l’identificazione di relazioni tra reperti,
che presuppongono processi specifici, legati all’espressione della cultura materiale, del rito e
del culto (Trigger 1996, pp. 311-385; Terrenato 2000).
È anche vero che il rapporto tra fruizione “massificata” del reperto e restituzione delle
sue identità ha spesso prodotto fraintendimenti volutamente alimentati da certo spirito na-
Fig. 3. Roma, Città del Vaticano: la Sala a Croce Greca di Michelangelo Simonetti, ripresa da J.H. Parker (1879)
(negativo e riproduzione DAI - Rom, Inst. Neg. PK 2607).
65

66 zionalista, con le conseguenze note a tutti: occorre saper riflettere, tuttavia, proprio sulla
possibilità unica che esprime la scienza archeologica nella capacità di sottoporre le (ri)costruzioni
(o meglio le moderne costruzioni) della storia al continuo vaglio del metodo. Il dato
archeologico si pone così al centro di un sistema interpretativo da ritenersi quasi mai concluso
e definitivo, quanto piuttosto perfettibile grazie al progresso delle conoscenze. Su tale
attitudine si è avviata un’utile riflessione sulla (ri)costruzione della storia, operata dall’archeologia
sperimentale anglosassone e nord-europea in generale, che più di altre hanno fatto
ricorso a tecniche di rappresentazione teatrale e scenografica della storia, attraverso le formule
della living history e del re-enacting, creando in qualche caso un vero e proprio consumo
di massa del bene archeologico: si pensi al successo di pubblico riscosso dagli scenografici
allestimenti dello Jorvik Viking Centre di York e soprattutto a come tale forma di presentazione
abbia orientato la museografia europea (anche italiana) contemporanea (Stone,
Planel 1999; per una sintesi su questi temi mi sia consentito il rinvio a Zifferero 2003; una
panoramica pressoché completa, con un commento critico sulle tecniche di rappresentazione
e di consumo della storia e sui problemi di autenticità che essa comporta è in Ruggieri
Tricoli 2000, pp. 122-184).
3. TEORIA DELL’ARCHEOLOGIA E STORICITÀ DEGLI ALLESTIMENTI MUSEOGRAFICI
L’efficace definizione di M.C. Ruggieri Tricoli proposta in apertura sintetizza nel museo il
luogo di una struttura, che si confronta con lo spazio, il tempo e la complessità della storia,
legata a volontà politiche, pressioni economiche, tendenze delle ideologie e della cultura dominante.
All’interno di questa struttura, il criterio di allestimento dipende sostanzialmente
dalla “realtà negoziata” dei significati e dei valori espressi dall’oggetto in vetrina: una selezione
che comprime volutamente il senso della complessità per esigenze espositive (Kavanagh
1996: 1-14; sullo stesso tema, cfr. anche i vari contributi offerti in Hooper-Greenhill
1994; 1995).
Sul continuo “negoziato” tra complessità della realtà archeologica e sua riduzione a fini
di allestimento si è molto discusso: un dibattito al quale, tuttavia, l’archeologia italiana è rimasta
quasi sempre estranea, se non nella lettura interpretativa di alcuni allestimenti d’autore
(Huber 1997). Chi scrive ha già avuto modo di sottolineare come il mutare dei criteri
di classificazione scientifica degli oggetti non abbia prodotto un limitato o almeno ragionato
mutamento dei criteri espositivi (Zifferero 1999).
Si può discutere a lungo sulle ragioni di tale fenomeno: l’insufficiente definizione delle
sfere di competenza tra il responsabile del progetto museologico e quello dell’allestimento
museografico riduce spesso la chiarezza della forma che dovrebbero assumere i contenuti
dell’allestimento, con il risultato, mal dissimulante le gravi responsabilità dell’archeologo, di
abbandonare la scelta dei valori e dei significati degli oggetti alla sensibilità tecnica dell’allestitore
o alla sua personale percezione dei contenuti. La ritrosia tutta italiana a discutere
di teoria dell’archeologia ha condotto all’abitudine paradossale di mutuare schemi e modelli
interpretativi dall’archeologia europea o statunitense, senza riflettere sul loro potenziale
impiego (o, meglio, applicandoli inconsciamente), nella costruzione del progetto museologico
prima e nella sua traduzione museografica poi: eppure lo stesso J. Hodder (1982) ha

fatto emergere con lucidità come la classificazione crono-tipologica o quella funzionale dei
reperti archeologici non soltanto non penetrino la complessa semantica degli oggetti, ma al
tempo stesso non siano né le migliori, né le uniche forme di ostensione della cultura materiale
(per un inquadramento generale di questi temi si rimanda a Terrenato 2000).
Il rinnovamento di un allestimento museografico dovrebbe sempre e soltanto esprimere il
desiderio di un rapporto più stretto e aggiornato con il mondo moderno e con il pensiero
scientifico contemporaneo: questa è una delle ragioni fondanti dell’interesse che si nutre per
il museo in quanto custode di oggetti ma prima ancora del sapere che li classifica e li valorizza.
Al contrario, sono spesso le mode e le tendenze culturali a sollecitare trasformazioni ispirate
a nuove interpretazioni delle scienze umane e/o naturali, ormai molto distanti dal gusto
estetizzante delle raccolte settecentesche o dall’esposizione sistematica del sapere scientifico
come espressione dell’evoluzione e del progresso, propria del museo ottocentesco.
La ricchezza e l’articolazione territoriale del patrimonio museografico (e in particolare
archeologico) italiano lo rendono difficilmente censibile dal punto di vista dei caratteri e
della storia dell’allestimento, anche se la fatica comporterebbe risultati di tutto rilievo; un
mero censimento della qualità, cronologia e distribuzione degli allestimenti “storici” richiamerebbe
in minima parte quel patrimonio di ricerche, progetti, azioni, strettamente connessi
al dibattito culturale contemporaneo al periodo della creazione di ciascun museo: una
singolarità che fa di ogni caso un impasto di enorme potenziale, portato in luce e valorizzato
soltanto in rari casi analizzati nel dettaglio (Huber 1999).
Fig. 4. Roma, Città del Vaticano: il Museo Chiaramonti nell’allestimento di Antonio Canova, ripreso da J.H. Parker
(1879) (negativo e riproduzione DAI - Rom, Inst. Neg. PK 2417).
67

68 D’altro canto, quasi mai le pure motivazioni scientifiche riescono a perforare la membrana
protettiva degli studi accademici, non giungendo di conseguenza al pubblico dei visitatori
dei musei e soprattutto agli amministratori locali. Si rischia così di non far apprezzare
appieno il valore incalcolabile degli allestimenti storici, che sono stati in diversa misura
conservati e valorizzati, o altrimenti documentati e rinnovati: forse è proprio l’Emilia-Romagna
il comparto regionale nel quale i giacimenti museali sono stati strappati all’oblio attraverso
un lavoro capillare di censimento e di effettiva documentazione delle collezioni, anche
se molto resta da fare, in termini di approfondimento delle singole storie museali (Bologna
2000). Soltanto in questo modo si giungerà a tutelare consapevolmente (scegliendo
magari di renderlo più fruibile con modifiche ispirate da una diversa sensibilità per gli oggetti
e i reperti) l’originario percorso espositivo, spesso fatto ancora di imponenti armadi a
vetri, nei quali gli oggetti sono dislocati con criteri pienamente informati ai concetti di evoluzione
e progresso propri della logica positivista, che permeava i metodi di classificazione
delle scienze naturali e delle scienze preistoriche all’interno di un pensiero archeologico in
formazione (Rescigno 1994, pp. 53-62).
Il più delle volte sono proprio i musei civici (in quanto interpreti di un’esigenza di ricostruzione
storica che parte dalla comunità), gli istituti per i quali (accanto a numerosi
episodi di scempio, perpetrati soprattutto nell’ultimo trentennio), si sia sviluppata una certa
sensibilità locale che ha consentito di preservare molta parte degli allestimenti originali
(si rimanda, a titolo di esempio, ai casi di Modena e di Reggio Emilia: Cardarelli 1984; Desittere
1984a). La straordinaria raccolta di informazioni sulla storia del Museo Civico Archeologico
di Bologna restituisce un quadro paradigmatico di grande interesse per far rie-
Fig. 5. Roma, Musei Lateranensi: pannello murale con epigrafi cristiane, ripreso da J.H. Parker (1879) (negativo
e riproduzione DAI - Rom, Inst. Neg. PK 2952).

mergere quella tensione culturale che le prime ricerche condotte in modo scientifico sulle
culture protostoriche e sul popolo etrusco a metà dell’Ottocento avevano indotto nella comunità
degli studiosi e soprattutto nella società civile dell’Italia preunitaria, con conseguenze
che andarono ben oltre la mera prospettiva regionale (Morigi Govi, Sassatelli 1984;
Desittere 1984b; 1988). Queste microstorie, quasi sempre strettamente intrecciate alle vicende
locali, restano in traccia negli archivi storici comunali o dei musei civici, costituendo
un giacimento prezioso che testimonia in dettaglio la storia del pensiero archeologico e
la teoria della sua applicazione, nella progettazione e nell’allestimento museografico: nei casi
migliori esse sopravvivono ancora fisicamente negli apparati espositivi scampati alla distruzione
o alle trasformazioni. Sono significativi, al proposito e a titolo di esempio, gli
scritti di G. Chierici per giustificare le ragioni dell’allestimento dell’originario “Gabinetto
di Storia Patria” di Reggio Emilia nel 1862: dei quattro armadi presenti nel Gabinetto, «il
primo era assegnato all’epoca primitiva italiana, il secondo all’epoca etrusca cisappenninica, il
terzo all’epoca romana e il quarto alle antichità trovate fuori della provincia di Reggio» (Desittere
1984a, p. 496).
Un filone italiano di studi museologici ha ben messo a fuoco una storia del collezionismo
museale, attraverso le tappe che hanno fatto emergere, tra il XV secolo e il formarsi della
tensione illuminista verso le scienze, nel XVIII secolo, i caratteri delle raccolte d’arte classica
e delle wunderkammern, ma anche dei primi musei naturalistici e archeologici: in questo
senso proprio la museografia, seguendone da vicino i passaggi e le trasformazioni, è stata
per certi versi una muta testimone dello sviluppo del pensiero scientifico nella cultura occidentale
(Gualandi 1984; Rescigno 1994, pp. 19-52).
Una storia del pensiero archeologico, in chiave di pura prospettiva museologica, deve essere
invece ancora scritta: essa è saldamente legata al determinarsi dell’interesse per le antichità
e all’avvio delle campagne di scavo sistematiche negli Stati dell’Italia preunitaria prima,
delle grandi imprese nel Mediterraneo poi. Se infatti Roma era stata in età rinascimentale
al tempo stesso centro dell’interesse e sfondo dell’attività legata al collezionismo archeologico,
con la metà del XVIII secolo l’avvio di scavi a Pompei ed Ercolano, in Etruria
e in Emilia, il successo e la diffusione degli studi di archeologia investono molti Stati e preparano
il terreno alle grandi imprese dell’Ottocento, coronate dall’apertura di molti nuovi
musei (Barbanera 2000).
Un filone da approfondire nell’ambito delle indagini sui musei del periodo preunitario e
di quello successivo al 1860 è la stretta relazione tra la forma dell’allestimento museografico
e gli strumenti della classificazione archeologica: un caso tra i più interessanti e documentati
è la composizione degli allestimenti del Museo Preistorico-Etnografico “L. Pigorini”, formato
con le collezioni del Museo Kircheriano, ospitato in origine nelle sale al Collegio Romano
(Biscione 1999; cfr. anche il contributo di P. Clemente in questo stesso volume).
Come è stato di recente osservato da M. Barbanera, il progresso (o altrimenti il regresso)
dei metodi della ricerca archeologica è andato di pari passo con il diffondersi delle scuole
di pensiero e delle tendenze formative nelle Università del neonato Regno d’Italia: l’autore
ha riconosciuto un momento di forte criticità nella storia della disciplina, quando il
netto prevalere dell’archeologia intesa come storia dell’arte si allinea con la migliore tradizione
tedesca, attraverso la chiamata alla cattedra di Roma di E. Loewy nel 1889, scelto al
posto del “preistorico” P. Orsi: «non è esagerato affermare che decidere in favore dell’uno o del-
69

70 l’altro avrebbe determinato profonde differenze nel destino dell’archeologia classica nel nostro
paese» (Barbanera 1998, pp. 72-77).
Proprio il successo ed il prevalere degli studi di storia dell’arte, a tutto svantaggio di quelli
preistorici, la cui diffusione resta confinata a pochi specialisti, aprirà la strada in Italia alla
pratica dell’idealismo nella ricerca sull’antichità: una strada che gli archeologi tedeschi
avevano preso coscientemente dopo le esperienze di classificazione improntate al positivismo
nella seconda metà del XIX secolo: nel nostro paese è stata certamente l’archeologia
preistorica (con tutto il suo complesso sistema di raccordi tipologici e funzionali, oltre che
di analisi dei processi di formazione e composizione dei depositi archeologici) a soffrire le
conseguenze di un atteggiamento filosofico e culturale che, ancor prima dell’avvento del fascismo,
avrebbe fortemente ridimensionato in negativo l’interesse per i settori della preistoria
e protostoria, innescando un grave ritardo nella ricerca ma soprattutto nell’elaborazione
di teorie e griglie interpretative (Guidi 2000).
Un periodo fecondo di studi e di allestimenti museali si era concluso e si sarebbe dovuto
attendere il secondo dopoguerra per ravvivare una discussione sul metodo e sulle sue applicazioni
museografiche.
4. MUSEOLOGIA ARCHEOLOGICA E ALLESTIMENTI NELL’ETÀ CONTEMPORANEA
Gli anni a cavallo tra le due guerre si possono considerare una parentesi in cui il pensiero
critico è stato dominato, almeno per l’approccio dell’archeologia classica, da un’impronta
idealista che ha ritardato a lungo lo sviluppo del pensiero storicista (finalmente avviato da
R. Bianchi Bandinelli); certo l’attuale dibattito museologico sull’identità e sul significato dei
musei, in particolare quelli archeologici, sembra quasi assopito: anche a causa del ritardo accumulato,
esso non riesce a compiere quel salto di qualità che sarebbe richiesto, quasi fosse
oppresso o comunque condizionato dagli aspetti più legati alle tecniche dell’allestimento.
In ogni caso l’attenzione odierna, stimolata dalla tardiva scoperta della cultura materiale
negli anni ’70, è fortemente subordinata all’influenza della museologia anglosassone che
più di tutte ha avuto la forza di imporsi a livello internazionale, non fosse altro per aver alimentato
con decisione il dibattito concreto sulla semantica degli oggetti, facilitata dall’abbondanza
di tribune e di occasioni promosse intorno alla teoria della valorizzazione (cfr., tra
i contributi più recenti, Macmanamon 2000).
La discussione teorica italiana è in grave ritardo e talvolta sembra ancorata a idee e/o
progetti espositivi che una museologia di respiro più europeo ha abbandonato dopo averli
testati come non produttivi o inefficaci. C’è di più: la lentezza della riflessione teorica sul significato
e sulla capacità del museo di rappresentare una comunità sembra travolta dalle
spinte provocate dal consumo di massa dei beni culturali (che richiede una comunicazione
dei contenuti più efficace) e dallo scompiglio provocato dall’introduzione di nuove forme
di gestione dei musei: tutti argomenti di indubbio interesse ma che hanno sottratto attenzione
e spazi al vero problema: per quali motivi si crea un nuovo museo e soprattutto a beneficio
di chi? Una seconda domanda che si impone comunque è questa: qual’è l’identità
prevalente di un museo e come possiamo mantenerla, modificarla o trasmetterla nel futuro?
Certamente essa è composta da una somma di identità integrate o contrapposte: il pen-

siero e l’attitudine mentale di chi lo ha immaginato, la cifra stilistica di chi lo ha progettato,
il significato e il contesto degli oggetti che contiene.
Un altro deterrente, non soltanto italiano ma particolarmente accentuato nel nostro Paese,
è la consolidata (in senso negativo) divisione del sapere che domina ormai la nostra formazione
superiore e che fa sì che lo scienziato non sia umanista e viceversa, che museologo
sia prevalentemente lo storico dell’arte e museografo esclusivamente l’architetto, che l’archeologo
non sia né museologo né museografo perché altrimenti non può firmare un progetto
se non marginalmente, non può fare carriera ecc. (su questi temi cfr. Daccò 1998 e
Gelao 2001).
Riflettendo sulla situazione del nostro paese, tuttavia, un fatto appare subito evidente alla
luce degli argomenti proposti: il museo umanistico è sempre costruito con la mediazione
della cultura dominante, che propone valori ritenuti fondanti nella società e nel pensiero
contemporaneo; proprio perché caratterizzanti un periodo, quei valori sono destinati ad essere
superati o accantonati da altre culture o forze egemoni. Esistono certo eccezioni a questa
tendenza, come sembrerebbe indicare il caso della Liguria: una regione, tuttavia, dove la
presenza trascurabile di valori monumentali nell’archeologia degli elevati ha di fatto stimolato
su larga scala nuovi percorsi di ricerca e di studio della cultura materiale, legati a singoli
studiosi come T. Mannoni ed E. Giannichedda, ma al tempo stesso solidamente anco-
Fig. 6. Roma, Musei Lateranensi: sala con sarcofagi, bassorilievi e statue, ripresa da J.H. Parker (1879) (negativo
e riproduzione DAI - Rom, Inst. Neg. PK 2893).
71

72 rati a istituti di ricerca e di valorizzazione attivi come l’Iscum (Mannoni, Giannichedda
1996; Giannichedda 1999, 2001).
Niente come un museo europeo può trasmetterci l’evoluzione del pensiero culturale o
scientifico dominante – o, al contrario, di quelle forme ispirate ad atteggiamenti politicamente
corretti che risarciscono le culture emarginate, per citare sempre P. Clemente
(1999b) –, presenti nella cultura occidentale. Una premessa forse troppo sintetica per indurci
a riflettere sul fatto che i musei europei, ancora prima che raccolte di oggetti siano i luoghi
fisici della storia del pensiero occidentale, in quanto hanno fissato l’esigenza di documentare un
fenomeno in un momento preciso, rappresentandolo con le cognizioni scientifiche di quel
periodo. Ciascun museo è lo specchio di una comunità, ma ancora meglio è la rappresentazione
fisica del pensiero di una parte della comunità in un determinato momento storico. Possiamo
essere più o meno d’accordo con l’opzione di conservare o meno il passato (e quindi
buttar via il “vecchio e polveroso” allestimento o restaurarlo e mantenerlo): dovremmo però
riconoscere tutti che il passato è forma della storia, che nel museo si è fatta pensiero storiografico.
Un allestimento museografico è quindi l’espressione mediata, in tutti i sensi, delle persone
fisiche, della cultura, della rappresentazione del pensiero storico e soprattutto delle co-
Fig. 7. Parma, Museo Archeologico
Nazionale: un armadio a vetri dell’allestimento
ottocentesco restaurato
e riproposto nell’attuale percorso
espositivo.

noscenze tecniche del periodo: basti pensare a cosa comporta oggi spiegare il procedimento
con cui è stato prodotto un cartoncino scritto a mano con inchiostro di seppia, ad un bambino
abituato ad usare un personal computer. Purtroppo, una malcelata voglia di modernità
e soprattutto un equivoco di fondo, generato, perlomeno nel settore dei musei archeologici,
da un’eccessiva fiducia nella capacità del reperto di trasmettere informazioni percepibili
con chiarezza, hanno finito col dare più importanza all’oggetto che al contesto: questo danno
irreversibile, per così dire, è ben visibile nella lucida e consumata abilità dell’archeologo
di riproporre costantemente, attraverso l’esposizione museale, i propri criteri di classificazione
dei reperti, senza tuttavia avvertire il bisogno di spiegarli al pubblico e trascurando di
dare la giusta importanza alla cornice d’uso in cui sono stati in precedenza impiegati correntemente
quegli oggetti.
Per assurdo potremmo sostenere che è il contesto circostante gli oggetti, quindi l’allestimento
che fa il museo, non il reperto in sé in quanto testimonianza di civiltà, che fa invece
la collezione, anche in senso strettamente legislativo. Il museo archeologico italiano infatti,
almeno negli ultimi cinquant’anni, è stato l’espressione astratta del pensiero di chi l’ha
progettato, non l’espressione concreta dei significati contenuti e/o manifestati nel reperto.
Anche in questo è difficile osservare forme di equilibrio: si passa troppo spesso da progetti
tesi ad esaltare la personalità dell’architetto a scapito del reperto ad una lettura odierna del
tutto minimalista e asettica degli oggetti, in cui sparisce il loro contesto originario e funzionale.
La distruzione dei molti allestimenti storici che si è consumata nel nostro paese nell’ultimo
trentennio ha prodotto nuovi percorsi privi di effettiva identità e consistenza, con
reperti quasi sempre incapaci di soddisfare le esigenze scientifiche di una museografia critica:
una volta prelevati dal contesto originale (e obsoleto) di esposizione è come se perdessero
parti della loro identità, accreditata dal primitivo allestimento.
4.1. Rinnovare l’allestimento o conservarlo per essere più comunicativi?
I punti che vorrei sottoporre all’attenzione del lettore come spunti per una futura riflessione
sono questi:
Ogni epoca ha le sue fasi di transito e di crisi ideologica, che immette più o meno compiutamente
nelle proprie istanze culturali e riversa nelle creazioni museali, spesso le migliori
interpreti della volontà di cambiamento: una definizione stimolante e utile è quella
di G. MacDonald (1999, pp. 109-110), sul rapporto tra le identità della società canadese
e le sue rappresentazioni nel Museo della Civiltà Canadese: l’autore riconosce che «il
mutamento ha preso oggi una direzione particolare: ci stiamo, infatti, avviando verso una società
dell’informazione. Sono molte le forze che operano il cambiamento, ma una delle più
manifeste è data dal rapido sviluppo dell’informazione, della comunicazione, delle tecnologie
mediatiche, che stanno pervadendo tutti gli aspetti della nostra vita, pubblica, professionale,
domestica, scolastica e persino ricreativa... La transizione dall’era industriale a quella dell’informazione
impone una revisione delle filosofie e delle pratiche museali, nonché un riesame
dei modi in cui i musei si pongono al servizio della comunità». Il punto è cruciale, perché
mai come oggi è pressante l’esigenza di cambiamento imposta dalla società dell’informazione,
nei modi e nelle tecniche della selezione e dell’offerta delle informazioni:
il rischio è di perdere molta o gran parte del patrimonio museale, in nome di una ma-
73

74 lintesa preferenza della virtualità per la realtà: un tranello nel quale sono caduti molti riallestimenti
recenti di collezioni archeologiche.
Uno dei problemi maggiori deriva certamente dalla fruizione di questi musei: probabilmente
niente più di un museo, frutto di una società o di un pensiero illuminista o positivista,
può essere distante dalle esigenze di consumo della società odierna. Eppure vale la pena
di soffermarsi su alcuni aspetti effettivamente interessanti e che possono ribaltare il problema
e condurlo verso una soluzione soddisfacente o almeno sperimentale. Il tema è stato già
affrontato a diverso livello dalla cultura nord-europea e ripreso con convinzione nei paesi
anglosassoni, che hanno fatto del passato “ricostruito” dagli interpreti in modo contestuale
un punto di forza di molti open air museums e/o dei cosiddetti “parchi tematici” (basti pensare
alle scenografiche ricostruzioni dell’archeologia sperimentale, oppure per l’età moderna
agli Ironbridge Gorge Museums nello Shropshire o a quello di Beamish nella contea di
Durham, per arrivare oltreoceano a The Colonial Williamsburg in Virginia: Blockley 1999;
Stone, Planel 1999; Ruggieri Tricoli 2000, pp. 114-157). Il rapporto con il passato è qui assolutamente
mediato, in base al particolare valore che viene posto nel potenziale formativo
(educational), che hanno l’acquisizione della conoscenza storica e del passato in generale; un
aspetto del potenziale formativo è quello teorizzato dalla interpretation: «an educational activity
which aims to reveal meanings and relationships through the use of original objects, by firsthand
experience and by illustrative media», secondo la definizione di M. Gross (1999,
p. 483).
Fig. 8. Verona, Museo Civico di Storia
Naturale: pannello mobile con
allestimento di oggetti in bronzo
dalle “Palafitte del Lago di Garda”
(negativo e riproduzione DAI -
Rom, Inst. Neg. 35.1305).

Come fornire una convincente “presentazione” di un museo con allestimento storico, suscitando
l’interesse nel fruitore ed alleviando il peso che tale allestimento comporta inevitabilmente
per il gestore? Direi partendo in primo luogo dalla natura del suo allestimento più
che dall’oggetto: un percorso perseguibile sia nei grandi contesti (il riferimento è per es. alla
Galleria Borghese di Roma) ma anche nei più piccoli, per i quali sia paradossalmente più
importante il contesto che l’oggetto.
Astenendosi dal riproporre dubbi effetti di “rivitalizzazione” per mezzo di interpreti cari
all’esperienza nord-europea e anglosassone (ma da noi improponibili per varie ragioni), una
possibile è quella di utilizzare l’allestimento storico per introdurre una nuova dimensione nel
museo: quella legata alla percezione fisica del tempo. Il tempo è il vero e principale mediatore
tra noi e l’allestimento storico: “l’accumulo della polvere” in questo caso può significare anche
cento, duecento o trecento anni. Niente può essere così suggestivo come stimolare la sensazione
della macchina del tempo (altrimenti definita come time machine, timescope ecc.),
nell’avvicinamento al luogo con un progressivo distacco dalla vita di oggi e dal suo costante
rumore di fondo, per addentrarsi in quello che doveva in origine essere il luogo dello studiosus,
secretus ab hominibus, secondo la definizione seicentesca del Comenius.
Esistono alcuni ambienti (per es. il Museo e la Biblioteca dell’Accademia Etrusca di Cortona,
che conservano intatto il fascino creato dall’antichità dell’allestimento), nei quali il significato
e la percezione del contesto emergono dalla distribuzione e dall’arredo delle sale
Fig. 9. Verona, Museo Civico di Storia
Naturale: pannello mobile con
allestimento di oggetti in bronzo
dalle “Palafitte del Lago di Garda”
(negativo e riproduzione DAI -
Rom, Inst. Neg. 35.1284).
75

76 piuttosto che dagli oggetti esposti: qui non si può resistere alla suggestione promanata dalla
biblioteca settecentesca, dove una “presentazione” anche leggera, sul filone scenografico
delle period rooms care al mondo anglosassone, avrebbe bisogno soltanto di una sedia appena
discostata dal tavolo e di un volume aperto su di esso, come ad alludere allo studioso del
Comenius che si è momentaneamente allontanato dal suo studio (sul tema della period
room, cfr. Ruggieri Tricoli 2000, pp. 99-114).
È, per alcuni versi, la stessa sensazione di vissuto che comunica la scelta operata in alcune
dimore storiche dell’Inghilterra vittoriana, come nel caso di Brodsworth Hall: la tappezzeria
sdrucita e il pavimento sconnesso, volutamente mantenuti e restaurati nella loro naturale
condizione di usura, sono i testimoni più efficaci del trascorrere del tempo e della vita
degli inquilini (Allfrey 1999). Questi musei sono tra i pochissimi luoghi che rendono fisicamente
percepibile la dimensione del tempo trascorso, in rapporto al presente, fissandolo
per sempre: quello del tempo è infatti un valore che stiamo perdendo, a causa della velocità
sostenuta per poterlo comprimere sempre di più; oggi si potrebbe ribaltare la concezione
che U. Eco (in Schaer 1996, p. 157) ha dato qualche anno fa del museo come “tomba di
oggetti morti”, intendendolo invece come custode fisico del pensiero umano: una sorta di
pietra miliare del tempo, nel quale si può riconoscere il cammino tortuoso, articolato e certamente
legato alla complessità, compiuto dalla nostra storia.
Fig. 10. In questa pagina: Cortona,
Accademia Etrusca: ambiente di accesso
alla Biblioteca settecentesca.
Fig. 11. Nella pagina a fianco: Cortona,
Accademia Etrusca: interno
della Biblioteca settecentesca.

5. CONCLUSIONI: VERSO UN CODICE DI TUTELA DEGLI ALLESTIMENTI
In chiusura del lavoro si vorrebbe proporre almeno un’idea, al fine di sviluppare e di offrire
alla sperimentazione degli addetti ai lavori un “codice di fruizione” che possa tutelare effettivamente
gli allestimenti storici. Tale “codice di fruizione” dovrebbe essere espresso o almeno
rappresentato dalla legislazione nazionale (e qui si riapre l’annoso problema del profilo giuridico
dei musei, che mi pare tuttora non risolto dal T.U. 490/1999), ma in assoluto e come soluzione
ottimale, dalla legislazione regionale: nel codice dovrebbero essere riconosciuti (e
quindi tutelati), sottolineandone i caratteri propri dell’allestimento, quei musei con lo status
di “allestimento storico” di qualità: un suggerimento su come muoversi potrebbe derivare dal
modello di conservazione di particolari attività commerciali, come per es. le farmacie storiche,
tutelate in alcuni centri con apposite ordinanze comunali o provvedimenti legislativi regionali.
Lo strumento per il riconoscimento dello status di allestimento storico dovrebbe scaturire
da un censimento (che mi sembra comunque il percorso di ricerca più completo e funzionale
da porre in atto), da effettuare su base regionale, nel quale siano analizzati in grande
dettaglio i dati tecnici e cronologici relativi a tutte le componenti dell’allestimento: la necessità
di operare questa ricerca conoscitiva della storia e della qualità degli allestimenti potrebbe
essere condivisa sotto forma di documento dai partecipanti al convegno (che tra l’altro
prestano servizio in gran numero negli uffici dello Stato e degli Enti territoriali).
Si potrebbero inoltre far risaltare, all’interno delle categorie regionali, quei musei che
hanno allestimenti storici con la speciale denominazione di “museo storico”, da affiancare
alle tipologie consuete e tematiche e da ritenere ovviamente una sorta di marchio di tutela
e non un semplice standard di gestione.
77

78 Bibliografia
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79

80 PROPOSTA PER UNA SCHEDA DI CENSIMENTO DEGLI ALLESTIMENTI STORICI
Cristina Cecconi
In questa appendice si propongono in sintesi alcuni aspetti metodologici relativi ad un lavoro in corso per la
redazione di una tesi di laurea in Museologia e Museografia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Siena. Il tema della tesi prende spunto dalla necessità verificata di creare una documentazione sugli
allestimenti museografici di interesse storico e si indirizza ai musei archeologici della Toscana, per i quali esiste
una base statistica aggiornata (Toscana 2002).
Il tentativo di individuare i caratteri storici del singolo allestimento museale è stato messo a punto attraverso
una scheda di censimento, di cui si presentano qui di seguito le voci principali; è superfluo osservare come l’esperienza
in corso potrà far modificare in progress la consistenza o la qualificazione di alcune voci. È comunque
opportuno sottolineare che la difficoltà principale è relativa all’individuazione di ciascuna componente l’allestimento
museografico a carattere storico, che consenta di avere una classificazione analitica, all’interno di una
visione sintetica dell’apparato museale.
La scansione cronologica degli allestimenti sarà ordinata su una griglia preesistente, elaborata negli anni ’80 dal
Dipartimento Istruzione e Cultura della Regione Toscana ed ulteriormente implementata per rispondere alle
esigenze della ricerca in corso: essa prevede 5 partizioni cronologiche, rispettivamente: fino al 1700/1700-
1750/1751-1800/1801-1850/1851-1900/1901-1950 (Regione Toscana 1988).
Si riporta qui sotto, organizzata in forma di tabella, il prototipo di scheda di censimento impiegata per l’analisi
dell’allestimento:
Dati generali del museo
Denominazione del Museo
Provincia
Indirizzo
Numero di Telefono
E-mail
Sito web
Fruibilità al pubblico
Responsabile attuale/Referente informazioni
Anno raccolta informazioni
Condizione giuridica
Tipologia architettonica edificio
Anno di costruzione edificio
Eventuali restauri edificio
Uso attuale
Uso originario
Anno di fondazione museo
Dati sull’allestimento
Data primo allestimento
Data ultimo allestimento
Eventuali allestimenti intermedi
Eventuali restauri allestimento
Altro
Percorso espositivo
Numero sale complessivo
Numero sale visitabili
Numero sale non visitabili
Planimetrie esistenti degli allestimenti
Rivestimenti pavimentali
Rivestimenti parietali
Decorazioni soffitti
Decorazioni parietali
Dettagli decorazioni parietali
Caratteri generali illuminazione
Supporti espositivi
Stato di conservazione
Altro
Vetrine/armadi caratteri esterni:
Materiali
Dimensioni
Forma
Tipo di appoggio al suolo
Visibilità (360°/frontale/frontale e laterale)
Stato di conservazione
Altro
Vetrine/armadi caratteri interni:
Materiali
Rivestimento interno
Piani di appoggio (numero/materiale/disposizione)
Illuminazione interna
Stato di conservazione
Altro

Reperti esposti
All’esterno delle vetrine:
Natura materiale
Classe/tipo
Collocazione
Criterio espositivo
(crono-tipologico/contestuale/altro)
Altro
All’interno delle vetrine:
Natura materiale
Classe/tipo
Disposizione
Criterio espositivo
(crono-tipologico/contestuale/altro)
Visibilità (totale/parziale)
Altro
Dati sulla fruizione dell’allestimento
Numero medio visitatori all’anno
Eventuale pertinenza a sistema/rete museale
Eventuale connessione con siti/parchi archeologici
Attuale gestore
Altro
Sistema informativo
Interno/esterno alle vetrine
Tipologia (pannello/etichetta/numero)
Materiale
Forma
Dimensione
Disposizione rispetto agli oggetti
Visibilità (totale/parziale)
Forma di scrittura (meccanica o manuale/
tipo di inchiostro)
Contenuto in sintesi
Eventuale autore
Presenza di ricostruzioni dell’ambiente/
contesto archeologico
Materiale della ricostruzione
Stato di conservazione
Altro
Bibliografia
Bibliografia principale
Bibliografia di dettaglio
81

Il museo scientifico in Italia
tra orizzontalità locale e globalità verticale
Michele Lanzinger
Associazione Nazionale Musei Scientifici
Museo tridentino di Scienze Naturali - Trento
RIASSUNTO
Al pari delle altre museologie, anche il grande settore dei musei scientifici partecipa a pieno titolo al processo
di rielaborazione e di riproposizione dei tratti caratteristici del museo contemporaneo.
Sicuramente ad essi viene chiesto di agire efficacemente almeno nelle seguenti direzioni:
– Significatività sociale, nel senso di essere in grado di diffondere la conoscenza scientifica e di renderla
adatta al pubblico più ampio.
– Significatività educativa, nel senso di divenire partner strategici nel processo educativo delle comunità
di riferimento.
– Capacità di produrre benefici ed economie correlate in settori vicini, nel senso dell’occupazione (diretta
e indotta), di nuove occasioni di business.
– Attitudine alla collaborazione con gli Organismi della ricerca (Università, Istituzioni governative ecc.)
nella produzione di conoscenza scientifica adatta o orientata alla gestione, allo sviluppo, all’innovazione.
– Costruzione di uno snodo efficace nella più generale azione di sviluppo della “Learning society”.
SUMMARY
Along with the other forms of museology, the major branch of scientific museums fully takes part in the rethinking
process of the basic features of contemporary museum.
Scientific museums are required to act effectively at least on the following issues:
– Social significance, by disseminating scientific knowledge and making it comprehensible to the public at
large.
– Educational significance, by becoming the strategic partners of the educational process of the target communities.
– Capability in generating benefits and promoting economic development in closely related sectors, by (directly
and indirectly) creating new jobs and new business opportunities.
– Readiness to co-operate with research bodies (Universities, Governmental Organisations, etc.) in the production
of management, development and innovation-oriented scientific knowledge.
– Serving as effective liaison in the more general development of the “Learning Society”.
Il quesito posto dagli organizzatori è particolarmente chiaro. Senza venir meno alle istanze
della modernizzazione, è possibile preservare e presentare al pubblico il “vissuto” del museo
nella sua cifra stilistico-architettonica, mantenendo in uso i suoi materiali documentari e didattici
prodotti nel tempo? Inoltre, l’insieme degli apparati espositivi ereditati dalle precedenti
generazioni di museografi può costituire un’opportunità aggiuntiva, oppure, nella
maggior parte dei casi, questo atteggiamento conservativo costituisce un ostacolo alla fruizione
del bene museale? Infine, è legittimo che i tratti originari dei musei vadano a cadere
sotto i colpi del rinnovamento e la loro sostituzione avvenga senza lasciare alcuna traccia di

sé e di ciò che essi hanno rappresentato nel loro tempo e per il loro pubblico? In fin dei conti,
secondo questa un po’ più sofisticata accezione, non sono i musei stessi e i loro apparati
dei “beni culturali” e come tali meritevoli di conservazione?
Vorrei partire da questo ultimo punto. L’ipotesi è quella di difendere con rigore un atteggiamento
conservativo in quanto il farsi “stilistico-architettonico”, ovvero espositivo, è da
intendersi quale parte del progetto culturale proprio del museo e pertanto esso stesso meritevole
di tutela e di conservazione. Così dicendo, “l’archeologia del museo” diverrebbe un
dato non eludibile e insito del divenire nel tempo del museo. Il compito prioritario dei museologi-museografi
diverrebbe pertanto quello di conservare con cura il pregresso, quello di
stendere un filo di Arianna della conservazione della traccia lasciata dal farsi del museo e
delle sue museografie, un permanere nel tempo dei segni lasciati dai curatori, architetti, pedagogisti.
Un approccio rivolto a conservare per le future generazioni il “vissuto” di ciascun
museo, un vero e proprio progetto di Museologia sostenibile.
Giocando con una metafora scientista, si potrebbe obiettare che in tale prospettiva i musei
sarebbero destinati a rallentare in un universo stazionario che poco a poco si ferma congelato.
Un universo che per aver perso capacità di generare nuove energie, anche a scapito di
collassamenti, esplosioni e trasformazioni di ogni tipo, semplicemente sta là, ibernato con la
sola speranza di un “big cruch”, un’implosione globale, la sola capace di rigenerare la vita.
Pertanto, con un atteggiamento contrapposto a quello conservativo, si dovrebbe sostenere
l’opportunità di trasformare e rinnovare in continuazione la macchina museo e i suoi
stili comunicativi in quanto per perseguire uno dei suoi compiti primari, che è quello di essere
al servizio della collettività, il museo dovrebbe cambiare, così come nel tempo cambia
la società nella sua composizione demografica, sociale, etnica, … Così, inoltre, come nel
tempo cambiano le interpretazioni, i saperi, le retoriche comunicative e le semiologie.
Secondo questo diverso approccio bisognerebbe pertanto distinguere il compito di documentazione
da quello di comunicazione. Al primo, la funzione di conservare la memoria
delle età del museo e dei suoi attori: cataloghi e archivi (scritti e visivi) vanno bene per questo.
Al secondo, il ricercare incessantemente nuove formule di esposizione e di comunicazione,
indifferenti al retaggio del passato e quindi negando la necessità di una “Archeologia
del Museo”.
Il quesito resta stimolante perché ovviamente la risposta non è né la prima soluzione, vale
a dire la conservazione totale, né la seconda e cioè la totale smemoratezza per il trascorso
museologico.
Alla ricerca di un’idea meno bipolare di museo, proviamo ora a riconfigurare il problema
a partire dalla percezione che solitamente la gente ha del museo e non dalla definizione
ICOM che ben conosciamo. Ne esce, ancora tenace e persistente, un’idea di museo – archivio
custode di tutto ciò che è obsoleto, uscito dal ciclo produttivo, da consegnare alla
memoria, da consegnare al museo appunto. Ne è una prova diretta e viva il risultato di una
recente indagine fatta da un’emittente radiofonica nazionale in cui per qualche mese gli
ascoltatori erano stimolati a comporre il loro museo ideale, telefonata dopo telefonata. Il
museo che ne è uscito è una sorta di dizionario enciclopedico dell’anticaglia, rappresentazione
della collezione ideale di oggetti che hanno fatto la storia più o meno recente della nostra
società (caffettiere napoletane e attrezzature varie dell’arredo domestico, la Vespa, …)
ma, attenzione, anche una lunga teoria di valori morali e pertanto categorie intangibili qua-
83

84 li fraternità e uguaglianza, considerate da museo proprio perché (ahimè) non più attuali nella
società contemporanea.
Si viene a confermare un’idea canonica di museo come deposito di cose vecchie. Emerge,
ancora poco o molto poco, di quell’idea tanto perseguita dai museologi che intenderebbero
rappresentare il loro prodotto culturale in forma di laboratorio sul divenire contemporaneo,
di macchina culturale che nel metabolizzare il passato fornisce gli elementi primi
per la prefigurazione del futuro.
Se per certi versi quello di cui sopra è un esito poco confortante, potrebbe essere non
d’aiuto la disincantata analisi fatta da David Throsby a proposito di chi opera per e all’interno
di queste strutture: «I musei sono molte cose per molta gente: per gli artisti sono delle vetrine
per i propri lavori; per gli storici dell’arte sono essenzialmente il deposito dei materiali
delle proprie ricerche; per i museologi essi svolgono una funzione vitale per trasmettere informazioni
sull’arte e sulla cultura alla comunità di riferimento; per gli urbanisti e gli amministratori
sono delle mecche per il turismo culturale e per l’intrattenimento; per gli architetti essi
sono delle splendide occasioni per celebrare tradizioni del passato o per inventarne di nuove
nell’ambito, tra i tanti, di un particolare servizio culturale, quello dei musei in questo caso;
per gli economisti infine i musei sono delle particolari società no-profit sulle quali esercitarsi
nell’ambito di una serie di variabili e limiti economici e non economici».
Se questo è un modo forse un po’ cinico di intendere il museo (che tuttavia risponde abbastanza
bene a certi atteggiamenti professionali), non è che questa lettura non risponda anche
alla definizione di stazioni ferroviarie, teatri, sale da concerto? È evidente pertanto che
anche quest’approccio non è sufficientemente selettivo per definire le funzioni del museo e
per dare soluzioni al problema che ci siamo posti.
Cambiamo prospettiva. Recentemente vanno molto i ragionamenti sulle funzioni del
museo che pone il visitatore al centro del ragionamento. Il visitatore non è più visto come
un interlocutore passivo, pronto ad assorbire il detto e il non detto del museologo-museografo.
Viceversa è il visitatore, con le sue aspettative, le sue curiosità, la sua cultura personale,
che viene considerato il giudice dell’operazione culturale, del suo successo. Non a caso
in questi ultimi tempi vi è un’attenzione crescente, quasi parossistica, sull’evaluation, cioè
l’indagine sociologica sulla “custumer satisfaction” – la soddisfazione del visitatore (visto come
cliente, non a caso) – la total quality e via dicendo con un glossario interamente preso a
prestito dalle scuole di management aziendale.
Tuttavia, a prescindere da questa impropria contaminazione aziendalistica, questo forse
è un approccio al problema più corretto di altri. Il museo è essenzialmente un luogo di mediazione
culturale, come tale opera attraverso le leve della comunicazione e l’efficacia comunicativa
viene riconosciuto come l’obiettivo principale della macchina museo. Sicuramente
la pertinenza scientifica, la genialità del curatore, il marketing e la 626, sono tutti fattori
indispensabili al buon funzionamento di un museo, ma se un museo non comunica o
comunica male, o è inutile o è diretto malamente.
Al museo scientifico e naturalistico contemporaneo (ma estendibile con limitatissime
modifiche anche ai musei di altro tipo), è opportuno chiedere di agire efficacemente almeno
nei seguenti ambiti:
1. Significatività sociale, nel senso di essere in grado di diffondere la conoscenza scientifica
e di renderla comprensibile al pubblico più ampio;

2. Significatività educativa, nel senso di essere un partner strategico nel processo educativo-scolastico
per le comunità alle quali il museo si rivolge;
3. Capacità di costituire uno snodo efficace nella più generale azione di sostegno e di sviluppo
della “Learning society”;
4. Capacità autonoma di ricerca e attitudine alla collaborazione con le agenzie di studio e
di documentazione scientifica (università, amministrazioni e istituzioni governative, partenariato
con il terzo settore …);
5. Capacità di produrre benefici secondari ed economie (occasioni di business) nei settori
correlati a quelli dell’attività del museo.
Ora ci si concentrerà in particolare sul primo punto, che sottomette il significato e l’esistenza
stessa del museo alla sua capacità di sostenere un processo di comunicazione fortemente
legato alla comprensione pubblica delle scienze, all’avvicinamento dei cittadini ai
problemi e ai dilemmi che pone il divenire delle scienze ma anche al modificarsi della natura,
anche e soprattutto ad opera dell’uomo. Queste sono questioni di grande attualità che
non si riflettono immediatamente in una esposizione naturalistica idealizzante, unicamente
finalizzata ad illustrare quali specie possono convivere in un determinato habitat. Il compito
del museo contemporaneo supera questa dimensione essenzialmente descrittiva e deve
porre chiari quesiti al visitatore, lo deve esporre ad un ragionamento, lo deve provocare.
Anche se non vi è dubbio che nei musei di storia naturale e nei musei scientifici una certa
attenzione ai problemi dell’ambiente è sempre più presente (lo è almeno nei musei europei),
non si tratta tuttavia di predicare del terrorismo ambientale e non si tratta nemmeno
di trasformare la visita al museo in un pellegrinaggio tra gli orrori e le colpe della nostra “società
consumistica”. Viceversa, pur nel rispetto di un obiettivo orientato alla trasmissione
del sapere scientifico, l’esposizione museale deve stimolare il visitatore a interagire con l’esposizione
e i suoi contenuti, deve coinvolgerlo, deve – perché no? – emozionarlo. Viene da
dire che le caratteristiche di un’esperienza positiva al museo si riconducono ai sentimenti di
scoperta, stupore, facilità di accesso all’informazione e divertimento, possibilità di rapporti
con le proprie conoscenze pregresse, la capacità di farsi assorbire dall’esperienza. In fin dei
conti ciò che rende attraente un luogo, un territorio, un’esperienza, non è solo il nuovo, ma
paradossalmente anche il conosciuto e stereotipato in quanto rassicurante. Anche perché,
citando Mc Luhan, pare che le informazioni vengano decodificate secondo il codice di chi
le riceve e non di chi le produce.
Anche in questo caso verrebbe da dire che non vi è una grande differenza tra le caratteristiche
di un’esperienza positiva al museo e quella al cinema, al teatro, al concerto. Si va al
cinema equipaggiati di una recensione, di un richiamo al già visto (stesso regista, stessa location,
stesso genere). Insomma, decidiamo prima se andare o non andare perché abbiamo
già una prefigurazione di cosa sarà l’esperienza di comunicazione che ci verrà proposta.
Ed è forse proprio su queste analogie che si potrebbe sviluppare una sociologia della comunicazione
museale al passo con i tempi. Ecco perché è sempre più importante che l’esperienza
museale sia un’esperienza narrativa, vi sia un percorso, una storia che il museo o
la mostra temporanea espone. In fin dei conti anche il museo naturalistico tradizionalmente
inteso è sottoposto alla sfida lanciata dai suoi competitori che sono essenzialmente i mezzi
di comunicazione e l’industria dell’intrattenimento di qualità. Ciò pertanto, se il museo
85

86 intende essere un attore rilevante nel network dell’offerta culturale, per non parlare di quella
del turismo culturale, è opportuno e allo stesso tempo è urgente promuovere un profondo
ripensamento sul suo ruolo e sulle sue tecniche di comunicazione. Seppure non da assumere
come obiettivo prioritario e irrinunciabile, costi quel che costi anche in termini culturali,
questo vuol dire pensare anche alla sua capacità di attirare visitatori.
Ecco che, per questi motivi, il museo del museo, ovvero il mantenimento della messa in
scena espositiva di una qualche generazione fa, il valorizzare il “non cambiamento” rispetto
ai nuovi stili di comunicazione e di esposizione, potrà avere senso solo se il “vecchio” contesto
espositivo potrà generare uno specifico effetto comunicativo, voluto e ricercato.
Non si tratta pertanto di un introdurre la nozione di Archeologia del museo come un
valore assoluto, ma come una evidente opportunità, un vantaggio specifico di quei musei
che si trovano nella condizione di poter trarre il proprio senso comunicativo dai suoi “vecchi”
apparati espositivi.
Una scelta dunque che si muove sulla base dell’unicità, irripetibilità, qualità, del contesto
museale. Insomma una scenografia all’interno della quale la nostra narrazione museologica
può trovare la sua migliore collocazione, tuttavia sempre ispirati alla migliore efficacia
comunicativa.
Possiamo fare riferimento a qualche caso concreto:
–Il Naturhistorisches Museum di Vienna è un esempio di impossibilità a cambiare. Il percorso
espositivo e il suo relativo arredo museale è quello originario del secolo scorso, comprese
le lunette affrescate su temi relativi ai contenuti delle vetrine. L’esposizione, ragionevolmente,
non si può modificare non solo perché è troppo rigida l’impostazione museografica
originaria ma anche perché l’impianto espositivo, ispirato ad una narrazione di
impianto positivista con l’emergere dell’organizzazione delle comunità umane da un sostrato
preistorico “barbarico”, è un portato storico del museo e fa parte del suo senso, della
sua “archeologia”. A nessuno verrebbe in mente di modificare questo teatro scientifico
conservatosi fino ad oggi, ad esempio, con un approccio evolutivo basato sulla biologia
molecolare.
–Nell’Academy of Science Franklin Institute di Philadelphia tutto viene modificato con un
grande turnover di vetrine e di progetti espositivi. L’ala dedicata agli albori dell’elettricità sono
una riproposizione modernissima di vetrine in legno di vecchio stampo e ricostruzione
di ambienti di studio e lavoro ambientati ai tempi di Benjamin Franklin. Tutto interattivo,
tutto finto nel buon stile di parchi tematici, ma molto comunicativo, molto teatrale.
–Nel caso del Musée des Arts et des Métiers di Parigi assistiamo a una buona valorizzazione
dell’edificio storico, ad un ottimo lavoro di architetti e di curatori scientifici, ma nulla resta
del vecchio museo, se non i reperti.
–Nel Musée d’Histoire Naturelle di Parigi, la “Gran Galerie” si caratterizza per un innovativo
e fortemente scenografico impianto museografico riproposto all’interno dello stesso
edificio museale ottocentesco in ferro e vetro. La vecchia impostazione espositiva è completamente
rivoluzionata e al trascorso storico del museo è dedicato uno spazio che è poco più
che un salottino.
–Nel Natural History Museum di New York i diorami degli anni ’20 sono ancora conservati
ai piani inferiori, ma nelle sezioni espositive dedicate alla paleontologia, predomina uno
stile vetrinistico contemporaneo che ricorda un certo minimalismo high tech molto vicino

agli stili utilizzati nelle show room commerciali. La recente hall geologica e la sala della biodiversità
inoltre è tutto un giocare di effetti di luce e buio, di videowall.
– Allo Smithsonian Natural History Museum di Washington, salvo i soliti diorami novecenteschi,
tutto è in riallestimento, sala dopo sala. Quello che impressiona maggiormente soprattutto
è il crescente spazio dedicato ai servizi commerciali, al catering e al cinema IMAX.
Da questo punto di vista sembrerebbe di dover affermare che le museologie d’Oltralpe e
quelle anglosassoni hanno scarsa o scarsissima considerazione del loro passato.
Ora, per quello che ci riguarda, saremo in grado di attendere che i nostri musei un po’
demodé, un po’ obsoleti, con il passare delle generazioni raggiungano il traguardo della considerazione
archeologica del loro essere in quanto tali, così come a Vienna? Siamo tutti disposti
a conservare in garage la nostra automobile degli anni ’80 perché fra quarant’anni sarà
un oggetto espositivo o da rassegne di auto storiche? Qualcuno forse, ma certo perché in
possesso di altre autovetture con le quali stare al passo con i tempi.
Anche in merito alla significatività educativa (punto 2) vi è la necessità di aggiornare gli stili
e il modo con il quale il museo imposta la propria didattica. Non c’è dubbio che vi sia la necessità
di conservare i materiali delle esperienze didattiche che via via il museo ha sostenuto,
ma allo stesso tempo, per l’azione didattico educativa, vi è la necessità di essere assolutamente
aggiornati, sintonizzati e funzionali all’evoluzione dei curricula scolastici (indipendentemente
da ogni considerazione di merito, si intende). Quello che sicuramente non ci viene
chiesto è il mantenere in vita antichi procedimenti pedagogici, vecchi materiali, idee vetuste.
Se questo vale per la didattica, lo stesso vale per la società dell’educazione (punto 3) nella quale
tutte le istituzioni sono chiamate a sostenere un ruolo di mediazione culturale proprio per
via della fortissima accelerazione che hanno subito i saperi. Quello che si è appreso a scuola e
l’apprendimento per imitazione sul posto di lavoro non è più sufficiente a sostenere culturalmente
il cittadino nel confronto di una società che cambia in continuazione. Salute, alimentazione,
tecnologie, tutto cambia così rapidamente che l’analfabetismo di ritorno è in agguato
per la semplice difficoltà a seguire questo vorticoso e continuo cambiamento.
Capacità di ricerca scientifica (punto 4). Tanto per parlare di temi di ricerca cari alla museologia
naturalistica più tradizionale, quando mai rinunciare a muoversi sulla frontiera del
nuovo, sia essa la tassonomia, che ora non è quasi più morfologica nel senso tradizionale ma
assorbita dagli approcci molecolari, sia essa la ricerca paleontologica, oramai alle prese con
la digitalizzazione e il trattamento numerico delle forme, le analisi multivariate, la statistica.
Anzi, è sempre più evidente che il museo può diventare un ottimo interlocutore per l’università,
per le agenzie governative e per le istituzioni, se sa cogliere quegli aspetti della ricerca
che lo pongono in contatto con gli aspetti gestionali legati all’ambiente locale e alla
tutela della natura. Una ricerca orientata alla gestione dunque, cinghia di trasmissione tra
ricerca pura e tutela e conservazione delle risorse naturali.
Il punto 5, relativo alla capacità di produrre benefici ed economie correlate, apre ad un
tema che non può trovare adeguata analisi in questo contesto. Basti dire, tuttavia, che una
buona azione nelle capacità precedentemente indicate, vale a dire comunicazione, didattica,
formazione e ricerca ben organizzata, possono produrre benefici che possono ricadere
anche nella sfera economica e dell’indotto occupazionale.
87

88 In conclusione, i ragionamenti sopra riportati portano inevitabilmente a negare un ruolo
implicito e una applicazione non mediata dell’archeologia del museo, intesa quale progressiva
e necessaria stratificazione del vissuto del museo nella sua cifra stilistico-architettonica.
Tale nozione, ovviamente, acquisisce significato e necessità di applicazione qualora il
senso culturale del museo si riveli permeato e caratterizzato proprio dal patrimonio costituito
dal contesto espositivo del museo (le installazioni, non il patrimonio costituito dalle
collezioni, si intende). In questo caso il contesto espositivo partecipa direttamente e in modo
non eludibile al messaggio specifico del museo, generandone una sua trasfigurazione in
patrimonio culturale per sé.
Ma evidentemente il ragionamento non si conclude qui. La significatività sociale, la significatività
educativa, la ricerca scientifica sono per definizione il prodotto della stratificazione
dei saperi, il loro continuo riemergere nel ripiegarsi, quasi come in un processo di orogenesi
ed erosione, di finestre di sapere e di saper fare. Le radici di un museo sono pertanto
la base su cui costantemente viene riferita e aggiornata la visione del suo divenire, il corpus
di esperienza che sostiene la sua leadership in quanto istituzione culturale, lo specifico
che fa la differenza tra un museo e rispettivamente un’istituzione di ricerca o un’agenzia di
informazione culturale. Le radici, la storia dell’istituzione e quella delle sue personalità più
significative, pertanto, sono caratteri specifici unici, non cedibili, non globalizzabili.
Qui, nell’opinione di chi scrive, si consuma il rapporto virtuoso che porta alla soluzione
dell’antinomia tra conservazione e innovazione. Il museo scientifico deve partecipare al
processo di cambiamento che interessa la società contemporanea e in questo deve perseguire
le istanze globali di una società sempre più permeata e permeabile ai messaggi, alle tendenze,
all’attualità. Questa verticalità è un fattore fondamentale se riteniamo che il museo
possa essere un mezzo di informazione aggiornato e attendibile, uno strumento che sappia
produrre dell’intrattenimento di qualità, sappia attrarre visitatori per ragioni diverse e più
alte rispetto ad altri competitori quali i parchi tematici. Allo stesso tempo il museo deve essere
lo specchio della comunità che lo ha generato e sostenuto. Deve pertanto saper rifletterne
l’identità e la storia. Una dimensione orizzontale, partecipata e democratica che attiene
alla dimensione non globale di una società che rigetta la monocultura della mente e opera
affinché la diversità culturale locale sia un valore aggiunto, uno strumento di elevazione
del ruolo delle comunità nel quadro di un mosaico culturale che proprio dalla somma delle
diversità trova senso, energia e spirito di rigenerazione e innovazione.
Con questo in mente, quanto questi aspetti interagiscano con lo specifico dell’allestimento
museale a questo punto diventa forse un aspetto più di forma che di sostanza, un
problema e un dibattito quasi da ricondurre nel più ristretto ambito dell’estetica e della qualità
di un arredo d’interni. Un problema da dimore storiche, non da museologi.

L’antiquaria e l’antropologia.
I pensieri del museografo e gli allestimenti del museo
tra cambiamento e conservazione
Pietro Clemente
Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo
Università degli Studi – Firenze
RIASSUNTO
Prendendo spunto dalla considerazione che la fisionomia del museo in gran parte coincide con quella del
collezionista-fondatore, l’intervento propone alcune riflessioni sulla museografia spontanea e sul conflitto
con la museografia professionale. Si prende consapevolezza del fatto che spesso i musei non rappresentano
quei luoghi della scienza e dell’estetica che il positivismo e l’estetica crociana ci hanno abituato a
credere, e che la loro comprensione deve essere filtrata attraverso la conoscenza degli oggetti raccolti e delle
personalità dei collezionisti.
La superbia delle concezioni forti del sapere è infatti responsabile della distruzione di immagini precedenti
di saperi altrettanto forti. In realtà è opportuno conservare le vecchie forme del museo, considerandole
documenti d’epoca, poiché esse testimoniano non solo la relatività delle nuove concezioni, ma favoriscono
anche la storia critica del museo e dei suoi paradigmi.
Ma, nel momento stesso in cui si conserva, è necessario anche proporre concezioni “altre” del museo
e una nuova visione politica di queste istituzioni come grande risorsa educativa di massa che potrebbe fare
di esse una delle strutture più aperte e competitive nella formazione della coscienza collettiva.
SUMMARY
This contribution provides a dissertation on spontaneous museography and its conflictual relationship with professional
museography, starting from the consideration that the typical museum usually coincides with the idea
of the collector-founder. We should be aware of the fact that museums do not always correspond to the idea of
places of science and beauty, according to positivism and to Croce aesthetic approach. Instead, our understanding
must be filtered through the knowledge of collections and of the collectors’ personality.
The arrogance underlying the strong notions of knowledge is indeed responsible for the destruction of previous
equally strong notions of knowledge. It is instead important to preserve the old museum forms, which serve
as an evidence of certain historical ages, since they do not only bear testimony to the relativity of new concepts,
but they also promote the critical history of museums and of their paradigms.
Yet, when conservation takes place, it is also necessary to suggest “other” museum notions, as well as a new
political vision of these institutions, being a precious mass educational resource that might turn them into more
open and competitive infrastructures in the shaping of collective consciousness.
1. CAMBIARE PENSIERI
La mia riflessione nasce dal fatto che mi trovo al punto di incontro di due processi mentali,
concettuali e disciplinari che vanno in prospettive opposte, una decostruttiva e l’altra ricostruttiva.
Devo cercare di governare i passaggi entro i miei confini di pensiero, perché non
mi sfuggano, perché resti compreso almeno in parte, per quel che riesco a vedere, il proces-

90 so di ridefinizione che me li stimola. Con le nostre teste e in esse le nostre abitudini e potenze
di pensiero, spesso non riflessive, ci troviamo a fronteggiare processi che si presentano
in forma di libri, discorsi, iniziative, dibattiti, parole che si impongono, ma che vanno
oltre essi. Processi che ci ‘spingono’, e che noi non dominiamo, e quindi, almeno in parte
ne siamo dominati.
Perché sto cambiando orientamento sulla nozione di museo? È una cosa che sta succedendo
in me, ma non so quale processo la stia producendo. Forse finisce un tempo? Ma che
tempo, mio o dei beni DEA, o della cultura dei beni culturali? O del mondo? O è solo un
piccolo universo gergale di pochi addetti che costruisce lodevolmente lessici chiusi (mica
tutti i lessici devono avere intendibilità da tutti), quello che vivo e in cui muto?
Niente di male in ogni caso. È raro che un museografo faccia male o bene alle persone,
e questo ci aiuta a ricordare che tra i nostri pensieri e le cose che veramente contano nel
mondo c’è un fossato metodologicamente incolmabile. Semmai conviene ogni tanto gettare
ponti, giocare il gioco dei punti di vista, immaginare il ‘come se’ (se la squadra di calcio
dell’Occidente – nell’epoca che mi resta da vivere – deciderà di imporre la propria razionalità
alla squadra “resto del mondo” con mezzi militari, quale sarà la mossa giusta perché nella
‘nostra squadra’ si conservino le ‘armi della critica’ come parte essenziale della propria
identità, e questo cosa significherà per i beni DEA e per i musei di cui mi curo?).
Ma come posso descrivere questo cambiamento, che è il cambiamento di un cambiamento?
La mia formazione mi ha spinto a riflettere su musei a forte caratterizzazione scientifica,
con la convinzione che questa caratterizzazione avesse forza di universalità e di chiarezza
comunicativa. Mi sono reso conto invece, nella mischia del mercato orientale di professori,
di museografi e di assessori in cui ho vissuto, che il mio prodotto era in concorrenza
con quello di molti conoscitori e collezionisti dotati di saperi più locali e empirici del
mio, e che non c’era nessuna Istituzione, nell’arena, che reclamasse una razionalità universitaria
e universalista. Gli assessori la volevano se faceva più immagine, relazione, lobbing, se
no preferivano dar soldi a tutti un po’, cosa che hanno fatto per lo più – per quel che ho visto
– e che ha fatto crescere sia il pluralismo che l’impossibilità di progettazione territoriale.
Una delle cose che normalmente non sono ammesse dai politici è che il ‘bene’ che è stato
prodotto abbia impedito la realizzazione di altri ‘beni’, tutto deve essere sempre ottimizzato
e sinergico.
Nella mischia del mercato orientale mi sono reso conto che come professore dovevo
condividere e potenziare il bisogno di protagonismo dei museografi locali, perché erano antropologi
di se stessi e spesso di vere comunità locali, perché ‘creavano’ poetiche del museo
e insieme mondi di oggetti, elenchi di cose che fanno il patrimonio.
Così anziché entrare nel coro di coloro che volevano quattrini per avere noi universitari
risorse per fare veri musei scientifici, ho finito per far parte del coro che chiedeva riconoscimenti
ai musei e ai museografi nativi. E questa è stata la prima conversione dei
miei pensieri. Una conversione che mi ha tenuto su una politica per la ‘base’ o la ‘società
civile’ non lontana dalle origini romantiche e resistenziali-neorealiste dalla parte più bella
dei nostri studi.
Ora non sono più per i museografi nativi? Lo sono ancora e lo sarò sempre. Ma sto riflettendo
sul consorzio di forze e volontà che da dentro le strutture pubbliche del patrimonio
in Italia si sono espresse per una nuova funzione della comunicazione museale, penso

soprattutto al libro di D. Jallà, Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale
italiano (Torino, UTET, 2000) e al tomo dal titolo Atti di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici
e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei (Decreto Legislativo n. 112) 1 che
ho tra l’altro discusso criticamente ma in modo assai costruttivo per richiesta di Gianbruno
Ravenni (Assessorato alla Cultura della Regione Toscana) in un convegno a Grosseto, che
mi è parso l’occasione per non opporre più i piccoli ai grandi musei, i musei ricchi ai musei
poveri ma per adoperarsi a creare un movimento di museografia solidale capace di imporre
agli Enti pubblici, dopo averlo maturato al proprio interno, un nuovo senso della museografia
istituzionale come grande risorsa educativa di massa, una nuova capacità di affrontare
una domanda pubblica sempre più difficile per la complessità della nuova società
multiculturale e a forte sconnessione generazionale. Una situazione nuova in cui possa davvero
nascere il Museo preconizzato dall’ICOM sul modello americano, come grande istituzione
educativa e formativa che consente alle società complesse di affrontare la navigazione
nel tempo-spazio della diversità.
Sto riflettendo anche su come la museografia collaborativa canadese (e non solo), di cui
so tramite Ruth Phillips, direttrice del Museum of Anthropology di Vancouver che ho invitato
a tenere delle conferenze nell’Università di Firenze (la cosa è nata dalla tesi di Dottorato
di Emanuela Rossi presso il MOA di Vancouver), coniughi managerialità, grandi risorse,
sponsor, con operazioni che pongono il museo ‘al servizio’ di culture locali, di gruppi
migratori, con un lavoro sia di ‘decolonizzazione mentale’ soprattutto verso le popolazioni
“native americane” storicamente espropriate di tutto, sia di creazione di reti dialogiche
e di contrattazione di orizzonti di senso e rappresentazione con i ‘titolari’ storici delle alterità
rappresentate, siano essi ‘indiani d’America’ o immigrati.
Si tratta di casi di recupero serio del valore sociale e culturale delle grandi istituzioni museali
che certo non possono avere per concorrente il sistema locale dei piccoli musei, e che
identificano, nell’epoca della globalizzazione, un nuovo disegno di razionalità (comparativa,
emozionale, affettiva, estetica, concettuale) del museo, per il quale metterebbe conto anche
darsi intensamente da fare (per evitare la arcaica espressione ‘lottare’).
Ma il germe critico è nato discutendo con Daniele Jallà una volta nella sua casa paterna
a Torre Pellice. Amici e in frequente sintonia, dicevamo in quella circostanza cose opposte.
Lui stava per finire il suo libro-ricerca su Il museo contemporaneo, io concludevo la riflessione
su Ettore Guatelli maestro, contadino, museografo e sulla museografia riflessiva 2, ed avevo
abbastanza esperienza di settori forti della museografia come quelli storico artistici, archeologici
e di storia della tecnica per sapere come si possa costruire ‘conoscenza scientifica’
nel museo nascondendone le angolature arbitrarie, casuali, collezionistiche, idiosincratiche,
locali. Molto spesso una cosa che chiamiamo museo è una collezione singolare che finge di
non esserlo. Io sono per restituire ai collezionisti il valore aggiunto delle loro scelte, e a noi
visitatori un sapere adeguato alla storia delle cose collezionate e che non ce le spacci per valore
assoluto o per conoscenza veritiera o per comunicazione scientifica. In particolare ero
rimasto colpito da come si erano formate alcune importantissime collezioni oggettuali alla
base di musei della cultura del mondo romano ed etrusco, e mentre mi si riapriva alla intendibilità
tutto un mondo sorprendente e critico di connesseurship, di acquisti, di manie, di
doni, mi risultava sempre più chiaro che il positivismo e l’estetica crociana avevano complottato
a fingere i musei come luoghi della conoscenza e dell’arte vera, nascondendo sia le
91

92 lacune, col pieno delle sale, sia le vite di stravaganti e illustrissimi personaggi, ben più seri
delle loro teorie del museo, con la rimozione storica del loro esser ‘fondatori’ di mondi oggettuali.
Lui diceva che da noi il museo non c’è mai stato e bisogna costruirlo, io dicevo che c’è
sempre stato, che si è spacciato per tale mentre era solo collezionismo di singoli e bisognava
decostruirlo restituendo ai singoli il valore ‘poetico’ e alla storia del patrimonio l’invenzione
di tanti assoluti, universali ed eterni BBCC. Così ad esempio a proposito del convegno
di Ferrara sull’archeologia del museo ci scambiavamo battute del tipo:
DJ: «In Italia i musei non esistono e si spendono i quattrini per conservare le vecchie collezioni
che ci sono, mentre in Francia dove i musei ci sono investono i soldi per rifare i musei;
investono miliardi e il loro primo scopo non è salvare il vecchio-bene museo che non funziona
più, ma è costruire il museo che funziona, si può discutere se sia opera educativa o affermazione
di grandezza culturale della Nazione, ma almeno si discute su qualcosa di vitale».
PC: «In Italia dove si sono sempre spacciati i musei come i luoghi della scienza e dell’estetica
è bene conservare le vecchie forme di museo, esse testimoniano la relatività delle nuove
e ugualmente prepotenti concezioni. Favoriscono una storia critica del museo, dei paradigmi
sui quali è nato, rendono possibile una metamuseologia che non sia solo di ‘incantamento
delle masse’ e di monumentalizzazione culturale della Francia, come rischia di essere
il caso francese. La nostra è una società assai plurale. Buttando giù i vecchi musei per farne
di più efficienti si rischia di nasconderne la vicenda storica».
«Ma chi garantisce – diceva D.J. – che una siffatta conservazione di vecchi musei con patina
d’epoca, in un paese che non spende nulla per i musei non sia un nuovo modo elitario
di sfuggire al ruolo educativo e comunicativo del museo?» 3
Io in fondo volevo fare della museografia una storia radicale delle forme ‘chiamate museo’,
mentre Jallà voleva realizzare istituzioni capaci di comunicazione pubblica, di educazione,
di esperienza di piacere. Io forse non avevo tanta fiducia nelle istituzioni e lui che ci sta dentro
ne vedeva la potenzialità. In questo in fondo forse giocavamo un antico ruolo da intellettuali
del Regno, visto che lui è il piemontese (benché di area valdese) ed io il sardo (benché
di madre lucana).
Ora sono sempre per conservare i musei ‘vecchi’ ma sono anche per cambiare idea e concezione
del Museo. Mi sembra che chiedere una grande politica del museo al nostro paese
sia chiedere una grande educazione di massa, una forza di conoscenza di sé che riguarda soggetti
ed epoche verso le quali abbiamo enormi doveri di investimento e di trasmissione, di
lancio di radici ad attaccamento futuro. Non si può affidare solo alla resistenza delle periferie
un impegno così significativo.
Sto cominciando a credere che un insieme di funzionari pubblici possano convincere un
largo pubblico e dei grandi interlocutori come Presidente della Repubblica, del Senato e della
Camera, partiti politici, sponsor, industrie che si occupano di supporti per la memoria,
del bisogno di una vera rete di Istituzioni museografiche, come supporti di una educazione
di massa alla comprensione delle forme della diversità passata e presente e del loro senso

contestuale 4. Che si deve cominciare in Italia una politica del Museo che negli USA è cominciata
alla fine dell’800, e che ha fatto del museo una delle strutture aperte e competitive
della formazione della coscienza collettiva. Debbo dire che ho sempre sostenuto che il
museo non serve a conservare il passato ma il futuro, come mondo di possibile varietà e ancoraggio
storico. Ma adesso sono convinto che lo si debba sostenere d’accordo tra direttori
di musei, alti funzionari, professori, parlamentari, politici, assessori, pubblico creando un
orientamento nell’opinione che favorisca la nascita di grandi manager formati nel campo
della cultura, grandi risorse per costruire musei che – come quelli francesi – chiamino il
mondo all’attenzione. Di manager puri ne abbiamo già piene le scatole, è gente che trasforma
la propria ignoranza su argomenti specifici in forza di comando, servono per le truppe
da sbarco non per i patrimoni culturali.
Poi tra di noi litigheremo per vedere se in questo consorzio di museografi solidali gli storici
dell’arte continuano ad avere estetiche eternizzanti e decontestualizzanti, se gli archeologi
abbiano troppi soldi rispetto ad altri, se un certo settore cresca solo per delle fissazioni
dei Comuni, se si debba proclamare nella grande museografia l’anno dei mezzadri-fondatori
della democrazia italiana o l’anno dei Medici, degli etruschi, o degli immigrati. O se si
debba far dirigere agli antropologi i musei demo-etno-antropologici.
Insomma mi sono convinto che dobbiamo darci delle istituzioni capaci di educare adeguatamente
la gente, cioè i nostri figli e nipoti. E che i musei servono a questo. Il disaccordo
con D. Jallà 5 era circoscritto: lui cercava nella storia nazionale di vedere germi di
nascita del museo come grande istituzione educativa a partire dal fatto che non c’era e
avrebbe dovuto esserci, io cercavo – a partire dal fatto che in Italia c’è una grande quantità
di cose che si definiscono musei e si pretendono di valore assoluto – di mostrare che
il museo non è che un figlio del collezionismo che fa finta di ignorare il nome del padre,
e che solo rivelandolo si ha la consapevolezza che la museografia è costruzione casuale,
arbitraria, insieme monumento del collezionista e denuncia dello Stato che non ha fatto
nulla da sé con criteri pubblici. Criticavamo le stesse realtà, ma con movimenti di pensiero
diversi. Ora sono disposto a limitare il mio decostruzionismo all’esegesi della costruzione
storica del patrimonio, e a credere a una grande campagna italiana per il museo
come grande istituzione.
2. PIETÀ ANTIQUARIA
Non chiamiamo più musei, quelli che non siano istituzioni adeguate, autonome, capaci di
educazione. Forse nel nostro settore DEA solo Luigi Pigorini 6 e a suo modo Lamberto Loria
7 ebbero una tale idea del museo, Pigorini la visse anche come fatto in sintonia con la nascita
della nazione. Loria solo nella campagna di ricerca ebbe modo di vivere un grande episodio
di museografia ‘interattiva’ o ‘collaborativa’. Quindi non chiamiamo nel nostro settore
musei quelli che non abbiano direttori formalmente nominati, con un budget, un consiglio
di amministrazione, del personale. Credo che ne restino due o tre, e credo che condividerebbero
l’idea di potenziamento e di affidamento al Museo con la M maiuscola di una
grande missione di radicamento della diversità nel futuro.
Parliamo di collezioni e di allestimenti storici.
93

94 Nel nostro settore abbiamo sia forme di conservazione che di distruzione di allestimenti
storici. Anche il mio settore ha condiviso l’idea che la scienza dovesse appropriarsi del museo
e farlo diventare ‘vero e giusto’. Dall’alleanza tra cooperative e universitari che fece nascere
il Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio (ma furono gli universitari
a guidarne l’allestimento, mentre i magazzini rimasero in stile collezionismo di ex mezzadri),
al rifacimento (forse senza documentazione) del Museo Tancredi di Montesantangelo
in provincia di Foggia. Il museo di Forlì uno dei pochi sopravvissuti musei degli anni
Trenta non è circondato dalla consapevolezza dell’interesse del suo allestimento storico. Ma
per il museo di San Pellegrino in Alpe, frutto del collezionismo anni ’60, l’Amministrazione
Provinciale di Lucca ha disposto criteri di rispetto per quel che è un allestimento storico
a tutti gli effetti. Magari non saranno per il grande pubblico, ma questi reperti antiquari
vanno difesi, sia per avere quadri comparativi che sminuiscano le glorie d’epoca (quanti musei
di architetto d’oggi sono vistosamente meno interessanti di quello appena citato di San
Pellegrino in Alpe fatto da un sacerdote collezionista), sia per capire i ‘paradigmi’ mentali,
visivi, spaziali che danno vita alla conservazione e alla messa in scena delle cose.
Ne abbiamo bisogno noi museografi-museologi per ispirarci e metterci in critica, ma anche
per ricostruire la storia delle nostre conoscenze e della salvaguardia dei beni. Oggi ad
esempio la lotta che Pigorini fece per eliminare i resti del museo del sacerdote Atanasius Kircher
ci rende curiosi di comprendere meglio il modello del museo kircheriano, forse – sia
detto con un anacronismo frettoloso – più vicino al nostro gusto di post-moderni che non
la comparatistica positivista del grande museografo parmense. Eppure se vediamo le foto del
vecchio allestimento del Museo creato da Pigorini ci viene una sorta di nostalgia estetica d’epoca,
per il tipo di armadi, di oggetti esposti, di ordine spaziale. Un complesso di ‘estetica
antiquaria’ che il fantasma severo del Pigorini scienziato positivista non ci perdonerebbe e
non si perdonerebbe. Ma la scienza è così: deve venire ai compromessi con lo spazio, con gli
architetti, gli imbianchini, i falegnami, i vetrai, e così costruisce un suo artigianato comunicativo
che è il museo, e questo nel tempo, può piacerci anche solo per i suoi armadi d’epoca
o per il fascino di certi reperti.
Un’esplorazione un po’ dura su questo versante è quella nel Museo di Antropologia di
Firenze. Perché qui all’apparenza tutto è restato come cento-centocinquant’anni fa. In questo
modo sono restate anche mummie e materiali organici, che ormai da anni le regole etiche
dell’ICOM escludono e, insieme a un fortissimo fascino esotico d’epoca, tutto a favore
del mantenere i musei vecchi come oggetto di studio e di nuovo valore aggiunto di ‘sapore
epocale, opera però una riorganizzazione degli spazi che interviene sulla originaria disposizione.
Una sorta di filologia rispettosa delle forme ma non dei contenuti comunicativi. Si
può intuire come la cosa sia di grandissimo interesse per l’Antropologia Museale e la museografia
in genere.
Forse mantenere la differenza d’epoca con tutta la sua equivocità comunicativa è, con
l’espressione poetica di Franco Fortini:
«pietà per l’avvenire…» 8
trovare il senso dei processi della conoscenza e delle sue pratiche; capirne il passato e averne
pietà – senza necessariamente perdonarlo – avere l’umiltà e la lungimiranza del senso ef-

fimero dei valori che difendiamo spesso con arroganza di teorie. Nel proiettarci verso un futuro
che ci appassiona l’antiquaria museale è cicatrice dell’altrettanto appassionante storia
dei misfatti e dei fatti della ragione comunicativa e dei tentativi di costruzione di senso di
noi passati, di noi futuri.
1 Per un dibattito sull’argomento
vedi anche Standard per i musei italiani,
in “Antropologia Museale”,
2, 2002, interventi di P. Clemente,
D. Jallà, C. Silla.
2 Vedi P. Clemente, E. Rossi 1999,
Il terzo principio della museografia.
Antropologia, contadini, musei, Roma,
Carocci.
3 Non si tratta di una conversazione
vera, ma – credo – verosimile.
Se D.J. non ci si riconoscerà è essenzialmente
perché ciò che gli faccio
dire serve a me a chiarire meglio
le mie idee. Ha un ruolo ‘dialogicofigurale’.
4 In questa mia nuova fiducia istituzionale
sono rimasto un po’ turbato
dal sentire dire in modo ufficiale
in TV che la RAI è la nostra
memoria nazionale. A parte che la
nostra memoria nazionale deve per
forza essere ben più profonda della
RAI, questa se ha memoria ce l’ha
più confusa di quella degli archivi
di fonti orali di cui mi occupo io,
nasconde i suoi magazzini, rende
difficile l’accesso alle informazioni.
Ma io credo che sia un’eresia grave
dire che un mondo di supporti magnetici
spesso trascurati e comunque
legati a un delicato sistema di
equilibri del potere politico, le cui
emissioni sono prevalentemente di
intrattenimento o di informazione
giornalistica sia una ‘memoria nazionale’.
Può forse essere un ‘promemoria’
nazionale, ma la memoria
è quella dei vissuti e dei viventi,
ovvero dei cittadini, ed essi soli
possono fare della RAI parte della
memoria nazionale, e questi vissuti
sono quelli della gente che ci racconta
la propria vita, o la scrive e la
manda all’Archivio Nazionale Diaristico
di Pieve Santo Stefano. La
memoria è un fatto profondo e
complesso.
5 Sempre nella mia immaginazione
dialogica.
6 Vedi la voce Luigi Pigorini, in C.
Winters ed. 1991, International
Dictionary of Anthropologists, London,
New York, Garland, la voce è
di Giorgio de Finis.
7 Ibidem la voce è di Sandra Puccini.
8 La poesia si intitola “Questo verso”
e sta in Composita solvantur, Torino,
Einaudi, 1994.
95

Per una storia della comunicazione primaria
nei musei italiani
Maria Antonella Fusco
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico
Centro per i Servizi Educativi del Museo e del territorio
RIASSUNTO
Nell’ambito della ricerca sulla comunicazione visiva nei musei italiani, condotta tra il 1999 e il 2000 in
vista della produzione di un “Manuale della comunicazione primaria”, è stato distribuito un questionario
a tutti i musei statali italiani. Il primo campo era destinato alla riflessione storica su tutti gli elementi didattici
e di comunicazione dei pregressi allestimenti museali.
L’obiettivo era di misurare la consapevolezza e la volontà di conservazione della memoria museologica,
attraverso la sua espressione più diretta. Tutti ricordano che Tommaso Puccini, grande direttore degli
Uffizi, disegnava personalmente i supporti per le didascalie della Pinacoteca; ma più frequentemente, al
cambio di allestimento, si perdono le tracce della concezione museologica precedente, espressa dagli elementi
museografici primari.
I dati derivanti dalla riflessione stimolata nei Musei Statali vengono presentati per la prima volta in
questa sede.
SUMMARY
A questionnaire was distributed among all the Italian State Museums in the framework of a survey on visual
communication conducted in Italian museums, in the 1999-2000 period, in view of the drafting of a “Handbook
of primary communication”. The first section was devoted to the historical examination of all the educational
and communication aspects underlying the mounting of museum exhibitions.
It was intended to assess the awareness and willingness to work towards the conservation of the museological
memory through its most direct expression. Everyone knows that Tommaso Puccini, the great director of Uffizi,
personally designed the Picture Gallery caption supports. Yet, it may often happen that upon the mounting
of a new museum exhibition, the traces of the previous museological approach, expressed by the primary
museographical elements, are forgotten.
Data deriving from the analysis that has been carried out in State Museums are illustrated now for the first
time.
Il lavoro che qui si presenta è stato effettuato a seguito di una direttiva del Ministro per i
Beni e le Attività Culturali sulla necessità di una comunicazione primaria efficace e, finché
possibile, coordinata, nei Musei, Archivi e Biblioteche statali. Nella primavera del 2000 il
Direttore Generale Mario Serio attivò un gruppo di lavoro, coordinato da Renate Ramge
Eco e composto da Cristina Acidini, Giovanni Anceschi, Osvaldo Avallone, Daniel Berger,
Anna Maria Dolciotti, Adelaide Maresca Compagna, Giovanni Scichilone, Erilde Terenzoni,
e dalla scrivente. L’obiettivo era di giungere alla redazione di un manuale della comunicazione
primaria, che tenesse conto della tradizione storica e delle specificità ambientali,
culturali del pubblico e dei museologi, nonché delle risorse professionali interne degli istituti,
in campo di progettualità grafica e di architetture della comunicazione.

Un ampio ventaglio di variabili, come si vede, attraverso le quali la creazione di percorsi
di comunicazione non era affare facile. Si decise dunque di procedere per gradi, tentando
la creazione di una rete, di un sistema di comunicazione, un po’ per analogia all’esperienza
recente di creazione di un Sistema dei servizi educativi del Museo e del Territorio, attraverso
l’istituzione del Centro presso quello che allora era l’Ufficio centrale per i Beni Archeologici,
Architettonici, Artistici e Storici, oggi articolato in quattro diverse Direzioni Generali
specialistiche.
A fronte di un progetto così complesso, e di specifiche professionalità nuove per i musei
statali italiani, si decise di procedere per gradi, avviando in primo luogo un ascolto dell’utente
interno, e cioè di direttori di museo, soprintendenti, funzionari, responsabili della
comunicazione e dei rapporti esterni, e uffici grafici, per realizzare una ricognizione iniziale
delle realtà consolidate, delle aspettative e dei bisogni.
A questo scopo, fu distribuito un questionario a stampa, in accompagnamento ad un
agile opuscolo che, per schede, presentava sinteticamente i temi prioritari della comunicazione
visiva, suggerendo esempi di soluzioni. Che cos’è un manuale di base della comunicazione
è così articolato:
1. Musei, biblioteche, archivi: comunicazione come progetto, 2. Verso una linea grafica
coordinata e il suo manuale, 3. Che cosa si può fare subito, 4. I primi cinque interventi, 5.
Gli interventi che seguiranno, 6. Come si affronta la questione della leggibilità, 7. Materiali
a costi contenuti e costantemente aggiornati, 8. Formazione e aggiornamento, 9. Emblema
e logogramma, 10. I progetti pilota.
Nell’autunno del 2001, il corso annuale per responsabili dei Servizi educativi del Museo e
del Territorio, diretto dalla scrivente, fu dedicato alla comunicazione, destinandolo, a titolo di
sperimentazione, ad alcune regioni italiane: Sardegna, Campania, Lazio, Toscana. I funzionari
partecipanti evidenziarono, nei loro interventi, la rilevanza di una tradizione operativa degli
Istituti, ed il loro porsi in continuità con un “mestiere di museologo” che prevede normalmente,
al suo interno, l’istanza comunicativa, sia primaria che contenutistico-formale.
Un tema che si posero i direttori di museo a far data dalla nascita stessa del museo moderno.
Tommaso Puccini disegnava da solo i “cartellini” delle opere degli Uffizi mentre l’opera
storica del Lanzi sarebbe impensabile senza la conoscenza dell’ordinamento parallelo
dello stesso Museo. La mia personale esperienza di direttore e museologo mi ha portato negli
ultimi venti anni, sia su tracciati progettuali innovativi, come nel caso del Museo di
Guardia Sanframondi (BN) e del Museo dell’opera di Santa Chiara in Napoli, che in contesti
fortemente strutturati da decenni, nell’allestimento e nel campo della comunicazione
primaria, presso il Museo Pignatelli Cortes di Napoli e il Museo Nazionale di Castel
Sant’Angelo in Roma. In ognuno di questi casi, però, avevo potuto saggiare la forza della
tradizione comunicativa precedente dei luoghi.
Il caso emblematico è costituito, naturalmente, da Castel Sant’Angelo, dotato di un forte
corredo didascalico antico, a partire dall’aulico ed illustre precedente delle iscrizioni farnesiane,
nella Sala Paolina e sui timpani della Biblioteca, con l’utilizzo di lettere capitali neoromane
destinate ad influenzare fondamentalmente prima Piranesi, poi Ennio Quirino Visconti,
nell’allestimento del Museo epigrafico nei Palazzi Vaticani.
Qualsiasi realizzazione successiva, dai cartelli normativi (Non toccare, Spingere, Tirare,
Accesso interdetto al pubblico) agli ampi corredi didascalici in italiano e inglese realizzati nel-
97

98 le sale principali, non poteva non tener presente, nella scelta del lettering e dell’impaginazione,
questa forte tradizione. Senza teorizzare un vuoto esercizio formale, puramente citazionistico,
è però vero che il rispetto del pubblico, e la garanzia di un accesso reale, per tutti,
alla lettura delle opere, è formato anche dall’armonia compositiva tra le opere d’arte e di
storia, e il loro corredo didascalico. È una lezione di equilibrio che ci viene dai maggiori progettisti
di museo contemporanei, che si sono sempre posti in continuità con l’immagine
complessiva degli allestimenti, senza per questo rinunciare all’originalità del proprio segno.
Il tutto a partire da una forte esigenza di raggiungimento del pubblico, espressa già nell’ordinamento
delle Gallerie Nazionali nel sistema “venturiano”, in cui prendeva forma
compiuta attraverso una sequenza classificatoria di sale segnata dai numeri romani, di tabelle
esplicative, con titolo e contenuto delle sezioni, il tutto in una scelta di stile che prevedeva
il disegno delle vetrine spesso analogico al lettering di numeri e tabelle. Dunque, continuità
storica dei pubblici.
Il museo storico non può non tenere conto – anche nel momento in cui utilizza le nuove
strategie di comunicazione ereditate in parte dal marketing, anche quando procede alla
“segmentazione” dei pubblici per individuarne le esigenze – delle caratteristiche ereditarie
dei suoi pubblici: quello scolastico, innanzitutto, quello dei cittadini adulti, quello di studiosi
e specialisti, quello del turismo culturale. Sono categorie da sempre presenti nel Museo,
che hanno diritto anche ad una immagine coordinata che perduri nel tempo come le
opere, senza essere troppo legata alle mode e alle contingenze.
Alla fine degli anni Ottanta, intervistai Pierre Bernard ed altri esponenti del gruppo
Grapus, che aveva da poco realizzato l’immagine coordinata del Louvre, ed era reduce addirittura
da una spaccatura del gruppo nei due tronconi, dei “tradizionalisti” e dei “modernisti”,
a fronte di una committenza “forte” come quella della Direzione del Museo. La soluzione
del conflitto è nota a tutti gli esperti di comunicazione museale: una tabella con l’iscrizione
LOUVRE in lettere capitali romane, ereditata dall’apparato del vecchio Museo,
vola su una nuvola “postmoderna”, dal fondo azzurro chiaro. Un’immagine che ha fatto
molto discutere, e che solo gradualmente è entrata a far parte del patrimonio collettivo, in
gran parte grazie all’eco tranquillizzante di quella tabella di età rivoluzionaria. È stato comunque
a far data da allora che si è cominciato a ragionare, in Europa, sulla possibilità di
non abbandonare del tutto l’immagine tradizionale di un museo per intraprendere un nuovo
design della comunicazione primaria.
Sono state queste esperienze a convincermi dell’importanza che, nel nostro lavoro di
studio e di ricerca delle fonti del lavoro museologico, trovi uno spazio di riflessione il momento
della conservazione degli allestimenti antichi, o almeno della loro memoria fotografica,
con una attenzione specifica alla comunicazione visiva. Così ottenni, vincendo qualche
resistenza (ricordo ancora che un’insigne collega sostenne che riprendere la comunicazione
antica per disegnare quella contemporanea, riveste lo stesso senso che avrebbe lo studio del
velocipede per progettare una motocicletta oggi; una considerazione che sento di condividere,
se è interpretata nel senso della necessità di conoscere bene il funzionamento del velocipede
ai fini della motocicletta), di inserire nel primo paragrafo del fascicolo sulla comunicazione,
un’esortazione alla ricerca: «per individuare le proprie caratteristiche peculiari, gli
istituti potrebbero compiere un percorso di autocoscienza, alla ricerca della propria identità
storica: un censimento fotografico delle tabelle, insegne, didascalie, epigrafi segnaletiche al-

l’interno della propria istituzione gioverà in questo senso. Individuare le caratteristiche storiche
della comunicazione e valutare la situazione attuale consentirà di mediare tra la tradizione
e le prospettive ed esigenze contemporanee».
Il questionario, che parallelamente venne elaborato, recava un primo campo storico, così definito.
A: Storia e tradizione - Dall’istituzione delle Gallerie Nazionali (1803) al Ministero
per i Beni Culturali e Ambientali (1975)
All’interno, i due quesiti erano articolati in una ulteriore divisione, questa volta storico-politica
e non amministrativa, nei periodi 1893-1945, e 1945-1975. I quesiti riguardavano rispettivamente
la conservazione di lapidi o targhe segnaletiche esterne al Museo, e di didascalie
e targhette di opere, all’interno.
Si tenga conto che sulle lapidi murate all’esterno insiste un obbligo di conservazione, come
per tutto il materiale epigrafico, che ha in qualche modo condizionato l’atteggiamento
dei soprintendenti nel rinnovarle, limitandoli spesso alla giustapposizione di un’altra iscrizione,
nel caso di mutamento di denominazione istituzionale. Così, negli ultimi anni, molte
facciate di palazzi storici sono state ricoperte, in sequenza, di targhe con “Ministero della
Pubblica Istruzione – Soprintendenza alle Gallerie”; e, a fianco “Ministero per i Beni Culturali
e Ambientali – Soprintendenza per i beni artistici e storici”; e, oggi, più in basso, “Ministero
per i Beni e le Attività Culturali”. Tutto questo, senza che il cittadino abbia una misura
storica-istituzionale di riferimento.
Il questionario sulla comunicazione è stato inviato a tutte le Soprintendenze, gli Archivi
di Stato e le biblioteche dipendenti dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Si chiedeva
ad ogni soprintendente di far compilare un formulario per ogni museo dipendente: a
fronte di ventitré domande molto articolate, era presente un campo dedicato a “osservazioni
e proposte relative a situazioni particolari del vostro istituto”. Prevediamo di pubblicare
su S’ed, il giornale on-line dei servizi educativi (www. arti.beniculturali.it) tutti i risultati con
un commento e le osservazioni di molti funzionari italiani, per riaprire il dibattito sulla necessità
di un coordinamento tra musei sulla comunicazione primaria. In questa sede, mi
sembra però importante segnalare quanto è stata ampia la risposta dei funzionari di Museo:
hanno risposto undici soprintendenze per i beni artistici e storici, tredici soprintendenze archeologiche,
nove soprintendenze per i beni ambientali e architettonici. E poi sei Istituti e
Musei speciali, e quattro “miste”, cioè comprensive di diverse competenze specialistiche su
uno stesso territorio. Quarantatré soprintendenze in tutto, e dunque circa settanta musei. Il
settore storico ha registrato la forte presenza di tabelle esterne, certamente anche per le ragioni
appena ricordate, ma anche una buona tendenza alla conservazione, almeno in documentazione
fotografica, di didascalie e targhette, prevalentemente del secondo dopoguerra,
epoca di grosse riscritture di allestimenti museali. In un tempo di riflessioni identitarie e storiche,
in cui la museologia è stata fortemente coinvolta, di cui anzi è spesso promotrice, la
consapevolezza della propria tradizione comunicativa può essere messa al servizio di un rinnovato
rapporto con il pubblico di oggi.
99

100
Questionario
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
sullo stato attuale della comunicazione primaria nei
musei, archivi, biblioteche e altri istituti culturali
A. Storia e tradizione
Dall’Istituzione delle Gallerie nazionali
(1893) al Ministero per i beni culturali e ambientali
(1975)
1. Utilizzate ancora lapidi e targhe segnaletiche
esteme?
– del periodo 1893-1945 sì no
– del periodo 1945-1975 sì no
B. Situazione attuale (dal 1975 a oggi)
1. C’è una segnaletica esterna (frecce, cartelli, segnali)
che guida il visitatore al vostro istituto?
sì no
2. È composta da:
frecce cartelli altri segnali
3. La giudica sufficiente? sì no
4. Se “no”, avete proposto alle autorità locali di
migliorarla? sì no
5. C’è un’insegna all’esterno dell’edificio?
sì no
6. Usate stendardi esterni per evidenziare la presenza
dell’istituto o eventi temporanei
sì no
7. Una volta entrati, come si acquisiscono informazioni
sui percorsi di visita e i servizi offerti?
– piantina distribuita sì no
– cartellone all’ingresso sì no
Istituto (denominazione e indirizzo) ______
______________________
______________________
2. Utilizzate didascalie e targhette d’epoca?
– del periodo 1893-1945 sì no
– del periodo 1945-1995 sì no
È gradito l’Invio di fotografie esemplificative.
8. Come si viene informati sulle opere, sulle collezioni,
sui fondi più significativi e sulla loro collocazione?
– opuscolo, pieghevole, piantina sì no
– cartelloni, pannelli all’ingresso sì no
9. Nel vostro istituto c’è un percorso obbligato?
sì no
10. È indicato da frecce? sì no
11. Le sale sono identificate? sì no
– Se “sì”, come? (specificare)
____________________
12. Le numerazioni, i titoli o le altre indicazioni delle
sale dove sono collocate? sullo stipite sulla
parete altrove (indicare sullo schema)
▲

13. In che materiale o tecnica sono realizzati?
legno ottone pietra perspex
dipinte carta/cartone
altro (specificare) ____________
14. Ogni opera o unità espositiva ha una didascalia
che ne comunica i dati fondamentali?
sì no
15. Dove sono collocate le didascalie?
a lato dell’opera
nelle immediate vicinanze altrove
16. Il materiale di supporto, il formato, il carattere
tipografico delle didascalie sono uniformati?
sì no
17. Nel vostro istituto è prescritta una distanza
di sicurezza intorno alle opere? sì no
– Se “sì”, di quanto? cm ________
– Come è indicata? striscia per terra
cordone allarme altro
18. Si riesce a leggere bene la didascalia dalla
distanza dì sicurezza? sì no
19. È stato già elaborato uno stile grafico unitario
per tutte le comunicazioni del vostro istituto (logo,
biglietto d’ingresso, cartelli, editoria didattica,
sito internet)? sì no
20. Esiste nel vostro istituto una persona che si occupa
della comunicazione visiva? sì no
Se “sì”, specificate il suo profilo professionale e
la sua formazione ____________
21. Avete mai affidato a soggetti esterni progetti
in questo settore?
– a società o imprese sì no
– a concessionari
– di servizi aggiuntivi sì no
– a esperti di comunicazione
– grafica sì no
C. Osservazioni e proposte relative a situazioni particolari del vostro istituto
Da spedire compilato a: Centro per i servizi educativi del museo e del territorio,
Ufficio Centrale B.A.A.A.S., via di San Michele 22, 00153 Roma
Nome del compilatore e funzione svolta nell’Istituto
101

Il progetto “Museologia on line”
del Comitato italiano
dell’International Council of Museums (ICOM) *
Elena Corradini
Soprintendenza Regionale per i Beni e le Attività Culturali dell’Emilia-Romagna
Corso di laurea in Scienze dei Beni Culturali e Facoltà di Lettere, Progettazione attività culturali
dell’Università di Modena e Reggio Emilia
Anna Benassi
Ricercatrice
RIASSUNTO
Il progetto “Museologia on line” ha previsto la catalogazione del patrimonio bibliografico della biblioteca
del Centro di Documentazione di Museologia e Museografia (CEDOMM) del Comitato italiano dell’ICOM
nel Polo Regionale lombardo (www.biblioteche.regione.lombardia.it) e la realizzazione di una
banca dati dei siti web dei musei italiani analizzati attraverso un articolato questionario appositamente
predisposto. L’indagine ha preso l’avvio dalle regioni dell’Italia settentrionale per le quali sono stati elaborati
circa 300 questionari con una netta prevalenza dell’Emilia Romagna e della Lombardia.
SUMMARY
The “on-line museology” project envisages the cataloguing of the bibliographical references of the Museum Documentation
Centre (CEDOMM) library of the Italian Committee of ICOM in the Regional Pole of Lombardy
(www.biblioteche.regione.lombardia.it) and the setting up of a database of the Italian museums web sites
through a specifically designed complex questionnaire. The survey has been initiated by the Northern Italian regions.
So far, 300 questionnaires have been filled in mainly in the Emilia Romagna and Lombardy regions.
INTRODUZIONE
Il progetto dal titolo “Museologia on line” 1 evoca l’utilizzo della rete Internet 2, che ne costituisce
lo strumento di riferimento fondamentale, ed è stato finanziato dalla Fondazione
Cassa di Risparmio di Modena 3.
1. LA BANCA DATI DEL CEDOMM
Il Centro di Documentazione di Museologia e Museografia dell’ICOM-Italia (CEDOMM)
ha sede in alcuni locali messi a disposizione, con apposita convenzione, dal Museo Nazionale
della Scienza e della Tecnologia 4.
Il Centro, aperto al pubblico interessato a ricerche in campo museologico, museografico
o museotecnico, consiste in una biblioteca che contiene volumi editi in Italia e all’estero
relativi alle tre discipline sopra citate; cataloghi e guide di musei italiani e stranieri; la produzione
editoriale dei comitati nazionali e internazionali dell’ICOM; riviste scientifiche relative
alla museologia, museografia e museotecnica pubblicate in Italia e all’estero.

La catalogazione informatizzata della biblioteca, inserita nel Polo Regionale Lombardo,
consentirà la predisposizione di bibliografie aggiornate di museologia, museografia e
museotecnica e, attraverso la rete di collegamento con biblioteche, centri di documentazione
italiani e stranieri, musei e istituzioni culturali italiane e straniere, potrà essere un
valido strumento per fornire consulenza e collaborazione a Università, Amministrazioni
locali e statali, istituzioni culturali.
2. LA BANCA DATI DEI SITI WEB DEI MUSEI
Il progetto di una banca dati dei siti web dei musei italiani 5 ha preso l’avvio della considerazione
che molti musei hanno realizzato un sito web in grado di offrire informazioni varie
sulle caratteristiche, le attività e i servizi dell’istituzione museale, nonché collegamenti ipertestuali
(link).
L’obiettivo della ricerca è stata una analisi quantitativa e qualitativa sulla diffusione in
rete delle informazioni offerte dai siti web dei musei italiani per riflettere su quanto e come
possono rendere più efficiente, accessibile ed efficace la promozione di studi e ricerche
sulla museologia, museografia e museotecnica e sulla professione museale, tenendo
conto della differenza che esiste, come ha suggerito a tale proposito Salvatore Settis, tra
informazione e processi di conoscenza 6. Il problema delle nuove tecnologie è evidentemente
di grande portata non solo culturale ma anche politica, sociale, etica e professionale.
Per riflettere sul loro utilizzo è significativa la definizione di “usabilità” fornita dall’International
Standard Organisation che fa riferimento a «l’efficacia, l’efficienza e la soddisfazione
con cui specifici utenti possono conseguire determinati obiettivi in particolari
contesti» (ISO 9241, Ergonomic requirements for office word with visual display, Part 11).
La ricerca quantitativa e qualitativa sulla usabilità dei siti web dei musei si è sviluppata
in fasi successive: in primo luogo è stata individuata l’area geografica sulla quale concentrare
l’attenzione; successivamente è stato elaborato un questionario di lavoro per la rilevazione
dei dati, con domande finalizzate ai percorsi di indagine che si era deciso di individuare
nei siti web dei musei 7; si è poi passati alla fase di schedatura dei siti web e successivo aggiornamento
delle schede. I dati così raccolti sono stati infine inseriti all’interno di una banca
dati informatizzata che ha consentito le successive elaborazioni illustrate di seguito.
All’inizio, attraverso motori di ricerca nazionali e internazionali, guide selettive ai siti
web ed elenchi specializzati per quattro regioni dell’Italia settentrionale, Emilia-Romagna,
Lombardia, Piemonte e Friuli Venezia Giulia, si sono individuati i 271 musei che hanno
realizzato un sito web 8.
L’obiettivo della ricerca è stato quello di indagare l’usabilità dei siti esaminandone le caratteristiche,
cioè i livelli e le modalità di accesso, e i contenuti, vale a dire l’organizzazione
delle informazioni, la segmentazione e la strategia comunicativa che lo strumento informatico
multimediale offre attraverso i siti web, facendo riferimento alla definizione ISO 9126
“Information technology-software product evaluation. Quality characteristics and guidelines for
their use” che definisce l’usabilità come «la capacità del software di essere compreso, appreso,
usato, gradito dall’utente quando usato in determinate condizioni». Questi infatti possono
contribuire a raggiungere obiettivi che, quando non esplicitati, possono essere consi-
103

104 derati quelli generali che fanno parte della mission di un museo, come l’incoraggiare a visitare
il museo, aiutare a programmare la visita, fornire un supporto ai visitatori, raggiungere
potenziali nuovi visitatori, fornire una ricca esperienza ai non visitatori, alle persone che non
possono avere l’opportunità di visitare personalmente il museo.
Il questionario di lavoro da compilare per ogni sito web di museo è stato articolato in modo
da consentirne un’analisi guidata, sia rispetto alla sua struttura, sia rispetto ai suoi contenuti.
I. Individuazione dei musei
I.1 Distribuzione geografica
I.2 Tipologia dei musei i quali ricorrono al sito web
II. Navigazione: definizione dei paradigmi di
esplorazione e dei collegamenti a disposizione
dell’utente per muoversi nell’applicazione
II.1 Mappa del sito
II.2 Presenza di indice
II.3 Traduzione in altre lingue
II.4 Numero di pagine totale
II.5 Numero pagine dedicate ai contenuti
II.6 Numero pagine dedicate ai servizi
II.7 Funzioni di ricerca per parole
II.8 Link di testo
II.9 Link di immagini
II.10 Link con altri siti
III. Aspetto: presentazione grafica e proprietà
visive
III.1 Testi leggibilità
III.2 Qualità dei caratteri
III.3 Numero di immagini
III.4 Percentuale di immagini per pagina
III.5 Requisiti minimi di visualizzazione
IV. Comportamento: dinamiche dei media e
dei collegamenti
IV.1 Responsabilità della realizzazione
IV.2 Data della creazione
3. RISULTATI DELL’INDAGINE
IV.3 Data dell’aggiornamento
IV.4 Modalità dell’aggiornamento (in parte o per
intero)
V. Organizzazione globale del contenuto quale
appare nell’utilizzo: contenuti del museo,
organizzazione, servizi
V.1 Percorsi reali
V.2 Percorsi storici
V.3 Percorsi progettuali
V.4 Percorsi virtuali
V.5 Percorsi interattivi
V.6 Numero dei responsabili del museo e competenze
V.7 Numero dei collaboratori del museo e competenze
VI. Controllo: le operazioni fornite all’utente
per controllare l’applicazione
VI.1 Servizi informativi offerti (visite guidate, attività
didattica, mostre temporanee, convegni/seminari/incontri,
corsi)
VI.2 Servizi interattivi offerti (prenotazione visite,
consultazione archivio mostre/catalogo, iscrizione
alla mailing list, richiesta di informazioni
sul museo e/o suggerimenti, acquisto merchandising/pubblicazioni,
download di file inerenti
il museo)
VI.3 Contatti con il personale del museo
VI.4 Liste di discussione
VI.5 FAQ (Frequented Asked Questions)
I. Individuazione dei musei
I.1 Distribuzione geografica
La distribuzione territoriale dei 271 musei che hanno un sito web è 101 (37,27%) per l’Emilia-Romagna,
106 (39,11%) per la Lombardia, 40 (14,76%) per il Piemonte e 24
(8,76%) per il Friuli Venezia Giulia (fig. 1).
Per quanto attiene alla ripartizione regionale, i 40 siti rilevati per la provincia di Bologna
rappresentano (39,60%) poco meno della metà dei siti web regionali. Seguono le

40
35
30
25
% 20
15
10
5
0
14,76
Bologna
40
35
30
25
% 20
15
10
5
0
8,86
39,11
Modena
Bologna
Parma
Modena
Parma
Ravenna
Ravenna
37,27
Reggio Emilia
provincia
Reggio Emilia
Ferrara
provincia
Ferrara
Rimini
Emilia Romagna
Lombardia
Piemonte
Friuli-Venezia Giulia
Rimini
% altri Comuni
della provincia
% Comune
Piacenza
Forlì-Cesena
Piacenza
Forlì-Cesena
Fig. 1. Ripartizione territoriale dei
siti web dei musei.
Fig. 2A. Ripartizione per province
dei siti web dell’Emilia-Romagna.
Fig. 2B. Ripartizione per province
dei siti web dei musei dell’Emilia-Romagna,
con la distinzione del Comune
capoluogo dagli altri.
105

106 province di Modena (18 pari al 17,82%), Parma (13 pari al 12,87%), Ravenna (10, ovvero
il 9,90%), Reggio Emilia (7 e 6,93%) e Ferrara (6 e 5,94%). Percentuali ancora più
basse sono quelle di Rimini (4 e 3,96%), Piacenza (2 e 1,98%) e Forlì (1 e 0,99%)
(fig. 2A).
Passando poi a valutare l’incidenza percentuale dei siti web nei musei dei capoluoghi
di provincia, si può constatare che quest’ultima è elevata per quanto riguarda i Comuni
di Bologna, Parma, Ferrara e Rimini, mentre nel caso di Ravenna, Reggio Emilia e Forlì
il peso percentuale maggiore è quello degli altri Comuni della provincia (nel caso di Forlì
tutti i siti web dei musei presi in esame si trovano al di fuori del capoluogo di provincia).
Modena e Piacenza vedono una situazione di parità tra capoluogo di provincia e altri Comuni
(fig. 2B).
Il risultato evidenziato per l’Emilia-Romagna tende a ripetersi anche nel caso di Lombardia,
Friuli Venezia Giulia e Piemonte. Infatti, in ciascuna di queste regioni i siti dei
musei esaminati si concentrano principalmente, anche se con una diversa intensità, nel
capoluogo di regione (Milano 52 siti pari al 49,06%, Torino 27 pari al 67,50%, Trieste
22 pari al 91,67%). Mentre nel caso della Lombardia i siti web dei musei degli altri capoluoghi
di provincia raggiungono una significatività buona o discreta, la distribuzione
tende a diventare maggiormente asimmetrica nel caso del Piemonte per poi giungere al
Friuli Venezia Giulia, dove quasi la totalità dei siti web appartiene a musei che si trovano
nella provincia di Trieste (figg. 3A, 4A, 5A).
In Lombardia l’incidenza percentuale dei siti web dei musei del capoluogo di provincia
è molto elevata per quanto riguarda il Comune di Milano. Nel caso di Lecco, poi, tutti i siti
web dei musei considerati si trovano nel capoluogo di provincia. Nelle province di Brescia,
Varese, Bergamo e Sondrio si registra il peso percentuale maggiore degli altri Comuni
della provincia, mentre tutti i siti web dei musei di Lodi e Cremona si trovano al di fuori
del capoluogo di provincia. Infine a Mantova e Pavia i musei si ripartiscono in parti uguali
tra capoluogo di provincia e altri Comuni (fig. 3B).
Fig. 3A. Ripartizione per province
dei siti web dei musei della Lombardia.
60
49,06
0
40
% 30
20
10
0
Milano
13,21
7,55 6,60 5,66 4,72 5,66
Brescia
Varese
Bergamo
Mantova
Como
Pavia
provincia
2,83 2,83 0,94 0,94
Sondrio
Lodi
Lecco
Cremona

50
45
40
35
30
% 25
20
15
10
5
0
100
90
80
70
60
% 50
40
30
20
10
0
Milano
Brescia
Varese
91,67
Trieste
Bergamo
Gorizia
Mantova
4,17
Como
Pavia
provincia
provincia
Udine
Sondrio
% altri Comuni
della provincia
% Comune
Lodi
4,17 0,00
Pordenone
Lecco
Cremona
Fig. 3B. Ripartizione per province
dei siti web dei musei della Lombardia,
con la distinzione del Comune
capoluogo dagli altri.
Fig. 4A. Ripartizione per province
dei siti web dei musei del Friuli Venezia
Giulia
107

108
Fig. 4B. Ripartizione per province
dei siti web dei musei del
Friuli Venezia Giulia con la distinzione
del Comune capoluogo
dagli altri.
100
90
80
70
60
% 50
40
30
20
10
0
In Friuli Venezia Giulia quasi tutti i siti considerati appartengono a musei che si trovano nel
Comune di Trieste, mentre a Udine e Gorizia l’incidenza percentuale del capoluogo di provincia
è nulla (fig. 4.B).
In Piemonte l’incidenza percentuale dei siti web dei musei dei capoluoghi di provincia è massima
a Vercelli, è comunque molto alta a Torino, mentre è molto bassa a Novara. A Verbania, Alessandria
e Cuneo tutti i siti web dei musei esaminati si trovano fuori dal capoluogo di provincia (fig. 5 B).
Fig. 5A. Ripartizione per province
dei siti web del Piemonte.
70
60
50
40
%
30
20
10
0
67,50
Torino
Trieste
15,00
Novara
Gorizia
provincia
Alessandria
Vercelli
provincia
% altri Comuni
della provincia
% Comune
Verbania
Udine
5,00 5,00 5,00
2,50
Cuneo

70
60
50
40
%
30
20
10
0
Torino
Novara
Alessandria
Vercelli
provincia
% altri Comuni
della provincia
% Comune
Verbania
Cuneo
Fig. 5B. Ripartizione per province
dei siti web dei musei del Piemonte,
con la distinzione del Comune capoluogo
dagli altri.
I.2 Tipologia dei musei i quali ricorrono al sito web
Dalla verifica delle tipologie dei 271 musei presi in esame è emerso che per il 32,10% dei
casi si tratta di musei specializzati, per il 20,66% artistici, l’11% archeologici e il 9,23% naturalistici.
Seguono poi i musei tecnico-scientifici (7,38%), demo-etno-antropologici
(7,01%) e storici (5,54%). La voce “varie” (7,38%) indica i siti di musei con collezioni di
diverse tipologie (fig. 6).
35
30
25
20
%
15
10
5
0
32,10
specializzato
20,66
artistico
10,70 9,23
archeologico
naturalistico
tecnico
scientifico
tipologia musei
7,38 7,01 7,38
demo etno
antropologico
varie
5,54
storico
Fig. 6. Tipologia dei musei.
109

110 II. Navigazione: definizione dei paradigmi di esplorazione e dei collegamenti
a disposizione dell’utente per muoversi nell’applicazione
II.1 Mappa del sito
II.2 Presenza di indice
Per navigazione si intendono i collegamenti tra gli oggetti di un’applicazione e le regole per
percorrerli. La mappa di navigazione del sito non è molto diffusa: ne dispone infatti soltanto
il 18% dei siti web esaminati; l’85,61% ha invece un indice (fig. 7).
Fig. 7. Indice dei siti web.
Fig. 8A. Traduzione delle pagine in
altre lingue.
2,88
6,73
3,85
14,39
61,62
74,04
8,65
85,61
II.3 Traduzione in altre lingue
Come mostrato nella figura 8A circa il 61% dei siti oggetto della presente indagine presenta
la traduzione delle pagine in lingua straniera. La lingua assolutamente predominante è
l’inglese (circa 74%). Negli altri casi la traduzione è disponibile in più lingue secondo la
composizione illustrata dalla figura 8B.
Fig. 8B. Traduzione.
0,96
38,38
sì
no
sì
no
inglese
francese
inglese/ebraico
inglese/spagnolo
inglese/greco
inglese/tedesco
inglese/francese
inglese/francese/tedesco
inglese/francese/
tedesco/spagnolo

II.4 Numero di pagine totale
Il numero delle pagine per la maggior parte dei siti (57%) non supera le 20, seguito dal 16%
che arriva al massimo a 44. Nell’8% dei casi il numero di pagine è compreso tra 41 e 60. Si
può notare che circa il 6% dei siti si attesta tra le 101 e le 150 pagine, mentre solo il 2%
supera le 300 pagine (fig. 9).
60
50
40
% 30
20
10
0
56,83
1-20
16,24
21-40
8,49
41-60
Fig. 9. Numero delle pagine dei siti web.
4,06 2,95
61-80
81-100
intervalli
5,90
101-150
1,48 1,85 0,37 1,85
II.5 Funzioni di ricerca per parole
II.6 Link di testo
II.8 Link di immagini
II.9 Link con altri siti
La ricerca per parole non è molto diffusa: ne dispone infatti soltanto il 18% dei siti web
esaminati (fig. 10).
Per quanto riguarda i link di testo, il 36,16% del campione ricade nell’intervallo “1-20”,
il 17,34% tra “21-40” e il 9,59% tra “41-60”. Interessante è il fatto che il 7,75% dei siti ri-
81,18
18,82
sì
no
151-200
201-250
251-300
oltre 300
Fig. 10. Funzione di ricerca per parole.
111

112 cade nell’intervallo “101-150” e il 5,54% “oltre 300”. Si noti che l’8,89% del campione non
ha link di testo (fig.11).
Nel caso dei link di immagine, il 41,33% dei siti ha un numero di link compreso tra “1-
20” e il 12,18% ricade nell’intervallo “21-40”. Il 27,31% non ha link di immagine (fig. 12).
Come illustrato dalla figura 13, il 47,68% del campione non presenta alcun link con altri
siti, mentre il 40,59% ha un numero di link esterni compreso tra “1-20”(fig. 13).
Fig. 11. Numero dei link di testo.
Fig. 12. Numero dei link di
immagine.
40
35
30
25
% 20
45
40
35
30
25
% 20
15
10
15
10
5
0
5
0
8,86
0
27,31
0
36,16
1-20
1-20
41,33
17,34
21-40
12,18
21-40
41-60
9,59
41-60
5,17 3,69
61-80
61-80
81-100
intervalli
81-100
intervalli
7,75
5,54
3,32
1,11 1,48
101-150
5,90
4,43
1,85 1,48
101-150
151-200
151-200
201-250
201-250
251-300
251-300
oltre 300
1,11 0,74 2,58
oltre 300

50
45
40
35
30
% 25
20
15
10
5
0
Fig. 13. Link esterni.
III. Aspetto: presentazione grafica e proprietà visive
1-20
21-40
intervalli
III.1 Testi leggibilità
III.2 Qualità dei caratteri
È stata successivamente presa in esame la qualità grafica del sito, definita principalmente dai
due indicatori “leggibilità dei testi” e “qualità dei caratteri”. A riguardo è possibile formulare
alcune osservazioni: in primo luogo i dati sulla “leggibilità” mostrano che i siti con un livello
“discreto” o “buono” raggiungono il 57% circa, mentre il 35% raggiunge un livello
“mediocre” e soltanto il 7,75% “sufficiente”. Quanto alla “qualità dei caratteri” il 73% del
campione studiato si attesta su un valore “discreto” o “buono”, mentre il restante 27% si ripartisce
in modo piuttosto omogeneo tra il mediocre e il sufficiente (figg. 14-15).
35,06
47,60
0
7,75
40,59
18,45
6,64
2,21 1,11 0,74 1,11
41-60
38,75
buona discreta mediocre sufficiente
61-80
81-100
oltre 300
Fig. 14. Leggibilità dei testi.
113

114
Fig. 15. Qualità dei caratteri.
15,50
11,07
37,64
35,79
buona discreta mediocre sufficiente
III.3 Numero di immagini
III.4 Percentuale di immagini per pagina
Relativamente al numero di immagini del sito, è emerso che il campione si ripartisce negli
intervalli individuati in modo piuttosto disomogeneo: infatti circa il 36% ricade nell’intervallo
“1-20 immagini”, mentre l’intervallo “21-40 immagini” totalizza un 19%. Seguono gli
intervalli “41-60 immagini” (circa 9%) e, dato molto interessante, “101-150 immagini”
(circa 8%). A poco meno del 6% si attestano gli intervalli “81-100 immagini”, “151-200
immagini” e “oltre 300 immagini”, mentre gli altri intervalli totalizzano valori piuttosto
marginali (fig. 16).
Passando ora alla percentuale di immagini per pagina, prevale la classe “21-40%” con il
47,60%, seguita dal 35,42% della classe “1-20%” dal 12,18% della classe “41-60%”
(fig. 17).
40
35
30
25
% 20
15
10
5
0
1,48
0
36,16
1-20
Fig. 16. Numero delle immagini.
19,19
21-40
9,23
41-60
4,43
61-80
5,90
81-100
intervalli
8,12
101-150
5,54
151-200
2,21 1,85
201-250
251-300
5,90
oltre 300

50
45
40
35
30
% 25
20
15
10
5
0
1-20
21-40
intervalli
IV. Comportamento: dinamiche dei media e dei collegamenti
41-60
61-80
IV.1 Responsabilità della realizzazione
IV.2 Data della creazione
IV.3 Data dell’aggiornamento
IV.4 Modalità dell’aggiornamento (in parte o per intero)
Per quanto attiene ai dati riguardanti la realizzazione del sito, indicazioni alquanto significative
si possono trarre dalle figure 18 e 19, relative rispettivamente all’anno di creazione
80
70
60
50
% 40
30
20
10
0
0,74
0
0,37 0,74
1996
1997
35,42
4,43
1998
47,60
1,11
1999
anno
12,18
9,23
2000
4,80
2001
3,32
78,97
0,37
2002
0,74
81-100
non rilevato
Fig. 17. Percentuale di immagini
per pagina.
Fig. 18. Anno di creazione
delle pagine web.
115

116
Fig. 19. Data dell’ultimo
aggiornamento.
9,59
della pagina e alla data dell’ultimo aggiornamento: circa nell’80% dei casi non è stato possibile
rilevare queste informazioni.
V. Organizzazione globale del contenuto quale appare nell’utilizzo: contenuti
del museo, organizzazione, servizi
1,48
V. Contenuti del museo, organizzazione, servizi
intervalli
V.1 Percorsi reali
V.2 Percorsi storici
V.3 Percorsi progettuali
V.4 Percorsi virtuali
V.5 Percorsi interattivi
Per ciò che riguarda l’analisi relativa alle caratteristiche del sito, la presenza nel sito di percorsi
reali 9 rileva un dato importante, ovvero che circa il 70% dei siti web studiati è dotato
70,11
%
no sì
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
29,89
0-3
mesi
4-6
mesi
5,54
7-12
mesi
1,85 0,74
13-24
mesi
66,84
oltre 24
mesi
interi parziali
Fig. 20A. Presenza di percorsi reali. Fig. 20B. Descrizione dei percorsi reali.
80,81
non
rilevato
33,16

di un percorso attraverso le collezioni del museo; questo percorso nella maggior parte dei
casi (66,84%) è però parziale (figg. 20A e 20B).
La memoria del museo e delle sue collezioni non è presente nei siti web esaminati. Pochissimi
musei hanno inserito nel sito informazioni relative alla storia del museo e delle sue collezioni:
la quasi totalità dei siti web dei musei esaminati non presenta percorsi storici (fig. 21).
Anche l’immagine futura del museo, con specifico riferimento a progetti di nuovi percorsi,
è pochissimo presente. Questo invece potrebbe essere uno degli argomenti di maggiore
coinvolgimento del pubblico che potrebbe essere direttamente sollecitato a esprimere
le proprie opinioni in merito utilizzando, ad esempio, apposite liste di discussione all’interno
dello stesso sito del museo. I percorsi progettuali 10 sono presenti soltanto nel 27,68% dei
siti web indagati e per di più nella maggior parte dei casi viene fatto riferimento a progetti
già realizzati (figg. 22A e B).
%
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Fig. 21. Percorsi storici.
27,68
89,67
7,01
1,48 1,48 0,37
0 1 2 3 4
no sì
72,32
numero percorsi storici
8,00
80,00
12,00
sì nuovo sì realizzato sì entrambi
Fig. 22A. Presenza di percorsi progettuali. Fig. 22B. Percorso progettuale.
117

118
17,34
no sì
Fig. 23A. Presenza di percorsi virtuali.
82,66
53,19
46,81
interi parziali
Ridottissimo anche l’utilizzo del sito per presentare nuove e diverse proposte di lettura
del museo e delle sue collezioni attraverso percorsi virtuali che risultano presenti soltanto
nel 17,34% dei casi presi in esame: tra l’altro all’incirca la metà dei percorsi virtuali risulta
riferita a specifici settori del museo (figg. 23A e B).
La maggior parte dei siti non offre all’utente la possibilità di percorsi interattivi 11 (figg.
24-25).
Fig. 24. Percorsi interattivi.
Fig. 25. Numero di percorsi interattivi.
%
100
80
60
40
20
0
10,70
Fig. 23B. Percorsi virtuali.
96,68
89,30
no
sì
2,95 0,37
0 1
numero percorsi interattivi
2

V.6 Numero dei responsabili del museo e competenze
V.7 Numero dei collaboratori del museo e competenze
Nei siti web indagati viene data una ridottissima visibilità all’organizzazione del museo che
fornirebbe utili indicazioni sulle professionalità presenti. Nel 68,27% (fig. 26) dei casi manca
infatti la segnalazione dei responsabili e nel 90% circa non risulta la menzione dei collaboratori
(fig. 27).
31,73
no sì
68,27
10,70
no sì
Fig. 26. Informazioni sui responsabili. Fig. 27. Informazioni sui collaboratori.
89,30
VI. Controllo: le operazioni fornite all’utente per controllare l’applicazione.
Servizi informativi offerti (visite guidate, attività didattica, mostre temporanee,
convegni/seminari/incontri, corsi)
VI.1 Servizi informativi offerti (visite guidate, attività didattica, mostre temporanee,
convegni/seminari/incontri, corsi)
Il 68,27% dei siti esaminati offre on line servizi informativi (fig. 28). Nel 76,75% dei siti è
possibile trovare informazioni sulle iniziative promosse dal museo (fig. 29): le iniziative che
ricorrono più spesso sono le visite guidate, seguite dalle mostre temporanee e dall’attività didattica.
La maggior parte dei siti propone da 1 a 3 iniziative (fig. 30).
VI.2 Servizi interattivi offerti (prenotazione visite, consultazione archivio mostre/catalogo,
iscrizione alla mailing list, richiesta di informazioni sul museo e/o suggerimenti, acquisto
merchandising/pubblicazioni, download di file inerenti il museo)
31,73
no sì
68,27
76,75
no sì
Fig. 28. Servizi informativi offerti. Fig. 29. Informazioni sulle iniziative.
23,25
119

120
30
25
20
% 15
10
5
0
21,63
27,40
23,08
n. 1 n. 2 n. 3 n. 4 n. 5 n. 6 n. 7
numero iniziative
Fig. 30. Numero iniziative promosse dal sito web.
13,46
VI.3 Contatti con il personale del museo (questionario, e-mail)
VI.4 Liste di discussione
VI.5 FAQ (Frequently Asked Questions)
Il sito web dovrebbe essere utilizzato per incrementare l’accessibilità alle collezioni del museo
fornendo non solo informazioni dettagliate su di esse con aggiornamenti frequenti sugli
eventi ma anche servizi che, ad esempio, potrebbero essere differenziati per le diverse fasce
di utenza del museo.
Invece pochissimo utilizzati risultano i siti web dei musei per fornire servizi on line che
solo nel 22,51% dei siti risultano presenti. I più frequenti servizi offerti risultano: la consultazione
dell’archivio mostre/catalogo (30%), l’acquisto di merchandising e pubblicazioni
(18,33%) e la prenotazione delle visite (6,67%) (figg. 31A e B).
La maggior parte dei musei, il 70%, offre la possibilità di comunicare tramite e-mail (fig.
32): pressoché inutilizzati risultano invece altri sistemi interattivi come un questionario on
line, liste di discussione o le FAQ (Frequently Asked Questions) (figg. 33-35).
Fig. 31A. Presenza di servizi on
line.
22,51
7,69
5,77
77,49
0,96
no
sì

30
25
20
% 15
10
5
0
6,67
b bc bcg bf bfh c cd cdg cg d dg dh f fg g h e
servizi on line
Fig. 31B. Servizi on line offerti.
1,67
18,33
3,33
1,67
30,00
Questa ricerca ha costituito il punto di partenza per elaborare un sistema di ispezione e
benchmarking specifico per i siti museali che si basa su tre strumenti fondamentali: il modello
di qualità del software ISO/IEC 9126-1, in quanto un’applicazione web può essere
considerata per molti aspetti come un’applicazione software; le linee guida del Manuale Minerva
per la qualità di siti Web pubblici culturali; una metrica pesata non lineare, basata su
funzioni logiche AND-OR, che serve a trasformare l’insieme delle rilevazioni sperimentali
effettuate su un sito in una valutazione unitaria e coerente del sito stesso. In particolare il
modello di qualità del software ISO/IEC 9126-1 descrive una gerarchia di caratteristiche e
sottocaratteristiche qualitative, in cui le sei principali sono la funzionalità, l’usabilità, l’effi-
1,67
3,33
1,67
6,67
b = prenotazioni visite; c = acquisto merchandising e pubblicazioni;
d = consultazione archivio mostre, catalogo; e = altro; f = iscrizione
alla mailing list; g = modulo per informazioni sul museo e/o suggerimenti;
h = download di file
70,11
29,89
no
sì
Fig. 32. E-mail.
1,67
11,67
121

122
Fig. 33. Presenza di un questionario
on line.
Fig. 34. Presenza di liste di discussione.
Fig. 35. Presenza di FAQ (Frequently
Asked Questions).
%
%
%
100
80
60
40
20
0
100
80
60
40
20
0
100
80
60
40
20
0
sì
sì
sì
0,37
2,95
1,11
99,63
no
97,05
no
98,89
no

cienza, la portabilità, la manutenibilità, e l’affidabilità. L’utilizzo di questo modello comporta
un duplice vantaggio: il riferimento a uno standard consolidato e a una struttura gerarchica
particolarmente adatta al sistema elaborato. Il Manuale Minerva per la qualità di siti
web culturali, realizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nell’ambito del progetto
europeo Minerva (MInisterial NEtwoRk for Valorizing Activities in digitisation, Rete
interministeriale per la valorizzazione degli interventi di digitalizzazione), fornisce un insieme
di requisiti per i siti Web di qualità e rappresenta un tentativo di standardizzazione.
Il sistema di valutazione elaborato dal nostro gruppo di ricerca consente l’esame di un sito
museale sia dal punto di vita quantitativo sia delle sue caratteristiche qualitative principali
per mettere a punto una metodologia in grado di consentire l’identificazione dei punti di
forza e di debolezza dei singoli siti 12 .
I primi risultati critici di questa ricerca sono stati utilizzati per progettare da parte dello
stesso gruppo di lavoro, in collaborazione con il professor Michele Colajanni del Dipartimento
di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il portale dei musei universitari
modenesi, in corso di realizzazione con specifica attenzione ai musei del Dipartimento
del Museo di Paleobiologia e dell’Orto Botanico dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
* L’ideazione e organizzazione del
progetto si devono ad Elena Corradini;
la raccolta e l’elaborazione
dei dati ad Anna Benassi. Per una
sua prima presentazione si veda: E.
Corradini, 2001. I risultati della
ricerca datano al luglio 2002, momento
in cui si è conclusa.
1 Anche per la museologia, la museografia
e la museotecnica le banche
dati costituiscono un indispensabile
strumento di ricerca e aggiornamento
non solo per il personale
dei musei, ma anche per chi
più in generale si occupa o si interessa
a vario titolo al patrimonio
culturale.
2 Il world-wide web, detto anche
www, o semplicemente web, è un
sistema di organizzazione dei documenti
(testi, immagini, suoni) registrati
su un numero indefinito di
computer collegati in rete; un sito è
una locazione sul world-wide web
che pubblica qualunque genere di
informazioni.
3 Per il Centro di documentazione
della Fondazione Cassa di Risparmio
di Modena vedi www.fonda-
zione-crmo.it: è collegato al Centro
di Documentazione della Provincia
di Modena, vedi www.cedoc.mo.it.
4 Il Museo si trova in Via San Vittore
21 a Milano.
5 I siti museali possono essere distinti
in tre tipologie:
1) siti web equivalenti ad una brochure
elettronica: una sorta di pagina
pubblicitaria usata per promuovere
il museo e fornire informazioni
di base;
2) museo interattivo: consente agli
utenti di interagire col sistema per
ottenere le informazioni desiderate
(traduzione in formato elettronico
di database, del catalogo e/o figurativo
dell’istituzione museale);
3) museo virtuale: trasposizione in
Internet del museo reale attraverso
l’utilizzo di piante, mappe, immagini,
collezioni ed esposizioni interattive
e virtuali che possono avere
relazioni con il museo reale, ma soprattutto
aggiungono o reinventano
il museo, invitando il pubblico
a fare altrettanto.
Un documento web statico è costituito
da una serie di oggetti digita-
li organizzati in file che vengono
generati una volta per tutte e messi
in linea a disposizione degli utenti,
fino a quando il gestore del sistema
non decide di modificarli o rimuoverli.
Un documento web dinamico
invece è un documento i cui componenti
vengono elaborati e composti
solo nel momento in cui arriva
una richiesta esplicita. Questo
tipo di documenti è utilizzato nei
casi in cui è necessario generare dei
contenuti in maniera dinamica, in
modo automatico o in risposta ad
una operazione interattiva effettuata
dall’utente.
6 Vedi in particolare le considerazioni
pubblicate da Salvatore Settis
2002, in particolare nel capitolo L’illusione
dei beni digitali, pp. 67-77.
7 Si sono utilizzati i seguenti motori
di ricerca: www.yahoo.com; www.
google.com; www.altavista.com;
www.virgilio.it. Fra le guide selettive
disponibili si sono visionate: www.
museionline.it (sito contenente schede
informative aggiornate di oltre
3.000 musei italiani); www.museoscienza.org/icom/vlmp.html
123

124
(Virtual Library Museum Pages dell’ICOM);
www.museidimpresa.com
(all’interno del sito è possibile consultare
le schede descrittive di tutti i
musei d’impresa italiani).
8 Così suddivisi: Lombardia 106,
Emilia-Romagna 101, Piemonte
Nota bibliografica
Per ulteriori precisazioni si fa riferimento
al saggio Didattica e multimedialità:
il progetto “Museologia on line”
del Comitato Italiano dell’International
Council of Museums
(ICOM), in Scuola Museo Territorio.
Per una didattica dell’archeologia,
Casteggio, Palazzo della Certosa di
Cantù, 14 aprile 2002, Pavia 2003.
Per aggiornamenti, riflessioni e aggiornamenti
sulla realizzazione, l’utilizzo
e il significato dei siti web dei
musei si veda il sito www.archimuse.com
in cui si trovano i riferimenti
alla Museum and the Web Conference
che viene organizzata ogni anno.
Adapt II / Regione Bis Progetto
CU.L.TUR.A 1999, I beni museali
e l’informazione tecnologica,
Nomisma.
F. Antinucci 1988, Musei e nuove tecnologie:
dove è il problema?, in “Sistemi
intelligenti”, 2.
P.A. Bertacchini, E. Bilotta, P. Pantano
1997, Il museo nell’era digitale,
Catanzaro, Abramo.
C.S. Bertuglia, F. Bertuglia, A. Magnaghi
1999, Il museo tra reale e
virtuale, Roma, Editori Riuniti.
M. Boscarol 2000, Scrivere per il
Web, in www.usabile.it
P. Bottazzini, R. Fietta, D. Fonti, S.
Mandelli, L. Ponasso 2003, Web
usability, Milano, Tecniche nuove.
L. Cantoni, N. Di Blas, D. Bolchini
2003, Comunicazione, qualità,
usabilità, Milano, Apogeo.
E. Corradini 2001, Progetto museologia
on line, in “Nuova Museologia”,
4, giugno, p. 36.
40, Friuli Venezia Giulia 24.
9 Per percorso reale si intende un
percorso attraverso le collezioni del
museo.
10 Percorsi relativi a progetti (passati
o futuri) di allestimenti museali.
E. Corradini, A. Benassi 2001, Il
progetto “Museologia on line” dell’I-
COM Italia, in V EMAC, European
Museums Advisors Conference,
Bruxelles 10-13 ottobre 2001.
E. Corradini, P. Davoli, E. Garzillo,
M. Nuccio 2003, Methodologies
and Tools for Analysis of Museum
Web Application Features, Poster
session, Minerva European Conference
“Quality for Cultural Web
Sites”, Parma.
P. Davoli, E. Corradini, E. Garzillo,
M. Nuccio, T. Russo 2004, Inspection
of Museum Web Application
Quality – Analysis of selected
European Sites, in Museums and
the Web, proceedings.
N. Di Blas, M.P. Guermandi, C.Orsini,
Paolini 2002, Evaluating the
features of Museum Websites (The
Bologna Report), in Museums and
the Web, a cura di D. Bearman, J.
Trant, Pittsburgh, PA.
Dossier: Museums and the Internet, in
“Museum”, 1, January-March
2000.
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in www.musei-it.net
11 Percorsi che consentono all’utente
di interagire con il programma
presentato creando ad esempio percorsi
di lettura personalizzati e finalizzati
a propri specifici interessi.
12 E. Corradini et Alii 2003; P. Davoli
et Alii 2004.
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metodi di valutazione, in www.hyperlabs.net

Dallo scavo al museo e ritorno
Mirella Marini Calvani
Già Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Emilia-Romagna
RIASSUNTO
Con particolare evidenza il duplice carattere di organismo della conservazione e della ricerca – secondo la
nota definizione dell’ICOM – si manifesta nel museo archeologico. Sia che si tratti del museo, datato e
ormai sostanzialmente superato, frutto del collezionismo, sia che il tipo di museo sia quello, ormai predominante,
sorto per la conservazione dei frutti di un’esplorazione archeologica, l’istituto trova oggi, infatti,
la sua ragion d’essere nel rapporto col territorio e nell’attività che vi si svolge di laboratorio e di connessa
ricerca sul terreno.
Il museo – grande o piccolo che sia – non cessa di rappresentare un punto irrinunciabile di riferimento
per il territorio di cui ha costantemente favorito la crescita culturale. Diversi sono oggi i pericoli
che insidiano l’istituzione, primo fra tutti quello di un rinnovamento fine a se stesso, che non tenga conto
di quelli che ne sono i caratteri ormai storicizzati, che lo trasformi alterandone gli aspetti originali.
E tuttavia proprio il museo archeologico ha effettivamente bisogno di rinnovamento, di espansione,
non per velleitarie necessità d’immagine, ma per il proliferare dei cantieri, l’aumentato affluire di materiali,
le nuove esigenze del pubblico. Ma è soprattutto necessario che esso esca finalmente da se stesso e si
riproponga, tornando a quelle realtà territoriali da cui proviene, con una diversa articolazione, con sedi
decentrate nelle zone archeologiche, negli isolati urbani, con formule nuove, per proporsi in modo più
diretto, accessibile, in un’identità sempre più concreta, ai suoi frequentatori.
SUMMARY
The twofold conservation and research character – according to the well-known definition suggested by ICOM
– especially emerges in the archaeological museum. Both in the case of the obsolete notion of museum, resulting
from collections, and in the now prevailing notion of museum, which is aimed at the conservation of archaeological
finds, the Museum institution’s raison d’être lies in its relationship with the surrounding community and
in its laboratory and field activities.
Any museum – regardless of its size – always serves as point of reference for its community, whose cultural
development strongly depends on it. The museum institution is now confronted with several risks, first of all
with the risk involved in renewal for its own sake, which does not take into account its historical traits, thus
transforming it by altering its original aspect.
Yet, it is above all important that archaeological museums are renewed and extended, not merely for cosmetic
reasons, but because of a booming in archaeological excavations, of new finds being unearthed and of new
public needs that must be met. Yet, it is absolutely necessary for archaeological museums to open up their doors,
to become connected to the community they serve, according to different forms of organisation, also through decentralised
branches opened up directly on the archaeological sites in order, in urban districts, according to new
formulas, to become more updated, direct, accessible and suitable to the new needs and identity of its visitors.
Il titolo stesso dato a questo convegno suggerisce qualche considerazione. Noi siamo quelli
che hanno in passato riflettuto sulla storia del museo – così strettamente connessa alla sto-

126 ria della tutela del patrimonio culturale –, quelli che hanno esaminato il ruolo ch’esso ha in
vario modo sostenuto nei secoli, che ne hanno immaginato il futuro. Siamo giunti ora a una
svolta: avvertiamo urgente la necessità di esplorarne le radici, di ritrovarne il senso primario.
Non intendiamo risalire per l’ennesima volta nel tempo per interrogarci sulle differenti
circostanze, gli appetiti di varia natura che nel corso dei millenni hanno radunato le più
disparate ricchezze, strappate al loro contesto, sottratte alla funzione originaria, per comprimerle
entro scenari fantastici in una dimensione irreale.
Semplicemente proviamo a soffermarci su un’istituzione divenuta essa stessa, per il suo
straordinario passato, per le connotazioni che di quel passato reca impresse – e sono spesso
oggi a rischio – oggetto di tutela, per chiederci – non a caso in attesa dell’applicazione del
D.Lgs. 112/98 – quali aspetti di tale istituzione 1 vorremmo difendere, quali andranno col
tempo probabilmente perduti, quale in definitiva sarà il nuovo museo che uscirà dalla crisi
della nostra cultura, dalla crisi del nostro mondo.
Non è lontano il tempo in cui uno storico convegno, facendo il punto della situazione,
s’interrogava sulla funzione dei musei, sul ruolo che questi erano ancora chiamati a sostenere
nella società contemporanea. E ne rivendicava con forza la vocazione didattica, le cui
premesse, dopotutto, erano già nella cultura positivistica ottocentesca 2. Eppure anche quel
dibattito e il suo apprezzabile sèguito appaiono già superati, remoti.
Tra le possibili definizioni di ciò che intendiamo oggi per museo, più aderente alla realtà
attuale ci sembra semmai quella adottata dall’ICOM nell’Assemblea generale di Buenos Aires
3, che riconosce finalità primarie dell’istituzione la conservazione e la ricerca, di cui l’attività
educativa è dopo tutto il corollario.
Questi aspetti li troviamo oggi più intensamente vissuti nel museo archeologico. Da gran
tempo, da quando si è progressivamente sottratto al collezionismo principesco o erudito,
questo museo ha riconosciuto la sua ragion d’essere nel territorio, nel rapporto che con questo
si è instaurato. Il territorio ne ha incrementato le raccolte in forza di quei provvedimenti
saviamente coercitivi che sono all’origine del museo comprensoriale. Il territorio è stato il
naturale destinatario del suo messaggio. In seguito l’affluenza dei materiali, aumentata in
modo esponenziale per effetto delle distruzioni o dei recuperi imposti dal frenetico avvicendarsi
dei programmi edilizi e delle trasformazioni agricole e urbane, è diventata irruzione.
Riflettendo ancora una volta le vicende, in questo caso le patologie, del territorio, il museo
archeologico appare oggi in sofferenza, la carica dirompente degli scavi d’emergenza non
accennando a esaurirsi, anche se si è tentato di arginarla in qualche caso con nuovi allestimenti
e con una razionalizzazione degli spazi disponibili.
Il grande museo non ha per questo rinunciato a rappresentare, come in passato, un punto
di riferimento per un più o meno ampio entroterra, non in termini parassitari, se non in
qualche angusto ambito municipale, bensì in una logica di servizio. Proprio dalla qualità
della ricerca ivi attivata traggono origine l’esercizio della tutela, un corretto servizio educativo,
la valorizzazione stessa dell’istituto, attività indissolubilmente collegate.
Ma con maggior evidenza questo rapporto traspare, per lo meno in Emilia-Romagna, nell’attività
dei piccoli musei, espressione generalmente dell’iniziativa locale, la cui proliferazione
qualcuno giudica persino inutile e dispersiva, strumenti insostituibili in realtà di una tutela
attiva esercitata capillarmente. In queste strutture un volontariato già specializzato – giovani
studiosi ancora non inseriti in un ruolo professionale – ma anche semplici cittadini,

amanti della storia della propria comunità, debitamente organizzati, sotto la guida di un tecnico,
questo sì investito di compiti istituzionali, provvede alle operazioni necessarie alla conservazione
e allo studio dei materiali; in accordo con l’organo di tutela opera sul campo, partecipa
a ricerche o a ricognizioni di superficie. Determinati ambiti territoriali, defilati rispetto
alle terre tradizionali dell’esplorazione archeologica, sono in realtà noti oggi proprio grazie
alla sommessa opera di osservazione e di controllo esercitata da questi nuclei operativi, che sono
d’altra parte cenacoli per dibattiti scientifici, vere e proprie fucine di vocazioni professionali
4. Il rapporto col territorio si avverte qui vivo, attento, produttivo. Il proposito di distinguerne
gli esiti riservando quelli inerenti alla tutela allo Stato, affidando quelli considerati gestionali
alle Regioni 5, frutto dell’errata convinzione che la gestione di un sito archeologico o
di un museo sia un atto puramente burocratico, indipendente dalle competenze acquisite tramite
un’attività scientifica, non può non suscitare allarme.
Nell’uno e nell’altro caso, nei piccoli e nei grandi musei, ove i rapporti, diretti o indiretti,
a seconda del regime giuridico, con l’organo di tutela, con l’entroterra di cui il museo
è espressione, venissero a mancare – pensiamo anche all’invocata autonomia dei grandi musei,
già subordinati alle Soprintendenze, secondo determinate scuole di pensiero, da una tradizione
reazionaria 6 – si avrebbero in realtà strutture prive di prospettive di sviluppo, asfittiche,
fin troppo facile preda di interessi mercantili e di logiche di potere.
E tuttavia il museo, proprio il museo archeologico, ha effettivamente bisogno di rinnovamento,
non per velleitarie necessità d’immagine, ma, come abbiamo visto, per il proliferare
dei cantieri, l’aumentato affluire di materiali, le nuove esigenze del pubblico. E, come
ben sappiamo, non è infondato il timore che il rinnovamento lo trasformi, ne alteri i carat-
Fig. 1. Ravenna, Complesso archeologico di via d’Azeglio: pavimento a mosaico dell’atrio dell’edificio bizantino.
127

128 teri originali, ormai storicizzati. Ma vi sono altri non meno gravi rischi per il museo che
cambia: che vi si smarrisca innanzi tutto il rapporto diretto con lo scavo, che vi si incoraggi,
cioè, dilatandone la capacità espositiva, il perpetuarsi della più volte contestata deportazione
dei materiali dal luogo di provenienza. E non è raro veder crescere oggi, essere addirittura
rifondati alcuni musei senza spazi di lavoro, senza quei laboratori, quei depositi che
di un museo archeologico modernamente inteso non dovrebbero essere dotazione facoltativa,
ma premessa.
La soluzione ce la suggeriscono i piccoli, dimostrando opportuno che il museo esca finalmente
da se stesso e si riproponga, tornando a quelle realtà territoriali da cui proviene, con
una diversa articolazione, con sedi decentrate nelle zone archeologiche e negli isolati urbani,
con formule nuove, in modo più diretto, accessibile, in un’identità sempre più concreta.
Non ci nascondiamo quanto la ricerca di tali soluzioni possa rivelarsi impegnativa: la difficoltà,
a esempio, di conservare o ricollocare in uno spazio urbano gli immensi tappeti musivi
di epoche e di regioni – pensiamo al mosaico romano di Cesena 7 o ai mosaici del palazzetto
bizantino rimesso in luce a Ravenna in via d’Azeglio 8 – che non hanno conosciuto
i criteri della residenza intensiva. Se a parte dei mosaici di via d’Azeglio si son potuti riservare
nel sottosuolo di un isolato urbano gli spazi originari, per il primo, riapparso nell’area
di una piazza, si sta ancora studiando una sistemazione conveniente. Felice l’esposizione a
Comacchio del carico della nave romana di Valle Ponti 9 in una serie di ambienti contigui a
quello dove si sta ultimando il consolidamento dell’imbarcazione. Visibili in situ nel sottosuolo
di Sala Borsa a Bologna un brano della stratificazione urbana 10, in un immobile di via
Carbonesi i ruderi del teatro romano 11: tecnicamente praticabile, è auspicabile il ricongiungimento
a tali resti dei preziosi materiali ad essi associati. Una musealizzazione dei materia-
Fig. 2. Comacchio (Ferrara): una sala del Museo della Nave romana.

li attinenti alle strutture ritrovate nel corso di scavi potrebbe essere realizzata a Piacenza sotto
la chiesa sconsacrata di S. Margherita 12 o in quel condominio di via Trebbiola che ingloba
tratti delle cinte difensive tardoromana e bizantina, i resti di una fornace repubblicana
nonché parte di una corte quattrocentesca 13. Sono invece già esposti accanto alla fornace
donde provengono, conservata in vista, i materiali rimessi in luce nell’area della nuova Dogana
di Piacenza 14. Sorgono presso gli scavi, allestito l’uno a valle della zona archeologica,
nel complesso conventuale di Pianetto, appositamente progettato l’altro, i nuovi musei di
Mevaniola (Galeata) 15 e Monterenzio 16.
Una fortunata circostanza la contiguità al Museo della Città a Rimini della zona archeologica
di Piazza Ferrari 17.
Si aprirà prossimamente anche a Veleia, teatro della più antica esplorazione archeologica
sistematica avviata nell’Italia settentrionale 18, in un piccolo immobile contiguo alla zona archeologica,
acquisito finalmente alla proprietà pubblica a seguito di un lungo e sofferto iter
espropriativo, uno spazio dedicato a iniziative di ricerca e di accoglienza. Se il frutto dell’esplorazione
settecentesca è infatti ormai storicamente ospitato nel Museo di Parma che per
quello scavo venne fondato, nuovi ritrovamenti potranno essere – e in parte già sono – ricollocati
nella stessa Veleia. Anche Veleia, dunque, rinsaldando i tradizionali rapporti con Parma
che ne conserva le principali raccolte, può ora aspirare a inserirsi in un grande sistema policentrico,
ad aprirsi a nuove formule didattiche ed espositive: un esempio di ritorno alle origini,
la storicità dell’istituzione sposata alla sua attualità, di archeologia del museo riscoperta.
1 Già insidiata dall’art. 33 della
Legge 28 dicembre 2001 n.448
(legge finanziaria per il 2002), recentemente
bocciato dal Consiglio
di Stato, cui nuove minacce tuttavia
sono giunte, all’indomani di
questo Convegno, dalla Legge 15
giugno 2002 n. 112, che affida, come
noto, a una Patrimonio s.p.a.,
sottratta al controllo del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, la
valorizzazione, la gestione e l’alienazione
del patrimonio dello Stato.
2 Il Museo come esperienza sociale,
Atti del Convegno di studio, Roma
1972.
3 Codice di deontologia professionale,
adottato dalla 15.a Assemblea
generale dell’ICOM, Buenos Aires
4 novembre 1986.
4 Notizie dell’attività di queste
Unità operative nella seconda parte
di ogni annata del periodico edito
dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici,
“Archeologia dell’Emilia-Romagna”.
5 Decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 112, artt.149, 150.
6 Cfr. L. Binni, G. Pinna 1989,
Museo, Milano, pp.151-152.
7 N. Fadini 1998, Cesena, piazza
Fabbri, in “Archeologia dell’Emilia-Romagna”,
II, 2, pp. 106-108.
8 M. Marini Calvani, M.G. Maioli
(a cura di) 1995, I mosaici di via
d’Azeglio in Ravenna, Ravenna.
9 AA.VV. 2001, La nave romana
di Comacchio. Appunti di un viaggio
nel passato, Comacchio; F. Berti
2001, In visita al Museo della nave
romana di Comacchio, Anecdota,
XI, 1, pp. 7-13.
10 J. Ortalli 2000, Bologna, in Aemilia.
La cultura romana in Emilia
Romagna dal III sec. a.C. all’età costantiniana,
Venezia, p. 447.
11 Ibid., p. 444.
12 M. Marini Calvani 1990, Archeologia,
in Storia di Piacenza,
Piacenza, I, 3, PC 01.01.012; I, 2,
figg. 3-14.
13 M. Marini Calvani 1992, Emilia
occidentale tardoromana, in Felix
temporis reparatio, Atti del Conve-
gno, Milano, pp. 324-326, figg.
18-26.
14 M. Marini Calvani 1990, Archeologia,
in Storia di Piacenza,
Piacenza, I, 3, PC 01.01.177; I,2,
figg. 111-113.
15 P. Bolzani 1997, Idea di Galeata
(con introduzione di M. Marini
Calvani), Ravenna.
16 A. Dore (a cura di) 2000, Guida
al Museo Archeologico di Monterenzio
“Luigi Fantini”, in Archeologia
e Storia delle valli dell’Idice e dello
Zena, Bologna.
17 J. Ortalli 2000, Rimini: la domus
“del chirurgo”, in Aemilia. La
cultura romana in Emilia Romagna
dal III sec.a.C. all’età costantiniana,
Venezia, pp. 512-526.
17 M. Marini Calvani 2000, Veleia,
in Aemilia. La cultura romana in
Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età
costantiniana, Venezia, pp.
540-547; Eadem 1979, Gli interessi
antiquari del Ducato di Parma e Piacenza,
in L’arte a Parma dai Farnese
ai Borbone, Bologna, pp. 231-237.
129

Il passato del museo
Esperienze e progetti sul filo della memoria

Trasformazioni novecentesche di Castelvecchio.
Dal museo di ambientazione al dopo Scarpa
Paola Marini
Museo di Castelvecchio - Verona
RIASSUNTO
In contrapposizione alla supposta “freddezza” del modello di museo positivistico, il Museo di Castelvecchio
nasce poco prima della metà degli anni Venti del secolo scorso con i connotati di un “museo di ambientazione”,
ove dipinti e raccolte di arti decorative concorrono ad evocare la suggestione delle dimore
delle nobili famiglie cittadine. Castelvecchio diviene un elemento centrale della città, luogo di collegamento
di iniziative e monumenti, meta di turismo ed oggetto di promozione (Festival areniano, Casa e
Tomba di Giulietta, rapporti con l’industria cinematografica).
Alla metà degli anni Cinquanta, sotto la direzione Magagnato, il restauro e il riallestimento affidato
a Carlo Scarpa danno corpo ad una concezione museografica di matrice idealista. Le opere chiave della
collezione vengono valorizzate nelle loro valenze formali, entro un percorso che si collega fortemente al
centro storico della città, e ai suoi “luoghi”, sostanzialmente identificati nel medioevo scaligero.
La conservazione dell’allestimento scarpiano ha rappresentato da allora uno degli obiettivi del museo,
e ne ha spesso improntato gli orientamenti espositivi anche in occasione di numerose rassegne temporanee.
Questo atteggiamento conservativo va tuttavia armonizzato con la necessità di dotare la struttura di
quei servizi che il pubblico odierno pretende e deve tenere necessariamente conto delle nuove chiavi di
lettura e dei diversi approcci metodologici acquisiti grazie al progredire degli studi.
SUMMARY
In juxtaposition with the supposed “coldness” of the positivistic museum model, the Castelvecchio Museum was
set up before the mid-Twenties as a so called “setting museum”, where paintings and collections of decorative
arts contributed to evoke the suggestive atmosphere of the noble families of the city. Castelvecchio became a central
element of the city, connecting events and visits to monuments and serving as object of promotion (Arena
Festival, Home and Tomb of Juliet, relationships with the film industry).
In the mid-Fifties, under the Magagnato direction, the restoration and redesigning of exhibitions were entrusted
with Carlo Scarpa, thus implementing the idealistic model propounded by Longhi. The key works of the
collection were thus enhanced, in their formal aspects, along an itinerary, which has become deeply rooted in
the city historical centre and connected with its topical “highlights”, which are mainly identified with the heritage
dating from the medieval age under the Della Scala influence.
The conservation of the Scarpa exhibition model has always been one of the main objectives pursued by the
Museum and it has always served as source of inspiration for further temporary exhibitions.
This conservation approach should anyway be reconciled with the need to supply the facilities with suitable
modern services, to meet the expectations of the modern public. It should necessarily take into account the new
interpretation keys and the different methodological approaches resulting from the most recent studies.
Sin dalla sua definizione, a ridosso della vicenda napoleonica, il patrimonio artistico e museale
della città di Verona si caratterizza per la compresenza di una ricca pinacoteca (3.500 sono
i numeri di catalogo) – costituita dai dipinti di antica proprietà comunale, dai dipinti demaniali
e dalle collezioni ben presto donate – e di insigni monumenti quali l’anfiteatro e il

134 teatro romano e le porte urbane di età romana e rinascimentale. Appare dunque del tutto naturale,
ad esempio, che il fautore e primo direttore del museo comunale, il pittore Saverio
Dalla Rosa, si impegni con scavi e pubblicazioni anche nello studio dell’Arena romana.
Rispetto a questi due nuclei principali – l’archeologico-monumentale con l’appendice
dei materiali provenienti dalle antiche collezioni per cui la città era famosa e il pittorico,
espressione dell’unica scuola veneta alternativa o complementare a quella veneziana – gli altri
nuclei appaiono relativamente “minori” e tali da non incidere in maniera significativa
sulla facies museale quale si veniva delineando. Tali materiali, dalle monete alle sculture, dalle
incisioni alle ceramiche e ai documenti etnografici, accanto alle raccolte di storia naturale
e alle opere degli artisti contemporanei, concorrono tuttavia con la loro presenza all’affollata
congerie con cui si identifica il museo civico ottocentesco, che a metà del XIX secolo
guadagna la sede angusta ma prestigiosa del palazzo Pompei alla Vittoria.
Spetta a Giuseppe Gerola, direttore per brevi ma incisivi anni dei musei di Bassano del
Grappa e di Verona, prima di passare alla carriera di soprintendenza, il riordino della pinacoteca
veronese entro il 1910, secondo rigorosi criteri di scuola ed evoluzione stilistica che
rinviano, nonostante la sua formazione nel campo della filologia, ai fondamenti basilari della
nuova disciplina storico-artistica impostati in quegli anni da Adolfo Venturi. Non è perciò
un caso che i criteri del riordinamento della pinacoteca veronese ancora alloggiata a palazzo
Pompei trovino puntuale corrispondenza con quelli, ispirati dallo stesso Venturi, che
impronteranno nel 1924 il riallestimento della Pinacoteca Estense di Modena.
Meno di vent’anni dopo, nel 1923-1925, si assiste ad una brusca inversione di rotta. Per
quanto essa non risulti espressa a livello ideologico, la sua organicità è tanto vasta da non
lasciare spazio alla casualità. Ottenuto dal Demanio il complesso scaligero di Castelvecchio
– per lunghi secoli adibito a caserma – il Comune di Verona ne intraprende una vera e propria
ricostruzione, al fine di farne la sede del museo civico d’arte medievale e moderna. Questo
è al tempo stesso direzione e centro di quella che oggi chiamiamo una rete museale, rete
che proprio in quel momento comincia a strutturarsi attraverso la nascita di una pluralità
di musei specializzati, tutti derivati dall’unitario museo civico ottocentesco, il cosiddetto
“museo omnibus”. Nel 1924 viene inaugurato il Museo Archeologico al Teatro Romano,
nel 1926 Castelvecchio, mentre palazzo Pompei rimane destinato al solo Museo di Storia
Naturale; nel 1927 si assiste alla manomissione del Museo Lapidario Maffeiano e negli anni
Trenta alla creazione del Museo del Risorgimento e Galleria d’Arte Moderna nonché della
Casa di Giulietta e della supposta Tomba dell’eroina shakespeariana.
Il Museo di Castelvecchio viene realizzato praticamente dal nulla, perseguendo un intento
di ricreazione stilistica che spesso ritroviamo negli anni Venti, anche se con modalità
e livelli qualitativi assai differenti. Solo per fare alcuni esempi, ricordo le scelte di Andrea
Moschetti a Padova, Francesco Malaguzzi Valeri a Bologna e in Romagna, Alberto
Alpago Novello al Civico di Feltre o Federico Hermanin a palazzo Venezia a Roma. In
tutti questi e in molti altri casi il museo di ambientazione rappresenta, nella sua ricerca
di “calore” e di vita vissuta – meglio, calcata come la scena di un film in costume – la
reazione alla supposta “freddezza” del museo positivistico, in un intento sempre più evidente
di colloquio con il pubblico che, se produce talvolta gli esiti desiderati, spesso comporta
dei gravi compromessi sul piano dei contenuti. Una simile opzione, ancora maggioritaria
fino al terzo decennio del XX secolo, sembra trovare fertile humus di crescita

nelle esigenze simboliche di risveglio dell’orgoglio e dell’identità civiche sostenute dalle
prime amministrazioni fasciste.
A Verona, Castelvecchio diviene il cuore di un intervento a 360 gradi sulla città, attento
agli aspetti turistici e di marketing commerciale (Festival areniano, Casa e Tomba di Giulietta,
rapporti con l’industria cinematografica), in cui ha un ruolo di primo piano il direttore
dei musei Antonio Avena, egli pure filologo di formazione. Lungo questa linea, le raccolte
di arti decorative ricompaiono in massa ad intercalare i dipinti in un decoro che, con
innumerevoli scorrettezze, vuole evocare la suggestione delle dimore delle nobili famiglie
coinvolte, al pari degli artisti contemporanei, nel sostegno di questa abilissima impresa di
pubbliche relazioni. Tale clima, che rivive gli spunti ottocenteschi della Belle Époque, prosegue
sostanzialmente sino al secondo Dopoguerra ispirandosi ad un facile “gusto da ristorante
Montecchi e Capuleti”, secondo l’icastica definizione di Roberto Longhi, riecheggiato
negli esercizi eno-gastronomici più frequentati della città.
Trent’anni più tardi, nel 1955, con l’arrivo alla direzione di Licisco Magagnato allievo di
Sergio Bettini e di Carlo Ludovico Ragghianti, è proprio l’idea longhiana di matrice idealista
e puro visibilista a trionfare con il restauro e riallestimento affidato a Carlo Scarpa. Crolla
da 5.000 a 600 il numero delle opere esposte: spariscono le arti minori in depositi che in
parte ancor oggi attendono di essere adeguati, mentre il mirabile restauro “archeologico”
mette in luce punti vitali del castello in cui vengono collocate con individuale studio le opere
chiave della collezione, in modo da valorizzarne le peculiari valenze formali, entro un percorso
che si collega fortemente al centro storico della città, ai suoi materiali costruttivi, ai
suoi epicentri, sostanzialmente identificati nel medioevo scaligero, secondo la lettura di Schlosser
e Toesca, e nel primo Rinascimento. Anche a causa della cesura della guerra, si affermano
in sostanza negli anni Cinquanta, e non solo a Verona, ma anche come noto a Milano,
Genova e altrove, idee critiche e forme che erano state elaborate, e solo in parte espresse,
negli anni Trenta.
Al contrario della percezione comune, la vita di un museo come quello veronese, osservata
un po’ più da vicino, rivela uno straordinario dinamismo, non solo nelle attività conservative,
didattiche e culturali, ma anche nella sua forma fisica, se nel giro di cinquant’anni
– dal 1907 al 1957 – cambia per ben tre volte e in modo assolutamente antitetico la presentazione
delle opere. Ogni volta tale mutazione ha rappresentato – mi si scusi la semplificazione
– la risposta al mutare dell’idea di storia dell’arte.
Da cinquant’anni a questa parte la nostra religione è divenuta quella della conservazione,
non solo delle opere d’arte ma anche dell’allestimento scarpiano, capace di attrarre una
quota significativa e di alta qualità dei circa 80.000 visitatori annui di Castelvecchio. Ogni
nuovo inserimento, come quelli di Arrigo Rudi, il principale collaboratore dell’architetto
veneziano nel lavoro veronese, o quelli imposti dall’adeguamento alle norme, ci fanno soffrire
e inconsciamente sentire in “colpa”. Lo stile di Scarpa ha condizionato per anni anche
quello degli allestimenti temporanei, mentre nell’ultimo decennio l’accrochage delle mostre
è divenuto per noi il più fertile campo di sperimentazione della mediazione museografica
tra opera e pubblico che avvertiamo come parte molto significativa della nostra attività museale.
Perché questo sentimento? Credo che esso nasca dalla coscienza del valore intrinseco
e del ruolo storico dell’intervento museografico di Scarpa e Magagnato a Castelvecchio e
dall’orgoglio di essere riusciti a mantenerlo, ma anche dalla consapevolezza, basata su con-
135

136 suetudine ed esperienza, della funzionalità all’apprezzamento dell’opera d’arte, della rarefazione
e dell’eleganza, di quell’esperienza, destinate a perdersi negli epigoni, ma ancora capaci
di suscitare emozioni percettive e contemplative in sintonia con la ricerca artistica attuale
e in grado di segnare intensamente la permanenza nel museo anche del più inconsapevole
dei visitatori.
Ma, «affinché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», ci accade spesso di pensare
con il principe di Salina. Al fine di poter mantenere funzionante il gioiello scarpiano bisogna
infatti a nostro avviso che il castone che lo contiene si amplii e trasformi per accogliere
tutti quei servizi di cui non ci pare possibile fare a meno di fronte ad un pubblico sempre
più numeroso, diversificato e impreparato anche solo perché viene dall’altro capo del
mondo. Ma anche per dar spazio ad una presentazione delle raccolte che registri l’evoluzione
degli studi sia nei contenuti (oltre il Rinascimento) sia nell’approccio metodologico. Dovrebbe
intervenire a questo punto l’interrogativo su dove vada oggi la storia dell’arte. Concetto
evitato, chiaro – penso – a pochi e interpretato discrezionalmente a seconda dell’uso.
Per lo più rimosso fino all’eliminazione dai curricula scolastici. In ogni caso non univoco o
non così monolitico come al tempo di Venturi e di Longhi.
Certo le tecniche e le botteghe, l’iconografia e la trasmissione delle immagini, i contesti
e la relazione tra le arti, il collezionismo – tematiche in parte debitrici alla storiografia
marxista, in parte alla scuola delle Annales – non sono facili da veicolare nonostante i nostri
sforzi didattici in un museo come Castelvecchio, mentre trovano più adeguato spazio nelle
mostre temporanee. Sarà necessario che aperture di questo tipo siano presenti anche solo come
stimolo e indicazione di metodo all’interno delle esposizioni permanenti. Ma anche il
concetto di esposizione permanente vede oggi trasformato il suo significato, se pensiamo
che il Museo del Cinema di Torino, dovuto ad uno scenografo e ad un dirigente di area culturale,
anziché ad un architetto e ad un direttore, è nato per durare non più di dieci anni.
La stessa cosa riguarda i musei di storia naturale.
Le mostre temporanee hanno attirato, forse anche al museo, pubblici più numerosi – che
mantengono verso la venerabile istituzione una istintiva diffidenza – ma li hanno anche abituati
ad una spettacolarità che impronta, salvo rari casi, anche i musei capolavoro di molti
architetti contemporanei. I confini tra museo permanente e mostra temporanea, tra architettura
e scenografia, si sono fatti sempre più labili e contaminati.
In questo scenario più precario ed incerto, ma anche foriero di stimolanti prospettive, il
museo è invitato ad allacciare rapporti sempre più stretti con la città, il territorio e i suoi simili,
le sue radici e la sua durata. Lì, nel caso veronese, potrà trovare il rigore della filologia
positivista, le radici dell’intrattenimento, del marketing culturale e della comunicazione nel
pragmatismo di Antonio Avena e nell’assoluto estetico del momento scarpiano.
Bibliografia fondamentale
M. Dalai Emiliani 1982, Musei della
ricostruzione in Italia, tra disfatta
e rivincita della storia, in
Carlo Scarpa a Castelvecchio, catalogo
della mostra a cura di L.
Magagnato, Milano, pp. 149-
170.
S. Marinelli 1982, Il castello, le collezioni,
in Carlo Scarpa a Castelvecchio,
catalogo della mostra a
cura di L. Magagnato, Milano,
pp. 133-148.
L. Magagnato 1984, Il Museo di
Castelvecchio, in F. Dal Co, G.
Mazzariol, Carlo Scarpa. Opera

completa, Milano, pp. 159-163.
P. Marini 1995, Il Museo di Castelvecchio,
in Castelvecchio e il ponte
scaligero, edizione fuori commercio
a cura del Comando delle
Forze Terrestri Alleate del Sud
Europa (FTASE), Verona, pp.
107-121.
P. Marini 2000, Da “Madonna Ve-
rona” a “Verona Illustrata”, in
Centenario del Bollettino del Museo
Civico di Padova 1898-1998,
Atti della giornata di studi, a cura
di M. Magliani, M. Varotto,
G. Zampieri, Padova, pp. 33-42.
P. Marini 2001, Collezioni e collezionisti
per il Museo Civico di Verona,
in Collezioni restituite ai
musei di Verona, catalogo della
mostra a cura di P. Marini, M.
Bolla, D. Modonesi, Verona, pp.
12-17.
Medioevo ideale e Medioevo reale
nella cultura urbana. Antonio
Avena e la Verona del primo Novecento,
Atti del convegno, a cura
di P. Marini, Verona 2003.
137

La Pietà Rondanini come paradigma della museografia
contemporanea: da BBPR ad Alvaro Siza
Sonja Moceri
Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte
Università di Roma “La Sapienza”
Ad Alessandro
RIASSUNTO
Il contributo ripercorre la storia dell’allestimento della Pietà Rondanini nel Castello Sforzesco di Milano,
attualmente oggetto di un radicale ripensamento da parte di Alvaro Siza, cui la Direzione centrale Cultura
e Musei del Comune di Milano ha conferito l’incarico di realizzare la proposta elaborata nel 2000 in
occasione del “Workshop Michelangelo”, laboratorio internazionale di idee per un nuovo allestimento
della Pietà Rondanini.
L’acquisto della scultura, siglato nell’ottobre 1952, fu accompagnato da una serie di proposte museografiche
non prive di interesse. Giacomo Manzù, che aveva eseguito la pulitura dell’opera, ne predispose
l’allestimento nella Cappella Ducale del Castello Sforzesco, ma l’ambiente più idoneo alla presentazione
del capolavoro fu ritenuto la Sala degli Scarlioni a motivo dei vani ampi, meno caratterizzati rispetto agli
altri ambienti del Castello, e della ubicazione conclusiva dell’itinerario di visita al pianterreno.
Inizia così una lunga serie di “apprestamenti provvisori” messi in opera da Costantino Baroni, Direttore
reggente alle Civiche Raccolte d’Arte dal maggio 1945 al marzo 1956, che portarono all’attuale sistemazione
dello Studio Architetti BBPR, fondata sul principio neo-idealistico crociano della diretta proporzionalità
fra giudizio di valore e distanziamento fisico-simbolico delle opere.
SUMMARY
This presentation covers the history of the exhibition mounted for the “Pietà Rondanini” in the Sforza Castle
in Milan, which are today undergoing a radical rethinking process, under the supervision by Alvaro Siza, who
has been entrusted by Central Direction of Culture and Museums of Milan Municipality with the task to implement
the proposal worked out in 2000 during the “Michelangelo Workshop”, an international think tank
aimed at the refurbishing of the historical setting exhibition designed by BBPR in the mid-Fifties.
The purchase of the work (October 1952), was accompanied by a sequence of interesting museographical
proposals. Giacomo Manzù, who had conducted the refurbishing and cleaning works, also took care of its exhibition
in the Ducal Chapels of Sforza Castle. Given its large size, the Pietà complex was finally located in
the Scarlioni Hall, also in consideration of the fact that this hall was less characterised than the other halls of
the Castle and also because it was located at the end of the itinerary of the ground floor halls.
Hence, a long series of trials was carried out on site by Costantino Baroni, the Director in charge of the
Municipal Art Collections since May 1945 to March 1956. Baroni was also responsible for the involvement of
BBPR in the refurbishment plan of the Museum of Ancient Art of the Sforza Castle; we owe to BBPR the very
intelligent solution that had been devised for the Pietà, drawing inspiration from the neo-idealistic postulate,
which called for a relationship of direct proportionality between a judgement of value and a physical and symbolic
analysis of works.
«Chiedo scusa se sono venuto al microfono di Radio Milano per parlare di musei. Assicuro
i gentili ascoltatori che molto più volentieri avrei voluto intrattenerli su argomenti più bril-

lanti [...]. Ma questa volta, anche se parlo di musei e ne parlo a voi Milanesi, me la dovete
far buona perché si tratta del Castello Sforzesco, del vostro Castello Sforzesco, che è come
dire uno dei monumenti e delle istituzioni più care al vostro cuore di Ambrosiani, insieme
con il Duomo, la Scala e qualche altra cosetta di minor conto, che i turisti si ostinano ad
andare a cercare fra le macerie della nostra sciagurata città» 1.
È l’esordio radiofonico con il quale, nell’estate del 1945, Costantino Baroni, nominato
nel maggio di quell’anno Direttore reggente alle Raccolte d’arte del Comune di Milano dal
Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia, portava coraggiosamente alla ribalta
dell’opinione pubblica il dibattito sulle modalità di intervento post bellico sostenendo la disonestà
etica di un ripristino sic et simpliciter dello stato quo ante.
Con lo stesso coraggio, due anni dopo, in un promemoria inedito per l’interpellanza sulla
politica artistica del Comune 2, Baroni individuava con chiarezza le priorità d’intervento,
assumendo in prima persona l’impegno di completarne la realizzazione entro il termine
massimo di un decennio.
In primis, la richiesta al Provveditorato alle Opere Pubbliche di nuovi stanziamenti in
conto riparazioni dei danni di guerra, a fronte dei cinquanta milioni di lire ottenuti per l’esercizio
finanziario 1946 e dei cento erogati per la ricostruzione del museo statale, la Pinacoteca
di Brera, che la Sovrintendente alle Gallerie della Lombardia, Fernanda Wittgens, era
riuscita a far inserire tra i provvedimenti ministeriali d’urgenza 3.
In secondo luogo, l’attuazione del piano di riordino delle collezioni civiche approntato sin
dal luglio 1946 e subito confortato dagli autorevoli consensi del Direttore Generale alle Antichità
e Belle Arti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, del Sottosegretario, Carlo Ludovico Ragghianti,
e dei membri della commissione consultiva appositamente istituita dalla Giunta municipale,
tra cui Roberto Longhi, Rodolfo Pallucchini e Paolo D’Ancona. In tal senso, è significativo
segnalare il sopralluogo genovese svolto da Costantino Baroni e Ludovico Belgiojoso,
come dire dallo storico dell’arte-ordinatore e dall’architetto-progettista, nella giornata
del 2 giugno 1951 «allo scopo di esaminare minutamente sistemi e materiali serviti per
la nuova edizione del Museo di Palazzo Bianco, per ciò che ne poteva emergere di istruttivo
ai fini della complessa opera di ordinamento e allestimento del nostro museo» 4.
Terza priorità individuata nel promemoria, la scelta dei progettisti incaricati di dirigere
i lavori di riallestimento del Castello Sforzesco e di costruzione ex novo del Padiglione
d’Arte Contemporanea, concepito da Baroni come Kunsthalle, dunque flessibile, luminoso
e tecnologizzato quasi ad avverare, con oltre dieci anni di ritardo, l’utopia della
“neutralità senza tempo” emersa al Congresso internazionale di museografia tenuto a Madrid
nel 1934 5.
Il quarto e ultimo punto si richiamava direttamente alla funzione di educazione visiva del
museo e alle sue finalità pedagogiche, presupposti fondanti dell’allora vivacissimo dibattito
sulla “socialità dell’arte”, sostenendo con forza il dovere morale, prima che istituzionale, dei
funzionari della tutela a incrementare le collezioni storiche attraverso una liberale politica di
nuove acquisizioni.
Forte di questa consapevolezza e della momentanea insufficienza dei fondi statali, Baroni
riusciva ad assicurare alle Raccolte d’arte del Comune di Milano l’acquisto della Pietà
Rondanini di Michelangelo ratificato, il 1° ottobre 1952, al termine di una lunga contesa
con gli eredi Vimercati Sanseverino e con la Sovrintendente alle Gallerie della Lombardia,
139

140 Fernanda Wittgens, che voleva donarla alla sua Brera parzialmente riaperta nel giugno 1950
anche per poter accogliere il turismo internazionale in arrivo con l’Anno Santo.
Vessillo e attrattiva del “museo vivo”, la Pietà integrava le raccolte comunali in maniera
tanto eccellente, scriveva Baroni, «là dove la loro didattica [esemplarità] si presentava più
fragile, [da] pareggiare l’afflusso estatico di turisti al “Cenacolo” Vinciano alle Grazie ovvero
alla “Pietà” del Giambellino a Brera» 6. «Quando a un museo capita una simile fortuna»,
amava ripetere, «non c’è che da pensare il museo come nuovo» 7.
Traslato dalla dimora romana degli eredi Vimercati Sanseverino alla Galleria Borghese,
dove la Direttrice, Paola Della Pergola, volle esporlo pubblicamente per l’intero mese di ottobre
1952 8, il marmo faceva il suo ingresso nella Sala delle Asse del Castello Sforzesco salutato
dalla prosa rondista di Riccardo Bacchelli 9. Veniva poi collocato nella più raccolta
Cappella Ducale secondo il suggerimento di Giacomo Manzù, che ne aveva eseguito la pulitura
coadiuvato dal Laboratorio di restauro del Comune 10.
Provvisoriamente scorporata dall’incongrua ara romana, che la sosteneva per gusto del
conte Roberto Vimercati Sanseverino 11, la scultura cinquecentesca poteva finalmente essere
contemplata dal pubblico milanese. In una Cappella Ducale non ancora abitata dalla
“Madonna del Coazzone” di Pietro Solari, posta da BBPR a colloquio con il gruppo
mariano proveniente da Desio 12 soltanto in seguito alla scelta della Sala degli Scarlioni come
dimora definitiva della Pietà – e non a caso la Sala degli Scarlioni che conclude il percorso
del Museo d’arte antica dal punto di vista fisico e, insieme, concettuale è stata l’ultima
ad essere allestita benché la Pietà fosse stata acquisita già nel 1952 –, la scultura si
ergeva su un semplicissimo dado, stagliata contro un antico velluto crèmisi venduto dal
mercante tessile Disegni al Comune di Milano per interessamento di Paola Della Pergola
(fig. 1); lo stesso che ancora fa da sfondo alla “Madonna col Bambino”, secondo la
“trovata espositiva” di BBPR 13 (fig. 2).
È un verbale del settembre 1953, sottoscritto da Baroni e dai Soprintendenti alle Gallerie
e ai Monumenti Luigi Crema e Gian Alberto Dell’Acqua, a ribadire il carattere di priorità
attribuito alla sistemazione del capolavoro e a individuarne la sede più idonea nella Sala
degli Scarlioni in virtù dell’ubicazione conclusiva rispetto alla cronologia delle opere e del
percorso al pianterreno, ma soprattutto dei vani ampi, più neutri e flessibili rispetto ai pittoreschi
ambienti del Castello 14. «La Pietà Rondanini», si legge nel verbale, «esige di essere
presentata entro un vano architettonico espressamente dimensionato [...]. Tale vano, anche
per i mezzi con i quali sarà realizzato, deve suscitare l’impressione di un raccoglimento quasi
religioso attorno al grande capolavoro, in totale isolamento dal resto del museo» 14 (fig. 3).
Le prime indicazioni fornite nel resoconto, contestualmente al quale Baroni non esitava
ad autorizzare lo sfondamento delle volte dei sotterranei corrispondenti alla Sala degli Scarlioni
per rendere funzionali alla presentazione della Pietà quattro diversi livelli espositivi,
suggeriscono pertanto di realizzare in prossimità del passaggio pensile che attraversa il Cortiletto
della Fontana, trasferita qui dalla Corte Ducale per consentire una fruizione sinestetica
dell’opera 15, un vano «chiuso da muri e provvisto di lucernari che tengano conto della
esigenza di illuminazione serale [quanto dei] dannosi effetti di controluce».
Per attenuare e diffondere l’intensità della luce naturale, i redattori del verbale suggerivano
ai progettisti di distanziare il vano dalla bifora e «di apporre all’interno dello sguincio,
allineato con la parete, un nuovo serramento dai vetri opachi».

Fig. 1. La sistemazione della Pietà
Rondanini nella Cappella Ducale
del Castello Sforzesco di Milano
suggerita da Giacomo Manzù, che
ne aveva eseguito la pulitura coadiuvato
dal Laboratorio di restauro
del Comune. Provvisoriamente
scorporata dall’ara romana che la
sosteneva per gusto del conte Roberto
Vimercati Sanseverino, la
scultura poteva essere contemplata
dal pubblico milanese, elevata su
un semplice dado e stagliata contro
un antico velluto crèmisi venduto
dal mercante tessile Disegni al Comune
di Milano per interessamento
della Direttrice della Galleria Borghese,
Paola Della Pergola (Milano,
Civico Archivio Fotografico).
Fig. 2. La Cappella Ducale teatro,
dal marzo 1956, di una delle spettacolari
“trovate espositive” realizzate
da Costantino Baroni e BBPR nel
Museo d’arte antica del Castello
Sforzesco. Rivestita per un terzo della
sua altezza da un intonaco di colore
neutro che stempera lo stile tardogotico
degli affreschi interamente
restaurati, e pavimentata con lastre
di beola grigia, la Cappella ambienta
il dialogo mistico tra la “Madonna
del Coazzone” di Pietro Solari
e la “Madonna col Bambino” proveniente
da Desio, montata sullo
stesso velluto crèmisi che faceva da
quinta alla Pietà Rondanini nella
precedente collocazione (Milano,
Civico Archivio Fotografico).
141

142
Fig. 3. La Sala degli Scarlioni in fase di riallestimento. Sono visibili: la struttura in cemento armato cui verrà ancorato
il controsoffitto, i dislivelli pavimentali ricavati dalla demolizione delle volte dei sotterranei – poi lastricati
in pietra trachite –, l’affresco beltramiano bianco e morello “a scaglioni” che dà il nome alla Sala – poi scialbato
–, gli ingombri delle sculture del Rinascimento lombardo da collocare – i pilastrini di Tommaso Cazzaniga e
il sarcofago di Gaston de Foix del Bambaja –, il telaio della nicchia esagonale in pietra serena e la parete in gesso
dell’altezza e dello spessore di quella definitiva in legno di ulivo (Milano, Civico Archivio Fotografico).
Accessibile attraverso «una porta di particolare dignità stilistica», identificata nello stipite
calcareo pervenuto al Museo da un edificio rinascimentale in corso Magenta, il vano
avrebbe dovuto «essere ulteriormente ristretto mediante intelaiatura lignea come d’uso nel
Cinquecento veneziano» e realizzato in materiale lapideo secondo una tecnica muraria riferibile
a maestranze toscane opportunamente coadiuvate dalla consulenza scientifica di Piero
Sanpaolesi, il Soprintendente ai Monumenti della Toscana occidentale che aveva trasferito
con successo il Museo nazionale di Pisa nel restaurato convento di San Matteo.
Trae origine da queste indicazioni una fitta sequenza di “apprestamenti provvisori” dei
quali il Civico Archivio Fotografico di Milano serba memoria, condotti da Baroni con l’unico
ausilio di una copia in gesso dell’opera montata su carrello mobile 16 (fig. 4), nell’intento
di definire l’incidenza della luce naturale sulla superficie gradinata del marmo capace
di rendere la fruizione della Pietà esperienza ineffabile.
Contrariamente alle soluzioni realizzate nelle prime quattordici sale del Museo d’Arte
Antica, l’allestimento della Pietà respingeva qualsiasi ambientazione evocativa di gusto tardoromantico
per tradurre in immagine i postulati neo-idealistici crociani che, negando la
possibilità di una mediazione tra fruitore e opera d’arte, tra opera d’arte e suo contesto storico,
finiscono col determinare l’estraniamento e la rarefazione del capolavoro.

Fig. 4. Uno degli innumerevoli “apprestamenti provvisori” sperimentati da Costantino Baroni nella Sala degli
Scarlioni – con l’unico ausilio di una copia in gesso dell’opera montato su un carrello mobile – per definire le
coordinate spaziali e luminose funzionali alla piena intelligenza del capolavoro. In fondo, il profilo dell’unica bifora
di epoca medievale del Castello, utilizzata da Luca Beltrami come prototipo per la ricostruzione della ornamentazione
esterna in terracotta delle altre finestre (Milano, Civico Archivio Fotografico, Foto Mario Perotti - n.
inventario 1418).
Riqualificata mediante una spettacolare tecnica di montaggio di pochi e peculiari elementi
– il controsoffitto in legno di noce a quattro spioventi, i dislivelli pavimentali lastricati
di pietra trachite, il breve lacerto ad affresco bianco e morello –, la Sala degli Scarlioni accoglie
ancora oggi i visitatori con l’evidenza delle sue opere silenti e dei suoi spazi “metafisici”,
convogliandoli nello stretto andito che si schiude fra la nicchia in legno di ulivo e l’altra
esagonale in pietra serena, trasparente omaggio, come l’architrave di concezione toscana proposto
nel 1953, alla cultura di provenienza dell’opera (fig. 5).
Ma la consapevolezza del significato di questo allestimento, di fondamentale importanza
per la storia della critica d’arte prima ancora che dei musei in Italia, non ha risparmiato la Sala
degli Scarlioni dal diffuso e in larga parte ingiustificato moto di insofferenza che sembra colpire,
significativamente, proprio gli esiti più paradigmatici raggiunti dai musei del Dopoguerra.
È di poche settimane fa la notizia che Piero Boccardo, conservatore di Palazzo Rosso, ha
reso esecutivo il progetto di restauro, elaborato dallo Studio Libidarch di Torino, del complesso
recuperato da Caterina Marcenaro e Franco Albini tra 1953 e 1961.
Nel clamore sollevato da quotidiani e stampa di settore 17, anche la Sala degli Scarlioni è
tornata, a poco più di quarant’anni dall’ordinamento Baroni-BBPR, luogo di spettacolare
progettazione.
143

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Fig. 5. La Sala degli Scarlioni nel 1956. Dal plafond in legno di noce a quattro spioventi, innestato in corrispondenza
dei peducci delle volte non più esistenti, pendono due filari di lampade cilindriche in ottone brunito e vetro
satinato. A destra, il dialogo negato tra due sculture del Rinascimento lombardo: il sarcofago di Gaston de
Foix e il busto di Mora attribuito a Cristoforo Lombardo. In fondo a sinistra, l’accesso al passaggio pensile che
attraversa il Cortiletto della Fontana, qui traslata dalla Corte Ducale per consentire una fruizione sinestetica e crociana
del capolavoro (Milano, Civico Archivio Fotografico).
La Direzione centrale Cultura e Musei del Comune di Milano ha infatti conferito incarico
ad Alvaro Siza di realizzare la proposta di riallestimento elaborata nell’ottobre 1999 nell’ambito
di un laboratorio di idee che ha visto la partecipazione ad invito di una rosa di progettisti
annoverati nel gotha dell’architettura internazionale 18. Oltre Siza, reduce dalla mostra
dedicata al suo pensiero progettuale nella Basilica Palladiana di Vicenza, Gabetti e Isola,
Enric Miralles, Hans Hollein e Umberto Riva, hanno elaborato in una sola giornata di
lavoro cinque soluzioni per il riallestimento della Pietà e delle altre sculture del Rinascimento
lombardo esposte nella Sala degli Scarlioni.
Roberto Gabetti e Aimaro Isola hanno proposto una rievocazione dell’ambiente così come
concepito da Luca Beltrami prima dell’intervento BBPR, immaginando un ripristino filologico
della decorazione ottocentesca “a scaglioni” e della quota originaria di pavimentazione.
L’introduzione al centro della Sala di una cella ripartisce lo spazio in due zone destinate
ad accogliere l’arca del vescovo Battista Bagaroto di Andrea Fusina e la ricomposizione
dell’insieme di sculture che ornavano il sepolcro di Gaston de Foix del Bambaja. All’inter-

no della cella trova alloggio la Pietà, illuminata artificialmente con un effetto drammatico
non dissimile da quello prodotto dal dispositivo Castiglioni.
Enric Miralles ha invece estratto la Pietà dalla Sala degli Scarlioni per installarla nello
spazio en plein air della loggia al pianterreno della Corte Ducale, cui si sarebbe dovuto accedere
direttamente dalla Cappella.
Hans Hollein ha ricollocato la Pietà nella Cappella Ducale stagliandola contro una superficie
litica sormontata da una trave di acciaio nell’intento di evocare una crocifissione
simbolica e consentire una visione esclusivamente frontale della scultura.
L’ex tempore di Umberto Riva ha puntato sul percorso, sostituendo alla gradinata un sistema
di rampe che non avrebbe consentito la percezione simultanea dei due gruppi, la tomba
di Gaston e la Pietà, separati da piattaforme di differente altezza e illuminati naturalmente.
Alvaro Siza, infine, ha immerso la Pietà in uno spazio minimalista, astratto e atemporale,
epurato di quei pochi e peculiari elementi predisposti da BBPR: eliminato il controsoffitto
e il rivestimento di pietra trachite, annullata la decorazione beltramiana, privata dell’attuale
basamento, la scultura viene di fatto riconsegnata a un allestimento più ermetico e
neo-idealista del precedente. Un allestimento che torna a negare qualsiasi possibilità di mediazione
tra fruitore e opera d’arte come tra opera d’arte e suo contesto storico, decretando
ancora una volta, dopo quasi cinquant’anni, l’estraniamento e la rarefazione del capolavoro
19 (fig. 6).
A distanza di un triennio, gli esiti del “Workshop Michelangelo” appaiono modesti, soprattutto
se confrontati con le scelte forti scaturite nel secondo dopoguerra da quella che è
stata a ragione definita una “alleanza etica” 20 tra lo storico dell’arte-ordinatore e l’architettoprogettista;
alleanza rinnovata da Costantino Baroni e BBPR nel corso di un costante confronto,
come testimoniano i progetti esecutivi, lo studio dei percorsi, il monitoraggio fotografico
dello stato dei lavori, i verbali delle riunioni e i frequenti scambi epistolari confluiti
tra le carte dello studioso.
Dalla lettura delle cinque ipotesi progettuali emerge comunque con chiarezza l’interrogativo
di fondo: cosa conservare e cosa ripensare di un allestimento storico laddove questo
non risponda più alle odierne modalità di fruizione determinate dal turismo di massa,
e all’attuale fisionomia delle collezioni, incrementate da acquisti e ritrovamenti – uno
degli obiettivi del Workshop era, tra l’altro, ricomporre il sistema decorativo della tomba
di Gaston e, contestualmente, riaccostare alla Pietà la testa michelangiolesca pertinente alla
prima versione, individuata da Bruno Mantura in una collezione privata romana nel
1973 21.
Al di là degli specifici interventi nei diversi allestimenti storici, che andrebbero identificati
secondo parametri omogenei – in presenza di quali condizioni un allestimento può dirsi
“storico”? –, censiti e fotografati, pare che l’unica alternativa possibile al museo di se stesso,
esito ultimo di un’ingiustificata ansia di rinnovamento che finisce per anteporre l’identità
dell’architetto a quella, storica, del museo come, d’altro canto, di un non meno acritico
conservatorismo, consista nel percorrere la strada mediana sacrificando le iniziative
straordinarie alla manutenzione ordinaria degli allestimenti come delle opere, procedendo a
una messa a norma degli impianti (di sicurezza, antincendio, elettrici) 22 non troppo invasiva,
avendo cura, ad esempio, di non alterare l’aspetto e l’ubicazione dei corpi illuminanti e
145

146
Fig. 6. La prima versione del progetto di riallestimento della Sala degli Scarlioni proposto da Alvaro Siza in occasione del
“Workshop Michelangelo”, il laboratorio di idee organizzato dalla Direzione centrale Cultura e Musei del Comune di Milano
nell’ottobre 1999. La Sala degli Scarlioni, ridotta a spazio astratto ed atemporale, trova il suo perno nella Pietà Rondanini,
collocata al centro di un’area lievemente ribassata di tre metri per lato – in seguito ripensata come circolare –, rischiarata
da illuminazione mista a prevalenza naturale (Foto Margherita Bottoli e Ramak Fazel, in “Domus”, marzo 2000).

di utilizzare dispositivi effimeri, mobili e a basso impatto visivo (in vetro, in plexiglass) ove
necessitano supporti esplicativi, rampe per disabili, sostegni, corrimano.
Nello specifico della Sala degli Scarlioni, sembrerebbe opportuno disporre un accesso
parcellizzato (8-10 persone alla volta) affinché le modalità di fruizione possano approssimarsi
a quelle originarie visualizzate graficamente da Enrico Peressutti (fig. 7), consentendo
così a ciascun visitatore di intrattenere con le opere un dialogo privato, nel costante richiamo
uditivo della fontana appositamente traslata dalla Corte Ducale.
Per non tradire l’ermeticità di un ordinamento fondato sul principio crociano della immediatezza
tra fruitore e opera d’arte, i supporti didattici di recente collocazione andrebbero
forse sostituiti da più agili depliant introdotti da una nota, breve ma incisiva, sulla storia
e sul significato dell’allestimento, nella consapevolezza che non si può pretendere di tutelare
ciò di cui non si conosce pienamente il valore di testimonianza.
Riguardo alla funzionalità del museo: come rendere flessibili ordinamenti che, malgrado
i presupposti teorici iniziali, non hanno vissuto, dal giorno della loro inaugurazione ad
oggi, alcuna significativa movimentazione delle opere? Non esiste a priori alcuna risposta a
questo interrogativo che delinea, in sostanza, due principali modalità di intervento – il ri-
Fig. 7. L’angolazione originale suggerita da Enrico Peressutti con pochi, essenziali tratti di pastello, fa coincidere
il punto di vista di chi guarda il disegno con il fulcro fisico e simbolico della Sala, rappresentato dalla Pietà
Rondanini. A distanza di quasi cinquant’anni dall’inaugurazione del Museo d’Arte Antica, i “colloqui a tu per tu
con l’opera d’arte” immaginati da Baroni si sono trasformati in una fruizione collettiva (Milano, Archivio Studio
Architetti BBPR).
147

148 pensamento radicale o, d’altro canto, l’aggiornamento rispettoso dell’allestimento storico –
ma per iniziare a formulare ipotesi concrete, progettualmente qualificate e concettualmente
corrette, occorre di necessità tornare ad affiancare gli storici dell’arte e gli archeologi agli
architetti, facendo dialogare da subito contenuto e contenitore.
1 Consapevole della popolarità e
dell’efficacia della comunicazione
radiofonica, Baroni vinceva il proprio
naturale riserbo per invitare gli
ascoltatori all’inaugurazione di una
mostra o alla visita di un museo,
benché in fase di ricostruzione. Fra
le carte della Miscellanea Baroni
(d’ora in poi MB) è possibile rintracciare,
oltre al testo della comunicazione
sullo stato dei lavori al
Castello Sforzesco trasmessa da Radio
Milano, qui parzialmente riprodotto,
la trascrizione integrale
dell’intervista con Aldo Crivelli,
Ispettore cantonale ai monumenti
e scavi di Locarno, rilasciata a Radio
Svizzera Italiana alla vigilia dell’inaugurazione
della mostra di pittura
veneziana nell’aprile 1947. La
mostra, allestita al Museo cantonale
di Losanna a cura di Rodolfo
Pallucchini, fondatore in quello
stesso anno della rivista “Arte Veneta”),
metteva in immagine il Viatico
per cinque secoli di pittura veneziana
pubblicato da Longhi nel
1946, proponendo una selezione di
oltre duecento opere provenienti
da musei comunali, chiese e collezioni
private veneziane. La recensione
dell’evento sulle colonne dell’edizione
milanese de “Il Popolo”,
per il quale Baroni scriveva dall’ottobre
1945, è a firma di Silvio
Branzi, Capolavori veneti in mostra
a Losanna, 20 aprile 1947, che sostituiva
il corrispondente quando le
responsabilità istituzionali del cantiere
del Castello lo trattenevano in
città.
2 In MB, un cospicuo nucleo di
materiali di studio prevalentemente
inediti donati da Giovanni Baro-
ni alle Raccolte d’arte del Castello
Sforzesco all’indomani della prematura
scomparsa del figlio, nel
marzo 1956. Consultata nella sua
unitarietà da chi scrive nei mesi di
febbraio-marzo 1999 in preparazione
della tesi di laurea (L’azione
innovatrice di Costantino Baroni
(1905-1956): il riordino del sistema
museografico milanese e la grande
stagione delle esposizioni in Palazzo
Reale negli anni della ricostruzione,
Università di Roma “La Sapienza”,
A.A. 1998-1999), la Miscellanea è
attualmente divisa tra la Direzione
d’arte e la Direzione d’arte applicata,
create alla fine degli anni Sessanta
con competenze scientifiche
e amministrative autonome nel
piano di riorganizzazione e decentramento
della Soprintendenza del
Castello.
3 Su Brera riferisco dagli stralci di
alcuni capitoli in bozza di Giovanna
Ginex – che ringrazio – Per una
biografia ragionata di Fernanda
Wittgens, inedita.
4 Le finalità del sopralluogo, unitamente
alla richiesta di rimborso
delle spese di viaggio indirizzata alla
Ripartizione Educazione del Comune,
sono formalizzate in un atto
confluito nell’Archivio Civico Amministrativo
(d’ora in poi ACM)
[in ACM, Atti del Comune di Milano,
prot. gen. 257 del 5 giugno
1951]. All’indomani della visita al
museo civico genovese, Baroni
pubblica un interessante resoconto
su “Il Popolo” [Nei musei di Genova
si respira aria nuova, 22 giugno
1951] in cui, pur misurando lo
scarto stilistico rispetto al Castello,
«[dove] la molteplicità ed eteroge-
neità dei singoli problemi sollecita
un gioco di trovate inventive molto
più ricco e difficile», definisce l’intervento
di Franco Albini «il più recente
e ardito esperimento in materia».
5 Al Congresso, organizzato dall’Institut
International de Coopération
Intellectuelle sul tema Expositions
permanentes et Expositions
temporaines, la voce ufficiale dell’Italia
non era quella dei direttori di
museo ma, significativamente, del
critico d’arte Ugo Ojetti e degli archeologi
Roberto Paribeni e Amedeo
Majuri. In proposito, M. Dalai
Emiliani 1982, Musei della ricostruzione
in Italia, tra disfatta e rivincita
della storia, in Carlo Scarpa a Castelvecchio,
a cura di L. Magagnato,
Edizioni di Comunità, Milano, pp.
149-170.
6 C. Baroni 1956, Significato di un
recupero, in “Città di Milano”, n. 3,
marzo, p. 146.
7 C. Baroni, Interesse del Museo,
ibidem, p. 184.
8 La cronaca degli eventi è narrata
da Paolo Arrigoni, allora Vicedirettore
delle Raccolte d’arte del Comune
di Milano: Doni ed acquisti
dei civici musei di Milano nel dopoguerra,
in “Bollettino d’arte”, gennaio-marzo
1954, pp. 79-81.
9 R. Bacchelli 1954, Per la traslazione
della Pietà Rondanini di Michelangelo
20 dicembre 1952 nella
Sala delle Asse in Castello, stamperia
Cesare Tamburini, Milano.
10 La circostanza è riferita da Baroni
nella relazione sull’attività svolta
dalle Civiche Raccolte d’arte durante
l’anno 1952, indirizzata alla
Ripartizione Educazione [in ACM,

Atti del Comune di Milano, prot.
gen. 27 del 13 gennaio 1953].
11 Sulle vicende delle sculture dopo
il 1801, anno della morte del marchese
Giuseppe Rondinini [sic]: il
catalogo dei marmi antichi redatto
nel 1964 da Enrico Paribeni [in Palazzo
Rondinini, a cura di Luigi Salerno,
Roma 1964] e il recente contributo
di Brigitte Kuhn, Le antichità
della collezione Rondinini al
Convegno internazionale di studi
“Fonti e documenti per la storia del
collezionismo in Italia e in Europa
Centrale”, Roma, 20-23 febbraio
2002.
12 L’ensemble di ventisette sculture
campionesi provenienti dal parco di
Villa Tittoni a Desio e, ancor prima,
da edifici sacri andati distrutti
in seguito alle soppressioni giuseppine
e napoleoniche, era stato acquistato
dal Comune, su indicazione
di Costantino Baroni, nel 1950.
13 Con una lettera da Roma del 27
febbraio 1953 la Direttrice della
Galleria Borghese, Paola Della Pergola,
sollecitava Baroni «in proposito
all’acquisto da parte del Comune
del velluto antico di proprietà
del Sig. Disegni» che ella
stessa aveva portato in visione a
Milano, su invito del collega.
14 Il verbale, cinque pagine dattiloscritte
prive di protocollo, è custodito,
insieme alla lettera sopra citata,
tra i documenti relativi all’anno
1953 dell’Archivio Civico Amministrativo
in deposito presso la Direzione
delle Raccolte archeologiche
e numismatiche.
15 L’espediente trova la sua matrice
filosofica nella teoria dell’espressione
estetica come sintesi organica
delle impressioni sensibili, formulata
da Benedetto Croce nell’Estetica
come scienza dell’espressione e linguistica
generale. Teoria e storia, Remo
Sandron, Milano-Palermo-Napoli
1902; a cura di G. Galasso,
Adelphi, Milano 1990.
16 Il divieto di trarre calchi da originali,
sancito dall’art. 51 della legge
n. 1089 del 1° giugno 1939, indusse
Baroni a chiedere in prestito a
Francesco Messina, tramite l’autorità
del sindaco di Milano, Virgilio
Ferrari, la copia antica di sua proprietà.
Il diniego dello scultore, motivato
dal pregio storico-artistico
del calco, costrinse Baroni a commissionare
per centomila lire una
fedele riproduzione dell’opera al
formatore dell’Accademia di Brera
Cesare Gariboldi [in ACM, Atti del
Comune di Milano, prot. gen. 293
del 26 giugno 1953].
17 All’incontro pubblico sulle proposte
per un nuovo allestimento
della Pietà Rondanini, tenutosi il 7
ottobre 1999 al Teatro Paolo Grassi
di Milano, cui hanno preso parte
oltre agli architetti, François
Burkhardt, Gae Aulenti, Vittorio
Gregotti, Arnaldo Pomodoro,
Emilio Tadini ed Armando Besio,
hanno fatto seguito numerosi articoli
allineati nel sostenere l’«urgenza
di ripensare l’allestimento
storico» e di «ridare voce a Michelangelo»:
Ada Masoero, Una Pietà
privatissima, in “Il Giornale del-
l’Arte”, ottobre 1999; Marina
Mojana, Per Michelangelo in “Il
Sole24Ore”, supplemento domenicale
3 ottobre 1999; Pierluigi
Panza, Pietà Rondanini cambia casa,
in “Corriere della Sera”, 3 ottobre
1999; Paolo Vagheggi, L’arte
degli allestimenti, in “La Repubblica”,
4 ottobre 1999; A. Besio, In
conclave con Michelangelo, in “La
Repubblica”, 5 ottobre 1999; A.
Besio, Nuova Pietà, ecco le prime
idee, in “La Repubblica”, 6 ottobre
1999; A. Besio, Il giorno del giudizio
per la nuova Pietà, in “La Repubblica”,
7 ottobre 1999; A. Besio,
Un nuovo posto per la Pietà, in
“La Repubblica”, 8 ottobre 1999;
Pierluigi Panza, Pietà Rondanini,
architetti a confronto, in “Corriere
della Sera”, 8 ottobre 1999.
18 Gli obiettivi e la cronaca della
giornata di lavoro, nella recensione
di François Burkhardt, Workshop
Michelangelo, Pietà Rondanini, in
“Domus”, marzo 2000, pp. 89-96.
19 Un’anteprima sul progetto di Siza
in “Abitare”, aprile 2000, pp.
75-76.
20 M. Dalai Emiliani, Musei della
ricostruzione in Italia […] in op.
cit., p. 152.
21 B. Mantura 1973, Il primo Cristo
della Pietà Rondanini, in “Bollettino
d’Arte”, pp. 199-201.
22 Come sancito dall’Atto di indirizzo
sui criteri tecnico-scientifici e sugli
standard di funzionamento e sviluppo
dei musei, D.L. n. 112/1998 elaborati
dal gruppo di lavoro istituito
con D.M. 25-7-2000.
149

Museo e forme di gestione.
L’Accademia Carrara di Bergamo
Francesco Rossi
Accademia Carrara – Bergamo
RIASSUNTO
Nell’intervento si presenta un’approfondita riflessione sulle diverse forme di gestione che l’Accademia
Carrara di Bergamo ha conosciuto nel corso della sua lunga esistenza, a partire dall’istituzione di una fondazione
sul finire del XVIII secolo. Questa rivisitazione costituisce la necessaria premessa per giungere alla
definizione della formula più idonea che l’Accademia dovrà assumere nel prossimo futuro. A questo
scopo sono state esaminate diverse soluzioni gestionali, analizzandone i benefici, ma anche gli aspetti negativi
e cercando di comprendere le motivazioni che attualmente orientano i musei verso gestioni di tipo
privatistico.
In conclusione si sottolinea che ognuna delle soluzioni possibili – compresa quella prospettata per
l’Accademia – debbono tenere nel necessario conto la situazione storica ed esperienziale di ciascuna istituzione,
facendone derivare la non applicabilità di un unico modello, per quanto di successo, a tutte le
singole realtà.
SUMMARY
The paper analyses the different management forms adopted by the Accademia Carrara of Bergamo throughout
its long history starting from the setting up of a foundation in the late 18th century. This review is the necessary
preliminary step before defining the most suitable formula that the Academy shall implement in the next
future. To this end several management solutions have been analysed, assessing both costs and benefits and trying
to understand the reasons that today guide museums towards private management forms.
In conclusion, the paper points out that each one of the possible solutions – including the one suggested by
the Academy – must necessarily take into account the specific historical conditions and experiences made by each
individual institution. Hence, it is unthinkable that one single model – although a successful one – should apply
to all individual realities.
PREMESSA
Una riflessione sulle forme di gestione di un museo trova nella Accademia Carrara di Bergamo,
e in me in particolare, uno specialissimo punto di osservazione e di verifica: e ciò per
la buona ragione che, nei suoi più che duecento anni di storia, il Museo che ho la ventura
di dirigere ha sperimentato almeno cinque diverse forme di gestione, quattro delle quali ho
potuto, in trent’anni di Direzione, verificare di persona.
Ho dunque accolto volentieri l’invito a relazionare sui dati esperienziali fin qui raccolti,
e a prospettare le soluzioni gestionali che stiamo in questa fase proponendo all’Amministrazione
Comunale di Bergamo: nella convinzione che la vicenda dell’Accademia Carrara
sia in un certo senso esemplare, ma anche con l’avvertimento che essa è talmente connessa
a situazioni specifiche, a livello sia patrimoniale che ambientale, da escludere che le even-

tuali vie d’uscita siano automaticamente “esportabili”. Vorrei cioè apportare un qualche argomento
di riflessione, non prospettare soluzioni valide per tutti e in ogni occasione.
I. ACCADEMIA CARRARA: ESPERIENZE DI GESTIONE
I.1 Prima fase (1796-1958): Fondazione
L’Accademia Carrara fu fondata nel 1796 dal conte Giacomo Carrara: era costituita da una
Galleria dei quadri e da una Scuola di Pittura, che in attuazione del testamento del conte furono
affidate in gestione ad una Commissarìa di cinque membri da lui stesso nominata, con
l’obbligo di successione per cooptazione. Si trattava quindi di una forma di gestione privatistica,
analoga alle attuali Fondazioni, il cui fondo di dotazione era costituito essenzialmente
da rendite – fondiarie e non – garantite dal patrimonio del fondatore, e consentì la
gestione delle due strutture (Pinacoteca e Scuola) fino al 1958, anche se con alti e bassi anche
vistosi dovuti da un lato ad acquisizioni patrimoniali, e dall’altro ad investimenti mal
riusciti ed alla progressiva svalutazione delle rendite.
I.2 Seconda fase (1958-1979): Istituto Speciale
Nel 1958, a seguito delle difficoltà finanziarie ormai irrecuperabili in cui versava l’antica
Commissarìa, fu firmato un Atto di Immissione del Comune di Bergamo nella titolarietà della
Accademia Carrara: lasciando impregiudicato il problema della proprietà del patrimonio
(artistico e non), che non fu trasferita per motivi essenzialmente fiscali, il Comune di Bergamo
assumeva l’onere finanziario della gestione, che fu affidata ad un Consiglio di Amministrazione
di 15 membri (cinque come eredi della Commissarìa, dieci di nomina comunale).
Tale Consiglio operava con larghissima autonomia, procedendo per Delibere proprie a
firma del Presidente e operando su un budget inserito nel Bilancio del Comune e trasferito
con specifico provvedimento annuale: la verifica gestionale era garantita da un Bilancio di
previsione ed un Bilancio consuntivo, entrambi annuali e trasmessi alla Amministrazione
Comunale dal Consiglio di Amministrazione.
In questa fase ebbe inizio, nel 1973, il mio impegno in Accademia Carrara, e ho potuto
quindi sperimentare per più di un lustro una forma di gestione che si imparentava a quella
degli Istituti Speciali. Dotata di larghissima autonomia di spesa, ma del tutto dipendente
dal Comune sul piano dei finanziamenti, l’Accademia Carrara aveva il suo fulcro pressoché
esclusivo nel Consiglio di Amministrazione, non lasciando alcun margine di autonomia
operativa né al Direttore né al Segretario-Ecomomo, i cui compiti erano – sulla carta almeno
– esclusivamente esecutivi delle Delibere.
I.3 Terza fase (1979-1990): Gestione in Economia
Nel 1979, in attuazione di un DdL che aboliva di fatto le Aziende Municipalizzate, il Comune
di Bergamo subentrava nella gestione diretta dell’Accademia Carrara, assumendo su
di sé, e sui suoi uffici ed organi decisionali, le competenze che erano state fin allora del Consiglio
di Amministrazione (che veniva regolarmente rieletto ed esprimeva decisioni, ma in
forma di parere obbligatorio e consultivo, non più deliberativo).
151

152 Di fatto, a parte alcuni diritti residui del Consiglio di Amministrazione, l’Accademia Carrara
fu da allora gestita come uno qualunque dei numerosi Uffici e Servizi del Comune di
Bergamo, secondo le procedure riassunte come “gestione in economia”: ogni decisione operativa
era quindi oggetto di una Delibera di Giunta, predisposta dal Direttore sulla base delle
indicazioni (obbligatorie ma non vincolanti) del Consiglio di Amministrazione. Fu questo
– ne ho cognizione diretta – un passaggio indubbiamente utile per quanto riguarda la definizione
e la verifica del bilancio, ma gravemente penalizzante sul piano della snellezza delle procedure,
della efficienza operativa e della possibilità di finanziamenti “aggiuntivi”.
I.4 Quarta fase (1990-2002): Gestione dirigenziale
Dal 1990 circa, in attuazione della Legge 241 e dell’insieme di provvedimenti noto come
“Leggi Bassanini”, buona parte delle competenze decisionali sono gradatamente passate alla
responsabilità diretta del Dirigente che, ferme restando le competenze residue del Consiglio
di Amministrazione, opera ora in delega diretta da parte del Consiglio Comunale.
In sostanza, il Dirigente elabora e presenta all’Amministrazione Comunale il programma
annuale, preventivamente approvato dal Consiglio di Amministrazione, il cui finanziamento
viene deliberato dalla Giunta nell’ambito del Piano Economico di gestione (PEG),
che è parte integrante del Bilancio Comunale. Una volta approvato il Bilancio, dal Consiglio
Comunale, il Dirigente cura l’attuazione del programma con lo strumento della Determinazione
Dirigenziale, che è immediatamente esecutiva finché resta negli ambiti – finanziari
e procedurali – previsti nel PEG; restano invece competenza della Giunta, e come
tali oggetto di Delibera, tutti quei provvedimenti – d’urgenza o di opportunità – che non
erano stati previsti a programma e/o non inseriti nel PEG annuale, così come restano al di
fuori delle competenze dirigenziali tutti gli interventi che siano riconducibili ai Servizi di
staff o alle competenze di altri uffici del Comune.
I.5 Quinta fase (1998-2002): Associazione onlus
Nel 1998, infine, è stato definitivamente approvato lo statuto della GAMeC, Associazione
onlus che ha assunto, in base ad una convenzione con il Comune di Bergamo, la gestione
delle attività della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, fondata nel 1991
come parte della Accademia Carrara. Si tratta di una gestione interamente privatistica,
supportata finanziariamente da un contributo del Comune e dalle quote dei Soci: se ne
fa cenno per dovere di completezza di informazione, sottolineando però come una tale
formula, certamente positiva per ciò che attiene talune attività “straordinarie”, non è tuttavia
estensibile alla gestione ordinaria ed istituzionale, e di conseguenza non verrà discussa
in questa sede.
II. VERSO UNA NUOVA GESTIONE DEL MUSEO
Negli ultimi anni, anche in forza di una esplicita indicazione espressa dalla Amministrazione
Comunale di Bergamo, il Consiglio di Amministrazione e la Direzione hanno affrontato
il problema di una diversa forma di gestione del museo, nella finalità di garantire quella
agilità operativa e quella rapidità di decisione che sono attualmente ostacolate dall’apparte-

nenza ad una struttura pubblica, e di cogliere più agevolmente talune opportunità di finanziamento
che si sono riscontrate negli ultimi tempi.
Per definire la formula più idonea, da proporre comunque al Comune di Bergamo per
l’approvazione, si è proceduto su due livelli di analisi. Da un lato, si è voluta verificare la
idoneità di talune soluzioni gestionali già proposte e sperimentate in altra sede, in una analisi
per così dire “in negativo”; dall’altro, si sono approfondite le motivazioni che spingono
generalmente, ora e nel nostro paese, verso una gestione privatistica, ma senza che vi sia accordo
sulla formula operativa più idonea: e si tratta di una analisi “in positivo”, nella cui
conduzione è risultata determinante una attenta considerazione del contesto patrimoniale
ed ambientale in cui l’Accademia Carrara si trova concretamente ad operare.
II.1 Formule gestionali “moderne”
Nell’ambito di quella analisi che si è qui definita “in negativo”, si sono preventivamente abbandonate
alcune formule gestionali come l’Azienda speciale, l’Istituzione, l’affidamento ad
Azienda esterna, l’Associazione onlus. Sarà opportuno riassumere le motivazioni di tale scelta,
per talune questioni di merito ma, soprattutto, come indicazioni di metodo: è in questa
fase, infatti, che è emersa chiaramente la necessità di rapportare alla realtà specifica dell’Accademia
Carrara ciascuna soluzione, e di valutarne quindi l’utilità non in termini astratti,
quindi in certa misura ideologici, ma in termini di economicità ed operatività, quindi estremamente
concreti.
II.2 Formule gestionali: Azienda, Istituzione
La Legge 241 del 1990, come è noto, prevede che taluni servizi fin qui gestiti “in economia”
dai Comuni possano acquisire una forte autonomia amministrativa con lo strumento
della trasformazione in Azienda Speciale o in Istituzione: sappiamo bene che alcune sperimentazioni
di attuazione sono state condotte in Italia, e si trattava quindi di verificarne l’attuabilità
e le potenzialità anche nel nostro caso.
Ora, è risultato subito evidente che una trasformazione dell’Accademia Carrara in Azienda
Speciale risultava improponibile, essendo prevista dalla Legge una condizione – il pareggio
di bilancio – che nessun museo in Italia può neppure porsi come obiettivo (salvo forse alcune
realtà caratterizzate da fortissima affluenza di pubblico come la Galleria degli Uffizi o gli
Scavi di Pompei); quanto alla Istituzione, essa presenta indubbi vantaggi di autonomia e snellezza,
ma alla fine si rivela ininfluente: identici miglioramenti gestionali si possono ottenere,
e si ottengono ormai da alcuni anni, con una oculata definizione dei progetti, una accurata
programmazione anche finanziaria, e infine un utilizzo sistematico e responsabile dello strumento
della Determinazione dirigenziale. Di fatto, quindi, le strade suggerite dalla Legge risultavano
o impraticabili, o non decisive al raggiungimento degli obiettivi.
II.3 Formule gestionali: Esternalizzazione, Associazione
Parallelamente è stata presa in esame l’ipotesi di un affidamento della gestione ad una Azienda
esterna, operante con criteri privatistici ed anzi – come recentemente proposto dal Ministro
Urbani per alcuni musei dello Stato – disposta ad affrontare un certo “rischio d’impresa”
in vista di una resa economica attiva. Le obbiezioni in merito si sono tuttavia rivelate
insormontabili a livello sia metodologico che, soprattutto, economico e finanziario.
153

154 Permangono infatti, ed anzi si accrescono una volta che si affronta il problema in termini
concreti, tutte le perplessità derivanti dalla difficoltà di separare nettamente la gestione
amministrativa e quella scientifica, o di definire i reciproci rapporti tra responsabili amministrativi,
tecnici e scientifici, ad esempio a livello di autonomia decisionale; e si rivela
gravido di rischi l’ambito della definizione di una “politica culturale” del museo, che inevitabilmente
un gestore privato tenderebbe a restringere nei grami confini delle iniziative economicamente
vantaggiose (o quanto meno suscettibili di auto-finanziamento). E tuttavia
l’argomento decisivo è il fatto che il giro d’affari presumibile per un museo come l’Accademia
Carrara, che può godere di un’affluenza media annuale di circa 30.000 visitatori, non
è tale da risultare appetibile per un investitore che ragioni in termini di utile di bilancio.
È infatti questa, al di là delle fantasie giornalistiche sui rischi di alienazione del patrimonio,
l’obbiezione più seria che è stata espressa sulla cosiddetta Legge Urbani, che risulterebbe
praticabile solo per alcune realtà museali di grandi dimensioni e prestigio. Per parte
mia posso riferire che, dai calcoli fin qui effettuati, risulta che la sola gestione del book-shop,
inclusiva anche di una certa quantità di gadget, può raggiungere il pareggio di bilancio con
una affluenza media annua di non meno di 25/30.000 visitatori: come è possibile che, con
un margine di utile potenziale così ridotto, un’azienda privata non solo assuma il rischio di
impresa ma si addossi anche i costi, ad esempio, della guardianía?
Di conseguenza si potrebbe legittimamente pensare, in una realtà come quella di Bergamo
e dell’Accademia Carrara, solo ad una forma di esternalizzazione di taluni servizi (ad es.
la guardianía, o il book-shop, o la Biblioteca e Fototeca), ma a patto che tale affidamento sia
comunque sostenuto da un finanziamento pubblico anche assai cospicuo: operazione che è
di fatto già in fase di realizzazione, anche a Bergamo, e che porta a qualche beneficio a livello
di efficienza, non di costi.
Restava infine l’ipotesi della trasformazione dell’Accademia Carrara in una Associazione
onlus, che presenta indubbi vantaggi sia a livello fiscale, sia per quanto attiene all’acquisizione
di risorse finanziarie “esterne”. Tuttavia, l’esperienza fin qui condotta per la gestione
della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, che come già riferito è affidata appunto
ad una Associazione onlus, ci ha convinti che tale strumento è idoneo ed efficace ove la finalità
sia quella di una forte attività propositiva, di tipo ostensivo e non, che può essere supportata
dall’intervento di finanziatori esterni occasionali, individuati volta per volta in relazione
ai progetti avviati: ma che esso rivela deficienze strutturali ove si tratti di una gestione
relativamente statica, legata alla fornitura di servizi stabili e continuativi, quali appunti
sono quelli forniti da un museo (o che un museo dovrebbe fornire).
III. LOGICA DI UNA GESTIONE PRIVATISTICA
L’analisi delle diverse forme di gestione ha tuttavia consentito di approfondire e chiarire le
motivazioni “in positivo” della scelta di una gestione privatistica che è ora perseguita in modo
quasi unanime, ma che non per questo può essere assunta in modo acritico: tanto più da
chi, come me, è profondamente convinto della natura essenzialmente pubblica di un “fornitore
di servizi” come è il museo, né dimentica la famosa definizione – di Andrea Emiliani –
di museo come forma anomala di servizio sociale. In realtà i vantaggi di una tale scelta risulta-

no inoppugnabili almeno in tre ambiti di elevata importanza strategica: e cioè a livello di razionalizzazione
della spesa, di investimenti e di articolazione delle forme di finanziamento.
III.1 Gestione budgetaria
Nel primo ambito, infatti, il passaggio da una gestione “in economia” ad una amministrazione
budgetaria consente di superare talune delle rigidità tipiche del sistema “comunale”,
ad esempio nella selezione, formazione e gestione del personale, o nella articolazione degli
orari di apertura del museo; o di dotarsi di strumenti operativi più moderni (utilizzo di tecnologia
avanzata, impegno a contratto di professionalità “esterne”, e così via) ponendosi come
obiettivo raggiungibile l’auto-finanziamento di veri servizi come la didattica museale,
l’educazione permanente, l’organizzazione del book-shop o della caféteria, la fornitura di fotografie
originali o di fotocolor (con relative concessioni di copyright), e così via.
La logica è che, ove la fornitura di un servizio “strutturale” risulti particolarmente onerosa,
una cospicua riduzione dei costi si può realizzare inserendosi in una prospettiva di gestione
su scala più vasta, cioè stabilendo convenzioni di partnership con aziende già attive
nello stesso campo: e basti solo l’esempio di taluni accordi – già operanti anche se talora non
privi di difficoltà irrisolte – tra musei e case editrici per la gestione dei book-shop, specie in
occasione di mostre temporanee.
III.2 Introiti e Investimenti
In secondo luogo, è noto che la legislazione sulla Finanza Locale in materia di destinazione
degli introiti – sempre riservati alla Tesoreria del Comune – si rivela particolarmente disincentivante
per quanto riguarda gli investimenti da parte delle strutture museali, sul cui bilancio
grava qualsiasi forma di spesa: una delle cause della modesta dotazione di cartoline o
diapositive, nei book-shop dei musei italiani, è ad esempio il fatto che il museo deve impegnare
risorse proprie (sottraendole ad altri progetti) senza ricavarne alcun beneficio immediato,
ed è quindi disincentivato a condurre campagne fotografiche che risultano investimenti
a medio termine…
Tutto ciò è ben noto, ma va sottolineato tuttavia come questo modello amministrativo
sia altrettanto disincentivante per quanto riguarda l’acquisizione di altre forme di finanziamento
istituzionale (in ambito regionale e provinciale soprattutto, ma ora anche europeo),
sempre assai faticose a livello di gestione burocratica, ma sovente inattingibili per la incompatibilità
dei modelli di spesa e di rendicontazione, o per la divaricazione di tempi di accredito
e di erogazione dei fondi stessi; per non parlare poi di tutte quelle forme di accordi
con le Università, a supporto delle attività di ricerca, che non a caso sono in Italia quasi inesistenti
mentre risultano l’asse portante della iniziativa culturale dei Musei dell’area anglosassone,
gestiti quasi esclusivamente su base privatistica.
III.3 Finanziamenti
E resta infine l’argomento principe a favore di una gestione privatistica, che non è affatto,
come si ritiene abitualmente, una supposta maggiore agilità nelle procedure di decisione e
di spesa, ma piuttosto la maggiore accessibilità dei finanziamenti “privati”, aggiuntivi a quelli
– ancora insostituibili – garantiti dall’Ente pubblico proprietario. L’esperienza fin qui condotta,
infatti, dimostra che la procedura attualmente in atto nei Comuni – basata sulla pro-
155

156 grammazione nell’ambito del PEG e sull’utilizzo della Determinazione dirigenziale – se applicata
con sufficiente energia nella assunzione di responsabilità garantisce uno snellimento
più che accettabile delle procedure di spesa: ma resta comunque irrisolvibile il problema derivante
dalle crescenti difficoltà finanziarie delle Amministrazioni Comunali, che per motivi
oggettivi – spesso enfatizzati da criteri di opportunità politica – tendono a destinare al
settore Cultura risorse sempre minori, e sempre più aleatorie.
Non si tratta, beninteso, di annullare l’intervento pubblico, ma di integrarlo con un coraggioso
e sapiente utilizzo di risorse private, che sono in genere disponibili – quanto meno
in una congiuntura come l’attuale – ma che assai raramente si riversano sulle strutture
museali in quanto tali (non, quindi, in quanto organizzatrici di eventi occasionali come le
mostre o i convegni). Comprendere le ragioni della divaricazione tra risorse potenziali e risorse
reali è stato – per l’Accademia Carrara almeno – il tema principale di discussione al fine
di individuare la forma di gestione privatistica da adottare (o meglio da proporre all’Amministrazione
Comunale).
IV. POTENZIALITÀ DELL’INTERVENTO PRIVATO
Chiunque operi all’interno di un museo sa bene che l’intervento finanziario privato è generalmente
abbastanza agevole nel caso di iniziative che garantiscano una forte visibilità dello
sponsor, in modo che il numero di contatti garantito dalla iniziativa stessa si riversi sulla immagine
di chi interviene nel finanziamento: e non è certo il caso di riproporre qui una casistica
delle diverse forme di ritorno di immagine che si possono verificare ed utilizzare. Ed è
altrettanto chiaro che questo tipo di finanziamento è assai più difficile da perseguire nel caso
di programmi a lungo termine, finalizzati ad un servizio continuo e relativamente oscuro,
come sono generalmente le attività istituzionali del museo (catalogazione, guardianía,
manutenzione ordinaria, e così via). E tuttavia un approfondimento è comunque necessario,
per individuare altri fattori disincentivanti all’intervento privato a favore del museo, che
pur esistono ma sono stati in genere trascurati o sottovalutati.
IV.1 Sponsor e Fisco
Il più evidente di questi fattori è senza dubbio la possibilità di accesso a diverse forme di
sgravio fiscale, che attualmente è praticabile – in concreto – solo se la elargizione viene effettuata
a favore di un soggetto giuridico idoneo e riconosciuto: di fatto, solo nella forma di
donazione all’Amministrazione Comunale, che deve a sua volta effettuare una serie di variazioni
di bilancio in modo da acquisire le risorse aggiuntive e metterle a disposizione del
destinatario. Tempistica e procedure sono in questo caso talmente lunghe, tortuose, defatiganti
ed aleatorie da scoraggiare chiunque, sia il potenziale donatore che lo stesso destinatario;
e si verifica il paradosso che è più agevole acquisire un finanziamento di grande importanza,
che ha una forte motivazione politica, piuttosto che usufruire di quella che io chiamo
“sponsorizzazione strisciante”, che è in genere l’esito di una rete di rapporti privilegiati
a livello dirigenziale, cioè essenzialmente tecnico. L’obiettivo è ovviamente far sì che sia il
museo stesso ad avere personalità giuridica idonea a garantire l’accesso a quegli sgravi fiscali
che sono una delle motivazioni di questa forma di sponsorizzazione.

IV.2 Dalla parte dello sponsor
D’altra parte, andrà ricordato che di norma la decisione di intervenire come sponsor culturale
matura, specie a livello di azienda e in particolare per impegni di spesa non troppo rilevante
(cioè appunto per la “sponsorizzazione strisciante”), in occasione o in concomitanza
con accadimenti che hanno una forte valenza interna all’azienda stessa (ricorrenze celebrative,
lancio di un prodotto, necessità di fronteggiare polemiche locali, e così via), ma che
poco o nulla vengono recepite al di fuori dell’azienda stessa.
In questo ambito rientra anche quella che ora si definisce politica dei benefit, ampiamente
sperimentata nel mondo anglosassone, che consiste essenzialmente in una serie di micro-accordi
in forza dei quali il museo concede – a fronte di una elargizione in denaro che può anche
essere programmata su base pluriennale – un complesso di agevolazioni che possono andare
dalla concessione di ingressi gratuiti o ridotti, alla disponibilità occasionale di vani interni,
alla organizzazione di visite guidate riservate, e quant’altro; e una sotto-variante è ora individuabile
nell’uso – che io personalmente disapprovo – di richiedere forme di contributo-spese
in occasione della concessione di opere d’arte in prestito per mostre o iniziative similari.
Questo tipo di finanziamento, che in sé non ha per il museo un valore decisivo ma che
contribuisce a creare un vero budget aggiuntivo, non può essere perseguito che attraverso un
contatto continuo, in forza del quale il museo diviene interlocutore privilegiato non di una
azienda in sé, ma di una categoria di aziende che sono al corrente di una disponibilità generica,
e della esistenza di progetti già strutturati. Successivamente il museo deve essere in
grado di formulare e concretizzare le sue proposte, una volta accettate, nei tempi e con le
modalità che corrispondono alle specifiche esigenze di questi sponsor occasionali: di conseguenza
occorre che il museo non solo abbia una struttura decisionale agile e funzionale, ma
disponga nei suoi stessi organi direttivi di personalità che fungano da interfaccia con il mondo
produttivo, ne comprendano le esigenze e sappiano cogliere le opportunità. E da questo
deriva, nel concreto, la relativa inadeguatezza di una Associazione onlus rispetto ad una
Fondazione di partecipazione, che molto più agevolmente può riunire nel proprio Consiglio
di Amministrazione personalità che sono portatrici non di capitali, ma di competenze
e di professionalità mirate.
IV.3 Relazioni di partnership
Infine, una categoria di finanziamento tutta da esplorare è quella relativa alla partecipazione
a progetti tecnologicamente avanzati, quali vengono elaborati non solo dalle Università e dagli
Istituti di ricerca, ma anche – e sempre più frequentemente – da aziende specializzate che
intendono predisporre, sviluppare e sperimentare soluzioni museali commercialmente vantaggiose
in materia di materiali espositivi, di conservazione, di comunicazione, e quant’altro.
Questo tipo di collaborazione si risolve, generalmente, non tanto in forme di finanziamento
diretto quanto in un incremento delle disponibilità di tecnologia e di personale, ma
presuppone che da parte del museo esista una flessibilità strutturale assai avanzata, quale
non può essere garantita da un’Amministrazione pubblica che mantiene precisi vincoli in
materia di spazi e di ruoli: e anche in questo caso la formula più idonea sembra quella della
Fondazione, nella quale gli eventuali interlocutori di questo tipo potrebbero entrare a pieno
diritto, anche in tempi predefiniti, verificando dall’interno la congruità delle politiche
generali con le finalità specifiche della loro collaborazione.
157

158 V. VERSO UNA FONDAZIONE DI PARTECIPAZIONE
Sulla base di considerazioni di questo tipo, ormai condivise anche a livello politico, l’Accademia
Carrara sta operando, finora solo sul piano giuridico-normativo, in vista della creazione
di una Fondazione di partecipazione, il cui Consiglio di Amministrazione assumerebbe
la gestione diretta di tutti i servizi del museo, fermo restando che l’intero patrimonio,
sia edilizio che mobile, resterebbe comunque di competenza del Comune di Bergamo.
Le tappe di questo itinerario, che si annuncia complesso ma per il quale esiste – ripeto
– quanto meno il conforto di una volontà politica unanime e determinata, dovrebbero essere
sostanzialmente due: in primo luogo l’approvazione di uno statuto della Fondazione,
che è già predisposto ma che dovrà comunque essere approvato a livello di Consiglio Comunale,
e successivamente la stipula di una convenzione che, approvata consensualmente
sia dalla Fondazione che dal Comune di Bergamo, consenta di regolare in modo inequivoco
i rapporti tra le due parti, ai diversi livelli giuridico, fiscale, normativo, economico e finanziario.
Ora, non sono questi né la sede né il momento per riferire dei termini esatti di una trasformazione
gestionale che si annuncia di non facile definizione, dovendo necessariamente
bilanciare gli interessi a volte contrastanti della finalità pubblica e della economicità di gestione,
e il tutto all’interno di una regolamentazione tanto ferma sui principi quanto agile
nelle procedure; e d’altra parte risulterebbe scorretto – e forse anche controproducente – anticipare
decisioni e conclusioni che sono invece di là da venire.
E tuttavia mi sembra opportuno, anche per riassumere e finalizzare quanto detto finora,
sottolineare l’esistenza di alcune condizioni di base, in assenza delle quali il progetto non
potrà di fatto attuarsi, o se attuato sarà soggetto a rischi operativi forse insuperabili: tali
condizioni riguardano l’area finanziaria (struttura societaria della Fondazione e forme di finanziamento),
e l’area politico-progettuale (bacino di utenza ed aree di intervento).
V.1 Struttura di una Fondazione di partecipazione
La scelta di affidare la gestione dei servizi museali ad una Fondazione di partecipazione, la
cui unica ragione sociale è appunto la gestione di tali servizi, privilegiandola rispetto ad altre
forme di affidamento esterno (“esternalizzazione”), che comporterebbe l’intervento di un
Gestore “terzo” necessariamente depositario di altri interessi, è appunto la necessità di garantire
due condizioni: la prima, che l’intero ammontare dei finanziamenti comunque acquisiti
abbia una destinazione museale, e che dunque una eventuale economicità di gestione
faccia ricadere i benefici a vantaggio di quei servizi museali che non sono in sé economici
o autofinanziati; la seconda, che le decisioni in materia gestionale non possano essere
inficiate da conflitti di competenza tra chi opera con finalità scientifiche (ricerca) o pubblicistiche
(fornitura dei servizi istituzionali) e chi guarda invece alla mera economicità delle
diverse operazioni. Ed è quasi superfluo sottolineare come la persistenza di tali conflitti sia
la causa principale delle difficoltà (o dei fallimenti) con cui si sono svolti finora (in Italia almeno)
gli esperimenti di “esternalizzazione” di singoli servizi, come il book-shop.
Ciò comporta che nella Fondazione di partecipazione un ruolo essenziale, e assolutamente
privilegiato, debba essere riconosciuto all’Amministrazione Comunale, che come Socio
Fondatore dovrà assumere il ruolo di garante del rispetto della finalità pubblica della ge-

stione. La struttura della Fondazione dovrà quindi, come già si è detto, lasciare uno spazio
adeguato ai diversi Soci, che potranno intervenire in forma sia continuativa che occasionale
(collaborando dunque o alla gestione generale o a singole iniziative) e potranno partecipare
sia a livello puramente finanziario, come portatori di capitali, sia a livello funzionale,
come depositari di competenze o di tecnologie: ma il ruolo guida dovrà restare all’Amministrazione
Comunale, con una funzione di tutor sia passivo (come garante del finanziamento
di base) che attivo (come titolare della politica culturale).
V.2 Il Fondo di dotazione
A fronte di tale diritto-dovere, l’Amministrazione Comunale dovrà riconoscere alla Fondazione,
in attuazione di una convenzione condivisa tra le parti, una forma di finanziamento
annuale che dovrà essere calcolato, ovviamente, sulla base dei costi attuali di gestione “in
economia”: la riscossione di questo Fondo di dotazione, che dovrà necessariamente essere indicizzato,
consentirà e imporrà alla Fondazione la fornitura di tutti i servizi museali così come
essi sono attualmente prestati al pubblico, senza che vi sia alcuna soluzione di continuità
– né quantitativa né qualitativa – tra le due forme di gestione.
D’altra parte, la convenzione dovrà contenere indicazioni di indirizzo per alcune questioni
cui non è possibile rinvenire una soluzione economicamente predefinita, ma che risultano
essenziali ad una corretta gestione: e riguardano i problemi della manutenzione, del
personale, e dei servizi aggiuntivi.
Non è pensabile, infatti, che un calcolo della gestione “in economia” possa essere così
preciso e onnicomprensivo da coprire effettivamente tutti i costi, mettendo quindi la Fondazione
in una condizione finanziaria ottimale. Per fare un solo esempio, è certamente possibile
fare un calcolo dei costi del personale, e quindi garantire – nel Fondo di gestione –
una copertura finanziaria equivalente: ma la gestione degli stipendi, o delle diverse indennità,
dovrà essere necessariamente affidata ad un ufficio specializzato (verosimilmente una
Società di servizi) il cui costo graverà sul bilancio della Fondazione. E occorrerà dunque che
la Convenzione chiarisca almeno a livello di orientamento i termini di copertura di questi
costi aggiuntivi, anche se è verosimile che con una gestione budgetaria – e non più in economia
– tali costi possano essere riassorbiti, quanto meno a medio termine.
V.3 Gestione del personale
Ampliando il discorso, è evidente che al personale attualmente in ruolo in Accademia Carrara,
che è in carico all’Amministrazione Comunale, dovrà essere garantita una forma di opzione
che non ne comprometta in alcun modo i diritti acquisiti, né in termini di orario di
lavoro né con riferimento alla retribuzione: e di conseguenza la convenzione dovrà prevedere
un accredito – sempre nel Fondo di dotazione – per la retribuzione di quella parte del
personale che opterà per la Fondazione e uscirà quindi dai ruoli del Comune. Ma nello stesso
tempo dovranno essere chiariti termini e procedure da adottarsi, da parte della Fondazione,
per la sostituzione del personale che verrà a mancare o immediatamente, in caso di
opzione a favore del Comune, o successivamente, per pensionamento od altro: ed è appunto
questo uno dei punti più delicati e più ricchi di prospettive dato che la Fondazione – in
una gestione budgetaria – potrà con la dovuta elasticità ricorrere a forme alternative di sostituzione
o di ampliamento dell’organico, sia ricorrendo a quei contratti a tempo determi-
159

160 nato – con cooperative o con singoli – che consentano una razionalizzazione del servizio,
sia procedendo alla stipula di contratti personalizzati, che premino le professionalità acquisite
e garantiscano una migliore organizzazione interna.
V.4 Manutenzione e Servizi
Viceversa, non ritengo utile che la convenzione preveda un trasferimento di risorse per
quanto riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, la cui copertura obbligherebbe
la Fondazione ad accantonamenti non compatibili con la struttura del suo finanziamento,
che avrà la forma del Fondo di gestione e non quello della creazione di un capitale
adeguato; e d’altra parte non credo che la Fondazione potrà mai dotarsi stabilmente
di quelle professionalità, soprattutto tecniche (ingegneri, architetti, tecnici degli impianti,
ecc.), che sono invece garantite dagli Uffici Tecnici del Comune. In ogni caso, dovrà essere
la convenzione a definire tutte le forme di affidamento, con le relative responsabilità e le relative
procedure.
La convenzione, infine, dovrà chiarire in modo inequivoco quali siano i servizi, istituzionali
e non, che la Fondazione dovrà garantire al pubblico, in continuità con la gestione
“in economia” e in attuazione della politica culturale del Comune, attingendo per tale impegno
al Fondo di dotazione. Dal momento che, tuttavia, non è pensabile – né auspicabile
– che il ventaglio dei servizi venga definito una volta per tutte, dovrà a mio parere essere
chiarito che eventuali servizi aggiuntivi dovranno essere coperti o attraverso un aggiornamento
del Fondo di gestione, ove l’incremento derivi da una decisione unilaterale del Comune
in attuazione di nuovi indirizzi di politica culturale, o impegnando risorse proprie
della Fondazione, ove la decisione sia, per così dire, “interna” alla Fondazione stessa.
VI. PROSPETTIVE E CONCLUSIONI
Definita la struttura ideale della preventivata Fondazione di partecipazione, e chiariti le finalità
e i limiti del Fondo di dotazione, restava da chiedersi quali siano le prospettive di operatività
di una tale Fondazione, e quali le garanzie di successo: una problematica che, a mio
modo di vedere, non può essere affrontata se non in relazione alla situazione reale, storica,
dell’Accademia Carrara, e la cui soluzione non potrà di conseguenze essere estesa ipso facto
a nessun’altra istituzione che non sia l’Accademia Carrara stessa (e di qui derivano le mie
personali perplessità, espresse in esordio, sulla “estensibilità” del modello che andiamo sperimentando).
Non è mia intenzione, del resto, affrontare qui un tale argomento. E tuttavia avverto
l’opportunità di chiarire a livello metodologico alcuni punti essenziali che riguardano appunto
le potenzialità di successo di un simile progetto. A me sembra, infatti, che se l’operazione
si traducesse in un mero trasferimento di risorse da impegnare con procedure diverse,
con una disponibilità di spesa equivalente, il miglioramento gestionale sarebbe assai
modesto e tutto sommato marginale. Ho già sottolineato come le procedure di decisione e
di spesa siano assai mutate in forza delle Leggi Bassanini, e non posso qui che ripetere che
non esistono differenze sostanziali tra una gestione pubblica del museo, quale è ora garantita
dalla organizzazione della Finanza locale (gestione “in economia” con lo strumento del-

la Determinazione Dirigenziale, nell’ambito della procedura della trattativa privata), ed una
gestione privatistica e budgetaria quale si delinea per la Fondazione. La vera differenza, quella
che potrebbe garantire un vero salto di qualità, non è nelle modalità di utilizzo del Fondo
di dotazione, ma nelle potenzialità di incremento del Fondo stesso; e ho già spiegato come
il problema riveste carattere di assoluta urgenza, dato il progressivo sgretolarsi delle disponibilità
pubbliche a favore della cultura.
Ora, ho già dimostrato come finanziamenti aggiuntivi possano attendersi dall’acquisizione
di contributi istituzionali, dall’intervento di sponsor, dalla stipula di accordi di benefit,
e più in generale da una gestione dei servizi finalizzata ad una reale economicità: ma tutto
questo non è tecnicamente possibile, a mio modo di vedere, se non in presenza di un progetto
culturale complessivo già avviato e consolidato; ed è precisamente questa la ragione
per cui solo ora l’Accademia Carrara ha deciso di intraprendere il difficile itinerario che sto
descrivendo.
Solo da alcuni anni, infatti, l’Accademia Carrara ha potuto arricchire la sua offerta al
pubblico, con l’apertura e l’avvio della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea; ha raggiunto
e consolidato un accettabile plafond di presenze di visitatori (circa 30.000 su base annua);
ha avviato un programma di “Grandi Eventi” che ha fatto confluire su Bergamo un
nucleo aggiuntivo di visitatori “occasionali” e funge da traino per l’acquisizione di diverse
fasce di pubblico; e infine ha saputo formarsi ed imporre una sua immagine forte e positiva,
relazionata non solo al patrimonio ostensivo ma anche alla capacità di proposta e di iniziativa.
E sono appunto queste le condizioni di base cui accennavo, le uniche che possano
fornire sufficienti garanzie di quello sviluppo cui la Fondazione è finalizzata.
In una città come Bergamo, che ha una popolazione residente di poco più di 100.000
abitanti e che non ha voluto o saputo attrezzarsi come riferimento per un turismo di massa,
la pura offerta “patrimoniale” non è sufficiente: secondo i calcoli degli addetti al settore,
una affluenza di 30.000 visitatori su base annua è appena sufficiente a chiudere in pareggio
la gestione del book-shop, ma non offre finanziamenti aggiuntivi per altri progetti, né investimenti.
Né è immaginabile che possano realmente auto-finanziarsi quei servizi di cui possano
servirsi o gli abitanti della stessa Bergamo, o gli utenti che appartengano a quel turismo
di élite che è tradizionale per l’Accademia Carrara. Il fatto è che ad una offerta sostanzialmente
statica, quale è stata tradizionalmente perseguita, deve sostituirsi una offerta dinamica,
che estenda a tutto l’anno la capacità di proposta e che agisca da moltiplicatore dei
contatti e dunque enfatizzi i caratteri di economicità di quelle forme di finanziamento esterno
che si motivano ora, soprattutto, sul piano della immagine.
Noi riteniamo che queste condizioni esistano, ora, e che quindi l’immagine complessiva
dell’Accademia Carrara, inclusiva della sua consolidata consistenza patrimoniale ma anche
della capacità di iniziativa recentemente acquisita, possa essere utilmente proposta a quel
mondo imprenditoriale che a Bergamo è cresciuto in potenzialità economica, maturità e
sensibilità alle problematiche culturali: e dunque riteniamo che il rischio di un simile passaggio
possa essere corso. Ma è evidente che, come dicevo in esordio, si tratta di un modello
costruito su una specifica realtà museale e su uno specifico territorio culturale ed economico:
non me la sentirei proprio di proporlo ad altri che non abbia avuto una identica storia,
o che non abbia condotto una simile analisi della propria unicità.
161

Il Museo Querini Stampalia da collezione visitabile
a macchina della memoria: l’allestimento ripensato
nella nuova organizzazione dei servizi
Babet Trevisan
Fondazione Querini Stampalia – Venezia
RIASSUNTO
La costituzione in Fondazione di tutto il patrimonio familiare dei Querini Stampalia nel 1869 è l’atto di
nascita di un organismo museale per molti versi unico nel suo genere per l’integrità e la varietà dei beni
pervenuti. Dopo la scomparsa dell’ultimo discendente, si è infatti subito operata la scelta di realizzare un
percorso museale aperto al pubblico. Nell’oltre secolo e mezzo della sua esistenza, questo straordinario patrimonio
ha conosciuto numerosi episodi di smantellamento, riallestimento, risistemazione che, unitamente
a vendite o reintegri di beni, hanno contribuito a disegnare la fisionomia dell’organismo museale
e delle ambientazioni via via realizzate.
Nei primi anni Sessanta, l’intervento di Carlo Scarpa, oltre a costituire uno dei capolavori dell’architettura
moderna, può essere considerato come una prima testimonianza della volontà di fornire ulteriori
servizi al pubblico e di attrezzare appositamente degli spazi per realizzare mostre e attività seminariali. Altri
interventi ancora, di natura parziale, hanno poi continuato a succedersi nel tempo sino agli anni Novanta.
Di recente, alcuni restauri hanno fornito l’occasione per ripensare completamente l’allestimento del
museo, cercando di ricreare il più possibile l’atmosfera della casa veneziana del Settecento e progettare un
nuovo allestimento che, pur nel rispetto delle esigenze museografiche e di sicurezza, ne valorizzi appieno
la caratteristica principale di dimora familiare e ne accentui l’atmosfera, senza per questo rinunciare alla
veridicità storica.
SUMMARY
The setting up of a foundation to preserve the Querini Stampalia family heritage in 1869 marked the birth of
a museum, which is unique in its genre, given the excellent conservation and variety of its assets. After the death
of the last descendant, the decision was made to open this historical mansion to the public. Throughout more
than one century and a half, many dismantling, refurbishing and readjustments interventions concerning the
whole assets exhibition have taken place. These actions followed by successive asset sale and reacquisition operations
have contributed to shaping the present aspect of the museum and of its future settings.
In the early Sixties, the intervention by Carlo Scarpa did not only represent one of the masterpieces of modern
architecture, but it is also one of the first attempts to provide the public with further services and to specifically
equip spaces to host exhibitions and workshops. Additional actions have been successively carried out until
the Nineties.
More recently, a few restoration works have provided the opportunity to fully rethink the museum framework,
trying to recreate the atmosphere of the Settecento Venetian house as much as possible and to rethink a
new way of exhibiting the assets, in full respect of museographical and safety requirements, by fully enhancing
the distinctive features and atmosphere of this family house, without betraying the historical truth.
L’estinzione della famiglia Querini Stampalia con la morte di Giovanni nel 1869 1 e il
conseguente passaggio a Fondazione di tutto il patrimonio familiare sia culturale che fruttifero
è un episodio di conservazione unico nel suo genere che ha permesso di tenere insie-

me sino ad oggi il palazzo veneziano, le terre e le case, l’archivio, la biblioteca, i dipinti, gli
arredi, le suppellettili, le monete ecc.
Secondo la tradizione araldica i Querini hanno origine antichissima. Il ramo che visse a
Santa Maria Formosa era conosciuto prima con l’appellativo degli “Zii”, cioè dei gigli che
erano raffigurati nel loro stemma e successivamente, per evitare la confusione con gli altri
numerosi rami, si identificò aggiungendo al proprio nome quello di “Stampalia” traendolo
dal possesso feudale dell’omonima isola dell’Egeo. Alcune testimonianze attestano la loro
presenza a Santa Maria Formosa già dal XIII secolo ma si possiedono maggiori notizie solo
dalle fine del XV. Una prima fonte iconografica di fondamentale valore è certamente la
pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari che documenta la presenza di due edifici distinti in
campo Santa Maria Formosa dove più tardi verrà sviluppato e ampliato il palazzo di famiglia,
oggi sede dell’omonima Fondazione.
Per i nobili veneziani la residenza ufficiale in città, ed in particolar modo la facciata del
palazzo alla quale si cercava di dare sempre la massima visibilità, costituiva una finestra sul
mondo per manifestare il proprio potere e ricchezza e per far conoscere il ruolo politico e
sociale della famiglia. Nella fabbrica di palazzo Querini Stampalia, fin dal Medioevo ed in
particolare dal primo Cinquecento in poi, era d’uso ad ogni matrimonio e ad ogni morte di
un maschio maggiorenne dare una nuova suddivisione del palazzo in appartamenti, provvedendo
ad abbellire le sale con nuovi stucchi, affreschi, marmi, tessuti ed arredi.
Alcuni documenti attestano un significativo ampliamento del palazzo nel 1513-14 sotto
la committenza di Nicolò Querini 2 e un altro cospicuo intervento nel 1515-18 quando
vennero spesi dei denari per un ulteriore ampliamento, riparazione ed abbellimento della
residenza. Durante i lavori Palma il Vecchio venne incaricato di decorare la “Camera d’oro”
nella quale si trovava anche un caminetto in marmo finemente arricchito con lo stemma di
famiglia che riprendeva la cinquecentesca facciata. In occasione delle nozze di Francesco
Querini e Paola Priuli celebrate il 30 aprile 1528 a Palma il Vecchio fu anche commissionata
l’esecuzione dei ritratti dei due giovani che, a causa della morte improvvisa dell’artista,
rimasero incompiuti nella sua bottega 3. Francesco Querini decise tuttavia di recuperare i
due ritratti e di portarli a palazzo e negli anni successivi pagò a Bonifacio dei Pitati, che lavorava
nella stessa bottega d’arte del Palma, una Storia di Mosè ordinatagli da Piero Querini
e I tre re magi 4, presumibilmente quello che tuttora si conserva nel museo della Fondazione.
In questi episodi di committenza si potrebbe fissare l’avvio della creazione della quadreria
di famiglia.
Allo stato attuale degli studi e della documentazione rinvenuta è difficile fornire altre notizie
certe sulla storia della collezione queriniana, ma la presenza in museo di alcuni ritratti
di famiglia lascia supporre rapporti con diversi artisti che probabilmente frequentarono la
residenza. La quadreria della famiglia Querini Stampalia, come pressoché tutte le collezioni
pittoriche veneziane, si arricchì specialmente nel Seicento, mentre nel Settecento diminuirono
gli artisti contemporanei chiamati ad incrementare la raccolta, ancorché per alcuni di
essi il numero di tele sia rilevante. Nel tardo Cinquecento a Marco Vecellio vennero commissionati
i ritratti di alcuni antenati trecenteschi di famiglia 5; nel Seicento Sebastiano
Bombelli eseguì due grandi ritratti a figura intera al naturale di Gerolamo, in veste di procuratore,
e di Polo e altri quattro dipinti più piccoli coi medesimi soggetti 6; e Nicolò Cassana
realizzò l’incisione con un altro ritratto a figura intera di Gerolamo e nel 1694 i ritrat-
163

164 ti che immortalano l’avvento al soglio dogale di Sebastiano Valier e l’incoronazione della
moglie Elisabetta Querini 7 . Questi ultimi ritratti del Cassana, potrebbero anche essere entrati
a far parte della quadreria di famiglia da casa Valier alla morte nel 1709 della dogaressa
che era sopravvissuta al marito, deceduto nel 1700.
Tuttavia come altre collezioni veneziane, anche quella queriniana è sicuramente l’esito di
un patrimonio familiare accresciuto di generazione in generazione con alcune commissioni
dirette agli artisti per la realizzazione di opere che dovevano essere collocate nella residenza
veneziana, con dipinti ed arredi acquisiti in eredità da altri nobili palazzi e con opere giunte
da collezioni presenti nelle residenze di campagna della famiglia nate per uno scopo più
decorativo che celebrativo. È questo il caso di una serie di dodici Sibille di autore anonimo
tardo secentesco oggi presenti nel museo della Fondazione presenti per la prima volta nel
1692 nell’inventario di una villa di Lancenigo vicino a Treviso acquistata da Polo Querini
Stampalia nel 1689 8 e successivamente venduta nel 1802. La realizzazione artistica piuttosto
modesta delle dodici tele e la loro originaria collocazione lasciano intuire che lo scopo
primario era quello di decorare una villa di campagna e non di arricchire la galleria di famiglia
nella residenza ufficiale a Venezia.
Altro episodio significativo nella storia della collezione queriniana è quello costituito dai
sette busti dei Bravi che Orazio Marinali eseguì tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento
e che furono collocati nel Cameron della Galleria insieme al busto ritratto del Cardinale e ai
tre teleri del Ricci. Nell’inventario dei Giudici di petizion steso alla morte di Andrea Querini
Fig. 1. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: portego del museo (allestimento del 1934).

nel 1796 viene infatti citato il «Cameron della Galleria» con «71 Quadri di pittura sortiti», oltre
a 15 «Detti piccoli di varia sorte in Pietra e Rame», a «3 Detti nel Soffitto di pittura»e «8 Mezzi
Busti di pietra viva»e nella sala accanto il «Cameron delle Stampe sopra il Rio» con «126 Quadri
sortidi», o siano «stampe di Noghera sortiti con Specchi e Lastre»e nella «Camera da letto» erano
appesi «7 Quadri con Specchio», e «soaza dorata rappresentati li Sette Sacramenti» 9.
È sicuramente con Andrea (1710-1795) figlio di Zuanne, che prende forma moderna la
Galleria di famiglia. Nel suo appartamento che si trovava al primo piano del palazzo egli infatti
allestisce due sale ben distinte una dedicata alla pittura e l’altra alle stampe. Tra le opere
citate nel testamento ed oggi presenti nella collezione del museo sono riconoscibili oltre
ai busti in marmo del Marinali, le tre tele di Sebastiano Ricci con l’Allegoria del giorno 10 che
stavano nel soffitto e che si è supposto facessero parte della sistemazione dell’appartamento
nuziale di Zuanne Carlo Querini sposatosi con Chiara nel 1702 11 e i Sette Sacramenti di Pietro
Longhi 12 che erano collocati nella camera da letto evidentemente per un uso più intimo
e religioso. I Sette Sacramenti e La frateria di Venezia 13 si possono ascrivere con ragionevole
sicurezza alla committenza di Andrea; per le altre sette opere del Longhi, pur mancando
precisi riscontri inventariali è possibile congetturare la stessa provenienza.
Nel 1782 Andrea commissionò a Gabriel Bella, artista piuttosto modesto iscritto alla fraglia
dei decoratori e non a quella dei pittori, e a due suoi aiuti, la decorazione della casa dominicale
che aveva recentemente acquistato e restaurato a Treviso presso i Santi Quaranta.
Nell’inventario del 1796 troviamo registrati in questa casa «95 quadri sortidi con funzioni di
Fig. 2. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: portego del museo (allestimento attuale).
165

166 Venezia, con soase dorate» che nell’inventario del 1810 diventano 67 e, senza lasciare alcuna
traccia di quelli scomparsi, la loro presenza viene registrata a Santa Maria Formosa. È questo
un altro caso esemplare di come alcune opere volute dalla famiglia per l’arredo di una casa di
campagna siano più tardi arrivate a palazzo entrando a far parte della collezione.
Negli anni successivi la galleria di famiglia continuò ad essere tenuta insieme alla biblioteca
dai quattro nipoti di Andrea, ma la morsa dei debiti che attanagliò i Querini Stampalia
dalla metà del Settecento divenne pesantissima a fine secolo. Un momento decisivo
per la storia della collezione si ha perciò con le divisioni patrimoniali tra i quattro fratelli
Andrea, Alvise, Gerolamo e Polo nel 1803 e 1808, le prime ad essere effettuate dalla metà
del XVI secolo; infatti per oltre due secoli e mezzo nessun membro della famiglia osò mai
mettere in discussione l’unità di questo grande complesso di beni. La famiglia aveva sempre
cercato con molta determinazione di non smembrare il patrimonio tenendo integro, e per
quanto possibile accresciuto, anche quello culturale. Nel 1808 i quattro fratelli in accordo
tra loro, viste le difficoltà economiche, decisero di rendere disponibili per la vendita la galleria
e la biblioteca, ma fortunatamente il mercato risultava già saturo di opere d’arte e libri
a causa del collasso economico e sociale di tutta la nobiltà veneziana.
È nel terzo decennio dell’Ottocento che entra in scena Giovanni, uomo di difficile carattere
ma buon amministratore e attento collezionista. Significativo per comprendere la
personalità del conte è l’episodio legato al saccheggio del palazzo del 1849 14 quando Giovanni
fece recuperare dal canale e restaurare i due vasi giapponesi, oggi esposti in museo,
che erano stati gettati dalle finestre dai ribelli. Sappiamo che durante il saccheggio vennero
forzati i medaglieri e furono sottratti insieme agli ori anche delle rarità numismatiche, il che
attesta un preciso gusto artistico del collezionista e una sofisticata cultura del saccheggiatore.
Con Giovanni la collezione queriniana si arricchì di importanti e cospicue eredità: basti
pensare a quella dello zio Gasparo Lippomano e della sorella Caterina vedova Polcastro che
per fortuna risarcirono, seppur parzialmente, il patrimonio dalle successive perdite subíte
con la divisione, il saccheggio e a causa della discutibile gestione ottocentesca della Fondazione
nata per volontà del conte subito dopo la sua morte.
È fuori dubbio che se gli amministratori nell’Ottocento non avessero venduto opere ed
oggetti di famiglia, oggi il museo sarebbe sicuramente più ricco e connoterebbe meglio il palazzo
e chi per secoli vi abitò. La perdita più cospicua delle proprietà queriniane è certamente
la vendita degli imponenti teleri del Tiepolo di Ca’ Dolfin, che i curatori del museo considerarono
di dimensioni eccessive per essere collocati in casa Querini per poi acquistare, peraltro
quasi subito, un dipinto di Napoleone Nani 15 altrettanto grande e costoso.
Di segno diametralmente opposto la gestione novecentesca, il cui più brillante risultato
è probabilmente l’acquisto di quindici piccole tele di Pietro Longhi della collezione
Donà delle Rose, salvate nel 1935 da una sicura dispersione da un consorzio tra la Fondazione,
l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, la Cassa di Risparmio e il Banco San
Marco 16.
Dopo la morte di Giovanni Querini avvenuta il 5 maggio del 1868, la collezione venne
immediatamente ripensata in termini museali, fu trasferita al secondo piano del palazzo e
aperta al pubblico una volta alla settimana. Dai pochi documenti esistenti sappiamo che negli
anni Settanta durante il primo allestimento museale si vendettero buona parte dell’argenteria
e tutta la biancheria di famiglia perché considerati oggetti privi di valore artistico.

Questo atteggiamento sottolinea indubbiamente un pensiero piuttosto lontano da quello
moderno che valorizza invece, insieme ai dipinti e agli arredi, anche le suppellettili, i piccoli
oggetti d’arredo, le stoffe e i tessuti, gli oggetti di uso quotidiano, gli strumenti musicali
ecc. Prima dell’apertura della galleria tutte le cornici dei dipinti e tutti gli arredi esposti vennero
puliti e restaurati e per garantire una maggior sicurezza allo spazio espositivo vennero
fatti apporre dei serramenti in legno alle finestre più a rischio.
Non possedendo immagini fotografiche sugli allestimenti di fine Ottocento è piuttosto
difficile ricostruire la storia della galleria e la sua evoluzione, tuttavia sappiamo che nel 1871
venne esposta su un mobile, appositamente restaurato, la pianta di Venezia di Jacopo de’
Barbari protetta da un vetro e che il 5 maggio del 1873 fu allestita con arazzi alle pareti ed
inaugurata la stanza delle “memorie Querini”. Il ricordo e la commemorazione della famiglia
è evidente anche nella volontà dei curatori di far eseguire i busti dei genitori di Giovanni:
nel 1874 si stilò infatti un contratto con Giuseppe Soranzo per l’esecuzione del busto
in marmo di Maria Lippomano cui ne seguì un secondo nel 1877 con Antonio Dal Zotto
per l’esecuzione di quello di Alvise Querini.
Nel 1885 vennero “verniciati” i 67 dipinti di Gabriel Bella e i 2 anonimi tradizionalmente
uniti alla serie sicuramente per essere esposti nella galleria, furono restaurati parte dei
soffitti affrescati e si provvide al trasferimento in museo di tutti gli oggetti di valore presenti
al terzo piano del Palazzo, ove dal ’75 era stato allestito l’appartamento dell’inserviente.
Fin da subito i curatori proposero di esporre nella galleria dei volumi antichi mettendo in
luce la bellezza di alcune incisioni e miniature e valorizzando in questo modo anche il patrimonio
della biblioteca di famiglia.
Alcune delle scelte di fine Ottocento: la vendita dei teleri del Tiepolo di Ca’ Dolfin considerati
di misura sproporzionata rispetto le dimensioni delle sale espositive, il taglio degli
arazzi per rispondere ad esigenze geometriche di tappezzeria, l’esposizione di libri antichi,
l’aggiunta del vetro ad alcuni dipinti e la volontà di aumentare le misure di sicurezza manifestano
un primo tentativo da parte della Fondazione di musealizzare la galleria di famiglia.
Tuttavia anche la vendita dell’argenteria e della biancheria di famiglia e la volontà dimostrata
nel 1897 di cedere il servizio di porcellana di Sèvres 17, in cambio di un autore veneto
contemporaneo esposto alla neonata Biennale, testimoniano l’esigenza museale di rinforzare
la parte artistica costituita da dipinti e sculture a scapito di un corredo altrettanto importante
che verrà compreso e valorizzato solo più tardi.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento la situazione finanziaria della Fondazione è molto
preoccupante ed è resa ancor più grave dall’attività di beneficenza prevista nel testamento
del conte Giovanni. A causa della crisi finanziaria viene proposta la chiusura dell’Istituto
e si avanza l’ipotesi della cancellazione della Fondazione, che fortunatamente viene tenuta
in essere dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti che ne è l’Ente tutore. L’Istituto Veneto,
nel tentativo di salvare la biblioteca e mantenere unito il museo, decise perciò di eliminare
l’attività di beneficenza e ottenne dai curatori la rinuncia al diritto di nominare i
propri successori, ciò che gli consentì anche di istituzionalizzare le nomine.
Dopo questa importante riforma la galleria sarà interessata da numerosi interventi di restauro
e continui allestimenti condizionati in buona parte dagli eventi bellici del periodo
che ne determinarono anche la chiusura e lo smantellamento quasi completo. Nonostante
siano certe ricorrenti modifiche sull’allestimento della galleria, tre in particolare sono state
167

168 complete e determinanti per la storia del museo: quella del 1925 curata da Giovanni Bordiga
e Angelo Alessandri e quelle del 1934 e del 1946 eseguite da Manlio Dazzi.
Durante la prima guerra mondiale la galleria venne chiusa al pubblico e smantellata e
buona parte dei dipinti fu portata al piano terra in casse di ferro zincato. Parte del patrimonio
rimase nelle sale espositive e per garantire una maggiore sicurezza le finestre vennero
rinforzate e protette; vennero revisionati e rinforzati le “bocche da incendio” e gli estintori
e si potenziò la vigilanza notturna con personale esperto nel maneggio ed utilizzo delle
pompe.
Subito dopo la prima guerra mondiale la galleria si trovava in uno “stato miserando” 18
talmente preoccupante che Angelo Scrinzi, uno dei più stimati cultori veneziani dell’arte,
aveva più volte proposto di trasferire la collezione al Museo Correr. Giulio Lorenzetti rispose
pubblicamente: «annullare questi piccoli centri d’arte, queste piccole oasi di bellezza, che ancora
sopravvivono nel gran naufragio di cose e di memorie del passato, è un gran male: tanto più
quando, come nel caso della Querini Stampalia si ha la fortuna di possedere vecchi mobili deliziosi,
arazzi, suppellettili originali, alcuni dei quali sono dei veri gioielli (parlo della camera da
letto e delle attigue salette): ma d’altra parte quando queste collezioni sono ridotte ad uno stato
tale da far arrossire se per avventura avviene di dover accompagnarvi qualche amico, allora non
resta che accettar, sia pur a malincuore quella soluzione più pratica e doverosa, che valga almeno
a conservare e a mettere in salvo un patrimonio d’arte che benemeriti cittadini hanno lasciato
alla città nell’illusione che esso servisse di decoro e di vantaggio al pubblico per tutte quelle
molteplici ragioni di istruzione e di elevazione di cultura e di gusto che si sogliono proclamare ad
ogni istante e che tanto di rado si riesce a mettere in atto» 19. Trasferire la collezione in altra sede
avrebbe significato dimenticare la storia e privare le opere di quella particolare atmosfera
che lega gli oggetti al palazzo che li custodisce e alla famiglia che li ha posseduti.
Cessato il pericolo bellico, nonostante la Fondazione si trovasse ancora in ristrettezze
economiche, la galleria venne riaperta al pubblico e per l’occasione fu studiato e realizzato
un nuovo allestimento a cura di Giovanni Bordiga e Angelo Alessandri. La maggior
parte dei dipinti venne lasciata nelle medesime sale dell’allestimento precedente ma con
collocazione diversa e ci fu il tentativo da parte dei curatori di lasciare più spazio ai dipinti
e alle sculture togliendo il più possibile l’ingombro degli arredi, messi quasi totalmente
in deposito.
Bordiga e Alessandri manifestarono più volte il desiderio di allestire parte del museo anche
al piano superiore del Palazzo ma i costanti problemi di natura economica non ne permisero
la realizzazione. I curatori decisero fin da subito di non esporre i mobili e le tele moderne,
ovvero tutto ciò che era giunto in Fondazione o che era stato acquistato dopo la morte
del conte Giovanni; tele e arredi moderni furono perciò utilizzati per arredare le sale di
lettura della biblioteca al primo piano.
Nell’introduzione al Catalogo della Pinacoteca Querini Stampalia subito dato alle stampe
Bordiga così racconta il loro lavoro: «Siamo stati qui, noi due vecchi amici, lunghe mattine
d’inverno, a far aprire nuove finestre, abbattere pareti, schiudere passaggi, togliere e collocare
cornici, ritogliere e ricollocare, ornare e disornare; l’elenco non conta. Soli non eravamo; se una
galleria rimane per lungo tempo chiusa al pubblico e soltanto qualche devoto ricercatore vi passi,
allora sembra che le figure create dai pittori non stiano più fisse dentro le proprie cornici, come
quando i visitatori si affollano loro d’intorno e i guardiani vegliano da presso; ma esse scen-

dono, si muovono, rompono il silenzio del luogo, si dicono cose, si raccontano vicende che non dicono
a tutti e riempiono di vita strana la apparente solitudine. Così la nostra dimora quasi quotidiana
nelle sale abbandonate e fredde, dove noi eravamo le sole persone reali, aveva fatto nostra
confidente e collaboratrice tutta quell’altra gente trasformata dall’arte in realtà ideale. La
esperta e savia dottrina dell’amico fece la parte maggiore della nostra lieta fatica; suggerì compagnia
armonica di tele (vegliavano per consigli anche gli artefici antichi), vagliò, corresse e ricorresse,
tolse e serbò nomi e date di autori; e fu impresa lunga, diligente, spesso incerta. Questo
di dover far leva, come di milizia, tra chi risponde soltanto coi segni di una potenza a cui sono
passate sopra memorie e anni e offese, e dovere battezzare le opere con un numero tondo di secolo
e, se ignota la nascita, dover allargare il luogo di origine a scuola o regione, è studio che agli
uomini di squisito sentimento lascia sempre timore di involontaria irriverenza.
Io confortavo il collega saviamente dubbioso, dicendogli che se qualche suo battesimo sarà incolpato
di errore, si cambierà; se in una nuova revisione qualche ufficiale di stato civile dell’arte
dubiterà un’altra volta, e un’altra volta ancora si cambierà. Di sotto la tela, lo spirito ignoto
dell’artefice sorriderà benevolmente a questo tormentoso affaticarsi degli uomini per risalire nel
passato e ritessere storia di periodi o di epoche o ricostruire vicende di singoli o dedurre parentele
di scuole da scarse testimonianze di opere isolate.
Dall’atrio o dal piano inferiore vennero su i busti del Fondatore, dei suoi genitori, del Cardinale
Querini; sono opere di artisti degni; ci è parso che stessero bene qui: qui, colle tele e le memorie
avite, meglio e più intimamente, rivivrà il nobile Signore. Allontanato dalle sale ogni soverchio
di pompa, tolto quel troppo di artificio che spesso hanno le cose ufficialmente numerate,
regolarmente catalogate, rigorosamente conservate; dato alla casa, fin dove era possibile, l’aspetto
che essa aveva quando vi abitava il nobile signore e che Egli desiderava conservato dopo la sua
morte, noi, colla nostra modesta e materiale fatica, abbiamo voluto soltanto fedelmente servire e
fedelmente ricordare la semplicità della vita di Lui» 20.
La lunga citazione vale a dar conto tanto della personalità del Bordiga 21, allora Presidente
della Fondazione, insigne matematico ma nel contempo anima di tutte le iniziative dell’arte
in Venezia, dalla Biennale all’Istituto superiore di Architettura, quanto dei criteri seguiti
nell’allestimento, dove il rapporto ancora romantico con le opere giustifica una certa disinvoltura
nel murare e smurare nel palazzo rinascimentale.
Nell’allestimento del ’25 il portego, che costituisce la sala principale della galleria, era
stato rivestito con 45 dipinti di Gabriel Bella che avevano coperto completamente le decorazioni
a stucco delle pareti. Nella medesima sala per dare il benvenuto agli ospiti del palazzo,
quasi a rievocazione dei tempi passati, erano stati collocati i busti in marmo del fondatore
e dei suoi genitori Alvise Querini e Maria Lippomano, insieme ai due ritratti del doge
Silvestro Valier e della dogaressa Elisabetta Querini Valier.
Nella prima sala sul canale si trovavano tre busti dei bravi di Orazio Marinali 22 insieme
ad alcuni ritratti, tra i quali anche quello di un procuratore eseguito dal Tiepolo 23. Nella seconda
sala sul canale, con decorazione a stucchi nelle pareti, erano stati collocati altri dipinti
di Gabriel Bella insieme ad alcuni dipinti con soggetto religioso del Seicento e del Settecento.
Anche la terza sala sul canale era dedicata in parte al Bella insieme ai due filosofi di
Luca Giordano, ad un ritratto di Sebastiano Bombelli e ad altri dipinti di autori diversi:
Langetti, Bellotti, Tinelli, Bencovich, Palma il Giovane, Maffei ecc. Nella sala successiva erano
stati collocati i rimanenti due dipinti di Gabriel Bella con alcuni dipinti attribuiti a Pal-
169

170 ma il Giovane, mentre in quella seguente i curatori avevano esposto il ritratto di un procuratore
di Marco Vecellio e alcune stampe di Marco Pitteri; questa sala era destinata infatti
ad accogliere via via altre notevoli stampe della raccolta come prevedeva originariamente la
galleria di famiglia.
Nella sesta sala sul canale erano stati esposti alcuni ritratti di Marco Vecellio e Sebastiano
Bombelli, la Madonna con Bambino di Bernardo Strozzi 24 e alcuni dipinti di scuola veneta,
mentre nella seguente erano raccolti alcuni dipinti allegorici di Federico Cervelli e del Padovanino,
un ritratto di nobil donna del Forabosco e alcune porcellane e oggetti. L’ottava sala
era stata allestita con Orfeo ed Euridice e Pan e Siringa del Cervelli 25, con una battaglia di Matteo
Stom, alcuni ritratti di nobili e senatori e qualche scena religiosa, insieme ad una raccolta
di incisioni e alcuni modelli d’artiglieria che facevano parte della collezione di famiglia.
Nella sala successiva erano visibili alcune scene di genere di Matteo dei Pitocchi, un ritratto
di donna di Armelina, i due pastelli del Nogari ed altre opere di scuola veneta, insieme ad alcune
vetrine espositive con oggetti diversi e nel corridoio di passaggio che conduceva ai gabinetti
settecenteschi dedicati a Pietro Longhi, erano state esposte circa venti opere di piccole
dimensioni cinque-seicentesche perlopiù di soggetto religioso, mentre nel soffitto erano state
collocate le tre tele di Sebastiano Ricci che raffiguravano l’Allegoria del giorno 26.
Nella sala undicesima di piccole dimensioni, ma arricchita da deliziosi stucchi, era stata
esposta la Pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari come nel primo allestimento museale
del 1869.
Nella sala successiva erano state esposte dieci teste allora attribuite al Muttoni, tre paesaggi
di Marco Ricci, alcuni quadretti di genere, un accampamento militare di Matteo Stom
e alcune opere di gusto fiammingo. La saletta tredicesima era completamente dedicata a Pietro
Longhi ed ospitava il ciclo dei Sette sacramenti, tre scene di vita contadina, Il casotto del
leone, i Due ridotti, La lezione di geografia, un ritratto muliebre, La frateria di Venezia, Le
tentazioni di S. Antonio e un ritratto di gentildonna; tra le finestre furono collocate le incisioni
dei sacramenti del Longhi eseguite da Marco Pitteri. Nella sala quattordicesima era
presente la Conversione di San Paolo dello Schiavone 27 insieme a sei delle tele raffiguranti le
Sibille 28, un’adorazione dei magi e un’ultima cena.
La camera da letto con soffitto affrescato aveva le pareti ricoperte con arazzi del Cinque-
Seicento e su cavalletto erano stati esposti il tondo di Lorenzo di Credi e l’Incoronazione della
Vergine di Donato e Catarino 29.
Nel salotto rosso, ornato di una splendida tappezzeria di lampasso alle pareti, decorato
con stucchi ed affreschi nel soffitto ed ammobiliato con un salotto laccato Luigi XVI, una
specchiera, un caminetto, il lampadario e un mobile laccato con cineserie, Bordiga ed Alessandri
esposero i due ritratti incompiuti di Palma il Vecchio insieme ad altri tre ritratti e al
bozzetto in creta del Canova raffigurante Letizia Bonaparte.
Nel salotto verde il soffitto affrescato e le decorazione a stucco erano valorizzati dalla presenza
degli arazzi sulle pareti e da alcune opere posizionate su cavalletto: una Madonna con
bambino e Santi, la Giuditta del Catena 30 e la Presentazione al tempio di Giovanni Bellini 31.
Infine nella penultima sala, arricchita dai bellissimi trofei in stucco, erano esposti tre ritratti
e tre dipinti di carattere mitologico e nell’ultima, anche questa decorata, erano stati
esposti dipinti religiosi e nature morte insieme ai rimanenti quattro busti in marmo di Orazio
Marinali 32.

L’allestimento di Bordiga ed Alessandri venne qualche anno più tardi rivisto dal nuovo
direttore della Fondazione Manlio Dazzi 33. Nel 1934 Manlio Dazzi iniziò il lavoro
in museo con la volontà di risistemare solo alcune sale, affinché queste potessero risultare
più adatte alle “riunioni culturali” che la Fondazione stava organizzando, ma presto
il suo coinvolgimento fu totale ed egli ripensò completamente l’allestimento della
galleria. Per motivi di tempo ed essenzialmente economici, rinunciò a pulire e restaurare
gli affreschi dei soffitti e gli stucchi alle pareti, si limitò tuttavia a restituire il più
possibile quelli del portego togliendo i numerosi dipinti di Gabriel Bella che rivestivano
completamente le pareti.
Tuttavia Dazzi per questioni di illuminazione 34, dopo numerose prove, decise di esporre
il ritratto del Tiepolo e gli altri tre grandi ritratti di procuratori nel portego rivestendo le pareti
di tessuto monocromo. La tappezzeria di questa sala e di quella dei ritratti fu scelta su
consiglio di Mariano Fortuny e fu sottoposta, insieme ad altri numerosi esperti alla visione
di Luigi Marangoni membro del Consiglio di Presidenza della Fondazione, che fu proto della
Basilica di San Marco e Presidente dell’Ateneo Veneto, al quale si deve anche l’adozione
dei vetri poligonali rilegati in piombo collocati nel salone. L’arredo del portego fu completato
con l’inserimento dei due globi restaurati per l’occasione, di quattro poltrone che furono
foderate con seta originale settecentesca recuperata nei depositi e con i sette busti del
Marinali e quello di Giovanni Querini del Borro.
In questo riallestimento numerose opere vennero spostate da una sala all’altra, 192 dipinti
furono collocati nelle sale di lettura della biblioteca, 53 opere sistemate in posizione
diversa all’interno della medesima sala, alcune di queste vennero collocate su cavalletti mobili
e circa 45 vennero riposte nei depositi. Il numero delle opere esposte quindi diminuì
notevolmente rispetto all’allestimento precedente, furono conferiti più importanza e più
spazio agli arredi, tutti restaurati, e vicino ad ogni opera d’arte si posizionò una didascalia.
L’intera collezione del Bella venne collocata nelle prime due sale sul canale e Dazzi cercò di
valorizzare i quattro più significativi mettendoli su cavalletto. La proposta di allestimento di
Dazzi fu sicuramente legata a ragioni pratiche ed economiche, tuttavia prima di iniziare
l’impresa egli si consultò con Moschini che gli consigliò in particolar modo di diradare l’esposizione
e riordinare radicalmente la quadreria.
Gli arredi furono puliti e restaurati, tutte le tende lavate, stirate e dotate di nuovi cordoni,
ogni stanza fu ridipinta e munita di zoccolo in legno verniciato e i pavimenti vennero
completamente sistemati dai terrazzai. Si pulirono e restaurarono le tappezzerie originali
e si rifoderarono alcune poltroncine con tessuti originali recuperati nei depositi
della Fondazione. I dipinti furono tutti puliti ad opera di Angelo Moro, tranne il Donato
e Catarino, il Catena, due Bellini, tre Palma, il Lorenzo di Credi e il Diziani. Il Forabosco
fu rifoderato e restaurato d’una spaccatura del colore e a Paola Priuli del Palma
furono fissate due bollicine. Insieme ai dipinti, agli arredi e ad alcune stampe del Pitteri,
furono esposti anche modelli di artiglieria e armi e all’interno di vetrine foderate in
bizantino crema, ordinati per gruppi, furono collocati il servizio da tavola, alcuni oggetti
personali, piccole sculture, miniature, bronzi, pezzi di archeologia, ceramica, servizi
orientali e biscuit.
Un elemento importante nella nuova riorganizzazione del museo fu il desiderio di Dazzi
di arricchire l’esposizione con lo splendido salotto pompeiano dello Jappelli che si trova-
171

172 va in soffitta. Il salotto costituito da seggioline, poltroncine, divani e consolle fu restaurato,
fu voltata la foderatura, venne ricollocato lo specchio antico nella specchiera e venne messo
in esposizione.
Tutti i lavori si svolsero in un periodo brevissimo: gli interventi murari iniziarono a fine
febbraio, il riallestimento cominciò il 18 aprile e il 12 maggio del 1934 il museo era pronto
per essere riaperto al pubblico 35.
Manlio Dazzi intervenne costantemente nell’allestimento del museo anche negli anni
successivi, ma il nuovo pericolo bellico lo obbligò a chiudere di nuovo la galleria, a mettere
al riparo le opere più significative e a smantellare numerose sale. Da una sua relazione
sappiamo che nel 1941 egli volle aprire la galleria al pubblico in forma ridotta restituendo
al portego e alla sala da pranzo 36 il loro aspetto originario suggestivamente veneziano. Dal
portego fece togliere le quattro grandi tele dei procuratori, che furono collocate nel salotto
verde, e liberò gli stucchi dalle coperture, sistemò il busto del cardinale Angelo Maria Querini
su un piedistallo entro l’architettura del portale e quelli dei Bravi su mensole nei campi
liberi delle pareti. Non volendo introdurre elementi nuovi ed arbitrari per ciascuno dei
sette busti fece creare una mensola dove ricorre, necessariamente rovescia, la modanatura
della cornice su cui essa si imposta. Per ovviare in qualche modo alla bassezza di impostazione,
resa necessaria dal concetto di non alterare la fisionomia della sala, Dazzi introdusse
fra mensola e busto una lastra di pietra d’Istria dello stesso colore della antica fascia di legno
che terminava lo zoccolo delle pareti.
Fig. 3. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: sala da pranzo (allestimento del 1941).

Nella sala da pranzo egli aveva rilevato su tre pareti le impostazioni precise di 45 mensole
in stucco, asportate certamente alla fine del secolo scorso. Sul modello di una mensola
di legno autentica, che giaceva perfettamente in una delle impostazioni indicate e ripeteva
la foglia della cornice superiore della sala, Dazzi fece ricostruire le mensole in stucco. Esse
furono fatte liberamente e non in serie, al loro posto preciso e dentro i limiti precisi delle
singole tracce 37. La cornice originale del campo della sovrapporta indicò il rifacimento delle
cornici dei campi, esse pure un tempo asportate. Per non incorrere in arbitri Dazzi non
fece ricostruire le mensole nella quarta parete, il cui rivestimento era stato rifatto a calce e
quindi non portava tracce vecchie, né fece ripristinare un vaso in stucco di cui era traccia
nel campo della sovrapporta. Sopra il camino collocò una specchiera fatta con vecchie lastre
e con elementi di cornice originali tratti da punti nascosti di un’altra sala, mentre sopra alle
mensole furono rimesse al loro posto le figurine di biscuit recentemente raggruppate in
vetrine e sulla mensola del sovrapporta, invece di una ricostruzione del vaso in stucco, fu sistemato
il vaso della manifattura Vezzi.
Negli anni successivi Dazzi intervenne più volte con piccoli accorgimenti nell’allestimento
della galleria fino a quando il 21 giugno del 1945 il museo fu chiuso nuovamente.
L’ennesima chiusura offrì a Dazzi una nuova opportunità e l’8 giugno del 1946 la Fondazione
riaprì il museo con un allestimento completamente rinnovato. Il cantiere richiese numerosi
ed impegnativi interventi di restauro sia a favore dell’edificio che delle opere d’arte,
degli arredi e delle suppellettili di pregio esposti. Nella prima sala sul canale per la prima
Fig. 4. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: sala da pranzo (allestimento del 1941).
173

174 volta fu esposta insieme l’intera raccolta di 67 scene di vita pubblica veneziana eseguite da
Gabriel Bella. Questi dipinti furono disposti su quattro file lungo le tre pareti disponibili e
su un supporto scorrevole nella quarta parete tra le due finestre.
In questo nuovo allestimento vennero maggiormente valorizzati gli studioli che conservavano
le piccole tele di Pietro Longhi, anche perché nel frattempo la collezione si era arricchita
di ulteriori quindici tele grazie all’acquisto della collezione Donà delle Rose avvenuto
nel 1935 38.
Negli anni successivi non ci furono cambiamenti radicali, tuttavia vennero apportate alcune
modifiche all’allestimento del ’46: nella sala del Bella venne installato un impianto
provvisorio di illuminazione per migliorare la visione dei dipinti, nel portego si espose un
arazzo appena restaurato e la tappezzeria del salotto rosso fu staccata e portata a restaurare.
Oltre ad occuparsi della galleria Dazzi fu il primo ad avere la consapevolezza di dover intervenire
con dei restauri significativi anche in altre parti del palazzo per riorganizzare i servizi
al pubblico e per dotare la Fondazione di nuovi spazi espositivi.
Nel 1949 egli chiese a Carlo Scarpa, allora reduce dalla sistemazione delle Gallerie dell’Accademia
39, di riordinare l’ingresso della biblioteca al pian terreno, «con il portoncino che
immette nella strettissima calle Querini», la sala del catalogo al primo piano e «il giardino
intristito» che, nelle sue intenzioni doveva trasformarsi in una corte architettonica pavimentata
senza richiedere ingenti spese di manutenzione. Purtroppo le difficoltà economiche
della Fondazione non permisero a Dazzi di realizzare la sua volontà.
Fu il suo successore Giuseppe Mazzariol che chiese nuovamente a Scarpa di risolvere il
problema delle acque alte, di creare al piano terra uno spazio per le esposizioni temporanee,
di realizzare un ingresso diretto dal campo e di riordinare il giardino. Lo splendido intervento
di Carlo Scarpa realizzato in Fondazione tra il 1959 e il 1963, oltre a costituire uno
dei capolavori dell’architettura moderna, può essere considerato come una prima testimonianza
della volontà di fornire ulteriori servizi al pubblico e di attrezzare appositamente degli
spazi per realizzare mostre e attività seminariali.
Nella sala Luzzatto infatti, che può essere interpretata come una attenta rilettura del portego
veneziano, nel 1978 Giorgio Busetto, attuale direttore della Fondazione, allestì la prima
esposizione temporanea del museo dedicata ad alcuni dipinti restaurati di Gabriel Bella.
Nei primi anni Ottanta l’amministrazione era da tempo presieduta da Germano Pattaro
che aveva come consiglieri a lui più vicini Carlo Ottolenghi, che legò il suo nome al progetto
di Le Corbusier per l’ospedale che presiedeva a Venezia e alla villa per lui realizzata da
Carlo Scarpa a Bardolino, e l’architetto e storica dell’arte Egle Trincanato, già direttrice di
Palazzo Ducale e prorettore dell’Istituto Universitario di Architettura. I tre, che divennero
presidenti rispettivamente nel 1973, nel 1986 e nel 1990, e che avevano in comune una
grandissima amicizia con Giuseppe Mazzariol, direttore fino al 1974, affrontarono nonostante
le difficoltà economiche il restauro radicale del complesso, sede della Fondazione, e
ripresero il più volte tentato progetto di riappropriazione del terzo piano, fino ad allora sempre
affittato per penuria di mezzi. Venne così recuperata una vitale area espositiva ancor oggi
in uso.
La necessità di eseguire a Palazzo cospicui interventi di ristrutturazione spinsero nel
1982 a commissionare a Valeriano Pastor un progetto generale di restauro 40. Nel ripensamento
di tutti i servizi questa nuova risorsa consentì di proporre una mostra capace di of-

frire un saggio di possibile diversa sistemazione e vita del museo 41. Oltre che per tale mostra,
Pastor lavorò in modo particolare sulla progettazione di una scala che aveva lo scopo
di collegare verticalmente i piani del palazzo con le loro diverse funzioni sottolineando la
necessità della Fondazione di ampliare e migliorare i servizi destinati ad un pubblico sempre
più numeroso.
All’inizio degli anni ’90 diventa evidente la necessità di prestare più attenzione al pubblico
della Fondazione fornendo nuovi servizi quali il ricevimento, la biglietteria, il guardaroba,
la caffetteria, il book-shop, l’aula didattica, i servizi igienici ecc. La Fondazione consapevole
che tutte le funzioni aggiunte nel tempo all’area di accesso avrebbero compromesso con richiesta
di adeguamenti normativi e funzionali la conservazione della preziosa architettura di
Carlo Scarpa decise di trasferire altrove tutti i servizi monumentalizzando l’ingresso scarpiano.
Un’altra mostra, questa volta nella sala restaurata da Scarpa e con l’uso del bancone da lui
realizzato per l’esposizione di Le Corbusier del 1973, sembra sancire questo passaggio attraverso
il recupero e l’esposizione dei disegni scarpiani per la Querini Stampalia 42.
Anche grazie a fondi della Legge Speciale per Venezia, la Fondazione è riuscita ad acquistare
delle proprietà a confine che hanno permesso di ampliare lo spazio del complesso
fino a 6500 mq (cui vanno aggiunti quattro depositi esterni, per lo più per libri) avviando
un’importante collaborazione con Mario Botta, architetto ticinese di fama mondiale laureatosi
con Carlo Scarpa davanti ad una commissione di cui facevano parte, tra altri suoi
professori, Egle Trincanato e Giuseppe Mazzariol. Botta conosce a fondo l’atmosfera della
Fig. 5. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: camera da letto (allestimento del 1925).
175

176 Querini Stampalia, poiché negli anni trascorsi a Venezia come studente all’Istituto Universitario
di Architettura, era solito frequentare fino a tarda sera la biblioteca dove aveva potuto
conoscere l’allora direttore Giuseppe Mazzariol. Forte di questo legame affettivo, quasi
come un debito di riconoscenza nei confronti del maestro, che gli aveva permesso di collaborare
con Le Corbusier prima e con Louis Kahn poi, Botta accetta la sfida di mettere mano
al complesso edilizio e dona alla Fondazione il suo progetto.
Nasce così un dialogo proficuo e intenso tra committenza e progettista: l’ipotesi di riorganizzazione
prevede lo spostamento in campo Santa Maria Formosa dell’accesso principale
alla Fondazione, l’inserimento di un terzo vano scala con due nuovi ascensori, il restauro
del terzo piano e del sottotetto e la collocazione di tutti i servizi al pianterreno: ricevimento,
biglietteria, guardaroba, caffetteria, book-shop, aula didattica e servizi igienici.
L’intervento di Mario Botta, pur non essendo ancora concluso, ha permesso di dare un
volto completamente nuovo alla Fondazione: in questo palazzo l’antico e il moderno si sposano
armoniosamente tra loro trasmettendo agli ospiti ogni giorno un’atmosfera speciale.
Tuttavia la creazione della nuova scala che distribuisce il pubblico sui diversi piani ha determinato
la perdita di alcune sale del museo riducendo lo spazio destinato alla galleria di
famiglia.
Durante l’ultimo cantiere il museo è stato provvisoriamente spostato per un anno al terzo
piano del palazzo perdendo la caratteristica di dimora storica ma valorizzando le singole
opere che erano state esposte per filoni tematici e per quanto possibile anche in ordine cro-
Fig. 6. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: camera da letto (allestimento del 1925).

nologico. Al secondo piano furono contemporaneamente eseguiti numerosi interventi murari:
vennero eliminate due sale espositive per permettere la costruzione della nuova scala
progettata da Botta e dei due ascensori e si rinunciò alle piccole stanze che accoglievano la
collezione di Pietro Longhi per creare un unico e più ampio spazio destinato alle mostre sulle
raccolte conservate nei depositi e negli archivi della Fondazione. Negli ultimi cinque anni
in questa sala sono state allestite alcune mostre significative che hanno permesso di esporre,
a volte anche per la prima volta, materiali di notevole interesse storico-artistico conservati
nei fondi antichi della biblioteca e opere d’arte solitamente in deposito, valorizzando
perciò a rotazione anche il patrimonio meno conosciuto della Fondazione e permettendone
lo studio con ricerche, conferenze e pubblicazioni 43.
Durante i lavori degli anni Novanta, il museo venne dotato sia di impianto elettrico, finanziato
dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Venezia così da permettere, con l’illuminazione,
l’ampliamento dell’orario di apertura al pubblico, sia di impianto di climatizzazione
per ovviare ad esigenze di tutela e conservazione delle opere esposte.
Nell’esecuzione di numerosi interventi tecnici la Fondazione dovette tener presente le
nuove norme sulla sicurezza dei luoghi pubblici: l’inserimento di porte tagliafuoco, la segnaletica
di emergenza, l’inserimento di una traveparete per consolidare la struttura e per
aumentarne la portata e anche l’utilizzo di tessuti ignifughi sia a parete che per la foderatura
di alcuni arredi che hanno indebolito notevolmente l’aspetto artistico dell’esposizione
museale.
Fig. 7. Fondazione Querini Stampalia, Venezia: camera da letto (allestimento del 2000).
177

178 Nel 1998, con l’appoggio del Comitato Francese per la Salvaguardia di Venezia, si è potuto
avviare un progetto di restauro degli affreschi e degli stucchi delle sale espositive iniziando
dal portego e dalla camera da letto per continuare poi, con risorse del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, con la sala da pranzo e la sala mitologica. Questi ultimi interventi
di restauro hanno costituito l’occasione per ripensare completamente l’allestimento
del museo, cercando di ricreare il più possibile l’atmosfera della casa veneziana del Settecento.
È stato perciò costituito un gruppo di lavoro incaricato di studiare e ripensare il nuovo
allestimento che ne valorizzi la caratteristica principale di dimora familiare e che ne accentui
l’atmosfera senza rinunciare alla veridicità storica.
Il nuovo allestimento prevede la conservazione, riproposta con nuovo nitore, degli allestimenti
fissati da Bordiga, Dazzi e Mazzariol, secondo dei criteri più moderni e nella necessaria
attualità degli impianti, rinforzando il carattere di museo d’ambiente e di dimora
storica. In tale contesto assumono importanza gli arredi, gli arazzi, le porcellane, le sculture
e gli oggetti, che diventano elementi fondamentali nel percorso espositivo per ricreare
l’atmosfera dei luoghi vissuti dalla nobile famiglia veneziana. Intervenendo sull’attuale percorso
dei visitatori, che dai servizi accedono al museo dalla nuova scala di Botta, il portego
riacquisterà il suo ruolo originale di ingresso principale alla dimora storica. Alcune sale
espositive verranno tappezzate con stoffe di seta generosamente donate dalla Rubelli s.p.a.
che riprodurrà appositamente per il museo dei tessuti ripresi da vecchi campioni conservati
nei depositi della Fondazione e che potrà successivamente introdurre nel proprio mercato.
Altre sale, per non aumentare eccessivamente il carico d’incendio, verranno ridipinte con
colori pastello avvalendosi dell’aiuto di Eugenio De Luigi, uno degli ultimi artigiani che collaborò
con Carlo Scarpa, e sulle pareti si esporranno dipinti su due o tre file.
Per ricreare maggiormente l’atmosfera, le sale verranno illuminate con antichi lampadari
in vetro, alcuni di proprietà del museo e altri o chiesti in comodato al museo Vetrario di
Murano o acquistati nel mercato antiquario. Nella camera da letto, dove qualche anno fa le
pareti sono state infelicemente rivestite di tessuto ignifugo, verranno esposti a rotazione, dopo
un attento intervento di pulitura, restauro e foderatura, gli arazzi cinquecenteschi della
Fondazione. Verrà ricreata la sala da pranzo con un tavolo centrale che raccoglierà il servizio
di Sèvres e parte dei biscuit, una sala mitologica, una destinata ai paesaggi più belli e una
dedicata completamente ai ritratti.
Le tele del Longhi verranno valorizzate in appositi spazi e la sala, oggi destinata alle esposizioni
temporanee, sarà privata di questa funzione e, per esigenze legate all’esposizione permanente,
verrà dedicata ai 67 dipinti di Gabriel Bella che saranno disposti su tre file. Moltissimi
oggetti che fanno parte del patrimonio di famiglia, oggi non visibili: medaglie, miniature,
scatolette, orologi, andranno collocati in vetrine ed esposti, così da completare l’arredo
dell’appartamento di Giovanni Querini e si spera possano trovare in futuro un’adeguata
collocazione in una sala adiacente al boudoir che, da attuale deposito librario, potrebbe
trasformarsi in percorso museale.
Il progetto sul nuovo allestimento prevede perciò di conciliare le esigenze storico-artistiche
con quelle museografiche e di sicurezza, per garantire da un lato l’esposizione e la conservazione
delle opere più significative della collezione e, dall’altro, la miglior visita possibile
senza dover tuttavia rinunciare ad una suggestiva atmosfera, ritenuta impaginazione indispensabile
di quanto esposto, valore in se stesso come tramite informativo del retaggio e

della sopravvivenza di una cultura tradizionale che nulla rifiutando dell’oggi, pur tuttavia
conserva non inerti oggetti, ma il clima e le ragioni del fare di un passato che non si intende
perduto ma soltanto storicamente allontanato nel tempo.
1 Giovanni Querini Stampalia, ultimo
discendente della famiglia
Querini Stampalia, nacque a Venezia
nel 1799, laureato in utroque
iure si dedicò alle arti e alla letteratura
ma soprattutto agli studi di
chimica, fisica e scienze naturali.
Alla sua morte nel 1869 legò alla
città di Venezia e al mondo del sapere
tutti i suoi averi affidando alla
Fondazione l’impegnativo mandato
di aprire al pubblico il più possibile,
soprattutto nelle ore e nei
giorni in cui le altre Istituzioni sono
chiuse.
2 E. Concina 1987, Cà Querini
Stampalia, in I Querini Stampalia:
un ritratto di famiglia nel Settecento
veneziano, a cura di G. Busetto, M.
Gambier, Venezia, pp. 97-104.
3 Palma il Vecchio muore il 30 luglio
1528 e l’inventario dei beni relitti
descrive nello studio cinque
quadri commissionatigli da Francesco
Querini. Cfr. P. Rylands 1988,
Palma il Vecchio. L’opera completa,
Milano, pp. 30-31.
4 Catalogo della pinacoteca della
Fondazione Scientifica Querini
Stampalia, a cura di M. Dazzi, E.
Merkel 1979, Vicenza, pp. 42-43.
5 Marco Vecellio dipinse Marco,
protagonista della celebre congiura
di Baiamonte Tiepolo, Romeo, che
portò al trono di Ungheria nel 1307
Roberto nipote di Carlo II d’Angiò,
Nicolò, Francesco, Turno, tre generazioni
di procuratori di San Marco
nella prima metà del Trecento ed
Antonio, in religione Girolamo, patriarca
di Venezia dal 1524 al 1554.
Cfr. anche Catalogo della pinacoteca…,
op. cit., pp. 48-49.
6 Ivi, pp. 70-72.
7 L’incoronazione di Elisabetta
Querini è un fatto del tutto ecce-
zionale perché l’incoronazione delle
donne era espressamente vietata
dalle severe leggi repubblicane e
perché dopo la congiura di Baiamonte
Tiepolo nessun membro
della famiglia Querini Stampalia
poteva giungere al soglio dogale.
Cfr. Ivi, pp. 76-77.
8 Le Sibille ovvero la parola mascherata.
Guida alla mostra, Cattolica
1996.
9 Archivio Privato Querini, b. 19,
n. 9, Inventario 6 gennaio 1796
della sostanza relitta da Andrea
Querini, passim. I sette busti esposti
nel portego del museo sono noti
come Bravi, con riferimento storico
alle famigerate guardie di
Francesco Querini. Recentemente
sono stati attribuiti a Michiel Fabris
detto l’Ongaro e si è proposta
una nuova identificazione: i busti
rappresenterebbero dei filosofi, un
allievo e due santi.
10 Catalogo della pinacoteca…, op.
cit., pp. 77-78.
11 Zuanne Carlo Querini (1681-
1763) si sposò il 13 luglio 1702
con Chiara figlia di Andrea Tron
che ospitò nel 1681 Sebastiano
Ricci nel palazzo di San Stae.
12 Cento Scene di vita veneziana Pietro
Longhi e Gabriel Bella alla Querini
Stampalia, a cura di G. Busetto,
Venezia 1995, pp. 64-79.
13 Si tratta di un vero e proprio manifesto
politico relativo alla manomorta
ecclesiastica in cui Andrea
Querini ebbe un ruolo di primissimo
piano. Cfr. G. Scarabello, Una
casata di governanti del settecento
riformatore veneziano: i Querini di
S. Maria Formosa, in I Querini
Stampalia: un ritratto di famiglia…,
pp. 13-17. Cento Scene…,
op. cit., pp. 80-81.
14 Catalogo della pinacoteca..., op.
cit., p. 122.
15 Ibidem, p. 122.
16 Cento Scene…, op. cit., pp. 42-
45, 48-53, 56-61, 86-105.
17 Alvise Querini durante il suo
soggiorno parigino del 1795 commissionò
un servizio in porcellana
di 244 pezzi accompagnato da
gruppi e figurine di biscuit destinati
alla decorazione della sua tavola.
Cfr. E. Dal Carlo 1998, Le porcellane
dell’ambasciatore, Venezia.
18 Gazzetta di Venezia, 22 novembre
1923.
19 Gazzetta di Venezia, 23 novembre
1923.
20 Pinacoteca Querini-Stampalia Catalogo,
Venezia [1925?], pp. 6-7.
21 Su Giovanni Bordiga: F. Ferruccio
Smeraldi 1934, Commemorazione
di Giovanni Bordiga, Venezia;
Giovanni Bordiga: commemorazione
letta dal M. E. Davide Giordano
nella adunanza Solenne del R. Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
il 17 Giugno 1934, Venezia.
22 I Querini Stampalia: un ritratto
di famiglia…, op. cit., p. 182.
23 Catalogo della pinacoteca…, op.
cit., pp. 86-87.
24 Pinacoteca Querini-Stampalia…,
op. cit., p. 60.
25 Catalogo della pinacoteca…, op.
cit., pp. 66-67.
26 Ivi, pp. 77-78.
27 Ivi, pp. 44-45.
28 Ivi, p. 75.
29 Ivi, p. 32.
30 Ivi, pp. 37-38.
31 Ivi, pp. 34-35.
32 I Querini Stampalia: un ritratto
di famiglia…, op. cit., p. 182.
33 Su Manlio Dazzi: G. Folena, B.
Tamassia Mazzarotto (a cura di)
1972-73, Umanità di Manlio Daz-
179

180 zi. Con bibliografia degli scritti, in
“Atti e Memorie del’Acc. Patavina
di Sc. Ll. ed Aa.”, LXXXV, p. I: Atti,
pp. 65-135; B. Tamassia Mazzarotto
1972, Di alcuni inediti di
Manlio Dazzi, in “Italianistica”, I,
pp. 558-565; R. Tombolani, Manlio
Dazzi. Un umanista in biblioteca,
in “Il Gazzettino”, coll. I-II (5
febbraio 1974), p. 3; M. Tarantino
1990, ad vocem, in Letteratura italiana.
Gli Autori. Dizionario bibliografico
e indici, I, A-G, Torino, p.
664; L. Angeletti 1987, ad vocem,
in Dizionario biografico degli Italiani,
XXXIII, Roma, pp. 189-191.
34 Il museo non possedeva l’impianto
di illuminazione perciò la
galleria durante l’inverno era visitabile
solamente la mattina compatibilmente
con la luce naturale.
35 Lettera inviata da Manlio Dazzi a
Luigi Marangoni, Consigliere della
Fondazione Querini Stampalia, in
data 30 maggio 1934.
36 Archivio della Fondazione Querini
Stampalia, IV, 4 Museo Relazioni,
1941.
37 Tre di esse sono in legno, di cui
due mascherate a stucco, e una il
modello originale.
38 Quindici quadri di Pietro Longhi
assicurati alla Querini Stampalia, in
“Rivista di Venezia”, novembre
1934, pp. 487-497.
39 V. Moschini 1948, La nuova sistemazione
delle Gallerie di Venezia,
in “Bollettino d’arte del Ministero
della P. I.”, I, pp. 85-90; B. Alberini,
S. Bagnoli 1982, Scarpa: I musei
e le esposizioni, Milano.
40 M. Michielotto Pastor, L. Taddei
(a cura di) 2000, Valeriano Pastor
alla Querini Stampalia, Padova.
41 I Querini Stampalia: un ritratto
di famiglia…, op. cit.; G. Busetto,
Valeriano Pastor alla Querini Stampalia,
in Valeriano Pastor…, pp. 20,
22, ill. pp. 24-25; V. Pastor, Divagazioni
sui progetti per la Querini,
in Valeriano Pastor..., op. cit., pp.
41-43, ill. p. 44; M. Michelotto
Pastor, La mostra del ’97. Presentazione
dei lavori eseguiti nella Fondazione
Querini Stampalia dall’architetto
Valeriano Pastor, in Valeriano
Pastor..., op. cit., pp. 128-138; G.
Busetto 1987, La Fondazione Querini
Stampalia. Storia di una grande
famiglia patrizia veneziana, in
“Provincia di Venezia”, 4, pp. 7-9.
42 M. Mazza (a cura di) 1996, Car-
lo Scarpa alla Querini Stampalia:
disegni inediti, Venezia.
43 Donazione Eugenio Da Venezia,
28 novembre 1996-5 gennaio
1997; Enrico Pirajno di Mandralisca:
umanità, scienza e cultura in
una grande collezione siciliana, 18
ottobre-23 novembre 1997; Donazione
Eugenio Da Venezia, 11 novembre-18
dicembre 1997; Vetri
murrini o millefiori 1870-1998, 18
ottobre 1998-10 gennaio 1999;
Mauro Pagano: scenografie rossiniane,
25 gennaio-1 marzo 1998; Donazione
Eugenio Da Venezia, 20 ottobre-23
novembre 1998; Le porcellane
dell’ambasciatore, 18 dicembre
1998-7 marzo 1999; Querinianae.
Dai libri del conte Giovanni, 27 ottobre-5
dicembre 1999; Donazione
Eugenio Da Venezia, 9 novembre-
12 dicembre 1999; Colori e tecniche
del vetro di Murano dell’Ottocento,
11 dicembre 1999-19 marzo 2000;
Sèvres, Tradizione e innovazione, 2
luglio-29 ottobre 2000; Immagini
del mito: la conquista veneziana della
Morea, 25 maggio-26 agosto
2001; James Whistler. The Venetian
Etchings, le acqueforti veneziane, 1
settembre-4 novembre 2001.

Identità del museo, riorganizzazione museografica,
comunicazione: il Museo dei Ragazzi in Palazzo Vecchio
Chiara Silla
Musei Comunali – Firenze
RIASSUNTO
La nascita del Museo dei Ragazzi di Firenze sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso è collegata alla
volontà di dotare Palazzo Vecchio di una sezione educativa dedicata ai più giovani, in grado di “comunicare”
ruolo, funzioni e significato di questo edificio e dei suoi numerosi capolavori artistici.
La riscoperta del Palazzo è stata perseguita attraverso diversi strumenti comunicativi modulati sulle
esigenze del pubblico in tutte le sue varie declinazioni e l’idea iniziale formulata per i più giovani è andata
via via estendendosi ai visitatori di ogni età.
Parallelamente, grazie ad un programma di riorganizzazione museografica, sono stati creati nuovi servizi
di accoglienza e di aggiornamento informativo, mentre diversi ambienti recuperati alla funzione museale
sono entrati a far parte di inedite proposte di percorso museale.
Attraverso l’utilizzo di molteplici chiavi di lettura, fra loro integrate, si tenta di fornire gli elementi
per ricostituire almeno in parte quella rete di rimandi e di significati che sola può restituire il clima culturale
di un’epoca e il senso della complessità di una civiltà.
SUMMARY
The birth of the Children’s Museum in Florence dating from the late Eighties results from the will to supplement
Palazzo Vecchio with an educational section devoted to young people, which was designed as a place able
to “communicate” the role, function and meaning of this building and of its masterpieces.
The rediscovery of Palazzo Vecchio has been pursued through several communication means suited to the
different public needs. The formula that was originally designed for young people was gradually extended to visitors
of all ages.
At the same time, thanks to a museographical reorganization programme, new welcoming and information
updating services have been developed, whereas other environments have been included in the museum proposal
according to new fresh museum itineraries.
Several integrated interpretation keys have been suggested to provide the public with all the elements necessary
to rebuild, at least partially, the network of meanings and connections evoking the cultural atmosphere of
a certain age and the sense of complexity of a certain civilisation.
L’esperienza del Museo dei Ragazzi di Firenze ha preso avvio nel 1998 con l’idea iniziale di
inserire in Palazzo Vecchio, in occasione del Giubileo, una sezione educativa dedicata ai più
giovani, idea che si è perfezionata e tradotta in un progetto integrato di comunicazione museale
rivolto non solo ai ragazzi, ma al pubblico di tutte le età, ovvero a tutti coloro che dei
ragazzi conservano la curiosità e il desiderio di comprendere la realtà che ci circonda, anche
attraverso i frammenti del passato che i musei conservano. Il primo passo è stato quello di
porsi dal punto di vista di chi si avvicina a Palazzo Vecchio per la prima volta, nella convinzione
che questo sguardo non è dissimile nei bambini e negli adulti che ogni anno ne
percorrono a centinaia di migliaia le sale; ci si è quindi interrogati sulle questioni fonda-

182 mentali per qualsiasi operazione museografica: quali messaggi trasmette oggi Palazzo Vecchio?
Come il museo ne sa raccontare la storia? A quale pubblico si rivolge, e con quali strumenti?
Come lo accoglie, lo orienta, lo incuriosisce, lo educa? Si è dovuto cioè ripensare ex
novo la missione istituzionale del museo, rileggerne completamente le funzioni, e infine definire
una nuova strategia di comunicazione per interpretare e trasmettere valenze storiche
e significato di questo monumento solo apparentemente tanto conosciuto.
In ogni progetto museografico la più approfondita conoscenza scientifica delle collezioni
o – come in questo caso – del monumento non può prescindere dalla osservazione e dalla
interrogazione del pubblico, dall’analisi dei suoi comportamenti e del modo in cui percepisce,
vive e fisicamente fruisce il museo. Nel nostro caso dalla fase preliminare di analisi
del pubblico è emerso in particolare che:
• di solito i visitatori non sanno perché il palazzo sia denominato “Vecchio”;
• un numero rilevante di turisti identifica Palazzo Vecchio con il Cortile di Michelozzo – ovvero
il cortile monumentale che si affaccia su Piazza della Signoria ed è accessibile senza alcun
pagamento di biglietto – e quindi non visita, successivamente, i Quartieri monumentali;
•i fiorentini frequentano il palazzo soprattutto perché al suo interno ha tuttora sede il Comune
di Firenze con molti dei suoi uffici, ma praticamente non conoscono i Quartieri monumentali,
che nei migliori dei casi identificano con il solo Salone dei Cinquecento.
Appare dunque evidente che Palazzo Vecchio, pur essendo un monumento molto famoso,
costantemente fotografato e considerato come uno dei simboli di Firenze, nell’immaginario
collettivo del visitatore, italiano quanto straniero, stenta a connotarsi con precisione
mentre, nel caso dei fiorentini, la perdurante funzione amministrativa finisce per rendere
letteralmente invisibile il museo.
La storia di Palazzo Vecchio è molto lunga: da oltre sette secoli rappresenta la sede del
governo della città e la sua sagoma inconfondibile marca lo skyline di Firenze. È stato Palazzo
dei Priori, poi della Signoria e del Duca; ha ospitato il Parlamento italiano quando Firenze
era capitale d’Italia, per divenire sede del Comune, funzione che assolve tuttora. Ogni
epoca, e ogni diverso ruolo, ne hanno modificato la struttura, ma il corpo dell’edificio, in
tutta la sua estensione, l’articolazione degli spazi interni e i suoi decori, come oggi li conosciamo,
si sono precisati in un arco temporale relativamente breve, fra il 1540 e il 1574, durante
il regno di Cosimo I de’ Medici. Con una operazione di squisito valore politico, Cosimo,
divenuto Duca, intende lanciare alla città un messaggio esplicito di affermazione del
potere mediceo decidendo di stabilire la residenza sua e della propria famiglia in quella che
era stata la sede del governo repubblicano e, senza alterare l’aspetto esterno del severo Palazzo
dei Priori, di trasformarlo in una sontuosa reggia manierista. Giorgio Vasari, architetto
e pittore di sua eccellenza, sarà, dal 1555, lo straordinario interprete di questo disegno e
l’artefice della completa riorganizzazione del Palazzo che dal 1574, quando il Granduca
Francesco I trasferisce la residenza nella nuova Reggia di Pitti, assume la qualifica di vecchio.
Data la vita plurisecolare del Palazzo, e gli innumerevoli capolavori che esso conserva –
opere di Donatello, Verrocchio, Michelangelo, Bronzino – si presentavano quindi molti
modi per “raccontarlo” al pubblico. Primo fra tutti quello sincronico, che avrebbe potuto
sottolinearne la perdurante continuità, dalle radici romane all’età moderna, che ne fa un vero
e proprio specchio della città. Ma si voleva piuttosto riuscire a connotare il monumento
con un’identità forte, capace di colpire l’immaginario collettivo dei visitatori e conseguen-

temente, alla luce di quella fase determinante della sua vicenda storica e architettonica che
fu l’intervento di Cosimo e di Vasari, si è scelto di adottare come chiave di lettura e di comunicazione
il tema della Reggia: intorno a questo si è sviluppato l’intero progetto educativo
e museografico.
Emblematica di questo taglio interpretativo è stata l’illustrazione, realizzata ad hoc, di un
inedito Palazzo Vecchio al quale è stato strappato il rivestimento murario esterno per rivelare
il microcosmo interno, nascosto e fastoso della reggia: questa immagine, abbinata allo
slogan del “Nuovo Palazzo Vecchio”, è stata scelta per il lancio e la fase di avvio del progetto
nell’aprile 2000 e non a caso ne è diventata l’immagine caratterizzante, che più ha colpito
l’attenzione dei visitatori e che è stata di gran lunga la più riprodotta dai media.
L’idea di un palazzo che viene scoperto e svelato permea l’intero progetto ed i suoi diversificati
strumenti di comunicazione, che utilizzano tutte le metodologie interattive comunemente
adottate all’interno dei musei a livello internazionale e che qui per la prima volta vengono
applicate ad un grande contenitore storico. Sia che si tratti di atelier di teatralizzazione
e di sperimentazione, o di utilizzo di strumenti multimediali, tutte le attività prevedono la
partecipazione diretta del pubblico e sono diversamente declinate a seconda delle età e delle
tipologie dei visitatori (scuole, anziani, famiglie, insegnanti, visitatori individuali ecc.).
Uno dei primi prodotti realizzati è stato il cd-rom Palazzo Vecchio. La Reggia di Cosimo,
attraverso il quale, guidati dal Vasari, si ripercorrono le vicende del Palazzo attraverso ricostruzioni
in realtà virtuale, slide shows, esplorazioni interattive che consentono, ad esempio,
di assistere al trasporto del David di Michelangelo alla Piazza della Signoria, di entrare nel
Salone del Maggior Consiglio – oggi dei Cinquecento – mentre Leonardo dipinge la Battaglia
di Anghiari, o di ritrovare nello Studiolo di Francesco I gli oggetti d’arte della sua collezione.
Il cd-rom, in italiano e in inglese, è consultabile in dodici postazioni distribuite nel
percorso museale che fanno di Palazzo Vecchio uno dei rari musei italiani dotati di una guida
multimediale.
Il progetto di riscoperta del Palazzo si è concretizzato in un intervento che non ha consistito
in nuovi allestimenti e nuove strutture espositive, ma in un programma di riorganizzazione
museografica realizzato attraverso una articolata gamma di interventi, quali la creazione
di una nuova zona di accoglienza (biglietteria e reception), il riordino del sistema di
segnaletica e degli apparati informativi 1, il recupero alle funzioni museali di numerosi ambienti
pregiati prima inaccessibili. È stata così riaperta la Scala del Duca d’Atene, costruita
nel 1342 da Gualtieri di Brienne, Duca di Atene e Signore della città, come segreta via di
fuga; è stato reso accessibile il soffitto del Salone dei Cinquecento, una vera e propria foresta
di capriate doppie che sostiene il tetto del Salone e il grande cassettonato dorato del
Trionfo di Cosimo e che rappresenta una tangibile dimostrazione delle conoscenze tecniche
degli architetti cinquecenteschi; è stato aperto alle visite il Tesoretto di Cosimo I e riaperto
l’accesso originario allo Studiolo di Francesco I, luoghi privatissimi dei granduchi, che ospitavano
i pezzi più cari e preziosi delle loro collezioni personali. Tutti questi ambienti sono
stati resi visitabili e proposti al pubblico come i Percorsi segreti, cui si accede in piccoli gruppi
guidati dagli animatori del Museo.
In altri casi i suggestivi ambienti recuperati sono stati utilizzati per ospitare i
laboratori/atelier, nei quali i visitatori piccoli e grandi possono compiere esperienze, costrui-
183

184 re dispositivi, giocare, simulare situazioni tipiche della corte medicea: così alcune sale del
Quartiere del Mezzanino hanno accolto il laboratorio L’abito e il corpo, mentre una bellissima
sala dal soffitto a capriate lignee all’altezza del ballatoio merlato del Palazzo ospita il laboratorio
Architetture di Palazzo. A questi due ambienti si accede attraverso un passaggio segreto,
nascosto dietro una delle porte degli armadi della Sala delle Carte geografiche, che ai visitatori
dà il senso tangibile di un passaggio ad un’altra dimensione temporale, quasi come attraverso
lo specchio di Alice. In tal modo, a differenza di quanto avviene di solito per le “sezioni
didattiche” dei musei, che vengono confinate in spazi riservati e nettamente separati dal
percorso museale, i laboratori/atelier sono stati distribuiti nel corpo del Palazzo e dei Quartieri
monumentali, cosa che contribuisce a dotarli di fascino particolare e, insieme ai Percorsi
segreti, a fare di Palazzo Vecchio un museo “vivente”, animato e vissuto dal suo pubblico.
Sia nel cd-rom che nei Laboratori e nei Percorsi segreti, così come in tutte le attività e gli
strumenti realizzati, si propongono al visitatore chiavi di lettura di Palazzo Vecchio che integrano
storia, arte, architettura, costume, scienza, tecnologia e si cerca di fornirgli gli elementi
per ricostituire almeno in parte quella rete di rimandi e di significati che sola può restituire
un clima culturale di un’epoca e il senso della complessità di una civiltà. Si mira cioè
a far recuperare al pubblico quell’unità del sapere che è peculiare del Rinascimento e che
troppo spesso nei nostri musei, come anche nella nostra cultura, sembra andare dispersa a
fronte di visioni parcellizzate e specialistiche che finiscono col determinare la decontestualizzazione
delle opere d’arte e la perdita dei loro significati. Così nel laboratorio Architetture
di Palazzo si compiono esperimenti per comprendere le leggi della statica, si osservano e
si costruiscono archi e capriate, fino a smontare e rimontare il modellino di Palazzo Vecchio
e il puzzle del Corridoio Vasariano. L’abito e il corpo è invece una sorta di laboratorio teatrale
di storia: qui grazie all’attenta e filologica ricostruzione degli abiti del Granduca, della
Granduchessa e dei loro figli, animatori-attori coinvolgono il pubblico in un dialogo “impossibile”
con i membri della famiglia granducale alla scoperta delle differenze nei ruoli sociali,
nella concezione del corpo, nell’igiene personale, nel concetto di infanzia fra il Cinquecento
e la società attuale. Per i visitatori più piccoli, dai tre ai sette anni, è stata pensata
la Stanza dei Giochi di Bia e Garcia (due dei molti figli del Granduca Cosimo): un teatrino
di ombre e di marionette consente di raccontare storie e giochi d’altri tempi ispirate a Palazzo
Vecchio, come La meravigliosa scala del Duca di Atene, al termine della quale i piccoli
visitatori armati di torce vanno alla scoperta della segreta scala medievale. La contaminazione
tra beni culturali e teatro è una delle metodologie comunicative più sfruttate nel museo.
Così avviene che alcune delle visite possano svolgersi con una guida d’eccezione: negli
Incontri con la storia un animatore-attore impersona Giorgio Vasari e, dialogando con i visitatori,
spiega i significati dell’attività architettonica e decorativa da lui svolta.
Alla base di questo ampio progetto educativo, che oltre a Palazzo Vecchio coinvolge altri due
importanti musei – il Museo Stibbert e il Museo di Storia della Scienza 2 – e che dal 2000
ad oggi è stato progressivamente ampliato ed integrato 3, sta una rilevante e costante attività
di studio ricerca da parte di un’équipe interdisciplinare di operatori del museo e di specialisti
4, che ha dato vita anche ad inediti filoni di ricerca: giacché, come spesso avviene quando
si devono produrre strumenti di carattere educativo o divulgativo, che impongono di dare
al pubblico risposte o chiavi di lettura non banali o semplificate e tuttavia chiare e com-

prensibili, non è raro scoprire che anche gli studi più qualificati e approfonditi non sono
idonei o sufficienti. È avvenuto così, ad esempio, che per realizzare nel multimediale la ricostruzione
virtuale del Salone dei Cinquecento prima dell’intervento di Vasari sia stato necessario
effettuarne ex novo l’intera rilevazione architettonica, cosa che ha consentito di
avanzare una nuova ipotesi ricostruttiva, senza la quale non avrebbe mai preso il via quella
imponente ricerca diagnostica con l’impiego di tecnologie innovative che viene presentata
in questo Salone del Restauro.
Oggi, a pochissimi anni dall’inizio del progetto, Palazzo Vecchio dispone di un sistema
di comunicazione che offre ai visitatori di tutte le età e di diverse provenienze 5 modi diversi
e personalizzati, con differenziati livelli di approfondimento, per conoscerne la storia e i
tesori d’arte: ci piace pensare che il nostro sia un museo dove i visitatori possono scegliere,
e non subire, i percorsi di visita e gli strumenti di conoscenza che preferiscono, dalla semplice
audioguida agli approfondimenti della multimedialità, dalle visite guidate a luoghi segreti
all’emozione di un’immersione nel passato, fino alla partecipazione a distanza alle attività
del museo attraverso un portale internet ricco di contenuti e di servizi (www.museoragazzi.it).
I dati sull’utenza ci confortano sull’efficacia di questa impostazione: sono stati finora
oltre 100.000 i visitatori, italiani e stranieri, che hanno partecipato alle diverse attività
e, di questi, quasi la metà adulti.
Nell’età del turismo di massa i musei si trovano di fronte a un pubblico sempre più numeroso
e diversificato che molto spesso sembra entrare nelle loro sale attratto esclusivamente
dalla visione di opere d’arte divenute feticci; ma molti sono anche i visitatori che non
si accontentano di questo approccio e, con maggiore o minore consapevolezza, nel museo
ricercano le chiavi di comprensione del nostro passato e le radici del nostro presente. È a
questi visitatori che si rivolgono le attività di Palazzo Vecchio e del Museo dei Ragazzi: attività
che intendono parlare alla mente e al cuore dei visitatori, per generare – come afferma
Bettelheim in un noto saggio 6 – una conoscenza dotata di senso.
1 Il sistema degli accessi è stato
completamente rivoluzionato per
motivi di sicurezza dopo gli attentati
dell’11 settembre 2001, con la
chiusura di due delle quattro porte
e l’introduzione dei metal detector.
2 I tre musei si sono costituiti in
Associazione ed operano sotto il titolo
de “I Musei dei Ragazzi 8-88”;
dal 2002 il network si estende alla
Cappella Brancacci nella Chiesa
del Carmine.
3 Dal mese di novembre 2002 le
attività educational saranno interamente
rinnovate: lo spazio dedicato
ai più piccoli si amplierà nel Teatro
delle storie di Murfi; il laboratorio/atelier
L’abito e il corpo si trasformerà
in Civiltà del Rinascimento
a Firenze, incentrato sulle tematiche
tratte dalla vita quotidiana
della corte medicea; verranno introdotti
i nuovi laboratori/atelier
La bottega dell’artista, dove si apprendono
le tecniche della cultura
a fresco, e Raffigurare lo spazio, de-
dicato alla prospettiva come elemento
caratterizzante dell’arte rinascimentale
italiana.
4 Il progetto del Museo dei Ragazzi
è stato ideato e coordinato da
Paola Pacetti, che ne è tuttora responsabile.
5 Tutte le attività si svolgono in italiano
e in inglese e, a richiesta, parte
di esse in francese e in tedesco.
6 B. Bettelheim 1990, I bambini e
i musei, in La Vienna di Freud, Milano,
Feltrinelli, pp. 161-169.
185

Il Palazzo dei Musei di Varallo Sesia:
tradizione in rapporto con il territorio
Simone Baiocco*
Società di Incoraggiamento allo studio del disegno e di
Conservazione delle opere d’arte in Valsesia – Onlus
RIASSUNTO
La “Società di Incoraggiamento allo studio del disegno e di conservazione delle opere d’arte in Valsesia –
ONLUS” è proprietaria dell’immobile del Palazzo dei Musei di Varallo, oltre che di buona parte delle collezioni
in esso raccolte. Il Palazzo ospita tre distinte istituzioni, che fanno capo al Consiglio direttivo della
Società: la Scuola Barolo (una scuola di Arte Applicata a carattere amatoriale che ha radici nel tardo
Settecento), il Museo di Storia Naturale “Pietro Calderini”, sorto nel 1865, e la Pinacoteca di Varallo, il
cui primo ordinamento risale al 1892. Un vero intervento organico, dal punto di vista della strutturazione
architettonica di un percorso di visita, ebbe luogo negli anni ’50 del Novecento.
Attualmente è in corso un ampio progetto di restauro architettonico e di risistemazione dei percorsi
espositivi, che intende individuare nel Palazzo dei Musei di Varallo il polo principale di un Sistema museale
valsesiano, sottolineando la concezione museografica che accomunava, alla loro origine, questa sede
e tutta una serie di musei minori sul territorio.
L’intervento illustra la storia degli allestimenti e le linee guida del progetto in via di realizzazione, che
tenta di salvaguardare le valenze storiche delle istituzioni locali e di proporre al pubblico i temi della conservazione
del patrimonio artistico della Valsesia.
SUMMARY
The “Società di Incoraggiamento allo studio del disegno e di conservazione delle opere d’arte in Valsesia – ON-
LUS” (the “non-profit-making company for the promotion of the studies on the design and conservation of
works of art of Valsesia”) is the owner of the buildings hosting the Palace of Museums of Varallo and of most of
its collections. The Palace hosts three different institutions, managed by the Company’s steering committee: the
Barolo school (a school of an amateur Applied Arts dating from the late 18th century), the Museum of Natural
History “Pietro Calderini”, founded in 1865, and the Picture Gallery of Varallo, that was first established
in 1892. A full architectural refurbishment of the visiting itinerary took place in the 1950’s.
At present a sweeping architectural restoration and refurbishment project of the visiting itineraries is under
way. The Palace of Museums of Varallo is intended to become the main point of reference of the entire Valsesia
Museum System. The project intends to enhance the original museographical concept that applied to this palace
as well as to the other minor museums of the area.
The history of exhibitions and the guidelines of the ongoing project are at the heart of this project. It intends
to protect the historical aspects of the local institutions, to promote the conservation of the artistic heritage
of Valsesia and to make it better known by the public.
Il Palazzo dei Musei di Varallo è un complesso edilizio che ospita due distinte istituzioni
museali, la Pinacoteca e il Museo di Storia Naturale “Pietro Calderini”, ed è gestito dalla Società
di Incoraggiamento allo studio del disegno e di Conservazione delle opere d’arte in
Valsesia: il nome, tanto complesso, della istituzione porta con sé la traccia di una vicenda
storica piuttosto articolata che cercherò di ricostruire in questo contributo. Inoltre, il pa-

lazzo varallese costituisce il centro di un distretto museale coerente per criteri, tempi e motivazioni.
Solo recentemente si è prospettata l’ipotesi di organizzare tale contesto in un vero
e proprio “sistema museale”, ma esso riporta ad antiche tradizioni locali che comportarono
la creazione di tutta una serie di musei minori: alcuni di taglio storico-etnografico (Civiasco,
Fobello), altri tipicamente parrocchiali (Campertogno, Boccioleto) o legati a temi
particolari (la Gipsoteca di Pietro Della Vedova a Rima). Il sito che caratterizza maggiormente
l’intero territorio valsesiano, e che ha influito in modo decisivo nella creazione stessa
di una tradizione artistica locale, è comunque il complesso monumentale del Sacro Monte
di Varallo, la fondazione francescana che, dalla fine del Quattrocento, rappresenta un luogo
di culto e di pellegrinaggio ma anche il principale cantiere della Valsesia, offrendo peraltro
un modello alle altre fondazioni analoghe create nell’età della Controriforma.
È proprio la tradizione artistica valsesiana orbitante intorno alle cappelle del Sacro Monte
ad essere all’origine di una raccolta museale. Come è avvenuto in molti altri luoghi, in
particolare in relazione alla istituzione di Accademie, a Varallo infatti la creazione di raccolte
artistiche ebbe luogo a fianco della attività didattica: nel 1778 venne istituita una scuola
pubblica di disegno, diretta in quel momento da Rocco Orgiazzi, pittore di ornati ed esponente
di una famiglia di artisti che nel corso del secolo XVIII aveva realizzato numerose decorazioni
delle chiese valsesiane e del Sacro Monte, conservando a lungo un ruolo di leadership
locale. La scuola di disegno di Varallo, inoltre, costituì il modello su cui si plasmarono
altre, minori istituzioni didattiche in Valsesia: evidentemente l’obiettivo condiviso era quello
di fornire solide basi alla già diffusa tradizione artigianale (in particolare nel campo dell’intaglio
ligneo e della lavorazione dello stucco).
Fig. 1. Varallo. Veduta del Palazzo dei Musei dal Sacro Monte.
187

188 Nel 1831, per impulso del nuovo direttore della scuola, l’incisore Giacomo Geniani,
venne fondata la Società di Incoraggiamento allo studio del disegno che aveva come obiettivo
primario quello di fornire un sostegno finanziario e organizzativo alle attività didattiche,
anche favorendo gli studenti con borse di studio; l’iniziativa assunse ben presto i connotati
di un consesso prestigioso, che riuniva gli esponenti di punta della società varallese
di quegli anni insieme agli artisti valsesiani operosi a Torino o a Milano 1. Risulta significativo,
in questo contesto, soprattutto il rapporto con l’ambiente della corte torinese, in quegli
anni al centro del rinnovamento imposto dalle riforme volute da Carlo Alberto in particolare
nei confronti della Università, della ricerca storica e della disciplina dell’Accademia;
ricordiamo al proposito che, nel 1832, si attuarono nella capitale importanti iniziative quali
la creazione della Giunta di Antichità e Belle Arti, primo strumento dedicato alla conservazione
del patrimonio artistico, e la inaugurazione della Regia Pinacoteca; nello stesso anno,
poi, ebbe luogo una cospicua donazione da parte del sovrano di disegni e di cartoni –
intesi come preziosi strumenti didattici – alla riformata Accademia. Poco più tardi, sempre
negli anni Trenta, si assiste ad un ulteriore episodio nelle relazioni con l’ambiente torinese
al momento delle ripetute donazioni del marchese Tancredi Falletti di Barolo – a favore della
creazione a Varallo di una scuola-laboratorio di scultura in legno che verrà poi definita
“Scuola Barolo” – e della regina Maria Cristina, che concesse nel 1836 il suo patronato alle
iniziative didattiche valsesiane. Queste forme di patrocinio e di finanziamento favorirono
la possibilità, per gli artisti locali, di ottenere borse di studio per periodi di formazione
all’Accademia Albertina (alcuni vi diventarono docenti), ma anche i frequenti invii di materiali
didattici (in particolare di calchi) alla scuola di Varallo.
Fig. 2. Varallo, Palazzo dei Musei. La manica ovest dall’interno del cortile (prima dei lavori del 1959-1960).

Altre istituzioni sembrano seguire, in anni di poco successivi, formule analoghe a quelle
viste in Valsesia: per fare solo un esempio relativo ad un centro vicino si può ricordare che
nel 1841, in un contesto sociale e culturale analogo, nacque a Vercelli la Società per l’insegnamento
gratuito del disegno, che in seguito prese il nome di Istituto di Belle Arti (e si
tratta della istituzione che tuttora gestisce il Museo Leone).
Venendo poi alle vicende che hanno interessato l’attuale Palazzo dei Musei di Varallo in
quanto sede delle iniziative didattiche e di conservazione, è necessario segnalare come, fin
dalla sua apertura, la scuola di disegno abbia trovato sede in alcuni spazi poi confluiti in quel
complesso. Con la crescita verificatasi a partire dal 1831, poi, i progetti si fecero più ambiziosi
e la Società di Incoraggiamento volle provvedere alla edificazione di una propria sede,
nello stesso complesso. Per questo, nel 1838, i consiglieri si rivolsero al professore di architettura
dell’Accademia di Torino, Alessandro Antonelli, con una richiesta di progetto che
precisava in dettaglio le esigenze: si dovevano prevedere una sala «per le Adunanze Generali
della Società», ambienti adatti alle funzioni didattiche, ma anche una sala «pei quadri, statue
o oggetti che vengano dati in dono od acquistati dalla Società» 2.
Il gruppo di artisti promotori della Società, infatti, aveva iniziato una attività di raccolta
di opere che, già nel corso dei primi anni, aveva dato buoni risultati e che era ispirata ad
alcuni criteri di fondo: un punto sostanziale è quello che riguarda l’attenzione rivolta ai massimi
vertici della storia pittorica locale, ovvero Gaudenzio Ferrari e Tanzio da Varallo. Al
momento della fondazione della Società di Incoraggiamento, ad esempio, il pittore e incisore
Gaudenzio Bordiga aveva donato alcuni frammenti di affreschi staccati del caposcuola
rinascimentale 3; egli inoltre, insieme al collega Silvestro Pianazzi, dedicò al Ferrari un volu-
Fig. 3. Varallo, Palazzo dei Musei. La manica ovest dall’interno del cortile (alla conclusione dei lavori del 1959-1960).
189

190 me che riproduceva molte opere del maestro, e che costituiva una delle prime, fondamentali
tappe della fortuna critica del pittore 4. Riguardo al venerato maestro del Seicento locale,
Antonio d’Enrico detto Tanzio da Varallo, la Società si muoveva anche con acquisti sul
mercato antiquariale: è il caso di una delle due versioni del Davide e Golia della Pinacoteca,
acquistata a Milano nel 1847 5.
Nell’ambito della medesima istituzione varallese, poi, cresceva in parallelo la attenzione
agli aspetti scientifici e naturalistici che, ad opera di don Pietro Calderini, portarono nel
1867 alla apertura, nei locali della Società, di un Museo di Scienze Naturali, in seguito a lui
intitolato. Calderini era stato direttore delle Regie Scuole Tecniche di Varallo, nonché fondatore
della locale sezione del Club Alpino Italiano; si può far risalire a lui il rapporto stretto
tra la curiosità scientifica di taglio enciclopedico e la documentazione delle tradizioni locali
che la raccolta tuttora documenta, attraverso le collezioni di archeologia, mineralogia,
numismatica, botanica, entomologia, zoologia 6.
Analogamente a quanto si è visto per la Società di Incoraggiamento varallese, anche la
Società per la conservazione delle opere d’arte e dei monumenti in Valsesia, nata (1875) dal
medesimo contesto culturale e sociale, trovava una diretta connessione con i dibattiti contemporanei
sul concetto nascente di tutela, che portarono alla creazione di istituzioni simili
in altri centri. Penso innanzi tutto alla torinese Società di Archeologia e Belle Arti, alla Società
Archeologica pel Museo Patrio Novarese o anche alla milanese Società Storica Lombarda;
si tratta delle istituzioni entro le quali stava emergendo una nuova linea di approccio
alla ricerca storica, basata sulla critica delle fonti, ed insieme una riflessione sulla tutela e il
restauro dei monumenti e delle opere d’arte.
Fig. 4. Varallo, Palazzo dei Musei. La sala I (nell’allestimento del 1960).

La svolta, anche dal punto di vista delle riflessioni sulla sistemazione del materiale già
raccolto, doveva avvenire in corrispondenza di un episodio legato ancora una volta al nome
di Gaudenzio Ferrari. Già nel 1864 si era istituito a Varallo, nell’ambito dei partecipanti alla
Società di Incoraggiamento, un “Comitato per l’erezione di un monumento a Gaudenzio
Ferrari”; la raccolta dei fondi e i dibattiti sulla collocazione più adeguata portarono ad
un allungamento dei tempi tale che i bozzetti dei candidati vennero inviati alla Accademia
di Firenze, sede della giuria di rilievo nazionale, solo nel 1872, e l’inaugurazione dell’opera
del vincitore Pietro Della Vedova ebbe luogo nel 1874 7. L’episodio inerente il monumento
– pressappoco contemporaneo, come si è visto, alla nascita della Società di Conservazione
– ebbe il merito di aprire la strada alla celebrazione del massimo artista del Rinascimento
valsesiano e, negli anni successivi, vediamo le due Società varallesi muoversi attivamente anche
in ambito extra-locale per la realizzazione di una mostra legata al (presunto) quarto centenario
della nascita di Gaudenzio.
La “Mostra Artistica Valsesiana” si aprì nell’estate del 1885, accolta in una serie di locali
che ancor oggi spettano al complesso del Palazzo dei Musei. Insieme ad un cospicuo numero
di opere di Gaudenzio, oppure legate alla tradizione da lui originata (anche con prestiti
da collezioni pubbliche e private), vi si esponevano opere che dovevano dare una panoramica
della produzione locale fino ai contemporanei 8. L’Esposizione ebbe un grande successo
(circa 3.500 visitatori) ed una vasta risonanza, nazionale e internazionale: furono forse
proprio l’esito positivo ed i riconoscimenti ottenuti a spingere le due Società valsesiane
ad affrontare, negli anni successivi, il tema di una esposizione permanente delle opere d’arte
ormai raccolte.
Fig. 5. Varallo, Palazzo dei Musei. La sala II (nell’allestimento del 1960).
191

192 Negli anni ’80, molte tracce permettono di riconoscere nel pittore varallese Giulio
Arienta (1826-1900) la figura chiave intorno alla quale prese forma il progetto museale sorto
dal contesto di cui stiamo discutendo. Egli era stato tra i promotori della Società di Conservazione,
ma soprattutto aveva costituito un punto di riferimento fondamentale per tutti
gli studiosi che affrontavano i temi della storia artistica valsesiana, in particolare (come di
consueto) Gaudenzio Ferrari e il Sacro Monte: era a lui che ci si rivolgeva dall’Italia e dall’estero
per richieste di fotografie o di informazioni 9. Altrettanto nota è la sua attività per la
tutela del patrimonio artistico locale: Arienta si prodigò per lo studio, il restauro e la salvaguardia
delle testimonianze artistiche del Sacro Monte, si schierò – per fare un solo esempio
– contro il progetto di abbattimento del seicentesco Palazzo della Vicinanza di Varallo
(attuato poi nel 1898), stringendo in questa occasione i contatti con l’Ufficio regionale per
la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria diretto da Alfredo d’Andrade,
ufficio per il quale Arienta era divenuto il referente locale 10.
Nel 1891 l’artista ricevette l’incarico per la redazione del catalogo delle opere della Conservazione,
secondo una esigenza emersa già nel 1885 nei verbali della Società 11; tale operazione
doveva andare di pari passo con una prima sistemazione museografica delle collezioni,
ma le difficoltà incontrate nell’individuare i locali adatti fecero sì che soltanto negli ultimi
anni della sua vita Arienta poté impostare la sistemazione del primo nucleo espositivo,
in tre sale dell’attuale Palazzo dei Musei. L’unico strumento per tentare di ricostruire concettualmente
questa sistemazione è costituito dal catalogo pubblicato dopo la morte dell’Arienta
sulla traccia di sue note manoscritte 12. Vi si riconoscono tre sale molto affollate in cui
coesistono la cultura figurativa dei secoli passati e la produzione dei “moderni” senza apparente
distinzione, neppure per tipologie o per tecniche; tale accostamento poteva assumere
Fig. 6. Varallo, Palazzo dei Musei. Una veduta delle sale verso il salone centrale (nell’allestimento del 1960).

un significato schiettamente didattico quando, ad esempio, un affresco staccato dal Sacro
Monte era accostato ad uno “schizzo a matita” dell’Arienta stesso, riproducente la “composizione
generale dell’affresco” prima dello stacco, all’interno della cappella di origine 13. Solo
la terza sala ci appare legata a un tema: essa era dedicata alla scultura ed in particolare ai gessi
degli scultori dell’ ’800 valsesiano i quali, spesso, avevano avuto una fortunata carriera torinese,
ma avevano sempre mantenuto il legame con la nascente istituzione museale della
città di origine, sottolineato dall’invio dei propri bozzetti.
I successivi decenni costituiscono una storia ancora, per buona parte, da ricostruire nei
dettagli: tappe successive portarono alla disponibilità di nuovi locali (via via concessi in
uso dal Comune) ed a ripetute trasformazioni nella organizzazione della esposizione, per
quanto riguarda sia il Museo Calderini, sia la Pinacoteca. Vi furono fasi alterne nei rapporti
tra le due Società varallesi, fasi che non furono indenni da tensioni e polemiche. A
partire dagli anni ’30 si occupò dell’ordinamento il pittore Emilio Contini che, con dedizione
ed tenacia, contribuì alla salvaguardia del patrimonio durante il periodo bellico e
tentò di mantenere una qualche ragione espositiva a fronte dei ripetuti spostamenti nei
locali di volta in volta utilizzabili e degli incrementi delle collezioni dovuti alle donazioni
e ai depositi.
Una svolta si verificò grazie all’ingegner Giorgio Rolandi, un valsesiano residente a Milano
che aveva potuto raccogliere una cospicua fortuna negli anni della sua attività professionale
e che si qualificò come grande mecenate per la sua terra di origine 14. Per iniziativa
di Rolandi, presidente della Società di Conservazione dal 1957, ampi lavori trasformarono
il palazzo dei Musei: venne creato un percorso unitario dotato di caratteristiche uniformi e
coerenti, in linea con la museografia contemporanea. Scopo dichiarato di Rolandi, infatti,
Fig. 7. Varallo, Palazzo dei Musei. La zona di passaggio tra le sale II e III (nell’allestimento del 1960).
193

194 era quello di uniformare le attività espositive delle due Società unificando le parti del percorso
di visita che, fino a quel momento, erano rimaste distinte.
L’intervento di Rolandi (1959-1960) ha interessato in particolare il primo piano del
Palazzo dei Musei, con una trasformazione piuttosto incisiva, evidente soprattutto in quello
che da quel momento in poi viene considerato il salone centrale del percorso, destinato
ad accogliere le opere dei massimi esponenti della tradizione pittorica valsesiana e in
particolare del Tanzio. Qui viene unificato lo spazio che in precedenza era suddiviso tra
diversi ambienti, viene costruito un lucernario il cui disegno segue l’andamento longitudinale
del salone ma soprattutto vengono rese disponibili vaste pareti bianche per la sistemazione
delle opere (fig. 8). In realtà, proprio l’intervento sul salone “del Tanzio” mostra
un atteggiamento che oggi non considereremmo filologicamente corretto sul piano
del rispetto del contenitore architettonico. Il confronto tra due riprese fotografiche dall’interno
del cortile sul corpo di fabbrica corrispondente al salone – una precedente, l’altra
successiva all’intervento (figg. 2-3) – mostra infatti come, con la tamponatura delle finestre,
esse siano state arbitrariamente uniformate ad un disegno centinato che non avevano
mai avuto.
Insieme alla risistemazione architettonica del percorso di visita, con l’intervento di Rolandi
si è messo mano anche agli aspetti più strettamente museologici dell’allestimento; si è
trattato di un momento particolarmente felice, nel quale la Pinacoteca di Varallo ha avuto
l’opportunità di essere al centro di un dialogo a più voci, condotto ad altissimo livello: Rolandi
riuscì infatti a coinvolgere su questi temi non solo la Soprintendente di Torino, Noemi
Gabrielli, ma anche studiosi come Anna Maria Brizio e Giovanni Testori i quali, in rapporto
ai loro studi sul Sacro Monte, portarono anche alla Pinacoteca l’aggiornamento sto-
Fig. 8. Varallo, Palazzo dei Musei. Il Salone “del Tanzio” (nell’allestimento del 1960).

ico critico sulle collezioni oltre che una informazione di rilievo nazionale sulla sistemazione
dei musei del Dopoguerra.
Questa è la situazione fotografata nel catalogo redatto da Marco Rosci, con un saggio introduttivo
della Brizio, uscito proprio nel 1960 15; in quello stesso anno altri due fatti di grande
importanza contribuirono a dare una eco internazionale alle vicende del museo e della tradizione
artistica valsesiana da esso custodita. In coincidenza con l’inaugurazione dei lavori effettuati,
venne infatti riproposta nel salone centrale della Pinacoteca la mostra monografica su
Tanzio da Varallo tenutasi l’anno precedente al Museo Civico di Torino, che ebbe dunque una
seconda sede valsesiana tra luglio e settembre 1960 16. Altro momento forte delle iniziative volute
da Rolandi fu costituito dallo svolgimento a Varallo del Terzo Congresso Piemontese di
Antichità ed Arte, organizzato dalla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti che, con la
qualificatissima partecipazione di autorità e di studiosi, si svolse tra l’11 e il 13 settembre 17.
La sistemazione della Pinacoteca definita in quel momento si segue attraverso il citato
catalogo a stampa, ma anche grazie ad una ricca e importante campagna fotografica qui parzialmente
riprodotta (figg. 4-10) realizzata al momento della inaugurazione dal fotografo
varallese Enrico Reffo, la cui opera è stata fondamentale anche per la documentazione del
patrimonio artistico della valle, ed il cui archivio attende di essere adeguatamente studiato
e valorizzato. In questi nitidi scatti, risultano esaltate le qualità architettoniche delle sale, così
come l’allestimento estremamente alleggerito e rigorosamente ispirato ad un criterio di selezione
qualitativa delle opere. Le ricerche non hanno fatto emergere, a fianco di Rolandi,
alcuna figura di architetto e sembra davvero che – approfittando di consigli autorevoli – egli
abbia affrontato in prima persona i temi della riqualificazione degli spazi; nelle soluzioni
adottate si legge da un lato il rispetto per elementi qualificanti della storia del palazzo (co-
Fig. 9. Varallo, Palazzo dei Musei. La sala dedicata alle opere di Pier Francesco Gianoli (nell’allestimento del 1960).
195

196 me ad esempio nel mantenimento degli infissi ottocenteschi o dei soffitti cassettonati), dall’altro
una impronta moderna e razionale, come si è detto a proposito del salone del Tanzio.
Uno dei pochi segni totalmente nuovi che caratterizzano l’intervento è dato dalle lastre di
pietra gestite a modo di paraste nei vasti varchi di passaggio, che possono trovare confronti
con altre sistemazioni museali degli anni ’40-’50 (fig. 6).
Nel citato catalogo del 1960 compare una appendice che documenta il tema dei depositi
“temporanei”, che fin da allora sottolineava una delle valenze ma allo stesso tempo una
difficoltà nella organizzazione espositiva dei materiali 18. Già al momento della sistemazione
di quel percorso, infatti, si pose il problema di tenere conto di questi depositi, che indicavano
la funzione assunta dalla Pinacoteca relativamente al recupero, con fini di tutela, di
materiali provenienti dal Sacro Monte così come da varie chiese della Valsesia, dalle quali
venivano tolti per motivi di sicurezza. I depositi sono proseguiti negli anni successivi, in un
rapporto costante con gli uffici di tutela del Piemonte; essi hanno però comportato un progressivo
abbandono della coerenza museografica risolutamente individuata nell’allestimento
inaugurato nel 1960.
Un caso emblematico è quello relativo allo strappo degli affreschi un tempo all’esterno
della chiesa di San Marco di Varallo, di cui correttamente, poco dopo l’inaugurazione, è stata
disposta la custodia presso la Pinacoteca, ma la cui sistemazione ha alterato profondamente
l’allestimento di una delle sale, senza che si riuscisse a ripensarlo negli stessi termini di qualità.
Un altro caso di modifica dell’allestimento, forse ancor più complesso, è quello relativo
all’intervento di restauro compiuto nel 1993 sulla sala del Tanzio, che ha completamente
obliterato le scelte fissate negli anni di Rolandi riaprendo le finestre sui due lati maggiori e ricostruendo
le coperture senza più lucernario, basandole su capriate lasciate a vista.
Fig. 10. Varallo, Palazzo dei Musei. La sala dedicata alle opere del Sei e del Settecento (nell’allestimento del 1960).

La Società che gestisce il Palazzo dei Musei (nata per la fusione delle due antiche associazioni
di cui si è detto) ha attualmente in corso un ampio progetto di recupero del complesso
edilizio – soprattutto dal punto di vista impiantistico – e di risistemazione museografica.
Questo intervento si trova dunque a fare i conti con la cancellazione, almeno in talune
parti, dell’allestimento coerente del 1960 e con l’ulteriore crescita delle collezioni legata
al perdurare dei compiti di tutela, in uno stretto rapporto con la Soprintendenza per i
Beni Artistici e Storici del Piemonte: una prima risposta si è tentata con l’intervento di riallestimento
della sala del Tanzio, inaugurato nel giugno 2002, che ha inteso rievocare con un
pannello tecnico ancorato al soffitto il disegno del lucernario preesistente, ma che non ha
certo potuto ripristinare la sistemazione del 1960 per quanto riguarda l’allocazione delle
opere, risolta ora grazie alla costruzione di setti dichiaratamente “altri” rispetto alla struttura
architettonica.
La storia complessa del Palazzo dei Musei di Varallo in quanto sede espositiva implica
dunque una riflessione approfondita, che ponga le premesse per un intervento rispettoso sia
dal punto di vista architettonico, sia da quello museografico: tenendo soprattutto in mente
la situazione fissata più di quarant’anni fa, si sta ora definendo una soluzione progettuale il
più possibile attuale, ma che allo stesso tempo dia conto delle varie tappe qualificanti di una
tradizione ben radicata e tuttora molto sentita.
*Per l’apporto fondamentale nelle
ricerche intorno a questi temi, voglio
ringraziare qui Carla Falcone e
Alessandra Montanera.
1 Su questi aspetti, cfr. Calderini
1903 e Romerio 1926, con la sintesi
aggiornata di Rosci 1981.
2 Si veda il documento citato da
Ballaré 1996, p. 28, che riassume
anche i successivi sviluppi e le cause
che portarono poi a tralasciare il
progetto di Antonelli.
3 Si tratta dei cinque frammenti
raffiguranti Teste di santi tuttora in
Pinacoteca (inv. 655, 679, 680,
682, 683).
4 Bordiga, Pianazzi 1835.
5 Cfr. la scheda redatta da chi scrive
in Bona Castellotti (a cura di)
2000, p. 100.
6 Cfr. Ballaré 1996, pp. 37-49.
7 Stefani Perrone (a cura di) 1998,
pp. 76-77.
8 Cfr. Catalogo 1885.
9 Studi recenti hanno fatto emergere
importanti carteggi di Arienta
con personaggi come Samuel Butler,
Guido Carocci, Gustavo Frizzoni,
Luigi Cavenaghi, Corrado
Ricci, Gustav Pauli, Jocelyn
Ffoulkes: Turlo 2000-2001, pp.
141-203.
10 Su questo episodio, si vedano le
schede redatte da Silvia Pizzetta in
Stefani Perrone (a cura di) 1998,
pp. 49-53.
11 Ballaré 1996, p. 58.
12 Arienta 1902.
13 Si tratta dei tre frammenti di
Bernardino Lanino provenienti
dalla cappella della Flagellazione
(inv. 654, 686, 698): Arienta 1902,
pp. 7, 28.
14 Barbano 1988.
15 Brizio & Rosci 1960.
16 Al catalogo della mostra torinese
(Testori 1959), venne accluso per
l’edizione valsesiana un fascicoletto
che presentava le riproduzioni
di alcune opere (in particolare disegni)
presenti solo nella seconda
sede.
17 Si vedano gli Atti e Memorie
1960, in particolare le Cronache dei
lavori congressuali redatte da Vittoria
Moccagatta (pp. XV-LXX).
18 Brizio, Rosci 1960, pp. 139-154.
197

198 Bibliografia
Atti e Memorie del Terzo Congresso
Piemontese di Antichità ed Arte.
Congresso di Varallo Sesia, Torino
1960.
Catalogo delle opere antiche e moderne
dell’Esposizione artistica valsesiana,
Varallo 1885.
G. Arienta 1902, Catalogo degli oggetti
d’arte contenuti nella Pinacoteca
di Varallo coll’aggiunta d’una
particolareggiata memoria storica
e artistica, Varallo, Camaschella
e Zanfa.
E. Ballaré 1996, Raccontare un museo.
Ambiti culturali e processi costitutivi
della Pinacoteca di Varallo
Sesia, Milano, Edizioni Lybra
Immagine.
E. Barbano, Giorgio Rolandi 1899-
1987, Varallo, Società per la
Conservazione delle Opere d’Arte
e dei Monumenti in Valsesia.
M. Bona Castellotti (a cura di)
2000, Tanzio da Varallo. Realismo,
fervore e contemplazione in
un pittore del Seicento, catalogo
della mostra, Milano, Federico
Motta Editore.
G. Bordiga, S. Pianazzi 1835, Le
opere del pittore e plasticatore
Gaudenzio Ferrari, Milano.
A.M. Brizio, M. Rosci 1960, La Pinacoteca
di Varallo Sesia, Varallo,
Società per la Conservazione
delle Opere d’Arte e dei Monumenti
in Valsesia.
G. Calderini 1903, Per l’antica
scuola del disegno, Varallo.
G. Romerio 1926, La Società d’Incoraggiamento
allo Studio del Disegno
in Valsesia, Varallo.
M. Rosci 1981, Materiali per una
storia della Pinacoteca e del suo
patrimonio, in Pinacoteca di Va-
rallo. Recuperi e indagini storiche,
a cura di M. Rosci, S. Stefani
Perrone, Varallo, Società per la
Conservazione delle Opere d’Arte
e dei Monumenti in Valsesia,
pp. 11-21.
S. Stefani Perrone (a cura di) 1998,
La città nel museo. Dipinti, disegni,
sculture dei luoghi e oggetti
d’arte di Varallo fra Ottocento e
Novecento, Varallo, Società per la
Conservazione delle Opere d’Arte
e dei Monumenti in Valsesia.
G. Testori 1959, Tanzio da Varallo,
catalogo della mostra, Torino,
Comune di Torino.
M. Turlo 2000-2001, Il pittore
Giulio Arienta nel dibattito storico
artistico del secondo Ottocento,
tesi di laurea presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università
di Torino, relatore M. di Macco.

“Discentium commodo advenarum spectaculo”:
i Musei Civici di Reggio Emilia
“per l’utile di chi studia e il diletto di chi entra”
Silvia Chicchi
Elisabetta Farioli
Roberto Macellari
Attilio Marchesini
Musei Civici di Reggio Emilia
RIASSUNTO
Nei Musei di Reggio è possibile, forse più che altrove, trovare testimonianze collezionistiche che documentano
l’evoluzione dell’idea di Museo: dalla Stanza delle Meraviglie, evocata dalla Collezione Spallanzani,
attraverso le suggestioni neoclassiche del Portico dei Marmi, all’impostazione positivistica del Museo
Chierici, all’eclettismo storicista della Galleria Parmeggiani, sino ai più recenti allestimenti della Galleria
Fontanesi e delle nuove collezioni archeologiche ed etnografiche. Come in una stratigrafia archeologica
“vecchio” e “nuovo” si sovrappongono e si completano.
Negli ultimi anni i Musei Civici hanno ricoperto in città nuovi spazi, assorbendo il compito di promozione
delle attività espositive, occupandosi dei luoghi e monumenti storici della città attraverso iniziative
di tutela e valorizzazione (di pertinenza dei Musei sono oggi la Sinagoga, il Mauriziano, i giardini
pubblici).
Uno dei principali obiettivi perseguiti è di avvicinare al Museo un pubblico più numeroso e consapevole,
comprese le categorie svantaggiate nell’impegnativa scommessa di rendere comprensibili ai più le
collezioni storiche, superando attraverso innovative formule di promozione la difficoltà di lettura degli allestimenti
originari e potenziando il loro indubbio fascino. Questi obiettivi troveranno più piena attuazione
nel complesso progetto di restauro e riqualificazione degli spazi museali, in corso di esecuzione, che
pur salvaguardando nella loro integrità le collezioni storiche, ne garantirà una più adeguata ed agile fruizione
da parte del pubblico.
SUMMARY
More than anywhere else, in the museums of Reggio it is possible to find the collections that bear testimony to
the evolution of the very idea of Museum: from the Hall of Wonders, evoked by the Spallanzani Collection,
through the neoclassic suggestions of the Marble Portico, to the positivistic style of the Chierici Museum, to the
historicist eclecticism of the Parmeggiani Art Gallery, up to the most recent exhibitions of the Fontanesi Art
Gallery and of the new archaeological and ethnographic collections. All these various “old” and “new” layers are
stratified and mutually integrated just like in an archaeological stratigraphy.
Over the past few years, the Municipal Museums have played new roles within cities, by promoting exhibition
events, by taking care of the city historical monuments and places through protection and enhancement
actions (today Museums are responsible for the Synagogue, the Mauriziano and the public gardens).
One of the main purposes is to bring the Museum closer to a more aware and wider public, including the
less favoured categories, by living up to the challenge to make historical collections more easily understandable,
by applying innovative promotion formulas to overcome the difficulties involved in the original exhibition solutions
and to enhance their unquestionable allure. These objectives will be fully met in the framework of the
ongoing comprehensive restoration and regeneration project involving the whole museum facilities, in full respect
of the integrity of the historical collections, thus making them more accessible to the public.

200 «Discentium commodo advenarum spectaculo» recita un’epigrafe latina posta nell’atrio dei nostri
Musei, riconducibile alla fervida cultura di Naborre Campanini, che volle riproporre il
suggerimento di Giuseppe Sperges, consigliere imperiale, a Lazzaro Spallanzani all’epoca
della formazione del Museo dell’Università di Pavia. Nella improvvisata ma efficace traduzione
che ne abbiamo dato “per l’utile di chi studia e il diletto di chi entra”, la frase ci è sembrata
assumere un valore quasi profetico rispetto agli intenti che nell’Ottocento Gaetano
Chierici, consapevole propugnatore del museo come luogo di confronto dei risultati scientifici
delle sue campagne di scavo, aveva attribuito a questo luogo, in linea col pensiero positivista
del tempo, e l’idea invece di “diletto”, anche di “meraviglia” rivolta al pubblico più
generico (“quelli che entrano”) che in fondo muove i più moderni tentativi con cui l’istituzione
museale si pone oggi il problema dei suoi “pubblici” nello sforzo di promuovere una
conoscenza più allargata delle sue collezioni e del suo patrimonio.
Nei nostri Musei, forse più che altrove, è possibile trovare testimonianze collezionistiche
che documentano l’evoluzione dell’idea di Museo: dalla Stanza delle Meraviglie, evocata
dalla Collezione di Lazzaro Spallanzani, attraverso le suggestioni neoclassiche del Portico dei
Marmi, all’impostazione positivistica del Museo di Gaetano Chierici, all’eclettismo storicista
della Galleria Parmeggiani, sino ai più recenti allestimenti della Galleria Fontanesi e delle
nuove collezioni archeologiche ed etnografiche.
Su queste importanti collezioni storiche notevole è stato, dalla fine degli anni Sessanta il
lavoro museologico (alla ricerca delle più corrette identità delle varie collezioni) e quello
museografico (l’esigenza del riallestimento che ha imposto a ogni passo una valutazione su
cosa bisognava mantenere e cosa si poteva invece cancellare come frutto di interventi posteriori
e posticci rispetto alle primitive idee collezionistiche).
L’impostazione metodologica e culturale di questo lungo lavoro è dovuta a Giancarlo
Ambrosetti, direttore dei Musei Civici dal 1967 al 1997, che ha saputo capire l’importanza
delle collezioni dei nostri Musei e si è impegnato a salvaguardarne l’identità in un’epoca in
cui la mania degli allestimenti “moderni” e “didattici” ha stravolto larga parte della realtà
museale storica italiana.
Ecco in un riepilogo di sintesi le principali collezioni storiche dei Musei di Reggio Emilia.
LA COLLEZIONE DI LAZZARO SPALLANZANI
La Collezione Spallanzani rappresenta la «piccola raccolta di naturali produzioni» che lo
scienziato aveva realizzato nella propria abitazione di Scandiano (RE). Conservata pressoché
integra nella sua originaria consistenza, essa è espressione sia della varietà di interessi
dello scienziato, dedito ad osservazioni e ricerche nei campi più diversi della storia naturale,
sia di una museologia settecentesca per certi aspetti ancora collegata a più antichi modelli.
Originariamente distribuita nelle stanze di casa Spallanzani, essa riflette infatti un duplice
carattere di documento scientifico e di arredo elegante e curioso: la presenza di numerosi
oggetti artistici e manufatti in cui l’interesse per il materiale naturale si coniuga ad
una funzione decorativa e di arredo, costituisce, unitamente alla presenza di esemplari artificiosamente
assemblati, un richiamo a quelle “Wunderkammer”, da cui il museo naturalistico
trae le sue origini.

Questa analogia doveva risultare ancora più evidente nella collocazione originaria della
raccolta, nelle piccole stanze della abitazione di Scandiano, dove i reperti si alternavano agli
arredi e i pezzi più ingombranti, per esigenze di spazio, venivano appesi al soffitto, come
nelle rappresentazioni di certi musei barocchi.
La collezione venne acquistata, unitamente a diversi arredi, oggetti personali, ai manoscritti
e alla biblioteca dello scienziato, già nel 1799, anno della morte dello Spallanzani, venendo
a costituire il primo nucleo dei Musei Civici cittadini. Annessa al Liceo, di cui rappresentava
il Gabinetto di Storia Naturale, seguì le vicende dell’istituto scolastico trovando
definitiva sistemazione nel 1830 nell’ala Nord dell’antico convento di San Francesco, dove
attualmente si trova.
Qui svolse nel corso dell’Ottocento un’attiva funzione didattica per la scuola e per il
pubblico, venendo costantemente ampliata con l’inserimento di nuovi materiali. Verso la fine
del secolo pertanto l’unitarietà della collezione appariva compromessa mentre nello stesso
tempo occorreva affrontare il problema di rendere il museo uno strumento efficace e moderno
dal punto di vista della scienza e della divulgazione.
Fig. 1. Musei Civici di Reggio Emilia:
un armadio con reperti della
Collezione Spallanzani.
201

202 Venne varato così nel 1880, da parte di una commissione appositamente costituita, un
progetto di riordino, che prevedeva la netta separazione della collezione, ricostituita nella
sua unitarietà entro gli armadi antichi, dal resto dei materiali museali, allo scopo di preservarne
il carattere storico: «Il Civico Museo di Storia Naturale, che si intitola col nome di una
delle più grandi illustrazioni della scienza, devesi ritenere e mantenere separato e distinto in due
parti principalissime, l’una storica e monumentale, che contiene le collezioni di ogni specie del
nostro celebre Naturalista Lazzaro Spallanzani, l’altra puramente scientifica contenente tutte le
raccolte di oggetti di Storia Naturale che si vanno di continuo ampliando con acquisti, doni,
scambi. Mentre questa seconda parte ha e deve avere un ordinamento mutabile secondo i progressi
e i pronunciati della scienza, la prima parte è e deve essere inalterabile nelle classificazioni,
quali furono fatte o debbono ritenersi fatte dall’esimio scienziato che le diede il suo nome illustre,
secondo i portati della Scienza di quel tempo». Parole, queste, che precorrono e indicano
quella che sarebbe stata in seguito la duplice vocazione dei Musei Civici di Reggio Emilia:
da un lato la conservazione della memoria storica, dall’altro l’evoluzione e il cambiamento,
in funzione non solo dei progressi della scienza, ma anche delle mutate esigenze del
pubblico e delle nuove metodologie espositive e divulgative.
Attualmente la collezione conserva sostanzialmente tale allestimento, opera di Alfredo
Jona, completato nel 1883. È disposta in due sale, con gli oggetti personali divisi dai materiali
più prettamente scientifici. La prima saletta ospita tavolini, consolle, soprammobili,
quadri, ricordi del viaggio in Turchia. In questi oggetti è sempre presente l’interesse dello
scienziato per il materiale naturale impiegato nella realizzazione. Così i tavolini in pietra di
Jano, in marmo di Serravezza, in “lumachella rarissima”, i vasi in alabastro di Volterra, i fiori
e gli uccelli realizzati con conchiglie, il raro e prezioso gioco della dama in ambra, le piccole
sculture in marmo, diventano un ricercato campionario di materiali, impreziositi dalle
eleganti lavorazioni. Alle pareti grandi quadri, ottenuti dallo stesso Spallanzani assemblando
le tavole zoologiche delle “Historiae Naturalis” di Johannes Jonston.
Nella seconda sala, in ventuno armadi, è raccolto il corpo principale della collezione, disposto
in sequenza sistematica secondo le conoscenze scientifiche della fine del XVIII secolo,
seguendo cioè per la parte zoologica la nomenclatura e gli schemi classificatori esposti da
Linneo (1707-1778) nel suo “Systema Naturae”, per i minerali la classificazione di Haüy.
L’esposizione prende quindi le mosse dalle vetrine dei “Poppanti”, percorrendo le diverse
classi del Regno animale, dagli organismi più complessi a quelli più semplici, giungendo,
attraverso la vetrina dei fossili, al Regno minerale.
Le vetrine che ospitano la raccolta sono in parte arredo originale di casa Spallanzani, in
parte sono state realizzate successivamente, la maggior parte nel corso dell’Ottocento, ad
imitazione delle precedenti. A questa risistemazione sono state apportate alcune modifiche
minori nel 1932 (G. Altana) e in occasione delle celebrazioni spallanzaniane nel 1959 (M.
Degani), quando è stato purtroppo sostituito l’originario pavimento in cotto delle sale con
uno in marmo. Un complessivo restauro è stato condotto nel 1992 (G. Ambrosetti), con il
rifacimento della tappezzeria degli armadi e piccole modifiche nella disposizione dei pezzi,
cercando di ricreare, attraverso giochi di simmetrie, schemi di allestimento di tipo settecentesco,
secondo l’indicazione data dallo stesso Spallanzani: «ho sopra ogni altra cosa avuto in
mira che la mia distribuzione metodica sia fatta in guisa, che al tempo che non dispiace all’occhio
istruisca la mente con la serie ordinata delle Classi, de’ Generi, delle Spezie».

MUSEO “GAETANO CHIERICI” DI PALETNOLOGIA
Istituita da Gaetano Chierici nel 1862 e portata a compimento nel 1870, quando fu integrata
nel Museo di Storia Patria, la Collezione di Paletnologia si articola in tre serie. La prima,
e fondamentale, riunisce i materiali archeologici della provincia di Reggio Emilia. Rimangono
ad essa subordinate le due serie con materiali extraprovinciali, che illustrano rispettivamente
l’archeologia di altre regioni d’Italia, e le culture archeologiche ed etnografiche
di altri paesi europei e di altri continenti. Una quarta sezione espone “sepolcri” trasportati
intatti in Museo. I materiali sono presentati integralmente, senza introdurre distinzioni
fra oggetti di prima e di seconda scelta, essendo la Paletnologia scienza “democratica”
per esplicita affermazione di Chierici. Ne consegue quel senso di straordinario affollamento
che, ad un primo impatto, sembra costituire la cifra della collezione.
Diretta espressione del lavoro culturale del fondatore, la Collezione di Paletnologia è preziosa
testimonianza della scienza e della museologia del tardo Ottocento. Essa rispecchia al contempo
i convincimenti politici di Chierici, uno dei protagonisti del Risorgimento a Reggio.
Traspare infatti dalla sua impostazione un progetto politico di unificazione nazionale, che valorizza
le situazioni locali per ricomporle in un quadro più ampio ed unitario. I materiali di confronto
rappresentano le realtà archeologiche dell’intera penisola, comprese le regioni ancora irredente.
Scorre di vetrina in vetrina “l’Italia, la bella figlia delle Alpi e del mare”, secondo un disegno
di divulgazione scientifica che richiama le suggestioni de Il bel paese dell’abate Stoppani.
Conservata negli arredi e con l’ordinamento originari, è pressoché l’ultima superstite
rappresentazione del metodo di lavoro di un paletnologo, nell’età stessa in cui la ricerca prei-
Fig. 2. Musei Civici di Reggio Emilia: uno scorcio del Museo “Gaetano Chierici” di Paletnologia.
203

204 storica si afferma in Italia. «Servire ai nuovi studi» è l’assunto su cui riposa l’intera costruzione.
Si può anzi affermare che percorrere il Museo di Gaetano Chierici è come visitare il
luogo di lavoro, il laboratorio, di un protagonista della cultura europea, che ha saputo innestare
sull’archeologia, tradizionalmente letteraria ed estetica, i principi e le tecniche delle
scienze geologiche e naturali. Nessuna concessione alla divulgazione e, quindi, apparati didascalici
ridotti a meno dell’essenziale: la ricerca di scientificità non ha timore di sfiorare
l’ermetismo. «Chi raccoglie per un museo paletnologico non dee pensare di far opera grata
ai curiosi… ma sol dee curarsi di aggradire agli studiosi», scriveva Chierici nel 1879.
Dati questi presupposti, fu di grande coraggio e in contro tendenza rispetto a scelte operate
altrove la decisione assunta da Giancarlo Ambrosetti agli inizi degli anni Settanta di
conservare, e, anzi, di restaurare la Collezione di Gaetano Chierici, portandola il più possibile
vicino all’idea museale che la informava. Già all’indomani della scomparsa del fondatore,
e poi nel secolo successivo, la collezione aveva infatti subito manomissioni, che avevano
comportato il trasferimento in altre sedi delle sezioni etnografica e di antichità medioevali,
ed il forzoso inserimento di nuove acquisizioni nelle sezioni di archeologia provinciale
e dei sepolcri. A dire il vero, il programma di ripristino fu preceduto da tentativi a carattere
sperimentale, che si rivelarono assai presto fallimentari. Si allude alla ristrutturazione delle
vetrine 1-8 operata nel 1967, «secondo il principio di lasciare intatta la organizzazione generale
del Museo e la essenziale ideologia organizzativa della vetrina, estraendone quanto
fosse superfluo o ripetitivo, e ottenendo la evidenziazione dei documenti fondamentali e la
loro didascalizzabilità». Come Ambrosetti stesso dovette riconoscere, «risultò soggettivo e
inverificabile il principio del superfluo, e tale comunque da intaccare distruttivamente il significato
generale del vecchio ordinamento». Nella rigorosa scansione dei materiali concepita
da Chierici, che ripropone di vetrina in vetrina la divisione per categorie cronologiche,
topografiche, materiche, tecnologiche e tipologiche, persino l’ossessiva ripetitività dei tipi
può offrire spunti interpretativi, quanto meno di ordine statistico.
Le tappe della complessa operazione di restauro, supportata dalla pubblicazione di due
fondamentali lavori di Marcel Desittere, che hanno ricostruito l’iter della collezione ed il
ruolo di Chierici nell’ambito della nascente paletnologia (1986 e 1988), hanno riguardato
l’eliminazione dei materiali e dei sepolcri acquisiti dopo la morte di Chierici, che avevano
turbato il rigore dell’ordinamento originario (1975); l’esposizione degli strumenti di lavoro,
delle onorificenze e dei cimeli di Chierici nelle vetrine un tempo occupate dalle antichità
medioevali, non più ricostruibili (1975); il ripristino della sezione dei confronti etnografici,
che costituiva un aspetto fondamentale del progetto espositivo di Chierici (1996); la ricostruzione
della sezione dei sepolcri (1996). A ciò si è accompagnato l’inserimento di un
sistema di didascalie, che, benché di carattere “leggero”, ha comunque significato recare una
qualche violenza al progetto espositivo “alto” di Chierici, che, come si è accennato, assai poco
concede alla divulgazione, e la realizzazione di una guida breve (1997), con l’evidente intento
di rendere fruibile una collezione divenuta ormai ermetica nella sua sigla specialistica.
Il completamento del programma di interventi dovrà in futuro comportare la sostituzione
dell’attuale sistema di illuminazione con uno dai toni più “morbidi” e soprattutto il
ripristino dei supporti sui quali erano originariamente fissati i materiali archeologici: eleganti
cartoni grigi bordati di nero, che, a causa del deperimento a cui erano andati soggetti,
erano stati sostituiti negli anni Settanta da anonime ed incongrue tavolette in formica.

LA GALLERIA DEI MARMI
Il “Portico dei Marmi” costituisce la seconda collezione fondamentale del progetto museale
di don Gaetano Chierici. Già negli anni tra 1860-1870, pur essendo massimamente impegnato
nella formazione del suo Museo di Storia Patria il cui nucleo principale è costituito
dalla collezione paletnologica, non tralascia di raccogliere materiali, soprattutto lapidei,
inerenti la storia romana e medioevale del territorio reggiano. Il primo nucleo di questi materiali
è costituito dai reperti romani provenienti dal sottosuolo della città di Brescello, dai
monumenti funerari rinvenuti recentemente nell’area della necropoli romana di San Maurizio
e da quei materiali, soprattutto epigrafi romane e medioevali, collocati a partire dal
1775 sotto il portico municipale a costituire un vero e proprio lapidario comunale. Fondato
nel 1862 il Gabinetto di Storia Patria, Chierici ottiene la disponibilità del portico interno
del lato meridionale del chiostro per l’esposizione di questa sua collezione. In questa occasione
il cortile fu trasformato in giardino ed i marmi furono ordinati con criterio cronologico:
i reperti romani negli intercolumni verso il giardino e gli altri, medioevali e moderni,
in successione lungo la parete interna del lato sud. Con questa disposizione e con il nome
“Portico dei Marmi” venne aperta al pubblico nel 1875. Questa scelta espositiva è
espressione compiuta della volontà del Chierici di documentare lo svolgersi della storia cittadina
non solo attraverso le testimonianze artistiche, ma anche attraverso il recupero dei
più minuti e meno appariscenti reperti. In questa volontà trova giustificazione l’esposizione
di frammenti decorativi, di stemmi araldici, di fregi, di epigrafi funerarie e soprattutto commemorative
di eventi, di opere pubbliche, di istituzioni.
Fig. 3. Musei Civici di Reggio Emilia: il “Portico dei Marmi”.
205

206 Il “Portico dei Marmi” mantiene inalterata la sua struttura sino al 1884, quando il Chierici
per collocare il “Portale Fontanelli”, acquistato grazie ad una pubblica sottoscrizione, ottenne
di sfondare il lato meridionale del portico creando così un precedente che giustificherà
l’occupazione di entrambe le arcate del chiostro. La morte avvenuta nel 1886 gli impedì
di portare a termine l’ampliamento dei locali.
Gli successe l’allievo e collaboratore Giovanni Bandieri che, nei tre anni seguenti, arricchì
la collezione ed avviò le complesse pratiche per l’ampliamento dei locali.
Con l’avvento nel 1889 di Naborre Campanini cambiò il quadro di riferimento culturale.
Il nuovo direttore, di formazione carducciana, accentuò l’attenzione verso le forme di
espressione artistica. Ottenuta la disponibilità del secondo braccio del portico meridionale
e dell’ex sagrestia di San Francesco provvide ad una rideterminazione degli spazi museali.
Per la raccolta dei marmi riprese lo schema del Chierici, arretrò sulla parete di fondo i reperti
medioevali e moderni, applicò alle colonne, sempre mantenendo il confronto cronologico,
pezzi particolarmente importanti o caratterizzati dalla tridimensionalità, collocò infine
al centro delle arcate sculture di notevoli dimensioni. Cambiò infine il nome della raccolta
che da un oggettivo “Portico dei Marmi” venne mutato in un enigmatico e fuorviante
“Gliptoteca”. Nel 1902 la raccolta allargata e la nuova “Pinacoteca” alloggiata nella ex sagrestia
furono aperte al pubblico. Nel 1914 l’afflusso di nuovo materiale costrinse il Campanini
a riorganizzare il giardino ed a collocare lungo le pareti i materiali ritenuti meno deperibili.
Nello stesso anno operò l’unica notevole alterazione dello schema espositivo voluto
dal Chierici; collocò infatti al di fuori della sequenza cronologica tutti i reperti in cotto
decorato, andando così a costituire l’unica parete tematica della raccolta. Il Campanini in
questa scelta si ispirò probabilmente a quanto andava facendo in ambito bolognese Francesco
Malaguzzi Valeri, suo amico fraterno.
Nel 1923, alla morte del Campanini, successe come ispettore alla “Gliptoteca” l’ingegner
Otello Siliprandi. Nel periodo della sua direzione la collezione dei marmi romani ebbe l’incremento
maggiore. Per una serie di circostanze fortuite gli anni del fascismo, corrispondenti
alla direzione Siliprandi, coincidono a Reggio con il periodo dei più significativi rinvenimenti
romani. La retorica e il mito dell’impero, allora dominanti, fecero sì che le amministrazioni
fossero generose di sovvenzioni. Grazie alla coincidenza di questi due fattori Siliprandi
poté tra il 1933 ed il 1939 collocare nella galleria l’ingente materiale architettonico
uscito dagli scavi di San Maurizio e riordinare tutto il giardino organizzandolo intorno al
monumento funebre a tamburo. Dopo la pausa dovuta agli avvenimenti bellici, la direzione
dei musei passò al dottor Mario Degani. In quegli anni i grandi lavori di “ammodernamento”
del centro storico permisero di accrescere notevolmente la raccolta dei mosaici. Le nuove
acquisizioni trovarono provvisoria collocazione nella Gliptoteca. L’inadeguatezza dei mezzi
messi a disposizione e il calato interesse delle amministrazioni impedirono di fatto interventi
di riorganizzazione degli spazi.
Agli inizi degli anni Novanta il direttore Giancarlo Ambrosetti, dopo una forzata chiusura
pluriennale dovuta a lavori di ristrutturazione impiantistica e di adeguamento antisismico,
ha curato il completo riordinamento della raccolta. Si è ripristinato il nome originario
“Portico dei Marmi”, si è recuperata al pubblico un’arcata tamponata, si sono ammodernati
gli impianti di illuminazione e di riscaldamento. Nell’ottica della scelta di recupero
museale della sistemazione ottocentesca è stato ripristinato il tinteggio originale, sono stati

icoverati all’interno i materiali più deperibili, inserendoli con le nuove acquisizioni senza
variare lo schema cronologico. Sono infine stati tarsferiti i pezzi di scultura romana ed i materiali
musivi che insieme ai reperti di scavo sono andati a costituire la nuova sala di “Reggio
romana” ricavata nella ex sagrestia.
LA GALLERIA PARMEGGIANI
La Galleria Parmeggiani è una collezione di materiali artistici allestiti in un edificio separato,
fatto costruire appositamente da Luigi Parmeggiani tra il 1924 e il 1933 per ospitare la sua
collezione in un disinvolto stile eclettico che unisce motivi gotici a riprese rinascimentali.
La Galleria è stata riaperta nel 1988 dopo venti anni di chiusura al pubblico. Non sono stati
anni inutili. Si trattava infatti innanzitutto di capire la vera identità della collezione. La versione
fornita da Luigi Parmeggiani – che sosteneva che quella era la sua collezione, messa insieme
in anni di sacrifici, di folle amore per l’arte, di strenuo combattimento contro la diffusione
dei falsi – faceva acqua da tutte le parti. Come non dimenticare che quel florido signore borghese
con raffinata consorte francese al fianco era lo stesso cittadino reggiano costretto a espatriare
dalla città nel 1887 per aver partecipato all’attentato anarchico alla vita di Prampolini?
Come non vedere che nei dipinti di un certo Ignacio Leon y Escosura esposti numerosi
nella galleria, databili agli ultimi decenni dell’800 comparivano oggetti – dipinti, mobili,
tessuti, costumi – esposti nella collezione di Reggio Emilia e che lo stesso nome “Escosura”
figurava nel timbro apposto alla collezione di tessuti e costumi e addirittura nell’etichetta di
un mobile “ideato ed eseguito da Ignacio Leon y Escosura”?
Il colpo di grazia venne indubbiamente da un distinto sir inglese, John Hayward all’epoca
(siamo a metà degli anni Settanta) curatore del dipartimento metalli del Victoria &
Albert di Londra. Di fronte alle raffinate collezioni di gioielli egli affermò «ma questi sono
falsi Marcy» riconducendoli all’ambito produttivo di una famosa bottega parigina dell’800
specializzata in oggetti “in stile” da cui erano uscite oreficerie presenti nelle collezioni del
Victoria, del Louvre, del Metropolitan. Ma è stato Giorgio Lionello Boccia, che nel frattempo
studiava la collezioni delle armi a fornire una decisiva svolta alla vicenda dimostrando
che il Louis Marcy che aveva trattato con i famosi musei per vendere le oreficerie era in
realtà Luigi Parmeggiani. E che – confermavano in seguito le ricerche di Blair, Madame Arquiè,
M. Campbell – Marcy era il cognome della moglie di Ignacio Leon y Escosura, erede
dunque della omonima bottega parigina, amante di Parmeggiani anche prima della morte
dell’Escosura (1901) e vero trait d’union di tutta la vicenda.
Ma in tutto questo feuilletton – ancora in parte da chiarire – una cosa risultava ormai
certa: Ignacio Leon Y Escosura era il vero ideatore della collezione Parmeggiani, come si
evince in modo chiaro dai suoi dipinti – dove troviamo non solo oggetti ancora presenti a
Reggio Emilia ma anche precise idee di allestimento, il rosso pompeiano delle pareti, l’idea
della boiserie, del camino che campeggia in molte delle sue raffigurazioni. Ma espliciti sono
anche i rimandi dalla collezione reggiana alla galleria di vendite Marcy-Escosura a Parigi: l’idea
del lucernario, le vetrine, le stesse poi trasportate a Reggio.
Da queste scoperte nascevano importanti indicazioni per il riallestimento della galleria:
non si era dunque in presenza di una galleria reggiana degli anni Venti, messa insieme in
207

208 modo più o meno rocambolesco da un astuto dilettante di provincia, ma invece di fronte a
una significativa raccolta di un pittore spagnolo-francese della seconda metà dell’800, tipico
esponente di una cultura storicista, permeata da un colto eclettismo e da un disinvolto
gusto della manipolazione in stile.
Individuato con precisione il modello collezionistico di riferimento, occorreva procedere
al riallestimento, a fronte di profondi mutamenti che avevano alterato la disponibilità
delle sale (si era scelto di ampliare il porticato antistante l’edificio recuperando così l’antico
portico delle carrozze, era stato necessario creare nuovi percorsi per la sicurezza, così pure
sacrificare alcuni volumi per ospitare i nuovi impianti tecnologici). Ma la lettura del museologo
procedeva sicura, non particolarmente preoccupata di rispettare una ricostruzione
filologica messa in discussione dalle nuove esigenze, ma certa di avere individuato le idee
culturali e anche estetico-compositive del Parmeggiani – che fra l’altro spesso e volentieri
cambiava la disposizione della sua casa-museo. I problemi erano piuttosto altri: trovare qualcuno
che risistemasse la vetrina dei costumi e riuscisse a chiuderla (Giovanni Morigi) o un
vetraio che si impegnasse a ricostruire vetri molati a 45 gradi richiesti dalle raffinate vetrine,
lampade, boiserie.
A partire dagli anni Settanta, congiuntamente all’impegno nella conservazione dei modelli
collezionistici storici, i Musei Civici erano impegnati nella creazione o nel radicale riordino
di altre collezioni, che riportiamo in una veloce sintesi descrittiva.
MUSEO DI PREISTORIA E PROTOSTORIA
La decisione di recuperare la Collezione paletnologica portò come conseguenza la realizzazione
di nuove collezioni archeologiche, che potessero raccogliere i materiali rinvenuti nel
Reggiano dopo la scomparsa di Chierici, soprattutto nel corso di sistematiche campagne di
scavo e di ricerca condotte negli ultimi decenni.
Nel 1975 per iniziativa di Giancarlo Ambrosetti nasceva il Museo di Preistoria e Protostoria
nelle sale espositive del seminterrato di Palazzo San Francesco. Il nuovo museo è
stato ampliato e riordinato fra il 1991 ed il 1992, quando ha raggiunto la sede definitiva,
nelle ali occidentale e settentrionale al primo piano del Palazzo dei Musei. Si è voluto
confermare il ruolo tradizionale delle collezioni archeologiche reggiane, come punto di
riferimento di tutto il territorio provinciale. Si è al contempo inteso conferire al programma
di indagine sul territorio una qualificazione scientifica della ricerca, anche attraverso
il coinvolgimento di Istituti universitari, oltre che, ben inteso, della Soprintendenza
competente.
La documentazione archeologica che vi è stata raccolta riguarda un ampio arco cronologico,
dal Paleolitico sino alle soglie della romanizzazione. L’ordinamento rispetta i complessi
di scavo; i materiali pertinenti a contesti di abitato sono tenuti distinti da quelli dei
sepolcreti, che occupano una galleria distinta. Le strutture espositive sono state concepite in
un senso dinamico e aperto, attraverso la realizzazione di moduli facilmente combinabili e
reiterabili, e di corredi informativi essenziali e flessibili. Nel vestibolo della collezione è stata
di recente installata la carta archeologica tridimensionale in scala 1:25.000 della provin-

cia di Reggio Emilia, con l’indicazione dei siti della preistoria e protostoria, evidenziati mediante
segnali luminosi.
Le collezioni di preistoria e protostoria sono destinate a completarsi nella nuova sezione
di topografia romana, in cui troverà collocazione il materiale archeologico rinvenuto nel territorio
provinciale reggiano.
MUSEO DI REGGIO IN ETÀ ROMANA
Ha sede al piano rialzato nei locali dell’antica sacrestia della chiesa di San Francesco, già occupati
dal Museo del Risorgimento, cui si accede dal Portico dei Marmi. Vi è documentata
la civiltà romana a Reggio Emilia, quale emerge da scavi e scoperte effettuati soprattutto
nella seconda metà del XX secolo. Negli anni della ricostruzione postbellica Mario Degani
svolse un ruolo fondamentale nella vigilanza sui cantieri di scavo che si aprivano nel centro
di Reggio. Si poté in tal modo recuperare un’ingente quantità di materiali, che comprende
un’ampia documentazione di pavimenti decorati a mosaico. Ulteriori incrementi si ebbero
in occasione degli scavi condotti negli anni Ottanta dalla Soprintendenza archeologica dell’Emilia-Romagna.
La sala è stata allestita fra il 1996 (sezione di numismatica, archeologia cristiana, archeologia
tardoantica ed altomedioevale) ed il 1998. L’ordinamento è tematico. Un’attenzione
speciale è riservata al corpus dei mosaici, che costituisce una documentazione di grande
rilievo.
Fig. 4. Musei Civici di Reggio Emilia: il Museo di Reggio in Età Romana.
209

210 L’esposizione troverà complemento nella sezione dedicata all’archeologia romana nel territorio
provinciale, con ordinamento topografico, che si intende allestire in collegamento
con il Museo di Preistoria e Protostoria al primo piano del palazzo San Francesco.
COLLEZIONE DI ETNOGRAFIA
La collezione ha avuto, in oltre un secolo di vita, un iter travagliato, soffrendo, più di altre
sezioni del Museo, della mancanza di spazi destinati ad esposizioni permanenti.
Le acquisizioni successive alla morte di Chierici, sarebbero state letteralmente stipate negli
armadi già esistenti nella Collezione di Paletnologia. Vi trovò fra l’altro accoglienza l’ingente
materiale raccolto dal barone Raimondo Franchetti nei suoi viaggi di avventura nelle
Isole della Sonda, nell’Indocina, nell’Africa orientale inglese.
L’affastellamento che si era sedimentato nella Collezione di Paletnologia, creando i presupposti,
seppure non perseguiti, per una collezione di estensione universale, avrebbe indotto
Mario Degani, a metà degli anni Cinquanta, a trasferire la Collezione di Etnografia
in una nuova sede, la sala “Gianbattista Venturi”, attigua alla “Antonio Vallisneri”, dove
erano da tempo esposti in allestimenti spettacolari i trofei di caccia del barone Franchetti.
Il nuovo spazio espositivo non avrebbe tardato a rivelarsi insufficiente ad accogliere nuove
acquisizioni di materiali. Il problema si sarebbe presentato già nel 1970, quando Giancarlo
Ambrosetti si rese disponibile ad accogliere il deposito delle raccolte etnografiche del
Fig. 5. Musei Civici di Reggio Emilia: la Collezione di Etnografia.

Museo di Antichità di Parma. Ne facevano parte i materiali acquisiti in Amazzonia da Enrico
Schivazappa, agente consolare italiano nella provincia brasiliana di Pará tra il 1883 ed
il 1888.
Fu in seguito assunta una decisione fondamentale, quella di riportare nella Collezione di
Paletnologia quei materiali che vi si trovavano alla morte di Gaetano Chierici. Si poteva di
conseguenza impostare il progetto di riordino delle raccolte costituitesi dopo la scomparsa
del Chierici. Più ancora che perseguire il fine di una rappresentazione universale, di etnie
sparse nei cinque continenti, si sarebbe potuta documentare la partecipazione di reggiani al
fenomeno delle esplorazioni e della colonizzazione in terre d’oltremare, cui la città di Reggio
aveva offerto significativi contributi. Punto di forza del nuovo ordinamento poteva essere
la fusione delle raccolte amazzoniche degli Schivazappa, quella dell’agente consolare
Enrico, pervenuta dal Museo di Parma nel 1970, con quella dei nipoti Armando ed Enrico,
emuli dello zio, consegnata al Museo di Reggio sin dal 1896.
Sul piano degli allestimenti, si decise di recuperare gli arredi originari della sala (grandi
vetrine continue, che foderano quasi completamente le pareti), garantendovi le migliori
condizioni possibili di conservazione del patrimonio etnografico. Questa tipologia espositiva
non aveva illuminazione al proprio interno, ma riceveva luce naturale e artificiale dagli
ambienti. La presenza di reperti organici ha richiesto una speciale esposizione luminosa, per
qualità e quantità, ed ha consigliato un progetto di restyling illuminotecnico con utilizzo di
fibre ottiche. La luce investe direttamente gli oggetti, li fa emergere dalla penombra, permettendone
una lettura ottimale, e al tempo stesso ne accentua il valore evocativo.
Il nuovo ordinamento si avvale di un apparato didascalico, che si articola in tre ordini di
informazioni. Una guida breve a stampa, in distribuzione gratuita, illustra al visitatore l’intera
collezione. Il corredo didascalico è destinato a completarsi in una postazione multimediale
interattiva, che illustri le figure dei protagonisti dei viaggi di esplorazione o di avventura.
Vi troverà spazio un filmato dell’Istituto Luce con la spedizione in Dancalia di Raimondo
Franchetti (1929), recuperato di recente.
LA GALLERIA FONTANESI
Collocata al primo piano del Palazzo di San Francesco, la Galleria Fontanesi consente di seguire
le vicende dell’arte a Reggio Emilia dal Trecento alla prima metà del Novecento attraverso
la presentazione di circa centottanta dipinti e una selezione di stampe e disegni. Sono
esposte opere esattamente riferibili all’ambito reggiano, in quanto prodotte a Reggio da artisti
reggiani, o meglio in quanto collegabili a episodi e fenomeni di storia culturale e produttiva
che hanno investito la città.
La storia della collezione non ha una precisa identità, legata per lo più alle vicende del patrimonio
artistico del Comune arricchito, come in molte altre analoghe situazioni, dal confluire
di opere legate alla soppressione di edifici religiosi e da importanti depositi da parte dei
principali istituti cittadini (la Scuola di Belle Arti, la Cassa di Risparmio, l’Ospedale).
I dipinti di proprietà comunale erano conservati fino al 1876 nella Residenza pubblica.
Ai pochi dipinti antichi nell’Ottocento si erano aggiunte significative opere contemporanee,
grazie alla politica di aiuto alla formazione degli artisti portata avanti dalla Comunità. Nel
211

212
Fig. 6. Musei Civici di Reggio Emilia: la Galleria Fontanesi.
Fig. 7. Musei Civici di Reggio Emilia: il Museo Mazzacurati.

1855 è documentato un primo incarico ufficiale al pittore Domenico Pellizzi di formare una
Pinacoteca civica da unire alle collezioni museali del Palazzo di San Francesco. Ma solo nel
1876, in occasione dell’allestimento della Mostra artistica industriale della città di Reggio
Emilia presso il Palazzo di San Giorgio si ha una prima idea di esposizione pubblica realizzata
grazie al contributo di privati. Nel 1883, per interessamento di Naborre Campanini e
Gaetano Chierici, le opere comunali vengono trasferite alla R. Scuola di disegno per operai,
dove rimangono fino al 1893. In quest’anno il Sindaco Iginio Bacchi decide di formare
una quadreria da annettere al Museo Civico. Negli anni dal 1901 al 1904 si deve a Naborre
Campanini l’allestimento della Pinacoteca nella antica sagrestia del Convento di San
Francesco; nel 1929 le opere vengono trasferite da Emilio Spagni al secondo piano del San
Francesco. Dopo gli interventi di Marianna Prampolini Tirelli e di Mario Degani è nel
1977, ad opera di Giancarlo Ambrosetti, direttore dei Civici Musei, la fondamentale ristrutturazione
che individua le caratteristiche della Galleria, notevolmente ampliata alla fine
del 1995 con la ristrutturazione dell’ala est del secondo piano dei Musei che consente l’esposizione
di numerose opere dell’Ottocento, giungendo a documentare gli esiti pittorici
locali fino alla prima guerra mondiale.
LE RACCOLTE NATURALISTICHE
Le raccolte naturalistiche post-Spallanzani, acquisite in modo continuo nell’arco degli ultimi
due secoli, si trovano oggi a costituire alcuni nuclei, differenti come origine, modalità
espositive e intenti. La Sala Vallisneri di zoologia ospita le vecchie collezioni zoologiche,
delle quali si è riproposto l’ordinamento sistematico, il consistente nucleo dei
trofei di caccia del barone Raimondo Franchetti e una recente raccolta relativa alla fauna
del territorio reggiano, ordinata per ambienti. È imminente, dopo il restauro delle vetrine
e dei preparati, la riapertura della Sala Assalini di anatomia, osteologia e teratologia,
di impianto ottocentesco, mentre la Sala Re ospita raccolte erbariologiche dal XVII
al XX secolo. Due salette di recente allestimento presentano la geologia del reggiano, in
linea con l’attuale intento della sezione naturalistica dei Museo di fornire una rappresentazione
dei vari aspetti naturali del territorio provinciale, significativa anche dal punto
di vista didattico.
L’esposizione più recente in questo ambito è dedicata a un importante reperto fossile che
i Musei Civici hanno recuperato e restaurato nel corso di due campagne di scavo condotte
tra il 2000 e il 2001. Si tratta dello scheletro di un grande cetaceo, attribuito al genere Balena,
di 3,5 milioni, rinvenuto nella collina reggiana.
All’esposizione del pezzo è stato dato un carattere divulgativo e didattico. I reperti sono
stati esposti nella posizione di rinvenimento, senza distaccarli dal piano argilloso su
cui giacevano e collocati in posizione bassa per restituire al visitatore la situazione presente
sullo scavo. Alle pareti è stato dato grande spazio a pannelli e immagini, anche di
grandi dimensioni, per fornire un supporto alle numerosissime visite guidate richieste dalle
scuole su questo argomento, giocando sull’impatto emotivo di questo grande reperto
per avvicinare le classi al discorso dei fossili, sia per la sua valenza scientifica sia come propedeutico
allo studio della storia.
213

214
Fig. 8. Musei Civici di Reggio Emilia, Collezioni Naturalistiche:
la Sala Vallisneri di Zoologia.
Fig. 9. Musei Civici di Reggio Emilia, Collezioni Naturalistiche: scheletro di grande cetaceo
dalle colline reggiane.

… ADVENARUM SPECTACULO
I nostri musei sono molto belli per gli addetti ai lavori e in particolare per chi si occupa di
storia dei musei: come in una stratigrafia archeologica “vecchio” e “nuovo” si sovrappongono
e si completano, in un itinerario che nella sede principale del Palazzo San Francesco dalle
collezioni storiche del piano rialzato sale verso le nuove e nuovissime dei piani secondo e
terzo. Ma sono musei difficili da capire per il largo pubblico, che si trova di fronte ad apparati
didascalici minimali e immerso in un’atmosfera anche carica di fascino ma per lo più
respingente.
L’obiettivo di aprire il museo alla città e al pubblico è stato compito prioritario di questi
ultimi anni – sotto la guida di Maurizio Festanti, direttore del Museo dal 1997. Un compito
facilitato dal forte radicamento del museo nella vita cittadina, punto di riferimento per
così dire naturale, in una città in cui le Istituzioni preposte alla tutela non sono rappresentate
da uffici decentrati, e ampi margini rimangono disponibili per la ricerca scientifica, che
l’Università, ancora molto giovane a Reggio, copre soltanto in parte.
L’idea di un museo come luogo permanente di educazione è fondamentale per il suo essere
oggi un servizio necessario per la società. Molte quindi le risorse che i Musei Civici di
Reggio Emilia da tempo destinano ad iniziative di divulgazione. L’impegno maggiore viene
profuso nell’organizzazione del programma “Il Museo per la Scuola”, che ha ormai superato
i trenta anni di vita. Nel 1967 si avviava infatti un rapporto nuovo con il mondo della
scuola, imperniato sulla proposta di mostre didattiche itineranti. Si trattava di strutture
espositive di contenuto archeologico o naturalistico che, dopo una prima edizione in museo,
potevano essere facilmente riallestite in sedi diverse, nei municipi, nelle biblioteche, nei
musei, ma anche negli istituti scolastici della provincia. La mostra diventava l’occasione per
programmare altre attività, destinate ad ampliarne i contenuti: incontri con gli insegnanti,
laboratori, visite guidate per le classi, demandando queste ultime, laddove possibile, agli insegnanti
stessi. L’ultima edizione, nell’anno scolastico 1988-1989, vide il coinvolgimento di
6.400 studenti nella sede del museo. I 22 riallestimenti successivi interessarono un arco di
tempo di 45 settimane.
Dal 1990 sono state percorse altre vie, ricercando un più diretto coinvolgimento del
Provveditorato agli Studi, che si faceva promotore con il museo di un articolato programma
di itinerari didattici e laboratori, illustrati in un opuscolo a stampa diffuso capillarmente
presso le scuole di ogni ordine della provincia di Reggio. Fu anche possibile destinare alle
attività didattiche tre distinte aule-laboratorio, una per l’archeologia, una per le scienze
naturali, una per la storia dell’arte.
Cresciuta la richiesta, a partire dal 1992 si è percorsa la via dell’affidamento di incarichi
a docenti qualificati, pur senza tradire l’impostazione originaria della gratuità del servizio.
Le risorse necessarie si reperirono il primo anno grazie ad una sponsorizzazione, dal 1993
ad oggi attingendo ai capitoli di spesa del museo. Un’attenzione speciale è naturalmente riservata
alla formazione degli operatori, specie per ciò che concerne il problema della comunicazione,
in particolare verso i bambini delle scuole elementari: a tale scopo è stato organizzato
un corso di aggiornamento tenuto da un dirigente scolastico del locale Provveditorato
agli Studi. Non si trascura neppure la verifica del lavoro svolto, non soltanto attraverso
questionari consegnati agli insegnanti dopo ogni incontro, ma anche con il concorso di
215

216 fine anno Il museo ve lo spieghiamo noi, cui sono invitate a partecipare le classi che abbiano
preso parte alle nostre iniziative didattiche.
Si tende di anno in anno ad arricchire e rinnovare la proposta, inserendo nuovi percorsi,
eventualmente eliminando quelli che non hanno incontrato un interesse evidente nel
mondo della scuola. Si è così pervenuti ai 65 argomenti dell’anno scolastico 1999/2000,
considerando le specializzazioni collezionistiche del museo nel loro insieme. Questi si articolano
in vari tipi di proposte, che hanno in comune una forte attinenza con i contenuti
delle collezioni reggiane: itinerari didattici, approfondimenti, attività di laboratorio, percorsi
che, muovendo dalle sale del museo, approdano a luoghi diversi della città o a Comuni
della provincia. L’esperienza delle mostre didattiche prosegue in forma nuova ed interattiva,
attraverso la ricostruzione di ambienti in cui gli studenti (compresi i non vedenti) possano
utilizzare suppellettili della vita quotidiana, ricostruite in modo del tutto identico agli originali,
per scoprirne funzioni e tecnologie. A partire dall’anno scolastico 2000/2001 si è impostato
anche il rapporto con le scuole materne, con il diretto coinvolgimento di pedagogisti
delle scuole dell’infanzia, che a Reggio, come noto, raggiungono livelli di eccellenza apprezzati
nel mondo intero. Nell’anno scolastico 1999/2000 hanno usufruito dei nostri servizi
didattici 955 classi (23.405 studenti). Gli oneri di organizzazione e di gestione (compensi
agli operatori, spese per pubblicità, acquisto di materiali) sono compresi ogni anno fra
i 70 e gli 80 milioni di vecchie lire.
Molto è stato fatto anche per l’educazione degli adulti attraverso la promozione di visite
guidate, ma anche più specifiche conferenze e incontri che hanno creato l’abitudine a frequentare
il museo, che diventa quindi non un luogo da vedere una volta per tutte ma un
luogo dove tornare, certi di trovare nuove opportunità.
Sempre più numerosi sono – soprattutto nella realtà internazionale – i tentativi di andare
oltre una presentazione accademica dei contenuti delle collezioni museali, oltre un pregiudizio
che per forza richiede ai momenti formativi ed educativi di ricalcare gi schemi classici
dell’insegnamento scolastico: c’è chi insegna e chi impara…
Ricordando la nostra iscrizione latina «Advenarum spectaculo», anche noi abbiamo cercato
di fare qualcosa. L’iniziativa “Il Museo per i ragazzi”, al sabato pomeriggio, ormai da
cinque anni propone al pubblico di 6-11 anni un modo diverso di approccio alle collezioni
attraverso animazioni e giochi di gruppo, con l’intervento di attori e musicisti.
Iniziative studiate per il pubblico adulto sono state “Fuochi fatui”, spettacolo teatrale
itinerante nelle sale del Museo (su testi di Carlo Lucarelli) che, in occasione delle festività
dei defunti, faceva riemergere i fantasmi legati alle collezioni del Museo; “Giallo Parmeggiani”,
insolito simposio tra giallisti contemporanei per risolvere e modificare le intricate vicende
storiche della Galleria Parmeggiani; sempre alla Galleria Parmeggiani intervento di
operatori di oggi col compito di fare rivivere le suggestioni dei materiali della collezione,
proponendo evocazioni olfattive, musicali, floreali, riproponendone i costumi e i gioielli, cene
storiche, da quella medievale legata alla mostra didattica sui castelli, a quella rinascimentale
legata alla vita di corte.
Non sono stati dimenticati i gruppi svantaggiati attraverso la predisposizione di un percorso
tattile per non vedenti nel Portico dei Marmi, visite guidate alle collezioni etnografiche
proposte da membri delle varie comunità extraeuropee presenti in città, cicli di fiabe di
ogni paese sono stati proposti nelle attività pomeridiane per i bambini.

IL MUSEO DEL TERZO MILLENNIO
La compresenza delle due anime dei nostri musei che abbiamo cercato di evidenziare – radici
storiche e esigenze di modernità – bene si possono individuare nel progetto di restauro di
cui i musei saranno oggetto nel biennio 2002-2004 e che caratterizzerà la sua immagine e le
sue potenzialità nel terzo millennio. L’esigenza inderogabile che è stata presentata ai progettisti
vincitori del concorso (Panstudio di Bologna e Arrigo Rudi di Verona) è stata quella della
conservazione dell’assetto delle collezioni storiche. Per consentire l’inserimento degli spazi
oggi indispensabili per la vita di un museo (zone di accoglienza, book-shop, ristoro, salette per
nuove tecnologie) e di adeguati collegamenti tra i piani è stato dunque individuato un nuovo
fronte di accesso, sul retro dell’edificio, che sarà fortemente caratterizzato e che offrirà anche
la possibilità di un nuovo tramite per le collezioni storiche, dove potranno essere inseriti
sussidi didattici e informativi senza intaccare il loro allestimento originario.
Il progetto riguarderà pure la ristrutturazione dell’ultimo piano del Palazzo San Francesco
che ospiterà la Galleria delle arti contemporanee e dove saranno trasferiti gli uffici. Anche
la Galleria Parmeggiani nello stesso biennio sarà interessata da un progetto di ristrutturazione
(curato dalla Soprintendenza ai Monumenti) che, in modi diversi, si pone il medesimo
problema di creare un “secondo fronte” di accesso. Al suggestivo ingresso dal monumentale
portale valenciano rinascimentale – posto a ridosso della strada e fonte oggi di pericolo
per l’accesso di gruppi e scuole – sarà affiancato un più moderno ingresso sotto il porticato,
modernamente attrezzato di portineria e di spazi di accoglienza.
«discentium commodo advenarum spectaculo»: anche in questo caso il nostro motto ci pare rispettato.
217

Dal Palazzo della Missione al San Domenico.
La vicenda storica dei Musei Civici di Forlì
in vista dei nuovi progetti
Luciana Prati
Pinacoteca e Musei Civici - Forlì
RIASSUNTO
La realtà museale forlivese presenta una complessità di nuclei ampiamente storicizzati, costituiti in buona
parte nell’Ottocento, sotto la spinta di una generosa volontà di salvare dalla dispersione opere e materiali
strettamente legati alla vicenda storica della città e del suo territorio. Le donazioni di privati cittadini
contribuirono ad allargare il quadro delle presenze e a rendere fin da subito i vari nuclei entità di notevole
peso culturale.
Queste considerazioni hanno imposto come prima scelta metodologica il mantenimento dell’unità
dei nuclei museali, in un sistema integrato che offra continui rimandi alla città, di cui viene a costituire
l’archivio non solo della storia artistica e urbana, ma anche religiosa e civile.
Il progetto per il San Domenico prevede il trasferimento della Pinacoteca, del Museo archeologico,
del Museo delle ceramiche e l’esposizione del Monetiere Piancastelli.
SUMMARY
The Forlì museum system is made up of a whole set of widely disseminated historicized units, mainly dating
from the 19th century. There is a strong will to protect the historical works and assets of the city by bringing
them together. The donations by private owners will contribute to extend the heritage and to enhance the various
cultural assets.
In the light of these considerations, a first methodological choice has been made to keep the wholeness of museum
units linked together in an integrated network that is fully interwoven in the city fabric, thus becoming
the archives not only of the artistic and urban history, but also of the religious and civic life of the city.
The San Domenico project envisages the transfer of the Art Gallery, of the Archaeological Museum, of the
Ceramics Museum and of the Piancastelli Coin Exhibition.
Con la destinazione definitiva nel 1996 del complesso conventuale di San Giacomo Apostolo
in San Domenico a sede di Pinacoteca e Musei 1 si è dato l’avvio a quella che potremmo
definire la terza fase nella vicenda storica che ha portato alla costituzione dei diversi nuclei
museali forlivesi, vicenda di cui occorre avere piena consapevolezza nel momento in cui
ci si appresta a dare nuovi assetti espositivi e a mettere a sistema i musei e le emergenze storiche
e architettoniche che con essi sono in relazione.
LA FASE DI FORMAZIONE
È quella che dal 1838 (Viroli 1980b, p. 61), anno in cui viene costituita la Pinacoteca, arriva
al 1922, con il trasferimento della stessa e dei musei che nel frattempo si sono formati, dal Palazzo
della Missione 2 al Palazzo del Merenda, già sede dell’Ospedale della Casa di Dio 3.

La Pinacoteca nasce dalla volontà di dare dignità istituzionale all’insieme di opere (tele
e incisioni) rimaste al Comune dopo le soppressioni napoleoniche o pervenute in seguito a
rifacimenti di edifici pubblici quali la residenza comunale.
Fin da subito la raccolta si arricchisce e si qualifica per le cospicue donazioni da parte di
privati cittadini o delle antiche famiglie nobili forlivesi: l’istituzione diventa luogo di «recupero
di precisi valori storici e culturali ovvero di riscatto di una realtà locale da gran tempo
emarginata e depressa» (Viroli 1980b, p. 63).
Gli affreschi di Livio Agresti ed i “quadroni” 4 arrivano dalla Cattedrale, altri dipinti vengono
acquistati dall’Amministrazione Comunale. Nel 1866 l’applicazione delle “leggi eversive”
arricchisce notevolmente la raccolta.
Fra i direttori che in quegli anni si susseguirono, Giuseppe Marri, Luigi Errani, Filippo
Guarini, Antonio Santarelli, sono gli ultimi due a predisporre nuovi assetti espositivi e abbellimenti
alla Pinacoteca, per cui realizzarono anche descrizioni a stampa (Guarini 1874;
Santarelli 1897).
La Pinacoteca occupava due sale al primo piano del Palazzo della Missione; in angusti
camerini adiacenti ebbe sede, dal 1874, il Museo archeologico (Prati 1984, p. 526); vi si aggiungeranno
il Museo del Risorgimento nel 1887 e l’Armeria Albicini nel 1905 (Casadei
1928, p. 309; Viroli 1980b, p. 80).
Anche alla raccolta archeologica viene dato ordinamento dopo un’importante donazione,
quella di 2102 monete e medaglie fatta da Domenico Raineri Biscia nel 1870 (Santarelli 1897,
p. 15). Nel Reso-Conto della Giunta Municipale di Forlì per l’anno amministrativo 1874 (Reso-
Conto 1875, p. 13) si legge: «È fuor di dubbio che dobbiamo alla custodia ed impulso che procacciamo
di dare a quelle collezioni, i doni che vediamo moltiplicarsi da parte dei cittadini…».
Fig. 1. Forlì, Il Palazzo della Missione attuale sede della Provincia di Forlì-Cesena (Foto G. Liverani, Forlì).
219

220 Nella formazione del nuovo museo e generalmente negli incrementi alle raccolte, sono
fattori determinanti non solo il fine conservativo ma anche la consapevolezza che il museo
è espressione di autonomia civica. Esso è già “tempio della memoria”.
Per la configurazione e l’arricchimento del museo archeologico rimane fondamentale
l’apporto di Antonio Santarelli e degli scavi che egli condusse nel territorio forlivese, secondo
i dettami della scuola paletnologica emiliana, alla Bertarina di Vecchiazzano e a Villanova,
i cui risultati sono ancor oggi di straordinaria importanza (Prati 1984).
LA SECONDA FASE
Se già alla fine dell’Ottocento gli spazi destinati alle raccolte museali nel Palazzo della Missione
appaiono insufficienti e si pensa a nuove soluzioni, anche in considerazione del fatto
che le scuole (il Ginnasio e l’Istituto Tecnico) ospitate nello stesso edificio sono in espansione,
è solo nel 1922 che, ad opera di Benedetto Pergoli, Biblioteca, Pinacoteca e Musei
vengono trasferiti nel palazzo del Vecchio Ospedale della Casa di Dio.
La scelta della nuova sede, già avanzata nel 1919, ottiene consensi in seguito al successo
conseguito dalle “Esposizioni romagnole riunite”, tenutesi nel 1921 nell’edificio, le cui ampie
sale erano state risistemate da Emilio Rosetti (Casadei 1928, p. 244).
La Pinacoteca viene collocata nei grandi saloni con disposizione a T che si aprono alla
sommità del monumentale scalone e le altre raccolte trovano spazio in ambienti al piano superiore.
Fig. 2. Forlì, Pinacoteca civica. La “Sala dei Forlivesi”, come documentato dalla Guida Casadei (da Casadei 1928, p. 273).

Con gran parte dei materiali pervenuti per le “Esposizioni” si allestisce il nuovo “Museo
Etnografico Romagnolo”, che propone la ricostruzione di ambienti quali la cucina, il tinello,
la camera da letto. Si tratta piuttosto dell’invenzione di ambienti tipici standard (Balzani
2001, p. 157), della “cristallizzazione” o forse museificazione di quell’idea di Romagna,
che in quegli anni viene elaborata dal gruppo di intellettuali raccolti intorno alla rivista “La
Piê” (Aldo Spallicci, Benedetto Pergoli e altri).
L’immagine del museo a quelle date è fotografata nella Guida di Ettore Casadei (Casadei
1928, pp. 318-320) e non si potrà non tenerne conto o non darne documentazione qualora
queste sale vengano in futuro trasferite. Ed è indubbio, come scrive ancora Balzani (ibidem),
che gli apporti successivi non tengono conto di questa che oggi definiremmo mission
del museo. Tuttavia sono proprio questi apporti, soprattutto le “botteghe”, acquisite con
tutti gli arredi alla cessazione della attività, a fare del Museo un luogo della memoria, che il
capillare lavoro di schedatura condotto in questi anni permetterà di comprendere in maniera
corretta e di guardare non come espressione del “bel tempo che fu”, ma come documento
della nostra storia.
Il Museo Etnografico si arricchirà costantemente nel corso degli anni fino a rendere necessaria
l’apertura, nel 1964, di una nuova sezione a Palazzo Gaddi, per ospitare i grandi carri
agricoli, le trebbiatrici ed infine anche le botteghe che non avevano potuto trovar posto
nel palazzo del Merenda.
Per quanto riguarda la Pinacoteca, l’ordinamento del 1922 proponeva nella “Sala Maggiore”
le grandi tele del Sei e Settecento, a lato a sinistra la sequenza della “Sala dell’Ebe” e
della “Sala dei Monumenti”, a destra la “Sala dei Forlivesi”, quella “ dei ritratti”, la “Saletta
Fig. 3. Forlì, Pinacoteca civica, “Sala dell’Ebe” (da Casadei 1928, p. 258).
221

222 del Pestapepe” e quella dei “Primitivi”; la “Galleria delle Stampe” occupava i corridoi a lato
della Sala Maggiore. Nel 1938 fu realizzata la grande mostra dedicata a Melozzo e al Quattrocento
romagnolo, le cui pannellature furono alla base del successivo allestimento (Gnudi,
Becherucci 1938).
Negli anni 1939-40 infatti la Pinacoteca viene riallestita (Viroli 1980b, p. 78) a cura del
direttore Luigi Servolini, secondo le direttive del Soprintendente Calzecchi Onesti e di Luisa
Becherucci; si sistema inoltre la quadreria della donazione Piancastelli e viene creato il
Museo delle Ceramiche.
Gli anni del Dopoguerra vedono un ulteriore riordinamento della Pinacoteca, con l’Ebe
del Canova al centro della sala maggiore, dove sono esposte le grandi tele del ’600, mentre
alle grandi sculture (l’urna del Beato Marcolino, la lunetta del Fiamberti) viene destinata
la campata di fondo. Certamente la disposizione degli ambienti condizionò fortemente
la scelta espositiva, che ebbe come criterio il raggruppamento di opere che fossero il più possibile
omogenee (Viroli 1980b, p. XVIII). Nel salone di sinistra, suddiviso in tre scomparti,
trovarono sede le opere degli artisti forlivesi del Cinquecento, altre di varia scuola del
’500 e ’600 ed infine la Quadreria Piancastelli; nel salone a destra, ripartito allo stesso modo,
i dipinti di Marco Palmezzano, le opere di altri pittori romagnoli ed emiliani coevi, da
ultimo il monumento al Beato Salomoni e gli affreschi staccati dalle chiese forlivesi; infine,
attraversati due ambienti, la piccola sala con il Pestapepe, Beato Angelico, Federico Tedesco,
Lorenzo di Credi, gli arazzi fiamminghi.
Si mette mano anche al museo archeologico, che il trasferimento del 1922 aveva collocato
nell’ala sinistra del secondo piano, dove occupava cinque ambienti, e che le necessità
di spazio della mostra del ’38 avevano fatto praticamente disallestire, utilizzando il quadri-
Fig. 4. Forlì, Pinacoteca civica, “Sala dei Monumenti” (da Casadei 1928, p. 259).

portico del secondo cortile, dove un’ala viene chiusa. Si creano grandi vetrine che consentono
l’esposizione sia dei materiali, accorpati con criteri prevalentemente topografici, sia degli
apparati didattici relativi. A terra il grande mosaico dell’aula absidata di Meldola, mentre
il lapidario occupa i lati rimasti aperti del quadriportico.
Questo ordinamento, studiato e voluto da Guido Achille Mansuelli (Mansuelli 1958),
trova più completa realizzazione nel 1960, con il trasferimento del Museo in un ambiente
seminterrato appositamente arredato. L’ordinamento è topografico-cronologico, con
l’organizzazione di un percorso ideale da Forlì alle vallate che su di essa convergono, che
consente una lettura diacronica delle fasi del popolamento (Mansuelli, Turci 1961; Turci
1962).
Fin dagli anni ’70, comunque, sono emersi i problemi posti dall’ubicazione del museo,
quali l’alto tasso di umidità relativa e la mancanza di spazio.
Anche per le altre collezioni, collocate al secondo piano dell’ala Ovest del palazzo per fare
posto alla grande collezione Piancastelli, pervenuta nel 1938, cominciano a sussistere ben
presto notevoli problemi di visibilità, che si accentuano negli anni Sessanta, sia per i costanti
incrementi (prevalentemente donazioni: fra tutte ricordiamo nel 1931 quella di Raniero
Paulucci di Calboli con le sculture di Adolfo Wildt) sia perché l’arrivo della collezione “Il
lavoro”, donata nel 1961 da Giuseppe Verzocchi 5, determina nuovi spostamenti. Nel ’60 arriva
la donazione Righini con gli olî e le incisioni di Giorgio Morandi. E nel ’61 Giuseppe
Pedriali dona la sua raccolta di ventotto dipinti, fra i quali alcuni fiamminghi, un Luciani,
un Magnasco e un Fattori (Viroli 1980b, p. 81).
La collezione Verzocchi viene sistemata in una grande sala al secondo piano, sacrificando
una sezione del Museo Etnografico, e la Pedriali in un ambiente all’ultimo piano, appo-
Fig. 5. Forlì, Armeria Albicini. Le decorazioni e l’allestimento sono ancora quelli del 1922.
223

224 sitamente sistemato con un grande lucernario, che, se garantisce una luce zenitale particolarmente
felice, si rivelerà ben presto problematico per la conservazione delle opere.
Come si vede, costante è l’incremento per tutte le raccolte dovuto sia alla munificenza e
al senso di appartenenza sentito dai cittadini forlivesi, che magari, come Pedriali e Verzocchi,
hanno costruito lontano la loro vita e la loro fortuna, ma anche alla consapevolezza che
l’istituzione garantisce comunque la conservazione della memoria e dell’identità.
Queste grandi e importanti acquisizioni, e non si menzionano le altre relative sia a materiali
archeologici, ceramici, etnografici, sia ai dipinti di tanti artisti forlivesi e romagnoli
contemporanei, determinano la scelta di creare nel 1964 6 a Palazzo Gaddi, un secondo polo
museale, in cui vengono meglio ospitati il Museo del Risorgimento (nelle splendide sale
al piano superiore con tempere di Felice Giani), il Museo del Teatro (al piano terra) ed in
un capannone esistente nell’area cortilizia posteriore la sezione del Museo Etnografico che
ospita gli attrezzi del lavoro dei campi.
Gli anni ’70 e ’80 vedono consolidarsi questo polo; gli incrementi sono notevoli per il Museo
Etnografico ed anche per il Museo Archeologico, più capillari per la Pinacoteca; invece già
alla fine degli anni ’80 si manifesta lo stato di sofferenza delle istituzioni museali, ben evidenziato
in un seminario promosso dall’Istituto Gramsci di Forlì nella primavera del 1988 7.
Negli anni ’90 si struttura il lavoro interno di catalogazione relativo a tutte le raccolte;
vengono ripresi gli interventi conservativi, che dopo una breve stagione negli anni ’70 avevano
subíto un arresto; lo studio sistematico del patrimonio consente la realizzazione di mostre
quali “Melozzo da Forlì. La sua città e il suo tempo” (Foschi, Prati 1994), “Quando
Forlì non c’era” (Bermond Montanari et Alii 1996), “La città progettata” (Prati, Tramonti
Fig. 6. Forlì, Museo Etnografico Romagnolo, La cucina nell’allestimento del 1922 (da Casadei 1928,
p. 322).

1999), “Wildt a Forlì” (Sgarbi 2000) e produce una sempre più allargata e diffusa consapevolezza
della necessità di messa a sistema e diversa articolazione, in nuovi contenitori, delle
unità museali.
Si arriva così al “Progetto Cultura” approvato alla fine del 1995, in cui si assegna al San
Domenico la funzione di nuova sede della Pinacoteca e dei Musei civici (Tassani 1995).
IL FUTURO
L’analisi della vicenda storica delle varie raccolte museali, descritta necessariamente per sommi
capi, ha determinato, come scelta metodologica prioritaria per i nuovi assetti, il mantenimento
delle singole unità, tenendo anche in considerazione che esse costituiscono un sistema
integrato con le altre emergenze storiche e architettoniche quali la Rocca di Ravaldino,
Villa Saffi, la Fornace Malta, le sedi espositive dell’Oratorio di San Sebastiano e di Palazzo
Albertini e ogni altro manufatto che assuma un significato di testimonianza.
Per il sistema, che costituisce l’archivio della storia non solo artistica e urbana della città,
ma anche religiosa culturale e civile, si è proposta la seguente articolazione (Bacciocchi
2001):
Complesso di San Domenico
Pinacoteca, Museo Archeologico, Esposizione del Monetiere Piancastelli, Museo delle Ceramiche,
Gipsoteca.
Fig. 7. Forlì, Pinacoteca civica. Le sculture di Adolfo Wildt nell’allestimento del 1931 (Forlì, Pinacoteca e Musei
civici, archivio fotografico).
225

226 Palazzo Gaddi
Museo del Risorgimento (con accorpamento del Museo dell’Associazione Nazionale Mutilati
e Invalidi di Guerra) in connessione con la casa-museo di Villa Saffi; Museo del Teatro
e degli Strumenti musicali, a cui si aggiungerà a breve una importante sezione dedicata al
Teatro dei burattini; Museo Etnografico, per quanto si riferisce alla sezione delle botteghe,
dell’artigianato e della casa, mentre nell’ex essiccatoio della fornace Malta, nel Parco urbano,
verranno esposti i materiali legati ai cicli del lavoro contadino, demandando all’allestimento,
che dovrà necessariamente avvalersi di sistemi multimediali, i riferimenti indispensabili.
L’area del Parco è stata individuata per lo stretto collegamento con il canale dei mulini,
che ne lambisce i confini, e la cui storia dal 1205 è parte integrante della storia della
città. Inoltre l’apertura del sottopassaggio di viale Salinatore costituisce un collegamento
privilegiato con il circuito Palazzo Gaddi-San Domenico. Su questo percorso si trova anche
la fornace per laterizi adiacente a via del Camaldolino, attiva nel secolo XVI e di recente scavata
e lasciata in vista, in straordinario collegamento con la Fornace Malta, che verrà a costituire
il museo di se stessa, documento di quella produzione laterizia che dalla metà dell’Ottocento
ha costruito i muri delle case forlivesi.
Nell’organizzazione museale di Palazzo Gaddi non andrà dimenticato infine che si tratta
della dimora nobiliare meglio conservata e più rappresentativa di Forlì e quindi il Palazzo
mostrerà se stesso, la sua articolazione interna, le sue splendide decorazioni plastiche e
pittoriche, in stretto legame con la vicenda artistica di Forlì e della Romagna nei secoli
XVII, XVIII e XIX.
Fig. 8. Forlì, Museo Archeologico, allestimento 1952 (Forlì, Pinacoteca e Musei Civici, archivio fotografico).

Rocca di Ravaldino
La Rocca è luogo della memoria storica della città, elemento chiave del sistema delle emergenze
territoriali. Essa potrà divenire sede dell’Armeria Albicini, la cui parte più consistente
comprende armi dei secoli XIV-XV-XVI, raccolte dal marchese Raffaello Albicini proprio
nelle Rocche del forlivese.
Il progetto museografico 8 per il San Domenico ha disegnato in linea generale l’articolazione
interna delle unità museali ed è in fase di più avanzata definizione per quanto riguarda
la Pinacoteca (Prati 2001b). Il progetto di allestimento è a cura dello studio Wilmotte &
Associati (Parigi) e Lucchi-Biserni (Forlì).
Ai musei si accede attraverso il porticato esterno della zona Ovest e da questo alla sala
degli affreschi, già capitolo del convento, e ai servizi. La sala degli affreschi costituisce il primo
approccio al Museo; qui si potrà conoscere in maniera più generale la vicenda storica
del complesso, così come lo scavo archeologico ed il restauro delle strutture hanno permesso
di leggere. In altri ambienti di cui sta definendo meglio la funzione, probabilmente la
grande e suggestiva cantina sottostante la sala capitolare, verranno esposti nel dettaglio i risultati
degli scavi, dalla successione delle fasi costruttive della chiesa e del convento, alle diverse
tipologie delle sepolture e dei corredi, alla fossa di fusione delle campane.
Il sistema espositivo è formato dagli ampi corridoi, destinati a contenere apparati informativi
e anche materiali, e dalla sequenza delle celle, luogo di esposizione delle raccolte (Furani
2002, p. 101).
Fig. 9. Forlì, Pinacoteca civica, allestimento anni ’70/’80 del Novecento (Foto G. Liverani, Forlì).
227

228 Il museo archeologico si sviluppa al piano terra del secondo chiostro e nei fabbricati di
servizio recuperati o ripristinati, che vengono a costituire quasi un terzo chiostro, e nel
vano sotterraneo di futura costruzione, destinato ad ospitare anche depositi, atelier, laboratori
ecc.
Come si è visto, il Museo archeologico nasce a Forlì negli anni ’70 dell’Ottocento come
luogo di conservazione e documentazione della più antica storia della città e del suo territorio.
La valenza territoriale, evidente per i periodi dal Paleolitico all’età del Ferro, si riduce
con la romanizzazione, quando prevalgono dati e reperti provenienti dalla città e dall’hinterland
più immediato.
Gli scavi urbani degli ultimi anni permettono oggi di ricostruire in maniera molto più
articolata e completa la città medioevale, che emerge in modo sorprendente coniugando le
fonti documentarie già indagate con i dati e i materiali di scavo: saranno gli antichi ponti,
la sistemazione dei canali, la cinta delle mura, le fasi edilizie del palazzo Comunale, fornaci
e attività artigianali diverse a trovare luogo in museo. Così anche tutti quei brani dell’antico
arredo urbano, quali elementi decorativi in pietra e soprattutto in cotto, capitelli e lesene,
stemmi e iscrizioni, non saranno più disiecta membra conservati nei depositi e portati solo
occasionalmente alla conoscenza del pubblico, ma avranno spazio e coerenza espositiva
(Foschi, Prati 1994, p. 221; Foschi, Prati 1995, p. 19).
Il percorso che si propone rispetta queste valenze del museo. Gli ambienti al piano terra del
secondo chiostro ospiteranno i materiali dal Paleolitico alla romanizzazione: i criteri espositivi,
pur restando legati alla distribuzione topografica dei ritrovamenti, seguono il metodo cronologico
al fine di restituire una storicità all’insieme. Per chiarire ed inquadrare le caratteristi-
Fig. 10. Forlì, Museo Archeologico, allestimento anni ’60/’70 del Novecento (Foto G. Liverani, Forlì).

che di ogni sito, tenendo conto dei vuoti cronologici, che non permettono di fornire una sequenza
storica, verranno utilizzati anche i corridoi, dove saranno illustrati i vari momenti della
preistoria e protostoria italiana ed europea, attraverso schede sulle culture, la loro distribuzione
geografica, con l’utilizzo di mezzi grafici, fotografici, multimediali e didascalie essenziali.
Per ogni sito verranno date le ricostruzioni possibili sulla base delle conoscenze scientifiche
ed appositi spazi presenteranno la ricostruzione anche virtuale delle tecniche, quali la scheggiatura
della pietra, la produzione ceramica, la fusione del bronzo, la forgiatura del ferro.
Pannelli, vetrine, sistemi multimediali, ologrammi, ricostruzioni d’ambiente dovranno
costituire un sistema integrato ad accessibilità semplificata. Altri sistemi informativi consentiranno
l’approfondimento di singole problematiche.
Nei capannoni verrà ricostruita la forma della città: “Da Forum Livi a Forlì” è il titolo
di questa sezione, suddivisa in due parti. La prima ospiterà la documentazione relativa alla
città romana ed al suo territorio, comprendendovi anche quei materiali che, pur non strettamente
forlivesi, ma ormai parte integrante del Museo (le stele repubblicane della necropoli
del Melatello presso Forlimpopoli, i mosaici di età teodoriciana di Meldola) documentano
periodi altrimenti privi di dati.
Anche per questa sezione verranno proposti da una parte quadri di riferimento storico e
culturale e dall’altra, prevalentemente in maniera virtuale, tutti gli elementi per ricostruire
la vita in una città antica. L’uso di mezzi multimediali costituirà infatti una delle caratteristiche
dell’allestimento del nuovo museo, che sarà anche luogo di fruizione della carta archeologica
informatizzata. La seconda parte della sezione sarà destinata alla città medioevale
e rinascimentale, come si è detto sopra.
Fig. 11. Palazzo Gaddi, Museo del Risorgimento, “Sala Maroncelli”, ordinamento attuale.
229

230 Per quanto riguarda il lapidario ed il monetiere Santarelli, per il primo una proposta potrebbe
essere quella di mantenerne la coerenza, rendendolo tuttavia interattivo, in una sorta
di percorso parallelo, con il percorso espositivo delineato.
Per il monetiere, si precisa che essendo esso costituito prevalentemente da circolante monetale
soprattutto di epoca romana, le monete possono essere esposte nell’ambito del percorso
di visita: alcuni tesoretti (Pievequinta, Carpena) costituiscono ad esempio l’unica documentazione
disponibile relativa al periodo repubblicano (Ercolani Cocchi 1989, p. 214).
Il resto del materiale dovrà restare a disposizione degli studiosi in ambienti idonei, che potrebbero
essere gli stessi del Monetiere Piancastelli. Le raccolte forlivesi conservano infatti un
monetiere, donato da Carlo Piancastelli, di livello nazionale (La Romagna allo specchio 1998,
pp. 18-19). L’esposizione permanente a sezioni tematiche, come già anticipato in occasione
della mostra “L’immagine di Roma nel Monetiere Piancastelli”, Forlì 1998, consentirebbe
una lettura degli aspetti iconografici e istituzionali del mondo romano attraverso la moneta e
verrebbe così ad integrare, con materiali di grande valore e pregio, la parte archeologica.
Per l’esposizione del monetiere occorrono spazi che consentano un controllo assoluto del
microclima e che non andrebbero disgiunti da una sala blindata, destinata sia alla conservazione
in cassaforte sia alla consultazione da parte di studiosi. Se ne è proposta la collocazione
negli ambienti sotterranei sul lato sinistro del secondo chiostro.
Alla Pinacoteca collocata al primo piano dell’edificio, si accede dal lungo corridoio su
cui si aprono le prime sale del Museo Archeologico e per una scala a due rampe parallele posta
sul lato Est del cortile.
Il progetto tiene conto, compatibilmente con la distribuzione degli spazi disponibili,
della sequenza cronologica superando, secondo i criteri più aggiornati, ogni fittizia suddi-
Fig. 12. Forlì, Complesso di San Domenico. La sala capitolare con l’affresco della Crocifissione (Foto G. Liverani,
Forlì).

visione per “generi”. Si è ritenuto infatti utile, ai fini della chiarezza logica e dell’efficacia
didattica, associare coerentemente, ai dipinti su tela e su tavola, quelli ad affresco staccati
dalle pareti di origine, sculture, arazzi. Alcuni punti degli ampi corridoi potranno inoltre
agevolmente ospitare postazioni informatiche che consentano visualizzazioni ed approfondimenti,
con particolare riferimento al rapporto con la città ed il territorio.
La Quadreria Piancastelli, dal 1938 esposta in una delle sale della attuale Pinacoteca,
verrà anch’essa trasferita nel complesso di San Domenico, per quelle stesse motivazioni di
stretto raccordo fra le diverse scuole regionali e quella pittorica locale, che all’epoca della donazione
ne suggerirono la collocazione.
Per quanto riguarda la sezione di arte tardo-ottocentesca, novecentesca e contemporanea
ed in particolare la collezione Verzocchi “Il lavoro nell’arte”, indivisibile, la collocazione più
consona sembra il doppio volume – eventualmente anche i sotterranei – del corpo di fabbrica
che verrà a chiudere il secondo chiostro sul lato Ovest; in tal modo il percorso espositivo
della Pinacoteca raggiungerà il suo coerente completamento.
L’itinerario (qui schematizzato) prevede di visitare prima le sale che si aprono sul corridoio
di sinistra, nelle quali verranno esposte le opere più antiche della Pinacoteca, dalle tavolette
del Maestro di Forlì, agli affreschi staccati da San Mercuriale, da Sant’Antonio Vecchio, dalla
chiesa di Schiavonia, al “Presepe” di Federico Tedesco, ai grandi monumenti sepolcrali del
Beato Salomoni e del Beato Marcolino, alle tavole del Beato Angelico e di Lorenzo di Credi.
Nel corridoio di destra le prime tre sale ospiteranno le opere di Marco Palmezzano a cui
faranno seguito altri esponenti del Cinquecento romagnolo e forlivese, Girolamo Marchesi,
Bartolomeo Ramenghi, Baldassare Carrari, Francesco Zaganelli, il Ponteghino. L’ala Sud
del corridoio affronta il periodo del Cinquecento forlivese, con Livio Agresti, Francesco
Menzocchi, poi i figli Pier Paolo e Sebastiano, Livio e Gianfrancesco Modigliani. L’ultima
sala espone, fra gli altri la celebre “Fiasca con fiori”, ora assegnata al catalogo di Tommaso
Salini 9, ed altre nature morte.
Mancando ora, come si è detto il quarto lato del chiostro, a chiudere il percorso, si ritorna
allo scalone di ingresso di fronte al quale si apre la prima delle tre vaste sale che costituirono
la biblioteca del Convento. Il vano, di rilevanti dimensioni, presenta un notevole
sviluppo in altezza. Vi troverà sistemazione il cospicuo nucleo di opere del lascito Piancastelli,
destinato, per il suo specifico carattere di raccolta di opere prestigiose di autori romagnoli,
in particolare di epoca cinquecentesca, a fungere da punto di raccordo privilegiato
fra le opere sinora esaminate e quelle che sono ospitate nelle rimanenti sale della Pinacoteca.
In particolare, la concentrazione di dipinti di indiscusso valore storico-artistico che vediamo
raccolte nella quadreria Piancastelli consentono di articolare un serrato discorso di
rimandi e richiami fra le diverse scuole regionali e quella pittorica locale meglio espressa nelle
opere distribuite nei vari ambienti della Pinacoteca.
La quadreria Piancastelli, più di ogni altro ambiente della Pinacoteca, dovrà rappresentare
il luogo di verifica e di confronto privilegiato rispetto agli altri nuclei o ambiti delle
pubbliche raccolte forlivesi.
La seconda e grande sala ospiterà le grandi tele del Guercino, Gennari, Serra, Maratta,
Cignani, mentre in quella successiva, più piccola, verranno collocati i quattro grandi quadri
che un tempo adornavano il tamburo della cupola della Cappella della Madonna del
Fuoco in Duomo (Sacchi, Albani, Cagnacci).
231

232
Fig. 13. Forlì, Complesso di San Domenico. Planimetria, piano terra: articolazione del Museo Archeologico.
Fig. 14. Forlì, Complesso di San Domenico. Planimetria, piano primo: gli spazi occupati dalla Pinacoteca.

Infine attraverso le opere di scultura neoclassica si arriverà alla Sala dell’Ebe, all’interno della
quale la celebre statua del Canova troverà posto in posizione eminente, presumibilmente al
centro, per consentire al visitatore di aggirarla e osservarla anche da conveniente distanza.
Questa collocazione, volutamente meno spettacolare di quella attualmente in essere in
Pinacoteca, è tuttavia molto più coerente con quella storicizzata in palazzo Guarini.
L’intervento di allestimento in questa sala sarà dei più significativi e particolare cura dovrà
essere data agli aspetti di illuminotecnica tenendo anche conto che la rotazione della
scultura, benché normalmente tenuta in una posizione definita, sottolinea l’assenza di un
punto di vista prevalente, escludendo la determinazione di gerarchie tra i vari punti di osservazione
o effetti marcati di chiaroscuro.
1 Deliberazione del Consiglio Comunale
di Forlì n. 365 del 20 dicembre
1996. Ivi è anche riassunto
l’ampio dibattito che ha portato alla
destinazione d’uso del complesso.
Desidero ringraziare il Sindaco
Franco Rusticali e l’Assessore alla
Cultura Mauro Bacciocchi per la fiducia
dimostrata nell’affidarmi il
coordinamento del progetto museografico.
2 L’imponente edificio fu costruito
nel 1713 per volontà del cardinale
Fabrizio Paolucci. Adibito a caserma
nel 1796, nel 1815 venne acquistato
dal Comune, che vi collocò le
scuole e nel 1836 la Biblioteca.
3 La Casa di Dio, documentata dal
XIII secolo e sede della Compagnia
della Carità alla fine del Quattrocento,
fu costruita nel 1722 su progetto
di Giuseppe Merenda ed ebbe
modifiche ed ampliamenti nel corso
del secolo successivo (Patrimonio
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Musei Comunali di Forlì, Roma,
La libreria dello Stato.
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nel XXI secolo, Forlì, Comune di
Forlì.
A. Baldini, M.L. Pagliani 1980, Il
ospedaliero. Un percorso attraverso
l’Europa, 2001, Paris, Monum-Editions
du patrimoine, p. 31).
4 Sono il “San Valeriano in gloria”
ed il “San Mercuriale in gloria” di
Guido Cagnacci, il “San Pietro” di
Andrea Sacchi ed il “San Sebastiano”
di Francesco Albani.
5 La collezione era costituita da settantadue
dipinti realizzati dagli artisti
italiani più rappresentativi che
operavano nel 1949.
6 Direzione Walter Vichi.
7 Piraccini 1988, pp. 3-4; Foschi,
Prati 1988, pp. 7-12.
8 Il progetto museografico è stato
elaborato da: Giovanna Bermond
Montanari, Emanuela Ercolani
Cocchi, Giordano Viroli e da chi
scrive, cui è stato affidato anche il
coordinamento del gruppo di
esperti. Esso è stato approvato dalla
Soprintendenza per il Patrimonio
Storico Artistico e Demoetnoantro-
Museo archeologico A. Santarelli,
in G. Viroli, Per un modello di
cultura figurativa. Forlì, città e
museo, Bologna, IBC e Comune
di Forlì, pp. 105-114.
R. Balzani 2001, La Romagna, Bologna,
Il Mulino.
G. Bermond Montanari et Alii (a
pologico di Bologna il 20 dicembre
2001 e dalla Soprintendenza Archeologica
dell’Emilia e Romagna il
24 ottobre 2001. In data successiva
alla stesura di questo contributo, la
Giunta comunale di Forlì ha approvato
(1 luglio 2003) la costituzione
di un comitato scientifico per il riallestimento
del Museo archeologico
nel complesso di San Domenico, al
fine di elaborare il progetto museografico
definitivo, così composto:
Luigi Malnati, Aldo Antoniazzi, Alberto
Antoniazzi, Giovanna Bermond
Montanari, Angela Donati,
Emanuela Ercolani Cocchi, Carlo
Peretto, Gabriella Poma, Luciana
Prati, con funzioni anche di coordinamento.
9 Attribuzione di Mina Gregori
per la mostra “Stille Welt. La Natura
Morta Italiana”, Monaco, Kunsthalle,
6 dicembre 2002-23 febbraio
2003.
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Press.
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Bordandini.
233

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di Forlì.

Tra innovazione e tradizione. L’uso culturale
di un museo d’interesse locale:
il caso della Pinacoteca di Ripatransone
Tiziana Maffei
Antonella Nonnis
Progetto Zenone - Tutela e promozione turistica del patrimonio culturale - S. Benedetto del Tronto
RIASSUNTO
La storia della Pinacoteca di Ripatransone, in palazzo Bonomi-Gera, non è altro che un frammento della
storia dell’istituzione museale nel nostro paese, simile ai numerosissimi piccoli musei d’interesse locale
che punteggiano i centri urbani italiani. Il nucleo originario del Museo Civico di Ripatransone risale al
1877. La raccolta derivava in buona parte dal patrimonio religioso pervenuto alla pubblica amministrazione:
l’arricchimento successivo fu dovuto alle ulteriori donazioni dei privati che denotano il desiderio
di civica virtù ambito dalla neonata nazione italiana e più che mai rappresentato dalla costituzione del
Museo Civico.
Dalla iniziale sede nella Casa dell’Oratorio dei Filippini, il Museo viene spostato nel secolo successivo
nel Palazzo Comunale dove rimase fino al 1956; trasferito al piano terra nei locali della biblioteca, viene
smembrato nel 1977. Ad oggi in tali locali è rimasto l’importante Museo Archeologico, mentre la Pinacoteca,
la raccolta di maioliche e porcellane, ed il materiale storico etnografico vennero unificati con la
gipsoteca e la collezione d’arte Gera nel seicentesco Palazzo Bonomi.
L’attuale intervento di riallestimento del Palazzo Bonomi-Gera, scaturito dall’esigenza di trovare nuove
forme di comunicazione culturale, tenta di dare una risposta al problema del confronto tra contenitore
storico (con forti caratterizzazioni architettoniche), contenuto (di valore culturale eterogeneo ed articolato),
e significato del museo quale testimonianza di un percorso di costituzione del concetto di patrimonio
culturale a livello locale.
SUMMARY
The history of the Ripatransone Art Gallery, of the Bonomi-Gera Palace, is nothing but the fragment of the museum
institution history of our country, which is very similar to the wide range of small museums of local interest
that are scattered throughout the Italian cities and towns. The original core of the Municipal Museum of
Ripatransone dates from 1877. The collection mostly derived from the religious assets donated to the public administration:
the successive enrichment was due to further donations by private individuals who accomplished
their civic duties within the framework of the newly born Italian nation, which was epitomised by the setting
up of the Municipal Museum.
It was initially located in the Casa dell’Oratorio dei Filippini. The Museum was later hosted in the Municipal
Hall until 1956; it was then transferred to the ground floor inside the library premises. It was finally
dismantled in 1977. At present, the important Archaeological Museum is still located in these premises, whereas
the picture gallery, the collection of porcelain and majolica ware, along with the historical and ethnographical
material have been put together with the collection of plaster casts and the Gera art collection in the 15th
century Bonomi Palace.
The present refurbishment of the exhibitions of the Bonomi-Gera Palace is intended to identify new forms
of cultural communication and to find a solution to the problem of reconciling the historical container (featuring
marked architectural characters), with the content (characterised by a heterogeneous and complex cultural
value) and with the meaning of the museum as the evidence of the development of a cultural heritage concept
at a local level.

236 La morte del museo, proclamata dal fervore rivoluzionario dei futuristi, in realtà non sembra
mai essere avvenuta: ad oltre un secolo di distanza dalla costituzione dei numerosissimi
musei civici italiani si è rafforzato il ruolo culturale degli stessi quali testimoni dell’identità
locale. Il museo civico non è più solo luogo delle arti ma della memoria, strumento di lettura
dell’evoluzione socioeconomica della città che lo custodisce.
La storia della Pinacoteca di Ripatransone 1, ospitata nel palazzo Bonomi-Gera, non è altro
che un frammento della storia dell’istituzione museale nel nostro paese, simile ai numerosissimi
piccoli musei d’interesse locale che punteggiano i centri urbani italiani. Strutture nate dal
forzato, anche se straordinario, accumulo di patrimonio culturale avvenuto a seguito della
soppressione delle corporazioni ecclesiastiche, alcune delle quali nel tempo hanno trovato in
cultori, collezionisti, appassionati d’arte, l’occasione di aumentare, in modo spesso casuale, tale
patrimonio. Ma è proprio la costituzione della raccolta che rappresenta il percorso del museo
d’interesse locale, una storia fatta d’amore per la testimonianza storica, dove l’estremizzazione
di tale sentimento finalizza il museo più alla sua costituzione che alla fruizione.
A Ripatransone il primo atto amministrativo che pone la questione della tutela e conservazione
dei beni definiti allora “antichi monumenti” sembra risalire al 1872. La delibera
di Giunta Municipale d’istituzione del Museo Civico del 22 maggio 1877 2 cita, infatti, la
convocazione di un Consiglio Comunale del 22 maggio del 1872 nel quale veniva eletta una
“Commissione d’Archeologia per la raccolta delle antiche testimonianze”. L’iniziativa realizzata
nello stesso anno a livello nazionale, dall’Istituzione della “Giunta Consultiva di Storia,
archeologia e paleologia” 3 ed a livello municipale dalla costituzione della medesima
commissione nella città di Roma 4, sono testimonianze di un’attenta partecipazione ai dibattiti
culturali dell’epoca da parte della piccola città di Ripatransone.
La costituzione del Museo Civico ripano dedicato ad Ascanio Condivi 5 assicura il nucleo
originario della collezione. Sono evidenti le motivazioni conservative di tale istituzione: nell’atto
citato si sottolinea la svendita degli oggetti più preziosi e l’esigenza di fermare tale emorragia
culturale con la definizione di ciò che nella nazione italiana documenta le origini storiche
della collettività ed il ruolo didattico nelle generazioni future della testimonianza storica.
La delibera del 30 aprile dello stesso anno aggiunge un tassello fondamentale per la comprensione
del ruolo che il Museo Civico locale intende avere. È necessario premettere che
le operazioni attuate all’interno dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione presieduto
dal Bonghi sembravano svilire la rete di studiosi ed appassionati del territorio che si era venuta
a formare nell’Italia preunitaria, ormai ridotti a semplici informatori locali, in nome
di un orientamento scientifico opportuno, ma forse troppo indifferente al valore dei medesimi
ed al concreto ruolo di conservatori dell’identità locale svolto fino ad allora.
Lo stesso Museo Pigorini di Roma, nell’ottica di un forte accentramento per le conosciute
motivazioni nazionalistiche ambite dal neonato Stato Italiano, avvia una politica quasi
di bracconaggio delle testimonianze storico locali con effetti deleteri in molti territori del
nuovo Stato. Ma il Museo di Ripatransone fin dalla sua origine ribadisce il forte senso di
comunità, l’essere in una regione (le Marche) che documenta nella pluralità del suo stesso
nome l’intenso campanilismo e il desiderio di mantenere le proprie tradizioni civiche nel
nome di un’identità locale espressa chiaramente nell’atto citato, nel quale si determina il tipo
di rapporto che l’istituto pubblico creava con i donatori di oggetti destinati al museo.
Un rapporto unicamente rivolto alla municipalità, che fin dall’inizio esclude qualsiasi mo-

dalità di alienazione dell’oggetto, sottolineando l’impossibilità di cedere a eventuali richieste
della Provincia o del Governo. Il primo direttore del museo don Cesare Cellini rende così
indisponibile il patrimonio alle pressanti richieste governative avviando un’intelligente
operazione di scambio che mantiene il riconoscimento del donatore con l’obiettivo di creare
e conservare un saldo legame tra collezione e soggetti donanti, non eliminando totalmente
la possibilità di consentire nuove ed interessanti acquisizioni attraverso scambi. La
passione collezionista di Cellini (di chiaro stampo ottocentesco) trovò infatti successivamente
ampio vantaggio in tale attività avviata per via epistolare con molti altri musei e collezionisti
italiani, in particolare proprio il Pigorini di Roma. L’invio di alcuni, non ben identificabili,
reperti piceni videro la collezione arricchirsi di un consistente insieme di curiosità
etnografiche offerte al museo quale prodotto di scambio. Una raccolta eterogenea, non dissimile
nelle caratteristiche da ciò che veniva musealizzato in molti altri centri italiani (ben
più ampi e importanti di Ripatransone), che negli anni vedono fiorire queste raccolte ottocentesche
dal vago sapore di emporio, ma in una visone multidisciplinare dei beni culturali
raccolti certamente non disprezzabile. E così oggi il museo possiede una sorta di wunderkammer
kircheriana con reperti e curiosità proveniente dai diversi continenti e di diverse
epoche.
Dalla iniziale sede nella Casa dell’Oratorio dei Filippini il museo viene spostato nel secolo
successivo nel Palazzo Comunale dove rimase fino al 1956, trasferito poi al piano terra
nei locali della biblioteca, vi rimarrà fino al 1977. Fino a quell’epoca non sono pervenute
documentazioni attestanti particolari trasformazioni delle collezioni. L’inventario realizzato
nel secondo decennio del secolo scorso prova l’esigenza, in linea con le leggi dell’epoca,
di assicurare la permanenza dei pezzi e la loro conservazione, ma nulla sembra rivelare
particolare attenzione circa le modalità di fruizione di tali collezioni.
Il museo viene smembrato nel 1977: nei locali adiacenti la Biblioteca rimane l’importante
Museo Archeologico, mentre la Pinacoteca, la raccolta di maioliche e porcellane, ed il
materiale storico etnografico vennero unificati con la gipsoteca e la collezione d’arte Gera
nel seicentesco Palazzo Bonomi.
La figura di Uno Gera 6 è fondamentale nella definizione dell’attuale Pinacoteca Comunale.
Dal 1966 al 1976 Gera si occupò del restauro e sistemazione dell’edificio secondo logiche
dettate dal desiderio di riportare il palazzo all’antico splendore con un gusto del tutto
personale e non seguendo definiti orientamenti museali. Egli privilegiò l’aspetto artistico
della raccolta con l’acquisto di numerose opere pittoriche, mobili, stampe, e provvide
inoltre a dare una degna sede alla propria gipsoteca. Gera donò il tutto al Comune accogliendo
la Pinacoteca Comunale nei locali del palazzo. La raccolta di fine Ottocento perse
comunque la sua integrità: la si rese parzialmente fruibile, si dimenticò e svalutò l’eterogeneo
nucleo originario.
L’avvio di una politica di valorizzazione complessiva 7 dei beni culturali di Ripatransone,
ha fornito l’occasione per una revisione completa delle collezioni museali, con la conseguenza
di una presa di coscienza da parte della pubblica amministrazione di possedere un
patrimonio da considerare nel suo insieme: quale testimonianza della collettività locale e, in
relazione con il territorio, quale risorsa culturale e turistica. Un tema impegnativo in linea
con le tematiche attuali nel settore che rischia di non trovare il giusto equilibrio tra le esigenze
odierne (purtroppo spesso create da atteggiamenti di costume sempre più frequenti
237

238 in ambito culturale) e le trasformazioni necessarie per adeguare i contenitori espositivi alle
normative per i luoghi pubblici, con il pericolo di porre in secondo piano e di penalizzare
con facili fraintendimenti la sedimentazione dei valori che il Museo Civico possiede.
L’attuale intervento di riallestimento del Palazzo Bonomi-Gera, scaturito dall’esigenza di
trovare nuove forme di comunicazione culturale, intende dare una risposta sensibile al problema
del confronto tra contenitore storico (con forti caratterizzazioni architettoniche),
contenuto (di valore culturale eterogeneo ed articolato), e significato del museo quale testimonianza
di un percorso di costituzione del concetto di patrimonio culturale a livello locale.
La stessa gestione, che avviene su di un progetto quadriennale realizzato tramite una programmazione
annuale in accordo con l’amministrazione, ha come obiettivo la tutela e valorizzazione
del ruolo culturale del museo nella comunità locale, ritenendo quindi prioritario
sostenere il ruolo di tutore della memoria collettiva che l’istituto museale possiede.
Contemporaneamente si è colta l’opportunità di creare una rete territoriale denominata
museipiceni.it 8 in una logica di sistema che, oltre assicurare una maggiore strategia comunicativa
e promozionale dei siti culturali, permette di introdurre personale qualificato 9 nelle
problematiche della tutela e valorizzazione attraverso economie di scala gestionali. Un’esigenza
altrimenti impossibile da soddisfare in piccole situazioni museali che, al di là del livello
qualitativo delle raccolte, non possono di certo godere di adeguati finanziamenti pubblici.
Pur aderendo alla definizione di Museo stabilita dall’I.C.O.M. 10, è necessario dare la
giusta interpretazione applicandola al caso di Ripatransone (un Museo Civico di proprietà
di un Comune di 5000 abitanti disposti su di un ampio territorio). In questo caso è necessario
trasformare il no profit 11 nella voce “utile reinvestibile”, ovvero opportunità di sopravvivenza
del museo stesso. L’avvio di un processo economico strutturato sul patrimonio culturale
locale a livello territoriale 12 permette di far crescere l’istituzione museale, sia in termini
di qualità nella tutela (adeguati locali, restauri...) sia nel miglioramento dei servizi museali
con l’introduzione di personale specializzato e motivato non da spirito di volontariato,
ma dal riconoscimento delle proprie competenze. Questo riconoscimento e la possibilità di
un’occupazione continuativa e non limitata alla sola apertura dei musei (cosa che nei piccoli
musei civici accade durante gli orari comunali e quale compito secondario degli stessi
impiegati) costituiscono un’indispensabile premessa all’attivazione di progetti ed iniziative
finalizzati a consolidare il ruolo del museo quale linfa vitale della vita culturale di un piccolo
centro urbano.
1 Ripatransone è un piccolo centro
urbano in provincia di Ascoli Piceno.
Divenuta sede vescovile nel
1571, è caratterizzata da un prestigioso
tessuto urbano ricco di testimonianze
storico-artistiche.
2 «L’anno 1877 addì 22 del mese
di Gennaro giorno Lunedì Convocata
la Onorevole Giunta Municipale
in Ufficio del Consiglio Comunale
in seduta ordinaria di Pri-
mavera 22 Maggio 1872 discendeva
alla elezione di una Commissione
di Archeologia con l’incarico di
raccogliere gli antichi monumenti
dei quali fu fecondo il nostro suolo
per le tentate escavazioni di monete,
d’iscrizioni, di statue, di armille...
cose che attestano l’antiquata
origine, e le guerre combattute. Gli
oggetti più preziosi furono venduti
da Sergi (?), e le altre cose di mino-
re importanza storica si trovano
raccolte nell’Atrio Comunale – accreditava
lo stesso Consiglio Comunale
alla Commissione la somma
di £ 100 per l’acquisto, trasporto,
e collocamento delle cose antiche
– questa deliberazione consiliare
rimase fin qua inattuata per ragioni
disconosciute. Essendovi ora
venuto a conoscenza, che lì nostri
concittadini Rmo D. Cesare Celli-

ni Canonico di questa Chiesa Cattedrale,
e l’onorevole Sig Marchese
Alessandro Bruti posseggono pregevoli
oggetti di antichità, e di belle
arti, e che interpellati, non
avrebbero alcuna difficoltà di somministrali,
si ravviserebbe opportuno
di formare di essi, e di altri reperibili
in progresso di tempo, una
collezione, e formare un Civico
Museo, somministrando il Comune
un Locale adatto, ed un fondo
di spese per gli armadi, e per quello
può occorrere per l’installazione
di esso, e per novelli acquisti.
La Giunta
Sentito l’esposto e intendendo, che
in questa Città pel proprio decoro,
sia cosa lodevolissima la Istituzione
di un civico Museo
Ritenuto, che li pregiati Sig.ri D.
Cesare Can.o Cellini, ed Alessandro
M.e Bruti conferirebbero gli
oggetti che tuttora posseggono, e
potrebbero quindi interessarsi, e
cooperare all’acquisto di altri, e così
formare una collezione di essi a
modo di far onore alla Patria
Delibera
D’istituire un Civico Museo colla
denominazione Ascanio Condivi
dotto e benemerito Cittadino, in
questo palazzo Comunale, designano
per ora il locale per lo innanzi in
uso all’Ufficio del Giudice Conciliatore,
salvo di provvedere altro locale
stabile adatto, e decorato all’uopo
Di nominare, come nomina a Direttore,
e Custode a vita il sullodato
sig. Can.co Cellini, ed a Condirettore
il preg.ato Sig. Marchese
Bruti, alla quali dovrà fargli invito
per il conferimento degli oggetti
antichi, e di belle Arti, che li medesimi
posseggono, concedendo loro
facoltà di poter fare acquisto di altri
per arricchire tale Museo, ed
screditare loro per questo primo
anno la somma di £ 300 per spese
degli Armadi, ed altri mobili, salvo
al Consiglio di provvedere nei futu-
ri Bilanci quella forma, che crederà
opportuna per l’incremento di
questo Civico Museo».
3 Tale organismo, istituito assieme
alla Giunta delle Belle Arti, fu abrogato
nel 1874 e sostituito dal Consiglio
Centrale di Belle Arti, immediatamente
modificato in “Giunta
di Archeologia e Belle Arti” a seguito
della nomina al ministero dell’Istruzione
del governo Minghetti di
Ruggero Bonghi, che proseguì la
politica centralistica del governo,
con il completo appoggio alla realizzazione
del Museo Pigorini.
4 L’istituzione della Commissione
Archeologica del Comune di Roma
viene deliberata contemporaneamente
alla Biblioteca di Archeologia
e Storia dell’Arte della Sovrintendenza
ai Beni Culturali del Comune
di Roma.
5 Ascanio Condivi (1525 ca-1574)
nacque a Ripatransone ed assieme a
Giorgio Vasari fu uno dei primi
biografi di Michelangelo Buonarroti.
Secondo alcuni studiosi la vita
di Michelangelo gli fu da lui stesso
dettata durante la sua permanenza
a Roma; pittore, allievo minore ed
amico del grande artista, ritornò a
Ripatransone nel 1554; a questa
epoca risale infatti la commissione
per “I misteri del Rosario” nella
chiesa San Domenico di Ripatransone.
Sua unica opera letteraria fu
“La vita di Michelangelo Buonarroti”
pubblicata nel 1553.
6 Magistrato, scultore, nato a Ripatransone
nel 1890, la sua passione
viene coltivata non solo attraverso
l’attività scultorea, ma con
l’acquisto di opere d’arte diverse
donate alla collezione comunale a
seguito della definizione della nuova
sede della Pinacoteca.
7 A seguito di formale bando pubblico
il 30 aprile del 2002 è stata
firmata una convenzione per la gestione
quadriennale del polo museale
locale che comprende oltre
che la Pinacoteca-gipsoteca-galleria
d’arte moderna, il Museo Archeologico,
il Teatro Storico Luigi Mercantini,
il Centro di Educazione
Ambientale, la Biblioteca, l’Archivio
Storico, la Bottega del Vino. La
stessa società è stata poi contattata
per gestire il Museo della civiltà
contadina di proprietà privata. Una
gestione che ha come obiettivo lo
sviluppo delle risorse culturali locali
in sinergia con le risorse umane
ed economiche del territorio.
8 Accordo di programma approvato
dai comuni di Offida - Ripatransone
- Montefiore dell’Aso - Monterubbiano,
la missione della rete museale e
stabilita nel seguente articolo:
Art.: Finalità ed obiettivi
1. Creare la rete museale museipiceni.it
tra le diverse realtà culturali
presenti nei territori dei comuni
sottoscrittori sostenendo la promozione
e lo sviluppo di infrastrutture
e di servizi culturali a scala territoriale
così da realizzare un distretto
culturale funzionale del “museo
diffuso regionale”.
2. Migliorare l’erogazione dei servizi
culturali comuni ampliando
l’accessibilità dei beni culturali ad
ogni strato sociale, ad ogni fascia
d’età e ad ogni esigenza educativa
(in particolare sostenendo la partecipazione
dei soggetti portatori di
handicap).
3. Favorire forme di gestione attente
al contenimento della spesa
pubblica senza deprimere le valenze
culturali dei servizi al pubblico
ed incoraggiando il coinvolgimento
dei soggetti privati ed in particolare
delle risorse umane locali.
4. Proseguire l’attività di valorizzazione
del patrimonio culturale attraverso
la conservazione, la fruizione
e la comunicazione dello
stesso ponendo quale obiettivo la
conoscenza, l’educazione ed il piacere
di avvicinare i segni e le persistenze
dell’uomo e dell’ambiente.
5. Offrire servizi innovativi d’integrazione
e d’informazione che esal-
239

240 tino la cultura e l’identità locale in
un quadro culturale di dimensione
europea.
6. Inserire le strutture museali presenti
nel territorio in un contesto
di standard qualitativo così come
previsto dagli attuali orientamenti
del settore.
7. Interagire con le realtà economiche
del territorio in un quadro
di collaborazione, di coordinamento
e di sostegno.
9 L’accordo di Programma ha previsto
l’istituzione del Comitato Direttivo
di Rete al fine di creare una
struttura operativa sia per ciò che
concerne l’attuazione del progetto,
sia quale organo di coordinamento
tra le attuali situazioni gestionali. Il
Comitato Direttivo di Rete individuerà
attraverso curriculum il Responsabile
unico di Distretto Culturale,
il Conservatore di Beni Archeologici,
il Conservatore dei Beni
Artistici, il Conservatore dei Beni
demoantropologici, acquisendo
così figure capaci di operare nel settore
della tutela e della valorizzazione
del patrimonio culturale con
specifiche competenze. È chiaro
che l’interlocutore principale diverrà
il Responsabile di Distretto
Culturale che assumerà il ruolo di
riferimento tra il comitato direttivo
di rete, i conservatori e le strutture
operative rappresentate dai diversi
responsabili di sito o coordinatori.
10 «Il museo è un’istituzione permanente
senza fini di lucro, al servizio
della società e del suo sviluppo,
aperta al pubblico, che conduce attività
di ricerca su tutte le testimonianze
materiali dell’uomo e del
suo ambiente, le colleziona, le conserva,
ne diffonde la conoscenza e
soprattutto le espone con finalità di
studio, di didattica e di diletto».
11 Non si crede possibile la realizzazione
di enormi profitti nel settore
culturale se non per musei molto
importanti o con operazioni di
marketing legate molto all’immagi-
ne e poco alla cultura, così come
accaduto per numerose mostre dai
notevoli successi numerici ma di
scarso valore quanto ad esperienze
conoscitive, e comunque non possibili
attualmente in piccoli comuni
splendidi, ma non di certo noti
al grande pubblico. Qualsiasi utile
verrebbe reinvestito nell’ampliamento
di servizi.
12 Nel caso della rete museale musei
piceni.it i costi necessari per consentire
a ciascun istituto le opportune
quantità e qualità di dotazioni
e di prestazioni possono venire soddisfatti
agendo dapprima sul versante
della riduzione della spesa (a
parità di forniture) che dell’incremento
dei ricavi di attività in termini
di fruizione.
È anche facilmente intuibile che la
spesa a carico di ciascun istituto
può essere diminuita attraverso future
economie di scala soprattutto
conseguibili:
– impiantando servizi di utilità comune
a sostegno degli adempimenti
ordinari di ciascuno. Attraverso
l’istituzione di un ufficio di rete,
sottoposto al controllo del comitato
direttivo individuato dall’accordo
di programma, è possibile
orientare le scelte nella gestione dei
poli museali in un’ottica di standard
di qualità così come previsto
dagli attuali orientamenti del settore.
L’individuazione di forme comuni
nell’appalto dei servizi o delle
forniture dei beni, la creazione di
un infoline, di un sistema unico di
prenotazioni, così come l’attivazione
di un necessario ufficio stampa e
di promozione e valorizzazione dell’intero
sistema di rete museale.
– provvedendo alla acquisizione
cumulativa dei materiali e delle
prestazioni occorrenti a tutti come:
l’adeguamento degli ordinamenti
scientifici e degli allestimenti espositivi,
l’arredamento e caratterizzazione
unitaria delle sale di ingresso
per una comune accoglienza; l’im-
magine coordinata, la manutenzione
ordinaria del sito e delle infrastrutture,
strumenti di informazione
e di abbattimento delle barriere
di comunicazione; audioguide e
software specializzati per archiviazioni
dati, ricerca e quant’altro serva
ai fini della ricerca e comunicazione
delle informazioni.
– realizzando insieme quegli ulteriori
strumenti e azioni cui non è
possibile provvedere individualmente
quali: forniture di idonei
mezzi d’informazione del pubblico
attraverso la pubblicazione e la vendita
di editoria specializzata per
utenza (bambini, non vedenti…),
guide brevi per la visita di musei,
monumenti e luoghi circostanti,
pubblicazione e vendita di cataloghi
scientifici; produzione di depliant,
di audioguide e di altri di
oggetti da porre in vendita nei bookshop
come produzione e fornitura
di varia oggettistica artigianale confezionata
in loco; attrezzature e attività
di vario genere (dalla organizzazione
di ben congegnati percorsi di
visita ai semplici biglietti cumulativi)
che aumentino l’offerta culturale
connettendo insieme le raccolte
conservate nelle diverse sedi e l’intero
patrimonio culturale diffuso nei
luoghi circostanti; servizi comuni
di cui ripartire i costi, per attuare
manifestazioni culturali aggiuntive
(mostre, spettacoli...) e misure di
carattere promozionale.
– garantendo una maggiore qualità
e competenza professionale, all’interno
di un organico comune avvalendosi
di personale con determinate
competenze tecniche scientifiche
in forma di consulenza specializzata.
– acquisendo maggiori possibilità
di credito e finanziamenti, non solo
in riferimento a quelli che derivano
direttamente dai bilanci pubblici,
ma in virtù della maggiore credibilità
presso Istituti Bancari e Fondazioni
o semplicemente sponsor
privati.

Verso il nuovo Museo Regionale di Messina:
una storia lunga quasi un secolo
Gioacchino Barbera
Museo Regionale - Messina
RIASSUNTO
Il Museo Regionale di Messina nasce nel 1806 per iniziativa dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti.
Nell’attuale sede dell’ex filanda Barbera-Mellinghoff, riunisce i fondi dell’ex Museo Civico e i molteplici
materiali recuperati dalle macerie del terremoto. Dopo una lunga serie di chiusure e di riallestimenti, dal
1976 è divenuto regionale.
Nel corso dei decenni, l’edificio ha subito parecchie ristrutturazioni, atte a migliorare le condizioni di
conservazione ed esposizione delle opere. Nei primi anni Ottanta è stato affrontato un radicale intervento
che, oltre a comportare la bonifica dell’ormai fatiscente ex filanda, ha dotato il Museo di moderni impianti
di climatizzazione e sicurezza ed ha offerto l’occasione di ordinare i materiali secondo un criterio
basato su un’esposizione integrata che riunisce in uno stesso ambiente le opere più rappresentative di un
periodo, anche appartenenti a classi tipologiche diverse.
Accantonato purtroppo un progetto di Carlo Scarpa del 1974-76, il Museo disporrà in tempi brevi
di nuovi spazi, nel grande complesso museale realizzato nell’area della spianata di San Salvatore dei Greci,
attigua alla sede storica (che ospiterà le mostre temporanee), dove verranno esposti moltissimi materiali
oggi conservati nei depositi. Oltre a una sezione archeologica, il percorso compenderà molti dei frammenti
architettonici e decorativi provenienti da monumenti civili e religiosi distrutti dal terremoto.
SUMMARY
The Regional Museum of Messina was founded in 1806 under the initiative of the Accademia Peloritana dei
Pericolanti. The collections of the former Municipal Museum and all the materials rescued from the earthquake
are preserved in the present premises of the former Barbera-Mellinghoff spinning mill. After a long series of closures
and redesigning of exhibitions it was turned into a Regional Museum in 1976.
Over the decades the building has undergone a long set of refurbishment works to improve the conditions of
conservation and exhibition of works. In the early Eighties the building underwent a massive rehabilitation work
not only to regenerate the derelict former spinning mill but also to supply the museum with modern air conditioning
and safety systems. On this occasion the artefacts were ordered according to a set of integrated exhibition
criteria, whereby the most representative works dating from the same period, although belonging to different typological
categories, were exhibited together in the same hall. A project by Carlo Scarpa dating from 1974-76 was
unfortunately shelved away. Yet, in the next future, the museum will be hosted in a larger building, within the
large museum complex built on the San Salvatore dei Greci esplanade area, close to the historical venue, which
will be devoted to temporary exhibitions and to the exhibition of a large amount of objects that are now stored in
the museum warehouse. In addition to an archaeological section, the itinerary will also include several architectural
and decorative pieces coming from civil and religious monuments destroyed by the earthquake.
La sede dell’attuale Museo Regionale di Messina – museo di cui tenterò di ripercorrere a
grandi linee le travagliate vicende – è il fabbricato tardo ottocentesco, più volte ristrutturato,
dell’ex filanda Barbera-Mellinghoff (una delle rare costruzioni rimaste integre dopo il

242 terremoto catastrofico del 28 dicembre 1908, nella zona nord della città, confinante con
l’ampia spianata prospiciente lo Stretto, dove giacevano le rovine dell’ex monastero basiliano
di S. Salvatore dei Greci), utilizzato, fin dal 1913, come deposito delle opere d’arte e dei
frammenti architettonici e decorativi di maggior pregio provenienti dagli edifici distrutti o
danneggiati dal sisma. Le collezioni del Museo sono costituite dai fondi del vecchio Museo
Civico e dai molteplici materiali recuperati dalle macerie del terremoto.
Ma la nascita di un museo a Messina risale al 1806 per iniziativa dell’Accademia Peloritana
dei Pericolanti e in particolare dell’erudito Carmelo La Farina, che ne fu il primo conservatore.
I nuclei delle collezioni del “Museo Civico Peloritano”, formatisi per donazioni e
acquisizioni dei soci e in un secondo momento, dopo l’Unità d’Italia, con opere provenienti
dagli enti religiosi soppressi, furono raccolti ed esposti in diverse sedi, fino a quando, nel
1890, vennero allogati nei locali dell’ex monastero di S. Gregorio, appositamente adattati
dagli ingegneri Leone Savoja e Gregorio Bottari, cui si pensava di annettere, per l’esposizione
dei materiali lapidei, l’attiguo monastero di S. Anna.
I criteri di ordinamento del Museo, messi a punto da Gaetano La Corte Cailler, studioso
di storia messinese, si evincono da una guida da lui redatta nel 1901 e rimasta inedita fino
al 1981. I materiali erano ordinati per generi senza seguire un criterio rigorosamente cronologico.
La prima sala era dedicata alle memorie cittadine, con manoscritti, lettere, incisioni,
dipinti e sculture di autori contemporanei; nelle altre sale invece la disposizione dei
pezzi mirava soprattutto ad evidenziare il riferimento con la storia della città. Un particolare
rilievo veniva dato al Polittico di S. Gregorio di Antonello da Messina, collocato nel cosiddetto
“salone d’onore”, sulla scia anche della riscoperta, proprio in quegli anni, del grande
pittore messinese grazie alle ricerche d’archivio del Di Marzo e dello stesso La Corte Cailler;
così come le due pale d’altare del Caravaggio eseguite durante il suo breve soggiorno a
Fig. 1. Deposito di marmi e frammenti architettonici sulla spianata del SS. Salvatore dei Greci (fotografia di G.
La Corte Cailler, Messina, Archivio Storico Comunale).

Fig. 2. Museo Nazionale di Messina
(ex filanda Barbera-Mellinghoff), sale
pittura e scultura: primo ordinamento
dopo il terremoto del 1908
(Archivio Fotografico Museo Regionale
di Messina).
Messina, la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori, già musealizzate da tempo, venivano
poste nel rilievo adeguato alla loro importanza storico-artistica.
Nel 1908 comunque l’ordinamento del museo era in parte ancora provvisorio. Il terremoto
del 28 dicembre dello stesso anno abbatte, assieme alla quasi totalità degli edifici e del
patrimonio monumentale cittadino, anche il Museo Civico di S. Gregorio. Ha inizio quasi
subito, grazie all’attività instancabile del Soprintendente Antonino Salinas, giunto fortunosamente
a Messina da Palermo all’indomani del disastro, e dell’ispettore onorario Gaetano
Mario Columba, l’immane lavoro di individuazione e di recupero delle opere d’arte e di
quant’altro era possibile salvare dalla rovina e dalla dispersione. Nell’emergenza, i materiali
vennero ricoverati in luoghi diversi (magazzini della Dogana, chiesa di S. Maria Alemanna,
Duomo) e quindi, nel 1913, come già si è detto, vennero trasportati nei locali dell’ex filanda
Barbera-Mellinghoff e sull’annessa spianata dell’ex monastero di S. Salvatore dei Greci.
Nel 1914 lo Stato acquisiva la proprietà di tutti i materiali recuperati e il museo assumeva
così la denominazione di “Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna”.
Già nel 1912 al Soprintendente ai monumenti della Sicilia, ing. Francesco Valenti, veniva
dato l’incarico di redigere un progetto per il nuovo museo. L’edificio monumentale doveva
sorgere sulla stessa spianata di S. Salvatore dei Greci e su un appezzamento di terreno
attiguo, appositamente espropriato. Tuttavia, per varie vicissitudini, legate anche allo scop-
243

244
Fig. 3. Museo Nazionale di Messina
(ex filanda Barbera-Mellinghoff), sale
pittura e scultura: primo ordinamento
dopo il terremoto del 1908
(Archivio Fotografico Museo Regionale
di Messina).
pio della prima guerra mondiale, il progetto Valenti, approvato nelle linee generali, non venne
per il momento realizzato; Enrico Mauceri, allora Soprintendente e direttore del museo,
venuta meno questa occasione, pur tra mille difficoltà, nel 1922 riuscì finalmente ad aprire
al pubblico il Museo Nazionale, dopo aver effettuato una prima sommaria catalogazione
dei materiali e aver dato corso ai restauri più urgenti.
È opportuno, a questo punto, entrare brevemente nel merito del progetto Valenti e dell’allestimento
museografico di Mauceri. Del vecchio Museo Civico si è già accennato e si è
detto appunto che la sistemazione tendeva a mettere in risalto le opere più significative del
panorama artistico locale. Il post-terremoto poneva certamente problemi di gran lunga più
complessi. Infatti, da un lato prioritario era il problema della conservazione di tutti i materiali
provenienti dal Museo Civico, ma anche di quelli provenienti dagli edifici distrutti dal
terremoto; dall’altro, emergeva l’esigenza, avvertita subito dopo il disastro, che il nuovo museo
non si qualificasse più soltanto come un contenitore di opere d’arte, ma in qualche modo
rappresentasse la testimonianza visiva di tutta una civiltà figurativa ormai disgregata e lacerata,
tenendo conto perciò nella concezione espositiva anche dei frammenti architettonici
recuperati dalla città distrutta.

Il progetto Valenti accoglieva questa istanza e l’aveva tradotta in scala monumentale, facendo
in modo che tutti i frammenti architettonici formassero quasi la compagine costruttiva
dello stesso museo. Nella progettazione dell’edificio, il Valenti inseriva dunque i rivestimenti
marmorei della chiesa di S. Giovanni, del portale dell’Università e di Palazzo Grano
nella facciata; dei chiostri di S. Domenico e di S. Francesco nei cortili, e prevedeva il rimontaggio
di altri reperti decorativi ed architettonici, relativi ai più illustri monumenti cittadini.
Nella zona posteriore, in un’esedra di grande suggestione scenografica, aperta su un
giardino, era stata prevista l’anastilosi delle più sontuose cappelle decorate a tarsie marmoree,
come quelle di S. Gregorio, del Carmine, di S. Paolo, di S. Caterina. Nelle sale, l’ordinamento
delle collezioni si articolava per generi o per classi di materiali, con grande spazio
riservato alla pinacoteca. Il progetto Valenti, comunque, non venne realizzato né allora né
dopo, anche se, pur con diverse modifiche di luogo e di strutture, rimase in discussione per
circa venti anni. È interessante tuttavia aver toccato le linee fondamentali dell’idea progettuale
anche nell’accentuazione della grandiosità monumentale della sua ristrutturazione, in
rapporto e in contrapposizione a quanto il Mauceri, molto più modestamente, riusciva a
realizzare nel 1922 nei locali ricavati nell’ex filanda e negli spazi esterni ad essa adiacenti.
Utilizzando appunto gli spazi esterni, il Mauceri metteva in evidenza i materiali più cospicui
e da lui ritenuti più interessanti del patrimonio architettonico e decorativo. Nel cortile
interno della sede museale (dove ancora oggi si trovano) venivano rimontati i portali più integri,
come quello di S. Domenico, di S. Maria della Scala, di S. Maria di Basicò, mentre
Fig. 4. Museo Nazionale di Messina, ordinamento Mauceri, sala dei primitivi (Archivio Fotografico Museo Regionale
di Messina).
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246 nelle sale la sistemazione delle opere seguiva un criterio misto, non rigorosamente cronologico,
affastellando in un certo senso le opere, sia per una visione il più possibile completa
delle stesse, sia per mancanza di spazi adeguati per i depositi, tali da consentire una selezione
dei materiali.
L’allestimento del Mauceri fu mantenuto fino alla seconda guerra mondiale, anche se,
con alterne vicende, non venne mai meno l’obiettivo della costruzione della nuova sede.
Trasferitosi il Mauceri a Bologna nel 1929, i direttori successivi, Ettore Miraglia e poi Nicolò
Catanuto, cercarono di portare avanti il progetto Valenti. Ma accantonato definitivamente
quest’ultimo per gli oneri di spesa troppo alti, nel 1940 da parte di Catanuto e dell’ing.
Mallandrino viene avanzata la proposta di realizzare il museo nei locali, allora fatiscenti,
del Monte di Pietà. Il restauro del monumento, affidato all’arch. Armando Dillon, a
quel tempo Soprintendente ai monumenti della Sicilia orientale, prevedeva l’utilizzo del vestibolo
del Monte, degli ambienti annessi attorno al cortile e alla scenografica scalinata della
chiesa di S. Maria della Pietà, nonché la sistemazione del terreno retrostante con una costruzione
a più piani. Nell’articolazione abbastanza complessa dei vari settori, ancora una
volta viene preso in considerazione il rimontaggio di alcuni elementi architettonici, scelti tra
i frammenti dei più prestigiosi edifici abbattuti dal terremoto. Ma il progetto, approvato nel
1941, non potrà essere realizzato per l’incalzare della seconda guerra mondiale.
Nel 1949, Maria Accascina subentra al Catanuto nella direzione del Museo, allogato
sempre nei locali dell’ex filanda Mellinghoff. Pur in una situazione contingente difficilissima,
in pochi anni e con pochissimi mezzi l’Accascina compie un lavoro davvero immane;
Fig. 5. Museo Nazionale di Messina, ordinamento Mauceri, sala di Antonello (Archivio Fotografico Museo Regionale
di Messina).

procede infatti alla schedatura dei pezzi in base alla loro identificazione, effettua la compilazione
e il completamento degli inventari, compie una prima analitica ricognizione dei materiali
architettonici e lapidei, sistemandoli in cumuli ordinati sulla spianata e provvedendo
a una copertura con capannoni per quelli di maggiore importanza e delicatezza.
Nel giugno del 1954 il museo fu nuovamente riaperto al pubblico, sempre nella vecchia
sede. I criteri dell’Accascina erano fortemente critici nei confronti dei precedenti progetti Valenti
e Mallandrino, soprattutto perché quei progetti, secondo la studiosa, intendevano «creare
un Museo che fosse prevalentemente il santuario delle memorie monumentali della città,
ivi esponendo tutto quello che fosse rimasto delle chiese distrutte dal terremoto, assai meno
intendendo di creare un Museo scientificamente ordinato, passibile di ulteriori sviluppi, centro
di studi e di educazione culturale». Ed aggiungeva che «la ricostruzione di molti elementi
grandiosi, lungi dal risolversi a vantaggio di un ricordo della città monumentale, avrebbe
dato adito soltanto a romantiche e parziali ricostruzioni, lasciando la Galleria costretta in pochi
ambienti. Una progettazione moderna doveva quindi partire da esigenze diverse: non fare
un museo sacrario, ma un museo scientificamente ordinato». Coerentemente con questi
principi, pur battendosi per una nuova sede, l’Accascina riordina il museo secondo criteri diversi
da quelli precedentemente attuati: imposta l’ordinamento per classi formando la sezione
della pinacoteca, quella della scultura (suddividendola nei settori archeologico, medievale,
rinascimentale e barocco), e dedicando un’ampia sezione alle arti decorative e applicate.
Nel privilegiare dunque un principio selettivo metodologicamente ispirato alla chiarezza
espositiva delle opere in base alle istanze della più moderna museografia, la studiosa sacrifi-
Fig. 6. Museo Nazionale di Messina, veduta aerea della spianata del SS. Salvatore dei Greci dopo il riordinamento
Accascina (Archivio Fotografico Museo Regionale di Messina).
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248 cava la visione storico-documentaria, anche per l’impossibilità di prendere in esame in quella
fase i reperti architettonici, e cercava piuttosto di rappresentare, per ogni secolo, il filone
più profondo e continuo con una presentazione, sia pure ridottissima, dei testi figurativi, tenendo
però presente che «un museo periferico deve esporre anche il meglio degli artisti locali
per offrire un campo di attive ricerche per lo studio dell’ambiente artistico». Ad una visione
municipalistica si sostituiva così una visione critica del problema museale che si rispecchia
bene anche nell’allestimento, lontano da qualsiasi ambientamento in stile, con una accentuazione
della semplicità dell’arredo basato sulla qualità e sul colore dei pavimenti, sul colore
delle pareti, sulla sobrietà dei tendaggi, perché nel loro complesso di toni smorzati (caldo
avorio, grigi chiarissimi, bianchi opachi) costituissero un ambiente non gelido, ma sobrio e
sereno, in cui le opere d’arte potessero essere isolate e comprese nel loro linguaggio.
Con la sistemazione dell’Accascina si imprime una svolta nella concezione museale che
doveva necessariamente condizionare i rinnovati tentativi per la progettazione e costruzione
di una nuova sede. D’altra parte essa derivava da un dibattito sul museo, molto serrato in quegli
anni, sia per la sua funzione sociale, che non si identificava quindi in un accumulo di oggetti,
quanto nella rete di relazioni di ogni singolo oggetto per la molteplice gamma dei suoi
significati, sia per il deciso rinnovamento che la museografia aveva conosciuto nel Dopoguerra.
E sia per qualità che per quantità il contributo italiano alla progettazione dei musei in
quel periodo era stato notevole per merito di un gruppo di architetti quali Albini, Scarpa,
Gardella, Minissi, lo studio BBPR, per citarne solo alcuni, che nelle loro realizzazioni e solu-
Fig. 7. Museo Nazionale di Messina, ordinamento Accascina, sala della scultura medievale (Archivio Fotografico
Museo Regionale di Messina).

zioni non abdicarono certamente ai valori storici, ma si sentirono legati alla tradizione, cercando
di concretizzarla in un processo di comunicazione. Anche nel caso particolare del Museo
di Messina perciò l’Accascina riteneva che si dovesse realizzare un rapporto con il passato
che ne individuasse le linee di maggiore emergenza storica nella continuità di un tessuto culturale
colto pure nella dialettica delle diverse componenti. Il recupero della fisionomia della
città distrutta doveva essere lasciato alla visione e alla presenza degli elementi di maggiore valenza
artistica, dai quali sarebbe emerso il recupero storico-critico del contesto ambientale.
Intanto, per tornare alla cronaca degli avvenimenti, nel 1952, a livello centrale e regionale,
era tornata alla ribalta la proposta della costruzione della nuova sede museale; le pressioni
tuttavia si riducono alla soluzione di un ampliamento che prevedeva la sopraelevazione
dell’edificio esistente con la costruzione di un corpo aggiunto. Nel 1953 l’incarico della
progettazione viene affidato, da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, all’arch. Aldo
Grillo della Soprintendenza ai monumenti del Lazio. Dopo ripetute elaborazioni tenacemente
criticate dall’Accascina perché non rispondenti ad esigenze di conservazione e di funzionalità,
ed intervenuta nel frattempo la disponibilità da parte della Cassa per il Mezzogiorno
a stanziare cento milioni a patto che la Regione si facesse carico in egual misura per
finanziare la nuova sede, l’Accascina, nel 1960, incarica – su autorizzazione verbale del Direttore
Generale del Ministero, Guglielmo De Angelis D’Ossat – l’arch. Franco Minissi, autore
già del Museo di Villa Giulia a Roma e dei Musei di Gela e di Agrigento in Sicilia, di
elaborare un nuovo progetto per Messina.
Fig. 8. Museo Nazionale di Messina, ordinamento Accascina, sala della scultura rinascimentale e barocca (Archivio
Fotografico Museo Regionale di Messina).
249

250 Il progetto Grillo e il progetto Minissi si contrapponevano per divergenze fondamentali
della concezione museale; il primo infatti più che concepire il museo come un complesso
organicamente ordinato, ne esaltava gli aspetti scenografici risolvendo in tal modo il difficile
problema del rimontaggio degli elementi architettonici e plastici recuperati dal terremoto;
non teneva molto conto di quelle esigenze, abbastanza avvertite dall’Accascina, di
conferire al museo una più vasta competenza territoriale nell’estensione dei compiti di tutela,
conservazione e diffusione culturale.
Il progetto Minissi invece, più attento a queste esigenze, mirava anche alla soluzione della
particolare natura del Museo di Messina; ma piuttosto che offrire una sequenza di ricostruzione
di elementi più o meno importanti artisticamente e storicamente, con uno scopo
dunque prevalentemente decorativo, li distribuiva secondo una selezione ideale che rispondeva
ad un’organicità concettuale delle collezioni in base ai loro riferimenti artistici e storici.
Concepiva dunque un museo articolato in tre spazi diversi, strettamente dipendenti tra
loro ma ciascuno con una propria destinazione. In sintesi, prevedeva un nucleo chiuso per
le opere di pittura, scultura e arti decorative funzionalmente collegate con i laboratori di restauro,
un portico per la sistemazione coperta di portali, stemmi ed altri materiali con una
sequenza scientificamente studiata, ed una parte sistemata a terrazzamento per l’esposizione
all’aperto, in mezzo al verde, di altri materiali decorativi e scultorei. La previsione di alcuni
servizi necessari tra cui la biblioteca e un auditorium, l’interrelazione tra interni ed
esterni, studiata anche in funzione della posizione panoramica offerta dalla spianata, ri-
Fig. 9. Museo Nazionale di Messina, ordinamento Accascina, sala della pittura del Cinquecento e del Seicento
(Archivio Fotografico Museo Regionale di Messina).

specchiavano gli orientamenti museografici più moderni, anche se non finalizzati al significato
specifico ed unico che il Museo di Messina doveva rappresentare in relazione alle vicende
e alla storia della città, e mirati piuttosto a dar risalto «alla qualità e quantità delle
opere che costituiscono il patrimonio artistico del Museo di Messina e gli sviluppi futuri
della funzione didattica che esso doveva raggiungere».
Al progetto Minissi non si dette seguito. Venne incaricato successivamente l’architetto
Grillo, ma i lavori di progettazione andarono a rilento nonostante le sollecitazioni dei direttori
succedutisi nel frattempo all’Accascina (Santi Luigi Agnello, Giuseppe Scavizzi, Giuseppe
Consoli, Francesca Campagna Cicala), finché questi rinuncerà all’incarico.
Finalmente nel 1974 il Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale Antichità
e Belle Arti) e la Cassa per il Mezzogiorno – quest’ultima aveva già stanziato qualche
anno prima un miliardo e duecento milioni di lire per l’esecuzione dei lavori – accettavano
la proposta di Vincenzo Scuderi, allora Soprintendente alle Gallerie della Sicilia, di affidare
il progetto del nuovo museo a Carlo Scarpa, con la collaborazione di Roberto Calandra,
proposta che rinnovava così la felice intesa tra i due architetti, già sperimentata al tempo
della mostra antonelliana del 1953. Il progetto di massima, firmato Scarpa-Calandra, veniva
presentato nel febbraio 1976 e approvato dal Consiglio Nazionale del Ministero dei Beni
Culturali, istituito da pochi mesi, e dal Consiglio di Amministrazione della Cassa, per un
costo complessivo stimato in quattro miliardi e centocinquantotto milioni. Ma con l’entrata
in vigore della legge 183 del 1976, la Cassa rimetteva per competenza il progetto all’As-
Fig. 10. Museo Nazionale di Messina, ordinamento Accascina, sala della pittura medievale (Archivio Fotografico
Museo Regionale di Messina).
251

252 sessorato al Turismo della Regione Siciliana che, a sua volta, a seguito della legge regionale
1-8-1977 n. 80, ne trasmetteva gli elaborati all’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e
Ambientali. Dal 1976 infatti, in virtù delle norme di attuazione dello Statuto autonomo
della Regione Sicilia, la struttura era diventata regionale, assumendo la denominazione di
“Museo Regionale”. Quando poi, dopo qualche anno, sarà il Comune di Messina a gestire
direttamente i finanziamenti regionali, verrà scelta la formula dell’appalto concorso, lasciando
il progetto Scarpa-Calandra solo come indicazione facoltativa, e quindi, di fatto, accantonandolo.
Il progetto per il nuovo Museo di Messina, elaborato negli anni 1974-76 e mai realizzato,
è per molti aspetti emblematico della produzione matura di Scarpa e nello stesso tempo,
in conseguenza di miopi scelte politiche e culturali, rappresenta per la città l’ennesima occasione
perduta. Le tavole presentate per l’approvazione del Ministero Beni Culturali e ancor
più il ricco corpus di 52 disegni e schizzi conservati nell’archivio Scarpa di Trevignano,
in larga parte inediti ad eccezione di alcuni notissimi, consentono di scandagliare il metodo
progettuale di Scarpa e di seguirne la straordinaria vivacità creativa.
In una prima ipotesi, a lungo studiata, lo spazio espositivo era concepito come una serie
di piccoli padiglioni di forma quadrangolare, collegati fra di loro e disposti con assoluta libertà,
illuminati dall’alto attraverso aperture praticate ai quattro angoli, riproponendo la soluzione
dell’ampliamento della Gipsoteca canoviana di Possagno. Nella seconda, quella definitiva,
il museo si configurava come una grande struttura rettangolare dai contorni irregolari,
su più livelli, collegata al vecchio edificio (da ristrutturare, in una seconda fase, uti-
Fig. 11. Museo Regionale di Messina, ordinamento Campagna Cicala, sala della pittura e scultura medievale (Archivio
Fotografico Museo Regionale di Messina).

lizzandolo per mostre temporanee e conferenze) con un corpo di fabbrica destinato a uffici,
servizi e attività polivalenti (biblioteca, laboratori, eccetera), caratterizzata sul lato nord
da tre grandi absidi con profilo a ventaglio, di dimensioni diverse.
Per i frammenti architettonici e decorativi della città distrutta – la cui collocazione costituiva
senza dubbio il problema più difficile e delicato da affrontare in sede di progettazione
– era previsto un grande fossato a sei metri sotto il livello principale del museo, coperto
solo in parte, attraverso cui si snodava un percorso continuo, cadenzato da una serie
di alte stele e di piani inclinati che fungevano da supporti, in maniera tale da suggerire al
visitatore, per quanto possibile, l’unità compositiva originaria dei pezzi.
Nel tentativo ambizioso di reintegrare in unità i frammenti superstiti del patrimonio artistico
messinese, prendeva forma l’idea di fondo del progetto, che partendo dal superamento
della consueta divisione delle collezioni in materiali esposti e materiali conservati nei
depositi, determinava invece percorsi differenziati, ma strettamente connessi fra di loro, sia
per una visita di tutte le raccolte sia per una visita limitata alle opere più importanti o ad alcune
specifiche sezioni. Risulta chiaro comunque che le collezioni principali avrebbero occupato
il livello intermedio, il materiale architettonico e decorativo e le berline del Senato
sarebbero stati collocati al cosiddetto piano seminterrato (di fatto a livello dell’ingresso),
mentre le monete, le oreficerie, gli argenti, le maioliche e le stampe erano previste al terzo
livello, al piano ammezzato. L’esposizione avrebbe seguito quindi un criterio rigorosamente
cronologico, cercando di offrire una visione integrata delle raccolte e presentando insieme
le opere di classi differenti – pittura, scultura, architettura, arti decorative – più rappresen-
Fig. 12. Museo Regionale di Messina, ordinamento Campagna Cicala, sala della pittura e scultura barocca (Archivio
Fotografico Museo Regionale di Messina).
253

254 tative a delineare i caratteri significativi di ciascun periodo, quale testimonianza, simbolica
e allusiva, di un intero patrimonio disgregato e distrutto.
Nel 1981, a conclusione di un lungo e tormentato iter burocratico, il Comune di Messina,
cui era stata demandata la gestione diretta del finanziamento stanziato dall’Assessorato
Regionale Beni Culturali e Ambientali, messo da parte il progetto di massima Scarpa-Calandra,
che servirà solo come indicazione facoltativa, affida la progettazione della nuova sede
museale, con la formula dell’appalto concorso, agli architetti Fabio Basile, Gaspare De
Fiore e Mario Manganaro. Per l’apertura del nuovo museo, i cui lavori sono da tempo terminati,
si attendono ora gli ultimi finanziamenti, su fondi della Comunità Europea, per alcuni
impianti accessori e per completare l’allestimento delle sale, progettato successivamente
ex-novo dall’arch. Antonio Virgilio sulla base dell’ordinamento di Francesca Campagna
Cicala, e per trasferire dalla vecchia sede e dai depositi le opere che verranno esposte.
Nel corso degli ultimi decenni però la vecchia sede ha subíto parecchie ristrutturazioni atte
a migliorare le condizioni di conservazione ed esposizione delle opere. Tra il 1980 e il 1984
è stato affrontato un radicale intervento di ristrutturazione che, oltre a comportare la bonifica
dell’ormai fatiscente ex filanda, ha dotato il museo di moderni impianti di climatizzazione e
di dispositivi antifurto e antincendio, ed ha offerto l’occasione di ordinare i materiali secondo
un nuovo allestimento, curato da Francesca Campagna Cicala, direttore del Museo per quasi
trent’anni fino al 2000, e progettato dall’arch. Antonio Virgilio, basato su un’esposizione integrata
che riunisce in uno stesso ambiente le opere più rappresentative di un periodo, anche
appartenenti a classi tipologiche diverse. Questo criterio è stato suggerito dalla natura stessa
Fig. 13. La nuova sede del Museo Regionale di Messina: progetto di F. Basile, G. De Fiore, M. Manganaro; allestimento
di A. Virgilio (Foto A. Mancuso).

delle collezioni, la cui provenienza, eterogenea e differenziata, si caratterizza però come documentazione
della produzione artistica locale, quale si è determinata attraverso i secoli per condizioni
storiche e politiche e a seguito di rapporti ed influenze con altre aree straniere e continentali,
testimoniati dalla presenza di opere di Antonello, di Girolamo Alibrandi, di Polidoro
da Caravaggio, di Giovanni Angelo Montorsoli e di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Il percorso è attualmente articolato in quindici grandi sale che illustrano la civiltà figurativa
locale nel suo svolgimento dall’XI fino al XVIII secolo. Dell’ingente patrimonio artistico
del Museo vanno almeno ricordati la cosiddetta Madonnina degli storpi di Goro di Gregorio,
il Polittico di San Gregorio di Antonello da Messina, la Presentazione al tempio di Girolamo
Alibrandi, l’Adorazione dei pastori di Polidoro da Caravaggio, la statua marmorea di
Scilla di Giovanni Angelo Montorsoli (proveniente dalla Fontana del Nettuno), le due pale
d’altare del Caravaggio, la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori, e le ricche collezioni
di tarsie marmoree policrome, di argenti, tessuti e ceramiche.
Come si è detto prima, il museo disporrà in tempi brevi di nuovi spazi, essendo ormai
in fase di completamento il nuovo grande complesso museale, realizzato nell’area della spianata
di San Salvatore dei Greci, attigua alla sede storica (che ospiterà la biblioteca e le mostre
temporanee), dove verranno esposti moltissimi materiali oggi conservati nei depositi.
Nel circuito espositivo saranno compresi molti dei frammenti architettonici e decorativi
provenienti da monumenti civili e religiosi distrutti dal terremoto; è prevista anche una ricca
sezione archeologica, dove troveranno posto materiali provenienti dalle collezioni del
Museo Civico e reperti ritrovati nell’ambito di scavi eseguiti nell’area urbana.
Fig. 14. La nuova sede del Museo Regionale di Messina: progetto di F. Basile, G. De Fiore, M. Manganaro; allestimento
di A. Virgilio (Foto A. Mancuso).
255

256 Bibliografia essenziale
G. La Corte Cailler 1981, Il Museo
Civico di Messina, ms. 1901, ed.
a cura di N. Falcone, Marina di
Patti.
E. Mauceri 1929, Il Museo Nazionale
di Messina, Roma.
M. Accascina 1956, Il Museo Nazionale
di Messina, in “Bollettino
d’Arte”, anno XLI, serie IV, n.
IV, pp. 344-348.
M. Accascina 1960, Museo Nazionale
di Messina: ordinamento della
sezione maioliche, monete e paliotti,
in “Bollettino d’Arte”, an-
no XLV, serie IV, n. I-II, pp.
189-192.
G. Consoli 1980, Messina. Museo
Regionale, Bologna.
F. Campagna Cicala 1984, Il Museo
Regionale di Messina. Breve
guida alla lettura delle opere,
Messina.
F. Campagna Cicala 1992, Messina.
Museo Regionale, introduzione
di F. Zeri, Palermo.
F. Campagna Cicala 1993, “voce”
Museo Regionale di Messina, in
Musei della Sicilia. Percorsi e sto-
ria di raccolte pubbliche e private,
a cura di M. G. Aurigemma, Roma,
pp. 80-86.
G. Barbera (a cura di) 1998, Verso
il nuovo Museo. L’ordinamento di
Maria Accascina del 1954: progetti,
relazioni, documenti, Quaderni
dell’attività didattica del
Museo Regionale di Messina, n.
7, Messina.
G. Barbera 2002, “voce” Museo Regionale
di Messina, in L’ Arte, vol.
VI, I Musei, a cura di E. Spalletti,
Torino, pp. 125-126.

Il Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro (VE).
Un pregevole esempio di “museo-monumento”
tardo-ottocentesco
Emanuele Masiello
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto - Padova
RIASSUNTO
Il contributo intende focalizzare l’attenzione su un museo “storico” poco noto, ospitato fin dalla sua fondazione,
avvenuta nel 1885, all’interno di un edificio concepito in forma di chiesa basilicale. La circostanza
rende il museo un’opera di singolare e pregevole rarità. Soprattutto quale testimonianza ben conservata
degli esiti raggiunti dall’architettura museale tardo-ottocentesca che, attingendo dal repertorio degli
stili storici ed assegnando primaria importanza all’ambientazione delle opere, riesce a conseguire effetti
di intensa suggestione evocativa. Sebbene nel corso del tempo sia divenuto un rilevante polo di riferimento
culturale per l’area geografica di appartenenza (anche grazie all’organizzazione di mostre, visite guidate,
convegni, ecc., o alla pubblicazione di libri, opuscoli, ecc.), il museo sconta tuttavia una prolungata
condizione di scarsa visibilità e di carente attrattiva, ponendo, come tanti altri piccoli ma preziosi musei
disseminati sul territorio nazionale, stimolanti problemi circa le modalità di una sua più adeguata valorizzazione.
SUMMARY
This paper intends to focus on a little known “historical” museum, which has been hosted in a basilica-like
building since its foundation in 1885. This special venue makes the museum quite unique and rare. It is an
outstanding example of very well preserved late 18 th century museum architecture. By drawing inspiration from
different historical styles and by highlighting the importance of the setting of works, it conveys an intensely
evocative atmosphere. Although over the years the museum has become an important point of cultural reference
for its surrounding geographical area (also thanks to the organization of exhibitions, guided tours, meetings, or
to the publication of books, brochures, etc.), the museum still suffers from a longstanding poor visibility and appeal.
Just like many other small but precious museums scattered throughout the national territory, this museum
requires a more suitable image-enhancing strategy.
Sebbene poco noto al vasto pubblico, il Museo Concordiese di Portogruaro costituisce una
testimonianza pressoché unica nel panorama dei musei “storici” italiani. Non tanto per le
opere che custodisce, il cui valore è stato ampiamente documentato, quanto soprattutto per
il fatto che esso è ospitato, fin dalla sua fondazione, all’interno di un edificio concepito nelle
insolite forme architettoniche di chiesa a impianto basilicale (fig. 1).
Malgrado tale straordinarietà, l’interesse rivolto dagli studiosi alla fisionomia architettonica
e all’allestimento espositivo del museo è stato sinora assai scarso, e per lo più limitato
a stringati cenni nell’ambito di trattazioni riguardanti prevalentemente il museo inteso come
sede di esposizione di reperti archeologici. Come si riscontra anche in altre realtà, la circostanza
non solo segnala il persistere di episodiche miopie culturali, ma riflette emblematicamente
il lungo permanere del dualismo di fondo tra studio dei musei inteso come stu-

258 dio delle istituzioni, delle collezioni, degli ordinamenti scientifici (scritta prevalentemente
dai museologi siano essi direttori, curatori, conservatori, storici dell’arte, ecc.), e studio dei
musei inteso come studio dell’architettura museale e degli allestimenti espositivi (scritta prevalentemente
dagli architetti o dagli storici dell’architettura). Ossia, più in generale, per usare
vocaboli desueti ma ancora efficaci, il permanere della dicotomia tra “contenuto” e “contenitore”
troppo spesso considerati, anche per effetto di incrostate partizioni disciplinari,
entità autonome e distinte 1.
Il presente contributo è pertanto rivolto soprattutto a delineare la genesi costruttiva e allestitiva
del museo e ad illustrarne il precipuo valore architettonico in relazione alla sua storica
destinazione d’uso. L’intento è quello di promuovere un’approfondita opera di ricostruzione
storiografica, indispensabile per tutelare e valorizzare al meglio il monumento, iniziando
a colmare una lacuna che sinora può aver notevolmente limitato le possibilità del
museo di essere conosciuto e apprezzato anche all’esterno dei ristretti confini locali.
I materiali utilizzati sono soprattutto i documenti, sia descrittivi che iconografici, conservati
nell’Archivio Storico del Museo e nell’Archivio Storico del Comune di Portogruaro.
Si tratta di documenti rimasti sinora in larga parte inediti (disegni, fotografie, atti ministeriali,
corrispondenze epistolari, ecc.) ed ancora privi di una rigorosa sistemazione filologica,
che costituiscono un patrimonio di fondamentale importanza per la storia del museo. Soprattutto
nella prospettiva di riuscire a creare, come si ritiene auspicabile anche per altri musei,
un organico corpus documentario relativo a tutte le vicende riguardanti il museo, ossia
Fig. 1. Immagine attuale della facciata
su via del Seminario.

un piccolo “museo della storia del museo” che contribuisca a conservare la memoria e a valorizzare
l’identità dell’istituzione.
Come attesta la lapide affissa nell’atrio d’ingresso, il museo è fondato a Portogruaro nel
1885, grazie all’impegno congiunto di Giuseppe Fiorelli, capo della Direzione Generale delle
Antichità e Belle Arti, di Dario Bertolini, curatore scientifico, di Antonio Bon, ingegnere
progettista, e di Francesco De Fabris, sindaco di Portogruaro.
La realizzazione del museo è finalizzata soprattutto a raccogliere, conservare ed esporre
degnamente al pubblico il materiale archeologico rinvenuto nell’area urbana ed extraurbana
della antica città romana di Iulia Concordia (divenuta in seguito Concordia Sagittaria in
ricordo della presenza in loco di una fabbrica di sagittae), nel corso di scavi compiuti con
particolare sistematicità negli anni 1873-1882 2. Tra tali materiali, prevalentemente lapidei
(grandi frammenti architettonici, urne, sarcofagi con iscrizioni, monumenti funerari, ecc.),
spiccano le pregevoli epigrafi rinvenute nel “Sepolcreto delle Milizie”, studiate di persona
da Theodor Mommsen che le pubblica nel suo Corpus Iscriptionum Latinarum 1877 3.
Sarebbe stato più opportuno e più gratificante per gli abitanti di Concordia Sagittaria ubicare
il museo nel loro Comune, il quale tuttavia non disponeva di immobili municipali adatti
allo scopo. Poiché inoltre il Comune di Portogruaro era già in possesso della collezione del
canonico Matteo Muschietti e dei suoi discendenti, costituita anch’essa da reperti provenienti
da Concordia, che per volontà testamentaria dovevano restare a Portogruaro, si decide di
ubicare il museo in Portogruaro, anche allo scopo di raccogliere tutte le antichità concordiesi
in un’unica istituzione, favorendo un ordinamento scientifico organico. «Capisco benissimo
– scrive in proposito il Fiorelli da Roma –, che io domando non piccola abnegazione al Municipio
di Concordia. Ma sarà soddisfatto il giusto amor proprio, quando si pensi al sommo profitto
che risulta facilitando l’istituzione del Museo che avrà titolo di Museo Concordiese e che col nome
stesso mostrerà di appartenere ad ambedue i municipi, eredi ambedue dell’antica Julia Concordia
Colonia» 4. Il museo assume pertanto la denominazione di Museo Nazionale Concordiese di
Portogruaro e, a suggello dell’esito felice della vicenda, sulla facciata principale dell’edificio
vengono apposti, accanto a quello sabaudo, gli stemmi di ambedue le municipalità.
Artefice indiscusso della fondazione del museo è Dario Bertolini (Portogruaro 1823-
1894) 5, personaggio di notevole statura culturale e di intenso impegno intellettuale. Patriota,
avvocato (studia giurisprudenza a Padova e Vienna), uomo politico (è per lunghi anni
consigliere comunale e provinciale), prolifico pubblicista, ma soprattutto, per gli aspetti che
più ci interessano, appassionato cultore di archeologia locale. È infatti Bertolini che promuove
con instancabile energia le pionieristiche esplorazioni archeologiche nell’area, e che,
insignito il 23 maggio 1875 della carica ministeriale di “ispettore onorario” degli scavi di
Concordia e Portogruaro, si adopera incessantemente per sensibilizzare l’amministrazione
comunale e per reperire dallo Stato i fondi necessari per la costruzione del museo, riuscendo
ad ottenere uno stanziamento di £ 14.000 per la realizzazione dell’impresa.
Per la redazione del progetto il Bertolini si rivolge all’ingegnere Antonio Bon (1824-
1910), il quale aveva già collaborato alle attività di scavo, elaborando peraltro nel 1880 una
accurata Pianta dell’Antica Concordia 6 sovrapposta intelligentemente all’impianto topografico
della città del suo tempo, che insieme alla coeva pianta disegnata da Giacomo Stringhetta,
un umile cavatore di pietre esperto conoscitore della città, costituisce uno dei documenti
iconografici più preziosi per la storia della ricostruzione del centro romano.
259

260 A differenza del Bertolini, sul quale esiste ormai una copiosa mole di studi, la figura
di Antonio Bon resta per molti aspetti poco conosciuta e le scarse notizie a lui riferibili
si rintracciano tra le biografie dei personaggi illustri di Portogruaro, riportate solitamente
in fondo ai volumi di storia locale. Arrigo Sedran, ad esempio, lo descrive con le seguenti
parole: «Prese parte, da volontario, alla guerra d’Indipendenza del 1848. Fu lavoratore
instancabile, e lasciò la sua firma in diverse realizzazioni: la costruzione della piazzetta
del centro (1870); il restauro del campanile del duomo (1877-1878); i progetti del museo
(1885) e della nuova sede delle scuole elementari (1885); i lavori dell’erigendo cimitero urbano
(1888); il riatto del palazzo Venanzio (1888); il restauro della facciata del palazzo comunale
(1889); il completamento del progetto dei lavori di restauro del Seminario Vescovile
(1904)…» 7 . Anche se poco noto agli studiosi, Bon risulta pertanto tra i più attivi progettisti
della Portogruaro del suo tempo, di cui contribuisce a riconfigurare in misura determinante
il volto architettonico ed urbano.
Inizialmente si pensa di adibire a nuovo museo un’area destinata in precedenza a fondaco,
situata tra borgo San Giovanni e il fiume Lémene, sulla quale erano già presenti alcune strutture
edilizie (fig. 2). Per tale area Bon elabora un progetto di sistemazione, datato 31 dicembre
1882, che documenta in maniera quanto mai eloquente la predilezione per un’idea progettuale
di fondo che verrà perseguita con fermezza fino alla sua realizzazione (fig. 3). Il progetto
prevede infatti la costruzione di un edificio ricalcato palesemente sull’impianto canonico
della chiesa paleocristiano-romanica, soprattutto nella conformazione del grande spazio
espositivo principale che assume la tipica fisionomia dell’ambiente basilicale. L’aula rettan-
Fig. 2. Antonio Bon, Pianta che rappresenta in tinta rossa l’area ed i locali accordati dal Comune di Portogruaro per
uso del Museo Civico, Portogruaro il 24 luglio 1882 (Archivio Storico del Comune di Portogruaro).

golare, disposta ortogonalmente alla strada e al fiume, è a tre navate, di cui quella centrale più
alta, ed è coperta da tetto a falde con capriate lignee. Lo spazio è illuminato da finestre inserite
nella fascia del claristorio e da altre nelle pareti laterali. Le navate sono separate da file di
colonne congiunte reciprocamente da archeggiature a sesto semicircolare, sottolineate da
ghiere in risalto. Le colonne poggiano su piedistalli notevolmente alti i quali, tra gli intercolumni,
si prolungano ingegnosamente a formare muretti pensati per il sostegno di reperti, interrompendosi
alle estremità e al centro per consentire il transito tra le navate.
L’aspirazione a realizzare una sede museale più grande e più degna, oltre che più centrale
rispetto al contesto urbano, fa sì che il progetto di riattamento dell’ex-fondaco rimanga
sulla carta. Successivamente, e in via definitiva, si decide infatti di costruire per il museo un
edificio ex-novo, individuando per la localizzazione un’area di pertinenza del Seminario Vescovile,
peraltro già parzialmente occupata da preesistenti costruzioni, che viene acquisita
dal Comune (fig. 4).
Come si ricava dai disegni del progetto datato 29 luglio 1884 (figg. 5, 6, 7, 8), Bon ripropone
quasi alla lettera l’impianto architettonico basilicale della precedente soluzione, che
tra l’altro gli consente di sfruttare al meglio la conformazione dell’area disponibile, anch’essa
sviluppata prevalentemente in profondità tra la via del Seminario e il fiume Lémene. L’unica
aggiunta di rilievo è costituita da un avancorpo leggermente più alto su due piani che
Bon prevede di realizzare anche utilizzando le partizioni murarie preesistenti, per risparmiare
sui costi del materiale. La conformazione di tale avancorpo richiama, non sappiamo
quanto intenzionalmente, il tema del westwerk carolingio-ottoniano, soprattutto nella solu-
Fig. 3. Antonio Bon, Disegni del fabbricato destinato ad accogliere il Museo Concordiese da costruirsi in Portogruaro,
Portogruaro il 31 dicembre 1882 (Archivio Storico del Comune di Portogruaro).
261

262
Fig. 4. Antonio Bon, Tipo mappale
che rappresenta, distinta a colore rosso,
la porzione del fabbricato con sedime
di corte ed orto, situato nella città
di Portogruaro, ceduta dal Seminario
Vescovile al comune suddetto per la
erezione del Museo Nazionale Concordiese
(Archivio Storico del Comune
di Portogruaro).
zione al piano superiore da dove, attraverso una trifora, è possibile abbracciare con lo sguardo,
dominandolo dall’alto, l’ampio spazio basilicale. La facciata, configurata a capanna, è
assai semplice e rimanda ai numerosi schemi di facciate di chiese romaniche di area padana.
Essa è caratterizzata unicamente dal fregio in risalto ad archetti ciechi che segna il profilo
degli spioventi raccordandosi alle due lesene laterali, e dalle aperture arcuate, a sesto lievemente
rialzato e sottolineate da ampie ghiere, disposte simmetricamente. Tra esse spicca
la trifora centrale che rispecchia quella che si apre sull’aula, mentre la scritta Museum in caratteri
lapidari (che in fase esecutiva verrà spostata più in basso) riflette la volontà di indicare
in maniera inequivocabile la funzione cui l’edificio è destinato.
La struttura è prevista interamente in mattoni, che all’esterno sono lasciati a vista mentre
all’interno sono rivestiti di intonaco tinteggiato di bianco. Una soluzione che denota una
marcata volontà di accuratezza nei dettagli è il rivestimento ad intonaco che simula le venature
del marmo, previsto sui fusti delle colonne.
Le previsioni progettuali vengono attuate pressoché integralmente, in un tempo tutto
sommato relativamente breve. L’opera, realizzata dall’appaltatore Luigi Bidisnot di Corde-

Fig. 5. Antonio Bon, Disegno del
progetto datato 29 luglio 1884:
pianta (Archivio Storico del Comune
di Portogruaro).
nons, viene infatti completata il 5 febbraio 1887. Il 31 marzo 1887 Bertolini è nominato
direttore (carica che deterrà fino alla sua morte), ed il 28 ottobre 1888 il museo è inaugurato
8 , affermandosi rapidamente quale una delle più pregevoli attrattive monumentali di
Portogruaro, come attesta la pubblicistica degli anni successivi 9.
Per quanto risulti assai originale come soluzione architettonica, non sappiamo tuttavia
con esattezza quali siano state le fonti ispiratrici o le motivazioni alla base del progetto, né
in che misura possa essere attribuita a Bertolini o a Bon la scelta di configurare il nuovo museo
nell’inedita forma di basilica cristiana. Nei documenti consultati non è stato infatti rintracciato
alcun riferimento a tali pur interessanti aspetti.
Secondo Pierangela Da Villa, direttrice del museo dal 1979 al 2002, la conformazione
basilicale deriva dalla volontà di evocare la presenza dei primi cristiani nella zona, attestata
dai numerosi sarcofagi rinvenuti nel sepolcreto tardo-antico 10. Del resto, è risaputo che per
secoli le chiese cristiane hanno accolto numerose tombe al loro interno, e la fisionomia della
chiesa può essere stata ritenuta la più idonea, in una fase storica che vede la cultura architettonica
impegnata a ricercare stringenti associazioni tra categorie di edifici e destina-
263

264
Fig. 6. Antonio Bon, Disegni del progetto datato 29 luglio 1884: l’aula basilicale (Archivio Storico del Comune
di Portogruaro).
Fig. 7. Antonio Bon, Disegni del progetto datato 29 luglio 1884: l’avancorpo (Archivio Storico del Comune di
Portogruaro).

zioni funzionali, al particolare tipo di reperti che dovevano essere ospitati nel museo. Ad integrazione
di tale ipotesi, che per molti aspetti appare plausibile, non è tuttavia da escludere
la probabile, ancorché non dimostrata, influenza esercitata dal pensiero di Camillo Boito,
il quale come è noto è tra i più convinti assertori, sia sul piano teorico che sul piano professionale,
del recupero dell’architettura medievale italiana intesa quale autentica espressione
dello stile storico nazionale 11 . Le idee di Camillo Boito circolano infatti assai diffusamente
negli ambienti artistici settentrionali del tardo-Ottocento, e si può fondatamente
ipotizzare che Bertolini e Bon le abbiano recepite, anche indirettamente, interpretandole in
maniera autonoma e originale.
Sta di fatto che i due artefici dimostrano di essere pienamente consapevoli dell’importanza
fondamentale che nella qualificazione del museo assumono la fisionomia architettonica e
l’allestimento espositivo, intesi come mezzi privilegiati per suscitare nei visitatori un intenso
impatto emotivo. Quando pertanto oggi si depreca il noto fenomeno della contemporanea
architettura museale internazionale, che tende ad arricchire il museo di forti valori comunicativi
e di immagine anche a scapito della preminenza visiva che secondo taluni dovrebbe essere
sempre riservata alle opere esposte, non si tiene abbastanza conto del fatto che non si tratta
di un fenomeno che possiede numerosi e più o meno illustri precedenti storici, tra i quali
il Museo Concordiese di Portogruaro è senza dubbio un significativo esempio.
L’intento primario di creare un’opera che generi nei visitatori un forte senso di incanto
e di ammirazione, avvolgendoli in un’atmosfera remota e idealizzata, si coglie in maniera
Fig. 8. Antonio Bon, Prospetto principale del Museo Nazionale Concordiese, disegno del progetto datato 29 luglio
1884 (Archivio Storico del Comune di Portogruaro).
265

266 tangibile anche nell’organizzazione funzionale del museo. Mentre l’avancorpo è infatti adibito
prevalentemente a spazi complementari e di servizio (al piano terra atrio, magazzino,
stanza per i custodi, al piano superiore stanze per la direzione, la biblioteca, la conservazione
dei manufatti minori preziosi), l’aula basilicale, che si intravede fin dall’atrio d’ingresso
nella sua solenne e luminosa dilatazione spaziale, cadenzata in prospettiva dai colonnati delle
navate, è interamente riservata all’esposizione dei reperti, la cui disposizione, seppur fedele
al criterio scientifico allora predominante (ossia quello cronologico combinato con
quello per classi di appartenenza e con quello per luoghi di provenienza), è assorbita in una
composizione d’insieme sapientemente prefigurata in ogni suo aspetto.
Seguendo un percorso che inizia da quella di sinistra e termina in quella di destra, nelle
navate laterali (sia sul pavimento che su un basamento addossato alle pareti) sono disposti
in sequenza cronologica i reperti che vanno dall’epoca romana a quella tardo-antica. Le epigrafi
sono invece inserite nei muri, secondo un gusto lungamente e ampiamente diffuso, anche
per rispettare il parere favorevole del Fiorelli che al Bertolini scrive: «Approvo pienamente
la distribuzione scientifica che V. S. intende dare alle lapidi scritte del Museo Concordiese, le
quali debbono essere infisse nel muro e sporgenti da esso per uno o due centimetri, secondo la spessezza
della pietra […]» 12. Nella navata centrale, fiancheggiata dai reperti posti sui muretti tra
gli intercolumni, sono invece collocate le opere più grandi, che campeggiano in tutta la loro
imponenza e pregevole fattura. Tra di esse una statua femminile acefala in marmo, capitelli
o frammenti di colonne e trabeazioni, dolî in terracotta.
Come dimostrano le fotografie risalenti alla metà degli anni ’50, che tuttavia documentano
una condizione storica del museo conservatasi pressoché inalterata rispetto all’impianto
allestitivo originario (figg. 9, 10, 11), lo spazio espositivo dell’aula basilicale è
insomma congegnato con magistrale orchestrazione scenografica, rivelando una marcata
kunstwollen che consente di evitare brillantemente la noiosa paratassi tipica di altri allestimenti
museali.
Nel corso del tempo, in parallelo all’affermarsi del museo quale rilevante polo culturale
del territorio circostante, le esigenze connesse al bisogno di spazi per l’accoglimento di nuovi
reperti o per lo svolgimento di nuove funzioni, come quelle legate all’adeguamento degli
impianti tecnologici o ai mutamenti del gusto nel campo dell’allestimento, comportano inevitabilmente
l’attuazione di numerosi interventi edilizi.
Consistenti lavori, riguardanti soprattutto la realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica
di servizio destinato a magazzino, collocato sull’esigua area di pertinenza retrostante il
museo, sono promossi da Giovanni Brusin che fino al 1952 è a capo della Soprintendenza
alle Antichità del Veneto 13 .
Altri lavori, riguardanti il restauro del paramento murario esterno, il rifacimento degli
intonaci e delle tinteggiature, la sostituzione degli infissi, la chiusura della grande finestra
circolare sulla parete di fondo, l’installazione dell’impianto di illuminazione artificiale, sono
effettuati a partire dalla metà degli anni ’50 su iniziativa dell’allora direttrice del museo
Bruna Forlati, che fa realizzare anche i nuovi supporti murari in mattoni lasciati a vista, e
fa collocare sul pavimento della navata principale tre grandi mosaici rinvenuti nell’area urbana
di Concordia (fig. 12), riposizionando la grande statua marmorea.
Un altro intervento complessivo di restauro e di consistente rinnovamento è attuato dal
1979 al 1986, periodo durante il quale il museo resta chiuso, sotto la direzione di Pieran-

Figg. 9, 10, 11. Il Museo in immagini
fotografiche della metà degli
anni ’50 (Archivio Fotografico della
Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Veneto).
267

268
Fig. 12. La posa in opera del mosaico
in un’immagine fotografica
della metà degli anni ’50 (Archivio
Fotografico della Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Veneto).
gela Da Villa. Si provvede in particolare al rinnovo e all’adeguamento degli impianti tecnologici,
al rifacimento del tetto dell’aula basilicale, alla ritinteggiatura delle pareti interne, alla
creazione di nuovi locali nel sottotetto dell’avancorpo previo leggero abbassamento del
solaio al primo piano (sic!), al riallestimento delle sale espositive con relativa installazione di
nuove vetrine al posto delle vecchie.
Tutti i lavori citati, che incidono in taluni casi sensibilmente sia sulla struttura che sull’immagine
dell’edificio (in particolare l’abbassamento del solaio nell’avancorpo e l’eliminazione
delle ghiere degli archi tra le colonne), non alterano tuttavia in maniera tangibile la fisionomia
originaria del museo, che oggi sèguita pertanto a restare, nel suo intrinseco carattere
di “museo-monumento”, una testimonianza assai pregevole nell’ambito del ricco e diffuso
patrimonio dei musei “storici” italiani (figg. 13, 14, 15).
1 Mottola Molfino 1992, passim.
2 Da Villa 2001, p. 7; Da Villa,
Balestrazzi 2001, passim.
3 Mazzuggia 1994, p. 43; Eck
1995, passim.
4 Lettera ministeriale di Fiorelli a
Bertolini datata 6 febbraio 1882.
5 Sulla figura di Bertolini si vedano:
Mazzuggia 1994; Da Villa,
Mastrocinque 1995.
6 Da Villa, Mastrocinque 1995, p.
158, fig. 1.
7 Sedran 1977, p. 53.
8 Mazzuggia 1994, p. 46.
9 Bertolini [1920 ca.], passim.
10 Da Villa 1993, p. 28; Da Villa
2001, pp. 7-8.
11 Zucconi, Castellani 2000, passim.
12 Lettera ministeriale di Fiorelli a
Bertolini datata 14 agosto 1889.
13 Zovatto 1965, p. 8.

Figg. 13,14,15. Immagini attuali del Museo.
269

270 Bibliografia
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Editori Riuniti.
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Portogruaro, Stampato con i tipi
della Premiata Tipografia Castion
di Franceschina & Sartor.
G. Zucconi, F. Castellani (a cura
di) 2000, Camillo Boito / Un’architettura
per l’Italia unita, Catalogo
della mostra, Padova, aprile-luglio
2000, Venezia, Marsilio.
Si ringraziano quanti hanno cortesemente collaborato al reperimento del materiale e al riferimento di notizie.
In particolare: per il Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro la dottoressa Pierangela Croce Da Villa, i
geometri Roberto Ravagnan e Giovanni Trevisiol, la signora Rita Iappelli e la dottoressa Roberta Pauletto; per
il Comune di Portogruaro il dottor Roberto Sandron e la signora M. Loretta Balasso.

Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte
dell’Università di Padova.
Alla riscoperta di Gio Ponti
Alessandra Menegazzi (a cura di)
Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte
Università degli Studi - Padova
RIASSUNTO
Nel “Liviano” progettato dall’architetto Gio Ponti come sede della Facoltà di Lettere (1937-1939), trova
posto all’ultimo piano il Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte. Concepito sin dall’inizio come spazio
museale, la sua realizzazione fu il frutto di continui scambi di idee tra il progettista e Carlo Anti, Rettore
e insieme Direttore dell’Istituto di Archeologia e del Museo. Le vicende belliche allentarono e poi interruppero
questa feconda collaborazione: mentre il resto del Liviano fu terminato e arredato, non avvenne
lo stesso per il museo.
La scarsità di risorse dell’immediato dopoguerra consentì ad Anti di predisporre solo alcune vetrine
metalliche. L’allestimento completo fu realizzato nel corso degli anni ’60 secondo concezioni architettoniche
oramai differenti in linea con i dettami museografici dell’epoca. Il nuovo progetto (arch. Gilda D’Agaro)
mise in ombra molti particolari dell’architettura pontiana: i richiami all’architettura classica, l’utilizzo
della luce naturale, gli effetti prospettici.
Si giunge così al presente quando l’adeguamento alle normative di sicurezza ha spinto addetti ai lavori
e progettisti a riflettere sull’opportunità di rivedere la forma del museo nell’ottica di valorizzazione
sia del contenitore che dei contenuti. Un recupero dei valori architettonici originari è sembrato il
primo passo da compiere e su questo sta procedendo un gruppo di lavoro ristretto ben consapevole
che, nel frattempo, la storia si è comunque stratificata anche in questo museo e di essa bisogna in ogni
caso tener conto.
SUMMARY
The Museum of Art and Archaeological Sciences is located at the last floor of the “Liviano”, a building designed
by the architect Gio Ponti, as the venue of the Arts Faculty (1937-1939). Since the very beginning, it has been
conceived as a museum space. Its implementation has been the result of the continuous exchanges of ideas between
the designer and Prof. Carlo Anti, the Rector and Director of the Archaeological Institute and of the Museum.
The war first slowed down the project and then it put an end to this fruitful collaboration: the remaining
part of the Liviano was fully completed and decorated, whereas the museum project has never been accomplished.
Due to the dearth of resources in the post-war period, Anti could install just a few metal showcases. During
the 1960’s, the venue was fully equipped according to architectural notions, which were no longer in line
with the original museographical principles of the time. The new project (arch. Gilda D’Agaro) underplayed
many details typical of the original Ponti architecture: inspiration from the classical architecture, the use of natural
light and the perspective effects.
At present, given the need to make the building compliant with the new legally binding safety standards,
designers and experts have decided to review the shape of the museum, with a view to enhancing both the container
and its contents. The first step has been undertaken to rediscover and to re-enhance the original architectural
values. A specific ad hoc workgroup has been set. It is fully aware of the weight of the historical stratification
of this museum, which has to be duly taken into account.

272 PREMESSA
Nell’edificio denominato “Liviano” progettato dall’architetto Gio Ponti e realizzato quale
sede della Facoltà di Lettere tra il 1937 e il 1939 (fig. 1), trova posto all’ultimo piano il Museo
di Scienze Archeologiche e d’Arte 1 .
Questo spazio fu concepito sin dall’inizio come spazio museale e la sua realizzazione fu
il frutto di continui scambi di idee tra il progettista e il prof. Carlo Anti, Rettore dell’Ateneo
e anche Direttore dell’Istituto di Archeologia e del Museo. Purtroppo le vicende belliche
allentarono e poi interruppero questa feconda collaborazione e così, mentre il resto del
Liviano venne completato, nel museo si realizzarono unicamente le finiture degli interni ma
non l’arredo 2 . Successivamente, la scarsità di risorse dell’immediato dopoguerra consentì ad
Anti di predisporre solo alcune vetrine metalliche secondo un modello visto ad una esposizione
veneziana.
L’allestimento completo fu realizzato nel corso degli anni Sessanta secondo concezioni
architettoniche oramai differenti in linea con i dettami museografici dell’epoca. Pur non
Fig. 1. (A) La demolizione degli edifici
preesistenti su piazza Capitaniato
(anni 1935-36) e il Liviano (B) a
lavori ultimati. Il nuovo corpo di
fabbrica venne accostato, sul lato
nord-orientale, a quanto rimaneva
del palazzo dei Carraresi la cosiddetta
“Sala dei Giganti” e i due edifici
vennero resi comunicanti pur
mantenendo ciascuno la propria
autonomia statica (Archivio Università
di Padova, Fototeca dei Consorzi
Edilizi, Foto Turola, in Dal Piaz
1992).

operando notevoli interventi strutturali (se si eccettua la gipsoteca con la realizzazione di un
pavimento a più livelli), il nuovo progetto (arch. Gilda D’Agaro) mise in ombra molti particolari
dell’architettura pontiana (i richiami all’architettura classica, l’utilizzo della luce naturale,
gli effetti prospettici) per creare spazi espositivi nel complesso autonomi dall’architettura
stessa.
Si giunge così ai nostri giorni quando l’obbligo di procedere all’adeguamento alle normative
(sicurezza e abbattimento delle barriere architettoniche) è stato l’occasione che ha
costretto addetti ai lavori e progettisti a riunirsi e a riflettere sull’opportunità di rivedere la
forma museo nell’ottica di valorizzazione sia del contenitore che dei contenuti3 .
Le brevi note che seguono vogliono dare conto del lavoro sinora svolto in ordine all’analisi
della situazione esistente e all’enucleazione degli obiettivi e delle finalità.
Annalisa Bellan, Vittorio Dal Piaz, Alessandra Menegazzi, Paolo Scarpi
STORIA E CARATTERISTICHE GENERALI DEGLI SPAZI ESPOSITIVI
Intervenire su di un allestimento museale non è mai un’operazione neutra o neutrale: si operano
delle scelte che escludono inevitabilmente altre possibilità. Inoltre, come ha recentemente
ribadito anche Mottola Molfino 4 , l’allestimento sul quale si va ad intervenire, anche
se non originale, nel frattempo ha acquisito di per sé valore storico: è la testimonianza di
scelte fatte prima di noi, scelte che possiamo condividere o meno ma che dobbiamo cercare
perlomeno di inquadrare nel contesto storico dal quale sono state generate prima di condividerle
o rigettarle. Nel caso del nostro museo siamo in presenza di due interventi ideologicamente
differenti e non del tutto sovrapponibili tipologicamente: l’originario progetto
architettonico di Gio Ponti con allestimento parziale e il successivo allestimento D’Agaro
con parziale modifica dei volumi architettonici.
Partendo da est, entrando dall’ingresso della scala a chiocciola che si incontra salendo la
scala monumentale dell’atrio del Liviano, si accede nella prima sala. Nel progetto originario
vi trovavano posto uno schermo-espositore e sgabelli per gli studenti. In una fotografia
dell’epoca (fig. 2) si notano il grande e profondo lucernario sopra la scala e le tre nicchie ricavate
nella muratura 5. La luce naturale era ampiamente profusa dall’alto, i colori delle murature
erano chiari e contrastavano con il soffitto, più scuro. Successivamente, negli anni
Sessanta, la sala fu destinata alla collezione Mantova Benavides. L’intervento di allestimento
(fig. 3), che tendeva a ricreare l’atmosfera delle antiche sale dei collezionisti, scelse la strada
di attenuare la visibilità degli elementi architettonici a vantaggio di spazi più ampi ed
omogenei per l’esposizione. La scala, rivestita con materiale analogo agli altri supporti espositivi,
risultava una massa compatta che si confondeva con gli altri volumi, le nicchie furono
parzialmente obliterate per utilizzare totalmente la lunghezza della parete in senso orizzontale,
l’impatto della luce naturale fu fortemente ridotto dalla parziale chiusura del grande
lucernario rotondo, le pareti dipinte con colori più scuri e decisi.
La zona delle salette centrali (fig. 5), arredata parzialmente con vetrine di varie tipologie
dagli anni Cinquanta in poi, venne completata con ulteriori vetrine appese ai setti murari
che finirono con interferire con la prospettiva del corridoio longitudinale (fig. 6).
273

274 Fig. 2. Gio Ponti: la sala principale
del museo arredata con gli sgabelli
e il pannello per la didattica all’inizio
degli anni ’40 (Archivio Università
di Padova, Fototeca dei Consorzi
Edilizi, Foto Viali, in Dal Piaz
1992).
Fig. 3. La sala principale del museo
negli anni ’60. (Archivio del Museo
di Scienze archeologiche e d’Arte
dell’Università di Padova, Foto Fiorentin).
Fig. 4. La sala principale allo stato
attuale, a lavori in corso. (Archivio
del Museo di Scienze archeologiche
e d’Arte dell’Università di Padova,
Foto Bortolato).

Fig. 5. Gio Ponti: il settore
centrale del museo nell’aspetto
originario (Archivio
del Dipartimento di Scienze
dell’Antichità, Università di
Padova).
Fig. 6. Il settore centrale del
museo nell’allestimento successivo
(Archivio del Dipartimento
di Scienze dell’Antichità,
Università di Padova).
Il settore occidentale del museo, suddiviso negli anni Sessanta in due zone, una settentrionale
adibita a gipsoteca e parzialmente sopraelevata e una meridionale riservata alla didattica
(fig. 8) nel progetto originario (fig. 7) si presentava assai più articolata e trovava il suo
fulcro nel grande peristilio con vasca centrale mosaicata e soprastante lucernario a cielo aperto
attorno al quale pare dovessero essere collocate le copie di sculture antiche6. Alessandra Menegazzi
275

276
Fig. 7. Gio Ponti: il settore dell’attuale
gipsoteca nell’aspetto originario
(Archivio dell’Università di Padova,
Fototeca dei Consorzi Edilizi, Foto
Viali, in Dal Piaz 1992).
Fig. 8. La gipsoteca nell’allestimento
degli anni ’60 (Archivio del Dipartimento
di Scienze dell’Antichità,
Università di Padova, in Favaretto
1976).
ANALISI E PROPOSTE DI PROGETTO
Da qualche anno l’allestimento degli anni Sessanta non sembrava più adatto alle nuove esigenze
di comunicazione del museo: la didattica universitaria era cambiata e, a questo nostro
pubblico interno, se ne erano aggiunti altri, come la scuola, inizialmente non previsti. Inoltre,
in un museo come il nostro, in gran parte derivante da collezioni, i percorsi andavano

studiati con maggiore attenzione anche alle vicende museali e di collezionismo delle opere 7 .
Era necessario infine por mano al recupero della gipsoteca da troppo tempo inutilizzata.
Un certo disagio vi era anche sotto il profilo della sicurezza e conservazione delle opere
(alcune decisamente troppo esposte), della sicurezza del percorso espositivo e per la carenza
di spazi per i servizi che un museo oggi deve poter offrire al suo pubblico (perlomeno per
le attività didattiche).
Sin dai primi interventi di emergenza agli inizi degli anni Novanta, determinati da un
preoccupante ed inarrestabile degrado degli apparati tecnici e di sicurezza nonché di alcune
strutture murarie (controsoffitti), fu chiaro che gli eventuali interventi di ripristino e di adeguamento
alle normative di legge non avrebbero potuto essere condotti se non in parallelo
ad un progetto organico riguardante l’intera struttura museale.
Di conseguenza le scelte progettuali sono state guidate dalla necessità di una riorganizzazione
dei criteri espositivi e dalle esigenze tecnico-funzionali sopra esposte che si possono
così riassumere:
– percorsi museali più mirati alle opere e all’identità del museo
– possibilità di intervenire facilmente sull’esposizione per modifiche, ampliamenti o approfondimenti
della stessa
– migliore accessibilità da parte di gruppi di più persone
– superamento delle barriere architettoniche
– maggiore sicurezza per persone e cose
– messa a norma impianti e prevenzione incendi.
L’intervento architettonico è stato mirato al ripristino dell’organizzazione spaziale originaria
proposta da Gio Ponti. Nella sala principale del museo, che rimarrà dedicata alla collezione
Mantova Benavides, la scala e le nicchie sono state riportate in vista e i colori originari
delle murature ripristinati (fig. 4). L’armadio-libreria antico, dotazione storica del museo,
ma collocato negli spazi espositivi solo dagli anni Sessanta, sarà mantenuto ed inserito
nel nuovo allestimento. La sua nuova collocazione, sulla parete nord e di fronte alla parete
sud dove sono presenti le tre nicchie sopra ricordate, contribuirà fortemente a creare una
corrispondenza formale ed ideale tra architettura e arredo, sinora mancante.
Nella zona delle salette centrali, l’eliminazione dell’interferenza degli espositori con i setti
murari è stata possibile prevedendo il pieno utilizzo a fini espositivi della parete di fondo
di ciascuna saletta. L’operazione ha consentito un recupero di spazio per i visitatori, utilissimo
in particolare nel caso di soste nelle salette come nel caso di lezioni sui materiali, che
si prevedono frequenti dato il carattere didattico di questa sezione espositiva. Anche le vetrine
espositive sono state espressamente previste per poter essere allo stesso tempo sicure
ma facilmente accessibili e dotate nella base di cassettiere per riporre i materiali ad uso più
propriamente didattico.
Nel settore occidentale, dove rimarrà la gipsoteca, è prevista l’eliminazione dei setti murari
aggiunti agli originali dall’allestimento D’Agaro e così pure la rimozione della pavimentazione
sopraelevata che creava non pochi problemi di sicurezza per le strutture dell’edificio
dato l’ingente peso che gravava su una sottostante biblioteca. È prevista la riproposizione
formale dell’impluvio e del peristilio circostante (modificato negli anni Sessanta) e
una ripresa ideale dei setti murari che saranno indicati con idonei elementi architettonici in
corso di definizione in accordo con la competente Soprintendenza. Saranno riutilizzati gli
277

278 espositori già presenti nell’allestimento precedente senza tuttavia chiudere gli spazi tra gli
intercolumni del peristilio che rimarranno invece destinati all’esposizione di grandi gessi riproducenti
alcuni dei capolavori più noti dell’arte classica.
La complessa lettura delle vicende di oltre sessant’anni di vita del museo “incompiuto”,
ha reso necessaria una serie di indagini: queste hanno in particolare comportato rilievi architettonici,
riprese fotografiche e specifiche analisi sull’esistente, finalizzate all’individuazione
dei materiali, delle finiture, dei colori ed atte a documentare le varie scelte operate nel
tempo e avere conferma dei dati emersi dalla ricerca d’archivio.
Si intende quindi conclusa la fase analitica ed è in cantiere il progetto preliminare, volto
sia a restituire dignità agli spazi pontiani che ad allestire un museo adeguato alle esigenze
attuali.
Annalisa Bellan, Vittorio Dal Piaz, Alessandro De Paoli, Alessandra Menegazzi
Il presente testo si riferisce allo stato
di avanzamento del progetto ad
inizio 2002. Nel frattempo due settori
su tre del museo (gipsoteca e
salette centrali) sono stati terminati
e riallestiti. Cfr. A. Menegazzi
2004, Museo di Scienze Archeologiche
e d’Arte. Il riallestimento: note
preliminari, in “La curiosità e l’ingegno”,
1, aprile, pp. 11-13.
1 Sulla progettazione del Liviano si
vedano: Dal Piaz 1992, pp. 241-
285; Miodini 2001, pp. 152-157.
2 L’arredamento si limitò a venticinque
sgabelli (tuttora presenti) e
a un pannello/espositore per le necessità
didattiche degli allievi.
3 Allo scopo si è deciso di affidare
Bibliografia
V. Dal Piaz 1992, «Il cantiere università»
durante il rettorato di Carlo
Anti, in Carlo Anti. Giornate di studio
nel centenario della nascita, Verona-Padova-Venezia
6-8 marzo
1990, Trieste, Lint, pp. 241-285.
I. Favaretto 1976, Il museo del Liviano
a Padova, Padova, Cedam.
il coordinamento delle azioni necessarie
al recupero architettonico
e al riallestimento del museo ad un
gruppo di lavoro ristretto composto
dal delegato del Rettore all’Edilizia
prof. arch. Vittorio Dal
Piaz, dall’arch. Annalisa Bellan
dell’Ufficio progettazione e sviluppo
edilizio dell’Università, dal Direttore
del Museo e del Dipartimento
di Scienze dell’Antichità
prof. Paolo Scarpi e dal Conservatore
del Museo dott. Alessandra
Menegazzi.
La decisione scaturì da una serie di
riunioni che per la prima volta permisero
un confronto a vari livelli
(Dipartimento, Facoltà, Uffici Tec-
G. Gorini, A. Menegazzi 1996, Il
Museo di Scienze archeologiche e
d’Arte, in C. Gregolin (a cura
di), I musei, le collezioni scientifiche
e le sezioni antiche delle biblioteche,
Padova, Università di
Padova, pp. 49-59.
L. Miodini 2001, Giò Ponti. Gli
nici ed Economali, Rettorato tramite
i Delegati per l’Edilizia, Centro
Musei Scientifici d’Ateneo) che
fu senz’altro decisivo per enucleare
la problematica museo dal contesto
generale e farne emergere le specificità.
Si ringrazia la prof. Irene Favaretto,
Direttore all’epoca dell’inizio
di questa “impresa”.
4 Mottola Molfino 1998, pp. 105-
127.
5 Archivio Università di Padova,
Consorzi Edilizi, lettera di G. Ponti
all’ing. Ciampi del 17.07.1938.
6 Gorini, Menegazzi 1996, p. 54.
7 Le «identità sopravvenute alle
antiche», per dirla con Mottola
Molfino 1998, p. 131.
anni trenta, Milano, Electa.
A. Mottola Molfino 1998, Il libro
dei Musei, Torino, Allemandi.
L. Polacco 1966-1967, Il Museo di
Scienze Archeologiche e d’Arte dell’Università
di Padova, in “Atti
Istituto Veneto SSLLAA”, CXXV,
pp. 421-448.

Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze
tra passato, presente e futuro
Anna Rastrelli
Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana - Firenze
RIASSUNTO
Dopo aver documentato la formazione del Museo Archeologico nel 1870 nella sede di via Faenza a partire
dallo smembramento dei nuclei collezionistici medicei e lorenesi delle Gallerie degli Uffizi, il passaggio
nel Palazzo della Crocetta e la creazione da parte del Milani del Museo Topografico dell’Etruria, con
le successive vicende segnate dalla gestione del Minto e dall’alluvione del 1966, sottolineandone il carattere
caotico e privo di progettazione globale, il contributo illustra le proposte per una diversa presentazione
delle collezioni, che prevede lo spostamento della sezione delle Antiche Collezioni in una sede diversa
e la realizzazione del Museo Etrusco secondo nuovi criteri nell’attuale sede museale.
SUMMARY
The contribution outlines an overview of the birth of the Archaeological Museum in 1870 and of its further
development. It was originally located in a building in Faenza street, deriving from the dismantlement of the
Lorraine and Medicean collections of the Gallerie degli Uffizi. It was successively transferred to the Palazzo della
Crocetta. Its collections were then located in the Etrurian Topographic Museum created by Milani. It then
underwent the various vicissitudes related to the Minto management and to the Arno river flood in 1966. All
these various events underline the lack of an overall design as well as the chaotic management. It provides various
suggestions for a different presentation of collections, with the transfer of the Ancient Collections to a different
location and with the setting up of the Etruscan Museum, according to new criteria to be applied to the
present venue of the museum.
Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze rappresenta una realtà assai complessa, articolata
in più sezioni dotate di una storia e una fisionomia proprie 1 , sviluppatesi talora autonomamente,
come il Museo Egizio, istituito ufficialmente nel 1855 nei locali dell’ex convento
di via Faenza. Mentre i materiali del Museo Topografico dell’Etruria, distrutto dall’alluvione
del 1966, sono depositati nei magazzini e intere sezioni sono state smantellate
perché anacronistiche o per sostituirle con allestimenti talora pletorici di classi di materiali
diverse, l’unico altro nucleo museale attualmente aperto al pubblico è quello delle Antiche
Collezioni medicee e lorenesi 2 , di cui è opportuno ricordare brevemente la storia della formazione
e dell’ordinamento all’interno della Galleria degli Uffizi, da cui sono state distaccate,
per comprendere meglio la storia successiva del museo.
La raccolta di Lorenzo il Magnifico, che aveva incrementato quelle di Cosimo il Vecchio
e Pietro il Gottoso, poi sconvolta dopo l’esilio, comprendeva antichità raccolte principalmente
a Roma, Napoli e Venezia, per lo più monete e gemme, ma anche sculture in marmo,
grandi bronzi come la testa di cavallo detta Medici Riccardi dal palazzo di via Larga in
cui era depositata, e, come ricorda il Vasari, ceramiche greche ed etrusche. Tuttavia, anche
se i Medici privilegiarono sempre il passato etrusco della Toscana quale fondamento ideo-

280 logico del proprio potere 3 , i materiali etruschi che facevano parte delle collezioni medicee
sono di limitata entità, anche se significativi, come il capolavoro della bronzistica etrusca, la
Chimera, acquisito da Cosimo I, collocata nella sala di Leone X a Palazzo Vecchio, per passare
alla Galleria degli Uffizi solo nel 1718.
Dopo il primo viaggio a Roma di Cosimo I nel 1560, fu l’arte imperiale a fornire nuovi
stimoli all’ambiente erudito fiorentino, segnando una svolta negli indirizzi del collezionismo
della famiglia 4, con l’acquisto di statue romane per decorare i palazzi medicei. L’inventario
redatto alla morte di Cosimo registra appunto un nucleo di antichità collocato nel
Palazzo Vecchio (soprattutto ritratti, tra cui quello bronzeo di Antinoo, passato come gli altri
grandi bronzi nelle collezioni del museo archeologico fiorentino), ma anche un notevole
lotto museografico di marmi romani conservato nella “Sala delle Nicchie” di Palazzo Pitti.
Francesco I raccolse le collezioni archeologiche nella nuova fabbrica degli Uffizi, voluta
dal padre. Il collezionismo mediceo è segnato dalla contrapposizione tra le Wunderkammer,
spazio strettamente privato in cui il principe raccoglieva secondo il proprio gusto, ma senza
alcun criterio scientifico, materiali di indubbio valore artistico insieme a oggetti rari e inconsueti,
che dovevano sollecitare l’immaginazione e la curiosità 5 , e i luoghi deputati alla
raccolta della grande statuaria antica, come la Galleria delle Statue degli Uffizi, in cui i marmi
romani furono collocati con funzione decorativa accanto a sculture di artisti “moderni”,
che venivano così consacrati quali eredi di quelli antichi.
Il cardinale Ferdinando dei Medici raccolse una cospicua collezione di antichità nella sua
villa romana sul Pincio, prima di rientrare come granduca a Firenze, dove completò l’organizzazione
della Galleria degli Uffizi; la sua passione per i marmi colorati e la glittica culminò
nella fondazione nel 1588 dell’Opificio delle Pietre Dure. Il cardinale Leopoldo, che
a Roma aveva formato una tra le più ampie e variate raccolte del tempo, la donò alla collezione
di famiglia, incrementando il nucleo mai particolarmente cospicuo delle oreficerie
medicee, mentre il fratello Ferdinando II vi aggiunse quella da Urbino, portatagli in dote
dalla moglie Vittoria della Rovere, di cui faceva parte l’Idolino, il grande bronzo di età augustea,
considerato a lungo un originale greco. Cosimo III raccolse nella Galleria delle Statue
degli Uffizi molti dei marmi già collocati nel giardino di Boboli e fece tornare a Firenze
gran parte delle opere rimaste a Roma della collezione di Ferdinando I 6 .
Le collezioni medicee furono rese pubbliche dall’Elettrice Palatina Anna Maria Ludovica,
che alla sua morte nel 1743 donò allo Stato di Toscana l’immenso patrimonio artistico
di famiglia, a condizione che non fosse mai alienato da Firenze e che rimanesse a disposizione
dei visitatori di tutti i paesi. Si consacrava così il carattere pubblico delle raccolte, secondo
un nuovo indirizzo di studi, che ne privilegiava l’oggettività scientifica, tenendo conto
anche della qualità estetica dell’opera d’arte. La statuaria etrusca e romana e le lapidi latine
erano collocate nella Galleria degli Uffizi, le cosiddette arti minori, come bronzetti,
monete, preziosi, erano collocati su ripiani o conservati negli stipi, mentre oggetti come urne,
vasi e iscrizioni, ritenuti di minore importanza, erano conservati negli “arsenali”.
Pietro Leopoldo di Lorena, pur non mostrando il gusto artistico e mecenatesco dei Medici
7, nel quadro della revisione generale delle collezioni delle Gallerie secondo nuovi criteri
espositivi e scientifici affidò l’ordinamento delle collezioni archeologiche agli antiquari
Pelli e Lanzi, che suddivisero tipologicamente i materiali per classi distinte in spazi destinati
a un solo genere di opere. Le collezioni granducali si erano arricchite di ceramiche, urne

e oreficerie etrusche con l’acquisizione di alcune collezioni private, come quella Galluzzi di
Volterra, quella Bucelli di Montepulciano e quella del pittore Gherardini, ma il nuovo allestimento
secondo criteri tipologici portò allo smembramento dei nuclei originari. Il Lanzi,
ordinando il “gabinetto delle terre”, sulla scia di un’intuizione del Winckelmann, ebbe comunque
il merito di distinguere le ceramiche figurate greche di importazione dalla produzione
locale etrusca in base ai miti e alle iscrizioni. Gemme e cammei 8 , inventariati dal Pelli
nel 1784, erano conservati in un armadio del Gabinetto dei Bronzi Antichi, che raccoglieva
i piccoli bronzi, mentre quelli di grandi dimensioni rimasero esposti nel corridoio delle
statue; i ritratti antichi vennero esposti nel Gabinetto delle Iscrizioni. Sempre il Pelli classificò
le monete medievali e moderne, mentre l’Eckel ordinò la raccolta di quelle antiche
con un criterio storico geografico, frutto del rinnovamento illuministico del tempo.
In questa ottica nel portico costruito dal Buonatalenti sopra la terrazza sovrastante la loggia
dell’Orcagna furono raccolte le restanti antichità etrusche, comprendenti urne in pietra
o terracotta e olle cinerarie, collocate entro nicchie per ricomporre l’aspetto di un colombario,
tegole etrusche iscritte e lapidi romane divise su due pareti, il tutto segnalato da cartelli
con indicazioni relative alla natura e alla provenienza degli oggetti. Questo “Museo
Etrusco” fu parzialmente smontato nel 1796, durante il granducato di Ferdinando III di Lorena,
dal nuovo direttore delle Gallerie, il Puccini, meno interessato del Lanzi alle raccolte
di antichità, per esservene interamente rimosso nel 1846, quando il portico fu demolito.
L’acquisizione da parte di Leopoldo II della collezione Cinci di Volterra e la donazione di
quella Fanelli di Sarteano, grazie all’attivismo del nuovo antiquario Zannoni, inviato anche a
Roma e a Napoli per nuovi acquisti, e il fiorire degli scavi nella prima metà dell’800, poco rigorosi
ma di successo, arricchì notevolmente la Galleria degli Uffizi: si ricorda fra tutti il rinvenimento
del grande cratere a volute capolavoro della ceramografia attica a figure nere firmato
dal vasaio Ergotimos e dal pittore Kleitias, detto Vaso François dal nome del commissario
del Granduca che lo rinvenne in una tomba a camera della necropoli chiusina di Fonte Rotella
nel 1844. Alla morte dello Zannoni le collezioni etrusche subirono un nuovo periodo di
abbandono; alcune urne e sarcofagi etruschi furono esposti nel corridoio di ponente della
Galleria, mentre i grandi bronzi vennero raccolti nella “Stanza dei Bronzi Antichi”. La collezione
“etrusca” fu ordinata per l’ultima volta nelle Gallerie tra il corridoio vasariano e le due
sale che lo precedevano e aperta al pubblico nel 1853. Un ulteriore incremento delle collezioni
di antichità degli Uffizi si verificò dopo l’annessione della Toscana al regno di Piemonte
grazie al legato di sir Willliam Currie, un cultore d’arte nato a Londra, che alla sua morte a
Nizza nel 1863 donò la sua raccolta di preziosi alla Galleria degli Uffizi, e agli scavi regolari
effettuati dalla società Colombaria a Chiusi, Roselle e Sovana nella seconda metà del secolo.
La formazione del Museo Archeologico di Firenze, nato come Regio Museo Etrusco, si
colloca all’interno di un fenomeno di vasta portata, quale la nascita di musei come istituzioni
statali legate alla formazione delle nazioni moderne, in concomitanza con l’affermarsi
della necessità della tutela del patrimonio artistico nazionale, in base ai nuovi dettami della
storiografia e delle concezioni filosofiche storicistiche. In particolare si sentiva questa esigenza
in Italia, uno Stato appena formato, alla ricerca di un proprio tessuto unitario, che
tentava di fondare una nuova cultura rifacendosi alla tradizione di un glorioso passato. Nello
stesso periodo videro la luce anche alcuni musei civici, come quelli di Volterra, Fiesole,
Cortona e Chiusi.
281

282
Gli anni del primo periodo post unitario segnarono un momento di particolare fervore
intellettuale a Firenze, divenuta, sia pure per breve tempo, capitale d’Italia: nel 1859 vi era
nato l’Istituto di Studi Superiori, come scuola di perfezionamento post universitario, che
aveva attirato da ogni parte d’Italia e d’Europa intellettuali e studiosi, facendosi portavoce
delle istanze culturali più avanzate e l’anno successivo fu istituita una commissione per la
salvaguardia, vigilanza e inventario dei beni culturali, che aveva anche il compito di controllare
gli acquisti e le operazioni di riordino e riorganizzazione dei musei cittadini. Questa
prevedeva la suddivisione tra musei artistici, di ispirazione romantica e idealistica, e musei
scientifici, di stampo positivistico. In questo programma, che portò al distacco di intere
collezioni dai grandi musei quali la Galleria degli Uffizi e il Museo di Fisica e Storia Naturale
e alla creazione di nuove strutture museali secondo una divisione specialistica, all’interno
delle quali prevalessero un’unica classe di materiali o oggetti appartenenti ad un particolare
periodo storico o una particolare disciplina scientifica, si inseriscono la formazione
del Museo Etrusco, sia pure in maniera anomala, e quella del Museo Nazionale del Bargello
(il metodo storicistico portò infatti alla rivalutazione di particolari periodi artistici come
il Medioevo e il primo Rinascimento).
Il 17 marzo 1870 il re Vittorio Emanuele istituì ufficialmente il Regio Museo Etrusco
(che raccoglieva però anche materiali greci e romani), che, affidato ad una commissione di
sorveglianza composta da sei membri 9, fu inaugurato l’anno successivo nei locali del Cenacolo
di Foligno in via Faenza: accanto ai materiali delle collezioni medicee e granducali, il
nuovo museo avrebbe dovuto accogliere anche gli oggetti provenienti da nuovi scavi, acquisti
e donazioni. L’accostamento del nuovo museo a quello Egiziano, che vi si trovava già
dal 1855, non fu forse casuale, visto che il Gamurrini in occasione dell’inaugurazione sottolineava
i vantaggi della loro vicinanza nella scia ancora di un filone di studi settecenteschi,
che coglieva strette analogie tra le due civiltà.
Il taglio dato all’ordinamento delle collezioni fu frutto di un dibattito sorto in seno alla
Commissione di sorveglianza, in cui emergevano due posizioni contrapposte: quella del
Gamurrini, che sulla base della definizione estetica dell’archeologia caldeggiava un ordinamento
“artistico”, e quella del Gennarelli, assertore del sistema scientifico-storicistico, che,
auspicando la convergenza di scienze affini in un futuro collegamento col museo antropologico,
sosteneva «l’esigenza di considerare i monumenti nei loro rapporti con la storia dei
popoli» e di un ordinamento geografico che vedesse i monumenti disposti a seconda delle
aree geografiche di provenienza. Ritenendo “novità troppo ardita” le idee del Gennarelli, il
Gamurrini ordinò le collezioni del museo con un criterio tipologico, in modo da sottolineare
il processo evolutivo della produzione artistica, ma così facendo perpetuò lo smembramento
delle antiche collezioni, già compiuto dal Lanzi nel riordino delle Gallerie degli
Uffizi. Il museo etrusco nasceva così in spazi che la sua vocazione rendeva inadeguati in partenza
e sulla base di criteri scientifici già superati.
Dopo la crisi subíta da Firenze per il trasferimento della capitale a Roma, dal 1879 il rilancio
della vita economica cittadina e l’affermarsi di una borghesia particolarmente dinamica
ebbero un riflesso positivo anche sul Museo Etrusco, le cui collezioni nel frattempo si
erano accresciute, sia in seguito a donazioni che a scavi e acquisti, rendendo necessario il suo
trasferimento in locali più adeguati. Grazie anche all’interessamento del Pigorini, allievo
dell’antropologo Paolo Mantegazza, nella sua veste di R. Commissario Straordinario delle

Gallerie e Musei di Firenze, in quell’anno fu assegnata al museo la nuova e attuale sede del
Palazzo della Crocetta, edificato da Giulio Parigi nel 1619-20 come residenza privata per
Maria Maddalena, sorella di Cosimo II; poiché la principessa era nata “malcomposta” nelle
membra, per permetterle di assistere alla messa nella Chiesa della SS. Annunziata senza essere
vista, fu costruito un corridoio, che collegava il palazzo ad un coretto della chiesa. Nel
1788 il palazzo fu aumentato di un piano dal granduca Pietro Leopoldo I di Lorena, che lo
predilesse come residenza, mentre altre trasformazioni vennero eseguite quando, divenuta
Firenze capitale d’Italia, l’edificio ospitò la Corte dei Conti.
La Commissione, ed in particolare il Pigorini, auspicavano la realizzazione di un museo
in cui confluissero le statue antiche delle Gallerie degli Uffizi, la collocazione al secondo piano
del palazzo di una gipsoteca, il trasferimento del medagliere e dei bronzi greci e romani,
sancendo così la trasformazione del Museo Etrusco in Museo Archeologico: ancora una volta
si presentava un progetto ambizioso, ma dispersivo, non compiutamente elaborato in un
quadro coerente né legato all’attualità degli studi, da realizzare in locali inadeguati.
Il trasferimento dei materiali nella nuova sede avvenne nel 1880 sotto la direzione dello
Schiaparelli, che ordinò le collezioni egizie (a partire dal piccolo nucleo delle raccolte medicee
queste furono arricchite grazie al granduca Leopoldo II di Lorena, che acquisì le collezioni
Nizzoli e Ricci e finanziò con Carlo X re di Francia la spedizione in Egitto condotta
tra il 1828 e il 1829 da Jean-François Champollion e Ippolito Rosellini), incrementandole
con due viaggi in Egitto, prima di essere chiamato alla direzione del Museo Egizio di
Torino, e di Luigi Antonio Milani, uomo di formazione positivistica e laica, genero del
Comparetti e allievo del Gennarelli, preposto dal Pigorini alla formazione del museo etrusco.
La nomina del Milani non avvenne senza polemiche, poiché l’incarico gli era stato conferito
direttamente dal governo, scavalcando la Commissione, e defenestrando Vittorio Poggi,
cui era stato assegnato l’incarico di inventariare i materiali del nuovo museo e di redigere
un progetto dell’allestimento. Nella polemica che si rinnovò sull’impostazione da dare al
nuovo ordinamento espositivo si raggiunse un compromesso, per cui fu mantenuto il criterio
tipologico per le vecchie collezioni (per esempio le urne cinerarie ellenistiche in pietra
da Chiusi e Volterra furono ordinate per temi iconografici secondo la classificazione del volume
del Brunn, perpetuando lo smembramento delle collezioni di cui facevano originariamente
parte) (fig. 1), mentre quello storicistico doveva essere utilizzato per i reperti da nuovi
scavi; tuttavia il Milani ordinando i materiali tenne conto sia dei luoghi di provenienza,
che della loro cronologia, come indicavano gli appositi cartellini, sancendo col carattere didattico
dell’esposizione l’evoluzione del concetto di museo da luogo riservato unicamente
agli studiosi a supporto formativo di tutta la cittadinanza. Nel 1881 il nuovo museo fu inaugurato
quasi sotto silenzio.
Il Milani, divenuto direttore del museo archeologico come di quello egizio nel 1884,
riordinò al primo piano del Palazzo della Crocetta, in parte occupato dal Museo Egizio, le
collezioni etrusche (fig. 2), cui nel 1890 si aggiunsero i grandi bronzi greci e romani delle
collezioni medicee, insieme ad alcuni bronzi di dimensioni ridotte; nel 1895 fu trasferita
sempre dagli Uffizi parte della collezione numismatica, di cui lo stesso Milani col Pigorini
avevano eseguito una verifica circa quindici anni prima, dopo che il disordine in cui queste
versavano aveva provocato un’inchiesta governativa. Il nuovo medagliere, arricchito anche
da alcuni sagaci acquisti del Milani, sarà inaugurato dal re nel 1897; ma per la scarsità, pe-
283

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Fig. 1. Sale delle sculture etrusche in pietra nell’allestimento Milani.
Fig. 2. Sala dei Buccheri Etruschi nell’allestimento Milani.

altro cronica in questo museo, di fondi e personale, fu aperta al pubblico solo una parte
della ricca raccolta, disposta per serie in ordine cronologico. La collezione glittica (smembrata
col museo degli Argenti a Pitti, cui andarono le gemme considerate “moderne”), anch’essa
già sotto la cura del Milani, che ne aveva parzialmente colmato le lacune, sarà trasferita
nel 1898, lo stesso anno dell’inaugurazione del museo Topografico dell’Etruria, la vera
“creatura” del Milani, sia dal punto di vista ideologico che di quello allestitivo.
Il decreto emanato nel 1888 dal re Umberto I che aveva sancito il diritto della città di
Firenze di possedere un “Museo centrale della civiltà etrusca”, riconoscendole il ruolo di sede
privilegiata della civiltà etrusca, come Roma lo era di quella romana, come auspicava già
il Lanzi nel saggio introduttivo ai volumi sulla lingua etrusca, fu vanificato l’anno successivo
dall’istituzione del museo di Villa Giulia, in cui confluiranno i materiali provenienti dall’Etruria
meridionale. Il Milani cercò comunque di assicurarsi in ogni modo le antichità che
venivano alla luce a seguito degli scavi condotti in tutta l’Etruria o che giacevano nei palazzi
nobiliari, con una politica accentratrice che smentiva le sue reiterate affermazioni di voler
salvaguardare i musei locali. Quando verrà inaugurato il 5 maggio del 1897 al piano terreno
del Palazzo della Crocetta, il Museo Topografico comprendeva diciassette sale, disposte
in modo abbastanza caotico, senza rispettare un preciso ordine geografico a causa della
mancanza di spazi adeguati. Come osserverà il Pernier, i reperti della civiltà etrusca “vi erano
ordinati a seconda dei luoghi di provenienza, senza distinzione di pregio o di aspetto
esteriore, in modo da far conoscere il popolo etrusco non solo nella storia della sua arte, ma
altresì della sua vita intima, nelle sue vicende ed origini”. La disposizione del nuovo museo,
realizzata su basi filologiche in base alla divisione dell’Etruria in XII popoli, completati secondo
la lista pliniana delle città, dei porti e dei popoli della VII Regio augustea, determinerà
l’eccessivo schematismo di questo come dei successivi allestimenti.
A integrazione del museo topografico il Milani, che aveva già rimontato nei due cortili
del Palazzo della Crocetta i resti architettonici della Firenze romana recuperati durante i lavori
di ristrutturazione del centro della città a seguito della demolizione del vecchio ghetto,
realizzò la ricostruzione di alcune tombe etrusche con i materiali originali nel giardino del
museo, che in seguito si arricchì di cippi, stele, sarcofagi e statue funerarie etrusche (fig. 3).
Nella stessa ottica istituì anche la sezione preellenica, che doveva delineare le civiltà del bacino
orientale del mediterraneo, da cui riteneva che gli Etruschi fossero originari e con cui
intrattennero in seguito rapporti commerciali, quella preistorica, che doveva documentare
la vita delle popolazioni che avevano preceduto gli Etruschi in Toscana, e quella dei confronti
italici, che doveva servire ad inquadrare la civiltà etrusca nel panorama più ampio delle
culture dell’Italia antica. Seguendo un filone di studi che tendevano a sciogliere l’archeologia
dalla filologia per collegarla alle nuove scienze dell’antropologia e dell’etnografia, sposando
il metodo comparativo della scuola filologica fiorentina con le teorie evoluzionistiche,
il Milani attraverso il confronto con materiali più antichi o di diversa provenienza cercava
di risalire ad una originaria unità culturale. Le iscrizioni etrusche su anfore, urne cinerarie
e tegole, provenienti per lo più dal territorio chiusino, ordinate secondo il luogo di provenienza
e le famiglie di appartenenza, in una sorta di “catasto etrusco”, furono collocate nel
corridoio mediceo, aperto solo agli specialisti di epigrafia.
Seguendo una ideologia storicistica che privilegiava la funzione didattica del museo rispetto
alla storia del collezionismo, già un decreto ministeriale del 1879 stabiliva che il Re-
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Fig. 3. Ricostruzione della Tomba di Casal Marittimo nel giardino.
gio Museo etrusco dovesse ospitare tutti i marmi antichi della città, sia quelli sparsi nei giardini
e nei palazzi fiorentini, che soprattutto quelli conservati agli Uffizi, dove, secondo il
Milani che tentò invano di realizzare il progetto, l’ordinamento dei marmi antichi non
avrebbe avuto valore storico, essendo stato realizzato solo al tempo del Lanzi, mentre i Medici
avevano scelto per le sculture altri spazi, quali il palazzo di via Larga e il giardino di S.
Marco. Il progetto fu realizzato solo in piccola parte, anche per finanziare la creazione al secondo
piano del Palazzo della Crocetta di una galleria di arazzi, che nulla aveva a che fare
con le collezioni di antichità. L’insensibilità del Milani agli aspetti collezionistici e antiquariali
si sommava alla sua costante polemica con gli Uffizi, che lo isolò nell’ambiente culturale
cittadino: egli avrebbe voluto portare al nuovo museo, che non realizzava più di £ 5.000
di introiti annui, almeno una parte dei 120.000 visitatori della Galleria degli Uffizi, che
avrebbe dovuto adeguarsi alla sua funzione di pinacoteca. Nel 1883 si registra l’arrivo di un
primo nucleo di sculture dai magazzini degli Uffizi e da Pitti, mentre un altro gruppo di
marmi arrivò da palazzi privati, come quello Cepparello in via del Corso. Nel 1902 il Milani
propose un progetto ridotto per un museo storico della scultura antica ordinato scientificamente:
in particolare avrebbe voluto esporre nell’aranciera del giardino l’intero gruppo
dei Niobidi con altre sculture scelte, ma nel 1905 ebbe una risposta negativa dal Ricci, Direttore
delle Regie Gallerie degli Uffizi, e ancora una volta al museo fu assegnato solo un
lotto ridotto di statue.
I marmi romani furono collocati con criteri scientifici e cronologici nel giardino, sfruttando
le arcate del corridoio mediceo (fig. 4) e lungo i viali (fig. 5), un vero e proprio mu-

Fig. 4. Sculture romane nelle arcate del corridoio mediceo.
Fig. 5. Sculture romane nei viali del giardino.
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seo “en plein air”. Ne facevano parte tra l’altro la grande statua della cosiddetta Arianna, già
a Palazzo Pitti (il Milani aveva ritrovato la testa originale nel Museo Nazionale del Bargello),
che fu esposta entro una nicchia, per rievocare la sua collocazione originaria nella villa
romana del cardinale Federico dei Medici; le statue provenienti dal teatro di Ferento, acquistate
nel 1903, ora restituite alla Soprintendenza competente; un bel lotto di ritratti, i
marmi colossali già nel cortile del palazzo mediceo di via del Corso, che nel 1775 facevano
parte della raccolta Serguidi, etc. Nel 1902 la collezione dei marmi antichi veniva incrementata
dal Milani con l’acquisto di due eccezionali kouroi arcaici greci, che da lui prendono
il nome, tra i pochissimi originali presenti nell’Italia centro-settentrionale, attestati almeno
dalla fine del ’700 nella collezione del canonico Bellini di Osimo, di uno dei quali è
stata rinvenuta recentemente la testa mancante in una collezione privata.
Tra le sezioni del Museo Archeologico previste dal progetto originario, ma destinate a rimanere
incompiute anche in mancanza di spazi adeguati, vanno ricordate la raccolta di calchi
in gesso, che il Milani avrebbe voluto collocare al secondo piano del Palazzo della Crocetta,
per favorire lo studio della scultura antica 10 (i fondi che avrebbe voluto destinarvi furono
utilizzati per acquistare un corpus di iscrizioni medievali) e la Galleria della Pittura
Etrusca con funzione didattica negli stessi locali. Quest’ultimo progetto doveva essere realizzato
dal Minto, che successe al Pernier dopo la crisi generale di cui risentì il museo a seguito
della prima guerra mondiale. Il Minto, che nel 1925 era riuscito a liberare il secondo
piano dell’edificio dalla incongrua collezione degli arazzi, vi realizzò appunto la Regia Galleria
della Pittura Etrusca (fig. 6) con i facsimili piuttosto approssimativi eseguiti dal Gatti
Fig. 6. La Regia Galleria della Pittura Etrusca.

Fig. 7. Il Museo Topografico dell’Etruria nell’allestimento del Minto.
a partire dal 1899 e con le pitture staccate dalle tombe Golini di Orvieto (gli originali sono
stati restituiti alla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria); l’opera, finanziata
dal Ministero nel 1911 e presentata in occasione del I Congresso Internazionale Etrusco del
1928, venne inaugurata solo nel 1932, in un momento cioè in cui era già diventata anacronistica,
pur nel suo lodevole intento didattico e di tutela. Sempre al secondo piano del
museo, il Minto collocò la sezione dei confronti italici e mediterranei, le ceramiche greche,
etrusche e romane, la collezione donata dal marchese Vagnonville al Comune di Firenze, già
esposta dal Milani nelle sale dei Clusini del Museo Topografico, le terrecotte architettoniche
e votive etrusche con i sarcofagi fittili di Tuscania e una piccola gipsoteca, mentre al piano
sottostante si ampliava il Museo egizio.
Al Minto si deve anche il completamento del museo Topografico: per ospitare gli innumerevoli
reperti che venivano alla luce nel corso degli scavi in Toscana, tra cui spiccano
quelli da lui stesso condotti a Populonia, alle ventisei sale situate al piano terreno del museo
si aggiunsero negli anni compresi fra il 1929 e il 1940 una serie di piccole stanze costruite
nel giardino lungo il corridoio mediceo, cui si addossavano alterandone la struttura
architettonica con l’accecamento delle arcate (fig. 7), fino a raggiungere un totale di cinquantadue
locali. I criteri scientifici che informarono il nuovo allestimento, sempre rigidamente
distribuito topograficamente per Populi, furono così espressi dal Minto: dopo una
«piccola rappresentanza di antichità dei centri etrusco laziali, la raccolta si svolge ordinata
topograficamente per centri e territori costieri tirrenici e per quelli interni dell’Etruria con
i documenti più rappresentativi che vanno dalla civiltà del Ferro alla più tarda romanità».
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290
L’apertura del nuovo museo sembra avvenuta nell’indifferenza generale e il Minto lamentò
sempre le inadempienze della città nei confronti del Museo Archeologico. Anche se il decreto
del 1912 con cui era stata riconosciuta al museo di Villa Giulia la giurisdizione sui territori
di Tarquinia e Viterbo aveva congelato le sezioni relative a quest’area nel museo fiorentino
(la creazione della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria le ridurrà successivamente),
il continuo incremento delle collezioni a seguito del succedersi degli scavi, nell’ottica
del Milani di un museo “in progress”, portò ad un eccesso di sovraffollamento di vetrine
ricolme di oggetti nelle salette, ridotte quasi a magazzini, a scapito di una corretta lettura
dei materiali.
Nel 1942 fu acquistata la parte del Palazzo degli Innocenti che si affaccia su via Gino
Capponi, in cui fu realizzato il nuovo ingresso monumentale del museo su piazza SS. Annunziata,
progettato dell’architetto Ballerini (fig. 8). Proseguiva così la realizzazione del
progetto di totale ristrutturazione del museo, mai concretizzata, che prevedeva il trasferimento
del Museo Egizio nei locali di via Laura, occupati, allora come oggi, dalla Facoltà
di Legge, e l’utilizzo del Palazzo degli Innocenti per il museo della scultura classica; in
realtà i locali del palazzo non sono mai stati adibiti ad esposizione: il Minto vi collocò
l’Istituto di Studi Etruschi e Italici da lui voluto per consacrare la centralità di Firenze
nella ricerca etruscologica, mentre dopo l’alluvione del 1966 vi furono realizzati i magaz-
Fig. 8. L’ingresso del museo su
piazza SS. Annunziata.

Fig. 9. Il salone della scultura.
zini del museo. I marmi collocati dal Milani nelle arcate del corridoio mediceo, che erano
stati asportati in occasione della costruzione delle sale del nuovo topografico e utilizzati
dal Minto come arredo di alcune sale del museo, dopo la sua morte furono collocati
nell’aranciera del giardino, realizzando il salone della scultura (fig. 9); questo venne
smontato quando nel corso degli anni ’80 iniziarono i lavori di ristrutturazione del Palazzo
degli Innocenti, mentre per motivi di tutela le statue venivano rimosse dal giardino:
attualmente tutti i marmi romani e parte delle sculture etrusche sono conservati e parzialmente
esposti nella Villa Corsini a Castello, insieme alle iscrizioni lapidee romane, che
il Minto aveva fatte murare sulla terrazza coperta soprastante il museo Topografico, alle
iscrizioni etrusche collocate dal Milani nel corridoio mediceo, asportate in occasione del
restauro di quest’ultimo, e alle copie delle pitture tombali etrusche: la Galleria della Pittura
Etrusca fu infatti smantellata tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 del secolo
passato, per adibirne le sale a uffici dell’allora Soprintendenza alle Antichità, mentre la sezione
dei confronti italici e mediterranei fu sostituita da due sale dedicate alla preistoria
e protostoria della Toscana e da una sull’Oriente antico, a loro volta chiuse negli anni ’80
del secolo scorso. Tutte queste trasformazioni, avvenute per lo più a seguito di eventi contingenti
o per eliminare sezioni divenute anacronistiche, ma senza una progettazione d’insieme,
sono purtroppo scarsamente documentate. Alcune sezioni, come il monetiere e il
giardino, vennero esclusi dalla visita per carenza di personale.
L’alluvione che nel 1966 distrusse il Museo Topografico dell’Etruria ha dato il colpo
di grazia all’eclissi in atto da tempo dell’intero museo. Mentre si provvedeva al restauro e
alla schedatura dei più di centomila oggetti che vi erano depositati, talora non inventariati,
nel corso degli anni ’80 del secolo scorso fu progettato e realizzato il restauro dell’edificio,
abolendo le salette create dal Minto, per recuperare integralmente il corridoio
291

292
Fig. 10. Il corridoio mediceo nella situazione attuale.
mediceo (fig. 10); l’ampio spazio così realizzato al piano terreno è stato utilizzato come
sede di mostre 11.
Nella discussione sul taglio da dare ad una nuova sistemazione del museo, si sono fronteggiate
le posizioni di chi desiderava innovare la distribuzione delle collezioni all’interno
del museo 12 e di chi invece riteneva opportuno mantenere l’allestimento ottocentesco nel
suo insieme, con i necessari aggiustamenti nella sezione delle Antiche Collezioni relativi alla
ricostruzione delle singole collezioni all’interno delle raccolte lorenesi e a quella delle accessioni
successive e riproponendo il museo topografico del Milani per ciò che aveva rappresentato
in passato, al fine di recuperare la documentazione della cultura positivistica della
Firenze dell’Istituto di Studi Superiori. In quest’ottica si proponeva anche di salvaguardare
l’arredo delle sale dell’Antiquarium, tra i più antichi finora conservati in Italia, spesso
ricollegabile ai precedenti allestimenti del Museo Etrusco del Lanzi e di quello di Via Faenza
13 . Ma le successive vicissitudini del museo non sembrano aver risentito di una vera pianificazione
progettuale.
Mentre gli uffici della Soprintendenza si estendevano in aree già musealizzate e alcune
sale al piano terreno (attualmente anch’esse ridotte a uffici) venivano adibite all’esposizione
temporanea di materiali restaurati dopo l’alluvione, come la scultura funeraria chiusina, o
di capolavori come il vaso François, la Chimera, e i Kouroi Milani, nel 1985 al secondo piano
del museo veniva smantellata l’esposizione del Minto per restaurare le sale, recuperando
i decori originali delle pareti. In alcuni di questi locali nel 1990 furono esposte le gemme e
le oreficerie delle Antiche Collezioni, mentre dal 1992 vi è allestita pressoché integralmente
la ceramica attica figurata, con materiali provenienti anche da corredi dell’ex Museo To-

pografico, con uno spazio dedicato alla scultura greca, in cui spiccano i kouroi Milani. I
cammei sono attualmente esposti nel corridoio mediceo e le oreficerie nel ballatoio adiacente.
Nel frattempo al primo piano del Palazzo della Crocetta si sviluppava il progressivo
ampliamento del Museo Egizio, progettato in maniera del tutto indipendente dal resto del
museo, conservando solo in parte gli arredi d’epoca, che conferivano alle sale un’atmosfera
egittizzante: per la realizzazione di due sale dedicate alle fasi finali della civiltà egizia e agli
scavi ad Antinoe recentemente è stata “sfrattata” la sezione dedicata ai grandi e piccoli bronzi
greci e romani, ora parzialmente esposti in tre sale al secondo piano.
I problemi che dovrà affrontare una nuova progettazione del museo sono molteplici,
e derivano in gran parte dalla genesi e dallo sviluppo del museo stesso in assenza di un
progetto scientifico complessivo, con la crescita indiscriminata di alcune sezioni a scapito
di altre, mantenendone talora una troppo rigida distinzione, talora mescolando materiali
di diverse collocazioni: tutto ciò ne ha fatto un museo “mancato”, frutto di occasioni
perdute, in una perenne situazione di precarietà, che ne ha frantumato l’identità. Anche
la mancanza di uno stretto legame con la città e le sue istituzioni culturali e politiche,
da cui non si potrà prescindere per il futuro, ha reso arduo il percorso del museo archeologico
fiorentino.
La carenza cronica di spazi e di flessibilità dell’edificio contenitore, che ha costituito
sempre uno degli ostacoli principali allo sviluppo del museo archeologico, rende inevitabile
l’allontanamento di una o più sezioni (per es. quella preistorica potrebbe confluire nelle
raccolte del Museo Italiano di Preistoria, situato nella vicina via S. Egidio) e degli uffici della
Soprintendenza. Tra le sedi che potrebbero rendersi disponibili in un futuro sia pur non
immediato è stato preso in considerazione il complesso di S. Firenze (attualmente occupato
dal Tribunale, di cui è progettato il trasferimento in altra zona della città), ove potrebbero
essere esposti i materiali delle collezioni medicee e lorenesi, che sarebbero così riavvicinate
sia alla sede originale della Galleria degli Uffizi che al Museo Nazionale del Bargello,
nato dalla stessa costola. Parte del Palazzo della Crocetta potrebbe essere destinato, oltre che
al completamento del Museo Egizio, all’allestimento delle collezioni dei materiali grecoorientali:
per quanto anacronistica fosse sin dall’inizio l’ideologia alla base della loro formazione
ed eterogenei i nuclei degli oggetti che le compongono, in quanto frutto di doni di
privati, acquisti, scambi con altri musei e scavi italiani all’estero, proseguiti anche dopo la
morte del Milani, questa sezione costituisce un unicum nel panorama dei musei archeologici
italiani, ponendo quello di Firenze, pur con i dovuti distinguo, alla stregua dei grandi
musei europei per l’ampiezza della sua rappresentatività delle antiche culture del bacino
orientale del Mediterraneo 14 .
La sede attuale del museo e il Palazzo degli Innocenti saranno comunque destinati principalmente
alla realizzazione del nuovo Museo Etrusco, che non riproporrà i rigidi criteri
espositivi tracciati dal Milani e seguiti dal Minto per il Museo Topografico dell’Etruria, bensì
ricostruirà lo sviluppo della civiltà etrusca secondo le aree di popolamento individuate dagli
studi più recenti, sottolineandone le interrelazioni. Andrà rivista anche la funzione di
centralità che finora si è voluta dare al museo, rivedendone i rapporti ambigui con i musei
del territorio (dalla politica accentratrice del Milani all’attuale deposito indiscriminato di
corredi prestigiosi presso musei civici), in vista anche di un eventuale passaggio alle regioni
della gestione dei musei nazionali del territorio.
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294 Poiché la realizzazione del progetto sopra esposto avverrà per fasi successive, a seguito del
processo degli studi e della disponibilità degli spazi, singole sezioni del museo o lotti di materiali
omogenei attualmente esclusi dalla visita saranno presentati in una serie di esposizioni
temporanee.
1 Per la storia del museo si veda in
ultimo Romualdi 2000, p. 521,
con bibliografia aggiornata, cui adde
Esposito, Guidotti 1999, Romualdi,
Vaccaro 2002, Touring
Club 2002, p. 55 ss.
2 Per la storia del collezionismo
mediceo e lorenese, oltre alla bibliografia
citata in Bocci Pacini
1983, p. 105, n. 10 e a quella in
Romualdi 2000, p. 521, ved. in
particolare Zangheri 1985, p. 114
ss., Gasparri 1999, p. 47 ss. e De
Lachenal, Marzi 2000, p. 350 ss.;
Marzi 2000, p. 494 ss.
3 Lorenzo il Magnifico possedeva
un’urnetta chiusina, donatagli dai
Senesi, che una falsa iscrizione attribuiva
a Porsenna; l’Accademia
fiorentina, sviluppando i temi linguistici,
enfatizzò l’unità politica e
linguistica della dodecapoli; architetti
famosi si ispirarono all’architettura
etrusca, reinventarono monumenti
famosi come il sepolcro
del lucumone chiusino Porsenna,
descritto da Plinio su una notizia di
Varrone, disegnarono oggetti e
iscrizioni etruschi; Vasari esaltò l’originalità
dell’arte etrusca rispetto a
quella classica, proponendone la
continuità con la Toscana dei suoi
tempi; la letteratura di tipo erudito
e cortigiano manterrà sempre l’ottica
dell’esaltazione del passato
etrusco della dinastia, tanto che
Cosimo II commissionò a Thomas
Dempster la redazione del De Etruria
Regali, scritto tra il 1616 e il
1619, ma pubblicato solo un secolo
dopo.
4 Lo stesso grande bronzo noto come
l’Arringatore, avventurosamente
acquisito nel 1566 e subito portato
negli appartamenti privati di
Cosimo I a Palazzo Pitti, prima di
essere trasferito agli Uffizi nel
1588, sarebbe stato considerato
uno “Scipione minore”, invece di
un personaggio etrusco, mentre la
statua bronzea della Minerva di
Arezzo nel 1541, opera romana
creduta etrusca, fu acquistata da
Cosimo I solo nel 1552 e posta nel
suo scrittoio di Palazzo Vecchio,
dove rimase fino al 1676, quando
fu trasferita agli Uffizi.
5 Tra questi si ricordano lo scrittoio
di Cosimo I in Palazzo Vecchio,
lo studiolo di Francesco I approntato
dal Vasari nel palazzo Pitti
e la Tribuna degli Uffizi, realizzata
dallo stesso Francesco I, in cui
trovarono posto tra i materiali archeologici
per lo più medaglie, monete,
urne, vasi, gemme, bronzetti,
oreficerie, etc.
6 Il gruppo dei Niobidi, già nel
giardino di Villa Medici, fu portato
a Firenze solo dal granduca Pietro
Leopoldo di Lorena.
7 A lui si deve comunque la prima
legge di tutela dei beni culturali,
che, se nella prima versione rivendicava
al Granduca la proprietà di
tutti i reperti di nuovo rinvenimento,
destinandoli alle collezioni degli
Uffizi, nella seconda, ben più blanda,
consentiva il libero commercio
delle antichità, pur obbligando alla
denunzia immediata dei ritrovamenti
fortuiti di tesori e monumenti,
in modo che il direttore delle
Gallerie potesse esercitare la prelazione
su quelli ritenuti più interessanti.
8 Anche se i Lorena non mostrarono
mai particolare interesse per la
glittica, perdendo alcune buone occasioni
per incrementarne la rac-
colta, quella medicea era la più importante
d’Europa, anche dopo che
buona parte del tesoro laurenziano
era confluita a Napoli, punto di riferimento
imprescindibile per gli
studiosi ancora nel XVIII secolo e
un modello per la formazione delle
analoghe collezioni di Napoli, Londra,
Parigi, Vienna e Leningrado.
Fu grazie al Puccini, comunque, se
la raccolta gliptica, di cui egli stesso
aveva redatto un catalogo nel
1799, si salvò per la sua fama quando
le truppe napoleoniche intervennero
nel Granducato di Toscana.
Il Puccini curò l’esecuzione del
calco di ben seicento gemme fiorentine
per la Francia, il che gli
giovò al secondo passaggio delle
truppe francesi, meno pacifico del
primo. Durante la restaurazione lorenese
lo Zannoni dedicò alle gemme
due tomi della sua “Reale Galleria
di Firenze Illustrata”, mentre
poco dopo il Migliarini curava l’ultima
classificazione del Gabinetto
Granducale, che era composto da
oltre quattromila pezzi, distinguendo
i cammei dagli intagli e al loro
interno per soggetti. Ma il furto subito
dalle collezioni glittiche nel
1860 (sparirono 353 oggetti, di cui
fu recuperata solo la metà), provocò
la disgrazia dello studioso.
9 La commissione, costituita da
Aurelio Gotti, direttore delle Gallerie
di Firenze, Francesco Gamurrini,
Regio Conservatore di antichità,
Carlo Strozzi, Achille Gennarelli,
professore di Archeologia all’Istituto
di Studi Superiori, il conte Conestabile
dell’Università di Perugia e il
Fabretti di quella di Torino, aveva il
compito «di proporre al Ministero
gli oggetti che debbono far parte del

museo etrusco e dovrà provvedere
al collocamento e ordinamento
scientifico di essi»; la commissione,
voluta dal ministro Correnti, aveva
anche in permanenza l’incarico della
tutela, conservazione e ricerca
delle antichità comprese fra il Tevere
e la Magra, prefigurando quella
che sarà la Regia Soprintendenza alle
Antichità d’Etruria.
10 L’esigenza della realizzazione di
una gipsoteca era già stata sentita
dal granduca Leopoldo II, ma l’idea
era stata abbandonata una volta
passato il fervore degli studi sulla
scultura antica seguito all’opera
del Winckelmann.
11 Una di queste, realizzata nel
1993, riproponeva alcuni dei corredi
più significativi del Museo Topografico.
12 Il Nicosia (Nicosia 1983, p. 35)
Bibliografia
P. Bocci Pacini 1983, Considerazioni
sulla storia del Museo Archeologico
di Firenze, in “Bollettino
d’Arte”, 17, pp. 93-106.
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A.M. Esposito, M.C. Guidotti (a
cura di) 1999, Museo Archeologico
Nazionale di Firenze, Firenze,
Giunti.
C. Gasparri 1999, I marmi antichi
proponeva di collocare le Antiche
Collezioni nel Palazzo degli Innocenti,
di completare l’allestimento
del Museo Egizio al primo piano
del Palazzo della Crocetta, dove voleva
ampliare il Medagliere, di riaprire
il Museo Topografico nella
cosiddetta manica lunga adiacente
al corridoio mediceo, all’interno
del quale doveva essere realizzato il
Lapidario, e di trovare una diversa
collocazione per le collezioni di
materiali preistorici e medievali.
13 Bocci Pacini 1983, p. 93 ss.
14 Tra i materiali dell’Oriente Antico
si segnalano ceramiche dello
Yortan in Misia acquisite in seguito
a uno scambio col museo di
Bruxelles, sarcofagi in faience, tavolette
cuneiformi, cilindretti assiri
ed ittiti acquisiti dal Milani, materiali
dagli scavi di Kakzu, oltre a
di Ferdinando. Modelli e scelte di
un grande collezionista, in M. Hochmann
(a cura di), Villa Medici.
Il sogno di un cardinale. Collezioni
e artisti di Ferdinando dei Medici,
Catalogo della mostra, Roma,
Edizioni De Luca, pp. 47-57.
M.G. Marzi 2000, Il collezionismo
minore. I precedenti del Bellori, in
L’idea del Bello, cit. supra, pp.
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F. Nicosia, I musei Archeologici, in
La città degli Uffizi, Catalogo
della mostra, Firenze, Sansoni
Editore, pp. 33-35.
A. Romualdi 2000, Il Museo Ar-
mattonelle islamiche della collezione
Popolani, che dovevano documentare
la persistenza delle tradizioni
antiche nelle produzioni materiali;
i materiali minoici e micenei
rinvenuti a Creta sono frutto
principalmente degli scavi della
missione italiana a Prinias e Festos,
mentre quelli da Cipro provengono
dagli scavi nel tempio di Venere
a Paphos, dono del console Colucci
nel 1870, cui si sono aggiunti ceramiche
e bronzi da Larnaca; ai
materiali cicladici provenienti da
Syros e Amorgo si affiancano i numerosi
reperti dagli scavi italiani a
Rodi, mentre tra i reperti dalla
Grecia continentale si ricordano i
materiali micenei ottenuti in seguito
ad uno scambio col Museo Nazionale
di Atene, alcuni corredi dai
tumuli di Dimini in Tessaglia, etc.
cheologico Nazionale di Firenze,
in L. Torelli (a cura di), Gli Etruschi,
Catalogo della mostra, Cinisello
Balsamo, Bompiani, pp.
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dei Medici e dei Lorena, in Fortuna
degli Etruschi, Catalogo della mostra,
Milano, Electa, pp. 114-118.
295

Dal segno alla memoria
Valeria Cicala
Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna - Bologna
… on pensait avec nostalgie aux beaux caractères fermes
des inscriptions antiques, qui perpètuent à travers les siècles
la mémoire du premier particulier venu.
M. Yourcenar, Souvenirs Pieux, Paris 1974, p. 47.
RIASSUNTO
Lo studio delle soluzioni museografiche già codificate e la progettazione di nuovi allestimenti per le iscrizioni
di età romana hanno avuto, sul territorio dell’Emilia-Romagna, l’opportunità di avvalersi delle ricerche
della scuola di Storia Antica creata dal professor Giancarlo Susini.
Questi ha realizzato, in collaborazione con l’Istituto per i Beni Culturali e con i musei della regione,
alcuni percorsi espositivi e una serie di approfonditi contributi sui musei epigrafici, allargando il dibattito
sui criteri di conservazione e di fruizione dei materiali inscritti all’Europa e al bacino del Mediterraneo
(si vedano i convegni internazionali “Il Museo Epigrafico” 1983, “La terza età dell’Epigrafia” 1986, “L’epigrafia
del Villaggio” 1990).
In questo intervento si vogliono riannodare i passaggi fondamentali di questa fattiva esperienza, la
quale si è basata sulla lezione di Bartolomeo Borghesi, lo studioso che alla metà dell’Ottocento rinnovò
la scienza epigrafica. Proprio in nome della comunicazione e della didattica museale, il lapidario o il museo
epigrafico sono proposti nella sintesi più aperta tra esigenze di filologia espositiva e trasversalità di approccio.
SUMMARY
The study of already identified museographical solutions and the designing of new exhibition approaches for the
Roman age inscriptions have already benefited from the research findings of the School of Ancient History set
up by professor Giancarlo Susini in the Emilia-Romagna Region.
In collaboration with the Istituto per i Beni Culturali and with the museums located in the region, he has
designed a few exhibition itineraries and a set of detailed contributions on the epigraphic museums, thus extending
the debate to conservation criteria and to the benefits deriving from the availability of materials coming
from Europe and from the Mediterranean basin (please refer to the international meetings “Il Museo Epigrafico”
1983, “La terza età dell’Epigrafia” 1986, “L’epigrafia del Villaggio” 1990).
In my paper I would like to mention the main steps that have undertaken, drawing inspiration from the
teachings by Bartolomeo Borghesi, the scholar who renewed the epigraphic science in the mid 19th century. To
promote the museum communication and education function, the scholars put forward the idea of the epigraphic
museum as the most updated and comprehensive answer to the modern exhibition requirements.
Alle linee di ricerca di questo convegno non poteva restare estraneo un riferimento sulla genesi
e sui modelli di allestimento nel tessuto museale dell’Emilia-Romagna per quanto attiene
alle collezioni epigrafiche di età antica, in particolare quelle romane.
Proprio Ferrara, per le vicende riguardanti i documenti inscritti, siano essi stati rinvenuti
nel territorio circostante o siano esito di interessi collezionistici, delinea un caso a cui prestare

particolare attenzione. Il lapidario romano, realizzato nel 1983 negli spazi di una antica chiesa
sconsacrata, Santa Libera, ha rappresentato la soluzione flessibile ed attuale per la “lettura”
delle iscrizioni (Visser 1984, pp. 355-373; Selmi 1984, pp. 375-384). Qui, dopo stagioni di
sistemazioni lungamente provvisorie e prive di adeguati criteri espositivi e conservativi, queste
hanno ritrovato identità storica e la possibilità di comunicare con il visitatore in un contesto
che tiene conto dell’ambiente e del paesaggio sociale e culturale del quale sono espressione
e nel quale hanno svolto una funzione mediatica ante litteram (Susini 1982, pp. 150-156).
Ma, prima di inoltrarci in esemplificazioni e di considerare singoli casi, è opportuno
rammentare alcuni elementi sottesi alla documentazione inscritta con cui ci confrontiamo
e alla realtà museale nella quale sono proiettati. La formazione delle raccolte epigrafiche in
Emilia-Romagna è fortemente connessa non solo agli eventi storici e bellici o alle esperienze
culturali che nei secoli hanno configurato questa terra, ma perfino a catastrofi sismiche
o climatiche che ne hanno, in alcuni casi, determinato la particolare consistenza.
Mi riferisco alla scoperta, sulla fine del diciannovesimo secolo, della necropoli di Pian
di Bezzo a Sarsina, su quel crinale appenninico dove la Romagna si incontra con l’Umbria.
In questo caso un’alluvione riportò alla luce la vasta area funeraria che molti secoli
prima era stata interrata dal corso del fiume Savio (Susini 1993, pp. 5-8), conservandosi
pressoché integra. Mentre, a Bologna, sempre sul volgere dell’Ottocento, fu un’altra tragica
alluvione a restituire le stele funerarie reimpiegate in età tardo-antica nella realizzazione
di un muro di contenimento del fiume Reno, forse in occasione di una piena (Cicala
1995, pp. 323-330; Susini 1995, pp. 285-296), dando un notevole incremento al patrimonio
epigrafico del territorio bolognese. Le iscrizioni sono esposte nell’atrio d’ingres-
Fig. 1. Rimini, Lapidario romano: veduta d’insieme.
297

298
so e sotto il portico del Museo Archeologico, dove già si trovavano le collezioni donate
al museo come quella, di testi non pertinenti a Bologna, di Luigi Ferdinando Marsili (Susini
1957; Donati 1989, pp. 53-54). L’archeologia urbana ha poi, soprattutto nel secondo
Novecento, continuato a fornirci documenti di grande interesse e, a questo proposito,
per un quadro d’insieme, il catalogo della mostra Aemilia costituisce uno dei riferimenti
più aggiornati (Marini Calvani 2000).
Vicende diverse, dunque, hanno condizionato anche la sorte degli allestimenti, che in alcuni
casi sono ancora quelli che possiamo definire storici, seppure rinnovati negli apparati
e supportati da pubblicazioni e strumenti didattici adeguati. Si pensi al già ricordato Museo
Civico Archeologico di Bologna, alla Galleria Estense di Modena, ai Musei nazionali di
Parma e Ravenna, alle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia; questi propongono i
modelli espositivi propri della maggior parte delle grandi collezioni presenti in Italia (Corradini
1984, pp. 383-437; Donati 1984a, pp. 349-353; Cicala 1989, pp. 36-64). Altre volte,
lo vedremo, si coniugano spazi tradizionali con soluzioni innovative; ci sono poi circostanze
in cui è possibile allestire ambienti ex novo realizzando appositi percorsi. Materiali
iscritti di notevole interesse sono esposti in tutti i musei archeologici del territorio regionale
e possono essere accostati tra loro per “uniformità tipologica” (Cenerini 1989, pp. 50-52).
Un altro elemento di cui tenere conto quando si considera questo patrimonio è la radicata
tradizione di studi nel settore dell’epigrafia romana ed il particolare respiro scientifico
che tale disciplina ha avuto all’Università di Bologna. Due nomi per tutti, molto distanti
cronologicamente, ma fondamentali: Bartolomeo Borghesi, che già tra la fine del Settecento
e la prima metà dell’Ottocento riconobbe all’epigrafia la piena dignità scientifica che le
Fig. 2. Rimini, Lapidario romano: veduta d’insieme.

competeva. Giancarlo Susini, Maestro dell’ateneo felsineo, recentemente scomparso, il quale
degli studi epigrafici, dell’analisi tridimensionale di tali documenti è stato innovatore assoluto.
Con lui abbiamo imparato a “leggere” la storia scritta sulle pietre, abbiamo scoperto
l’attualità e la capacità comunicativa del messaggio epigrafico (Susini 1959, pp. 321-346;
Susini 1976, pp. 5-10). «L’iscrizione incarna ed esplicita – ecco un tratto unitario, per ogni
evo della cultura – un aspetto specifico del vivere con gli altri, di chiamare gli altri per farsi
leggere. Perfino di chiamare gli dei dal cielo, come con gli obelischi […] o con le iscrizioni
rupestri» (Susini 1997, p. 88).
Gran parte del lavoro che si è realizzato per i lapidari e per il riallestimento di spazi destinati
ad accogliere le epigrafi romane presenti nel territorio dell’Emilia-Romagna, come
pure l’approccio nuovo con cui sono stati studiati i materiali si devono all’impegno profuso
da Susini e dalla Scuola di Epigrafia da lui creata (Cicala 1991, pp. 67-76; Cicala 1997,
pp. 7-8; Cicala 2000, pp. 6-7). Nei suoi percorsi di ricerca si avverte l’intento di rendere i
documenti sempre più espliciti nelle loro valenze e il tema dell’allestimento espositivo recupera
una piena centralità di interesse perché avvertito come parte fondamentale al fine di
comprendere il messaggio epigrafico, segmento di un progetto didattico in cui si intersecano
non solo il contenuto del documento, la sua memoria antica, ma anche la storia della
pietra e il segno delle officine lapidarie. Si studiano la manualità del lapicida, la cultura dello
scriba; si riconoscono gli strumenti del lavoro, le eventuali vicende successive all’impiego
in età antica, i processi della conservazione (Susini 1966; Susini 1979, pp. 45-62).
Dall’approccio metodologico creato da Susini e con la consulenza scientifica sua e di Angela
Donati si è mosso, grazie alla legge regionale n. 28 del 1977, l’Istituto per i Beni Culturali,
a partire dal 1979, per promuovere e finanziare il progetto di censimento e catalogazione
del patrimonio epigrafico della regione (Cicala 1989, pp. 36-64; Cicala 1991, pp. 67-
76). Il progetto è stato realizzato in un’ottica attenta non solo alla catalogazione dei testi,
ma orientata metodologicamente a dare un contesto a tali documenti all’interno del paesaggio
di cui avevano fatto parte prima di approdare, nel volgere del tempo, ad una collezione,
alle stanze di una casa patrizia, o di un museo. Prima di essere reimpiegati nei modi
più imprevedibili per fame di materiali edilizi o per utilizzarli come elementi decorativi. Tra
l’età tardoantica e alto medioevale, divenne sempre più macroscopico il fenomeno dell’analfabetismo
e le abbreviazioni e le sigle che caratterizzavano le iscrizioni furono incomprensibili
all’occhio comune. Di quelle sequenze di lettere incise, si poteva, nella migliore
delle ipotesi, apprezzare l’eleganza o attribuire loro un valore quasi magico (Sanders 1988,
pp. 349-414; Cicala 1999, pp. 113-118).
Raramente, laddove c’è continuità di insediamento, le epigrafi sono rimaste nel paesaggio
architettonico per il quale erano state realizzate. Almeno due dovrebbero, dunque, essere
i livelli dell’orizzonte epigrafico di cui tenere conto in un allestimento museale: quello urbano,
dove si collocano i testi sacri, onorari, spesso anche redatti sugli edifici pubblici; quello
suburbano dove prevalgono le iscrizioni riconducibili allo spazio delle necropoli, dei
grandi santuari, delle infrastrutture a cui si appoggiano il cursus publicus e tutti i traffici e i
commerci che passano sulle vie consolari (Susini 1982, pp. 48-59).
I materiali inscritti dell’Emilia-Romagna hanno costituito una documentazione esemplare
anche per quanto riguarda il recente dibattito sulle soluzioni espositive e la musealizzazione
di tali monumenti. Le iscrizioni sono confluite talvolta nei grandi musei dei capo-
299

300
luoghi, pur appartenendo a località minori della provincia; talvolta sono invece rimaste in
situ o nell’antiquarium allestito in prossimità del centro antico o della necropoli a cui si riferiscono
(Susini 1982, pp. 202-209).
È questo il caso, per restare nel più prossimo orizzonte padano, verificando l’importanza
della rete museale cresciuta in questi decenni sul territorio regionale (Piraccini 2000), di
Voghenza in provincia di Ferrara. Qui il visitatore può ritrovare, tra la necropoli e il vicino
antiquarium, le tipologie monumentali che riportano agli stilemi delle officine epigrafiche
ravennati ed acquisire, grazie ai pannelli e alla documentazione archeologica, un’idea della
realtà, della società in cui i protagonisti dei documenti funerari sono vissuti.
Nell’Appennino piacentino, a Velleia, in prossimità degli edifici ancora ben visibili del centro
romano, che proiettano in modo suggestivo nel paesaggio antico, è stato realizzato un antiquarium.
Questo accoglie prevalentemente i calchi dei materiali, i cui originali sono conservati
al Museo Nazionale di Parma, i quali svolgono una adeguata funzione didattica per quanto
attiene ai contenuti delle epigrafi e alle relazioni che creano con il tessuto politico ed architettonico
della città. Velleia deve la sua quasi intatta sopravvivenza all’abbandono dell’insediamento
umano e alla passione per l’archeologia dei Borbone, che qui cominciarono a condurre
scavi nel Settecento, negli stessi anni in cui avviarono in Campania quelli di Ercolano e
Pompei. La cittadina costituisce dunque un luogo privilegiato dove un accorto progetto di turismo
culturale offre nella stagione estiva la possibilità di farne teatro di rappresentazioni e di
eventi musicali, di attualizzare questo paesaggio senza alterarne la memoria storica.
Le inscrizioni, è ben noto agli studiosi, hanno goduto di una notevole attenzione da parte
dei collezionisti fin dall’età tardo-medioevale, seppure con motivazioni molto diverse;
Fig. 3. Rimini, Lapidario romano: il sistema di montaggio di un grande monumento funerario inscritto.

Fig. 4. Ferrara, Lapidario romano: particolare del sistema di montaggio delle stele di Atilia Primitiva.
301

302 non ultimo il prestarsi come elemento ornamentale e la suggestione costituita dalla onomastica
antica, nella quale frequentemente si cercava di individuare un’origine romana che
nobilitasse la propria casata.
Sarà il Secolo dei Lumi quello in cui muteranno profondamente i criteri con i quali considerare,
esporre e studiare questi oggetti (Calabi 1984, pp. 25-50). Da quel momento l’esigenza
di organizzazione espositiva si compenetra con criteri di sistematicità e si giunge ad
una identità concettuale tra collezione e museo. In tale rinnovato approccio, lo studio e la
comprensione del testo antico acquisiscono una dignità che non si nutre più solo di preziosa
erudizione, ma che ne fa un elemento portante dell’indagine storica, di un confronto.
La città di Ferrara si presta ad osservare siffatto percorso, pur con tutti i disagi che i materiali
inscritti di quest’area hanno subíto. Se infatti è vero che nel 1745, a Verona, Scipione
Maffei inaugura quello che viene considerato il primo museo lapidario pubblico nel cortile
porticato annesso all’Accademia Filarmonica, esemplare per la ricchezza e per il rigore
dei criteri espositivi, è opportuno ricordare che un decennio prima a Ferrara, in Palazzo Paradiso,
era stato istituito il lapidario pubblico ad opera del Marchese Bevilacqua, il quale ebbe
la sensibilità di raccogliere i materiali inscritti fino ad allora dispersi. Ma la cultura epigrafica
a Ferrara, già ben configurata durante la signoria degli Este, che alla fine del Cinquecento
lasciarono la città, passata allo Stato della Chiesa, e si trasferirono con la corte a
Modena, continuerà ad essere alimentata da tanti personaggi quali, ad esempio, il cardinale
Riminaldi, Niccolò e Girolamo Baruffaldi, Giuseppe Antenore Scalabrini (Visser 1984,
pp. 355-362).
Fig. 5. Ferrara, Lapidario romano: veduta di insieme.

Nel lapidario si accumularono testi e monumenti reimpiegati o provenienti dai primi
scavi di Voghenza. La prevalenza era costituita da reperti appartenenti al territorio, ai quali
si aggiunsero acquisti sul mercato antiquario. Per anni il lapidario ferrarese continuò ad acquisire
materiali anche di altre età senza, a quel punto, perseguire precisi criteri espositivi e
divenendo inadeguato come spazi. Nel 1924 ha inizio il trasferimento dei marmi a Palazzo
dei Diamanti, dove nel 1898 erano già state collocate le raccolte archeologiche e numismatiche,
per realizzare un nuovo allestimento. In realtà le peripezie delle iscrizioni continuarono;
anche la loro collocazione nel portico del palazzo dei Diamanti non rispondeva a nessun
criterio scientifico e di corretta esposizione, ma tutt’al più decorativo.
Arriviamo così ai primi anni Ottanta, e al restauro della ex chiesa di Santa Libera, che
viene destinata ad accogliere l’intero patrimonio epigrafico, utilizzando in modo efficace un
contenitore storico e situando nuovamente il Lapidario nel complesso dei Civici Musei
d’Arte Antica della città estense. Nel 1983 si concludono i lavori di allestimento del museo
lapidario, nel quale l’ordinamento dei materiali permette di ricreare attraverso i testi la storia
del delta padano in età imperiale, di connetterla nei suoi risvolti sociali ed economici alle
vicende della costa adriatica e delle propaggini appenniniche (Susini 1965, p. 574); ma il
percorso espositivo dà conto anche degli interessi della passione collezionistica della casata
estense. Il museo di Santa Libera si inserisce, per le soluzioni adottate e per la metodologia
seguita, tra diverse esperienze italiane ed europee delle quali, a livello progettuale, si parlò
proprio nel corso del convegno internazionale “Il Museo Epigrafico” svoltosi nel settembre
del 1983 e conclusosi a Ferrara con una visita al Lapidario (Donati 1984). La manifestazione
era maturata dalla collaborazione, ancora una volta, tra la Scuola di Epigrafia del Dipartimento
di Storia antica e l’Istituto per i Beni Culturali, realizzando un incontro del tutto
nuovo che per la prima volta chiamava a confronto gli specialisti sulla “lettura globale”
del testo, sulla esigenza di conservare ed esporre le iscrizioni con criteri che rendessero leggibile
il documento in tutte le sue connotazioni; connotazioni le quali non sono solamente,
lo si è già detto, quelle della storia della scrittura e della storia politica. Bensì ne assimilano
anche il profilo sociale, religioso; quello della storia del lavoro e della ricaduta economica.
Anche sui criteri di catalogazione ed informatizzazione dei testi epigrafici si dibatteva
molto tra la fine degli anni Settanta e i primi degli anni Ottanta e anche questi aspetti influenzavano
i nuovi progetti in via di realizzazione (Giacomini 1989, pp. 39-40). Se i vecchi
ordinamenti costituiscono una testimonianza culturale irrinunciabile, all’interno di questi
alcune caratteristiche dei documenti inscritti hanno accessibilità ed intelligibilità, a volte,
più limitata e le nuove tecnologie possono anche supplire a tali limiti, aiutare l’autopsia
sui materiali.
Il primo allestimento ex novo di un lapidario in Emilia-Romagna riguarda Rimini. Qui
l’orto lapidario fu inaugurato nel 1981 e costituisce una sintesi equilibrata tra storia della
cultura epigrafica e nuovi criteri espositivi. È la contestualizzazione dei materiali inscritti in
uno spazio aperto, che rispecchia anche la dimensione paesaggistica alla quale era destinata
la maggior parte di essi. Sono le “scritture esposte”, come le ha efficacemente definite Giancarlo
Susini, che si leggono anche solo rallentando il passo, senza fermarsi, a “colpo d’occhio”
(Susini 1988, pp. 105-124; Susini 1989, pp. 271-305).
L’epigrafia riminese racconta molto dell’antica colonia di diritto latino in rapporto alla
documentazione architettonica tuttora presente nel contesto urbano: l’arco di Augusto, il
303

304
Fig. 6. Sarsina, monumento funerario ambientato nella ricostruzione ideale di un tratto di necropoli, realizzata
all’interno del Museo Nazionale.

ponte di Tiberio, ciò che resta dell’anfiteatro; ma anche in relazione alla successiva attenzione
di cui ha goduto la compagine antica nella storia culturale della città. Il lapidario riminese,
il cui ordinamento fu curato da Angela Donati (Donati 1981), costituisce, a
tutt’oggi, il “segno” museologico per eccellenza della antica Ariminum, ancora in attesa di
una coerente sezione archeologica all’interno del Museo della città, mentre continuano scavi
e ricognizioni nel perimetro urbano.
Muovendo da questa ricca documentazione – costituita da tipologie assai diversificate di
materiali inscritti, non solo pietre e marmi, ma, ad esempio, materiali fittili, databili al III
secolo a.C., con iscrizioni dipinte o graffite di preminente interesse per studiare l’evoluzione
delle lettere nella scrittura romana e per indagare le manifestazioni della religiosità più
arcaica (Susini 1984, pp. 261-264) – sono state sistematicamente realizzate molte iniziative
di carattere scientifico e didattico, supplendo così all’assenza quasi totale di esposizione per
altri materiali archeologici (Calbi, Susini 1994; Susini 2000, pp. 7-13). La quantità e la qualità
degli oggetti è stata incrementata dagli scavi condotti dal secondo Dopoguerra in poi,
anche in seguito alle distruzioni pesanti che la città ha subito nel corso dei bombardamenti,
i quali avevano irrimediabilmente danneggiato pure il Museo Archeologico, allestito nel
1932 nell’ex convento di San Francesco, dove era esposta la ponderosa raccolta epigrafica,
precedentemente ordinata da Luigi Tonini (Giovannetti 1989, pp. 45-47).
Rimanendo in Romagna, un altro allestimento ricostruisce la memoria antica, prevalentemente
attraverso i materiali inscritti che già ai primi del Seicento erano stati raccolti da
Filippo Antonini, eminente erudito locale: è quello realizzato nel Museo Nazionale di Sarsina,
alla fine dell’Ottocento da Antonio Santarelli, pochi anni dopo la scoperta della necropoli
di Pian di Bezzo, da cui provengono i ben noti monumenti funerari ad edicola e terminanti
in una guglia a cuspide. Essi sono di particolare interesse perché si tratta di una tipologia
di ascendenza ellenistica, abbastanza sorprendente in questo contesto e forniscono
una efficace misura dello status economico della classe dirigente locale, le cui radici sono
prevalentemente connesse alla realtà centro-italica.
L’epigrafia sarsinate consente anche di leggere, attraverso l’onomastica e le pieghe della
religiosità l’ampio squarcio, l’osmosi geografica e religiosa che caratterizza quest’area, a metà
strada tra Tirreno ed Adriatico, ma che presenta connotati acquisiti dall’area del Mediterraneo.
Susini l’ha a lungo studiata, esplorata, rintracciando implicazioni sociali e cultuali, ricostruendo
attraverso le fonti inscritte di questo municipio romano dell’Appennino uno
spaccato di storia imperiale (Susini 1985, pp. 71-139).
All’interno del museo, la esorbitante documentazione epigrafica esplode in una esposizione
articolata delle iscrizioni. All’amplissima compagine di monumenti funerari si aggiunge
la consistenza delle iscrizioni redatte in molti casi sui supporti delle statue di divinità,
oggi perdute. Le dimensioni di queste basi sono ragguardevoli e la qualità dei materiali
impiegati è di notevole pregio. Un forte impatto suscita pure nel visitatore la statuaria relativa
alle divinità orientali. Tutto concorre a tracciare una realtà di carattere religioso imponente,
con santuari che dovevano accogliere una frequentazione non solo locale, e a configurare
la ricchezza di cui tra la fine dell’età repubblicana e i primi secoli dell’impero la città
usufruì.
Il percorso espositivo, con l’intento di offrire una migliore contestualizzazione dei materiali
(Ortalli 1989, pp. 47-49), propone anche un segmento ideale della necropoli, con le
305

306
Fig. 7. Modena, stele funeraria con
ritratti nel nuovo Lapidario dei Musei
Civici.

lapidi e i sepolcri che fiancheggiavano la via d’accesso alla città. Questo tragitto culmina con
la ricostruzione della tomba a cuspide di Rufus (Ortalli 1993, pp. 97-136).
Assai recente è la creazione a Modena della sezione del lapidario romano, nel contesto
dei Musei Civici, che accoglie 25 monumenti inscritti, provenienti da necropoli, ritrovati
nella seconda metà del secolo scorso. Essi ampliano la conoscenza dell’antica colonia romana
per un arco di tempo collocabile tra la metà del I secolo a.C. e i primi decenni di quello
successivo (Donati 2002, pp. 5-10). Questa realizzazione documenta efficacemente gli
esiti degli scavi archeologici condotti nel centro urbano; il contesto dei ritrovamenti propone
un utile confronto tra i nuovi criteri di allestimento e di esposizione delle iscrizioni e il
Lapidario Estense creato per volontà del duca Francesco IV già nel 1825.
L’excursus sintetico di questo intervento è teso ad evidenziare come le raccolte di iscrizioni
romane conservate in Emilia-Romagna, la loro esposizione e, soprattutto, la lettura di
queste alla luce di rinnovati approcci metodologici e di criteri espositivi ad essi ispirati, siano
di particolare pregnanza per la comprensione del mondo antico. Le epigrafi sono un segno
parlante della memoria culturale. Linea dopo linea impaginano la quotidianità e i grandi
eventi. Si propongono quale medium affidabile e concreto; filmato di lettere che si fa testimonianza
nel momento stesso in cui lo scalpello incide l’epidermide della pietra e si “traduce”
la memoria.
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Nemi (RM) - Il Museo delle Navi Romane
Giuseppina Ghini
Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Lazio - Roma
Enrico del Fiacco
Architetto
RIASSUNTO
Nell’intervento si illustrano brevemente il nuovo allestimento museale, inaugurato nel 2001, e le vicende
del Museo (il primo in Italia costruito in funzione del contenuto), che dal 1939 al 1944 ospitò le navi
dell’imperatore Caligola.
Nel 1944 il Museo e gli scafi vennero distrutti da un incendio; dopo diverse vicissitudini l’edificio è
stato riaperto nel 1988. Attualmente vi sono esposti i materiali sopravvissuti all’incendio, originali e copie
degli attrezzi di bordo e una ricostruzione, in scala naturale, dell’aposticcio di poppa della prima nave.
Una sezione è dedicata al territorio dei Colli Albani, dal periodo protostorico all’età romana, con particolare
riferimento al Santuario di Diana Nemorense, in corso di scavo da parte della Soprintendenza e
posto nelle vicinanze del museo. Un’area infine è riservata alle mostre ed attualmente ospita i materiali
del Santuario di Minerva a Lavinium (Pratica di Mare) e dell’area di Casarinaccio ad Ardea. Il Museo delle
Navi Romane di Nemi costituisce l’unico museo archeologico statale della provincia di Roma, al di fuori
di quelli urbani.
SUMMARY
The paper provides a brief illustration of the new museum arrangement that was inaugurated in 2001 and of
the vicissitudes of the museum (the first one ever built in Italy specifically in relation to its contents). Between
1939 and 1944, it hosted the ships belonging to emperor Caligola.
In 1944 the Museum and the ships were destroyed by fire. After various vicissitudes the building was reopened
in 1988. At present it features the objects that have been rescued from the fire, originals and copies of
the tools used on board and a natural scale reproduction of the stern portion of the first ship. A section of the
museum is devoted to the Colli Albani area, from the protohistorical period to the Roman age, with special reference
to the Shrine of Diana Nemorense, whose nearby excavation works are still under way under the supervision
of the Monuments and Fine Arts Office. Another museum section is devoted to exhibitions. At present
the artefacts coming from the Shrine of Minerva at Lavinium (Pratica di Mare) and from the area of Casarinaccio
in Ardea can be visited. The Museum of the Nemi Roman Ships is the only state archaeological museum
of the province of Rome, apart from those located in the city of Rome.
Il Museo delle Navi Romane, situato sulla riva settentrionale del lago di Nemi, venne realizzato
tra il 1933 e il 1939 su progetto dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo, per ospitare
due navi appartenute all’imperatore romano Caligola, recuperate nelle acque del lago
fra il 1929 e il 1931.
Le alterne vicissitudini subite dal Museo sono note a molti: la notte del 31 maggio 1944
un incendio doloso distrusse l’edificio e il suo contenuto e solo diversi anni dopo, nel 1953,
fu possibile riaprirlo, esponendo quel poco che si era salvato: i bronzi decorativi delle navi,

310 alcuni macchinari di bordo, in originale e in copia, il rivestimento della ruota di prua del
primo scafo, un’àncora originale, un’altra in copia, riproduzioni di iscrizioni e rilievi relativi
alla marineria antica e i due modelli delle navi in scala 1:5 1 .
Purtroppo ulteriori problemi strutturali motivarono nel 1963 una seconda chiusura del
Museo, che si protrasse fino al 1988, anno di riapertura, seppure parziale, dell’edificio. Da
allora la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio sta portando avanti un progetto
di valorizzazione del museo, sia incrementando l’esposizione, sia ricollegando l’edificio al
contesto storico e archeologico del lago, con particolare riferimento al vicino Santuario di
Diana, dove, dal 1989, sono stati avviati nuovi scavi e restauri 2 .
La legge n. 651 del 26 dicembre 1996 “Misure urgenti per il Grande Giubileo del 2000”
ha permesso, con un finanziamento seppure limitato, di condurre lavori di ristrutturazione
all’edificio e di garantirne una migliore fruibilità 3.
Ulteriori lavori, finanziati con fondi ordinari, sono tuttora in corso, sia per quanto riguarda
i problemi strutturali dell’edificio, sia per gli aspetti espositivi.
Il nuovo allestimento museale ha destinato l’invaso sinistro alle navi, quello destro al territorio.
Nell’ala dedicata alle navi sono esposti, oltre ai modelli degli scafi, attrezzature di
bordo in copia (una noria, una pompa a stantuffo, un’àncora in legno) e originali (un’àncora
in ferro a ceppo mobile, un bozzello, le condutture in piombo con il nome dell’imperatore
Caligola), le imposte lignee di una finestra, porzioni di mosaici e di sectilia, quattro
colonne in marmo portasanta, ceramica, laterizi, decorazioni fittili e monete.
Fig. 1. Nemi. Museo delle Navi Romane: un’immagine dopo l’incendio.

Di recente, grazie ad una sponsorizzazione dell’AgipPetroli, si è ricostruita una parte di
tetto rinvenuto a bordo della prima nave, rivestito con tegole di bronzo. Inoltre è stata realizzata
la copia in scala reale di una parte dell’aposticcio di poppa della prima nave, sulla
quale sono state rimontate le copie in bronzo delle protomi ferine e della Medusa, i cui originali
sono attualmente esposti al Museo di Palazzo Massimo a Roma 4 .
Pannelli didattici e materiali illustrano la storia delle navi, dai primi tentativi di recupero
nel Rinascimento, alla loro distruzione.
Nel nuovo allestimento museale, inoltre, è prevista la ricostruzione a grandezza naturale
della prima nave, che, una volta realizzata, troverà posto sulla riva del lago. Il progetto,
sponsorizzato dall’Associazione culturale ONLUS “Dianae Lacus”, verrà realizzato dai cantieri
Di Donato di Torre del Greco che, finora, hanno completato la prima fase relativa al
profilo dello scafo, attualmente visibile nell’area antistante l’edificio.
L’ala destra del Museo è invece riservata al territorio, con particolare riguardo al lago di
Nemi ed alle attività di scavo e restauro in corso da alcuni anni al Santuario di Diana.
Si è ritenuto opportuno contestualizzare il museo dedicando una sezione alle fasi protostoriche
del territorio, esponendo materiali provenienti non solo da Nemi, ma anche dall’area albana,
frutto di attività di ricerca e di scavi 5. Una sezione con intento didattico è dedicata all’industria
litica rinvenuta nel corso di ricognizioni condotte in collaborazione con l’Università di
Roma “Tor Vergata” nei territori di Lanuvio e Velletri: sono esposti raschiatoi, punte, lame del
Paleolitico superiore e alcune punte di frecce genericamente attribuibili al periodo neolitico 6 .
Fig. 2. Nemi. Museo delle Navi Romane: planimetria dell’interno.
311

312 Tra i siti dell’età del Bronzo esposti degni di nota un “castelliere” individuato sul Monte
Artemisio, nel Comune di Velletri (XII sec. a.C.) e un villaggio palafitticolo degli inizi della
media età del Bronzo (XVII-XVI sec. a.C.), individuato verso la metà degli anni ’80 del secolo
scorso nel Lago Albano e recentemente oggetto di indagini da parte della Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio. L’esposizione è stata improntata anche alla documentazione
del contesto ambientale, economico e delle tecnologie artigianali in uso nel villaggio 7 .
L’età del Ferro è rappresentata da due necropoli scavate dalla Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio tra il 1983 e il 1990 a Colonna 8 , da una deposizione femminile di
Ciampino della fase III B del Ferro laziale 9 e da una tomba principesca del periodo orientalizzante
(fine VIII sec. a.C.) rinvenuta nel territorio di Rocca di Papa 10 .
Il popolamento del territorio albano in età repubblicana e imperiale è documentato attraverso
la distribuzione degli insediamenti residenziali, di cui si espongono alcuni materiali
significativi relativi alla decorazione scultorea.
Dal punto di vista religioso, ai materiali provenienti dal Santuario di Diana a Nemi si
sono volute aggiungere testimonianze rinvenute sul territorio, tra cui un capitello con dedica
greca a Dioniso 11 , un’iscrizione sacra a Diana 12 e reperti provenienti da stipi votive e
luoghi di culto “minori”, di carattere agricolo e/o salutare, come la favissa di S. Clemente a
Velletri, che ha restituito oltre cinquemila reperti 13.
Un’area del museo è riservata a mostre e manifestazioni culturali e attualmente ospita la
mostra “Il tesoro ritrovato. Il senso del bello nella produzione artigianale del Lazio antico”;
vi sono esposti materiali di alta qualità artistica, provenienti dai recenti scavi condotti dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio ad Ardea, in località Casarinaccio e Fos-
Fig. 3. Nemi. Museo delle Navi Romane: l’invaso sinistro destinato all’esposizione delle navi.

so dell’Incastro14 e alcune statue fittili facenti parte della stipe votiva del Santuario orientale
di Minerva a Lavinium (Pratica di Mare) 15 .
I materiali di Ardea-Casarinaccio appartengono ad una favissa situata nei pressi della basilica
forense e di un tempio, databili fra il VI e il III secolo a.C. Particolarmente significative
due antefisse fittili femminili, databili l’una al V e l’altra al IV secolo a.C., kylikes attiche,
lekythoi italiote, piatti del tipo Genucilia, oltre a numerosa ceramica a vernice nera di
varie produzioni laziali (Gruppo del Fantasma, Gruppo delle petites éstampilles) e meridionali
(ceramica dello stile di Gnathia).
Di notevole effetto espositivo le statue del Santuario orientale di Minerva, scavate negli
anni ’60-’70 dello scorso secolo dall’Istituto di Topografia di Roma e dell’Italia Antica della
Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza”; motivi di deperibilità dei reperti hanno
imposto una cernita delle statue da esporre, che tuttavia, pur nella loro parzialità, permettono
di capire l’importanza di questo santuario, il cui ritrovamento costituisce uno degli
eventi scientifici più significativi per lo studio delle origini di Roma e del Lazio.
Sia il materiale di Ardea che quello di Lavinium rimarranno solo temporaneamente nel
Museo delle Navi Romane di Nemi, in attesa di una loro definitiva collocazione nei rispettivi
musei, appositamente realizzati.
È parso tuttavia opportuno utilizzare questo contenitore dalle notevoli capacità e valenze,
anche per le sue caratteristiche architettoniche, al fine di esporre al vasto pubblico materiali
di notevole interesse e valore, che da molti anni non erano fruibili.
Giuseppina Ghini
Fig. 4. Nemi. Museo delle Navi Romane: copia in scala reale dell’aposticcio di poppa della prima nave.
313

314 Il Museo delle Navi Romane, primo esempio contemporaneo di struttura dedicata al contenuto
da esporre, è stato realizzato, come già espresso nella prima parte di questo contributo,
nella seconda metà degli anni ’30, a seguito di un concorso nazionale vinto dall’Arch.
Vittorio Ballio Morpurgo. Il museo è stato concepito come darsena e ricovero per le due
grandi navi dell’Imperatore Caligola, riportate alla luce dal fondo del lago di Nemi verso la
fine del terzo decennio del secolo.
La qualità dell’edificio non può essere circoscritta alla semplice articolazione delle volumetrie;
l’architettura, imponente (oltre 8.000 metri quadrati di superficie utile per circa
100.000 metri cubi totali), è stata realizzata tramite simbologie sommesse e discrete, con rimandi
a tipi e costruzioni navali. Vittorio Ballio Morpurgo ci ha consegnato quello che resta
uno dei migliori contributi dell’architettura “industriale” e razionale italiana.
Le successive vicende del museo sono note: l’edificio ha subíto danni diretti e indiretti
non semplicemente rimandabili al solo e ben conosciuto “incendio delle navi del maggio
’44”; nel ’53 si è dato corso ad un primo restauro, che ha interessato le strutture e gli intonaci,
fortemente danneggiati dai cannoneggiamenti. Il secondo intervento degli anni ’60 si
è occupato tra l’altro delle tinteggiature esterne e – ahimè – di quelle interne, della sostituzione
degli infissi, ma soprattutto dell’incomprensibile tamponatura delle finestrature laterali
di piano terra e, infine, del nuovo manto di copertura.
Tali interventi, eseguiti in modo assai mediocre, hanno provocato pesanti ricadute sull’aspetto
e sulla congruità architettonica del complesso. La realizzazione delle nuove coper-
Fig. 5. Nemi. Museo delle Navi Romane: una veduta d’insieme dei materiali relativi alle navi.

ture – eseguite con sottofondi di cattiva qualità e manti di finitura dello stesso livello – ha
innescato problematiche di tenuta agli agenti atmosferici che hanno avuto come conseguenza
diretta il degrado pesante e diffuso di tutta la struttura. Infine, la gelività delle pavimentazioni
della passeggiata in copertura ed i cedimenti delle strutture in vetrocemento
hanno completato l’opera.
L’edificio, ormai mutato, non era più un ricovero per testimonianze irripetibili, ma un
capannone cupo e sciatto che ha innescato, nel tempo, sterili iniziative in coloro che hanno
tentato di restituirgli motivazioni.
I successivi progetti di riqualificazione museale si sono risolti in un rapporto avvilente
tra contenitore e contenuto, schiacciato, quest’ultimo, dal rapporto fuori scala con quel volume
“eccessivo” ed estraneo. Ogni metodo di approccio, pur colmo di buone volontà, sembrava
errato alla radice.
Era indispensabile restituire all’architettura le sue peculiarità, comprendendo che la
struttura attuale è solo apparentemente conforme all’idea di Vittorio Ballio Morpurgo e che,
operando in modo leggero e non intrusivo, un progetto di riqualificazione responsabile
avrebbe potuto ottenere dignità di accesso in un museo tornato ad esprimersi.
Il lungo e complesso lavoro della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio ha
permesso il recupero, il restauro e la conservazione di numerosi reperti di grande valenza,
riguardanti sia le navi di Caligola, sia il vicino Santuario di Diana Nemorense, sia infine il
percorso della transumanza dai colli Albani verso il mare. Questo prezioso materiale ha co-
Fig. 6. Nemi. Museo delle Navi Romane: l’allestimento dell’ala destra.
315

316 stituito la base sulla quale impostare il contenuto del nuovo allestimento e gli obiettivi della
riqualificazione museale.
La cifra distributiva dell’edificio rimane evidentemente uguale a se stessa, chiaramente
impostata su due grandi invasi, paralleli e collegati tra loro da un’area centrale, con un piano
superiore a ballatoio che costituiva, nelle intenzioni di Vittorio Ballio Morpurgo, il punto
di vista privilegiato verso le grandi navi esposte al piano terreno. La copertura è articolata
su due doppie falde con passeggiata panoramica in sommità, unite da un’area centrale di
arrivo, coperta da due grandi pensiline.
Il risanamento strutturale ha previsto la ricostruzione di tutti i manti di copertura, maggiore
causa di degrado di tutto il complesso, la revisione delle facciate e il consolidamento
di vaste porzioni dei prospetti il cui cedimento è stato causato dall’abbassamento della falda
sottostante.
Il restauro architettonico interessa la sostituzione degli infissi esterni, la riapertura delle
finestrature al piano terreno, il ricondizionamento del magazzino archeologico interno, il
restauro delle belle scale di accesso ai piani superiori, l’installazione di un ascensore elevatore,
i nuovi servizi igienici, l’area di accoglienza, vaste opere di pittura interna ed esterna.
Particolare cura si è data alla riqualificazione impiantistica ed in particolare all’impianto
di illuminazione, il cui apporto è fondamentale per una corretta individuazione e valorizzazione
delle aree espositive.
Il progetto del nuovo allestimento, elaborato in accordo con la Dottoressa Giuseppina
Ghini, Direttore del Museo e Archeologo competente per territorio, è partito dall’esame
dello stato di fatto, evidenziando le linee guida da seguire:
– Recuperare e riallestire il materiale superstite relativo alle navi di Caligola.
Fig. 7. Nemi. Museo delle Navi Romane: l’edificio museale ripreso dall’alto.

– Dedicare una porzione consistente dell’area espositiva al vicino santuario di Diana Nemorense.
– Completare la liberazione della strada romana interna al museo.
– Riservare un settore del museo a mostre e manifestazioni temporanee.
– Restaurare e riqualificare l’area di copertura.
Le testimonianze ed i reperti riguardanti le navi occupano l’invaso sinistro, area che ospita
dal febbraio 2001 una bella riproduzione in scala 1:1 di parte dell’aposticcio di poppa
della prima nave.
L’imponente struttura, collocata nel luogo esatto in cui era posizionato l’originale, è corredata
di alcune copie bronzee delle protomi installate sulla prima nave. Si sta studiando la
possibilità di reiterare l’iniziativa e di proporre la copia di parte della prua, sulla quale montare
la grande ruota bronzea già a patrimonio.
Sono in corso di realizzazione supporti e materiali di appoggio sia per i reperti già presenti,
sia per i materiali di nuova acquisizione. È prevista inoltre, per tutta l’area museale,
una vasta opera di documentazione grafica e iconografica, al fine di accentuare il taglio didattico
che si desidera impostare per il nuovo allestimento. Un nuovo impianto di illuminazione,
appositamente progettato, valorizzerà, sulla falsariga di quanto già eseguito sull’invaso
destro, la natura e qualità dei reperti.
Il materiale proveniente dal vicino santuario di Diana Nemorense, attualmente oggetto di
campagne di scavo, verrà ospitato nell’invaso destro, concretizzando anni di studio sul monumento.
L’allestimento sarà attuato anche tramite la realizzazione di complesse anastilosi di
un portico e la costruzione di plastici del sito e del territorio di competenza. Nell’area si prevede
anche la sistemazione di materiali e reperti provenienti da altri santuari latini.
Fig. 8. Nemi. Museo delle Navi Romane: il fronte esterno dell’edificio.
317

318 La strada romana di accesso al santuario, che giaceva al di sotto del museo ed era stata
protetta nella sua integrità da Vittorio Ballio Morpurgo, è già stata liberata nella porzione
relativa all’invaso destro. Si intende completare l’opera liberando il tratto omologo sull’invaso
sinistro, allo scopo di sottolineare lo stretto collegamento storico e archeologico tra santuario,
lago, navi e museo.
Come già detto, la vastità della struttura ha permesso di dedicare una sua ampia porzione
a mostre e manifestazioni temporanee, riguardanti preferibilmente il territorio, che le
Comunità Locali avranno a disposizione per portare avanti ogni iniziativa culturale di loro
pertinenza.
È intenzione comune, infine, restaurare e riqualificare la vasta e bellissima area di copertura,
per gran parte praticabile, al fine di renderla disponibile per ogni iniziativa comune,
non esclusa la realizzazione di un punto di ristoro. Tutto ciò, unitamente ad altre opere
urgenti di adeguamento normativo e di completamento, renderà il museo pienamente partecipe
di un territorio ricchissimo di ogni tipo di testimonianza.
La cronica scarsità di finanziamenti di cui soffre la Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Lazio ha fortemente ostacolato, finora, il lavoro e le iniziative degli addetti. È necessaria
una presa di coscienza collettiva per restituire al Museo delle Navi Romane un ruolo
centrale nella cultura del territorio laziale.
Enrico Del Fiacco
Il presente contributo è una rielaborazione, ampliata, del poster presentato in occasione del Convegno
“Archeologia del Museo”; pertanto non ha un carattere esaustivo sull’argomento, per il quale si
rimanda ai testi citati alla nota 1.
1 Sulle navi di Caligola e sul Museo
delle Navi Romane di Nemi
esiste un’ampia ed esauriente bibliografia;
si rimanda a quella essenziale,
comprensiva anche della
precedente: G. Ucelli 1950 (ried.
1983), Le navi di Nemi, Roma; G.
Moretti, C. Caprino, Il Museo delle
Navi Romane di Nemi, Roma
1957; G. Ghini 1992, Museo Navi
Romane - Santuario di Diana, Roma;
G. Ghini, S. Gizzi 1996, Il Lago
di Nemi e il suo Museo, Roma; G.
Ghini, P. Vigilante 2001, Nemi,
Museo delle Navi Romane, l’intervento
di valorizzazione museale, in
F. Filippi (a cura di), “Archeologia e
Giubileo”, I, Napoli, pp. 103-107.
2 Sulle recenti indagini al santuario
di Diana Nemorense si veda, da ul-
timo, J.R. Brandt, A.-M. Leander
Touati, J. Zahle (a cura di) 2000,
Nemi - Status quo, Roma.
3 Sui recenti lavori del Giubileo si
veda: G. Ghini, P. Vigilante, L’intervento
di valorizzazione museale, in
F. Filippi (a cura di) 2001, Archeologia
e Giubileo, Roma, pp. 103-107.
4 La ricostruzione dell’aposticcio è
stata realizzata dai Cantieri Di Donato
di Torre del Greco, su disegni
e studi ricostruttivi di Marco Bonino;
le copie bronzee sono opera di
Giuseppe Pulitani.
5 La sezione pre e protostorica è
stata curata da Annalisa Zarattini
per il villaggio del Lago Albano, da
Micaela Angle per il Castelliere del
Monte Artemisio e la tomba di Lariano,
da Emanuele Nicosia per la
tomba di Ciampino, da Giuseppina
Ghini per la necropoli di Colonna.
6 La sezione litica è stata allestita
da Mario Rolfo, ricercatore di Paletnologia
presso l’Università Roma
II di Tor Vergata.
7 L’abitato, noto come “Villaggio
delle Macine”, fu individuato nel
1984 da Angelo Capri, successivamente
indagato da Pino Chiarucci
in diverse campagne di scavo ed è in
parte esposto nel Museo Civico di
Albano Laziale. Si veda: G. Chiarucci
1995-1996, Il villaggio delle macine
sommerso nelle acque del Lago Albano,
in “Bollettino di Archeologia
subacquea”, a. II-III, nn. 1-2, pp.
175-183; M. Angle, L. Cattani, A.
Molinaro, A.M. Palmieri, A. Tagliacozzo,
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Macine e gli inizi della media età del
Bronzo nel Latium Vetus, in Atti del
Convegno di Preistoria e Protostoria,
Farnese 2000, in corso di stampa.
8 G. Ghini, A. Guidi 1984, Colonna:
nuove acquisizioni per l’età del
Ferro, in “Quaderni dell’Istituto di
archeologia etrusco-italica, Archeologia
Laziale”, 8, VI, pp. 63-75.
9 E. Nicosia 2000, Insediamento e
tomba protostorica - Via L. Romana,
in S. Aglietti, D. Rose, Guida al patrimonio
archeologico del Comune di
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10 F. Arietti, B. Martellotta 1998,
La Tomba principesca del Vivaro di
Rocca di Papa, Roma.
11 G. Ghini 1994-95, Una dedica
votiva a Dioniso dal territorio lanuvino,
in “Documenta Albana”, II
serie, nn. 16-17, pp. 71-82.
12 M.G. Granino Cecere 1991, Inscriptiones
Latinae Liberae Rei Publicae,
Epigrafia, Actes du Colloque
en memoire de A. Degrassi, 27-28
mai 1988, Roma, pp. 361-362.
13 M. Angle, G. Ghini 1999, La stipe
votiva di S. Clemente a Velletri,
Museo Studi e Ricerche, 2, La Pallade
di Velletri: il mito, la fortuna,
Roma, pp. 109-122.
14 AA.VV. 2000, Il tesoro ritrovato,
cat., Roma.
15 AA.VV. 1981, Enea nel Lazio,
Roma, p. 157 ss.; le statue attualmente
esposte a Nemi sono state
presentate nella mostra “Roma -
Romolo, Remo e la fondazione
della città”, tenutasi al Museo Nazionale
Romano dal 28 giugno
2000 al 7 gennaio 2001 (cat., Roma
2000, pp. 200-205).
319

Sperlonga. Un museo per l’“Odissea di marmo”
Nicoletta Cassieri
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio - Roma
RIASSUNTO
Nel 1957 il ritrovamento dei monumentali resti scultorei di soggetto omerico nell’area della villa di Tiberio,
non solo rese celebre Sperlonga, ma dette anche luogo ad una delle prime e più decise mobilitazioni
popolari contro indebite ipotesi di trasferimento dei reperti a Roma, inducendo le Autorità a decidere
la costruzione di un Museo Archeologico Nazionale, il primo nella provincia di Latina.
La struttura fu concepita in stretta connessione con i pezzi rinvenuti, senza soverchie preoccupazioni
per eventuali ampliamenti derivanti da ulteriori acquisizioni. Allo stesso modo, la concezione degli spazi
fu condizionata dalle conoscenze all’epoca raggiunte in merito al lavoro di ricomposizione delle migliaia
di frammenti restituiti dagli scavi.
La disposizione dei locali, su livelli differenziati, lo sfondo movimentato delle tappezzerie, gli effetti di
luce manifestarono, con il progredire delle scoperte, la loro inadeguatezza, sicché l’attuale sistemazione è
frutto di posteriori, settoriali interventi riguardanti tanto l’edificio quanto la presentazione dei materiali.
Al momento la collezione è distribuita nei vari ambienti (alcuni dei quali creati ex novo) secondo un
allestimento che non può ancora considerarsi definitivo e che tuttavia tende a conferire alla sede quei caratteri
di funzionalità e di organicità che il pregio della raccolta richiede, con particolare riguardo all’aspetto
della presentazione didattico-informativa delle opere.
SUMMARY
In 1957 monumental sculptures inspired from Homeric subjects were unearthed in the area surrounding the
Tiberius villa. This archaeological discovery did not only bring Sperlonga to the limelight, but it also led to one
of the most lively people’s demonstrations against allegations concerning the transfer of these archaeological finds
to Rome. Hence, Authorities decided to build an ad hoc National Archaeological Museum, which became the
first of this kind in the province of Latina.
The Museum was conceived taking full account of the artefacts that had been unearthed, yet without worrying
too much for any further expansion deriving from additional future acquisitions. The space design was
equally affected by the degree of knowledge achieved at that time concerning the re-composition of thousands of
fragments that had been unearthed during the excavations.
The layout of the premises, at different floors, the use of fancy tapestries as background, the light effects proved
to be ineffective as additional artefacts were brought to light. Hence, the present layout results from a whole set of
sectorial remedial actions concerning both the building infrastructure and the presentation of artefacts.
The collections are now distributed and arranged throughout the various halls (including a few newly built
ones) according to a still temporary layout, which nevertheless proves to be functional and effective, thus providing
a pleasant and systematic presentation of the collection as a whole, with a special focus on the educational
and information aspects of the works.
Le vicende della sua istituzione e la tipologia particolare della raccolta, caratterizzata dalla
unitarietà della provenienza, rendono il Museo Nazionale di Sperlonga una realtà atipica nel
quadro degli istituti museali della regione.

Come a molti è noto, fu realizzato agli inizi degli anni Sessanta in seguito ai rinvenimenti
archeologici avvenuti in una grande caverna che si apre sul mare, durante i lavori di
costruzione della strada litoranea Flacca che collega Terracina a Gaeta. Nel settembre del
1957, l’esecuzione di alcune indagini di scavo all’interno dell’antro, allora interrato per due
terzi e ridotto a ricovero per barche, comportò nel giro di pochi giorni l’affioramento di una
grande vasca circolare costipata da migliaia di frammenti marmorei (fig. 1).
La monumentalità delle sculture, la presenza di avvolgimenti di mostri anguiformi, il
violento dinamismo delle figure e il recupero di un’iscrizione greca con la “firma” di Agesandros,
Athanodoros e Polydoros, artisti rodii menzionati da Plinio (Naturalis Historia
XXXVI, 37) come autori del grandioso Laocoonte ritrovato nel 1506 sull’Esquilino, indussero
il Soprintendente Giulio Iacopi a ritenere che ci si trovasse dinanzi all’originale del celebre
gruppo conservato ai Musei Vaticani.
La scoperta ebbe enorme risonanza: non vi fu giornale, anche straniero, che non dette notizia
dell’eccezionale ritrovamento. Già alla fine di ottobre, tuttavia, alcuni studiosi avanzarono
dubbi sulla fondatezza dell’identificazione e prospettarono l’ipotesi che i frammenti appartenessero
a uno o più gruppi marmorei raffiguranti episodi della saga di Ulisse, anticipando
in tal modo una delle tante questioni archeologiche suscitate dalle sculture sperlongane.
Il rinvenimento di un testo in esametri latini composto da un certo Faustinus Felix, contenente
una descrizione delle opere d’arte da lui ammirate nel sito, costituì un elementochiave
per la comprensione della miriade di frammenti. Ben presto furono identificate le altre
composizioni plastiche che dovevano aver decorato la Grotta: il cosiddetto “Pasquino”,
il ratto del Palladio e l’assalto di Scilla alla nave di Ulisse.
Fig. 1. Sperlonga. La Grotta di Tiberio.
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Fig. 2. 1957. Abitanti di Sperlonga
alla Grotta.
Le condizioni di minuta frantumazione dei reperti rendevano indispensabile un accurato
lavoro di studio e catalogazione. La decisione di trasportarli a Roma perché fossero restaurati
sotto il controllo della Soprintendenza e con l’aiuto di tecnici specializzati, incontrò la
ferma opposizione degli abitanti di Sperlonga che, timorosi di essere espropriati del loro “tesoro”,
dettero luogo a un’inaspettata e decisa mobilitazione di massa (fig. 2).
Quando il 27 settembre una parte dei materiali era già stata caricata su camion, la popolazione
si riversò intorno all’automezzo costringendo i “pirati di Roma” a interrompere la
loro “incursione”. A nulla valsero le precisazioni del Soprintendente sull’incertezza dell’identificazione
dei frammenti col famoso Laocoonte e le spiegazioni sulla necessità di sottoporre
le sculture a indifferibili interventi per la loro conservazione.
L’energico atteggiamento degli sperlongani, che di notte scavarono dei fossati dinanzi
alla Grotta impedendo anche il giorno dopo il trasferimento, indusse le Autorità ad avviare
il progetto di costruzione di un Museo, il primo statale nella provincia di Latina e
uno dei pochi nel territorio di competenza dell’allora Soprintendenza alle Antichità di Roma
I. Si può anzi osservare che, per diversi decenni, quello in esame rimase, pur con tutti
i limiti, l’unico istituto del Lazio meridionale con i requisiti propri di un museo: gli al-

tri che col tempo vi sorsero (Formia, Cassino ecc.), ebbero piuttosto le caratteristiche di
“antiquaria”, creati allo scopo primario di radunare e conservare i reperti via via restituiti
dal sottosuolo che, mutato ormai l’assetto distributivo territoriale delle Soprintendenze,
ancora fino alla guerra erano solitamente fatti confluire nelle grandi raccolte di Roma
e di Napoli.
Questa decisione contribuì a radicare quella spinta al decentramento che da allora determinò,
anche nel territorio a sud di Roma, il moltiplicarsi di realtà museali, realizzate exnovo
o opportunamente potenziate, nell’opinione sempre più condivisa che i reperti dovessero
rimanere nel contesto che li aveva prodotti (fig. 3).
Con l’onere della Cassa per il Mezzogiorno e, in parte limitata, del Ministero della Pubblica
Istruzione il museo sperlongano, progettato da Giorgio Zama, fu inaugurato nel 1963,
in tempi sorprendentemente brevi. I lavori, oltre che dalla Soprintendenza, erano stati diretti
da Giuseppe Zander.
Come già accennato, l’aspetto caratterizzante è dato dall’unitarietà della raccolta dal momento
che i reperti appartengono tutti a un grande complesso residenziale comunemente
identificato con la villa d’otium posseduta, secondo le fonti storiografiche, da Tiberio nel
golfo di Amyclae, presso Terracina e denominata “spelunca” da una grande caverna che vi era
inclusa. Del vasto complesso, costituito da molteplici corpi di fabbrica organizzati su terrazze,
è stata finora riportata in luce una minima parte comprendente un quartiere presumibilmente
di destinazione servile e la zona dei triclini estivi più prossima al mare (fig. 4).
Nucleo originario dell’impianto è da ritenere una delle tante dimore sorte sul litorale in età
tardo-repubblicana, forse ricevuta in eredità dall’imperatore da un avo materno originario
Fig. 3. Museo di Sperlonga: lato orientale.
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Fig. 4. Sperlonga. Area scavi: il cortile rettangolare.
della vicina Fondi che, nella prima età imperiale, subì un radicale intervento di ristrutturazione
e ampliamento. In questa circostanza l’Antro fu inquadrato da un monumentale prospetto
architettonico e interessato dalla creazione di un articolato sistema di vasche intercomunicanti
di varia forma in cui si deve riconoscere uno di quei costosi e raffinati impianti
per l’itticoltura (vivaria, piscinae) cari al patriziato romano.
Attraverso la profusione di marmi, mosaici e stucchi, l’abside interna divenne una quinta
scenografica degna di accogliere alcuni monumentali gruppi scultorei di soggetto omerico
che componevano una inusitata Odissea di marmo. È presumibile che proprio in questa
spelonca si sia verificato nel 26 d.C. il distacco di alcuni massi dalla roccia che, secondo Tacito
e Svetonio, rischiarono di uccidere anche l’imperatore che stava banchettando.
La residenza, arricchita di ulteriori opere d’arte, fu utilizzata ininterrottamente fino all’epoca
tardo-antica, anche se nulla sappiamo dei successivi proprietari.
Dopo un lungo e difficoltoso restauro sono oggi riconoscibili quattro composizioni scultoree
principali raffiguranti le imprese di Ulisse e le peregrinazioni del nostos, la cui dislocazione
può essere ritenuta abbastanza certa dopo le vivaci polemiche di ordine esegetico e
cronologico che hanno animato la comunità scientifica internazionale: l’assalto del mostro
Scilla alla nave di Ulisse al centro del bacino circolare; quindi il “Pasquino”, recentemente
identificato con Ulisse che trasporta il cadavere di Achille, e il ratto del Palladio da parte di
Ulisse e Diomede, posti rispettivamente sull’appendice di sinistra e di destra che separano
la piscina circolare dall’antistante bacino quadrangolare. Sul fondo dell’Antro, stava l’accecamento
di Polifemo compiuto da Ulisse e dai suoi compagni, in un primo momento riconosciuto
come Laocoonte.

Fig. 5. Il progetto di realizzazione del Museo.
Inserito in un’area di altissimo valore paesaggistico, l’edificio museale fu concepito a
pianta romboidale frastagliata con una corte centrale scoperta a forma di esagono e con ambienti
(sostanzialmente tre confluenti in uno solo) disposti su livelli differenziati raccordati
da brevi rampe di scale che assecondavano la morfologia del terreno: limitatamente all’ala
meridionale, esso si sviluppava su doppia altezza per rispondere alle esigenze poste dalla
grandiosità di alcune opere, in particolare dalla ricomposizione del presunto Laocoonte
(fig. 5). Nonostante ormai fossero stati sollevati grossi dubbi su tale identificazione, infatti,
lo Iacopi non intese rinunciare a trasferire nel Museo la sua personale interpretazione dei resti
e la conclusione delle proprie ricerche.
La struttura venne dunque immaginata in stretta connessione con le acquisizioni allora
raggiunte senza eccessive preoccupazioni per un futuro incremento della collezione derivante
da ulteriori indagini.
Secondo una tradizione espositiva di stampo settecentesco, i reperti vennero distribuiti
nel nuovo edificio dando il maggior risalto possibile ai capolavori della Grotta. Per il resto
valse ancora una volta il tradizionale criterio selettivo basato sulla scelta di singoli oggetti di
particolare pregio estetico.
Nella sala A perciò trovarono posto il “Pasquino”, insieme ad esemplari della statuaria
“ellenistico-romana” (erme di Dioniso e di Enea, teste ritratto, una figura di giovinetta panneggiata,
alcuni putti variamente atteggiati). La sala B ospitò invece il gruppo di Scilla ricomposto
con un incredibile sviluppo orizzontale costituito dalla nave di Ulisse dalla quale
sta per cadere in mare il nocchiero e da un incoerente viluppo di busti, arti e protomi canine
(fig. 6). Lo Iacopi in un primo momento aveva ritenuto, infatti, che la Scilla e l’imbar-
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Fig. 6. La sala B nell’allestimento iniziale.
cazione appartenessero a due distinti gruppi marmorei: l’uno esposto all’interno della Grotta
e l’altro al margine di essa su una roccia sagomata a chiglia di nave. Nel medesimo ambiente,
figurava inoltre la testa di Ulisse col Palladio.
Nella sala C era esposta una figura di colosso in posizione dinamica di lotta con un fantastico
mostro anguiforme fiancheggiato da figure minori in cui il Soprintendente ravvisava
la versione originaria del mito di Laocoonte (fig. 7).
Infine, nel cortile-giardino venne collocato il Ganimede rapito dall’aquila in marmi policromi
che originariamente era posto a coronamento dell’apertura dell’Antro e, nella veranda
vetrata che gli corre intorno, “oggetti minori” in marmo e in ceramica (oscilla marmorei,
una testa elmata di Atena, due vasi attici).
Uno spazio ridotto fu riservato al vasellame fittile e alle lucerne di epoca imperiale con
raffigurazioni cristiane che, col tempo, finirono mescolati ad altri materiali eterogenei in
due grandi teche di vetro in cui il visitatore faceva fatica a orientarsi. Nessun interesse invece
per quei reperti che, recuperati dagli scavi, potevano giovare a illustrare l’organizzazione
architettonica e ornamentale della villa.
Lo sfondo movimentato delle tappezzerie, gli effetti di luce, le ampie vetrate aperte sul
paesaggio circostante, l’articolazione degli spazi ariosi del Museo sperlongano costituirono
elementi per un certo verso innovativi nella concezione museografica del tempo. Con gli anni,
tuttavia, proprio gli elementi caratterizzanti del progetto uniti alla scarsa duttilità degli
spazi, fortemente configurati in termini architettonici e chiusi in una irregolare forma geometrica,
manifestarono la loro inadeguatezza sotto l’aspetto manutentivo ed espositivo, sic-

Fig. 7. La sala C nell’allestimento
iniziale: dettaglio del presunto Laocoonte.
ché l’attuale sistemazione è frutto di successivi e settoriali interventi riguardanti tanto l’edificio
che la presentazione dei materiali.
Soprattutto l’acquisizione di nuovi dati derivanti dal lavoro di riassemblaggio degli innumerevoli
frammenti marmorei, di pari passo con l’evolversi del dibattito scientifico, determinò
ben presto sostanziali modifiche nella presentazione delle opere, senza tuttavia risolvere
un diffuso senso di disorganicità e di difficoltosa fruizione.
A partire dalla metà degli anni Novanta, con successivi limitati finanziamenti del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, gli sforzi si sono concentrati tanto sull’adeguamento
della struttura secondo le vigenti normative (misure di prevenzione e sicurezza, mitigazione
delle barriere architettoniche) e sul miglioramento degli aspetti funzionali (servizi, uffici,
impianti di climatizzazione ecc.), quanto su un riordino della raccolta con l’obiettivo di restituire
pari dignità ai reperti secondo un progetto generale che ne ribalta la primitiva impostazione
gerarchica e, nel contempo, mira a renderne più agevole l’apprezzamento.
Pur con i vincoli spazio-funzionali imposti dalla costruzione esistente, si è riservato l’ambulacro
superiore ai materiali finora restituiti dagli ambienti aperti e chiusi della villa e le
sale del pianterreno alla decorazione della Grotta e delle sue adiacenze, mantenendo fermo
il carattere di specificità del Museo di Sperlonga: quello di essere il museo del complesso residenziale
“ad speluncas”.
Per quanto riguarda le sculture di soggetto epico, oggi una prima sala risulta interamente
dedicata all’episodio dell’accecamento di Polifemo dove giganteggia un calco ricostruttivo
dell’episodio odissiaco eseguito negli anni Settanta (fig. 8), un altro ambiente (l’ex chio-
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Fig. 8. Attuale Sala del Polifemo: calco ricostruttivo del Gruppo dell’accecamento.
Fig. 9. La sala B (ex chiostrina) nell’allestimento attuale.

strina in seguito coperta e da poco ulteriormente sistemata) ospita l’assalto della nave da
parte di Scilla (fig. 9); infine in una terza sala trovano posto gli altri due gruppi (il ratto del
Palladio e il “Pasquino”) nonché il Ganimede (fig. 10). Nell’atrio, ai lati della scala principale,
due erme marmoree, l’una di Dioniso e l’altra del presunto Enea, sono poste a segnare
l’inizio dell’itinerario di visita nel pieno recupero della funzione originaria, visto che questo
tipo di monumento veniva collocato lungo le strade, davanti alle porte e ovunque vi fosse
un confine da marcare.
La realizzazione di nuovi corpi espositivi romboidali che, inserendosi nel ballatoio ne frazionano
ulteriormente lo spazio offrendo l’opportunità di un duplice percorso di visita
(fig. 11), ha consentito di organizzare i materiali secondo criteri distributivi di carattere tematico
che illustrano due aspetti principali con relative sottoclassi: quello tecnico-costruttivo
(inclusi gli elementi architettonici, i bolli laterizi, i rivestimenti parietali e pavimentali) e
quello dell’arredo interno, comprensivo delle suppellettili di pregio e dell’instrumentum domesticum,
ossia gli oggetti di uso quotidiano, spesso nella loro evoluzione tipologica e cronologica
dalla tarda repubblica all’età post-antica. In quest’ultimo gruppo rientrano, per
esempio, i vasi di ceramica attica a figure rosse con scene del mito che, assai più antichi della
residenza, documentano il gusto per il collezionismo di uno dei proprietari.
Nelle grandi nicchie di raccordo tra le vetrine ha trovato espressione il tema del paesaggio
e del giardino, che tanta rilevanza ebbe nella cultura romana, qui documentato da diversi elementi
riferibili al suo apparato ornamentale tra i quali di particolare interesse risultano una
statua di Andromeda, rinvenuta in prossimità della Grotta agli inizi del Novecento, forse in
origine legata alle rocce del promontorio, e una flessuosa fanciulla panneggiata, ispirata a un
tipo di età ellenistica, in cui si è proposto di riconoscere Circe grazie al ritrovamento di tre
porcellini marmorei: entrambe dovevano costituire i soggetti di composizioni scultoree al
centro di suggestive ambientazioni scenografiche di cui la villa era particolarmente ricca.
Maggiori difficoltà distributive presentano invece i numerosi reperti marmorei restituiti
dal mare o dagli scavi – in genere copie o rielaborazioni del I secolo d.C. di archetipi del periodo
classico ed ellenistico, anche se non mancano creazioni di gusto eclettico o di impronta
arcaizzante – alcuni di chiaro intento celebrativo, molti altri prettamente decorativi.
Superata l’artificiosa distinzione tra scultura “ellenistico-romana” e “plastica minore”, sono
stati riuniti secondo il tema (immagini di divinità, teste e busti forse appartenenti a un’antica
galleria di ritratti, ecc.) o la funzione (celebrativa, ornamentale ecc.) anche se, in molti
casi, la mancanza di dati sull’originario ambito di provenienza rende difficoltoso il loro corretto
inserimento nel percorso di visita.
Preliminare alla nuova impostazione espositiva è stato un lavoro sistematico di ricognizione
e di schedatura dei materiali stipati nei tre depositi del Museo spesso ancora nelle condizioni
in cui furono cavati dal terreno: da essi sono stati enucleati i campioni più rappresentativi
per le singole classi, funzionali all’illustrazione degli aspetti affrontati, che sono stati
sottoposti a successivi interventi di pulitura e restauro. Dunque, uno scavo nello scavo.
All’arricchimento dell’esposizione, anche mediante l’uso di calchi di alcuni originali perduti,
è corrisposta in tempi recenti la realizzazione per il settore dell’ambulacro di un nuovo
apparato didattico-esplicativo, ancora di tipo tradizionale.
Alla storia delle scoperte e del Museo attraverso pannelli, disegni e materiale audiovisivo
(quali un video che si avvale di filmati d’epoca dell’Istituto Luce), ma anche agli sconsi-
329

330
Fig. 10. Attuale Sala di Ganimede.
Fig. 11. Il ballatoio nella sistemazione attuale.

derati progetti di espansione edilizia nella zona all’indomani dei ritrovamenti, oltre che a
mostre non solo archeologiche o all’approfondimento di temi specifici come la navigazione
e i commerci nell’antichità, è destinato un ambiente (“sala didattica”) ricavato dall’originaria
aula del Laocoonte, il cui allestimento è in fase di ultimazione.
Nonostante l’impegno profuso, i problemi del sito sono ancora molti. Attivato finalmente
un book-shop sia pure in forme essenziali, rimangono da affrontare il restauro di ampi
settori della villa, la conclusione dell’arredo espositivo e la risoluzione di annose lacune
strutturali, la creazione di un sistema informativo per l’area scavi, il completamento degli
espropri dei terreni contigui sia per il prosieguo delle indagini, sia per la creazione di un parcheggio.
C’è da aggiungere che l’iniziale spinta emotiva degli sperlongani verso le testimonianze
storiche fortunosamente ritrovate era andata presto esaurendosi: già a pochi anni dalla costruzione
del museo si era creata un’accentuata frattura tra realtà museale e comunità locale.
È pur vero che presto era iniziata una nuova fase socio-economica, che non aveva risparmiato
nemmeno il piccolo borgo, avviato a diventare una delle mete turistiche più ambite
ed esclusive della regione: progressivamente anche il museo era andato perdendo gran
parte della notorietà, frequentato soprattutto da studiosi in larga misura stranieri.
Negli ultimi anni, lo sforzo è stato da una parte di ricostituire un tessuto connettivo tra
museo e contesto cittadino di riferimento allo scopo di sensibilizzare e stimolare la comunità
a comprendere il valore dell’istituzione, dall’altra a riproporlo presso il grande pubblico
anche con formule inedite.
Per favorire questo processo di riconquista è stata avviata pertanto una serie di iniziative
a cominciare dalle esposizioni, anche di arte contemporanea, ai convegni spesso internazionali,
ai concerti e alle aperture serali, che gli hanno restituito un ruolo epicentrico nel quadro
delle iniziative culturali del comprensorio provinciale. Proprio ai fini di una maggiore
incisività dell’attività scientifica e divulgativa, risulta auspicabile poter procedere a una organica
programmazione degli eventi ancora affidati a una eccessiva episodicità e, soprattutto,
sarebbe indispensabile poter destinare delle risorse anche limitate alla comunicazione,
che non sempre le disponibilità finanziarie rendono possibile.
Oggi il complesso di Sperlonga, con i suoi oltre quarantamila visitatori l’anno in continua
crescita concentrati soprattutto tra la primavera e il primo autunno, si è ritagliato una
fisionomia precisa nel panorama dei musei statali di medie dimensioni. Soprattutto, il Museo
odierno, spazio della storia e della memoria, non costituisce più un’entità separata dal
corpo della città, ma un luogo di informazione e formazione in dinamico rapporto con il
presente e il mondo lavorativo del futuro.
Prossimo obiettivo è dunque quello di conferire all’Istituto quel livello organizzativo e
funzionale, che la sua natura intrinseca richiede, soddisfacendo da un lato i bisogni di un
pubblico sempre più esigente e differenziato, attraverso l’attivazione di servizi didattici e di
assistenza oramai ineludibili, e dall’altro assicurando la conservazione e la valorizzazione delle
testimonianze del passato che i compiti istituzionali della Soprintendenza impongono.
331

Il Museo oraziano di Licenza:
una testimonianza museale dei primi del ’900
“sospesa” tra passato e futuro
Bruna Amendolea *
Provincia di Roma - Servizio Tutela e valorizzazione
dei Beni Culturali - U.O. Beni Archeologici
RIASSUNTO
Il Museo oraziano di Licenza nasce per volontà di Angiolo Pasqui allo scopo di ospitare le testimonianze
venute in luce durante gli scavi nella villa di Mecenate, poi passata in proprietà del poeta Orazio,
effettuati fra il 1911 e il 1915.
Allocato in una piccola sala del Palazzo baronale Orsini Borghese, esso costituisce una interessante testimonianza
del fervore museografico che a partire dall’Unità d’Italia e nei primi decenni del nuovo secolo
contraddistingue diverse regioni del Regno in concomitanza con l’esecuzione di numerosi scavi archeologi
e ricerche topografiche, i cui esiti trovavano appunto spesso ospitalità presso depositi comunali.
La piccola raccolta, esposta con criteri tipologico-didattici secondo metodi tipici del periodo postunitario,
trovava una perfetta ambientazione anche attraverso la ricreazione di una “atmosfera” antica suggerita
dal tono cromatico azzurro delle pareti e dall’uso di finti capitelli in gesso su ispirazione dei motivi
ornamentali della plastica fittile romana. Anche l’uso di calchi in gesso, oggi di grande interesse perché
riproducenti originali perduti o non facilmente accessibili provenienti dallo stesso ambito territoriale, doveva
sottolineare un costante richiamo a quel passato che gli oggetti documentavano.
Oggi l’ambiente che ospitava il museo, insieme ad altri vani attigui, è stato destinato ad accogliere la
mostra illustrativa “In Sabinis. Architettura e arredi della villa di Orazio”, curata dalla Soprintendenza Archeologica
per il Lazio in occasione delle celebrazioni per il Bimillenario oraziano.
SUMMARY
The Museo oraziano of Licenza, prepared, in the Palace Baronale Orsini-Borghese, by Prof. Angiolo Pasqui,
Director of The Excavations of Rome and some Ancient Latium, to preserve the objects found in the excavation
of the near villa of the poet Horace, in the years between 1911 and 1915, constitutes a museale precious and
rare testimony of the first years of ’900 as one was doing part of those numerous formed civic museums after the
Unity Of Italy, in a particular climate historical, political and cultural.
Today the environment which was lodging the museum, together with other contiguous rooms, accepts the
show In Sabinis. Architecture and furniture of the villa of Horace prepared, in opportunity of the celebrations for
the Bimillenario oraziano, by the Archaeological Superintendency for the Latium, waiting for realizing the a lot
of wished project of repreparation of the museum which foresees the increase in value of all the materials of the
collection, included the drawings in chalk, directed towards a better fruizione of theirs in the most careful respect
of the museale extraordinary testimony of the first ’900 which does of this museum an unicum in the Latium.
Il Museo oraziano di Licenza 1, voluto dal Prof. Angiolo Pasqui, Direttore degli Scavi di Roma
e del Lazio Antico, per conservare gli oggetti da lui rinvenuti, negli anni tra il 1911 e il
1915, nello scavo della vicina villa che Mecenate donò tra gli anni 33-32 a.C. al poeta latino
Quinto Orazio Flacco (65/8 a.C.) (fig. 1), fu allestito nel palazzo baronale Orsini-Borghese
(figg. 2, 3), in una piccola sala, il “tinello grande”, di circa 50 metri quadri, con vol-

Fig. 1. Licenza. Villa d’Orazio.
Fig. 2. Licenza. Palazzo Baronale Orsini-Borghese, ingresso
museo storico.
Fig. 3. Licenza. Palazzo Baronale Orsini-Borghese,
torre.
333

334
Fig. 4. Licenza. Museo oraziano, interno.
Fig. 5. Licenza. Museo oraziano, capitello di pilastro in
gesso colorato.
Fig. 6. Licenza. Museo oraziano, fregio delle pareti
perimetrali.
te a crociera su quattro pilastri (fig. 4), che sostenevano la sala detta dell’Orso, simbolo araldico
della famiglia Orsini, un tempo affrescata come la vicina torre con figure allegoriche e
di guerrieri attribuite al cavalier Vincenzo Manenti di Orvinio, attivo nel XVII secolo.
L’ambiente, restaurato in modo da ricreare un’atmosfera “adatta”, era caratterizzato dall’allestimento
museale. Le pareti di colore azzurro, i pilastri ed i peducci delle volte con finti
capitelli in gesso colorato (fig. 5), raffiguranti una sfinge alata con doppio corpo affiancata
da teste di gorgoni, tipo terrecotte di decorazione architettonica romane 2 e, nel punto
d’imposta dei peducci, lungo le pareti perimetrali, un fregio dipinto a stampo, con motivi
a palmette e lire (fig. 6).
Un primo approfondito studio della villa e dei suoi arredi fu pubblicato nel 1926, sui
“Monumenti Antichi dei Lincei” 3, da Giuseppe Lugli che, a proposito della raccolta dei materiali,
così affermava: «Gli oggetti rinvenuti nello scavo sono stati accuratamente catalogati
dal Pasqui e disposti con decoro in una stanza del castello di Licenza… Si consiglia il visitatore
della villa di non trascurare di vedere anche la raccolta degli oggetti i quali, se non
hanno di per se stessi un particolare valore, tuttavia formano nel loro insieme la suppellettile
organica e genuina di una villa romana dei migliori tempi».
La raccolta, esposta con un criterio tipologico, su mensole e sostegni di legno e, sul pavimento,
lungo le pareti, in modo “affastellato” secondo un metodo espositivo tipico del
museo post-unitario italiano, era costituita da materiale archeologico vario e da numerosi
calchi in gesso di monumenti funerari della zona, probabilmente in parte frutto delle inda-

gini topografiche, preliminari allo scavo della villa, oggi di grande valore documentario in
quanto testimonianza di originali andati perduti o gravemente danneggiati. Le pareti ai lati
della porta d’ingresso contenevano, entrando a sinistra (parete A), la ricostruzione in gesso
del sepolcro di Colle Prioni (fig. 7) e a destra calchi di trabeazioni ed iscrizioni; continuando,
sulla parete di sinistra (parete B), una doppia fila di mensole, ai lati di un basamento
in legno centrale sul quale era poggiato un lacunare marmoreo di soffitto (fig. 8),
contenevano frammenti di sculture, elementi architettonici in marmo, alcuni dei quali, co-
Fig. 7. Licenza. Museo oraziano, parete A. Fig. 8. Licenza. Museo oraziano, parete B, lacunare
marmoreo di soffitto su basamento di legno.
Fig. 9. Licenza. Museo oraziano, parete B, frammenti architettonici fissati su tavolette di legno.
335

336
me i capitelli dei pilastri, fissati su tavolette di legno (fig. 9), vasi fittili, materiali vari, in parte
appositamente riuniti su sostegni di cartone come frammenti di ceramica, stili ed aghi
crinali in osso, strumenti chirurgici, chiavi, ecc.; alla fine della parete vi era l’ingresso ad un
piccolo ambiente, “le carceri”, utilizzato come magazzino di materiali. Nella parete di fondo
(parete C) da sinistra su un basamento in legno, come il precedente, poggiava il calco di
un’iscrizione funeraria rinvenuta nel territorio del vicino Comune di Roccagiovine mentre
su una doppia fila di mensole, ai lati della finestra, erano sistemati elementi architettonici
in terracotta, materiali da costruzione tra i quali alcuni bolli laterizi fissati su tavolette di legno,
pesi, iscrizioni e, appositamente riuniti su sostegni di cartone, vetri e chiodi di ferro
(fig. 10). Sulla parete destra (parete D) si trovavano 38 quadretti con frammenti di pitture,
appartenenti a più ambienti della villa, riuniti secondo le diverse figurazioni e i diversi colori
(fig. 11). In ordine sparso sul pavimento e lungo le pareti: quadri con campioni di stucchi
e di pavimenti (figg. 12, 13), fistole acquarie e calchi.
Al centro della sala un tavolino su cavalletti (fig. 14), in legno, conteneva grossi frammenti
di fistole acquarie di piombo mentre su un altro piccolo tavolo si trovavano penna,
calamaio ed etichette di carta, bianche con bordo blu, le stesse utilizzate per il numero d’inventario
dei materiali. Prima dello smontaggio erano ancora visibili i cartellini originali. Sulle
pareti dei pilastri vi erano quadri con foto delle incisioni dello Hackert (1780) con “vedute
della casa di campagna di Orazio” 4.
L’allestimento era probabilmente incompiuto, forse per l’improvvisa morte del Pasqui
avvenuta il 15 ottobre del 1915, in quanto alcuni materiali, come quadri con campionatu-
Fig. 10. Licenza. Museo oraziano, parete C, vetri e
chiodi di ferro su tavolette di cartone.
Fig. 11. Licenza. Museo oraziano, parete D, quadretti
con frammenti di pitture.

Fig. 12. Licenza. Museo oraziano, quadretto con campione
di pavimento in opus spicatum.
re di pavimenti, di stucchi e pitture, non
trovavano esatta collocazione.
«Il Museo oraziano di Licenza faceva
parte di quei numerosi musei civici formatosi
subito dopo l’Unità d’Italia, in un particolare
clima storico, politico e culturale
nel quale le Amministrazioni Locali lontane
dal cercare un’identità “nazionale”, erano
ancora interessate alla creazione ed alla gestione
di istituti culturali del “civico decoro”
e delle “virtù cittadine”; in questo periodo,
in ogni parte del Regno d’Italia venivano effettuati,
a volte in maniera arbitraria, numerosi
scavi archeologici e i materiali rinvenuti
spesso conservati nei depositi comunali,
tutto questo reso possibile inizialmente dalla
mancanza di apposite disposizioni legislative
in materia di scavi» 5.
Il museo di Licenza era l’unico museo civico
del Lazio, di quelli istituiti all’inizio del
secolo XX, fino al 1993 ancora esistente,
che conservava pressoché intatto il vecchio
allestimento. L’insieme museale oramai storicizzato
era ancora leggibile nel suo percorso,
negli arredi e nell’esposizione 6 .
Fig. 13. Licenza. Museo oraziano, quadretto con campione
di pavimento in mosaico.
Fig. 14. Licenza. Museo oraziano, interno con arredi.
337

338
Nel 1986 l’Amministrazione Provinciale di Roma, consapevole del valore storico di questo
piccolo museo e ritenendo che, trattandosi di una preziosa testimonianza museale ancora
miracolosamente intatta, non fosse opportuno riordinarlo secondo “criteri scientifici
espositivi moderni”, si è adoperata, con uno specifico progetto e con appositi finanziamenti,
per il suo recupero il più possibile “dov’era e com’era”.
Il restauro architettonico del piccolo ambiente che l’ospitava, preceduto da un accurato
studio dell’intero contenitore storico e delle sue trasformazioni, è stato realizzato dall’Arch.
Franca Fedeli Bernardini, con criteri filologici che tenessero conto della storicità dell’edificio,
nel rispetto dell’ultima fase del manufatto, come l’aveva voluta il Pasqui, e della reversibilità
dell’intervento 7 . Tale operazione è stata pensata nell’ottica di una museografia conservativa
finalizzata alla salvaguardia non solo dei reperti, ma del modo di esporli e dello
spazio museale. Sono state pertanto effettuate le rilevazioni grafiche (figg. 15, 16, 17, 18,
19) e fotografiche per l’individuazione dell’esatto posizionamento dei materiali e degli arredi
mobili e fissi, per il riallestimento del vecchio nucleo, dopo il restauro dell’ambiente; contestualmente
si è proceduto a redigere una prima idea di un progetto più ampio e “moderno”
di allestimento, per l’ampliamento del museo “nuovo” nelle tre sale contigue, appositamente
restaurate dalla Regione Lazio, con i materiali rinvenuti nelle campagne di scavo della
villa negli anni ’60.
Questo progetto dell’Amministrazione Provinciale si è fermato alla fase iniziale del restauro
architettonico in quanto, nel 1993, in occasione del Bimillenario oraziano, ad opera
della Soprintendenza Archeologica per il Lazio, tutto il museo è stato smontato (tutti i materiali,
compreso i supporti, le mensole, i calchi sono stati trasportati nei magazzini statali
Fig. 15. Licenza. Museo oraziano, pianta “tinello grande”.

Fig. 16. Licenza. Museo oraziano, prospetto del lato B. Fig. 17. Licenza. Museo oraziano, prospetto del lato C.
Fig. 18. Licenza. Museo oraziano, due prospetti del
lato A.
Fig. 19. Licenza. Museo oraziano, due prospetti del
lato D.
del Santuario di Ercole a Tivoli) ed è stata allestita nella sala del vecchio nucleo ed in quelle
attigue la mostra In Sabinis. Architettura ed arredi della villa di Orazio 8 con una piccola
scelta di materiali, che per l’occasione sono stati staccati dai supporti, restaurati e nuovamente
inventariati 9, e con pannelli illustrativi del materiale, della villa di Orazio, della storia
del museo e del territorio. La “mostra”, che in realtà, e purtroppo, è diventata il primo
nucleo di un nuovo, anonimo museo (figg. 20, 21, 22, 23), fa parte di un progetto più ampio
di “moderno” riallestimento, sostenuto dalla Soprintendenza Archeologica per il Lazio,
per rispondere a presunte esigenze di maggiore e migliore fruizione per il pubblico, che prevede
l’esposizione di tutti i materiali vecchi e nuovi, anche quelli rinvenuti nelle ultime sistematiche
campagne di scavo della villa, riprese nel 1997 dall’Accademia Americana di Roma,
in un unico percorso museale cronologico e topografico.
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Fig. 20. Licenza. Museo oraziano, interno, allestimento mostra “In Sabinis”.
Fig. 21. Licenza. Museo oraziano, interno, allestimento mostra “In Sabinis”.

Fig. 22. Licenza. Museo oraziano, interno nuove sale, allestimento mostra “In Sabinis”.
Fig. 23. Licenza. Museo oraziano, interno nuove sale, allestimento mostra “In Sabinis”.
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Ed è tra queste due posizioni, il recupero del museo storico “dov’era e com’era” e un progetto
di “moderno” allestimento, che si trova “sospesa” questa preziosa testimonianza museale.
Vorrei chiudere con una significativa citazione di Andrea Emiliani «La stessa struttura
espositiva del museo post-unitario italiano, così enumerativa ed affastellata, più simile a un
magazzino che non ad uno spazio di quieta osservazione, più vicina dunque ad uno spropositato
catalogo di soluzioni artigiano-commerciali che non al selettivo godimento dell’immagine,
è testimonianza opportuna, e purtroppo assai spesso dimezzata o addirittura
annullata dalla furibonda smania di riordinamenti architettonici e allestitivi moderni» 10 .
* Chi scrive ha ricoperto la carica
di direttore del Museo oraziano di
Licenza dal 1992 al 2001.
1 Per una breve storia del museo
cfr. B. Amendolea, F. Fedeli Bernardini
1994, Il Museo oraziano di
Licenza “dov’era e com’era”, in Atti
del Convegno di Licenza, Venosa,
pp. 163-199 (con bibliografia);
A.M. Reggiani Massarini, ibidem,
pp. 201-204.
2 Per il tipo cfr. H. Rohden Winnefeld
1911, Romische Architektonische
Tonreliefs der Kaiserzeit,
Stuttgart, p. 270, tav. LXII, n. 2.
Nel museo erano conservate le matrici
in gesso degli originali.
3 G. Lugli 1926, La villa sabina
d’Orazio, in “Monumenti Antichi
dei Lincei”, cc. 457-598.
4 Cfr. G. De Angelis 1993, Le 10
vedute della casa di campagna di
Orazio di J.P. Hackert (1780), Roma,
estratto dal volume I monti Lucretili,
Roma, 5ª ed.
5 Cfr. B. Amendolea, F. Fedeli Bernardini
1994, p. 190.
6 La conservazione integrale del
museo fino ai giorni nostri è (anzi
era) testimonianza evidente del forte
legame della comunità locale alle
proprie tradizioni storiche. Tale le-
Referenze fotografiche
nn. 1/15 F. Cianflone - Provincia di Roma
nn. 16/20 M. Jacovelli - Comune di Licenza
game così ben evidenziato dal Dionisi
nel 1969 è percepibile ancora
oggi, cfr. F. Dionisi 1969, in “Rassegna
del Lazio”, XVI, 9-10, p. 71,
«L’abitato di questo accogliente
paese ha conservato in gran parte il
suo aspetto medievale con le sue case
in pietra calcarea dalle scale esterne
e con strade strette e a gradinate
verso la parte più alta, dove sorge il
castello Orsini dal torrione merlato.
In esso è il “Museo oraziano”, ove si
conservano gli oggetti ritrovati nella
villa del poeta venosino, la cui
memoria è ancora tanto viva fra i
popolani di Licenza. Andate a fare
una gita in questo paese dalle case
linde e dalle finestre e dai balconi
ornati di gerani; fermatevi a parlare
con i vecchi abitanti e rimarrete stupiti
nel constatare con quale vivacità
ed interesse parlano di Orazio e
ne sentono da voi parlare. Si ha veramente
l’impressione che ivi il
poeta stia di casa e sia ancora un
amato personaggio vivente».
7 Cfr. B. Amendolea, F. Fedeli Bernardini
1994, pp. 163-174.
8 Cfr. In Sabinis. Architettura ed arredi
della villa di Orazio, catalogo
della mostra, Licenza 1993.
9 I vecchi numeri d’inventario so-
no stati in occasione del restauro
completamente cancellati.
10 A. Emiliani 1985, Il museo alla
sua terza età. Dal territorio al museo,
Bologna, p. 45; a questa citazione di
Emiliani ne vorrei aggiungere un’altra,
altrettanto incisiva, fatta da Cristiana
Morigi Govi, nella presentazione
del catalogo della mostra dal
significativo titolo Dalla stanza delle
Antichità al Museo Civico (Bologna
1984): «Se, come ormai è opinione
comune, il museo non si
identifica esclusivamente con i materiali
che contiene, ma al pari di
ogni istituzione rappresenta nel suo
complesso una concreta espressione
di cultura, uno strumento della nostra
conoscenza storica, allora esso
va indagato anche attraverso le vicende,
i personaggi, il clima politico
e culturale che lo hanno determinato.
Non è più lecito consentire,
come purtroppo è avvenuto anche
in un recente passato, la disgregazione
di significative ed emblematiche
sistemazioni museografiche
che, in nome di un rinnovamento
rivolto solo all’aspetto architettonico,
salva la sua cattiva coscienza facendo
appello ad una presunta
maggiore fruibilità per il pubblico».
I rilievi (nn. 17/20), ripresi dalla pubblicazione degli Atti di Licenza (cfr. nota 1), sono stati realizzati dall’arch.
Franca Fedeli Bernardini con la collaborazione del geom. Gianni Pasquariello - Provincia di Roma.

“Rimembranze di infinite cose”.
L’esposizione delle monete al Museo Archeologico
Nazionale di Napoli tra passato e presente
Renata Cantilena
Università degli Studi - Salerno
RIASSUNTO
Oggetto della comunicazione è l’illustrazione dei criteri che hanno guidato la realizzazione della nuova sezione
delle raccolte numismatiche del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, in sei sale inaugurate nel
giugno del 2001.
L’intervento si inserisce nei lavori di risistemazione delle raccolte in corso nel grande Istituto museale
di impronta ottocentesca, basati sul medesimo principio: ricomposizione dei contesti di provenienza
delle opere confluite nel corso dei secoli oppure, nel caso di raccolte storiche, rispetto dei contesti collezionistici.
Nel caso dell’esposizione delle monete si è tentato di far convivere le differenti anime del Museo, integrandole
in un meditato intervento espositivo, in cui il materiale è presentato secondo linguaggi rispondenti
alle esigenze del pubblico attuale, ma nel rispetto delle forme di acquisizione. Il recupero dell’architettura
degli spazi e degli allestimenti originari è la migliore cornice per esaltare il patrimonio archeologico
perché aggiunge ulteriori caratteri culturali al suo immenso valore.
SUMMARY
The article outlines the criteria leading to the creation of the new section, in six rooms opened in June 2001,
of the numismatic collection of the National Archaeological Museum of Naples. This work is part of more general
reorganization of collections underway in this great nineteenth-century museum complex. The reorganization
seeks to regroup works according to their original provenance which had previously been displayed based
on their place in historical collections. In the coin exhibits, there is an attempt at blending the Museum’s spirits.
While materials are displayed according to language and in keeping with the current public tastes, this is
done while still respecting forms of acquisition. The recovery of interior space and the restoration of original architectural
ornamentation is a fitting crown to the work underway, as these enhance further the cultural value
of an already immense archaeological heritage.
La questione intorno alla quale ci hanno invitato a discutere gli organizzatori di queste giornate
di studio è il punto nodale delle riflessioni del curatore di un museo in ristrutturazione,
posto di fronte all’esigenza di conservarne i caratteri originali – e quindi salvaguardarne la sostanza
e la forma (compresi gli arredi e gli apparati espositivi, che nella maggior parte dei casi,
seppure obsoleti, presentano un notevole valore documentario) – e la necessità di facilitare
la lettura delle sue opere, intervenendo sui modi di presentazione del materiale.
L’esperienza maturata negli anni in cui ho lavorato al riordinamento espositivo delle
raccolte del Museo Archeologico Nazionale di Napoli ha radicato in me la convinzione
che, nell’individuare i criteri di organizzazione delle sezioni e dei percorsi da adottare
nei nuovi allestimenti espositivi in musei archeologici di stratificata formazione, occorra
necessariamente tenere in conto il periodo e le modalità di formazione delle rac-

344 colte (siano esse da collezioni o da scavo), perché queste ultime ne hanno determinato
la loro stessa natura, rispondendo alle istanze culturali nei riguardi dell’antico prevalenti
nelle rispettive epoche. L’attenzione per la storia dei reperti archeologici è un elemento
fondamentale nella valutazione delle potenzialità e dei limiti delle informazioni che essi
sono in grado di offrire, le quali risultano condizionate dal periodo (e quindi dal tipo)
del loro recupero.
Il discorso mi sembra possa estendersi anche agli apparati allestitivi: prima di smontare
vecchie sezioni che parlano il linguaggio datato degli specialisti del tempo in cui furono concepite,
e che talvolta sembrano fatte apposta per accentuare il senso di estraniazione del visitatore
dai materiali esposti, forse andrebbe di volta in volta giudicato se questo fattore sia
diventato esso stesso l’aspetto peculiare, l’oggetto di una comunicazione museale in grado
di restituire in maniera pregnante le posizioni culturali di un’epoca. Oppure, se abbia maggior
significato ed importanza il presentare al visitatore le opere riorganizzate in differenti
apparati, tali da consentirne una visione idonea e una chiara lettura.
In poche parole, la via da seguire è la stessa che percorre l’architetto che intende salvaguardare
le caratteristiche architettoniche dell’edificio storico che ospita il museo, quando
procede al restauro degli ambienti e necessariamente deve operare delle scelte nel proporre
soluzioni tese al “rispetto conservativo”, evitando di sfociare in un eccessivo rigore “filologico”,
accanito o sofisticato, che ne precluderebbe un’adeguata fruizione.
La situazione che presento, quale campo di attuazione delle posizioni teoriche appena
riassunte, è l’esposizione delle raccolte numismatiche del Museo Archeologico Nazionale
di Napoli, in sei nuove sale inaugurate nel giugno del 2001. Oggetto della comunicazione
è, quindi, l’illustrazione dei criteri scientifici ed allestitivi che ne hanno guidato la realizzazione.
L’intervento si inserisce nei lavori di risistemazione delle raccolte in corso nel grande Istituto,
improntati sul medesimo principio: ricomposizione dei contesti di provenienza delle
opere confluite nel corso dei secoli oppure, nel caso di raccolte storiche, rispetto dei contesti
collezionistici.
Chi conosce il museo di Napoli, sa infatti che – come altri grandi complessi ottocenteschi
– fino a pochi anni fa era organizzato come una sorta di manuale di generi (sale degli
affreschi, dei vasi in ceramica, dei manufatti in bronzo, suddivisi in “grandi” e “piccoli”
bronzi, delle sculture in marmo, delle armi, degli argenti, delle terrecotte, e così via), nella
maggior parte dei casi realizzato smembrando gli originari contesti dei reperti e, per giunta,
più volte in parte rimaneggiato nel corso del Novecento.
A seguito del terremoto in Campania del 1980, che provocò dissesti statici in varie zone
dell’edificio, sono stati intrapresi consistenti lavori e, con la conclusione dei primi interventi
di restauro e di ristrutturazione, si è cominciato a risistemare le raccolte, suddividendole
in tre diversi settori espositivi:
a) sezioni topografiche, in cui sono stati ricomposti i contesti da siti archeologici della
Campania e della Magna Grecia, a partire dagli insediamenti preistorici e protostorici nel
golfo di Napoli;
b) nuclei di importanti raccolte storiche, come quella dei Farnese, della quale sono in
via di realizzazione le sale della scultura e sono stati già aperti al pubblico il settore delle preziose
gemme e dei cammei e la sezione dedicata alle terme di Caracalla;

c) collezioni “specialistiche”: in anni recenti sono state allestite le sale della collezione
egiziana e delle epigrafi ed è stato riaperto il cosiddetto “Gabinetto segreto”, che raccoglie
materiali con soggetti e scene erotici.
La sezione numismatica, tradizionalmente definita “Medagliere”, fa parte di quest’ultimo
settore.
Si tratta di una delle più ricche e celebri raccolte d’Italia e del mondo: centinaia di migliaia
di pezzi, tra monete di epoca greca, romana, bizantina, medioevale, rinascimentale,
moderna, e monete, medaglie, conii e punzoni della zecca dei Borbone.
Nella collezione di monete si riflette la stessa situazione di altri reparti del Museo napoletano.
Essa in sostanza si suddivide in due grossi nuclei: il primo riguarda le raccolte storiche
(il nucleo originario è formato dall’antica collezione dei Farnese, un tempo a Roma, poi
a Parma, ereditato dai Borbone e incrementato a Napoli da altre raccolte); il secondo riguarda
le monete recuperate dagli scavi archeologici dalle città vesuviane e da tutta l’Italia,
immesse a seguito di scavi archeologici o con l’acquisizione di varie raccolte di privati.
Le caratteristiche di questa sezione e i modi della sua formazione hanno dettato gli indirizzi
per le scelte espositive e suggerito di organizzare il percorso espositivo in due differenti
settori, ciascuno reso con un proprio specifico linguaggio allestitivo.
Il primo comparto espositivo è stato denominato “rimembranze di infinite cose”, citando
l’espressione con cui nel Cinquecento Sebastiano Erizzo 1 definiva le monete antiche.
Questa è infatti la sala dedicata alla storia delle collezioni monetali del Museo, ai suoi nuclei
più significativi, al collezionismo di monete dal Cinquecento all’Ottocento, all’evoluzione
della scienza numismatica nel corso dei secoli (fig. 1).
Il tema del collezionismo è esemplificato da tre dei nuclei più peculiari: la raccolta dei
Farnese di impronta rinascimentale; quella del cardinale Borgia, specchio dell’erudizione e
Fig. 1. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione numismatica: sala della storia delle collezioni.
345

346 degli interessi antiquari tardo-settecenteschi; quella del marchese Santangelo, espressione
del ricco collezionismo borghese di antichità nella Napoli della prima metà dell’Ottocento.
Accanto alle monete sono esposti alcuni rari e pregiati volumi a stampa di autori del Cinquecento,
del Seicento, del Settecento, appartenenti all’antica biblioteca del “Medagliere”
napoletano, che documentano l’evoluzione degli studi nel settore.
Al fine di restituire con citazioni di gusto l’immagine di un antico “studio” di monete,
per l’esposizione dei libri e delle monete sono stati progettati espositori che riproducono fedelmente
quelli utilizzati negli allestimenti ottocenteschi dell’Istituto napoletano, in sintonia
con gli altri elementi di arredo della sala, come le stoffe damascate alle pareti e i tendaggi.
Perfino i pannelli didascalici sono stati realizzati come se fossero pagine di antichi volumi
a stampa. Inoltre, sono stati trasferiti, dai depositi in sala, i mobili originari delle raccolte
ottocentesche, raffinati armadi in legni intarsiati contenenti le tavolette in cui venivano
custodite le monete (figg. 2, 3). Accanto ad uno degli stipi, un armadio a cassetti in legno
pregiato, decorato con ebano ed avorio, appartenuto un tempo al marchese Santangelo,
è stata apposta la sagoma di due eruditi in abiti del Settecento (fig. 4), che riproduce in
dimensioni reali le figure di un’incisione tratta da un’opera di carattere numismatico del
Jobert 2 (fig. 5).
La scelta di aprire il percorso espositivo con un settore dedicato a queste tematiche non risponde
ad uno sfoggio di erudizione antiquaria, ma è stato doveroso, se si considera che il nu-
Fig. 2. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione
numismatica: armadio della raccolta Santangelo
(prima metà del XIX secolo).
Fig. 3. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione
numismatica: armadio contenitore di monete
(prima metà del XIX secolo).

Fig. 4. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione
numismatica: particolare della sala della storia
delle collezioni.
Fig. 5. Incisione tratta da La Science des Médailles, Paris
1739.
cleo più antico della raccolta, come si è già detto, è costituito dalla prestigiosa collezione di
monete dei Farnese 3. Ed essa fin dalle origini fu curata in maniera tale da rappresentare quanto
di meglio dovesse racchiudere un museo numismatico “esemplare”, negli anni in cui il bibliotecario
e il consulente di antichità del cardinale Alessandro fu Fulvio Orsini (Roma 1529-
1600). A lui, fine antiquario di fama europea, si deve il segno impresso alla collezione, che fu
una ricca rassegna di ritratti di personaggi illustri e di immagini di eventi della storia del passato,
un indispensabile punto di riferimento per la conoscenza della civiltà classica.
Incrementata fino agli anni Trenta del Settecento, la raccolta dei Farnese è un esempio
assai evidente del modo in cui veniva affrontato lo studio dell’antico attraverso le monete.
Perciò il problema da risolvere nel curarne l’esposizione è stato quello del rendere percettibile
il senso dell’evolversi del collezionismo di monete antiche, che in sostanza si identifica
con l’evolversi dell’interesse per l’antico. Quindi, si è operata una selezione tra migliaia di
esemplari e sono state segnalate all’attenzione del pubblico alcune delle emissioni monetali
più rappresentative. Ripercorrendo gli interessi degli antiquari dell’epoca, sono stati scelti
monete, medaglioni e “contorniati” (dischi monetiformi in bronzo di tarda età imperiale),
tenuti al tempo in massima considerazione perché fornivano testimonianza iconografica dei
“protagonisti” della storia antica, presi a modello per le proprie imprese nel bene e nel male
(sovrani ellenistici, personaggi celebri della Roma repubblicana, poeti o filosofi), oppure
perché riproducevano celebri monumenti scomparsi.
347

348
Fig. 6. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione numismatica: scala di accesso.
Questi esemplari sono stati esposti all’interno della vetrina, poggiati sopra la riproduzione
delle pagine di un immaginario enorme volume a stampa cinquecentesco, come se
fossero le illustrazioni di un testo di dissertazione numismatica.
Alla fine del Seicento le monete dei Farnese, trasferite a Parma, non furono più racchiuse,
come nel palazzo Farnese di Roma, in un mobile-medagliere, ma sistemate in tavolini nella
Galleria ducale, visitata da numerosi viaggiatori ed eruditi europei. Lo “studiolo” di Palazzo
Farnese da qualche anno è stato identificato: è uno splendido mobile in noce rosso e lucente
ora conservato al Museo del Rinascimento di Ecouen 4 ; non sono stati invece recuperati i tavolini
con le filze girevoli, in cui erano incastrate le monete, in maniera da poterne ammirare
il diritto ed il rovescio, nei quali le monete furono esposte a Napoli, dapprima al Palazzo
Reale e poi a Capodimonte, dove l’originale sistema fu ammirato anche dal Winckelmann.
A Parma fu avviata la stampa dei cataloghi della raccolta e nelle dediche dei tomi, indirizzate
prima a Ranuccio II, poi a Francesco I, è ricordato con enfasi il ruolo attribuito alle antiche
monete di perpetuare la memoria dei protagonisti della storia del passato. La funzione
commemorativa è anche il motivo ispiratore delle scene allegoriche riprodotte in due delle antiporte
incise che precedono il frontespizio dei volumi e queste due incisioni, fortemente ingrandite,
corredano la scala di accesso all’esposizione di monete del Museo di Napoli (fig. 6).
Ben altre caratteristiche ha la collezione di monete di Stefano Borgia. Il Cardinale, membro
dell’Accademia etrusca di Cortona e dell’Accademia di Fermo, raccolse a Velletri una ricca
collezione antiquaria perlopiù di provenienza locale. La nomina nel 1770 a Segretario della
Congregazione della Propaganda Fide fu occasione di contatti con missionari e inviati esteri
presso popolazioni non cristiane, attraverso i quali arricchì la sua raccolta di reperti fino ad

allora sconosciuti, rinvenuti in Paesi lontani, e tra essi anche molte monete egiziane, ora custodite
ai Musei Vaticani 5 . Il nucleo di monete conservato a Napoli 6 si compone invece, in
prevalenza, di monete prodotte in Etruria, Umbria, Lazio, a Roma e nell’Italia centrale adriatica
quando le popolazioni italiche passarono dall’uso del metallo a peso a quello monetato.
Tramontato l’intento tipico dei letterati rinascimentali di raccogliere antichità per ricomporre
un quadro unitario del mondo classico e superato ormai lo spirito aulico con cui gli eruditi
del Seicento collezionavano monete antiche, la collezione del Borgia corrisponde appieno
alle curiosità del sapere enciclopedico tardo-settecentesco e si inquadra piuttosto tra quelle
raccolte di materiali di vario genere appartenenti ad epoche e culture diverse da quella classica,
squarci di civiltà lontane, finestre aperte su mondi alieni da esplorare ed interpretare 7 .
Quanto alla ricchissima collezione di monete della famiglia Santangelo 8 , essa è senz’altro
la più grande raccolta napoletana della prima metà dell’Ottocento, costituita da oltre
42.000 monete che vanno dal VI secolo a.C. all’età moderna, in grandissima parte dalla
Magna Grecia perché Nicola Santangelo, Intendente per oltre venti anni (dal 1812 circa) in
molte province e regioni meridionali (Basilicata, Calabria, Capitanata), vi condusse scavi
privati con i quali arricchì le sue raccolte ed ebbe modo di entrare in contatto con il mercato
antiquariale di antichità, assai fiorente nella Napoli del tempo.
Gli armadi contenitori delle raccolte numismatiche del Museo Santangelo, un tempo
collocati nel museo di famiglia ubicato nella dimora a Palazzo Carafa, sono al Museo Archeologico
di Napoli e alcuni di essi campeggiano ora nelle sale di esposizione: un esempio
Fig. 7. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione
numismatica: armadio della raccolta Santangelo
(prima metà del XIX secolo).
Fig. 8. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione
numismatica: tavolo-contenitore di monete
(prima metà del XIX secolo).
349

350 è l’elegante medagliere in piuma di mogano che reca lo stemma della famiglia (fig. 7) o l’originale
tavolo cilindrico che all’interno si compone di dischi sovrapposti scorrevoli intorno
ad un perno centrale, sui quali sono impostati i riquadri per conservare le monete (fig. 8).
La seconda sezione consiste, invece, in una storia monetaria dell’Italia meridionale dal
VI a.C. al tempo dei Borbone. Come una narrazione storica che attraversa 2500 anni, il percorso
di visita si articola in un itinerario essenzialmente cronologico, per aree regionali. Le
monete antiche sono straordinari documenti di storia, ma anche opere che per le loro dimensioni
ridotte non riescono a suscitare – tranne che in casi eccezionali – una particolare
attrazione per il grande pubblico; sicché la loro esposizione non è un’operazione di facile effetto,
soprattutto se l’intento della mostra punta a valorizzarne, più che gli aspetti estetici,
quelli funzionali. La nostra intenzione era proprio quella di mostrare il tipo delle presenze
monetarie e le trasformazioni nella circolazione, a seconda delle diverse regioni e delle diverse
fasi storiche del Mezzogiorno d’Italia. Per dare il giusto peso a questo fattore, non sono
state privilegiate soltanto le monete più belle o più rare, ma ciò che effettivamente veniva
utilizzato per gli scambi ed esposti, quindi, anche i piccolissimi nominali in metallo vile,
spesso illeggibili, come ad esempio i “minimi” del ripostiglio di Cuma del periodo degli
Ostrogoti, che testimoniano appunto la gravità della situazione economica al tempo della
guerra gotica.
In questa seconda sezione, dove l’approccio alle raccolte monetali è di tutt’altra natura
rispetto alla precedente, la sostanziale differenza del tema trattato si riflette nel diverso linguaggio
allestitivo utilizzato, che in questo caso punta a rendere gradevole e semplice la lettura
mediante l’uso di moderni apparati e strumenti didattici, mentre immagini fortemente
ingrandite tratte dalle monete esposte si susseguono in un lungo fregio attraverso le sale,
alternate ad altre documentazioni figurate della stessa epoca (fig. 9).
Tra le sale dedicate al mondo romano, un posto di rilievo occupa il settore delle monete
da Pompei che, dati i modi e i tempi repentini della distruzione della cittadina per l’eruzione
del Vesuvio del 79 d.C., costituiscono un campione eccezionale per evidenziare il tipo
e le quantità del numerario in uso nel I d.C. in questa area della provincia romana. I rinvenimenti
monetali da Pompei, infatti, non corrispondono soltanto – come solitamente accade
nel caso della maggioranza dei “tesori” di monete antiche recuperati dal terreno e oggetto
di studio dei numismatici – alla volontà dei proprietari di denaro di occultare le specie
considerate migliori; essi documentano anche le serie monetali realmente in uso nell’agosto
del 79 d.C. e ci consentono di valutare, attraverso le possibilità di accumulo e di spesa
dei diversi ceti sociali e l’entità degli incassi delle botteghe e degli opifici, l’incidenza del
circolante nel quadro delle attività economiche che si svolgevano in area vesuviana. Per questo
le monete sono state disposte in sala in differenti settori, a seconda della tipologia del loro
ritrovamento: in pratica si è tenuto conto se esse provenissero da botteghe, se fossero pochi
spiccioli o esemplari di pregio raccolti accanto agli scheletri di fuggiaschi in borse di stoffa
o di cuoio, se costituissero accumuli di cospicue somme conservati in cassaforte insieme
con gioielli e argenterie.
Un’evidenza così ricca e straordinaria meritava davvero un idoneo spazio e nella nuova
sezione numismatica si è dato ampio risalto alle monete da Pompei ed insieme ad esse ai più
significativi reperti archeologici che testimoniano momenti della vita economica della cittadina
vesuviana: suppellettili, sculture, affreschi riproducenti artigiani al lavoro o scene del-

Fig. 9. Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sezione numismatica: sala delle monete romano-imperiali.
la vendita di prodotti di vario genere. Accanto a questi documenti – per la prima volta esposti
insieme alle monete, per rendere viva l’immagine del mercato cittadino e delle attività
produttive – sono indicati i prezzi delle merci, dei generi alimentari e dei servizi, ben noti
per le scritte graffite sui muri o per le operazioni contabili registrate nelle celebri tavolette
cerate dell’archivio di Giocondo, attestanti queste ultime prestiti per pagamenti per vendite
all’asta e per appalti municipali o affari in materia di deposito e di cassa.
Infine, dopo un’ampia selezione delle emissioni monetarie delle varie dominazioni succedutesi
in Italia meridionale – dai Bizantini agli Austro-Spagnoli – l’ultima sala riguarda l’esposizione
delle monete e delle medaglie dei Borbone, e dei conii e punzoni della zecca del
Regno di Napoli, fino all’Unità d’Italia. Anche in questo ambiente sono stati esposti contenitori
originali, come un singolare tavolino a più ripiani, dell’inizio dell’Ottocento, donato
dallo zar delle Russie, contenente le impronte di medaglie che ricordano i fatti salienti della
storia della Russia nell’arco di un millennio (a partire dal IX secolo d.C. fino al 1800).
In definitiva, nel sottoporre al dibattito questo episodio allestitivo, ho voluto ribadire la
convinzione dei curatori della sezione 9, circa l’opportunità di far convivere le differenti anime
del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, integrandole in un meditato intervento,
in cui il materiale è presentato secondo criteri e linguaggi rispondenti alle esigenze del pubblico
attuale, ma nel rispetto delle forme di acquisizione. Il recupero dell’impronta che nel
corso dei secoli ha caratterizzato le raccolte archeologiche, dell’architettura degli spazi e,
quando possibile, degli allestimenti originari è la migliore cornice per esaltare il patrimonio
museale, aggiungendo ulteriori caratteri al suo immenso valore intrinseco.
351

352
1 Erizzo 1559.
2 Jobert 1739.
3 Cantilena 1995, pp. 139-151;
Cantilena 2001, pp. 13-16.
4 Jestaz 1995, p. 57.
5 Travaini 2001, pp. 242-254.
6 Pantuliano 2001, pp. 17-20.
7 Pomian 2001, pp. 21-29.
8 Giove 1996, pp. 191-199; Giove
Bibliografia
R. Cantilena 1995, La collezione di
monete dei Farnese: per la storia di
“un nobilissimo studio di medaglie
antiche”, in L. Fornari Scianchi,
N. Spinoza 1995, pp. 139-151.
R. Cantilena 2001, Le raccolte dei
Farnese, in Cantilena, Giove
2001, pp. 13-16.
R. Cantilena, T. Giove (a cura di)
2001, La collezione numismatica.
Per una storia monetaria del Mezzogiorno,
Napoli, Electa Napoli.
L. Fornari Scianchi, N. Spinosa (a
cura di) 1995, I Farnese. Arte e
collezionismo, Milano, Electa.
S. Erizzo 1559, Discorso sopra le
2001, pp. 21-24.
9 L’organizzazione scientifica è
stata curata da chi scrive e da Teresa
Giove, responsabile del Medagliere
del Museo archeologico
Nazionale di Napoli; l’allestimento
è stato progettato da Enrico
Guglielmo, Soprintendente per i
beni architettonici ed il paesaggio
medaglie antiche, Venezia.
B. Jestaz 1995, Le collezioni Farnese
di Roma, in Fornari Scianchi,
Spinosa 1995, pp. 49-67.
L. Jobert 1739, La Science des Médailles,
Paris.
T. Giove 1996, Le monete della collezione
Santangelo, in I Greci in
Occidente. La Magna Grecia nelle
collezioni del Museo Archeologico
di Napoli, Napoli, Electa Napoli,
pp. 191-199.
T. Giove 2001, Il medagliere Santangelo,
in La collezione numismatica,
in Cantilena, Giove
2001, pp. 21-24.
e dei beni artistici e demo-etnoantropologici
di Napoli e provincia.
Ogni soluzione è stata utilmente
discussa e concordata con
Stefano De Caro, al tempo Soprintendente
archeologo di Napoli
e di Caserta, attualmente Soprintendente
Regionale della
Campania.
S. Pantuliano 2001, La collezione
Borgia, in Cantilena, Giove
2001, pp. 17-20.
K. Pomian 2001, Una collezione al
crepuscolo dei Lumi, in La collezione
Borgia. Curiosità e tesori da
ogni parte del mondo, a cura di A.
Germano, M. Nocca, Napoli,
ed. Electa Napoli, pp. 21-29.
L. Travaini 2001, Le collezioni numismatiche
del cardinale Stefano
Borgia, in Le quattro voci del
mondo: arte, culture e saperi nella
collezione di Stefano Borgia 1731-
1804, a cura di M. Nocca, Napoli,
Electa Napoli, pp. 242-254.

Il Museo di Scienze Naturali di Torino:
tradizione e rinnovamento
Pietro Passerin d’Entrèves
Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo
Università degli Studi - Torino
RIASSUNTO
Fondati nel 1739, i Musei universitari di Zoologia e Mineralogia e quelli più recenti di Anatomia comparata
e di Paleontologia sono divenuti nel corso del tempo istituzioni di livello internazionale grazie
alla ricchezza delle loro collezioni ed all’importanza dei ricercatori che operarono nel loro ambito. Le
loro vicende hanno seguito il mutare dell’interesse del mondo accademico torinese nei confronti del
bene “museo” e dell’importanza della sua conservazione e fruizione, non solo da parte dei ricercatori,
ma anche, e soprattutto, da parte del grande pubblico. Nel 1978, in seguito ad apposita convenzione,
l’Università ha ceduto alla Regione Piemonte la gestione delle sue straordinariamente ricche ed importanti
collezioni. Dotato di una sede prestigiosa, un ex ospedale seicentesco situato nel centro della città
e in avanzata fase di restauro, il Museo Regionale di Scienze Naturali ha realizzato, basandosi anche su
nuove ed importanti acquisizioni, numerosi eventi temporanei di vario argomento e importanza. Fra
questi è da citare il parziale riallestimento, con criteri nel complesso più estetici che scientifici, dei saloni
dello storico Museo universitario di Zoologia, un tempo assai frequentato dai torinesi. L’impegnativo
progetto museale si propone in particolare di presentare in chiave moderna i materiali esistenti,
valorizzandone, ove presenti, gli aspetti storico-scientifici, soprattutto quando questi riguardano anche
la storia locale.
RÉSUMÉ
Le Musée d’Histoire Naturelle de l’Université de Turin, l’un de premiers en Europe, fut fondé en 1739. Les différentes
sections du Musée, c’est-à-dire la Zoologie, la Minéralogie, l’Anatomie comparée, la Paleontologie et la
Geologie, se developpèrent d’une façon indépendente les unes des autres et à la suite des hauts et des bas des disciplines
rélatives. En 1978, suite à une convention, les Musées universitaires cédèrent à la Région Piémont,
pour le nouveau Musée Régional de Sciences Naturelles de Turin qui venait d’être constitué, la gestion de leurs
collections. Le Musée Régional a mis sur pied les activités éditoriale et didactique et a réalisé un certain nombre
d’expositions temporaires. Il a de plus ouvert au public les salles d’exposition de l’ancien Musée de Zoologie de
l’Université de Turin, suite à un nouveau project muséographique. Pour ce qui concerne le future immédiat, la
mise à disposition de vastes locaux permettra le démarrage d’une série d’initiatives concentrées sur la réalisation
de l’exposition permanente.
INTRODUZIONE
L’importanza di un Museo di Scienze Naturali nei campi scientifico, didattico e divulgativo
dipende da una serie di differenti caratteristiche. Fra queste si possono ad esempio citare
la quantità di esemplari conservati e di quelli che sono esposti, la loro provenienza e rarità,
l’importanza dei ricercatori che hanno lavorato nel Museo e quindi la rilevanza delle
loro collezioni e, infine, l’antichità del Museo.

354 Oggi, in Italia, i musei naturalistici che presentano tali caratteristiche non sono numerosi
e ancora meno numerosi sono quelli che hanno avuto la possibilità di mantenere intatta
attraverso i tempi la maggior parte delle loro collezioni, malgrado le guerre, le calamità
più o meno naturali, l’incuria, oppure qualche volta lo scarso interesse da parte di coloro
che erano responsabili della loro salvaguardia. Pochi Musei conservano inoltre un gran numero
di reperti che, al di là del loro valore scientifico, presentano un valore storico molto
elevato, essendo sovente legati strettamente con le vicissitudini storiche e politiche, o con la
vita quotidiana della Regione d’origine.
I musei universitari torinesi del settore naturalistico si trovano, invece, tra quelli, che
malgrado tutto, hanno potuto, o forse, saputo sviluppare una tale attività e sono dunque
stati capaci di consegnare al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, in seguito ad
apposita convenzione, un patrimonio culturale e soprattutto naturalistico unico e dunque
di un valore inestimabile.
I musei torinesi facenti capo al Museo di Storia Naturale dell’Università di Torino devono
essere considerati a tutti gli effetti come musei nazionali, dal momento che Torino è
stata la capitale del Regno di Sardegna fino al 1861, quando il nuovo Regno d’Italia fu proclamato.
Fin dall’inizio, parallelamente alla ricerca scientifica, i musei naturalistici di Torino si dedicarono
anche alla didattica ed all’ostensione. Siamo agli inizi del XIX secolo e i savants torinesi
risentivano ancora il clima delle Wunderkammern seicentesche, anche se i principi dell’illuminismo
erano già ben radicati in loro. Ma stupire la gente era ancora il programma!
ORIGINI
Con questo preambolo, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Torino, nato ufficialmente
su progetto dell’anatomico Gian Battista Bianchi nel 1739, ma per molto tempo ancora
poco operativo sia dal punto di vista scientifico, sia da quello ostensivo, cominciava la
sua attività (Passerin d’Entrèves 1993, p. 315).
Il Piemonte, a quell’epoca, si trovava sotto la dominazione francese. Il Muséum di Parigi
fungeva da elemento trainante per una provincia periferica della Francia com’era il Piemonte.
Il museo era collocato nel palazzo dell’Accademia delle Scienze di Torino nelle stesse
sale dove ora si trova il Museo Egizio.
Tuttavia è durante questo periodo che furono istituite le prime cattedre di Zoologia e di
Mineralogia dell’Università di Torino. Queste furono ricoperte da due studiosi di livello internazionale:
Franco Andrea Bonelli (fig. 1) e Stefano Borson (fig. 2). Franco Andrea Bonelli
(1784-1830), ornitologo ed entomologo di grande fama, fu allievo di Lamarck a Parigi.
A lui e a pochi altri si deve l’introduzione in Italia della teoria trasformista di Lamarck
(Passerin d’Entrèves, Sella Gentile 1985).
Stefano Borson (1758-1832), abate, accrebbe notevolmente le collezioni mineralogiche
del museo. Fu il primo direttore del nuovo Museo di Storia Naturale dell’Università
di Torino (Rigaut De La Longrais 1993, pp. 311-312). Entrambi si occuparono del museo
non solo dal punto di vista scientifico, ma anche e soprattutto da quello didattico e
museografico.

Fig. 1. Franco Andrea Bonelli. Quadro ad olio di G.B.
Biscarra, 1830. Dipartimento di Biologia Animale e
dell’Uomo dell’Università di Torino.
Fig. 2. Stefano Borson. Quadro ad olio di pittore ignoto.
Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo dell’Università
di Torino.
Bonelli si interessò anche agli aspetti divulgativi, pubblicando una interessante brochure
in folio. Gli animali, disegnati dal pittore Monticone e accompagnati dalle note dello stesso
Bonelli, furono pubblicati utilizzando la nuova tecnica della litografia, appena introdotta
in Piemonte, di cui rappresentano dunque i primi esempi (fig. 3).
Alla morte di Borson e di Bonelli il Museo di Storia Naturale dell’Università di Torino
era divenuto uno dei primi musei italiani del settore ed uno dei più importanti d’Europa.
A Stefano Borson succedettero Angelo Sismonda (1807-1878) e Giorgio Spezia, mentre, nel
1879 fu fondato il Museo di Geologia e Paleontologia sotto la direzione di Bartolomeo Ga-
Fig. 3. Litografie a colori di animali del Museo di Zoologia eseguite da F. Festa su disegno di Pietro Monticoni
(1819). Accademia delle Scienze, Torino.
355

356
staldi (1818-1879). Anche questo museo divenne rapidamente importante, in particolare
grazie all’opera di Fabrizio Parona (1855-1939) (Malaroda 1993, pp. 307-308).
IL MUSEO DI ZOOLOGIA
A Bonelli succedette Giuseppe Gené (fig. 4) che dette inizio all’epoca dei viaggi per conto
del museo. Prima di tutto l’esplorazione della Sardegna, secondo i desideri del re Carlo Alberto,
per completare la conoscenza del patrimonio naturale dell’isola. Da questi viaggi derivarono
una gran quantità di nuove specie, soprattutto per quanto riguarda gli invertebrati
e una nuova assai interessante specie di rapace, il falco della Regina, descritto dallo stesso
Gené (fig. 5) (Gené 1840).
Più tardi, nel 1836 il primo viaggio attorno al mondo da parte di una nave della Marina
reale sarda, la fregata “La Regina” che aveva a bordo il principe Eugenio di Savoia e il
Prof. Caffer, assistente al museo. Sfortunatamente la nave subì dei danni gravissimi durante
una tempesta al largo della costa brasiliana (fig. 6) e la missione dovette essere interrotta.
A Gené, morto improvvisamente, succedette Filippo De Filippi (1814-1867) che contribuirà
alla diffusione in Italia della teoria di Darwin. De Filippi (fig. 7) fondò la sezione di
Anatomia comparata che alla fine dell’Ottocento diventerà un museo a se stante, appunto il
Museo di Anatomia comparata. Dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie (1859), De
Filippi si dedicherà alla diffusione in Italia delle idee evoluzionistiche enunciate da Charles
Darwin, anticipando persino le sue conclusioni sull’origine dell’uomo (De Filippi 1864).
Fig. 4. Giuseppe Gené. Litografia, 1848 circa. Fig. 5. Falco della Regina (Falco eleonorae). Litografia
originale su disegno di Francesco Comba annessa al
lavoro di descrizione della nuova specie.

Fig. 6. La fregata La Regina durante la tempesta al largo delle coste sudamericane. Acquerello originale. Biblioteca
Reale, Torino.
Fig. 7. Filippo De Filippi. Quadro ad olio di pittore
ignoto. Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo
dell’Università di Torino.
Anche De Filippi viaggiò attorno al mondo:
nel 1865 salpò infatti a bordo della Pirocorvetta
“Magenta”, della Marina reale italiana
come capo della missione scientifica che
aveva lo scopo di raccogliere piante, animali e
minerali per i musei universitari di Torino.
Sfortunatamente De Filippi morì durante il
viaggio ad Hong-Kong il 9 febbraio 1867.
La direzione passò a Michele Lessona
(1823-1894), medico coraggioso, professore
di Zoologia, scrittore e divulgatore, uno dei
personaggi più caratteristici del suo tempo
(fig. 8). Lessona, come De Filippi fu un partigiano
convinto della teoria di Darwin e la
sua opera di divulgazione sarà dedicata soprattutto
alla diffusione dell’evoluzionismo
in Italia, per esempio con la traduzione in
italiano dell’Origine dell’Uomo.
Sotto la direzione di Lessona lavora al
museo una squadra di ricercatori di prim’ordine.
Per l’Entomologia Vittore Ghiliani,
per l’Ornitologia Tommaso Salvadori, per
357

358 l’Erpetologia Giacinto Peracca, per la Mammologia
e l’Anatomia comparata Lorenzo
Camerano.
Alla fine del 1878 il Museo di Zoologia
(fig. 9) e la sezione di Anatomia comparata
devono essere trasferiti a Palazzo Carignano,
con i Musei di Mineralogia e di Geologia
per costituire il Museo di Storia Naturale,
vero Museo nazionale del settore. Ogni museo
ha il suo direttore specifico e i professori
e gli assistenti operano nello stesso tempo
nei campi della didattica, della ricerca universitaria
e della museologia (fig. 10).
Il museo è aperto al pubblico, la cui risposta
è assolutamente positiva. Sono, infatti,
circa 25.000 i visitatori che ogni mese si
recano nelle sale del nuovo museo. È questa
la grande stagione del museo torinese che
Fig. 8. Michele Lessona. Quadro ad olio di Carlo Pollonera.
Collezione privata.
Fig. 9. Il Museo di Zoologia nel Palazzo dell’Accademia
delle Scienze. Quadro ad olio di Francesco Delleani
(1872). Galleria d’Arte Moderna, Torino.
diventa uno dei più apprezzati in Europa.
Ma è anche il suo canto del cigno.
Fig. 10. Prima pagina del Regolamento dei Musei di
Storia Naturale dell’Università di Torino.

Torino e il Piemonte hanno perduto via via il loro ruolo di capitale e di regione leader
anche nel campo scientifico, almeno per quanto riguarda la Zoologia. Alla morte di Camerano,
nel 1917, anche la scuola zoologica torinese perde d’importanza. Poiché la direzione
del museo è strettamente legata al mondo accademico, tra il 1918 e il 1930, si succedono 8
differenti direttori che, in genere, hanno interessi diversi rispetto al Museo. Infatti, la Biologia
animale si è decisamente trasformata e le nuove frontiere esigono personale, soldi, spazio
e nuovi laboratori e tutto ciò viene trovato a scapito della conservazione e dell’ostensione
delle collezioni museali.
Nel 1936, in seguito ad una decisione quanto mai discutibile, i Musei di Zoologia, di
Anatomia comparata e di Mineralogia furono trasferiti, “in via provvisoria”, nel palazzo dell’Ospedale
San Giovanni, Antica sede, dove si trovano tuttora. Il trasloco risultò nefasto per
un certo numero di esemplari e per una parte di materiale d’archivio definitivamente perso.
Tuttavia, il Museo riaprì al pubblico e i torinesi ripresero il gusto delle visite domenicali.
Circa sei anni più tardi, l’8 dicembre 1942, durante la seconda guerra, un intenso bombardamento
aereo danneggia, fortunatamente in modo non grave, il Museo di Zoologia che
nessuno aveva pensato di trasferire.
Nel 1950 il museo apre di nuovo al pubblico in versione ridotta, senza la galleria del secondo
piano e senza la sezione di Anatomia comparata (fig. 11).
A partire dagli anni Sessanta poi progressivamente la parte espositiva viene chiusa al pubblico
e, salvo una ripresa che caratterizza gli anni Settanta, il Museo di Zoologia piomba nel-
Fig. 11. Fotografia di un salone del Museo di Zoologia dell’Università di Torino attorno al 1950. Dipartimento
di Biologia Animale e dell’Uomo dell’Università di Torino.
359

360 l’oblío dal punto di vista ostensivo. Molto attivi invece sono rimasti e rimangono gli aspetti
legati alla tradizione ed alla storia del museo, che anzi vengono decisamente sviscerati rispetto
al passato soprattutto grazie allo studio dell’attività degli zoologi che a vario titolo
operarono nell’ambito dell’istituzione e che la resero importante.
LE COLLEZIONI UNIVERSITARIE
La ricchezza del Museo di Scienze Naturali dell’Università di Torino è straordinaria. Tutte
le collezioni sono infatti ricchissime di esemplari assai importanti dal punto di vista storico-scientifico,
sia mondiale che locale. Infatti oltre ai materiali raccolti, donati, o studiati
dai più celebri naturalisti dell’Ottocento e del Novecento, si conservano materiali inviati dai
Consoli Sardi nel mondo, oppure provenienti da personaggi storici, o dalle collezioni della
Dinastia Sabauda.
Inoltre, per quanto riguarda la zoologia, ogni collezione comprende un elevato numero di
tipi e molti sono gli esemplari appartenenti a specie estinte, o in via di estinzione (figg. 12, 13).
Di seguito è elencato, a puro titolo informativo, il numero di campioni presenti nelle
collezioni dei vari musei universitari:
ZOOLOGIA
Collezioni teriologiche: circa 6.000 esemplari
Collezioni ornitologiche: circa 21.000 esemplari
Collezioni erpetologiche: circa 10.000 esemplari
Collezioni ittiologiche: circa 11.000 esemplari
Collezioni di invertebrati: circa 1.000.000 di esemplari
ANATOMIA COMPARATA
collezione osteologica: circa 4.000 pezzi
collezione in liquido: alcune centinaia di vasi
Fig. 12. Alca impenne. Museo Regionale
di Scienze Naturali (collezioni del
Dipartimento di Biologia Animale e
dell’Uomo dell’Università di Torino).
Fig. 13. Tilacino. Museo Regionale di Scienze Naturali (collezioni
del Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo dell’Università
di Torino).

MINERALOGIA
15.408 campioni
63 esemplari di meteoriti
GEOLOGIA E PALEONTOLOGIA
collezioni geologico-petrografiche
collezioni di Molluschi; collezione Parona
collezione di Vertebrati
IL MUSEO REGIONALE DI SCIENZE NATURALI
Nel 1978, in seguito ad un’apposita convenzione, l’Università di Torino ha conferito le collezioni
di Zoologia, di Anatomia comparata, di Mineralogia e di Geologia e Paleontologia
al Museo Regionale di Scienze Naturali istituito, con apposita legge, dalla Regione Piemonte.
Sede del Museo Regionale è l’ex ospedale San Giovanni, Antica Sede. Il Museo è dotato
di un proprio budget, di personale proprio, di un Direttore e di un Comitato scientifico
formato da professori universitari, nominati dal Consiglio regionale.
Dal momento della sua nascita il Museo Regionale di Scienze Naturali si è trovato di
fronte ad una serie di difficoltà per quanto riguarda l’apertura delle sale espositive legate soprattutto
ai problemi connessi con il restauro del palazzo. Infatti, la presenza di un cantiere
interno all’edificio e una politica museale di diverso significato hanno determinato lo sviluppo
di altri tipi di attività.
Tuttavia, potendo disporre comunque di uno spazio espositivo sotterraneo, il Museo Regionale
ha realizzato una serie di mostre temporanee su vari argomenti delle Scienze Naturali,
fra cui sono da ricordare: “La collezione Spinola di Tassarolo”; “Il celacanto”; “I cristalli
di quarzo”; “Lepidoptera”; “Mamenki e Tsintao”; “Amphibia”; “Licheni”; “Minerali in Piemonte”;
“Pietre Figurate”; “Primates” e “Colibrì”.
Grande sviluppo è stato dato fin dall’inizio dell’attività alla parte editoriale con la pubblicazione
del “Bollettino del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino”, di una numerosa
serie di monografie e di svariati cataloghi delle collezioni, sia di quelle universitarie,
sia di quelle acquisite direttamente dal Museo Regionale.
Il Museo Regionale infatti ha decisamente incrementato alcuni settori – e in particolare
la sezione entomologica – con l’acquisto di importanti materiali italiani e stranieri, che sono
andati ad unirsi ai materiali raccolti dal personale del Museo in alcune missioni di ricerca
all’estero (Grecia, Madagascar, Australia, ecc).
Nel 2000 è stato aperto nuovamente al pubblico uno spazio espositivo corrispondente
al Museo di Zoologia dell’Università, in seguito a importanti lavori di riprogettazione museografica
di parte della struttura, sostenuti peraltro più da criteri architettonico-decorativi
che scientifici (figg. 14, 15). In questa sede e nell’ambito delle mostre temporanee opera il
personale del Centro didattico del Museo.
Infine, il Museo Regionale gestisce il giardino botanico “Rea”, in provincia di Torino,
ben frequentato da un pubblico di appassionati.
361

362
Fig. 14. Le sale del Museo universitario di Zoologia nel
nuovo allestimento (2000).
PROGETTI PER IL FUTURO
Fig. 15. Le sale del Museo universitario di Zoologia nel
nuovo allestimento (2000).
Il Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, con lo stimolo e l’ausilio del Comitato
scientifico, ha provveduto negli ultimi anni a riprogettare, a livello generale,
l’intera sezione espositiva sia dal punto di vista tematico che di localizzazione (fig.
16). Tuttavia, poiché il restauro dell’edificio non è ancora stato terminato, si attende
la consegna, peraltro imminente, del XIV lotto di lavori per iniziarne la progettazione
dettagliata.
Fig. 16. Progetto per le sale espositive del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino.

Infine, coll’intendimento di superare gli attuali problemi gestionali ed economici relativi
al Museo Regionale, la Regione Piemonte ha in avanzata fase di discussione un progetto
per la trasformazione della struttura museale in Fondazione.
Bibliografia
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Museo di Mineralogia, in L’Università
di Torino. Profilo storico e
istituzionale, Pluriverso s.r.l., Torino,
pp. 310-313.
363

La storia della geologia in Liguria attraverso
i documenti e le collezioni dell’Università di Genova
Maria Cristina Bonci
Marco Firpo
Cristiano Queirolo
Giammarino Stani
Dipartimento per lo studio del Territorio e delle sue Risorse (Dip.Te.Ris.)
Università degli Studi - Genova
RIASSUNTO
Alla fine del 1700, prima dell’istituzione di regolari corsi universitari, compaiono i primi studi di geologia
ligure, ad opera sia di accademici sia di autodidatti, all’origine delle prime collezioni di minerali, rocce
e fossili del Museo Universitario di Storia Naturale noto dal 1794. Uno dei fondatori della geologia ligure
è L. Pareto, che già nei suoi quaderni di campagna si distingue per rigore scientifico e capacità interpretativa.
Nel 1867 l’insegnamento di geologia e mineralogia viene staccato dalle altre discipline naturalistiche
ed affidato al prof. A. Issel; grazie a lui la sezione geologico-mineralogica del Museo si arricchisce
e diventa autonoma come Museo Geologico dell’Università. A. Issel è figura determinante nella geologia
ligure, come testimonia la sua vasta produzione scientifica, geologica, paleontologica e paletnologica.
Sotto la sua direzione il museo acquista una prestigiosa sede, acquisisce nuove collezioni, alcune delle
quali (Coll. Perrando) molto significative per la storia geologica ligure. Il suo successore G. Rovereto incrementa
ancora le collezioni grazie ai suoi studi (cartografia e geomorfologia liguri, Oligocene del Bacino
Terziario Piemontese, esplorazioni in Argentina). Recupero e valorizzazione di questa notevole eredità
scientifica costituiscono l’avvio della realizzazione di un allestimento museale a carattere regionale.
SUMMARY
The first studies of Ligurian geology by academics and self-taught scholars, the basis of the first collections of
minerals, rocks and fossils of the University Museum of Natural Science, in existence since 1794, emerged at
the end of 18 th century, before the introduction of regular university courses. One of the founders of Ligurian
geology was L. Pareto, whose field journals clearly distinguish him as a man of rigorous scientific method and
interpretative capacity. In 1867 the teaching of geology and mineralogy was separated from the other naturalistic
disciplines and entrusted to professor A. Issel. Thanks to his efforts the geological-mineralogical section of
the Museum was enriched and became autonomous as the University Geological Museum. A. Issel was the dominant
figure in Ligurian geology, as is witnessed by his vast geological, paleontological and paleoethnological
production. Under his direction the museum acquired a prestigious location and new collections, some of which
(Perrando Coll.) are very significant for the Ligurian geology. His successor, G. Rovereto, further increased the
collections through his studies (Ligurian geomorphology and cartography, Tertiary Piedmont Basin Oligocene,
explorations in Argentina). The recovery and promotion of this notable scientific heritage is the basis of a project
to establish a museum of regional character.
Le collezioni museali (reperti e strumenti) e gli archivi ad esse connessi sono importanti non
solo per il loro valore intrinseco (preziosità o rarità degli “oggetti”), ma anche, in alcuni casi
soprattutto, perché sono testimonianze di una storia di istituzioni, personaggi, comunità,
eventi. La loro conservazione e valorizzazione costituiscono quindi una strada obbligata da
percorrere, quando non si voglia rischiare di perdere la memoria del passato e, di conseguenza,
compromettere la comprensione del presente e la corretta costruzione del futuro.

Tale considerazione di carattere generale è pienamente applicabile anche alle istituzioni museali
scientifiche ed è alla base di questo primo tentativo di analisi del patrimonio universitario
nell’ambito delle Scienze della Terra (oggi appartenente al Museo del Dipartimento
per lo studio del Territorio e delle sue Risorse, Dip.Te.Ris.), costituito da documenti e collezioni,
che noi riteniamo fondamentali per la ricostruzione della storia della geologia ligure,
dai suoi albori nell’ambito degli studi di storia naturale allo sviluppo come scienza dotata
di una propria autonomia anche a livello accademico.
Il punto di partenza di questo patrimonio può essere collocato negli ultimi decenni del
XVIII secolo: risalgono infatti al 1784 le prime notizie sicure sull’esistenza di un piccolo Museo
Universitario di Storia Naturale, il più antico dell’area genovese, il cui scopo primario era
quello di fornire un fondamentale supporto alla didattica della cattedra omonima. È interessante
notare che le prime collezioni di tipo geologico derivano da due donazioni costituite entrambe
da minerali in parte di provenienza ligure: quella del marchese Gerolamo Durazzo
(1785) e quella del dott. Cesare Nicolò Canefri (1788) titolare presso l’Ateneo genovese della
cattedra di Storia Naturale (1785-1788) e poi di quella di Chimica e Mineralogia (1788-
1800) (Issel 1893a, 1900a, 1914). A partire da questo modesto, ma significativo inizio i vari
studiosi che hanno costruito la geologia ligure contribuiscono notevolmente ad arricchire le
collezioni di esemplari di rocce, fossili e minerali, sia attraverso la raccolta diretta sia attraverso
scambi, acquisti e doni. Il complesso di questi oggetti, della documentazione cartacea ad
essi collegata o risultante comunque dall’attività di ricerca (carte e sezioni geologiche, appunti
di campagna, pubblicazioni), e della strumentazione scientifica storica è la chiave per
leggere e comprendere gli sviluppi della geologia nell’area ligure tra il XIX e il XX secolo.
Tra i personaggi di maggiore importanza nella comunità scientifica che ha lavorato in Liguria
vanno ricordati: Lorenzo Pareto, Arturo Issel e Gaetano Rovereto.
Il marchese Lorenzo Pareto (1800-1865) può essere considerato il vero fondatore della
geologia ligure, anche se non è il primo o il solo ad interessarsi degli aspetti geologici, intesi
in senso ampio, della Liguria. Altri studiosi negli ultimi decenni del 1700 e nei primi del
1800 rivolgono la loro attenzione alla geologia, paleontologia e mineralogia del territorio ligure,
ma spesso rimangono nell’ambito di isolate e semplici, anche se a volte acute, osservazioni
o si limitano ad un approccio puramente descrittivo (vedi per esempio P. Spadoni,
S. Lavaggiorosso, D. Viviani, G. Guidoni). D’altra parte si tratta in genere di naturalisti, il
cui interesse per le Scienze della Terra è di tipo marginale o rientra in quel tipo di approccio
enciclopedico, che caratterizza la figura del naturalista prima che i vari rami della Storia
Naturale assumano connotati indipendenti e ben caratterizzati. Di tipo già più specialistico
e mirato è l’attività di G. Mojon e G.B. Canobbio, per i quali però l’indagine geologica costituì
un aspetto secondario dei loro studi (Doldi 1990).
Con Pareto, invece, la geologia, in particolare quella ligure, assume per la prima volta le
caratteristiche di scienza autonoma, dotata di una sua dignità e fondata su un esame rigoroso
dei dati derivanti dall’attività di terreno. Dalla lettura delle sue numerose pubblicazioni,
di cui varie dedicate al territorio ligure, emerge un’ottima capacità di osservazione che,
unita ad un notevole acume nell’interpretazione, gli permise di proporre sintesi di indubbia
originalità scientifica. In particolare la pubblicazione nel 1846 dei “Cenni geologici della Liguria
marittima” in “Descrizione di Genova e del Genovesato” e l’elaborazione della prima
carta geologica della Liguria (fig. 1b), prima in assoluto per le regioni italiane, costituisco-
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366 no una decisiva novità nel panorama degli studi geologici liguri, ponendo le fondamenta
per il lavoro di ricercatori del calibro, per esempio, di Arturo Issel, che riconoscerà esplicitamente
in una sua nota del 1918 il fondamentale apporto di questo studioso alla geologia
italiana. Significativi sono anche i suoi studi stratigrafici, che gettano le basi per la moderna
conoscenza dell’Oligocene e Miocene del Nord-Ovest d’Italia e che portano, nel 1865,
all’individuazione e definizione del piano “Serravalliano”. Bisogna ricordare che, fino alla
seconda metà del secolo, nell’Ateneo genovese la geologia non è ancora riconosciuta come
scienza autonoma rispetto alle scienze naturali: infatti solo nel 1866 viene istituito uno specifico
insegnamento di Geologia e Mineralogia.
Alla base dell’opera di Pareto stanno un’appassionata curiosità per l’ambiente che lo circonda
e, come già detto, un’elevata capacità di osservazione critica, che gli consentono di
redigere documenti cartografici e quindi di elaborare sezioni geologiche ancora oggi di notevole
validità scientifica. Tutto ciò risulta in maniera esemplare dai suoi quaderni di appunti
conservati presso l’Ateneo genovese. Questi manoscritti dopo la morte di Pareto vengono
donati dalla sua famiglia a P.M. Garibaldi, professore nella R. Università di Genova,
e da lui lasciati in eredità al figlio Cesare, che a sua volta nel 1915 li dona al prof. A. Issel
titolare della cattedra di Geologia. Da allora i quaderni di Pareto entrano a far parte del patrimonio
del Museo Geologico dell’Ateneo (ora Museo del Dip.Te.Ris.). Si tratta di cinque
album da disegno, in cui Pareto riporta le sue osservazioni di terreno, che sono corredate da
ben 473 sezioni geologiche (figg. 1a, c), in cui, come nota acutamente Issel (Issel 1918) è
da sottolineare la grande capacità di osservazione, ma soprattutto di «rintracciare i rapporti
reciproci che intercedono fra le diverse formazioni». Particolarmente interessante è anche il
fatto che egli abbia compreso bene lo stretto legame esistente tra geologia e paleontologia:
infatti le sue descrizioni geologiche dei bacini liguri sono corredate sempre dall’elenco dei
fossili in essi contenuti.
Il “genio” geologico di Pareto è tanto più significativo in quanto la sua è stata una formazione
completamente da autodidatta, non derivante da studi universitari; inoltre egli,
contrariamente ad Issel e Rovereto, non ha mai fatto parte del mondo accademico, da cui
peraltro era molto stimato e con cui spesso ha costruito rapporti di collaborazione scientifica.
Testimonianza di questi contatti sono, per esempio, i diversi reperti fossili del Pliocene
dell’area genovese ancora presenti nelle collezioni del Museo del Dip.Te.Ris.
Arturo Issel (1842-1922) (fig. 2b), senz’altro uno dei personaggi più significativi ed importanti
della geologia ligure e forse quello più conosciuto a livello nazionale, è figura determinante
nella storia del Museo Geologico e delle sue collezioni. La sua formazione universitaria
si svolge all’Università di Pisa, dove si laurea in Scienze Naturali, iniziando subito
ad occuparsi di ricerca proprio nel campo delle Scienze della Terra in ambito ligure. La sua
prima pubblicazione, uscita nel 1864, riguarda infatti una grotta ossifera del Finalese. Entrato
giovanissimo, nel 1866, nell’Ateneo genovese come primo incaricato di Geologia e
Mineralogia, diventa professore ufficiale di queste materie nel 1870 e dal 1891, col distacco
della cattedra di Mineralogia, resta titolare della Geologia, nonché direttore del collegato
Istituto e Museo, fino al 1917, pochi anni prima della sua morte avvenuta nel 1922 (fig. 5).
Issel è uno dei più brillanti esponenti di quella generazione di ricercatori di formazione
naturalistica che, tra il XIX secolo e i primi decenni del XX, con la loro attività a vasto raggio
pongono le basi per il successivo sviluppo specialistico nei singoli settori delle Scienze

Fig. 1. a) Sezioni geologiche (area di Finale Ligure) dai quaderni di appunti di Lorenzo Pareto; b) Carta geologica
della Liguria Marittima pubblicata da Lorenzo Pareto nel 1846; c) Sezioni geologiche (viaggio da Loano a Genova)
dai quaderni di appunti di Lorenzo Pareto.
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Naturali. La sua attività di ricerca è infatti molto diversificata, spaziando dalla zoologia all’antropologia,
alla paletnologia, ai vari rami delle Scienze della Terra, senza trascurare la divulgazione
scientifica (Rovereto 1924). In questo multiforme quadro è però il geologo Issel
che assume una rilevanza speciale: infatti egli, raccogliendo l’eredità di Pareto, di cui percepisce
appieno la forte carica innovativa in campo geologico, è il primo che affronta in maniera
organica lo studio dell’area ligure, esaminandone con lucido acume e spirito critico ed
innovatore gli aspetti geologici, mineralogici, geomorfologici, paleontologici e paletnologici.
Nascono così, oltre a numerosissime pubblicazioni su singoli argomenti, “Liguria geologica
e preistorica” del 1892 e “Liguria preistorica” del 1908, monumentali e geniali sintesi
dei suoi studi, oltre a fondamentali opere cartografiche come la Carta geologica della Liguria
pubblicata con S. Squinabol nel 1890 (fig. 2a).
L’attività poliedrica di Issel è fondamentale anche per il Museo Geologico dell’Università
di Genova, che proprio grazie a lui si trasforma da semplice Gabinetto universitario, legato
principalmente all’attività didattica, in una vera struttura museale, luogo di raccolta di
collezioni di notevole valore scientifico, fondamentale supporto alla didattica universitaria
e centro di una vivace attività di ricerca, con produzione di pubblicazioni, ancora oggi di
indubbia validità, su materiali liguri. Il trasferimento nella prestigiosa sede della Villetta Di
Negro nel 1912 corona l’attività museologica di Issel e segna indubbiamente il momento
più alto, purtroppo mai più eguagliato, nella storia del Museo (fig. 2c). Issel stesso sembra
ben consapevole di ciò, tanto che nel 1914 pubblica una nota sul nuovo allestimento del
museo, ricordando la storia della sede ed illustrando in modo particolareggiato le collezioni,
le correlate attrezzature e, particolare da evidenziare, la tipologia di esposizione e lo scopo
dell’istituzione museale. A questo proposito è interessante notare che anche nel campo
della museologia Issel dimostra originalità di idee e modernità di concezione.
L’impegno nel Museo coincide temporalmente con lo sviluppo della carriera universitaria
di Issel: già nel 1870 è Direttore del Gabinetto di Geologia; nel 1876, quando è promosso a
professore ordinario di Geologia e Mineralogia, il Gabinetto, diventato Museo, passa per decreto
ufficiale sotto la sua direzione e, per la parte geo-paelontologica, vi resta fino al suo pensionamento
nel 1917. In questo lungo intervallo di tempo le collezioni subiscono un fortissimo
incremento dovuto sia ad una serie di operazioni di acquisto e scambio (legate al prestigio
scientifico del Direttore) con privati ed istituzioni nazionali ed estere, sia a raccolte dirette
nell’ambito dell’intensa attività di ricerca di Issel stesso e dei suoi collaboratori.
Il nucleo principale dell’attuale patrimonio, pur dopo le perdite dovute a complesse
vicende nella seconda metà del secolo scorso (Marchini 1981), è ancora quello da lui costruito
pazientemente ed è fondamentale per ricostruire la storia della geologia ligure. In
particolare, risultato della sua diretta attività di ricerca è una parte non irrilevante delle
collezioni di fossili del Pliocene di Genova e del Levante ligure (Savonese, Albenganese
col Rio Torsero) (Issel 1876, 1877a, 1877b, 1878, 1879, 1910; Issel, Squinabol 1887) e
del Miocene della Pietra di Finale (Issel 1885, 1886) (fig. 2d) così come numerosi reperti
dell’Oligocene del Bacino Terziario Piemontese (B.T.P.) (Issel 1900b). Va sottolineato
che, soprattutto per il Pliocene, questa parte delle collezioni, oltre ad essere di per se stessa
di notevole rilevanza storica e scientifica, è in diversi casi (per esempio quello delle aree
urbane genovesi e savonesi) l’unica testimonianza di terreni ormai completamente obliterati
dall’urbanizzazione.

Fig. 2. a) Carta geologica della Liguria e Territori confinanti pubblicata da Arturo Issel e Senofonte Squinabol nel
1890; b) Arturo Issel (1842-1922); c) Interno del Museo Geologico dell’Università di Genova alla Villetta Di Negro
nel 1914; d) Tavola iconografica da La pietra di Finale nella Riviera Ligure di Arturo Issel (1885).
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Di pari valore sono altre collezioni, sempre riferibili al territorio ligure, acquisite a vario
titolo sotto la sua direzione: in particolare bisogna ricordare la Collezione Perrando (figg. 3a,
c, d), fondamentale per lo studio delle malacofaune e della flora oligocenica del B.T.P. (Issel
1889). Anche per il corpus dei calchi delle incisioni rupestri del Monte Bego (Valle delle Meraviglie)
di C. Bicknell, con i relativi quaderni di appunti (fig. 3), siamo debitori ad Issel: infatti
lo studioso inglese lo donò con legato testamentario all’Istituto di Geologia in memoria
dell’amicizia e dei rapporti scientifici con l’illustre professore genovese (Issel 1919).
Grande merito di Arturo Issel è anche l’aver saputo individuare e raccogliere attorno a
sé valide ed originali personalità scientifiche come Senofonte Squinabol, don Nicolò Morelli,
Paolo Principi e lo stesso Gaetano Rovereto, che in anni diversi ricoprono il ruolo di
assistenti nella struttura universitaria da lui diretta. Inoltre egli costruisce una rete di collaborazioni
con personaggi non accademici, ma di alto valore scientifico, quali don Deogratias
Perrando, Giovanni Battista Rossi e Clarence Bicknell per quanto riguarda la Liguria,
oltre a diversi altri in campo nazionale.
Senofonte Squinabol nel penultimo decennio del XIX secolo collabora come assistente
nel Museo Geologico, occupandosi soprattutto delle collezioni paleontologiche e dedicandosi
in particolare allo studio delle filliti oligoceniche della Collezione Perrando. Risultato
di queste ricerche sono alcune pubblicazioni ancora oggi fondamentali per la ricostruzione
della vegetazione del Terziario ligure-piemontese (Squinabol 1889a, 1889b, 1890b, 1891a,
1891b, 1891c, 1892) (fig. 3c); il suo prestigio scientifico si lega anche allo studio dei resti
di Anthracotherium dell’Oligocene della zona di Cadibona (Squinabol 1890a, 1891d), diversi
dei quali fanno parte delle collezioni del museo.
Nell’ultimo anno della sua attività di assistente nell’Ateneo genovese, tra il 1899 e il
1890, Squinabol viene affiancato da don Nicolò Morelli: figura singolare di sacerdote e
scienziato egli è uno dei padri degli studi di preistoria ligure con i suoi lavori sulle “caverne
ossifere” (Morelli 1888, 1890a, 1890b, 1890c, 1890d, 1890e, 1891a, 1891b, 1894, 1901)
(fig. 3b), dalle quali provengono molti dei reperti della Collezione paletnologica.
Il prof. Paolo Principi, geologo di notevole levatura, è assistente presso la cattedra di
Geologia, prima con Issel e poi con Rovereto, dal 1912 al 1926, quando lascia l’Università
di Genova per quella di Perugia. Nella sua multiforme attività scientifica assumono particolare
rilievo i suoi contributi nel campo della pedologia e della paleontologia vegetale. È
proprio in questo secondo ambito che la geologia ligure è particolarmente debitrice a Principi,
che, durante la sua permanenza a Genova, si è occupato dello studio delle collezioni di
vegetali fossili (per esempio filliti di S. Giustina e Sassello della Collezione Perrando), lasciando
notevoli ed ancora oggi validi contributi all’analisi delle flore oligoceniche (Principi
1912, 1914, 1916, 1921, 1924) (fig. 3a).
Don Deogratias Perrando, per lunghi anni parroco di Stella S. Giustina (SV), un piccolo
paese nell’entroterra di Albisola lungo la strada che porta a Sassello, è un appassionato
naturalista autodidatta che si dedica con particolare interesse agli aspetti geologici e paleontologici
dell’entroterra savonese (Issel 1889). Nei lunghi anni che consacra a questa sua
passione acquisisce una approfondita conoscenza di questa area e diventa una guida ed un
riferimento preziosi per diversi studiosi, quali Pareto, Issel, Sismonda (Doldi 1990), entrando
così a fare parte di quella comunità scientifica che ha costruito la geologia ligure. Sua
preziosa eredità è l’imponente raccolta di fossili (soprattutto del B.T.P.) e manufatti prei-

Fig. 3. Sullo sfondo pagina degli appunti di Clarence Bicknell sulle incisioni rupestri del Monte Bego; a) Olotipo
di Prunus antiqua Principi proveniente dall’Oligocene di Santa Giustina (SV) ed appartenente alla Collezione Perrando;
b) Don Nicolò Morelli ed Arturo Issel alla Caverna delle Fate (da Liguria Geologica e Preistorica di Arturo
Issel, 1892); c) Olotipo di Cocos robustifolia Squinabol proveniente dall’Oligocene di Santa Giustina (SV) e appartenente
alla Collezione Perrando; d) Ascia litica neolitica proveniente da Stella S. Martino (SV) ed appartenente
alla Collezione Perrando.
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storici dell’area ligure, che è stata oggetto di numerosi importanti studi ed ancora oggi costituisce
uno degli aspetti più interessanti delle collezioni storiche dell’Ateneo genovese
(figg. 3a, c, d).
Clarence Bicknell fa parte di quella schiera di inglesi innamorati della Liguria, che sulla
fine del XIX secolo vi si trasferiscono e ne studiano gli aspetti naturalistici e culturali. Particolarmente
interessato alla flora mediterranea, nel corso delle sue ricerche sul terreno comincia
a conoscere le incisioni rupestri dell’area del M. Bego e dal 1897 inizia a studiarle: si
devono così a lui i primi rilievi di queste incisioni e le prime ipotesi sulla loro genesi. In questi
anni una forte amicizia lo lega ad Issel, che apprezza il suo lavoro di autodidatta ed è in
memoria di questa amicizia che egli nel suo testamento lascia in eredità all’Istituto di Geologia
tutto il materiale relativo alle incisioni del Bego (Basso Peressut et Alii 1999) (fig. 3).
Giovanni Battista Rossi si avvicina all’archeologia preistorica proprio grazie ad Issel e diventa
un notevole cultore di questa materia. La sua intensa attività di ricerca sul terreno, soprattutto
a partire dal 1895, ha permesso di arricchire le collezioni paletnologiche del Museo
Geologico con materiale proveniente, oltre che da varie località italiane, da numerosi
importanti siti liguri, sia nuove stazioni all’aperto (Sassello, Ponzone, Dego, ecc.) sia grotte
(Balzi Rossi, Bergeggi) (Issel 1893b).
La successione di Issel, dopo il suo collocamento a riposo come docente di Geologia e
direttore del relativo Istituto, viene presa dal prof. Gaetano Rovereto (1870-1952), un altro
notevole esponente della geologia ligure. Rovereto, al pari di Pareto autodidatta come formazione,
partendo da uno spiccato interesse per le scienze naturali in genere approda alle
discipline geologiche grazie ai contatti avuti, durante congressi ed escursioni scientifiche,
con personaggi della statura di Issel e Squinabol (Conti 1952).
In particolare va ad Issel il merito di avere riconosciuto le notevoli potenzialità scientifiche
del giovane Rovereto, chiamandolo appena ventunenne a collaborare come assistente
straordinario presso il Museo Geologico dell’Università di Genova a fianco di don Morelli.
Da allora comincia la sua attività scientifica nell’ambito dell’Università genovese ancora prima
che, nel 1904, i suoi titoli scientifici vengano equiparati alla laurea e nel 1905 consegua
la libera docenza; dal 1905 al 1909 copre inoltre il ruolo di professore incaricato di Geologia
applicata. La sua fama come geologo varca presto i confini nazionali, tanto che, chiamato
dal Governo Argentino nel 1910 come consulente geologo, trascorre circa due anni
in Sud America, dove si dedica anche ad una intensa attività di esplorazione scientifica. Ritornato
nel 1914, dopo la parentesi americana, nell’Ateneo genovese, diventa il successore
di Issel sia come docente di Geologia che come Direttore dell’Istituto di Geologia fino al
1940 (fig. 5) e sarà la figura dominante della geologia ligure praticamente fino alla morte
avvenuta nel 1952.
Raccogliendo e sviluppando l’eredità scientifica di Issel egli dà un contributo fondamentale
allo sviluppo delle conoscenze in particolare sull’area ligure, approfondendone con competenza
ed originalità gli aspetti geologici, paleontologici, geomorfologici ed anche geologico-applicativi.
Di grande rilevanza sono soprattutto gli studi sul Tongriano del Bacino ligure-piemontese
(Rovereto 1897, 1898, 1900, 1913, 1914) e la monumentale monografia “Liguria
Geologica” (Rovereto 1939), degna continuazione di “Liguria geologica e preistorica”
del suo maestro Issel. Strettamente collegata è poi l’intensa attività di rilevamento geologico,
che porta a validissimi elaborati cartografici, quali gli inediti fogli 1.100.000 Genova (fig. 4a)

Fig. 4. a) Inedito del Foglio Geologico 1:100.000 (N. 82 - Genova) di Gaetano Rovereto; b) Tavola iconografica
da Nuovi Studi sulla Stratigrafia e sulla Fauna dell’Oligocene Ligure di Gaetano Rovereto (1914); c) Tavola iconografica
da Illustrazione dei molluschi fossili tongriani posseduti dal Museo geologico della R. Università di Genova
di Gaetano Rovereto (1900).
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374 e Rapallo-Chiavari. Nella Geologia Italiana Rovereto rappresenta il precursore delle moderne
teorie alloctoniste: già nel 1909 egli riconosce e segnala la presenza di una “finestra tettonica”
nel Cristallino del Savonese, fatto che, fortemente contrastato dalla comunità scientifica
italiana, portava nuova linfa alla teoria delle falde alpine di Argand e Lugeon. Ancor più significative
sono le sue ipotesi alloctoniste, sviluppate nel 1930, sull’interpretazione dei settori
più interni dell’Appennino settentrionale, ma la sua concezione trova ancora difficoltà ad
affermarsi negli anni ’60 con il conseguente rifiuto del Regio Comitato Geologico alla pubblicazione
dei suoi rilevamenti dei Fogli Rapallo e Chiavari.
La sua visione innovativa della geologia e la capacità di stretto collegamento con gli
aspetti geografico-fisici ne fanno inoltre uno dei più importanti esponenti italiani e non della
nascente geomorfologia, di cui ha posto molte basi concettuali nel trattato “Forme della
Terra” (Rovereto 1924-25). Parte non indifferente della sua produzione è poi il risultato delle
esplorazioni scientifiche condotte durante il suo soggiorno in Sud America. Rovereto è
stato quindi non solo uno dei grandi geologi liguri, ma anche uno scienziato capace di inquadramenti
teorici generali e di elaborazioni originali di osservazioni condotte in campi
molto vasti e diversificati.
Così come il suo maestro Issel, egli ha dato al Museo Geologico dell’Università genovese
un consistente apporto frutto della sua imponente attività di ricerca; questo prezioso patrimonio,
ancora notevole malgrado le perdite subite negli ultimi decenni del 1900, è costituito
soprattutto da fossili di siti liguri (vedi per esempio l’Oligocene del B.T.P. con lo
studio delle malacofaune e la descrizione di diversi olotipi) (Rovereto 1897, 1898, 1900,
1914) (figg. 4b, c), da reperti anche paletnologici provenienti dalle esplorazioni in Argentina
e dagli originali di elaborati cartografici inediti (Foglio 1:100.000 Genova ed un interessantissimo
rilevamento geologico 1:5.000 della città di Genova, risalente al 1897).
Questi brevi cenni sulle figure dominanti della geologia ligure, viste attraverso i documenti
e gli oggetti delle collezioni, dimostrano quanto il materiale storico del patrimonio
museale dell’Università di Genova costituisca una ricchezza notevole, perché testimonianza
di una lunga storia di ricerche ed appassionate investigazioni, che hanno coinvolto non solo
il mondo accademico, ma anche numerosi cultori delle Scienze della Terra. L’itinerario di
riscoperta degli “oggetti” delle collezioni, della strumentazione che ha accompagnato e reso
possibili le osservazioni scientifiche, del materiale documentario (appunti, rilievi, ecc.) è l’unica
via per ricostruire la storia della museologia scientifica universitaria genovese nel campo
delle Scienze della Terra e, parallelamente, il loro sviluppo ed evoluzione come branca
autonoma. Di conseguenza la salvaguardia e il recupero di questo patrimonio, la cui importanza
storica e scientifica negli ultimi decenni è stata decisamente sottovalutata, non devono
essere intesi come un’operazione di puro significato antiquario, ma devono essere considerati
come una inderogabile necessità se si vuole ancorare saldamente la geologia ligure,
intesa in senso ampio, alla storia del territorio in cui è nata. Il lavoro scientifico dei geologi
attuali non può assolutamente prescindere dall’opera dei precursori, le cui osservazioni e
sintesi sono spesso di un’attualità sconcertante, e quindi non può trascurare la fondamentale
testimonianza offerta dalle collezioni, dagli strumenti e dai documenti.
Il patrimonio storico-scientifico può costituire, oltre che una fonte di dati ancora necessaria
per molti studi, una base di partenza per la costruzione di un nuovo percorso museale,
che possa rendere merito, attraverso gli itinerari della memoria storica, a coloro che han-

Fig. 5. La storia delle Scienze della Terra nell’Ateneo genovese.
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376 no contribuito a porre le fondamenta dell’attuale progresso nelle Scienze della Terra. Il recupero
della memoria dei padri può così portare un decisivo contributo alla valorizzazione
di una regione, che dal punto di vista geologico è indubbiamente una delle più interessanti
d’Italia, stimolando inoltre anche tra i “non addetti ai lavori” una maggiore coscienza dell’importanza
che deve avere nella società attuale, ai fini di una migliore qualità della vita, un
corretto rapporto con la terra, intesa in senso geologico.
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I. Fossili delle Marne di Genova,
in “Ann. Museo Civ. St. Nat.
Genova”, 9, pp. 209-265.
A. Issel 1877a, Appunti paleontologici.
I. Fossili delle Marne di Genova,
in “Ann. Museo Civ. St.
Nat. Genova“, 10, pp. 401-407.
A. Issel 1877b, Appunti paleontologici.
II. Cenni sui “Myliobathes”
fossili dei terreni terziari italiani,
in “Ann. Museo Civ. St. Nat.
Genova“, 10, pp. 313-340.
A. Issel 1878, Appunti paleontologici.
III. Ritrovamento del genere
“Machaerodus” sugli Appennini
liguri, in “Ann. Museo Civ. St.
Nat. Genova“, 12, pp. 546-552.
A. Issel 1879, Appunti paleontologici.
IV. Descrizione di due denti di
Elefante raccolti in Liguria, in
“Ann. Museo Civ. St. Nat. Genova“,
14, pp. 153-169.
A. Issel 1885, La pietra di Finale
nella Riviera Ligure, in “Boll. R.
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A. Issel 1886, Catalogo dei fossili
della pietra di Finale, in “Boll. R.
Comitato Geol. It.”, 17, pp. 27-
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A. Issel 1889, Cenno sull’acquisto del
Museo Perrando, desunto dagli atti
del Comitato costituitosi allo scopo
di promuoverne l’acquisto, in
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A. Issel 1892, Liguria geologica e
preistorica, Genova, 2 vv., 854
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di Genova, in “Boll. Soc.
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A. Issel 1893b, Note paletnologiche
sulla collezione del sig. G.B. Rossi,
in “Bull. Paletn. It.”, 19, pp. 2-
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A. Issel 1889, Commemorazione di
Don Perrando Deo Gratias, fatta
alla Soc. Geologica Italiana, in
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di Geologia della R. Università
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Tongriano di Santa Giustina e
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A. Issel 1908, Liguria preistorica, in
“Atti Soc. Lig. St. Patria”, 40, pp.
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fossili del Genovesato e del Savonese,
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A. Issel 1914, La Villetta Di Negro
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dell’Università di Genova, in
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N. Morelli 1888, Relazione sugli
scavi eseguiti nella caverna Pollera
situata nel Finalese (Prov. di Genova).
Memoria, in “Mem. R.
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N. Morelli 1890a, La caverna del
Pastore o Livrea, situata nel territorio
di Toirano, in “Atti Soc. Lig.
Sc. Nat. Geogr.”, 1, pp. 210-
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N. Morelli 1890b, Nota sopra due
caverne recentemente esplorate nel

territorio di Toirano (Prov. Genova),
in “Bull. Paletn. It.”, 6 (1-
2), pp. 1-19.
N. Morelli 1890c, Nota sopra la Tana
del Colombo nel territorio di
Toirano (Prov. di Genova), in “Atti
Soc. Lig. Sc. Nat. Geogr.”, 1,
pp. 13-22.
N. Morelli 1890d, Nota sulla Caverna
della Bàsua (Toirano). Sunto,
in “Atti Soc. Lig. Sc. Nat.
Geogr.”, 1, p. 71.
N. Morelli 1890e, Resti organici
rinvenuti della caverna delle Arene
Candide, in “Atti Soc. Lig. St.
Nat. Geogr.”, 1, pp. 273-317.
N. Morelli 1891a, La caverna del
Pastore o Livrea, situata nel territorio
di Toirano, in “Atti Soc. Lig.
St. Nat. Geogr.”, 2, pp. 210-
213.
N. Morelli 1891b, Resti organici
rinvenuti della caverna delle Arene
Candide, in “Atti Soc. Lig. St.
Nat. Geogr.”, 2, pp. 40-81, 171-
205.
N. Morelli 1894, La caverna di S.
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Preistoria Ligure. Parte I, età protostorica
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L. Pareto 1846, Cenni geologici della
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di Genova e del Genovesato,
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P. Principi 1912, Alcune osservazioni
sulle dicotiledoni fossili del giacimento
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(Liguria), in “Atti Soc. It.
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P. Principi 1914, Synopsis della flora
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P. Principi 1916, Le Dicotiledoni
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di Santa Giustina e Sassello in Liguria,
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P. Principi 1921, Nuovo contributo
allo studio delle Tallofite, Pteridofite,
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fossili del giacimento oligocenico
di S. Giustina e Sassello in
Liguria, in “Mem. Per servire
Descr. Carta Geol. It.”, 7, pp. 1-
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di “Quercinea” ritrovato
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della Liguria. III. Gimnosperme,
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S. Squinabol 1892, Contribuzioni
alla flora fossile dei terreni terziari
della Liguria. IV. Monocotiledoni,
Atti R. Univ. Genova, 107
pp.
377

I musei universitari e il loro passato: il caso
delle collezioni mineralogiche dell’Università di Genova
Maria Cristina Bonci
Marco Firpo
Gabriella Lucchetti
Pietro Marescotti
Cristiano Queirolo
Dipartimento per lo studio del Territorio e delle sue Risorse (Dip.Te.Ris.)
Università degli Studi - Genova
RIASSUNTO
Il primo nucleo consistente di minerali, comprendente circa 800 esemplari di cui 400 liguri, entra nelle collezioni
dell’Ateneo genovese negli anni ’80 del XVIII secolo grazie alle donazioni Durazzo e Canefri. Nel
1805 viene pubblicata da G. Mojon la prima descrizione mineralogica della Liguria corredata da una carta
tematica della Val Polcevera. Nuove collezioni entrano in seguito nel Museo Universitario di Storia Naturale,
con un deciso incremento, anche degli strumenti, quando il Museo Geologico diventa autonomo
(1876) sotto la direzione di A. Issel, il cui assistente F. De Memme dà un contributo interessante agli studi
sui minerali liguri. Nel 1891, con l’affidamento della cattedra di Mineralogia a G.B. Negri, la sezione mineralogica
del Museo diventa a sua volta autonoma e collegata all’Istituto di Mineralogia. Nella seconda
metà del ’900 domina la figura del prof. E. Sanero, che si dedica soprattutto allo studio dei minerali liguri;
a partire poi dagli anni ’60, grazie alla collaborazione di P.O. Tiragallo, autodidatta e profondo conoscitore
della mineralogia ligure, si registrano un notevole incremento e valorizzazione delle collezioni (un nuovo
minerale, la tiragalloite, gli viene dedicato nel 1980 a riconoscimento della sua preziosa attività).
SUMMARY
The earliest reference to a University Natural History Museum is from 1784, thanks to donations of Durazzo
and Canefri and consisted of about 800 specimens, of which 400 had Ligurian provenance. G. Mojon published
the first mineralogical description of Liguria, including a thematic chart of the Val Polcevera, in 1805.
New mineralogical collections, thanks to various donations, enriched the Natural History Museum; the separation
of the teaching of Geology and Mineralogy from the other natural sciences in 1867 was accompanied by
the establishement of a Geological Museum in 1876 under the direction of A. Issel, who oversaw a gradual increase
in the mineralogical patrimony and instruments. A significant contribution to the study of Ligurian minerals
was made by F. De Memme, Issel’s assistant. When G.B. Negri was elected to the chair of Mineralogy in
1891, the mineralogical section of the Museum was separated from the geological-palaeontogical collections:
thus, in that year the autonomous Museum of Mineralogy, that would follow the fortunes of the Institute of
Mineralogy, was born. The second half of the 20th century was dominated by the figures of E. Sanero and P.O.
Tiragallo (a self-taught expert in Ligurian mineralogy): in their honour two new minerals are named saneroite
and tiragalloite, respectively.
L’istituzione della cattedra di Mineralogia e la creazione del relativo Museo nell’Università
di Genova risalgono al 1891 al termine di un lungo percorso, che ha portato questa scienza
a staccarsi progressivamente prima dalle altre Scienze Naturali e poi dalla Geologia. Questa
storia inizia almeno nel 1784: a quell’anno infatti fa riferimento Padre Lorenzo Isnardi
(in Issel 1914) in quella che è la segnalazione più antica di un Museo universitario di Sto-

ia Naturale a Genova. Isnardi nella sua Storia della R. Università di Genova riferisce che nel
1784 il Museo, diretto da Cesare Nicolò Canefri di Novi, docente di Storia Naturale presso
l’Ateneo genovese (1785-1788), era collocato nella stessa sala in cui aveva sede il Gabinetto
di Fisica e comprendeva, tra l’altro, circa 800 esemplari di minerali, di cui metà stranieri
ed altrettanti della Liguria. Un ulteriore consistente nucleo di minerali pregiati fu donato
al museo dal marchese Gerolamo Durazzo nel 1785 e dallo stesso Canefri nel 1788.
Solo nel 1790 il Museo di Storia Naturale ebbe assegnato uno spazio proprio situato presso
la Biblioteca Universitaria e fu affidato probabilmente a Stefano Lavaggiorosso (Padre
Gianbenedetto da Genova dell’Ordine di S. Francesco), insegnante di Storia Naturale ed
autore di una memoria geologica dal titolo Un cenno intorno alle montagne vicine alla nostra
città (1814) (Issel 1893, 1900, 1914).
Così come le altre Scienze della Terra, anche a livello universitario la mineralogia non ha
ancora una sua autonomia, malgrado la pubblicazione di alcuni interessanti studi a carattere
mineralogico, frutto di interessi collaterali di ricercatori attivi principalmente in altri ambiti
delle Scienze Naturali. Figura particolarmente significativa tra questi studiosi è Giuseppe
Mojon, docente di Chimica farmaceutica nell’Ateneo genovese (1806-1836), che nel
1805 pubblicò la prima descrizione mineralogica della Liguria, corredata da una carta tematica
della Valle del Polcevera (fig. 1).
Fig. 1. Sullo sfondo “Carta Fisica della Valle di Polcevera e sue Adiacenze” pubblicata da Giuseppe Mojon nel
1805; a) Goniometro a due cerchi Goldschmidt, Berlino, sec. XIX; b) Spettroscopio Sècretan, Parigi, sec. XIX; c)
Microscopio semplice Reichert, Vienna, sec. XIX.
379

380
La lunga permanenza di Domenico Viviani (1803-1837) sulla cattedra di Storia Naturale
ebbe una notevole importanza per lo sviluppo dell’omonimo museo, anche per quanto riguarda
le collezioni mineralogiche. Viviani, botanico di notevole levatura e fondatore della
scuola botanica genovese, ebbe, come la maggior parte dei naturalisti del suo tempo, interessi
molto vari anche nel campo delle Scienze della Terra e della Mineralogia in particolare,
pubblicando tra l’altro nel 1813 una memoria sulla ligurite, una varietà di “sfeno” da lui rinvenuta
sull’Appennino non lontano da Genova. Come già accennato, sotto la sua direzione
le collezioni si accrebbero significativamente, soprattutto quelle botaniche e zoologiche, ma
vi furono anche interessanti acquisizioni di materiale paleontologico e mineralogico: ad
esempio, gli Annali dell’Ateneo ricordano donazioni al Museo da parte di Gerolamo Guidoni
(fossili dei dintorni di La Spezia) e del tenente di vascello Thodon (minerali americani).
Nel 1839 la direzione del Museo di Storia Naturale, dal 1833 trasferito in una sala contigua
all’Aula Magna, e l’insegnamento della Zoologia e della Mineralogia (Storia Naturale)
furono affidati ad Agostino Sassi, mentre l’insegnamento della Botanica (che da allora divenne
cattedra autonoma) e la direzione dell’Orto dei Semplici furono attribuiti a Giuseppe
De Notaris (Doldi 1990). Due anni dopo, nel 1841, il Museo di Storia Naturale venne
nuovamente trasferito e collocato nel salone a ponente dell’Aula Magna con annesse due sale
dell’attiguo ex convento di San Carlo. La cattedra di Mineralogia e Zoologia e la direzione
del Museo di Storia Naturale passarono successivamente a Michele Lessona (1854-
1863), Salvatore Trinchese (1864-1871) e Pietro Pavesi (1872-1875). In tutto questo periodo,
mentre si arricchirono notevolmente le collezioni zoologiche, quelle geologiche e mineralogiche
ricevettero uno scarso impulso ed i nuovi ingressi furono costituiti quasi esclusivamente
da reperti paleontologici e paletnologici (Issel 1914).
La scissione delle Scienze della Terra dalle altre discipline naturalistiche si concretizzò nel
1867 con l’istituzione di un incarico di Mineralogia e Geologia nell’Ateneo genovese affidato
ad Arturo Issel, che in seguito diventò professore straordinario (1870) e quindi ordinario
(1876) della stessa disciplina.
Nel 1867 il Museo di Storia Naturale ed in particolare le raccolte di geologia e mineralogia
vennero trasferiti nella ex chiesa di S. Francesco Saverio (una sede piuttosto inadeguata
soprattutto per le collezioni zoologiche) a cura di Issel; circa dieci anni dopo, nel 1876,
per decreto, il Museo di Mineralogia e Geologia diventò autonomo e passò sotto la direzione
del professore di Mineralogia e Geologia, nel frattempo promosso a ordinario.
Attorno al 1880, sempre a cura di Issel, la parte più preziosa delle collezioni mineralogiche
e paleontologiche venne nuovamente trasferita in tre sale nella parte superiore del palazzo universitario,
accanto al Gabinetto di Chimica generale. In questi anni (1876-1887) la cura delle
collezioni mineralogiche fu affidata principalmente a Gustavo Deamezaga e Francesco De
Memme: il secondo in particolare fu autore di una nota su minerali liguri (De Memme 1881)
e di pregevoli ed accurati disegni dal vero di sezioni sottili di rocce (fig. 2) (Issel 1892).
Nel 1885 il Museo di Mineralogia e Geologia si arricchì della collezione di don Deogratias
Perrando, costituita da circa 8800 fossili (di cui oltre 2300 provenienti dalla zona attorno
a Sassello, Savona), di 650 manufatti preistorici della Liguria, nonché di numerose
rocce e minerali. A seguito di questa ingente acquisizione e dell’accresciuta mole delle collezioni,
nel 1886 le raccolte di rocce e fossili furono trasferite in nuovi locali in Via Santa
Agnese, mentre la collezione mineralogica e la suppellettile e strumentazione necessarie per

le indagini chimiche e cristallografiche restarono nel Palazzo Universitario: ebbe così inizio
la divisione tra il Museo di Mineralogia e quello di Geologia.
Quando nel 1891 Giovanni Battista Negri venne nominato professore straordinario di Mineralogia,
questa separazione si concretizzò: l’antico Museo di Storia Naturale a questo momento
risultò suddiviso in cinque sezioni autonome (Botanica, Zoologia, Anatomia comparata,
Mineralogia, Geologia) ognuna col suo assegno, direttore, aiuto o assistente e servente.
Nacque quindi in questo anno l’autonomo Museo di Mineralogia che seguirà le sorti dell’Istituto
di Mineralogia prima e di quello di Mineralogia e Petrografia dopo. A Negri, primo direttore
del Museo e dell’Istituto di Mineralogia, fu consegnata una dotazione così costituita:
una collezione generale di 2200 esemplari di minerali, una collezione didattica di circa altri
1250 esemplari, oltre 1000 esemplari di minerali liguri quasi tutti raccolti da Issel, rocce di varia
provenienza, una raccolta speciale di cristalli, non meno di 650 modelli per cristallografia,
tavole, libri, strumentazioni per indagini chimiche e cristallografiche, tra cui un goniometro
di Fuess, uno spettroscopio di Sècretan (fig. 1b), una bilancia idrostatica (Issel 1893).
Negri mantenne la direzione fino al 1922-23 e curò successivi trasferimenti che portarono
l’Istituto di Mineralogia nella sede di Vico S. Antonio. Suoi successori furono Luigi
Colomba (1923-1931), che curò il trasferimento dell’Istituto e Museo da Vico S. Antonio
a S. Martino di Albaro, e poi Gabriele Lincio (1932-1937).
In questi anni nel campo della Mineralogia sistematica ligure ed italiana importante fu il
contributo di Alberto Pelloux che, conservatore onorario dal 1906 della sezione di Geologia
e Mineralogia del Museo Civico di Storia Naturale di Genova, come libero docente di Mineralogia
insegnò Mineralogia Applicata presso l’Ateneo genovese dal 1932 al 1936, fino a diventare
Direttore (1938-39) dell’Istituto di Mineralogia. Il contributo di Pelloux fu particolarmente
significativo nello studio di molti minerali nuovi per l’Italia e nella valorizzazione di
giacimenti di minerali utili, quali quelli di molibdenite in Sardegna e di manganese nell’Appennino
ligure orientale (Monte Alpe e Monte Pu). A riconoscimento della sua attività, recentemente
(Orlandi et Alii 2002) il nome pellouxite è stato attribuito in suo onore ad un
nuovo minerale rinvenuto nella miniera di Buca della Vena (Alpi Apuane, Toscana).
La direzione dell’Istituto di Mineralogia passò nel 1939 a Carlo Perrier che la mantenne
fino al 1947. Perrier dedito, agli inizi della sua carriera universitaria, a studi di chimica
fisica, stimolato dalla collaborazione con il grande mineralogista Ferruccio Zambonini (operante
prima a Napoli e poi a Torino) si orientò sempre più verso gli studi di Mineralogia e
ne divenne un importante cultore, tanto che in suo onore verrà attribuito il nome di perrierite
ad un nuovo minerale (silicato di Terre Rare, Fe, Mg e Ti) trovato nel 1950 a Nettuno,
Lazio (Bonatti, Gottardi 1950).
Nel 1948 professore ordinario e direttore dell’Istituto di Mineralogia venne nominato
Edoardo Sanero, a cui si deve la ricostruzione dell’Istituto nei difficili anni del Dopoguerra.
L’Istituto, prima di Mineralogia e poi di Mineralogia e Petrografia e poi ancora di Mineralogia
(quando, a metà degli anni Sessanta, la Petrografia costituì un istituto autonomo),
divenne un moderno centro di ricerca, che ha dato importanti contributi tra l’altro alla sistematica
mineralogica in particolare ligure. A Sanero venne dedicato dai suoi allievi un
nuovo minerale (saneroite) rinvenuto nelle miniere di manganese di Gambatesa e di Molinello
(Val Graveglia) (Lucchetti et Alii 1981), primo di una significativa serie di nuove specie
di minerali, liguri e non, identificate e caratterizzate da ricercatori operanti nell’Istituto
381

382
Fig. 2. Sullo sfondo: disegni dal vero di sezioni microscopiche di rocce eseguiti da Francesco De Memme, da
“Liguria Geologica e Preistorica” di Arturo Issel (1892); a) Quarzo ametista; b) Quarzo rosso; c) Calcite; d) Solfo
e Aragonite; e) Axinite; f) Opale.

di Mineralogia, la cui direzione dal 1971 fu assunta da Giovanni Isetti che ne curò il trasferimento
nell’attuale sede del Palazzo delle Scienze, sempre in S. Martino d’Albaro.
In quegli anni, ed in particolare a partire dalla metà degli anni Sessanta, un ruolo di primo
piano nell’incremento e nella valorizzazione della collezione di minerali fu assunto da un collaboratore
dell’Istituto, Paolo Onofrio Tiragallo, autodidatta ma profondo conoscitore della
mineralogia ligure: a lui si devono il riordino e l’incremento delle collezioni, che nei decenni
precedenti si erano arricchite di nuovi acquisti (tra cui 390 campioni in larga parte provenienti
dalle miniere della Sardegna ed acquistati dagli eredi del generale Canzio; minerali acquistati
dal Comptoir Minéralogique Suisse Grebel Wendler; minerali e rocce acquistati dalla vedova
Ferretti; collezione di rocce Krantz; collezione di rocce e fossili acquistati dall’Istituto GeoMineralogico
Italiano), oltre che un importante contributo ai campionamenti indispensabili agli
studi di mineralogia sistematica, studi che costituiscono ancora oggi una delle principali linee
di ricerca dei mineralogisti dell’Ateneo genovese. A riconoscimento del suo prezioso lavoro nel
1980 gli è stato dedicato un nuovo minerale, la tiragalloite, rinvenuto nella miniera di manganese
di Molinello Val Graveglia, Liguria orientale (Gramaccioli et Alii 1980).
Isetti traghettò nel 1988 l’Istituto di Mineralogia nel Dipartimento di Scienze della Terra
(Di.S.Ter.), in cui confluì assieme agli Istituti di Petrografia, Geofisica, Geologia (fig. 3).
Nel 1999, infine, il Di.S.Ter. assunse la denominazione di Dip.Te.Ris. (Dipartimento per
lo studio del Territorio e delle sue Risorse) ed in esso confluirono gli Istituti di Zoologia,
Botanica e Scienze Ambientali Marine. Quindi, dopo oltre 200 anni, seguendo, da una parte
l’evoluzione delle conoscenze, dei rapporti di interdisciplinarità e soprattutto delle applicazioni
al territorio, e dall’altra le esigenze di razionalizzazione delle strutture dell’Ateneo,
di fatto sembra di tornare all’unica ma molteplice originaria entità di Storia Naturale.
Le raccolte dei minerali (figg. 2a-f) hanno seguito le alterne vicende istituzionali, hanno
subito le conseguenze dei vari trasferimenti, delle difficoltà dei periodi bellici e, più recentemente
(anni Settanta e Ottanta), dei ripetuti allagamenti dei locali dove erano state infelicemente
allocate; purtroppo questi ultimi eventi, con i conseguenti danneggiamenti al
materiale delle collezioni, alla documentazione ed all’inventario, hanno vanificato molto del
lavoro di riordino portato a buon punto da Tiragallo.
Parallelamente in questi anni la produttiva attività dei ricercatori genovesi ha portato all’identificazione
di molte specie minerali nuove, in larga parte liguri: saneroite, palenzonaite,
strontiopiemontite, gravegliaite, reppiaite, vanadomalayaite, mozartite, caoxite (Cabella
et Alii 1998 e bibliografia citata), heulandite-Sr, brewsterite-Ba (Coombs et Alii 1997), cerchiaraite
(Basso et Alii 2000), rosiaite, clinocervantite (Basso et Alii 1999 e bibliografia citata),
cavoite (Lucchetti et Alii 2002); l’olotipo di questi nuovi minerali è conservato nella
collezione mineralogica del Dip.Te.Ris. Della stessa collezione, che al momento ha un interesse
prevalentemente scientifico, fanno inoltre parte altri tre recenti nuovi minerali (tiragalloite,
medaite, namansilite) e molti minerali rari provenienti soprattutto dalle miniere di
manganese della Liguria orientale.
Fortunatamente è stata ben conservata la collezione degli strumenti storici, costruiti prevalentemente
nel 1800 e nella prima metà del 1900, tra i quali si possono citare il goniometro
a due cerchi di Goldschmidt (fig. 1a), il goniometro a un cerchio di Babinet, lo sclerometro
di Seebeck, lo spettroscopio Sècretan (fig. 1b), microscopi polarizzatori Reichert e
Zeiss, un microscopio semplice di Reichert (fig. 1c), la bilancia di Westphal.
383

384
Fig. 3. Le Scienze della Terra nell’Ateneo genovese.

Dopo una lunga fase di contrazione dell’interesse per le attività museali mineralogiche,
in conseguenza sia delle difficoltà sopra ricordate che della mancanza di personale, ma probabilmente
anche come prezzo pagato alla inevitabile trasformazione della Mineralogia da
una disciplina essenzialmente descrittiva ad una con contenuti sempre più sperimentali, un
rinnovato interesse sia scientifico sia per le valenze didattico-divulgative fa ben sperare per
il recupero e la valorizzazione di un patrimonio culturale attualmente ancora troppo trascurato.
Un importante ruolo di stimolo potrebbero dare le molteplici iniziative auspicate
dalla CRUI (Conferenza dei Rettori dell’Università Italiana) per la realizzazione di sistemi
museali di Ateneo a livello locale, regionale e nazionale, oltre che la recente adesione del
Dip.Te.Ris. alla proposta di costituzione di un Centro interuniversitario di Museologia e Sistematica
Mineralogiche.
Bibliografia
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le impressioni che sopra queste tro-
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D. Viviani 1814, Mémoire sur una
nouvelle éspece de mineral découverte
en Ligurie, lu à la prémière
classe de l’Académie de Gênes, dans
la séance du 24 juillet 1813, in
“Mém. Ac. Imp. de Gênes”, 3,
pp. 346-369.
385

Verso un Museo delle Scienze
dell’Università degli Studi di Ferrara
Carmen Loriga
Carlo Peretto
Dipartimento delle Risorse Naturali e Culturali
Università degli Studi - Ferrara
RIASSUNTO
L’Ateneo ferrarese ha una lunga tradizione. Fondato nel 1391, ha sempre svolto una intensa attività di
formazione e di ricerca a livello internazionale, contribuendo a caratterizzare profondamente la vita e la
storia della città di Ferrara. Nel corso dei secoli si è andato accumulando un patrimonio di ambienti, oggetti,
libri e documenti solo in parte fino ad oggi valorizzati. Fanno parte di questo insieme l’Orto botanico,
il Museo Anatomico “G. Tumiati” e il Museo di Paleontologia e di Preistoria “P. Leonardi”, oltre a
numerose raccolte prevalentemente scientifiche e librarie.
La necessità di una valorizzazione ampia di questo notevole patrimonio e lo sviluppo di iniziative di
formazione in ambito didattico, non solo attuabili attraverso l’impiego delle tecnologie avanzate, ma anche
ripercorrendo la storia del pensiero scientifico dal medioevo fino ai nostri giorni, hanno portato all’elaborazione
di un ampio progetto di sviluppo museale dell’Ateneo, in primo luogo con l’istituzione del
Centro di Museologia Scientifica e Naturalistica. Anche la costituzione del Dipartimento delle Risorse
Naturali e Culturali, con spazi dedicati alla museografia nell’attuale palazzo Di Bagno in corso Ercole I
d’Este, contribuirà in modo decisivo allo sviluppo dell’iniziativa.
SUMMARY
The University of Ferrara boasts a longstanding tradition. It was founded in 1391. It has ever since carried out
an intense educational and research activity at an international level, with a deep impact on the life and history
of the city of Ferrara. Over the centuries, a vast heritage of books, documents, objects and buildings, which
have so far only partially been enhanced, such as, for instance, the Botanical Gardens, the Anatomic Museum
“G. Tumiati” and the Palaeontology and Prehistory Museum “P. Leonardi”, in addition to a large number of
mainly scientific and book collections.
Hence, the need to effectively enhance this vast heritage. Several training and education activities have been
developed, resorting not only to new advanced technologies but also tracing back the history of the scientific
thinking from the Middle Ages to date. This has finally led to the designing of a sweeping museum development
project by the University, in collaboration with the Scientific and Naturalistic Museology Centre. The newly
founded Department of Natural and Cultural Resources, with specific premises dedicated to museography inside
Palazzo Di Bagno located in corso Ercole I d’Este, will provide a substantial contribution to the development
of this initiative.
Nel panorama del cospicuo patrimonio storico della città di Ferrara, l’Università dispone di
un’ampia gamma di beni culturali e scientifici di grande pregio, accumulati nel corso del
tempo a partire dalla sua fondazione, avvenuta nel 1391.
Le collezioni sono dislocate un po’ dovunque in uffici, studi, laboratori, biblioteche ed
anche in spazi espositivi e museografici, talvolta anche aperti alla visita del pubblico e comunque
predisposti per l’approfondimento scientifico e didattico in ambito universitario.
Le collezioni infatti rappresentano un momento di significativa formazione per gli studenti
iscritti ai vari corsi universitari.

Nel quadro degli interventi di valorizzazione di questo patrimonio da parte dell’Ateneo
ferrarese, sono state attivate varie iniziative che porteranno alla costituzione del Museo
delle Scienze in grado di conservare, valorizzare e rendere disponibile il patrimonio
esistente, con particolare riferimento all’Orto Botanico, ai Musei e alle Collezioni storico-scientifiche.
Questa iniziativa si inquadra nello sviluppo che il Ministero dell’Istruzione, dell’Università
e della Ricerca vuole dare a questo settore della conoscenza e del sapere. Sulla base
della consapevolezza che nelle Università italiane è conservato un patrimonio culturale
rilevante, a partire dal 1999 il MIUR ha istituito e promuove attraverso la Conferenza
dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) la Commissione Musei, l’Archivio Guida
in rete dei Musei Universitari e la costituzione di un Consorzio dei Musei Universitari
con lo scopo di migliorare la valorizzazione e la conservazione della cultura scientifica,
della salvaguardia dell’ambiente e dell’impiego delle nuove tecniche museologiche per iniziative
culturali.
In sintonia con queste iniziative, elenchiamo in breve di seguito le iniziative più recenti
realizzate dall’Università di Ferrara:
–l’Università di Ferrara è stata partner principale e organizzatrice del progetto approvato
dalla Commissione Europea dal titolo Landscape changes in relation to the human-environment
relationship in southern europe during the Pleistocene (RAPHAEL programme DGX/C4, ref.
98/034045; 97/M/IV/20), con partner l’Università di Torino, il Museo Archeologico “L. Donini”
di S. Lazzaro di Savena (BO); l’Institut de Paléontologie Humaine del Muséum National
d’Histoire Naturelle di Parigi (Francia), l’Instituto Politécnico de Tomar e il Museu Nacional
de Arqueologia di Lisbona (Portogallo), l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della
Regione Emilia-Romagna. Il progetto si è proposto come obiettivo primario lo sviluppo e la
cooperazione tra musei europei, in relazione alle conoscenze sull’evoluzione di specifici paesaggi
attraverso l’analisi dell’impatto antropico nel corso del tempo. Si trattava quindi di sviluppare
l’attività di indagine col coinvolgimento anche di giovani ricercatori, di promuovere
l’attività espositiva dei risultati raggiunti e di consentire un ampliamento del bacino di utenza
del pubblico dei differenti musei con iniziative di divulgazione su scala continentale;
– ha promosso una indagine sul proprio patrimonio storico-scientifico finalizzata alla
verifica dello stato di conservazione, dell’entità delle collezioni e della possibile fruizione da
parte degli studenti e del pubblico presso le varie sedi museali e dipartimentali;
–è stata redatta un’ampia ed esauriente pubblicazione delle raccolte scientifiche in uno
specifico volume curato da Carmela Loriga (2001), con saggi dei responsabili dei settori specifici
di appartenenza, con un’analitica esposizione dell’entità e dell’importanza scientifica e
didattica, oltre che storica delle collezioni;
– sono state poste le basi, tramite quest’opera di valorizzazione e di riordino, per una
maggiore collaborazione tra i referenti dei Musei, Dipartimenti, Istituti e Centri universitari:
l’interazione tra tutte le differenti realtà accademiche è infatti fondamentale per la riuscita
dell’iniziativa di salvaguardia, riorganizzazione e fruizione del patrimonio;
–è stato organizzato nel 2001 il Convegno su “Museografia scientifica, Didattica e
Comunicazione” che ha visto la collaborazione di rappresentanti di numerose Università
italiane e di responsabili e direttori di Musei scientifici e naturalistici; la manifestazione che
si è tenuta nell’aula magna dell’Università di Ferrara è stata accompagnata da una esposi-
387

388
zione sui temi della didattica scientifica, con particolare attenzione agli aspetti riguardanti
l’evoluzione biologica e culturale dell’uomo;
–è stato fondato il Centro di Museologia Scientifica e Naturalistica; quest’ultimo ha un
carattere interuniversitario e vede la partecipazione delle Facoltà di Scienze Matematiche,
Fisiche e Naturali, Farmacia e Medicina;
–è stato costituito, a partire dal 2001, il Dipartimento delle Risorse Naturali e Culturali
che tra i suoi obiettivi programmatici ha anche lo sviluppo delle attività di musealizzazione,
in merito soprattutto al patrimonio già di sua competenza relativo all’Orto Botanico
e al Museo di Paleontologia e Preistoria “P. Leonardi” e alle relative collezioni associate;
–è stato approvato dalla facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali un Master
di I livello in Museografia e Didattica Scientifica e Naturalistica, del quale si è prevista l’attivazione
in un prossimo futuro;
– sono stati attivati a partire dall’anno accademico 2001/2002 il corso di Laurea in Tecnologie
per i Beni Culturali e Ambientali e, dall’anno accademico 2002/03, il corso di Laurea
in Scienze dei Beni Culturali e Ambientali, quest’ultimo con modalità di formazione assistita
a distanza (FAD) in collaborazione col C.A.R.I.D. (Centro di Ateneo per la Ricerca,
l’Innovazione Didattica e l’Istruzione a Distanza; per maggiori informazioni: beniculturali@carid.unife.it);
– il Museo di Paleontologia e di Preistoria “P. Leonardi” ha realizzato il sito web con
informazioni di carattere generale sulle modalità di visita e sulle sezioni in cui si articola,
con immagini, commenti e informazioni dettagliate (http://www.museoferrara.it; oppure
http://www.museopreistoria.it).
Le iniziative elencate rappresentano una base certa per lo sviluppo del Museo delle Scienze
finalizzato alla realizzazione di un organico Polo Scientifico in grado di contenere e armonizzare
l’insieme già esistente, rappresentato in particolare dal Museo di Paleontologia e
Preistoria “P. Leonardi”, dall’Orto Botanico e dal Museo Anatomico “G. Tumiati”, oltre che
dalle numerose collezioni di vari Dipartimenti, tra i quali si ricordano quelli di Fisica, Chimica,
Matematica, Scienze della Terra, delle Risorse Naturali e Culturali.
Un’accurata quanto dettagliata presentazione del patrimonio è contenuta nel volume
pubblicato sugli Annali dell’Università di Ferrara a cura di Carmela Loriga dal titolo Verso
un Museo delle Scienze. In esso ha trovato spazio anche il consistente patrimonio della biblioteca
dei Dipartimenti di Matematica e di Giurisprudenza, “Fondi antichi” di Botanica,
Zoologia, Scienze della Terra e Anatomia Umana.
Pur non potendo presentare in dettaglio il rilevante patrimonio preso in esame nel volume
citato, crediamo sia utile per il lettore esporre alcune informazioni generali riguardanti
gli elementi di maggior caratterizzazione sia in termini di organicità che di scientificità delle
collezioni stesse.
L’ORTO BOTANICO
La data di nascita “ufficiale” è il 1771, anno in cui la Cattedra dei Semplici diventò Cattedra
di Botanica (col termine Semplici si indicavano le piante medicinali). L’orto tutta-

via esisteva anche antecedentemente a questa data, già nel ’500, sotto forma di giardini
legati al mondo accademico, quale ad esempio il giardino di Palazzo Paradiso rappresentato
nella Carta del Bolzoni del 1747 (fig. 1) con quattro grandi aiuole regolari. Nel 1792
il catalogo delle piante dell’Orto riporta 2.800 specie, oltre 500 delle quali di uso medicinale.
A partire dal 1803 importante fu l’opera del Prefetto dell’Orto Prof. Antonio Capanna.
A questo studioso si deve la pubblicazione della Farmacopea ferrarese stampata in 20 edizioni,
anche non italiane, e la realizzazione di un cospicuo erbario comprendente più di 800
generi di piante essiccate ancora oggi conservate.
Dopo alterne vicende, l’Orto Botanico venne trasferito nel 1962-63 nella sede attuale,
il giardino del Palazzo Turchi-Di Bagno. Ha una superficie di 4.500 mq con circa 2.000 specie
suddivise in numerose sezioni (fig. 2):
– sistematica, con essenze suddivise con criterio sistematico in più settori; fra questi ricordiamo
“l’aiuola dei banani” e “l’aiuola delle palme”;
– piante utili, comprendenti le piante utilizzate dall’uomo, suddivise in aromatiche, medicinali
e di uso antropico vario, fra le quali quelle per l’industria tessile;
– giardini a terra, con piante sostanzialmente ornamentali suddivise in 13 piccoli giardini
tematici, come ad esempio quello roccioso, acquatico (fig. 3), della torbiera, ecc.;
Fig. 1. Carta di Ferrara del Bolzoni
risalente al 1747 sulla quale è visibile
il palazzo Paradiso (189) e l’Orto
dei Semplici (281).
389

390
Fig. 2. Piantina dell’Orto botanico.

– piante esotiche, conservate in vaso e poste in serra durante l’inverno; si tratta di collezioni
di piante tropicali o subtropicali con piante grasse, epifite, carnivore, esotiche ornamentali,
ecc.
L’Orto Botanico è aperto al pubblico e sono previste anche guide organizzate per comitive
e per scolaresche.
IL MUSEO ANATOMICO “GIOVANNI TUMIATI”
Fig. 3. Orto Botanico: vasca delle
piante acquatiche.
Nel ’700 la Scuola di Medicina di Ferrara era rinomata, come testimonia il bell’esemplare
di Teatro Anatomico risalente al 1731 conservato nella sua sede originaria di Palazzo Paradiso.
È in questo periodo che sempre più i preparati anatomici rivestivano un importante
ruolo nell’ambito della ricerca e della didattica per cui si radicò l’uso di conservarli ed eventualmente
sostituirli quando usurati.
In questo ambito si inquadra l’attività del Dott. Giovanni Tumiati, che poi divenne professore
titolare di Anatomia; i suoi preparati venivano raccolti in un “Gabinetto Anatomico”,
venendo così a costituire il primo nucleo del futuro Museo Anatomico.
Dopo alterne vicende (comprendenti il trasferimento delle raccolte dapprima nelle
“Stanze Anatomiche” nel 1840 e poi nel 1892 nel Palazzo estense di Schifanoia ed infine
negli anni 1934 e 1935 presso l’Istituto di Anatomia umana normale in Via Mortara) il materiale
è stato più volte riorganizzato con perdita di esemplari e della originaria distribuzione,
che si dovrà cercare di ripristinare nei prossimi anni (fig. 4).
Le collezioni sono contenute in una trentina di vetrine e comprendono:
– preparati osteologici per macerazione o essiccamento;
– preparati di anatomia dissettoria;
– calchi e statue anatomiche in gesso e modelli e statue in cera realizzati da Calenzoli di
Firenze, Ziegler e da Tortori, preparatore quest’ultimo del Museo di Firenze;
– materiali in liquidi conservativi;
– antichi strumenti anatomici, tra i quali seghe, coltelli, siringhe metalliche, ecc.;
391

392
Fig. 4. Museo Anatomico “G. Tumiati”: veduta generale di alcune vetrine (da Battaglia e Chiarini 1995).
– preparati istologici;
– preparati antropologici e di animali di diverse specie.
Il Museo Anatomico rappresenta una testimonianza dello sviluppo delle conoscenze mediche
nella città di Ferrara e rimarca il ruolo non certo secondario dell’Università nel contesto
degli studi in questo specifico settore della conoscenza.
IL MUSEO DI PALEONTOLOGIA E DI PREISTORIA “PIERO LEONARDI”
Fondato nel 1964 dal Prof. Leonardi, è situato nella sede del Palazzo Turchi-Di Bagno, in
Corso Ercole I d’Este, prospiciente il Palazzo dei Diamanti. Nel suo insieme costituisce un
punto di riferimento per le discipline naturalistiche e rappresenta un appuntamento didattico
non solo universitario, ma anche per la scuola media inferiore e superiore. Aperto al
pubblico, è fruito da migliaia di visitatori, in particolare rappresentati da alunni della scuola
dell’obbligo. È garantito un servizio di visite gratuite e a pagamento su prenotazione condotte
da personale interno ed esterno convenzionato.
Le collezioni occupano le sale del piano nobile del Palazzo e sono raggruppate in quattro
principali sezioni:
Sezione di Paleontologia dei Vertebrati (figg. 5, 6)
Un’ampia serie di grandi vetrine presenta le tappe fondamentali dell’evoluzione dei vertebrati,
accompagnata da reperti di notevole interesse paleontologico e collezionistico. Il per-

Fig. 5. Museo di Paleontologia e Preistoria: sala di Paleontologia dei Vertebrati (Fotografia R. Brandoli).
Fig. 6. Museo di Paleontologia e Preistoria: elefante di piccola taglia (Elephans mnaidriensis) del Pleistocene della
Sicilia (Fotografia R. Brandoli).
393

394
corso si snoda attraverso una rassegna altamente scientifica e allo stesso tempo didattica, nella
quale emergono per la loro importanza numerosi originali di pesci (quali quelli provenienti
dalla “pesciaia” di Bolca), anfibi, rettili e mammiferi. Di questi ultimi alcune filogenesi
sono spiegate in dettaglio quali quelle dei carnivori, dei proboscidati, dei rinocerontidi
e degli equidi. Al centro della sala in alcune vetrine sono montati gli scheletri interi di alcuni
mammiferi, tra i quali l’orso delle caverne, un elefante di piccola taglia del Pleistocene
della Sicilia e un ippopotamo.
Sezione di Paleontologia degli Invertebrati
La sezione comprende 6 vetrine a doppia facciata espositiva. È una rassegna di ordine sistematico
di protisti ed invertebrati, dai poriferi agli echinodermi. Lo schema ostensorio comune
a tutte le vetrine comprende: cenni di morfologia ed anatomia del vivente, distribuzione
cronologica della relativa categoria tassonomica, morfologia dello scheletro, ruolo sedimentogeno,
campioni originali di specie e loro adattamento all’ambiente di vita.
Sezione di Geologia Storica (fig. 7)
Questa sezione, prevalentemente usata per la didattica universitaria e della scuola media superiore,
illustra l’evoluzione della vita sulla Terra ed i principali eventi geologici delle Alpi
meridionali mediante colonne stratigrafiche, fossili-guida, campioni di rocce, ricostruzioni
ambientali e paleogeografiche. La rassegna coinvolge il Paleozoico, il Mesozoico ed il Ce-
Fig. 7. Museo di Paleontologia e Preistoria: vetrina del Paleogene nella sezione di Geologia Storica (Fotografia
R. Brandoli).

nozoico. L’osservatore può constatare, soprattutto attraverso i fossili, i cambiamenti avvenuti
nella storia degli invertebrati e nei loro adattamenti.
Sezione di Paleontologia Umana e Preistoria (fig. 8)
Una sala è dedicata all’evoluzione dell’uomo, dal punto di vista biologico e culturale. L’esposizione
evidenzia in particolare gli ultimi 5 milioni di anni, dalle Australopitecine fino
all’età storica, passando attraverso le tappe fondamentali che caratterizzano il nostro
percorso evolutivo con la successione delle differenti forme umane (Homo habilis, H. erectus,
Homo neanderthalensis, Homo sapiens) e degli aspetti tecnologici e comportamentali,
dalle prime testimonianze della produzione degli strumenti, alla diffusione in Eurasia, all’utilizzo
del fuoco, alla colonizzazione dell’Europa da parte dei primi uomini anatomicamente
moderni e di seguito fino alla comparsa e allo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento,
all’età dei metalli, ai primi processi di urbanizzazione. La sequenza è corredata
da modelli di calchi umani e da reperti della cultura materiale per lo più originali, anche
di grande valore estetico. Negli ultimi anni la sezione si è arricchita di calchi, anche di
grandi dimensioni, di antichi suoli di frequentazione antropica di importanti giacimenti
quali quelli di Isernia la Pineta (Molise), della Grotta di Fumane e del Riparo Tagliente
(Verona).
Il patrimonio dell’Università di Ferrara, oltre ai settori espositivi sopra descritti in sintesi,
comprende numerose raccolte di antichi strumenti di misura e più in generale di ricerca
Fig. 8. Museo di Paleontologia e Preistoria: veduta generale delle vetrine dedicate al Paleolitico inferiore e medio
(Fotografia R. Brandoli).
395

396
provenienti specialmente dai Dipartimenti di Fisica, Chimica e Scienze Farmaceutiche.
Quest’ultimo conserva gli arredi originali della Premiata Farmacia Navarra (fine ’700-primo
’800) opportunamente conservata e visitabile.
Di particolare interesse è inoltre il complesso dei libri storici, conservati un po’ in ogni
dipartimento, tra i quali spicca il “Fondo Antico”, insieme di volumi significativi quanto rari
a contenuto prevalentemente zoologico, botanico e di anatomia umana con autori quali
Antonio Campana, Giuseppe Lanzoni, Leonhard Fuchs, Vallisneri e Buffon solo per citarne
alcuni fra i più noti.
IL FUTURO
L’Università di Ferrara è nella situazione di poter sviluppare un sistema museale a carattere
scientifico moderno e allo stesso tempo innovativo. Soprattutto possono essere questi i principali
obiettivi da raggiungere:
1. Il primo riguarda lo sviluppo di una organica e concatenata presentazione di tutta la
realtà scientifica e naturalistica dell’Ateneo, evitando gli attuali settorialismi privi di comunicazione
e gli interventi parcellari, più legati ad iniziative personali di buona volontà, che
ad un’azione unitaria e opportunamente programmata. Deve trattarsi di una riorganizzazione
in termini di continuità e sviluppo non più parcellare, prevedendo anche l’eventuale
dislocazione in ambienti differenti rispetto a quelli attuali delle collezioni; è inoltre necessario
inserire i diversi messaggi culturali in più percorsi di visita, sia ad alto contenuto scientifico
per accontentare i fruitori più esigenti, sia in relazione ad una didattica comprensibile
ad ogni livello e grado dell’odierno ordinamento della scuola o del visitatore meno preparato.
2. Il secondo aspetto è connesso con l’impiego delle tecnologie più moderne nella presentazione
del patrimonio, non per desiderio di imitazione di quanto propone la società
odierna in altri settori di successo, quanto piuttosto per la necessità di avvicinarsi alle attese
di un pubblico sempre più portato ad un tipo di apprendimento fatto di ricostruzioni,
immagini vere o virtuali, ad un coinvolgimento diretto anche con il gioco di metodologie
scientifiche e di prove pratiche nel fare, analizzare e studiare. È una interattività del tutto
nuova, che supera il concetto dell’oggetto in quanto espressione unica di cultura, e che va
sviluppata con il coinvolgimento diretto del visitatore.
3. Importante è la definizione dei luoghi di visita e le modalità di presentazione delle
raccolte in spazi adeguati, individuati in particolare nel Palazzo Turchi-Di Bagno (fig. 9) che
in un prossimo futuro sarà disponibile per lo sviluppo della parte ostensoria accompagnata
da spazi per la didattica sperimentale e innovativa.
4. L’istituzione e il potenziamento adeguato di una struttura autonoma, quale è il
Centro di Museologia Scientifica e Naturalistica, rappresentano un momento di coesione
nei riguardi del patrimonio ora dislocato in numerose sedi, spesso non organizzate
nel migliore dei modi per le attività di conservazione e di presentazione al pubblico. Una
specifica volontà accademica, peraltro già espressa, garantirà quindi un livello di valorizzazione
in sintonia con le richieste sempre più insistenti provenienti dalla moderna
società.

Fig. 9. Veduta del Palazzo Turchi-Di Bagno all’incrocio tra Corso Ercole I d’Este e Corso Porta Mare. Il palazzo è
opera dell’Architetto Biagio Rossetti (1493) (Fotometalografica emiliana Spa).
5. Un ulteriore obiettivo è rappresentato dalla necessità di rafforzare l’interazione con la
realtà culturale della città di Ferrara e del suo territorio, con lo sviluppo e la ratifica di collaborazioni
con le Istituzioni che già svolgono specifiche attività in questo settore della conservazione
e della valorizzazione del patrimonio scientifico e, più in generale, nel campo della
cultura. Lo scopo è creare un’ampia rete in grado di migliorare la qualità dell’offerta non
solo in termini di contenuti, ma anche di completezza e integrazione reciproca delle informazioni
disponibili.
6. È necessario attivare iniziative di sviluppo parallele, soprattutto connesse con visite al
territorio originario di provenienza dei materiali, ad esempio con l’organizzazione di viaggi,
percorsi extramuseali, incontri tematici, ecc., anche attraverso la partecipazione della imprenditoria
giovanile o più in generale privata.
In sostanza con l’istituzione di un Museo delle Scienze dell’Università si vuole sviluppare
una realtà in divenire, una fucina in continua produzione e soprattutto in sintonia con le
esigenze di una moderna società attenta ai temi del sapere scientifico. Il Museo deve avere
la possibilità di attirare su di sé la necessaria attenzione apportatrice di visitatori, iniziative
e, perché no, di finanziamenti per il raggiungimento dei suoi obiettivi.
397

398
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A. Bruni, F. Piccoli 1992, L’Orto
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di), Orti botanici, Giardini alpini,
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G. Gambini, L. Pepe 1983, La raccolta
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dell’Università di Ferrara, Università
degli Studi di Ferrara,
Istituto di Matematica.
C. Loriga Broglio 1986, Il Museo dell’Istituto
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C. Loriga (a cura di) 2001, Verso un
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dell’Università di Ferrara,
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Ferrara, Volume speciale, pp. 1-
100.
R. Posenato 1991, Il Museo del
Dipartimento di Scienze Geologiche
e Paleontologiche, Manifestazioni
6° centenario Università
di Ferrara, Tipografia Artigiana,
Ferrara.

Le radici storiche di un museo:
ispirazione e forza per il futuro
Elisabetta Cioppi
Marta Poggesi
Museo di Storia Naturale
Università degli Studi - Firenze
RIASSUNTO
Il recupero delle tracce del cammino storico dei musei si rende oggi quanto mai necessario. Non limitato
alle più documentate e importanti tappe evolutive, ma esteso alle molteplici attività proprie della vita
di un museo. Questo spirito di recupero, estremo se vogliamo, comporta difficoltà non lievi da superare
ma può apportare non lievi soddisfazioni.
Con i dovuti distinguo, è necessario imparare a rispettare il lavoro dei nostri predecessori: idee, progetti
grandi o piccoli, realizzazioni quotidiane o particolari. Nei musei dovremmo imparare a conservare
tutte le testimonianze dei processi lavorativi del passato ma anche di quelli presenti. Imparare a documentare
si rende necessario. Insegnare a documentare è compito proprio di un museo.
Il lungo cammino del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze è frutto di idee e progetti
plurisecolari, la cui documentazione è ricca ma minacciata. Esperienze anche recenti di interventi di restauro
e recupero di antichi spazi espositivi realizzati in museo ci confortano e ci spronano ad andare avanti
su questa difficile strada. Importante è però anche salvaguardare le testimonianze delle passate attività
compiute dietro la scena e che trasmettono antichi saperi: dalle vetrine lignee ai calchi ottocenteschi, dalle
lastre fotografiche ai cartellini, dai cataloghi manoscritti alle montature degli scheletri.
Ecco quindi la necessità di diffondere a tutti, dagli operatori agli amministratori e al pubblico, questa
cultura del recupero, questa filosofia delle tracce, per garantire alle future generazioni la possibilità di
prendere in mano quel filo della memoria che dalle nostre origini ci conduce fino ad oggi.
SUMMARY
The life of the Natural History Museum of the University of Florence is an outcome of secular plans and ideas,
whose documentation is rich but threatened. Recent restorations and the recovery or individuation of ancient
museum’s rooms encourage us to go ahead on this difficult road. Therefore the Great hall of skeletons at La Specola
has undergone important restoration and is now a mandatory stop in visitors’ tours. At the end of the XIX
century, in the present hall of Board of directors of the University of Florence there was the Indian Museum
founded by Prof. De Gubernatis which presently makes part of the Anthropological Section of our museum. A
peculiar hall, called Strozzi hall, has been recently restored and Marquis Carlo Strozzi’s historical paleontological
collection is there preserved in the original wooden display.
Fissiamo una data: 1775, nascita del Museo di Storia Naturale di Firenze e cioè, come allora
fu chiamato, Imperial Regio Museo di Fisica e Istoria Naturale.
Il Palazzo Torrigiani alla Buca di Annalena era stato acquistato 4 anni prima dal Granduca
Pietro Leopoldo e restaurato, ad opera dell’architetto Gaspare Paoletti, appositamente per trasferirvi
le collezioni naturalistiche e scientifiche medicee conservate nella Galleria degli Uffizi
e in Palazzo Pitti. Nel 1789 fu completata la costruzione di un Osservatorio Astronomico che
vi rimarrà per più di un secolo, da cui il nome “La Specola” comunemente attribuito ancor’oggi
alla Sezione Zoologica del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze.

400 Due sono i caratteri originali dell’I.R. Museo di Fisica e Storia Naturale da tenere presenti:
il Granduca volle che il Museo fosse aperto al pubblico e precisamente dividendo «la
mattinata in due ostensioni, la prima (dalle 8 alle 10) per il popolo di città e contado e la seconda
(dalle 10 alle 13) per le persone intelligenti e di riguardo...» e che si dotasse anche di
«macchine ed istrumenti fatti venire senza risparmio di spesa da Londra e da Parigi». Felice
Fontana, abate roveretano e famoso fisiologo, fu nominato primo direttore del Museo. Egli,
sempre nel 1775, scrisse: «il Granduca apre con avveduta liberalità i suoi tesori per illustrare
il suo popolo e per renderlo felice col farlo più culto». Inoltre il Granduca Pietro Leopoldo volle
che Fontana e il suo vicedirettore Giovanni Fabbroni compissero due viaggi di studio in
Francia (1775-77) ed in Inghilterra (1778-80), presso l’Académie des Sciences e la Royal
Society, così da far entrare i due in contatto con il mondo accademico europeo e per assicurare
al Museo il meglio della letteratura scientifica dell’epoca, patrimonio librario confluito
poi nella Biblioteca del Museo. Sempre in questi anni fu istituita presso il Museo
un’officina ceroplastica dalla quale usciranno le preziose cere anatomiche che ancora oggi,
perfettamente conservate, stupiscono per la loro bellezza e veridicità e che costituivano all’epoca
un materiale unico per lo studio dell’anatomia umana.
Quindi uso pubblico e privato, ostensione ma anche ricerca: questi sono i connotati originari
individuabili nell’antico Museo fiorentino.
Nel 1999 si è ricostituito in un’unica struttura il Museo di Storia Naturale dell’Università
di Firenze, ricomponendosi a partire dai vari musei in cui si era suddiviso. Infatti l’accresciuta
mole delle collezioni naturalistiche e strumentarie e lo sviluppo di cattedre distinte delle
varie discipline scientifiche (zoologia, mineralogia, paleontologia, ecc.) resero necessaria sul
finire del 1800 la ripartizione del materiale conservato in vari musei o gabinetti, mentre le cere
anatomiche e le collezioni zoologiche rimasero nella sede originaria, alla Specola. Oggi esso
conta 6 Sezioni che fanno capo però ad un’unica unità amministrativa, dislocate in più sedi
nel centro storico di Firenze: Antropologia (a Palazzo Nonfinito, in Via del Proconsolo),
Zoologia (alla Specola, in via Romana), Botanica, Mineralogia, Paleontologia e l’Orto Botanico
(nell’area di San Marco). La strumentazione scientifica invece fin dal 1930 trovò collocazione
adeguata nel nuovo Museo di Storia della Scienza di Palazzo Castellani.
Recentemente sono stati effettuati interventi volti a ripristinare alcuni dei connotati originari
del museo. Il mondo accademico al quale il museo è stato legato ne ha condizionato
lo sviluppo: infatti si tratta di un museo universitario dove ha sempre predominato l’attività
di ricerca su quella ostensiva. La riapertura al pubblico, con biglietto d’ingresso, orari, ecc.,
salvo che per la Specola, è di fatto molto recente (1996) limitandosi, precedentemente, soltanto
alle visite scolastiche su prenotazione.
Veri e propri scavi regolarmente vengono compiuti dal nostro personale in museo e veri
e propri tesori sono quelli che emergono dalle polveri, dalle cantine, dalle sale chiuse per
decenni e decenni. Un patrimonio che troppo spesso, fino a pochi anni fa, è stato denigrato,
interpretato come accumulo di polveri, curiosità dal costoso mantenimento, ingombro
inutile di spazi altrimenti utilizzabili nell’ateneo.
Per esemplificare alcune di queste operazioni di recupero, illustriamo alcuni casi relativi
alla sede originaria (La Specola) e alle collezioni di Antropologia e Paleontologia.
Uno dei nuclei principali della parte ostensiva dell’I.R. Museo di Fisica e Storia Naturale
di Firenze era il salone dei prodotti naturali toscani, esposizione relativa ad un inventario

di tali prodotti eseguito da Franz Hubert Hoefer farmacista di corte, situato a piano terreno
dell’edificio di Via Romana, nel locale che poi ampliato diverrà il salone degli scheletri.
Nel salone si trovavano anche i globi astronomici ed il laboratorio di Chimica, materia di
cui il Granduca era appassionato, con un bellissimo bancone chimico, materiale che attualmente
si trova esposto al Museo di Storia della Scienza di Firenze.
Ai piani superiori invece erano sistemate le collezioni di fisica, mammiferi, pesci e vegetali
fossili (al 1° piano), cere anatomiche, minerali, rocce, rettili, uccelli e invertebrati (al 2°
piano).
Nel 1787 il salone degli scheletri viene ampliato una prima volta e nel 1838 raggiunge
le attuali dimensioni: 40 m × 7 m, con più di 120 vetrine su 2 piani.
Fin dal 1820 nel salone furono collocati anche i fossili del Valdarno e gli scheletri di quadrupedi
di grandi dimensioni (un elefante, un cammello, un asino e ossa di balene). I fossili
poi verranno trasferiti con le collezioni paleontologiche nell’attuale Sezione di Paleontologia,
nell’area di San Marco. Vi rimase conservata la maggior parte dei reperti osteologici
posseduti dalla Specola, ammontante a circa 3000 reperti, soprattutto di Mammiferi. Al
centro era collocata la maggior parte degli scheletri montati (fig. 1).
Il 31 marzo 2001 il salone degli scheletri per la prima volta è stato aperto al pubblico.
Per far questo sono occorsi 5 anni di lavoro consistito nel riassemblaggio e sospensione al
soffitto di 3 scheletri di cetacei, precisamente un globicefalo, uno zifio e una megattera, lunghi
rispettivamente circa 3, 5, 9 m (Agnelli et Alii 1998), nel montaggio dei grossi scheletri
dei quadrupedi su piattaforme mobili, nella minuziosa pulizia di tutti i crani e scheletri esposti,
nel restauro delle vetrine e nella loro illuminazione interna (fig. 2). Il pavimento è stato
Fig. 1. Salone degli scheletri (La Specola) prima del restauro, da una vecchia foto.
401

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riportato alla condizione originale e sono
stati realizzati nuovi impianti di illuminazione
e di areazione. Attualmente il salone rientra
nel percorso espositivo del museo, limitatamente
a 3 mattine la settimana. Sono osservabili
scheletri o crani di animali rarissimi
e anche estinti, quali il rinoceronte della
Sonda, il tilacino (o tigre di Tasmania), l’echidna,
l’ornitorinco, vari formichieri. Mantenendo
la sua principale vocazione di collezione
osteologica da studio, esso riscuote un
grande successo di pubblico proprio per il
particolare fascino e l’aura che lo pervade.
Il grande interesse del Granduca e dei
suoi successori verso il mondo scientifico è
evidenziato anche dalla costruzione intorno
al 1820 di un corridoio apposito di collegamento
tra Palazzo Pitti, residenza del Granduca
Ferdinando III, ed il Museo, per un accesso
privato e diretto alle collezioni scienti-
Fig. 2. Salone degli scheletri (La Specola), oggi.
fiche. Del progetto fu incaricato l’“Architetto
delle Regie fabbriche” Pasquale Poccianti,
il quale costruì questo stretto e lungo edificio
(metri 49 × 3,40) che si dispone su due piani. In questo corridoio, ove si mantengono
le ricche decorazioni neoclassiche con stucchi e nicchie, originariamente erano sistemati
campioni di minerali e rocce. Per 100 anni, dal 1875 fino al 1975, ospitò la biblioteca della
Stazione di Entomologia Agraria, poi trasferita alle Cascine del Riccio. Oggi, nelle stesse
scaffalature lignee della vecchia biblioteca, si conserva l’imponente collezione erpetologica
del Museo. Un’ipotesi di riapertura del Corridoio Pocciantiano con continuità di percorso
dalla Specola fino a Palazzo Vecchio, attraverso Palazzo Pitti, il Corridoio Vasariano e gli Uffizi,
permetterebbe di attribuire ad una ricostruzione storica di grandissimo valore, il fascino
aggiuntivo della visione ravvicinata di importanti collezioni scientifiche.
Un percorso storico-scientifico di difficile realizzazione pratica, ma che ci piacerebbe per
lo meno materializzare in un’immateriale ricostruzione virtuale.
Altro allestimento museale, oggi completamente annullato, ma molto curioso era il Museo
Indiano allestito nei locali dell’Università in Piazza San Marco.
Grazie ad un attento lavoro di recupero di documentazione svolto dai colleghi della Sezione
di Antropologia (Ciruzzi 1990) è stato possibile così riconoscere nel soffitto ligneo riccamente
decorato dell’attuale sala del Consiglio di Amministrazione dell’ateneo fiorentino
(fig. 3) l’originario soffitto fatto realizzare dal Prof. Angelo De Gubernatis appositamente in
stile indiano e così giungere a definire con precisione i locali originariamente occupati dal
museo: la sala del Consiglio ed altre 3 stanze attigue.
Il Museo Indiano fu voluto dal Prof. De Gubernatis, orientalista e docente di sanscrito all’ateneo
fiorentino il quale raccolse molto materiale durante i suoi viaggi in India, descritti nel

Fig. 3. Soffitto ligneo (sala del Consiglio d’Amministrazione, Università di Firenze) dell’ex Museo Indiano.
volume “Peregrinazioni Indiane”. Fu inaugurato nel novembre del 1886 alla presenza dei sovrani
Umberto I e Margherita di Savoia, con eccentriche e folcloristiche manifestazioni, ispirate
alla cultura indiana (un fanciullo vestito all’indiana con ventagli e profumi inneggiava in
sanscrito ai sovrani: Sri Maharaja Ambarto giaiati, ovvero il glorioso gran re Umberto trionfa...).
I sovrani erano venuti a Firenze per controllare lo stato di avanzamento dei lavori della
facciata di S. Maria del Fiore, che venne poi scoperta 6 mesi dopo, nel maggio 1887, con grandi
festeggiamenti cittadini e con la prima comparsa dell’illuminazione elettrica in città. L’utilizzazione
principale del Museo Indiano era didattica, quale materiale etnografico di supporto
per le lezioni universitarie, ma era aperto anche al pubblico. Nel 1891, a causa del trasferimento
a Roma del De Gubernatis, la direzione effettiva passò a Paolo Mantegazza, ordinario
di Antropologia nel R. Istituto di Studi Superiori fiorentino, mentre direttore onorario rimarrà
il De Gubernatis fino al 1913, anno della sua morte. Nel 1901, nonostante lamentele,
articoli e lettere del De Gubernatis, il museo venne chiuso per far posto alla Biblioteca di Lettere
del R. Istituto. Le collezioni vennero poste in casse e trasferite in Via Capponi e da lì finalmente
in Palazzo Nonfinito nel 1924, dove costituiscono la sezione indiana del Museo Nazionale
di Antropologia, oggi Sezione del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze.
Nel 1924 dunque l’Antropologia ha trovato la sua sede a Palazzo Nonfinito in Via del
Proconsolo, mentre la Geologia e Paleontologia vengono sistemate nell’edificio dell’attuale
Via La Pira, accanto ai locali del Rettorato di San Marco.
Insieme alle collezioni geopaleontologiche trasferite da Via Romana, si provvede anche
alla sistemazione definitiva di una ricca collezione paleontologica raccolta dal Marchese
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Carlo Strozzi nella prima metà del 1800. Nel 1910 il nipote donò la collezione del nonno
paterno all’Università di Firenze, all’unica condizione che rimanesse tutta in una sala speciale
a lui intitolata (Cioppi 1999). Si tratta di migliaia di campioni fossili italiani e non, alcuni
raccolti direttamente dal marchese Strozzi, appassionato studioso di paleobotanica, altri
acquistati per confronto. L’importante monografia sulla flora fossile italiana dello Strozzi
(Gaudin, Strozzi 1858) costituisce tutt’oggi una base fondamentale per gli studi paleobotanici.
Dal 1910 si arriverà appunto al 1925 per la collocazione della collezione, che era
giunta a Firenze dalla villa di campagna di Lavacchio nel 1919 ed era rimasta chiusa in casse
fino alla conclusione dei lavori di ristrutturazione degli edifici dell’attuale Via La Pira. La
sala che la contiene fu arredata con vetrine lignee bianche, costruite su misura. Negli anni
successivi, a causa della cronica mancanza di spazi dell’ateneo, vi troveranno collocazione
più o meno provvisoria altre vetrine, scaffalature, tavoli e deposito di materiale vario in genere.
Essendo inoltre a piano terra, verrà utilizzata come magazzino e come laboratorio di
restauro di materiale fossile di grandi dimensioni, rendendo quasi impossibile l’accesso alle
collezioni. Finalmente nel 1997 vengono soddisfatte le richieste di intervento di restauro. Il
locale viene risistemato e adeguato, le vetrine restaurate e i campioni sono tornati ad essere
accessibili. È oggi utilizzata anche come sala riunioni, convegni, corsi per gli insegnanti, seminari
(fig. 4). È in corso un lavoro di ricerca sulla documentazione e sulla natura della collezione
qui raccolta, al fine di pubblicarne un catalogo speciale.
Molti altri sarebbero gli esempi di progetti recentemente condotti nelle varie Sezioni del
Museo di Storia Naturale di Firenze, per rendere accessibile e valorizzare il patrimonio scientifico
qui conservato.
Una vera lotta quotidiana con tante battaglie, molte delle quali (non tutte purtroppo)
abbiamo vinto riapplicando proprio quella visione modernamente illuminata del nostro
fondatore, di apertura verso il pubblico, altre con la forza che ci deriva dal valore della conservazione
delle tracce del nostro passato. Abbiamo la positiva reazione del pubblico che ci
conforta, che apprezza gli sforzi effettuati, che desidera poter fruire sempre più proprio di
questo tipo di interventi. Il pubblico si fa sempre più attento e più vicino alle difficoltà vissute,
al mondo dietro la scena. Per finire, non importa se talora la polvere o il laniccio riemergono
o se ci siamo adattati al non far carriera pur di rimanere all’interno del museo. Si
Fig. 4. Sala Strozzi (Sezione di Geologia
e Paleontologia).

tenta di riprendere in mano un filo che talora era stato lasciato andare, ma che nel passato
si origina da idee e cose grandiose e che vogliamo ritendere alle generazioni future, perché
ci aspettiamo altre idee e cose grandiose.
Bibliografia
P. Agnelli, U. Funaioli, F.D. Venturi
1998, Analisi osteometrica, restauro
e ostensione di tre scheletri
di cetacei al Museo Zoologico “La
Specola” (Firenze), in “Museologia
Scientifica”, 15 (2), pp. 199-
212.
A. Berzi, C. Cipriani, M. Poggesi
1978, Musei scientifici fiorentini,
in “Musei e Gallerie d’Italia”, a.
XXIII, n. 65, pp. 3-17.
E. Cioppi 1999, Le collezioni paleontologiche
del Museo di Storia
Naturale di Firenze, in Evoluzione
geopaleontologica del territorio
toscano, Atti Corso di aggiornamento
per gli insegnanti, Firenze,
pp. 11-14.
S. Ciruzzi 1990, Il Museo Indiano
dell’Università di Firenze,
in “Arch. per l’Antropologia e
la Etnologia”, 120, pp. 271-
285.
C.T. Gaudin, C. Strozzi, 1858,
Mémoire sur quelques gisements
de feuilles fossiles de la Toscane,
Zurich.
405

Recupero e conservazione della memoria:
l’esperienza del Museo di Storia Naturale di Ferrara
Fausto Pesarini
Museo Civico di Storia Naturale - Ferrara
RIASSUNTO
Il Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara, fondato nel 1872, è impegnato in un progetto globale di
rinnovamento che guarda al futuro senza trascurare il problema della conservazione della sua identità storica.
L’intervento dà conto delle azioni intraprese per recuperare la memoria di quanti si sono adoperati
per farlo nascere, per arricchirlo e per rinnovarlo, riscoprendo i contesti culturali che ne hanno orientato
l’operato e le scelte. Questo ritratto in itinere del Museo rende significativa la sua vicenda museografica
al di là dell’attualità o meno dei contenuti, ponendosi come testimonianza di una storia delle idee imprescindibile
per l’affermazione della sua identità. In tal modo si vuole ribadire che ogni necessaria e per
molti versi ineludibile esigenza di rinnovamento della forma-museo non deve adottare in modo acritico
modelli di attualità, per quanto di successo, ma saper essere uno sforzo di ricerca tendente a proporre soluzioni
originali che valorizzino l’identità di ciascun museo.
SUMMARY
The Municipal Museum of Natural History of Ferrara, which was founded in 1872, is engaged in a futureoriented
overall renovation project, which does not neglect though the conservation and the historical identity
issues. The project proves to be fully accountable. It illustrates all the various actions that have been undertaken
and all the people who have committed themselves to establishing, enriching and renovating it, by enhancing
the cultural contexts that have determined their actions and choices.
This in-progress illustration of the Museum makes its museographical experience a significant one, beyond
the topicality of its contents. It bears testimony to the history of absolutely fundamental ideas for the assertion
of its image. Hence, every necessary – and sometimes inevitable – decision to renew the museum must not acritically
adopt a certain state-of-the-art model – no matter how successfully it has been – but it should constantly
attempt to look for original solutions, which enhance the identity of each museum.
Il Museo di Storia Naturale di Ferrara è un’istituzione che guarda al futuro. La nuova sezione
“Ambiente terra”, inaugurata pochi anni fa, è stata concepita con criteri museografici
non convenzionali, volendo essere un invito alla lettura della diversità ambientale e delle sue
trasformazioni nel tempo: ciò che è stato realizzato è dunque un itinerario “narrativo” interdisciplinare,
per il quale si è ricorsi largamente all’interattività nonché a simulazioni e
modelli, e non una raccolta di oggetti esposti con criteri classificatori.
Il Museo guarda al futuro non solo nel ridisegno del suo percorso espositivo, ma anche
come centro erogatore di servizi per il pubblico: con l’andar del tempo si è dotato ad
esempio di un Centro di Documentazione Didattica, di una Stazione di Ecologia che funge
da osservatorio e che pubblica una collana di Quaderni, e più recentemente di un Punto
di Informazione multimediale dal quale si potrà presto accedere alla worldwide web di
Internet.

Il Museo però nasce nel 1872, quindi ha oggi una storia di 130 anni da raccontare. Questo
è assieme uno stimolo e un banco di prova. Perché per un museo che vuole guardare al
futuro, un “vissuto” storico di 130 anni potrebbe essere avvertito come un fardello, un qualcosa
di cui si potrebbe essere tentati di liberarsi, se l’approccio fosse superficiale e frettoloso.
I nostri musei hanno spesso sezioni espositive organizzate con criteri molto vecchi. In
genere queste sezioni non hanno una presa comunicativa sul pubblico che oggi si possa considerare
adeguata e di conseguenza hanno una scarsa efficacia didattica. La tentazione di
considerarle semplicemente sorpassate e di disconoscerle è forte, anche per le scelte obbligate
che spesso si è costretti a compiere mancando di spazi adeguati allo sviluppo delle esposizioni.
Noi ci siamo posti questo problema e abbiamo cercato di evitare l’errore di cancellare
con un colpo di spugna quello che aveva il valore di documento, di testimonianza preziosa
di una storia delle idee e delle tecniche che merita di essere preservata.
Quella che nel prossimo futuro vorremmo tradurre in un’operazione di tipo museografico,
volta ad assicurare la conservazione della dimensione storica del nostro Museo, ha preso
il via in questi ultimi anni con un’operazione essenzialmente di ricerca. Constatando che
si era persa col tempo molta della memoria, in questa prima fase il nostro sforzo è stato quello
del recupero di questa memoria, avvenuto su più fronti e con diversi approcci.
Questo “lavoro di scavo” è cominciato più di dieci anni fa. Nel 1990 due ricercatrici a
contratto, Roberta Filippini e Gloria Masini, hanno svolto un lavoro di indagine sulle fonti
di archivio per scoprire come si era evoluto il Museo e quali erano state le figure che ne
avevano disegnato la storia. Va detto che la nostra è una storia di scienza e di museografia
che potremmo definire «minore»: il Museo di Ferrara non vanta tra i propri patrocinatori e
fondatori delle figure scientifiche di spicco se non in un ambito locale. Ma è importante fare,
a questo proposito, una considerazione di carattere generale: dovrebbe sempre stare a
cuore l’identità storica di un museo, quale che siano la sua dimensione e importanza. Perché
ogni museo ha una sua identità. E se è vero che i criteri e i modelli museografici sono
sempre stati dettati da dinamiche e da scelte che travalicano i confini geografici perché riflettono
l’evolversi del comune sentire della gente, tendendo, oggi più che mai, a divenire
imperativi categorici di adeguamento a standard di massa, è pur vero che l’identità di un
museo, di ogni museo, deriva dalla sua storia, che riflette la storia della comunità in cui è
inserito e di cui è espressione. Anche nelle sue scelte museografiche, questa sua identità non
dovrebbe essere mai negata né tradita.
Tornando alla ricerca, questa ha dapprima prodotto un quaderno, pubblicato nel 1991,
in cui venivano descritte le origini e la storia ottocentesca del Museo. Ne emergeva con particolare
risalto il ruolo svolto dal primo Direttore, Galdino Gardini, assieme ai più importanti
donatori che avevano concorso, negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento, al rapido decollo
della nuova istituzione. Nel quaderno veniva anche pubblicato un disegno inedito del prospetto
della vecchia sede del Museo, che si trovava nel palazzo dell’ex Convento delle Martiri
di via Roversella, oggi annesso ad un Istituto di istruzione secondaria. A questo riguardo,
più recentemente siamo riusciti, grazie al prof. Claudio Chiarini, dell’Istituto di Anatomia
dell’Università di Ferrara, a venire in possesso di preziosissime fotografie dell’allestimento
ottocentesco, fatte probabilmente poco prima dello smantellamento di quella sede
più o meno negli anni ’20 del Novecento: sono uniche e fino ad oggi non erano mai state
pubblicate (due fotografie sono ora pubblicate sul “Manuale” del Museo, di cui si parlerà in
407

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seguito). Quelle suggestive immagini rivelano che già a quell’epoca il Museo di Storia Naturale
di Ferrara era una realtà di tutto rispetto almeno come ampiezza delle collezioni e
qualità dell’allestimento.
Un anno cruciale nel recupero dell’identità storica del Museo è stato il 1997. In quell’anno,
in quello stesso 26 maggio in cui ricorrevano 125 anni dal giorno della sua inaugurazione,
il Museo organizza, presso il ridotto del Teatro Comunale di Ferrara, una manifestazione
celebrativa in cui vengono rievocate le figure dei fondatori, così come erano emerse
dalle ricerche di cui abbiamo parlato e che erano proseguite anche dopo la pubblicazione
del quaderno curato da Filippini e Masini. Condotte da Emanuela Cariani, che aveva
“scavato” ancora più a fondo nei materiali di archivio, queste ricerche ulteriori hanno riportato
alla luce e all’attenzione della cittadinanza soprattutto le personalità del Gardini e
dei donatori ottocenteschi del Museo. Si è trattato di un lavoro che ancora oggi ritengo particolarmente
interessante: partendo dai documenti, sono stati rintracciati tutti gli eredi del
primo Direttore e dei donatori, recuperando del materiale che addirittura non era archiviato
e restituendo una dimensione storica ed umana di tali figure che non ha mancato di sorprendere
e di commuovere gli stessi eredi, i quali, in diversi casi, solo vagamente sapevano
della passione e della determinazione che i loro antenati avevano messo in un’impresa che
fortunatamente dura ancor oggi. Dei più importanti donatori posso in questa sede accennare
a Elia Rossi, un medico israelita che viveva al Cairo, Angelo Castelbolognesi, cugino
del Rossi, che fu l’unico vero esploratore tra i donatori del Museo, Enea Cavalieri, pure
israelita, che fu un amministratore ed una persona importante nell’economia ferrarese e che
in gioventù fece dei viaggi anche avventurosi nelle Americhe, Angelo Fiorini, uomo d’affari
attivo in Argentina, e infine Angelo Conti, scultore e competente paleontologo, l’unico
tra i donatori a non aver mai lasciato l’Italia.
I risultati di queste ricerche sono stati raccolti, insieme a tante altre notizie sulle collezioni,
i servizi e le attività del Museo, in un Cd-rom prodotto con il contributo della Regione
Emilia-Romagna e intitolato “Alla scoperta del Museo di Storia Naturale di Ferrara”,
che è consultabile presso il “Punto di Informazione” e posto in vendita presso il book-shop
del Museo; e in una pubblicazione recentissima intitolata “Il Manuale” del Museo di Storia
Naturale di Ferrara. (Perché manuale? Perché non è propriamente una guida, sala per sala,
come ce ne sono tante; ma, appunto, una sorta di manuale di istruzioni: una pubblicazione
con tante voci organizzate alfabeticamente che descrivono non solo il percorso espositivo
e le collezioni, ma «raccontano», per così dire, anche le origini e la storia del Museo di
Ferrara e permettono di conoscerne anche gli aspetti che inevitabilmente sfuggono all’attenzione
del visitatore, quelli inerenti l’attività scientifica, l’attività didattica, la produzione
editoriale e i servizi che il Museo offre).
Quanto alla storia del Museo, era già noto, anche prima delle ricerche che abbiamo
condotto, che all’entusiasmo iniziale era presto seguita una fase molto critica che poteva
preludere ad un irreversibile declino. Dopo la lunga parentesi di abbandono dei primi decenni
del Novecento, durante i quale il Museo rimane chiuso, senza risorse e senza un’effettiva
guida scientifica, un primo accenno di ripresa si ha nel 1935 con il suo trasferimento
nell’attuale sede, progettata appositamente dall’architetto ferrarese Carlo Savonuzzi.
Ancora senza un progetto culturale e senza le cure di un direttore a tempo pieno, il
Museo dovrà attendere la fine del secondo conflitto mondiale per risollevarsi. Di questa

«rinascita» peraltro condizionata dalle solite ristrettezze economiche sarà artefice il prof.
Mario Canella, che reggerà le sorti del Museo con una dedizione senza pari, pur essendone
direttore incaricato e non di ruolo e dovendosi occupare primariamente della cattedra
di Zoologia presso l’Ateneo ferrarese. Dopo un lungo lavoro di recupero dei materiali
corrosi dal tempo, Canella diede al Museo un ordinamento ispirato ai criteri didattici
della sua epoca, realizzando un percorso espositivo sobrio ma non privo di efficacia che
in parte si è conservato ancora oggi.
Sul lavoro di Canella si innesta il progetto museografico che ci vede impegnati già da
alcuni anni e che ci occuperà per molti anni ancora. Le esigenze pressanti di rendere attuale
il linguaggio del Museo e le limitate disponibilità di spazi idonei hanno reso inevitabile,
come abbiamo detto, il ridisegno di gran parte del percorso espositivo. Questo ridisegno,
iniziato con la realizzazione della sezione “Ambiente Terra”, inaugurata nel febbraio
del 1999, proseguirà negli anni a venire, finanze permettendo, col rifacimento della
sezione di mineralogia e con la realizzazione della sezione “Ambiente, risorse e sviluppo”.
Ma anche nel progetto museografico complessivo, per rimanere all’argomento di questo
dibattito, abbiamo voluto che fosse assicurata la conservazione dell’identità storica del
nostro Museo, che anzi questa identità storica fosse in qualche misura recuperata e valorizzata.
Ecco, quindi, che accanto alle nuove sezioni e agli spazi destinati ai servizi per il
pubblico, almeno due ambienti saranno destinati alla testimonianza della storia trascorsa
offerta sia dagli oggetti esposti che dagli allestimenti.
La prima sala del percorso espositivo diventerà una sala storica nella quale si ripercorreranno
le vicende che hanno accompagnato la nascita e gli sviluppi del Museo fino ai giorni
nostri, e dove gli oggetti saranno dunque interpretati con questa chiave di lettura anziché
con quella consueta mutuata dalle scienze settoriali (zoologia, mineralogia, per intenderci),
evidenziandone il valore intrinseco che discende proprio dalla loro storia individuale. È questa
una scelta certamente non rivoluzionaria, ma che non è frequente. Il pubblico forse apprezzerà
di più altri “valori” degli oggetti che vi saranno esposti (colori, forme), ma qualcuno
– molti magari – sarà incuriosito, leggerà le vicende di quei personaggi di cui ignorava
l’esistenza, e questo, immagino, sarà uno stimolo in più per riflettere e non fermarsi all’apparenza
delle cose. Un’altra sala, la sesta del primo piano, sarà conservata invece così come
è stata allestita dal Canella cinquant’anni fa e come si presenta ancor oggi, fatto salvo solo
qualche intervento di restauro conservativo degli oggetti e degli arredi. È una sala dedicata
alla Paleontologia, la più bella tra quelle del vecchio allestimento, con un bel calco di Plesiosauro
al centro della parete di destra e, tra le altre, due vetrine a doppio spiovente in asse
alla sala, con tanti fossili di invertebrati presentati sui loro piccoli piedistalli verniciati di
nero, allineati in bell’ordine, come si usava un tempo. Oggi nessuno più concepirebbe così
una sala di Paleontologia. È importante però che proprio oggi si avverta l’esigenza di conservare
qualcosa di quei criteri: riflettono un modo di pensare, di rivolgersi al pubblico, di
concepire il ruolo culturale del museo che appartiene alla storia delle idee e della nostra cultura.
Quella sala, che verrà intitolata a Mario Canella, sarà un piccolo esempio, nelle nostre
intenzioni, di “museo del museo”.
409

La collezione di tavole didattiche del Museo
di Storia Naturale e del Territorio - Università di Pisa
Silvia Battaglini
Rossella Gensini
Centro Interdipartimentale Museo di Storia Naturale e del Territorio
Università degli Studi - Pisa
RIASSUNTO
Il Museo conserva, nel suo patrimonio storico-scientifico, una serie di interessanti tavole didattiche cartacee
a soggetto naturalistico di notevoli dimensioni e non in ottimo stato. Questo lavoro ha lo scopo di
recuperare il materiale e di catalogarlo, fornendo ogni tavola di una scheda descrittiva compilata sia su
supporto cartaceo che informatico.
SUMMARY
The Natural History Museum, Pisa University accomodates as its historic-scientific ownership a series of interesting
didactic tables with naturistic subjects, dating from ’900s, in considerable dimensions. Unfortunately,
their state of conservation is far from desired. The scope of the work is the recovery and the cataloging of the
material which involves filing each table in both paper and digital format.
INTRODUZIONE
Le tavole didattiche, oggi conservate in museo come unica collezione, provengono dalle diverse
raccolte dei vari istituti e dipartimenti dell’Ateneo pisano. Dopo aver svolto la loro funzione
didattica nelle aule universitarie sono state purtroppo “dimenticate” e non conservate adeguatamente,
tanto che necessitano tutte di un intervento di restauro più o meno consistente.
Le 74 tavole, risalenti alla prima metà del ’900, hanno come soggetto comune la rappresentazione
grafica di reperti zoologici. Si diversificano però per dimensioni, tecniche, autore
e luogo di realizzazione: alcune sono stampe a colori provenienti da Austria e Germania,
altre sono tavole originali a china, grafite e acquarello. Le dimensioni variano dai 70 ×
36 ai 128 × 145 cm.
Anche se ben poco sappiamo su chi ha progettato e realizzato queste tavole e del loro
percorso storico, certo è che esse rappresentano un connubio di egregia bellezza e di importanza
storico-scientifica.
LA CATALOGAZIONE A SCHEDE
Uno dei primi lavori eseguiti sulla serie di tavole è stata la loro schedatura. La scheda che è
stata elaborata ha cercato di restituire la loro diversità tramite una descrizione dettagliata del
contenuto, ma ha anche cercato di fornire informazioni precise sullo stato di conservazione
in vista di restauri futuri.

Il modello di descrizione che è servito come base è stato quello proposto dall’Istituto
Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane nella pubblicazione Guida alla catalogazione
delle stampe (Roma 1986).
La descrizione risulta così suddivisa in aree: 1) Area del Titolo e dell’Indicazione di Responsabilità,
2) Area della Pubblicazione, 3) Area della Descrizione Fisica, 4) Area del Contenuto,
5) Area della Collezione, 6) Area delle Note. Ciascuna area è a sua volta suddivisa
in un certo numero di elementi.
Nell’Area del Titolo compare l’indicazione del titolo e dei titoli paralleli, la prima indicazione
di responsabilità (responsabilità scientifica) e una seconda che riporta il monogramma
del disegnatore.
Nell’Area della Pubblicazione sono inseriti il luogo di pubblicazione (o esecuzione nel
caso di tavole realizzate a mano), la data, il nome dell’editore/stampatore.
L’Area della Descrizione Fisica comprende: la designazione dei materiali, la tecnica, le di-
Scheda inserimento dati
ID: Attuale numero d’inventario
N_FOTO: Riferimento al numero della fotografia
T: TITOLO 1: Indicazione del titolo (parte 1)
T: TITOLO 2: Indicazione del titolo (parte 2)
T: TITOLO 3: Indicazione del titolo (parte 3)
R: RESP 1: Indicazione di responsabilità primaria
R: RESP 2: Presenza di monogramma o firma del disegnatore
P: LUOGO: Luogo dell’edizione o esecuzione
P: DATA: Data dell’edizione o esecuzione
P: EDITORE: Nome dell’editore
DF: Materiali: Materiali usati
DF: Tecnica: Tecnica usata nella realizzazione di testo e figure
DF: Dimensioni: Dimensioni tavola (x, y) in cm
DF: N_Fogli: Numero di fogli che incollati compongono la tavola
DF: Conservazione: Giudizio sullo stato di conservazione
DF: Parti mancanti: Parti tagliate o strappate
DF: Bordi: Condizione dei bordi
DF: Pieghe: Presenza di pieghe
DF: Strappi: Presenza di strappi
DF: Muffe: Presenza di muffe attive o inattive
DF: Macchie: Presenza di righe o macchie
DF: Restauro: Tentativi di restauro
C: LINGUE: Lingue usate nel testo e nelle didascalie
C: DIDASCALIE: Presenza di didascalie estese
C: numeri: Presenza di numeri come didascalie
C: lettere: Presenza di lettere come didascalie
C: N_figure: Numero delle figure totali (intere + particolari)
CL: N_TAV: Numerazione interna alla serie originaria
CL: K_COLL: Codice della collezione originaria
N: CARTELLINO: Numero del precedente cartellino d’inventario
N: note a mano: Presenza di annotazioni manuali
N: RETRO: Presenza di numeri o altre indicazioni sul retro
N: NOTE 1: Altre note (es. scritte informative, disegni sul retro,…)
411

412 Figg. 1, 2, 3. Riproduzione di alcune
tavole didattiche facenti parte
della collezione (Fotografie di Franco
Strumia).
mensioni, e una valutazione generale dello stato di conservazione, a cui si aggiunge l’indicazione
di parti mancanti, strappi, muffe e altre informazioni che potranno essere utili nella
decisione di successivi interventi di restauro.
Nell’Area del Contenuto sono indicate le lingue usate nel testo, sono riportate le didascalie
estese o segnalata la presenza di numeri e lettere, e il numero di figure.
L’Area della Collezione riporta la numerazione della tavola all’interno della collezione
originaria, e un codice a uso interno che indica la probabile serie di origine individuata tramite
le aree 1, 3 e 4.
Nell’Area delle Note sono inserite notizie considerate di importanza minore come la presenza
di annotazioni manuali a lapis, un precedente cartellino d’inventario, numeri o segni
sul retro della tavola.
Naturalmente sono poche le tavole di cui abbiamo tutte le informazioni, e di alcune,
quelle più artigianali, non sappiamo né autore, né data, né luogo di esecuzione.
È stato redatto un catalogo cartaceo contenente tutte le schede, ottenuto stampando il
report del database formato Access; lo stesso materiale è quindi consultabile anche in formato
informatico.

Paesaggi della cultura materiale:
progetti ed esperienze museali in Piemonte
Alessandro Massarente
Politecnico di Torino, Prima Facoltà di Architettura
Dipartimento di Progettazione architettonica
RIASSUNTO
Il Dipartimento di Progettazione architettonica del Politecnico di Torino ha negli ultimi anni coordinato
e condotto una serie di ricerche dedicate ai temi del museo nel paesaggio per conto della Provincia di
Torino e di altri enti pubblici territoriali, raccolte all’interno di una convenzione quadro denominata Progetto
Cultura materiale, con la quale sono stati messi a punto non solo studi di fattibilità, ma anche veri
e propri interventi di trasformazione di edifici e siti legati alla cultura materiale e alla civiltà industriale
del Piemonte.
Sono circa 16 le esperienze di ricerca e progetto condotte in questi ultimi anni all’interno del “Progetto
Cultura materiale”, relative ad altrettanti casi studio, esemplificati o da un ambito tematico (legato
spesso all’attività produttiva o alla lavorazione – lana, canapa, seta e più in generale il settore del tessile –
o attività estrattive come le miniere di talco, ferro e rame) o da un ambito geografico (i canali e i sistemi
delle acque, i villaggi operai, i sentieri della Resistenza e più in generale i percorsi storico-geografici).
Questi progetti di ricerca, che hanno spesso convogliato consistenti risorse di finanziamento in favore
del recupero degli stessi complessi edilizi, sono stati impostati attraverso la lettura del territorio al fine
di analizzare potenzialità e virtualità del patrimonio costituito dai luoghi della cultura materiale. Ciò ha
significato in qualche modo tentare di delineare quella dimensione ambientale dell’architettura e più specificamente
del museo che con altre – politica, economica, sociale – costituisce la sua complessa realtà.
Un’analoga attività di ricerca è stata portata avanti dal 2001 per la Regione Piemonte con l’obiettivo
di analizzare in particolare il patrimonio industriale tessile e le sue potenzialità trasformative anche a fini
museali.
SUMMARY
A group of researchers of Polytechnic in Turin has coordinated some analyses and projects about museums in the
landscape of Piedmont, and in particular for Turin province and its industrial heritage, named “Progetto Cultura
materiale”.
Since 1997 about 16 researches and projects has been completed on some case studies, dedicated to different
industrial activities (for example textile industry as wool, hemp, silk, or mining activities like iron, talc and
copper mines) or to different geographic areas (characterized by channels or rivers, workmen’s houses and villages,
historic and geographic routes). These researches and projects permitted sometimes to get some financial helps
from UE to restore and transform in museums some of these industrial buildings.
A similar research activity has been going on since 2001 for Piedmont regional Administration, in order to
point out the possibilities to convert in a museum system the most interesting part of its textile industrial heritage.
Di fronte alla profonda trasformazione degli statuti e dei codici del museo contemporaneo,
una riflessione sui modi di conoscenza e valorizzazione – anche museale – del patrimonio
della cultura materiale nel paesaggio credo possa indurre alcune utili considerazioni relative
all’attualità del concetto di museo diffuso 1 .

414 Se la comunicazione museale, l’interazione tra le diverse culture e le logiche di mercato
sono al centro dei nuovi caratteri del museo contemporaneo, con accentuazioni diverse a seconda
dei patrimoni che vi sono esposti, il museo contemporaneo tende a configurarsi sempre
più chiaramente, secondo Franco Purini, come «un edificio ibrido il quale incorpora un
frammento consistente di centro commerciale», e il suo spazio si propone come «una sorta
di estensione dello spazio pubblico, uno spazio relativamente aperto che propone varie possibilità
d’uso» (Purini 2002, p. 13) 2.
Ciò anche attraverso l’importanza sempre maggiore attribuita nei musei contemporanei
alla hall, spazio unitario dove si affacciano gli altri spazi espositivi, commerciali e di servizio:
come sottolinea Luca Basso Peressut, la «…complessità di architettura urbana che si
esprime oggi nei musei necessita di uno spazio che sia rappresentativo della tendenza all’interiorizzazione
di differenti fatti urbani dentro un unico edificio: attorno alla hall si coagula
oggi l’idea di museo visto come piazza, punto di ritrovo e di scambio» (Basso Peressut
2002, p. 55).
Provando a estendere gli effetti di questa analogia tra spazio museale e spazio pubblico,
emergono con evidenza le potenzialità che potrebbero assumere gli spazi intermedi, i paesaggi
tra i musei e le opere, tra le raccolte e gli scavi, tra gli oggetti raccolti nei musei e le testimonianze
radicate nei luoghi. Facendo emergere nuove possibili centralità nella città diffusa,
nei paesaggi della dispersione insediativa 3.
Come evidenziato negli studi di alcuni geografi, i beni culturali, intesi come “testimonianze
aventi valore di civiltà” e i beni architettonici e ambientali, che sembrano appartenere
più propriamente, per la loro specificità, alle pratiche discorsive dell’architetto, sono
tra gli elementi che più fortemente costituiscono l’identità geografica, che spesso non coincide
esattamente con l’ambiente naturale, ma è «quella forma di autoriconoscimento della
propria cultura, che il gruppo sociale ottiene attraverso il rispecchiamento nel territorio o
per mezzo di quest’ultimo» (Caldo 1994).
Se è possibile superare la concezione di spazio e di paesaggio come semplice scenario delle
azioni di chi abita i luoghi, lo spazio stesso – e più estesamente il paesaggio – diventano
allora vere e proprie rappresentazioni di tali azioni, assumendo in sé i valori delle culture che
vi si producono (cfr. Caldo 1994, p. 17).
Le geografie ci insegnano che vi sono spesso sensibili differenze tra la riproduzione mentale
e il valore simbolico che vengono attribuiti a un luogo e la consistenza reale dello stesso
luogo e dell’ambiente circostante. Vi sono infatti edifici che punteggiano significativamente
il paesaggio, non solo italiano: luoghi di culto, edifici simbolo del potere, ma anche
manufatti legati alla cultura materiale, alla produzione industriale, alla regimazione delle acque,
che determinano sequenze, riferimenti visivi, densità significative leggibili percorrendo
il paesaggio, ma anche rappresentandolo cartograficamente.
Non solo in riferimento alla valorizzazione e al riuso di questi patrimoni diffusi, alcuni
geografi hanno iniziato a esplorare i processi attraverso i quali un gruppo eleva a simboli i
beni culturali locali, definendo le diverse fasi di quella che hanno chiamato “azione simbolica”,
la quale rappresenta il processo che ha portato all’identificazione dell’oggetto quale
bene culturale, e quindi alla conservazione dello stesso bene.
Le diverse anime della geografia – tra le altre quella storica, semiotica, economica – tendono
a delineare uno scenario nel quale i beni culturali, e estensivamente il paesaggio con i

suoi monumenti e le sue emergenze, sono sospesi nella possibile contraddizione tra valori
culturali (i beni culturali come produttori di identità) e valori economici (i beni culturali come
portatori di risorse), ciò naturalmente in relazione non solo alle possibili tecniche museali,
ma più estesamente alle potenzialità turistiche di un dato territorio.
Di fronte a questo possibile scenario, la ricerca relativa ai musei, e in particolare ai sistemi
museali nel paesaggio, pone alcune domande e propone alcune esperienze.
LE ESPERIENZE NELL’AMBITO DEL “PROGETTO CULTURA MATERIALE”
Il Dipartimento di Progettazione architettonica del Politecnico di Torino ha dal 1997 coordinato
e condotto, per conto della Provincia di Torino e di altri enti pubblici territoriali, una
serie di ricerche dedicate alla conoscenza e riqualificazione dei luoghi della cultura materiale,
raccolte all’interno di una convenzione quadro denominata “Progetto Cultura materiale”,
con la quale sono stati messi a punto non solo studi di fattibilità, ma anche veri e propri
interventi di trasformazione di edifici e siti legati alla cultura materiale e alla civiltà industriale
in Piemonte 4.
Fig. 1. Elenco delle ricerche condotte dal Dipartimento di Progettazione architettonica nell’ambito del “Progetto
Cultura materiale”, convenzione quadro tra la Provincia di Torino e il Politecnico di Torino, con relativa localizzazione
nel territorio provinciale.
415

416
Fig. 2. Sistema di chiuse lungo il Canale Cavour.
Sono 17 le esperienze di ricerca condotte in questi ultimi anni all’interno di tale progetto
dedicato al territorio della provincia di Torino (fig. 1), relative ad altrettanti casi studio,
esemplificati da un ambito tematico – legato spesso ad un’attività produttiva o alla lavorazione
di un materiale, come lana, canapa, seta e più in generale il settore del tessile, o ad attività
estrattive come le miniere di talco, ferro e rame – o da un ambito geografico – i canali
e i sistemi di regimazione delle acque, il villaggio operaio, i sistemi vallivi.
Una delle esperienze legate a un particolare ambito geografico – quello dei canali e dei
sistemi di regimazione delle acque – è rappresentata dalla ricerca Ecomuseo del Canale Cavour,
svolta con il coordinamento di Evelina Calvi 5 , che ha portato all’individuazione di manufatti
di particolare valore (fig. 2), quali edifici di derivazione, partitori, ponti-canali, sifoni,
molini e piccole centrali idroelettriche, che potrebbero diventare i nodi lungo gli itinerari
di un turismo ambientale attento.
Un secondo caso legato ai corsi d’acqua è rappresentato dalla ricerca Il museo delle attività
industriali delle Valli Chisone e Germanasca, coordinato da Chiara Ronchetta 6 , che ha
permesso di individuare una serie di edifici produttivi dismessi di particolare rilevanza, connessi
a un sistema di manufatti idraulici quali ponti, passerelle, dighe e opere di presa, la cui
riqualificazione potrebbe essere relazionata alla creazione di percorsi ciclabili e pedonali e alla
definizione di spazi pubblici lungo le sponde del torrente Chisone.
Per quanto concerne le attività estrattive, sono state sviluppate quattro ricerche nell’ambito
del “Progetto Cultura materiale”.
La prima, dal titolo Paesaggi di pietra, un Ecomuseo nel Comune di Rorà, Valle Pellice, con
il coordinamento di Liliana Bazzanella 7, ha permesso di sistemare la cava abbandonata del
Tupinet, posta nel bacino di estrazione dello gneiss lamellare chiamato pietra di Luserna, a

nuovo Museo della Pietra en plein air, tramite la realizzazione di parcheggi, percorsi, segnaletica,
e di alcune figure in legno nell’atto di eseguire le diverse lavorazioni che si svolgevano
all’interno della cava.
La seconda ricerca, La cultura del lavoro minerario e il viaggio in miniera, coordinata
da Giorgio De Ferrari 8 , ha condotto, attraverso un progetto transfrontaliero sviluppato in
cooperazione con l’Argentière La Bessée nelle Hautes Alpes, al recupero delle miniere di
talco di Prali, con la realizzazione di un complesso museale – con annessi centro servizi,
bookshop, ristoro, centro di documentazione per le scuole, archivio –, nel quale un allestimento
informa sulle caratteristiche della valle, sulla Comunità Valdese che ne ha caratterizzato
la storia, sulle tecniche di estrazione e un trenino permette di visitare una delle
gallerie (fig. 3).
La terza ricerca è La lavorazione del ferro e della pietra in Val Chiusella. L’esperienza di Traversella,
svolta con il coordinamento di Elena Tamagno 9, la quale ha messo in luce la consistenza
di un patrimonio di beni legati all’attività estrattiva e ha permesso di individuare un
primo nucleo museale da collocarsi in casa Ruella a Traversella, in attesa della sistemazione
nel complesso di prima lavorazione del minerale in regione Riondello.
La quarta ricerca, dal titolo La lavorazione del rame nelle valli Orco e Soana 10 e coordinata
da Silvia Mantovani, ha condotto tra l’altro all’individuazione di tracce di antiche località
minerarie, nonché di significativi esempi di fucine con la presenza di macchinari, in
prossimità di centri abitati e corsi d’acqua.
Altre ricerche si sono occupate delle attività
di lavorazione dei tessuti e, a volte, della
messa a punto di alcune possibili modalità
di trasformazione museale dei relativi
beni architettonici.
La ricerca Itinerario della Seta nel Torinese,
coordinata da Patrizia Chierici e Laura
Palmucci 11, ha consentito di individuare nel
territorio provinciale, e in particolare ai
margini dell’abitato di piccoli centri, una serie
cospicua di complessi edilizi legati all’attività
serica, spesso caratterizzati da una corte
chiusa, dal filatoio o torcitoio sviluppato
in altezza, dalla filanda o trattura segnata da
una semplice tettoia.
La ricerca L’ecomuseo della lavorazione della
canapa a Carmagnola, diretta da Emanuele
Levi Montalcini 12, ha permesso di procedere
al recupero dell’ultima rimasta delle 96 tettoie
adibite alla tessitura delle corde che caratterizzavano
il tessuto urbano del borgo di San Bernardo
a Carmagnola, tramite il restauro delle
strutture, la realizzazione di alcune minime attrezzature
di servizio e di esposizione (fig. 4).
Fig. 3. Uscita del trenino dalla galleria Paola nel museo
della miniera di talco a Prali.
417

418
Fig. 4. Una vecchia tettoia dei cordai trasformata in ecomuseo della lavorazione della canapa a Carmagnola.
Carignano – Il lanificio ed il mulino sul margine verde della città, anch’essa coordinata da
Emanuele Levi Montalcini 13, è una ricerca che ha messo in luce i caratteri e le possibilità di
trasformazione, anche a fini museali, dell’ex lanificio Bona a Carignano e della Molinetta,
mulino da granaglie ad acqua, realizzato nel XVII secolo e ristrutturato negli anni Trenta
del Novecento, affacciato sul margine est della stessa cittadina.
Tramite un’ultima ricerca 14 ci si è infine occupati della lettura dei caratteri storici, architettonici
e tecnologici, nonché delle modalità di trasformazione museale di uno stabilimento
di imbiancatura dei filati in matassa e delle pezze finite, attivo a Chieri fin dal XVIII secolo,
le cui strutture sono state recentemente recuperate a fini espositivi.
Altre ricerche si sono occupate di particolari complessi industriali in ambiti urbani, di
villaggi operai e insediamenti residenziali in relazione ad aree produttive, di eventi culturali
ai quali sono legati edifici di architettura moderna di cui si impone il recupero e il riuso.
Una ricerca, coordinata da Liliana Bazzanella 15 , si è infatti incentrata sull’imponente
complesso architettonico della manifattura tessile di Cuorgnè nell’area dell’Alto Canavese,
dotato di infrastrutture – una linea ferroviaria e un sistema di canali – e di strutture di servizio
per gli operai – la mensa, l’asilo, lo spaccio aziendale – che ne fanno uno dei complessi
più rilevanti nell’area. In particolare, la ricerca ha definito, con un progetto a scala architettonica
che ha portato al conseguimento di cospicui finanziamenti comunitari, alcune possibili
modalità di trasformazione della fabbrica a fini anche museali, tramite un trattamento
dell’involucro dell’edificio che consente di rispettare le forometrie esistenti e di aumentare
l’afflusso di luce all’interno degli ambienti.
Un’altra ricerca, coordinata da Franco Lattes 16, è stata dedicata all’individuazione di testimonianze
della storia urbana e di tracce dei processi di modificazione del territorio flu-

viale dell’ansa del fiume Dora a Collegno, ai margini occidentali dell’area metropolitana torinese,
al fine di mettere a punto proposte per un futuro museo della cultura materiale nel
Setificio del Molino e per un parco urbano nel suo intorno territoriale.
Una terza ricerca, diretta da Marco Vaudetti 17 , ha permesso di mettere a punto ipotesi
di riqualificazione – per attività didattiche, museali, culturali – di edifici componenti il villaggio
operaio Leumann a Collegno, sorto alla fine dell’Ottocento nell’area dell’omonimo
cotonificio, composto da alloggi di diversi tagli e dimensioni, un convitto, una chiesa, un
asilo, una scuola e altre strutture di servizio per gli operai della fabbrica.
Infine altre due ricerche, dirette da Carlo Olmo 18 , hanno consentito di mettere in luce
l’importante patrimonio di architettura moderna legato da una parte alla città di Ivrea e agli
edifici produttivi, residenziali e di servizio della Olivetti che, oltre a essere opere di architetti
di primo piano nella storia italiana del Novecento – da Figini e Pollini a Gardella, da
Gabetti e Isola a Cappai e Mainardis – permettono di delineare un itinerario urbano di architettura
moderna en plein air che è effettivamente diventato museo negli ultimi anni, tramite
un’iniziativa condotta dal Comune di Ivrea.
La seconda ricerca è stata invece orientata a delineare valori e possibilità di recupero
del patrimonio di architettura moderna legato all’esposizione Italia ’61 a Torino, che presenta
opere architettoniche e ingegneristiche di grande peso – da Nervi a Morandi –, infrastrutture
che hanno assunto una particolare importanza in questa parte di città o di
cui rimane aperto il destino – come ad esempio la monorotaia, le passerelle pedonali –,
o infine testimonianze e documenti storici di eventi temporanei come gli allestimenti espositivi.
Questi progetti di ricerca, oltre a rappresentare notevoli finanziamenti dedicati specificamente
da enti pubblici a ricerche applicate, alle quali hanno contribuito circa cinquanta
tra docenti, ricercatori e collaboratori appartenenti anche a diversi Dipartimenti del Politecnico,
hanno spesso convogliato risorse e finanziamenti consistenti in favore del recupero
degli stessi complessi edilizi. Un’attività di ricerca applicata caratterizzata da una forte
interazione disciplinare e da un interessante, quanto in alcuni casi problematico, rapporto
con gli enti pubblici, che al di là del fondamentale ruolo di coordinamento e finanziamento
svolto dalla Provincia di Torino, sono stati i veri e propri “utenti di riferimento”
della ricerca.
Le esperienze di ricerca condotte in questi anni nell’ambito di tale “Progetto Cultura
materiale” sono state oggetto di una pubblicazione (Massarente, Ronchetta 2004) con la
quale si è inteso non solo raccogliere i risultati di tali esperienze, ma anche articolarle in
modo da lasciare emergere le diverse famiglie di luoghi e culture della produzione, sottolineando
nel contempo le peculiarità dei contesti storico-geografici e i caratteri del paesaggio
in riferimento ai quali queste ricerche hanno raggiunto dei risultati.
Questo libro, a cui hanno portato il loro contributo non solo docenti e ricercatori appartenenti
al Politecnico di Torino ma anche studiosi appartenenti ad altre istituzioni nazionali
e internazionali, presenta quindi non solo i risultati delle ricerche svolte, ma anche i
possibili risvolti metodologici e critici tramite i quali è possibile valutare l’esito di tali ricerche
e le prospettive di nuovi filoni di indagine.
Le diverse famiglie di luoghi – i luoghi della lavorazione tessile, le miniere e le cave, i sistemi
delle acque, le fabbriche e i loro rapporti con i villaggi operai e i tessuti urbani – so-
419

420
no inoltre legati nel libro a una serie di approfondimenti dedicati alla rappresentazione cartografica
di questi luoghi e questi beni nel paesaggio, cercando in questo modo di mettere
a punto adeguati criteri di confrontabilità delle diverse esperienze svolte.
UNA RETE PROVINCIALE DI LUOGHI DELLA CULTURA MATERIALE
Con il progetto di ricerca dal titolo Studio di una rete provinciale di itinerari e percorsi nei
luoghi del “Progetto Cultura materiale” svolto da un gruppo di docenti e ricercatori del Dipartimento
di Progettazione architettonica del Politecnico di Torino, si è quindi inteso raccogliere
e coordinare i diversi studi condotti all’interno dello stesso Dipartimento nell’ambito
del “Progetto Cultura materiale”. Nel contempo con tale ricerca si è voluto condurre
un’analisi e un confronto di tali studi da una parte con le iniziative già in atto – ecomusei,
parchi e siti di interesse storico-ambientale già istituiti in ambito provinciale – dall’altra parte
con il patrimonio di architetture e luoghi della cultura materiale presenti nel territorio
della provincia di Torino 19 .
I beni e i complessi architettonici sono stati catalogati utilizzando, in collaborazione con
la Regione Piemonte, la scheda Guarini per i beni culturali e associando a ogni bene un codice
di catalogazione – una stringa di tre numeri da 1 a 999 – ed una categoria di appartenenza
legata all’attività produttiva – 19 categorie elencate da A a Z in una Carta generale dei
luoghi della cultura materiale, in scala 1:125.000.
Le fonti utilizzate sono state studi, ricerche universitarie e tesi di laurea dedicati all’argomento
in questione. Sono stati naturalmente consultati repertori bibliografici di taglio generale
oltre a riviste e manuali tecnici dedicati alla produzione industriale. Per alcuni aspetti
della ricerca, sono stati utilizzati anche i catasti storici figurati e, solo per alcuni casi a campione,
sono state condotte delle ricerche d’archivio, consultando a volte alcuni archivi d’impresa
se accessibili o consultabili. Infine sono state verificate tutte le possibili fonti disponibili
di bibliografia edita sull’argomento e, solo per colmare alcune inevitabili lacune nella
distribuzione dei dati sul territorio, sono state condotte verifiche sul campo tramite campagne
di censimento.
La ricerca è stata impostata attraverso la lettura dell’intero territorio della provincia di
Torino al fine di analizzare potenzialità e strategie di valorizzazione del patrimonio costituito
dai luoghi della cultura materiale, e ciò ha reso ineludibile il confronto con quella dimensione
ambientale dell’architettura e più specificamente del museo, che con altre – politica,
economica, sociale – costituisce la sua complessa realtà (cfr. Roggero 1999, p. 6).
È necessario considerare che il rapporto esistente tra patrimonio architettonico e dinamiche
di visitazione e fruizione turistica di un territorio ha assunto negli ultimi anni
aspetti molto complessi, talora in grado di mettere in crisi l’equilibrio esistente tra beni
culturali e paesaggio circostante, specialmente nei casi interessati da fenomeni turistici di
massa.
In questi casi, ma anche qualora sia possibile solo intravedere negli sviluppi futuri tali
flussi, un concetto di conservazione attiva, dinamica, che sappia valorizzare i beni oggetto
di tutela inserendoli in circuiti di visitazione, è anche in grado di orientare non solo
gli stessi flussi turistici ma anche possibili eventi culturali, convogliando risorse pro-

duttive ed economiche, innescando processi di riconoscimento e rappresentazione sociale
delle comunità locali.
Solo attraverso una strategia di respiro territoriale – provinciale nel caso della presente
ricerca, ma anche regionale nel caso di altre ricerche in corso – è possibile indurre, con i necessari
investimenti pubblici e privati, nuove prospettive legate alla gestione di tali beni e all’offerta
turistica, dinamiche che discendono dai processi di conservazione e valorizzazione
dei beni e dei luoghi della cultura materiale nel territorio.
STRUMENTI PER LA CARTOGRAFIA E LA CATALOGAZIONE
Per rendere comunicabili e trasmissibili tali strategie territoriali è necessario mettere a fuoco
adeguate metodologie operative: sia adeguati strumenti di rappresentazione cartografica sia
strumenti per la catalogazione dei beni culturali, che dovrebbero in ogni caso, come peraltro
è pratica ormai diffusa, essere strumenti di raccolta e sistematizzazione dei dati tali da essere
aggiornati nel tempo, integrati con gli elementi di studio ricavati da successive campagne
di rilevamento, connessi con reti di comunicazione dei dati e di condivisione delle informazioni.
Questi strumenti dedicati al patrimonio culturale, e più specificamente architettonico,
dovrebbero trovare uno stretto raccordo – laddove ciò non fosse ancora pratica consolidata –
con adeguate politiche di pianificazione territoriale di livello sovracomunale – quali Piani di
settore, Piani territoriali provinciali e regionali – e con puntuali codici di buone pratiche specificamente
dedicati alla valorizzazione dei beni e dei luoghi della cultura materiale.
Se la rappresentazione cartografica intrattiene spesso con il progetto di architettura interessanti
rapporti – ad esempio nel governo delle trasformazioni territoriali, nella pianificazione
urbanistica alle diverse scale, nel progetto urbano – è anche vero che gli strumenti
di rappresentazione cartografica dedicati ai beni culturali devono tenere conto della doppia
natura – materiale e immateriale – degli stessi beni.
Alcuni degli studi precedentemente citati nell’ambito delle geografie rilevano infatti che
i beni culturali, mobili e immobili, oltre al dato fisico legato a una distribuzione spesso diffusa
nel territorio ma legata a determinate cadenze e densità, mostrano dimensioni soggettive
legate alla percezione e ai valori simbolici che da essi promanano (cfr. Guarrasi 1994).
Queste carte dedicate ai beni culturali presenti in un territorio possono rivelare, oltre a
ricorrenze e densità degli stessi beni, anche ulteriori livelli di lettura, che da una parte consentono
– guardando verso il passato – di decifrare i palinsesti di cui si compone il territorio,
dall’altra – volgendo lo sguardo verso il futuro – di leggere possibili virtualità di trasformazione
e riqualificazione dei sistemi di beni architettonici nelle città e nel paesaggio.
A patto che sia possibile incrociare differenti dati, che solitamente vengono associati a diversi
campi di indagine: ad esempio la rete delle infrastrutture di trasporto e di accoglienza
con la distribuzione territoriale dei beni culturali e la delimitazione delle aree protette, oppure
l’idrografia con la densità di beni in prossimità dei centri storici e la dislocazione di
complessi e manufatti della cultura materiale e industriale.
In particolare, lo studio del patrimonio archeologico industriale, così caratterizzato da
apporti disciplinari diversi – tra gli altri quelli derivati dalla progettazione architettonica,
421

422
dalla storia dell’industria, dall’antropologia, dalla geografia, dall’architettura del paesaggio,
dall’urbanistica – non può che ricevere utili vantaggi dall’interazione di diversi strumenti di
indagine e dalla contaminazione di differenti procedimenti conoscitivi (cfr. Panzeri & Gastaldo
2000).
PATRIMONI INDUSTRIALI E SISTEMI INFORMATIVI REGIONALI:
IL CASO DELLA REGIONE PIEMONTE
Dal 2001 è stata avviata, da parte del Dipartimento di Progettazione architettonica del Politecnico
di Torino e della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino, una convenzione
quadro con la Regione Piemonte per l’adesione al Sistema informativo regionale dei beni
culturali, all’interno della quale è stata condotta – anche questa sul modello della scheda
Guarini per i beni culturali – una catalogazione relativa ai complessi industriali legati alla
produzione tessile, estesa al territorio provinciale torinese (60 complessi architettonici e circa
230 edifici censiti) e a quello delle altre province di Asti, Novara, Vercelli, Verbania e
Alessandria (per 50 complessi industriali) tramite un’analisi di fonti bibliografiche e storiche
riguardanti l’industria tessile in Piemonte 20.
La lettura di tali complessi ed edifici industriali è avvenuta secondo una valutazione che
tenesse conto degli aspetti architettonici, tecnico-costruttivi, storici, produttivi, nonché della
destinazione prevista da Piani regolatori e Piani di recupero, oltre alle potenzialità di trasformazione
legate alla riqualificazione dei manufatti stessi.
Queste ricerche porteranno all’individuazione – nelle diverse realtà territoriali regionali
– di casi studio particolarmente significativi sui quali poter avviare esperienze progettuali legate
al recupero e alla riqualificazione dei beni architettonici, nonché alla definizione di un
progetto di comunicazione che consenta la diffusione dei risultati di ricerca. Tra le attività
previste vi è infatti la stesura, tramite l’utilizzo di modalità rappresentative in parte sperimentate
nel corso del citato Studio di una rete provinciale di itinerari e percorsi nei luoghi del
“Progetto Cultura materiale” (fig. 5), di una carta regionale delle emergenze con l’individuazione
delle strategie di riqualificazione e recupero di edifici e complessi industriali della produzione
tessile, tramite l’elaborazione di schede delle potenzialità relative ad alcuni casi studio,
contenenti indicazioni di prefattibilità a diversi livelli di approfondimento.
La costituzione di una banca dati relativa al patrimonio industriale e la sistematica attività
di inserimento di nuove informazioni rappresenta sicuramente un passo fondamentale
per la conoscenza di tale patrimonio e per indirizzare le diverse azioni tese alla sua salvaguardia,
riqualificazione, gestione, tra cui quella museale rappresenta sicuramente una
delle prevalenti, se si considerano i numerosi musei regionali che compongono a tutt’oggi,
se non un sistema compiuto, un insieme di notevole interesse nel panorama nazionale.
Ma per poter rendere fruibili questi strumenti di informazione a un pubblico esteso,
che spesso esprime esigenze diverse, occorre fornire chiavi di lettura e di interpretazione
che facilitino l’avvicinamento e la comprensione di temi e questioni legate all’architettura
industriale.
Si è ritenuto quindi importante, nella fase attualmente in corso della ricerca, considerare
la comunicazione dei risultati delle ricerche come parte integrante del Sistema Informa-

Fig. 5. Studio di una rete di itinerari e percorsi nei luoghi del “Progetto Cultura materiale”, Contratto di ricerca
tra la Provincia di Torino e il Dipartimento di Progettazione architettonica del Politecnico di Torino, Carta
dei percorsi e delle emergenze, con indicazione degli elementi territoriali più rilevanti (urbanizzato, idrografia,
località, viabilità di connessione territoriale, ferrovie), degli ecomusei presenti nella Provincia di Torino, dei
più significativi manufatti della cultura materiale emersi dal lavoro di catalogazione, dei percorsi e degli itinerari
proposti.
tivo dei beni culturali della Regione Piemonte, individuando strategie, modi, strumenti per
rendere trasmissibile e utilizzabile la grande quantità di dati che lo compongono.
Per raggiungere questo obiettivo sarà necessario da un lato procedere in modo sistematico
nella costituzione della banca dati, estendendo la catalogazione ad altri territori (in seguito
verrà interessata la cintura metropolitana torinese) e affrontando temi omogenei (si è
scelto di procedere per tipologie produttive, e infatti uno dei campi di studio finanziati dalla
Regione e che verrà prossimamente affrontato è quello alimentare), dall’altro impegnarsi
a elaborare le informazioni raccolte definendo modi e strumenti per l’interpretazione e la
comunicazione dei dati.
I RAPPORTI TRA FORMAZIONE E RICERCA PER I MUSEI
Vi è da considerare che non sempre la ricerca finanziata da enti pubblici consente di perseguire,
con la richiesta continuità di risorse, gli obiettivi che tali temi richiedono. D’altra parte
le nuove prospettive poste dalla riforma universitaria in fatto di formazione ha messo in
423

424
campo diverse opportunità rispetto al passato: la possibilità di istituire e attivare master universitari
di II livello, per possessori di laurea specialistica, consente di ipotizzare profili formativi
fortemente orientati in precedenza difficilmente configurabili.
È ad esempio di recente attivazione il Master di II livello in Conservazione, gestione e valorizzazione
del patrimonio industriale, istituito congiuntamente dall’Università di Padova
(Facoltà di Lettere), dall’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Facoltà di Architettura)
e dal Politecnico di Torino (Prima Facoltà di Architettura) d’intesa con l’Associazione
Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (Aipai), l’Istituto per la Cultura e
la Storia d’Impresa “F. Momigliano” (Icsim) di Terni, il Comune di Terni e il Comune di
Schio, con la cooperazione di The International Committee for the Conservation of the Industrial
Heritage (Ticcih) 21 .
Questo Master, che nel primo anno accademico 2002-2003 ha avuto un notevole successo
con circa 60 iscritti provenienti da diverse regioni italiane, si propone di formare, tra
le altre, la figura professionale di esperti in museologia, museografia e didattica del patrimonio
industriale, in comunicazione e marketing museale chiamati ad operare nella progettazione,
organizzazione e gestione di musei aziendali, musei della civiltà industriale e del lavoro, musei
della scienza e della tecnica, ecomusei, musei del territorio.
A tale Master si può accedere con lauree in materie umanistiche, architettoniche-urbanistiche,
ingegneristiche, economiche e giuridiche. Esso si articola in percorsi formativi organizzati
in modo da far acquisire i principali saperi teorici e tecnici necessari alla progettazione
e gestione di interventi di differente natura nel campo del patrimonio industriale. Tali
interventi, oltre che conoscenze approfondite di carattere storico, economico, tecnicoproduttivo,
architettonico, artistico e museografico, richiedono anche un complesso di
competenze quali: capacità di analisi delle opportunità economiche e di fattibilità dei progetti,
di programmazione e gestione delle attività; conoscenze delle metodologie di progettazione
e riqualificazione dei beni dell’architettura industriale nella città e nel territorio; conoscenze
delle tecniche di comunicazione visiva e allestimento museale; capacità di management
culturale e gestione delle risorse umane.
La struttura del Master universitario consente, oltre a un’efficace interazione tra le diverse
e numerose discipline implicate nel recupero, anche a fini museali, del patrimonio architettonico,
anche proficue sinergie tra il mondo della formazione universitaria e numerosi
settori della produzione e dell’imprenditoria, nonché dell’amministrazione pubblica. Infatti,
l’articolazione delle attività in didattica frontale e seminari permette di individuare, nel
corso dell’anno, alcuni momenti di applicazione sul campo delle tematiche affrontate, anche
in forma di breve workshop progettuale, tramite l’approfondimento di casi studio concordati
tra il comitato ordinatore e alcune amministrazioni pubbliche.
La previsione, tra i crediti formativi del Master, di un’attività di stage da svolgersi, da parte
di ciascun laureato, all’interno di strutture pubbliche o private al fine di sviluppare, nel
caso specifico, proposte di prefattibilità tese al recupero e alla valorizzazione di complessi architettonici
industriali di particolare interesse, o ipotesi di gestione di sistemi museali legati
al patrimonio industriale, non sono che alcuni dei possibili campi attraverso i quali si possono
condurre ulteriori passi verso la messa a punto di appropriate metodologie di intervento
nei casi di trasformazione museale di edifici e complessi della cultura materiale e industriale.

1 Museo diffuso inteso, secondo
uno dei suoi primi e più convinti
assertori, Fredi Drugman, come
«un sistema di servizi preposti al recupero,
alla conservazione, alla tutela,
saldamente connesso non più
soltanto alle fonti, agli istituti di ricerca,
alle gallerie, alle accademie,
ma soprattutto ai luoghi produttivi
artigianali e industriali, alle comunità
locali, alle strutture dell’istruzione,
compresa l’istruzione permanente»
(Drugman 1991).
2 «Virtualmente aperti i Musei dell’Iperconsumo
riconducono il modello
urbano che li attraversa ai
morfemi elementari della strada e
della piazza.» (Purini 2002, p. 15).
Questi profondi cambiamenti insorti
nei musei contemporanei sono
stati peraltro ravvisati negli scorsi
anni anche da altri, come ad esempio
Sergio Polano, quando cita l’attualità
dei musei attivi, esperienziali
e partecipativi: i musei della
scienza e della tecnica, ma non solo.
«In questi luoghi si trasformano, se
non si dissolvono ormai, le funzioni
museali tradizionali. Per dar vita a
nuovi organismi, a ibridi: questa è
la caratteristica della cultura contemporanea,
l’ibridazione. E questi
ibridi forse, sono consoni alle esigenze
mutanti della Contemporaneità.»
(Polano 1998, p. 29).
3 «Ma come non hanno un luogo i
Musei dell’Iperconsumo non possiedono
neanche un non luogo. In
qualche modo questi accumulatori
topologici creano infatti altrettante
centralità – le più importanti nuove
centralità della città diffusa, …»
(Purini 2002, p. 15).
4 I risultati di queste ricerche sono
raccolti nel volume Cerrato et Alii
1998 e nel recente Massarente,
Ronchetta 2004.
5 Ecomuseo del Canale Cavour,
Evelina Calvi (responsabile), Franco
Lattes, Evasio Lavagno, Franco
Prizzon, Luigi Butera, Gemma Sirchia.
6 Il museo delle attività industriali
delle Valli Chisone e Germanasca,
Chiara Ronchetta (responsabile),
Maurizio Lucat, Augusto Sistri,
Laura Guardamagna.
7 Paesaggi di pietra, un Ecomuseo
nel Comune di Rorà, Valle Pellice,
Liliana Bazzanella (responsabile),
Antonio De Rossi, Carlo Giammarco,
Paolo Maggi, Paolo Mellano,
Aimaro Oreglia d’Isola, Riccarda
Rigamonti.
8 La cultura del lavoro minerario e il
viaggio in miniera, Giorgio De Ferrari
(responsabile), Maurizio Lucat,
Chiara Ronchetta.
9 La lavorazione del ferro e della pietra
in Val Chiusella. L’esperienza di
Traversella, Elena Tamagno (responsabile),
Giorgio Faraggiana,
Silvia Mantovani.
10 La lavorazione del rame nelle valli
Orco e Soana, Silvia Mantovani (responsabile),
Maurizio Lucat, con
Tania Crisafulli, Simona Giraudo,
Nadia Osella.
11 Itinerario della Seta nel Torinese,
Patrizia Chierici e Laura Palmucci
(responsabili), con Marcella Bertone,
Elena Frugoni, Alessandro Mellano,
Aurelio Toselli.
12 L’ecomuseo della lavorazione della
canapa a Carmagnola, Emanuele
Levi Montalcini (responsabile),
Franco Lattes, con Paola
Delpiano, Massimo Raschiatore.
13 Carignano – Il lanificio ed il mulino
sul margine verde della città,
Emanuele Levi Montalcini (responsabile),
con Paola Delpiano,
Simona Piola, Massimo Raschiatore,
Sabina Villa.
14 Il museo del tessile nell’Imbiancheria
del Vajro a Chieri, Chiara Ronchetta
e Emanuele Levi Montalcini
(responsabili), Clara Bertolini,
Germana Bricarello, Maurizio Lucat,
Marco Vaudetti.
15 La manifattura di Cuorgnè, Liliana
Bazzanella (responsabile), Roberto
Gabetti, Carlo Giammarco,
Sisto Giriodi, Aimaro Oreglia d’I-
sola, Paolo Mellano, Riccarda Rigamonti,
Matteo Robiglio.
16 La Dora, il parco e il setificio a
Collegno, Franco Lattes (responsabile),
Evelina Calvi, Patrizia Chierici,
Laura Palmucci, Anna Maria
Zorgno, Franco Prizzon.
17 Il museo-laboratorio didattico nel
Villaggio Leumann a Collegno, Marco
Vaudetti (responsabile), con
William Cattanea, Simona Canepa,
Paola Mobiglia, Stefania Musso.
18 Architetture olivettiane a Ivrea,
Carlo Olmo (responsabile), con
Patrizia Bonifazio e Paolo Scrivano;
Italia ’61 a Torino, Carlo Olmo
(responsabile), con Sergio Pace,
Michela Rosso. Oltre a queste,
altre due ricerche sono state dedicate
in particolare a evidenziare itinerari
di visitazione nel territorio
provinciale: una avente come oggetto
i Sentieri della Resistenza, nelle
aree territoriali di Coazze, Angrogna
e Colle del Lys, nel corso
della quale è stata prodotta una
guida multimediale; l’altra, intitolata
Studio di una rete provinciale
di itinerari e percorsi nei luoghi del
“Progetto Cultura materiale” e a cui
si fa cenno in seguito, con la quale
si è inteso costruire un quadro
di riferimento dei possibili itinerari
di visitazione dei musei e dei
luoghi della cultura materiale nel
territorio provinciale.
19 Contratto di Ricerca tra la Provincia
di Torino e il Dipartimento
di Progettazione architettonica del
Politecnico di Torino. Chiara Ronchetta
(Responsabile), Alessandro
Massarente, Laura Palmucci, Riccarda
Rigamonti, Cristina Franco,
Antonietta Cerrato, con Roberta
Ingaramo e con Marcella Bertone,
Elena Frugoni, Alessio Gotta, Marcella
Tisi.
20 Contratto di Ricerca tra la Regione
Piemonte, il Dipartimento
di Progettazione architettonica del
Politecnico di Torino e la Società
Ingegneri e Architetti in Torino.
425

426
Chiara Ronchetta e Emanuele Levi
Montalcini (Responsabili), Patrizia
Chierici, Alessandro Massarente,
Laura Palmucci, con Antonietta
Cerrato, Mauro Berta, Marcella
Bibliografia
M.L. Barelli 2000, Caratteri di fragilità
dell’architettura moderna.
Gli edifici industriali, in La salvaguardia
del patrimonio architettonico
del XX secolo. Problemi, prospettive,
strategie, a cura di Maria
Luisa Barelli e Tecla Livi, Milano,
Edizioni Lybra Immagine,
pp. 107-108.
L. Basso Perressut 2002, Figure dell’abitare.
I musei, in A. Massarente,
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Teorie e tecniche per il progetto di
architettura, Torino, Celid, pp.
51-55.
C. Caldo 1994, Monumento e simbolo.
La percezione geografica dei
beni culturali nello spazio vissuto,
in Beni culturali e geografia, a cura
di C. Caldo e V. Guarrasi, Bologna,
Patron, pp. 15-30.
Bertone, Cristina Franco, Marcella
Tisi, Sabina Villa.
21 Relativamente a questo Master,
la cui direzione è affidata a Giovanni
Luigi Fontana (Università di Pa-
A. Cerrato, A. De Rossi, C. Franco
(a cura di) 1998, Ricerche e proposte
per il progetto cultura materiale,
Torino, Provincia di Torino.
F. Drugman 1991, Il “museo diffuso”
in recenti esperienze italiane,
relazione al Convegno sui musei di
enti locali e di interesse locale, Viterbo.
V. Guarrasi 1994, Prefazione, in
Beni culturali e geografia, a cura
di C. Caldo e V. Guarrasi, Bologna,
Patron, p. 12.
A Massarente, C. Ronchetta (a cura
di) 2004, Ecomusei e paesaggi.
Esperienze, progetti e ricerche per
la cultura materiale, Milano, Lybra
Immagine.
M. Panzeri, G. Gastaldo (a cura
di) 2000, Sistemi informativi
geografici e beni culturali, Atti
dova), ho l’onore di far parte del
Comitato ordinatore insieme ad altri
docenti del Politecnico di Torino,
quali Chiara Ronchetta e Agata
Spaziante.
della giornata di studio della
Scuola di specializzazione in storia
analisi e valutazione dei beni
architettonici e ambientali, Torino,
Celid.
S. Polano 1998, Reti museali. Atomi
e bits, in Il Museo diffuso. I luoghi
del museo nel territorio del Polesine,
Atti del convegno a cura di
A. Massarente, Rovigo, Comitato
permanente per la conservazione
e la valorizzazione dei beni
culturali e ambientali in Polesine,
pp. 27-35.
F. Purini 2002, I musei dell’iperconsumo,
in “Navigator. Architettura
e ambiente”, 6, pp. 10-19.
M.F. Roggero 1999, Note preliminari
ai problemi museali, in Il museo
dal taccuino dell’esperienza,
Roma, Editori Riuniti.

“Con Verdi in Casa Barezzi”
Appunti per un percorso tematico a Busseto
Alberto Bordi
Sauro Rossi
Marco Zarotti
Studio di Architettura Bordi Rossi Zarotti - Parma
RIASSUNTO
Casa Barezzi riveste un ruolo preciso nella tradizione culturale e musicale di Busseto nel corso del XIX secolo.
Il Salone è il luogo in cui si svolgono le intense relazioni sociali promosse dal suo proprietario e, in
quanto sede della Società Filarmonica, è al centro della vita musicale del borgo. Proprio nel salone hanno
luogo le prime esibizioni pubbliche dello studente di musica Giuseppe Verdi e diversi avvenimenti salienti
della sua vita privata e pubblica.
Al Salone, già ripristinato negli arredi e nelle decorazioni a cura della Associazione “Amici di Verdi”,
oggi si è aggiunta la disponibilità di nuovi locali, contigui all’ambiente principale superstite, dove è possibile
strutturare un percorso espositivo, il cui filo conduttore è rappresentato dalla vicenda umana e artistica
degli anni giovanili di Verdi e del cenacolo musicale bussetano nella prima metà del XIX secolo.
Il Salone viene confermato quale accreditato spazio per concerti. Con questo intervento Casa Barezzi
intende diventare un punto di riferimento fondamentale per gli studiosi e per gli appassionati melomani,
sia per la scoperta di particolari aspetti della vita del Maestro, sia per l’approfondimento di aspetti
musicali della sua opera, e si propone come struttura di primo piano all’interno degli itinerari celebrativi
del musicista bussetano.
SUMMARY
The Barezzi House played a major role in the cultural and musical tradition of Busseto during the 19 th century.
The Hall was the place where intense social relations were established and promoted by its owner. It also
was the venue of the Philharmonic Society, thus being the heart of the musical life of this little town. It was in
this very hall that the young student Giuseppe Verdi gave his early public musical performances. Many other
major events of the public and private life of the town also took place in this hall.
The hall as well as its furnishings and decorations have today been restored by the Association “Amici di
Verdi”. Additionally, further contiguous premises have been restored, thus giving rise to an exhibition itinerary,
whose leitmotiv is the story of the human and artistic experiences of Verdi as a young man and of the Busseto
musical circle in the first half of the 19 th century.
The Hall is still used to host concerts. This restoration project intends to turn the Barezzi House as a major
point of reference for musical experts and lovers, both in relation to the discovery of interesting details of the
Maestro’s life and to acquire a better knowledge of the musical aspects of his work. It is regarded as one of the
major highlights of the celebration itineraries of the musician from Busseto.
Il rapporto tra Giuseppe Verdi e la città natale di Busseto, il luogo che il Maestro ha frequentato
più assiduamente nel corso della sua lunga esistenza, è stato particolarmente intenso.
Busseto, il territorio circostante, i panorami della pianura con gli argini all’orizzonte,
le acque del fiume Po con i filari di pioppi, rappresentano nella vita del Maestro
ad un tempo il paesaggio dell’infanzia e dei ricordi legati all’intimità domestica ed i luoghi
dove ritemprare il fisico e ritrovare se stesso nel corso di una vicenda umana e pro-

428 fessionale ricca di successi e unica nel panorama artistico e musicale dell’Ottocento italiano
ed europeo.
La rete di relazioni tra il borgo di Busseto, immerso nei ritmi sonnacchiosi dell’età luigina
e caratterizzato dal conformismo dei rituali della società rurale tradizionale e il suo figlio
più illustre, sempre teso verso una dimensione artistica e creativa senza pari, non è stata
in realtà particolarmente tranquilla. Proprio le incomprensioni sorte tra il Maestro, dotato
di una personalità in bilico tra la dimensione provinciale dell’età giovanile e gli orizzonti
europei della maturità umana e artistica e la comunità di origine, per i giudizi negativi
espressi sulla condotta morale della sua vita privata, sono all’origine del volontario esilio
in terra piacentina del Maestro, al confine della giurisdizione amministrativa di Busseto. E
proprio a partire dall’intensità del rapporto sentimentale e umano intercorso tra il Maestro
Verdi e Busseto, è stata sviluppata l’ipotesi di attrezzare un percorso, sull’esempio dei “Parchi
Letterari” promossi dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che colleghi trasversalmente
i luoghi e gli ambienti della vita privata del Maestro, con l’obiettivo di ripercorrere
i paesaggi che sono stati palcoscenico della vicenda terrena e della dimensione domestica
dell’uomo Verdi.
È stata quindi portata avanti l’ipotesi di realizzare, con il coinvolgimento sinergico di risorse
pubbliche e private, e con l’obiettivo di valorizzare la fruizione turistica del circuito
verdiano di Busseto, la strutturazione di un percorso articolato secondo le sequenze della vita
del Maestro con l’intento di compiere un viaggio ideale tra le tappe significative della sua
biografia e di rendere percepibili al fruitore contemporaneo le sensazioni e le suggestioni dei
luoghi della memoria verdiana.
L’abitato di Roncole costituisce l’inizio del percorso con la casa natale che ricorda l’infanzia
del Maestro e la vita della famiglia Verdi, osti a Roncole. La visita alla chiesa parroc-
Fig. 1. Il borgo di Busseto in un’immagine planovolumetrica.

chiale e agli oratori di Bassa Maj e Madonna
Prati con i cimeli verdiani e la riattivazione
dei percorsi delle antiche carrarecce, introducono
l’attento visitatore contemporaneo nelle
atmosfere della pianura e dei paesaggi dell’infanzia
del Maestro.
La città di Busseto rappresenta il settore
cardine del percorso, incentrato sugli anni
giovanili e della prima maturità del Maestro.
Il centro storico del borgo rappresenta un palcoscenico
ideale per un itinerario che illustri
criticamente la tradizione musicale dell’opera
verdiana, coinvolgendo le emergenze monumentali
della città (Villa Pallavicino, il Teatro
Verdi) e tutti i siti che hanno visto la presenza
fisica di Verdi (Palazzo Barezzi, Palazzo Orlandi,
la chiesa collegiata di San Bartolomeo).
Palazzo Barezzi e Palazzo Orlandi assieme a
Villa Pallavicino (con il potenziamento della
struttura museale) rappresentano i principali
Fig. 2. Ritratto di Giuseppe Verdi.
poli di attrazione del sistema museale. A Palazzo
Barezzi si organizza un’esposizione dedicata
specificatamente alla prima formazione musicale di Giuseppe Verdi, alla sua produzione
giovanile ed al ruolo svolto dalla Società Filarmonica e da Antonio Barezzi nella sua formazione
musicale e umana. A Palazzo Orlandi sono visitabili l’appartamento storico abitato da
Giuseppe Verdi e dalla seconda moglie Giuseppina Strepponi con gli arredi d’epoca.
A completamento dell’itinerario nel centro cittadino sono coinvolti nell’iniziativa altre
memorie verdiane quali il Museo civico a Villa Pallavicino, il Teatro nella Rocca Pallavicino
e la chiesa della Trinità, annessa alla Chiesa di San Bartolomeo, dove nel 1836 si è celebrato
il matrimonio fra Verdi e Margherita Barezzi.
Il percorso tematico si conclude a Sant’Agata con l’illustrazione degli anni della piena
maturità del Maestro, della dimensione domestica della sua vita e dell’attività di oculato imprenditore
agricolo. Tale itinerario trova una conclusione prestigiosa negli affascinanti ambienti
di Villa Carrara-Verdi, con gli appartamenti, gli arredi storici, e l’annesso parco, con
i manufatti (la grotta, il lago, il caseificio, ecc.) fatti costruire dallo stesso Maestro a servizio
delle proprietà agricole. Villa Verdi, con le memorie dirette della vita e gli oggetti personali
del Maestro, costituisce la logica conclusione del percorso verdiano articolato intorno a
Busseto.
In occasione delle celebrazioni centenarie del 2001, la Regione Emilia-Romagna e gli
Enti Locali hanno promosso un vasto programma di recupero e valorizzazione dei principali
luoghi verdiani a Busseto e dintorni. All’interno di questo ambizioso progetto, per volontà
della “Associazione Culturale Amici di Verdi”, è maturata l’ipotesi di allestire il percorso
museografico nei locali storici di “Casa Barezzi”, attuale sede dell’associazione e di cui
già oggi si utilizza lo storico salone per concerti lirici.
429

430
LA STRUTTURA DI “CASA BAREZZI”
Casa Barezzi, affacciata sulla piazza principale del borgo di Busseto ed elemento essenziale
della quinta edificata di chiusura di questo spazio urbano, rappresenta nel contesto della
città storica una significativa testimonianza di abitazione borghese a corte, di matrice
tardosettecentesca. Il ruolo dell’edificio a scala urbana appare evidente nelle vedute storiche
della piazza, dove riquadrature prospettiche e decorazioni di matrice eclettica neorinascimentale
nel prospetto principale (di cui il progetto prevedeva la ricostruzione filologica)
sottolineano la particolare composizione architettonica dell’edificio. Casa Barezzi, ed
in particolare il Salone di rappresentanza, riveste un ruolo peculiare nella tradizione culturale
e musicale di Busseto nel corso del XIX secolo. Il Salone è il luogo in cui si svolgono
le intense relazioni sociali promosse dal proprietario, il ricco commerciante di liquori
e coloniali Antonio Barezzi. Il Salone, sede della Società Filarmonica, è al centro
della vita musicale del borgo. È proprio il salone di casa Barezzi che ospita le prime esibizioni
pubbliche dello studente di musica Giuseppe Verdi. Il giovane, ospite stabile della
famiglia dal 1831, trascorrerà qui una parentesi serena negli anni della sua formazione,
impegnato a comporre brani per la Società Filarmonica animata dal mecenate Antonio
Barezzi. È ancora nel Salone di casa Barezzi che si festeggiano nel 1836 le nozze del
giovane Verdi con Margherita, figlia del mecenate Antonio, sono composte diverse parti
delle prime opere del Maestro e dove sarà terminata nel 1844 l’opera “I Due Foscari”. La
vita musicale bussetana animata dal Barezzi ferve nel Salone anche dopo il trasferimento
di Verdi a Milano ed è nello stesso luogo che si progetta l’erezione di un nuovo teatro
per Busseto nel 1845.
Fig. 3. Busseto, Casa Barezzi: salone di rappresentanza nel primo Novecento.

Fig. 4. Busseto, Casa Barezzi: fronte dell’edificio nel
primo Novecento.
Fig. 5. Busseto, Casa Barezzi: il logo del museo.
Il Salone, già ripristinato negli arredi e nelle decorazioni a cura della Associazione “Amici
di Verdi”, rappresenta uno dei luoghi di Busseto dove ancora è possibile percepire più intensamente
la memoria e le atmosfere verdiane. Grazie alla disponibilità di nuovi locali,
contigui all’ambiente principale, è stato possibile strutturare un percorso espositivo il cui filo
conduttore è rappresentato dalla vicenda umana e artistica degli anni giovanili di Verdi e
del cenacolo musicale bussetano nella prima metà del XIX secolo. Nella configurazione del
percorso espositivo, si è considerato, prioritariamente, che il numero limitato e l’eterogeneità
degli oggetti da esporre non debba essere interpretato come un limite della nuova istituzione,
ma come una sua potenzialità e caratterizzazione, creando conseguentemente un
percorso narrativo con tecniche espositive innovative e coinvolgenti i visitatori del museo e
la realtà locale di Busseto. Il nuovo allestimento museale perciò non muove dall’ambizione
di affrontare esaustivamente l’ampia biografia del Maestro, ma vuole piuttosto costituire un
luogo di lettura e approfondimento di alcuni aspetti della sua vicenda umana e professionale,
suggerendo spunti e chiavi di lettura dell’intenso rapporto intercorso tra il Maestro,
Busseto ed in particolare “Casa Barezzi”.
Il museo viene organizzato con sezioni tematiche ordinate secondo una sequenza logica
in grado di valorizzare le suggestioni proposte dai cimeli di proprietà dell’Associazione, consentendo
contemporaneamente ai visitatori una fruibilità complessiva ampia dei materiali
esposti, nonché l’uso didattico degli stessi. L’articolazione del percorso si avvale inoltre dell’uso
di tecniche audiovisive e di un design espositivo progettato in funzione dei materiali
esposti e del loro valore documentario, facilitando la comunicazione dell’utenza con la struttura
espositiva.
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Fig. 6. Busseto, Casa Barezzi: planimetria generale del museo.
IL PERCORSO MUSEALE
Il percorso espositivo tematico “Con Verdi in Casa Barezzi” si apre con una piccola sezione
dedicata all’inquadramento territoriale e temporale della realtà locale nel primo Ottocento,
con l’esposizione di una Mappa del Ducato di Parma di età luigina, di una litografia di Busseto
ed alcune foto d’epoca, unite ad informazioni grafiche collocate sul supporto allestitivo
realizzate con l’obiettivo di introdurre il visitatore alle tematiche del percorso museale e
alla realtà locale al tempo della giovinezza di Verdi. Il primo ambiente ad essere visitato è il
Salone Barezzi, unica testimonianza superstite dell’originale assetto interno dell’edificio e
spazio in cui Verdi trascorse l’adolescenza e compose parte delle sue opere. Il Salone, conservato
nell’assetto storico con gli arredi e gli strumenti musicali dell’epoca, all’occasione
viene trasformato in sala per concerti con dotazione di poltroncine mobili.
Il percorso prosegue con la sala espositiva vera e propria (ricavata dall’unione di due ambienti
di grandi dimensioni attigui agli spazi storici) nella quale trovano posto, suddivisi per
sezioni tematiche, i reperti più importanti dell’esposizione.
La prima sezione affronta il tema della giovinezza di Giuseppe Verdi, età che vede il Maestro
maggiormente legato a “Casa Barezzi”. A testimonianza di questo periodo sono presentate
in appositi supporti numerose lettere, tra cui quella inviata alla Duchessa Maria Luigia
D’Austria, ricordata da un suo ritratto litografico. La sezione illustra poi brevemente la
storia dell’edificio e degli ambienti in cui Verdi ha vissuto, con la ricostruzione fotografica
dell’assetto storico del Salone, degli oggetti e degli strumenti di uso quotidiano del Maestro.
Infine una proiezione inserisce all’interno del percorso espositivo le suggestioni tipiche del

Fig. 7. Busseto, Casa Barezzi: panca posta all’ingresso. Fig. 8. Busseto, Casa Barezzi: l’accesso al museo.
Fig. 9. Busseto, Casa Barezzi: disegni esecutivi della bussola d’ingresso.
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434 paesaggio bussetano, al fine di ricostruire il
clima in cui Verdi visse e compose parte delle
sue opere, sfondi paesaggistici e atmosfere
nei quali il visitatore contemporaneo è invitato
ad immergersi.
La sezione seguente è composta da una
collezione di ritratti dell’artista, fra cui si ricordano
una tela di Pietro Paolo Michetti e il
busto di Vincenzo Gemito, e da cimeli della
Società Filarmonica di Busseto e di Emanuele
Muzio, l’interprete preferito dal Maestro.
Cimeli relativi all’inaugurazione del Teatro
di Busseto, con i libretti della prima rappresentazione
ed il manifesto dello spettacolo
inaugurale, introducono alla sezione dedicata
al ricordo dei maggiori interpreti dell’opera
verdiana attivi sulle scene teatrali nel
XIX secolo, una collezione unica di litografie
originali che non trova eguali in altre raccolte
pubbliche e private.
I principali quotidiani nazionali d’epoca
Fig. 10. Busseto, Casa Barezzi: un busto del Maestro.
con le notizie relative alla morte di Verdi, ai
Fig. 11. Busseto, Casa Barezzi: vetrina dedicata ai ritratti del musicista

Fig. 12. Busseto, Casa Barezzi: mensola per il bozzetto
del monumento a G. Verdi da realizzare a Trieste.
Fig. 14. Busseto, Casa Barezzi: uno scorcio dell’esposizione
con, in primo piano, un ritratto della sovrana
Maria Luigia.
Fig. 13. Busseto, Casa Barezzi: disegno esecutivo della
mensola per il sostegno del bozzetto del monumento
da realizzare a Trieste.
Fig. 15. Busseto, Casa Barezzi: un’altra veduta del percorso
museale. Sullo sfondo il ritratto di Giuseppina
Strepponi.
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Fig. 16. Busseto, Casa Barezzi: disegno esecutivo di una panca nella sezione dedicata alle celebrazioni verdiane
del 1913 e del 2001.
grandiosi funerali pubblici e al ricordo del mito del Maestro per le celebrazioni centenarie
del 1913, sono esposti nell’ultima sezione del percorso. Parte della sezione è dedicata alla celebrazione
del mito verdiano con manifesti originali e cimeli per le commemorazioni centenarie
del 1913 e del 2001 dirette da Arturo Toscanini e Riccardo Muti, oltre ad un autografo
di Gabriele D’Annunzio con versi in ricordo del Maestro.
Questo ambiente introduce quindi la musica, l’altro tema fondamentale dell’allestimento
di “Casa Barezzi”. Il Salone Barezzi viene confermato quale accreditato spazio per concerti,
come ormai nella tradizione del costume locale. Il Salone, dotato di un nuovo impianto
di illuminazione e di un nuovo impianto di diffusione sonora di qualità, viene allestito
con sedute mobili, da collocare solamente in occasione delle manifestazioni musicali,
lasciandolo visitare a completamento del percorso museale durante la normale apertura della
nuova istituzione.
L’allestimento del salone intende quindi valorizzare l’ampia collezione discografica di
proprietà dell’Associazione, facendo sì che anche i gruppi in visita possano ascoltare ed apprezzare
in un contesto ed un’atmosfera appropriati le diverse vocalità interpreti dell’opera
del Maestro.
Con l’ampliamento e il nuovo percorso museale “Casa Barezzi” intende diventare un punto
di riferimento essenziale per gli studiosi e per gli appassionati della tradizione verdiana, sia
per la scoperta di particolari aspetti della vita domestica del Maestro, sia per l’approfondimento
della tradizione vocale che per l’interpretazione della sua opera, proponendosi come
spazio peculiare all’interno degli itinerari celebrativi del Maestro nella città natale.
Il percorso espositivo, con i cimeli verdiani della donazione del comm. Gianfranco Stefanini, è stato promosso
e realizzato dall’Associazione “Amici di Verdi” di Busseto su progetto di Corrado Mingardi, per l’a-

spetto museografico, e dagli architetti Alberto Bordi, Sauro Rossi, Marco Zarotti e Claudio Bernardi, con
la collaborazione dell’arch. Silvia Piccioni, per l’allestimento espositivo. La nuova sede, inaugurata il 10
aprile 2001 dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e dal Maestro Riccardo Muti nell’ambito
delle celebrazioni centenarie verdiane, è stata realizzata con il contributo della Provincia di Parma,
Comune di Busseto, Banca Anton Veneta (proprietaria dell’immobile), Fondazione Cariparma e delle
aziende Parmalat, Ibis, Gardesa, Sicim, iGuzzini e Arquati. Si ringraziano per la fattiva collaborazione
e la disponibilità gli “Amici di Verdi”, in particolare Giuseppe Marchetti, Giacomo Donati, Corrado
Mingardi e Riccardo Napolitano.
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Casa Cervi di Gattatico. Da casa contadina a moderno
museo di Storia della Resistenza nelle campagne
e dei movimenti contadini
Paola Varesi
Istituto Acide Cervi
RIASSUNTO
Il Museo nasce in seguito all’esposizione dei ricordi e delle testimonianze dell’olocausto dei sette componenti
della famiglia Cervi, uccisi per mano dei fascisti nel 1943. Già nell’immediato Dopoguerra, con gli
oggetti conservati, vengono riarredati gli ambienti della casa contadina. Con i documenti provenienti dall’Archivio
della famiglia viene poi allestita una mostra sulla vicenda dei sette fratelli accomunati da un
unico destino. Scaturiscono da queste scelte la doppia identità e la doppia vocazione del Museo, ove si
sviluppano i due grandi temi della vita dei contadini nelle campagne prima, durante e dopo la guerra, e
del loro rapporto con l’antifascismo, in un dialogo continuo fra storia privata e storia pubblica.
Nel 2001 è giunto a conclusione un articolato progetto museale, che insieme al riallestimento ha previsto
anche il recupero e la ristrutturazione della vecchia casa contadina. In questo modo si sono raccordate
le diverse anime del museo: che è museo dell’antifascismo contadino e della Resistenza nelle campagne;
è museo della memoria dei valori democratici e civili nel Dopoguerra; è museo del territorio, che offre tra
l’altro uno spaccato straordinario di vita contadina dall’inizio del secolo fino alla fine della seconda guerra,
momento cruciale della trasformazione delle campagne; ma è anche casa-museo di una straordinaria famiglia
di contadini di inizio secolo, la cui vicenda costituisce un patrimonio di idee e di valori irrinunciabili.
SUMMARY
The museum was set up to exhibit the memories and evidence of the Holocaust of the seven members of the
Cervi family, who were killed by fascists in 1943. Already in the immediate post-war period the country house
was refurnished with the preserved objects. The documents coming from the family archives were then used to
mount an exhibition on the vicissitudes of the seven brothers who died hit by the same destiny. The twofold
identity and vocation of the museum stem from these choices; the two major issues of the peasants’ lives in the
countryside are illustrated before, during and after the war and their relationship with antifascism, intertwining
a continuous dialogue between the family’s private history and the public history.
In 2001 a complex museum project was completed. Along with the recreation of the original setting, the
old country house underwent a conservation and refurbishment work. In this way the different museum souls
have been brought together: the final result is a museum devoted to peasants’ antifascism and to the Resistance
movement in the countryside; it is a museum devoted to the memory of democratic and civic values in the postwar
period; it is the museum of the local community providing a glimpse of farmers’ life from the early 20th
century until the end of the second world war, which marked a turning point for the countryside; but it is also
a museum-house that belonged to an extraordinary family of peasants of the early 20th century, whose life
experiences serve as a precious example of noble ideals and values.
IL MUSEO CERVI
Il Museo si trova nella bassa pianura reggiana ed è ambientato nella casa abitata dalla famiglia
Cervi dal 1934. Casa Cervi diventa “Museo per la storia dei movimenti contadini, del-

l’antifascismo e della Resistenza nelle campagne” a partire dalla raccolta degli oggetti che la famiglia
dei sette fratelli Cervi aveva conservato fin dagli anni Trenta del secolo scorso e di
quelli donati successivamente, fra cui materiali a stampa e manoscritti, riconoscimenti e decorazioni
ufficiali, album, cimeli, opere d’arte.
L’idea di un Museo dedicato alla memoria dei suoi figli doveva già essere presente in Alcide
Cervi (Papà Cervi, come vuole la tradizione, che in lui identifica un padre della patria)
se in una lettera del 1964 confessava il desiderio di donare alle Istituzioni Locali i ricordi e
le testimonianze dell’olocausto dei suoi sette figli, uccisi per mano dei fascisti all’alba del 28
dicembre 1943. E questo a garanzia di una memoria conservata, e dunque tramandabile. La
storia del Museo Cervi nasce in buona parte qui, con questo atto, con questa ferma volontà,
che ne segna anche il futuro, nel senso di un Museo fortemente ancorato alle Istituzioni e
al territorio, ma anche di un Museo della memoria, che si sedimenta nel tempo accogliendo
naturalmente le precise indicazioni del Vecchio Patriarca. Quelle stesse indicazioni erano
di fatto già concrete nei tardi anni Cinquanta, quando il pellegrinaggio di visite e i doni
lasciati in memoria sanciscono per casa Cervi lo status di Museo spontaneo, luogo memorabile
della Resistenza che si accresce per volontà popolare, a partire dalla casa, e dalle testimonianze
originarie. Casa Cervi diventa così Museo senza un progetto apparente: caso
singolare, che lo rende nel tempo più vivo e più libero di tanti altri musei.
LA CASA
La casa dove i Cervi arrivano nel 1934 è un edificio colonico ad “elementi giustapposti” tipico
della zona reggiano-modenese. Si trova ai Campi Rossi, un podere di circa 20 ettari
esteso nella media pianura reggiana, al confine fra i comuni di Gattatico e Campegine. Qui
i Cervi, fino ad allora contadini-mezzadri, giungono come affittuari. Il passaggio dalla condizione
di mezzadri a quella di affittuari, che è poi l’atto di una tensione al miglioramento,
e al riscatto sociale, mette già in evidenza la loro ‘cifra’ caratteristica: i Cervi sono contadini
progressisti e intraprendenti, irrequieti. Da subito sperimentano nuove tecniche per il livellamento
del terreno e la rotazione delle colture, e nel giro di pochi anni il podere malconcio
diventa un modello di agricoltura razionale. Nel 1939 arriva pure un trattore, ovviamente
fra i primi della zona. La loro ansia di conoscenza e di miglioramento li spinge nel
frattempo ad istruirsi: leggono libri, e vi cercano il nuovo, consapevoli che senza innovazione
non c’è futuro. I Cervi agiscono dunque da attori nel periodo in cui le campagne, al
tramonto di una secolare civiltà, si trasformano e si meccanizzano, mentre sul piano ideologico
e politico, guidati come sono da un’incomprimibile vocazione alla libertà, prendono
netta posizione contro il regime.
L’attività politica clandestina fa della loro casa un punto di riferimento per gli antifascisti
della zona: sono fra i primi ad intraprendere la lotta partigiana all’indomani dell’armistizio
dell’8 settembre 1943, e sono anche fra i primi martiri della Resistenza. Al padre, risparmiato,
spetta di tramandare la memoria attraverso la parola, e di porre le basi del Museo
col racconto di una vita lunga 95 anni. Sarà infatti la stessa famiglia a decidere, nel 1975,
di conferire la casa e il podere annesso alla Provincia di Reggio Emilia, consentendo l’avvio
della sua definitiva trasformazione in Museo.
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Nel 1972 intanto si era costituito a Reggio Emilia – per iniziativa della Provincia di Reggio
Emilia, dell’Alleanza Nazionale dei Contadini (oggi CIA), dell’Associazione Nazionale
Partigiani d’Italia (ANPI) e del Comune di Gattatico – l’Istituto Alcide Cervi. L’Istituto nasce
con lo scopo di promuovere e realizzare attività scientifiche e culturali nell’ambito degli
studi e delle elaborazioni delle materie che interessano l’agricoltura e il mondo rurale, indagati
sotto il profilo storico, economico, sociale, giuridico, letterario ed artistico. In particolare,
l’Istituto promuove ricerche, studi e iniziative in relazione alle esigenze dello sviluppo
civile e sociale delle campagne e in rapporto ai movimenti popolari per il progresso dei lavoratori
della terra e – ancora – in relazione alla partecipazione dei contadini alla lotta antifascista
e alla Resistenza. L’Istituto Alcide Cervi – che nell’ambito delle sue finalità può assumere
la gestione di patrimoni culturali come biblioteche, musei e archivi – gestisce il Museo
Cervi, la Biblioteca Emilio Sereni, l’Archivio storico nazionale dei movimenti contadini.
LA BIBLIOTECA EMILIO SERENI
E L’ARCHIVIO STORICO NAZIONALE DEI MOVIMENTI CONTADINI
La Biblioteca intitolata ad Emilio Sereni si è formata e arricchita nel corso degli anni a partire
da un consistente fondo librario e archivistico pervenuto all’Istituto dal grande studioso
di storia del paesaggio agrario. La Biblioteca Emilio Sereni insieme all’Archivio storico
nazionale dei movimenti contadini raccoglie e organizza un patrimonio documentario, librario
e archivistico di grande valore per la storia dell’agricoltura, della società rurale, e dei
movimenti contadini, italiani, europei ed extraeuropei. La Biblioteca consta oggi di circa
16.000 volumi e oltre 200 periodici. Lo schema classificatorio è impostato in quattro grandi
sezioni: agricoltura, economia, storia e antropologia. Di particolare interesse sono i settori
riguardanti la storia del movimento contadino, la sociologia, e l’etnologia rurale, la storia
del paesaggio agrario, la storia d’Italia, dove numerose sono le opere sul fascismo, sulla
Resistenza, sulla I e sulla II guerra mondiale, e quelle relative alle varie storie regionali e al
brigantaggio.
L’Archivio storico nazionale dei movimenti contadini raccoglie e organizza in oltre 1400
buste archivistiche i materiali documentari pervenuti da organizzazioni politiche, sindacali,
e da privati attinenti alla storia dei movimenti contadini italiani dalle origini ai nostri giorni.
Come la Biblioteca, anche l’Archivio fa perno intorno alle carte di Emilio Sereni, che da
sole rappresentano quasi la metà dell’intero corpus archivistico. Di fondamentale importanza
sono anche le carte delle organizzazioni agricole.
Già nell’immediato Dopoguerra, con gli oggetti conservati, vengono riarredati gli ambienti
della casa contadina: la cucina, la cantina, due stanze da letto, e la stalla con il trattore,
con gli attrezzi del lavoro dei campi e della tessitura. Nello snodarsi del percorso di visita,
essi offrono per lungo tempo uno spaccato di vita vissuta, valido sia per i riferimenti
immediati alla vicenda, sia per il valore storico-documentario. Nel 1975, con l’acquisto dell’immobile
e del fondo da parte della Provincia di Reggio Emilia, è stato possibile iniziare
un lavoro di consolidamento della struttura e avviare la definitiva trasformazione della casa
in Museo. Con i documenti provenienti dall’Archivio della famiglia viene poi allestita all’inizio
degli anni Novanta una mostra sulla vicenda dei sette fratelli Cervi, primo nucleo or-

ganizzato secondo criteri di fruibilità museale. È su questo primo nucleo che si porranno le
basi per l’allestimento del “Nuovo Museo Cervi” inaugurato nell’aprile del 2001.
Rimane comunque inalterata nel tempo la doppia identità originaria, quasi una doppia
vocazione del Museo Cervi, ove a partire da una situazione privata, cha fa capo alla vita e
all’attività della famiglia Cervi, si sviluppano i due grandi temi della vita dei contadini nelle
campagne prima, durante e dopo la guerra, e del loro rapporto con l’antifascismo, in un
dialogo continuo fra storia privata e storia pubblica.
IL PROGETTO DI RIALLESTIMENTO DEL PERCORSO ESPOSITIVO DI CASA CERVI
Le opere di adeguamento degli ambienti alle esigenze museali intervenute nel corso del tempo,
non alterando la tipologia originaria dell’abitazione, con gli spazi di vita e di lavoro, la
hanno al contrario resa fruibile ad altre attività, didattiche ed espositive in primo luogo, e ne
hanno positivamente condizionato lo sviluppo nel senso di un Museo-laboratorio, luogo di
studio e di approfondimento della storia contemporanea che vede nella scuola uno dei suoi
interlocutori privilegiati. Si tratta di indicazioni culturali e di percorso che si approfondiscono
negli anni, e dalle quali muove nel tempo l’esigenza di ulteriori miglioramenti: dal
punto di vista strutturale, anzitutto, ma anche della comunicazione storica e didattica. È
sulla base di queste indicazioni che è stato messo a punto un Progetto di riqualificazione e
riallestimento del percorso storico di Casa Cervi, i cui spazi sono stati completamente riallestiti
e inaugurati nell’aprile del 2001 a conclusione di un articolato intervento sostenuto dal
Ministero per i Beni Culturali. Insieme al riallestimento, il Progetto ha previsto anche il recupero
e la ristrutturazione della vecchia casa contadina.
Si è trattato di un passaggio importante, che con la “musealizzazione” di casa Cervi, e
cioè con il suo adeguamento a più attuali criteri di fruibilità, ha inteso raccogliere del tutto
le indicazioni di Papà Cervi, che nella sua casa vedeva anche un luogo di comunicazione, di
accoglienza, di memoria viva.
Il Progetto di riallestimento ha infatti riletto gli spazi di vita e di lavoro della casa contadina
secondo l’ottica e l’obiettivo della massima fruibilità, per tutta l’utenza e in particolare
per le scuole. Nel ripercorrere la storia della famiglia, il riallestimento ha osservato
e realizzato nelle soluzioni concrete un rimando continuo tra quella straordinaria vicenda
e gli aspetti più generali della storia del Novecento: il lavoro nelle campagne, l’antifascismo
e la Resistenza, la costruzione della memoria repubblicana e democratica nel secondo
Dopoguerra, in un dialogo ininterrotto fra dimensione privata e dimensione pubblica.
È stato quello dell’organicità del percorso di visita, uno degli obiettivi più presenti al
Progetto, e l’obiettivo più importante raggiunto, che si è concretizzato anzitutto nella predisposizione
di un cammino armonico, senza soluzione di continuità fra gli spazi di vita
e quelli di lavoro, fra i Cervi famiglia contadina e i Cervi antifascisti e partigiani, fra oggetti
e documenti, fra storia e letteratura, fra parola e immagine. Così quello che nei primi
allestimenti era frammentario si è come organizzato in un tutto unico, dove hanno
trovato posto anche i brani dei tanti intellettuali che sulla vicenda hanno scritto, le poesie
e le fole del filòs, e tutto un sommerso che è venuto alla luce, e che è leggibile attraverso
gli apparati didascalici.
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La ristrutturazione e il riallestimento della vecchia casa contadina hanno consentito di
esaltare le molte anime del Museo Cervi, che è ad un tempo:
– Museo della memoria, che mantiene la sua funzione principale di raccontare la storia
della famiglia Cervi e del contesto storico-culturale in cui si colloca attraverso le testimonianze
della casa contadina e del percorso museale, del podere annesso, degli oggetti e dei
documenti e del patrimonio;
– Museo dell’età contemporanea, che mette a disposizione servizi didattici e culturali funzionali
alla conoscenza dell’età contemporanea;
– Museo laboratorio, che mette a disposizione visite didattiche a tema a vari livelli di approfondimento;
che realizza strumenti didattici per percorsi tematici differenziati; corsi di
aggiornamento per insegnanti; laboratori di approfondimento storico che si esplicano in attività
condotte all’interno del Museo con classi di studenti;
–Museo del territorio, radicato sul suo territorio e legato alle Istituzioni che operano
su esso;
– Museo-casa di campagna, che ha provveduto in questo senso a sistemare le aree esterne
per migliorare l’accoglienza e la fruibilità della struttura, rinnovando la tradizione dell’accoglienza
che la stessa famiglia Cervi riservava a tutti coloro che facevano visita alla casa
dal Dopoguerra in poi, quando spontaneamente la gente arrivava a casa Cervi per rendere
omaggio alla memoria dei sette fratelli Cervi e per incontrare il vecchio Alcide.
Casa Cervi diventa così un punto di riferimento imprescindibile per l’approfondimento della
storia del Novecento, tanto più importante quanto più la sua valenza di simbolo, di
esempio morale e civile si riempie di contenuti nuovi, e guarda all’attualità.
Da allora, dall’inaugurazione del Nuovo Museo Cervi, obiettivo dell’Istituto Alcide Cervi
è diventato quello di perseguire, allo stesso modo di quanto si è operato sul percorso di
visita, una intersecazione sempre più marcata fra i diversi settori di attività, dando l’idea
di un Museo e di un Istituto che si muovono secondo precise linee culturali, in modo organico,
e dove l’occasione viene inserita in un sistema, che si costruisce e si relaziona costantemente
con il territorio, rispondendo alle sue esigenze e facendosi promotore di stimoli
nuovi.
I capitoli di questo sistema sono quelli su cui da anni lavorano l’Istituto e il Museo Cervi:
l’attività convegnistica e le pubblicazioni; l’attività seminariale e la ricerca; l’attività espositiva;
l’attività didattica e di laboratorio per gli studenti e gli insegnanti; le iniziative commemorative,
culturali e ricreative; la conservazione e la fruizione del patrimonio.
L’ATTIVITÀ CONVEGNISTICA E LE PUBBLICAZIONI
L’Istituto pubblica dal 1979 gli Annali, che costituiscono il luogo e l’esito del lavoro di approfondimento
sui temi identitari dell’Istituto, e un contributo importantissimo alla ricerca
storiografica.
Lo scavo critico, la riflessione sugli aspetti della contemporaneità con particolare attenzione
alla storia e alla cultura del mondo contadino trovano un altro momento di espressione
nell’organizzazione di convegni, seminari e incontri tematici.

L’attività convegnistica e seminariale in particolare rappresenta un momento di approfondimento
sui temi e sui problemi legati all’agricoltura, alla società contadina e alla sua
evoluzione, all’ambiente, all’alimentazione e alle risorse disponibili, e un momento di ricognizione
delle vicende italiane ed europee riguardo ai movimenti e alle lotte contadine, all’antifascismo
e alla Resistenza nelle campagne. Vanno in questa direzione due recenti e importantissimi
titoli di convegni “Realtà contadina e aperture democratiche agli inizi del ’900”;
“Agricoltura e società contadina all’esordio degli anni 2000” che hanno consentito con l’apporto
di studiosi di chiara fama di fare il punto sullo stato della società contadina e dell’agricoltura
in Italia e in Europa nell’arco di un secolo, e di gettare uno sguardo sullo scenario
nuovo che si va prefigurando con l’avvento del nuovo millennio.
L’attività convegnistica costituisce anche l’occasione per sottolineare e rafforzare i rapporti
di collaborazione dell’Istituto Alcide Cervi con gli altri Enti di ricerca e con le Università.
L’attività seminariale e di ricerca trova spunto anche nelle celebrazioni di date emblematiche
come il 27 gennaio, l’8 marzo, il 25 aprile, dove la commemorazione diventa
l’occasione per un approfondimento di temi legati alla storia e alla società contemporanea.
In particolare, la celebrazione della Giornata Internazionale della Memoria costituisce
l’occasione per realizzare seminari di confronto e di contatto dei luoghi della memoria,
che intendono essere momenti di riflessione sulla loro identità e sulla loro funzione
educativa, e sui temi relativi alla conservazione e alla trasmissione della memoria del Novecento.
In particolare, nel gennaio del 2002, con il seminario “Il sistema della memoria:
luoghi e musei in Emilia-Romagna” organizzato dall’Istituto Cervi in collaborazione con
l’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, insieme a una riflessione sui
diversi aspetti legati alla gestione e alla trasmissione della memoria, si sono poste le premesse
per la realizzazione di una ‘rete regionale dei luoghi della memoria’, che mettendo
in collegamento i luoghi più significativi della storia della seconda metà del secolo scorso
(Museo Monumento al Deportato di Carpi, Museo della Repubblica partigiana di
Montefiorino, Parco Storico di Montesole di Marzabotto, Villa Emma di Nonantola, Museo
della Battaglia del Senio), dia loro visibilità, e ne coordini gli sviluppi futuri secondo
l’ottica di una sempre maggiore fruibilità, che preveda il loro inserimento entro i percorsi
storico-turistici.
L’ISTITUTO E IL MUSEO CERVI COME RISORSA PER IL TERRITORIO
L’attenzione alla cultura e alla tradizione del territorio, l’omaggio alla identità contadina dei
Cervi, insieme alla attività ordinaria del Museo trova da anni uno dei momenti più significativi
nell’organizzazione delle serate de “Il Museo sotto le stelle”. La rassegna – giunta ad oltre
una decina di edizioni – costituisce un appuntamento culturale e di svago ormai atteso
e radicato sul territorio. Perno della rassegna è la serata della “storica pastasciutta” che per valenza
storica e simbolica, e per impostazione, ne costituisce anche il centro identitario. Da
qualche anno si è inteso lavorare per imprimere sempre più compattezza all’iniziativa, impostando
le serate sui temi della storia del Novecento, e della Resistenza in particolare, e sulla
cultura e sulla tradizione del territorio. Si è anche inteso recuperare il valore storico del
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25 luglio – data della caduta di Mussolini, all’indomani della quale i Cervi offrono appunto
la pastasciutta in piazza a Campegine, in segno di festa – facendone un appuntamento
da celebrare allo stesso modo del 27 gennaio e del 25 aprile.
L’ATTIVITÀ ESPOSITIVA
Come le altre iniziative, le esposizioni temporanee a carattere iconografico e documentario
toccano i temi legati alla storia contemporanea e alla Resistenza, alla storia dei movimenti
contadini e dell’agricoltura, alla storia e alla cultura del territorio. La recente catalogazione
della raccolta d’arte contemporanea conservata presso il Museo Cervi ha avviato una rassegna
di esposizioni a carattere più squisitamente artistico, dove largo spazio è dato agli autori
contemporanei, che si muovono, con la loro arte, entro i temi che connotano l’Istituto e
il Museo Cervi.
L’attività espositiva si svolge nei locali della Sala della Solidarietà (originariamente il secondo
fienile di Casa Cervi), importanti spazi di lavoro che nel 1996 vengono completamente
ristrutturati e resi funzionali alle attività espositive grazie ad un finanziamento della
Fondazione Pietro Manodori di Reggio Emilia.
L’ATTIVITÀ DIDATTICA. IL MUSEO COME LABORATORIO DI STORIA
E LUOGO DI ESPERIENZA PARTECIPATA
La didattica costituisce una delle missioni fondamentali dell’Istituto, che si è configurato
fin dalla sua costituzione come Ente impegnato nell’educazione delle giovani generazioni
ai valori nati dalla Resistenza, attivando progetti di lavoro sui temi della storia e della civiltà
contemporanea. Il Museo Cervi accoglie ogni anno centinaia di studenti e insegnanti
provengono da tutta Italia. Da sempre, da quando casa Cervi si è aperta al pubblico, già
negli anni Sessanta del secolo scorso, strumento privilegiato di indagine sono stati gli spazi
della casa contadina, dove l’accoglienza da parte di volontari ex partigiani ha garantito
da un lato di lavorare sui contenuti storici e umani della vicenda dei Cervi e, dall’altro,
di conservare intatto il costume tipicamente contadino dell’accoglienza, per trasmetterlo
come valore attraverso l’oralità, attraverso la parola e la testimonianza del vissuto. Adesso
la casa contadina è decisamente cambiata: le visite guidate vengono impostate negli spazi
riallestiti secondo diversi livelli di approfondimento (scuole elementari, medie e superiori)
e si avvalgono di moderni strumenti didattici che tendono a trasformare la visita e
il Museo in un “laboratorio di storia”, luogo di lettura della contemporaneità che individua
nella scuola uno degli interlocutori privilegiati, rispondendo così all’esigenza della
scuola stessa di gettare uno sguardo critico e approfondito sulla storia del Novecento attraverso
la programmazione di percorsi didattici nuovi. Non sono però stati disattesi i valori
fondanti: l’attività di accoglienza non è sterile esercizio di storia, ma rapporto vivo
con gli studenti e gli insegnanti, che nella testimonianza – oramai purtroppo sempre più
rara – di chi ha vissuto le vicende trova ancora oggi una occasione profonda di riflessione
e di comunicazione.

Il termine laboratorio ha in sé la radice del lavoro, del fare. Secondo questa linea guida
sono da anni impostati, in collaborazione con il Laboratorio Nazionale Didattica della Storia,
i corsi di aggiornamento per gli insegnanti che – oltre a proporre contenuti storici e didattici
– puntano fra l’altro a valorizzare il Museo Cervi come luogo di lavoro, con la strumentazione
tecnica e scientifica (cd-rom, video, schede, libri a tema) utili alle attività degli
insegnanti. Un laboratorio, appunto.
Una novità a cui si crede e si lavora con passione da qualche tempo è costituita dai Laboratori
teatrali, esito dell’incontro con la Compagnia Teatro di Pianura. I Laboratori Teatrali
prevedono la drammatizzazione delle visite guidate rivolte alle scuole, che vengono
coinvolte in un piccolo spettacolo itinerante nei diversi spazi del Museo. Il Laboratorio Teatrale
si propone dunque come esperienza orientata alla fruizione attiva degli spazi e dei beni
in essi raccolti, e al dialogo degli studenti con gli attori / autori del Laboratorio stesso,
che oltre alla messinscena negli spazi della casa contadina si avvalgono anche di letture di
passi di opere-testimonianza sui temi della Resistenza. Come attività di laboratorio va poi
nella direzione di un Museo vissuto, agito, partecipato, e del recupero dell’accoglienza come
valore.
IL MUSEO COME LUOGO DI CONSERVAZIONE E FRUIZIONE DELLA MEMORIA
Se è vero che nei musei – oggi – il maggior numero dei visitatori chiede di poter vivere un’esperienza,
è anche vero che i musei rimangono un luogo fondamentale per la tutela e la valorizzazione
del patrimonio conservato, per la diffusione della cultura e dunque per la formazione
di una coscienza civica.
Allo stesso modo, l’Istituto Alcide Cervi realizza attraverso le varie attività – quelle espositive
in primo luogo – la promozione del patrimonio conservato presso il Museo Cervi e
opera per il suo arricchimento.
Il patrimonio conservato presso il Museo Cervi si organizza in: patrimonio etnografico,
archivio documentario, archivio fotografico, raccolta di oggetti, raccolta di arte contemporanea,
biblioteca, materiali audiovisivi.
Il patrimonio etnografico
Comprende gli arredi della vecchia casa contadina, le suppellettili, gli oggetti della cucina,
gli attrezzi della cantina e della stalla, per la gran parte appartenuti alla famiglia originaria.
Si tratta di oggetti ben conservati, talora anche funzionanti, omogenei per provenienza,
e riferibili per lo più al periodo antecedente alla II guerra mondiale. Sono completi e utilizzati
a fini didattici il ciclo della canapa, del pane, del vino.
Una ricerca filologica condotta durante il riallestimento del percorso museale consente
di dare notizia nelle schede didascaliche del nome dialettale degli oggetti che arredano gli
ambienti di vita e di lavoro di casa Cervi.
L’Archivio documentario
Fa perno sulle 20 Buste che organizzano i documenti cartacei relativi alla vita e all’attività
politica della famiglia Cervi dagli anni ’30 fino agli anni ’70 del secolo scorso.
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Per quanto riguarda il periodo anni ’30-anni ’40 accanto ai documenti relativi alla vita
e all’attività della casa e del Podere dei Campi Rossi di Gattatico, particolarmente interessante
è la corrispondenza dal carcere dei sette fratelli con la famiglia, i diplomi di
istruzione professionale dei contadini, alcuni documenti relativi all’attività clandestina e
antifascista, e all’arresto dei sette fratelli e del padre Alcide. Sono molto numerosi i documenti
relativi al Dopoguerra, fra i quali spiccano le corrispondenze di Alcide Cervi dalla
Russia, i documenti di e su Anatolj Tarassov, le testimonianze letterarie (fra le quali
quelle di Gianni Rodari, Salvatore Quasimodo, Rafael Alberti, Italo Calvino, Luigi Einaudi),
i discorsi e le commemorazioni e gli atti relativi alla attività di Alcide Cervi fino
alla sua morte.
Recentemente la sezione Archivi si è arricchita del Fondo “Mario Lasagni”, consistente
corpus di documenti sulla attività e sugli studi del grande dirigente delle associazioni contadine.
L’Archivio Fotografico
Si sviluppa a partire da un nucleo originario costituito dalle rare fotografie in bianco e nero
della famiglia Cervi. La parte più cospicua consiste invece in una notevole quantità di
immagini in bianco e nero e a colori, per lo più sciolte, ma talora raggruppate in serie o raccolte
di album, donate ad Alcide Cervi o al Museo nel corso di circa mezzo secolo. La maggior
parte delle fotografie documenta l’intensa attività di relazione tra Alcide Cervi e i partiti,
movimenti, organizzazioni e personaggi della realtà politica e sociale italiana; i suoi
viaggi a Roma e in altre parti d’Italia; le visite ricevute nella casa di Gattatico; la vita di questa
casa e la sua trasformazione in Museo; le onoranze funebri a Papà Cervi e l’attività del
Museo dopo la sua morte.
Di particolare interesse è anche la raccolta di oggetti, giunti come dono al Museo e ai
componenti della famiglia Cervi già dai primi anni ’50 del secolo scorso da parte delle
delegazioni e dei gruppi, ma anche dei singoli che giungevano in visita al Museo. Si tratta
di oggetti fra i più disparati, talora privi di intrinseco valore, ma importantissimi per
il valore documentario, e per la testimonianza che rappresentano dell’evoluzione della percezione
e della rappresentazione collettiva di un momento fondante della storia italiana
contemporanea.
Fra i nuclei documentari conservati presso il Museo Cervi spicca per importanza e rilievo
la raccolta di arte contemporanea, che comprende dipinti, sculture, incisioni, litografie.
Si tratta di opere talora assai significative sotto il punto di vista artistico. Come
per le altre raccolte, anche in questo caso la formazione è avvenuta a partire dagli anni
Cinquanta del secolo scorso, attraverso le numerose donazioni: di privati, di delegazioni,
dell’ANPI, dell’UDI, del PCI, dei sindacati, delle Istituzioni e degli autori stessi. Si tratta
di doni con un alto valore simbolico, testimonianze che pur nell’estrema varietà delle
provenienze sono accomunate dalla coerenza dei temi, fra i quali prevale il riferimento diretto
alle vicende di casa Cervi.
Nei primi anni Sessanta del secolo scorso, per iniziativa della Federazione del PCI di
Reggio Emilia, si dà inizio ad una sistematicizzazione delle donazioni, con l’intento di creare
una raccolta il più possibile organica, soprattutto per quanto riguarda le tematiche. Da

allora le iniziative si sono succedute con maggiore e minore regolarità, fino alla fine degli
anni Ottanta, periodo nel quale un concorso pittorico indetto dal Circolo dei Volontari e
degli Amici del Museo Cervi ha consentito l’allestimento di una galleria di opere naïves all’interno
del Museo, che a tutt’oggi si arricchisce delle (seppur sempre più rare) donazioni
di pittori locali. L’intervento di inventariazione e di catalogazione delle opere recentemente
concluso, nel ricostruire i passaggi più significativi della formazione della raccolta d’arte, ha
consentito anche di metterne in luce la singolarità e le peculiarità, organizzandola in un ‘polo’
dell’arte della Resistenza da affiancare a quello di Marzabotto.
Il nucleo più significativo della raccolta è ascrivibile al periodo dell’immediato Dopoguerra,
e comprende fra le altre le opere di Ennio Calabria, Tono Zancanaro, Armando Pizzinato,
Aldo Borgonzoni, Gino Covili. Particolarmente pregevole è la “Figura dell’impiccato”
di Ernesto Treccani, già esposta alla mostra concorso della Resistenza del ’56 a Bologna.
Fra le opere di ambito locale spiccano quelle di Nello Leonardi e di Omero Ettorre. Le opere
naïves (Pantaleone, Ninetto Baracchi, Corinto Bonazzi fra gli altri) costituiscono invece
una galleria permanente significativa per i legami con il territorio e per il pregio delle opere.
Recentemente, la raccolta d’arte del Museo Cervi si è arricchita di alcune accessioni: fra
le quali spiccano le opere di Gastone Biggi, di Nando Negri, di Nani Tedeschi. Pregevole è
anche la “donazione Lucio Parigi” che si compone di un consistente numero di opere di piccolo
formato prodotte per lo più fra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso come
satira contro il regime nazi-fascista.
Al Museo Cervi è anche collocata una biblioteca, composta di circa 4.000 volumi, sulla
storia contemporanea, sulle scienze e l’economia politica, sulla memorialistica, sulla storia
locale, sulla storia dei movimenti contadini, sul loro apporto alla Resistenza, sulla storia dell’agricoltura
e del territorio, sull’arte contemporanea. La biblioteca si è formata attorno ad
un nucleo originario di volumi appartenuti alla famiglia Cervi e si è arricchita nel corso del
tempo per lo più attraverso le donazioni, allo stesso modo di altre raccolte presenti al Museo.
Il Museo è anche dotato di una raccolta di materiale audiovisivo sui diversi aspetti della
storia e della società contemporanea.
IL PARCO AGROAMBIENTALE, L’AMPLIAMENTO DI CASA CERVI
E L’UNIFICAZIONE DEL PATRIMONIO DELL’ISTITUTO
Il Nuovo Museo Cervi ha consentito di dare il via a progetti a cui l’Istituto Alcide Cervi
guardava da anni. Fra questi il recupero, attraverso la realizzazione di un Parco Agroambientale
delle 56 biolche del vecchio podere dei Campi Rossi, sul quale verranno ridisegnati gli
elementi tipici del paesaggio agrario della media e bassa pianura padana dell’inizio del Novecento,
attraverso la realizzazione di un itinerario guidato. La valorizzazione dei caratteri
fisici del territorio, e la narrazione della loro evoluzione dall’inizio del secolo scorso ad oggi,
sarà affidata ad una mostra modulare permanente, che renderà conto del mutare del rapporto
uomo-terra in relazione al modificarsi del paesaggio agrario, mentre il vecchio podere
dei Campi Rossi – nel ridisegnarsi così come nei primi anni del secolo scorso – diventa,
al pari di casa Cervi, ‘documento’.
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Su questo scenario originale verrà costruito un nuovo edificio posto a lato dell’esistente
che consentirà di ampliare il volume delle attività dell’Istituto Alcide Cervi. E questo a
completamento del Progetto del 1997, che oltre al primo stralcio già realizzato – relativo appunto
alla ristrutturazione della vecchia casa contadina, e al riallestimento del percorso museale
– ne comprende un secondo, già finanziato dal Ministero per i Beni Culturali, che porterà
a realizzare il nuovo edificio nel giro di qualche anno. Nei nuovi spazi troveranno posto
la Biblioteca Emilio Sereni e l’Archivio Storico Nazionale dei Movimenti Contadini, realizzando
così l’unificazione dell’Istituto.
Dall’epoca della loro formazione, la Biblioteca Emilio Sereni e l’Archivio Storico Nazionale
dei Movimenti Contadini hanno sede a Roma. La necessità di razionalizzare la struttura
organizzativa dell’Istituto, unificando in un’unica sede tutto il patrimonio, è maturata
come fase finale di un percorso articolato, sempre informato dall’esigenza di conservare – e
insieme esaltare – la valenza nazionale ed europea dell’Istituto Alcide Cervi, per la memoria
storica che rappresenta, per la straordinaria vicenda umana che ricorda, per il valore indiscutibile
degli studi e delle ricerche sul ruolo che i contadini emiliani ed italiani hanno assolto
nella Resistenza e nelle lotte politiche e sociali del nostro paese.

Il Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”
tra passato, presente e futuro
Maurizio Biordi
Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto” - Rimini
Laura Laurencich Minelli
Cattedra di Civiltà indigene d’America
Università degli Studi - Bologna
RIASSUNTO
Il Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”, inaugurato a Rimini nel 1972, è uno degli ultimi musei
sorti in Italia oltreché l’unico organismo museale italiano dedicato al “Primitivismo” modernista. Il museo
ha subito in questi trent’anni di vita vari trasferimenti (Palazzo dell’Arengo e del Podestà, Palazzo Gambalunga
e Castel Sismondo) per poi essere chiuso in attesa della sua nuova collocazione a Villa Alvarado (ex-
Museo delle Grazie) di Covignano di Rimini. Oggi il museo è al centro di un dibattito che investe tutti i musei
dell’“altro” dall’Europa all’America, ovvero il ruolo di questi musei nel terzo millennnio. Anche il “Dinz
Rialto” di Rimini si prepara a scelte innovative che si concretizzeranno nella nuova sede di Covignano.
Nella seconda parte del lavoro l’Autrice, che collabora con la municipalità di Rimini e il museo da ormai
un trentennio, indica alcuni di quelli che dovrebbero essere – a suo giudizio – gli obiettivi futuri del museo:
un percorso espositivo più complesso ed articolato, l’intensificazione delle attività laboratoriali, delle lezioni,
dei seminari, anche attraverso micro-indagini sul campo e in biblioteca, lo sviluppo di ricerche ed attività
su temi di comune interesse in collaborazione con i centri museali antropologici vicini.
SUMMARY
The “Dinz Rialto” Museum of Non-European Cultures was inaugurated in Rimini in 1972. It is one of the most
recent museums that have been created in Italy. Furthermore, it is the only Italian museum devoted to modernist
“Primitivism”. Over the past thirty years, the museum has often been moved from one venue to another (from
Palazzo dell’Arengo to Palazzo del Podestà; from Palazzo Gambalunga to Castel Sismondo). It has then been closed
down, pending its final location in Villa Alvarado (former Museo delle Grazie) in Covignano of Rimini. Today,
the Museum is at the centre of a debate that concerns all the “other” museums, ranging from Europe to America,
focusing on the role to be played by this kind of museums in the third millennium. The Museum of Rimini,
too, is getting ready to make innovative choices, which will be implemented in the new venue of Covignano.
In the second part of this paper Laura Laurencich Minelli, who is collaborating with Rimini’s municipality
on Dinz Rialto Museum since thirty years, presents here her desiderata on the future of the same museum
that is: more complex expositive lines, intensification of the laboratories, of the lectures, of the seminaries, but
also mini-field-works and library-museum research, interactions with other ethnographical museum of the Region
and last but not least the museum-laboratory and the museum-library.
IL PASSATO E IL PRESENTE
Nel 1972 viene inaugurato a Rimini, nelle sale del Palazzo dell’Arengo e del Podestà, il Museo
delle Arti Primitive-Raccolta Delfino Dinz Rialto, un museo di grande originalità in
quanto l’unico museo italiano dedicato al “Primitivismo” modernista della fine del secolo
XIX, con Paul Gauguin, fino alla seconda metà del secolo XX con Henry Moore.

450 Delfino Dinz Rialto (Padova 1920-Rio de Janeiro 1979) per la realizzazione del museo
riminese si era palesemente ispirato al Museum of Primitive Art di New York fondato nel
1957 da Nelson Rockefeller, allora Governatore della città statunitense.
Divenuto di proprietà comunale nel 1975, cambierà denominazione in Museo Arti Primitive
“Dinz Rialto”. Nel 1988, dopo un temporaneo trasferimento delle sezioni Oceania
ed America precolombiana a Palazzo Gambalunga, verrà trasferito a Castel Sismondo dove
assumerà l’attuale denominazione di Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”. Con
tale denominazione, il museo doveva allargare l’esposizione ad altre tipologie di opere e
quindi illustrare anche altri aspetti culturali dei popoli extrauropei oltre all’arte, ovviamente,
che era all’origine del museo stesso. Grazie a questa nuova denominazione, inoltre, si poteva
anche dare vita alla quarta sezione dedicata all’Asia attraverso le opere, in corso di acquisizione,
del collezionista Ugo Canepa di Biella e del Museo delle Grazie di Covignano di
Rimini.
Nel 2000 il museo è stato chiuso al pubblico a seguito della concessione da parte del Comune
di Rimini alla Fondazione Cassa di Risparmio di Castel Sismondo, sede del museo
Fig. 1. Delfino Dinz Rialto in Africa
(Congo, 1954).

Fig. 2. Rimini, Palazzo dell’Arengo e del Podestà: inaugurazione del Museo nel 1972. Al centro Delfino Dinz Rialto.
stesso, in attesa del suo trasferimento nella nuova sede di Villa Alvarado di Covignano di
Rimini, già sede dal 1928 del Museo delle Grazie poi chiuso al pubblico in questi ultimi anni.
Il progetto di massima del nuovo Museo delle Culture Extraeuropee prevede l’esposizione
di una selezione di opere del Museo Dinz Rialto, della Collezione Ugo Canepa e del
Museo delle Grazie.
Per una analisi più approfondita si deve ricordare che il Museo originale venne inaugurato
il 9 settembre 1972 nel Palazzo dell’Arengo e del Podestà di Rimini con una gestione
mista pubblica (Comune di Rimini) e privata (Delfino Dinz Rialto) e venne suddiviso in
diverse sezioni:
1. Zona dedicata all’influenza delle arti primitive sull’arte moderna
2. Zona dedicata all’ambiente, alle popolazioni, all’architettura (programma per immagini
proiettate)
3. Zona dedicata al mondo magico dei primitivi (ambiente sonorizzato mediante la diffusione
di suoni e musiche)
4. Mostra d’arte dell’Africa
5. Mostra d’arte dell’Oceania: pittura
6. Mostra d’arte dell’Oceania: scultura
7. Mostra d’arte dell’America precolombiana
8. Tomba precolombiana del Perù
Vi erano esposte circa 600 opere a cui poi si aggiungeranno, alla morte del collezionista
nel 1979, altre 2500 opere circa depositate in magazzino, acquisite unitamente alla sua Biblioteca
ed al suo Archivio personale.
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Il museo era dedicato al “Primitivismo” modernista ovvero agli influssi esercitati dalle
cosiddette arti primitive sull’arte moderna. Dinz Rialto per la sua realizzazione si era ampiamente
riferito al Museum of Primitive Art di New York. Infatti quest’ultimo, già funzionante
da una quindicina di anni, mirava, mostrando le opere dei popoli primitivi dell’Africa,
Oceania e America precolombiana, ad analizzarne la dimensione estetico-artistica
in funzione del “Primitivismo”.
Una linea museografica innovativa molto diversa da quella dei musei antropologici-etnologici-etnografici
europei sorti nel corso del secolo XIX. Si deve, infatti, alla nuova dimensione
comparativista, legata al pensiero positivista, l’origine dei principali musei europei di
questo tipo (ad esempio il Museo dell’Uomo di Parigi e per l’Italia il Museo Preistorico Etnografico
“Luigi Pigorini” di Roma, il Museo di Antropologia ed Etnografia di Firenze ed il
Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino). Nell’Italia del XIX secolo questi musei miravano
a dimostrare la superiorità dell’Occidente sui popoli primitivi extraeuropei. Tale finalità
costituiva un preciso interesse per le grandi potenze coloniali europee in quanto giustificava
la colonizzazione di gran parte dei popoli primitivi in favore della loro elevazione.
Purtroppo negli anni ’60 il museo newyorchese di Rockefeller non aveva raggiunto l’obiettivo
prefissato, ovvero, nonostante la creazione di un percorso originale esclusivamente
dedicato all’arte dei popoli primitivi, non era riuscito ad elevare le opere di tali popoli allo
stesso livello delle opere d’arte occidentale. Pertanto si decise per la creazione di un unico
contenitore museale che permettesse il superamento e l’eliminazione della connotazione di
“primitività”, troppo riduttiva nonché classicista. Tale obiettivo venne raggiunto con l’accorpamento
delle opere d’arte di diverse civiltà, culture e cronologie in un unico museo.
Pertanto nel 1982 segue l’apertura della
Rockefeller Wing nel Metropolitan Museum
di New York dove avvenne l’unificazione
delle opere dei popoli primitivi dell’Africa,
dell’Oceania e dell’America precolombiana
del Museum of Primitive Art con
le opere dell’antichità classica dell’occidente
europeo e dell’Asia del Metropolitan Museum.
La grande “rivoluzione” newyorchese
non troverà seguito in Europa negli anni ’80
dove nei musei europei rimase una distinzione
netta tra le varie espressioni culturali
che tuttora tende a sopravvivere.
Il Museo “Dinz Rialto” si presenta oggi
come il primo ed unico museo italiano dedicato
interamente al Primitivismo modernista
in quanto, diceva testualmente Delfino
Dinz Rialto, esso doveva tendere ad un
«... allargamento di prospettive ed un ampliamento
del nostro orizzonte culturale ra-
Fig. 3. Rimini, Palazzo dell’Arengo e del Podestà
1972: sezione Primitivismo. Ingresso.
dicalmente legato alla cultura classica occidentale
europea».

La visita di Henry Moore, uno dei massimi scultori primitivisti del secolo XX, al Museo
di Rimini il 28 agosto 1973 suggella ufficialmente tale matrice culturale del museo. In seguito
Dinz Rialto rileva la necessità di integrarne il percorso museale, dichiaratamente “artistico”,
con una parte dedicata agli usi e costumi dei popoli primitivi, ovvero un museo etnografico
affiancato da un giardino zoologico. Tale progetto, proposto al Comune di Rimini
nel 1974, non ebbe attuazione.
Nel periodo 1972-75 il museo è caratterizzato da un notevole impulso conferitogli dal
suo fondatore, a cui si deve anche l’organizzazione di due mostre nel 1973 (a Milano ed
a Roma) e nel 1975 (a Milano ed a S. Maur del Fosses in Francia, città gemellata con
Rimini).
Nel 1975 il Comune di Rimini acquista il museo, fino ad allora di proprietà di Dinz
Rialto e gestito congiuntamente con il Comune, con la variazione della denominazione in
Museo Arti Primitive “Dinz Rialto”. Esso entrerà così ufficialmente a far parte della Divisione
XIII B.C.M. (Beni Culturali Materiali) del Comune di Rimini costituita dal Museo
Civico e dal Museo “Dinz Rialto”. Nel 1977 lo scrivente inizierà la schedatura di tutte le
opere esposte, circa 600, che terminerà nel 1981.
A seguito dell’apertura di un cantiere edile nel Palazzo dell’Arengo e del Podestà, nel
1978-79, le sezioni Oceania ed America precolombiana vengono temporaneamente trasferite
al Palazzo Gambalunga, allora sede della Biblioteca e del Museo Civico. Grazie a questo
spostamento, lo scrivente sperimenterà un nuovo ordinamento dei materiali e nuove forme
di didattica con le scuole di Rimini e del Circondario.
Fig. 4. Rimini, Castel Sismondo: sezione Oceania 1988. Veduta d’insieme.
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454 Nel 1979 Delfino Dinz Rialto muore ed il Comune di Rimini acquista la restante collezione
(oltre 2500 opere) in parte già ordinate dal collezionista per le sezioni tematiche del
Museo etnografico proposto al Comune di Rimini nel 1974, l’Archivio e la Biblioteca personale.
Nel 1983 lo scrivente assume la direzione del Museo e viene organizzata la mostra “Uomini
& Suoni. Strumenti musicali del Museo Arti Primitive ‘Dinz Rialto’” (1985), dedicata
agli strumenti musicali presenti nel patrimonio museale in occasione dell’Anno Europeo
della Musica. Si attua inoltre una collaborazione con il Meeting per l’amicizia fra i popoli
per la realizzazione della mostra “Gli Aztechi e le loro radici” (1985).
Nel 1988 termina la prima fase (1972-1988) nelle sedi del Palazzo dell’Arengo e Podestà
ed in parte nel Palazzo Gambalunga, a seguito del trasferimento temporaneo del museo nel
Vano di Isotta di Castel Sismondo, dove viene inaugurato il 9 settembre con l’attuale denominazione
di Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”. A Castel Sismondo era stato
finalmente possibile riunire le tre sezioni museali in un unico contenitore ed impostare un
Fig. 5. Manifesto della mostra “Uomini
& Suoni” 1985.

Fig. 6. Rimini, ex Teatro Galli, Sala delle Colonne: mostra
“Uomini & Suoni” 1985. Alcuni degli oggetti
esposti.
Fig. 7. Rimini, ex Teatro Galli, Sala delle Colonne: mostra
“Uomini & Suoni” 1985. Uno degli oggetti esposti.
nuovo ordinamento a carattere sperimentale. Con l’attuale denominazione, il museo tendeva
ad illustrare non solo il “Primitivismo”, ma anche altri aspetti culturali. Pertanto non più
un museo esclusivamente concentrato sui fenomeni artistici, bensì dedicato alle culture a livello
etnologico o primarie extraeuropee. In questa stessa prospettiva è possibile prevedere
inoltre un ulteriore ampliamento a materiali dell’Asia, sezione attualmente mancante.
Tali nuove finalità museali erano state perseguite utilizzando i materiali già esposti precedentemente,
i supporti informativi prodotti e le attività collaterali svolte (mostre, cicli
di conferenze, lezioni didattiche, ecc.). A Castel Sismondo si era tentato una contestuale
esposizione di materiali di diverso valore culturale sia come esempi della cosiddetta “arte
primitiva”, sia come esempi della cultura materiale dei popoli pertinenti. Si era pertanto
proposto un museo sperimentale con la Sezione Africa ordinata secondo il progetto originario
di Dinz Rialto del 1972, ovvero di museo d’arte, e le sezioni Oceania ed America
precolombiana disposte secondo l’ordinamento di museo culturale. I materiali oceaniani
e precolombiani erano stati inoltre esposti con criterio di successione geografica (Melanesia,
Polinesia, Australia e Arcipelago Indiano) (Mesoamerica, Area intermedia e Area
peruviana), utilizzando poi, per i reperti americani un ordine cronologico all’interno delle
singole aree culturali. La Sezione America Precolombiana, infine, era stata poi integrata
da un’appendice dedicata alla tessitura nel Perù precolombiano con l’esposizione di parte
dei tessili del museo.
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456 I materiali sono stati distribuiti nei tre piani del nuovo contenitore (Piano seminterrato:
America precolombiana; Piano rialzato: Oceania; Piano primo: Africa), mentre nella biglietteria,
al piano terra, è stato predisposto un book-shop seguito dalla saletta didattica, al
primo piano, per lezioni scolastiche e la visione degli audiovisivi.
Con il trasferimento a Castel Sismondo sono state particolarmente intensificate l’attività
didattica e l’attività espositiva: nel 1992 si sono realizzate la mostra “Terra Ameriga. Il Mondo
Nuovo nelle collezioni emiliano-romagnole” in occasione del V centenario della scoperta
dell’America, allestita nella Sala delle Colonne (Teatro Galli), la pubblicazione della guida
della Sezione America precolombiana, a cura dello scrivente, e la collaborazione con il
Meeting per la Mostra “La città degli dei. Dieci culture precolombiane del Messico”.
Nel 1995 si è poi dato corso al deposito della Collezione Ugo Canepa di Biella che si
compone di circa 1850 opere, di cui 900 circa appartenenti a culture dell’America precolombiana
e 950 opere varie dell’Africa, dell’Oceania, dell’Asia e dell’antichità classica. Notevole
il gruppo di sculture in pietra ed in osso degli Inuit (Eschimesi) del Nord America. I materiali
precolombiani, già inventariati e schedati a cura dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali
e Naturali della Regione Emilia-Romagna, sono divenuti oggetto presso il Museo della
Città di Rimini delle mostre “Sulle orme del passato americano. La collezione archeologica
precolombiana Ugo Canepa” (1995-96) e “Inca. L’Impero del Sole e i regni preincaici”
(2001-2002).
Negli anni ’90, nell’ambito del potenziamento dell’attività didattica, sono stati organizzati
diversi cicli di conferenze, spettacoli e corsi di aggiornamento per insegnanti. Di notevole
interesse il Premio Letterario Eks&tra rivolto a poeti e scrittori extracomunitari. Inoltre
il patrimonio del museo è stato oggetto di alcune tesi di laurea, in parte correlate dallo
scrivente, e di studi vari presentati, sempre da chi scrive, in diversi convegni in Italia ed all’estero
ed in occasione di mostre. Infine la notorietà raggiunta dal museo negli ultimi anni
ha determinato il prestito di diverse opere per mostre in Italia ed all’estero, con fini dichiaratamente
promozionali, permettendogli di consolidare il suo ruolo di centro generatore
e propulsore di studi sulle culture extraeuropee.
Oggi il museo è presente in seno all’International Council of Museums (ICOM) presso
l’UNESCO. In tale organismo chi scrive è stato membro della Giunta Esecutiva del Comitato
Nazionale Italiano per una decina di anni (1992-2000) e poi dal 2001 ricopre il ruolo
di delegato dal Comitato italiano per la museologia delle culture extraeuropee. All’interno
dell’ICOM il museo ha attivamente e proficuamente operato per una riqualificazione ed un
confronto delle istituzioni museali italiane aventi collezioni extraeuropee.
Seguendo il dettato dell’ICOM, l’organismo museale ha operato nel corso degli anni ’90
come Museo generatore di cultura e pertanto è divenuto un centro di ricerca e di trasmissione
dei saperi ovvero un museo vivente, una “macchina del tempo”. L’istituzione ha inoltre
assolto la funzione di “integratore sociale” a favore della multiculturalità. Infatti i musei
etnografici europei possono evidenziare, attraverso le proprie collezioni extraeuropee, le differenze
che contraddistinguono tali materiali museali extraeuropei e, grazie a queste, documentare
il pluralismo e lo spirito interculturale dei vari popoli.
Nella seconda metà degli anni ’90 il Museo, infine, si è attivamente impegnato all’interno
dell’ICOM per la tutela e la salvaguardia dei beni culturali extraeuropei: lo scrivente
ha rappresentato l’Italia ad Amsterdam nel 1997 nel summit mondiale per la salvaguardia

del patrimonio culturale africano e a Bogotà nel 2002 per la salvaguardia del patrimonio
culturale amerindiano.
Da ultimo, a seguito della concessione di Castel Sismondo alla Fondazione Cassa di Risparmio
di Rimini, il Museo “Dinz Rialto”, già chiuso al pubblico il 2/05/2000, sarà poi
trasferito a Villa Alvarado di Covignano di Rimini, già sede del Museo delle Grazie, al termine
dei lavori di restauro dell’edificio iniziati nell’estate 2002. Con questo trasferimento
verranno accorpate una selezione di opere del Museo “Dinz Rialto”, della Collezione Ugo
Canepa e delle opere etnografiche del Museo delle Grazie, queste ultime in parte già esposte
nella Mostra “Memorie d’oriente. Opere della Collezione Canepa e del Museo delle Grazie”
(1999), realizzata dal museo nelle sale espositive del Museo della Città. Grazie a questo
accorpamento sarà possibile anche l’apertura della Sezione Asia, ora mancante.
Maurizio Biordi
ALCUNE PROPOSTE PER IL FUTURO
Non è facile tratteggiare il futuro in genere e, in particolare quello di un museo soggetto
non solo agli imprevisti legati alle sorprese della quotidianità ma anche, nel caso di un organismo
comunale come è il Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”, alla politica
culturale del Comune, della Regione e della Nazione.
Quindi queste parole si devono leggere non come una mia proposta ufficiale di sviluppo,
ma piuttosto come i desiderata di una persona che ha preso viva parte alla storia del Museo
delle Civiltà Extraeuropee “Dinz Rialto” contribuendo a tracciarne, fin dagli anni ’70,
le linee espositive, l’ordinamento, la classificazione e l’esposizione. Infatti, con questa comunicazione,
non rispondo ad una precisa richiesta dell’Amministrazione del Comune di
Rimini, ma esterno semplicemente ciò che mi sembra meglio per il futuro sviluppo del Museo
la cui crescita, appunto, ho seguito passo a passo per trenta anni.
Premetto che, fin da quando ho iniziato la collaborazione con questo Museo, ho inteso
fare di esso un luogo e uno strumento di conservazione, di ricerca e di trasmissione del sapere
per il pubblico generico e curioso, ma anche per gli specialisti e mi sono sempre impegnata
affinché il primo punto, cioè il museo quale luogo di conservazione, ricerca e trasmissione
del sapere per il pubblico generico, si ottenga preparando il pubblico stesso a ricevere
la comunicazione del sapere sia passivamente che attivamente.
Per inciso, specifico che, per comunicazione passiva, intendo quanto le collezioni esposte
riescono a trasmettere e a suscitare nel visitatore senza interposta persona, cioè solamente
attraverso il discorso museale che è stato intessuto dal curatore sulla base dei pezzi esposti,
degli apparati didascalici e del percorso museale stesso: per es. pensieri sull’ “estetica”,
sulla vita quotidiana e cerimoniale così come sulla storia di quelle lontane popolazioni. Per
comunicazione attiva intendo invece quegli stimoli culturali che persone competenti riescono
a far scaturire dalle collezioni esposte e da quelle depositate nei magazzini in modo
da coinvolgere il pubblico in ulteriori ricerche: cioè visite guidate, laboratori, lezioni e seminari
su temi monografici tratti dalle collezioni da ampliare anche con consultazioni in biblioteca
(da cui la necessità di una buona biblioteca del museo stesso).
457

458 Ritornando al Museo delle Civiltà Extraeuropee, mi rammarico che mi sia stato ancora
quasi del tutto impossibile realizzare il secondo punto, cioè il museo come luogo di conservazione,
ricerca e trasmissione del sapere per gli specialisti. Ciò infatti si ottiene principalmente
rendendo tutti i materiali museali disponibili per una consultazione rapida grazie ad
una completa e ampia catalogazione e all’accessibilità delle collezioni in toto: cioè quelle
esposte così come quelle immagazzinate (che chiamo museo-magazzino) ma anche fornendo
agli specialisti l’appoggio di una ricca biblioteca. Il che non sussiste ancora ma si dovrà
assolutamente realizzare nel prossimo futuro.
Tutto ciò ho programmato per il Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto” fin da
quando ho iniziato la mia collaborazione però spesso è rimasto a livello di sogno nel cassetto
dato che i vari progetti sono sempre stati piegati dai problemi contingenti relativi agli
spazi disponibili nei diversi edifici che hanno ospitato le collezioni e all’assenza di spazi adeguati
per i magazzini e per la biblioteca. D’altro canto le molteplici peregrinazioni delle collezioni
prima dal Palazzo dell’Arengo al Palazzo Gambalunga, poi dal Gambalunga al Castel
Sismondo e ora il suo immagazzinamento in attesa del trasferimento a Villa Alvarado di
Covignano di Rimini, ci hanno costretti a provvedere prima di tutto alla sopravvivenza del
museo stesso: cioè a renderlo ben visibile, ordinato e chiaramente leggibile almeno nella parte
espositiva.
Ora, la collocazione definitiva delle collezioni del Museo delle Civiltà Extraeuropee
nella villa Alvarado (Covignano di Rimini) dovrebbe portarci ad evitare quel dispendio di
energie dovuto ai traslochi da un edificio all’altro ma dovrebbe anche permetterci di poter
programmare in modo più definito e approfondito la conservazione, la ricerca e la trasmissione
del sapere che si intende trarre dalle collezioni del Museo delle Civiltà
Extraeuropee.
Per quanto riguarda la comunicazione passiva rivolta al grande pubblico, desidero accentuarla
non solo con un percorso espositivo più complesso, che il maggior numero di
spazi offerti da Villa Alvarado e le collezioni arricchite con quelle della stessa Villa, cioè
del Museo Missionario delle Grazie di Covignano di Rimini, dovrebbero permetterci, ma
anche adibendo una sala esclusivamente a esposizioni monografiche che, a cadenze semestrali
o annuali, andrebbero rinnovate in modo da sollecitare e stimolare la curiosità dei
visitatori.
Per quanto riguarda la comunicazione attiva rivolta al pubblico generico intendo mantenere
e intensificare le visite guidate, i laboratori, le lezioni e i seminari su temi monografici
tratti dalle collezioni ampliandole non solo con una rosa più varia di temi ma anche con
micro-indagini sul campo e in biblioteca e interagendo con le collezioni di centri museali
antropologici vicini in modo da attivare delle piccole ricerche seminariali su temi monografici:
per esempio l’abitazione rurale sarebbe un tema che potrebbe essere esemplificato
dagli arredi posseduti dalle collezioni del Museo delle Culture Extraeuropee riguardanti tali
tipi di antiche abitazioni extraeuropee, completato con esemplificazioni tratte da cataloghi
e libri illustrati sulle stesse culture ma anche con una micro-indagine comparativa sui
reperti riguardanti le abitazioni rurali custoditi presso i vicini Museo Etnografico di S. Arcangelo
di Romagna, Museo della Canna Palustre di Bagnacavallo di Romagna e presso il
Museo delle Ceramiche di Faenza ma pure visitando e catalogando abitazioni rurali ancora
in uso nella zona del riminese.

Per quanto riguarda il museo come luogo di conservazione, ricerca e trasmissione del sapere
per specialisti o per persone che intendano diventare tali propongo di interagire con la
vicina Università di Bologna, dove lavoro, e di sfruttare le ricerche etno-archeologiche che
vi si svolgono in questo momento: per esempio alla mia cattedra fanno capo ricerche etnoarcheologiche
nel Chiapas (Messico), nel Solentiname (Nicaragua), nella valle di Chacas
(Ancash, Perù), e nella valle del Takesi (Bolivia). Il Museo delle Civiltà Extraeuropee potrebbe
fare da pivot fra chi intende dedicarsi a tali ricerche e l’Università di Bologna istituendo
con quest’ultima, per esempio dei master, dei laboratori e dei tirocini.
Un museo però non deve chiudersi in se stesso ma deve continuare a crescere. Dato che
ora è quasi impossibile acquisire nuove collezioni di culture extraeuropee, suggerisco di ampliarlo
nel campo della tourist art (cioè l’arte esotica realizzata oggi per i turisti) che è l’aspetto
più visibile delle continuità e dell’aspetto più recente delle antiche culture presenti
nel museo stesso ma anche con le documentazioni fotografiche su come oggi si vedono i
monumenti e le città relazionati a tali culture e con un altro aspetto odierno di tali culture:
le ricette di cucina. Per stimolare ciò si potrebbe proporre, supponiamo a chi effettua la ricerca
sull’abitazione extraeuropea di cui sopra ed ha i mezzi per pagarsi una vacanza esotica,
di completare la propria indagine con un viaggio in uno dei luoghi meglio illustrati dagli
antichi reperti appartenenti alle collezioni riminesi (per es. la sierra peruviana) e di acquisirvi
non solo quanto sull’argomento delle abitazioni rurali offre la tourist art della sierra
peruviana locale ma anche di raccogliere una buona documentazione fotografica sulle
abitazioni rurali della stessa e le migliori ricette tradizionali che vi si cucinano. I reperti della
tourist art andrebbero in esposizione mentre la documentazione fotografica e quella sulle
ricette culinarie andrebbe ad arricchire la biblioteca del Museo stesso. Il neo-ricercatore potrebbe
andare a far parte degli “amici del museo” di cui vedremo di seguito.
Ancor più problematico è prevedere dove acquisire i fondi per realizzare queste attività che
vanno al di fuori del mantenimento e dell’esposizione tradizionale del museo e che, pertanto,
difficilmente si otterrebbero attraverso i finanziamenti istituzionali. Si può quindi sperare
nell’appoggio economico cioè, detto con una brutta parola non italiana ma sufficientemente
efficace, nella “sponsorizzazione” da parte di ditte interessate ad un ritorno d’immagine
che richiami i luoghi esotici contemplati nel museo fra cui, non ultimi, ristoranti eventualmente
interessati in gare culinarie su temi esotici da contrapporre a quelli nostrani.
Per temi specialistici, una via da percorrere potrebbe anche essere quella dei fondi europei
per i master con l’Università di cui ho fatto cenno più sopra e di cui sto superando ora
i primi gradini ma anche, alla luce di quanto ho vissuto nei musei di paesi meno sviluppati
del nostro, quali la Costarica e il Nicaragua, il costituire gli “amici del museo”, cioè un
gruppo no-profit di persone interessate alle culture extra-europee e che si autofinanzino per
partecipare a delle piccole missioni fotografiche, culinarie e da tourist art in luoghi esotici
ma coordinati dal dirigente del museo stesso. In cambio riceverebbero l’onore di presentare
e discutere col pubblico la propria ricerca e avrebbero voce in un eventuale consiglio del
museo stesso.
Con ciò termino questa carrellata di desiderata con cui mi sono permessa di sognare ad
occhi aperti sperando però che almeno alcuni di essi trovino ascolto e riescano ad essere di
stimolo per l’Amministrazione del Comune di Rimini.
Laura Laurencich Minelli
459

460 Bibliografia
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Editrice Compositori.
461

Dalla “Società Archeologica” a museo territoriale:
evoluzione dei luoghi e dei modi della cultura
al Museo Archeologico “A. Crespellani” di Bazzano (BO)
Rita Burgio
Sara Campagnari
Museo Archeologico “Arsenio Crespellani”- Bazzano (BO)
RIASSUNTO
Durante i suoi centotrenta anni di vita il Museo Archeologico di Bazzano – seppur piccolo e periferico –
si è configurato come una realtà dinamica, in continua evoluzione, non solo per quanto riguarda l’apparato
espositivo, ma anche per ciò che concerne gli aspetti istituzionali.
Il processo evolutivo del museo, tuttora in corso, risulta saldamente correlato agli avvenimenti storico-politici
del paese e, soprattutto, alla volontà di creare un organismo promotore di iniziative culturali
finalizzate alla valorizzazione del territorio tra Samoggia e Panaro.
SUMMARY
During its one hundred and thirty year-long history, the Archaeological Museum of Bazzano – although being
a small and peripheral one – has always proved to be a dynamic institution undergoing a continuous evolution,
not just in terms of its exhibition framework but also with reference to its institutional aspects.
The museum evolution process – which is still under way – is still strongly related to the historical-political
events of the country and fully determined to create a body promoting cultural events aimed at enhancing
the area between the Samoggia and Panaro rivers.
LA SOCIETÀ ARCHEOLOGICA
Nel 1873, in seguito alla scoperta del pozzo-deposito Casini, avvenne la costituzione della
“Società per scavi archeologici a scopo scientifico”, promossa da diciotto privati cittadini, tra
i quali spiccano alcuni rappresentanti della borghesia intellettuale bazzanese come Tommaso
Casini, Ennio Venturi, Francesco Cerè, Ettore Giusti, nonché lo studioso ed archeologo
modenese Arsenio Crespellani (1828-1890), che in virtù delle esperienze maturate venne
nominato “Soprintendente agli scavi”. Si trattava di una società di privati, con soci ordinari
che si autofinanziavano tramite contributi annuali, la cui finalità era di tipo “sociale”.
Obiettivo primario della Società fu quello di fondare un Museo che conservasse i reperti
archeologici donati da privati, nonché i materiali rinvenuti in seguito agli scavi promossi
dalla società stessa. Nel suo Statuto si legge inoltre che l’iniziativa privata non nacque per
puro scopo collezionistico, ma «a lustro e decoro del paese per accrescere nuovi lumi alla scienza
e alla storia patria» 1 (Di Pietro Xotta 1992, p. 19 ss.).
La costituzione di un museo locale risponde all’esigenza di evitare la dispersione del materiale
archeologico proveniente dal territorio: i soci infatti, proprietari del museo, dovevano
prodigarsi per la sua integrità e, in caso di recesso, erano obbligati a vendere i reperti alla
società stessa.

L’iniziativa bazzanese, giudicata altamente sociale e patriottica da G. Gozzadini – presidente
della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna – rientra appieno nel
clima di rinnovamento degli studi archeologici che caratterizza la seconda metà dell’Ottocento,
improntati sulle nuove teorie positivistiche.
Il clamore delle grandi scoperte archeologiche e l’affermarsi della paletnologia come
scienza fondata su rigorosi principi contribuirono al proliferare di società finalizzate alla ricerca
storica e archeologica, come quella bazzanese. Esperienze analoghe si verificarono un
po’ in tutta Italia. A questo proposito si possono citare le tre società create da Zannoni per
finanziare gli scavi condotti dall’ingegnere stesso a Casalecchio di Reno, nel 1872, e a Bologna,
nel 1873-75, la “Società per gli scavi di Ciano” fondata da Gaetano Chierici a Reggio
Emilia, del 1862; nonché simili iniziative promosse a Torino, Novara, Parenzo nel 1884
(Di Pietro Xotta 1992, p. 20).
La nascita del Museo ad opera della Società Archeologica di Bazzano rappresenta, dunque,
il riflesso in una dimensione locale di un fenomeno ben più generalizzato durante il
Fig. 1. Un disegno dell’album Crespellani,
con i materiali dell’Età del
Ferro rinvenuti a Bazzano.
463

464
periodo post-unitario. L’entusiasmo per la raggiunta unità nazionale assieme ai proficui risultati
delle scoperte archeologiche portarono, infatti, alla fondazione di numerosi musei civici
– come quello di Bologna – concepiti come luogo destinato alla riscoperta ed alla valorizzazione
delle radici storiche della comunità.
L’attività della Società Archeologica bazzanese si protrasse per cinque anni, ma i numerosi
scavi effettuati nel territorio non restituirono più i dati e i reperti di un tempo. Inoltre,
i rapporti tra i soci furono compromessi da problemi di ordine finanziario, che portarono
allo scioglimento della società nel 1878. Il Museo venne pertanto ceduto al «paese di Bazzano»,
vincolando l’Amministrazione Comunale con l’impegno di «conservarlo e di mantenerlo
a lustro e decoro del paese, con proibizione assoluta di venderlo a chicchessia».
Si compì in questo modo il passaggio da museo sociale a museo civico, condizione che
caratterizza tuttora l’istituzione bazzanese, intitolata ad uno dei suoi più insigni fondatori:
Arsenio Crespellani.
È proprio attraverso l’attenta ricostruzione dell’opera di questo personaggio che il Museo
ha potuto rivivere il proprio passato e riproporlo al pubblico: nel 1986 il Museo ha acquistato
l’album di disegni della collezione familiare di Arsenio Crespellani, preservandolo
dalla dispersione sul mercato antiquario. Lo studio e l’analisi di questi documenti ha permesso
di acquisire importanti informazioni non solo sui reperti archeologici provenienti dal
territorio, ma anche sulle tecniche di rappresentazione e sui criteri di redazione grafica utilizzati
alla fine dell’Ottocento. Si tratta di disegni “mimetici” e non caratterizzati, ispirati alla
metodologia applicata nella Recueil d’antiquités del conte di Caylus (1756-1767). A differenza
dei moderni sistemi di rappresentazione, i reperti sono raffigurati secondo un unico
punto di vista, quello più significativo, senza indicazione di sezioni e scale di proporzioni
(Capoferro Cencetti 1992, pp. 74-75).
L’album dei disegni di Crespellani (Capoferro Cencetti et Alii 1992) è costituito da
un’accurata selezione dei materiali archeologici accumulati nel corso degli anni dalla famiglia,
che annovera tra i suoi componenti numerosi cultori di archeologia. L’attenzione per
la storia e le tradizioni locali indussero Arsenio Crespellani a focalizzare i propri interessi sulle
terramare del territorio modenese, i cui materiali vennero ordinati nelle tavole grafiche
per località e classe ceramica, distinguendo già allora la produzione rozza o ordinaria da
quelle media e fine. Circa novanta tavole contengono i disegni in bianco e nero dei reperti
terramaricoli provenienti da dodici siti, tra i quali S. Anastasio, Castiglione di Marano, Castelveltro,
Gorzano, Formigine, Redù.
Un nucleo significativo di disegni riproduce i reperti provenienti dalla necropoli villanoviana
bazzanese: le prime tracce del sepolcreto vennero in luce nel 1863, mentre tra il
1866 e il 1870 furono Arsenio e il fratello Remigio a condurre gli scavi, poi ultimati dalla
Società Archeologica di Bazzano nel 1876, due anni prima del suo scioglimento definitivo.
Il Crespellani ha redatto anche una pianta topografica del sito, con l’ubicazione della necropoli,
rinvenuta nei pressi della Fornace Minelli, lungo la sponda destra del torrente Samoggia.
I disegni dei materiali bazzanesi furono organizzati prevalentemente secondo un criterio
tipologico, mentre solo in alcuni casi venne mantenuta l’unità dei corredi funerari; con particolare
abilità fu utilizzato il colore, per riprodurre i processi di ossidazione del bronzo,
nonché i variopinti rivestimenti in ambra e vetro delle fibule.

La valorizzazione di questa documentazione così significativa per la storia del Museo di
Bazzano è avvenuta nel 1992 attraverso la mostra Un secolo di archeologia: dall’album all’informatica
e il relativo catalogo (Santoro Bianchi 1992), nel quale sono stati pubblicati tutti i disegni
di Crespellani. Come si evince dal titolo, allo sguardo retrospettivo, teso a ricostruire il
passato del museo, era abbinata l’attenzione per le moderne tecnologie impiegate nell’archeologia.
Per sottolineare ulteriormente il legame tra passato e presente, i disegni del Crespellani
raffiguranti i reperti villanoviani della necropoli bazzanese sono stati riprodotti su pannelli ed
inseriti nell’apparato esplicativo del museo, nella sezione dedicata all’Età del Ferro.
Rita Burgio
IL MUSEO
Fin dalla sua fondazione il Museo ha avuto sede nella Rocca di Bazzano: il Comune infatti
assegnò alla Società Archeologica due sale dell’edificio, una destinata alle riunioni, l’altra alla
conservazione dei reperti archeologici. L’attuale sistemazione occupa tre sale comunicanti
del piano nobile, all’interno delle quali i reperti provenienti dal territorio sono sistemati
secondo un criterio di tipo cronologico. Il loro allestimento è chiaramente vincolato dalla
natura del contenitore. Le sezioni espositive sono tre 2:
– la sezione pre-protostorica, ove sono esposti gli strumenti litici datati al Paleolitico, al
Mesolitico e al Neolitico, i materiali provenienti dal villaggio dell’Età del Bronzo ed i corredi
delle tombe villanoviane scavate presso la Fornace Minelli;
Fig. 2. La Rocca di Bazzano e la chiesa di Santo Stefano.
465

466
– la sezione romana, con le ceramiche, l’instrumentum e i materiali edilizi provenienti
dal territorio 3 .
– la sezione tardo-antica, in cui sono esposti i materiali rinvenuti nei pozzi-deposito Casini
e Sgolfo 4 .
Particolare attenzione è stata rivolta all’apparato esplicativo, concepito in maniera didattica:
i pannelli, ricchi di immagini a colori e descrizioni, forniscono informazioni relative
al contesto di rinvenimento e all’inquadramento storico dei reperti e in alcuni casi presentano
approfondimenti sulle tecnologie antiche (come i pannelli sulla scheggiatura della
pietra, la lavorazione dell’argilla, sulla costruzione dei pozzi romani e così via).
Completa l’apparato didattico un diorama con la ricostruzione del villaggio dell’Età del
Bronzo, basata sui rinvenimenti effettuati proprio sull’altura della Rocca, nel terreno retrostante
la chiesa di Santo Stefano.
Sara Campagnari
IL CONTENITORE
Questa attenzione alla valorizzazione dei reperti archeologici è stata rivolta anche al prestigioso
contenitore del Museo, la Rocca dei Bentivoglio. La storia di tale edificio, per quanto
riguarda il suo aspetto attuale 5 , risale alla fine del XIII secolo, quando passato sotto il controllo
di Azzo VIII d’Este il territorio di Bazzano, si diede inizio alla sua ricostruzione, portata
a termine dai Bolognesi grazie all’intervento di Bonifacio VIII, che lo assegnò in modo
definitivo alla città. Dopo numerose vicissitudini, nel 1473 la rocca venne donata al signore
di Bologna: Giovanni II Bentivoglio. L’edificio, ormai privo di valenza difensiva a causa
dell’utilizzo delle armi da fuoco, costituì una delle delizie della famiglia Bentivoglio. Dopo
la cacciata della famiglia da Bologna, avvenuta nel 1506, la Rocca diventò un edificio legato
alla municipalità e venne utilizzato per le attività giudiziarie ed amministrative del territorio
(Ivan Pini 1986).
Alla fase trecentesca risalgono una torre e un piccolo palatium a questa addossato, una
delle tre cinte murarie che circondano la Rocca e la cosiddetta “Torre dell’Orologio”. La parte
bentivolesca consiste in tre ali che, assieme al nucleo più antico, costituiscono una corte
a pianta rettangolare.
Il castello è stato interessato da numerosi restauri, che hanno permesso il recupero sia
delle strutture architettoniche, sia degli affreschi. Per quanto riguarda le pitture parietali, gli
interventi più significativi sono stati realizzati al piano nobile, nel quale è stato riportato alla
luce l’intero ciclo decorativo commissionato durante la fase di ristrutturazione ed ampliamento
voluta dai Bentivoglio (Negro 1989, p. 77) e le sovrapposizioni di epoca successiva
6, nonché nel complesso di epoca medievale. Qui sono state rese inoltre agibili cinque
sale, di cui tre oggi adibite a Mediateca comunale.
È inutile, dunque, sottolineare come sia stretto il legame tra gli allestimenti museali attuali
e futuri e l’aspetto delle sale che li ospitano. Dal 1975, quando è avvenuta l’inaugurazione
del Museo, l’allestimento ha subito diverse modifiche non tanto di tipo architettonico
o strutturale, a causa dei vincoli imposti all’edificio storico, ma piuttosto rivolte a potenziare
l’apparato esplicativo, migliorando la fruizione da parte del pubblico.

La sezione pre-protostorica, allestita nel 1996, si trova in una delle sale che, in base ai sondaggi
di restauratori, ha rivelato la presenza di affreschi non ancora riportati alla luce. Pertanto
si è reso necessario un allestimento a pannelli mobili su binari autoportanti che, da una
parte copre le pareti, dall’altra è completamente amovibile. La sala del Pozzo Sgolfo, invece,
non presentando tracce significative di pitture parietali, nel 2001 è stata rifasciata da una boiserie
in legno d’acero che abbraccia vetrine e pannelli, dotati di un’adeguata illuminazione.
Infine, il riallestimento della Sala del pozzo Casini – affrescata – consiste in una semplice tinteggiatura
del muro in colore acero, in sintonia con la scala cromatica degli affreschi presente
nella parte alta delle pareti, unitamente alla collocazione di totem autoportanti per i pannelli.
Questi, assieme alle vetrine – che in tutte le sale costituiscono un elemento di continuità
invariato dal 1975 – sono dotati di una nuova illuminazione più consona alle esigenze espositive.
I materiali sono stati in esse risistemati in modo da essere meglio visibili e dotati di un
nuovo apparato didascalico. L’intervento più significativo consisterà nella risistemazione dei
reperti di epoca romana, che sono stati affiancati da nuovi pannelli esplicativi, con una particolare
attenzione alla loro intelligibilità da parte del foltissimo numero di ragazzi che visitano
le sale durante i percorsi didattici, pur senza deroghe alla correttezza scientifica.
Dunque, l’intensa attività di ristrutturazione globale non ha avuto come obiettivo soltanto
la riqualificazione funzionale della Rocca o una migliore fruizione del Museo da parte
di un pubblico molto variegato. Una delle maggiori preoccupazioni è rimasta sempre
quella di creare un’armonia tra il contenuto ed il contenitore, legati dagli eventi storici in
un tutt’uno indissolubile.
Il continuo rinnovamento del Museo è stato possibile grazie alla sensibilità dell’amministrazione
comunale, supportata dai contributi finanziari erogati dalla Regione e dalla Pro-
Fig. 3. La Sala dei Giganti con gli affreschi di epoca bentivolesca e fascista.
467

468
vincia per i restauri e i riallestimenti, e dalle sponsorizzazioni di privati locali per mostre e
convegni.
Sara Campagnari
IL MUSEO TERRITORIALE
A questo proposito sono numerose le iniziative e le attività culturali promosse dal Museo e
dal Comune, differenziate in maniera da soddisfare e catturare l’attenzione di un’ampia fascia
di utenti che comprende bambini, adulti e studiosi. Per il pubblico è organizzato il servizio di
didattica, rivolto agli studenti delle scuole materne, elementari e medie, con diciotto percorsi
di approfondimenti storico-archeologici. A tal fine da ormai dieci anni sono attive due aule
didattiche attrezzate per integrare e approfondire, attraverso lezioni supportate da diapositive
e diverse attività pratiche, le visite guidate alle diverse sezioni del museo. Inoltre è possibile
effettuare su prenotazione e in occasione delle manifestazioni culturali bazzanesi visite
guidate alla Rocca ed al Museo. Non ultime sono da segnalare le numerose mostre d’arte che
hanno ospitato nei locali della Rocca artisti contemporanei di fama internazionale.
Tra gli eventi promossi dal Museo devono annoverarsi anche i convegni in cui gli studiosi
si sono confrontati su argomenti di ordine storico e archeologico – l’ultimo risale al
maggio 2001, dal titolo Archeologia nella valle del Samoggia – cicli di conferenze e corsi di
aggiornamento per gli insegnanti 7 .
La valorizzazione del Museo attraverso iniziative culturali rivolte al pubblico è stata possibile
anche grazie ad un processo di “terziarizzazione” di alcuni servizi intrapreso dall’Amministrazione
comunale.
Nello specifico, la società che se ne occupa 8 – i cui componenti avevano già collaborato
con il museo per alcuni anni, completando il loro iter formativo – oltre che per la didattica
(Bendi et Alii 2002; Burgio et Alii 2003), collabora con l’Ufficio Cultura anche nell’ambito
di alcune attività istituzionali del museo, come la cura del magazzino e dell’archivio,
l’organizzazione di mostre e convegni e la promozione di attività ed eventi culturali in materia
storica ed archeologica.
Grazie a questa ampia gamma di iniziative, il Museo di Bazzano ha notevolmente ampliato
il proprio bacino d’utenza, che si estende ben oltre i confini comunali, rafforzando
sempre di più il ruolo di importante polo culturale del territorio, punto di riferimento per
una comunità “dilatata”.
A tal fine ha avuto buon esito il tentativo di trasformare il Museo in un’istituzione intercomunale,
facente capo all’Unione dei Comuni della Comunità Montana Valle del Samoggia 9 .
Proprio in tale prospettiva, risultano quanto mai attuali le parole di Renato Scarani
(Scarani 1986, p. 22) che agli inizi degli anni ’80 auspicava la crescita del Museo per divenire
«un punto fermo, una base per realizzare una più ampia e organica istituzione d’importanza
comprensoriale».
Sara Campagnari

1 Tale intento si legge nel testo degli
Atti della Società Archeologica
di Bazzano: Statuto organico della
Società promotrice di scavi archeologici,
documento 2, ora conservati
presso il Museo Civico.
2 La guida più aggiornata del
Museo risale al 1986 (Santoro
Bianchi 1986). È ora in preparazione
la nuova guida-catalogo.
Per una analisi dettagliata di alcuni
materiali del museo si vedano
i saggi in “Quaderni della
Rocca”, 9 (2002).
3 Tra i materiali spicca per qualità
una testina in marmo greco raffigurante
una divinità femminile, probabilmente
identificabile in un’Afrodite
o Artemide databile al II
sec. d.C. (Scagliarini Corlaita
1986, pp. 78-82).
4 Sui pozzi deposito e sulla loro
Bibliografia
C. Bendi, R. Burgio, S. Campagnari,
S. Ferrari 2000, Dall’aula
didattica al multimediale: il cdrom
“Il misterioso mestiere dell’archeologo”,
in “Quaderni della
Rocca”, 9, pp. 265-272.
R. Burgio, S. Campagnari, S. Ferrari
2003, L’archeologia in Rocca:
attività e percorsi nelle aule didattiche
del museo “Arsenio Crespellani
di Bazzano”, in Atti del Convegno
“L’immaginazione è un tappeto
magico”, Monterenzio (Bo),
22 novembre 2001, Bologna.
A.M. Capoferro Cencetti 1992,
Arsenio Crespellani: il disegno come
fonte di acquisizione e luogo
della memoria, in Santoro Bianchi
1992, pp. 72-82.
A.M. Capoferro Cencetti, A. Coralini,
V. Di Pietro Xotta 1992,
Catalogo dei disegni dell’album
problematica si vedano Santoro
Bianchi 1986; Gelichi, Giordani
1994; Giumlia-Mair 2002.
5 La struttura del castello originario
è difficilmente individuabile a
causa della sua distruzione da parte
dei Bolognesi nel 1250, dopo
due anni di assedio per strappare
l’edificio al controllo modenese
(Ivan Pini 1986, p. 37). Di certo è
possibile sapere che il castello nel
1038 venne dato dal vescovo di
Modena in enfiteusi a Bonifacio di
Canossa, che lo trasmise alla figlia
Matilde. Inoltre si sa che aveva
un’estensione di circa 8000 mq e
che nel 1218 fu dotato di una cinta
muraria.
6 Sovrapposte agli affreschi della
Sala dei Giganti sono state rinvenute
immagini di epoca fascista,
dalla caratteristica simbologia futu-
Crespellani, in Santoro Bianchi
1992, pp. 89-200.
V. Di Pietro Xotta 1992, La Società
Archeologica di Bazzano, in Santoro
Bianchi 1992, pp. 19-24.
S. Gelichi, N. Giordani (a cura di)
1994, Il tesoro nel pozzo. Pozzi
deposito e tesaurizzazioni nell’antica
Emilia, Modena, Franco
Cosimo Panini Editore.
A. Giumlia-Mair 2002, Analisi chimiche
e studi tecnici sui complessi
di vasellame romano del Museo
“A. Crespellani” di Bazzano, in
“Quaderni della Rocca”, 9, pp.
235-264.
A. Ivan Pini 1986, Un castello di secolare
frontiera: Bazzano da villaggio
fortificato a rocca signorile,
in Santoro Bianchi 1986, pp.
33-44.
E. Negro, Le decorazioni bentivole-
rista e legata alla Roma antica.
7 A tale proposito è stata inaugurata
il 13 settembre 2002 una piccola
mostra sulla didattica, rivolta
principalmente agli insegnanti,
nella quale sono stati esposti i materiali
utilizzati nelle aule didattiche
e i lavori prodotti dai ragazzi in
occasione delle visite guidate o, in
seguito, in classe.
8 MEDEA s.n.c. di Sara Campagnari
e Rita Bugio.
9 Essa comprende i comuni di Bazzano,
Crespellano, Monteveglio,
Savigno e Castello di Serravalle. Il
Regolamento collegato all’istituzione
del Servizio Associato Cultura e
Musei, finalizzata all’istituzione di
una locale rete museale, è stato approvato
il 17/06/2002, in collaborazione
con l’Ufficio Musei della
Provincia di Bologna.
sche nel castello di Bazzano, in
Santoro Bianchi 1989, pp. 69-80.
S. Santoro Bianchi (a cura di)
1986, La Rocca bentivolesca e il
Museo Civico “A. Crespellani” di
Bazzano, Bologna, University
Press.
S. Santoro Bianchi 1989, Una Rocca
nella storia. Bazzano tra Medioevo
e Rinascimento, Bologna,
Edizioni Age.
S. Santoro Bianchi 1992, Un secolo
di archeologia: dall’album all’informatica,
Bologna, Edizioni
Age.
D. Scagliarini Corlaita 1986, Testa
in marmo di dea (Afrodite o Artemide),
in Santoro Bianchi 1986,
pp. 78-82.
R. Scarani 1986, Storia e vicende del
Museo Civico di Bazzano, in Santoro
Bianchi 1986, pp. 21-22.
469

Il passato del territorio, il futuro del museo.
Il Museo “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena
alla sua terza età
Gabriele Nenzioni
Museo della Preistoria “Luigi Donini” - San Lazzaro di Savena (BO)
RIASSUNTO
Alle porte di Bologna, racchiuso fra il Savena e il sistema Zena-Idice, si colloca il cuore del Parco Regionale
dei Gessi Bolognesi e dei Calanchi dell’Abbadessa. I numerosi aspetti storico-naturalistici che lo caratterizzano
– morfologie carsiche, microambienti floristici, giacimenti fossiliferi, depositi preistorici –
hanno catalizzato, sin dal secolo scorso, gli interessi di diversi cultori delle scienze naturali e preistoriche,
proprio nel momento in cui queste discipline muovevano in Italia i primi passi.
Memore di questo importante passato e depositario delle più aggiornate conoscenze sul rapporto uomo/ambiente
attraverso il tempo, il Museo “Luigi Donini” ha recentemente assunto, attraverso un impegnativo
progetto di durata pluriennale, la veste di centro espositivo, all’interno del quale è possibile rileggere
in modo unitario tutte le complesse trame – geologiche, antropiche, naturalistiche – che hanno
disegnato i contorni dell’area orientale bolognese.
Il progetto culturale di attualizzazione del museo, nel privilegiare moderni linguaggi e strategie comunicative
ancor poco utilizzate nella museografia italiana, focalizza la propria attenzione su alcuni punti
di eccellenza che possono essere considerati i caposaldi del percorso museale: la formazione dei Gessi,
le grandi faune scomparse, l’origine dell’uomo, le testimonianze villanoviane che rievocano la scoperta
della celebre necropoli delle Caselle avvenuta nel 1853 da parte di Giovanni Gozzadini, riportando alla
memoria di tutti uno dei principali eventi della storia dell’archeologia italiana.
SUMMARY
The Gessi bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa Regional Park is located just outside Bologna, between the Savena
and the Zena-Idice rivers. Its historical and naturalistic features – karstic morphology, flower micro-environment,
fossiliferous deposits, prehistoric deposits – have attracted large numbers of experts of prehistoric and natural
sciences ever since the 19th century, at a time when these disciplines were still at the very beginning in Italy.
A farsighted multi-year project has been launched that has taken into account this important heritage as
well as the state-of-the-art knowledge on man/nature relationship throughout time. This project has led to the
setting up of the “Luigi Donini” Museum that has recently been turned into an exhibition centre. It collects all
the geological, anthropological and naturalistic wefts that make up the texture of the eastern Bologna area into
a unitary whole.
The museum renovation cultural project uses the modern language and communication strategies, which
are not yet commonly used in the Italian museography. It focuses its attention on the points of excellence that
are the tenets of the museum pathway: the formation of the Gessi, the history of large extinct animals, the origin
of man, the Villanovan archaeological findings, such as the unearthing of the famous Caselle necropolis in
1853 by Giovanni Gozzadini, thus highlighting one of the main events in the history of Italian archaeology.
Alle porte della città, fra la vallata del Savena e quelle del sistema Zena-Idice, la porzione orientale
del territorio bolognese circoscrive e racchiude, in una irripetibile varietà paesaggistica,
geologica ed ambientale, il settore di eccellenza del Parco Regionale dei Gessi Bolognesi. L’af-

fiorare della potente catena gessosa e il manifestarsi di tutti gli aspetti ad essa collegati – morfologie
carsiche, microambienti floristici, giacimenti fossiliferi, depositi preistorici – hanno catalizzato,
sin dal secolo scorso, gli interessi di diversi cultori delle scienze naturalistiche proprio
nel momento in cui queste cominciavano ad assumere sicuri contorni disciplinari.
Se per il secondo Ottocento dobbiamo rendere merito a Giovanni Capellini, Giovanni
Gozzadini, Edoardo Brizio e Francesco Orsoni dei primi appunti di “archeologia preistorica”
intesa come scienza che interfaccia aspetti evolutivi dell’uomo con la paleoecologia e la
geologia, i contributi di Fernando Malavolti, Piero Leonardi e Luigi Fantini nell’immediato
dopoguerra hanno avuto il merito di tracciare i profili di alcuni importanti eventi connessi
con il primo popolamento umano del territorio.
Memore di questo importante passato e depositario delle più aggiornate conoscenze sul
rapporto uomo/ambiente nel lungo periodo che precede la storia, il Museo “Luigi Donini”
si è trovato al centro di un progetto di radicale trasformazione che lo ha portato a divenire
un Centro espositivo di valenza regionale, sancendo in modo definitivo il suo ruolo di luogo
della memoria storica del territorio, all’interno del quale, venticinque lustri addietro, si
erano già compiuti i primi pionieristici passi verso la conoscenza e la salvaguardia di tutte
le complesse trame – geologiche, antropiche, naturalistiche – che ne disegnano i contorni.
La “riscoperta” dei Gessi in chiave paleontologica e archeologica data infatti a poco oltre
la metà dell’Ottocento, quando la disciplina che a quel tempo veniva chiamata “archeologia
preistorica” muoveva in Italia timidi passi iniziali. È Giovanni Capellini, che della nascente
paletnologia può essere considerato a
buon diritto uno dei principali artefici, a
dare le prime segnalazioni quando è chiamato
a Bologna nel 1860, dopo studi pisani,
per ricoprire appunto la cattedra di Geologia
e Paleontologia appena istituita. «Ossa
lunghe di mammiferi... e qualche ciottolo…
scheggiato per mano dell’uomo...» gli appaiono
frammisti a sabbie in località Croara durante
un’escursione organizzata appena pochi
mesi dopo il suo arrivo nella città felsinea.
Nel riferirne la notizia nella celebre
opera Armi e Utensili di pietra del Bolognese,
egli peraltro ci ricorda che le prime scoperte
di fossili nell’area dei Gessi sono in realtà
ancora anteriori, datandosi al 1834 il rinvenimento
di un molare di Elephas Antiquus
della collezione Alessandrini, poi passato al
Museo di Storia Naturale dell’ateneo, oggi
intitolato proprio al Capellini.
Dopo il lavoro sui resti dell’industria
umana, lo studioso non ebbe più modo nel-
la sua produzione scientifica e letteraria di
toccare tale argomento e per molto tempo la
Fig. 1. Ritratto di Giovanni Capellini (Foto Archivio
Museo “L. Donini”).
471

472
Fig. 2. La memoria sulla Grotta del Farneto presentata da Edoardo Brizio nel 1882 all’Accademia dell’Istituto delle
Scienze di Bologna (Foto Archivio Museo “L. Donini”).

sua memoria a stampa rimase l’unico riferimento relativo all’Archeolitico bolognese. Con
nitida lucidità interpretativa vi si sosteneva tra l’altro la contemporaneità archeologica di simili
testimonianze con il diluvium di Francia, ossia con i grandi depositi paleolitici della
Valle della Somme.
Appena un decennio dopo, nel 1871, mentre grazie ai buoni uffici del Capellini Bologna
sta ospitando il V Congresso di Antropologia e Archeologia Preistoriche, che sancirà il progresso
degli studi paletnologici italiani portandoli sulla scena internazionale, i Gessi tornano
alla ribalta per un nuovo importante rinvenimento. Francesco Orsoni, che in gioventù aveva
avuto come maestro negli studi geologici il Capellini, scopre in località Osteriola la Grotta
del Farneto e ne avvia l’esplorazione, riconoscendovi un sito frequentato con assiduità in epoca
preistorica. L’Orsoni vi compie a più riprese indagini, riportando alla luce, soprattutto nei
pressi dell’ingresso, una imponente stratificazione antropica che costituisce il segno più evidente
dello stretto rapporto intercorso fra l’uomo e questa cavità principalmente durante l’età
del Bronzo. Le travagliatissime vicende esistenziali di cui è protagonista impediscono all’Orsoni
di lasciare concreta testimonianza dell’impegnativo lavoro svolto al Farneto.
Di quella pionieristica fase delle ricerche rimangono solamente i reperti venduti al Museo
Civico di Bologna, oltre ad una nota illustrativa presentata ad una seduta dell’Accademia
delle Scienze proprio dall’antico maestro Capellini e alla memoria di Edoardo Brizio
stilata al momento dell’acquisto della collezione orsiana. Dopo un lungo abbandono, gli
scavi al Farneto vengono ripresi negli anni Cinquanta dalla Soprintendenza Archeologica
Fig. 3. Ritratto di Francesco Orsoni (Foto Archivio Museo
“L. Donini”).
Fig. 4. Luigi Fantini ritratto nel greto del fiume Idice
(Foto E. Fantini).
473

474
dell’Emilia-Romagna. Si è soliti associare al nome dell’Orsoni la scoperta del Farneto, senza
così rammentare che alle sue prospezioni lungo l’Idice in cerca di depositi solfiferi si deve
un’ulteriore scoperta: l’individuazione, attorno al 1879, di una stazione fiorita durante il
Bronzo sulla culminazione rocciosa di Castel de’ Britti.
Con la scomparsa dei grandi protagonisti degli studi preistorici in Emilia il fervore degli
esordi cede fatalmente il passo ad un forte decremento delle scoperte e delle indagini, ad
una lunga battuta d’arresto che segna l’assoluto disinteresse soprattutto per le testimonianze
risalenti alla più alta antichità. Occorrerà giungere attorno alla metà degli anni Venti perché
i Gessi tornino a far parlare di loro. Spetta al sanlazzarese Luigi Fantini, nativo del Farneto,
ove ha visto la luce in una casa proprio a ridosso della grotta, localizzare sul fianco della
collina il cosiddetto “Sottoroccia”, entro il quale aveva trovato riparo un sepolcreto collettivo
apprestato da genti dell’età del Rame che dovevano dimorare nelle vicinanze.
Ma l’attività sul campo del fondatore del Gruppo Speleologico Bolognese, che come emblema
avrà proprio una cuspide di freccia trovata nel Sottoroccia, è appena agli inizi. A partire
dal 1927 comincia a segnalare in superficie o all’interno delle doline, che numerose costellano
il paesaggio della Croara, e lungo i corsi dell’Idice e dello Zena la presenza di industrie
attribuendole a diverse fasi del Paleolitico. Accanto alla creazione di cospicue raccolte
di materiali litici recuperati con sistematicità in diversi contesti geologici, le indagini
di Fantini, ora in aperto e acceso confronto dialettico e scientifico con l’ambiente accademico,
hanno il grande merito di aver posto in primo piano problematiche interpretative e
cronologiche su alcune classi di reperti litici ancor oggi rimaste insolute.
Echi di tali scoperte, che segnano profondamente l’attività del ricercatore come si evince
da una serie di articoli monografici editi fra il 1961 e il 1964, si possono così trovare nelle
pagine di dibattito scientifico scritte dai principali artefici della paletnologia italiana di
quegli anni. Alberto Carlo Blanc, Antonio Radmilli, Piero Leonardi, Paolo Graziosi, Raffaello
Battaglia e Arturo Palma di Cesnola di volta in volta trovano così nelle segnalazioni
di Fantini conforto o materia di discussione durante il faticoso e pionieristico processo di
definizione paleoecologica, stratigrafica e geomorfologica del Pleistocene emiliano.
Particolare significato assumono sotto questo profilo le indagini geostratigrafiche condotte
da Tino Lipparini nei depositi continentali della Ponticella e le note di micropaleontologia
scritte da Bruno Accordi che, congiuntamente con Piero Leonardi, definisce e puntualizza,
durante le esplorazioni interdisciplinari condotte nel deposito continentale di Palazzo
del Bosco, la successione pleistocenica nella quale si inseriva buona parte dei reperti
raccolti da Fantini medesimo. Indagini successive hanno poi permesso la definitiva e corretta
interpretazione in termini culturali e cronologici di tali testimonianze, da ascriversi a
gruppi umani di tipo Erectus stanziati nel Pedeappennino durante le fasi finali del Paleolitico
inferiore.
L’eredità di questa tradizione di studi viene poi raccolta dai giovani allievi del Gruppo
Speleologico Bolognese. All’esplorazione delle cavità carsiche dei Gessi ad opera dei componenti
dell’associazione si debbono due ultimi rinvenimenti di rilievo. L’individuazione
della Grotta Serafino Calindri, al cui interno era ancora intatto il deposito archeologico forse
collegato allo sfruttamento della selenite in età preistorica, e lo scavo del paleoinghiottitoio
della Cava Filo, che rappresenta uno dei più importanti giacimenti paleofaunistici emiliano-romagnoli.

Fig. 5. Il giacimento paleontologico della Cava Filo negli anni ’60 (Foto P. Grimandi).
Fig. 6. La Cava Filo oggi (Foto Archivio Museo “L. Donini”).
475

476
A partire dalla metà degli anni Settanta, l’ingresso nel campo delle indagini di discipline
di taglio prettamente naturalistico quali la palinologia o la pedologia e i sistemi relativi
di datazione paleomagnetica aprono un nuovo capitolo nelle ricerche e consentono un approccio
ai siti preistorici emiliano-romagnoli più organico ed esaustivo, soprattutto dal punto
di vista di una loro puntuale interpretazione crono-stratigrafica. La nuova fase di ricerca,
promossa e coordinata dal Dipartimento di Geologia e Paleontologia dell’Università di Ferrara
(oggi Dipartimento delle Risorse Naturali e Culturali) in collaborazione con la Soprintendenza
Archeologica dell’Emilia-Romagna, ha interessato interi comparti geografici: il
Reggiano, il Forlivese, il Ravennate e il Bolognese. All’elaborazione dei dati, condotta con i
più sofisticati sistemi di analisi dei complessi litici, in modo tale da permettere una raccolta
delle informazioni secondo linguaggi omogenei e compatibili fra loro, è seguita una serie
di prospezioni interdisciplinari e di scavi che hanno individuato nei siti di Ca’ Belvedere di
Monte Poggiolo (Forlì), Ca’ Romanina (Bologna), Ghiardo Cave (Reggio Emilia) e Torrente
Conca (Rimini) i giacimenti-guida per la ricostruzione della sequenza delle culture paleolitiche
in ambito regionale.
Gli esiti di queste intense stagioni di attività, che vedono il museo partecipe nella promozione
delle ricerche, nella raccolta dei dati e nella gestione scientifica delle raccolte, trovano
assetto definitivo nel 1985 quando, dopo un decennio di permanenza presso l’Abbazia
della Croara, la responsabilità tecnica e gestionale della struttura museale viene rilevata
dal Comune di San Lazzaro di Savena. Nei nuovi e più ampi spazi di una palazzina storica
Fig. 7. Ricostruzione di una fauna fossile del deposito di Cava Filo (Dipinto di M. Cutrona - Foto Archivio Museo
“L. Donini”).

inserita in un vasto parco pubblico, il museo adotta un percorso teso alla massima dilatazione
di tutte le tematiche collegate alla formazione del territorio e i reperti esposti tendono
a rafforzare definitivamente la trama dei nessi che legano l’organismo all’ambiente circostante
e alla storica sequenza di studi e ricerche ivi condotti.
Ma il progetto, alla cui definizione e crescita nel tempo hanno contribuito di volta in volta
prestigiose istituzioni della ricerca in ambito regionale, ha subíto inevitabilmente un’oggettiva
battuta d’arresto davanti all’impossibilità di offrire alla conoscenza del pubblico, attraverso
strumenti e spazi adeguati, il vasto patrimonio informativo sul passato raccolto e archiviato
nel tempo a ritmi di crescita esponenziali. Grazie all’affiancamento tecnico-scientifico
e finanziario dell’Istituto Beni Culturali, nel frattempo si erano infatti realizzati importanti
recuperi fra i quali vanno segnalati, per il ruolo storico che il personaggio riveste in ambito
locale, l’accorpamento e la rilettura di buona parte della raccolta paletnologica di Luigi
Fantini. La catalogazione di oltre 4.000 reperti ha permesso di stabilire e puntualizzare significative
connessioni fra i suoi itinerari di ricerca, le evidenze geomorfologiche e stratigrafiche,
i reperti campionati. Fra questi ultimi, spiccano diversi manufatti che permisero al ricercatore
di costruire le proprie teorie sull’evoluzione culturale delle fasi più arcaiche del Paleolitico
inferiore, e di renderle pubbliche attraverso numerosi contributi a stampa.
Nello stesso ambito si possono inserire anche gli interventi di recupero, restauro integrativo
e assemblaggio anatomico di diversi vertebrati fossili provenienti dai depositi del
Pleistocene superiore dell’area dei Gessi e il loro contestuale affiancamento con un’importante
collezione paleontologica storica di comparazione. Non trascurabile, infine, è stata
l’acquisizione di una esaustiva campionatura delle principali forme mineralogiche caratteristiche
delle formazioni geologiche appenniniche, tale da ripercorrere le diverse e più antiche
tappe della genesi del territorio.
Proprio dalla necessità di dare adeguato ordine conservativo e, al contempo, visibilità
pubblica a questo patrimonio prende forma l’ultimo capitolo della storia del museo. Le improrogabili
esigenze di adeguamento strutturale e di aggiornamento espositivo lo hanno infatti
posto al centro di una profonda opera di ristrutturazione della sede e di un altrettanto
importante intervento di rivisitazione e di arricchimento dei contenuti culturali e scientifici.
Il programma del nuovo museo e la definitiva messa a punto del progetto allestitivo hanno
indicato come obiettivo prioritario la creazione di un centro multifunzionale che, inserito
in una realtà di grandissima valenza naturalistica come l’area dei Gessi, fosse in grado
di proporre la connessione e l’integrazione fra le forme di vita e civiltà del passato e le peculiarità
del territorio. Il percorso museale, distribuito su due livelli per oltre 600 mq complessivi,
si caratterizza dunque per una distribuzione in isole espositive di concezione assolutamente
innovativa, dedicate ad alcune grandi tematiche della storia dell’uomo e dell’ambiente.
A queste si alternano, senza soluzione di continuità, aree di riposo o di approfondimento.
Una reception con funzioni anche di book-shoop, zone-sosta provviste di divani, punti
informativi interattivi e una saletta di lettura specializzata ricavata nel piano superiore della
“vecchia” sede museale completano così il corredo dei servizi offerti al pubblico.
Se il complesso intervento architettonico ha, di fatto, rimodellato gli spazi adeguandoli
a standard ritenuti indispensabili dalla museografia odierna, il disegno progettuale che definisce
l’articolazione delle diverse sezioni espositive individua come mission quella di portare
a conoscenza del pubblico, con un linguaggio in grado di coniugare la correttezza scien-
477

478
tifica delle informazioni con l’efficacia didattica, fenomeni ed eventi così lontani nel tempo
da comportare il ricorso costante ai più moderni strumenti e strategie comunicative.
In questa prospettiva si è ritenuto indispensabile affiancare alla più tradizionale comunicazione
scritta e ai suoi sussidi abituali (didascalie, pannelli, poster) la possibilità di effettuare la
visita del museo integralmente supportata da accompagnamento sonoro con duplice canale di
utenza. Una linea sonora, pilotata da lettori DVD attivati in ciclo continuo e composta da microdiffusori
posizionati in punti-chiave dell’itinerario museale, diffonde nell’ambiente – e
quindi a portata di tutti i visitatori – i contenuti fondamentali per la comprensione degli eventi
culturali, geologici, ambientali che caratterizzano l’area bolognese in età antica.
Il sistema viene sviluppato in maniera tale da realizzare anche una seconda linea sonora,
supportata da una rete a raggi infrarossi, per ascolto individuale in cuffia sia dei
contenuti generali, previsti nel primo tipo di sonorizzazione, sia di contenuti analitici relativi
alle singole unità espositive. Il sistema si attiva automaticamente davanti ad ogni vetrina.
Entrambi i sistemi possono coesistere, permettendo contestualmente sia un ascolto
collettivo che personale, regolato sui tempi e sulle modalità di approccio del singolo visitatore.
Questa scelta risponde alle finalità che ogni organismo museale modernamente inteso
dovrebbe sempre perseguire: da un lato rendere agevole e più amichevole l’approccio
con i contenuti del museo e, dall’altro, diversificare le strategie di comunicazione, calibrandole
sulle esigenze e sui tempi di elaborazione delle singole categorie di utenti, senza
dimenticare che la corretta trasmissione del sapere lavora anche sulla sensibilità e sulla
percezione individuale.
Volendo succintamente riepilogare alcuni punti di eccellenza della nuova struttura museale
viene spontaneo citare in primo luogo le tre grandi tematiche che costituiscono il filo
conduttore dell’intero percorso: l’Origine dell’uomo, l’Ambiente del passato, Giovanni
Gozzadini e la scoperta della civiltà villanoviana. E proprio ai primi processi di frequenta-
Fig. 8. Il volto di un cacciatore della
specie Erectus ricostruito a grandezza
naturale (Realizzazione Stoneage
s.r.l. - Foto Archivio del Museo
“L. Donini”).

Fig. 9. Particolare di riparo improvvisato
con donna della specie Erectus
ricostruita a grandezza naturale
(Realizzazione di Stoneage s.r.l. -
Foto Archivio Museo “L. Donini”).
zione antropica è dedicata una grande isola dioramica che ripropone un momento di vita di
un gruppo di cacciatori paleolitici di tipo Erectus che frequentavano il Pedeappennino
150.000 anni orsono. Attorno ad essa, vero perno dell’intera narrazione museale, si dipanano
altre quattro ricostruzioni tridimensionali dei nostri primordiali antenati, anch’esse a
grandezza naturale, uniche nel panorama museografico italiano per quantità e grado di verosimiglianza
fisionomico-anatomica. Le scene rivisitano i momenti salienti della storia dell’evoluzione,
la nascita della spiritualità, le modalità di sussistenza degli ultimi gruppi di cacciatori-raccoglitori
vissuti all’esordio dell’Olocene.
Il salone dedicato all’Ambiente è dominato dall’installazione scenografica più complessa
sotto il profilo tecnico e dimensionale. Si tratta della riproposizione al pubblico di un ambiente
ipogeo gessoso ove tutti i processi caratteristici del carsismo – morfologie erosive, ruscellamenti,
concrezioni, cristallizzazioni, forme faunistiche specializzate – vengono riproposte
con un linguaggio scultoreo iperrealistico e rese familiari da un sofisticato sistema didascalico
sonoro sincronizzato con gli effetti luminosi.
Forte impatto emotivo suscita anche il settore ove è possibile toccare con mano e confrontare
fra loro le grandi ricostruzioni scheletriche con quelle, appositamente modellate in
dimensioni reali da un prestigioso artefice nel campo delle realizzazioni scientifiche, degli
479

480
Fig. 10. Un paesaggio a steppa-prateria del penultimo Glaciale (Dipinto di R. Zanetti - Foto Archivio Museo “L. Donini”).
animali estinti dell’ultimo periodo glaciale, rinvenuti numerosi nei giacimenti dell’area dei
Gessi quali il Bisonte delle steppe, il gigantesco cervide dalle grandi corna chiamato Megacero
e la Iena delle caverne.
Non meno significativa, per il contenuto denso di richiami storici, è la sezione dedicata
alla scoperta della civiltà villanoviana avvenuta nel 1853 da parte di Giovanni Gozzadini
presso la frazione Caselle di S. Lazzaro. Di questa celebre necropoli vengono pubblicamente
proposti per la prima volta, dopo una lunga e difficile opera di restauro, i ricchi corredi
funerari, frutto di scavi recenti e concessi in deposito permanente al Museo, che consentiranno
al visitatore di avvicinarsi ad una straordinaria cultura fiorita alle soglie della storia attraverso
le importanti manifestazioni legate al culto dei morti.
Un’annotazione, per concludere, sugli arredi museali. Approntati dalla più affermata
realtà imprenditoriale che opera in Italia e all’estero nel settore museotecnico e che vanta
prestigiose realizzazioni, i moduli componenti il vetrinaggio sono posti a immediato contatto
con le grandi rievocazioni scenografiche, presentandosi nella forma di eleganti ed essenziali
elementi di cristallo stratificato messi in opera senza soluzione di continuità per costituire
un lungo fronte espositivo complanare, atto a valorizzare esclusivamente i reperti naturalistici
e conferire il massimo risalto alle testimonianze archeologiche custodite nel Museo.
Analoga funzione è demandata al sistema di illuminazione che, in linea con i criteri attuali
dell’illuminotecnica applicata al campo museale, a seconda dei casi e dei materiali da
evidenziare, può alternare luce diffusa e luce puntuale di accento.
Contestualmente sono stati portati avanti la riprogettazione e il consolidamento dei servizi
didattici che, come noto, costituiscono un supporto permanente all’opera di valorizzazione
e di promozione del patrimonio museale, nelle sue relazioni interne e nel rapporto con
il territorio circostante, di cui i beni sono espressione. In questa prospettiva, è stata ritenuta
indispensabile la ricerca costante di collaborazione con le altre realtà culturali pubbliche

Fig. 11. Scheletro di Megaloceros giganteus (Realizzazione di Stoneage s.r.l. - Foto Archivio Museo “L. Donini”).
Fig. 12. Ricostruzione a grandezza naturale di varie tipologie di sepolture dell’età del Ferro (Realizzazione di R.
Miolo - Foto Archivio Museo “L. Donini”).
481

482
e private che con il museo cooperano a diversi livelli di competenza (es. Parco dei Gessi,
Università degli Studi, Associazionismo naturalistico e culturale).
Poiché l’organizzazione dei servizi didattici deve esprimere la massima considerazione
nei riguardi delle esigenze e delle istanze del pubblico potenziale del museo, l’offerta educativa
viene articolata e modulata attraverso risposte e soluzioni tecniche adeguate ad una
utenza composita nelle classi d’età, nel livello di scolarizzazione, nell’appartenenza sociale e
culturale. È previsto pertanto che tali servizi abbraccino una serie di prestazioni didattiche
e sperimentali di tipo specialistico in grado di coprire diversi ambiti. In considerazione della
specifica fisionomia del museo, si è deciso di affiancare alle tradizionali attività guidate
intramuseali altre forme di approccio didattico e turistico quali l’organizzazione di esperienze
cognitive di archeologia sperimentale, la creazione di itinerari storici e archeologici
permanenti collegati alle iniziative ecoturistiche, la messa a punto di proposte di animazione
in occasione di festività, manifestazioni pubbliche, fiere, congressi e, più in generale, il
perseguimento di una politica tesa alla promozione e assistenza dell’escursionismo culturale.
L’offerta educativa si incardina non solo su una diversificazione dei contenuti e sull’ampiezza
della gamma delle proposte, ma anche sul mantenimento del carattere prettamente
scientifico delle informazioni e delle conoscenze coinvolte nei processi formativi, in sintonia
con il carattere museografico e l’indole disciplinare del museo. Per questo motivo si è ritenuto
indispensabile che i servizi didattici siano espletati da operatori professionalizzati con
know-how formativo radicato nell’ambito delle scienze paletnologiche, paleontologiche, preprotostoriche
e naturalistiche.
Le attività didattiche sono poi integrate da una serie di iniziative speciali rivolte al pubblico
adulto, principalmente nel campo dell’organizzazione di visite a tema, conferenze,
eventi culturali, che hanno luogo negli spazi del museo in orari speciali (festivi, serali, giorni
estivi ecc.) per favorire la divulgazione culturale e l’uso intelligente del tempo libero attraverso
modalità di “intrattenimento educativo”. Si tratta di eventi, che promuovono un
“uso” non occasionale, ma permanente, del museo, realizzati in cooperazione sinergica con
altre istituzioni culturali analoghe o attraverso collaborazioni esterne. Le iniziative di questo
tipo sono finalizzate ad ottenere il risultato di attirare o rinnovare l’attenzione verso il
museo e verso le tematiche del patrimonio culturale di coloro che ne sono i “naturali” eredi
e fruitori.
Una ulteriore proposta educativa che si realizza nel museo per la prima volta e che ha lo
scopo di assicurare un collegamento permanente con gli organi della scuola e con la prassi
dell’istruzione, finalizza il vissuto dei ragazzi e dei giovani nell’ambiente museale al raggiungimento
di più generali obiettivi di costruzione della personalità. Si tratta di attività laboratoriali
programmate che, debitamente attrezzate, consentono la sperimentazione, sotto
la guida di personale con competenze pedagogiche, di materiali e tecniche appartenenti alla
creatività tradizionale, tramite le quali si compie un accostamento diretto e personale ai
beni culturali. In particolare si vogliono sollecitare e sviluppare gli aspetti emozionali, creativi
e tattili attraverso attività individuali e collettive di manipolazione, brain storming, liberazione
dell’espressione artistica, prendendo naturalmente spunto dai temi e dalle suggestioni
del passato e della memoria storica. Per l’effettuazione del servizio è stata prevista nella
dotazione organica del museo la figura di un operatore con preparazione pedagogica ed
educativa, dotato di esperienza professionale in campo scolastico.

Come si già è detto, alla realizzazione di questo impegnativo progetto hanno dato il loro
sostegno numerosi enti ed organismi, con la loro indispensabile funzione di affiancamento
scientifico e finanziario. Fra questi un ruolo davvero importante è stato svolto dall’Istituto
Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna che da lungo tempo ha partecipato,
passo dopo passo, alle diverse fasi di lavoro, da un lato curando i piani di catalogazione
e restauro del patrimonio, dall’altro offrendo la sua esperienza operativa nell’ideazione
scientifica e nella messa a punto del progetto museografico. Il suo appoggio istituzionale,
inserendosi come tassello fondamentale nel lungo processo di rifondazione del museo, ha
permesso di proiettarne le performance e i servizi alla persona nel futuro. Che sarà – questo
è il nostro auspicio – un futuro di qualità.
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Il Museo Archeologico “L. Fantini” di Monterenzio:
un museo dalla doppia identità
Federica Guidi
Caterina Taglioni
Stefania Vellani
Museo Archeologico “L. Fantini” - Monterenzio (BO)
RIASSUNTO
La vicenda del Museo Archeologico “L. Fantini” di Monterenzio, in provincia di Bologna, è per alcuni
aspetti abbastanza particolare, anche nel ricco panorama museografico emiliano-romagnolo.
Nato nel 1983 come esposizione temporanea delle testimonianze archeologiche del territorio monterenziese,
il museo, nel 2000, grazie alla collaborazione e agli sforzi congiunti di Enti Locali, Soprintendenza
e Università di Bologna, ha trovato un’adeguata collocazione in una nuova sede museale, pensata
non solo come contenitore di oggetti (la principale raccolta di testimonianze della presenza celtica a sud
delle Alpi), ma come spazio per la ricerca scientifica e luogo di comunicazione e divulgazione.
Ed è proprio per valorizzare queste peculiarità che il Dipartimento di Archeologia dell’Università di
Bologna, da decenni impegnato nella ricerca archeologica a Monte Bibele, si è fatto promotore, insieme
al Comune di Monterenzio, di un’esperienza gestionale unica nel suo genere. È stata, infatti, firmata tra
Comune ed Università una convenzione che ha affidato, per cinque anni, la gestione del museo e dei suoi
spazi al Dipartimento di Archeologia, immediatamente impegnatosi in una serie di iniziative, che hanno
inteso dare il massimo grado di visibilità a questa istituzione importante ma penalizzata dalla sua collocazione
ancora ai margini dei grandi flussi del turismo culturale.
Da un lato sta proseguendo la ricerca archeologica, che ha portato alla scoperta di una seconda necropoli,
dall’altro vengono promosse di iniziative, tese a coinvolgere anche altri musei archeologici del territorio
provinciale per mettere in rete risorse e servizi.
SUMMARY
The vicissitudes of the Archaeological Museum of Monterenzio (Bologna) is quite particular from many points
of view.
Born as a temporary exhibition in 1983, regarding the archaeological documentation of the area between
the rivers Idice and Zena, the museum has been transferred in 2000 in a new dedicated space, thanks to the
collaboration and the efforts of several institutions. The new center is provided with wide spaces for scientific
research and didactics.
The Archaeology Department of Bologna University (engaged in the archaeological research in this territory)
together with the Municipality of Monterenzio promoted a managerial model unique in its kind. In fact,
for five years, an agreement, signed between Municipality and University, has entrusted the management of the
museum to the Archaeology Department, that immediately undertook scientific and cultural activities.
La vicenda del Museo Archeologico “L. Fantini” di Monterenzio, in provincia di Bologna,
è per alcuni aspetti abbastanza particolare, anche nel ricco panorama museografico emiliano-romagnolo.
Il museo, dedicato alla versatile figura di Luigi Fantini (1895-1978), profondo conoscitore
della storia dell’Appennino bolognese, nasce nel 1983 come esposizione temporanea

486 delle testimonianze archeologiche dell’area compresa tra le valli dell’Idice e dello Zena e in
particolare del villaggio etrusco-celtico di Monte Bibele. Si trattava, dunque, di uno dei tanti
musei del territorio, molto in voga negli anni ’80, e come tale documentava la storia della
presenza umana in questo settore appenninico, dalle sue attestazioni più antiche fino all’età
moderna 1 .
L’idea di fare un museo a Monterenzio era nata dallo stimolo delle importanti scoperte
che si andavano effettuando sul massiccio montuoso di Monte Bibele (fig. 1), alcuni km a
sud del capoluogo comunale, dove gli scavi condotti dal Dipartimento di Archeologia dell’Università
di Bologna avevano portato in luce i resti di un importante abitato di altura, attivo
tra gli inizi del IV e gli inizi del II secolo a.C. 2 .
Ed è stata proprio l’importanza dei materiali rinvenuti, che costituiscono una delle principali
raccolte di testimonianze della presenza celtica a sud delle Alpi 3, che ha fatto nascere
l’esigenza di un nuovo museo, non semplice contenitore di oggetti ma struttura polifunzionale
in cui fossero previsti spazi per la ricerca scientifica e la divulgazione.
Il museo, dal luglio del 2000, grazie alla collaborazione e agli sforzi congiunti di Enti
Locali, Soprintendenza e Università di Bologna, ha trovato finalmente un’adeguata collocazione
in una nuova sede.
Ed è proprio per valorizzare le potenzialità di questo museo che il Dipartimento di Archeologia
dell’Università di Bologna, da decenni impegnato nella ricerca archeologica a
Monte Bibele, si è fatto promotore, insieme al Comune di Monterenzio, di un’esperienza
gestionale unica nel suo genere. È stata, infatti, firmata tra Comune ed Università una con-
Fig. 1. Il massiccio di Monte Bibele. 1. Pianella di Monte Savino: abitato; 2. Monte Tamburino: necropoli; 3.
Monte Tamburino: stipe votiva; 4. Monte Bibele: area sacra.

venzione che ha affidato per cinque anni la gestione del museo e dei suoi spazi al Dipartimento
di Archeologia, che si è immediatamente impegnato in una serie di iniziative, tese a
dare il massimo di visibilità a questa istituzione importante, ma penalizzata dalla sua collocazione
ancora ai margini dei grandi flussi del turismo culturale.
La prima, peculiare, anima del museo è quindi quella universitaria. La convenzione messa
a punto in occasione dell’apertura della nuova sede del museo getta le basi, per la prima
volta nel panorama dei musei archeologici in Italia, per un concreto e innovativo modello
di gestione delle realtà museali. Grazie ad essa, infatti, non solo è possibile una più immediata
e tangibile collaborazione tra diverse istituzioni nell’ambito della ricerca e dell’offerta
culturale, ma anche dal punto di vista della formazione il museo diviene un’ottima palestra
per gli studenti universitari, venendo così incontro a quelle richieste di opportunità formative
che l’istituzione universitaria è tenuta a soddisfare.
Il Dipartimento di Archeologia, grazie alla gestione diretta del Museo, offre, infatti, ai
suoi studenti la possibilità di partecipare a seminari e stage che superano la consueta attività
legata al più tradizionale scavo-scuola, affiancandovi iniziative connesse al restauro, alla
schedatura e catalogazione e alla musealizzazione dei materiali archeologici, rendendo il più
completa possibile l’esperienza formativa dei futuri archeologi.
Accanto all’impegno didattico, l’Università non rinuncia all’altra sua prerogativa fondamentale
che è la promozione della ricerca scientifica: così, grazie alle specifiche competenze di
studiosi italiani e stranieri, è possibile che i materiali non solo siano oggetto di classificazione,
conservazione, studio preliminare ed esposizione al pubblico, ma anche di studio scientifico e
pubblicazione, inserendo a pieno diritto il museo di Monterenzio in un sistema di rapporti
culturali, che lo porta ben oltre la singola, per quanto fondamentale, realtà locale 4.
Non va comunque dimenticato che tra i compiti di un museo locale rientrano anche la
tutela e il controllo del territorio: questo si coniuga alla perfezione con gli obiettivi di ricerca
e formazione che l’Università promuove. All’abitato e alla necropoli di Monte Bibele,
si affiancano ora le recenti scoperte di Monterenzio Vecchio (fig. 2), dove è in corso di scavo
una ricca necropoli che documenta l’esistenza di un ulteriore insediamento etrusco-celtico
a controllo della valle dell’Idice 5 . I materiali della nuova necropoli trovano già il loro
posto in museo in una mostra temporanea, a dimostrazione che il museo non è assolutamente
un’entità statica, ma un luogo che può adattare e modificare la sua struttura espositiva
per accogliere nuovi rinvenimenti.
Il secondo settore su cui si sono concentrate le forze di chi opera all’interno del museo
riguarda la didattica, campo in cui, per altro, l’impegno del nostro museo è ormai quasi ventennale.
Fin dalla sua prima apertura il museo ha infatti organizzato un servizio di visite guidate
all’esposizione e all’area archeologica di Monte Bibele.
Il personale incaricato di questa attività di divulgazione, costituito dagli stessi giovani archeologi
impegnati nelle campagne di scavo condotte dall’Università di Bologna, garantiva
una didattica impostata sulle problematiche della ricerca e caratterizzata da un costante aggiornamento
scientifico.
Questo tipo di servizio ha incontrato il deciso favore dell’utenza, seppure con afflussi discontinui
dovuti anzitutto alla marginalità del nostro museo rispetto a circuiti turistici di
ampio respiro.
487

488
Fig. 2. Monterenzio Vecchio: la tomba 16 in corso di scavo.
Fig. 3. Veduta del museo: la ricostruzione di una capanna etrusco-celtica.

Secondo la moda del periodo si trattava di visite guidate di tipo tradizionale, in cui l’operatore-archeologo
illustrava i reperti, approfondendo temi, anche a richiesta del pubblico,
venendo così a completare e arricchire le informazioni, che il visitatore poteva comunque
reperire nei pannelli esplicativi, che supportavano l’allestimento museografico.
Nel periodo che va dal 1983 al 1990 il museo è stato visitato da più di 250 classi, per
un totale di circa 4500 studenti, in prevalenza alunni delle scuole elementari e medie inferiori
della provincia bolognese, con un’interessante percentuale di scuole di provenienza regionale
ed extraregionale.
Nel corso degli anni ’90, tutte le risorse e le energie del museo sono state impegnate nel
grande progetto di costruzione e allestimento della nuova struttura.
Nella nuova sede museale l’esposizione, enormemente arricchita per quantità e qualità
dei materiali archeologici, è stata affiancata dalla ricostruzione, a grandezza naturale, di una
delle capanne dell’abitato di Monte Bibele, arredata con oggetti autentici e in riproduzione,
che permettono di illustrare i diversi usi e costumi degli abitanti del villaggio (fig. 3).
Il nuovo museo dispone inoltre di spazi dedicati esclusivamente alla divulgazione. Si
è quindi potuto destinare un’ala del piano superiore all’allestimento di un’Aula didattica,
che in ventidue mesi dalla sua inaugurazione è stata visitata da 69 classi, per un totale di
circa 1500 studenti, che rappresentano quasi il 40% dei visitatori del museo nel 2001-
2002.
La disponibilità di spazi opportunamente allestiti e la fiducia di tutti gli operatori in questo
progetto, hanno permesso di rinnovare e ampliare l’offerta didattica 6 , affiancando alle
tradizionali, ma sempre richieste, visite guidate proposte più innovative ed efficaci, adeguate
alla fascia d’età degli studenti e al loro livello di conoscenze.
I percorsi storici, attraverso la manipolazione di materiali archeologici originali o riprodotti
in copia, consentono di analizzare gli aspetti salienti delle civiltà che si sono succedute
nel territorio bolognese dalla Preistoria all’epoca romana e per mezzo di divertenti giochitest
permettono di verificare il grado di comprensione delle nozioni apprese durante l’incontro
in aula didattica.
Gli approfondimenti tematici sono stati pensati per stimolare l’interesse dei ragazzi, che,
partendo dall’osservazione di un singolo oggetto (ad es. un bracciale di vetro) o di un determinato
aspetto delle antiche civiltà (ad es. il rituale funerario), arrivano, guidati dall’operatore,
a ricostruire il quadro d’insieme della tematica presa in esame.
Nei laboratori è prevista invece una partecipazione attiva dei ragazzi, che, dopo aver appreso
le principali tecniche produttive in uso nell’antichità, possono ricreare con le proprie
mani contenitori ceramici o piccoli oggetti in metallo e utilizzare il telaio per imparare l’arte
della tessitura.
Accanto a queste proposte, rivolte in particolare alle scuole elementari e medie dell’area
provinciale e regionale, è stato elaborato un progetto specifico per coinvolgere le scuole del
territorio comunale di Monterenzio, che, data la loro vicinanza al museo, potevano, senza
impegni onerosi per il trasporto, ripetere durante l’anno scolastico le visite in aula didattica,
armonizzandole con lo sviluppo del programma di storia.
Il progetto “La storia in museo” è stato, infatti, pensato per gli alunni di III elementare,
che per la prima volta si trovano ad affrontare, in modo sistematico, lo studio della
storia; si articola in quattro incontri, della durata di un’ora circa, che sfruttano i percor-
489

490
si storici già attivati presso la nostra aula didattica, e si propone come momento di approfondimento
e verifica “giocosa” dei contenuti appresi in classe utilizzando il tradizionale
libro di testo.
Al di là del suo utilizzo all’interno del programma scolastico, il progetto è stato fortemente
voluto dagli operatori didattici per consolidare il ruolo e la presenza sul territorio del
museo, spesso vissuto dalla comunità locale come un corpo estraneo.
Si è voluto incominciare ad abituare i ragazzi a considerare il museo un luogo in cui è
possibile apprendere anche attraverso il gioco ed in cui è possibile ritornare, magari accompagnati
dai propri genitori. Durante il periodo estivo, abbiamo potuto constatare un pic-
Fig. 4. Il pieghevole realizzato in
occasione del convegno sulla didattica.

colo ma incoraggiante incremento del pubblico adulto locale, stimolato a visitare il museo
dall’interesse e dai racconti dei propri figli coinvolti nel progetto “La storia in museo”.
Visti i positivi riscontri che questa proposta ha ricevuto presso gli insegnanti coinvolti,
che hanno potuto valutare l’efficacia degli incontri in museo vissuti con molto entusiasmo
dai ragazzi, per il nuovo anno scolastico si è pensato di estendere questo tipo di offerta anche
alle scuole dei comuni limitrofi.
È stata, inoltre, coinvolta la scuola media di Monterenzio ed, in particolare, le classi prime,
con una serie di incontri di contenuto storico, dedicati alla civiltà etrusca e a quella celtica,
cui si affianca un approfondimento relativo al mito, concepito come integrazione al
programma di epica classica svolto dall’insegnante di Lettere. Lo scopo è quello di educare
i ragazzi all’utilizzo integrato di fonti di diversa natura, accompagnandoli nella lettura di
quei documenti figurati, quali ceramiche, monete o specchi, che possono integrare le testimonianze
scritte relative ai miti.
Ma un museo non è formato solo da sale e laboratori, anche lo spazio esterno può entrare
a far parte della dimensione didattico-divulgativa: infatti, nell’ambito del riassetto dell’area
esterna al museo, in collaborazione con il Comune di Monterenzio, è stato elaborato
un progetto di area archeologica sperimentale all’aperto, in cui sarà possibile riproporre le
antiche tecniche metallurgiche e ceramiche e, inoltre, simulare lo scavo di alcune sepolture,
esemplificative dei riti funerari in uso presso gli antichi abitanti di Monte Bibele.
Punto d’incontro tra le due anime del museo, quella più propriamente scientifica e quella
didattica, è stato il convegno tenutosi nel novembre 2001 dal titolo L’immaginazione è un
tappeto magico. Aule e laboratori didattici nei musei archeologici dell’Emilia-Romagna: esperienze
a confronto 7, che ha permesso di paragonare le numerose esperienze maturate negli
ultimi anni nel campo della didattica dai musei archeologici della nostra regione (fig. 4).
La risposta più che positiva ottenuta da questo tipo di iniziativa, che oltre al punto di
vista degli operatori didattici dei musei, dei responsabili istituzionali e scientifici, ha dato
voce ai bisogni e alle aspettative del mondo della scuola, testimonia, anche per un piccolo
museo locale, la validità della “duplice missione” di ogni museo, in cui la ricerca scientifica
supporta e alimenta una divulgazione corretta e stimolante.
Desideriamo ringraziare Daniele Vitali, Direttore del Museo Archeologico “L. Fantini” di Monterenzio,
per averci aiutato a credere nelle potenzialità di questo museo.
1 Sulla storia del territorio del Comune
di Monterenzio e sul primo
allestimento del museo si vedano
Vitali 1983 e Morrone 1989.
2 Sull’insediamento si veda, da ultimo,
Dore et Alii 2000 e la bibliografia
ivi citata.
3 Una preliminare comunicazione
delle scoperte di Monte Bibele è
stata fatta in occasione del convegno
Celti ed Etruschi nell’Italia cen-
tro-settentrionale dal V sec. a.C. alla
romanizzazione (Vitali 1987); i
materiali sono stati presentati per la
prima volta all’attenzione del grande
pubblico nel 1991, nella fortunata
mostra dedicata ai Celti tenutasi
a Palazzo Grassi (Vitali 1991).
Sulle necropoli si veda Vitali 2003.
4 Si può ricordare a questo proposito
il Convegno internazionale tenutosi
nel novembre del 2002 a
Ravenna e Monterenzio, dal titolo
“Animali tra Uomini e Dei. Archeozoologia
del mondo preromano”, in
cui numerosi interventi di studiosi
italiani e stranieri hanno consentito
di fare luce sul ruolo degli animali
nelle società antiche.
5 Sugli scavi, diretti dal Dipartimento
di Archeologia dell’Università
di Bologna in collaborazione
con il CNRS-ENS di Parigi e l’E-
491

492
cole Française di Roma, si vedano
Dore et Alii 2000, p. 42 e Vitali
2002.
6 Per una illustrazione più esausti-
Bibliografia
A. Dore et Alii 2000, Guida al Museo
Archeologico di Monterenzio
“Luigi Fantini”. Archeologia e storia
delle Valli dell’Idice e dello Zena,
Bologna.
F. Guidi et Alii 2003, Se ascolto dimentico,
se vedo ricordo, se faccio capisco,
in L’immaginazione è un tappeto
magico. Aule e laboratori didattici
nei musei archeologici dell’Emilia
Romagna: esperienze a confronto,
Atti del convegno, Bologna.
va del progetto di allestimento dell’aula
didattica e una presentazione
dei percorsi didattici si rimanda a
Guidi et Alii 2003.
V. Morrone 1989, Guida al Museo
“L. Fantini” di Monterenzio e all’area
archeologica di Monte Bibele,
Bologna.
D.Vitali (a cura di) 1983, Monterenzio
e la Valle dell’Idice. Archeologia
e storia di un territorio, Bologna.
D. Vitali 1987, Monte Bibele tra
Etruschi e Celti: Dati archeologici e
interpretazione storica, in Celti ed
Etruschi nell’Italia centro-setten-
7 Gli atti del convegno, realizzati
grazie al contributo della Provincia
di Bologna, sono stati pubblicati
nel 2003.
trionale dal V sec. a.C. alla romanizzazione,
Atti del Colloquio Internazionale,
Imola, pp. 309-
380.
D. Vitali 1991, Abitato e necropoli
di Monte Bibele, in I Celti,
c.d.m., Venezia, pp. 288-289.
D. Vitali 2002, Celti d’Appennino,
in “Archeo”, 202, pp. 40-47.
D. Vitali (a cura di) 2003, La necropoli
di Monte Tamburino a
Monte Bibele, Firenze.

In cammino verso il Museo Archeologico:
esperienze e attività a Rimini dal 1980
Pier Luigi Foschi
Musei Comunali - Rimini
RIASSUNTO
Il progetto “Musei Proposte ’80”, una vetrina di idee per la nuova sede museale nell’ex Collegio dei Gesuiti,
acquisito nel 1979, ha aperto una lunga stagione di studi e di sperimentazioni sulla sezione archeologica,
relegata, dal Dopoguerra, nel buio dei depositi. Il volume “Analisi di Rimini antica. Storia e archeologia
per un Museo” (1980), presentava uno spaccato, anche inedito, della realtà archeologica riminese,
offrendo “letture” complementari grazie al sodalizio fra studiosi di Enti diversi.
Soltanto oggi, con il restauro degli spazi espositivi, è stato possibile avviare l’allestimento: tuttavia
operosa e vivace è stata l’attività che ha tenuto desto l’interesse verso un patrimonio ricco e originale.
Tante volte in questi anni, i riflettori si sono accesi su particolari contesti e tematiche; il mondo accademico
è stato sollecitato da convegni, anche internazionali, articoli e volumi sull’archeologia riminese,
la cittadinanza resa partecipe di studi e scoperte con mostre e conferenze che hanno coinvolto anche
un pubblico forestiero e interessato la stampa nazionale. È verso la scuola che il museo ha profuso tuttavia
il maggior impegno attraverso vari strumenti che hanno consentito di instaurare un rapporto sempre
più solido per la crescita culturale delle nuove generazioni.
SUMMARY
The “’80 Museum Proposals” project is a showcase of ideas for the new Museum venue in the former Jesuits College
in Rimini, which was acquired in 1979. It has given rise to a long series of studies and research works on
the archaeological section, which has long been forgotten in the dust of the museum warehouses since the postwar
period. The book “Analysis of ancient Rimini: the history and archaeology of a museum” (1980), provided
a novel overview of the Rimini archaeological situation, from different points of view, thanks to the contribution
by different bodies.
Upon the completion of the restoration of the exhibition premises, it has finally been possible to set up the
exhibition. Several efforts have been made over the past few years to keep the interest alive in this rich and original
heritage.
Furthermore, many initiatives have been undertaken to focus on specific issues. National and international
meetings have been organised, articles and books have been published on the Rimini archaeology
addressed to the academic world. Exhibitions and conferences have been organised, articles have been
published in the national press to share the findings of studies and discoveries with the public at large,
both locally, nationally and internationally. Special events have also been organised for the schools. Different
tools have been used to establish and strengthen relationships with younger generations to foster
their cultural growth.
Crediamo che la nascita (o la rinascita) di un Museo Archeologico sia l’esperienza culturale
più complessa, ma anche più emozionante, che possa capitare ad una città. Quando l’operazione
è condotta da un istituto museale già funzionante, essa si sovrappone, convive e
qualche volta interferisce con l’attività, che non è mai ordinaria, del Museo stesso.

494 Gli addetti ai lavori sanno bene, infatti, che ogni iniziativa di conservazione, valorizzazione
o promozione si configura come un progetto che ha una propria “linea” organizzativa
e che difficilmente può essere ascritto tra le attività “ordinarie”.
L’impresa diventa quasi proibitiva quando il futuro Museo Archeologico non è solo frutto
di raccolte organiche storicizzate, ma è legato ad un territorio, che è materia viva in evoluzione
continua, e che si arricchisce quotidianamente a seguito di nuovi rinvenimenti (il più
delle volte legati a lavori edili). Occorre la pazienza e la tenacia dello scalatore che sa bene che
quando raggiunge una cima, spesso in quel momento scopre una cima ancor più alta.
Rimini, in verità, un Museo Archeologico lo aveva già dal 1872, allestito presso la Biblioteca
comunale per opera dello studioso locale Luigi Tonini.
Successivamente, i reperti vennero trasferiti nella prestigiosa sede dell’ex convento di
S. Francesco, adiacente al Tempio Malatestiano. La Pinacoteca venne inaugurata nel 1931,
la sezione Archeologica nel 1932 e la sezione Medievale nel 1938. Una fotografia (fig. 1),
eseguita in quegli anni, ci mostra una sala del Museo ricavata dalla chiusura di parte del
chiostro del convento di S. Francesco.
Purtroppo la città ebbe la sventura di divenire caposaldo della “linea gotica” durante l’ultimo
conflitto mondiale, per cui dovette subire ben 373 bombardamenti aerei e 15 navali.
Il 98 per cento dei fabbricati venne distrutto o danneggiato; la stessa sede del Museo fu distrutta
nell’incursione del 28 dicembre del 1943 (fig. 2). Fortunatamente la maggior parte
dei reperti era stata messa in salvo in luogo sicuro!
Fig. 1. Museo Archeologico di Rimini nell’allestimento del 1932.

Fig. 2. Il Museo dopo i bombardamenti
del 1943.
Fig. 3. Il Museo attuale nell’ex Collegio
dei Gesuiti.
495

496
Del Dopoguerra a Rimini e della ricostruzione si è detto di tutto, e non si può certo dire
che il problema del dotare il Museo di una nuova sede fosse in cima alle priorità delle varie
amministrazioni comunali che si sono succedute nei decenni passati.
Tuttavia, nella sventura, di positivo si registra il fatto che durante le numerosissime sostituzioni
edilizie, avvenute nel centro storico, è emersa un’infinità di reperti archeologici
anche di grande importanza. Si pensi solo ai numerosissimi e mirabili mosaici di età imperiale,
che sono un segno tangibile dell’opulenza e della centralità strategica ed economica
raggiunta dalla Rimini romana.
Dopo infinite discussioni (a Rimini non mancano mai!), finalmente nel 1979 l’Amministrazione
Comunale acquistò, per farne sede dei Musei Comunali, il complesso ospedaliero
resosi libero dopo il trasferimento del nosocomio in un luogo più idoneo e funzionale.
Il complesso edilizio interessava un intero isolato nel centro della Città e comprendeva
anche il settecentesco ex Collegio dei Gesuiti (fig. 3).
Per merito della allora direttrice del Museo, dott.ssa Andreina Tripponi, si iniziò un
complesso ed ambizioso progetto che, per la parte archeologica, vedeva protagonista e coordinatore
di un folto gruppo di studiosi il compianto prof. Giancarlo Susini.
Il prezioso lavoro scientifico sortì in un complesso sistema progettuale che venne divulgato
sotto il titolo di “Musei proposte ’80” ed in una serie di pubblicazioni di carattere specialistico
relativa al patrimonio museale riminese. La prima di queste riguarda il settore naturalistico
e paleontologico; curato nel maggio del 1980 dal prof. Bruno Sabelli, porta un titolo che
è tutto un programma: “Ipotesi di un progetto per la sezione Naturalistica del Museo Civico”.
Appena un mese dopo uscì la prima sintesi organica sull’archeologia riminese: “Analisi
di Rimini Antica”. Una ponderosa e organica pubblicazione curata dallo stesso Susini che
ancora oggi, a distanza di ventidue anni, rimane uno dei più validi riferimenti per l’archeologia
di Rimini.
Non ci si limitò però alle sole pubblicazioni, si lavorò intensamente per dare anticipazioni
al pubblico su quelle che sarebbero state le future sezioni archeologiche. Nel 1981 si
aprì al pubblico il Lapidario Romano, allestito dal prof. Susini nel chiostro dell’ex Collegio
dei Gesuiti. Ancora oggi il Lapidario è parte organica dell’impianto espositivo del “Museo
della Città” (fig. 4).
Nel 1982 chi scrive è stato incaricato di redigere il progetto generale del Museo di Rimini,
approvato dall’Amministrazione l’anno successivo e appaltato per stralci mano a mano che venivano
reperite le risorse finanziarie. Una prima ala del Museo venne inaugurata e aperta al
pubblico nel luglio del 1990 e comprendeva le sezioni dedicate al Cinquecento, al Settecento
e all’Ottocento.
Al completamento dei lavori di restauro di una seconda ala dell’edificio, nel 1994, si aprì
al pubblico anche la sezione dedicata al Seicento, mentre nel 1998 si inaugurarono le sezioni
del Duecento, del Trecento e del Quattrocento.
Oggi si presentano al pubblico tutte le opere dall’anno Mille all’Ottocento. L’apertura
delle sezioni dilazionata nel tempo, in realtà risponde alle esigenze organizzative di cantiere,
ma tuttavia si inquadra in un disegno strategico generale organico e coerente, che troverà
la sua logica consequenzialità al completamento di tutte le sezioni del Museo.
Come si accennava prima, non era possibile lasciare passare tanti anni limitandosi ad un
lavoro preparatorio, sia pur prezioso, nel chiuso dei nostri laboratori, per cui abbiamo rite-

Fig. 4. Il Lapidario romano.
nuto fondamentale sensibilizzare soprattutto la cittadinanza riminese sull’importanza del
nostro patrimonio archeologico. Ritenevamo importante attivare quel clima di curiosità e
di attesa che in realtà costituiva il terreno fertile indispensabile a preparare la Città al grande,
e sospirato, momento della “riapertura” del Museo Archeologico.
Sono state create innumerevoli occasioni per comunicare con il pubblico: cicli di conferenze,
convegni nazionali ed internazionali, articoli e saggi su periodici e quotidiani sia specialistici
sia di larga diffusione. Mentre si sviluppavano specifici temi di ricerca si usciva con delle apposite
pubblicazioni o con iniziative con finalità divulgative. Ricordiamo alcuni titoli: “Lucerne
romane nel Museo di Rimini” (1984), “Covignano: ricerche sul Territorio” (1984), “Il ripostiglio
di Poggio Berni” (1984), “Con la terra e con il fuoco. Produzione fittile riminese in epoca
romana” (1993), “Alle origini della Storia. Il Paleolitico di Covignano” (1996).
Nei casi più importanti e fortunati si è riusciti ad allestire delle mostre tematiche che
hanno riscosso notevole successo. Esse erano occasione per mostrare reperti, totalmente sconosciuti
al grande pubblico, organizzati attorno ad un tema specifico anche con l’ausilio del
relativo catalogo. A complemento della mostra, oltre alla pubblicazione del catalogo, si proponeva
sempre un ciclo di incontri pubblici, tenuti da noti studiosi, per integrare la conoscenza
sull’argomento trattato.
Citiamo solo alcune di queste mostre tematiche riguardanti l’Archeologia riminese: “La
stanza del Chirurgo” primi risultati di una ricerca archeologica sulla domus di piazza Ferrari
(1991), “Una cartolina da Ariminum” sul famoso mosaico delle barche da palazzo Diotallevi
(1993).
In altri casi il tema si è sviluppato attorno ad un monumento, sottolineando l’intima
connessione e le relazioni strettissime che esistono tra l’Archeologia nel Museo e quella ri-
497

498 scontrabile nel Territorio. È questo il caso della mostra “Alla scoperta dell’Anfiteatro Romano”
(1999), ove la struttura riminese è divenuta occasione anche per raccontare squarci
di vita tra spettacolo e divertimento in età antica (fig. 5). La mostra è stata completata anche
con una sezione dedicata alla fortuna degli spettacoli gladiatori nel cinema; inoltre, con
grandissimo successo di pubblico, si è organizzato anche uno spettacolo di combattimento,
con il gruppo “Ars dimicandi”, specializzato in archeologia sperimentale.
In altre occasioni si sono affrontati i temi del trascendente nella vita quotidiana, come per
il caso, nel 2000, di “Rimini divina” (figg. 6-7), ove peraltro si è ricomposto per la prima volta
il nucleo votivo di Villa Ruffi, disseminato da oltre un secolo in diversi musei dell’Europa.
Nel caso della mostra relativa all’Arco di Augusto, allestita nel 1998, l’occasione è stata
offerta dal completamento dei lavori di restauro del Monumento, sicuramente il più noto
della Rimini romana. Si sono condotti approfondimenti sui significati simbolici, rituali,
strategici e urbanistici, la fortuna iconografica e le citazioni formali attraverso i secoli. Il restauro
ha rappresentato anche un’opportunità per conoscere maggiormente l’Arco sotto il
profilo strutturale e stratigrafico, si sono verificate ipotesi sull’assetto originale e riscontrate
tracce sui materiali di finitura. Tutto questo è stato esposto in mostra e pubblicato nel catalogo
(fig. 8), comprese le “carote” che dimostravano la complessità strutturale del nucleo
portante. Naturalmente si sono anche documentate le immagini dei passaggi tra il prima e
il dopo “la cura” (fig. 9).
Tra le innumerevoli iniziative che hanno riguardato l’Archeologia, è gradito ricordare una
simpatica esperienza condotta recentemente: un ciclo di incontri sull’alimentazione, dal titolo
“Ad Mensam”, dalla Preistoria all’Ottocento (passando anche per la piadina romagnola),
Fig. 5. Ipotesi sulla struttura dell’Anfiteatro di Rimini.

Fig. 6. Copertina della pubblicazione in occasione
della mostra sui culti dell’antica Rimini.
che ha ottenuto un grandissimo successo con
centinaia di partecipanti. All’ultimo incontro,
al termine della conferenza, sono stati
offerti un saggio di musiche antiche tipiche
dell’accompagnamento delle cene importanti
e, in collaborazione con l’Istituto Alberghiero,
un buffet con esemplificazioni e assaggi
di ricette antiche. È inutile dire che il
successo è stato strepitoso, con soddisfazione
anche degli sponsor (queste sono iniziative
che si possono realizzare anche a costi zero).
Un altro filone estremamente ricco è
quello relativo alla didattica. Da oltre
vent’anni il Museo collabora con il mondo
della scuola, proponendo lezioni tematiche
sull’Archeologia locale e generale, attivando
laboratori, realizzando diverse pubblicazioni,
schede didattiche, audiovisivi e CD-
ROM appositamente per i ragazzi.
Da molti anni, ogni autunno, vengono
organizzati dei seguitissimi corsi di aggior-
Fig. 7. Divinità matronale da Covignano.
Fig. 8. Pubblicazione in occasione della mostra sull’Arco
di Augusto.
499

500
Fig. 9. L’Arco prima e dopo
i restauri.
namento per gli insegnanti. L’apprezzamento per le nostre iniziative ha avuto anche un riscontro
formale con l’inserimento del Museo di Rimini tra gli Enti di Formazione ufficialmente
riconosciuti dal Ministero della Pubblica Istruzione. Il forte impegno del Museo nei
confronti della Didattica in realtà si è rivelato un grosso investimento che ci ha premiati anche
in termini di presenze di visitatori.
Di recente, da parte dell’Amministrazione Comunale, sono state reperite le risorse per
completare il restauro dell’edificio, e sono stati appaltati i lavori, mentre lo Stato, tramite la
Soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna, partecipa finanziando i lavori di allestimento
degli spazi. L’Amministrazione Comunale ha affidato il compito di coordinare
l’ordinamento scientifico della sezione Archeologica al prof. Lorenzo Braccesi dell’Università
di Padova. Di recente si è aperto al pubblico un primo lotto, quello dedicato alla Rimini
tra il II ed il III secolo d.C., mentre occorrerà ancora qualche anno per vedere a Rimini
l’intera sezione Archeologica presentata organicamente.
Non vi sono dubbi sul fatto che i nostri sacrifici saranno premiati e che le attese della
Città saranno ampiamente soddisfatte!

I musei archeologici del Sistema Museale Senese
Gianni Resti
Assessorato alla Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Cultura
Provincia di Siena
RIASSUNTO
Il Sistema Museale Senese, realizzato con il coordinamento dell’Assessorato provinciale ai Beni Culturali,
con l’obiettivo di tutelare e valorizzare un insieme davvero cospicuo di istituzioni museali dalla variegata
fisionomia, conta venticinque entità che si integrano, tra l’altro, con un cospicuo numero di testimonianze
monumentali costituendo un vero e proprio sistema territoriale.
Le riflessioni in atto su questo sistema riguardano da un lato la forma gestionale da conferire per favorire
l’incontro e la collaborazione fra soggetti istituzionali diversi, pubblici e privati, dall’altro attengono gli
aspetti della comunicazione e della promozione dell’organismo nel suo complesso per favorire unitariamente,
attraverso strumenti e sussidi comuni, la fruizione di un territorio, della sua storia e della sua cultura.
SUMMARY
The Siena Museum System includes twenty-five fully integrated units as well as a whole set of monuments. It
has been set up under the co-ordination of the provincial Department of the Cultural Heritage, with the objective
to protect and promote a large number of different kinds of museums.
Actions have been undertaken from a management point of view to promote the encounter and collaboration
between different public and private institutions, and in terms of promotion and communication of the
whole body to enhance the local community, history and culture, through a whole set of combined efforts.
Il Sistema Museale Senese è un sistema territoriale composto da 22 musei differenziati per
contenuto e per struttura, la cui realizzazione ha avuto inizio verso la fine degli anni Ottanta.
La costruzione della rete dei musei senesi è stata possibile grazie alla utilizzazione di
consistenti risorse finanziarie provenienti dalla Comunità Europea, dalla Regione Toscana,
dalla Provincia di Siena abbinate a risorse di carattere straordinario. È stato dato vita ad un
mosaico composto da molte tessere: musei storico-artistici, sulla civiltà contadina, musei archeologici
e storico-scientifici e, in proiezione futura, musei che si occuperanno di arte contemporanea.
Il sistema museale è nato dall’esigenza di offrire una risposta culturale e istituzionale a
due questioni importanti: la tutela e la valorizzazione del grande patrimonio culturale senese
e la possibilità di valorizzare e rendere fruibile questo straordinario insieme di testimonianze.
L’“Anno degli Etruschi”, che ha visto nel 1985 come teatro il territorio toscano, è
stato forse il primo passo di un lungo percorso che dalla disponibilità iniziale di 40 milioni
di vecchie lire l’Assessorato provinciale può oggi contare un investimento superiore a 65 miliardi.
Con tali fondi è stato possibile creare sedi museali e ristrutturare edifici di alto valore
storico-architettonico che caratterizzano oggi alcuni luoghi del territorio senese turisticamente
e culturalmente di primissimo piano (San Gimignano, Pienza, Montalcino, il Chianti,
la Val D’Orcia, le Crete Senesi, l’Amiata).

502 Questa è la cornice storico-paesaggistica del Sistema Museale Senese. I musei storico-artistici
sono musei tradizionalmente intesi e hanno come punto di forza le collezioni di beni
che sono stati recuperati in buona parte anche dai magazzini delle Soprintendenze.
Quanto ai beni archeologici, essi costituiscono una parte importante del sistema museale,
ubicandosi prevalente nel sud della provincia, in siti storicamente rilevanti come Sarteano,
Chianciano, Chiusi, Cetona. Le mostre sugli Etruschi tenutesi alcuni anni fa a Venezia e a
Bologna sono state un’eccellente carta di presentazione. Del resto, la ricchezza del sottosuolo
di Chiusi e di Chianciano, pone costantemente la necessità di continui aggiornamenti
museografici che interessano in primo luogo proprio i musei archeologici. Fondamentale a
questo proposito è il rapporto di collaborazione che si è instaurato con la Soprintendenza
archeologica regionale e con i gruppi archeologici presenti nel territorio senese, la cui opera
ha fornito permanenti e fecondi risultati.
In questo stesso volume Pietro Clemente sottolinea alcuni aspetti museografici relativi ai
musei di cultura e civiltà contadina: tali strutture espositive rappresentano una componente
importante del sistema museale dal punto di vista dell’identità, delle radici storiche, della
cultura nel nostro territorio. Per queste realtà si è cercato di trovare un punto di equilibrio
tra l’esposizione dei reperti e la necessità di dotazioni tecnologiche, indispensabili a favorire
nelle giovani generazioni l’approccio e il recupero della memoria storica, che è poi
quella della cultura contadina toscana e in particolare della provincia senese, intorno agli anni
Sessanta.
L’occasione del convegno di cui questo volume raccoglie gli Atti, ha permesso anche di
fare il punto su un altro aspetto di primaria importanza, cioè la gestione museale all’interno
di un sistema che in futuro riunirà complessivamente 25 musei. Entro il 2004 è infatti
prevista l’inaugurazione di una serie di musei diversificati; cioè rappresenta da un lato un
elemento di forza dal punto di vista della riflessione, dall’altro costituisce anche un elemento
di debolezza in quanto tutto ciò ha bisogno di una regia comune, di un coordinamento istituzionale
fra l’Assessorato Provinciale ai Beni Culturali ed i Comuni del territorio senese.
Oramai era necessario e indispensabile costruire uno strumento di gestione complessivo del
sistema museale senese. Dopo due anni di lavoro faticoso, in ragione della necessità di mettere
insieme molti soggetti istituzionali (Università, Provincia, Comune di Siena), dal momento
che il Sistema Museale Senese ha la pretesa e la volontà di unire il grande patrimonio
cittadino con il patrimonio diffuso nel territorio, è stato finalmente messo a punto lo
strumento di gestione del sistema, che è stato individuato nello strumento giuridico della
fondazione di partecipazione.
Lo strumento giuridico proposto permette l’incontro fra soggetti istituzionali pubblici e
soggetti privati, garantendo un’integrazione di risorse e un’interazione di carattere anche
culturale fondamentale per collegare in una logica di rete i 25 musei che costituiscono il Sistema
Museale Senese. Quanto alla fondazione, non si tratta di nulla di nuovo. Basti pensare
che per costruire la splendida cattedrale del Duomo i cittadini di Siena di alcuni secoli
fa studiarono un percorso tipico della fondazione di partecipazione, prevedendo appunto
il ricorso a fondi pubblici e privati. Tale scelta, comunque moderna dal punto di vista giuridico-istituzionale,
consentirà di governare il territorio e consolidare una regia comune per
i musei e beni culturali su tre livelli: il primo attiene la comunicazione, questione cruciale
che non solo riguarda la informatizzazione interna ed esterna del sistema museale, ma in-

terseca una serie di problematiche significative che vanno dallo sviluppo sostenibile, all’ambiente
e al paesaggio, dall’economia, al turismo. Il secondo è relativo all’organizzazione in
termini di rete, sia sotto il profilo della pianificazione progettuale che su quello dell’ottimizzazione
delle risorse umane; il terzo aspetto forse il più importante, tocca il tema della
promozione del Sistema Museale Senese, non per singoli organismi museali, ma come entità
complessiva, con lo scopo di illustrare e promuovere unitariamente un territorio, la sua
cultura, la sua cifra storica e sociale.
Cosa riserva il futuro al sistema museale? Innanzitutto un generale processo di miglioramento
che ha i suoi punti di forza negli standard museali, nella formazione del personale, nella
qualificazione dell’offerta a cominciare dal merchandising e da tutte quelle occasioni di imprenditorialità
culturale che devono trovare legittimamente posto nella gestione dei musei.
In conclusione voglio ricordare che tutto ciò che è stato sinteticamente descritto è visibile
nel web-site dell’Amministrazione Provinciale di Siena. Il Sistema Museale Senese dispone,
oltre che di tutte le guide dei musei, di una serie di quaderni di documentazione, oggetti
preziosi di memoria utile per le molte iniziative collaterali che sono state organizzate
nel tempo all’interno dei musei con l’intento di trasformarli da contenitori d’opere d’arte e
di beni culturali in spazi di attività culturale permanente e continua.
503

La Carta dei Musei della Provincia di Roma
Bruna Amendolea
Laura Indrio
Provincia di Roma - Servizio Tutela e valorizzazione dei Beni Culturali
Unità organizzative Beni Archeologici e Beni Storico-Artistici
RIASSUNTO
La Carta dei Musei della Provincia di Roma è stata realizzata nell’ambito delle attività del Servizio per le
istituzioni museali del territorio provinciale. Grazie ad una banca-dati appositamente costituita le informazioni
relative alle strutture museali vengono costantemente aggiornate e rese parzialmente consultabili
anche attraverso il sito web della Provincia di Roma.
SUMMARY
The Map of Museums has been drafted by the Province of Rome in the framework of the initiatives undertaken
by the Service responsible for museum institutions at a provincial level. A specific database has been set
up to store all the information concerning museums, which is constantly updated, whose data is partially accessible
also through the web site of the Province of Rome.
La Carta dei Musei della Provincia di Roma è scaturita dall’attività del Servizio per le istituzioni
museali del territorio provinciale ed è stata realizzata congiuntamente dalle due Unità
Organizzative.
Tale attività si è notevolmente potenziata sia a seguito della legge del 1990 che ha attribuito
alle Province competenze in materia di valorizzazione dei beni culturali sia soprattutto
in virtù della legge della Regione Lazio del 1997 che ha delegato loro un ruolo fondamentale
nel processo di programmazione, coordinamento e gestione delle risorse regionali
per i musei civici e di interesse locale nonché la formazione del relativo personale.
Un archivio informatizzato appositamente creato e gestito dalle due Unità, contenente i
dati relativi a ciascun museo, permette di attuare un costante monitoraggio e di ampliare,
anche attraverso sopralluoghi, la conoscenza delle strutture. Tali dati, parzialmente confluiti
nel sito web della Provincia di Roma (www.provincia.roma.it) e sulla base dei quali è in
corso di realizzazione un Opuscolo divulgativo – mentre a un Bollettino di informazione
scientifica, di prossima pubblicazione, si demanderà il compito dell’aggiornamento su situazioni
e problematiche – hanno permesso di elaborare la Carta in questione.
Vi sono raccolti e posizionati, sotto i relativi Comuni di appartenenza territoriale, 77 dei
120 musei statali, civici, ecclesiastici e privati individuati, escluso il Comune di Roma, nell’area
della Provincia: 32 archeologici, 13 storico-artistici, 15 demoetnoantropologici, 1 etnomusicologico,
5 naturalistici, 3 scientifici, 8 storici.
La scelta è stata determinata dal criterio della fruibilità: si sono inseriti i musei aperti e
visitabili, anche su richiesta, e quelli temporaneamente chiusi o di nuova istituzione ma con
apertura prevista a breve scadenza. Vengono forniti indirizzi, orari di apertura, riferimenti telefonici,
siti web e informazioni – caratterizzate da appositi simboli – riguardanti tipologie e

configurazione giuridica, accessibilità ai disabili, presenza di biblioteca, mediateca, archivi storici
e fotografici e fornitura di servizi, quali attività didattiche, visite guidate, book-shop e punto
di ristoro.
Nel 2003 l’Amministrazione Provinciale, in sostituzione della Carta e al posto dell’Opuscolo,
ha pubblicato una Guida ai musei della Provincia di Roma. La guida contiene 88 musei, di cui 49
civici, 13 statali, 1 della Città del Vaticano, 9 ecclesiastici, 1 regionale, 1 a partecipazione mista
pubblico-privata, 14 privati. I musei sono tipologicamente così divisi: 34 archeologici, 16 demoetnoantropologici,
13 storico-artistici, 10 naturalistici, 7 storici, 5 scientifici, 2 musicologici e
1 etnografico.
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Dal sito al museo. Percorsi fisico-mentali
di museologia archeologica.
Il caso particolare dell’arte rupestre
Dario Seglie
IFRAO-UNESCO - Politecnico di Torino
CeSMAP, Centro Studi e Museo d’Arte Preistorica - Pinerolo (TO)
RIASSUNTO
L’intervento tratta le seguenti tematiche:
– Dallo scavo al laboratorio fino alla teca: itinerari e traiettorie non casuali.
– Il cambiamento di categoria dei reperti: da oggetti di contemplazione e di culto a documenti; dall’unicità
e singolarità all’inserimento in una rete informativa; dalla clausura specialistica all’apertura
sociale.
– La ricerca archeologica e museale: la consapevolezza nella produzione del reperto; la responsabilità
nella conservazione; l’eticità nell’ostensione.
– La veicolazione museale della conoscenza: i messaggi generali, impliciti ed espliciti; le informazioni
specifiche, poste su differenti livelli d’accesso, per i diversi livelli d’istruzione e d’apprendimento.
– La relatività della conoscenza e la problematicità delle ipotesi presentate e rappresentate nel museo.
– La fruizione allargata dei beni museali archeologici: i problemi di dialogo, il feedback, la storia, l’azione
e l’immagine complessiva dell’istituzione museale.
– Spazi aperti/spazi chiusi, territorio e museo: il museo del territorio; il territorio del museo; il territorio
museo (open air museum).
– Un caso archeologico e antropologico speciale: l’Arte Rupestre.
SUMMARY
This paper addresses the following issues:
– From excavations to the laboratory and finally to the showcase: specifically designed itineraries.
– Changes in the archaeological find categories: from objects of cult and admiration to an evidence-based
approach; from a single and individual approach to an information network-based approach; from the
idea of a closed museum made for specialists to the social opening.
– Archaeological and museological research: awareness in the production of finds; responsibility for conservation;
ethical principles in the exhibitions.
– The dissemination of knowledge through museums: general, implicit and explicit messages; specific information
at different access, learning and education levels.
– The relativity of knowledge and the museum hypothesis represented.
– The public access to museum and to its archaeological assets: the dialogue, feedback, history, action and
overall image of the museum institution.
– Open/close spaces, the land and the museum: the land-based museum; the museum of the landscape; the
open air museum.
– A special archaeological and anthropological event: Rock Art.

DALLO SCAVO AL LABORATORIO FINO ALLA TECA
L’archeologia è un campo della ricerca scientifica che consente particolarmente bene di affrontare
un viaggio – fisico e mentale – dal sito, dove esistono le stratificazioni materiali e
culturali che connotano una particolare situazione spazio-temporale, fino al nuovo sito di
riconnotazione degli esiti dell’attività di intervento territoriale. Questa operazione ha consentito
il recupero di una serie di dati, e cioè di un insieme non casuale e non arbitrario di
oggetti, rapporti, relazioni, secondo due piani principali di riferimento, il sincronico ed il
diacronico, grazie ai quali la realtà riesumata può diventare intelligibile e riproponibile.
La scelta di un intervento archeologico in un determinato punto del territorio non è casuale,
non può cioè partire da una tabula rasa – sebbene Karl Popper avesse espresso parere
contrario, errore che possiamo perdonargli volentieri in quanto l’epistemologo per una volta
era uscito dalla sua competenza disciplinare, avventurandosi in un campo scientifico che
evidentemente disconosceva o conosceva attraverso pregiudizi o luoghi comuni – ma deve
– popperianamente – partire da una ipotesi scientifica, ad esempio l’esistenza accertata o presunta
di relitti del passato in un determinato luogo geografico.
Lo scavo archeologico porrà in validazione o in falsificazione l’ipotesi dalla quale si è partiti,
consentendo alla scienza di fare un passo avanti, di spingere un po’ in là i confini dell’immensità
ignota che ci circonda, di portare un bagliore di conoscenza nel buio sconfinato
della nostra ignoranza. La nuova acquisizione, transitoria e dogmaticamente non definitiva,
ci consegna un tassello del puzzle che ci apprestiamo a configurare come affresco storico
(e pre- e proto-storico, di accadimenti, vicende, evoluzioni ed involuzioni, creazioni e
distruzioni) al quale rapportiamo la nostra diversità, la nostra differenza e distanza, la nostra
esigenza esistenziale, la nostra precarietà: tra passato irrecuperabile e futuro imprevedibile,
essa fluttua sull’onda di un presente inafferrabile.
Lo scavo è procedimento distruttivo in quanto isola gli elementi che costituiscono l’insieme
indagato, privilegia alcuni dati rispetto ad altri, seleziona le parti ritenute significative
da quelle considerate scartabili, crea i reperti, enucleandoli, misurandoli, collocandoli nel
reticolo tridimensionale cartesiano, descrivendoli, fotografandoli e disegnandoli, attribuendo
loro un codice alfanumerico e rendendoli unici. Ciò che l’archeologo ha eliminato, i legami
tra i reperti non visti o non apprezzati, le relazioni non rilevate, costituiscono il limite
soggettivo imposto alla rilettura del passato che si trovava sedimentato nel terreno. Oggi
non è infrequente che si abbia l’esigenza di ri-scavare nei detriti, nei cumuli di risulta di vecchi
interventi archeologici, proprio per cercare dati che all’epoca erano stati trascurati o
neanche ipotizzati. A questo proposito l’archeologia contemporanea, con un atto di umiltà
verso le possibilità scientifiche future, evita di scavare tutto il sito lasciando zone intoccate
per interventi da attuarsi in epoche a venire, probabilmente in grado di utilizzare altre ipotesi
euristiche ed altre tecniche e tecnologie diagnostiche.
Quindi l’équipe multidisciplinare che scava (l’archeologo singolo che scopre civiltà sepolte
è ormai una figura da consegnare definitivamente all’album romantico dei ricordi) deve muoversi
secondo un progetto che leghi assieme le diverse professionalità presenti sul cantiere al fine
di raggiungere risultati pre-definiti ed esplicitati secondo la gerarchia delle mete da conseguire.
Il progetto dovrà tener conto dei risultati dello scavo archeologico che si intende attuare,
delle necessità di elaborazione dei dati da trattare nel laboratorio (o nei diversi laboratori
509

510 specialistici), e dell’uso finale delle nuove conoscenze e dei nuovi reperti, da esternare, da portar
fuori e da mostrare, attraverso vari itinerari e percorsi: dalle pubblicazioni specialistiche a
quelle divulgative, dal deposito-magazzino fino al museo, fino a quel determinato punto dello
spazio espositivo, esplicativo, interattivo: teca, vetrina, podio, crocicchio, via, forum.
Gli itinerari ed i percorsi, dal sito al museo, non sono mai casuali, ma discendono da
scelte politiche – di politica culturale – esplicite o implicite, scienti o inconsce, legate alla
cultura, alla società, al sistema di potere, all’intelligenza dei soggetti deputati alle decisioni,
o alle loro in-decisioni o non-decisioni le quali – a volte – possono avere effetti dirompenti
o nefasti legati alla letargia dei processi mentali che dirigono l’ignavia dell’azione.
Non sempre è l’azione esplicita – la tecnica di “conservazione afgana” dei talebani che,
dinamitando i monumenti del passato, li rendono impassibili alla corrosione e corruzione
del futuro – a determinare il destino di un sito archeologico o di una emergenza monumentale:
l’incuria, la negligenza o l’imbecillità nell’approccio conservativo raggiungono a
volte gli stessi rimarchevoli risultati di sbriciolamento e perdita dei dati del passato come è
avvenuto, ad esempio per la cattedrale di Noto, le pitture preistoriche di Porto Badisco, le
mura aureliane, la Domus Aurea.
A volte sono le azioni prese dalle autorità (governative, regionali, locali) ad essere la causa
prima della distruzione delle memorie del passato. In questi casi, sovente è la non cultura
(o meglio l’ignoranza, l’arroganza, la disonestà, l’imbecillità dei preposti, veri e propri talebani
nostrani) a consentire e a determinare azioni deleterie. Si tollerano costruzioni abusive
in aree archeologiche dichiarate patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, come per la
valle dei templi di Agrigento, si polverizza in una settimana una fortezza del Re Sole, costruita
dal Vauban nel ’600 a Pinerolo, dichiarandola edificio pericolante, mentre in realtà
si voleva innescare una selvaggia speculazione edilizia con grattacieli nel cuore del centro
storico cittadino. Oppure, grazie anche a notevoli fondi europei, si costruisce una diga, per
discutibili usi irrigui sul fiume Guadiana, al confine tra Spagna e Portogallo, ad Alqueva; e
ciò senza esaustivi studi di impatto ambientale e con una superficiale indagine territoriale
archeologica (costata “appena” 5 milioni di euro) che “non si accorge” di ben 10 chilometri
di siti archeologici e di arte rupestre sulla sponda portoghese, sebbene si sappia dell’esistenza
sulla sponda spagnola – grazie ad opportuni survey disposti dalle autorità dell’Estremadura
– di ingenti vestigia che datano dal Mesolitico all’Età del Ferro.
In un mondo con limitate possibilità (economiche, strutturali, umane) di interagire con
intelligenza con il patrimonio culturale del passato, non rimane praticabile che la via di ottimizzare
le risorse disponibili, valutare costi e benefici, e quindi stendere un piano/programma/progetto
che copra tutto l’itinerario, dal sito al museo, senza soluzioni di continuità
e senza lasciare tratti di percorso affidati al caso, alla fortuna, alla provvidenza divina,
quest’ultima – certamente, giustamente, da sempre – in ben altre faccende affaccendata.
Il reperto, recuperato in una operazione di scavo archeologico, è un oggetto con svariati legami
al contesto di provenienza: è come la tessera di un mosaico che non può parlare se è avulsa
dal suo intorno, dalle relazioni con l’insieme, è come una parola che perde il suo orientamento
e la sua forza espressiva se è separata dalla frase di appartenenza. Pertanto l’operazione
archeologica non mira a isolare i reperti (per quanto monumentali possano essere) ma è un
progetto di ricostruzione della realtà che sarà anche consentito dalle analisi di laboratorio e
dallo studio che ipotizza una lettura del passato e delle dinamiche che hanno determinato l’e-

voluzione del sito attraverso il tempo, fino ad oggi. Sovente i brandelli di passato sono scarsamente
diagnostici e ci costringono a far ricorso a confronti con situazioni analoghe, ben consci
– sempre – che l’operazione di recupero delle strutture fondamentali e caratteristiche del
nostro sito possono essere illuminate da dati esterni solo in via transitoria o pedagogica.
Ovviamente il punto di massima difficoltà è costituito dal passaggio del reperto dal laboratorio
alla teca, alla sala del museo, per l’ostensione. È chiaro che la capacità di dare
informazioni sufficienti al pubblico, ai fruitori, è legata alla conoscenza di tutta la storia di
ricerca che sta a monte del reperto, senza la quale il manufatto è assolutamente comparabile
ad un oggetto comprato ad un mercatino delle pulci.
Da un punto di vista conoscitivo dell’epopea umana è più importante un’umile punta
di freccia in pietra verde levigata, recuperata in stratigrafia nel riparo sotto roccia dell’Età
del Rame (2100 a.C.) a Balm’Chanto, in Val Chisone nelle Alpi Occidentali, che i celeberrimi
Bronzi di Riace, trovati – da un peschereccio, forse nell’Adriatico al largo di Ancona –
casualmente, con le reti a strascico durante una battuta di pesca, e quindi privi di ogni contesto
sincronico e diacronico. Oggi sono esposti a Riace appunto, casuale porto di approdo
del battello; è ovvio che il loro valore estetico, la tecnica esecutiva, la bellezza assolutamente
evidente delle due statue cantano un inno alla creatività umana e sono da considerare delle
meraviglie, dei capolavori.
IL CAMBIAMENTO DI CATEGORIA DEI REPERTI: DA OGGETTI DI CONTEMPLAZIONE
E DI CULTO A DOCUMENTI; DALL’UNICITÀ E SINGOLARITÀ ALL’INSERIMENTO
IN UNA RETE INFORMATIVA; DALLA CLAUSURA SPECIALISTICA ALL’APERTURA SOCIALE
Il reperto, materializzazione di un frammento del passato, brandello di realtà che si colloca all’incrocio
del diacronico e del sincronico, sopravvivenza, resto e reliquia di un mondo scomparso
– ieri o dieci, cento, un milione di anni fa – ci osserva e ci relativizza. Anche noi usciamo
dalla genericità del presente che ci invade e pervade grazie al muto testimone – l’oggetto
archeologico – di epoche distinte dalla nostra essenza quotidiana, che può acquisire ombra e
spessore, ed elaborare – intellettualmente – gli scenari delle epoche, lo story-board della vita.
Per la loro spiccata attitudine a proporsi come oggetti miracolosi, fascinosi, misteriosi,
magici, strani e anomali, i reperti hanno giocato, fin dalle epoche neanderthaliane, un ruolo
di amuleti e di segnacoli. Le collezioni di cristalli e conchiglie degli uomini della preistoria,
la fabbricazione di inutili – ma esteticamente notevoli – amigdale, tratte con opportune
tecniche da pietre con frattura concoide, ha segnato il trapasso dall’animalità all’Homo
Faber, fino a noi – immodestamente e tronfiamente – Sapiens Sapiens.
Il trionfo della scienza illuministica e positivista sette-ottocentesca ha spazzato le Camere
delle Meraviglie ed i Gabinetti di Curiosità delle epoche alchemiche, introducendo
ordine e classificazione; l’uscita dal caos si è ottenuta con etichette e targhette scritte con
l’inchiostro di China. Sebbene questi reperti fossero classificati ed allineati nelle teche con
l’intento di portarle alla completa osservazione degli scienziati che bazzicavano per i laboratori,
per le gallerie, per gli archivi e per i depositi, anche un più vasto pubblico venne
ammesso – non senza appositi rituali – a godere di parti selezionate – ad usum delphini
– delle collezioni.
511

512 Ma il cambiamento si era verificato ed il reperto, persa un po’ di aura, acquisiva valenza
didattica, potenza pedagogica, attitudine euristica. L’antica magia veniva confermata nella
nuova veste di veicolo scientifico. E la scienza moderna creava le reti informative, le categorie
esperienziali, le discipline magistrali, gli statuti scientifici le cui basi poggiavano ancora
sul reperto, ormai certificato e garantito dalle prove di laboratorio e dalla riproducibilità
degli esperimenti.
Dal mondo chiuso degli specialisti il reperto – o meglio, ormai si deve parlare di insiemi
organici di reperti – si ricolloca in strutture per l’ostensione: i musei scientifici, i nuovi
templi del sapere moderno e dell’incontro tra la cultura specialistica e l’umanità desiderosa
di essere acculturata. Il ruolo di diffusore sociale di conoscenze del museo diventa la nuova
vocazione dell’istituzione riconnotata e ricollocata in contesti quotidiani e amichevoli per la
truppa, con un amplificato potere di interferenza con le altre centrali del sapere, la scuola e
l’università in particolare, senza trascurare le altre componenti della società (associazioni,
sindacati, categorie professionali, massaie, terza età, ecc.).
LA RICERCA ARCHEOLOGICA E MUSEALE: LA CONSAPEVOLEZZA
NELLA PRODUZIONE DEL REPERTO; LA RESPONSABILITÀ NELLA CONSERVAZIONE;
L’ETICITÀ NELL’OSTENSIONE
Il reperto archeologico scientificamente acquisito non è un oggetto casuale che affiora dalla
notte dei tempi ma è un documento ricco di dati e di informazioni potenziali: deve ottenere
una sua carta d’identità ed uno status che derivano dalle procedure con le quali è stato
prelevato dal contesto nel quale dormiva prima di vedere nuovamente la luce.
Se così non fosse, meglio sarebbe che continuasse a giacere nel buio dell’oblio fino a
quando intellettualmente illuminati archeologi non lo intercetteranno.
Un progetto archeologico – essendo distruttivo del sito che vuole indagare – deve tener
conto della destinazione del reperto, di tutti e di ogni reperto, destinazione che sarà precisata
solo a posteriori, dopo aver compiuto gli studi, le analisi e gli accertamenti necessari ad
estrarre dall’oggetto la maggior quantità di informazioni che sia possibile ottenere; quindi il
‘pezzo’ sarà inviato alla teca del museo, allo scaffale del deposito-magazzino, alla cassetta di
un laboratorio didattico, ecc.
Poiché ci siamo permessi di fare il principe azzurro ed abbiamo risvegliato la bella addormentata,
ora dobbiamo assumerci tutte le nostre responsabilità di ricercatori, di scienziati e
di persone di cultura inerenti l’atto deliberato che abbiamo compiuto dandole il bacio.
L’aver messo le mani nelle pieghe del tempo, sconvolto i depositi, asportato le cose, ci
ha dato la sensazione di essere dei piccoli demiurghi, dei signorotti del creato, dei depositari
di nuovi saperi. Ma non saremmo altro che piccoli delinquenti, rozzi ladruncoli e
maldestri avventurieri se non avessimo chiaro il processo di conservazione dei reperti e
dei dati che abbiamo tratto e cioè se non sapessimo con convinzione che dobbiamo essere
i portatori di nuova conoscenza, di nuovo sapere, trasmissibile e usufruibile dal resto
del mondo.
Ogni goccia di conoscenza che non viene trasmessa, notificata e perpetuata è una perdita
ed un arretramento per l’Umanità: raccogliere le gocce, in ciò consiste la nostra re-

sponsabilità; con la conservazione ai posteri del reperto, completo dei dati inerenti, si
misura la portata della nostra opera, non da improbabili demiurghi ma da umili costruttori.
Il dovere morale del ricercatore è quindi quello di essere un costruttore, un operaio,
e l’imperativo etico è quello dell’ostensione, intesa nel senso più allargato del termine,
e cioè di rendere comuni a tutti i beni culturali, quali strumenti universali di elevazione
spirituale, illuministicamente intesi come patrimonio della collettività, in contrapposizione
alla concezione medievale, feudale ed assolutista di proprietà esclusiva del
principe.
LA VEICOLAZIONE MUSEALE DELLA CONOSCENZA: I MESSAGGI GENERALI,
IMPLICITI ED ESPLICITI; LE INFORMAZIONI SPECIFICHE, POSTE SU DIFFERENTI
LIVELLI D’ACCESSO, PER I DIVERSI LIVELLI D’ISTRUZIONE E D’APPRENDIMENTO
Progettare un museo, archeologico o no, oggi significa aver chiaro in mente che l’istituzione
è principalmente uno strumento di veicolazione della conoscenza, oltre che un luogo di
conservazione, di ricerca e di studio.
Trasmettere conoscenze significa anche saperle raccogliere, elaborare, studiare, proporre: il
reperto che è già di per sé eloquente, necessita di ‘protesi’ esplicative per renderlo accessibile ad
un vasto pubblico, il pubblico che oggi vuole avere informazione e formazione dal museo.
Dal fruitore più curioso ed attento, pronto e disponibile al dialogo che è rappresentato
dallo scolaro della scuola primaria fino al coriaceo, distratto, ansioso ed affrettato visitatore
adulto, spesso anche snob e presuntuoso, comunque ignorante o analfabeta di ritorno –
quand’anche fornito di laurea – il museo deve dare messaggi differenziati attraverso molteplici
sussidi che vanno dal nobile personaggio in carne ed ossa quale è l’educatore museale
fino al triste meccanico audiovisivo o al supporto interattivo, CD-rom, DVD, ignobili sostituti
dei veri rapporti interpersonali.
Dal pubblico si è passati all’utente: cambiamento che sposta l’orientamento dell’asse
museale che da find centred passa a visitor oriented; il vecchio museo era luogo elitario dove
i reperti erano schierati tipologicamente e tassonomicamente come reparti di militari alla
parata. Oggi si deve tener conto delle esigenze educative dei visitatori che concepiscono il
museo come un luogo di formazione della conoscenza a livello personale e sociale.
L’antica coniugazione Accademia-Museo, circuito chiuso di epoca rinascimentale, ritrova
oggi una consonanza apparente nel rapporto Scuola-Museo, circuito aperto proiettato
verso il futuro.
LA RELATIVITÀ DELLA CONOSCENZA E LA PROBLEMATICITÀ DELLE IPOTESI
PRESENTATE E RAPPRESENTATE NEL MUSEO
La conoscenza del passato è il fondamentale punto di riferimento attorno al quale si organizza
l’attività museale; il museo ha una valenza esplicita e simbolica che si concretizza nel
rapporto che esso instaura con l’intorno e con la società attraverso la mediazione del gruppo
di riferimento o di gestione che determina le sorti dell’istituzione.
513

514 L’archeologia della conoscenza (Cognitive Archaeology) sorta in ambito anglosassone all’inizio
degli anni ’80, si riferisce a studi delle società del passato nei quali una particolare
attenzione viene tributata ai processi del pensiero umano ed ai comportamenti simbolici.
Poiché il pensiero non fossilizza, i resti archeologici consistono solo nella cosiddetta cultura
materiale: manufatti, ossa, costruzioni; non vi sono informazioni dirette sui sistemi di
credenze, sui processi di pensiero delle menti del passato; questi dati devono essere desunti
esclusivamente dai reperti. L’archeologia cognitiva cerca di assolvere a questo compito, con
la convinzione che appropriate interpretazioni dei resti del passato possano condurre ai processi
mentali della loro creazione e che costruendo modelli di quelle antiche società sia possibile
ricostruire i sistemi ed i processi di pensiero e di comportamento.
Naturalmente sono ipotesi di ricostruzione del passato che valgono fino a prova contraria,
cioè fino alla loro falsificazione. Non possiamo costruire un museo su una base dogmatica
assertiva, perché dobbiamo consegnare all’utente le chiavi di decifrazione della realtà
presentata, avvertendolo che si trova di fronte a congetture con valori probabilistici che si
adagiano su una curva di Gauss.
Le ipotesi interpretative sono molto variate negli ultimi cinquecento anni: il valore ed il significato
dei reperti preistorici è cambiato secondo le differenti prospettive mentali e di rappresentatività
sociale di coloro che li osservavano.
Nel Cinquecento gli umanisti incorporarono nelle prime collezioni enciclopediche pubbliche
principesche alcuni reperti preistorici in pietra, indicandoli come “pietre da fulmine”
o scherzi di natura ed anche – correttamente – come punte di freccia e pugnali fabbricati
dalle mani dell’uomo. Nei secoli successivi la visione pubblica dei beni culturali fu allargata,
ma il significato loro attribuito rimase pressoché identico sebbene inquadrato nella categoria
dello strano o del raro: le meraviglie o le curiosità, Naturalia, Artificialia et Mirabilia
delle Wunder-kammern e dei Cabinets de Curiosité.
Nel Settecento e primo Ottocento, questi oggetti ricevono un nuovo status – derivato
anche dall’influenza dell’Illuminismo francese – di oggetti preistorici appartenuti all’uomo
antidiluviano, poi laicamente definito pre-biblico dalla scienza tardo ottocentesca. Ma sarà
solo con il Novecento che – affrancandosi da mitologie e superstizioni medievali – gli oggetti
preistorici verranno collocati in strutture museali secondo criteri tipologici e stratigrafici,
a rappresentare le culture più arcaiche dal Paleolitico Inferiore fino alle epoche Protostoriche,
in connessione con il nuovo amplificato statuto e ruolo dell’archeologia preistorica
nel mondo intero.
LA FRUIZIONE ALLARGATA DEI BENI MUSEALI ARCHEOLOGICI: I PROBLEMI
DI DIALOGO, IL FEEDBACK, LA STORIA, L’IMMAGINE COMPLESSIVA
DELL’ISTITUZIONE MUSEALE
La modernizzazione, l’evoluzione dei processi tecnologici che sorreggono i nostri costumi
quotidiani, il ritmo accelerato della diffusione del sapere, il mondo della comunicazione di
massa che si dilata, l’affanno di navigare in un mare di notizie sempre più agitato, la giusta
preoccupazione di adeguarsi agli obiettivi che variano rapidamente sia in campo scientifico

che sociale, la società civile che tende sempre più a convertirsi in un luogo di cittadinanza
globale, sono i nuovi parametri ed i molteplici indirizzi dell’attività cognitiva dell’uomo.
Il mondo scientifico, abbandonata – forse da troppo poco tempo – la certezza esegetica
positivista, ha ri-scoperto la bellezza del dubbio e della falsificazione delle ipotesi, con le quali
la conoscenza cerca di espandersi apportando un po’ di nuova luce nell’immensità dell’ignoto
che ci circonda. La rivoluzione epistemologica ha portato alla giusta dimensione l’uomo
di fronte al cosmo. L’umanità è oggi ad una svolta, probabilmente senza ritorno, se consideriamo
che la nostra è la specie (animale) che esercita la maggior pressione sull’ambiente
naturale. L’evoluzione tecnologica che ha determinato questa situazione non è stata lineare,
ma ha avuto un andamento di crescita esponenziale. Per oltre quattro milioni di anni l’uomo,
sostenuto da una economia di raccolta, caccia e pesca, è rimasto in costante equilibrio con le
risorse della natura e con le disponibilità dell’ambiente. Appena 10.000 anni fa è cominciata
la rivoluzione del Neolitico, con l’invenzione di un nuovo assetto economico, tecnologico e
sociale, caratterizzato da sedentarietà, agricoltura, pastorizia, invenzione della ceramica e successivamente
della metallurgia. Il rapporto uomo-ambiente ha iniziato a cambiare progressivamente,
con un uso sempre più intenso del territorio e conseguenti modificazioni ecologiche,
spesso irreversibili, causate dalle invenzioni tecnologiche e dalla pressione demografica.
La rappresentazione del cambiamento – la sequenza, la cronologia, l’incrocio del dato sincronico
col diacronico – è costituita dal reperto che è il nostro brandello di passato che dobbiamo
collocare, incasellare, esporre per la fruizione; questa fruizione deve essere atto di cognizione
e di ri-cognizione per tutti coloro che devono percepire il fluire del tempo, assaggiare
il passato e porlo in controcampo col presente che incessantemente ci trasporta nel futuro,
operazione essenziale e vitale per la continuità della cultura umana, senza la quale si
avrebbe il collasso della nostra storia e della nostra specie in quanto l’uomo, non avendo specializzazioni
fisiche, è specializzato nella produzione della cultura e nella sua trasmissione.
Il museo, tenuto conto della condizione umana, è uno strumento fondamentale di trasmissione
culturale e quindi è un fattore di sopravvivenza per l’umanità: potremmo paragonarlo
al motore a reazione che sostiene un aereo in volo.
SPAZI APERTI/SPAZI CHIUSI - TERRITORIO E MUSEO: IL MUSEO DEL TERRITORIO;
IL TERRITORIO DEL MUSEO; IL TERRITORIO MUSEO (OPEN AIR MUSEUM)
La museologia che si è arrogata il diritto, o il privilegio, di costituire e costruire la cassaforte
dei gioielli di famiglia dell’umanità nel senso di discriminare tra ciò che deve essere conservato
per la posterità, o perlomeno tentare di conservare per la scienza e conoscenza dei
nostri figli e dei figli dei nostri figli, e ciò che può essere abbandonato all’oblio del tempo,
oggi non possiede più tutte le certezze del recente passato e si interroga con sempre maggior
inquietudine su quali siano i valori che devono essere imbalsamati e trasmessi alle generazioni
future. Un elemento di discrimine nuovo è venuto dalle scienze del paesaggio ed in
particolare dalla landscape archaeology grazie alla quale il concetto di museo si è esteso ai luoghi
aperti, agli ecosistemi naturali ed antropizzati, costruendo il concetto di ecomuseo che
supera la concezione del vecchio museo all’aperto, lo scansen museet dei paesi scandinavi o
il land museum di tradizione anglosassone.
515

516
Fig. 1. Landscape museum: la sconfinata distesa della steppa siberiana ed il sito archeologico di Malaia Boiarskaia
Pisanitza, i cui affioramenti rocciosi istoriati sono visibili sulla destra (Fotografia di Daniele Seglie, da Siberian
Rock Art, Archaeology, Interpretation and Conservation, CeSMAP, Pinerolo, 1999).
Il landscape museum può anche non essere un museo – inteso in senso tradizionale – e
può essere concepito come un modo di offrire la possibilità alla gente di decifrare il territorio,
di leggerlo. Un progetto museale open air ci avvicina ad una costruzione tendenzialmente
priva di strutture materiali per contenere i reperti in quanto è il territorio stesso che
si trasforma in scuola, laboratorio e museo, grazie ad azioni di percezione e decrittazione
delle stratificazioni fisiche e culturali che trasformano i naturalia in artificialia, secondo percorsi
guidati e autoguidati. In questo caso la conservazione si identifica strettamente con la
politica di pianificazione del territorio e con l’urbanistica; pertanto l’allarme – per gli intellettuali
– deve essere tenuto a livello ∆ God save the King!
UN CASO ARCHEOLOGICO E ANTROPOLOGICO SPECIALE: L’ARTE RUPESTRE
L’Arte Rupestre, ormai da ben oltre un secolo, è oggetto di studi, decifrazioni, discussioni,
dispute, anche appassionate. Il materiale prodotto riempirebbe la mitica Biblioteca di Alessandria,
se ancora esistesse e se ivi potessimo concentrare tutti i libri, tutti gli scritti, tutte le
memorie, tutti i rilievi e tutte le documentazioni di tutti gli studiosi della materia. Ma ciò
non è possibile e difficilmente lo sarà in futuro: in questa utopica ed immaginaria Biblioteca
Globale una straordinaria quantità di dati si perdono col passare del tempo, quasi con la
stessa velocità con cui si acquisiscono quelli nuovi.

I nostri orizzonti sono oggi certamente più vasti che in passato: le scoperte si sono moltiplicate
in tutti i continenti, con l’ovvia eccezione dell’Antartide; alcuni siti sono scomparsi
ma tantissimi nuovi distretti sono stati scoperti e l’incremento della documentazione è
esponenziale e sembra seguire la curva dello sviluppo di una pandemia. L’impressione che
potevano avere i Maestri del passato di poter dominare tutto lo scibile disciplinare è stato
messo in crisi, sia dal diluvio dei dati, sia dall’informatica in rete, internet, che ci costringe
a prender atto della nostra congenita inadeguatezza di fronte al mare di dati stivati nelle
banche elettroniche.
LOCALIZZAZIONE DELL’ARTE RUPESTRE: LE MACRO GEOMORFOLOGIE
Gli elementi di localizzazione e di specificazione geografica e topografica non vengono più
trattati marginalmente come dati logistici di scarsa rilevanza, ma stanno assumendo una posizione
centrale: le varie componenti del paesaggio e le macro geomorfologie costituiscono
parte integrante del fenomeno arte rupestre, con una importanza pari – se non maggiore –
ad altri dati di micro analisi, più consolidati, quali la forma dei grafismi, la tecnica esecutiva,
il medium utilizzato, lo stile, la composizione, ecc.
Questi nuovi elementi di localizzazione dei sito sono dati dai parametri costituenti il
paesaggio, antropizzato dalla presenza dell’arte rupestre, segno lieve che appena appena
modifica la superficie delle rocce, ma che compie la grande trasmutazione dal naturale al
costruito: dal caos all’ordine, ordo ab chaos, secondo l’espressione degli alchimisti medievali.
Non vi è nessun dubbio che negli ultimi 500 anni l’homo occidentalis abbia applicato la
sua cosmo-visione a tutto il mondo, considerando, con estrema superbia e tracotanza, la
cultura europea occidentale come la Cultura con la C maiuscola tout court.
La globalizzazione e la recente attenzione per l’ambiente inteso come eco-sistema mondiale
hanno portato elementi nuovi e risvegliato fermenti latenti anche nel campo dell’arte
rupestre. L’archeologia del paesaggio (landscape archaeology) ha ricevuto robusti incentivi e
significativi allargamenti di orizzonti, come in molti campi disciplinari, e fortunatamente
non solo per la risonanza acquisita dagli indici di borsa che rimbalzano da New York a Londra
a Hong Kong e viceversa.
I SITI DI ARTE RUPESTRE
Riguardo al territorio ed alla sua antropizzazione antica o attuale, i siti di arte rupestre possono
essere classificati in tre categorie:
– siti “fossili”: sono quelli che non hanno più alcun legame con la storia di quel territorio,
sia scritta che orale; la loro memoria era completamente scomparsa fino al momento
della loro scoperta da parte di ricercatori scientifici od occasionali;
– siti “storici”: sono quelli che hanno conservato una memoria nella storia scritta od orale
di quel territorio, e generalmente sono legati a leggende, superstizioni, culti e tradizioni
popolari, editti del potere civile o dell’autorità religiosa, atti di processi inquisitoriali;
517

518 – siti “viventi”: sono quelli che sono frequentati ancora attualmente, senza apparente soluzione
di continuità col passato, per fini di culto e che generalmente sono possesso riconosciuto
delle comunità locali che li utilizzano e li custodiscono.
IL PAESAGGIO
Il paesaggio in senso soggettivo è una porzione di territorio come appare a chi la guarda; in
senso geografico è una località, una zona con tutte le sue caratteristiche fisiche ed antropiche.
Il paesaggio di oggi è una conseguenza del paesaggio di ieri: le stratificazioni naturali e
culturali che si sono depositate nel corso del tempo in una determinata area, dalle lontane
epoche geologiche fino al modellamento ed ai segni che si riferiscono alle azioni dell’uomo,
assumono aspetti e caratteristiche che consentono di classificare, allineare cronologicamente
e distinguere i vari tipi di paesaggio. Ci sono zone di territorio che hanno avuto modificazioni
relativamente poco importanti rispetto agli effetti degli agenti naturali, ma grandi
cambiamenti per cause antropiche.
Per ogni porzione di territorio, le scienze della terra, e le archeologie in particolare, ci
danno i complessi di dati che consentono di descrivere l’evoluzione del paesaggio nel corso
del tempo. Le mappe tematiche evolutive territoriali ci permettono di avere un fondale, uno
scenario nel quale collocare il particolare fenomeno “Arte Rupestre” che vogliamo indagare,
inquadrato nel modo più completo possibile, tenendo conto delle variabili dipendenti, indipendenti
e delle correlazioni tra i dati.
IL PAESAGGIO REALE E IL PAESAGGIO PERCEPITO
L’Arte Rupestre si presenta a noi come un elemento fortemente associato al paesaggio, anzi
è così legata al contesto che è impossibile considerarla in modo autonomo e separato.
Un antico errore metodologico, legato al prevalere di studi classificatori e tipologicocomparativi
fini a se stessi che non tenevano in forte considerazione i contesti globali di riferimento,
ha per lungo tempo trasportato l’Arte Rupestre su di un falso piano di separatezza
dalla realtà, confinandola in un assurdo universo autonomo, come una monade metafisica
e fisica, secondo una visione filosofica che, partendo dalla scuola pitagorica e quindi
attraversando il pensiero di Leibniz e di Newton, è giunta fino ai giorni nostri.
Poiché l’osservazione scientifica è sempre in grado di modificare la percezione della realtà
durante lo studio, per via della intromissione ineliminabile del fattore “quoziente soggettivo”
del ricercatore o del suo gruppo o scuola, occorre tener presente questa variabile indipendente
ogni volta che si utilizzano dati, i quali devono essere considerati “limitatamente”
oggettivi fin dal momento genetico del loro prelievo dal contesto reale.
La percezione della realtà è un fenomeno di tipo bio-culturale perché dipende dallo stato
fisiologico (età, salute, ecc.) dell’osservatore-ricercatore e dal complesso della sua modalità
specifica culturale, individuale e sociale. Calati in questa forma del reale, il discernimento
dell’Arte Rupestre è il risultato della comparazione con il modello generale-globale dell’area
che si sta investigando. Le attuali attenzioni al contesto del paesaggio nel campo della ricerca

archeo-etno-antropologica sono una conquista, relativamente recente, dello studio della geomorfologia
intesa come sommatoria, riserva e contenitore della complessità della realtà.
IL PAESAGGIO NATURALE E IL PAESAGGIO CULTURALE
Oggi, sulla faccia della terra non esistono più paesaggi completamente naturali; l’azione dell’uomo
sull’ambiente si è diffusa in ogni area, anche nei deserti e nelle lande gelate polari.
Dall’addomesticamento del fuoco da parte dell’Homo Erectus, oltre 500.000 anni fa, attraverso
la rivoluzione neolitica, fino alla nostra era atomica e interplanetaria, tutta la superficie
terrestre reca i segni – più o meno evidenti – dell’antropizzazione.
L’Arte Rupestre è uno di questi segni, forse il più antico segnale ed il primo sintomo percepibile,
la traccia materiale della spiritualità complessa dell’uomo e dello sviluppo delle sue
capacità cognitive superiori, il relitto di attività non direttamente funzionali alla sopravvivenza
quotidiana ma forse utili per dare coesione e forza all’azione di perpetuazione della
stirpe umana.
Il paesaggio si presenta agli uomini come il luogo che è riconoscibile per i segnali che
emette per consentire la vita quotidiana che in esso si svolge; è il riparo, la protezione, la
sorgente, il cibo; ed è anche la terra dei morti, degli antenati; ed infine è il territorio del mito,
della leggenda, del sogno e quindi anche del sacro e dell’ultraterreno. Sacro e profano sono
due categorie che si fondono inestricabilmente tra di loro e sono sempre compresenti nel
paesaggio, il quale è costituito sia dalle presenze che dalle assenze, dalla realtà e dalla virtualità,
dal conscio e dall’inconscio; le corrispondenze avvengono a livello culturale ed è
l’uomo che carica di significati simbolici la morfologia del territorio, costruendo mappe
mentali e psichiche che diventano il substrato su cui si fonda il progetto di vita che l’individuo
ed il gruppo sviluppano nel tempo.
Questi paesaggi mentali costituiscono il teatro nel quale l’umanità realizza la propria cultura.
L’antinomia natura/cultura trova proprio nel concetto di paesaggio il fondamento della
civilizzazione, con i segnali evidenti delle trasformazioni e degli interventi antropici che
ridisegnano il territorio.
L’Arte Rupestre si colloca esattamente al vertice di questa antinomia: con interventi leggeri,
con piccole modificazioni superficiali sulle pareti di grotte, di ripari, di rocce all’aria
aperta, l’uomo ha trasformato il territorio creando il panorama sacro, con una operazione
di enorme efficacia politica, economica e sociale.
L’Arte Rupestre – oggi – è il relitto, il dato superstite di una costruzione culturale complessa
della quale il tempo e l’oblio della memoria hanno cancellato quasi tutti gli elementi
componenti; i riti, i suoni ed i canti, le azioni mimiche non hanno lasciato traccia, poiché
la tradizione orale e la gestualità non fossilizzano.
Le iconografie tracciate su suoli di terra o sabbia, su pelli, su cortecce, legno, foglie, su tessuti,
su intonaci di adobe non hanno resistito all’usura del tempo e sono andate irrimediabilmente
perdute. Solo l’Arte Rupestre, proprio perché “rupestre”, si è conservata e ci fornisce i
dati – da oltre 30.000 anni – su un aspetto dell’attività cognitiva e sul pensiero simbolico dell’uomo:
bastano pochi segni superstiti sulla roccia per connotare culturalmente il territorio –
anche il più desolato deserto – e per far riemergere il paesaggio, cioè la terra degli uomini.
519

520 L’Arte Rupestre è l’espressione chiara della complessità socio-economica, tecnica e tecnologica,
culturale e spirituale delle comunità preistoriche che l’hanno creata. L’Arte Rupestre
è da considerare come la “punta dell’iceberg” della grande categoria del sacro; sfortunatamente
quasi tutto il resto dell’iceberg si è squagliato nel corso del tempo e oggi siamo prigionieri
della consapevolezza che esiste ormai un diaframma ineliminabile tra noi ed i nostri
antecessori, il pensiero dei quali è perso per sempre.
CONCLUSIONE PROVVISORIA
Legando l’Arte Rupestre al paesaggio si possono fare altri piccoli passi nel progresso della conoscenza
delle società che l’hanno prodotta. Vi possono essere motivazioni prevalentemente
tecniche e pratiche che hanno indotto gli artefici a scegliere una superficie da decorare piuttosto
che un’altra; ma vi sono motivazioni non tecniche e quindi – verosimilmente – di tipo
simbolico che hanno determinato la scelta di un sito: la posizione dominante sui dintorni,
l’orientamento astronomico, oppure “effetti speciali” quali lo scintillio, la brillantezza, l’imponenza,
il colore, la sonorità, l’acustica, ecc. della roccia e del sito, il quale può essere in relazione
a particolari elementi del paesaggio quali ad es. sorgenti, acque, ripari, strade, ecc.
Questi elementi costituiscono una vera e propria geografia dello spirito (e degli spiriti).
La complessità delle comunità umane produttrici dell’Arte Rupestre è caratterizzata anche
dalla stratificazione culturale e sociale che crea le gerarchie, la suddivisione del sapere e
conseguentemente del potere. È verosimile che l’atto creativo dell’Arte Rupestre ed i rituali
connessi fossero appannaggio solo di alcune persone del gruppo (capi ed iniziati o specialisti
del sacro quali preti, sciamani, stregoni, guru, ecc.) in grado di interpretare la geografia
del paesaggio e ricreando in esso evidenti segni, le radici etniche del gruppo, il nucleo
del concetto di terra dei padri, della madre-patria.
Fissando un centro che organizza il territorio e quindi ordina l’universo traendolo dal
caos primordiale, si stabilisce il territorio conosciuto ed affidabile dal quale si trae il sostentamento
rispetto al territorio ignoto ed infido nel quale prevalgono forze ostili.
La persistenza dei segnali del sacro attraverso i tempi è a volte confermata, in particolare
in Europa, in alcuni siti di arte rupestre dove si sovrapposero templi di epoca classica ed
anche, sempre sulla stessa area, chiese medievali.
I “luoghi di potenza” – indicati dalla presenza dell’Arte Rupestre intesa come genius loci
– ci consentono di riordinare i dati di questo fenomeno fondamentale della cultura umana;
il paesaggio, alla luce delle considerazioni che si vanno sviluppando, non è semplicemente
una porzione di territorio o una nozione geografica, ma assume la valenza della più alta costruzione
spirituale dell’Umanità.
Il sipario è definitivamente sceso sulla scena dell’uomo preistorico: la ricerca scientifica non può
rialzarlo, ma può renderlo più sottile ed un po’ più trasparente, come nel teatro delle ombre.
Ed è proprio in questo teatro all’aperto costituito dai siti di Arte Rupestre che è possibile
edificare il museo della più antica attività cognitiva dell’Uomo.

Musealizzare l’ambiente storico:
un GIS della conoscenza
Alberto Monti
albertom@iol.it
RIASSUNTO
Attorno al quesito se sia più importante conservare gli oggetti o la conoscenza ch’essi rappresentano e quale
sia la natura dei Beni Culturali ruota il presente lavoro. Con il termine “Beni Culturali” non si debbono
infatti classificare unicamente singoli oggetti o raccolte, ma anche la conoscenza del modo in cui gli
uomini del passato si sono procurati il loro sostentamento, hanno costruito le loro dimore, ed hanno ragionato
su come migliorare la propria esistenza in un luogo.
Anche, e forse soprattutto, questi ultimi sono “beni culturali”. Per identificarli ed analizzarli si ritene
auspicabile attuare in pieno un approccio di “archeologia dell’ambiente antico”, basato su ricerche che
analizzino appunto ogni aspetto dell’ambiente con il quale gli uomini antichi interagirono. I dati così ottenuti
– archeologici, documentari, strutturali, cognitivi – confluiscono in un GIS che non è più tale, ma
che diventa SCA: Sistema di Conoscenza Ambientale. Intendendo con questo termine non più un contenitore
di informazioni finalizzate ad un ristretto ambito di compiti prefissati, ma uno strumento nel
quale si simula fedelmente la realtà dinamica del passato. Per comprenderla, spiegarla e preservarla.
SUMMARY
The contribution addresses the question whether it is more important to promote the conservation of artefacts
or the knowledge they stand for and what is the very nature of Cultural Heritage. This latter definition should
not just cover the single objects or collections, but also the knowledge of the ways implemented by men in the
past to assure their own livelihood, to build their houses and to improve their living and environmental conditions.
This should also be considered to be part of the Cultural Heritage. To identify and analyse these aspects
it is necessary to fully adopt an “ancient environment archaeological” approach based on research, analysing
each individual aspect of the environment with which our ancestors interacted. Archaeological, documentary,
structural, cognitive data are entered into a GIS (Geographical Information System), which is then turned into
an EKS (Environmental Knowledge System). By this term we no longer mean a mere container of information
related to a narrow scope of pre-set tasks, but a tool that effectively simulates the past dynamic reality, to
explain, preserve and better understand it.
INTRODUZIONE
Come il lettore potrà ben presto constatare questo contributo raccoglie alcune considerazioni
in merito ad argomenti in apparenza non strettamente connessi tra loro: si parla di beni
culturali, di sistemi informativi territoriali, di musealizzazione, di esiti di azioni umane e
di spazi occupati dall’uomo. Il nesso tra gli argomenti stessi c’è, ed è rappresentato dagli uomini
antichi, le cui azioni e conoscenze sono l’essenza di ogni bene culturale. Quelle che
vengono toccate sono quindi alcune delle problematiche più comuni connesse con l’impostazione
di nuovi lavori di archeologia ambientale finalizzati sia alla ricerca che anche alla

522 valorizzazione. Senza nessuna pretesa di completezza 1 , intendiamo quindi solo esporre alcune
riflessioni personali che abbiamo avuto modo di maturare nel quotidiano contatto con
queste tematiche 2 , per sottoporle all’attenzione dei lettori 3 .
IL “BENE CULTURALE”
Ai fini del discorso che qui affrontiamo possiamo definire “bene culturale” un oggetto costituito
da due componenti. Questi 4 sono la “materia culturale” 5 e la “conoscenza culturale”
6 . È la presenza di questa seconda entità che differenzia un bene culturale da un semplice
oggetto prezioso, o raro, o tecnicamente eccelso, che invece contiene solo materia culturale.
Anche il tempo è un fattore fondamentale: spesso infatti un bene diventa “culturale” quando
chi l’ha creato instillandogli il suo sapere, cioè una parte della sua cultura, non è più in
grado di trasmettere questa sua conoscenza. È allora che l’oggetto da lui creato diviene l’unico
contenitore di questa sapienza, ed assurge al rango di bene culturale anche se prima non
lo era. Potremmo quindi definire il bene culturale come un oggetto che è tale perché “contiene”
una conoscenza che il suo creatore non può più trasmettere ad altri direttamente.
Se è così allora ogni manufatto antico realizzato con una qualche forma di perizia può
essere ritenuto un bene culturale 7.
L’artificiosa dicotomia tra materia culturale e conoscenza culturale che abbiamo istituito
serve a supportare una riflessione: la differenza fondamentale tra le due entità è che la prima,
quando c’è, è oggettivamente presente, mentre la seconda esiste o non esiste solo soggettivamente,
dietro l’interesse e le capacità interpretative di chi valuta l’oggetto. Si tratta cioè di una
cosa che nell’oggetto stesso va cercata e riconosciuta, e si manifesta solo per la capacità di riconoscimento
da parte dell’osservatore. Se ci troviamo di fronte alle piramidi, ma esse non ci interessano
o non le capiamo, è come se guardassimo dei semplici mucchi di pietre 8 . Cogliere gli
aspetti culturali di un oggetto è dunque questione di preparazione e di disposizione d’animo.
Per valorizzare culturalmente un bene bisogna allora saper riconoscere ed enfatizzare le
tracce della cultura che esso contiene, per renderle più facilmente intelligibili a chi non è alfabetizzato
ad esse. Musealizzare può significare appunto questo: portare alla luce e rendere
fruibile la conoscenza culturale che è negli oggetti. Ed il concetto di “buon allestimento museale”,
quello che molti di noi hanno avuto opportunità di perseguire praticamente allestendo
mostre, percorsi di visita o musei veri e propri, può essere fatto corrispondere appunto
alla capacità di selezionare gli aspetti connotanti di un bene culturale, enfatizzandoli
e fornendo le informazioni di inquadramento necessarie come chiavi di lettura culturali
per chi non è in grado di farlo autonomamente.
La chiarezza di questo proposito si rivelerà fondamentale anche nell’impostare ogni lavoro
di ricerca sul campo, se destinato anche ad acquisire i dati per una musealizzazione.
ARCHEOLOGIA E CONOSCENZA CULTURALE
Esistono dei beni culturali, ed in archeologia ne incontriamo molti, nei quali la materia culturale
è quasi totalmente scomparsa, mentre la conoscenza culturale è ancora ben viva. O

può esserlo se noi, nell’attuare le nostre ricerche, le dedichiamo la giusta importanza. Potremmo
anche dire che l’archeologia – scienza che studia gli uomini antichi attraverso gli
oggetti da loro lasciati – sia una delle discipline che maggiormente rendono tangibile il divario
che, in una vasta gamma di oggetti, c’è tra la quantità di materia culturale e quella di
conoscenza culturale. Molti siti archeologici non monumentali o sepolti sono infatti un ottimo
esempio in tal senso: in superficie spesso non si vede nulla, e lo scavo, che distrugge il
deposito archeologico mentre lo documenta, si effettua proprio per acquisire la conoscenza
culturale contenuta negli strati e nei manufatti rinvenuti, e per ricostruire la storia dell’evolversi
del contesto archeologico stesso. Qui, dopo lo smontaggio della stratigrafia tramite
lo scavo, non resta alcunché della materia culturale del deposito, ma resta la documentazione
di scavo, che non è null’altro che il condensato della conoscenza culturale contenuta
in esso. Ciò dimostrerebbe che, almeno nel caso di siti sepolti poveri di reperti di valore
(monetale o artistico), la conoscenza culturale conti più della materia culturale, perché per
recuperare la seconda non si esita a distruggere la prima.
In archeologia ambientale, la disciplina che studia le interrelazioni tra l’uomo e l’ambiente
antico, ciò è, se possibile, ancora più vero. L’approccio che sta alla base di questa
disciplina è quello che considera il paesaggio, inteso come porzione di superficie terrestre
occupata da oggetti ed elementi naturali ed antropici frammisti, come il risultato delle
azioni, succedutesi nel tempo, attuate dall’uomo sfruttando e modificando la natura. Di
queste azioni umane possono conservarsi gli esiti sotto varie forme 9 : dai manufatti 10 , agli
ecofatti 11 come discariche o nicchie di cave, agli elementi quali buche di palo o focolari,
alle strutture vere e proprie. A queste aggiungeremmo una quinta classe di esiti, che definiremo
interfatti 12, che sono il risultato di azioni della natura sapientemente orientate
dall’uomo. Ora, se i manufatti, gli elementi e le strutture antiche conservano sicuramente
una più o meno apprezzabile quantità di materia culturale, per gli ecofatti essa già si
riduce alquanto, mentre per gli interfatti la materia culturale spesso non esiste proprio,
per definizione. Eppure, anche se queste ultime entità sono le più sfuggenti da cogliere
in un approccio di studio e di conseguente monumentalizzazione, il valore del loro contenuto
culturale è innegabile.
La conoscenza quindi non è presente solo nei manufatti e delle strutture sparse sui territori,
ma anche negli ecofatti ed interfatti che vi si rintracciano, i quali invece sono solo
rarissimamente oggetto di studio e di musealizzazione. Sono queste entità che nel nostro
approccio di ricerca, al di là dell’analisi di frammenti ceramici, strutture murarie, stratigrafie
archeologiche, rappresentano ciò che vogliamo cogliere. Ciò che ci interessa maggiormente
è comprendere i ragionamenti dell’uomo antico e rintracciare sul paesaggio i
loro esiti.
GLI SCOPI DEL LAVORO SUL CAMPO: INTERPRETARE
Qui più che mai non siamo certo noi a poter affrontare un tema così vasto e complesso, specialmente
per quanto concerne il suo quadro generale. Vogliamo solo fare qualche considerazione,
sulla base della nostra esperienza 13, sulla chiarezza degli obiettivi da raggiungere
quando si imposta un nuovo lavoro di valorizzazione storica di un territorio.
523

524 Come prima cosa, è quasi superfluo sottolineare come l’aver chiaro ciò che si vuole
realizzare rappresenti l’unica possibilità per tentare l’adozione di una metodologia corretta
nell’acquisizione e trattamento dei dati “sul campo”. L’obiettivo è spesso costituito dal
reperimento di un pacchetto di dati – la conoscenza culturale del territorio – che sono
poi quelli tra i quali si selezioneranno le informazioni da divulgare. Ma, alla fine, non sono
i dati provenienti dal “campo” il vero scopo: essi sono solo il mezzo che occorre, mentre
il vero fine che perseguiamo è la loro interpretazione. Per dirla come P. Kosso (1992)
«si fa scienza solo quando ci si chiede: qui che sta succedendo? Non si vuole una descrizione
del fenomeno osservabile, bensì una spiegazione di ciò che lo fa accadere». I dati
grezzi non parlano dell’uomo antico, e se descrivere oggetti e fenomeni è certamente un
primo passo necessario ed imprescindibile, quasi mai esso è sufficiente per fare ricerca. E
tanto meno lo è se ci si rivolge ad un pubblico di non specialisti, non dotati dei mezzi
interpretativi. Inoltre l’interpretazione è il momento nel quale, dopo essersi occupato degli
oggetti, l’archeologo passa ad occuparsi dell’uomo. Non si tratta quindi solo di un
completamento necessario della ricerca, ma del suo momento culminante, quello per giungere
al quale si è fatto tutto il resto.
Questa considerazione sulla dicotomia descrizione-interpretazione, che equivale spesso a
quella oggetto-storia, rispecchia due situazioni piuttosto comuni nell’archeologia italiana: la
prima si verifica quando per esempio ci si trova, nello svolgere determinati incarichi, ad essere
considerati non archeologi ma solo tecnici di scavo 14 . A fare la differenza è qui il fatto
di vedersi o meno chiamati ad interpretare i dati che si sono acquisiti. Ma può accadere anche
che, pur facendo parte di un team all’interno del quale sia possibile elaborare i dati
traendone conclusioni 15, non lo si faccia. Si può infatti a volte cadere vittima di una sorta
di “sindrome di oggettività”, per la quale si teme di falsare le informazioni acquisite dalle
fonti rielaborandole secondo i propri schemi mentali 16 . Questo è un rischio effettivo e tuttavia
ineludibile: chi potrà meglio di noi analizzare le informazioni che noi stessi abbiamo
procurato, per trarne delle conclusioni? Noi abbiamo rinvenuto il sito, noi lo abbiamo veduto
inserito nel suo contesto, noi abbiamo realizzato la documentazione selezionandone i
dati, ed anche se è doveroso mettere a disposizione di altri le informazioni ed ammettere la
possibilità che vengano avanzate interpretazioni differenti dalla nostra, non per questo dobbiamo
esimerci dal compiere fino in fondo il lavoro, assumendoci le nostre responsabilità
scientifiche. Interpretare ciò che troviamo è il nostro lavoro.
Per altro, il modo di procedere che attuiamo nella ricerca – in progress – ci porta a passare
attraverso più di una interpretazione relativa allo stesso oggetto o fenomeno, dal primo
contatto con il sito, all’analisi dei dati completi, al confronto con altri esempi e modelli, all’integrazione
con eventuali informazioni multidisciplinari, al colloquio con i colleghi. E
persino alla fine ciò che possiamo dare non è mai una interpretazione definitiva ma è, tuttalpiù,
il meglio che si possa affermare con quei dati a disposizione in quel momento. Saranno
affermazioni che, in pieno spirito scientifico, potranno essere aggiornate, mutate o
contraddette da qualunque altro lavoro possa venir realizzato. E noi lo sappiamo, dal momento
che a volte sono proprio le nostre ricerche a mutare il panorama delle conoscenze in
un territorio, fino a quando qualcun altro dopo di noi farà lo stesso.
Non crediamo si debba temere di avanzare delle interpretazioni, se lo si fa permettendo
a chi ascolta di giudicarne l’attendibilità, e dichiarando esplicitamente quali siano i limiti

del lavoro svolto. Ciò che conta non dovrebbe essere aver ragione, ma contribuire al progresso
della conoscenza.
SISTEMI INFORMATIVI TERRITORIALI E SISTEMI DI CONOSCENZA STORICA
Il GIS, o SIT (Sistema Informativo Territoriale) è un efficace strumento al servizio dell’archeologia
ambientale. Con esso le nostre ipotesi di ricerca prendono forma, e mediante le
sue funzioni possono essere verificate, validate o modificate. Il GIS diventa il luogo dove
tutte le informazioni convergono, vengono esaminate e generano altre informazioni che verranno
impiegate per nuove estensioni della ricerca, fino a comporre un quadro di conoscenza
completo.
Ma a nostro parere in questo approccio, cha anche noi perseguiamo, c’è almeno un punto
debole: i nostri SIT infatti sono costruiti per gestire informazioni che noi stessi abbiamo
scelto, sulla base di nostre idee preconcette. Non potrebbe per altro essere altrimenti: a differenza
di ciò che accade a chi realizza un GIS per gestire la realtà attuale, il quale ha solitamente
a disposizione tutti i dati relativi ai fenomeni che elabora, gli archeologi hanno prima il problema
di selezionare e recuperare questi dati, e solo poi possono analizzarli. Ciò comporta il
fatto che l’immagine del passato si differenzia da quella del presente perché è formata da elementi
che noi, sulla base delle nostre capacità e conoscenze, abbiamo considerato dovessero
Fig. 1. Un GIS di analisi: la “pericolosità di approccio” sotto il tiro delle artiglierie della rocca di Riolo Terme (Ra).
525

526 formarla 17 . Spesso, se siamo preparati, questa immagine risulterà abbastanza realistica ma a
volte può essere anche clamorosamente falsa. Quante volte abbiamo, di primo acchito, interpretato
come “archeologici” oggetti o fenomeni che non conoscevamo e che si sono poi rivelati
essere tutt’altro, solo perché eravamo lì appunto per cercare oggetti archeologici! Ragioneremmo,
in questo caso, su dati viziati da una nostra errata preselezione, ed anche il nostro
sistema informativo, per quanto tecnicamente perfetto, sbaglierebbe.
Ma che cosa accadrebbe se cominciassimo a realizzare sistemi che cercano di riprodurre
la realtà indipendentemente, e prima, della selezione dei dati che effettuiamo basandoci sulle
nostre ipotesi storiche? Un GIS che non sia funzionale alla manipolazione di dati scelti
da noi, ma che invece contenga tutte le informazioni che concorrono a definire e riprodurre
un territorio storico. Questo è praticamente impossibile da realizzare per ciò che concerne
le informazioni archeologiche, proprio perché i dati vanno cercati, ed inoltre perché più
si approfondiscono le ricerche e più informazioni si acquisiscono, non arrivando mai il momento
nel quale si è registrato “tutto”. Volente o nolente una selezione è sempre indispensabile
e, o si tenta di compierla più correttamente e logicamente possibile o alla fine ci si
trova ad averla effettuata comunque, ma a caso. Per i dati ambientali tuttavia, o almeno per
quelli che ancora oggi sono assimilabili a quelli antichi 18, potremmo partire ponendoci come
primo gradino da raggiungere la realizzazione, all’interno del nostro GIS, di una ripro-
Fig. 2. Un SCS di analisi ambientale: l’impatto del vento di libeccio (in classi di colore da verde a rosso) sul modello
tridimensionale dell’isola di Pantelleria.

Il Sistema di Conoscenza Storica
1: Costruiamo un modello della realtà
ambientale antica
2: Formuliamo una ipotesi storica,
ipotizzando certi dati da riscontrare
“sul campo”
3: Effettuiamo le ricerche
4: Sovrapponiamo i dati acquisiti
al modello della realtà
5: Discutiamo l’ipotesi sulla base del confronto
tra i dati ipotizzati e i dati acquisiti
duzione quanto più fedele possibile del territorio che indaghiamo, indipendentemente e
prima di prendere in considerazione i fattori che, noi supponiamo, influenzarono i comportamenti
umani. In questo caso, almeno per gli aspetti ambientali, avremmo eliminato le
possibili deviazioni indotte dalle nostre idee preconcette, perché semplicemente non le abbiamo
applicate, giuste o sbagliate che fossero. Comportandoci così otterremmo non più un
Sistema Informativo Territoriale, ma una cosa che potremmo definire Sistema di Conoscenza
Storica, modello della realtà sul quale testare le varie ipotesi di fenomeni storici da
noi avanzate in rapporto ad ogni combinazione possibile di fattori ambientali. La differenza
è sintetizzata nelle due definizioni di informazione e di conoscenza: nel GIS l’informazione,
sia archeologica che ambientale, è un dato già finalizzato ad uno scopo preciso, stabilito
da noi e da perseguire a breve termine, mentre nell’SCS la conoscenza – ambientale –
è l’insieme di tutti i dati, non scelti e non finalizzati, così come possono essere letti sul territorio
indipendentemente da una nostra selezione. Se fossimo stati abili, e con le dovute
approssimazioni, realizzeremmo allora un modello dell’ambiente antico tale da poter essere
percepito ed analizzato da noi in modo simile a quello in cui lo percepirono e lo analizzarono
gli uomini antichi. Potremo allora tentare di immedesimarci in loro, nel tentativo di
penetrare, e quindi comprendere, la percezione ed il ragionamento di quando loro stessi dovettero
decidere come agire.
Ipotizzeremo allora dei comportamenti, sulla scelta delle sedi, sullo sfruttamento delle
materie prime, sugli spostamenti, sulle modalità di suddivisione terriera ecc., che diventeranno
le nostre ipotesi di ricerca da perseguire. Solo in seconda battuta andremo a sovrapporre
a questo modello della realtà i dati archeologici, ed osserveremo le interrelazioni tra le
varie classi di informazioni. Sarà come condurre un esperimento scientifico: date le nostre
ipotesi da testare, che hanno come oggetto comportamenti umani, verificheremo se le evi-
527

528 denze archeologiche rinvenute, considerate come l’esito dell’esperimento, le confermano,
modificano o smentiscono. Se i dati saranno parziali vedremo dove saranno le manchevolezze,
imposteremo nuove ricerche sul campo e tenteremo di colmare i vuoti in vista di un
nuovo confronto.
Oggi la realizzazione di SCS efficaci non è ancora possibile, almeno da parte nostra, tuttavia
stiamo tentando di muoverci in tal senso 19 .
ANCORA SUGLI INTERFATTI
Avendo fatto comparire di sfuggita il concetto di interfatto in uno dei paragrafi precedenti
riteniamo necessario fornirne ora una più approfondita spiegazione.
La definizione è stata proposta qui a completamento di uno schema di suddivisione delle
evidenze archeologiche tra i più corretti utilizzati in archeologia 20. Applicando quella
suddivisione all’archeologia ambientale ci è parso che ne rimanessero esclusi gli esiti di alcuni
fenomeni che rivestono invece grande importanza. Nella classificazione di Renfrew i
due fattori discriminanti principali sono l’intenzionalità e l’artificialità degli oggetti, ed in
effetti tutti e quattro i concetti da lui utilizzati – manufatti, ecofatti, elementi e strutture –
sono perfettamente inquadrati secondo questo criterio. Ma accade a volte che un paesaggio,
inteso come una qualunque porzione di spazio geografico antropizzato, contenga le tracce
anche di altre evidenze, che sono naturali nella loro essenza ma possono essersi sviluppate
in modi, tempi o luoghi scelti dall’uomo. Allora non sono più totalmente naturali, ma non
sono ancora né manufatti, né ecofatti, né elementi, né strutture. Ciò si verifica quando l’uomo
prende un elemento naturale e vi esercita un’azione, orientando il suo naturale sviluppo,
in una direzione a lui più favorevole che la natura spontaneamente non gli avrebbe conferito.
E ciò, ripetiamo, senza apportare all’elemento modificazioni fisiche di entità rilevante.
L’interfatto non è dunque un manufatto, poiché non è un oggetto fisicamente creato dall’uomo
con un processo tecnologico artificiale. Non è un ecofatto, dal momento che in esso
l’intenzionalità nella creazione è ben presente, e ovviamente non è un elemento o una
struttura, che alla fine sono solo manufatti non trasportabili e di dimensioni e complessità
realizzativa più o meno elevate.
Gli esempi possono essere molti. Prendiamone uno, un corso d’acqua: se esso è totalmente
privo dell’influenza umana è semplicemente un elemento naturale; se viene imbrigliato
e fatto scorrere in un modo voluto, all’interno di un alveo artificiale, possiamo considerarlo
un manufatto-struttura 21 ; se il torrente scorre, deviando dal suo corso naturale, all’interno
di una depressione creata da una cava di ghiaia, che è un ecofatto, esso continua
ad essere un elemento naturale (è la depressione l’ecofatto, non il torrente, perché è il torrente
che ha “deciso” di scorrere nella depressione, e l’uomo non ha messo intenzionalità nel
fare in modo che ciò accadesse). Ma se l’uomo, studiando il corso del torrente vi trova un
punto di pendenza ambigua, e realizza in quel punto una piccola depressione, tale però che
il torrente alle prime piogge, seguendo la naturale gravità, esca dal suo vecchio alveo e se ne
trovi un altro? Il nuovo alveo è totalmente naturale, perché non è costituito da alcun manufatto-struttura,
il suo andamento è determinato dalla gravità, e l’acqua si trova lì perché
è la natura che ve la porta; tuttavia il torrente non avrebbe mai preso quella direzione sen-

za l’intervento umano, con tutte le conseguenze che ciò può avere. La mutazione del corso
ha comportato una scarsissima attività fisica (lo scavo della depressione) ma è caratterizzata
da una notevole attività intellettuale (conoscenza delle forze che guidano l’andamento dell’acqua,
studio del corso naturale del torrente a monte della depressione, perfetta scelta del
punto ove scavare, conoscenza del regime idrico, capacità di prefigurazione del nuovo scenario
dopo la deviazione e valutazione dei relativi vantaggi ottenibili, capacità di scavo) e da
una netta intenzionalità. Il risultato è un interfatto 22, cioè un oggetto nella creazione del
quale la natura mette la maggior parte della materia e dell’energia e l’uomo mette l’intenzionalità
e la conoscenza. Negli interfatti l’uomo esercita solo azioni dall’entità veramente
limitate rispetto a quelle esercitate dalla natura, ed anzi queste azioni si riducono praticamente
ad una sorta di “ingegneria”, poiché nel gesto umano la conoscenza ha un’importanza
incommensurabilmente maggiore di quella che ha l’azione fisica vera e propria.
Altri esempi sono rappresentati da tutti gli animali o le piante, del tutto naturali in sé e
per sé, inserite in un ambiente che non è il loro. Come accadde per patate, peperoni, pomodori
che, pur non venendo nemmeno lontanamente modificati dall’uomo, all’indomani
della scoperta dell’America furono introdotti nell’ambiente europeo, dove la natura non li
aveva posti. Ed è innegabile cha la loro importazione abbia avuto importanti ricadute sull’alimentazione
del vecchio continente, eppure l’uomo non ha fisicamente agito su questi
oggetti naturali, almeno all’inizio. E potremmo probabilmente rintracciare importanti interfatti
anche nello sviluppo dell’agricoltura nel Neolitico.
Qual è l’utilità della definizione di una classe di oggetti chiamati interfatti, e quale la
connessione con i sistemi informativi territoriali? Non abbiamo introdotto questo concetto
per puro gusto speculativo, ma perché gli interfatti sono oggetti che “contengono” un elevatissimo
livello di conoscenza culturale, sotto forma di capacità ingegneristiche, e come tali
sono dunque beni culturali anche se non contengono molta materia culturale. Sono inoltre
rappresentabili graficamente come oggetti, o almeno lo sono i loro esiti, e forniscono,
archeologicamente, fondamentali informazioni per la comprensione di coloro che li hanno
posti in essere. Formano, infine, una importante classe di oggetti che contribuiscono a configurare
un paesaggio archeologico. La volontà di definire questa nuova classe di oggetti si
giustifica quindi con la necessità di isolarli, spiegarli e rappresentarli in maniera misurabile
qualitativamente e quantitativamente all’interno del nostro GIS, per poterli poi analizzare
nello studio dell’uomo antico.
SUDDIVIDERE L’AMBIENTE ANTROPIZZATO IN UNITÀ DI ANALISI
E INTERPRETAZIONE
Quando ci accingiamo ad impostare un nuovo progetto di archeologia ambientale, magari
gestito da un GIS, abbiamo il problema di crearci un’immagine mentale, di rappresentare all’interno
del nostro computer, e di visualizzare fisicamente, gli spazi antropizzati. Non si tratta
poi nemmeno di una semplice rappresentazione, ma invece di un’analisi, dal momento che
è proprio lo studio di questo ambiente, o questo insieme di ambienti con tutto ciò che li popola,
che ci fornirà la conoscenza culturale che cerchiamo. E non stiamo parlando dello spazio
come supporto di oggetti culturali, ma di uno spazio antropizzato che è esso stesso ogget-
529

530 to culturale, poiché gli uomini antichi hanno interagito con esso nella sua sostanza, anche se
la conoscenza culturale vi sarà presente con densità molto differenti da punto a punto e da
porzione a porzione 23 . Abbiamo allora la necessità di crearci delle unità omogenee di archiviazione
ed interpretazione di dati, cioè porzioni di spazio caratterizzate da una presenza di
elementi antropici, e quindi di conoscenza culturale, più o meno omogenea. Poi andremo ad
applicare questa suddivisione, e la fase di acquisizione dati, la costruzione del GIS, l’analisi
delle informazioni e la loro interpretazione, si baseranno su di essa.
L’effettiva capacità di queste unità di archiviazione dati ed interpretazione di corrispondere
a entità percepite dall’uomo antico – poiché ognuna di esse è alla fine la materializzazione
di uno spazio funzionale vissuto – corrisponde alla principale ipotesi di ricerca che
sottende al nostro approccio: gli uomini antichi, all’atto di decidere dove insediarsi, come
agire e con quali modalità, hanno percepito e valutato l’ambiente dei vari luoghi e hanno
effettuato una scelta applicando il principio di massimo vantaggio con il minimo sforzo 24.
Il “qui sì, qui no” dell’uomo antico sono la risposta a domande tipo “questo luogo è adatto
a fare…?” Il concetto di “questo luogo”, a seconda che si sia trattato di decidere dove porre
materialmente le entità o quale porzione di spazio sfruttare, viene concettualizzato da noi e
visualizzato sul campo o nel GIS rispettivamente come sito, area ecoantropica e zona ecoantropica.
Il processo logico che compiamo “compilando” queste unità logiche ed interpretative
è lo stesso che, da molto più tempo, siamo già abituati ad effettuare quando, rinvenendo
oggetti archeologici, stabiliamo di aver trovato un sito 25 . Stiamo interpretando delle connessioni
ambientali.
La suddivisione che abbiamo messo a punto ed impiegato all’interno di varie campagne
di ricerca è quindi quella che segue 26:
L’entità archeologica è una qualunque entità almeno parzialmente prodotta dall’uomo
antico che possa essere conveniente ai nostri fini rappresentare nello spazio con un puntino
o una figura geometrica. Si tratta di una entità oggettiva, che è così indipendentemente dalla
nostra capacità di interpretarla. Sono le entità archeologiche a poter essere classificate come
manufatti, ecofatti, interfatti, elementi o strutture.
Il sito archeologico è un’installazione umana antica. Perché esso esista deve esserci almeno
una entità archeologica, o più entità correlate tra loro, che si trovi in connessione
con l’ambiente (luogo) ove i suoi utilizzatori abbiano deciso di porla o usarla, o lasciarla 27 .
Fondamentale criterio distintivo è dunque l’intenzionalità della presenza in quel luogo: l’entità
diventa sito nel momento in cui, analizzandone le caratteristiche, possiamo ritenere che
la sua posizione – cioè appunto quella relazione con l’ambiente – sia dovuta ad una intenzionalità.
Ed è proprio questa intenzionalità che denota la volontà di interazione con un
dato ambiente, e dunque è massimamente importante: perché qui e non lì? Questa è la domanda.
Il sito, a differenza dell’entità archeologica, è dunque una unità logica ed interpretativa:
siamo noi che lo istituiamo, nel momento in cui riconosciamo come intenzionale la presenza
di una entità in un luogo. Il sito è il luogo ove è stata intenzionalmente posta una entità
dagli uomini antichi.
L’entità dislocata o sporadica è invece una entità archeologica che si trova ove si trova a
causa di processi avvenuti dopo la sua deposizione da parte degli uomini antichi, oppure
non intenzionalmente 28 . A definire la suddivisione tra sito e sporadico entra allora in gioco

il tempo: perché se il mucchio di mattoni romani spostati dal contadino moderno non è un
sito, tra cinquecento anni lo sarà, perché anche il contadino di oggi tra cinquecento anni
sarà diventato un uomo antico e gli esiti delle sue azioni saranno esiti archeologici.
L’area ecoantropica è quella porzione di spazio più intensamente vissuta da chi ha creato
ed utilizzato la concentrazione di manufatti, ecofatti, interfatti, elementi e strutture relative
ad un sito. Spessissimo essa coincide con una porzione di spazio omogenea dal punto di vista
ambientale, segnatamente nei confronti di quota, pendenza, insolazione, orientamento,
distanze relative (principalmente dall’acqua, ma anche da fonti di approvvigionamento di
cibo, materie prime e di energia). In un’area c’è sempre e solo un sito in una fase storica,
perché essa è anche la porzione di spazio che chi popola il sito considera come “sua”, e può
desiderare possedere come proprietà giuridica. È la porzione omogenea di ambiente con la
quale coincide lo spazio funzionale intorno al sito, lo spazio di intimità, di controllo diretto.
Spesso coincide con il concetto di “casa”, non inteso come struttura, ma appunto con
quello di spazio “proprio”. L’area ecoantropica è lo spazio di azione privilegiata di un gruppo
umano intorno al suo sito.
La zona ecoantropica, è quella porzione di ambiente, più o meno omogenea, sulla quale
si estende il controllo indiretto e si attua lo sfruttamento più intenso, stabile e continuo del
territorio da parte del gruppo umano che ha sede nel sito. Date queste caratteristiche di tipo
principalmente economico essa è una parte del bacino di approvvigionamento del sito
stesso, ed anzi spesso ne è la porzione centrale. È il palcoscenico privilegiato delle azioni produttive
– per le componenti agropastorali – degli appartenenti alla comunità che popola il
Fig. 3. Zona ecoantropica, area ecoantropica e sito.
531

532 sito, ne contiene spesso la totalità dei manufatti, ecofatti, interfatti, elementi e strutture, e
a volte può coincidere con il concetto di territorio del sito.
L’INTENZIONALITÀ
Alla fine ci pare che una grande componente della conoscenza culturale insita in un oggetto
archeologico correlato con l’ambiente stia nell’intenzionalità della sua posizione.
Un ambiente è una porzione di spazio con caratteristiche “ambientali” omogenee (anche
l’area e la zona ecoantropica lo sono) e percettibili. La prerogativa fondamentale di queste
caratteristiche è quella di mutare molto più velocemente con lo spostarsi nello spazio piuttosto
che con il trascorrere del tempo 29. L’uomo è in grado spostarsi in un luogo nel quale
le condizioni ambientali gli siano favorevoli, ma è anche capace di mutare le condizioni ambientali
di un luogo a suo favore. L’entità di questa capacità è estremamente variabile da periodo
storico a periodo storico, da regione a regione, da gruppo umano a gruppo umano e
persino da persona a persona, ma in ogni caso le opzioni di scelta che si pongono, naturalmente
con moltissime combinazioni intermedie, sono sempre quelle due: cercare l’ambiente
voluto o modificarne un altro nel modo voluto. Ciò che ogni individuo o gruppo umano
ha sempre cercato di fare, sulla base dei suoi scopi o necessità, è quindi stato cercare un
luogo nel quale le condizioni ambientali fossero le più idonee a ciò che voleva fare, e poi
modificarlo nella direzione voluta per quanto gli fosse possibile e conveniente farlo. Ecco
che allora l’intenzionalità della scelta del luogo ove si trova un sito è fondamentale per la
comprensione delle necessità e degli scopi dell’uomo antico. Ecco perché è l’intenzionalità
della posizione a fare di una entità archeologica un sito, ed ecco perché è così alto il valore
culturale di un territorio sul quale si trovino evidenze antiche.
Ciò che cerchiamo in archeologia ambientale, che è ciò che consideriamo conoscenza
culturale degli oggetti su di un territorio, sono le ragioni nella scelta dei luoghi ove gli uomini
antichi hanno posto determinate evidenze. Cioè la cultura dell’uomo nei confronti
dell’ambiente antico.
1 Per ragioni di brevità, vista la sede
ed il carattere di questo scritto,
non inseriamo la sterminata bibliografia
relativa a tutte le tematiche
che sfioriamo.
2 Abbiamo già trattato alcuni degli
argomenti in altri contributi: per
l’uso di unità di indagine sulle interrelazioni
uomo-ambiente si veda
A. Monti, Archeologia dei paesaggi
in ambiente montuoso: l’Appennino
Modenese occidentale, in F. Lenzi (a
cura di), Archeologia e Ambiente,
Atti del convegno internazionale,
Ferrara 3-4 aprile 1998, Forlì
1999. Per esempi e metodologie di
impiego di GIS in archeologia ambientale
rimandiamo a A. Monti,
L’archeologia sul terreno: ricognizione
di superficie e GIS, in S. Santoro
Bianchi (a cura di), Pantellerian
ware: antiche pentole di Pantelleria,
in corso di stampa, ed anche ad A.
Monti, L’impiego di modelli predittivi
su Gis applicati all’archeologia
ambientale, in Atti della Terza Con-
ferenza di MondoGIS, Roma,
MondoGIS, 2001, pp. 161-164.
3 Siamo realmente interessati a conoscere
pareri ed opinioni in merito.
Ogni eventuale commento
potrà esserci inviato all’indirizzo
e-mail albertom@iol.it.
4 I termini che utilizziamo sono banali
e non particolarmente gradevoli
all’orecchio, ma riteniamo che
siano piuttosto evocativi e si prestino
bene a questo ragionamento.
5 Una sostanza fisica che ha un va-

lore perché è preziosa come materiale
in sé, oppure perché è stata
foggiata con particolare perizia, o
perché l’oggetto da essa costituito
esiste in un numero molto limitato
di esemplari, o ancora per altre ragioni
simili.
6 È la cultura in senso lato, cioè
l’insieme delle conoscenze intellettuali
alle quali noi possiamo accedere
tramite lo studio di quell’oggetto.
7 Questa, del resto è una opinione
piuttosto diffusa. Si pensi ad esempio
a come, per moltissimi artisti,
la fama sia giunta solo postuma o
come, giustamente, ogni oggetto
antico sia comunemente considerato
“apprezzabile” anche se di scarso
valore artistico o monetale.
8 Questa naturalmente è una esagerazione,
ma ad esempio ci è accaduto
almeno un paio di volte, ahimè,
di sentire architetti considerare
“mucchi di pietre” i resti più antichi
scoperti durante il restauro di fasi
più recenti e monumentali di castelli.
Per non parlare dell’opinione,
di assoluto disinteresse ed anzi di
compatimento, manifestata dalla
maggioranza dei tecnici delle aziende
appaltatrici impegnate in grandi
lavori infrastrutturali, in merito ai
cantieri archeologici ivi aperti.
9 Utilizziamo qui la suddivisione
proposta da Colin Renfrew, P.
Bahn 1995.
10 Oggetti più o meno mobili realizzati
intenzionalmente dall’uomo.
11 Esiti secondari e non intenzionalmente
voluti di azioni umane,
delle quali rappresentano la traccia.
12 Per il concetto di interfatto si veda
più avanti in questo contributo.
13 Chi scrive ha partecipato, prima
come semplice collaboratore e poi
con funzione di direzione, a circa
sessanta tra scavi archeologici, ricognizioni
di superficie ed altri progetti
di ricerca e valorizzazione. Attualmente
è responsabile del reparto
“archeologia ambientale e GIS”
delle missioni “Join-Hadd Project”
e “Carta archeologica di Pantelleria”
per conto del Dipartimento di
Archeologia di Bologna – Cattedra
di Paletnologia – e della realizzazione
del GIS del progetto “Castelli
medievali e neomedievali dell’Emilia-Romagna”
presso il Dipartimento
di Paleografia e Medievistica
della stessa università.
14 Tipica la situazione degli appartenenti
alle cooperative archeologiche
che svolgono scavi su appalto: in
questa situazione la direzione scientifica
delle ricerche è, per legge, affidata
agli ispettori delle soprintendenze,
mentre i membri delle cooperative,
che pure materialmente
eseguono lo scavo, sono appunto
solo “operatori archeologici”.
15 Cosa che accade invece solitamente
durante le missioni di ricerca
universitaria.
16 A chi scrive è capitato un caso simile
durante le ricognizioni nel
Jaalan della campagna 1987-88 di
Join-Hadd Project: su 102 siti archeologici
rinvenuti non ne interpretammo
nessuno, accontentandoci
di documentarli, per mantenere
l’oggettività dei dati senza falsarli
a causa della nostra scarsa conoscenza
di quel contesto. Solo dopo
abbiamo ragionato sul fatto che
i dati stessi, così com’erano, comunque
non sarebbero bastati per
raggiungere un qualunque risultato
storico.
17 Questo è un caso nel quale si manifesta,
e giustamente, la sindrome
di oggettività alla quale abbiamo
accennato più sopra.
18 È chiaro che uno dei passaggi fondamentali
nell’approccio di archeologia
ambientale è quello di ricostruire
il divenire dell’ambiente in
parallelo con l’evoluzione delle presenze
umane, considerando i rapporti
di ogni periodo tra gli uomini
e l’ambiente di quel periodo stesso.
19 Ad esempio la realizzazione del
modello tridimensionale per il GIS
dell’isola di Pantelleria, già costitui-
to da più di ottantamila punti altimetrici
nonostante non sia ancora
completo, ci ha consentito di condurre
esperimenti sull’impatto di
fattori ambientali quali il vento,
che consideriamo abbiano fornito
una risposta molto incoraggiante.
L’implementazione del sistema mediante
software di simulazione dovrebbe
aumentarne ulteriormente
l’efficacia.
20 C. Renfrew, P. Bahn 1995.
21 L’acqua ovviamente è naturale,
ed anche la forza di gravità che la
spinge, ma in estate, quando il torrente
è in secca e l’acqua non c’è resta
solo il manufatto. Una piscina
del resto è un manufatto, con o
senza l’acqua.
22 Una obiezione all’integrazione
della classificazione di Renfrew con
il concetto di interfatto è che quelli
da lui presi in considerazione sono
tutti oggetti mentre, nel primo
esempio da noi portato, la deviazione
del torrente è un fenomeno.
Questo è vero, ma l’interfatto viene
identificato non nell’azione, bensì
nell’oggetto che ne risulta, cioè il
nuovo corso del torrente. Esso è un
oggetto, nel senso che ha una sua
forma, posizione, funzione, origine,
proprio come qualunque altro.
23 Su di esso vi saranno concentrazioni
di manufatti, elementi e
strutture più o meno evidenti, ma
saranno presenti anche ecofatti, e
lo sfruttamento da parte dell’uomo
avrà fatto sì che il paesaggio sia, ad
un attento esame, per buona parte
anche interessato da interfatti.
Facciamo l’esempio, inventato, del
territorio di un ideale e generico
feudo medievale. La massima densità
di conoscenza culturale si avrà
in corrispondenza del castello del
feudatario: qui la perizia dell’edificazione,
la maestria nell’esecuzione
dei particolari, l’accurato studio
degli elementi difensivi, la presenza
di arredi di valore artistico e monetale,
ma anche l’alto valore simbo-
533

534 lico, le connotazioni giuridiche, gli
aspetti prosopografici, e le componenti
storiche e umane renderanno
il castello stesso una elevatissima
concentrazione di cultura. Intorno
al castello stava però un villaggio,
che oggi è distrutto, ma il cui deposito
archeologico sepolto ancora
sopravvive: in esso potremo trovare
probabilmente analoghe componenti
culturali a quelle del castello,
anche se esse saranno presenti in
misura minore e in modalità meno
evidenti. E intorno al villaggio stavano
anche i campi coltivati dagli
abitanti, nei quali l’archeologia potrebbe
trovare tracce della loro conoscenza
sui materiali impiegati
per la costruzione degli attrezzi, sui
cicli stagionali, sulle tecniche agricole,
sull’economia ecc. Ed intorno
staranno le tracce di cave, discariche,
percorsi di spostamento, terri-
Bibliografia
C. Renfrew, P. Bahn 1995, Archeologia,
teoria, metodi, pratica, Zanichelli,
Bologna, pp. 35-36.
tori di caccia, fonti di approvvigionamento
idrico: tutti luoghi che in
qualche modo sono stati sfruttati
dagli abitanti, e ne conservano la
conoscenza culturale.
24 Questo naturalmente fatti salvi
molti altri fattori (economici, sociali,
giuridici, religiosi, culturali)
che possono essere attivi, ma la cui
presenza, a nostro giudizio, gradua
ma non inficia totalmente l’applicazione
di questo principio.
25 Per il fatto che il concetto di sito,
che considera molto meno le connessioni
ambientali, esiste ovviamente
già da molto tempo.
26 Essa è costantemente in via di valutazione,
e passibile di ulteriori aggiustamenti
alla luce di ogni inadeguatezza
che possa emergere nel corso
di nuove ricerche. Questa classificazione
non ha inoltre certo la pretesa
di considerarsi migliore o più
P. Kosso 1992, Reading the book of
nature. An introduction to the
philosophy of science, Cambridge
efficace di quella impiegata da altri
team, ma è la più confacente all’approccio
che applichiamo, per il solo
fatto di essere stata concepita da noi
stessi specificamente per esso.
27 Se non vi fosse questa relazione
tra oggetto e luogo anche un museo
sarebbe un sito archeologico,
cosa che invece ovviamente non è.
28 Una punta di freccia perduta o un
mattone trasportato dall’aratro non
sono siti, perché nella presenza delle
entità in quel luogo non c’è l’intenzionalità
degli uomini antichi.
29 Ciò è reso evidente dal comportamento
degli esseri viventi: trovandosi
in un luogo nel quale le
condizioni ambientali non sono favorevoli,
qualunque essere capace
di farlo ne cerca di migliori spostandosi,
anziché aspettare che
queste mutino spontaneamente in
quel luogo.
University Press, Cambridge,
p. 21.

Percorsi attivi e percorsi passivi, percezione attiva
e percezione passiva: soluzioni museologiche
alternative tra esposizione tradizionale ed esperimenti
di archeologia sperimentale. Alcune esperienze
Carla Corti
RIASSUNTO
La realizzazione di alcune mostre di argomento storico ed archeologico, realizzate presso Musei ed Enti
della provincia di Modena (Campogalliano, Carpi, Finale Emilia, Nonantola, Novi di Modena), ha consentito
di progettare e sperimentare soluzioni museologiche alternative. Sono stati creati percorsi che utilizzavano
esperienze di archeologia sperimentale e di didattica finalizzata alla realizzazione di mostre tematiche.
È stata inoltre incentivata la percezione attiva attraverso l’interattività dell’esposizione e la creazione
di percorsi stratificati.
SUMMARY
A few historical and archaeological exhibitions have been organised at the Museums and institutions within
the Province of Modena (Campogalliano, Carpi, Finale Emilia, Nonantola, Novi di Modena). They have allowed
us to design and implement alternative museological solutions. Itineraries based on experimental archaeological
and educational experiences have been suggested for the mounting of thematic exhibitions, with a
specific focus on interactive exhibitions and on the development of layered itineraries.
I termini “percorso attivo” e “percorso passivo” adottati in relazione all’esperienza museografica
che si intende qui presentare 1 si riferiscono all’esistenza o meno di un’interattività fisica
con la mostra-museo, mentre con i termini “percezione attiva” e “percezione passiva” si
intende il coinvolgimento mentale, sia di carattere emotivo che intellettuale. Percorsi passivi
possono comunque stimolare una percezione attiva, che consenta di non subire l’esperienza
museografica.
La realizzazione di alcune mostre di argomento storico-archeologico, tenutesi presso
Musei ed Enti della provincia di Modena tra il 1998 e il 2002, ha permesso di sperimentare
varie soluzioni museografiche incentrate su progetti espositivi orientati, di volta in volta,
verso l’adozione di opzioni alternative alle mostre di tipo tradizionale, anche con esperimenti
di “museologia didattica”, e verso la creazione di percorsi interattivi in grado di coinvolgere
al massimo il visitatore, lasciandolo contemporaneamente libero di scegliere il grado
di coinvolgimento desiderato, per dare vita a “percorsi stratificati”.
La fruizione dei dati storici-archeologici è sovente legata, nei musei e nelle mostre temporanee,
a percorsi ed esposizioni di tipo tradizionale, caratterizzati da vetrine, generalmente
accompagnati da pannelli esplicativi. Solo talvolta sono presenti specifici apparati illustrativi
(grafici, visivi e ricostruzioni), spesso in qualità di approfondimenti utili, ma riferiti
ad argomenti specifici, che rischiano di non integrarsi appieno nell’apparato espositivo
generale. Sono scelte espositive che comunque privilegiano una fruizione passiva dell’evento.
Si tratta, in alcuni casi, di una scelta obbligata, in quanto l’esistenza di musei “storici”,

536 che vennero fondati alla fine dell’Ottocento con criteri museografici propri dell’epoca, non
ha lasciato altra scelta agli operatori che hanno voluto documentare questo importante
aspetto della storia locale. Non sempre l’esperienza museografica tradizionale consente di
apprezzare appieno le potenzialità espositive della mostra-museo.
Nelle soluzioni espositive di tipo tradizionale la didattica e l’interazione vengono spesso
isolate in percorsi e/o aule con funzione specifica, creati per essere utilizzati da determinati
target di pubblico (generalmente scolari delle scuole elementari e medie). Si tratta di soluzioni
di solito distinte, anche fisicamente, dalla mostra principale o dal percorso del museo
e riservate al pubblico scolastico. La realizzazione di mostre e percorsi esclusivi ha il pregio
di coinvolgere e stimolare al massimo gli studenti, ma estromette invece il fruitore medio,
le cui conoscenze sono spesso prettamente scolastiche ed al quale il percorso tradizionale potrebbe
non bastare per sentirsi coinvolto e per comprendere appieno l’argomento trattato.
Infatti, essendo assai diverse le soluzioni adottate, che mantengono percorsi distinti e differenziati,
si rischia, nei percorsi espositivi di tipo tradizionale, di selezionare eccessivamente,
senza filtrarle adeguatamente, le informazioni utilizzando sistemi di comunicazione che non
sempre possono risultare adatti al pubblico che si intende coinvolgere nell’evento, stimolandone
la percezione effettiva.
L’attenzione a questo importante aspetto della comunicazione e l’intenzione di non appesantire
gli argomenti del percorso con troppe nozioni scritte ed elaborate ha portato ad
adottare, nelle esperienze museografiche di tipo tradizionale, alcune soluzioni mutuate da
tipi di comunicazione diversa, come quella prettamente didattica. È questo, ad esempio, il
caso nella mostra “Il rinvenimento di una tomba ‘alla cappuccina’ in località Foresto. Il territorio
di Novi nel Medioevo” (Novi di Modena, ottobre 1998). La scoperta fortuita di una
tomba infantile di età altomedievale 2 e l’interesse suscitato dall’evento presso la comunità
locale hanno incentivato il Comune di Novi di Modena alla realizzazione di una piccola
mostra incentrata sul rinvenimento 3 . Il recupero, cui hanno partecipato vari appassionati di
storia locale, è stato accuratamente documentato nelle sue varie fasi ed è stato riprodotto attraverso
la ricostruzione della tomba, del tipo “alla cappuccina”, e della stratigrafica di rinvenimento
4 . La necessità di spiegare le modalità e le caratteristiche del ritrovamento e, più
in generale, di illustrare in modo semplice e diretto l’adozione del metodo stratigrafico nello
scavo archeologico si è concretizzata nella realizzazione di una particolare struttura che
consentisse una lettura rapida ed immediata della stratigrafia. Il rinvenimento è stato infatti
descritto attraverso la ricostruzione puntuale della tomba su piani sfalsati, per mostrare le
caratteristiche strutturali del sepolcro, all’interno di una struttura in plexiglas in grado di
contenere anche la riproduzione della situazione stratigrafica semplificata 5 . Il contenitore è
stato realizzato esternamente in plexiglas per consentire una completa visibilità. È stato in
questo modo possibile mettere in evidenza il taglio effettuato nel terreno per la costruzione
della sepoltura, il riempimento interno al taglio, che comprende anche la deposizione, il terreno
arativo, che sconvolge gli strati della frequentazione del sepolcro, ed infine il piano di
campagna attuale (piano erboso superficiale). La ricostruzione è stata accompagnata da due
pannelli relativi al rito funebre ed all’illustrazione delle varie fasi del rinvenimento. Lo svolgimento
del percorso espositivo prevedeva l’inserimento di questa struttura all’interno di
una mostra di tipo tradizionale, che illustrava i vari aspetti del popolamento antico nel Modenese,
con particolare attenzione ai reperti archeologici di età medievale rinvenuti nel ter-

itorio locale (pieve preromanica di Novi e castrum altomedievale di S. Stefano). L’iniziativa
è stata corredata da un quaderno a carattere divulgativo con un inquadramento generale
e strumenti di approfondimento dei vari argomenti trattati (Corti 2000).
L’inserimento di questa soluzione museologica integrativa del percorso di tipo tradizionale,
aveva l’intento di stimolare la percezione attiva del visitatore (scolari ed adulti con conoscenze
di tipo scolastico o appassionati di storia locale non specialisti della materia) per
agevolare e semplificare, rendendola immediata, la comprensione di un argomento a carattere
altamente tecnico.
Un’alternativa vera e propria agli allestimenti di tipo tradizionale è rappresentata invece
da soluzioni integrate di “museologia didattica”, realizzate in mostre che coinvolgono direttamente
gli scolari mediante lo svolgimento in classe di una specifica attività didattica e di
laboratorio. Non si tratta semplicemente di laboratori didattici in mostra, ma dell’adozione
di una soluzione espositiva che, attraverso un’accurata progettazione, coniuga l’attività svolta
durante l’anno scolastico con i mezzi comunicativi tipici di una mostra vera e propria,
coinvolgendo gli studenti nella realizzazione dell’allestimento e nella presentazione dell’evento.
La scelta di un argomento ed il suo svolgimento nell’ambito del percorso espositivo
condiziona, in questo modo, direttamente sia la preparazione dell’attività di laboratorio che
i temi delle lezioni tenute in classe. I laboratori dovranno fornire, alla fine dell’esperienza
didattica, il materiale necessario per l’allestimento. Le lezioni porteranno invece alla realizzazione
dei pannelli illustrativi ed alla preparazione della visita guidata inaugurale.
Questo tipo di soluzione museografica è stata sperimentata in due occasioni. La prima ha
riguardato la sezione romana della mostra “La storia siamo noi ...” (Carpi, 15 maggio-9 giugno
1999) 6. In questo caso, viste le caratteristiche della sala espositiva, il percorso è stato incentrato
sulla realizzazione di una strada romana, affiancata da un lato da monumenti funebri
(sarcofagi e lapidi funerarie) e da un cippo miliario. Sulla strada è stato poi rappresentato
un corteo funebre in corso di svolgimento. Il percorso si concludeva trattando gli insediamenti
rurali, inseriti nella centuriazione e nella viabilità generale, attraverso l’illustrazione di
alcuni aspetti tipici della cultura materiale, come, ad esempio, la riproduzione di alcuni mosaici
rinvenuti nelle ville urbano-rustiche. Tutti gli argomenti sono stati adattati all’ambito locale,
proponendo riproduzioni di monumenti e di reperti provenienti dal territorio e conservati
presso i Musei modenesi. I monumenti e le figure, realizzate su sagome dipinte a tempera,
sono state rispettivamente addossate alla parete e poste su supporti autoportanti lungo la
strada. L’attività di laboratorio ha portato alla creazione di una vera e propria scenografia con
sagome a grandezza naturale, o quasi, corredata da pannelli illustrativi sull’argomento, che
sono stati raccolti in un quaderno-guida all’allestimento (Calice, Corti 1999).
La mostra “Abitare nell’Antichità” (Les Mureaux, 9 aprile-9 maggio 2002) è stata invece
interamente incentrata sull’adozione di questa soluzione espositiva integrata di museografia
didattica 7 (fig. 1). Si tratta di un’esposizione allestita a Les Mureaux (Francia) in seguito alle
attività di gemellaggio tra questo comune e quello di Nonantola. Il nucleo della mostra è rappresentato
da una selezione di materiali archeologici rappresentativi della storia locale, dall’età
del Bronzo al Tardoantico, provenienti dal territorio nonantolano e conservati presso
l’Antiquarium. In base a questi reperti archeologici è stato elaborato un progetto espositivo 8 ,
incentrato sui modi dell’abitare e sulla vita quotidiana nell’antichità, che ben rappresentasse
la storia del territorio nonantolano. Il percorso è stato suddiviso in tre sezioni: “Le età del-
537

538
Fig. 1. Abitare nell’Antichità (Les Mureaux, 9 aprile-9
maggio 2002). L’allestimento della mostra eseguito
dagli studenti delle classi III della Scuola Media Statale
“Dante Alighieri” di Nonantola (MO).
Fig. 2. Abitare nell’Antichità (Les Mureaux, 9 aprile-9
maggio 2002). Particolare di un pannello con scena di
filatura e tessitura di età villanoviana (IX-VII sec. a.C.).
l’uomo” (I), “Alcuni aspetti della vita quotidiana: la tessitura e la ceramica” (II), “I laboratori
didattici” (III). La I sezione, introdotta da un pannello dedicato alla “spirale del tempo“ dove
è stata graficamente messa a confronto la storia di Les Mureaux con quella di Nonantola,
risulta articolata in comparti cronologici. L’allestimento dei reperti nelle vetrine è stato affiancato
dalle riproduzioni, puntuali o tematiche, degli oggetti elaborati dai ragazzi nei laboratori
didattici, come ad esempio le fibule ottenute dal filo di rame o stagno in modo filologicamente
corretto 9. Il percorso è stato corredato da pannelli illustrativi, realizzati in classe,
che introducono i vari periodi storici focalizzando di volta in volta l’attenzione su di un personaggio
rappresentativo o un argomento specifico (il cacciatore preistorico, il terramaricolo,
il funerale villanoviano, il guerriero celtico, il colono romano). La II sezione affrontava
due aspetti peculiari dell’attività domestica e della vita quotidiana nelle epoche antiche: la tessitura
e la ceramica. In questo caso lo svolgimento degli argomenti ripercorre in senso trasversale
le suddivisioni temporali illustrate nella I sezione, venendo a costituire, per ognuno
dei due temi scelti, un filo conduttore che si svolge dalla preistoria all’epoca romana, senza soluzione
di continuità (fig. 2). Sono stati qui esposti i prodotti dei laboratori a corredo dei
pannelli tematici ed il telaio verticale utilizzato nelle prove di tessitura 10. Infine, la III sezione
illustra puntualmente in pannelli l’attività svolta nel corso dell’anno scolastico.
Il progetto ha inoltre previsto una “gara di idee” per il titolo da assegnare alla mostra. I
risultati, elaborati anche graficamente dai ragazzi, sono confluiti nel pannello conclusivo del
percorso espositivo, con l’intento di sottolineare l’importanza di un progetto di museologia
didattica volto al coinvolgimento totale dello studente, che da fruitore si è trasformato in
operatore, da destinatario di un messaggio culturale in artefice. L’intento è quello di far
comprendere appieno sia gli argomenti trattati che le difficoltà connesse alla preparazione e

presentazione di mostre e allestimenti, per farne apprezzare al meglio il risultato finale e
contribuire a creare una maggiore sensibilità nei confronti di eventi culturali 11 .
Le esperienze fin qui riportate, anche se introducono elementi e soluzioni alternative agli
allestimenti di tipo tradizionale, prevedono, per loro natura, una fruizione sostanzialmente
passiva dell’evento.
Per creare un maggiore coinvolgimento finalizzato ad una migliore comprensione degli
argomenti trattati ed incentivare il rapporto dialettico tra mostra/allestimento e visitatore,
stimolando la percezione, sono state adottate soluzioni volte a privilegiare una fruizione attiva
attraverso soluzioni museologiche specifiche. Al contempo, la volontà di lasciare libero
il visitatore di scegliere le modalità della visita e il grado di interazione desiderato, per dare
la possibilità di trovare un approccio soggettivo e personale all’evento culturale, ha portato
a sperimentare “percorsi stratificati”.
In questo tipo di soluzioni museologiche, sfruttando contemporaneamente varie modalità
di comunicazione (testi, illustrazioni, scenografie, giochi, schede tematiche, esperienze
di archeologia sperimentale, filmati, ecc.) si è cercato di creare vari livelli indipendenti ma
cumulabili di approfondimento e coinvolgimento. Toccare, fare e ricreare situazioni attraverso
la riproduzione di antichi gesti della vita quotidiana non diviene pertanto un imperativo
categorico che condiziona la visita. L’interazione con alcune parti del percorso espositivo,
anche se costituisce un elemento portante di questo tipo di soluzione museologica, viene
lasciata alla sensibilità del visitatore per permettergli di accostarsi all’argomento nel modo
più consono alle proprie aspettative ed offrendo la possibilità di calibrare personalmente
la visita in base alle proprie attitudini e conoscenze.
Per questo motivo l’allestimento assume all’apparenza un certo grado di indipendenza
dall’esperienza interattiva, grazie soprattutto a ricostruzioni d’ambiente, diorami, riproduzioni
di oggetti antichi e situazioni particolari che illustrano gli argomenti anche senza la
necessità di essere toccati ed usati. Si tratta in definitiva della creazione di un’esperienza museologica
che prevede chiavi di lettura diversificate per grado di approfondimento e sistema
di comunicazione, attraverso percorsi attivi e passivi, con la creazione di “itinerari” diversi
che si articolano sull’intero percorso, ma perfettamente integrabili a vicenda e cumulabili
nel corso della visita.
Considerando l’importanza della variabilità nel tipo di approccio alla materia, sia dal
punto di vista concettuale che espositivo, nell’adozione di percorsi stratificati l’unitarietà
della progettazione museografica deve essere sottolineata dall’uniformità del progetto di allestimento
(arredo espositivo).
Infine, un aspetto museologico importante e particolarmente rilevante nell’adozione di
questo tipo di soluzione stratificata è determinata dal fatto che l’interazione con l’esposizione,
che prevede l’impiego di copie fedelmente riprodotte di oggetti antichi, consente di
abbattere quella barriera, costituita fisicamente dal vetro delle vetrine e psicologicamente
dalla negazione di un approccio diretto con oggetti d’uso comune o, comunque, liberamente
fruibili nell’antichità, che caratterizza gli allestimenti di tipo tradizionale.
Questo tipo di soluzione museologica è stata sperimentata in due mostre tenute a Campogalliano
e Finale Emilia nel 2001 nell’ambito degli eventi legati all’iniziativa “Pondera.
Pesi e Misure nell’Antichità” promossa dal Museo della Bilancia di Campogalliano, dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e dalla Provincia di Modena 12 .
539

540 La mostra interattiva “Pesi e misure nella vita quotidiana” (Campogalliano, 21 gennaio-
31 dicembre 2001), allestita presso il Museo della Bilancia, faceva parte di un percorso museologico
articolato in tre esposizioni tematiche dislocate all’interno del centro di Campogalliano
e collegate da un percorso contrassegnato a terra dalla riproduzione dell’unità di
misura romana (il piede) e dal suo multiplo (il passo) 13 . Il visitatore veniva così guidato attraverso
le varie manifestazioni dell’iniziativa. Lo stesso espediente è stato adottato anche
nella mostra interattiva per collegate tra loro le varie postazioni tematiche collocate lungo il
percorso dell’esposizione permanente, negli spazi previsti per le mostre temporanee. La particolare
struttura allestitiva del Museo ha in questo modo permesso di sviluppare singoli temi
legati all’utilizzo di pesi e misure nella vita quotidiana, analizzandone i vari aspetti del
loro impiego nei mestieri e professioni: “Pesi e misure in epoca romana”, che introduceva
l’argomento anche dal punto di vista legislativo e amministrativo; “Misurare e costruire un
impero”; “Produzione e commercio di tessuti”; “Un mondo di ‘ricette’”, che riguardava l’utilizzo
di strumenti di misura nella farmacopea e nella cosmesi riproponendo antiche ricette
e rimedi da sperimentare (schede tematiche); “Lavorare i metalli”; “Piccoli e grandi commerci:
il commercio al dettaglio”; “Piccoli e grandi commerci: il commercio all’ingrosso”. Il
percorso era integrato da una postazione aggiuntiva, “Pesi e Misure nel territorio modenese”,
che attraverso l’esposizione di reperti archeologici rinvenuti negli insediamenti rurali
romani del territorio di Campogalliano consentiva di mostrare l’effettivo utilizzo quotidiano
degli strumenti di misura.
I sistemi di comunicazione impiegati nell’illustrare i singoli argomenti sono vari, soprattutto
per quanto riguarda la parte interattiva, ma non solo. Nel creare percorsi stratificati
sono stati utilizzati pannelli, schede tematiche di approfondimento, copie di oggetti, riproduzioni
funzionanti di strumenti, scenografie, ricostruzioni d’ambiente, diorami e giochi
tematici. Ogni chiave di lettura veniva in questo modo ad integrarsi con le altre pur rimanendo
autonoma, sia nella presentazione e nell’allestimento, che nella modalità di visita.
Le ricostruzioni d’ambiente e gli apparati scenografici sono stati eseguiti in modo filologicamente
corretto, basandosi su fonti antiche (archeologiche, iconografiche, epigrafiche, numismatiche,
letterarie e documentarie).
Per mantenere alti il livello di attenzione nel visitatore e la percezione attiva dell’iniziativa
sono state progettate soluzioni espositive diversificate nelle singole postazioni tematiche.
Si è cercato pertanto di sollecitare continuamente il visitatore attraverso l’utilizzo di sistemi
di comunicazione di vario tipo, che riproponessero gli argomenti in modo insolito e
soprattutto variato e permettessero così di mantenere costante il livello di attenzione e partecipazione
attraverso stimoli sempre nuovi.
Un esempio della ricerca di sistemi di comunicazione diversificati, anche quando è stata
adottata una risoluzione analoga di tipo scenografico, è rappresentato dalla riproduzione
a grandezza naturale di due botteghe, quella del bronzista (“Lavorare i metalli”) e quella del
macellaio (“Piccoli e grandi commerci: il commercio al minuto”) 14 (fig. 3). Entrambe le ricostruzioni
sono interattive in quanto comprensive della riproduzione funzionante di uno
strumento di misura, una bilancia a bracci uguali e una stadera. Tuttavia, nel primo caso è
stata ricostruita tridimensionalmente una bottega, nella quale si poteva entrare fisicamente
per osservare da vicino gli oggetti e per utilizzare la bilancia con cui venivano pesati sia il
metallo che i recipienti finiti. In questo caso, l’interpretazione della fonte antica è stata li-

Fig. 3. Pesi e misure nella vita quotidiana
(Campogalliano, 21 gennaio-
31 dicembre 2001). La bottega del
bronzista.
Fig. 4. Pesi e misure nella vita quotidiana
(Campogalliano, 21 gennaio-31
dicembre 2001). Gioco interattivo.
mitata al minimo. Nel secondo caso è stata invece privilegiata una visione frontale, unidimensionale,
riproducendo ingrandita la fonte iconografica (una lapide). L’interattività è qui
garantita dall’espediente di rendere tridimensionali e utilizzabili sia la stadera che i tranci di
carne appesi per essere pesati e venduti. Fare e toccare, pesare e misurare diviene così possibile
ma non obbligatorio.
Per quanto riguarda il gioco, vari sono i tipi di risoluzione adottati per fare interagire i visitatori,
diversificati anche per modalità e grado di difficoltà. Ad esempio, nella sezione dedicata
a “Misurare lo spazio” era possibile completare un affresco pompeiano di II stile utilizzando
il punto di fuga, riproduzioni di strumenti di misura antichi e colori. Per facilitare il lavoro
erano presenti gli elementi principali del disegno prospettico e sopra il disegno da integrare
era collocata, nelle stesse dimensioni, la riproduzione esatta dell’affresco. Il disegno ul-
541

542
timato veniva poi sostituito con uno nuovo. Un altro esempio di tipo diverso era invece rappresentato
dal gioco collocato all’ingresso. Esso consisteva in un pannello orizzontale dove le
sagome degli strumenti di misura, incontrati durante la visita ed illustrati nella scheda-glossario,
dovevano essere sistemate vicino all’esatta definizione (fig. 4). In questo modo poteva
essere verificato il grado di conoscenza prima e dopo la visita. Era inoltre possibile provare a
comporre ricette di medicinali o cosmetici (fig. 5), indossare vari capi di vestiario (fig. 6), la
cui stoffa veniva venduta anche a peso, cimentarsi nella misurazione del grano, ecc.
Gli apparati didattici erano infine completati da schede tematiche che consentivano di
utilizzare al meglio gli strumenti, attraverso un glossario illustrato con disegni, e le postazioni
interattive. Le schede potevano poi essere raccolte per costituire così una guida didattica
all’esposizione.
L’incipit alla mostra interattiva era costituito dalla rappresentazione di un episodio particolare
della storia di Roma: l’assedio della città ad opera dei Celti di Brenno nel 390 a.C.
e il pagamento del riscatto con una bilancia di grosse dimensioni (fig. 7). La contestualizzazione
storica dell’argomento “pesi e misure” consentiva di focalizzare l’attenzione su di un
aspetto peculiare della vita quotidiana, testimoniando il consueto utilizzo di strumenti di
misura e la loro familiarità presso i Romani. L’episodio è stato rappresentato all’esterno del
Museo, presso l’ingresso, mediante sagome di dimensioni maggiori del reale che riproducevano
una bilancia tra un cittadino romano e Brenno. Le immagini erano accompagnate e
commentate dal brano dello storico Tito Livio (V, 48), che descrive la vicenda. La ricostruzione
dell’episodio, privilegiando una visione prettamente frontale, aveva anche la funzione
di attrarre il pubblico di passaggio e non informato sull’esistenza di una mostra tematica all’interno
del Museo. Si tratta di un altro esempio di come sia possibile variare i sistemi di
comunicazione per ottimizzare la percezione dell’evento culturale.
Oltre alla mostra interattiva, sono state allestite una mostra archeologica, presso l’Oratorio
seicentesco di S. Rocco, dove sono confluiti prestiti da vari musei regionali ed extraregionali 15
e una postazione dedicata alla misurazione del tempo, collocata in Piazza della Bilancia, dove
Fig. 5. Pesi e misure nella vita quotidiana
(Campogalliano, 21 gennaio-
31 dicembre 2001). Postazione interattiva
dedicata alla farmacopea
ed alla cosmesi.

Fig. 6. Pesi e misure nella vita quotidiana
(Campogalliano, 21 gennaio-
31 dicembre 2001). Postazione interattiva
dedicata alla produzione e
al commercio dei tessuti con capi di
abbigliamento in prova.
Fig. 7. Pesi e misure nella vita quotidiana
(Campogalliano, 21 gennaio-
31 dicembre 2001). Brenno e l’assedio
di Roma (390 a.C.): scena del
pagamento del riscatto.
Fig. 8. Tessuti, colori e vestiti del
mondo antico (Finale Emilia, 20 aprile-6
giugno 2001). Sezione dedicata
ai processi di tintura.
543

544 la riproduzione di una meridiana orizzontale
era accompagnata da pannelli tematici, a
contenuto storico e tecnico, e da alcune tavole
tratte dal fumetto Martin Mystère.
Un altro esempio dell’adozione di percorsi
stratificati è rappresentato della mostra
“Tessuti, colori e vestiti del mondo antico”,
tenuta a Finale Emilia (Castello delle Rocche,
20 aprile-6 giugno 2001) 16 (fig. 8). In
questo caso è stato adottato contemporaneamente
anche un progetto di museologia
didattica, realizzata attraverso varie esperienze
di archeologia sperimentale effettuate
da alcune classi dell’Istituto Tecnico Agrario
“Ignazio Calvi” di Finale Emilia (fig. 9).
L’argomento riguardava la produzione di
tessuti e vestiti nell’antichità, dalla materia
Fig. 9. Istituto Tecnico Agrario “Ignazio Calvi” (Finale
Emilia). Estrazione della fibra dalle piante di ortica: formazione
dei fasci per la macerazione.
prima, di origine sia vegetale che animale, al
prodotto finito, ripercorrendo puntualmente
i processi di lavorazione e confezione (fig.
10). Il progetto è stato realizzato dopo
un’attenta documentazione per una corretta ricostruzione delle varie fasi della produzione.
Nella mostra sono confluite sia le esperienze effettuate dagli studenti di agraria, seguiti
puntualmente dai rispettivi professori, sia le ricostruzioni perfettamente funzionanti di an-
Fig. 10. Tessuti, colori e vestiti del mondo antico (Finale
Emilia, 20 aprile-6 giugno 2001). Alcuni esempi di abbigliamento
di epoca romana.
Fig. 11. Tessuti, colori e vestiti del mondo antico (Finale
Emilia, 20 aprile-6 giugno 2001). Telaio verticale
con ordito teso da contrappesi fittili.

Fig. 12. Tessuti, colori e vestiti del
mondo antico (Finale Emilia, 20 aprile-6
giugno 2001). Prova di tessitura.
Fig. 13. Tessuti, colori e vestiti del mondo antico (Finale Emilia, 20 aprile-6
giugno 2001). Sezione dedicata agli insediamenti rurali di età romana del
territorio finalese.
tichi strumenti, come le bilance e le stadere utilizzate per dosare le sostanze coloranti, i telai
impiegati nella confezione dei tessuti (figg. 11-12), gli strumenti per le operazioni di finissaggio,
i vestiti e gli accessori necessari per indossarli 17 .
Il tema “Tessuti, colori e vestiti del mondo antico” era introdotto da una parte archeologica
dedicata agli insediamenti rurali del territorio, dove sono stati rinvenuti, tra l’altro,
pesi in pietra, anche di grosse dimensioni, elementi pertinenti a strumenti di misurazione
(bilance e stadere) e contrappesi utilizzati nei telai di tipo verticale (fig. 13).
Anche in questo caso è stata privilegiata una fruizione personalizzabile del percorso, con
la possibilità di adattare le esperienze interattive alla sensibilità del visitatore.
1 Si tratta di un tipo di esperienza
formata sul campo, adeguandosi di
volta in volta sia alle esigenze del
pubblico che a quelle dei committenti,
sia alle caratteristiche dell’oggetto-soggetto
del progetto museografico.
2 Il rinvenimento, un’inumazione
in cassa laterizia con copertura a
doppio spiovente, realizzata mediante
mattoni manubriati e frammenti
di tegole (materiale di recupero),
è stato effettuato nel settembre
1997.
3 Per quanto riguarda il rinvenimento
e la mostra si vedano Corti
1998a e Corti 1998b.
4 Al recupero e all’allestimento
hanno partecipato il Gruppo Archeologico
Carpigiano, il Gruppo
Storico Novese e il Gruppo Naturalistico
Novese. A tutti loro va un
sentito ringraziamento.
5 La struttura progettata è stata
realizzata del Gruppo Naturalistico
Novese, cui si devono preziosi suggerimenti
e modifiche per garantirne
la stabilità e diminuire il peso e
la pressione del terreno sull’involucro
esterno in plexiglas.
6 La mostra, allestita nel Castello
dei Pio (Sala Cervi), è stata realizzata
delle scuole elementari del 4°
circolo di Carpi. La sezione egizia e
quella etrusca sono state curate da
Mario Calice. I laboratori didattici
sono stati seguiti in classe da Cristina
e Stefano Benatti.
7 La mostra, promossa dal Comune
di Nonantola, dal Comune di
Les Mureaux, dalla Soprintendenza
per i Beni Archeologici dell’Emilia-
Romagna, dal Comitato di Gemellaggio,
dalla Scuola Media Statale
“Dante Alighieri” e dall’Archeoclub
d’Italia – sede di Nonantola, è stata
temporaneamente in parte riallestita
presso l’Antiquarium di Nonantola
(27 luglio-31 dicembre 2002).
8 Il progetto prevedeva anche
un’accurata documentazione (testi
545

546 ed illustrazioni) da fornire agli insegnanti
per realizzare i laboratori
didattici ed i pannelli tematici della
mostra.
9 L’attività di laboratorio si è basata
su una ricerca puntuale. A titolo
di esempio, per quanto riguarda le
fibule si veda Pernot et Alii 1991.
10 Il telaio verticale con ordito tenuto
ben teso da contrappesi fittili
è stato fedelmente riprodotto dal
Gruppo Culturale R6J6 di Finale
Emilia (MO).
11 La mostra, inaugurata a Les Mureaux,
è stata presentata dai ragazzi
delle 3 e classi, mentre alla preparazione
dei materiali per l’allestimento
hanno partecipato anche varie 2 e
e 1 e classi. L’utilizzo del francese
per la visita guidata inaugurale ed i
testi dei pannelli ha visto direttamente
coinvolte anche le insegnanti
di lingua.
Bibliografia
G.L. Bonfatti, G. Casoni, C. Corti,
R. Ferraresi 2003, Tessuti, colori
e vestiti del mondo antico.
Una mostra realizzata attraverso
esperienze di archeologia sperimentale,
in L’immaginazione è un
tappeto volante. Aule e laboratori
didattici nei Musei Archeologici
dell’Emilia-Romagna: esperienze
a confronto, Atti del Convegno,
Monterenzio/BO, 22 novembre
2001, a cura di F. Guidi, C. Taglioni,
S. Vellani, Bologna.
M. Calice, C. Corti (a cura di)
1999, La storia siamo noi..., Carpi,
Tipografia Comunale.
A. Ciarallo, E. De Carolis (a cura
di) 1999, Homo Faber. Natura,
scienza e tecnica nell’antica Pompei,
Milano, Electa.
12 Per quanto riguarda la progettazione
delle due iniziative si veda
Corti, Giordani 2003 e Corti, Tessuti,
colori e vestiti del mondo antico.
Progetto per una mostra didatticainterattiva,
in Corti, Giordani
2001, pp. 8-13.
13 È stato in questo modo riprodotto
il sistema di quantificazione delle
distanze itinerarie, che venivano
calcolare in miglia (1 miglio =
1.000 passi).
14 Le fonti iconografiche utilizzate
per le ricostruzioni d’ambiente sono,
rispettivamente, un’insegna di
bottega ritrovata a Pompei (Museo
Archeologico Nazionale di Napoli;
si veda Ciarallo, De Carolis 1999,
p. 176) e una lapide funebre conservata
a Dresda (Skulpturensammlung;
si veda Zimmer 1982,
p. 94). Le scenografie sono state
realizzate da Artificio (Monza). Il
C. Corti 1998a, Novi di Modena, loc.
Foresto, in “Archeologia dell’Emilia
Romagna”, II/2, p. 172.
C. Corti 1998b, Mostra “Una tomba
‘alla cappuccina’ in località Foresto.
Il territorio di Novi nel Medioevo”,
in “Archeologia dell’Emilia Romagna”,
II/2, pp. 235-237.
C. Corti 2000, Novi tra Antichità e
Medioevo. Il rinvenimento di una
tomba “alla cappuccina” in località
Foresto, Mantova, Editoriale
Sometti.
C. Corti, N. Giordani (a cura di)
2001, Tessuti, colori e vestiti del
mondo antico. Momenti di archeologia
sperimentale, Finale
Emilia (MO), Baraldini.
C. Corti, N. Giordani 2003, Pondera.
Pesi e misure nell’antichità.
progetto museografico è di Carla
Corti. Il progetto di allestimento è
di Multiversum (Modena).
15 I Musei Nazionali di Aquileia,
Cividale del Friuli, Ferrara, Napoli,
Parma, Marzabotto, Roma (Museo
Nazionale Preistorico Etnografico
“L. Pigorini”) ed i Musei Civici di
Bazzano (BO), Carpi (MO), Castelfranco
Emilia (MO), Modena,
Nonantola (MO), S. Felice sul Panaro
(MO) e Finale Emilia (MO).
16 Per quanto riguarda la presentazione
del progetto e l’attività svolta
in occasione della mostra si vedano
Corti, Giordani 2001 e Bonfatti et
Alii 2003, cui si rimanda per un ulteriore
approfondimento.
17 Le ricostruzioni perfettamente
funzionanti e fedeli agli strumenti
antichi sono state eseguite dal
Gruppo R6J6, cui va un sentito
ringraziamento.
Dalla mostra archeologica alla
progettazione didattica, in L’immaginazione
è un tappeto volante.
Aule e laboratori didattici nei
Musei Archeologici dell’Emilia-
Romagna: esperienze a confronto,
Atti del Convegno, Monterenzio/BO,
22 novembre 2001, a
cura di F. Guidi, C. Taglioni, S.
Vellani, Bologna, pp. 63-67.
M. Pernot, J. Dubos, J.-P. Guillaumet
1991, La fabrication d’une
fibule celtique, in Archeologie Experimentale.
Tome 1 – Le feu :
métal et céramique, Actes du Colloque
International, Beaune
1988, Paris, Editions Errance,
pp. 165-173.
G. Zimmer 1982, Römische Berufsdarstellungen,
Berlin.

La Meridiana nel tempo
Cinzia Cavallari
Società Archeologica Tecne srl – Bologna
RIASSUNTO
Il crescente interesse sulla storia del sito di Casalecchio di Reno (BO) nasce dalle importantissime scoperte
susseguitesi dall’Ottocento in poi sino alle recenti indagini stratigrafiche eseguite durante l’urbanizzazione
del quartiere Meridiana. Tali scoperte hanno consentito di delineare il quadro dell’evoluzione
insediativa, economica e ambientale di questa zona dal Mesolitico all’età moderna. Nel 2000 alla Meridiana
è stato inaugurato uno spazio espositivo che ospita una mostra sulle campagne di scavo condotte
nel quartiere. Da allora sono state effettuate numerose aperture e si è avviato un progetto didattico con
gli Istituti scolastici del territorio comunale incentrato su lezioni e laboratori di archeologia.
Anche se per ora Casalecchio non è dotata di una struttura museale tradizionalmente intesa, la cittadinanza
può fruire di una mostra fotografica all’interno di un’aula didattica e di un percorso in uno spazio
di verde pubblico, denominato “Parco Archeologico”. Quest’area, non edificata per la presenza dei resti
di una villa urbano-rustica romana e di fornaci, potrebbe, in futuro, essere musealizzata e costituire
una tappa importante del percorso nel Parco pubblico, una sorta di itinerario archeologico che attualmente
è solo virtuale.
SUMMARY
The most ancient evidence of human dwellings in Casalecchio di Reno (BO) goes back 10.000 years, when
Mesolithic hunters and gatherers settled the area temporarily during the hunting season. Others findings belong
to the Neolithic age and the Bronze Age. During the Etruscan period, the area seems to have had a strategic position
in controlling the connections between the Reno Valley (Marzabotto) and the plains. In the fourth century
BC a small Celtic population from the Central Europe lived in the area, partly alongside the Etruscan people.
Probably, the first traces of Roman settlings in Casalecchio date back to the end of the first century BC,
while the most important Roman findings are from the first-third century AD (roads, kilns, dichtes, necropolises
and a farm). The area was largely abandoned after the 6 th century AD. The first evidence after the year
1000 consist of a road, churches, waterworks (“la Chiusa, i.e. Sluice Gate) a castle and a farm-house dating
back to the Middle Ages. In this settlement, a feasibility project is under study to create a museum that shows
the important discoveries made during excavations.
GLI SCAVI
Fin dall’Ottocento il territorio di Casalecchio di Reno (BO) è stato oggetto di ritrovamenti
archeologici di notevole importanza; a partire dal 1985 l’ampio progetto di urbanizzazione
dell’attuale quartiere “Meridiana” ha consentito alla Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Emilia-Romagna di programmare un articolato intervento di tutela preventiva.
La complessa operazione è stata realizzata nel corso di dodici campagne di scavo (1989-
2001), dirette dal funzionario di zona, Dott. Jacopo Ortalli, ed eseguite dai tecnici di varie

548 società archeologiche, talvolta affiancati da specialisti di altre discipline (geologi, zoologi e
archeobotanici); indagini dirette scientificamente dalla Dott.ssa Caterina Cornelio Cassai in
aree non ancora sondate sono in programmazione per i prossimi anni.
Gli scavi effettuati finora hanno consentito di delineare un quadro esauriente sull’evoluzione
insediativa, economica e ambientale della zona, lungo un arco cronologico di circa
10.000 anni, dal Mesolitico all’età moderna. La distribuzione dei ritrovamenti archeologici
a Casalecchio e in particolare nella zona dell’attuale quartiere Meridiana (fig. 1), soggetta a
regolari campagne di scavo stratigrafico, ne ha evidenziato la vocazione insediativa (Cavallari
et Alii 2000; Cavallari et Alii 2001; Ortalli 1997a; Ortalli 2003): fin dai tempi più remoti
l’uomo ha trovato in quest’area un ambiente ideale per lo stanziamento e lo sviluppo
delle proprie attività.
La più antica frequentazione umana finora attestata a Casalecchio di Reno risale a circa
10.000 anni fa, quando gruppi di cacciatori-raccoglitori mesolitici sembrano aver scelto alcuni
punti del territorio quali stazioni di sosta temporanea durante le stagionali battute di
caccia; lo testimoniano i resti di microliti rinvenuti durante gli scavi nel quartiere Meridiana,
legati probabilmente alla preparazione di armi e strumenti.
Ai periodi neolitico ed eneolitico (Steffé 1984) sono attribuibili alcune tracce di frequentazione
stabile: fondi di capanne, resti di focolari, vasellame ceramico e strumenti in
selce. In prossimità del parco di Palazzo Boschi sono state indagate vaste porzioni di un insediamento
neolitico relativo alla “Cultura di Fiorano” (V millennio a.C.), dove sono individuabili
distinzioni funzionali tra l’abitato vero e proprio e gli impianti produttivi.
Negli anni Sessanta a Casalecchio furono effettuate regolari campagne di scavo (Payrault
1972; Peyre 1967; Peyre 1970; Peyre 1975), che consentirono di riportare in luce i
resti delle strutture insediative e di alcuni nuclei sepolcrali etruschi; in seguito furono individuate
sepolture aristocratiche a Nord di Casalecchio, lungo la valle del Reno, in località
S. Biagio (Kruta Poppi 1987; von Eles 1987), mentre nell’attuale quartiere Meridiana
le più recenti indagini hanno riportato in luce i resti di un’area produttiva e di alcune
tombe (fine VII-metà VI sec. a.C.). Durante la fase Certosa (VI-IV sec. a.C.) l’area
Fig. 1. Casalecchio di Reno
(BO), confluente geografico delle
direttrici verso la Pianura Padana
e la Toscana (dis. Nicoletta
Raggi).

di Casalecchio sembra ricoprire più che mai una posizione strategica nel controllo dei collegamenti
tra la Valle del Reno e la pianura (Tovoli 1972). Vicino all’attuale cimitero, ove
già negli anni Sessanta grazie agli scavi diretti dall’Ecole Française erano venute in luce
tracce di un insediamento sviluppatosi tra VI e III secolo a.C., sono state individuate recentemente
dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna altre strutture
abitative e produttive, costituite da una serie di ambienti quadrangolari con fondazioni
in ciottoli, disposti in sequenza lineare, e delimitate da una rete regolare di fossati
(Ortalli 1995a, pp. 69-71; Ortalli 1997, pp. 576-577; Ortalli 1997a, pp. 576-577). Le
ricerche hanno evidenziato in questo insediamento analogie con importanti centri coevi
(Spina e Marzabotto), dove l’area urbana risulta perfettamente organizzata in isolati rettangolari,
divisi da strade che s’incrociano ad angolo retto; i resti di una di queste fondazioni
in ciottoli (ubicati presso un’ala dell’attuale cimitero, in via Isonzo, presso l’incrocio
con via Brigata Bolero) sono stati recentemente rimessi in luce e musealizzati e costituiscono
attualmente l’unica tappa di un percorso archeologico progettato da tempo ma
non ancora realizzato compiutamente. La necropoli riferibile a questo abitato si snodava
lungo un allineamento NE/SO evidentemente preordinato: si tratta di una decina di tombe
a fossa con ricchi corredi databili al V secolo a.C., alle quali si è aggiunta nel 2001 la
scoperta di un altro nucleo sepolcrale riferibile a questa fase (Ortalli 2002).
Alla fine del IV secolo a.C. una piccola comunità celtica sembra insediarsi a Casalecchio,
nel quartiere Meridiana, in parziale sovrapposizione con l’abitato etrusco; a tale gruppo è da
attribuire un importante nucleo sepolcrale costituito da 97 tombe e delimitato da tre fossati
perimetrali. Le sepolture, per lo più inumazioni, erano dotate di corredi costituiti da oggetti
di ornamento personale. In quattro casi invece, il corredo era caratterizzato dalla presenza
di armi (spade, punte di lancia), elemento distintivo della classe guerriera. Significativamente
l’unica tomba a cremazione si trovava al centro di un recinto quadrangolare: atto
chiaramente celebrativo che, accanto alla tipologia degli oggetti di corredo (tra cui un
anello-sigillo in argento con castone d’oro su cui è inciso un essere fantastico), farebbe pensare
alla sepoltura del più potente e prestigioso personaggio della comunità (Ortalli 1995).
Del resto già alla fine dell’Ottocento la scoperta casuale, durante lavori agricoli, della tomba
di un guerriero celtico, dotata di armi e di un ricco corredo simposiaco aveva attirato l’attenzione
di numerosi studiosi su questo territorio (Gozzadini 1879).
Di eccezionale importanza è inoltre l’area sacra con resti di strutture di culto a recinto
quadrangolare, che trovano precisi confronti in contesti cimiteriali celtici di area transalpina
(Ortalli 1991-92, pp. 159-60; Ortalli 1995, pp. 189-238).
Nel territorio di Casalecchio l’intenso sfruttamento dell’area durante l’età romana è testimoniato
dalla realizzazione di un’estesa viabilità primaria (rappresentata da cardine e decumano
in opera glareata) e secondaria (strade di accesso ai complessi insediativi) e delle grandi
opere idrauliche e di bonifica (fossati di scolo e di drenaggio) tra le quali ricordiamo una grande
cavità di forma ellittica (metri 35 × 60) da cui si dipartivano due canali artificiali che si
spingevano verso le campagne. Il bacino, evidentemente destinato a contenere acqua, era probabilmente
utilizzato come riserva idrica per l’irrigazione delle vaste aree coltivate; relativamente
alla viabilità va ricordato che un segmento della strada inghiaiata è attualmente conservato
nell’area verde centrale di un edificio commerciale, in attesa di essere reso visitabile
nell’ambito di un più articolato percorso archeologico all’interno del Comune di Casalecchio.
549

550 L’attività agricola in epoca romana è testimoniata concretamente dai resti di un piccolo
impianto per la spremitura (forse dell’uva) e dagli apprestamenti colturali costituiti da una
serie di lunghi solchi paralleli, disposti a distanza regolare tra loro e perfettamente allineati
con gli assi stradali e poderali; tali segni testimonierebbero le tracce delle piantate arboree,
utilizzate nella viticoltura.
La villa urbano-rustica individuata nell’attuale quartiere Meridiana si pone al centro di
un’area agro-produttiva e commerciale grandemente favorita proprio dalla viabilità verso l’area
Bologna-via Emilia, naturale confluente economico e zona d’espansione dei mercati di
scambio; i resti finora venuti alla luce (comprendenti la residenza padronale) testimoniano
oltre alla lavorazione in loco dei prodotti agricoli (aree di spremitura, vasche, magazzini di
anfore e dolii, spazi operativi aperti) anche l’attività di grandi fornaci per la produzione sia
di vasellame sia di laterizi, presumibilmente con funzione non limitata al fabbisogno interno
ma volta anche al commercio.
Il complesso edilizio della villa, che copriva una superficie di circa m 2 13.500, era caratterizzato
inizialmente da due settori ben distinti: uno destinato alle attività produttive e all’immagazzinamento
delle derrate agricole (pars rustica) e uno più propriamente residenziale (pars
urbana). In una seconda fase (III sec. d.C.?) alcuni ambienti abitativi furono anch’essi occupati
da impianti artigianali, indice di un “declassamento” della villa (ora non più residenza dei
proprietari del fundus) a funzioni di puro sfruttamento economico; tra gli oggetti di pregio
provenienti finora dal settore residenziale sono da segnalare alcune antefisse in terracotta.
L’esistenza di un vero e proprio nucleo abitato (un vicus?), forse da localizzarsi presso il
corso del fiume Reno, è invece solo suggerita dalla presenza di numerose aree sepolcrali, che
hanno restituito complessivamente alcune centinaia di tombe a inumazione e a cremazione.
La tipologia delle sepolture (fosse semplici e in cassa laterizia), e dei pochi oggetti di corredo
(ollette in ceramica, qualche moneta in bronzo piuttosto corrosa, lucerne in terracotta,
“balsamari” in vetro) colloca la maggior parte dei ritrovamenti tra il II e il IV secolo d.C. 1
(in rari casi fino al V secolo), in un contesto di “comunità chiusa” a carattere eminentemente
agricolo. Tipica anche la disposizione di questi sepolcreti, che si snodano ai lati delle
due grandi arterie stradali (proprio a ridosso della massicciata di ghiaia) come in progressivo
“allontanamento” dall’ipotetico nucleo abitato.
A partire dal III secolo d.C. la crisi politica e militare che colpisce l’impero romano comincia
a riflettersi negativamente sull’organizzazione del territorio e sulla crescita demografica;
durante il V secolo d.C. assistiamo a mutamenti climatici e a ricorrenti alluvioni che
aggravano un sistema idrografico ormai compromesso.
Probabilmente all’età romana e alla tarda antichità sono databili due sepolture individuate
a Casalecchio di Reno, in un fondo della marchesa Talon denominato Calzavecchio
(Brizio 1888; Cavallari 2002); un altro dato interessante è fornito da una decina di tombe
totalmente prive di corredo, che per motivi stratigrafici vengono datate alla metà del VI
d.C.: si tratta di scheletri in giacitura scomposta, che presentano tracce di mutilazioni, imputabili
a eventi bellici (guerra greco-gotica?) o a ritualità funerarie (Pancaldi 2002, pp. 28-
30; Cavallari 2003). L’area funeraria è ubicata nelle immediate adiacenze della villa romana,
in un momento in cui la struttura è ormai fatiscente, ma i cui ruderi riescono a opporre
uno sbarramento, concorrendo a deviare il corso del torrente che in questo periodo riprende
l’attività e si rinalvea nell’antico tracciato protostorico.

Durante l’ultima campagna archeologica, infine, (2000-2001) è stata completata l’indagine
di una necropoli ubicata in prossimità della fermata della linea suburbana Bologna-Vignola;
nel complesso l’area funeraria è costituita da 55 tombe, databili tra il I secolo
a.C. e gli inizi del VI secolo d.C. Le sepolture più tarde risultano impostate sui livelli
di demolizione delle strutture romane precedenti, in una fase di abbandono degli
ambienti residenziali e produttivi dell’area. Infatti, se nelle città le necropoli sono nettamente
separate dagli abitati, lungo la rete stradale periferica dei centri urbani la demarcazione
tra spazio dei vivi e spazio dei morti appare meno netta e spesso negli insediamenti
suburbani sono compresenti e adiacenti aree funerarie e abitative, come le villae e
gli impianti produttivi a esse collegati. Nel suburbio bolognese e in tutta la Romagna si
registrano numerosi casi di nuclei funerari ubicati presso strutture abitative, sia pure ormai
fatiscenti.
Nel nucleo sepolcrale altomedievale di Casalecchio di Reno le tombe sono collocate proprio
nelle immediate adiacenze della villa romana, ormai degradata ma con tracce di occupazione
fino al VI secolo, periodo al quale sono stati attribuiti resti di apprestamenti agricoli
e di arginature; sempre a Casalecchio, l’area funeraria scavata durante la campagna
2000-2001 ha evidenziato nella fase più tarda della necropoli un’occupazione dello spazio
insediativo di epoca romana.
Per i secoli successivi il territorio risulta meno ricco di attestazioni archeologiche; le prime
testimonianze posteriori al Mille sono costituite da un asse viario databile all’età medievale
(XIV secolo), da un canale di drenaggio e da un edificio rustico provvisto di pozzo attribuibili
ai secoli XV-XVII.
Sono questi i segnali di una rinnovata fase di occupazione del suolo evidenziata anche
dai resti di quelle canalizzazioni volte al riassetto idrico del territorio che lasceranno poi
tracce nella locale toponomastica (“Fossa Felicina”, “Fossa di Ceretolo”, ecc.) fino all’età
preindustriale.
LA MOSTRA E IL MUSEO “VIRTUALE”
Il 13 maggio 2000 è stato inaugurato uno spazio espositivo (aula didattica “Corte dei Casali”,
via Aldo Moro n. 15) che ha ospitato una mostra sulle campagne di scavo condotte
nel quartiere Meridiana; da questa data al 2004 sono state effettuate numerose aperture
ed è stato avviato un progetto didattico con gli Istituti Scolastici del territorio di Casalecchio,
che prevede lezioni e laboratori di archeologia. Nel 2001 è stato organizzato un
ciclo di conferenze, il cui successo ha spinto la Biblioteca Civica “Cesare Pavese” a programmarne
altri in futuro; il crescente interesse sulla storia di questo sito nasce dalle importantissime
scoperte, susseguitesi dall’Ottocento alle recenti indagini stratigrafiche, scoperte
che hanno consentito di delineare il quadro dell’evoluzione insediativa, economica
e ambientale di questa zona. Attualmente a Casalecchio non esiste un museo, inteso come
contenitore tradizionale; fino al settembre 2002 era allestita una mostra fotografica
(fig. 2) all’interno di un’aula didattica, che è stata demolita in previsione di una nuova
costruzione. I pannelli della mostra sono stati smontati e sono destinati a nuovi spazi espositivi
in via di definizione: edifici scolastici, multisale cinematografiche, uffici comunali o
551

552 Fig. 2. La mostra “La Meridiana nel
tempo”: visita guidata della delegazione
slovacca nella sede espositiva
della Corte dei Casali (ottobre
2001).
privati. L’interesse per la valorizzazione dei resti archeologici di Casalecchio si evince da
alcuni progetti di musealizzazione, che hanno riguardato finora soltanto i resti abitativi
etruschi presso l’attuale cimitero e la strada glareata romana, ubicata nel cortile interno
di un ufficio commerciale di via del Lavoro. L’esistenza dei resti della villa romana è inoltre
sottolineata da un percorso in uno spazio di verde pubblico, denominato “Parco Archeologico”;
quest’area, non edificata proprio per la presenza dei resti della villa e di fornaci,
potrebbe, in futuro, essere musealizzata, e costituire una tappa importante del percorso
nel Parco pubblico, una sorta di itinerario archeologico che attualmente è solo virtuale.
Con questo e con altri obiettivi (catalogo e guida archeologica, CD-Rom e ipertesto
consultabile in Internet) due società archeologiche, LARES s.n.c. e TECNE s.r.l., dirette
scientificamente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna,
e con il sostegno di Enti Pubblici (Comune di Casalecchio di Reno) e di privati (Galotti
S.p.A.) si preparano a raccogliere la sfida.
Dal gennaio 2002 è stato avviato un progetto didattico con il Liceo scientifico “Leonardo
da Vinci” di Casalecchio di Reno, che prevede la realizzazione di un ipertesto sulla
storia di questo centro, dalla Preistoria all’età moderna. All’iniziativa, finanziata dall’Assessorato
alla Cultura del Comune di Casalecchio di Reno, collaborano docenti, allievi
dell’Istituto e archeologi, impegnati nella realizzazione di uno strumento innovativo
per la conoscenza di questo territorio. Entro il 2004 è in programma l’inserimento in rete
dei risultati preliminari di questo lavoro, mentre il completamento dell’ipertesto è previsto
per l’Anno Scolastico 2004-05. Anche sul fronte della progettazione museale va segnalata
un’iniziativa che testimonia il fermento delle iniziative archeologiche in questo territorio:
una tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Ingegneria, tesi che prevede, attraverso
il recupero e il restauro della villa Talon, immersa nel verde dell’omonimo parco, la
realizzazione di un museo archeologico vero e proprio nel cuore di Casalecchio di Reno.
Più realisticamente, dal 2004 è in corso di studio, da parte degli Enti competenti, un piano
di fattibilità per la creazione di un museo archeologico all’interno del quartiere Meridiana.

1 Per la notizia preliminare cfr.
Mengoli et Alii 1991-92, pp. 159-
60. Più recentemente cenni su tale
contesto sono in Ortalli 2000, p.
214; Ortalli 2001. Ricordo, tra l’altro,
che dal maggio 2000 l’Aula Didattica
del Museo di Antropologia
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dell’Università di Bologna espone
in maniera permanente i resti scheletrici
provenienti proprio da una
delle tombe romane di Casalecchio
(tomba 130, necropoli B). Si tratta
di un primo momento di divulgazione
circa lo stato degli studi antro-
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e dell’insediamento antico nell’esperienza
di Casalecchio di Reno,
in XLIII CARB (Corsi di Cultura
sull’Arte Ravennate e Bizantina,
Ravenna, 22-26 marzo 1997),
pologici ormai in corso da anni su
contesti casalecchiesi, ove grazie anche
all’ausilio di mezzi audiovisivi si
illustra come attraverso analisi ossee
si possano «ricavare e interpretare
aspetti bio-culturali e (…) indicazioni
sulle metodologie di studio».
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delle acque e trasformazione
del paesaggio antico’,
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553

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Un “archeo-suono” per i musei.
«Synaulia»: l’incanto di antichi suoni per antichi oggetti
Mario Giannitrapani
RIASSUNTO
Il Museo è sotto il patronato e la protezione delle Muse; non è dunque affatto sorprendente che proprio
le figlie di Memoria/«Mnemosyne», spesso associate con Apollo, abbiano garantito il controllo della memoria
collettiva e quindi la salvaguardia e la sopravvivenza dei metodi e dei valori tradizionali diffusi dalla
«mousike».
Nel gruppo dei “Synaulia” gli antichi strumenti a fiato – che potremmo definire “vintage” – e gli strumenti
a corda suonano insieme in modo da mescolare la musica antica con lo stile moderno. “Synaulia”
è un evento sonoro sperimentale o, piuttosto, una serie di eventi sonori fra loro collegati dall’ampio ed
ambizioso progetto di garantire un futuro al nostro passato e di presentare e rendere comprensibili ad un
largo pubblico i valori artistici e culturali.
L’insegnamento, la conservazione, il controllo e la trasmissione della «mousike» sono basati sulla conoscenza
e sulla memoria dell’identità culturale romana o greca. “Synaulia” è un’operazione squisitamente
culturale che vuole contribuire alla conoscenza e all’analisi della musica romana antica; tutto ciò con
l’obiettivo di favorire la conservazione e il tramando delle tradizioni, dei rituali e delle sonorità, altrimenti
condannati con l’andar del tempo alla sparizione.
SUMMARY
The contest of Museo is under the patronage and protection of the Muses and it’s not surprising to see the Muses,
daughters of Memory/«Mnemosyne», often associated with Apollo, guaranteed the control of the collective
memory and therefore the safeguard and maintenance of the traditional methods and values spread by
«mousike». The «Synaulia» group, ancient wind instruments – which we could call “vintage” instruments –
and stringed instruments are tuned so that music of ancient times is blended with modern style. «Synaulia» is
a sperimental sound event, or a rather series of connected sound events for an ambitious and wide ranging project
which aims to give our past a future and to present and make artistic and cultural values understandable
to a wide audience. The teaching, conservation, control and the transmission of the «mousike» is based on the
knowledge and memory of roman or greek cultural identity. «Synaulia» is a sheer cultural operation that aims
at contributing to the knowledge and analysis of ancient Roman music; all this is done to help the maintaining
and the passing on of traditions, rituals and sonorities otherwise doomed to vanish in the annals of time.
DAL «TEMPIO DELLE MUSE» ALL’«ARCHEOLOGIA» DEL MUSEION
Il Museo, per sua intima natura ed origine, sembra tuttora preservare un fascino ed un’attrazione
“magnetica” fuori dall’ordinario: difatti è già stato ritenuto essere una “macchina a funzionamento
simbolico, protetta dalle Muse e dalle loro successive incarnazioni, venerata religiosamente
e politicamente usata” tanto da poterla considerare come “la più enigmatica delle
istituzioni culturali occidentali” (Binni, Pinna 1989, p. 7). Un breve excursus ci permetterà
perciò d’identificare la ricchezza semantica dei significati insiti nel «moderno» Museo.

556 La stessa etimologia rimanda appunto ad una figura, forse leggendaria, di un omonimo
poeta-divinatore – legato ad Orfeo (figg. 1, 2), figlio di Calliope, musa «dalla bella voce» –
connesso con la sfera misterica orfico-eleusina: Museo, vero e proprio «posseduto» da Apollo,
cui fu spesso assimilato (Beschi 1991, p. 43), sembrò essere stato – nel V-IV secolo a.C.
circa – l’incarnazione diretta della sua potenza divinatoria, in cui però ebbe notevole rilievo
anche un aspetto prettamente dionisiaco (Colli 1977, pp. 43-45).
Tra i vari frammenti rimasti ascrivibili alla vita di questo «unico eroe della musica che
vive senza contrasti fino alla vecchiaia» 1 , ne menzioniamo due che ci sembrano assai interessanti
per evincere alcune caratteristiche utili a circoscrivere alcuni attributi originari di
«Museo»: «In ogni caso anche Museo afferma che per i mortali la cosa più dolce è il cantare»
(Arist. Pol., 1339 b 21-22). In questo primo passo quindi sembra emergere una spiccata
volontà di valorizzazione del «canto» da parte dell’ispirato apollineo, mentre un secondo
frammento – che così recita: «[...] Il Museion è un colle proprio dirimpetto all’Acropoli,
dentro il recinto della città antica, là dove dicono che cantasse Museo, e fosse sepolto quando
morì di vecchiaia» (Paus., I, 25, 8) – ci illumina probabilmente su di uno dei più antichi
luoghi geografici «consacrati», paradossalmente, ad un “Museo” appunto, ossia il luogo
ove fu probabilmente sepolto.
Nel IV secolo a.C. troviamo invece ad Atene un Museion dell’Accademia di Platone, poi
un Museion del Liceo di Aristotele e nel III secolo a.C. un Museion di Alessandria realizzato,
come noto, dal celebre Tolomeo Filadelfo. Da Alessandro in poi il Museion, sinonimo d’intellettualità
di Stato, divenne ufficialmente la sede dell’attività intellettuale degli uomini di
cultura, non ancora quindi quel centro di raccolta ed esposizioni di statue, dipinti ed oggetti
antichi che oggi abitualmente, nell’immaginario collettivo, associamo a questo luogo.
La parola greca Mousé (Platone, Leggi, 790e) poi, sembra più vicina al significato di «cosa
di Musa», musie (mùsea), e non a quello di «musica»; un termine quindi che indica «arte/scienza/canto»
oppure, più specificamente, la vera e propria «parola persuasiva» (Rouget
1986, p. 276).
Musica, secondo Strabone, può essere diversamente definita come «l’arte delle Muse in
senso lato», ossia quell’arte che concerne danza, musica, canto e che stabilisce il contatto con
il divino mediante il piacere che procura.
Fig. 1. Orfeo sopra il monte Pangeo
con la lira, cratere attico a figure
rosse, Museo di Berlino.
Fig. 2. Orfeo con la lira, bassorilievo
in pietra bianca, IV sec. d.C.,
Museo del Cairo.
Fig. 3. Suonatore di cetra, vaso attico
a figure rosse, 500-490 a.C.,
Museo di Atene.

Ma la musica, tuttavia – ossia la capacità di modulare
suoni e canto, nonché definita anche come la «scienza del
movimento ben regolato» (Aug. mus., 2, 2-4,5) – è stata fatta
derivare proprio dalle Muse, figlie di Giove e di Memoria,
«chiamate così apò toù màsai (dal cercare) l’efficacia dei
carmi e la modulazione della voce» (Isid. Orig., XV-XXII).
Erato, la musa della poesia amorosa, venne raffigurata con
le vesti al vento intenta a suonare la cetra.
Tra le varie arti associate alle Muse 2 troviamo appunto la
mousikè téchne («tecnica delle muse»), ossia quella particolare
arte poetica e musicale d’ispirazione filosofica che indissolubilmente
accompagnò fin dagli esordi il “culto delle Muse”,
sia come arte dei suoni – quindi equilibrio tra l’armonica musica
celeste della chitara/phorminx (fig. 3) e la sconvolgente e
terrena musica dell’aulòs (figg. 4, 5) – sia come arte dell’ekfonesis
(pronuncia), della voce parlante e della danza, celebrate
nello stesso simposio 3 quale mezzo di trasmissione di una paideia
che fino al IV secolo a.C. rimase prevalentemente orale.
Di cultura esclusivamente orale poi furono, e sono tuttora,
diverse civiltà e culture d’area sciamanica che, rispetto ad altri
popoli di cultura scritta, all’udito in particolare diedero
un’importanza maggiore e prioritaria (Bardini 1996, p. 52).
Già nella seconda metà del VI secolo a.C. il poeta Simonide,
avvicinando il piano visivo a quello sonoro, asseriva che
«la parola è l’immagine delle cose». La civiltà greca antica infatti
seppe diffondere tramite pubbliche esecuzioni non solo
il logos (discorso vivo di parole) con il melos (suono) – insito
nel discorso (D.H., XI, 13) – ma anche un nomos quale legge
nutriente e formante, ed un ritmo – ordine del movimento
(Plat. Resp., III, 398, V) ed ordine del tempo articolato dei
ritmabili (Aristox. Harm., A8) – che ebbero una loro specifica
funzione nella realizzazione di «immagini sonore del senso
Fig. 4. Statuina cicladica, suonatore
di aulos.
Fig. 5. Suonatore greco di aulos,
ceramica attica a figure rosse.
intimo delle parole nei versi, che allora come un’odierna partitura» (Carapezza 1999, p. 65) rimasero
quali segni longevi ed imperituri di una memoria che rimase immortale.
Quest’attiva ed originale memoria del suono, sicuramente non ancor raffinata e disvelata
dalla naturale analisi monodica dei greci, sembra risalire, in virtù delle più recenti scoperte, a
fonti sempre più remote e distanti nel tempo 4. Fin dal Paleolitico (fig. 6) abbiamo le più antiche
testimonianze di oggetti sonori: l’ormai celebre flautino di Divje Babe I (Slovenia) – seppur
molti sono gli studiosi scettici sulla presunta stratigrafia “neanderthaliana” di provenienza – alla
luce di un’approfondita analisi, ha rivelato infatti «that the four notes are consistent with 4 notes
of the diatonic scale [...]» nonché «if the Neanderthal is going to go for an unequal scale, it
probably would be one of those two types, pentatonic and/or diatonic» (Flink 1997, p. 3).
La presenza di perforazioni a distanze regolari che sottintendono la precisa ricerca di tonalità
e di modulazione nella percezione del suono, sembra evidente nei famosi 22 flauti
557

558 del paleolitico superiore di Isturiz (Francia),
come altrettanto sorprendente si rivelò la
probabilità di un’azione di percussione ripetuta
per produrre suoni, eseguita sulle ossa
di mammut del sito paleolitico di Mezin
(Ucraina). Così anche i flauti a 5, 6, 7, 8 buchi
prodotti dalla comunità neolitica di
Jiahu (Cina) e del flauto del Riparo Gaban
(Trento) ci documentano quantomeno l’esistenza
della ricerca di alcune delle più antiche
sonorità, di cui ignoriamo ancora la scala
tonale, tra i 9.000/7.000 anni fa 5.
Ma seppur impossibile sarà riuscire a replicare
le sonorità prodotte dai nostri remoti
antenati, già nel tentativo di rintracciare i
modi di creazione di questi suoni “culturali”
della natura, si potrà cogliere in fenomeni
auditivi così misteriosi come l’eco labirintico
di una grotta, lo zampillio dell’acqua di
una fonte perenne, il soffio del vento, il
rombo del tuono o lo schianto ed il boato di
un’esplosione vulcanica, nonché il frusciante,
vetroso e basso brontolio del fuoco che
accompagna lo scorrere della lava, il ronzio
di alcuni insetti e le vibrazioni delle ali di
Fig. 6. Grotta di Trois Frères, Ariège, essere antropozoomorfo
che suona un arco a bocca.
determinati uccelli, quegli atti di propagazione
del suono – da Vitruvio paragonato al
moto delle onde sulla superficie dell’acqua –
che vennero imitati nella stessa scheggiatura della pietra, nella roteazione dei rombi, nel fischio
delle falangi di renna forate ed in molte altre attività quotidiane ove diverse armonie
sonore contribuirono a ritmare le cadenze di un immaginario museo perduto della Preistoria.
Il particolare rapporto della musica piuttosto con il gesto che con la parola, ebbe inoltre
sicuramente un parallelo nelle forme peculiari degli aspetti scenici etruschi, che rivestirono
appunto carattere di mimo e furono rappresentati da attori-danzatori mascherati, gli histriones
(Liv. VII, 2,4). Una musica “etrusca” che accompagnò anche i singoli momenti del
rito e le stesse azioni della vita pubblica e privata (Drago 2000, p. 72).
IL MUSEO COME MEMORIA DEI SUONI
Proprio il moderno Museo quale «complesso strumento di comunicazione culturale capace
di offrire esperienze di apprendimento passive o interattive» (Scichilone 1994) – che sempre
nel suo etimo serba l’idea del ricordo, della memoria eterna 6 – dovrebbe quindi preser-

vare la totalità di quel messaggio degli antichi che, molto probabilmente, proprio attraverso
il suono melodico resero eterna la propria civiltà e cultura.
È necessario perciò che determinati strumenti, veri «semiofori» 7 , possano essere «rianimati»
tramite cerimonie sonore e forme di ritualità “ricostruite”, quali attività sperimentali
8 di comunicazione attiva, in grado di rielaborare e rendere efficace l’intensa ricchezza di
significati e suggestioni che, relativamente al mondo della musica, non sembrano aver avuto
confronti in altre culture.
Gli strumenti musicali sono infatti, come ci venne autorevolmente ricordato da un grande
studioso, «Dèi nati dal sacrificio» (Schneider 1998, p. 74), poiché ogni corpo risonante
proveniente da una “materia antica” o dal sacrificio di un dio, di un antenato, di un uomo
o di un animale 9 , è un serbatoio di forze soprannaturali dal carattere totalizzante, le cui forme
antropo/zoomorfe riproducono l’immagine degli esseri sacrificati.
Gli uomini quindi imitarono l’opera degli dèi costruendo appunto i propri strumenti; il
suono di questi ultimi, che «scorre nel tempo passato e s’imprime nella memoria» (Isid.
Orig., cit.), divenne respirazione ritmata degli esseri cui appartenevano, vere voci degli dèi,
rappresentarono perciò l’essenza sonora del mondo intero.
Ma fin quando uno strumento non è stato consacrato, come noto, esso rimane un tempio
vuoto, un po’ quindi come i nostri musei che, privi di quell’afflato che restituisca loro
il ritmo e la melodia del rito vivente, debbono nuovamente assurgere alla funzione di risonatori
cosmici di nuovi messaggi totali.
Anche se con fine critico, i musei sono stati già ritenuti essere «strutture destinate ad attività
rituali» (Wallach, Duncan 1978), ricettacoli di oggetti d’arte che conformano il significato
di una più ampia esperienza rituale. Ogni strumento musicale perciò, come ogni
museo, in potenza “occupa il centro del mondo”, esso è l’altare sul quale viene sacrificata la
sostanza sonora degli dèi; di fatto, lo strumento serve al sacrificio del dio, il canto è il sacrificio
dell’uomo. Quest’ultimo, come ci ricordano molte letterature, è nato dal suono, la sua
essenza rimarrà sempre sonora. A tal uopo il tipo di suoni, di musica – «senza la quale nessuna
disciplina può essere perfetta» – che un moderno museo che non vuole rimanere inerte
simulacro del passato, dovrebbe fornire al fruitore, deve essere specifica ed adeguata – così
come lo era per gli antichi – per ogni genere di collezioni o di esposizioni proposte; deve
quindi essere appropriata ai diversi fini che si vogliono raggiungere, quali istruzione, ricreazione
o catarsi (Arist. Pol., 1342a, 1-16).
Il suono dello scròscio d’acqua ad esempio, prelevata con due tazze da un secchio e versata
nello stesso con una certa regolarità ritmica, come documentato presso i Bektashì 10 , gli
sciamani altaici, può rappresentare un caso elementare – ma niente affatto banale viste le
virtù ricreative, terapeutiche e rigenerative della psiche – di come gestire una pedagogia acustica
specifica per determinati eventi.
Il corpo umano, oscillatore-ricettore, è concepito infatti per vibrare, crea musica come
emanazione di se stesso, e dalla musica riceve pure informazioni estetiche che riproduce
dentro di sé e trasforma in emozioni. Istituire nei musei una musica che «stabilizzi o modifichi
il livello di coscienza può scatenare meccanismi di riconoscimento ed associazioni di
significazioni che agiscono sul nostro stato fisiologico» (Humeau 1990, p. 26).
L’esito di una visita all’interno di un museo “vivo” non dev’essere esclusivamente limitata
all’osservazione e alla fruizione passiva, ma deve permettere una rigenerazione interiore del-
559

560 l’individuo che ritrova tempi, ritmi, suoni ed elementi della cultura materiale tra di loro connessi,
che riflettano quindi l’integralità di quel mosaico perduto. Un vero ritmo è infatti in grado
di trascendere, cioè di far risuonare nella nostra esistenza concreta, il mondo primigenio,
facendo rivivere quelle forze di rigenerazione creativa che nell’uomo provengono dal cuore.
La coscienza dell’uomo, tramite il fluire delle onde del ritmo, può così sperimentare lo stato
in cui vi è assenza di spazio e tempo, momento fondamentale per una corretta e diretta
fruizione di quei beni culturali di cui dobbiamo essere custodi ed interpreti qualificati. La
musica, si è visto, può difatti perfino “guarire un corpo” a condizione però che sussista un tirocinio
ed un condizionamento consono; cos’è del resto il senso ed il significato di un museo
se non quello di “guarire” il presente attraverso il passato? Tale passato va quindi necessariamente
fatto rivivere, in primo luogo ad esempio attraverso un ritmo sonoro, un evento acustico
e musicale che sia fonte creatrice del mondo, e momento di coesione e d’identità con
quelle culture che si stanno osservando e cercando di comprendere, ma che, senza l’animazione
e l’incanto dei suoni “arcaici”, rimangono inevitabilmente prive di vita; da qui, credo,
l’inevitabile dovere se non l’obbligo, per tutti quei musei di prevalente “presenza” archeologica,
di “adottare” per le proprie sale espositive le antiche musiche elleniche, romane o preistoriche
che siano, purché eseguite da specialisti con estrema competenza ed a limitata licenza
poetica, poiché siamo sicuramente in grado di “ricostruire” qualcosa di plausibilmente simile
alla musica antica, ma, come noto, non potremo mai riprodurla veramente.
Come da tempo è stato affermato infatti, l’obiettivo che oggi il museo si pone non è più
«un semplice recupero o un’inerte conservazione degli oggetti: è invece qualcosa di più complesso
[...], una utilizzazione del materiale per interventi culturali [...], di trasmissione e di
elaborazione critica» (Binni, Pinna 1989, p. 81): esso infatti non deve fossilizzare gli oggetti
ma esaltarli.
UNA MUSEOGRAFIA “SONORA”: PER UN MANAGEMENT DEL SUONO
Il rischio che si possa “appiattire l’ampiezza della gamma dei significati degli oggetti culturali”,
presuppone quindi la capacità di affrontare il senso di una nuova conoscenza degli
“oggetti museali che non si identifichi con un semplice capire intellettuale”. Gabriella Bartoli,
del Centro di Didattica Museale della III Università di Roma, poneva appunto il problema
di «educare a sentire le emozioni, le intenzioni ed i vari altri contenuti veicolati dalle
qualità formali degli oggetti [...]» 11 , per ampliare, a mio avviso, quelli che sono gli inevitabili
limiti attuali dell’esposizione e della percezione visuale negli spazi museali.
Di un nuovo Ctesibio d’Alessandria – ingegnere del Museo che intorno alla metà del III
secolo a.C. inventò l’organo idraulico – necessita oggi la programmazione in campo museale;
di una nuova Synaulia – gruppi strumentali composti da fiati solisti dell’antica Roma (età
ellenistico/imperiale) – deve servirsi l’organizzazione e la direzione scientifica dei musei.
Il gruppo di ricerca sperimentale Synaulia infatti – ossia l’accompagnamento di strumenti
a fiato ed a corda che suonano insieme per «incantare» (v. kataulousi, “sinaulizzano”)
– rappresenta oggi pertanto un felice tentativo d’integrare l’unico (e peraltro discusso, v.
Guidobaldi 1992, p. 11) frammento musicale di Roma antica, il celebre verso 861 dell’Hecyra
di Terenzio che contiene una notazione di una presunta melodia strumentale. L’i-

dea ed il potere dell’incanto che promana da alcune melodie dei Synaulia, allude infatti direttamente
a quell’«efficacia magica della parola cantata» che incarnò, primo fra tutti, proprio
il celebre e mitico Orfeo.
Per la ricostruzione dei ritmi e delle scale musicali, considerando che ogni strumento
possiede caratteristiche specifiche per quanto riguarda dimensione, diteggiatura, imboccatura,
materiali ed espressione, i Synaulia – rifacendosi ad alcuni “modi archetipici di suonare”
– hanno ovviamente tenuto conto anche i moduli ritmici e melodici antichi tuttora in
uso, per continuità culturale, presso i vari popoli del centro-sud d’Italia e delle aree costiere
mediterranee. Tra i gruppi strumentali prediletti ritroviamo quindi le tibiae, il tympanum
e i cymbala: una combinazione che si ritrova già nel mosaico della Villa di Cicerone a Pompei
ed anche presso varie civiltà italiche. Un’altra combinazione strumentale privilegiata vede
invece le lyrae e le citarae accostate al flauto di Pan, la syrinx; così anche scopriamo abbinati
strumenti a corda e tibiae, oppure doppi strumenti ad ancia e doppi flauti, con il tympanum
ed altri strumenti a percussione, come cymbalum e crotala.
La qualità dei suoni prodotti e degli studi intrapresi da Walter Maioli, ricercatore paleorganologo,
e dal suo gruppo, sulle fonti iconografiche e letterarie, nonché l’impegno da
anni profuso in sinergia con musei e parchi archeologici d’Italia e d’Europa, sono indici di
quello che può essere a buon titolo considerato il miglior tentativo d’archeologia sperimentale
finora eseguito, almeno in Italia, nel campo musicale.
Sebbene quindi «i creatori di quegli oggetti siano assenti [...] ed il passato sia essenzialmente
inconoscibile, per sempre perduto per noi [...]» (Pearce 1992), la riscoperta centralità
del suono diviene oggi un coadiuvante imprescindibile e fondamentale per una comprensione
organica e guidata all’interno dell’esperienza museale; quest’ultima deve pertanto
ampliare le proprie prospettive conoscitive costruendo un paesaggio sonoro adeguato e consono
alle testimonianze mute e silenti delle civiltà che si osservano.
1 A differenza di altri eroi della
musica che ebbero quasi tutti una
tragica fine (es. Tamiri, Orfeo,
Marsia, Lino), Museo diversamente
si subordina ad Apollo ed alle
Muse, v. Beschi 1991, p. 43.
2 Sul culto delle Muse v. l’ancor attuale
studio di Boyancé 1937, ed
inoltre Seppilli 1982, pp. 183,
186-188, ed ivi bib.
3 Sul significato di musikè téchne e
sulla musica del simposio, v. Bessi
1997, pp. 137-152; sulle fonti mitologiche
della musica greca, v. Beschi
1991, pp. 35-50 ed ivi bib.;
sulla diversità della musica di Dioniso,
v. Martinez Santafé 1999, pp.
43-46.
4 Sulle eventuali origini medio-paleolitiche
della produzione dei suo-
ni, v. D’Errico, Villa, Pinto Llona,
Ruiz Idarraga 1998, pp. 65-79, ed
ivi bib.; sui flauti paleolitici anche
come areografi per le produzioni
artistiche, v. Leocata 2001, pp.
178-200, ed ivi bib.; sul tema della
danza nel Paleolitico v. Ragghianti
1981, pp. 62-80, nell’età del Ferro,
v. Ragazzi 1994, pp. 235-247.
5 Per una sintesi dei principali
strumenti musicali preistorici, v.
Conati Barbaro 2000, pp. 47-51,
ed ivi bib.; sugli strumenti musicali
neolitici europei, v. Gimbutas
1990, pp. 71-73, ed ivi bib.
6 Mnemosyne («Memoria»), la Madre
delle Muse, presiede, come noto,
alla funzione poetica che trasporta
il poeta, come dovrebbe trasportare
anche il moderno visitato-
re, nel cuore degli avvenimenti antichi
(Platone, Ione, 535b-c) di cui
gli oggetti museali sono appunto
espressione. Su Platone, Aristotele
e la musica di possessione in Grecia,
v. Rouget 1986, pp. 255-309.
7 Ossia «oggetti dotati di significati
che non hanno utilità [...], esposti
allo sguardo [...], che rappresentano
l’invisibile», v. Pomian 1978.
8 Sul significato di archeologia sperimentale
relativamente agli strumenti
musicali, v. Coles 1981, pp.
157-167.
9 Vedi il motivo “dell’osso che canta”
quale ad esempio la tibia romana
che conserva nello stesso nome
il ricordo della materia di cui era
costruita, oppure i “fischietti” paleolitici
ottenuti da falangi, spesso
561

562
di cervidi, perforate alle estremità,
v. Dauvois 1989, Seppilli 1982, pp.
204-205.
10 Vedi Bardini 1996, pp. 20-21; fa
notare l’autore infatti che «la tonica
di tutte queste civiltà (Scandina-
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ve, NdA) è costituita dal suono del
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trasformazioni in ghiaccio e neve»,
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Finito di stampare
nell’anno 2004
da Editrice Compositori, Bologna