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9<br />

Bimestrale edito dalla <strong>Libera</strong> <strong>Compagnia</strong> <strong>Padana</strong><br />

Anno III - N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997<br />

L’anarco-capitalismo padano<br />

Dalla Padania<br />

di Sant’Ambrogio<br />

a quella odierna<br />

Milano, centro<br />

della Terra<br />

di Mezzo<br />

Le radici<br />

della cultura<br />

letteraria padana<br />

<strong>La</strong> Padania<br />

e i nuovi Paesi dell’Est


<strong>La</strong> <strong>Libera</strong><br />

<strong>Compagnia</strong><br />

<strong>Padana</strong><br />

Quaderni Padani<br />

Casella Postale 792 - Via<br />

Cordusio 4 - 20123 Milano<br />

Direttore Responsabile:<br />

Alberto E. Cantù<br />

Direttore Editoriale:<br />

Gilberto Oneto<br />

Redazione:<br />

Alfredo Croci<br />

(caporedattore)<br />

Corrado Galimberti<br />

Gianni Sartori<br />

Alessandro Storti<br />

Alessandro Vitale<br />

Spedizione in abbonamento<br />

postale: Art. 2, comma 34,<br />

legge 549/95<br />

Stampa: Ala, via V. Veneto<br />

21, 28041 Arona NO<br />

Registrazione: Tribunale di<br />

Verbania: n. 277<br />

Periodico Bimestrale Anno III - N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997<br />

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla<br />

“<strong>Libera</strong> <strong>Compagnia</strong> <strong>Padana</strong>” ma sono aperti anche a<br />

contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.<br />

Le proposte vanno indirizzate a: <strong>La</strong> <strong>Libera</strong> <strong>Compagnia</strong> <strong>Padana</strong>.<br />

Cavalleria padana e cavilleria italiana - Brenno 1<br />

Dalla Padania di Sant’Ambrogio a quella odierna<br />

Conversazione con Ettore A. Albertoni - Alessandro Storti 3<br />

L’anarco-capitalismo padano - Carlo Stagnaro 9<br />

Milano, centro della Terra di Mezzo - Gilberto Oneto 14<br />

<strong>La</strong> Padania e i nuovi Paesi dell’Est: il caso<br />

dei rapporti con la Croazia - Alessandro Vitale 22<br />

Le radici della cultura letteraria padana - Andrea Rognoni 27<br />

Liguri, Saraceni e Garalditani - Flavio Grisolia 31<br />

Le “Pasque Veronesi” - Alberto Lembo 34<br />

Piva, müsa, baghèt: la cornamusa padana - Claudio Caroli 42<br />

Il nome vero dei nostri paesi 44<br />

Biblioteca <strong>Padana</strong> 49


Cavalleria padana<br />

e cavilleria italiana<br />

U<br />

na delle differenze fondamentali fra il diritto<br />

longobardo e quello latino stava nella diversa<br />

considerazione che veniva data alla sostanza e<br />

alla forma: le leggi longobarde erano rudimentali ma<br />

chiare e finalizzate al concetto morale di far prevalere<br />

il giusto, quelle derivate da Roma e dintorni sono<br />

invece prolisse e cavillose, fatte apposta per far trionfare<br />

i distinguo, le eccezioni, i cavilli procedurali e<br />

l’abilità degli avvocati ad aggirare la legge. Non è un<br />

caso che gli avvocati più apprezzati siano proprio<br />

quelli che riescono a fare assolvere dei colpevoli.<br />

Quel che conta è la forma.<br />

L’Italia è il paese della pura formalità. Tutto funziona<br />

sulla base del rispetto dei valori formali: si passano<br />

più guai a sbagliare una virgola sul 740 che non<br />

a evadere miliardi. I processi (ad imputati “eccellenti”)<br />

vengono invalidati per vizi di forma e i poveracci<br />

(che non si possono pagare avvocati “cavillosi” e “bene<br />

introdotti”) vengono condannati anche per stupidaggini<br />

di poco conto, quando non ingiustamente.<br />

I documenti e le relazioni sono pieni di “chiarissimo”,<br />

“in fede”, “mi consenta” eccetera; l’Italia è il<br />

paese delle “eccellenze” e dei baciamani, del protocollo,<br />

delle formalità, dei fini pensatori che sezionano<br />

in quattro i capelli; è un paese bizantino e borbonico,<br />

con tutto il rispetto per i Bizantini e i Borboni<br />

che erano assai più seri di questa fuffa qui.<br />

Il formalismo è una malattia cui nessuno sfugge<br />

nella mediterranea penisola. Neppure i peggiori dittatori,<br />

criminali e despoti sono stati risparmiati.<br />

In tutto il resto del mondo, se un mascalzone vuol<br />

far fuori un avversario, lo fa fuori e basta. Rientra<br />

nel normale gioco dei prepotenti e dei tiranni. Qui<br />

no: anche i tiranni hanno bisogno di salvare la forma,<br />

di attaccarsi a qualche codicillo.<br />

Se Robespierre, Hitler, Stalin o Pol Pot dovevano<br />

liberarsi di qualcuno lo facevano (con tecnologie diverse)<br />

semplicemente dicendo che era un nemico<br />

della patria o del partito!<br />

In Italia non funziona: anche i fascisti hanno dovuto<br />

costruirsi un codice Rocco (un nome, una garanzia!),<br />

zeppo di articoli, sotto articoli, codicilli, paragrafi<br />

e rimandi. Gli italiani sono cavillosi anche<br />

nella prepotenza e nell’ingiustizia. Ovunque un prepotente<br />

è prepotente e basta. In Italia è anche micra-<br />

Mussolini e Vittorio Emanuele III<br />

nioso: alla violenza delle sue azioni deve aggiungere<br />

il sadismo della giustificazione formale.<br />

Non si incarcerava un avversario semplicemente e<br />

onestamente (se si può dire..) perchè era nemico del<br />

duce o del regime, ma perchè aveva contravvenuto<br />

all’articolo tale, paragrafo tale, con l’aggiunta di<br />

quanto previsto dall’articolo talaltro. Neanche la soddisfazione<br />

di dire: ti faccio fuori perchè mi sei nemico<br />

e perchè rappresenti un pericolo. Prepotenti, cavillosi<br />

e vigliacchi. Non riescono neanche a prendersi<br />

una responsabilità ma si nascondono dietro codici<br />

e pandette: così la colpa è sempre di qualcun altro,<br />

della legge, della forza maggiore, della ragion di stato,<br />

delle balle di Garibaldi.<br />

Oggi che a comandare in Italia ci sono i comunisti,<br />

non si comportano come Robespierre e Stalin, di cui<br />

sono figli e nipoti, ma si aggrappano ai codicilli mediterranei<br />

del codice fascista (e anticomunista) Roc-<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />

1


co. E, siccome sono più efficienti di democristiani e<br />

fascisti, riescono ad applicare anche tutta una serie<br />

di articolini che gli altri avevano un po’ dimenticato.<br />

Alcuni milioni di cittadini chiedono l’autodeterminazione<br />

(che è un diritto sancito dalle leggi internazionali)<br />

e ci dicono: certo, avete ragione ma purtroppo<br />

ci sono degli articoli di legge che ci costringono<br />

a condannarvi. Non dicono onestamente: la<br />

Padania fa paura perchè ci manda tutti in pensione,<br />

perchè mette a repentaglio le nostre prebende e i<br />

nostri privilegi, o perchè ci impedirà di continuare a<br />

sfruttare i coglioni che lavorano. Dicono: la vostra<br />

protesta è comprensibile ma - vedete - c’è un articolino<br />

del codice penale che la condanna e, sapete,<br />

l’azione penale è obbligatoria.<br />

Ed eccoli qui, comunisti assassini e sanguinari,<br />

post-comunisti, quasi-comunisti, figli di Beria e di<br />

Dzerzhinsky appena truccati da menscevichi, attaccarsi<br />

con voluttà al codice più fascista e liberticida<br />

del mondo in una bella accoppiata già sperimentata<br />

a suo tempo da Hitler e Stalin.<br />

Così ci ripetono che l’articolo 5 della Costituzione<br />

(mai votata dal popolo) dice che l’Italia è una e indivisibile<br />

(ma noi Padani cosa c’entriamo?..), che l’articolo<br />

241 punisce con l’ergastolo (per fortuna è stata<br />

abolita la pena di morte...) chi attenti all’unità dell’Italia<br />

(ma, ancora una volta, cosa c’entra la Padania?..).<br />

Adesso hanno scoperto anche l’articolo 271,<br />

quello che condanna da uno a tre anni di galera (un<br />

bel vantaggio in confronto all’ergastolo...) chiunque<br />

svolga qualche “attività diretta a distruggere o deprimere<br />

il sentimento nazionale”. E, anche qui, l’interpretazione<br />

è capziosa: non l’hanno depresso per<br />

decenni ladri, mascalzoni, corrotti e socialisti ma lo<br />

deprimono oggi quelli che vogliono libertà. In un<br />

paese in cui il sentimento nazionale è tenuto in piedi<br />

solo dal calcio e dagli spaghetti, dovrebbero finire<br />

dentro Sacchi e McDonald e non chi vuole il rispetto<br />

della volontà popolare.<br />

A questo punto ci permettiamo “rispettosamente”<br />

di suggerire di rispolverare anche gli articoli 269 (“attività<br />

antinazionale del cittadino all’estero”: siamo<br />

cittadini della repubblica italiana ma operiamo in<br />

Padania, e cioè all’estero), 278 (“offesa all’onore o al<br />

prestigio del presidente della repubblica”), 290 (“vilipendio<br />

della repubblica”), 291 (“vilipendio alla nazione<br />

italiana”), 292 (“vilipendio alla bandiera o ad<br />

altro emblema dello stato”) con l’aggravante prevista<br />

dall’articolo 293, in quanto i reati sono commessi<br />

in territorio estero, e cioè in Padania.<br />

Si potrebbero anche rispolverare gli articoli 270 e<br />

272 (che puniscono chi voglia stabilire la dittutura<br />

di una classe sociale sulle altre, perchè in realtà vogliamo<br />

stabilire la dittatura di chi lavora su tutti i<br />

Stalin e Ribbentrop<br />

parassiti che ci hanno fino a qui sfruttato e comandato)<br />

o gli articoli 273 e 274 (contro la costituzione e<br />

la partecipazione ad associazioni avente carattere internazionale,<br />

come la CEE, l’ONU e tutte le strutture<br />

internazionali in odore di pan-celtismo, di mitteleuropa<br />

o di transnazionalità che ci piacciono tanto).<br />

Ma l’utilizzo di questi articoli - ci rendiamo conto<br />

- creerebbe non pochi problemi di coscienza (si fa<br />

per dire) a chi non li ha mai usati quando era più<br />

opportuno contro i comunisti di tutte le risme (ricordate<br />

“la dittatura del proletariato”?), che pure<br />

impiegavano i mezzi più violenti (ma era “violenza<br />

proletaria”...) e che erano la succursale locale di una<br />

ditta internazionale con casamadre moscovita da cui<br />

ricevevano valanghe di quattrini per sovvertire (loro<br />

si!) le istituzioni nazionali contro la volontà della<br />

maggioranza del popolo.<br />

Noi vogliamo la libertà della nostra gente e vogliamo<br />

che questa libertà sia raggiunta con mezzi pacifici<br />

e in base al sacrosanto diritto di autodeterminazione.<br />

Se ci vogliono mettere in galera o ci vogliono sparare<br />

un colpo alla nuca (certe vecchie abitudini da<br />

sottoscala della Lublianka sono dure a morire...), si<br />

inventino almeno un articolo ad hoc che condanni<br />

la voglia di libertà e di autodeterminazione.<br />

Soddisferanno allo stesso tempo il nostro gusto<br />

celtico di combattere con furore anche le battaglie<br />

più disperate e la loro propensione latina a nascondersi<br />

dietro formalismi e codicilli.<br />

Come dire: cavalleria contro cavilleria.<br />

Brenno<br />

24<br />

- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


I l<br />

Dalla Padania di Sant’Ambrogio<br />

a quella odierna<br />

Conversazione con Ettore A. Albertoni<br />

7 novembre 1996 hanno preso avvio le celebrazioni<br />

per l’Anno Ambrosiano che avran-<br />

no termine quest’anno nel medesimo gior-<br />

no. Milano onora così il pater civitatis Sant’Ambrogio<br />

nella ricorrenza del 1600° anno dalla sua<br />

morte. Il ’97, però, riserva grandi sollecitazioni<br />

anche per ciò che riguarda l’attualità sociale e<br />

politica della città celtica. In aprile si svolgeranno<br />

le elezioni amministrative per il rinnovo della<br />

carica di Sindaco e, il mese seguente, avrà luogo<br />

il referendum per l’autodeterminazione della<br />

Padania indetto dal Governo provvisorio di Venezia.<br />

Altrettanto significative sul piano simbolico<br />

saranno le ricorrenze che segneranno, poi,<br />

il ’98: 150 anni dalle Cinque Giornate di Cattaneo<br />

e un secolo dalle cannonate con le quali il<br />

generale Bava Beccaris uccise almeno duecento<br />

milanesi e ne ferì circa mille in una domenica di<br />

maggio.<br />

Milano, dunque, vive una fase in cui le presenti<br />

rivendicazioni per l’autogoverno e l’autonomia<br />

dal potere centrale si intrecciano con i ricordi di<br />

una storia gloriosa, scritta da pochi uomini illustri<br />

e da un gran numero di uomini e donne comuni.<br />

Non possiamo, anche nella vicenda di Sant’Ambrogio,<br />

non leggere alcuni elementi che accomunano<br />

quel tempo lontano ai nostri giorni.<br />

E ciò, naturalmente, pur con le doverose riserve<br />

di tempi e di storie tanto lontane.<br />

L’età in cui Sant’Ambrogio agì fu segnata da<br />

una svolta epocale, così come quella che sta caratterizzando<br />

i nostri anni. Allora il mondo visse<br />

il passaggio dall’Impero romano sempre più accentrato<br />

e dispotico alla disgregazione dello stesso.<br />

Oggi è lo Stato nazionale ottocentesco e novecentesco,<br />

fortissimo ancora durante la guerra<br />

fredda, a sgretolarsi. Le statualità molto recenti<br />

dell’URSS, della Jugoslavia, della Cecoslovacchia<br />

e della Albania dimostrano che sgretolamenti e<br />

di Alessandro Storti<br />

secessioni si consumano più rapidamente in quelle<br />

realtà geopolitiche che nacquero nel grande<br />

travaglio bellico e post-bellico degli anni 1914-<br />

20 e che continuò per tutti gli anni ’20 e ’30, nell’età<br />

caratterizzata, cioè, dalla fine di tre grandi<br />

imperi (austriaco, turco e russo) e dalla nascita<br />

dell’impero ideologico sovietico.<br />

Certamente un paragone può essere fatto anche<br />

in relazione alle cause di tali enormi mutamenti:<br />

l’Impero romano cedette in occidente di<br />

fronte alle spinte territoriali che tendevano all’instaurazione<br />

di comunità autonome; oggi gli<br />

Stati perdono sempre più potere a vantaggio delle<br />

entità subordinate che si apprestano a riacquistare<br />

-attraverso processi di autodeterminazione<br />

e liberazione- autonomia e sovranità giuridica<br />

e politica. E come allora divenne centrale il<br />

ruolo della Chiesa e del cristianesimo quale guida<br />

culturale e morale per l’universitas dei popoli<br />

emergenti, così nella nuova età dell’autodeterminazione<br />

e dei diritti dei popoli (contenuti, ad<br />

esempio, nel Patto sui diritti economici sociali e<br />

culturali ed in quello sui diritti civili e politici<br />

approvati dall’ONU nel 1966, ribaditi nella Dichiarazione<br />

sulle relazioni amichevoli tra gli Stati<br />

del 1970 e confermati dall’Atto finale della conferenza<br />

sulla sicurezza e cooperazione europea<br />

di Helsinki nel 1975) gli uomini, con la ridefinizione<br />

delle nazioni attraverso il consenso, scoprono<br />

la globalizzazione, intesa come capacità<br />

di instaurare libere relazioni con tutti fondate<br />

sul contratto e non sulla coercizione (e sull’accentramento).<br />

Ma contemporaneamente riscoprono<br />

le identità, i momenti alti delle storie patrie,<br />

le personalità, le comunità, storiche e culturali,<br />

le radici etniche e linguistiche, le relazioni<br />

economiche. Che cosa ne pensa Ettore A. Albertoni,<br />

storico delle dottrine politiche e delle<br />

istituzioni?<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />

3


ALBERTONI - Il mutamento radicale del mondo<br />

antico avviene visivamente con la figura di Costantino<br />

che è double-face. Da un lato questi è<br />

l’imperatore che lascia Roma, fonda Costantinopoli,<br />

trasferisce fisicamente nel 330 d.C. gli abitanti<br />

dell’Urbe -soprattutto la classe dirigente- a<br />

Bisanzio sul Bosforo; contemporaneamente egli<br />

è l’uomo della corruzione. <strong>La</strong> figura di Costantino<br />

è particolarmente contraddittoria. Nella “Storia<br />

nuova” di Zosimo, autore di cui si sa molto<br />

poco, che si presume scritta tra il 507 e il 518<br />

d.C., viene descritto un imperatore molto lontano<br />

dall’apologetica convenzionale. C’è un Costantino<br />

che si volge al cristianesimo quasi casualmente.<br />

Dopo aver ucciso il figlio e la moglie adultera<br />

va, infatti, dai sacerdoti per chiedere di fare<br />

sacrifici che lo purifichino dai delitti commessi.<br />

Venendogli data una risposta dubbiosa e negativa,<br />

ne ha risentimento ed avendo sentito da un<br />

egiziano della corte che il Dio dei cristiani perdona<br />

i peccati, ecco che egli decide di appoggiare la<br />

nuova religione. È noto d’altronde che Costantino<br />

viene battezzato secondo il rito ariano soltanto<br />

in punto di morte. Il fatto che il rito sia quello<br />

ariano, ereticale, si ripete per altre conversioni<br />

importanti. <strong>La</strong> storia di Zosimo, fortemente ispirata<br />

al paganesimo, va considerata con prudenza.<br />

Ciò che però è indubbio è la polivalenza dell’imperatore.<br />

È un personaggio con una duplice<br />

natura. È l’uomo che guarda al futuro, e lo dimostra<br />

il fatto che Bisanzio, continuatrice dell’idea<br />

imperiale di Roma, resistette come Stato per 1000<br />

anni dopo il crollo dell’occidente romano, fino al<br />

1453, anno della conquista turca. Ma Costantino<br />

porta anche nella nuova Roma la corruttela e il<br />

disfacimento della sorella d’Occidente.<br />

Sul piano delle simmetrie storiche, pur dovendoci<br />

muovere con molta attenzione critica, si<br />

comprende meglio il significato delle vicende del<br />

passato se si ha una concezione della storia non<br />

lineare ma di tipo vichiano, fatta di corsi e ricorsi,<br />

con alternarsi di ritmi. Vediamo che il periodo<br />

del passaggio costantiniano è segnato da due fenomeni.<br />

Il primo è quello che diceva lei prima; il<br />

mondo di allora come quello mondo di oggi subisce<br />

una grande trasformazione nella direzione<br />

della globalizzazione (l’universalismo cristiano<br />

caratterizza e modella infatti quel periodo). L’altro<br />

è il passaggio da un universalismo politico,<br />

che vede comunque un centro dominatore in<br />

Roma e poi in Costantinopoli, alla progressiva e<br />

sempre meno contenibile formazione di entità più<br />

grandi dei municipi e delle colonie; entità che<br />

rappresentano una serie di nuovi soggetti comu-<br />

nitari e politici. Questo processo generatore di<br />

nuove strutturazioni istituzionali è carico di conseguenze<br />

giacché i territori ed i poteri si ridefiniscono<br />

allora in termini ecclesiastici sulle grandi<br />

Diocesi vescovili. <strong>La</strong> vicenda di Ambrogio e di<br />

Milano è esemplare.<br />

Importante, per inquadrare l’epoca di cui stiamo<br />

parlando, è anche la considerazione che i processi<br />

dei quali parliamo si intrecciano con la vicenda<br />

della cristianizzazione della Gallia, che diviene<br />

una forma di assorbimento dei barbari nella<br />

sfera non della romanità ma della cultura che<br />

è sintesi latino-cristiana nel suo affermarsi e diventare<br />

dominatrice. È molto indicativo al riguardo<br />

lo spostamento della capitale imperiale da<br />

Roma, ormai spopolata, a Milano, fiorente e politicamente<br />

centrale per molto tempo; il vero baricentro<br />

dell’Impero in Occidente.<br />

<strong>La</strong> storia del periodo di Ambrogio e dei secoli<br />

vicini andrebbe vista proprio in questi termini.<br />

C’è sicuramente il crollo di dimensioni politicoamministrative<br />

del monstrum imperiale che è,<br />

però, bilanciato dalla formazione di nuove entità<br />

attorno all’organizzazione delle chiese cristiane<br />

(bisogna sempre parlare in termini di pluralità)<br />

rappresentata dalle Diocesi. In tale contesto la figura<br />

di Ambrogio (334 o 340-397 d.C.) è fortemente<br />

caratteristica. Egli si forma a Treviri, sulla<br />

Mosella, sua città natale, centro importante di<br />

confine, a contatto con popolazioni galliche e<br />

germaniche dove l’elemento latino è molto più<br />

culturale che etnico (è una Gallia romanizzata<br />

che dialoga con i Germani). Il fatto quindi che<br />

un personaggio come Ambrogio, romano e di famiglia<br />

nobile, uno degli ultimi bilingui (greco e<br />

latino), alle origini alto funzionario imperiale -<br />

come già lo era stato suo padre- e addirittura consolare<br />

(cioè governatore), diventi anche il vescovo<br />

di una grande Diocesi come quella di Milano,<br />

è interessante perché ci fornisce una chiave di<br />

lettura del nostro passato e uno strumento di<br />

paragone con il presente.<br />

Potremmo dire che Ambrogio è l’uomo giusto<br />

al momento giusto? Unisce, infatti, in sè gli elementi<br />

culturali che gli permettono di affrontare<br />

con sguardo organico le tensioni di un periodo<br />

in cui mondi differenti vengono in contatto e,<br />

spesso, in collisione.<br />

ALBERTONI - È certamente così. Infatti bisogna<br />

considerare che il cristianesimo è una religione<br />

di ispirazione orientale nella sua radice ebraica<br />

ed è inequivocabilmente e radicalmente mono-<br />

46<br />

- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


<strong>La</strong> diocesi di Milano (IX) all'epoca di Sant'Ambrogio. Figura tratta da/ Angelo Paredi, Sant'Ambrogio<br />

(Rizzoli, Milano, 1985)<br />

teistica. Si tratta di una religione che ebbe notevoli<br />

problemi ad entrare in sintonia con la religiosità<br />

marcatamente panteistica e naturalistica<br />

delle popolazioni barbariche e anche con la religione<br />

altamente ufficializzata e statalizzata del<br />

mondo imperiale romano. Secondo me l’elemento<br />

di grande interesse è che un uomo come Ambrogio,<br />

diventato vescovo con un potere spirituale<br />

molto ampio dopo essere stato alto funzionario<br />

imperiale, introduce un elemento di autorevolezza<br />

e di un certo rigorismo anche istituzionale. Di<br />

fatto egli attribuisce alla propria diocesi, i cui confini<br />

andrebbero attentamente presi in considerazione<br />

dal momento che comprendono quasi perfettamente<br />

l’attuale Padania, salvo alcuni sconfinamenti,<br />

i caratteri di una vera e propria Chiesa<br />

nazionale. Con Ambrogio si ha, quindi, una continuità<br />

nell’ambito culturale, spirituale con la<br />

cultura d’oriente rielaborata, però, in funzione<br />

delle popolazioni padano-galliche. Ma anche continuità<br />

territoriale, poiché mentre crollano tutte<br />

le dimensioni istituzionali, civili e militari, pro-<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />

5


prie dell’Impero la Diocesi diventa un elemento<br />

centrale sia di potere (oltre che di religiosità) ma,<br />

soprattutto, di conservazione di costumi e stili<br />

antichi. Questi sono elementi da prendere in seria<br />

considerazione se si vuole comprendere l’importanza<br />

della figura storica di Sant’Ambrogio,<br />

considerandolo non solo sotto il profilo religioso,<br />

ma anche sotto quello politico.<br />

Per venire all’attualità: che cosa impedisce di<br />

instaurare un paragone con quell’epoca e in particolare<br />

con il ruolo delle Diocesi? Oggi certo la<br />

situazione è diversa, non si parla di territori governati<br />

dai vescovi, ma di aree e regioni legate da<br />

interessi relativi alle vocazioni dei popoli e ai loro<br />

costumi, all’impresa e alla cultura, alle comunicazioni<br />

e agli scambi. È chiaro comunque che la<br />

consunta inadeguatezza della dimensione amministrativa<br />

imposta dal potere centrale lascia ormai<br />

il passo, oggi come allora, a riaggregazioni<br />

territoriali fondate su nuovi elementi. All’epoca<br />

di Ambrogio erano le Diocesi sotto la guida della<br />

chiesa cristiana, oggi, assai probabilmente, sono<br />

(o saranno) le nuove aggregazioni sovraccomunali<br />

per aree omogenee a dover essere organizzate<br />

secondo la volontà e le necessità di cittadini<br />

che s’incontrano, commerciano, producono e che<br />

vogliono anche nel mondo globale e tecnologico<br />

non perdere il senso morale delle loro radici. Tutto<br />

questo genera necessariamente nuove istituzioni<br />

basate su un comune modo di sentire, di vivere<br />

e di concepire la convivenza sociale.<br />

L’emergere delle regioni europee sul piano identitario<br />

ed economico è uno dei più importanti<br />

segnali del crollo dello Stato nazionale di origine<br />

giacobina. Come all’epoca del Santo milanese,<br />

anche oggi il cedimento del potere burocratico<br />

e centralizzato di fronte alle esigenze territoriali<br />

si manifesta con toni aspri. <strong>La</strong> vicenda degli<br />

allevatori padani, simbolo di una terra che da<br />

sempre produce latte e sviluppa un’agricoltura<br />

avanzata e feconda, è paradigmatica. Invece di<br />

lasciare che sia il mercato a determinare i livelli<br />

di produzione e che le aree effettivamente coinvolte<br />

dall’attività agricola in questione provvedano<br />

ad autogovernarsi, lo Stato Italiano, complice<br />

degli altri Stati europei, pretende di entrare<br />

nel rapporto domanda-offerta squilibrandolo<br />

ed alterandolo con proposte incredibili come<br />

quella del premio per l’abbattimento di capi di<br />

bestiame. Insomma, il vecchio mondo non vuole<br />

morire e risponde alla rinascita dei territori e dei<br />

produttori con multe e repressioni. Come nel<br />

crollo di antichi Imperi (tra di essi senz’altro<br />

quello romano) vi è un’eccesso di normazione che<br />

uccide ogni spirito d’intrapresa e di affermazione<br />

individuale e comunitaria, autonoma rispetto<br />

alla centralizzazione burocratica e di potere.<br />

ALBERTONI - Andando alla radice del problema<br />

odierno, noi ci troviamo in questo momento di<br />

fronte ad un passaggio epocale che è costituito<br />

dalla globalizzazione. L’affievolimento delle sovranità<br />

storiche ha come contraltare la riacquisizione<br />

di spazi di sovranità da parte delle entità periferiche<br />

(o pretese tali). Questo fenomeno si vede<br />

ovunque, non solo nelle statualità unitario-centraliste,<br />

ma anche nell’ambito degli Stati federali<br />

in cui le entità federate stanno prepotentemente<br />

riprendendo (o reclamando) poteri e autonomie<br />

sempre maggiori. Anche in Europa gli squilibri<br />

attualmente esistenti fra Stati che sono assai diversi<br />

per dimensioni e popolazione sono destinati<br />

a scomparire quando saranno le aree identitario-economiche<br />

a prevalere, dando vita ad entità<br />

più piccole ma più omogenee. Quando cioè alla<br />

attuale piramide statuale, -legislativa, burocratica<br />

e pianificatrice senza riconoscere margini di<br />

autonomie nè ai territori, nè alle funzioni- subentrerà<br />

la rete, ossia il policentrismo derivante<br />

dalla pluralità comunitaria, socio-culturale ed<br />

economica. In quest’ottica anche problemi come<br />

quello del latte padano potranno essere riletti<br />

completamente in chiave territoriale, dal momento<br />

che il latte italiano è quasi esclusivamente padano.<br />

<strong>La</strong> lente distorcente degli Stati nazionali<br />

deve cadere di fronte all’emergere delle nuove<br />

entità che si federalizzano “in rete” ed in forma<br />

ascendente, dal basso verso i molteplici centri che<br />

formano il reticolo e che danno forza al tutto.<br />

Questo, secondo me, è allora l’elemento di simmetria<br />

con l’età di Ambrogio. Noi abbiamo la<br />

scomposizione completa delle dimensioni statuali<br />

e della sovranità come è successo nel III-IV secolo<br />

d.C., abbiamo, però, la prospettiva della ricomposizione<br />

comunitaria su base territoriale, funzionale<br />

e reticolare come allora vi fu la ricostruzione<br />

del mondo civile attorno ai vescovi, alle<br />

Diocesi, alle città, alle parrocchie e alle abbazie;<br />

alla rete costruita allora capillarmente e con grande<br />

impegno dalla vincitrice religione cristiana<br />

sulle vestigia (e sulle rovine) della civiltà (e del<br />

mito imperiale).<br />

Un aspetto molto interessante delle vicende storiche<br />

romane è senza dubbio quello della produzione<br />

delle norme e del diritto. Tutta la storia<br />

romana è caratterizzata dal continuo sovrapporsi<br />

68<br />

- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


e affiancarsi di regole e di soggetti istituzionali<br />

delegati a scoprire o creare il diritto. Anche con<br />

l’Impero la giurisprudenza non perde il proprio<br />

peso di fronte ai tentativi di codificazione ripetutamente<br />

attuati. Le stesse leggi provenienti dal<br />

gradino più alto della struttura statuale romana<br />

sono il frutto di un intreccio fra sentenze, leggi<br />

vere e proprie, editti particolari, consulti del Senato.<br />

Probabilmente questa struttura giuridica<br />

favorì il disgregarsi dell’Impero ma permise anche<br />

che il passaggio non fosse troppo brusco,<br />

come dimostra la stessa vicenda della divisione<br />

fra Occidente ed Oriente. Oggi, al contrario, predomina<br />

ancora una visione formalistica, totalizzante<br />

e monistica del diritto all’interno degli Stati<br />

nazionali (anche di quelli che praticano la forma<br />

della democrazia parlamentare). In particolare<br />

nella Repubblica italiana tutto sembra poter<br />

rendere più difficoltosa la strada autonomista.<br />

In nome dell’art.5 della Costituzione (“<strong>La</strong><br />

Repubblica, una e indivisibile...”) lo Stato Italiano<br />

viene concepito come un’entità metafisica<br />

indissolubile. Tutta la vita del cittadino viene<br />

comunque disciplinata dal Parlamento, dal Governo,<br />

dalla burocrazia centrale, dalla Ragioneria<br />

dello Stato, dalla Tesoreria unica, dall’economia<br />

diretta dallo Stato, dalle banche di Stato,<br />

dagli spettacoli e dall’informazione di Stato...<br />

ALBERTONI - Lei dice bene. C’è senz’altro un conservatorismo<br />

dei giuristi che è il vero elemento<br />

di blocco e di paralisi. Le rivoluzioni non sono<br />

state mai cominciate dai giuristi. C’è stata in loro,<br />

anzi, sempre una forma di reazione a qualsiasi<br />

mutamento, simboleggiata, ad esempio, dalla ricorrente<br />

e mitologica concezione della renovatio<br />

imperii, cioè dalla affermazione di una norma<br />

eterna. Secondo me a questo atteggiamento ha<br />

giovato molto anche la Chiesa cattolica, che, avendo<br />

posto il problema del diritto canonico, assunto<br />

come propria, separata e distinta, legge, ha eliminato<br />

la tipica commistione fra potere politico<br />

e religioso caratterizzante l’epoca romana. Da<br />

Teodosio I, il Grande, (347-395 d.C.) con il riconoscimento<br />

del cristianesimo come unica e sola<br />

religione di Stato ed il divieto di praticare gli antichi<br />

culti (392 d.C. - Editto di Costantinopoli)<br />

inizia la progressiva e crescente separazione fra<br />

le due giurisdizioni (quella civile e quella canonica)<br />

grazie al riconoscimento dell’autonomia<br />

(ma anche della supremazia) della Chiesa, e ciò<br />

inevitabilmente comporta la perdita di flessibilità<br />

e plasmabilità da parte del diritto civile e pubblico<br />

che era stata la caratteristica propria del<br />

diritto romano. Il fattore consuetudinario era<br />

infatti lo strumento necessario per adattare la<br />

giurisdizione alle esigenze della società. <strong>La</strong> norma<br />

codificata si afferma, invece, come struttura<br />

solenne, tecnica, formale spesso capziosa ed occultamente<br />

marchiata dalla ideologia non dalla<br />

prassi. <strong>La</strong> totalizzante e dogmatica normativa<br />

canonica si affianca a quella statualistico-imperiale<br />

e ovunque si riduce lo spazio della società<br />

vivente.<br />

Oggi il problema è ancora quello di sciogliere i<br />

pesanti lacci giuridici che impediscono l’adattamento<br />

delle leggi alle spinte sociali e territoriali.<br />

Senza arrivare a forme di radicalismo consuetudinario<br />

e societario mi pare giusto sottolineare<br />

l’importanza delle autonomie sociali e culturali,<br />

di quelle funzionali e della sperimentazione empirica<br />

nel processo di formazione delle regole.<br />

Questa è un’operazione difficile da attuare, perché<br />

comporta un cambio di mentalità al quale<br />

non siamo stati preparati negli ultimi due secoli<br />

e, tanto meno, negli ultimi decenni. Bisogna, allora,<br />

incominciare a far capire a tutti che ci siamo<br />

incamminati su un percorso di lungo periodo,<br />

indispensabile per dare senso e soluzione ai<br />

profondi mutamenti sociali e politici che inevitabilmente<br />

dobbiamo affrontare. <strong>Libera</strong>lizzare la<br />

società è sotto questo aspetto un processo essenziale,<br />

un processo che esige uomini liberi e volontà<br />

determinate e votate alla liberazione. Qui<br />

però ci scontriamo con il conservatorismo giuridico,<br />

politico, burocratico ed economico. Si tratta<br />

di una posizione assai diffusa e con risultati<br />

paralizzanti, almeno nel breve periodo. Possiamo<br />

cercare di individuare talune precise categorie<br />

di oppositori del cambiamento.<br />

Abbiamo gli unitaristi ad oltranza, come, ad<br />

esempio, l’ex ministro on. Filippo Mancuso, di<br />

stampo hegeliano e germanico-normativista. Costoro,<br />

però, non ci devono spaventare perché affrontano<br />

il problema sotto un profilo irrealistico<br />

e che non tiene affatto in conto i processi storici<br />

e socio-politici attuali; essi insomma sono già stati<br />

sconfitti direttamente dalla storia e dallo sviluppo<br />

socio-culturale ed economico. Poi ci sono, più<br />

nascosti, i ricentralizzatori (uno dei principali<br />

esponenti è l’attuale ministro Franco Bassanini),<br />

i quali teorizzano la delega sempre più ampia al<br />

governo per operare cartacee riforme federaliste<br />

dietro cui celano in realtà processi di conferimento<br />

di forti poteri al centro. Il risultato è, quindi,<br />

molto insidioso. Si tratta di una vera e propria<br />

“controriforma” idelogica e centralista rivolta a<br />

consolidare il fatiscente Stato che ci comanda<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />

7


sotto la mascheratura di un falso “decentramento”.<br />

Anche questi ricentralizzatori, però, si scontreranno<br />

necessariamente con le sempre maggiori<br />

richieste provenienti dalla base territoriale, sociale<br />

e funzionale e non potranno portare a compimento<br />

i loro disegni dirigisti e pianificatori.<br />

Infine abbiamo una terza categoria di avversari, i<br />

più subdoli, e cioè quelli che sono convinti che il<br />

federalismo sia semplicemente una questione di<br />

ingegneria, quindi di ristrutturazione dell’esistente<br />

(un esempio ce lo fornisce la Fondazione Agnelli,<br />

che tenta di conciliare l’esigenza di imprenditori<br />

vocati al monopolismo di avere un solo interlocutore<br />

governativo e centralista con le richieste<br />

di maggiore autonomia provenienti dalle<br />

molteplici e difformi realtà locali). Tale impostazione<br />

contrasta con lo stesso principio federale<br />

che è, prima di tutto, una visione plurale e libera<br />

del mondo che va al di là degli Stati attualmente<br />

esistenti. E il federalismo non può necessariamente<br />

essere ridotto a questione di statistiche, non è<br />

“un po’ di decentramento e qualche legge in<br />

meno”, ma è la fine della attuale sovranità italiana,<br />

cioè di una gabbia giuridica che costringe le<br />

spinte sociali, territoriali e funzionali negli spazi<br />

angusti in cui le ha poste la conquista regia ottocentesca,<br />

la dittatura fascista e l’incapacità istituzionale<br />

della Repubblica. Una gabbia che oggi<br />

si vorrebbe rafforzare attraverso l’instaurazione<br />

del regime che caratterizza il governo Prodi.<br />

Debbo aggiungere per completezza che la concezione<br />

fortemente monistica del diritto e delle<br />

sue fonti nell’ambito dello Stato si è ormai indissolubilmente<br />

unita alla gravissima questione burocratica.<br />

Il peso dello Stato è venuto, cioè, aumentando<br />

a dismisura, pretendendo, come si è<br />

visto, di disciplinare tutti i campi della vita sociale<br />

e privata, e per far questo ha avuto bisogno di<br />

arruolare un vero e proprio esercito di dipendenti<br />

addetti alle più svariate mansioni. <strong>La</strong> creazione<br />

di una burocrazia tanto grande quanto incontrollata<br />

ha portato con sè, inevitabilmente, anche i<br />

guasti tipici dei sistemi fortemente statizzati, primo<br />

fra tutti quello della corruzione. D’altronde è<br />

naturale che lo Stato, agendo attraverso l’imperio,<br />

ovvero il potere incondizionato di decisione<br />

sulla vita dei cittadini e delle comunità, favorisca<br />

il sorgere e lo svilupparsi di pratiche degenerate<br />

spesso autoritarie, tendenzialmente illiberali.<br />

Specie quando, come avviene oggi nella Repubblica,<br />

questa burocratizzazione è associata ad una<br />

lucrosissima gestione dell’economia da parte dell’apparato<br />

pubblico. Quest’ultima è strettamente<br />

connessa alla gestione di enormi risorse prelevate<br />

fiscalmente e destinate a sostenere i costi della<br />

politica basata sullo scambio dei voti contro favori<br />

nell’interesse di intere categorie sociali ed<br />

economiche. Una politica che significa livellamento<br />

e impoverimento.<br />

<strong>La</strong> burocrazia di oggi non è, dunque, diversa<br />

da quella dei tempi di Costantino e le spinte all’autogoverno<br />

territoriale, oggi come allora, sono<br />

la naturale conseguenza, la giusta risposta a una<br />

struttura statuale che si involve su se stessa e,<br />

quindi, genera guasti e non risolve problemi. <strong>La</strong><br />

genesi e lo sviluppo dello Stato Italiano sono a<br />

tal proposito un esempio classico di costruzione<br />

di stampo autoritario-burocratico. Attraverso la<br />

fusione di due tradizioni centraliste quali quella<br />

borbonica-meridionale e quella piemontese si è<br />

giunti all’edificazione di un sistema di potere fondato<br />

sulla triade: “centralismo del Parlamento;<br />

centralismo del Governo; centralismo della burocrazia”.<br />

Oggi, quindi, è più che ovvio che vi siano<br />

forti resistenze da parte degli esponenti di<br />

questi tre organismi privilegiati e autoritari contro<br />

le rivendicazioni autonomiste e liberalizzatrici.<br />

Credo però che, nonostante le difficoltà, il<br />

vecchio mondo del potere pubblico accentrato sia<br />

senz’altro destinato a cedere il passo all’avvento<br />

di autentiche libertà. <strong>La</strong> nostra sfida resta quella<br />

di costruire quotidianamente un’etica della libertà<br />

che ci permetta di educare senza sosta le coscienze<br />

e la cultura al gusto di essere responsabilmente<br />

libere, autonome, propositive e costruttive. Un<br />

impegno di grande momento per il quale occorre<br />

lavorare e studiare; studiare e lavorare; unire teoria<br />

e pratica con la certezza di compiere un sacrosanto<br />

dovere. Rimeditare sull’esempio di Ambrogio<br />

da Milano non è, quindi, divagazione storica<br />

d’occasione ma un’opportunità valida per<br />

tutti (credenti o meno).<br />

810<br />

- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


L’anarco - capitalismo padano<br />

razioni e - perché no - interessi dei popoli padano<br />

- alpini, anche e soprattutto dall’insofferenza<br />

e dalla contestazione globale dei metodi oppressivi<br />

del centralismo romano.<br />

<strong>La</strong> Padania pertanto non potrà seguire la strada<br />

italiota, ma dovrà al contrario organizzarsi<br />

in una struttura federalista e rispettosa delle libertà<br />

individuali. <strong>La</strong> Padania non potrà essere<br />

“una e indivisibile” ma dovrà riconoscere a tutti<br />

i popoli che la abitano il loro diritto naturale all’autodeterminazione<br />

( 1 ).<br />

Dunque, in qualunque momento lo richiedano<br />

Liguri o Veneti, Occitani o <strong>La</strong>dini dovranno<br />

poter essere liberi di separarsi e costituire nuove<br />

comunità autonome. Naturalmente il discorso<br />

non vale solo per le nazioni storiche della Padania,<br />

ma anche per eventuali altre realtà territoriali<br />

che per tutta una serie di motivi chiedessero<br />

l’indipendenza.<br />

Seguendo questa logica si giunge all’apparente<br />

paradosso della “secessione individuale” ( 2 L’<br />

autonomismo padano prende le proprie<br />

mosse, oltre che dalla constatazione di<br />

un’innegabile comunanza di ideali, aspi-<br />

);<br />

in altre parole, se la Padania ha diritto a separarsi<br />

dall’Italia, e la Liguria dalla Padania, e Genova<br />

dalla Liguria, allora non ha anche un qualunque<br />

Signor Parodi il diritto di “secedere” da Genova?<br />

<strong>La</strong> risposta è senza il minimo dubbio affermativa:<br />

nessuno può obbligare nessun altro a<br />

essere Italiano o Padano o Ligure senza il preciso<br />

e volontario consenso del diretto interessato<br />

o, in altre parole, nessuno fa parte di una certa<br />

nazione perché c’è nato o per altri motivi “oggettivi”,<br />

ma solo perché (e se) lo vuole. A ben<br />

vedere quindi il processo di cui sopra non è, almeno<br />

in linea teorica, una serie di secessioni,<br />

( 1 ) In questa ottica perdono del tutto valore anche le critiche<br />

di chi sostiene che tra le regioni padane non vi è alcuna unità<br />

o coesione e quindi la Padania non ha ragione di esistere. Al<br />

di là del fatto che in tal caso l’unità o coesione dell’Italia unita<br />

perderebbe essa stessa senso e non potrebbe più essere usata<br />

contro la Padania, secondo noi la vera o presunta disomoge-<br />

di Carlo Stagnaro<br />

ma una serie di aggregazioni: ogni individuo,<br />

libero e sovrano su se stesso e, per estensione,<br />

sulle proprie cose, ha diritto di aggregarsi con<br />

altri individui in comunità che, a loro volta, possono<br />

decidere se restare indipendenti oppure<br />

federarsi con altre comunità. In sostanza, ognuno<br />

di noi non è, come vuole il pensiero internazionalista<br />

e socialista, prima parte dell’umanità,<br />

poi parte del proprio popolo e infine individuo,<br />

ma al contrario prima individuo, e poi parte<br />

del proprio popolo e dell’intero genere umano,<br />

ovvero, in termini più semplici le differenze<br />

tra gli individui prevalgono sui tratti comuni che<br />

discendono dall’essere tutti uomini.<br />

Il paradosso, come si vede, esiste solo se si ha<br />

una concezione dello stato di tipo “etico”, secondo<br />

cui il “bene” dello stato è il fine ultimo di<br />

ogni azione dei singoli; un’idea dunque tutta machiavellana<br />

della ragion di stato, che viene invece<br />

rovesciata dal pensiero liberale che, al di là<br />

delle diverse correnti, sostiene che il ruolo dello<br />

stato debba essere favorire il bene dei cittadini<br />

cioè, in ultima analisi, dei singoli.<br />

Secondo noi al di sopra di tutto c’è quindi l’individuo,<br />

con le sue aspirazioni, i suoi errori e la<br />

sua volontà o, in una sola parola, con la sua libertà.<br />

Ogni tipo di legge, nel momento in cui viene<br />

rifiutata, diventa una forma di violenza; nessuno<br />

può essere obbligato a rispettare leggi che<br />

non vuole rispettare. Questo non significa naturalmente<br />

legalizzare furti e omicidi: tali azioni,<br />

essendo lesive della libertà individuale (nello specifico<br />

del diritto di proprietà sui propri oggetti e<br />

su di sé), vanno punite ad ogni modo; al contrario<br />

attività oggi condannate come usura, prostituzione<br />

e simili, non comportando violenza ma<br />

neità della Cisalpina non conta né tanto né poco: se i popoli<br />

che abitano la nostra terra vorranno rimanere uniti (cosa che<br />

auspichiamo fortemente) lo faranno; se al contrario un domani<br />

vorranno dividersi nulla e nessuno potrà impedirlo.<br />

( 2 ) Cfr. Ernest Renan, Murray Rothbard, Nazione, cos’è (Treviglio<br />

(BG): Leonardo Facco Editore, 1996).<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani -<br />

9


la semplice accettazione volontaria e privata di<br />

un contratto, hanno ogni sacrosanto diritto di<br />

esistere ( 3 ). E d’altronde non si capisce come possano<br />

delle leggi essere assolute, cioè valide per<br />

tutti, se sono state scritte da qualcuno ( 4 ).<br />

I singoli in un contesto simile di libertà assoluta<br />

hanno ovviamente il diritto di aggregarsi,<br />

se lo vogliono, in comunità più o meno piccole<br />

all’interno delle quali si decidono alcune leggi<br />

fondamentali (ad esempio le punizioni per azioni<br />

illegittime come i furti) che tutti e soli gli<br />

aderenti alla comunità dovranno rispettare mentre<br />

tutto il resto è demandato a trattative private.<br />

<strong>La</strong> differenza fondamentale tra il vecchio stato<br />

nazionale ed il nuovo “non stato” è che le<br />

nuove “leggi” entrano in vigore in seguito ad<br />

un’accettazione volontaria da parte di tutti i<br />

membri della comunità: se qualcuno le ritiene<br />

ingiuste o sconvenienti, è libero di rifiutarle e di<br />

aderire ad un’altra comunità (pur senza spostare<br />

fisicamente il proprio domicilio) o anche a<br />

rimanere “indipendente”.<br />

Anche quegli ambiti che oggi sono visti come<br />

“naturale” competenza dello stato (e quindi fanno<br />

parte del monopolio statale) andranno messi<br />

sul mercato e trasformati in imprese in concorrenza<br />

tra di loro. Illuminante a tal proposito è<br />

l’esempio della “pubblica” sicurezza: attualmente<br />

lo stato moderno si regge sul monopolio della<br />

violenza legale dei vari corpi militari come polizia,<br />

carabinieri, esercito e in genere tutti i corpi<br />

armati. Questi dovranno invece essere enti privati<br />

che offrono protezione dai crimini in libera<br />

concorrenza tra di loro. Ogni cittadino sarà (o<br />

dovrebbe essere) libero di scegliere l’ente X, perché<br />

è più economico, o l’ente Y, perché è più<br />

affidabile, o un altro ente ancora per qualsiasi<br />

per quanto strano motivo, eccezion fatta per la<br />

coercizione da parte di altri (che è un reato); il<br />

( 3 ) Cfr. Walter Block, Difendere l’indifendibile (Macerata: Liberilibri,<br />

1994).<br />

( 4 ) L’unica strada per giungere all’indipendenza è dunque<br />

quella del rispetto delle libertà individuali. Se veramente<br />

vogliamo che la Padania sia libera, non abbiamo alternativa.<br />

Con questo non si vuol dire che non esistano norme universalmente<br />

valide: si tratta però non di leggi, bensì di quei diritti<br />

naturali come il diritto alla vita, alla proprietà privata,<br />

alla resistenza contro l’oppressione. È interessante come alcuni<br />

giusnaturalisti riconducano tutti i diritti naturali al solo<br />

diritto alla proprietà privata, interpretando ad esempio il diritto<br />

a vivere come quello di proprietà sul proprio corpo. Cfr.<br />

a questo proposito Murray Newton Rothbard, L’etica della<br />

libertà (Macerata: Liberilibri, 1996)<br />

modello anarco - capitalista slega quindi i singoli<br />

dall’obbligo a dover essere protetto da polizie,<br />

carabinieri, guardie di finanze e simili magagne<br />

burocratico - peninsulari.<br />

In soldoni non ci saranno più guardie di finanze<br />

(di origine rigorosamente italica) che potranno<br />

entrare in un negozio e pretendere un<br />

illegale ma consolidato dalla prassi compenso in<br />

cambio del proprio silenzio; un panettiere sarà<br />

ad esempio libero di tenere le ragnatele sui muri,<br />

ma in tal caso - probabilmente - la clientela diminuirebbe<br />

drasticamente. E nulla impedirebbe<br />

ad un altro soggetto di aprire un’altra panetteria,<br />

concedendo ai cittadini la possibilità di<br />

confrontare i due servizi e di scegliere quello migliore.<br />

Tutt’oggi un simile (e apparentemente<br />

ovvio) comportamento è impossibile a causa del<br />

meccanismo iniquo e illegittimo delle licenze:<br />

nessuno si può permettere di decidere che in una<br />

determinata città non possono esserci più di un<br />

tot panettieri, andando così contro le regole del<br />

mercato e creando de facto degli oligopoli (ostacolando<br />

cioè la libera concorrenza).<br />

Il discorso vale ovviamente per ogni altro servizio<br />

che oggi è fornito dallo stato, e particolarmente<br />

interessante è l’argomento delle tasse.<br />

Oggi una tassa è un pagamento imposto dallo<br />

stato in cambio di un servizio, magari non richiesto.<br />

Un domani invece ogni tassa (cioè ogni<br />

pagamento) dovrà essere volontaria: in altre parole<br />

diverse imprese offriranno dei servizi per i<br />

quali chiederanno un determinato compenso.<br />

Chi riterrà di abbisognare di un certo servizio lo<br />

otterrà stipulando un contratto con la ditta che<br />

lo fornisce; chi invece non vorrà tale servizio,<br />

non sarà neppure costretto a pagarlo per gli altri.<br />

Così ospedali, scuole, televisioni dovranno<br />

essere rigorosamente privati: in altre parole nessuno<br />

pagherà (e naturalmente non avrà) ciò che<br />

non vuole ( 5 ). È pertanto improprio parlare di<br />

( 5 ) È curioso notare come due anni fa un ragionamento simile<br />

sia stato fatto durante un noto spettacolo da Beppe Grillo<br />

a proposito della nefasta abitudine di alcuni quotidiani e periodici<br />

di distribuire ogni tipo di oggetti per incrementare le<br />

vendite: così insieme al giornale può capitare di ricevere videocassette,<br />

CD, riviste o altro.<br />

Lo stesso vale per promozioni da supermercato del tipo “3x2”<br />

o “100 Lire e raddoppia” (commentate da Grillo con frasi del<br />

tipo “E allora quando prendevamo 3 e pagavamo 3 ci avete<br />

fatto un culo così?”).<br />

L’espressione del comico genovese che particolarmente ci ha<br />

colpiti per la sua verità e vicinanza alle teorie libertarie è<br />

stata “<strong>La</strong> nostra libertà è di pagare le cose che ci vengono<br />

date, non quella di riceverle in omaggio”.<br />

10<br />

12 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


“tasse”: poiché ogni servizio è non obbligatorio<br />

ma volontario e poiché tutto è demandato alla<br />

trattativa privata, è meglio parlare di “contratti”<br />

o di “pagamenti” come per ogni altro tipo di<br />

merce (cibo, oggetti, terreni ( 6 )...) che può essere<br />

acquistata senza un interlocutore privilegiato<br />

e/o senza una qualche forma di coercizione<br />

da parte di terzi.<br />

Portando il ragionamento alle sue estreme<br />

conseguenze si giunge all’abolizione della proprietà<br />

pubblica (res publica = res nullius) che è<br />

poi la fonte di ogni tipo di discriminazione.<br />

Cosa significa infatti che “qualcosa è di tutti”?<br />

Che tutti ne possono fare l’uso che vogliono?<br />

O che nessuno ne può fare alcun uso? O ancora<br />

che chiunque ne può fare solo un ben determinato<br />

uso?<br />

Non ci sembra esistano altre possibilità di concepire<br />

la res publica; si tenterà quindi ora di dare<br />

delle motivazioni valide per cui la proprietà pubblica,<br />

oltre a non avere alcun senso, è addirittura<br />

una forma di violenza statale nei confronti<br />

delle libertà individuali.<br />

Nel primo caso ci sembra chiaro il “conflitto<br />

di libertà” che si viene subito a creare. Se infatti<br />

di un terreno chiunque può fare l’uso che vuole,<br />

è legittimo supporre che X possa ad esempio decidere<br />

di coltivarlo. D’altra parte Y ha altrettanta<br />

ragione nel pretendere di edificarvi un palazzo.<br />

Chi dei due dunque ha ragione? Rothbard<br />

probabilmente risponderebbe che ha ragione il<br />

primo che avanza delle pretese sul terreno in discussione.<br />

In tal caso però l’ipotesi (che il terreno<br />

fosse pubblico) è del tutto inutile se non sbagliata:<br />

il terreno, inizialmente di nessuno (ma<br />

non di tutti), spetta a colui che per primo lo trasforma<br />

col proprio lavoro.<br />

<strong>La</strong> seconda ipotesi poi è palesemente assurda:<br />

se di un terreno nessuno può fare l’uso che vuole<br />

vengono lesi i naturali diritti di ognuno alla<br />

potenziale proprietà di quel terreno. Peraltro<br />

quella terra può essere considerata ragionevolmente<br />

terra di nessuno, e quindi chiunque se<br />

ne può appropriare secondo le modalità precedentemente<br />

descritte.<br />

L’ultima ipotesi è quella più accreditata dagli<br />

statalisti ma anche quella che nasconde in maniera<br />

più forte il germe della violenza e della<br />

( 6 ) A proposito della proprietà fondiaria Rothbard fa un discorso<br />

molto particolare teso ad eliminare possibili monopoli:<br />

ognuno è proprietario di tutta e sola la terra che, col<br />

proprio lavoro, è in grado di trasformare. In altre parole<br />

chiunque, vedendo un terreno privo di segni evidenti del la-<br />

coercizione. Se di un terreno “pubblico” si può<br />

fare solo un determinato uso, qualcuno avrà<br />

dovuto decidere quale uso farne. Ora questo qualcuno,<br />

chiunque esso sia (non importa se un politico<br />

o un boiardo o - come più spesso accade -<br />

un mafioso) cercherà di portare acqua al proprio<br />

mulino; in altre parole, farà in modo che il<br />

terreno diventi indirettamente una sua proprietà<br />

o quantomeno sia utilizzato per fare qualcosa<br />

di utile non per la comunità, ma per il tornaconto<br />

personale. <strong>La</strong> res publica è cioè di fatto<br />

proprietà privata, ma a parole “roba di tutti”; traduzione:<br />

le spese sono pubbliche, i ricavi privati.<br />

Tutto ciò va contro le regole del libero mercato,<br />

secondo cui chiunque sia proprietario di<br />

qualcosa deve esserne proprietario in tutto, nel<br />

bene e nel male; inoltre indirizzare l’uso di un<br />

terreno in una certa direzione potrebbe significare<br />

inserire un interlocutore privilegiato sul<br />

mercato o obbligare altre persone ad usufruire<br />

di quel terreno intervenendo così indebitamente<br />

in trattative in corso tra terzi (creare cioè degli<br />

oligopoli o dei monopoli).<br />

Tutto questo lungo discorso, sebbene possa<br />

sembrare a prima vista del tutto teorico e privo<br />

di applicazioni pratiche o attuali, è al contrario<br />

perfettamente adattabile al caso della Padania.<br />

Dopo 140 anni di sfruttamento da parte di<br />

Roma, i cittadini padani hanno deciso di dire<br />

basta e di urlare la propria rabbia. Hanno però<br />

un grosso nemico: il codice del camerata Rocco<br />

che contempla reati come l’attentato all’unità<br />

nazionale punibili col massimo della pena,<br />

l’ergastolo. È chiara l’eredità fascista di una tale<br />

normativa (al di là del nome di colui che ha<br />

scritto il codice, anche la sostanza si rifà ad una<br />

visione nazionalista della peggior specie che i<br />

costituenti si sono ben guardati dall’eliminare).<br />

Ed è curioso come a sostenerla siano anche<br />

i cattolici (forse dimentichi del non expedit)<br />

e coloro che fino a non troppo tempo fa<br />

sono stati internazionalisti e che bollavano<br />

come fascista ogni minima manifestazione di<br />

patriottismo. Mai come ora sono apparse vere<br />

le parole di Samuel Johnson (non a caso più<br />

volte citate dal nostro Gilberto Oneto) quando<br />

affermava che “il patriottismo è l’ultimo rifugio<br />

dei mascalzoni”.<br />

voro altrui, può appropriarsene lavorarla ed ogni recriminazione<br />

del precedente “proprietario” non può essere ritenuta<br />

valida per la definizione stessa di “proprietà” (ognuno è proprietario<br />

di ciò che è in grado di mescolare col proprio lavoro).<br />

Vedi M. N. Rothbard, L’etica..., op. cit., pagg. 59 - 235.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 11


Norme di questo tipo perdono ogni validità da<br />

un punto di vista libertario ( 7 ) secondo cui ogni<br />

forma di violenza (cioè coercizione, cioè non rispetto<br />

delle volontà dei singoli) è illegittima e<br />

pertanto non può essere rispettata: in altre parole,<br />

se non ci danno ciò a cui abbiamo diritto,<br />

ce lo dobbiamo prendere. Con questo non vogliamo<br />

dire che da domani la Padania debba essere<br />

indipendente perché lo diciamo noi; chiediamo<br />

semplicemente che ci venga riconosciuto<br />

il diritto (peraltro sancito da norme dell’ONU<br />

approvate a suo tempo anche dall’Italia) a decidere<br />

sul nostro futuro.<br />

Le modalità da seguire per giungere all’indipendenza<br />

sono state già più volte esaminate sui<br />

Quaderni Padani ( 8 ); non è pertanto nostra intenzione<br />

ripetere cose già dette da altri. Ci teniamo<br />

comunque a sottolineare che, indipendentemente<br />

dal metodo con cui la Padania giungerà<br />

(e di questo possiamo dirci sicuri) alla libertà,<br />

sicuramente all’indomani sorgeranno le prime<br />

contese tra nazionalisti e liberali; le due componenti<br />

attuali cioè di tutti i movimenti autonomisti<br />

che ora convivono ben sapendo di avere,<br />

almeno in partenza, lo stesso scopo.<br />

Quando però la Confederazione <strong>Padana</strong> sarà<br />

una realtà concreta si tratterà di darle un’organizzazione<br />

che abbiamo definito “non italiana”,<br />

e l’unico modo di sfuggire al modello dello stato<br />

moderno è negarlo in ogni sua forma. In altre<br />

parole l’errore fatale in cui l’autonomismo potrebbe<br />

cadere è quello di creare un’altra Italia<br />

con tutti i suoi difetti, le sue tasse e i suoi balzelli.<br />

Per questo motivo in partenza ci siamo soffermati<br />

sulla questione delle secessioni a catena.<br />

Sarebbe assurdo che proprio coloro che hanno<br />

sperimentato sulla propria pelle cosa significa<br />

e cosa comporta il nazionalismo in tutte le<br />

sue manifestazioni si comportassero alla stessa<br />

maniera dei loro precedenti oppressori.<br />

( 7 ) “Negli ordinamenti federali di stampo contrattualistico<br />

il diritto di secedere è riconosciuto e si pone come atto legale<br />

riconducibile all’autonomia dei singoli gruppi politici che<br />

compongono l’unione”, Alessandro Storti, “<strong>La</strong> secessione<br />

come facoltà prepolitica e diritto naturale”, su Quaderni Padani<br />

n. 3, pagg. 6 ÷ 9. Come già notato i “singoli gruppi politici<br />

che compongono l’unione” non devono coincidere necessariamente<br />

con le attuali entità politico - amministrative<br />

(nel nostro caso le regioni) e con comunità definite secondo<br />

arbitrari criteri definiti oggettivi: è sufficiente che un gruppo<br />

di cittadini richieda l’indipendenza, anche senza eventuali<br />

motivazioni storico - culturali, territoriali, economiche e simili.<br />

Nel caso in cui alcune o tutte queste condizioni concorrano<br />

tra loro (come in Padania) la richiesta di autodeterminazione<br />

acquista, se possibile, ancor più valore.<br />

In altre parole una delle condizioni coerenti<br />

per poter ottenere la secessione della Padania è<br />

mettere in conto fin da ora la possibilità (e il<br />

diritto) alla secessione anche dell’Occitania, del<br />

Tirolo o di Seborga e non negare a loro ciò che<br />

per tanto tempo è stato negato a noi.<br />

Quella che dunque è stata spesso usata come<br />

critica alla secessione della Padania (il rischio di<br />

legittimare una “eccessiva” - ma secondo quali<br />

parametri si può poi definire “eccessiva”? - frammentazione)<br />

dovrà essere uno dei nostri cavalli<br />

di battaglia. E non vediamo come possa essere<br />

altrimenti: riconoscere il diritto all’autodeterminazione<br />

a un popolo significa inevitabilmente riconoscerlo<br />

a tutti i popoli; e una delle tante debolezze<br />

dello stato italiano sta proprio nell’aver<br />

legittimato tutti i processi di secessione in corso<br />

nel mondo salvo poi pentirsene quando è stata<br />

“vittima” di quelle stesse agitazioni cui poco<br />

tempo prima aveva rivolto il proprio plauso ( 9 ).<br />

Tutto ciò dipende dall’errata convinzione che<br />

la frammentazione sia dannosa: in realtà, come la<br />

storia dimostra fin troppo eloquentemente, gli<br />

stati che hanno avuto il migliore sviluppo sono<br />

quelli più piccoli. Questo per molteplici motivi,<br />

non ultimo quello che, mentre uno stato grande<br />

come l’Italia o la Francia, ha la possibilità di intervenire<br />

sul mercato rendendolo così chiuso e<br />

favorendo alcuni imprenditori piuttosto che altri<br />

(vedi la FIAT o l’Olivetti), al contrario uno stato<br />

piccolo è costretto dalle cose ad aprire le proprie<br />

frontiere alle merci estere, non essendo assolutamente<br />

in grado di raggiungere l’autosufficienza.<br />

Per questo anche la politica interna della Padania<br />

dovrà essere liberale al massimo e permettere<br />

la libera circolazione delle merci senza boicottare<br />

certe imprese. E si badi che un comportamento<br />

simile va a tutto vantaggio dei singoli,<br />

non più legati ai prodotti “nazionali” ma liberi<br />

di scegliere ciò che si preferisce, in base a valu-<br />

( 8 ) Vedi: Alessandro Storti, “Per la libertà della Padania una<br />

costituente territoriale”, su Quaderni Padani n. 4, pagg. 2 ÷ 7;<br />

Alessandro Vitale, “Condizioni giuridiche internazionali per il<br />

principio di autodeterminazione e referendum per le comunità<br />

territoriali che aspirano all’indipendenza”, su Quaderni Padani<br />

n. 5, pagg. 3 ÷ 5; Alessandro Storti, “<strong>La</strong> secessione comincia<br />

dalle regioni”, su Quaderni Padani n. 7, pagg. 42 ÷ 47.<br />

( 9 ) Giova ricordare quanto detto dal leader nazionalista russo<br />

Zhirinovskj all’indomani della manifestazione indipendentista<br />

del 15 settembre scorso: la solidarietà nei confronti della<br />

Lega Nord è stata dal russo motivata con una frase del tipo<br />

“l’Italia ha avuto quello che si è meritata dopo aver appoggiato<br />

le secessioni dei diversi stati sovietici” e non da una<br />

vicinanza politica o ideologica tra i due movimenti come è<br />

stato scritto dai giornali.<br />

12<br />

14 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


tazioni del tutto personali. Chi vorrà potrà comprare<br />

un prodotto perché è “di casa nostra” o<br />

perché è più economico o perché è migliore degli<br />

altri senza alcuna forma di interventismo statale.<br />

Questo non per qualche astruso motivo ma<br />

semplicemente perché agevolare (cioè permettere)<br />

la concorrenza consente di avere una maggiore<br />

possibilità di scelta oltre che naturalmente<br />

avere servizi migliori; ostacolare il mercato è<br />

dunque stupido, oltre che illegittimo.<br />

Concludendo: la Padania, allo stato attuale delle<br />

cose, avanza delle richieste illegali ma perfettamente<br />

legittime. Dovrà pertanto farsi coraggio<br />

e pretendere ciò che le spetta.<br />

Se riuscirà a conquistare l’indipendenza, la Padania<br />

dovrà però darsi una struttura del tutto<br />

differente da quella attuale dello stato italiano,<br />

centralista, burocratista e prefettizio. <strong>La</strong> Padania<br />

dovrà compiere ogni propria scelta basandosi<br />

sul criterio del maggiore o minore rispetto<br />

della libertà individuale e del libero mercato.<br />

Ogni scelta in senso contrario andrà aborrita per<br />

non ricadere nell’equivoco tutto italiano di uno<br />

stato nelle mani di poche persone che non fanno<br />

altro che taglieggiare chi lavora e produce.<br />

<strong>La</strong> solidarietà stessa nei confronti dell’Italia e<br />

di qualunque altra area ritenuta depressa non<br />

dovrà essere imposta per legge. Ciò non significa<br />

naturalmente che non potremo più aiutare<br />

chi sta peggio di noi: aiuteremo però solo chi<br />

vorremo aiutare e se lo vorremo aiutare. In particolare,<br />

è ragionevole pensare che difficilmente<br />

daremo un contributo a chi lo chiede non per<br />

lavorare, ma al contrario per poter campare non<br />

facendo nulla ( 10 ).<br />

( 10 ) Ennio Flaiano una volta ha detto che gli Italiani (ma crediamo<br />

che non si riferisse ai Padani) sono quella gente che<br />

“vorrebbe lavorare poco e guadagnare molto; in subordine,<br />

lavorare poco e guadagnare poco”.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 13


Milano, centro della Terra di Mezzo<br />

I<br />

l regime italiano ha fatto di Roma e della sua<br />

storia uno dei capisaldi della peggiore reto-<br />

rica nazionalista e della sua azione di demo-<br />

lizione della memoria collettiva padana. Così da<br />

più di un secolo scolari e studenti padani vengono<br />

frastornati e annoiati con le insulse storielle<br />

di Roma Caput mundi, della sua fondazione segnata<br />

da una rissa al coltello fra bulli, del ratto<br />

delle Sabine (bell’esempio di fallocrazia mafiosa),<br />

con tutte le menate idiote di Orazi e Curiazi,<br />

di lupe allattatrici, di sicari sfigati e autolesionisti,<br />

di briganti di ogni risma elevati al rango<br />

di eroi della patria.<br />

Tutto quello che è avvenuto qui e che non è<br />

“romano” o “romanizzabile” viene dimenticato,<br />

cancellato o ridicolizzato.<br />

Nel buio in cui si cerca di costringere la storia<br />

padana rientrano i silenzi, le omissioni e il disinteresse<br />

per la storia della più grande città padana,<br />

quel Milano che è stato per secoli il maggiore<br />

centro abitato della Terra di Mezzo (prima<br />

e durante il periodo celtico) ma che è anche riuscito<br />

a diventare la capitale dell’Impero, soppiantando<br />

una Roma corrotta, decadente e mollacciona.<br />

( 1 )<br />

Di Milano romano si sa tutto. Ci sono pubblicazioni,<br />

i musei straripano di cocci, e ogni possibile<br />

pezzo di muratura è stato messo alla luce:<br />

rovine cariate di terme, lupanari e circhi testimoniano<br />

una romanità “di regime” opportunamente<br />

accompagnata dal solito mediterraneo corollario<br />

di ruffo e di frotte maleodoranti di gatti.<br />

Dei tanti secoli di libera e felice “padanità” viene<br />

tenuto nascosto quasi tutto. Eppure Milano<br />

ha un ricco passato di gloria e, prima di essere<br />

( 1 ) Il lingua locale, Milano (Milàn) è un sostantivo maschile:<br />

anche la sua riduzione a transessuale della toponomastica fa<br />

parte della politica di evirazione culturale intrapresa dal potere<br />

italiano.<br />

( 2 ) Un’altra leggenda vuole che il fondatore di Milano sia addirittura<br />

stato Tubal, figlio di Japhet, il terzogenito di Noè.<br />

Secondo Raffaello Toscano, autore di un poema in versi intitolato<br />

L’origine di Milano (1587), Tubal, giunto in Padania,<br />

avrebbe avuto novanta figli, dai quali sarebbero stati generati<br />

di Gilberto Oneto<br />

stato libero comune orgoglioso, capitale industriale<br />

e commerciale, centro culturale a livello<br />

mondiale, è dall’alba del mondo il luogo di riferimento<br />

politico e simbolico di una larga porzione<br />

dei popoli che da sempre vivono in Padania.<br />

Il suo mito di fondazione più noto e popolare<br />

lo lega alla vicenda leggendaria di Belloveso. Secondo<br />

quanto riportato da Tito Livio, Belloveso<br />

e Segoveso, nipoti di Ambigato, re dei Biturigi,<br />

avrebbero lasciato fra la fine del VII secolo e l’inizio<br />

del VI secolo a.C., il loro territorio per trovare<br />

nuove terre sulle quali far vivere parte del loro<br />

popolo in grande espansione demografica. Il Ver<br />

sacrum avrebbe portato Segoveso a nord delle<br />

Alpi e Belloveso in Padania. Il luogo dove insediarsi<br />

sarebbe stato indicato dall’apparizione di<br />

una scrofa semilanuta che sarà da allora totemicamente<br />

legata alla città. Belloveso sarebbe anche<br />

stato influenzato dal nome di una tribù locale,<br />

gli Insubri, che avevano lo stesso nome di<br />

un popolo gallico che abitava la regione degli<br />

Edui, da cui proveniva.<br />

Gli storici hanno sempre speculato su questo<br />

dettaglio che starebbe a dimostrare che popolazioni<br />

celtiche (o celtizzate) fossero stanziate dalle<br />

nostre parti già da molto tempo. ( 2 )<br />

In realtà Milano è assai più antico. Si sa da<br />

una serie di indagini archeologiche che la zona<br />

era abitata fin dall’età della pietra, e che lo è stata<br />

ininterrottamente da allora. Si conoscono anche<br />

i nomi di alcuni dei villaggi liguri (Barona,<br />

Cadrona, Vepra) che sorgevano sulle rive dei numerosi<br />

corsi d’acqua del sito. ( 3 ) <strong>La</strong> posizione e<br />

l’importanza di Milano traggono origine in questo<br />

periodo dall’incrocio di due diagonali di col-<br />

tredicimila e settecento poi<br />

con meraviglia altrui, nepoti suoi.<br />

Franco Fava, Storia di Milano (Milano: Libreria Meravigli Editrice,<br />

1980), pag.10.<br />

( 3 ) Delle vicende del Milano pre-romano si è occupato con<br />

competenza e passione Alessandro Colombo con i suoi: Milano<br />

preromana, romana e barbarica (Milano: Libreria Meravigli<br />

Editrice, 1980) e Milano romana (Milano: Libreria Meravigli<br />

Editrice, 1994).<br />

14<br />

16 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


legamento, “l’una maggiore con andamento NO-<br />

SE e su per giù segnata nella parte meridionale<br />

dal corso del <strong>La</strong>mbro, l’altra minore con direttiva<br />

NE-SO e tagliante la prima in un punto di<br />

mezzo, dove in progresso di tempo sarebbe sorta<br />

la città di Milano”. ( 4 )<br />

Il processo di indoeuropeizzazione è anche qui<br />

avvenuto gradualmente ma profondamente: ne<br />

è sicura testimonianza il nome stesso degli Insubri,<br />

che più d’uno ha interpretato come gli<br />

“Umbri del Nord”. ( 5 ) Importante deve essere<br />

sempre stato il contatto con la cultura protoceltica<br />

di Golasecca con cui la città è sempre stata<br />

collegata mediante uno dei tracciati viari più importanti<br />

e permanenti.<br />

<strong>La</strong> città di questo periodo ha anche il primo<br />

nome che viene ricordato, quello di Alba, che ne<br />

denota chiaramente la radice indoeuropea ma<br />

che costituisce anche un forte e sintomatico legame<br />

con una delle radici etimologiche più forti<br />

della cultura celtica.<br />

L’insediamento si sviluppa sicuramente sul<br />

preesistente agglomerato ligure di cui costituisce<br />

la naturale continuazione nel tempo. Esso<br />

sorge infatti sulle diagonali di cui si è parlato<br />

più sopra, una delle quali era l’antica strada impostata<br />

su l’oriente di primavera (NE-SO). Questa<br />

linea è oggi ancora leggibile sulle Vie Manzoni,<br />

Santa Margherita, Ratti, Zecca Vecchia. Con<br />

essa si interseca ad angolo retto la linea formata<br />

dalle Vie Ponte Vetero, <strong>La</strong>uro, Filodrammatici,<br />

Marino, Agnello e Piazza Beccaria. Il loro punto<br />

di incontro si trova in Piazza della Scala. ( 6 ) <strong>La</strong><br />

forma dell’antico insediamento era presumibilmente<br />

rotonda, secondo uno schema piuttosto<br />

diffuso all’epoca e la sua circonferenza è ancora<br />

segnata dall’attuale andamento della Via Andegari.<br />

Si è molto discusso sull’origine etimologica<br />

di questa strada: anche se la sua derivazione<br />

dal nome dei biancospini (andeghée) sembra<br />

piuttosto poco probabile, non si può non provare<br />

emozione nel considerare il legame che le è<br />

popolarmente attribuito (e che ha attraversato i<br />

millenni) con le siepi con cui venivano circondati<br />

e difesi i villaggi celti e proto-celti. ( 7 )<br />

( 4 ) Alessandro Colombo, Milano romana, op.cit., pag.12.<br />

( 5 ) Ibidem, pag.15.<br />

( 6 ) Ibidem, pag.15-16.<br />

( 7 ) Descrizioni degli schemi urbanistici degli insediamenti<br />

proto-celtici e celtici si trovano in numerose pubblicazioni,<br />

e in particolare in:<br />

Gregorio Soberski, Una città fortificata dell’età del ferro<br />

Biskupin (Milano: Jaka Book, 1987); Richard Muir, Reading<br />

Gli Etruschi, che erano penetrati in Padania<br />

attorno al VI secolo, hanno trovato un villaggio<br />

quasi sicuramente circolare, circondato da un<br />

terrapieno difeso da spesse siepi di biancospini e<br />

interrotto da quattro aperture in corrispondenza<br />

degli assi viari principali. Agli Etruschi il centro<br />

era noto come Alba Insubrium.<br />

Il villaggio ha dovuto presentarsi con lo stesso<br />

aspetto anche all’ultima ondata di penetrazione<br />

gallica (quella che, secondo Polibio, Appiano<br />

e Diodoro Siculo sarebbe avvenuta fra il<br />

424 e il 386 a.C.). È forse con la definitiva celtizzazione<br />

che il centro si espande. Esso assume il<br />

nome di Mediolanum, che significa “al centro<br />

della pianura”, o “al centro della Terra” (secondo<br />

la denominazione celtica di “Terra di mezzo”<br />

per la Padania): il senso non è solo geografico<br />

(punto centrale della grande valle o incrocio delle<br />

vie di comunicazione più importanti) ma è anche<br />

politico (Milano diventa per la prima volta<br />

non più e non solo il principale villaggio di una<br />

piccola tribù ma il centro più importante di una<br />

confederazione più ampia che interessa gran<br />

parte delle tribù della Padania centrale) e spirituale.<br />

Con lo stesso nome infatti (e con la sua<br />

variante di Medionemeton, che qualcuno ha anche<br />

attribuito a Milano) sono indicati nel mondo<br />

celtico i centri spirituali, i luoghi di scuole<br />

druidiche o i punti di particolare valenza magica<br />

e simbolica. ( 8 )<br />

In questo periodo Milano si espande e assume<br />

la forma di mandorla incentrata sul suo asse NO-<br />

SE che è stato per la prima volta individuato da<br />

De Finetti e poi più compiutamente descritto da<br />

Alessandro Colombo. ( 9 )<br />

Esso conserva nella parte settentrionale la forma<br />

del precedente insediamento ma si espande<br />

verso SE fino all’area del Verziere, forse per inglobare<br />

l’area sacra compresa fra l’attuale sito<br />

del Duomo e il lago. Oltre alle considerazioni<br />

espresse dagli autori citati (sulla base di persistenze<br />

toponimiche e urbanistiche), vale la pena<br />

di esaminare altri elementi che sono utili a definire<br />

il posizionamento e la forma dell’insediamento<br />

celtico.<br />

the Celtic <strong>La</strong>ndscapes (London: Michael Joseph, 1985); e<br />

T.G.E. Powell, Thr Celts (London: Thames and Hudson, 1980).<br />

( 8 ) Elisa Ghiggini, Magica Milano (Torino: Edizioni Horus,<br />

1989), pag.32.<br />

( 9 ) G. De Finetti, Milano, costruzione di una città (a cura di<br />

G. Cislaghi, M. De Benedetti, P. Marabelli; Milano: 1969),<br />

pagg.3-28.<br />

Si vedano anche le opere già citate di Alessandro Colombo.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 15


Di grande importanza è l’esame<br />

della situazione topografica<br />

e altimetrica del posto. (Fig.1) <strong>La</strong><br />

carta altimetrica con linee isoipsiche<br />

di 50 cm ci permette di<br />

ipotizzare con buona approssimazione<br />

la situazione originaria<br />

del sito. ( 10 ) Si rileva innanzitutto<br />

la presenza di una motta a 121<br />

metri sul livello del mare lambita<br />

a oriente dal corso del fiume<br />

Seveso e, a occidente, da quello<br />

del torrente Nirone. A meridione<br />

si trova un forte avvallamento<br />

(di circa 5 metri) nel quale si<br />

doveva trovare uno stagno: la<br />

presenza del corpo d’acqua è dimostrata<br />

sia dall’andamento delle<br />

curve di livello che dalle persistenze<br />

di taluni significativi toponimi<br />

locali (Vie Pantano, <strong>La</strong>ghetto,<br />

Poslaghetto, San Giovanni<br />

in Conca). Tutta la zona meridionale<br />

doveva poi essere occupata<br />

da vaste zone di acquitrino<br />

e da fitte foreste la cui presenza<br />

è documentata fino al Medioevo<br />

e da alcuni toponimi (Brolo). Da<br />

questo lato non c’erano vie di comunicazione<br />

terrestri e il villaggio<br />

era inavvicinabile. <strong>La</strong> motta<br />

costituiva un elemento di specia-<br />

le rilevanza soprattutto in una situazione morfologica<br />

piuttosto piatta: da qui potrebbe essere derivato<br />

il nome di Alba, evidentemente legato alla<br />

radice celto-ligure di alp, altura.<br />

Ma esiste un altro elemento piuttosto forte che<br />

definisce il posizionamento dell’insediamento. Sappiamo<br />

come nella cultura delle popolazioni protoceltiche<br />

e celtiche dell’Europa occidentale e centrale<br />

avesse speciale importanza l’idea di sacralizzazione<br />

del territorio sia sotto le forme di collegamenti<br />

fisici e simbolici con speciali emergenze<br />

morfologiche (soprattutto montagne), di legami<br />

( 10 ) <strong>La</strong> carta altimetrica è stata elaborata da Trolli nel 1957<br />

ed è riportata da: Massimiliano David, “Indagini sulla rete<br />

viaria milanese in età romana”, su: Maria Luisa Gatti Perer<br />

(a cura di), Milano ritrovata. L’asse di Via Torino (Milano:<br />

Casa editrice Il Vaglio, 1986), pagg.119 ÷ 143.<br />

<strong>La</strong> situazione altimetrica può essere stata in parte mutata<br />

dalle stratificazioni storiche e dai relativi abbattimenti e ricostruzioni<br />

di edifici: salvo sostanziali modifiche localizzate,<br />

l’andamento generale del terreno deve però essere considerato<br />

come valido riferimento.<br />

Fig. 1 - Rapporto fra l’altimetria e gli insediamenti<br />

A - Castello Sforzesco<br />

B - Duomo<br />

C - Foro romano<br />

1 - Cardo antico (“Oriente di primavera”)<br />

2 - Decumano celto-ligure<br />

3 - Decumano romano<br />

4 - Mura del primo castrum romano<br />

5 - Terrapieno celtico<br />

con occorrenze astronomiche e con il calendario<br />

solare e lunare, ma anche con speciali presenze<br />

“magiche” (fonti, foreste, rocce eccetera).<br />

Una delle forme più comuni di sacralizzazione<br />

del paesaggio era rappresentata dagli allineamenti<br />

(leys) di costruzioni e monumenti (soprattutto<br />

megalitici) in riferimento a elementi fisici importanti.<br />

Questi allineamenti si sviluppavano anche<br />

per centinaia di chilometri e hanno interessato<br />

aree vastissime: gli esempi più noti sono in Inghilterra,<br />

in Bretagna e nella Germania centrale.<br />

( 11 ) Resti di strutture analoghe sono stati ritrova-<br />

<strong>La</strong> più evidente mutazione antropica di una certa consistenza<br />

è rappresentata dal terrapieno del Castello Sforzesco il cui<br />

livello è stato artificialmente innalzato di almeno 3 metri per<br />

la costruzione e per le opere di difesa della fortificazione.<br />

( 11 ) Si vedano: Francis Hitchings, Earth Magic (London: Picador,<br />

1978); John Michell, The View over Atlantis (New York:<br />

Ballantine Book, 1972); John Michell, Secrets of the Stones<br />

(Harmondsworth: Penguin Books, 1977); Gilberto Oneto, “Territori<br />

allineati”, su Ville Giardini, n. 270, maggio 1992; Alfred<br />

Watkins, The Old Straight Track (London: Abacus, 1974).<br />

16<br />

18 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Fig. 2 - Schema degli allineamenti<br />

ti anche sull’arco alpino occidentale ( 12 ) e tutto<br />

lascia pensare che essi fossero diffusi (e sicuramente<br />

conosciuti) in tutta la Padania, area che<br />

oltre a tutto si presta con facilità a operazioni di<br />

sacralizzazione di ampio respiro. È piuttosto probabile<br />

che gli allineamenti costituissero pratica<br />

normale e che essi siano stati deliberatamente<br />

cancellati sia dagli occupanti romani (sempre preoccupati<br />

dalla coincidenza fra fatti magico-religiosi<br />

e coscienza politica, che era caratteristica<br />

della cultura celtica) che dalle gerarchie cattoliche.<br />

Due degli elementi fisici che hanno maggiore<br />

rilevanza (e fascino) nella grande valle del Po,<br />

sono il Monte Rosa (ritenuto fino a tempi piuttosto<br />

recenti la montagna più alta d’Europa) e il<br />

Resegone. ( 13 ) Essi sono (e, a maggior ragione,<br />

erano) perfettamente visibili dalla motta di Mediolanum<br />

e, in particolare, la traguardazione delle<br />

( 12 ) Riccardo Petitti, Sentieri perduti. Un sistema celtico di<br />

allineamenti (Ivrea: Priuli & Verlucca, 1987).<br />

( 13 ) Rosa deriva, secondo Luigi Bruno, dal pre-romanzo roise che<br />

stà per “cima”. Citato in: Luciano Gibelli, Armus-ciand (Ivrea:<br />

Priuli & Verlucca, 1992), pag. 85. Il nome più antico del Resegone<br />

sarebbe Seràda, col significato di “chiusura”, “fine della veduta”<br />

o “dell’orizzonte”. Si veda: Dante Olivieri, Dizionario di<br />

toponomastica lombarda (Milano: Ceschina, 1961), pag. 501.<br />

( 14 ) Fino a tempi recentissimi ha avuto vigore nell’urbanistica<br />

milanese una disposizione non scritta (ma accuratamente<br />

rispettata per secoli), detta “servitù del Resegone”, che im-<br />

loro visuali si interseca a 90°<br />

precisi proprio nel punto centrale<br />

(e più alto) dell’antico insediamento.<br />

(Fig. 2)<br />

In più, la veduta sul Resegone<br />

coincide con buona approssimazione<br />

con “l’oriente di primavera”<br />

che era così importante<br />

nell’immaginario collettivo<br />

dei popoli antichi. ( 14 )<br />

L’asse che unisce il Rosa al<br />

Resegone trova il suo centro fisico<br />

sul Sasso di Ferro, l’incredibile<br />

montagna che sovrasta<br />

<strong>La</strong>veno e il Verbano; nella stessa<br />

condizione di Mediolanum si<br />

trovano tutte le località poste<br />

sulla circonferenza centrata sul<br />

Sasso ed è estremamente sintomatico<br />

che su questa linea si trovino<br />

Vercelli (fortezza sacra dei<br />

Celti, e fondata dagli stessi Libui<br />

che hanno dato vita al pri-<br />

mo insediamento milanese) e il<br />

Monte Mucrone che sovrasta Oropa, il più sacro<br />

dei luoghi celtici (o, il più celtico dei luoghi sacri)<br />

dell’intera Padania. ( 15 )<br />

A fare preferire il sito di Milano c’erano però<br />

alcuni altri elementi di forte carica sacrale: un<br />

lago di acqua fresca (probabilmente generato da<br />

un fontanile) posto ai margini della motta e riversantesi<br />

nello stagno più meridionale, una fonte<br />

di acqua sulfurea e (probabilmente) un trovante<br />

trasformato in menhir.<br />

Il lago è rimasto nelle leggende locali e, soprattutto,<br />

nei miti legati alla costruzione del Duomo.<br />

Si racconta che nei sotterranei del Duomo (si dice<br />

che vi si possa accedere dalla cripta, o da una porticina<br />

che sta dietro l’Altar maggiore) ci sia un<br />

immenso salone sorretto da massicce colonne<br />

(scolpite con figure magiche, strane e segrete)<br />

completamente occupato da un lago nel quale -<br />

si narra - si possa addirittura andare in barca. ( 16 )<br />

pediva la costruzione di edifici che potessero occludere la<br />

visuale della montagna dal centro della città.<br />

È interessante notare come tale allineamento visuale fosse<br />

molto vicino a quello del cosiddetto “oriente di primavera”,<br />

punto del sorgere del sole il solstizio d’estate.<br />

( 15 ) Gilberto Oneto, L’invenzione della Padania (Bergamo:<br />

Foedus, 1997), pag.185.<br />

( 16 ) Michela Zucca, Milano magica (Milano: Libreria meravigli<br />

Editrice, 1995), pag. 15. Si veda anche: Mario Spagnol,<br />

“Milano ctonia”, in AA.VV., Guida ai misteri e segreti di Milano<br />

(Milano: SugarCo, 1977), pagg. 41 ÷ 43.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 17


Fig. 3 - Le Quattro teste scolpite del santuario<br />

di Entremont (Provenza)<br />

Ma nelle viscere del Duomo si dovrebbe anche<br />

nascondere un simulacro antichissimo di una Vergine,<br />

nera come quella di Oropa e di tutti gli altri<br />

santuari antichi. ( 17 )<br />

<strong>La</strong> sorgente di acqua solforosa (dai poteri terapeutici<br />

ma anche magica porta su altri mondi)<br />

c’è ancora nel Parco Sempione, pur svilita e indebolita<br />

dagli sconvolgimenti urbanistici.<br />

Il menhir è oggetto di un’altra leggenda persistente:<br />

atterrato e distrutto dai Romani, sarebbe<br />

stato sostituito alla loro sconfitta, da una colonna<br />

dell’abbattuto palazzo imperiale, demonizzata<br />

dai cristiani (“la colonna del diavolo”) ma in<br />

qualche modo rispettata per il suo valore civico<br />

(vi venivano incoronati i re barbari, Gian Galeazzo<br />

Visconti indossò al suo cospetto il berretto<br />

ducale in segno di presa del potere e anche i po-<br />

( 17 ) Michela Zucca, op.cit., pag.15.<br />

( 18 ) Ibidem, pagg.60-62.<br />

( 19 ) Alessandro Colombo, Milano romana, op.cit., pag. 27.<br />

( 20 ) AA.VV. Guida ai misteri e segreti di Milano, op. cit., pagg.<br />

410 ÷ 411.<br />

( 21 ) Ibidem, pag. 179. Per il simbolismo di Sheela-na-Gig, si<br />

veda: Stella Cherry, A Guide to Sheela-na-Gigs (Dublin: National<br />

Museum of Ireland, 1992).<br />

destà, durante la cerimonia in cui giuravano fedeltà<br />

alle leggi della città, la dovevano abbracciare).<br />

( 18 )<br />

Tutti questi elementi facevano di Mediolanum<br />

un luogo carico di tensioni magiche e non stupisce<br />

che il suo animale totemico (legato al mito<br />

della sua fondazione) fosse proprio un cinghiale,<br />

simbolo della sacralità e legato alla scienza druidica.<br />

Nell’insediamento antico si trovavano poi numerosi<br />

altri punti importanti. All’ingresso NO<br />

(verso Golasecca) c’era probabilmente il tempio<br />

dove venivano conservate le teste dei nemici caduti<br />

in combattimento: era usanza celtica esporre<br />

alle porte dei centri urbani teschi incastonati<br />

in pilastri di pietra (come a Roquepertuse) oppure<br />

più frequenti riproduzioni scultoree. (Fig. 3)<br />

Una presenza del genere ha probabilmente lasciato<br />

una traccia nella denominazione della chiesa<br />

di San Giovanni alle Quattro Facce che si trovava<br />

sul luogo. ( 19 )<br />

Vicino al lago poteva esserci un sito sacro a Taranis,<br />

il “dio della ruota”, dove oggi si trova la<br />

chiesa di Santo Stefano ad rotam sanguinis nelle<br />

cui fondamenta si conserva un misterioso bassorilievo<br />

illustrante appunto una ruota. ( 20 )<br />

Si ha memoria di un Tempio del Sole, posto ad<br />

est (sull’attuale sito di San Babila, dove si conserva<br />

una scultura raffigurante un leone, simbolo<br />

solare) e anche la persistenza di una immagine<br />

femminile che mostra le pubende (e che ha<br />

dato il nome a Porta Tosa) potrebbe fornire interessanti<br />

legami con il culto di Sheela-na-Gig, divinità<br />

celtica della fecondità ma investita anche<br />

di funzioni apotropaiche. ( 21 )<br />

<strong>La</strong> localizzazione del Duomo è poi un sicuro<br />

esempio della forza di persistenza dei luoghi sacri:<br />

si ha documentazione che sul suo sedime sorgesse<br />

un tempio dedicato a Minerva che era la<br />

romanizzazione di un ben più antico sacrario di<br />

culto della Dea Madre (forse Morgana, o la Vergine<br />

nera che si dice essere ancora presente nei<br />

sotterranei del Duomo) nel quale venivano conservati<br />

gli Immobili, le insegne di guerra della<br />

città. ( 22 )<br />

( 22 ) “E sembra proprio che, dove adesso sorge il Duomo, esistesse<br />

un tempio in cui venivano custodite le loro sacre insegne,<br />

stendardi tessuti in lana e fili d’oro, che non dovevano<br />

essere mossi da lì se non per gravissimi motivi, dato che<br />

proprio da loro emanavano enormi poteri magici. I guerrieri<br />

avevano il dovere di difenderli fino all’ultima goccia di<br />

sangue, senza indietreggiare oltre il punto in cui venivano<br />

piantati”. Michela Zucca, op.cit., pag.14.<br />

18<br />

20 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


È fondamentale osservare<br />

come Milano sia cresciuto senza<br />

soluzioni di continuità passando<br />

attraverso tutte le modificazioni<br />

culturali e sotto tutti i<br />

popoli che l’hanno abitato a dimostrazione<br />

che gli eventi si<br />

erano probabilmente prodotti<br />

senza traumi e che le varie popolazioni<br />

(Garalditani, Liguri,<br />

Insubri e Celti) erano molto simili<br />

fra di loro e si sono amalgamate<br />

con grande facilità instaurando<br />

una tradizione di<br />

ospitalità e di assimilazione che<br />

caratterizza tutta la storia di<br />

Milano. In quest’ottica va letta<br />

anche la vicenda degli Etruschi<br />

che, pur essendo più “diversi” di<br />

tutti gli altri popoli, non hanno<br />

modificato la struttura urbana<br />

che è rimasta rotonda (secondo<br />

l’uso celto-ligure) e non quadrata<br />

o trapezoidale, all’uso etrusco<br />

e mediterraneo.<br />

Ben diverso è stato l’impatto<br />

con l’imperialismo romano.<br />

Dopo le sconfitte celtiche di<br />

Talamone (225 a.C.) e di Acerrae<br />

(probabilmente Pizzighettone,<br />

224 a.C.), i Romani arrivano<br />

per la prima volta a Milano nel<br />

222 a.C.: Gneo Cornelio Scipione<br />

assedia la città ma si trova a<br />

sua volta circondato dai Galli;<br />

viene soccorso da Marco Claudio<br />

Marcello che ha appena<br />

sconfitto il capo insubre Virdomaro<br />

presso Clastidium (Casteggio).<br />

Il combattimento è<br />

lungo e dall’esito incerto ma la<br />

disparità delle forze in campo fa<br />

alla fine prevalere gli invasori;<br />

l’ultima resistenza è quella dei<br />

giovani guerrieri Gesati che si<br />

sacrificano per difendere gli Immobili.<br />

Marcello non smentisce la sua fama di macellaio<br />

massacrando tutti i guerrieri superstiti e gli<br />

abitanti più giovani della città proprio nel punto<br />

dell’ultima resistenza, vicino all’attuale Piazza del<br />

Duomo. ( 23 )<br />

( 23 ) Franco Fava, Storia di Milano, op. cit., pag. 16.<br />

Fig. 4 - Mediolanum al momento dell’occupazione romana<br />

A - Castello Sforzesco<br />

B - Duomo<br />

C - Foro romano<br />

1 - Terrapieno della città celtica<br />

2 - Strada per Golasecca<br />

3 - Strada per Bergamo<br />

4 - Strada per Vercelli<br />

5 - Ipotesi di collocazione del Tempio “delle teste”<br />

6 - Tempio del Sole<br />

7 - Ipotesi di collocazione del simulacro di Sheela-na-Gig<br />

8 - Ipotesi di collocazione del Tempio dedicato a Taranis, o “della<br />

ruota”<br />

9 - Ipotesi di collocazione del grande Menhir<br />

10- Tempio della Terra Madre<br />

11- Approdo (Fontanile)<br />

12- Stagno<br />

13- “Cantarana”<br />

14- Foresta planiziale<br />

15- Primo castrum romano<br />

16- Porta di collegamento fra i due insediamenti (poi Broletto)<br />

17- Via di Porta romana<br />

Roma mostra subito il suo vero volto di potenza<br />

imperialista, liberticida e sanguinaria.<br />

I Romani si insediano appena fuori da Mediolanum,<br />

sull’area dove avevano probabilmente installato<br />

il principale accampamento militare durante<br />

l’assedio, all’imbocco della strada per Vercelli e<br />

Clastidium. Anche qui è utile osservare la carta<br />

altimetrica: si tratta del solo spazio elevato non<br />

compreso entro il perimetro abitato (che gli In-<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 19


Fig. 5 - Rapporto delle cinte murarie con l’attuale struttura ur-<br />

bana<br />

A - Castello Sforzesco<br />

B - Duomo<br />

C - Foro romano (Piazza Santo Sepolcro)<br />

1 - “Mandorla” della città celtica<br />

2 - Primo castrum romano<br />

3 - Mura di Augusto<br />

4 - Mura di Massimiano<br />

5 - Mura medievali<br />

Fig. 6 - Bassorilievo della “Scrofa semilanuta”<br />

Secondo arco del Palazzo della Ragione (Nuovo<br />

Broletto) in Piazza Mercanti<br />

subri probabilmente utilizzavano<br />

come spazio per feste e mercati)<br />

ed è difeso a sud dallo stagno,<br />

a nord da un vasto acquitrino<br />

noto come Cantarana e ad<br />

est dal corso del Nirone che viene<br />

leggermente deviato per costeggiare<br />

e difendere le mura<br />

dell’accampamento. Il castrum<br />

viene costruito secondo i soliti<br />

schemi geometrici romani imperniati<br />

su di un cardum (che è<br />

la continuazione dell’esistente<br />

linea de “l’oriente di primavera”)<br />

e un decumanum ad esso perpendicolare<br />

(parallelo così a<br />

quello antico), al centro si trova<br />

il Foro (sull’attuale area di Piazza<br />

Santo Sepolcro). ( 24 ) Il muro<br />

nord-orientale del castro si installa<br />

sul terrapieno celtico in<br />

corrispondenza di quella che per<br />

secoli sarà chiamata Via Due<br />

Muri. ( 25 ) Il quadrato romano è<br />

di fatto una caserma, un grande corpo di guardia<br />

che incombe sulla città celtica con la sua presenza<br />

oppressiva e repressiva, restando per secoli un<br />

corpo estraneo, una metastasi arrogante e mal<br />

sopportata. (Fig.4) Con la costruzione delle mura<br />

augustee la divisione è ancora netta e la città romana<br />

aumenta la sua intenzione aggressiva inserendosi<br />

con violenza nel tessuto antico: l’occupazione<br />

militare non è infatti mai stata digerita. Nel<br />

218 a.C. la città si è prontamente ribellata cacciando<br />

i Romani e alleandosi con Annibale (sarà<br />

rioccupata solo nel 196 a.C.), rivolte si susseguono<br />

per decenni e la definitva “pacificazione” della<br />

Padania avviene solo nel primo secolo dell’era cristiana.<br />

Il castro resta per tutto questo tempo un<br />

corpo oppressivo incuneato nella città evidentemente<br />

ritenuta ostile. È infatti solo con la costruzione<br />

delle mura di Massimiliano (IV secolo) che<br />

le due città vengono accorpate entro un solo cerchio<br />

difensivo con il nome di Augusta Flavia Mediolanum.<br />

(Fig. 5) L’andamento anomalo delle<br />

nuove mura ingloba due realtà ancora diverse e<br />

forse anche divise come dimostra la persistenza<br />

del toponimo di Via Due Muri e l’abitudine di chiamare<br />

“quartiere romano” l’area del Foro. ( 26 )<br />

<strong>La</strong> vera fusione avviene solo dopo la caduta di<br />

Roma: le mura medievali cancellano ogni differenza<br />

topografica. Il nuovo centro viene posto a<br />

cavallo fra le due città antiche e l’edificio del nuovo<br />

Broletto viene significativamente decorato con<br />

20<br />

22 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Fig. 7 - Schema dello sviluppo<br />

urbano di Milano<br />

1 - Città ligure e proto-celtica<br />

2 - Città celtica<br />

3 - Primo castrum romano<br />

4 - Mura di Augusto<br />

5 - Mura di Massimiano<br />

6 - Mura medievali<br />

A - Castello Sforzesco<br />

B - Duomo<br />

C - Foro romano<br />

D - Nirone<br />

E - “Cantarana”<br />

F - Seveso<br />

G - Stagno<br />

un rilievo della scrofa semilanuta<br />

a memoria (ma anche in segno<br />

di rivincita) della città celtica<br />

finalmente liberata. (Fig. 6)<br />

Anche Sheela-na-Gig torna a<br />

campeggiare in abiti medievali<br />

su una delle porte della città. Un<br />

altro elemento urbanistico di<br />

grande significato è il disfacimento<br />

dello schema geometrico<br />

romano: la cultura medievale,<br />

come quella celtica, odiava i geometrismi<br />

da caserma e la città<br />

riacquista la sua forma a mandorla.<br />

(Fig. 7) Più tardi la rivincita<br />

su Roma sarà sottolineata<br />

dalla ricollocazione della sede<br />

della massima autorità civica<br />

nello stesso punto in cui doveva<br />

risiedere quella antica: Palazzo Marino si trova infatti<br />

all’incrocio fra i due assi antichissimi del Rosa<br />

e del Resegone.<br />

I luoghi conservano le loro valenze positive ma<br />

anche quelle negative: è inquietante osservare a<br />

due millenni di distanza come le due antiche città<br />

contrapposte continuino a trasmettere valori<br />

(ma anche percezioni e sensazioni) diversi pur all’interno<br />

di una struttura urbana completamente<br />

mutata e stravolta. Sul sedime della antica città<br />

celtica si sono conservati i centri civile e religioso<br />

della città (il Municipio, il Duomo, il Vescovado,<br />

( 24 ) Il cardo romano collegava la scomparsa Via Due Muri (dove<br />

c’era la porta che divideva le due città) con le vie Ratti, Zecca<br />

Vecchia, Nerino e Arena. Il decumano seguiva il tracciato delle<br />

vie Lupetta, Valpetrosa, Bollo e Santa Maria Fulcorina.<br />

Sul prolungamento del decumano era stata tracciata la via<br />

porticata che, fuori di Porta Romana, proseguiva nella Via<br />

il Palazzo Reale) e il cuore pulsante della più vitale<br />

quotidianità (Piazza Duomo, la Galleria, la Scala,<br />

Corso Vittorio Emanuele eccetera). Sul sito dell’antico<br />

castrum continuano invece ad arroccarsi<br />

i segni dell’oppressione romana, nel frattempo diventata<br />

oppressione e inefficenza italiana: le sgangherate<br />

stanzone delle Poste centrali, le fattezze<br />

littorie della Banca d’Italia e della Borsa, ma anche<br />

la caserma dei Carabinieri e il Commissariato<br />

di Polizia, sintomaticamente alloggiati nel palazzo<br />

dove furono fondati i Fasci di Combattimento,<br />

necrofilo rigurgito di romanità e di italianità.<br />

Emilia e costituiva la principale strada di collegamento della<br />

città con il sud. Per la realizzazione di questo collegamento<br />

e della relativa porta di accesso alla città, furono eseguiti grandiosi<br />

lavori di bonifica e di deforestazione.<br />

( 25 ) Alessandro Colombo, Milano romana, op. cit., pag. 29.<br />

( 26 ) Ibidem, pagg. 36 ÷ 69.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 21


<strong>La</strong> Padania e i nuovi Paesi dell’Est:<br />

il caso dei rapporti con la Croazia<br />

L a<br />

cancellazione avvenuta a Roma dei referendum<br />

consultivi proposti dalle Regioni,<br />

che implicavano anche un autentico rivol-<br />

gimento in tema di relazioni internazionali indipendenti<br />

delle Regioni stesse, è un fatto di una<br />

gravità inaudita (anche se non è stato percepito<br />

come tale dagli osservatori e dalla stampa)<br />

se si considerano da un lato l’emergenza contemporanea<br />

delle “economie regionali” ( 1 ) che<br />

tendono a superare lo Stato nazionale e a renderlo<br />

obsoleto e dall’altro se si confronta questa<br />

azione di forza con il comportamento pluridecennale<br />

dello Stato centralizzato italiano in<br />

tema di interferenza nei e di paralisi dei rapporti<br />

transfrontalieri. <strong>La</strong> logica centralista è riemersa<br />

pienamente, come evidente, estrema autodifesa<br />

di un’entità agonizzante (lo Stato nazionale),<br />

anche nella recente visita a Zagabria<br />

del Presidente della Repubblica.<br />

Croazia e Padania: due comunità emergenti<br />

in Europa.<br />

Con la fine della “guerra fredda” sono emerse<br />

dal congelamento del mondo “bipolare”, che<br />

oscurava la vera fisionomia delle convivenze in<br />

Europa, anche antiche o nuove comunità, tenute<br />

insieme da legami culturali ed economici.<br />

Nel giro di pochi anni si è visto che si trattava<br />

di comunità e di convivenze stabilite saldamente<br />

sul territorio e destinate ad emergere nel cam-<br />

( 1 ) Kenichi Ohmae <strong>La</strong> fine dello Stato-nazione. L’emergere<br />

delle economie regionali. Milano, Baldini & Castoldi 1996.<br />

( 2 ) Le ricerche della Fondazione Agnelli del 1992, dal titolo<br />

Padania, una regione italiana in Europa, avevano descritto<br />

le possibilità per la Padania di spostare il baricentro dell’Europa<br />

verso Sud, oggi ampiamente squilibrato a favore delle<br />

regioni settentrionali del Continente.<br />

( 3 ) Le vaste potenzialità economiche della Padania sono penalizzate<br />

dall’andamento dell’economia nazionale italiana:<br />

Roma non rispetta alcuno dei parametri stabiliti a Maastri-<br />

di Alessandro Vitale<br />

po della nuova competizione economica fra città,<br />

territori e regioni, apertasi con la fine degli<br />

anni ’80. Per queste comunità, con salde radici<br />

storiche e culturali, gli stretti legami e i vincoli<br />

creati dagli Stati nei quali erano o sono ancora<br />

inserite, si sono dimostrati sempre più soffocanti.<br />

Sia la Croazia che la Padania, sebbene con caratteristiche<br />

molto diverse fra loro, sono state<br />

mosse dalla preoccupazione di rimanere saldamente<br />

ancorate, come consentono le loro possibilità,<br />

ad un’Europa che diventa sempre più<br />

“nordica” ( 2 ).<br />

Le somiglianze fra la situazione nella quale si<br />

trova oggi la Padania e quella nella quale si trovava<br />

prima dell’Indipendenza la Croazia, non<br />

sono poche. Come accadeva per la Croazia, i<br />

meccanismi statali creano vincoli molto forti<br />

per un’area economicamente e storicamente<br />

omogenea come la Padania, determinati dallo<br />

spreco di risorse, dalla “redistribuzione discriminatoria”<br />

che funziona soprattutto a favore di<br />

altre parti del territorio dello Stato o di una burocrazia<br />

cresciuta a dismisura, nonché dalla<br />

mancanza di autogoverno che permetta il consolidamento<br />

del livello di reddito e del benessere<br />

raggiunto dalla sua popolazione di 25 milioni<br />

e mezzo di abitanti ( 3 ).<br />

<strong>La</strong> Padania è stata storicamente una delle regioni<br />

più forti d’Europa dal punto di vista eco-<br />

cht per far parte dell’Unione Europea (cambio stabile, tassi<br />

d’interesse, debito pubblico, deficit pubblico, inflazione).<br />

L’esclusione dell’Italia dall’Europa rischia di generare un’altissima<br />

tensione politico-territoriale fra Padania e resto d’Italia.<br />

<strong>La</strong> Lombardia infatti ha un bilancio pubblico in attivo:<br />

1,9% del Pil e un rapporto debito-Pil di molto inferiore al<br />

60%, richiesto da Maastricht: 51,1% secondo le statistiche<br />

ufficiali (Istat). <strong>La</strong> Lombardia, l’Emilia Romagna e la Val d’Aosta<br />

hanno un Pil superiore al 125%, posto =100% l’Europa.<br />

Il Nord-Est ne ha uno ancora superiore.<br />

22<br />

24 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


nomico. Cinquecento anni fa i mercanti di Venezia<br />

percorrevano il mondo e i banchieri milanesi<br />

e genovesi finanziavano le guerre del Re<br />

di Spagna. <strong>La</strong> Padania, area di sviluppo economico<br />

omogeneo, possiede ancora oggi un ruolo<br />

potenzialmente centrale in Europa, grazie<br />

alla sua favorevole posizione, alla sua realtà fisica<br />

e culturale, al suo dinamismo economico e<br />

imprenditoriale. Gli economisti la considerano<br />

come un “sistema territoriale ed economico<br />

completo”, molto simile ad altre regioni europee<br />

ad alto tasso di sviluppo economico: come<br />

quella Reno-Ruhr e il Randstad-Holland (con<br />

le quattro citta di Amsterdam, Rotterdam, L’Aia.,<br />

Utrecht, fortemente collegate e integrate fra<br />

loro). Nell’area padana si ha una profonda interdipendenza<br />

economica fra regioni, un legame<br />

molto stretto fra centri urbani e centri produttivi,<br />

un sistema economico unico ed un’unica<br />

cultura dello sviluppo.<br />

Ma quel che più conta è che i soggetti economici<br />

padani sono fortemente orientati all’apertura<br />

e alla cooperazione con altre regioni e la<br />

forte integrazione economica della Padania<br />

coincide con la necessità di una sua massima<br />

apertura verso l’esterno, superando le barriere<br />

imposte dallo Stato nazionale italiano ( 4 ).<br />

Soprattutto le regioni del Nord-Est della Padania<br />

(Friuli, Veneto), ma occorre parlare di tutto<br />

l’asse lombardo-veneto (soprattutto l’asse Milano-Padova),<br />

che traina lo sviluppo padano,<br />

hanno raggiunto livelli e potenzialità economiche<br />

di carattere “giapponese”, con una crescita<br />

costante e ritmi lavorativi molto al di sopra non<br />

solo di quelli tedeschi, ma anche della media<br />

europea. <strong>La</strong> Padania è oggi un sistema integrato<br />

altamente competitivo in Europa. Le province<br />

venete (Treviso, Vicenza, Padova, Verona) e del<br />

Friuli (Pordenone e Gorizia) sono centri di sviluppo<br />

crescente e di internazionalizzazione dell’economia<br />

padana e convergono sempre più<br />

verso la struttura lombarda, creando un “sistema<br />

economico-territoriale” fortemente integrato,<br />

che nega l’invenzione del Nord-Est come<br />

entità autonoma.<br />

<strong>La</strong> Padania, con al suo centro Milano, si trova<br />

geograficamente all’incrocio dei due maggiori<br />

assi di sviluppo europeo: quello longitudinale<br />

( 4 ) Sono recentissime, per il caso della integrazione fra Padania<br />

e Croazia, le aperture di nuovi canali di comunicazione e di collaborazione<br />

fra piccole e medie imprese dell’Isontino e imprese<br />

private slovene e croate. <strong>La</strong> cooperazione transfrontaliera attualmente<br />

serve a ridurre in prospettiva i costi dell’industria ad<br />

dello sviluppo Nord-Sud, che attraversa il cuore<br />

dell’Europa, e il nuovo asse di sviluppo Est-<br />

Ovest, che congiunge dopo il 1989 il dinamismo<br />

spagnolo con le regioni ad alto tasso di sviluppo<br />

dell’Est europeo, soprattutto quelle derivanti<br />

(come la Croazia) dalla formazione di nuovi<br />

Stati indipendenti ( 5 ). Questa situazione fa sì<br />

che la Padania diventi un elemento di riequilibrio<br />

in Europa e impedisca che lo spostamento<br />

verso il Nord crei differenziali di sviluppo fra<br />

l’Europa settentrionale e quella meridionale. <strong>La</strong><br />

Padania ha oggi un importante ruolo europeo,<br />

riconosciuto dalla Francia Meridionale e dalla<br />

Spagna in rapida crescita, mentre si pone come<br />

punto di riferimento per Repubbliche quali la<br />

Croazia e la Slovenia, l’area dell’Europa Centrale<br />

e Orientale. D’altra parte, la Padania stessa<br />

sta ottenendo notevoli vantaggi dalla rapida<br />

apertura verso l’esterno dei nuovi Paesi dell’Est<br />

europeo. <strong>La</strong> regione del Friuli e la zona di Trieste,<br />

che sono la porta orientale della Padania<br />

verso l’Europa Orientale, si aprono sempre più<br />

verso Oriente e permettono un collegamento<br />

crescente della Padania con questa parte d’Europa,<br />

la moltiplicazione delle reti di scambio e<br />

il loro rafforzamento. Le regioni Nord-orientali<br />

hanno ormai superato le difficoltà degli anni<br />

Settanta e hanno acquisito una sempre maggiore<br />

competitività internazionale. Una crescente<br />

espansione delle esportazioni e l’ampliamento<br />

delle relazioni commerciali con l’estero e in particolare<br />

con l’area danubiana, sta trasformando<br />

la Padania in una regione centrale d’Europa.<br />

Se però la Padania è oggi una grande regione<br />

con un’industrializzazione fra le più elevate<br />

d’Europa, è anche penalizzata da strutture organizzative<br />

deboli, da infrastrutture carenti, da<br />

una struttura politica diretta da lontano, incontrollabile.<br />

Perché possano svilupparsi le potenzialità<br />

della regione padana, oggi sono necessari<br />

una migliore organizzazione interna, una<br />

politica più centrata sull’autogoverno dell’economia,<br />

un serio progetto di risanamento ambientale,<br />

un livello più alto degli scambi internazionali,<br />

una maggiore apertura delle frontiere,<br />

un aumento dei traffici con le regioni confinanti,<br />

un’apertura soprattutto ad Est (cosa che<br />

la Germania ha compreso da molto tempo per<br />

esempio mobiliera. I progetti transfrontalieri prevedono anche<br />

da parte croata assistenza tecnica, formazione manageriale e di<br />

quadri intermedi, supporti alla struttura produttiva e logistica.<br />

( 5 ) Si veda Fondazione Agnelli (Ed) <strong>La</strong> Padania, una regione<br />

italiana in Europa. Torino 1992.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 23


sè stessa), per la collaborazione con i Paesi che<br />

hanno maggiori prospettive di sviluppo.<br />

Questa regione è sempre più insofferente rispetto<br />

ai vincoli che crea lo Stato nazionale, agli<br />

ostacoli allo sviluppo economico, al peso di una<br />

burocrazia che è cresciuta senza limiti, ai freni<br />

di carattere politico al suo libero sviluppo. Una<br />

sua apertura sempre maggiore verso l’esterno<br />

e l’adozione di poltiche di libero scambio, alle<br />

quali deve corrispondere necessariamente<br />

un’autonoma politica estera, sono l’unica via per<br />

permetterle di seguire la sua strada.<br />

Anche la Croazia possiede oggi straordinarie<br />

prospettive di sviluppo. Dopo la rottura dei pesanti<br />

vincoli che comprimevano il suo sviluppo<br />

nello Stato jugoslavo, è fra i primi dieci Paesi<br />

dell’Europa Orientale per prospettive di crescita<br />

economica (i primi sette escono da processi<br />

di secessione: un fatto che dimostra in modo<br />

lampante la stretta correlazione fra secessione,<br />

indipendenza, autogoverno, riduzione delle dimensioni<br />

territoriali e sviluppo economico, all’opposto<br />

di quanto sostengono i nazionalisti<br />

italiani) e di sviluppo sociale, se si analizzano<br />

alcuni fattori quali la stabilità politica, lo sviluppo,<br />

le infrastrutture, il livello del sistema<br />

educativo, il grado di apertura economica ( 6 ).<br />

Di fronte alla Croazia c’è oggi da una parte la<br />

possibilità di agganciarsi all’area germanica e<br />

alle sue grandi prospettive di sviluppo e dall’altra<br />

di fare riferimento all’area della Padania.<br />

L’economia della Croazia presenta una forte<br />

complementarietà con l’economia padana. Già<br />

con l’iniziativa dell’Alpe Adria si era visto come<br />

la cooperazione nell’area alpina padana potesse<br />

dare buoni frutti, per i problemi simili da risolvere<br />

con la collaborazione inter-regionale.<br />

Anche la Croazia, come la Padania, ha del resto<br />

un’estrema necessità di aprirsi verso l’esterno.<br />

Con la riduzione delle sue dimensioni, dopo<br />

il distacco dalla Jugoslavia infatti, i costi di un<br />

sistema economico autarchico e protezionista<br />

aumenterebbero a dismisura. Alla Croazia occorrono<br />

una massima apertura dell’economia,<br />

la conquista di mercati esterni, l’integrazione<br />

economica con i maggiori poli europei di sviluppo<br />

che le sono vicini. Per ottenere tutto questo<br />

occorre però una politica integrale di libero<br />

( 6 ) “Economist” (March 25-31, 1995). Si veda anche World<br />

Bank Global Economic Prospects and the Developing Countries<br />

1995.<br />

( 7 ) Jovic J. Radanie hrvatske. Matica Hrvatska. Split1992.<br />

( 8 ) Come ha dimostrato Pascal Salin nello studio <strong>La</strong> libera<br />

scambio, proprio quella che ha dato straordinari<br />

risultati a Paesi di piccole dimensioni come<br />

la Svizzera, il Liechtenstein, il Lussemburgo e<br />

via dicendo. Il mercato interno di ridotte dimensioni<br />

infatti ha un estremo bisogno di aprirsi<br />

verso l’esterno. Le forme più produttive sono<br />

oggi le intese economiche per vaste aree. In<br />

questo modo lo sviluppo potrebbe essere forte<br />

e verrebbero attirati dall’Occidente molti capitali<br />

e capacità dalle aree vicine più sviluppate.<br />

Grazie alla sua favorevole posizione geografica,<br />

ai settori relativamente competitivi, alla moderna<br />

tecnologia e a tutti i vantaggi economici<br />

oggi non ancora pienamente utilizzati, la Croazia<br />

può essere un polo di sviluppo molto importante<br />

in Europa, a cavallo fra l’area germanica<br />

e la regione in rapida crescita (ma fortemente<br />

ostacolata) della Padania.<br />

Le relazioni necessarie fra Croazia e Padania<br />

<strong>La</strong> Padania è sempre più interessata e tende<br />

ad un’apertura verso Est. Come accadeva alla<br />

Croazia prima del 1991, quando c’era un forte<br />

rifiuto per la redistribuzione discriminatoria<br />

all’interno dell’ex Jugoslavia e per i forti limiti<br />

allo sviluppo e all’utilizzazione delle risorse<br />

imposti dal governo centrale ( 7 ) dominato dai<br />

serbi, la Padania cerca di aprirsi ai mercati e<br />

alla collaborazione con regioni dell’Est europeo,<br />

sentendo come limiti sia quelli imposti dal<br />

governo nazionale (già fortissimi nella prima<br />

fase dell’Alpe Adria), che quelli dell’Unione Europea,<br />

fino ad oggi protezionista e ancora chiusa<br />

nei confronti dell’Est europeo ( 8 ).<br />

<strong>La</strong> vicinanza geografica della Padania a sistemi<br />

produttivi nuovi come quello croato porta a<br />

creare condizioni favorevoli per la mobilità delle<br />

persone e delle merci, superando il protezionismo<br />

dell’UE e la sua tardiva logica dell’“allargamento”<br />

ad Est, cercando invece una<br />

collaborazione multilaterale, la più aperta possibile,<br />

soprattutto nell’area alpina orientale.<br />

Già l’esperienza di Alpe Adria ha dimostrato<br />

che è possibile una integrazione regionale fra<br />

Padania alpina e aree come quella croata, tralasciando<br />

il sistema globale e superando la logica<br />

degli Stati nazionali, senza per questo peraltro<br />

innescare meccanismi distruttivi. Quella espe-<br />

impresa non ha frontiere apparso su “Ideazione” (gennaiofebbraio<br />

1997), la giustificazione che viene data al protezionismo<br />

europeo con l’argomento della difesa nei confronti<br />

della “concorrenza” della manodopera dell’Est è totalmente<br />

falsa.<br />

24<br />

26 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


ienza, nata nel lontano 1978, ha dimostrato che<br />

è possibile soddisfare con l’integrazione regionale<br />

la domanda di accrescimento del proprio<br />

peso locale mediante la collaborazione e la cooperazione.<br />

L’integrazione regionale può essere<br />

prodotta da economie di mercato funzionanti<br />

e da libere decisioni politiche internazionali che<br />

non interagiscono troppo nel libero sviluppo<br />

dell’economia.<br />

Anche fra Croazia e Padania vanno pertanto<br />

costruiti legami razionali, oggi possibili, grazie<br />

alla maggiore elasticità del sistema internazionale.<br />

Con la trasformazione derivata dalla fine<br />

della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti,<br />

è possibile una ristrutturazione e un’integrazione<br />

dei sistemi economici regionali ( 9 ).<br />

Occorrerebbe innanzitutto sviluppare il sistema<br />

stradale e ferroviario che collega la Croazia<br />

con la Padania, passando attraverso la Slovenia.<br />

Poi vanno potenziati lo scambio di informazioni<br />

e di esperienze, di intuizioni e di soluzioni<br />

reciprocamente vantaggiose fra le due regioni,<br />

così come la collaborazione che riconosca<br />

le caratteristiche culturali comuni, i problemi<br />

comuni di una grande regione come quella<br />

racchiusa in Alpe Adria, che è stata però fino<br />

ad oggi solo un forum di discussione e non un<br />

organismo operativo, fortemente osteggiato dai<br />

governi centrali nazionali.<br />

Rapporti concreti fra Croazia e Padania vanno<br />

creati, con vantaggio reciproco, superando<br />

il processo formale inter-governativo (fra Stati<br />

nazionali), dal quale la Croazia potrebbe essere<br />

attratta dopo aver raggiunto lo status di Stato<br />

sovrano. Altri soggetti infatti vanno affermandosi<br />

oggi sulla scena europea e non coincidono<br />

necessariamente con gli Stati nazionali. Occorre<br />

perciò oggi superare la tentazione di cooperare<br />

solo con gli Stati in via inter-governativa,<br />

adottando una strategia transnazionale corrispondente<br />

ai veri problemi di sviluppo delle regioni<br />

economiche integrate emergenti. Occorre<br />

individuare l’interdipendenza economica reale<br />

e l’integrazione spontanea, che va rafforzata<br />

con intensi scambi locali. È possibile disegnare<br />

un sistema di determinazione di scelte<br />

economiche comuni, più efficienti e funzionali<br />

alla situazione odierna. Vi è la necessità di riconoscere<br />

gli interessi complementari e conver-<br />

( 9 ) Nagel J., Olzak S. Ethnic Mobilization in new and old States:<br />

an extension of the competition model. In: “Social Problems”<br />

XXX 2 (1982) 127-143.<br />

genti presenti nell’area croato-padana, per sfruttare<br />

appieno le risorse presenti in questo ambito.<br />

Occorre dunque entrare in contatto con altri<br />

soggetti, diversi dagli Stati, facilitandone la<br />

possibilità di agire indipendentemente dai governi<br />

nazionali, di giungere ad accordi regionali<br />

bilaterali, non ragionando più in termini<br />

esclusivi di Stati nazionali e permettendo alla<br />

Padania di superare gradatamente il divieto di<br />

accordi, costituzionalmente previsto, con altre<br />

regioni ad interessi convergenti. Questo sarebbe<br />

inoltre un fattore di sicurezza, poiché faciliterebbe<br />

il dialogo (tendenzialmente su tutti i<br />

temi), che porterebbe alla pace: mediante scambi<br />

economici, accordi a vasto raggio oggi ancora<br />

ostacolati dal centralismo, che storicamente<br />

è solo fonte di guerre e di contrasti (basterebbe<br />

pensare ai contenziosi ancora aperti fra Croazia<br />

e Italia).<br />

<strong>La</strong> collaborazione necessaria fra Croazia e Padania<br />

può essere pensata dunque anche come<br />

primo passo verso la creazione di una grande<br />

regione europea, inaugurata dall’esperienza di<br />

Alpe Adria. Vanno dunque pensati sistemi di cooperazione<br />

a tutti i livelli, che devono comprendere<br />

anche il sistema della sicurezza regionale.<br />

Padania e Croazia: una nuova “Alpe Adria”<br />

adatta ai tempi.<br />

Il potenziamento dei contatti diretti fra Croazia<br />

e Padania può contribuire a eliminare non<br />

solo le barriere allo sviluppo rappresentate dai<br />

confini degli Stati nazionali, ma anche i problemi<br />

per la sicurezza regionale. Integrazione<br />

economica e convivenza pacifica possono infatti<br />

saldarsi. Gli ostacoli creati invece dalla politica<br />

nazionale hanno un impatto negativo non solo<br />

sulla circolazione dei beni e delle persone, sulle<br />

sinergie economiche (cosa che provoca alti<br />

costi per lo sviluppo) ( 10 ) ma anche sullo scambio<br />

di informazioni, sulla cooperazione nella soluzione<br />

di problemi regionali e quindi sulla sicurezza.<br />

Se invece si ha un processo di arricchimento<br />

reciproco a tutti i livelli, la sicurezza<br />

può essere vista come confronto e scambio con<br />

l’ambiente circostante. Integrazione fra sistemi<br />

economici regionali e sicurezza sono infatti<br />

complementari.<br />

<strong>La</strong> Croazia può tendere alla stabilità e alla si-<br />

( 10 ) Nijkamp P. Preface to Ratti R., Reichman S. (Ed) Theory<br />

and Practice of Transborder Cooperation Basel, Frankfurt a.<br />

M. 1993<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 25


curezza sia interna che della regione europea<br />

nella quale è collocata. Una forte tradizione di<br />

autonomia statuale è rimasta nella memoria<br />

collettiva croata dalle esperienze del periodo<br />

compreso fra il IX e l’XI secolo. Il forte sentimento<br />

della statualità croata e dell’indipendenza,<br />

dell’istinto all’autodeterminazione ( 11 ) può<br />

dare un contributo alla creazione di un’area regionale<br />

europea di sviluppo e di sicurezza nella<br />

quale Padania e Croazia svolgano un ruolo centrale<br />

grazie alla loro collaborazione e livello di<br />

sviluppo.<br />

<strong>La</strong> sicurezza può essere favorita dal rifiuto di<br />

una estrema nazionalizzazione dei problemi.<br />

Anche i problemi della sicurezza possono essere<br />

visti nei termini di regioni complementari.<br />

Sono infatti gli Stati nazionali una minaccia alla<br />

sicurezza e alla pace in Europa: le rivendicazioni<br />

nazionalistiche (che proliferano anche in Italia<br />

proprio nei confronti della Croazia) e le aspirazioni<br />

delle forze nazionalistiche sono qualcosa<br />

di totalmente diverso rispetto ai problemi<br />

di sviluppo della Padania e alle sue esigenze di<br />

apertura e di collaborazione verso e con l’Est<br />

europeo.<br />

Croazia e Padania possono costituire un polo<br />

economico-culturale molto forte in Europa. Oc-<br />

( 11 ) Sudland L.V. Jugoslavensko pitanje Hrvatska Demokratska<br />

Stranka. Varazdin 1990.<br />

corre però pensare in termini di grandi regioni<br />

economiche e non vedere più soltanto l’apparenza<br />

esteriore degli Stati nazionali, che hanno<br />

sempre ostacolato le iniziative indipendenti,<br />

politiche ed economiche, delle regioni ad interessi<br />

convergenti, poste a cavallo dei confini<br />

degli Stati nazionali. Il superamento necessario<br />

della logica dei rapporti esclusivi fra governi<br />

nazionali (che comporta ostacoli sia economici<br />

che pericolose influenze nazionalistiche<br />

sulla sicurezza) era un’esigenza che era già stata<br />

espressa da molto tempo dall’esperienza dell’iniziativa<br />

Alpe Adria, osteggiata dai governi di<br />

Roma e di Vienna, ma che tanto ha fatto ed ha<br />

significato per una regione come quella croata,<br />

che era ancora sottoposta al regime coloniale<br />

“jugoslavo”. <strong>La</strong> continuazione di quelle forme<br />

oggi è indispensabile per la Padania, sottoposta<br />

a legislazioni nazionalistiche fortemente penalizzanti<br />

(come un tempo lo erano la Croazia e<br />

altri Paesi dell’Est oggi indipendenti) in vista<br />

di una sua politica estera ed economica libera e<br />

rispondente pienamente alle esigenze delle sue<br />

popolazioni. L’esperienza Alpe Adria si è però<br />

arenata oggi sugli scogli delle politiche nazionali<br />

e può essere rivitalizzata in forme nuove,<br />

indifferenti alle pretese dirigiste dei governi<br />

romani o di altre capitali centralizzatrici, che<br />

non rispondono minimamente alla volontà e ai<br />

bisogni delle popolazioni di sudditi che essi<br />

governano con metodi ormai anacronistici.<br />

26<br />

28 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Le radici della cultura letteraria padana<br />

P<br />

arlare di lettere per un processo che è di<br />

natura eminentemente politica può sembrare<br />

uno sforzo un po’ ozioso e retorico.<br />

Eppure, a nostro giudizio, finché non si prende<br />

in considerazione il problema dell’identità letteraria<br />

della Padania non si arriva finalmente a<br />

dimostrare la legittimità culturale della voglia<br />

di autonomia della nostra terra.<br />

Si è sempre parlato di “letteratura italiana” e<br />

la vasta congerie di opere di varia origine geografica<br />

che passa sotto questo titolo è diventata<br />

motivo di vanto per i cittadini appartenenti allo<br />

stato italiano; l’Italia è conosciuta nel mondo<br />

anche per la grandezza di un Dante o di un Manzoni.<br />

Ma - chiediamoci - è mai esistita una vera e<br />

propria letteratura italiana? E qual è il rapporto<br />

di idee e forze tra essa e una non ancora ben<br />

identificata letteratura padana?<br />

Va chiarito preliminarmente che chi scrive,<br />

docente di Lettere alle Superiori, si è formato<br />

in un clima culturale che lo ha indotto a convincersi<br />

della accezione vastissima del termine<br />

“letteratura”. A questa impostazione si è poi attenuto<br />

nel suo insegnamento, cercando di dimostrare<br />

ai suoi allievi che la cultura letteraria<br />

non è costituita solo dalla produzione dei grandi<br />

poeti e romanzieri ma anche dalla letteratura<br />

popolare, dalle opere di saggistica (che ancora<br />

stampa e scuola di regime considerano inferiori<br />

alla fiction), dal giornalismo extraquotidiano,<br />

dalla letteratura filosofica e dalla stessa<br />

ricerca scientifica, la quale, volente o nolente,<br />

deve passare attraverso l’espressione letteraria<br />

per venire seguita e accettata (e quindi adottare<br />

anch’essa al meglio il codice linguistico riconosciuto<br />

dalle varie comunità nazionali o regionali<br />

alle quali appartengono studiosi e scienziati<br />

stessi).<br />

<strong>La</strong> cultura letteraria, vista sotto questa prospettiva,<br />

rappresenta la maggiore espressione<br />

dell’identità di un popolo, la conferma definitiva<br />

della sua esistenza autonoma e della sua continua<br />

vitalità.<br />

L’identikit di una cultura letteraria non può<br />

di Andrea Rognoni<br />

ovviamente prescindere da una chiara classificazione<br />

del codice linguistico col quale è stata<br />

prodotta e coltivata, in riferimento sia al cosiddetto<br />

“idioletto” (parte del codice che dipende<br />

dalle caratteristiche etniche e geografiche) che<br />

al cosiddetto “socioletto” (parte del codice che<br />

dipende dai requisiti di ordine economico-sociale<br />

e sociopolitico): ciònondimeno, il sistema<br />

letterario di un popolo finisce coll’acquisire caratteri<br />

autonomi rispetto agli altri impieghi della<br />

lingua, in funzione prevalentemente<br />

espressionistica, diventando cioè l’espressione<br />

più profonda del modo di pensare, vedere il<br />

mondo (Weltanschaung) e comunicare, col risultato<br />

quindi di costituire un potente mezzo<br />

per cementare l’idem sentire di un popolo, idealizzare<br />

i suoi stessi sentimenti, celebrare in<br />

qualche modo la sua esistenza istituzionale, pur<br />

tenendo conto della pluralità delle sue componenti.<br />

Se quest’ultimo fenomeno non si è verificato<br />

in forma esplicita per il popolo padano ciò è dovuto<br />

unicamente ad una serie di circostanze politiche<br />

e culturali che hanno impedito la sua<br />

emersione o la sua legittimazione. Il paradosso<br />

della storia “italiana” è dato dal fatto che non è<br />

avvenuto un passaggio graduale dalla galassia<br />

dei microstaterelli prerisorgimentali all’istituzione<br />

statuale del regno; se tutto fosse stato più<br />

lento e meditato, si sarebbe scoperto con più<br />

chiarezza il diverso approccio alla cultura tra<br />

l’entità geografica padana e quella italica, a partire<br />

da un sentimento della lingua e della letteratura<br />

italiana che era sì fiorito già in epoca<br />

rinascimentale ed illuministica ma aveva ricevuto<br />

un’interpretazione assai differente a seconda<br />

dell’origine geografica ed etnica degli autori<br />

e degli studiosi interessati al problema.<br />

Quando poi è stata inaugurata la macchina<br />

burocratica dello stato sabaudo il potere è stato<br />

assunto da noti “plantigradi” che hanno avuto<br />

tutto l’interesse di dare un tono nettamente coercitivo<br />

al processo unitario della cultura cosiddetta<br />

italiana. Fu avviato precipitosamente<br />

da una parte l’iter romanocentrico, che non a<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 27


caso ha vissuto la tappa di Firenze capitale per<br />

legittimare un assai discutibile parto tosco-latino<br />

di tutte le parlate esistenti tra Alpi e Sicilia<br />

e, procedendo dall’altra, attraverso nuove scuole<br />

statali e critici di regime, ad una revisione della<br />

letteraturta italiana precedente come inesorabile<br />

cammino preparatorio della definitiva unità.<br />

Il processo ha poi trovato il suo culmine nella<br />

critica desanctisiana-crociana tra fine secolo<br />

scorso e inizio attuale (ho volutamente usato il<br />

passato prossimo padano per evitare il passato<br />

remoto tipico del codice linguistico-letterario<br />

di marca toscoitalica).<br />

Va quindi seguita, ora, alle soglie del Duemila,<br />

dopo un secolo e mezzo di equivoci, una strada<br />

di ricerca che non sia più la conseguenza di<br />

un cammino forzato, predeterminato da chi voleva<br />

e vuole perpetrare la logica di un “grande<br />

stato moderno” dotato di cultura omogenea e<br />

preconfezionata.<br />

<strong>La</strong> nuova strada porta necessariamente, prima<br />

di tutto, a riscoprire le radici padane della<br />

letteratura italiana medievale (glissate anche nel<br />

recente passato a favore di quelle siciliane o<br />

osche, oppure valutate solo come laboratorio<br />

“di servizio” per la formazione della grande letteratura<br />

toscana del Trecento), radici che vanno<br />

valutate finalmente come fascio di valenze<br />

autonome e già consapevoli della propria dignità<br />

letteraria e soprattutto fonte di una cultura letteraria<br />

definibile a tutto tondo padana prima ancora<br />

che italiana.<br />

Mi riferisco in special modo alla cosiddetta<br />

“letteratura didattica padana” del Duecento, che<br />

fiorì sulla base di un volgare veneto-lombardo<br />

di notevole evoluzione e autonomia linguistica<br />

e vide i suoi massimi protagonisti nel milanese<br />

Bonvesin de la Riva e nel veronese Giacomino.<br />

Non si può non vedere dietro il genio di questi<br />

primi “cantori” della patria padana il grande<br />

livello di civiltà raggiunto dalla società comunale<br />

in Padania, nel momento in cui altre parti<br />

d’Italia ed Europa erano ancora ingolfate nel più<br />

chiuso feudalismo. Un ruolo importante per la<br />

formazione di questa letteratura fu giocato anche<br />

dalla “Pataria”, movimento religioso che si<br />

proponeva di far pulizia all’interno della Chiesa.<br />

Ecco quindi subito delinearsi, seppur in forma<br />

embrionale, i tratti distintivi della letteratura<br />

padana rispetto a quella toscana ed italica:<br />

coscienza del ruolo giocato dal lavoro e dall’economia<br />

(basta leggere le pagine di Bonvesin sulla<br />

città di Milano!) e forte spirito educativo fondato<br />

sul recupero di alcuni valori morali e au-<br />

tenticamente religiosi (qui fa davvero da maestro<br />

Giacomino colla sua Sarabanda Infernale,<br />

tutta tesa a dimostrare le radici diaboliche del<br />

comportamento disonesto di certi politici ed<br />

ecclesiastici).<br />

Parallelamente a questo tipo di letteratura,<br />

in Padania fiorisce nei primi secoli del secondo<br />

millennio un tipo di cultura poetica che si rifà<br />

in maniera diretta alla lingua e alla letteratura<br />

franco-provenzale, a conferma di un sentimento<br />

di sostanziale fratellanza tra le due regioninazioni<br />

corrispondenti nell’antichità alle due<br />

Gallie, la Gallia transalpina e la Gallia cisalpina.<br />

Innanzitutto la vicinanza linguistica dei dialetti<br />

padani e della lingua d’oc permette una<br />

sorta di magnifica fusione, che si diffonde soprattutto<br />

presso le classi colte e dotte; il toscano<br />

fatica ancora ad imporsi e l’italico viene sentito<br />

come un idioma assai lontano e diverso,<br />

oltretutto poco adatto all’espressione artistica.<br />

Secondariamente i maggiori poeti padani trovano<br />

in questo mixage la giusta materia prima<br />

per comporre delle liriche a sfondo sentimentale<br />

o psicologico. Si pensi soprattutto a Rambaldo<br />

di Vaqueiras, fondatore della scuola di Genova<br />

e autore di un bellissimo dialogo poetico<br />

tra una donna genovese e un corteggiatore provenzale,<br />

al discepolo genovese <strong>La</strong>nfranco Cigala,<br />

al bolognese Rambertino Buvalelli, al mantovano<br />

Sordello da Goito, autore del “sirventese<br />

lombardesco” in un piacevolissimo linguaggio<br />

lombardo-veneto infarcito di provenzalismi<br />

ed infine ai cosiddetti poemi franco-veneti di<br />

autori trevigiani, padovani e veronesi. Si tratta<br />

nel complesso di una mole considerevole di<br />

opere che solitamente i libri di testo della scuola<br />

italiana trattano con aria estramente superficiale,<br />

considerandoli in un certo senso indegni<br />

di comparire a fianco delle opere in lingua<br />

italiana; di qualche autore si riconosce bravura<br />

e originalità, ma non c’è nessuno sforzo per<br />

comprendere la lingua padana e i suoi moduli<br />

espressivi; al limite si tende a dar eccessiva importanza<br />

al modello provenzale finendo implicitamente<br />

con l’accusare i primi letterati padani<br />

di essere dei - pur alacri e vivaci - “emeriti<br />

copioni”.<br />

Nei confronti poi della letteratura toscana del<br />

Duecento-Trecento, studiosi, critici e curatori<br />

di antologie sembrano più sottolineare in essa<br />

le radici “indiscusse” di lingua e letteratura italiana<br />

che i tratti inconfondibili e meritori della<br />

cultura toscana, afferenti a quella nazione che<br />

giustamente sui Quaderni Padani è stata chia-<br />

28<br />

30 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


mata “Etruria”, erede cioè della tradizione etrusca<br />

e comprendente anche parte dell’Umbria e<br />

del <strong>La</strong>zio. Gli scambi culturali tra Etruria e Padania<br />

erano in quei secoli sicuramente intensi<br />

(più che tra Etruria e terre italiche), tuttavia,<br />

sul piano linguistico-letterario non si può negare<br />

una certa differenza di impostazione e comunicazione,<br />

riconducibile soprattutto alla<br />

non-celticità della Toscana stessa.<br />

Dobbiamo dunque definire “capolavoro della<br />

letteratura toscana” la Divina Commedia (e capolavoro<br />

al tempo stesso della letteratura mondiale,<br />

senza dimenticare comunque che fu ideata<br />

e in parte scritta in Padania durante l’esilio<br />

dantesco); quanto a Dante poi non si può non<br />

riprendere in esame il suo De Vulgari Eloquentia<br />

per sottolineare pregiudizi e arroganza di<br />

valutazione nei giudizi espressi nei confronti<br />

dei linguaggi padani. Se l’Alighieri giudicò inadeguati<br />

alla parlata italiana volgare il milanese<br />

ed il bergamasco, foneticamente insopportabili<br />

i dialetti veneti, gravati da una “zeta” troppo<br />

aspra i genovesi, praticamente stranieri i vernacoli<br />

di Torino, Trento ed Alessandria, troppo<br />

gutturali i dialetti ovest-emiliani, con conseguenze<br />

negative per le rispettive culture letterarie,<br />

lo si deve ad una visione un po’ forzata<br />

dell’italianità, basata unicamente sul modello<br />

tosco-bolognese e già pesantemente votata ad<br />

una sorta di neutralizzazione culturale delle<br />

terre poste ad ovest dell’Enza e a nord del Po.<br />

D’altra parte il senso di estraneità provata da<br />

un famoso toscano nei confronti di queste ultime<br />

conferma le profonde differenze tra Continente<br />

e Penisola, che a quei tempi solo una minoranza<br />

di abitanti della penisola stessa voleva<br />

cancellare.<br />

E veniamo ai tempi umanistico-rinascimentali.<br />

<strong>La</strong> Padania trova nei reggiani Boiardo e<br />

Ariosto due grandi interpreti dell’epos cavalleresco,<br />

due autori che a sud dell’Appennino non<br />

potrebbero mai esser fioriti. Forte è infatti l’eco<br />

della cultura francese e decisamente continentale<br />

la capacità di far viaggiare il lettore in ogni<br />

parte dell’universo assieme ai vari paladini, senza<br />

contare lo spirito di ironico ottimismo che<br />

nulla ha a che fare col sarcasmo toscano, il fatalismo<br />

italico ed il tragico (o farsesco) pessimismo<br />

siciliano. In Etruria il mondo di Orlando<br />

ha trovato solo la goliardica presa in giro di<br />

un Pulci ed in Sicilia ha fornito materia per il<br />

tragicomico teatrino dei pupi, senza ispirare<br />

altro tipo di letteratura.<br />

Alle spalle dei due reggiani ci fu la corte fer-<br />

rarese, magnifico esempio di cultura padana in<br />

grado di rielaborare il meglio di tutta Europa<br />

sia in ambito letterario che in ambito artistico,<br />

apportandovi con gran classe lo spirito fattivo<br />

degli “eridani”, la capacità per certi aspetti inimitata<br />

di tradurre la cultura in ricchezza e la<br />

ricchezza in nuova cultura, senza mai dimenticare<br />

l’ispirazione popolare.<br />

E a Ferrara predicava Gerolamo Savonarola,<br />

un frate di grandi qualità retoriche e letterarie,<br />

che ebbe non a caso per primo il coraggio di<br />

condannare la corruzione romana, rifacendosi<br />

ad un’altissima moralità.<br />

Ma il meglio della cultura padana tra Quattrocento<br />

e Cinquecento sta forse tra Mantova e<br />

Venezia, le due capitali del 1996.<br />

Il mantovano e il padovano di cui “menar vanto”<br />

sono Teofilo Folengo e il Ruzzante, ma anche<br />

il veneziano Bembo merita una rivalutazione<br />

quanto a padanità.<br />

Folengo scrive in una lingua macheronica che<br />

mischia latino e linguaggio padano in un impasto<br />

di straordinaria freschezza e incisività: con<br />

questo strumento in codice che sa tanto di critica<br />

nei confronti di un italiano imposto dalle<br />

classi più abbienti (in qualche modo traditrici<br />

della sanguignità popolare della “Bassa”), ci racconta<br />

il mondo contadino della pianura padana<br />

in tutta la sua realistica generosità e spontaneità,<br />

in barba a quegli intellettuali cinquecenteschi<br />

d’Italia, d’Etruria e in parte della stessa<br />

Padania che cominciano a far credere che non<br />

esista più.<br />

Il Ruzante, specie nella commedia Betìa, mette<br />

in gioco istinti ancor più animaleschi, usando<br />

direttamente il dialetto, un patavino schietto<br />

e ruspante capace di rappresentare perfettamente<br />

la forza dei sentimenti dei più umili, di<br />

un popolo padano che di fronte alle angherie<br />

dei potenti risponde con la manifestazione ingenua<br />

e limpida delle sue gioie e dei suoi dolori.<br />

Di fronte alla primitività del contado sta la<br />

speculazione filosofica dell’aristocrazia veneta,<br />

in parte già piegata agli interessi delle altre aristocrazie<br />

italiane ed europee, plagiata da quelle<br />

forze che iniziano a reclamare l’Unità a tutti i<br />

costi.<br />

Così un Pietro Bembo, costretto dal padre ambasciatore<br />

a respirare l’aria prima di Firenze e<br />

successivamente di Messina, torna a Venezia e<br />

scrive un saggio, Prose della volgar lingua<br />

(1525), in cui esalta la lingua letteraria toscana,<br />

proponendola come modello per tutti gli<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 29


scrittori della cosiddetta “Italia”.<br />

A nulla vale la replica di un altro veneziano,<br />

Giangiorgio Trissino, che vuol mantenere la<br />

dignità e l’autonomia delle parlate regionali,<br />

specie padane.<br />

Eppure nella prosa degli Asolani, che parla<br />

del significato dell’amore attraverso un dialogo<br />

ambientato in una delle più belle località collinari<br />

della Padania, il Bembo non può fare a<br />

meno di esaltare dei valori che solo il paesaggio<br />

prealpino può ispirare e favorire (vedasi più tardi<br />

gli stessi Foscolo e Fogazzaro; in Etruria invece<br />

prevale un eros di tipo boccaccesco, nella letteratura<br />

italica e sicula un eros tragico o teatrale).<br />

Non si può poi tacere il fatto che le prime<br />

grandi poetesse dell’Europa bassomedievale e<br />

moderna fossero in gran parte padane: donne<br />

dotate di eccezionale sensibilità, lievitata in uno<br />

stile poetico di notevole suggestione. Parliamo<br />

soprattutto di Gaspara Stampa, veneta, e di Veronica<br />

Gambara, lombarda, che scrissero poesie<br />

d’amore in cui campeggia una padana semplicità<br />

di sentimenti, scevra da infingimenti e<br />

leziosità, nonostante alcuni echi manieristicamente<br />

petrarcheschi.<br />

A partire dal tardo cinquecento si crea una<br />

più marcata spaccatura tra cultura letteraria<br />

padana e cultura letteraria peninsulare.<br />

A sud dell’Arno e del Metauro si impone in<br />

maniera pesante il più artificioso dei barocchi,<br />

a nord la maggior parte degli scritti sta al passo<br />

con il realismo europeo, aprendosi tra l’altro<br />

definitivamente alla scienza e alla moderna storiografia.<br />

Torquato Tasso rappresenta in tal senso l’ultima<br />

voce che in qualche modo tiene unito Nord<br />

e Sud della cosiddetta Italia. Nato e cresciuto<br />

in Campania deve venire a Ferrara, perenne faro<br />

della civiltà padana, per trovare la vena giusta<br />

della sua altissima arte, rifacendosi in parte al<br />

filone ariostesco e in parte alla sensualità al tempo<br />

stesso raffinata e sanguigna che alberga sul<br />

Po, sublimata da una religiosità di ispirazione<br />

controriformistica, degna comunque di una<br />

Padania nient’affatto legata alla pura ritualità<br />

esteriore.<br />

Il veneziano Paolo Sarpi nella storia e il bresciano<br />

Benedetto Castelli nella letteratura scientifica<br />

aprono a una prosa finalmente moderna,<br />

di solida impostazione ma di semplice<br />

interpretazione; lo stesso Galileo Galilei, amico<br />

del Castelli, deve venire dalla natìa Pisa in<br />

una evolutissima Padova per trovare l’ispirazione<br />

giusta per il suo Dialoghi sopra i due Massimi<br />

Sistemi del mondo.<br />

30<br />

32 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Liguri, Saraceni e Garalditani<br />

L<br />

a recente uscita del libro di Joseph Henriet,<br />

Noi Saraceni delle Alpi (Chatillon: Edizioni<br />

Cervino, 1996), ha riproposto con logica coerente,<br />

il mai risolto problema dell’identità etnica<br />

delle popolazioni alpino-occidentali, con le sue<br />

inevitabili implicazioni storiche, culturali e politiche.<br />

L’idea di fondo prende spunto dalle dure lotte<br />

che videro, tra il IX e il X secolo, la feudalità cristiana,<br />

marchesi in testa, contrapporsi agli invasori<br />

saraceni, in un’area comprendente la Provenza,<br />

la Savoia, la Svizzera, il Piemonte e la Liguria,<br />

intesi nei loro attuali confini. Henriet nel<br />

suo lavoro, giunge ad ipotizzare che in realtà non<br />

si trattò di Saraceni, bensì delle popolazioni locali<br />

che lottarono strenuamente in difesa delle<br />

loro libertà e della loro identità, contro l’imposizione<br />

del potere feudale, alleato del clero.<br />

Il fatto però che questi popoli, ancora alla fine<br />

del primo millennio, potessero essere pagani e<br />

indipendenti, pone una serie di interrogativi che<br />

forzatamente implicano anche un’ampia revisione<br />

della storia dei secoli precedenti, cosa peraltro<br />

in corso.<br />

Senza scendere eccessivamente nel particolare<br />

e restando per neccessità di cose estremamente<br />

sintetici, sarà utile ricordare come nell’antichità,<br />

Eratostene definisca ligure la penisola Iberica,<br />

individuando in ciò i Liguri come il popolo<br />

dell’occidente europeo, distinguendoli in questo<br />

nettamente dalla penisola Italiana e quindi dalle<br />

popolazioni italiche. In seguito il termine Liguria<br />

andò gradualmente riducendo il territorio a<br />

esso attribuito, arrivando comunque ancora nel<br />

VII secolo a comprendere l’occidente padano. In<br />

tempi più moderni l’area comprendente le popolazioni<br />

tra la Galizia, l’Occitania e la Padania fu<br />

definita Garaldea, tanto che ad essa lo studioso<br />

basco Krutwig-Sagredo dedicò nel 1975 una<br />

grammatica, rilevando altresì interessanti collegamenti<br />

linguistici con le lingue caucasiche e con<br />

prestigiose lingue morte, come il caledoniano<br />

della Scozia, il guancio delle isole Canarie, il pregreco<br />

dei Balcani e il Sumero della Mesopotamia.<br />

Tutto questo ci indica una sostanziale unità etni-<br />

di Flavio Grisolia<br />

Monete dei Salassi<br />

co-culturale dell’occidente europeo, in qualche<br />

modo sopravvissuta alla dominazione romana, ma<br />

fino a che punto?<br />

È infatti lecito domandarsi, tornando al quesito<br />

sollevato da Henriet, quanto gli almeno cinque<br />

secoli di dominazione romana avessero potuto<br />

incidere sull’identità di queste popolazioni<br />

e sulle loro strutture sociali. In effetti, cinquecento<br />

anni per genti che già avevano alle spalle<br />

oltre quattro millenni di continuità storica, non<br />

possono aver significato lo stravolgimento totale<br />

delle loro culture, senza tener conto che essi abitavano<br />

zone montuose, che mai i romani si sognarono<br />

di colonizzare, accontentandosi in cambio<br />

del controllo delle valli e soprattutto delle<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 31


nuove vie di comunicazione da loro costruite. Ciò<br />

spiega in buona parte come dall’antichissimo etnico<br />

Liguri, precedente non solo l’invasione romana,<br />

ma anche le migrazioni celtiche, possa esser<br />

poi nato il nome di Liguria, che nel III secolo<br />

venne addirittura attribuito a tutta la Padania<br />

occidentale, Emilia compresa, andando a sostituire<br />

quelli precedenti di Transpadana e Gallia<br />

Cisalpina e rimanendo ancora perfettamante vitale<br />

nel VII secolo.<br />

L’arrivo dei Longobardi segna un momento di<br />

forte rottura col passato, con l’inizio di una diffusa<br />

presenza armata, anche nei territori montani<br />

della Liguria marittima e la nascita di ducati,<br />

che di fatto daranno inizio al feudalesimo e allo<br />

stravolgimento delle originarie comunità locali.<br />

Nell’opera di controllo di queste aree, i Longobardi<br />

si avvalsero con successo della collaborazione<br />

dei monaci benedettini: il monastero di<br />

Bobbio fondata nel 614 su terreno donato dal re<br />

longobardo Agilulfo, fu arricchito di territori nell’entroterra<br />

e lungo la costa, sui quali esercitava<br />

in pratica un diritto feudale e questo nel corso<br />

dell’VIII secolo, mentre sempre più cresceva l’influenza<br />

di nuove fondazioni monastiche come<br />

Brugnato e Borgo S. Dalmazzo, di modo che, in<br />

un modo o nell’altro, tutta la regione compresa<br />

tra le Alpi marittime e l’Appennino tosco-emiliano,<br />

risultasse sotto controllo. <strong>La</strong> perdita dell’antica<br />

identità passava poi, attraverso la cristianizzazione<br />

forzata e la repressione degli antichi culti<br />

pre-romani: esplicativo di ciò e importante testimonianza<br />

è la lapide esistente nella chiesa di<br />

San Giorgio di Filattiera in Lunigiana; tra le varie<br />

benemerenze di un personaggio longobardo,<br />

ivi sepolto nell’VIII secolo, si dice anche che: “Idola<br />

fregit”, cioè che spezzò gli idoli. Non è quindi<br />

un caso, se nella vicina Pieve di Sorano, siano state<br />

rinvenute nel corso di lavori di ristrutturazione,<br />

tre statue-stele dell’Eneolitico-Bronzo, intenzionalmente<br />

spezzate, secondo l’attuazione pratica<br />

di certi concilii episcopali che, ancora nel Medioevo,<br />

prescrivevano di spezzare gli idoli pagani e<br />

costruirvi sopra le chiese cristiane (come fece S.<br />

Benedetto a Cassino). Come se non bastasse, già<br />

negli editti longobardi di Rotari e di Liutprando<br />

compaiono leggi che puniscono spietatamente la<br />

sedizione della gente di campagna e di ogni tentativo<br />

di organizzazione popolare inteso a resistere<br />

al potere signorile. Le popolazioni indigene<br />

(definite “Rustiche”) sono paragonate al bestiame<br />

e accusate di mantenere in vita culti chiaramente<br />

pagani o barbarici, che nulla hanno a che<br />

fare col cristianesimo. Da ciò la tendenza dei si-<br />

gnori a considerare il “Rustico” come un essere<br />

inferiore, immorale, dedito a culti e a pratiche<br />

immonde, al punto che le leggi longobarde del<br />

secolo VIII minacciano pene severissime contro<br />

coloro che nelle campagne e nelle foreste, pratichino<br />

culti sacrileghi e paganeggianti.<br />

Da quanto esposto traspare chiaramente come,<br />

perlomeno fino ad allora, al di fuori delle città e<br />

di alcuni centri posti sulle principali vie di comunicazione,<br />

la diffusione del cristianesimo fosse<br />

in Padania alquanto limitata e addirittura esistessero<br />

ancora gli antichi culti preromani, probabili<br />

indici del mantenimento di un’identità che<br />

traeva le sue origini nella remota cultura Neolitico-Megalitica,<br />

vecchia già allora, di quasi cinquemila<br />

anni. Ne sono ulteriore conferma, le continue<br />

e sistematiche Missioni, organizzate dalla<br />

Chiesa di Roma, che si avvalevano degli elementi<br />

più colti e preparati, in parte provanienti ancora<br />

dall’Oriente, in parte forniti, in misura sempre<br />

crescente dai monasteri.<br />

Non ci è dato di sapere se mai vi fu resistenza<br />

armata in quel periodo, allo strapotere dei signori<br />

longobardi e del clero monacale, di certo si può<br />

dire che l’affermarsi del “Partito cattolico” tra i<br />

Longobardi, portatori di una cultura “Principesca”,<br />

tipicamente orientale e indoeuropea, favorì<br />

il connubbio sopraddetto, stringendo in una morsa<br />

asfissiante gli ultimi bagliori dell’originaria<br />

cultura ligure, tribale e comunitaria. In realtà la<br />

rivoluzione in atto risultò più culturale che strutturale:<br />

i Longobardi erano troppo pochi e troppo<br />

poco restarono per incidere realmente sulle etnie<br />

esistenti, in particolare sugli abitanti della Liguria<br />

attuale, che meno degli altri subirono la<br />

loro dominazione e che alla loro venuta trovarono,<br />

come da sempre, rifugio sui monti.<br />

Altrove la situazione era assai diversa e, soprattutto<br />

nell’arco alpino occidentale, pur essendo<br />

zona di confine coi Franchi, non fu, almeno nel<br />

corso del VII secolo, interessato da operazioni di<br />

guerra, il che permise il mantenimento dell’antica<br />

identità. Le cose cominciarono a cambiare nel<br />

corso dell’VIII secolo, allorché la pressione dei<br />

nobili franchi, appoggiati come già sull’opposto<br />

versante da monaci e vescovi, si fece sentire soprattutto<br />

in Savoia, dove la tradizione ci narra di<br />

scontri con Saraceni e pagani. Tralasciando per<br />

un attimo, tutte le considerazioni del caso, sul<br />

fatto che troviamo Saraceni sulle Alpi nordoccidentali,<br />

cent’anni prima del loro possibile sbarco<br />

a Frassineto, vicino all’attuale Saint-Tropez (cosa<br />

che peraltro Henriet fa egregiamente nel già citato<br />

testo) voglio soffermarmi invece sul termine<br />

32<br />

34 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Porta dei Salassi sulla “Strada di Annibale”<br />

francese “Sarassin”, usato appunto insieme a “Pagani”,<br />

per indicare queste popolazioni. In realtà<br />

esso non significa affatto Saraceno, bensì Salasso,<br />

in una forma che è tra l’altro attestata già in<br />

epoca romana nell’etnico Tigurin, indicante una<br />

tribù degli Elvezi, situata appunto nelle Alpi nordoccidentali;<br />

ancora oggi nel ligure moderno gli<br />

etnici terminano in -in, così come è normalmente<br />

praticato lo scambio l/r, per cui è lecito tradurre<br />

da Sarassin, Salasso e non Saraceno, come invece<br />

si fece riportando il tutto in latino. Il termine<br />

pagano poi, in latino non significa altro che<br />

abitante di villaggio, l’insediamento tipico dei<br />

Liguri montani e che propio per l’accesa resistenza<br />

a un Cristianesimo imposto dalle armi di genti<br />

straniere, divenne poi sinonimo di idolatra. A<br />

tale proposito è possibile immaginare che a livello<br />

toponomastico e onomastico, “Pagano” nelle<br />

sue varietà, stia ad indicare persone, villaggi o<br />

territori, che in qualche modo riuscirono a resistere<br />

a Longobardi, Franchi e vescovi in arme,<br />

mantenendo intatta la loro identità. E riguardo<br />

alle credenze dei “Pagani”, sarà utile ricordare<br />

come ancora nel X secolo si adorasse nella valle<br />

del Gran S. Bernardo (il Poeninum descritto dai<br />

Romani) una statua in onore del dio Pen, l’antica<br />

divinità preindoeuropea delle alte vette, che i<br />

Romani trasformarono in Giove-Pennino e che<br />

diede il nome agli Appennini, alle Alpi Pennine e<br />

a una serie di vette appenniniche, sacre agli antichi<br />

Liguri. Sicuramente però l’antica religione<br />

continuò ben oltre: in Valbormida a Vesime, tra<br />

Piemonte e Liguria, sono tuttora visibili due stele-antropomorfe<br />

facenti parte di un gruppo di<br />

venti, che accoppiati uomo-donna, fungevano da<br />

capifilare in una vigna della zona, in una collocazione<br />

ancora presente negli anni trenta. <strong>La</strong> probabile<br />

nascita delle statue-stele in questione, pare<br />

essere prossima al 1577, il che ancora una volta<br />

ci riconferma l’esistenza di una continuità culturale,<br />

che le durissime repressioni del passato non<br />

riuscirono mai a cancellare completamente.<br />

Sul versante padano la resistenza delle popolazioni<br />

locali si protrarrà per tutto il X secolo in<br />

Val d’Aosta e nelle <strong>La</strong>nghe. <strong>La</strong> stessa cosa che avvenne<br />

anche in Svizzera, dove i Sarassins “giunsero”<br />

sino a Coira e a San Gallo, allorchè nel<br />

maggio del 937, attaccarono e incendiarono il<br />

locale monastero. Solo i Mori dei Pirenei, che<br />

anche la storiografa ufficiale oggi riconosce come<br />

Baschi, quindi eredi degli antichi Liguri e membri<br />

della moderna Garaldea, uscirono vittoriosi<br />

dallo scontro coi “Barbari di Roma”: come ben si<br />

sa a Roncisvalle nel 779 i Franchi furono sconfitti<br />

e Rolando, cugino di Carlo Magno e conte palatino,<br />

perì in combattimento.<br />

L’angolazione fin qui addottata, implica obbligatoriamente<br />

un adeguato approccio linguistico,<br />

privo cioè di ogni conformismo accademico e di<br />

regime. Tentativi in tal senso non sono finora<br />

mancati, anche se sicuramente carenti di organicità<br />

e in buona parte datati, manca in sostanza<br />

chi, prescindendo da pregiudizi ideologici e dotato<br />

di discreto coraggio, oltre che di approfondite<br />

conoscenze, sappia rivedere sotto nuova luce e<br />

in un quadro d’insieme generale, l’intera questione<br />

linguistica europea, andando a ricostruire l’antico<br />

sostrato ligure, sempre meno etichettabile<br />

come preindoeuropeo o preromano. <strong>La</strong> considerazione<br />

ovvia che ci viene, dopo quanto detto, è<br />

che popoli che mille e cinquecento anni dopo la<br />

conquista di Roma, mantenevano ancora tradizioni<br />

vecchie di oltre cinquemila anni, difficilmente<br />

potevano aver del tutto abbandonato l’antica<br />

lingua.<br />

Oggi che le false identità nazionali, costruite a<br />

tavolino per asservire gli interessi dei potenti,<br />

crollano a una a una, solo la roccia di un passato,<br />

apparentemente remoto, ma in realtà ancora al<br />

nostro fianco, ci può dare il reale sostegno per la<br />

rinascita dei nostri popoli: “LIBERTÀ!”.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 33


Le “Pasque Veronesi”<br />

N<br />

apoleone scende in Italia, per la prima volta,<br />

nel marzo del 1796.<br />

Le sue truppe, vittoriose su Piemontesi e<br />

Austriaci, dilagano per tutta la pianura padana.<br />

Inseguendo gli Austriaci, i Francesi si presentano<br />

ai confini della Serenissima Repubblica di Venezia<br />

e penetrano in territorio veneziano. Da<br />

tempo lo Stato Veneto è afflitto da una grave crisi,<br />

più spirituale e morale che materiale, il che è<br />

certamente peggio. Gli organi dello Stato funzionano<br />

ancora, anche se alcuni patrizi propugnano<br />

da tempo alcune riforme ritenute necessarie<br />

( l ). È vero che, proprio negli ultimi decenni<br />

del secolo, vengono compilate importanti rac-<br />

colte di leggi e presi, almeno<br />

formalmente, provvedimenti<br />

a carattere economico<br />

e amministrativo di notevole<br />

importanza, ma il<br />

tutto viene fatto senza grande<br />

convinzione e senza incisività.<br />

Il distacco tra il ceto<br />

dirigente (il patriziato) e i<br />

ceti dominanti locali (l’aristocrazia di terraferma)<br />

è sempre più accentuato, e più grave ancora<br />

è la frattura esistente con la borghesia intellettuale<br />

(avvocati, giornalisti, uomini di scienza)<br />

che aspirano a nuove forme di governo e guardano<br />

con curiosità e con fiduciosa speranza agli<br />

avvenimenti di Francia. Altri gruppi, come gli<br />

ebrei e gli affiliati alla massoneria, attendono un<br />

muta mento radicale e, spesso, si adoperano per<br />

provocarlo.<br />

<strong>La</strong> situazione finanziaria è grave, ed ha come<br />

diretta conseguenza che l’esercito regolare è allo<br />

sfascio e che le milizie locali, le “cerníde”, sono<br />

pressoché disarmate e prive di addestramento.<br />

Testo della conferenza tenuta a Verona il 13 ottobre 1989<br />

presso la locale Camera di Commercio per invito del Comitato<br />

ANTI-89 di Verona.<br />

( 1 ) Ricordiamo che la più organica proposta di riforma dello<br />

Stato Veneto venne proprio da un veronese, il marchese Scipione<br />

Maffei, che la espose nella memoria intitolata: “Consiglio<br />

politico finora inedito presentato al Governo Veneto nel-<br />

di Alberto Lembo<br />

A chi combattè e cadde in<br />

difesa delle libertà del nostro<br />

popolo veneto nel secondo<br />

centenario di quegli<br />

avvenimenti<br />

<strong>La</strong> flotta, ancora numerosa, è ancorata a Corfù,<br />

priva di munizioni e di attrezzature ( 2 ). Le popolazioni,<br />

particolarmente quelle rurali, sono ancora<br />

legate, a volte in modo commovente, all’immagine<br />

della “Serenissima”, sotto il cui governo<br />

hanno goduto quasi quattro secoli di pace e<br />

da cui hanno avuto protezione contro i ceti più<br />

ricchi. Disinteresse, sfiducia, apatia nella nobiltà<br />

veneziana, desiderio di rivincita nella nobiltà<br />

di terraferma, da sempre esautorata, attesa di novità<br />

nella borghesia e tra gli intellettuali, fiducia<br />

nella “reputasion” di Venezia nel popolo sono<br />

gli stati d’animo dominanti nelle varie classi. Al<br />

di sopra, il governo (e, quindi, il patriziato), tra-<br />

gicamente immobile, quasi<br />

in attesa di una fine che<br />

molti hanno preconizzato<br />

da tempo. Il governo veneto<br />

fa appena in tempo a proclamare<br />

la sua “neutralità<br />

disarmata” che le truppe<br />

francesi cominciano a violare<br />

la neutralità del territorio<br />

veneto con il pretesto che ciò è necessario<br />

per contrastare la minaccia degli Austriaci. In<br />

realtà, agenti di Napoleone si introducono nelle<br />

città, stringono contatti con i “giacobini” locali,<br />

cercano simpatie e appoggi per la causa della rivoluzione<br />

e, insieme, fungono da agenti provocatori<br />

per suscitare incidenti che possano offrire<br />

un pretesto per intervenire militarmente o per<br />

avere motivi di lamentela verso Venezia, di cui<br />

Napoleone ha già deciso la fine ancora il 18 aprile<br />

1797, con i “preliminari di Leoben”, sei mesi<br />

prima di Campoformido.<br />

“... da questo momento - scrive Alvise Zorzi -<br />

tutto ciò che accade non è che commedia, nella<br />

l’anno 1736 dal Marchese Scipione Maffei”, stampata postuma.<br />

( 2 ) A questo proposito, mi piace ricordare che l’ultima impresa<br />

navale di Venezia, la Spedizione di Angelo Emo contro<br />

le basi di azione dei pirati barbareschi (Sfax, Susa e Biserta),<br />

fu finanziata stornando fondi già destinati alla bonifca delle<br />

“ValliVeronesi” (1784-1786).<br />

34<br />

36 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


L'insorgente ferito (quadro di Franz Von Defregger)<br />

quale il liberatore d’Italia fa una figura che nemmeno<br />

i suoi ammiratori più sfrenati sono riusciti<br />

a tinteggiare di colori positivi ...”.<br />

Napoleone, dunque, invade il territorio veneto<br />

portandovi il verbo rivoluzionario; nel frattempo<br />

in vari luoghi d’Italia, a Genova, Pavia,<br />

nella Lunigiana, si sono già verificati episodi di<br />

reazione popolare all’imposizione dei principì rivoluzionari<br />

portati dalle truppe francesi e al rovesciamento<br />

dei vecchi governi, e altri moti ancora<br />

più estesi si verificheranno poco dopo in<br />

Toscana, nel Napoletano, in Piemonte, negli Stati<br />

della Chiesa ..., cioè in tutti i luoghi dove giungeranno<br />

i Francesi a portare la loro “libertà”.<br />

In una lettera datata 2 aprile 1797 e diretta al<br />

governo veneto, Napoleone scrive che “... tutta<br />

( 3 ) In particolare mi riferisco all’azione del conte Rocco Sanfermo,<br />

quale appare dalla lettera da lui scritta il 30 aprile<br />

(“Lettera scritta nel Castello di S. Felice di Verona al Sena-<br />

la terraferma della Serenissima Repubblica di Venezia<br />

è in armi, in ogni parte i villici sollevati e<br />

armati gridano morte ai Francesi ...”. In questo<br />

contesto generale di reazione violenta dei popoli<br />

dell’Italia ad una “liberazione” non richiesta e<br />

non gradita, si inserisce l’insurrezione di Verona<br />

contro i Francesi nell’aprile del 1797, episodio<br />

che è conosciuto sotto il nome di “Pasque<br />

Veronesi”.<br />

I fatti di quei giorni sono abbastanza noti nella<br />

loro realtà e nella loro successione, anche se<br />

alcuni punti e il ruolo svolto da certi personaggi<br />

non sono stati ancora del tutto chiariti ( 3 ).<br />

Per l’esposizione dei fatti ho tenuto presenti<br />

tutte le più note fonti, da quelle locali, anche<br />

manoscritte, a quelle generali, scegliendo di se-<br />

to di Venezia dal Segretario della Repubblica Sanfermo e<br />

dagli altri due plenipotenziari Emilj e Garavetta”, Padova<br />

1797).<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 35


guire la traccia fornita dall’ottimo “Dizionario<br />

del Risorgimento Nazionale” edito da Vallardi<br />

nel 1931, in tempi, quindi, non certo sospetti di<br />

tendenze storiche “revisioniste”, il quale, nonostante<br />

il nome, espone le vicende che ci interessano<br />

con notevole obiettività. Più importanti dei<br />

fatti sono, però, a mio giudizio gli antefatti e i<br />

presupposti della vicenda storica, che devono<br />

essere considerati come le cause scatenanti di<br />

ciò che venne poi in Verona. Capire “perché” i<br />

pacifici veronesi si siano lasciati trascinare a<br />

prendere in massa le armi, ad attaccare la guarnigione<br />

francese, a resistere fino a quando la città<br />

fu completamente circondata e isolata da ogni<br />

possibile aiuto è quanto cercheremo di chiarire.<br />

Prima di tutto si deve tenere presente che Napoleone,<br />

e questo appare in modo incontestabile<br />

da fatti e testimonianze d’ogni genere, detestava<br />

le Repubblica Veneta, che aveva definito<br />

come “... il più assurdo e tirannico dei governi<br />

...”. Il suo comportamento nei confronti dei rappresentanti<br />

di Venezia fa scrivere a Giovanni<br />

Mocenigo, podestà di Brescia, che “... ogni evento,<br />

anche il più innocente, nel quale creda di rilevare<br />

qualche opposizione alle sue intenzioni,<br />

lo fa passare in un baleno alla ferocia e alle minacce<br />

...” Il 25 aprile 1797 a Graz Napoleone dichiarerà<br />

ai “deputati” Donà e Zustinian, inviatigli<br />

dal governo veneto: “... sarò un Attila per lo<br />

Stato Veneziano ...”. In ogni contatto, personale<br />

o epistolare, con le autorità venete il suo atteggiamento<br />

esprimerà sempre e in modo brutale<br />

questa posizione, radicatasi in lui per chissà quali<br />

motivi ... (Se mi concedete un paradosso a sfondo<br />

giuridico vorrei dire che, se Venezia fosse stata<br />

una persona fisica, l’azione di Napoleone nei suoi<br />

confronti potrebbe essere configurata come<br />

omicidio premeditato, con le aggravanti dei<br />

motivi abietti, della violazione di domicilio, del<br />

furto con scasso e del finale vilipendio di cadavere<br />

...).<br />

Ma riprendiamo la nostra storia. Da Brescia il<br />

Buonaparte si diresse a Peschiera, che occupò<br />

militarmente. “... A Peschiera - scrive il Cipolla<br />

gli si presentò Nicolò Foscarini, che risiedeva in<br />

Verona, quale Provveditore per la Repubblica di<br />

San Marco. Il generale finse di essere molto sdegnato<br />

perché in Verona aveva trovato ospizio e<br />

favore il profugo pretendente borbonico. Terminò<br />

dicendo che il dì appresso, cioè il I giugno,<br />

egli avrebbe occupata la città, al che si riconosceva<br />

autorizzato, poiché la neutralità veneziana<br />

era già stata rotta dagli Austriaci quando avevano<br />

occupato Peschiera. Ed era vero che gli Au-<br />

striaci, il 26 maggio precedente, erano entrati<br />

in Peschiera, ma ciò era avvenuto contro la volontà<br />

dei Veneziani e con violenza ...” (Per dovere<br />

di cronaca è opportuno ricordare che la guarnigione<br />

di Peschiera era costituita, come riferisce<br />

il Musatti, da una sessantina di veterani invalidi<br />

con una ottantina di cannoni ad affusto<br />

fisso: evidentemente, secondo il pensiero di Napoleone,<br />

erano forze sufficienti per tenere la fortezza<br />

contro un’armata austriaca ...). Quanto al<br />

resto del ragionamento esso segue una logica che<br />

fa pensare a quella della favola del lupo e dell’agnello<br />

di Esopo. È la logica tracotante della<br />

forza nei confronti di chi ha solo la ragione e il<br />

diritto dalla sua, il che è poco, allora come oggi.<br />

Eppure ci sono stati storici che non solo hanno<br />

deriso, ma anche condannato l’atteggiamento dei<br />

veneziani. Sarebbe come, per prendere a prestito<br />

un’immagine da Alvise Zorzi, se l’arrendevolezza<br />

della vittima fosse una scusante di ordine<br />

morale per il rapinatore. I Francesi, dunque,<br />

entrano in Verona il I giugno 1796 come un esercito<br />

vincitore entra in una città conquistata “...<br />

con i cannoni carichi e le micce accese ...”, come<br />

scrisse un cronista dell’epoca, e si comportano<br />

subito come un esercito occupante in territorio<br />

nemico, il che non avrebbe motivo di essere perché<br />

nessuno ha opposto resistenza e le autorità<br />

venete hanno consegnato la città, forti compresi,<br />

nel tentativo di ingraziarsi o, quanto meno,<br />

di non inimicarsi ancor più il Buonaparte. (È<br />

giusto e doveroso dire, a questo punto, che il<br />

governo veneto, fatta la sua scelta, purtroppo<br />

rovinosa, si comportò con lealtà e correttezza<br />

assolute, fidando nel “diritto delle genti” e nella<br />

sua neutralità. I suoi rappresentanti in terraferma<br />

avevano ordini severissimi di evitare ogni atto<br />

ostile ai Francesi e tennero, quasi tutti, un comportamento<br />

tale da sconfinare spesso nella vigliaccheria,<br />

non certo nella “empia perfidia” e<br />

nel tradimento, come sosteneva Napoleone).<br />

Le truppe occupanti, e questo è forse il meno,<br />

impongono subito alla città contribuzioni forzate<br />

in denaro e somministrazioni continue di<br />

viveri e foraggi per l’armata, che così viveva a<br />

carico dei veronesi.<br />

Ma il peggio è che i Francesi, come scrisse<br />

Francesco Cavazzocca, “... sempre coerenti cogli<br />

adottati principì, in ogni luogo, più o meno,<br />

lasciarono le più sensibili tracce del loro libertinaggio<br />

e delle loro ruberie. Infatti, la loro indisciplina<br />

è somma, né veruna tema e rispetto mostrano<br />

pei loro uffiziali e superiori; somma la<br />

loro crapola ...”.<br />

36<br />

38 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


L’occupazione francese fu effettivamente caratterizzata<br />

da ruberie e soprusi a danno della<br />

collettività e dei privati, dall’esautorazione sistematica<br />

delle autorità venete e dal vilipendio della<br />

Religione. (Questa pare essere stata una costante<br />

del comportamento francese in Italia dai<br />

tempi di Carlo d’Angiò alla discesa di Carlo VIII).<br />

“... e come questo non bastasse, la soldatesca cominciò<br />

a commettere devastazioni e violenze ai<br />

beni e alle persone, saccheggi, requisizioni forzate,<br />

che seminavano nel popolo un odio profondo<br />

e represso, specie nelle campagne”.<br />

Scriveva a questo proposito un cronista del<br />

tempo (in un manoscritto esistente nella biblioteca<br />

Comunale di Verona): “... Giammai dopo<br />

l’invasione degli Unni la guerra apportò sulla infelice<br />

nostra provincia un cumulo sì orribile di<br />

sventure e di miserie. Con brevi o lunghe interruzioni,<br />

secondo le vicende guerresche, l’occupazione<br />

francese di Verona continuò, e continuarono<br />

immutati i sistemi di taglieggiamenti e di<br />

violenze sulle popolazioni cittadine e del contado,<br />

che andavano perciò accumulando in cuore<br />

un cieco odio contro l’invasore ...” (Diz. del Risorgimento<br />

Italiano).<br />

In questo contesto i “giacobini” locali, che si<br />

sentivano spalleggiati e protetti dagli occupanti,<br />

uscirono allo scoperto e si diedero da fare,<br />

stringendo contatti con gruppi democratici sorti<br />

in altre città, in particolare con quelli di Milano,<br />

dove nel gennaio 1797 vi fu addirittura una<br />

riunione generale dei simpatizzanti giacobini<br />

delle varie città italiane.<br />

In questa opera si inserisce l’azione della Massoneria,<br />

vera “quinta colonna” francese, presente<br />

con una sua “Loggia” a Verona fino dal 1785.<br />

<strong>La</strong> Massoneria era stata introdotta in città da<br />

francesi, ancora prima dello scoppio della rivoluzione,<br />

e alla Francia fu sempre legata, diventando,<br />

quando la Francia divenne repubblica, sua<br />

fedele fiancheggiatrice. È superfluo dire che<br />

l’azione della Massoneria era diretta alla diffusione<br />

di quei principì illuministici che, sotto una<br />

patina di generico umanitarismo e di fede in un<br />

non ben definito “Ente Supremo” minavano le<br />

basi del potere costituito e della società tradizionale<br />

e avversavano la religione Cattolica in<br />

nome della libertà di pensiero e della fratellanza<br />

universale. Il governo veneto perseguitò la Massoneria<br />

sospettando di “... essere framassone chi<br />

non ha religione, chi mostra genio francese, chi<br />

sagacemente ingigantendo i disordini della Corte<br />

di Francia, scusa la seguita rivoluzione ...” (da<br />

un rapporto agli Inquisitori sulla Massoneria ve-<br />

ronese). Un emissario della Massoneria, un certo<br />

marchese di Mont Grand, viveva addirittura a<br />

fianco di Luigi XVIII, confuso tra i vari emigrati<br />

della piccola corte borbonica a Verona. <strong>La</strong> Massoneria<br />

fece opera di proselitismo e contagiò con<br />

i suoi principì illuministi e antireligiosi parecchi<br />

nobili, come il conte Giuseppe dalla Riva e i<br />

tre fratelli Polfranceschi, uomini di cultura, borghesi,<br />

ricchi ebrei e militari veneti di vario grado<br />

come il tenente Franceschini, i capitani Matteo<br />

e Filippo Psalidi e Leonardo Salimbeni, il<br />

generale Sebastiano Salimbeni.<br />

Nei primi mesi del 1797 la situazione si avvia<br />

chiaramente verso uno sbocco violento. Cito ancora<br />

dal “Dizionario del Risorgimento Italiano”:<br />

“... Un movimento schiettamente popolare ed<br />

a sfondo religioso (poiché ad esasperare l’avversione<br />

contro i Francesi e a darle un carattere<br />

quasi sacro, si era aggiunto l’orrore per la loro<br />

irreligione, una manifestazione della quale fu la<br />

costituzione d’una Loggia Massonica) s’era già<br />

iniziato nelle valli bresciane e sulle rive del Garda,<br />

le cui popolazioni comandate dai nobili fedeli<br />

a Venezia si cimentarono, male armate e da<br />

sole, a sottrarre il loro territorio alla usurpazione<br />

francese. Su tale esempio, a Verona fu costituito<br />

un nuovo Governo nel nome di San Marco:<br />

furono chiamate sotto le armi le “cernìde”,<br />

truppe del contado, che sotto il comando del<br />

generale veronese Antonio Maffei, ufficiale coltissimo<br />

e valente nelle cose di guerra, furono<br />

condotte a combattere i giacobini delle terre vicine.<br />

Nel marzo 1797 avvennero, infatti, parecchi<br />

combattimenti, a Tormini presso Salò ed a<br />

Lonato, in territorio bresciano, che risultarono<br />

favorevoli alle armi venete e dopo i quali il Maffei<br />

portò le sue schiere all’assedio di Brescia, per<br />

restituirla al dominio veneto, cui era stata tolta<br />

da un colpo di mano dei ‘patriotti’ della città.<br />

Ma, sopraggiunte le truppe francesi in aiuto dei<br />

loro partigiani di Brescia, il Maffei prudentemente<br />

ripassò il Mincio tornando a Verona, dove la<br />

situazione, in seguito agli avvenimenti accennati,<br />

era quanto mai tesa, poiché nella popolazione<br />

erasi radicata la convinzione che un colpo<br />

di mano preparato da francesi e da ‘patriotti’ fosse<br />

imminente per sottrarre la città alla Serenissima<br />

...”, considerato anche il vuoto di potere creatosi<br />

nella città. In aprile i “giacobini” veronesi<br />

tentarono di forzare la situazione per giungere<br />

ad una soluzione come quella di Brescia, dove<br />

una congiura sostenuta dalle armi francesi ha<br />

sottratto la città al dominio veneto, ma la congiura,<br />

organizzata da ufficiali francesi che sono<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 37


pronti ad intervenire per appoggiare i “giacobini”<br />

locali, viene scoperta ( 4 ).<br />

Inaspettatamente, in un sussulto di dignità e<br />

di autodifesa, le autorità venete si scuotono e<br />

fanno arrestare, in pieno giorno, una trentina<br />

tra i principali esponenti del partito rivoluzionario,<br />

che vengono tradotti a Venezia, nonostante<br />

il tentativo dei Francesi di impedirne la partenza.<br />

I Francesi, decapitata la congiura, persistono<br />

nel piano ideato dal generale Beaupoil per<br />

giungere al distacco ufficiale di Verona dalla<br />

Repubblica Veneta. In questa logica si inserisce<br />

una grave provocazione: il 17 aprile 1797, lunedì<br />

di Pasqua, i Veronesi possono leggere, affisso<br />

sui muri delle case, un proclama, falso, fatto affiggere<br />

dai Francesi, in cui si invita la popolazione<br />

ad insorgere contro i Francesi e a liberare<br />

la città. <strong>La</strong> firma è quella del “Provveditore Generale<br />

in Terraferma”, in nome della Serenissima<br />

Repubblica di Venezia, segno che i Francesi<br />

conoscevano bene l’attaccamento delle popolazioni<br />

a Venezia.<br />

Nel pomeriggio la città è percorsa da pattuglie<br />

francesi e venete e da gruppi di popolani armati.<br />

<strong>La</strong> situazione è incandescente: in vari punti della<br />

città scoppiano disordini e scontri tra pattuglie<br />

armate e tra militari francesi e popolani. Che<br />

i primi scontri si siano verificati verso le 16 in<br />

Brà o alle 17 in via Mazzini è incerto, e, ai nostri<br />

fini, irrilevante. Vi sono scambi di fucilate e le<br />

prime vittime; il rumore delle scariche di fucileria<br />

sale fino al colle di San Pietro e il generale<br />

Balland, che più volte aveva minacciato di bombardare<br />

la città, fa aprire il fuoco dall’alto dei<br />

forti, pensando di intimorire i sediziosi e di riportare<br />

l’ordine in città. A questo punto la situazione<br />

precipita. Il popolo veronese, arguto,<br />

bonaccione, sostanzialmente pacifico, s’infuria.<br />

Le cannonate che piovono sulla città ottengono<br />

l’effetto contrario e la rivolta diviene generale. I<br />

rappresentanti veneziani tentano di riportare la<br />

calma, ma vengono trattati da traditori e da giacobini.<br />

L’ambiguo conte Sanfermo scriverà, poi,<br />

prigioniero nel castello di S. Felice: “... ben cinque<br />

volte ho arringato il popolo, a rischio evidente<br />

della mia vita, per contenerlo, ma inutilmente<br />

...” (Forse i Francesi desideravano una<br />

sommossa, ma non l’insurrezione dell’intera cit-<br />

( 4 ) Il funzionario veneto Rocco Sanfermo aveva osato suggerire<br />

al Senato di restituile l’indipendenza a Verona: “... lasciandola<br />

in libertà di disporre da se medesima ...”, del che si<br />

vanterà in seguito, perché ciò avrebbe potuto impedire le “Pasque”.<br />

tà, perché questo poteva essere troppo pericoloso<br />

... e lo si vide poi).<br />

Se riflettiamo un momento su quanto evidenziato<br />

fino a questo punto, dobbiamo dire che la<br />

rivolta si scatena, anche se può apparire strano,<br />

data l’ostentazione dei principì rivoluzionari,<br />

proprio in nome della libertà: la libertà di vivere<br />

nella propria patria, con le proprie leggi, i propri<br />

costumi, i propri governanti, professando liberamente<br />

la religione dei padri ... Nel caso di<br />

Verona la libertà si identificava con il sistema<br />

politico veneto, con le sue miti leggi, con la pace<br />

che regnava nelle campagne e nelle città, dove i<br />

disagi e i fermenti che turbavano il vertice dello<br />

stato non erano ancora giunti e non erano avvertiti<br />

a livello popolare. Anche lo scontento di<br />

parte della nobiltà era estraneo al popolo. Per la<br />

sua libertà e, quindi, per la Religione vilipesa,<br />

per i beni comuni messi a sacco nella città spogliata,<br />

per Venezia e per le sue leggi calpestate il<br />

popolo insorse ... Ed era il popolo, non dimentichiamolo,<br />

non di una oscura cittadina di periferia,<br />

ma di Verona, l’antica capitale di Alboino e<br />

di Teodorico, la prima città del Sacro Romano<br />

Impero in Italia, la città di Cangrande, l’“ostello”<br />

sicuro di Dante ... Era il popolo di una grande<br />

città, ricca di storia e di cultura, che ora veniva<br />

selvaggiamente bombardata dai cannoni di un<br />

esercito occupante. Questo popolo pacifico e arguto,<br />

pronto allo scherzo e alla battuta di spirito,<br />

insorse spontaneamente, come spontaneamente<br />

era insorto nella primavera del 1793 il<br />

popolo della Vandea e dei dipartimenti dell’Ovest<br />

della Francia e come, nel 1809, insorgerà il popolo<br />

del Tirolo, per citare solo due esempi molto<br />

simili.<br />

Nessuno storico serio può negare la spontaneità<br />

del moto popolare e nessuno è riuscito, almeno<br />

fino ad oggi, a dimostrare l’esistenza di<br />

un complotto veneziano o aristocratico, neppure<br />

Napoleone, che pure ne avrebbe pagato a peso<br />

d’oro le prove ... Il popolo veronese insorse, quindi,<br />

spontaneamente e in massa, proprio perché<br />

ancora “popolo” nel senso tradizionale del termine,<br />

e non una accozzaglia disaggregata di individui.<br />

Il popolo insorse per sé e, insieme, per i<br />

propri padri e per i propri figli, per il suo passato<br />

e per il suo futuro, in nome della sua identità,<br />

senza secondi fini e senza essere stato spinto all’azione<br />

da forze esterne, e la rivolta è addirittura<br />

in aperto contrasto con l’azione delle pavide<br />

autorità venete.<br />

Così descrive l’inizio della rivolta il generale<br />

Maffei: “... Principiossi dal popolo l’attacco con-<br />

38<br />

40 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


tro tutte le pattuglie de’ soldati francesi, che scorrevano<br />

la città o che erano state poste nelle situazioni<br />

opportune, al meditato disegno di rivoluzionarla,<br />

specialmente ai ponti; alcuni ne uccise,<br />

altri ne fece prigionieri, altri pose in fuga,<br />

obbligandoli a ricoverarsi in quelle case ov’erasi<br />

fortificata la loro compagnia, che neppur questi<br />

asili furon loro giovevoli, poiché il popolo senza<br />

punto badare alle palle ed alle bombe che piovevano<br />

dai castelli, senza curare la continua fucilata<br />

che usciva dalle case, che i Francesi avevano<br />

occupate e barricate, v’entra per i tetti, distrugge<br />

i loro ripari e spezza i loro travi, atterra<br />

ogni ostacolo e tutti uccide, che armati non vogliono<br />

deporre le armi. I traditori veronesi (intendasi<br />

naturalmente dei “patriotti”, di coloro<br />

che favoreggiavano i Francesi) non si mostrano<br />

però in soccorso dei loro leali protettori, ché non<br />

piace loro l’odor della polvere, e tutti tremanti<br />

si tengono ranicchiati nei loro nascondigli, dove<br />

non degnò di ricercarli il popolo veronese. Così<br />

in poco più di un’ora fu esso padrone di tutto<br />

l’interno della città, non rimanendo al nemico<br />

che i tre castelli [cioè Castel Vecchio, Castel S.<br />

Pietro e Castel S. Felice] e le quattro porte [Porta<br />

Vescovo, Porta S. Zeno, Porta S. Giorgio e<br />

Porta Nuova] ...”.<br />

Nei giorni successivi i veronesi si impadronirono<br />

anche di tutte le porte, eccetto quella di S.<br />

Zeno, e da esse entrarono in città altre bande di<br />

villici armati guidate da nobili veronesi, tra cui<br />

spiccavano i nomi dei conti Emilei, Nogarola,<br />

Perez, Pullè ... Sotto un bombardamento continuo<br />

gli insorti tentarono addirittura l’assalto alla<br />

fortezza di Castel Vecchio e ai forti sul colle di S.<br />

Pietro, ma furono respinti. Il 20 aprile una colonna<br />

francese che avanzava su Verona si scontrò<br />

alla Croce Bianca con truppe venete e volontari<br />

e li respinse facilmente. Verona era, così, circondata<br />

e isolata, ma la volontà di combattere<br />

non scomparve per questo. Dopo un’altra giornata<br />

di combattimenti, il 21 aprile, le autorità<br />

venete aprirono trattative con i Francesi, che tenevano<br />

ancora i castelli ed erano in comunicazione<br />

con le truppe che assediavano Verona.<br />

I Provveditori veneti tentarono, facendosi avanti,<br />

di giungere ad una capitolazione che da una<br />

parte salvasse la città, con la vita e i beni degli<br />

abitanti, dall’altra salvaguardasse anche il principio,<br />

almeno quello, della sovranità veneta su<br />

Verona.<br />

Le trattative, condotte dai Plenipotenziari Emilei,<br />

Sanfermo e Garavetta, non furono facili, con<br />

la stesura di proposte e di controproposte dei ge-<br />

nerali francesi e dei Provveditori veneti. Finalmente<br />

il 24 aprile i Provveditori Iseppo Giovannelli<br />

e Nicolò Erizzo siglarono i preliminari della<br />

capitolazione, mentre l’Emilei e il Sanfermo<br />

erano ostaggi volontari dei Francesi, ma poi, nella<br />

notte tra il 24 e il 25, abbandonarono la città,<br />

prima che la convenzione coi Francesi entrasse<br />

in vigore. Non conosciamo con certezza la motivazione<br />

di questa decisione alla quale, probabilmente,<br />

non fu estraneo il fatto che i due patrizi<br />

erano i primi nella lista degli ostaggi richiesti<br />

dai Francesi. Certo è che il secondo, precipitoso<br />

esodo dei Provveditori Giovannelli ed Erizzo, che<br />

trascinarono con loro il giovane ed inesperto capitano<br />

Alvise Contarini, ha il significato, di fatto,<br />

per il grado altissimo dei personaggi coinvolti,<br />

rappresentanti diretti del governo veneto, e per<br />

le circostanze da “8 settembre” in cui si verifica,<br />

di un abbandono del territorio veronese alla sua<br />

sorte, di una abdicazione. I Provveditori fuggiaschi<br />

rifiutano così ogni tipo di responsabilità, personale<br />

e per conto della Repubblica, e lasciano<br />

un vuoto di potere che dà spazio e titolo ai rappresentanti<br />

veronesi di trattare per la città e ai<br />

Francesi per considerare i Provveditori veronesi<br />

e i capi degli insorti come unica controparte legittimata.<br />

Così, con la fuga (spontanea o imposta?) dei<br />

due “Provveditori Generali” si chiude, unilateralmente,<br />

quel rapporto iniziato il 23 giugno<br />

1405 con la dedizione di Verona alla Serenissima<br />

e l’accettazione di questa. Si potrebbe giungere<br />

ad affermare (e qui il Sanfermo non ha del tutto<br />

torto) che il 24 aprile 1797 Venezia tradisce Verona<br />

e i suoi abitanti, stracciando con la fuga dei<br />

suoi rappresentanti, patti bilaterali e quasi quattro<br />

secoli di fedeltà.<br />

<strong>La</strong> “Municipalità” Provvisoria che viene designata<br />

il 25 aprile 1797 dal “Consiglio” di Verona<br />

come sua emanazione, col compito di trattare con<br />

i Francesi e di riportare l’ordine, è un governo<br />

locale che si pone, dunque, ed è bene sottolinearlo,<br />

non contro Venezia, ma al posto di Venezia<br />

e tratterà con i Francesi in nome di Verona.<br />

Questi i fatti che, con una analisi molto superficiale,<br />

la Treccani sminuisce attribuendo alle<br />

“Pasque” una certa importanza solo perché esse<br />

furono un pretesto usato da Napoleone a suo vantaggio<br />

contro Venezia. È, evidentemente, un giudizio<br />

molto superficiale che non ci sentiamo di<br />

condividere, perché le “Pasque” presentano vari<br />

aspetti di cui quello militare è forse il più appariscente,<br />

ma non il solo e non certo il più importante.<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 39


Vi furono aspetti nazionalistici, componenti<br />

religiose e sociali, vi era, e molto esplicito, il desiderio<br />

di continuare a vivere sotto un governo<br />

adatto all’indole dei veronesi, un governo tollerante<br />

per gente pacifica e tollerante se rispettata<br />

nei suoi sentimenti e nelle sue credenze, per un<br />

popolo umile, ma non sprovvisto di una sua cultura<br />

e di una saggezza di derivazione bertoldiana,<br />

cui non servivano maestri di civiltà e di cultura<br />

venuti da fuori.<br />

Tornando alle “Pasque” l’epilogo è triste, in alcuni<br />

casi mortale, per chi è stato coinvolto nella<br />

vicenda: Verona, i Veronesi e la Repubblica di Venezia.<br />

Verona è stata bombardata, dall’alto, per una<br />

settimana, e ancora oggi tracce di quegli eventi<br />

sono ben visibili: proiettili infissi nei muri, facciate<br />

sbrecciate, un’inferriata del palazzo Pindemonte,<br />

in via Emilei, semidivelta, il palazzo Perez<br />

bruciato nella piazzetta davanti a Castel Vecchio<br />

... <strong>La</strong> città paga l’insurrezione con il ritorno<br />

dei Francesi che, il 27 aprile, ne riprendono pieno<br />

possesso, entrandovi in forze, ma, almeno<br />

questa volta, in modo meno solenne e provocatorio,<br />

anche se le intenzioni manifestate non lasciano<br />

sperare nulla di buono. Un proclama del<br />

generale Augerau diceva: “... <strong>La</strong> giustizia, la sicurezza<br />

delle mie truppe, il mio dovere, la necessità<br />

mi prescrivono di punire gli uomini perversi<br />

che fomentarono la rivolta, seminarono la<br />

discordia, suggerirono il tradimento, ed eseguirono<br />

il massacro ...”.<br />

A questo proposito si deve confutare con decisione<br />

la leggenda che i caduti francesi siano stati<br />

tanti da poter parlare di un “massacro”: le stime<br />

vanno da un minimo di 60 a 200 (dato più probabile)<br />

o 400 (il dato più alto). Quanto ai feriti francesi<br />

ricoverati nell’ospedale di S. Bernardino è<br />

falso, e lo dichiarano fonti filofrancesi, che siano<br />

stati massacrati dagli insorti. Non possiamo<br />

escludere che qualche francese isolato possa essere<br />

stato fatto a pezzi dal popolo nelle prime ore<br />

della rivolta, ma non dovrebbero rinfacciarlo a<br />

noi quelli che a Parigi massacrarono, dopo la resa,<br />

centinaia di Svizzeri della Guardia, il 10 agosto<br />

1792.<br />

I veronesi vengono subito puniti con una contribuzione<br />

straordinaria di 40.000 ducati veneti<br />

e devono consegnare ostaggi tra cui i “Provvedi-<br />

( 5 ) In via S. Carlo, al civico n. 4 è ancora leggibile la seguente<br />

iscrizione: GIO. ANDREA AVOGADRO - PATRIZIO VENETO -<br />

VESCOVO Dl VERONA - LA NOTTE DEL 7 MAGGIO 1797 -<br />

PER SOSPETTl POLITICI - TRATTO PRIGIONIERO IN CA-<br />

tori di Comun” Giuliari ed Emilei, il vescovo Avogadro,<br />

il generale Maffei, alcuni nobili avversi ai<br />

Francesi tra cui due marchesi Carlotti e quattro<br />

fratelli Minischalchi, il conte Rocco Sanfermo,<br />

funzionario veneto. Quattro ostaggi: il conte<br />

Francesco Emilei, il conte Augusto Verità, l’avvocato<br />

Giovanni Battista Malenza e il frate cappuccino<br />

Luigi Flangini pagano con la vita la loro<br />

partecipazione, diretta o indiretta, alla sollevazione<br />

della città, venendo condannati a morte e<br />

giustiziati dopo quello che anche il Cipolla chiama<br />

“... un simulacro di processo ...”.<br />

Il vescovo Avogadro viene arrestato il 7 maggio<br />

e trascinato dalla soldataglia, a piedi, nel forte di<br />

Castel S. Pietro ( 5 ); quanti altri siano stati vittime<br />

di atti di “giustizia sommaria” non è possibile<br />

sapere, ma certamente ve ne furono e, probabilmente,<br />

non pochi. Questo fu solo l’inizio perché,<br />

quando fu dettagliatamente informato dei fatti,<br />

Napoleone presentò un elenco ben più duro di<br />

richieste: la contribuzione aumentata a 120.000<br />

zecchini, altri 50.000 distribuiti ai soldati. Sequestrati<br />

i beni del Monte di Pietà, consegna di tutti<br />

i cavalli da sella e da vettura, fornitura di 40.000<br />

paia di scarpe, confisca di tutta l’argenteria delle<br />

chiese e di tutti i beni appartenenti al governo<br />

veneto, nonché di tutti i quadri e delle collezioni<br />

private e pubbliche ... Infine una speciale Commissione<br />

militare doveva ricercare i 50 principali<br />

colpevoli dell’uccisione dei soldati francesi il 17<br />

aprile per inviarli alla Guiana ... (Questa sola pena<br />

non ebbe seguito). Fu la rovina economica per<br />

Verona, che solo con l’avvento degli Austriaci cominciò<br />

a risollevarsi da tale rapina.<br />

Quanto a Venezia, la Serenissima Repubblica<br />

di San Marco pagherà tutti i suoi errori e, se ne<br />

aveva, tutte le sue colpe, con la sua stessa esistenza.<br />

Il 12 maggio successivo il governo veneto,<br />

votando una mozione presentata e sostenuta<br />

dallo stesso doge, si suicida, passando il potere<br />

ad una “Municipalità” che ormai controlla solo<br />

il territorio lagunare e i fedelissimi domini d’oltremare.<br />

Così si chiude la vicenda politica e militare delle<br />

“Pasque Veronesi” e, anche, la storia di Venezia,<br />

come sintetizza l’iscrizione esistente in piazza<br />

Pasque Veronesi: “IL NOME DI QUESTA PIAZZA<br />

RAMMENTA - LA INVASIONE FRANCESE - I LI-<br />

BERI SENSI CITTADINI - L’ULTIMO GIORNO DI<br />

STEL S. FELICE - DAL CONSIGLIO DI GUERRA FRANCESE<br />

- SI RIPOSÒ PER POCO - SEDUTO SUGLI ESTERNI GRADI-<br />

NI - DI QUESTA CASA - A DURATURA MEMORIA - IL PRO-<br />

NIPOTE JACOPO AVOGADRO SAC. - NELL’ANNO 1886 POSE.<br />

40<br />

42 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


VENEZIA REPUBBLICA - APRILE 1797”.<br />

Vorrei aggiungere, in chiusura, anche come<br />

spunto per ulteriori riflessioni, qualche altra considerazione<br />

sulle “Pasque” e sul loro epilogo a<br />

livello locale. Ancora il 25 aprile, quando si costituisce<br />

la “Municipalità democratica”, la città<br />

di Verona era piena di soldati regolari, di milizie<br />

territoriali venete, di villici accorsi dalle campagne<br />

e di popolani veronesi armati. Si trattava di<br />

gente ancora disposta a combattere e che, scelta<br />

un’altra soluzione, bisognava rastrellare per tutta<br />

la città e disarmare senza dare luogo ad altri<br />

disordini.<br />

Le nuove autorità veronesi, in maggioranza di<br />

estrazione borghese e, quindi, molto propense a<br />

considerare i beni materiali più dei principì e degli<br />

ideali, si trovarono alle prese con il difficile<br />

compito di disarmare un popolo di cui non avevano<br />

il controllo, e lo fecero, a quanto pare, pressati<br />

più dal timore di torbidi a sfondo sociale, che<br />

avrebbero certamente colpito beni e interessi delle<br />

classi abbienti, che per necessità di consegnare<br />

ai Francesi una città inerme, come richiedevano<br />

i termini della capitolazione.<br />

Anche i Francesi, infatti, avevano avvertito la<br />

gravità della situazione e il pericolo costituito dai<br />

“villici” armati, tanto che inserirono nella bozza<br />

della capitolazione proposta dal generale Kilmaine<br />

e firmata dal genera le Balland e dai Provveditori<br />

veneti fino dal 24 aprile una clausola in base<br />

alla quale “... tutti i pezzi di cannone ... della città<br />

saranno inchiodati subito dai veneziani, affinché<br />

i villici non possano servirsene dal momento<br />

presente infino a quello in cui ne prenderanno<br />

possesso i Francesi ...”. A quanto pare esisteva,<br />

effettivamente, il pericolo che i montanari<br />

della Lessinia o i popolani di San Zeno, per citare<br />

due gruppi particolarmente distintisi per ardore<br />

combattivo e per attaccamento a Venezia,<br />

non accettassero la capitolazione, interpretandola<br />

come un tradimento a danno di Venezia. Il popolino<br />

era insorto, come sappiamo, al grido di “Viva<br />

San Marco” e “morte ai Francesi” e i villici venuti<br />

da fuori si erano mossi a sostegno della Repubblica<br />

e della Religione e non certo per particolare<br />

simpatia verso la città o verso il ceto dominante<br />

cittadino. (Ricordo che pochi giorni<br />

dopo, a Venezia, quando si spargerà tra il popolo<br />

la notizia che il Maggior Consiglio ha votato la<br />

propria decadenza e la fine della Repubblica, la<br />

folla inferocita, al grido di “Viva San Marco, viva<br />

la Repubblica”, devasterà case e botteghe di patrizi<br />

e di borghesi noti per le loro simpatie verso<br />

la rivoluzione.).<br />

Anticipando la scelta fatta dai Borboni di Napoli<br />

qualche tempo dopo, si sarebbe potuto ancora<br />

lasciare scatenare i “lazzari” contro i Francesi<br />

in un estremo tentativo di resistenza, ma la<br />

cosa poteva essere molto pericolosa: sia nel caso<br />

di vittoria che nel caso di sconfitta, e la Municipalità<br />

preferì accettare anche i Francesi e i loro<br />

principì piuttosto che mettere a repentaglio le<br />

loro vite e i loro averi ... Così mandarono il generale<br />

Maffei dai capi delle varie bande, per tentare<br />

di convincerli a cedere le armi e a ritornarsene a<br />

casa propria, cosa che non fu facile né, penso,<br />

gradevole, per il valoroso generale veronese. In<br />

questo modo i Francesi ebbero ai loro piedi la<br />

città inerme, la Municipalità borghese conservò<br />

una parvenza di potere e il popolo se ne tornò a<br />

casa ...<br />

<strong>La</strong> Treccani che parla, molto succintamente,<br />

di “lotta sostenuta solo dalle classi popolari, a<br />

volte anche in contrasto con le autorità ...” dimostra<br />

su questo punto di aver capito l’essenza<br />

popolare e, sotto sotto, antiborghese delle “Pasque”.<br />

È mia profonda convinzione che i fatti e le conseguenze<br />

delle “Pasque”, uniti a quasi vent’anni<br />

di dominazione francese, abbiano influito in<br />

modo determinante sugli avvenimenti successivi<br />

e sul comportamento dei Veronesi nella prima<br />

metà dell’ottocento, che fu, sostanzialmente, un<br />

rifiuto popolare del movimento risorgimentale.<br />

Quando, poi, nel 1814 ritornerà e si consoliderà<br />

il dominio austriaco, i Veronesi accoglieranno,<br />

infatti, con entusiasmo un nuovo assetto politico<br />

e gli resteranno fedeli, nella grande maggioranza,<br />

fino alla cessione del Veneto al Regno<br />

d’Italia: fu, anche questa, una “liberazione” decisa<br />

da altri.<br />

Bibliografia<br />

A.A.V.V: “Le insorgenze antifrancesi in Italia nel<br />

triennio giacobino 1796-1799”; Roma,1992.<br />

Bertolini G.B.: “Narrazione storica del<br />

1797”; Ms. Biblioteca Civica di Verona<br />

Cipolla C.: “Compendio della storia politica di<br />

Verona”; Mantova, 1976<br />

“Dizionario del Risorgimento Italiano”; Vallardi,<br />

Milano,1931<br />

Lumbroso G.: “Rivoluzioni popolari contro i<br />

Francesi”; Firenze,1932<br />

Pindemonte I.: “Lettera politica sulle vicende del<br />

1796”; Verona,1880<br />

Sanfermo R.: “Lettera scritta nel Castello di S.<br />

Felice di Verona ...”; Padova,1797<br />

Zorzi A.: “<strong>La</strong> Repubblica del Leone”; Milano,1979<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 41


Piva, müsa, baghèt: la cornamusa padana<br />

no dei tratti salienti che lega la nostra terra<br />

alle altre regioni europee di matrice cel-<br />

Upopolare.<br />

tica è sicuramente la tradizione musicale<br />

In questo caso, veramente lo spartiacque<br />

appenninico è la linea arcana di separazione<br />

fra tradizioni che fanno capo a civiltà diverse.<br />

Al di sopra di questa linea - che, guardacaso,<br />

coincide quasi perfettamente con quella di separazione<br />

linguistica - le origini più remote della<br />

vicenda artistica musicale sono da ricercarsi nel<br />

substrato celtico comune a gran parte dell’Europa<br />

occidentale, sia per il tipo degli strumenti<br />

impiegati, che per le forme musicali prodotte, e<br />

questa matrice si è in qualche modo mantenuta<br />

per tutto il Medioevo e l’Età Moderna per arrivare<br />

quasi ai giorni nostri. In questo articolo<br />

tratteremo di uno degli strumenti musicali più<br />

caratteristici della nostra tradizione, vale a dire<br />

della piva, ovvero la versione padana della cornamusa<br />

diffusa in tutta l’area celtica. Quasi praticamente<br />

estinta nel secondo dopoguerra, è stata<br />

segnalata in tutta la Padania ed ha resistito<br />

più a lungo sulle Alpi bergamasche e nelle valli<br />

appenniniche che vanno dal Reggiano al Pavese,<br />

e, oltre lo spartiacque, in Liguria. Il nome<br />

“piva” deriva probabilmente da una simbiosi<br />

onomatopeica fra la “canna-pipa” e il “piparepigolare”<br />

degli uccelli; nella versione reggiana<br />

si chiama piva dal carnér, vale a dire “cornamusa<br />

col sacco”, sull’Appennino parmense è<br />

detta similmente piva d’la baga (“baga” = sacco-otre),<br />

nel Bergamasco è detta baghèt (evidente<br />

la radice comune “baga”), mentre nel Pavese<br />

è chiamata ancora più esplicitamente müsa.<br />

Le origini della cornamusa sono da ricercarsi<br />

nell’antico Vicino Oriente, in Persia, anche se<br />

piuttosto presto questo strumento è diventato<br />

tipico dell’Europa, dove si è diffuso in quasi tutte<br />

le aree, differenziandosi da regione a regione<br />

dal punto di vista della struttura. Le parti fondamentali<br />

di cui è costituita una cornamusa<br />

sono tre: il chanter, la sacca e i bordoni. <strong>La</strong><br />

melodia è prodotta dal cosiddetto chanter (che<br />

in inglese significa appunto “canterino”), una<br />

di Claudio Caroli<br />

I pezzi che insieme al sacco (al chanter) costituiscono<br />

una piva dell’Appennino Emiliano.<br />

sorta di oboe. <strong>La</strong> particolarità è data dal fatto<br />

che con le cornamuse non è possibile ottenere<br />

l’effetto “staccato”, ossia l’interruzione del suono,<br />

poiché il chanter è inserito nella sacca di<br />

riserva d’aria - la seconda componente della cornamusa<br />

- invece che essere fra le labbra del musicista,<br />

e la sacca deve sempre essere in pressione.<br />

Sempre nella sacca sono inseriti i bordoni,<br />

in numero variabile da uno a tre; le canne di<br />

bordone hanno scopo di accompagnamento, che<br />

consiste nel suono prolungato e non interrotto<br />

di un’unica nota, solitamente consonante con<br />

quella fondamentale del chanter. <strong>La</strong> piva ne ha<br />

due, a intervallo di un’ottava l’uno dall’altro,<br />

come la maggior parte delle cornamuse europee.<br />

<strong>La</strong> highland bag pipe, la famosissima “piva<br />

da guerra” scozzese, che è considerata la regina<br />

delle cornamuse, ne ha addirittura tre; quest’ultima<br />

è anche quella che ha il maggior volume<br />

sonoro, e che quindi richiede più aria. L’aria è<br />

introdotta nella sacca tramite un insufflatore<br />

tenuto in bocca dal suonatore. Più raramente<br />

invece questo è sostituito dal mantice; è il caso<br />

della altrettanto nota uillean pipe, la cornamusa<br />

irlandese, forse la più progredita della famiglia.<br />

Come dicevamo, si è andata delineando nel<br />

tempo una certa differenza tra le cornamuse<br />

delle varie regioni europee; la più marcata di<br />

42<br />

44 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Arnaldo Borella e Lorenzo Ferrari, gli ultimi suonatori dell’Appennino<br />

Parmense (foto Claudio Zavaroni, 1981)<br />

queste riguarda la canna del canto (o chanter).<br />

Infatti nell’area celtica questa è sempre una e<br />

solo una, ma dal volume sonoro notevole, è quasi<br />

sempre cromatica, cioè sono possibili quasi tutti<br />

gli intervalli di un mezzo tono, ed ha un’estensione<br />

che può variare da un’ottava a quasi due.<br />

Al di sotto dello spartiacque appenninico - e, per<br />

estensione, nell’area mediterranea - questa componente<br />

dello strumento è doppia, cioè abbiamo<br />

due chanter, con una estensione minore e<br />

un volume sonoro minore, ma con la possibilità<br />

di una armonizzazione essenziale, poiché i<br />

due chanter non sono all’unisono, ma intervallati<br />

in genere di una terza. I bordoni sono sempre<br />

due, ma a differenza della piva e di tutte le<br />

altre cornamuse europee, dove sono inseriti dietro,<br />

e vanno portati sulla spalla, qui stanno davanti,<br />

e fuoriescono dal cippo (raccordo di legno<br />

tra le canne e la sacca) assieme ai chanter.<br />

Questo strumento meridionale è più propriamente<br />

chiamato zampogna.<br />

<strong>La</strong> piva è caduta in disuso rispetto alle altre<br />

cornamuse; da molti anni non è più conosciuta<br />

a livello popolare come potrebbero essere oggi<br />

la uillean pipe o la bag pipe nei paesi anglosassoni,<br />

anzi era stata quasi completamente dimenticata.<br />

Grazie però alle preziosissime ricerche<br />

condotte da alcuni valorosi, tra cui ricordiamo<br />

quelle svolte quindici anni or sono da Bruno<br />

Grulli nell’Emilia occidentale, abbiamo scoperto<br />

per l’appunto che in Padania avevamo una<br />

nelle orchestrine da ballo della nostra montagna<br />

già dal secolo scorso: come altri aerofoni<br />

antichi, anche la piva non era temperata, il che<br />

rendeva molto difficile suonarla con altri strumenti<br />

che avevano già raggiunto una standardizzazione.<br />

Fortunatamente oggi assistiamo, se<br />

non ad una ripresa vera e propria, almeno ad<br />

una nuova attenzione a questi aspetti quasi dimenticati<br />

della nostra musica tradizionale, sia<br />

attraverso gruppi musicali che coltivano il repertorio<br />

della piva o ne traggono ispirazione, sia<br />

attraverso tentativi di ricostruzione di questo<br />

strumento eminentemente padano.<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

cornamusa tutta nostra, ancora<br />

abbastanza diffusa sulle nostre<br />

montagne fino a qualche<br />

decennio fa, quando molti, non<br />

necessariamente pastori, la sapevano<br />

suonare, e nelle feste<br />

popolari legate ai momenti più<br />

importanti della vita rurale<br />

(come sagre, matrimoni, questue<br />

dell’Epifania, veglie di Carnevale<br />

- vale a dire nell’ambito<br />

prevalente delle festività rituali<br />

profane) la gente danzava al<br />

suono della piva i caratteristici<br />

balli saltati che accomunano<br />

tutti i paesi celtici. Era rimasta<br />

comunque uno di quegli strumenti<br />

cosiddetti “poveri”, usati<br />

da e per le classi non dominanti,<br />

ed è stata abbandonata<br />

soprattutto per il prepotente<br />

avvento del violino, che l’ha so-<br />

stituita come strumento solista<br />

❏ B. Grulli, Appunti sulla presenza della “piva<br />

dal carnér” in provincia di Reggio Emilia, in:<br />

Strenna 1987 del Pio Istituto Artigianelli, Reggio<br />

Emilia 1987<br />

❏ A. Baines, Storia degli strumenti musicali,<br />

Rizzoli, Milano 1995<br />

❏ C. Sachs, Storia degli strumenti musicali,<br />

Mondadori, Milano 1995<br />

Ulteriori referenze bibliografiche rintracciabili in:<br />

❏ Guida alla musica popolare in Italia, vol I,<br />

Forme e strutture, a cura di R. Leydi, Libreria<br />

Musicale Italiana, Lucca 1996<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 43


Il nome vero dei nostri paesi<br />

Dopo avere creato tutte le cose, il Buon Dio<br />

cominciò a dare loro dei nomi e disse loro:<br />

“Siete vive perché avete un nome. Il vostro<br />

nome è la vostra anima. Non fatevi togliere<br />

il nome perché sareste morte. Non fatevi<br />

cambiare il nome perché sareste schiave di<br />

chi ve lo ha cambiato”.<br />

(Da un racconto ossolano)<br />

Continua il lavoro sistematico di divulgazione dei nomi in lingua locale dei comuni e delle località<br />

padane. Si tratta di elencazioni inevitabilmente incomplete: preghiamo chiunque possa farlo di darci<br />

informazioni su eventuali imprecisioni e di farci avere indicazioni su nomi mancanti. Le grafìe indicate<br />

sono quelle normalmente impiegate nelle varie lingue locali.<br />

<strong>La</strong> grafìa piemontèisa<br />

Il valore della maggior parte dei segni è quello che essi hanno in italiano. Si noti tuttavia<br />

quanto segue:<br />

e senza accento si pronuncia di regola aperta in sillaba chiusa (mercà) e chiusa in<br />

sillaba aperta (pera), ma vi sono alcune eccezioni<br />

é simile alla e chiusa italiana ma più aperta (caté, lassé)<br />

è simile alla e aperta italiana, ma più aperta (cafè, përchè)<br />

ë detta e semimuta simile a quella francese di le (fërté, flëtta)<br />

eu simile al francese eu (cheuse, reusa)<br />

o simile alla u italiana (conté, mon)<br />

ò simile alla o aperta italiana, in piemontese è sempre e solo tonica (còla, fòrt)<br />

u simile al francese u (butir, muraja)<br />

ua dopo una q (e in pochi casi isolati) vale ua di quando (quand, qual)<br />

ùa, ùe si pronuncia bisillabo ua (crùa, lesùa)<br />

j simile alla i iniziale di ien e alla i di mai (braje, cavèj), nella grafia piemontese<br />

tuttavia la j ha talora solo valore etimologico e nella pronuncia non si sente o si<br />

sente appena (ciò è vero specialmente dopo la res. fija = lat. volg. filja = lat. class.<br />

filia, si trova di solito in corrispondenza con un gl italiano)<br />

n n velare o faucale senza corrispondente ben preciso in italiano, ma simile alla n di<br />

fango (lun-a, sman-a)<br />

s iniziale di parola o postconsonantica suona s sorda (sapa, batse), tra vocali o in<br />

fine di parola dopo una vocale è sempre sonora (lese, posé, pas, “pace”)<br />

ss si usa tra le vocali o in fine di parola dopo una vocale per indicare la s sorda (lassé,<br />

possé, pass, “passo”)<br />

s-c si usa per indicare il suono di s come in scatola, ceguito da una c palatale come in<br />

cena (s-ciapé, ras-cé)<br />

44<br />

46 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


z si usa solo in posizione iniziale o postconsonantica per indicare la s sonora (zanziva,<br />

monze)<br />

v in posizione finale di parola si pronuncia simile alla u di paura (ativ, luv, “lupo”) e<br />

così avviene anche nel corpo di una parola quando non corrisponda ad una v italiana<br />

(gavte, luva, “lupa”); negli altri casi ha il suono della v italiana (lavé, savèj)<br />

ACCENTAZIONE. Si segna l’accento tonico o sulle sdrucciole (stiribàcola), sulle tronche<br />

uscenti in vocale (parlé, pagà, cafè), sulle piane uscenti in consonante (quàder, nùmer), sol<br />

dittongo ei se la è è aperta (piemontèis, mèis), sul gruppo ua quando la u vale ù (batùa), e su<br />

gruppi di ì più vocale alla fine di una parola (finìa, podrìo, ferìe). L’accento si segna anche in<br />

pochi altri casi isolati dove non occorrerebbe per regola e per indicare eccezioni (tèra, amèra,<br />

dove la e di sillaba aperta dovrebbe essere chiusa mentre è aperta) e può facoltativamente<br />

segnarsi sulle e delle finali -et -el per indicare il grado di apertura (bochèt, lét). L’accento<br />

serve inoltre a distinguere alcune coppie di omografi (sà verbo, sa “questa”, là avverbio, la<br />

articolo).<br />

<strong>La</strong> grafìa occitana<br />

o, ò u italiana: lop (lupo)<br />

ò o italiana: devòt (devoto)<br />

u u francese<br />

a (finale) si pronuncia generalmente o ceba (sebo - cipolla)<br />

a, o, è, é i, ì come in italiano<br />

uè si pronuncia üè, ö, è: nuèch (notte)<br />

c c(h) italiana ad a, o, ò, u, uè: es. calinhar (corteggiare) davanti ad e, i ha il<br />

suono della s italiana: ceba (sebo)<br />

ch c(i) italiana, davanti a tutte le vocali e in posizione finale<br />

qu c(h) italiana, davanti ad e, i<br />

g g(h) italiana, davanti ad a, o, ò, u, uè in posizione finale passa a k<br />

gu g(h) italiana, davanti ad e, i<br />

s s aspra italiana nella parola “sole”<br />

s dolce italiana, in posizione intervocalica, come in “rosa”<br />

ss s aspra italiana, in posizione intervocalica, senza far sentire il raddoppiamento<br />

ç s aspra italiana, es. esfòrç (sforzo), provençal (provanzale)<br />

lh gl(l) o i italiana es. palha (paglia)<br />

nh gn italiana, come nella parola “agnello”<br />

z usata in pochi casi, ha il suono della s dolce italiana, es. azur (azzurro), azard<br />

(azzardo)<br />

x corrisponde al suono s aspra italiano, es. explicar (esplicà) spiegare<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 45


Toponomastica della provincia di Cuneo<br />

Nome italiano Nome locale Nome italiano Nome locale<br />

Acceglio Assej - Asèi (O)<br />

Aisone Aison - Aizoun (O)<br />

Alba Alba<br />

Albaretto della Torre Albarèj<br />

Alto Auto - Aoto (L)<br />

Argentera Argentera - L’Argentìera (O)<br />

Arguello Arguèl<br />

Bagnasco Bagnasch<br />

Bagnolo Piemonte Bagneul - Banhùel (O)<br />

Baldissero d’Alba Baussé<br />

Barbaresco Barbaresch<br />

Barge Barge<br />

Barolo Bareul<br />

Bastia Mondovì Bastìa<br />

Battifollo Batifòl<br />

Beinette Beinëtte<br />

Bellino Blin - Blins (O)<br />

Belvedere <strong>La</strong>nghe Bërvèj<br />

Bene Vagienna Bene<br />

Benevello Benevél<br />

Bèrgolo Bergui<br />

Bernezzo Bërnes - Bernes (O)<br />

Bonvicino Bonvzin<br />

Borgomale Bergomà<br />

Borgo San Dalmazzo (ël) Borgh - Lou Bourc (O)<br />

Bòsia Beusia<br />

Bossolasco Bossolasch<br />

Boves Beuves - Boeves (O)<br />

Bra Bra<br />

Brìaglia Briaja<br />

Briga Alta Briga - Briga Aouta (O)<br />

Ra Briga (L)<br />

Brondello Brondél - Broundel (O)<br />

Brossasco Brossasch - Brousasc (O)<br />

Busca Busca<br />

Camerana Camran-a<br />

Camo Camo<br />

Canale Canal<br />

Canòsio Cianeus - Chanueios (O)<br />

Caràuna Cravaun-a - Cravaina (L)<br />

Caràglio Caraj - Carài (O)<br />

Caramagna Piemonte Caramagna<br />

Cardè Cardè<br />

Carrù Carù<br />

Cartignano Cartignan - Cartinhan (O)<br />

Casalgrasso Casalgrass<br />

Castagnito Castagnì<br />

Casteldelfino Casteldelfin<br />

Chasteldeifin (O)<br />

Castellàr Castlar<br />

Castelletto Stura Castlèt<br />

Castelletto Uzzone Castlèt<br />

Castellinaldo Castlinàud<br />

Castellino Tànaro Castlin Tane<br />

Castelmagno Castelmagn<br />

Chastelmanh (O)<br />

Castelnuovo di Ceva Castelneuv<br />

Castiglione Falletto Castion<br />

Castiglione Tinella Castion<br />

Càstino Casto<br />

Cavallerleone Cavalion<br />

Cavallermaggiore Cavlimor<br />

Celle di Macra Sele - Sèles (O)<br />

Centallo Santal<br />

Ceresole d’Alba Ceresòle<br />

Cerretto <strong>La</strong>nghe Srèj<br />

Cervasca Servasca - Sarvasca (O)<br />

Cervere Servere<br />

Ceva Seva<br />

Cherasco Cherasch<br />

Chiusa di Pèsio (la) Ciusa - <strong>La</strong> Chuza (O)<br />

Cigliè Sié<br />

Cissone Cisson<br />

Clavesana Cravzan-a<br />

Corneliano d’Alba Cornian<br />

Cortemìlia Cortmija<br />

Cossano Belbo Cossan<br />

Costigliole Saluzzo Costiòle<br />

Cravanzana Cravansan-a<br />

Crissolo Crisseul - Crisol (O)<br />

Cuneo Coni<br />

Demonte Demont - Demount (O)<br />

Diano d’Alba Dian<br />

Dogliani Dojan<br />

Dronero Droné - Drounìe (O)<br />

Elva Elva - Elvo (O)<br />

Entràcque Entràive - Antràigue (O)<br />

Envie Envìe<br />

Farigliano Farian<br />

Fàule Fàule<br />

Nota: I nomi senza particolare indicazione sono in piemontese o in altra lingua quando la dizione è<br />

identica. In caso di diversità, vengono riportate tutte le dizioni. <strong>La</strong> versione ligure (se diversa da<br />

quella piemontese) è indicata con (L), quella occitana con (O).<br />

46<br />

48 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Nome italiano Nome locale Nome italiano Nome locale<br />

Feisòglio Feisseu<br />

Fossano Fossan<br />

Frabosa Soprana Frabosa<br />

Frabouza Soubrana (O)<br />

Frabosa Sottana Frabosa<br />

Frabouza Soutana (O)<br />

Fràssino Frasso - Fràise (O)<br />

Gaiola Gajòla - Gaiola (O)<br />

Gambasca Gambasca<br />

Garèssio Garess - Garesci (L)<br />

Gènola Genola<br />

Gorzegno Gorzegn<br />

Gottasecca Botasëcca<br />

Govone Govon<br />

Grinzane Cavour Grinzane<br />

Guarene Guaren-e<br />

Igliano Ijan<br />

Isasca Isasca - Izascho (O)<br />

<strong>La</strong>gnasco <strong>La</strong>gnasch<br />

<strong>La</strong> Morra <strong>La</strong> Mora<br />

Lèquio Bèrria Lech<br />

Lèquio Tànaro Lequi<br />

Lesegno Ëlzegn<br />

Lèvice Lèis<br />

Limone Piemonte Limon - Limoun (O)<br />

Lìsio Lisi<br />

Macra Albaretto Macra<br />

L’Arma e l’Albarè (O)<br />

Magliano Alfieri Majan<br />

Magliano Alpi Majan<br />

Mango (ël) Mango<br />

Manta (la) Manta<br />

Marene Maren-e<br />

Margarita Margarita<br />

Màrmora <strong>La</strong> Marmou<br />

Marsàglia Marsaja<br />

Martiniana Po Martinian-a<br />

Martinhana (O)<br />

Melle (lo) Mél - Lou Mel (O)<br />

Moiola Mojòla - Mouiola (O)<br />

Mombarcaro Mombarché<br />

Mombasìglio Mombasili<br />

Monastero di Vasco Monasté<br />

Monasterolo Casotto Monasteireu<br />

Monasterolo<br />

di Savigliano Monastireu<br />

Monchiero Moncé<br />

Mondovì (ël) Mondvì<br />

Monesìglio Munisì<br />

Monforte d’Alba Monfòrt<br />

Montà (la) Montà<br />

Montaldo di Mondovì Montàud<br />

Montaldo Roero Montàud<br />

Montanera Montanèra<br />

Montelupo Albese Montluv<br />

Montemale di Cuneo Montma<br />

Mountoumal (O)<br />

Monterosso Grana Montross<br />

Mountourous (O)<br />

Monteu Roero Montèj<br />

Montezèmolo Monzemo<br />

Monticello d’Alba Montisel<br />

Moretta Morëtta<br />

Morozzo Moross<br />

Murazzano Murassan<br />

Murello Murél<br />

Narzole Narsòle<br />

Nèive Nèive<br />

Nevìglie Nevije<br />

Niella Belbo Niela<br />

Niella Tànaro Niela<br />

Novello Novéj<br />

Nucetto Nosèj<br />

Oncino Onsin - Ounçin (O)<br />

Ormea Ormea<br />

Ostana Ostan-a - Oustano (O)<br />

Paesana Paisan-a - Pizano (O)<br />

Pagno Pagn - Panh (O)<br />

Pamparato Pamparà<br />

Paroldo Paròd<br />

Perletto Përlej<br />

Perlo Perlo<br />

Peveragno Povragn - Pouvranh (O)<br />

Pezzolo Valle Uzzone Pseu<br />

Pianfei Pianféj<br />

Piasco (ël) Piasch - Lou Piasc (O)<br />

Pietrapòrzio Peiropurch<br />

Peiropùorc (O)<br />

Piòbesi d’Alba Piòbes<br />

Piozzo Piòss<br />

Pocapàglia Pocapaja<br />

Polonghera Polonghera<br />

Pontechianale Pontcianal<br />

Pount e le Chanal (O)<br />

Pradléves Pradleves - Pradievi (O)<br />

Prazzo Prass - Pras (O)<br />

Priero Prié<br />

Priocca Prioca<br />

Priola Priòla<br />

Prunetto Prunèj<br />

Racconigi Racunis<br />

Revello Arvél - Revel (O)<br />

Rifreddo Rifrèd - Rifret (O)<br />

Rittana Ritana<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 47


Roàschia Roas-cia - Rouascha (O)<br />

Roàscio Roass<br />

Robilante Robilant - Roubilant (O)<br />

Roburent Arburent<br />

Roccabruna (la) Ròcia ëd Droné<br />

<strong>La</strong> Rocho (O)<br />

Rocca Cigliè Ròca<br />

Rocca de’ Baldi Ròca<br />

Roccaforte Mondovì Rocafòrt - Rocafouart (O)<br />

Roccasparvera Rocasparvera<br />

<strong>La</strong> Roca (O)<br />

Roccavione Rocavion<br />

Roucavioun (O)<br />

Rocchetta Belbo Rochëtta<br />

Roddi Ròd<br />

Roddino Rodin<br />

Rodello Rodél<br />

Rossana Rossan-a - Rousano (O)<br />

Ruffia Rufìa<br />

Sale delle <strong>La</strong>nghe Sale<br />

Sale San Giovanni Sale<br />

Saliceto Sarzèj<br />

Salmour Salmor<br />

Saluzzo Salusse<br />

Sambuco Sambuch<br />

Lou Sambuc (O)<br />

Sampéyre San Pèire<br />

San Benedetto Belbo San Benedèt<br />

San Damiano Macra San Damian<br />

Sanfrè Sanfré<br />

Sanfrònt Sanfront - San Frount (O)<br />

San Michele Mondovì San Michel<br />

Sant’Albano Stura Sant’Alban<br />

Santa Vittoria d’Alba Santa Vitòria<br />

Santo Stefano Belbo San Steo<br />

Santo Stefano Roero San Steo<br />

Savigliano Savian<br />

Scagnello Scagnel<br />

Scarnafigi Scarnafis<br />

Serralunga d’Alba Seralonga<br />

Serravalle <strong>La</strong>nghe Saraval<br />

Sìnio Sin-i<br />

Somano Soman<br />

Sommariva del Bosco Somariva (dël Bòsch)<br />

Sommariva Perno Somariva la +uta<br />

Stroppo Stròp - Estrop (O)<br />

Tarantasca Tarantasca<br />

Torre Bòrmida Tor Bormia<br />

Torre Mondovì (la) Tor<br />

Torre San Giorgio (la) Tor<br />

Torresina Torzela<br />

Trèiso Trèiso<br />

Trezzo Tinella Trés<br />

Trinità Trinità<br />

Valdieri Vodiaz - Voudìer (O)<br />

Valgrana Valgran-a - Vergrana (O)<br />

Valloriate Valàuria - Valàouria (O)<br />

Valmala Valmala - Vërmala (O)<br />

Venasca Venasca - Venascho (O)<br />

Verduno Vërdun<br />

Vernante Vërnant - Ou Vërnant (O)<br />

Verzuolo Vërzeul<br />

Vezza d’Alba Vëssa<br />

Vicoforte Vi<br />

Vignolo Vigneul - Vinhoel (O)<br />

Villafalletto Vila<br />

Villanova Mondovì Vilaneuva<br />

Villanova Solaro Vilaneuva<br />

Villar San Costanzo Vilar<br />

Vinàdio Vinaj - Vinài (O)<br />

Viola Viòla<br />

Vottignasco Votignasch<br />

48<br />

50 - Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997


Biblioteca<br />

<strong>Padana</strong><br />

Carlo Lottieri<br />

Nonostante Scalfaro<br />

Treviglio (BG): Leonardo Facco<br />

Editore, 1996<br />

pagg. 104, Lit. 15000<br />

Il libro in esame è una raccolta<br />

di articoli che Carlo Lottieri<br />

aveva scritto per L’Indipendente<br />

prendendo spunto da vari argomenti<br />

di cronaca (dalle vicende<br />

della politica interna al<br />

suicidio di un vicesindaco giapponese,<br />

da un sondaggio sulla<br />

“voglia di secessione” in Padania<br />

al crollo di un aereo in Florida<br />

ai Freemen americani...)<br />

per poi esprimere proprie considerazioni<br />

più generali. Insomma,<br />

i fatti reali costituiscono<br />

delle vere e proprie imbeccate<br />

da cui l’autore tira fuori riflessioni<br />

sulla natura dell’uomo e<br />

del diritto, sulla libertà individuale<br />

e sulla funzione (e l’inevitabile<br />

crollo) del moderno stato<br />

nazionale.<br />

Il libro, nonostante la propria<br />

disorganicità strutturale, è un<br />

vero e proprio compendio di<br />

cultura libertarian, un vademecum<br />

dove si può trovare<br />

una trattazione ed una soluzione<br />

della stragrande maggioranza<br />

dei problemi classici del liberalismo.<br />

Ovviamente gli articoli di Lottieri<br />

essendo stati scritti per un<br />

quotidiano sono molto divulgativi;<br />

ciò costituisce però a nostro<br />

parere un punto di merito per<br />

l’autore che ha saputo con poche<br />

e semplici parole spiegare<br />

dei concetti del tutto estranei al<br />

pensiero filosofico “italiano” che<br />

ha avuto pochissimi veri liberali<br />

e quei pochi li ha presto di-<br />

menticati(pensiamo ad esempio ad<br />

un Einaudi, pressoché<br />

inesistente sui<br />

testi scolastici).<br />

Il termine stesso di<br />

“liberalismo” si presta<br />

in “Italia” a molte<br />

ambiguità, derivanti<br />

dall’uso (e<br />

abuso) che ne è stato<br />

fatto, tanto che si<br />

può dire di esso tutto<br />

e il contrario di<br />

tutto. <strong>Libera</strong>li sono<br />

stati definiti personaggi<br />

e pensatori di<br />

sinistra e di destra e<br />

anche veri e propri<br />

sostenitori dell’interventismo<br />

statale.<br />

Si preferisce pertan-<br />

to in questa sede<br />

utilizzare il termine libertarismo,<br />

mediato dall’americano libertarianism<br />

che indica la scuola<br />

di pensiero di Rothbard, Von<br />

Mises, Nock e altri; una corrente<br />

che è stata definita anche<br />

come “liberalismo radicale” o<br />

“liberalismo integrale” in omaggio<br />

alla sua coerenza assoluta<br />

con l’assioma del diritto alla<br />

proprietà privata, da cui si fanno<br />

discendere tutti gli altri diritti<br />

e doveri (e libertà) dei singoli.<br />

Tale filone di pensiero è<br />

interpretato in Padania da liberi<br />

pensatori quali lo stesso Lottieri,<br />

che affermano tesi del tutto<br />

controcorrente e talvolta anche<br />

impopolari, come la difesa<br />

di mestieri vilipesi quali lo spacciatore<br />

di droga, l’usuraio, la<br />

prostituta.<br />

Nonostante Scalfaro è dunque<br />

più che un libro una summa di<br />

pensieri che trovano la propria<br />

origine e la propria giustificazione<br />

nella questione della libertà<br />

individuale; non sta all’autore<br />

andare fondo: Lottieri si limita<br />

a proporre un’interpretazione<br />

integralmente liberale della realtà;<br />

è compito poi del lettore<br />

capirla e farla propria, o eventualmente<br />

trovare degli argomenti<br />

validi per contestarla.<br />

Questo libro si presta poco anche<br />

ad essere recensito, vista<br />

l’emorme quantità di argomenti<br />

trattati; ci limiteremo pertanto<br />

a fare qualche considerazione<br />

su alcuni degli articoli, facendo<br />

ben presente al lettore che la<br />

scelta non vuole assolutamente<br />

dare una caratterizzazione al<br />

testo, ma si basa semplicemente<br />

sugli scritti che più ci hanno<br />

colpiti.<br />

Convincente è ad esempio l’articolo<br />

in cui Lottieri si chiede,<br />

prendendo spunto dalla vicenda<br />

di Salman Rushdie, se “Gli intolleranti<br />

vanno tollerati?”. <strong>La</strong><br />

risposta è lapidaria: gli intolleranti<br />

non vanno tollerati ed ogni<br />

dubbio in tal senso nasce da una<br />

distorta visione della libertà individuale,<br />

che mette sullo stesso<br />

piano la libertà di Rushdie di<br />

scrivere “versetti satanici” e<br />

quella degli integralisti musul-<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 49


Biblioteca<br />

<strong>Padana</strong><br />

mani di ucciderlo. Le due cose<br />

sono invece radicalmente diverse:<br />

chiunque può scrivere ciò<br />

che pensa e, anche se le sue parole<br />

sono moralmente deprecabili,<br />

nessuno può impedirgli di<br />

renderle pubbliche; al contrario<br />

nessuno può uccidere o far del<br />

male a qualcun altro.<br />

Interessanti sono poi i numerosi<br />

articoli in cui si parla del diritto<br />

di secessione in generale e, in particolare,<br />

del caso della Padania.<br />

Lottieri si fa portatore di una<br />

contestazione globale ai metodi<br />

e alle forme dello stato moderno,<br />

che fa uso quotidiano e naturale<br />

della violenza e della coercizione.<br />

Lo stato moderno non<br />

si cura infatti minimamente della<br />

volontà dei singoli, ma solo<br />

del proprio utile, che poi coincide<br />

con l’utile dei boiardi e dei<br />

politicanti che lo gestiscono.<br />

Possono capitare talvolta politici<br />

illuminati che cercano di agire<br />

nel rispetto della libertà individuale,<br />

ma questa non è la regola<br />

(e sicuramente non è il nostro<br />

caso: l’Italia è uno stato in<br />

cui, per usare le parole del grande<br />

De Andrè, “in prima pagina<br />

venti notizie ventuno ingiustizie<br />

e lo stato che fa? Si costerna,<br />

s’indigna, s’impegna poi getta<br />

la spugna con gran dignità”).<br />

Anche le critiche al presunto<br />

“egoismo nordista” vengono<br />

confutate: al di là del fatto che<br />

non può essere classificata come<br />

egoismo l’arrabbiatura di ciascuno<br />

di noi quando vede i propri<br />

soldi, guadagnati col sudore<br />

della fronte, precipitare nell’oscuro<br />

baratro romano, in ogni<br />

caso l’egoismo, pur essendo a<br />

volte deprecabile, è sempre e<br />

comunque legittimo; è pertanto<br />

illiberale e oppressivo (oltre<br />

che immorale) imporre la solidarietà<br />

per decreto, tanto più se<br />

la solidarietà va sempre nelle<br />

stesse sporche tasche.<br />

Insomma, Nonostante Scalfaro<br />

è un libro a 360 gradi, che porta<br />

tutto sotto una luce diversa ed<br />

esprime ogni minimo giudizio<br />

secondo il criterio della libertà<br />

individuale: vanno favorite tutte<br />

e sole quelle politiche che<br />

Piero Favero<br />

L’oro di San Marco. Romanzo<br />

storico della Lega Lombarda<br />

Padova: Editoriale Programma,<br />

1994<br />

382 pagine. 16.000 lire<br />

Interessante e divertente romanzo<br />

ambientato nella seconda<br />

metà del XIII secolo fra Ve-<br />

nezia e le sue terre d’oltremare.<br />

Vi si racconta la<br />

storia (narrata in<br />

prima persona)<br />

di Petrangèsio,<br />

mosaicista della<br />

Basilica d’Oro di<br />

Venezia, che,<br />

coinvolto in storie<br />

di alchimia e<br />

intrighi, percorre<br />

fra cento avventure<br />

il Mediterraneoveneziano<br />

fino al lieto<br />

finale.<br />

<strong>La</strong> vicenda funge<br />

però solo da scusa<br />

per raccontare<br />

mille cose interessanti<br />

che<br />

vanno dal mito<br />

degli Iperborei,<br />

ai simboli più<br />

profondi della<br />

cultura del tempo,<br />

alle vicende<br />

storiche di Venezia<br />

e della secon-<br />

vanno nella direzione della libertà.<br />

Ogni altro approccio alla gestione<br />

della res publica (finché<br />

ci sarà - e speriamo che sia ancora<br />

per poco) è semplice violenza<br />

e oppressione. Quella libertaria<br />

è l’unica strada che la<br />

Padania potrà seguire per giungere<br />

alla propria indipendenza;<br />

ogni altra via ne farebbe un’altra<br />

Italia, con tutti i suoi difetti<br />

in piccolo. A noi la scelta.<br />

Giò Batta Perasso<br />

da Lega Lombarda che nel 1249<br />

ha sbaragliato a Fossalta l’esercito<br />

di Federico II.<br />

Il libro è colto e ben strutturato<br />

e costituisce una simpatica occasione<br />

per scoprire molti lati<br />

interessanti e meno noti dell’eterno<br />

animo della “venezianità”<br />

e tutta una serie di fatti che<br />

stanno alle radici dell’idea stessa<br />

di Padania.<br />

5052<br />

- Quaderni Padani Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997

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