Pdf completo da scaricare - Svizzera Pesciatina
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La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong>, con la sua storia, la sua cultura, il paesaggio, la tipicità e<br />
le attività economiche tradizionali, è custode di un sapere antico che affon<strong>da</strong> le proprie<br />
radici nella civiltà rurale e artigiana. Un paesaggio valorizzato <strong>da</strong>l lavoro di generazioni<br />
di agricoltori e artigiani, piccoli paesi e borghi rurali a testimoniare il lavoro dell’uomo e<br />
i suoi effetti sul territorio, sul paesaggio e sull’architettura.<br />
L’artigianato, orgoglio e simbolo di una cultura locale assai antica, ha fornito esempi<br />
di prodotti generatori <strong>da</strong>l forte valore aggiunto: laboratori artigianali e attività quali ramai,<br />
campanari canestrai, cestai ecc., sono sopravvissuti nel passato nei centri delle dieci<br />
“Castella”. Piccoli laboratori a gestione familiare che si traman<strong>da</strong>no un ricco patrimonio<br />
artistico <strong>da</strong> generazioni. Le informazioni storiche su questi mestieri si sono traman<strong>da</strong>te<br />
nei secoli oralmente mentre documentazione cartacea si trova solo a partire <strong>da</strong>i primi del<br />
‘900, e in maniera più considerevole a cavallo fra le due guerre mondiali.<br />
Nel testo che segue si analizzano gli antichi mestieri con le loro peculiarità e tradizioni,<br />
e, a partire <strong>da</strong>lla testimonianze e <strong>da</strong>lle interviste agli abitanti, si cerca di dedurre usi<br />
e costumi che hanno accompagnato per secoli la vita nei paesi della <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong>.<br />
All’interno della maggior parte dei borghi della Valleriana si riscontrano storicamente<br />
mestieri legati alla ruralità e al piccolo artigianato; alcune “Castella”, denotano però delle<br />
tipicità che le hanno rese uniche e note, non solo in Toscana, ma anche in tutto il mondo.<br />
A San Quirico, paese dei fonditori di bronzo, questi artigiani sono presenti a partire<br />
<strong>da</strong>l XV secolo, specializzati nella fusione per la creazione di campane, conosciuti non<br />
solo in Valleriana e a Lucca ma anche all’estero. Ogni maestro fonditore era depositario<br />
di un “saper fare” costituito <strong>da</strong> elementi di metallurgia, ma anche sensibilità musicale e<br />
perizia nelle operazioni accessorie, come la ricerca dell’argilla più a<strong>da</strong>tta. Dal X secolo,<br />
le campane assunsero anche un ruolo civile per chiamare a raccolta la comunità per<br />
eventi ordinari ed eccezionali. Sappiamo che fino al XIX secolo, le botteghe artigiane<br />
erano dislocate in tutto il perimetro del paese.<br />
2.3 vita nelle Castella e antichi mestieri<br />
a cura di Davide Trane e Mauro Agostini<br />
La perfezione delle opere dei mastri fonditori era veramente unica e il suono prodotto<br />
<strong>da</strong>lle campane si riconosceva ovunque. Era usata una tecnica di fusione e una lega<br />
particolare basata su conoscenze che venivano traman<strong>da</strong>te oralmente e che ancora oggi è<br />
sconosciuta. Dai libri di lavoro (tutti posteriori al 1700), conservati presso l’Archivio di<br />
Stato di Lucca, o gelosamente conservati <strong>da</strong> alcuni eredi, si ricavano notizie economiche<br />
o di maestranza. Dopo il XVIII secolo alcune botteghe si trasferirono a Pescia e a Lucca,<br />
insieme alle maestranze della famiglia Moreni di Castelvecchio. Gli artigiani presenti<br />
a San Quirico appartenevano alle famiglie Benigni, Angeli e Magni, ma il più famoso<br />
fonditore era Giò Quirico Benigni, che era anche pittore e scultore in alabastro e legno. Il<br />
suo ritratto ad olio è conservato presso la famiglia Fontana, ed è stato eseguito <strong>da</strong>l pittore<br />
locale Coli, raffigurato appoggiato ad una campana.<br />
Una notizia di particolare interesse risale al 1799, quando il paese si trovò, suo malgrado,<br />
nella zona di transito di due eserciti nemici: <strong>da</strong> una parte i francesi diretti a Genova<br />
e <strong>da</strong>ll’altra gli austro-russi che li inseguivano. Numerosi erano i bonapartisti, presenti<br />
in paese, che esprimevano le loro idee di libertà, anche con scritte sulle facciate delle<br />
case e, in questa occasione, l’appoggio ai francesi non mancò. Vennero suonate a raccolta<br />
le campane per difendersi e per avvertire l’esercito d’oltralpe che il nemico era vicino e<br />
favorendo un’azione difensiva. Dopo aver razziato il castello gli austro-russi se la presero<br />
con la campana più grande, che fu gettata <strong>da</strong>lla torre campanaria. Ma questa non si<br />
ruppe! I sol<strong>da</strong>ti tentarono di frantumarla con mazze senza riuscire a scalfirla. Le cronache<br />
raccontano che si fece avanti un paesano, Giò Quirico, che disse : “Volete proprio<br />
romperla? Ebbene la romperò io”. Prese una spina d’acciaio, la pose <strong>da</strong>lla parte opposta<br />
<strong>da</strong> dove batteva e, con un solo colpo, questa si ruppe. Occorre ricor<strong>da</strong>re che il simbolo<br />
dei fonditori di campane di S.Quirico era una piccola lucertola tanto che, in alcune case,<br />
si possono ancora vedere delle lucertole scolpite nelle pietra, simbolo di questa arte, a<br />
testimonianza della presenza di tali maestri. In particolare uno stemma è ancora visibile<br />
in un tratto di muro situato in una parte del paese denominato “Orticino”.<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong><br />
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La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong>
Pontito era la patria dei figurinai, “gli artigiani delle figurine di gesso”, famosi per<br />
l’arte di riprodurre le statuine, commerciate in tutta Europa, rappresentanti personaggi<br />
di ispirazione religiosa e altro. Personaggi storici che <strong>da</strong>lla secon<strong>da</strong> metà dell’ ‘800, fino<br />
alla metà ‘900, emigrarono divulgando questa tradizione secolare.<br />
Il metodo per realizzare una statuina in gesso richiedeva una grande esperienza<br />
ed abilità <strong>da</strong> parte dell’artigiano che doveva avere doti artistiche per dipingere a mano<br />
le singole statuette, una volta modellate. Il gesso non era un prodotto tipico del luogo,<br />
nè i disegni che venivano raffigurati erano esclusivi dell’ambiente, originale era invece<br />
la lavorazione del materiale, che per manualità e poesia, e per genio creativo, sapeva<br />
misurarsi con le tradizioni. Il signor Niccolai Gennaro, di Pontito, intervistato su questo<br />
antico mestiere, svolto fino alla metà del ‘900, ha raccontato che <strong>da</strong> generazioni in<br />
inverno molti uomini del paese, invece di an<strong>da</strong>re a fare carbone, emigravano in altre<br />
località d’Italia, come per esempio Arezzo, Pisa, Roma, per produrre e vendere le famose<br />
statuine, mentre altri an<strong>da</strong>vano addirittura all’estero. L’arte dei figurinai era diffusa anche<br />
in altre zone limitrofe e numerose furono le famiglie dei territori di Bagni di Lucca, di<br />
Barga, di Borgo a Mozzano, di Coreglia e di Pescaglia.<br />
Castelvecchio è nota come “il paese dei gelatai”, tradizione nata per merito di<br />
Aurindo Ferrari, nato a Castelvecchio nel 1873, mastro gelataio, che seppe insegnare<br />
la sua arte ai ragazzi del paese, aiutandoli anche economicamente a farsi una fortuna in<br />
varie parti d’Italia. Dalle interviste effettuate ad alcuni paesani, tra cui anche la signora<br />
Dora Natali, è emerso che intorno agli anni ‘30 del secolo scorso, Castelvecchio poteva<br />
vantare una grande tradizione nel campo della gelateria, traman<strong>da</strong>ta di padre in figlio,<br />
che coinvolgeva anche il lavoro degli altri abitanti del paese. Proprio per merito di Aurindo<br />
Ferrari, a molti giovani del paese, fu insegnata l’arte del gelato, che appresero anche<br />
lavorando nelle gelaterie di sua proprietà ad Empoli. Questi ragazzi poterono successivamente<br />
aprire gelaterie in alcune regioni d’Italia come ad esempio in Sardegna, Puglia,<br />
Toscana, dove lavoravano nel periodo estivo, per ritornare al paese durante l’inverno.<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong> rappresenta degnamente la tradizione<br />
storica proiettata nel futuro, tradizione che ogni giorno si evolve<br />
paradossalmente ritornando indietro nel tempo.<br />
Anche l’artigianato del rame, era un’antica tradizione della valle, e, <strong>da</strong>lle testimonianze<br />
pervenute, possiamo affermare che già nei primi del ‘900, e forse anche prima, ci<br />
fosse già un vero e proprio artigianato del rame. Il rame, martellato e stagnato, è il metallo<br />
più a<strong>da</strong>tto alla cottura delle vivande, grazie alla sua elevata conducibilità termica:<br />
si scal<strong>da</strong> uniformemente garantendo una cottura omogenea degli alimenti. Contenitori<br />
tipici in rame erano le teglie, che venivano utilizzate in cucina; i paioli usati per cuocere<br />
la polenta; le brocche utilizzate per attingere l’acqua alla fonti e anche i contenitori per<br />
la brace. La durata di questi utensili era illimitata per cui quando si bucavano, a causa<br />
del troppo uso, si portavano <strong>da</strong>llo stagnino che li riparava. Con la nascita delle prime<br />
industrie, queste lavorazioni si spostarono verso la pianura, dove molte delle persone<br />
della montagna an<strong>da</strong>rono a lavorare nelle grandi aziende Pesciatine. L’ultimo ramaio<br />
della <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong> si può trovare a San Quirico, nella persona di Mauro Agostini,<br />
che continua la lavorazione del rame nella propria terra nativa. Come racconta, fin <strong>da</strong><br />
bambino, nel tempo libero, frequentava la bottega dello “zio Giovanni” valente magnano<br />
del paese, ma anche fabbro, e <strong>da</strong> questi Mauro impara le prime nozioni del mestiere.<br />
Dopo gli studi inizia a lavorare nelle botteghe artigiane del comune di Pescia, che una<br />
volta erano numerose e rinomate, e qui perfeziona le sue conoscenze in dette lavorazioni.<br />
Negli anni ‘70 decide di iniziare un’attività in proprio aprendo la sua “bottega”<br />
nel piccolo paese dove ancora è situata e questo nonostante sembrerebbe non avrebbe<br />
senso svolgere una attività lavorativa in un paese come S.Quirico, se non al fine di volere<br />
contribuire sinceramente alla valorizzazione del proprio territorio e delle radici culturali<br />
che questo traman<strong>da</strong>.<br />
Vellano, Pietrabuona e Stiappa erano i centri più rinomati, sia in Italia che all’estero,<br />
nella lavorazione della pietra serena: solo a Vellano si contavano circa 300 scalpellini<br />
e 50 cave. Il mestiere dello scalpellino, fabbricante di manufatti in pietra, ha un’antica<br />
tradizione nella <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong>; la scalpellatura, infatti, rappresenta una delle fasi di<br />
lavorazione della pietra dopo la cavatura e la sgrossatura. I manufatti di maggior pregio<br />
erano costituiti <strong>da</strong> colonne, architravi, stipiti, scale, acquai, caminetti, ecc. Lo scalpellino,<br />
sia che fosse maestro o garzone, lavorava principalmente nella cava e costruiva prevalen-<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong><br />
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temente <strong>da</strong> solo gli arnesi del mestiere: subbie, scalpelli, punciotti, gradine, e quant’altro<br />
serviva al suo lavoro, tanto che nella cava era presente anche la forgia. Questo mestiere<br />
era insediato prevalentemente a Vellano, tanto <strong>da</strong> costituire <strong>da</strong> sempre la massima economia<br />
paesana e, tra egli anni 1920-1940, anche con una scuola dove “maestri scalpellini”<br />
traman<strong>da</strong>vano questa arte antica. Fra i tanti scalpeliini va ricor<strong>da</strong>to Ivo Cosci, le<br />
cui opere sono presenti in molte ville signorili della zona. Ai primi del secolo scorso<br />
alcuni si trasferirono, come si è visto (PARTE PRIMA 2.3 antichi mestieri e prodotti tipici) anche<br />
all’estero, a Bucarest, in Romania, a lavorare il porfido. Fra il 1955 e il 1965 tutte le cave<br />
hanno cessato la loro attività, ad eccezione della “Cava della Fontanella”, nella frazione<br />
di Vellano, di proprietà di Germano Nardini che, tutt’ora, con il figlio Marco, continua<br />
l’antica tradizione della lavorazione della pietra e rappresenta l’ultima generazione di<br />
scalpellini presenti sul territorio.<br />
Altro mestiere riconducibile alla lavorazione della pietra, era il cavatore. A questa<br />
parola venivano attribuiti più significati; erano definiti cavatori anche i renaioli, piastrai,<br />
e gli spaccaghiaia.<br />
I renaioli con diversi strumenti di lavoro si recavano lungo il fiume scavando e setacciando<br />
la rena che le piene precedenti aveva depositato. La rena veniva prelevata lungo<br />
il fiume a Nord di Pescia, fino al ponte di Castelvecchio, nella Pescia di Pontito e fino<br />
Pontaccosce nella Pescia di Vellano. Successivamente veniva trasportata con i barrocci<br />
sui cantieri per essere impastata insieme alla calce per le costruzioni. Questo mestiere<br />
fu svolto fino alla metà degli anni ‘50 anche <strong>da</strong> molti abitanti di Pietrabuona, come<br />
Gerando Panteri, Angeli Alberto, ecc. I Cavatori-piastrai lavoravano la pietra <strong>da</strong> piastre.<br />
Questo materiale veniva utilizzato come fornelli <strong>da</strong> carbone, alari, pianelle refrattarie, e<br />
piastre <strong>da</strong> “necci”, dette anche testi. Gli spaccaghiaia, lungo la provinciale Mammianese<br />
frantumavano manualmente blocchi di pietra albarese (calcarea) per farne ghiaia, usata<br />
poi per la manutenzione delle strade. La pietra albarese veniva estratta nelle cave della<br />
Maona, a Montecati Alto (PT) (in P. Biagini, 2008). Già anticamente a valle, lungo i<br />
fiumi, nei paesi di Pietrabuona, Calamari e Ponte di Sorana, erano presenti numerose<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong><br />
cartiere, si può dire che queste siano state l’unica e vera industria della zona, dove si<br />
produceva carta di ogni tipo. Nelle cartiere lavoravano intere famiglie di cartai di provata<br />
maestria, capaci di usare tecniche che, di generazione in generazione si sono traman<strong>da</strong>te<br />
fin <strong>da</strong>l lontano 1400 (cfr. PARTE PRIMA 2.2.4 cartiere e archeologia industriale). Qui ci soffermeremo<br />
soltanto per descrivere, secondo alcune testimonianze la dura fatica degli operai che<br />
si recavano a lavorare nelle cartiere <strong>da</strong>i loro paesi. Secondo la testimonianza diretta della
signora Vera Mariani, che negli anni ‘50 lavorava presso la cartiera Magnani, gli spostamenti degli<br />
operai per raggiungere la fabbrica avvenivano a piedi ed alcuni operai, per recarsi <strong>da</strong>lla fabbrica alla<br />
propria abitazione, impiegavano anche più di un’ora, spesso al freddo e a volte anche sotto la neve.<br />
Diverse erano le professioni all’interno della fabbrica e ognuno aveva la propria specializzazione:<br />
facchini, straccine, levatrici, spanditrici, cilindrine, botteghine, teline, contatrici, questi erano i nomi<br />
assegnati agli operai, uomini e donne, che si occupavano delle varie fasi della lavorazione della<br />
carta. Negli anni successivi al ‘46 in poi, quando la fabbrica cominciò a produrre la carta moneta, il<br />
lavoro delle contatrici era di grande responsabilità, per il valore intrinseco della carta adoperata. La<br />
signora Vera, era impiegata sia nella scelta della carta (botteghina) che come contatrice.<br />
Oltre a queste attività, per cui la <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong> era riconosciuta ed apprezzata fuori <strong>da</strong>lla<br />
Toscana, vi erano altri mestieri propri delle zone rurali della montagna. I mestieri che si potevano<br />
incontrare nelle singole “Castella”, erano indissolubilmente anche legati alla cultura contadina<br />
locale, soprattutto alla necessità di sopravvivenza delle singole famiglie: i cestai, i corbellai e altri,<br />
attività artigiane, <strong>da</strong> sempre complementari al lavoro principale dei contadini. Ad esempio a Medicina,<br />
erano presenti artigiani che si traman<strong>da</strong>vano di padre in figlio il sapere di potare gli olivi e che<br />
erano molto richiesti in altre località, al di fuori della valle, come in Maremma. Per questo motivo<br />
fonti locali avevano soprannominato questa “Castella” “il paese dei potini”.<br />
Altra attività importante sui monti del territorio, dove venivano fatti nelle carbonaie locali<br />
quintali e quintali di carbone, era quella del carbonaio, lavoro esistito qui <strong>da</strong> sempre, ma <strong>da</strong>lla<br />
massima espansione a partire <strong>da</strong>lla metà del ‘700 fino alla metà del ‘900. L’abilità di un carbonaio si<br />
misurava <strong>da</strong>lla grandezza <strong>da</strong>i pezzi di carbone estratti <strong>da</strong>lla carbonaia. Le carbonaie venivano fatte<br />
direttamente nella parte più pianeggiante dei boschi. Il procedimento per ottenere il carbone era<br />
simile a quello seguito in altri luoghi della Toscana.<br />
Noti erano anche i vecchi corbellai che producevano con i bacchi (sottili strisce di legno di<br />
castagno) corbelli, panieri e cesti che servivano per il trasporto dei prodotti raccolti. Dalle testimonianze<br />
raccolte, i bacchi venivano anche prodotti per essere venduti nella provincia di Pisa, in<br />
particolare a Buti.<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong><br />
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Gli abitanti delle “Castella” <strong>da</strong>vano, inoltre, in maniera particolare, rilievo alla cura<br />
riservata ai boschi: il taglio della legna era un’attività molto diffusa, e, intervistando alcuni<br />
anziani abitanti di Vellano, è emerso che venivano tagliati specialmente pini e ontani.<br />
La legna di pino veniva anche portata con il barroccio, fino al 1950, a Calamari a Sant’<br />
Ilario. Gli Ontani servivano, oltre che a fare la legna, anche per fare il ceppo degli zoccoli<br />
che, fino agli anni ‘50, era un tipo di calzatura molto usata. Ma una cura particolare era<br />
riservata ai castagneti che erano, già <strong>da</strong>l Medioevo, la loro più grande fonte di sostentamento.<br />
Il castagno <strong>da</strong> frutto era una delle piante più diffuse della zona, e rivestiva quasi<br />
la metà dell’estensione del bosco; la sua cultura era di importanza vitale per queste montagne,<br />
<strong>da</strong>l castagno si ricavava la legna <strong>da</strong> ardere e <strong>da</strong> vendere e, principalmente, il suo<br />
frutto, la castagna, che è stata per secoli la base dell’alimentazione di queste popolazioni.<br />
Ogni giovane o vecchio si impegnava nella raccolta, così per un mese, nella stagione<br />
autunnale, i paesi si svuotavano e le “selvi”, invece, erano piene di persone in<strong>da</strong>ffarate.<br />
La raccolta si svolgeva con la massima velocità per evitare che le castagne si potessero<br />
gelare. Tutto si concludeva in 30/40 giorni. L’utilizzo di questo frutto era molteplice, la<br />
maggior parte veniva essiccato nei caratteristici “metati” (strutture in pietra a due piani<br />
dove si essiccavano a fuoco lento le castagne), poi venivano ridotte in farina nei mulini<br />
della zona, per ottenere così la “farina dolce”, oppure venivano utilizzate freschi per fare<br />
“ballotti” (castagne lessate in acqua), o arrostite per avere le “frugiate”. I metati erano<br />
presenti in tutti i paesi ma <strong>da</strong>lle testimonianze pervenute risulta che ad Aramo vi era una<br />
maggiore concentrazione. La farina dolce era utilizzata principalmente per la preparazione<br />
dei “necci”: tipiche di focacce ottenute disponendo un impasto di farina ed acqua<br />
tra due piastre (i testi), riscal<strong>da</strong>te nella brace. Fra l’impasto e la piastra venivano inserite<br />
delle foglie di castagno, prima seccate e poi bagnate in modo che il neccio non si bruciasse.<br />
Con la farina si preparano anche la polenta neccia, la farinata neccia, le frittelle,<br />
il castagnaccio, ecc. Gli abitanti si dedicavano anche alla raccolta di funghi, la zona era<br />
ricca di molte specie di funghi, tra cui i preziosi porcini. Allora i funghi si raccoglievano<br />
per bisogno e venivano venduti ai barrocciai o si portavano a spalla al mercato a Pescia o<br />
a Montecatini.<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong><br />
Altra produzione di vitale importanza per gli abitanti era l’olio d’oliva. La coltura<br />
dell’olivo ha radici antichissime, l’olio era anche moneta pregiata e si usava “barattarlo”<br />
con la farina di grano, di granturco o con la farina neccia. E’ storia, non molto antica, che<br />
i commercianti lucchesi attingevano <strong>da</strong>gli olivicoltori della zona una parte dell’olio che<br />
gli stessi destinavano all’esportazione nell’America del Nord.
Ma la coltura più conosciuta in tutto il mondo era ed è quella del fagiolo bianco<br />
di Sorana, un cannellino particolare, piccolo e <strong>da</strong>lla buccia sottilissima, <strong>da</strong>lla forma<br />
schiacciata e quasi piatta. E’ importante iniziare a parlare del fagiolo di Sorana citando<br />
il canonico don Gildo Nucci, il quale a proposito ci dice:“Sorana è famosa per i fagioli<br />
che si coltivano nel fiume sottostante” e prosegue “i fagioli di Sorana sono di rinomanza<br />
mondiale”, poi, ancora ci fa sapere che Edmondo De Amicis ricor<strong>da</strong> di averli veduti in<br />
mostra in un negozio di Costantinopoli con il cartellino “fagiuoli di Sorana”. Don Gildo<br />
insiste sui fagioli di Sorana citando lo scrittore D.E. Frati di Pistoia del quale riporta il<br />
seguente aneddoto: “Gioacchino Rossini a Montecatini aveva anche come amico il maestro<br />
Andrea Nardi di Pescia e allo sua richiesta di correggergli delle partiture rispose<br />
che, avrebbe provveduto alla loro correzione, a patto però, che ogni anno al tempo<br />
della raccolta, gli fossero spediti alcuni chilogrammi di fagioli bianchi di Sorana”.<br />
La coltivazione di questo fagiolo è limitata a piccole superfici di terreno al margine del<br />
torrente Pescia, <strong>da</strong>l Ponte di Sorana al Ponte di Castelvecchio, ma anche lungo l’altro<br />
ramo del torrente fino al mulino di Stiappa. Circa la varietà del fagiolo di Sorana, in<br />
loco viene fatta una precisazione, distinguendo quello coltivato in “ghiaretto” (cioè su<br />
terreno di natura alluvionale, che si trova lungo il margine del fiume) <strong>da</strong> quello coltivato,<br />
invece, in “poggio” o “vigna”. Il fagiolo di Sorana – quello vero – deve provenire<br />
<strong>da</strong> coltivazioni fatte in “ghiaretto”. La bontà di questo fagiolo deriva soprattutto <strong>da</strong>lle<br />
condizioni ambientali di coltivazione, infatti, come già detto, oltre la natura del terreno<br />
sono molto importanti anche l’irrigazione, con acqua locale, e le abbon<strong>da</strong>nti “guazze”<br />
estive. Il baccello è piuttosto piccolo e alla maturazione assume il colore bianco crema,<br />
i semi, di solito quattro o cinque a baccello, a maturazione sono di un bianco latte; il<br />
suo ciclo di maturazione può essere contenuto in 130-140 giorni. Dal punto di vista<br />
organolettico il pregio di questo fagiolo deriva <strong>da</strong>ll’avere una buccia sottilissima, la<br />
quale dopo la cottura, rimane impercettibile e si confonde con la pasta del fagiolo stesso.<br />
Questa particolarità e molto piacevole per il palato, e lo rende inoltre molto più digeribile<br />
rispetto a quelli di ogni altra provenienza. Comunque cucinati sono sempre ottimi, ma il<br />
sapore viene maggiormente evidenziato se lessati e conditi con olio extravergine di oliva<br />
della zona. E’ consigliato usare per la cottura una pentola di coccio o meglio, un’apposito<br />
Si ringrazia per la collaborazione la popolazione locale che tramite le interviste ha saputo <strong>da</strong>re un contributo<br />
notevole allo sviluppo della sche<strong>da</strong>.<br />
In particolare:<br />
Mariani Vera, Niccolai Germano, Dora Natali, Nellina Mariani, Nardini Germano, Mauro Agostini<br />
Musei degli antichi mestieri presenti sul territorio della svizzera <strong>Pesciatina</strong>:<br />
Museo della civiltà contadina, San Quirico. Tel. 0572/400222<br />
Museo di minerali “La miniera di Publio”, Vellano. Tel. 0572/405448<br />
Museo della Carta, Pietrabuona. Tel 0572/408020<br />
recipiente di vetro a forma di fiasco a bocca larga, conosciuto a Pescia con il nome di<br />
“gozzo”. Tutte queste peculiarità e unicità hanno permesso al fagiolo di Sorana di avere<br />
il riconoscimento al marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Questo marchio è<br />
un marchio di qualità che viene attribuito a quei prodotti agricoli e alimentari per i quali<br />
le caratteristiche e la reputazione dipendono <strong>da</strong>ll’origine geografica specifica, e la cui<br />
produzione, trasformazione ed elaborazione avviene anch’essa nella stessa area geografica.<br />
Oltre a tutelare il produttore garantisce anche il consumatore, che, con l’acquisto del<br />
fagiolo di Sorana, avrà la certezza della sua provenienza, del controllo di tutte le fasi di<br />
produzione, di confezionamento e distribuzione.<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
E. LEMMI e G. SPINELLI, “Pescia fra tradizione e sviluppo”, 1993, Verasas editore<br />
P. BIAGINI, “Il duro Pane”, 2008, Tipografia GF Press, Pistoia<br />
P. BIAGINI, “Vellanesi di Vellano o giù di lì: arti e mestieri”, 2004, La Tipografia <strong>Pesciatina</strong><br />
P. BIAGINI, “Valleriana e Alta val di Forfora 18 itinerari storico-naturalistici a misura d’uomo”,<br />
La Tipografia <strong>Pesciatina</strong><br />
D. BARTOLONI , L. BURALLI , E. CIUTI, “I prodotti tipici della terra di Valdinievole”, 2007, Stampa<br />
nova Zincografica Fiorentina<br />
L. GUADAGNUCCI, “Culture e paesaggi. Storia sociale della <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong>”, 1994, Liguori editore<br />
La <strong>Svizzera</strong> <strong>Pesciatina</strong><br />
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