il Codice del 1865 e la retorica di Mancini e di Pisanelli - Facoltà di ...

Giovanni Cazzetta
Materiali per il Corso di Storia delle Costituzioni e delle Codificazioni moderne.
Il Codice civile del 1865. La retorica di Mancini e di Pisanelli.
Il 17 marzo del 1861, mentre il primo Parlamento nazionale proclamava il Regno d'Italia, la frammentazione del
diritto civile italiano si era - in seguito agli avvenimenti militari e politici avviatisi nel 1859 - solo parzialmente
attenuata. A differenza dei settori di rilevanza pubblicistica cui il processo di ‘piemontesizzazione’ aveva imposto
una relativa uniformità giuridica, il diritto privato si presentava ancora come un mosaico di ordinamenti. La scelta
per il Codice unitario si imponeva come politicamente necessaria, come inevitabile coronamento legislativo dell’unità
politica.
La legislazione civilistica preesistente al raggiungimento dell’Unità era stata con lievi eccezioni, provvisoriamente
riconfermata, oltre che in Lombardia (dove continuava ad essere in vigore l’ABGB) e negli ex territori di Parma, di
Modena e del Regno delle Due Sicilie, anche in Toscana, dove pertanto era ancora in vigore il sistema normativo del
tardo diritto comune. La validità del Codice civile piemontese, il Codice Albertino del 1837, era stata estesa soltanto a
parte dei territori appartenuti allo Stato pontificio: l'Emilia, le Marche e l'Umbria.
Il processo vòlto a raggiungere una codificazione unitaria era comunque già in moto dal 1859: si puntò, in un
primo momento, a una ‘semplice revisione’ del Codice albertino; viste però le innumerevoli critiche e resistenze,
manifestatesi anche in seno al Parlamento del nuovo Regno, verso il programma accentratore vòlto ad assimilare a quella
sarda le diverse legislazioni della penisola, ci si avviò verso una nuova fase del processo legislativo che assunse a suo
impegno programmatico la costruzione di un nuovo Codice civile italiano. Mentre si susseguivano i lavori sui diversi
progetti, movendosi tra semplificanti richiami al Codice Napoleone e ricerche di una legislazione unitaria autonoma,
giunse ad imprimere un’improvvisa accelerazione al dibattito la convenzione del 15 Settembre del 1864 con la Francia e
la decisione di trasferire la capitale del Regno da Torino a Firenze. Si prefigurava lo spettro di una capitale dominata
ancora da un diritto civile non codificato. Pur in presenza di voci che sollevarono dubbi di costituzionalità, la soluzione
prescelta per raggiungere in breve tempo un concreto risultato fu quella di bloccare i lavori parlamentari al punto in cui
erano, evitando così ulteriori defaticanti discussioni, e di affidare l’opera legislativa al potere esecutivo.
Il Codice civile del 1865 emerse come il preciso risultato di scelte politiche della classe dirigente
liberale intenta a «confortare l’unità dello Stato con l’unità delle leggi» 1, ad imporre un diritto
statale contro i variegati interessi municipalistici, ad incarnare l’unità nazionale nelle leggi. Il Codice
scaturiva da una suprema e fatale necessità politica:
«Il concetto dell’unificazione legislativa non è un concetto speculativo, non è vaga aspirazione, non è un
sistema. Esso è suprema e fatale necessità, direi così, la quale sgorga dall’intima natura delle cose e dalla nostra
situazione; esso attinge la sua forza in quel sentimento popolare istintivo degli italiani i quali anelano ad
integrare ed incarnare l’unità nazionale nelle leggi come nell’amministrazione, nelle finanze come nelle
armi» 2.
La visione pragmatica dell’unificazione legislativa (dettata dalla preminenza delle ragioni della politica)
non è però sufficiente da sola a far comprendere appieno il ruolo che il Codice civile giocò
nell’ordinamento e nella cultura dei giuristi. Il Codice ‘reale’, il codice voluto e imposto dal
legislatore, fu presto assorbito dal riferimento al Codice nazionale mitizzato cui i giureconsulti
facevano oramai da tempo riferimento. La mitizzazione del modello impedì una seria discussione
sul progetto di società sotteso al Codice. Dipinte come ineluttabili, le scelte politiche furono
spostate in secondo piano (o addirittura descritte come completamente assenti), mancarono
riflessioni sull’affermarsi del nuovo assetto costituzionale e sugli obiettivi politici affidati al Codice
1 Così G.B. Cassinis, Relazione al Progetto di revisione del Codice civile Albertino.
2 Così il Ministro di Grazia e Giustizia, Vacca, nella discussione parlamentare sul disegno dell'unificazione legislativa.
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(una approfondita discussione in tal senso non fu agevolata anche dalla formale conservazione del
fragile Statuto albertino).
I lavori preparatori del Codice del 1865 ripropongono la retorica diffusasi nella prima meta
dell’Ottocento, passando da un’esaltazione del modello francese (e dell’incivilimento ‘alla
francese’), da una accettazione senza condizioni del ‘dono del Codice’, a una messa a fuoco del
codice nazionale italiano.
Cassinis non conosce mezzi termini nel presentare il Codice Napoleone come modello di
incivilimento:
«Un codice apparve, meraviglioso pel metodo come per i princìpi della novella filosofia sociale: quel Codice
recante in fronte il più gran nome de’ tempi moderni, fu portato ed accolto con plauso per tutto il mondo civile, e
rimase in molte parti anche dopo che il prestigio del gran nome cedette all’urto degli eventi; anzi, pur là, d’onde la
riazione lo aveva respinto, ritorno in breve simil forma, e col medesimo metodo, se non con l’integrità dei
principii che ne sono la base».
L’esaltazione del ‘dono del Codice’ (accompagnata dal riferimento alla necessità di una ‘perfetta
corrispondenza’ al modello napoleonico) è, però, anche in questi anni presto corretta radicando il
modello nella ‘nostra’ storia. Le due prospettive – sostenute come sono dalla necessità politica del
momento – finiscono spesso per sovrapporsi.
Il percorso è ben visibile nella retorica di Mancini.
Nella sua nota Relazione intorno all’assimilazione legislativa della Toscana al Piemonte del
27 ottobre 1859 presentata ad Enrico Poggi e Bettino Ricasoli, obiettivo di Pasquale Stanislao
Mancini è quello di persuadere «i Toscani» al Codice, quello di mostrare che «l’uniformità legislativa
non è soltanto una logica applicazione del principio dell’unità politica dello Stato, ma è un saldo
vincolo di unione tra le antiche e nuove provincie». La strategia retorica prescelta per raggiungere
tale obiettivo punta decisamente sull’invocazione della piena conformità del Codice civile sardo al
modello napoleonico («nella sostanza e nella forma – scrive - questo codice è lo stesso Codice
Napoleone») e, dunque, all’incivilimento.
L’esame «critico e comparativo de’ Codici Sardi co’ Francesi e Toscani» spinge alla conclusione «che la Toscana fin
da ora può con grande vantaggio adottare il Codice civile Sardo, come quello che sostanzialmente è lo stesso Codice
Napoleone in alcune parti migliorato; e tale adozione può anzi riguardarsi come urgente, essendo la Toscana uno de’
pochi paesi più incivilito di Europa cui manchi tuttora un proprio Codice civile, e che sia regolato dall’incomposta e
disordinata congerie de’ vecchi Codici Romani per metà incompatibili con lo Stato della Società moderna, non
altrimenti dello Stato Pontificio, cioè del solo Stato d’Italia peggio governato di tutti». Segue poi una contraddittoria
elencazione delle «parti difettose del Codice civile Sardo» da «eccettuare» dalla adozione e da disciplinare con
successiva Legge.
Il semplice riferimento al «meraviglioso» modello non è però sufficiente per fondare il codice
nazionale e per sostenerne il culto. La via vincente per la legittimazione del Codice non può che
riprendere il percorso che ben conosciamo della trasformazione (della negazione) del ‘dono’.
Mancini appare ben consapevole della questione nel momento in cui sposta nei suoi interventi
parlamentari l’attenzione dal ‘meraviglioso modello’ francese al ‘vero Codice nazionale’.
Il mutamento di prospettiva è essenziale. Il Codice da affermare è in realtà già presente, già
esiste come necessario portato delle nostre «tradizioni giuridiche»: il Codice «generale ed unico» si
impone per vincere la frammentazione legislativa, per «livellare e armonizzare», per coronare l’unità
politica del Paese ponendo fine a incertezze e disuguaglianze giuridiche, quel Codice però non è da
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‘creare’, ma è già dato, già scritto, prescindendo da qualsiasi imitazione del Codice francese o del
Codice albertino.
Giuseppe Pisanelli, il giurista al cui nome si lega strettamente il Codice del 1865, mira
anch’egli ad anteporre il Codice nazionale italiano al modello francese e a legare necessità del
Codice e progresso della nazione.
Pisanelli è ben convinto che la legge sia strumento essenziale di progresso, che la legge,
(qualunque legge) sia ‘àncora fida della civile comunanza’. Il suo ‘culto della legge’ traspare dagli
interventi volti a legare progresso codicistico e approvazione di una legge unitaria ‘qualsiasi’,
superamento della frammentazione giuridica e Codice.
Il Codice di Pisanelli è da creare, è da affermare come punto di arrivo di un meditato processo
‘costituente’ che finalmente crea l’unità. Eppure sia nella relazione al Codice, sia soprattutto nel suo
scritto indirizzato a propagandare la codificazione italiana all’Esposizione Universale di Parigi del
1867, Dei progressi del diritto civile in Italia nel secolo XIX, Pisanelli tiene a mettere ben in luce il
radicamento del Codice in una tradizione nazionale preesistente, la sua indipendenza, la sua autonomia
rispetto al volere ‘arbitrario’ del legislatore.
Le argomentazioni a sostegno del Codice si sovrappongono. Il Codice civile ha creato l’unità
per superare la preesistente frammentazione: la varietà delle leggi (in tema di proprietà, di
successioni, di contratti, di ipoteche) era – si afferma - «negazione flagrante dell’unità nazionale»,
impediva il credito agrario, rendeva «incerti e perplessi i cittadini attorno ai loro diritti», incerta
l'amministrazione della giustizia e la vita politica e «quasi stranieri tra loro gl’italiani delle varie
provincie» 3. A fronte di una tale situazione, l’unità politica del Paese esigeva un’unificazione
legislativa ‘qualsiasi’.
«Noi abbiamo di fronte sette legislazioni diverse. L’Italia è stata unificata nelle materie politiche, è stata unificata
nell’esercito, è stata unificata nelle leggi finanziarie, lo è stata testé nelle leggi amministrative. E vorremmo noi che nelle
materie giudiziarie, civili e penali rimanga con sette legislazioni diverse? La cosa è impossibile: opporsi a questa unificazione
o porvi incaglio è lo stesso che non volere la unificazione compita del Regno» 4.
L’obiettivo però non può essere raggiunto affidandosi al nudo riferimento all’incivilimento
francese e alle necessita della politica. Pisanelli è abilissimo nel presentare il Codice non come
strumento di imposizione ma come legge comune che si limita a riconoscere un’uniformità,
un’unitarietà giuridica nazionale già esistente, destinata ad affermarsi in modo indipendente dai
mutamenti militari e politici. Il Codice della Patria preesiste allo Stato, non è l’espressione di una
‘comunanza qualsiasi’ ma di un’identità giuridica già data: «i mutamenti legislativi in Italia han
seguito i mutamenti politici; ma in verità ne erano indipendenti» 5.
In un caso si drammatizza la frammentazione giuridica, nell’altro la si valuta inesistente; ora
si allude all’intrinseca modernità del Codice, ora invece si esaltano le continuità con la sapienza
romanistica, con la giurisprudenza di diritto comune, con il diritto nazionale. Le diverse
prospettive convivono senza particolari contrasti. La retorica del Codice offre il suo progetto
inventando la sua memoria, attribuendo obiettivi diversi alla sua forma, leggendo e rileggendo il
modello napoleonico.
3 Così, per tutti, G. Pisanelli, Dei progressi del diritto civile in Italia nel secolo XIX, Milano, Vallardi, 1872, pp. 32 e ss..
4 Giovanni De Foresta, Discussione al senato del 16 marzo 1865.
5 G. Pisanelli, Dei progressi del diritto civile in Italia nel secolo XIX, p. 9.
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Fondendo assieme i diversi elementi, il modello ‘universale’ può essere senza difficoltà
interpretato in chiave nazionale e divenire un insieme di princìpi di diritto italiano. Ecco allora che le
diverse voci possono essere fuse in un unico coro: «emanazione … dell'antico diritto romano, esso [il
Code civil] è l'espressione di princìpi stabiliti in Italia; ché la stessa sua origine è origine italiana,
perocché italiano è il diritto romano»; il Code civil è diritto restituito all’Italia («le leggi romane che
avevano per molti secoli imperato in Francia, mercé i nuovi Codici erano dalla Francia restituite
all'Italia, attemperate alle nuove condizioni della vita civile»), è diritto apparentemente straniero
(«parvero que’ Codici imposti dalle armi straniere, ma invece contenevano la legislazione dall’Italia
aspettata»), è ‘gloria nostra’ («Non è forse … nelle principali sue parti la rappresentazione più
splendida della sapienza romana? Tutto ciò che in quel Codice ha formato l'ammirazione del mondo,
non è, in molta parte gloria nostra, o signori?»).
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