musicaround.net - Dodicilune Records

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Rivista di cultura musicale e musicologia
In questo numero:
L. Einaudi: Compositore Contemporaneo (V. Lomartire)
Il Canto Fratto in Italia (B. Birardi)
L’Alessofono: Il design diventa suono (E. Raganato)
Bach alla Marimba (A. Marchello)
The Police: Alfieri della contaminazione new wave
(M. Leopizzi e P.Attolino)
Zampogna non è solo Natale (V.Leo)
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musicaround.net – Distribuzione gratuita - Anno1 – n°2/06 – Dicembre 2006
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Registrata presso il
Tribunale di Lecce
con il n°944
Anno 1
Numero 2/06
Mensile
Editore
Associazione culturale
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Responsabile legale
Antonio Marchello
Direttore
Responsabile
Francesco Rampi
Caporedattore
Marco Leopizzi
Redazione
Beatrice Birardi
(classica)
Marco Leopizzi
(popular music e
afroamericana)
Vito Lomartire
(musica e cinema)
Viviana Leo
(etnomusicologia)
Emanuele Raganato
(organologia)
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Chiuso in redazione il
09.12.206
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Via Isonzo nr. 7
73029 Vernole (LE)
tel. 389.9956379
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Servizi
Ludovico Einaudi: Minimalista Pop - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.9
L’Ascolto Musicale – Evoluzione del XX secolo - - - - - - - - - - - pag.18
B.Galuppi – La celebrazione del ‘Buranello’ - - - - - - - - - - - - - - - pag.19
L’Altro Gregoriano – Il Canto Fratto in Italia - - - - - - - - - - - - pag.20
L’Ultima opera di Aleksander Glazunov - - - - - - - - - - - - - - - pag.22
Concorsi di esecuzione pianistica e Web - - - - - - - - - - - - -pag.25
L’Alessofono – Quando il design diventa suono - - - - - - - - - - - - pag.26
Behringer UltraPatch Pro PX2000 - - - - - - - - - - - - - - - - - -pag.28
Bach alla marimba – da un progetto di Ivan Mancinelli - - - - - - - pag.30
Colonne sonore made in Italy - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.37
La Musica nelle Mani…nel cuore – Intervista a P.Balducci - - - - pag.41
The Police – Alfieri Della Contaminazione New Wave - - - - - - - -pag.46
‘Nzina da Copertino – ovvero cronaca di un morso - - - - - - - - - -pag.64
Zampogna non è solo Natale – Intervista ad Antonio Esperti - - pag.67
APPUNTAMENTI E ANNUNCI DICEMBRE 2006 - - - - - - - - - - pag.73
Rubriche
L’urlo: Musica nelle scuole - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.3
Navigando: http://graner.net/nicolas/arbeau - - - - - - - - - - - -pag.5
Strumento del mese: La Zampogna - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.5
Un disco al mese: Freak Out! - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.58
Verso Liber: Every Breath you Take– ossessione o amore? - - - - pag.58
Recensioni
Fiorella Mannoia – Onda Tropicale - - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.16
Pierluigi Balducci Small Ensemble – Leggero - - - - - - - - - - pag.40
Sting – Songs From The Labyrinth - - - - - - - - - - - - - - - - - - - pag.46
Editoriale
di Marco Leopizzi
L’editoriale di una rivista al suo secondo numero non può che parlare della
prima uscita, converrete con me. (o no?)
Bene, a me il compito di lodare compagni, colleghi ed amici del lavoro svolto
nell’esordio. Una ‘prima volta’ così non s’era mai vista.
Il successo è arrivato subito, senza vanteria. Non abbiamo di certo suonato il
campanello di Porta a Porta, (mannaggia! in un numero si possono dire così
poche ca....te) ma le congratulazioni e le parole di stima sono arrivate e ci
hanno felicitati.
Così come le richieste di collaborazione – da questo numero abbiamo due
nuovi amici, Maurizio Mazzacane e Francesco Trinchera –, le interviste al Prez.
Antonio Marchello (pochi giorni fa quella per Rai Radio 1), gli articoli comparsi
su varie testate giornalistiche, le citazioni radiofoniche.
Insomma, la risposta del pubblico lettore è confortante, e s’avverte, anzi, il
bisogno di un impegno sempre maggiore nel campo della musica, troppo
spesso regredita a mero intrattenimento, in programmi televisivi dove i vari
‘sarebbero-famosi’, e i loro avi ‘furono-famosi’, disperatamente cercano di
spacciarsi per musicisti o musicanti.
Da questo numero allora una nuova rubrica, Suoni (in)Versi, in cui indagare gli
stretti legami fra musica e letteratura, o anche solo osservare testi musicati,
teatrali e quant’altro possa avere relazione con Euterpe.
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Rubrica
L’urlo Musica nelle Scuole
di Beatrice Birardi
Il perché di questa rubrica nelle parole di Pier Paolo Pisolini, ispiratore concreto.
Tratto da Teorema
di Pier Paolo Pasolini
‘È impossibile dire che razza di urlo sia il mio: è vero che è terribile tanto da sfigurarmi i lineamenti rendendoli
simili alle fauci di una bestia, ma è anche, in qualche modo, gioioso tanto da ridurmi come un bambino.
È un urlo in cui in fondo all'ansia si sente qualche vile accento di speranza; oppure un'urlo di certezza
ssolutamente assurda dentro a cui risuona pura disperazione. Ad ogni modo è certo che qualunque cosa questo
mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.’
Sono ormai scientificamente
dimostrati i benefici effetti della musica
sull’animo umano, effetti che sembra
non si limitino soltanto all’uomo.
Un viticultore che produce Brunello di
Montalcino ha sperimentato che la
musica fa crescere meglio l’uva,
diffondendo nella sua vigna,
attraverso venti altoparlanti, musiche
di Mozart, Bach e Ciaikovskij durante
la fase di maturazione.
In una stalla dell’Oltrepo pavese, è
diffusa musica di Philip Glass che, a
detta dei proprietari, tranquillizzerebbe
le capre permettendogli di produrre
latte più buono.
Numerosi studi in ambito pedagogico
ritengono la musica, o, meglio, certi
tipi di musica, indispensabili nella
formazione del bambino e del
ragazzo, non solo per le numerose
valenze culturali, ma anche e
soprattutto per gli importanti risvolti
sociali.
Negli ultimi decenni la didattica
musicale ha compiuto passi da
gigante per quanto riguarda gli
approcci e le metodologie, ma a
quanto pare la scuola italiana non ha ancora
recepito l’importanza educativa di tale disciplina,
relegandola in spazi ristretti in cui la materia
musicale è spesso ancora considerata, secondo
‘vecchie’ concezioni, come puro svago e
divertimento o unicamente come prassi artigianale.
Non si può dire che in Italia l’educazione musicale
sia considerata una base della vita culturale e della
formazione di un individuo. La musica è cultura, ma
non solo, è anche condivisione e piacere di stare
insieme, luogo di incontri e confronti, capacità di
ascolto e di analisi, momento creativo e di ricerca.
Soltanto mutando profondamente le ‘vecchie’ idee
nei riguardi della musica, si potrebbe avviare una
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Musica
nelle
Scuole
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trasformazione del sistema di istruzione, facendo
della scuola un laboratorio in cui la musica sia non
solo FATTA, ma anche VISSUTA concretamente.
Questo comporta che l’educazione musicale sia
considerata più che un luogo per l’apprendimento di
contenuti e abilità (musicali), già stabilite in partenza
da un programma, come un’attività in progress di
incontro/confronto tra diverse identità, in sostanza
un ‘laboratorio di vita’ e non una lezione frontale.
Parlando di musica classica, la situazione diventa
ancor più ‘tragica’, visto che, nonostante diverse
scuole medie inferiori presentino bellissime realtà di
orchestre e gruppi musicali formati da ragazzi, non
sempre il patrimonio classico è considerato una
risorsa da cui poter attingere.
Mass media e ambiente familiare a parte, uno dei
motivi principali è anche la mancanza di
un’educazione musicale che parta dal basso. Giunti
a scuola media i ragazzi che intraprendono un
percorso musicale sono già ‘formati’ e ‘condizionati’,
hanno in parte già fatto le loro scelte in materia di
musica e difficilmente accettano il nuovo. Da qui la
difficoltà degli insegnanti a introdurre musiche
LONTANE dal loro contesto mentale e il ripiegare su
repertori di musiche più VICINE ai propri alunni, dal
Pop, al Rock, alla musica leggera e così via.
Un’educazione musicale che parta dal basso, ossia
dai bambini, soggetti più aperti e disposti al nuovo, è
fondamentale per formare giovani più consapevoli
delle proprie scelte e dell’ambiente sonoro in cui
vivono, e adulti capaci di amare e coltivare un
patrimonio culturale così vario e ricco.
Come ha detto il famoso violinista Salvatore
Accardo in una sua intervista: «Come fa un giovane,
da noi, a scoprire la musica classica? O per
tradizione familiare o per folgorazione divina!».
In questo senso la scuola riesce ad amalgamarsi
bene con i mass media e con una società che
appare sempre più pigra e meno curiosa, quando
potrebbe assumere un ruolo ben diverso, un ruolo
attivo che non neghi il diritto all’esperienza musicale.
In Venezuela, paese considerato da molti Terzo
Mondo, esistono centinaia di orchestra formate da
giovani e bambini, la musica ha una valenza sociale
molto profonda. In orchestra suonano più di 200mila
giovani, molti dei quali proprio grazie alla musica
hanno avuto l’opportunità di salvarsi dalla strada e
dalla criminalità. Tutto questo grazie al ministro (e
Maestro) Antonio Abreu, il quale 30 anni fa ha dato
vita ad un sistema scolastico in cui la musica
accompagna i ragazzi fin dai primi anni. Per tutto il
Paese sono sparse centinaia di scuole in cui si fa
musica, anche per portatori d’handicap, scuole di
liuteria, capaci si strappare i ragazzi alla povertà dei
quartieri.
Il grande direttore Claudio
Abbado è andato in
Venezuela e ha raccontato la
sua esperienza con l’orchestra
dei ragazzi di strada: «molti di
loro, non pochi dei quali
abitano nei barrios, mi hanno
raccontato che grazie alla
musica, loro, ora, sono in
grado di vivere in condizioni sociali dignitose»; e
ancora: «il solismo, il primeggiare sugli altri, sono
concetti estranei a questi ragazzi: a loro interessa
soprattutto suonare in orchestra insieme».
In questo Paese con la musica classica ci si diverte
e si ottiene una fantastica opportunità di riscatto
sociale. Da questo ‘non-utopico’ sistema scolastico
provengono due giovani talenti: Edicson Ruiz, che a
19 anni è diventato il primo contrabbasso dei
Berliner Philarmoniker, e il giovane Gustavo
Dudamel, definito da molti un «miracolo musicale»,
direttore dell’orchestra venezuelana professionale
Simon Bolivàr, che a soli 25 anni è conteso in tutto il
mondo dalle migliori orchestre. Notevole la sua
direzione del “Don Giovanni” mozartiano alla Scala
l’ottobre scorso.
Senza andare molto lontano, anche in Europa ci
sono interessanti realtà musicali, come quella della
Norvegia, dove la legge prevede che tutti i comuni
offrano ai bambini una formazione artistica e obbliga
ogni contea ad impartire l’istruzione musicale in
almeno una scuola superiore.
Il compito della scuola nella formazione musicale è
di fondamentale importanza anche per creare degli
adulti che costituiscano il pubblico di domani, capaci
di apprezzare il patrimonio musicale classico e
possederlo come arricchimento interiore.
In Norvegia l’attività musicale dilettantistica è
coltivata da centinaia di organizzazioni, tra cui le più
importanti sono la Federazione Norvegese Di Bande
Musicali e l’Associazione Norvegese Per I Cori.
In Italia, nonostante gli impegni che periodicamente i
vari governi si assumono, la strada per una
‘riconsiderazione’ della musica nelle scuole è ancora
molto lunga.
Il Direttore Artistico di un teatro norvegese sentendo
che in Italia si parla di soldi SPESI per la cultura si è
meravigliato, facendo notare che i soldi per la
cultura non sono mai spesi ma INVESTITI. Partendo
da qui si potrebbe ricominciare a riflettere…
(per un quadro sull’attuale stato dell’educazione
musicale in Italia si può consultare il sito della SIEM
Societa' Italiana per l'Educazione Musicale.
http://www.siem-online.it/
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Musica
nelle
Scuole
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Rubrica
navigando
Ecco la prima trascrizione integrale in
formato elettronico di un famoso
trattato rinascimentale sulla danza.
Nel 1588 Thoinot Arbeau scrive
l’“Orchesographie”, un dettagliato
trattato delle danze in voga durante il
XVI sec., ma anche un prezioso
documento che descrive i costumi dei
giovani e della buona società del
tempo. L’autore del sito ha trascritto
l’intero trattato in formato elettronico,
riportando le tantissime immagini
originali del prezioso testo e dando
anche la possibilità di visionare il
testo in fac-simile, attraverso i link
Rubrica
Navigando
http://graner.net/nicolas/arbeau
di Beatrice Birardi
Strumento del mese
Strumento
di Emanuele Raganato
del mese
La zampogna è uno strumento di origini
antichissime e comune a molte civiltà
anche se conosciuta con nomi differenti.
Quella più conosciuta è formata da una
sacca di pelle di montone o di capra
nella quale il musico insuffla l’aria
attraverso un imboccatura che si
innesta nella pelle. I suoni vengono
modulati attraverso una serie di altre
canne che escono dalla sacca e che
sono munite di ance libere messe in
vibrazione, all’interno della sacca,
dall’aria compressa. Generalmente
sono dotate di una canna della melodia
(chanter in anglosassone), dove ci sono
i fori tonali. Sopra la canna della
melodia c’è il bordone basso
generalmente intonato due ottave sotto
il chanter. Alcuni tipi di zampogna,
come quella scozzese (conosciuta anche
come cornamusa o bagpipe) possiedono un numero
più elevato di bordoni intonati per ottave e quinte. La
La Zampogna
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con la Library of
Congress presso
cui è depositato l’originale. Ogni
danza è accompagnata dalle
illustrazioni dei passi da seguire, da
notazioni musicali, in particolare
quelle per tamburo che costituiscono
le prime ‘partiture’ per strumenti a
percussioni della storia della musica.
Il contenuto è in un francese un po’
differente da quello contemporaneo,
ma armati di dizionario e buona
volontà, è possibile accedere
tranquillamente ai preziosi contenuti
di questo testo.
tipica musica degli zampognari, legata soprattutto
alla celebrazione del Natale, è diventata
familiare ovunque grazie alle imitazioni
contenute nel Messiah di Haendel e
nell’Oratorio di Natale di Bach. In qualità di
strumenti popolari le zampogne sono tuttora
presenti in ogni parte d’Europa, mentre come
strumento militare sono sopravvissute in
Scozia e Irlanda. In Italia, normalmente, le
zampogne sono dotate di canne con
cameratura conica e ancia doppia, come
negli oboi, differentemente dalla tradizione
orientale che adopera camerature cilindriche
e ance semplici come nei clarinetti. Nella
tradizione popolare gli zampognari erano
accompagnati da un suonatore di ciaramella,
che altro non era che un chanter senza la
sacca. Un interessante pubblicazione
sull’argomento dal titolo "La Zampogna
Italiana" è continuamente aggiornata
dall’autore Marco Tavolini (per informazioni
editoriali sull’opera si prega contattare l’autore).
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Navigando
Lo strumento
del mese

Rubrica
Un disco
al mese
FREAK OUT!
40 anni fa…le Mothers (ed ovviamente anche Zappa)
Il geniale album entra negli ‘...anta’.
di FrancescoTrinchera
Se nel 1966 vi si fosse avvicinato qualcuno
facendovi leggere dal booklet di un disco la frase:
«Se i vostri figli si accorgessero di quanto
inconsistenti voi realmente siate, probabilmente vi
ammazzerebbero nel sonno» probabilmente gli
avreste dato del pazzo.
E magari avreste avuto ragione, considerato che
nella follia si nasconde il genio.
La frase in questione ‘sponsorizza’ il disco d’esordio
di Frank Zappa e delle sue Mothers of Invention:
“Freak Out!”.
Zappa è il figlio ‘bastardo’ di Igor Stravinskyj ed
Edgar Varèse ed è logico che il suo approccio alla
musica fosse quanto meno inusuale, ma proprio per
questo di una genialità originale e corrosiva.
The Mothers (il nome completo The Mothers of
Invention deriva proprio dal proverbio «Necessity is
the Mother of Invention»), prima nota come Soul
Giant, è la band che lo accompagna, degni
compagni di avventura nel viaggio strampalato di
Zappa nel mondo della musica.
Il Disco
L’opera è volutamente disomogenea ed incoerente,
quasi cacofonica.
A dettare legge sono più realtà sonore figlie
soprattutto del ‘comportamento musicale’ dei
protagonisti.
Esistono brani vicini alla forma canzone ma anche
manifestazioni anarchiche di caos puro, rumore,
frenesia e creatività incontrollata: mesdames et
messieurs, voiçi la musique concrete.
Tra I Solchi
Hungry Freaks Daddy
L’esordio è di quelli confortanti: chitarre distorte,
kazoo, vibrafono e voci stonate introducono
l’orecchio dell’ascoltatore in un brano dalla struttura
mai banale e non appiattito dalla ricerca del
ritornello vincente.
Analiticamente nel testo si riscontra, invece, un vero
e proprio manifesto delle cosiddette persone ‘non
allineate’ al sistema, di cui Zappa si sente portavoce
nel gridare la rabbia degli «esclusi della grande
società», (come da autodefinizione nel testo stesso)
contro il prototipo del Mister America.
I Ain’t Got No Heart
Una song quasi imponente,
che vive spesso dell’artifizio: sono numerosi infatti
nel brano gli stacchi e gli inserti, sottolineati dalla
ritmica dei timpani e delle percussioni di vario tipo.
Zappa qui si produce nell’anti-canzone d’amore, che
invece era lo stilema più in voga nel periodo,
deridendo la ragazza che aveva al suo cospetto e
rinunciando alle diabetiche involuzioni all’insegna
del sentimento.
Who Are The Brain Police?
Eccola qui la pagina ‘socialmente contro’ forse più
importante dell’opera intera, in un inquietante e tetro
massaggio di contestazione.
L’autore ci dà dentro con una composizione testuale
solo in apparenza senza senso, ma che nasconde
un’invettiva feroce contro l’ignoranza imperante.
Lo stesso landscape sonoro, popolato da chitarre e
basso distorti, appare decisamente arido e
sconfortante.
Kazoo ed inserti rumoristici sono gli esempi
antesignani di un ‘gesto sonoro intransigente’, in
questo caso più che mai ‘concreto’, per
l’adolescente del tempo.
Go Cry On Somebody Else’s Shoulders
Ora l’adolescente di cui sopra ha un po’ di respiro
ed il gruppo si concede un primo brano di
ispirazione doo-wop, stile musicale in voga nel
decennio precedente, anche se volutamente
imprecisa.
Siamo comunque sempre nella concezione dell’antiromanticismo,
in quanto la canzone narra del ritorno
di una ragazza dal suo vecchio amore, dopo un
anno, ed a cui è ‘suggerito’ di andare a piangere
sulla spalla di qualcun altro.
Il siparietto finale invece lascia presagire il ritorno di
fiamma con un una bizzarra conversazione tra i due
spasimanti.
Motherly Love
Canzone dall’andamento vagamente burlesco, con
l’inserto del solito kazoo e chitarre tirate a lucido. Il
ritornello è sottilmente e ruffianamente malefico
nella sua semi-atonalità, ma strambo a sufficienza
per rimanere impresso nella mente.
Difatti qui i membri della band si preparano a dare
alle ragazze che lo volessero il loro particolare
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Un Disco
al mese
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amore, assimilabile a quello che era l’amore
materno prima dello svezzamento.
How Could I Be Such A Fool
Un brano sorprendente, dall’inusuale melodia
iniziale fino al ritornello drammatico, grondante
pathos e suspense. Il tutto condito con arpeggi di
chitarra molto ben eseguiti ed un arrangiamento a
tono del vibrafono.
È il testamento dell’amante tradito, ovviamente
ripreso in chiave ironica, che ancora si chiede come
abbia fatto ad essere tanto stupido.
Wowie Zowie
All’apparenza il brano ha l’aria spensierata e banale,
ma l’uso della marimba è il segno chiaro della
ricerca di nuove sonorità, dando un aspetto quasi
serio e professionale al brano.
Zappa qui si esprime in una dichiarazione d’amore
scherzosa, (sarà che il freak si sta facendo
sentire…) perché porta in risalto
tutto ciò che mai di una donna
possa interessare ad un uomo:
la sua propensione a depilarsi,
il fatto che si lavi i denti ed
altro, tanto da apparire
oniricamente nei ‘deliri’ onirici
dell’autore in qualsiasi
momento della giornata.
You Didn’t Try To Call Me
Il brano è divisibile in più parti,
in cui si scorge la lungimiranza
compositiva di Zappa.
Ad esempio se si prende la
sezione fiati, si capisce come
stia maturando nel frontman la
capacità di visione d’insieme.
Inseribile nel filone delle stupid song, fatte più che
altro per prendere in giro il giovane del tempo in
preda agli sconvolgimenti emotivo-ormonali e ad
uno dei suoi attrezzi del mestiere, il telefono, muto
nella vana attesa della chiamata della ragazza
amata.
Anyway The Wind Blows
Ecco il ritorno della classica forma canzone per le
orecchie meno abituate alle sperimentazioni, forse
una strizzata d’occhio alla casa discografica che
tanto aveva investito nel progetto.
Nel testo, Zappa racconta la separazione dalla
prima moglie.
Nel riesaminare le vicende che hanno portato
all’evento, Zappa passa in esame il brutto della loro
vita coniugale, mettendoci infine la fatidica e
proverbiale pietra sopra.
I’m Not Satisfied
Ancora la forma canzone, e
l’arrangiamento
eccessivamente
particolareggiato può
mettere in secondo piano il
cantato vero e proprio.
L’intero ensemble degli
strumenti crea un insieme sonoro forse difficilmente
distinguibile.
Torniamo qui ai manifesti ‘contro’ che tanto
piacciono all’autore, il quale non riesce a
nascondere dietro al sorriso di circostanza la sua
insoddisfazione di vivere in un mondo che gli va
stretto di qualche misura, soffocandolo.
You’re Probably Wondering Why I’m Here
Una delle prime stupid song zappiane, che mira ad
avere una sua efficacia concettuale. Basti pensare
al verso «they only pay me here to
play» sviluppando un tema caro a
Zappa che il musicista riprenderà
con l’album “We’re Only In It For
The Money” (1968).
Ma la canzone è anche qualcosa di
più: non solo il finto spirito artistico
ma cosa ben più grave la falsità in
genere dei finto-perbenisti, i quali
pensavano bastassero il look e gli
status symbol per essere rispettabili
(Zappa si rivolge in particolare ad
una ragazza).
Gli strumenti usati, invece, sono
sempre gli stessi: kazoo e vibrafono.
Trouble Everyday
La canzone nasce all’indomani dei disordini di Los
Angeles (nel quartiere di Watts) del 13 agosto 1965.
Ci ritroviamo quindi a delineare i contorni di uno
Zappa molto meno consueto all’interno del disco,
ovvero quello promotore di istanze sociali esplicite
(vedasi «non sono nero, ma ci sono volte in cui non
vorrei essere bianco»).
Gli scontri sono così visti da Zappa in maniera aspra
e caustica.
Il brano, cadenzato come un blues , costituisce
quindi l’invettiva zappiana sull’argomento, in un
fluire di osservazioni critiche verbali con la chitarra e
l’armonica a bocca, riverberata allo stremo, che
danno pathos al brano durante gli assoli.
Help I’m A Rock
Lo abbiamo aspettato tutto l’album ed eccolo qui: il
Freak, che ha gettato la maschera e svelato il suo
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Un Disco
al mese
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vero volto; il brano si presenta come un ostico
collage di bizzarrie sonore, ben aldilà di qualsiasi
cosa si potesse pubblicare nella discografia di largo
consumo del tempo. Si può etichettare il tutto come
un ‘universo sonoro parallelo’ per quel periodo.
Il testo è nella prima parte un insieme di versi
sconclusionati, l’unico momento di razionalità
sembra (ed è tutto dire) l’invocazione di aiuto,
proferita dal cantante per il suo essere una roccia.
Successivamente però, in un momento di
rinsavimento testuale l’invocazione d’aiuto riguarda
la consapevolezza di essere poliziotto: il Freak
diventa un fiume in piena, inarrestabile.
It Can’t Happen Here
Il brano appare come una composizione jazz oscura
e torbida, con un pizzico della poetica zappiana per
dare il senso di un cocktail di frammenti, presi e
messi insieme senza alcun apparente ordine logico.
Ma essendo questo un brano che segue il tracciato
di quello precedente, è possibile rintracciare il
continuum concettuale del manifesto Freak, che
aveva avuto inizio un brano addietro, presagendo
un’invasione dei ‘diversi’ nel grigiore metropolitano
americano (Kansas, Minnesota, Washington DC).
The Return Of The Son Of Monster Magnet
Se possibile, il brano è il colpo di grazia che il disco
dà all’ascoltatore in questa magniloquente suitemanifesto
della ‘freak-scene’ losangelina. La
creatività qui si materializza in forma musicale
attraverso la guida sapiente di Zappa, che tira fuori
un vero e proprio inno al genio individuale.
Di fatto, il brano è l’apologia dell’anarchia, in cui
impera il personaggio bislacco di Suzy
Creamcheese, unico punto di riferimento in un brano
volutamente disomogeneo: il viaggio dell’americano
medio si conclude così nell’ultimo e più dissacratorio
gioco di specchi, dove ormai riconoscersi nei middle
class values è impossibile e la propria immagine,
riflessa nello specchio, è molto meno rassicurante di
quella che era all’inizio del percorso nel mondo
Freak. E la frase «L’America
è meravigliosa» ha quel
retrogusto metallico, tanto di
presa in giro quanto (in
maniera più terrificante) di
minaccia.
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I Musicisti
Di Zappa, già si è detto
prima.
Con lui, alla registrazione del disco hanno preso
parte Ray Collins (voce, armonica e percussioni),
Elliot Ingber (chitarra), Roy Estrada (basso
elettrico, falsetto) Jimmy Carl Black (batteria).
Quando ancora si chiamavano Soul Giant, Zappa
per convincerli disse loro: «Se suonate la mia
musica diventerete ricchi e famosi» e Jimmy Carl
Black dichiarò in seguito: «Infatti siamo diventati…
famosi».
Chiaro che il sodalizio non poteva durare.
Zappa proseguì per la sua strada da solista, mentre
le Mothers originarie, composte da alcuni elementi
qui presenti più i vari Don Preston e Bunk Gardner
aggiuntisi successivamente, si staccarono e si
riunirono più avanti, nel 1972, sotto il nome di
Grandmothers, proponendo un percorso musicale a
metà tra il loro vecchio repertorio e brani nuovi.
Con loro dal 1998 collabora anche un musicista
romano, Sandro Oliva, che racconta: «Il processo
creativo alla base di ogni album delle Mothers,
contrariamente a quanto si possa pensare, era
dettato da brani nati avulsi dal resto del disco.
Ognuno dei Mothers è un grande musicista, ma
conoscendoli bene ho capito del perché ci fossero
state le diatribe con Zappa: collaborare con loro mi
ha portato un arricchimento sul piano musicale ma
anche un sacco di debiti ed acidità di stomaco [ride,
n.d.a.], anche se non posso dimenticare l’amicizia
che mi lega a Jimmy Carl Black».
La carica innovativa del disco, nonostante queste
diatribe, rimane ed è valida ancora adesso.
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La musica…intorno alla musica
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Un Disco
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Novembre 2006

Ludovico Einaudi
Dalle Suite Per Piano E Orchestra Alla Musica Per Teatro E Cinema:
La Figura Del Compositore Contemporaneo.
Il Minimalismo ‘Pop’ Di Ludovico Einaudi
di Vito Lomartire
«La musica del compositore/pianista Ludovico Einaudi è stata descritta come minimalista, classica,
ambientale, contemporanea e profondamente toccante... un suono ben accolto di quiete in un
mondo agitato…» [1]
Così inizia la biografia del torinese Ludovico
Einaudi: questa introduzione, estratta dal suo
sito ufficiale, sottolinea le difficoltà che
possono riscontrarsi qualora si decida di
assegnare una definizione al suo genere
compositivo.
La formazione di Einaudi è indiscutibilmente
classica: si diploma al Conservatorio di Musica
G. Verdi a Milano con Azio Corghi e continua
gli studi con Luciano Berio.
Esordisce come compositore agli inizi degli
anni ’80, scrivendo musica per orchestra e da
camera (“Ai Margini Dell'aria”, “Per Vie
D'acqua”) ma rapido fu l’incontro con il
teatro e la danza, per quest’ultimo settore
scriverà “Sul Filo Di Orfeo” (1983), “The
Wild Man” (1990), “Emperor” (1991).
Del 1988 è invece l'opera teatrale “Time
Out”, in collaborazione con lo scrittore
Andrea De Carlo, mentre del 1995 è “Salgari
(Per Terra E Per Mare)”, un’opera/balletto
commissionata dall’Arena di Verona, ispirata
alla vita e alle opere dello scrittore veronese,
su testi salgariani selezionati da De Carlo.
In questi lavori di Ludovico Einaudi non è
assolutamente trascurabile la presenza della
danza, ma anche di quell’estrema ricerca di
strutture compositive alquanto minimali che
contrassegneranno, d’ora in avanti, il suo stile
spoglio ma efficace.
Dall’inizio degli anni ’80 Einaudi intraprende
un suo cammino, alla ricerca di un linguaggio
più libero, che sia in grado di assorbire
culture ed influenze musicali diverse, tra cui il
Rock, riprendendone l’immediatezza, la carica
emotiva e l’impatto sonoro.
A queste caratteristiche sopra citate, si
aggiunge un elemento caratterizzante
derivato da un profondo interesse per la
musica popolare.
“Stanze” (1992) è una raccolta di 16 pezzi
per arpa elettrica, interpretato da Cecilia
Chailly. Lo stesso autore ha definito questo
album «spazi musicali separati l'uno dall'altro
come le stanze di una casa».
Assunte queste caratterizzazioni, il genio di
Ludovico Einaudi partorirà notevoli lavori
quali “Le Onde” (1996), una raccolta di
ballate per piano solo, “Ultimi
Fuochi”(1998), “Eden Roc”(1999), “I
Giorni” (2001), “Una Mattina”(2004).
Nel 2005 viene pubblicato invece un
ennesimo suo profondo lavoro, “Diario Mali”,
con Ballaké Sissoko alla kora, strumento
musicale africano: «[…] è la storia di un
viaggio. Due amici che parlano lingue diverse
si incontrano nel deserto e attraverso la
musica si scambiano i loro mondi sotto
l’ombra di un albero di henné.», così definisce
il suo lavoro Einaudi all’interno del booklet.
Intensa è anche la sua carriera di
compositore di musiche per film: Einaudi è
uno dei pochi in Italia a fornire composizioni
originali ma anche brani di repertorio, che,
scelti per caratteristiche di sensibilità e
profonda complicità con le immagini, risultano
spesso presenti tra le scelte dei consulenti
musicali.
Comincia con due film di Michele Sordillo:
grazie ad “Acquario”, il secondo
lungometraggio, vincerà la “Grolla D’oro”
come miglior colonna sonora.
Collaborerà con Andrea De Carlo, regista
stavolta (sua unica esperienza in questo
campo) di “Treno Di Panna”.
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Ludovico
Einaudi
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Alcuni brani de “Le Onde” saranno inclusi da
Nanni Moretti nel fortunato film “Aprile”.
Dal 2000 comincia la collaborazione con
Giuseppe Piccioni, firmando tutte e due le
soundtrack dei film diretti dal regista-amico
da quell’anno in poi, cioè “Fuori Del Mondo”
e “Luce Dei Miei Occhi”, per cui scriverà la
miglior colonna sonora del 2002 secondo la
F.I.M.I. (Federazione dell’Industria Musicale
Italiana).
Collaborerà anche con la regista italiana
Francesca Comencini (“Le Parole Di Mio
Padre”, 2001) e con la greca Maria Iliu
(“Alexandria”, 2001).
Da segnalare la bellissima colonna sonora
quasi-originale
(alcuni brani
sono variazioni
su temi composti
ed editi
precedentemente
dallo stesso
pianista) del
film-tv
“Zhivago”, una
produzione
internazionale,
remake del più
famoso film
basato sul
romanzo di Boris
Pasternak, in cui
si esplica e si
rivela in tutte le
sue sfaccettature
quella tecnica
assimilata negli
anni e la sua attenzione verso il campo
folklorico della musica mondiale.
Le ultime collaborazioni di Einaudi per il
cinema sono quelle con Roberto Andò, per il
giallo “Sotto Falso Nome”(2004), con
Michele Placido per “Ovunque Sei” e con la
regista inglese Shane Meadows per il film
“This Is England”, grazie al quale ha
ricevuto la nomination per la colonna sonora
al B.I.F.A. (British Indipendent Film Awards).
È evidente, insomma, l’evoluzione crescente
dell’interesse nei confronti del compositore di
ccia la definizione di ‘popular’ al proprio
minimalismo, forse per la sua potenza
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Ludovico
Einaudi
cui parliamo, man mano
che ci si è resi conto di
aver a che fare con un
modo particolare di
scrittura musicale, forse
non così originale, ma
certamente incisiva.
Alcuni parlano di
«sensibilità al servizio del
cinema», per molti altri, la maggior parte
direi, lo stile di Einaudi non può che esser
denominato come minimalismo.
Questa corrente nasce dalla distanza che
venne a crearsi tra la musica colta e gli
ascoltatori verso la metà del secolo scorso,
alla quale molti
compositori posero
rimedio ricercando
musicaround.net
nuove soluzioni, forse
nel tentativo di farsi
conoscere al grande
pubblico, creando nuovi
codici d’ascolto di
maggior carica emotiva,
ma anche recuperando
quei codici condivisi
ritenuti ormai
sorpassati dalle nuove
avanguardie.
Le corde del cuore
dovrebbero vibrare
empaticamente, per
simpatia, al tocco di
quelle poche note,
rientrate nella
normalità del sistema
tonale tradizionale,
sempre più lontane dalla dodecafonia e dalla
musica concreta.
Il minimalismo è un’estrema ed essenziale
semplificazione dei codici.
Lo sanno bene i vari Philip Glass, Michael
Nyman (compositore della colonna sonora di
“Lezioni Di Piano”), Win Mertens, che con il
minimalismo si sono imposti alla pubblica
attenzione.
Inoltre tal genere non richiede una grande
preparazione musicale da parte
dell’ascoltatore, in linea a questa
affermazione non credo che a Einaudi dispia
ipnotica, funzione che si esplica lungi dal
gusto personale.
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Lo sanno bene i consulenti musicali operanti
in tv e in radio: è molto facile ritrovarsi ad
ascoltare brani del qui trattato pianista come
sottofondo per pubblicità, in particolare quelle
‘progresso’, o ancora per programmi televisivi
che puntano alla commozione, all’induzione al
sentimento. Azione questa che fa spesso
storcere il naso ai più critici verso tali
operazioni: atteggiamento condivisibile in
parte, se da un alto si inserisce forzatamente
una musica nata magari su ispirazione di ben
diversi sentimenti, dall’altra viene
assolutamente rispettata la qualità
‘calamitica’ di tali musiche.
La melodia einuadiana assoggetta
l’ascoltatore ad un trip sonoro dove l’ignoto
appare come immagini già viste: è come
saper in anticipo dove si andrà a finire, tutto
già scontato, paradossalmente si desidera
cambiar strada, ma in fondo si vuol rimanere
lì…scrutando la direzione più sicura.
Qualcuno sosteneva che si può capire la
società dai rumori che essa produce: forse il
minimalismo non è altro che la
rappresentazione del sentimento occidentale
odierno, cioè la poca voglia di cambiare,
magari l’imbarazzante impossibilità a
qualsiasi cambiamento.
Qualunque siano i motivi socio-culturali che
hanno portato all’affermazione di Ludovico
Einaudi, ciò che conta è il riscontro positivo di
pubblico e critica che in gran parte del
mondo, specialmente in Inghilterra,
accompagna le esibizioni
del compositore torinese,
tanto alla Queen Hall di
Londra, quanto alla Scala
di Milano, della quale
esibizione è stato
pubblicato un doppio cd.
Suoni colti, suggestioni
etniche, improvvisazioni,
scrittura minimale: tutto si fonde in un suono
circolare che si insinua nelle sale
cinematografiche, nei teatri, nei piccoli
ambienti casalinghi, negli spazi aperti di
fronte alle Dolomiti… ovunque ci sia un
ascoltatore pronto a coglierne gli effetti in
una società ben predisposta a farlo.
Il percorso videografico di Einaudi dimostra
come i caratteri del proprio stile compositivo
possano intrecciarsi tanto alle immagini di
una dramma amoroso, quanto alle scene
inquietanti e torpide di un’intrigante tresca a
tinte gialle-noir.
Ludovico Einaudi riassume nella sua persona
caratteristiche che lo rendono un compositore
di stampo neoclassico assolutamente attuale:
la poliedricità, la flessibilità a recepire e fare
propri i nuovi mezzi d’espressione culturale si
sposano perfettamente con quella che oggi
rappresenta la figura del compositore
contemporaneo, impiegato su più fronti e
sciolto da clichè stilicistici che incanalavano
gli autori delle musiche per cinema e teatro in
divisioni per genere.
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
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Ludovico
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musicaround.net mensile di cultura musicale,
on web da Novembre 2006

Ludovico Einaudi
“Divenire”
di Vito Lomartire
Uscito il 27 ottobre 2006, “Divenire” è il nuovo
album di Ludovico Einaudi edito dalla Decca,
etichetta inglese, contenente 12 nuove tracce.
Provate ad immaginare un fiume e coglierete il
senso di questa raccolta per pianoforte, archi e
note elettroniche.
La crescita artistica di Einaudi negli anni è similare
ad un corso d’acqua che porta via con sé ciò che
incontra al suo passaggio: contaminandosi ‘diverrà’
qualcosa di nuovo.
Le idee sonore del compositore torinese hanno
mantenuto la propria essenza, nate dalla sorgente
minimalista e intimista che ha contraddistinto le
pubblicazioni precedenti del nostro autore, ma qui
sono trasformate, note e silenzi si aprono
nell’accogliere nuove esperienze, miscelandosi agli
effetti elettronici.
Non è nuovo a queste innovazioni Ludovico
Einaudi: a suo tempo interessato alle combinazioni
orchestrali insolite, con inserimento di strumenti
folklorici, in particolare africani, da qualche anno ha
cominciato ad apprezzare le nuove realtà
elettroniche e informatiche, in linea con le ambizioni
artistiche di un artista che trova nelle
sperimentazioni le giuste motivazioni per continuare
a donare ancora musica raffinata e mai stagnante.
Ultimamente si diverte a giocare con gli interventi
elettronici dei fratelli Robert e Ronald Lippok, vale a
dire i 2/3 dei berlinesi To Rococo Rot.
Uno
Divenire
Monday
Andare
Rose
Primavera
Oltremare
L’origine Nascosta
Fly
Ascolta
Ritornare
Svanire
[Decca, 2006]
L’incursione nell’elettronica è evidente già in Uno,
primo brano dell’album: campionamenti in loop
ruotano intorno all’ostinato ribattere di una nota di
pianoforte in levare, la sequenza armonica ricorda le
costruzioni di accordi degli inglesi Radiohead, uno
dei gruppi lodati da Ludovico Einaudi e più vicini al
suo stile.
La genesi di Divenire, seconda traccia è
notevolmente lunga: la storia comincia nel 2002
quando compone la suite in 4 movimenti per
pianoforte, due arpe e orchestra d'archi “Panorama-
Divenire”, commissionata dal progetto “I Suoni Delle
Dolomiti”, eseguita a 2000 metri di altezza e in parte
ispirata al ciclo di tre quadri di Giovanni Segantini “La
Vita, La Natura, La Morte”.
Dopo essere stata inserita nella colonna sonora di
“Ovunque Sei”, film diretto nel 2006 da Michele
Placido, il primo movimento della suite è diventato il
brano che dà il nome all’album di cui parliamo.
Alla staticità del piano corrisponde una celata
irrequietezza degli archi, che in pratica
preannunciano una svolta melodica; rapidi arpeggi,
gli archetti si muovono incalzati, per poi arrestarsi
improvvisamente, quando meno te lo aspetti, e
riprendere la corsa nuovamente: con il suo ‘suono
circolare’ Einaudi rende esplicita ai nostri occhi
l’immagine del ciclo vitale, nella consapevolezza che
la vita scorre in ogni attimo diversa. L’orchestra è la
Royal Liverpool Philharmonic guidata da Robert
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Einaudi
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Ziegler, che sapientemente la dirige anche in
Primavera, secondo movimento della suite:
inevitabile forse non notare le similitudini stilistiche
e tecniche con il III movimento dell’“Estate” da “I
Concerti Delle Stagioni” – meglio noti come “Le
Quattro Stagioni” – di Antonio Vivaldi, in particolare
nelle vorticose scale ascendenti degli archi.
Monday è probabilmente la traccia che più ci
ricorda lo stile classico di Einaudi, ma la sua
particolarità sta nella stessa creazione,
assolutamente ‘futurista’: composta davanti ad una
webcam, durante uno dei suoi ormai consueti
concerti pomeridiani in rete, a cui assistono fan ma
anche gente ignara dell’identità del compositore.
Einaudi ha lasciato liberi gli spettatori in rete di
commentare la composizione estemporanea, come
improvvisa è stata la scelta del nome, non altro che
il giorno dell’esecuzione on web.
Gli altri brani con piano solo sono Oltremare, la
traccia più lunga, e Ritornare, semplice struttura in
due accordi con sviluppi tematici e lunghe pause.
Molto particolari sono Fly, in cui Einaudi suona
anche la chitarra elettrica, e Ascolta, melodia
accattivante, che l’ausilio dell’effetto elettronico
TITOLO ORIGINALE
Sotto Falso Nome
NAZIONE
Italia / Svizzera
PRODUZIONE
Medusa
GENERE
Drammatico, Thriller
DURATA
102 min. (colore)
DATA DI USCITA
27 febbraio 2004
REGIA
Roberto Andò
INTERPRETI
Daniel Auteuil
Greta Scacchi
Giorgio Lupano
Anna Mouglalis
Michael Lonsdale
SCENEGGIATURA
Roberto Andò
Salvatore Marcarelli
MONTAGGIO
Claudio Di Mauro
FOTOGRAFIA
Maurizio Calvesi
SCENOGRAFIA
Andrea Crisanti
MUSICA
Ludovico Einaudi
“Sotto Falso Nome”
sembra sospendere in aria,
come in assenza di gravità.
In Rose è evidente quella che
Einaudi definisce ‘elettronica
acustica’: alcuni suoni del
pianoforte sono catturati e
trasformati, «tutto questo crea
una sorta di amplificazione
delle voci del pianoforte che
accompagna quello che sto suonando».
La Colonna Sonora Di Ludovico Einaudi:
Un Esempio Di Musiche Originali E Di Repertorio
di Vito Lomartire
Il terzo movimento della suite del 2002 prende qui il
nome Svanire, ultima traccia dell’album: Einaudi
eclissa il proprio ruolo di solista per dare spazio al
violoncello di Marco Decimo. La musica lentamente
svanisce, a rappresentare la fine della vita come
l’ultimo tema del trittico di Segantini.
Alla base di quest’ultimo lavoro di Ludovico Einaudi
c’è quindi immancabilmente una dose minimalista,
ma qui viene rafforzata una delle caratteristiche del
concetto, ovvero il loop, la reiterazione, che sebbene
sia un movimento ciclico, ad ogni suo passaggio non
fa altro che progredire verso nuove soluzioni, così
come la musica antica, in cui la ripetizione rafforza
ed evolve un discorso, incantando chi lo ascolta.
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Sinossi. Daniel (Daniel Auteuil) è uno scrittore di
successo, campione dell’ossessione e della
riservatezza conosciuto con lo pseudonimo di Serge
Novak. Suo complice è un’agente letterario
coltissimo e spregiudicato, David Ginsberg. Spetta a
lui filtrare le sue relazioni con i tanti ammiratori
sparsi nel mondo. Il primo romanzo di Novak,
unanimemente considerato un capolavoro, “Il
Viaggio D’inverno”, ha probabilmente una macchia,
una presunta colpa che risalirebbe ai suoi vent’anni.
Daniel viene da una modesta famiglia polacca, di
origine ebraica, trapiantata in Francia. Si è sposato
con una donna molto affascinante, un avvocato
italiano, Nicoletta (Greta Scacchi). Ricchi entrambi,
vivono in una bella casa sul lago in Svizzera,
insieme al figlio di lei, Fabrizio (Giorgio Lupano),
nato da un precedente legame, che sta per
sposarsi. Durante il viaggio in aliscafo che lo porta a
Capri, luogo del matrimonio, lo scrittore conosce una
donna che lo coinvolge in una travolgente notte di
sesso.
La ragazza, di nome
Mila (Anna Mouglalis) è
proprio la sposa di
Fabrizio. Da quel
momento comincerà ad
essere coinvolto in un
turbine di passione e
mistero, fino ad essere
ricattato dalla polacca
Ewa (Magda Mielkarz)
amica-amante di Mila.
Lo ricatta con la
richiesta di una grossa
somma di denaro a
titolo di risarcimento, lo
tiene in pugno
attraverso la
documentazione
fotografica della sua inconfessabile relazione, a cui
non riesce a porre fine, effetto della sua più intima
debolezza, la passione per donne giovanissime,
solitamente consumata in una sola notte. Lo stesso
libertinaggio dell’eroe delle sue epopee
romanzesche, Laszlo, il protagonista di tutte le sue
storie.
Daniel sa che deve assecondare l’ingegnosa
trappola che gli è stata preparata e si lascia andare
lentamente al vertiginoso richiamo del passato,
all’oscurità che l’ha generato. Alla melodia segreta
da cui proviene.
In questo viaggio a ritroso troverà l’amore, e sarà
travolto dall’irrompere di un misterioso sentimento
per una giovane donna con cui potrà condividere
per la prima volta l’ossessione
speciale che ha nutrito la sua
esistenza.
Una donna fatale, destinata a
rompere l’incantesimo
misterioso della scrittura e dei
suoi irreversibili, paradossali
rapporti con la vita, un angelo
vendicatore che passo dopo
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Ludovico
Einaudi
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passo lo spinge verso una soluzione imprevedibile.
Il Cast. È questo il secondo lungometraggio di
Roberto Andò, regista palermitano, che aveva già
attirato su di sé le attenzioni della cinematografia
con l’opera prima “Il Manoscritto Del Principe”,
prodotto da Giuseppe Tornatore.
Nato nel 1959, è stato assistente alla regia di
Federico Fellini, Francesco Rosi, Michael Cimino e
Francis Ford Coppola. Ha alternato regie teatrali e
cinematografiche.
Nel 2006 ha presentato alla Festa Internazionale del
Cinema di Roma il suo ultimo film “Viaggio
Segreto”.
Attore protagonista di
“Sotto Falso Nome” è il
franco-algerino Daniel
Auteuil che spicca nel cast
grazie ad una buona
interpretazione; di lunga
esperienza, Auteuil è ora
uno degli attori di punta del
cinema francese e
internazionale grazie alla
sua versatilità nel passare
da ruoli comici-brillanti,
come in “L'apparenza
Inganna” e “N (Io e
Napoleone)”, a ruoli
impegnati come in “Niente
Da Nascondere”.
Bravissima anche Greta Scacchi nel ruolo della
moglie comprensiva e vittima del libertinaggio di
Daniel, così come l’ammaliante Anna Mouglalis nel
ruolo della ‘donna-diavolo’ Mila, già ammirata in
“Romanzo Criminale” di Michele Placido, nel ruolo
di una prostituta, che deve molto, però, alla forte
carica sensuale più che alla capacità recitativa.
Gustosa la partecipazione di Michael Lonsdale, di
cui è possibile annotare la bravura nel capolavoro di
Spielberg “Munich” e ne “Il Nome Della Rosa” di
Jean-Jacques Annaud.
La colonna sonora. Pubblicata da Ponderosa nel
2004, contiene 17 tracce di cui 14 sono brani
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originali e 3 (On, Memory e Ever) sono estratte da
“Table vs Ludovico Einaudi”.
Qui elettronica e musica classica si fondono a
ricordare come il presente e il futuro sono segnati e,
per alcune svolte, determinati dai ricordi del
passato.
Le prime scene del film sono accompagnate da un
delicato pad di synth su cui pian piano s’insediano
semplici moduli sonori di due note, ribattute a
intervallo di terza minore, riproposti su più piani
tonali; da una dimensione ‘surreale’ del
sintetizzatore che parallelamente commenta la vita
artistica ‘sub pseudonimo’ di Daniel, il tema viene
ripresentato con accompagnamento di accordi
arpeggiati in solo piano, conducendo lo spettatore
verso quella che è la vita reale dello scrittore,
chiaramente legata a doppio filo con quella artistica.
Nella scena in casa del padre, dove il protagonista
guarda la foto inviatagli dal mittente sconosciuto,
generatore dei fantasmi che lo tormenteranno, il
tema è proposto un’ottava sotto, come se
affondasse nei reconditi segreti di un passato poco
delineato.
I momenti di silenzio sono quasi sempre
accompagnati dal synth, mentre l’incontro con la
donna misteriosa, in seguito amante, è legato ad un
secondo tema di 3 note, sempre in variazioni tonali,
che lentamente accoglierà nuove soluzioni fino ad
una scala cromatica, la quale caratterizza gli incontri
erotici di Mila e Daniel.
Gli incontri mondani sono accompagnati invece da
brani break’n’bossa e chill out, rimanipolazione
elettriche di brani di repertorio einaudiani da parte
dei dj Table, come Memory ed Ever.
Le musiche originali sono state incise a Praga con la
National Symphony Orchestra diretta dallo stesso
Ludovico Einaudi.
Discografia
1988 – Time Out - BMG Ricordi
1992 – Stanze - BMG Ricordi
1995 – Salgari - BMG Ricordi
1996 – Le Onde - BMG Ricordi
1998 – Ultimi Fuochi - BMG Ricordi
1999 – Fuori Dal Mondo - BMG Ricordi
1999 – Eden Roc - BMG Ricordi
2001 – I Giorni - BMG Ricordi
2001 – Le Parole Di Mio Padre – Emi
2001 – Luce Dei Miei Occhi - Emi
2003 – La Scala Concert- BMG Ricordi
2003 – Dr. Zhivago - Universal Classic
2004 – Una Mattina – Decca
2004 – Sotto falso nome - Ponderosa
2005 – Diario Mali - Ponderosa
2006 – Divenire - Decca
Curiosità: in “Sotto Falso
Nome” brano omonimo del
film, il tema è cantato dalla
figlia del compositore, Jessica
Einaudi.
È questa probabilmente la più
riuscita colonna sonora di
Ludovico Einaudi, la musica è
piacevole all’ascolto, anche
senza il supporto delle immagini, essenziale e
irrinunciabile alla buona riuscita del lavoro di
Robertò Andò.
Considerazioni.
Film noir, thriller dalle chiare tinte erotiche, che per
somiglianze di sceneggiatura ricorda “Il Danno” di
Louis Malle, è una messa in scena ben riuscita, a
tratti diluita eccessivamente nel tempo
cinematografico, ma indiscutibilmente è una regia
concentrata, la trama è meravigliosamente legata
dalle ottime musiche di Ludovico Einaudi.
Auteuil probabilmente è l’uomo giusto per
rappresentare un’artista la cui doppia vita è
condizionata, e profondamente incisa, dal ricordo di
un ‘peccato atavico’ che segna la genesi della sua
carriera di scrittore e che intaccherà anche la sfera
privata, facendo presa su quelle debolezze che lo
rendono vulnerabile e incapace di opporre
resistenza.
C’è qualcosa di dannunziano in tutto questo: la
femme-fatale che porta inesorabilmente alla rovina
l’uomo fragile, il quale volta le spalle alla donnaangelo,
con perdita di entrambe, sembra la trama
criptica che può leggersi tra le righe del soggetto
rappresentato.
Fonti:
1. www.medusa.it/sottofalsonome
Filmografia
1988 – Treno Di Panna - Andrea De Carlo
1994 – Da Qualche Parte In Citta' - Michele Sordillo
1996 – Acquario - Michele Sordillo
1998 – Giorni Dispari - Domnick Tambasco
1998 – Aprile - Nanni Moretti
2000 – La Vita Altrui - Michele Sordillo
2000 – Fuori Dal Mondo - Giuseppe Piccioni
2000 – Un Delitto Impossibile - Antonello Grimaldi
2001 – Alexandria - Maria Iliou
2001 – Le Parole Di Mio Padre - Francesca
Comencini
2001 – Luce Dei Miei Occhi - Giuseppe Piccioni
2002 – Dottor Zhivago - Giacomo Campiotti
2004 – Sotto Falso Nome - Roberto Andò
2004 – Ovunque Sei - Michele Placido
2006 – This Is England - Shane Meadows
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Recensione
disco Fiorella Mannoia
f. Mannoia
Onda Tropicale
(Columbia, 2006)
di Maurizio Mazzacane
Il fascino è intatto. E
resiste anche la passione
per le produzioni di
spessore, per la musica di
qualità superiore. Fiorella
Mannoia non devia, non
deraglia sul binario della
convenienza, non cede al
richiamo del commercio
discografico facile e
banale. Anzi,
approfondisce l’antico
dialogo personale con la
musica popolare brasiliana
e confeziona “Onda
Tropicale”, collezione di
tredici tracce (di cui dieci
cover) autenticamente
verdeoro, sul mercato dallo
scorso dieci novembre. Fortificando il feeling con le
sonorità che arrivano da quell’angolo di Sud
America, già sancito dall’applauditissima – e
richiestissima, ovunque – Oh Che Sarà, versione
italiana della buarquiana O Que Será (A Flor da
Pele), lanciata anni addietro con la complicità
contagiosa di Ivano Fossati (che, di quel feeling, può
ragionevolmente considerarsi ispiratore
fondamentale) e da Il Culo Del Mondo (O Cu Do
Mundo, di Caetano Veloso).
“Onda Tropicale” ha incuriosito, da sùbito. E
continuerà ad incuriosire. Inserendosi in quel
sentiero di interpretazioni sincere e dense a cui la
Mannoia ha abituato il pubblico italiano. Quel
pubblico che, del Brasile, continua a possedere
un’idea distorta dai luoghi comuni e dalle
inesattezze credute certezze. Oltre a un’infarinatura
musicale eccessivamente godereccia e sicuramente
lacunosa. L’album, griffato Columbia e costato tre
anni di lavoro, è
già chiacchieratissimo e ben accolto. E non solo per
l’intensa Canzoni E
Momenti (Cançoes E Momentos) di Milton
Nascimento, che apre e chiude il
cd, del quale diventa spina
dorsale e brano itinerante:
per l’esecuzione
(particolarmente curata), ma
anche e
soprattutto per il peso del
proprio testo, che racconta
qualche verità dell’arte della
musica.
I particolari più attraenti,
piuttosto, sono tre. Innanzi
tutto, la vocalist romana
canta in italiano, ma anche in
portoghese. Non uno e non
due pezzi, ma sei.
Mostrando coraggio e buone
intenzioni, se non altro.
Sfidando una lingua, il
portoghese, accessibile, ma
neppure troppo. E riponendosi in competizione con
se stessa, con il suo passato. Cogliendo il frutto del
desiderio nel suo ambiente naturale, in Brasile,
senza svilirlo della propria essenza, della propria
magia. Conservando la fragranza della
composizione originale, preservando l’humus
attorno al quale il prodotto è fiorito. E approfittando
delle differenze metriche tra le due lingue: riportare
in italiano alcuni passaggi di alcune canzoni avrebbe
minato il messaggio, rendendo ingiustizia ai concetti
di partenza. O, più semplicemente, modificato (e,
probabilmente, impoverito) il senso dei testi.
Secondo punto: Fiorella Mannoia si fa affiancare
dagli autori. E, così, Milton Nascimento presta la
voce alla già citata Canzoni E Momenti e a Cravo E
Canela; Chico Buarque De Hollanda (sì, il padre di
Oh Che Sarà) la accompagna in Morro Dois Irmãos,
pezzo degli ultimissimi anni ottanta, mentre
Caetano Veloso concorre alla realizzazione di 13 De
Maio (brano praticamente sconosciuto, in Italia,
anche nella versione originale, dedicato alla fine
della discriminazione razziale nel Brasile di fine
diciannovesimo secolo). Ma c’è spazio anche per i
più giovani Chico César (in Mama Africa, il suo
successo più accreditato) e Carlinhos Brown (che è
poi il genero di Chico Buarque, in Kabula Lê Lê) e
per i più stagionati Djavan (in Faltando Um Pedaço,
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Recensione
Disco
Fiorella Mannoia
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tradotta Senza Un Frammento), Gilberto Gil (attuale
Ministro della Cultura del governo-Lula, che si
esibisce in Aquele Abraço – Un Grande Abbraccio,
composizione ormai datata che riporta agli anni bui
della dittatura del generale Médici), Jorge Ben (Mas
Que Nada è, invece, popolarissima e inflazionata) e
Lenine (autore recentemente valorizzato, a queste
latitudini, da Teresa De Sio, che condivide le note di
Vivo!, unico brano dell’intero disco a poter contare
su due versioni, una in lingua originale e una
tradotta in italiano).
E non manca, infine, un duetto fortemente
femminile, tra la Mannoia e
Adriana Calcanhotto, autrice
di origini trevigiane, tra le più
fertili e interessanti degli
ultimi dieci anni: oltre tutto la
sfruttatissima A Felicidade,
cioè la traccia prescelta, ha
radici aristocratiche (la
musica è firmata Tom Jobim,
le parole sono di Vinícius de
Moraes). Traducendo, il
lavoro sinergico diventa un
valore aggiunto. Che Fiorella
non manca di evidenziare, in
sede di presentazione
dell’album: «Ho vissuto
un’esperienza unica, che mi
fa tremare i polsi solo a
pensarci. Mi stupisco ancora
oggi, se penso di aver
cantato con i più grandi artisti
della musica popolare brasiliana e di aver trovato in
loro solo umiltà, serenità, disponibilità. Loro sono i
mostri sacri della canzone sudamericana. È come
se fossi andata negli Stati Uniti a duettare con Bruce
Springsteen o con Bob Dylan. E vederli tutti lì riuniti
per un disco, il mio disco,
con la loro naturalezza, la
disarmante normalità, mi fa
pensare che questi artisti
devono aver capito qualcosa
che a noi sfugge. Devono
conoscere un segreto, un
trucco, un mistero che noi
non riusciamo a decifrare».
In attesa di riprovarci, in un futuro più o meno
prossimo: l’idea di un secondo volume, comprensivo
delle voci di Maria Bethánia e Marisa Monte, giusto
per fare due nomi, sembra
essere già cantierizzata.
Terzo punto: la Mannoia si
pregia di scegliere canzoni
che, in qualche maniera,
ripercorrono la storia recente
del Brasile, ipotizzando un
viaggio introspettivo
all’interno di uno dei Paesi
più complicati del pianeta.
Confermando il proprio
marchio di fabbrica, cioè la
volontà di rapportarsi alla
musica di impegno sociale,
appena possibile. Da
esportare, sempre e
comunque: sul palco,
ovviamente. E, magari, in
tournée. Come quella
appena instradatasi a
Cremona, che la porterà anche
in Puglia, nel prossimo gennaio: la prima tappa, il
26, è Bari (Teatroteam), la seconda, il 27, è Lecce
(Teatro Politeama Greco). Le aspettiamo: ci sarà il
Brasile, dentro.
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
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musicaround.net
17
Recensione
Disco
Fiorella Mannoia
musicaround.net
musicaround.net mensile di cultura musicale,
on web da Novembre 2006

L’ascolto Musicale
Com’è cambiato durante il XX sec.
di Beatrice Birardi
A più di un secolo di
distanza dalla scoperta di
Edison, si può ben dire
che la fruizione della
musica sia molto
cambiata, l’esperienza
dell’ascolto musicale,
anche nell’ambito della
musica ‘colta’, viene
vissuta per gran parte
attraverso gli apparecchi
di riproduzione del
suono, con una serie di
importanti conseguenze, non soltanto nelle modalità
di ricezione della musica ma anche negli stessi modi
di vivere. I cambiamenti hanno investito non soltanto
il fruitore di musica, ma anche l’interprete stesso,
alle prese con i nuovi apparecchi: l’incisione
discografica nata per fissare un evento effimero qual
è un concerto, è diventata in seguito un modo per
rendere ‘perfetta’ un’esecuzione di interpreti magari
non altrettanto efficaci dal vivo, attraverso le varie
tecniche di montaggio sempre più sofisticate.
Nella realtà attuale l’ascolto di musica dal vivo
occupa una minima parte rispetto allo spazio
occupato dalla musica ‘registrata’, la quale permette
di riascoltare un brano quando e quanto si vuole,
creando nella mente dell’ascoltatore dei modelli e
delle attese che la performance dal vivo può
soddisfare o smentire. Intorno ai temi
dell’interpretazione e dell’ascolto musicale si
pongono una serie di questioni che allargano il
campo strettamente musicale alla storia, alla
psicologia e alla sociologia. A partire dalle riflessioni
di Adorno che vedevano l’esecuzione come la
semplice realizzazione dell’esito analitico di un
partitura 1 , il concetto di interpretazione ha subito
delle modifiche, ponendosi in una sfera autonoma
rispetto all’analisi musicale, in cui assumono grande
importanza l’aspetto intuitivo e comunicativo.
La grande quantità di incisioni musicali accumulate
in un secolo e più, ha dato vita negli ultimi anni al
nuovo settore dell’analisi dell’esecuzione,
importante non solo per comprendere il rapporto tra
l’opera e il periodo storico nel quale è stata
concepita, ma anche per far luce su quei
1 G. Borio, “Analisi Ed Esecuzione: Note Sulla Teoria
Dell’interpretazione Musicale Di Theodor W. Adorno E Rudolf“
Kolisch, Philomusica on-line, annata 2002-03.
meccanismi
psicologici
che guidano l’interprete e
l’ascoltatore. Nel campo della
psicologia della musica si è giunti a
formulare teorie riguardanti la
produzione della ‘espressione’
nell’esecuzione, a chiarire le
proprietà dell’ascolto musicale e i
meccanismi percettivi azionati 2 .
Gli studi musicologici tradizionali
hanno incentrato l’analisi musicale
più sulla musica ‘scritta’ che su
quella ‘ascoltata’, considerando l’esecuzione una
sorta di riproduzione del testo scritto. Come già
sottolineato da Adorno, lo scopo dell’analisi doveva
essere quello di guidare l’interprete, ma la più
recente musicologia respinge questa funzione
prescrittiva dell’analisi, conferendo la dovuta
autonomia alla sfera dell’esecuzione. Accanto quindi
all’analisi musicale incentrata sul testo scritto,
assume pari importanza l’ascolto analitico di un
brano e, se possibile, delle diverse esecuzioni dello
stesso, poiché permette di far emergere elementi
che rimangono celati in un’analisi condotta
unicamente sulla scrittura. Questo nuovo tipo di
analisi, a differenza di ciò che avviene in quella
tradizionale, è rivolta maggiormente all’interprete
che al compositore. L’esecutore assume così un
ruolo attivo, e si può ben dire che in molti casi
l’esperienza degli ascoltatori è modellata non tanto
dalla musica quanto dall’esecutore, a tal punto che
ci si ritrova a parlare della «“Traviata” della Callas»
anziché della «“Traviata” di Verdi» 3 musicaround.net
. Un brano
ascoltato in una particolare versione può caricarsi di
specifici significati ed emozioni, che naturalmente
prendono forma in base alle modalità di percezione
dell’ascoltatore, che dipendono dalla sua esperienza
e possono essere influenzate dall’attenzione e
dall’esercizio. Si entra quindi nel complesso ambito
della ‘espressione musicale’, che comprende tutti
quegli elementi che possono essere posti in
relazione con gli stati d’animo interiori avvertiti e che
danno ‘significato’ alla musica, rendendo unica ogni
interpretazione.
2 Un testo fondamentale che tratta questi temi è quello di John
A. Sloboda, “La Mente Musicale”, Il Mulino, 1988.
3 C. Casini, “L’Arte Di Ascoltare La Musica”, Tascabili Bompiani,
Milano, 2005.
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L’ascolto
Musicale
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Le Celebrazioni Del ‘Buranello’
Nel Terzo Centenario Della Nascita Del Compositore Veneziano
Baldassarre Galuppi
di Beatrice Birardi
Nasce tre secoli fa a Burano, a nord della laguna
veneziana, Baldassarre Galuppi (1706-1785),
compositore poliedrico e molto prolifico, virtuoso di
cembalo all’età di soli 20 anni, ma famoso
soprattutto per le sue opere buffe su libretti di Carlo
Goldoni.
La produzione musicale di Galuppi comprende 91
opere, 27 oratori, una decina di cantate e serenate,
130 sonate per tastiera, 7 concerti per archi, 3 per
flauto e 2 per cembalo, 1 trio sonata e molte pagine
di musica sacra.
Allievo di Antonio Lotti, il ‘Buranello’, dopo aver
trascorso alcuni anni (dal 1765 al 1768) a
Pietroburgo come compositore di corte presso
Caterina di Russia, tornato a Venezia, diventa
maestro di cappella alla basilica di San Marco e
prosegue la sua intensa attività di compositore.
Alcune delle sue opere sono rappresentate con
successo sia sulle principali scene italiane sia nelle
maggiori città europee. Galuppi è il primo maestro
veneziano a legarsi a Goldoni nella
realizzazione delle sue opere buffe,
tra le quali “Il Filosofo Di
Campagna” (1754) è una delle più
rappresentate.
La personalità di Galuppi è
tratteggiata da Giacomo Casanova
nei suoi “Memoires” e in alcune
pagine del “Viaggio In Italia” di
Charles Burney, dove l’autore
descrive con affetto l’incontro con il
compositore.
Per celebrare il terzo centenario
della nascita del compositore, si
sono svolte quest’anno diverse
manifestazioni, a Venezia e non
solo.
Nel mese di maggio a Parma si è
tenuto un festival, durante il quale
oltre alle esecuzioni di musiche di
Galuppi e di altri compositori a lui
coevi, si è svolto, presso la Casa Della Musica, un
importante convegno di studi intitolato “Baldassarre
Galuppi: Aspetti Della Sua Arte”.
Come illustrato dal direttore artistico della
manifestazione, Francesco Luisi, il convegno non ha
avuto tanto lo scopo di colmare le molte lacune che
musicaround.net
costellano gli studi su Galuppi,
quanto quello di approfondire alcuni aspetti della
sua vasta produzione musicale. Durante il convegno
sono emersi tratti poco noti della biografia del
compositore, si sono analizzate le opere “Ifigenia”,
“Il Re Della Caccia”, le cantate “La Scusa”,
“Venere Al Tempio” e l’oratorio “L’oracolo Del
Vaticano”, si è fatto il punto sui rapporti tra Goldoni
e Galuppi, sono stati presi in esame alcuni
manoscritti di musica sacra.
L’Associazione Culturale Festival Galuppi e della
Musica del Settecento di Venezia ha organizzato
l’undicesima edizione del Festival I Luoghi Di
Baldassarre.
A Viterbo durante il Festival Barocco della Tuscia,
ad agosto, è stato eseguito per la prima volta in
tempi moderni il dramma giocoso “L’uomo
Femmina”, su libretto di Pietro Chiari.
Altre due prime rappresentazioni in tempi moderni di
opere serie su libretti di Pietro Metastasio: nel mese
di settembre la
“Didone
Abbandonata” a
Spoleto,
nell’ambito della
stagione del
Teatro Lirico
Sperimentale, e,
nel mese di
ottobre,
“L’olimpiade”, a
Venezia, presso il
Teatro Malibran,
organizzata dalla
Fenice.
Tra i
festeggiamenti
mozartiani che
quest’anno hanno
cosparso la
penisola, le
iniziative ‘galuppiane’ si sono ritagliate gli spazi
dovuti, costituendo un importante momento di
riflessione sulla figura di uno dei compositori più
interessanti, ma nello stesso tempo ancora da
scoprire, del Settecento musicale italiano.
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musicaround.net
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Baldassarre
Galuppi

L’altro Gregoriano: Il Canto Fratto In Italia
Convegno Nazionale Di Studi A Lecce - 13/14 ottobre 2006
di Beatrice Birardi
Nei giorni 13 e 14 ottobre si è svolto, presso
l’Università di Lecce, il Convegno Nazionale di
Studi, intitolato “Il Canto Fratto In Italia”. Due giorni
di musica e incontri che giungono a conclusione di
un lungo progetto di ricerca portato avanti da
docenti e ricercatori provenienti da diverse
università italiane, allo scopo di far luce su un tipo di
canto cristiano liturgico, per lungo tempo trascurato
dagli studiosi di musicologia e dagli stessi addetti ai
lavori: il cosiddetto Canto Fratto.
Nel 2002 prende avvio il progetto RAPHAEL
(Rhythmic And Proportional Hidden or Actual
ELements in Plainchant) un
Programma di Ricerca
scientifica di rilevante
Interesse Nazionale
(PRIN), cofinanziato dal
Ministero e coinvolgente le
Università di Lecce,
Padova, Parma e Pavia-
Cremona, oltre alla
Fondazione Guido
d’Arezzo.
L’intento è quello di
censire, studiare,
restaurare e divulgare un
corpus musicale di
importanza primaria per la
conoscenza della musica
liturgica italiana ed
europea compresa fra i
secoli XIV e XVIII. Il
progetto RAPHAEL ha
quindi consentito di
individuare, fotografare e
schedare una gran mole di
manoscritti ed edizioni a
stampa riguardanti il canto
fratto, conservati negli
archivi e nelle biblioteche
italiane.
Queste, in breve, le fasi del
programma di ricerca:
1. censimento,
descrizione e acquisizione (tramite fotografia
digitale) delle fonti musicali italiane e dei trattati
teorici che testimoniano l’esecuzione ritmica o la
scrittura mensurale nel canto gregoriano;
20
Il Canto
Fratto in
Italia
2. edizione critica
musicaround.net
parziale del corpus musicale
di provenienza italiana e dei passi teorici individuati;
3. esecuzione dal vivo e registrazione di
esempi significativi del repertorio da parte di
ensemble specializzati;
4. creazione di un sito web contenente la
riproduzione dei libri liturgici e tutti gli studi e i
materiali approntati.
Il convegno di Lecce segue al primo grande
Convegno Internazionale di Studi sul tema, intitolato
“Il Canto Fratto: L’altro
Gregoriano”, tenutosi a Parma nel
2003, nell’ambito del quale è stata
confermata l’importanza del
progetto sulla base dei primi risultati
ottenuti.
Coordinatore scientifico nazionale
del progetto RAPHAEL il professor
Marco Gozzi dell’Università di
Lecce, che ha aperto i lavori del
convegno, parlando
dell’atteggiamento di chiusura di
molti musicologi che nei tempi
passati hanno considerato il canto
fratto un gregoriano ‘decadente’,
ovvero non meritevole di essere
studiato.
Nel suo intervento il prof. Gozzi
parla dei risultati significativi
raggiunti: «Mentre all’inizio delle
ricerche non era noto neanche dove
fosse nato il canto fratto, man mano
che le indagini proseguivano, il
fenomeno assumeva contorni più
netti. Adesso possiamo affermare
che il canto fratto ha inizio col Credo
scritto ad Avignone da re Roberto
d’Angiò intorno al 1320». Questo
Credo si è poi diffuso in tutta
Europa, scritto ad una voce, veniva
eseguito a due voci in modo
mensurale, perché era «più facile
‘secundare’ su una melodia ritmica».
L’immagine falsa del Medioevo monodico, descritto
in molti testi della musica medievale tuttora in
circolazione, ne esce ancor più rafforzata: le
melodie scritte non sempre riflettono quella che
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20
musicaround.net

doveva essere l’esecuzione musicale, spesso la
pagina scritta è solo una traccia che necessita di
profonde riflessioni per essere realmente compresa.
Il progetto RAPHAEL, rendendo più chiari i contorni
del canto fratto, apre la strada a tutta una serie di
studi che possono giovarsi del nuovo materiale
acquisito.
«Documentare aiuta, ed ora che c’è una base
documentaria molto forte, come quella del progetto
RAPHAEL, sarà possibile far dialogare il canto fratto
con tutte quelle altre forme lievemente mensurali; si
potranno meglio definire i confini tra canto piano e
canto fratto, tenendo presente che ci sono anche
luoghi ibridi da indagare», afferma la professoressa
Paola Besutti nel suo intervento.
La prima giornata di studi si è conclusa con il
concerto del Gruppo vocale Laurence Feininger da
Trento, un gruppo specializzato nell’esecuzione del
canto liturgico medievale, nato nel 2000 ma con già
alle spalle notevoli riconoscimenti. Per l’occasione il
gruppo ha proposto una serie di brani derivati da
manoscritti fotografati per il progetto RAPHAEL o da
testimoni conservati nella grande biblioteca liturgica
Cos’è il Canto Fratto?
di Beatrice Birardi
di Laurence Feiniger di
Trento, scelti per documentare
il fenomeno del canto fratto.
Durante la seconda giornata
di studi, un’intera sessione del
convegno ha visto interventi
volti a mettere in luce la
presenza di preziosi testimoni
di canto fratto anche in Puglia,
nei comuni di Noci, Barletta, Molfetta, Leverano e
Nardò, un’ulteriore prova della grande diffusione di
questo tipo di repertorio.
A coronamento di questa notevole impresa, la
realizzazione del sito web www.cantusfractus.org,
attualmente in costruzione, a cura di Valentina
Marangi e Rosanna Peciccia, che darà presto la
possibilità a studiosi e non di poter conoscere e
visionare i risultati di RAPHAEL.
Al termine del convegno, si può ben dire che il
progetto RAPHAEL non sia affatto concluso, anzi, si
pone come punto di partenza imprescindibile per
ulteriori ricerche e approfondimenti sul canto
liturgico, la cui storia merita evidentemente di essere
riscritta alla luce delle nuove acquisizioni.
Il fenomeno del Canto Fratto ha inizio, molto probabilmente, già nei primi del XIV sec., quando si
comincia ad eseguire il canto cattolico liturgico con valori proporzionali 1 .
Questo tipo di canto, al contrario del Canto Piano 2 , possiede una notazione con elementi mensurali 3 di
diverso tipo, derivando in parte dalla cosiddetta notazione quadrata 4 e in parte dalla notazione
mensurale nera 5 , ma in realtà le grafie dei vari testimoni, manoscritti e a stampa, sono assai differenti.
La diffusione del Canto Fratto è stata enorme in tutta Europa, a partire dal XIV sec., fino ad arrivare
agli ultimi decenni del XIX sec.
Il più tipico esempio di Canto Fratto, spesso citato nei trattati come prototipo del genere, è il Credo
Cardinalis, un canto utilizzato per le festività maggiori che ebbe una vasta diffusione in Europa come
mostrano i tantissimi testimoni a partire dal XIV sec.
Per lunghi anni la musicologia ha disconosciuto questo genere di canto, considerato una forma
‘decadente’, ovvero insignificante, rispetto al Canto Gregoriano. Soltanto negli ultimi anni, un rinnovata
sensibilità culturale, ha permesso la nascita di un nuovo interesse nei confronti del Canto Fratto,
considerato un prezioso patrimonio all’interno dell’universo della musica liturgica europea.
Per gli umani:
1. valori di durata delle note che sono tra di loro in determinati rapporti.
2. è il cosiddetto ‘gregoriano’, anche se è ormai certo che non fu Papa Gregorio I (VI sec.) ad
inventare questo tipo di canto.
3. la notazione mensurale, usata dal XIII al XVII sec., consentiva di definire i precisi rapporti di
valore tra una nota e l’altra.
4. scrittura musicale che presenta caratteri musicali di forma quadrata, è l’evoluzione dell’antica
notazione neumatica.
5. notazione usata fino alla metà del XV sec., presenta le note annerite. In seguito le note
saranno segnate solo nei contorni (notazione mensurale bianca).
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musicaround.net
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Il Canto
Fratto in
Italia
musicaround.net

L’ultima Opera Di Aleksandr Glazunov
Ovvero come il saxofono arrivò nell’Unione Sovietica
di Emanuele Raganato
Su Glazunov la storia della musica ha speso
certamente non molte parole. E probabilmente lo ha
fatto in maniera ingiusta, poiché magari non lo
considerava un innovatore, un artista originale o
comunque non degno degli onori riservati
(giustamente) a compositori suoi contemporanei
(pensiamo a Schöenberg o a Stravinskij per
esempio). Ma parlare di Glazunov, autore ai più
sconosciuto e spesso bistrattato, significa ricordare
uno dei massimi interpreti dell’ultimo sinfonismo
ottocentesco, autore fecondo e originale, che,
sviluppando un linguaggio fortemente personale
portò, con una falcata da gigante, la grande
tradizione russa al varco del nuovo secolo.
Ad Aleksandr Kostantinovic (San Pietroburgo 1865 -
Neully sur Seine 1936) non mancò certo
l’educazione musicale (era infatti figlio di una
pianista) e, anzi, dimostrò in questo una certa
precocità nell’apprendimento. Le sue
prime composizioni videro la luce
quand’egli aveva appena 11 anni.
Oltre al pianoforte Glazunov sapeva
suonare anche molti strumenti a
fiato. Durante la sua infanzia studiò
clarinetto, e successivamente imparò
a suonare il trombone, la tromba, il
violoncello, la viola e il corno. Nel
1879 divenne allievo di Balakirev
che, notando la vivacità intellettuale
del giovane Aleksandr, decise di
introdurlo, poco dopo, all’attenzione
di un altro importante compositore:
Rimski-Korsakov. L’incontro con il
grande maestro fu determinante per
Glazunov, che acquisì padronanza
della materia con voracità onnivora
A.K Glazunov
(«migliora non di giorno in giorno, ma
di ora in ora» disse di lui Rimski-Korsakov). E da
allora fu un’escalation continua. Si affermò ben
presto come compositore, grazie soprattutto ad un
grande mecenate dell’arte russa come Belyayev,
che nel 1884 lo portò con sé in un viaggio europeo
(in questo periodo conobbe Liszt, a Weimar). Dotato
di una straordinaria memoria musicale si rese
protagonista, nel 1887, di un recupero in extremis
dell’ouverture Il Principe Igor, della quale l’autore
appena defunto, Borodin, non aveva lasciato
partiture. Glazunov trascrisse insieme a Rimski-
22
Aleksandr
Glazunov
Korsakov l’intera opera a
musicaround.net
memoria, così come l’aveva
ascoltata eseguita al pianoforte dallo stesso autore.
Gli ultimi anni dell’800 furono ricchissimi di
soddisfazioni, legate soprattutto alle nuove attività di
direttore d’orchestra e, dal 1899, di insegnante al
Conservatorio di S. Pietroburgo. Ma da questo
momento, le vicende umane e politiche che
travagliarono la Russia lo portarono, a malincuore, a
maturare una volontà di esilio dalla madrepatria. Le
dimissioni che diede dall’incarico di insegnante nel
1905 furono la conseguenza di un’opposizione
ideologica al maestro-collega Rimski-Korsakov, che
si era mostrato solidale con gli studenti tumultuosi
delle insurrezioni di quel periodo. Ma poco dopo,
richiamato a gran voce da un folto numero di
colleghi fu addirittura eletto direttore del
Conservatorio stesso. Con la Rivoluzione del ’17
Glazunov iniziò ad avere rapporti ambigui con il
nuovo apparato dirigente, che dal
canto suo invece promosse il
Conservatorio al rango di una delle
poche istituzioni dell’Alta Educazione
Artistica, presenti in Russia.
Glazunov nutriva un forte
risentimento sia per il circolo dei
docenti, che chiedevano una riforma
in senso progressista dei metodi
d’insegnamento, sia per gli studenti
che chiedevano più diritti all’interno
dell’Istituzione. Se la gestione
politico-amministrativa del
Conservatorio gli comportava spesso
questo tipo di problemi ‘umani’,
certamente lo stimolava invece dal
punto di vista intellettuale. Quando
infatti il governo organizzò la
Balalaika Competition nel suo
Conservatorio, lui, professore anche di
composizione e strumentazione, offrì il suo
appoggio logistico e presiedette la giuria. E così per
tanti anni la sua musica risuonò nella sala concerti
del Conservatorio di Leningrado (così fu denominata
S. Pietroburgo dopo la Rivoluzione), denominata in
suo onore Sala
Concerti Glazunov. Tuttavia così come tutti i russi,
anche Aleksandr soffrì molto le privazioni portate dal
Primo Conflitto Mondiale e dalla guerra civile, e
ciononostante si attivò per promuovere l’arte e la
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musicaround.net

cultura dirigendo le orchestre nelle fabbriche, nei
circoli, nelle caserme dell’Armata Rossa e per
questo, nel 1922, in concomitanza con il suo
quarantesimo anniversario come compositore, fu
nominato Artista del Popolo della Repubblica.
La vita da emigrante di Glazunov iniziò il 15 giugno
del 1928, quando accettò l’invito a prendere parte
della giuria nella Schubert Competition a Vienna.
Lasciò la Russia per sempre. Immediatamente dopo
la sua partenza, seguirono una serie di (reali o
presunte) malattie, bronchiti, infezioni alle orecchie.
Il compositore scrisse molte lettere alle autorità
russe, citando una dopo l’altra queste malattie e
chiedendo loro di estendere il permesso del periodo
della sua assenza. Ma da questo momento in poi
nei libri adottati presso i Conservatori Sovietici si
iniziò a descrivere questo ultimo periodo di
Glazunov come quello certamente più improduttivo,
sia a causa delle sue malattie sia perché il
compositore fu viziosamente soggetto all’influenza
di una cultura ‘borghese’ come era quella
occidentale. «Tale influenza
divenne particolarmente
evidente dopo la composizione
del “Concerto In Mib Per
Sassofono Contralto E
Orchestra D'archi” op. 109,
scritto per uno strumento
tipicamente borghese quale
era considerato, in Russia, il
saxofono» (Andrei
Sobchenko). Nel 1930
l’Unione Sovietica chiuse
ufficialmente la cosiddetta
‘cortina di ferro’, e ciò
significava la fine dei viaggi
all’estero dei suoi cittadini.
Glazunov capì che per lui non
ci sarebbero state eccezioni.
Nella primavera del 1929 il
giornale Leningradskaya
Pravda pubblicò la notizia che
il Consiglio del Conservatorio
di Leningrado stava mettendo
in discussione la nomina di
Glazunov a direttore (che
tuttavia riuscì ancora a
mantenere, visto l’enorme
contributo musicale che aveva
dato in passato), a causa della
sua assenza reiterata.
Appare insolito, oggi, a quasi 70 anni dalla sua
scomparsa, parlare di Glazunov quale uno dei
massimi compositori per saxofono, quando in realtà
Sigurd Rascher
23
egli dedicò a questo
strumento appena due opere.
Iniziò ad interessarsi al
saxofono durante un
soggiorno a Parigi, nel 1921,
dove ascoltò il quartetto della
Guardia Repubblicana
Francese. Fu una folgorazione
che gli fece maturare l’idea di
una composizione per questa formazione (il
Aleksandr
Glazunov
musicaround.net
monumentale “Quartetto Per Quattro Sassofoni In
Sib” op. 109 [La coincidenza del numero d’opera tra
le due composizioni non è un refuso, ma
un’anomalia nel catalogo dell’autore, ndcr], un
pezzo dalla durata di 35 minuti, un’eternità, si disse,
per i saxofonisti). Nonostante le incertezze iniziali
del compositore (dovute principalmente alla non
familiarità con lo strumento), i musicisti della
Guardia Repubblicana furono degli eccellenti
esecutori, e convinsero Glazunov che il saxofono
non era uno strumento qualunque, da consumo,
tanto che entusiasmato scrisse:
«I saxofonisti sono talmente
virtuosi che è impossibile
immaginare che suonino lo
stesso strumento che noi
ascoltiamo nel jazz. Ciò che
veramente mi ha stupito è il
loro respiro, la loro
infaticabilità, il suono leggero e
l’intonazione chiara».
(Da una lettera a
M.O.Shteimberg 10 dicembre
1933)
Determinante in questo senso
fu l’influenza e l’impressione
che suscitò in lui l’eleganza
esecutiva del saxofonista
Marcel Mule.
Nel 1934 iniziò per Glazunov
un lungo calvario, fatto di
malattie, tosse e bronchite che
lo portò alla morte appena due
anni dopo. La sua fama
intanto, era molto cresciuta in
Europa e il giovane Sigurd
Rascher, un saxofonista di
origine danese, nel pieno delle
proprie capacità tecniche,
iniziò a chiedere al maestro
russo una composizione per saxofono solista. A dire
la verità più che una semplice commissione, le
richieste di Rascher avevano l’aspetto di veri e
propri «assalti» (come appunto li ricorderà Glazunov
in una lettera datata 17 marzo 1934).
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23
musicaround.net

A marzo dello stesso anno il compositore iniziò la
stesura del suo “Concerto In MIb” per saxofono
contralto e orchestra d’archi. Apparentemente
Glazunov provò a condividere tale esperienza con
altri colleghi. Alcune lettere furono spedite a
Maximilian Oseevich Shteimberg, professore di
composizione al Conservatorio di Leningrado.
Shteimberg (figlio illegittimo di Rimsky-Korsakov)
teneva in quel periodo speciali corsi di
strumentazione patrocinati dall’assente Glazunov.
Molte lettere furono inviate anche ad A. N. Rimsky-
Korsakov (figlio legittimo del famoso compositore)
ed a L. V. Nikolaiev che aveva studiato pianoforte
con Shostakovich e Sofronitsky. Una piccola parte di
tutta questa corrispondenza fu riportata a memoria
in forma riassunta da Nadeshda Nikolayevna
Shteimberg.
Il lavoro proseguì velocemente e con successo e, in
una lettera del 4 Aprile successivo, era già finito.
«Ho completato il mio Concerto per saxofono,
insieme alla partitura e alla parte per pianoforte e
molto probabilmente lo ascolterò a giorni dal
francese Mule e dal danese Rascher. Il concerto è
scritto in MIb maggiore ed è in un unico tempo.
Inizia l’esposizione Allegro Moderato 4/4 che finisce
in Sol minore. Dopo un breve sviluppo segue un
cantabile Andante in DOb maggiore (qualche volta
SI maggiore), in 3/4, che funge da transizione verso
una piccola cadenza. La conclusione inizia dopo la
cadenza con un denso Fugato in 12/8 in DO minore.
Tutti gli elementi precedenti appaiono in quello che
porta alla Coda in MIb maggiore. La forma è
veramente condensata e la durata totale non è più
di 18 minuti. L’accompagnamento è costruito sugli
archi con molti ‘divisi’. Uso spesso questa tecnica:
archi divisi con la voce superiore all’unisono con due
violoncelli. Nel forte uso molto le doppie note. Ho
mostrato il mio concerto a Metner, ai fratelli Konus
(George Yuli Leo) e a Tcherepnine (Nikolai
Nikolaievich), che hanno apprezzato il mio lavoro.
Sono dubbioso sull’effetto delle doppie note.
Chiederò a Yuli Konus, che lavorò con il mio
“Concerto Per Violino”, lui è veramente esperto di
queste sottigliezze, prescrisse le articolazioni per
Tchaikovsky».
(Da una lettera a Shteimberg 4 giugno 1934)
«Il Concerto è nel programma della stagione
concertistica in Inghilterra e in Scandinavia. Lo
suonerà il saxofonista danese Rascher, veramente
bravo e dalla tecnica strabiliante. A Parigi il signor
Mule, saxofonista di primo livello e miglior solista
della Guardia Repubblicana,
vuole suonare il mio
Concerto».
(Da una lettera a Shteimberg
21 novembre 1934)
24
Aleksandr
Glazunov
«Il Concerto è stato premiato
due volte nelle due maggiori musicaround.net
città della Svezia suonato dal
saxofonista Rascher, prossimamente lo ascolterò a
Parigi».
(Da una lettera a Shteimberg 5 dicembre 1934)
Purtroppo non ci è dato sapere, dalle fonti rimaste,
se Glazunov riuscì mai ad ascoltare il suo
capolavoro. Considerato generalmente un’opera
minore (specialmente nei confronti delle Sinfonie), il
“Concerto In MIb” per Saxofono e orchestra d’archi,
fu l’ultimo lavoro del compositore russo. In un
periodo dove molti dei suoi colleghi, come il già
citato Stravinskij, sperimentavano nuove forme
d’espressione, Glazunov scelse di seguire una
tradizione iniziata da Glinka e portata avanti nel XIX
secolo da Balakirev, Tchaikovsky ed altri. Poiché dal
1900 questo stile romantico era considerato
obsoleto, il nostro autore è ricordato magari, più che
come compositore, come insegnante o come
orchestratore. Ma all’interno di un ormai vastissimo
repertorio per saxofono il “Concerto In MIb” rimane
uno dei capisaldi della produzione musicale, l’unica
opera post-romantica di rilievo, con la sua atmosfera
sinfonica severa, tipica della migliore tradizione
russa, nella quale non mancano il calore, l’intensità
e l’ardore qui espressi nella più intelligente vena
folklorica, e addirittura esaltati dalla liricità di questo
strumento. La composizione si presenta come un
microcosmo, una preziosa miniatura non priva di
eccellenti episodi melodici e di un sapore mistico
che racchiude, in uno spazio temporale assai
ristretto (appena 18 minuti secondo il conteggio del
compositore), una sintesi testamentaria della
creatività di Glazunov.
Quando il compositore morì il 21 marzo del 1936
scomparve la figura di un artista fecondo e dotato di
un impeccabile mestiere. Durante il periodo
sovietico il “Concerto In MIb” op. 109 non venne
praticamente mai inserito nei programmi di
esecuzione delle numerose orchestre russe.
L’orchestra più famosa, la URSS Sinfonica di Stato,
diretta da E. Svetlanov, incaricata di suonare tutta la
musica russa e sovietica, fece una serie di
registrazioni raccolte in una “Antologia Della
Musica Sinfonica Russa”. Anche in questa
occasione, non comparve il titolo del concerto per
saxofono. Nel 1936, appena dopo la morte del
__________________________________________________________________________________________
24
musicaround.net

Maestro, l’editore francese Leduc fece un’insolita
aggiunta alla riduzione per pianoforte. Stampò il
nome di A. Petiot come secondo compositore. È
bene notare che in tutte le lettere conservate nei vari
archivi, Glazunov non menzionò mai il fatto di aver
lavorato con questo collega. Trentasei anni dopo la
morte del compositore il 14 ottobre 1972 le autorità
sovietiche decisero finalmente di riconoscere
Glazunov come Grande Compositore Russo del
Periodo Sovietico. Le spoglie dell’artista ritornarono
quindi nella terra madre dove furono poste nella
Le lettere presentate sono state pubblicate da due
giornali russi:
- Glazunov, Issledovaniya, Materialy, Publikatsii,
Pis’ma.V dvuh domah Leningrado 1960
- Glazunov, Pis’ma, Stat’i, vospominaniya,
Izbrannoye, Mosca 1958
Traduzione dal russo all’inglese: Andrei Sobchenko
Traduzione dall’inglese all’italiano di Emanuele
Raganato
Necropoli dei Maestri dell’Arte
all’Alexander Nevsky Lavra, a
Leningrado. Nella metà degli
anni ’70 il Ministero della
Cultura decise di istituire per
la prima volta in URSS, una
cattedra per l’insegnamento
del saxofono all’Istituto di
Musica Gnessin di Mosca. E
tutto questo per formare musicisti sovietici in grado
di onorare la memoria musicale dell’artista defunto.
Concorsi Di Esecuzione Pianistica E Web
Dal 21 al 30 Settembre 2006 si è svolta la seconda
edizione del “Concorso Pianistico Internazionale
Repubblica Di San Marino”.
La commissione era costituita da 7 grandi nomi del
pianismo internazionale: Charles Rosen, Idil Biret,
Elisso Virsaladze, Michel Beroff, Pier Narciso Masi,
Enrico Pace e Giuseppe Di Chiara.
Vincitori di questa edizione sono stati:
Sezione Solisti :
1° Premio Brakhman Evgeny
2° Premio Grynyuk Sasha
3° Premio ex aequo Monaco Domenico;
Teclu Gabriel Alexandru
Sezione Duo Pianistico:
1° Premio Chipak Olha – Kushnir Oleksiy
2° Premio non assegnato
3° Premio Lunkenheimer Ines – Lunkenheimer
Katja
Sezione Giovani Talenti :
1° Premio non assegnato
2° Premio Han Hijune
3° Premio Kaplan Ida
I premi consistevano in una notevole somma di
denaro (1° Premio della categoria Solisti era di
18.000 €), concerti, ma la novità assolutamente
interessante è stata l’introduzione, per la prima volta
di Mariapina Solazzo
Bibliografia:
25
Saxophone Journal, Dorn Pubblications,
September/October 1997.
Aleksandr
Glazunov
The New Grove Dictionary Of Music And
Musicians, Macmillan, London, 1980.
musicaround.net
nella storia dei concorsi in Italia, di un prodigio
tecnologico: diretta streaming video di tutte le prove
del concorso e la possibilità, in seguito, di scaricare
il video delle stesse.
Il sito di questa lungimirante associazione è
www.allegrovivo.org, che ha dato prova di un raro
esempio di uso ‘intelligente’ della tecnologia.
Questo evento che di per sé è già straordinario ed
innovativo nell’ambiente musicale, ha prodotto oltre
2000 contatti al giorno da tutte le parti del mondo ed
ha innescato un altro fenomeno altrettanto nuovo:
discussione ‘in diretta’ nei forum di musica classica.
Quello che più ha colpito è stato l’entusiasmo nella
partecipazione al forum: si potevano finalmente
ascoltare le prove del concorso ed esprimere a
caldo le proprie impressioni, e non più aspettare che
qualche fortunato presente in sala, ne raccontasse,
al suo rientro, i particolari.
Insomma, la rivoluzione digitale di cui tanto si parla,
quella che sta cambiando radicalmente il
funzionamento della società e della vita dei singoli
individui, è approdata anche nell’universo dei
concorsi di esecuzione musicale; c’è solo da
augurarsi che questa trovata vincente possa avere
un seguito non solo nell’edizione 2008 del Concorso
Sammarinese, ma che venga adottata anche da
altre realtà musicali.
__________________________________________________________________________________________
25
musicaround.net

L’ALESSOFONO
Quando il design diventa suono
di Emanuele Raganato
Sembra incredibile poter pensare di associare
il nome di una tra le più importanti aziende a
livello mondiale nel settore degli articoli per la
casa e del design all’italiana, l’Alessi s.p.a.,
ad uno strumento musicale. Un saxofono per
la precisione. E invece la storia che segue non
solo lega indissolubilmente questo marchio al
mondo musicale, ma narra di una vicenda
umana e sentimentale che funzionò da
motore d’avviamento per un’altra azienda
piemontese, la Rampone & Cazzani, in crisi
economica, ma che negli anni precedenti alla
Seconda Guerra Mondiale veniva considerata
una delle aziende più celebri al Mondo nel
settore musicale.
L’Alessofono è un
saxofono
contralto,
realizzato
pressoché
interamente a
mano in ottone
cromato nero
dalla ditta
Rampone &
Cazzani di
Roberto Zolla.
Ogni esemplare è
datato e
numerato
progressivament
e (attualmente
ne sono stati
prodotti 27,
n.d.a.). La
decorazione e le
scritte sulla
campana sono
dorate. Il sigillo
incastonato sulla
meccanica del
chiver è in corallo
rosso e oro.
Descrivere ed
analizzare le vicende che portarono alla
26
creazione di questo
strumento è di
musicaround.net
fondamentale importanza per comprendere le
motivazioni per le quali è stato possibile, alla
Rampone & Cazzani, resistere all’aggressione
della concorrenza asiatica e al dubbing delle
aziende dell’ Europa Orientale. Il progetto,
iniziato nella primavera del 1989, ha portato
alla presentazione del primo Alessofono nel
settembre 1993 (venduti al costo circa 8
milioni di lire, all’epoca il saxofono più
costoso sul mercato, n.d.a.). Il medico
condotto del paese si rivolse a Carlo Alessi
(Patron
dell’azienda
di famiglia)
per cercare
di trovare
una
possibilità
di salvare
la Rampone
e Cazzani
(ex FISM),
che a causa
della
progressiva
diminuzione
delle commesse era ormai destinata a
L’Alessofono
Inclinazione del collo
dell’Alessofono paragonato a
quello di un normale contralto
chiudere. Inizialmente era stata studiata la
possibilità di rimettere in piedi quest’azienda,
ipotesi rivelatasi poi troppo difficile. Alla fine
si decise che una tradizione produttiva così
interessante non poteva scomparire e venne
avviata una operazione progettuale con
l’obiettivo di sviluppare un nuovo saxofono
più evoluto di quelli costruiti
precedentemente. L’operazione venne
condotta con l’ausilio dell’artigiano locale, ex
sindaco di Quarna Sotto, Roberto Zolla.
Sulle motivazioni che spinsero la ditta del
design all’italiana a proporre uno strumento
totalmente ridisegnato sono certamente di
fondamentale importanza le parole a riguardo
__________________________________________________________________________________________
26
musicaround.net

dell’artefice primario di tale operazione:
Alberto Alessi.
“Una prima ragione è di natura sentimentale.
L’Alessofono è un omaggio al nonno Giovanni,
il fondatore della Alessi. Giovanni aveva una
officina, dove negli anni ’20-’30, oltre che a
dedicarsi alla produzione degli oggetti per la
tavola e la cucina, lavorava anche per l’allora
fiorente tradizione produttiva quarnese dei
saxofoni. Egli, un po’ per amicizia con
l’azienda, un po’ per arrotondare il fatturato
della sua officina, produceva le chiavi, faceva
l’argentatura e la doratura dei corpi e le
incisioni sui corpi degli strumenti che
venivano portati giù a Crusinallo, a spalla,
dentro una gerla, da un giovane garzone
(questo garzone esiste ancora e ricorda che
partiva la mattina presto da Quarna facendo
gran parte del viaggio a piedi, aspettava tutto
il giorno e poi la sera riprendeva la strada
della montagna con i suoi strumenti).
Un’altra ragione è tecnologico-produttiva: la
modalità produttiva dei saxofoni ha le stesse
radici tecniche dell’artigianato dei casalinghi e
gli stessi strumenti produttivi: l’ottone,
l’alpacca e l’argento, il tornio, la fusione, le
piccole presse e taglierine e tanto accurato
lavoro di
lima.”
Al progetto
parteciparono
anche il
designer
Alessandro
Mendini e il
saxofonista
Luca Polidori
di Volo,
professore
alla Scuola di
Musica di
Fiesole e già
conosciuto
per aver
cercato
soluzioni
alternative
ALESSOFONO: vista frontale
(proprietà Alessi s.p.a.
Omegna)
alle attuali
tastiere dei
saxofoni
moderni.
27
Le principali innovazioni
tecnico-costruttive sono :
- l’orientamento delle
chiavi della mano destra è
opposto rispetto a quello
degli strumenti
tradizionali, per consentire
alle leve dei due fulcri
musicaround.net
dita/tasti la massima
sinergia (adattamento al naturale movimento
delle dita della mano).
- La chiave del Do# grave è dotata di un
compenso a movimento palmare, che
disimpegna il mignolo e consente l’esecuzione
dei trilli Do#/Si e Do#/Sib. Per questo
motivo i fori sulla campana e l’ultimo sullo
storto sono stati spostati sul lato sinistro dello
strumento.
- La forma allungata dei tasti è stata
modificata anch’essa sulla base di
considerazioni ergonomiche, per consentire
un migliore adattamento ai polpastrelli delle
dita a seconda della lunghezza della corsa
desiderata: una molteplicità di articolazioni
simili ai tasti del pianoforte.
- La forma più nervosa, diritta e verticale
della campana e del chiver contribuisce ad
aumentare la potenza di emissione delle note
basse.
L’Alessofono
Una
curiosità
riguarda
nte
l’Alessof
ono
riguarda
il
recente
mente
scompar
so re di
Thailand
ia, abile
clarinett
ista
ALESSOFONO: vista laterale
allievo
(proprietà Alessi s.p.a. Omegna)
di
Benny
Goodman. Innamorato della forma e delle
preziosità di questo strumento “made in Italy”
ne ha regalato un esemplare, con dedica sulla
campana, al figlio.
__________________________________________________________________________________________
27
musicaround.net

Behringer UltraPatch Pro PX2000
Strumenti musicali-recensioni
di Luca Marri
La Behringer è ormai da tempo una nota casa
tedesca, con filiali in tutto il mondo, che produce
attrezzature per la produzione e
postproduzione/elaborazione in campo Audio
Professionale e Semiprofessionale; i riconoscimenti
sulle riviste del settore sono molteplici e prestigiosi,
ottenendo in molti casi i primi posti per qualità ed
economicità.
Il suo vasto catalogo spazia da microfoni
all’amplificazione di strumenti, ai prodotti per DJ, ai
prodotti per Live, ai processori di effetti.
Insomma una vasta gamma basata principalmente,
a detta dello stesso Uli Behringer, sulla qualità al
prezzo più basso possibile.
- UltraPatch Pro PX2000, confezione ed imballo:
Il prodotto che analizziamo è una Patchbay, o
pannello di connettori, e nella confezione della
Behringer troviamo:
1)Il pannello di connettori o patchbay formato 1 unità
rack a 48 punti
2)Manuali multilingua, compreso il giapponese, degli
addendum in inglese/giapponese/tedesco, e
numerosi esempi esplicativi di funzionamento.
3)cartolina di registrazione con numero di serie del
prodotto.
La confezione, come da tradizione Behringer, è
molto curata e gli imballi sono molto resistenti(di
quest’ultima caratteristica bisogna vedere l’imballo
spedito insieme alla confezione, che e’ data da chi vi
vende il prodotto).Il peso della patchbay è di circa
1,8Kg.
La qualità costruttiva è ottima e il senso di solidità
dato dall’unità rack della PX2000, ci porta a pensare
di avere unità dal nome e dal costo più blasonate.
Ogni connessione è spiegata in alto all’unità, che ha
dimensioni ridottissime: L 48,26cm, A 1unità rack, P
9,3cm!
- Funzioni e caratteristiche:
Una patchbay consente il collegamento di sorgenti
audio della maggioranza dei componenti audio di
uno studio da uno snodo, o punto, centrale ed
inviarli comodamente ad altri apparecchi, altro non è
che la derivazione di tutti i segnali facilitata nella sua
distribuzione…il lavoro diventa più comodo ed
28
Behringer
UltraPatch
Pro PX2000
inoltre l’intrico di cavi di un
musicaround.net
grosso studio può essere
concentrato solo sul cablaggio
intorno alla patchbay stessa che sarà integrale o
parziale, a libera scelta dell’utente che potrà far
crescere il suo set-up in base alle sue esigenze
conscio che la sua PX2000 crescerà insieme a lui.
Principalmente i segnali con i jack si collegano alla
patchbay (ad esempio dagli outboard che in uno
studio dalle connessioni posteriori potranno essere
“viste” anteriori sulla patchbay), fisicamente e dopo
ci si crea il “routing” dei segnali in base alle proprie
esigenze e senza muoversi attorno alle proprie
attrezzature per capire dove finiscano le connessioni
e limitandone l’usura.
Le caratteristiche ufficiali Behringer parlano di:
1)24 punti con jack sbilanciati sul retro e sul frontale.
2)Quattro modi di funzionamento(Parallelo, Seminormalizzato,
Normalizzato, Aperto), facilmente
selezionabili per coppia di jack mediante interruttori
sul lato superiore dell’unità.
Ricordiamo che con il termine sbilanciato, riferito ai
connettori jack da 6,3mm, ci si riferisce a
connessioni che impiegano 2 conduttori, uno per il
segnale ed uno per la “massa”, e sono soggette a
ronzii ed interferenze molto più delle connessioni
bilanciate. Le prese jack della PX2000 sono
organizzate in moduli a gruppi di 4.
Le quattro modalità di funzionamento prevedono il
modo Parallelo: che consente di collegare le
connessioni di un modulo le une con le
altre(esempio: ripartizione di un segnale audio
AuxSend a dei processori di effetti); il modo Seminormalizzato:
che consente di collegare le
connessioni di entrambi i jack posteriori, solo
utilizzando entrambe le connessioni anteriori il
percorso di connessione posteriore si separa
facendo sì che le connessioni superiori e quelle
inferiori, siano unite (duplicate), abbiano contatto
(esempio: è un modo valido per le mandate Loop, in
questa modalità si consente di prelevare il segnale
del Mixer, senza interrompere il segnale stesso alla
connessione); il modo Normalizzato: che consente
contrariamente al Semi-normalizzato l’interruzione
delle connessioni posteriori, inserendo dei segnali
nei jack anteriori superiori ed inferiori; il modo
__________________________________________________________________________________________
28
musicaround.net

Aperto: che consente di connettere liberamente
Expanders Midi, Cd player, e ogni altro generatore
di suono. In genere si connettono ad una patchbay
come la PX2000, le connessioni di ingresso ed
uscita sui jack posteriori superiori, per comodità
d’impiego.
- Eventuali problemi di connessione:
Si sconsiglia, come da manuale, il transito di
connessioni con segnali digitali, perché si
provocherebbe una forte dispersione sul segnale
analogico; l’impedenza di segnali digitali è poi
diversa da quella di una patchbay analogica con
conseguenti problemi.
Si sconsigliano anche l’uso di segnali microfonici in
ingresso alla patchbay PX2000, o peggio l’uso di
alimentazione Phantom (+48V) sui connettori jack
della patchbay. Insomma
normali precauzioni che
andrebbero prese nell’utilizzo
di qualsiasi patchbay.
- Conclusioni:
Il prodotto, diciamolo subito, è
venduto ad uno Street Price di musicaround.net
49€, un prezzo che
indicativamente lo pone in una fascia molto bassa di
mercato, ma come testimonia la qualità costruttiva e
la facilità d’impiego sicuramente non sfigura in
Setup con nomi altisonanti, o unità a rack piene
zeppe di apparecchiature costose.
Il nostro giudizio è nettamente positivo, oltre che
mirato ad un utenza attenta anche ai costi, ma che
non disdegna la qualità Behringer.
Behringer UltraPatch Pro PX2000
29
Behringer
UltraPatch
Pro PX2000
__________________________________________________________________________________________
29
musicaround.net

Suites per Violoncello solo
Ogni qualvolta un musicista si trovi di fronte allo
studio di una partitura di J.S.Bach, meglio se
scarsamente rilegata, ingiallita dal tempo, con la
simbologia arabeggiante di chi, quel pezzo, lo ha già
sviscerato prima di lui, si predispone in un naturale
stato di rispetto, sintomatico timore, ben attento a
mettere le mani sullo strumento se non ha prima
impugnato la matita, avvolta dal distensivo odore
della grafite appena limata dalla tempera. «Bach è
matematica nella musica»: lo affermo sperando di
non aver appena detto qualcosa di già noto, visto
che, sul musicista di Eisenach (città della Germania
centrale, nello stato confederato della Turingia, che
nel marzo del 1685 diede i natali al genio tedesco),
sono stati consumati fiumi d’inchiostro e migliaia di
Megabyte telematici. Bach è considerato da secoli il
musicista più attuale. Il suo lavoro, che ha ben
saputo legare il gusto musicale con quello
matematico-estetico, ha comunicato la musica nel
suo stato più essenziale. L’analisi nel punctum
contra punctum di Bach ci lascia sbalorditi per la
millimetrica idea armonica che si era già costituita
nella sua mente di genio dell’arte musicale.
Organista, clavicembalista, violinista, violoncellista
nonché flautista…il
musicista tedesco amava
qualsiasi strumento,
oggetto, pensiero
riguardasse la musica.
Traviata, non poi così
semplice, la sua vita: la
perdita dei genitori, l’amore
per la cugina Maria
Barbara prima e per il
soprano Anna Magdalena
poi, i problemi di salute,
derivati dall’obesità e dai
successivi problemi alla
vista, che uno scellerato
pseudo-chirurgo londinese
trasformò in cecità
definitiva, dopo un
tentativo vano di guarirlo
da un problema di
cataratta corticale. Il Bach
che oggi conosciamo, non
è solo l’uomo da mettere
sul piedistallo intoccabile
J.S.Bach
di Antonio Marchello
30
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
musicaround.net
dell’artista degli anni barocchi,
ma un uomo che nella
comune vita mortale è riuscito a presentare, con la
sua musica, il sentimento insaziabile per l’arte delle
note.
Bach aveva trovato, nel genere della suite, francese
di nascita, il collante ideale per presentare il suo
curriculum artistico in ogni strumento da lui
magistralmente guidato. Scrisse dunque suites per
violino, violoncello, flauto, liuto, organo e
clavicembalo. Quelle per violoncello, per natura
timbrica dello stesso strumento, lasciano
presupporre un lavoro altamente introspettivo del
Bach contrappuntista. Il progetto, tra i pochi nel suo
genere, di Ivan Mancinelli, di trasdurre la timbrica
‘profonda’ del violoncello sul ‘tocco fugace’ della
marimba, anche nota per i suoi sagaci virtuosismi, lo
si può apprezzare nel risultato artistico e
pedagogico insieme. La possibilità concessa, grazie
al riuscito lavoro di Mancinelli, di regalare alle
percussioni la musica del maestro di tutti i tempi, è
un lodevole atto di equilibrio tra arte e scienza
pedagogica. In ogni movimento si intuisce come
questo progetto sia stato studiato con particolare
attenzione alla prassi esecutiva di
Bach. La riconoscibile
ripetizione delle prime due
quartine di semicrome, nel 4/4
del Preludio della prima suite,
non è mai uguale, per intensità
sonora, alle seconde due
quartine: le note di base
armonica, che la scienza
acustica si assorbirà il compito
di lasciar vibrare all’infinito, sono
ben messe in rilievo. Una seduta
di ascolto in full immersion
potrebbe farci riconoscere un
più noto Bach al clavicembalo
che al violoncello. Quello che
Mancinelli ci ha presentato è un
nuovo volto, una nuova identità
entro la quale ricercare il
musicista tedesco. Abbiamo
ascoltato per voi
un’interpretazione al violoncello
di Pieter Wespelwey, e
l’abbiamo confrontata con la
__________________________________________________________________________________________
30
musicaround.net

einterpretazione per marimba di Mancinelli, per
cercare di intendere qual è la vera essenza di
questo lavoro. Studiate, concepite ed elaborate, con
e per ‘violoncello solo’, oggi eseguite anche sulla
marimba; i ricordi di studente mi fanno ritornare alle
suites per pianoforte, anch’esse concepite
originariamente per un altro strumento, il
clavicembalo. Come un progetto studiato per uno
La prima forma di suite, così come oggi la
intendiamo, ci riporta al compositore tedesco
Johann Jakob Froberger, che ebbe, tra i sui
maestri, anche Girolamo Frescobaldi. Bach
considerava Froberger uno dei migliori
compositori della sua epoca. Il genere della
suite barocca, per intenderci la suite che
riconosce nei suoi canoni fissi i quattro
movimenti che la caratterizzano (allemanda,
corrente, sarabanda e giga) trova i suoi natali
proprio nell’allievo del Frescobaldi. Il termine
‘suite’, che inizia ad essere utilizzato già
intorno alla metà del ‘500, ad opera di Estienne
du Tartre, si identifica in una ‘successione’
(traduzione letterale della parola suite) di brani,
quasi sempre dedicati alla danza. Quello della suite
è un genere che ha preso sempre più piede, al
contrario di quanto si potrebbe pensare, dal 1800 ad
oggi: in questa forma ha trovato sfogo addirittura il
rock (art rock).
Nel tentativo di dare un senso musicale
all’esperimento di Ivan Mancinelli, nella sua
trascrizione delle ‘Suite per Violoncello solo’ di Bach
per Marimba, abbiamo confrontato la registrazione
di Pieter Wispelwey (al Violoncello), con quella di
Mancinelli, nei sei movimenti che caratterizzano la
suite n°1 BWV 1007.Questa breve presentazione,
lungi da me dal definirla un’analisi musicale, vuole
essere un atto pragmatico, una presa di coscienza,
del lavoro del Maestro Mancinelli.
Preludio
Incipit ben chiaro: siamo in Sol Maggiore, arpeggio
netto in cui la tonica è ben marcata. Vorticose
quartine di semicrome con un impianto melodico
che l’esecutore romantico non riuscirà, se non con
poche difficoltà, a far riconoscere come ‘barocco’. I
cambiamenti armonici che avvengono ad ogni
strumento può traslarsi, con
ottimi risultati, su un altro così
diverso nella costruìione e nei
ruoli orchestrali? Cosa resta
intatto e cosa può portare al
cambiamento in questi
tentativi?
J.S.Bach alla Marimba
Traduzione strumentale a cura di Ivan Mancinelli
di Antonio Marchello
battuta in buona parte del
preludio, rendono il tutto
sospeso, ‘espressivo’,
pronto a cadere al primo
soffio. La breve polifonica
latente, nelle battute 33-
36, e la progressione che
segue nelle battute 37-
38, lasciano ricadere
tutto sul riconoscibile
motivo melodico, in un
largo arpeggio di tonica
che conclude il tutto con
il passaggio dalla
dominante e la chiusura sulla tonica.
Violoncello – Espressivo, sentimentale. Strumento di
ricerca psicologica. Il tempo non è a lezion di
metronomo, sicuramente. La dinamica bachiana è
tuttavia ben tracciabile. Un largo uso di rallentati
strumentali che risultano poco vicini al gusto
barocco, e alle suite bachiane in particolar modo.
Ottimo risultato nella presentazione dell’impianto
armonico dell’intero preludio. La tonica di ogni
arpeggio è ben messa in rilievo, nonché encomiabile
è il risultato ottenuto sulla polifonia latente finale e
sulla progressione armonica.
Marimba – Il metronomo è nella mente di Mancinelli,
lo usa, lo gestisce, lo ferma se necessario per
ritagliare piccoli spazi d’interpretazione in giusti
rallentati. Anche l’impianto armonico gli dà lode e
merito, nonostante lo strumento in questo settore
d’interpretazione, sia meno propenso a dare risultati
comparabili con quelli di un Violoncello. Gli arpeggi
di tonica in rallentato, soprattutto nelle prime battute,
potrebbero, a mio avviso, essere eseguiti in modo
meno appoggiato. Su polifonia latente e
progressione finale si riconosce la marimba virtuosa,
e ogni lato della personalità del musicista trova
__________________________________________________________________________________________
31
musicaround.net
31
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
musicaround.net

spazio. Apprezzabile l’interpretazione attenta della
dinamica delle doppie quartine ripetute nel tema
melodico. Le prime due quartine: mai uguali per
intensità sonora alle due seguenti, in eco melodico,
come insegna la buona scuola.
Allemanda
Violoncello –
Personalità e gusto
interpretativo. Poco
apprezzabili i lunghi
respiri a fine tema.
Il tempo, ad ogni
modo, è molto più
teso verso il
riallineamento
metronomico.
Ottimi i
‘decrescendo’ sui
trilli delle crome
puntate. La dinamica delle scale, che impazza
gratuitamente, è lodevolmente lineare.
Marimba – Insieme alla giga finale sono
sicuramente i movimenti preferiti di ogni
percussionista. Mancinelli, pur senza violentare la
partitura, ne trae un’interpretazione personale. Il
pianissimo nelle battute 4 - 5, è un ‘difetto di
perfezione tecnica’ che Mancinelli mostra sullo
strumento.
Corrente
Violoncello - Precisione impeccabile negli staccati,
nelle peccaminose quartine di semicrome che, in
questo terzo movimento, trasmettono il senso
irrequieto di moto, ben reso dall’interpretazione di
Wispelwey. Di ottimo gusto tecnico i trilli sulla
figurazione croma col punto - semicroma sui quali
arriva con morbidezza. Nelle ultime battute un
plauso al crescendo ottimamente gestito con
atterraggio ben riuscito nelle battute finali: vi arriva
con irruenza e si placa nella tonica, ripetuta
all’ottava, per ristabilire la tonalità d’impianto
precedente turbata dalla modulazione.
Marimba – Marimba più sobria, si trattiene sul
mezzo forte, senza esplosioni, con accurata
premura ritmica. Anche nella seconda sezione, dove
il violoncello si presenta con ammirabile crescendo,
la marimba decide la via del contenimento,
altrettanto apprezzabile. Una leggerezza degna dei
migliori apprezzamenti sulle bacchette della
marimba che qui ospita suoni così caldamente
‘sacerdotali’ di
Bach
32
Sarabanda
Violoncello – Sedici battute di
pura passione emotiva. Un
incontrollabile trascinamento
di suoni carichi di armoniche
sulle basse frequenze. Trilli
controllati, respiri apprezzabili
sulle semiminime che
concludono i due periodi
ritornellati. Una maggiore attenzione in ascolto è
richiesta nelle battute finali 13 - 16, di splendido
interesse e gusto melodico.
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
musicaround.net
Marimba – Una marimba davanti ad una Sarabanda.
Dovrebbe essere sufficiente per comprendere il
grado di difficoltà davanti al quale è stato messo
Mancinelli. Gli ‘strumentisti puri’ a cui Bach ha
dedicato le sue suites sanno bene per quale motivo
una Sarabanda può essere interpretata
diversamente da strumentista a strumentista.
Sarabanda = Personalità musicale. Mancinelli
dimostra di averne. Di personale ammirazione e
gusto i trilli, inquadrati in un gruppo da sei,
dall’incipit ritenuto, in linea con la personalità
trasmessa ottimamente. Mancinelli punta tanto, con
ottimo risultato, sulla dinamica. Pianissimi gestiti con
estrema cura, tanto da suscitare il medesimo
piacere provato nell’ascoltare le stesse battute finali
nel violoncello (13-16).
Minuetto
Violoncello – Splendidi respiri ad ogni quarto che lo
richieda. La modulazione del Minuetto II viene
presentata come un’eco, un sussurro di crome che
si susseguono in ‘piano’ rispettoso della nuova
tonalità di Sol minore.
Marimba – La scelta della dinamica rimane la
stessa, il fraseggio sembra non voler mai respirare.
Un gusto melodico che, più che in ogni altro
movimento, lascia intravedere Bach al clavicembalo,
o sulla pedaliera del suo organo. Al di là della fedele
trascrizione, l’interpretazione mi sembra dei migliori
risultati.
Giga
Violoncello – Giga in 6/8: ‘crome virtuose’,
ritmicamente zoppicanti, con respiri interni al
movimento stesso. Scuola tecnica e interpretativa
messe a dura prova, con risultati da lode. L’archetto
rende forse poco distensivo il moto ‘affannoso’ che
ci presenta Wispelwey nella sua interpretazione, ad
ogni modo, di estremo gusto tecnico.
Marimba – Massima espressione del virtuosismo
bachiano, la giga è stata fedelmente ripresa dalla
marimba di Mancinelli e magistralmente interpretata
nella massima chiarezza espositiva. La dinamica ha
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un ruolo decisivo, insieme alla tecnica del musicista,
che non lascia adito all’indubbio risultato.
Le intenzioni e i modi di interpretare il genio tedesco
sono, come si può constatare anche da questo
ascolto, molteplici per una ragione fondamentale:
quella di ritrovarlo attuale in ogni epoca. In
Wispelwey ritroviamo una componente emotiva che
si lascia trascinare dalla magia e dai suoni ‘completi’
nella loro ensemble armonica; in Mancinelli, per
necessità strumentale, questa viene eclissata da
altri fattori di carattere tecnico. Niente può sostituire
il carattere timbrico di un violoncello, che lascia
vibrare le sue basse frequenze. Si attaccano
all’animo dell’ascoltatore lasciandogli un saggio
indelebile della musica pura. Con questo tentativo,
Mancinelli, chiaramente non ha voluto dimostrare
come uno strumento possa facilmente soppiantarne
un altro così diverso, ma come, nonostante tutto, le
Docente di Percussioni presso il
Conservatorio di Sassari, Regolarmente
ospite della dell’Orchestra Sinfonica
Nazionale della RAI. Abbiamo incontrato il
M° Mancinelli per parlare di Bach, musica
e sentimenti.
A.M. – Bach come non lo avevamo
mai immaginato. Oggi grazie al suo
lavoro, degno di plauso artistico, ha
dato anche un forte apporto al
curriculum strumentale delle
percussioni. Ha pensato, mentre
concepiva l’idea, al contributo
formativo che stava per regalare alle
future generazioni di percussionisti?
Ho sicuramente ricevuto un notevole
stimolo alla realizzazione del doppio CD,
dovuto alla consapevolezza di realizzare
una prima italiana e soprattutto un lavoro
intenzioni e l’interpretazione
possano rimanere le stesse.
Ogni artista può ritenere il suo
strumento come essenziale ed
universale nel mondo della
musica, dunque ogni partitura
che gli si presenta di fronte la
assimila come propria, e con
proprio amore e istinto
Bach: Matematica e Sentimento
Intervista a Ivan Mancinelli
di Antonio Marchello
33
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
musicaround.net
musicale la concepisce nel suo studio. Mancinelli è
stato in grado, in questa sua trascrizione, di
trasmettere lo stesso amore che Wispelwey ci ha
regalato con lo strumento originale. Non voglio poi
trascurare l’importante apporto che Mancinelli ha
dato alla didattica nello studio degli strumenti a
percussione. Rendere noto un artista come Bach,
dando la possibilità di suonarlo ‘con le bacchette’, è
un notevole aiuto alla crescita artistica tanto dei
giovani quanto degli affermati percussionisti.
che solo un altro marimbista al mondo
aveva eseguito in precedenza. La
consapevolezza del ‘contributo per le
generazioni future’ però, mi viene ancora
di più dal fatto che autorevoli riviste come
il PAS negli Stati Uniti e Percussioni in
Italia, hanno descritto il mio lavoro come
punto di riferimento per chiunque voglia
cimentarsi nello studio delle Suites alla
Marimba. Devo ammettere che questo mi
gratifica molto.
A.M. – Bach ha scritto anche per
clavicembalo e violino, che, almeno
dal punto di vista timbrico, possono
risultare molto più vicini alla
marimba; perché ha deciso di
impugnare proprio le “Sei Suites per
Violoncello solo”? Una sfida nella
sfida o qualcosa di più?
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musicaround.net

La decisione è scaturita naturalmente
dopo un processo di studio che si è
sviluppato in tre tappe fondamentali. Per
prima cosa, nel 2003, ho presentato una
tesi di laurea presso l’università
Mozarteum di Salisburgo che aveva come
argomento
l’interpretazione
delle Suites per
Violoncello di
J.S.Bach alla
Marimba. La
seconda tappa è
stata la
pubblicazione di
un saggio per le
Edizioni Pugliesi
sullo stesso
argomento. A
questo punto ho
proposto il
progetto del CD al
sig. Bongiovanni
che ha
fortunatamente
creduto nell’idea.
Devo quindi dire
che più che una
sfida è stato un
naturale sviluppo.
A.M. – Maestro Mancinelli,
l’ammirazione e il corrispondente
timore, del quale parlo nella mia
presentazione alle Suites, per gli
strumentisti che hanno modo nel loro
excursus formativo di conoscere
molto bene Bach, è una sensazione
ormai nota; quanto i giovani
percussionisti conoscono il maestro
tedesco alla fine del loro piano di
studi?
Il tasto da lei toccato e ‘molto dolente’.
Purtroppo che io sappia pochi colleghi
fanno studiare Bach alla marimba e
ancora di meno sono quelli che lo
affrontano in maniera approfondita.
Raramente mi è capitato di scorgere negli
allievi percussionisti conoscenze dei saggi
34
di C. PH. E. Bach, J. J.
Quantz o G. Mattheson.
Mi domando come mai
per altri strumentisti sia
naturale
l’approfondimento ed
invece
per i
percussionisti certe
cose siano ancora così
lontane e spesso
ritenute inutili. Ho
ricevuto un invito
presso il Conservatorio
di Bari per tenere un
master sull’argomento.
La cosa è stata molto
seguita e penso che
l’iniziativa sia
meritoria.
A.M. – Posso dire di
aver scelto in via del
tutto arbitraria,
senza particolari
motivazioni, la Suite
I (BWV1007) per
elaborare la mia
breve analisi. Non
posso dire altrettanto
della scelta di comparare la sua
interpretazione con quella di Pietre
Wispelwey, ‘violoncellista di nascita’.
L’identità delle due interpretazioni mi
ha fatto capire che ero di fronte a due
musicisti con molto sentimento nei
confronti di quelle note. Non appena
Le viene proposto di interpretare J. S.
Bach, su cosa si dirige la sua mente?
Ad un musicista matematico, attento
osservatore della tecnica compositiva
o un romantico e sentimentale
compositore? Sente di dover
impugnare prima le bacchette o la
matita?
Pur avendo studiato i saggi degli autori
suddetti, cerco sempre di avere un
approccio spontaneo. Assolutamente le
bacchette quindi. La misura di Bach
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
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all’interno della sua complessità
strutturale ed armonica lascia ad ogni
esecutore ampi spazi di interpretazione.
E’ importante conoscere la prassi
esecutiva dell’epoca, sapere individuare la
struttura e le linee ma anche fraseggiare
e dare la propria interpretazione.
A.M. – Ha ascoltato molto le sei
Suites al Violoncello durante
l’elaborazione del suo progetto? Qual
è stato
l’interprete
che le ha
lasciato di
più?
Ho ascoltato
vari musicisti,
anche non
violoncellisti,
cimentarsi con
le Suites.
Sono rimasto
affascinato
dalle
interpretazioni di violoncellisti come Pablo
Casals, Nicolas Harnoncourt ed in
particolare Heinrich Schiff. Ho avuto
occasione di ascoltare delle conferenze
del M° Harnoncourt, e devo sottolineare
l’interesse che ha suscitato in me.
D'altronde non posso evitare di ammirare
il carattere, il pathos e addirittura
l’irruenza che caratterizzano l’esecuzione
di Heinrich Schiff.
A.M. – Suite I, Minuetto: Siamo in
consueto Sol Maggiore (Minuetto I),
nella seconda sezione Bach cade in
tentazione e il Sol Maggiore assume
contorni ‘molli’ (Minuetto II): siamo
ora in Sol minore. Ho notato la sua
interpretazione, magistralmente
ritenuta nella seconda parte, come
insegna la buona scuola accademica,
per tornare poi al mezzo forte nella
ripresa del tema. E’ questo, come
tante altre consuetudini, un comune
modo interpretativo delle partiture di
35
Bach: come
giudicherebbe un
interprete che
infrangesse questi
canoni? Parlo anche
delle quartine del
Preludio iniziale: mai
ripetute alla stessa
intensità sonora.
Come accennavo in precedenza è
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
importante conoscere la prassi esecutiva
dell’epoca prima di
addentrarsi in un mondo
così ricco e
contemporaneamente
pieno di insidie. Leggendo
il Quantz e il C. Ph. E. Bach
salta subito all’occhio
l’importanza dell’uso dei
piani dinamici. La dinamica
a cui lei fa riferimento,
permette di dare
leggerezza e movimento
alla danza. Come tutti gli
stili musicali anche questo
ha delle caratteristiche da rispettare. In
particolare sarebbe completamente ‘fuori
stile’ eseguire dei lunghi crescendo che
diventerebbero inevitabilmente romantici,
è invece importante rispettare la prassi
della ripetizione nel piano quando ci sono
delle melodie ripetute. Nel preludio della
prima Suite si ha spesso questa
situazione e, per esempio, all’inizio oltre
al lungo pedale di SOL al basso è
importante dare risalto al RE che va al MI,
FA, SOL ecc. nelle battute successive.
Questo permette di fraseggiare ma
bisogna evitare la monotonia data dalla
ripetizione per quattro battute e mezzo
dello stesso disegno melodico, ecco
perché le ripetizioni prima forte e poi
piano. Tutto condito da un crescendo
complessivo per dare all’introduzione del
preludio una direzione. In ogni caso trovo
che si possano infrangere i canoni, ma a
patto di conoscere bene il ‘canone’ che si
vuole infrangere ed a condizione di dare a
questa interpretazione, per così dire
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alternativa, una giustificazione musicale
non in antitesi con il periodo storico della
musica che si suona.
A.M. – Concorda con me se affermo
che molti docenti dei Conservatori
italiani inquadrano in canoni
‘standard’ i modi di interpretare il
maestro tedesco? Ritiene anche Lei
che sia molto importante regalare
una visione più introspettiva del Bach
come essere comune mortale,
piuttosto che sacerdote e profeta
della musica, nel quale ogni
distorsione, anche di un solo accento,
è frutto di peccato mortale?
Purtroppo interpretare Bach non è mai
facile e spesso i docenti si arroccano in
canoni standard per non rischiare di
essere criticati e per non esporsi. A mio
parere, Johann Sebastian è stato il più
grande compositore di tutti i tempi, va
studiata la prassi esecutiva ma va anche
contestualizzato il personaggio. Le sue
due mogli, i suoi 21 figli, i suoi viaggi,
sicuramente lo hanno influenzato e
condizionato. Come ho
detto prima bisogna
rispettare delle regole
stilistiche, ma al tempo
stesso si può e si deve
interpretare mettendo
nella musica se stessi.
36
A.M. – Possiamo conoscere il testo
dal quale ha studiato le ‘Sei Suites
per Violoncello solo’? Quando si trova
in libreria ad acquistare una partitura
di Bach, si dirige verso i testi
commentati e interpretati, o
preferisce nutrirsi di libertà targata
URTEXT?
Sono un integralista, lavoro solo su
edizioni originali. In particolare non
essendo disponibile il manoscritto
originale di Bach perché disperso, ho
utilizzato e studiato le cinque risorse di
riferimento fra cui soprattutto quella di
Anna Magdalena Bach, moglie e copista
del Maestro, quindi ritenuta di
riferimento. L’edizione da me usata è
quella critica della Bärenreiter Urtext.
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
Bach alla
Marimba
Ivan Mancinelli
musicaround.net
musicaround.net mensile di cultura
musicale, on web da Novembre 2006
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Ciak, si gira!
Colonne sonore ‘made in Italy’
Siamo un popolo di poeti, santi, navigatori e…compositori.
Con l’opinione di Gianni Dell’Orso
di Francesco Trinchera
Scena prima.
La cinepresa indugia sul gioco di sguardi tra Clint
Eastwood (il Buono - Joe - il Biondo), Eli Wallace (il
Brutto - Tuco) e Lee Van Cleef (il Cattivo -
Sentenza); il luogo è il cimitero.
Scena seconda.
Al Pacino (Michael Corleone), vestito di tutto punto,
inizia a ballare con Simonetta Stefanelli (Apolllonia
Vitelli in Corleone): è il giorno del loro matrimonio.
Cosa hanno in comune le due
scene apparentemente slegate
tra loro ed appartenenti a due
film diversi, girati da due registi
differenti?
Semplicemente, un aspetto
che la sola parola scritta ma
muta non riesce a rendere.
D’altronde, stiamo parlando di
film, quindi di un prodotto
audiovisivo.
Parliamo quindi della musica,
della colonna sonora dei film in
questione: “Il Buono, Il Brutto
Ed Il Cattivo” (1967) di Sergio
Leone e “Il Padrino” (1972) di
Francis Ford Coppola.
Il grande cineasta e teorico del
cinema russo Sergej
Ejzenstein nel suo “Teorie
Generali Del Montaggio” (Marsilio, 1986) individua
chiaramente i tratti distintivi di una colonna sonora.
Per Ejzenstein «l’arte comincia propriamente solo a
partire dal momento in cui l’associazione tra il suono
e la rappresentazione visiva non è più
semplicemente registrata secondo il rapporto
esistente in natura, ma è istituita secondo il rapporto
richiesto dai compiti espressivi dell’opera. Nelle
forme più rudimentali si tratterà della sottomissione
di ambedue gli elementi allo stesso ‘ritmo’,
rispondente al contenuto della scena. È questo il
caso più semplice, più accessibile e più frequente di
montaggio audiovisivo, in cui i pezzi della
37
Colonne
Sonore made
in Italy
musicaround.net
rappresentazione visiva sono tagliati e montati
secondo il ritmo della musica che scorre
parallelamente sulla colonna sonora. […] A partire
da questo caso più elementare – la semplice
coincidenza metrica degli ‘accenti’ nella scansione –
è possibile ottenere un gran numero di combinazioni
sincopate ed un ‘contrappunto’ puramente ritmico
che consiste nel gioco calcolato della non
coincidenza degli accenti, delle lunghezze, delle
frequenze, delle ripetizioni ecc.». Ejzenstein ricorre
(non a caso) ad un esempio tratto dall’ambito
musicale: «A tutti è familiare l’aspetto esteriore di
una partitura d’orchestra: una
certa quantità di pentagrammi in
ciascuno dei quali è scritta la parte
di un determinato strumento. Ogni
sua parte si sviluppa con un
movimento progressivo in
orizzontale.
Ma la connessione verticale è un
fattore non meno importante e
decisivo: la correlazione musicale
tra i diversi elementi dell’orchestra
in ogni unità di tempo.
Così con il movimento progressivo
della verticale che coinvolge tutta
l’orchestra, e avanza
orizzontalmente, si realizza il
complesso e armonico movimento
musicale dell’intera orchestra.
Se ora passiamo dall’immagine di
una partitura musicale a quella di
una partitura audiovisiva
osserveremo che in questo nuovo
stadio è come se alla partitura musicale si
aggiungesse un ulteriore pentagramma: quello delle
inquadrature che procedono l’una dopo l’altra
confermandosi plasticamente al movimento della
musica e viceversa» (ibidem)
E se Ejzenstein ha posto l’accento essenzialmente
sul piano del ritmo, esistono altri studiosi di
semiotica che hanno considerato anche altri aspetti
della colonna sonora: Chion nel suo
“L’audiovisione. Suono Ed Immagine Del
Cinema”, (Lindau, 1990) individua delle situazioni
cosiddette patemiche (cioè portatrici di ‘emozioni’) a
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musicaround.net

seconda della combinazione del modo e del ritmo
nella composizione: ad esempio, il modo minore
abbinato ad un ritmo molto lento vorrà sottolineare
dei momenti di tristezza, mentre con il velocizzarsi
del ritmo si andrà sempre di più verso lo stato di
tensione; diversamente nel modo maggiore un ritmo
lento sottolineerà uno stato di calma o di gioia,
mentre un ritmo più veloce sarà inserito per dare
una sorta di ‘pomposità’ all’insieme audiovisivo.
Le similitudini tra i due film citati precedentemente si
devono però ricercare ancora più a fondo, al di là
dell’aspetto meramente teorico, anche perché per
adesso le due composizioni appaiono quantomeno
slegate.
Sveliamo quindi l’arcano: chiunque conosca le due
scene a cui si è fatto riferimento, sa che la musica a
sostegno dei film citati ha come elemento comune il
gusto musicale tipicamente made in Italy.
Entrambi i brani sono infatti opera di due grandi
compositori di colonne sonore nostrani, il primo di
Ennio Morricone, il secondo di Nino Rota.
Provate ora ad immaginare le due scene di cui
sopra senza alcun commento musicale abbinato:
avrebbero lo stesso effetto se paragonate a quelle
con la musica?
Diciamocelo chiaramente: decisamente no!
Dobbiamo dunque ringraziare i due padri putativi
della colonna sonora italiana per averci regalato
queste stupende pagine di musica e di cinema.
Con loro, la scuola italiana ha portato alla ribalta i
vari Piccioni, Trovajoli, Bacalov.
Con gli anni abbiamo avuto altri grandi nomi che
hanno avuto grandi collaborazioni: Pino Donaggio e
Brian De Palma, Angelo Badalamenti e David
Lynch.
Ma si può parlare quindi di una
storia della colonna sonora in
Italia? Ed al giorno d’oggi, chi può
essere il nuovo enfant prodige?
Lo abbiamo chiesto a Gianni
Dell’Orso: un cognome che chi
segue il cinema e la musica deve
assolutamente conoscere, più
avanti si capirà perchè.
Compositore di colonne sonore,
collaboratore di Ennio Morricone,
adesso Dell’Orso gestisce
un’etichetta, la GdM (ex General
Music, fondata da Morricone),
specializzata nella produzione di
dischi di colonne sonore composte da artisti italiani.
Il cognome Dell’Orso poi è il cognome di una grande
cantante che ha collaborato con Morricone ovvero
Edda, cognata di Gianni: suo il celeberrimo Sean
Sean in “Giù La Testa”.
Nel catalogo della GdM si
possono riscontrare titoli di
Morricone (ovviamente), Rota,
Piccioni, Bacalov, Trovajoli.
Ma anche altri autori giovani
poco conosciuti, il nuovo che
avanza in Italia.
Proprio Dell’Orso racconta le
caratteristiche peculiari di chi
38
Colonne
Sonore made
in Italy
musicaround.net
compone colonne sonore: «Il regista opera delle
significative richieste nell’ambito della colonna
sonora.
Proprio queste richieste sono alla base di una
solidità di rapporto tra il regista ed il compositore: se
si chiede espressamente un certo tipo di colonna
sonora ecco che il regista si affida sempre allo
stesso compositore, perché sa che da questo potrà
trarre il miglior risultato per il film che ha in mente,
dato il rapporto instaurato fra i due; da qui nascono i
famosi binomi del cinema italiano come Fellini-Rota
e Leone-Morricone.
I due che ho citato inoltre hanno avuto secondo me
una grande fortuna: essere più che due grandi
strumentisti due grandi arrangiatori.
Se Bacalov o Trovajoli erano pianisti a livelli eccelsi,
Morricone e Rota nascevano arrangiatori (il primo in
particolare per la RCA) ed avevano una visione
d’insieme migliore, che ha dato loro la capacità di
un’innovazione nettamente maggiore rispetto a
quella che si poteva riscontrare nelle altre colonne
sonore.
Morricone, in particolare, ha sempre messo insieme
la musica classica della sua formazione di base, la
sua esperienza come arrangiatore e la capacità di
sperimentare usando l’elettronica o strumenti
particolarmente inconsueti.
L’uso del fischio ne “Il Buono, Il
Brutto E Il Cattivo” e la capacità di
comporre una melodia ed un
arrangiamento appropriato per mia
cognata Edda in “Giù La Testa” ne
sono forse l’esempio più
significativo.
Ecco quindi i fondamenti per una
buona colonna sonora: l’alchimia
giusta con il regista che la deve
inserire all’interno del film ed una
buona visione d’insieme di tutti gli
strumenti che prendono parte alla
composizione.
Quindi, meglio l’arrangiatore
dell’esecutore in senso stretto.»
Come già detto, Dell’Orso ha attraversato 3 decenni
di colonne sonore italiane e pare quindi sia una delle
persone più qualificate a parlar dell’involuzione dei
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compositori italiani: «Non vorrei fare quello che
rimpiange i tempi andati, anche perché attualmente
abbiamo una schiera di volti nuovi molto bravi come
i due De Scalzi e Piovani, o meglio ancora la
sperimentazione fatta da La Banda Osiris per
“L’imbalsamatore” (2004).
Certo è che però il carisma e le capacità
professionali della vecchia guardia risultano in un
certo senso quasi ineguagliabili».
Altro punto cruciale quindi: l’eredità dei grandi del
passato.
Morricone e Rota hanno avuto il loro seguito
nazionale ed internazionale, ma il nodo cruciale sta
forse proprio in questo: i migliori compositori (come
d’altronde buona parte dei professionisti che
lavorano ad un film) sono, al giorno d’oggi, merce di
esportazione.
Infatti, tra i nomi non citati da Dell’Orso, bisogna
ricordare anche Marianelli che ha curato le musiche
per “V Per Vendetta” (2006) o l’opera di Marco
Beltrami per il recente remake di “The Omen”
(2006).
Manca quindi un personaggio carismatico che possa
tracciare un solco nelle colonne sonore?
Non si rischia di rimanere forse ancorati ai vecchi
nomi?
Non che questo però sia un male, intendiamoci…
Difatti Dell’Orso dichiara ancora: «Sono contento
della riscoperta di autori come Morricone e Bacalov
ai giorni nostri in un senso più generale…
Ad esempio, se si ascoltano le suonerie del
telefonino si può notare la riscoperta delle colonne
sonore di cui stiamo parlando, e nei negozi di dischi
con il tempo sono nate delle sezioni apposite per chi
vuole cercare musica altra rispetto al successo del
momento.»
E sempre a proposito della vendita di dischi,
Dell’Orso fa ancora un’altra precisazione riguardo
agli artisti di successo usati
nella colonna sonora di un
film: «A volte appare
appropriato inserire brani
musicali di artisti di musica
popular come è successo con
noi per “La Finestra Di
Fronte”(2003) con Giorgia.
Se vogliamo parlare di altri tipi
39
di film, i cosiddetti film ‘di cassetta’, diciamo che si fa
ampio uso dei brani musicali in voga in quel periodo:
sono una garanzia di appeal su di un pubblico
generalmente abituato alla fruizione di quei prodotti
musicali.»
La colonna sonora è quindi una forma musicale che
risente fortemente dell’influenza del mezzo
‘cinematograficamente’ visivo, e chi si cimenta in
questo campo lo deve tenere ben presente.
E chiudendo sempre con Dell’Orso in fondo bisogna
ricordare che: «Il compositore è vincolato
enormemente alla storia narrata, ma dipende dalla
professionalità e sensibilità di ciascuno degli autori il
modo di porsi nei confronti di un determinato film.
Il prodotto finale deve rispondere a quegli standard
qualitativi richiesti dal regista stesso.
Anche se si parla di tempi come ad esempio il 4/4 o
il 3/4, lo scopo principale di un compositore rimane
rispondere alla pellicola ‘sovrana’.
Se non si raggiunge questo scopo, una colonna
sonora non può essere considerata valida».
Un’interessante disamina della colonna sonora de “Il
Buono, Il Brutto Ed Il Cattivo” è disponibile su
www.mundobso.com/Bueno.htm.
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
Colonne
Sonore made
in Italy
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musicaround.net mensile di cultura musicale,
on web da Novembre 2006
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Recensione
Pierluigi Balducci Small Ensemble
“Leggero”
Pierluigi
Balducci
“Leggero”, live in Bari
di Marco Leopizzi
Strange Meeting
Careful
The Mooche
The Vision
(All Of A Sudden) My Heart Sings
Del Cavaliere Errante Su Campi Dorati
Leggero
[Dodicilune, 2006]
Pierluigi Balducci_basso
Antonio Tosques_chitarra
Luciano Biondini_fisarmonica
“Leggero” è titolo del disco, di una composizione che il bassista porta sempre dietro con sé nei vari lavori
discografici, forse come talismano, ma è anche l’intenzione dell’intero album live.
Potrebbe sembrare una singolarità nella discografia del bassista, ed in effetti lo è.
Nei lavori precedenti il compositore barese ha sempre adottato un metodo di scrittura e d’esecuzione molto
accurato, dove il discorso musicale, rigoglioso ed intenso, si sviluppa in un quadro perfettamente delineato in
partenza, salvo poi lasciar libero spazio all’improvvisazione solistica, che, tuttavia, è sottoposto ad una «libertà
vigilata», per usare le sue stesse parole.
Nel live al Pentagramma di Bari, da cui nasce
questo disco, invece, il trio affronta la musica da una
prospettiva più libera, ‘leggera’ appunto.
Lascia ampio spazio all’invenzione estemporanea,
puntando tutto sull’interplay e sull’istintività propria
del Jazz americano.
Non è un caso che gli standard – ma per fortuna
non sono i soliti titoli – siano tutti di immediata
presa, grazie a temi assai musicali, efficaci ed
accattivanti. Ed in questo si riconosce il Balducci di
sempre, innamorato della melodia e convinto che la
musica debba catturare l’ascoltatore, senza
scendere a compromessi di gusto, è ovvio.
Grazie ad un’esecuzione impeccabile ed alla giusta
scelta della scaletta, il disco scorre gradevolmente,
mantenendo desta l’attenzione dell’orecchio e
seducendolo con l’eleganza e la raffinatezza di
alcune interpretazioni, come la bellissima Strange
Meeting (di Bill Frisell), al gusto di Tango, in cui
Luciano Biondini si dimostra in particolare forma, sia
40
Pierluigi
Balducci
Small
Ensemble
musicaround.net
nell’esporre il tema, sia nell’improvvisarci attorno,
prima di passare il testimone a Tosques.
È questo uno dei brani in cui il trio non s’è limitato
all’interpretazione ma ha lavorato anche sulla
riscrittura, sulla rivisitazione personale. Lo segue
sulla stessa strada The Mooche, brano carico del
tipico swing di Duke Ellington, che l’ensemble
rispetta e restituisce anche nella sua rilettura.
Egregia l’esecuzione di Tosques, tanto
nell’esposizione del tema quanto nel suo spazio
solistico.
Il chitarrista firma anche uno dei due inediti, The
Vision, composizione dall’andatura sincopata e dal
tema largo e delicato.
Secondo inedito è l’epico Del Cavaliere Errante Su
Campi Dorati, scritto dal leader, probabilmente il più
complesso sul piano strutturale, ma anche fra i più
significativi.
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musicaround.net

Ritmo di danza ma in tempo dispari segna certo uno
dei migliori momenti del disco, assieme al
sempreverde Leggero.
È la riprova che le composizioni di Balducci hanno
un carattere ed una forza particolare, e che
nonostante la bravura ed il gusto nel
riarrangiamento degli standard, i solchi più
interessanti portano la sua firma.
Compito della chiusura – forse non casuale – spetta
proprio a Leggero.
Incisa per la prima volta su “Il Peso Delle Nuvole”
(Splasc(h) Records, 2003) e ripresa
successivamente su “Rouge!” (Splasc(h) Records,
2005)
subisce qui la sua terza trasfigurazione.
Dopo l’ultima struggente versione, dal mood gitano
ed assai contemporaneo – 2005 –, ritorna il ritmo
Pierluigi Balducci
La Musica Nelle Mani,
Negli Occhi E Nel Cuore
Intervista a Pierluigi Balducci
di Marco Leopizzi
Esponente tra i più creativi ed originali del Jazz
pugliese, Balducci ha ormai alle spalle una carriera
di tutto rispetto, che lo proietta oggi nel panorama
jazzistico internazionale.
Dopo l’esordio con i Tavernanova il bassistacompositore
barese ha intrapreso un ‘viaggio’
musicale personalissimo, partendo da “Niebla”
(Splasc(h) Records, 2000), fra i cui solchi, con il
suo QuartETHNO, realizzò uno stupendo affresco
mediterraneo di Etno-Jazz (perdonatemi la brutalità
dell’etichettatura, ma bisogna pur intendersi),
più marcatamente latinoamericano
che avevamo già
ascoltato nell’incisione
originale, ma trattato ora con
un approccio – guarda un po’
– decisamente più ‘leggero’ e
meno spregiudicato.
Benvenuta, dunque, alla
prima testimonianza di
41
Pierluigi
Balducci
Small
Ensemble
musicaround.net
Balducci ed il suo ensemble dal vivo, e benvenuto a
questo «momento di ‘divertimento’ puro», che in
qualche modo mantiene alta l’attenzione sul valido
compositore pugliese, nell’attesa del prossimo
lavoro, che, s’immagina facilmente, riprenderà la
strada creativa dei primi tre album.
passando per “Il Peso Delle Nuvole” (Splasc(h)
Records, 2003), il lavoro più osannato dalla critica,
eccellente sul piano tecnico e su quello dell’idea
creativa, forse solo poco immediato, ed approdando
su quell’isola da sogno ch’è “Rouge” (Splasc(h)
Records, 2005), seducente danza dai colori accesi.
Attraverso queste tappe Balducci ha evoluto il modo
di scrivere così come l’organico del suo ensemble,
ma è rimasto sempre fedele alla sua cifra stilistica
principale: l’emotività.
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41
musicaround.net

Sulla sua musica ci sarebbe da scrivere
probabilmente un intero saggio, ma il cuore del suo
pensiero artistico sta nella capacità di trasmettere
alle proprie creature musicali tutto il sentimento,
vero e passionale, di un artista del nostro tempo.
Si spiega così la capacità comunicativa ed
empatica dei suoi brani, che spingono al sogno,
che generano immagini nel cuore e nella mente di
chi li ascolta.
Balducci è un bassista, ma prima è un compositore
dallo squisito gusto melodico e dinamico – i
maggiori portati dei suoi primi studi classici –, con il
coraggio di sperimentare, senza compromessi, la
contaminazione fra tutto ciò che lo circonda e lo
affascina. Ed è davvero tanto.
La critica spesso etichetta la sua musica come
Etno-Jazz. Bisognerebbe sottolinearne, invece, le
componenti principali, che sono sì Jazz e musica
etnica – dalla pugliese a quella balcanica e
mediterranea tout court, fino al Tango –, ma che
allo stesso modo abbracciano la cultura
mitteleuropea, classica, quella spagnola e
dell’America Meridionale, assorbita durante gli studi
di chitarra classica, ed una certa tendenza
‘progressive’ che si può notare nel non raro uso di
tempi dispari.
Il 2006, infine, lo vede avvicinarsi alla casa
discografica leccese Dodicilune, che licenzia in
novembre il primo album live del bassista,
“Leggero”, registrato a marzo al Pentagramma di
Bari. Lo abbiamo incontrato in occasione della
recente presentazione del disco, al Teatro Paisiello
di Lecce.
M.L.: Hai cominciato il tuo rapporto con la
musica attraverso lo studio della chitarra
classica. Com’è stato il passaggio dalla cultura
musicale eurocolta a quella afroamericana del
Jazz?
Smisi i miei studi di chitarra classica a 14 anni, e
per ben tre anni non studiai musica. Passai
l’adolescenza ad ascoltare musica pop, che per me
era stata una ‘scoperta’ recente, e poi, con un
percorso che oggi è abbastanza decifrabile, scoprii
nell’ordine il Rock, o meglio i Pink Floyd, Pino
Daniele, e infine – attraverso un successo di
Sergio Caputo (ricordo che si trattava di
‘Metamorfosi’) – scoprii l’esistenza dello Swing e
del vasto mondo del Jazz intorno ai diciassette
anni. Fu amore a prima vista. Acquistavo, con una
voracità che è solo di quell’età, i dischi di Dexter
Gordon e del Modern Jazz Quartet, dei boppers e
dei grandi jazzisti, spendendo così i pochi soldi che
avevo a disposizione. Fu questo amore folle ad
indurmi a cercare dei maestri
di Jazz, che trovai in Vito Di
Modugno, Guido Di Leone e
Nico Stufano, e poi in Bruno
Tommaso e Ettore Fioravanti.
Il passaggio dalla chitarra al
basso elettrico fu quasi un
evento fortuito, in quanto un
mio caro amico mi mise
42
Pierluigi
Balducci
Small
Ensemble
musicaround.net
letteralmente lo strumento in mano e mi chiese di
accompagnare due o tre brani nella sua cover band.
Mi immersi allora nello studio del Jazz e del basso
elettrico, quasi immemore degli studi classici. Solo
oggi, a posteriori, mi rendo conto che la netta cesura
vissuta intorno ai quattordici anni è stata ‘salutare’ ,
perché mi ha permesso di ‘resettarmi’ e scoprire altri
mondi musicali con rinnovata curiosità.
M.L.: Ma, d’altronde, rimane molto ben presente nella
tua musica l’influsso della musica classica: nei temi
larghi e melodiosi, in quella che tu stesso definisci
«libertà vigilata», nell’attento controllo dinamico.
Come fai a mantenere l’equilibrio con l’altra tua
anima, quella jazzistica?
Non ho alcun dubbio sul fatto che io conservi in me,
vivo e indelebile, il mondo ‘ispanico’, latino, che ho
‘respirato’ nel repertorio della chitarra classica. Villa
Lobos, Albeniz, Ponce me li porto ancora dentro, nel
mio modo di fraseggiare sul basso elettrico, nel mio
amore per la melodia, ed in una serie di altre cose
che non riesco nemmeno a mettere a fuoco con
lucidità. Non puoi mai rinnegare o cancellare
veramente le tappe che costituiscono il tuo ‘divenire’,
il tuo percorso, e sicuramente i miei studi classici,
‘eurocolti’, come dici tu, ma anche così vicini alla
musica popolare spagnola e latinoamericana, mi
hanno certamente plasmato. Inoltre devo
qualcos’altro al mio percorso ‘classico’ (e anche
all’esser cresciuto accanto ad un grande pianista
classico qual è mio fratello Filippo): devo il mio
approccio ‘acustico’ al basso elettrico, dove per
acustico intendo esclusivamente la ricerca e l’utilizzo
delle infinite possibilità dinamiche che il nostro
strumento ci consente, e che spesso i bassisti
elettrici ignorano ricercando suoni ‘pompati’, ipercompressi,
dinamicamente piatti…Il problema
dell’equilibrio con quella che tu definisci ‘anima
jazzistica’ non si è mai posto veramente: mi ritengo in
toto un jazzista, e del resto i miei studi
sull’improvvisazione, la mia formazione ‘armonica’, i
miei ascolti più ‘formativi’ sono da riportare al Jazz,
anzi, al Bebop, per essere precisi. Anche l’estetica di
fondo dei miei progetti, e lo spirito delle performance
sul palco del mio Ensemble, sono autenticamente
jazzistiche. Se il tuo orecchio e quello di tanti altri
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musicaround.net

ascoltatori percepiscono una sorta di ‘diversità’ nel
mio modo di vivere il Jazz, è forse perché uno
come me, europeo, bianco, italiano, pugliese, nato
negli anni ’70 del XX secolo, non ha affatto
l’africanità nei suoi geni. Ha ben altro. Bisogna solo
avere il coraggio di ammetterlo. Ed io sono stato
semplicemente me stesso da subito, nell’incontro
spontaneo e ‘amoroso’ tra ‘formazione –
informazione – educazione’ (ciò che ho imparato)
ed il mio imprinting o retaggio culturale (ciò che ho
assorbito, respirato, o che forse è nei miei geni).
M.L.: Terza componente della tua arte è la
musica etnica, da quella mediterranea al Tango
fino a quella balcanica. Molta critica
specializzata parla di Etno-Jazz ma io non sono
d’accordo, almeno non totalmente, proprio per
l’importante presenza dell’ispirazione classica.
Certo non si può negare però che tu abbia
scelto una strada non convenzionale del Jazz.
Come e perché hai operato tale scelta?
Qui vale ciò che ho detto sopra. Si tratta di
componenti musicali che ci sono culturalmente
vicine. E che come tali assorbiamo anche senza
volerlo. Io non ho attuato nessuna scelta. Tanto
meno con il desiderio di essere ‘non
convenzionale’. Suono quel che sono.
Riutilizzando un’espressione di Nietzsche, che è
anche titolo di un mio brano («deviens ce que tu
es»), credo che ognuno divenga quel che è,
Discografia
Solista
2006: P. Balducci Small Ensemble – Leggero (Dodicilune Records)
2005: P. Balducci Ensemble – Rouge! (Splasc(h) Records)
2003: P. Balducci – Il Peso Delle Nuvole (Splasc(h) Records)
2000: P. Balducci QuartETHNO – Niebla (Splasc(h) Records)
Co-leader
1995: Tavernanova – Tavernanova (Compagnia Nuove Indye)
1996: Tavernanova – Matengue (Compagnia Nuove Indye/BMG)
1998: Finisterrae – Finisterrae (Equipe)
Collaborazioni
1992: Zetema Jazz Orchestra dir. da B. Tommaso – Nella Sala Delle Arcate
1997: Nico Acquaviva Quartetto – Improvvise Azioni
2001: Art Jazz Quartet – Left And Right
2003: Marchio Bossa – Italian Lounge Music
2004: Marchio Bossa – No Bossa No Party
2004: Alex Milella – Light Shades
43
facendo di ciò che assimila e di
ciò di cui si nutre il punto di
partenza di ogni
QuartETHNO
successiva evoluzione.
Quanto all’Etno-Jazz, non mi ci
riconosco affatto, nonostante il
mio
primo lavoro (“Niebla”, 2000)
lo abbia io stesso catalogato così, chiamando
Pierluigi
Balducci
Small
Ensemble
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QuartETHNO la mia prima formazione. La parola è
oggi, per me, al massimo un’etichetta utile a
collocare i dischi negli scaffali dei negozi. E a parte il
primo lavoro, non credo che i miei dischi successivi
possano essere catalogati così.
M.L.: Le tue composizioni hanno una particolare
potenza evocativa, una caratteristica visuale. È
intenzionale? Fanno parte delle tue fonti
d’ispirazione immagini, scene, opere visuali?
Questo è un aspetto che leggo in molte recensioni
dei miei dischi, e che spesso i critici mi attribuiscono.
Quasi quasi finisco per crederci
anch’io…Riflettendoci, in realtà, non credo tanto di
ispirarmi intenzionalmente ad immagini o opere
visuali. Semmai credo, più semplicemente, di
privilegiare – sia quando suono che quando
compongo – il lato emozionale del fare musica, che
spesso è per sua natura evocativo di immagini ed è
facile da ‘visualizzare’. Questa mia tendenza finisce
poi forse per essere
interpretata come
‘immaginifica’…non so…Mi
chiedo se forse le mie
composizioni acquisiscano
potenza ‘evocativa’ anche
perché nel mio modo di
fare musica tendo a
ridimensionare
l’importanza dell’aspetto
strumentale, virtuosistico.
In altre parole non amo
dare importanza alle
‘mani’, allo ‘strumento’.
Non cedo molto facilmente
alla tentazione di quel
‘protagonismo’ virtuosistico
che ha grande peso nel
Jazz di estrazione hardbop,
e che concentra
l’attenzione sul musicista
piuttosto che sulla musica.
Ancora, un qualche
posticino nella mia vena
compositiva devono averlo
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musicaround.net

anche gruppi non jazzistici come i Radiohead, i
Coldplay, i Massive Attack, che ascolto
frequentemente e che si muovono su coordinate
simili. In ogni caso non ho mai razionalizzato questi
aspetti e io stesso non so realmente la risposta al
tuo quesito. Di sicuro, mi sento molto ‘romantico’,
nel senso storico del termine. Oppure, per
individuare dei modelli nella storia del Jazz, mi
sento più vicino a Ellington che a Armstrong, più
vicino a Miles Davis che a Charlie Parker.
M.L.: Hai già composto la musica per “A Ma
Soeur”, film in concorso al “Film Festival” di
Berlino 2001, della regista francese Catherine
Breillat.
Ripeterai l’esperienza?
Mi hai ricordato un’esperienza davvero significativa.
Si trattava di una delle prime canzoni da me scritte,
nel ’95-’96. Il brano, interpretato dal gruppo
Tavernanova, di cui facevo parte, è diventato sigla
e leitmotiv di un film in concorso al Festival di
Berlino del 2001, credo. Un bel film, tra l’altro,
anche se un po’ scabroso nelle tematiche. Un
motivo in più per riprendere a dedicarmi alla forma
canzone, che io adoro, cosa che sta accadendo da
quando abbiamo ridato vita ai Tavernanova, di
recente. Al momento sto scrivendo le musiche di
“Avanti E Indietro”, un cortometraggio di un giovane
regista milanese, Francesco Lini. Purtroppo si tratta
di esperienze sporadiche, prive di quella continuità
che vorrei avere e che mi farebbe maturare
davvero in questo campo.
M.L.: Hai sempre cambiato la formazione del tuo
ensemble ad ogni appuntamento discografico.
Con che criterio assembli i tuoi organici?
Il cambiamento degli organici mi sembra
abbastanza fisiologico, considerando che i miei
quattro cd si snodano nell’arco di sei anni. Hai però
centrato un aspetto fondamentale del mio fare
musica. Il mio primo atto creativo sta nella scelta
dei musicisti. Scegliendoli, e ‘combinandoli’ (quasi
fossi uno scienziato pazzo in un esperimento di
ingegneria genetica), anche in base a
caratteristiche timbriche o di ‘indole’ musicale, riesci
44
a generare un buon 50 % di
quello che sarà lo spirito della
formazione. Un altro
importante contributo lo dai
scrivendo appositamente per
loro, avendo in mente le loro
caratteristiche. Ma la maggior
parte della responsabilità della
riuscita, e del consenso, che
riscuote un progetto sul palco dipende, sempre e
Pierluigi
Balducci
Small
Ensemble
musicaround.net
comunque, dalla grandezza dei musicisti e dalla loro
capacità di ‘fare propria’ l’idea di partenza.
La mia prima formazione vedeva al sax soprano
Roberto Ottaviano, alla chitarra l’italo-svedese Lutte
Berg e alle percussioni Ninad Massimo Carrano
(“Niebla”, 2000). Successivamente c’è stata una
netta svolta, in cui a una ritmica più tradizionale (con
Enzo Lanzo alla batteria e Mirko Signorile al
pianoforte) si aggiungeva una frontline atipica,
composta dallo stesso Roberto e da Ernst Reijseger
al violoncello (“Il Peso Delle Nuvole”, 2003). Questa
formazione ha poi seguito una lenta linea evolutiva
che ha portato, nel corso degli anni, al mio ensemble
attuale: un quintetto molto ‘elastico’, di cui fanno
parte Luciano Biondini alla fisarmonica, Antonio
Tosques alla chitarra, Leo Gadaleta al violino e
Giuseppe Berlen alla batteria. Questo quintetto si
riduce a trio, come nel nuovo lavoro, “Leggero”, o
può anche diventare sestetto con l’aggiunta di
Reijseger.
M.L.: Pensi di fare un più ampio utilizzo in futuro
di strumenti elettronici?
Al momento sono abbastanza lontani dai miei
pensieri. Sono molto attratto dalla timbrica del
Fender Rodhes, più che dai sintetizzatori. Mi piace
anche suonare, quando è possibile, con loop di
batteria o percussioni campionate e ‘manipolate’
timbricamente. Ma in generale adoro gli strumenti ad
arco e sono sempre più attratto dalla scrittura per
grandi organici, composti da legni, ottoni e archi. È in
quella direzione che mi sento di andare.
M.L.: “Leggero” è, con le tue stesse parole, «un
momento di ritorno all’istintività jazz». Da cosa
nasce questa esigenza? è forse il momento di
riflessione prima di ripartire verso altri spiagge
musicali?
Più che un momento di riflessione, è un momento di
‘divertimento’ puro, prima di ricominciare a dedicarmi
al nuovo disco, che sarà, come i precedenti,
abbastanza ‘pensato’. I brani sono tutti molto ‘facili’, e
semplici sono anche i brani che hanno richiesto un
certo lavoro di ‘riscrittura’, come la mia rivisitazione di
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musicaround.net

The Mooche. Luciano Biondini e Antonio Tosques
sono talmente grandi, così padroni dei loro
strumenti e delle possibilità espressive da loro
offerte, che è tutto facile, tutto ‘leggero’. Inoltre
l’intesa è facilitata dall’assenza della batteria, che,
in qualche misura, anche quando è suonata da
batteristi molto sensibili alle dinamiche, spesso
soffoca quelle di strumenti quali la fisarmonica o gli
strumenti ad arco. Questo disco, registrato dal vivo
e pubblicato dalla Dodicilune, è nato per
rappresentare adeguatamente l’attività concertistica
del mio ‘piccolo’ ensemble, e la ‘leggerezza’ del suo
modo di fare musica. Il nuovo lavoro, già nei
programmi della Dodicilune per il 2008, sarà
certamente differente.
M.L.: Anche la scelta degli standard da
interpretare sembra avere una precisa ratio. Su
quattro solo uno è di un autore che spesso –
ma non troppo – si prende in considerazione in
lavori di questo tipo, The Mooche di Duke
Ellington. Come hai scelto la track-list?
Era la track list di un concerto, fatto a Bari nella
sala concerti de Il Pentagramma, nel marzo scorso.
Se trovi ben calibrata la track
list è perché era calibrata la
scaletta del concerto.
Scaletta che abbiamo del
resto riportato per intero, ad
eccezione del bis,
scaricabile in formato mp3
sul mio sito. Mi sono bastati
due ascolti per capire che
quella registrazione, che
avrebbe dovuto servirci solo
a valutare la performance,
andava pubblicata. Dire che
avevamo l’intenzione di realizzare un live sarebbe
una evidente ipocrisia. In repertorio avevamo due
brani originali e inediti, The Vision di Antonio
Tosques e il mio Del Cavaliere Errante Su Campi
Dorati, che è di certo la composizione più articolata,
più complessa, più studiata, anche se
apparentemente semplice. A questi abbiamo
aggiunto altri brani che amiamo particolarmente: il
mio Leggero, già pubblicato altre due volte nel 2003
e nel 2005, Careful di Jim Hall e My Heart Sings di
Rome, Herpin e Jamblan. Tutti e tre i pezzi sono
stati suonati di getto, d’istinto, senza neanche
provarli, ed eseguiti con la libertà d’approccio di
uno standard in una jam session e senza
arrangiamenti di sorta. Contrariamente alle abitudini
del ‘grande’ ensemble. Diverso il caso di Strange
Meeting, di Frisell, e di The
Mooche: si tratta di capolavori
che avevo riarrangiato di
recente, o meglio, rivisitato, nel
tentativo di darne una lettura
nuova, un’interpretazione
inedita. E che avevamo
eseguito spesso. Penso che,
almeno nel caso di The
45
Pierluigi
Balducci
Small
Ensemble
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Mooche, si percepisca il lavoro di riarrangiamento
che c’è dietro. Il risultato è una scaletta dove a mio
avviso è stato raggiunto il giusto equilibrio tra
semplicità e complessità, tra brani ‘leggeri’, suonati
come in una jam session, e composizioni sotto sotto
più complesse, dove a monte c’è un accurato lavoro
di arrangiamento individuale e collettivo.
L’impressione generale è però di una costante
semplicità di fondo e di una performance
particolarmente ‘ispirata’. Avrà certo contribuito
anche il pubblico, intimo, silenzioso, attentissimo.
M.L.: La scena jazz pugliese è sempre più in
primo piano su scale nazionale ed internazionale.
Cosa secondo te ha scatenato questo fervore?
Ed inoltre, si può parlare di un’identità jazzistica
pugliese?
Non credo che ci sia un’identità
pugliese vera e propria a livello di
‘estetica’, la Puglia offre infatti un
panorama variegato di tendenze,
che abbracciano stili e linguaggi
realmente disparati: pensiamo
all’estrema diversità sia dei
‘cinquantenni’, come Pino
Minafra e Roberto Ottaviano, sia
della generazione successiva
(Davide Santorsola, Gianni
Lenoci, Guido Di Leone, Nico Stufano, Mimmo
Campanale), sia dei più giovani, come Gaetano
Partipilo, Mirko Signorile, Antonio Tosques, o come
Gianluca Petrella, proiettato a livelli di notorietà
internazionale. Si va da musicisti che esaltano la
‘terroneità’ (perdonatemi il termine), la nostra
tradizione bandistica, e profumi realmente
meridionali, ad altri più inseriti in una ‘koinè’ jazzistica
moderna e internazionale, ad altri che si arroccano
su posizioni più ‘classicheggianti’ e vicine al
mainstream, ad altri, infine, che pare siano partoriti or
ora dalla scena jazzistica newyorchese o da una
costola di Steve Coleman. E non nomino poi gli
innumerevoli altri jazzisti pugliesi meno visibili solo
per una minore propensione all’attività di leaderband,
ma non meno importanti.
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Credo quindi che l’unico tratto comune del Jazz
pugliese sia esclusivamente la ‘fertilità’ musicale
della nostra Puglia. Vuoi per motivazioni legate alla
ricchezza del bagaglio etno-musicologico (la nostra
è la terra della taranta, della pizzica, di tradizioni
musicali direi quasi ‘ancestrali’), vuoi per la ricca
tradizione bandistica, vuoi per la presenza di un
centro di eccellenza anche nell’ambito ‘eurocolto’
(pensiamo al Conservatorio Piccinni di Bari), vuoi
www.pierluigibalducci.net
Sting ci ha da sempre abituati
alla sua imprevedibilità. Alla
volubilità del carattere
musicale; avevamo fatto
l’abitudine a rimanere
disorientati quando, appena
comprato un nuovo disco,
ascoltavamo per la prima
volta le composizioni.
Abbiamo avuto un tuffo al cuore quando, dopo lo
scioglimento dei Police, il cantautore inglese tirò
fuori dal cappello un album impregnato di Jazz e
groove americano; abbiamo fatto un po’ di fatica
(non negatelo) a riconoscere “Brand New Day”
come il suo probabile miglior album– assieme a
“Ten Summoner’s Tales” –, quando è spuntata dai
nostri altoparlanti tutta quell’elettronica, abituati ad
uno Sting ‘suonato’ e dal sound più ‘classico’. Ma
questa nuova mossa discografica era davvero
imprevedibile.
Una rock star alle prese con canzoni madrigalesche,
di un compositore rinascimentale inglese, è
semplicemente spiazzante, sia per i fan – che
s’aspettavano, forse, un disco dalle tinte rock – sia
per la critica. John Dowland (1562-1626) è uno dei
maggiori liutisti rinascimentali, di capacità
strumentale superba, famoso soprattutto per le
songs e le composizioni per voce sola e strumento,
spesso il liuto. Sting ha selezionato alcune delle sue
migliori scritture, e, non a caso, la scelta è caduta
spesso su canzoni dal tono malinconico. Non
sorprende conoscendo l’ex-Police, che ha una
particolare predilezione per questo sentimento, e
che si sente particolarmente a suo agio in tali
atmosfere. Accompagnato dal virtuoso bosniaco del
liuto Edin Karamazov, che ha eseguito anche brani
strumentali al liuto ed arciliuto, Sting ha interpretato
Sting
per la presenza di una delle più
attive scuole di Jazz del nostro
Sud e forse dell’intero Paese
(mi riferisco al Pentagramma di
Bari). Vuoi per la nostra
millenaria apertura verso il
Mediterraneo, verso i Balcani e
verso il Medio Oriente.
Songs From The Labyrinth
(Deutsche Grammophon, ott. 2006)
di Marco Leopizzi
Recensione
“Songs from
the Labyrinth”
STING
46
Sting
Songs from
the
Labyrinth
musicaround.net
un materiale sonoro di oltre 400 anni fa, in un modo
che potrebbe far storcere il naso ai puristi del
genere ed ai filologi. La voce del cantante di
Newcastle non è impostata, come sarebbe quella di
un’edizione ‘filologica’, ma rimane naturale,
nonostante cerchi di trovare un giusto compromesso
con il repertorio. Del resto, non ci sono le basi per
affermare con sicurezza che il repertorio vocale
cinquecentesco fosse eseguito con voce impostata.
Il risultato è, ad ogni modo, una ‘strana’ voce
stinghiana, fedele in alcuni punti al suo stile, forzata
in altri.
Il registro vocale è quasi sempre molto basso,
rispetto all’incisivo tenore che gli è solitamente
riconosciuto. Probabilmente è una scelta dettata
anche dalla connotazione ‘triste’ di molti brani. Fra le
pagine più belle Flow My Tears, The Lowest Trees
Have Tops – che lascia trasparire una sottile ironia
nel titolo –, Come Again, fra le più vivaci ed insieme
quella in cui, forse, più si riconosce uno stile vicino
allo Sting conosciuto. Inoltre spiccano le armonie
polifoniche di Fine Knacks For Ladies ed in
particolare di Can She Excuse My Wrongs?
Le canzoni sono collegate dalle letture di alcuni
stralci di lettere, scritte direttamente dal compositore
rinascimentale. Soluzione interessante che dimostra
come l’intento dell’album non sia prettamente
commerciale. Non è un disco da classifica, questo è
certo. Non sarà mai fra i migliori del cantante, anche
questo è altrettanto certo. Va premiato però il
coraggio e la continua voglia di ricerca, e chissà che
questo ‘viaggio’ all’indietro non abbia ripercussioni
sullo stile di un cantante-compositore che, per sua
natura, sa assorbire da qualsiasi esperienza.
Curiosità: il ‘labirinto’ è la forma della rosa del liuto
costruito appositamente per Sting, che richiama
quello della Cattedrale di Notre Dame.
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The Police
Gli Alfieri Della Contaminazione New Wave.
«Abbiamo attraversato il corridoio punk per essere
ascoltati. In pochi anni abbiamo raggiunto i più
ambiti traguardi nel mercato discografico, fino ad
arrivare allo show allo Shea Stadium nell’agosto del
1983. Nel giro di pochi mesi da quel concerto
abbiamo deciso di prendere strade diverse [...]» [1]
Ecco sintetizzato in poche righe la storia dei Police
dalla penna del fondatore e batterista del trio,
Stewart Copeland (16 luglio
1952, Alexandria, Virginia).
Fu lui a partorire l’idea di una
band che utilizzasse un
organico, insolito per l’epoca, già
ammirato negli Experience di
Jimi Hendrix e nei Cream di Eric
Clapton.
Caparbio, fondò il trio riuscendo
a convincere uno scettico ma
spregiudicato Sting (Gordon
Matthew Sumner, 2 ottobre 1951, Newcastle-upon-
Tyne, Inghilterra) – che aveva tendenze tutt’altro
che new wave – e ingaggiando Henry Padovani (13
ottobre 1952 Bastia, Corsica), un chitarrista corso,
dalle limitate potenzialità tecniche, al tempo.
La prima formazione, nata all’alba del 1977, incise
solo il singolo Fall Out/Nothing Achieving, registrato
a proprie spese nel febbraio dello stesso anno, ma
pubblicato solo in maggio dalla Illegal Records,
l’etichetta di Miles Copeland, fratello maggiore di
Stewart e manager astutissimo del gruppo.
Nello stesso febbraio Copeland e Sting conobbero
Andy Summers (Andrew James Somers, 31
dicembre 1942, Blackpool, Inghilterra) negli studi di
Mike Howlett, ex Gong, con cui incisero brani di un
suo progetto, noto come Strontium 90.
Genio della chitarra elettrica, dalla sterminata
esperienza (le più importanti collaborazioni
all’epoca, Soft Machine, Mike Oldfield, John Lord,
Zoot Money, New Animals, Neil Sedaka, Kevin
Coyne, Eberhard Schoner, Kevin Ayers) e dalla
personalità musicale già peculiare e delineata,
Summers entra di lì a poco a far parte della band,
di Marco Leopizzi e Paola Attolino
Born In The 70’s
di Marco Leopizzi
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The Police
Gli Alfieri dela
contaminazione
New Wave.
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e, superato un breve periodo in quartetto ed una
tournèe in Germania con il compositore tedesco
Eberhard Schoner, i Police assumono, definitiva ed
ottimale, la loro fisionomia.
Da qui è storia della musica, un crescendo qualitativo
e commerciale, un climax che culminerà nel
capolavoro, nella pietra miliare del Rock ch’è
“Synchronicity”.
Ma, ordine.
Il nuovo trio dà subito prova di voler piombare
sulla scena internazionale, conquistandola e
scioccandola. E lo fa con un 45 giri che
rivoluzionò il Rock del periodo: Roxanne,
A&M, Aprile 1978.
I successi di vendita furono scarsi, grazie
anche all’infondata censura della BBC, basata
semplicemente sul soggetto (Roxanne è una
prostituta). La storia narrata era invece del
tutto trascurata. Credo questa una delle più
belle canzoni d’amore mai scritte da Sting.
Nonostante tali disavventure, Roxanne è entrato di
diritto nella storia della Popular Music, ed è ancora
fra i brani più conosciuti
del gruppo. Il singolo è
contenuto sul primo LP,
pubblicato nel
novembre 1978,
“Outlandos D’amour”,
e già lascia intendere le
intenzioni del trio. La
contaminazione è
filosofia dominante;
Reggae e Rock ne sono
gli assiomi da cui partire per sognare alchimie
sonore. Roxanne è appunto questo, immaginifica
sintesi chimico-filosofica di Rock, Reggae, Tango e
Jazz. (Come? Dove sono Tango e Jazz? Vedere
l’articolo “I Centometristi Dell’evoluzione Stilistica”,
prego.)
Ma l’album contiene altre perle da segnalare. So
Lonely e Can’t Stand Losing You sono i prototipi del
primo Reggae-Rock à la Police, con la loro drastica
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divisione in sezioni
stilisticamente
differenti e
contrapposte. Strofa:
Reggae; Ritornello:
Rock.
Hole In My Life,
invece, rappresenta,
assieme a Murder By
Numbers – contenuta
su “Synchronicity” – il
riferimento più svelato al Jazz, ma anche qui la
personalità della band è tanta da rifiutare
scimmiottamenti e spingere a tavoletta il piede
sull’acceleratore di sperimentazione.
Altra forte componente del disco è il Punk. Pallino
di Copeland, non certo solo per motivi musicali –
nonostante Mr. Rhythmatist abbia spesso usato
ritmi apparentemente punk come base delle sue
ricerche. Il fondatore era attratto dalla forza
rivoluzionaria del movimento, scagliato, con
violenza nichilista, contro il mercificato e repressivo
sistema socio-politico britannico del tempo, prima
che contro il rock sofisticato dei ’70.
L’influenza punk coinvolge metà del disco (Next To
You, Peanuts e Truth Hits Everybody in
particolare), di fatto la meno efficace, e servì certo
a scaricare la propria forza comunicativa sul
pubblico. E a cavalcare l’onda del movimento.
La formula vincente, ritmi caraibici, aggressività
rock e velati richiami soul-jazz, sfocia nel primo
capolavoro dei ‘poliziotti’, quel “Reggatta De
Blanc” (A&M) che nel 1979 spalanca le porte del
successo mondiale alla band londinese,
costringendo anche buona parte della critica a
cambiar parere sulla musica dei Nostri, considerata
inizialmente solo una moda passeggera.
“Reggatta” è considerato da molti il vertice
dell’espressione artistica dei Police e, anche se chi
scrive – che assegna invece tale posto a
“Synchronicity”, almeno sul piano puramente
estetico – non è in pieno accordo, non si può
negare che brani come Message In A Bottle, Bring
On The Night, Walking On The Moon, Contact e
Does Everyone Stare siano vere e proprie opere
d’arte.
Lo stile s’affina, Reggae e Rock sono sempre più
compenetrati, amanti ormai intimi, nello stesso
letto. Il Punk perde spazi.
Gioielli di composizione ed esecuzione come
Message In A Bottle, Bring On The Night, Walking
On The Moon vivono di un unico respiro, quello del
trio al massimo dell’affinità, dell’affiatamento, e
fiancheggiano le migliori composizioni di Copeland
per la band, Contact e Does Everyone Stare,
misconosciute, straordinarie.
Il successo è ormai giunto e
“Zenyattà Mondatta”, A&M
1980, lo mette al sicuro.
Con il terzo si chiude la trilogia
dei titoli coniati da quella
mente fine di Miles Copeland.
Neologismi assai musicali nella
pronuncia, solo
apparentemente nonsense –
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The Police
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New Wave.
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“Reggatta De Blanc” è facilmente traducibile, sia pure
da una lingua immaginaria, come “Reggae Dei
Bianchi” –, geniali per impatto e capacità d’imprimersi
nella memoria.
L’escalation verso la
fama mondiale è
terminata, siamo sulla
vetta del Rock
internazionale, i tour,
già da quello di
“Reggatta”, toccano i
paesi dell’Estremo
Oriente come quelli del
Sud America, i concerti
sono colmi di pubblico
impazzito, delirante.
Eppure tra le tre forti personalità qualcosa comincia a
cricchiare.
Ognuno avverte la necessità di ‘evadere’ dai Police.
Mentre Sting cura la sua parallela carriera
cinematografica, Copeland si dedica alla ricerca sui
ritmi dei vari paese del mondo, e Summers sfoga il
suo estro sulla fotografia.
Il percorso della band si divide qui in due binari:
sul primo corre la musica, sempre più ricercata,
innovatrice e futuristica;
sul secondo il rapporto umano fra i tre che viaggia
verso la separazione, a causa della difformità di
vedute artistiche e, ovvio, del bisogno d’espressione
di ciascuno.
Il motivo della rottura è da ricercare, a mio parere,
nelle personalità dei tre, forti e diverse. Summers e
Copeland avevano, ed hanno, personalità
accentuatissime, estrose, troppo geniali e bisognose
di esprimersi per piegarsi a quella di Sting
(compositore dei maggiori successi e capolavori),
altrettanto creativa. E lo spilungone di Newcastle, del
resto, non intendeva più scendere a compromessi
creativi con altri.
Con “Zenyattà Mondatta” lo stile si rinnova, cambia.
Per molti è l’album commerciale della band, quello
fatto per vendere.
Non è vero.
“Zenyattà” è disco portatore sano di novità, di
evoluzione. È la svolta. Se i Police avessero
continuato sulla strada del Reggae-Rock si
sarebbero ripetuti, autocelebrati.
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Hanno avuto invece la lungimiranza ed il coraggio
di guardare in là, oltre i tempi, ed anticipare suoni,
stili e sound che di lì a poco avrebbero conquistato
il mondo.
Certo, le hit sono di facile presa, Don't Stand So
Close To Me e De Do Do Do, De Da Da Da, ma
cosa dovremmo dire di Driven To Tears, Bombs
Away e Behind My Camel? Tutt’altro che
‘commerciali’.
Allora “Zenyattà Mondatta” ha avuto la capacità di
sintetizzare le richieste della casa discografica,
ammesse dallo
stesso Copeland, e
la vorace vena
sperimentale dei tre
pseudo-biondi.
E “Ghost In The
Machine” (A&M
1981) ha colto i frutti
dei semi sparsi nel
precedente LP.
Siamo ormai in un
altro universo
sonoro. L’elettronica sta conquistando il mondo del
Rock ed i Police, che avevano già sperimentato in
questo senso proprio in “Zenyattà Mondatta”,
l’album ‘commerciale’, danno prova d’essere pronti
all’ennesima sfida. Il titolo è ispirato, d’altronde,
all’omonimo libro del 1967 dello scrittore ungherese
Arthur Koestler, dedicato alla presenza, sempre più
assidua, dell’elettronica nella società moderna.
Per il quarto capitolo della storia entra in scena
anche una figura chiave del nuovo sound, il
produttore Hugh Padgham – fino ad ora i dischi
erano stati coprodotti dalla band e da Nigel Gray –,
già con Phil Collins, che dà agli ultimi due 33 giri un
suono profondamente dinamico e caldo, fuori dal
tempo, ‘avanti’. Tanto che ascoltando quei
dischi, ancora oggi, si fatica a confinarli in un
preciso periodo storico. Non accade con i
primi tre.
Al lavoro di Padgham si aggiunge il cambio
della sede di registrazione.
Il team si trasferisce infatti agli Air Studios di
Montserrat, proprietà di sua maestà George
Martin, produttore dei Beatles.
Ma il merito primario, ovviamente – era allora
fondamentale, anche se per poco ancora, la
personalità musicale degli artisti – è quello delle
menti e delle mani che registrarono su quei nastri.
Il nuovo corso musicale dei Police si caratterizza
per soluzioni ritmiche moderne ed essenziali, suoni
raffinati ed attuali – ieri ed oggi –, un utilizzo più
accentuato dell’elettronica e, in generale, per una
nuova maniera di procedere agli arrangiamenti,
scarni e sobri.
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I solchi più luminosi sono
Spirits In The Material World,
Every Little Thing She Does Is
Magic, Invisible Sun, Secret
Journey, Darkness.
Gli ultimi due, come spesso
accade, i meno ascoltati ma
certamente fra i più validi
esempi dell’arte policiana.
Mentre le prime due prove discografiche
The Police
Gli Alfieri dela
contaminazione
New Wave.
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contenevano testi legati per lo più al tema dell’amore,
della solitudine o dell’alienamento sociale – creando
così un forte contrasto tra questi argomenti e gli stili
adoperati. Reggae e Punk erano praticamente
sempre veicoli di denunce sociali –, da “Zenyattà
Mondatta” in poi si fa sempre più presente un certo
impegno sociale (Driven To Tears, Bombs Away),
pur evitando, intelligentemente, lo schieramento
politico.
In “Ghost In The Machine” ritroviamo invece
riferimenti sociali diretti almeno in Spirits In The
Material World, Invisible Sun, Too Much Information,
Rehumanize Yourself e One World (Not Three).
Si può probabilmente affermare che questo sia
l’album dall’impegno sociale più accentuato, dove lo
sguardo alla realtà ed alla società è più profondo ed
incisivo, e, in alcuni casi (Invisible Sun) riferito ad un
preciso contesto politico.
Tra la realizzazione di “Ghost In The Machine” e
quella di “Synchronicity” trascorre un anno e mezzo,
periodo inusuale visti i ritmi seguiti dal trio fino al
quarto LP.
È forse il segnale di una crisi interna.
I tre musicisti, oltre all’impegno live, cominciano a
dedicarsi ai propri progetti solisti.
Andy Summers intraprende la collaborazione con
Robert Fripp, da cui nasceranno “I Advance Masked”
nel 1982 e “Bewitched” due anni
più tardi.
Copeland, invece, che aveva già
pubblicato nel 1980, sotto lo
pseudonimo Klark Kent, un album
essenzialmente solistico di
canzoni a metà tra il Reggae-Rock
ed il Punk-Rock, si dedica alla
composizione della sua prima
colonna sonora.
Si tratta della musica per
“Rumblefish”, film di F. F. Coppola del 1983.
E anche Sting è impegnato nel cinema, come coprotagonista
nel film “Brimstone & Treacle”, e come
autore di buona parte della colonna sonora della
stessa pellicola.
Tra i brani scritti per quest’ultimo film, spiccano, tra
l’altro, quelli interpretati dal trio al completo:
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How Stupid Mr. Bates, A Kind Of Loving e I Burn
For You.
Nel giugno 1983, finalmente, la A&M pubblica il
quinto album da studio dei Police.
Una gemma dell’intera storia del Rock.
“Synchronicity”, a dispetto degli ormai algidi
rapporti fra i musicisti, è l’opera qualitativamente
più elevata della band, traguardo insuperato, e
probabilmente insuperabile, di quel percorso di
ricerca intrapreso sei anni prima.
Il 33 giri può essere interpretato, in un certo senso,
come un concept album, il cui trait d’union
possiamo rintracciare nella riflessione su argomenti
riguardanti la personalità umana ed il suo rapporto
con la società e con gli altri.
Il concept è, dunque, la psiche umana nelle sue
disparate manifestazioni.
Dal protagonista di Miss Gradenko, costretto a
nascondere la propria relazione sentimentale al
regime, all’ossessione di Every Breath You Take,
fino al serial killer di Murder By Numbers, passando
per il complesso d’Edipo di Mother.
Primo singolo ad essere pubblicato è Every Breath
You Take/ Murder By Numbers.
Il lato A è, assieme a Roxanne, il brano più
conosciuto del gruppo, anche se forse è trai i meno
meritevoli d’esserlo.
Il testo è quasi un capolavoro letterario ma la
realizzazione musicale lascia molte perplessità,
specie per un troppo accentuato ammiccamento
commerciale e un’infelicità d’arrangiamento. Non
fosse per il memorabile riff della chitarra di
Summers, e per un dignitoso middle eight, Every
Breath You Take sarebbe un
brano da stroncatura, almeno
per la parte strettamente
musicale.
Le vere punte di diamante del
disco sono invece altre, tra le
meno conosciute.
Synchronicity I e Synchronicity
II sono espressioni di un Rock
virile e robusto; O My God e Murder By Numbers i
brani più jazzistici, stupefacenti ritratti di Jazz-Rock à
la Police; Miss Gradenko, ‘rotolante’ e tensiva, una
fra le migliori composizioni di Copeland; King Of
Pain, Wrapped Around Your Finger e Tea In The
Sahara esempi tipici del livello compositivo e
musicale raggiunto dal gruppo, e dell’arte ritmica del
fondatore-batterista-compositore.
Un mese dopo la pubblicazione dell’album parte il
tour mondiale che tocca il Nord America, l’Europa e
l’Australia. È successo planetario, ma è anche la fine.
Il 4 marzo 1984 i Police tengono l’ultimo concerto allo
Showgrounds di Melbourne.
Da qui i tre si separano senza un’idea precisa sul
futuro. A lungo s’è parlato di reunion e nel 1986
sembrava arrivato il momento. Il redivivo trio incise,
però, solo una nuova versione di Don’t Stand So
Close To Me (a causa anche di un incidente
accaduto a Copeland) poi il nulla, i soliti greatest hits.
È ovvio, i fan non smettono di sperarci, per una
questione emotiva, ma, sul piano strettamente
musicale, cosa si poteva immaginare altro dopo
l’astrale “Synchronicity”?
1. Giovanni Pollastri, “The Police & Sting 1977-2005 Illegal Tales”, Editori Riuniti, Roma, 2005, pag. 10
Bibliografia:
Sting, “Broken Music”, tr. it. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2004
Giovanni Pollastri, “The Police & Sting 1977-2005 Illegal Tales”, Editori Riuniti, Roma, 2005
Marco Leopizzi, “L’evoluzione Stilistica In Un Gruppo Rock: Il Caso Dei Police (1977-1983)”, tesi di
laurea in Storia E Metodologia Critica Della Popular Music. Corso di laurea in Scienze Dei Beni
Musicali, Università degli studi di Lecce, a.a. 2005-2006
Sitografia:
http:// www.stewartcopeland.net
http:// www.stewartcopeland.co.uk/
http://www.sting.com
http://www.andysummers.com
http://www.henrypadovani.com
http://www.illegaltales.com
http://www.thepolice.it
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httThe Police
I Centometristi Dell’evoluzione Stilistica
di Marco Leopizzi
La vita
discografica dei
Police è stata,
come quella di
molti altri gruppi
rock, piuttosto
breve e
concisa,
essendosi
svolta in soli sei
anni, dalla
pubblicazione
del primo
singolo Fall
Out/Nothing
Achieving, nel
maggio del
1977, a quella
dell’ultimo
album,
“Synchronicity”, nel giugno del 1983.
Nonostante ciò, la band ha realizzato in quel breve
spazio di tempo un’interessante e fulminea
evoluzione stilistica, che può essere analizzata e
suddivisa in quattro diversi periodi, segnati da
particolari scelte formali, pur senza farne dei
compartimenti stagni:
1) 1977: Esordio Incerto. Il singolo Fall
Out/Nothing Achieving è figlio del progetto musicale
di Copeland ma, essendo ancora legato ad alcune
tendenze degli anni ’70, tradisce l’indecisione del
primo trio. È un periodo a sé, dai caratteri formali
solo apparentemente simili a quelli dei brani più
vicini al Punk di “Outlandos D’amour” o di
“Reggatta De Blanc”.
2) 1977-1979: Reggae-Rock. Dalla composizione
dei brani per “Outlandos D’amour” alla
pubblicazione di “Reggatta De Blanc”, un periodo
abbastanza omogeneo caratterizzato da un sound
molto energico e concreto, con uno spazio sonoro
spesso rarefatto, in cui sono ben evidenti due
influenze in particolare, il Reggae ed il Punk. Gli
elementi mutuati da questi generi sono prima
semplicemente giustapposti (con quella che
potremmo definire la prima soluzione compositiva),
in modo da
creare
l’alternanza,
all’interno dello
stesso brano,
fra sezioni
Reggae ed altre
di carattere
Rock o Punk. In
un secondo
momento, su
“Reggatta De
Blanc”, i tre
metabolizzano
la lezione del
Reggae che
scende più in
profondità nel
linguaggio
musicale tout
court e la prima soluzione compositiva viene
abbandonata. Nel nuovo metodo compositivo, che
potremmo quindi definire seconda soluzione
compositiva, il Reggae invade completamente il
pensiero musicale, e non si può più parlare di sezioni
nettamente diversificate.
Lo stile è comunque ancora Reggae-Rock, è stata
introdotta solo una differenza ad un livello
sotterraneo, quello della composizione. Nondimeno
compaiono ascendenze di natura Jazz e Soul.
Intanto, Copeland intraprende una ricerca personale
che mira ad elaborare nuovi tipi di ritmi da inserire
nell’ambito della Popular Music, e lo fa attraverso
una destrutturazione [1] della batteria, partendo dagli
spunti del Reggae. È uno dei massimi contributi del
trio, e del batterista in particolare, alla storia della
musica moderna.
3) 1980-1981: Svolta. Tra la realizzazione di
“Zenyattà Mondata” ed il relativo tour.
In quest’ultimo album è evidente la volontà di
staccarsi definitivamente dalla gabbia del Punk-Rock.
I ritmi serrati e al fulmicotone scompaiono lasciando
spazio a composizioni più elaborate, dal sound forse
meno immediato ma certamente più curato e
raffinato. Mentre la seconda soluzione compositiva si
raffina sempre più, l’elettronica, in linea con i tempi,
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The Police
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si fa maggiormente presente con synth, echo
machine applicata alla batteria (in realtà già
presente su Message In A Bottle e Reggatta De
Blanc), e con l’utilizzo più massiccio dello studio di
registrazione. Sting usa più frequentemente il
contrabbasso ed alcuni effetti sul suo strumento. Il
Reggae rimane ancora presente ma è sempre più
stilizzato e diluito all’interno della ritmica.
4) 1981-1983: Stile Maturo. L’ultima fase che
va dalla realizzazione di “Ghost In The Machine” a
quella di “Synchronicity”
La ritmica di Copeland si fa più asciutta ed
essenziale, con disegni ritmici apparentemente
semplici ma che spesso celano giochi d’ambiguità
tra battere e levare, mentre continua la
destrutturazione
nonostante
l’apparente ritorno
ad una scansione
più classica.
L’elettronica è ora
spesso base
costruttiva delle
composizioni, il
trio adopera
strumenti e
soluzioni
elettroniche, e la
figura del produttore comincia ad assumere
rilevanza decisiva.
Le parti dei singoli strumenti diventano sempre più
sfumate e fuse in un tutt’uno organico, oramai
inscindibile, quasi un composto chimico che
sciogliendosi perderebbe completamente il suo
significato. In questo periodo il principio artistico
diviene: ‘meno è meglio’.
Analizziamo ora solo alcuni dei momenti principali,
cercando, attraverso l’analisi di brani chiave, di
dare il senso dell’evoluzione.
Reggae-Rock
Can't Stand Losing You e So Lonely (entrambi su
“Outlandos D’amour”) sono i prototipi del Reggae-
Rock dei Police.
I due classici contengono in sé molti elementi
peculiari di questo tipo di brani, come l’inizio in
levare, il classico portamento ritmico della chitarra,
con gli accordi sui tempi deboli, la giustapposizione
di sezioni reggae ad altre rock – prima soluzione
compositiva –, scandite queste con un ritmo serrato
e nettamente binario, quelle con più elasticità e una
gran dose di groove.
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The Police
Simile è la struttura di
Roxanne.
«Originariamente scritta come
una bossa nova, alla fine si
evolverà in un tango ibrido. È
Stewart a suggerire di
accentuare il secondo quarto
delle battute con il basso e la
batteria, dando alla canzone la sua zoppicante
andatura argentina.» [2]
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Che la stesura originaria avesse un andamento da
bossa nova non v’è motivo di dubitarlo, visto che nel
riarrangiamento che Sting ne fece per il concerto al
Palagio del 11 settembre 2001 [sic] la chitarra
evocava proprio quel ritmo. E poi, il songwriter aveva
già allora il ‘vizio’ della
bossa.
In realtà Roxanne, più
che su un vero e
proprio Tango, è
composta su una
qualità ritmica della
musica rioplatense,
quella di provocare,
con la forte
disuguaglianza di
marcatura dei
movimenti, una sorta di
sospensione dell’andatura del tempo. Ha infatti un
incedere sincopato, rotto quasi dall’accento che
basso e batteria danno sul secondo movimento.
In effetti, al primo ascolto non si penserebbe affatto
ad un Tango, probabilmente grazie al geniale
contrasto delle due ritmiche sovrapposte, quella di
basso-batteria e quella di chitarra, che ripete
omoritmicamente gli accordi, in staccato, su ogni
movimento.
È il primo miracolo compositivo dei tre, che qui danno
prova delle loro originali idee, creando un vero ibrido,
tra Tango, Rock, Reggae e Jazz. Ma a differenza di
Can't Stand Losing You e So Lonely, qui le influenze
sono molto più abilmente velate e riorganizzate in
modo da creare un linguaggio del tutto nuovo, una
sorta di esperanto musicale.
L’armonia, di per sé semplice, viene impreziosita con
alcuni accordi dal sapore jazz, ma questa è solo la
più lieve ascendenza jazzistica.
La ritmica di chitarra riporta la mente, almeno al
primo ascolto, al solco precedente (So Lonely);
rimane, in effetti, il carattere del Reggae, specie per il
modo di eseguire gli accordi, con un suono staccato
e brillante e per le posizioni usate (in prevalenza
sulle prime tre corde).
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A ben ascoltare, però, gli accordi sono suonati su
tutti i movimenti, in luogo dei classici (nel Reggae)
secondo e quarto, e rigorosamente in battere. La
soluzione è probabilmente da ricondurre alla
tecnica di accompagnamento della chitarra nel Jazz
(elaborata da Freddy Green, chitarrista
dell’orchestra di Count Basie, nella seconda metà
Il ritornello è, invece – in linea con la famosa prima
soluzione compositiva –, in stile rock, con cori à la
Beach Boys o Beatles del periodo beat, voci chiare
e limpide, ferme quasi del tutto su una nota
dell’accordo.
Il secondo capolavoro è Message In A Bottle
(“Reggatta De Blanc”), ed anche qui siamo di
fronte ad un classico, uno dei portabandiera del trio
londinese, il brano che aprì ai Police le porte del
successo mondiale.
Il progresso nel lavoro di composizione è evidente,
qui il Reggae non è presente nella consueta
formula ritmica, costituita dagli accordi di chitarra in
levare, ma pervade il drumming di Copeland che, in
particolar modo nei break, in cui l’energico ritmico si
placa per poi riprendere ancor più vigoroso, si
Message In A Bottle è probabilmente il primo brano
interamente costruito con il metodo, conscio o
inconscio, della seconda soluzione compositiva, dal
momento che qui non si ravvisa più quel profondo
scarto stilistico al cambiare delle sezioni.
Roxanne, ritmica di chitarra
degli anni trenta), presente
peraltro anche in Can't Stand
Losing You e soprattutto, in
modo inequivocabile, nel brano
che segue Roxanne, Hole In
My Life.
Message In A Bottle, riff di chitarra
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The Police
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scatena in funamboliche variazioni ritmiche
d’ispirazione caraibica.
Netto è anche il miglioramento sul piano timbrico, i
suoni di chitarra sono molto più raffinati e ‘caldi’ di
quanto non fossero in precedenza, e Summers
utilizza una personale combinazione d’effetti, ma
soprattutto sfoggia il suo egregio gusto nel creare il
proprio suono. Un suono cristallino e dinamico al
contempo, ottenuto grazie soprattutto alla sua fedele
Fender Telecaster Custom del ’63, che oltre ad avere
già una particolare disposizione dei pick-up è stata
personalizzata dallo stesso chitarrista.
È la chitarra che sentiamo eseguire lo strabiliante e
famosissimo riff-arpeggio (scritto però da Sting),
questo:
La prima di queste è completamente occupata dal
riff, la seconda ha un andamento leggermente più
Rock, ma non può parlarsi di contrasto, sono al più
due declinazioni dello stesso verbo, non c’è quella
volubilità di mood sentita in Roxanne.
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Svolta
Don't Stand So Close To Me è in un certo senso il
ponte tra il vecchio (si fa per dire, in realtà si tratta
solo d’un biennio) ed il nuovo, un brano dal grande
successo inglese dove convive l’ispirazione
giamaicana con l’istanza di rinnovamento, anche
sul piano delle sonorità.
Summers infatti comincia a far largo uso della
chitarra sintetizzatore, la Roland G-303, che
permette di utilizzare suoni sintetici prelevati da un
sintetizzatore attraverso una normale (nella forma)
chitarra elettrica.
L’effetto è particolarmente evidente nel break di
Don't Stand So Close To Me, dove il chitarrista usa
questo strumento per disegnare lunghe distese
sonore, dando di fatto al brano un’ambientazione
decisamente moderna.
In quest’ottica “Zenyatta Mondatta” segna la svolta
nel sound del trio.
La strofa è costruita ancora una volta su un disegno
ritmico essenziale ma, in linea con lo stile
copelandiano, molto originale e frutto della sua
introduzione di nuovi ritmi nel Rock.
Si alternano infatti soluzioni con la ‘cassa in quattro’
(su tutti i movimenti) e il rullante (steccato) sul terzo
movimento, anch’esse mutuate dal Reggae, o la
cassa sul terzo e il rullante su primo e terzo.
Nel refrain, invece, il ritmo ritorna sulla classica
alternanza fra i due elementi base della batteria,
infondendo una
pulsazione
piuttosto
canonica, forse
anche troppo,
ma del resto
questo è un
album
‘commerciale’
no?
E se Don't
Stand So Close
To Me, assieme
a De Do Do Do,
De Da Da Da e
When The
World Is
Running Down
You Make The
Best Of What's
Still Around
[fiiuu!!!],
rappresenta il
lato ‘facile’ e ‘da
classifica’ del disco, Driven To
Tears, complice Bombs Away,
gli si contrappone certamente.
L’atmosfera cambia
totalmente, il sound si fa più
sofisticato nonostante la
sostanziale semplicità della
composizione, e ancora una
volta sono gli arrangiamenti a
far la differenza.
Il punto focale è il riff di basso, doppiato dalla
chitarra, mentre la cassa fornisce una continua
pulsazione.
Come abbiamo già notato in Don’t Stand So Close
To Me, il Reggae s’è oramai stilizzato e ridotto ai
tratti essenziali, specie ritmici, identificabili nel
drumming di Copeland e nella pronuncia di un
frammento della linea di basso nel refrain.
Per il resto questo è un brano piuttosto anomalo per
lo stile del trio, almeno per quello del periodo
precedente, difatti lo stile vocale di Sting è
nettamente diverso dal recente passato, prefigura già
quel canto morbido ed elegante dei lavori post-
Police, non più quindi acuti taglienti o vocalizzi
graffiati, ma un modo d’interpretazione pacato e dal
timbro seducente.
Anche la chitarra di Summers sembra diversa, sia nel
suono sia nello stile, ancora più asciutto del solito,
pochi accordi suonati poco ma al punto giusto.
Ma il vero colpo di genio è il solo di Summers in cui,
a dispetto della
commerciabilità del disco, il
chitarrista si produce in
poche frasi profondamente
dissonanti e disorientanti.
Il risultato è un assolo pieno
di pathos che, secondo
quanto affermato dallo
stesso chitarrista su “Guitar
Player” nel settembre del
1982, sarebbe ispirato al
testo del brano, questa volta
impegnato a cercare la
risposta alle atrocità del
mondo, o meglio, al perché
la nostra opulenta società
risponda a queste con «Too
many cameras and not
enough food».
Stile Maturo
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Fra i più efficaci brani di
“Ghost In The Machine” è
certamente Every Little Thing
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She Does Is Magic, uno dei più larghi successi di
sempre del trio, apparentemente solo una canzone
d’alta classifica e d’immediata comprensione.
Già, apparentemente.
La scrittura è, invece, piuttosto complessa, fuori
dalla media dei brani incontrati finora.
Soprattutto è da sottolineare la coraggiosa struttura
della composizione: considerando la forma
musicale di riferimento (canzone) risulta molto
interessante ed originale.
Già nel 1976 Sting aveva registrato nello studio di
Mike Howlett – il bassista dei Gong che tenne a
battesimo il trio – la prima versione di Every Little
Thing, fortunatamente pubblicata dalla Ark21 nel cd
del 1997 che testimonia appunto l’avventura del
progetto Strontium 90.
In questa versione si percepisce subito un
arrangiamento da Bossa Nova, sebbene molto
semplificato nell’armonia e nel ritmo, con quel tipico
incedere sincopato della musica brasiliana.
A ben ascoltare, anche la vena melanconica è
simile, carattere che però si perde nell’incisione del
gruppo, grazie al contributo di Summers e
Copeland.
Quel che rimane intatto – o quasi – è di natura
tematica e sono le melodie e le armonie, variate
solo in piccola parte.
Le grosse differenze sono dunque nel mood,
totalmente reinventato nella stesura definitiva del
’81 per renderlo vivace, e in una sezione introdotta
ex novo a cui è affidata la chiusura del brano.
Una delle migliori qualità del brano, come
dicevamo, è infatti la sua struttura, che con la
sezione aggiunta comprende strofa, ritornello,
middle eight (una sorta d’interludio, tipico delle
migliori composizioni di Sting ma anche della
canzone anglosassone in generale), un’altra strofa
diversa dalla prima e per finire una coda. Il tutto
collegato da una serie di ponti
degna del miglior ministro delle
infrastrutture.
In Every Little Thing She Does
Is Magic inoltre è
particolarmente marcato il
rapporto diretto tra musica e
testo, sottolineato da
modulazioni, allungamenti di
periodi, stili vocali differenti a seconda dei versi
intonati, etc.
Una caratteristica che accompagnerà tutto l’ultimo
periodo della band, facendosi sempre più concreta.
È questo difatti un altro dei caratteri di sviluppo della
musica dei Police.
Sul piano squisitamente musicale, invece, i fattori
d’innovazione emergono in tutta la loro lucentezza in
Invisible Sun e Secret Journey.
Ci limiteremo qui a parlare solo di quest’ultimo brano,
il vero capolavoro dell’album, nel parere di chi scrive.
Il sintetizzatore ha largo impiego, specie
nell’introduzione, nel determinare il colore della
composizione e nel disegnare ampi spazi
contemplativi, forse a dar rilievo al testo di Sting che
parla di un «viaggio segreto» alla ricerca di una «luce
nell’oscurità»; in realtà è ancora una volta la chitarra
di Summers ad eseguire i suoni sintetizzati.
Ma c’è anche un gran lavoro alla console, per ciò che
riguarda il missaggio e le varie dissolvenze che
s’incrociano nel corso del brano.
Un’atmosfera rarefatta e sospesa, squarciata solo dal
rullante e dagli accordi di Summers.
L’armonia non presenta particolarità rilevanti mentre
l’aspetto ritmico è invece particolarmente ricco: è
un’altra ispirata esecuzione del batterista, un’altra
invenzione onirica di quella mente fine del fondatore.
Già dall’inizio si manifesta l’attitudine alla
destrutturazione, con un altro ritmo molto particolare
che vale la pena trascrivere.
Secret Journey, ritmo di batteria bb.1-2 della prima strofa
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The Police
Gli Alfieri dela
contaminazione
New Wave.
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Come si vede, il secondo movimento è occupato
dalla cassa raddoppiata che lo fa confondere con il
primo, mentre il quarto, più convenzionalmente (si
fa per dire), dal solo rullante.
Ma questa non è l’unica particolarità ritmica del
brano, caratterizzato proprio dalla ricchezza di
soluzioni copelandiane.
Il secondo distico del ritornello, ad esempio, è
condotto senza rullante, formula sottrattiva divenuta
ormai vero e proprio stilema del batterista dopo
averci costruito su in intero brano, Bring On The
Night.
Neanche il tempo di capirlo e subito un altro colpo
di genio:
alla fine del secondo ritornello s’inserisce un break
caratterizzato da una dissolvenza incrociata che,
mentre sfuma la base, fa emergere una nuova
sequenza sintetizzata (sempre Summers) e il solo
ride di Copeland.
Poco dopo un’altra dissolvenza fa rientrare la base
che con un crescendo sfocia in un altro ritornello.
Un gioiello di produzione, ma non solo.
Il tempo sembra fermarsi in questa parte del brano,
ma in realtà continua a fluire nella mente, così che
il piatto di Copeland risulta ora in tempo 3/8 sul
sottinteso 4/4.
Del resto dopo solo quattro misure il 4/4 riaffiora
con il fade in e la poliritmia è ben ascoltabile.
Il nuovo ritornello è molto carico emotivamente, con
Copeland scatenato in mille variazioni sul rullante
fino alla dissolvenza finale che lascia il compito di
chiudere quest’opera d’arte a chi l’aveva aperta, la
chitarra synth di Summers.
E, infine, l’ultimo LP mette il suggello all’arte dei
Police, facendoli definitivamente entrare nella
storia, con un album che a distanza di ventitré anni
suona ancora attualissimo, e decretando, allo
stesso tempo, la fine del trio. Come ogni gruppo
rock che si rispetti.
“Synchronicity” è certo l’album più organico del
trio, il sound globale è omogeneo e coerente.
Lo stile, pur presentando ancora quella particolare
poliedricità cui siamo oramai abituati, è più
compatto e definito.
L’organicità di “Synchronicity” si riscontra, del resto,
anche sul piano tematico e lirico, giacché, come
abbiamo già avuto modo di affermare, è quasi un
concept album.
È quanto mai difficile e crudele scegliere un brano
da prendere in esame ed escludere gli altri.
Pazienza!
Scegliamo allora quello che forse non avrebbe
scelto nessuno, e che, addirittura, nemmeno gli
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stessi musicisti avevano
inserito nella versione originale
del vinile.
Murder By Numbers.
Il perché della scelta è presto
detto.
Questo è l’album più
stinghiano dei cinque, e, si sa,
il Jazz è sempre stato un
amore particolare per il cantante-bassista.
The Police
Gli Alfieri dela
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Murder By Numbers è il brano più intriso di Jazz di
tutta la produzione policiana, assieme ad altri
pregevoli b-side come Low Life, Flexible Strategies,
Once Upon A Daydream. E con questi rappresenta il
segno di un preciso indirizzo nella poetica del trio
che, lungi da diventare un gruppo jazz, avrebbe
probabilmente trovato in questa strada nuova linfa
vitale e nuovi stimoli da cui partire per inventare altra
musica.
L’ascendente in evidenza è dunque il Jazz, passione
di Sting e di Summers (che firmano assieme questo
gioiello), ma non di Copeland.
La verità è che la personalità musicale del fondatore
dei Police è troppo forte e personale per adagiarsi
sulle idee di altri o, peggio, per abbracciare in pieno
un solo stile musicale.
È probabilmente questo il motivo per cui Copeland
non ha mai suonato, in tutti i brani in cui avrebbe
potuto farlo, un vero ritmo jazz, ma ha sempre
inventato nuove soluzioni, in un’irrefrenabile spinta
creativa.
Questo non ridimensiona ovviamente il prezioso
ruolo degli altri due musicisti, mette solo in evidenza
ciò che, in realtà, si afferra fin dalle prime battute del
brano.
La composizione è infatti aperta da un’introduzione di
batteria, su un tempo apparentemente di 3/4.
È un’altra delle ambigue soluzioni ritmiche di
Copeland, che genererà un’impensabile poliritmia nel
momento in cui anche gli altri strumenti (qui si tratta
senza mezzi termini di un trio rock) cominceranno a
suonare.
L’idea di un normale 3/4 si sgretola in un istante,
quando l’entrata del contrabbasso e della chitarra
demolisce il tempo che ormai l’ascoltatore crede
definito.
I due blocchi sonori, batteria da una parte e
contrabbasso, chitarra e voce dall’altra, sembrano
suonare in due tempi diversi, con un effetto
poliritmico, ma in realtà è solo un’impressione.
La poliritmia è la sovrapposizione di più ritmi
organizzati in tempi diversi, ad esempio una voce in
4/4 ed una in 3/4, ma con la stessa indicazione
metronomica.
In Murder By Numbers, invece, non si può parlare di
poliritmia in senso stretto, dacché tutti suonano nello
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stesso identico tempo, un 12/8, molto evidente tra
l’altro nella parte di chitarra.
L’enigma è con ogni probabilità, come al solito,
un’invenzione di Copeland, che invece di suonare
un canonico 12/8, scandendolo in crome, lo fa
dividendolo, almeno sul rullante, in semiminime.
All’entrata degli altri strumenti, in un normale 12/8 ,
il batterista mantiene questo ritmo, generando così
un forte contrasto.
Ne risulta una figura ritmica
descrivibile come una terzina
di semiminime ripetuta
ciclicamente.
Il ritmo dell’introduzione infatti
è:
Murder By Numbers, ritmo di batteria bb. 1-4
Murder By Numbers, bb. 17-20
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The Police
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La chitarra di Summers, in particolare suona, uno
shuffle [3] ricco di swing, che definisce
inconfondibilmente il tempo sopraindicato e da al
brano quello speciale sentimento jazz.
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Tutto ciò provoca una forte tensione ritmica che si
scioglie solo nel ritornello dove il batterista si allinea
con il tempo degli altri.
La struttura, questa, volta è una semplice
alternanza tra strofa e ritornello, mentre le soluzioni
melodiche e armoniche sono quelle che ci lasciano
intendere un umore jazzy.
In conclusione Murder By Numbers, così come tutto
“Synchronicity”, rappresenta la limpida maturità
artistica dei Police, raggiunta dopo sei anni di
sperimentazioni e contaminazioni, con esiti storici e
seminali nella gran parte dei casi.
Non mancano i passi falsi e le prove non riuscite,
ma in un processo evolutivo così rapido, ramingo e
famelico è assai normale
imbattersi in una strada chiusa,
come anche eccedere
nell’avvicinamento a questo o
quel mondo musicale.
“Synchronicity” rimane,
dunque, la prova più organica
e di più alto spessore artistico
del trio, pur essendo stata
concepita in un’atmosfera che lo stesso fondatore
così ricorderà:
«The whole album was recorded in an unbelievably
bad atmosphere. We hated each others guts, and we
had no respect for each other.» [4]
1. Destrutturare significa scomporre per riorganizzare in modo differente, in questo caso la disposizione degli
elementi del set di batteria all’interno del disegno ritmico, specie rullante e cassa.
2. Sting, “Broken Music”, tr. it. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2004, pag. 283
3. Letteralmente «strascicato» (sottinteso ritmo). È tipico del Jazz e del Blues, provenendo probabilmente da
una danza degli schiavi neri americani che strascicavano i piedi per terra per ritmare i movimenti ed imitare,
forse, il rumore ritmico del treno in partenza.
Si trova in un tempo a suddivisione ternaria e la figura ritmica di base è costituita da una semiminima seguita
da una croma.
4. Intervista a Stewart Copeland pubblicata su “Revolver”, aprile 2000
Trascrizioni a cura di Marco Leopizzi
Foto dal sito www.thepolice.it
Bibliografia:
Marco Leopizzi, “L’evoluzione Stilistica In Un Gruppo Rock: Il Caso Dei Police (1977-1983)”, tesi di
laurea in Storia E Metodologia Critica Della Popular Music. Corso di laurea in Scienze Dei Beni
Musicali, Università degli studi di Lecce, a.a. 2005-2006
Sting, “Broken Music”, tr. it. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2004
Giovanni Pollastri, “The Police & Sting 1977-2005 Illegal Tales”, Editori Riuniti, Roma, 2005
Sitografia:
http://web.tiscali.it/andatta
http://www.angelfire.com/sc/Thorn495/Copeland/cpage.htm
http://gertonline.free.fr/scopeland-interview-en01.htm
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Rubrica
Suoni
(in)Versi
Il significato di Every Breath
You Take è stato spesso
frainteso,
considerandola una
bellissima (e in tal caso un
po’ svenevole) canzone
d’amore.
In effetti i versi
«Every breath you take
Every move you make
Every bond you break
Every step you take
I'll be watching you»
sono facilmente interpretabili come la
dichiarazione di eterna fedeltà all’amata, ma
lo stesso Sting ha più volte spiegato che il
sentimento nascosto dietro tali strofe non è
così limpido quale sembra.
Il vero soggetto del brano non è l’amore per
la donna, che s’è evidentemente allontanata,
ma l’ossessione per lei.
Ed il compositore raggiunge qui uno dei suoi
vertici lirici, dimostrando tutta la sua
competenza in materia letteraria.
L’ossessione è magistralmente resa sul piano
letterario in diversi modi:
con la figura retorica dell’anafora, la
ripetizione cioè delle parole «every» e «you»
rispettivamente ad inizio e a metà di ogni
verso della strofa.
Con l’allitterazione, altra figura retorica che
consiste nell’iterazione di fonemi in parole
diverse e vicine, in questo caso la lettera «k»
ed in misura minore la «m».
Ancora attraverso lo schema di rime,
praticamente tutte uguali per i primi quattro
versi di ogni strofa.
Ed infine con il refrain «I'll be watching you»,
replicato alla fine di ogni stanza e all’infinito
nella coda.
Fin qui il significante, ora il significato.
Every Breath You Take
ossessione o amore?
di Marco Leopizzi
Con le parole «breath» «move»
«bond» «step» «day» «word»
«game» «night» «vow» «smile»
«claim», Sting abbraccia per
intero la vita di una persona ed
ogni sua espressione, ed il
concetto finale è che il
protagonista osserverà sempre la
sua (o ex) donna.
L’umore
non cambia nel ritornello, mentre
il middle eight ci propone ancora
il tema dell’ossessione ma questa
volta a ruoli invertiti.
Per la precisione il ritornello recita quanto
segue:
«Oh can't you see
You belong to me?
How my poor heart aches
With every step you take»
mentre il middle eight:
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The Police
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«Since you've gone I've been lost without a
trace
I dream at night, I can only see your face
I look around but it's you I can't replace
I feel so cold and I long for your embrace
I keep crying baby, baby please»
Sul piano strettamente letterario permangono,
nell’ultima sezione, alcuni elementi formali,
come le rime baciate, il frequente uso del
pronome «you» e l’allitterazione, questa volta
del suono ‘i’ nel dittongo «ee», all’interno delle
parole «been» «see» «feel» «keep».
Anche la reiterazione di «I» ha il suo valore,
sebbene in inglese tale pronome vada sempre
esplicitato, perché indica con decisione una
narrazione in prima persona.
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Nonostante un analogo trattamento formale,
il cambio di significato è chiaro e chiarito in
particolare nel primo e nell’ultimo verso.
Si tratta, in realtà, ancora di ossessione ma i
ruoli sono indubbiamente invertiti, poiché la
vittima è ora il protagonista stesso,
perseguitato dall’ingombrante ricordo
dell’amata.
Se la continuità dell’ossessione è resa dai
medesimi mezzi letterari, il capovolgimento
dei ruoli è segnato da quelli strettamente
musicali.
Primo fra tutti un salto brusco ad una
tonalità lontana, seguito in ordine di
rilevanza da un’intenzione
dinamica molto marcata,
un totale cambio stilistico
nella parte di chitarra, un
canto disperato ed
energico di Sting ed il
ritorno di Copeland sui
piatti.
Alla luce di questa breve analisi letteraria è
ormai chiaro che il brano non è una semplice
elegia, piuttosto l’espressione di una turba
della psiche umana, l’ossessione appunto, che
ben s’attaglia al tema dell’intero album.
“Everyone Stares - The Police Inside Out”
«When you’ll watch this movie
you’ll be Stewart and the drummer
of the band».
Così, durante la presentazione del
dvd a Melpignano (Le) lo scorso
luglio, Stewart Copeland,
batterista e fondatore dei Police,
nonché cameraman e regista di
questo film-documentario,
introdusse il pubblico alla visione
del suo lavoro.
“Everyone Stares”, è un atteso
movie – come lo stesso autore lo
definisce – sulla storia di una delle
più grandi e celebrate band rock di
tutti i tempi.
La vicenda è quella di tante rockstar:
esordi nei piccoli e fumosi
locali, stadi stracolmi di fan,
autografi, resse, successo, grida
di vera e propria isteria, etc.
Fin qui tutto nella norma, si fa per
dire.
La vera novità introdotta dal regista è, invece, nella
modalità utilizzata per raccontare il tutto.
La seconda parte del titolo e la copertina la svelano
in modo efficace: “The Police Inside Out”.
Alla rovescia. Le riprese sono infatti effettuate con
una telecamera 8mm dallo stesso batterista. Nei
primi periodi di vita del trio, Copeland comperò una
telecamera con cui immortalare i magici momenti
che stava vivendo con i compagni di viaggio, certo
(Universal, ott. 2006)
di Marco Leopizzi
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non pensando un giorno di poterli
montarli fino ad ottenere un film.
Le riprese sono dunque spesso
realizzate da una prospettiva del
tutto inusuale per questo tipo di
lavoro, quella del musicista.
Le spalle della band ed i volti del
pubblico in delirio.
I fan appiccicati al finestrino
dell’auto su cui i tre cercano di
lasciare il retro di uno stadio, visti
dal di qua del vetro.
Insomma: “The Police Inside Out”.
Il movie comincia dal famoso tour
americano del ’78, con i concerti
nei piccoli club in cui il trio
ricevette i primi plausi ed i primi
successi, a dispetto della scarsa
considerazione in patria.
Attraverso gli spostamenti, via via
più comodi e lussuosi, ci si incarna
in una star, si vive la sua vita, si
scherza con i suoi compagni.
Copeland ripercorre alcuni momenti cruciali della
storia dei Police, come la prima conferenza stampa
a Los Angeles, il ritorno in patria e l’accoglienza
tumultuosa e inaspettata dei fan, il bombardamento
del Libano – il regista ha vissuto la sua infanzia
proprio a Beirut –, i tour mondiali in Egitto, Grecia,
Honk Hong, Brasile, Mexico.
Ma si concentra particolarmente, tuttavia, sul
periodo iniziale, quello che vede i primi passi della
band, l’affiatamento, il raggiungimento del successo.
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Poi tutto diventò più grande, enorme, inenarrabile
forse.
Non è un mistero che il fondatore dei Police sia
particolarmente legato a tale periodo, lo ha più volte
ribadito, e, del resto, negli ultimi anni l’atmosfera
all’interno del gruppo non era più la stessa.
Per realizzare il dvd Copeland si è avvalso delle
nuove tecnologie digitali, senza le quali non sarebbe
stato possibile recuperare quei vecchi nastri, con
registrazioni di massimo 3 minuti, selezionarli,
montarli, e soprattutto renderli qualitativamente
accettabili.
Lo ha fato anche grazie alla sua esperienza in
ambito cinematografico.
La sua attività giornaliera è oggi quella del
compositore di colonne sonore per film.
Nel passato ha collaborato con colossi come Francis
Ford Coppola e Oliver Stone, ha composto musiche
per balletti, opere, film, video giochi, e una miriade
di altre diavolerie.
www.stewartcopeland.net
C’è una parola in inglese,
serendipity, che racconta
la fortuna di trovare
qualcosa di valore senza
cercarla. È serendipity
scendere dallo stesso
treno della metropolitana
di Londra in un
pomeriggio del ’77 e,
dopo una risata per la
serie «quanto è piccolo il
mondo», sedersi davanti
a un caffé, dissipare – o
quasi! – ogni dubbio, e
disegnare il futuro di una
delle band di maggior
successo nella storia del
Rock. È così che Andy
Summers ricorda
quell’incontro decisivo
con Stewart Copeland e
spiega il titolo della sua autobiografia, “One Train
Later”. Se uno dei due avesse preso il treno
successivo forse i Police non sarebbero mai stati i
Police. Il libro, uscito lo scorso ottobre in Inghilterra
e in America (siamo in attesa della traduzione
Ora, questa sconfinata
esperienza è al servizio di un
prezioso documentario, utile
non solo agli amanti della
band ma anche agli studiosi,
ai musicologi che intendano
carpire i motivi di una così
fulminante ed incisiva carriera.
E la colonna sonora del movie
di un compositore di colonne sonore, nonché
Andy Summers - One Train Later
St. Martin’s Press, New York, 2006
di Paola Attolino
fondatore e batterista di una delle migliori rock band,
di che poteva consistere.
Dei brani dei Police ovviamente.
Sì, ma, troppo facile.
Copeland ha inserito anche altri brani, frutto di suoi
personalissimi remix dei pezzi cult composti dal trio.
Li chiama “Derangements”. Come dire, non è mai
passata la musica che vive nelle menti del presente.
italiana), si distingue per la straordinaria vivacità
espressiva e per lo stile narrativo molto
particolare: interamente scritto al presente – il
che regala immediatezza a ogni singolo passo –
è un’unica, lunga pagina di diario datata 18
agosto 1983. Quella stessa sera i Police terranno
uno dei loro ultimi concerti, forse il più
straordinario, quello allo Shea Stadium di New
York. Andy è consapevole che la band «is over»,
è finita. Ma la sua chitarra è ancora lì,
sopravvissuta a tutto: nascite e morti, matrimoni
e divorzi, affiatamento e litigi. La superficie
graffiata lì dove un tempo c’era il «bagliore
solare» della vernice sunburst lascia intravedere
il legno grezzo. Ma è pur vero che «le chitarre
nascono alberi […] arrivano nelle mani di chi le
suona ancora con la memoria di un albero […]».
La chitarra per Andy è «il suono dell’amore» e
questo amore si tocca in ogni pagina del suo
libro, un intimo, umoristico, appassionato,
disincantato racconto di una vita e di una carriera
straordinarie, zeppo di aneddoti gustosissimi,
soprattutto per chi è cresciuto a pane, nutella e
Police. Un’infanzia difficile, i primi passi nella scena
musicale londinese degli anni ’60, la fortuna –
realizzata col senno di poi – di aver jammato con
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The Police
Gli Alfieri dela
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New Wave.
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Jimi Hendrix, il successo sfiorato con gruppi come i
Soft Machine e i New Animals di Eric Burdon, il
sogno che arriva, fulmineo, a quasi 40 anni con
Sting e Stewart Copeland. Summers, classe 1942,
analizza con appassionato distacco il fenomeno
Police, cogliendone la vera essenza in quella
«special chemistry», quella magica intensità tra le
tre teste bionde – delizioso il quadretto di Kate, la
moglie di Andy, che sbaglia la dose di colore
regalando al chitarrista un’improbabile chioma
arancio-fuoco – che quando suonano insieme fanno
scintille, l’energia che si sprigiona dona alle loro
canzoni quell’unico, inconfondibile, irripetibile
Album Originali
1978 – OUTLANDOS
D’AMOUR (A&M)
Next To You
So Lonely
Roxanne
Hole In My Life
Peanuts
Can't Stand Losing You
Truth Hits Everybody
Born In The 50's
Be My Girl - Sally
Masoko Tanga
Stewart Copeland: batteria
e piano
Sting: voce e basso
Andy Summers: chitarra e
piano
Registrato ai Surrey Sound
Studios di Londra.
Prodotto da Nigel Gray e
Police
Pubblicato il 17 novembre
1978
1979 – REGGATTA DE
BLANC (A&M)
Message In A Bottle
Reggatta De Blanc
It's Alright For You
Bring On The Night
Deathwish
Walking On The Moon
Discografia
On Any Other Day
The Bed's Too Big Without You
Contact
Does Everyone Stare
No Time This Time
Stewart Copeland: batteria
e piano
Sting: voce e basso
Andy Summers: chitarra e
piano
Registrato ai Surrey Sound
Studios di Londra.
Prodotto da Nigel Gray e
Police
Pubblicato il 5 ottobre
1979
1980 – ZENYATTÀ
MONDATTA (A&M)
Don't Stand So Close To Me
Driven To Tears
When The World Is Running
Down You Make The Best Of
What's Still Around
Canary In A Coalmine
Voices Inside My Head
Bombs Away
De Do Do Do, De Da Da Da
Behind My Camel
Man In A Suitcase
Shadows In The Rain
The Other Way Of Stopping
Stewart Copeland: batteria
e piano
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«Police sound». Il libro –
corredato da una prefazione di
The Edge e da un brevissimo
ma intenso epilogo – finisce
non con la rottura della band,
ma con i Police che salgono
sul palco dello Shea Stadium:
« […] un boato, quasi la fine
del mondo. Ottantamila
accendini che ondeggiano nello stadio, un saluto
The Police
Gli Alfieri dela
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New Wave.
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infuocato. Come una preghiera, è ora, è per sempre.
Suono il primo accordo».
Le band finiscono. «La musica rimane».
Sting: voce e basso
Andy Summers: chitarra e
piano
Registrato ai Wisseloord
studios, Hilversum, Olanda
Prodotto da Nigel Gray e
Police
Pubblicato il 3 ottobre
1980
1981 – GHOST IN THE
MACHINE (A&M)
Spirits In The Material World
Every Little Thing She Does Is
Magic
Invisible Sun
Hungry For You (J'aurais tojours
faim de toi)
Demolition Man
Too Much Information
Rehumanize Yourself
One World (Not Three)
Omegaman
Secret Journey
Darkness
Stewart Copeland: batteria
Sting: voce, basso, synth,
sax
Andy Summers: chitarra,
Jean Roussel: piano
(Every Little Thing She
Does Is Magic)
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musicaround.net

Registrato agli Air Studios,
Montserrat, e ai Le Studio,
Quebec, Canada
Prodotto da Hugh
Padgham e Police
Pubblicato il 2 ottobre
1981
1983 – SYNCHRONICITY
(A&M)
Synchronicity I
Walking In Your Footsteps
O My God
Mother
Miss Gradenko
Synchronicity II
Every Breath You Take
King Of Pain
Wrapped Around Your Finger
Tea In The Sahara
Murder By Numbers
Stewart Copeland:
batteria, programmazioni
basi
Sting: voce, basso, piano,
synth, sax,
programmazioni basi
Andy Summers: chitarra,
programmazioni basi
(Mother)
Registrato agli Air Studios,
Montserrat
Prodotto da Hugh
Padgham e Police
Pubblicato il 17 giugno
1983
Raccolte e Live
1980 – THE POLICE SIX
PACK
1980 – THE POLICE
RADIO SAMPLER
1986 – EVERY BREATH
YOU TAKE - THE
SINGLES
1990 – THEIR GREATEST
HITS
1992 – THE POLICE
GREATEST HITS
1993 – MESSAGE IN A
BOX: THE COMPLETE
RECORDINGS
1995 – LIVE!
1995 – EVERY BREATH
YOU TAKE - THE
CLASSICS
1996 – GREATEST HITS
1997 – THE VERY BEST
OF STING & THE POLICE
THE POLICE
LA DISCOGRAFIA
di Marco Leopizzi
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The Police
Gli Alfieri dela
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New Wave.
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2000 – EVERY BREATH
YOU TAKE - THE
CLASSICS (DTS Digital
Surround Edition)
2002 – THE VERY BEST
OF STING & THE POLICE
2004 – EVERY BREATH
YOU TAKE (Deluxe Sound
+ Vision - 2CD + 1DVD)
2006 – MESSAGE IN A
BOX (+ libro) - ed.
Earbooks
Principali Collaborazioni
1978 – EBERHARD
SCHOENER -
FLASHBACK
1978 – EBERHARD
SCHOENER - VIDEO-
MAGIC
1982 – BRIMSTONE &
TRIACLE (o.s.t.) (A&M)
1990 – POLICE
ACADEMY - STRONTIUM
90
La musica…intorno alla musica
musicaround.net mensile di cultura musicale, on web da
Novembre 2006
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musicaround.net

Il seguente articolo
è la descrizione di
una video-intervista
del 2004 ad una
donna, ’Nzina di
Copertino, che mi
raccontò la
drammatica
esperienza del
‘morso’, vissuto da
fanciulla. In questo
documento
d’incredibile forza
drammatica, oggi
conservato presso
l’archivio di
Popular Music
dell’Università di
Lecce, accadono
fatti strani: in Nina,
un’anziana
spettatrice
dell’intervista, si
risvegliano d’un
tratto, tra le canzoni
intonate dalle figlie,
ricordi, traumi e
vissuti rimossi. O
forse solo nascosti.
Il documento è una
meravigliosa fonte
per chiunque nutra
interessi etnologici,
dall’antropologo
all’etnomusicologo,
che ritroverà le
melodie tramandate attraverso la tradizione orale da
madre in figlia, dagli albori della comunità cittadina
ad un passato prossimo che si allontana giorno per
giorno, minuto per minuto.
L’ambientazione è la casa di Nina e di fronte la
telecamera (l’operatore era, ricordiamolo, Francesco
G. Raganato, vincitore del Salento Film Festival
2006) siedono le tre figlie, la cugina Tetti e ’Nzina,
vicina di casa ‘pizzicata’ da bambina, che racconta
la storia.
’Nzina da Copertino
ovvero cronaca di un morso
di Emanuele Raganato
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Nzina da
Copertino
Cronaca di un
morso
musicaround.net
La scena si apre con
Mina, la più giovane delle
figlie, che intona alla
madre Nina, di 98 anni,
un tipico canto di lavoro
delle tabacchine. La voce
potente di Mina e il
ricordo improvviso di una
condizione ormai quasi
dimenticata, generano
una reazione
incontrollata in Nina, che
inizia a dondolarsi
nervosamente avanti e
indietro, manifestando in
volto l'incapacità di
fermarsi. Il movimento
continuo e la sofferenza
della donna ci
accompagneranno per
tutta la durata
dell'intervista, fra il
confabulare delle figlie
che continuavano a
domandarsi cosa in
realtà stesse accadendo
alla madre.
S’incontrano le comari,
vicine di casa, ma anche
compagne di fatica in
giovinezza. Il tempo
trascorso è molto, tanto
che la stessa Tetti stenta
a ricordare.
’Nzina comincia a
raccontare la sua storia: «Sta ’nfilammu tabbaccu a
n’anti la porta cussì, e m’ha catuta sobbra na
sacara!» [stavamo infilando il tabacco, vicino alla
porta, e mi è caduto addosso un serpente. n.d.a.].
L’occasione del ‘primo morso’ fu dunque lo «spiatu ti
na sacara» [sfiato di un serpente], che ugualmente
al ‘morso della taranta’ genera vari effetti tra cui
un’incontrollata frenesia.
’Nzina allora aveva quattordici anni e la sua prima
sensazione fu un male interiore, un’apatia ed una
stanchezza che la debilitarono anche nel fisico.
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64
musicaround.net

Aveva un colore giallastro, si temeva il peggio per la
bambina, «malaria ticianu» [malaria, si diceva].
Quando Don Oronzo Petito, medico locale, le fece
una puntura contro la malaria, ’Nzina, per il dolore,
saltò e s’appese a una di quelle zanzariere che in
altri tempi ricoprivano il letto. Era il 1937. Si
cominciò a pensare che la causa del male fosse
un’altra…
Tra lo sgomento dei presenti qualcuno consigliò:
«chiamati li sonatori» [chiamate i suonatori], «è
taranta», dicevano altri. Così fecero i genitori di
’Nzina.
Le chiesi se avesse ballato. «Ballai? to giurni e do
nuetti!» [Ballai? due giorni e due notti!], ci racconta,
livida in tutto il corpo, e lo fece finché S. Paolo non
le concesse la grazia. Il 29 giugno dello stesso anno
’Nzina fu portata nella cappella a Galatina.
Lo spettacolo in chiesa era surreale, dice ’Nzina, «ia
ulutu cu ’biti, figghiu mia!» [avrei voluto che vedessi,
figlio mio!].
Intanto Nina, l’anziana donna di 98 anni, nella
stanza di fronte aveva iniziato ad agitarsi in maniera
più violenta. Non mi è stato permesso di entrare
nella camera, ma lo spettacolo che vedevo dalla
porta socchiusa è stato una sorta di viaggio onirico
nel mondo che ’Nzina stava raccontando: vedevo
Nina, con una lunga camicia da notte bianca e con i
capelli appena sciolti che cercava di buttarsi per
terra.
Le figlie Teresa e Tetti, sbigottite, parlavano tra loro:
«per favore, ’itimu ci la azzamu, sa stisa a ’nterra!»
[Per favore, cerchiamo di alziamola, si è stesa per
terra!], e ancora «na Matonna mia!» [Madonna
mia!].
«Quannu era l’auru annu ti inia ’ndretu» [L’anno
successivo il fenomeno si ripeteva]: così ’Nzina
procede il racconto.
Il ‘morso’ tornava, dunque, l'anno successivo, nello
stesso periodo in cui si era verificato il primo, ma
l’elemento interessante stavolta è la confessione
che ’Nzina ci fa nel dirci che quell’anno, mentre
raccoglieva una pera, fu pizzicata da uno scorpione
[scarpione, nel dialetto di Copertino], e l’anno dopo
ancora «spiatata da una sacara» mentre raccoglieva
le more.
«Tice ca gli alimali ni attiranu» [si dice che gli
animali siano attirati da noi], e ciò finché il Santo non
concede la grazia, cosicché ogni anno, nella stessa
stagione, ’Nzina aveva paura di andare in
campagna per timore di incontrare ancora animali. E
tornava ogni anno a debilitarsi nel fisico.
Il ciclo coreutico di ’Nzina aveva molto in comune
con quelli descritti da De Martino, ma un anno, in
particolare, ricorda di aver preteso, mentre ballava,
un paio di forbici per tagliarsi i capelli. Dopo
insistenti richieste gli furono
date le forbici, così si tagliò un
grosso ciuffo di capelli.
«Allu crei li capiddrhi no
parianu ti do mi l’ia tagghiati! »
[Il giorno successivo non si
capiva da dove avessi tagliato
i capelli]. Poi si stendeva a
terra e ballava sotto le sedie.
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Nzina da
Copertino
Cronaca di un
morso
musicaround.net
Vari erano i suonatori copertinesi addetti alla cura
domiciliare, in genere l’organico era costituito da un
uomo alla fisarmonica e una donna al tamburello.
Quando il suonatore di ’Nzina morì fu subito
chiamato Pino, un altro suonatore. Ma «sunà
sunà...ma iò nu ’ballà!» [suonava, suonava ma io
non ballavo!]. Pino era da poco tornato dall’aratura
e, appena seduto a tavola per mangiare un
boccone, fu chiamato in tutta fretta per correre a
casa di ’Nzina. In preda all’istinto e alla stanchezza,
Pino bestemmiò San Paolo. Il Santo stesso
comunicò il fatto a ’Nzina, impedendole di ballare
con la musica suonata da quell’uomo.
Mentre si racconta che era proibito avvicinarsi con
vesti colorate, poiché spesso suscitavano
l’avversione delle tarantate, Teresa ricorda di un
altro caso copertinese di ‘morso’, quello di Paola ti li
Pigni, condannata a servire latte alla serpe che
l’aveva spiatata, finché l’animale non fosse morto.
Ed ancora, il caso di ’Nzina ti la Muteddrha, sua ex
vicina di casa, della quale aveva vissuto
l’esperienza da vicino.
«Queddrha paru cu me!» [lei insieme a me!],
esclama subito ’Nzina.
La storia di quest’altra tarantata (’Nzina ti la
Muteddrha) iniziò quando la madre le impedì di
accompagnare un’altra tarantata a Galatina.
«L’annu prossimu ha ballatu eddrha» [l'anno dopo
ballò lei], spiatata anch’essa da una sacara, e
destinata a ballare, appesa a funi (ruagne), sul letto,
a volte con una bimba in fasce in braccio. «Ahi,
mamma!», diceva rivolta alla madre, «pi l'amore tua
sta ballu iò!» [sto ballando per colpa tua!].
E con questo si apriva un nuovo ciclo coreutico, che
terminava con la grazia di San Paolo e la visita della
tarantata alla cappella di Galatina. Il viaggio nello
scialabbà era fatto insieme ad altre tarantate che,
appena entravano nel feudo galatinese, iniziavano
ad urlare e ad agitarsi. Fino all’arrivo nella cappella,
da dove, ricevuta la grazia, si tornava al paese.
«Ci n’era tante a Cupirtinu» [ce n’erano tante a
Copertino], testimonia ancora ’Nzina con aria
malinconica...
Ma ad un tratto, un rumore improvviso fa accorrere
tutti i presenti nella stanza accanto. Nina non ce la
fa più e, divincolatasi dalle protezioni del letto, si
butta per terra. Sembrava ballasse...
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musicaround.net

Dicembre, mese legato ad archetipi
tradizionalmente riconosciuti, avvolge l’aria di
un’atmosfera festiva che non conosce pari durante il
ciclo dell’anno.
Le ricorrenze religiose legate nel nostro calendario
al dodicesimo mese sono numerose: dalle feste dei
santi quali Ambrogio, Nicola, Lucia, all’Immacolata
Concezione, all’Avvento, al giorno di Natale, per
concludere la fase nel mese successivo con
l’epifania, che «tutte le feste porta via».
Il Natale è una festa cristiana introdotta per scalzare
gli antichi usi pagani legati al solstizio d’inverno, la
notte più lunga dell’anno dopo la quale la ‘nuova
luce’ sarebbe tornata a vincere sulle tenebre.
La preparazione al Natale comincia molte settimane
prima, nel periodo dell’avvento. Anticamente, «nella
Roma paleocristiana adventus significava la venuta,
una volta all’anno, della divinità nel suo tempio;
quella venuta o presenza si protraeva per tutto il
periodo consacrato alla sua festa. Il nome assunse
poi anche il significato di visita dell’imperatore o di
anniversario della sua festa» 4 .
Nel corso dei secoli molte usanze si sono stratificate
una sull’altra rendendosi un’appendice inseparabile
della festa stessa.
Se tracciassimo un cerchio immaginario e volessimo
farci entrare solo gli aspetti legati alla sfera
musicale, riserveremmo del posto ad usanze che,
nonostante col tempo si perdano, prevedono la
formazione di bande girovaghe che cantando e
suonando portano messaggi augurali e richieste di
doni casa per casa. Nelle realtà metropolitane più
grandi non è semplice trovare gente che bussi alla
tua porta, anche se capita ancora, ma è importante
invece rilevare come questi usi si siano adattati al
contesto cittadino. Chi da bambino non è stato
avvicinato da qualche suonatore travestito da Babbo
Natale che, in cambio di qualche spiccio, offriva un
breve fraseggio melodico?
Molto spesso accade che questi suonatori
imbraccino uno strumento dal suono stridulo che più
di tutti rievoca nel sentire comune il suono di questo
periodo dell’anno.
4 A. Cattabiani, “Calendario. Le Feste, I Miti, Le
Leggende E I Riti Dell’anno”, Rusconi, Milano, 1988
Zampogna Non È Solo Natale
di Viviana Leo
66
Mi sono chiesta perché la zampogna fosse diventata
uno dei simboli musicali del Natale e, per questo, ho
indagato su fonti scritte, ma non contenta ho voluto
chiedere informazioni a chi la zampogna la suona
tutto l’anno.
Il risultato è stato un mito sfatato.
Intervistando Antonio Esperti, musicista e studioso
di tradizioni popolari, ho rilevato che la zampogna è
suonata anche durante gli altri mesi, che ha dei
connotati rituali che non riguardano solo la novena e
le questue ad essa connesse e, soprattutto, che il
periodo natalizio non è più importante degli altri. Si
suole collegare la zampogna al Natale perché, come
asserisce lo stesso Esperti, «dal ’600, nei presepi in
pietra policroma o in tante iconografie c’è anche lo
zampognaro» e dunque l’immaginario collettivo ha
sviluppato nei secoli l’associazione dell’idea
zampogna con quella dell’idea Natale.
Paolo Apolito in riferimento a questa credenza
afferma che «La zampogna in città è collegata al
Natale e ben venga questo collegamento in grado di
attivare antichi palpiti di memorie infantili. Ma la
zampogna non è solo Natale, essa ha un'autonomia
di repertorio, di ambito simbolico, di valore
comunitario, di tecnologia e capacità manuale che
va ben al di là dello spazio che a Natale le si riserva
in città.» 5
Proprio in riferimento alle caratteristiche
organologiche dello strumento (già espresse dal
dott. Raganato nella rubrica “Strumento Del Mese”
di questo numero), il contatto con l’esperienza
diretta di Esperti dà modo al lettore di capire lo
spirito con cui tale strumento è costruito. Alcuni
pastori sostengono che la zampogna sia una capra
che suona: non è difficile percepire, da questo dato,
l’alchimia che lega suonatore e strumento.
Con la scomparsa dei vecchi costruttori sta
scomparendo anche quella serie di ‘segreti di
bottega’ che rendevano ogni strumento unico.
5
www.avagliano.it/zampogne, ultimo acceso 28
novembre 2006
Zampogna
non è solo
Natale
musicaround.net
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66
musicaround.net

Da un lato prettamente fisico ed acustico è molto
difficile inserire la zampogna in organici con altri
strumenti melodici, sia per i problemi
nell’accordatura che non risulta molto precisa, sia
per gli alti volumi. Nonostante ciò lo strumento non
svolge solo ruoli solistici: in varie circostanze la
zampogna suona in coppia con la ciaramella e, in
alcune zone, è molto diffuso cantare sulla
zampogna (sebbene vi siano limiti fisici, che
prevedono l’uso di alcune emissioni vocali e
zampogne non troppo stridule).
Oggi suonare la zampogna è un dono che non si
riceve facilmente. Con la cultura pastorale va via via
scomparendo uno degli strumenti più magici, per
significati e simboli.
«Costruire una zampogna, suonarla, conservarla
implica capacità tecniche e sensibilità manuali
oramai quasi impossibili da coltivare, conservare e
trasmettere. La tecnologia contemporanea annulla
totalmente la manualità come risorsa umana: tutto
viene delegato a procedure automatizzate esterne
all'uomo. La zampogna invece obbliga ad una
coordinazione mano-corpo-orecchio-sensibilità
percettiva-intelligenza che oggi è estremamente rara
come risorsa umana.
Allora essa ci ricorda l'impoverimento di umanità
cui siamo sottoposti» 6 .
66
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
Zampogna
non è solo
Natale
musicaround.net mensile di
cultura musicale, on web da
Novembre 2006
musicaround.net
6
www.avagliano.it/zampogne, ultimo acceso 28 novembre
2006
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musicaround.net

Inizia a frequentare la banda comunale di Mesagne
(Br) a quattro anni. La sua formazione comincia
prevalentemente in questo ambiente, tra le lezioni
individuali, le prove di sezione, i funerali e le
processioni. Intorno ai quindici anni ha le prime
esperienze stagionali con alcune bande da giro
salentine.
Dopo aver conseguito il diploma in conservatorio si
dedica allo studio del clarinetto epirota, attraverso
una serie di viaggi in Grecia.
Collabora con Dora Stratou Theater di Atene, il
C.I.D. Unesco, la Biennale di Venezia ed altri enti
pubblici, associazioni e fondazioni culturali alla
realizzazione di progetti di valorizzazione delle
tradizioni popolari del meridione d’Italia e dei
Balcani.
Nel 2004 fonda un'associazione (MeridiaProduzioni,
oggi Meridia), il cui obiettivo è promuovere momenti
d’incontro reale tra anziani suonatori tradizionali e
giovani sperimentatori di questi stessi strumenti:
così sono nati incontri tra la zampogna a paro
messinese di Orazio Corsaro e le surduline; tra le
voci dei cugini Nigro, Federico Di Viesto e Giovanni
De Palma, ultimi depositari del mandolino alla
barbiere di San Vito dei Normanni, e il virtuoso
brasiliano Hamilton De Holanda; tra gli anziani
organettisti di alcune contrade della bassa Murgia e
di Villa Castelli e l'organettista genovese Filippo
Gambetta.
Altro percorso seguito è stato quello di coinvolgere,
in questi concerti, musicisti immigrati e residenti in
Puglia, o in Italia, come Fatmir Pireci con i suoi
qifteli e sharqi kossovari.
Promuovere una serie di ricerche sul campo, stage
e concerti con gruppi spontanei tradizionali del
basso Lazio, Cilento, Monte Sirino e Val d'Agri,
Arberia tarantina e cosentina, Sila greca e Trionto,
comunità montane tirreniche (da Paola a Cetraro),
alto Salento e bassa Murgia, messinese ed altre
realtà ricche di patrimoni simbolico-sonori unici.
Oltre che con suonatori tradizionali, interagisce con
le nuove realtà giovanili incontrando i cornamusisti
fiamminghi, Remi Decker e Maarten Decombel, ed il
piemontese Paolo Dall'Ara.
Esperti ha collaborato come clarinettista con Tonino
Zurlo, Canzoniere Grecanico Salentino, Andrea
Esperti, fratelli Forastiero, Emanuele Licci,
Intervista Ad Antonio Esperti
di Viviana Leo
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Zampogna
non è solo
Natale
Intervista ad
A.Esperti
musicaround.net
Giandomenico Caramia, Mario Salvi, Mimmo
Epifani, Redi Hasa, Vito De Lorenzi.
Viviana Leo: Quali sono stati gli stimoli che ti
hanno fatto avvicinare a questo strumento?
Antonio Esperti: La curiosità è nata quando
suonavo con la banda da giro di Ceglie Messapica
[provincia di Brindisi, n.d.a.].
Avevo 16 anni e feci due stagioni, più o meno da
maggio ad ottobre. Tante volte, soprattutto quando
eravamo in Irpinia, capitava di incontrare una coppia
di zampognari che apriva le processioni: partivano
dal paese per arrivare al santuario sulla collina. È in
queste situazioni che avvennero i primi incontri con
questo strumento al di fuori del periodo natalizio.
Spesso in Irpinia, in Molise e nel cosentino le lunghe
processioni d'agosto erano aperte da coppie di
zampognari, per me cosa quanto mai esotica e
magica. Sono state queste le prime occasioni di
vero contatto con il mondo pastorale della
zampogna.
Qualche anno dopo, durante una mostra fotografica
sui luoghi e gli uomini della Val d'Agri (il fotografo
era Pino Latronico) conobbi di persona il maestro
costruttore di zampogne a chiave Antonio
Forastiero.
Le mie domande crescevano. Mi chiedevo come
mai uno strumento così complesso fosse stato
generato dalla cultura pastorale, apparentemente
così semplice. La cosa è poi andata avanti man
mano che conoscevo i portatori, anziani suonatori di
zampogna. Tra i primi ci sono stati, come ti dicevo,
Antonio e Vincenzo Forastiero del monte Sirino, una
zona a confine tra la Val d’Agri, il Cilento e il Pollino
albanese. Dopo di loro ne sono venuti altri.
La prima zampogna che ho comprato è stata proprio
da Antonio Forastiero, ultimo costruttore di
zampogne giganti lucane. Il fratello Vincenzo dal ’33
suona le proprie zampogne a chiave per le
processioni e le questue del Cilento, della Val d’Agri,
durante le novene natalizie nella zona di Portici e
Napoli. Tramite loro la curiosità è cresciuta. Presi da
loro una zampogna a tre palmi e mezzo.
V.L.: Hai parlato di zampogne giganti: qual è
l’unità di misura di una zampogna?
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musicaround.net

A.E.: L’unità di misura che viene utilizzata per
valutare quantitativamente la lunghezza delle
zampogne, e quindi anche la tonalità, è il palmo.
Con il palmo si misura la canna sinistra, quella
d’accompagnamento (la cosiddetta ‘manca’), che va
dalla campana fino al foro del cestello in cui la
canna viene fissata. Le zampogne possono
misurare dai 3 ai 6 palmi.
Antonio forestiero è l’unico che in Lucania costruisce
zampogne da 6 palmi.
C’è anche un giovane costruttore, Fabio Tomassi,
nel basso Lazio, un ingegnere che ricostruisce le
zampogne tipiche del suo territorio e riesce a
fabbricarne anche di sei palmi; quella tipica lucana,
però, la fa solo Antonio Forastiero.
V.L.: Quanti tipi di
zampogne
esistono?
A.E.: Senza
andare molto
lontano, parlando
del meridione
d’Italia, ogni zona
ha una propria
zampogna. Per
zona non si
intende tanto una
regione quanto le
diverse realtà di
questi grossi
territori: a
seconda del
costruttore, delle
vallate, vi sono
scuole di
costruzione
diverse.
Per sommi capi
possiamo dire
che nei secoli si è
consolidata una
certa tradizione
nel basso Lazio,
Molise, Lucania,
zona salernitana.
La Calabria
presenta tante
zone molto
interessanti: sia
quelle dell’Arberia cosentina e tirrenico-ionica, che
hanno dei tratti comuni, sia quelle del centro-sud
calabrese, ossia la zona reggitana, da Catanzaro a
Reggio Calabria, che un po’ s’intersecano con le
costruzioni delle zampogne a paro messinesi.
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Le zampogne sono tante e si
sono modificate molto
lentamente nel tempo. In
alcune zone si sono
conservate così come erano
probabilmente costruite fino a
qualche secolo fa: in alcuni
laboratori sono presenti
campioni e matrici, su cui
vengono costruite le nuove zampogne, che
risalgono fino a duecento indietro.
Zampogna
non è solo
Natale
Intervista ad
A.Esperti
musicaround.net
V.L.: Ci spieghi quali sono le caratteristiche delle
zampogne a paro e di quelle a chiave?
A.E.: Mi piace pensare alle zampogne a chiave
come le zampogne del meridione
partendo dal basso Lazio,
Abruzzo, Molise, fino ad arrivare
in Lucania.
Poi ci sono le zampogne a paro o
zampogne soliste, senza chiave,
che sono quelle che vanno dal
Pollino albanese cosentino,
quindi dalla Calabria
settentrionale, fino al messinese.
Quelle a paro, come suggerisce il
termine, sono caratterizzate
dall’uguale lunghezza della ‘ritta’
e della ‘manca’, cioè del chanter
destro e di quello sinistro. Questo
aspetto le differisce da tutte le
altre zampogne a chiave italiane.
Infatti la tipica zampogna a
chiave ha il chanter destro più
corto del sinistro.
Il chanter sinistro che è quello
che dà la misura della zampogna,
solitamente è più lungo ed ha
funzioni di armonia e
accompagnamento, solitamente
su una terza. Sulla destra viene
suggerita la melodia nell’ambito
di una sesta. Nella zona
calabro-sicula ci sono queste
zampogne che, per alcuni versi,
sono quelle più arcaiche in Italia,
quelle che probabilmente sono
rimaste uguali a se stesse nel
corso del tempo. Invece in alcuni
territori in Molise, basso Lazio, col
tempo sono arrivate tante piccole modifiche
soprattutto sui materiali: ad esempio, le ance dalla
canna di palude sono passate alla plastica; questo
avviene proprio per andare incontro al problema
maggiore della zampogna che è quello
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musicaround.net

dell’accordatura. Sono strumenti estremamente
sensibili e capricciosi, croce e delizia dei suonatori.
C’è un detto tra i suonatori: gli zampognari passano
metà vita ad accordare la zampogna e l’altra metà a
suonare stonati.
V.L.: Ampliando il raggio di vista in quali altre
zone, anche estere, è presente la zampogna?
A.E.: La zampogna è presente in tutto il bacino del
Mediterraneo. Partendo dalla zona nord africana,
mediorientale, a salire per i Balcani, si taglia dentro i
territori polacco-fiamminghi, continuando sulla la
fascia atlantica che incrocia la parte celtica, per
proseguire verso le regioni galiziane, asturiane.
È un grande cerchio che abbraccia numerosi
territori.
V.L.: Quali sono le maggiori differenze tra la
zampogna italiana e le zampogne utilizzate negli
altri paesi?
A.E.: La zampogna italiana ha due canne forate, la
destra può eseguire una linea melodica e la sinistra
una linea armonica in modo indipendente.
Nelle altre zone del Mediterraneo ed europee le due
canne separate italiane si appaiano, e diventano
alcune volte un unico chanter forato, come per la
tradizione nord–europea-atlantica, con una
possibilità melodica espressiva più accentuata
perché l’intervallo melodico su cui può insistere la
melodia è più ampio, ed in alcuni casi si può anche
ottaveggiare. Dunque si ha un’unica canna forata
con dei bordoni che rimangono sulla quinta o
sull’ottava.
Dunque in questi casi entrambe le mani insistono su
una sola canna, a differenza di quella italiana in cui
rimangono indipendenti sui due chanter.
Con una sola mano la possibilità melodica rimane
molto più limitata, anche se questo è relativo perché
il parziale limite degli intervalli sulla destra è
compensato dalle possibilità d’accompagnamento
della sinistra.
Spesso in Calabria, in alcune aree come la zona
paolana (siamo sulla parte cosentino-tirrenica), ma
anche nel reggitano (zona di Reggio Calabria), gli
zampognari sono così bravi che acquisiscono una
tale indipendenza tra la destra e la sinistra, pari a
musicisti professionisti. Hanno la capacità di portare
avanti due linee, che non è tanto la linea
dell’accompagnamento che sostiene la melodia
suonata con la destra, ma diventano quasi due linee
melodiche indipendenti e cominciano, se vuoi, a
giocare, a proporre delle linee contrappuntistiche, di
piccole fughe popolari. Nella zona di Paola ho
notato questa maestria nell’arricchire
l’accompagnamento, tutt’altro
che lineare, con una sorta di
microvariazioni, abbellimenti,
acciaccature,
V.L: A quali funzioni rituali è
riconducibile l’uso della
zampogna?
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Zampogna
non è solo
Natale
Intervista ad
A.Esperti
musicaround.net
A.E.: Diciamo che i periodi più importanti per chi
suona, e chi chiama a suonare, la zampogna sono
quelli che vanno da carnevale a Pasqua, per durare
tutta l’estate, durante le feste patronali, fino alla
novena natalizia. A differenza di come si può
immaginare il periodo natalizio non è l’unico, né il
più importante, in cui si suona la zampogna.
La zampogna accompagna anche i passaggi
iniziatori, quindi, legati al battesimo, al
fidanzamento, al matrimonio. Tutt’ora in alcune
zone, come nell’entroterra reggitano, fa molto
piacere sposarsi con il suono delle tarantelle sulla
zampogna, tamburello e organetto a due botte
(strumento che ha via via scalzato le zampogne,
rimaste comunque molto apprezzate).
Chiaramente questa è una parte. L’altra è legata al
discorso delle liturgie di questi territori e alle feste di
origine pagana. Per farti qualche esempio possiamo
citare le feste di maggio o, se ci trasferiamo in
Basilicata, ad Accettura, la festa degli alberi durante
la quale gli arbusti sono tagliati, spostati in paese e
portati in piazza, al suono della zampogna.
V.L.: Questo avviene sempre a ritmo di
tarantella?
A.E.: Si, ma non solo. Ci sono anche delle basse
musiche, delle piccole fanfare improvvisate che
accennano anche pezzi di musica leggera, pezzi
anni ’60-’70.
V.L.: Qual è il rapporto con gli anziani suonatori
che hai conosciuto?
A.E.: Tendenzialmente gli zampognari parlano
poco. Ho diverse zampogne e per prendere l’ultima
sono andato nel paese tre volte. Prendevo
l’appuntamento col pastore e puntualmente non si
faceva trovare. Il giorno dopo tornavo a casa e lo
chiamavo «maestro, sono venuto e non vi ho
trovato». Mi dava un altro appuntamento e ritornavo
nel paesino, e non lo ritrovavo.
Capivo che in qualche modo quella persona mi
stava mettendo alla prova. Solo la terza volta arrivai
a casa e trovai una sorpresa: la sua tavola era
imbandita, con tutti i nipoti, gli amici, e per tutta la
notte continuarono ad arrivare altri zampognari. E
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musicaround.net

difatti mi vendette una delle sue zampogne che, per
il valore affettivo ed intrinseco di costruzione dello
strumento, posso definire pezzo unico e non raro
perché non se ne fanno più.
V.L.: Qual è il rapporto tra queste persone e la
musica?
A.E.: Una volta Forastiero allestì una piccola mostra
di sue zampogne e ciaramelle e gli chiesi «Maestro,
ma queste zampogne in che tonalità sono?» e lui
«Vossignoria siete il maestro. Io di musica non ne
capisco niente!». Non conosceva neanche una nota!
Fu questa una delle frasi che più mi sconvolse e che
mi portò a frequentare non solo le sue montagne in
Val d'Agri, ma anche altri costruttori e suonatori nei
territori del cosentino ionico, dell'Arberia e della
costa tirrenica. Era, ed è, per me entusiasmante
ritrovarmi davanti ad un vero e proprio mondo
antico, davanti a enormi competenze fisicoorganologiche
e magiche. Era curiosissimo notare
che questi anziani uomini taravano le proprie
zampogne sul proprio orecchio e il proprio corpo!
Non ho mai trovato nelle botteghe dei costruttori più
anziani un diapason, una tastiera, un
accordatore...qualcosa che potesse aiutarli nella
difficile foratura del legno.
V.L.: Oggi non ci sono molti costruttori?
A.E.: Non ne ho conosciuti tantissimi. Per ora mi
sono soffermato sulla zona cosentino-potentina con
incursioni in altre zone. C’è però tutta la zona di
Catanzaro, Reggio Calabria, quella del messinese
che merita davvero di essere conosciuta a fondo
perché ha ancora tantissime sorprese.
I vecchi costruttori sono morti tutti purtroppo. Le
zampogne sono strumenti che hanno bisogno di
anni per essere costruiti: dalla ricerca delle canne di
palude per le ance, fino alla scelta e stagionatura
dei diversi legni. Questi sono strumenti che
dovrebbero costare un occhio della testa se si
dovessero quantificare nelle ore di lavoro. Di fatto
questo non è. Però, prima di darti lo strumento, devi
dimostrare a quella persona che tu effettivamente lo
meriti.
Per raccontarti un aneddoto ti dico che una volta
uno dei più grossi costruttori di surduline calabresi
mi disse «Tunì, ho visto che sei una persona
educata e che meriti questo strumento, quindi ti
faccio questo regalo»; diciamo che questo è
l’andazzo della cosa. Oltre ad Antonio e a suo
fratello Vincenzo, ho conosciuto altri grandi maestri
costruttori, come il Maestro Bufanio Santino sul
Tirreno.
70
Zampogna
non è solo
Natale
Le sue surduline, zampogne
appartenenti alle zampogne a
paro calabro siciliane, dette
anche soliste, sono una sorta
di ibrido tra le gajde
kossovaro-albanesi, importate
a fine ’400 da Skanderberg, e
le antiche zampogne
indigene.
La loro raffinatezza e bellezza è pari a quella di
poche altre zampogne. Sullo Ionio, nel Trionto, vi
sono ancora tante altre famiglie di suonatori e
Intervista ad
A.Esperti
musicaround.net
qualche costruttore. Uno di questi è Luigi Nigro che
costruisce surduline in legno d'ulivo e pero selvatico
come si faceva un tempo: a coltello. È proprio
durante i lunghi spostamenti giornalieri con il suo
gregge di capre che può dedicarsi alle sue canne.
Come un po’ tutti i più bravi costruttori, anch’egli si
dedica alle ‘variazioni sul tema’, sperimentazioni
varie, con zampogne fino a otto canne o doppie
zampogne.
Le canne vengono inserite sempre in un unico
blocco, ma a seconda della tonalità in cui si vuole
suonare, vengono di volta in volta escluse due
canne forate: è come se fosse un’unica chitarra
elettrica ma con due tastiere!
V.L.: Come avveniva la costruzione di una
zampogna?
A.E.: Si prendevano dei tronchetti di legno trovati
sul territorio, dunque poteva trattarsi di ulivo, bosso,
acero (molto presente nella zona della Val d’Agri),
pero selvatico (presente nella zona di Rossano
Calabro), erica (per quanto riguarda il cosentinotirrenico
settentrionale).
Costruivano le canne col coltello e le foravano con
una punta rovente. Spesso erano strumenti non
perforati al meglio, dal suono irregolare, che
personalmente gradisco molto. Certo è che dal
punto di vista dell’affidabilità, non sempre era
possibile suonare con altri strumenti melodici.
Da qualche decennio con il tornio si riesce a
costruire zampogne più intonate e, utilizzando ance
di plastica, si riescono a costruire strumenti da
concerto, come ci dimostrano alcuni suonatori nel
Molise e nel basso Lazio.
Mi piace molto l’aspetto alchemico, un po’ magico.
L’infinita attenzione del pastore zampognaro
costruttore di zampogne ai cicli delle stagioni,
all’albero: non viene mai tagliato mezzo ramo in più
di quello che non serva per la zampogna. Diventa
zampogna la capra alla quale tu sei più affezionato.
Qualcuno obietta che vengono ammazzate le capre,
ma io credo che non ci siano animalisti più attenti
dei costruttori di zampogne. Una volta uno di loro,
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71
musicaround.net

un cosentino, mi disse che solo la capra a cui tu sei
affezionato, e che in qualche modo hai scelto da
quando è nata, o che ti ha scelto lei stessa perché
magari si presentava più robusta, con un bel pelo,
solo quella può meritare di vivere con la zampogna.
Nella zampogna continua a vivere l’anima della
capra che tu hai scelto di attaccare ai legni.
I pastori vanno nei propri boschi, foreste, per
segnarsi gli alberi che andranno ad utilizzare per
costruire lo strumento. Ad esempio se hanno
bisogno di una campana in ciliegio, vanno a vedere
l’albero e, quando diventa della grandezza giusta,
tagliano il pezzo che serve e utilizzano solo quello.
V.L.: Il canto sulla zampogna è molto diffuso?
A.E.: Ho visto cantare sulla zampogna in diverse
zone. Possono essere canti religiosi, come ad
esempio per la novena natalizia, oppure pezzi sulla
zampogna improvvisati, in rima. Spesso le feste
patronali, le processioni ai santuari calabro-lucani,
sono occasioni per fare questi capannelli, quindi per
improvvisare sulla zampogna. Molte volte succede,
come ho avuto modo di vedere nella zona
cosentino-tirrenica, che non vi sia un canto sulla
zampogna, ma un canto ‘contro’ la zampogna, cioè
una specie di sfida tra lo zampognaro e il cantore, a
chi riesce ad imporre sull’altro la propria melodia e il
proprio ritmo, incastrandosi, dandosi a turno il
cambio, rincorrendosi. Per esempio nella zona di
Paola, sempre nel cosentino-tirrenico, come in tante
altre zone, il cantore entra con delle strofe
improvvisate, dando il buongiorno, il ben trovato, e
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72
musicaround.net
71
suggerisce allo zampognaro,
cantando, di stare zitto con il
suo ritmo per lasciare spazio
al cantore che gli avrebbe
fatto sentire come si fa
musica. Quindi, mentre lo
zampognaro ascolta la frase
cantata, continua con il
proprio tempo quasi non
voglia far cantare il cantore.
Poi le due melodie si
incrociano, indipendenti l’una
dall’altra, fino a quando si assestano e lo
zampognaro cominica a fare da bordone con i
Zampogna
non è solo
Natale
Intervista ad
A.Esperti
musicaround.net
chanter. Quando capisce che la strofa sta per finire
riprende con il ritmo che aveva lasciato.
V.L.: I volumi e le frequenze del suono della
zampogna creano una ‘selezione naturale’ tra le
voci che cantano sullo strumento?
A.E.: Ci sono molti cantori che usano la voce di
testa, che cantano sulla zampogna proiettando la
voce e ‘sfidando’ il volume dello strumento.
Altri cantano con un filo di voce come Vincenzo
Forastiero, e riescono a farlo perché chi li
accompagna usa zampogne più gravi (parliamo di 4
palmi o 4 palmi e mezzo), meno stridule, che
incrociano meno le frequenze di chi canta. Quindi, è
come se lo zampognaro stendesse un tappeto
sonoro su frequenze basse e riuscisse a lasciare
spazio alla voce melodica.
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
musicaround.net mensile di
cultura musicale, on web da
Novembre 2006

Puglia…
Bari - Società dei Concerti
di Bari
Teatro Kursaal Santa
Lucia, Musiche di W. A.
Mozart
direttore Giuseppe Lamalfa,
voce solista Angela Nisi
10 dic. 16.00 (guida
all’ascolto e incontro con gli
artisti) 17.00 (concerto).
Bari - Camerata Musicale
Barese
Sheraton Hotel, F. Liszt Les
Preludes
pianisti Vittorio Bresciani e
Francesco Nicolosi
12 dic. 21.00.
Bari - Fondazione Lirico-
Sinfonica Petruzzelli e Teatri di
Bari
Kursaal Santalucia, Cantate per
il Natale del ‘600 napoletano
direttore Antonio Florio,
Cappella della Pietà dè Turchini
14 dic. 21.00.
Bari - Società dei Concerti di
Bari
Teatro Kursaal Santa Lucia,
Musiche di W. A. Mozart, A.
Schnittke
direttore Sergio Monterisi, flauto
solista Antonio Narcisi
17 dic. 16.00 (guida all’ascolto e
incontro con gli artisti) 17.00
(concerto).
Bari - Fondazione Lirico-
Sinfonica Petruzzelli e Teatri di
Bari
Basilica di San nicola, I. Pizzetti
Assassinio nella cattedrale
direttore Piergiorgio Morandi,
Orchestra Sinfonica della
Provincia di Bari
22 dic. 21.00.
Musica Classica
Appuntamenti
Dicembre 2006
…e oltre
Bologna - Teatro comunale di
Bologna
Teatro Manzoni, P.I. Cajkovskij
Concerto in re magg. op. 35
per violino e orchestra,
Sinfonia n. 2 in do min op 17
Piccola Russia
direttore Daniele Gatti, violino
Salvatore Accardo, Orchestra
del Teatro comunale di Bologna
14 dic. 20.30
Cagliari - Teatro Lirico di
Cagliari
Cantate per la nascita del
Verbo. Il presepe napoletano
nella rappresentazione
musicale seicentesca e la
nascita della tarantella
Cappella della Pietà de’
Turchini, direttore Antonio Florio
12 dic. 20.30.
Cagliari - Teatro lirico di
Cagliari
W. A. Mozart La clemenza di
Tito: Ouverture, Concerto in la
maggiore per clarinetto e
orchestra K. 622, F. J. Haydn
Messa in re minore Hob.
XXII:11 “Nelsonmesse”
Orchestra e Coro del Teatro
Lirico
direttore Christopher Hogwood,
clarinettista Alessandro
Carbonara
22 dic. 20.30 - 23 dic. 19.00.
Catania - Teatro Massimo
Bellini
E. Humperdinck Hänsel
Und Gretel
direttore Fabrizio M.
Carminati
7 dic. 20,30 - 9, 10 dic.
17,30 - 12 dic. 20,30 - 14,
16, 17, 19 dic. 17,30.
Firenze - Teatro della
Pergola
Saloncino, F. Schubert Die
Schöne Müllerin op. 25 D
795
pianoforte Charles Spencer,
basso-baritono Thomas
Quasthoff
10 dic. 21.00.
Genova - Fondazione Teatro
Carlo Felice
Teatro CArlo Felice , A. Pärt
Cantus in memoriamdi
Benjamin Britten, B. Britten
Variazioni su un tema di Frank
Bridge, Saint Nicolas cantata
per tenore, coro e coro di voci
bianche op. 42
maestro del coro Ciro Visco
20 dic. 20.30.
Milano - Teatro alla Scala
G. Verdi, Aida
direttore Riccardo Chailly
Orchestra del Teatro alla Scala
7 dic. 18.00 - 10, 12, 14, 17, 19,
22, dic. 20.00 - 3, 5, 9, 12 genn.
20.00.
Milano - Fondazione Orchestra
Sinfonica e Coro Sinfonico di
Milano Giuseppe Verdi
Auditorium di Milano, J. S. Bach
Suite n° 3 in Re maggiore per
orchestra BWV 1068, A. Vivaldi
Magnificat in Sol minore RV
611, J. S. Bach Magnificat in
Re maggiore BWV 243
direttore Ruben Jais, Coro
Sinfonico di Milano Giuseppe
Verdi:
19 dic. 20:30 - 20 dic. 19:30 - 21
dic. 19:30.
Milano - Società del Quartetto
__________________________________________________________________________________________
73
musicaround.net

Conservatorio 'G.Verdi' , J.S.
Bach Oratorio di Natale BWV
248
I Barocchisti, Coro della Radio
Svizzera
direttore Diego Fasolis
19 dic. 20.30.
Napoli - Teatro San Carlo
G. Verdi Falstaff
direttore: Jeffrey Tate, Orchestra
e Coro del Teatro di San Carlo
2, 6 dic. 20.30 - 9 dic.18.00 - 12
dic. 20.30 - 15 dic. 18.00 - 17
dic. 17.00.
Napoli - Teatro San Carlo
R. Schumann, Das Paradies
und die Peri, oratorio profano
in 3 parti per soli, Coro e
Orchestra, opus 50
direttore: Jeffrey Tate, Orchestra
e Coro del Teatro di San Carlo
19 dic. 20.30 - 20 dic. 18.00 - 21
dic. 18.00.
Roma - Accademia Nazionale di
Santa Cecilia
Milano - Aperitivo In
Concerto
Teatro Manzoni, Jack
Dejohnette & Foday
Musa Suso, “From The
Hearts Of Masters”
Jack DeJohnette,
batteria e pianoforte;
Foday Musa Suso, kora
Jerome Harris, basso
elettrico, chitarre e voce
10 dicembre h. 11.00
Bari – “30 Anni Di Jazz” -
Centromusica J.S.O
Rossana Casale, "Omaggio a
Chet Baker"
14 dicembre -
centromusica@libero.it
Sogliano Cavour (Le) –
Locomotive Jazz Festival
Auditorium Parco della Musica -
Sala Santa Cecilia, Gounod
Faust: Balletto, Menotti
Concerto n. 1 in fa maggiore
per pianoforte e orchestra,
Musorgskij/Ravel Quadri d'una
esposizione (trascrizione per
orchestra)
Orchestra dell'Accademia
Nazionale di Santa Cecilia
direttore James Conlon,
pianoforte: Lorenzo Di Bella
9 dic. 18.00 - 11 dic. 21.00 - 12
dic. 19.30.
Roma - Accademia Nazionale di
Santa Cecilia
Auditorium Parco della Musica -
Sala Santa Cecilia, Weber
Oberon: Ouverture, Beethoven
Concerto n. 4 in sol maggiore
per pianoforte e orchestra op.
58, Mendelssohn Sinfonia n. 5
in re maggiore op. 107 "La
Riforma"
Orchestra dell'Accademia
Nazionale di Santa Cecilia,
direttore: Fabio Luisi, pianoforte:
Radu Lupu
Popular Music e Afroamericana
Appuntamenti
Dicembre 2006
Cinema Aurora, presentazione
Locomotive Jazz Festival
2007 e consegna della
cittadinanza onoraria a Paolo
Fresu.
14 dicembre Ore 19:00 (si
accede per invito)
16 dic. 18.00 - 18 dic. 21.00 - 19
dic. 19.30
Roma - Accademia Nazionale di
Santa Cecilia
Auditorium Parco della Musica -
Sala Santa Cecilia, (Concerto di
Natale per la Pace) Beethoven
Sinfonia n. 9 in re minore per
soli, coro e orchestra op. 125
Orchestra e Coro
dell'Accademia Nazionale di
Santa Cecilia, direttore: Fabio
Luisi
21, 22 dic. 21.00.
Torino - Teatro Regio
W. A.Mozart Il flauto magico
(Drammaturgia originale dei
dialoghi di Alessandro Baricco
commissionata dal Teatro
Regio)
direttore Fabio Biondi, Orchestra
e coro del Teatro Regio
12, 13, 14, 16 dic. 20.00 - 17
dic. 15.00 - 19 dic. 20 - 20 dic.
15.00 - 21 dic. 20.00 - 22, 23, 24
dic. 15.00.
locomotive@locomotivejazzfesti
val.it
Lecce - JazLe
Teatro Paisiello, Rita Marcotulli
- Andy Sheppard, “On The
Edge Of A Perfect Moment”
Rita Marcotulli, piano; Andy
Sheppard, sax tenore e
soprano.
15 dicembre 2006
Locorotondo (Ba) – Antiphonæ
Jazz 2006
Auditorium Comunale, Antonio
Dambrosio Ensemble
15 dicembre h. 21.00
Matera - Gezziamoci - XIX
Edizione
Auditorium Comunale, Paolo
Fresu Quintet
__________________________________________________________________________________________
74
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Paolo Fresu, tromba; Tino
Tracanna, sax; Roberto Cipelli,
pianoforte;
Attilio Zanchi, contrabbasso;
Ettore Fioravanti, batteria
16 Dicembre h. 21.00
Matera - Le Monacelle
Seminari Di Musica D'insieme
con Paolo Fresu, Tino
Tracanna, Roberto Cipelli, Attilio
Zanchi, Ettore Fioravanti
14 – 15 dicembre
iscrizioni: Onyx Jazz Club
0835/330200 –
info@onyxjazzclub.com
Matera - sala conferenze Le
Monacelle
Presentazione Aperitivo Del
Libro “Paolo Fresu – Talkabout”
Collegno (To), Gennaio -
Maggio 2007, 1° Corso per
Direzione di Banda; docente
M° Lorenzo Della Fonte. Info:
Banda musicale di Collegno, tel.
338 5340137,
info@orchestrafiaticollegno.it,
www.orchestrafiaticollegno.it.
Napoli, Orff-Schulwerk
Italiano, Seminari di
aggiornamento per
insegnanti; 20-21 genn., 17-18
febbr. S.Oetterli: Ritmica,
Improvvisaz., Solfeggio Jaques-
Dalcroze; 27-28 genn.
F.Esposito: L'Orff-Schulwerk:
istruzioni per l'uso; 24-25 febbr.
C.Paduano: Musica dal corpo
10-11 mar.M.Sanna: Le parole
del corpo; 24-25 mar.
P.Donadio: Voce e vocalità nel
Biografia a due voci
di Luigi Onori, collana New Jazz
People
16 dicembre h. 11.30
Bari - Le Voci dell'Anima
Chiesa di San Francesco
d’Assisi, Sheik Ahmad Al-Tuni
in “Canti sufi dell’Alto Egitto”
Japigia - Bari
17 Dicembre h. 20.30 (ingresso
libero)
Bari - Le Voci dell'Anima
Chiesa S. Paolo, Vinicio
Capossela in “Non C’è
Disaccordo Nel Cielo. Offertorio
Natalizio Per Strumenti
Inconsistenti.” Prima nazionale
Musica Classica
Annunci
Dicembre 2006
bambino. Info:
filippo.esposito@email.it;
http://www.teatrodiana.it.
Sesto Fiorentino (Fi), Corso di
Tecnico Qualificato in
Musicoterapia, corso Biennale
per Tecnico Qualificato in
Musicoterapia riconosciuto dalla
Regione Toscana.
www.musicaround.net
La musica…intorno alla musica
Per i tuoi Annunci contatta la redazione all’indirizzo mail
Musicaround.net@tele2.it oppure chiamacci al 389.9956379
19 dicembre h. 20:30 (ingresso
libero)
Bari - Le Voci dell'Anima
Chiesa Mater Ecclesiae,
Yasmin Levy in “La Juderia”
Poggiofranco Bari
20 dicembre h. 20.30 (ingresso
libero)
Bari - Nord Wind, via Giannone
18
Floating State (rock
progressive)
5 gennaio 2007 h. 21:00
Bari – “30 Anni Di Jazz” -
Centromusica J.S.O
Mario Rosini, "omaggio a Mina"
11 gennaio -
centromusica@libero.it
Scade il 27 dic. Inizio
lezioni gennaio 2007.
Info: 346 4922417; 338
7335987;
www.sestoidee.it.
Riccione, Musicando
2007, 10-13/maggio
2007. Meeting di cori
giovanili, V edizione. Un
festival della coralità per
cori giovanili, scolastici e
associativi. Laboratori corali:
gospel, polifonia, musiche dal
mondo, stage di propedeutica,
masterclass, vocalità con il
Metodo Funzionale della Voce.
Max 400 partec.; scad. iscr. 12
febbr. 2007 Info: 3356117390;
info@musicandoriccione.it.
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La redazione di musicaround.net vi augura
Buon Natale e Felice di inizio d’anno
e vi dà appuntamento al 2007
Photo in questo numero:
Musica nelle scuole – Vignetta a cura di Marco Esposito e Mimmo Ferri
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Pierluigi Balducci – Photo di Mauro Staiti Pierluigi Balducci Ensemble ’04
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La Zampogna –
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