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Il Mese - Quaderni Radicali Online

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<strong>Il</strong> <strong>Mese</strong><br />

di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong><br />

Carcere<br />

Fuorilegge<br />

Roberto Faenza<br />

Forza Italia, Silvio Forever!<br />

Neri Marcorè<br />

Tra satira e politica<br />

Achille Bonito Oliva<br />

La Transavanguardia c’est moi<br />

MGF<br />

L’acronimo dell’orrore<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

Numero<br />

Zero<br />

Aliquis 8, 2008


<strong>Il</strong> MESE<br />

supplemento online<br />

di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong><br />

Iscriz. e registr. Tribunale Napoli<br />

n. 5208 del 13/4/2001<br />

Editore<br />

Ass. “Amici di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong>”<br />

Abbonamenti<br />

25 euro (11 numeri)<br />

Modalità d’acquisto:<br />

online con carta di credito<br />

su www.quaderniradicalionline.it<br />

mediante circuito Banca Sella<br />

oppure<br />

con bonifico intestato a<br />

“Amici di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong>”<br />

Banca Sella Sud Arditi Galati<br />

IBAN: IT53 F 03268 03402 052127218720<br />

contatti<br />

ilmese@quaderniradicali.com<br />

<strong>Il</strong> MESE - Numero Zero<br />

è stato chiuso in redazione<br />

il 27 giugno 2011<br />

www.quaderniradicalionline.it<br />

il mese<br />

direttore<br />

GIUSEPPE RIPPA<br />

caporedattore<br />

ANTONIO MARULO<br />

caposervizio<br />

FLORENCE URSINO<br />

QR<br />

analisi e commenti<br />

SILVIO PERGAMENO, LUIGI O. RINTALLO,<br />

DANILO DI MATTEO, GIOVANI M. LOSAVIO<br />

ANNA MAHJAR-BARDUCCI<br />

redattori e collaboratori<br />

ANDREA SPINELLI BARRILE, LICYA VARI,<br />

ANNA CONCETTA CONSARINO, ADIL MAURO,<br />

VALERIA NEVADINI, MAURIZIO MARTONE,<br />

FEDERICA MATTEUCCI, VALENTINA VITALETTI,<br />

SERENA GUERRERA, ALESSIA CARLOZZO,<br />

AMELIA REALINO, FLORE MURARD-YOVANOVITCH,<br />

PAOLO IZZO, ALESSANDRA AGAPITI,<br />

SERENA FERRETTI, CLAUDIO TAMBURRINO,<br />

CLAUDIA DEL VENTO, MARCELLO MOTTOLA,<br />

MAURIZIO MOTTOLA, FRANCESCO MINCIOTTI<br />

responsabile ai sensi della legge sulla stampa<br />

DANILO BORSÒ<br />

LA REDAZIONE<br />

di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong>


IN QUESTO NUMERO...<br />

3 nasce il mese<br />

zUm<br />

4 Carcere fuorilegge<br />

Giuseppe Rippa<br />

12 Fuori in attesa di giudizio!<br />

Silvio Pergameno<br />

14 La tortura del carcere<br />

Rita Bernardini -<br />

intervista a cura di Antonio Marulo<br />

15 La proposta radicale<br />

Andrea Spinelli Barrile<br />

17 Specchio e metafora di una civiltà<br />

Danilo Di Matteo<br />

19 Privilegio per pochi<br />

Licya Vari<br />

22 Oltre il degrado<br />

Luigi O. Rintallo<br />

Foto dal carcere di Rebibbia<br />

Eleonora Calvelli<br />

agenda radicale<br />

25 MGF l’acronimo dell’orrore<br />

Valeria Nevadini<br />

27 Sister Fa “<strong>Il</strong> mio canto libero<br />

contro l’infibulazione”- videointervista<br />

di Flore Murard-Yovanovitch<br />

ieri dicevamo<br />

29 Arabi Democratici Liberali,<br />

cosa c’è di strano?<br />

Anna Mahjar-Barducci<br />

il mese<br />

...non olet<br />

36 Disoccupazione,<br />

la statistica dà i numeri<br />

Giovanni M. Losavio<br />

QR<br />

visioni<br />

40 Forza Italia, Silvio Forever!<br />

Roberto Faenza - intervista di Florence Ursino<br />

44 I “mille volti” di Neri Marcorè<br />

intervista di Amelia Realino<br />

49 <strong>Il</strong> teatro di Robert Wilson<br />

Anna Concetta Consarino<br />

51 Achille Bonito Oliva, La Transavanguardia<br />

c’est moi - intervista di Florence Ursino<br />

54 A domanda risponde, “Jung Parla”<br />

Vincenzo Loriga<br />

57 criticone musicale<br />

di Adil Mauro<br />

59 la redazione (h)a letto...<br />

con testi di: Antonio Marulo, Luigi O. Rintallo,<br />

Florence Ursino, Paolo Izzo, Andrea Spinelli<br />

Barrile, Alessia Carlozzo, Alessandra Agapiti,<br />

Licya Vari<br />

di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong>


nasce il mese 3<br />

QR<br />

A distanza di dieci anni dalla nascita<br />

del suo supplemento telematico quotidiano<br />

Agenzia Radicale<br />

Nuovo periodico concepito esclusivamente per il web,<br />

in linea con le sde e i cambiamenti<br />

che la multimedialità delle nuove tecnologie impone<br />

al mondo dell’informazione<br />

e della comunicazione in genere.<br />

35 anni fa <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong> nacque con l’intento di fornire contenuti, do-<br />

cumentazione e analisi che fossero in linea con un modello culturale – quello<br />

www.quaderniradicalionline.it<br />

dei diritti umani - assolutamente marginalizzato nel contesto della storia<br />

italiana. Con lo stesso spirito nel 2001, in una fase pionieristica della co-<br />

municazione sul web, nacque Agenzia Radicale, supplemento telematico<br />

quotidiano di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong>. Oggi, con IL MESE prende forma, attorno<br />

al gruppo di persone che lavora al network Radical Approach Nonviolence in<br />

Media, un’altra esperienza editoriale.<br />

Le ragioni politico-culturali di questa nuova sfida restano sostanzialmente<br />

identiche a quelle del passato: confrontarsi con un quadro informativo che<br />

produce non soltanto manipolazione dell’informazione, ma che in larga mi-<br />

sura ha nella sua esigenza di subalternità agli interessi finanziari dominanti,<br />

una vera e propria forma di soppressione delle notizie stesse.<br />

Abbiamo la presunzione di credere, grazie anche ai risultati raggiunti ne-<br />

gli anni con Agenzia Radicale e <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong>, che il nostro modello<br />

d’approccio, che pone al centro l’individuo, i diritti umani, i diritti della per-<br />

sona, si confermi più che mai valido e costituisca l’unica traccia per far sì<br />

che un’informazione indipendente possa esistere come processo formativo<br />

di responsabilità e di coscienza della pubblica opinione.<br />

IL MESE di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong> parte con un NUMERO ZERO, sperimentale,<br />

prima di andare a regime con numerazione e cadenza ordinaria.<br />

GIUSEPPE RIPPA


4<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

Carcere fuorilegge<br />

In 11 anni nelle carceri italiane sono<br />

morti oltre 1.800 detenuti,<br />

di cui 1/3 per suicidio<br />

La rivista «Ristretti Orizzonti» ne fornisce un dossier (Morire<br />

di carcere) completo e sconcertante, nel quale la successione<br />

di nomi, cognomi, età, data e luoghi del decesso<br />

sono un martellante, angosciante e vergognoso atto di accusa<br />

per una politica carceraria che è il punto terminale di<br />

una disastrosa politica della giustizia.<br />

zUm<br />

QR


zUm 5<br />

QR<br />

È noto che le carceri italiane sono in sovraffollamento talmente grave<br />

d’aver provocato già una condanna da parte della Corte europea (sentenza,<br />

del 16 luglio 2009). Basti pensare alla più volte ripetuta formulazione di<br />

dati inquietanti: posti carcere 44mila (si fa per dire, considerando che molte<br />

strutture sono inagibili) a fronte di una popolazione carceraria di 69.000 detenuti,<br />

di cui circa il 44% è fatta di persone che non sono state condannate<br />

in via definitiva o sono in carcerazione preventiva).<br />

Nel 1973 una commissione indipendente, in sede nazionale, “consigliava<br />

una moratoria nella costruzione di nuove carceri e la chiusura progressiva<br />

degli istituti penali minorili, giudicando il carcere una istituzione in via<br />

di superamento, che si era dimostrata inadatta a contrastare la criminalità”<br />

(Lucia Re, Carcere e globalizzazione, Laterza, 2006, p. 21).<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

Mentre questa era la valutazione<br />

degli esperti, la<br />

scelta politica, assecondando<br />

la dichiarata “guerra<br />

al crimine” (dentro<br />

la quale aveva grande<br />

rilevanza la lotta alla droga),<br />

era quella del ricorso<br />

sistematico al carcere<br />

contro la criminalità di<br />

strada, con l’avocazione<br />

di competenze a livello<br />

centrale e una grande mobilitazione<br />

di risorse per le<br />

forze di polizia. Ignorare le<br />

ragioni contro il carcere e<br />

rilanciare il carcere come<br />

strumento di igiene sociale<br />

era la premessa per<br />

la crescita inarrestabile del<br />

carcere.<br />

Cosa ha significato<br />

questo? Una enorme mobilitazione<br />

di risorse per il<br />

rafforzamento della Polizia<br />

(peraltro inadeguato, visto


le finalità richieste), del sistema penitenziario e una corrispondente smobilitazione<br />

di risorse dal sistema sociale di aiuto e sostegno al disagio di persone<br />

ed ambienti in situazioni critiche.<br />

I costi, pertanto, non sono solo economici, ma anche sociali.<br />

6<br />

“Le nuove forme di controllo della criminalità implicano costi<br />

sociali difficilmente sopportabili (inasprimento delle divisioni<br />

sociali e razziali, consolidamento dei processi criminogenetici,<br />

perdita di credibilità della autorità penale, crescita della intolleranza<br />

e dell’autoritarismo, accentuazione della pressione penale<br />

sulle minoranze), configurando una sorta di nuova segregazione<br />

razziale”.<br />

A.Ceretti e A.Casella sulla rivista «Dignitas» (p. 16 del n.5 del 2004), che<br />

riprendono il pensiero di David Garland<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

zUm<br />

QR


zUm 7<br />

QR<br />

Indubbiamente quello delle carceri è problema mondiale. Anche dalle<br />

altre parti dell’Europa la situazione non è per niente positiva. Basti pensare<br />

che, in solo dieci anni, la popolazione carceraria spagnola è aumentata del<br />

50%; mentre seguono a breve distanza Olanda, Belgio, Spagna e Portogallo.<br />

<strong>Il</strong> record di incremento spetta agli Stati Uniti dove – scrive Davide Madeddu<br />

su l’Unità – ogni settimana il ritmo di crescita raggiunge le 1500 unità, al<br />

punto che oggi per ogni 100.000 abitanti vi sono circa settecento detenuti.<br />

In CALIFORNIA<br />

“Un carcerato muore, senza nessuna ragione, ogni sei o<br />

sette giorni per mancanza di strutture”<br />

John Anthony M. Kennedy, giudice della Corte Suprema americana,<br />

dopo la recente decisione (5 voti a 4) che include anche l’ordine<br />

di sfollare le carceri o costruire altre celle nei prossimi due anni.<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI


Nelle carceri italiane per molti l’acqua calda è un sogno, il riscaldamento<br />

un optional così come la tinteggiatura delle pareti delle celle e<br />

i soldi per l’assistenza sanitaria o il lavoro. È l’Italia dietro le sbarre fotografata<br />

dall’Associazione Antigone nel rapporto biennale sulle carceri.<br />

Un’indagine decisamente poco confortante, come spiegano i rappresentanti<br />

dell’associazione, che quasi ogni giorno controllano, osservano e trascrivono<br />

su schede quanto avviene in carcere.<br />

ITALIA DIETRO LE SBARRE<br />

“All’interno delle strutture abbiamo trovato situazioni disperate”...<br />

che variano a seconda della regione e della struttura penitenziaria,<br />

perché “non c’è una centralità nella gestione del sistema e del funzionamento:<br />

molto spesso ci sono i singoli direttori che determinano<br />

il funzionamento più o meno virtuoso delle carceri con tutto<br />

quello che naturalmente può seguire”.<br />

Susanna Marietti, coordinatrice del gruppo di lavoro che ha realizzato il<br />

dossier di Antigone, nel racconto di Davide Madeddu su “l’Unità”.<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

8<br />

zUm<br />

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zUm 9<br />

QR<br />

Nel tentativo di fronteggiare questo drammatico sovraffollamento carcerario<br />

fu varato un fantomatico piano carceri, che prometteva, tra le altre<br />

cose, la costruzione di 45 nuovi padiglioni entro la fine del 2010. Alla fine<br />

dell’anno, invece, vi sono 25mila detenuti in soprannumero.<br />

<strong>Il</strong> 20 aprile 2011 Marco<br />

Pannella inizia uno sciopero<br />

della fame perché<br />

l’Italia “torni a potere in<br />

qualche misura essere considerata<br />

una democrazia”.<br />

Al centro della sua iniziativa<br />

nonviolenta l’indecenza delle<br />

carceri e del sistema della<br />

cosiddetta giustizia.<br />

Dal 15 maggio 2011 si innesca,<br />

a partire dal carcere<br />

romano di Regina<br />

Coeli, una protesta contro<br />

le condizioni detentive a cui<br />

sono sottoposte le persone<br />

segregate dall’apparato carcerario<br />

italiano. La mobilitazione,<br />

come si sperava,<br />

si è rapidamente diffusa a<br />

molte altre città.<br />

Un lotta caratterizzata nella<br />

sua attuazione da sciopero<br />

della fame, battiture, blocco<br />

degli acquisti allo spaccio<br />

carcerario, nonché dal<br />

blocco di tutte le funzioni<br />

svolte dai detenuti lavoranti<br />

(e quindi mansioni di pulizia,<br />

cucina, raccolta domande<br />

per la spesa, ecc.).<br />

La particolarità di questa<br />

iniziativa, rispetto agli altri<br />

sporadici focolai di rivolta<br />

IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA<br />

“FESTEGGIA”<br />

“È opportuno ricordare<br />

che questa<br />

notte hanno<br />

dormito nelle<br />

nostre carceri più<br />

di 67 mila detenuti<br />

con un<br />

significativo incremento<br />

di stranieri. Stiamo<br />

cioè gestendo il più alto numero di<br />

detenuti della storia repubblicana e<br />

lo stiamo facendo grazie allo sforzo e<br />

alla dedizione, al dovere di ciascuno<br />

di voi. Stiamo gestendo un così alto<br />

numero di detenuti per due motivi:<br />

perché funziona meglio il sistema di<br />

sicurezza e repressione dello Stato nei<br />

confronti della piccola e della grande<br />

criminalità e perché non abbiamo<br />

fatto amnistie o indulti. È giusto<br />

che tutti abbiano coscienza che il<br />

sistema penitenziario è il punto di approdo<br />

sia del sistema di sicurezza che<br />

del sistema processuale e penale del<br />

nostro Paese” .<br />

ANGELINO ALFANO nel 194° compleanno<br />

della Polizia penitenziaria


10<br />

contro le condizioni detentive, deriva principalmente dalle richieste: nessun<br />

interesse rivolto a specifici miglioramenti nel carcere in cui sono rinchiusi i<br />

promotori (Regina Coeli), bensì un vero e proprio “piano carceri” alternativo<br />

a quello del governo.<br />

7 giugno 2011 - MARCO PANNELLA in sciopero della fame<br />

E se appunto quello partorito dal ministro Alfano e dai suoi collaboratori si<br />

concentra prioritariamente sull’ampliamento degli spazi detentivi, e quindi<br />

su interventi di edilizia volti ad aumentare il numero di posti-gabbia da<br />

riempire (e a come spartire gli oltre 600 milioni di euro stanziati), quello<br />

proposto dai detenuti di Regina Coeli, e sostenuto dalla protesta che si è<br />

estesa a diverse carceri, si basa all’opposto su un’urgente deflazione del<br />

numero delle persone recluse attraverso la richiesta di un’amnistia (esclusi<br />

reati di pedofilia e stupro), la richiesta di un minor ricorso alla custodia<br />

cautelare, misure alternative e tutta una serie di proposte concrete volte a<br />

riportare l’apparato carcerario italiano alla mera legalità...<br />

Impossibile non notare quanto sia paradossale che la richiesta di un carcere<br />

legale e costituzionale arrivi dai detenuti e non dalle istituzioni.<br />

zUm<br />

QR


zUm 11<br />

QR<br />

Ci sarà poi il caldo estivo che incombe come minaccia ulteriore alla già compromessa<br />

possibilità di sopportare la privazione della libertà e i modi in cui<br />

viene somministrata. E il calore, come ogni estate, potrebbe aumentare la<br />

pressione. Di fronte a questo stato delle cose parlare di amnistia è dire uno<br />

spergiuro?<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

L’amnistia – come dice Pannella – è necessaria ai magistrati: ogni<br />

anno almeno 200mila processi sono annullati, grazie alla prescrizione. Una<br />

prescrizione di classe oltre che di massa, per chi si può permettere avvocati<br />

buoni e bravi, per chi li può pagare. Noi l’amnistia la vogliamo per l’85 per<br />

cento dei reati.<br />

L’amnistia è l’unico modo per impedire che migliaia, milioni di persone, magari<br />

colpevoli dei peggiori reati, se ne vadano, liberi, puliti, grazie alla prescrizione.<br />

L’amnistia prima ancora che interessare i detenuti, interessa tutti<br />

coloro che sono “fuori” e che non sanno lo stato in cui si trova la Giustizia.<br />

Di fronte ai dati richiamati non si può non concludere – come fa Franco Della<br />

Casa, ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Genova –<br />

come sia inevitabile prendere atto che, se non si mettono in cantiere modifiche<br />

di tipo strutturale idonee ad assottigliare i flussi di ingresso e i tempi<br />

di permanenza in carcere, in particolare degli imputati sottoposti a custodia<br />

cautelare, la realtà è sconcertante e indegna di ogni forma di civiltà.<br />

<strong>Il</strong> carcere fuorilegge: epifenomeno della tragedia giustizia in Italia…<br />

GIUSEPPE RIPPA


12<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

Fuori in attesa di giudizio!<br />

Emergenza carceri, quindi; quell’emergenza che viene spesso invocata<br />

per aggirare la necessità di affrontare problemi di fondo, ma che<br />

poi viene ignorata di fronte a gravissimi rischi obbiettivi.<br />

Si discute sul carcere duro, che fa scontare la pena in condizioni di maggiore restrizione,<br />

ma pur sempre sulla base di precise disposizioni di legge, ma poi si<br />

trascura la circostanza che il carcere “ordinario” può diventare di fatto più duro di<br />

quello aggravato.<br />

È in corso di realizzazione un programma di edilizia carceraria che richiede, se<br />

tutto va bene, tempi lunghi, non rispondenti all’esigenza inderogabile di fronteggiare<br />

un’emergenza grave, in termini di immediatezza. Occorre operare subito<br />

per contenere la popolazione carceraria.<br />

zUm<br />

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zUm 13<br />

QR<br />

È chiaro allora dove non si può non andare a parare: occorre ancora una volta una<br />

qualche forma di amnistia o di indulto o magari di indultino, nonostante che -<br />

forse da mezzo secolo a questa parte - ogni volta che si è dovuto fare ricorso a un<br />

provvedimento di questo tipo, non si sia mai mancato di sottolineare che in ogni<br />

caso sarebbe stato l’ultimo. <strong>Il</strong> tutto con le migliori intenzioni, naturalmente; salvo<br />

poi scontare le conseguenze della incapacità a governare che caratterizza questo<br />

Paese.<br />

Certo, muoversi nella direzione indicata non sarà facile, anche perché i<br />

politici temono le reazioni dell’opinione pubblica; e poi non si può trascurare un<br />

fatto che sicuramente non è rapportabile alle variabili propensioni degli elettori,<br />

ma ha una sua innegabile portata oggettiva: ma come!? Volete metter fuori dalle<br />

patrie galere i condannati che scontano una pena irrogata a seguito di un regolare<br />

processo, mentre restano dentro le decine di migliaia degli astretti in prigione “in<br />

attesa di giudizio”, che poi si può anche concludere con un’assoluzione, come purtroppo<br />

avviene in fin troppi casi?<br />

Non c’è che dire. L’obiezione è seria. Ma superabile, e anche senza tanta fantasia<br />

giuridica.<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI


L’amnistia estingue il reato, già<br />

accertato e giudicato, l’indulto<br />

estingue la pena, già sancita a<br />

seguito di regolare processo… <strong>Il</strong><br />

legislatore, invece, dovrebbe adottare<br />

un provvedimento di<br />

molto minore portata: stabilire<br />

soltanto che escono di prigione<br />

i detenuti in attesa di giudizio,<br />

quanto meno per i reati per in<br />

quali è prevista una pena edittale<br />

fino a un certo limite massimo.<br />

Non si estinguerebbe la<br />

sottoposizione a giudizio e non si<br />

violerebbe il principio che regge<br />

tutta la giustizia penale, e cioè la<br />

necessità (giuridica e sociale) che<br />

le pene siano irrogate ed effettivamente<br />

scontate e, soprattutto, si<br />

eviterebbe la mostruosità, oltretutto<br />

costosa per l’erario, di tenere<br />

in prigione un cittadino prima<br />

della condanna e forse innocente.<br />

<strong>Il</strong> principio liberale vuole che<br />

nessuno possa essere considerato<br />

colpevole finché non sia arrivata<br />

sentenza definitiva di condanna.<br />

Questo principio viene costantemente<br />

richiamato, anche con<br />

non poca ipocrisia in molti casi.<br />

Già, ma a chi, innocente, è stato<br />

dentro, e forse ha avuto una vita<br />

distrutta o forse ci ha anche lasciato<br />

la pelle, cosa gli andiamo a<br />

raccontare? Non è molto meglio<br />

metterlo fuori subito?<br />

SILVIO PERGAMENO<br />

14<br />

La tortura<br />

del carcere<br />

Lo stato delle<br />

carceri italiane<br />

è “l’ultimo<br />

anello di una<br />

Giustizia che<br />

non funziona,<br />

di una Giustizia<br />

allo stremo,<br />

di una Giustizia<br />

ingiusta”,<br />

denuncia la deputata radicale RITA<br />

BERNARDINI, in prima linea nella<br />

lotta per un sistema di detenzione<br />

dignitoso.<br />

Eppure la Costituzione è molto attenta<br />

alla persona che deve scontare una<br />

pena, prevedendo all’art 27 il fine rieducativo<br />

a cui quest’ultima deve tendere…<br />

«Fine che, purtroppo, è diventato<br />

difficile da perseguire, grazie al combinato<br />

disposto di alcune leggi che tendono ad<br />

aumentare la popolazione penitenziaria:<br />

la legge cosiddetta Cirielli sui recidivi; la<br />

legge sulla droga, in base alla quale persone<br />

tossicodipendenti, in realtà malate,<br />

vengono sbattute in galera; le leggi sugli<br />

stranieri – i cosiddetti pacchetti sicurezza<br />

recentemente approvati – che hanno letteralmente<br />

inventato il reato di clandestinità<br />

che in realtà è uno status sociale».<br />

La situazione si è fatta esplosiva, tanto<br />

che c’è chi parla – come i radicali -<br />

di violazione dei più elementari diritti<br />

umani fino ad arrivare alla tortura…<br />

«Non è un caso, infatti, che l’Europa chieda al Parlamento italiano di inserire la<br />

tortura fra i reati contemplati dal codice penale».<br />

zUm<br />

QR


zUm<br />

QR<br />

In che termini si può parlare di condizioni a limite della tortura nei penitenziari<br />

italiani? «Condizioni limite, ad esempio, personalmente le ho riscontrate<br />

visitando per la seconda volta a marzo il carcere Gazzi di Messina, dove un detenuto<br />

completamente disabile, privo di carrozzina e senza alcun aiuto, collocato in<br />

una cella sovraffollata, è costretto letteralmente a strisciare per andare in bagno<br />

per i più elementari bisogni fisiologici. Questa è l’Italia del 2011, dove tentiamo di<br />

agire, cercando di cambiare le norme…».<br />

Con scarsi risultati, visto anche il<br />

bilancio di provvedimenti tampone<br />

come il cosiddetto decreto “svuotacarceri”<br />

approvato dal Parlamento lo<br />

scorso anno. «C’eravamo quasi riusciti,<br />

almeno a portare un po’ di sollievo. In<br />

realtà, tutti i partiti - uniti - hanno voluto<br />

modificare la legge, cosicché con lo<br />

“svuotacarceri” dalla galera sono usciti<br />

davvero pochi».<br />

Si può dire che la situazione sia poi<br />

addirittura peggiorata… «Anche Anche perperché si è notevolmente ridotto l’accesso<br />

a misure alternative al carcere: se dieci<br />

anni fa le persone che ne usufruivano<br />

erano oltre 50mila, oggi siamo arrivati<br />

a poco più di 16mila. Ciò ha provocato<br />

ricadute negative anche in tema di<br />

sicurezza. Alcuni studi, infatti, - come<br />

quelli del professor Torrente di Torino –<br />

dimostrano che i detenuti che accedono<br />

a misure alternative alla pena hanno un<br />

tasso di recidiva inferiore al 20%, mentre<br />

i detenuti che scontano, come accade<br />

oggi, tutta la pena in carcere hanno una<br />

recidiva di circa il 70%.<br />

È questa dunque la sicurezza che ci stanno<br />

dando: la sicurezza della barbarie, la<br />

sicurezza dell’inciviltà, la sicurezza della<br />

menzogna, perché i dati del carcere ci<br />

vengono nascosti e ci vogliono persone<br />

capaci per scoprire ciò che avviene nei<br />

nostri istituti penitenziari».<br />

a cura di ANTONIO MARULO<br />

15<br />

La proposta<br />

radicale<br />

L’8 marzo 2011 l’on. Bernardini<br />

ha presentato, insieme con gli<br />

altri deputati radicali - Beltrandi,<br />

Farina Coscioni, Mecacci, Maurizio<br />

Turco e Zamparutti - una<br />

proposta di legge alla Camera<br />

dei Deputati atta a modificare<br />

alcune parti della legge 354<br />

del 26 luglio 1975 che detta le<br />

norme sull’ordinamento penitenziario<br />

italiano e sull’esecuzione<br />

delle misure privative e limitative<br />

della libertà dei carcerati.<br />

La proposta radicale si pone il<br />

fine ultimo di snellire le procedure<br />

restrittive della libertà dei<br />

detenuti, proponendo misure alternative<br />

al carcere e migliorare<br />

la qualità della vita dei reclusi...


È dimostrato che una migliore qualità<br />

della vita detentiva diminuisce<br />

sostanzialmente la possibilità che il<br />

recluso, una volta libero, ricominci a<br />

delinquere. Ad esempio, la recidività<br />

dei detenuti usciti dal carcere di<br />

Poggioreale supera il 60%. A Bollate,<br />

istituto che invece rispetta la<br />

normativa italiana (non un carcere<br />

“modello”, ma un carcere “a norma”),<br />

sia come regolamento interno<br />

che come numero di persone detenute,<br />

la percentuale cala a poco più<br />

dell’11%.<br />

Uno dei punti cardine della proposta<br />

riguarda la tutela dei detenuti<br />

tossicodipendenti. Attualmente<br />

non esiste una differenza tra detenuto<br />

tossicodipendente e non,<br />

quando invece chi ha problemi di<br />

dipendenza andrebbe seguito ed<br />

aiutato non con misure costrittive<br />

della libertà personale. La proposta<br />

radicale va a modificare nella<br />

sostanza il divieto di concessione<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

16<br />

sione dei benefici e l’accertamento<br />

della “pericolosità sociale dei condannati”…<br />

Altro punto della proposta riguarda<br />

il regime di sorveglianza particolare,<br />

che nell’attuale normativa non<br />

risponde più alle minime esigenze<br />

umane del detenuto.<br />

La sorveglianza restrittiva particolare<br />

troppo spesso viene interpretata<br />

come il diritto dello Stato a degradare<br />

l’essere umano che delinque, andando<br />

ben oltre le già drammatiche condizioni<br />

di reclusione “standard”.<br />

L’iniziativa radicale, in ultimo avviso,<br />

pone l’importante questione del<br />

regime del 41-bis, del cosiddetto<br />

“carcere duro” che, qualunque sia<br />

l’efferatezza commessa dalla persona,<br />

diventa esso stesso un crimine efferato,<br />

nelle modalità e nei termini in cui<br />

oggi viene applicato.<br />

ANDREA SPINELLI BARRILE<br />

zUm<br />

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zUm<br />

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17<br />

Specchio e metafora di una civiltà<br />

“Non vi è libertà ogni qual volta<br />

le leggi permettono che in alcuni eventi<br />

l’uomo cessi di essere persona<br />

e diventi cosa”.<br />

Si tratta forse della frase più celebre scritta da<br />

CESARE BECCARIA, l’insigne giurista e filosofo<br />

illuminista milanese il cui nome resta legato soprattutto<br />

al concetto della finalità rieducativa del carcere. E già in<br />

tale frase emerge un aspetto insieme evidente e nascosto dei luoghi di detenzione:<br />

il loro essere specchio e metafora di una civiltà.<br />

Ieri come oggi, infatti, troppe volte, in modi diversi, gli esseri umani, singoli o<br />

gruppi, vengono trattati come cose: nella società dei “liberi” come in carcere. E i<br />

problemi della società tendono in carcere ad amplificarsi, raggiungendo dimensioni<br />

quasi caricaturali: si pensi alle storie di abuso di sostanze che accomunano tanti detenuti<br />

oppure ai disturbi psicopatologici. Umberto Galimberti è solito ricordarci che<br />

la psichiatria per certi versi nasce dalla distinzione fra folli e criminali. Eppure, secondo<br />

i criteri diagnostici attuali, i due terzi e oltre dei detenuti soffrirebbero di disturbi<br />

psichici e assai elevata, in particolare, sarebbe la percentuale dei “borderline”.<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI


Ebbene: proprio la personalità borderline caratterizzerebbe, sul versante<br />

patologico, il nostro tempo. Di nuovo il carcere come espressione di un malessere<br />

diffuso; ma anche come luogo che esaspera, riacutizza, aggrava, conduce alle<br />

estreme conseguenze.<br />

Chiediamoci dunque per<br />

un istante: in che misura<br />

abbiamo fatto nostri i principi<br />

liberali, lo spirito di tolleranza,<br />

la rinuncia alla vendetta e<br />

al bisogno di un capro espiatorio?<br />

La caccia alle streghe<br />

si è davvero conclusa?<br />

E, in altro modo, torna la<br />

metafora dello specchio:<br />

speculare al disagio dei detenuti,<br />

infatti, vi è quello, pure<br />

assai acuto, degli agenti della<br />

Polizia penitenziaria, particolarmente<br />

esposti al rischio di<br />

burn-out.<br />

Fra le contraddizioni del<br />

nostro Paese vi è poi la coesistenza<br />

di pesanti tratti illiberali<br />

con una mentalità a suo<br />

modo permissiva. Com’è possibile?<br />

E com’è possibile che<br />

in una realtà, la nostra, nella<br />

quale le principali correnti<br />

ideologiche hanno avuto scarso<br />

rispetto per l’individuo, vi<br />

sia poi una sorta di individualismo<br />

anarcoide? Fenomeni<br />

che, di nuovo, attraversano la<br />

società e il carcere: non si è<br />

liberi e neppure responsabili.<br />

Non sono i principi liberali a<br />

condurre alla giungla; no: è la<br />

loro negazione. Tanto è vero<br />

che si tende a non rispettare<br />

le regole sia nel carcere<br />

che nella società, a scapito<br />

dell’umanità degli umani.<br />

18 zUm<br />

«I modelli sanzionatori non devono ritenere<br />

scontate le modalità di risposta al reato<br />

fondate semplicemente sulla ritorsione (è<br />

il tema della bilancia), sulla pena fine a se<br />

stessa e sull’emarginazione. Si impone il<br />

superamento della centralità del carcere<br />

nell’ambito penale, con tutte le condizioni<br />

descritte dal professor Eusebi. E bisogna<br />

impegnarsi al meglio perché il carcere sia<br />

almeno luogo di forte e austera risocializ-<br />

zazione, con programmi chiari e control-<br />

lati, con il contributo di persone motivate<br />

e con incentivi atti a promuovere tali pro-<br />

cessi; in particolare aiutando efficacemente,<br />

all’uscita dal carcere, a<br />

trovare casa e lavoro.<br />

È sempre più evidente<br />

l’inadeguatezza di mi-<br />

sure semplicemente<br />

repressive o punitive<br />

e, per questo, è ne-<br />

cessario ripensare la<br />

situazione carceraria<br />

nei suoi fondamenti<br />

e nelle sue finalità,<br />

partendo proprio<br />

dalle attuali contraddizioni».<br />

Cardinale CARLO MARIA MARTINI, al convegno<br />

“Colpa e pena”, promosso a Bergamo dai Cappellani<br />

delle carceri e dalle Caritas della Lombardia<br />

il 2 maggio 2000.<br />

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E l’argomento dello specchio rappresenta<br />

forse il filo conduttore della Tesi<br />

di laurea di Federica Ferrari (Università<br />

di Padova, Facoltà di Psicologia,<br />

anno accademico 2009-2010) dal<br />

titolo “Non solo sbarre… ma anche<br />

emozioni”. Relatore il professor<br />

Gianvittorio Pisapia.<br />

«Parola chiave di questo lavoro - si<br />

legge nell’introduzione - è ‘specchio’,<br />

strumento che mi permetterà di<br />

mettere a confronto due realtà apparentemente<br />

distanti e distinte, ma<br />

fondamentalmente una appartenente<br />

all’altra: carcere e territorio. È da<br />

qui che si genera la convinzione che<br />

le condizioni di vita in carcere possano<br />

in qualche modo rendere conto<br />

del grado di civiltà della nostra società».<br />

E il territorio, aggiungerei, non<br />

rappresenta solo ciò che è intorno<br />

al carcere, ma soprattutto ciò che lo<br />

precede e che a esso fa seguito.<br />

E più avanti:<br />

«<strong>Il</strong> carcere è un mondo immerso<br />

nella società, ma è anche<br />

un’istituzione sempre pronta a<br />

separarsi dagli sguardi estranei, nascondersi<br />

dietro le mura di cinta.<br />

Un’istituzione che cambia con il mutare<br />

della società, ma con un andamento<br />

sempre meno lineare e più<br />

lento di quanto non tenti di mostrare<br />

all’esterno.<br />

<strong>Il</strong> carcere può essere paragonato<br />

all’altra faccia della città, un’altra<br />

città che si presenta chiusa, ripiegata<br />

in se stessa, quasi volontariamente<br />

lontana da qualsiasi forma di contatto<br />

e dialogo con l’esterno, caratterizzata<br />

non più da quel variegato arcipelago<br />

di relazioni che dovrebbero caratteriz-<br />

19<br />

zare la vita all’interno della realtà urbana,<br />

bensì contraddistinta da paure,<br />

diffidenze e da perniciose forme di<br />

intolleranza e violenza.<br />

<strong>Il</strong> carcere è un residuo marginale,<br />

anonimo e poco considerato della<br />

società ma, al tempo stesso, ne è lo<br />

specchio più fedele e significativo,<br />

apparendo al suo interno rappresentante,<br />

per quanto spesso in modo<br />

mostruosamente deformato, molte<br />

delle caratteristiche e delle tendenze<br />

che la contrassegnano».<br />

Insomma: il carcere è il luogo della<br />

contraddizione e dell’antinomia, proprio<br />

come la società.<br />

DANILO DI MATTEO<br />

Privilegio per pochi<br />

Caffè LAZZARELLE - “made in Pozzuoli”<br />

Lavorare in carcere vuol dire<br />

avere un’opportunità per non lasciarsi<br />

andare, un’alternativa alla<br />

routine quotidiana; vuol dire gettare<br />

lo guardo oltre le mura per<br />

prepararsi ad affrontare il momento<br />

in cui dal carcere bisognerà uscire<br />

e si dovrà ricominciare.


Ma lavorare nei penitenziari italiani<br />

resta un privilegio per pochi. Secondo<br />

gli ultimi dati ufficiali presentati<br />

a gennaio 2011 dal Dipartimento<br />

dell’amministrazione penitenziaria<br />

(Dap), nonostante piccoli miglioramenti<br />

ed esperienze positive che un<br />

po’ a macchia di leopardo si sono<br />

sviluppate, solo un numero irrisorio<br />

di detenuti (poco meno del 21%)<br />

può effettivamente dirsi impegnato in<br />

un’attività lavorativa.<br />

Se ragioni di carattere prevalentemente<br />

economico e finanziario<br />

concorrono a spiegare il perché di<br />

questo dato (ogni anno si assiste<br />

alla riduzione del budget per gli stipendi<br />

dei lavoratori alle dipendenze<br />

dell’amministrazione penitenziaria),<br />

non si possono tacere ragioni di carattere<br />

culturale.<br />

20 zUm<br />

È ancora troppo diffuso, infatti, un atteggiamento<br />

di forte scetticismo da<br />

parte delle amministrazioni locali e<br />

degli imprenditori ad investire nel lavoro<br />

nelle carceri, così che quella che<br />

potrebbe essere una nuova frontiera<br />

per il lavoro, per i metodi di produzione<br />

e per i processi di inclusione sociale<br />

viene abbandonata prima ancora di essere<br />

realmente intrapresa.<br />

Ma se la sfida è una sfida culturale,<br />

questa deve in primis essere raccolta<br />

dalle stesse amministrazioni penitenziarie.<br />

La legge Smuraglia (n. 193<br />

del 22 giugno 2000) all’articolo 5 affida<br />

alle “amministrazioni penitenziarie” il<br />

compito di stipulare “apposite convenzioni<br />

con soggetti pubblici o privati o<br />

cooperative sociali interessati a fornire<br />

a detenuti o internati opportunità di<br />

lavoro”.<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI<br />

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zUm<br />

<strong>Il</strong> dettato della norma quindi è chiaro: il lavoro non arriva certo dal nulla, tanto<br />

meno è calato dall’alto con un intervento provvidenziale dello Stato, ma serve uno<br />

sforzo ed una volontà di agire in tal senso di cui deve farsi promotore chi il carcere<br />

lo gestisce tutti i giorni. E poi, non si può certo sperare che gli incentivi fiscali che<br />

la legge prevede bastino a stimolare una coscienza verso questo problema e nemmeno<br />

si può irrealisticamente attendere sull’uscio una cooperativa vogliosa di far<br />

del bene o un imprenditore.<br />

Inutile infine sottolineare la totale mancanza di un coordinamento nazionale<br />

che possa essere punto di riferimento per tutti gli istituti penitenziari, magari mettendo<br />

a sistema le diverse esperienze, stimolando le amministrazioni più “pigre” e<br />

fornendo consulenza ed assistenza tanto ai possibili investitori quanto agli stessi<br />

detenuti. Normale, quindi, che quelle (poche) esperienze positive rischiano di perdersi<br />

nel mare magnum delle brutte e sconfortanti notizie.<br />

LICYA VARI<br />

A Bollate, Progetto Raee<br />

Nel carcere di Bollate, che attualmente<br />

ha un tasso di occupazione<br />

tra i detenuti di circa il 60%, nel<br />

giugno dello scorso anno è partito<br />

il progetto Raee (Rifiuti da apparecchiature<br />

elettriche ed elettroniche),<br />

in sinergia con il Comune<br />

di Milano, la Regione Lombardia<br />

e l’Amsa (l’azienda milanese dei<br />

servizi ambientali). Un capannone<br />

costruito all’interno del carcere<br />

ospita così il centro di raccolta,<br />

smistamento e riciclo dei Raee<br />

ed offre un’opportunità a circa 50<br />

persone. Un’esperienza che ha<br />

costituito una prima assoluta in<br />

Italia e che ha il merito indiscusso<br />

di aver aperto ad un’area – quella<br />

dei rifiuti – decisamente nuova<br />

ed in espansione, che garantirà<br />

l’acquisizione di competenze altamente<br />

specializzate spendibili<br />

quindi nel mercato del lavoro una<br />

volta scontata la pena.<br />

21<br />

A Pozzuoli, caffè “d.o.c.”<br />

A Pozzuoli, l’impresa sociale “<strong>Il</strong><br />

Chicco D’Oro”, in collaborazione<br />

con la Onlus “<strong>Il</strong> Pioppo” e<br />

l’associazione culturale “Giancarlo<br />

Siani”, hanno proposto alle<br />

donne del carcere flegreo l’avvio<br />

della produzione del caffè. E la<br />

risposta è stata più che positiva:<br />

dieci donne hanno aderito e<br />

deciso di seguire da vicino l’intera<br />

filiera produttiva dalla macinatura,<br />

all’asciugatura alla cura e<br />

manutenzione dei macchinari. Un<br />

aroma, quella dei chicchi raccolti<br />

e lavorati a Pozzuoli, che va ben<br />

oltre le mura del penitenziario e<br />

che chiunque può degustare visto<br />

che il prodotto è venduto tramite<br />

il circuito del commercio equo<br />

e solidale. Perfino il logo sulle<br />

confezioni ed il nome del caffè -<br />

“Lazzarelle” - è stato pensato<br />

dalle donne del carcere.<br />

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Oltre il degrado<br />

«Un piccolo uomo cencioso e scalzo,<br />

ammanettato tra due carabinieri, procedeva<br />

a balzelloni […] L’immagine<br />

pietosa e buffa… fu una distrazione<br />

inaspettata che mi mosse al riso. Mi<br />

girai attorno per trovare qualcuno<br />

che condividesse la mia allegria e…<br />

udii sopraggiungere il passo pesante<br />

di mio padre. “Guarda com’è buffo”<br />

gli dissi ridendo. Ma mio padre mi<br />

fissò severamente, mi sollevò di peso<br />

tirandomi per un orecchio e mi condusse nella sua camera. […]<br />

“Cosa ho fatto di male?” gli chiesi stropicciandomi l’orecchio indolorito.<br />

“Non si deride un detenuto, mai”. “Perché no?” “Perché<br />

non può difendersi. E poi perché forse è innocente.<br />

In ogni caso perché è un infelice”».<br />

È la pagina di apertura di Uscita di sicurezza,<br />

l’autobiografia di IGNAZIO SILONE pubblicata<br />

nel 1965. Con tre motivazioni secche definisce<br />

nel modo più preciso e chiaro la condizione<br />

del carcerato. Chi è in carcere vive innanzi<br />

tutto la sofferenza per la libertà negata, cui<br />

può aggiungersi la disperazione di patire<br />

una ingiustizia. In un caso come nell’altro, il<br />

carcere è luogo di dolore.<br />

Quello che tutti dovremmo chiederci è se davvero<br />

questo dolore serve a tutelare la società e se la<br />

reclusione sia il solo modo per scongiurare i danni<br />

provocati dai criminali e raggiungere il fine di<br />

punirli e – come recita la Costituzione – rieducarli<br />

alla vita civile.<br />

22 zUm<br />

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23<br />

Non servono i suicidi in carcere per rispondere negativamente: la natura<br />

dei nostri istituti di pena è di per sé contro-produttiva, perché non soddisfa alcuna<br />

delle funzioni previste, né assolute e né relative.<br />

Già, perché anche la funzione assoluta, detta retributiva, per cui il carcere è la<br />

giusta punizione di una colpa come può dirsi adempiuta, dal momento che per<br />

quasi la metà dei detenuti la colpa non è stata nemmeno verificata in un processo<br />

concluso? E lo stesso vale per le funzioni relative, per le quali la pena è prima di<br />

tutto un mezzo per conseguire il bene della società: sia nel senso di prevenire il<br />

ripetersi dei reati, sia in quello che le attribuisce il compito di far ravvedere il reo<br />

e di reinserirlo nel contesto sociale, educandolo e in definitiva migliorandolo.<br />

Quale recupero dei detenuti si realizza nelle nostre carceri? Né il riempirli<br />

sembra davvero migliorare il grado di sicurezza della nostra società, visto che<br />

all’interno di quelle mura il crimine non fa che persistere e, addirittura, aggravarsi.<br />

Abbandonati a sé stessi, quanti vivono nelle prigioni subiscono un castigo che non<br />

sembra profilare nessuna finalità al di fuori della punizione in quanto tale.<br />

Rebibbia - Foto ELEONORA CALVELLI


24<br />

La prigione è un luogo fuori dello spazio e del tempo: non si relaziona con<br />

il resto della società e, al di là dei mutamenti intervenuti sul piano delle tecniche<br />

e delle condizioni fisiche, rimane radicata psichicamente a un passato contraddistinto<br />

dalla volontà di annichilire l’individuo, costringendolo in una condizione<br />

di degrado che ne strazia la dignità. Soltanto chi a questa dignità di uomo ha già<br />

rinunciato, scegliendo la via della violenza brutale e prevaricatrice riesce paradossalmente<br />

a farne il suo habitat ideale.<br />

Se non vogliamo che il carcere conservi queste caratteristiche, consegnandone<br />

di fatto le chiavi ai soggetti violenti che ne fanno uno spazio criminogeno per<br />

eccellenza, dobbiamo riuscire a guardare oltre il degrado che ora lo contraddistingue.<br />

E superare una volta per tutte l’equazione pena-carcere, concependo pene alternative<br />

che preservino l’integrità della persona a cominciare dal suo rapporto con il<br />

tempo che non può essere soltanto un grande e opaco vuoto, dove si perde coscienza<br />

perfino di sé stessi. Per farlo occorre proiettarsi in avanti, senza lasciarsi irretire<br />

da false sirene che – in nome di una presunta giustizia e della salvaguardia dei diritti<br />

delle vittime – ci dirottano verso logiche arcaiche prive di efficacia nella realtà attuale.<br />

A brigante, brigante e mezzo non garantisce un bel<br />

niente. Tanto meno se tale ruolo è assunto dallo Stato.<br />

Quest’ultimo è in debito verso i detenuti, a cominciare<br />

da quelli in attesa di giudizio o arrestati per<br />

errore. Ma lo è pure verso quelli che hanno pagato<br />

giustamente il fio delle loro colpe, perché ben di rado<br />

prospetta loro una reale via d’uscita. Pensare di onorare<br />

questo debito rimanendo inerti, significa prendere<br />

un abbaglio clamoroso che rischia di produrre effetti<br />

devastanti sulla società tutta. Far sì che i detenuti possano<br />

rimediare al danno provocato, senza annullarsi<br />

e scontando pene che non degradino la loro natura di<br />

uomini e donne, è il modo giusto per affrontare una<br />

questione che attende da tempo di essere risolta.<br />

Come diceva Oscar Wilde in De profundis, non<br />

dovrebbe più essere permesso che i detenuti portino<br />

“in giro con sé, nella stessa aria intorno a loro, il loro carcere, o lo<br />

celino come un’onta segreta nei loro cuori, e alla fine, come creature<br />

avvelenate, striscino in qualche tana a morire. È triste che<br />

siano obbligati a far così, è un errore, un tremendo errore che la<br />

società li obblighi a farlo”.<br />

LUIGI O. RINTALLO<br />

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agenda radicale 25<br />

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MGF<br />

L’acronimo dell’orrore<br />

Tre semplici lettere per descrivere l’inferno subito da donne<br />

giovanissime, molte poco più che bambine, vittime di pratiche<br />

mistico-religiose che compromettono in modo permanente la<br />

loro integrità fisica.<br />

Mutilazioni genitali femminili, ovvero il nuovo terribile termine che, da alcuni<br />

anni a questa parte, alcune associazioni e numerosi gruppi di attivisti stanno cercando<br />

di far entrare nel vocabolario quotidiano di governi, autorità statali ed enti<br />

internazionali, l’ONU in primis. Perché conoscere significa acquisire consapevolezza<br />

e quindi predisporre tutti gli strumenti normativi per addivenire alla definitiva<br />

eliminazione di una pratica arcaica, igienicamente pericolosa e gratuitamente<br />

crudele per il mondo femminile.<br />

Secondo alcune stime pubblicate dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità il fenomeno<br />

in questione interessa circa 130 milioni di donne nel mondo, mentre<br />

6000 bambine ogni giorno si apprestano a fare il loro ingresso in questa triste<br />

statistica. Cifre da record, che ben descrivono la portata della diffusione di questa<br />

pratica dalle origini incerte, ma sicuramente antichissime, con testimonianze collocabili<br />

addirittura 2000 anni fa.<br />

Gli studiosi individuano tre tipologie di mutilazioni genitali femminili, in ordine cre-


26<br />

agenda radicale<br />

scente di gravità: circoncisione, clitoridectomia e infibulazione. Quest’ultima<br />

è la più dolorosa, in quanto comporta il taglio della clitoride, delle piccole e delle<br />

grandi labbra, poi letteralmente “cucite” per chiudere l’orifizio vaginale. Operazioni<br />

il più delle volte effettuate senza anestesia e con strumenti non sterilizzati e<br />

quindi veicolo di infezioni, talvolta anche mortali. <strong>Il</strong> fine dichiarato è preservare la<br />

verginità della donna fino al matrimonio, ma anche oltre. Durante la prima notte di<br />

nozze, infatti, si procede alla “defibulazione” della cicatrice solo per il tempo necessario<br />

alla penetrazione e all’eventuale parto, per poi essere nuovamente cucita,<br />

restituendo al corpo della donna la sua “condizione prematrimoniale”.<br />

Se le origini di tali pratiche rimangono avvolte dal mistero, la loro diffusione geografica<br />

vede il continente africano al primo posto con ventisei stati che legittimano<br />

le MFG. Territori martoriati dalla povertà, dall’analfabetismo e da una<br />

situazione sanitaria disastrosa, dove la sessualità femminile sconta un misto di<br />

superstizione, controllo patriarcale e condanna sociale.<br />

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agenda radicale 27<br />

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“<strong>Il</strong> mio canto libero<br />

contro l’infibulazione”<br />

Sister Fa mette<br />

al centro della<br />

sua musica<br />

l’abbandono<br />

dell’escissione.<br />

La cantante e rapper<br />

senegalese<br />

spiega quanto in<br />

Africa sia difficile<br />

quantificare<br />

e debellare<br />

questa pratica.<br />

Essa è una specie<br />

di “norma sociale” di controllo<br />

delle donne e della loro verginità al fine<br />

di un “buon matrimonio”.<br />

L’artista racconta che il canto e i suoi<br />

numerosi concerti nei paesi dove<br />

l’escissione è ancora attuale sono il suo<br />

modo di confrontarsi direttamente con<br />

le popolazioni che la praticano, affinché<br />

la dismettano. Al cuore della sua battaglia<br />

c’è la sensibilizzazione dei giovani<br />

(come raccontano anche il documentario<br />

“Education sans excision” e soprattutto<br />

il suo ultimo album “Sarabah”).<br />

In questa Intervista VIDEO Sister<br />

Fa si racconta anche come donna, non<br />

tralasciando la sua esperienza di lotta<br />

per poter cantare il rap e l’hip-hop in un<br />

ambiente normalmente riservato ai soli<br />

uomini e fare finalmente ascoltare la<br />

voce ribelle delle donne africane.<br />

di FLORE MURARD-YOVANOVITCH<br />

Nonostante il Corano non le<br />

prescriva, proprio le popolazioni<br />

a maggioranza islamica sembrano<br />

aver abbracciato con maggiore<br />

forza la pratica delle MGF.<br />

Forse perché, al pari del velo,<br />

l’intervento chirurgico sul corpo<br />

delle donne è visto come un ulteriore<br />

controllo della loro persona,<br />

con particolare riferimento alla<br />

sessualità, una componente “lussuriosa”<br />

che necessita di adeguati<br />

controlli.<br />

Ma anche cristiani, animisti,<br />

atei ed ebrei non sono da<br />

meno, contribuendo così alla<br />

diffusione trasversale di questo<br />

fenomeno. Per non parlare poi dei<br />

riflessi internazionali che esso assume<br />

nel momento in cui gruppi<br />

di immigrati lasciano il continente<br />

africano per dirigersi negli Stati<br />

Uniti o in Europa, portandosi<br />

dietro un personale bagaglio<br />

di tradizioni e credenze dure a<br />

morire.<br />

L’Italia è da almeno dieci anni<br />

in prima linea nella lotta alle<br />

MGF, attraverso le numerose campagne<br />

di sensibilizzazione condotte<br />

dalla radicale Emma Bonino,<br />

unitamente all’associazione<br />

“Non C’è Pace Senza Giustizia”<br />

(No Peace Without Justice), fondata<br />

nel 1994 e legata al Partito<br />

Radicale Transnazionale.<br />

“In dieci anni di campagna – spiega Emma Bonino - su 29 paesi che hanno<br />

grande prevalenza di MGF, 19 hanno ormai delle leggi di proibizione: più o meno<br />

applicate, più o meno aperte, più o meno inclusive, però intanto c’è l’affermazione<br />

della legge come base di uno sviluppo personale e anche economico”.


Un risultato certamente importante, frutto di una campagna di respiro mondiale<br />

che ha consolidato la collaborazione tra le organizzazioni africane e quelle internazionali<br />

e creato le condizioni per la ratifica del Protocollo di Maputo (il trattato<br />

aggiuntivo alla Carta Africana dei Diritti Umani che riguarda i diritti delle donne),<br />

adottato dall’Unione Africana nel luglio del 2003 per condannare ogni pratica lesiva<br />

della dignità e dell’integrità delle donne. Una strategia che si può riassumere con<br />

la triade “attiviste–parlamenti–governi”, ovvero un dialogo costante tra le persone<br />

impegnate in prima linea contro le MGF e<br />

le istituzioni locali responsabili della loro<br />

messa al bando.<br />

Intanto, si sta lavorando affinché<br />

anche l’ONU faccia la sua parte.<br />

Sfumata l’ipotesi di una risoluzione,<br />

viste le resistenze ideologiche di alcuni<br />

paesi emerse durante la 65esima<br />

assemblea generale, l’obiettivo<br />

prioritario è diventato la “sessione<br />

tematica”, come assicurava Emma<br />

Bonino in un recente incontro pubblico<br />

organizzato nella sede del<br />

Partito Radicale Nonviolento. Nonostante<br />

la delusione per una Risoluzione<br />

che tarda ad arrivare, non<br />

si ferma, quindi, l’impegno contro<br />

MGF di attivisti e organizzazioni<br />

non governative che ha fin qui<br />

permesso una presa di coscienza<br />

collettiva su una pratica che vede<br />

le donne vittime, ma anche uniche<br />

possibili protagoniste di un moto<br />

di cambiamento culturale che porti<br />

all’effettiva tutela dei loro diritti.<br />

Proprio per questo un atto formale<br />

dell’Onu doterebbe le campagne<br />

di sensibilizzazione sul tema della<br />

necessaria cornice legislativa entro<br />

cui predisporre azioni più efficaci,<br />

di concerto con gli apparati governativi,<br />

per il definitivo recepimento<br />

di simili pratiche non più come<br />

tradizioni da difendere, ma come<br />

atti di violenza da abolire.<br />

VALERIA NEVADINI<br />

28<br />

EMMA BONINO<br />

agenda radicale<br />

“La sessione tematica può<br />

rappresentare la chiave di<br />

volta in vista di una completa<br />

abolizione delle MGF.<br />

Presentare la risoluzione alla prossima<br />

assemblea generale ONU,<br />

programmata a ottobre, potrebbe<br />

essere controproducente, perché<br />

molti paesi saranno alle prese con<br />

le elezioni politiche interne e, quindi,<br />

poco propensi a seguire una<br />

campagna internazionale che richiede<br />

una linea d’azione comune<br />

e compatta”.<br />

QR


ieri dicevamo 29<br />

QR<br />

Arabi<br />

Democratici<br />

Liberali<br />

Cosa c’è di strano?<br />

Questa domanda campeggia<br />

sul n. 101 di <strong>Quaderni</strong><br />

<strong>Radicali</strong>. È la Primavera<br />

del 2008 e la rivista dedica<br />

il suo primo piano alle iniziative<br />

della neonata l’Associazione “Arabi Democratici Liberali” con<br />

interventi di attivisti dei diritti umani e intellettuali del mondo arabo<br />

che testimoniavano la domanda di democrazia in Medio Oriente.<br />

A distanza di qualche anno, Primavera 2011, dall’Asia al Maghreb, moltitudini<br />

di giovani arabi scendono in piazza, dopo un tam tam che si avvale<br />

di sms e facebook, per rovesciare regimi pluridecennali all’insegna<br />

dell’autoritarismo e del sopruso. Per la prima volta, la volontà di cambiamento<br />

e di miglioramento delle condizioni di vita non prende le forme sorpassate<br />

del nazionalismo pan-arabo, ma quelle di un grido di libertà.<br />

L’esportazione di democrazia, giudicata da molte teste cosiddette<br />

pensanti una utopia o una velleità pericolosa per gli equilibri internazionali,<br />

assume contorni nuovi, certamente da verificare e tuttavia densi di<br />

promesse. La realpolitik europea, che appoggiava le dittature del Nord-Africa<br />

e della Penisola arabica, ha finito per trovarsi ancora una volta spiazzata<br />

dagli eventi. Un errore che rischia di essere pagato a caro prezzo in termini<br />

di grave crisi umanitaria, con migliaia di immigrati che ogni giorno cercano<br />

di raggiungere le coste dell’Italia e della Grecia.<br />

Eppure non era impossibile percepire che il compito dell’Occidente –<br />

oltre che l’interesse – consisteva nel sostenere il mutamento e favorire,<br />

anche in quei paesi, l’affermazione di democrazia e libertà. Oggi che le


ivoluzioni sono in corso, è decisivo che si intraprenda il cammino verso riforme<br />

che favoriscano la modernizzazione dei paesi mediorientali.<br />

Se ne avessero piena consapevolezza, le democrazie europee dovrebbero<br />

agire per aiutare i movimenti democratici e liberali a trasformarsi da<br />

movimenti di piazza a movimenti politici in grado di contrastare tendenze<br />

illiberali e derive demagogiche. Soltanto così si potranno limitare gli effetti<br />

della propaganda di forze come i Fratelli musulmani che, distorcendo<br />

le richieste del popolo, rischiano di ri-precipitare un’altra volta l’intera area<br />

nella riserva del sottosviluppo, piuttosto che aprire nuove prospettive di<br />

crescita economica e di libertà. Un binomio che, come ben sa ogni democratico,<br />

difficilmente può scindersi.<br />

Perché un’Associazione<br />

di ANNA MAHJAR BARDUCCI<br />

30<br />

Arabi Democratici Liberali è un’associazione<br />

che cerca di essere una testa di ponte fra Occidente<br />

e mondo arabo e musulmano. L’idea dell’organizzazione<br />

nasce proprio perché ci siamo<br />

resi conto che in Europa non esiste una corretta<br />

informazione sul Medio Oriente e sul Nord<br />

Africa.<br />

PRIMO PIANO Arabi, democratici e liberali: cosa c’è di strano? con testi di Giuseppe<br />

Rippa, Anna Mahjar Barducci, Mohamed Abdulmuttalib Houni, Gianfranco Spadaccia, Yigal<br />

Carmon, Pierluigi Severi, Taufiq Abu Bakr, Rashed Al-Fowzan, Majid Aziza, Raid Qusti, Salman<br />

Masalha, Hisham Al-Tukhi, Ahmed R. Benchemsi, Abdennour Bidar, Mohsen Kadivar, Abdel<br />

Al-Hamid Al-Ansari, Sharq Al Awsat, Philip A. Salem, Vittorio Bellavite, Luigi Sandri, Aref Ali<br />

Nayed, Roberto Barducci, Graziella Moschella, Loretta Napoleoni TRIBUNA <strong>Radicali</strong>, ieri e<br />

oggi conversazione con Marco Pannella STATO DELLE COSE Mi vendo per un bicchiere<br />

di latte! Silvio Pergameno <strong>Il</strong> Partito democratico, la questione liberale, i <strong>Radicali</strong><br />

conversazione con Enrico Morando / <strong>Il</strong> Satyagraha per difendere l’identità nazionale<br />

tibetana Anthony M. Quattrone / Dietro i Giochi di Pechino le “ombre” dei diritti<br />

umani Natascia Maisano / Gestione dei rifiuti d’imballaggio: un esempio di best<br />

practice Ivano Mosca / La Spagna rilancia con Zapatero Pasquale Mazzarelli FORUM La<br />

questione armena e l’Europa con testi di Giuseppe Rippa, Robert Attarian, Aldo Ferrari,<br />

Marco Tosatti, Emanuele Aliprandi, Gianfranco Spadaccia, Umberto Ranieri TESSERE DI DOMINO<br />

I nuovi no-global Antonio Marulo Dal voto un difficile domani per il Pd Luigi O. Rintallo<br />

WiMAX: in Italia si va al minimo / Francesco Minciotti / L’industria musicale può finire<br />

nella “rete” Adil Mauro / Gli adolescenti nella rete di internet Francesca Colasanti /<br />

One Laptop Per Child: la difficile sfida di Negroponte Martha Talamè / Luce e ombre<br />

dell’Arche de Zoé Maria Romaniello / Giuliano Ferrara e l’aborto Giuseppe Talarico / La<br />

questione ambientale: tra presunti “verdi” e sincere preoccupazioni ecologiche<br />

Alberto Bitonti / “Monnezza”: nonsolo Campania Licya Vari / Per ricordare Adele<br />

Faccio Claudia Del Vento / Due anni fa moriva Luca Coscioni Alessandro Frezzato<br />

/ L’«erede naturale» Raùl guida la transizione cubana Giovanni Arbia /<br />

Cuba,Vaticano pacato col regime Maurizio Di Giacomo / I mille volti del Kenya e<br />

dell’Africa Lorenzo Mezzone / Armenia: un dopo-voto turbolento Elena Mazzone / E il<br />

racket bussò alla mia porta Arturo Capasso INTERVENTI Comunicazione telematica e<br />

tutela della libertà di espressione:i profili penali (Parte I) Diego Nannuzzi MATERIALI<br />

Reich oltre Reich Raffaele Cascone OPG: chiuderli è necessario Paolo Fiori Nastro<br />

intervistato da Anna Rolli / Controversie sulla Psicologia Clinica Maurizio Mottola / <strong>Il</strong><br />

mondo di Charles Larmore Ugo Perone intervistato da Danilo Di Matteo RACCONTO <strong>Il</strong><br />

paese che non si può dire Dora Albanese PER SALE E SCAFFALI a cura di Elisa Albo con<br />

testi di Plinio Perilli, Luisa Comito, Gerardo Picardo, Edoardo Cicchinelli, Paolo Izzo, Maurizio<br />

Navarra, Maurizio Mottola, Florence Ursino, Maria Antonietta Amenduni, Noreen Loiacono,<br />

Giovanni Lauricella, Maria Letizia Bixio, Francesca Macciachini, Serena Ferretti, Marcello<br />

Mottola e con <strong>Il</strong> Brogliaccio di Turi Vasile<br />

Spesso, infatti, sia i media sia i leader politici<br />

ignorano le realtà sul terreno per ignoranza,<br />

ideologia e ragion di Stato. Inoltre, alcuni<br />

paesi sono sempre sotto i riflettori, mentre altre<br />

nazioni come l’Algeria, la Tunisia o il Marocco – Euro 5<br />

DA VENDERSI ESCLUSIVAMENTE<br />

IN ABBINAMENTO<br />

A IL NUOVO RIFORMISTA<br />

che si affacciano all’Europa e i cui sviluppi interni<br />

non andrebbero trascurati – sono puntualmente<br />

ignorate.<br />

Arabi, democratici e liberali: cosa c’è di strano?<br />

101<br />

101<br />

BIMESTRALE, ANNO XXXI<br />

SPECIALE MAGGIO 2008<br />

Arabi<br />

democratici<br />

e liberali<br />

cosa c’è di strano?<br />

ieri dicevamo<br />

Pannella:<br />

<strong>Radicali</strong> ieri e oggi<br />

Da parte dei media, poi, esiste anche la presunzione di credere che cosa interessi<br />

al lettore e quale sia la notizia più “sexy” da mandare in stampa. <strong>Il</strong> più delle<br />

volte, però, è proprio questo atteggiamento snob dei quotidiani nazionali che<br />

crea non soltanto ulteriore ignoranza, ma anche un’immagine generalista e<br />

superficiale del mondo arabo.<br />

QR


ieri dicevamo 31<br />

QR<br />

Ma dagli attentati dell’11 Settembre nel 2001, la politica del mondo arabo è<br />

diventata anche politica interna europea. La sicurezza dell’Occidente oggi sembra<br />

essere legata a ciò che accade in Medio Oriente, e pertanto un’analisi più attenta<br />

della regione dovrebbe essere una delle priorità della politica estera europea.<br />

Fino a oggi però, almeno in Italia, non esistono organizzazioni che diano gli strumenti<br />

per analizzare la società nel mondo arabo nel suo insieme. “Arabi Democratici<br />

Liberali”, pertanto, vuole colmare questo vuoto.<br />

Arabi Democratici? Liberali?<br />

I media da sempre non amano le vie di mezzo, preferiscono il bianco e il nero,<br />

ma non i grigi, che secondo loro non suscitano interesse. Questa politica però<br />

non offre al lettore un quadro di riferimento.<br />

<strong>Il</strong> Medio Oriente – secondo il criterio descritto – sarebbe composto soltanto da<br />

Bin Laden e neppure in minima percentuale da persone che si oppongono al terrorismo,<br />

visti – chissà perché – come entità grigie.<br />

<strong>Il</strong> Medio Oriente, secondo<br />

i media, sarebbe pertanto<br />

bipolare, diviso tra dittature<br />

e fondamentalisti<br />

islamici e nel mezzo<br />

non ci sarebbe niente.<br />

Le terze vie, considerate<br />

come noiose dai redattori<br />

dei quotidiani, spariscono<br />

dalle pagine dei giornali.<br />

E i liberali arabi sono<br />

così boicottati. Di tanto<br />

in tanto, i giornali pubblicano<br />

qualche voce democratica,<br />

definendola però<br />

“un’eccezione”, inculcandoci<br />

ulteriormente che gli<br />

Arabi democratici e liberali<br />

non esistono.<br />

Ma dove sono gli arabi democratici liberali?<br />

Ormai, arabo e democratico-liberale sono diventati – per la maggior parte degli<br />

occidentali – due nomi antitetici tra di loro. Dopotutto, se i media non parlano<br />

mai degli arabi democratici liberali il grande pubblico non arriverà mai a conoscerli.<br />

A questo si aggiunge che la maggior parte degli Stati arabi sono governati<br />

da dittature, in cui la libertà d’espressione non esiste e le idee liberali sono censurate.<br />

Allora, che cosa rimane agli arabi democratici liberali?


La maggior parte di loro ha aperto pagine internet per bypassare le restrizioni<br />

dei governi e l’indifferenza dell’Occidente nei loro confronti, creando spesso dei<br />

veri e propri giornali on-line dedicati ai diritti civili e a quelli dell’uomo.<br />

Nonostante, quindi, i loro scritti siano disponibili in rete, le loro voci sembrano<br />

comunque non interessare, perché non in linea con l’immagine che l’Occidente<br />

ha del mondo arabo.<br />

Seduzione occidentale<br />

32<br />

C’è poco da fare. All’Occidente piacciono gli<br />

estremismi. Se da un lato c’è chi vuole vedere<br />

il mondo arabo solo come la culla del terrorismo<br />

in questo modo demonizzandolo, dall’altro lato<br />

c’è chi addirittura trova giustificazioni al terrorismo<br />

e sostiene i fondamentalisti nelle loro battaglie<br />

per l’oscurantismo.<br />

Quando lo scorso Settembre 2007, il Marocco è<br />

andato alle urne, infatti, tutti i media credevano<br />

(e volevano) la vittoria degli islamisti del PJD.<br />

Anche in questo caso, da un lato c’era chi diceva<br />

che gli arabi sono tutti fondamentalisti e chi<br />

dall’altro lato faceva l’occhiolino agli islamisti.<br />

Ebbene, il Marocco ha invece scelto la modernità.<br />

E l’Occidente ne è sembrato stupito.<br />

Anzi, dai toni di voce dei commentatori internazionali<br />

sembrava quasi che l’Occidente ci fosse<br />

rimasto male.<br />

ieri dicevamo<br />

ANNA MAHJAR-BARDUCCI<br />

Scrittrice e giornalista<br />

italo-marocchina,<br />

è presidente<br />

dell’associazione “Arabi<br />

Democratici Liberali”<br />

Così, invece di valorizzare la scelta del Marocco e parlarne nei quotidiani, il paese<br />

è sparito dalle pagine dei giornali. Dal 2002 a oggi, infatti, l’Europa e gli Stati<br />

Uniti hanno aiutato gli islamisti marocchini, hanno dato loro voce nelle Università<br />

e nelle conferenze internazionali.<br />

<strong>Il</strong> Dipartimento di Stato ha continuato a dire che bisognava sostenere il PJD, perché<br />

rappresenta la maggioranza nel Paese. In Francia, inoltre, sono stati anche<br />

pubblicati libri su quando il “Marocco sarà islamista”. A nessuno, però, è venuto<br />

in mente di invitare politici di partiti di centro, attivisti liberali, attivisti socialisti,<br />

donne imprenditrici. Niente di tutto ciò. L’Occidente invece ha mostrato di<br />

essere attratto dagli islamisti. Quasi sedotto.<br />

I giornalisti europei avevano già pronto il loro articolo da pubblicare, raccontando<br />

di come “anche” il Marocco “avesse scelto l’islamismo”.<br />

QR


ieri dicevamo 33<br />

QR<br />

Ma come mai l’Occidente aveva questa convinzione. L’arabo forse – nella concezione<br />

di alcuni occidentali – non può ambire alla libertà e al pluralismo. Si tratta<br />

forse di ignoranza? Soprattutto.<br />

Com’è nata “Arabi Democratici Liberali”<br />

Un anno fa (2007 ndr), io e Giuseppe<br />

Rippa abbiamo deciso di lanciare<br />

l’Associazione Arabi Democratici Liberali,<br />

grazie anche all’aiuto di studenti<br />

universitari motivati e di giornalisti<br />

che hanno voluto seguirci in questa<br />

nuova iniziativa. L’idea però era nata<br />

già qualche anno prima, durante vari<br />

miei viaggi in Medio Oriente e in Nord<br />

Africa.<br />

Nel 2004, infatti, mi trovavo a Gerusalemme<br />

per lavoro e ricevetti un<br />

invito a cena<br />

da uno scrittore<br />

giordano<br />

di origine palestinese,<br />

Shaker<br />

Nabulsi, nel<br />

ristorante del<br />

lussuoso Hotel<br />

King David. Era<br />

la prima volta<br />

che lo incontravo,<br />

ma Nabulsi<br />

era stato subito<br />

amichevole nei<br />

miei confronti.<br />

Parlammo così<br />

tutta la sera,<br />

davanti a specialità culinarie libanesi.<br />

Mi raccontò delle sue attività, dei<br />

suoi scritti, dei suoi articoli per quotidiani<br />

sauditi. Mi disse che era ormai<br />

dagli attentati dell’11 Settembre nel<br />

2011 che nel mondo arabo si stavano<br />

formando nuovi movimenti in rea-<br />

zione alle ideologie islamiste. Mi raccontò<br />

anche che gli intellettuali, gli<br />

studenti e i membri della società civile<br />

in Medio Oriente e in Nord Africa si<br />

stavano organizzando per creare gruppi<br />

e luoghi di ritrovo per arabi liberali.<br />

Mi disse, inoltre, orgoglioso,<br />

che nel mondo arabo questo movimento<br />

si faceva chiamare “islahiyn”<br />

(riformatori) e “liberaliyn” (i liberali).<br />

Gli chiesi allora di mettermi in contatto<br />

con altri intellettuali<br />

arabi.<br />

Gli dissi che ne<br />

volevo sapere di<br />

più.<br />

Nei media occidentali,<br />

infatti,<br />

non si parlava<br />

mai dei liberali<br />

nel mondo<br />

arabo, di questo<br />

movimento, che<br />

Nabulsi aveva<br />

descritto con<br />

tanta passione<br />

come “vivace e<br />

attivo”.<br />

Non riuscivo, allora, proprio a capire<br />

perché in Occidente si invitassero<br />

sempre le stesse persone: i pro-Hamas,<br />

i pro-Fratelli musulmani, ma<br />

nessun liberale.<br />

Quella sera, dopo aver cenato con<br />

Nabulsi, feci un giro delle tv italiane


(che in Israele si possono vedere via<br />

cavo) e poi andai su Internet a leggere<br />

i giornali. Di liberali arabi, nei<br />

media italiani, non ne trovai nemmeno<br />

uno. Allora, decisi di aprire la<br />

tv araba e guardare qualche dibattito.<br />

Cercai Al-Jazeera e Al-Arabiya e<br />

vidi, invece, discussioni in cui liberali<br />

ed estremisti litigavano tra di loro. E<br />

i liberali ci tenevano a farsi chiamare<br />

proprio liberali.<br />

Heggy, intellettuale egiziano, mi<br />

chiese se volevo andare a fare colazione<br />

con lui, dato che era in visita<br />

a Tel Aviv. Presi un taxi e andai a<br />

trovarlo incuriosita. Quando lo vidi,<br />

notai immediatamente che era un<br />

tipo abbastanza particolare: tutto<br />

profumato, rileccato, brillantinato,<br />

dai modi sofisticati e aristocratici. Era<br />

felice di vedermi e mi offrì un tè inglese<br />

con biscotti.<br />

Cominciò anche lui a raccontarmi dei<br />

suoi libri, della sua visione del mondo<br />

arabo e della necessità immediata di<br />

riforme politiche. I suoi discorsi mi<br />

convinsero, nonostante quei suoi atteggiamenti<br />

palesemente egocentrici<br />

lo avevano più volte reso il target<br />

preferito di attacchi da parte di altri<br />

intellettuali.<br />

Dopo avere parlato con Nabulsi e<br />

Heggy, però, mi resi immediatamente<br />

conto che i caratteri che delineavano<br />

i liberali erano gli stessi che<br />

definiscono il liberalismo in tutto<br />

il mondo. Questi intellettuali si battevano<br />

per le libertà dell’individuo,<br />

d’espressione, per i diritti umani delle<br />

donne, delle minoranze religiose. Per<br />

la normalizzazione delle relazioni con<br />

34<br />

Manifesto<br />

ieri dicevamo<br />

Noi siamo delle donne e<br />

degli uomini portatori dei<br />

valori della laicità e della<br />

condivisione di un mondo<br />

comune. Legati per le nostre<br />

singole storie e in maniera<br />

differente all’Islam,<br />

e avendo preso coscienza<br />

delle gravi crisi che attraversano<br />

attualmente il<br />

mondo arabo-musulmano,<br />

abbiamo deciso di mobilitarci<br />

per creare le condizioni<br />

politiche e intellettuali di<br />

una cultura liberale e delle<br />

libertà... Leggi<br />

QR


ieri dicevamo 35<br />

QR<br />

Israele. Erano contro il fondamentalismo<br />

religioso, contro le dittature, per<br />

il pluralismo religioso, per le riforme<br />

economiche, sociali e per la modernizzazione<br />

dei paesi nel mondo arabo.<br />

Da Gerusalemme, andai a Tunisi<br />

a trovare i miei familiari e cercai di<br />

mettermi in contatto con alcuni docenti<br />

universitari tunisini per sapere<br />

qual era il panorama culturale in<br />

questo paese.<br />

Andai così a trovare Ikbal Al-Gharbi,<br />

che poi negli anni è diventata una mia<br />

cara amica, all’Università Ezzeitouna<br />

dove insegna psicologia. Lei poi mi<br />

presentò altre persone Amel Grami,<br />

docente all’Università Manouba, e Lafif<br />

Lakhdar, intellettuale tunisino a Parigi.<br />

Qualche mese dopo, per lavoro, ebbi<br />

l’occasione di andare a Parigi a casa<br />

di Lakhdar, che decise di presentarmi<br />

al suo circolo di amicizie.<br />

Incontrai allora Pierre Akel, direttore<br />

del sito internet liberale on-line<br />

metransparent.com, Mohammed El<br />

Houni, intellettuale libico, George<br />

Tarabichi, intellettuale siriano, e tanti<br />

altri. Cominciai a ricevere libri, film,<br />

cd musicali di artisti arabi, che parlavano<br />

della voglia di libertà e di modernità.<br />

Iniziai a guardami intorno anche in<br />

Marocco, il mio paese, e mi accorsi<br />

che a essere liberali non c’erano<br />

soltanto gli intellettuali, ma anche<br />

studenti, casalinghe, commercianti<br />

senza denti in medina che si lamentavano<br />

del terrorismo e degli integralisti.<br />

Mi sono pertanto resa conto che piano<br />

piano le idee liberali in un modo o<br />

nell’altro influenzano la maggior parte<br />

della popolazione nel mondo arabo. E<br />

che gli integralisti sono una minoranza<br />

e che anche coloro che sostengono<br />

le dittature sono una minoranza.<br />

Questi però fanno più rumore<br />

degli altri e attraggono e affascinano i<br />

media occidentali. Mentre la maggioranza,<br />

che vorrebbe l’uguaglianza di<br />

diritti e una società libera da oppressioni,<br />

è abbandonata dai media e dai<br />

politici occidentali e lasciata in balìa<br />

di una minoranza, che cerca di prendere<br />

il monopolio della regione.<br />

Tratto da <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong> 101<br />

Speciale Maggio 2008


Disoccupazione<br />

La statistica dà i numeri<br />

La cosa più sensata da fare, per chi volesse<br />

informarsi sulla questione, sarebbe<br />

quella di rivolgersi al nostro istituto<br />

nazionale di statistica, consultare le<br />

rilevazioni periodiche e prendere nota<br />

del dato: nel nostro caso l’8,2% ovvero<br />

2.043.000 di persone (agosto 2010).<br />

Missione compiuta dunque? In teoria si,<br />

considerando l’autorevolezza del’Istat;<br />

nella realtà dei fatti le cose non starebbero<br />

proprio così.<br />

A confondere le idee, infatti, ci si<br />

mettono le rilevazioni diffuse periodicamente<br />

da altri enti e istituti; rilevazioni<br />

che non sono quasi mai in linea con<br />

quanto sostiene il nostro istituto di statistica.<br />

E le differenze in alcuni casi non<br />

sono di poco conto. Nel secondo trimestre<br />

2010, ad esempio, la Banca d’Italia<br />

ha fissato il tasso di disoccupazione a<br />

un impietoso 11%, la CGIL ha giocato al<br />

rialzo con un più corposo 11,5%; mentre<br />

gli artigiani di Mestre (CGIA) e gli<br />

industriali di Confindustria (dati gennaio<br />

2010) si sono mostrati più moderati con<br />

un rispettivo +10,2% e +10,1%. Se poi<br />

si prendono in considerazione blog e siti<br />

internet ecco che le percentuali schizzano<br />

a ben oltre il 15%.<br />

Chi ha ragione, allora? Paradossalmente<br />

tutti e nessuno.<br />

36<br />

Quanti sono i disoccupati in Italia?<br />

Ecco una domanda, all’apparenza banale, che potrebbe non trovare<br />

risposta.<br />

Requisiti statistici<br />

per essere considerati<br />

occupati:<br />

- avere più di 15 anni;<br />

- avere svolto almeno 1 ora<br />

di lavoro retribuita nella<br />

settimana cui si riferisce<br />

l’indagine;<br />

- avere svolto almeno 1 ora di<br />

lavoro non retribuita presso la<br />

ditta di un familiare.<br />

Requisiti statistici<br />

per essere considerati<br />

disoccupati:<br />

- non avere un’occupazione;<br />

- avere effettuato almeno<br />

un’azione di ricerca di lavoro<br />

nei trenta giorni precedenti<br />

l’intervista;<br />

- disponibilità ad iniziare<br />

a lavorare entro le<br />

due settimane successive<br />

all’intervista.<br />

...non olet<br />

Fonte: Istat<br />

QR


...non olet 37<br />

QR<br />

Nel nostro caso ciò che varia tra le diverse stime sono i parametri di<br />

analisi. Mentre l’Istat considera come disoccupati soltanto quei “senza lavoro”<br />

che in un dato momento stanno attivamente cercando un impiego; gli altri invece<br />

includono tra i disoccupati gli scoraggiati (chi ha smesso di cercare lavoro perché<br />

non ha più fiducia nel sistema) e i cassintegrati. In soldoni si tratta (approssimativamente)<br />

di 400mila persone che vagano nella terra di nessuno della statistica (e<br />

non solo).<br />

Ma se nessuno di questi dati è concettualmente errato, differenze così vistose<br />

sollevano più di un dubbio sulla validità dell’analisi finale. Anzi, proprio questo<br />

vistoso proliferare di numeri solleva più di un dubbio sulla effettiva capacità (o<br />

volontà) di descrivere il fenomeno nelle sue reali dimensioni. È un po’ quello che<br />

accade con il minestrone: più aumentano gli ingredienti, più si fanno confusi i<br />

sapori, più risulta difficile distinguerli gli uni dagli altri.<br />

Come ti calcolo (e ti addomestico?) il tasso di disoccupazione. E di ingredienti<br />

le rilevazioni statistiche ne usano davvero molti. Per essere considerati<br />

disoccupati, ad esempio, non basta semplicemente essere in cerca di un impiego<br />

o non averne affatto. Invece, occorre – dice l’Istat – “non avere un’occupazione,<br />

avere effettuato almeno un’azione di ricerca di lavoro nei trenta giorni precedenti<br />

l’intervista (si svolge con cadenza settimanale), essere disponibili a iniziare a<br />

lavorare entro le due settimane successive all’intervista”.<br />

Tasso di disoccupazione: “fluttuazioni alla fonte” (dati Agosto 2010)


38<br />

...non olet<br />

In altri termini: se non hai un lavoro e inizieresti anche subito, ma nell’ultimo<br />

mese non hai spedito neanche un curriculum vitae (magari perché ne hai inviati<br />

un blocco di mille 40 giorni prima), allora sei “fuori dei giochi” e ti trovi a vivacchiare<br />

nel limbo dei dati.<br />

Sul fronte degli occupati, invece, gli statistici sono più “indulgenti”. La parola<br />

torna all’Istat: “sono considerate occupate le persone con più di 15 anni che<br />

nella settimana a cui si riferisce l’intervista hanno svolto almeno un’ora di lavoro<br />

retribuita. È occupato anche chi ha lavorato almeno per un’ora presso la ditta di<br />

un familiare senza essere retribuito”. Lavori minimo un’ora al giorno, magari nella<br />

ditta di tuo padre senza neanche la “paghetta”? In questo caso non c’è trippa per<br />

gatti: finisci comunque nel brodo statistico degli occupati.<br />

Ricapitolando: siccome il tasso di disoccupazione è un rapporto (tra chi cerca<br />

lavoro senza trovarlo e chi effettivamente lavora); siccome il denominatore è<br />

tendenzialmente più grande (basta lavorare 1 ora al giorno) del nominatore (il<br />

famoso curriculum spedito 30 giorni prima) ecco allora che avere tassi esorbitanti<br />

risulta, se non impossibile, quanto meno più difficile.<br />

QR


...non olet 39<br />

QR<br />

Sgombriamo il campo da un<br />

equivoco: dietro questi numeri non<br />

c’è nessun disegno manipolatorio da<br />

imputare ai consueti poteri forti italiani.<br />

Questa metodologia di rilevazione<br />

dei dati, infatti, è stata fissata a livello<br />

comunitario con il regolamento<br />

577/98 del Consiglio dell’Unione Europea.<br />

Volendo però essere un po’<br />

smaliziati, non si può non sottolineare<br />

come, in fin dei conti, sono stati<br />

proprio i governi nazionali (anche il<br />

nostro, ovviamente) a volerla. Forse<br />

perché addolcisce un amaro calice?<br />

Cosa fanno 15 milioni di italiani?<br />

In linea di principio il tasso di<br />

disoccupazione dovrebbe essere un<br />

indicatore importantissimo; la fotografia<br />

che ci informa sulla salute<br />

dell’economia e sulla capacità del<br />

sistema economico di impiegare i<br />

(potenziali) lavoratori (e di creare<br />

reddito). Come spiegare allora che un<br />

alto tasso di disoccupazione non sempre<br />

equivale a un’alta percentuale di<br />

occupati? Facciamo un piccola verifica.<br />

Nel 2009 in Italia il tasso di<br />

disoccupazione ufficiale è stato<br />

dell’8,2% “uno dei più bassi<br />

d’Europa”. Ma veniamo al ma. Che<br />

si chiama tasso di occupazione (“la<br />

parte di popolazione che lavora” secondo<br />

l’Istat) e che – dice Eurostat - è<br />

inchiodato al 57% (sempre Istat).<br />

Peggio della Spagna (59,8%), della<br />

Romania (58,6%), della Grecia<br />

(61,2%). Semplificando, ciò significa<br />

che su 60 milioni di italiani circa 26<br />

milioni di loro, per qualche motivo<br />

(l’età, ad esempio), non partecipano<br />

al mercato del lavoro.<br />

E non è tutto. Tra questi 26 milioni<br />

di “esclusi”, infatti, ci sono circa 15<br />

milioni di inattivi; una categoria estremamente<br />

eterogenea che comprende<br />

casalinghe, studenti, lavoratori<br />

al nero e così via. E all’interno<br />

della quale spiccano – è proprio il<br />

caso di dirlo – gli ectoplasmi del nostro<br />

mercato del lavoro: gli “sfiduciati”,<br />

vale a dire quelle persone che<br />

hanno smesso di cercare attivamente<br />

un’occupazione e che, a rigor di logica,<br />

forse dovrebbero essere invece<br />

considerati come “disoccupati”. La<br />

loro consistenza numerica è difficile<br />

da stabilire anche se la CGIA di Mestre<br />

ha stimato che negli ultimi due<br />

anni 528mila persone sono uscite<br />

dalle statistiche ufficiali sulla disoccupazione<br />

per ingrossare le file degli<br />

inattivi. Un vero e proprio limbo,<br />

dunque, residenza privilegiata di individui<br />

che, per il nostro sistema statistico<br />

ed economico, non sono né<br />

carne né pesce.<br />

Le statistiche sono attendibili? Ciò<br />

che questo proliferare di statistiche<br />

sembra suggerire è che, in fondo, le<br />

fonti ufficiali non riescono a descrivere<br />

appieno né la reale estensione del<br />

fenomeno disoccupazione né le effettive<br />

potenzialità del nostro sistema<br />

produttivo. O forse, è lo stesso indice<br />

di disoccupazione – inteso come un<br />

semplice rapporto tra chi un lavoro lo<br />

cerca e chi lo ha già – ad avere perso<br />

il suo potenziale descrittivo.<br />

GIOVANNI M. LOSAVIO


40<br />

Forza Italia<br />

SILVIO FOREVER<br />

visioni<br />

Berlusconi “attore” non buca il grande schermo<br />

“L’autobiografia non autorizzata” di Silvio Berlusconi firmata da<br />

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella e portata nelle sale da Roberto<br />

Faenza e Filippo Macelloni, non ha avuto il risalto mediatico che ci si<br />

aspettava. Forse perché è l’ennesimo film sul Cavaliere di Arcore o più<br />

probabilmente perché ha deluso una certa intellighenzia che si augurava<br />

la solita solfa in stile morettiano o modello Travaglio e che invece si<br />

è trovata di fronte un film non militante.<br />

Inizialmente l’idea era un’altra: quella di un documentario di montaggio che<br />

raccontasse la degenerazione politica del Paese, “Casta Italia”. Poi - racconta il regista<br />

ROBERTO FAENZA – «mentre raccoglievamo i materiali, ci siamo resi conto<br />

QR


visioni 41<br />

QR<br />

che mancava il baricentro della storia<br />

e che veniva sempre fuori la figura del<br />

leader, della star: Berlusconi. Allora abbiamo<br />

deciso di convertire l’idea di un<br />

film sul Paese in un film su un unico<br />

personaggio che in realtà poi è anche<br />

rappresentativo perchè raccontando<br />

lui si raccontano anche vizi e virtù del<br />

Paese che rappresenta».<br />

Molti a sinistra, giornalisti e non,<br />

hanno definito “Silvio Forever” addirittura<br />

un elogio a Berlusconi. «Chi<br />

lo ha detto e scritto è vittima dei propri<br />

pregiudizi, perché il film è di una ferocia<br />

non banale e lo è tanto di più perché il<br />

re è nudo, ma messo a nudo da se stesso.<br />

In tanti vorrebbero vedere Berlusconi<br />

sempre all’arma bianca, con sangue<br />

a fiotti. Questo non era il nostro intento,<br />

ce ne sono già troppi di film contro Berlusconi:<br />

nel nostro film è lui che si racconta<br />

e proprio raccontandosi si svela».<br />

C’è chi ha lamentato anche<br />

l’assenza dell’opposizione e del<br />

popolo. «C’è il popolo di Berlusconi.<br />

Non mettere l’opposizione, è stata invece<br />

una scelta precisa, perché in realtà<br />

la chiave di volta per capire questi 18<br />

anni di dominio berlusconiano, secondo<br />

me, è il palcoscenico. L’uomo Berlusconi<br />

opera sul palcoscenico, lui non parla<br />

mai di politica, non entra mai nell’agone<br />

politico. Lui parla dal palcoscenico, dalla<br />

televisione. È perciò ancora più difficile<br />

potergli opporre un’opposizione che non<br />

sa, o non vuole, o non è interessata<br />

ad agire sul palcoscenico. <strong>Il</strong> linguaggio<br />

popolare che lui usa non viene usato<br />

dagli altri politici. Perciò abbiamo scelto<br />

di opporre a lui gli unici competitors che<br />

ha: i comici, gli uomini di palcoscenico, i<br />

vari Fo, Benigni, Luttazzi, lo stesso Mar-<br />

Silvio Forever ripercorre con<br />

brillante ironia la storia di<br />

Berlusconi bambino intraprendente<br />

prima, eccellente<br />

imprenditore poi, uomo politico<br />

infine. Lo fa affidando al<br />

protagonista il ruolo di narratore:<br />

è lo stesso Silvio a<br />

raccontare la grande epopea<br />

della sua vita (sostituito<br />

ogni tanto, per motivi strettamente<br />

tecnici, dalla voce<br />

quasi identica di Neri Marcorè),<br />

è sua la voce che lo<br />

innalza a semidio e idolo del<br />

popolo, e sempre sue sono<br />

le parole che lo descrivono<br />

come “il più grande premier<br />

degli ultimi 150 anni della<br />

storia d’Italia”.


co Travaglio, che non è solo un giornalista ma anche uomo di spettacolo. Come si<br />

suol dire, insomma, a brigante brigante e mezzo».<br />

Documentario di montaggio<br />

che parte dal viaggio di Alcide<br />

De Gasperi in USA del 1947 e<br />

ripercorre 30 anni di potere<br />

democristiano in Italia fino al<br />

congresso della DC del 1976.<br />

<strong>Il</strong> film utilizza esclusivamente<br />

materiale di repertorio, senza<br />

commento fuori campo, ma<br />

con l’inserimento di frasi e battute<br />

originali che, attraverso<br />

un accurato lavoro di montaggio<br />

(firmato da Silvano Agosti)<br />

contribuiscono a creare una<br />

vera e propria cronistoria dal<br />

taglio fortemente satirico e<br />

graffiante. La pellicola, distribuita<br />

nella sale nell’inverno del<br />

1977-78, fu ritirata dopo pochi<br />

mesi su richiesta del Ministero<br />

dell’Interno a causa del<br />

sequestro e dell’uccisione del<br />

presidente democristiano Aldo<br />

Moro.<br />

42<br />

visioni<br />

Anche “Forza Italia” era, con la<br />

Democrazia Cristiana come protagonista,<br />

un film di montaggio<br />

che “parlava da sé”, senza<br />

una voce off che raccontava.<br />

Cos’altro accomuna le due pellicole?<br />

«Forza Italia è un film molto<br />

diverso: raccontava un potere ormai<br />

putrescente, tant’è che da lì a poco<br />

la DC si sarebbe dissolta. Un potere,<br />

bisogna sottolinearlo, non amato<br />

dal popolo italiano: la DC, citando<br />

Indro Montanelli, veniva votata dalla<br />

maggior parte degli italiani col naso<br />

turato per paura del pericolo comunista.<br />

Perciò, ‘Forza Italia’ era la manifestazione<br />

del nostro astio, del fastidio,<br />

era la nostra rappresaglia. Con<br />

“Silvio Forever” si parla invece di un<br />

personaggio molto amato da una<br />

parte degli italiani che peraltro, ripeto,<br />

racconta se stesso».<br />

Aldo Moro si scagliò contro “Forza<br />

Italia”, Berlusconi invece….?<br />

«Sono convinto che Berlusconi abbia<br />

visto il film. In ogni caso, lo vedrà e<br />

all’inizio credo che avrà un moto di<br />

rifiuto, perchè in questo momento<br />

l’uomo Berlusconi non è sereno,<br />

troppo assillato dai problemi che<br />

conosciamo. Ma nel tempo, quando<br />

abbandonerà l’attività politica, si<br />

renderà conto che questo è il film più<br />

puntuale della sua vita, perché anche<br />

nelle parti più critiche è lui stesso<br />

che parla. Sono sue le parole del<br />

film, non può sconfessare se stesso.<br />

Anche Moro, quando vide Forza Italia,<br />

fu molto ostile, tant’è che chiamò<br />

il direttore di Repubblica Scalfari per<br />

QR


visioni 43<br />

QR<br />

chiedergli di modificare la piccola recensione,<br />

il tamburrino di Kezich. Ma quando più tardi<br />

Moro ebbe davanti a sé lo specchio illuminante<br />

di quello che stava accadendo, durante la sua<br />

prigionia scrisse del nostro film. Una cosa<br />

assurda, visto che all’epoca levarono il film<br />

dalla circolazione proprio per rispetto a lui».<br />

Come è stato impostato il lavoro per questo<br />

film di montaggio? «Per ‘Forza Italia’<br />

avevamo costruito una sceneggiatura recuperando<br />

i materiali negli unici archivi esistenti<br />

all’epoca, <strong>Il</strong> Luce e la Rai. “Silvio Forever”<br />

è nato invece lavorando sul web, il vero archivio<br />

di oggi. Tutto è sul web, infatti: la stessa<br />

composizione di questo film non ha nulla di<br />

originale. L’originalità è data dall’aver messo insieme, creando un collante, tanta<br />

roba disseminata in territori vari. Abbiamo scaricato centinaia di ore di materiali.<br />

Poi ci siamo rivolti agli archivi dove erano depositati per acquistare i diritti di quelli<br />

scelti».<br />

Con quali difficoltà? «Abbiamo compulsato archivi di tutto il mondo, Taiwan,<br />

America, Germania, Svizzera, Spagna. Gli unici problemi li abbiamo avuti in Italia,<br />

dove i due grandi archivi della memoria sono politicizzati. Uno è Mediaset, che non<br />

consente praticamente accesso e non vende i materiali, figuriamoci per un lavoro di<br />

questo genere. L’altro è la Rai, sulla quale bisognerebbe aprire un altro discorso…».<br />

Vale a dire…? «La Rai è una cassaforte controllata<br />

dal potere politico: detiene la memoria di<br />

questo Paese. Purtroppo non c’è una sensibilità<br />

democratica, neanche nei giornalisti e questo mi<br />

stupisce, nel chiedere che l’archivio della memoria<br />

di un Paese sia aperto al pubblico e non solo<br />

compulsabile ma anche acquistabile. Noi dunque<br />

abbiamo avuto difficoltà non tanto a trovare i<br />

materiali, quanto ad averli. E siamo arrivati ovviamente<br />

anche all’assurdo: la Rai ha censurato<br />

il trailer del film, in realtà censurando se stessa,<br />

perchè le immagini della mamma di Berlusconi ce<br />

le ha fornite proprio Viale Mazzini».<br />

ROBERTO FAENZA<br />

Per “Forza Italia” si avvalse della collaborazione di due giornalisti, Antonio<br />

Padellaro e Carlo Rossella. La sceneggiatura di ‘Silvio Forever’ è firmata da<br />

un’altra coppia di giornalisti: Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella…


«I giornalisti non godono oramai di<br />

grande fiducia da parte dell’opinione<br />

pubblica, perché la maggior parte di<br />

essi scrive solo ciò che fa piacere al<br />

padrone di turno. Per fortuna c’è ancora<br />

chi sa fare bene un certo lavoro.<br />

<strong>Il</strong> tanto vituperato Rossella ai tempi<br />

di “Forza Italia” era una delle penne<br />

più brillanti del giornalismo italiano<br />

(tra l’altro di sinistra, un cossuttiano)<br />

e si occupò della parte più dinamica,<br />

più divertente del film. Secondo me<br />

i giornalisti in cuor proprio vorrebbero<br />

fare delle cose che non riescono<br />

a fare lavorando nei giornali, e di<br />

conseguenza quelli realmente bravi<br />

possono essere di grande aiuto per<br />

fare un film».<br />

Silvio Forever: come definirebbe<br />

questa sua ultima pellicola? “Silvio<br />

Forever” è una cronaca di un<br />

ventennio raccontata attraverso il<br />

suo megafono. Sono convinto che<br />

questo film rimarrà nel tempo, avrà<br />

una lunga memoria. Questo tipo di<br />

autobiografia raccontata dal protagonista<br />

mi sembra sia la più rappresentativa<br />

possibile di questi 18 anni in<br />

cui Berlusconi è stato al potere, perché<br />

lui è veramente il rappresentante<br />

di una certa Italia, è ‘l’arci italiano’,<br />

nel peggio sì, ma è l’arci italiano:<br />

racconta le barzellette, gli piacciono<br />

le belle donne, compra le squadre di<br />

calcio, nutre disprezzo per le regole,<br />

odia i giudici. Incarna, insomma,<br />

una parte cospicua di questo Paese.<br />

Quando dico, perciò, che questo film<br />

è una cronaca intendo che è la puntuale<br />

memoria di una parte del Paese<br />

che racconta se stesso lungo 20<br />

anni».<br />

FLORENCE URSINO<br />

44<br />

I “mille volti”<br />

di Neri Marcorè<br />

Tra satira e politica<br />

visioni<br />

Artista versatile che coniuga attualità<br />

e intrattenimento intelligente<br />

giocando abilmente con<br />

le parole. Attore, ma prima di<br />

tutto un cittadino che sa tenere<br />

insieme il doppio livello della leggerezza<br />

e della responsabilità<br />

civile e sociale, per raccontare e<br />

guardare il Paese senza mezze<br />

misure, e con un linguaggio<br />

forte ed emozionante, energico e<br />

partecipe.<br />

Neri Marcorè: l’artista che passa<br />

dal teatro al cinema alla televisio-<br />

QR


visioni 45<br />

QR<br />

ne, dalla risata al dramma alla riflessione, dalle fiction alla cultura in tv<br />

alle imitazioni, e l’uomo/cittadino che dichiara il suo impegno in politica...<br />

In questi anni si è mai posto il problema che il pubblico potesse sentirsi<br />

confuso e non riconoscere la sua chiave interpretativa, se ironica o seria?<br />

«Certamente da cittadino sono dichiaratamente<br />

di parte. Da attore che, tra le varie<br />

cose, fa anche satira, sono deontologicamente<br />

portato a comportarmi in maniera diversa.<br />

La satira va fatta a 360 gradi, perché<br />

mette il dito nella piaga in qualsiasi situazione,<br />

quella politica è la predominante, ma<br />

anche quella sociale e civile. Per esempio,<br />

durante il governo Prodi interpretavo Ligabue<br />

in “Una vita da prodiano” … (sempre a<br />

prendere schiaffoni/ a tenere tutti buoni/<br />

circondato da coglioni)…. Sicuramente la<br />

mia non è stata proprio una critica leggera,<br />

rispetto a quanto poi si è verificato: un governo<br />

sbriciolato. Oppure quando ho fatto<br />

satira su Mastella e Dini, o ancora quando<br />

interpretavo Fassino o “Caro Walter”, sempre<br />

facendo una parodia di Ligabue. Diciamo<br />

che le due cose, l’essere artista e l’essere<br />

cittadino, hanno in comune me. Ma le distinguo,<br />

evitando di tenerle unite».<br />

MARCORÈ/CAPEZZONE<br />

“...attraverso la<br />

maschera dell’imitazione<br />

metto a nudo i limiti<br />

evidenti di un<br />

La politica è ormai diventata teatro,<br />

con un folto cast che si esibisce senza personaggio politico.”<br />

finzioni e artifici, arricchendo e alle-<br />

(VIDEO)<br />

stendo i palinsesti televisivi. Marcorè<br />

ha portato in scena la politica, senza<br />

teatralizzarla, ma restituendola attraverso<br />

lo strumento della satira. Uno<br />

strumento di orientamento politico che ridimensiona o concede ulteriore<br />

notorietà al proprio bersaglio? E allora, è più seducente e attraente, per<br />

esempio, il Gasparri di Marcorè o il Gasparri vero?<br />

«Alcuni mi “accusano” di aver reso famoso Gasparri dandogli visibilità attraverso<br />

la mia imitazione (VIDEO). Altri che gli abbia soltanto fatto un favore. È ovvio che<br />

il mio obiettivo è un altro. È pure ovvio che facendo satira devi comunque veicolare<br />

dei messaggi, senza prescindere dalla risata che dovrebbe sempre accompagnarla.<br />

E quindi attraverso la maschera dell’imitazione metto a nudo i limiti evidenti<br />

di un personaggio politico, puntando l’attenzione sulle idee e i progetti che


propone, indipendentemente dal giudizio sulla persona. Chiunque veda uno sketch<br />

è in grado di capire e distinguere qual è la differenza tra la verità e l’imitazione, e<br />

quanto sia distante la realtà dalla finzione. E magari la prossima volta che rivede<br />

quel personaggio in qualche salotto televisivo, starà più attento alle sue parole e<br />

alle sue intenzioni».<br />

Dunque la satira, che non è mai ironia, diventa la chiave interpretativa<br />

del sociale, legata al presente, alla politica, che potrebbe condizionare<br />

l’orientamento di voto?<br />

46<br />

visioni<br />

«Chi fa satira sa che ci sono dei metalinguaggi che influenzano l’opinione pubblica.<br />

E quindi anche attraverso uno sketch si possono guadagnare o perdere voti.<br />

Questa è una cosa di cui molti sono coscienti e che tentano di controllare. Tuttavia,<br />

rivendico la libertà di ogni artista di esprimersi come vuole. Nel senso<br />

che è vero che, più un artista è politicizzato, più risponde al suo pubblico di quello<br />

che ha fatto negli anni. E se poi fa una scelta diversa, il suo pubblico si sente<br />

legittimamente tradito. Diciamo che ognuno risponde alla sua coscienza, poi se<br />

questo corrisponde all’ammirazione del pubblico o meno, è il rischio da correre».<br />

Dal momento che oggi assistiamo alla messa in scena dei vizi, espressi<br />

impudicamente sotto le luci dei riflettori, quanto rimane della satira come<br />

strumento di smascheramento e di critica, come limitazione alle incoerenze<br />

e al malcostume che<br />

infettano la quotidianità?<br />

«Questa rappresentazione della<br />

politica così attaccabile dà meno<br />

gusto di farci satira. Fare satira<br />

per esempio contro Mussolini<br />

sarebbe stato molto stimolante,<br />

perché il risultato sarebbe<br />

stato più forte, e il rischio più<br />

alto. Così come entusiasmante<br />

era fare satira ai tempi di Occhetto,<br />

ovvero contro quel tipo<br />

di politica tanto distante dalla<br />

gente, e tanto carica di fascino<br />

perché non si riusciva a capirne<br />

i meccanismi intrinseci. Adesso<br />

i meccanismi sono così palesi, meschini, bassi. Questo ti dà meno voglia di fare<br />

satira. È l’appetito che manca».<br />

Sul palcoscenico Marcorè ha portato voci anticipatrici di importanti feno-<br />

QR


visioni 47<br />

QR<br />

meni sociali che hanno interrogato il Paese, e per esso si sono indignati,<br />

lanciando un messaggio di libertà e giustizia sociale. Giorgio Gaber, primo<br />

fra tutti, con una personale rivisitazione a partire da Un certo signor<br />

G. Una voce che attaccava il conformismo usando l’ironia e il feroce sarcasmo,<br />

e che ad un certo punto incrocia Pier Paolo Pasolini, e la denuncia<br />

al sistema di omologazione e distruzione di ogni autenticità, portato<br />

a teatro nello spettacolo Eretici e corsari. Oggi esiste qualcuno che come<br />

loro riesca a parlare e comunicare con quella stessa forza?<br />

«Pasolini e Gaber sono stati intellettuali<br />

provocatori. Hanno avuto<br />

contrasti con la destra e con la<br />

sinistra. I loro pensieri sono stati<br />

messi in dubbio, molto spesso in<br />

cattiva luce. Purtroppo questo fa<br />

parte della cattiva coscienza che<br />

ci accompagna e ci divide quando<br />

qualcuno dice qualcosa che non fa<br />

piacere. Rispetto a Gaber e Pasolini,<br />

verso i quali c’era comunque<br />

una maggiora attenzione ai loro<br />

discorsi, a certi appelli, oggi siamo<br />

talmente sommersi di informazioni<br />

che ci provengono dalle più svariate<br />

fonti di comunicazioni, che<br />

è sempre più difficile orientarsi<br />

tra la pluralità di voci e di notizie.<br />

Questo non ci permette di capire<br />

dove sia la verità. Riuscire a fil- fi l-<br />

NERI MARCORÈ - Un certo signor G<br />

trare l’attendibilità delle cose non è<br />

semplice. Quindi, al di là se esistano<br />

o meno intellettuali da seguire, non bisogna smettere mai di continuare ad interrogarsi,<br />

di continuare a non mettere a tacere la nostra coscienza, senza ledere i<br />

diritti e le libertà degli altri. E ricordarsi che abbiamo sempre la facoltà di decidere<br />

se farlo o non farlo. È vero che in questo momento, in cui l’etica è scritta con una<br />

e piccolissima, è difficile capire quale strada sia la più utile o più dannosa, la più<br />

buona o la più cattiva da seguire. Ma forse è necessario ritrovare un dialogo con la<br />

nostra coscienza. Questo è il primo passo che si potrebbe tentare».<br />

Nell’ultima intervista a Furio Colombo, Pasolini afferma che “il futuro è<br />

già morto”. Era il 1975. Aleggia ancora oggi lo stesso pessimismo?<br />

«Penso che più di pessimismo si debba parlare di tristezza. Rispetto a ieri, in cui


forte si sentiva il senso dell’appartenenza<br />

che legava tutti, oggi si è<br />

perso il senso di solidarietà. Gli esempi<br />

dei nostri tempi ci incoraggiano<br />

a pensare a noi stessi come<br />

individui solitari. Pensare a te stesso<br />

è meglio, perché questo porta ad essere<br />

più furbo, meglio di quello che ti<br />

sta vicino. Soltanto chi non è miope<br />

riesce a percepire il pericolo di questa<br />

tensione sociale che si sviluppa<br />

e per la quale è sempre necessario<br />

trovare il capro espiatorio, l’extra<br />

comunitario. Fa comodo pensare di<br />

chiudersi nel proprio cancello, facendo<br />

un muro, alzando palizzate per<br />

proteggersi. Ma ci sono delle spinte,<br />

come quelle della fame e di una vita<br />

dignitosa, che portano a scavalcare<br />

qualsiasi muro. Quindi non ci si può<br />

sentirsi al sicuro proteggendosi. Ci si<br />

può sentire sicuri soltanto aprendosi<br />

all’altro e cercando di trovare una<br />

sintesi, una condizione comune».<br />

Sembrerebbe dalle sue parole<br />

che gli stessi argomenti di 30<br />

anni fa - ovvero da quando Gaber<br />

ha parlato all’uomo dell’uomo,<br />

attraversandolo nel timore del<br />

conformismo, nella ricerca della<br />

propria originalità, nel confronto<br />

con la politica, con la società, con<br />

la solitudine, nel tentativo di individuare<br />

i propri rappresentanti -<br />

siano ancora validi e coinvolgenti.<br />

«In “Se non ora, quando?”, Primo<br />

Levi dà voce ad uno straniero a cui<br />

lascia dire: siete curiosi voi italiani,<br />

difficile catalogarvi. Siete sempre<br />

stati contro le regole e le leggi. La<br />

prima cosa che vi piace fare è disobbedire<br />

alle leggi.<br />

48<br />

visioni<br />

Vi piace talmente tanto che se uno<br />

riesce a farlo, voi lo ammirate. Non<br />

soltanto quando lo stesso frega<br />

qualcun’altro, ma anche quando frega<br />

voi stessi: da una parte c’è la delusione<br />

di essere stati aggirati, dall’altra<br />

una parte di ammirazione per quanto<br />

è stato furbo e bravo. Questo potrebbe<br />

spiegare i mali che ci affliggono da sempre,<br />

e quelli più recenti. Si rende necessaria<br />

una coscienza attiva per riscoprire<br />

il senso di appartenenza e di identità,<br />

per usare una parola cara a Gaber.<br />

La cultura può aiutare il pubblico a<br />

ritrovare questo senso di comune<br />

appartenenza, di dignità collettiva?<br />

«La cultura è un argomento declassato<br />

a un bene voluttuario. Uno studio<br />

dell’università di Torino dimostra che<br />

un euro investito in cultura ha un indotto<br />

di 18 euro. Un Paese che riduce<br />

sempre più la percentuale di Pil investito<br />

in cultura fa un errore, soprattutto<br />

economico. La cultura riesce a riprodurre<br />

altra ricchezza, filtra attraverso di<br />

noi e cambia la nostra prospettiva e il<br />

nostro modo di guardare il mondo e gli<br />

altri. La cultura ci permette di capire un<br />

messaggio, un’opera d’arte, decodificare<br />

tutto quello che ci raggiunge. Apre<br />

la nostra mente e ci priva di pregiudizi.<br />

In questo senso ha il valore enorme di<br />

nutrire il nostro cuore e la nostra creatività<br />

che è presupposto di lavoro…di<br />

posti di lavoro. Se non ci fosse la creatività<br />

non ci sarebbero eccellenze imprenditoriali<br />

e aziendali come la Ferrari.<br />

E questo passa attraverso prodotti culturali<br />

- non misurabili su un piatto della<br />

bilancia - e confronto con gli altri».<br />

AMELIA REALINO<br />

QR


visioni 49<br />

QR<br />

Robert Wilson<br />

<strong>Il</strong> Teatro come sogno della visione<br />

Nel panorama dell’avanguardia teatrale americana del secondo<br />

Novecento compare la figura di Robert Wilson, un giovane ed eclettico<br />

artista che porterà alle estreme conseguenze la messa in discussione<br />

dell’apparato drammaturgico e scenografico tradizionale,<br />

sottolineando quella ribellione al vecchio modo di concepire la rappresentazione<br />

già incominciata dai primi movimenti di rottura nati<br />

agli inizi del secolo scorso.<br />

La ricerca di Wilson prende corpo da un nuovo modo di concepire la scrittura<br />

scenica. Egli la lega infatti alla poesia visiva, compiendo così un’operazione che<br />

mirerà ad assimilare il copione alla scena, ma non sotto un aspetto puramente<br />

contenutistico, bensì visivo. Ora il testo viene citato sulla scena in maniera inconsueta<br />

e le parole si analizzano nella loro resa grafica. Se nel copione vengono<br />

organizzate le parole, i versi, sulla scena verranno disposti gli attori. Sono corpi.<br />

Oggetti di scena. Wilson vuole dunque trasformare gli attori stessi in unità verbali<br />

i cui movimenti e relazioni sono organizzati in costrutti sintattici 1 .<br />

Lo spettacolo diventa dunque un copione visivo. Si entra in un labirinto edificato<br />

da luci, forme, colori, corpi in movimento. Tutto è mescolato. Ogni elemento<br />

inscindibile dall’altro. Chi guarda viene inondato dall’esperienza e i sensi sembrano<br />

non esser mai stati così stimolati a recepire pulsioni, corporee e psichiche allo<br />

stesso tempo.<br />

Giorni Felici, Bob Wilson rende visione il doloroso ossimoro di Beckett - Leggi


Wilson analizza meticolosamente le possibilità<br />

dello sguardo. Vedere è una componente<br />

essenziale. Fondamentale. La<br />

sua è una drammaturgia della visione<br />

nella quale l’uso del colore diviene<br />

predominante. La cromaticità si fa grazie<br />

a lui teatro nutrendo ogni angolo dello<br />

spazio scenico, ora amplificato in nuove<br />

ed infinite potenzialità espressive.<br />

A tal proposito egli stesso ha più volte<br />

affermato: “Io dipingo con la luce, il<br />

colore aiuta la percezione, il colore<br />

aiuta a vedere ed ascoltare” 2 . Niente<br />

di più. Ciò viene dimostrato, nel corso<br />

della sua opera, da un affanno costante<br />

nella ricerca del colore puro. Stende di<br />

volta in volta sul cartone scenografico<br />

pennellate decise, creando così quegli<br />

sfondi, che richiamano alla mente i dipinti<br />

di Francis Bacon o “...l’abbacinante<br />

ultrachiarezza che caratterizza<br />

le vedute di De Chirico, Tanguy e<br />

Dalì...” 3 . Sfondi su cui adagiare gli attori,<br />

qui figurini di veri e propri tableaux<br />

vivant.<br />

<strong>Il</strong> teatro occidentale con tutte le sue<br />

strutture ragionate lo aveva sempre<br />

infastidito. Wilson allora decide di discostarsene,<br />

non piegandosi ai compromessi<br />

esegetici della tradizione e non<br />

50<br />

ROBERT ‘BOB’ WILSON<br />

(4 ottobre 1941) Regista e<br />

drammaturgo statunitense,<br />

nel corso della sua caleidoscopica<br />

carriera ha lavorato anche<br />

come coreografo, pittore, scultore,<br />

videoartista e designer di<br />

suoni e luci. La fama a livello<br />

mondiale arriva soprattutto<br />

grazie alle collaborazioni con<br />

Philip Glass, in ‘Einstein on the<br />

Beach’, e con numerosi altri<br />

artisti, tra cui William S. Burroughs,<br />

Allen Ginsberg, Tom<br />

Waits e David Byrne.<br />

accettandone soprattutto quelle regole che puntualmente portavano ad una rappresentazione<br />

didascalica del testo affidato alla parola esplicitata.<br />

visioni<br />

Attraverso l’elemento visivo Wilson libera lo spettatore dalle catene dell’intellettualismo<br />

che per anni lo hanno obbligato a conferire un nome, un significato ad ogni<br />

elemento scenico. Offre al pubblico una visione dalla quale poi ciascun spettatore<br />

partirà per formulare una personale narrazione immaginativa. Siamo<br />

noi chiamati a guardare, ad inventare, quando il silenzio irrompe nella scena, le<br />

relazioni che i respiri, gli sguardi degli attori, le varianti cromatiche prestate ai rapidi<br />

cambi della luce, comunicano. E siamo sempre noi, nonostante la distanza dalla<br />

scena/quadro, che entriamo in comunicazione con il palpitare sensoriale che investe<br />

anche gli oggetti, ora capaci di comunicare come i personaggi in carne e ossa.<br />

QR


visioni 51<br />

QR<br />

Qualsiasi elemento diventa nelle<br />

mani di Wilson magico, dotato di<br />

poteri straordinari. La scena fa smarrire.<br />

È una tela simbolica la cui visione<br />

inquieta. Agita, mette quasi a disagio<br />

perché ci ricorda puntualmente la<br />

nostra nuda fragilità di fronte alla messa<br />

in discussione dell’umana ragione<br />

e della sua capacità di razionalizzare<br />

sempre l’esperienza. Non siamo più in<br />

grado di definire con precisione quello<br />

che vediamo, non possiamo conferire<br />

ad esso una consequenzialità, bensì<br />

in esso possiamo solo lasciarci andare<br />

totalmente, sperimentando lo stesso<br />

abbandono di quando dormendo profondamente<br />

si entra nella dimensione<br />

onirica.<br />

Arriviamo così a vivere in un<br />

sogno. <strong>Il</strong> sogno della visione, preteso<br />

da Wilson e mai celato, anzi più<br />

volte dichiarato esplicitamente, come<br />

quando in un’intervista, senza lasciare<br />

dubbio alcuno, affermò: “È successo<br />

più volte che uno spettatore mi racconti<br />

in un mio spettacolo immagini<br />

che non c’erano. Uno mi disse una<br />

volta di aver visto un cavallo rosso.<br />

Non c’era mai stato un cavallo rosso.<br />

Ma lui lo aveva sognato, e aveva associato<br />

il suo sogno alla sequenza dello<br />

spettacolo, il ché è del tutto legittimo.<br />

Anzi, è quello che voglio” 4 .<br />

NOTE<br />

ANNA CONCETTA CONSARINO<br />

1 Ruggero Bianchi, Off Off & AWAY-Percorsi Processi<br />

Spazi del Nuovo Teatro americano, Studio Forma<br />

Editrice, Torino, 1981.<br />

2 Valentina Valentini, Ubiquità d’arti e di luoghi in<br />

“Robert Wilson o il teatro del tempo”, Ubulibri, Firenze,<br />

1999.<br />

3 Mihail Moldoveneanu, L’esperienza come modo di<br />

pensare, Editoriale Domus, Milano, 2001, cit. p. 25.<br />

4 M. Prosperi, La mia ambizione è proprio riuscire a<br />

far dormire, in “La Repubblica”, 27 luglio 1977.<br />

Achille<br />

Bonito Oliva<br />

La Transavanguardia<br />

c’est moi<br />

L’inventore del termine e teorizzatore<br />

del movimento artistico<br />

nato nei primi anni ‘80<br />

usa l’autoironia, parafrasando<br />

Flaubert (‘Madame Bovary<br />

c’est moi’), e rivendica la<br />

grande validità, tuttora, del<br />

suo manifesto.<br />

«Così come affermano Fredric Jameson,<br />

filosofo e pensatore americano,<br />

peraltro marxista, e Hans-Georg Gadamer,<br />

grande filosofo europeo. Entrambi<br />

infatti, pur appartenendo a<br />

contesti culturali diversi, concordano<br />

sul fatto che la Transavanguardia sia


una lettura non di un movimento artistico ma, in maniera più complessa, della<br />

postmodernità e, in quanto tale, configuri una serie di rilevamenti teorici che possono<br />

tuttora riscontrarsi in molti ambiti dell’arte e della produzione artistica. La<br />

Transavanguardia non si riduce quindi semplicemente al ping pong iniziale che c’è<br />

stato in architettura col postmodernismo, la contrapposizione tra il movimento<br />

moderno, il razionalismo e gli architetti che scoprivano i dialetti architettonici della<br />

periferia. Ma si tratta di una complessità<br />

articolata attraverso la cura della ma-<br />

nualità, la soggettività, la pittura».<br />

52<br />

Lei infatti ha teorizzato due<br />

specificità diverse all’interno della<br />

Transavanguardia... «Sì, c’è una<br />

transavanguardia calda e una fredda.<br />

Nel primo caso c’è questa contaminazione,<br />

questo matrimonio morganatico<br />

tra Picasso per la pittura e Duchamp<br />

per il ready made; e la citazione che<br />

Chia, Cucchi, Clemente, De Maria e<br />

Paladino fanno di questi stili è una<br />

situazione di oggetti impalpabili che<br />

corrisponde a quello che è il metodo<br />

duchmpiano dell’oggetto trovato. La<br />

Transavanguardia calda corrisponde<br />

quindi molto alla citazione che avviene<br />

nella cornice dell’arte. La transavanguardia<br />

fredda, invece, esce dalla cornice<br />

e diventa architettura, installazione,<br />

in cui i principi di assemblaggio, di<br />

riconversione, di contaminazione, di<br />

destrutturazione, sono gli stessi. Per<br />

cui, come diceva Ippocrate, vita brevis, ars longa».<br />

Massaggiare<br />

il ‘muscolo atrofizzato’<br />

della sensibilità collettiva<br />

in un momento in cui<br />

la vita sociale e politica<br />

dell’umanità sembra esser<br />

risucchiata nel buco nero<br />

della comunicazione puramente<br />

autoreferenziale.<br />

Questo il compito dell’arte<br />

oggi secondo Achille Bonito<br />

Oliva, massimo esponente<br />

in Italia di quello che la<br />

sua generazione definì<br />

‘critico totale’.<br />

visioni<br />

Lei ha rivoluzionato il concetto di critico. Oggi il critico è ancora ‘cacciatore’?<br />

Qual è il suo ruolo? «Oggi dalla figura di critico totale rappresentata dalla<br />

mia generazione si è staccata una costola: il curatore. Ecco, i curatori fanno pura<br />

manutenzione: lavorano sullo status quo, su una gestione di piccolo cabotaggio.<br />

Certo, lo fanno perché c’è anche una domanda, dovuta al fatto che si sono aperti<br />

tantissimi musei, non solo internazionali, ma anche locali, regionali, comunali,<br />

e si ha bisogno di personale. Molti di questi giovani curatori non hanno il senso<br />

dell’avventura intellettuale, né la scrittura. Hanno solo un’idea di gestione quotidiana.<br />

Quindi in finale si può dire che la figura del critico totale sia rappresentata di<br />

più dalla mia generazione, che comprende anche Harald Zeman, Rudi Fuchs. Nonostante<br />

ci siano alcuni curatori di oggi che stimo, che sono acuti, sottili, originali,<br />

QR


visioni 53<br />

QR<br />

in generale il trend è quello curatoriale, per cui in questi soggetti non esiste cultura<br />

interdisciplinare, globale, teorica, filosofica, ma più una capacità manageriale,<br />

organizzativa, di gestione dello<br />

spazio museale».<br />

In un’intervista al Corriere della<br />

Sera dichiarò che “Siamo in un clima<br />

di vuoto in cui dilaga la pura comunicazione”...<br />

«Parlavo di peronismo<br />

mediatico: deriva da Perón, da una specie<br />

di unanimismo che in Argentina si è<br />

diffuso a destra e sinistra e ottenuto qui<br />

in Italia attraverso i media.<br />

A un certo punto questo è diventato una<br />

sorta di parametro, di modello che ha<br />

svuotato la politica di ogni contenuto, di<br />

ogni profondità e ha imposto un modello<br />

di politica come pura comunicazione,<br />

performativa, autoreferenziale, in cui<br />

non esistono progetti, non c’è un’idea<br />

di futuro, ma di eterno presente in cui<br />

prevale la politica del videogame, della<br />

vittoria elettorale per la pura vanità di<br />

vincere: tutto è impostato sull’idea della<br />

comunicazione, tutto è comunicazione<br />

e quindi quello che conta è intercettare<br />

il voto, il cliente. E questa, come<br />

“OMAGGIO” A PAPA WOJTYLA<br />

sappiamo, è la strategia della televisione<br />

commerciale che ha invaso anche la politica<br />

e che permette al Premier di considerare l’Italia come un’azienda di cui avendo<br />

la maggioranza può decidere ogni regola, specialmente nella deregulation».<br />

Ma questo clima di vuoto di cui lei parla riguarda anche l’arte? «Certo.<br />

L’arte vive nella storia, nel contesto, l’artista è calato nella società. Nieztsche aveva<br />

profetizzato il tempo comico, ovvero la postmodernità, il tempo dell’irrilevanza,<br />

della superficie, dello svuotamento, del superamento del tragico. Tutto questo<br />

trasferito in politica, come già detto, porta al peronismo mediatico, trasferito<br />

nell’arte può portare ad un atteggiamento edonistico, performativo e autoreferenziale.<br />

Ma l’arte mantiene comunque una funzione: quella di massaggiare il muscolo<br />

atrofizzato della sensibilità collettiva, una sensibilità pellicolare, ridotta al minimo<br />

proprio dal mito televisivo. Quindi l’arte può avere una funzione investigativa,<br />

una funzione anche inquietante. Proprio per questo motivo non bisogna misurare<br />

l’arte con lo share televisivo: spesso il pubblico vuole nel proprio spazio domestico<br />

immagini consolatorie, non problematiche. E invece l’arte vuole stabilire nuovi


processi di conoscenza. Oggi esiste<br />

un’arte pubblica, un’arte del sociale,<br />

un’arte, come diceva Picasso, puntata<br />

sul mondo».<br />

Quest’ultima considerazione ci porta<br />

all’attualità e alle polemiche sulla<br />

statua di Papa Wojtyla collocata in<br />

piazza dei Cinquecento a Roma…<br />

«Roma è una città abituata ad avere<br />

l’arte pubblica fuori dai musei, dalle<br />

gallerie, dalle case: naturalmente con<br />

Bernini, Borromini, Michelangelo e altri<br />

grandi artisti ci è andata bene. Bisognerebbe<br />

chiedersi cos’è questa statua<br />

sul piano formale. La statua è contraddittoria:<br />

una testa reclinata da statuario<br />

degli anni ’30, che non ha quella<br />

postura che dovrebbe avere un papa<br />

guerriero e madre allo stesso tempo,<br />

uomo accogliente ma che ha dato una<br />

bella spallata al comunismo (e che non<br />

mancò, ricordo, quando cadde il muro<br />

di Berlino, di stigmatizzare anche un<br />

certo capitalismo americano). Un uomo<br />

di grande umanità, quindi, di grande<br />

apertura. E questo suo sguardo ecumenico<br />

non viene fuori perché ha la<br />

testa reclinata. Poi c’è il mantello aperto,<br />

che lo svuota del suo peso. Quindi<br />

è molto poco monumentale. Ma il vero<br />

problema è un altro: l’amministrazione<br />

di Veltroni dedicò una piazza al Papa.<br />

Andò bene, perchè la piazza è evocativa.<br />

Ma imporre una statua in una piazza<br />

multiculturale, dove convivono persone<br />

di tante etnie, dove c’è nomadismo,<br />

diventa un momento di estrema staticità,<br />

un’affermazione impositiva. Quella<br />

statua, tralasciando dunque il fatto che<br />

sul piano linguistico mi lascia molto perplesso,<br />

è un’imposizione».<br />

FLORENCE URSINO<br />

54<br />

A domanda<br />

risponde<br />

Queste conversazioni danno<br />

spesso nello stucchevole. Colpa<br />

di chi? Ripartirei le responsabilità<br />

fra intervistatori e intervistato.<br />

L’intervistato è uno:<br />

Jung. Gli intervistatori sono<br />

molti, ma li accomuna un particolare<br />

modo di porsi di fronte al<br />

personaggio Jung.<br />

“Ma com’è forte, sano, vigoroso<br />

questo Jung! E com’è bello stargli<br />

accanto! Si respira un’aria campestre,<br />

sembra di stare in natura. Non<br />

è certo un decadente Jung, né un<br />

nevrotico, come il povero Freud! La<br />

civiltà, anzi la civilizzazione, l’orrida<br />

visioni<br />

QR


visioni 55<br />

QR<br />

civilizzazione, non l’ha ancora fiaccato. Ed è saggio, si equipara, niente meno, che<br />

alla pianta, ben radicata in terra”.<br />

E qual è in sintesi è il suo pensiero?<br />

Si tratta per lo più di messaggi di salvezza, inviati urbi et orbi. Qualche esigente<br />

cervello potrebbe dire: ‘Che noia!’ ma il gran pubblico se ne incanta. E il libro che<br />

li lancia vende. Vendono bene i miei libri, dice Jung. Stare in natura paga.<br />

Ma, se si può porre una domanda imbarazzante, cos’è per Jung la natura?<br />

Quella umana si intende; la si può assimilare a quella di una pianta? Jung pensa<br />

di sì. E qual è, in tal caso, il ruolo dell’imprevisto? La natura umana si è evoluta,<br />

nei secoli, grazie all’imprevisto, diventando spesso il contrario di se stessa.<br />

In un passo dello Zibaldone Leopardi parla di una disposizione a poter essere di<br />

cui la natura avrebbe provvisto l’uomo, e solo l’uomo, che grazie a questa facoltà<br />

può andare oltre e contro le intenzioni della natura stessa. Acquisendo così una<br />

serie di vantaggi, fra cui la capacità di astrazione e la straordinaria adattabilità ai<br />

cambiamenti.<br />

In altre parole: il processo culturale, pur vantando una continuità di millenni, conosce<br />

ogni tanto dei salti, delle fratture che ti aprono nuovi scenari. Si concilia ciò<br />

col far pianta?<br />

CARL GUSTAV JUNG è<br />

stato uno psichiatra,<br />

psicanalista e<br />

antropologo svizzero.<br />

La sua tecnica<br />

e teoria di derivazione<br />

psicanalitica<br />

è chiamata ‘psicologia<br />

analitica’.<br />

Inizialmente vicino<br />

alle concezioni di<br />

Sigmud Freud, se<br />

ne allontanò definitivamente dopo un<br />

processo di differenziazione concettuale<br />

culminato con la pubblicazione di<br />

La libido: simboli e trasformazioni. In<br />

questo libro egli esponeva il suo orientamento,<br />

ampliando la ricerca analitica<br />

dalla storia personale del singolo<br />

alla storia della collettività umana:<br />

l’inconscio non è più solo quello individuale,<br />

prodotto dalla rimozione, ma<br />

nell’individuo esiste anche un incoscio<br />

collettivo che si esprime negli archetipi.<br />

Jung disdegnerebbe la domanda. Nel<br />

suo pensiero i contrari convivono e<br />

spesso si abbracciano felicemente.<br />

Poco male se ciò sconcerta il lettore attento.<br />

I lettori disattenti non ci fanno<br />

caso, sedotti da una prosa accattivante,<br />

il cui principale pregio è quello di non<br />

affaticare troppo le meningi.<br />

Qui, a p. 212, troviamo: “L’uomo<br />

nasce con la sua individualità. Ma<br />

c’è qualcosa che egli può fare al di là e<br />

al di sopra del materiale precostituito<br />

della sua natura: può diventare cosciente<br />

di ciò che lo fa essere la persona che<br />

è”. Prendere coscienza, un leitmotiv di<br />

tanta psicologia moderna. Si è meno<br />

imbecilli dopo esser diventati coscienti<br />

di sé stessi?<br />

E a p. 274 troviamo: “L’individuazione


è un processo naturale: è quello che fa diventare un albero un albero; se si<br />

interferisce, l’albero si ammala e non può più funzionare come albero, ma lasciato<br />

a se stesso invece…” E se l’intervistatore domanda quale ruolo abbia la coscienza:<br />

“Oh, si tende a sopravvalutare il ruolo della coscienza. La coscienza può anche<br />

bloccare l’individuazione …” Non chiederemo al fantasma di Jung come si fa a<br />

conciliare le due tesi.<br />

<strong>Il</strong> libro migliora nella sua seconda<br />

metà. Migliora ma non guarisce.<br />

La qualità degli intervistatori infatti<br />

migliora (non ci sono più allievi in estasi<br />

a porre le domande). Non guarisce<br />

perché Jung tende a ripetersi. Lo fa<br />

sempre. Egli ha trovato una volta per<br />

tutte la soluzione del problema umano<br />

e non ha bisogno di proseguire. Anche<br />

i libri che cita gli servono per confermare<br />

il già dato. Non può quindi capire<br />

Freud, pronto a modificare di continuo<br />

le proprie tesi a seconda del materiale<br />

emerso. I work in progress non fanno<br />

per lui.<br />

Colpisce, in proposito, il travisamento<br />

di alcuni fondamentali concetti<br />

freudiani. Per esempio l’Edipo. Jung<br />

lo liquida così: “Freud… trascura del<br />

tutto il fatto che insieme al complesso<br />

edipico è dato già il suo contrario, vale<br />

a dire la resistenza contro di esso.”<br />

(p.367). E il senso di colpa che accompagna<br />

la presenza di un complesso edi-<br />

SIGMUND FREUD<br />

pico non superato Freud non lo avrebbe<br />

mai messo in luce? A volte sembra<br />

quasi che Jung travisi i concetti del suo vecchio maestro per meglio confutarli.<br />

56<br />

visioni<br />

Così col Super-io. Scrive Jung, rispondendo a una domanda dell’intervistatore:<br />

“<strong>Il</strong> Super-io, il codice di ciò che possiamo fare e non possiamo fare.” (p.368) E<br />

non aggiunge, come sarebbe stato necessario: Questo codice è inconscio, e si<br />

può incarnare in una o più figure umane, che personalizzano il codice, rendendolo<br />

concreto, e differente da un individuo all’altro. In realtà, il Super-io non è un codice;<br />

è un fantasma, dietro il quale si può intravedere un codice, più o meno deformato.<br />

Non c’è mai, nel Super-io, la severa asciuttezza del codice; c’è un grumo<br />

di emozioni, spesso mal digerite.<br />

QR


visioni 57<br />

QR<br />

“Freud, Jung prosegue, non vede che<br />

il codice è dentro di lui, che ce l’ha<br />

dentro. Altrimenti non potrebbe esservi<br />

equilibrio nell’individuo.” (p.<br />

369) Ma se Freud e i freudiani non<br />

fanno che ripetere che il Super-io è<br />

soprattutto inconscio, cioè a contatto<br />

con tutto l’inconscio, e che è per<br />

questo che riesce a captare i nostri<br />

desideri proibiti, donde il senso di<br />

colpa di cui spesso stentiamo a capire<br />

l’origine! Dovremmo dedurne<br />

che l’inconscio è esterno a noi?<br />

Altro fiore: “Per Freud l’inconscio<br />

era un prodotto della coscienza,<br />

della quale conteneva tutti i residui…<br />

“(p.423). L’Es sarebbe quindi un<br />

prodotto della coscienza? <strong>Il</strong> fatto di<br />

giocare in casa, con intervistatori comunque<br />

deferenti, fa sì che Jung non<br />

badi troppo alla coerenza; o si guardi<br />

dalle banalità. Questa farebbe gola al<br />

signor Lapalisse: la psiche non è una<br />

cosa diversa dall’essere vivente, è<br />

l’aspetto psichico dell’essere vivente.<br />

Grazie!<br />

Jung dà il meglio di sé quando parla<br />

di fenomeni religiosi o della propria<br />

esperienza di psicoterapeuta. <strong>Il</strong> suo<br />

studio dei Tipi, per esempio, resta<br />

a tutt’oggi valido. Jung ne parla qui<br />

a più riprese, e le sue risposte sono<br />

sempre precise. Così come ci aiutano<br />

a capir meglio certi aspetti della simbologia<br />

religiosa, e in specie di quella<br />

cristiana. Meno convincente quando<br />

si dilunga a parlare della crisi, e delle<br />

aspettative, del mondo attuale. Risulta<br />

per lo più generico.<br />

VINCENZO LORIGA<br />

criticone musicale<br />

Nato vecchio<br />

Radiohead – “The King Of<br />

Limbs”<br />

L’eclettismo<br />

come ragione di<br />

vita (musicale)<br />

è ormai il marchio<br />

di fabbrica<br />

dei Radiohead,<br />

probabilmente la<br />

più importante<br />

band inglese<br />

degli ultimi vent’anni. Ciò detto The<br />

King Of Limbs, ottavo disco in studio<br />

del quintetto originario di Oxford, poteva<br />

essere definita roba vecchia già<br />

dopo poco più di un mese dall’uscita,<br />

stando alle dichiarazioni dei Radiohead<br />

a quanto pare impegnati con le<br />

registrazioni di nuovo materiale. Di<br />

quest’ultima fatica dei nostri, a parte<br />

due brani veramente validi dell’intero<br />

album (Codex e Give Up The Ghost),<br />

il popolo di internet ricorderà soprattutto<br />

le numerose parodie che hanno<br />

affettuosamente preso di mira il video<br />

realizzato per Lotus Flower, con il cantante<br />

Thom Yorke negli improbabili e<br />

buffi panni di provetto ballerino. La<br />

voglia di sperimentare dei Radiohead<br />

è ammirevole, ma alla voce di Yorke<br />

basta un pianoforte per toccare e far<br />

vibrare le corde più intime del suo pubblico;<br />

tutto il resto, nel migliore dei<br />

casi, è un brillante ammiccamento alle<br />

più interessanti derive della musica<br />

elettronica contemporanea.


Boccata d’ossigeno<br />

R.E.M. – “Collapse Into Now”<br />

<strong>Il</strong> chitarrista<br />

dei R.E.M.<br />

Peter Buck ha<br />

affermato di<br />

recente che<br />

“andare in tour<br />

non aiuta le<br />

vendite dei dischi<br />

e pertanto<br />

non ce ne sarà uno per questo disco”.<br />

È un vero peccato, visto che dopo<br />

un paio di album fin troppo “politici”<br />

per gli estimatori dell’imperscrutabile<br />

Michael Stipe, Collapse Into Now<br />

rappresenta finalmente una boccata<br />

d’ossigeno nella discografia recente<br />

del terzetto di Athens, Georgia. Non<br />

che i R.E.M. abbiano mai fatto segreto<br />

delle loro simpatie democratiche;<br />

guardando però indietro agli anni<br />

dell’amministrazione Bush, le liriche<br />

criptiche e ambigue di Stipe non sembravano<br />

avere tratto particolare giovamento<br />

da un impegno sociale tanto<br />

nobile quanto scontato. Episodi energici<br />

e non isolati di Collapse Into Now<br />

quali Discover, Mine Smell Like<br />

Honey e That Someone Is You –<br />

reminiscenze del rock più sanguigno<br />

dei primi anni novanta – susciteranno<br />

nell’ascoltatore più smaliziato una<br />

rispettosa forma di tenerezza, un po’<br />

come i duetti Alligator_Aviator_<br />

Autopilot_Antimatter e Blue, realizzati<br />

rispettivamente con Peaches e<br />

la musa di Michael Stipe, la poetessa<br />

e cantante Patti Smith. Spiace infine<br />

notare come un altro ospite potenzialmente<br />

molto interessante – Eddie<br />

Vedder dei Pearl Jam – sia stato<br />

58<br />

purtroppo relegato nei cori finali della<br />

trascurabile It Happened Today.<br />

Attesa delusa<br />

The Strokes – “Angels”<br />

visioni<br />

Inutile girarci attorno:<br />

per quanta<br />

simpatia possiamo<br />

avere per gli eterni<br />

giovanotti della<br />

New York più cool,<br />

cinque anni di attesa<br />

per un viaggio<br />

musicale di<br />

mezz’ora attraverso gli stessi identici<br />

luoghi ci sembrano comunque troppi.<br />

Dopo avere saputo interpretare meglio<br />

di altri lo zeitgeist degli anni Zero, gli<br />

Strokes corrono il rischio di scadere in un<br />

calligrafismo musicale eccessivamente<br />

autoreferenziale. Angles, a partire dal titolo<br />

(un riferimento alle cinque differenti<br />

individualità presenti nella band, secondo<br />

le parole del chitarrista Albert Hammond<br />

Jr.), è l’album “interlocutorio” che prima<br />

o poi capita a tutti gli artisti di produrre.<br />

Gli ascoltatori più benevoli – dopo le<br />

digressioni soliste dei vari membri del<br />

gruppo, compreso il debutto del cantante<br />

Julian Casablancas Phrazes For The<br />

Young (2009) – lo vedranno come un<br />

punto di partenza verso una rinnovata<br />

forma proiettata verso il futuro. Gli altri,<br />

soprattutto quelli che al recente singolo<br />

Under Cover Of Darkness avrebbero<br />

preferito brani più immediati quali Reptilia<br />

o You Only Live Once, dovranno<br />

invece accontentarsi del ritornello vagamente<br />

à la Joy Division di Life Is Simple<br />

In The Moonlight e di poco altro.<br />

ADIL MAURO<br />

QR


visioni 59<br />

QR<br />

la redazione (h)a letto...<br />

antonio marulo (h)a letto...<br />

Sputare una sentenza a indagine appena iniziata. Quando commette<br />

questo errore, l’inquirente costruisce pervicacemente il<br />

castello accusatorio trascurando fatti e circostanze che confutano<br />

il suo pre-giudizio. Ne sa qualcosa il protagonista dell’ennesimo<br />

romanzo di Georges Simenon, pubblicato di recente da Adelphi.<br />

Peraltro, Petit Louis, ladro di polli che si crede un gangster, fa del<br />

suo peggio per favorire maldestramente il meccanismo perverso<br />

di una giustizia ingiusta ben calata in un contesto sociale ipocrita<br />

e moralista.<br />

Simenon ancora una volta non delude i suoi lettori abituali. I<br />

neofiti, invece, con Corte d’Assise, iniziano nel migliore dei modi la lettura<br />

dell’immensa opera del papà di Maigret.<br />

luigi o. rintallo (h)a letto...<br />

Potenza della carta<br />

sul web! <strong>Il</strong> romanzo<br />

Train man (Isbn<br />

edizioni, pp. 368)<br />

riproduce – anche<br />

graficamente - i post<br />

di un forum su internet,<br />

nel quale gli intervenuti<br />

soccorrono<br />

il giovane protagonista (che si firma<br />

appunto Train Man), consigliandolo e<br />

guidandolo alla conquista della sua<br />

amata Hermes. <strong>Il</strong> risultato è una storia<br />

d’amore, ambientata nell’odierno<br />

Giappone di giovani immersi nel mondo<br />

virtuale dei blog, tutti emoticon e<br />

tastiera. <strong>Il</strong> mondo degli “otaku”, eterni<br />

ragazzi che agganciano la vita attraverso<br />

la Rete, nel tentativo di contrastare<br />

le loro solitudini e incertezze.<br />

Vero fenomeno mediatico, da questo<br />

libro cult per tanti adolescenti sono<br />

derivati serial e cartoni animati ed<br />

è singolare che ciò sia avvenuto<br />

muovendo dalla stampa nel 2004 di<br />

un’opera dell’autore collettivo Nakano<br />

Nitori, rappresentativo degli utenti<br />

web del 2Channel di Tokio.<br />

florence ursino (h)a letto...<br />

C’è l’investigatore<br />

duro e ombroso, le<br />

sue sigarette e il suo<br />

whiskey, la sensualità<br />

infida di labbra rosse<br />

e i panorami grigi e<br />

fumosi degli anni ’40.<br />

Ci sono dialoghi secchi<br />

e la malinconia di<br />

un eroe che infine è sempre e solo un<br />

uomo che cerca senza retorica la verità.<br />

È puro noir il romanzo in bianco e


e nero in cui per la prima volta appare<br />

l’incorruttibile e cinico Philip Marlowe,<br />

il detective per antonomasia di Raymond<br />

Chandler, che, con una prosa<br />

quasi poetica, diretta e senza fronzoli,<br />

catapulta il lettore nella grigia e impenetrabile<br />

bellezza dell’unico, vero,<br />

mistero: <strong>Il</strong> grande sonno.<br />

paolo izzo (h)a letto...<br />

Ritorna Vincenzo<br />

Malinconico, lo scanzonato<br />

protagonista<br />

di Non avevo capito<br />

niente, e mai un sequel<br />

narrativo fu più<br />

riuscito. In Mia suocera<br />

beve (Einaudi,<br />

2010) il maldestro,<br />

scettico e un po’ misantropo avvocato<br />

napoletano, per trovarsi come al solito<br />

nel posto sbagliato in un momento<br />

sbagliato, è investito dalla popolarità,<br />

nemica giurata delle sue silenziose<br />

elucubrazioni. Suo malgrado, ma senza<br />

mai perdere il suo onnicomprensivo<br />

e sfiancante monologo interiore,<br />

dimostrerà ai suoi cari di essere migliore<br />

di quanto egli stesso non pensi.<br />

Confermando, a noi lettori, la bravura<br />

del suo autore: memorabile la parodia<br />

dei più famosi giornalisti nostrani, che<br />

Diego De Silva “usa” nel libro per<br />

raccontare l’eroico gesto del suo antieroe.<br />

60<br />

andrea spinelli (h)a letto...<br />

L’intelligenza è un<br />

handicap che attanaglia<br />

la vita di Antoine,<br />

frustrato perché isolato<br />

da un mondo con<br />

il quale non riesce a<br />

interagire. Egli è talmente<br />

infelice che<br />

cerca disperatamente<br />

una soluzione: diventare<br />

stupido. Dalla stupidità Antoine<br />

guadagna denaro, una posizione sociale,<br />

l’amore. L’intelligenza, la curiosità<br />

intellettuale, lo spirito inquieto di<br />

Antoine sono visti dall’autore come<br />

difetti, intralci nel percorso verso la<br />

felicità. La ricerca della stupidità che,<br />

paradossalmente e in maniera esilarante,<br />

risulta essere un sintomo di<br />

intelligenza estrema.<br />

Come sono diventato stupido di<br />

Martin Page è un libro leggero e<br />

acuto che vale qualche ora di stacco<br />

dalla vita, per assaporarne l’essenza.<br />

alessia carlozzo (h)a letto...<br />

visioni<br />

Charlie è il classico<br />

ragazzo che fa perennementetappezzeria,<br />

“qualità” che<br />

gli permette di raccontare<br />

con una<br />

purezza rara le vicissitudini<br />

di cui suo<br />

malgrado si ritrova ad<br />

essere silenzioso spettatore. Droghe, sesso, omosessualità e abusi sono solo alcuni<br />

dei temi descritti nelle sue lettere indirizzate a un amico immaginario. Mai<br />

volgare, mai moralista, The Perks of being a Wallflower di Stephen Chbosky<br />

è diventato un fenomeno cult negli Stati Uniti, capace di regalare a una genera-<br />

QR


visioni 61<br />

QR<br />

zione “editorialmente” rovinata (se non perduta) un novello giovane Holden. “We<br />

accept the love we think we deserve” rivela il professore di lettere a Charlie e<br />

lui non mancherà di ricordarcelo pagina dopo pagina, come un mantra religioso<br />

che pervade ogni sua singola esperienza. <strong>Il</strong> colpo di scena poi giace proprio lì<br />

nell’ultimo sconvolgente capitolo.<br />

alessandra agapiti (h)a letto...<br />

In un Paese senza<br />

nome, nella sua capitale<br />

senza nome i cittadini<br />

decidono senza<br />

nessuna premeditazione<br />

di non votare<br />

alle elezioni. L’83%<br />

della popolazione si<br />

esprime lasciando le<br />

schede in bianco. Si verifica un caso<br />

straordinario senza precedenti: è impossibile<br />

costituire un nuovo governo.<br />

Cosa fare dunque? Le autorità decidono<br />

di porre sotto assedio la città e<br />

seminare il panico nel disperato tentativo<br />

di trovare a tutti i costi un capro<br />

espiatorio per riportare la situazione<br />

all’ordine. Ma è impossibile.<br />

Saggio sulla lucidità di Saramago<br />

è una riflessione durissima e attuale<br />

sulla questione del potere e della legge<br />

nel sistema democratico in vigore<br />

che ogni ‘lucido’ cittadino dovrebbe<br />

fare propria. Soprattutto di questi<br />

tempi.<br />

IL MESE di <strong>Quaderni</strong> <strong>Radicali</strong><br />

Numero Zero - Luglio 2011<br />

www.quaderniradicalionline.it<br />

licya vari (h)a letto...<br />

C’è un ragazzo in fuga<br />

dal suo paese, l’Iraq,<br />

e c’è tutta la drammaticità<br />

di un cammino<br />

incerto, altalenante,<br />

appeso al filo di una<br />

speranza che a volte<br />

sembra cedere il passo<br />

alla rassegnazione.<br />

Ne l’ Ulisse da Baghdad Edizioni e/o<br />

c’è, invero, il viaggio e la storia di<br />

ognuno di noi: di chi sente dentro di<br />

sé quell’inquietudine che lo spinge a<br />

non accontentarsi, di chi cerca negli<br />

occhi degli altri un po’ di se stesso e<br />

di chi, guardando uno straniero, riesce<br />

a cogliere la bellezza della sua<br />

umanità.<br />

Con uno stile volutamente semplice<br />

Eric-Emmanuel Schmitt affronta<br />

un tema tra i più attuali, quello della<br />

migrazione per far riflettere sul senso<br />

delle barriere e sulla inevitabilità di un<br />

loro superamento.

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