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9<br />
Bimestrale edito dalla <strong>Libera</strong> <strong>Compagnia</strong> <strong>Padana</strong><br />
Anno III - N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997<br />
L’anarco-capitalismo padano<br />
Dalla Padania<br />
di Sant’Ambrogio<br />
a quella odierna<br />
Milano, centro<br />
della Terra<br />
di Mezzo<br />
Le radici<br />
della cultura<br />
letteraria padana<br />
<strong>La</strong> Padania<br />
e i nuovi Paesi dell’Est
<strong>La</strong> <strong>Libera</strong><br />
<strong>Compagnia</strong><br />
<strong>Padana</strong><br />
Quaderni Padani<br />
Casella Postale 792 - Via<br />
Cordusio 4 - 20123 Milano<br />
Direttore Responsabile:<br />
Alberto E. Cantù<br />
Direttore Editoriale:<br />
Gilberto Oneto<br />
Redazione:<br />
Alfredo Croci<br />
(caporedattore)<br />
Corrado Galimberti<br />
Gianni Sartori<br />
Alessandro Storti<br />
Alessandro Vitale<br />
Spedizione in abbonamento<br />
postale: Art. 2, comma 34,<br />
legge 549/95<br />
Stampa: Ala, via V. Veneto<br />
21, 28041 Arona NO<br />
Registrazione: Tribunale di<br />
Verbania: n. 277<br />
Periodico Bimestrale Anno III - N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997<br />
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla<br />
“<strong>Libera</strong> <strong>Compagnia</strong> <strong>Padana</strong>” ma sono aperti anche a<br />
contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.<br />
Le proposte vanno indirizzate a: <strong>La</strong> <strong>Libera</strong> <strong>Compagnia</strong> <strong>Padana</strong>.<br />
Cavalleria padana e cavilleria italiana - Brenno 1<br />
Dalla Padania di Sant’Ambrogio a quella odierna<br />
Conversazione con Ettore A. Albertoni - Alessandro Storti 3<br />
L’anarco-capitalismo padano - Carlo Stagnaro 9<br />
Milano, centro della Terra di Mezzo - Gilberto Oneto 14<br />
<strong>La</strong> Padania e i nuovi Paesi dell’Est: il caso<br />
dei rapporti con la Croazia - Alessandro Vitale 22<br />
Le radici della cultura letteraria padana - Andrea Rognoni 27<br />
Liguri, Saraceni e Garalditani - Flavio Grisolia 31<br />
Le “Pasque Veronesi” - Alberto Lembo 34<br />
Piva, müsa, baghèt: la cornamusa padana - Claudio Caroli 42<br />
Il nome vero dei nostri paesi 44<br />
Biblioteca <strong>Padana</strong> 49
Cavalleria padana<br />
e cavilleria italiana<br />
U<br />
na delle differenze fondamentali fra il diritto<br />
longobardo e quello latino stava nella diversa<br />
considerazione che veniva data alla sostanza e<br />
alla forma: le leggi longobarde erano rudimentali ma<br />
chiare e finalizzate al concetto morale di far prevalere<br />
il giusto, quelle derivate da Roma e dintorni sono<br />
invece prolisse e cavillose, fatte apposta per far trionfare<br />
i distinguo, le eccezioni, i cavilli procedurali e<br />
l’abilità degli avvocati ad aggirare la legge. Non è un<br />
caso che gli avvocati più apprezzati siano proprio<br />
quelli che riescono a fare assolvere dei colpevoli.<br />
Quel che conta è la forma.<br />
L’Italia è il paese della pura formalità. Tutto funziona<br />
sulla base del rispetto dei valori formali: si passano<br />
più guai a sbagliare una virgola sul 740 che non<br />
a evadere miliardi. I processi (ad imputati “eccellenti”)<br />
vengono invalidati per vizi di forma e i poveracci<br />
(che non si possono pagare avvocati “cavillosi” e “bene<br />
introdotti”) vengono condannati anche per stupidaggini<br />
di poco conto, quando non ingiustamente.<br />
I documenti e le relazioni sono pieni di “chiarissimo”,<br />
“in fede”, “mi consenta” eccetera; l’Italia è il<br />
paese delle “eccellenze” e dei baciamani, del protocollo,<br />
delle formalità, dei fini pensatori che sezionano<br />
in quattro i capelli; è un paese bizantino e borbonico,<br />
con tutto il rispetto per i Bizantini e i Borboni<br />
che erano assai più seri di questa fuffa qui.<br />
Il formalismo è una malattia cui nessuno sfugge<br />
nella mediterranea penisola. Neppure i peggiori dittatori,<br />
criminali e despoti sono stati risparmiati.<br />
In tutto il resto del mondo, se un mascalzone vuol<br />
far fuori un avversario, lo fa fuori e basta. Rientra<br />
nel normale gioco dei prepotenti e dei tiranni. Qui<br />
no: anche i tiranni hanno bisogno di salvare la forma,<br />
di attaccarsi a qualche codicillo.<br />
Se Robespierre, Hitler, Stalin o Pol Pot dovevano<br />
liberarsi di qualcuno lo facevano (con tecnologie diverse)<br />
semplicemente dicendo che era un nemico<br />
della patria o del partito!<br />
In Italia non funziona: anche i fascisti hanno dovuto<br />
costruirsi un codice Rocco (un nome, una garanzia!),<br />
zeppo di articoli, sotto articoli, codicilli, paragrafi<br />
e rimandi. Gli italiani sono cavillosi anche<br />
nella prepotenza e nell’ingiustizia. Ovunque un prepotente<br />
è prepotente e basta. In Italia è anche micra-<br />
Mussolini e Vittorio Emanuele III<br />
nioso: alla violenza delle sue azioni deve aggiungere<br />
il sadismo della giustificazione formale.<br />
Non si incarcerava un avversario semplicemente e<br />
onestamente (se si può dire..) perchè era nemico del<br />
duce o del regime, ma perchè aveva contravvenuto<br />
all’articolo tale, paragrafo tale, con l’aggiunta di<br />
quanto previsto dall’articolo talaltro. Neanche la soddisfazione<br />
di dire: ti faccio fuori perchè mi sei nemico<br />
e perchè rappresenti un pericolo. Prepotenti, cavillosi<br />
e vigliacchi. Non riescono neanche a prendersi<br />
una responsabilità ma si nascondono dietro codici<br />
e pandette: così la colpa è sempre di qualcun altro,<br />
della legge, della forza maggiore, della ragion di stato,<br />
delle balle di Garibaldi.<br />
Oggi che a comandare in Italia ci sono i comunisti,<br />
non si comportano come Robespierre e Stalin, di cui<br />
sono figli e nipoti, ma si aggrappano ai codicilli mediterranei<br />
del codice fascista (e anticomunista) Roc-<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />
1
co. E, siccome sono più efficienti di democristiani e<br />
fascisti, riescono ad applicare anche tutta una serie<br />
di articolini che gli altri avevano un po’ dimenticato.<br />
Alcuni milioni di cittadini chiedono l’autodeterminazione<br />
(che è un diritto sancito dalle leggi internazionali)<br />
e ci dicono: certo, avete ragione ma purtroppo<br />
ci sono degli articoli di legge che ci costringono<br />
a condannarvi. Non dicono onestamente: la<br />
Padania fa paura perchè ci manda tutti in pensione,<br />
perchè mette a repentaglio le nostre prebende e i<br />
nostri privilegi, o perchè ci impedirà di continuare a<br />
sfruttare i coglioni che lavorano. Dicono: la vostra<br />
protesta è comprensibile ma - vedete - c’è un articolino<br />
del codice penale che la condanna e, sapete,<br />
l’azione penale è obbligatoria.<br />
Ed eccoli qui, comunisti assassini e sanguinari,<br />
post-comunisti, quasi-comunisti, figli di Beria e di<br />
Dzerzhinsky appena truccati da menscevichi, attaccarsi<br />
con voluttà al codice più fascista e liberticida<br />
del mondo in una bella accoppiata già sperimentata<br />
a suo tempo da Hitler e Stalin.<br />
Così ci ripetono che l’articolo 5 della Costituzione<br />
(mai votata dal popolo) dice che l’Italia è una e indivisibile<br />
(ma noi Padani cosa c’entriamo?..), che l’articolo<br />
241 punisce con l’ergastolo (per fortuna è stata<br />
abolita la pena di morte...) chi attenti all’unità dell’Italia<br />
(ma, ancora una volta, cosa c’entra la Padania?..).<br />
Adesso hanno scoperto anche l’articolo 271,<br />
quello che condanna da uno a tre anni di galera (un<br />
bel vantaggio in confronto all’ergastolo...) chiunque<br />
svolga qualche “attività diretta a distruggere o deprimere<br />
il sentimento nazionale”. E, anche qui, l’interpretazione<br />
è capziosa: non l’hanno depresso per<br />
decenni ladri, mascalzoni, corrotti e socialisti ma lo<br />
deprimono oggi quelli che vogliono libertà. In un<br />
paese in cui il sentimento nazionale è tenuto in piedi<br />
solo dal calcio e dagli spaghetti, dovrebbero finire<br />
dentro Sacchi e McDonald e non chi vuole il rispetto<br />
della volontà popolare.<br />
A questo punto ci permettiamo “rispettosamente”<br />
di suggerire di rispolverare anche gli articoli 269 (“attività<br />
antinazionale del cittadino all’estero”: siamo<br />
cittadini della repubblica italiana ma operiamo in<br />
Padania, e cioè all’estero), 278 (“offesa all’onore o al<br />
prestigio del presidente della repubblica”), 290 (“vilipendio<br />
della repubblica”), 291 (“vilipendio alla nazione<br />
italiana”), 292 (“vilipendio alla bandiera o ad<br />
altro emblema dello stato”) con l’aggravante prevista<br />
dall’articolo 293, in quanto i reati sono commessi<br />
in territorio estero, e cioè in Padania.<br />
Si potrebbero anche rispolverare gli articoli 270 e<br />
272 (che puniscono chi voglia stabilire la dittutura<br />
di una classe sociale sulle altre, perchè in realtà vogliamo<br />
stabilire la dittatura di chi lavora su tutti i<br />
Stalin e Ribbentrop<br />
parassiti che ci hanno fino a qui sfruttato e comandato)<br />
o gli articoli 273 e 274 (contro la costituzione e<br />
la partecipazione ad associazioni avente carattere internazionale,<br />
come la CEE, l’ONU e tutte le strutture<br />
internazionali in odore di pan-celtismo, di mitteleuropa<br />
o di transnazionalità che ci piacciono tanto).<br />
Ma l’utilizzo di questi articoli - ci rendiamo conto<br />
- creerebbe non pochi problemi di coscienza (si fa<br />
per dire) a chi non li ha mai usati quando era più<br />
opportuno contro i comunisti di tutte le risme (ricordate<br />
“la dittatura del proletariato”?), che pure<br />
impiegavano i mezzi più violenti (ma era “violenza<br />
proletaria”...) e che erano la succursale locale di una<br />
ditta internazionale con casamadre moscovita da cui<br />
ricevevano valanghe di quattrini per sovvertire (loro<br />
si!) le istituzioni nazionali contro la volontà della<br />
maggioranza del popolo.<br />
Noi vogliamo la libertà della nostra gente e vogliamo<br />
che questa libertà sia raggiunta con mezzi pacifici<br />
e in base al sacrosanto diritto di autodeterminazione.<br />
Se ci vogliono mettere in galera o ci vogliono sparare<br />
un colpo alla nuca (certe vecchie abitudini da<br />
sottoscala della Lublianka sono dure a morire...), si<br />
inventino almeno un articolo ad hoc che condanni<br />
la voglia di libertà e di autodeterminazione.<br />
Soddisferanno allo stesso tempo il nostro gusto<br />
celtico di combattere con furore anche le battaglie<br />
più disperate e la loro propensione latina a nascondersi<br />
dietro formalismi e codicilli.<br />
Come dire: cavalleria contro cavilleria.<br />
Brenno<br />
24<br />
- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
I l<br />
Dalla Padania di Sant’Ambrogio<br />
a quella odierna<br />
Conversazione con Ettore A. Albertoni<br />
7 novembre 1996 hanno preso avvio le celebrazioni<br />
per l’Anno Ambrosiano che avran-<br />
no termine quest’anno nel medesimo gior-<br />
no. Milano onora così il pater civitatis Sant’Ambrogio<br />
nella ricorrenza del 1600° anno dalla sua<br />
morte. Il ’97, però, riserva grandi sollecitazioni<br />
anche per ciò che riguarda l’attualità sociale e<br />
politica della città celtica. In aprile si svolgeranno<br />
le elezioni amministrative per il rinnovo della<br />
carica di Sindaco e, il mese seguente, avrà luogo<br />
il referendum per l’autodeterminazione della<br />
Padania indetto dal Governo provvisorio di Venezia.<br />
Altrettanto significative sul piano simbolico<br />
saranno le ricorrenze che segneranno, poi,<br />
il ’98: 150 anni dalle Cinque Giornate di Cattaneo<br />
e un secolo dalle cannonate con le quali il<br />
generale Bava Beccaris uccise almeno duecento<br />
milanesi e ne ferì circa mille in una domenica di<br />
maggio.<br />
Milano, dunque, vive una fase in cui le presenti<br />
rivendicazioni per l’autogoverno e l’autonomia<br />
dal potere centrale si intrecciano con i ricordi di<br />
una storia gloriosa, scritta da pochi uomini illustri<br />
e da un gran numero di uomini e donne comuni.<br />
Non possiamo, anche nella vicenda di Sant’Ambrogio,<br />
non leggere alcuni elementi che accomunano<br />
quel tempo lontano ai nostri giorni.<br />
E ciò, naturalmente, pur con le doverose riserve<br />
di tempi e di storie tanto lontane.<br />
L’età in cui Sant’Ambrogio agì fu segnata da<br />
una svolta epocale, così come quella che sta caratterizzando<br />
i nostri anni. Allora il mondo visse<br />
il passaggio dall’Impero romano sempre più accentrato<br />
e dispotico alla disgregazione dello stesso.<br />
Oggi è lo Stato nazionale ottocentesco e novecentesco,<br />
fortissimo ancora durante la guerra<br />
fredda, a sgretolarsi. Le statualità molto recenti<br />
dell’URSS, della Jugoslavia, della Cecoslovacchia<br />
e della Albania dimostrano che sgretolamenti e<br />
di Alessandro Storti<br />
secessioni si consumano più rapidamente in quelle<br />
realtà geopolitiche che nacquero nel grande<br />
travaglio bellico e post-bellico degli anni 1914-<br />
20 e che continuò per tutti gli anni ’20 e ’30, nell’età<br />
caratterizzata, cioè, dalla fine di tre grandi<br />
imperi (austriaco, turco e russo) e dalla nascita<br />
dell’impero ideologico sovietico.<br />
Certamente un paragone può essere fatto anche<br />
in relazione alle cause di tali enormi mutamenti:<br />
l’Impero romano cedette in occidente di<br />
fronte alle spinte territoriali che tendevano all’instaurazione<br />
di comunità autonome; oggi gli<br />
Stati perdono sempre più potere a vantaggio delle<br />
entità subordinate che si apprestano a riacquistare<br />
-attraverso processi di autodeterminazione<br />
e liberazione- autonomia e sovranità giuridica<br />
e politica. E come allora divenne centrale il<br />
ruolo della Chiesa e del cristianesimo quale guida<br />
culturale e morale per l’universitas dei popoli<br />
emergenti, così nella nuova età dell’autodeterminazione<br />
e dei diritti dei popoli (contenuti, ad<br />
esempio, nel Patto sui diritti economici sociali e<br />
culturali ed in quello sui diritti civili e politici<br />
approvati dall’ONU nel 1966, ribaditi nella Dichiarazione<br />
sulle relazioni amichevoli tra gli Stati<br />
del 1970 e confermati dall’Atto finale della conferenza<br />
sulla sicurezza e cooperazione europea<br />
di Helsinki nel 1975) gli uomini, con la ridefinizione<br />
delle nazioni attraverso il consenso, scoprono<br />
la globalizzazione, intesa come capacità<br />
di instaurare libere relazioni con tutti fondate<br />
sul contratto e non sulla coercizione (e sull’accentramento).<br />
Ma contemporaneamente riscoprono<br />
le identità, i momenti alti delle storie patrie,<br />
le personalità, le comunità, storiche e culturali,<br />
le radici etniche e linguistiche, le relazioni<br />
economiche. Che cosa ne pensa Ettore A. Albertoni,<br />
storico delle dottrine politiche e delle<br />
istituzioni?<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />
3
ALBERTONI - Il mutamento radicale del mondo<br />
antico avviene visivamente con la figura di Costantino<br />
che è double-face. Da un lato questi è<br />
l’imperatore che lascia Roma, fonda Costantinopoli,<br />
trasferisce fisicamente nel 330 d.C. gli abitanti<br />
dell’Urbe -soprattutto la classe dirigente- a<br />
Bisanzio sul Bosforo; contemporaneamente egli<br />
è l’uomo della corruzione. <strong>La</strong> figura di Costantino<br />
è particolarmente contraddittoria. Nella “Storia<br />
nuova” di Zosimo, autore di cui si sa molto<br />
poco, che si presume scritta tra il 507 e il 518<br />
d.C., viene descritto un imperatore molto lontano<br />
dall’apologetica convenzionale. C’è un Costantino<br />
che si volge al cristianesimo quasi casualmente.<br />
Dopo aver ucciso il figlio e la moglie adultera<br />
va, infatti, dai sacerdoti per chiedere di fare<br />
sacrifici che lo purifichino dai delitti commessi.<br />
Venendogli data una risposta dubbiosa e negativa,<br />
ne ha risentimento ed avendo sentito da un<br />
egiziano della corte che il Dio dei cristiani perdona<br />
i peccati, ecco che egli decide di appoggiare la<br />
nuova religione. È noto d’altronde che Costantino<br />
viene battezzato secondo il rito ariano soltanto<br />
in punto di morte. Il fatto che il rito sia quello<br />
ariano, ereticale, si ripete per altre conversioni<br />
importanti. <strong>La</strong> storia di Zosimo, fortemente ispirata<br />
al paganesimo, va considerata con prudenza.<br />
Ciò che però è indubbio è la polivalenza dell’imperatore.<br />
È un personaggio con una duplice<br />
natura. È l’uomo che guarda al futuro, e lo dimostra<br />
il fatto che Bisanzio, continuatrice dell’idea<br />
imperiale di Roma, resistette come Stato per 1000<br />
anni dopo il crollo dell’occidente romano, fino al<br />
1453, anno della conquista turca. Ma Costantino<br />
porta anche nella nuova Roma la corruttela e il<br />
disfacimento della sorella d’Occidente.<br />
Sul piano delle simmetrie storiche, pur dovendoci<br />
muovere con molta attenzione critica, si<br />
comprende meglio il significato delle vicende del<br />
passato se si ha una concezione della storia non<br />
lineare ma di tipo vichiano, fatta di corsi e ricorsi,<br />
con alternarsi di ritmi. Vediamo che il periodo<br />
del passaggio costantiniano è segnato da due fenomeni.<br />
Il primo è quello che diceva lei prima; il<br />
mondo di allora come quello mondo di oggi subisce<br />
una grande trasformazione nella direzione<br />
della globalizzazione (l’universalismo cristiano<br />
caratterizza e modella infatti quel periodo). L’altro<br />
è il passaggio da un universalismo politico,<br />
che vede comunque un centro dominatore in<br />
Roma e poi in Costantinopoli, alla progressiva e<br />
sempre meno contenibile formazione di entità più<br />
grandi dei municipi e delle colonie; entità che<br />
rappresentano una serie di nuovi soggetti comu-<br />
nitari e politici. Questo processo generatore di<br />
nuove strutturazioni istituzionali è carico di conseguenze<br />
giacché i territori ed i poteri si ridefiniscono<br />
allora in termini ecclesiastici sulle grandi<br />
Diocesi vescovili. <strong>La</strong> vicenda di Ambrogio e di<br />
Milano è esemplare.<br />
Importante, per inquadrare l’epoca di cui stiamo<br />
parlando, è anche la considerazione che i processi<br />
dei quali parliamo si intrecciano con la vicenda<br />
della cristianizzazione della Gallia, che diviene<br />
una forma di assorbimento dei barbari nella<br />
sfera non della romanità ma della cultura che<br />
è sintesi latino-cristiana nel suo affermarsi e diventare<br />
dominatrice. È molto indicativo al riguardo<br />
lo spostamento della capitale imperiale da<br />
Roma, ormai spopolata, a Milano, fiorente e politicamente<br />
centrale per molto tempo; il vero baricentro<br />
dell’Impero in Occidente.<br />
<strong>La</strong> storia del periodo di Ambrogio e dei secoli<br />
vicini andrebbe vista proprio in questi termini.<br />
C’è sicuramente il crollo di dimensioni politicoamministrative<br />
del monstrum imperiale che è,<br />
però, bilanciato dalla formazione di nuove entità<br />
attorno all’organizzazione delle chiese cristiane<br />
(bisogna sempre parlare in termini di pluralità)<br />
rappresentata dalle Diocesi. In tale contesto la figura<br />
di Ambrogio (334 o 340-397 d.C.) è fortemente<br />
caratteristica. Egli si forma a Treviri, sulla<br />
Mosella, sua città natale, centro importante di<br />
confine, a contatto con popolazioni galliche e<br />
germaniche dove l’elemento latino è molto più<br />
culturale che etnico (è una Gallia romanizzata<br />
che dialoga con i Germani). Il fatto quindi che<br />
un personaggio come Ambrogio, romano e di famiglia<br />
nobile, uno degli ultimi bilingui (greco e<br />
latino), alle origini alto funzionario imperiale -<br />
come già lo era stato suo padre- e addirittura consolare<br />
(cioè governatore), diventi anche il vescovo<br />
di una grande Diocesi come quella di Milano,<br />
è interessante perché ci fornisce una chiave di<br />
lettura del nostro passato e uno strumento di<br />
paragone con il presente.<br />
Potremmo dire che Ambrogio è l’uomo giusto<br />
al momento giusto? Unisce, infatti, in sè gli elementi<br />
culturali che gli permettono di affrontare<br />
con sguardo organico le tensioni di un periodo<br />
in cui mondi differenti vengono in contatto e,<br />
spesso, in collisione.<br />
ALBERTONI - È certamente così. Infatti bisogna<br />
considerare che il cristianesimo è una religione<br />
di ispirazione orientale nella sua radice ebraica<br />
ed è inequivocabilmente e radicalmente mono-<br />
46<br />
- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
<strong>La</strong> diocesi di Milano (IX) all'epoca di Sant'Ambrogio. Figura tratta da/ Angelo Paredi, Sant'Ambrogio<br />
(Rizzoli, Milano, 1985)<br />
teistica. Si tratta di una religione che ebbe notevoli<br />
problemi ad entrare in sintonia con la religiosità<br />
marcatamente panteistica e naturalistica<br />
delle popolazioni barbariche e anche con la religione<br />
altamente ufficializzata e statalizzata del<br />
mondo imperiale romano. Secondo me l’elemento<br />
di grande interesse è che un uomo come Ambrogio,<br />
diventato vescovo con un potere spirituale<br />
molto ampio dopo essere stato alto funzionario<br />
imperiale, introduce un elemento di autorevolezza<br />
e di un certo rigorismo anche istituzionale. Di<br />
fatto egli attribuisce alla propria diocesi, i cui confini<br />
andrebbero attentamente presi in considerazione<br />
dal momento che comprendono quasi perfettamente<br />
l’attuale Padania, salvo alcuni sconfinamenti,<br />
i caratteri di una vera e propria Chiesa<br />
nazionale. Con Ambrogio si ha, quindi, una continuità<br />
nell’ambito culturale, spirituale con la<br />
cultura d’oriente rielaborata, però, in funzione<br />
delle popolazioni padano-galliche. Ma anche continuità<br />
territoriale, poiché mentre crollano tutte<br />
le dimensioni istituzionali, civili e militari, pro-<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />
5
prie dell’Impero la Diocesi diventa un elemento<br />
centrale sia di potere (oltre che di religiosità) ma,<br />
soprattutto, di conservazione di costumi e stili<br />
antichi. Questi sono elementi da prendere in seria<br />
considerazione se si vuole comprendere l’importanza<br />
della figura storica di Sant’Ambrogio,<br />
considerandolo non solo sotto il profilo religioso,<br />
ma anche sotto quello politico.<br />
Per venire all’attualità: che cosa impedisce di<br />
instaurare un paragone con quell’epoca e in particolare<br />
con il ruolo delle Diocesi? Oggi certo la<br />
situazione è diversa, non si parla di territori governati<br />
dai vescovi, ma di aree e regioni legate da<br />
interessi relativi alle vocazioni dei popoli e ai loro<br />
costumi, all’impresa e alla cultura, alle comunicazioni<br />
e agli scambi. È chiaro comunque che la<br />
consunta inadeguatezza della dimensione amministrativa<br />
imposta dal potere centrale lascia ormai<br />
il passo, oggi come allora, a riaggregazioni<br />
territoriali fondate su nuovi elementi. All’epoca<br />
di Ambrogio erano le Diocesi sotto la guida della<br />
chiesa cristiana, oggi, assai probabilmente, sono<br />
(o saranno) le nuove aggregazioni sovraccomunali<br />
per aree omogenee a dover essere organizzate<br />
secondo la volontà e le necessità di cittadini<br />
che s’incontrano, commerciano, producono e che<br />
vogliono anche nel mondo globale e tecnologico<br />
non perdere il senso morale delle loro radici. Tutto<br />
questo genera necessariamente nuove istituzioni<br />
basate su un comune modo di sentire, di vivere<br />
e di concepire la convivenza sociale.<br />
L’emergere delle regioni europee sul piano identitario<br />
ed economico è uno dei più importanti<br />
segnali del crollo dello Stato nazionale di origine<br />
giacobina. Come all’epoca del Santo milanese,<br />
anche oggi il cedimento del potere burocratico<br />
e centralizzato di fronte alle esigenze territoriali<br />
si manifesta con toni aspri. <strong>La</strong> vicenda degli<br />
allevatori padani, simbolo di una terra che da<br />
sempre produce latte e sviluppa un’agricoltura<br />
avanzata e feconda, è paradigmatica. Invece di<br />
lasciare che sia il mercato a determinare i livelli<br />
di produzione e che le aree effettivamente coinvolte<br />
dall’attività agricola in questione provvedano<br />
ad autogovernarsi, lo Stato Italiano, complice<br />
degli altri Stati europei, pretende di entrare<br />
nel rapporto domanda-offerta squilibrandolo<br />
ed alterandolo con proposte incredibili come<br />
quella del premio per l’abbattimento di capi di<br />
bestiame. Insomma, il vecchio mondo non vuole<br />
morire e risponde alla rinascita dei territori e dei<br />
produttori con multe e repressioni. Come nel<br />
crollo di antichi Imperi (tra di essi senz’altro<br />
quello romano) vi è un’eccesso di normazione che<br />
uccide ogni spirito d’intrapresa e di affermazione<br />
individuale e comunitaria, autonoma rispetto<br />
alla centralizzazione burocratica e di potere.<br />
ALBERTONI - Andando alla radice del problema<br />
odierno, noi ci troviamo in questo momento di<br />
fronte ad un passaggio epocale che è costituito<br />
dalla globalizzazione. L’affievolimento delle sovranità<br />
storiche ha come contraltare la riacquisizione<br />
di spazi di sovranità da parte delle entità periferiche<br />
(o pretese tali). Questo fenomeno si vede<br />
ovunque, non solo nelle statualità unitario-centraliste,<br />
ma anche nell’ambito degli Stati federali<br />
in cui le entità federate stanno prepotentemente<br />
riprendendo (o reclamando) poteri e autonomie<br />
sempre maggiori. Anche in Europa gli squilibri<br />
attualmente esistenti fra Stati che sono assai diversi<br />
per dimensioni e popolazione sono destinati<br />
a scomparire quando saranno le aree identitario-economiche<br />
a prevalere, dando vita ad entità<br />
più piccole ma più omogenee. Quando cioè alla<br />
attuale piramide statuale, -legislativa, burocratica<br />
e pianificatrice senza riconoscere margini di<br />
autonomie nè ai territori, nè alle funzioni- subentrerà<br />
la rete, ossia il policentrismo derivante<br />
dalla pluralità comunitaria, socio-culturale ed<br />
economica. In quest’ottica anche problemi come<br />
quello del latte padano potranno essere riletti<br />
completamente in chiave territoriale, dal momento<br />
che il latte italiano è quasi esclusivamente padano.<br />
<strong>La</strong> lente distorcente degli Stati nazionali<br />
deve cadere di fronte all’emergere delle nuove<br />
entità che si federalizzano “in rete” ed in forma<br />
ascendente, dal basso verso i molteplici centri che<br />
formano il reticolo e che danno forza al tutto.<br />
Questo, secondo me, è allora l’elemento di simmetria<br />
con l’età di Ambrogio. Noi abbiamo la<br />
scomposizione completa delle dimensioni statuali<br />
e della sovranità come è successo nel III-IV secolo<br />
d.C., abbiamo, però, la prospettiva della ricomposizione<br />
comunitaria su base territoriale, funzionale<br />
e reticolare come allora vi fu la ricostruzione<br />
del mondo civile attorno ai vescovi, alle<br />
Diocesi, alle città, alle parrocchie e alle abbazie;<br />
alla rete costruita allora capillarmente e con grande<br />
impegno dalla vincitrice religione cristiana<br />
sulle vestigia (e sulle rovine) della civiltà (e del<br />
mito imperiale).<br />
Un aspetto molto interessante delle vicende storiche<br />
romane è senza dubbio quello della produzione<br />
delle norme e del diritto. Tutta la storia<br />
romana è caratterizzata dal continuo sovrapporsi<br />
68<br />
- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
e affiancarsi di regole e di soggetti istituzionali<br />
delegati a scoprire o creare il diritto. Anche con<br />
l’Impero la giurisprudenza non perde il proprio<br />
peso di fronte ai tentativi di codificazione ripetutamente<br />
attuati. Le stesse leggi provenienti dal<br />
gradino più alto della struttura statuale romana<br />
sono il frutto di un intreccio fra sentenze, leggi<br />
vere e proprie, editti particolari, consulti del Senato.<br />
Probabilmente questa struttura giuridica<br />
favorì il disgregarsi dell’Impero ma permise anche<br />
che il passaggio non fosse troppo brusco,<br />
come dimostra la stessa vicenda della divisione<br />
fra Occidente ed Oriente. Oggi, al contrario, predomina<br />
ancora una visione formalistica, totalizzante<br />
e monistica del diritto all’interno degli Stati<br />
nazionali (anche di quelli che praticano la forma<br />
della democrazia parlamentare). In particolare<br />
nella Repubblica italiana tutto sembra poter<br />
rendere più difficoltosa la strada autonomista.<br />
In nome dell’art.5 della Costituzione (“<strong>La</strong><br />
Repubblica, una e indivisibile...”) lo Stato Italiano<br />
viene concepito come un’entità metafisica<br />
indissolubile. Tutta la vita del cittadino viene<br />
comunque disciplinata dal Parlamento, dal Governo,<br />
dalla burocrazia centrale, dalla Ragioneria<br />
dello Stato, dalla Tesoreria unica, dall’economia<br />
diretta dallo Stato, dalle banche di Stato,<br />
dagli spettacoli e dall’informazione di Stato...<br />
ALBERTONI - Lei dice bene. C’è senz’altro un conservatorismo<br />
dei giuristi che è il vero elemento<br />
di blocco e di paralisi. Le rivoluzioni non sono<br />
state mai cominciate dai giuristi. C’è stata in loro,<br />
anzi, sempre una forma di reazione a qualsiasi<br />
mutamento, simboleggiata, ad esempio, dalla ricorrente<br />
e mitologica concezione della renovatio<br />
imperii, cioè dalla affermazione di una norma<br />
eterna. Secondo me a questo atteggiamento ha<br />
giovato molto anche la Chiesa cattolica, che, avendo<br />
posto il problema del diritto canonico, assunto<br />
come propria, separata e distinta, legge, ha eliminato<br />
la tipica commistione fra potere politico<br />
e religioso caratterizzante l’epoca romana. Da<br />
Teodosio I, il Grande, (347-395 d.C.) con il riconoscimento<br />
del cristianesimo come unica e sola<br />
religione di Stato ed il divieto di praticare gli antichi<br />
culti (392 d.C. - Editto di Costantinopoli)<br />
inizia la progressiva e crescente separazione fra<br />
le due giurisdizioni (quella civile e quella canonica)<br />
grazie al riconoscimento dell’autonomia<br />
(ma anche della supremazia) della Chiesa, e ciò<br />
inevitabilmente comporta la perdita di flessibilità<br />
e plasmabilità da parte del diritto civile e pubblico<br />
che era stata la caratteristica propria del<br />
diritto romano. Il fattore consuetudinario era<br />
infatti lo strumento necessario per adattare la<br />
giurisdizione alle esigenze della società. <strong>La</strong> norma<br />
codificata si afferma, invece, come struttura<br />
solenne, tecnica, formale spesso capziosa ed occultamente<br />
marchiata dalla ideologia non dalla<br />
prassi. <strong>La</strong> totalizzante e dogmatica normativa<br />
canonica si affianca a quella statualistico-imperiale<br />
e ovunque si riduce lo spazio della società<br />
vivente.<br />
Oggi il problema è ancora quello di sciogliere i<br />
pesanti lacci giuridici che impediscono l’adattamento<br />
delle leggi alle spinte sociali e territoriali.<br />
Senza arrivare a forme di radicalismo consuetudinario<br />
e societario mi pare giusto sottolineare<br />
l’importanza delle autonomie sociali e culturali,<br />
di quelle funzionali e della sperimentazione empirica<br />
nel processo di formazione delle regole.<br />
Questa è un’operazione difficile da attuare, perché<br />
comporta un cambio di mentalità al quale<br />
non siamo stati preparati negli ultimi due secoli<br />
e, tanto meno, negli ultimi decenni. Bisogna, allora,<br />
incominciare a far capire a tutti che ci siamo<br />
incamminati su un percorso di lungo periodo,<br />
indispensabile per dare senso e soluzione ai<br />
profondi mutamenti sociali e politici che inevitabilmente<br />
dobbiamo affrontare. <strong>Libera</strong>lizzare la<br />
società è sotto questo aspetto un processo essenziale,<br />
un processo che esige uomini liberi e volontà<br />
determinate e votate alla liberazione. Qui<br />
però ci scontriamo con il conservatorismo giuridico,<br />
politico, burocratico ed economico. Si tratta<br />
di una posizione assai diffusa e con risultati<br />
paralizzanti, almeno nel breve periodo. Possiamo<br />
cercare di individuare talune precise categorie<br />
di oppositori del cambiamento.<br />
Abbiamo gli unitaristi ad oltranza, come, ad<br />
esempio, l’ex ministro on. Filippo Mancuso, di<br />
stampo hegeliano e germanico-normativista. Costoro,<br />
però, non ci devono spaventare perché affrontano<br />
il problema sotto un profilo irrealistico<br />
e che non tiene affatto in conto i processi storici<br />
e socio-politici attuali; essi insomma sono già stati<br />
sconfitti direttamente dalla storia e dallo sviluppo<br />
socio-culturale ed economico. Poi ci sono, più<br />
nascosti, i ricentralizzatori (uno dei principali<br />
esponenti è l’attuale ministro Franco Bassanini),<br />
i quali teorizzano la delega sempre più ampia al<br />
governo per operare cartacee riforme federaliste<br />
dietro cui celano in realtà processi di conferimento<br />
di forti poteri al centro. Il risultato è, quindi,<br />
molto insidioso. Si tratta di una vera e propria<br />
“controriforma” idelogica e centralista rivolta a<br />
consolidare il fatiscente Stato che ci comanda<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />
7
sotto la mascheratura di un falso “decentramento”.<br />
Anche questi ricentralizzatori, però, si scontreranno<br />
necessariamente con le sempre maggiori<br />
richieste provenienti dalla base territoriale, sociale<br />
e funzionale e non potranno portare a compimento<br />
i loro disegni dirigisti e pianificatori.<br />
Infine abbiamo una terza categoria di avversari, i<br />
più subdoli, e cioè quelli che sono convinti che il<br />
federalismo sia semplicemente una questione di<br />
ingegneria, quindi di ristrutturazione dell’esistente<br />
(un esempio ce lo fornisce la Fondazione Agnelli,<br />
che tenta di conciliare l’esigenza di imprenditori<br />
vocati al monopolismo di avere un solo interlocutore<br />
governativo e centralista con le richieste<br />
di maggiore autonomia provenienti dalle<br />
molteplici e difformi realtà locali). Tale impostazione<br />
contrasta con lo stesso principio federale<br />
che è, prima di tutto, una visione plurale e libera<br />
del mondo che va al di là degli Stati attualmente<br />
esistenti. E il federalismo non può necessariamente<br />
essere ridotto a questione di statistiche, non è<br />
“un po’ di decentramento e qualche legge in<br />
meno”, ma è la fine della attuale sovranità italiana,<br />
cioè di una gabbia giuridica che costringe le<br />
spinte sociali, territoriali e funzionali negli spazi<br />
angusti in cui le ha poste la conquista regia ottocentesca,<br />
la dittatura fascista e l’incapacità istituzionale<br />
della Repubblica. Una gabbia che oggi<br />
si vorrebbe rafforzare attraverso l’instaurazione<br />
del regime che caratterizza il governo Prodi.<br />
Debbo aggiungere per completezza che la concezione<br />
fortemente monistica del diritto e delle<br />
sue fonti nell’ambito dello Stato si è ormai indissolubilmente<br />
unita alla gravissima questione burocratica.<br />
Il peso dello Stato è venuto, cioè, aumentando<br />
a dismisura, pretendendo, come si è<br />
visto, di disciplinare tutti i campi della vita sociale<br />
e privata, e per far questo ha avuto bisogno di<br />
arruolare un vero e proprio esercito di dipendenti<br />
addetti alle più svariate mansioni. <strong>La</strong> creazione<br />
di una burocrazia tanto grande quanto incontrollata<br />
ha portato con sè, inevitabilmente, anche i<br />
guasti tipici dei sistemi fortemente statizzati, primo<br />
fra tutti quello della corruzione. D’altronde è<br />
naturale che lo Stato, agendo attraverso l’imperio,<br />
ovvero il potere incondizionato di decisione<br />
sulla vita dei cittadini e delle comunità, favorisca<br />
il sorgere e lo svilupparsi di pratiche degenerate<br />
spesso autoritarie, tendenzialmente illiberali.<br />
Specie quando, come avviene oggi nella Repubblica,<br />
questa burocratizzazione è associata ad una<br />
lucrosissima gestione dell’economia da parte dell’apparato<br />
pubblico. Quest’ultima è strettamente<br />
connessa alla gestione di enormi risorse prelevate<br />
fiscalmente e destinate a sostenere i costi della<br />
politica basata sullo scambio dei voti contro favori<br />
nell’interesse di intere categorie sociali ed<br />
economiche. Una politica che significa livellamento<br />
e impoverimento.<br />
<strong>La</strong> burocrazia di oggi non è, dunque, diversa<br />
da quella dei tempi di Costantino e le spinte all’autogoverno<br />
territoriale, oggi come allora, sono<br />
la naturale conseguenza, la giusta risposta a una<br />
struttura statuale che si involve su se stessa e,<br />
quindi, genera guasti e non risolve problemi. <strong>La</strong><br />
genesi e lo sviluppo dello Stato Italiano sono a<br />
tal proposito un esempio classico di costruzione<br />
di stampo autoritario-burocratico. Attraverso la<br />
fusione di due tradizioni centraliste quali quella<br />
borbonica-meridionale e quella piemontese si è<br />
giunti all’edificazione di un sistema di potere fondato<br />
sulla triade: “centralismo del Parlamento;<br />
centralismo del Governo; centralismo della burocrazia”.<br />
Oggi, quindi, è più che ovvio che vi siano<br />
forti resistenze da parte degli esponenti di<br />
questi tre organismi privilegiati e autoritari contro<br />
le rivendicazioni autonomiste e liberalizzatrici.<br />
Credo però che, nonostante le difficoltà, il<br />
vecchio mondo del potere pubblico accentrato sia<br />
senz’altro destinato a cedere il passo all’avvento<br />
di autentiche libertà. <strong>La</strong> nostra sfida resta quella<br />
di costruire quotidianamente un’etica della libertà<br />
che ci permetta di educare senza sosta le coscienze<br />
e la cultura al gusto di essere responsabilmente<br />
libere, autonome, propositive e costruttive. Un<br />
impegno di grande momento per il quale occorre<br />
lavorare e studiare; studiare e lavorare; unire teoria<br />
e pratica con la certezza di compiere un sacrosanto<br />
dovere. Rimeditare sull’esempio di Ambrogio<br />
da Milano non è, quindi, divagazione storica<br />
d’occasione ma un’opportunità valida per<br />
tutti (credenti o meno).<br />
810<br />
- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
L’anarco - capitalismo padano<br />
razioni e - perché no - interessi dei popoli padano<br />
- alpini, anche e soprattutto dall’insofferenza<br />
e dalla contestazione globale dei metodi oppressivi<br />
del centralismo romano.<br />
<strong>La</strong> Padania pertanto non potrà seguire la strada<br />
italiota, ma dovrà al contrario organizzarsi<br />
in una struttura federalista e rispettosa delle libertà<br />
individuali. <strong>La</strong> Padania non potrà essere<br />
“una e indivisibile” ma dovrà riconoscere a tutti<br />
i popoli che la abitano il loro diritto naturale all’autodeterminazione<br />
( 1 ).<br />
Dunque, in qualunque momento lo richiedano<br />
Liguri o Veneti, Occitani o <strong>La</strong>dini dovranno<br />
poter essere liberi di separarsi e costituire nuove<br />
comunità autonome. Naturalmente il discorso<br />
non vale solo per le nazioni storiche della Padania,<br />
ma anche per eventuali altre realtà territoriali<br />
che per tutta una serie di motivi chiedessero<br />
l’indipendenza.<br />
Seguendo questa logica si giunge all’apparente<br />
paradosso della “secessione individuale” ( 2 L’<br />
autonomismo padano prende le proprie<br />
mosse, oltre che dalla constatazione di<br />
un’innegabile comunanza di ideali, aspi-<br />
);<br />
in altre parole, se la Padania ha diritto a separarsi<br />
dall’Italia, e la Liguria dalla Padania, e Genova<br />
dalla Liguria, allora non ha anche un qualunque<br />
Signor Parodi il diritto di “secedere” da Genova?<br />
<strong>La</strong> risposta è senza il minimo dubbio affermativa:<br />
nessuno può obbligare nessun altro a<br />
essere Italiano o Padano o Ligure senza il preciso<br />
e volontario consenso del diretto interessato<br />
o, in altre parole, nessuno fa parte di una certa<br />
nazione perché c’è nato o per altri motivi “oggettivi”,<br />
ma solo perché (e se) lo vuole. A ben<br />
vedere quindi il processo di cui sopra non è, almeno<br />
in linea teorica, una serie di secessioni,<br />
( 1 ) In questa ottica perdono del tutto valore anche le critiche<br />
di chi sostiene che tra le regioni padane non vi è alcuna unità<br />
o coesione e quindi la Padania non ha ragione di esistere. Al<br />
di là del fatto che in tal caso l’unità o coesione dell’Italia unita<br />
perderebbe essa stessa senso e non potrebbe più essere usata<br />
contro la Padania, secondo noi la vera o presunta disomoge-<br />
di Carlo Stagnaro<br />
ma una serie di aggregazioni: ogni individuo,<br />
libero e sovrano su se stesso e, per estensione,<br />
sulle proprie cose, ha diritto di aggregarsi con<br />
altri individui in comunità che, a loro volta, possono<br />
decidere se restare indipendenti oppure<br />
federarsi con altre comunità. In sostanza, ognuno<br />
di noi non è, come vuole il pensiero internazionalista<br />
e socialista, prima parte dell’umanità,<br />
poi parte del proprio popolo e infine individuo,<br />
ma al contrario prima individuo, e poi parte<br />
del proprio popolo e dell’intero genere umano,<br />
ovvero, in termini più semplici le differenze<br />
tra gli individui prevalgono sui tratti comuni che<br />
discendono dall’essere tutti uomini.<br />
Il paradosso, come si vede, esiste solo se si ha<br />
una concezione dello stato di tipo “etico”, secondo<br />
cui il “bene” dello stato è il fine ultimo di<br />
ogni azione dei singoli; un’idea dunque tutta machiavellana<br />
della ragion di stato, che viene invece<br />
rovesciata dal pensiero liberale che, al di là<br />
delle diverse correnti, sostiene che il ruolo dello<br />
stato debba essere favorire il bene dei cittadini<br />
cioè, in ultima analisi, dei singoli.<br />
Secondo noi al di sopra di tutto c’è quindi l’individuo,<br />
con le sue aspirazioni, i suoi errori e la<br />
sua volontà o, in una sola parola, con la sua libertà.<br />
Ogni tipo di legge, nel momento in cui viene<br />
rifiutata, diventa una forma di violenza; nessuno<br />
può essere obbligato a rispettare leggi che<br />
non vuole rispettare. Questo non significa naturalmente<br />
legalizzare furti e omicidi: tali azioni,<br />
essendo lesive della libertà individuale (nello specifico<br />
del diritto di proprietà sui propri oggetti e<br />
su di sé), vanno punite ad ogni modo; al contrario<br />
attività oggi condannate come usura, prostituzione<br />
e simili, non comportando violenza ma<br />
neità della Cisalpina non conta né tanto né poco: se i popoli<br />
che abitano la nostra terra vorranno rimanere uniti (cosa che<br />
auspichiamo fortemente) lo faranno; se al contrario un domani<br />
vorranno dividersi nulla e nessuno potrà impedirlo.<br />
( 2 ) Cfr. Ernest Renan, Murray Rothbard, Nazione, cos’è (Treviglio<br />
(BG): Leonardo Facco Editore, 1996).<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />
9
la semplice accettazione volontaria e privata di<br />
un contratto, hanno ogni sacrosanto diritto di<br />
esistere ( 3 ). E d’altronde non si capisce come possano<br />
delle leggi essere assolute, cioè valide per<br />
tutti, se sono state scritte da qualcuno ( 4 ).<br />
I singoli in un contesto simile di libertà assoluta<br />
hanno ovviamente il diritto di aggregarsi,<br />
se lo vogliono, in comunità più o meno piccole<br />
all’interno delle quali si decidono alcune leggi<br />
fondamentali (ad esempio le punizioni per azioni<br />
illegittime come i furti) che tutti e soli gli<br />
aderenti alla comunità dovranno rispettare mentre<br />
tutto il resto è demandato a trattative private.<br />
<strong>La</strong> differenza fondamentale tra il vecchio stato<br />
nazionale ed il nuovo “non stato” è che le<br />
nuove “leggi” entrano in vigore in seguito ad<br />
un’accettazione volontaria da parte di tutti i<br />
membri della comunità: se qualcuno le ritiene<br />
ingiuste o sconvenienti, è libero di rifiutarle e di<br />
aderire ad un’altra comunità (pur senza spostare<br />
fisicamente il proprio domicilio) o anche a<br />
rimanere “indipendente”.<br />
Anche quegli ambiti che oggi sono visti come<br />
“naturale” competenza dello stato (e quindi fanno<br />
parte del monopolio statale) andranno messi<br />
sul mercato e trasformati in imprese in concorrenza<br />
tra di loro. Illuminante a tal proposito è<br />
l’esempio della “pubblica” sicurezza: attualmente<br />
lo stato moderno si regge sul monopolio della<br />
violenza legale dei vari corpi militari come polizia,<br />
carabinieri, esercito e in genere tutti i corpi<br />
armati. Questi dovranno invece essere enti privati<br />
che offrono protezione dai crimini in libera<br />
concorrenza tra di loro. Ogni cittadino sarà (o<br />
dovrebbe essere) libero di scegliere l’ente X, perché<br />
è più economico, o l’ente Y, perché è più<br />
affidabile, o un altro ente ancora per qualsiasi<br />
per quanto strano motivo, eccezion fatta per la<br />
coercizione da parte di altri (che è un reato); il<br />
( 3 ) Cfr. Walter Block, Difendere l’indifendibile (Macerata: Liberilibri,<br />
1994).<br />
( 4 ) L’unica strada per giungere all’indipendenza è dunque<br />
quella del rispetto delle libertà individuali. Se veramente<br />
vogliamo che la Padania sia libera, non abbiamo alternativa.<br />
Con questo non si vuol dire che non esistano norme universalmente<br />
valide: si tratta però non di leggi, bensì di quei diritti<br />
naturali come il diritto alla vita, alla proprietà privata,<br />
alla resistenza contro l’oppressione. È interessante come alcuni<br />
giusnaturalisti riconducano tutti i diritti naturali al solo<br />
diritto alla proprietà privata, interpretando ad esempio il diritto<br />
a vivere come quello di proprietà sul proprio corpo. Cfr.<br />
a questo proposito Murray Newton Rothbard, L’etica della<br />
libertà (Macerata: Liberilibri, 1996)<br />
modello anarco - capitalista slega quindi i singoli<br />
dall’obbligo a dover essere protetto da polizie,<br />
carabinieri, guardie di finanze e simili magagne<br />
burocratico - peninsulari.<br />
In soldoni non ci saranno più guardie di finanze<br />
(di origine rigorosamente italica) che potranno<br />
entrare in un negozio e pretendere un<br />
illegale ma consolidato dalla prassi compenso in<br />
cambio del proprio silenzio; un panettiere sarà<br />
ad esempio libero di tenere le ragnatele sui muri,<br />
ma in tal caso - probabilmente - la clientela diminuirebbe<br />
drasticamente. E nulla impedirebbe<br />
ad un altro soggetto di aprire un’altra panetteria,<br />
concedendo ai cittadini la possibilità di<br />
confrontare i due servizi e di scegliere quello migliore.<br />
Tutt’oggi un simile (e apparentemente<br />
ovvio) comportamento è impossibile a causa del<br />
meccanismo iniquo e illegittimo delle licenze:<br />
nessuno si può permettere di decidere che in una<br />
determinata città non possono esserci più di un<br />
tot panettieri, andando così contro le regole del<br />
mercato e creando de facto degli oligopoli (ostacolando<br />
cioè la libera concorrenza).<br />
Il discorso vale ovviamente per ogni altro servizio<br />
che oggi è fornito dallo stato, e particolarmente<br />
interessante è l’argomento delle tasse.<br />
Oggi una tassa è un pagamento imposto dallo<br />
stato in cambio di un servizio, magari non richiesto.<br />
Un domani invece ogni tassa (cioè ogni<br />
pagamento) dovrà essere volontaria: in altre parole<br />
diverse imprese offriranno dei servizi per i<br />
quali chiederanno un determinato compenso.<br />
Chi riterrà di abbisognare di un certo servizio lo<br />
otterrà stipulando un contratto con la ditta che<br />
lo fornisce; chi invece non vorrà tale servizio,<br />
non sarà neppure costretto a pagarlo per gli altri.<br />
Così ospedali, scuole, televisioni dovranno<br />
essere rigorosamente privati: in altre parole nessuno<br />
pagherà (e naturalmente non avrà) ciò che<br />
non vuole ( 5 ). È pertanto improprio parlare di<br />
( 5 ) È curioso notare come due anni fa un ragionamento simile<br />
sia stato fatto durante un noto spettacolo da Beppe Grillo<br />
a proposito della nefasta abitudine di alcuni quotidiani e periodici<br />
di distribuire ogni tipo di oggetti per incrementare le<br />
vendite: così insieme al giornale può capitare di ricevere videocassette,<br />
CD, riviste o altro.<br />
Lo stesso vale per promozioni da supermercato del tipo “3x2”<br />
o “100 Lire e raddoppia” (commentate da Grillo con frasi del<br />
tipo “E allora quando prendevamo 3 e pagavamo 3 ci avete<br />
fatto un culo così?”).<br />
L’espressione del comico genovese che particolarmente ci ha<br />
colpiti per la sua verità e vicinanza alle teorie libertarie è<br />
stata “<strong>La</strong> nostra libertà è di pagare le cose che ci vengono<br />
date, non quella di riceverle in omaggio”.<br />
10<br />
12 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
“tasse”: poiché ogni servizio è non obbligatorio<br />
ma volontario e poiché tutto è demandato alla<br />
trattativa privata, è meglio parlare di “contratti”<br />
o di “pagamenti” come per ogni altro tipo di<br />
merce (cibo, oggetti, terreni ( 6 )...) che può essere<br />
acquistata senza un interlocutore privilegiato<br />
e/o senza una qualche forma di coercizione<br />
da parte di terzi.<br />
Portando il ragionamento alle sue estreme<br />
conseguenze si giunge all’abolizione della proprietà<br />
pubblica (res publica = res nullius) che è<br />
poi la fonte di ogni tipo di discriminazione.<br />
Cosa significa infatti che “qualcosa è di tutti”?<br />
Che tutti ne possono fare l’uso che vogliono?<br />
O che nessuno ne può fare alcun uso? O ancora<br />
che chiunque ne può fare solo un ben determinato<br />
uso?<br />
Non ci sembra esistano altre possibilità di concepire<br />
la res publica; si tenterà quindi ora di dare<br />
delle motivazioni valide per cui la proprietà pubblica,<br />
oltre a non avere alcun senso, è addirittura<br />
una forma di violenza statale nei confronti<br />
delle libertà individuali.<br />
Nel primo caso ci sembra chiaro il “conflitto<br />
di libertà” che si viene subito a creare. Se infatti<br />
di un terreno chiunque può fare l’uso che vuole,<br />
è legittimo supporre che X possa ad esempio decidere<br />
di coltivarlo. D’altra parte Y ha altrettanta<br />
ragione nel pretendere di edificarvi un palazzo.<br />
Chi dei due dunque ha ragione? Rothbard<br />
probabilmente risponderebbe che ha ragione il<br />
primo che avanza delle pretese sul terreno in discussione.<br />
In tal caso però l’ipotesi (che il terreno<br />
fosse pubblico) è del tutto inutile se non sbagliata:<br />
il terreno, inizialmente di nessuno (ma<br />
non di tutti), spetta a colui che per primo lo trasforma<br />
col proprio lavoro.<br />
<strong>La</strong> seconda ipotesi poi è palesemente assurda:<br />
se di un terreno nessuno può fare l’uso che vuole<br />
vengono lesi i naturali diritti di ognuno alla<br />
potenziale proprietà di quel terreno. Peraltro<br />
quella terra può essere considerata ragionevolmente<br />
terra di nessuno, e quindi chiunque se<br />
ne può appropriare secondo le modalità precedentemente<br />
descritte.<br />
L’ultima ipotesi è quella più accreditata dagli<br />
statalisti ma anche quella che nasconde in maniera<br />
più forte il germe della violenza e della<br />
( 6 ) A proposito della proprietà fondiaria Rothbard fa un discorso<br />
molto particolare teso ad eliminare possibili monopoli:<br />
ognuno è proprietario di tutta e sola la terra che, col<br />
proprio lavoro, è in grado di trasformare. In altre parole<br />
chiunque, vedendo un terreno privo di segni evidenti del la-<br />
coercizione. Se di un terreno “pubblico” si può<br />
fare solo un determinato uso, qualcuno avrà<br />
dovuto decidere quale uso farne. Ora questo qualcuno,<br />
chiunque esso sia (non importa se un politico<br />
o un boiardo o - come più spesso accade -<br />
un mafioso) cercherà di portare acqua al proprio<br />
mulino; in altre parole, farà in modo che il<br />
terreno diventi indirettamente una sua proprietà<br />
o quantomeno sia utilizzato per fare qualcosa<br />
di utile non per la comunità, ma per il tornaconto<br />
personale. <strong>La</strong> res publica è cioè di fatto<br />
proprietà privata, ma a parole “roba di tutti”; traduzione:<br />
le spese sono pubbliche, i ricavi privati.<br />
Tutto ciò va contro le regole del libero mercato,<br />
secondo cui chiunque sia proprietario di<br />
qualcosa deve esserne proprietario in tutto, nel<br />
bene e nel male; inoltre indirizzare l’uso di un<br />
terreno in una certa direzione potrebbe significare<br />
inserire un interlocutore privilegiato sul<br />
mercato o obbligare altre persone ad usufruire<br />
di quel terreno intervenendo così indebitamente<br />
in trattative in corso tra terzi (creare cioè degli<br />
oligopoli o dei monopoli).<br />
Tutto questo lungo discorso, sebbene possa<br />
sembrare a prima vista del tutto teorico e privo<br />
di applicazioni pratiche o attuali, è al contrario<br />
perfettamente adattabile al caso della Padania.<br />
Dopo 140 anni di sfruttamento da parte di<br />
Roma, i cittadini padani hanno deciso di dire<br />
basta e di urlare la propria rabbia. Hanno però<br />
un grosso nemico: il codice del camerata Rocco<br />
che contempla reati come l’attentato all’unità<br />
nazionale punibili col massimo della pena,<br />
l’ergastolo. È chiara l’eredità fascista di una tale<br />
normativa (al di là del nome di colui che ha<br />
scritto il codice, anche la sostanza si rifà ad una<br />
visione nazionalista della peggior specie che i<br />
costituenti si sono ben guardati dall’eliminare).<br />
Ed è curioso come a sostenerla siano anche<br />
i cattolici (forse dimentichi del non expedit)<br />
e coloro che fino a non troppo tempo fa<br />
sono stati internazionalisti e che bollavano<br />
come fascista ogni minima manifestazione di<br />
patriottismo. Mai come ora sono apparse vere<br />
le parole di Samuel Johnson (non a caso più<br />
volte citate dal nostro Gilberto Oneto) quando<br />
affermava che “il patriottismo è l’ultimo rifugio<br />
dei mascalzoni”.<br />
voro altrui, può appropriarsene lavorarla ed ogni recriminazione<br />
del precedente “proprietario” non può essere ritenuta<br />
valida per la definizione stessa di “proprietà” (ognuno è proprietario<br />
di ciò che è in grado di mescolare col proprio lavoro).<br />
Vedi M. N. Rothbard, L’etica..., op. cit., pagg. 59 - 235.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 11
Norme di questo tipo perdono ogni validità da<br />
un punto di vista libertario ( 7 ) secondo cui ogni<br />
forma di violenza (cioè coercizione, cioè non rispetto<br />
delle volontà dei singoli) è illegittima e<br />
pertanto non può essere rispettata: in altre parole,<br />
se non ci danno ciò a cui abbiamo diritto,<br />
ce lo dobbiamo prendere. Con questo non vogliamo<br />
dire che da domani la Padania debba essere<br />
indipendente perché lo diciamo noi; chiediamo<br />
semplicemente che ci venga riconosciuto<br />
il diritto (peraltro sancito da norme dell’ONU<br />
approvate a suo tempo anche dall’Italia) a decidere<br />
sul nostro futuro.<br />
Le modalità da seguire per giungere all’indipendenza<br />
sono state già più volte esaminate sui<br />
Quaderni Padani ( 8 ); non è pertanto nostra intenzione<br />
ripetere cose già dette da altri. Ci teniamo<br />
comunque a sottolineare che, indipendentemente<br />
dal metodo con cui la Padania giungerà<br />
(e di questo possiamo dirci sicuri) alla libertà,<br />
sicuramente all’indomani sorgeranno le prime<br />
contese tra nazionalisti e liberali; le due componenti<br />
attuali cioè di tutti i movimenti autonomisti<br />
che ora convivono ben sapendo di avere,<br />
almeno in partenza, lo stesso scopo.<br />
Quando però la Confederazione <strong>Padana</strong> sarà<br />
una realtà concreta si tratterà di darle un’organizzazione<br />
che abbiamo definito “non italiana”,<br />
e l’unico modo di sfuggire al modello dello stato<br />
moderno è negarlo in ogni sua forma. In altre<br />
parole l’errore fatale in cui l’autonomismo potrebbe<br />
cadere è quello di creare un’altra Italia<br />
con tutti i suoi difetti, le sue tasse e i suoi balzelli.<br />
Per questo motivo in partenza ci siamo soffermati<br />
sulla questione delle secessioni a catena.<br />
Sarebbe assurdo che proprio coloro che hanno<br />
sperimentato sulla propria pelle cosa significa<br />
e cosa comporta il nazionalismo in tutte le<br />
sue manifestazioni si comportassero alla stessa<br />
maniera dei loro precedenti oppressori.<br />
( 7 ) “Negli ordinamenti federali di stampo contrattualistico<br />
il diritto di secedere è riconosciuto e si pone come atto legale<br />
riconducibile all’autonomia dei singoli gruppi politici che<br />
compongono l’unione”, Alessandro Storti, “<strong>La</strong> secessione<br />
come facoltà prepolitica e diritto naturale”, su Quaderni Padani<br />
n. 3, pagg. 6 ÷ 9. Come già notato i “singoli gruppi politici<br />
che compongono l’unione” non devono coincidere necessariamente<br />
con le attuali entità politico - amministrative<br />
(nel nostro caso le regioni) e con comunità definite secondo<br />
arbitrari criteri definiti oggettivi: è sufficiente che un gruppo<br />
di cittadini richieda l’indipendenza, anche senza eventuali<br />
motivazioni storico - culturali, territoriali, economiche e simili.<br />
Nel caso in cui alcune o tutte queste condizioni concorrano<br />
tra loro (come in Padania) la richiesta di autodeterminazione<br />
acquista, se possibile, ancor più valore.<br />
In altre parole una delle condizioni coerenti<br />
per poter ottenere la secessione della Padania è<br />
mettere in conto fin da ora la possibilità (e il<br />
diritto) alla secessione anche dell’Occitania, del<br />
Tirolo o di Seborga e non negare a loro ciò che<br />
per tanto tempo è stato negato a noi.<br />
Quella che dunque è stata spesso usata come<br />
critica alla secessione della Padania (il rischio di<br />
legittimare una “eccessiva” - ma secondo quali<br />
parametri si può poi definire “eccessiva”? - frammentazione)<br />
dovrà essere uno dei nostri cavalli<br />
di battaglia. E non vediamo come possa essere<br />
altrimenti: riconoscere il diritto all’autodeterminazione<br />
a un popolo significa inevitabilmente riconoscerlo<br />
a tutti i popoli; e una delle tante debolezze<br />
dello stato italiano sta proprio nell’aver<br />
legittimato tutti i processi di secessione in corso<br />
nel mondo salvo poi pentirsene quando è stata<br />
“vittima” di quelle stesse agitazioni cui poco<br />
tempo prima aveva rivolto il proprio plauso ( 9 ).<br />
Tutto ciò dipende dall’errata convinzione che<br />
la frammentazione sia dannosa: in realtà, come la<br />
storia dimostra fin troppo eloquentemente, gli<br />
stati che hanno avuto il migliore sviluppo sono<br />
quelli più piccoli. Questo per molteplici motivi,<br />
non ultimo quello che, mentre uno stato grande<br />
come l’Italia o la Francia, ha la possibilità di intervenire<br />
sul mercato rendendolo così chiuso e<br />
favorendo alcuni imprenditori piuttosto che altri<br />
(vedi la FIAT o l’Olivetti), al contrario uno stato<br />
piccolo è costretto dalle cose ad aprire le proprie<br />
frontiere alle merci estere, non essendo assolutamente<br />
in grado di raggiungere l’autosufficienza.<br />
Per questo anche la politica interna della Padania<br />
dovrà essere liberale al massimo e permettere<br />
la libera circolazione delle merci senza boicottare<br />
certe imprese. E si badi che un comportamento<br />
simile va a tutto vantaggio dei singoli,<br />
non più legati ai prodotti “nazionali” ma liberi<br />
di scegliere ciò che si preferisce, in base a valu-<br />
( 8 ) Vedi: Alessandro Storti, “Per la libertà della Padania una<br />
costituente territoriale”, su Quaderni Padani n. 4, pagg. 2 ÷ 7;<br />
Alessandro Vitale, “Condizioni giuridiche internazionali per il<br />
principio di autodeterminazione e referendum per le comunità<br />
territoriali che aspirano all’indipendenza”, su Quaderni Padani<br />
n. 5, pagg. 3 ÷ 5; Alessandro Storti, “<strong>La</strong> secessione comincia<br />
dalle regioni”, su Quaderni Padani n. 7, pagg. 42 ÷ 47.<br />
( 9 ) Giova ricordare quanto detto dal leader nazionalista russo<br />
Zhirinovskj all’indomani della manifestazione indipendentista<br />
del 15 settembre scorso: la solidarietà nei confronti della<br />
Lega Nord è stata dal russo motivata con una frase del tipo<br />
“l’Italia ha avuto quello che si è meritata dopo aver appoggiato<br />
le secessioni dei diversi stati sovietici” e non da una<br />
vicinanza politica o ideologica tra i due movimenti come è<br />
stato scritto dai giornali.<br />
12<br />
14 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
tazioni del tutto personali. Chi vorrà potrà comprare<br />
un prodotto perché è “di casa nostra” o<br />
perché è più economico o perché è migliore degli<br />
altri senza alcuna forma di interventismo statale.<br />
Questo non per qualche astruso motivo ma<br />
semplicemente perché agevolare (cioè permettere)<br />
la concorrenza consente di avere una maggiore<br />
possibilità di scelta oltre che naturalmente<br />
avere servizi migliori; ostacolare il mercato è<br />
dunque stupido, oltre che illegittimo.<br />
Concludendo: la Padania, allo stato attuale delle<br />
cose, avanza delle richieste illegali ma perfettamente<br />
legittime. Dovrà pertanto farsi coraggio<br />
e pretendere ciò che le spetta.<br />
Se riuscirà a conquistare l’indipendenza, la Padania<br />
dovrà però darsi una struttura del tutto<br />
differente da quella attuale dello stato italiano,<br />
centralista, burocratista e prefettizio. <strong>La</strong> Padania<br />
dovrà compiere ogni propria scelta basandosi<br />
sul criterio del maggiore o minore rispetto<br />
della libertà individuale e del libero mercato.<br />
Ogni scelta in senso contrario andrà aborrita per<br />
non ricadere nell’equivoco tutto italiano di uno<br />
stato nelle mani di poche persone che non fanno<br />
altro che taglieggiare chi lavora e produce.<br />
<strong>La</strong> solidarietà stessa nei confronti dell’Italia e<br />
di qualunque altra area ritenuta depressa non<br />
dovrà essere imposta per legge. Ciò non significa<br />
naturalmente che non potremo più aiutare<br />
chi sta peggio di noi: aiuteremo però solo chi<br />
vorremo aiutare e se lo vorremo aiutare. In particolare,<br />
è ragionevole pensare che difficilmente<br />
daremo un contributo a chi lo chiede non per<br />
lavorare, ma al contrario per poter campare non<br />
facendo nulla ( 10 ).<br />
( 10 ) Ennio Flaiano una volta ha detto che gli Italiani (ma crediamo<br />
che non si riferisse ai Padani) sono quella gente che<br />
“vorrebbe lavorare poco e guadagnare molto; in subordine,<br />
lavorare poco e guadagnare poco”.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 13
Milano, centro della Terra di Mezzo<br />
I<br />
l regime italiano ha fatto di Roma e della sua<br />
storia uno dei capisaldi della peggiore reto-<br />
rica nazionalista e della sua azione di demo-<br />
lizione della memoria collettiva padana. Così da<br />
più di un secolo scolari e studenti padani vengono<br />
frastornati e annoiati con le insulse storielle<br />
di Roma Caput mundi, della sua fondazione segnata<br />
da una rissa al coltello fra bulli, del ratto<br />
delle Sabine (bell’esempio di fallocrazia mafiosa),<br />
con tutte le menate idiote di Orazi e Curiazi,<br />
di lupe allattatrici, di sicari sfigati e autolesionisti,<br />
di briganti di ogni risma elevati al rango<br />
di eroi della patria.<br />
Tutto quello che è avvenuto qui e che non è<br />
“romano” o “romanizzabile” viene dimenticato,<br />
cancellato o ridicolizzato.<br />
Nel buio in cui si cerca di costringere la storia<br />
padana rientrano i silenzi, le omissioni e il disinteresse<br />
per la storia della più grande città padana,<br />
quel Milano che è stato per secoli il maggiore<br />
centro abitato della Terra di Mezzo (prima<br />
e durante il periodo celtico) ma che è anche riuscito<br />
a diventare la capitale dell’Impero, soppiantando<br />
una Roma corrotta, decadente e mollacciona.<br />
( 1 )<br />
Di Milano romano si sa tutto. Ci sono pubblicazioni,<br />
i musei straripano di cocci, e ogni possibile<br />
pezzo di muratura è stato messo alla luce:<br />
rovine cariate di terme, lupanari e circhi testimoniano<br />
una romanità “di regime” opportunamente<br />
accompagnata dal solito mediterraneo corollario<br />
di ruffo e di frotte maleodoranti di gatti.<br />
Dei tanti secoli di libera e felice “padanità” viene<br />
tenuto nascosto quasi tutto. Eppure Milano<br />
ha un ricco passato di gloria e, prima di essere<br />
( 1 ) Il lingua locale, Milano (Milàn) è un sostantivo maschile:<br />
anche la sua riduzione a transessuale della toponomastica fa<br />
parte della politica di evirazione culturale intrapresa dal potere<br />
italiano.<br />
( 2 ) Un’altra leggenda vuole che il fondatore di Milano sia addirittura<br />
stato Tubal, figlio di Japhet, il terzogenito di Noè.<br />
Secondo Raffaello Toscano, autore di un poema in versi intitolato<br />
L’origine di Milano (1587), Tubal, giunto in Padania,<br />
avrebbe avuto novanta figli, dai quali sarebbero stati generati<br />
di Gilberto Oneto<br />
stato libero comune orgoglioso, capitale industriale<br />
e commerciale, centro culturale a livello<br />
mondiale, è dall’alba del mondo il luogo di riferimento<br />
politico e simbolico di una larga porzione<br />
dei popoli che da sempre vivono in Padania.<br />
Il suo mito di fondazione più noto e popolare<br />
lo lega alla vicenda leggendaria di Belloveso. Secondo<br />
quanto riportato da Tito Livio, Belloveso<br />
e Segoveso, nipoti di Ambigato, re dei Biturigi,<br />
avrebbero lasciato fra la fine del VII secolo e l’inizio<br />
del VI secolo a.C., il loro territorio per trovare<br />
nuove terre sulle quali far vivere parte del loro<br />
popolo in grande espansione demografica. Il Ver<br />
sacrum avrebbe portato Segoveso a nord delle<br />
Alpi e Belloveso in Padania. Il luogo dove insediarsi<br />
sarebbe stato indicato dall’apparizione di<br />
una scrofa semilanuta che sarà da allora totemicamente<br />
legata alla città. Belloveso sarebbe anche<br />
stato influenzato dal nome di una tribù locale,<br />
gli Insubri, che avevano lo stesso nome di<br />
un popolo gallico che abitava la regione degli<br />
Edui, da cui proveniva.<br />
Gli storici hanno sempre speculato su questo<br />
dettaglio che starebbe a dimostrare che popolazioni<br />
celtiche (o celtizzate) fossero stanziate dalle<br />
nostre parti già da molto tempo. ( 2 )<br />
In realtà Milano è assai più antico. Si sa da<br />
una serie di indagini archeologiche che la zona<br />
era abitata fin dall’età della pietra, e che lo è stata<br />
ininterrottamente da allora. Si conoscono anche<br />
i nomi di alcuni dei villaggi liguri (Barona,<br />
Cadrona, Vepra) che sorgevano sulle rive dei numerosi<br />
corsi d’acqua del sito. ( 3 ) <strong>La</strong> posizione e<br />
l’importanza di Milano traggono origine in questo<br />
periodo dall’incrocio di due diagonali di col-<br />
tredicimila e settecento poi<br />
con meraviglia altrui, nepoti suoi.<br />
Franco Fava, Storia di Milano (Milano: Libreria Meravigli Editrice,<br />
1980), pag.10.<br />
( 3 ) Delle vicende del Milano pre-romano si è occupato con<br />
competenza e passione Alessandro Colombo con i suoi: Milano<br />
preromana, romana e barbarica (Milano: Libreria Meravigli<br />
Editrice, 1980) e Milano romana (Milano: Libreria Meravigli<br />
Editrice, 1994).<br />
14<br />
16 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
legamento, “l’una maggiore con andamento NO-<br />
SE e su per giù segnata nella parte meridionale<br />
dal corso del <strong>La</strong>mbro, l’altra minore con direttiva<br />
NE-SO e tagliante la prima in un punto di<br />
mezzo, dove in progresso di tempo sarebbe sorta<br />
la città di Milano”. ( 4 )<br />
Il processo di indoeuropeizzazione è anche qui<br />
avvenuto gradualmente ma profondamente: ne<br />
è sicura testimonianza il nome stesso degli Insubri,<br />
che più d’uno ha interpretato come gli<br />
“Umbri del Nord”. ( 5 ) Importante deve essere<br />
sempre stato il contatto con la cultura protoceltica<br />
di Golasecca con cui la città è sempre stata<br />
collegata mediante uno dei tracciati viari più importanti<br />
e permanenti.<br />
<strong>La</strong> città di questo periodo ha anche il primo<br />
nome che viene ricordato, quello di Alba, che ne<br />
denota chiaramente la radice indoeuropea ma<br />
che costituisce anche un forte e sintomatico legame<br />
con una delle radici etimologiche più forti<br />
della cultura celtica.<br />
L’insediamento si sviluppa sicuramente sul<br />
preesistente agglomerato ligure di cui costituisce<br />
la naturale continuazione nel tempo. Esso<br />
sorge infatti sulle diagonali di cui si è parlato<br />
più sopra, una delle quali era l’antica strada impostata<br />
su l’oriente di primavera (NE-SO). Questa<br />
linea è oggi ancora leggibile sulle Vie Manzoni,<br />
Santa Margherita, Ratti, Zecca Vecchia. Con<br />
essa si interseca ad angolo retto la linea formata<br />
dalle Vie Ponte Vetero, <strong>La</strong>uro, Filodrammatici,<br />
Marino, Agnello e Piazza Beccaria. Il loro punto<br />
di incontro si trova in Piazza della Scala. ( 6 ) <strong>La</strong><br />
forma dell’antico insediamento era presumibilmente<br />
rotonda, secondo uno schema piuttosto<br />
diffuso all’epoca e la sua circonferenza è ancora<br />
segnata dall’attuale andamento della Via Andegari.<br />
Si è molto discusso sull’origine etimologica<br />
di questa strada: anche se la sua derivazione<br />
dal nome dei biancospini (andeghée) sembra<br />
piuttosto poco probabile, non si può non provare<br />
emozione nel considerare il legame che le è<br />
popolarmente attribuito (e che ha attraversato i<br />
millenni) con le siepi con cui venivano circondati<br />
e difesi i villaggi celti e proto-celti. ( 7 )<br />
( 4 ) Alessandro Colombo, Milano romana, op.cit., pag.12.<br />
( 5 ) Ibidem, pag.15.<br />
( 6 ) Ibidem, pag.15-16.<br />
( 7 ) Descrizioni degli schemi urbanistici degli insediamenti<br />
proto-celtici e celtici si trovano in numerose pubblicazioni,<br />
e in particolare in:<br />
Gregorio Soberski, Una città fortificata dell’età del ferro<br />
Biskupin (Milano: Jaka Book, 1987); Richard Muir, Reading<br />
Gli Etruschi, che erano penetrati in Padania<br />
attorno al VI secolo, hanno trovato un villaggio<br />
quasi sicuramente circolare, circondato da un<br />
terrapieno difeso da spesse siepi di biancospini e<br />
interrotto da quattro aperture in corrispondenza<br />
degli assi viari principali. Agli Etruschi il centro<br />
era noto come Alba Insubrium.<br />
Il villaggio ha dovuto presentarsi con lo stesso<br />
aspetto anche all’ultima ondata di penetrazione<br />
gallica (quella che, secondo Polibio, Appiano<br />
e Diodoro Siculo sarebbe avvenuta fra il<br />
424 e il 386 a.C.). È forse con la definitiva celtizzazione<br />
che il centro si espande. Esso assume il<br />
nome di Mediolanum, che significa “al centro<br />
della pianura”, o “al centro della Terra” (secondo<br />
la denominazione celtica di “Terra di mezzo”<br />
per la Padania): il senso non è solo geografico<br />
(punto centrale della grande valle o incrocio delle<br />
vie di comunicazione più importanti) ma è anche<br />
politico (Milano diventa per la prima volta<br />
non più e non solo il principale villaggio di una<br />
piccola tribù ma il centro più importante di una<br />
confederazione più ampia che interessa gran<br />
parte delle tribù della Padania centrale) e spirituale.<br />
Con lo stesso nome infatti (e con la sua<br />
variante di Medionemeton, che qualcuno ha anche<br />
attribuito a Milano) sono indicati nel mondo<br />
celtico i centri spirituali, i luoghi di scuole<br />
druidiche o i punti di particolare valenza magica<br />
e simbolica. ( 8 )<br />
In questo periodo Milano si espande e assume<br />
la forma di mandorla incentrata sul suo asse NO-<br />
SE che è stato per la prima volta individuato da<br />
De Finetti e poi più compiutamente descritto da<br />
Alessandro Colombo. ( 9 )<br />
Esso conserva nella parte settentrionale la forma<br />
del precedente insediamento ma si espande<br />
verso SE fino all’area del Verziere, forse per inglobare<br />
l’area sacra compresa fra l’attuale sito<br />
del Duomo e il lago. Oltre alle considerazioni<br />
espresse dagli autori citati (sulla base di persistenze<br />
toponimiche e urbanistiche), vale la pena<br />
di esaminare altri elementi che sono utili a definire<br />
il posizionamento e la forma dell’insediamento<br />
celtico.<br />
the Celtic <strong>La</strong>ndscapes (London: Michael Joseph, 1985); e<br />
T.G.E. Powell, Thr Celts (London: Thames and Hudson, 1980).<br />
( 8 ) Elisa Ghiggini, Magica Milano (Torino: Edizioni Horus,<br />
1989), pag.32.<br />
( 9 ) G. De Finetti, Milano, costruzione di una città (a cura di<br />
G. Cislaghi, M. De Benedetti, P. Marabelli; Milano: 1969),<br />
pagg.3-28.<br />
Si vedano anche le opere già citate di Alessandro Colombo.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 15
Di grande importanza è l’esame<br />
della situazione topografica<br />
e altimetrica del posto. (Fig.1) <strong>La</strong><br />
carta altimetrica con linee isoipsiche<br />
di 50 cm ci permette di<br />
ipotizzare con buona approssimazione<br />
la situazione originaria<br />
del sito. ( 10 ) Si rileva innanzitutto<br />
la presenza di una motta a 121<br />
metri sul livello del mare lambita<br />
a oriente dal corso del fiume<br />
Seveso e, a occidente, da quello<br />
del torrente Nirone. A meridione<br />
si trova un forte avvallamento<br />
(di circa 5 metri) nel quale si<br />
doveva trovare uno stagno: la<br />
presenza del corpo d’acqua è dimostrata<br />
sia dall’andamento delle<br />
curve di livello che dalle persistenze<br />
di taluni significativi toponimi<br />
locali (Vie Pantano, <strong>La</strong>ghetto,<br />
Poslaghetto, San Giovanni<br />
in Conca). Tutta la zona meridionale<br />
doveva poi essere occupata<br />
da vaste zone di acquitrino<br />
e da fitte foreste la cui presenza<br />
è documentata fino al Medioevo<br />
e da alcuni toponimi (Brolo). Da<br />
questo lato non c’erano vie di comunicazione<br />
terrestri e il villaggio<br />
era inavvicinabile. <strong>La</strong> motta<br />
costituiva un elemento di specia-<br />
le rilevanza soprattutto in una situazione morfologica<br />
piuttosto piatta: da qui potrebbe essere derivato<br />
il nome di Alba, evidentemente legato alla<br />
radice celto-ligure di alp, altura.<br />
Ma esiste un altro elemento piuttosto forte che<br />
definisce il posizionamento dell’insediamento. Sappiamo<br />
come nella cultura delle popolazioni protoceltiche<br />
e celtiche dell’Europa occidentale e centrale<br />
avesse speciale importanza l’idea di sacralizzazione<br />
del territorio sia sotto le forme di collegamenti<br />
fisici e simbolici con speciali emergenze<br />
morfologiche (soprattutto montagne), di legami<br />
( 10 ) <strong>La</strong> carta altimetrica è stata elaborata da Trolli nel 1957<br />
ed è riportata da: Massimiliano David, “Indagini sulla rete<br />
viaria milanese in età romana”, su: Maria Luisa Gatti Perer<br />
(a cura di), Milano ritrovata. L’asse di Via Torino (Milano:<br />
Casa editrice Il Vaglio, 1986), pagg.119 ÷ 143.<br />
<strong>La</strong> situazione altimetrica può essere stata in parte mutata<br />
dalle stratificazioni storiche e dai relativi abbattimenti e ricostruzioni<br />
di edifici: salvo sostanziali modifiche localizzate,<br />
l’andamento generale del terreno deve però essere considerato<br />
come valido riferimento.<br />
Fig. 1 - Rapporto fra l’altimetria e gli insediamenti<br />
A - Castello Sforzesco<br />
B - Duomo<br />
C - Foro romano<br />
1 - Cardo antico (“Oriente di primavera”)<br />
2 - Decumano celto-ligure<br />
3 - Decumano romano<br />
4 - Mura del primo castrum romano<br />
5 - Terrapieno celtico<br />
con occorrenze astronomiche e con il calendario<br />
solare e lunare, ma anche con speciali presenze<br />
“magiche” (fonti, foreste, rocce eccetera).<br />
Una delle forme più comuni di sacralizzazione<br />
del paesaggio era rappresentata dagli allineamenti<br />
(leys) di costruzioni e monumenti (soprattutto<br />
megalitici) in riferimento a elementi fisici importanti.<br />
Questi allineamenti si sviluppavano anche<br />
per centinaia di chilometri e hanno interessato<br />
aree vastissime: gli esempi più noti sono in Inghilterra,<br />
in Bretagna e nella Germania centrale.<br />
( 11 ) Resti di strutture analoghe sono stati ritrova-<br />
<strong>La</strong> più evidente mutazione antropica di una certa consistenza<br />
è rappresentata dal terrapieno del Castello Sforzesco il cui<br />
livello è stato artificialmente innalzato di almeno 3 metri per<br />
la costruzione e per le opere di difesa della fortificazione.<br />
( 11 ) Si vedano: Francis Hitchings, Earth Magic (London: Picador,<br />
1978); John Michell, The View over Atlantis (New York:<br />
Ballantine Book, 1972); John Michell, Secrets of the Stones<br />
(Harmondsworth: Penguin Books, 1977); Gilberto Oneto, “Territori<br />
allineati”, su Ville Giardini, n. 270, maggio 1992; Alfred<br />
Watkins, The Old Straight Track (London: Abacus, 1974).<br />
16<br />
18 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Fig. 2 - Schema degli allineamenti<br />
ti anche sull’arco alpino occidentale ( 12 ) e tutto<br />
lascia pensare che essi fossero diffusi (e sicuramente<br />
conosciuti) in tutta la Padania, area che<br />
oltre a tutto si presta con facilità a operazioni di<br />
sacralizzazione di ampio respiro. È piuttosto probabile<br />
che gli allineamenti costituissero pratica<br />
normale e che essi siano stati deliberatamente<br />
cancellati sia dagli occupanti romani (sempre preoccupati<br />
dalla coincidenza fra fatti magico-religiosi<br />
e coscienza politica, che era caratteristica<br />
della cultura celtica) che dalle gerarchie cattoliche.<br />
Due degli elementi fisici che hanno maggiore<br />
rilevanza (e fascino) nella grande valle del Po,<br />
sono il Monte Rosa (ritenuto fino a tempi piuttosto<br />
recenti la montagna più alta d’Europa) e il<br />
Resegone. ( 13 ) Essi sono (e, a maggior ragione,<br />
erano) perfettamente visibili dalla motta di Mediolanum<br />
e, in particolare, la traguardazione delle<br />
( 12 ) Riccardo Petitti, Sentieri perduti. Un sistema celtico di<br />
allineamenti (Ivrea: Priuli & Verlucca, 1987).<br />
( 13 ) Rosa deriva, secondo Luigi Bruno, dal pre-romanzo roise che<br />
stà per “cima”. Citato in: Luciano Gibelli, Armus-ciand (Ivrea:<br />
Priuli & Verlucca, 1992), pag. 85. Il nome più antico del Resegone<br />
sarebbe Seràda, col significato di “chiusura”, “fine della veduta”<br />
o “dell’orizzonte”. Si veda: Dante Olivieri, Dizionario di<br />
toponomastica lombarda (Milano: Ceschina, 1961), pag. 501.<br />
( 14 ) Fino a tempi recentissimi ha avuto vigore nell’urbanistica<br />
milanese una disposizione non scritta (ma accuratamente<br />
rispettata per secoli), detta “servitù del Resegone”, che im-<br />
loro visuali si interseca a 90°<br />
precisi proprio nel punto centrale<br />
(e più alto) dell’antico insediamento.<br />
(Fig. 2)<br />
In più, la veduta sul Resegone<br />
coincide con buona approssimazione<br />
con “l’oriente di primavera”<br />
che era così importante<br />
nell’immaginario collettivo<br />
dei popoli antichi. ( 14 )<br />
L’asse che unisce il Rosa al<br />
Resegone trova il suo centro fisico<br />
sul Sasso di Ferro, l’incredibile<br />
montagna che sovrasta<br />
<strong>La</strong>veno e il Verbano; nella stessa<br />
condizione di Mediolanum si<br />
trovano tutte le località poste<br />
sulla circonferenza centrata sul<br />
Sasso ed è estremamente sintomatico<br />
che su questa linea si trovino<br />
Vercelli (fortezza sacra dei<br />
Celti, e fondata dagli stessi Libui<br />
che hanno dato vita al pri-<br />
mo insediamento milanese) e il<br />
Monte Mucrone che sovrasta Oropa, il più sacro<br />
dei luoghi celtici (o, il più celtico dei luoghi sacri)<br />
dell’intera Padania. ( 15 )<br />
A fare preferire il sito di Milano c’erano però<br />
alcuni altri elementi di forte carica sacrale: un<br />
lago di acqua fresca (probabilmente generato da<br />
un fontanile) posto ai margini della motta e riversantesi<br />
nello stagno più meridionale, una fonte<br />
di acqua sulfurea e (probabilmente) un trovante<br />
trasformato in menhir.<br />
Il lago è rimasto nelle leggende locali e, soprattutto,<br />
nei miti legati alla costruzione del Duomo.<br />
Si racconta che nei sotterranei del Duomo (si dice<br />
che vi si possa accedere dalla cripta, o da una porticina<br />
che sta dietro l’Altar maggiore) ci sia un<br />
immenso salone sorretto da massicce colonne<br />
(scolpite con figure magiche, strane e segrete)<br />
completamente occupato da un lago nel quale -<br />
si narra - si possa addirittura andare in barca. ( 16 )<br />
pediva la costruzione di edifici che potessero occludere la<br />
visuale della montagna dal centro della città.<br />
È interessante notare come tale allineamento visuale fosse<br />
molto vicino a quello del cosiddetto “oriente di primavera”,<br />
punto del sorgere del sole il solstizio d’estate.<br />
( 15 ) Gilberto Oneto, L’invenzione della Padania (Bergamo:<br />
Foedus, 1997), pag.185.<br />
( 16 ) Michela Zucca, Milano magica (Milano: Libreria meravigli<br />
Editrice, 1995), pag. 15. Si veda anche: Mario Spagnol,<br />
“Milano ctonia”, in AA.VV., Guida ai misteri e segreti di Milano<br />
(Milano: SugarCo, 1977), pagg. 41 ÷ 43.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 17
Fig. 3 - Le Quattro teste scolpite del santuario<br />
di Entremont (Provenza)<br />
Ma nelle viscere del Duomo si dovrebbe anche<br />
nascondere un simulacro antichissimo di una Vergine,<br />
nera come quella di Oropa e di tutti gli altri<br />
santuari antichi. ( 17 )<br />
<strong>La</strong> sorgente di acqua solforosa (dai poteri terapeutici<br />
ma anche magica porta su altri mondi)<br />
c’è ancora nel Parco Sempione, pur svilita e indebolita<br />
dagli sconvolgimenti urbanistici.<br />
Il menhir è oggetto di un’altra leggenda persistente:<br />
atterrato e distrutto dai Romani, sarebbe<br />
stato sostituito alla loro sconfitta, da una colonna<br />
dell’abbattuto palazzo imperiale, demonizzata<br />
dai cristiani (“la colonna del diavolo”) ma in<br />
qualche modo rispettata per il suo valore civico<br />
(vi venivano incoronati i re barbari, Gian Galeazzo<br />
Visconti indossò al suo cospetto il berretto<br />
ducale in segno di presa del potere e anche i po-<br />
( 17 ) Michela Zucca, op.cit., pag.15.<br />
( 18 ) Ibidem, pagg.60-62.<br />
( 19 ) Alessandro Colombo, Milano romana, op.cit., pag. 27.<br />
( 20 ) AA.VV. Guida ai misteri e segreti di Milano, op. cit., pagg.<br />
410 ÷ 411.<br />
( 21 ) Ibidem, pag. 179. Per il simbolismo di Sheela-na-Gig, si<br />
veda: Stella Cherry, A Guide to Sheela-na-Gigs (Dublin: National<br />
Museum of Ireland, 1992).<br />
destà, durante la cerimonia in cui giuravano fedeltà<br />
alle leggi della città, la dovevano abbracciare).<br />
( 18 )<br />
Tutti questi elementi facevano di Mediolanum<br />
un luogo carico di tensioni magiche e non stupisce<br />
che il suo animale totemico (legato al mito<br />
della sua fondazione) fosse proprio un cinghiale,<br />
simbolo della sacralità e legato alla scienza druidica.<br />
Nell’insediamento antico si trovavano poi numerosi<br />
altri punti importanti. All’ingresso NO<br />
(verso Golasecca) c’era probabilmente il tempio<br />
dove venivano conservate le teste dei nemici caduti<br />
in combattimento: era usanza celtica esporre<br />
alle porte dei centri urbani teschi incastonati<br />
in pilastri di pietra (come a Roquepertuse) oppure<br />
più frequenti riproduzioni scultoree. (Fig. 3)<br />
Una presenza del genere ha probabilmente lasciato<br />
una traccia nella denominazione della chiesa<br />
di San Giovanni alle Quattro Facce che si trovava<br />
sul luogo. ( 19 )<br />
Vicino al lago poteva esserci un sito sacro a Taranis,<br />
il “dio della ruota”, dove oggi si trova la<br />
chiesa di Santo Stefano ad rotam sanguinis nelle<br />
cui fondamenta si conserva un misterioso bassorilievo<br />
illustrante appunto una ruota. ( 20 )<br />
Si ha memoria di un Tempio del Sole, posto ad<br />
est (sull’attuale sito di San Babila, dove si conserva<br />
una scultura raffigurante un leone, simbolo<br />
solare) e anche la persistenza di una immagine<br />
femminile che mostra le pubende (e che ha<br />
dato il nome a Porta Tosa) potrebbe fornire interessanti<br />
legami con il culto di Sheela-na-Gig, divinità<br />
celtica della fecondità ma investita anche<br />
di funzioni apotropaiche. ( 21 )<br />
<strong>La</strong> localizzazione del Duomo è poi un sicuro<br />
esempio della forza di persistenza dei luoghi sacri:<br />
si ha documentazione che sul suo sedime sorgesse<br />
un tempio dedicato a Minerva che era la<br />
romanizzazione di un ben più antico sacrario di<br />
culto della Dea Madre (forse Morgana, o la Vergine<br />
nera che si dice essere ancora presente nei<br />
sotterranei del Duomo) nel quale venivano conservati<br />
gli Immobili, le insegne di guerra della<br />
città. ( 22 )<br />
( 22 ) “E sembra proprio che, dove adesso sorge il Duomo, esistesse<br />
un tempio in cui venivano custodite le loro sacre insegne,<br />
stendardi tessuti in lana e fili d’oro, che non dovevano<br />
essere mossi da lì se non per gravissimi motivi, dato che<br />
proprio da loro emanavano enormi poteri magici. I guerrieri<br />
avevano il dovere di difenderli fino all’ultima goccia di<br />
sangue, senza indietreggiare oltre il punto in cui venivano<br />
piantati”. Michela Zucca, op.cit., pag.14.<br />
18<br />
20 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
È fondamentale osservare<br />
come Milano sia cresciuto senza<br />
soluzioni di continuità passando<br />
attraverso tutte le modificazioni<br />
culturali e sotto tutti i<br />
popoli che l’hanno abitato a dimostrazione<br />
che gli eventi si<br />
erano probabilmente prodotti<br />
senza traumi e che le varie popolazioni<br />
(Garalditani, Liguri,<br />
Insubri e Celti) erano molto simili<br />
fra di loro e si sono amalgamate<br />
con grande facilità instaurando<br />
una tradizione di<br />
ospitalità e di assimilazione che<br />
caratterizza tutta la storia di<br />
Milano. In quest’ottica va letta<br />
anche la vicenda degli Etruschi<br />
che, pur essendo più “diversi” di<br />
tutti gli altri popoli, non hanno<br />
modificato la struttura urbana<br />
che è rimasta rotonda (secondo<br />
l’uso celto-ligure) e non quadrata<br />
o trapezoidale, all’uso etrusco<br />
e mediterraneo.<br />
Ben diverso è stato l’impatto<br />
con l’imperialismo romano.<br />
Dopo le sconfitte celtiche di<br />
Talamone (225 a.C.) e di Acerrae<br />
(probabilmente Pizzighettone,<br />
224 a.C.), i Romani arrivano<br />
per la prima volta a Milano nel<br />
222 a.C.: Gneo Cornelio Scipione<br />
assedia la città ma si trova a<br />
sua volta circondato dai Galli;<br />
viene soccorso da Marco Claudio<br />
Marcello che ha appena<br />
sconfitto il capo insubre Virdomaro<br />
presso Clastidium (Casteggio).<br />
Il combattimento è<br />
lungo e dall’esito incerto ma la<br />
disparità delle forze in campo fa<br />
alla fine prevalere gli invasori;<br />
l’ultima resistenza è quella dei<br />
giovani guerrieri Gesati che si<br />
sacrificano per difendere gli Immobili.<br />
Marcello non smentisce la sua fama di macellaio<br />
massacrando tutti i guerrieri superstiti e gli<br />
abitanti più giovani della città proprio nel punto<br />
dell’ultima resistenza, vicino all’attuale Piazza del<br />
Duomo. ( 23 )<br />
( 23 ) Franco Fava, Storia di Milano, op. cit., pag. 16.<br />
Fig. 4 - Mediolanum al momento dell’occupazione romana<br />
A - Castello Sforzesco<br />
B - Duomo<br />
C - Foro romano<br />
1 - Terrapieno della città celtica<br />
2 - Strada per Golasecca<br />
3 - Strada per Bergamo<br />
4 - Strada per Vercelli<br />
5 - Ipotesi di collocazione del Tempio “delle teste”<br />
6 - Tempio del Sole<br />
7 - Ipotesi di collocazione del simulacro di Sheela-na-Gig<br />
8 - Ipotesi di collocazione del Tempio dedicato a Taranis, o “della<br />
ruota”<br />
9 - Ipotesi di collocazione del grande Menhir<br />
10- Tempio della Terra Madre<br />
11- Approdo (Fontanile)<br />
12- Stagno<br />
13- “Cantarana”<br />
14- Foresta planiziale<br />
15- Primo castrum romano<br />
16- Porta di collegamento fra i due insediamenti (poi Broletto)<br />
17- Via di Porta romana<br />
Roma mostra subito il suo vero volto di potenza<br />
imperialista, liberticida e sanguinaria.<br />
I Romani si insediano appena fuori da Mediolanum,<br />
sull’area dove avevano probabilmente installato<br />
il principale accampamento militare durante<br />
l’assedio, all’imbocco della strada per Vercelli e<br />
Clastidium. Anche qui è utile osservare la carta<br />
altimetrica: si tratta del solo spazio elevato non<br />
compreso entro il perimetro abitato (che gli In-<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 19
Fig. 5 - Rapporto delle cinte murarie con l’attuale struttura ur-<br />
bana<br />
A - Castello Sforzesco<br />
B - Duomo<br />
C - Foro romano (Piazza Santo Sepolcro)<br />
1 - “Mandorla” della città celtica<br />
2 - Primo castrum romano<br />
3 - Mura di Augusto<br />
4 - Mura di Massimiano<br />
5 - Mura medievali<br />
Fig. 6 - Bassorilievo della “Scrofa semilanuta”<br />
Secondo arco del Palazzo della Ragione (Nuovo<br />
Broletto) in Piazza Mercanti<br />
subri probabilmente utilizzavano<br />
come spazio per feste e mercati)<br />
ed è difeso a sud dallo stagno,<br />
a nord da un vasto acquitrino<br />
noto come Cantarana e ad<br />
est dal corso del Nirone che viene<br />
leggermente deviato per costeggiare<br />
e difendere le mura<br />
dell’accampamento. Il castrum<br />
viene costruito secondo i soliti<br />
schemi geometrici romani imperniati<br />
su di un cardum (che è<br />
la continuazione dell’esistente<br />
linea de “l’oriente di primavera”)<br />
e un decumanum ad esso perpendicolare<br />
(parallelo così a<br />
quello antico), al centro si trova<br />
il Foro (sull’attuale area di Piazza<br />
Santo Sepolcro). ( 24 ) Il muro<br />
nord-orientale del castro si installa<br />
sul terrapieno celtico in<br />
corrispondenza di quella che per<br />
secoli sarà chiamata Via Due<br />
Muri. ( 25 ) Il quadrato romano è<br />
di fatto una caserma, un grande corpo di guardia<br />
che incombe sulla città celtica con la sua presenza<br />
oppressiva e repressiva, restando per secoli un<br />
corpo estraneo, una metastasi arrogante e mal<br />
sopportata. (Fig.4) Con la costruzione delle mura<br />
augustee la divisione è ancora netta e la città romana<br />
aumenta la sua intenzione aggressiva inserendosi<br />
con violenza nel tessuto antico: l’occupazione<br />
militare non è infatti mai stata digerita. Nel<br />
218 a.C. la città si è prontamente ribellata cacciando<br />
i Romani e alleandosi con Annibale (sarà<br />
rioccupata solo nel 196 a.C.), rivolte si susseguono<br />
per decenni e la definitva “pacificazione” della<br />
Padania avviene solo nel primo secolo dell’era cristiana.<br />
Il castro resta per tutto questo tempo un<br />
corpo oppressivo incuneato nella città evidentemente<br />
ritenuta ostile. È infatti solo con la costruzione<br />
delle mura di Massimiliano (IV secolo) che<br />
le due città vengono accorpate entro un solo cerchio<br />
difensivo con il nome di Augusta Flavia Mediolanum.<br />
(Fig. 5) L’andamento anomalo delle<br />
nuove mura ingloba due realtà ancora diverse e<br />
forse anche divise come dimostra la persistenza<br />
del toponimo di Via Due Muri e l’abitudine di chiamare<br />
“quartiere romano” l’area del Foro. ( 26 )<br />
<strong>La</strong> vera fusione avviene solo dopo la caduta di<br />
Roma: le mura medievali cancellano ogni differenza<br />
topografica. Il nuovo centro viene posto a<br />
cavallo fra le due città antiche e l’edificio del nuovo<br />
Broletto viene significativamente decorato con<br />
20<br />
22 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Fig. 7 - Schema dello sviluppo<br />
urbano di Milano<br />
1 - Città ligure e proto-celtica<br />
2 - Città celtica<br />
3 - Primo castrum romano<br />
4 - Mura di Augusto<br />
5 - Mura di Massimiano<br />
6 - Mura medievali<br />
A - Castello Sforzesco<br />
B - Duomo<br />
C - Foro romano<br />
D - Nirone<br />
E - “Cantarana”<br />
F - Seveso<br />
G - Stagno<br />
un rilievo della scrofa semilanuta<br />
a memoria (ma anche in segno<br />
di rivincita) della città celtica<br />
finalmente liberata. (Fig. 6)<br />
Anche Sheela-na-Gig torna a<br />
campeggiare in abiti medievali<br />
su una delle porte della città. Un<br />
altro elemento urbanistico di<br />
grande significato è il disfacimento<br />
dello schema geometrico<br />
romano: la cultura medievale,<br />
come quella celtica, odiava i geometrismi<br />
da caserma e la città<br />
riacquista la sua forma a mandorla.<br />
(Fig. 7) Più tardi la rivincita<br />
su Roma sarà sottolineata<br />
dalla ricollocazione della sede<br />
della massima autorità civica<br />
nello stesso punto in cui doveva<br />
risiedere quella antica: Palazzo Marino si trova infatti<br />
all’incrocio fra i due assi antichissimi del Rosa<br />
e del Resegone.<br />
I luoghi conservano le loro valenze positive ma<br />
anche quelle negative: è inquietante osservare a<br />
due millenni di distanza come le due antiche città<br />
contrapposte continuino a trasmettere valori<br />
(ma anche percezioni e sensazioni) diversi pur all’interno<br />
di una struttura urbana completamente<br />
mutata e stravolta. Sul sedime della antica città<br />
celtica si sono conservati i centri civile e religioso<br />
della città (il Municipio, il Duomo, il Vescovado,<br />
( 24 ) Il cardo romano collegava la scomparsa Via Due Muri (dove<br />
c’era la porta che divideva le due città) con le vie Ratti, Zecca<br />
Vecchia, Nerino e Arena. Il decumano seguiva il tracciato delle<br />
vie Lupetta, Valpetrosa, Bollo e Santa Maria Fulcorina.<br />
Sul prolungamento del decumano era stata tracciata la via<br />
porticata che, fuori di Porta Romana, proseguiva nella Via<br />
il Palazzo Reale) e il cuore pulsante della più vitale<br />
quotidianità (Piazza Duomo, la Galleria, la Scala,<br />
Corso Vittorio Emanuele eccetera). Sul sito dell’antico<br />
castrum continuano invece ad arroccarsi<br />
i segni dell’oppressione romana, nel frattempo diventata<br />
oppressione e inefficenza italiana: le sgangherate<br />
stanzone delle Poste centrali, le fattezze<br />
littorie della Banca d’Italia e della Borsa, ma anche<br />
la caserma dei Carabinieri e il Commissariato<br />
di Polizia, sintomaticamente alloggiati nel palazzo<br />
dove furono fondati i Fasci di Combattimento,<br />
necrofilo rigurgito di romanità e di italianità.<br />
Emilia e costituiva la principale strada di collegamento della<br />
città con il sud. Per la realizzazione di questo collegamento<br />
e della relativa porta di accesso alla città, furono eseguiti grandiosi<br />
lavori di bonifica e di deforestazione.<br />
( 25 ) Alessandro Colombo, Milano romana, op. cit., pag. 29.<br />
( 26 ) Ibidem, pagg. 36 ÷ 69.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 21
<strong>La</strong> Padania e i nuovi Paesi dell’Est:<br />
il caso dei rapporti con la Croazia<br />
L a<br />
cancellazione avvenuta a Roma dei referendum<br />
consultivi proposti dalle Regioni,<br />
che implicavano anche un autentico rivol-<br />
gimento in tema di relazioni internazionali indipendenti<br />
delle Regioni stesse, è un fatto di una<br />
gravità inaudita (anche se non è stato percepito<br />
come tale dagli osservatori e dalla stampa)<br />
se si considerano da un lato l’emergenza contemporanea<br />
delle “economie regionali” ( 1 ) che<br />
tendono a superare lo Stato nazionale e a renderlo<br />
obsoleto e dall’altro se si confronta questa<br />
azione di forza con il comportamento pluridecennale<br />
dello Stato centralizzato italiano in<br />
tema di interferenza nei e di paralisi dei rapporti<br />
transfrontalieri. <strong>La</strong> logica centralista è riemersa<br />
pienamente, come evidente, estrema autodifesa<br />
di un’entità agonizzante (lo Stato nazionale),<br />
anche nella recente visita a Zagabria<br />
del Presidente della Repubblica.<br />
Croazia e Padania: due comunità emergenti<br />
in Europa.<br />
Con la fine della “guerra fredda” sono emerse<br />
dal congelamento del mondo “bipolare”, che<br />
oscurava la vera fisionomia delle convivenze in<br />
Europa, anche antiche o nuove comunità, tenute<br />
insieme da legami culturali ed economici.<br />
Nel giro di pochi anni si è visto che si trattava<br />
di comunità e di convivenze stabilite saldamente<br />
sul territorio e destinate ad emergere nel cam-<br />
( 1 ) Kenichi Ohmae <strong>La</strong> fine dello Stato-nazione. L’emergere<br />
delle economie regionali. Milano, Baldini & Castoldi 1996.<br />
( 2 ) Le ricerche della Fondazione Agnelli del 1992, dal titolo<br />
Padania, una regione italiana in Europa, avevano descritto<br />
le possibilità per la Padania di spostare il baricentro dell’Europa<br />
verso Sud, oggi ampiamente squilibrato a favore delle<br />
regioni settentrionali del Continente.<br />
( 3 ) Le vaste potenzialità economiche della Padania sono penalizzate<br />
dall’andamento dell’economia nazionale italiana:<br />
Roma non rispetta alcuno dei parametri stabiliti a Maastri-<br />
di Alessandro Vitale<br />
po della nuova competizione economica fra città,<br />
territori e regioni, apertasi con la fine degli<br />
anni ’80. Per queste comunità, con salde radici<br />
storiche e culturali, gli stretti legami e i vincoli<br />
creati dagli Stati nei quali erano o sono ancora<br />
inserite, si sono dimostrati sempre più soffocanti.<br />
Sia la Croazia che la Padania, sebbene con caratteristiche<br />
molto diverse fra loro, sono state<br />
mosse dalla preoccupazione di rimanere saldamente<br />
ancorate, come consentono le loro possibilità,<br />
ad un’Europa che diventa sempre più<br />
“nordica” ( 2 ).<br />
Le somiglianze fra la situazione nella quale si<br />
trova oggi la Padania e quella nella quale si trovava<br />
prima dell’Indipendenza la Croazia, non<br />
sono poche. Come accadeva per la Croazia, i<br />
meccanismi statali creano vincoli molto forti<br />
per un’area economicamente e storicamente<br />
omogenea come la Padania, determinati dallo<br />
spreco di risorse, dalla “redistribuzione discriminatoria”<br />
che funziona soprattutto a favore di<br />
altre parti del territorio dello Stato o di una burocrazia<br />
cresciuta a dismisura, nonché dalla<br />
mancanza di autogoverno che permetta il consolidamento<br />
del livello di reddito e del benessere<br />
raggiunto dalla sua popolazione di 25 milioni<br />
e mezzo di abitanti ( 3 ).<br />
<strong>La</strong> Padania è stata storicamente una delle regioni<br />
più forti d’Europa dal punto di vista eco-<br />
cht per far parte dell’Unione Europea (cambio stabile, tassi<br />
d’interesse, debito pubblico, deficit pubblico, inflazione).<br />
L’esclusione dell’Italia dall’Europa rischia di generare un’altissima<br />
tensione politico-territoriale fra Padania e resto d’Italia.<br />
<strong>La</strong> Lombardia infatti ha un bilancio pubblico in attivo:<br />
1,9% del Pil e un rapporto debito-Pil di molto inferiore al<br />
60%, richiesto da Maastricht: 51,1% secondo le statistiche<br />
ufficiali (Istat). <strong>La</strong> Lombardia, l’Emilia Romagna e la Val d’Aosta<br />
hanno un Pil superiore al 125%, posto =100% l’Europa.<br />
Il Nord-Est ne ha uno ancora superiore.<br />
22<br />
24 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
nomico. Cinquecento anni fa i mercanti di Venezia<br />
percorrevano il mondo e i banchieri milanesi<br />
e genovesi finanziavano le guerre del Re<br />
di Spagna. <strong>La</strong> Padania, area di sviluppo economico<br />
omogeneo, possiede ancora oggi un ruolo<br />
potenzialmente centrale in Europa, grazie<br />
alla sua favorevole posizione, alla sua realtà fisica<br />
e culturale, al suo dinamismo economico e<br />
imprenditoriale. Gli economisti la considerano<br />
come un “sistema territoriale ed economico<br />
completo”, molto simile ad altre regioni europee<br />
ad alto tasso di sviluppo economico: come<br />
quella Reno-Ruhr e il Randstad-Holland (con<br />
le quattro citta di Amsterdam, Rotterdam, L’Aia.,<br />
Utrecht, fortemente collegate e integrate fra<br />
loro). Nell’area padana si ha una profonda interdipendenza<br />
economica fra regioni, un legame<br />
molto stretto fra centri urbani e centri produttivi,<br />
un sistema economico unico ed un’unica<br />
cultura dello sviluppo.<br />
Ma quel che più conta è che i soggetti economici<br />
padani sono fortemente orientati all’apertura<br />
e alla cooperazione con altre regioni e la<br />
forte integrazione economica della Padania<br />
coincide con la necessità di una sua massima<br />
apertura verso l’esterno, superando le barriere<br />
imposte dallo Stato nazionale italiano ( 4 ).<br />
Soprattutto le regioni del Nord-Est della Padania<br />
(Friuli, Veneto), ma occorre parlare di tutto<br />
l’asse lombardo-veneto (soprattutto l’asse Milano-Padova),<br />
che traina lo sviluppo padano,<br />
hanno raggiunto livelli e potenzialità economiche<br />
di carattere “giapponese”, con una crescita<br />
costante e ritmi lavorativi molto al di sopra non<br />
solo di quelli tedeschi, ma anche della media<br />
europea. <strong>La</strong> Padania è oggi un sistema integrato<br />
altamente competitivo in Europa. Le province<br />
venete (Treviso, Vicenza, Padova, Verona) e del<br />
Friuli (Pordenone e Gorizia) sono centri di sviluppo<br />
crescente e di internazionalizzazione dell’economia<br />
padana e convergono sempre più<br />
verso la struttura lombarda, creando un “sistema<br />
economico-territoriale” fortemente integrato,<br />
che nega l’invenzione del Nord-Est come<br />
entità autonoma.<br />
<strong>La</strong> Padania, con al suo centro Milano, si trova<br />
geograficamente all’incrocio dei due maggiori<br />
assi di sviluppo europeo: quello longitudinale<br />
( 4 ) Sono recentissime, per il caso della integrazione fra Padania<br />
e Croazia, le aperture di nuovi canali di comunicazione e di collaborazione<br />
fra piccole e medie imprese dell’Isontino e imprese<br />
private slovene e croate. <strong>La</strong> cooperazione transfrontaliera attualmente<br />
serve a ridurre in prospettiva i costi dell’industria ad<br />
dello sviluppo Nord-Sud, che attraversa il cuore<br />
dell’Europa, e il nuovo asse di sviluppo Est-<br />
Ovest, che congiunge dopo il 1989 il dinamismo<br />
spagnolo con le regioni ad alto tasso di sviluppo<br />
dell’Est europeo, soprattutto quelle derivanti<br />
(come la Croazia) dalla formazione di nuovi<br />
Stati indipendenti ( 5 ). Questa situazione fa sì<br />
che la Padania diventi un elemento di riequilibrio<br />
in Europa e impedisca che lo spostamento<br />
verso il Nord crei differenziali di sviluppo fra<br />
l’Europa settentrionale e quella meridionale. <strong>La</strong><br />
Padania ha oggi un importante ruolo europeo,<br />
riconosciuto dalla Francia Meridionale e dalla<br />
Spagna in rapida crescita, mentre si pone come<br />
punto di riferimento per Repubbliche quali la<br />
Croazia e la Slovenia, l’area dell’Europa Centrale<br />
e Orientale. D’altra parte, la Padania stessa<br />
sta ottenendo notevoli vantaggi dalla rapida<br />
apertura verso l’esterno dei nuovi Paesi dell’Est<br />
europeo. <strong>La</strong> regione del Friuli e la zona di Trieste,<br />
che sono la porta orientale della Padania<br />
verso l’Europa Orientale, si aprono sempre più<br />
verso Oriente e permettono un collegamento<br />
crescente della Padania con questa parte d’Europa,<br />
la moltiplicazione delle reti di scambio e<br />
il loro rafforzamento. Le regioni Nord-orientali<br />
hanno ormai superato le difficoltà degli anni<br />
Settanta e hanno acquisito una sempre maggiore<br />
competitività internazionale. Una crescente<br />
espansione delle esportazioni e l’ampliamento<br />
delle relazioni commerciali con l’estero e in particolare<br />
con l’area danubiana, sta trasformando<br />
la Padania in una regione centrale d’Europa.<br />
Se però la Padania è oggi una grande regione<br />
con un’industrializzazione fra le più elevate<br />
d’Europa, è anche penalizzata da strutture organizzative<br />
deboli, da infrastrutture carenti, da<br />
una struttura politica diretta da lontano, incontrollabile.<br />
Perché possano svilupparsi le potenzialità<br />
della regione padana, oggi sono necessari<br />
una migliore organizzazione interna, una<br />
politica più centrata sull’autogoverno dell’economia,<br />
un serio progetto di risanamento ambientale,<br />
un livello più alto degli scambi internazionali,<br />
una maggiore apertura delle frontiere,<br />
un aumento dei traffici con le regioni confinanti,<br />
un’apertura soprattutto ad Est (cosa che<br />
la Germania ha compreso da molto tempo per<br />
esempio mobiliera. I progetti transfrontalieri prevedono anche<br />
da parte croata assistenza tecnica, formazione manageriale e di<br />
quadri intermedi, supporti alla struttura produttiva e logistica.<br />
( 5 ) Si veda Fondazione Agnelli (Ed) <strong>La</strong> Padania, una regione<br />
italiana in Europa. Torino 1992.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 23
sè stessa), per la collaborazione con i Paesi che<br />
hanno maggiori prospettive di sviluppo.<br />
Questa regione è sempre più insofferente rispetto<br />
ai vincoli che crea lo Stato nazionale, agli<br />
ostacoli allo sviluppo economico, al peso di una<br />
burocrazia che è cresciuta senza limiti, ai freni<br />
di carattere politico al suo libero sviluppo. Una<br />
sua apertura sempre maggiore verso l’esterno<br />
e l’adozione di poltiche di libero scambio, alle<br />
quali deve corrispondere necessariamente<br />
un’autonoma politica estera, sono l’unica via per<br />
permetterle di seguire la sua strada.<br />
Anche la Croazia possiede oggi straordinarie<br />
prospettive di sviluppo. Dopo la rottura dei pesanti<br />
vincoli che comprimevano il suo sviluppo<br />
nello Stato jugoslavo, è fra i primi dieci Paesi<br />
dell’Europa Orientale per prospettive di crescita<br />
economica (i primi sette escono da processi<br />
di secessione: un fatto che dimostra in modo<br />
lampante la stretta correlazione fra secessione,<br />
indipendenza, autogoverno, riduzione delle dimensioni<br />
territoriali e sviluppo economico, all’opposto<br />
di quanto sostengono i nazionalisti<br />
italiani) e di sviluppo sociale, se si analizzano<br />
alcuni fattori quali la stabilità politica, lo sviluppo,<br />
le infrastrutture, il livello del sistema<br />
educativo, il grado di apertura economica ( 6 ).<br />
Di fronte alla Croazia c’è oggi da una parte la<br />
possibilità di agganciarsi all’area germanica e<br />
alle sue grandi prospettive di sviluppo e dall’altra<br />
di fare riferimento all’area della Padania.<br />
L’economia della Croazia presenta una forte<br />
complementarietà con l’economia padana. Già<br />
con l’iniziativa dell’Alpe Adria si era visto come<br />
la cooperazione nell’area alpina padana potesse<br />
dare buoni frutti, per i problemi simili da risolvere<br />
con la collaborazione inter-regionale.<br />
Anche la Croazia, come la Padania, ha del resto<br />
un’estrema necessità di aprirsi verso l’esterno.<br />
Con la riduzione delle sue dimensioni, dopo<br />
il distacco dalla Jugoslavia infatti, i costi di un<br />
sistema economico autarchico e protezionista<br />
aumenterebbero a dismisura. Alla Croazia occorrono<br />
una massima apertura dell’economia,<br />
la conquista di mercati esterni, l’integrazione<br />
economica con i maggiori poli europei di sviluppo<br />
che le sono vicini. Per ottenere tutto questo<br />
occorre però una politica integrale di libero<br />
( 6 ) “Economist” (March 25-31, 1995). Si veda anche World<br />
Bank Global Economic Prospects and the Developing Countries<br />
1995.<br />
( 7 ) Jovic J. Radanie hrvatske. Matica Hrvatska. Split1992.<br />
( 8 ) Come ha dimostrato Pascal Salin nello studio <strong>La</strong> libera<br />
scambio, proprio quella che ha dato straordinari<br />
risultati a Paesi di piccole dimensioni come<br />
la Svizzera, il Liechtenstein, il Lussemburgo e<br />
via dicendo. Il mercato interno di ridotte dimensioni<br />
infatti ha un estremo bisogno di aprirsi<br />
verso l’esterno. Le forme più produttive sono<br />
oggi le intese economiche per vaste aree. In<br />
questo modo lo sviluppo potrebbe essere forte<br />
e verrebbero attirati dall’Occidente molti capitali<br />
e capacità dalle aree vicine più sviluppate.<br />
Grazie alla sua favorevole posizione geografica,<br />
ai settori relativamente competitivi, alla moderna<br />
tecnologia e a tutti i vantaggi economici<br />
oggi non ancora pienamente utilizzati, la Croazia<br />
può essere un polo di sviluppo molto importante<br />
in Europa, a cavallo fra l’area germanica<br />
e la regione in rapida crescita (ma fortemente<br />
ostacolata) della Padania.<br />
Le relazioni necessarie fra Croazia e Padania<br />
<strong>La</strong> Padania è sempre più interessata e tende<br />
ad un’apertura verso Est. Come accadeva alla<br />
Croazia prima del 1991, quando c’era un forte<br />
rifiuto per la redistribuzione discriminatoria<br />
all’interno dell’ex Jugoslavia e per i forti limiti<br />
allo sviluppo e all’utilizzazione delle risorse<br />
imposti dal governo centrale ( 7 ) dominato dai<br />
serbi, la Padania cerca di aprirsi ai mercati e<br />
alla collaborazione con regioni dell’Est europeo,<br />
sentendo come limiti sia quelli imposti dal<br />
governo nazionale (già fortissimi nella prima<br />
fase dell’Alpe Adria), che quelli dell’Unione Europea,<br />
fino ad oggi protezionista e ancora chiusa<br />
nei confronti dell’Est europeo ( 8 ).<br />
<strong>La</strong> vicinanza geografica della Padania a sistemi<br />
produttivi nuovi come quello croato porta a<br />
creare condizioni favorevoli per la mobilità delle<br />
persone e delle merci, superando il protezionismo<br />
dell’UE e la sua tardiva logica dell’“allargamento”<br />
ad Est, cercando invece una<br />
collaborazione multilaterale, la più aperta possibile,<br />
soprattutto nell’area alpina orientale.<br />
Già l’esperienza di Alpe Adria ha dimostrato<br />
che è possibile una integrazione regionale fra<br />
Padania alpina e aree come quella croata, tralasciando<br />
il sistema globale e superando la logica<br />
degli Stati nazionali, senza per questo peraltro<br />
innescare meccanismi distruttivi. Quella espe-<br />
impresa non ha frontiere apparso su “Ideazione” (gennaiofebbraio<br />
1997), la giustificazione che viene data al protezionismo<br />
europeo con l’argomento della difesa nei confronti<br />
della “concorrenza” della manodopera dell’Est è totalmente<br />
falsa.<br />
24<br />
26 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
ienza, nata nel lontano 1978, ha dimostrato che<br />
è possibile soddisfare con l’integrazione regionale<br />
la domanda di accrescimento del proprio<br />
peso locale mediante la collaborazione e la cooperazione.<br />
L’integrazione regionale può essere<br />
prodotta da economie di mercato funzionanti<br />
e da libere decisioni politiche internazionali che<br />
non interagiscono troppo nel libero sviluppo<br />
dell’economia.<br />
Anche fra Croazia e Padania vanno pertanto<br />
costruiti legami razionali, oggi possibili, grazie<br />
alla maggiore elasticità del sistema internazionale.<br />
Con la trasformazione derivata dalla fine<br />
della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti,<br />
è possibile una ristrutturazione e un’integrazione<br />
dei sistemi economici regionali ( 9 ).<br />
Occorrerebbe innanzitutto sviluppare il sistema<br />
stradale e ferroviario che collega la Croazia<br />
con la Padania, passando attraverso la Slovenia.<br />
Poi vanno potenziati lo scambio di informazioni<br />
e di esperienze, di intuizioni e di soluzioni<br />
reciprocamente vantaggiose fra le due regioni,<br />
così come la collaborazione che riconosca<br />
le caratteristiche culturali comuni, i problemi<br />
comuni di una grande regione come quella<br />
racchiusa in Alpe Adria, che è stata però fino<br />
ad oggi solo un forum di discussione e non un<br />
organismo operativo, fortemente osteggiato dai<br />
governi centrali nazionali.<br />
Rapporti concreti fra Croazia e Padania vanno<br />
creati, con vantaggio reciproco, superando<br />
il processo formale inter-governativo (fra Stati<br />
nazionali), dal quale la Croazia potrebbe essere<br />
attratta dopo aver raggiunto lo status di Stato<br />
sovrano. Altri soggetti infatti vanno affermandosi<br />
oggi sulla scena europea e non coincidono<br />
necessariamente con gli Stati nazionali. Occorre<br />
perciò oggi superare la tentazione di cooperare<br />
solo con gli Stati in via inter-governativa,<br />
adottando una strategia transnazionale corrispondente<br />
ai veri problemi di sviluppo delle regioni<br />
economiche integrate emergenti. Occorre<br />
individuare l’interdipendenza economica reale<br />
e l’integrazione spontanea, che va rafforzata<br />
con intensi scambi locali. È possibile disegnare<br />
un sistema di determinazione di scelte<br />
economiche comuni, più efficienti e funzionali<br />
alla situazione odierna. Vi è la necessità di riconoscere<br />
gli interessi complementari e conver-<br />
( 9 ) Nagel J., Olzak S. Ethnic Mobilization in new and old States:<br />
an extension of the competition model. In: “Social Problems”<br />
XXX 2 (1982) 127-143.<br />
genti presenti nell’area croato-padana, per sfruttare<br />
appieno le risorse presenti in questo ambito.<br />
Occorre dunque entrare in contatto con altri<br />
soggetti, diversi dagli Stati, facilitandone la<br />
possibilità di agire indipendentemente dai governi<br />
nazionali, di giungere ad accordi regionali<br />
bilaterali, non ragionando più in termini<br />
esclusivi di Stati nazionali e permettendo alla<br />
Padania di superare gradatamente il divieto di<br />
accordi, costituzionalmente previsto, con altre<br />
regioni ad interessi convergenti. Questo sarebbe<br />
inoltre un fattore di sicurezza, poiché faciliterebbe<br />
il dialogo (tendenzialmente su tutti i<br />
temi), che porterebbe alla pace: mediante scambi<br />
economici, accordi a vasto raggio oggi ancora<br />
ostacolati dal centralismo, che storicamente<br />
è solo fonte di guerre e di contrasti (basterebbe<br />
pensare ai contenziosi ancora aperti fra Croazia<br />
e Italia).<br />
<strong>La</strong> collaborazione necessaria fra Croazia e Padania<br />
può essere pensata dunque anche come<br />
primo passo verso la creazione di una grande<br />
regione europea, inaugurata dall’esperienza di<br />
Alpe Adria. Vanno dunque pensati sistemi di cooperazione<br />
a tutti i livelli, che devono comprendere<br />
anche il sistema della sicurezza regionale.<br />
Padania e Croazia: una nuova “Alpe Adria”<br />
adatta ai tempi.<br />
Il potenziamento dei contatti diretti fra Croazia<br />
e Padania può contribuire a eliminare non<br />
solo le barriere allo sviluppo rappresentate dai<br />
confini degli Stati nazionali, ma anche i problemi<br />
per la sicurezza regionale. Integrazione<br />
economica e convivenza pacifica possono infatti<br />
saldarsi. Gli ostacoli creati invece dalla politica<br />
nazionale hanno un impatto negativo non solo<br />
sulla circolazione dei beni e delle persone, sulle<br />
sinergie economiche (cosa che provoca alti<br />
costi per lo sviluppo) ( 10 ) ma anche sullo scambio<br />
di informazioni, sulla cooperazione nella soluzione<br />
di problemi regionali e quindi sulla sicurezza.<br />
Se invece si ha un processo di arricchimento<br />
reciproco a tutti i livelli, la sicurezza<br />
può essere vista come confronto e scambio con<br />
l’ambiente circostante. Integrazione fra sistemi<br />
economici regionali e sicurezza sono infatti<br />
complementari.<br />
<strong>La</strong> Croazia può tendere alla stabilità e alla si-<br />
( 10 ) Nijkamp P. Preface to Ratti R., Reichman S. (Ed) Theory<br />
and Practice of Transborder Cooperation Basel, Frankfurt a.<br />
M. 1993<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 25
curezza sia interna che della regione europea<br />
nella quale è collocata. Una forte tradizione di<br />
autonomia statuale è rimasta nella memoria<br />
collettiva croata dalle esperienze del periodo<br />
compreso fra il IX e l’XI secolo. Il forte sentimento<br />
della statualità croata e dell’indipendenza,<br />
dell’istinto all’autodeterminazione ( 11 ) può<br />
dare un contributo alla creazione di un’area regionale<br />
europea di sviluppo e di sicurezza nella<br />
quale Padania e Croazia svolgano un ruolo centrale<br />
grazie alla loro collaborazione e livello di<br />
sviluppo.<br />
<strong>La</strong> sicurezza può essere favorita dal rifiuto di<br />
una estrema nazionalizzazione dei problemi.<br />
Anche i problemi della sicurezza possono essere<br />
visti nei termini di regioni complementari.<br />
Sono infatti gli Stati nazionali una minaccia alla<br />
sicurezza e alla pace in Europa: le rivendicazioni<br />
nazionalistiche (che proliferano anche in Italia<br />
proprio nei confronti della Croazia) e le aspirazioni<br />
delle forze nazionalistiche sono qualcosa<br />
di totalmente diverso rispetto ai problemi<br />
di sviluppo della Padania e alle sue esigenze di<br />
apertura e di collaborazione verso e con l’Est<br />
europeo.<br />
Croazia e Padania possono costituire un polo<br />
economico-culturale molto forte in Europa. Oc-<br />
( 11 ) Sudland L.V. Jugoslavensko pitanje Hrvatska Demokratska<br />
Stranka. Varazdin 1990.<br />
corre però pensare in termini di grandi regioni<br />
economiche e non vedere più soltanto l’apparenza<br />
esteriore degli Stati nazionali, che hanno<br />
sempre ostacolato le iniziative indipendenti,<br />
politiche ed economiche, delle regioni ad interessi<br />
convergenti, poste a cavallo dei confini<br />
degli Stati nazionali. Il superamento necessario<br />
della logica dei rapporti esclusivi fra governi<br />
nazionali (che comporta ostacoli sia economici<br />
che pericolose influenze nazionalistiche<br />
sulla sicurezza) era un’esigenza che era già stata<br />
espressa da molto tempo dall’esperienza dell’iniziativa<br />
Alpe Adria, osteggiata dai governi di<br />
Roma e di Vienna, ma che tanto ha fatto ed ha<br />
significato per una regione come quella croata,<br />
che era ancora sottoposta al regime coloniale<br />
“jugoslavo”. <strong>La</strong> continuazione di quelle forme<br />
oggi è indispensabile per la Padania, sottoposta<br />
a legislazioni nazionalistiche fortemente penalizzanti<br />
(come un tempo lo erano la Croazia e<br />
altri Paesi dell’Est oggi indipendenti) in vista<br />
di una sua politica estera ed economica libera e<br />
rispondente pienamente alle esigenze delle sue<br />
popolazioni. L’esperienza Alpe Adria si è però<br />
arenata oggi sugli scogli delle politiche nazionali<br />
e può essere rivitalizzata in forme nuove,<br />
indifferenti alle pretese dirigiste dei governi<br />
romani o di altre capitali centralizzatrici, che<br />
non rispondono minimamente alla volontà e ai<br />
bisogni delle popolazioni di sudditi che essi<br />
governano con metodi ormai anacronistici.<br />
26<br />
28 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Le radici della cultura letteraria padana<br />
P<br />
arlare di lettere per un processo che è di<br />
natura eminentemente politica può sembrare<br />
uno sforzo un po’ ozioso e retorico.<br />
Eppure, a nostro giudizio, finché non si prende<br />
in considerazione il problema dell’identità letteraria<br />
della Padania non si arriva finalmente a<br />
dimostrare la legittimità culturale della voglia<br />
di autonomia della nostra terra.<br />
Si è sempre parlato di “letteratura italiana” e<br />
la vasta congerie di opere di varia origine geografica<br />
che passa sotto questo titolo è diventata<br />
motivo di vanto per i cittadini appartenenti allo<br />
stato italiano; l’Italia è conosciuta nel mondo<br />
anche per la grandezza di un Dante o di un Manzoni.<br />
Ma - chiediamoci - è mai esistita una vera e<br />
propria letteratura italiana? E qual è il rapporto<br />
di idee e forze tra essa e una non ancora ben<br />
identificata letteratura padana?<br />
Va chiarito preliminarmente che chi scrive,<br />
docente di Lettere alle Superiori, si è formato<br />
in un clima culturale che lo ha indotto a convincersi<br />
della accezione vastissima del termine<br />
“letteratura”. A questa impostazione si è poi attenuto<br />
nel suo insegnamento, cercando di dimostrare<br />
ai suoi allievi che la cultura letteraria<br />
non è costituita solo dalla produzione dei grandi<br />
poeti e romanzieri ma anche dalla letteratura<br />
popolare, dalle opere di saggistica (che ancora<br />
stampa e scuola di regime considerano inferiori<br />
alla fiction), dal giornalismo extraquotidiano,<br />
dalla letteratura filosofica e dalla stessa<br />
ricerca scientifica, la quale, volente o nolente,<br />
deve passare attraverso l’espressione letteraria<br />
per venire seguita e accettata (e quindi adottare<br />
anch’essa al meglio il codice linguistico riconosciuto<br />
dalle varie comunità nazionali o regionali<br />
alle quali appartengono studiosi e scienziati<br />
stessi).<br />
<strong>La</strong> cultura letteraria, vista sotto questa prospettiva,<br />
rappresenta la maggiore espressione<br />
dell’identità di un popolo, la conferma definitiva<br />
della sua esistenza autonoma e della sua continua<br />
vitalità.<br />
L’identikit di una cultura letteraria non può<br />
di Andrea Rognoni<br />
ovviamente prescindere da una chiara classificazione<br />
del codice linguistico col quale è stata<br />
prodotta e coltivata, in riferimento sia al cosiddetto<br />
“idioletto” (parte del codice che dipende<br />
dalle caratteristiche etniche e geografiche) che<br />
al cosiddetto “socioletto” (parte del codice che<br />
dipende dai requisiti di ordine economico-sociale<br />
e sociopolitico): ciònondimeno, il sistema<br />
letterario di un popolo finisce coll’acquisire caratteri<br />
autonomi rispetto agli altri impieghi della<br />
lingua, in funzione prevalentemente<br />
espressionistica, diventando cioè l’espressione<br />
più profonda del modo di pensare, vedere il<br />
mondo (Weltanschaung) e comunicare, col risultato<br />
quindi di costituire un potente mezzo<br />
per cementare l’idem sentire di un popolo, idealizzare<br />
i suoi stessi sentimenti, celebrare in<br />
qualche modo la sua esistenza istituzionale, pur<br />
tenendo conto della pluralità delle sue componenti.<br />
Se quest’ultimo fenomeno non si è verificato<br />
in forma esplicita per il popolo padano ciò è dovuto<br />
unicamente ad una serie di circostanze politiche<br />
e culturali che hanno impedito la sua<br />
emersione o la sua legittimazione. Il paradosso<br />
della storia “italiana” è dato dal fatto che non è<br />
avvenuto un passaggio graduale dalla galassia<br />
dei microstaterelli prerisorgimentali all’istituzione<br />
statuale del regno; se tutto fosse stato più<br />
lento e meditato, si sarebbe scoperto con più<br />
chiarezza il diverso approccio alla cultura tra<br />
l’entità geografica padana e quella italica, a partire<br />
da un sentimento della lingua e della letteratura<br />
italiana che era sì fiorito già in epoca<br />
rinascimentale ed illuministica ma aveva ricevuto<br />
un’interpretazione assai differente a seconda<br />
dell’origine geografica ed etnica degli autori<br />
e degli studiosi interessati al problema.<br />
Quando poi è stata inaugurata la macchina<br />
burocratica dello stato sabaudo il potere è stato<br />
assunto da noti “plantigradi” che hanno avuto<br />
tutto l’interesse di dare un tono nettamente coercitivo<br />
al processo unitario della cultura cosiddetta<br />
italiana. Fu avviato precipitosamente<br />
da una parte l’iter romanocentrico, che non a<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 27
caso ha vissuto la tappa di Firenze capitale per<br />
legittimare un assai discutibile parto tosco-latino<br />
di tutte le parlate esistenti tra Alpi e Sicilia<br />
e, procedendo dall’altra, attraverso nuove scuole<br />
statali e critici di regime, ad una revisione della<br />
letteraturta italiana precedente come inesorabile<br />
cammino preparatorio della definitiva unità.<br />
Il processo ha poi trovato il suo culmine nella<br />
critica desanctisiana-crociana tra fine secolo<br />
scorso e inizio attuale (ho volutamente usato il<br />
passato prossimo padano per evitare il passato<br />
remoto tipico del codice linguistico-letterario<br />
di marca toscoitalica).<br />
Va quindi seguita, ora, alle soglie del Duemila,<br />
dopo un secolo e mezzo di equivoci, una strada<br />
di ricerca che non sia più la conseguenza di<br />
un cammino forzato, predeterminato da chi voleva<br />
e vuole perpetrare la logica di un “grande<br />
stato moderno” dotato di cultura omogenea e<br />
preconfezionata.<br />
<strong>La</strong> nuova strada porta necessariamente, prima<br />
di tutto, a riscoprire le radici padane della<br />
letteratura italiana medievale (glissate anche nel<br />
recente passato a favore di quelle siciliane o<br />
osche, oppure valutate solo come laboratorio<br />
“di servizio” per la formazione della grande letteratura<br />
toscana del Trecento), radici che vanno<br />
valutate finalmente come fascio di valenze<br />
autonome e già consapevoli della propria dignità<br />
letteraria e soprattutto fonte di una cultura letteraria<br />
definibile a tutto tondo padana prima ancora<br />
che italiana.<br />
Mi riferisco in special modo alla cosiddetta<br />
“letteratura didattica padana” del Duecento, che<br />
fiorì sulla base di un volgare veneto-lombardo<br />
di notevole evoluzione e autonomia linguistica<br />
e vide i suoi massimi protagonisti nel milanese<br />
Bonvesin de la Riva e nel veronese Giacomino.<br />
Non si può non vedere dietro il genio di questi<br />
primi “cantori” della patria padana il grande<br />
livello di civiltà raggiunto dalla società comunale<br />
in Padania, nel momento in cui altre parti<br />
d’Italia ed Europa erano ancora ingolfate nel più<br />
chiuso feudalismo. Un ruolo importante per la<br />
formazione di questa letteratura fu giocato anche<br />
dalla “Pataria”, movimento religioso che si<br />
proponeva di far pulizia all’interno della Chiesa.<br />
Ecco quindi subito delinearsi, seppur in forma<br />
embrionale, i tratti distintivi della letteratura<br />
padana rispetto a quella toscana ed italica:<br />
coscienza del ruolo giocato dal lavoro e dall’economia<br />
(basta leggere le pagine di Bonvesin sulla<br />
città di Milano!) e forte spirito educativo fondato<br />
sul recupero di alcuni valori morali e au-<br />
tenticamente religiosi (qui fa davvero da maestro<br />
Giacomino colla sua Sarabanda Infernale,<br />
tutta tesa a dimostrare le radici diaboliche del<br />
comportamento disonesto di certi politici ed<br />
ecclesiastici).<br />
Parallelamente a questo tipo di letteratura,<br />
in Padania fiorisce nei primi secoli del secondo<br />
millennio un tipo di cultura poetica che si rifà<br />
in maniera diretta alla lingua e alla letteratura<br />
franco-provenzale, a conferma di un sentimento<br />
di sostanziale fratellanza tra le due regioninazioni<br />
corrispondenti nell’antichità alle due<br />
Gallie, la Gallia transalpina e la Gallia cisalpina.<br />
Innanzitutto la vicinanza linguistica dei dialetti<br />
padani e della lingua d’oc permette una<br />
sorta di magnifica fusione, che si diffonde soprattutto<br />
presso le classi colte e dotte; il toscano<br />
fatica ancora ad imporsi e l’italico viene sentito<br />
come un idioma assai lontano e diverso,<br />
oltretutto poco adatto all’espressione artistica.<br />
Secondariamente i maggiori poeti padani trovano<br />
in questo mixage la giusta materia prima<br />
per comporre delle liriche a sfondo sentimentale<br />
o psicologico. Si pensi soprattutto a Rambaldo<br />
di Vaqueiras, fondatore della scuola di Genova<br />
e autore di un bellissimo dialogo poetico<br />
tra una donna genovese e un corteggiatore provenzale,<br />
al discepolo genovese <strong>La</strong>nfranco Cigala,<br />
al bolognese Rambertino Buvalelli, al mantovano<br />
Sordello da Goito, autore del “sirventese<br />
lombardesco” in un piacevolissimo linguaggio<br />
lombardo-veneto infarcito di provenzalismi<br />
ed infine ai cosiddetti poemi franco-veneti di<br />
autori trevigiani, padovani e veronesi. Si tratta<br />
nel complesso di una mole considerevole di<br />
opere che solitamente i libri di testo della scuola<br />
italiana trattano con aria estramente superficiale,<br />
considerandoli in un certo senso indegni<br />
di comparire a fianco delle opere in lingua<br />
italiana; di qualche autore si riconosce bravura<br />
e originalità, ma non c’è nessuno sforzo per<br />
comprendere la lingua padana e i suoi moduli<br />
espressivi; al limite si tende a dar eccessiva importanza<br />
al modello provenzale finendo implicitamente<br />
con l’accusare i primi letterati padani<br />
di essere dei - pur alacri e vivaci - “emeriti<br />
copioni”.<br />
Nei confronti poi della letteratura toscana del<br />
Duecento-Trecento, studiosi, critici e curatori<br />
di antologie sembrano più sottolineare in essa<br />
le radici “indiscusse” di lingua e letteratura italiana<br />
che i tratti inconfondibili e meritori della<br />
cultura toscana, afferenti a quella nazione che<br />
giustamente sui Quaderni Padani è stata chia-<br />
28<br />
30 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
mata “Etruria”, erede cioè della tradizione etrusca<br />
e comprendente anche parte dell’Umbria e<br />
del <strong>La</strong>zio. Gli scambi culturali tra Etruria e Padania<br />
erano in quei secoli sicuramente intensi<br />
(più che tra Etruria e terre italiche), tuttavia,<br />
sul piano linguistico-letterario non si può negare<br />
una certa differenza di impostazione e comunicazione,<br />
riconducibile soprattutto alla<br />
non-celticità della Toscana stessa.<br />
Dobbiamo dunque definire “capolavoro della<br />
letteratura toscana” la Divina Commedia (e capolavoro<br />
al tempo stesso della letteratura mondiale,<br />
senza dimenticare comunque che fu ideata<br />
e in parte scritta in Padania durante l’esilio<br />
dantesco); quanto a Dante poi non si può non<br />
riprendere in esame il suo De Vulgari Eloquentia<br />
per sottolineare pregiudizi e arroganza di<br />
valutazione nei giudizi espressi nei confronti<br />
dei linguaggi padani. Se l’Alighieri giudicò inadeguati<br />
alla parlata italiana volgare il milanese<br />
ed il bergamasco, foneticamente insopportabili<br />
i dialetti veneti, gravati da una “zeta” troppo<br />
aspra i genovesi, praticamente stranieri i vernacoli<br />
di Torino, Trento ed Alessandria, troppo<br />
gutturali i dialetti ovest-emiliani, con conseguenze<br />
negative per le rispettive culture letterarie,<br />
lo si deve ad una visione un po’ forzata<br />
dell’italianità, basata unicamente sul modello<br />
tosco-bolognese e già pesantemente votata ad<br />
una sorta di neutralizzazione culturale delle<br />
terre poste ad ovest dell’Enza e a nord del Po.<br />
D’altra parte il senso di estraneità provata da<br />
un famoso toscano nei confronti di queste ultime<br />
conferma le profonde differenze tra Continente<br />
e Penisola, che a quei tempi solo una minoranza<br />
di abitanti della penisola stessa voleva<br />
cancellare.<br />
E veniamo ai tempi umanistico-rinascimentali.<br />
<strong>La</strong> Padania trova nei reggiani Boiardo e<br />
Ariosto due grandi interpreti dell’epos cavalleresco,<br />
due autori che a sud dell’Appennino non<br />
potrebbero mai esser fioriti. Forte è infatti l’eco<br />
della cultura francese e decisamente continentale<br />
la capacità di far viaggiare il lettore in ogni<br />
parte dell’universo assieme ai vari paladini, senza<br />
contare lo spirito di ironico ottimismo che<br />
nulla ha a che fare col sarcasmo toscano, il fatalismo<br />
italico ed il tragico (o farsesco) pessimismo<br />
siciliano. In Etruria il mondo di Orlando<br />
ha trovato solo la goliardica presa in giro di<br />
un Pulci ed in Sicilia ha fornito materia per il<br />
tragicomico teatrino dei pupi, senza ispirare<br />
altro tipo di letteratura.<br />
Alle spalle dei due reggiani ci fu la corte fer-<br />
rarese, magnifico esempio di cultura padana in<br />
grado di rielaborare il meglio di tutta Europa<br />
sia in ambito letterario che in ambito artistico,<br />
apportandovi con gran classe lo spirito fattivo<br />
degli “eridani”, la capacità per certi aspetti inimitata<br />
di tradurre la cultura in ricchezza e la<br />
ricchezza in nuova cultura, senza mai dimenticare<br />
l’ispirazione popolare.<br />
E a Ferrara predicava Gerolamo Savonarola,<br />
un frate di grandi qualità retoriche e letterarie,<br />
che ebbe non a caso per primo il coraggio di<br />
condannare la corruzione romana, rifacendosi<br />
ad un’altissima moralità.<br />
Ma il meglio della cultura padana tra Quattrocento<br />
e Cinquecento sta forse tra Mantova e<br />
Venezia, le due capitali del 1996.<br />
Il mantovano e il padovano di cui “menar vanto”<br />
sono Teofilo Folengo e il Ruzzante, ma anche<br />
il veneziano Bembo merita una rivalutazione<br />
quanto a padanità.<br />
Folengo scrive in una lingua macheronica che<br />
mischia latino e linguaggio padano in un impasto<br />
di straordinaria freschezza e incisività: con<br />
questo strumento in codice che sa tanto di critica<br />
nei confronti di un italiano imposto dalle<br />
classi più abbienti (in qualche modo traditrici<br />
della sanguignità popolare della “Bassa”), ci racconta<br />
il mondo contadino della pianura padana<br />
in tutta la sua realistica generosità e spontaneità,<br />
in barba a quegli intellettuali cinquecenteschi<br />
d’Italia, d’Etruria e in parte della stessa<br />
Padania che cominciano a far credere che non<br />
esista più.<br />
Il Ruzante, specie nella commedia Betìa, mette<br />
in gioco istinti ancor più animaleschi, usando<br />
direttamente il dialetto, un patavino schietto<br />
e ruspante capace di rappresentare perfettamente<br />
la forza dei sentimenti dei più umili, di<br />
un popolo padano che di fronte alle angherie<br />
dei potenti risponde con la manifestazione ingenua<br />
e limpida delle sue gioie e dei suoi dolori.<br />
Di fronte alla primitività del contado sta la<br />
speculazione filosofica dell’aristocrazia veneta,<br />
in parte già piegata agli interessi delle altre aristocrazie<br />
italiane ed europee, plagiata da quelle<br />
forze che iniziano a reclamare l’Unità a tutti i<br />
costi.<br />
Così un Pietro Bembo, costretto dal padre ambasciatore<br />
a respirare l’aria prima di Firenze e<br />
successivamente di Messina, torna a Venezia e<br />
scrive un saggio, Prose della volgar lingua<br />
(1525), in cui esalta la lingua letteraria toscana,<br />
proponendola come modello per tutti gli<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 29
scrittori della cosiddetta “Italia”.<br />
A nulla vale la replica di un altro veneziano,<br />
Giangiorgio Trissino, che vuol mantenere la<br />
dignità e l’autonomia delle parlate regionali,<br />
specie padane.<br />
Eppure nella prosa degli Asolani, che parla<br />
del significato dell’amore attraverso un dialogo<br />
ambientato in una delle più belle località collinari<br />
della Padania, il Bembo non può fare a<br />
meno di esaltare dei valori che solo il paesaggio<br />
prealpino può ispirare e favorire (vedasi più tardi<br />
gli stessi Foscolo e Fogazzaro; in Etruria invece<br />
prevale un eros di tipo boccaccesco, nella letteratura<br />
italica e sicula un eros tragico o teatrale).<br />
Non si può poi tacere il fatto che le prime<br />
grandi poetesse dell’Europa bassomedievale e<br />
moderna fossero in gran parte padane: donne<br />
dotate di eccezionale sensibilità, lievitata in uno<br />
stile poetico di notevole suggestione. Parliamo<br />
soprattutto di Gaspara Stampa, veneta, e di Veronica<br />
Gambara, lombarda, che scrissero poesie<br />
d’amore in cui campeggia una padana semplicità<br />
di sentimenti, scevra da infingimenti e<br />
leziosità, nonostante alcuni echi manieristicamente<br />
petrarcheschi.<br />
A partire dal tardo cinquecento si crea una<br />
più marcata spaccatura tra cultura letteraria<br />
padana e cultura letteraria peninsulare.<br />
A sud dell’Arno e del Metauro si impone in<br />
maniera pesante il più artificioso dei barocchi,<br />
a nord la maggior parte degli scritti sta al passo<br />
con il realismo europeo, aprendosi tra l’altro<br />
definitivamente alla scienza e alla moderna storiografia.<br />
Torquato Tasso rappresenta in tal senso l’ultima<br />
voce che in qualche modo tiene unito Nord<br />
e Sud della cosiddetta Italia. Nato e cresciuto<br />
in Campania deve venire a Ferrara, perenne faro<br />
della civiltà padana, per trovare la vena giusta<br />
della sua altissima arte, rifacendosi in parte al<br />
filone ariostesco e in parte alla sensualità al tempo<br />
stesso raffinata e sanguigna che alberga sul<br />
Po, sublimata da una religiosità di ispirazione<br />
controriformistica, degna comunque di una<br />
Padania nient’affatto legata alla pura ritualità<br />
esteriore.<br />
Il veneziano Paolo Sarpi nella storia e il bresciano<br />
Benedetto Castelli nella letteratura scientifica<br />
aprono a una prosa finalmente moderna,<br />
di solida impostazione ma di semplice<br />
interpretazione; lo stesso Galileo Galilei, amico<br />
del Castelli, deve venire dalla natìa Pisa in<br />
una evolutissima Padova per trovare l’ispirazione<br />
giusta per il suo Dialoghi sopra i due Massimi<br />
Sistemi del mondo.<br />
30<br />
32 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Liguri, Saraceni e Garalditani<br />
L<br />
a recente uscita del libro di Joseph Henriet,<br />
Noi Saraceni delle Alpi (Chatillon: Edizioni<br />
Cervino, 1996), ha riproposto con logica coerente,<br />
il mai risolto problema dell’identità etnica<br />
delle popolazioni alpino-occidentali, con le sue<br />
inevitabili implicazioni storiche, culturali e politiche.<br />
L’idea di fondo prende spunto dalle dure lotte<br />
che videro, tra il IX e il X secolo, la feudalità cristiana,<br />
marchesi in testa, contrapporsi agli invasori<br />
saraceni, in un’area comprendente la Provenza,<br />
la Savoia, la Svizzera, il Piemonte e la Liguria,<br />
intesi nei loro attuali confini. Henriet nel<br />
suo lavoro, giunge ad ipotizzare che in realtà non<br />
si trattò di Saraceni, bensì delle popolazioni locali<br />
che lottarono strenuamente in difesa delle<br />
loro libertà e della loro identità, contro l’imposizione<br />
del potere feudale, alleato del clero.<br />
Il fatto però che questi popoli, ancora alla fine<br />
del primo millennio, potessero essere pagani e<br />
indipendenti, pone una serie di interrogativi che<br />
forzatamente implicano anche un’ampia revisione<br />
della storia dei secoli precedenti, cosa peraltro<br />
in corso.<br />
Senza scendere eccessivamente nel particolare<br />
e restando per neccessità di cose estremamente<br />
sintetici, sarà utile ricordare come nell’antichità,<br />
Eratostene definisca ligure la penisola Iberica,<br />
individuando in ciò i Liguri come il popolo<br />
dell’occidente europeo, distinguendoli in questo<br />
nettamente dalla penisola Italiana e quindi dalle<br />
popolazioni italiche. In seguito il termine Liguria<br />
andò gradualmente riducendo il territorio a<br />
esso attribuito, arrivando comunque ancora nel<br />
VII secolo a comprendere l’occidente padano. In<br />
tempi più moderni l’area comprendente le popolazioni<br />
tra la Galizia, l’Occitania e la Padania fu<br />
definita Garaldea, tanto che ad essa lo studioso<br />
basco Krutwig-Sagredo dedicò nel 1975 una<br />
grammatica, rilevando altresì interessanti collegamenti<br />
linguistici con le lingue caucasiche e con<br />
prestigiose lingue morte, come il caledoniano<br />
della Scozia, il guancio delle isole Canarie, il pregreco<br />
dei Balcani e il Sumero della Mesopotamia.<br />
Tutto questo ci indica una sostanziale unità etni-<br />
di Flavio Grisolia<br />
Monete dei Salassi<br />
co-culturale dell’occidente europeo, in qualche<br />
modo sopravvissuta alla dominazione romana, ma<br />
fino a che punto?<br />
È infatti lecito domandarsi, tornando al quesito<br />
sollevato da Henriet, quanto gli almeno cinque<br />
secoli di dominazione romana avessero potuto<br />
incidere sull’identità di queste popolazioni<br />
e sulle loro strutture sociali. In effetti, cinquecento<br />
anni per genti che già avevano alle spalle<br />
oltre quattro millenni di continuità storica, non<br />
possono aver significato lo stravolgimento totale<br />
delle loro culture, senza tener conto che essi abitavano<br />
zone montuose, che mai i romani si sognarono<br />
di colonizzare, accontentandosi in cambio<br />
del controllo delle valli e soprattutto delle<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 31
nuove vie di comunicazione da loro costruite. Ciò<br />
spiega in buona parte come dall’antichissimo etnico<br />
Liguri, precedente non solo l’invasione romana,<br />
ma anche le migrazioni celtiche, possa esser<br />
poi nato il nome di Liguria, che nel III secolo<br />
venne addirittura attribuito a tutta la Padania<br />
occidentale, Emilia compresa, andando a sostituire<br />
quelli precedenti di Transpadana e Gallia<br />
Cisalpina e rimanendo ancora perfettamante vitale<br />
nel VII secolo.<br />
L’arrivo dei Longobardi segna un momento di<br />
forte rottura col passato, con l’inizio di una diffusa<br />
presenza armata, anche nei territori montani<br />
della Liguria marittima e la nascita di ducati,<br />
che di fatto daranno inizio al feudalesimo e allo<br />
stravolgimento delle originarie comunità locali.<br />
Nell’opera di controllo di queste aree, i Longobardi<br />
si avvalsero con successo della collaborazione<br />
dei monaci benedettini: il monastero di<br />
Bobbio fondata nel 614 su terreno donato dal re<br />
longobardo Agilulfo, fu arricchito di territori nell’entroterra<br />
e lungo la costa, sui quali esercitava<br />
in pratica un diritto feudale e questo nel corso<br />
dell’VIII secolo, mentre sempre più cresceva l’influenza<br />
di nuove fondazioni monastiche come<br />
Brugnato e Borgo S. Dalmazzo, di modo che, in<br />
un modo o nell’altro, tutta la regione compresa<br />
tra le Alpi marittime e l’Appennino tosco-emiliano,<br />
risultasse sotto controllo. <strong>La</strong> perdita dell’antica<br />
identità passava poi, attraverso la cristianizzazione<br />
forzata e la repressione degli antichi culti<br />
pre-romani: esplicativo di ciò e importante testimonianza<br />
è la lapide esistente nella chiesa di<br />
San Giorgio di Filattiera in Lunigiana; tra le varie<br />
benemerenze di un personaggio longobardo,<br />
ivi sepolto nell’VIII secolo, si dice anche che: “Idola<br />
fregit”, cioè che spezzò gli idoli. Non è quindi<br />
un caso, se nella vicina Pieve di Sorano, siano state<br />
rinvenute nel corso di lavori di ristrutturazione,<br />
tre statue-stele dell’Eneolitico-Bronzo, intenzionalmente<br />
spezzate, secondo l’attuazione pratica<br />
di certi concilii episcopali che, ancora nel Medioevo,<br />
prescrivevano di spezzare gli idoli pagani e<br />
costruirvi sopra le chiese cristiane (come fece S.<br />
Benedetto a Cassino). Come se non bastasse, già<br />
negli editti longobardi di Rotari e di Liutprando<br />
compaiono leggi che puniscono spietatamente la<br />
sedizione della gente di campagna e di ogni tentativo<br />
di organizzazione popolare inteso a resistere<br />
al potere signorile. Le popolazioni indigene<br />
(definite “Rustiche”) sono paragonate al bestiame<br />
e accusate di mantenere in vita culti chiaramente<br />
pagani o barbarici, che nulla hanno a che<br />
fare col cristianesimo. Da ciò la tendenza dei si-<br />
gnori a considerare il “Rustico” come un essere<br />
inferiore, immorale, dedito a culti e a pratiche<br />
immonde, al punto che le leggi longobarde del<br />
secolo VIII minacciano pene severissime contro<br />
coloro che nelle campagne e nelle foreste, pratichino<br />
culti sacrileghi e paganeggianti.<br />
Da quanto esposto traspare chiaramente come,<br />
perlomeno fino ad allora, al di fuori delle città e<br />
di alcuni centri posti sulle principali vie di comunicazione,<br />
la diffusione del cristianesimo fosse<br />
in Padania alquanto limitata e addirittura esistessero<br />
ancora gli antichi culti preromani, probabili<br />
indici del mantenimento di un’identità che<br />
traeva le sue origini nella remota cultura Neolitico-Megalitica,<br />
vecchia già allora, di quasi cinquemila<br />
anni. Ne sono ulteriore conferma, le continue<br />
e sistematiche Missioni, organizzate dalla<br />
Chiesa di Roma, che si avvalevano degli elementi<br />
più colti e preparati, in parte provanienti ancora<br />
dall’Oriente, in parte forniti, in misura sempre<br />
crescente dai monasteri.<br />
Non ci è dato di sapere se mai vi fu resistenza<br />
armata in quel periodo, allo strapotere dei signori<br />
longobardi e del clero monacale, di certo si può<br />
dire che l’affermarsi del “Partito cattolico” tra i<br />
Longobardi, portatori di una cultura “Principesca”,<br />
tipicamente orientale e indoeuropea, favorì<br />
il connubbio sopraddetto, stringendo in una morsa<br />
asfissiante gli ultimi bagliori dell’originaria<br />
cultura ligure, tribale e comunitaria. In realtà la<br />
rivoluzione in atto risultò più culturale che strutturale:<br />
i Longobardi erano troppo pochi e troppo<br />
poco restarono per incidere realmente sulle etnie<br />
esistenti, in particolare sugli abitanti della Liguria<br />
attuale, che meno degli altri subirono la<br />
loro dominazione e che alla loro venuta trovarono,<br />
come da sempre, rifugio sui monti.<br />
Altrove la situazione era assai diversa e, soprattutto<br />
nell’arco alpino occidentale, pur essendo<br />
zona di confine coi Franchi, non fu, almeno nel<br />
corso del VII secolo, interessato da operazioni di<br />
guerra, il che permise il mantenimento dell’antica<br />
identità. Le cose cominciarono a cambiare nel<br />
corso dell’VIII secolo, allorché la pressione dei<br />
nobili franchi, appoggiati come già sull’opposto<br />
versante da monaci e vescovi, si fece sentire soprattutto<br />
in Savoia, dove la tradizione ci narra di<br />
scontri con Saraceni e pagani. Tralasciando per<br />
un attimo, tutte le considerazioni del caso, sul<br />
fatto che troviamo Saraceni sulle Alpi nordoccidentali,<br />
cent’anni prima del loro possibile sbarco<br />
a Frassineto, vicino all’attuale Saint-Tropez (cosa<br />
che peraltro Henriet fa egregiamente nel già citato<br />
testo) voglio soffermarmi invece sul termine<br />
32<br />
34 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Porta dei Salassi sulla “Strada di Annibale”<br />
francese “Sarassin”, usato appunto insieme a “Pagani”,<br />
per indicare queste popolazioni. In realtà<br />
esso non significa affatto Saraceno, bensì Salasso,<br />
in una forma che è tra l’altro attestata già in<br />
epoca romana nell’etnico Tigurin, indicante una<br />
tribù degli Elvezi, situata appunto nelle Alpi nordoccidentali;<br />
ancora oggi nel ligure moderno gli<br />
etnici terminano in -in, così come è normalmente<br />
praticato lo scambio l/r, per cui è lecito tradurre<br />
da Sarassin, Salasso e non Saraceno, come invece<br />
si fece riportando il tutto in latino. Il termine<br />
pagano poi, in latino non significa altro che<br />
abitante di villaggio, l’insediamento tipico dei<br />
Liguri montani e che propio per l’accesa resistenza<br />
a un Cristianesimo imposto dalle armi di genti<br />
straniere, divenne poi sinonimo di idolatra. A<br />
tale proposito è possibile immaginare che a livello<br />
toponomastico e onomastico, “Pagano” nelle<br />
sue varietà, stia ad indicare persone, villaggi o<br />
territori, che in qualche modo riuscirono a resistere<br />
a Longobardi, Franchi e vescovi in arme,<br />
mantenendo intatta la loro identità. E riguardo<br />
alle credenze dei “Pagani”, sarà utile ricordare<br />
come ancora nel X secolo si adorasse nella valle<br />
del Gran S. Bernardo (il Poeninum descritto dai<br />
Romani) una statua in onore del dio Pen, l’antica<br />
divinità preindoeuropea delle alte vette, che i<br />
Romani trasformarono in Giove-Pennino e che<br />
diede il nome agli Appennini, alle Alpi Pennine e<br />
a una serie di vette appenniniche, sacre agli antichi<br />
Liguri. Sicuramente però l’antica religione<br />
continuò ben oltre: in Valbormida a Vesime, tra<br />
Piemonte e Liguria, sono tuttora visibili due stele-antropomorfe<br />
facenti parte di un gruppo di<br />
venti, che accoppiati uomo-donna, fungevano da<br />
capifilare in una vigna della zona, in una collocazione<br />
ancora presente negli anni trenta. <strong>La</strong> probabile<br />
nascita delle statue-stele in questione, pare<br />
essere prossima al 1577, il che ancora una volta<br />
ci riconferma l’esistenza di una continuità culturale,<br />
che le durissime repressioni del passato non<br />
riuscirono mai a cancellare completamente.<br />
Sul versante padano la resistenza delle popolazioni<br />
locali si protrarrà per tutto il X secolo in<br />
Val d’Aosta e nelle <strong>La</strong>nghe. <strong>La</strong> stessa cosa che avvenne<br />
anche in Svizzera, dove i Sarassins “giunsero”<br />
sino a Coira e a San Gallo, allorchè nel<br />
maggio del 937, attaccarono e incendiarono il<br />
locale monastero. Solo i Mori dei Pirenei, che<br />
anche la storiografa ufficiale oggi riconosce come<br />
Baschi, quindi eredi degli antichi Liguri e membri<br />
della moderna Garaldea, uscirono vittoriosi<br />
dallo scontro coi “Barbari di Roma”: come ben si<br />
sa a Roncisvalle nel 779 i Franchi furono sconfitti<br />
e Rolando, cugino di Carlo Magno e conte palatino,<br />
perì in combattimento.<br />
L’angolazione fin qui addottata, implica obbligatoriamente<br />
un adeguato approccio linguistico,<br />
privo cioè di ogni conformismo accademico e di<br />
regime. Tentativi in tal senso non sono finora<br />
mancati, anche se sicuramente carenti di organicità<br />
e in buona parte datati, manca in sostanza<br />
chi, prescindendo da pregiudizi ideologici e dotato<br />
di discreto coraggio, oltre che di approfondite<br />
conoscenze, sappia rivedere sotto nuova luce e<br />
in un quadro d’insieme generale, l’intera questione<br />
linguistica europea, andando a ricostruire l’antico<br />
sostrato ligure, sempre meno etichettabile<br />
come preindoeuropeo o preromano. <strong>La</strong> considerazione<br />
ovvia che ci viene, dopo quanto detto, è<br />
che popoli che mille e cinquecento anni dopo la<br />
conquista di Roma, mantenevano ancora tradizioni<br />
vecchie di oltre cinquemila anni, difficilmente<br />
potevano aver del tutto abbandonato l’antica<br />
lingua.<br />
Oggi che le false identità nazionali, costruite a<br />
tavolino per asservire gli interessi dei potenti,<br />
crollano a una a una, solo la roccia di un passato,<br />
apparentemente remoto, ma in realtà ancora al<br />
nostro fianco, ci può dare il reale sostegno per la<br />
rinascita dei nostri popoli: “LIBERTÀ!”.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 33
Le “Pasque Veronesi”<br />
N<br />
apoleone scende in Italia, per la prima volta,<br />
nel marzo del 1796.<br />
Le sue truppe, vittoriose su Piemontesi e<br />
Austriaci, dilagano per tutta la pianura padana.<br />
Inseguendo gli Austriaci, i Francesi si presentano<br />
ai confini della Serenissima Repubblica di Venezia<br />
e penetrano in territorio veneziano. Da<br />
tempo lo Stato Veneto è afflitto da una grave crisi,<br />
più spirituale e morale che materiale, il che è<br />
certamente peggio. Gli organi dello Stato funzionano<br />
ancora, anche se alcuni patrizi propugnano<br />
da tempo alcune riforme ritenute necessarie<br />
( l ). È vero che, proprio negli ultimi decenni<br />
del secolo, vengono compilate importanti rac-<br />
colte di leggi e presi, almeno<br />
formalmente, provvedimenti<br />
a carattere economico<br />
e amministrativo di notevole<br />
importanza, ma il<br />
tutto viene fatto senza grande<br />
convinzione e senza incisività.<br />
Il distacco tra il ceto<br />
dirigente (il patriziato) e i<br />
ceti dominanti locali (l’aristocrazia di terraferma)<br />
è sempre più accentuato, e più grave ancora<br />
è la frattura esistente con la borghesia intellettuale<br />
(avvocati, giornalisti, uomini di scienza)<br />
che aspirano a nuove forme di governo e guardano<br />
con curiosità e con fiduciosa speranza agli<br />
avvenimenti di Francia. Altri gruppi, come gli<br />
ebrei e gli affiliati alla massoneria, attendono un<br />
muta mento radicale e, spesso, si adoperano per<br />
provocarlo.<br />
<strong>La</strong> situazione finanziaria è grave, ed ha come<br />
diretta conseguenza che l’esercito regolare è allo<br />
sfascio e che le milizie locali, le “cerníde”, sono<br />
pressoché disarmate e prive di addestramento.<br />
Testo della conferenza tenuta a Verona il 13 ottobre 1989<br />
presso la locale Camera di Commercio per invito del Comitato<br />
ANTI-89 di Verona.<br />
( 1 ) Ricordiamo che la più organica proposta di riforma dello<br />
Stato Veneto venne proprio da un veronese, il marchese Scipione<br />
Maffei, che la espose nella memoria intitolata: “Consiglio<br />
politico finora inedito presentato al Governo Veneto nel-<br />
di Alberto Lembo<br />
A chi combattè e cadde in<br />
difesa delle libertà del nostro<br />
popolo veneto nel secondo<br />
centenario di quegli<br />
avvenimenti<br />
<strong>La</strong> flotta, ancora numerosa, è ancorata a Corfù,<br />
priva di munizioni e di attrezzature ( 2 ). Le popolazioni,<br />
particolarmente quelle rurali, sono ancora<br />
legate, a volte in modo commovente, all’immagine<br />
della “Serenissima”, sotto il cui governo<br />
hanno goduto quasi quattro secoli di pace e<br />
da cui hanno avuto protezione contro i ceti più<br />
ricchi. Disinteresse, sfiducia, apatia nella nobiltà<br />
veneziana, desiderio di rivincita nella nobiltà<br />
di terraferma, da sempre esautorata, attesa di novità<br />
nella borghesia e tra gli intellettuali, fiducia<br />
nella “reputasion” di Venezia nel popolo sono<br />
gli stati d’animo dominanti nelle varie classi. Al<br />
di sopra, il governo (e, quindi, il patriziato), tra-<br />
gicamente immobile, quasi<br />
in attesa di una fine che<br />
molti hanno preconizzato<br />
da tempo. Il governo veneto<br />
fa appena in tempo a proclamare<br />
la sua “neutralità<br />
disarmata” che le truppe<br />
francesi cominciano a violare<br />
la neutralità del territorio<br />
veneto con il pretesto che ciò è necessario<br />
per contrastare la minaccia degli Austriaci. In<br />
realtà, agenti di Napoleone si introducono nelle<br />
città, stringono contatti con i “giacobini” locali,<br />
cercano simpatie e appoggi per la causa della rivoluzione<br />
e, insieme, fungono da agenti provocatori<br />
per suscitare incidenti che possano offrire<br />
un pretesto per intervenire militarmente o per<br />
avere motivi di lamentela verso Venezia, di cui<br />
Napoleone ha già deciso la fine ancora il 18 aprile<br />
1797, con i “preliminari di Leoben”, sei mesi<br />
prima di Campoformido.<br />
“... da questo momento - scrive Alvise Zorzi -<br />
tutto ciò che accade non è che commedia, nella<br />
l’anno 1736 dal Marchese Scipione Maffei”, stampata postuma.<br />
( 2 ) A questo proposito, mi piace ricordare che l’ultima impresa<br />
navale di Venezia, la Spedizione di Angelo Emo contro<br />
le basi di azione dei pirati barbareschi (Sfax, Susa e Biserta),<br />
fu finanziata stornando fondi già destinati alla bonifca delle<br />
“ValliVeronesi” (1784-1786).<br />
34<br />
36 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
L'insorgente ferito (quadro di Franz Von Defregger)<br />
quale il liberatore d’Italia fa una figura che nemmeno<br />
i suoi ammiratori più sfrenati sono riusciti<br />
a tinteggiare di colori positivi ...”.<br />
Napoleone, dunque, invade il territorio veneto<br />
portandovi il verbo rivoluzionario; nel frattempo<br />
in vari luoghi d’Italia, a Genova, Pavia,<br />
nella Lunigiana, si sono già verificati episodi di<br />
reazione popolare all’imposizione dei principì rivoluzionari<br />
portati dalle truppe francesi e al rovesciamento<br />
dei vecchi governi, e altri moti ancora<br />
più estesi si verificheranno poco dopo in<br />
Toscana, nel Napoletano, in Piemonte, negli Stati<br />
della Chiesa ..., cioè in tutti i luoghi dove giungeranno<br />
i Francesi a portare la loro “libertà”.<br />
In una lettera datata 2 aprile 1797 e diretta al<br />
governo veneto, Napoleone scrive che “... tutta<br />
( 3 ) In particolare mi riferisco all’azione del conte Rocco Sanfermo,<br />
quale appare dalla lettera da lui scritta il 30 aprile<br />
(“Lettera scritta nel Castello di S. Felice di Verona al Sena-<br />
la terraferma della Serenissima Repubblica di Venezia<br />
è in armi, in ogni parte i villici sollevati e<br />
armati gridano morte ai Francesi ...”. In questo<br />
contesto generale di reazione violenta dei popoli<br />
dell’Italia ad una “liberazione” non richiesta e<br />
non gradita, si inserisce l’insurrezione di Verona<br />
contro i Francesi nell’aprile del 1797, episodio<br />
che è conosciuto sotto il nome di “Pasque<br />
Veronesi”.<br />
I fatti di quei giorni sono abbastanza noti nella<br />
loro realtà e nella loro successione, anche se<br />
alcuni punti e il ruolo svolto da certi personaggi<br />
non sono stati ancora del tutto chiariti ( 3 ).<br />
Per l’esposizione dei fatti ho tenuto presenti<br />
tutte le più note fonti, da quelle locali, anche<br />
manoscritte, a quelle generali, scegliendo di se-<br />
to di Venezia dal Segretario della Repubblica Sanfermo e<br />
dagli altri due plenipotenziari Emilj e Garavetta”, Padova<br />
1797).<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 35
guire la traccia fornita dall’ottimo “Dizionario<br />
del Risorgimento Nazionale” edito da Vallardi<br />
nel 1931, in tempi, quindi, non certo sospetti di<br />
tendenze storiche “revisioniste”, il quale, nonostante<br />
il nome, espone le vicende che ci interessano<br />
con notevole obiettività. Più importanti dei<br />
fatti sono, però, a mio giudizio gli antefatti e i<br />
presupposti della vicenda storica, che devono<br />
essere considerati come le cause scatenanti di<br />
ciò che venne poi in Verona. Capire “perché” i<br />
pacifici veronesi si siano lasciati trascinare a<br />
prendere in massa le armi, ad attaccare la guarnigione<br />
francese, a resistere fino a quando la città<br />
fu completamente circondata e isolata da ogni<br />
possibile aiuto è quanto cercheremo di chiarire.<br />
Prima di tutto si deve tenere presente che Napoleone,<br />
e questo appare in modo incontestabile<br />
da fatti e testimonianze d’ogni genere, detestava<br />
le Repubblica Veneta, che aveva definito<br />
come “... il più assurdo e tirannico dei governi<br />
...”. Il suo comportamento nei confronti dei rappresentanti<br />
di Venezia fa scrivere a Giovanni<br />
Mocenigo, podestà di Brescia, che “... ogni evento,<br />
anche il più innocente, nel quale creda di rilevare<br />
qualche opposizione alle sue intenzioni,<br />
lo fa passare in un baleno alla ferocia e alle minacce<br />
...” Il 25 aprile 1797 a Graz Napoleone dichiarerà<br />
ai “deputati” Donà e Zustinian, inviatigli<br />
dal governo veneto: “... sarò un Attila per lo<br />
Stato Veneziano ...”. In ogni contatto, personale<br />
o epistolare, con le autorità venete il suo atteggiamento<br />
esprimerà sempre e in modo brutale<br />
questa posizione, radicatasi in lui per chissà quali<br />
motivi ... (Se mi concedete un paradosso a sfondo<br />
giuridico vorrei dire che, se Venezia fosse stata<br />
una persona fisica, l’azione di Napoleone nei suoi<br />
confronti potrebbe essere configurata come<br />
omicidio premeditato, con le aggravanti dei<br />
motivi abietti, della violazione di domicilio, del<br />
furto con scasso e del finale vilipendio di cadavere<br />
...).<br />
Ma riprendiamo la nostra storia. Da Brescia il<br />
Buonaparte si diresse a Peschiera, che occupò<br />
militarmente. “... A Peschiera - scrive il Cipolla<br />
gli si presentò Nicolò Foscarini, che risiedeva in<br />
Verona, quale Provveditore per la Repubblica di<br />
San Marco. Il generale finse di essere molto sdegnato<br />
perché in Verona aveva trovato ospizio e<br />
favore il profugo pretendente borbonico. Terminò<br />
dicendo che il dì appresso, cioè il I giugno,<br />
egli avrebbe occupata la città, al che si riconosceva<br />
autorizzato, poiché la neutralità veneziana<br />
era già stata rotta dagli Austriaci quando avevano<br />
occupato Peschiera. Ed era vero che gli Au-<br />
striaci, il 26 maggio precedente, erano entrati<br />
in Peschiera, ma ciò era avvenuto contro la volontà<br />
dei Veneziani e con violenza ...” (Per dovere<br />
di cronaca è opportuno ricordare che la guarnigione<br />
di Peschiera era costituita, come riferisce<br />
il Musatti, da una sessantina di veterani invalidi<br />
con una ottantina di cannoni ad affusto<br />
fisso: evidentemente, secondo il pensiero di Napoleone,<br />
erano forze sufficienti per tenere la fortezza<br />
contro un’armata austriaca ...). Quanto al<br />
resto del ragionamento esso segue una logica che<br />
fa pensare a quella della favola del lupo e dell’agnello<br />
di Esopo. È la logica tracotante della<br />
forza nei confronti di chi ha solo la ragione e il<br />
diritto dalla sua, il che è poco, allora come oggi.<br />
Eppure ci sono stati storici che non solo hanno<br />
deriso, ma anche condannato l’atteggiamento dei<br />
veneziani. Sarebbe come, per prendere a prestito<br />
un’immagine da Alvise Zorzi, se l’arrendevolezza<br />
della vittima fosse una scusante di ordine<br />
morale per il rapinatore. I Francesi, dunque,<br />
entrano in Verona il I giugno 1796 come un esercito<br />
vincitore entra in una città conquistata “...<br />
con i cannoni carichi e le micce accese ...”, come<br />
scrisse un cronista dell’epoca, e si comportano<br />
subito come un esercito occupante in territorio<br />
nemico, il che non avrebbe motivo di essere perché<br />
nessuno ha opposto resistenza e le autorità<br />
venete hanno consegnato la città, forti compresi,<br />
nel tentativo di ingraziarsi o, quanto meno,<br />
di non inimicarsi ancor più il Buonaparte. (È<br />
giusto e doveroso dire, a questo punto, che il<br />
governo veneto, fatta la sua scelta, purtroppo<br />
rovinosa, si comportò con lealtà e correttezza<br />
assolute, fidando nel “diritto delle genti” e nella<br />
sua neutralità. I suoi rappresentanti in terraferma<br />
avevano ordini severissimi di evitare ogni atto<br />
ostile ai Francesi e tennero, quasi tutti, un comportamento<br />
tale da sconfinare spesso nella vigliaccheria,<br />
non certo nella “empia perfidia” e<br />
nel tradimento, come sosteneva Napoleone).<br />
Le truppe occupanti, e questo è forse il meno,<br />
impongono subito alla città contribuzioni forzate<br />
in denaro e somministrazioni continue di<br />
viveri e foraggi per l’armata, che così viveva a<br />
carico dei veronesi.<br />
Ma il peggio è che i Francesi, come scrisse<br />
Francesco Cavazzocca, “... sempre coerenti cogli<br />
adottati principì, in ogni luogo, più o meno,<br />
lasciarono le più sensibili tracce del loro libertinaggio<br />
e delle loro ruberie. Infatti, la loro indisciplina<br />
è somma, né veruna tema e rispetto mostrano<br />
pei loro uffiziali e superiori; somma la<br />
loro crapola ...”.<br />
36<br />
38 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
L’occupazione francese fu effettivamente caratterizzata<br />
da ruberie e soprusi a danno della<br />
collettività e dei privati, dall’esautorazione sistematica<br />
delle autorità venete e dal vilipendio della<br />
Religione. (Questa pare essere stata una costante<br />
del comportamento francese in Italia dai<br />
tempi di Carlo d’Angiò alla discesa di Carlo VIII).<br />
“... e come questo non bastasse, la soldatesca cominciò<br />
a commettere devastazioni e violenze ai<br />
beni e alle persone, saccheggi, requisizioni forzate,<br />
che seminavano nel popolo un odio profondo<br />
e represso, specie nelle campagne”.<br />
Scriveva a questo proposito un cronista del<br />
tempo (in un manoscritto esistente nella biblioteca<br />
Comunale di Verona): “... Giammai dopo<br />
l’invasione degli Unni la guerra apportò sulla infelice<br />
nostra provincia un cumulo sì orribile di<br />
sventure e di miserie. Con brevi o lunghe interruzioni,<br />
secondo le vicende guerresche, l’occupazione<br />
francese di Verona continuò, e continuarono<br />
immutati i sistemi di taglieggiamenti e di<br />
violenze sulle popolazioni cittadine e del contado,<br />
che andavano perciò accumulando in cuore<br />
un cieco odio contro l’invasore ...” (Diz. del Risorgimento<br />
Italiano).<br />
In questo contesto i “giacobini” locali, che si<br />
sentivano spalleggiati e protetti dagli occupanti,<br />
uscirono allo scoperto e si diedero da fare,<br />
stringendo contatti con gruppi democratici sorti<br />
in altre città, in particolare con quelli di Milano,<br />
dove nel gennaio 1797 vi fu addirittura una<br />
riunione generale dei simpatizzanti giacobini<br />
delle varie città italiane.<br />
In questa opera si inserisce l’azione della Massoneria,<br />
vera “quinta colonna” francese, presente<br />
con una sua “Loggia” a Verona fino dal 1785.<br />
<strong>La</strong> Massoneria era stata introdotta in città da<br />
francesi, ancora prima dello scoppio della rivoluzione,<br />
e alla Francia fu sempre legata, diventando,<br />
quando la Francia divenne repubblica, sua<br />
fedele fiancheggiatrice. È superfluo dire che<br />
l’azione della Massoneria era diretta alla diffusione<br />
di quei principì illuministici che, sotto una<br />
patina di generico umanitarismo e di fede in un<br />
non ben definito “Ente Supremo” minavano le<br />
basi del potere costituito e della società tradizionale<br />
e avversavano la religione Cattolica in<br />
nome della libertà di pensiero e della fratellanza<br />
universale. Il governo veneto perseguitò la Massoneria<br />
sospettando di “... essere framassone chi<br />
non ha religione, chi mostra genio francese, chi<br />
sagacemente ingigantendo i disordini della Corte<br />
di Francia, scusa la seguita rivoluzione ...” (da<br />
un rapporto agli Inquisitori sulla Massoneria ve-<br />
ronese). Un emissario della Massoneria, un certo<br />
marchese di Mont Grand, viveva addirittura a<br />
fianco di Luigi XVIII, confuso tra i vari emigrati<br />
della piccola corte borbonica a Verona. <strong>La</strong> Massoneria<br />
fece opera di proselitismo e contagiò con<br />
i suoi principì illuministi e antireligiosi parecchi<br />
nobili, come il conte Giuseppe dalla Riva e i<br />
tre fratelli Polfranceschi, uomini di cultura, borghesi,<br />
ricchi ebrei e militari veneti di vario grado<br />
come il tenente Franceschini, i capitani Matteo<br />
e Filippo Psalidi e Leonardo Salimbeni, il<br />
generale Sebastiano Salimbeni.<br />
Nei primi mesi del 1797 la situazione si avvia<br />
chiaramente verso uno sbocco violento. Cito ancora<br />
dal “Dizionario del Risorgimento Italiano”:<br />
“... Un movimento schiettamente popolare ed<br />
a sfondo religioso (poiché ad esasperare l’avversione<br />
contro i Francesi e a darle un carattere<br />
quasi sacro, si era aggiunto l’orrore per la loro<br />
irreligione, una manifestazione della quale fu la<br />
costituzione d’una Loggia Massonica) s’era già<br />
iniziato nelle valli bresciane e sulle rive del Garda,<br />
le cui popolazioni comandate dai nobili fedeli<br />
a Venezia si cimentarono, male armate e da<br />
sole, a sottrarre il loro territorio alla usurpazione<br />
francese. Su tale esempio, a Verona fu costituito<br />
un nuovo Governo nel nome di San Marco:<br />
furono chiamate sotto le armi le “cernìde”,<br />
truppe del contado, che sotto il comando del<br />
generale veronese Antonio Maffei, ufficiale coltissimo<br />
e valente nelle cose di guerra, furono<br />
condotte a combattere i giacobini delle terre vicine.<br />
Nel marzo 1797 avvennero, infatti, parecchi<br />
combattimenti, a Tormini presso Salò ed a<br />
Lonato, in territorio bresciano, che risultarono<br />
favorevoli alle armi venete e dopo i quali il Maffei<br />
portò le sue schiere all’assedio di Brescia, per<br />
restituirla al dominio veneto, cui era stata tolta<br />
da un colpo di mano dei ‘patriotti’ della città.<br />
Ma, sopraggiunte le truppe francesi in aiuto dei<br />
loro partigiani di Brescia, il Maffei prudentemente<br />
ripassò il Mincio tornando a Verona, dove la<br />
situazione, in seguito agli avvenimenti accennati,<br />
era quanto mai tesa, poiché nella popolazione<br />
erasi radicata la convinzione che un colpo<br />
di mano preparato da francesi e da ‘patriotti’ fosse<br />
imminente per sottrarre la città alla Serenissima<br />
...”, considerato anche il vuoto di potere creatosi<br />
nella città. In aprile i “giacobini” veronesi<br />
tentarono di forzare la situazione per giungere<br />
ad una soluzione come quella di Brescia, dove<br />
una congiura sostenuta dalle armi francesi ha<br />
sottratto la città al dominio veneto, ma la congiura,<br />
organizzata da ufficiali francesi che sono<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 37
pronti ad intervenire per appoggiare i “giacobini”<br />
locali, viene scoperta ( 4 ).<br />
Inaspettatamente, in un sussulto di dignità e<br />
di autodifesa, le autorità venete si scuotono e<br />
fanno arrestare, in pieno giorno, una trentina<br />
tra i principali esponenti del partito rivoluzionario,<br />
che vengono tradotti a Venezia, nonostante<br />
il tentativo dei Francesi di impedirne la partenza.<br />
I Francesi, decapitata la congiura, persistono<br />
nel piano ideato dal generale Beaupoil per<br />
giungere al distacco ufficiale di Verona dalla<br />
Repubblica Veneta. In questa logica si inserisce<br />
una grave provocazione: il 17 aprile 1797, lunedì<br />
di Pasqua, i Veronesi possono leggere, affisso<br />
sui muri delle case, un proclama, falso, fatto affiggere<br />
dai Francesi, in cui si invita la popolazione<br />
ad insorgere contro i Francesi e a liberare<br />
la città. <strong>La</strong> firma è quella del “Provveditore Generale<br />
in Terraferma”, in nome della Serenissima<br />
Repubblica di Venezia, segno che i Francesi<br />
conoscevano bene l’attaccamento delle popolazioni<br />
a Venezia.<br />
Nel pomeriggio la città è percorsa da pattuglie<br />
francesi e venete e da gruppi di popolani armati.<br />
<strong>La</strong> situazione è incandescente: in vari punti della<br />
città scoppiano disordini e scontri tra pattuglie<br />
armate e tra militari francesi e popolani. Che<br />
i primi scontri si siano verificati verso le 16 in<br />
Brà o alle 17 in via Mazzini è incerto, e, ai nostri<br />
fini, irrilevante. Vi sono scambi di fucilate e le<br />
prime vittime; il rumore delle scariche di fucileria<br />
sale fino al colle di San Pietro e il generale<br />
Balland, che più volte aveva minacciato di bombardare<br />
la città, fa aprire il fuoco dall’alto dei<br />
forti, pensando di intimorire i sediziosi e di riportare<br />
l’ordine in città. A questo punto la situazione<br />
precipita. Il popolo veronese, arguto,<br />
bonaccione, sostanzialmente pacifico, s’infuria.<br />
Le cannonate che piovono sulla città ottengono<br />
l’effetto contrario e la rivolta diviene generale. I<br />
rappresentanti veneziani tentano di riportare la<br />
calma, ma vengono trattati da traditori e da giacobini.<br />
L’ambiguo conte Sanfermo scriverà, poi,<br />
prigioniero nel castello di S. Felice: “... ben cinque<br />
volte ho arringato il popolo, a rischio evidente<br />
della mia vita, per contenerlo, ma inutilmente<br />
...” (Forse i Francesi desideravano una<br />
sommossa, ma non l’insurrezione dell’intera cit-<br />
( 4 ) Il funzionario veneto Rocco Sanfermo aveva osato suggerire<br />
al Senato di restituile l’indipendenza a Verona: “... lasciandola<br />
in libertà di disporre da se medesima ...”, del che si<br />
vanterà in seguito, perché ciò avrebbe potuto impedire le “Pasque”.<br />
tà, perché questo poteva essere troppo pericoloso<br />
... e lo si vide poi).<br />
Se riflettiamo un momento su quanto evidenziato<br />
fino a questo punto, dobbiamo dire che la<br />
rivolta si scatena, anche se può apparire strano,<br />
data l’ostentazione dei principì rivoluzionari,<br />
proprio in nome della libertà: la libertà di vivere<br />
nella propria patria, con le proprie leggi, i propri<br />
costumi, i propri governanti, professando liberamente<br />
la religione dei padri ... Nel caso di<br />
Verona la libertà si identificava con il sistema<br />
politico veneto, con le sue miti leggi, con la pace<br />
che regnava nelle campagne e nelle città, dove i<br />
disagi e i fermenti che turbavano il vertice dello<br />
stato non erano ancora giunti e non erano avvertiti<br />
a livello popolare. Anche lo scontento di<br />
parte della nobiltà era estraneo al popolo. Per la<br />
sua libertà e, quindi, per la Religione vilipesa,<br />
per i beni comuni messi a sacco nella città spogliata,<br />
per Venezia e per le sue leggi calpestate il<br />
popolo insorse ... Ed era il popolo, non dimentichiamolo,<br />
non di una oscura cittadina di periferia,<br />
ma di Verona, l’antica capitale di Alboino e<br />
di Teodorico, la prima città del Sacro Romano<br />
Impero in Italia, la città di Cangrande, l’“ostello”<br />
sicuro di Dante ... Era il popolo di una grande<br />
città, ricca di storia e di cultura, che ora veniva<br />
selvaggiamente bombardata dai cannoni di un<br />
esercito occupante. Questo popolo pacifico e arguto,<br />
pronto allo scherzo e alla battuta di spirito,<br />
insorse spontaneamente, come spontaneamente<br />
era insorto nella primavera del 1793 il<br />
popolo della Vandea e dei dipartimenti dell’Ovest<br />
della Francia e come, nel 1809, insorgerà il popolo<br />
del Tirolo, per citare solo due esempi molto<br />
simili.<br />
Nessuno storico serio può negare la spontaneità<br />
del moto popolare e nessuno è riuscito, almeno<br />
fino ad oggi, a dimostrare l’esistenza di<br />
un complotto veneziano o aristocratico, neppure<br />
Napoleone, che pure ne avrebbe pagato a peso<br />
d’oro le prove ... Il popolo veronese insorse, quindi,<br />
spontaneamente e in massa, proprio perché<br />
ancora “popolo” nel senso tradizionale del termine,<br />
e non una accozzaglia disaggregata di individui.<br />
Il popolo insorse per sé e, insieme, per i<br />
propri padri e per i propri figli, per il suo passato<br />
e per il suo futuro, in nome della sua identità,<br />
senza secondi fini e senza essere stato spinto all’azione<br />
da forze esterne, e la rivolta è addirittura<br />
in aperto contrasto con l’azione delle pavide<br />
autorità venete.<br />
Così descrive l’inizio della rivolta il generale<br />
Maffei: “... Principiossi dal popolo l’attacco con-<br />
38<br />
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tro tutte le pattuglie de’ soldati francesi, che scorrevano<br />
la città o che erano state poste nelle situazioni<br />
opportune, al meditato disegno di rivoluzionarla,<br />
specialmente ai ponti; alcuni ne uccise,<br />
altri ne fece prigionieri, altri pose in fuga,<br />
obbligandoli a ricoverarsi in quelle case ov’erasi<br />
fortificata la loro compagnia, che neppur questi<br />
asili furon loro giovevoli, poiché il popolo senza<br />
punto badare alle palle ed alle bombe che piovevano<br />
dai castelli, senza curare la continua fucilata<br />
che usciva dalle case, che i Francesi avevano<br />
occupate e barricate, v’entra per i tetti, distrugge<br />
i loro ripari e spezza i loro travi, atterra<br />
ogni ostacolo e tutti uccide, che armati non vogliono<br />
deporre le armi. I traditori veronesi (intendasi<br />
naturalmente dei “patriotti”, di coloro<br />
che favoreggiavano i Francesi) non si mostrano<br />
però in soccorso dei loro leali protettori, ché non<br />
piace loro l’odor della polvere, e tutti tremanti<br />
si tengono ranicchiati nei loro nascondigli, dove<br />
non degnò di ricercarli il popolo veronese. Così<br />
in poco più di un’ora fu esso padrone di tutto<br />
l’interno della città, non rimanendo al nemico<br />
che i tre castelli [cioè Castel Vecchio, Castel S.<br />
Pietro e Castel S. Felice] e le quattro porte [Porta<br />
Vescovo, Porta S. Zeno, Porta S. Giorgio e<br />
Porta Nuova] ...”.<br />
Nei giorni successivi i veronesi si impadronirono<br />
anche di tutte le porte, eccetto quella di S.<br />
Zeno, e da esse entrarono in città altre bande di<br />
villici armati guidate da nobili veronesi, tra cui<br />
spiccavano i nomi dei conti Emilei, Nogarola,<br />
Perez, Pullè ... Sotto un bombardamento continuo<br />
gli insorti tentarono addirittura l’assalto alla<br />
fortezza di Castel Vecchio e ai forti sul colle di S.<br />
Pietro, ma furono respinti. Il 20 aprile una colonna<br />
francese che avanzava su Verona si scontrò<br />
alla Croce Bianca con truppe venete e volontari<br />
e li respinse facilmente. Verona era, così, circondata<br />
e isolata, ma la volontà di combattere<br />
non scomparve per questo. Dopo un’altra giornata<br />
di combattimenti, il 21 aprile, le autorità<br />
venete aprirono trattative con i Francesi, che tenevano<br />
ancora i castelli ed erano in comunicazione<br />
con le truppe che assediavano Verona.<br />
I Provveditori veneti tentarono, facendosi avanti,<br />
di giungere ad una capitolazione che da una<br />
parte salvasse la città, con la vita e i beni degli<br />
abitanti, dall’altra salvaguardasse anche il principio,<br />
almeno quello, della sovranità veneta su<br />
Verona.<br />
Le trattative, condotte dai Plenipotenziari Emilei,<br />
Sanfermo e Garavetta, non furono facili, con<br />
la stesura di proposte e di controproposte dei ge-<br />
nerali francesi e dei Provveditori veneti. Finalmente<br />
il 24 aprile i Provveditori Iseppo Giovannelli<br />
e Nicolò Erizzo siglarono i preliminari della<br />
capitolazione, mentre l’Emilei e il Sanfermo<br />
erano ostaggi volontari dei Francesi, ma poi, nella<br />
notte tra il 24 e il 25, abbandonarono la città,<br />
prima che la convenzione coi Francesi entrasse<br />
in vigore. Non conosciamo con certezza la motivazione<br />
di questa decisione alla quale, probabilmente,<br />
non fu estraneo il fatto che i due patrizi<br />
erano i primi nella lista degli ostaggi richiesti<br />
dai Francesi. Certo è che il secondo, precipitoso<br />
esodo dei Provveditori Giovannelli ed Erizzo, che<br />
trascinarono con loro il giovane ed inesperto capitano<br />
Alvise Contarini, ha il significato, di fatto,<br />
per il grado altissimo dei personaggi coinvolti,<br />
rappresentanti diretti del governo veneto, e per<br />
le circostanze da “8 settembre” in cui si verifica,<br />
di un abbandono del territorio veronese alla sua<br />
sorte, di una abdicazione. I Provveditori fuggiaschi<br />
rifiutano così ogni tipo di responsabilità, personale<br />
e per conto della Repubblica, e lasciano<br />
un vuoto di potere che dà spazio e titolo ai rappresentanti<br />
veronesi di trattare per la città e ai<br />
Francesi per considerare i Provveditori veronesi<br />
e i capi degli insorti come unica controparte legittimata.<br />
Così, con la fuga (spontanea o imposta?) dei<br />
due “Provveditori Generali” si chiude, unilateralmente,<br />
quel rapporto iniziato il 23 giugno<br />
1405 con la dedizione di Verona alla Serenissima<br />
e l’accettazione di questa. Si potrebbe giungere<br />
ad affermare (e qui il Sanfermo non ha del tutto<br />
torto) che il 24 aprile 1797 Venezia tradisce Verona<br />
e i suoi abitanti, stracciando con la fuga dei<br />
suoi rappresentanti, patti bilaterali e quasi quattro<br />
secoli di fedeltà.<br />
<strong>La</strong> “Municipalità” Provvisoria che viene designata<br />
il 25 aprile 1797 dal “Consiglio” di Verona<br />
come sua emanazione, col compito di trattare con<br />
i Francesi e di riportare l’ordine, è un governo<br />
locale che si pone, dunque, ed è bene sottolinearlo,<br />
non contro Venezia, ma al posto di Venezia<br />
e tratterà con i Francesi in nome di Verona.<br />
Questi i fatti che, con una analisi molto superficiale,<br />
la Treccani sminuisce attribuendo alle<br />
“Pasque” una certa importanza solo perché esse<br />
furono un pretesto usato da Napoleone a suo vantaggio<br />
contro Venezia. È, evidentemente, un giudizio<br />
molto superficiale che non ci sentiamo di<br />
condividere, perché le “Pasque” presentano vari<br />
aspetti di cui quello militare è forse il più appariscente,<br />
ma non il solo e non certo il più importante.<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 39
Vi furono aspetti nazionalistici, componenti<br />
religiose e sociali, vi era, e molto esplicito, il desiderio<br />
di continuare a vivere sotto un governo<br />
adatto all’indole dei veronesi, un governo tollerante<br />
per gente pacifica e tollerante se rispettata<br />
nei suoi sentimenti e nelle sue credenze, per un<br />
popolo umile, ma non sprovvisto di una sua cultura<br />
e di una saggezza di derivazione bertoldiana,<br />
cui non servivano maestri di civiltà e di cultura<br />
venuti da fuori.<br />
Tornando alle “Pasque” l’epilogo è triste, in alcuni<br />
casi mortale, per chi è stato coinvolto nella<br />
vicenda: Verona, i Veronesi e la Repubblica di Venezia.<br />
Verona è stata bombardata, dall’alto, per una<br />
settimana, e ancora oggi tracce di quegli eventi<br />
sono ben visibili: proiettili infissi nei muri, facciate<br />
sbrecciate, un’inferriata del palazzo Pindemonte,<br />
in via Emilei, semidivelta, il palazzo Perez<br />
bruciato nella piazzetta davanti a Castel Vecchio<br />
... <strong>La</strong> città paga l’insurrezione con il ritorno<br />
dei Francesi che, il 27 aprile, ne riprendono pieno<br />
possesso, entrandovi in forze, ma, almeno<br />
questa volta, in modo meno solenne e provocatorio,<br />
anche se le intenzioni manifestate non lasciano<br />
sperare nulla di buono. Un proclama del<br />
generale Augerau diceva: “... <strong>La</strong> giustizia, la sicurezza<br />
delle mie truppe, il mio dovere, la necessità<br />
mi prescrivono di punire gli uomini perversi<br />
che fomentarono la rivolta, seminarono la<br />
discordia, suggerirono il tradimento, ed eseguirono<br />
il massacro ...”.<br />
A questo proposito si deve confutare con decisione<br />
la leggenda che i caduti francesi siano stati<br />
tanti da poter parlare di un “massacro”: le stime<br />
vanno da un minimo di 60 a 200 (dato più probabile)<br />
o 400 (il dato più alto). Quanto ai feriti francesi<br />
ricoverati nell’ospedale di S. Bernardino è<br />
falso, e lo dichiarano fonti filofrancesi, che siano<br />
stati massacrati dagli insorti. Non possiamo<br />
escludere che qualche francese isolato possa essere<br />
stato fatto a pezzi dal popolo nelle prime ore<br />
della rivolta, ma non dovrebbero rinfacciarlo a<br />
noi quelli che a Parigi massacrarono, dopo la resa,<br />
centinaia di Svizzeri della Guardia, il 10 agosto<br />
1792.<br />
I veronesi vengono subito puniti con una contribuzione<br />
straordinaria di 40.000 ducati veneti<br />
e devono consegnare ostaggi tra cui i “Provvedi-<br />
( 5 ) In via S. Carlo, al civico n. 4 è ancora leggibile la seguente<br />
iscrizione: GIO. ANDREA AVOGADRO - PATRIZIO VENETO -<br />
VESCOVO Dl VERONA - LA NOTTE DEL 7 MAGGIO 1797 -<br />
PER SOSPETTl POLITICI - TRATTO PRIGIONIERO IN CA-<br />
tori di Comun” Giuliari ed Emilei, il vescovo Avogadro,<br />
il generale Maffei, alcuni nobili avversi ai<br />
Francesi tra cui due marchesi Carlotti e quattro<br />
fratelli Minischalchi, il conte Rocco Sanfermo,<br />
funzionario veneto. Quattro ostaggi: il conte<br />
Francesco Emilei, il conte Augusto Verità, l’avvocato<br />
Giovanni Battista Malenza e il frate cappuccino<br />
Luigi Flangini pagano con la vita la loro<br />
partecipazione, diretta o indiretta, alla sollevazione<br />
della città, venendo condannati a morte e<br />
giustiziati dopo quello che anche il Cipolla chiama<br />
“... un simulacro di processo ...”.<br />
Il vescovo Avogadro viene arrestato il 7 maggio<br />
e trascinato dalla soldataglia, a piedi, nel forte di<br />
Castel S. Pietro ( 5 ); quanti altri siano stati vittime<br />
di atti di “giustizia sommaria” non è possibile<br />
sapere, ma certamente ve ne furono e, probabilmente,<br />
non pochi. Questo fu solo l’inizio perché,<br />
quando fu dettagliatamente informato dei fatti,<br />
Napoleone presentò un elenco ben più duro di<br />
richieste: la contribuzione aumentata a 120.000<br />
zecchini, altri 50.000 distribuiti ai soldati. Sequestrati<br />
i beni del Monte di Pietà, consegna di tutti<br />
i cavalli da sella e da vettura, fornitura di 40.000<br />
paia di scarpe, confisca di tutta l’argenteria delle<br />
chiese e di tutti i beni appartenenti al governo<br />
veneto, nonché di tutti i quadri e delle collezioni<br />
private e pubbliche ... Infine una speciale Commissione<br />
militare doveva ricercare i 50 principali<br />
colpevoli dell’uccisione dei soldati francesi il 17<br />
aprile per inviarli alla Guiana ... (Questa sola pena<br />
non ebbe seguito). Fu la rovina economica per<br />
Verona, che solo con l’avvento degli Austriaci cominciò<br />
a risollevarsi da tale rapina.<br />
Quanto a Venezia, la Serenissima Repubblica<br />
di San Marco pagherà tutti i suoi errori e, se ne<br />
aveva, tutte le sue colpe, con la sua stessa esistenza.<br />
Il 12 maggio successivo il governo veneto,<br />
votando una mozione presentata e sostenuta<br />
dallo stesso doge, si suicida, passando il potere<br />
ad una “Municipalità” che ormai controlla solo<br />
il territorio lagunare e i fedelissimi domini d’oltremare.<br />
Così si chiude la vicenda politica e militare delle<br />
“Pasque Veronesi” e, anche, la storia di Venezia,<br />
come sintetizza l’iscrizione esistente in piazza<br />
Pasque Veronesi: “IL NOME DI QUESTA PIAZZA<br />
RAMMENTA - LA INVASIONE FRANCESE - I LI-<br />
BERI SENSI CITTADINI - L’ULTIMO GIORNO DI<br />
STEL S. FELICE - DAL CONSIGLIO DI GUERRA FRANCESE<br />
- SI RIPOSÒ PER POCO - SEDUTO SUGLI ESTERNI GRADI-<br />
NI - DI QUESTA CASA - A DURATURA MEMORIA - IL PRO-<br />
NIPOTE JACOPO AVOGADRO SAC. - NELL’ANNO 1886 POSE.<br />
40<br />
42 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
VENEZIA REPUBBLICA - APRILE 1797”.<br />
Vorrei aggiungere, in chiusura, anche come<br />
spunto per ulteriori riflessioni, qualche altra considerazione<br />
sulle “Pasque” e sul loro epilogo a<br />
livello locale. Ancora il 25 aprile, quando si costituisce<br />
la “Municipalità democratica”, la città<br />
di Verona era piena di soldati regolari, di milizie<br />
territoriali venete, di villici accorsi dalle campagne<br />
e di popolani veronesi armati. Si trattava di<br />
gente ancora disposta a combattere e che, scelta<br />
un’altra soluzione, bisognava rastrellare per tutta<br />
la città e disarmare senza dare luogo ad altri<br />
disordini.<br />
Le nuove autorità veronesi, in maggioranza di<br />
estrazione borghese e, quindi, molto propense a<br />
considerare i beni materiali più dei principì e degli<br />
ideali, si trovarono alle prese con il difficile<br />
compito di disarmare un popolo di cui non avevano<br />
il controllo, e lo fecero, a quanto pare, pressati<br />
più dal timore di torbidi a sfondo sociale, che<br />
avrebbero certamente colpito beni e interessi delle<br />
classi abbienti, che per necessità di consegnare<br />
ai Francesi una città inerme, come richiedevano<br />
i termini della capitolazione.<br />
Anche i Francesi, infatti, avevano avvertito la<br />
gravità della situazione e il pericolo costituito dai<br />
“villici” armati, tanto che inserirono nella bozza<br />
della capitolazione proposta dal generale Kilmaine<br />
e firmata dal genera le Balland e dai Provveditori<br />
veneti fino dal 24 aprile una clausola in base<br />
alla quale “... tutti i pezzi di cannone ... della città<br />
saranno inchiodati subito dai veneziani, affinché<br />
i villici non possano servirsene dal momento<br />
presente infino a quello in cui ne prenderanno<br />
possesso i Francesi ...”. A quanto pare esisteva,<br />
effettivamente, il pericolo che i montanari<br />
della Lessinia o i popolani di San Zeno, per citare<br />
due gruppi particolarmente distintisi per ardore<br />
combattivo e per attaccamento a Venezia,<br />
non accettassero la capitolazione, interpretandola<br />
come un tradimento a danno di Venezia. Il popolino<br />
era insorto, come sappiamo, al grido di “Viva<br />
San Marco” e “morte ai Francesi” e i villici venuti<br />
da fuori si erano mossi a sostegno della Repubblica<br />
e della Religione e non certo per particolare<br />
simpatia verso la città o verso il ceto dominante<br />
cittadino. (Ricordo che pochi giorni<br />
dopo, a Venezia, quando si spargerà tra il popolo<br />
la notizia che il Maggior Consiglio ha votato la<br />
propria decadenza e la fine della Repubblica, la<br />
folla inferocita, al grido di “Viva San Marco, viva<br />
la Repubblica”, devasterà case e botteghe di patrizi<br />
e di borghesi noti per le loro simpatie verso<br />
la rivoluzione.).<br />
Anticipando la scelta fatta dai Borboni di Napoli<br />
qualche tempo dopo, si sarebbe potuto ancora<br />
lasciare scatenare i “lazzari” contro i Francesi<br />
in un estremo tentativo di resistenza, ma la<br />
cosa poteva essere molto pericolosa: sia nel caso<br />
di vittoria che nel caso di sconfitta, e la Municipalità<br />
preferì accettare anche i Francesi e i loro<br />
principì piuttosto che mettere a repentaglio le<br />
loro vite e i loro averi ... Così mandarono il generale<br />
Maffei dai capi delle varie bande, per tentare<br />
di convincerli a cedere le armi e a ritornarsene a<br />
casa propria, cosa che non fu facile né, penso,<br />
gradevole, per il valoroso generale veronese. In<br />
questo modo i Francesi ebbero ai loro piedi la<br />
città inerme, la Municipalità borghese conservò<br />
una parvenza di potere e il popolo se ne tornò a<br />
casa ...<br />
<strong>La</strong> Treccani che parla, molto succintamente,<br />
di “lotta sostenuta solo dalle classi popolari, a<br />
volte anche in contrasto con le autorità ...” dimostra<br />
su questo punto di aver capito l’essenza<br />
popolare e, sotto sotto, antiborghese delle “Pasque”.<br />
È mia profonda convinzione che i fatti e le conseguenze<br />
delle “Pasque”, uniti a quasi vent’anni<br />
di dominazione francese, abbiano influito in<br />
modo determinante sugli avvenimenti successivi<br />
e sul comportamento dei Veronesi nella prima<br />
metà dell’ottocento, che fu, sostanzialmente, un<br />
rifiuto popolare del movimento risorgimentale.<br />
Quando, poi, nel 1814 ritornerà e si consoliderà<br />
il dominio austriaco, i Veronesi accoglieranno,<br />
infatti, con entusiasmo un nuovo assetto politico<br />
e gli resteranno fedeli, nella grande maggioranza,<br />
fino alla cessione del Veneto al Regno<br />
d’Italia: fu, anche questa, una “liberazione” decisa<br />
da altri.<br />
Bibliografia<br />
A.A.V.V: “Le insorgenze antifrancesi in Italia nel<br />
triennio giacobino 1796-1799”; Roma,1992.<br />
Bertolini G.B.: “Narrazione storica del<br />
1797”; Ms. Biblioteca Civica di Verona<br />
Cipolla C.: “Compendio della storia politica di<br />
Verona”; Mantova, 1976<br />
“Dizionario del Risorgimento Italiano”; Vallardi,<br />
Milano,1931<br />
Lumbroso G.: “Rivoluzioni popolari contro i<br />
Francesi”; Firenze,1932<br />
Pindemonte I.: “Lettera politica sulle vicende del<br />
1796”; Verona,1880<br />
Sanfermo R.: “Lettera scritta nel Castello di S.<br />
Felice di Verona ...”; Padova,1797<br />
Zorzi A.: “<strong>La</strong> Repubblica del Leone”; Milano,1979<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 41
Piva, müsa, baghèt: la cornamusa padana<br />
no dei tratti salienti che lega la nostra terra<br />
alle altre regioni europee di matrice cel-<br />
Upopolare.<br />
tica è sicuramente la tradizione musicale<br />
In questo caso, veramente lo spartiacque<br />
appenninico è la linea arcana di separazione<br />
fra tradizioni che fanno capo a civiltà diverse.<br />
Al di sopra di questa linea - che, guardacaso,<br />
coincide quasi perfettamente con quella di separazione<br />
linguistica - le origini più remote della<br />
vicenda artistica musicale sono da ricercarsi nel<br />
substrato celtico comune a gran parte dell’Europa<br />
occidentale, sia per il tipo degli strumenti<br />
impiegati, che per le forme musicali prodotte, e<br />
questa matrice si è in qualche modo mantenuta<br />
per tutto il Medioevo e l’Età Moderna per arrivare<br />
quasi ai giorni nostri. In questo articolo<br />
tratteremo di uno degli strumenti musicali più<br />
caratteristici della nostra tradizione, vale a dire<br />
della piva, ovvero la versione padana della cornamusa<br />
diffusa in tutta l’area celtica. Quasi praticamente<br />
estinta nel secondo dopoguerra, è stata<br />
segnalata in tutta la Padania ed ha resistito<br />
più a lungo sulle Alpi bergamasche e nelle valli<br />
appenniniche che vanno dal Reggiano al Pavese,<br />
e, oltre lo spartiacque, in Liguria. Il nome<br />
“piva” deriva probabilmente da una simbiosi<br />
onomatopeica fra la “canna-pipa” e il “piparepigolare”<br />
degli uccelli; nella versione reggiana<br />
si chiama piva dal carnér, vale a dire “cornamusa<br />
col sacco”, sull’Appennino parmense è<br />
detta similmente piva d’la baga (“baga” = sacco-otre),<br />
nel Bergamasco è detta baghèt (evidente<br />
la radice comune “baga”), mentre nel Pavese<br />
è chiamata ancora più esplicitamente müsa.<br />
Le origini della cornamusa sono da ricercarsi<br />
nell’antico Vicino Oriente, in Persia, anche se<br />
piuttosto presto questo strumento è diventato<br />
tipico dell’Europa, dove si è diffuso in quasi tutte<br />
le aree, differenziandosi da regione a regione<br />
dal punto di vista della struttura. Le parti fondamentali<br />
di cui è costituita una cornamusa<br />
sono tre: il chanter, la sacca e i bordoni. <strong>La</strong><br />
melodia è prodotta dal cosiddetto chanter (che<br />
in inglese significa appunto “canterino”), una<br />
di Claudio Caroli<br />
I pezzi che insieme al sacco (al chanter) costituiscono<br />
una piva dell’Appennino Emiliano.<br />
sorta di oboe. <strong>La</strong> particolarità è data dal fatto<br />
che con le cornamuse non è possibile ottenere<br />
l’effetto “staccato”, ossia l’interruzione del suono,<br />
poiché il chanter è inserito nella sacca di<br />
riserva d’aria - la seconda componente della cornamusa<br />
- invece che essere fra le labbra del musicista,<br />
e la sacca deve sempre essere in pressione.<br />
Sempre nella sacca sono inseriti i bordoni,<br />
in numero variabile da uno a tre; le canne di<br />
bordone hanno scopo di accompagnamento, che<br />
consiste nel suono prolungato e non interrotto<br />
di un’unica nota, solitamente consonante con<br />
quella fondamentale del chanter. <strong>La</strong> piva ne ha<br />
due, a intervallo di un’ottava l’uno dall’altro,<br />
come la maggior parte delle cornamuse europee.<br />
<strong>La</strong> highland bag pipe, la famosissima “piva<br />
da guerra” scozzese, che è considerata la regina<br />
delle cornamuse, ne ha addirittura tre; quest’ultima<br />
è anche quella che ha il maggior volume<br />
sonoro, e che quindi richiede più aria. L’aria è<br />
introdotta nella sacca tramite un insufflatore<br />
tenuto in bocca dal suonatore. Più raramente<br />
invece questo è sostituito dal mantice; è il caso<br />
della altrettanto nota uillean pipe, la cornamusa<br />
irlandese, forse la più progredita della famiglia.<br />
Come dicevamo, si è andata delineando nel<br />
tempo una certa differenza tra le cornamuse<br />
delle varie regioni europee; la più marcata di<br />
42<br />
44 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Arnaldo Borella e Lorenzo Ferrari, gli ultimi suonatori dell’Appennino<br />
Parmense (foto Claudio Zavaroni, 1981)<br />
queste riguarda la canna del canto (o chanter).<br />
Infatti nell’area celtica questa è sempre una e<br />
solo una, ma dal volume sonoro notevole, è quasi<br />
sempre cromatica, cioè sono possibili quasi tutti<br />
gli intervalli di un mezzo tono, ed ha un’estensione<br />
che può variare da un’ottava a quasi due.<br />
Al di sotto dello spartiacque appenninico - e, per<br />
estensione, nell’area mediterranea - questa componente<br />
dello strumento è doppia, cioè abbiamo<br />
due chanter, con una estensione minore e<br />
un volume sonoro minore, ma con la possibilità<br />
di una armonizzazione essenziale, poiché i<br />
due chanter non sono all’unisono, ma intervallati<br />
in genere di una terza. I bordoni sono sempre<br />
due, ma a differenza della piva e di tutte le<br />
altre cornamuse europee, dove sono inseriti dietro,<br />
e vanno portati sulla spalla, qui stanno davanti,<br />
e fuoriescono dal cippo (raccordo di legno<br />
tra le canne e la sacca) assieme ai chanter.<br />
Questo strumento meridionale è più propriamente<br />
chiamato zampogna.<br />
<strong>La</strong> piva è caduta in disuso rispetto alle altre<br />
cornamuse; da molti anni non è più conosciuta<br />
a livello popolare come potrebbero essere oggi<br />
la uillean pipe o la bag pipe nei paesi anglosassoni,<br />
anzi era stata quasi completamente dimenticata.<br />
Grazie però alle preziosissime ricerche<br />
condotte da alcuni valorosi, tra cui ricordiamo<br />
quelle svolte quindici anni or sono da Bruno<br />
Grulli nell’Emilia occidentale, abbiamo scoperto<br />
per l’appunto che in Padania avevamo una<br />
nelle orchestrine da ballo della nostra montagna<br />
già dal secolo scorso: come altri aerofoni<br />
antichi, anche la piva non era temperata, il che<br />
rendeva molto difficile suonarla con altri strumenti<br />
che avevano già raggiunto una standardizzazione.<br />
Fortunatamente oggi assistiamo, se<br />
non ad una ripresa vera e propria, almeno ad<br />
una nuova attenzione a questi aspetti quasi dimenticati<br />
della nostra musica tradizionale, sia<br />
attraverso gruppi musicali che coltivano il repertorio<br />
della piva o ne traggono ispirazione, sia<br />
attraverso tentativi di ricostruzione di questo<br />
strumento eminentemente padano.<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
cornamusa tutta nostra, ancora<br />
abbastanza diffusa sulle nostre<br />
montagne fino a qualche<br />
decennio fa, quando molti, non<br />
necessariamente pastori, la sapevano<br />
suonare, e nelle feste<br />
popolari legate ai momenti più<br />
importanti della vita rurale<br />
(come sagre, matrimoni, questue<br />
dell’Epifania, veglie di Carnevale<br />
- vale a dire nell’ambito<br />
prevalente delle festività rituali<br />
profane) la gente danzava al<br />
suono della piva i caratteristici<br />
balli saltati che accomunano<br />
tutti i paesi celtici. Era rimasta<br />
comunque uno di quegli strumenti<br />
cosiddetti “poveri”, usati<br />
da e per le classi non dominanti,<br />
ed è stata abbandonata<br />
soprattutto per il prepotente<br />
avvento del violino, che l’ha so-<br />
stituita come strumento solista<br />
❏ B. Grulli, Appunti sulla presenza della “piva<br />
dal carnér” in provincia di Reggio Emilia, in:<br />
Strenna 1987 del Pio Istituto Artigianelli, Reggio<br />
Emilia 1987<br />
❏ A. Baines, Storia degli strumenti musicali,<br />
Rizzoli, Milano 1995<br />
❏ C. Sachs, Storia degli strumenti musicali,<br />
Mondadori, Milano 1995<br />
Ulteriori referenze bibliografiche rintracciabili in:<br />
❏ Guida alla musica popolare in Italia, vol I,<br />
Forme e strutture, a cura di R. Leydi, Libreria<br />
Musicale Italiana, Lucca 1996<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 43
Il nome vero dei nostri paesi<br />
Dopo avere creato tutte le cose, il Buon Dio<br />
cominciò a dare loro dei nomi e disse loro:<br />
“Siete vive perché avete un nome. Il vostro<br />
nome è la vostra anima. Non fatevi togliere<br />
il nome perché sareste morte. Non fatevi<br />
cambiare il nome perché sareste schiave di<br />
chi ve lo ha cambiato”.<br />
(Da un racconto ossolano)<br />
Continua il lavoro sistematico di divulgazione dei nomi in lingua locale dei comuni e delle località<br />
padane. Si tratta di elencazioni inevitabilmente incomplete: preghiamo chiunque possa farlo di darci<br />
informazioni su eventuali imprecisioni e di farci avere indicazioni su nomi mancanti. Le grafìe indicate<br />
sono quelle normalmente impiegate nelle varie lingue locali.<br />
<strong>La</strong> grafìa piemontèisa<br />
Il valore della maggior parte dei segni è quello che essi hanno in italiano. Si noti tuttavia<br />
quanto segue:<br />
e senza accento si pronuncia di regola aperta in sillaba chiusa (mercà) e chiusa in<br />
sillaba aperta (pera), ma vi sono alcune eccezioni<br />
é simile alla e chiusa italiana ma più aperta (caté, lassé)<br />
è simile alla e aperta italiana, ma più aperta (cafè, përchè)<br />
ë detta e semimuta simile a quella francese di le (fërté, flëtta)<br />
eu simile al francese eu (cheuse, reusa)<br />
o simile alla u italiana (conté, mon)<br />
ò simile alla o aperta italiana, in piemontese è sempre e solo tonica (còla, fòrt)<br />
u simile al francese u (butir, muraja)<br />
ua dopo una q (e in pochi casi isolati) vale ua di quando (quand, qual)<br />
ùa, ùe si pronuncia bisillabo ua (crùa, lesùa)<br />
j simile alla i iniziale di ien e alla i di mai (braje, cavèj), nella grafia piemontese<br />
tuttavia la j ha talora solo valore etimologico e nella pronuncia non si sente o si<br />
sente appena (ciò è vero specialmente dopo la res. fija = lat. volg. filja = lat. class.<br />
filia, si trova di solito in corrispondenza con un gl italiano)<br />
n n velare o faucale senza corrispondente ben preciso in italiano, ma simile alla n di<br />
fango (lun-a, sman-a)<br />
s iniziale di parola o postconsonantica suona s sorda (sapa, batse), tra vocali o in<br />
fine di parola dopo una vocale è sempre sonora (lese, posé, pas, “pace”)<br />
ss si usa tra le vocali o in fine di parola dopo una vocale per indicare la s sorda (lassé,<br />
possé, pass, “passo”)<br />
s-c si usa per indicare il suono di s come in scatola, ceguito da una c palatale come in<br />
cena (s-ciapé, ras-cé)<br />
44<br />
46 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
z si usa solo in posizione iniziale o postconsonantica per indicare la s sonora (zanziva,<br />
monze)<br />
v in posizione finale di parola si pronuncia simile alla u di paura (ativ, luv, “lupo”) e<br />
così avviene anche nel corpo di una parola quando non corrisponda ad una v italiana<br />
(gavte, luva, “lupa”); negli altri casi ha il suono della v italiana (lavé, savèj)<br />
ACCENTAZIONE. Si segna l’accento tonico o sulle sdrucciole (stiribàcola), sulle tronche<br />
uscenti in vocale (parlé, pagà, cafè), sulle piane uscenti in consonante (quàder, nùmer), sol<br />
dittongo ei se la è è aperta (piemontèis, mèis), sul gruppo ua quando la u vale ù (batùa), e su<br />
gruppi di ì più vocale alla fine di una parola (finìa, podrìo, ferìe). L’accento si segna anche in<br />
pochi altri casi isolati dove non occorrerebbe per regola e per indicare eccezioni (tèra, amèra,<br />
dove la e di sillaba aperta dovrebbe essere chiusa mentre è aperta) e può facoltativamente<br />
segnarsi sulle e delle finali -et -el per indicare il grado di apertura (bochèt, lét). L’accento<br />
serve inoltre a distinguere alcune coppie di omografi (sà verbo, sa “questa”, là avverbio, la<br />
articolo).<br />
<strong>La</strong> grafìa occitana<br />
o, ò u italiana: lop (lupo)<br />
ò o italiana: devòt (devoto)<br />
u u francese<br />
a (finale) si pronuncia generalmente o ceba (sebo - cipolla)<br />
a, o, è, é i, ì come in italiano<br />
uè si pronuncia üè, ö, è: nuèch (notte)<br />
c c(h) italiana ad a, o, ò, u, uè: es. calinhar (corteggiare) davanti ad e, i ha il<br />
suono della s italiana: ceba (sebo)<br />
ch c(i) italiana, davanti a tutte le vocali e in posizione finale<br />
qu c(h) italiana, davanti ad e, i<br />
g g(h) italiana, davanti ad a, o, ò, u, uè in posizione finale passa a k<br />
gu g(h) italiana, davanti ad e, i<br />
s s aspra italiana nella parola “sole”<br />
s dolce italiana, in posizione intervocalica, come in “rosa”<br />
ss s aspra italiana, in posizione intervocalica, senza far sentire il raddoppiamento<br />
ç s aspra italiana, es. esfòrç (sforzo), provençal (provanzale)<br />
lh gl(l) o i italiana es. palha (paglia)<br />
nh gn italiana, come nella parola “agnello”<br />
z usata in pochi casi, ha il suono della s dolce italiana, es. azur (azzurro), azard<br />
(azzardo)<br />
x corrisponde al suono s aspra italiano, es. explicar (esplicà) spiegare<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 45
Toponomastica della provincia di Cuneo<br />
Nome italiano Nome locale Nome italiano Nome locale<br />
Acceglio Assej - Asèi (O)<br />
Aisone Aison - Aizoun (O)<br />
Alba Alba<br />
Albaretto della Torre Albarèj<br />
Alto Auto - Aoto (L)<br />
Argentera Argentera - L’Argentìera (O)<br />
Arguello Arguèl<br />
Bagnasco Bagnasch<br />
Bagnolo Piemonte Bagneul - Banhùel (O)<br />
Baldissero d’Alba Baussé<br />
Barbaresco Barbaresch<br />
Barge Barge<br />
Barolo Bareul<br />
Bastia Mondovì Bastìa<br />
Battifollo Batifòl<br />
Beinette Beinëtte<br />
Bellino Blin - Blins (O)<br />
Belvedere <strong>La</strong>nghe Bërvèj<br />
Bene Vagienna Bene<br />
Benevello Benevél<br />
Bèrgolo Bergui<br />
Bernezzo Bërnes - Bernes (O)<br />
Bonvicino Bonvzin<br />
Borgomale Bergomà<br />
Borgo San Dalmazzo (ël) Borgh - Lou Bourc (O)<br />
Bòsia Beusia<br />
Bossolasco Bossolasch<br />
Boves Beuves - Boeves (O)<br />
Bra Bra<br />
Brìaglia Briaja<br />
Briga Alta Briga - Briga Aouta (O)<br />
Ra Briga (L)<br />
Brondello Brondél - Broundel (O)<br />
Brossasco Brossasch - Brousasc (O)<br />
Busca Busca<br />
Camerana Camran-a<br />
Camo Camo<br />
Canale Canal<br />
Canòsio Cianeus - Chanueios (O)<br />
Caràuna Cravaun-a - Cravaina (L)<br />
Caràglio Caraj - Carài (O)<br />
Caramagna Piemonte Caramagna<br />
Cardè Cardè<br />
Carrù Carù<br />
Cartignano Cartignan - Cartinhan (O)<br />
Casalgrasso Casalgrass<br />
Castagnito Castagnì<br />
Casteldelfino Casteldelfin<br />
Chasteldeifin (O)<br />
Castellàr Castlar<br />
Castelletto Stura Castlèt<br />
Castelletto Uzzone Castlèt<br />
Castellinaldo Castlinàud<br />
Castellino Tànaro Castlin Tane<br />
Castelmagno Castelmagn<br />
Chastelmanh (O)<br />
Castelnuovo di Ceva Castelneuv<br />
Castiglione Falletto Castion<br />
Castiglione Tinella Castion<br />
Càstino Casto<br />
Cavallerleone Cavalion<br />
Cavallermaggiore Cavlimor<br />
Celle di Macra Sele - Sèles (O)<br />
Centallo Santal<br />
Ceresole d’Alba Ceresòle<br />
Cerretto <strong>La</strong>nghe Srèj<br />
Cervasca Servasca - Sarvasca (O)<br />
Cervere Servere<br />
Ceva Seva<br />
Cherasco Cherasch<br />
Chiusa di Pèsio (la) Ciusa - <strong>La</strong> Chuza (O)<br />
Cigliè Sié<br />
Cissone Cisson<br />
Clavesana Cravzan-a<br />
Corneliano d’Alba Cornian<br />
Cortemìlia Cortmija<br />
Cossano Belbo Cossan<br />
Costigliole Saluzzo Costiòle<br />
Cravanzana Cravansan-a<br />
Crissolo Crisseul - Crisol (O)<br />
Cuneo Coni<br />
Demonte Demont - Demount (O)<br />
Diano d’Alba Dian<br />
Dogliani Dojan<br />
Dronero Droné - Drounìe (O)<br />
Elva Elva - Elvo (O)<br />
Entràcque Entràive - Antràigue (O)<br />
Envie Envìe<br />
Farigliano Farian<br />
Fàule Fàule<br />
Nota: I nomi senza particolare indicazione sono in piemontese o in altra lingua quando la dizione è<br />
identica. In caso di diversità, vengono riportate tutte le dizioni. <strong>La</strong> versione ligure (se diversa da<br />
quella piemontese) è indicata con (L), quella occitana con (O).<br />
46<br />
48 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Nome italiano Nome locale Nome italiano Nome locale<br />
Feisòglio Feisseu<br />
Fossano Fossan<br />
Frabosa Soprana Frabosa<br />
Frabouza Soubrana (O)<br />
Frabosa Sottana Frabosa<br />
Frabouza Soutana (O)<br />
Fràssino Frasso - Fràise (O)<br />
Gaiola Gajòla - Gaiola (O)<br />
Gambasca Gambasca<br />
Garèssio Garess - Garesci (L)<br />
Gènola Genola<br />
Gorzegno Gorzegn<br />
Gottasecca Botasëcca<br />
Govone Govon<br />
Grinzane Cavour Grinzane<br />
Guarene Guaren-e<br />
Igliano Ijan<br />
Isasca Isasca - Izascho (O)<br />
<strong>La</strong>gnasco <strong>La</strong>gnasch<br />
<strong>La</strong> Morra <strong>La</strong> Mora<br />
Lèquio Bèrria Lech<br />
Lèquio Tànaro Lequi<br />
Lesegno Ëlzegn<br />
Lèvice Lèis<br />
Limone Piemonte Limon - Limoun (O)<br />
Lìsio Lisi<br />
Macra Albaretto Macra<br />
L’Arma e l’Albarè (O)<br />
Magliano Alfieri Majan<br />
Magliano Alpi Majan<br />
Mango (ël) Mango<br />
Manta (la) Manta<br />
Marene Maren-e<br />
Margarita Margarita<br />
Màrmora <strong>La</strong> Marmou<br />
Marsàglia Marsaja<br />
Martiniana Po Martinian-a<br />
Martinhana (O)<br />
Melle (lo) Mél - Lou Mel (O)<br />
Moiola Mojòla - Mouiola (O)<br />
Mombarcaro Mombarché<br />
Mombasìglio Mombasili<br />
Monastero di Vasco Monasté<br />
Monasterolo Casotto Monasteireu<br />
Monasterolo<br />
di Savigliano Monastireu<br />
Monchiero Moncé<br />
Mondovì (ël) Mondvì<br />
Monesìglio Munisì<br />
Monforte d’Alba Monfòrt<br />
Montà (la) Montà<br />
Montaldo di Mondovì Montàud<br />
Montaldo Roero Montàud<br />
Montanera Montanèra<br />
Montelupo Albese Montluv<br />
Montemale di Cuneo Montma<br />
Mountoumal (O)<br />
Monterosso Grana Montross<br />
Mountourous (O)<br />
Monteu Roero Montèj<br />
Montezèmolo Monzemo<br />
Monticello d’Alba Montisel<br />
Moretta Morëtta<br />
Morozzo Moross<br />
Murazzano Murassan<br />
Murello Murél<br />
Narzole Narsòle<br />
Nèive Nèive<br />
Nevìglie Nevije<br />
Niella Belbo Niela<br />
Niella Tànaro Niela<br />
Novello Novéj<br />
Nucetto Nosèj<br />
Oncino Onsin - Ounçin (O)<br />
Ormea Ormea<br />
Ostana Ostan-a - Oustano (O)<br />
Paesana Paisan-a - Pizano (O)<br />
Pagno Pagn - Panh (O)<br />
Pamparato Pamparà<br />
Paroldo Paròd<br />
Perletto Përlej<br />
Perlo Perlo<br />
Peveragno Povragn - Pouvranh (O)<br />
Pezzolo Valle Uzzone Pseu<br />
Pianfei Pianféj<br />
Piasco (ël) Piasch - Lou Piasc (O)<br />
Pietrapòrzio Peiropurch<br />
Peiropùorc (O)<br />
Piòbesi d’Alba Piòbes<br />
Piozzo Piòss<br />
Pocapàglia Pocapaja<br />
Polonghera Polonghera<br />
Pontechianale Pontcianal<br />
Pount e le Chanal (O)<br />
Pradléves Pradleves - Pradievi (O)<br />
Prazzo Prass - Pras (O)<br />
Priero Prié<br />
Priocca Prioca<br />
Priola Priòla<br />
Prunetto Prunèj<br />
Racconigi Racunis<br />
Revello Arvél - Revel (O)<br />
Rifreddo Rifrèd - Rifret (O)<br />
Rittana Ritana<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 47
Roàschia Roas-cia - Rouascha (O)<br />
Roàscio Roass<br />
Robilante Robilant - Roubilant (O)<br />
Roburent Arburent<br />
Roccabruna (la) Ròcia ëd Droné<br />
<strong>La</strong> Rocho (O)<br />
Rocca Cigliè Ròca<br />
Rocca de’ Baldi Ròca<br />
Roccaforte Mondovì Rocafòrt - Rocafouart (O)<br />
Roccasparvera Rocasparvera<br />
<strong>La</strong> Roca (O)<br />
Roccavione Rocavion<br />
Roucavioun (O)<br />
Rocchetta Belbo Rochëtta<br />
Roddi Ròd<br />
Roddino Rodin<br />
Rodello Rodél<br />
Rossana Rossan-a - Rousano (O)<br />
Ruffia Rufìa<br />
Sale delle <strong>La</strong>nghe Sale<br />
Sale San Giovanni Sale<br />
Saliceto Sarzèj<br />
Salmour Salmor<br />
Saluzzo Salusse<br />
Sambuco Sambuch<br />
Lou Sambuc (O)<br />
Sampéyre San Pèire<br />
San Benedetto Belbo San Benedèt<br />
San Damiano Macra San Damian<br />
Sanfrè Sanfré<br />
Sanfrònt Sanfront - San Frount (O)<br />
San Michele Mondovì San Michel<br />
Sant’Albano Stura Sant’Alban<br />
Santa Vittoria d’Alba Santa Vitòria<br />
Santo Stefano Belbo San Steo<br />
Santo Stefano Roero San Steo<br />
Savigliano Savian<br />
Scagnello Scagnel<br />
Scarnafigi Scarnafis<br />
Serralunga d’Alba Seralonga<br />
Serravalle <strong>La</strong>nghe Saraval<br />
Sìnio Sin-i<br />
Somano Soman<br />
Sommariva del Bosco Somariva (dël Bòsch)<br />
Sommariva Perno Somariva la +uta<br />
Stroppo Stròp - Estrop (O)<br />
Tarantasca Tarantasca<br />
Torre Bòrmida Tor Bormia<br />
Torre Mondovì (la) Tor<br />
Torre San Giorgio (la) Tor<br />
Torresina Torzela<br />
Trèiso Trèiso<br />
Trezzo Tinella Trés<br />
Trinità Trinità<br />
Valdieri Vodiaz - Voudìer (O)<br />
Valgrana Valgran-a - Vergrana (O)<br />
Valloriate Valàuria - Valàouria (O)<br />
Valmala Valmala - Vërmala (O)<br />
Venasca Venasca - Venascho (O)<br />
Verduno Vërdun<br />
Vernante Vërnant - Ou Vërnant (O)<br />
Verzuolo Vërzeul<br />
Vezza d’Alba Vëssa<br />
Vicoforte Vi<br />
Vignolo Vigneul - Vinhoel (O)<br />
Villafalletto Vila<br />
Villanova Mondovì Vilaneuva<br />
Villanova Solaro Vilaneuva<br />
Villar San Costanzo Vilar<br />
Vinàdio Vinaj - Vinài (O)<br />
Viola Viòla<br />
Vottignasco Votignasch<br />
48<br />
50 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997
Biblioteca<br />
<strong>Padana</strong><br />
Carlo Lottieri<br />
Nonostante Scalfaro<br />
Treviglio (BG): Leonardo Facco<br />
Editore, 1996<br />
pagg. 104, Lit. 15000<br />
Il libro in esame è una raccolta<br />
di articoli che Carlo Lottieri<br />
aveva scritto per L’Indipendente<br />
prendendo spunto da vari argomenti<br />
di cronaca (dalle vicende<br />
della politica interna al<br />
suicidio di un vicesindaco giapponese,<br />
da un sondaggio sulla<br />
“voglia di secessione” in Padania<br />
al crollo di un aereo in Florida<br />
ai Freemen americani...)<br />
per poi esprimere proprie considerazioni<br />
più generali. Insomma,<br />
i fatti reali costituiscono<br />
delle vere e proprie imbeccate<br />
da cui l’autore tira fuori riflessioni<br />
sulla natura dell’uomo e<br />
del diritto, sulla libertà individuale<br />
e sulla funzione (e l’inevitabile<br />
crollo) del moderno stato<br />
nazionale.<br />
Il libro, nonostante la propria<br />
disorganicità strutturale, è un<br />
vero e proprio compendio di<br />
cultura libertarian, un vademecum<br />
dove si può trovare<br />
una trattazione ed una soluzione<br />
della stragrande maggioranza<br />
dei problemi classici del liberalismo.<br />
Ovviamente gli articoli di Lottieri<br />
essendo stati scritti per un<br />
quotidiano sono molto divulgativi;<br />
ciò costituisce però a nostro<br />
parere un punto di merito per<br />
l’autore che ha saputo con poche<br />
e semplici parole spiegare<br />
dei concetti del tutto estranei al<br />
pensiero filosofico “italiano” che<br />
ha avuto pochissimi veri liberali<br />
e quei pochi li ha presto di-<br />
menticati(pensiamo ad esempio ad<br />
un Einaudi, pressoché<br />
inesistente sui<br />
testi scolastici).<br />
Il termine stesso di<br />
“liberalismo” si presta<br />
in “Italia” a molte<br />
ambiguità, derivanti<br />
dall’uso (e<br />
abuso) che ne è stato<br />
fatto, tanto che si<br />
può dire di esso tutto<br />
e il contrario di<br />
tutto. <strong>Libera</strong>li sono<br />
stati definiti personaggi<br />
e pensatori di<br />
sinistra e di destra e<br />
anche veri e propri<br />
sostenitori dell’interventismo<br />
statale.<br />
Si preferisce pertan-<br />
to in questa sede<br />
utilizzare il termine libertarismo,<br />
mediato dall’americano libertarianism<br />
che indica la scuola<br />
di pensiero di Rothbard, Von<br />
Mises, Nock e altri; una corrente<br />
che è stata definita anche<br />
come “liberalismo radicale” o<br />
“liberalismo integrale” in omaggio<br />
alla sua coerenza assoluta<br />
con l’assioma del diritto alla<br />
proprietà privata, da cui si fanno<br />
discendere tutti gli altri diritti<br />
e doveri (e libertà) dei singoli.<br />
Tale filone di pensiero è<br />
interpretato in Padania da liberi<br />
pensatori quali lo stesso Lottieri,<br />
che affermano tesi del tutto<br />
controcorrente e talvolta anche<br />
impopolari, come la difesa<br />
di mestieri vilipesi quali lo spacciatore<br />
di droga, l’usuraio, la<br />
prostituta.<br />
Nonostante Scalfaro è dunque<br />
più che un libro una summa di<br />
pensieri che trovano la propria<br />
origine e la propria giustificazione<br />
nella questione della libertà<br />
individuale; non sta all’autore<br />
andare fondo: Lottieri si limita<br />
a proporre un’interpretazione<br />
integralmente liberale della realtà;<br />
è compito poi del lettore<br />
capirla e farla propria, o eventualmente<br />
trovare degli argomenti<br />
validi per contestarla.<br />
Questo libro si presta poco anche<br />
ad essere recensito, vista<br />
l’emorme quantità di argomenti<br />
trattati; ci limiteremo pertanto<br />
a fare qualche considerazione<br />
su alcuni degli articoli, facendo<br />
ben presente al lettore che la<br />
scelta non vuole assolutamente<br />
dare una caratterizzazione al<br />
testo, ma si basa semplicemente<br />
sugli scritti che più ci hanno<br />
colpiti.<br />
Convincente è ad esempio l’articolo<br />
in cui Lottieri si chiede,<br />
prendendo spunto dalla vicenda<br />
di Salman Rushdie, se “Gli intolleranti<br />
vanno tollerati?”. <strong>La</strong><br />
risposta è lapidaria: gli intolleranti<br />
non vanno tollerati ed ogni<br />
dubbio in tal senso nasce da una<br />
distorta visione della libertà individuale,<br />
che mette sullo stesso<br />
piano la libertà di Rushdie di<br />
scrivere “versetti satanici” e<br />
quella degli integralisti musul-<br />
Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 49
Biblioteca<br />
<strong>Padana</strong><br />
mani di ucciderlo. Le due cose<br />
sono invece radicalmente diverse:<br />
chiunque può scrivere ciò<br />
che pensa e, anche se le sue parole<br />
sono moralmente deprecabili,<br />
nessuno può impedirgli di<br />
renderle pubbliche; al contrario<br />
nessuno può uccidere o far del<br />
male a qualcun altro.<br />
Interessanti sono poi i numerosi<br />
articoli in cui si parla del diritto<br />
di secessione in generale e, in particolare,<br />
del caso della Padania.<br />
Lottieri si fa portatore di una<br />
contestazione globale ai metodi<br />
e alle forme dello stato moderno,<br />
che fa uso quotidiano e naturale<br />
della violenza e della coercizione.<br />
Lo stato moderno non<br />
si cura infatti minimamente della<br />
volontà dei singoli, ma solo<br />
del proprio utile, che poi coincide<br />
con l’utile dei boiardi e dei<br />
politicanti che lo gestiscono.<br />
Possono capitare talvolta politici<br />
illuminati che cercano di agire<br />
nel rispetto della libertà individuale,<br />
ma questa non è la regola<br />
(e sicuramente non è il nostro<br />
caso: l’Italia è uno stato in<br />
cui, per usare le parole del grande<br />
De Andrè, “in prima pagina<br />
venti notizie ventuno ingiustizie<br />
e lo stato che fa? Si costerna,<br />
s’indigna, s’impegna poi getta<br />
la spugna con gran dignità”).<br />
Anche le critiche al presunto<br />
“egoismo nordista” vengono<br />
confutate: al di là del fatto che<br />
non può essere classificata come<br />
egoismo l’arrabbiatura di ciascuno<br />
di noi quando vede i propri<br />
soldi, guadagnati col sudore<br />
della fronte, precipitare nell’oscuro<br />
baratro romano, in ogni<br />
caso l’egoismo, pur essendo a<br />
volte deprecabile, è sempre e<br />
comunque legittimo; è pertanto<br />
illiberale e oppressivo (oltre<br />
che immorale) imporre la solidarietà<br />
per decreto, tanto più se<br />
la solidarietà va sempre nelle<br />
stesse sporche tasche.<br />
Insomma, Nonostante Scalfaro<br />
è un libro a 360 gradi, che porta<br />
tutto sotto una luce diversa ed<br />
esprime ogni minimo giudizio<br />
secondo il criterio della libertà<br />
individuale: vanno favorite tutte<br />
e sole quelle politiche che<br />
Piero Favero<br />
L’oro di San Marco. Romanzo<br />
storico della Lega Lombarda<br />
Padova: Editoriale Programma,<br />
1994<br />
382 pagine. 16.000 lire<br />
Interessante e divertente romanzo<br />
ambientato nella seconda<br />
metà del XIII secolo fra Ve-<br />
nezia e le sue terre d’oltremare.<br />
Vi si racconta la<br />
storia (narrata in<br />
prima persona)<br />
di Petrangèsio,<br />
mosaicista della<br />
Basilica d’Oro di<br />
Venezia, che,<br />
coinvolto in storie<br />
di alchimia e<br />
intrighi, percorre<br />
fra cento avventure<br />
il Mediterraneoveneziano<br />
fino al lieto<br />
finale.<br />
<strong>La</strong> vicenda funge<br />
però solo da scusa<br />
per raccontare<br />
mille cose interessanti<br />
che<br />
vanno dal mito<br />
degli Iperborei,<br />
ai simboli più<br />
profondi della<br />
cultura del tempo,<br />
alle vicende<br />
storiche di Venezia<br />
e della secon-<br />
vanno nella direzione della libertà.<br />
Ogni altro approccio alla gestione<br />
della res publica (finché<br />
ci sarà - e speriamo che sia ancora<br />
per poco) è semplice violenza<br />
e oppressione. Quella libertaria<br />
è l’unica strada che la<br />
Padania potrà seguire per giungere<br />
alla propria indipendenza;<br />
ogni altra via ne farebbe un’altra<br />
Italia, con tutti i suoi difetti<br />
in piccolo. A noi la scelta.<br />
Giò Batta Perasso<br />
da Lega Lombarda che nel 1249<br />
ha sbaragliato a Fossalta l’esercito<br />
di Federico II.<br />
Il libro è colto e ben strutturato<br />
e costituisce una simpatica occasione<br />
per scoprire molti lati<br />
interessanti e meno noti dell’eterno<br />
animo della “venezianità”<br />
e tutta una serie di fatti che<br />
stanno alle radici dell’idea stessa<br />
di Padania.<br />
5052<br />
- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997