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Sommario 4<br />
Luglio Agosto 2012<br />
Aspetti strutturali<br />
La «patrimoniale» tra opportunità economica e fattibilità giuridica<br />
di Giuseppe Molinaro, Mario Damiani, Raffaello Lupi .................................................................... 353<br />
Ricchezza non registrata e crisi economica: mercatini e ambulanti contro grande distribuzione<br />
di Francesca Gricia, Raffaello Lupi .................................................................................................. 361<br />
Tassazione attraverso le aziende e «sanzione sociale» sugli evasori<br />
di Francesco Delzìo, Raffaello Lupi .................................................................................................. 366<br />
Parlare senza dire nulla: il contagio sugli Uffici <strong>tributari</strong><br />
di Raffaello Lupi................................................................................................................................. 371<br />
Capitalismo familiare e Fisco: nessun «tesoro nascosto» ne «L’importanza di chiamarsi Agnelli»<br />
di Stefania Capitani, RL..................................................................................................................... 377<br />
Evasione da riscossione<br />
Chiudere e riaprire senza pagare le imposte: un caso di evasione da riscossione<br />
di Giuseppe Saporito, Raffaello Lupi................................................................................................. 380<br />
Redditi d’impresa<br />
«Leveraged Buy Out»: la società veicolo deve farsi rimborsare gli interessi dalla controllante,<br />
come un «mandatario»?<br />
di Simone Covino, Raffaello Lupi ...................................................................................................... 384<br />
Bilancio<br />
Rilevazione in bilancio delle passività potenziali da accertamenti <strong>tributari</strong><br />
di Dario Stevanato.............................................................................................................................. 391<br />
Frodi carosello tra responsabilità solidale e disconoscimento della detrazione<br />
di Emiliano Covino, Raffaello Lupi ................................................................................................... 394<br />
Detrazione di «IVA non dovuta» e «reverse charge»<br />
di Ciro D’Ardia, Raffaello Lupi ......................................................................................................... 399<br />
IVA<br />
Tributi locali<br />
L’abitazione principale nell’IMU: cosa cambia davvero rispetto all’ICI?<br />
di Edoardo Marchetti, Raffaello Lupi ................................................................................................ 405<br />
Rimborsi d’imposta<br />
Quale termine di prescrizione sui crediti <strong>tributari</strong> «per interessi»?<br />
di Silvia Giorgi, RL ............................................................................................................................ 410<br />
Processo <strong>tributari</strong>o<br />
Notifiche a mezzo posta, «doppio termine» e costituzione del ricorrente<br />
di Zeila Gola, Raffaello Lupi ............................................................................................................. 416<br />
4/2012<br />
351
<strong>Reati</strong> <strong>tributari</strong><br />
Confisca per equivalente e reati <strong>tributari</strong>: limiti di applicazione e coinvolgimento<br />
del professionista<br />
di Andrea Buccisano, Giuseppe Ingrao ............................................................................................. 425<br />
La rilevanza «fortuita» delle contestazioni interpretative ai fini penal<strong>tributari</strong><br />
di Marco Di Siena, Raffaello Lupi ..................................................................................................... 434<br />
Fiscalità internazionale<br />
«Transfer pricing» e presenza di «soci esterni» nella compagine sociale<br />
di Marco Leotta - Marco Mazzetti di Pietralata - Luca Lazzarini, Raffaello Lupi........................... 442<br />
Costi «black list» deducibili se il beneficiario del pagamento è un’emanazione del fornitore<br />
materiale<br />
di Alessia Vignoli, Fabio Gallio, Raffaello Lupi................................................................................ 449<br />
Monitoraggio fiscale<br />
Le assurdità del monitoraggio fiscale: da Valentino Rossi a Abdul<br />
di Fiorella Bianchi, Nadia Maria Zemignani, RL.............................................................................. 458<br />
352<br />
4/2012<br />
Sommario
La «patrimoniale»<br />
tra opportunità economica<br />
e fattibilità giuridica<br />
di Giuseppe Molinaro, Mario Damiani, Raffaello Lupi<br />
Tutte le imposte, anche se non sono «sui redditi»,<br />
si pagano «coi redditi», in quanto all’interno<br />
dell’organizzazione sociale sono le varie tipologie<br />
di lavoro, manuale, intellettuale, organizzativo, a<br />
«creare valore»; anche il risparmio non è altro che<br />
«lavoro accantonato» in forma di crediti verso altri<br />
individui o gruppi sociali (1).<br />
In quest’ottica il patrimonio altro non è che un insieme<br />
di diritti verso il resto degli individui, della<br />
società, la cui tassazione, secondo un liberale come<br />
Einaudi, «può essere sul serio un efficace strumento<br />
della ricostruzione economica del paese<br />
ma» occorre depurare «il suo contenuto da taluni<br />
ingombranti miti i quali fanno gran danno al raggiungimento<br />
dello scopo sostanziale che l’imposta<br />
si propone». Così riporta l’incipit del saggio<br />
«L’imposta patrimoniale» (2), nel cui ambito Einaudi<br />
giustificava l’introduzione di un siffatto prelievo,<br />
anche come momento di svolta e di discontinuità<br />
rispetto al passato in cui le imposte sul reddito<br />
aumentavano senza che vi fossero visibili benefici<br />
per il Paese.<br />
Era il 1946, l’Italia iniziava il faticoso percorso di<br />
ricostruzione post bellica e lo Statista, allora Go-<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
Mentre la pressione sul debito pubblico cresce, si parla periodicamente di tassazione patrimoniale,<br />
dimenticando che le imposte, per essere tali, hanno bisogno di qualcuno che davvero «le<br />
imponga». In un contesto di tassazione esternalizzata sulle organizzazioni amministrative esterne<br />
(«tassazione attraverso le aziende») appare purtroppo debole la capacità dei nostri apparati<br />
<strong>tributari</strong> di passare dalle attuali imposte su «frammenti di patrimonio» (come quella sui depositi<br />
bancari e l’IMU, di cui ci occupiamo in questo numero) ad una imposta che consideri, organicamente,<br />
aspetti diversi del patrimonio di un determinato soggetto. Per questo all’opportunità<br />
economica non si accompagna oggi una serena fattibilità giuridica, in termini di snella sistematicità<br />
dell’intervento degli Uffici <strong>tributari</strong>.<br />
L’utilità dell’imposta patrimoniale in momenti economici particolari<br />
Giuseppe Molinaro<br />
vernatore della Banca d’Italia, interveniva sul tema<br />
dell’imposizione patrimoniale, che sovente riemerge<br />
allorquando sia necessario procurare risorse<br />
per una ricostruzione, dopo disastri bellici o finanziari,<br />
come accade in Italia di questi tempi.<br />
In genere, il ricorso a tale imposizione si è reso<br />
necessario come misura straordinaria in alternativa<br />
ad altre misure una tantum utilizzate in passato, ad<br />
esempio le «privatizzazioni» realizzate negli anni<br />
‘90 che contribuirono a ridurre il debito pubblico<br />
di dieci punti percentuali, ovvero le svalutazioni<br />
monetarie e l’inflazione, che hanno attenuato il<br />
peso dei debiti italiani prebellici.<br />
L’imposta patrimoniale generalizzata è però diffi-<br />
Giuseppe Molinaro - Dottore commercialista e Revisore legale -<br />
Dottore di ricerca in diritto <strong>tributari</strong>o e dell’impresa presso l’Università<br />
di Roma «Tor Vergata» - Professore a contratto di diritto <strong>tributari</strong>o<br />
comparato presso la Facoltà di Economia della LUSPIO di Roma - Responsabile<br />
fiscale Federcasse<br />
Note:<br />
(1) Su questa attualizzazione di una riflessione di Carlo Marx<br />
(Valore uguale Lavoro) R. Lupi, Manuale giuridico di scienza delle finanze,<br />
Dike Giuridica, 2012, cap. 4.<br />
(2) Edito da Chiarelettere nel 2011.<br />
4/2012<br />
353
Aspetti<br />
strutturali<br />
cile da gestire, come ricorda la meteora di quella<br />
istituita nel 1947, per finanziare la ricostruzione<br />
del dopoguerra e limitare la crescita del debito<br />
pubblico. Più facile è gestire le varie imposte su<br />
segmenti di patrimonio, ordinarie o straordinarie,<br />
poi riproposte nel corso degli anni; alcune sono<br />
stabili, altre straordinarie, come il prelievo una<br />
tantum del 6 per mille sui depositi bancari deciso<br />
nella notte tra il 9 ed il 10 luglio del 1992 per tamponare<br />
gli effetti devastanti causati dalla speculazione<br />
che si accaniva sulla lira (che dovette uscire<br />
dallo SME alcuni mesi dopo) (3).<br />
Le condizioni dell’Italia nell’ultimo anno non sono<br />
certo quelle del 1946, ma comunque hanno destato<br />
e continuano a destare una condivisibile preoccupazione,<br />
atteso anche l’elevato livello del rapporto<br />
debito pubblico/PIL, che si aggira oggi attorno<br />
al 120%, con buona pace delle menzionate misure<br />
straordinarie subite dai contribuenti negli anni<br />
’90 che avevano ridotto tale parametro dal 117<br />
al 107%. In sostanza il beneficio dei sacrifici passati<br />
è sostanzialmente stato perso (4) e si presenta<br />
ora la necessità di reperire nuove risorse per ridurre<br />
il menzionato parametro.<br />
In un siffatto complicato contesto, come periodicamente<br />
accade, nel 2011 è riaffiorata l’ipotesi dell’introduzione<br />
di un’imposizione patrimoniale<br />
straordinaria. Le ipotesi circolate sono state le più<br />
disparate e fantasiose. Al momento, però, l’imposta<br />
straordinaria patrimoniale resta una mera ipotesi<br />
(peraltro sempre smentita dal Governo attuale);<br />
è stato però introdotto un articolato sistema di imposizione<br />
patrimoniale «a regime», che si basa sul<br />
già indicato insieme di tributi, molti dei quali (almeno<br />
formalmente) si qualificano come imposte di<br />
altra natura (tipicamente indirette), come si evidenzierà<br />
nel prosieguo.<br />
L’utilità di un’imposta patrimoniale<br />
«straordinaria»<br />
Il patrimonio costituisce l’elemento più rilevante<br />
del welfare privato, inteso come prestigio, sicurezza,<br />
fonte di potere (economico e «politico») del<br />
contribuente.<br />
Come rilevato sopra, il patrimonio, a livello macroeconomico,<br />
dipende dai redditi e dai diritti proprietari;<br />
dipende dai redditi dello stesso contribuente,<br />
prodotti e non consumati, e da quelli degli<br />
altri contribuenti, che danno valore a diritti pro-<br />
354<br />
4/2012<br />
prietari di altri individui. Per questo, quando un<br />
Paese è in recessione, anche i valori patrimoniali<br />
tendono a diminuire, in quanto ne diminuisce la<br />
possibilità di acquisto e quindi la domanda. Sotto<br />
un certo profilo, reddito e patrimonio sono la stessa<br />
entità, seppure rappresentata in forme diverse<br />
(flusso vs stock).<br />
Molti affermano che assoggettare ad imposizione<br />
il patrimonio significa, di fatto, rinnovare la tassazione<br />
di una ricchezza che ha già formato oggetto<br />
di imposizione all’atto della formazione. L’affermazione<br />
è però valida solo per i patrimoni formati<br />
con redditi assoggettati a tassazione, che in genere<br />
sono numerosi, ma di modesto ammontare. I patrimoni<br />
provenienti dalla storia, ad esempio immobiliar-feudale,<br />
o della prima fase di industrializzazione<br />
selvaggia, compresa l’urbanizzazione frenetica<br />
del secondo dopoguerra, non sono stati incisi<br />
più di tanto dalla tassazione diretta, all’epoca della<br />
loro formazione. Il che vale anche per tanti patrimoni<br />
medio-piccoli, di matrice commerciale o<br />
professionale, ampiamente costituiti con i frutti di<br />
diffuse evasioni fiscali pregresse. Un’imposizione<br />
patrimoniale potrebbe quindi costituire un’occasione<br />
per ricondurre a tassazione dei flussi di ricchezza<br />
sfuggiti alle ragioni erariali in fase di formazione,<br />
se si riuscisse a differenziare il prelievo<br />
a seconda che il patrimonio derivi da redditi tassati<br />
o meno.<br />
Sul piano della precisione, non sarebbe corretto assoggettare<br />
al medesimo prelievo due soggetti (entrambi<br />
imprenditori o professionisti o rentier)<br />
aventi lo stesso patrimonio del valore di un milione<br />
di euro, accumulato dal primo con redditi dichiarati<br />
e assoggettati ad imposizione e dal secondo con<br />
redditi non dichiarati e quindi sfuggiti alla tassazione.<br />
Concettualmente, occorrerebbe in qualche<br />
misura tenere conto che il primo soggetto ha in realtà<br />
già subito un prelievo fiscale, ma tradurre questi<br />
intenti in pratica non è facile. Tecnicamente si<br />
potrebbe pensare ad un’imposizione progressiva<br />
Note:<br />
(3) Nel medesimo anno venne istituita l’imposta (proporzionale,<br />
con aliquota dello 0,75%) sul patrimonio delle imprese poi abrogata<br />
nel 1997 con l’avvento dell’IRAP. Nel 1993 venne introdotta<br />
l’ICI estendendo un tributo straordinario dell’anno precedente e,<br />
per anni, tale imposta è stata l’unica «patrimoniale ordinaria»<br />
presente nel nostro ordinamento <strong>tributari</strong>o.<br />
(4) Anche se abbiamo «guadagnato» alcuni decenni.
con una detrazione delle imposte sui redditi pagate<br />
più di recente (es. un anno, un triennio, un lustro),<br />
applicabile ove possibile con l’intervento di intermediari<br />
(si pensi alla funzione delle banche nella<br />
tassazione del patrimonio finanziario).<br />
Su tali basi, i primi ad essere colpiti sarebbero<br />
quindi coloro che non hanno versato le imposte sul<br />
reddito. Infatti, il patrimonio è più visibile dei<br />
flussi reddituali e, siccome le imposte si pagano su<br />
ciò che si vede (sempre che qualcuno le chieda), la<br />
tassazione patrimoniale potrebbe quindi avere l’effetto<br />
indiretto di recuperare parte delle risorse<br />
sfuggite nel tempo all’imposizione «reddituale».<br />
Cosa e quanto tassare<br />
Sulla base delle ultime statistiche ufficiali disponibili<br />
(5), la ricchezza degli italiani, (6) complessivamente<br />
pari ad € 9.525 miliardi, è idealmente<br />
suddivisibile tra attività reali (principalmente beni<br />
immobili: fabbricati, terreni, ecc.) per un totale di<br />
€ 5.925 miliardi (62,20%) ed attività finanziarie<br />
(es. depositi, titoli, ecc.) per un totale di € 3.600<br />
miliardi (37,80%). La ricchezza netta - ovvero<br />
quella che tiene conto delle passività finanziarie<br />
(ad esempio, i mutui per acquisto della prima casa,<br />
crediti al consumo, ecc.) degli italiani (pari ad €<br />
887 miliardi) - ammonta ad € 8.640 miliardi (7).<br />
Sfugge a questa statistica la ricchezza reale e finanziaria<br />
detenuta all’estero (Svizzera, Lussemburgo,<br />
ecc.) di cui è possibile solo effettuare una<br />
stima empirica, nonché la ricchezza produttiva,<br />
cioè il valore delle attività economiche, l’avviamento<br />
delle aziende, per la parte in cui si riverbera<br />
in ricchezza spettante ai proprietari.<br />
Einaudi nella sua analisi prospettava un «taglio»<br />
una tantum del 20% sul patrimonio, a condizione<br />
che questo prelievo si accompagnasse ad una prospettica<br />
riduzione dell’imposizione reddituale.<br />
In base ai valori patrimoniali testè citati basterebbe<br />
un «taglio» della ricchezza netta molto più modesto<br />
per ottenere diverse decine di miliardi di euro<br />
da destinare alla riduzione del debito pubblico.<br />
Ovviamente, si dovrebbe tenere conto di soglie di<br />
esenzione per chiedere il sacrificio ai contribuenti<br />
con patrimoni medio-alti, cioè a quei soggetti che<br />
per bravura o fortuna sono riusciti ad accumulare<br />
maggiori risorse nel tempo, e non anche a quelli<br />
più modesti per evitare un riflesso depressivo sui<br />
ceti medi e bassi che più di tutti stanno subendo<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
gli effetti negativi della crisi (oltre alle prime case<br />
dovrebbero essere esenti i patrimoni finanziari entro<br />
una certa soglia).<br />
Attesi gli ultimi cambiamenti strutturali che il Governo<br />
sta portando avanti, sarebbe certo un notevole<br />
(ennesimo) sacrificio per gli italiani e, al contempo,<br />
una ulteriore grande assunzione di responsabilità<br />
della classe politica che cerca di riaccreditarsi<br />
dinanzi all’opinione pubblica. La misura non<br />
dovrebbe essere effettuata «di rapina», ma dovrebbe<br />
essere condivisa e compresa dai cittadini - come<br />
dovrebbe succedere per tutti gli interventi che incidono<br />
sostanzialmente sui loro diritti principali, come<br />
quelli sul sistema assistenziale e fiscale, sulle<br />
norme sul mercato del lavoro e sulla stessa ristrutturazione<br />
della rappresentanza politica - per evitare<br />
ulteriori strappi della fiducia che questi ripongono<br />
nelle Istituzioni ed ulteriori sfilacciamenti nel tessuto<br />
relazionale che tiene coeso il Paese, già compromesso<br />
dagli eventi degli ultimi anni (8).<br />
Invero, si corre il rischio che tale sacrificio si riveli<br />
utile solo ad un temporaneo, quanto effimero,<br />
miglioramento dei «parametri vitali» del nostro<br />
Paese - come accaduto in passato a seguito di ana-<br />
Note:<br />
(5) Relative all’anno 2010. I dati sono desunti dal Supplemento al<br />
Bollettino Statistico della Banca d’Italia «La ricchezza delle famiglie<br />
italiane 2010», n. 64 del 14 dicembre 2011. I dati ufficiali relativi<br />
al 2011 saranno disponibili nel mese di dicembre 2012.<br />
(6) I dati si riferiscono all’insieme delle famiglie consumatrici e<br />
delle famiglie produttrici (cioè le imprese individuali con non più<br />
di 5 addetti), mentre sono escluse le Istituzioni Sociali Private<br />
(ISP), cioè quegli organismi privati senza scopo di lucro che producono<br />
beni e servizi non destinabili alla commercializzazione<br />
(es. associazioni sportive, partiti politici, sindacati, ecc.).<br />
(7) Alla fine del 2010, la ricchezza netta media per famiglia ammontava<br />
ad € 350.000; tale dato deve essere letto in coerenza<br />
con l’indice del grado di concentrazione della medesima ricchezza<br />
che risulta particolarmente elevato. Infatti, le indagini sulla distribuzione<br />
della ricchezza evidenziano che la maggior parte delle<br />
famiglie detengono livelli nulli o comunque molto modesti di ricchezza<br />
mentre, all’opposto, poche famiglie posseggono un elevato<br />
livello di ricchezza. Secondo i dati rilevati nel 2010, il 50% delle<br />
famiglie deteneva complessivamente il 10% della ricchezza totale<br />
mentre il 10% delle famiglie deteneva complessivamente il 45%<br />
della ricchezza complessiva.<br />
(8) Ovviamente, è ben noto il rischio che un’imposizione patrimoniale,<br />
una tantum, preannunciata e programmata, porti ad una<br />
fuga di capitali all’estero, ulteriori rispetto a quelli (secondo stime<br />
informali circa 200 miliardi di euro) che sono già defluiti dal<br />
nostro Paese verso altri (la Germania, in particolare) ritenuti in<br />
grado di assicurare una maggiore sicurezza e solidità e quindi<br />
maggiore tutela del patrimonio.<br />
4/2012<br />
355
Aspetti<br />
strutturali<br />
loghe misure straordinarie - se allo stesso sacrificio<br />
non si accompagna una seria revisione di alcuni<br />
elementi - che caratterizzano la vita di ogni Paese<br />
e che in Italia assumono una valenza negativa -<br />
quali il peso della burocrazia, l’eccesso di regolamentazione,<br />
il grado di trasparenza delle decisioni<br />
politico-istituzionali, la mala gestio della spesa<br />
pubblica (con conseguente efficientamento della<br />
gestione dei beni e servizi pubblici), il grado di fiducia<br />
nella classe dirigente e l’alto livello di corruzione,<br />
che costituisce uno dei fenomeni endemici<br />
del nostro Paese difficile da debellare al pari<br />
dell’evasione. Tali pesanti «zavorre» - che collocano<br />
l’Italia ben lontano dai principali Paesi europei<br />
nelle classifiche del World economic forum -, se<br />
non celermente ed adeguatamente alleggerite, rischiano<br />
di vanificare i potenziali positivi effetti<br />
che potrebbero derivare dall’istituzione di un tributo<br />
patrimoniale.<br />
Possibili effetti negativi<br />
L’imposizione patrimoniale non è tuttavia esente da<br />
critiche, a partire dal reperimento della provvista<br />
per l’assolvimento del tributo patrimoniale, che di<br />
norma dovrebbe essere pagato con il reddito del<br />
contribuente; qualora questo non fosse possibile, si<br />
dovrebbe provvedere allo smobilizzo di parte del<br />
patrimonio (si pensi al contribuente che detiene dieci<br />
immobili, un reddito minimo e nessuna disponibilità<br />
finanziaria che dovrà vendere uno degli immobili<br />
per assolvere al versamento del tributo).<br />
Inoltre, un’imposta della specie comporta costi di<br />
«gestione» molto elevati da parte dell’Amministrazione<br />
finanziaria, in quanto si presta poco ad<br />
essere esternalizzata sulle aziende, capaci di gestire<br />
la tassazione solo di «segmenti di patrimonio».<br />
In particolare, in relazione alla determinazione degli<br />
imponibili, potrebbero esserci difficoltà a definire<br />
i valori effettivi di mercato su cui applicare<br />
l’imposta.<br />
Infine, anche se più visibile del reddito, una larga<br />
parte del patrimonio finanziario potrebbe mimetizzarsi<br />
o trasmigrare all’estero.<br />
Il patrimonio degli italiani<br />
è comunque già oggetto di tassazione:<br />
l’attuale impianto delle «imposte patrimoniali»<br />
Come anticipato sopra, il patrimonio è già oggetto<br />
di tassazione, frammentata su una serie di suoi ele-<br />
356<br />
4/2012<br />
menti: il decreto «salva Italia» ha infatti istituito<br />
nuovi tributi e modificato alcuni dei preesistenti<br />
per colpire la ricchezza degli italiani espressa dagli<br />
asset patrimoniali in loro possesso (9).<br />
In particolare, le attività immobiliari sono oggetto<br />
dell’imposta municipale (10) e dell’imposta sul<br />
valore degli immobili detenuti all’estero (cd.<br />
IVIE) (11), le attività finanziarie sono variamente<br />
colpite dall’imposta di bollo su conti correnti e<br />
prodotti finanziari (12) (con l’aggravio dei tributi<br />
specifici per le attività emerse con la procedura<br />
dello scudo fiscale) (13) e dall’imposta su valore<br />
delle medesime attività detenute all’estero (cd.<br />
IVAFE) (14).<br />
Anche per le auto di lusso, le imbarcazioni e gli<br />
aerei è stata istituita una tassazione ad hoc. Invero,<br />
tali ultimi beni più che elemento produttivo di reddito<br />
sono delle «passività», nel senso che per il relativo<br />
mantenimento è necessario sostenere dei costi,<br />
talvolta anche ingenti. Pertanto, gli stessi rappresentano<br />
un indice di ricchezza indiretto, qual è<br />
la capacità di sostenimento di un certo livello di<br />
spesa e di conseguenza scontano una «tassazione<br />
patrimoniale».<br />
In altri casi, invece, il patrimonio è solo meramente<br />
fruttifero (si pensi ai gioielli, ai quadri ed altri<br />
oggetti d’arte, ecc.) e, in virtù di tale caratteristica,<br />
oltre che della loro difficile determinazione, al<br />
momento queste forme di ricchezza non sono soggette<br />
ad alcun prelievo.<br />
Tutti i menzionati tributi - oltre alle più datate imposte<br />
sulle successioni e sulle donazioni - costituiscono<br />
forme di sostanziale tassazione di tipo patrimoniale,<br />
a regime.<br />
Manca invece all’appello un tributo sul patrimonio<br />
delle imprese (esiste di fatto una tassazione patrimoniale<br />
sulle società di comodo), che già subisco-<br />
Note:<br />
(9) Secondo le statistiche della Banca d’Italia, alla fine del 2010, la<br />
ricchezza lorda delle famiglie italiane era pari a circa 9.525 miliardi<br />
di euro. Le attività reali rappresentavano il 62,2% della ricchezza<br />
lorda, le attività finanziarie il 37,8%. Le passività finanziarie, pari<br />
a 887 miliardi di euro, rappresentavano il 9,3% delle attività<br />
complessive.<br />
(10) Cfr. art. 13 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con<br />
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.<br />
(11) Cfr. art. 19, commi da 13 a 17, del D.L. n. 201/2011.<br />
(12) Cfr. art. 19, commi da 1 a 5, del D.L. n. 201/2011.<br />
(13) Cfr. art. 19, commi da 6 a 12, del D.L. n. 201/2011.<br />
(14) Cfr. art. 19, commi da 18 a 22, del D.L. n. 201/2011.
no un’imposizione sul reddito che può considerarsi<br />
sufficiente (almeno per le imprese che l’assolvono<br />
pienamente), ma sarebbe in controtendenza<br />
rispetto alle misure che mirano a sostenere le esigenze<br />
di patrimonializzazione delle imprese (una<br />
per tutte l’ACE recentemente istituito). In realtà il<br />
problema non è la tassazione patrimoniale «sull’impresa»,<br />
ma quella sul relativo proprietario persona<br />
fisica. Si tratta cioè di porsi il problema di<br />
coerenza di trattamento tra chi possiede tre appartamenti<br />
per circa due milioni di euro, e chi possie-<br />
Imposta patrimoniale o prestito forzoso?<br />
Mario Damiani<br />
Le riflessioni di Molinaro fanno venire in mente<br />
che la macchina pubblica è un tutt’uno, sia quando<br />
si tratta di ridurre la spesa, sia di determinare la<br />
ricchezza ai fini delle entrate, sia di svolgere le<br />
proprie funzioni con efficienza nei vari settori cui<br />
è preposta.<br />
Emerge forse che il diverso atteggiamento dei<br />
mercati finanziari rispetto a Paesi con spesa pubblica<br />
e cifre di bilancio non troppo diverse dipende<br />
da una diversa «fiducia» sulla capacità delle rispettive<br />
macchine pubbliche di «produrre», cioè di<br />
essere qualcosa di diverso da un percettore di risorse<br />
ed erogatore di stipendi e di fastidi.<br />
Molinaro ci avverte anche che la ricchezza privata<br />
degli italiani è enorme (più di 9.000 miliardi di euro)<br />
rispetto a un debito pubblico di circa 2.000 miliardi.<br />
Riducendo la base imponibile di una potenziale<br />
«patrimoniale» a 6.000 miliardi (per tener<br />
conto della franchigia per i patrimoni minori, come<br />
quelli della casa di abitazione) l’incidenza per<br />
coprire il debito in modo «importante» sarebbe di<br />
circa il 16,6%.<br />
La tassazione patrimoniale rappresenta una cartina<br />
di tornasole per la capacità della macchina <strong>tributari</strong>a<br />
pubblica di determinare la ricchezza dove le<br />
aziende non arrivano, o di acquisire informazioni<br />
dalle aziende per riposizionarle ai propri fini <strong>tributari</strong>.<br />
Già oggi conosciamo tutti i problemi dell’evasione<br />
«dove le aziende non arrivano» (15) e<br />
questo ci consente di immaginare la difficoltà di<br />
valutare in modo capillare i patrimoni delle persone.<br />
Se non riusciamo a gestire in modo sistematico<br />
controlli ed accertamenti marcatamente valutativi<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
de una società intestataria di un albergo o di una<br />
autorimessa, che valgono almeno la stessa cifra.<br />
Per effettuare la comparazione occorre tener conto<br />
di molti fattori, come la sicura tassazione prospettica<br />
delle plusvalenze di impresa, comparata con la<br />
franchigia di quelle immobiliari dei privati, se ultra<br />
quinquennali. A conferma che la tassazione patrimoniale<br />
non è una variabile indipendente rispetto<br />
alle altre forme di tassazione, e richiede un coordinamento<br />
con la complessiva determinazione<br />
della ricchezza ai fini <strong>tributari</strong>.<br />
dove le aziende non arrivano, si capisce subito che<br />
il problema non è una presunta «disonestà» dei<br />
contribuenti, che anzi, guardando le statistiche dei<br />
«congrui e coerenti», dichiarano cifre più elevate<br />
di quanto ci si potrebbe aspettare considerando<br />
freddamente l’impatto dei controlli. Se non riusciamo<br />
a tenere sotto controllo sistematico il piccolo<br />
commercio e l’artigianato, figuriamoci la difficoltà<br />
di un monitoraggio «valutativo» dei grandi<br />
patrimoni, ed è questo che spiega il ricorso diffuso<br />
a «micro patrimoniali» gestibili in modo isolato<br />
dalle aziende, soprattutto le banche. Per questa ragione,<br />
esclusa ogni forma di prelievo non strutturale<br />
(come i condoni, che ora tutti aborriscono dopo<br />
decenni di diffusa pratica acquiescente), sono<br />
da valutare forme di tassazione ordinaria che, nei<br />
periodi di gravi difficoltà della finanza pubblica,<br />
come avveniva in passato nei periodi di guerra,<br />
debbono riguardare anche i patrimoni, la cui imposizione<br />
deve poter assolvere anche ad una sorta di<br />
funzione di tassazione sostitutiva o integrativa dei<br />
redditi pregressi evasi con cui sono stati costituiti,<br />
come rilevava Molinaro. Una patrimoniale annuale<br />
(non solo sugli immobili), caratterizzata da un’aliquota<br />
moderata, potrebbe quindi colpire soprattutto<br />
i patrimoni che si sono formati con redditi sfuggiti<br />
alla tassazione. È quello che si può ottenere se<br />
Mario Damiani - Professore straordinario di diritto <strong>tributari</strong>o presso<br />
l’Università LUM J. Monnet - Bari - Titolare modulo J. Monnet della<br />
Commissione europea<br />
Nota:<br />
(15) Cfr. www.giustiziafiscale.com.<br />
4/2012<br />
357
Aspetti<br />
strutturali<br />
si ammettono in deduzione dalla base imponibile,<br />
come rilevava Molinaro, i redditi dichiarati in un<br />
determinato periodo anteriore, in modo da colpire<br />
di più i patrimoni formati senza pagare imposte sui<br />
redditi.<br />
In termini economici, se i patrimoni derivano<br />
dall’investimento dei redditi accumulati negli anni,<br />
è da ritenere corretto ed equo che la parte di<br />
questi ultimi non tassata in quei periodi sia recuperata<br />
all’imposizione fiscale mediante l’integrale<br />
tassazione di quei patrimoni, mentre quelli che<br />
hanno assolto l’obbligo fiscale siano detratti dal<br />
valore dei patrimoni posseduti. Al limite, potrebbe<br />
azzerarsi l’imponibile dei patrimoni ottenuti attraverso<br />
l’investimento di redditi tassati (o intassabili).<br />
Andrebbe ovviamente escluso il patrimonio<br />
delle imprese effettivamente impiegato nelle attività<br />
produttive, mentre quello delle società senza<br />
imprese (di comodo) andrebbe pienamente tassato<br />
anche per trasparenza in capo ai soci.<br />
Sembra ormai che non pochi opinionisti non vedano<br />
più come un tabù un’imposta patrimoniale se<br />
essa non reitera le ingiustizie di riparto <strong>tributari</strong>o<br />
dovute alla mancanza di controllo della ricchezza<br />
non intercettata dagli «esattori-aziende». Ecco perché<br />
maggiori sacrifici possono essere richiesti, in<br />
momenti di profonda crisi, anche mediante un’imposta<br />
patrimoniale, pur se non gradita a nessuno,<br />
purché essa non riproduca le storture distributive<br />
per cui chi ha già contribuito interamente verrebbe<br />
chiamato a nuova (duplicata) contribuzione insieme<br />
all’evasore. Per questo un’imposta patrimoniale<br />
come innanzi ipotizzata assolverebbe ad una<br />
funzione perequativa nei confronti degli evasori,<br />
totali o parziali, o di corrotti o concussi che si siano<br />
o no avvalsi di prestanomi per intestare la proprietà<br />
del patrimonio. Le tecnologie informatiche<br />
permettono ora di individuare i patrimoni anche finanziari<br />
posseduti presso il sistema bancario e<br />
quelli immobiliari grazie alle rilevazioni catastali<br />
e satellitari. L’attività di accertamento dei patrimoni<br />
dovrebbe perciò rivolgersi con tecniche più raffinate<br />
anche verso i patrimoni occultati all’estero<br />
(se non sono segnalati col modello RW della dichiarazione<br />
dei redditi), mediante opportuni accordi<br />
internazionali (ved. quelli conclusi dalla Germania<br />
con la Svizzera).<br />
Un’imposta articolata che colpisca la generalità<br />
dei patrimoni al di sopra di una soglia di tolleran-<br />
358<br />
4/2012<br />
za, che detassi quanto già dichiarato in passato e<br />
tassi invece in funzione integrativa i capitali reimportati<br />
in misura maggiore di quella ordinaria, potrebbe<br />
essere uno strumento di monitoraggio della<br />
ricchezza e di individuazione della credibilità dei<br />
redditi.<br />
È possibile un prestito forzoso<br />
come alternativa all’imposizione patrimoniale?<br />
Le entrate pubbliche non sono però soltanto quelle<br />
<strong>tributari</strong>e, come insegna la vecchia «finanza patrimoniale»<br />
(16), antecedente logico di quella «<strong>tributari</strong>a».<br />
Su questo sfondo, in alternativa alla tassazione patrimoniale,<br />
o combinandola con essa, va valutata<br />
una proposta avanzata da JP Fitoussi e G. Galateri<br />
di Genola (17), che hanno ipotizzato una forma di<br />
prestito forzoso decennale (esperienza già praticata<br />
in Francia negli anni 80), ad un tasso pari a<br />
quello dei bond tedeschi (forse anche con leggera<br />
maggiorazione), con forme eventuali di collateral<br />
legate a quote di fondi di investimento ai quali<br />
conferire il patrimonio immobiliare pubblico o le<br />
partecipazioni pubbliche.<br />
La proposta potrebbe essere migliorata prevedendo<br />
la conversione del prestito, alla scadenza, in<br />
partecipazioni detenute da enti pubblici o in quote<br />
di fondi di investimento mobiliari ed immobiliari<br />
costituiti ad hoc rispettivamente con le partecipazioni<br />
pubbliche o con l’apporto degli immobili di<br />
proprietà pubblica. Il prestito forzoso potrebbe essere<br />
applicato per un decennio, in misura pari ad<br />
una percentuale moderata annua (il 2% costituirebbe<br />
un’aliquota ragionevole) del patrimonio personale<br />
complessivo di ciascuno, ridotto del valore<br />
delle case abitate dai proprietari per un valore<br />
massimo di 3-400.000 euro e dei redditi dichiarati<br />
nell’ultimo anno o nella media degli ultimi due-tre<br />
anni.<br />
Si otterrebbe allora l’effetto di far dipendere gli<br />
interessi del debito pubblico meno dai comportamenti<br />
dei mercati finanziari, in gran parte esteri,<br />
visto che la quota di debito posseduta dalla comu-<br />
Note:<br />
(16) Per una elencazione R. Lupi, Manuale giuridico di scienze delle<br />
finanze, op. cit., par. 1.5, 3.7-3.8 e cap. 8.<br />
(17) Cfr. «Un prestito forzoso decennale è meglio della tassa patrimoniale»,<br />
in Corriere della Sera del 7 settembre 2011, pag. 58.
nità nazionale è purtroppo diminuita negli ultimi<br />
decenni, esponendoci alle crisi di fiducia di cui dicevo<br />
all’inizio (con l’incubo spread). Ciò potrebbe<br />
concorrere a ridurre le aspettative di default sul<br />
debito pubblico, in base all’esperienza storica illustrata<br />
da Reinhart e Regoff nel loro scritto «This<br />
time is different».<br />
Restano aperti, naturalmente, i problemi di fattibilità<br />
e modalità giuridiche del prestito e quelli legati<br />
alla garanzia dell’equità della sua ripartizione<br />
tra i contribuenti (è ipotizzabile una sottoscrizione<br />
forzosa a scalare in misura decrescente dai patrimoni<br />
più elevati in relazione all’entità da collocare?).<br />
Una variante potrebbe essere quella di con-<br />
Le proposte di imposta patrimoniale crescono, segno<br />
evidente che gli studiosi della convivenza sociale<br />
avvertono chiaramente quella feudalizzazione<br />
della società, quella «proletarizzazione dei ceti<br />
medi» che noi, su Dialoghi e in altre sedi, mettiamo<br />
da tempo in evidenza. Ma il discorso di Molinaro<br />
e di Damiani richiede molte precisazioni, a<br />
partire dalle considerazioni sui veri motivi della<br />
sfiducia che serpeggia all’interno del nostro Paese,<br />
e verso il nostro Paese, mentre ad altri si dà più<br />
credito, anche in condizioni finanziarie peggiori, o<br />
non molto migliori.<br />
Davanti alla crisi del debito pubblico molti sostengono<br />
che bisogna «ridurre la spesa e ridurre la tassazione»,<br />
con affermazioni che ripartono ogniqualvolta<br />
scende lo spread.<br />
Forse invece il problema è diverso. Non è nella<br />
quantità della spesa, ma nella sua qualità, nella montagna<br />
di sprechi indotti dalla deresponsabilizzazione,<br />
dal desiderio di copertura giuridica, dalla mancanza<br />
di iniziativa di una macchina pubblica che<br />
non vuole decidere, paralizzata dall’equivoco del<br />
«governo della legge», non può punire e premiare, e<br />
funziona grazie allo spirito di servizio e all’entusiasmo<br />
di sempre meno funzionari ed impiegati.<br />
Il vero problema non è lo spread, ma la disorganizzazione<br />
della macchina pubblica, come vediamo<br />
su Dialoghi a proposito della determinazione<br />
della ricchezza ai fini <strong>tributari</strong>. La spesa pubblica<br />
non si può ridurre granché, ma va resa produttiva e<br />
sentirne l’utilizzo, alla scadenza, per il pagamento<br />
delle imposte e contributi entro un arco temporale<br />
predefinito.<br />
Il prestito forzoso è in sostanza una prestazione<br />
imposta e rientra nell’ambito del fenomeno coercitivo,<br />
ma non <strong>tributari</strong>o, in quanto ne sono previsti<br />
il rimborso ed un rendimento. Le alternative sono<br />
l’inflazione, cioè la «stampa di moneta», delegabile<br />
solo alla BCE con riflessi in termini di svalutazione<br />
dell’euro, oppure un parziale haircut, cioè<br />
quel default pilotato già verificatosi per la Grecia.<br />
Sono tutte alternative che non si escludono a vicenda,<br />
che speriamo non si verifichino e su cui vedremo<br />
di ritornare.<br />
Tassazione patrimoniale, prestito forzoso e macchina pubblica<br />
Raffaello Lupi<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
per farlo bisogna trovare un modello. Dopo la crisi<br />
del vecchio modello gerarchico-militare non ne è<br />
stato elaborato uno «partecipativo e aziendale» realmente<br />
efficiente (18). L’«incapacità di scegliere»<br />
della nostra macchina pubblica, legata a strumentali<br />
fraintendimenti sul «governo della legge», si<br />
vede, non solo - per quanto interessa noi - nella<br />
determinazione della ricchezza ai fini <strong>tributari</strong>, ma<br />
anche nella cura dei malati, nell’educazione dei<br />
giovani, nella gestione delle infrastrutture, nello<br />
smaltimento dei rifiuti, nell’assistenza agli anziani,<br />
nella gestione dei flussi migratori. L’incapacità<br />
di questa determinazione, dove le aziende non arrivano,<br />
è solo un riflesso di deresponsabilizzazioni<br />
e paralisi, che si esprimono anche nella riduzione<br />
della spesa, oggetto solo di «tagli lineari», proprio<br />
per la paura di scegliere, il rifiuto di distinguere<br />
sprechi e spese utili in una palude di bisticci,<br />
chiacchiere e recriminazioni.<br />
A prescindere dall’evasione, e anche dopo la futuribile<br />
imposta patrimoniale trattata da Molinaro, o<br />
il prestito forzoso di Damiani, i problemi sarebbero<br />
gli stessi, se non recuperiamo la produttività<br />
della macchina pubblica. Altrimenti le relative risorse<br />
faranno la fine di quelle, di cui diceva Molinaro,<br />
acquisite con le dismissioni degli anni no-<br />
Nota:<br />
(18) R. Lupi, Manuale giuridico di scienza delle finanze, op. cit., 2012,<br />
par. 6.4-6.6.<br />
4/2012<br />
359
Aspetti<br />
strutturali<br />
vanta. Questa capacità della macchina pubblica di<br />
valutare, di agire, di fare, di svolgere le proprie<br />
funzioni la si vede proprio nell’imposta patrimoniale,<br />
e nel prestito forzoso, che dovrebbe comunque<br />
essere agganciato al patrimonio.<br />
La domanda di partenza è «dove sono i patrimoni»<br />
per arrivare a chiedersi «chi li determina e li valuta».<br />
Molinaro ha cercato di riprendere alcuni dati<br />
sulla geografia del patrimonio degli italiani, aggregati<br />
però secondo metodologie diverse da quelle<br />
della rilevabilità <strong>tributari</strong>stica della ricchezza.<br />
Essenzialmente i patrimoni sono impiegati in immobili<br />
(già tassati), aziende (non tassate come patrimonio,<br />
ma come reddito, e già va bene) e redditi<br />
finanziari, che invece sono già surrettiziamente<br />
tassati come patrimonio, sia con la tassazione dei<br />
depositi titoli, sia sottoponendo a prelievo sostitu-<br />
360<br />
4/2012<br />
tivo anche i redditi nominali, necessari a salvaguardare<br />
il patrimonio dall’inflazione.<br />
La maggior parte degli impieghi finanziari delle<br />
famiglie rende meno dell’inflazione, eppure sono<br />
tassati anche sulla parte di rendimento necessaria a<br />
recuperare l’inflazione. Che di solito è insufficiente<br />
anche per questo obiettivo.<br />
In questo quadro, chi invece gioca in borsa, e realizza<br />
cospicui redditi reali, continua a pagare sempre<br />
la stessa imposta sostitutiva, con un vantaggio<br />
fiscale evidente. Siamo in un regime che tassa poco<br />
chi guadagna il 2% in tre giorni, e in compenso<br />
tassa patrimonialmente chi neppure reintegra il<br />
proprio patrimonio, guadagnando il 2% in un anno.<br />
Se non riusciamo, non dico a distinguere queste<br />
situazioni, ma neppure a capirle, figuriamoci<br />
gestire una patrimoniale o un prestito forzoso.
Ricchezza non registrata<br />
e crisi economica:<br />
mercatini e ambulanti<br />
contro grande distribuzione<br />
L’impoverimento dei consumatori<br />
e la polarizzazione della catena distributiva<br />
Le difficoltà economiche riducono il potere di acquisto<br />
dei ceti medi, e fasce sociali sempre più numerose<br />
cercano di salvaguardare il tenore di vita<br />
con maggiore attenzione ai prezzi: i commercianti<br />
tradizionali, i negozi di vicinato, che non possono<br />
tagliare i costi fissi, anche fiscali, sono da tempo<br />
stati messi fuori gioco dalle economie di scala della<br />
grande distribuzione. Ma la disorganizzazione e<br />
lo spontaneismo si vendicano, con un nuovo commercio<br />
tradizionale low cost, che attacca la grande<br />
distribuzione proprio attaccando i suddetti «costi<br />
fissi». Se la grande distribuzione li aveva ridotti<br />
con le economia di scala, i mercatini li riducono<br />
con la clandestinità dell’ultimo anello della catena,<br />
quello al consumo finale. La sfida è riuscire a «eliminare<br />
l’IVA a monte», anche su prodotti di largo<br />
di Francesca Gricia, Raffaello Lupi<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
Il commercio tradizionale, i negozi di vicinato, sono i più colpiti dalla crisi economica, perché<br />
gravati dai costi fissi, anche fiscali, connessi alla rigidità materiale e alla individuabilità, anche ai fini<br />
di tributi patrimoniali e indiretti, come l’IMU, la tassa per lo smaltimento rifiuti e tanti altri.<br />
Nel complesso, se le dimensioni sono piccole, è difficile ammortizzare questi costi fissi, gestendo<br />
anche gli adempimenti fiscali e gli studi di settore. Ne derivano difficoltà che spingono alla<br />
chiusura chi non riesce a inserirsi in «nicchie redditizie», mentre resta aperta la partita «agli<br />
estremi». Cioè tra chi cerca di massimizzare l’efficienza dimensionale, come la grande distribuzione,<br />
e chi invece entra in clandestinità, facendo leva sulla possibilità di essere presente ogni<br />
giorno in luoghi diversi. Ma in che modo a questa difficile «afferrabilità» si accompagna la detassazione<br />
IVA di merci certamente provenienti da produttori organizzati? Le frodi IVA sono una<br />
risposta.<br />
La crisi e la rivincita degli ambulanti grazie all’azzeramento<br />
dei costi fissi, anche fiscali<br />
Francesca Gricia<br />
consumo, per sbaragliare (illegalmente) la grande<br />
distribuzione. Oltre alle classiche frodi carosello,<br />
ci sono le false dichiarazioni di intenti, le false<br />
vendite intracomunitarie, e al limite i falsi furti per<br />
eliminare l’IVA, non solo sul valore aggiunto del<br />
mercatino, ma su tutta la filiera, anche di prodotti<br />
di marca, provenienti da aziende strutturate.<br />
Il lato pittoresco e l’aspetto «umano»<br />
dei mercatini<br />
Non c’è solo la convenienza a spingere verso i<br />
mercatini, ma anche la socializzazione, la curiosità,<br />
per certi versi simile a quella che spinge a curiosare<br />
negli ipermercati, passandoci le domeniche.<br />
Alcune persone sono spinte dal favorevole<br />
Francesca Gricia - Master in Diritto <strong>tributari</strong>o professionale, Università<br />
di Roma «Tor Vergata»<br />
4/2012<br />
361
Aspetti<br />
strutturali<br />
differenziale di prezzo, altre dal risparmio di tempo<br />
in quanto nei mercatini si trova un insieme pittoresco<br />
di beni, altre sono spinte dalla curiosità,<br />
altre dal gioco di trovare l’occasione, di «fare l’affare»,<br />
altre dalle mode, altre dalla voglia di un tuffo<br />
nel passato, di rivivere le domeniche tra i banchi<br />
di Porta Portese o gli infrasettimanali a Via<br />
Sannio. Anche i turisti italiani, del resto, vanno a<br />
visitare il mercatino di Camden Town piuttosto<br />
che quello di Portobello a Londra.<br />
Alcuni mercatini rimettono in circolazione modernariato<br />
e vintage verso cui qualcuno ha ancora interesse,<br />
dai vecchi mobili, molto più solidi degli<br />
attuali, ai vestiti, ortofrutticolo a km zero gestiti<br />
dalla Coldiretti, alimentare biologico. Sono preziose<br />
occasioni di socializzazione, con maggiore<br />
calore umano rispetto alla spersonalizzazione dei<br />
centri commerciali, dove però le rigidità amministrative<br />
sono minori. Se proviamo ad effettuare<br />
una ricerca on line troveremo miriadi di tipologie<br />
di mercatini e cominceremo a pensare che forse<br />
nessuno di noi è «fuori campo mercatino». È necessario<br />
altresì ammettere che sempre più diventano<br />
meta e attrazione per turisti e di logica conseguenza<br />
fonte di guadagno.<br />
Da questa breve considerazione emerge che è una<br />
realtà presente, viva con cui necessariamente dobbiamo<br />
confrontarci e che rappresenta un minimo<br />
comune denominatore di tutte le realtà italiane e<br />
non.<br />
La normale scarsa affidabilità giuridico-fiscale:<br />
banchi fissi e «clandestini»<br />
È un modello di scambio da valutare in relazione a<br />
quello che ci si scambia. Se da una parte il mercatino<br />
ha gli elementi positivi «sociali» indicati al<br />
paragrafo precedente, dall’altra parte, ha una flessibilità<br />
che lo rende per molti aspetti inaffidabile.<br />
Sia economicamente sia giuridicamente, dal punto<br />
di vista delle garanzie ai clienti e di quelle verso le<br />
autorità amministrative. Non mi riferisco solo all’evasione,<br />
del tutto prevedibile negli scambi sostanzialmente<br />
tra privati, dove le rigidità aziendali<br />
non esistono. Fino a che si tratta di vestiti vecchi,<br />
mobili svedesi anni sessanta, miele di acacia o tegole<br />
dipinte a mano, gli occultamenti degli incassi<br />
sono fenomeni marginali. La mancata registrazione<br />
fiscale, cui si accompagna una modesta garanzia<br />
formale da parte del venditore, in caso di difet-<br />
362<br />
4/2012<br />
ti, è del tutto normale, finché si tratta di «robivecchi»<br />
o poco più. Per quanto riguarda i beni usati, il<br />
piccolo scambio, i prodotti agricoli e simili, la diffusione<br />
dei «mercatini» può anche essere un fenomeno<br />
fisiologico, e socialmente positivo nel complesso.<br />
Quando però si tratta di beni nuovi, procurati<br />
senza pagare l’IVA, le cose assumono una<br />
connotazione diversa.<br />
È chiara l’insufficienza di un intervento del Fisco<br />
adeguatamente sistematico sui contribuenti in esame,<br />
dove pure - secondo quanto sosteniamo sempre<br />
sui siti della Fondazione Studi Tributari - «le<br />
aziende non arrivano», e quindi devono essere i<br />
pubblici uffici a chiedere le imposte, valutando la<br />
ricchezza. Solo che, girando per le strade, è facile<br />
accorgersi che la presenza del Fisco è puramente<br />
mediatica, sufficiente a quella che Lupi chiama<br />
«lotta all’evasione per televisione», efficace, ma<br />
nella realtà non avvertita.<br />
La preoccupazione degli interessati cambia secondo<br />
qualche sfumatura tra le varie situazioni degli<br />
ambulanti, da quelli di passaggio, e che in un’ottica<br />
«eat and run» si posizionano dove vogliono e<br />
spariscono, a quelli ubicati in luoghi fissi, orari e<br />
giorni prestabiliti, dove niente è lasciato al caso,<br />
neanche la posizione del banco; il controllo è però<br />
più «reciproco» tra gli esercenti, che esercitato<br />
dalla pubblica autorità.<br />
Proviamo dunque ad analizzare un mercato che,<br />
per quanto caratterizzato dalla volatilità e dall’incertezza<br />
su chi è l’ambulante come persona, sia<br />
caratterizzato dalla stabilità del luogo in cui si<br />
svolge l’attività e soprattutto dalla certezza dell’ente<br />
che gestisce il suolo pubblico.<br />
Percorriamo brevemente l’iter che deve essere<br />
svolto dall’ambulante che vuole riservarsi una posizione<br />
al mercatino. Dopo essersi dotato di partita<br />
IVA e relativa iscrizione alla Camera di commercio,<br />
si rivolge al Comune o, come nel caso di Roma,<br />
al Municipio competente per zona, il quale rilascia<br />
un’autorizzazione a fronte del pagamento<br />
del cd. plateatico che gli permetterà di riservarsi<br />
uno spazio nel mercatino. Sono dunque gli enti<br />
territoriali che gestiscono questi mercati. Sostenendo<br />
che, volendo o meno, al loro interno si crea<br />
evasione ed evidenziando la sorveglianza, il «dominio<br />
eminente» dei Comuni, si potrebbe concludere,<br />
estremizzando ovviamente, che sono gli stessi<br />
poteri a permettere agli ambulanti di evadere,
nella trasparenza più totale. Sembrerebbe un paradosso,<br />
ma ciò deriva dalla frammentazione di<br />
competenze dei vari soggetti pubblici, alcuni dei<br />
quali determinano la ricchezza ed altri gestiscono<br />
gli spazi, come fanno i Comuni.<br />
L’intervento comunale potrebbe però essere utile<br />
nel cercare una soluzione, come vedremo al prossimo<br />
paragrafo.<br />
Mercatini e tassazione attraverso le aziende:<br />
il Comune come sostituto<br />
L’idea potrebbe essere quella di sfruttare il meccanismo<br />
della tassazione attraverso le aziende. La<br />
realtà in cui viviamo dimostra proprio che la soluzione<br />
di trovare un soggetto, super partes, che fa<br />
da sostituto d’imposta e riscuote le imposte per il<br />
Fisco funziona, e funziona anche bene (1). È un<br />
meccanismo che dovrebbe essere applicato in ogni<br />
settore per ridurre le situazioni in cui altrimenti è<br />
il soggetto stesso a dover decidere quanto pagare<br />
al Fisco, senza essere né organizzativamente rigido<br />
né segnalato da altri.<br />
Le imposte, come scriviamo sempre su Dialoghi e<br />
sui relativi siti, si pagano quando si intravede la<br />
prospettiva che qualcuno le possa richiedere. Nei<br />
mercatini, per gli ambulanti, impossibili da tassare<br />
attraverso la Gazzetta Ufficiale, che certamente essi<br />
non acquistano, sono i Comuni le autorità pubbliche<br />
destinate al controllo del territorio. E allora<br />
perché non far fare al Comune o al Municipio da<br />
sostituto d’imposta? Nel momento in cui un soggetto<br />
richiede l’autorizzazione il Comune potrebbe,<br />
con un sistema di acconti come avviene per<br />
l’IRPEF o l’IRES, far pagare un’imposta sostitutiva<br />
di queste. Un’imposta sostitutiva che, come avviene<br />
per i regimi minimi, dispenserebbe il soggetto<br />
ai fini IVA e ai fini delle dirette. Si verrebbe a<br />
creare un regime forfetario per tale categoria di<br />
soggetti, che, per quanto inferiore a quello che<br />
idealmente si dovrebbe pagare, darebbe comunque<br />
certezza alla riscossione, il che non è da sottovalutare.<br />
Un regime forfetario che si dovrebbe basare<br />
su elementi certi e verificabili, con le solite mediazioni<br />
tra precisione e semplicità, categoria per categoria,<br />
filtrate con buonsenso. Gli elementi da tenere<br />
in considerazione dovrebbero essere molteplici<br />
ed eterogenei, come ad esempio il luogo in<br />
cui il mercatino si svolge (bisogna distinguere una<br />
zona popolare da una centrale), la tipologia di<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
merce venduta, non potendosi certo equiparare le<br />
diverse categorie che hanno un rapporto costo/<br />
prezzo di vendita diverso, l’ampiezza del banco<br />
che si ha a disposizione, chi sono i clienti-tipo (c’è<br />
differenza nella propensione all’acquisto tra un<br />
appassionato di antiquariato o uno studente o una<br />
casalinga). Sostanzialmente non si farebbe altro<br />
che creare una sorta di studi di settore per i mercatini<br />
che, anziché essere uno strumento di verifica<br />
ex-post, rappresenterebbe uno strumento ex-ante<br />
su cui basarsi per riprendere il controllo del territorio<br />
(2). È necessario che gli elementi considerati<br />
siano un giusto trade-off tra elementi generali e<br />
specifici, senza arrivare all’analitico patologico,<br />
come ad esempio il numero preciso di merce esposta<br />
e venduta (assurdità se si pensasse al mercato<br />
ortofrutticolo o a quello dell’hobbistica). Potremmo<br />
così anche gestire il problema dei «non autorizzati»<br />
come dirà Lupi, e ridimensionare l’evasione<br />
a valle che permette al Fisco di recuperare parte<br />
dell’evasione a monte, data da frodi IVA di cui diremo<br />
dopo.<br />
Anticipiamo due considerazioni sui «non autorizzati»,<br />
dove non è possibile neppure quel controllo<br />
minimo praticabile quando i mercatini sono fatti<br />
sul suolo pubblico.<br />
Resterebbe infatti irrisolto il problema degli «ambulanti»<br />
clandestini, ma il controllo del territorio<br />
non si effettua per legge, e non vi sono alternative,<br />
in questi casi, rispetto al sistematico sequestro delle<br />
merci di cui dirà Lupi.<br />
Mercatini e beni di largo consumo:<br />
come sparisce l’IVA a monte?<br />
Prima di concludere vorrei razionalizzare una sensazione<br />
di stupore davanti a detersivi, dentifrici o<br />
alimentari di marca, prodotti in serie, da grandi<br />
aziende organizzate, intravisti sui banconi di ambulanti<br />
che - potremmo scommetterci - non pagano<br />
l’IVA, facendo prezzi inferiori a quelli del supermercato.<br />
Qui qualcosa non funziona, non solo a<br />
valle, perché l’ambulante sfugge alla registrazione<br />
Note:<br />
(1) Cfr. per tutti R. Lupi, A. Santoro, «Le cause dell’evasione: dal<br />
senso civico al “third party reporting”», in Dialoghi Tributari n.<br />
2/2012, pag. 121.<br />
(2) Su cui è divertente il post in www.fondazionestudi<strong>tributari</strong>.com<br />
(voce «occultamento ricavi»: studi di settore così parlò Sessoko di<br />
Dakar).<br />
4/2012<br />
363
Aspetti<br />
strutturali<br />
dei corrispettivi, ma anche a monte perché resta da<br />
chiedersi come le merci siano arrivate al commerciante<br />
ambulante, alleggerendosi del carico <strong>tributari</strong>o<br />
di IVA. C’è quindi un malfunzionamento, non<br />
solo a valle, immaginabile fin quando si vende roba<br />
vecchia, ma anche a monte, dove qualche ingranaggio<br />
delle detrazioni e delle rivalse IVA, verosimilmente,<br />
si rompe. È facile occultare i corrispettivi,<br />
al mercatino, ma la domanda è come si fa ad acquistare<br />
le merci senza pagare un’IVA che resterebbe<br />
assicurata all’Erario anche qualora i successivi<br />
ricavi dell’acquirente non fossero registrati.<br />
A fronte di ricavi non registrati non si può infatti<br />
certo recuperare l’IVA a monte, e quindi occorre<br />
sterilizzare l’IVA sull’acquisto (3). Rivolendo per-<br />
Dall’articolo che precede sembra desumersi che ci<br />
sono due modi per sopravvivere: diventare molto<br />
grandi o rimanere molto piccoli. Le considerazioni<br />
sui «mercatini» vanno incardinate sulla determinazione<br />
della ricchezza ai fini della tassazione, che è<br />
il compito dei <strong>tributari</strong>sti. Il commercio tradizionale,<br />
salvi segmenti «di nicchia», è stato sconfitto,<br />
messo nell’angolo tra le economie di scala della<br />
grande distribuzione e l’evanescente flessibilità dei<br />
«mercatini», descritta nell’articolo che precede.<br />
Mentre le istituzioni fiscali pensano alle conferenze<br />
stampa, dove nessuno chiede quanto della<br />
«maggiore imposta accertata» dipenda dalla scoperta<br />
di ricchezza non registrata oppure da contestazioni<br />
interpretative (5), l’economia non ufficiale<br />
guadagna terreno. L’idea mediatica del tutoraggio<br />
fiscale, che utilizza le aziende, esattori del Fisco,<br />
come capri espiatori da offrire in pasto a una opinione<br />
pubblica in stato confusionale, ricorda sempre<br />
di più il pastore impazzito che faceva la guardia<br />
ai cani mentre le pecore scappavano. È il riflesso<br />
di una opinione pubblica che non sa capire da<br />
dove viene il gettito acquisito, e quindi è come inebetita<br />
davanti a quello perduto, farneticando di<br />
onestà, disonestà, aliquote elevate, soddisfazione<br />
per i servizi pubblici, educazione civica e altre divagazioni.<br />
Rispetto alle quali è inutile illudersi sul<br />
ruolo di coordinamento e sistematizzazione da par-<br />
364<br />
4/2012<br />
correre il viaggio, tangibile e verificabile, di una<br />
partita di merci uscita dalla fabbrica come ricavo<br />
in bianco e che comincia a percorrere il suo canale<br />
distributivo non ci deve stupire se ad un certo punto<br />
essa sparisce dal circuito. I modi in cui questo<br />
può accadere, oltre alle frodi già anticipate alla<br />
nota precedente, sono molteplici, finti incendi di<br />
negozi, finti furti, distruzione merci, cessione come<br />
prodotto avariato. Qui la fantasia italica (4)<br />
trova largo spazio, per creare un salto d’imposta ai<br />
fini IVA, che permette quindi l’ingresso di questa<br />
merce in nero nel «circuito mercatino», con competitività<br />
rispetto alla grande distribuzione, nonostante<br />
la minore efficienza dell’operare su piccola<br />
scala.<br />
Destrutturazione sociale e «organizzazione parallela»<br />
Raffaello Lupi<br />
te dell’accademia, ed è bene ripartire, secondo la<br />
linea programmatica inserita in questo numero di<br />
Dialoghi, dall’opinione pubblica e dalle istituzioni.<br />
Compresa l’Agenzia delle entrate, che dovrebbe affiancare<br />
alla «lotta all’evasione in televisione» (peraltro<br />
utilissima) anche una attività di sistematizzazione<br />
e comprensione della determinazione della<br />
ricchezza ai fini <strong>tributari</strong>. Senza attacchi a nessuna<br />
categoria, ma anche senza ecumenici proclami secondo<br />
cui «l’evasione è dappertutto», che ricordano<br />
un po’ quelli degli inquisitori medievali che<br />
proclamavano «il diavolo è dappertutto». Qui non<br />
si tratta di diavoli, ma di pasticceri, per usare la<br />
mia consueta metafora, cioè di gente che si guadagna<br />
da vivere, anche non pagando le tasse, ma cedendo<br />
beni e servizi ad altri soggetti, mentre sono<br />
sempre più numerosi coloro che pagano le tasse,<br />
ma su redditi che in tutto o in parte non si guadagnano,<br />
come sussidi invece che stipendi.<br />
Note:<br />
(3) Ricorrendo alle varie forme di «non imponibilità» descritte su<br />
Dialoghi, dalle false lettere di intenti, al finto francese, al finto reverse<br />
charge, come dirà Lupi più avanti.<br />
(4) Lo spontaneismo creativo di cui parla R. Lupi, Manuale giuridico<br />
di scienza delle finanze, Dike Giuridica, 2012, parr. 6.1 ss.<br />
(5) Come invece ci chiediamo su Dialoghi, cfr., ad esempio, R. Lupi<br />
e S. Capitani, «Maggiore imposta accertata non sempre significa<br />
ricchezza non registrata», in Dialoghi Tributari n. 1/2012, pag. 7.
La diffusione dei mercatini nella società italiana<br />
riflette questa pericolosa polarizzazione, da cui<br />
non si esce certo con le recriminazioni reciproche,<br />
né con i rituali comunicati stampa di istituzioni<br />
che dovrebbero cominciare a rendersi conto di dover<br />
svolgere, loro malgrado, una azione di supplenza<br />
rispetto all’accademia (da qualche parte bisogna<br />
pur cominciare a riflettere!). Le istituzioni<br />
devono cominciare a individuare i funzionari che,<br />
per farsi belli in nome di un legalismo ottuso, confezionano<br />
i soliti rilievi interpretativi senza filo<br />
conduttore (6). Se fosse per me, chi persiste in<br />
questi atteggiamenti dovrebbe essere aggregato in<br />
una specie di «compagnia di punizione», spedita a<br />
correre appresso agli ambulanti, con il sadico augurio<br />
di trovarli nerboruti e di colore!<br />
Scherzi a parte, sono d’accordo con l’Autrice che<br />
precede sull’importanza di una determinazione<br />
della ricchezza da parte dei Comuni nei mercatini<br />
autorizzati, mentre l’Agenzia delle entrate e la<br />
Guardia di finanza dovrebbero intervenire contro<br />
le rotture della filiera IVA, di cui parlava l’Autrice<br />
che precede, in modo da assicurare all’Erario almeno<br />
il gettito IVA dei prodotti provenienti dalle<br />
grandi aziende. Bisogna cioè impedire che l’IVA<br />
scompaia dalle merci prodotte industrialmente e<br />
che finiscono nei mercatini. Il frodatore deve cessare<br />
di poter comprare senza IVA il dentifricio a<br />
70, venderlo per 75 a un commerciante «non autorizzato»<br />
munito di furgone, senza altre spese, che<br />
riesce a venderlo a 78 al mercatino, spendendo solo<br />
la benzina del furgone, spesso intestato ad una<br />
ignara ottantenne vedova Pizzicaroli. Su queste<br />
premesse, il commerciante «abusivo» batte la<br />
grande distribuzione, anche perché non ha mutua,<br />
non ha contributi, non ha spese di affitto, non ha<br />
TARSU, IRAP, luce, smaltimento rifiuti, Camera<br />
di commercio, registro sull’affitto, consulenti del<br />
lavoro e fiscali. Si riducono così quelli che gli<br />
economisti chiamano i costi di transazione e nella<br />
filiera del valore si arricchisce il soggetto italiano<br />
interposto, che procura le merci senza IVA. È esattamente<br />
il contrario delle frodi carosello, dove abbiamo<br />
strutture rigide nel rapporto col consumatore<br />
finale; qui abbiamo strutture rigide alla produzione,<br />
e strutture criminali che approvvigionano<br />
chi è flessibile col consumatore finale.<br />
Per ostacolare questa azione un intervento legislativo<br />
sarebbe quello, più volte caldeggiato, di per-<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
mettere l’emissione di dichiarazioni di intenti, per<br />
acquistare senza IVA, oppure l’emissione di fatture<br />
con IVA detraibile superiore a certi ammontari,<br />
soltanto a ditte certificate. Secondo un principio<br />
che permette a chiunque di aprire una partita IVA<br />
in mezz’ora, se si vuole vendere la pizza. Ma se si<br />
vuole fare trading, emettendo fatture che consentono<br />
la deduzione di costi e detrazioni IVA significative,<br />
allora si deve essere assoggettati a controlli<br />
più stringenti e si devono dare delle garanzie. È un<br />
discorso che dovremo riprendere, e che ci vedrà<br />
sempre più avanti rispetto a tecnici-politici che si<br />
baloccano con astrazioni concettuali, come l’«imposta<br />
sui redditi delle imprese» e i suoi «dividendi<br />
del pasticcere», oppure un’ACE (gentile?) (7) di<br />
cui nessuno sentiva il bisogno.<br />
L’altra tenaglia per bloccare l’emorragia dell’IVA<br />
è il controllo del territorio, a partire dal sistematico<br />
sequestro delle merci presenti sui banconi dei<br />
«non autorizzati». Non mi riferisco a chi vende i<br />
vecchi mobili di casa, i dischi di vinile o la vecchia<br />
biblioteca degli Oscar Mondadori.<br />
Mi riferisco ai prodotti nuovi, alle cinture di cuoio<br />
da due euro (esperienza personale a Piazza della<br />
Repubblica a Roma due mesi fa), ai vestitini industriali<br />
dei laboratori clandestini. Le merci sono<br />
l’unica cosa che questo commercio ha da perdere:<br />
il primo sequestro potrebbe anche essere tollerabile,<br />
ma progressivamente la perdita diventerebbe<br />
sempre più forte e gli incassi diminuirebbero. È solo<br />
un problema di sereno controllo del territorio.<br />
Note:<br />
(6) Quelli cui è dedicato in questo numero, R. Lupi, «Parlare senza<br />
dire nulla: il contagio sugli Uffici <strong>tributari</strong>», pag. 371.<br />
(7) Vedi il post «Ace una candeggina per lo sviluppo?», su «Tassazione<br />
societaria» in www.fondazionestudi<strong>tributari</strong>.<br />
4/2012<br />
365
Aspetti<br />
strutturali<br />
Tassazione attraverso le aziende<br />
e «sanzione sociale» sugli evasori<br />
Negli ultimi mesi le autorità politiche hanno spesso<br />
parlato di uno «stato di guerra» in Italia, riferendosi<br />
alla gigantesca evasione fiscale che affligge<br />
i nostri conti pubblici e mina la nostra reputazione<br />
all’estero. La durezza delle parole utilizzate<br />
ha sorpreso molti osservatori, che peraltro riconoscono<br />
generalmente al governo Monti di aver rafforzato<br />
il set di strumenti disponibili nella lotta all’evasione<br />
(grazie soprattutto alla maggiore tracciabilità<br />
dei pagamenti e alla maggiore accessibilità<br />
dei conti correnti bancari per Guardia di Finanza<br />
e Agenzia delle entrate). Questa valutazione positiva,<br />
condivisibile in astratto, non tiene conto però<br />
della natura emergenziale del rapporto tra Fisco<br />
e contribuenti in Italia.<br />
Stime internazionali valutano in 180 miliardi l’introito<br />
sottratto ogni anno allo Stato italiano dall’evasione:<br />
gli italiani hanno un livello record di<br />
«infedeltà fiscale» in Europa, secondo (forse) soltanto<br />
a quello dei greci. Dietro le medie da pollo di<br />
Trilussa, inoltre, si nasconde una clamorosa ingiustizia<br />
fiscale: quella che divide i lavoratori dipendenti<br />
e i pensionati dall’intero mondo del lavoro<br />
autonomo. I primi sono fiscalmente «schiavi», costretti<br />
a pagare le tasse fino all’ultimo centesimo<br />
(salvo doppi lavori in nero), a tal punto da sostenere<br />
sulle proprie spalle l’80% dell’intero peso delle<br />
tasse pur detenendo soltanto il 30% della ricchezza<br />
nazionale. I secondi sono invece così «liberi» sul<br />
366<br />
4/2012<br />
di Francesco Delzìo, Raffaello Lupi<br />
L’autore di un recente volume sull’utilità delle «sanzioni sociali» contro l’evasione fiscale si presenta<br />
ai lettori di Dialoghi con riflessioni sensate, sperimentate anche in altri Paesi, ma che non<br />
possono supplire alla mancanza di richiesta delle imposte dove le aziende non arrivano. Prima<br />
occorre la sollecitazione, da parte di un pubblico ufficio, ad una maggiore correttezza fiscale.<br />
Poi, in caso di ostruzionismo e sabotaggio, vengano pure le sanzioni sociali, compresa l’esposizione<br />
su Internet degli evasori fiscali cui si è fatto ricorso in Inghilterra. Ma senza una richiesta<br />
amministrativa delle imposte, la gogna mediatica serve a poco.<br />
Contro l’evasione una nuova strategia: l’espulsione sociale<br />
Francesco Delzìo<br />
piano fiscale, da poter addirittura (come ha ricordato<br />
di recente il presidente della Corte dei Conti<br />
Giampaolino) autodeterminare la propria base imponibile,<br />
decidendo in sostanza se e quante tasse<br />
pagare anno per anno. È una situazione di squilibrio<br />
insostenibile - in grado di minare alla radice<br />
quel «patto sociale» su cui si regge ogni comunità -<br />
di fronte alla quale un Governo nella pienezza del<br />
suo mandato dovrebbe porsi una priorità assoluta:<br />
ricostruire una «giustizia fiscale» nel nostro Paese.<br />
È un’impresa molto ardua, ma politicamente e tecnicamente<br />
possibile. A patto di avere il coraggio -<br />
confortato da un «sentimento nuovo» degli italiani,<br />
che oggi come non mai condannano l’evasione<br />
come il peggiore dei mali italiani - di adottare una<br />
strategia nuova: la «strategia dell’espulsione sociale<br />
dell’evasore». L’obiettivo di fondo è quello<br />
di isolare l’evasore dal contesto sociale nel quale<br />
opera, impedendogli sia di continuare a produrre<br />
reddito attraverso la violazione degli obblighi fiscali<br />
che di fruire dei servizi sociali senza dare il<br />
suo contributo alla comunità in termini di tasse.<br />
Queste proposte sono contenute nel saggio di<br />
Francesco Delzìo, «Lotta di Tasse. Idee e provocazioni<br />
per una giustizia fiscale» (Rubbettino, 2012),<br />
dal quale è tratto il brano che segue.<br />
Francesco Delzìo - Manager, Pubblicista, Autore di vari volumi in<br />
materia politico sociale
L’evasore espulso.<br />
La strategia delle norme sociali<br />
Realizzare in Italia un «patto di giustizia fiscale»<br />
vuol dire mettere in campo una nuova strategia,<br />
che risponda ad un obiettivo di fondo: creare un<br />
profondo, radicale, continuo contrasto d’interessi<br />
tra l’evasore e il contesto sociale nel quale opera.<br />
L’evasore dev’essere isolato culturalmente e psicologicamente.<br />
Perché, come ha affermato di recente<br />
il direttore dell’Agenzia delle entrate Attilio<br />
Befera, «le tasse sono un bene per tutta la comunità,<br />
di cui però non ci si accorge. Così come<br />
l’evasione è un danno che si fa in definitiva a sé<br />
stessi».<br />
L’evasore deve perdere la certezza di poterla fare<br />
franca anche grazie alla connivenza o all’indifferenza<br />
degli altri cittadini-contribuenti. Deve poter<br />
temere non una semplice sanzione, ma il venir meno<br />
del «rapporto» con lo Stato e con la comunità<br />
nella quale vive. In altri termini, l’evasore recidivo<br />
dev’essere e deve sentirsi «espulso» dalla comunità<br />
nella quale vive e opera. Serve un cartellino<br />
rosso alzato in faccia davanti a tutti, un arbitro<br />
che abbia il potere di farlo e l’immediata uscita dal<br />
campo dell’evasore che ha commesso il fallo da<br />
espulsione.<br />
Per raggiungere questo obiettivo, bisogna cambiare<br />
in profondità il nostro ordinamento <strong>tributari</strong>o attraverso<br />
l’introduzione di quattro «norme sociali».<br />
La prima misura - nuova e coraggiosa - che consentirebbe<br />
di isolare l’evasore dal contesto nel<br />
quale opera è l’introduzione di un bonus fiscale<br />
per chi denuncia episodi di evasione. L’idea consiste<br />
nel premiare con un bonus pari al 10% delle<br />
somme recuperate dall’Erario chi segnala, sotto<br />
garanzia di anonimato, condotte di evasione fiscale<br />
che procurano un danno alle casse dello Stato:<br />
sarebbero nel mirino delle «denunce» evasori fiscali,<br />
ma anche amministratori pubblici corrotti o<br />
infedeli. È prevedibile che questa misura possa<br />
sollevare critiche e clamori di tipo «garantista».<br />
Ma basterebbe ricordare che meccanismi di questo<br />
tipo sono già attivi, da decenni, nella civilissima<br />
democrazia statunitense.<br />
Un provvedimento di questo tipo, peraltro, amplificherebbe<br />
gli effetti di un fenomeno particolarmente<br />
positivo che la Guardia di Finanza ha già<br />
registrato a partire dai primi mesi del 2012: la<br />
moltiplicazione delle telefonate di cittadini, che<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
chiamano il numero 117 per segnalare episodi illeciti.<br />
Per quanto riguarda le denunce di evasione fiscale,<br />
in particolare, nel febbraio 2012 c’è stato un<br />
boom del 382% e nel mese di marzo addirittura<br />
del 408% rispetto agli stessi mesi del 2011. È facile<br />
immaginare quale formidabile strumento di<br />
«dissuasione sociale» possa diventare il 117 della<br />
Guardia di Finanza, nel caso in cui fosse istituito il<br />
bonus fiscale per chi denuncia qualsiasi forma di<br />
evasione.<br />
Sul fronte delle sanzioni nei confronti di chi evade,<br />
invece, bisogna rafforzare quelle di natura non<br />
monetaria che implicano importanti «costi sociali».<br />
In particolare, è necessario stabilire un principio<br />
generale secondo cui l’esercizio di un’attività<br />
commerciale o di una libera attività professionale<br />
può essere consentito solo nel pieno rispetto delle<br />
regole fiscali. E dunque - in applicazione di questo<br />
principio - a chi viola gli obblighi in materia di<br />
documenti fiscali dev’essere inibito l’esercizio<br />
dell’attività commerciale o della professione. Una<br />
volta accertato per due volte consecutive il mancato<br />
rilascio di scontrini fiscali o fatture, deve scattare<br />
automaticamente la chiusura dell’esercizio commerciale<br />
o dello studio professionale. Questo tipo<br />
di sanzione è molto più efficace e dissuasiva di<br />
quelle di natura economica (o perfino penale) attualmente<br />
utilizzate: perché mettere a rischio l’esistenza<br />
stessa della fonte di guadagno implica un<br />
costo potenziale per l’evasore molto più grave sul<br />
piano qualitativo, rispetto alla possibilità di perdere<br />
una parte del guadagno stesso.<br />
La terza «norma sociale», invece, punta a favorire<br />
il massimo livello di pubblicità possibile dei comportamenti<br />
fiscali dei commercianti. Sarebbe importante<br />
l’istituzione di un «bollino blu» - in qualche<br />
modo annunciata (ma non ancora realizzata)<br />
dall’Agenzia delle entrate - che segnali al pubblico<br />
quali esercizi commerciali sono gestiti in modo fiscalmente<br />
fedele. Ma non basta. È necessario aumentare<br />
il livello di «pubblicità fiscale»: la correttezza<br />
o la fraudolenza del comportamento dei<br />
commercianti deve diventare un elemento fondamentale<br />
della competizione di mercato, aiutando<br />
tutti noi nella scelta del negozio, del bar o del ristorante<br />
da frequentare. E per raggiungere questo<br />
obiettivo è necessario creare altri due momenti di<br />
visibilità. Anzitutto le black list (ovvero le liste<br />
degli evasori «scoperti» dall’Agenzia delle entra-<br />
4/2012<br />
367
Aspetti<br />
strutturali<br />
te) di commercianti, professionisti e soggetti che<br />
esercitano attività a contatto con il pubblico devono<br />
essere pubblicate su Internet - perché siano<br />
consultabili da parte di tutti, rafforzando il potere<br />
di scelta da parte del consumatore - e costituire al<br />
tempo stesso elemento decisivo di selezione degli<br />
esercizi da controllare da parte dell’Amministrazione<br />
finanziaria. È altrettanto importante, inoltre,<br />
la pubblicazione on line - non solo per commercianti<br />
e professionisti, ma per tutti i contribuenti -<br />
delle sanzioni applicate ai casi di comportamento<br />
illegale, secondo il modello americano del naming<br />
e shaming. Dare visibilità alle sanzioni consente a<br />
tutti di misurare il «costo» potenziale di comportamenti<br />
che determinino una qualsiasi forma di evasione<br />
fiscale.<br />
368<br />
4/2012<br />
Infine la quarta «norma sociale» - anch’essa innovativa<br />
e coraggiosa sul piano politico - per rafforzare<br />
la guerra all’evasione consiste nella sospensione<br />
dell’erogazione dei servizi pubblici a danno<br />
del contribuente protagonista di comportamenti<br />
reiterati, acclarati in modo definitivo, che determinino<br />
una rilevante evasione fiscale. All’evasore recidivo<br />
dovrebbe essere impedito l’accesso alle<br />
prestazioni sociali e di welfare, ad esclusione naturalmente<br />
di quelle sanitarie.<br />
La misura avrebbe effetti importanti sul piano pratico,<br />
ma anche un altissimo valore simbolico: rappresenterebbe<br />
infatti quella «esclusione» dalla comunità<br />
civile, che di fatto l’evasore auto-determina<br />
con il suo rifiuto di contribuire al sostentamento<br />
della stessa.<br />
Un elemento selettivo di una strategia sistematica di richiesta<br />
delle imposte<br />
Raffaello Lupi<br />
1) Le riflessioni dell’articolo che precede ricordano<br />
la notizia di stampa (il Corriere della Sera del<br />
17 agosto 2012, mese in cui si parla sempre di tasse)<br />
secondo cui in Inghilterra hanno deciso di<br />
pubblicare su Internet gli elenchi degli evasori fiscali<br />
più pericolosi, in una specie di gogna mediatica.<br />
È una notizia che sembrerebbe avallare le riflessioni<br />
di Delzìo, cui però andrebbe fatto osservare<br />
che l’evasore, inteso come soggetto che non<br />
contribuisce affatto alle pubbliche spese, probabilmente<br />
non esiste, è una figura mitologica. Nessuno<br />
infatti, in nessun Paese moderno, sfugge completamente<br />
alla tassazione, in veste di consumatore<br />
finale quando fa la spesa al supermercato, paga<br />
utenze di gas o telefono, consuma benzina, fuma,<br />
gioca alle lotterie pubbliche, utilizza conti correnti<br />
bancari.<br />
I lavoratori indipendenti sfuggono alla tassazione<br />
attraverso le aziende perché incontrano queste ultime<br />
solo in veste di consumatori, e non di operatori<br />
economici, sono privi di rigidità e spesso interloquiscono<br />
solo con soggetti ben felici di evitare<br />
la formalizzazione fiscale dell’operazione, come<br />
casalinghe, pensionati e studenti; anche se poi,<br />
in un anelito di senso civico, questi soggetti imponessero<br />
tale formalizzazione, nessuno potrebbe assicurare<br />
loro che il fornitore dichiari effettivamen-<br />
te al Fisco le somme per cui ha emesso fattura o<br />
scontrino.<br />
Non si può, insomma, trasferire di peso il contabilismo<br />
della tassazione attraverso le aziende dove<br />
le aziende non arrivano, cioè nei rapporti tra<br />
l’idraulico, il pasticcere e il pensionato.<br />
I lavoratori indipendenti non sono «mostri sociali»<br />
(1), ma soltanto individui consapevoli che molto<br />
probabilmente nessuno individuerà la loro ricchezza<br />
effettiva, e quindi omettono di registrarne una<br />
parte, come avviene in tutti i Paesi del mondo.<br />
Serve quindi una sistematica azione valutativa (e<br />
non contabile) da parte degli Uffici <strong>tributari</strong> sul<br />
territorio. Come si fa in tutti i Paesi sviluppati, dove<br />
il Fisco utilizza le aziende come esattori, finché<br />
ci sono (2), ed organizza la richiesta delle imposte<br />
dove le aziende non arrivano, o dove i loro proprietari<br />
potrebbero scavalcarne le procedure.<br />
Note:<br />
(1) Tanto è vero che i cosiddetti «onesti», cioè tassati dalle aziende<br />
come lavoratori, non ci pensano un secondo ad evadere come<br />
proprietari di immobili, come lavoratori autonomi «in nero», come<br />
consumatori che si spartiscono l’evasione dell’IVA coi propri<br />
fornitori.<br />
(2) Addirittura facendo spesso a meno delle ritenute alla fonte,<br />
sostituite da semplici segnalazioni, con un miracolo di efficienza<br />
inconcepibile in Italia.
L’emergenza del problema italiano, giustamente<br />
sottolineata da Delzìo, è la mancanza di una sistematica<br />
richiesta delle imposte dove la riscossione<br />
attraverso le aziende non funziona.<br />
Una volta che ci fosse una sistematica vigilanza del<br />
territorio, con un incrocio di credibilità tra le attività<br />
economiche, come appaiono, e le relative posizioni<br />
fiscali, potrebbe scattare la sanzione sociale<br />
per i renitenti, come suggerisce Delzìo. Le facce<br />
pubblicate dal Fisco inglese confermano che si tratta<br />
di casi limitati di ostinazione, ostruzionismo, inventiva<br />
- a questo punto criminale - nell’ostacolare<br />
gli accertamenti e le riscossioni; faccio l’esempio<br />
di chi si rende apparentemente nullatenente, chi dirotta<br />
i controlli con residenze di comodo, chi distrugge<br />
i documenti o usa documenti contraffatti in<br />
risposta alle richieste di informazioni, chi usa prestanome<br />
ottantenni, conti intestati a familiari compiacenti,<br />
ecc. Questi soggetti «devianti» rispetto all’intervento<br />
sistematico del Fisco possono essere<br />
messi alla berlina a patto che ci sia un intervento<br />
sistematico del Fisco. Altrimenti, se cerchiamo di<br />
tassare i pasticceri con la Gazzetta Ufficiale, ed i<br />
passaggi televisivi, senza mai far vedere loro un<br />
impiegato dell’Agenzia delle entrate che chieda loro<br />
qualcosa, il problema non sono i pasticceri, ma è<br />
il Fisco. Nei nostri blitz, in cui il 60% non è «in regola»,<br />
il problema non sono i commercianti, ma le<br />
istituzioni, gli Uffici e l’opinione pubblica, che non<br />
sanno richiedere le imposte, o le chiedono per legge<br />
a chi fa l’elettricista o il pasticcere, dipingendolo<br />
poi come un mostro se non le paga, che è comprensibile<br />
se nessuno si preoccupa di chiedere notizie<br />
fiscali. L’«imposta» si chiama così, in quanto<br />
senza una sua richiesta adeguatamente sistematica<br />
nessuno pagherebbe spontaneamente. Quando<br />
manca una ragionevole e sistematica «richiesta»<br />
non ha senso fare appello al senso civico, né alle<br />
manette, né alla delazione fiscale (3).<br />
Saper imporre le imposte è una condizione della<br />
macchina pubblica per apparire credibile. Dopodiché<br />
potrà anche mettere alla berlina i casi di deviazionismo<br />
più marcato, con elevato valore simbolico,<br />
parlando anche di colpirne uno per educarne<br />
cento ... ma solo dopo aver fatto il proprio lavoro<br />
di una sistematica richiesta delle imposte. Chi riceve<br />
la visita del Fisco, e non si mette in regola<br />
per il futuro, ed insiste, pian piano deve finire alla<br />
gogna, o in galera, ma perché ha fatto ostruzioni-<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
smo alle autorità costituite, non alle parole scritte<br />
su un pezzo di carta.<br />
2) Il volume che cortesemente l’Autore ci presenta<br />
è una delle tante risposte che l’opinione pubblica<br />
qualificata cerca di darsi sul tema della ricchezza<br />
fiscalmente non registrata, e degli squilibri tra «tartassati»<br />
(attraverso le aziende) ed «evasori», dove<br />
le aziende non arrivano e non riescono a riequilibrare<br />
gli Uffici <strong>tributari</strong>; questi ultimi anzi sono<br />
spinti, proprio dai disorientamenti dell’opinione<br />
pubblica, dalle spiegazioni manichee, ad accanirsi,<br />
con contestazioni interpretative proprio sulle aziende<br />
(4). Il numero di questi volumi (5), redatti da autori<br />
brillanti, ma estranei alla comunità scientifica<br />
degli studiosi di diritto <strong>tributari</strong>o, fa capire quanto<br />
quest’ultima non sia un punto di riferimento per<br />
l’opinione pubblica, né padroneggi gli interrogativi<br />
che essa si pone sulla «questione fiscale». Fanno<br />
benissimo quindi, osservatori e ricercatori sociali di<br />
estrazione diversa, a dire la loro; nessuno, tra i <strong>tributari</strong>sti,<br />
studiosi addetti ai lavori, ha titolo per censurare<br />
quelle che sembrano invasioni di campo, come<br />
fa un giovane Nanni Moretti, lamentando che<br />
«tutti parlano di cinema» (senza conoscerlo), in una<br />
scena del film «Sogni d’oro» (6). Questa molteplicità<br />
di interventi esterni semplicemente conferma<br />
che la comunità scientifica del diritto <strong>tributari</strong>o non<br />
ha mai preso il controllo del settore di vita sociale<br />
che le era stato affidato. Se chi avrebbe dovuto coordinare<br />
le riflessioni della società sulla determinazione<br />
della ricchezza ai fini <strong>tributari</strong> si disperde sui<br />
«materiali normativi», come indicato nella prefazione<br />
al precedente numero 3 di Dialoghi, l’opinione<br />
pubblica procede per conto proprio.<br />
Note:<br />
(3) Di cui ci eravamo occupati nel precedente numero 2 di Dialoghi,<br />
assieme a Molinaro, sulla «combinazione di interventi per<br />
l’emersione della ricchezza non registrata» (in Dialoghi Tributari n.<br />
2/2012, pag. 142).<br />
(4) Come abbiamo messo in risalto da ultimo in «Maggiore imposta<br />
accertata non sempre significa ricchezza non registrata» di R.<br />
Lupi e S. Capitani, in Dialoghi Tributari n. 1/2012, pag. 7.<br />
(5) Ne ho elencati molti a pag. 271 del Manuale giuridico di scienza<br />
delle finanze, Dike Giuridica, 2012, cui aggiungo A. Leccese, Le<br />
basi morali dell’evasione fiscale, Roma, 2008; R. Petrini, L’imbroglio<br />
fiscale, Roma-Bari, 2005; D. Pesole - F. Piu, Il Patto, Cittadini e stato,<br />
dal conflitto a una nuova civiltà fiscale, Milano, 2008; S. Giannini - A.<br />
Gentile, Evasione fiscale e tax compliance, Bologna, 2012, che recensiremo<br />
presto su Dialoghi.<br />
(6) Reperibile su youtube digitando «Nanni Moretti - io non parlo<br />
di cose che non conosco».<br />
4/2012<br />
369
Parlare senza dire nulla:<br />
il contagio sugli Uffici <strong>tributari</strong><br />
Un paradosso: la «lotta all’evasione»<br />
non è «legale»? (infatti è «empirica»)<br />
Su Dialoghi, come in tutta la pubblicistica fiscale,<br />
ci occupiamo prevalentemente di questioni di diritto,<br />
cioè di contestazioni interpretative sul regime<br />
giuridico di vicende dichiarate o comunque palesi.<br />
La ragione è prima di tutto la facilità di generalizzare<br />
le questioni di diritto, inquadrandole concettualmente,<br />
comprendendo la fattispecie concreta e<br />
le regole giuridiche che si contendevano il campo.<br />
Peccato però che di queste tematiche, spesso molto<br />
sofisticate, all’opinione pubblica, alle istituzioni,<br />
alla classe dirigente (1), importi assai poco, rispetto<br />
al grande problema della ricchezza non registrata.<br />
Quella ricchezza non registrata su cui si formulano<br />
le spiegazioni più stravaganti, fino ad ipotizzare<br />
complotti elettoralistici, perversioni sociali di<br />
imprecisati «traditori della patria», lacerazioni tra<br />
fantomatici «onesti» e «disonesti», che mettono a<br />
dura prova, non solo il patto fiscale, ma anche il<br />
patto e la coesione sociale del nostro Paese.<br />
Le espressioni sullo «stato di guerra contro l’evasione»<br />
e sui «traditori della patria», in bocca ad<br />
autorevoli esponenti delle istituzioni, commentate<br />
su www.giustiziafiscale.com, danno l’idea del disorientamento<br />
generale e di come non si riesca a<br />
comprendere che non ci sono «perversioni sociali»,<br />
motivo di recriminazione, ma semplicemente<br />
determinabilità diverse della ricchezza, parte della<br />
quale è raggiunta dai flussi amministrativi azien-<br />
di Raffaello Lupi<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
Davanti alle lacerazioni sociali connesse alla mancanza di spiegazioni della ricchezza fiscalmente<br />
non registrata, e al disorientamento della pubblica opinione, «le colpe della ricchezza nascosta si<br />
scaricano sul regime di quella dichiarata, o comunque palese». La drammatizzazione alimenta il<br />
timore di quantificare la ricchezza non registrata dalle aziende, operazione per la quale ci si deve<br />
esporre senza quella «copertura legale», esistente invece anche per le più evanescenti contestazioni<br />
sul regime giuridico della ricchezza palese, sempre legittimabili con la «volontà della<br />
legge». Ne deriva un intreccio indecifrabile di materiali normativi, giri di parole, riferimenti dottrinali,<br />
frasi ad effetto, divagazioni non pertinenti, resoconti tendenziosi di eventi palesi o pacifici.<br />
Un intreccio privo di senso compiuto, proprio per questo difficile da contestare.<br />
dali, ed è tassata dalle aziende, e parte no. Quest’ultima<br />
ricchezza dovrebbe essere stimata, come<br />
avviene in tutto il mondo, dagli Uffici <strong>tributari</strong>,<br />
che però hanno quasi paura di «arrivare dove le<br />
aziende non arrivano», valutando ed esponendosi<br />
su terreni non «coperti dalla legge». Persino per la<br />
stima della ricchezza non registrata da piccoli<br />
commercianti e artigiani gli Uffici aspirano ad utilizzare<br />
il supporto degli studi di settore, per evitare<br />
di essere i soli a dover risolvere un interrogativo<br />
imbarazzante, cui neppure il contribuente (che<br />
semplicemente incassava, evadeva e spendeva) saprebbe<br />
rispondere.<br />
Nell’ossessione fuorviante del «governo della legge»,<br />
tutti i settori della macchina pubblica italiana<br />
vogliono innanzitutto «copertura», cioè potersi<br />
mostrare guidati da qualche disposizione normativa,<br />
mentre la stima della ricchezza non registrata<br />
non è «legale», nel senso che è «empirica»; in altri<br />
termini è questione di fatto, in cui gli Uffici devono<br />
valutare facendo appello, non ad articoli, commi,<br />
combinati disposti e simili, ma a criteri di normalità<br />
economica, che sono molto più responsabilizzanti<br />
dell’interpretazione normativa.<br />
Nota:<br />
(1) Sul concetto di opinione pubblica «qualificata», dato dagli studiosi<br />
della società, sotto varie angolazioni, dagli uomini delle istituzioni,<br />
dai «media», dai sindacati, dalle associazioni di categoria,<br />
cfr. «Ma cos’è questa benedetta opinione pubblica» in www.organizzazionesociale.com.<br />
4/2012<br />
371
Aspetti<br />
strutturali<br />
Nel contesto di schizofrenia sociale sopra descritto,<br />
di pressione mediatica, l’utilizzo dei criteri di<br />
normalità economica incute timore, anche considerato<br />
il clima di sospetto interno agli Uffici, per<br />
possibili negligenze e corruzioni, rispetto a quella<br />
che viene presentata come una specie di «caccia<br />
alle streghe».<br />
Per questo si parla pochissimo di come potrebbe<br />
avvenire la mancata registrazione fiscale di determinati<br />
elementi di ricchezza, anche considerando<br />
le modalità per far fronte ai relativi movimenti finanziari,<br />
non sempre effettuabili per contanti. La<br />
ricerca della ricchezza non registrata non è «legale»,<br />
ma «empirica», ed è difficile da inquadrare secondo<br />
schemi concettuali generali, anche quando<br />
una sentenza se ne occupa, mentre le contestazioni<br />
di diritto possono essere fondate sulla «volontà<br />
della legge», su materiali normativi, che danno<br />
molta più «copertura».<br />
Le contestazioni di diritto e le ansie da budget<br />
Le contestazioni interpretative su comportamenti<br />
fiscalmente davvero aggressivi sono ovviamente<br />
sacrosante. Però le soluzioni interpretative fiscalmente<br />
aggressive si vanno rarefacendo sempre di<br />
più, mentre solo fino al 2005 i manager di molte<br />
aziende cedevano alla tentazione di «pianificazioni<br />
fiscali aggressive», formalmente lecite, anche<br />
secondo i pareri di blasonati consulenti, ma contrarie<br />
allo spirito del sistema.<br />
Ancor meno riscontrabile all’interno delle aziende,<br />
intese come organizzazioni di persone, è la mancata<br />
registrazione fiscale della ricchezza attraverso<br />
la costituzione di fondi neri, proponibile solo se a<br />
beneficio di un «proprietario unico», che si esponga<br />
a legittimarla presso i suoi più fidati collaboratori,<br />
come abbiamo esposto in molti episodi di<br />
«capitalismo familiare» descritti su Dialoghi. Altrimenti<br />
l’azienda non ha motivo di nascondere<br />
ricchezza al Fisco, mentre in essa può innescarsi<br />
una rincorsa, anche emulativa, tra i managers, alla<br />
ricerca del regime fiscale più conveniente. Il che<br />
avveniva, fino a qualche anno or sono, anche a costo<br />
di sconfinare nell’elusione. In tutti questi casi,<br />
infatti, non c’è nulla da nascondere, il manager<br />
non deve dare rappresentazioni alterate della sostanza<br />
giuridica, e per questo l’elusione è ipotizzabile<br />
in tutte le corporations del mondo. Non è questo<br />
però il problema italiano, consistente invece<br />
372<br />
4/2012<br />
nei famosi 150 miliardi di imposte corrispondenti<br />
a ricchezza non registrata (2).<br />
Proprio questa presenza di ricchezza non registrata<br />
istilla nelle autorità fiscali un’ansia da prestazione<br />
davanti alla opinione pubblica qualificata e ai<br />
mezzi di informazione, ancora ignari della differenza<br />
tra maggiore imposta accertata e ricchezza<br />
non registrata. Il risultato di 12 miliardi di maggiore<br />
imposta riscossa «da accertamenti e riscossioni»<br />
nel 2011 è modesto rispetto al gettito <strong>tributari</strong>o<br />
complessivo, ma è esorbitante rispetto all’analogo<br />
risultato del Fisco tedesco, non gravato<br />
da analoghe «ansie da prestazione mediatica», che<br />
si attesta a oltre dieci volte di meno, concentrando<br />
i suoi controlli sul territorio, dove le aziende non<br />
arrivano, spingendo all’adempimento, per il futuro,<br />
i lavoratori indipendenti, facendosi vedere per<br />
le strade, chiedendo informazioni, valutando la<br />
credibilità del dichiarato. Insomma, chiedendo le<br />
imposte con sistematicità e serenità dove le aziende<br />
non arrivano, perdonando chi paga e mettendo<br />
alle strette chi fa ostruzionismo.<br />
Insomma, valutando, gestendo pragmaticamente la<br />
funzione pubblica di determinare la ricchezza ai<br />
fini <strong>tributari</strong> e «spingendo» la compliance dove gli<br />
uffici di contabilità aziendale, gli esattori/segnalatori<br />
del terzo millennio, non arrivano.<br />
Da noi, invece, la drammatizzazione mediatica<br />
spinge a gonfiare il carniere dei controlli, anche a<br />
costo di perdere il controllo del territorio, come<br />
dimostrano operazioni «tipo Cortina», che avrebbero<br />
dovuto da anni essere la «serena regola» e<br />
non l’«eccezione mediatica», rispetto a meccanismi,<br />
come quelli del «tutoraggio» dei grandi contribuenti,<br />
che concentrano i controlli dove ce n’è<br />
meno bisogno, e sostanzialmente li sprecano. Anche<br />
quando presso i grandi contribuenti vengono<br />
sollevate contestazioni giuridico interpretative, si<br />
potrebbe dubitare di questo strabismo dei controlli<br />
rispetto alla ricchezza non registrata. Comunque<br />
da alcuni anni i presupposti per le contestazioni<br />
giuridico interpretative si stanno rarefacendo, con<br />
le conseguenze che diremo al paragrafo seguente.<br />
Nota:<br />
(2) Secondo me (come indicato tra l’altro nel Manuale professionale<br />
di diritto <strong>tributari</strong>o, IPSOA, 2011, pag. 142) anche sottostimati,<br />
in quanto basati solo sulla sottoremunerazione del lavoro, dipendente<br />
o indipendente (lavoro nero).
Le radici culturali<br />
dei processi verbali di disquisizione<br />
Mentre la pianificazione fiscale aggressiva, nelle<br />
aziende, va sempre meno di moda, il tutoraggio e<br />
l’«ansia da budget» da dare in pasto alle conferenze<br />
stampa rimangono. Allora, se le contestazioni<br />
interpretative non sono a portata di mano, vengono<br />
fabbricate per l’occasione, con i polpettoni giuridici<br />
che in altra sede ho chiamato «processi verbali<br />
di disquisizione», interessanti proprio in quanto finalizzati<br />
a un obiettivo difficile nelle scienze sociali:<br />
parlare senza dire nulla, fingendo di dire qualcosa,<br />
e quindi confondendo chi vi cercasse un filo<br />
conduttore, per poterlo confutare. È una prassi diffusa,<br />
dall’accademia fino alle tesine di fine master,<br />
in cui sono descritti materiali normativi, intervallati<br />
da resoconti di fatti pacifici, riferimenti giurisprudenziali<br />
e dottrinali con chiose inconcludenti a<br />
fare da pseudo-commento, prassi amministrativa,<br />
stacchetti tendenziosi, che riportano in modo selettivo<br />
e insinuante fatti pacifici e del tutto innocui<br />
per il Fisco, come se fossero chissà quali frodi fiscali;<br />
mi riferisco a frasette insinuanti tipo «ha pagato<br />
meno imposte» (magari perché ha dedotto un<br />
costo), riferimenti a precedenti comunitari (Sentenza<br />
«Halifax» e «Corte di giustizia»), al diritto civile<br />
o commerciale, a qualche deliberazione di un<br />
Comitato per l’interpello o a una sentenza della<br />
Corte di cassazione. Nell’esporre i fatti si fa riferimento,<br />
appena capita, alla mancanza di «valide ragioni<br />
economiche», con brevi osservazioni di senso<br />
pratico, mescolate al linguaggio paludato e alla<br />
vuota enfasi su «capacità contributiva e doveri di<br />
solidarietà», quando si sta cercando solo di «misurare<br />
la ricchezza». È un misto di parafrasi e buonsenso<br />
elementare, con intuizioni scoordinate, magari<br />
sensate, senza un filo conduttore adeguato all’inconcludente<br />
lunghezza dello scritto (3).<br />
Abbiamo visto in questo stesso fascicolo di Dialoghi,<br />
con D’Ardia (4), quanto possono essere ammiccanti<br />
le espressioni «IVA indebitamente detratta»<br />
e «omessa fatturazione», riferite all’applicazione<br />
di IVA su operazioni escluse, oppure - inversamente<br />
- alla registrazione dell’operazione come<br />
«esclusa da IVA», in genere senza danni all’Erario,<br />
in un caso e nell’altro.<br />
Riemergono, in questi verbali, rivestiti di autorità<br />
amministrativa, gli inconcludenti sproloqui che<br />
troviamo in tanta parte della pubblicistica. In cui,<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
come dicevamo sulla prefazione di Dialoghi n.<br />
3/2012, non ci sono «argomentazioni», ma «riferimenti<br />
di materiali» e ambigue apparenze di commento,<br />
impossibili da approvare o disapprovare<br />
nel merito, perché manca un merito, un contenuto<br />
di pensiero. Quest’ultimo muore in una prosa erudita,<br />
prolissa, scolastica, inconcludente e contorta,<br />
che alla fine prende per sfinimento il lettore (5);<br />
nascono interminabili litanie senza un preciso filo<br />
conduttore, e come tali sottratte a qualsiasi valutazione<br />
di merito, in quanto l’approvazione o la critica<br />
possono indirizzarsi ad affermazioni provviste<br />
di senso compiuto, e diventano difficili man mano<br />
che lo scritto ne è privo. Gli articoli così costruiti<br />
sono a prima vista inoffensivi, essendo sufficiente<br />
evitare l’acquisto dei relativi volumi o riviste (6),<br />
mentre i verbali e gli atti di accertamento che vi si<br />
ispirano (7) sono pericolosissimi, e difficili da<br />
contestare. Proprio perché sconclusionati, come<br />
vedremo al prossimo paragrafo.<br />
Le difficoltà di difendersi<br />
Sarebbe troppo facile contestare gli atti in questione<br />
se fossero intrisi di divagazioni palesemente irrilevanti,<br />
o manifestamente dispersivi o sconclusionati,<br />
come se parlassero di politica o di sociologia. Ma i<br />
redattori non sono sprovveduti, e si mantengono<br />
sulla stretta normativa fiscale, enunciata nei modi<br />
inconcludenti indicati sopra. Per comprendere la<br />
mancanza di senso bisogna essere del settore, magari<br />
anche conoscere la situazione specifica, mentre<br />
Note:<br />
(3) Proprio come i brevi intervalli di vita reale, di ragionamenti<br />
concreti, che compaiono nella pubblicistica <strong>tributari</strong>a non riescono<br />
a coordinarsi e diventare «pensiero scientifico», cioè intuizioni<br />
organizzate.<br />
(4) C. D’Ardia, R. Lupi, «Detrazione di “IVA non dovuta” e “reverse<br />
charge”», in questo numero della Rivista a pag. 399.<br />
(5) È l’espressione, all’ennesima potenza, di quell’appiattimento<br />
del diritto sui «materiali normativi» sui cui effetti metodologicamente<br />
nefasti, in termini di atrofizzazione delle capacità di riflessione,<br />
R. Lupi, Manuale giuridico di scienza delle finanze, Dike Giuridica,<br />
2012, pagg. 130-150.<br />
(6) Il danno collaterale, su cui in questa sede non mi soffermo, riguarda<br />
piuttosto il reclutamento del corpo docente universitario<br />
(per chi volesse, sul punto, R. Lupi, Manuale giuridico professionale<br />
di diritto <strong>tributari</strong>o, IPSOA, 2011, parr. 2.1, 2.2.<br />
(7) Del tutto legittimamente, dal punto di vista dei redattori,<br />
pubblici funzionari che guadagnano poche migliaia di euro, e che<br />
vedono prestigiose carriere accademico professionali costruite<br />
su generi letterari analogamente inconcludenti.<br />
4/2012<br />
373
Aspetti<br />
strutturali<br />
un funzionario o controllore esterno, un giornalista<br />
o un giudice «generalista» non può che rimanere disorientato.<br />
Soprattutto in questo clima di caccia alle<br />
streghe, di santa crociata, di «evasione come tradimento<br />
della patria», un osservatore «terzo» è indotto<br />
a chiedersi perché un atto esteriormente diligente,<br />
documentato e scrupoloso debba essere archiviato<br />
dall’Amministrazione o annullato dal giudice.<br />
In questo modo disquisizioni dispersive, prolisse,<br />
sconclusionate, ammiccanti, insinuanti finiscono<br />
per disorientare (8), suscitando il dubbio che «sotto<br />
ci sia qualcosa»; l’incomprensibilità degli atti<br />
del Fisco diventa quindi un problema dei destinatari,<br />
non dei redattori.<br />
La concezione legalistico-processuale del diritto<br />
<strong>tributari</strong>o si ritorce quindi a danno del contribuente,<br />
quando il giudice - impressionato da queste<br />
cortine fumogene - diventa riluttante a vanificare<br />
l’operato di un’Amministrazione che, a prima vista,<br />
non è andata palesemente fuori tema.<br />
Confondere il giudice con queste cortine fumogene<br />
rappresenta, per gli Uffici <strong>tributari</strong>, un’arma<br />
potenzialmente vincente. Se si discute del reddito<br />
di un pasticcere, il giudice riesce ad essere a suo<br />
agio, ma quando si tratta di questioni bilancistiche,<br />
contabili e societarie, debitamente complicate dalle<br />
disquisizioni suddette, il giudice si sente confuso,<br />
e quindi si sente più tranquillo, a parità di tutti<br />
gli altri fattori, nell’appiattirsi sulla tesi di verbali<br />
sconclusionati, che vivono di vita propria in quanto<br />
sconclusionati (9).<br />
È questo il modo più comodo per chiudere la pratica,<br />
anche se ciò non contribuisce alla «lotta all’evasione»,<br />
in quanto finisce per spingere ancora<br />
i funzionari del Fisco a concentrare i rilievi sul regime<br />
giuridico della ricchezza palese, senza responsabilizzarsi<br />
nella ricerca di quella nascosta.<br />
Il compito più difficile dei consulenti, quindi, non<br />
è confutare il contenuto del verbale, che non c’è,<br />
ma far capire proprio la mancanza di qualsiasi<br />
idea. Immaginare, invece, all’interno del verbale,<br />
una idea per poi contestarla, comporta per gli stessi<br />
consulenti una trappola, cioè cercare di contestare<br />
con ragionamenti di senso compiuto espressioni<br />
che ne sono prive, e dove il risultato per definizione<br />
non può avere senso compiuto (10).<br />
Non è del tutto pertinente quella legge di Murphy<br />
secondo cui non bisogna discutere con un idiota,<br />
perché la gente potrebbe non capire la differenza;<br />
374<br />
4/2012<br />
qui infatti non ci si può sottrarre all’interazione,<br />
né si può indulgere a violenze verbali verso i redattori<br />
degli atti in questione, sia perché al loro<br />
posto avremmo fatto tutti la stessa cosa, sia perché<br />
si tratta di autorità pubbliche cui va giustamente la<br />
solidarietà dei colleghi e la simpatia dei giudici,<br />
infine perché le responsabilità ambientali sono ben<br />
altre, soprattutto degli studiosi. La strada è molto<br />
più tortuosa, come vedremo al punto che segue.<br />
La destrutturazione dei verbali<br />
come primo passo per parlare del merito<br />
L’unica possibilità è quindi «scomporre» il verbale,<br />
destrutturarlo, facendone vedere garbatamente<br />
la mancanza di senso compiuto, di contenuto sostanziale.<br />
Forse bisogna redigere un «controverbale»<br />
in cui il verbale viene passo passo destrutturato,<br />
e ne viene mostrata l’inconsistenza, la mancanza<br />
di contenuto sostanziale, con il massimo rispetto<br />
possibile. Si tratta di scomporre le parafrasi, le<br />
descrizioni tendenziose e insinuanti dei fatti, le interminabili<br />
divagazioni di legislazione, il miscuglio<br />
indecifrabile tra luoghi comuni, fatti pacifici e<br />
stralci di materiali normativi e dottrina.<br />
Bisogna spazzare via questi diaframmi dimostrando<br />
che il verbale non ha alcun riferimento alla sostanza<br />
della determinazione <strong>tributari</strong>stica della ricchezza,<br />
ma anche riuscendoci si è ancora a metà dell’opera.<br />
Note:<br />
(8) Secondo lo stesso schema utilizzato nel film «Amici Miei»,<br />
con la supercazzola brematurata.<br />
(9) Mettendo in imbarazzo, non solo i giudici, ma anche gli stessi dirigenti<br />
delle istituzioni fiscali, sia perché non è bello sconfessare una<br />
prassi diffusa, e per certi versi inevitabile, presso i propri uomini, sia<br />
perché si rischiano sospetti di «timidezza» e «scarsa convinzione»<br />
nella sacralità della «lotta all’evasione»; sono sospetti magari alimentati<br />
proprio dai colleghi che, utilizzando questo clima di tensione,<br />
indulgono a pratiche corruttive, e quindi sono ragionevoli «solo<br />
a pagamento», provando un fastidio viscerale per «è ragionevole<br />
gratis», regalando merce che secondo loro andrebbe fatta pagare.<br />
Dovremo dedicarvi un altro articolo, però è chiaro che senza comprensibilità<br />
non può esservi controllo ambientale, e quindi monitoraggio<br />
delle pratiche corruttive. Ce ne siamo già occupati con E.<br />
Melchiorre in «Corruzione, cultura del sospetto e ostacoli alla richiesta<br />
delle imposte dove le aziende non arrivano», in Dialoghi Tributari<br />
n. 3/2011, pag. 272, ma l’argomento è fondamentale.<br />
(10) È una trappola che attira i consulenti sullo stesso sconclusionato<br />
terreno del verbale e li condanna alla sconfitta, in quanto,<br />
mentre nel diritto civile il giudice frastornato tira la monetina,<br />
nel diritto amministrativo respinge matematicamente il ricorso (i<br />
giovani funzionari degli Uffici legali dell’Agenzia ne sono ben consapevoli!).
A rigore, una volta mostrato che il verbale parla del<br />
nulla, dovrebbe scattare l’annullamento per difetto<br />
di motivazione «in diritto», ma gli Uffici <strong>tributari</strong><br />
«giocano in casa» ed inizia una seconda fase. Dopo<br />
aver capito che la contestazione «parlava del nulla»,<br />
l’interlocutore istituzionale (superiore o giudice) si<br />
chiederà se c’era qualcosa di cui si doveva parlare,<br />
e quindi, dopo tutta questa fatica, bisogna ancora<br />
passare al merito della questione, se ce n’è uno. Oppure<br />
far capire che un merito, assolutamente, manca,<br />
ripartendo da zero per dimostrare l’assoluta normalità<br />
del comportamento sottostante.<br />
Purtroppo bisogna muoversi sui tre seguenti livelli:<br />
1) destrutturazione dello scritto inconcludente;<br />
2) esposizione giuridicamente inquadrata della situazione<br />
di fatto per spiegare che si sta parlando<br />
del nulla, e sotto manca qualsiasi altro vantaggio<br />
<strong>tributari</strong>o;<br />
3) individuazione delle formule che consentano all’istituzione<br />
con cui si sta interagendo di chiudere<br />
la pratica senza imbarazzi istituzionali, al riparo<br />
dall’accusa di aver «vanificato una mole enorme<br />
di scrupoloso lavoro investigativo».<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
Non è un compito facile, e per questo si cercano<br />
delle transazioni col Fisco, riconoscendo anche<br />
imposte non dovute, per chiudere in qualche modo<br />
la pratica. Subendo cioè piccole e innocenti<br />
«estorsioni di stato», preferite alle incertezze e ai<br />
rischi di un contenzioso, dove le istituzioni avrebbero<br />
giustamente alzato i polveroni suddetti (11).<br />
Con la definizione si evitano anche i fastidi della<br />
riscossione provvisoria e le segnalazioni alla Procura<br />
della Repubblica (12), consentendo anche<br />
agli Uffici di rimpinguare il «budget». Tutto si tiene,<br />
finché rimane il disorientamento dell’opinione<br />
pubblica e delle istituzioni sulla tassazione attraverso<br />
le aziende.<br />
Note:<br />
(11) Sempre secondo il leit motiv «giudice frastornato, ricorso rigettato».<br />
(12) Entrambi piccoli strumenti di tortura, per le aziende, che<br />
spingono a «chiuderla lì», accettando pretese fiscali infondate, e<br />
subendo poi gli attacchi mediatici reperibili digitando su Google<br />
le parole «Evasori? No, pacifisti», titolo di un articolo di Marco<br />
Travaglio sul il Fatto Quotidiano, che dovremo contestualizzare<br />
prossimamente su Dialoghi o su www.giustiziafiscale.com.<br />
4/2012<br />
375
Aspetti<br />
strutturali<br />
Capitalismo familiare e Fisco:<br />
nessun «tesoro nascosto»<br />
ne «L’importanza di chiamarsi Agnelli»<br />
Continuiamo a cercare, secondo lo stile di Dialoghi,<br />
quanto c’è di generale su casi specifici saltati all’onore<br />
della cronaca, o oggetto di scritti specifici<br />
disponibili sul mercato editoriale, o su internet (1).<br />
Il volume di Emanuele Gamna, L’importanza di<br />
chiamarsi Agnelli, merita una recensione per i numerosi<br />
riflessi <strong>tributari</strong> che contiene. Non solo per i<br />
riferimenti alla parcella non dichiarata dall’autore, e<br />
poi, secondo quest’ultimo, utilizzata dalla cliente<br />
per fare pressioni su di lui, ma anche per quelli al<br />
fantomatico «tesoro nascosto» degli Agnelli, di cui<br />
non ci sono - né nel volume né in rete - ulteriori informazioni,<br />
ma che non sembra derivasse da alcuna<br />
forma di management override sulle procedure<br />
aziendali. Il che è quanto ci sta a cuore sotto il profilo<br />
della tassazione attraverso le aziende.<br />
Il volume si collega a quanto la stampa ha scritto,<br />
con i soliti imprecisi ammiccamenti, a proposito<br />
del fantomatico «tesoro degli Agnelli», di cui si<br />
cominciò a parlare in occasione delle controversie<br />
tra la figlia dell’Avvocato, Margherita, e altri<br />
membri della famiglia.<br />
Vale dunque la pena di dedicare due paginette al<br />
godibile volume autobiografico, in cui l’ex avvocato<br />
di Margherita Agnelli nella prima spartizione<br />
di Stefania Capitani, RL<br />
Il libro di Emanuele Gamna, L’importanza di chiamarsi Agnelli, merita una recensione non tanto<br />
per i riflessi <strong>tributari</strong> delle vicende della famiglia, quanto per lo spaccato di vita italiana che rappresenta,<br />
per la descrizione molto efficace della mancata istituzionalizzazione del capitalismo familiare<br />
italiano (di cui parliamo spesso su Dialoghi), fortemente legato alle vicende personali degli<br />
eredi delle famiglie; l’osmosi fra le vicende aziendali e familiari è ancora strettissima e caratterizzata<br />
da tutta una serie di ripicche, bisticci, ripensamenti e recriminazioni tra parenti, diretti<br />
e acquisiti. I riflessi fiscali riguardano, piuttosto, l’autore avvocato, ed un azzardo fiscale, sollecitato<br />
dall’ambiente, e poi divenuto strumento di pressione.<br />
L’avvocato di una Agnelli: una testimonianza interessante<br />
Stefania Capitani<br />
dell’eredità familiare narra la propria esperienza<br />
nella vicenda.<br />
Nel libro l’avvocato racconta di tutte le pressioni<br />
ricevute perché facesse da testimone a favore della<br />
figlia dell’avvocato Agnelli, Margherita, contro la<br />
famiglia in una nuova causa da questa intentata facendo<br />
valere l’ipotetica presenza di un fantomatico<br />
«tesoro nascosto». Non risulta però dal volume,<br />
né da altre fonti, che questo fantomatico «tesoro»<br />
fosse stato formato secondo modalità rilevanti per<br />
uno studioso della ricchezza fiscalmente non registrata,<br />
come fatture false, sottofatturazione dei ricavi,<br />
ecc. Da altre fonti (2) sembra anzi che il tesoro<br />
degli Agnelli non avesse nulla a che fare con<br />
Stefania Capitani - Fondazione Studi Tributari, con supervisione di RL<br />
Note:<br />
(1) Ricordiamo ad esempio, Fondazione Studi Tributari, «Capitalismo<br />
familiare e ricchezza nascosta: leggendo i giornali sul caso Menarini»,<br />
in Dialoghi Tributari n. 6/2012, pag. 594; E. Melchiorre, R. Lupi,<br />
«Capitalismo familiare e ricchezza nascosta: le memorie di un direttore<br />
amministrativo», ivi n. 1/2011, pag. 27, dedicato ad un volume in<br />
cui un ex dirigente di una importante azienda del capitalismo familiare,<br />
la Marangoni Gomme della provincia di Trento, descriveva<br />
tempi eroici, anche fiscali, non si sa quanto coloriti, della ditta.<br />
(2) Come l’articolo molto circostanziato ed equilibrato di Nicola<br />
Porro su Il Giornale del 27 aprile 2010.<br />
4/2012<br />
377
Aspetti<br />
strutturali<br />
la gestione aziendale, ma derivasse da conguagli<br />
favorevoli per l’Avvocato in specifiche operazioni<br />
finanziarie al di sopra del gruppo. Insomma, per<br />
quello che interessa una rivista dedicata alla tassazione<br />
attraverso le aziende, non risultano proprio<br />
quelle manomissioni amministrativo-contabili finalizzate<br />
a travasare risorse dal patrimonio aziendale<br />
a quello dei soci.<br />
Il fantomatico «tesoro» resta sullo sfondo, ed anche<br />
le vicende fiscali conseguenti alle azioni legali<br />
di Margherita, soprattutto in tema di monitoraggio<br />
fiscale (3), hanno un interesse relativo per la teoria<br />
della determinazione della ricchezza ai fini <strong>tributari</strong>;<br />
è secondario interrogarsi per quale ragione ci<br />
sia stata una contestazione sul monitoraggio fiscale<br />
se il de cuius e la figlia erano residenti svizzeri<br />
(non sappiamo, e non ci interessa sotto il profilo<br />
concettuale, se ci sia stata una contestazione della<br />
residenza o una contestazione collegata alla presenza<br />
di altri beneficiari residenti in Italia).<br />
Il convitato di pietra del volume, altro aspetto <strong>tributari</strong>o<br />
dei fatti narrati, è la parcella percepita<br />
dall’autore-avvocato. Quest’ultimo racconta di essere<br />
stato sollecitato a non emettere fattura, in una<br />
prima fase, dalla stessa cliente-amica. Con frasi un<br />
po’ simili a quelle usate dalla gente comune con<br />
l’idraulico «no guardi la fattura non mi serve». Salvo<br />
poi, sempre secondo l’autore, utilizzare il bonifico<br />
«estero su estero» di circa € 15.000.000,00<br />
(fatto di dominio pubblico facilmente rintracciabile<br />
in rete) come strumento di pressione per ottenere<br />
una testimonianza favorevole nel processo intentato<br />
contro i parenti e i consulenti del padre.<br />
La forza del libro sta piuttosto nell’offerta di uno<br />
spaccato di vita italiana molto puntuale in relazione<br />
ai primi lustri del terzo millennio e la lettura risulta<br />
di sicuro interesse grazie a uno stile narrativo<br />
piacevole e bilanciato che rende chiaro come l’autore<br />
sia persona che dispone di conoscenze culturali<br />
solide che lo mettono in grado di rendere perfettamente<br />
le sfumature di comportamento dei protagonisti.<br />
Come accennato, tuttavia, non si parla<br />
d’altra evasione fiscale se non di quella di cui<br />
l’autore è stato protagonista in prima persona, probabilmente<br />
su sollecitazione ambientale, visto che<br />
si trovava (ammontari a parte) in una posizione<br />
molto simile a quella dei fornitori di servizi a consumatori<br />
finali; proprio per questa «leggerezza fiscale»<br />
l’autore racconta di essere stato successiva-<br />
378<br />
4/2012<br />
mente oggetto di pressioni indebite della propria<br />
cliente, volte a ottenerne la testimonianza.<br />
Eppure, in controluce, emerge una descrizione efficace<br />
della mancata istituzionalizzazione del capitalismo<br />
familiare italiano (di cui parliamo spesso<br />
su Dialoghi) che rimane fortemente legato alle vicende<br />
personali degli eredi delle famiglie, sottolineando<br />
come l’osmosi fra le vicende aziendali e<br />
familiari sia strettissima e caratterizzata da tutta<br />
una serie di ripicche, bisticci, ripensamenti e recriminazioni<br />
tra parenti, diretti e acquisiti.<br />
Ma il volume risulta interessante anche per la mancanza<br />
di astio da parte dell’autore nei confronti<br />
dell’ex amica e cliente, dove invece le figure negative<br />
sono rappresentate soprattutto dagli avvocati<br />
cui lei si era rivolta per mettere in opera il ricatto.<br />
Infine, va segnalata, in una rivista <strong>tributari</strong>a, la sentenza,<br />
reperibile in rete, con cui inizialmente l’autore<br />
era stato condannato, non solo per infedele dichiarazione,<br />
ma anche per truffa ai danni dello Stato<br />
(come se un bonifico estero su estero fosse tale!); in<br />
appello però la sentenza è stata ridimensionata e ridotta<br />
a infedele dichiarazione, con condanna a otto<br />
mesi di reclusione. Sembra poi, da quanto emerge<br />
dal libro, che la cifra che l’autore aveva percepito<br />
fosse stata restituita da questi all’ex amica-cliente.<br />
Alla fine di tutta la storia, probabilmente, l’unico a<br />
uscirne in maniera poco lusinghiera è il sistema<br />
industriale italiano, incapace di organizzarsi e istituzionalizzarsi<br />
(4), senza riuscire ad esprimere una<br />
dirigenza responsabile indipendente dalla figura<br />
dei padroni.<br />
Rispetto a questa strutturale difficoltà di esprimere<br />
una «imprenditorialità managerializzata e disciplinata»<br />
il resto delle notizie contenute nel volume<br />
ha solo un interesse di cronaca. Anche avvincente,<br />
ma pur sempre di cronaca. Come pure alla cronaca<br />
appartiene l’esito negativo della causa intentata<br />
dalla protagonista contro i consulenti del padre.<br />
Note:<br />
(3) Di cui per altri versi, più sistematici, ci occupiamo in questo<br />
stesso numero.<br />
(4) La difficoltà del capitalismo familiare italiano di crescere (efficacemente<br />
stigmatizzata da Marco Simoni, Senza Alibi: perché il capitalismo<br />
italiano non vuole crescere, Venezia, 2012) dipende per<br />
molti aspetti da una serie di atteggiamenti della pubblica opinione,<br />
dove si intrecciano invidia e diffidenza nei confronti delle<br />
aziende (R. Lupi, Manuale giuridico di scienza delle finanze, Dike<br />
Giuridica, 2012, pagg. 224 ss.).
Tra i familiari litiganti il Fisco gode<br />
RL<br />
Le sorti, anche fiscali, del capitalismo familiare, e<br />
dei suoi intrecci relazional-professionali con relativi<br />
consulenti sono un tema trattato spesso su Dialoghi<br />
(5). Il capitalismo familiare, con tutti i suoi difetti, è<br />
ancora un punto forte dell’economia italiana, forse<br />
l’unico che abbiamo, non avendo imparato, per una<br />
serie di resistenze anche culturali della nostra opinione<br />
pubblica, a spersonalizzare le aziende, mantenendole<br />
al tempo stesso efficienti (6).<br />
Nel libro di Emanuele Gamna c’è anche uno spaccato<br />
interessante di società civile italiana dell’ultimo<br />
secolo, con intrecci godibilissimi tra nobiltà di<br />
sangue e nobiltà imprenditoriale; dove affetti e impresa<br />
non vanno d’accordo, perché rappresentano<br />
un corto circuito tra i legami di due gruppi sociali<br />
diversi, la famiglia e l’azienda.<br />
Quando c’è una azienda di mezzo<br />
Per le aziende italiane (7) la proprietà è ancora il<br />
punto di aggregazione, che serve a valorizzare le<br />
energie di chi lavora in azienda, tenendone a freno<br />
le forze centrifughe, che altrimenti si scatenano in<br />
un Paese in cui tutti pensano di sapere tutto, e<br />
quindi di poter fare al tempo stesso l’allenatore<br />
della nazionale e il Presidente del Consiglio. Non è<br />
un ambiente favorevole per le istituzionalizzazioni<br />
delle aziende e le gestioni collegiali. Serve «qualcuno<br />
che comanda», non per comandare effettivamente,<br />
ma per tenere a freno i personalismi, magari<br />
animati dalle migliori intenzioni, dove ciascuno<br />
pensa di realizzare meglio l’interesse aziendale.<br />
Per evitare degenerazioni in un contesto in cui «ci<br />
sono troppi galli a cantare» resta ancora molto importante,<br />
nella nostra fase del capitalismo familiare,<br />
lo ius sanguinis, l’investitura familiare. Ne derivano<br />
oneri personali notevoli, sollecitazioni diverse<br />
cui sono sottoposti i discendenti dell’imprenditore,<br />
al tempo stesso schiavi e padroni di un<br />
assetto che personalmente non hanno scelto. Può<br />
non essere piacevole essere catapultati, senza<br />
averlo scelto, alla guida di un’organizzazione tenuta<br />
assieme dalla produzione di biscotti o di rubinetti,<br />
che riempiva l’esistenza del fondatore, ma di<br />
cui potrebbe non importare assolutamente nulla<br />
agli eredi. Ma l’azienda esiste perché vive, ed ha<br />
Aspetti<br />
strutturali<br />
bisogno di qualcuno che sovraintenda all’organizzazione,<br />
che non deve avere la genialità del fondatore,<br />
ma è sufficiente sia equilibrato, senza megalomanie<br />
né ingenuità. Ciascuno degli eredi dovrà<br />
trovare un proprio equilibrio tra famiglia e azienda,<br />
e quelli coinvolti in azienda dovranno essere<br />
consapevoli di ricoprire quel ruolo per «diritto di<br />
sangue», dovendo quindi rendere conto, in parte, a<br />
coloro che dalla gestione si sono estraniati, ma ne<br />
sono comunque titolari. Questi ultimi, a loro volta,<br />
devono dar atto dell’impegno dei primi, senza arrivare<br />
di colpo, criticare e poi sparire. Poi ci sono le<br />
divergenze nella scelta dei dirigenti, con i protetti<br />
del socio Tizio e quelli del fratello Caio. Se si tiene<br />
conto di tutte le vischiosità «relazionali» dei<br />
rapporti umani, si capisce come si è davanti a un<br />
brodo di coltura ideale per produrre screzi e litigi,<br />
di cui il Fisco qualche volta approfitta, con lacerazioni<br />
familiari che spesso portano a denunciarsi a<br />
vicenda. In un clima grossolano, in cui la mancata<br />
registrazione fiscale della ricchezza è spiegata con<br />
fantomatiche perversioni sociali (8), anziché con<br />
la mancanza di rigidità aziendale, queste denunce<br />
offrono ghiotte occasioni mediatico-giudiziarie.<br />
Dove il familiare che denuncia gli altri diventa una<br />
specie di «collaboratore di giustizia», un infiltrato nelle<br />
organizzazioni criminali. Solo che nel caso in esame<br />
abbiamo aziende. Che diventano i capri espiatori, non<br />
solo delle schizofrenie sociali sul Fisco, ma anche dei<br />
bisticci tra i loro soci. È buffo che la valvola di sfogo<br />
delle tensioni sociali create dai proclami guerreschi<br />
contro l’evasione siano proprio quelle aziende che dovrebbero<br />
«far ripartire la crescita». Buona fortuna.<br />
Note:<br />
(5) Fondazione Studi Tributari, «Capitalismo familiare e ricchezza<br />
nascosta: leggendo i giornali sul caso Menarini», in Dialoghi Tributari<br />
n. 6/2010, pag. 594; E. Melchiorre, R.Lupi, «Capitalismo familiare<br />
e ricchezza nascosta: le memorie di un direttore amministrativo»,<br />
ivi n. 1/2011, pag. 27.<br />
(6) Su questi aspetti mi ero soffermato in Manuale giuridico di<br />
scienza delle finanze, cit.<br />
(7) I lettori sanno che per azienda si intende qui una organizzazione<br />
di persone, qualcosa di più del «complesso dei beni» dell’imprenditore.<br />
(8) È una chiave di lettura che Dialoghi segue da tempo, cfr. R. Lupi,<br />
«Evasori con la coda?», in Dialoghi Tributari n. 5/2009, pag. 489.<br />
4/2012<br />
379
Evasione<br />
da riscossione<br />
Chiudere e riaprire<br />
senza pagare le imposte:<br />
un caso di evasione da riscossione<br />
Nelle «aziende a gestione padronale» l’organizzazione ruota attorno ad un individuo ed è abbastanza<br />
piccola per apparire e scomparire in capo a soggetti societari differenti, pur continuando<br />
ad avere dietro un unico «dominus» difficile da individuare. Si tratta economicamente di «imprese<br />
individuali» mascherate da società, nel senso che il titolare, pur organizzando lavoro altrui, e<br />
beni strumentali, ha la possibilità di farli entrare ed uscire facilmente da varie strutture societarie,<br />
ripulendosi dai debiti, compresi quelli <strong>tributari</strong>.<br />
La categoria degli operatori economici italiani, come<br />
abbiamo visto su Dialoghi n. 2/2012 (1), si<br />
compone di varie sfumature dall’organizzazione a<br />
proprietà familiare, cui appartengono anche, nella<br />
maggior parte, le più grandi aziende italiane, a<br />
quella a gestione familiare o personale, e via via<br />
scendendo, sino ai «lavoratori indipendenti» per i<br />
quali neppure è il caso di parlare di azienda in senso<br />
personale, ma di mera organizzazione di mezzi,<br />
pochi beni strumentali, contratti di locazione e<br />
merci. Sulle 150 mila aziende da 10 a 20 addetti il<br />
lavoro del titolare ha un certo peso, e l’organizzazione<br />
di persone è relativamente piccola, mentre<br />
per una parte del milione e mezzo di aziende da 2<br />
a 9 addetti siamo probabilmente di fronte ad aziende<br />
con un solo dipendente (ad es. le cassiere e le<br />
commesse dei commercianti al dettaglio) o con addetti<br />
appartenenti alla stessa famiglia; in realtà in<br />
questa categoria, con una forbice troppo ampia da<br />
2 a 9 addetti, convivono probabilmente piccole organizzazioni<br />
personali, autosufficienti, e dipendenti<br />
puramente ausiliari di un lavoro materialmente<br />
svolto dal titolare.<br />
Man mano che l’organizzazione diventa più piccola<br />
può crescere la tentazione di risolvere le patologie<br />
economiche in un modo molto semplice, scompa-<br />
380<br />
4/2012<br />
di Giuseppe Saporito, Raffaello Lupi<br />
Quando l’azienda transita tra società «apri e chiudi»<br />
per non pagare le imposte<br />
Giuseppe Saporito<br />
rendo e riapparendo sotto altre forme giuridiche, in<br />
modo da azzerare debiti e pendenze, anche fiscali.<br />
In tali casi, sempre più frequenti sono le alchimie<br />
giuridico-contabili che difficilmente rivestono il<br />
carattere di liceità. Accanto alla massa dei professionisti,<br />
che disbriga pratiche contabili, vi sono anche<br />
alcuni stregoni della contabilità, e del sotterfugio,<br />
che cercano di traghettare le aziende da una<br />
veste giuridica a un’altra, cambiandone l’aspetto<br />
formale, utilizzando tutti i cavilli normativi civilistici,<br />
amministrativistici (cancellerie commerciali,<br />
camere di commercio, enti previdenziali) e <strong>tributari</strong>.<br />
Spesso c’è l’incapacità di pagare i debiti, o di<br />
pagarli al tempo stesso garantendo il tenore di vita<br />
che l’imprenditore si aspetta, e pagando le imposte.<br />
A questo contribuiscono la fase di crisi economica<br />
mondiale, l’impoverimento dei consumatori italiani<br />
e la recessione nazionale degli ultimi anni.<br />
Accade sempre più di frequente che i gruppi societari,<br />
che in precedenza si aggregavano affinché<br />
Giuseppe Saporito - Funzionario dell’Agenzia delle entrate, Avellino<br />
Nota:<br />
(1) T. Di Tanno, G. Marino, RL, «Si fa presto a dire azienda: per una<br />
geografia economico <strong>tributari</strong>a degli operatori economici in Italia»,<br />
in Dialoghi Tributari n. 2/2012, pag. 127.
dalle sinergie potessero derivare vantaggi economici<br />
e fiscali, si trovano ora ad invertire le loro<br />
strategie economiche, come indicato anche in questo<br />
numero di Dialoghi a proposito del ritorno dei<br />
«mercatini» (2). Ed invero, ritengono più conveniente<br />
scindersi ed operare in società con patrimoni<br />
autonomi, attraverso la riduzione del patrimonio<br />
aziendale al fine di consentire una veloce ed immediata<br />
riproposizione dell’attività sotto una forma<br />
diversa, ed immune da debiti.<br />
Ad un’unica esigenza aziendale corrispondono diverse<br />
ipotesi di tecnica contabile con le quali «destrutturare»,<br />
riaggregare e far diventare appetibili<br />
sul mercato aziende altrimenti destinate ad un sicuro<br />
fallimento.<br />
Svalutazione del patrimonio aziendale<br />
Una delle pratiche contabili più utilizzate, degna<br />
di particolare attenzione, è quella della svalutazione<br />
del patrimonio aziendale, finalizzato ad una<br />
successiva acquisizione della medesima azienda<br />
da parte di soggetti giuridici che, sia pur distinti,<br />
siano riconducibili alla compagine sociale dell’azienda<br />
in vendita.<br />
Si ipotizzi, a titolo esemplificativo, che un’azienda,<br />
nata grazie a fondi erogati da enti pubblici<br />
(fondi per lo sviluppo, fondi europei, fondi del<br />
Ministero dell’Università e della ricerca, ecc.) ed<br />
il cui patrimonio è composto per lo più da immobilizzazioni<br />
immateriali, decida di ridurre gli asset<br />
societari, in virtù di una riduzione delle commesse<br />
di progetti tecnologici sui quali lavorare.<br />
Si immagini, inoltre, che ogni anno la predetta società<br />
chiuda il bilancio con perdite di rilevanti entità,<br />
dovute per lo più ad una crisi del relativo settore<br />
commerciale.<br />
In siffatte ipotesi un consulente fiscale, prima di<br />
dichiarare fallimento e procedere alla chiusura dell’azienda,<br />
con relativo licenziamento di gran parte<br />
del personale, potrebbe suggerire la vendita dell’azienda<br />
ad uno dei componenti della medesima<br />
società che, nel frattempo, si è premunito di costituire<br />
un’altra società di capitali con lo scopo preciso<br />
di acquisire l’azienda. E fin qui nulla quaestio.<br />
Per effettuare tale operazione, lo studio di consulenza<br />
fiscale consiglierà alla compagine sociale di<br />
operare una riduzione del patrimonio aziendale attraverso<br />
una sensibile svalutazione delle immobilizzazioni<br />
immateriali, con successiva ripresa a<br />
Evasione<br />
da riscossione<br />
tassazione della stessa mediante l’esposizione in<br />
dichiarazione tra le variazioni in aumento dei<br />
componenti positivi di reddito.<br />
Ed allora, di fronte ad un atteggiamento contabile<br />
irreprensibile, confermato anche dall’esposizione<br />
in nota integrativa delle motivazioni dell’operazione<br />
effettuata, ci si chiede quale potrebbe essere il<br />
vantaggio economico dell’operazione innanzi descritta.<br />
Successivamente si procede alla «svendita» della<br />
azienda che, ovviamente, avrà un valore notevolmente<br />
inferiore rispetto a quello che aveva appena<br />
un anno o due anni prima e che verrà acquistata<br />
dalla nuova società appositamente costituita. Ecco,<br />
allora, il sotteso vantaggio fiscale: l’acquirente,<br />
che abbiamo detto essere una società collegata alla<br />
società cedente, dovrà sopportare un’imposta di<br />
registro pari al 3% del valore della società che a<br />
seguito delle operazioni innanzi descritte, a conti<br />
fatti, risulta essere irrisoria rispetto al valore reale<br />
che l’acquirente avrebbe dovuto sopportare se non<br />
fosse stata effettuata la svalutazione del patrimonio.<br />
Il vantaggio maggiore è però connesso alla<br />
vendita frazionata dell’azienda, o meglio ancora<br />
alla dismissione dei rapporti intrattenuti dalla precedente<br />
organizzazione, anche con i dipendenti,<br />
che scompaiono (magari dimettendosi) e riappaiono<br />
- venendo assunti - nell’altra struttura giuridica.<br />
Sono comportamenti che, quando riscontrati, possono<br />
apparire fraudolenti, come nel caso esaminato<br />
dalla sentenza della III sezione penale della<br />
Corte di cassazione 18 maggio 2011, n. 19595 (3)<br />
sul preordinato svuotamento del patrimonio aziendale<br />
attraverso una serie di atti leciti, volti, però, a<br />
rendere inefficace qualsiasi attività esattiva.<br />
Se gli obiettivi sono questi, una banale attività di<br />
cessione del patrimonio aziendale configura in realtà<br />
una illecito penalmente sanzionabile.<br />
Ed allora, lo svuotamento del patrimonio aziendale<br />
è una pratica diffusa che tende a far ottenere dei<br />
vantaggi fiscali il più delle volte illeciti: la distrazione<br />
dei beni prima di un fallimento potrebbe dar<br />
luogo, infatti, ad una bancarotta fraudolenta.<br />
Note:<br />
(2) F. Gricia, R. Lupi, «Ricchezza non registrata e crisi economica:<br />
mercatini e ambulanti contro grande distribuzione», in questa Rivista<br />
pag. 361.<br />
(3) In Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
4/2012<br />
381
Evasione<br />
da riscossione<br />
Al di là di queste ipotesi estreme, previste dalla<br />
sentenza citata, ve ne sono altre, che non hanno<br />
una finalità illecita, ma consentono, comunque, un<br />
vantaggio economico, con risparmio d’imposta di<br />
registro, per l’acquirente.<br />
Piccole organizzazioni ed evasione da riscossione<br />
Raffaello Lupi<br />
Francamente non credo che la patologia più insidiosa<br />
dell’evasione fiscale italiana sia l’abbattimento<br />
del valore delle aziende per risparmiare sull’imposta<br />
di registro del 3%. Tanto più che lo strumento<br />
per la cessione è rappresentato dalla vendita<br />
delle partecipazioni nelle società cui sono in genere<br />
intestate le aziende di cui parla Saporito.<br />
Il problema è invece il secondo, trattato dall’Autore<br />
che precede, con riferimento anche a reati fallimentari,<br />
relativi al mancato pagamento dei debiti,<br />
compresi quelli <strong>tributari</strong>.<br />
Sarebbe semplicistico contrapporre i riflessi fiscali<br />
della crisi economica di impresa, generata da ragioni<br />
gestionali, alle crisi di impresa provocate dal<br />
desiderio di non pagare i debiti, compresi quelli<br />
contributivi e fiscali. Si tratta invece di profili interdipendenti,<br />
soprattutto nelle piccole organizzazioni<br />
personali, di cui abbiamo presentato, su Dialoghi,<br />
diverse versioni (4); le cause dei fenomeni<br />
sociali infatti non sono separate tra di loro, ma interagiscono<br />
variamente, anche per quanto attiene<br />
alla conduzione aziendale delle piccole organizzazioni<br />
a gestione personalistica, e ai loro intrecci<br />
con le finanze personali del titolare. È infatti diffuso,<br />
tra i commercialisti di queste piccole organizzazioni,<br />
il fastidio per la frequentissima commistione<br />
tra «prelievi personali» e prelievi aziendali. Anche<br />
se siamo oltre la figura del «lavoratore indipendente»,<br />
senza organizzazione personale (5), la contabilità<br />
resta per molti aspetti più un fastidio che un<br />
aiuto in queste strutture molto accentrate sul titolare.<br />
Che per parte sua vuole spesso soddisfare una<br />
serie di spese voluttuarie che spesso costituiscono<br />
la molla per l’esercizio stesso dell’attività. Anche a<br />
scapito dei creditori, come raccontato in un gradevolissimo<br />
volumetto, redatto da un avvocato con<br />
doti letterarie (6). Quando l’azienda è fluida, insomma,<br />
si smaterializza da una parte e si rimaterializza<br />
sotto un’altra veste giuridica. Con tanti saluti<br />
382<br />
4/2012<br />
In definitiva, il caso analizzato ci porta a sottolineare<br />
ancora una volta gli inconvenienti connessi<br />
all’effettuazione delle ispezioni fiscali «sul passato»<br />
(ancora troppo «remoto») anziché sul presente,<br />
guardando al futuro.<br />
ai creditori, compresa Equitalia; quest’ultima è rinomata<br />
per fare la voce grossa con chi si fa cogliere<br />
con in mano un immobile o una autovettura, ma<br />
bisogna vedere in quale misura questo recupero di<br />
efficienza, rispetto ai vecchi esattori, si traduce in<br />
capacità di diradare le cortine fumogene sull’effettiva<br />
proprietà dei beni.<br />
Anche queste possibilità spingono a far rimanere<br />
piccole le organizzazioni aziendali, mantenendole<br />
su quelle dimensioni in cui sono abbastanza grandi<br />
da affrancare il proprietario dal duro lavoro manuale,<br />
trasferito sui collaboratori. Che però sono<br />
abbastanza pochi da permettere le manovre in esame,<br />
inconcepibili quando in ballo ci sono anche<br />
centinaia di dipendenti, e complessi reticoli di rapporti<br />
giuridici. L’azienda, in senso personalistico,<br />
esternalizzato, come insieme di collaboratori, è indipensabile,<br />
perché - secondo un aforisma su<br />
www.fondazionestudi<strong>tributari</strong> - da soli, operando<br />
coi consumatori finali, si evade bene, ma i soldi si<br />
fanno solo organizzando il lavoro altrui. Una organizzazione,<br />
quindi, ci vuole, ma non troppo grande,<br />
che poi creerebbe problemi finanziari e di controllo<br />
(7), ostacolando anche le mimetizzazioni di<br />
cui parliamo qui, le scomparse e le ricomparse.<br />
Che riescono comunque ad essere gestite anche a<br />
buoni livelli, se è vero quanto mi raccontano funzionari<br />
dell’Agenzia delle entrate, narrando della<br />
vaporizzazione anche di aziende con ingenti beni<br />
Note:<br />
(4) Vedi Fondazione Studi Tributari, «La ricchezza occultata nella<br />
“terra di mezzo”: i coniugi Sbrasoni», in Dialoghi Tributari n.<br />
2/2010, pag. 139; L.R. Corrado, R. Lupi, «I “grandi evasori”: dov’è<br />
nascosta la ricchezza nelle organizzazioni aziendali?», ivi n. 2/2012,<br />
pag.134.<br />
(5) Cioè senza collaboratori.<br />
(6) M. Mastracci, Articolo quinto. Chi ha i (vostri) soldi in mano ha<br />
vinto, Castelvecchi, 2006.<br />
(7) Nei rapporti con banche finanziatrici, sindacati, altri soci, pubbliche<br />
autorità, ecc.
strumentali, persino iscritti in pubblici registri, come<br />
decine di camions, semplicemente volatilizzati<br />
verso nuove società proprietarie, intestate a chissà<br />
chi. Il 26 luglio 2012 una notizia di agenzia riportava<br />
«Evasione fiscale, 100 perquisizioni in Italia<br />
per fallimenti pilotati».<br />
Riporto la scarna notizia per chiedermi poi cosa<br />
c’è dietro: «La Guardia di Finanza ha annunciato<br />
oggi di aver lanciato oltre 100 perquisizioni in 10<br />
regioni nei confronti di un gruppo di società accusate<br />
di fallimenti pilotati allo scopo di evadere il<br />
fisco. Gli inquirenti, dice una nota della Gdf di Torino,<br />
hanno calcolato finora un’evasione di 15 milioni<br />
per IVA e 9 milioni di ritenute non versate.<br />
“Il sistema fraudolento sarebbe in piedi da anni: le<br />
società, tutte operanti nel settore della vigilanza,<br />
svolgevano regolarmente la propria attività con gli<br />
uomini e mezzi in dotazione, mentre veniva dolosamente<br />
attuato uno stato d’insolvenza. A quel<br />
punto, la parte sana veniva fatta confluire in nuove<br />
società, con la cessione di rami d’azienda”, dice il<br />
comunicato. L’indagine, coordinata dal pool per i<br />
reati economici della Procura di Torino, è partita<br />
dalla scoperta che alcuni nomi di amministratori o<br />
soci ricorrevano spesso, finananche con l’utilizzo<br />
di parenti, dice la Finanza. L’inchiesta, che vede<br />
12 indagati, riguarda 14 società. Le perquisizioni,<br />
dice la Finanza, sono in corso in Piemonte, Liguria,<br />
Valle d’Aosta, Lombardia, Friuli Venezia Giulia,<br />
Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Puglia e Sicilia».<br />
Sono iniziative di intelligence encomiabili, ma<br />
quante sono rispetto alle reali dimensioni del fenomeno?<br />
Certo che fa rabbia vedere quanto sia scarso<br />
il controllo del territorio su queste iniziative<br />
sfuggenti, rispetto ai tempi e alle risorse disperse<br />
nelle contestazioni giuridico interpretative sui cd.<br />
«contribuenti di grandi dimensioni», processi verbali<br />
di disquisizione ed altre contestazioni di diritto<br />
su cui ci soffermiamo in questo numero di Dialoghi<br />
(8). Sono disfunzioni in gran parte connesse<br />
ad equivoci, diffusi anche nell’opinione pubblica,<br />
come la confusione tra società e aziende, che mettiamo<br />
in luce anche nella sezione «leggende metropolitane»<br />
del sito www.giustiziafiscale.com. È<br />
un aspetto dell’analfabetismo economico-giuridico-aziendale<br />
diffuso nella nostra pubblica opinione,<br />
ignara della differenza tra il complesso lavoro<br />
necessario ad avviare un’azienda e la banale aper-<br />
Evasione<br />
da riscossione<br />
tura notarile di una società. Le piccole aziende,<br />
senza una grande organizzazione alle spalle, possono<br />
quindi passare da una società all’altra senza<br />
nessuna esplicita cessione di azienda. Tanto più<br />
che la cessione di azienda farebbe scattare le responsabilità<br />
dell’acquirente per i debiti <strong>tributari</strong><br />
dell’azienda ceduta.<br />
Ci possono anche essere variazioni sul tema, intestando<br />
beni strumentali, o immobili, ad una società<br />
che chiude sempre in pareggio, in equilibrio,<br />
per quel tanto che basta a pagare i costi. È una<br />
specie di «parcheggio» per le strutture che non si<br />
possono o vogliono occultare, magari perché sarebbe<br />
troppo impegnativo. Dopodiché i lavori vengono<br />
materialmente svolti da una società «leggera»,<br />
interposta, che sparisce senza versare le imposte,<br />
in un contesto territoriale fuori controllo, mentre<br />
gli Uffici <strong>tributari</strong> sono persi dietro al «tutoraggio»<br />
e alle statistiche.<br />
Nota:<br />
(8) R. Lupi, «Parlare senza dire nulla: il contagio sugli Uffici <strong>tributari</strong>»,<br />
in questa Rivista a pag. 371.<br />
4/2012<br />
383
Redditi<br />
d’impresa CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010<br />
«Leveraged Buy Out»:<br />
la società veicolo deve farsi rimborsare<br />
gli interessi dalla controllante,<br />
come un «mandatario»?<br />
Nonostante il venir meno di rivalutazioni fiscali legate al disavanzo di fusione, e la pacifica liceità<br />
civilistica del «Leveraged Buy Out», l’acquisizione di una società «target» attraverso una «società<br />
veicolo» che si indebita viene spesso disconosciuta da accertamenti fiscali che contestano la<br />
deduzione degli interessi passivi. È quanto accaduto anche negli accertamenti confermati con la<br />
sentenza della Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale di Milano n. 321 del 2012 e la sentenza n. 26<br />
del 2012 resa nel grado successivo. In questo caso l’Ufficio, di fronte ad un contribuente che ha<br />
rispettato i relativi limiti di deducibilità, ha proposto una ricostruzione fantasiosa dei rapporti<br />
tra controllata e controllante, immaginando la controllata come un’incaricata di un acquisto per<br />
conto della controllante, che dovrebbe quindi rimborsarle le spese, compresi gli interessi passivi.<br />
Il mancato addebito alla controllante di queste somme sarebbe (tenetevi forte) un «ricavo<br />
non contabilizzato», immagine evocativa persino di un fantomatico «nero». Si tratta di un altro<br />
episodio di disaggregazione di dati giuridici ed economici, ricombinati da parte del Fisco in base<br />
alla propria convenienza statistico-accertativa, per creare un regime surreale, del tutto diverso<br />
da quello ordinario.<br />
Il «Leveraged Buy Out» consiste in una serie di<br />
operazioni finanziarie preordinate ad una acquisizione<br />
societaria, in cui una società veicolo si indebita<br />
per acquisire il controllo di una nuova società;<br />
quest’ultima è in sostanza il patrimonio di garanzia<br />
per detto indebitamento, e dopo l’acquisizione<br />
viene fusa con la prima.<br />
Questo sistema, civilisticamente ammesso dal<br />
2003 (1), può essere effettuato anche da soggetti<br />
esteri - come nel caso da cui partiamo in questa<br />
sede - ma è frequente soprattutto nel nostro capitalismo<br />
familiare, al fine di consentire ai soci di monetizzare<br />
la loro partecipazione, vendendola ad<br />
una società sempre da loro posseduta.<br />
Le società italiane in effetti distribuiscono molto<br />
di rado dividendi, preferendo come detto la cessio-<br />
384<br />
4/2012<br />
di Simone Covino, Raffaello Lupi<br />
Sull’omesso riaddebito alla controllante degli interessi per acquisire<br />
un bene proprio<br />
Simone Covino<br />
ne delle quote della società in utile ad una Newco<br />
sempre riconducibile alla stessa compagine sociale;<br />
sul piano economico, questi LBO «all’italiana»<br />
sono quindi indebitamenti delle società per erogare<br />
redditi ai soci, trasformando il flusso dei dividendi<br />
in plusvalenze.<br />
Tendenzialmente, la cessione di quote della società<br />
in utile ad altra società italiana preesistente non<br />
Simone Covino - Dottore di ricerca in Diritto <strong>tributari</strong>o presso<br />
l’Università di Roma «Tor Vergata» e Avvocato in Roma. Fondazione<br />
Studi Tributari<br />
Nota:<br />
(1) La riforma del diritto societario del 2003 ha in particolare superato<br />
i dubbi di legittimità che venivano in precedenza sollevati<br />
dal divieto per le società di accordare prestiti o concedere finanziamenti<br />
per l’acquisto di proprie azioni.
dà adito a sospetti nel Fisco; le acquisizioni perfezionate<br />
con l’ausilio di Newco italiane, costituite<br />
da soci esteri o da persone fisiche, suscitano invece<br />
una certa diffidenza sulla base del fatto che, se<br />
l’indebitamento fosse stato assunto direttamente<br />
dai soci esteri, oppure direttamente da persone fisiche<br />
residenti, ma non esercenti attività commerciali,<br />
gli interessi passivi sarebbero stati indeducibili.<br />
Il vero obiettivo di queste contestazioni è<br />
quindi la deducibilità degli interessi passivi (2),<br />
contestata ad esempio sostenendone la «non inerenza»<br />
rispetto all’attività di impresa della società<br />
che aveva contratto il prestito (proprio per il fatto<br />
che, per l’appunto, le risorse finanziarie erano idealmente<br />
state destinate a soddisfare bisogni ed interessi<br />
dei soci, e non messe a servizio dell’attività<br />
di impresa della società) (3) ovvero contestando<br />
addirittura l’elusività della costituzione della società<br />
veicolo (4).<br />
Ora, a meno di non voler considerare tutte le società<br />
come soggetti interposti, riteniamo che l’attuale<br />
sistema non disapprovi affatto questa prassi,<br />
consentendo quindi, non solo la monetizzazione di<br />
redditi futuri sotto forma di plusvalenze, ma anche<br />
la deduzione degli interessi passivi che la società<br />
ha nella sostanza sostenuto in prima battuta per sé.<br />
Le garanzie ed i presidi per il sistema <strong>tributari</strong>o<br />
sono in questo ambito rappresentati dai meccanismi<br />
automatici fissati dalla legge (oggi ad esempio<br />
il «tetto» del 30% del ROL) che regolano la deduzione<br />
degli interessi passivi.<br />
L’incredibile reinterpretazione<br />
dell’operazione in chiave accertativa<br />
La sentenza della Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale<br />
di Milano n. 321 del 2010 (5), poi confermata<br />
dalla sentenza della Commissione <strong>tributari</strong>a regionale<br />
della Lombardia n. 26 del 2012 (6), si riferisce<br />
a un caso di contestazione del LBO veramente<br />
imprevedibile, dacché pretende di considerare<br />
come identico soggetto la società che investe indebitandosi<br />
e quella italiana, considerata quasi alla<br />
stregua di un mandatario all’acquisto. Non entrano<br />
quindi in gioco i noti limiti alla deduzione degli<br />
interessi né le classiche contestazioni antielusive<br />
ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973: l’Ufficio,<br />
con brutale semplicità, ed invocando le Direttive<br />
OCSE in tema di transfer price, sostiene che siccome<br />
la società veicolo ha acquisito la società tar-<br />
CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010<br />
Redditi<br />
d’impresa<br />
get per conto di un’altra società sua socia, la società<br />
veicolo avrebbe dovuto riaddebitare gli interessi<br />
alla socia estera.<br />
La realtà giuridica e quella materiale vengono insomma<br />
disaggregate in un tipico processo verbale<br />
di disquisizione (7), e riaggregate in funzione di<br />
una ricomposizione della realtà secondo un regime<br />
giuridico totalmente diverso da quello previsto.<br />
L’Ufficio, manipolando la legislazione, scardina<br />
l’intelaiatura giuridica del LBO e pretende di imputare<br />
gli effetti dell’operazione direttamente in<br />
capo ai soci esteri, come se la società veicolo fosse<br />
una specie di mandatario che deve farsi «rimborsare<br />
le spese» dal mandante, e che quindi<br />
avrebbe dovuto «riaddebitare gli interessi» alla<br />
controllante estera.<br />
L’argomentazione dell’Ufficio, invero speciosa, è<br />
insomma la seguente: siccome la Newco italiana<br />
agisce per incarico della madre estera, la madre<br />
Note:<br />
(2) Sui quali si veda in questa rivista G.B. Palumbo, A. Vignoli, «Sulla<br />
deducibilità degli interessi passivi su prestiti contratti per pagare<br />
dividendi», in Dialoghi dir. trib. n. 4/2006, pag. 523; A. Biella, R.<br />
Lupi, «Ancora sugli interessi passivi relativi a debiti per pagare dividendi»,<br />
ivi n. 7-8/2006, pag. 959; R. Lupi, «Limiti alla deducibilità<br />
degli interessi passivi nell’ires: “pro rata patrimoniale”, “capitalizzazione<br />
sottile” e spunti per una riforma», ivi, pag. 1003; D. Stevanato,<br />
RL, «Prime considerazioni sui limiti generalizzati alla deducibilità<br />
degli interessi passivi introdotta dalla manovra finanziaria<br />
2008», ivi n. 10/2007, pag. 1219; S. Giannini, D. Stevanato, R. Lupi,<br />
«Quali giustificazioni per l’indeducibilità degli interessi passivi?»,<br />
in Dialoghi Tributari n. 1/2008, pag. 13; G. Ferranti, «Limite alla deduzione<br />
degli interessi passivi nella Finanziaria 2008», ivi, pag. 83;<br />
M. Damiani, A. Vignoli, R. Lupi, «Gli interessi passivi sono proprio<br />
«costi come tutti gli altri»?», ivi n. 5/2009, pag. 476.<br />
(3) In particolare, una serie di sentenze della Corte di cassazione<br />
ha riconosciuto che la deducibilità degli interessi passivi va calcolata<br />
«forfetariamente» sulla base dei meccanismi automatici fissati<br />
dalla legge e non può essere messa in discussione andando a<br />
questionare l’utilizzo delle somme derivanti dai singoli prestiti, disinnescando<br />
una «strategia di attacco» che si basava appunto sulla<br />
pretesa non inerenza degli interessi.<br />
(4) Anche questa motivazione di accertamento appare invero debole,<br />
per almeno due ordini di ragioni: in primo luogo, perché le<br />
contestazioni antielusive richiedono l’aggiramento di «principi o<br />
divieti impliciti dell’ordinamento <strong>tributari</strong>o», ma nel caso del<br />
LBO non si comprende neppure quali potrebbero essere i principi<br />
asseritamente aggirati dall’operazione in esame. In seconda<br />
battuta, possono intervenire le valide ragioni economiche a giustificazione<br />
dell’operazione.<br />
(5) Per il testo della sentenza cfr. pag. 388.<br />
(6) Per il testo della sentenza cfr. pag. 390.<br />
(7) Su cui si veda R. Lupi, «Parlare senza dire nulla: il contagio sugli<br />
Uffici <strong>tributari</strong>» in questa Rivista a pag. 371.<br />
4/2012<br />
385
Redditi<br />
d’impresa<br />
dovrebbe, dopo averla finanziata, farsi accreditare<br />
gli interessi che la Newco deduce. Dopodiché, la<br />
Newco dovrebbe riaddebitarli alla «madre», perché<br />
la partecipazione in fondo l’ha comprata per<br />
suo conto!<br />
Va da sé che questo assunto, sviluppato nei suoi<br />
inevitabili corollari, avrebbe effetti paradossali:<br />
appiattire la Newco italiana sul socio estero comporterebbe<br />
infatti che, tutte le volte che un soggetto<br />
straniero fa un’acquisizione finanziata a debito<br />
in Italia, si avrebbe una sorta di surrettizio ritorno<br />
della vecchia disciplina sulla capitalizzazione sottile;<br />
e ciò quand’anche fosse lo stesso acquirente<br />
estero a finanziare la Newco con debito (quindi<br />
con interessi attivi per il socio estero e passivi per<br />
la società italiana). Secondo il ragionamento della<br />
sentenza, la società è dunque un soggetto interposto,<br />
privo di autonomia se non per il minimo strettamente<br />
necessario ad un mandatario.<br />
Sarebbe stato invece sufficiente ragionare sul vero<br />
ruolo svolto dalla Newco, per giungere a conclusioni<br />
opposte rispetto a quelle della sentenza n.<br />
321 del 2010: la Newco è in effetti un operatore<br />
economico come gli altri, dotato di una relativa<br />
autonomia, non una specie di longa manus che<br />
meccanicamente trasferisce gli atti giuridici alla<br />
propria controllante.<br />
Il fatto che la Newco agisca «per conto di» non<br />
autorizza insomma a ritenere che la società italiana<br />
non esista o sia una sorta di «fattorino» o di<br />
agente, che compra qualcosa in base ad un incarico<br />
di mandato e poi riaddebita il prezzo al mandante.<br />
La differenza tra la fattispecie concreta e<br />
quella che vede coinvolto un ipotetico mandatario<br />
è lampante ove si consideri che, se viene venduta<br />
la partecipazione in discorso, la plusvalenza viene<br />
realizzata in Italia, non certo all’estero. Similmente,<br />
solo una concezione molto grossolana può far<br />
La controllata «incaricato d’affari»?<br />
Raffaello Lupi<br />
Nelle sentenze in rassegna, la società controllata<br />
italiana, acquirente di una partecipazione già posseduta<br />
dalla propria casa madre, viene alternativamente<br />
dipinta come «un proprietario» della partecipazione<br />
acquisita, cui non deve essere rimborsa-<br />
386<br />
CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010<br />
4/2012<br />
concludere che la partecipazione non è della controllata<br />
italiana, bensì della madre estera, perché<br />
alla fine dei conti è questa che «ci ha messo i soldi»:<br />
in realtà la società veicolo ottiene una provvista,<br />
poi si finanzia da terzi a cui pagherà interessi.<br />
In definitiva, la partecipazione appartiene a tutti<br />
gli effetti alla Newco italiana e non ai suoi soci, ed<br />
il concetto stesso di società impone di considerare<br />
come soggetti separati la società controllata e la<br />
società estera controllante. Il Leveraged Buy Out,<br />
in tempi di caccia alle streghe e di grandi recriminazioni<br />
sociali, risente anch’esso della confusione<br />
teorica generale in tema di tributi, che persiste nonostante<br />
detto metodo di acquisizione societaria<br />
sia stato dichiarato legittimo da quasi due lustri.<br />
Se questa girandola di fraintendimenti è scusabile<br />
per un’opinione pubblica non avvezza ai meccanismi<br />
del diritto societario, meno spiegabile è la ricordata<br />
presenza di vari filoni di accertamento -<br />
tra cui rientra quello del caso deciso con la sentenza<br />
n. 321 del 2010 - ove l’Amministrazione finanziaria<br />
contesta la deducibilità di interessi passivi<br />
su operazioni asseritamente effettuate «nell’interesse<br />
dei soci».<br />
Così facendo il Fisco finisce - malgrado le rassicurazioni<br />
mediatiche - per interferire pesantemente<br />
con la struttura finanziaria della società, e con<br />
la discrezionalità imprenditoriale nella scelta della<br />
combinazione più efficiente tra dotazione di<br />
mezzi propri e capitale di debito. È proprio quello<br />
che è avvenuto nel caso di specie, ove probabilmente<br />
la contestazione avallata dai giudici deriva<br />
dal fatto che si trattava di società dello stesso<br />
gruppo. Questa interpretazione, invasiva e grossolana,<br />
avrebbe infatti una portata dirompente per<br />
gli investitori esteri, offrendo l’immagine di un sistema<br />
Paese irrimediabilmente confusionario ed<br />
inaffidabile.<br />
to alcunché in termini di costi di acquisto e di interessi<br />
passivi, oppure un incaricato dell’acquisto di<br />
un bene altrui, cioè di proprietà diretta della capogruppo,<br />
che quindi deve rimborsare i relativi costi<br />
di acquisto. Anche in questo caso la forma e la so
stanza si alternano, e vengono assemblate secondo<br />
la convenienza del Fisco, in una contestazione interpretativa<br />
che ha dell’incredibile. La controllata<br />
italiana ha comprato una partecipazione dalla controllante,<br />
pagando interessi di mercato. Secondo<br />
l’Ufficio non è cambiato nulla, perché la partecipazione<br />
acquisita era già della controllante, e gli<br />
interessi devono essere addebitati dalla controllante<br />
alla controllata. Si trascura disinvoltamente che<br />
ora sia la controllata a possedere la partecipazione,<br />
e che in quest’ottica sia del tutto logico che sia la<br />
controllata a pagare i relativi interessi passivi. Perché<br />
è un nonsenso economico, ed un travisamento<br />
degli schemi OCSE, il riaddebito alla capogruppo<br />
degli interessi passivi per acquisire un cespite<br />
«proprio». Esattamente come avrebbero fatto le<br />
ipotetiche parti indipendenti su cui le sentenze in<br />
rassegna confusamente divagano. Una parte indipendente,<br />
acquirente di una grande azienda produttiva<br />
italiana, non si sarebbe mai fatta rimborsare<br />
gli interessi passivi per l’acquisto dalla sua controllante,<br />
ma si sarebbe tenuta stretta la partecipazione,<br />
essendone divenuta proprietario sostanziale<br />
e formale! Il fantomatico paragone con le parti indipendenti<br />
è quindi del tutto fuori luogo. È quasi<br />
comico lo slalom, nella pretesa erariale, tra forma<br />
e sostanza, prendendo da ognuna elementi per costruire<br />
una vera e propria realtà virtuale. Della sostanza<br />
viene presa l’invarianza della titolarità sostanziale<br />
della partecipazione acquisita, sempre<br />
pertinente al medesimo gruppo, ma solo spostata<br />
verso la controllata, che quindi ha finanziato la<br />
controllante, con contropartita sostanziale dell’acquisto<br />
della partecipazione, che invece viene trascurata.<br />
Di fatto, la controllata, acquisendo la partecipazione,<br />
spostata nel suo patrimonio, ha finanziato<br />
la controllante, ma la partecipazione è diventata<br />
sua, e quindi il riaddebito dei costi, e il paragone<br />
con parti indipendenti, di cui parlano le sentenze<br />
avallando la rettifica dell’Ufficio, è del tutto<br />
fuori luogo sul piano logico, contabile e giuridico.<br />
Se la controllante non ha più la partecipazione in<br />
modo diretto, ma la possiede per il tramite della<br />
controllata, perché dovrebbe rimborsarle gli interessi<br />
passivi? Sul piano fiscale la controllata<br />
«scambia» un flusso negativo per interessi passivi,<br />
a favore della controllante, con un ipotetico flusso<br />
positivo per dividendi e plusvalenze future. Sul<br />
piano fiscale, lo scambio danneggia gli interessi<br />
Redditi<br />
CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010 d’impresa<br />
dell’Erario italiano, perché gli interessi sono deducibili<br />
fiscalmente, mentre dividendi intersocietari<br />
e plusvalenze sono esclusi da tassazione in base<br />
alle regole della participation exemption. Si sarebbe<br />
potuto immaginare un rilievo di elusione fiscale,<br />
anche se non capisco quale, vista la libertà imprenditoriale<br />
di definire le proprie strutture societarie<br />
di finanziamento. La contestazione in termini<br />
di prezzi di trasferimento è però grottesca. È uno<br />
dei tanti esempi di capziose contestazioni interpretative,<br />
dove nulla era nascosto al Fisco, che invece<br />
prima ha smontato la realtà giuridica e poi l’ha ricostruita,<br />
prendendone solo alcune parti, in base<br />
alla propria convenienza accusatoria.<br />
Queste contestazioni interpretative sono sintomatiche<br />
di un atteggiamento percepito dagli investitori<br />
internazionali, che ormai hanno una idea totalmente<br />
negativa sull’affidabilità del nostro apparato<br />
«burocratico-giudiziario», che consente di fare tutto<br />
purché non ci si faccia vedere, ma in compenso<br />
è inflessibile su quanto è visibile. È un ambiente<br />
forse attrattivo per la mafia russa o per i cartelli<br />
colombiani della droga, ma presso le aziende internazionali<br />
istituzionalizzate, la tendenza è ormai<br />
costante: «in Italia solo per le vacanze», dopo essersi<br />
liberati dei relativi titoli del debito pubblico.<br />
Sono tendenze cui anche vicende come questa, nel<br />
loro piccolo, contribuiscono.<br />
Questo modo di procedere, che tante volte su Dialoghi<br />
abbiamo definito come «l’inferno del dichiarato»,<br />
ricade sull’economia del Paese e sulla crescita<br />
delle aziende, quindi si ritorce contro lo stesso<br />
Fisco, poiché si allarga - anziché restringere - la<br />
sfera delle microimprese, dove i soldi semplicemente<br />
e puramente si nascondono. Ma ne riparleremo<br />
in un prossimo numero a proposito dell’abolizione<br />
del tutoraggio, riprendendo anche riflessioni<br />
già pubblicate su www.fondazionestudi<strong>tributari</strong>.com<br />
/tassazione societaria/ nel post dal titolo<br />
«Aboliamo il tutoraggio fiscale dei grandi contribuenti».<br />
4/2012 387
Redditi<br />
d’impresa<br />
La sentenza<br />
Fatto-Diritto<br />
La società BI. S.r.l. ricorre contro l’avviso d’accertamento<br />
indicato in epigrafe con il quale relativamente all’anno<br />
2004 (omissis) sulla base del processo verbale di constatazione<br />
conclusivo dell’attività di verifica (omisiss).<br />
Premesso che il rilievo si concreta in una indimostrata e<br />
inesistente prestazione di servizi alla capogruppo, effetto<br />
della valutazione di un’operazione societaria vista separatamente<br />
dal contesto generale di riorganizzazione<br />
dell’attività aziendale, la ricorrente solleva due pregiudiziali<br />
eccezioni di illegittimità dell’atto per violazione<br />
dell’art. 12, comma 5, della legge n. 212/2000 (omissis).<br />
Con un primo motivo, eccepisce l’illegittimità dell’accertamento<br />
per difetto di motivazione per palese erroneità<br />
dei presupposti di fatto della pretesa <strong>tributari</strong>a, per palese<br />
erroneità del riferimento alla normativa di transfer<br />
pricing, per palese contraddittorietà delle assunzioni dell’Agenzia<br />
delle entrate in tema di Gruppo societario.<br />
Con un secondo motivo, svolge ulteriori ragioni di illegittimità<br />
e infondatezza dell’atto per violazione dei<br />
principi che regolano il potere d’accertamento e per carenza<br />
dell’obbligo di prova che grava sull’Amministrazione<br />
finanziaria e che l’Agenzia avrebbe eluso facendo<br />
ricorso alla prova presuntiva fondata non su di un dato<br />
indiziante certo ma piuttosto su di una mera congettura,<br />
tale dovendo essere qualificata la ritenuta esistenza di<br />
una prestazione finanziaria infragruppo.<br />
(Omissis).<br />
L’Agenzia delle entrate si è costituita in giudizio per<br />
chiedere la conferma del proprio atto.<br />
(Omissis).<br />
In ordine al merito del rilievo, la resistente traccia le linee<br />
essenziali di un’operazione di ristrutturazione del<br />
gruppo industriale de quo posta in essere nell’anno<br />
2004 dalla società Ga. per effetto della quale la società<br />
It., costituita in data 22 luglio 2004, aveva aderito a un<br />
contratto di finanziamento utilizzato per l’acquisto della<br />
partecipazione nella società Bi. S.p.A. si era accollata<br />
il peso economico di ingenti interessi passivi e in ultima<br />
analisi si era pesantemente indebitata per acquistare<br />
una partecipazione che, indirettamente, era già sua.<br />
Considerando che nessuna azienda indipendente avrebbe<br />
agito in tal guisa, l’Agenzia invoca la direttiva OC-<br />
SE in tema di transfer price per concluderne che l’operazione<br />
de qua aveva avuto lo scopo di realizzare un interesse<br />
di esclusiva pertinenza della casa madre che è<br />
tenuta a sopportarne il costo.<br />
Da qui la ripresa a tassazione dell’importo corrispondente<br />
al valore della prestazione resa alla casa madre<br />
società Ma. s.a. e rappresentato dagli interessi passivi<br />
pagati e dagli oneri connessi.<br />
CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010<br />
Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale di Milano, Sez. VII, Sent. 23 dicembre 2010 (24 novembre 2010),<br />
n. 321 - Pres. e Rel. Martino (stralcio)<br />
388<br />
4/2012<br />
(Omissis).<br />
Il ricorso è infondato.<br />
(Omissis).<br />
Venendo ai motivi di ricorso, il primo si articola in tre<br />
ragioni di doglianza che la Commissione giudica non<br />
meritevoli di accoglimento.<br />
Premesso che contestare la legittimità dell’atto per difetto<br />
di motivazione svolgendo considerazioni di merito,<br />
è un equivoco nel quale spesso incorrono le parti ricorrenti<br />
confondendo la motivazione come elemento di<br />
conformità dell’atto allo schema normativo con la motivazione<br />
come fondatezza delle ragioni che hanno indotto<br />
all’iniziativa <strong>tributari</strong>a (8), i rilievi della società possono<br />
essere esaminati e trattati congiuntamente.<br />
Non è materia del contendere la logica aziendale sottesa<br />
all’operazione che ha determinato il costo de quo,<br />
bensì la sua esatta imputazione nel bilancio della società<br />
BI., nella quale si era trasformata la società Op. dopo<br />
l’acquisto della Bi. (9).<br />
E per sgombrare definitivamente il campo da un equivoco<br />
di fondo che sembra ispirare il ricorso della contribuente,<br />
va detto che la logica aziendale non sarebbe<br />
oggetto di valutazione critica in sé, nemmeno nell’ipotesi<br />
in cui - ma non è il caso in esame - la verifica fosse<br />
avvenuta nella prospettiva di una violazione della normativa<br />
antielusiva (10).<br />
E allora, le ristrutturazioni del gruppo, la scissione delle<br />
attività di produzione da quelle di distribuzione e<br />
vendita, l’opportunità di evitare l’ingresso di estranei<br />
nella compagine sociale di Eg. (11), sono argomenti<br />
tanto interessanti quanto irrilevanti, una volta che non<br />
ci si voglia discostare dal tema di causa.<br />
Note:<br />
(8) Alla base di ciò talvolta si rinviene qualche sentenza della<br />
Corte di cassazione non sufficientemente meditata o frettolosamente<br />
massimata e quindi tralaticiamente citata.<br />
Nella specie, peraltro, la sentenza allegata sub 10) è in tema di<br />
determinazione forfettaria del reddito a termini del cosiddetto<br />
redditometro, momento finale di un procedimento accertativo<br />
che si avvia con modalità espressamente disciplinata a pena di<br />
nullità.<br />
(9) Pacificamente società cosiddetta target.<br />
(10) Anche in tale ipotesi, infatti, l’Amministrazione finanziaria<br />
non è chiamata a sindacare tout court le scelte aziendali o finanziarie<br />
che siano, bensì il percorso seguito dalla parte per raggiungere<br />
lo scopo lecito, ed esclusivamente sotto il profilo fiscale per<br />
intervenire unicamente qualora risulti che la via prescelta sia stata<br />
ispirata dal solo fine di realizzare un risparmio d’imposta.<br />
(11) Il cui know-how e i cui processi produttivi andavano secretati<br />
e difesi a oltranza.
È fuor di dubbio che il «cespite patrimoniale» acquisito<br />
(12) era già di proprietà della società It. di talché il finanziamento<br />
per l’acquisto non era per nulla funzionale alle<br />
sue esigenze bensì alle logiche strategiche del gruppo.<br />
Di ciò la ricorrente è ben consapevole - ovviamente -<br />
così da farne argomento portante della propria difesa<br />
che insiste a lungo - lo si è visto - sulla globale strategia<br />
di un importante gruppo industriale italiano e addebita<br />
all’ufficio finanziario una visione ondivaga del<br />
concetto di gruppo societario che verrebbe di volta in<br />
volta modellato sulle esigenze di recuperi fiscali cui<br />
pervenire ad ogni costo (13).<br />
L’accorta difesa della ricorrente nemmeno ignora la direttiva<br />
OCSE (14) che in tema di servizi infragruppo e<br />
di finanziamento fatto a un membro del gruppo per acquisire<br />
una nuova Società, statuisce che gli oneri finanziari<br />
dell’operazione devono rimanere a carico della casa<br />
madre. Assume però che nella specie sarebbe avvenuto<br />
proprio ciò, perché l’operazione era nell’interesse<br />
della Op. che l’aveva effettuata con il ricorso al mercato<br />
del credito merce l’utilizzo di una linea di credito già<br />
aperta e a disposizione dei gruppo.<br />
Osserva di contro il Collegio che proprio la logica<br />
dell’operazione di ristrutturazione della Ga. che ha visto<br />
come momento finale (15) la scissione delle due<br />
principali attività e la creazione di un’autonoma linea di<br />
distribuzione e vendita, articolando il tutto nella costituzione<br />
di una società target e nell’acquisizione da parte<br />
della Op. di una società che, per essere inserita nel<br />
gruppo stesso, era di già di proprietà indirettamente<br />
della predetta Op., mostra che l’operazione di finanziamento<br />
deve ricadere sulla capogruppo Ma. s.a., regista<br />
della ristrutturazione strumento di attuazione dei programmi<br />
industriali di espansione che non alla Op. fanno<br />
capo, com’è ovvio.<br />
Che sia stata utilizzata una linea di credito esterno è del<br />
tutto irrilevante ai fini de quibus: gli esperti finanziari<br />
della capogruppo lo avranno ritenuto più utile (16).<br />
Come tutti sanno la normativa sul transfer price si fonda<br />
sulla considerazione che le relazioni tra soggetti appartenenti<br />
al medesimo gruppo, per natura prive di conflitto<br />
d’interessi, possono rispondere a ragioni non del<br />
tutto coincidenti con quelle delle relazioni tra soggetti<br />
indipendenti.<br />
È per questo che l’appartenenza al gruppo non è un dato<br />
economico/giuridico di second’ordine perché, dal<br />
contrario, è la condizione che trasforma alcune operazioni<br />
da «neutre» a «rilevanti» (17) dal punto di fiscale.<br />
E allora, il finanziamento infragruppo è operazione di<br />
servizio (18) che nella specie è avvenuta nell’interesse<br />
della casa madre Ma. s.a. che avrebbe dovuto sopportarne<br />
il costo complessivo e in principalità remunerando<br />
la Op. per un servizio che se reso da soggetto indipendente<br />
non sarebbe stato prestato gratuitamente.<br />
Che il prezzo di questo servizio sia stato determinato<br />
dall’Agenzia nell’importo degli interessi passivi pagati<br />
e negli oneri connessi al finanziamento, non è di sicuro<br />
arbitrario. È il minimo che un soggetto indipendente<br />
Redditi<br />
CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010 d’impresa<br />
avrebbe richiesto. Anzi avrebbe aggiunto la retribuzione<br />
della prestazione resa e non il semplice rimborso<br />
delle spese vive.<br />
La doglianza che riguarda l’uso fatto dall’Agenzia dell’art.<br />
39 DPR 600/73 che - ad avviso della ricorrente -<br />
non conferirebbe agli uffici finanziari di sindacare le risultanze<br />
di bilancio, richiede poche osservazioni.<br />
Intanto è argomento che in sé - usa dire - prova troppo,<br />
ché se così fosse mai sarebbe possibile la rettifica dei<br />
bilanci con conseguenti riprese a tassazione.<br />
Poi, la ripresa è conseguenza non di una presunzione<br />
cervellotica (19) bensì dell’applicazione della normativa<br />
sul transfer price, e quindi se si vuol rimanere nel campo<br />
delle presunzioni - ma non è detto che sarebbe un argomentare<br />
giuridicamente corretto - occorre parlare di presunzione<br />
qualificata, di dato certo da cui far discendere<br />
conseguenze altrettanto certe, secondo i principi di logica<br />
pura, prima ancora che di diritto <strong>tributari</strong>o.<br />
Nessun presumere de presumpto si riscontra, perché i<br />
fatti sono certi e la normativa di riferimento lo è per definizione.<br />
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in<br />
complessivi Euro 8.000,00.<br />
P.Q.M.<br />
Rigetta il ricorso e condanna la società BI. S.r.l. a rimborsare<br />
alla Direzione Regionale della Lombardia le spese<br />
processuali che liquida in complessivi Euro 8.000,00.<br />
Note:<br />
(12) La società Bi. s.p.a.<br />
(13) E quindi, completando il concetto, patologiche e non in linea<br />
non tanto con i principi di leale collaborazione o di equità contributiva<br />
- pure di sovente invocati - bensì, e a monte di essi, con<br />
il principio generale di onestà.<br />
Il rappresentante dell’Agenzia intervenendo in udienza ha lamentato<br />
che nel ricorso l’ufficio sia stato dipinto come un persecutore<br />
del contribuenti onesto.<br />
Questo esprit si coglie chiaramente e chiaramente non è elogiativo<br />
bensì offensivo della professionalità e dell’onestà del funzionario<br />
accertatore.<br />
Il presidente è subito intervenuto per rassicurare che il giudice<br />
non è interessato a polemiche del genere cui mai ha conferito alcun<br />
rilievo ai fini del decidere.<br />
Il Collegio, per suo conto, continua a stupirsi come ciò possa essere<br />
contenuto in ricorsi redatti da professionisti sicuramente<br />
consapevoli che anche la vis polemica più esasperata incontra limiti<br />
che non possono mai essere travalicati.<br />
(14) Paragrafo 7.5 e segg. della Direttiva del 1995.<br />
(15) Ad oggi.<br />
(16) Ma lo si dice in maniera assolutamente neutra. La Commissione<br />
Tributaria è chiamata a valutare gli aspetti fiscali di un’operazione<br />
lecita e nient’altro.<br />
Come ha argomentato in udienza il rappresentante dell’Agenzia,<br />
si è trattato unicamente di correggere l’allocazione di un costo<br />
che all’ufficio era apparsa erronea.<br />
(17) Così in maniera pertinente argomenta la resistente.<br />
(18) A termini della Direttiva OCSE.<br />
(19) Come sembra ipotizzare la società.<br />
4/2012 389
Redditi<br />
d’impresa CTR Lombardia n. 26 del 2012 e CTP Milano n. 321 del 2010<br />
La sentenza<br />
Commissione <strong>tributari</strong>a regionale Lombardia, Sez. XXVII, Sent. 5 marzo 2012 (27 gennaio 2012),<br />
n. 26 - Pres. Cusumano - Rel. Currò (stralcio)<br />
L’appellante-contribuente chiede che, in riforma della<br />
sentenza impugnata, l’avviso n. (...), notificato il 22 dicembre<br />
2009, avente ad oggetto, relativamente all’esercizio<br />
2004, l’accertamento di maggiori componenti negativi<br />
di reddito, determinati ex art. 110, comma 7, del<br />
T.U.I.R., con la contestazione di una maggiore IRES,<br />
pari ad E 2.603.224,00, oltre interessi e sanzioni, venga<br />
annullato o in accoglimento delle questioni pregiudiziali,<br />
o per l’illegittimità in fatto ed in diritto della pretesa<br />
fiscale. (Omissis)<br />
3) che è incontestabile, in punto di fatto, che Bi. S.p.A.<br />
non era, né direttamente, né indirettamente, di proprietà<br />
di I. Op. S.r.l., ma di proprietà della capogruppo estera<br />
Ma. II S.A., cui qualsiasi operatore indipendendente<br />
avrebbe dovuto pagare il giusto prezzo per acquistarla,<br />
così come ha fatto Op. S.r.l., che ha usato fondi raccolti<br />
presso banche a proprio nome e conto, ha pagato interessi,<br />
ha rimborsato capitale e pagato spese sul finanziamento<br />
attingendo, dai flussi di cassa provenienti dalla<br />
azienda acquistata; (omissis)<br />
4) che l’Amministrazione finanziaria, che non ha criticato<br />
la corretta imputazione dei costi, ha sostenuto che,<br />
nella fattispecie, sia da individuare una prestazione di<br />
servizi finanziari da I. Op. alla casa madre Ma. S.A. (a<br />
disposizione della quale vi erano le stesse linee di finanziamento,<br />
discendenti dal contratto quadro Senior<br />
facility agreement, stipulato dalla S.p.A. E.G. il 30 giugno<br />
2004, utilizzate da S.r.l. I. Op. per acquistare la<br />
partecipazione in Bi. S.p.A.). (Omissis)<br />
5) che, contrariamente a quanto affermato dai Primi<br />
Giudici, ad avviso dei quali, in tema di servizi infragruppo<br />
e di finanziamento fatto ad un membro del<br />
gruppo per acquisire una nuova società, gli oneri finanziari<br />
dell’operazione devono rimanere a carico della casa<br />
madre, la direttiva OCSE dice esattamente l’opposto<br />
e, cioè, che, in una corretta logica di gruppo, la società<br />
che acquisisce una partecipazione deve subirne anche il<br />
costo finanziario, e, se è la casa madre a raccogliere i<br />
fondi necessari,vanno addebitati i costi alla società figlia,<br />
acquirente della partecipazione, configurandosi in<br />
detta fattispecie un servizio di natura finanziaria della<br />
casa madre alla società figlia;<br />
6) che il percorso presuntivo operato dall’Amministrazione<br />
finanziaria non ha i requisiti della certezza, gravità,<br />
precisione e concordanza previsti dagli artt. 39 del D.P.R.<br />
n. 600/1973 e 2729 c.c., in quanto si pretende di trarre una<br />
presunzione da un’altra presunzione, di presumere de presumpto,<br />
assumendo quale fatto noto un fatto, non già pacifico<br />
tra le parti, ovvero provato in giudizio mediante<br />
l’esperimento di mezzi di prova, come una consulenza tecnica,<br />
bensì desunto in via congetturale da altri fatti. Dato<br />
che il rilievo per omessi ricavi, ex art. 110, comma 7, del<br />
390<br />
4/2012<br />
T.U.I.R., è basato sul presupposto, tutt’altro che provato,<br />
anzi abbondantemente smentito, che I. Op. S.r.l. non abbia<br />
acquisito la partecipazione per sé, ma per soddisfare<br />
esigenze finanziarie della capogruppo e da tale errata presunzione<br />
viene desunta, sempre presuntivamente, la sussistenza<br />
di una prestazione di servizi finanziari non riaddebitati<br />
e, quindi, una omissione di ricavi.<br />
L’appellato-Ufficio, con memoria difensiva del 23 maggio<br />
2011, chiede il rigetto dell’appello (omissis).<br />
All’udienza del 27 gennaio 2012, la Commissione, sentiti<br />
il Relatore e i Difensori delle parti, decide di rigettare,<br />
con l’appello, sia le questioni pregiudiziali, sia quelle di<br />
merito. (Omissis) l’acquisto, da parte della S.r.l. I. Op.,<br />
della S.p.A. Bi., controllata da Ma. II SA, sottende un finanziamento<br />
a costo zero in favore della casa madre, del<br />
medesimo gruppo, Ma. SA, che avrebbe dovuto, invece,<br />
sopportarne interamente gli oneri. Infatti, con la plusvalenza<br />
realizzata dalla vendita della partecipazione, Ma. II<br />
SA ha distribuito i dividendi a Ma. SA per € …, finanziandola<br />
a spese di I. Op. S.r.l., cui non è stata riconosciuta<br />
alcuna remunerazione, nonostante abbia acceso un finanziamento,<br />
o abbia utilizzato una linea di credito preesistente,<br />
accollandosi ingenti interessi passivi. Legittimamente,<br />
pertanto, ai sensi del combinato disposto degli<br />
artt. 110, comma 7, e 9 del D.P.R. n. 917/1986, la cui ratio<br />
è quella di impedire il trasferimento di utili da una società<br />
residente ad una non residente, appartenenti allo<br />
stesso gruppo, è stata recuperata a tassazione la differenza<br />
tra il valore normale della prestazione di servizio, effettuata<br />
dalla Bi. S.r.l. nei confronti della casa madre Ma.<br />
SA, determinato al valore del costo sostenuto dalla S.r.l.<br />
verificata pari ad € … (€ … per interessi passivi; € …<br />
per oneri connessi al finanziamento) ed il prezzo, pari a<br />
zero, praticato dalle consociate. Un recupero a tassazione<br />
che, non solo mette meglio in evidenza la sostanziale correlazione<br />
economico-contabile della complessa operazione<br />
e una corretta allocazione di costi e ricavi, contrariamente<br />
a quanto teme il contribuente, ma fa anche emergere,<br />
se è vero, per come sostiene il contribuente, che il<br />
gruppo non costituisce un soggetto di diritto a sé stante e<br />
l’appartenenza ad esso non fa venire meno la autonomia<br />
di ciascuna società che lo compongono, il reale interessato<br />
ed il reale beneficiario dell’operazione finanziaria. Rispettivamente,<br />
la Ma. SA, cui ha generato dividendi (ex<br />
art. 2247 c.c.); la Ma. II SA, che ha costituito plusvalenze<br />
e distribuito dividendi alla casa madre Ma. SA.<br />
Alla soccombenza segue la condanna alle spese che si<br />
liquidano complessivamente in € …, oltre IVA, CPA,<br />
spese generali.<br />
P.Q.M.<br />
La Commissione rigetta l’appello. Spese secondo soccombenza.
Rilevazione in bilancio<br />
delle passività potenziali<br />
da accertamenti <strong>tributari</strong><br />
Lo stato dell’arte in materia di iscrizione<br />
di passività a fronte di accertamenti del Fisco<br />
Su Dialoghi ci occupiamo di questioni <strong>tributari</strong>e, e<br />
non di principi contabili o tecniche di iscrizione e<br />
valutazione di attività e passività nei bilanci delle<br />
imprese. La nota dell’8 agosto 2012 emanata dalla<br />
Banca d’Italia investe tuttavia un problema di<br />
iscrizione e valutazione delle passività potenziali<br />
conseguenti a contenziosi <strong>tributari</strong>, su cui vale la<br />
pena spendere qualche sintetica riflessione a caldo,<br />
in una zona di confine tra fiscalità e bilancio.<br />
La nota concerne l’impatto sui conti annuali, redatti<br />
applicando gli IAS, dei contenziosi fiscali.<br />
Ad oggi, a quanto mi consta, tale problema è stato<br />
affrontato dalle imprese - non solo bancarie - con<br />
riferimento al grado di «probabilità» dell’evento<br />
soccombenza: se gli amministratori della società<br />
ritengono che l’accertamento fiscale, impugnato<br />
avanti le Commissioni <strong>tributari</strong>e, darà probabilmente<br />
luogo ad un esborso a titolo definitivo (ipotizzando<br />
come «probabile» un esito negativo del<br />
contenzioso), dovrà essere contabilizzato un costo<br />
con contropartita un fondo rischi.<br />
Se viceversa l’evento della soccombenza in giudizio<br />
venga ritenuto remoto o meramente «possibile»<br />
(ma non probabile), alcun accantonamento dovrà<br />
essere effettuato in bilancio (salva menzione<br />
della controversia nella nota integrativa). Come ri-<br />
di Dario Stevanato<br />
Bilancio<br />
La nota di Banca d’Italia interviene sul tema della rilevazione delle passività potenziali conseguenti<br />
ad un accertamento <strong>tributari</strong>o. La tesi dell’Istituto è che, applicando gli IAS sulla rilevazione<br />
degli «attivi potenziali», un credito a fronte delle imposte pagate in corso di causa possa essere<br />
iscritto solo in caso di «virtuale certezza» dell’esito positivo del contenzioso, il che è molto<br />
diverso rispetto al giudizio di «non probabilità» della soccombenza, che consente di non alimentare<br />
fondi rischi. Viene così «alzata l’asticella», e risulterà molto problematico (almeno per<br />
le imprese bancarie, che dovranno attenersi alle istruzioni dell’Istituto di vigilanza) evitare di rilevare<br />
perdite a bilancio, pur a fronte di accertamenti reputati infondati.<br />
corda anche la nota di Banca d’Italia, lo IAS 37<br />
prevede che, per le contingent liabilities (passività<br />
incerte nell’ammontare e/o nella data di sopravvenienza),<br />
la rilevazione in bilancio debba essere effettuata<br />
soltanto quando è «probabile» che le stesse<br />
diano luogo ad un esborso.<br />
Dunque, nel caso in cui l’impresa ritenga che il rischio<br />
di soccombenza non sia un evento «probabile»<br />
(ma meramente possibile o addirittura remoto),<br />
gli eventuali pagamenti effettuati in corso di causa<br />
(per effetto del sistema di riscossione frazionata in<br />
pendenza di giudizio) verranno per coerenza trattati<br />
alla stregua di «anticipi», trattandosi, non già<br />
di esborsi effettuati a titolo definitivo, bensì con la<br />
prospettiva della loro restituzione (essendo appunto<br />
giudicato «non probabile» l’evento soccombenza):<br />
ne consegue che, in contropartita all’esborso,<br />
non sarà contabilizzato un costo, bensì un credito<br />
verso l’Erario, per imposte pagate a titolo provvisorio<br />
e ritenute non dovute.<br />
Si noti che quest’aspetto della vicenda, ovvero<br />
l’iscrizione di un credito (una attività) a fronte dei<br />
pagamenti effettuati a titolo provvisorio in corso<br />
di causa, non è autonomo rispetto alle logiche ed<br />
alle tecniche di valutazione della «passività potenziale».<br />
Se il rischio soccombenza è ritenuto «non<br />
probabile», sarebbe contraddittorio contabilizzare<br />
un costo a fronte dei pagamenti effettuati in corso<br />
4/2012<br />
391
Bilancio<br />
di causa per effetto del sistema di riscossione frazionata:<br />
questi pagamenti discendono infatti da un<br />
meccanismo legale automatico, e sono del tutto<br />
sganciati dall’effettivo grado di fondatezza della<br />
pretesa fiscale. Anche la pretesa fiscale più abnorme<br />
o infondata, in quanto contenuta in un atto amministrativo<br />
(l’avviso di accertamento) dotato di<br />
parziale esecutorietà pure in presenza di impugnazione,<br />
è suscettibile di determinare un obbligo di<br />
pagamento in capo al contribuente, che però nulla<br />
toglie o aggiunge alle valutazioni circa l’effettivo<br />
rischio di soccombenza.<br />
Il nuovo criterio valutativo ipotizzato da Banca<br />
d’Italia: dalla «non probabile» soccombenza,<br />
alla «virtualmente certa» vittoria<br />
La nota di Banca d’Italia introduce però, a questo<br />
punto, una sorta di «dicotomia valutativa», teorizzando<br />
- con riferimento all’ipotesi di pagamento<br />
degli importi indicati in un atto impositivo contro<br />
cui viene fatta opposizione - la necessità per le imprese<br />
bancarie di «valutare se si è in presenza di<br />
un’attività potenziale (contingent asset) come definita<br />
dallo IAS 37 paragrafo 10». Ora, tale principio<br />
contabile prevede che una «attività potenziale»<br />
- definita come quella che sorge da eventi passati e<br />
la cui esistenza potrà essere confermata soltanto al<br />
verificarsi di eventi futuri non interamente controllabili<br />
dall’impresa - non debba essere rilevata a<br />
bilancio (traducendosi altrimenti nella rilevazione<br />
di un utile «sperato»), a meno che la realizzazione<br />
di tale attività sia «virtualmente certa». Dunque,<br />
conclude la nota di Banca d’Italia, soltanto se<br />
l’impresa ritenga che tale condizione sia soddisfatta,<br />
ovvero - nel caso che ci interessa - soltanto se<br />
si ritenga con «certezza» che il contenzioso fiscale<br />
in essere si concluderà positivamente per l’impresa,<br />
l’impresa sarà legittimata a iscrivere un credito<br />
in contropartita dei pagamenti effettuati a titolo<br />
provvisorio nel corso del giudizio.<br />
In questo modo, dunque, un evento insignificante<br />
ai fini della valutazione del rischio di soccombenza<br />
nella lite <strong>tributari</strong>a, ovvero i pagamenti frazionati<br />
in pendenza di giudizio, viene a sovrapporsi<br />
ai principi operanti in tema di rilevazione delle<br />
passività potenziali, finendo per prevalere. La<br />
Banca d’Italia introduce in effetti una sorta di<br />
«doppio binario» valutativo, per cui la passività<br />
potenziale va iscritta soltanto se ritenuta «probabi-<br />
392<br />
4/2012<br />
le», mentre l’iscrizione di un costo a fronte dei pagamenti<br />
a titolo provvisorio può essere evitata solo<br />
se la recuperabilità degli importi è giudicata<br />
dall’impresa «virtualmente certa». Dimenticando<br />
così che la recuperabilità di quanto corrisposto dipende<br />
esclusivamente dall’esito della controversia,<br />
cioè dagli stessi eventi che devono guidare<br />
l’eventuale iscrizione della contingent liability<br />
(passività potenziale).<br />
Si noti che affermare che un evento è «non probabile»<br />
- cioè che il rischio soccombenza è remoto o<br />
soltanto possibile - non equivale affatto ad affermare<br />
che il suo contrario (la vittoria in giudizio) si<br />
verificherà con certezza. Di fronte ad un accertamento<br />
<strong>tributari</strong>o che appaia infondato, anche in<br />
modo palese, è ragionevole assumere il rischio<br />
soccombenza come meramente possibile, il che<br />
consente all’impresa di non iscrivere fondi rischi;<br />
del tutto diverso è invece pretendere che gli amministratori<br />
esprimano un giudizio di «virtuale certezza»<br />
in ordine all’esito vittorioso del contenzioso<br />
(in fondo, habent sua sidera lites, tanto più<br />
quelle <strong>tributari</strong>e). I principi contabili internazionali,<br />
come altre volte rilevato, «producono mostri», e<br />
il rischio per le imprese bancarie, a questo punto, è<br />
di dover iscrivere comunque un costo in corrispondenza<br />
di ogni accertamento <strong>tributari</strong>o, per quanto<br />
vi siano elevate prospettive di vittoria in giudizio,<br />
posto che l’esito non potrà (quasi mai) dirsi «virtualmente<br />
certo». E se si considera qual è mediamente<br />
il grado di fondatezza delle contestazioni di<br />
tipo interpretativo elevate dall’Agenzia delle entrate,<br />
e gli importi abnormi che non di rado vengono<br />
accertati, la posizione di Banca d’Italia rischierà<br />
di creare non poche difficoltà agli intermediari<br />
finanziari destinatari di un accertamento fiscale, se<br />
non addirittura di mettere a repentaglio la loro<br />
stessa «continuità aziendale».
La nota tecnica<br />
Banca d’Italia, Nota tecnica 8 agosto 2012, prot. 0680351/12 (stralcio)<br />
(Omissis)<br />
4. Attività potenziali (contingent assets)<br />
Nel corso dell’attività di vigilanza è stato riscontrato<br />
che taluni intermediari hanno rilevato nell’attivo dello<br />
stato patrimoniale, anziché tra i costi del conto economico,<br />
la contropartita contabile di alcuni pagamenti.<br />
In particolare, sono state rilevate le due seguenti fattispecie:<br />
a) nell’anno T l’intermediario A ha acquisito dall’intermediario<br />
B la partecipazione di controllo nell’intermediario<br />
C a un prezzo, quantificato in via provvisoria e<br />
soggetto a un meccanismo di aggiustamento volto ad<br />
ancorare l’importo definitivo alla «effettiva» consistenza<br />
patrimoniale dell’intermediario C. L’intermediario<br />
A, al termine della prevista «due diligence», ha chiesto<br />
all’intermediario B la restituzione di una parte del prezzo<br />
pagato, in conseguenza delle maggiori svalutazioni<br />
operate sui crediti dell’intermediario C, rispetto alle stime<br />
iniziali. Da tale richiesta è emerso un contenzioso<br />
tra gli intermediari A e B non ancora definito.<br />
Nel bilancio d’esercizio dell’anno T+1 l’intermediario<br />
A ha diminuito il valore della partecipazione nell’intermediario<br />
C dell’intero importo richiesto in contestazione,<br />
rilevando in contropartita un credito nei confronti<br />
dell’intermediario B anziché una rettifica di valore in<br />
conto economico.<br />
Nel bilancio consolidato dell’anno T+1, l’intermediario<br />
A ha svalutato il valore dell’avviamento dell’intero importo<br />
richiesto in contestazione, rilevando in contropartita<br />
il citato credito nei confronti dell’intermediario B<br />
anziché una rettifica di valore in conto economico;<br />
b) l’intermediario X paga all’erario un certo importo a<br />
seguito della notifica di avvisi di liquidazione a titolo di<br />
maggiori imposte indirette e di successiva iscrizione a<br />
ruolo di tali maggiori imposte e di correlati interessi e<br />
sanzioni; in contropartita, nel presupposto di poter recuperare<br />
le anzidette somme, rileva una posta iscritta tra le<br />
altre attività, anziché un costo in conto economico.<br />
Al riguardo, si osserva che in entrambi i casi gli intermediari<br />
sono tenuti a valutare se si è in presenza di<br />
un’attività potenziale (contingent asset) come definita<br />
dallo IAS 37 «Provisions, Contingent Liabilities and<br />
Contingent Assets» paragrafo 10 (1).<br />
Lo IAS 37 prevede che un’attività potenziale non deve<br />
essere rilevata in bilancio (cfr. paragrafo 31) (2), a meno<br />
che non vi siano elementi che rendano virtualmente<br />
certo il realizzo del relativo reddito (cfr. paragrafo 33<br />
(3) (7)). In quest’ultimo caso, l’attività può essere rilevata<br />
nell’attivo (4).<br />
Pertanto, in presenza di attività potenziali significative<br />
per le quali l’intermediario ritenga che sia soddisfatta la<br />
Bilancio<br />
condizione di realizzo virtualmente certo prevista dallo<br />
IAS 37, gli elementi a supporto di tale valutazione devono<br />
formare oggetto di espressa approvazione da parte<br />
dell’organo con funzione di supervisione nel corso di<br />
una riunione anticipata rispetto al momento dell’approvazione<br />
del bilancio, alla quale intervenga, oltre all’organo<br />
con funzione di controllo, anche la società di revisione.<br />
Nella nota integrativa, inoltre, vanno sempre chiaramente<br />
illustrate le specifiche circostanze che consentono<br />
di soddisfare la condizione di realizzo virtualmente<br />
certo per l’iscrizione di un’attività.<br />
(Omissis)<br />
Note:<br />
(1) In particolare, lo IAS 37 paragrafo 10 «Definitions» recita così:<br />
«A contingent asset is a possible asset that arises from past events<br />
and whose existence will be confirmed only by the occurrence or nonoccurrence<br />
of one or more uncertain future events not wholly within<br />
the control of the entity».<br />
(2) Se è probabile che dall’attività potenziale derivi un beneficio<br />
economico, va fornita un’informativa in nota integrativa (cfr. IAS<br />
37 paragrafo 34).<br />
(3) In particolare, lo IAS 37 paragrafo 33 recita così: «Contingent<br />
assets are not recognised in financial statements since this may result<br />
in the recognition of income that may never be realised. However,<br />
when the realisation of income is virtually certain, then the related asset<br />
is not a contingent asset and its recognition is appropriate».<br />
(4) Viceversa, nel caso di passività di incerto timing o ammontare<br />
(provision) lo IAS 37 prevede che siano rilevate in bilancio quando<br />
è probabile che diano luogo a un esborso (cfr. IAS 37, paragrafo 14,<br />
nonché «Guidance on implementino» - «A Tables - Provisions,<br />
contingent liabilities, contingent assets and reimbursements»).<br />
4/2012<br />
393
IVA<br />
Frodi carosello<br />
tra responsabilità solidale<br />
e disconoscimento della detrazione<br />
La responsabilità solidale ex art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972, già trattata su Dialoghi, per certi<br />
aspetti è una sanzione graduata alla negligenza dell’acquirente, per altri versi estraneo alla frode.<br />
Sarebbe sproporzionato sanzionare gli acquirenti di fornitori fiscalmente inaffidabili come utilizzatori<br />
di fatture fittizie, salvi fondati indizi che anch’essi abbiano partecipato alla spartizione del<br />
bottino. La responsabilità per l’imposta è un equilibrato compromesso, ma l’art. 60-bis pecca di<br />
perfezionismo velleitario, e diventa per questo di difficile applicazione rispetto al diretto disconoscimento<br />
della detrazione, senza ulteriori sanzioni.<br />
In questa sede facciamo seguito ad un precedente<br />
dialogo sul tema della responsabilità solidale IVA<br />
(1), in capo a chi acquista merce da un venditore<br />
che si è in seguito rivelato come fiscalmente inadempiente<br />
(2), cercando di spiegare la diffusa ritrosia<br />
degli Uffici fiscali ad applicare tale norma.<br />
La ragione non sta in un sabotaggio di una disposizione<br />
che potrebbe appianare molte controversie,<br />
in un compromesso ragionevole. Si tratta piuttosto<br />
di un motivo più tecnico, legato ad una disposizione<br />
concepita (3) come solidarietà col fornitore. La<br />
responsabilità del cliente per l’IVA non versata dal<br />
fornitore si inserisce nelle azioni contro quest’ultimo,<br />
che però è appunto un «missing». Questo crea<br />
problemi di competenza degli Uffici finanziari,<br />
perché il cliente dovrebbe essere coinvolto dall’Ufficio<br />
competente per il domicilio fiscale del<br />
fornitore-missing o del fornitore «buffer», che<br />
compra dal «missing» e poi rivende, come accade<br />
nell’ipotesi di pluralità di soggetti interposti. I<br />
clienti finali sono pochi e «visibili», e quindi è facile<br />
intervenire partendo dalla fine della catena di<br />
operazioni, dalla coda. Invece «partire dalla testa»<br />
per poi coinvolgere la coda è molto difficile pro-<br />
394<br />
4/2012<br />
di Emiliano Covino, Raffaello Lupi<br />
La responsabilità solidale IVA e le contestazioni<br />
da «abuso del diritto alla detrazione» IVA tra differenze sanzionatorie<br />
e di competenza territoriale<br />
Emiliano Covino<br />
prio perché si tratta di catene societarie vaste e<br />
sfuggenti; ben si capisce quindi la frustrazione<br />
dell’Agenzia delle entrate nell’attivare un controllo<br />
in capo ad una società fantasma. Ciò ha provocato,<br />
di fatto, una traslazione di competenza accertativa<br />
dall’Ufficio del fornitore (in genere inerte a<br />
parte l’emissione di cartelle da omesso versamento)<br />
a quello del cliente. Di prassi l’Amministrazione<br />
che interviene con un accertamento di tipo sostanziale<br />
è quella in cui risiede il cliente, ossia il<br />
reale operatore economico che immette la merce<br />
ricevuta sul mercato. Ciò è dovuto al fatto che,<br />
spesso, è ipotizzabile solo in capo a quest’ultimo<br />
una verifica fiscale effettiva, con una qualche possibilità<br />
di recupero, perché rivolto ad un reale ope-<br />
Emiliano Covino - Dottore di ricerca in Diritto <strong>tributari</strong>o presso<br />
l’Università di Roma «Tor Vergata», Avvocato in Roma. Fondazione Studi<br />
Tributari<br />
Note:<br />
(1) Ex art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972.<br />
(2) Cfr. E. Covino, RL, «Frodi carosello: responsabilità solidale per<br />
l’acquirente “incauto” come principio generale?», in Dialoghi Tributari<br />
n. 4/2011, pag. 421.<br />
(3) Articolo introdotto con la legge 30 dicembre 2004, n. 311.
atore economico, probabilmente solvibile in caso<br />
di riscossione; al contrario, il fornitore è in genere<br />
un interposto privo di sostanza economica, e spesso<br />
anche di contabilità, pertanto un accertamento<br />
sostanziale nei suoi confronti, oltre che inutile, è<br />
praticamente impossibile.<br />
Tale spostamento di competenza amministrativa<br />
avviene anche nei casi in cui l’omesso versamento<br />
sia compiuto da un reale operatore economico, che<br />
per una qualsiasi ragione non abbia versato l’IVA,<br />
giacché l’Agenzia tende comunque ad attivare i<br />
controlli sempre in capo all’utilizzatore delle fatture,<br />
limitandosi ad iscrivere al ruolo le somme<br />
non versate dal fornitore. Sta di fatto che la quasi<br />
totalità degli accertamenti in tema di frodi IVA si<br />
basa su una contestazione da «abuso del diritto alla<br />
detrazione», in capo al cliente, sulla scorta delle<br />
ormai famose sentenze della Corte di giustizia UE<br />
(4), da cui deriva il totale recupero dell’imposta, a<br />
cui si sommano le sanzioni per illegittima detrazione<br />
IVA (5) e quelle per dichiarazione IVA con<br />
imposta inferiore a quella dovuta (6). Anche se<br />
mitigato dal cumulo giuridico (7), è evidente che<br />
l’impatto di queste sanzioni tende a moltiplicare in<br />
maniera spropositata l’impianto punitivo per un<br />
comportamento che, di fatto, è consistito nella mera<br />
detrazione di una fattura per merce realmente ricevuta<br />
e, in genere, anche correttamente pagata al<br />
soggetto che appare nella fattura stessa. Se quindi<br />
il debito <strong>tributari</strong>o da responsabilità solidale ex art.<br />
60-bis e quello da indebita detrazione IVA sono<br />
identici, giacché l’acquirente deve per intero l’IVA<br />
non versata dal fornitore infedele, c’è una evidente<br />
differenza sotto il profilo sanzionatorio: infatti la<br />
responsabilità solidale ex art. 60-bis non prevede<br />
l’applicabilità delle sanzioni, mentre l’indebita detrazione<br />
da abuso del diritto sì, ed in misura molto<br />
pesante.<br />
Inoltre, l’utilizzo dell’istituto dell’indebita detrazione<br />
comporta anche problemi di coordinamento<br />
con la riscossione in capo al fornitore, perché non<br />
è detto che costui poi sia del tutto insolvente e non<br />
paghi mai, in sede di esecuzione forzata, l’IVA dovuta.<br />
Quindi da un’unica omissione potrebbero derivare<br />
- almeno a livello teorico (8) - due recuperi<br />
integrali di IVA del tutto legittimi, uno in capo al<br />
fornitore per omesso versamento (con relative sanzioni)<br />
e uno in capo al cliente per indebita detrazione<br />
da «abuso del diritto» (anche questo con re-<br />
4/2012<br />
IVA<br />
lative sanzioni). Ciò non potrebbe accadere invece<br />
se si contestasse una responsabilità da art. 60-bis,<br />
giacché il pagamento di un qualsiasi soggetto farebbe<br />
venir meno la responsabilità <strong>tributari</strong>a degli<br />
altri responsabili in solido. Infatti, la sedimentazione<br />
dell’accertamento ex art. 60-bis in capo<br />
all’Ufficio competente per il fornitore permette<br />
una visione unitaria anche della contestazione: la<br />
logica della responsabilità solidale ex art. art. 60bis<br />
sta nella necessità di «chiamare in correità» un<br />
soggetto che si è mostrato negligente nell’acquisto<br />
delle merci, senza considerare gli indizi di probabile<br />
mancato versamento dell’IVA da parte del fornitore.<br />
Questa norma esprime quindi l’esigenza sistematica<br />
secondo cui chi è stato negligente nella<br />
valutazione del fornitore, e doveva prevedere che<br />
questo non avrebbe versato l’IVA, non può detrarsi<br />
il relativo importo. In sintesi, agire sul fornitore<br />
e mantenere l’iniziativa sull’Ufficio del fornitore<br />
garantisce il coordinamento delle varie contestazioni,<br />
ma l’unitarietà dell’azione amministrativa si<br />
scontra con la mancanza di interlocutori dal lato<br />
della parte fornitrice; l’unico soggetto individuabile,<br />
e non sfuggente, prima ancora che «solvibile»,<br />
è infatti il cliente, l’utilizzatore ultimo, in capo al<br />
quale potrebbero essere direttamente applicati i<br />
principi comunitari del divieto di detrazione, elaborati<br />
dalla Corte di giustizia per simili ipotesi, di<br />
cui diremo al punto che segue.<br />
La trasposizione del principio<br />
della responsabilità solidale IVA<br />
nelle contestazioni da abuso del diritto,<br />
se prive di sanzioni da illegittima detrazione<br />
II principio espresso dall’art. 60-bis, teoricamente<br />
ineccepibile, può essere quindi inteso in senso<br />
«comunitariamente orientato», in relazione ad una<br />
giurisprudenza della Corte di giustizia che non<br />
parla affatto di responsabilità solidale col fantoma-<br />
Note:<br />
(4) Vengono in genere citata la sentenza «Optigen» (12 gennaio<br />
2006, causa C-354/03, C-355/03, C-484/03, in GT - Riv. giur. trib. n.<br />
4/2006, pag. 285, con commento di M. Sirri e R. Zavatta e in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA).<br />
(5) Ex art. 6, comma 6, del D.P.R. n. 471/1997.<br />
(6) Ex art. 5, comma 4, del D.P.R. n. 471/1997.<br />
(7) Ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. n. 471/1997.<br />
(8) Ciò rappresenta solo in via teorica un problema, perché poi il<br />
fornitore spesso è non solvibile e quindi il dubbio di una duplice<br />
richiesta dell’IVA è astratto.<br />
395
IVA<br />
tico fornitore, ma piuttosto di perdita del diritto alla<br />
detrazione IVA (9). Il buon compromesso di cui<br />
all’art. 60-bis dovrebbe essere applicato in capo al<br />
cliente, limitandosi a negare la detrazione, secondo<br />
la giurisprudenza comunitaria, che si è limitata<br />
a escludere la detrazione dell’IVA, senza ipotizzare<br />
che il cliente dovesse unilateralmente, in sede di<br />
autodeterminazione delle imposte, autosanzionarsi<br />
omettendo la detrazione di un’IVA dopotutto fatturata<br />
e pagata da quello che appariva essere un reale<br />
fornitore. I Giudici comunitari, nei casi in cui si<br />
sono espressi sul tema, si sono limitati ad affermare<br />
l’indetraibilità dell’IVA in capo al cliente che,<br />
pur versandola al suo fornitore, sapeva (o poteva<br />
sapere usando l’ordinaria diligenza) che quest’ultimo<br />
non l’avrebbe versata all’Erario. Non si afferma<br />
da nessuna parte, invece, che il cliente deve essere<br />
anche sanzionato per illegittima detrazione<br />
IVA. Infatti, alla Corte UE premeva affermare il<br />
principio secondo cui, anche nel caso in cui il<br />
cliente paga l’IVA al fornitore, tale fatto da solo<br />
non legittima alla detrazione IVA: ai fini della detraibilità<br />
dell’imposta, chi paga l’IVA alla propria<br />
controparte non può limitarsi a dimostrare l’effettività<br />
di tale pagamento, se era comunque a conoscenza<br />
(o avrebbe dovuto esserlo secondo le ordinarie<br />
regole di accortezza commerciale) che la<br />
propria controparte non avrebbe versato al Fisco<br />
l’imposta. Ma il medesimo principio non stabilisce<br />
che il cliente, dopo aver versato l’IVA al fornitore<br />
infedele e aver risarcito il danno erariale, debba<br />
poi essere pure sanzionato in misura proporzionale<br />
all’imposta (pagando di fatto per la terza volta la<br />
medesima cifra).<br />
L’inapplicabilità di sanzioni è anche logica, visto<br />
che in fondo l’acquisto da un soggetto fiscalmente<br />
inadempiente è al massimo «incauto», e la punizione<br />
per tale «leggerezza» sta nel disconoscimento<br />
dell’IVA già versata al cliente (in re ipsa, come<br />
si diceva sopra), senza duplicare l’effetto sanzionatorio.<br />
D’altronde, l’unico danno erariale è quello<br />
dell’IVA intascata dal fornitore infedele, che<br />
viene meno una volta che il cliente ha ammesso il<br />
proprio errore nelle relazioni commerciali, versando<br />
l’IVA «abusivamente detratta». In fondo, il<br />
comportamento fiscale di quest’ultimo si è concretizzato<br />
nella detrazione di un’IVA effettivamente<br />
pagata a fronte di merce di certo esistente (e da<br />
questo venduta sul mercato), ignorando - più o<br />
396<br />
4/2012<br />
meno consciamente - che il suo fornitore non<br />
avrebbe poi versato l’IVA. Una volta che questa<br />
stessa IVA torna alle casse dell’Erario, attraverso<br />
una responsabilità solidale da «abuso del diritto alla<br />
detrazione», il cerchio si dovrebbe chiudere<br />
senza ulteriori sanzioni, o con sanzioni solo formali,<br />
non commisurate all’imposta, ma alla leggerezza<br />
commessa, e anche al fatto di «averci provato»,<br />
ma la sanzione proporzionale all’IVA non versata<br />
dal fornitore appare manifestamente contraria<br />
al principio di ragionevolezza e proporzionalità.<br />
Note:<br />
(9) Si vedano, per tutte, le più importanti pronunce in merito, ossia<br />
la sentenza «Optigen», cit. e la sentenza 6 luglio 2006, relativa<br />
alle cause riunite C-439/04 e C-440/04, in GT - Riv. giur. trib. n.<br />
10/2006, pag. 837, con commento do P. Centore e in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA.<br />
(10) È sorprendente come il gruppo sociale azienda, finalizzato<br />
alla produzione di prestazioni per l’organizzazione sociale, non si<br />
metta mai contro il potere, salvo aiutare un altro potere potenziale<br />
in alcuni casi limite, ed in proposito andrebbero riprese e<br />
sviluppate le riflessioni che ho svolto in Manuale giuridico di scienza<br />
delle finanze, Dike Giuridica, 2012, pag. 50, sulle aziende che<br />
«non guideranno mai la rivolta verso le storture dell’ambiente<br />
sociale in cui operano. Prima di tutto perché impegnate a produrre<br />
beni e servizi e non investite di battaglie di principio. Ecco il<br />
perché della loro capacità di sopportazione, nel rispettare obblighi<br />
legali, anche stupidi, rispetto alla fatica di contestarli. … in genere<br />
le aziende fanno prima ad abbozzare che ad organizzare la<br />
protesta collettiva e restano sotto schiaffo» rispetto alla burocrazia<br />
... l’azienda non combatte, ma scappa o si disgrega ... non ci<br />
saranno mai levate di scudi da parte delle aziende, ma una decisione<br />
pacata, che oggi si concretizza in una frase sempre più diffusa<br />
secondo cui conviene andare «in Italia solo per le vacanze».
Alla ricerca del «fornitore», tra interlocutore giuridico ed esecutore<br />
materiale<br />
Raffaello Lupi<br />
Cerchiamo di calare le riflessioni che precedono<br />
nella cornice della determinazione <strong>tributari</strong>stica<br />
della ricchezza, esternalizzata sulle aziende. Il Fisco<br />
impone alle aziende di chiedere le imposte sulla<br />
ricchezza che passa attraverso le rispettive procedure<br />
amministrative. Dove i punti di forza e di<br />
debolezza della tassazione sono gli stessi di queste<br />
procedure, collocate all’interno di aziende, che loro<br />
malgrado fanno le ausiliarie del Fisco, senza alcuna<br />
contropartita, solo sotto la minaccia di sanzioni<br />
in caso di mancata collaborazione. Le aziende,<br />
nate per produrre cioccolatini o pantaloni, fanno<br />
buon viso a cattivo gioco (10), ma non possono<br />
trasformarsi in investigatori del Fisco sui comportamenti<br />
del loro fornitore. Le aziende sono interessate<br />
alle merci, non alla correttezza fiscale dei<br />
comportamenti delle loro controparti. La diligenza<br />
aziendale nell’esame del fornitore non può essere<br />
quella di una pattuglia della Guardia di Finanza,<br />
perché l’azienda cliente sta comprando merci, è<br />
interessata alla loro qualità, ai tempi di consegna,<br />
alle modalità di pagamento, al limite alle garanzie<br />
post vendita. Il versamento dell’IVA, nell’ottica<br />
aziendale, ricade esclusivamente nella sfera del<br />
fornitore, ed il coinvolgimento del cliente è solo<br />
un adempimento di diritto amministrativo, svincolato<br />
da una esigenza extrafiscale. Qui l’azienda<br />
non è tenuta a dare rilevanza, per un adempimento<br />
di diritto amministrativo, ad un suo comportamento<br />
gestionale, come avviene per l’IVA sulle vendite<br />
o per le ritenute sugli stipendi (11). Qui c’è<br />
piuttosto un adempimento amministrativo di vigilanza<br />
su aspetti di cui l’azienda non ha conoscenza<br />
legale, e che si estendono alla qualificazione giuridica<br />
del fornitore, al concetto stesso di «fornitore»,<br />
che avviene per fatti concludenti. Chi è in definitiva<br />
«il fornitore», sul piano teorico? Andando<br />
alla sostanza (12), è l’interlocutore dell’azienda. È<br />
l’«entità» in grado di far ottenere all’azienda una<br />
determinata prestazione, e questo basta, senza alcuna<br />
rilevanza su quale sia la relazione giuridicoeconomica<br />
tra lui, che procura questa prestazione,<br />
e chi materialmente la svolge. Se qualcuno interagisce<br />
con il competente organo aziendale, promet-<br />
4/2012<br />
IVA<br />
tendo una prestazione, che viene effettivamente resa<br />
in modo soddisfacente, questo «qualcuno» può<br />
indicare qualsiasi generalità che appaia anche minimamente<br />
verosimile. Non dico come Odisseo,<br />
che indicava a Polifemo «il mio nome è nessuno»,<br />
ma poco ci manca. Tanto è vero che l’interlocutore<br />
può dare indicazioni diverse, tutte credibili, e rispetto<br />
alle quali l’azienda cliente non ha alcun interesse,<br />
né alcun motivo, di fare domande. L’interlocutore<br />
può fatturare una provvigione per il proprio<br />
intervento, e presentare una fattura del fornitore<br />
materiale, con l’invito ad effettuare il pagamento<br />
direttamente a lui. Oppure può fatturare integralmente<br />
l’interlocutore dell’azienda, oppure<br />
ancora indicare che il pagamento sarà effettuato al<br />
fornitore materiale, presso il quale poi si soddisferà<br />
l’interlocutore. Il filo conduttore è che al cliente<br />
non interessa verificare quello che gli comunica il<br />
soggetto che gli ha procurato la prestazione, perché<br />
non ha genuini motivi aziendali per farlo, ai<br />
fini dei propri adempimenti amministrativi. Gli<br />
basta «pagare bene», ma a tal fine è sufficiente essere<br />
certi che l’indicazione del conto corrente bancario<br />
su cui effettuare il bonifico provenga davvero<br />
dall’interlocutore, in modo che il pagamento<br />
abbia efficacia liberatoria.<br />
Ci sono insomma numerose modalità amministrativo-contabili<br />
per presentarsi presso il cliente, tra<br />
le quali i processi verbali di disquisizione (13)<br />
spesso inventano fatturazioni per operazioni inesistenti<br />
su circostanze compiutamente registrate, accampando<br />
però che la fattura fatta da Tizio doveva<br />
essere emessa da Caio, il quale è colpevole quindi<br />
di «omessa fatturazione», verbalizzando rilievi<br />
Note:<br />
(11) Come avviene ad esempio quando all’adempimento aziendale<br />
di registrazione dei ricavi o degli stipendi si accompagnano gli<br />
adempimenti di diritto amministrativo della registrazione dell’IVA<br />
a debito o dell’effettuazione delle ritenute.<br />
(12) E riprendendo le considerazioni già svolte: E. Covino, R. Lupi,<br />
«Cooperazione di più soggetti nella fornitura e operazioni soggettivamente<br />
inesistenti nell’IVA», in Dialoghi Tributari n. 2/2009,<br />
pag. 196.<br />
(13) Vedi R. Lupi, «Parlare senza dire nulla: il contagio sugli Uffici<br />
<strong>tributari</strong>», in questa Rivista a pag. 371.<br />
397
IVA<br />
tortuosi su adempimenti omessi solo in quanto<br />
«effettuati da un altro». Trovare le operazioni non<br />
fatturate, o le fatture fittizie, è complicato, e bisogna<br />
esporsi, valutare. È molto più facile contestare<br />
le operazioni effettive, dicendo che la fattura<br />
emessa doveva essere «emessa da un altro», tanto<br />
per riempire il verbale e le statistiche (è sempre il<br />
solito copione della macchina pubblica italiana intenta<br />
a «comunicare» e «coprirsi»).<br />
Una volta certi che l’indicazione provenga da chi<br />
ha procurato la prestazione, le esigenze puramente<br />
aziendali sono soddisfatte, e subentra una generica<br />
correttezza verso il Fisco, relativa al meccanismo<br />
applicativo dell’IVA.<br />
Alle aziende si chiede cioè, contro le frodi carosello,<br />
una sorveglianza che è già «fiscale», e che travalica<br />
il normale «uso fiscale della gestione aziendale».<br />
Il cliente deve documentare questi rapporti<br />
al Fisco, ma siamo già negli adempimenti di diritto<br />
amministrativo, in relazione ai quali Alessia Vignoli,<br />
in materia di costi black list (14), suggerisce,<br />
giustamente, di far dichiarare all’interlocutore<br />
giuridico, eventualmente beneficiario dei pagamenti,<br />
chi ha materialmente reso la prestazione,<br />
nella stessa fattura. Il cliente ha diritto di veder indicato<br />
nei documenti il materiale prestatore del<br />
servizio ricevuto, e tutte le altre notizie sullo svolgimento<br />
della prestazione, ma non ha il diritto verso<br />
il proprio interlocutore di scegliersi l’emittente<br />
della fattura. Il cliente ha diritto a una documentazione<br />
compatibile con quanto è accaduto, e con la<br />
sostanza del servizio reso, ma l’intestazione di<br />
questa documentazione dipende anche da come le<br />
sue controparti decidono di manifestarsi contabilmente<br />
e giuridicamente.<br />
Per questo i fenomeni descritti nell’articolo che<br />
precede sarebbero sanzionati irragionevolmente<br />
con la stessa pena prevista per le ipotesi di fatture<br />
fittizie, inventate, e di IVA mai versata ad un soggetto<br />
che - nell’id quod plerumque accidit - avrebbe<br />
dovuto effettuarne il versamento.<br />
L’abuso del diritto, se proprio vogliamo usare un<br />
termine che a mio avviso c’entra poco (evocando<br />
temi squisitamente di diritto sull’elusione), riguarda<br />
essenzialmente la detrazione IVA, da parte di<br />
un cliente disattento nei propri «doveri fiscali».<br />
Ma che non si è certo stampato una fattura passiva<br />
col programma Photoshop né comprato una fattura<br />
passiva per prestazioni mai rese (15), né procurato<br />
398<br />
4/2012<br />
dai prestatori materiali, soggetti senza partita IVA,<br />
magari manovali extracomunitari o ricettatori di<br />
merce rubata, una fattura di un «interlocutore giuridico»<br />
che lui mai aveva visto né conosciuto. Per<br />
questo l’art. 60-bis è una norma sensata malata di<br />
perfezionismo, che rischia di bloccarsi proprio in<br />
quanto non chiede direttamente al cliente, ma passa<br />
attraverso una responsabilità solidale col debito<br />
<strong>tributari</strong>o di un soggetto fantasma.<br />
Il riversamento dell’IVA è la sanzione più adeguata,<br />
presupposta nelle sentenze della Corte di giustizia<br />
citata dall’articolo che precede, ove non sia<br />
verosimile l’acquisizione, totale o parziale, del<br />
«tesoretto», ma potremmo dire «del malloppo», da<br />
parte del cliente, interessato solo ad abbassarsi il<br />
prezzo.<br />
C’è anche da chiedersi cosa debba fare il cliente in<br />
caso di «sospetto». Non comprare? Pagare l’IVA e<br />
non detrarsela, ipotizzando che il fornitore, o il<br />
fornitore del fornitore, potrebbe essere un «missing»?<br />
Forse sarebbe il caso di istituzionalizzare<br />
un meccanismo di reverse charge facoltativo, con<br />
coinvolgimento preventivo dell’Amministrazione<br />
finanziaria. Non certo di quella italiana, ma di<br />
quella di un Paese immaginario dove la pubblica<br />
opinione dà fiducia alle istituzioni amministrative<br />
ed esse si assumono responsabilità. Frase che in<br />
quest’Italia paralizzata sembra addirittura una minaccia.<br />
Note:<br />
(14) «Legittima la deduzione se la fattura è stata emessa da un<br />
emissario giuridico del fornitore materiale», in questa Rivista a<br />
pag. 449.<br />
(15) Vedi Fondazione Studi Tributari, R. Lupi, G. Gargiulo, «Tracce<br />
finanziarie delle fatture fittizie e teoria della tassazione», in Dialoghi<br />
Tributari n. 4/2010, pag. 438. L’aspetto più complicato, secondo<br />
il solito gradualismo delle scienze sociali, è quello in cui chi riceve<br />
un servizio «in economia» per risparmiare, utilizzando manodopera<br />
e organizzazione clandestina, si vede consegnare una fattura<br />
senza alcun collegamento con gli interlocutori giuridici e<br />
materiali esecutori del servizio. Il punto è interessante, e vedremo<br />
di tornarci.
Detrazione di «IVA non dovuta»<br />
e «reverse charge»<br />
Senza capire l’oggetto economico del diritto amministrativo delle imposte (detto anche «diritto<br />
<strong>tributari</strong>o») e il riferimento dell’IVA ai consumi, la detrazione IVA diventa una specie di bizzarro<br />
giocherello. Ne derivano rettifiche fiscali senza alcuna utilità, e prive di significato logico, come<br />
quella sulla detrazione indebita di IVA applicata per «troppo scrupolo»: il riferimento al consumo<br />
consente di trovare un criterio piramidale per orientarsi tra le varie regole sulla detrazione,<br />
che in primo luogo si riferisce ai costi e non ai consumi, rendendo necessario valutare in primo<br />
luogo l’inerenza all’attività del soggetto passivo, talvolta specificata dall’indetraibilità oggettiva.<br />
Un passaggio successivo riguarda l’eventuale pro-rata di detrazione a seguito di operazioni<br />
esenti, con la rettifica della detrazione. Su questo sfondo l’eventualità di addebito di IVA non<br />
dovuta appare priva di danno all’Erario, e fonte di rilievi inutilmente fastidiosi, neutralizzati normativamente<br />
solo nell’ipotesi di «reverse charge».<br />
L’applicazione «piramidale»<br />
delle norme sulla detrazione<br />
In senso logico, riferendo l’IVA alla tassazione del<br />
consumo, gli acquisti devono essere prima di tutto<br />
divisi tra quelli riferibili a «costi», per cui l’IVA è<br />
detraibile, e quelli riferibili a «consumi», per cui<br />
l’IVA non è detraibile. La distinzione non è così<br />
netta, tanto è vero che spesso le si affiancano previsioni<br />
sulla cd. indetraibilità oggettiva.<br />
La detrazione per l’acquisto di un’autovettura ad<br />
esempio, non è mai molto tranquilla (1). Infatti,<br />
una volta riconosciuta l’inerenza dell’autovettura<br />
all’attività del soggetto passivo, si devono applicare<br />
le norme sull’indetraibilità oggettiva, che riconoscono,<br />
in linea generale, la detrazione al 40%,<br />
mentre, per quello che riguarda la detrazione piena,<br />
questa è possibile solo a specifiche condizioni,<br />
che ricorrono, ad esempio, nel caso di agenti o<br />
rappresentanti di commercio.<br />
Anche per questi soggetti, peraltro, deve applicarsi<br />
la «ghigliottina» dell’inerenza.<br />
Ciò significa che se per un agente di commercio<br />
esercente l’attività in forma individuale e senza<br />
dipendenti è possibile la detrazione dell’imposta<br />
di Ciro D’Ardia, Raffaello Lupi<br />
Il pericoloso «intreccio» tra detrazione e «reverse charge»<br />
Ciro D’Ardia<br />
in misura piena, ma limitatamente ad una autovettura,<br />
non vi sarà alcuna detrazione per le autovetture<br />
successive alla prima. Ciò in quanto il principio<br />
di inerenza risulta «tranciante» per cui, se non<br />
viene superato, è inutile il passaggio all’ulteriore<br />
«livello», vale a dire quello di indetraibilità oggettiva.<br />
Il primo passaggio logico, quello tra costi e consumi,<br />
si articola quindi nei due livelli del principio<br />
generale di inerenza, e delle sue specificazioni in<br />
termini di indetraibilità oggettiva. Tralasciamo in<br />
questa sede gli acquisti relativi all’attività di impresa,<br />
ma riferiti a «non operazioni», come una fusione<br />
societaria, o la percezione di un dividendo, o<br />
il rimborso di un prestito obbligazionario, o la gestione<br />
di attività in massima parte «sussidiate» da<br />
enti pubblici con contributi non aventi natura di<br />
corrispettivi; su tali questioni, per fare il punto a<br />
distanza di anni dalla riforma del 1997, che fece<br />
Ciro D’Ardia - Esperto <strong>tributari</strong>o - Pubblicista<br />
Nota:<br />
(1) Art. 19-bis1, lett. c), del D.P.R. n. 633/1972.<br />
IVA<br />
4/2012 399
IVA<br />
pensare a queste distinzioni, sarebbe opportuno un<br />
altro intervento (2).<br />
Le operazioni esenti<br />
e la rettifica della detrazione<br />
Un ulteriore passaggio, successivo a quelli che<br />
precedono, riguarda le operazioni esenti, ma senza<br />
diritto a detrazione (si parla in questo caso di indetraibilità<br />
soggettiva).<br />
Sempre restando nell’esempio dell’autovettura acquistata<br />
da un agente di commercio, può aversi il<br />
superamento del primo livello, relativo all’inerenza,<br />
poi può essere superato il secondo livello, concernente<br />
l’indetraibilità oggettiva, ma può accadere<br />
che ci si scontri con il terzo livello, quello relativo<br />
all’applicazione del pro-rata. La cosa può accadere,<br />
ad esempio, nel caso di un promotore finanziario,<br />
il quale, pur avendo in astratto diritto<br />
alla detrazione piena per un’autovettura (a seguito<br />
del superamento del primo e del secondo livello)<br />
di fatto non può esercitarla a causa dell’applicazione<br />
di un pro-rata di detrazione ridotto determinato<br />
dall’effettuazione di operazioni esenti.<br />
Una volta «superati» i primi tre livelli, bisogna verificare<br />
l’eventuale presenza di obblighi di rettifica<br />
della detrazione, previsti al fine di rispettare il<br />
principio di afferenza, vale a dire il principio in<br />
base al quale la detrazione è possibile sempreché i<br />
beni o servizi vengano utilizzati in operazioni soggette<br />
ad imposta.<br />
In particolare, le norme sulla rettifica della detrazione<br />
si rendono necessarie in quanto la detrazione<br />
è esercitata immediatamente, in una visione prospettica,<br />
senza attendere l’effettiva utilizzazione<br />
dei beni e dei servizi.<br />
Peraltro, se i beni o i servizi vengono utilizzati in<br />
maniera differente da quella in base al quale era<br />
stata esercitata la detrazione, deve essere effettuata<br />
una rettifica della detrazione originaria, rettifica<br />
che può essere sia a favore che a sfavore del contribuente.<br />
L’erronea applicazione dell’imposta<br />
Le indagini sul diritto di detrazione dell’imposta si<br />
complicano nel momento in cui si hanno operazioni<br />
erroneamente assoggettate ad IVA.<br />
È prassi diffusa, nei rapporti tra soggetti passivi,<br />
che nel caso di dubbio sull’applicazione dell’IVA<br />
ad una determinata operazione, questa venga co-<br />
400<br />
4/2012<br />
munque applicata ovvero addebitata con l’aliquota<br />
più elevata. Quanto detto in relazione al fatto che,<br />
secondo il pensiero dei soggetti coinvolti nell’operazione,<br />
«tanto poi l’IVA viene detratta».<br />
Il pensiero su esposto, peraltro, è fortemente fallace,<br />
ciò in quanto, se da una parte l’imposta indebitamente<br />
applicata deve essere versata dal cedente/prestatore<br />
che effettua l’operazione, dall’altra<br />
l’imposta stessa non risulta detraibile da parte del<br />
cessionario/committente (3).<br />
Quando detto significa che comunque deve esserci<br />
molta cautela nell’applicazione dell’imposta e nell’individuazione<br />
dell’aliquota. Anche una insufficiente<br />
applicazione di imposta porterebbe conseguenze<br />
indesiderate a carico di entrambi i soggetti<br />
che intervengono nell’operazione.<br />
A carico del cedente/prestatore vi sarebbe una<br />
contestazione per omessa fatturazione, mentre a<br />
carico del cessionario/committente vi sarebbe una<br />
contestazione per omessa regolarizzazione della<br />
fattura.<br />
L’applicazione del «reverse charge»<br />
e l’IVA non dovuta<br />
In alcuni settori, l’IVA non deve essere applicata<br />
dal cedente/prestatore, bensì dal cessionario/committente<br />
mediante reverse charge, se soggetto<br />
IVA.<br />
Le ragioni sono quelle, ben note, di combattere le<br />
Note:<br />
(2) Anche se in linea di principio sembra che si stia assestando<br />
l’idea secondo cui, per la detrazione dell’IVA, è sufficiente una<br />
inerenza all’attività.<br />
(3) Quanto detto è stato stabilito, sia dalla prassi, sia dalla giurisprudenza<br />
nazionale, sia da quella comunitaria. Per quanto riguarda<br />
la prassi si vedano le risoluzioni 7 dicembre 1983, n. 343376 e<br />
28 gennaio 1986, n. 406888, nonché la circolare 13 marzo 2009,<br />
n. 8/E, par. 6.9, tutte in Banca Dati BIG Suite, IPSOA. Per la giurisprudenza<br />
nazionale, si vedano le sentenze della Corte di cassazione<br />
10 giugno 1998, n. 5733; 26 ottobre 2001, n. 13222; 15 ottobre<br />
2001, n. 12547; 27 giugno 2001, n. 8786; 26 marzo 2003, n.<br />
4419, in GT - Riv. giur. trib. n. 11/2003, pag. 1063, con commento di<br />
M. del Vaglio; 5 giugno 2003, n. 8959; 30 maggio 2005, n. 11457; 25<br />
gennaio 2008, n. 1607, tutte in Banca Dati BIG Suite, IPSOA. Per<br />
quanto concerne le sentenze della Corte di giustizia UE si deve<br />
fare riferimento alle sentenze 13 dicembre 1989, causa C-342/87,<br />
«Genius-Holding»; 15 marzo 2007, causa C-35/05, «Reemtsma»,<br />
in GT - Riv. giur. trib. n. 7/2007, pag. 563, con commento di M. Logozzo<br />
e in Banca Dati BIG Suite, IPSOA. Per approfondimenti si<br />
veda C. D’Ardia, «“Recupero” dell’IVA erroneamente addebitata»,<br />
in L’IVA n. 5/2011, pag. 35.
frodi carosello IVA in taluni settori (4). In questo<br />
caso il dubbio non riguarda l’aliquota applicabile<br />
(5), ma proprio il soggetto tenuto all’applicazione<br />
dell’imposta.<br />
Ad esempio, nel caso di compravendita di rottami<br />
(6) tra soggetti IVA, può aversi il dubbio se i rottami<br />
compravenduti rientrino o meno nell’ambito di<br />
applicazione del reverse charge, con conseguenti<br />
dubbi sul soggetto tenuto all’applicazione dell’imposta.<br />
Altra ipotesi, estremamente frequente nella pratica,<br />
è quella relativa all’applicazione del reverse<br />
charge nelle prestazioni di subappalto (7).<br />
Anche qua le incertezze e i dubbi abbondano, testimoniati<br />
dall’abbondante prassi emanata sull’argomento<br />
(8).<br />
Limitandoci all’esame delle prestazioni di subappalto<br />
in edilizia, possono aversi due ipotesi di erronea<br />
applicazione dell’imposta:<br />
– un’operazione deve essere assoggettata ad IVA<br />
dal fornitore, ma viene emessa fattura senza applicazione<br />
di imposta, con conseguente assoggettamento<br />
tramite reverse charge da parte del committente;<br />
– un’operazione deve essere assoggettata ad IVA<br />
dal committente tramite reverse charge, ma viene<br />
emessa fattura con applicazione di imposta da parte<br />
del prestatore.<br />
È evidente peraltro che, siccome il reverse charge<br />
è stato introdotto al fine di evitare le frodi spesso<br />
messe in atto nel settore (9), la sua applicazione in<br />
luogo del normale assoggettamento ad imposta<br />
non dovrebbe essere sintomo di frode.<br />
Di contro, l’ordinario assoggettamento ad IVA di<br />
un’operazione in luogo dell’applicazione del reverse<br />
charge potrebbe essere il sintomo di una frode.<br />
Eppure la fattispecie resta scoperta rispetto alle<br />
disposizioni specifiche relative all’erronea applicazione<br />
dell’IVA al posto del reverse charge, di<br />
cui diremo tra un attimo. Se infatti qualcuno applica<br />
erroneamente il reverse charge resta teoricamente<br />
applicabile la normativa ordinaria, con rischio<br />
di sanzioni per omessa fatturazione, salve<br />
tuttavia alcune aperture amministrative (10).<br />
Nessun dubbio particolare sussiste, invece, per<br />
l’applicazione delle sanzioni speciali nel caso di<br />
omessa applicazione del reverse charge ed erronea<br />
applicazione dell’IVA in maniera ordinaria; in<br />
questo caso, di applicazione dell’imposta in ma-<br />
IVA<br />
Note:<br />
(4) Si fa in genere una ripartizione tra reverse charge «interno»<br />
previsto appunto per combattere le frodi e reverse charge «esterno»<br />
necessario al fine di assoggettare ad imposta talune operazioni.<br />
Un esempio di reverse charge «esterno» è quello relativo<br />
agli acquisti comunitari.<br />
(5) Ovvero sul trattamento di esenzione.<br />
(6) Il reverse charge per i rottami è previsto dall’art. 74, commi<br />
settimo ed ottavo, del D.P.R. n. 633/1972.<br />
(7) Art. 17, sesto comma, lett. a), del D.P.R. n. 633/1972.<br />
(8) Dall’introduzione del reverse charge nel subappalto in campo<br />
edilizio, avvenuta dal 2007 ad oggi, sono stati emanati oltre 25<br />
documenti di prassi.<br />
(9) Con soggetti subappaltatori che addebitavano l’IVA ma si «dimenticavano»<br />
di versarla.<br />
(10) Previsto dall’art. 6, comma 9-bis, del D.Lgs. n. 471/1997. Per<br />
approfondimenti si veda C. D’Ardia, «Regime sanzionatorio e “reverse<br />
charge” nel settore dell’edilizia», in L’IVA n. 11/2009, pag.<br />
29, nonché «“Reverse charge”: le ipotesi più frequenti di regolare<br />
(e irregolare) applicazione», ivi n. 12/2011, pag. 23.<br />
Il documento di prassi nel quale si intravede l’apertura citata è la circolare<br />
19 febbraio 2008, n. 12/E (in Banca Dati BIG Suite, IPSOA), nella<br />
quale al par. 10.2. viene detto, in relazione alla «normale» procedura<br />
di regolarizzazione prevista dall’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n.<br />
471/1997, che la stessa «continua a trovare applicazione per le violazioni<br />
degli adempimenti previsti per fattispecie diverse da quelle cui<br />
torna astrattamente applicabile il regime dell’inversione contabile».<br />
Tenendo conto della precisazione fornita dalla circolare n.<br />
12/2008, si ritiene quindi che:<br />
– nell’ipotesi di operazioni per le quali non vi sono dubbi sul fatto<br />
che l’IVA debba essere applicata in maniera ordinaria dal cedente<br />
o prestatore, sono applicabili sia le normali procedure di<br />
regolarizzazione, sia le normali previsioni sanzionatorie;<br />
– nel caso di operazioni per le quali vi sono dubbi in relazione all’applicazione<br />
dell’imposta tramite reverse charge o in maniera ordinaria,<br />
sono applicabili sia le specifiche procedure di regolarizzazione<br />
(esplicitate, in particolare, nella risoluzione 29 dicembre<br />
2011, n. 140 e nella circolare 21 giugno 2011, n. 28/E, par. 1.3, in<br />
Banca Dati BIG Suite, IPSOA), sia lo speciale regime sanzionatorio.<br />
Ad esempio, per una «normale» cessione interna di beni (es: mobili<br />
da ufficio ceduti ad un soggetto IVA) nel caso di applicazione<br />
del reverse charge in luogo dell’imposta da parte del cedente devono<br />
applicarsi le ordinarie procedure di regolarizzazione e le<br />
normali previsioni sanzionatorie.<br />
Di contro, nel caso di prestazioni di subappalto in campo edilizio,<br />
considerati i numerosi dubbi che sussistono sulle modalità di applicazione<br />
dell’IVA, si può fondatamente sostenere l’applicabilità<br />
delle particolari procedure di regolarizzazione e dello speciale<br />
regime sanzionatorio.<br />
È inoltre da tenere presente che anche lo stesso art. 6, comma 9-bis,<br />
del D.Lgs. n. 471/1997 stabilisce, al terzo periodo, che «qualora l’imposta<br />
sia stata assolta, ancorché irregolarmente, dal cessionario o<br />
committente ovvero dal cedente o prestatore …, la sanzione amministrativa<br />
è pari al 3 per cento dell’imposta irregolarmente assolta».<br />
È evidente che l’unica ipotesi di assolvimento irregolare dell’imposta<br />
da parte del cessionario o committente si può avere nel caso di<br />
un’operazione per la quale l’imposta doveva essere normalmente<br />
addebitata dal cedente o prestatore, ma poi l’imposta è stata assolta<br />
(per l’appunto irregolarmente) tramite reverse charge dal cessionario<br />
o committente.<br />
4/2012 401
IVA<br />
niera ordinaria in luogo dell’applicazione del reverse<br />
charge, è comunque ammessa la detrazione<br />
dell’imposta, sempreché l’imposta sia stata versata<br />
dal cedente/prestatore (11) e ferma restando una<br />
sanzione pari al 3% dell’imposta indebitamente<br />
applicata (12).<br />
Un passaggio successivo, con una complicazione<br />
data dall’intreccio di due istituti semplici, è l’erronea<br />
applicazione dell’imposta nei modi ordinari,<br />
ma con una aliquota erroneamente maggiorata, rispetto<br />
a quella ritenuta applicabile dall’Ufficio.<br />
L’imposta è totalmente indetraibile? L’imposta è<br />
detraibile per espressa previsione delle norme sanzionatorie<br />
in materia di reverse charge? L’imposta<br />
è detraibile solo per la quota corrispondente alla<br />
giusta aliquota? La soluzione più sensata, per simmetria<br />
con quanto accade nei modi ordinari, senza<br />
far interferire il reverse charge con la erronea applicazione<br />
dell’imposta, mi sembra l’ultima. Cioè<br />
lo spacchettamento dell’imposta in due quote, una<br />
detraibile e l’altra indetraibile-rimborsabile, nei<br />
Ha proprio ragione l’Autore che precede, in quanto<br />
nella patria delle contestazioni interpretative<br />
sulla ricchezza registrata, la detrazione IVA può<br />
essere davvero irta di ostacoli. È un riflesso della<br />
mancata distinzione, nonostante ci siano quasi<br />
duecento accademici di diritto <strong>tributari</strong>o, tra ricchezza<br />
non registrata e maggiore imposta accertata<br />
(14). Il che consente, giustamente, alle istituzioni<br />
di presentarsi all’opinione pubblica, anche in questi<br />
casi, dove non è stato nascosto un centesimo,<br />
né c’è alcun danno all’Erario, dichiarando di avere<br />
scoperto «indebite detrazioni IVA» e «omesse fatturazioni».<br />
Nel primo caso, delle «indebite detrazioni»<br />
c’è solo la detrazione, da parte del cliente,<br />
di IVA scrupolosamente applicata dal fornitore.<br />
Nel secondo caso (omesse fatturazioni!) c’è solo<br />
la convinzione del contribuente che una operazione<br />
registrata, palese, tracciata, contabilizzata, ecc.<br />
fosse giuridicamente esclusa da un’IVA, economicamente<br />
in genere del tutto indifferente. Nascono<br />
402<br />
4/2012<br />
termini già esaminati su Dialoghi Tributari (13),<br />
che indicherà più avanti Lupi.<br />
Note:<br />
(11) Il che vuol dire che non ci siano state «frodi» da parte del<br />
cedente prestatore, e che esso non sia quindi un missing trader<br />
confermando che la reazione ordinamentale concettualmente più<br />
corretta al fenomeno delle frodi carosello è quella del disconoscimento<br />
della detrazione (indicata da E. Covino, R. Lupi, «Frodi<br />
carosello tra responsabilità solidale e disconoscimento della detrazione»,<br />
in questo numero della Rivista a pag. 394), anziché la<br />
fantomatica e farraginosa solidarietà di cui all’art. 60-bis del D.P.R.<br />
n. 633/1972.<br />
(12) Ai sensi di quanto previsto dall’art. 6, comma 9-bis, quarto<br />
periodo, del D.Lgs. n. 471/1997, il prestatore ed il committente sono<br />
obbligati in solido al pagamento della sanzione. Vi è inoltre responsabilità<br />
solidale anche nel caso di irregolare addebito dell’imposta<br />
da parte del prestatore e successivo mancato versamento<br />
della stessa. Naturalmente la detrazione dell’imposta non è subordinata<br />
al pagamento della sanzione, che resta applicabile, secondo<br />
le regole generali, solo in sede di controllo da parte del Fisco.<br />
(13) E. Covino, «Cambiamenti interpretativi sul diniego di detrazione<br />
IVA e sul termine per la richiesta di rimborso (il caso del<br />
marchio)», in Dialoghi Tributari n. 5/2009, pag. 545.<br />
Dalla «truffa ai danni dello Stato» alla «fuffa ai danni<br />
del contribuente»: le indebite detrazioni e le omesse applicazioni<br />
dell’IVA su ricchezza registrata, senza danni all’Erario<br />
Raffaello Lupi<br />
in questo modo, in omaggio al deresponsabilizzante<br />
concetto di «governo della legge» (15), vere e<br />
proprie rettifiche-farsa, fondate sull’uso equivoco<br />
di espressioni come «indebita detrazione» e<br />
«omessa fatturazione», pesanti come pietre nel clima<br />
di caccia alle streghe innescato dalle grossolane<br />
spiegazioni dell’evasione fiscale in termini di<br />
Note:<br />
(14) Cosa che abbiamo cominciato a fare noi, nel nostro piccolo,<br />
dal n. 1/2012 di Dialoghi, mettendo specificamente a fuoco il punto<br />
in «Maggiore imposta accertata non sempre significa ricchezza<br />
non registrata», pag. 7. Certo, avevo parlato anche prima della differenza<br />
tra ricchezza non registrata ed evasione interpretativa,<br />
ma l’ambiguità dell’espressione «maggiore imposta accertata» è<br />
stata messa così brevemente in chiaro solo in quella sede. Meglio<br />
tardi che mai.<br />
(15) Degenerazione dello stato di diritto e vero e proprio «oppio<br />
delle amministrazioni pubbliche», prima che dei popoli (cfr.<br />
l’apposito post su www.organizzazionesociale.com nonché R. Lupi,<br />
Manuale giuridico di scienza delle finanze, Dike Giuridica, 2012,<br />
par. 6.5).
onestà e disonestà. L’esaltazione manichea, il desiderio<br />
di un capro espiatorio da punire, impediscono<br />
di valorizzare la mancanza di qualsiasi danno<br />
erariale in questi casi, e la totale indifferenza, nel<br />
meccanismo dell’IVA, dell’applicazione del tributo<br />
o meno. La pressione mediatica sulla «lotta<br />
all’evasione», contro i «traditori della patria» (16)<br />
e la necessità di alimentare la statistica di controlli,<br />
mettono in secondo piano la totale irrilevanza<br />
dell’applicazione del reverse charge, oppure dell’IVA<br />
ordinaria, di una aliquota regolare, oppure<br />
maggiorata, oppure minorata. In una situazione di<br />
simmetria con le controparti, non cambia assolutamente<br />
nulla, ma la furia iconoclasta trasforma una<br />
sciocchezza in un incubo. Gli Uffici se ne rendono<br />
conto, ma hanno paura di apparire morbidi, poco<br />
convinti della loro sacra missione contro Satana,<br />
timorosi di un collega che faccia valere la concezione<br />
tirannica del «governo della legge» per mostrarsi<br />
più zelante, timorosi di essere considerati<br />
«amici degli evasori» perché «ragionevoli»; l’idea<br />
che il termine «ragionevole» possa essere usato in<br />
senso dispregiativo ricorda quanto l’appiattimento<br />
sui «materiali» imponga di portare il cervello all’ammasso,<br />
trasformando i funzionari in automi,<br />
del tutto indifferenti all’utilità sostanziale, alla<br />
reale sensatezza ed opportunità delle loro azioni.<br />
Qui non si tratta di rimettere in discussione l’organizzazione<br />
politica dello stato o della spesa pubblica,<br />
ma solo di trovare in concreto la soluzione<br />
più rispondente alla banalissima logica dell’IVA.<br />
Non serve un filosofo, ma solo un tecnico che non<br />
abbia paura di pensare. Invece i nostri Uffici pubblici<br />
per qualsiasi cosa, non solo in materia <strong>tributari</strong>a,<br />
hanno bisogno di «coperture normative», di<br />
essere telecomandati e coperti da una legge, mettendo<br />
in cantina il buonsenso e in soffitta il cervello,<br />
come confermano le dispersive e prolisse disquisizioni,<br />
che analizziamo su questo numero di<br />
Dialoghi (17). Su queste premesse le parole «indebita<br />
detrazione» e omessa fatturazione pesano come<br />
pietre, non importa se per IVA applicata in eccesso<br />
oppure comunque detraibile. Anche il reverse<br />
charge non applicato o indebitamente applicato<br />
esprime la disumanizzazione del diritto amministrativo<br />
dei tributi. Ne parleremo sempre più spesso<br />
su Dialoghi, anche se ciò non dipende dagli<br />
operatori, ma ha radici nel disorientamento culturale<br />
su cui mi sono soffermato altre volte (18).<br />
4/2012<br />
IVA<br />
Questa rigidità ostacola interventi efficaci sulle<br />
operazioni realmente pericolose, come sarebbe<br />
una indebita applicazione del reverse charge nei<br />
confronti di clienti intenzionati a nascondere le<br />
successive operazioni «a valle» sgravandosi quindi<br />
dell’IVA a monte (19).<br />
In altri Paesi il problema dell’IVA non dovuta, in<br />
quanto addebitata in eccesso, è verosimilmente risolto<br />
con buonsenso, riconoscendo la natura «solo<br />
formale» della violazione e quindi escludendo le<br />
sanzioni, verificando che non ci siano danni per<br />
l’Erario, che siano state rispettate le simmetrie<br />
versamento/detrazione, ed omettendo - in caso positivo<br />
- di effettuare un recupero che sarebbe solo<br />
una «partita di giro». Perché il principio dell’affidamento,<br />
della buona fede, della collaborazione<br />
tra contribuente e Fisco, impedisce in questi casi<br />
di applicare sanzioni, senza che ci sia bisogno di<br />
un Master <strong>tributari</strong>o, ma nemmeno di un diritto <strong>tributari</strong>o.<br />
Basta il buonsenso, la riflessione, non<br />
atrofizzata dalla vincolatezza, dall’indisponibilità<br />
del credito <strong>tributari</strong>o, e da tutto il tacabanda dietro<br />
cui si cela solo il desiderio di coprirsi, e qualche<br />
volta di coprire sporchi affari.<br />
Mettiamo pure, per rispondere alla domanda<br />
dell’Autore che precede, che l’erronea applicazione<br />
dell’IVA, invece del reverse charge, avvenga<br />
con aliquota maggiorata. In un paese anche non<br />
«civile», ma almeno «sensato» il diritto al rimborso<br />
del fornitore scatta a decorrere da quando l’Ufficio<br />
<strong>tributari</strong>o nega la detrazione dell’IVA al<br />
cliente. E siccome, come afferma la Corte di giu-<br />
Note:<br />
(16) Sono parole del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio,<br />
mentre il Presidente del Consiglio rilascia interviste secondo<br />
cui «sull’evasione l’Italia è come in stato di guerra». Vorremmo<br />
sapere contro chi. Forse operatori economici che, davanti a<br />
uno Stato incapace di chiedere le imposte dove le aziende non<br />
arrivano, fanno quello che tutti farebbero al posto loro? Sono<br />
questi i «nemici della patria»?. Rinvio a www.giustiziafiscale.com.<br />
per rilevare come questo terrorismo mediatico serva solo ad avvelenare<br />
il clima sociale.<br />
(17) R. Lupi, «Parlare senza dire nulla: il contagio sugli Uffici <strong>tributari</strong>»,<br />
in questa Rivista a pag. 371.<br />
(18) R. Lupi, Manuale professionale di diritto <strong>tributari</strong>o, IPSOA, 2011;<br />
Id., Manuale giuridico di scienza delle finanze, cit., pag. 270, dedicata<br />
al fallimento dell’accademia.<br />
(19) Potrebbe essere uno dei sistemi grazie ai quali l’IVA a monte<br />
sparisce, secondo le riflessioni di F. Gricia, R. Lupi, «Ricchezza<br />
non registrata e crisi economica: mercatini e ambulanti contro<br />
grande distribuzione», in questa Rivista a pag. 361.<br />
403
IVA<br />
stizia, «non si tratta di IVA», ma di un normale indebito,<br />
il termine di presentazione dell’istanza amministrativa<br />
di rimborso è quello ordinario, neppure<br />
quello biennale di cui al decreto sul contenzioso<br />
<strong>tributari</strong>o, che comunque inizia (ripetiamo) a decorrere<br />
dal momento in cui si è definita la controversia<br />
sull’applicabilità o meno dell’IVA.<br />
Solo in quel contesto il fornitore ha la certezza di<br />
aver pagato un tributo divenuto successivamente<br />
indebito, e il Fisco evita il rischio di rimborsare<br />
un’IVA che il cliente, nel frattempo, ha detratto,<br />
essendo vittorioso nel relativo contenzioso. È la riproposizione,<br />
nell’IVA, degli schemi concettuali<br />
404<br />
4/2012<br />
ormai affermatisi nelle imposte sui redditi a proposito<br />
di rettifiche sull’imputazione a periodo di<br />
costi e ricavi. Per quanto concerne l’IVA indebitamente<br />
versata, il fornitore sarebbe messo al corrente<br />
della contestazione da parte del cliente, intenzionato<br />
a recuperare a suo carico l’IVA non dovuta.<br />
Il coordinamento tra le due posizioni, del cedente<br />
e del cessionario, resta comunque una stella<br />
polare in proposito, secondo la teoria delle simmetrie<br />
della tassazione attraverso le aziende. Nei<br />
prossimi numeri vedremo di sistematizzare le prese<br />
di posizione comunitarie nel frattempo sopravvenute<br />
in materia di IVA non dovuta.
Tributi<br />
locali<br />
L’abitazione principale nell’IMU:<br />
cosa cambia davvero rispetto all’ICI?<br />
Dopo una breve parentesi di quattro anni la «prima casa» è stata assoggettata di nuovo a una<br />
imposta immobiliare ordinaria. Dall’ICI all’IMU, tuttavia, il «ritorno» al passato per gli italiani<br />
non è stato indolore; sono infatti aumentate le aliquote, diminuite le fattispecie agevolabili e incrementati<br />
in modo esponenziale i dubbi su alcuni profili «border line» risolti nella precedente<br />
disciplina e lasciati all’inventiva degli interpreti in quella attuale. Un caso particolare riguarda la<br />
questione normativa della definizione stessa di prima casa con riflessi a dir poco paradossali.<br />
Il formalismo della «prima casa»<br />
Edoardo Marchetti<br />
Dopo l’introduzione dell’imposta municipale propria,<br />
l’ultima «linea di difesa» per i contribuenti<br />
nei confronti del Fisco sembra essere rappresentata<br />
dalla «prima casa» perché, nonostante le nuove<br />
disposizioni ne abbiano nuovamente disposto l’imponibilità<br />
(1), questa particolare categoria di immobili<br />
sconta la suddetta imposta in misura ridotta<br />
e può fruire di diverse agevolazioni. L’aliquota<br />
dell’imposta, infatti, è dello 0,4% per l’abitazione<br />
principale e le relative pertinenze, suscettibile di<br />
riduzione (ma anche di aumento) di 0,2 punti percentuali<br />
(2), mentre risulta dello 0,76% quella ordinariamente<br />
applicabile quale aliquota di base. La<br />
disciplina della nuova imposta prevede anche che<br />
«dall’imposta dovuta per l’unità immobiliare adibita<br />
ad abitazione principale del soggetto passivo e<br />
per le relative pertinenze, si detraggono, fino a<br />
concorrenza del suo ammontare, euro 200 rapportati<br />
al periodo dell’anno durante il quale si protrae<br />
tale destinazione; se l’unità immobiliare è adibita<br />
ad abitazione principale da più soggetti passivi, la<br />
detrazione spetta a ciascuno di essi proporzionalmente<br />
alla quota per la quale la destinazione medesima<br />
si verifica». In sede di conversione (3) del<br />
D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, poi, è stato disposto<br />
che «per gli anni 2012 e 2013, la detrazione … è<br />
maggiorata di 50 euro per ciascun figlio di età non<br />
superiore a ventisei anni, purché dimorante abitualmente<br />
e residente anagraficamente nell’unità<br />
di Edoardo Marchetti, Raffaello Lupi<br />
immobiliare adibita ad abitazione principale.<br />
L’importo complessivo della maggiorazione, al<br />
netto della detrazione di base, non può superare<br />
l’importo di euro 400» (4). Data la destinazione ai<br />
Comuni del gettito derivante dall’IMU riferibile<br />
alla «prima casa», infine, il legislatore ha previsto<br />
la facoltà per gli stessi di «disporre l’elevazione<br />
dell’importo della detrazione, fino a concorrenza<br />
dell’imposta dovuta, nel rispetto dell’equilibrio di<br />
bilancio» (5). La «prima casa», dunque, potrebbe<br />
anche non scontare alcuna imposta se i Comuni<br />
con un bilancio solido decidono di elevare l’importo<br />
della detrazione prevista. Data la più favorevole<br />
disciplina è facile prevedere il contenzioso<br />
che sorgerà tra i contribuenti che cercheranno di<br />
estenderne, per quanto possibile, la portata applicativa<br />
e le Amministrazioni comunali che, per ov-<br />
Note:<br />
(1) L’art. 13, comma 2, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito,<br />
con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 ha infatti<br />
previsto che «l’imposta municipale propria ha per presupposto<br />
il possesso di immobili di cui all’art. 2 del decreto legislativo<br />
30 dicembre 1992, n. 504, ivi comprese l’abitazione principale e le<br />
pertinenze della stessa». Il D.L. 27 maggio 2008, n. 93, convertito,<br />
con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126, aveva invece<br />
escluso l’applicazione dell’ICI per l’abitazione principale.<br />
(2) Vedi art. 13, comma 7, del D.L. n. 201/2011.<br />
(3) Legge 22 dicembre 2011, n. 214.<br />
(4) Vedi art. 13, comma 10, del D.L. n. 201/2011.<br />
(5) Vedi art. 13, comma 10, del D.L. n. 201/2011.<br />
4/2012<br />
405
Tributi<br />
locali<br />
vi motivi di gettito, si adopereranno in senso opposto,<br />
con notevoli complessità nel controllare un<br />
territorio amplissimo. Il prevedibile contrasto poi<br />
risulterà certamente agevolato dal dato letterale<br />
della disposizione che individua l’abitazione principale<br />
- che non brilla per chiarezza espositiva - e<br />
dal rapporto tra la soluzione adottata ai fini IMU e<br />
quella riferibile alla previgente ICI, soprattutto alla<br />
luce dei chiarimenti forniti riguardo a quest’ultima<br />
dalla giurisprudenza.<br />
Individuazione dell’abitazione principale<br />
Per quanto riguarda l’individuazione dell’abitazione<br />
principale, la normativa IMU fa riferimento<br />
all’«immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio<br />
urbano come unica unità immobiliare nella quale<br />
il possessore e il suo nucleo familiare dimorano<br />
abitualmente e risiedono anagraficamente» (6). Se<br />
dovessimo limitarci ad un’analisi del dato letterale<br />
della disposizione, dunque, l’abitazione principale<br />
ai fini IMU sembrerebbe identificata esclusivamente<br />
attraverso l’unica unità immobiliare risultante dal<br />
dato catastale. Questa interpretazione restrittiva del<br />
concetto di abitazione principale, poi, sembrerebbe<br />
ulteriormente avvalorata dalle modificazioni apportate<br />
alla normativa di riferimento dalla legge di conversione<br />
del decreto sulle cd. semplificazioni fiscali<br />
(7). In quella sede è stato infatti precisato che «nel<br />
caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano<br />
stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica<br />
in immobili diversi situati nel territorio comunale,<br />
le agevolazioni per l’abitazione principale<br />
e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare<br />
si applicano per un solo immobile». Anche<br />
in questo caso, dunque, il legislatore, con l’intento<br />
di scongiurare una pianificazione fiscale attraverso<br />
la predisposizione di residenze e dimore fittizie, ha<br />
limitato la possibilità di godere della disciplina agevolativa<br />
ad un solo immobile tra i diversi posseduti<br />
nel territorio comunale dal nucleo familiare, nonostante<br />
in ciascuno di essi risieda e dimori un diverso<br />
componente dello stesso nucleo.<br />
L’unicità dell’unità immobiliare contenuta nella<br />
definizione generale e il riferimento al solo immobile<br />
presente nella limitazione della disciplina agevolativa<br />
riguardo al nucleo familiare sembrerebbero<br />
non lasciare dubbi sulla volontà del legislatore<br />
di introdurre un’interpretazione restrittiva del concetto<br />
di abitazione principale.<br />
406<br />
4/2012<br />
Limitarsi ad un’analisi letterale della norma per risolvere<br />
i problemi di applicazione della disciplina<br />
a fattispecie particolari, come nell’ipotesi di unità<br />
immobiliari catastalmente distinte, ma effettivamente<br />
unite, sarebbe però riduttivo.<br />
Non si può infatti ignorare la disciplina dell’abitazione<br />
principale adottata nella precedente versione<br />
dell’imposta (ICI) e come in quella sede era stata<br />
risolta la suddetta problematica.<br />
La disciplina dell’imposta municipale propria, infatti,<br />
pur presentando notevoli elementi distintivi<br />
rispetto all’ICI, ne riprende i tratti distintivi e si<br />
pone rispetto ad essa senza soluzione di continuità.<br />
Dal punto di vista del dato letterale della norma,<br />
non sembrano esservi sostanziali differenze<br />
tra la normativa IMU e quella ICI, posto che ai fini<br />
di quest’ultima imposta «per fabbricato si intende<br />
l’unità immobiliare iscritta o che deve essere<br />
iscritta nel catasto edilizio urbano» (8) e che per<br />
abitazione principale si fa riferimento a «quella di<br />
residenza anagrafica», «nella quale il contribuente,<br />
che la possiede a titolo di proprietà usufrutto o altro<br />
diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente»<br />
(9). Riguardo all’imposta comunale<br />
sugli immobili, tuttavia, la giurisprudenza era<br />
giunta a conclusioni diverse rispetto a quelle che<br />
sembravano poter essere formulate guardando al<br />
solo dato letterale della norma. La Corte di cassazione,<br />
infatti, in una serie di sentenze (10), aveva<br />
ritenuto che le distinte unità, purché costituenti effettivamente<br />
un’unica struttura abitativa, avrebbero<br />
dovuto essere considerate come una sola abitazione<br />
principale. Estendere sic et simpliciter le<br />
conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza in materia<br />
di ICI anche ai fini IMU, sulla base della sostanziale<br />
identità della definizione dell’abitazione<br />
principale adottata, e - conseguentemente - superare<br />
l’interpretazione meramente letterale della definizione<br />
normativa ora applicabile, però, non è così<br />
Note:<br />
(6) Vedi art. 13, comma 2, del D.L. n. 201/2011, così come modificato<br />
dall’art. 4, comma 5, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito,<br />
con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44.<br />
(7) Vedi art. 4, comma 5, del D.L. n. 16/2012.<br />
(8) Vedi art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n.<br />
504.<br />
(9) Vedi art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 504/1992.<br />
(10) Cfr. Cass., Sez. trib., 29 ottobre 2008, n. 25902, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA; Id., 9 dicembre 2009, n. 25729, ivi.
agevole come potrebbe sembrare a prima vista. Al<br />
riguardo, particolarmente interessanti appaiono le<br />
argomentazioni utilizzate dal Supremo Collegio<br />
per giungere alla suddetta conclusione. La Corte di<br />
cassazione (11), infatti, aveva motivato l’interpretazione<br />
estensiva del concetto di abitazione principale<br />
con la possibilità, riservata ai Comuni, di<br />
«considerare abitazioni principali, con conseguente<br />
applicazione dell’aliquota ridotta od anche della<br />
detrazione per queste previste, quelle concesse in<br />
uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale,<br />
stabilendo il grado di parentela» (12) e di «deliberare<br />
la riduzione, anche al di sotto del limite minimo<br />
previsto dalla legislazione vigente, delle aliquote<br />
dell’imposta comunale sugli immobili stabilite<br />
per gli immobili adibiti ad abitazione principale<br />
del proprietario» (13). Era proprio da queste<br />
particolari disposizioni che la Corte faceva discendere<br />
che il concetto di abitazione principale non<br />
risulta necessariamente legato a quello previsto<br />
dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n.<br />
504/1992, di «unità immobiliare iscritta o che deve<br />
essere iscritta nel catasto edilizio» (poi «catasto<br />
dei fabbricati») né, di conseguenza, limitato ad<br />
una sola unità come identificata catastalmente, ma<br />
viene in rilievo esclusivamente per la speciale<br />
considerazione, da parte del legislatore, dello specifico<br />
uso quale «abitazione principale» dell’immobile<br />
nel suo complesso. Ora che queste particolari<br />
disposizioni agevolative non sono state riprodotte<br />
nella disciplina dell’imposta municipale propria<br />
(come per la facoltà di considerare abitazione<br />
principale anche le unità immobiliari concesse in<br />
uso gratuito ai parenti), o sono state riformulate<br />
diversamente, eliminando ogni riferimento alla<br />
pluralità delle unità immobiliari (come per la possibilità<br />
concessa ai Comuni di ridurre il carico fiscale<br />
sull’abitazione principale), è quindi venuto<br />
meno il supporto argomentativo utilizzato per<br />
l’applicazione estensiva del concetto di abitazione<br />
principale, e non sembra possibile ritenere applicabili<br />
anche all’IMU le conclusioni raggiunte dalla<br />
Corte riguardo all’ICI.<br />
Questa ricostruzione, però, pur fondata sul dato<br />
letterale della norma e sulle oggettive difficoltà ad<br />
estendere all’IMU i chiarimenti forniti dalla giurisprudenza<br />
in materia di ICI, lascia perplessi e disorientati.<br />
L’interpretazione restrittiva della nozione<br />
di abitazione principale riguardo all’imposta<br />
Tributi<br />
locali<br />
municipale propria, quella cioè che ne limiti l’applicabilità<br />
ad un unico immobile catastalmente individuato,<br />
infatti, sarebbe comunque in contrasto<br />
con quanto espressamente chiarito dalla giurisprudenza<br />
in materia di IRPEF e di imposta di registro,<br />
con buona pace per la certezza del diritto.<br />
In ambito IRPEF, in effetti, la giurisprudenza di<br />
merito ha riconosciuto che non rileva la circostanza<br />
che l’abitazione principale del contribuente sia<br />
costituita da un insieme di unità distinte, purché<br />
sussista la destinazione delle medesime nella loro<br />
interezza (14). Dello stesso avviso si era mostrata<br />
la Corte di cassazione (15) riguardo al concetto di<br />
abitazione principale rilevante per l’imposta di registro,<br />
precisando che «le agevolazioni per la “prima<br />
casa” previste dall’art. 1, sesto comma, della<br />
legge 24 aprile 1982, n. 168, possono riguardare<br />
anche alloggi risultanti dalla riunione di più unità<br />
immobiliari che siano destinate, nel loro insieme,<br />
dagli acquirenti a costituire un’unica unità abitativa,<br />
e che quindi il contemporaneo acquisto di due<br />
appartamenti non è di per sé ostativo alla fruizione<br />
di tali benefici, posto che essi sono diretti a facilitare<br />
l’acquisto di abitazioni da parte di coloro che<br />
ne siano sprovvisti e che, ai fini della loro applicazione,<br />
assumono rilievo decisivo (non la consistenza<br />
e la destinazione che tali immobili avevano<br />
prima di essere venduti, ma) quella che ricevono a<br />
seguito dell’acquisto». L’interpretazione restrittiva<br />
del concetto di abitazione principale contenuta<br />
nella disciplina IMU, dunque, finisce con l’essere<br />
fondata unicamente su una discutibile argomentazione<br />
letterale e con il risultare diversa da quella<br />
precedentemente fornita riguardo ad un’imposta<br />
simile, se non sostanzialmente identica (ICI), oltreché<br />
in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza<br />
in merito ad altre imposte (IRPEF e<br />
imposta di registro).<br />
Il legislatore avrebbe certamente potuto modellare<br />
Note:<br />
(11) Cfr. Cass. n. 25902 del 2008, cit.<br />
(12) Vedi art. 59, lett. e), del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.<br />
(13) Vedi art. 5-bis, comma 4, del D.L. 27 maggio 2005, n. 86, convertito,<br />
con modificazioni, dalla legge 26 luglio 2005, n. 148.<br />
(14) Vedi Comm. trib. prov. di Cuneo, Sez. I, 22 giugno 2009, n. 56,<br />
in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(15) Vedi Cass., Sez. I, 22 gennaio 1998, n. 563, in GT - Riv. giur. trib.<br />
n. 8/1998, pag. 703, con commento di B. Ianniello e in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA.<br />
4/2012<br />
407
Tributi<br />
locali<br />
la definizione di abitazione principale rilevante ai<br />
fini IMU su quella precedentemente valida per<br />
l’ICI, e ora ancora applicabile riguardo ad altre<br />
imposte, con il risultato di agevolare il compito<br />
degli interpreti e di creare un sistema organico di<br />
agevolazioni per un’«abitazione principale» individuata<br />
in modo esatto e omogeneo, ma presumibili<br />
esigenze di gettito, ed un’inconscia concezio-<br />
Ci sono tanti profili sotto cui un’abitazione può<br />
essere considerata «prima casa», e l’unico tranquillo<br />
nel regime IMU sembra essere quello in cui<br />
l’intestatario nei registri immobiliari coincide con<br />
colui che è residente anagraficamente nell’immobile.<br />
Se invece l’immobile, per esigenze familiari<br />
o di praticità, è «prima casa» di un soggetto diverso<br />
dal titolare del diritto reale, fosse pure un familiare,<br />
oppure se l’immobile è impiegato per consentire<br />
al titolare il godimento di una sua «prima<br />
casa» posseduta da terzi, cominciano i guai. Se, ad<br />
esempio, qualcuno, trasferito per lavoro in un’altra<br />
città, affitta la propria casa nella città di provenienza<br />
e coi proventi ne prende in locazione un’altra,<br />
già perde - sull’immobile affittato - i benefici<br />
della prima casa. Se due soggetti, magari ex coniugi,<br />
si scambiano le abitazioni, e l’uno va a vivere<br />
nella casa intestata all’altro, salta la coincidenza<br />
tra «prima casa» e «diritto reale immobiliare», ed<br />
avremo due reciproche «seconde case», anche se<br />
ognuno degli interessati è titolare di una soltanto.<br />
Ulteriori esempi potrebbero riguardare il padre intestatario<br />
di immobili in cui è anagraficamente residente<br />
il figlio, cui si è già accennato nell’articolo<br />
che precede. Se anche il padre risiede in un immobile<br />
di cui è titolare, e quindi ha due immobili, le<br />
preoccupazioni antiabuso cui è ispirata l’IMU potevano<br />
anche essere giustificate. Ma se il padre,<br />
per esempio, abita in affitto, c’è anche qui una<br />
«prima casa» non riconosciuta.<br />
In realtà tutte le cautele sopra indicate, ed anche<br />
molti paradossi indicati nei dibattiti televisivi in<br />
proposito, rispondono a un denominatore comune<br />
della determinazione e valutazione della ricchezza<br />
ai fini <strong>tributari</strong>. Si tratta, non tanto della «carenza<br />
408<br />
4/2012<br />
ne del diritto <strong>tributari</strong>o come semplice elencazione<br />
di norme piuttosto che come sistema, hanno portato<br />
ad un esito differente, con il suo prevedibile<br />
strascico in termini di contenzioso tra contribuenti<br />
e Amministrazioni comunali, ammesso che queste<br />
riescano a gestire in modo sistematico le pratiche<br />
seriali e ripetitive connesse all’applicazione del<br />
tributo.<br />
Intestazioni formali e residenze sostanziali: una combinazione<br />
«in malam partem»<br />
Raffaello Lupi<br />
di informazioni per gli uffici <strong>tributari</strong>», quanto,<br />
ammettendo che esse siano acquisibili, semmai<br />
della difficoltà di gestire queste informazioni in<br />
modo adeguatamente flessibile e sistematico, tale<br />
da avere realmente il controllo del territorio; tanto<br />
più che la ricchezza immobiliare di riferimento è<br />
estremamente frammentata, e gestibile solo in modo<br />
seriale, ripetitivo, senza colpire la «capacità patrimoniale»<br />
di un soggetto, ma i singoli immobili.<br />
Questi ultimi possono anche essere stati acquistati<br />
con un mutuo, e quindi manifestare un impatto patrimoniale<br />
netto molto modesto (se l’immobile<br />
fosse stato acquistato solo con mutuo, e il debito<br />
fosse pari al valore dell’immobile, la rilevanza patrimoniale<br />
del bene sarebbe pari a zero). Anche<br />
queste vicende confermano la difficile coesistenza<br />
tra precisione, cioè rilevanza delle singole situazioni,<br />
semplicità e controllabilità; queste ultime<br />
spingono invece ad azzerare le differenziazioni,<br />
nel timore che poi nessun ufficio pubblico sarebbe<br />
in grado di controllarle in concreto.<br />
La disciplina IMU prima casa, in apparenza professionalmente<br />
irrilevante, ci ricorda che questo<br />
«trade off» tra precisione, semplicità e controllabilità<br />
non caratterizza solo la pura e semplice determinazione<br />
della ricchezza, ma anche le scelte valoriali,<br />
logicamente successive, che accompagnano<br />
un determinato tributo. Ci sarebbero agevolazioni<br />
e riduzioni rispondenti a finalità apprezzabili, ma<br />
impossibili da adottare per difficoltà gestionali e<br />
di controllo. In Italia, e anche da parte dei Comuni,<br />
manca infatti un controllo amministrativo del<br />
territorio, necessario per evitare usi impropri dei<br />
regimi agevolati, come quello della prima casa.<br />
D’altro canto, la consapevolezza di non avere il
controllo amministrativo del territorio sconsiglia<br />
di avventurarsi in distinzioni difficili da controllare<br />
in concreto, come appunto quelle relative all’occupazione<br />
di fatto degli immobili, oppure alla<br />
utilizzazione simultanea di immobili catastalmente<br />
separati. Questo serve anche a sdrammatizzare la<br />
situazione degli anziani ricoverati in case di riposo,<br />
che semplicemente potranno evitare di modificare<br />
la propria residenza anagrafica rispetto al proprio<br />
ultimo domicilio; in questo modo potranno<br />
evitare di perdere le agevolazioni prima casa, anche<br />
perché «l’ospizio non è una casa».<br />
Un’ulteriore notazione riguarda la giustificazione<br />
«ibrida» degli istituti <strong>tributari</strong>, dove le agevolazioni<br />
«prima casa» e gli sgravi per i figli contraddicono<br />
la spiegazione, diffusa presso gli economisti,<br />
secondo cui l’ICI e l’IMU servono a finanziare<br />
l’uso dei servizi pubblici locali. Se così fosse, infatti,<br />
non dovrebbero affatto essere gravate le seconde<br />
case, occupate per poco tempo dal titolare,<br />
come quelle per vacanza. Se ne deduce quindi la<br />
natura dell’IMU di imposta patrimoniale sui singoli<br />
immobili, con buona pace del principio di generalità<br />
della tassazione patrimoniale, sacrificato<br />
anche dalla già indicata impossibilità, per ragioni<br />
gestionali, di tener conto dei debiti. È una ulteriore<br />
conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, che la capacità<br />
contributiva «globale», dove si considerano<br />
nel loro insieme le condizioni economiche dei<br />
contribuenti, non è operativamente gestibile.<br />
Tributi<br />
locali<br />
Queste preoccupazioni rispetto al concetto di prima<br />
casa confermano una sorprendente attenzione<br />
agli adempimenti fiscali da parte di masse di contribuenti<br />
che, valutando razionalmente, potrebbero<br />
contare sulla difficoltà di accertamento da parte<br />
dei Comuni. Come avremo modo di vedere in altri<br />
settori della determinazione della ricchezza, anche<br />
a proposito di piccoli commercianti e artigiani, rispetto<br />
alle probabilità di controllo, dove nessuno<br />
chiede loro le imposte (e precisamente dove non<br />
intervengono le aziende), i contribuenti italiani<br />
mostrano davvero una fedeltà fiscale sorprendente<br />
(16). Confermando che il vero problema italiano<br />
non è la «lotta all’evasione», utilizzata come «capro<br />
espiatorio», ma l’incapacità di organizzare una<br />
richiesta delle imposte sufficientemente sistematica<br />
dove le aziende non arrivano.<br />
Nota:<br />
(16) I veri eroi fiscali, i veri «onesti», sono quelli cui nessuno<br />
chiede le tasse, in quanto tutti diventano eroi quando le aziende<br />
li tassano al millimetro, senza possibilità di scelta. In tutti i settori,<br />
dove le aziende non arrivano, il tasso di adempimento, pur con<br />
ampi alleggerimenti, suona sorprendente rispetto a chi consideri,<br />
a mente fredda, l’effettivo controllo del territorio da parte del Fisco.<br />
Si vedano sul sito www.giustiziafiscale.com i post sulla «lotta<br />
all’evasione in televisione».<br />
4/2012<br />
409
Rimborsi<br />
d’imposta<br />
Quale termine di prescrizione<br />
sui crediti <strong>tributari</strong> «per interessi»?<br />
Decadenza dal potere e prescrizione del diritto<br />
L’incidenza del tempo sull’obbligazione <strong>tributari</strong>a,<br />
nonché sull’esercizio del potere impositivo assume<br />
un’importanza cruciale sotto il profilo applicativo;<br />
ciononostante il sistema <strong>tributari</strong>o non contempla<br />
una disciplina generale ed organica, limitandosi<br />
ad ereditare dal diritto civile l’incertezza<br />
dei criteri distintivi tra prescrizione e decadenza,<br />
peraltro alimentata dallo stesso legislatore che si<br />
avvale promiscuamente dei due termini (1).<br />
Sebbene tra prescrizione e decadenza non esista<br />
una differenza ontologica o strutturale, la dottrina<br />
ha, tuttavia, ritenuto che la decadenza riguarda i<br />
poteri che un soggetto può e deve esercitare entro<br />
un tempo determinato dalla legge; mentre la prescrizione<br />
concerne diritti già sorti, ma non esercitati<br />
per un determinato lasso di tempo stabilito<br />
dalla legge (2), e dunque, rileva solo dal momento<br />
in cui il diritto può essere fatto valere ai sensi<br />
dell’art. 2935 c.c. (3). Dalla qualificazione teorica<br />
discende il regime applicabile (4): soltanto i termini<br />
di prescrizione, infatti, sono soggetti a sospensione<br />
o interruzione.<br />
Così, si ritiene, comunemente, che l’esercizio del<br />
potere di accertamento, liquidazione e di iscrizione<br />
410<br />
4/2012<br />
di Silvia Giorgi, RL<br />
La prescrizione del credito <strong>tributari</strong>o, sia dal punto di vista del Fisco, sia da quello dei contribuenti,<br />
è scarsamente regolata dalla legislazione di settore, con la consueta utilizzazione «supplettiva»<br />
del diritto civile. Quest’ultima diventa ancora più difficile quando si tratta di prescrizione<br />
di crediti «per interessi», maturati nei lunghi periodi «interinali» in cui i crediti <strong>tributari</strong> restano<br />
in una specie di «limbo». Spesso accade che, evadendo dopo anni l’istanza di rimborso di<br />
tributi non dovuti, l’Autorità fiscale rimborsi solo il «capitale», senza provvedere alcunché in<br />
materia di interessi. Sono quindi da ritenersi applicabili, in questo caso, per la richiesta degli interessi,<br />
i termini di prescrizione civilistici, decorrenti dalla liquidazione del credito per imposta<br />
(salvo verificare l’applicazione del termine quinquennale di cui all’art. 2948 c.c.).<br />
Prescrizione ordinaria per gli interessi sui ritardati rimborsi<br />
al contribuente: verso l’abbandono del particolarismo <strong>tributari</strong>o?<br />
Silvia Giorgi<br />
a ruolo della pretesa, nonché il potere di chiedere il<br />
rimborso da parte del contribuente, siano soggetti a<br />
termini di decadenza; di converso, soggiace a termini<br />
di prescrizione il diritto di credito già sorto e<br />
non attuato a fronte dell’inadempimento del debitore<br />
(5), fermo restando che la veste di debitore<br />
può essere assunta, sia dal contribuente che non<br />
corrisponde somme definitivamente accertate a suo<br />
carico, sia dall’ente impositore che deve rimborsare<br />
quanto indebitamente sia stato versato.<br />
La prescrizione, dunque, incide su posizioni giuridiche<br />
statiche, i diritti (6), allorché il titolare non<br />
Silvia Giorgi - Dottoranda di ricerca in Diritto <strong>tributari</strong>o - Università<br />
di Pescara<br />
Note:<br />
Articolo sottoposto a revisione.<br />
(1) Per riferimenti vedi D. Coppa, La prescrizione nel diritto <strong>tributari</strong>o,<br />
Torino, 2006.<br />
(2) M.C. Fregni, Obbligazione <strong>tributari</strong>a e codice civile, Torino, 1998,<br />
pag. 409.<br />
(3) G.A. Micheli, Corso di diritto <strong>tributari</strong>o, Torino, 1978, pag. 293.<br />
(4) G. Landi, «Prescrizione (Diritto <strong>tributari</strong>o)», in Enc. Dir., vol.<br />
XXXV, Milano, 1986, pag. 78.<br />
(5) G. Falcone, «Prescrizione, III Diritto <strong>tributari</strong>o», in Enc. Giur.,<br />
vol. XXIV, Roma, 2002, pag. 1.<br />
(6) P. Russo, Manuale di diritto <strong>tributari</strong>o, parte generale, Milano,<br />
2002, pag. 121.
li eserciti per il tempo determinato dalla legge; la<br />
decadenza, invece, si riferisce a situazioni giuridiche<br />
dinamiche, i poteri: non estingue, pertanto, un<br />
diritto già perfezionato, ma meramente potenziale,<br />
accertabile e contestabile.<br />
La disamina delle disposizioni <strong>tributari</strong>e dedicate<br />
agli «effetti» del tempo sull’esercizio dei diritti di<br />
credito rivela un sistema di termini decadenziali<br />
compiutamente delineato (7); di converso, la disciplina<br />
fiscale della prescrizione si sostanzia in una<br />
congerie di termini, differenziati a seconda del tipo<br />
d’imposta, in assenza di un quadro organico ed<br />
esaustivo di riferimento (8).<br />
Con specifico riferimento agli interessi che possono<br />
accedere (9), tanto al credito vantato dall’Amministrazione<br />
finanziaria, quanto al credito da rimborso<br />
spettante al contribuente, si passa dalla<br />
frammentarietà normativa alla vera e propria lacuna,<br />
incolmabile attingendo al sistema di «appartenenza»,<br />
ovvero quello amministrativo, eterogeneo<br />
e frammentato quanto quello <strong>tributari</strong>o.<br />
Di talché emerge la necessità di verificare la sussistenza<br />
di margini per l’integrazione con la disciplina<br />
civilistica ed, in particolare, con l’art. 2948,<br />
n. 4, c.c., il quale contempla un termine prescrizionale<br />
breve di cinque anni per gli interessi e, più in<br />
generale, per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente<br />
ad anno o in termini più brevi. Da qui si<br />
prospetta il delicato «trapianto» nei rapporti amministrativi-<strong>tributari</strong><br />
del «corpo estraneo» della disciplina<br />
privatistica.<br />
Una disciplina frammentaria per i tributi,<br />
e il buio sugli interessi<br />
Il legislatore <strong>tributari</strong>o trascura, il più delle volte,<br />
di pronunciarsi espressamente sul termine di prescrizione<br />
e, per quanto concerne gli interessi, non<br />
si cura di disciplinare, neppure a livello settoriale,<br />
il termine entro cui il creditore è tenuto a realizzare<br />
il credito accessorio.<br />
Emblematico in tal senso l’art. 84 del T.U.D. (10)<br />
che assoggetta a prescrizione triennale la riscossione<br />
dei diritti doganali, con diversi momenti di<br />
decorrenza ed una norma di chiusura secondo la<br />
quale la prescrizione decorre, in mancanza di altre<br />
previsioni, dalla data in cui i diritti sono divenuti<br />
esigibili.<br />
È, quindi, legislativamente determinato il termine<br />
di prescrizione del credito principale, senza però<br />
Rimborsi<br />
d’imposta<br />
qualsivoglia riferimento agli interessi. In questo<br />
caso l’interprete è chiamato a colmare la lacuna<br />
attingendo alla disciplina civilistica, ovvero al<br />
«termine <strong>tributari</strong>o» cui è soggetto il credito principale.<br />
Unica costante nella frammentarietà normativa è<br />
il sorgere del credito accessorio nel momento in<br />
cui diviene esigibile quello principale: l’Amministrazione<br />
finanziaria dovrà, quindi, prima esercitare<br />
il potere impositivo, superando le decadenze<br />
comminate nella disciplina dell’accertamento e<br />
dell’iscrizione a ruolo (11), poi potrà vantare una<br />
pretesa definitiva nei confronti del soggetto passivo<br />
del rapporto obbligatorio (12). A monte, pertanto,<br />
«il diritto di credito (principale) è ormai liquido<br />
ed esigibile, ha cioè un contenuto identico a<br />
quello di qualsiasi diritto di credito» (13). E, come<br />
qualsiasi altro diritto di credito perfezionato e<br />
attuale, da un lato, deve essere esercitato prima<br />
che si prescriva; dall’altro, avendo natura pecuniaria,<br />
produce interessi, diritto accessorio che, a<br />
sua volta, deve essere esercitato entro il termine<br />
di prescrizione. E qui - nel silenzio del legislatore<br />
- si profila l’eventualità del «trapianto» del termine<br />
civilistico.<br />
Un analogo intreccio tra decadenza e prescrizione<br />
Note:<br />
(7) M.C. Fregni, op. cit., pag. 416 ss.<br />
(8) D. Coppa, op. cit., pag. 24.<br />
(9) L’elaborazione della dottrina civilistica li annovera tra le obbligazioni<br />
accessorie, quali frutto civile di altra obbligazione individuata<br />
come principale; viene poi in considerazione la distinzione<br />
tra interessi corrispettivi, compensativi e moratori: i primi<br />
rappresentano il frutto civile di crediti liquidi ed esigibili (art.<br />
1282 c.c.); i secondi sono, invece, dovuti su debiti non liquidi ed<br />
esigibili; gli interessi moratori, invece, sono dovuti dal debitore<br />
che sia in ritardo nel pagamento, a titolo di risarcimento del danno,<br />
a condizione che il creditore abbia fatto atto formale di costituzione<br />
in mora ovvero operi una delle cause automatiche di<br />
costituzione in mora. Si veda F. Galgano, Diritto civile e commerciale,<br />
Volume II, tomo primo, pag. 53.<br />
(10) D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43.<br />
(11) M.C. Fregni, op. cit., pag. 371, scrive che «le leggi d’imposta<br />
prevedono, per l’Amministrazione, innanzitutto un termine (di<br />
decadenza) per l’accertamento, quindi un termine (pure di decadenza)<br />
per l’iscrizione a ruolo, e solo dopo di ciò opera il termine<br />
di prescrizione del diritto di credito del Fisco».<br />
(12) D. Coppa, op. cit., pag. 57. Il che accade o quando il destinatario<br />
dell’atto impositivo vi presta acquiescenza ovvero quando, a<br />
seguito dell’impugnazione, interviene una sentenza passata in giudicato<br />
che conferma la pretesa impositiva.<br />
(13) G.A. Micheli, op. cit., pag. 293.<br />
4/2012<br />
411
Rimborsi<br />
d’imposta<br />
si ripropone, poi, con riferimento agli interessi da<br />
rimborso ed in ogni caso in cui sia il contribuente<br />
a ricoprire il ruolo di creditore: prima, infatti, devono<br />
essere superati i termini - di decadenza - per<br />
l’esercizio del potere «di sottoporre la questione<br />
ad un organo giurisdizionale, ovvero quello di porre<br />
in essere, per l’Amministrazione, un obbligo<br />
procedimentale» (14). Il che implica, per il contribuente,<br />
l’onere di presentare la propria istanza,<br />
avente ad oggetto gli accessori, entro i termini di<br />
decadenza previsti dalle singole leggi d’imposta:<br />
ove il diritto non venga soddisfatto e si formi il silenzio-rigetto<br />
dell’Amministrazione, potrà accedere<br />
alla tutela giurisdizionale, decorsi 90 giorni dalla<br />
domanda di restituzione e fino a quando il diritto<br />
invocato non sia prescritto.<br />
Anche il contribuente creditore rimane, tuttavia, in<br />
balia dell’incertezza normativa, non esistendo,<br />
nella maggior parte dei casi, specifiche disposizioni<br />
in tema di prescrizione degli interessi.<br />
Il silenzio legislativo è rotto, unicamente a quanto<br />
consta, in tema di rimborso dell’eccedenza IVA,<br />
dall’art. 1, comma 16, del D.L. 30 dicembre 1991,<br />
n. 417 (15), il quale assoggetta i relativi interessi<br />
alla prescrizione di cui all’art. 2946 c.c.: il richiamo<br />
alla disciplina civilistica è qui esplicito, anche<br />
se a favore del regime civilistico ordinario, decennale,<br />
e non di quello cd. breve, quinquennale, ex<br />
art. 2948, n. 4, c.c.<br />
Siffatta previsione è, quindi, distonica rispetto<br />
all’orientamento manifestatosi sin da tempi risalenti:<br />
se è, infatti, pacifico il termine di prescrizione<br />
decennale per il rimborso dell’imposta, in mancanza<br />
di una diversa disposizione (16), con specifico<br />
riferimento agli interessi di mora per le tasse e<br />
imposte dirette sugli affari, la prassi afferma l’operatività<br />
del termine prescrizionale breve ai sensi<br />
dell’art. 2948, n. 4, c.c. (17).<br />
Profili applicativi<br />
ed orientamenti giurisprudenziali<br />
Anche la giurisprudenza si è orientata nella medesima<br />
direzione, pronunciandosi, tra l’altro, anche<br />
sulla natura giuridica dell’obbligazione relativa<br />
agli interessi, la quale «è legata da un vincolo<br />
d’accessorietà all’obbligazione principale solo nel<br />
momento genetico, ma, una volta sorta, è autonoma<br />
per cui tutte le eventuali vicende rimangono<br />
indipendenti dal credito d’imposta» (18).<br />
412<br />
4/2012<br />
L’affermazione, nient’affatto isolata, conduce alla<br />
conclusione che «il debito relativo agli interessi<br />
già maturati integra un’obbligazione autonoma rispetto<br />
al debito principale (Cass. n. 4704/2001 e<br />
n. 1073/1994) soggiacendo pertanto alla prescrizione<br />
quinquennale prevista dall’art. 2948, n. 4,<br />
c.c.» (19).<br />
Se, quindi, il credito d’interessi «vive di vita propria»<br />
rispetto al credito principale ed alle sue vicende<br />
quando il legislatore <strong>tributari</strong>o individua un<br />
termine di prescrizione per la sola obbligazione<br />
principale, senza esprimersi su quella accessoria,<br />
la lacuna dovrà essere colmata attingendo alla disciplina<br />
civilistica e non al diverso termine «<strong>tributari</strong>o»<br />
previsto per il credito principale (20). Ne<br />
consegue, altresì, che la prescrizione degli accessori<br />
«è insensibile alle vicende interruttive» (21)<br />
riguardanti il credito principale e può iniziare a<br />
decorrere in un momento diverso.<br />
Per altro verso, il dies a quo per il computo del<br />
termine prescrizionale non è, necessariamente,<br />
coincidente con quello di maturazione degli interessi:<br />
il primo, infatti, decorre solo dal momento<br />
in cui «il diritto può essere fatto valere» ovvero<br />
qualora gli interessi maturati siano anche esigibili.<br />
Note:<br />
(14) V. Cogliati Dezza, «Prescrizione, III Diritto <strong>tributari</strong>o», in Enc.<br />
Giur., vol. XXIV, Roma, 1991; F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, Torino,<br />
1975.<br />
(15) Convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1992, n. 66.<br />
(16) C.M. 21 aprile 1984, n. 14/15/997, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(17) Conferenza degli ispettori compartimentali delle tasse, 10,<br />
11, 12, 13 luglio 1990.<br />
(18) Cass., Sez. trib., 14 marzo 2007, n. 5954, in Banca Dati BIG<br />
Suite, IPSOA e i precedenti ivi richiamati.<br />
(19) Cass., Sez. II civ., 30 marzo 2001, n. 4704, in Banca Dati BIG<br />
Suite, IPSOA.<br />
(20) In questo senso anche la Corte di legittimità in tema di dazi<br />
doganali, Cass., Sez. trib., 16 giugno 2006, n. 14049, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA, «il termine triennale previsto dalla disposizione<br />
comunitaria in parola non risulta applicabile alla fattispecie che<br />
concerne - non - la mancata corresponsione dei dazi all’importazione<br />
bensì gli interessi dovuti per il ritardo della loro esazione:<br />
regime questo che integrando un’autonoma obbligazione rispetto<br />
al debito <strong>tributari</strong>o principale e suscettibile di autonome vicende<br />
fa sì che tali accessori rimangano sottoposti al proprio termine<br />
di prescrizione quinquennale così come sancito dall’articolo 2948<br />
c.c., n. 4 (Cass. 10738/94)».<br />
(21) Cass., Sez. trib., 5 settembre 2008, n. 22460, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA, specificamente sull’ordinativo di pagamento<br />
estintivo dell’obbligazione al rimborso alla quota capitale dell’eccedenza<br />
d’imposta, ma a nulla rilevando ai fini della prescrizione<br />
del credito per interessi.
A tal proposito, con specifico riferimento agli interessi<br />
su somme dovute a titolo di rimborso IVA, la<br />
Suprema Corte ha sancito che il relativo credito<br />
non diviene esigibile «fino a che non sia divenuto<br />
definitivo l’accertamento del rimborso cui esso accede<br />
(Cass. n. 16123/2004, n. 10605/2003) (22),<br />
vale a dire fino al passaggio in giudicato della sentenza<br />
sulla condictio indebiti (Cass. n.<br />
23/1991)(22)», oppure «fino alla definizione, operata<br />
dall’Ufficio ed accettata dalla parte (Cass. n.<br />
66/2005, n. 3717/1984)(22), della somma dovuta a<br />
rimborso, non essendo certo prima di tale momento<br />
se ed in quale misura gli interessi siano dovuti<br />
(Cass. n. 66/2005, cit., n. 1958/1988 e n.<br />
4755/1984)(22)» (23).<br />
Analogamente, gli interessi che accedono al credito<br />
vantato dall’Amministrazione finanziaria saranno<br />
esigibili non appena divenga definitivo l’accertamento<br />
del tributo, iniziando a decorrere da quel<br />
momento il termine di prescrizione (24).<br />
In riferimento al termine di cui all’art. 38-bis del<br />
D.P.R. n. 633/1972, la Commissione <strong>tributari</strong>a<br />
centrale ha proclamato la «sostanziale identità giuridica<br />
tra l’istituto del rimborso in materia di tributi<br />
indebiti e l’indebito di diritto comune: il pagamento<br />
dell’indebito equivale, giuridicamente, ad<br />
una prestazione non dovuta» (25), facendone derivare<br />
l’obbligo in capo all’ufficio di corresponsione<br />
degli interessi, ovvero il frutto prodotto dalla somma<br />
indebitamente trattenuta, non solo per i rimborsi<br />
annuali, ma anche per quelli trimestrali (26).<br />
Considerazioni conclusive<br />
L’importanza della decisione da ultimo citata è<br />
evidente se solo si rammenta la giurisprudenza in<br />
tema di interessi anatocistici (27) ove continua a<br />
difendersi la presunta «specialità della materia fiscale»,<br />
la quale giustificherebbe «una disciplina<br />
diversa da quella dettata in campo civilistico, con<br />
la conseguenza che tale specifica normativa assorbe<br />
e sostituisce la seconda» (28).<br />
Per quanto l’appartenenza al sistema amministrativo<br />
induca a non rinnegare la «specialità» <strong>tributari</strong>a<br />
in sé, pare ormai indifendibile la deriva verso la<br />
tutela del mero interesse fiscale, tanto più che, con<br />
specifico riferimento al tema della prescrizione,<br />
vige il monito, contenuto nel cd. Statuto dei diritti<br />
del contribuente, che «le disposizioni <strong>tributari</strong>e<br />
non possono stabilire né prorogare termini di pre-<br />
Rimborsi<br />
d’imposta<br />
scrizione oltre il limite ordinario stabilito dal codice<br />
civile».<br />
Si intravede, così, la volontà legislativa di abban-<br />
Note:<br />
(22) In Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(23) Cass., Sez. trib., 29 aprile 2009, n. 10033, in Banca Dati BIG<br />
Suite, IPSOA.<br />
(24) Cass., Sez. I civ., 18 aprile 1997, n. 3338, in GT - Riv. giur. trib.<br />
n. 1/1998, pag. 35, con note di riferimento di M. Costanza e in<br />
Banca Dati BIG Suite, IPSOA. Possono, tuttavia, iniziare a maturare<br />
anche in un momento anteriore: Comm. trib. centr., Sez. X, 10<br />
giugno 1998, n. 3285, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA infatti, ha ritenuto<br />
che le somme provvisoriamente iscritte a ruolo rendono<br />
l’imposta liquida ed esigibile e, pertanto, il relativo credito è suscettivo<br />
di produrre interessi.<br />
Dal momento dell’iscrizione a ruolo opera, quindi, la prescrizione.<br />
Il che giustifica il rilievo che problemi di prescrizione, nel diritto<br />
<strong>tributari</strong>o, si pongono per lo più per le obbligazioni relative<br />
alle imposte indirette e alle obbligazioni relative alle sanzioni; nelle<br />
imposte dirette, impedite le decadenze, è ben difficile che vi sia<br />
un’inerzia decennale dell’esattore, Fregni, op. cit., pag. 362.<br />
In caso di richiesta di dilazione di pagamento, la Corte di legittimità<br />
ha ritenuto che si determina uno sfasamento «tra il momento<br />
in cui l’imposta sarebbe esigibile e quello in cui ha inizio la sua<br />
concreta corresponsione» determinando un ritardo nel pagamento<br />
imputabile al contribuente e, pertanto, fonte di interessi<br />
moratori. Cass., Sez. I civ., 13 dicembre 1996, n. 11142, in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA. Ove, però, il contribuente debitore abbia<br />
diritto di accedere alla dilazione e l’Amministrazione non goda di<br />
alcuna discrezionalità nell’accoglimento dell’istanza, la fattispecie<br />
non può essere ricostruita in termini di mora debendi, ma trova<br />
applicazione l’art. 1282 c.c. ed il debito produce interessi corrispettivi,<br />
Cass., Sez. trib., 15 maggio 2006, n. 11180, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA.<br />
(25) Comm. trib. centr., Sez. dec. di Milano, 20 ottobre 2009, n.<br />
1427, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA e in Corr. Trib. n. 5/2010, pag.<br />
361, con commento di P. Centore, «La controversa natura degli<br />
interessi sui crediti IVA».<br />
(26) Cass., Sez. trib., 11 novembre 2009, n. 23843, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA, ha fissato la decorrenza della prescrizione in relazione<br />
alle due diverse modalità di rimborso del capitale: nella<br />
prima gli interessi possono essere fatti valere dal novantesimo<br />
giorno successivo alla data in cui il credito del contribuente, indicato<br />
nella dichiarazione annuale, si consolida, essendo decorsi<br />
due anni senza che l’Amministrazione abbia notificato alcun avviso<br />
di rettifica o accertamento; nella seconda trascorsi novanta<br />
giorni dalla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione<br />
annuale.<br />
(27) M.C. Fregni, op. cit., pag. 218 ss., cita il problema dell’anatocismo<br />
come caso emblematico in tema di rapporti tra codice civile<br />
e lacune del diritto <strong>tributari</strong>o, criticando la concezione del diritto<br />
<strong>tributari</strong>o come diritto speciale.<br />
(28) Cass., Sez. I civ., 23 settembre 1998, n. 9497, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA; Id., 10 luglio 1996, n. 6310, ivi. Sempre in ragione<br />
della «specialità» <strong>tributari</strong>a, la Corte di legittimità ritiene che la<br />
disciplina di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 602/1973 deroghi al disposto<br />
di cui all’art. 1194, comma 2, c.c. ai sensi del quale i pagamenti<br />
parziali vanno imputati prima agli interessi e poi al capitale.<br />
4/2012<br />
413
Rimborsi<br />
d’imposta<br />
donare - o quanto meno non alimentare - l’arroccamento<br />
ad oltranza nel particolarismo <strong>tributari</strong>o,<br />
ma di mantenere una certa simmetria con la disciplina<br />
civilistica. Con l’importante corollario di<br />
non differenziare la posizione del privato-creditore<br />
da quella dell’ente-creditore (29), salvaguardando<br />
la pariteticità del regime di prescrizione.<br />
L’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale<br />
che colma la lacuna <strong>tributari</strong>a attingendo al codice<br />
civile trova, dunque, un conforto implicito<br />
nello Statuto dei diritti del contribuente.<br />
La disciplina civilistica degli interessi di cui all’art.<br />
2948, n. 4, c.c. prevede il termine prescrizionale<br />
breve, il cui fondamento è individuato nell’opportunità<br />
di salvaguardare il debitore dalle<br />
prestazioni scadute e non richieste tempestivamente<br />
dal creditore, quando si tratti di prestazioni periodiche,<br />
in relazione ad una causa debendi continuativa<br />
(30).<br />
La prescrizione quinquennale, applicabile prima<br />
facie agli interessi di qualsiasi specie, è, invece,<br />
circoscritta a quelli che si connotano per il requisito<br />
della periodicità, sicché se ne desume la non applicabilità<br />
alle obbligazioni unitarie, suscettibili di<br />
esecuzione così istantanea come differita o ripartita,<br />
in riferimento alle quali opera l’ordinaria prescrizione<br />
decennale (31).<br />
Sulla scorta di tale distinzione concettuale, la Corte<br />
di legittimità ha sancito, con riguardo alla pretesa<br />
dell’Ufficio relativa ad interessi maturati in relazione<br />
al credito IVA, che «quando si tratta di interessi<br />
dovuti per mora ex re da inadempimento di<br />
una somma da versare e chiesti in un’unica solu-<br />
La legislazione <strong>tributari</strong>a è strutturalmente lacunosa,<br />
sia per quanto riguarda la determinazione della<br />
ricchezza, sia per quanto riguarda il complesso di<br />
relazioni tra Fisco e contribuente. L’Autrice dell’intervento<br />
che precede rileva correttamente che,<br />
in questi casi, tra cui quello del credito per interessi,<br />
è del tutto normale l’utilizzazione suppletiva del<br />
diritto civile, anche nei rapporti tra Autorità amministrativa<br />
ed individuo. Anche se il diritto <strong>tributari</strong>o<br />
è un settore del diritto amministrativo, in questi ca-<br />
414<br />
4/2012<br />
zione e non in rate periodiche, non v’è il presupposto<br />
d’applicazione dell’art. 2948, n. 4, c.c.»<br />
(32), ma opera il termine decennale.<br />
Coerentemente, si dovrebbe, altresì, concludere<br />
che l’applicazione del termine breve ai soli interessi<br />
connotati dal requisito della periodicità sottende,<br />
quanto meno in tema di interessi corrispettivi,<br />
l’accessorietà a tributi periodici; dovendosi, invece,<br />
prospettare l’applicazione del termine decennale<br />
per gli interessi maturati su tributi istantanei.<br />
Salto logico non ancora adombrato in giurisprudenza,<br />
ma che dovrebbe condurre a notevoli risvolti<br />
applicativi, se si considera, ad esempio, che<br />
gli interessi relativi all’obbligazione doganale, così<br />
ragionando, sarebbero soggetti al regime ordinario<br />
e non a quello abbreviato.<br />
Note:<br />
(29) A. Fedele, «L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente»,<br />
in Riv. Dir. Trib., 2001, 10, pag. 883.<br />
(30) G. Azzariti, G. Scarpello, «Della prescrizione e della decadenza»,<br />
in Comm. Cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro VI,<br />
Della tutela dei diritti, Bologna-Roma, 1964, pag. 299.<br />
(31) Cass., Sez. I civ., 6 novembre 2006, n. 23670, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA, sancisce il seguente principio di diritto «in tema<br />
di prescrizione, il termine quinquennale previsto dall’art. 2948, n.<br />
4, c.c. per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad un anno<br />
o in termini più brevi, si riferisce alle obbligazioni periodiche o di<br />
durata, caratterizzate dal fatto che la prestazione è suscettibile di<br />
adempimento solo col decorso del tempo, onde anche gli interessi<br />
previsti dalla stessa disposizione devono rivestire il connotato<br />
della periodicità». Conformi anche Cass., Sez. I civ., 23 maggio<br />
2006, n. 12140, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA; Id., Sez. III civ.,<br />
1° luglio 2005, n. 14080; Id., Sez. I civ., 6 marzo 2003, n. 3348.<br />
(32) Cass., Sez. trib., 16 settembre 2005, n. 18432, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA.<br />
Un caso di integrazione civilistica del diritto amministrativo dei tributi<br />
RL<br />
si si deve guardare al diritto civile, in quanto si è al<br />
di fuori dall’esercizio di poteri autoritativi, che sono<br />
esercitati «a monte», per la determinazione della<br />
ricchezza e dell’imposta, dove il diritto <strong>tributari</strong>o<br />
è diritto dei pubblici poteri, e, in quanto tale, deve<br />
guardare al diritto amministrativo.<br />
Una volta venute meno le contestazioni sulla somma<br />
da pagare, o da chiedere a rimborso, resta solo<br />
un credito, cui l’interesse segue, puramente e semplicemente,<br />
come nel rapporto tra due privati.
Guardare al diritto civile è poi necessario, sempre<br />
seguendo il ragionamento di Silvia Giorgi, dal momento<br />
che il diritto amministrativo è privo di disposizioni<br />
in grado di supplire alle carenze della<br />
legislazione <strong>tributari</strong>a; ma non tanto di carenze si<br />
tratta, quanto di mancanza di particolari necessità,<br />
che anzi scattano soprattutto quando il legislatore<br />
<strong>tributari</strong>o mette mano, in modo parziale e incompleto,<br />
a questioni già risolvibili in base ai principi<br />
e alle indicazioni civilistiche, nell’ottica dell’unitarietà<br />
del diritto, o comunque del suo necessario<br />
accorpamento rispetto all’attuale frammentazione<br />
dei settori scientifico-disciplinari (33).<br />
L’Autrice parla della prescrizione del credito per<br />
interessi in modo «bidirezionale», riferendosi, sia<br />
agli Uffici <strong>tributari</strong>, sia ai contribuenti.<br />
Nella pratica però gli Uffici, quando richiedono i<br />
tributi, procedono, sia per il capitale, sia per gli interessi,<br />
uniti nelle relative procedure unilaterali di<br />
autotutela amministrativa.<br />
Il problema si pone invece per i privati, cui spesso<br />
viene rimborsato il tributo, ignorando gli interessi<br />
oppure calcolandoli erroneamente per difetto. In<br />
questi casi non soccorrono i principi del diritto dei<br />
poteri pubblici, non tanto per le carenze del legislatore,<br />
secondo i noti stereotipi diffusi nel nostro<br />
ambiente culturale, che alterna la critica e l’invocazione<br />
al legislatore (34), quanto semplicemente<br />
perché in materia di «prescrizione» l’intervento legislativo<br />
non è fondamentale: si tratta dopotutto di<br />
obbligazioni pecuniarie già determinate, o comunque<br />
sulla cui determinazione non si controverte ormai<br />
più, e che si portano dietro un «accessorio»<br />
costituito dagli interessi.<br />
Sulla decorrenza del relativo termine di prescrizione,<br />
correttamente identificata dall’Autrice nella liquidazione<br />
del rimborso dell’imposta, e nell’eventuale<br />
erroneo calcolo degli interessi, mi viene in<br />
mente una riflessione ulteriore, per evitare scissioni<br />
tra «capitale» e «interessi».<br />
Trasportando i principi civilistici nel diritto amministrativo<br />
dei tributi, l’istanza di rimborso fa iniziare<br />
un termine di prescrizione decennale, sia per<br />
il tributo, sia per gli interessi. In sede civilistica è<br />
da verificare se - in generale - dal ricevimento del<br />
rimborso «riparta» un altro termine prescrizionale<br />
per farne valere l’inadeguatezza, anche col riferimento<br />
al calcolo degli accessori variabili, come gli<br />
interessi. Solo quando il debitore adempie, il cre-<br />
Rimborsi<br />
d’imposta<br />
ditore è infatti in grado di verificare la correttezza<br />
del calcolo degli interessi, non predeterminabili in<br />
quanto correlati al decorso del tempo; per questo<br />
in sede <strong>tributari</strong>a, almeno per gli interessi, mancano<br />
i presupposti per ipotizzare un «atto impositivo<br />
implicito» (35); mi sembra cioè di poter escludere<br />
che, di fronte all’insufficienza degli interessi, il<br />
contribuente abbia l’onere di presentare una ulteriore<br />
istanza di rimborso, secondo le modalità di<br />
cui all’azione generale di rimborso contenuta nel<br />
decreto sul contenzioso <strong>tributari</strong>o, col suo termine<br />
biennale «dal pagamento o da quando matura il diritto<br />
al rimborso». Quindi sembrerebbe a rigore<br />
doversi ritenere che dal momento in cui viene ricevuto<br />
il rimborso insufficiente, il contribuente abbia<br />
un ulteriore termine di prescrizione per far valere<br />
questa inadeguatezza. Su quale sia questo termine,<br />
se quello decennale o quello quinquennale,<br />
queste note non sono la sede per razionalizzare i<br />
numerosi «materiali normativi» riportati dall’articolo<br />
che precede, però il riferimento testuale agli<br />
«interessi» ai fini della prescrizione breve di cui<br />
all’art. 2948 c.c. mi sembra molto forte, e quindi<br />
riferibile a ogni tipo di interesse, non solo agli interessi<br />
per così dire «ricorrenti» di cui parla l’articolo<br />
che precede. Ma vedremo di riparlarne, su<br />
queste basi, se qualcuno ne avrà voglia.<br />
Note:<br />
(33) Sugli effetti distruttivi di questa frammentazione disciplinare<br />
del diritto in ben 21 settori, conto i sei (già troppi!) dell’economia,<br />
R. Lupi, Manuale giuridico di scienza delle finanze, Dike Giuridica,<br />
2012, pag. 147.<br />
(34) Sono stereotipi ripresi inevitabilmente anche dall’Autrice<br />
dell’intervento che precede, che però fa un passo avanti limitandosi<br />
alle critiche al legislatore, ed evitando di invocarne futuri interventi.<br />
(35) Sulle ragioni per cui il rimborso inferiore al richiesto non è<br />
un atto impositivo implicito, neppure per il capitale, R. Lupi, Manuale<br />
professionale di diritto <strong>tributari</strong>o, IPSOA, 2011, par. 7.2).<br />
4/2012<br />
415
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
Notifiche a mezzo posta,<br />
«doppio termine»<br />
e costituzione del ricorrente<br />
Con la diffusione delle notifiche a mezzo posta il termine per la tempestività dell’atto in capo al<br />
mittente è anticipato rispetto a quello per il destinatario: i tempi tecnici della consegna comportano<br />
quindi un «doppio termine». In mezzo c’è però la costituzione in giudizio del ricorrente,<br />
di cui bisogna individuare il «dies a quo». Istintivamente, e schematicamente, verrebbe da<br />
pensare a una data unica per il ricorrente (o per l’attore), cioè quella di spedizione, ma c’è di<br />
mezzo l’economia processuale, e la possibilità di evitare il processo. Una lettura dell’art. 22 del<br />
D.Lgs. n. 546/1992, orientata al principio di economia processuale, induce a ritenere tempestive<br />
le costituzioni in giudizio fino al termine di trenta giorni dalla data in cui la controparte ha ricevuto<br />
l’atto notificato, e non dalla data di spedizione del ricorso.<br />
Sdoppiamento del termine<br />
di proposizione del ricorso<br />
e costituzione in giudizio del ricorrente<br />
Recentemente su Dialoghi ci si è soffermati sull’opportunità<br />
di fornire una nuova interpretazione<br />
all’art. 6, comma 3, ultimo periodo, del D.Lgs. n.<br />
218/1997, considerando quale termine ultimo per<br />
definire in adesione un avviso di accertamento,<br />
non già il momento di notificazione del ricorso all’Ufficio<br />
impositore, bensì l’ultimo giorno utile<br />
per la costituzione in giudizio attraverso il deposito,<br />
avanti al giudice <strong>tributari</strong>o, della copia conforme<br />
dell’atto notificato (1). Gli Autori del contributo<br />
hanno correttamente evidenziato come una lettura<br />
della norma in tal senso amplierebbe il margine<br />
temporale concesso alle parti per addivenire ad<br />
una soluzione extraprocessuale, senza tra l’altro<br />
che ne derivi alcun pregiudizio per il sistema.<br />
Con il presente intervento si intende proporre un<br />
tema per certi versi analogo a quello appena illustrato,<br />
e cioè ci si vuole interrogare in ordine all’esatta<br />
individuazione del dies a quo per la costituzione<br />
in giudizio del ricorrente, che deve avve-<br />
416<br />
4/2012<br />
di Zeila Gola, Raffaello Lupi<br />
Decorrenza del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente<br />
tra esigenze di economia processuale e di riduzione del contenzioso<br />
Zeila Gola<br />
nire, secondo quanto previsto dalla legge, attraverso<br />
il deposito presso la Segreteria della Commissione<br />
<strong>tributari</strong>a adita dell’atto introduttivo e del fascicolo<br />
di causa, entro trenta giorni «dalla proposizione<br />
del ricorso».<br />
In altri termini la problematica che si intende esaminare<br />
è quella relativa alla possibilità di fornire<br />
una nuova interpretazione dell’art. 22, comma 1,<br />
del D.Lgs. n. 546/1992, considerando quale termine<br />
ultimo per iscrivere a ruolo la causa, non già il<br />
trentesimo giorno dal momento di spedizione del<br />
ricorso all’Ufficio impositore, bensì il trentesimo<br />
giorno dal momento di ricevimento dell’atto da<br />
parte di quest’ultimo. Questo sdoppiamento di<br />
possibili termini iniziali è connesso alla modalità<br />
di proposizione del ricorso a mezzo del servizio<br />
postale, in plico raccomandato senza busta con av-<br />
Zeila Gola - Avvocato in Venezia<br />
Nota:<br />
Articolo sottoposto a revisione.<br />
(1) D. Stevanato, S. Serasin, R. Lupi, «Adesione dopo l’impugnazione,<br />
ma prima della costituzione in giudizio. Perché no?», in Dialoghi<br />
Tributari n. 3/2012, pag. 247.
viso di ricevimento (art. 20, comma 2); è fuori discussione<br />
che, ai fini della tempestività, «il ricorso<br />
s’intende proposto al momento della spedizione<br />
nelle forme sopra indicate».<br />
Nello stesso senso l’art. 16, comma 5, del D.Lgs.<br />
n. 546/1992, il quale precisa che «qualunque comunicazione<br />
o notificazione a mezzo del servizio<br />
postale si considera effettuata nella data della spedizione».<br />
Con tali disposizioni il Legislatore <strong>tributari</strong>o ha, in<br />
un certo qual modo, «anticipato» le soluzioni alle<br />
quali sarebbe giunta, un decennio dopo, la nostra<br />
Corte costituzionale (2), prendendo atto della necessità<br />
di una «scissione soggettiva» del procedimento<br />
notificatorio, che si perfeziona, per il notificante,<br />
nel momento in cui l’atto è consegnato al<br />
soggetto incaricato al recapito; per il notificato,<br />
nel momento in cui il plico è stato materialmente<br />
ricevuto. Si tratta di una «scelta obbligata» - poi<br />
recepita anche nell’art. 149 del c.p.c. (3) - per neutralizzare<br />
i tempi morti dovuti alla giacenza dell’atto<br />
presso l’intermediario incaricato della notifica,<br />
siano esse le poste o lo stesso ufficiale giudiziario,<br />
come dirà Lupi più avanti.<br />
Univocità nell’individuazione del «dies a quo»<br />
e altre esigenze<br />
Per lungo tempo si è ritenuto che non vi fosse alcuna<br />
questione interpretativa da risolvere in relazione<br />
all’individuazione del dies a quo per la costituzione<br />
del ricorrente nel processo <strong>tributari</strong>o. Il<br />
combinato disposto degli artt. 22 e 20 del D.Lgs.<br />
n. 546/1992 sembra infatti fornire, a prima vista,<br />
un quadro chiaro, individuando nella data di spedizione<br />
dell’atto di impugnazione quella di «proposizione<br />
del ricorso» e facendo pertanto decorrere<br />
da tale momento iniziale il computo dei trenta<br />
giorni per la costituzione.<br />
Un primo orientamento giurisprudenziale (4), seguito<br />
dalla dottrina maggioritaria (5), era quindi<br />
tassativo nel ritenere che il dies a quo per la costituzione<br />
del ricorrente dovesse essere individuato<br />
nella data di consegna del ricorso all’ufficio postale<br />
o allo sportello notifiche.<br />
Esistono argomenti testuali di rilievo per questa<br />
soluzione, intendendo a 360 gradi l’espressione<br />
normativa secondo cui «il ricorso si intende presentato<br />
alla data di spedizione». Inoltre, come<br />
correttamente rilevato dalla dottrina, l’esigenza di<br />
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
garantire l’affidamento del notificante dovrebbe<br />
far propendere per l’individuazione del momento<br />
iniziale del computo nella data di consegna dell’atto.<br />
Ciò in quanto il ricorrente ben conosce la<br />
data nella quale si è recato all’ufficio postale o allo<br />
sportello notifiche e di conseguenza può calcolare<br />
agevolmente, senza alcun margine di incertezza,<br />
il trentesimo giorno da essa, e cioè l’ultimo<br />
valido per la sua tempestiva costituzione in giudizio.<br />
Non è certo la precisione nell’individuare i termini<br />
notificatori a poter legittimare una differente lettura<br />
degli artt. 22 e 20 del D.Lgs. n. 546/1992, ma<br />
esigenze di economia processuale e di «autonomia<br />
processuale», intesa come disponibilità della lite,<br />
ed apertura a sue soluzioni alternative e conciliative.<br />
Concedere all’attore un maggior lasso di tempo<br />
per valutare l’opportunità di provvedere all’iscrizione<br />
a ruolo della causa può infatti favorire<br />
una soluzione conciliativa, che renda superflua<br />
l’instaurazione del giudizio.<br />
Vantaggi di speditezza processuale<br />
guardando alla data di spedizione dell’atto<br />
Facendo decorrere il termine per la costituzione in<br />
giudizio del ricorrente nella spedizione postale<br />
dell’atto, si produrrebbe una certa «accelerazione»<br />
(6) del processo <strong>tributari</strong>o, in quanto il giorno iniziale<br />
per il computo del termine per la costituzione<br />
verrebbe anticipato alla data di consegna del plico.<br />
In altri termini, la durata del processo <strong>tributari</strong>o<br />
Note:<br />
(2) Sentenza 26 novembre 2002, n. 477, in Corr. Trib. n. 2/2003, pag.<br />
151, con commento di M. Bruzzone e in GT - Riv. giur. trib. n.<br />
4/2003, pag. 319, con commento di C. Glendi.<br />
(3) Il terzo comma dispone testualmente che «la notifica si perfeziona,<br />
per il soggetto notificante, al momento della consegna del<br />
plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in<br />
cui lo stesso ha legale conoscenza dell’atto».<br />
(4) Cass., Sez. trib., 19 giugno 2007, n. 14246, in GT - Riv. giur. trib.<br />
n. 12/2007, pag. 1035, con commento di M. Poggioli e in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA; Id., 14 ottobre 2004, n. 20262, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA; Comm. trib. prov. di Parma, Sez. I, 11 luglio 2003,<br />
n. 61, ivi.<br />
(5) Si rinvia in particolare a: M. Bruzzone, «Incertezze interpretative<br />
“apparenti” sulla decorrenza del termine di trenta giorni per<br />
la costituzione in giudizio del ricorrente», in GT - Riv. giur. trib. n.<br />
8/2008, pag. 684; M. Poggioli, «Proposizione del ricorso a mezzo<br />
posta e decorrenza del termine per la costituzione in giudizio»,<br />
ivi n. 12/2007, pag. 1036.<br />
(6) M. Bruzzone, op. loc. ult. cit.<br />
4/2012<br />
417
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
verrebbe ridotta di qualche giorno, e più precisamente<br />
dei giorni necessari per la materiale consegna<br />
dell’atto.<br />
La soluzione andrebbe quindi a vantaggio della<br />
celerità del processo (7) e non provocherebbe alcuna<br />
lesione del diritto di difesa del ricorrente in<br />
quanto, come già illustrato, quest’ultimo ben può<br />
calcolare con assoluta certezza la scadenza del termine<br />
per la propria costituzione.<br />
Resta però da chiedersi se il vantaggio conseguito,<br />
ossia una minima riduzione della durata complessiva<br />
del processo, valga ad individuare il dies a<br />
quo nella data di spedizione dell’atto e se non vi<br />
siano, invece, valide ragioni per differire tale termine,<br />
facendolo decorrere alla data di ricevimento<br />
del plico.<br />
Invero a fronte di una riduzione minima - e quindi<br />
francamente insignificante - della durata del processo,<br />
la tesi qui prospettata presenta alcuni rilevanti<br />
svantaggi: invero essa non tiene conto del<br />
fatto che l’attore potrebbe avere tutto l’interesse a<br />
«tenersi lungo» sull’iscrizione a ruolo, per una<br />
molteplicità di ragioni.<br />
Ben può accadere che il contribuente, costretto a<br />
notificare il ricorso per evitare di decadere dal<br />
proprio potere di impugnazione, non abbia alcun<br />
interesse ad affrettare l’iscrizione a ruolo, magari<br />
perché confida ancora in un annullamento in autotutela<br />
dell’atto e vorrebbe evitare di sobbarcarsi<br />
ulteriori spese di difesa nonché il pagamento del<br />
contributo unificato.<br />
Oppure, ben può accadere che l’attore preferisca<br />
procedere con l’iscrizione a ruolo della causa solo<br />
dopo aver appurato il buon esito della notifica dell’atto<br />
introduttivo: conteggiando il termine dalla<br />
data di spedizione il ricorrente potrebbe invece doversi<br />
costituire in giudizio senza sapere se il procedimento<br />
notificatorio si sia correttamente perfezionato<br />
o se, al contrario, siano sopravvenuti alcuni<br />
«ostacoli» alla valida notifica del ricorso (inerzia<br />
o ritardo dell’agente incaricato alla consegna,<br />
perdita della ricevuta di ritorno, ecc.).<br />
Insomma il ricorrente potrebbe essere costretto a<br />
costituirsi «alla cieca», confidando in cuor suo nel<br />
buon esito della notifica, ma senza avere alcuna<br />
certezza in ordine all’effettivo verificarsi di tale<br />
circostanza. Col rischio di intraprendere un processo<br />
la cui sentenza non impegnerebbe il convenuto,<br />
privo di certezza legale del processo per via<br />
418<br />
4/2012<br />
di un qualche errore postale o dell’ufficiale giudiziario.<br />
Quest’ultimo profilo non è di poco conto. La nullità<br />
della notifica dell’atto introduttivo del giudizio<br />
comporta, com’è ovvio, una grave violazione del<br />
principio del contraddittorio. Vero è che per ovviare<br />
alla mancata instaurazione del contraddittorio<br />
l’ordinamento predispone vari strumenti, quali la<br />
rinnovazione della notifica, l’impugnazione della<br />
sentenza illegittimamente emessa in assenza della<br />
parte convenuta, la rimessione della causa al giudice<br />
di primo grado, ecc. Trattasi tuttavia di strumenti<br />
che, se da un lato consentono giustamente<br />
alla parte resistente di esercitare il proprio diritto<br />
di difesa, dall’altro comportano un allungamento<br />
dei tempi processuali, lungaggini costose per lo<br />
stesso attore, ed un consequenziale aumento delle<br />
spese di giustizia. Spese che vengono sopportate<br />
sia dalle parti processuali che dalla collettività nel<br />
suo insieme, posto che nei capitoli della spesa<br />
pubblica pesano non poco i costi del nostro sistema<br />
giudiziario, globalmente considerato.<br />
In altri termini, solo a prima vista si potrebbe pensare<br />
che considerando come dies a quo per la costituzione<br />
del ricorrente il giorno di spedizione<br />
dell’atto si otterrebbe un vantaggio in termini di<br />
celerità del procedimento e quindi di giusta durata<br />
del processo. Al contrario, ad un esame più attento,<br />
si deve rilevare come il prospettato vantaggio<br />
sia, in verità, assai minimo ed altresì accompagnato<br />
da un rischio, ben più rilevante, di «ipertrofia<br />
processuale».<br />
Ora, guardando alla questione da questa prospettiva,<br />
appare evidente che l’interprete debba ricercare<br />
l’esatto significato degli artt. 22 e 20 del D.Lgs.<br />
Nota:<br />
(7) Enfatizza l’esigenza di celerità del processo V. Azzoni, «Processo<br />
<strong>tributari</strong>o: computo del dies a quo per la costituzione in giudizio<br />
del ricorrente», in il fisco n. 34/2008, pag. 6147, il quale individua<br />
il dies a quo nella data di spedizione precisando che, se si individua<br />
tale momento nella data di ricevimento dell’atto, «i tempi<br />
di costituzione in giudizio nella disponibilità del ricorrente (…) si<br />
dilatano, in misura anche considerevole: basti pensare che il periodo<br />
(di qualche giorno, non di rado di qualche settimana) necessario<br />
al postino per recapitare il messaggio va a sommarsi ai<br />
trenta giorni nominali entro cui, con il deposito, il ricorrente è<br />
tenuto ad adire il giudice <strong>tributari</strong>o, con riflessi non dappoco sulla<br />
celerità del processo, profilo che è pur sempre indizio del<br />
buon andamento del servizio pubblico, assurto in età repubblicana<br />
a paradigma costituzionale».
n. 546/1992, effettuando un corretto bilanciamento<br />
tra l’esigenza di celerità del processo ed il principio<br />
di economia processuale, inteso come principio<br />
volto ad evitare l’instaurazione di procedimenti<br />
«inutili», perché non necessari o perché parzialmente<br />
o totalmente «da rifare».<br />
Vantaggio di consentire la notifica<br />
entro trenta giorni dal ricevimento<br />
Esistono invece, ad avviso di chi scrive, i margini<br />
per contestualizzare l’espressione secondo cui «il<br />
ricorso si intende presentato con la spedizione»,<br />
riferendola alla tempestività della sua redazione,<br />
soprattutto per quanto riguarda il rispetto di eventuali<br />
termini entro i quali deve avvenire la domanda<br />
giudiziale, la notifica della citazione o l’impugnazione<br />
dell’atto amministrativo. Restano impregiudicate<br />
però le altre esigenze di sistematica processuale,<br />
a partire da quella secondo cui, prima di<br />
aprire la pratica presso il giudice, è bene avere notizia<br />
formale che l’altra parte abbia ricevuto la vocatio<br />
in ius. Il che deporrebbe appunto per la possibilità<br />
di differire il dies a quo per la costituzione<br />
in giudizio a quando l’attore ha la notizia dell’avvenuta<br />
consegna da parte della posta o dell’ufficiale<br />
giudiziario.<br />
Abbiamo infatti già indicato la possibilità di limitare<br />
il riferimento normativo alla spedizione come<br />
momento di «proposizione del ricorso» alla tempestività<br />
di tale adempimento, a garanzia del ricorrente.<br />
Restano però ferme le altre già indicate ragioni<br />
di sistematica processuale, e di economia<br />
processuale, per collegare la costituzione del ricorrente<br />
alla data di ricevimento del plico da parte del<br />
destinatario.<br />
Trattasi invero di due funzioni completamente diverse,<br />
che possono ragionevolmente essere regolate<br />
in modo difforme, assegnando una duplice portata<br />
alla locuzione «proposizione del ricorso».<br />
Ai fini della tempestività della notifica, si può individuare<br />
il dies a quo nella data di spedizione ai<br />
sensi del combinato disposto degli artt. 20 e 16,<br />
commi 2 e 3, del D.Lgs. n. 546/1992.<br />
Ai fini della tempestività dell’iscrizione a ruolo, si<br />
può invece individuare il dies a quo nella data di<br />
ricevimento dell’atto, ai sensi degli artt. 22 e 16,<br />
comma 5, del predetto decreto (8). Tale ultima<br />
norma, rubricata «Comunicazioni e notificazioni»,<br />
dopo aver previsto all’ultimo comma che «qualun-<br />
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
que comunicazione o notificazione a mezzo del<br />
servizio postale si considera effettuata nella data<br />
di spedizione», dispone che «i termini che hanno<br />
inizio dalla notificazione o dalla comunicazione<br />
decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto».<br />
Conformemente al già indicato «sdoppiamento<br />
soggettivo» del termine, quello per la costituzione<br />
in giudizio, a parere di chi scrive, è uno di quelli<br />
che, nel processo <strong>tributari</strong>o, «hanno inizio dalla<br />
notificazione»; certamente è così per quanto riguarda<br />
il destinatario (ci mancherebbe altro!), ma<br />
i motivi sopra indicati militano per riferire il termine<br />
anche al ricorrente. Non a caso l’art. 22 richiede<br />
che il ricorrente depositi «l’originale del<br />
ricorso notificato», con ciò implicitamente richiedendo<br />
il completamento dell’iter notificatorio<br />
(ben avrebbe potuto il Legislatore richiedere il<br />
deposito dell’«originale del ricorso di cui è stata<br />
chiesta la notificazione», o altra formula equipollente).<br />
In altri termini all’ultimo inciso dell’art. 16, comma<br />
5, deve essere attribuita valenza di regola strutturale<br />
del processo <strong>tributari</strong>o (9), non condizionata<br />
dalla forza maggiore della notifica a mezzo posta.<br />
Tale norma prevale infatti su ogni disposizione<br />
difforme dettata per specifiche ipotesi, come è il<br />
caso dell’art. 20, comma 2, ultimo inciso, dettato<br />
appositamente per la verifica della tempestività<br />
della notifica.<br />
In tal senso è interessante notare che anche l’Amministrazione<br />
finanziaria, nella circolare 13 marzo<br />
2006, n. 10/E (10), richiama espressamente, ai fini<br />
del computo dei termini per la costituzione in giudizio<br />
del ricorrente e dell’appellante, l’art. 16,<br />
Note:<br />
(8) La Corte costituzionale, nella sentenza 23 gennaio 2004, n. 28<br />
(in Corr. Trib. n. 10/2004, pag. 773, con commento di C. Glendi e in<br />
GT - Riv. giur. trib. n. 4/2004, pag. 305, con commento di M. Bruzzone),<br />
ha precisato che la regola della «scissione soggettiva» della<br />
notificazione di per sé non esclude «che la produzione degli<br />
effetti che alla stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento<br />
del procedimento notificatorio anche per il destinatario».<br />
(9) In tal senso C. Bafile, Il nuovo processo <strong>tributari</strong>o, Padova, 1994,<br />
pag. 125-126, a parere del quale la disposizione racchiusa nella<br />
seconda parte dell’art. 16, comma 5, prevale su quella dell’art. 20,<br />
comma 2, rappresentando quest’ultima una «semplice ripetizione<br />
della regola generale enunciata nella prima parte dell’art. 16 comma<br />
5».<br />
(10) In Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
4/2012<br />
419
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
comma 5 (e non l’art. 20, comma 2), del D.Lgs. n.<br />
546/1992 (11).<br />
La tesi qui sostenuta è confortata da una tendenza<br />
processuale che valorizza come momento di decorrenza<br />
del termine per la costituzione del ricorrente<br />
la data in cui è avvenuta la materiale traditio<br />
del plico al destinatario (12). Tale orientamento,<br />
anche se non ancora pacifico in dottrina (13), può<br />
dirsi oggi predominante in giurisprudenza (14).<br />
Si noti bene che tale interpretazione non è ad esclusivo<br />
vantaggio del ricorrente, bensì è anche a vantaggio<br />
della parte resistente (la quale potrebbe, ad<br />
esempio, essere costretta ad impugnare la sentenza<br />
emessa a seguito della sua illegittima estromissione<br />
dal procedimento, a causa del vizio notificatorio<br />
non rilevato dal giudice), nonché dell’ordinamento<br />
giudiziario nel suo complesso (il quale beneficerebbe<br />
di un preventivo vaglio, a cura della parte notificante,<br />
sull’inesistenza di vizi della notifica e potrebbe<br />
conseguentemente vedersi «epurato» delle<br />
problematiche a ciò connesse, o comunque verrebbe<br />
alleggerito da procedimenti instaurati senza una<br />
reale volontà di coltivare il contenzioso).<br />
Per tali ragioni, a parere di chi scrive, deve essere<br />
vista con assoluto favore la tesi giurisprudenziale<br />
che interpreta l’art. 22 nel senso di concedere al ricorrente<br />
trenta giorni per la propria costituzione, a<br />
decorrere dalla data di ricevimento dell’atto da<br />
parte del resistente.<br />
A parere di chi scrive la tesi suesposta non è messa<br />
in discussione dalle sentenze della Corte di cassazione<br />
31 marzo 2011, n. 7373 e 15 aprile 2011, n. 8664<br />
(15) emesse a seguito dell’impugnazione della medesima<br />
sentenza di secondo grado (16). Dalla lettura<br />
integrale della sentenza sottoposta all’attenzione<br />
della Cassazione si evince che la questione in esame<br />
era completamente diversa dalla problematica qui illustrata:<br />
l’Amministrazione finanziaria non aveva<br />
prodotto la prova della notifica dell’atto di appello<br />
agli eredi del contribuente e pertanto la Commissione<br />
<strong>tributari</strong>a regionale, a fronte della mancata costituzione<br />
dei resistenti, aveva dichiarato l’inammissibilità<br />
dell’impugnazione proposta nei confronti della<br />
sentenza di primo grado. Le pronunce su richiamate<br />
devono pertanto essere lette semplicemente nel senso<br />
che «l’omesso deposito della ricevuta di spedizione<br />
viene ad incidere sul riscontro della stessa tempestività<br />
della costituzione in giudizio dell’appellante,<br />
dalla quale la legge fa scattare l’inammissibilità del<br />
420<br />
4/2012<br />
proposto gravame» (17). Invero è evidente che, se<br />
non viene depositata la ricevuta di spedizione né<br />
l’avviso di ricevimento dell’atto, il giudice non può<br />
procedere nel computo dei giorni trascorsi ai fini<br />
della tempestività della costituzione.<br />
In ogni caso, anche volendo attribuire alle summenzionate<br />
pronunce una portata più ampia di<br />
quella qui illustrata, non va dimenticato che le<br />
stesse sono state in ogni caso superate da successive<br />
pronunce di legittimità (18).<br />
Una facoltà o un obbligo?<br />
Se il ricorrente vuole evitare di documentare la notifica<br />
al destinatario, ed esistono altri motivi di opportunità<br />
(19), nulla vieta che il ricorrente si costituisca<br />
considerando il momento della spedizione;<br />
non mi voglio soffermare qui sulla possibilità di<br />
considerare direttamente tempestiva questa costituzione<br />
in giudizio, oppure di considerare applicabile<br />
l’istituto del raggiungimento dello scopo. Se<br />
l’attore si costituisce tardivamente, rispetto a que-<br />
Note:<br />
(11) «Ai fini del computo dei termini processuali, in mancanza di<br />
una specifica previsione normativa sul punto, si ritiene che vada<br />
applicata in via analogica la disposizione in materia di comunicazioni<br />
e notificazioni di cui al comma 5 del precedente articolo 16,<br />
secondo cui “qualunque comunicazione o notificazione a mezzo<br />
del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione; i<br />
termini che hanno inizio dalla notificazione o dalla comunicazione<br />
decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”».<br />
(12) Cass., Sez. trib., Ord. 3 agosto 2012, n. 14010, in Banca Dati<br />
BIG Suite, IPSOA; Id., Sez. VI, Ord. 13 marzo 2012, n. 4002, in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA; Id., 21 aprile 2011, n. 9173, ivi; Id., 15 maggio<br />
2008, n. 12185, ivi e in GT - Riv. giur. trib. n. 8/2008, pag. 677, con<br />
commento di M. Bruzzone; Comm. trib. reg. Emilia-Romagna, Sez.<br />
VIII, 4 luglio 2011, n. 81, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(13) Seppure già adottata da alcuni Autori, si veda A. Amatucci,<br />
«Inammissibilità del ricorso per vizi nella costituzione del ricorrente»,<br />
in Corr. Trib. n. 39/1996, pag. 2995, il quale precisa che<br />
«dovrà, in particolare, considerarsi che, qualora si sia usato il<br />
mezzo del servizio postale, nonostante la notificazione debba intendersi<br />
realizzata nella data di spedizione, i termini che hanno<br />
inizio dalla notificazione e dalla comunicazione decorrono dalla<br />
data in cui l’atto è ricevuto (articolo 16 ultimo comma). È da<br />
questa data quindi che dovrà calcolarsi il termine per il deposito,<br />
previsto al successivo art. 22».<br />
(14) Cass. nn. 4002 e 14010 del 2012, cit.<br />
(15) Entrambe in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(16) Comm. trib. reg. Sicilia, 13 dicembre 2005, n. 88.<br />
(17) Cass., Sez. trib., 31 marzo 2011, n. 7373, in Banca Dati BIG<br />
Suite, IPSOA; Id., 15 aprile 2011, n. 8664, ivi.<br />
(18) Cass. n. 4002 e n. 14010 del 2012, cit.<br />
(19) Ad esempio l’impossibilità di un prospettico accordo col<br />
convenuto, con conseguente inevitabilità del processo.
sta data, dovrà provare quella di ricevimento del<br />
plico da parte del destinatario, producendo in giudizio<br />
la cartolina di ritorno ovvero idonea attestazione<br />
dell’Ufficiale giudiziario. In altri termini,<br />
nessun rilievo può essere attribuito ad altre forme<br />
non ufficiali di conoscenza della data di ricevimento<br />
del plico da parte del destinatario (20).<br />
Va da sé altresì che grava sull’attore anche il rischio<br />
di un errato computo del termine: se il ricorrente<br />
considera come data di consegna del plico un<br />
giorno diverso da quello effettivo (per mera svista<br />
o magari perché, non essendo ancora ritornato in<br />
possesso della cartolina di ritorno, si affida ad una<br />
previsione poi rivelatasi inesatta), il suo errore non<br />
potrà in nessun caso ritenersi scusabile.<br />
In altri termini, se sussiste un dubbio in ordine alla<br />
data in cui il convenuto ha effettivamente consegnato<br />
l’atto, l’attore dovrà seguire una regola di<br />
prudenza e provvedere alla propria costituzione in<br />
giudizio non oltre il decorso di trenta giorni dalla<br />
data di spedizione del plico.<br />
Costituzione del ricorrente<br />
nel giudizio di cassazione<br />
Un interessante argomento a sostegno della validità<br />
della tesi suesposta può essere tratto dalle pronunce<br />
emesse in relazione al dies a quo per la costituzione<br />
del ricorrente nel processo di cassazione.<br />
Vero è che la formulazione letterale della norma<br />
sulla costituzione nel giudizio di cassazione è<br />
leggermente diversa da quella sulla costituzione<br />
nel processo <strong>tributari</strong>o (21), tuttavia, a parere di<br />
chi scrive, la questione da risolvere è la stessa, in<br />
quanto anche con riferimento all’«ultima notificazione»<br />
ci si può chiedere se l’espressione faccia riferimento<br />
al momento in cui la notificazione ha effetto<br />
per il ricorrente (spedizione) o per il resistente<br />
(ricevimento).<br />
Ebbene, in relazione all’art. 369 c.p.c. la giurisprudenza<br />
di legittimità si è più volte pronunciata<br />
(22), precisando che «il termine per il deposito del<br />
ricorso per cassazione notificato a mezzo del servizio<br />
postale decorre, non dalla data di spedizione<br />
della raccomandata ma da quella della sua ricezione,<br />
atteso che (…) far decorrere il termine dalla<br />
data di spedizione della raccomandata comporterebbe<br />
per il ricorrente la necessità di procedere al<br />
deposito dell’atto nell’assoluta incertezza circa la<br />
validità della relativa notifica» (23).<br />
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
La Cassazione ha quindi già distinto, con riferimento<br />
al giudizio di legittimità, la tempestività<br />
della notifica dell’atto dalla tempestività del deposito<br />
del ricorso ed ha concluso che il termine per<br />
la costituzione debba decorrere dalla data di ricevimento<br />
dell’atto, onde consentire al ricorrente di<br />
verificare il buon esito della notifica.<br />
Non si vede perché tale soluzione non possa essere<br />
estesa anche al processo <strong>tributari</strong>o, essendo la<br />
stessa dettata dalla volontà - più che condivisibile<br />
- di salvaguardare il principio di economia processuale,<br />
il quale, si ricorda, pur essendo stato recepito<br />
ad hoc in varie disposizioni dell’ordinamento<br />
(24), è regola immanente del nostro sistema giuridico,<br />
trovando fondamento nell’art. 111 della nostra<br />
Costituzione.<br />
Considerazioni sistematiche conclusive<br />
Alla luce delle riflessioni svolte in questo commento<br />
non resta che chiedersi, in chiusura, se la<br />
questione del computo del termine per la costituzione<br />
dell’attore non meriti forse di essere ripensata,<br />
non solo e non tanto con riferimento al processo<br />
<strong>tributari</strong>o, bensì in un’ottica complessiva.<br />
Invero anche negli altri tipi di processo ed in particolare<br />
nel rito civile dovrebbe essere garantito<br />
all’attore un congruo lasso di tempo prima di dover<br />
procedere all’iscrizione a ruolo della causa e<br />
di provvedere pertanto all’instaurazione dell’ennesimo<br />
contenzioso. Questa soluzione si concilia anche<br />
con la tendenza del nostro ordinamento a deflazionare<br />
il processo con soluzioni normative ed<br />
interpretative che favoriscano l’appianamento della<br />
lite in fase pre-contenziosa. Lo testimoniano vari<br />
istituti (basti pensare alla mediazione, applicata,<br />
seppure con preoccupanti «anomalie» (25), anche<br />
Note:<br />
(20) Penso al servizio informativo «Dovequando» di Poste Italiane.<br />
(21) L’art. 22 del D.Lgs. n. 546/1992 richiede che la costituzione<br />
avvenga «entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso»,<br />
mentre l’art. 369 c.p.c. richiede che il ricorrente si costituisca<br />
«nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti<br />
contro le quali è proposto».<br />
(22) Cass., Sez. III civ., 26 giugno 2007, n. 14742; Id., Sez. lav., 6<br />
maggio 2004, n. 8642; Id., Sez. III civ., 17 luglio 2003, n. 11201.<br />
(23) Cass. n. 8642 del 2004, cit.<br />
(24) Ad esempio, si veda l’art. 438, comma 5, c.p.p.<br />
(25) Ci si riferisce in particolare all’assenza di un mediatore in<br />
posizione di effettiva terzietà nei confronti della controversia che<br />
è invitato a dirimere.<br />
4/2012<br />
421
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
al processo <strong>tributari</strong>o) legislativi, ed anche gli studiosi,<br />
i quali si sforzano - certo più che in passato<br />
- di interpretare la normativa esistente in senso<br />
congeniale ad una eventuale «riappacificazione»<br />
delle parti al di fuori delle aule di giustizia. Questo<br />
perché è emersa sempre più nella coscienza collettiva<br />
l’idea del processo come «male sociale», come<br />
un qualcosa che nuoce sia ai privati coinvolti<br />
che agli organi statali chiamati ad organizzare (e<br />
finanziare) le strutture necessarie al suo funzionamento.<br />
I primi sembra che non ne ricavino un gran<br />
beneficio in termini di certezza del diritto e tempestività<br />
del procedimento, i secondi sarebbero ben<br />
lieti di non doversi sobbarcare gli enormi costi<br />
dell’apparato giudiziario e penitenziario. Personalmente,<br />
non ritengo si debba esagerare in questa direzione,<br />
perché il processo è uno strumento di<br />
massima civiltà, basato su un’ideale nobile, di cui<br />
proprio per questo non bisogna abusare.<br />
Ritengo più che condivisibili quelle tesi che, senza<br />
arrivare a «demonizzare» il processo, mirano ad<br />
agevolare una soluzione conciliativa della controversia,<br />
per il semplice fatto che prevenire la lite<br />
giudiziale è sicuramente meglio che doverla risolvere.<br />
La soluzione interpretativa qui sostenuta concede<br />
certamente più spazio all’accordo tra le parti, come<br />
emerge dal seguente esempio: Tizio chiede a<br />
Caio di rendergli del denaro concesso a titolo di<br />
mutuo. Dopo numerose richieste di restituzione<br />
della somma, inoltrate a mezzo raccomandata a.r.<br />
e rimaste completamente inevase, Tizio si rivolge<br />
al proprio legale e fa notificare a Caio un atto di<br />
citazione. Caio, ricevuto l’atto, comprende che il<br />
proprio creditore «fa sul serio» e si attiva per trovare<br />
una definizione bonaria della lite. Tuttavia,<br />
quando Caio ha ricevuto l’atto probabilmente è già<br />
decorso o comunque sta per decorrere lo stretto<br />
termine (che l’art. 165 c.p.c. fissa in soli 10 giorni),<br />
entro cui Tizio deve costituirsi depositando<br />
nella Cancelleria del Tribunale la nota di iscrizione<br />
a ruolo ed il fascicolo di parte. Risultato? L’accordo<br />
tra le parti molto probabilmente «sfuma», in<br />
quanto la causa è già iscritta a ruolo e l’attore ha<br />
già pagato il contributo unificato, ragion per cui<br />
sarà certamente più propenso a coltivare il contenzioso.<br />
Ovvero può accadere che Tizio, dopo aver tentato<br />
di notificare l’atto introduttivo a Caio, venga a sa-<br />
422<br />
4/2012<br />
pere della sua irreperibilità, ma nel frattempo sia<br />
già stato costretto a provvedere all’iscrizione della<br />
causa a ruolo (nonché al pagamento del contributo<br />
unificato), e si trovi quindi a coltivare un<br />
contenzioso nei confronti di un soggetto che è<br />
«uccel di bosco» e, pertanto, molto probabilmente<br />
insolvibile.<br />
Insomma, nonostante un’interpretazione giurisprudenziale<br />
a volte eccessivamente rigida (27), mi<br />
sembra che esistano molteplici ragioni per le quali<br />
dovrebbe essere concesso all’attore un maggiore<br />
spatium deliberandi … una sorta di «ultima chance<br />
di ripensamento».<br />
Nota:<br />
(26) Basti pensare al fatto che in ipotesi di pluralità di convenuti<br />
le Sezioni Unite hanno precisato che il termine per il deposito<br />
dell’atto e di conseguenza per l’iscrizione a ruolo della causa decorre<br />
dalla prima e non dall’ultima delle notifiche effettuate<br />
(Cass., SS.UU., 18 maggio 2011, n. 10864). Soluzione opposta a<br />
quella alla quale è giunto in alcune ipotesi il Legislatore. Si ricorda<br />
che ai sensi del combinato disposto di cui agli (abrogati) artt.<br />
5, comma 1, e 3, comma 2, del D.Lgs. n. 5/2003 («rito societario»)<br />
il termine per la costituzione decorreva dall’ultima notifica effettuata.<br />
Ancora più emblematico l’art. 45, comma 1, del Codice del<br />
Processo Amministrativo, introdotto con il D.Lgs. n. 104/2010, il<br />
quale prevede espressamente che il termine per la costituzione<br />
decorra «dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso<br />
si è perfezionata anche per il destinatario».
Tempi morti della posta, costituzione in giudizio e concezioni<br />
del processo<br />
Raffaello Lupi<br />
L’articolo che precede rileva sotto molteplici profili,<br />
che vanno al di là del diritto amministrativo<br />
delle imposte, e riguardano potenzialmente anche<br />
il processo civile. In generale, si percepisce anche<br />
qui la sensazione di quanto il diritto, appiattito sui<br />
«materiali normativi», diventi pian piano incapace<br />
di riflettere, e rischi di passare da un paralizzato<br />
formalismo a un sostanzialismo banale, incapace<br />
di individuare e ponderare tutte le esigenze in gioco.<br />
Vengono i brividi nel vedere le più alte magistrature<br />
scomodarsi per svolgere riflessioni elementari<br />
come quelle secondo cui avrebbe violato<br />
il diritto di difesa e il principio di ragionevolezza<br />
una soluzione diversa da quella del «doppio termine»<br />
(27). È una conferma di quanto un «buonsenso<br />
organico», coordinato, fatichi a farsi strada in<br />
quella progressiva paralisi cerebrale indotta dall’appiattimento<br />
sui «materiali normativi» (adattando<br />
Goya al diritto, il sonno della ragione provocato<br />
dall’appiattimento sui «materiali normativi»<br />
produce mostri!).<br />
Prima di tutto l’ipotesi correttamente prospettata<br />
nell’articolo che precede è una facoltà e non un obbligo<br />
di attendere, come termine iniziale per la costituzione<br />
in giudizio, il ricevimento dell’atto da<br />
parte del destinatario. Mi sembra insomma che<br />
l’attore, se si costituisce in giudizio entro trenta<br />
giorni della spedizione, «sta comunque a posto».<br />
Sarebbe fantascienza giuridica, allo stato della normativa,<br />
delle convinzioni e dei comportamenti consolidati,<br />
ipotizzare una «costituzione in giudizio<br />
prematura», se effettuata prima che il destinatario<br />
riceva l’atto; il che equivarrebbe ad ipotizzare che<br />
l’attore debba seguire le vicende della notifica postale,<br />
anche dopo la spedizione, ed attendere, come<br />
termine iniziale per costituirsi in giudizio, il ricevimento<br />
dell’atto da parte del destinatario.<br />
Paradossalmente, la necessità di consentire comunque<br />
all’attore di utilizzare come termine iniziale<br />
per la costituzione in giudizio la data di spedizione<br />
potrebbe indebolire la correttisima tesi dell’articolo<br />
che precede. Infatti, in un diritto appiattito sulle<br />
«regole» sui «materiali», presentati come frammento<br />
di una sapienza universale, «le facoltà», le<br />
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
possibilità «consentite», ma non doverose, creano<br />
istintivamente fastidio. Il buonsenso avvalora ovviamente<br />
la tesi dell’articolo che precede, ma un<br />
tempo sentivo ripetere l’espressione «se bastasse il<br />
buonsenso non servirebbe il diritto».<br />
Anche il ristretto tema in esame fa intravedere una<br />
pseudo argomentazione, frequente nei discorsi<br />
giuridici, riportabile essenzialmente all’archetipo<br />
«ma allora l’attore può fare come gli pare», cioè<br />
regolarsi a partire dalla spedizione dell’atto o informarsi<br />
sul suo ricevimento, attraverso le tortuose<br />
vie informatiche dei siti Internet delle poste italiane,<br />
e aver riferimento alla ricezione dell’atto da<br />
parte del destinatario.<br />
A me personalmente, come pure alla giurisprudenza<br />
citata dall’articolo che precede, questa possibilità<br />
di scelta non dà alcun fastidio, né vi intravedo<br />
pregiudizi per l’ordine pubblico, il buoncostume o<br />
altro sacro principio della convivenza sociale. Anche<br />
perché, dando questa facoltà all’attore, c’è la<br />
possibilità di evitare il processo, di non intasare le<br />
segreterie dell’organo giurisdizionale, che è pur<br />
sempre (in senso ampio) un ufficio amministrativo<br />
oberato di carichi di lavoro.<br />
L’articolo che precede ha già evidenziato la possibilità<br />
che il convenuto, una volta ricevuta la citazione,<br />
decida di scendere a patti evitando il processo.<br />
Anche l’Amministrazione finanziaria, sempre alla<br />
ricerca di pretesti per rinviare, cautelarsi, sentire<br />
pareri di altri uffici, nella sua ansia di «copertura»,<br />
potrebbe avere bisogno di tempo per una di quelle<br />
definizioni consensuali che ora sono così in auge.<br />
Insomma, le argomentazioni sostanzialistiche sono<br />
solo a favore della facoltà dell’attore di costituirsi<br />
in giudizio avendo riferimento al ricevimento<br />
Nota:<br />
(27) Secondo Corte cost. n. 477 nel 2002, cit., «è, infatti, palesemente<br />
irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante,<br />
che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo<br />
nel compimento di un’attività riferibile non al notificante, ma a<br />
soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale come ausiliario<br />
di questo) e per ciò del tutto estranea alla sfera di disponibilità<br />
del primo».<br />
4/2012<br />
423
Processo<br />
<strong>tributari</strong>o<br />
dell’atto da parte del convenuto. Prendendosi ovviamente<br />
il rischio di dimostrarlo, e di non riuscire<br />
a dimostrarlo. Altrimenti, se l’attore sa che comunque<br />
il processo è inevitabile si costituirà a decorrere<br />
dalla spedizione, per non avere problemi.<br />
Non mi sembra neppure che ci siano preclusioni<br />
formali, cioè testuali, letterali, alla soluzione sostenuta<br />
nell’articolo che precede. L’unico ostacolo<br />
potrebbe collegarsi a quella possibilità dell’attore<br />
di «fare come gli pare», che sembrerebbe scontrarsi<br />
con una concezione subliminale, arcana, negromantica<br />
del processo, non come un servizio reso<br />
dal pubblico potere alla società, ma come un oscuro<br />
rituale in cui è enfatizzato ed esaltato il ruolo<br />
del pubblico potere. È un insieme di sensazioni<br />
che travalicano il ragionamento e sconfinano nel<br />
424<br />
4/2012<br />
mito dell’autorità processuale che, in quanto «moderna<br />
religione», deve avere le sue liturgie, con<br />
cui sono incompatibili le possibilità di scelta<br />
dell’attore sul termine iniziale per costituirsi in<br />
giudizio. Alla tesi dell’articolo in esame non si oppongono<br />
argomenti razionali, ma una concezione<br />
subliminale del processo come arcana liturgia in<br />
cui sono evocate forze occulte. Insomma, come se<br />
il giudice fosse una specie di semidio, tipo «Pdor<br />
figlio di Kmer» (28). Le scienze sociali devono<br />
sempre fare i conti col mito.<br />
Nota:<br />
(28) http://www.youtube.com/watch?v=_r05oEOQtYsAldo, per<br />
vedere subito la scena cui mi riferisco basta digitare su youtube<br />
«Aldo Giovanni e Giacomo Io sono Pdor, figlio di Kmer».
La confisca obbligatoria di valore o per equivalente<br />
ha fatto il suo dirompente ingresso nei procedimenti<br />
penali per reati <strong>tributari</strong> nel 2008, in virtù di<br />
quanto previsto dall’art. 1, comma 145, della legge<br />
n. 244/2007, che ha sancito l’osservanza per tutte<br />
le fattispecie descritte nel D.Lgs. n. 74/2000 (ad<br />
esclusione dell’occultamento o distruzione di documenti<br />
contabili) delle disposizioni di cui all’art.<br />
322-ter c.p., «in quanto applicabili» (1).<br />
L’applicazione della confisca per equivalente alla<br />
materia <strong>tributari</strong>a ha determinato da subito una serie<br />
di criticità, ancora attuali, già evidenziate su<br />
questa Rivista (2), tra cui la difficoltà di individuazione<br />
e quantificazione del profitto (o prezzo) del<br />
reato e la sovrapposizione tra misura ablativa eseguita<br />
dal giudice penale e recupero in via amministrativa<br />
dell’imposta evasa.<br />
Ulteriori criticità emergono qualora la confisca è<br />
disposta nei confronti di soggetti concorrenti nel<br />
reato, diversi dal contribuente, ed in particolare<br />
dei professionisti.<br />
Presupposto necessario per l’applicazione della<br />
confisca per equivalente è che sia impossibile procedere<br />
alla confisca del profitto o del prezzo del<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
Confisca per equivalente<br />
e reati <strong>tributari</strong>: limiti di applicazione<br />
e coinvolgimento del professionista<br />
di Andrea Buccisano, Giuseppe Ingrao<br />
Le recenti pronunce con cui la Cassazione ha ritenuto legittima l’adozione del sequestro preventivo<br />
finalizzato alla confisca per equivalente, in relazione a reati <strong>tributari</strong>, inducono ad evidenziare<br />
che quest’ultimo istituto andrebbe applicato limitatamente alle ipotesi di reati <strong>tributari</strong><br />
realizzati per mezzo di «frodi carosello». Qualora peraltro la confisca per equivalente involga i<br />
professionisti che assistono il contribuente nella cura dell’adempimento fiscale, risulta indispensabile<br />
dimostrare l’esistenza di un ruolo attivo nell’acquisizione delle fatture false, essendo inaccettabile<br />
l’affermazione di correità e la connessa confisca per equivalente, sul presupposto della<br />
mera conoscenza della falsità del documento contabile.<br />
Confisca di valore e reati <strong>tributari</strong>: misura sussidiaria alla riscossione<br />
dell’imposta evasa?<br />
Andrea Buccisano<br />
reato, definendosi così la natura accessoria o sussidiaria<br />
della confisca di valore rispetto a quella<br />
qualificata.<br />
Tale istituto si differenzia, quindi, profondamente<br />
dalla tradizionale confisca facoltativa (misura patrimoniale<br />
di sicurezza) «delle cose che servirono<br />
o furono destinate a commettere il reato, e delle<br />
cose che ne sono il prodotto o il profitto» (art. 240<br />
c.p.), per i suoi connotati squisitamente sanzionatori<br />
(3) e per il fatto che, come confermato dal-<br />
Andrea Buccisano - Ricercatore di Diritto <strong>tributari</strong>o presso l’Università<br />
di Messina e Avvocato<br />
Note:<br />
(1) L’art. 322-ter è stato introdotto nel codice penale dall’art. 1<br />
della legge 29 settembre 2000, n. 300, al fine di potenziare le misure<br />
sanzionatorie dirette ad aggredire il patrimonio del trasgressore,<br />
nella lotta alla «criminalità del profitto».<br />
Il comma 2-bis all’art. 321 c.p.p., che disciplina il sequestro preventivo,<br />
ne prevede l’obbligatorietà nei procedimenti per reati ai<br />
quali si applica la confisca obbligatoria.<br />
(2) Cfr. E. Covino, D. Stevanato, D. Terracina, R. Lupi, «“Confisca<br />
per equivalente” per i reati fiscali e possibili duplicazioni rispetto<br />
al pagamento del tributo», in Dialoghi Tributari n. 4/2008, pag. 63.<br />
(3) Cfr. Corte cost., Ord. 2 aprile 2009, n. 97, in Corr. Trib. n.<br />
(segue)<br />
4/2012<br />
425
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
l’orientamento più rigoroso della giurisprudenza,<br />
la confisca obbligatoria per equivalente non richiede<br />
alcun nesso di pertinenzialità tra beni o valori<br />
da confiscare e delitto, fermo restando che la<br />
confisca del prezzo o profitto del reato richiede,<br />
invece, la diretta derivazione causale di esso dall’attività<br />
del reo (4).<br />
Nell’intenzione del legislatore, la confisca è diretta<br />
a privare il reo di ogni beneficio economico derivante<br />
dall’attività criminosa con chiara finalità<br />
deterrente e repressiva. È del tutto conforme alla<br />
ratio della norma escludere la necessità di un nesso<br />
causale tra cose da confiscare e reato, tanto più<br />
che nelle ipotesi in cui oggetto di ablazione è una<br />
somma di denaro (le fattispecie di reato con riferimento<br />
alle quali è stato introdotto l’istituto sono<br />
tipicamente caratterizzate da un prezzo o profitto<br />
espresso da una somma di denaro) è quasi impossibile<br />
stabilire che si tratti materialmente del denaro<br />
proveniente dal reato (salvo i casi in cui il reo<br />
viene colto in flagrante con la mazzetta), e verosimilmente<br />
si procederà per una somma (o un bene)<br />
equivalente che corrisponde per valore al prezzo o<br />
profitto.<br />
La confisca di valore, quindi, se mira a privare il<br />
reo dei vantaggi economici ottenuti dalla commissione<br />
del reato (tanto è vero che la sua applicazione<br />
viene limitata a specifiche ipotesi di delitti contro<br />
la Pubblica amministrazione, ed esclusa in altre<br />
ipotesi quale l’istigazione alla corruzione, nelle<br />
quali l’autore del reato non consegue alcun vantaggio<br />
economico), non può logicamente essere disposta<br />
ove manchi la realizzazione di tale vantaggio.<br />
È poi evidente che, anche ai fini dell’applicazione<br />
della misura (sussidiaria) ai reati <strong>tributari</strong>, si pone<br />
al giudice innanzitutto il problema di stabilire preventivamente<br />
se sia possibile aggredire il prezzo o<br />
il profitto del reato, con tutte le difficoltà connesse<br />
alla mancata definizione di tali nozioni da parte<br />
del legislatore.<br />
Su questi concetti ci sembra sufficiente rinviare alla<br />
dottrina penalistica ed alla giurisprudenza della<br />
Cassazione, che individuano il prezzo (in modo<br />
oramai pacifico) nel corrispettivo pattuito e conseguito<br />
o promesso ad una persona come corrispettivo<br />
per la commissione di un reato, ed il profitto in<br />
quel vantaggio economico o beneficio patrimoniale<br />
direttamente e causalmente derivante dall’attivi-<br />
426<br />
4/2012<br />
tà illecita. Quanto al profitto del reato si riscontra<br />
nella giurisprudenza delle Sezioni Unite penali<br />
della Cassazione anche una interpretazione estensiva<br />
della sua nozione, in base alla quale essa ricomprende,<br />
non solo i beni o il denaro ottenuti per<br />
effetto diretto e immediato dell’attività criminosa,<br />
ma ogni utilità economica indirettamente derivante<br />
dal loro reimpiego purché causalmente riconducibile,<br />
anche in via indiretta e mediata, al comportamento<br />
illecito (5).<br />
Limiti di applicabilità<br />
della confisca per equivalente ai reati <strong>tributari</strong><br />
In linea generale l’estensione della confisca di valore<br />
ai reati <strong>tributari</strong> si giustifica in base alla probabile<br />
impossibilità di applicare le ordinarie ipotesi<br />
di confisca facoltativa (art. 240 c.p.); difficoltà<br />
che deriva dall’evanescente rapporto di diretta derivazione<br />
causale (necessariamente richiesto dalla<br />
misura di sicurezza patrimoniale codicistica) tra il<br />
frutto dell’evasione (prodotto, profitto, prezzo) e il<br />
reato.<br />
Il requisito fondamentale (oltre a quelli della condanna<br />
per uno dei reati espressamente previsti, e<br />
della non appartenenza delle cose oggetto di confisca<br />
a terzi estranei al reato) è dato dalla impossibilità<br />
di eseguire la misura sul prezzo o profitto del<br />
reato del quale sia comunque certa l’esistenza e<br />
l’ammontare.<br />
A questo punto si cominciano a riscontrare le prime<br />
difficoltà di ordine pratico nella applicazione<br />
dell’istituto ai reati <strong>tributari</strong>, dovute alla tecnica<br />
legislativa che opera un mero rinvio ad una disposizione<br />
introdotta nel codice penale a misura dei<br />
Note:<br />
(segue nota 3)<br />
22/2009, pag. 1775, con commento di P. Corso e in GT - Riv. giur.<br />
trib. n. 6/2009, pag. 481, con commento di F. Fontana . Già in precedenza<br />
le Sezioni Unite della Corte di cassazione (sent. 22 novembre<br />
2005, n. 41936) avevano confermato l’orientamento secondo<br />
il quale la confisca di valore «costituendo una forma di<br />
prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti, viene ad assumere<br />
un carattere preminentemente sanzionatorio».<br />
(4) Di recente Cass., Sez. III pen., 12 aprile 2012, n. 20676 (in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA) conferma che «il nesso di pertinenzialità<br />
che deve, ordinariamente, legittimare il sequestro preventivo,<br />
nel caso di specie non è richiesto o, meglio, si pone a monte e riguarda<br />
il rapporto tra l’ipotizzato prezzo o profitto del reato e la<br />
stessa fattispecie delittuosa per cui si procede».<br />
(5) Cfr. Cass., SS.UU. pen., 25 ottobre 2007, n. 10280; Id., 2 luglio<br />
2008, n. 26654, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.
delitti di corruzione contro la Pubblica amministrazione,<br />
nei quali è certo più immediata l’individuazione<br />
del prezzo o profitto del reato.<br />
Ed infatti, la difficoltà di individuare un profitto o<br />
un prezzo del reato <strong>tributari</strong>o direttamente confiscabile<br />
ha fatto sì che nella pratica la misura ablativa<br />
(o il sequestro preventivo) sia stata sempre disposta<br />
nella forma di confisca per equivalente.<br />
Anche se eseguita per un valore equivalente, la<br />
confisca presuppone che il condannato per un reato<br />
<strong>tributari</strong>o (o l’imputato nel caso di sequestro<br />
preventivo) abbia percepito un vantaggio economico<br />
(profitto o prezzo che dir si voglia) causalmente<br />
collegato al comportamento delittuoso, e<br />
che tale vantaggio sia quantificato.<br />
La necessità di collegare (e quantificare) la confisca<br />
(anche per equivalente) ad un profitto derivante<br />
dal reato <strong>tributari</strong>o commesso trova conferma<br />
anche nel mancato inserimento tra le fattispecie<br />
per le quali essa è prevista, del reato di occultamento<br />
o distruzione di documenti contabili, dalla<br />
commissione del quale, di regola, non deriva alcun<br />
profitto, salvo che il fatto non costituisca il presupposto<br />
per la realizzazione di un più grave reato<br />
di evasione.<br />
È difficile confutare la tesi, sostenuta dalla dottrina<br />
e dalla giurisprudenza, che il profitto derivante<br />
da un reato <strong>tributari</strong>o è costituito dalla differenza<br />
tra imposta versata e imposta effettivamente dovuta<br />
(6). Tanto più che «quasi» tutte le ipotesi di reato<br />
fiscale alle quali è estesa la confisca ex art. 322ter<br />
c.p. (dichiarazione fraudolenta, infedele o<br />
omessa; omesso versamento; indebita compensazione;<br />
sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte)<br />
sono qualificate dalla individuazione di una<br />
imposta evasa che costituisce il profitto «minimo»<br />
sul quale può fare affidamento il contribuente evasore.<br />
Vero è che, come già osservato su Dialoghi, residua<br />
una ipotesi in cui «non sembra proprio possibile<br />
ipotizzare un “profitto” in termini di evasione di<br />
un’imposta riferibile al reo» quale è quella di emissione<br />
di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del<br />
D.Lgs. n. 74/2000); e che in questo caso il profitto<br />
del reo (ma forse in questo caso si può anche parlare<br />
di prezzo) sarà rappresentato «verosimilmente<br />
dal controvalore economico di una quota dell’imposta<br />
che gli sarà retrocessa dal destinatario delle<br />
fatture per evadere le proprie imposte» (7).<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
Ma con riferimento a questa ipotesi ci sembra<br />
possibile aggiungere che la legittimità di una confisca<br />
di valore nei confronti dell’emittente presuppone<br />
la prova (e la quantificazione) che grazie al<br />
comportamento delittuoso sia stato conseguito un<br />
profitto o un prezzo, costituito da un provento<br />
corrisposto per l’emissione del documento falso<br />
(o una quota dell’imposta evasa da parte dell’utilizzatore).<br />
Va detto anche che l’emissione di fatture per operazioni<br />
inesistenti (escludendo l’ipotesi di ulteriori<br />
reati di evasione commessi dall’emittente) è un<br />
comportamento che determina un danno per l’Erario<br />
se si associa all’evasione perpetrata dall’utilizzatore,<br />
pertanto valutando il complesso dell’operazione<br />
si può ritenere che il danno economico subito<br />
dallo Stato in conseguenza del comportamento<br />
illecito, e che giustifica la misura ablativa, è costituito<br />
dall’evasione che corrisponde al profitto per<br />
l’utilizzatore, e tale profitto (o un valore equivalente)<br />
è già astrattamente aggredibile nei confronti<br />
di questi.<br />
Quanto ai confini della nozione di profitto derivante<br />
da un reato <strong>tributari</strong>o, in via teorica non può<br />
escludersi la possibilità che tale beneficio economico,<br />
di norma costituito dal denaro risparmiato<br />
con l’evasione, possa comprendere, fermo restando<br />
l’onere di provare il collegamento causale (diretto<br />
o mediato) con il comportamento illecito,<br />
«un profitto in senso lato» derivante indirettamente<br />
dalla maggiore disponibilità finanziaria ottenuta<br />
grazie all’evasione, che consente di non ricorrere<br />
all’indebitamento o di praticare prezzi concorrenziali<br />
sul mercato (tipica ipotesi delle ccdd. frodi<br />
carosello).<br />
Sebbene, però, tali vantaggi economici siano verosimili,<br />
sarà difficile provarne la sussistenza e<br />
Note:<br />
(6) La giurisprudenza più recente riconosce che nei reati fiscali di<br />
evasione l’ammontare dell’imposta evasa (importo sottratto alla<br />
destinazione fiscale e del quale beneficia il trasgressore) costituisce<br />
un indubbio vantaggio patrimoniale, direttamente derivante<br />
dalla condotta illecita e, come tale, certamente riconducibile alla<br />
nozione di profitto del reato. Vedi Cass., Sez. III pen., Ord. 12<br />
aprile 2012, n. 13982; Id., Sez. V pen., 17 gennaio 2012, n. 1843 (in<br />
Banca Dati BIG Suite, IPSOA); Id., Sez. III pen., 16 gennaio 2012, n.<br />
1199; Id., 8 marzo 2011, n. 8982.<br />
(7) Cfr. D. Stevanato, «Un possibile coordinamento contro possibili<br />
duplicazioni tra confisca e tributo», in Dialoghi Tributari n.<br />
4/2008, pag. 66.<br />
4/2012<br />
427
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
quantificarli al fine di poter procedere alla confisca<br />
di valore equivalente.<br />
Una volta individuato il profitto del reato <strong>tributari</strong>o<br />
nell’imposta evasa, ne consegue verosimilmente<br />
la impossibilità di sottoporlo direttamente a<br />
confisca, come già osservato, salvo che il contribuente<br />
non abbia messo da parte l’esatta somma<br />
che avrebbe dovuto versare a titolo di imposta.<br />
Resta percorribile pertanto solo la strada della<br />
confisca di valore equivalente.<br />
Confisca per equivalente<br />
e pagamento del tributo<br />
Ammesso che si possa superare il problema della<br />
individuazione e quantificazione del profitto dei<br />
reati <strong>tributari</strong>, per apprezzare la legittimità della<br />
confisca di valore, resta la questione della sua sovrapposizione<br />
con altri istituti di natura amministrativa<br />
tipici del diritto <strong>tributari</strong>o, che, pur senza<br />
interferire con la responsabilità penale del contribuente<br />
e sul relativo procedimento, possono estinguere<br />
il suo debito fiscale, annullando, in tutto o<br />
in parte, l’originario vantaggio economico connesso<br />
al reato.<br />
Che il legislatore ritenga scarsamente influente<br />
sulla responsabilità penale <strong>tributari</strong>a l’aver estinto<br />
il debito d’imposta (anche a seguito delle speciali<br />
procedure conciliative o di adesione all’accertamento),<br />
risulta evidente dalla espressa previsione<br />
contenuta (fin dall’origine) nel D.Lgs. n. 74/2000,<br />
che qualifica tale comportamento come semplice<br />
circostanza attenuante cui consegue una diminuzione<br />
di pena (8).<br />
Prescindendo da ogni valutazione su questa scelta,<br />
è lecito chiedersi se sia giustificabile l’applicazione<br />
di una misura ablativa quale la confisca di valore,<br />
per sua natura destinata a privare il reo del vantaggio<br />
economico conseguito grazie al delitto, anche<br />
qualora l’imputato abbia, per altra via, e prima<br />
della condanna, spontaneamente rinunciato a tale<br />
profitto.<br />
Occorre considerare che il contribuente imputato<br />
potrebbe non assolvere integralmente il debito <strong>tributari</strong>o<br />
(unica circostanza che neutralizzerebbe<br />
l’istituto), mentre sono frequenti le ipotesi di parziale<br />
estinzione del debito d’imposta, o di differente<br />
determinazione dell’imposta evasa in sede<br />
amministrativa e in sede penale, o di sopravvenuta<br />
impossibilità per il Fisco di pretendere l’adempi-<br />
428<br />
4/2012<br />
mento a causa dell’annullamento dell’atto (magari<br />
per vizi formali) o della intervenuta decadenza dai<br />
poteri di accertamento (9).<br />
Viene in mente, a proposito di questo ultimo caso,<br />
che poco tempo prima di estendere la confisca per<br />
equivalente ai reati <strong>tributari</strong>, il legislatore aveva<br />
introdotto la discussa norma in materia di «raddoppio<br />
dei termini di accertamento» in caso di<br />
violazione che comporta l’obbligo di denuncia penale,<br />
proprio al fine di potenziare il potere di accertamento<br />
del tributo evaso, dando priorità al recupero<br />
dell’imposta evasa attraverso i canali amministrativi.<br />
In tutte le ipotesi di parziale o totale impossibilità<br />
di accertare e riscuotere l’imposta evasa sarebbe<br />
non solo possibile, ma ampiamente giustificato e<br />
perfettamente coerente con le finalità dell’istituto<br />
procedere alla confisca del profitto o di un valore<br />
equivalente, posto che in mancanza di tale azione<br />
il condannato acquisirebbe in via definitiva quel<br />
vantaggio economico derivante dal reato del quale<br />
l’ordinamento lo vuole privare.<br />
Non è quindi proporzionale l’applicazione della<br />
confisca in relazione ad un reato di evasione con<br />
riferimento al quale il contribuente condannato abbia<br />
già estinto spontaneamente il proprio debito fiscale<br />
nei confronti dello Stato riparando l’offesa<br />
economica precedentemente recata e per la quale<br />
subisce comunque l’irrogazione di una sanzione<br />
penale.<br />
In più di una occasione è stato affermato che la confisca<br />
di valore assolve «una funzione sostanzialmente<br />
ripristinatoria della situazione economica,<br />
Note:<br />
(8) Vale la pena di ricordare che con la Manovra-bis 2011 (art. 2,<br />
comma 36-vicies semel, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito,<br />
con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148) è stato<br />
complessivamente inasprito il regime penale <strong>tributari</strong>o e sono<br />
stati diminuiti i benefici connessi alla estinzione delle violazioni<br />
costituenti reato, svalutando, quindi, il comportamento riparatore<br />
successivo alla commissione del fatto, ritenendo «soddisfatta per<br />
altra via (leggi: confisca, anche per equivalente, preceduta dal sequestro<br />
ad essa funzionale) l’esigenza di cassa». Cfr. G. Flora, «Le<br />
recenti modifiche in materia penale <strong>tributari</strong>a: nuove sperimentazioni<br />
del “diritto penale del nemico”?», in Diritto penale e processo<br />
n. 1/2012, pag. 18. Vedi anche I. Caraccioli, «Inasprimento delle<br />
sanzioni penali e raddoppio dei termini per l’accertamento», in<br />
Corr. Trib. n. 14/2012, pag. 1069.<br />
(9) In questo senso D. Stevanato, «Un possibile coordinamento<br />
contro possibili duplicazioni tra confisca e tributo», cit., loc. cit.,<br />
pag. 67.
modificata in favore del reo dalla commissione del<br />
fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio<br />
patrimoniale di corrispondente valore a carico<br />
del responsabile» (10). Tale funzione non ha alcun<br />
senso di essere se l’ordine finanziario dello Stato<br />
leso dall’illecito <strong>tributari</strong>o viene ripristinato, prima<br />
della condanna, con il pagamento del tributo (11).<br />
Posto che la determinazione del profitto suscettibile<br />
di confisca coincide con l’ammontare dell’imposta<br />
evasa, la sanatoria della posizione debitoria<br />
con il Fisco elimina in radice lo stesso oggetto sul<br />
quale dovrebbe incidere la confisca. In caso contrario<br />
si avrebbe una inammissibile duplicazione<br />
sanzionatoria, in contrasto col principio che<br />
l’espropriazione definitiva di un bene non può mai<br />
essere superiore al profitto derivato dal reato.<br />
In tali casi potrebbe essere richiamata la «clausola<br />
aperta di compatibilità», contenuta nella legge n.<br />
244/2007 che rinvia per i reati <strong>tributari</strong> all’osservanza<br />
dell’art. 322-ter c.p., in base alla quale il<br />
giudice potrebbe e dovrebbe legittimamente astenersi<br />
dall’applicazione della confisca (obbligatoria)<br />
nel caso in cui, accertato l’intervenuto pagamento<br />
delle imposte evase, risulti già realizzato<br />
l’obiettivo di sottrarre al reo il vantaggio economico<br />
del reato.<br />
Confisca e reati <strong>tributari</strong> plurisoggettivi<br />
Particolarmente delicata è la questione del rapporto<br />
tra confisca per equivalente e concorso di persone<br />
nel reato; questione che assume anche maggior<br />
rilievo in materia <strong>tributari</strong>a laddove siano coinvolti<br />
quali concorrenti nel reato soggetti terzi rispetto<br />
al contribuente evasore, i quali di regola non si avvantaggiano<br />
economicamente del risparmio fiscale<br />
costituito dall’imposta evasa.<br />
Giova premettere che l’applicabilità della confisca<br />
ex art. 322-ter c.p. ai reati <strong>tributari</strong>, nelle ipotesi di<br />
reato plurisoggettivo, comporta numerose criticità<br />
tra cui l’individuabilità o meno di un profitto, la<br />
quota di profitto attribuibile a ciascun concorrente<br />
ed assoggettabile a confisca, e la confisca di valore<br />
equivalente nel caso in cui non sia possibile la<br />
confisca del profitto o del prezzo.<br />
La soluzione che sembra privilegiata dalla dottrina<br />
e dalla giurisprudenza penalistiche, influenzata dal<br />
riconoscimento della natura essenzialmente sanzionatoria<br />
della misura ablativa in questione (pena<br />
accessoria di carattere pecuniario), è quella di ap-<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
plicare il principio solidaristico proprio del concorso<br />
di persone nel reato, al fine di legittimare la<br />
confisca dell’intera entità del profitto o di un valore<br />
equivalente nei confronti di uno qualsiasi dei<br />
concorrenti, a prescindere dalla effettiva percezione<br />
da parte del correo di una utilità patrimoniale<br />
derivante dal reato.<br />
È stato evidenziato, però, in maniera condivisibile,<br />
che una tale applicazione della confisca (che sia<br />
ritenuta misura ablatoria patrimoniale o sanzione),<br />
risulta contraria al buon senso, a principi di giustizia,<br />
di colpevolezza e di proporzionalità della pena<br />
(intesa, nella specie, come proporzione tra condotta<br />
illecita, arricchimento derivante dal reato ed entità<br />
della confisca).<br />
Gli interventi della giurisprudenza di legittimità<br />
che si discostano da questo orientamento sono stati<br />
accolti con favore da una parte della dottrina, in<br />
quanto tesi ad evitare l’iniquità di una scelta del<br />
correo nei confronti del quale disporre la confisca,<br />
basata semplicemente sulla capienza del suo patrimonio<br />
e la facilità di aggredirlo, piuttosto che sul<br />
suo effettivo arricchimento a seguito della condotta<br />
delittuosa.<br />
Allora convince l’affermazione che «la parte di<br />
profitto o di prezzo del reato effettivamente incamerata<br />
dal concorrente diventa il parametro di applicazione<br />
della misura ablativa», escludendo che<br />
si possa «aggredire indiscriminatamente il patrimonio<br />
di derivazione pienamente lecita di uno<br />
qualunque dei correi, sulla base di un criterio di<br />
preferenza determinato esclusivamente dall’esistenza,<br />
o dalla più facile raggiungibilità, di tale patrimonio»,<br />
poiché ciò determina, all’atto pratico,<br />
«semplicemente la punizione del correo meno accorto<br />
che non si era preoccupato, contrariamente<br />
Note:<br />
(10) Vedi Cass., 20 ottobre 2010, n. 39172; ed in senso conforme<br />
Cass., Sez. VI pen., 25 marzo 2009, n. 13098; Id., Sez. III pen., 28 luglio<br />
2010, n. 29724, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(11) Una conferma in tal senso si ha proprio dalla Corte di cassazione<br />
(Sez. III pen., 11 marzo 2011, n. 10120, in Banca Dati BIG<br />
Suite, IPSOA) per cui la confisca per equivalente «ha la finalità di<br />
impedire che l’impiego economico dei beni di provenienza delittuosa<br />
possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che<br />
era oggetto specifico del disegno criminoso. La determinazione<br />
del profitto suscettibile di confisca coincide, quindi, con l’ammontare<br />
della imposta evasa. Pertanto, la sanatoria della posizione debitoria<br />
con l’amministrazione finanziaria fa venir meno lo scopo<br />
principale che si intende perseguire con la confisca».<br />
4/2012<br />
429
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
agli altri, di occultare adeguatamente il proprio patrimonio»<br />
(12).<br />
Una differente valutazione è possibile con riferimento<br />
al sequestro preventivo finalizzato alla futura<br />
confisca, che per la sua natura provvisoria potrebbe<br />
legittimamente essere disposto per l’intero<br />
nei confronti di uno solo degli indagati (a maggior<br />
ragione nel caso in cui non fosse possibile individuare<br />
immediatamente la quota di prezzo o profitto<br />
imputabile a ciascun concorrente), fermo restando<br />
che in seguito alla condanna per il reato, la<br />
confisca non dovrà eccedere la quota di prezzo o<br />
profitto o il valore equivalente effettivamente attribuito<br />
ad ogni concorrente.<br />
L’orientamento giurisprudenziale che, pur se minoritario,<br />
sembra più ragionevole e coerente con le<br />
precedenti osservazioni sui presupposti della confisca<br />
di valore è quello che privilegia la necessità<br />
di un rapporto di proporzionalità tra arricchimento<br />
derivante dal reato al singolo compartecipe e misura<br />
della confisca.<br />
Le conseguenze inique che deriverebbero dal consentire<br />
la confisca di un valore equivalente al profitto<br />
in capo ad un soggetto che pur concorrendo<br />
nel reato non ha, da esso, ricavato alcun vantaggio<br />
economico sono paragonabili alla irragionevolezza<br />
della confisca di un profitto che non c’è (non è<br />
provato), pacificamente esclusa.<br />
L’interpretazione della legge, orientata a garantire<br />
l’efficacia dell’istituto e i diritti dei soggetti coinvolti,<br />
deve tener conto, a nostro modo di vedere,<br />
di due possibili situazioni, e deve distinguere la<br />
confisca dalla misura cautelare del sequestro preventivo<br />
(art. 321 c.p.p.).<br />
Individuazione delle quote di profitto<br />
imputabili a ciascuno dei concorrenti<br />
Una prima ipotesi è quella in cui è possibile individuare<br />
esattamente le quote di profitto imputabili<br />
a ciascuno dei concorrenti. La seconda è quella in<br />
cui non sia possibile definire con certezza la quota<br />
di prezzo o profitto effettivamente attribuibile al<br />
singolo concorrente.<br />
La difficoltà è quella di stabilire se sia imputabile<br />
al terzo (non contribuente) concorrente nel reato<br />
<strong>tributari</strong>o un vantaggio patrimoniale derivante dal<br />
comportamento illecito che sia diverso ed ulteriore<br />
rispetto all’evasione fiscale della quale fino a prova<br />
contraria beneficia il contribuente.<br />
430<br />
4/2012<br />
Sul punto mi sembra possibile richiamare le osservazioni<br />
in merito alla individuabilità di un profitto<br />
confiscabile in capo al soggetto imputato del reato<br />
di emissione di fatture per operazioni inesistenti.<br />
Come in quel caso è teoricamente possibile che il<br />
commercialista che concorre nel reato fiscale del<br />
contribuente riceva da questi una utilità economica<br />
che rappresenta per lui il profitto o il prezzo del<br />
reato, ma ne è necessaria la prova, ed è necessario<br />
provare la derivazione causale diretta del vantaggio<br />
economico dal concorso nella commissione<br />
del delitto.<br />
Qualora ciò fosse provato sarebbe logico e coerente<br />
con la ratio della confisca procedere con la misura<br />
ablativa nei confronti di ognuno dei concorrenti in<br />
ragione del profitto che rispettivamente hanno ricavato<br />
dal comportamento illecito. Diversamente si<br />
perverrebbe all’assurdo effetto di lasciare nella disponibilità<br />
di uno dei correi tutto il maltolto, sanzionando<br />
l’altro in modo sproporzionato.<br />
Ove non fosse possibile individuare e determinare<br />
con certezza il profitto ricavato da ognuno dei<br />
concorrenti, ma fosse comunque certa la sussistenza<br />
di un vantaggio economico collegato alla condotta<br />
illecita ed all’evasione, deve essere ricercata<br />
una alternativa all’effetto iniquo di sottrarre al<br />
consulente che concorre nel reato del contribuente<br />
una somma equivalente al profitto incamerato da<br />
quest’ultimo, salvaguardando l’efficacia della misura<br />
cautelare-sanzionatoria, e la sua funzione preventiva<br />
e repressiva della criminalità fiscale.<br />
Ha un senso ritenere che la impossibilità di quantificare<br />
le singole quote di profitto dei concorrenti<br />
non deve precludere in assoluto la possibilità di<br />
disporre una misura ablativa, ma non si può prescindere<br />
dalla necessità di provare tale impossibilità.<br />
Del resto è pacifico che se non si riesce a provare<br />
con certezza l’esistenza e l’ammontare del<br />
profitto non si può procedere ad alcuna confisca<br />
(neanche per equivalente).<br />
Nota:<br />
(12) In tal senso cfr. R. Romanelli, «Confisca per equivalente e<br />
concorso di persone nel reato», in Diritto penale e processo n.<br />
7/2008, pag. 871 ss. e pag. 876. Vedi anche P. Balducci, «La confisca<br />
per equivalente: aspetti problematici e prospettive applicative», ivi<br />
n. 2/2011, pag. 233, che aggiunge «non può certo ammettersi che<br />
si affermi una prassi volta alla facile realizzazione degli scopi recuperativi<br />
della misura, al di fuori di un qualsivoglia sistema di tutela<br />
del reo».
Se la ratio della confisca per equivalente è quella,<br />
per consolidato principio di diritto, di assolvere ad<br />
una «funzione sostanzialmente ripristinatoria della<br />
situazione economica modificata in favore del reo<br />
dalla commissione del fatto illecito, mediante<br />
l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente<br />
valore a carico del responsabile» (13),<br />
come negare la necessità di tale presupposto nel<br />
caso di illecito plurisoggettivo avallando la scelta<br />
meramente discrezionale o di comodo del concorrente<br />
nei confronti del quale agire?<br />
Anche nel caso di concorso di persone il presupposto<br />
della legittima applicazione della confisca è<br />
l’accertamento, non tanto dell’entità del contributo<br />
di ognuno dei concorrenti al fatto illecito (necessario<br />
ai fini della punibilità, e della quantificazione<br />
della pena), ma dell’entità del profitto ad essi effettivamente<br />
attribuibile.<br />
Nell’impossibilità di tale accertamento, per rispettare<br />
la ratio della norma e salva la possibilità di<br />
procedere in via cautelare al sequestro preventivo<br />
per l’intero profitto nei confronti di uno solo degli<br />
indagati, spetterà al giudice di merito stabilire se<br />
sussistono i presupposti per disporre la confisca e<br />
statuire in ordine alle responsabilità individuali.<br />
Una soluzione di compromesso, rispettosa dei<br />
principi di giustizia e tendente a preservare l’efficacia<br />
della confisca, parrebbe quella di applicare<br />
la misura (rectius «irrogare la sanzione») proporzionalmente<br />
al ruolo di ciascun concorrente nella<br />
commissione dell’illecito, presumendo una corrispondenza<br />
tra vantaggio economico derivante dal<br />
delitto e opera prestata da ogni concorrente.<br />
Sequestro preventivo<br />
e confisca del profitto o di valore equivalente<br />
Un cenno, infine, alla interpretazione collegata al-<br />
Nel condividere le criticità connesse all’applicazione<br />
dell’istituto della confisca per equivalente<br />
nelle ipotesi di commissione dei reati di cui al<br />
D.Lgs. n. 74/2000, vorrei rammentare che, dal<br />
punto di vista teorico-sistematico, l’applicazione<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
la diversa natura e ai diversi effetti del sequestro<br />
preventivo ex art. 321 c.p.p., e della confisca del<br />
profitto o di valore equivalente ex art. 322-ter c.p.<br />
Il sequestro preventivo a norma dell’art. 321 c.p.p.<br />
è una misura cautelare finalizzata a garantire l’esecuzione<br />
del futuro provvedimento ablatorio, ed in<br />
quanto tale non comporta una privazione definitiva<br />
del diritto di proprietà. Pertanto può essere disposto<br />
il sequestro anche per l’intero nei confronti<br />
di uno solo dei soggetti coinvolti quando non sia<br />
possibile accertare l’esatto ammontare del prezzo<br />
o del profitto riferibile al singolo concorrente.<br />
Maggiore attenzione occorre nel momento della<br />
confisca adottata all’esito del giudizio, che dovrà<br />
essere adottata previo accertamento della quota di<br />
prezzo o di profitto attribuibile al singolo concorrente,<br />
e solo nella persistente impossibilità di tale<br />
verifica potrà essere applicata per l’intero prezzo o<br />
profitto, ma sempre nel rispetto dei canoni della<br />
solidarietà interna tra i concorrenti.<br />
Considerazioni conclusive<br />
Sulla base delle precedenti considerazioni ci sembra<br />
auspicabile una netta inversione di tendenza<br />
della giurisprudenza di legittimità, in attesa di un<br />
opportuno intervento legislativo che definisca i limiti<br />
di applicabilità della confisca di valore con riferimento<br />
ai reati <strong>tributari</strong>. Quanto meno è da attendersi<br />
una differente soluzione giurisprudenziale<br />
al momento in cui i provvedimenti di sequestro<br />
preventivo si tramuteranno, in esito ad una eventuale<br />
sentenza di condanna, in provvedimenti ablatori.<br />
Nota:<br />
(13) Da ultimo Cass., Sez. III pen., 4 luglio 2012, n. 25774, in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
La «ratio» della confisca per equivalente ed i limiti di applicazione<br />
ai professionisti<br />
Giuseppe Ingrao<br />
dell’art. 322-ter c.p. ai reati <strong>tributari</strong> risponde all’esigenza<br />
di neutralizzare i vantaggi economici<br />
Giuseppe Ingrao - Professore associato di Diritto <strong>tributari</strong>o presso<br />
l’Università di Messina, Dottore commercialista in Messina<br />
4/2012<br />
431
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
che si determinano in tutte quelle situazioni in cui<br />
è altamente improbabile o addirittura impossibile<br />
recuperare in via amministrativa i tributi evasi.<br />
La confisca per equivalente, adottata nel contesto<br />
di un procedimento penale, quindi, funge da completamento<br />
della tutela degli interessi erariali in<br />
tutti i casi in cui gli strumenti di tipo amministrativo<br />
finalizzati al recupero dell’imposta evasa siano<br />
inefficaci.<br />
Le operazioni di cd. frode carosello sono un chiaro<br />
esempio. In esse, infatti, emerge il problema del<br />
recupero dell’imposta non versata da parte del<br />
soggetto che emette la fattura, e assegna al destinatario<br />
il diritto di detrazione. L’emittente è normalmente<br />
una «scatola vuota», che molto spesso<br />
sparisce subito dopo l’operazione, con le conseguenti<br />
difficoltà per il Fisco di aggredire in via<br />
amministrativa il soggetto.<br />
Anche laddove l’Amministrazione finanziaria agisce<br />
nei confronti dell’acquirente, disconoscendogli<br />
il diritto di detrazione, non è da escludere la sussistenza<br />
di difficoltà di recuperare in via amministrativa<br />
l’IVA indebitamente detratta (che potrebbe<br />
anche aver determinato crediti oggetto di compensazione<br />
o di rimborso).<br />
Analoghe difficoltà potrebbero sussistere in tutti i<br />
casi in cui ci si trovi di fronte a soggetti che vorticosamente<br />
aprono e chiudono le posizioni fiscali<br />
IVA.<br />
In buona sostanza, quando il mancato versamento<br />
del tributo (e dell’IVA in particolare) deriva da una<br />
«girandola» di società, l’impossibilità di estendere<br />
la responsabilità in via amministrativa al dominus<br />
fa sì che solo la confisca per equivalente, adottata<br />
appunto nell’ambito di un procedimento penale<br />
nei confronti di quest’ultimo, può essere in grado<br />
di neutralizzare i vantaggi economici connessi<br />
all’evasione fiscale.<br />
Di fronte al dilagare di simili condotte, caratterizzate<br />
da una elevata offensività, non può che ritenersi<br />
ragionevole l’intervento del legislatore con<br />
cui si è estesa ai reati <strong>tributari</strong> l’applicazione della<br />
confisca per equivalente. Confisca per equivalente<br />
e recupero amministrativo dell’evasione sono,<br />
quindi, strumenti che possono operare in modo sinergico.<br />
Tuttavia, l’applicazione di tale misura a reati <strong>tributari</strong><br />
connessi all’infedele adempimento di obblighi<br />
connessi all’esercizio di attività economiche svolte<br />
432<br />
4/2012<br />
attraverso soggetti giuridici che operano «alla luce<br />
del sole», ove è altamente probabile che il Fisco<br />
recuperi in via amministrativa la pretesa, ha comprensibilmente<br />
determinato reazioni di disappunto,<br />
ben evidenziate da Buccisano.<br />
Reazioni di disappunto che divengono ancor più<br />
nette se la confisca per equivalente viene applicata<br />
nei confronti del professionista che cura l’adempimento<br />
dichiarativo, in quanto ritenuto corresponsabile.<br />
Corresponsabilità del professionista<br />
Soffermandoci su questo aspetto, dobbiamo precisare<br />
che la logica dell’estensione dell’istituto in<br />
questione ai soggetti correi, ravvisata nel principio<br />
solidaristico (14), è certamente valida anche nell’ipotesi<br />
in cui il soggetto corresponsabile sia il<br />
professionista.<br />
Ma quel che occorre verificare è quando sia concretamente<br />
configurabile una situazione di correità<br />
per il professionista che assiste il contribuente nell’adempimento<br />
<strong>tributari</strong>o dichiarativo, risultato poi<br />
infedele secondo le previsioni del D.Lgs. n.<br />
74/2000.<br />
Dando, infatti, la giusta dimensione alle ipotesi di<br />
corresponsabilità nell’esercizio dell’attività professionale<br />
di assistenza fiscale, gli inconvenienti<br />
connessi all’applicazione del sequestro conservativo<br />
finalizzato alla confisca per equivalente, almeno<br />
per tale profilo, sarebbero meno evidenti.<br />
Al proposito, va rimarcato che non rientra tra le<br />
prerogative di un professionista verificare se, in<br />
sede di predisposizione della dichiarazione, la documentazione<br />
contabile trasmessa dal cliente si riferisca<br />
ad operazioni effettivamente esistenti.<br />
Come rilevato in altra occasione (15), non può dubitarsi<br />
che il professionista presta un servizio secondo<br />
le richieste del contribuente, il quale si as-<br />
Note:<br />
(14) Cfr. Cass., SS.UU. pen., 27 marzo 2008, n. 26654 (in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA), secondo cui il principio solidaristico «implica<br />
l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in<br />
capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta che sia stata<br />
perduta l’individualità del profitto illecito, la sua confisca, e quindi<br />
il sequestro preventivo finalizzato ad essa, possono interessare<br />
indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità<br />
del profitto accertato».<br />
(15) Cfr. A. Buccisano, G. Ingrao, R. Lupi, «Il consulente fiscale risponde<br />
verso il cliente per violazioni “decise assieme”?», in Dialoghi<br />
Tributari n. 5/2010, pag. 557.
sume, e non può essere diversamente, tutta la responsabilità<br />
circa il contenuto «sostanziale» dell’atto<br />
redatto.<br />
Se il professionista accetta l’incarico, non può rifiutarsi<br />
di perfezionare l’adempimento dichiarativo,<br />
né può porlo in essere in modo difforme dalla<br />
volontà del contribuente; e ciò vale anche se egli<br />
ha contezza che il costo è connesso ad una operazione<br />
inesistente.<br />
Un’ipotesi di corresponsabilità del professionista<br />
potrebbe conseguire alla apposizione dei cd. visti<br />
sulla dichiarazione (visto di conformità o visto pesante),<br />
ma è comunque una responsabilità che rileva<br />
ai fini dell’irrogazione delle sanzioni amministrative<br />
e non certo di quelle penali.<br />
L’apposizione dei visti in questione, in ogni caso,<br />
non comporta alcun onere per il professionista circa<br />
la verifica dell’effettività delle operazioni documentate.<br />
Infatti, con la certificazione <strong>tributari</strong>a<br />
(«visto pesante»), in particolare, si attesta, oltre la<br />
rispondenza della dichiarazione alle scritture e ai<br />
documenti contabili, la corretta applicazione delle<br />
norme fiscali in tema di determinazione del reddito<br />
d’impresa, ma non certo l’effettività delle operazioni<br />
economiche documentate dalle fatture attive<br />
e passive.<br />
Ed allora, in caso di utilizzo di fatture per operazioni<br />
inesistenti, la corresponsabilità del professionista<br />
ai fini della commissione di fatti penalmente<br />
rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 74/2000 sussiste solo<br />
ove venga appurata la sua partecipazione attiva<br />
all’acquisizione delle fatture false nell’interesse<br />
del contribuente, o comunque venga dimostrata<br />
l’acquisizione di una quota del profitto del reato.<br />
Invero, la Cassazione, per quel che ci risulta, ha ritenuto<br />
sussistente la correità del professionista, in<br />
relazione a reati di dichiarazione <strong>tributari</strong>a fraudolenta<br />
mediante utilizzo di fatture per operazioni<br />
inesistenti, laddove ne sembrano sussistere con<br />
evidenza i presupposti. In un primo caso, infatti,<br />
un commercialista era ritenuto il dominus di numerose<br />
società che avevano emesso le fatture per<br />
operazioni inesistenti a vantaggio di una società di<br />
cui il medesimo professionista curava gli adempimenti<br />
contabili e dichiarativi (16). In un ulteriore<br />
caso, nello studio del commercialista che assisteva<br />
il contribuente era stato addirittura rinvenuto un<br />
timbro identico a quello utilizzato dagli emittenti<br />
delle fatture false, fatture che peraltro non veniva-<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
no annotate nei registri delle società emittenti, le<br />
cui contabilità erano tenute dallo stesso soggetto<br />
(17).<br />
È bene, comunque, sottolineare che, al di fuori di<br />
simili ipotesi, ed in particolare se il professionista<br />
ha una mera conoscenza della falsità della documentazione,<br />
affermare la sua correità e «rincarare<br />
la dose» chiedendo il sequestro preventivo finalizzato<br />
alla confisca per equivalente rappresenta una<br />
«stortura» difficilmente tollerabile.<br />
Note:<br />
(16) Cfr. Cass., Sez. III pen., Ord. 12 aprile 2012, n. 13982.<br />
(17) Cfr. Cass., Sez. III pen., 26 maggio 2010, n. 35453, in Banca<br />
Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
4/2012<br />
433
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
La rilevanza «fortuita»<br />
delle contestazioni interpretative<br />
ai fini penal<strong>tributari</strong><br />
Proseguiamo la discussione innescata nei numeri precedenti sulla rilevanza penale delle contestazioni<br />
interpretative, con una ricostruzione degli equivoci da cui essa deriva, che però si conciliano<br />
con la figura mediatica delle aziende come «grandi evasori», con la confusione tra ricchezza<br />
non registrata e maggiore imposta accertata, con l’esigenza di «fare statistica» delle istituzioni.<br />
Insomma, anche se la rilevanza penale delle questioni interpretative, pur tutt’altro che<br />
scontata (anzi da escludere, facendo leva sul dolo specifico), è venuta fuori per caso, essa si collega<br />
con tendenze istintive diffuse in un ambiente sociale privo di punti di riferimento sulla ricchezza<br />
non registrata ai fini <strong>tributari</strong>. Dove anzi l’editoria che oggi lamenta la rilevanza penale<br />
dell’elusione e dell’evasione interpretativa ha contribuito a far saltare, nel 2000, la bozza di disposizione<br />
legislativa che la escludeva, come racconta Lupi nel pezzo che segue.<br />
Negli ultimi mesi si sono fatte più accese le discussioni<br />
sulla rilevanza penale delle contestazioni<br />
fiscali sul regime giuridico di vicende comunque<br />
registrate, inquadrate dai contribuenti, secondo<br />
criteri diversi da quelli ritenuti applicabili, a posteriori,<br />
dagli Uffici <strong>tributari</strong>. È una conseguenza<br />
della confusione, presso l’opinione pubblica qualificata,<br />
tra evasione fiscale come ricchezza nascosta<br />
al Fisco, e «maggiore imposta accertata» (1).<br />
La legislazione penal<strong>tributari</strong>a, per una serie di<br />
equivoci su cui si soffermerà Lupi, sembra infatti<br />
riferirsi anche alla maggiore imposta accertata a<br />
seguito del disconoscimento, da parte del Fisco, di<br />
inquadramenti giuridici, adottati dal contribuente,<br />
su ricchezza registrata in modo, diciamo così, fiscalmente<br />
vantaggioso, e poi ritenuto indebito (2).<br />
Negli ormai frequenti incontri fra penalisti e <strong>tributari</strong>sti<br />
occasionati da vicende giudiziali come<br />
«Dolce e Gabbana», «Brontos» et similia, si assiste<br />
ad una sorta di «scontro metodologico» fra i fiscalisti<br />
tutti protesi (in modo spesso involuto) all’individuazione<br />
di un possibile discrimen fra il<br />
434<br />
4/2012<br />
di Marco Di Siena, Raffaello Lupi<br />
Evasione interpretativa e legislazione penale <strong>tributari</strong>a:<br />
un assetto fortuito che avvelena il sistema<br />
Marco Di Siena<br />
dolo di evasione e quello di elusione (3) ed i penalisti;<br />
questi ultimi, salvo rare eccezioni, sulla base<br />
Marco Di Siena - Avvocato in Roma - Chiomenti Studio Legale<br />
Note:<br />
(1) R. Lupi e S. Capitani, «Maggiore imposta accertata non sempre<br />
significa ricchezza non registrata», in Dialoghi Tributari n.<br />
1/2012, pag. 7.<br />
(2) È, in qualche modo, quanto si era già cercato di evidenziare in<br />
un precedente contributo pubblicato su Dialoghi. Al riguardo si<br />
rinvia a M. Di Siena, L. Troyer, R. Lupi, «Evasione interpretativa e<br />
sanzioni penali», in Dialoghi Tributari n. 2/2011, pag. 218.<br />
(3) L’argomento della valorizzazione del dolo, infatti, affascina i<br />
<strong>tributari</strong>sti, ma finisce spesso per essere considerato «recessivo»<br />
nella pratica dei penalisti. Nell’operatività, poi, si assiste sovente a<br />
situazioni in cui - quanto più è articolata la fattispecie concreta di<br />
riferimento e, quindi, quanto più gli operatori tendono a munirsi<br />
di pareri esterni sulla legittimità/illegittimità della propria condotta<br />
- tanto più gli organi dell’accusa tendono a ritenere «provata»<br />
la volontà evasiva/elusiva. Si tratta, a mio avviso, di un atteggiamento<br />
opinabile che tende a «travolgere» quello che dovrebbe<br />
essere un corretto apprezzamento di tutti gli elementi costitutivi<br />
del fatto-reato e che finisce per sminuire la valutazione del dolo<br />
specifico il quale, pur rappresentando uno dei pochi strumenti<br />
per evitare derive «pan penalizzanti», trova una difficile valorizzazione<br />
in concreto.
della formulazione delle norme incriminatrici, non<br />
ravvisano motivo per distinguere fra condotte asseritamente<br />
elusive ed evasive in quanto entrambe<br />
conducono al medesimo evento materiale rappresentato<br />
dalla presentazione di una dichiarazione<br />
«sottomanifestante». È allora palese come - allo<br />
stato - si sia in una fase di «stallo» alla cui razionalizzazione<br />
non concorre di certo l’enfasi mediatica<br />
determinata dalla visione «bellicistica» dell’attività<br />
di «contrasto permanente» all’evasione,<br />
dove si passa «dalla lotta alla guerra»; una visione<br />
che spesso alimenta la percezione (sociologica più<br />
che giuridica) secondo cui i grandi contribuenti<br />
evaderebbero in maniera sofisticata e significativa,<br />
ma pur sempre «sul filo» dell’interpretazione normativa,<br />
mentre l’ampia platea degli autonomi, per<br />
il proprio carattere «destrutturato», realizzerebbe<br />
forme di evasione più grezza e diffusa (ma meno<br />
importanti in termini quantitativi almeno a livello<br />
individuale) attraverso il semplice occultamento<br />
dei corrispettivi ovvero la simulazione di costi fittizi.<br />
La situazione di stallo risulta anche dalle stesse<br />
reazioni emotive generate dal recente disegno<br />
di legge delega per la riforma del sistema fiscale<br />
(4) di cui (forse anche per il basso profilo complessivo<br />
dello stesso) si è finora discusso soprattutto<br />
(se non solo) per le previsioni in tema di repressione<br />
penale dei fenomeni elusivi/abusivi. In<br />
una siffatta situazione v’è allora da chiedersi - riprendendo<br />
alcuni spunti di riflessione già elaborati<br />
su questa Rivista (5) - se nel sistema penale <strong>tributari</strong>o<br />
non ci sia qualcosa di patologico e se quindi -<br />
ad oltre dodici anni dall’entrata in vigore del<br />
D.Lgs. n. 74/2000 - non valga la pena di riflettere<br />
sulla perdurante validità di taluni riflessi (probabilmente<br />
inconsapevoli) della riforma del 2000.<br />
L’evasione interpretativa come fatto<br />
penalmente sanzionabile nell’assetto<br />
del D.Lgs. n. 74/2000: un giudizio di sintesi<br />
sui risultati di tale opzione<br />
A me sembra che questi anni di applicazione del<br />
D.Lgs. n. 74/2000 abbiano posto in luce come la<br />
scelta di rendere (pur con taluni temperamenti) (6)<br />
la differente valutazione giuridica degli eventi<br />
aziendali un fatto idoneo a determinare l’integrazione<br />
delle fattispecie dichiarative non abbia dato<br />
un buon risultato complessivo. L’origine di questa<br />
opzione punitiva è nota ed è da fare risalire alla<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
volontà del legislatore del 2000 (7) di abbandonare<br />
l’impostazione tipica (ritenuta a torto o a ragione<br />
semplicistica) propria della legge n. 516/1982,<br />
cd. legge «manette agli evasori».<br />
Con il D.Lgs. n. 74/2000 si è ritenuto che non vi<br />
fosse motivo per prefigurare una reazione punitiva<br />
differente per chi presentasse una dichiarazione<br />
sottomanifestante previa omessa contabilizzazione<br />
dei ricavi (ossia - volgarmente - facesse il nero) e<br />
chi, invece, giungesse al medesimo risultato in<br />
forza di una condotta che - ferma restando la rappresentazione<br />
dei fatti gestionali - ne fornisse una<br />
qualificazione giuridica differente da quella ritenuta<br />
coerente.<br />
Una scelta rispettabile in termini concettuali (forse<br />
comprensibile quale reazione alla legge «manette<br />
agli evasori» che, nel suo complesso, aveva dato<br />
cattiva prova di sé) ma che - con il senno di poi - è<br />
risultata inefficiente e non ha certamente migliorato<br />
la capacità preventiva del sistema.<br />
Prima di tutto, tuttavia, intendo fare una precisazione<br />
sugli equivoci che talvolta contraddistinguono<br />
la nozione stessa di evasione interpretativa. Sovente,<br />
infatti, si riconducono a tale figura anche situazioni<br />
che di interpretativo in senso proprio hanno<br />
ben poco (8): simulazioni negoziali più o meno<br />
nette, tentativi di mascheramento di fenomeni<br />
chiaramente fattuali quali la residenza fiscale del<br />
Note:<br />
(4) Al momento di andare in stampa si fa riferimento all’Atto Camera<br />
5291, all’esame della VI Commissione Finanze della Camera<br />
dei deputati.<br />
(5) In tal senso, ad esempio, depongono gli interventi di D. Stevanato<br />
e di R. Lupi, su Dialoghi Tributari n. 2/2012.<br />
(6) Si vedano, ad esempio, gli artt. 7 e 16 del D.Lgs. n. 74/2000, la<br />
cui concreta applicazione, tuttavia, è assolutamente infrequente.<br />
(7) In realtà, come ho avuto modo di rilevare in altre occasioni<br />
(in tal senso rinvio, ad esempio, a M. Di Siena, «Quale evoluzione<br />
per il diritto penale <strong>tributari</strong>o?», in Riv. dir. trib., 2007, III, pag. 71)<br />
la riforma del diritto penale <strong>tributari</strong>o delineata dalla legge n.<br />
205/1999 ed attuata dal D.Lgs. n. 74/2000 è concettualmente radicata<br />
in elaborazioni risalenti ai primi anni ’90 e ciò ne rende<br />
l’approccio assai meno «moderno» di quanto possa ritenersi sulla<br />
scorta della sola indagine cronologica.<br />
(8) E, sotto questo profilo, occorre concordare con D. Terracina,<br />
RL, «Fatto, diritto e sanzioni penali nella sentenza “Dolce e Gabbana”»,<br />
in Dialoghi Tributari n. 3/2012, pag. 295, i quali pongono<br />
(giustamente) in guardia dall’evocare la nozione di «evasione interpretativa»<br />
(con ciò che di «complesso» e «problematico» tale<br />
concetto comporta con sé) allorquando si verte (come accade<br />
sovente) in costanza di semplici ipotesi di dissimulazioni fattuali<br />
corredate da complesse strutture giuridiche.<br />
4/2012<br />
435
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
contribuente, alterazioni (più o meno capziose) del<br />
prezzo delle transazioni infragruppo in violazione<br />
della disciplina del transfer price e circostanze similari.<br />
Ebbene - senza infingimenti - occorre dire<br />
che tali comportamenti (che pure nella vulgata divengono<br />
talvolta una forma di evasione interpretativa<br />
tout court) presuppongono ben poco del fenomeno<br />
ermeneutico e riguardano principalmente<br />
fatti materiali.<br />
L’evasione interpretativa è altro: è - ad esempio - la<br />
riqualificazione della sequenza conferimento<br />
d’azienda e cessione della partecipazione come<br />
compravendita d’azienda; è il disconoscimento del<br />
regime fiscale in concreto applicato per prefigurarne<br />
un altro asseritamente più rispondente alla realtà<br />
(9); è la cosiddetta riqualificazione che, tuttavia,<br />
non ha nulla a che vedere con i criteri d’interpretazione<br />
contrattuale e mira a ricostruire le medesime<br />
vicende materiali secondo un percorso diverso da<br />
quello formalmente invocato dai contraenti ritenendosi<br />
quest’ultimo viziato da una volontà abusiva.<br />
Ebbene, una volta chiariti quelli che sono i confini<br />
del fenomeno dell’evasione cosiddetta interpretativa,<br />
nessun dubbio - a mio giudizio - sulla circostanza<br />
che l’esperienza abbia dimostrato la totale<br />
inopportunità di una possibile ricaduta penale di<br />
tale genere di condotte (10). E ciò per più motivazioni<br />
che mi appaiono tendenzialmente oggettive.<br />
In primo luogo perché - come ho avuto modo di<br />
anticipare - è del tutto opinabile che l’attrazione<br />
alla sfera del «penalmente sanzionabile» delle<br />
condotte interpretative abbia realmente incrementato<br />
l’efficacia preventiva dell’apparato punitivo<br />
nel suo complesso.<br />
Ammesso e non concesso che l’incremento dei<br />
flussi finanziari connessi all’attività accertativa<br />
misuri l’efficienza di tale apparato, infatti, penso<br />
che tale fenomeno non possa essere ascritto in alcun<br />
modo all’opzione «livellatrice» sottesa al<br />
D.Lgs. n. 74/2000 (vale a dire alla scelta di<br />
«equiordinare», ai fini punitivi, la dichiarazione<br />
sottomanifestante originata dall’alterazione di<br />
«fatti materiali» a quella basata sulla «reinterpretazione<br />
giuridica» degli eventi aziendali).<br />
Il menzionato incremento, infatti, non ha nulla a<br />
che vedere con la «prevenzione» perseguita dal legislatore<br />
penale e costituisce il solo esito dell’attività<br />
repressiva condotta dall’Amministrazione finanziaria.<br />
436<br />
4/2012<br />
Se si esclude, quindi, che il più volte valorizzato<br />
(anche in via mediatica) aumento delle risorse generate<br />
dall’azione accertativa possa rappresentare<br />
l’indiretta conferma della bontà della menzionata<br />
opzione punitiva, restano i fatti. Ed il fatto principale<br />
è rappresentato dall’incremento di incertezza<br />
di cui tale scelta è già stata foriera e rischia di esserlo<br />
sempre più in un milieu, come l’attuale, in<br />
cui l’attività di verifica si va focalizzando sulla (ristretta)<br />
platea dei grandi contribuenti e le contestazioni<br />
nei confronti degli stessi si concretizzano in<br />
larga parte nella reinterpretazione di manifestazioni<br />
di ricchezza palesi piuttosto che in contestazioni<br />
aventi ad oggetto l’occultamento di materia imponibile<br />
(11). E, senza dubbio, l’incertezza nelle<br />
Note:<br />
(9) È questa l’ipotesi (tradizionale) della cessione di azienda riqualificata<br />
come cessione di singoli assets (a meno che non si ricada<br />
nell’ipotesi della simulazione tout court) o viceversa - per fare<br />
riferimento ad una vicenda dai tratti più moderni - della configurazione<br />
dell’apporto di un complesso di più immobili ad un<br />
fondo immobiliare quale conferimento di cespiti ad una società<br />
di fatto costituita fra i quotisti del fondo medesimo.<br />
(10) Un’inopportunità che, come posto in luce da taluni Autori (in<br />
tal senso cfr. R. Lupi, L. Barbone, «“Contestazioni interpretative” e<br />
sanzioni penali tra equilibrio di fondo ed “espedienti punitivi”», in<br />
Dialoghi Tributari n. 6/2010, pag. 605), talvolta, è la stessa dinamica<br />
del procedimento penale a dare per «scontata» evitando di «armare»<br />
processi penali in relazione a vicende dal contenuto tipicamente<br />
interpretativo. Una tale constatazione, tuttavia - a mio avviso<br />
- non può e non deve rassicurare in maniera eccessiva. L’«alea»<br />
connessa al ragionevole esercizio del «buon senso» da parte degli<br />
organi inquirenti, infatti, spesso (soprattutto nelle grandi strutture)<br />
non è tollerabile per ragioni sistematiche così come, d’altronde,<br />
diviene difficile spiegare (se del caso ad un investitore straniero)<br />
per quale motivo una determinata condotta corre il rischio di<br />
essere considerata perseguibile penalmente ad Aosta e non ad<br />
Agrigento o viceversa. In ultima analisi l’affidamento sulla ragionevolezza<br />
dell’interprete, se può aiutare ad evitare allarmismi, non<br />
risolve ex se il problema che, come tale, esiste.<br />
(11) Mi sembra difficilmente negabile, infatti, che - per plurime<br />
ragioni (il novero dei contribuenti potenzialmente assoggettabili<br />
a verifica, il «basso ritorno» in termini di maggiore imposta accertata,<br />
la necessità di impiegare al meglio una risorsa scarsa<br />
quale la capacità ispettiva degli Uffici, et cetera) - i contribuenti di<br />
minori dimensioni (fatto salvo il ricorso accertativo all’ibrido<br />
strumento degli studi di settore) abbiano statisticamente minori<br />
probabilità di essere assoggettati ad una verifica fiscale rispetto ai<br />
cosiddetti autonomi. Ciò sta a significare che quei contribuenti i<br />
quali - per la propria natura economicamente «destrutturata» (e<br />
non di certo perché peggiori o migliori di altri sotto il profilo etico)<br />
- hanno più facilità ad occultare la ricchezza prodotta (seppure<br />
per volumi forse non sempre significativi in assoluto) sono anche<br />
quelli che, secondo l’attuale politica dei controlli, rischiano<br />
(segue)
conseguenze interpretative - che già ex se rappresenta<br />
un «disvalore» - lo diviene ancora di più nelle<br />
strutture complesse in cui le decisioni finali sono<br />
spesso «spersonalizzate» (nel senso che costituiscono<br />
l’esito di processi che comportano l’interessamento<br />
di più persone) e comportano il confronto<br />
fra differenti sensibilità (e ruoli operativi).<br />
In tali ambiti l’incertezza (interpretativa) incrementa<br />
l’ostilità psicologica all’assunzione di responsabilità<br />
con evidenti diseconomie generali che<br />
rendono faticoso il processo decisionale e non<br />
agevolano il rapido formarsi di un’opinione condivisa<br />
tenuto conto dei rischi che tale opinione comporta.<br />
La «penalizzazione» dell’interpretazione - del resto<br />
- si sostanzia proprio nella potenziale criminalizzazione<br />
dell’opinione in quanto si termina per<br />
giudicare penalmente rilevante una «versione» di<br />
determinati «fatti» senza che sull’esatto svolgimento<br />
di tali «fatti» (nella propria «naturalistica<br />
realtà») vi sia motivo di contrapposizione fra le<br />
parti del rapporto d’imposta. Ciò sta a significare<br />
che il contribuente, quando compila la dichiarazione<br />
dando così concretezza numerica ad una propria<br />
interpretazione, non può essere certo che la<br />
quantificazione dell’imponibile così formalizzata<br />
non sia suscettibile - ceteris paribus (ossia fermo<br />
restando il sostrato materiale della stessa) - di essere<br />
«reinterpretata» (in modo più o meno ragionevole);<br />
ed è ovvio che tale alea (cui si cerca di porre<br />
pragmatico rimedio acquisendo dall’esterno pareri<br />
più o meno dotti a supporto delle valutazioni<br />
interne) crea l’evocato disagio decisionale ed ingenera<br />
quello stato di «incertezza» applicativa che<br />
- con un approccio forse eccessivamente «illuminista»<br />
- occorrerebbe cercare di ridurre al minimo<br />
in ambito giuridico.<br />
Mi si potrebbe obiettare che, così come esistono<br />
alcuni «reati di opinione», non si vede per quale<br />
motivo l’evasione «di opinione» (se così la si vuole<br />
designare) dovrebbe essere sanzionata in maniera<br />
difforme dall’evasione «fattuale».<br />
In maniera ugualmente critica, d’altronde, si potrebbe<br />
argomentare che al nostro diritto penale<br />
dell’economia sono tutt’altro che sconosciute le<br />
disposizioni incriminatrici che coinvolgono le<br />
«opinioni» e le «valutazioni» come dimostrato, ad<br />
esempio, dalle ipotesi criminose di false comunicazioni<br />
sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. di<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
talché non vi sarebbe motivo per considerare quella<br />
<strong>tributari</strong>a una materia del tutto differente da tale<br />
archetipo.<br />
In realtà, sono dell’avviso che entrambe queste<br />
critiche - seppure suggestive - non colgano precisamente<br />
nel segno.<br />
In primo luogo, infatti, l’assimilazione fra l’evasione<br />
e l’opinione rischia di risultare fuorviante.<br />
L’atto di evadere presuppone un occultamento di<br />
elementi indicativi di capacità contributiva che<br />
difficilmente è ravvisabile nella condotta di chi si<br />
limiti ad «interpretare» (in modo differente da<br />
quanto ritenuto corretto dalla parte pubblica dell’obbligazione<br />
<strong>tributari</strong>a) determinati accadimenti<br />
aziendali. Sotto questo profilo, quindi, la scelta<br />
della (tanto criticata) «manette agli evasori» di affrancare<br />
dalla sfera della frode fiscale (12) tutte le<br />
condotte non aventi ad oggetto «fatti materiali» mi<br />
appare («con il senno del poi») particolarmente<br />
saggia. Così facendo, infatti, la legge n. 516/1982<br />
evitava di ascrivere alla sfera del criminalmente<br />
sanzionabile (eccedendo peraltro nella penalizzazione<br />
di condotte formali sostanzialmente inoffensive)<br />
tutta l’area della ricostruzione ermeneutica<br />
ed evitava in nuce il rischio di dare vita a procedimenti<br />
penali dai contenuti «orwelliani», in quanto<br />
incentrati sull’apprezzamento della ragionevolezza<br />
o meno di una valutazione soggettiva piuttosto che<br />
sull’accertamento di un evento naturalisticamente<br />
inteso (13).<br />
Note:<br />
(segue nota 11)<br />
meno di essere verificati. Un fenomeno che la propagandata crescita<br />
complessiva degli incassi derivanti dall’azione di contrasto<br />
all’evasione tende a non rendere del tutto palese, ma che, a mio<br />
avviso, costituisce la vera sfida che l’Agenzia delle entrate deve<br />
affrontare nell’immediato futuro tenuto conto, per un verso, del<br />
sinora scarso esito della collaborazione all’accertamento da parte<br />
dei Comuni e, per altro verso, del fatto che la Guardia di Finanza<br />
(caratterizzata, tradizionalmente, da un’articolazione geografica<br />
più capillare di quella dell’Amministrazione finanziaria)<br />
tende sempre più ad individuare il fulcro del proprio ruolo istituzionale<br />
nel contrasto ai fenomeni di criminalità piuttosto che nel<br />
controllo del territorio in un’ottica di prevenzione generale (una<br />
situazione, peraltro, che risponde alla funzione tipica di polizia<br />
<strong>tributari</strong>a delineata nel nostro ordinamento, la quale, solo in modo<br />
marginale, prende in considerazione gli effetti «general-preventivi»<br />
connessi all’esercizio di tale funzione).<br />
(12) Cfr. art. 4, comma 1, lett. f), della legge n. 516/1982.<br />
(13) In proposito restano sempre attuali le complessive considerazioni<br />
di R. Lupi, Evasione fiscale, paradiso e inferno, IPSOA, 2008.<br />
4/2012<br />
437
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
Del pari, trovo che il parallelo con le fattispecie di<br />
false comunicazioni sociali non valga a giustificare<br />
del tutto l’opzione di penalizzazione dell’evasione<br />
interpretativa (nel senso, limitato, in precedenza<br />
delineato). Solo apparentemente le tematiche<br />
sono «contigue». L’interpretazione (e, quindi,<br />
la valutazione) è il fulcro del bilancio che, non a<br />
caso, rappresenta un «sistema di valori» (in larghissima<br />
parte stimati) e non la riproduzione di<br />
una realtà intangibile nella propria numerica oggettività.<br />
Una volta che si sia decisa a livello normativo<br />
la necessità di approntare un presidio penale<br />
a tutela del bilancio (e più in generale delle altre<br />
comunicazioni sociali), perciò, la criminalizzazione<br />
dell’interpretazione (seppure potenzialmente<br />
temperata con vari accorgimenti) è inevitabile.<br />
Non è così nel campo della tassazione. Il diritto<br />
<strong>tributari</strong>o (come dimostrato, in modo inequivoco,<br />
dalla disciplina del reddito d’impresa contraddistinta<br />
com’è da numerose disposizioni che tendono<br />
ad attribuire certezza numerica ai componenti<br />
reddituali) rifugge dagli eccessi di discrezionalità<br />
valutativa e mira a privilegiare l’oggettività anche<br />
a costo di talune forzature. In questo, pertanto, non<br />
v’è necessaria contiguità fra la disciplina del bilancio<br />
e quella del reddito imponibile, tutt’altro.<br />
Peraltro - come dimostrato dall’antitetica scelta<br />
della legge n. 516/1982 - la qualificazione giuridica<br />
dei fatti aziendali «noti» può ben restare estranea<br />
alla sfera di quanto rileva ai fini criminali senza<br />
danno alcuno per la coerenza del «microsistema»<br />
penale <strong>tributari</strong>o e senza che il numero dei<br />
processi celebrati diminuisca (ove mai tale dato<br />
possa considerarsi espressivo dell’efficacia repressiva<br />
del sistema).<br />
V’è poi un’osservazione «quantitativa» (che non<br />
va trascurata).<br />
Le conseguenze punitive delle fattispecie di false<br />
comunicazioni sociali sono assai meno afflittive<br />
rispetto a quelle correlate alle ipotesi dichiarative<br />
(soprattutto quando viene evocato il delitto di cui<br />
all’art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000).<br />
Essere assoggettati ad un procedimento penale non<br />
fa mai piacere a nessuno (in particolare modo alla<br />
categoria dei white collars le cui esigenze reputazionali<br />
sono un elemento di valutazione sovente<br />
pretermesso in occasione dell’analisi del tema); è<br />
evidente, tuttavia, che quando il rischio è rappresentato<br />
dalla pena della reclusione sino a sei anni<br />
438<br />
4/2012<br />
(come nel caso della dichiarazione fraudolenta) la<br />
possibilità di essere coinvolti in un procedimento<br />
penale concernente l’interpretazione di accadimenti<br />
incontestati nella propria «materialità» inizia<br />
a divenire qualcosa di più di una semplice<br />
«spiacevole» conseguenza connessa alla carica rivestita<br />
(14).<br />
Considerazioni conclusive<br />
Nello spirito tipico del contesto che accoglie questo<br />
contributo non ho inteso rappresentare una soluzione<br />
ma, principalmente, porre un problema; un<br />
problema forse noto ai più e già illustrato con senz’altro<br />
maggiore vis argomentativa da entrambi i<br />
direttori di questa Rivista.<br />
La conoscenza della tematica, tuttavia, è importante<br />
ma non esaurisce i termini dell’argomento.<br />
Un po’ come si legge sul retro di copertina dei testi<br />
universitari circa la possibilità di estrarre copia<br />
degli stessi, anche per l’attuale assetto del D.Lgs.<br />
n. 74/2000 occorre chiedersi cosa si possa fare<br />
perché il diritto penale <strong>tributari</strong>o non muoia (di incertezza<br />
applicativa, di forzature concettuali, di<br />
continue revisioni ed integrazioni nella erronea<br />
convinzione che la sanzione criminale incrementi<br />
l’effetto di prevenzione generale et cetera).<br />
Per non proseguire in quella che rappresenta - a<br />
mio giudizio - una deriva non governata, un primo<br />
intervento potrebbe essere proprio quello di meditare<br />
in modo adeguato (alla luce dell’attuale indi-<br />
Nota:<br />
(14) Da ultimo, poi, una notazione sulle conseguenze (in realtà<br />
imponderabili nel 2000) della scelta legislativa di attrarre all’area<br />
del penalmente rilevante anche i fenomeni interpretativi: si tratta<br />
della possibilità, introdotta nel 2006 e «rafforzata» dalla nota<br />
pronuncia della Consulta del 2011, di raddoppio dei termini di<br />
accertamento in caso di presentazione di una notitia criminis relativa<br />
ad una fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74/2000. Senza volersi dilungare,<br />
infatti, è agevole scorgere quanto possa risultare poco<br />
sopportabile (in ragione dell’elevatissima incertezza dei rapporti<br />
giuridici che determina) quel meccanismo tale per cui l’omessa<br />
condivisione dell’«opinione» del contribuente dà concretezza accertativa<br />
ad un’ipotesi di reato, consentendo addirittura di «riaprire»<br />
a beneficio dell’Amministrazione finanziaria i termini di<br />
decadenza di periodi d’imposta ormai (apparentemente) intangibili.<br />
Un meccanismo già ex se poco ragionevole, ma che rischia di<br />
risultare (quasi) vessatorio per il contribuente se si considera<br />
che mentre la dissenting opinion della parte pubblica può, in conclusione,<br />
anche rivelarsi un’ipotesi sprovvista di qualsiasi fondamento<br />
(e come tale destinata all’immediata archiviazione) i suoi<br />
effetti amministrativi, invece, non risentono in alcun modo dell’esito<br />
della vicenda penalistica.
izzo dei controlli fiscali e delle contestazioni che<br />
ne scaturiscono) sulla reale opportunità della potenziale<br />
rilevanza criminale delle valutazioni. Senza<br />
volere apparire un nostalgico (15), infatti, penso<br />
che l’applicazione del D.Lgs. n. 74/2000 abbia<br />
dimostrato come fra (i non molti in realtà) profili<br />
suscettibili di recupero propri dell’esperienza della<br />
legge n. 516/1982 vi sia senz’altro la sua focalizzazione<br />
su eventi materiali tendenzialmente sprovvisti<br />
di soggettività (quella nozione di fatti materiali<br />
su cui era costruito il delitto di frode esterna<br />
di cui all’art. 4, comma 1, lett. f), della legge n.<br />
516/1982). Meno incertezza complessiva, minori<br />
timori sulle conseguenze connesse a divergenze<br />
interpretative, non necessariamente minore effica-<br />
La confusione di idee sull’evasione fiscale, da parte<br />
di una opinione pubblica senza punti di riferimento<br />
concettuali, si proietta anche sulle sanzioni<br />
penali.<br />
I manuali di diritto <strong>tributari</strong>o, proiettati nella concezione<br />
legalistico processuale, anziché amministrativistico-economica<br />
(16), semplicemente ignorano<br />
il problema che sta più a cuore alle istituzioni<br />
e alla pubblica opinione, cioè quello della ricchezza<br />
non registrata. La ricerca di quest’ultima paradossalmente<br />
«non è legale», cioè non può essere<br />
fatta derivare meccanicamente da una qualche disposizione<br />
normativa, in quanto è «empirica», essendo<br />
una questione di fatto, ancorché marcatamente<br />
valutativa. Per questo le contestazioni fiscali<br />
da cui deriva la maggior parte del budget dell’Agenzia<br />
delle entrate non derivano dalla scoperta<br />
di ricchezza non registrata, ma da contestazioni<br />
giuridico interpretative su circostanze registrate, o<br />
comunque palesi, non nascoste. Se qualche volta<br />
viene scoperto qualcosa di nascosto, come abbiamo<br />
indicato in precedenti articoli su Dialoghi (ed<br />
anche in questo numero sul fantomatico «tesoro<br />
degli Agnelli») (17), si tratta di riflessi di liti familiari,<br />
societarie, o indagini penali.<br />
In questo confusionario clima di caccia alle streghe,<br />
le contestazioni sull’inquadramento giuridico<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
cia preventiva. Può apparire paradossale ma, almeno<br />
sotto questo profilo, a me sembra che il passato<br />
(la legge «manette agli evasori») alla fine sia meno<br />
deprecabile di quanto si pensasse al momento<br />
dell’emanazione del D.Lgs. n. 74/2000.<br />
Nota:<br />
(15) Nel qual caso, peraltro, sarei in buona compagnia tenuto<br />
conto di quanto affermato da D. Terracina, RL, «Fatto, diritto e<br />
sanzioni penali», cit., loc. ult. cit., i quali pongono in luce come la<br />
mancata criminalizzazione delle condotte interpretative rappresentasse<br />
una caratteristica «fortunata (e fortuita)» della legge n.<br />
516/1982 (affiancata, peraltro, da peculiarità del tutto patologiche)<br />
che la riforma del 2000 ha annullato in modo avventato e,<br />
presumibilmente, in maniera altrettanto inconsapevole, salvi alcuni<br />
stereotipi riferimenti emozionali alla «grande evasione».<br />
Rilevanza penale dell’abuso del diritto e delle questioni interpretative:<br />
quando le aziende si danno la zappa sui piedi<br />
Raffaello Lupi<br />
dato alla ricchezza registrata finiscono per essere<br />
accomunate a quelle relative alla ricchezza non registrata.<br />
Lo schema è sempre il solito, secondo cui<br />
le colpe di ciò che è nascosto, difficile da trovare e<br />
valutare, ricadono su ciò che è dichiarato.<br />
Concordo con chi mi ha preceduto, e mi soffermo<br />
sempre più in questa convinzione, che la ipotetica<br />
rilevanza penale delle maggiori imposte accertate<br />
in seguito a questioni di diritto sia nata spontaneamente,<br />
come conseguenza automatica di scelte di<br />
altro tipo. Soprattutto quella di «alleggerire i carichi<br />
di lavoro» derivanti dai reati, ritenuti ben poco<br />
significativi, di omessa annotazione dei corrispettivi,<br />
diffusissimi tra piccoli commercianti e artigiani.<br />
Si passò quindi, sensatamente, alla rilevanza<br />
dei documenti fittizi e a quella dell’imposta non<br />
dichiarata, altro parametro utilizzabile per concentrarsi<br />
sulle violazioni di più rilevante gravità.<br />
L’«evasione interpretativa» non era stata ancora<br />
teorizzata, ma la relazione a quello che sarebbe diventato<br />
il D.Lgs. n. 74/2000 già intuiva il proble-<br />
Note:<br />
(16) Quella che stiamo portando avanti su Dialoghi.<br />
(17) S. Capitani, RL, «Capitalismo familiare e Fisco: nessun “tesoro<br />
nascosto” ne “L’importanza di chiamarsi Agnelli”», in questa<br />
Rivista a pag. 377.<br />
4/2012<br />
439
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
ma delle grandi aziende, anche se poi lo liquidava<br />
con poche frasi stereotipe sulle «pieghe dei bilanci»<br />
e la «grande evasione».<br />
Del resto le aziende interessate a queste tematiche<br />
sono poche migliaia, non c’era esperienza passata,<br />
grazie alla formulazione della precedente legge n.<br />
516/1982, né c’era sensibilità.<br />
Fummo tra i pochi, in un volume redatto subito<br />
dopo la riforma (18), a porre il problema della<br />
maggiore imposta accertata a seguito di contestazioni<br />
del regime giuridico con cui i contribuenti<br />
avevano inquadrato gli elementi positivi e negativi<br />
della ricchezza registrata. Scambiando fuggevoli<br />
sensazioni durante un convegno con uno dei padri<br />
della riforma, il magistrato Bruno Tinti, ebbi la<br />
sensazione che anche lui ritenesse assente il dolo<br />
per le questioni interpretative provviste di un qualche<br />
fondamento. Comunque si trattava di questioni<br />
lontane da quelle, molto più insidiose (come le<br />
frodi carosello, di cui già nel 2000 questo magistrato<br />
aveva grande esperienza), tenute presenti<br />
dai redattori della riforma. Questi ultimi, trascurarono<br />
l’evasione interpretativa, del tutto legittimamente<br />
visto che non la capivano neppure gli studiosi<br />
del settore.<br />
Nel precedente numero 3, in margine all’articolo<br />
di Terracina, mi ero impegnato a soffermami sulla<br />
differenza tra il testo del decreto legislativo proposto<br />
dal Ministro dell’epoca, e quello poi finito in<br />
Gazzetta Ufficiale come D.Lgs. n. 74/2000 (19).<br />
Chi scrive aveva sensibilizzato i vertici ministeriali<br />
dell’epoca sugli inconvenienti della rilevanza penale<br />
delle contestazioni interpretative; lo stesso Ministro<br />
Visco si era reso conto della questione, ma<br />
comprendere un problema non significa trovare la<br />
formula per risolverlo. Fatto sta che venne proposto<br />
un testo secondo cui «le violazioni dipendenti<br />
da interpretazione della normativa <strong>tributari</strong>a o disposizioni<br />
da esse richiamate sono punibili soltanto<br />
in caso di palese infondatezza dell’interpretazione<br />
adottata». Avevo anticipato sul numero precedente<br />
che il Ministro, su questo testo, fu messo in difficoltà<br />
anche da un intervento pubblicato il 16 febbraio<br />
2000, il giorno prima del varo definitivo dal<br />
parte del Consiglio dei Ministri, sul quotidiano della<br />
Confindustria, a firma di Enrico De Mita. L’articolo,<br />
fortemente critico, era intitolato «I limiti incerti<br />
dell’interpretazione “infondata”», ed attaccava<br />
la disposizione in quanto (testualmente) «del<br />
440<br />
4/2012<br />
tutto indeterminata e, quindi, incostituzionale per<br />
violazione del principio di legalità posto dall’articolo<br />
25 della Costituzione. La palese infondatezza,<br />
che dovrebbe essere il risultato di una ricognizione<br />
della legge, viene ridotta, infatti, al rango di un fatto<br />
di cui non esistono i contorni; con quella formulazione<br />
si vuole uscire dalla interpretazione e far riferimento<br />
a comportamenti stravaganti che andrebbero<br />
definiti. Altrimenti, non si esce dal campo della<br />
interpretazione, comunque la si qualifichi “infondata”,<br />
“smaccata”». Si comprende dagli esempi<br />
portati dall’Autore che esso non aveva afferrato il<br />
problema che la disposizione legislativa intendeva<br />
fronteggiare (20).<br />
Il passaggio sorprendente, apparso su un giornale<br />
che organizza quotidianamente manifestazioni sulla<br />
corretta interpretazione della normativa <strong>tributari</strong>a<br />
dirette ai professionisti, è quello secondo cui<br />
«lo stesso concetto di interpretazione infondata va<br />
messo in discussione. Non esiste l’interpretazione<br />
in rerum natura, ma solo quella dell’Amministrazione<br />
non contestata tempestivamente o quella definitiva<br />
del giudice». Ne discende, secondo l’Autore,<br />
che il «contribuente» ed il professionista<br />
«non interpretano». A conferma di questa affermazione<br />
l’Autore riporta, anziché un ragionamento,<br />
una autorità dottrinale «l’insegnamento contenuto<br />
nel “Diritto processuale <strong>tributari</strong>o” di Enrico Allorio<br />
(Torino, 1969), che al ministero farebbero bene<br />
a riaprire, in un momento nel quale la tentazione<br />
di ignorare del tutto la dottrina nelle leggi sta raggiungendo<br />
livelli insopportabili», secondo cui<br />
(pag. 367): «la dichiarazione <strong>tributari</strong>a non ha per<br />
contenuto un’affermazione di diritto; un’afferma-<br />
Note:<br />
(18) AA.VV., Fiscalità d’impresa e reati <strong>tributari</strong>, Milano, 2000.<br />
(19) «La criminalizzazione casuale delle questioni di diritto», in<br />
Dialoghi Tributari n. 3/2012, pag. 301.<br />
(20) L’articolo proseguiva con passaggi non facilmente intelligibili,<br />
secondo cui «Un esempio di norma determinata dove la violazione<br />
di legge si può cogliere, come dice la Corte di cassazione, ictu<br />
oculi, è quella della dichiarazione di deduzioni o detrazioni non<br />
spettanti che non richiedono l’avviso di accertamento e che vengono<br />
iscritte a ruolo. Mentre qui per dimostrare la plausibilità<br />
della disposizione in esame si è costretti a ricorrere a esempi<br />
meno che scolastici: l’attribuzione di esenzioni o di regimi fiscali<br />
non spettanti, mentre si sa che la riduzione del carico fiscale per<br />
interpretazione infondata della legge viene perseguita attraverso<br />
quelle sofisticazioni che vanno ricondotte all’elusione. E non si<br />
può sostenere che l’elusione diventa automaticamente evasione<br />
se l’interpretazione è palesemente infondata».
zione giuridica non può avere alcuna efficacia né<br />
se giuridicamente fondata, né se giuridicamente<br />
errata; nel qual caso essa è dunque inefficace, non<br />
perché affetta da errore di diritto, ma semplicemente<br />
perché affermazione di diritto». Ho preso<br />
visione della pagina di Allorio, che mi sembra<br />
estratta dal contesto, riferito invece alla diversa<br />
questione dell’impegnatività dell’interpretazione<br />
del contribuente rispetto a quella del Fisco, ma<br />
non è questo il punto.<br />
Il punto è piuttosto la palese forzatura, in un contesto<br />
di tassazione attraverso le aziende, della negazione<br />
di una «interpretazione del contribuente»,<br />
che non sarebbe «chiamato a interpretare la legge,<br />
ma a corrispondere l’imposta esatta di modo che la<br />
valutazione in diritto, come scrive ancora Allorio,<br />
è un movente normale con cui il dichiarante attribuisce<br />
ai fatti che porta a conoscenza della Finanza<br />
rilevanza giuridica <strong>tributari</strong>a. Ciò che conta è<br />
l’esattezza dell’adempimento, quale che sia stata<br />
la qualificazione giuridica dei fatti dichiarati».<br />
Abbiamo qualche difficoltà nel seguire queste affermazioni,<br />
forse per l’eliminazione di alcuni passaggi<br />
argomentativi necessaria per rientrare nei<br />
brevi spazi del quotidiano.<br />
In effetti la formula normativa proposta non era<br />
bellissima, e peccava di perfezionismo, in uno<br />
scrupolo secondario, che era quello di mantenere<br />
la punibilità delle condotte-limite in cui il contribuente,<br />
più che fare assegnamento sulla fondatezza<br />
della soluzione interpretativa adottata, contava<br />
che il Fisco non si accorgesse della questione, e<br />
non formulasse alcuna contestazione.<br />
Avrebbero ad esempio potuto essere considerate<br />
«violazioni interpretative» le deduzioni di spese<br />
palesemente personali, o l’applicazione indebita di<br />
regimi di favore, effettuate nella pura e semplice<br />
speranza che il Fisco non rilevasse le violazioni<br />
nella gran mole della documentazione aziendale. A<br />
posteriori, vista l’irrilevanza statistica di queste<br />
ipotesi, sarebbe stato bene proporre una norma che<br />
depenalizzasse tutte le questioni interpretative, incondizionatamente.<br />
Le cose sono andate diversamente, ed è rimasta<br />
questa «criminalizzazione fortuita», che si sposa<br />
bene con la concezione delle aziende come «grandi<br />
evasori», come «capro espiatorio» delle lacerazioni<br />
sociali indotte dalla mancata spiegazione della tassazione<br />
attraverso le aziende. Lo hanno confermato<br />
<strong>Reati</strong><br />
<strong>tributari</strong><br />
le reazioni, anche di ambienti istituzionali, alla<br />
bozza di disegno di legge delega per la riforma <strong>tributari</strong>a<br />
che intendeva «depenalizzare l’abuso del<br />
diritto». È stata una iniziativa largamente sostenuta<br />
dal quotidiano della Confindustria, risoltasi però<br />
con una parziale marcia indietro, che si può seguire<br />
sul sito della Lef (lega per l’equità fiscale) oltre<br />
che nelle mie repliche sul sito www.giustiziafiscale.com<br />
nel post intitolato «È sbagliato depenalizzare<br />
l’abuso del diritto (soltanto)».<br />
Viene da sorridere leggendo oggi una serie di articoli<br />
che lamentano la criminalizzazione dell’abuso<br />
del diritto ed invocano una soluzione legislativa,<br />
ostacolata proprio dalla mancata riflessione, nell’opinione<br />
pubblica qualificata, sul rapporto tra<br />
ricchezza non registrata e maggiore imposta accertata<br />
(21). È il riflesso di una pubblicistica, accademica<br />
e non, appiattita sui materiali normativi (22)<br />
e incapace di quel coordinamento di riflessioni in<br />
cui consiste la ricerca nelle scienze sociali. Appare<br />
sempre più chiaro che l’accademia, la pubblicistica,<br />
l’editoria, col loro parlare dicendo che qualcuno<br />
ha detto, e invocando che qualcuno provveda,<br />
senza indicazioni progettuali, rappresentano il problema,<br />
non la soluzione, della tassazione in Italia.<br />
Note:<br />
(21) Basterebbe leggere R. Lupi e S. Capitani, «Maggiore imposta<br />
accertata non sempre significa ricchezza non registrata», in Dialoghi<br />
Tributari n. 1/2012, pag. 7.<br />
(22) Cfr. R. Lupi, «L’appiattimento sui “materiali normativi” produce<br />
mostri», Editoriale di Dialoghi Tributari n. 3/2012, pag. 243.<br />
4/2012<br />
441
Fiscalità<br />
internazionale<br />
«Transfer pricing»<br />
e presenza di «soci esterni»<br />
nella compagine sociale<br />
Presupposto necessario per l’applicazione della<br />
normativa sui prezzi di trasferimento è, sotto il<br />
profilo soggettivo, la sussistenza di un rapporto di<br />
«controllo» tra le due controparti di una transazione<br />
o il fatto che entrambe siano controllate dalla<br />
medesima società. Questo non solo e non tanto per<br />
motivi normativi, ma per motivi logici nella determinazione<br />
della ricchezza.<br />
La ratio della norma è infatti quella di neutralizzare<br />
sotto il profilo fiscale l’eventuale alterazione<br />
dei prezzi di trasferimento dovuta alla relazione di<br />
«controllo» tra le parti, che determina la sottoposizione<br />
di una parte all’altrui volontà in dipendenza<br />
dell’interesse di quest’ultima e che ostacola l’operatività<br />
dei meccanismi del mercato (1). Spesso<br />
anche la presenza di un socio di minoranza comporta<br />
patti parasociali che escludono i rischi in<br />
esame. A meno che il socio di minoranza non sia<br />
entrato per ragioni fortuite, o sia un socio finan-<br />
442<br />
di Marco Leotta - Marco Mazzetti di Pietralata - Luca Lazzarini, Raffaello Lupi<br />
Anche il «transfer pricing» è un esempio di «contestazione interpretativa», dove non è nascosto<br />
nulla, ma dove la genuinità nella determinazione dei prezzi è influenzata dalla relazione societaria<br />
tra le parti contraenti. I corrispettivi sono cioè reali, nulla passa sotto al tavolo in un<br />
senso o nell’altro, ma vi sono obiettivi ulteriori rispetto al mero interesse alla prestazione sottostante.<br />
Questo, non solo per convenienza <strong>tributari</strong>a, ma anche per ragioni finanziarie, di mercato,<br />
al limite «geopolitiche», in senso ampio «di gruppo». Anche perché sempre più spesso i<br />
gruppi multinazionali, al di là della divisione giuridico formale in tante società nazionali, si comportano<br />
come un’unica azienda. Per questo, la presenza anche di un socio di minoranza «fa la<br />
differenza» e figuriamoci poi se si tratta di un socio paritetico, dove il senso comune dovrebbe<br />
escludere proprio l’operatività dei controlli a valore normale, di cui mancano i presupposti logici.<br />
Invece gli Uffici <strong>tributari</strong> cavillano sull’applicazione del transfer pricing, recitando l’assurdità<br />
del «tutoraggio» sulle grandi aziende. Il solito ottuso formalismo su quello che è registrato,<br />
spinge oggettivamente a «non registrare».<br />
«Transfer pricing» nei rapporti con joint venture<br />
Marco Leotta - Marco Mazzetti di Pietralata - Luca Lazzarini<br />
4/2012<br />
ziario, che trova altre forme di compensazione, o<br />
può essere tenuto per altri versi «sotto pressione».<br />
Sono però situazioni fluide, che si inseriscono sulla<br />
mancanza di una definizione normativa del rapporto<br />
di controllo.<br />
Nozione di controllo<br />
I termini essenziali cui può essere ricondotta la<br />
nozione di controllo sono comunque reperibili a livello<br />
di prassi amministrativa. In particolare i contorni<br />
della nozione di controllo sono delineati già<br />
nella vecchia circolare del Ministero delle Finanze<br />
Marco Leotta - Dottore commercialista in Roma<br />
Marco Mazzetti di Pietralata - Dottore commercialista in Roma<br />
Luca Lazzarini - Dottore commercialista in Roma<br />
Nota:<br />
(1) È un profilo recepito anche dall’accademia, tra cui R. Cordeiro<br />
Guerra, «La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano»,<br />
in Riv. dir. trib., 2000, I, pag. 421.
22 settembre 1980, n. 32/9/2267 (2), che, coerentemente<br />
con le finalità proprie della normativa sul<br />
transfer pricing, si discosta, da un lato, dalla qualificazione<br />
civilistica del concetto di controllo recata<br />
dall’art. 2359 c.c., dall’altro, da definizioni<br />
del medesimo concetto per altre finalità di carattere<br />
fiscale intervenute successivamente (ad esempio,<br />
relativamente alla normativa sulla tassazione<br />
delle azioni assegnate ai dipendenti).<br />
In particolare, l’Amministrazione estende il concetto<br />
di controllo «ad ogni ipotesi di influenza<br />
economica potenziale o attuale desumibile dalle<br />
singole circostanze» e include anche il caso di<br />
«impossibilità di funzionamento dell’impresa senza<br />
il capitale, i prodotti o la cooperazione tecnica<br />
dell’altra impresa (fattispecie comprensiva delle<br />
joint venture)». Pertanto, in presenza di una joint<br />
venture, cioè una collaborazione paritaria tra più<br />
entità giuridiche nella forma della società partecipata<br />
in egual misura da tutti i soci, la normativa<br />
sul transfer pricing è considerata applicabile a<br />
priori secondo tale interpretazione.<br />
Sono stereotipi, formule generiche, che equivocano<br />
sui requisiti del controllo ai fini della manipolazione<br />
del prezzo, che è il cuore della ratio legis<br />
sotto il profilo della determinazione della ricchezza.<br />
Tuttavia, ai fini della qualificazione del «rapporto<br />
di controllo», la stessa Amministrazione afferma<br />
che «il controllo di cui trattasi deve essere contrassegnato<br />
da esigenze di elasticità e trovare collocazione<br />
in un contesto economico-dinamico» e che<br />
l’influenza economica deve essere desunta «dalle<br />
singole circostanze» (3).<br />
L’applicazione della normativa sui prezzi di trasferimento<br />
non può quindi prescindere dall’accertamento,<br />
caso per caso, della operatività - o meno -<br />
del citato «meccanismo del mercato» nei rapporti<br />
tra i due soggetti che prendono parte alla transazione.<br />
Nel caso particolare delle joint venture il «meccanismo<br />
del mercato» potrebbe comunque operare<br />
proprio per la presenza di un partner potenzialmente<br />
antagonista e di pari peso societario, alla luce<br />
degli accordi che regolano la governance societaria.<br />
Pertanto non sembra possibile ritenere aprioristicamente<br />
applicabile la normativa sul transfer pricing<br />
in presenza di una joint venture, in quanto ap-<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
pare invece necessario un approfondito esame<br />
complessivo della dinamica dei rapporti intercorrenti<br />
tra i soggetti coinvolti. Intendiamo dire che,<br />
di norma, la percentuale del 50%, di fronte ad un<br />
altro 50%, non integra la fattispecie del «controllo<br />
di diritto». Occorre quindi procedere all’analisi, da<br />
un lato, degli accordi che disciplinano il funzionamento<br />
della joint venture in merito, ad esempio,<br />
alla nomina degli organi amministrativi ed ai poteri<br />
a questi concretamente attribuiti, alle modalità<br />
di finanziamento, ecc., dall’altro lato, delle concrete<br />
modalità di svolgimento dei rapporti commerciali<br />
intercorrenti tra joint venture e soci.<br />
Quanto sopra premesso, vengono di seguito ripercorsi<br />
i principi generali in materia di applicabilità<br />
della normativa sui prezzi di trasferimento alle<br />
transazioni con una joint venture alla luce della<br />
prassi internazionale ed interna.<br />
La posizione dell’OCSE<br />
Come noto l’art. 9 del Modello OCSE di Convenzione<br />
contro le doppie imposizioni prevede che il<br />
principio dell’arm’s length si applichi nei casi in<br />
cui:<br />
«an enterprise of a Contracting State participates<br />
directly or indirectly in the management, control<br />
or capital of an enterprise of the other Contracting<br />
State, or<br />
b) the same persons participate directly or indirectly<br />
in the management, control or capital of an<br />
enterprise of a Contracting State and an enterprise<br />
of the other Contracting State».<br />
In merito, il Commentario OCSE (ultima versione<br />
emanata il 22 luglio 2010) chiarisce che la disciplina<br />
sui prezzi di trasferimento è applicabile nei<br />
casi in cui la distorsione dei prezzi praticati in<br />
operazioni transfrontaliere trovi il proprio presupposto<br />
nell’esistenza di special relations tra le parti,<br />
pur tuttavia non chiarendo il significato di tale<br />
espressione (4).<br />
Il tema viene tuttavia trattato dall’OCSE nell’am-<br />
Note:<br />
(2) In Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(3) C.M. n. 32/9/2267 del 1980, cit. nota 2.<br />
(4) In linea di principio l’individuazione è demandata dall’art. 3,<br />
comma 2, del Modello OCSE alla normativa domestica di riferimento.<br />
In merito, tra gli altri, cfr. A. Pozzo, «L’interpretazione delle<br />
convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni», in V.<br />
Uckmar, Diritto <strong>tributari</strong>o internazionale, Padova, 2005, pag. 145.<br />
4/2012<br />
443
Fiscalità<br />
internazionale<br />
bito delle Linee Guida in materia di prezzi di trasferimento<br />
(5). Sebbene infatti le stesse Linee Guida<br />
non dedichino una apposita sezione all’applicabilità<br />
della normativa sul transfer price in presenza<br />
di una joint venture, esse affrontano tale tematica<br />
incidentalmente.<br />
Segnatamente il par. C.3.4.2. delle Linee Guida,<br />
relativo al reperimento di transazioni comparabili<br />
per l’applicazione del metodo del profit split, dà<br />
una rilevanza «di mercato» alle joint ventures come<br />
pietra di paragone per i rapporti intragruppo<br />
veri e propri. Si afferma infatti in tale sede che<br />
«possible sources of information on uncontrolled<br />
transactions that might usefully assist the determination<br />
of criteria to split the profits, depending on<br />
the facts and circumstances of the case, include<br />
joint-venture arrangements between independent<br />
parties under which profits are shared, such as development<br />
projects».<br />
Viene quindi riconosciuta esplicitamente la natura<br />
di accordi at arm’s length agli accordi di joint venture,<br />
in quanto si rinvia ad essi come possibili parametri<br />
di riferimento del valore di mercato da tenere<br />
in considerazione per individuare i criteri di<br />
ripartizione dei profitti nella applicazione del metodo<br />
del profit split.<br />
In altre parole, le Linee Guida OCSE sembrano ritenere<br />
che il citato «meccanismo del mercato»<br />
operi in presenza di joint venture avallando, di<br />
conseguenza, l’ipotesi della qualificazione delle<br />
transazioni con le joint venture come transazioni<br />
con terzi.<br />
Le posizioni della prassi amministrativa<br />
e della giurisprudenza italiana<br />
Come sottolineato in precedenza, l’applicazione<br />
della normativa sui prezzi di trasferimento nell’ordinamento<br />
italiano presuppone l’individuazione di<br />
un rapporto di controllo di un soggetto sulla controparte<br />
contrattuale ovvero l’individuazione di<br />
una unica volontà che accomuni due soggetti che<br />
prendono parte ad una transazione.<br />
Ai fini di individuare la presenza di tale unica volontà<br />
volta all’indebita alterazione dei prezzi di trasferimento<br />
la C.M. n. 32 del 1980 individua una serie<br />
di circostanze dalle quali può essere desunta la<br />
presenza del controllo di un soggetto giuridico da<br />
parte di altro soggetto, ma afferma anche che «la<br />
esistenza di uno solo degli elementi di fatto soprain-<br />
444<br />
4/2012<br />
dicati non consente sempre di pervenire alla conclusione<br />
affermativa sull’esistenza del controllo richiesto<br />
dagli art. 53 e 56 del D.P.R. n. 597/1973».<br />
È stato ribadito in dottrina come tali criteri debbano<br />
essere considerati «meri indizi» e non la prova<br />
della ricorrenza sicura di un comune controllo (6).<br />
Pertanto il mero verificarsi di una, o anche più,<br />
delle condizioni elencate dalla prassi ministeriale,<br />
non sembra che possa, di per sé, rappresentare una<br />
presunzione assoluta dell’esistenza del presupposto<br />
soggettivo per l’applicazione della normativa<br />
sul transfer pricing.<br />
L’Amministrazione stessa prevede che la posizione<br />
dell’impresa che esercita il controllo sia «caratterizzata<br />
da elementi di stabilità che rendano il<br />
vincolo abbastanza forte da escludere un controllo<br />
fortuito o molto limitato nel tempo» (7).<br />
Peraltro, l’Agenzia delle entrate, in relazione alla<br />
disciplina fiscale delle stock option recata dall’art.<br />
51, comma 2-bis, del T.U.I.R., che prevede che le<br />
disposizioni di favore si applichino, non solo «alle<br />
azioni emesse dall’impresa con la quale il contribuente<br />
intrattiene il rapporto di lavoro», ma anche<br />
«a quelle emesse da società che direttamente o indirettamente,<br />
controllano la medesima impresa, ne<br />
sono controllate o sono controllate dalla stessa società<br />
che controlla l’impresa», interpreta tale<br />
espressione come un rinvio all’art. 2359 c.c. (8).<br />
L’Agenzia assegna dunque una interpretazione diversa<br />
e più restrittiva rispetto a quella fornita dalla<br />
disposizione sul transfer pricing, pur in presenza<br />
della medesima lettera della legge.<br />
Con riguardo alla disposizione sulle stock option,<br />
da ultimo l’Agenzia, facendo riferimento a tale interpretazione,<br />
in relazione ad un caso di joint venture,<br />
ne ha escluso l’applicazione, prevedendo, da un<br />
lato, che «la nozione di controllo di cui all’articolo<br />
2359 non esclude in termini assoluti la possibilità<br />
che anche in presenza di una partecipazione paritetica<br />
alla società sia individuabile una situazione di<br />
Note:<br />
(5) OCSE, Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises<br />
and Tax Administration, 22 Luglio 2010.<br />
(6) Cfr., tra l’altro, A. Musselli, A. Musselli, Transfer Pricing, Milano,<br />
2009, pag. 67; e G. Marino, La relazione di controllo nel diritto <strong>tributari</strong>o,<br />
Padova, 2008, pag. 161.<br />
(7) Cfr. C.M. n. 32/9/2267 del 1980, cit.<br />
(8) Cfr. C.M. 23 dicembre 1997, n. 326/E, in Banca Dati BIG Suite,<br />
IPSOA.
controllo da parte di uno dei soci» e, dall’altro, che<br />
«l’ampiezza del concetto di controllo prevista dall’art.<br />
2359 richiede necessariamente una analisi approfondita<br />
dei rapporti intercorrenti tra i soggetti<br />
coinvolti al fine di verificare se uno di essi eserciti<br />
sull’altro una influenza dominante in virtù di particolari<br />
vincoli contrattuali con essa» (9).<br />
La presenza del rapporto di controllo deve quindi<br />
essere verificata tenendo in considerazione tutte le<br />
circostanze del caso ed attraverso l’individuazione<br />
di elementi di fatto che comprovino la presenza di<br />
una unica volontà che governi i due soggetti.<br />
Su tali presupposti si fonda anche la giurisprudenza<br />
sul tema (10), la quale ha ritenuto insussistente<br />
la presenza di una situazione di controllo - e quindi<br />
assente il presupposto soggettivo per l’applicazione<br />
della normativa sui prezzi di trasferimento -<br />
nel caso di una società italiana che deteneva una<br />
partecipazione del 50% in una società residente<br />
nel Regno Unito.<br />
Nel caso di specie, il giudice di primo grado non<br />
ha ritenuto sussistente il rapporto di controllo tra i<br />
due soggetti pur in presenza dei seguenti elementi:<br />
– la società italiana deteneva una partecipazione<br />
del 50% nella controparte estera;<br />
– le parti avevano sottoscritto un contratto di vendita<br />
esclusiva per la commercializzazione dei prodotti<br />
della partecipante italiana;<br />
ed infine<br />
– la società italiana concedeva un finanziamento<br />
alla partecipata estera.<br />
La fattispecie esaminata dai giudici di merito dunque<br />
non ha riguardato la presenza solo di una partecipazione<br />
in una joint venture, ma anche di un<br />
accordo di vendita con clausola di esclusiva con il<br />
socio italiano, nonché la presenza di un finanziamento<br />
da parte del medesimo socio, elementi che<br />
senza dubbio rendevano maggiormente intensi i<br />
legami economici tra le due parti.<br />
In proposito il giudice di prima istanza ha ravvisato<br />
che «le due soggettività giuridiche mantengono<br />
ben ferma la loro autonomia ed indipendenza, anzi<br />
volta a volta si manifestano problematiche opposte<br />
a quelle ipotizzate dal Fisco italiano che conducono<br />
a rilevanti conflitti societari nell’ambito della<br />
joint venture».<br />
Anche il giudice di secondo grado non ha ravvisato<br />
un rapporto di controllo tra joint venture e partecipante<br />
italiana, trattandosi più propriamente di<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
una «tipica struttura di collaborazione commerciale<br />
internazionale costituita per poter sfruttare sinergicamente<br />
le potenzialità produttive dell’azienda<br />
italiana e la capillare rete distributiva del socio<br />
inglese in posizione paritaria».<br />
Peraltro - ad avviso del giudice di secondo grado -<br />
il «solo fatto che la società italiana abbia concesso<br />
un finanziamento a quella inglese non può essere<br />
un’operazione ritenuta qualificante e rilevante per<br />
integrare giuridicamente la nozione di controllo di<br />
cui all’art. 76, comma 5».<br />
Considerazioni conclusive<br />
In presenza di operazioni tra una società ed una<br />
joint venture paritetica in cui questa partecipa, ai<br />
fini della valutazione dell’applicabilità della normativa<br />
sul transfer pricing, assume rilievo centrale<br />
l’esame delle circostanze concrete del caso. Ma<br />
il punto fondamentale da tenere presente è l’esistenza,<br />
in capo ad una delle parti, di margini per<br />
influire sul corrispettivo per l’indifferenza economica<br />
di collocazione delle relative risorse finanziarie<br />
in capo all’una o all’altra società. Come dirà<br />
Lupi nel contributo che segue il «controllo» economico<br />
tra i due soggetti deve essere tale da configurare<br />
una volontà di gruppo per la quale la allocazione<br />
delle risorse su un contenitore giuridico o<br />
l’altro è in prima battuta indifferente. Il che consente<br />
di seguire le ulteriori logiche finanziarie, <strong>tributari</strong>e,<br />
valutarie «di gruppo» che dicevamo all’inizio<br />
di questo scritto.<br />
Questa indifferenza viene meno anche solo in presenza<br />
di un socio di minoranza, e per questo l’OC-<br />
SE non considera la partecipazione in una joint<br />
venture in grado di intaccare l’indipendenza delle<br />
parti; anche la giurisprudenza italiana di merito sul<br />
tema non ritiene che la partecipazione in una joint<br />
venture integri a priori la fattispecie del controllo<br />
Note:<br />
(9) R.M. 17 dicembre 2007, n. 326/E, cfr. in merito anche G. Marino,<br />
op. cit., pag. 125 ss. e la dottrina da questi citata in nota.<br />
(10) Cfr. Comm. trib. I gr. di Alessandria, 11 dicembre 1995, n. 170<br />
(in Dir. prat. trib., 1996, II, pag. 655, con commento di A. Pozzo, si<br />
veda inoltre S. Mayr, «In tema di valore normale nella cessione di<br />
beni a una trading estera», in Boll. trib. n. 3/1996, pag. 240), confermata<br />
da Comm. trib. reg. Piemonte, 18 gennaio 1999, n. 164 (in<br />
Boll. trib. n. 5/2000, pag. 377). In merito si veda anche P. Valente,<br />
Manuale del transfer pricing, Milano, 2009, pag.303 ss. e Musselli,<br />
Musselli, op. cit., pag. 30 ss.<br />
4/2012<br />
445
Fiscalità<br />
internazionale<br />
e renda applicabile la normativa sul transfer pricing.<br />
Ne discende che l’applicabilità della disciplina sul<br />
transfer pricing non può prescindere dalla dimostrazione<br />
dell’esistenza nel caso concreto di una<br />
situazione in cui il socio è in grado di influire in<br />
maniera determinante sulle scelte operate dalla<br />
joint venture tale da far presupporre, non solo una<br />
unica volontà economica al governo dei due soggetti<br />
di diritto, ma la suddetta «indifferenza sostanziale»<br />
nell’allocazione delle risorse. Detta<br />
unica volontà non è infatti ravvisabile nel caso in<br />
cui l’altro socio, portatore di interessi sovente<br />
confliggenti, è in grado anch’esso di influire in<br />
misura significativa sulle scelte operate dalla joint<br />
venture.<br />
Questa indifferenza non emerge dalla esistenza di<br />
una joint venture, che al contrario la smentisce, e<br />
richiede, per essere dimostrata, una analisi personalizzata<br />
degli accordi che regolano i rapporti tra i<br />
soci e delle clausole che li compongono; ciò in<br />
particolare al fine di individuare l’eventuale prevalenza<br />
di uno dei due soci o, al contrario, la presenza<br />
di eguali diritti e obblighi, che annullerebbero<br />
per loro natura la prevalenza dell’interesse di<br />
uno dei partecipanti.<br />
A titolo esemplificativo, assume rilevanza, ai fini<br />
di tale analisi, la verifica delle modalità di formazione<br />
degli organi di controllo della joint venture<br />
(consiglio di amministrazione, amministratore delegato<br />
o altri organi che nel concreto esercitino un<br />
effettivo potere decisionale) esaminando a favore<br />
di chi è assegnato il potere di nomina della mag-<br />
Anche sui prezzi di trasferimento, la determinazione<br />
della ricchezza ai fini <strong>tributari</strong> sembra essere<br />
appiattita sui «materiali normativi» (11), incapace<br />
di contestualizzare i concetti, creando pericolose<br />
confusioni. Di questa confusione è vittima stavolta<br />
il rapporto tra concetto di «controllo» in assoluto e<br />
di controllo ai fini del transfer pricing. Non c’è<br />
dubbio che, in caso di pressioni economiche, di<br />
abusi di posizioni dominanti, una delle parti con-<br />
446<br />
4/2012<br />
gioranza di eventuali organi collegiali, la presenza<br />
di specifiche clausole che prevedano che le decisioni<br />
degli organi collegiali non possano essere<br />
prese senza l’avallo di membri di nomina di entrambi<br />
i soci, l’esame dei poteri e dei relativi limiti<br />
assegnati a singoli amministratori, la presenza di<br />
figure nominate solo da una delle parti, eventuali<br />
clausole che prevedano particolari direttive per<br />
l’acquisto dei fattori produttivi da una delle parti o<br />
meno, la previsioni in materia di finanziamenti ed<br />
autonomia finanziaria, ecc.<br />
In sintesi, va recisamente esclusa ogni applicazione<br />
pregiudiziale della normativa sui prezzi di trasferimento<br />
alle operazioni tra joint venture paritaria e socio;<br />
la pariteticità del controllo fa presumere quindi<br />
una contrapposizione di interessi, che il Fisco può<br />
smentire prendendo in considerazione tutti gli elementi<br />
dai quali è possibile desumere le concrete modalità<br />
di formazione della volontà della joint venture<br />
al fine di stabilire se un rapporto di effettivo controllo<br />
esista nella fattispecie in esame o se, al contrario,<br />
i meccanismi del mercato siano in concreto operanti<br />
attraverso la contrapposizione degli interessi confliggenti<br />
di cui i soci sono portatori.<br />
A tale ultimo proposito, l’esperienza professionale<br />
conferma quanto rilevato sopra, sulla presenza di<br />
una simile contrapposizione anche nelle joint venture<br />
non paritetiche, volendo tutti i soci, e in particolare<br />
quelli di minoranza, ritrarre il giusto profitto,<br />
o, per meglio dire, la corretta quota di profitto<br />
ad essi spettante, per non consentire al socio forte<br />
(o controllante) di gestire la società a proprio<br />
esclusivo vantaggio.<br />
La necessità che il controllo comporti indifferenza nella distribuzione<br />
delle risorse<br />
Raffaello Lupi<br />
trolla economicamente l’altra, ma il salvadanaio<br />
unico, presupposto dalla logica (prima che dalla<br />
normativa) sul transfer pricing, non c’è. Immaginiamo<br />
un povero produttore del terzo mondo, un<br />
raccoglitore di caffè o di rame, di guano o di banane,<br />
esposto alle vessazioni delle perfide multina-<br />
Nota:<br />
(11) Cfr. l’editoriale al precedente n. 3/2012.
zionali, in uno scenario tipo «l’uomo Del Monte<br />
ha detto sì» (12). Non ci sono dubbi che l’acquirente,<br />
con un notevole potere contrattuale, possa<br />
materialmente dominare sulla determinazione del<br />
prezzo. Ma è questo che intende la normativa sul<br />
transfer pricing, per come la vecchia circolare del<br />
1980 parla di «ogni ipotesi di influenza economica<br />
potenziale o attuale desumibile dalle singole circostanze»?<br />
Se ne deduce che il Fisco del Paese del<br />
produttore, messicano o cileno, sul presupposto<br />
che la multinazionale «controlla di fatto» i produttori<br />
locali, profittando delle loro difficoltà di sbocco<br />
sui mercati, dovrebbe rettificare i loro prezzi di<br />
vendita. Così chi ha ricevuto un dollaro al quintale<br />
per il caffè o le banane dovrebbe vedersi accertati<br />
dal Fisco, poniamo, cinque dollari, finendo così<br />
«cornuto e mazziato»?<br />
Basta riflettere un attimo per rendersi conto che il<br />
potere ai fini della determinazione del prezzo non<br />
è un «controllo» tale da innescare le patologie suddette,<br />
cioè una determinazione del corrispettivo in<br />
funzione di finalità diverse rispetto ai rapporti di<br />
forza tra le parti. Quando una parte controlla l’altra<br />
per il proprio potere di mercato, per una propria<br />
posizione dominante, data dal potersi procurare altri<br />
fornitori, dal poter rinviare l’acquisto, dal potersi<br />
dedicare ad altre attività, il prezzo che riesce a<br />
imporre è il prezzo di mercato, dato dai rapporti di<br />
forza tra le parti, e non c’è alcun bisogno di far entrare<br />
in gioco il correttivo del transfer pricing.<br />
Quest’ultimo scatta quando c’è una strategia economica<br />
unitaria tra le parti, al di là della diversità<br />
di forma giuridica, che rende indifferente la collocazione<br />
dei flussi finanziari connessi ai corrispettivi.<br />
Negli esempi sopra indicati, invece, ci sono due<br />
distinti centri di interessi economici, il produttore<br />
e l’acquirente, con potere contrattuale del secondo<br />
che prevarica il primo. Non ci interessa qui dilungarci<br />
sull’opportunità di parlare, in questi casi, di<br />
«controllo». Se pure se ne volesse parlare, però,<br />
non sarebbe certo il controllo rilevante ai fini della<br />
normativa sul transfer pricing. Proprio in quanto<br />
esiste tra le parti una genuina contrapposizione di<br />
interessi, e le loro relazioni non vanno al di là di<br />
quella tra compratore e venditore. Tra i quali esiste,<br />
anche nei casi suddetti, un reale contrasto di<br />
interessi, che però viene risolto coi rapporti di forza<br />
economica di una delle parti, rispetto all’altra<br />
che deve (pur essendo portatrice di interessi diver-<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
si) fare «buon viso a cattivo gioco». All’interno del<br />
gruppo siamo invece davanti a operazioni in cui,<br />
economicamente, la parte è una sola, e non a caso<br />
la disciplina del transfer pricing chiede di «simulare»<br />
quello che accadrebbe tra parti indipendenti<br />
in quel determinato mercato. Restiamo nell’esempio<br />
dell’«uomo Del Monte» e immaginiamo che la<br />
multinazionale acquisti una propria piantagione,<br />
facendo scattare le regole dei prezzi di trasferimento<br />
con la casa madre. In questo caso, a mio avviso,<br />
a parità di rapporti generali tra produttori locali<br />
e società multinazionali acquirenti, sarebbe un<br />
errore, da parte delle Autorità fiscali del Paese,<br />
pretendere maggiori prezzi di vendita dalla società<br />
piantatrice del posto, ormai facente parte del gruppo<br />
multinazionale. Correttamente opererebbe invece<br />
una rettifica il Fisco della casa madre, se di colpo<br />
vedesse aumentare i prezzi rispetto a quelli precedenti,<br />
sia pure dovuti alla suddetta posizione di<br />
strapotere economico degli acquirenti. Nell’ipotesi<br />
in cui tra la piantagione e la casa madre scattasse<br />
una specie di «commercio equo e solidale» (più<br />
probabilmente dovuto alle più convenienti aliquote<br />
del Paese in cui è ubicata la piantagione), le regole<br />
del transfer price dovrebbero ripristinare quelle di<br />
un mercato, ahimè, «iniquo e vessatorio». Al di là<br />
della differenza di aliquote, comunque, il gruppo<br />
multinazionale sarebbe indotto a praticare prezzi<br />
meno iniqui per via della già indicata sostanziale<br />
indifferenza economica di avere le risorse finanziarie<br />
in una società o nell’altra, in quanto entrambe<br />
sarebbero due tasche diverse di una stessa giacchetta,<br />
facendo capo alla stessa «proprietà sostanziale»,<br />
al di là delle differenze esteriori di soggetto<br />
giuridico. Per questo il senso assunto dal concetto<br />
di controllo, nell’ambito del transfer pricing, è<br />
quello di «appartenenza allo stesso soggetto economico»,<br />
cui corrisponde l’indifferenza nell’allocazione<br />
delle risorse tra una parte o l’altra dell’operazione<br />
economica. Le disposizioni, interne<br />
ed internazionali, indicate nell’articolo che precede,<br />
assumono la propria reale dimensione nella<br />
cornice della determinazione giuridica della ricchezza<br />
ai fini <strong>tributari</strong>. Per questo, facendo venire<br />
meno l’unitarietà del soggetto economico, hanno<br />
Nota:<br />
(12) Su youtube si può vedere la pubblicità semplicemente digitando<br />
«L’uomo Del Monte ha detto sì».<br />
4/2012<br />
447
Fiscalità<br />
internazionale<br />
grande rilevanza, nella tematica del transfer pricing,<br />
non solo le joint ventures, ma anche la apprezzabile<br />
presenza di soci di minoranza. Il transfer<br />
pricing presuppone insomma un unico centro<br />
di interessi economici ed una diversificazione meramente<br />
giuridica tra società appartenenti al gruppo.<br />
In un contesto dove l’azienda multinazionale,<br />
dalla Procter & Gamble all’Unilever, è vista come<br />
«unica» (one firm), le sue articolazioni locali sono<br />
dettate solo da comodità giuridica. Per la multinazionale,<br />
a questo punto, avere i soldi nella consociata<br />
tedesca, italiana o olandese, è del tutto indifferente,<br />
perché «la cassa è unica», ed anche il soggetto<br />
economico. Quando invece c’è di mezzo un<br />
partner, un socio terzo, anche se di minoranza, starà<br />
normalmente molto attento a non farsi imporre<br />
decisioni di questo tipo. Tanto più che il socio di<br />
minoranza, o il partner paritetico, spesso viene<br />
coinvolto per il suo controllo di aspetti strategici<br />
del business, come la rete di vendita o la tecnologia,<br />
e quindi tornano alla ribalta, all’interno del<br />
governo societario, i rapporti di forza economica<br />
448<br />
4/2012<br />
(e le divergenze di interessi) tipiche dei rapporti di<br />
fornitura tra aziende indipendenti. Se una società<br />
integralmente controllata è soggetta alle regole del<br />
transfer pricing, una controllata al 50% non è una<br />
«mezza controllata», ma è un soggetto al cui interno<br />
si svolge la normale dialettica di due portatori<br />
di interessi economici diversi, ed in potenziale<br />
conflitto. Ciascuna di queste parti indicherà, nella<br />
propria documentazione di bilancio, la partecipazione<br />
paritetica, o di minoranza, in un soggetto in<br />
cui esiste un interesse qualificato, chiamandolo anche<br />
«parte correlata». In un senso che però non<br />
consente di imporre prezzi a piacere, ed è quindi<br />
del tutto diverso da quello rilevante ai fini del<br />
transfer pricing, che richiede invece, come dicevamo,<br />
la suddetta «indifferenza nella collocazione<br />
delle risorse», evidentemente tra società in cui ciascuno<br />
«pesa» allo stesso modo. Ad esempio, se<br />
due partners sono presenti, nella stessa percentuale,<br />
in società diverse, allora il contrasto di interesse<br />
viene meno, e il transfer price riprende quota, ma<br />
vedremo di riparlarne.
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Costi «black list» deducibili<br />
se il beneficiario del pagamento<br />
è un’emanazione<br />
del fornitore materiale<br />
Come rilevato in un precedente contributo su questa<br />
stessa Rivista (1) nella disciplina dei costi cd.<br />
black list si sospetta che il fornitore ubicato nel<br />
paradiso fiscale restituisca una parte delle somme<br />
all’acquirente; meno importanti sembrano le cautele<br />
contro la pianificazione nella determinazione<br />
dei corrispettivi palesi, tra controparti correlate; lo<br />
spostamento di materia imponibile verso un Paese<br />
a fiscalità privilegiata sembra infatti essere già<br />
adeguatamente presidiato da disposizioni come<br />
quelle sui prezzi di trasferimento e le società controllate<br />
estere (anche se, come rileverà Gallio,<br />
l’Amministrazione finanziaria ha affermato inopinatamente<br />
una non meglio precisata natura antielusiva<br />
della disciplina in esame).<br />
Il valore normale della prestazione è molto importante,<br />
tornando alla suddetta ottica «antievasiva»,<br />
perché fornisce utili indicazioni per capire se la<br />
di Alessia Vignoli, Fabio Gallio, Raffaello Lupi<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
La sentenza n. 1 del 2012 della Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale di Venezia consente di ricollegarci<br />
ai precedenti interventi sui costi «black list» e alla necessità di capire «per chi lavora»<br />
l’emittente delle fatture, ubicato nel paradiso fiscale. Se risulta credibile che si tratta di una emanazione<br />
societaria del fornitore materiale estero, la deducibilità dei costi deve essere ammessa,<br />
come si afferma, ineccepibilmente, nella sentenza in esame. Lo sfasamento soggettivo tra il beneficiario<br />
del pagamento e chi ha materialmente erogato la prestazione non esclude, dunque, la<br />
deduzione dei costi quando le due entità si inquadrano in un centro unitario di interessi economici.<br />
L’occasione fornisce lo spunto per qualche riflessione sulla fattura come strumento di documentazione<br />
dei rapporti giuridici ed economici, nel caso di pluralità di soggetti a vario titolo<br />
coinvolti nell’operazione. Da tali riflessioni la fattura emerge come «invito al pagamento», da<br />
parte dell’emittente, e relativa legittimazione per il destinatario. Con margini di scelta del tutto<br />
fisiologici alla tassazione attraverso le aziende e alla cd. autodeterminazione dei tributi.<br />
Legittima la deduzione se la fattura è stata emessa da un emissario<br />
giuridico del fornitore materiale<br />
Alessia Vignoli<br />
società ubicata nel paradiso fiscale è collegata col<br />
cliente oppure con il fornitore; il valore normale è<br />
quindi un prezioso indizio per trovare il «burattinaio<br />
del paradiso» che dava il titolo al precedente<br />
contributo (2).<br />
Infatti, se il prezzo pattuito per la prestazione è in<br />
linea con il valore di mercato, è assolutamente inverosimile<br />
che una parte di esso possa essere stata<br />
retrocessa all’acquirente; non essendo ipotizzabile<br />
un collegamento o comunque una connivenza tra<br />
quest’ultimo ed il soggetto ubicato nel paradiso fi-<br />
Alessia Vignoli - Ricercatrice presso l’Università di Roma «Tor Vergata»<br />
Note:<br />
Articolo sottoposto a revisione.<br />
(1) A. Vignoli, R. Lupi, «Costi black list: alla ricerca del “burattinaio<br />
del paradiso”», in Dialoghi Tributari n. 6/2010, pag. 688.<br />
(2) Cfr. nota precedente.<br />
4/2012<br />
449
Fiscalità<br />
internazionale<br />
scale, per forza di cose il soggetto interposto nel<br />
«paradiso» deve intendersi collegato esclusivamente<br />
con il fornitore, per il quale costituisce un<br />
«veicolo di incasso».<br />
Tuttavia tale non coincidenza tra fornitore materiale<br />
della prestazione e colui che risulta aver incassato<br />
la fattura non può essere addebitata, attraverso<br />
l’indeducibilità del costo, al cliente, secondo<br />
le illogiche, prima che illegittime, argomentazioni<br />
della Commissione <strong>tributari</strong>a regionale del Veneto,<br />
pubblicata in nota da Lupi, nel contributo che segue.<br />
Il cliente, infatti, non ha fatto altro che versare<br />
il corrispettivo pattuito (ed in linea con il prezzo<br />
di mercato di quel servizio) al soggetto indicato<br />
da colui che aveva materialmente reso la prestazione,<br />
come terminale giuridico del pagamento e<br />
della fattura.<br />
La sentenza n. 1 del 2012 della Commissione <strong>tributari</strong>a<br />
provinciale di Venezia (3) giustamente annulla<br />
la contestazione con cui l’Ufficio fiscale<br />
aveva disconosciuto alla contribuente i costi delle<br />
provvigioni pagate a due società ubicate nell’Isola<br />
di Man che i suoi agenti greci ed irlandesi (fornitori<br />
materiali dalla prestazione) avevano interposto<br />
per fatturare e riscuotere le provvigioni ad essi dovute.<br />
L’indeducibilità dei costi è stata, insomma, utilizzata<br />
dall’Ufficio fiscale per «sanzionare» il pagamento<br />
ad un soggetto ubicato in un paradiso fiscale,<br />
senza che da tale circostanza fosse derivato alcun<br />
pregiudizio per il Fisco italiano, essendo semmai<br />
la fatturazione compiuta da soggetti ubicati<br />
nell’Isola di Man per sottrarre materia imponibile<br />
al Fisco greco ed irlandese.<br />
Tale atteggiamento è assolutamente ingiustificato<br />
dal momento che il contribuente nel caso di specie<br />
non ha fatto altro che pagare ad un soggetto indicatogli<br />
dal proprio fornitore quale legittimato a ricevere<br />
il pagamento di prestazioni di cui aveva effettivamente<br />
usufruito.<br />
Nel caso di specie, infatti, non era assolutamente<br />
in contestazione che i soggetti ubicati nel paradiso<br />
fiscale erano il cd. centro di fatturazione degli<br />
agenti greci ed irlandesi cui la società contribuente<br />
si era effettivamente rivolta per realizzare la vendita<br />
dei propri prodotti in tali Stati.<br />
In tali ipotesi, come correttamente rilevato dai giudici<br />
veneziani, non si può negare la deducibilità di<br />
costi effettivamente sostenuti dal cliente anche se<br />
450<br />
4/2012<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
non vi è coincidenza materiale tra il soggetto che<br />
ha concretamente posto in essere l’operazione e<br />
quello in favore del quale è stato effettuato il pagamento.<br />
Non c’è, infatti, sottrazione di materia<br />
imponibile al Fisco italiano, perché i costi, sebbene<br />
fatturati da soggetti ubicati nell’Isola di Man,<br />
corrispondono a prestazioni effettivamente rese alla<br />
ricorrente e a prezzi in linea con quelli di mercato.<br />
In generale, infatti, il fornitore dispone della<br />
imputazione giuridica del corrispettivo ad altro<br />
soggetto, ed il cliente non ha titolo né motivo di<br />
sottrarsi a questa indicazione. Al massimo, come<br />
vedremo, potrà pretendere l’indicazione, da parte<br />
del beneficiario del pagamento, del soggetto che<br />
ha reso la prestazione, ma non può interferire nel<br />
«rapporto interno» tra fornitore materiale e sua<br />
emanazione contabile-amministrativa.<br />
È questo un problema strutturale della norma sull’indeducibilità<br />
dei costi da Paesi black list (art.<br />
110, comma 10, del T.U.I.R.); negare la deducibilità<br />
dei costi attribuiti ad aziende residenti da parte<br />
di fornitori operanti in Paesi a bassa fiscalità va<br />
benissimo per evitare che venga sottratta materia<br />
imponibile in Italia (stato del cliente), ma è inutile,<br />
e controproducente, quando presidia la sottrazione<br />
di materia imponibile nel diverso Paese dell’effettivo<br />
fornitore estero. Nel caso di specie, infatti,<br />
tutto dimostrava che le società ubicate nell’Isola di<br />
Man erano delle società schermo interposte dagli<br />
agenti della contribuente per sottrarre materia imponibile<br />
al Fisco greco ed irlandese; l’interposizione<br />
di detti soggetti da parte del fornitore, nel caso<br />
di specie, non era assolutamente in contestazione<br />
tanto che nella parte espositiva della sentenza si<br />
legge che tale circostanza era pacifica tra le parti<br />
fin dalla redazione del processo verbale di accertamento.<br />
Direte voi: preso atto dell’effettivo svolgimento<br />
delle operazioni ed esclusa la riconducibilità del<br />
soggetto ubicato nel paradiso fiscale alla contribuente<br />
i giudici non hanno fatto nulla di eccezionale<br />
nell’annullare la pretesa fiscale.<br />
Al contrario, ci sentiamo di dover accogliere con<br />
un certo «entusiasmo» questa sentenza perché i<br />
giudici una volta tanto sono riusciti ad intravedere,<br />
al di là delle nebbie innalzate dall’Ufficio fiscale,<br />
Nota:<br />
(3) Per il testo della sentenza cfr. pag. 456.
che non c’era nulla di sbagliato (almeno per gli interessi<br />
del Fisco italiano) nella vicenda concretamente<br />
esaminata; i giudici hanno saputo superare i<br />
dubbi generati dalla perseveranza stessa dell’Ufficio<br />
fiscale nel portare avanti la pretesa; se infatti<br />
la soluzione è così lineare come quella descritta<br />
sopra, i giudici che non possono non chiedersi perché<br />
l’Ufficio <strong>tributari</strong>o non la riconosce, e temere<br />
che nella vicenda ci sia qualcosa di altro, che magari<br />
in quel momento a loro sfugge, inducendoli<br />
nel dubbio a respingere il ricorso.<br />
Con questa affermazione non vogliamo certo criticare<br />
l’operato dei giudici perché il loro compito,<br />
soprattutto se si tratta di giudici non togati, non è<br />
affatto facile; quello <strong>tributari</strong>o è, infatti, un processo<br />
di impugnazione in cui ai giudici non si<br />
chiede di determinare l’imposta, ma di annullare<br />
un’atto di una autorità pubblica, portatrice dell’interesse<br />
erariale; quando la vicenda non è chiara, o<br />
viene presentata in chiave fortemente insinuante<br />
(ad esempio facendo riferimento al coinvolgimento<br />
di soggetti esteri ubicati in Paesi a bassa fiscalità,<br />
oppure a trasferimenti di residenza all’estero,<br />
all’efficacia di condoni fiscali, ecc.) dall’Ufficio<br />
fiscale, il giudice è istituzionalmente predisposto,<br />
proprio perché non convinto dell’erroneità dell’atto<br />
impositivo, a respingere la richiesta di annullamento<br />
(4).<br />
La decisione è tanto più rimarchevole in quanto,<br />
per aumentare il disorientamento (e quindi la propensione<br />
al rigetto del ricorso), l’Ufficio fiscale<br />
aveva prodotto in giudizio una precedente decisione<br />
di secondo grado per il periodo d’imposta 2003<br />
in cui i giudici d’appello avevano ritenuto i costi<br />
in questione indeducibili a causa della mancata<br />
coincidenza tra il soggetto che ha ricevuto il pagamento<br />
e quello che ha erogato la prestazione; è appena<br />
il caso di rilevare che i giudici avevano così<br />
violato la logica economico aziendale, confermata<br />
dalla prassi dei rapporti commerciali, prima ancora<br />
che la «seconda esimente» di cui all’art. 110. La<br />
sentenza in rassegna non ritiene (correttamente)<br />
condivisibile tale precedente e diligentemente motiva<br />
lo scostamento da esso.<br />
I giudici, infatti, dopo aver ricondotto la questione<br />
all’indeducibilità dei costi da Paesi black list di<br />
cui si occupa l’art. 110, comma 10, del T.U.I.R.,<br />
giustificano la loro decisione alla luce di quanto<br />
previsto nel successivo comma 11 del medesimo<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
articolo. Infatti, il citato comma 11 rende inoperante<br />
l’indeducibilità dei costi quando la contribuente<br />
dimostra che le operazioni poste in essere<br />
rispondono ad un effettivo interesse economico<br />
dell’imprenditore italiano e hanno avuto concreta<br />
esecuzione (cd. seconda esimente, oggetto di una<br />
interpretazione abrogante da parte della precedente<br />
Commissione <strong>tributari</strong>a regionale del Veneto,<br />
pubblicata in nota nell’intervento di Lupi).<br />
Proprio l’effettività delle operazioni sottostanti è<br />
considerata dai giudici di primo grado il «punto<br />
decisivo della controversia» e ciò a prescindere<br />
dalla coincidenza tra il soggetto che ha erogato la<br />
prestazione e quello che ha ricevuto il pagamento.<br />
Nella sentenza della Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale<br />
di Venezia n. 1 del 2012 i giudici accertano<br />
che erano le società dell’isola di Man ad essere<br />
emanazioni dei reali operatori greci ed irlandesi i<br />
quali erano i diretti destinatari dei vantaggi fiscali<br />
derivanti da tale rapporto.<br />
La fatturazione da parte dei soggetti ubicati nell’Isola<br />
di Man non era evidentemente una variabile<br />
del rapporto tra la contribuente italiana ed i propri<br />
fornitori greci ed irlandesi; questi ultimi secondo i<br />
giudici l’hanno presentata come una modalità operativa<br />
ed organizzativa della loro attività cui la<br />
contribuente italiana era tenuta ad attenersi. Insomma<br />
prendere o lasciare; ma una volta che i greci e<br />
gli irlandesi la loro prestazione l’avevano resa, alla<br />
contribuente non restava che pagare, alle loro condizioni<br />
e con le loro modalità. Paradossalmente e<br />
contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio fiscale<br />
l’unico vantaggio che potrebbe aver conseguito<br />
la contribuente italiana potrebbe risolversi in<br />
un vantaggio per il Fisco italiano perché la contribuente,<br />
grazie al risparmio fatto dagli agenti ai<br />
danni del Fisco irlandese e greco, ottiene un servizio<br />
migliore, e quindi maggiori redditi italiani.<br />
Questa vicenda insegna però una cosa a proposito<br />
della questione più generale della possibilità del<br />
cliente di «sindacare» la scelta, da parte del fornitore,<br />
di emettere fattura per il tramite di un soggetto<br />
a lui riconducibile, o di suo gradimento. In linea<br />
di principio il cliente non può opporsi alla scelta<br />
di un «terminale di fatturazione» diverso da chi ha<br />
Nota:<br />
(4) Secondo la formula, utilizzata spesso da Lupi «Giudice frastornato,<br />
ricorso rigettato».<br />
4/2012<br />
451
Fiscalità<br />
internazionale<br />
reso materialmente il servizio. Anzi, spesso il<br />
cliente neppure è in grado di capire a chi appartengano<br />
le strutture utilizzate dal prestatore materiale<br />
del servizio. Al massimo il cliente, qualora percepisca<br />
uno sfasamento soggettivo tra controparte<br />
materiale e controparte giuridica, ad esempio perché<br />
questa non possiede strutture per effettuare la<br />
prestazione, può pretendere l’inserimento in fattura<br />
che la prestazione è stata resa da terzi per suo<br />
conto. Ad esempio, verosimilmente nel caso in<br />
esame la società dell’Isola di Man aveva indicato<br />
Come è stato rilevato nel contributo precedente,<br />
l’indeducibilità dei costi sostenuti con soggetti residenti<br />
in Paesi black list ha principalmente la funzione<br />
di contrastare fenomeni di trasferimenti di<br />
ricchezza nascosta tra parti indipendenti, in quanto<br />
la pianificazione fiscale tra soggetti correlati, «alla<br />
luce del sole», è già contrastata dalle disposizioni<br />
sui prezzi di trasferimento, e da quelle sulle CFC, i<br />
cui redditi sarebbero comunque attratti in Italia.<br />
Restava scoperto invece il possibile accordo con le<br />
controparti, disposte a far figurare prezzi maggiori,<br />
retrocedendo poi al cliente la differenza. L’effetto<br />
per il soggetto nazionale sarebbe quello normale<br />
delle fatture «gonfiate» per operazioni parzialmente<br />
inesistenti, coprendo la creazione di una<br />
provvista «esentasse», da utilizzare per svariati<br />
scopi, personali o di impresa.<br />
La normativa in oggetto, pertanto, sembrerebbe<br />
avere una funzione anti-evasiva, in quanto orientata<br />
a contrastare fenomeni assolutamente illeciti.<br />
Secondo l’Agenzia delle entrate, invece, le disposizioni<br />
in commento delineerebbero una disciplina<br />
antielusiva, la cui finalità sarebbe quella di contrastare<br />
la distrazione di utile dall’Italia verso Paesi o<br />
territori a fiscalità privilegiata, ponendo in essere<br />
delle operazioni considerate a priori come irrilevanti<br />
ai fini fiscali (5).<br />
È evidente che considerare una norma anti-evasiva<br />
o antielusiva potrebbe avere delle ripercussioni in<br />
merito all’applicazione delle sanzioni in caso di<br />
violazione.<br />
Nel primo caso la sanzione sarebbe sicuramente irrogabile,<br />
mentre nel secondo potrebbe non essere<br />
452<br />
4/2012<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Le operazioni con soggetti «black list» e le sanzioni<br />
Fabio Gallio<br />
che le fatture si riferivano alle prestazioni di agenzia<br />
greche e irlandesi. Insomma, il cliente non può<br />
sindacare l’utilizzazione di un determinato schermo<br />
giuridico, utilizzato dal fornitore materiale per<br />
fatturare la prestazione ed incassarne il prezzo; il<br />
cliente può però pretendere che, nella descrizione<br />
della prestazione resa (per il tramite di terzi), la<br />
fattura del beneficiario del pagamento descriva<br />
adeguatamente il servizio reso. In modo da chiudere<br />
il cerchio tra «prestazione di Tizio» e «fatturazione<br />
di Caio».<br />
applicabile, come sancito da parte della giurisprudenza.<br />
A questo punto ci chiede se una violazione della<br />
normativa sui costi black list debba essere sempre<br />
sanzionata.<br />
A tale fine, è necessario ricordare che l’indeducibilità<br />
dei costi in esame potrebbe essere disapplicata<br />
nel caso in cui l’impresa residente fornisca la<br />
prova che le imprese estere svolgono prevalentemente<br />
un’attività commerciale effettiva (cd. prima<br />
esimente), ovvero che le operazioni poste in essere<br />
rispondono ad un effettivo interesse economico e<br />
che le stesse hanno avuto concreta esecuzione (cd.<br />
seconda esimente).<br />
Si tratta di esimenti tra loro alternative la cui dimostrazione<br />
può essere fornita dal contribuente in<br />
sede di controllo, oppure, sempre secondo l’Agenzia,<br />
in via preventiva, cioè prima di porre in essere<br />
l’operazione, inoltrando all’Amministrazione finanziaria<br />
apposita istanza di interpello.<br />
L’Agenzia delle entrate (6) ha elencato, a titolo<br />
esemplificativo e non esaustivo, alcuni documenti<br />
idonei a dimostrare l’effettiva attività commerciale,<br />
quali il bilancio di esercizio, l’atto costitutivo,<br />
un prospetto descrittivo dell’attività esercitata, i<br />
Fabio Gallio - Cultore di Diritto <strong>tributari</strong>o presso l’Università di<br />
Trieste - Avvocato, Dottore commercialista e Revisore legale dei conti<br />
in Padova - Studio Terrin Associati, Padova e Milano<br />
Note:<br />
(5) Così la circolare dell’Agenzia delle entrate 6 ottobre 2010, n.<br />
51/E, par. 9, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.<br />
(6) Cfr. circolare 16 marzo 2004, n. 46/E, in Banca Dati BIG Suite,<br />
IPSOA.
contratti di locazione degli immobili adibiti a sede<br />
degli uffici e dell’attività, la copia delle fatture<br />
delle utenze elettriche e telefoniche relative agli<br />
uffici e agli altri immobili utilizzati, i contratti di<br />
lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione<br />
dell’attività lavorativa e le mansioni svolte,<br />
i conti correnti bancari aperti presso istituti locali,<br />
estratti conto bancari che diano evidenza delle<br />
movimentazioni finanziarie relative alle attività<br />
esercitate, copia dei contratti di assicurazione relativi<br />
ai dipendenti e agli uffici, autorizzazioni sanitarie<br />
e amministrative relative all’attività e all’uso<br />
dei locali. L’esperienza ha dimostrato come alcuni<br />
di questi documenti sono impossibili da ottenere,<br />
soprattutto dai fornitori esteri appartenenti a gruppi<br />
multinazionali, in quanto a volte contengono<br />
delle informazioni riservate. Malgrado sia ragionevole<br />
sostenere questo, potrebbe succedere che i<br />
verificatori ritengano non provata la relativa esimente<br />
in quanto la società non ha fornito la documentazione<br />
sopracitata, ma documentazione diversa,<br />
anche se sostanzialmente equipollente.<br />
In merito, all’esimente dell’interesse economico, si<br />
evidenzia come l’Agenzia delle entrate ritiene necessario<br />
un confronto comparativo tra il prezzo al<br />
quale è stata conclusa l’operazione e quello potenzialmente<br />
raggiungibile nel mercato italiano o in<br />
altri mercati a fiscalità ordinaria, mentre la giurisprudenza<br />
ha al contrario sostenuto che tale interesse<br />
può derivare da un’analisi della sussistenza<br />
dell’effettivo interesse economico nell’operazione<br />
in sé (7). Qualche volta infatti mancano operazioni<br />
comparabili, perché si tratta di royalties, di marchi,<br />
di provvigioni, e di altre prestazioni non fungibili,<br />
e quindi non confrontabili col prezzo praticato da<br />
terzi, che in genere sarà addirittura mancante.<br />
Da quanto fino ad ora esposto, emerge chiaramente<br />
come la verifica in merito alla violazione o meno<br />
della normativa si debba basare sui fatti e una<br />
loro valutazione potrebbe essere soggetta a diverse<br />
interpretazioni da parte delle parti.<br />
Sta di fatto, però, che nel caso in cui l’operatore<br />
non riesca a documentare una delle esimenti previste<br />
dalla normativa, ma sia abbastanza chiaro che<br />
l’operazione abbia un senso economico per la sua<br />
impresa, questo dovrebbe essere sufficiente per<br />
evitare l’irrogazione delle sanzioni.<br />
In tale caso, infatti, la violazione della normativa,<br />
consistente nella mancata produzione della docu-<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
mentazione richiesta sarebbe sanzionata solamente<br />
con l’indeducibilità del costo.<br />
L’applicazione anche di una specifica sanzione risulterebbe<br />
alquanto eccessiva, dal momento che non<br />
verrebbe posto il dubbio in merito all’inerenza del<br />
costo alla produzione del reddito, ma solamente non<br />
sarebbe considerata sufficiente la documentazione<br />
prodotta a giustificazione del suo sostenimento.<br />
E come già esposto precedentemente, i motivi per<br />
cui la documentazione richiesta dalla norma possa<br />
essere ritenuta insufficiente possono essere molteplici.<br />
Si pensi, ad esempio, ad un operatore italiano che<br />
è costretto ad acquistare ad un prezzo elevatissimo<br />
un determinato bene necessario alla propria produzione<br />
da un determinato fornitore residente in Paese<br />
a fiscalità privilegiata, il quale è l’unico produttore<br />
mondiale che permette di ottenere determinate<br />
performances, ma non ha nessuna intenzione di<br />
fornire documenti in merito alla sua attività.<br />
In tale caso, potrebbe essere eccepito in capo al<br />
soggetto nazionale di avere posto in essere<br />
un’operazione economicamente ingiustificata, visto<br />
l’elevato prezzo di acquisto, e di non avere dimostrato<br />
le esimenti richieste dalla normativa, se<br />
non quella che l’operazione è stata effettivamente<br />
posta in essere.<br />
A meno che non venga dimostrato che il soggetto<br />
italiano abbia ricevuto indietro una parte del maggiore<br />
prezzo pagato, la sanzione non dovrebbe essere<br />
irrogata.<br />
A favore della mancata applicazione delle sanzioni<br />
nel caso di tali contestazioni, si potrebbe anche eccepire<br />
che la struttura dispositiva della norma è<br />
analoga a quella prevista in materia di elusione<br />
dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (si pensi, ad<br />
esempio, all’invio di un questionario prima di<br />
emettere l’avviso di accertamento) (8).<br />
Per concludere, si ritiene che l’indeducibilità del<br />
costo per quegli operatori che intrattengono rapporti<br />
con soggetti residenti in Paesi black list sia<br />
una sanzione eccessiva, nel caso in cui sia evidente<br />
che l’operazione ha un senso economico, ma<br />
non si è giunti a fornire la prova suddetta.<br />
Note:<br />
(7) Cfr. Comm. trib. reg. Marche, 22 giugno 2010, n. 5.<br />
(8) Su questo aspetto cfr. F. Gallio, «Le operazioni considerate<br />
elusive sono sempre sanzionabili?», in il fisco n. 16/2012, fascicolo<br />
1, pag. 2443.<br />
4/2012<br />
453
Fiscalità<br />
internazionale<br />
Su chi ricade l’incertezza?<br />
Raffaello Lupi<br />
La strategia di disorientare i giudici<br />
Nel condividere le considerazioni di chi mi precede,<br />
osservo che le istituzioni non si liberano facilmente<br />
dal sospetto di una patologica «retrocessione<br />
parziale del prezzo» da parte dell’«interposto<br />
paradisiaco». Questo rende i giudici estremamente<br />
diffidenti, anche quando si rendono conto che la<br />
tesi del contribuente è verosimile e credibile. Ma i<br />
giudici, nel breve tempo della lettura di un carteggio<br />
e di una udienza, non si sentono tranquilli su<br />
cosa potrebbe essere accaduto all’estero, tra un paradiso<br />
fiscale e l’altro. Per questo altri giudici, in<br />
precedenti sentenze, avevano motivato con formule<br />
stereotipe e giri di parole questa loro istintiva<br />
sfiducia, respingendo i ricorsi anche dopo prove<br />
evidenti della verosimiglianza economica della tesi<br />
fattuale della contribuente. In un caso la Commissione<br />
<strong>tributari</strong>a provinciale di Treviso (9) aveva<br />
accampato una fantomatica antieconomicità del<br />
comportamento del cliente italiano, che, secondo i<br />
giudici, avrebbe dovuto rivolgersi direttamente al<br />
fornitore effettivo, come se non fosse stato proprio<br />
quest’ultimo a indirizzare il cliente verso la struttura<br />
interposta, di sua emanazione! La Commissione<br />
<strong>tributari</strong>a regionale successiva fa invece scattare<br />
l’indeducibilità davanti a qualsiasi «sdoppiamento<br />
tra fornitore materiale e controparte giuridica<br />
ubicata in un paradiso fiscale: da un lato un<br />
soggetto che fornisce un determinato servizio in<br />
un certo luogo con una sua organizzazione di mezzi<br />
e, dall’altro, un soggetto del tutto avulso da tale<br />
concreta realtà che realizza il profitto di tale cessione<br />
accreditandosi della effettività di quella attività<br />
in un luogo diverso e favorevolmente improntato<br />
dal punto di vista <strong>tributari</strong>o» (sì, ma greco o<br />
irlandese). Pubblichiamo in nota uno stralcio della<br />
Commissione <strong>tributari</strong>a regionale Veneto (10), a<br />
454<br />
4/2012<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Note:<br />
(9) Comm. trib. prov. Treviso, 22 settembre 2009, n. 81, in Dialoghi<br />
Tributari n. 6/2010, pag. 689, con commenti di A. Vignoli e R. Lupi.<br />
(10) Pare alla Commissione che la contribuente abbia fallito la<br />
prova della esimente, con tutte le conseguenze del caso.<br />
Già si è anticipato il dispositivo normativo: il legislatore ritiene<br />
che tutte le operazioni caratterizzate dalla spendita di risorse in<br />
favore di imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori a fi-<br />
scalità privilegiata non siano riconoscibili salvo che, alternativamente,<br />
provino che:<br />
1) le imprese estere svolgano prevalentemente una attività economica<br />
effettiva ovvero<br />
2) A) che le operazioni poste in essere rispondano ad un effettivo<br />
interesse economico ed inoltre<br />
2) B) che le stesse abbiano avuto concreta esecuzione.<br />
Non viene, invece, riconosciuto alcun rilievo né in senso positivo<br />
né in senso negativo al fatto che vi sia stato (o meno) un danno<br />
concreto per l’Erario italiano di tal che le argomentazioni largamente<br />
spese dalla ... sul punto non hanno alcun rilievo.<br />
Il punto decisivo della controversia è, quindi, quello della effettività<br />
delle operazioni sottostanti così sintetizzando i requisiti sub 1)<br />
e 2 B), verifica però da compiere non in astratto (come pretenderebbe<br />
la difesa della ricorrente) ma con esclusivo riferimento<br />
proprio al soggetto che ha beneficiato dei pagamenti.<br />
Invero la società appellante ha molto insistito sul fatto che i servizi<br />
prestati dagli agenti in suo favore sono stati effettivi e cioè<br />
che questi effettivamente abbiano promosso la vendita del marchio<br />
in quelle nazioni.<br />
Ma questo non è sufficiente poiché non basta che quanto pagato<br />
sia la contropartita di qualche cosa che effettivamente è stato<br />
prestato.<br />
Occorre che vi sia coincidenza fra il soggetto che ha ricevuto il<br />
pagamento ed il soggetto che quella prestazione erogò. Diversamente<br />
si verifica uno sdoppiamento: da un lato un soggetto che<br />
fornisce un determinato servizio in un certo luogo con una sua<br />
organizzazione di mezzi e, dall’altro, un soggetto del tutto avulso<br />
da tale concreta realtà che realizza il profitto di tale cessione accreditandosi<br />
della effettività di quella attività in un luogo diverso<br />
e favorevolmente improntato dal punto di vista <strong>tributari</strong>o.<br />
Certo si può obiettare che le società greca ed irlandese materiali<br />
erogatori del servizio altro non sono che delle «emanazioni» di<br />
quelle aventi sede nell’isola di Man e che l’esistenza di un vincolo<br />
giuridico fra la società titolare del rapporto di agenzia e quella titolare<br />
del rapporto di subagenzia giustifichi e renda lecita tale<br />
pratica.<br />
Non è superfluo osservare che dagli accertamenti posti in essere<br />
dalla Guardia di finanza è risultato che le due società aventi sede<br />
nell’isola altro non sono che dei «gusci vuoti» prive di qualunque<br />
contenuto aziendale fatta esclusione che per un fax. Sempre la difesa<br />
della società ricorrente ha richiamato quella giurisprudenza<br />
secondo la quale la falsità soggettiva di una fattura di per sé non<br />
sarebbe preclusiva della deducibilità del sottostante costo.<br />
Ciò è vero ma sottolineata nuovamente quale sia la ratio dell’istituto<br />
in commento che non lascia spazio per poter estendere a<br />
questa materia un principio interpretativo dettato in tutt’altro<br />
settore occorre ricordare che alla stregua del principio della<br />
concretezza ed effettività più volte richiamato dalla norma le fatture<br />
pagate dalla ... sono state emesse da una contribuente soggettivamente<br />
diversa da quella che aveva erogato il servizio.<br />
Ora questo è giuridicamente lecito ma non risponde ai particolari<br />
e del tutto restrittivi criteri imposti dal legislatore italiano per<br />
poter rimuovere quella generale presunzione di inaffidabilità dei<br />
rapporti economici che vedano coinvolti soggetti aventi sede in<br />
un paradiso fiscale.
conferma che nel contenzioso <strong>tributari</strong>o, come nella<br />
maggior parte dei processi, la decisione è istintiva,<br />
e la motivazione è un esercizio logico ex<br />
post, a tesi obbligata. È la conferma di quello che<br />
scriviamo sempre su Dialoghi sulla funzione dei<br />
giudici di risolvere controversie, non di sistematizzare<br />
i concetti. La motivazione della Commissione<br />
<strong>tributari</strong>a regionale Veneto nasconde il disorientamento<br />
dei giudici, sufficiente per renderli riluttanti<br />
ad annullare l’atto di una pubblica autorità, che<br />
evidentemente li lasciava perplessi, ma non appariva<br />
«così evidentemente sbagliato», vista la specialità<br />
internazionale della materia, per essere eliminato<br />
a cuor leggero. È una riprova di quanto sostenuto<br />
su questo numero di Dialoghi, a proposito<br />
della difficoltà del contribuente di smontare stereotipi<br />
inconcludenti (11), in un processo sostanzialmente<br />
di impugnazione, dove parlare di «onere<br />
della prova» è sostanzialmente fuori luogo.<br />
Una decisione che dovrebbe essere «normale»<br />
Qui limitiamoci a rendere gli onori alla sentenza n.<br />
1 del 2012 della Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale<br />
di Venezia, che non ha avuto questi (legittimi)<br />
timori, pur davanti al solito fuoco di sbarramento<br />
di disorientanti stereotipi da parte dell’Ufficio<br />
<strong>tributari</strong>o. Qui sarebbe da chiedersi perché<br />
l’Amministrazione finanziaria, fin troppo preparata<br />
e valente, rifiuta di vedere evidenze economiche<br />
plateali nella determinazione della ricchezza ai fini<br />
<strong>tributari</strong>. Non a caso, buona parte del disorientamento<br />
dei giudici deriva dall’accanimento con<br />
cui gli Uffici insistono su contestazioni che non<br />
avrebbero dovuto neppure nascere. Forse i giudici<br />
hanno ritenuto «troppo credibili» le tesi della contribuente,<br />
respingendole in alcuni casi proprio per<br />
il dubbio di aver capito bene, innescato verosimilmente<br />
dalla intransigenza dell’Agenzia. Insomma,<br />
avranno pensato, se le cose stanno davvero così,<br />
perché l’Agenzia non le riconosce ed insiste col rilievo?<br />
Le risposte sono più d’una, e anche comprensibili:<br />
sulla solita tendenza ad accanirsi<br />
sull’«evasione interpretativa», viste le difficoltà<br />
ambientali nella individuazione e determinazione<br />
della ricchezza non registrata, si inseriscono tutti<br />
gli stereotipi di varie perversioni fiscali, come<br />
l’interposizione di società senza sostanza economica,<br />
i paradisi fiscali, i conti esteri, una evasione<br />
fiscale, il coinvolgimento di una nota grande<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
azienda. Davanti a questi ingredienti mediatici<br />
passa in secondo piano che tutte le patologie fiscali<br />
indicate sopra, i paradisi fiscali, l’evasione, l’interposizione,<br />
fossero stati palesemente realizzati<br />
dalle controparti greche e irlandesi, mentre la società<br />
italiana voleva solo vendere abbigliamento<br />
alle condizioni migliori. Però c’è odore di zolfo,<br />
l’ombra del Maligno, e qualcuno deve espiare, come<br />
in un esorcismo, fosse pure il cliente italiano,<br />
come se fosse «contaminato». Non importa se<br />
l’evasione fiscale è stata perpetrata dai fornitori,<br />
nei loro Paesi di residenza, in quanto il cliente italiano<br />
ha tutte le caratteristiche per essere il colpevole<br />
ideale che l’opinione pubblica si attende, in<br />
questo periodo di caccia alle streghe e di voglia<br />
del sangue di fantomatici «grandi evasori».<br />
L’Agenzia delle entrate sa benissimo come stanno<br />
le cose, ma è anch’essa ostaggio di una sceneggiata<br />
mediatica collettiva, di un vero e proprio circolo<br />
vizioso, che l’ha portata a celebrare la citata sentenza<br />
della Commissione <strong>tributari</strong>a regionale Veneto<br />
persino con un comunicato stampa (12).<br />
La sentenza della Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale<br />
di Venezia, nel suo piccolo, ha il merito di<br />
avere spezzato il circolo vizioso in cui «le colpe<br />
della ricchezza nascosta ricadono su quella dichiarata».<br />
Nell’adottare l’unica decisione logicamente<br />
sensata, ha mostrato un coraggio che è mancato alle<br />
altre, dove verosimilmente i giudici avevano capito<br />
benissimo la questione, ma in cuor loro «non<br />
si sentivano tranquilli». È un piccolo episodio che<br />
ci conforta nel lavoro, che spetta agli studiosi, di<br />
sistematizzare la determinazione della ricchezza ai<br />
fini <strong>tributari</strong>. Se però una decisione che dovrebbe<br />
essere «normale» appare «coraggiosa», vuol dire<br />
che la strada da fare è ancora molta per razionalizzare<br />
la tassazione attraverso le aziende, a beneficio<br />
della coesione sociale, delle istituzioni, e (se<br />
vogliamo usare questo termine) della «vera» lotta<br />
all’evasione, intesa come ricchezza non registrata,<br />
che tanto turba l’opinione pubblica.<br />
Note:<br />
(11) R. Lupi, «Parlare senza dire nulla: il contagio sugli Uffici <strong>tributari</strong>»,<br />
in questa Rivista, pag. 371.<br />
(12) Vedremo di recuperarlo e svolgervi alcune riflessioni in<br />
www.fondazionestudi<strong>tributari</strong>.com.<br />
4/2012<br />
455
Fiscalità<br />
internazionale<br />
La sentenza<br />
Fatto-Diritto<br />
Con ricorso depositato in data 27 ottobre 2010 E. s.r.l.<br />
in qualità di incorporante di E. H. s.p.a. riassumeva la<br />
causa contro l’Agenzia delle entrate dir. Prov.le di Treviso<br />
nonché contro l’Agenzia delle entrate - direzione<br />
regionale di Venezia - e nei confronti della s.r.l. B. in<br />
veste di società consolidata per l’annullamento dell’avviso<br />
di accertamento in materia di IRES per l’anno di<br />
imposta 2004 notificato in data 31 dicembre 2009 a seguito<br />
dell’ordinanza della Commissione Provinciale di<br />
Treviso che per ragioni di connessione riteneva la competenza<br />
di questa Commissione <strong>tributari</strong>a assegnando<br />
alle parti il termine per la riassunzione.<br />
Nel corso del giudizio le parti addivenivano ad una parziale<br />
conciliazione relativa al rilievo contestato sub A)<br />
di elusione fiscale realizzata attraverso la costituzione<br />
di stabili organizzazioni in Paesi esteri al fine di dedurre<br />
fiscalmente le perdite in Italia in capo alla B. s.r.l.<br />
Conseguentemente l’oggetto del processo si è ridotto<br />
alla trattazione del rilievo contestato sub B) del processo<br />
verbale di accertamento e relativo alla pretesa indeducibilità<br />
delle provvigioni percepite da società agenti<br />
greci e irlandesi tramite loro società con sede nell’isola<br />
di Man.<br />
Più precisamente il rilievo in questione concerne il disconoscimento<br />
per il periodo di imposta 2004 di costi<br />
ritenuti indeducibili per provvigioni derivanti da rapporti<br />
intercorsi tra B. s.r.l. e le due società con sede nell’isola<br />
di Man: la LTD L. e la LTD M.F. per un importo<br />
complessivo di euro ...<br />
Come risulta dal processo verbale di accertamento la<br />
questione di fatto è sostanzialmente pacifica e verte sulla<br />
utilizzazione da parte delle società di agenti greci e<br />
irlandesi di 2 società schermo dell’isola di Man per fatturare<br />
e riscuotere le provvigioni loro spettanti a carico<br />
della ricorrente. La contestazione da parte dell’Ufficio<br />
trova il suo fondamento nell’art. 110, comma 10, del<br />
T.U.I.R. che in tema di costi da Paesi black list dispone<br />
quale regola generale che «non sono ammessi in deduzione<br />
le spese e gli altri componenti negativi derivanti<br />
da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese<br />
domiciliate fiscalmente in stati o territori non appartenenti<br />
all’unione europea aventi regimi fiscali privilegiati».<br />
Il successivo comma 11 stabilisce la inapplicabilità<br />
del divieto in esame solo quando le imprese residenti in<br />
Italia forniscono la prova che le imprese estere svolgono<br />
prevalentemente un’attività commerciale effettiva<br />
ovvero quelle operazioni poste in essere rispondono a<br />
un effettivo interesse economico e che le stesse hanno<br />
avuto concreta esecuzione. L’art. 110, comma 10, prevede<br />
in altri termini una presunzione legale relativa di<br />
456<br />
4/2012<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Commissione <strong>tributari</strong>a provinciale di Venezia, Sez. XIII, Sent. 9 gennaio 2012 (16 marzo 2011), n. 1<br />
- Pres. e Rel. Salvarani<br />
indeducibilità dei costi provenienti dai Paesi black list<br />
con la conseguenza che a dimostrare l’interesse realizzato<br />
dall’operatore nazionale deve essere la stessa parte<br />
ai fini di legittimare il recupero del relativo costo. Questa<br />
presunzione peraltro non troverà applicazione solo<br />
qualora la società italiana sia in grado di dimostrare il<br />
ricorrere di almeno una delle circostanze esimenti previste<br />
dal comma 11° ovvero: 1) che l’impresa estera<br />
svolge prevalentemente un’attività commerciale effettiva;<br />
2) che le operazioni poste in essere rispondono a un<br />
effettivo interesse economico dell’imprenditore italiano<br />
e hanno avuto concreta esecuzione.<br />
I presupposti probatori indicati da tale comma sono alternativi<br />
con la conseguenza che il contribuente può limitarsi<br />
a fornire elementi sufficienti a dimostrare la<br />
sussistenza anche di uno solo di essi.<br />
L’attività di agenzia è stata svolta non tanto dalle società<br />
site nell’isola di Man che non hanno alcuna struttura<br />
organizzativa bensì per i territori irlandesi per il tramite<br />
della società Br. ltd con sede in Dublino e per i territori<br />
di Cipro e di Grecia dalla società Be. con sede ad Atene.<br />
Da un punto di vista sostanziale in entrambi i casi si<br />
tratta di prestazioni di agenzia della cui veridicità e materiale<br />
esecuzione non sussiste alcun dubbio e contestazione<br />
nel senso che le prestazioni sono state effettivamente<br />
rese.<br />
Afferma la società ricorrente in proposito che è del tutto<br />
irrilevante che il soggetto legato da un contratto di<br />
agenzia e deputato a emettere le fatture sia la società<br />
black list mentre ad effettuare l’esecuzione dei rapporti<br />
commerciali nei territori di loro competenza sia un<br />
soggetto terzo a cui è stato affidato tale compito sulla<br />
base di un contratto di sub agenzia poiché quel che rileva<br />
è che sussista la prova attestante la concreta esecuzione<br />
delle prestazioni ricevute e la concreta esecuzione.<br />
Afferma la società ricorrente che anche la contestata<br />
antieconomicità dei costi sostenuti è priva di fondamento<br />
poiché da un lato non aveva alcuna possibilità di<br />
scelta tra le due strutture non potendo interferire sulle<br />
modalità operative e organizzative della loro attività e<br />
dall’altro il costo effettivo del servizio è unicamente il<br />
costo sostenuto nei confronti delle proprie controparti<br />
contrattuali con sede nell’isola di Man mentre nessun<br />
rilievo assumono le valutazioni economiche effettuate<br />
dall’Agenzia che riguardano le modalità con le quali i<br />
gruppi di società fornitrici il servizio articolano i compensi<br />
al loro interno: le due società localizzate nell’isola<br />
di Man sono soggetti esclusivamente incardinati nella<br />
struttura organizzativa degli agenti esteri, struttura<br />
che la ricorrente non ha in un modo determinato o ha
contribuito a determinare e rispetto alla cui organizzazione<br />
non ha alcuna influenza.<br />
Ritiene questa commissione che il punto decisivo della<br />
controversia sia quello della effettività delle operazioni<br />
sottostanti, verifica che va fatta con riferimento al secondo<br />
requisito richiesto dal comma 11 ai fini della<br />
sussistenza della esimente, verifica da compiere con riferimento<br />
ai rapporti che la società ricorrente ha avuto<br />
sia con le due società agenti ubicati nell’isola di Man<br />
sia con le società subagenti operanti nei territori irlandesi<br />
e greci senza che sia a questo proposito necessaria<br />
una coincidenza tra il soggetto che ha ricevuto il pagamento<br />
e il soggetto che ha erogato la prestazione in forza<br />
del contratto di subagenzia.<br />
A questo proposito non si può ignorare il rapporto economico<br />
giuridico tra tali entità e cioè che erano le società<br />
dell’isola di Man ad essere emanazioni dei reali<br />
operatori greci e irlandesi i quali erano i diretti destinatari<br />
dei vantaggi fiscali derivanti da tale rapporto. E non<br />
è contestabile che le operazioni siano state poste in essere<br />
dall’organizzazione che l’agente ha inteso in tal<br />
modo costituire a suo vantaggio realizzando altresì un<br />
effettivo interesse economico per la società ricorrente.<br />
Quindi va ritenuto che possa essere applicabile ai fini<br />
della deducibilità dei costi la formulazione della seconda<br />
esimente secondo cui nessun limite può essere posto<br />
alla deduzione quando le operazioni poste in essere rispondono<br />
a un effettivo interesse economico e le stesse<br />
hanno avuto concreta esecuzione. In proposito sussiste<br />
anche un precedente amministrativo richiamato da parte<br />
ricorrente costituito dal parere reso in data 28 luglio<br />
2004 dal comitato consultivo per la applicazione delle<br />
norme antielusive: in tale parere si riconosce la legittimità<br />
del fenomeno della subagenzia e quindi l’affermazione<br />
che l’agente può valersi nella propria e autonoma<br />
organizzazione dell’impresa di propri collaboratori e<br />
nel caso esaminato le provvigioni di agenzia corrisposte<br />
ad altro soggetto in territorio black list a seguito della<br />
modifica delle condizioni contrattuali tra l’agente e il<br />
soggetto terzo sono state ritenute irrilevanti ai fini della<br />
deducibilità.<br />
Il caso esaminato è sovrapponibile a quello in discussione<br />
dove le provvigioni di agenzia corrisposte alle<br />
due società agenti dell’isola di Man traggono origine<br />
dall’attività svolta dalle due società sub agenti con le<br />
quali la società ricorrente di fatto intratteneva ogni rapporto<br />
operativo e organizzativo.<br />
Ad avviso di questa commissione pertanto non è necessario<br />
che vi sia coincidenza tra il soggetto che ha posto<br />
in essere l’operazione in concreto e il soggetto situato<br />
nello Stato a tassazione privilegiata: non condividendosi<br />
pertanto l’orientamento espresso nella sentenza depositata<br />
in atti della Commissione <strong>tributari</strong>a regionale relativa<br />
al periodo d’imposta 2003 tra le stesse parti dove<br />
si afferma che lo sdoppiamento che si verifica tra un<br />
soggetto che fornisce un determinato servizio in un certo<br />
luogo con la sua organizzazione di mezzi e un soggetto<br />
del tutto estraneo a tale attività che realizza il pro-<br />
CTP Venezia, 9 gennaio 2012, n. 1<br />
Fiscalità<br />
internazionale<br />
fitto di tale cessione esclude la possibilità di ritenere<br />
deducibili i costi.<br />
In proposito non si può non obiettare che sostenere la<br />
necessità che vi sia coincidenza fra il soggetto che ha<br />
ricevuto il pagamento e il soggetto che ha erogato la<br />
prestazione significa annullare la applicazione della seconda<br />
esimente e ritenere quindi applicabile solo la prima<br />
esimente ove si pretende che vi sia coincidenza tra<br />
il soggetto destinatario della fatturazione e il soggetto<br />
che ha erogato il servizio che è espressione della presunzione<br />
di relativa inaffidabilità dei rapporti economici<br />
che vedono coinvolti soggetti aventi sede in un paradiso<br />
fiscale che tuttavia può essere vinta e superata dalla<br />
dimostrazione della effettività della esecuzione del<br />
rapporto e delle operazioni.<br />
Le spese trovano giustificazione di compensazione per<br />
le divergenti interpretazioni della normativa esaminata.<br />
P.Q.M.<br />
Accoglie il ricorso. Spese compensate.<br />
4/2012<br />
457
Monitoraggio<br />
fiscale<br />
Le assurdità del monitoraggio fiscale:<br />
da Valentino Rossi a Abdul<br />
La normativa sul monitoraggio fiscale è venuta alla<br />
luce intorno agli anni novanta, con la liberalizzazione<br />
valutaria. La finalità di mantenere concrete<br />
modalità di controllo da parte del Fisco sui redditi<br />
di fonte estera, coerentemente al principio della<br />
tassazione su base mondiale operante nel nostro<br />
ordinamento per i soggetti residenti, si riferisce essenzialmente<br />
a timori sui redditi finanziari.<br />
Poi c’è una naturale forza espansivo-antielusiva<br />
che ha allargato le previsioni del monitoraggio.<br />
Dall’esigenza di monitorare le attività di natura finanziaria<br />
si è arrivati all’obbligo di indicare nel<br />
quadro RW del modello UNICO anche gli investimenti<br />
di natura diversa, tra cui gli immobili, le<br />
unità da diporto, gli oggetti preziosi e le opere<br />
d’arte, a prescindere dall’effettiva produzione di<br />
redditi imponibili nel periodo d’imposta.<br />
Prima dell’entrata in vigore il D.L. 1° luglio 2009,<br />
n. 78 (1), sullo scudo fiscale, gli investimenti all’estero<br />
di natura non finanziaria, tra cui gli immobili,<br />
dovevano essere indicati nell’apposito modulo<br />
RW solo nel periodo d’imposta in cui avevano<br />
prodotto redditi imponibili nel nostro Paese. Pren-<br />
458<br />
di Fiorella Bianchi, Nadia Maria Zemignani, RL<br />
Il monitoraggio fiscale cerca di rimediare con interventi legislativi alla mancanza di controllo<br />
amministrativo dei fenomeni economico-sociali, in questo caso la libertà dei movimenti di capitali,<br />
completata nel 1990 sotto la spinta dell’Unione Europea. Questa «disposizione spauracchio»,<br />
tipico tentativo di «amministrare per legge», voleva evitare la delocalizzazione della ricchezza<br />
finanziaria delle persone fisiche, nel tentativo di evitare ritenute d’imposta e imposte sostitutive<br />
sui frutti del risparmio. La formulazione e l’applicazione di questa disciplina hanno solo<br />
comportato fastidi e intralci su situazioni estranee a quanto si voleva colpire, come in alcuni casi<br />
eclatanti, che cominciamo a descrivere in questi articoli, a proposito degli immigrati, che - diventando<br />
residenti in Italia - sarebbero tenuti a indicare nel quadro RW le case familiari ed i<br />
conti bancari in essere nel Paese natio. Ne derivano una serie di paradossi, anche connessi alle<br />
esagerate sanzioni con cui si cerca vanamente di controbilanciare l’impossibilità di un intervento<br />
amministrativo adeguatamente sistematico.<br />
La nascita del monitoraggio fiscale contro l’evasione dei redditi finanziari<br />
Fiorella Bianchi<br />
4/2012<br />
dendo il caso di immobili situati all’estero, questi<br />
precedentemente dovevano essere indicati nel modulo<br />
RW in relazione al periodo d’imposta in cui<br />
erano stati locati ovvero erano stati oggetto di cessione<br />
imponibile nel nostro Paese, o se sottoposti a<br />
imposte sui redditi nello Stato estero. Viceversa,<br />
non doveva essere indicato nel modulo RW il bene<br />
immobile situato in un Paese che non ne stabiliva<br />
la tassazione ai fini delle imposte sui redditi. Infatti,<br />
in questa ipotesi, l’immobile era considerato come<br />
non produttivo di redditi imponibili neanche<br />
nel nostro Paese, ai sensi dell’art. 70, comma 2,<br />
del T.U.I.R. Così fino al periodo d’imposta 2008,<br />
gli investimenti all’estero dovevano essere indicati<br />
nel modulo RW solo quando avessero prodotto,<br />
nel periodo d’imposta di riferimento, redditi imponibili<br />
in Italia.<br />
Fiorella Bianchi - Dottoranda di ricerca presso l’Università di Roma<br />
«Tor Vergata» e Avvocato in Roma<br />
Nota:<br />
(1) Convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n.<br />
102.
Gli obblighi informativi previsti, che ricadono sia<br />
sui contribuenti che sugli intermediari che partecipano<br />
alle operazioni transfrontaliere per i redditi<br />
finanziari di cui ci occuperemo nel prosieguo, evocano<br />
facoltosi personaggi che trasferiscono all’estero<br />
ricchezza per evitare la tassazione dei relativi<br />
frutti. Il monitoraggio fiscale nasce insomma<br />
per i «frutti del capitale», non per il capitale, pure<br />
se anch’esso può derivare da redditi sfuggiti a tassazione.<br />
Queste previsioni legislative, con la loro asettica e<br />
improvvisata rigidità, finiscono per riguardare anche<br />
immigrati con residenza e talvolta con cittadinanza<br />
in Italia che possiedono, ad esempio, avendola<br />
ricevuta in eredità, una casa nel loro Paese<br />
d’origine. Ipotesi tutt’altro che infrequenti, considerato<br />
che questi soggetti risultano essere alcune<br />
centinaia di migliaia in base ad indagini campionarie.<br />
Quanto agli immobili detenuti all’estero, la norma<br />
non fornisce risposte in quanto sancisce senza distinzioni<br />
l’obbligo di compilare il quadro RW e<br />
prevede sanzioni piuttosto elevate, recentemente<br />
inasprite, per i contribuenti inadempienti (si va da<br />
un minimo del 5% ad un massimo del 25% degli<br />
importi non dichiarati), sino ad arrivare alla confisca<br />
per equivalente in fase di riscossione.<br />
Sono provvedimenti legislativi ispirati a suggestioni<br />
mediatiche, e ad una attività di marketing dei rituali<br />
provvedimenti di «scudo fiscale», come se riguardassero<br />
ricchi proprietari di immobili alle Barbados.<br />
Se si guarda invece la modalità di realizza-<br />
Monitoraggio e rimesse all’estero degli immigrati<br />
Nadia Maria Zemignani<br />
Gli immigrati sono residenti, spesso da anni, in<br />
Italia. Ma non sono qui perché prevedono di restarci<br />
in eterno, bensì perché vogliono crearsi una<br />
base finanziaria per tornare nel proprio Paese. Dove,<br />
anche se non hanno la casa di cui parlava Fiorella<br />
Bianchi nell’articolo precedente, spediscono<br />
le loro rimesse finanziarie, come hanno fatto per<br />
decenni gli emigrati italiani all’estero.<br />
Per esemplificare pensiamo alle badanti rumene<br />
che inviano denaro guadagnato in Italia nel loro<br />
Paese, non solo per mantenere la famiglia, ma anche<br />
per accumulare colà i loro risparmi e per go-<br />
Monitoraggio<br />
fiscale<br />
zione si scopre che essi riguardano anche il malcapitato<br />
extracomunitario di turno, sia esso l’operaio<br />
marocchino o la badante moldava, residenti in Italia<br />
e titolari di appartamenti nel loro Paese. È una<br />
legge pensata per le case da sogno che inavvertitamente<br />
finisce per applicarsi anche per i bilocali fatiscenti<br />
nei sobborghi di Odessa o Marrakech, senza<br />
alcuno «zoccolo di valore», né distinzione tra<br />
località geografiche e tipologia di titolare.<br />
Questa normativa allora crea grandi contraddizioni<br />
che non possono sfuggire neppure agli interpreti<br />
chiamati ad applicarla. Probabilmente anche il<br />
funzionario dell’Agenzia delle entrate si rende<br />
conto di trovarsi di fronte ad un paradosso, e in<br />
genere fa finta di non vedere; solo che, se dovessero<br />
restare tracce che lui ha fatto finta di non vedere,<br />
allora resterebbe invischiato nei tentacoli di<br />
una legalità divenuta legalismo.<br />
Abbiamo appreso per esperienza diretta di professori<br />
stranieri, residenti in Italia e che insegnavano<br />
in Università italiane, sanzionati ai fini del monitoraggio<br />
perché era emerso, non in sede fiscale,<br />
ma ad altri fini, che non avevano inserito nel quadro<br />
RW la loro casa di famiglia a Stoccolma. Per<br />
carità, i funzionari fanno il loro dovere, però l’idea<br />
del «governo della legge», il suo prestigio, non ne<br />
escono bene. Ma ci sono riflessi anche sugli spostamenti<br />
di capitali all’estero, le vecchie «rimesse<br />
degli emigrati», su cui pubblichiamo alcune riflessioni<br />
di una lettrice che ha inserito un commento<br />
sul post che avevamo dedicato al tema sul sito della<br />
Fondazione Studi Tributari.<br />
derseli al momento del ritorno in Romania. Oggi<br />
si tratta di trasmissioni soggette al monitoraggio<br />
fiscale, sia come movimentazioni di denaro, sia<br />
come detenzione di somme all’estero (quadro<br />
RW). Sarebbe opportuno pertanto che l’Agenzia<br />
delle entrate mettesse in atto una campagna, anche<br />
televisiva, per informare tutti gli stranieri circa gli<br />
obblighi di compilazione del quadro RW, che<br />
avrebbe delle ricadute positive anche in termini di<br />
emersione del lavoro in nero, oltre a convincerli<br />
con adeguati spot e serie campagne di informazione<br />
ad adempiere agli obblighi di dichiarazione.<br />
4/2012<br />
459
Monitoraggio<br />
fiscale<br />
Sarebbe, da un lato, un atto dovuto nei confronti<br />
dei tanti cittadini italiani tormentati ed angustiati<br />
da obblighi degni del servaggio della gleba, ma,<br />
dall’altro lato, complicherebbe molto gli adempimenti<br />
per i poveri professionisti chiamati a compilare<br />
le dichiarazioni degli interessati; dai quali sarebbe<br />
un percorso ad ostacoli racimolare, per le dichiarazioni,<br />
tutto il materiale necessario a dichiarare<br />
secondo quanto richiesto dalle istruzioni del<br />
460<br />
4/2012<br />
quadro W. Insomma si tratta di adempimenti di<br />
impegno sproporzionato rispetto alle possibilità di<br />
controllo. Se molto spesso è difficile, per gli immigrati,<br />
persino ricordarsi della dichiarazione dei<br />
redditi, salve le necessità del permesso di soggiorno,<br />
figuriamoci se possono avere cognizione degli<br />
adempimenti connessi al monitoraggio fiscale e alle<br />
possibili conseguenze anche in termini di sanzioni,<br />
fino alla confisca per equivalente!<br />
Monitoraggio fiscale: tra «moral suasion» e paradossi applicativi<br />
RL<br />
Gli obiettivi di una «grida manzoniana»?<br />
Se si facesse una «analisi economica degli istituti<br />
giuridici» sarebbe interessante una analisi costi e<br />
benefici della disciplina del monitoraggio fiscale,<br />
a oltre vent’anni dalla sua introduzione. Bisognerebbe<br />
vedere quanto è stata effettivamente dissuasa<br />
la tendenza a «saltare» i regimi sostitutivi italiani<br />
sui redditi finanziari, e l’intermediazione delle<br />
aziende di credito nazionali, per effettuare investimenti<br />
attraverso intermediari esteri. Viene il sospetto<br />
che la farraginosità del monitoraggio servisse<br />
a proteggere qualcosa di più del gettito erariale,<br />
e cioè il sistema degli intermediari nazionali di gestione<br />
del risparmio e degli investimenti in titoli;<br />
anche perché l’intermediario italiano, nei primi<br />
anni novanta del secolo scorso, tendeva a comprare<br />
titoli di Stato, e quindi a canalizzare il risparmio<br />
su emittenti nazionali.<br />
Sarebbe da investigare in quale misura esistano, in<br />
altri Paesi europei, disposizioni analoghe al monitoraggio<br />
fiscale, coi paradossi indicati negli articoli<br />
che precedono.<br />
E sarebbe anche il caso di chiedersi in quale misura<br />
un sistema così irrazionale e feroce, di presunzioni<br />
e sanzioni, non sia un ibrido meccanismo per<br />
adeguarsi nella forma agli obblighi di assicurare la<br />
libertà nei movimenti di capitali, intralciandoli però<br />
nella sostanza. Fino a quando, sconquassandosi<br />
l’Europa, potranno essere anche reintrodotte regolamentazioni<br />
valutarie, come quelle dei tempi che<br />
furono. Staremo a vedere.<br />
Un bilancio delle esperienze<br />
Nel frattempo, però, come ha funzionato il monitoraggio?<br />
Qui bisogna distinguere tra gli effetti di annuncio<br />
e le esperienze pratiche. È anche credibile che il<br />
monitoraggio abbia assolto questa funzione generale,<br />
di moral suasion, un po’ terroristica, indicata<br />
al paragrafo precedente. Una verosimile sintesi<br />
potrebbe consistere nell’inutile fastidio su situazioni<br />
innocue, e nell’assenza di intralci investigativi<br />
verso quelle insidiose per l’Erario. Queste ultime,<br />
come ricorda Bianchi, erano innanzitutto le<br />
rendite finanziarie di fonte estera, non più ostacolate<br />
dai divieti valutari. Ma probabilmente la mite<br />
aliquota sulle rendite finanziarie non è un motivo<br />
sufficiente per abbandonare il tranquillizzante rapporto<br />
con intermediari finanziari nostrani, ed<br />
esporsi alle sanzioni fiscali del monitoraggio, riuscito<br />
esempio di «norma spauracchio», come dicevamo<br />
sopra, che fa qualche vittima collaterale, come<br />
vedremo anche ai punti seguenti.<br />
Il paradosso delle violazioni al monitoraggio<br />
conseguenti a pretese «esterovestizioni»<br />
Un ulteriore paradosso del pigro «legalistico meccanicistico»<br />
monitoraggio riguarda le esterovestizioni,<br />
cioè i cambiamenti di residenza accertati dal<br />
Fisco, secondo un filone esaminato da Dialoghi<br />
nel corso degli anni precedenti (2), soprattutto con<br />
Nota:<br />
(2) È un tema tenuto sotto osservazione su Dialoghi a partire dal<br />
2006 (S. Covino, «La gestione attiva come criterio riferibile anche<br />
alle holding di mera detenzione», in Dialoghi dir. trib. n.<br />
1/2006, pag. 82; A. Donesana, S. Covino, A. Manzitti, «Sede amministrativa<br />
e residenza delle “holding”», in Dialoghi Tributari n.<br />
2/2010, pag. 224; G. Marino, M. Marzano, R. Lupi, «La residenza<br />
delle società e controllo tra schemi OCSE ed episodi giurispru-<br />
(segue)
iferimento alle società, per loro fortuna non esposte<br />
al monitoraggio fiscale, limitato come noto alle<br />
persone fisiche. Queste ultime sono state però oggetto,<br />
per l’esterovestizione, di casi balzati agli<br />
oneri delle cronache e pieni di nomi eccellenti. Per<br />
molti versi si trattava di «evasione interpretativa»,<br />
connessa al concetto di residenza, riferito alle situazioni<br />
personali degli interessati, quali Luciano<br />
Pavarotti, Ornella Muti, da ultimo Valentino Rossi<br />
e Tiziano Ferro. In molti casi, però, alle comprensibili<br />
contestazioni sull’imputazione dei redditi si<br />
sono accompagnate anche quelle sul monitoraggio.<br />
Che invece sono paradossali, in quanto sarebbe<br />
contraddittorio che soggetti convinti di non essere<br />
residenti in Italia provvedano ad effettuare<br />
tutti gli adempimenti in materia di monitoraggio<br />
fiscale. Appare cioè contraddittorio, e irrazionale,<br />
pretendere che chi ritiene di essere residente britannico<br />
smentisca se stesso procedendo ad un<br />
adempimento strumentale, come il monitoraggio<br />
fiscale che invece presuppone la residenza in Italia.<br />
Ci sono poi anche casi in cui i titolari di società<br />
italiane, intestate a società holding lussemburghesi,<br />
sono stati accusati di aver violato le disposi-<br />
Monitoraggio<br />
fiscale<br />
zioni sul monitoraggio per non aver indicato la disponibilità<br />
della società lussemburghese, a sua<br />
volta titolare della società italiana. Sono contestazioni<br />
del tutto estranee alla funzione economica<br />
del monitoraggio, perché qui si tratta di «beni italiani»,<br />
in cui i rischi di produzione di redditi esteri<br />
sono esclusi per definizione. È buffo che in alcuni<br />
casi la società estera sia vista «come estera» quando<br />
si tratta del monitoraggio a carico del socio italiano,<br />
e invece «sostanzialmente residente in Italia»<br />
quando si tratta di redditi propri della società.<br />
Tutti indizi della progressiva separazione tra il<br />
buonsenso e un diritto <strong>tributari</strong>o sempre più appiattito<br />
su una legislazione in cui non si raccapezza<br />
nessuno. Sconsolante conferma delle considerazioni<br />
svolte nell’editoriale di questo fascicolo.<br />
Nota:<br />
(segue nota 2)<br />
denziali interni», ivi n. 3/2008, pag. 91; A. Manzitti, «L’eterodirezione<br />
presunta sposta la residenza?», ivi n. 5/2010, pag. 534; A. Amatucci,<br />
R. Lupi, «Per la residenza rileva l’attività della società, quella<br />
del socio, o del “gruppo”»?, ivi n. 6/2011, pag. 685).<br />
4/2012<br />
461
Riflessioni operative e sistematiche sulla tassazione attraverso le aziende<br />
Coordinamento editoriale<br />
Raffaello Lupi, Dario Stevanato<br />
Comitato di revisione:<br />
Massimo Basilavecchia, Mauro Beghin, Luigi Arturo Bianchi (*), Cesare Cavallini (**), Daria Coppa, Francesco d’Ayala Valva,<br />
Lorenzo del Federico, Guglielmo Fransoni, Maria Cecilia Fregni, Salvatore Muleo, Luciano Pezzolo (***), Salvatore Sammartino,<br />
Giuseppe Zizzo<br />
Comitato di redazione:<br />
Stefania Capitani, Claudio Carpentieri, Leda Rita Corrado, Mario Damiani, Mauro Franchi, Giuseppe Ingrao, Raffaello Lupi,<br />
Andrea Manzitti, Giuseppe Molinaro, Alessandro Santoro, Dario Stevanato, David Terracina<br />
Ufficio Studi Fondazione Studi Tributari:<br />
Nominativi in corso di definizione<br />
(*) Diritto commerciale<br />
(**) Diritto processuale civile<br />
(***) Storia della tassazione<br />
Editrice Wolters Kluwer Italia s.r.l. - Strada 1, Palazzo F6 - 20090 Assago (Mi)<br />
http://www.ipsoa.it.<br />
Direttore responsabile Giulietta Lemmi<br />
Redazione Valeria Ruggiero<br />
Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 68 del 29 gennaio 2008<br />
Iscritta al R.O.C. n. 1702<br />
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L.<br />
353/2003 (conv. in L. 27 febbraio 2004, n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano<br />
Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa con il n. 3353 vol. 34 foglio 417 in<br />
data 31 luglio 1991<br />
Realizzazione grafica<br />
<strong>Ipsoa</strong><br />
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