Economia e Democrazia - Istituto Luigi Sturzo
Economia e Democrazia - Istituto Luigi Sturzo
Economia e Democrazia - Istituto Luigi Sturzo
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Civitas<br />
Rivista quadrimestrale di ricerca<br />
storica e cultura politica<br />
• Fondata e diretta da Filippo Meda<br />
(1919-1925)<br />
• Diretta da Guido Gonella (1947)<br />
• Diretta da Paolo Emilio Taviani<br />
(1950-1995)<br />
Quarta serie, anno II - n. 3/2005<br />
• Diretta da Gabriele De Rosa<br />
«Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà<br />
ed il rigore che la hanno contraddistinta nei momenti<br />
più travagliati e complessi.<br />
I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive<br />
della politica internazionale con un particolare riguardo<br />
alla vita italiana ed all’unità europea.<br />
... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia,<br />
in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e,<br />
per un certo verso, se non addirittura, da correggere,<br />
da meglio interpretare.<br />
Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civitas»”.<br />
[Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000]<br />
Costo di un numero € 10,00<br />
Abbonamento a tre numeri € 25,00<br />
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n. 152 dell’8.04.2004<br />
Direttore - Responsabile<br />
Gabriele De Rosa<br />
Condirettore<br />
Franco Nobili<br />
Vicedirettore<br />
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Direttore editoriale<br />
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Redazione<br />
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• Sede<br />
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Il Progetto Civitas è sostentuto dal contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma<br />
2 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Indice<br />
• <strong>Economia</strong> e <strong>Democrazia</strong><br />
7 Presentazione di Franco Nobili<br />
9 Editoriale<br />
15 Una lunga storia - di Giuseppe Sangiorgi<br />
21 La sessione di bilancio per il 2006 - di Piero Giarda<br />
35 Il debito pubblico: un male da cui liberarsi? (e come?) Un’analisi per l’Italia d’oggi<br />
(e di ieri) - di Mario Sarcinelli<br />
47 La libertà economica unica regola del mercato globalizzato - di Giampiero Cantoni<br />
53 Parametri di Maastricht e debito pubblico: il caso italiano - di Bruno Tabacci<br />
65 Il futuro dell’impresa italiana: tra economia reale ed economia immateriale<br />
di Innocenzo Cipolletta<br />
77 <strong>Economia</strong> e sistema politico italiano: un rapporto corretto o c’è qualcosa da cambiare?<br />
di Piero Barucci<br />
83 Le imprese familiari: problemi di competitività e prospettive di sviluppo<br />
di Giovanni Marseguerra<br />
99 Debolezza dell’economia o crisi del suo governo? - di Andrea Bixio<br />
111 La sfida della nuova economia e il tema della formazione manageriale<br />
di Antonio Zurzolo<br />
RUBRICHE<br />
COLLOQUI Intervista al Prof. Emmanuele Emanuele 121<br />
POLITICA INTERNA a cura di Nicola Graziani 130<br />
POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro 136<br />
RICERCHE a cura di Andrea Bixio 145<br />
RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli 150<br />
IL “CORSIVO” a cura di Giorgio Tupini 155<br />
NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris 158<br />
FUORI SCAFFALE a cura di Amos Ciabattoni 166<br />
NOMI CITATI 169<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
3
<strong>Economia</strong><br />
e<br />
<strong>Democrazia</strong>
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Presentazione<br />
• La scelta, per questo numero di «Civitas», dell’argomento <strong>Economia</strong><br />
collegato al significato e alla pratica della <strong>Democrazia</strong>, è stata convenuta,<br />
dopo ampia valutazione, dalla Direzione e Redazione.<br />
• È vero che il tema presenta aspetti di intrinseca difficoltà quanto al<br />
comune interesse, anche perché in generale non viene sempre spiegato con<br />
la necessaria semplicità richiesta dalla buona comunicazione istituzionale,<br />
ma è anche vero che gli effetti che nella pratica dei suoi sviluppi quotidiani<br />
si producono, sono quelli più direttamente “sentiti”, o anche soltanto<br />
“percepiti”, dalla gente. E ne determinano i comportamenti, sia in direzione<br />
della politica che di chi, al momento, ne detiene le leve del potere.<br />
• Del resto, è innegabile che l’argomento <strong>Economia</strong> e la sua diretta<br />
influenza sulla pratica della <strong>Democrazia</strong>, sono ormai di ordine e dimensione<br />
mondiali. Per cui ne deriva l’obbligo imprescindibile di ogni<br />
Paese civile di adeguarsi alla sua mondializzazione e adeguare a sua volta<br />
le proprie politiche.<br />
È quello che viene richiesto all’Italia.<br />
• «Civitas» si propone di “trasmettere” valutazioni e messaggi utili alla<br />
necessaria riflessione, specialmente in un momento delicato come quello<br />
che per alcuni mesi vivrà il nostro Paese per effetto di una lunga campagna<br />
elettorale dal cui esito dipenderanno tanti aspetti della sua vita e della sua<br />
ormai irrinunciabile “maturità” di Nazione e di classe dirigente.<br />
• Siccome è innegabile che il successo in tali direzioni di un Paese, dipende<br />
da precisi fattori, come la capacità di produrre “ricchezza”, la idoneità<br />
a saperla distribuire e trasformarla in servizi e quindi nel “Bene” comune,<br />
ovvero in giustizia sociale; l’adeguatezza della classe di governo e<br />
politica in generale, allora i contenuti di questo numero di «Civitas» si indirizzano<br />
sugli elementi più sostanziali di tale assunto. Dal modo di libe-<br />
7
Presentazione<br />
rarsi dell’enorme debito pubblico (male di fondo della nostra economia)<br />
(Piero Giarda) al modo di intendere la libertà in economia (Giampiero<br />
Cantoni); dall’effetto dei parametri di Maastricht (Bruno Tabacci); al futuro<br />
dell’impresa italiana (Innocenzo Cipolletta); da cosa va cambiato nel rapporto<br />
economia e politica in Italia (Piero Barucci); alla funzione delle imprese<br />
familiari, ai punti deboli del suo governo, alla sfida della formazione<br />
manageriale (Giovanni Marseguerra, Andrea Bixio, Antonio Zurzolo).<br />
• È ovvio che la trattazione dell’argomento <strong>Economia</strong> coinvolge altri<br />
importanti aspetti della nostra vita di Nazione: quelli culturali (Emmanuele<br />
Emanuele) e quelli legati alla storia della nostra rinascita (Giuseppe Sangiorgi).<br />
Però l’attualità e la validità dello sforzo che «Civitas» intende compiere<br />
sono legate alla capacità dei nostri governi di saper dare, al pressante<br />
tempo delle improcrastinabili e radicali riforme del nostro sistema Economico-Finanziario,<br />
solidità ed efficacia. È il nostro auspicio più vivo.<br />
Franco Nobili<br />
8 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Editoriale<br />
• Quali sono le due o tre cose da fare in ogni caso, cioè chiunque esca vincitore<br />
dalle prossime elezioni poltiche? Questo numero di «Civitas» dedicato a<br />
<strong>Economia</strong> e <strong>Democrazia</strong> ha preso forma e contenuti da questa domanda, certo<br />
elementare e forse anche rozza ma inevitabile davanti allo spettacolo quotidiano<br />
di un Paese soffocato dalle chiacchiere della politica, dalla prepotenza degli<br />
interessi e dall’ignoranza dei cittadini. Un Paese, questa Italia di fine 2005,<br />
in piena recessione morale e intellettuale prima ancora che economica. Un<br />
Paese senza rotta né bussola; che non sa più chiedersi «che cosa fare?» per il futuro<br />
ma solo «che cosa dire?» del passato, a cominciare da quello prossimo di ieri<br />
per finire a quello quasi remoto dell’altro ieri. Di fronte a uno spettacolo del<br />
genere e con la sensazione diffusa di avere toccato il fondo, un contributo non<br />
tanto alla discussione generale quanto alla definizione di un programma operativo<br />
per il Paese con la individuazione delle «due o tre cose» comunque da<br />
fare; un contributo di questo tipo, così necessario eppure ormai così raro, era<br />
sembrato un motivo più che valido per decidere di dedicarvi un intero quaderno<br />
di «Civitas». Salvo dover rispondere, fatta questa scelta editoriale, a una<br />
prima domanda: da dove cominciare?<br />
<br />
• A essere sinceri, la risposta non è stata difficile da trovare ed è stata: dal<br />
bilancio pubblico. In tutte le sue componenti: da quella della spesa a quella<br />
delle entrate (fisco in testa) per finire alla risultante delle prime due, vale a dire<br />
il deficit pubblico, e tornare infine all’origine di tutto, cioè al debito pubblico.<br />
L’analisi retrospettiva di Piero Giarda e soprattutto la sua proposta per l’oggi,<br />
assieme ai contributi di Mario Sarcinelli e Giampiero Cantoni, dimostrano<br />
ampiamente la necessità, per chiunque sarà scelto dagli Italiani a governarli<br />
nei prossimi cinque anni, di partire da qui, dai conti pubblici. Non solo in<br />
tutte le loro componenti ma anche a tutti i livelli, da quello statale a quelli locali,<br />
e di qualsiasi tipo o motivazione. E soprattutto cominciando ad ammettere<br />
che la finanza pubblica, in questo Paese, non è più una specialità dell’econo-<br />
9
Editoriale<br />
mia ma è diventata una specie di culto nazionale, una categoria dello spirito<br />
italico. Ossia, in altre parole, che oggi il vero debito dell’Italia, quello più pesante<br />
da sopportare e più difficile da smontare, siamo proprio noi. Noi Italiani.<br />
In che modo? Prendiamo appunto la spesa pubblica e immaginiamola come<br />
una grande, onnicomprensiva matrioska. Scoperchiata la quale si trova<br />
una matrioska solo un po’ più piccola che è la spesa per la pubblica amministrazione,<br />
dentro la quale sono contenute in serie tante altre matrioske, da<br />
quelle statali a quelle regionali, provinciali, comunali, territoriali, consortili,<br />
di bacino, di area, di competenza e via scoperchiando e scoprendo. Ma non è<br />
finita, perché ciascuna di queste matrioske, a sua volta, ne contiene e ne mantiene<br />
altre. E queste altre ancora. Fino a quella in cui, in qualche modo, troviamo<br />
uno di noi; un Italiano convinto di essere lì dentro, in quel posto, per<br />
diritto; perché in credito di tutto e in debito di niente.<br />
<br />
• L’obiezione più facile è che non tutti gli Italiani sono dentro la grande<br />
matrioska nazionale ed è vero. Ma è vero anche questo: primo, che l’aspirazione<br />
autentica di chi si trova ancora fuori è quella di entrarvi comunque e dovunque;<br />
secondo, che chi è fuori per scelta o per necessità finisce per sopportarne<br />
il peso due volte. Cioè direttamente per quanto gli costa e indirettamente<br />
per quanto non riceve, sia sotto forma di servizi sia come possibilità-libertà di<br />
intraprendere, di lavorare, di creare, di studiare; insomma di contribuire a<br />
produrre nuova ricchezza (per sé e per gli altri) invece che partecipare al consumo<br />
di quella disponibile e sempre più scarsa.<br />
Ciò che ha di insopportabile un sistema come questo è non solo il suo costo<br />
economico ma, peggio, il suo costo culturale perché non ha una cultura del futuro<br />
ma, a malapena, di un presente sempre più rissoso e di un passato sempre<br />
meno trasparente. Non avere futuro ovvero comportarsi come non avendolo è<br />
davvero peggio che dover affrontare un presente difficile, specie quando le difficoltà<br />
non sono soltanto nostre ma anche di un’intera area economica e addirittura<br />
(come va di moda dire adesso) di una «identità» e delle sue «radici».<br />
<br />
• Trovato nei conti pubblici il punto di partenza obbligato per tutti, la domanda<br />
successiva diventa: riusciranno i vincitori delle prossime elezioni a scoperchiare<br />
la grande matrioska pubblica e tutte le medie, piccole e mini matrioske<br />
che la riempiono? Sempre per essere sinceri, la risposta questa volta non è<br />
10 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
facile. Non tanto perché si tratta di convincere gli Italiani della necessità di fare<br />
questa grande operazione-verità ma perché non si trovano (almeno fino a<br />
ora) aspiranti vincitori disposti a convincerli, a parlar loro chiaro ovvero con<br />
appelli non del tipo «prima vinciamo, poi vedremo» ma di un genere completamente<br />
diverso, del tipo per intenderci «cosa faremo e come governeremo se<br />
vinceremo». Se ci è consentita una digressione nella cronaca, non si ha l’impressione<br />
che i concorrenti dei due poli si stiano preparando con questo spirito<br />
all’appuntamento con gli elettori. È vero che c’è ancora qualche mese alla scadenza,<br />
che non si sa ancora con quali regole si svolgerà la gara, che nell’uno e<br />
nell’altro campo sono più numerose le occasioni di scontro che quelle d’incontro.<br />
Tutto vero, ma anche solo per fermarsi al nostro tema, quello cioè dei conti<br />
pubblici, la preoccupazione comune sembra più quella di rassicurare gli Italiani<br />
che la politica della matrioska non finirà mai invece di convincerli che finirà<br />
comunque, o per scelta ossia per lungimiranza politica o per forza ossia<br />
per necessità economica.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
<br />
• Purtroppo, sempre per restare alla cronaca e sperando di essere smentiti<br />
dai fatti, è difficile trovare della lungimiranza politica nella scelta del premier<br />
in carica di accontentare le lobby d’ogni genere sia dal lato della spesa (da fare<br />
e da tagliare) sia da quello delle entrare (da prendere e da lasciare) concludendo<br />
i suoi cinque anni di governo con una Finanziaria tipicamente pre-elettorale.<br />
Se lo fa perché pensa così di rivincere, dimostra di non avere capito né valutato<br />
il reale stato d’animo collettivo degli Italiani, quotidianamente in bilico<br />
tra paura del futuro e rivolta contro il presente con la sensazione di essere senza<br />
prospettive, di vivere in una società appunto senza bussola né rotta, di non<br />
avere più un bene comune per il quale fare anche sacrifici ma che ci siano solo<br />
beni privati, sempre più grandi e sempre più ostentati. Non sarà insomma promettendo<br />
a tutti una piccola matrioska che il premier in carica rimarrà in<br />
quella grande apprestata per sé e per la sua maggioranza.<br />
<br />
Editoriale<br />
• Quanto all’aspirante premier, i toni sono certamente diversissimi ma lo<br />
spartito sembra lo stesso. In attesa che la «fabbrica» bolognese digerisca la massa<br />
di idee-forza, schede tecniche, contributi politici e materiale vario conferitole<br />
da tutte le parti dell’Unione; in attesa cioè di leggere il programma dell’aspirante<br />
maggioranza, l’impressione prevalente è di un diffuso déja vu. A comin-<br />
11
Editoriale<br />
ciare da quella «nuova concertazione» che, rimettendo attorno al tavolo parte<br />
politica e parti sociali, ripropone un rito antico quanto superato. Superato nei<br />
fatti, in quanto le strutture della produzione non sono più «concertabili» come<br />
ai tempi delle grandi tavolate tri-partisan e superato nelle idee, in quanto le<br />
sovrastrutture convocate (per usare un concetto caro alla sinistra) non rappresentano<br />
veramente i nuovi «concertandi» ma solo i vecchi «concertatori». Fuor<br />
di metafora, se l’aspirante premier conta sulla «nuova concertazione» tra Confindustria<br />
e Sindacati per tagliare la spesa pubblica parassitaria, premiare<br />
l’innovazione e il merito, rimettere in moto lo sviluppo; se questo è lo spartito<br />
del suo programma, troverà certamente la maggioranza degli Italiani disposta<br />
ad applaudirlo il giorno delle elezioni ma non altrettanto il giorno dopo,<br />
quando i nodi della finanza pubblica verranno al pettine anche del suo Governo<br />
dimostrando che la politica della matrioska non è buona o cattiva a seconda<br />
di chi la pratica ma, chiunque pretenda di continuare a praticarla, è peggio<br />
di un errore economico: è un delitto politico. Perché, appunto, uccide ogni opportunità<br />
di crescita, promettendo di distribuire tra tutti qualcosa che c’è sempre<br />
di meno invece di chiedere a ciascuno di fare di più e di meglio, mettendolo<br />
nelle condizioni di farlo e non scoraggiandolo o, peggio ancora, impedendogli<br />
di farlo. Quello che si chiede oggi alla politica è invece una capacità nuova di<br />
ascoltare e capire il nuovo proprio cominciando a smantellare il vecchio che si è<br />
impadronito del bilancio pubblico, che occupa le sue innumerevoli matrioske e<br />
resiste al loro interno. Si chiamino corporazioni professionali, sindacato dei lavoratori<br />
o confederazioni degli imprenditori, la forza di resistere al cambiamento<br />
non gliela dà la loro rappresentanza ma la debolezza della politica che<br />
fa proprie le loro regole. Il contrario cioè di quanto succede per i mercati delle<br />
professioni, del lavoro e delle imprese, che hanno una forza propria e dalla politica<br />
si aspettano regole, che la politica non sa o non vuole dare.<br />
<br />
• Per tornare alla domanda di partenza su bilancio e conti pubblici, riusciranno<br />
i vincitori delle prossime elezioni politiche a fare quello che serve e<br />
non quello che piace? Se la lettura di questo numero di «Civitas» li aiuterà a<br />
trovare la risposta giusta, mettendo nei loro programmi anche un solo impegno<br />
concreto accanto a tante alate promesse, potremo dire tutti di non avere perso<br />
tempo. Così come non avranno sprecato le loro raccomandazioni i molti, tra<br />
studiosi di economia e praticanti della politica, che da qualche tempo si dedicano<br />
a scoperchiare matrioske e a documentare sprechi. Come anche «Civitas» ha<br />
sottolineato, esisterebbero già le condizioni politiche e tecniche per una salutare<br />
12 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Editoriale<br />
inversione di rotta nella gestione della finanza pubblica, cominciando proprio<br />
da dove l’aspirante maggioranza nazionale di centro-sinistra è già maggioranza<br />
locale. Parliamo di 16 regioni su 20, di 74 province su 108, di oltre cinquemila<br />
comuni su ottomila: una quota di «governo» reale del Paese che in tempi di decentramento<br />
e di devoluzione equivale a una quota anche maggiore di «governo»<br />
dei conti pubblici. Prima di strillare indignati per i tagli della Finanziaria<br />
ventura sarebbe certamente meglio se tutti questi amministratori si degnassero<br />
di guardare nei loro bilanci: assieme a tanti consulenti inutili (a cominciare da<br />
quelli per la comunicazione) vi troverebbero certamente una quantità di spese<br />
futili (a cominciare da tante notti e da tanti eventi) che potrebbero essere tagliate<br />
senza togliere nulla di essenziale ai loro amministrati. Un consiglio: senza<br />
perdere tempo a cercarle, si limitino a consultare l’elenco compilato nel libro Il<br />
prezzo della politica da due che se ne intendono né possono essere sospettati di<br />
partigianeria come i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone. Il consiglio vale<br />
ovviamente anche per la restante parte d’Italia amministrata dal centro-destra<br />
così come siamo impazienti di leggere i programmi di entrambi gli aspiranti al<br />
governo nazionale.<br />
Nell’attesa ci permettiamo un sogno ad occhi comunque aperti. Di leggere,<br />
fra cinque anni, un articolo sull’Italia in cui si racconta di come questo Paese è<br />
riuscito ancora una volta a risollevarsi e come questo miracolo sia cominciato<br />
con una riorganizzazione della macchina pubblica. Come? Con il consenso dei<br />
lavoratori, che hanno ritrovato il senso di responsabilità, e con il contributo<br />
degli imprenditori, che hanno smesso di chiedere e ricominciato a rischiare, i<br />
dipendenti della Pubblica amministrazione sono diminuiti di oltre 1 milione<br />
rientrando in standard di numero e di produttività competitivi a livello internazionale;<br />
è stata approvata una norma costituzionale che rende impossibili i<br />
condoni fiscali e le sanatorie previdenziali eliminando l’incentivo maggiore all’evasione<br />
dei singoli e delle imprese; le clientele politiche sono state cancellate<br />
con la riduzione del numero di onorevoli, senatori, consiglieri e amministratori<br />
d’ogni livello nonché dei rispettivi compensi. La democrazia ha cessato così<br />
di essere un lucro ed è tornata a essere un investimento sul futuro, sui giovani,<br />
sulla unicità storica, culturale e ambientale dell’Italia.<br />
Forse è solo un sogno. Ma forse no.<br />
13
La questione economica irrompe nella cultura civile<br />
dei cattolici con la Rerum Novarum e diventa subito<br />
questione economica e questione sociale: il profitto<br />
non in sé ma collegato al bene comune. Il terreno di<br />
coltura era fertilissimo. Vent’anni prima dell’enciclica<br />
di Leone XIII, Giuseppe Toniolo conseguiva la libera<br />
docenza in economia politica con una dissertazione<br />
che aveva per titolo: “L’elemento etico quale fattore<br />
intrinseco dell’economia”. L’impegno di Toniolo era<br />
quello di fare uscire i cattolici italiani dalla marginalità<br />
politica che derivava loro dalla “questione romana”.<br />
Nel 1892, per i 400 anni della scoperta dell’America,<br />
ci sono buone agevolazioni ferroviarie per chi si reca a<br />
Genova dove si svolgono grandi celebrazioni in onore<br />
di Cristoforo Colombo. Ne approfittano i socialisti<br />
per celebrare lì il loro congresso fondativo, ma ne approfitta<br />
anche Toniolo per organizzare a Genova il primo<br />
congresso dell’Unione cattolica di studi sociali che<br />
su suo impulso era sorta nel 1890.<br />
Toniolo e la “<strong>Democrazia</strong> Cristiana”<br />
• Sono gli anni nei quali Toniolo elabora la sua concezione<br />
di un movimento politico da chiamare “<strong>Democrazia</strong><br />
Cristiana”, concepisce le “unioni professionali di soli lavoratori”,<br />
anima la sezione di economia sociale dell’Opera dei<br />
Congressi, è l’instancabile promotore di iniziative di risveglio<br />
del mondo cattolico in tutta Italia fino al punto di venir<br />
denunciato alla polizia come “agitatore socialista cristiano” e<br />
minacciato d’arresto. Non se ne cura: sull’esempio francese<br />
istituisce le settimane sociali cattoliche (la prima sarà a Pistoia<br />
nel 1907), dà vita alla Fuci, fonda l’Unione donne cat-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Una lunga storia<br />
GIUSEPPE SANGIORGI<br />
Giornalista e scrittore<br />
≈<br />
“… guidare<br />
e indirizzare i<br />
processi economici<br />
nella direzione del<br />
bene comune, vale<br />
a dire la cultura<br />
del popolarismo.<br />
… È questa<br />
la necessità che<br />
resta e alla quale<br />
in ogni modo sono<br />
chiamati i cattolici<br />
impegnai<br />
in politica,<br />
coniugando così il<br />
rapporto<br />
tra economia<br />
e democrazia”<br />
≈<br />
15
Giuseppe Sangiorgi<br />
toliche d’Italia, è in definitiva il grande campione cattolico di una visione della società<br />
alternativa a quella socialista. “Proletari di tutto il mondo, unitevi in Cristo”<br />
esclamerà parafrasando Carlo Marx.<br />
Giuseppe Toniolo è l’Abramo del cattolicesimo democratico italiano nelle diverse<br />
forme che esso ha assunto nel tempo. Lo è per esserne il capostipite, lo è per<br />
la sua assoluta obbedienza alla gerarchia ecclesiale. È sull’autonomia della sfera politica<br />
che paradossalmente lui, laico, rompe con Romolo Murri, sacerdote, che<br />
questa autonomia rivendicava. Non solo per motivi anagrafici – Toniolo è del<br />
1845, mentre Filippo Meda è del 1869, <strong>Luigi</strong> <strong>Sturzo</strong> è del 1871, Alcide De Gasperi<br />
è del 1881 – egli anticipa e non segue la Rerum Novarum, la grande scossa elettrica<br />
che scuote il corpo dei cattolici trovando un consenso entusiasta e immediato.<br />
All’inizio del Novecento un giovane studente universitario, Alcide De Gasperi, su<br />
incarico del presidente della Federazione delle società operaie cattoliche in pieno<br />
inverno va a predicare i principi dell’enciclica tra gli emigrati italiani in Austria:<br />
“ciò che eseguii – racconta lui stesso – tra difficoltà di ogni specie, battendomi con<br />
socialisti ed anarchici, mietendo applausi e fischi, sorrisi di compassione, molte<br />
busse e una bronchite di tre settimane”.<br />
Meda e le Riforme Economiche Sociali<br />
• Filippo Meda, il fondatore di «Civitas», leader del cattolicesimo lombardo,<br />
negli stessi anni, pur non riuscendo a dare vita al suo “Centro politico”, elabora il<br />
programma di un partito dei cattolici impegnato sulla frontiera delle riforme economiche<br />
e sociali. Nel 1902 <strong>Luigi</strong> <strong>Sturzo</strong> – a proposito di quello che viene definito<br />
l’“eccesso di individualismo” siciliano che impedirebbe il diffondersi di tali pratiche<br />
associative e imprenditoriali nell’Isola – organizza nella sua Caltagirone le cooperative<br />
di braccianti agricoli che acquisiscono i latifondi della zona innovando le<br />
tecniche produttive, introducendo la rotazione delle colture e umanizzando i sistemi<br />
di lavoro. Il discorso di Caltagirone del 24 dicembre 1905 si innesta su queste<br />
esperienze concrete, oltreché sui fermenti del cattolicesimo italiano a cavallo tra i<br />
due secoli.<br />
È lungo il cammino da questo primo manifesto programmatico all’Appello ai<br />
Liberi e Forti del 18 gennaio 1919. È lungo, ma è anche una maturazione di idee,<br />
di obiettivi, di consapevolezza, di capacità organizzativa che proietta definitivamente<br />
i cattolici sulla scena politica del Paese. Se entrando nel governo Boselli del<br />
1917, Meda era stato il primo esponente cattolico a diventare ministro dall’Unità<br />
d’Italia, è col Partito popolare che il cattolicesimo politico italiano può esprimere<br />
con pienezza i propri ideali di giustizia e libertà. I dodici punti programmatici dell’Appello<br />
di <strong>Sturzo</strong> sono improntati a un deciso riformismo in campo economico,<br />
finanziario, fiscale, previdenziale, sindacale. È una grande proposta di modernizza-<br />
16 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
zione e di democratizzazione del Paese, la promessa di una nuova stagione che sarà<br />
gelata sul nascere dal fascismo.<br />
Quella stagione rifiorisce alla fine del regime. Agli occhi della storia non può<br />
essere considerata più solo un’occasionale coincidenza lo svolgersi, nel luglio del<br />
1943, della riunione conclusiva per l’elaborazione del Codice di Camaldoli mentre<br />
Roma viene bombardata e pochi giorni dopo Benito Mussolini viene detronizzato<br />
dal Gran Consiglio. In questo drammatico susseguirsi di avvenimenti il<br />
Codice è davvero l’annuncio dei tempi nuovi, e non un annuncio estemporaneo,<br />
poiché la sua preparazione durava almeno da un decennio all’interno del Movimento<br />
dei laureati cattolici. Se quello di Malines del 1927 era stato la sistemazione<br />
del pensiero cattolico espresso in Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio<br />
del Novecento, il Codice di Camaldoli si proietta nel futuro rappresentando, secondo<br />
la felice formula di Gabriele De Rosa, “quel complesso di indirizzi programmatici<br />
ispirati dalla dottrina sociale della Chiesa, che furono elaborati in vista<br />
della ricostruzione”.<br />
De Gasperi e le idee ricostruttive<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giuseppe Sangiorgi<br />
• Il Codice di Camaldoli viene diffuso pubblicamente nel 1945, ma esso si intreccia<br />
subito con i fermenti e le aspirazioni della lotta di Liberazione. Ne sono un<br />
paradigma gli articoli di De Gasperi sul «Popolo» clandestino che delineano gli impegni<br />
programmatici della nascente formazione politica dei cattolici. Il primo, a<br />
firma Demofilo, è quello del 28 novembre 1943 intitolato: “La nostra <strong>Democrazia</strong><br />
cristiana e le sue tradizioni”, il secondo è quello del 12 dicembre 1943, intitolato<br />
“La parola dei democratici cristiani”, il terzo è quello del 23 gennaio 1944 intitolato<br />
“Il nostro movimento e la sua ideologia”. Sono questi tre scritti, e in particolare<br />
“La parola dei democratici cristiani” – non “Le idee ricostruttive della Dc”, un testo<br />
che gli è stato erroneamente attribuito e nel quale invece lo statista non si ritrovava<br />
– a rappresentare l’impronta personale di De Gasperi sulla <strong>Democrazia</strong> Cristiana.<br />
Al punto che dopo la pubblicazione della “Parola”, fa precisare nel numero<br />
successivo del «Popolo» clandestino che uno dei sottotitoli del testo, “l’essenza del<br />
regime repubblicano”, era errato e doveva leggersi invece “l’essenza del regime democratico”.<br />
Attraverso questi documenti, e i tanti altri che se ne devono citare di quegli anni,<br />
dal “Programma di Milano” del Movimento guelfo agli scritti di Teresio Olivelli,<br />
di Paolo Emilio Taviani, di <strong>Luigi</strong> Gui, di Achille Pellizzari, di Giuseppe Dossetti,<br />
i cattolici avanzano le loro proposte in materia economica e sociale, proposte che<br />
ispireranno i principi della prima parte della Costituzione, e si tradurranno nelle<br />
politiche più innovative dei primi governi della Repubblica: la riforma agraria di<br />
Amintore Fanfani, l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, il Piano casa, la<br />
17
Giuseppe Sangiorgi<br />
riforma fiscale di Ezio Vanoni. Tutto ciò nelle condizioni dell’epoca: di un Paese allo<br />
stremo nel quale, secondo Pasquale Saraceno, il fascismo e la guerra erano costati<br />
un prezzo pari a un quinto o un sesto della ricchezza nazionale.<br />
L’evoluzione industriale dell’Italia<br />
• La ricostruzione, e con essa il “miracolo economico” e il boom degli anni<br />
Sessanta traghettano a tappe forzate il Paese dalla condizione rurale a quella industriale;<br />
producono un benessere mai conosciuto prima, ma anche nuovi squilibri e<br />
disuguaglianze. La <strong>Democrazia</strong> cristiana, nel mutare dei processi politici che dal<br />
centrismo passano al centro sinistra, a una breve ripresa del centrismo, di nuovo al<br />
centro sinistra, fino alla solidarietà nazionale e al pentapartito, ricerca nuove vie di<br />
sviluppo del Paese. Lo fa nei suoi congressi, ma anche con altre iniziative: i convegni<br />
di San Pellegrino degli anni Sessanta, quello di Perugia del 1972, l’assemblea<br />
degli “esterni” del 1981, segretario del partito Flaminio Piccoli, rappresentano alcuni<br />
dei tentativi compiuti nel tempo per rilanciare la capacità progettuale dei cattolici<br />
sui diversi problemi dello sviluppo e dell’organizzazione dello Stato.<br />
Il convegno di Perugia, durante il governo Andreotti-Malagodi, ebbe tra i suoi<br />
protagonisti personalità come Nino Andreatta, Siro Lombardini, Roberto Mazzotta,<br />
Romano Prodi, e con loro tutta una schiera di giovani economisti e giovani politici,<br />
all’indomani della “svolta generazionale” dentro la <strong>Democrazia</strong> cristiana prodotta<br />
dal convegno di San Ginesio del 1969 che aveva segnato il definitivo affermarsi,<br />
accanto a quelli storici, di nuovi leader nazionali come Ciriaco De Mita e<br />
Arnaldo Forlani. Se Aldo Moro al congresso di Napoli del 1962 poteva dire che la<br />
DC riconosceva allo Stato, in vista degli interessi generali, “la funzione di orientare<br />
e condizionare le scelte economiche dei privati oltreché un consistente potere diretto<br />
d’iniziativa e d’intervento”, a San Pellegrino Lombardini e Andreatta puntavano<br />
decisamente sulla imprenditorialità pubblica e sulla spesa pubblica come leve<br />
di una nuova fase di espansione del Paese.<br />
La continuità del rapporto <strong>Economia</strong> e <strong>Democrazia</strong><br />
• Era rispetto a oggi un’altra Italia, come diversi erano i contesti europeo e<br />
mondiale. Quelle linee di politica economica non hanno più, oggi, le condizioni<br />
per realizzarsi. Resta la suggestione della indicazione di fondo che a Perugia dava<br />
Lombardini, simile alle visioni di Giorgio La Pira: “… La società potrà muoversi<br />
verso le strutture auspicate da Papa Giovanni nella Mater et Magistra; nelle nuove<br />
forme di socializzazione la persona umana troverà nuove potenzialità di sviluppo…”.<br />
Indicazione che era il tentativo della politica democristiana di guidare e in-<br />
18 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giuseppe Sangiorgi<br />
dirizzare i processi economici nella direzione del bene comune, vale a dire la cultura<br />
del popolarismo.<br />
È questa la necessità che resta e alla quale in ogni modo sono chiamati i cattolici<br />
impegnati in politica, coniugando così il rapporto tra economia e democrazia. A<br />
Camaldoli, nel 1998, al primo degli attuali convegni annuali organizzati dalla rivista<br />
«Il Regno», Giovanni Bazoli ha tenuto una relazione dal titolo: “Ispirazione cristiana<br />
e valori in un’economia libera e solidale”. La esigente proposizione che egli<br />
formulava era la seguente: “In definitiva si tratta di stabilire se le ragioni della solidarietà<br />
possono trovare collocazione e soddisfazione all’interno del processo economico,<br />
in quanto ad esso connaturate, ovvero costituiscano valori da considerare<br />
solo in una fase successiva, al fine di imporre necessarie condizioni del sistema…”.<br />
Come Toniolo, quando nel 1873 poneva il tema dell’elemento etico quale fattore<br />
intrinseco dell’economia.<br />
<br />
19
La sessione di bilancio per il 2006<br />
Come spesso è avvenuto nel passato, anche quest’anno<br />
la sessione di bilancio che regolerà entrate, spese e debito<br />
per il 2006 è stata comunicata al Parlamento e al<br />
pubblico in modo equivoco. È stata infatti indicata<br />
una manovra di 22 milioni di euro che, se fosse vera, si<br />
collocherebbe, nella classifica delle manovre di finanza<br />
pubblica italiana di tutti i tempi, al secondo posto preceduta<br />
solo da quella definita nell’estate-autunno del<br />
1992 dopo lo shock dell’ultima svalutazione della lira.<br />
L’evento sarebbe di particolare rilievo in connessione anche<br />
al fatto che si tratta della impostazione della legge di bilancio<br />
relativa ad un anno, il 2006, che sarà di elezioni politiche,<br />
una circostanza che genera tentazioni nelle quali è di<br />
frequente caduto il legislatore italiano. La realtà è un po’ diversa.<br />
Gli interventi sulle entrate tributarie sono molto modesti<br />
(un po’ di aumenti e un po’ di riduzioni con un effetto<br />
netto sul deficit inferiore a 1 milione di euro). Gli interventi<br />
sulla spesa sono previsti di importo pari a circa 10 milioni di<br />
euro.<br />
Si tratta quindi di una manovra correttiva del deficit pari<br />
a circa lo 0,8% del PIL, il che indicherebbe una sostanziale<br />
adeguatezza delle politiche di bilancio in corso che richiedono<br />
solo piccole correzioni e aggiustamenti.<br />
È difficile dall’esterno valutare come stanno esattamente<br />
le cose. Per la formulazione di un giudizio occorrerebbe con-<br />
Ringrazio la prof. Maria Flavia Ambrosanio per l’analisi dei provvedimenti<br />
finanziari contenuti nel disegno di legge finanziaria. È da<br />
segnalare che una parte dei provvedimenti descritti nel testo sarà soggetta<br />
a variazioni anche rilevanti per effetto degli emendamenti introdotti<br />
dal Governo stesso in sede di discussione al Senato.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
PIERO GIARDA<br />
Università Cattolica<br />
di Milano<br />
≈<br />
“… Ci sono segnali<br />
che l’economia<br />
possa iniziare<br />
a crescere nel<br />
2006 …, ma non<br />
è nulla che possa<br />
essere ricondotto<br />
alle misure per lo<br />
sviluppo contenute<br />
nella manovra<br />
di bilancio per il<br />
2006”<br />
≈<br />
21
Piero Giarda<br />
siderare il realismo delle stime dei risparmi di spesa associati alla manovra. Ciò non<br />
sarebbe però sufficiente. Occorrerebbe anche valutare (a) se le previsioni a legislazione<br />
vigente – rispetto alle quali sono misurati gli effetti della manovra proposta –<br />
sono state fatte correttamente e, (b) cosa succederà effettivamente nel 2005, stante<br />
che le previsioni per il 2006 si basano sul pre-consuntivo per il 2005. Se le previsioni<br />
a legislazione vigente sono fatte correttamente – sulla base di appropriate previsioni<br />
macro-economiche e di corrette valutazioni della legislazione in essere – allora<br />
si potrebbe dire che, se il 2005 si chiude con un deficit pari al 4,7%, la manovra<br />
proposta farebbe scendere il deficit del 2006 al 3,8%. Se tutte le condizioni indicate<br />
non sono rispettate, il deficit per il 2006 sarà maggiore del valore indicato.<br />
Nelle pagine che seguono viene presentata una descrizione semplificata del<br />
processo di bilancio italiano e, successivamente, una sintesi della manovra di bilancio<br />
proposta dal governo.<br />
Struttura della sessione di bilancio in Italia<br />
• Dal 1979, dopo la riforma delle regole per la formazione del bilancio attuata<br />
con la legge n. 468 del 1978, l’autunno politico è normalmente dedicato alla formazione<br />
della legge di bilancio per l’anno successivo.<br />
L’avvio della sessione di bilancio è preceduto dal documento (una circolare del<br />
Ministro dell’economia emanata nel mese di marzo di ciascun anno) che fissa le regole<br />
per la formazione del disegno di legge di bilancio dello Stato cosiddetto a legislazione<br />
vigente. Tale circolare viene impostata sulla base delle indicazioni programmatiche<br />
contenute nei prospetti del bilancio pluriennale che accompagnano la legge<br />
di bilancio dell’anno precedente. Il Ministro dell’economia traduce (o dovrebbe tradurre)<br />
in regole pratiche, diverse per le diverse voci del bilancio dello stato, le indicazioni<br />
generali di tali prospetti, limitatamente a quelle spese che non sono predeterminate<br />
legislativamente in termini monetari o per le quali sono definite regole legislative<br />
di sviluppo nel tempo. Così è avvenuto anche quest’anno. Tuttavia è prassi<br />
corrente che le regole pratiche definite dal Ministero dell’economia siano spesso<br />
ignorate nella formazione del bilancio a legislazione vigente. Il disegno di legge del<br />
Bilancio dello Stato presentato al Parlamento nel periodo luglio-settembre, riflette si<br />
le indicazioni del Ministro dell’economia, ma è anche il risultato di un processo di<br />
negoziazione con i Ministeri di spesa che cercano di affermare le esigenze delle singole<br />
amministrazioni in relazione ai compiti istituzionali loro assegnati.<br />
È da segnalare che un Governo che volesse evitare di presentarsi con manovre<br />
correttive di importo rilevante potrebbe predisporre bilanci a legislazione vigente<br />
che sottostimano l’effettivo andamento delle spese.<br />
Il passo successivo è (o dovrebbe essere) la formazione del documento di programmazione<br />
economica e finanziaria nel quale le previsioni a legislazione vigente,<br />
22 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Giarda<br />
estese all’intero settore pubblico, vengono integrate con le conseguenze finanziarie<br />
della attuazione di obiettivi programmatici. Il DPEF quindi prevede di aggiungere<br />
(a) le variazioni in aumento della spesa, per quegli interventi ritenuti necessari per<br />
l’attuazione di un qualche programma di governo e, (b) le riduzioni del prelievo<br />
tributario (nel desiderio o nella speranza che ciò possa avere effetti benefici sull’andamento<br />
dell’economia italiana).<br />
La somma delle tre componenti (legislazione vigente + gli effetti di aumenti<br />
della spesa e delle riduzioni delle imposte) determinano livelli di spesa, livelli del<br />
prelievo tributario e livelli del deficit complessivo del settore pubblico che devono<br />
essere messi a confronto con l’andamento dell’economia italiana, con gli obiettivi<br />
della politica del governo, con i vincoli internazionali, con gli scenari di sviluppo<br />
dell’economia mondiale.<br />
Spesso (quasi sempre) succede che il deficit risultante da questa prima fase della<br />
programmazione finanziaria produca un deficit superiore al deficit ritenuto ammissibile.<br />
Da questi esiti originano le manovre correttive che sono il bread and butter<br />
della sessione di bilancio.<br />
Mentre gli interventi che determinano variazioni in aumento del deficit sono<br />
quasi sempre ben identificate (un bonus per i figlio o una riduzione dei contributi<br />
sociali) le manovre dirette alla riduzione del deficit spesso si presentano con caratteri<br />
(assai strani) che toccano l’immaginazione di un lettore non specializzato nelle<br />
questioni di finanza pubblica. Tre casi tipici.<br />
Una manovra frequentemente annunciata riguarda il recupero dell’evasione fiscale.<br />
Cosa si vuole esattamente intendere con questa espressione non è mai chiaro.<br />
Forse vuol dire che le previsioni di gettito a legislazione vigente sono fatte nell’ipotesi<br />
che l’evasione sia un elemento endemico e caratteristico del nostro costume sociale<br />
o della nostra legislazione, come se esistesse un qualche livello o una qualche<br />
percentuale standard di violazione degli obblighi di adempimento delle leggi tributarie<br />
che non può essere recuperata normalmente al gettito (l’evasione esiste in tutti<br />
i paesi e sistemi tributari). Forse che i comportamenti normali della pubblica<br />
amministrazione, dei suoi ministri e direttori generali, delle strutture periferiche<br />
dell’amministrazione delle finanze hanno fino ad allora tollerato che cittadini o<br />
contribuenti non onorassero i loro obblighi tributari. Quindi gli amministratori<br />
della cosa pubblica che sono stati fino ad oggi lenient o tolleranti, da oggi in avanti<br />
non lo saranno più; ovvero che trasmettendo nuovi ordini alle amministrazioni periferiche<br />
queste riusciranno ad indurre comportamenti più virtuosi ed onorabili.<br />
Altre volte le manovre correttive riguardano la correzione delle spese cosiddette<br />
di funzionamento della pubblica amministrazione, quelle stesse spese non sostenute<br />
da esplicite norme di legge che avrebbero dovuto (ma non sono state) regolate<br />
con la legge di bilancio a causa del fatto che le amministrazioni di spesa dello Stato<br />
centrale non hanno obbedito agli ordini che il Ministro dell’economia ha impartito<br />
con la circolare del mese di marzo di cui abbiamo già parlato.<br />
23
Piero Giarda<br />
Altre volte ancora viene creato ex-ante un bilancio a legislazione vigente che invece<br />
include elementi programmatici (incrementi di spesa superiori a quelli che sarebbero<br />
portati dalla legislazione vigente) e quindi la manovra correttiva tende a riportare<br />
più vicini alla legislazione vigente poste di spesa che erano state ipotizzate<br />
molto più elevate.<br />
Le manovre correttive di finanza pubblica si presentano quindi con volti di verità<br />
molto articolati e complessi. Le situazioni, i prospetti contabili, l’intersezione<br />
tra le diverse regole contabili che presiedono al bilancio dello Stato e ai conti del<br />
settore pubblico sono oggettivamente non sempre di immediata comprensione.<br />
Non è però necessario che sia così. La responsabilità nella trasparenza dei conti è<br />
tutta dei governi. Poco può fare il Parlamento; anzi è esso stesso vittima della mancanza<br />
di trasparenza. Non è sempre così e non è sempre stato così.<br />
Il pre-consuntivo 2005<br />
• Nel 2005 nessuno degli originari obiettivi di finanza pubblica è stato realizzato.<br />
L’anno non sarà quindi ricordato come un anno felice per la finanza pubblica.<br />
Le spese sono aumentate più del previsto, le entrate sono cresciute meno del previsto.<br />
Sono quindi peggiorati i saldi (il deficit di bilancio è aumentato) ed è pure aumentato<br />
il rapporto debito/PIL.<br />
Si mostrano nei consuntivi per il 2005 le questioni sollevate nel precedente<br />
paragrafo. Le previsioni a legislazione vigente erano state fatte sulla base di previsioni<br />
troppo ottimistiche sull’andamento dell’economia: come conseguenza le entrate<br />
complessive (tributarie e non) sono risultate inferiori al previsto. La pressione<br />
tributaria (il rapporto entrate tributarie/PIL) resta invariato rispetto al 2004<br />
ma, per la bassa crescita dell’economia, il livello delle entrate risulta inferiore alle<br />
previsioni.<br />
Le previsioni a legislazione vigente delle spese sono risultate errate per difetto,<br />
mentre la misura degli effetti degli interventi correttivi della loro dinamica è risultata<br />
stimata per eccesso. Come conseguenza le spese correnti al netto degli interessi<br />
sono aumentate di circa il 3,8% in misura ben superiore al tasso d’inflazione,<br />
sulla cui misura erano stati definiti gli obiettivi della legge finanziaria dello scorso<br />
anno. Le spese per investimenti sono rimaste sui livelli dell’anno precedente, valore<br />
inferiore alle previsioni e anche la spesa per interessi è risultata inferiore alle<br />
previsioni.<br />
Nel complesso gli esiti di finanza pubblica per il 2005 confermano alcune tendenze<br />
che si erano già manifestata in anni precedenti. Le spese crescono più del<br />
previsto, le entrate sono sostenute solo dai proventi di entrate straordinarie quali<br />
i condoni. Come conseguenza tutti i saldi finanza pubblica peggiorano con il<br />
passare degli anni. In particolare è peggiorato l’avanzo primario (la differenza tra<br />
24 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
entrate e spese al netto degli interessi passivi). Il peggioramento è stato molto rilevante<br />
e non è stato compensato dalla forte caduta degli oneri per il servizio del<br />
debito pubblico. È da rilevare che in tutti gli ultimi 4 anni è diminuita, grazie<br />
anche alla moneta unica, l’incidenza e il peso degli interessi passivi. Il peggioramento<br />
del saldo primario è stato però superiore alla riduzione della spesa per interessi.<br />
Il deficit complessivo di bilancio è andato quindi progressivamente aumentando.<br />
Di fronte a previsioni di consuntivo così negative, nel corso dei mesi di settembre-ottobre<br />
sono state proposte dal Governo misure dirette a ridurre il peggioramento<br />
dei conti pubblici del 2005: misure tampone quali una riduzione del 30%<br />
della spesa pubblica per beni e servizi (impossibile da attuare di qui a fine anno),<br />
aumenti del prelievo tributario sulle imprese (attraverso la modifica delle regole di<br />
ammortamento) e una accelerazione delle procedure per le dismissioni immobiliari.<br />
Altri interventi sono in corso di preparazione quando questo articolo viene<br />
scritto.<br />
Non è solo una questione sull’andamento dei conti nel 2005. Il peggioramento<br />
ha riguardato l’intero periodo degli ultimi quattro anni. A fronte del “bonus” della<br />
riduzione della spesa per interessi che avrebbe potuto compensare gli effetti negativi<br />
del rallentamento della crescita dell’economia, le spese correnti sono aumentate<br />
in modo significativo e la pressione tributaria si è leggermente ridotta.<br />
La manovra finanziaria per il 2006<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Giarda<br />
• Risultando lo scenario tendenziale per il 2006 incompatibile con gli impegni<br />
assunti in sede europea, la manovra finanziaria per il 2006 propone una correzione<br />
del deficit dell’ordine di 11,5 miliardi di euro. Sono previste riduzioni<br />
nette di spesa rispetto alla legislazione vigente per 10,5 miliardi (risultanti da riduzioni<br />
per 14,9 miliardi e aumenti per 4,4 miliardi) e aumenti nette di entrate<br />
per 1,0 miliardi (risultanti da aumenti per 4,3 miliardi e riduzioni per 3,3 miliardi).<br />
Le previsioni tendenziali. Le previsioni tendenziali per il 2006 sono illustrate<br />
nel DPEF 2006-2009 (poi confermate nella Relazione previsionale e programmatica<br />
per il 2006) e sono riportate nella Tabella 1.<br />
25
Piero Giarda<br />
TAB. 1. Previsioni tendenziali, P.A. 2006<br />
(miliardi di euro)<br />
2006 Var. %<br />
prev. su ’05<br />
Entrate tributarie 393,1 1,1<br />
imposte una tantum 0,2 -89,4<br />
Contributi sociali 185,1 1,6<br />
Altre entrate 49,3 –<br />
Entrate totali 627,5 1,2<br />
Spese correnti netto interessi 568,9 2,4<br />
personale 154,4 -2,1<br />
consumi intermedi 111,0 3,7<br />
pensioni 208,6 4,6<br />
altre 94,9 3,7<br />
Interessi passivi 68,0 –<br />
Spese correnti totali 636,9 2,1<br />
– sanità 95,6 2,7<br />
Spese in conto capitale 57,9 3,8<br />
Spese totali netto interessi 626,8 2,5<br />
Spese totali 694,7 2,2<br />
Pressione fiscale (% PIL) 40,3<br />
Avanzo primario (% PIL) 0,1<br />
Risparmio pubblico (% PIL) -1,0<br />
Indebitamento netto (% PIL) 4,7<br />
Le entrate sono previste in crescita del 2,2% e le entrate dell’1,1%. Con queste<br />
previsioni si determinerebbe una riduzione dell’avanzo primario e un aumento dell’indebitamento<br />
netto delle Amministrazioni Pubbliche. Il primo scenderebbe allo<br />
0,1% del PIL, il secondo aumenterebbe al 4,7% del PIL. Queste previsioni confermano<br />
la situazione critica della finanza pubblica italiana e quindi la necessità di<br />
una manovra correttiva che consenta di rispettare gli impegni assunti con il Patto<br />
di stabilità e crescita.<br />
Gli obiettivi. Il DPEF 2006-2009 illustra gli obiettivi della politica di bilancio,<br />
che si inseriscono nel contesto più ampio degli obiettivi di politica economica, da<br />
raggiungere mediante linee di intervento così individuate dal Governo: maggiori<br />
investimenti nelle infrastrutture, liberalizzazione dei mercati, alleggerimento del<br />
carico tributario, tutela del potere d’acquisto delle famiglie, aggiustamento strutturale<br />
dei conti pubblici.<br />
Ignorando la consueta retorica espressiva dei documenti programmatici e limitandoci<br />
a considerare i flussi di finanza pubblica, gli obiettivi per il 2006 indicano,<br />
rispetto al pre-consuntivo del 2005, l’aumento dell’avanzo primario allo 0,8% del<br />
PIL, la riduzione dell’indebitamento netto al 3,8% del PIL e la riduzione del rapporto<br />
debito/PIL al 107,4% (vedi la Tab. 2).<br />
26 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Gli obiettivi per il 2006 richiedono una riduzione del deficit tendenziale di circa<br />
11,5 miliardi di euro. Questa è l’entità della manovra correttiva. La legge finanziaria<br />
dispone riduzioni ma anche aumenti di spesa, aumenti ed anche riduzioni<br />
delle entrate.<br />
Gli interventi sulle spese<br />
TAB. 2. Il quadro programmatico 2006-2008<br />
(% del PIL)<br />
2005 2006 2007 2008<br />
Saldo primario 0,1 0,9 1,8 2,5<br />
Indebitamento netto 4,7 3,8 2,8 2,1<br />
Rapporto debito/PIL 108,1 107,4 105,2 103,6<br />
• I risparmi di spesa sono stimati dal Governo in 10,5 miliardi di euro. Il contributo<br />
più rilevante alla riduzione del deficit proverrebbe dagli interventi nel comparto<br />
degli enti territoriali e nel comparto della sanità (per un totale di 5,6 miliardi<br />
di euro). Risparmi significativi si otterrebbero dalla riduzione dei trasferimenti<br />
correnti e dei contributi in conto capitale alle imprese (2,35 miliardi). Altri risparmi<br />
deriverebbero dalla compressione dei consumi intermedi e delle spese per consulenze<br />
e di rappresentanza e dalla riduzione degli investimenti dello Stato.<br />
TAB. 3. Gli interventi sulle spese<br />
(miliardi di euro)<br />
Minori spese 12,34<br />
– pubblico impiego 0,98<br />
– consumi intermedi, consulenze 1,55<br />
– contributi alla produzione 1,15<br />
– contributi c/capitale alle imprese 1,20<br />
– Patto di stabilità interno Regioni 1,10<br />
– Patto di stabilità interno Comuni 2,02<br />
– sanità 2,50<br />
– riduzione investimenti Stato 0,36<br />
– limiti spese investimento 0,34<br />
– limiti tiraggi contabilità speciali 0,40<br />
– altre 0,74<br />
Maggiori spese 2,74<br />
– pubblico impiego 0,53<br />
– eccedenze di spesa 0,59<br />
– fondo famiglia e sviluppo 1,14<br />
– altre 0,48<br />
Minori spese nette ex articolato L.F. 9,60<br />
Minori spese nette ex Tabelle L.F. 0,90<br />
Totale minori spese nette 10,50<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Giarda<br />
27
Piero Giarda<br />
Patto di stabilità interno e spesa sanitaria. Per quanto riguarda gli enti territoriali,<br />
il disegno di Legge Finanziaria apporta ulteriori modifiche al Patto di stabilità<br />
interno, al fine di rendere coerenti i flussi di spesa delle autonomie territoriali con gli<br />
obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2006-2008 in relazione agli obblighi assunti<br />
dalla repubblica in sede comunitaria. La Legge Finanziaria per il 2005 aveva<br />
introdotto un vincolo alla crescita della spesa complessiva (corrente e in conto capitale)<br />
degli enti decentrati (Regioni, Province autonome, Province, Comuni con<br />
più di 3.000 abitanti e Comunità montane con più di 50.000 abitanti). Per il<br />
2006, i vincoli agirebbero separatamente sulle due componenti. Per le Regioni, la<br />
spesa corrente, al netto delle spese per la sanità e per il personale e dei trasferimenti<br />
ad altri enti della P.A., dovrebbe al massimo essere pari alla spesa effettuata nel<br />
2004 ridotta del 3,8%; le spese in conto capitale non potrebbero superare quelle<br />
sostenute nel 2004 aumentate del 6,9%. Per gli enti locali, la spesa corrente, al netto<br />
delle spese a carattere sociale, per il personale e dei trasferimenti ad altri enti della<br />
P.A., dovrebbe al massimo essere pari alla spesa effettuata nel 2004 ridotta del<br />
6,7%; le spese in conto capitale non potrebbero superare quelle sostenute nel 2004<br />
aumentate del 10%.<br />
Per ciò che concerne il settore della sanità, la Relazione tecnica al disegno di<br />
Legge Finanziaria individua uno scostamento di 3,5 miliardi di euro tra il livello di<br />
finanziamento del SSN assicurato da Stato e Regioni, pari a 92,6 miliardi, e la spesa<br />
stimata, pari 96,1 miliardi Su queste basi, si richiederebbe alle Regioni una manovra<br />
da 2,5 miliardi (lo Stato metterebbe a disposizione del SSN finanziamenti<br />
aggiuntivi per un miliardo).<br />
Pubblico impiego. L’effetto netto atteso dalle disposizioni in materia di personale<br />
è pari a circa 450 milioni di euro. Le maggiori spese derivano: (a) dagli aumenti<br />
conseguenti al rinnovo dei contratti; (b) dalle nuove assunzioni (2.500<br />
unità) per compiti di sicurezza e ordine pubblico; (c) dalla proroga dei contratti a<br />
tempo determinato, per alcune categorie; (d) dall’istituzione dell’area separata della<br />
vice-dirigenza da parte della contrattazione collettiva del comparto ministeri.<br />
Queste maggiori spese sarebbero compensate dai risparmi derivanti dall’introduzione<br />
di limiti all’utilizzo di personale a tempo determinato (la spesa per il 2006<br />
non dovrebbe superare il 60% della spesa sostenuta nel 2003) e dalla riduzione<br />
delle spese di personale degli enti territoriali.<br />
Altre disposizioni. Ulteriori misure di contenimento della spesa concernono i<br />
consumi intermedi e le spese di consulenza e rappresentanza, con risparmi stimati<br />
in circa 1,6 miliardi di euro; la riduzione dei trasferimenti correnti e i contributi in<br />
conto capitale alle imprese, per 2,3 miliardi di euro; gli investimento dello Stato<br />
per 360 milioni di euro. Infine, altri risparmi proverrebbero dalla limitazione dei<br />
pagamenti di ANAS Spa (300 milioni di euro) per spese d’investimento e dei tiraggi<br />
dalle contabilità speciali (400 milioni di euro).<br />
28 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Giarda<br />
Gli interventi straordinari. Il disegno di Legge Finanziaria contiene anche disposizioni<br />
presentate come misure dirette a “favorire lo sviluppo e l’occupazione” e<br />
“per il sostegno dei redditi delle famiglie meno abbienti”. Si propone la creazione<br />
per il solo 2006 del Fondo famiglia e solidarietà, con una dotazione di 1,14 miliardi<br />
di euro. Si propone altresì, sempre per il solo 2006, ed in via sperimentale, la istituzione<br />
di un Fondo, alimentato da una quota pari al 5 per mille dell’imposta sul<br />
reddito delle persone fisiche, da destinare a scopi di sostegno al volontariato, alla<br />
ricerca ed università e per le attività sociali svolte dai comuni di residenza dei contribuenti.<br />
L’operatività del Fondo verrebbe comunque rinviata al 2007, primo anno<br />
utile per analizzare le scelte dei contribuenti.<br />
Gli effetti delle Tabelle della Legge Finanziaria. Parte integrante della manovra<br />
per il 2006, come per ogni manovra finanziaria, sono anche gli interventi che si attuano<br />
attraverso le tabelle della Legge Finanziaria (Tab. 4), i cui effetti si manifestano<br />
prima sul bilancio dello Stato e poi sui conti della P.A.<br />
La Tabella A contiene le voci da includere nel Fondo speciale di parte corrente,<br />
per il finanziamento di nuove leggi nel corso del 2006. La Tabella C contiene<br />
gli stanziamenti relativi a leggi la cui quantificazione annua è demandata alla<br />
Legge Finanziaria. Per il 2006 la Tabella A introduce maggiori spese correnti per<br />
452 milioni; la Tabella C riduce le autorizzazioni di spesa per il 2006 fissate dalla<br />
Legge Finanziaria per il 2005 (che costituiscono la legislazione vigente 2006) per<br />
2.756 milioni, con un effetto netto sul bilancio dello Stato pari a – 2.304 milioni<br />
di euro.<br />
Le Tabelle B, D ed E riguardano le spese in conto capitale. La Tabella B indica<br />
le voci da includere nel Fondo speciale di conto capitale, la Tabella D contiene<br />
nuove spese per il finanziamento di programmi di sostegno dell’economia,<br />
la Tabella E indica invece il definanziamento di programmi di spesa, riducendo<br />
le autorizzazioni definite da precedenti leggi. Per il 2006, l’effetto netto sul bilancio<br />
dello Stato è un aumento della spesa in conto capitale pari a 3.022 milioni<br />
di euro.<br />
Infine, la Tabella F contiene gli importi da iscrivere in bilancio per le autorizzazioni<br />
di spesa di leggi pluriennali. Non reca né riduzioni né aumenti di spesa,<br />
in quanto è costruita sulla base della legislazione vigente, ma mostra gli effetti<br />
delle cosiddette rimodulazioni, ovvero lo spostamento al futuro di autorizzazioni<br />
di spesa.<br />
29
Piero Giarda<br />
TAB. 4. Gli interventi sulla spesa nelle tabelle<br />
della Legge Finanziaria (milioni di euro)<br />
2006 2007 2008 P.A.<br />
2006<br />
Tabella A<br />
Finanziaria 2006 452 489 505<br />
Tabella C<br />
Finanziaria 2005 19.452 19.450 19.450<br />
Finanziaria 2006 16.786 15.583 15.577<br />
- 2.756 -3.957 -3.873<br />
Effetti su spesa corrente -2.304 -3.468 -3.368 -1.800<br />
Tabella B<br />
Finanziaria 2006 474 385 356<br />
Tabella D<br />
Finanziaria 2006 4.757 1.220 9.480<br />
Tabella E<br />
Finanziaria 2006 - 2.209 -1.040 - 646<br />
Effetti su spesa c/capitale +3.022 +565 +9.190 +900<br />
Tabella F<br />
Finanziaria 2005 22.640 17.336 33.664<br />
Finanziaria 2006 15.997 10.642 60.467<br />
Rimodulazioni -6.643 -6.694 +26.803<br />
Gli importi delle variazioni in aumento o riduzione delle spese rispetto agli<br />
importi risultanti dalla legislazione vigente (registrati nel bilancio dello Stato in<br />
base al criterio finanziario e autorizzativo) devono essere tradotti in importi rilevanti<br />
per i conti delle Amministrazioni Pubbliche, rilevanti per il calcolo del deficit.<br />
Per il 2006, si dovrebbe avere (vedi l’ultima colonna della tabella 4) un effetto<br />
netto di riduzione della spesa pari a circa 900 milioni di euro, derivanti da<br />
minori spese correnti per 1.800 milioni e maggiori spese in conto capitale per<br />
900 milioni.<br />
Gli interventi sulle entrate<br />
• Alla manovra sulle spese è affiancata una manovra sulle entrate che dovrebbe<br />
portare maggiori introiti netti per poco meno di 1 miliardo di euro (Tab. 3.6). Le<br />
maggiori entrate deriverebbero per lo più dalle misure predisposte dal D.L.<br />
203/2005, in corso di conversione in legge.<br />
30 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
TAB. 5. Gli interventi sulle entrate<br />
(miliardi di euro)<br />
Maggiori entrate 4,26<br />
– tassa sulle reti (?) 0,80<br />
– rivalutazione beni d’impresa 0,92<br />
– giochi 0,70<br />
– effetti D.L. 203/2005 1,84<br />
Minori entrate 3,30<br />
– proroga agevolazioni fiscali 1,20<br />
– eliminazione tassa brevetti 0,10<br />
– riduzione cuneo contributivo 2,00<br />
Maggiori entrate nette 0,96<br />
Lotta all’evasione e interventi sulle procedure di riscossione. Il D.L. 203/2005<br />
introduce nuove norme per la lotta all’evasione fiscale e modifica il sistema di riscossione<br />
dei tributi. Per quanto riguarda il recupero di imponibili, vengono innanzitutto<br />
coinvolti i Comuni, attraverso la previsione a loro favore di una quota<br />
di partecipazione all’accertamento fiscale, pari al 30% delle somme riscosse a titolo<br />
definitivo relative ai tributi erariali. Verrebbe poi potenziata l’attività dell’Agenzia<br />
delle Entrate e dell’Agenzia delle Dogane, attraverso l’assunzione di nuovo personale,<br />
sia a tempo indeterminato sia con contratti di formazione-lavoro, per un totale<br />
di 1.800 unità, da destinare principalmente alle aree del Centro-Nord, che sarebbero<br />
particolarmente carenti di organico. Il recupero di gettito atteso per il<br />
2006 è indicato in 325 milioni di euro. Altri 300 milioni di euro dovrebbero derivare<br />
dall’attuazione del nuovo sistema di riscossione dei tributi, il quale prevede<br />
l’eliminazione delle società concessionarie del servizio nazionale della riscossione.<br />
Questa decisione discende, come è argomentato nella Relazione al disegno di legge<br />
di conversione del decreto, dalla constatazione dei risultati estremamente deludenti<br />
dell’attività delle concessionarie, con capacità di riscossione delle somme iscritte<br />
a ruolo pari al massimo al 5-6% del carico riscuotibile. “… il valore aggiunto derivante<br />
dall’attività esecutiva svolta dai concessionari è praticamente inesistente…”. Il<br />
servizio di riscossione coattiva verrebbe affidato ad una società per azioni di proprietà<br />
pubblica, costituita dall’Agenzia delle entrate e dall’INPS, denominata Riscossione<br />
Spa (il decreto contiene norme molto dettagliate per regolare il passaggio<br />
dal vecchio al nuovo sistema).<br />
Ampliamento delle basi imponibili. Queste misure, che dovrebbero portare 1,5<br />
miliardi di euro nelle casse del fisco, riguardano prevalentemente i redditi d’impresa,<br />
del settore bancario e del settore assicurativo: limitazione dell’applicazione della<br />
cosiddetta participation exemption; introduzione di norme anti-elusive, per contrastare<br />
le cessioni di partecipazioni che consentono la percezione di dividendi esenti<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Giarda<br />
31
Piero Giarda<br />
e la deduzione di minusvalenze da realizzo; modifica della base imponibile dell’IRAP,<br />
dovuta dalle imprese di assicurazione, rendendo irrilevanti, come per il settore<br />
bancario, gli accantonamenti, le rettifiche di valore e le riprese di valore su crediti<br />
verso la clientela; riduzione, per le imprese di assicurazione, della deducibilità<br />
della variazione della riserva sinistri relativa ai contratti dei rami danni; riduzione<br />
per le banche della deducibilità delle svalutazioni dei crediti.<br />
Tassa sulle reti e altre misure di aumento delle entrate. L’art. 42 del disegno di<br />
Legge Finanziaria propone l’istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2006, di una<br />
addizionale erariale al canone e alla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche<br />
con grandi reti di trasmissione dell’energia, quali energia elettrica e gas, con un<br />
gettito di 800 milioni di euro nel 2006. In realtà, l’ipotesi di questa nuova imposta<br />
è già caduta: il maggiore gettito sarà recuperato estendendo al 2006 la riduzione<br />
degli ammortamenti già prevista nel Decreto 203 del 15 ottobre scorso. Infine,<br />
maggiori introiti dovrebbero derivare dall’estensione delle disposizioni sulla rivalutazione<br />
volontaria dei beni posseduti dalle imprese (circa 602 milioni di euro) e<br />
delle aree fabbricabili (circa 311 milioni di euro). Altri 700 milioni di euro proverrebbero<br />
dal settore giochi e scommesse.<br />
Sgravi fiscali. Come di consuetudine, il disegno di Legge Finanziaria proroga<br />
tutta una serie di agevolazioni fiscali in alcuni settori (accise sulle emulsioni stabilizzate<br />
e sul metano per usi industriali e civili, benefici fiscali per interventi di recupero<br />
del patrimonio edilizio, aliquota IRAP all’1,9% nei settori dell’agricoltura e<br />
della pesca, ecc.). Ad esse si accompagna l’estensione della clausola di salvaguardia,<br />
che permetterebbe ai contribuenti di scegliere tra l’IRPEF attuale, quella del 2002<br />
e quella del 2004, a seconda di quale risulti più favorevole. Altre disposizioni riguardano<br />
l’abolizione della tassa sui brevetti, la deducibilità integrale dall’IRES di<br />
erogazioni liberali in favore di università ed enti di ricerca pubblici, la non imponibilità<br />
dei proventi conseguiti da università ed enti di ricerca pubblici nello svolgimento<br />
di attività commerciali conformi agli scopi istituzionali. Infine, l’intervento<br />
più cospicuo in materia di agevolazioni fiscali concerne la riduzione di un punto<br />
dei contributi sociali, con una perdita di gettito stimata in 2 miliardi di euro (cosiddetta<br />
riduzione del cuneo contributivo).<br />
Qualche valutazione<br />
• Come valutare la manovra per il 2006 rispetto ai suoi due obiettivi del sostegno<br />
allo sviluppo e della correzione strutturale dei conti pubblici?<br />
Per quanto riguarda il primo obiettivo, il sostegno allo sviluppo, non si può<br />
non sottolineare la modestia degli interventi proposti. Si consideri anzitutto la par-<br />
32 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Giarda<br />
te straordinaria della manovra. Gli interventi per lo sviluppo e l’occupazione ammonterebbero<br />
a 2 miliardi di euro di riduzione del cuneo contributivo. Ma dal<br />
punto di vista delle imprese, al taglio dei contributi sociali si accompagnerebbe comunque<br />
una riduzione dei trasferimenti correnti per 1,2 miliardi di euro, con un<br />
saldo a loro favore per 800 milioni di euro.<br />
Il disegno di Legge Finanziaria propone poi la creazione del Fondo innovazione,<br />
di entità cospicua, 3 miliardi di euro, che dovrebbe finanziare i progetti individuati<br />
dal Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione, elaborato nel quadro<br />
del rilancio della strategia di Lisbona, a seguito del Consiglio Europeo del giugno<br />
2005. L’effettiva istituzione del Fondo innovazione è però esplicitamente subordinata<br />
all’acquisizione di 3 miliardi di euro da dismissione o alienazione di beni dello<br />
Stato. Si tratta di entrate molto aleatorie (quanta parte delle dismissioni previste<br />
per il 2005 è andata a buon fine?) e ciò mette seriamente in dubbio l’effettiva attuazione<br />
delle politiche per lo sviluppo, a meno poi di finanziarle in parte in disavanzo.<br />
Infine, restano 1,2 miliardi di euro per il Fondo famiglia e sviluppo, del quale<br />
si può dire che esso rappresenta solo una temporanea e modesta misura di soluzione<br />
di un problema molto serio di giustizia distributiva ma che poco ha a che fare<br />
con questioni di sviluppo e crescita del sistema economico. Ci sono segnali che l’economia<br />
possa iniziare a crescere nel 2006 a tassi un po’ superiori a quelli del 2004<br />
e 2005, ma non è nulla che possa essere ricondotto alle misure per lo sviluppo contenute<br />
nella manovra di bilancio per il 2006.<br />
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la riduzione del deficit, si osserva che<br />
le maggiori entrate nette previste dalla manovra ammontano a poco meno di un<br />
miliardo di euro e che la riduzione del deficit è affidata soprattutto alle misure di<br />
contenimento della spesa. Anche su questo fronte non c’è nulla di diverso e di più<br />
incisivo di quanto sia stato fatto con le ultime leggi finanziarie. Le misure che riducono<br />
il deficit sono pari a 19,2 miliardi, quelle che lo aumentano sono pari a 7,7<br />
miliardi. L’effetto netto è di 11,5 miliardi. Alcune di queste misure, come i tagli<br />
proposti per i Ministeri o altre riduzioni di spesa avranno un effetto di rimbalzo<br />
(aumenterebbero le spese) sul disavanzo del 2007 e del 2008; certamente non si<br />
tratta di misure strutturali. Le disposizioni sul pubblico impiego avranno un effetto<br />
netto quasi nullo, al blocco delle assunzioni in alcuni comparti, si affiancherebbero<br />
le nuove assunzioni nei settori della pubblica sicurezza e della lotta all’evasione.<br />
Come avvenuto per il 2005, lo sforzo maggiore per il risanamento viene richiesto<br />
al sistema di finanza decentrata, regioni ed enti locali, ai quali si impone una riduzione<br />
della spesa (esclusa la spesa sociale, il personale e la sanità) rispetto ai livelli<br />
del 2004. Alle Regioni viene anche richiesto di reperire risorse per 2,5 miliardi di<br />
euro per finanziare la maggiore spesa sanitaria.<br />
La manovra finanziaria per il 2006 appare quindi poco efficace ex ante. La modestia<br />
degli interventi si somma ai dubbi sul realismo delle previsioni tendenziali.<br />
33
Piero Giarda<br />
Il Ministro dell’economia è intervenuto per correggere alcuni (ma solo alcuni) degli<br />
aspetti più critici dei valori inizialmente presentati. È quindi molto probabile<br />
che i conti pubblici continuino a peggiorare nonostante il miglioramento previsto<br />
per il 2006 dell’andamento dell’economia italiana.<br />
34 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Il debito pubblico:<br />
un male da cui liberarsi? (e come?)<br />
Un’analisi per l’Italia d’oggi (e di ieri)<br />
Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione<br />
americana, autore con Madison e Jay di saggi raccolti<br />
sotto il titolo di The Federalist e fondatore del<br />
Tesoro degli Stati Uniti, ha scritto che “A national<br />
debt, if it is not excessive, will be to us a national<br />
blessing”; egli infatti unificò i debiti pubblici della<br />
nascente federazione e degli stati, operazione che non<br />
fu esente da critiche. Se si fa fede a chi, oltre due secoli<br />
or sono, contribuì a seminare libertà e democrazia,<br />
il debito pubblico non è certamente un male in sé.<br />
Basti pensare che esso permette il finanziamento delle<br />
opere pubbliche, soprattutto di quelle che hanno una<br />
vita attesa molto lunga e un periodo spesso non breve<br />
prima che maturino i suoi benefici; che costituisce<br />
una rendita per i piccoli risparmiatori avversi al rischio<br />
di controparte e, limitatamente, a quello di<br />
mercato; che offre ai fondi pensione e alle compagnie<br />
di assicurazione strumenti di accumulazione che permettono<br />
il bilanciamento con le passività a lungo termine<br />
che essi offrono ai sottoscrittori di polizze; ecc.<br />
Inutile dire che quando è molto elevato, esso costituisce<br />
un grosso fardello che vincola la politica economica,<br />
crea una classe di rentier che vive sui trasferimenti<br />
di reddito che le classi produttive operano a favore di<br />
chi fornì risorse alla collettività in epoche passate,<br />
presumibilmente riduce per i detentori di capitali liquidi<br />
l’incentivo ad assumere rischi nel settore reale<br />
dell’economia e, forse, compromette il tasso di crescita<br />
di lungo periodo. Sorge, quindi, la necessità di liberarsi<br />
da un debito pubblico divenuto particolarmente<br />
vincolante.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
MARIO SARCINELLI<br />
Università<br />
La Sapienza di Roma<br />
≈<br />
“… anche<br />
svendendo<br />
il patrimonio<br />
pubblico, è difficile<br />
giungere ad una<br />
drastica<br />
e strutturale<br />
riduzione<br />
del debito<br />
pubblico.<br />
… meno<br />
si realizza dalla<br />
vendita di attività,<br />
meno debito<br />
si redime,<br />
più danno<br />
la collettività<br />
subisce, più se ne<br />
avvantaggia<br />
il compratore”<br />
≈<br />
35
Mario Sarcinelli<br />
Come liberarsi da un debito pubblico<br />
• Per raggiungere questo obiettivo, la scienza e la pratica delle pubbliche finanze<br />
annoverano quattro strumenti. Il primo, il più radicale e il meno accettabile<br />
è il disconoscimento totale o parziale; lungi dall’essere un reperto storico (chi non<br />
ricorda dai banchi di scuola che i banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi furono vittime<br />
del ripudio del debito da parte di Edoardo III, re d’Inghilterra, nel 1343?), esso<br />
è diventato lo strumento per riequilibrare gli oneri debitori dei paesi in via di sviluppo<br />
con le potenzialità delle loro economie negli ultimi venticinque anni o poco<br />
più. Di recente, il risparmiatore italiano è stato colpito dalle decisioni inappellabili<br />
del governo argentino che attraverso moratorie e offerte non negoziabili ha portato<br />
a termine la più grande ristrutturazione di debito sovrano che si sia mai avuta e<br />
dalla quale i portatori italiani di carta argentina si sono in gran parte volontariamente<br />
esclusi, sperando in condizioni meno penalizzanti in futuro... In passato, le<br />
cannoniere dei paesi creditori venivano impiegate per ridurre a più miti consigli i<br />
governi proni a non onorare il proprio debito, ma quei tempi sono fortunatamente<br />
tramontati.<br />
Un altro strumento, anch’esso rifiutato dalla coscienza civica, è l’inflazione che<br />
erode il valore della moneta e di tutte le obbligazioni che comportano debito di valuta;<br />
dopo le esperienze inflazionistiche degli anni ’70 del secolo scorso si sono diffusi<br />
i titoli indicizzati, che comportano debiti di valore. Questa opzione è oggi di<br />
fatto preclusa per chi è membro dell’Unione monetaria europea, poiché la sua banca<br />
centrale ha come compito prioritario quello di mantenere la stabilità dei prezzi.<br />
Tuttavia, l’inflazione del 1946 distrusse il debito accumulato dal Regno d’Italia sino<br />
alla fine della seconda guerra mondiale; secondo le memorie di Guido Carli,<br />
l’allora governatore della Banca d’Italia, <strong>Luigi</strong> Einaudi lasciò che la spinta inflazionistica<br />
acquistasse forza distruttiva prima di intervenire con il nuovo strumento<br />
della riserva obbligatoria; dopo l’annuncio delle misure volte a frenare la concessione<br />
dei crediti, le aspettative inflazionistiche si invertirono rapidamente.<br />
I manuali di scienza delle finanze elencano anche l’imposta straordinaria sul<br />
patrimonio, spettro che di solito la sinistra radicale agita quando la barca della<br />
pubblica finanza comincia a fare acqua e le imposte ordinarie sono già molto elevate.<br />
Tuttavia, a questo riguardo bisogna distinguere tra le imposte sul patrimonio<br />
che sono pagate trasferendo allo stato quote del medesimo e quelle che, pur ad esso<br />
commisurate, sono pagate col reddito, anche se con grande sacrificio dei contribuenti.<br />
Nel primo caso, lo stato viene di norma in possesso di beni diversi dalla<br />
moneta e quindi non utilizzabili per redimere il debito; se lo stato realizzasse in<br />
breve tempo quei beni sul mercato, presumibilmente l’offerta supererebbe di gran<br />
lunga la domanda e le quotazioni cadrebbero a livelli bassissimi, con danno per il<br />
venditore e per tutti i detentori di quelle attività. Se le operazioni di vendita dei beni<br />
patrimoniali sono fatte dai singoli proprietari-contribuenti, il risultato non sarà<br />
36 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
molto diverso, salvo che intervenga il credito bancario, con il rischio, però, che le<br />
banche si trovino a fronteggiare una serie di insolvenze nel tempo se vi è un’ulteriore<br />
caduta dei valori cauzionali. Lo stato, perciò, se ottiene in pagamento dell’imposta<br />
patrimoniale beni diversi dalla moneta, si induce a distribuire nel tempo le vendite,<br />
a rateizzarne il pagamento e ad ottenere da intermediari finanziari prestiti garantiti<br />
dai beni in corso di liquidazione. Tuttavia, per non turbare troppo i mercati<br />
delle attività, lo stato può indursi a trasformare l’imposta straordinaria patrimoniale<br />
in una ordinaria per un certo numero di anni. È questo appunto il caso dell’imposta<br />
commisurata al patrimonio, ma pagata col reddito.<br />
Infine, resta la via maestra, quella del rimborso o – per essere più precisi – quella<br />
del mantenimento o della riacquisizione della capacità di rimborso del debito. Nessun<br />
debitore privato, né alcun debitore pubblico ha bisogno di liberarsi delle proprie<br />
obbligazioni, ma soltanto di mantenersi in una zona di affidabilità che gli permetta di<br />
espandere il proprio indebitamento senza difficoltà e a costi non penalizzanti. Per un<br />
debitore privato il flusso di cassa non impegnato permette di valutare se il livello di<br />
indebitamento è sostenibile, date la sua struttura, la capacità di ricorso agli azionisti,<br />
la previsione sull’andamento dei tassi d’interesse, le prospettive dell’impresa sia congiunturali<br />
sia strutturali, ecc. Per lo stato l’avanzo primario, o saldo tra entrate e spese<br />
eccettuati gli oneri per gli interessi sul debito, rapportato al prodotto interno lordo<br />
(pil), sembra un buon indicatore della sostenibilità del debito, come convenzionalmente<br />
definito, alla luce del prevedibile andamento della crescita, dei tassi d’interesse,<br />
della pressione fiscale e della struttura delle spese, della loro probabile evoluzione nel<br />
tempo, della reputazione del paese nel mantenere fede ai propri impegni, ecc.<br />
Il vincolo forte del debito pubblico<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Mario Sarcinelli<br />
• Il debito pubblico diventa un vincolo molto forte, talvolta insopportabile,<br />
allorché rispetto al pil supera un livello ritenuto critico. Il trattato di Maastricht lo<br />
ha fissato al 60%, che deriva dalla media dei debiti pubblici rispetto al pil degli stati<br />
della Comunità europea all’epoca della preparazione del suddetto trattato. Soprattutto<br />
le autorità comunitarie, ma anche quelle nazionali danno segni di impazienza<br />
e di crescente preoccupazione quanto più grande è la distanza dalla soglia<br />
critica e, in particolare, quanto più essa tende a crescere verso l’alto. Al contempo,<br />
le società di rating e gli analisti finanziari assumono un atteggiamento di più occhiuta<br />
vigilanza, poiché scontano nelle proprie valutazioni una maggiore probabilità<br />
di inadempienza. I mercati, a loro volta, fanno scendere le quotazioni sul secondario<br />
e possono aumentare anche di molto il margine rispetto al titolo di riferimento<br />
sul primario, se i risparmiatori e gli intermediari finanziari alleggeriscono il<br />
proprio portafoglio vendendo titoli e rendono il ricorso a nuove emissioni più oneroso<br />
e talvolta impossibile per il paese emittente.<br />
37
Mario Sarcinelli<br />
Se si prescinde da una serie di elementi, già sommariamente elencati, che sono<br />
“idiosincratici”, cioè riferibili al singolo paese, la sostenibilità del debito pubblico<br />
dipende dalla dinamica del rapporto debito/pil. Infatti, l’indicazione di uno squilibrio<br />
massimo tra entrate e spese del 3% nel trattato di Maastricht deriva dalla necessità<br />
di mantenere inalterato quel rapporto al 60%, nell’ipotesi che il pil cresca al<br />
massimo del 5% nominale l’anno (3% in termini reali e 2% per effetto dei prezzi)<br />
e che il costo medio del debito sia anch’esso del 5%. Sempre considerando soltanto<br />
il rapporto debito/pil, il debito è matematicamente sostenibile nel lungo periodo,<br />
quale che ne sia il livello, se è stabile, cioè quando il numeratore e il denominatore<br />
crescono allo stesso tasso; ne consegue che il grado di sostenibilità aumenta se il debito<br />
cresce meno del pil e peggiora nel caso contrario, a parità di ogni altra condizione.<br />
Pertanto, un livello del rapporto debito/pil molto elevato, ad es., superiore al<br />
100% come oggi è vero per il Giappone (170%), per la Grecia (110%) e per l’Italia<br />
(108%), non è di per sé instabile, ma ha molte probabilità di aumentare rapidamente<br />
a causa di shock dovuti al mercato (ad es., per innalzamento dei tassi d’interesse<br />
e/o dei premi al rischio), alla congiuntura negativa (ad es., per caduta della<br />
domanda, per riduzione dell’offerta di lavoro o per mancata crescita della produttività<br />
totale dei fattori) e alla politica economica (ad es., per insofferenza dei vincoli<br />
che il debito pone alla finanza pubblica nelle sue funzioni fondamentali di allocazione<br />
delle risorse, di distribuzione delle stesse tra i gruppi sociali e di stabilizzazione<br />
del ciclo). Anche da livelli molto elevati del rapporto debito/pil si può rientrare,<br />
come dimostra l’esperienza recente del Belgio che si trova oggi al 95%; per il lontano<br />
passato si può citare il caso del Regno Unito che dalle guerre napoleoniche<br />
emerse con un rapporto che si stima intorno al 200%.<br />
È ovvio che, economicamente, il giudizio dei mercati sulla sostenibilità dipende<br />
anche dagli altri fattori “idiosincratici”; se per i paesi sviluppati un rapporto superiore<br />
a 100 può essere considerato sostenibile, per i paesi latino-americani, inadempienti<br />
abituali, si scende al 20-30%.<br />
Le componenti variabili del debito<br />
• Scendendo all’esame delle singole componenti che fanno variare il debito, va<br />
detto che alcune partite, come gli scarti di emissione e la regolazione di debiti pregressi,<br />
non influenzano il saldo primario, ma incrementano direttamente il debito.<br />
Prescindendo da queste poste, la dinamica del rapporto debito/pil dipende dal saldo<br />
primario (a), cioè dalla differenza tra le entrate e le spese al netto degli oneri sul<br />
debito, dalle vendite di attività patrimoniali (v), dal divario, più volte richiamato,<br />
tra onere medio sul debito (r) e tasso di crescita del pil (g). Se quest’ultimo è nullo,<br />
gli interessi sul debito possono essere tranquillamente pagati con altro debito senza<br />
38 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Mario Sarcinelli<br />
alterare il rapporto debito/pil. Se r diventa maggiore di g, quel rapporto aumenta, a<br />
parità di ogni altra condizione, o perché si abbassa il tasso di crescita, come è accaduto<br />
in Italia dove dal 2,1% per il quadriennio 1998-2001 si è scesi allo 0,6 del<br />
successivo triennio o perché si innalza il tasso di interesse di mercato che si trasmette<br />
allo stock dei titoli a mano a mano che maturano o che vengono adeguati i<br />
tassi variabili. È ciò che si teme possa accadere tra breve; secondo il Governatore<br />
Fazio, un aumento di un punto percentuale su tutte le scadenze, data l’attuale<br />
struttura del nostro debito, aumenta la spesa per interessi di 0,2 punti percentuali<br />
rispetto al pil nel primo anno e di ulteriori 0,3 e 0,1 rispettivamente nel secondo e<br />
nel terzo. Dal 1995 al 2004 le tre componenti a, v e (r-g) hanno dato congiuntamente<br />
un contributo al miglioramento del rapporto debito/pil, che ha toccato il<br />
massimo di 4,22 punti percentuali nel 2000 e il minimo di 0,20 nel 2004. Nel<br />
2005 si avrà un peggioramento di 1,60 punti (da 106,6 a 108,2), poiché l’avanzo<br />
primario, ancora previsto pari a 0,6%, e le dismissioni patrimoniali non sono sufficienti<br />
a compensare la divaricazione tra r e g. Il rapporto debito/pil torna a crescere<br />
dopo un decennio di riduzioni e si riporta al livello del 2002.<br />
Accogliendo una periodizzazione proposta da Daniele Franco della Banca d’Italia,<br />
si può così sintetizzare la recente evoluzione del debito pubblico italiano, in relazione<br />
al pil. Dal 1970 al 1994 si ebbe una forte accumulazione di debito per il perseguimento<br />
di una politica di bilancio insostenibile; il rapporto debito/pil si innalzò<br />
dal 40 al 125% nell’intervallo (tra il 1991 e il 1994 salì di 24 punti percentuali).<br />
Dal 1985 al 1991 una prima fase di rinsavimento diede priorità al contenimento<br />
del debito; il saldo primario migliorò del 4,7%, quasi del tutto neutralizzato dalla<br />
maggiore spesa per interessi pari al 4%; gli oneri per il servizio del debito risultarono<br />
pari al 12,5%. Una fase di effettivo riequilibrio finanziario si produsse tra il 1992 e<br />
il 1997, con caduta del deficit (saldo primario più oneri sul debito) dal 12 al 3%,<br />
con aumento dell’avanzo primario pari a 6,5 punti percentuali, con discesa al 121%<br />
del rapporto debito/pil. Tra il 1998 e il 2001 l’avanzo primario si ridusse dal 6,7 al<br />
3,4%, in particolare a causa di manovre fiscali espansive per il 2000 e il 2001, nonostante<br />
l’ampio ricorso a misure temporanee. Dal 2002 al 2004 si sono avute nuove<br />
difficoltà e nuove manovre di contenimento del disavanzo, con ulteriore discesa dell’avanzo<br />
primario all’1,8% nel 2004, mentre l’onere medio del debito era pari nello<br />
stesso anno al 4,7%. Nel 2005 si è dovuto ricorrere a tre manovre correttive per<br />
mantenere sotto controllo la pubblica finanza; nell’ultima si è dovuta compensare<br />
con misure fiscali la mancata vendita di attività immobiliari per € 5 miliardi.<br />
Nello scenario di medio termine delineato nel Documento di programmazione<br />
economica e finanziaria, r è posto uguale a 4,5% e g a 3,5%, cosicché l’avanzo primario<br />
e le dismissioni patrimoniali devono ragguagliarsi all’1% per poter mantenere<br />
costante il rapporto debito/pil; se poi quest’ultimo deve scendere in misura significativa,<br />
come gli impegni con l’Unione Europea richiederebbero, l’avanzo primario<br />
dovrebbe essere di almeno 3 punti percentuali.<br />
39
Mario Sarcinelli<br />
Una mega dismissione patrimoniale<br />
• Già si incontrano difficoltà nella dismissione del patrimonio immobiliare<br />
pubblico con operazioni che richiedono un tempo notevole per il loro montaggio e<br />
che vieppiù aumenteranno a mano a mano che si cercherà di vendere attività meno<br />
appetibili e che si affievolirà il boom immobiliare che negli Stati Uniti ha assunto il<br />
carattere di bolla. Il prof. Giuseppe Guarino, illustre giurista e geniale proponente<br />
di soluzioni wholesale come Ministro dell’industria, ha avanzato l’idea che bisogna<br />
affrontare il problema, non con una serie di “piccole” vendite, ma con una megaoperazione<br />
di dismissione (Il debito pubblico è un problema risolubile?, relazione al<br />
convegno Nexus del 26 ottobre 2005) le cui finalità, pienamente condivisibili, sono<br />
abbattere il debito pubblico per un ammontare auspicabilmente di € 630 miliardi,<br />
abbassare il rapporto debito/pil al livello fissato a Maastricht del 60%, tagliare<br />
la spesa per interessi dal 5,3% del pil (2003) al 2,7 circa, allineandoci così a<br />
Francia, Germania e Regno Unito, riguadagnare gradi di libertà nella gestione della<br />
finanza pubblica.<br />
La stima che il prof. Guarino fa dei beni alienabili lo induce a ridurre le ambizioni<br />
nell’abbattimento del debito a € 430 miliardi, ottenibili vendendo: a) per €<br />
40 miliardi partecipazioni nelle società quotate in borsa (Enel, Eni, ecc.); b) per altri<br />
€ 60 miliardi partecipazioni in società non quotate (CDP, Poste, ecc.); c) per €<br />
100 miliardi beni immobili strumentali delle pubbliche amministrazioni; d) per €<br />
50 miliardi beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico; e) per € 40<br />
miliardi beni immobili scarsamente utili, poco utilizzati e difficilmente vendibili<br />
con trattative individuali; f) per € 90 miliardi immobili privi o quasi di reddito,<br />
ma suscettibili di valorizzazione (soprattutto case degli ex IACP); g) per € 50 miliardi<br />
crediti fiscali e di altra natura.<br />
La tecnica di dismissione suggerita è la parte veramente innovativa della proposta<br />
e prevede la concentrazione iniziale in un’unica società per azioni dei beni sopra<br />
elencati; il suo capitale iniziale sarebbe pari ai valori di conferimento, sicché in attesa<br />
che i periti facciano una valutazione tecnicamente più soddisfacente esso sarebbe<br />
di € 430 miliardi. Il reddito iniziale della società sarebbe pari a € 6,5 miliardi,<br />
provenienti per € 2 miliardi da dividendi su partecipazioni e € 4,5 miliardi da<br />
canoni corrisposti dallo stato sugli immobili alienati e ripresi in locazione (3% su<br />
€ 150 miliardi). Obiettivo dell’operazione dovrebbe essere la massimizzazione degli<br />
introiti per redimere la maggior quantità possibile di debito pubblico in circolazione,<br />
da conseguire con la cessione auspicabilmente rapida e totalitaria delle azioni<br />
della mega-s.p.a., il che presuppone inevitabilmente, anche per motivi di trasparenza<br />
nelle cessioni, la sua quotazione in borsa. A tal fine, gli amministratori avrebbero<br />
piena libertà di gestione e soprattutto di organizzazione dei vari compendi in<br />
sub-holding, società operative, ecc. al fine di valorizzare pienamente i beni trasferiti<br />
alle loro cure.<br />
40 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
L’incognita delle valutazioni<br />
• L’ingegnosità dei meccanismi e la fantasia nella loro progettazione non possono<br />
esimere da un’analisi delle problematiche cui una simile costruzione andrebbe<br />
incontro. In primo luogo, vi sono quelle economico-valutative. In mancanza di<br />
un riscontro di mercato, è difficile dire se le stime avanzate sono realistiche, ma esse<br />
sono senz’altro accettabili come ipotesi di studio, da confrontare con altre di cui<br />
si dirà in seguito. Il punto cruciale è la valutazione che gli esperti dovranno fare per<br />
asseverare o correggere gli iniziali valori attribuiti ai beni conferiti; essa non potrà<br />
essere minimamente di tipo analitico, poiché i tempi ed i costi per realizzarla sarebbero<br />
eccessivi. Necessariamente si dovrà fare ricorso a valutazioni per categorie di<br />
beni, a prezzi medi non facilmente riscontrabili nella pratica, a giudizi soggettivi<br />
sulle probabilità di riscossione, a flussi di cassa che appaiono certi solo per gli immobili<br />
ceduti e riaffittati dallo stato. A questo riguardo, va notato che il 3% rivalutabile,<br />
al netto di ogni onere fiscale e per manutenzione ordinaria e straordinaria, è<br />
superiore al tasso marginale, ponderato per le varie forme di ricorso al debito, al<br />
quale lo stato si finanzia oggi. Costituendo il canone del 3% un tasso fisso per un<br />
lungo periodo, se le aspettative d’inflazione restano intorno al 2% il tasso reale è<br />
pari all’1% circa; se superiori, quest’ultimo si azzera o diventa negativo. Probabilmente,<br />
qualche clausola di revisione, come accade nella pratica privata degli affitti,<br />
sarebbe opportuna, purché i parametri di riferimento e le circostanze che fanno<br />
scattare la revisione siano chiaramente specificati.<br />
La sostenibilità del mercato<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Mario Sarcinelli<br />
• Le obiezioni di carattere finanziario appaiono ancora più gravi. La concentrazione<br />
in un’unica società di tutti i beni della cui proprietà lo stato vuol disfarsi<br />
dà luogo ad un mega-conglomerato, che il mercato non è in grado di apprezzare<br />
convenientemente. Se la mega-s.p.a. viene quotata, è molto probabile che mantenga<br />
una forte sottovalutazione rispetto ai valori intrinseci o a quelli di libro. La capacità<br />
di valutazione del mercato sarebbe facilitata dalla creazione di partecipate specializzate<br />
per comparto, per categorie di immobili, ecc. Significherebbe ciò un ritorno<br />
all’IRI che, nato per liquidare, nel tempo si trasformò in ente di gestione delle<br />
proprietà bancarie e industriali di cui lo stato con i salvataggi era venuto in possesso?<br />
Ovviamente, non v’è nessuna predestinazione, ma il rischio di ripetere esperienze<br />
già vissute non può essere ignorato. Ancora più seria appare un’altra obiezione<br />
di carattere finanziario; per sostituire nei portafogli di privati investitori, di fondi<br />
comuni e di altri intermediari finanziari attività altamente liquide come i titoli<br />
del debito pubblico, con azioni della mega-s.p.a. o di sue partecipate, con obbligazioni<br />
che hanno a garanzia immobili ceduti dallo stato e con reddito basso o incer-<br />
41
Mario Sarcinelli<br />
to (ad es., case ex IACP) oppure direttamente con immobili già di pertinenza dello<br />
stato può avvenire solo lentamente e concedendo sconti che rappresentano opportuni<br />
premi al rischio, oltre che incentivi per mutare la composizione del portafoglio.<br />
Ciò è perfettamente naturale, ma è agli antipodi del mandato della megas.p.a.<br />
che dovrebbe estrarre il massimo valore dalle vendite, dirette o indirette, del<br />
patrimonio ad essa conferito.<br />
Le critiche maggiori sono sul piano del mandato e del governamento societario.<br />
La costituzione della mega-s.p.a. trasforma una proprietà, soprattutto immobiliare,<br />
dispersa sul territorio e dalle molteplici destinazioni d’uso, in azioni di un’unica<br />
società che lo stato immette nel proprio portafoglio. Il management della mega-s.p.a.<br />
deve promuovere la valorizzazione delle attività che le sono state conferite<br />
attraverso un’appropriata organizzazione del gruppo societario e un’adeguata spinta<br />
imprenditoriale, ma non potrà dedicarsi, se non incidentalmente, alla vendita<br />
delle azioni di propria emissione che sono in mano allo stato. È il Ministero dell’economia<br />
e delle finanze che deve operare, come ha fatto sinora, per la vendita delle<br />
azioni a sue mani e col ricavato estinguere titoli del debito pubblico. In ciò sarà facilitato<br />
dal trasferimento sulla valutazione di borsa del potenziale di valorizzazione<br />
che il management della mega-s.p.a. sarà stato in grado di attivare, nonché dall’afflusso<br />
di dividendi straordinari per le dismissioni di sotto-insiemi compiute dalla<br />
medesima. Ove, per la specialità del caso, si attribuisse alla mega-s.p.a. il compito<br />
di vendere le azioni di pertinenza del MEF si andrebbe incontro a un conflitto di<br />
interessi, poiché il mandato della società a valorizzare, che richiede tempo, potrebbe<br />
essere pretermesso a quello di vendere il più rapidamente possibile le azioni del<br />
MEF per ridurre il debito pubblico.<br />
Un mega-conglomerato con un patrimonio enorme, pari a due volte e mezzo<br />
quello di tutte le banche italiane, con una varietà ed una complessità di interessi assolutamente<br />
inedita e con un potere, in senso sostanziale, che nessuna amministrazione<br />
pubblica ha mai avuto in Italia susciterebbe appetiti formidabili in partiti<br />
politici, rappresentanti delle amministrazioni espropriate e interessi costituiti; difficilmente<br />
potrebbe operare senza avere i costanti riflettori dei media sul proprio<br />
operato o, peggio, sulle supposte intenzioni ad operare, anche perché il settore immobiliare<br />
non ha mai goduto in Italia di una grande considerazione sotto il profilo<br />
della trasparenza… Una volta che il controllo fosse passato in mani private, se le<br />
quotazioni fossero alte è difficile immaginare che vi siano tentativi di scalata, ma i<br />
problemi di governamento non si semplificherebbero di molto; ove i prezzi di borsa<br />
fossero bassi, vi sarebbero scalate per ottenere guadagni dall’asset stripping. In<br />
questo caso, i profitti andrebbero ai privati, non allo stato che presumibilmente ha<br />
venduto a prezzi molto scontati.<br />
42 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
I precedenti nella storia passata<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Mario Sarcinelli<br />
• Non sarebbe corretto respingere la soluzione proposta dal prof. Guarino senza<br />
investigare se essa ha avuto qualche forma di applicazione nella travagliata storia<br />
finanziaria del nostro Paese. Sin dalla nascita il Regno d’Italia ebbe l’assillo di trovare<br />
sufficienti risorse per finanziare le esigenze dello stato unitario e delle sue forze<br />
armate e cercò di mobilizzare tutte le risorse a disposizione. Nel 1862, il Sella ordinò<br />
che la Cassa ecclesiastica, organo dello stato creato nel 1855, passasse tutti i<br />
suoi beni al demanio affinché fossero venduti insieme con le altre attività di pertinenza<br />
demaniale; per assicurare il pagamento delle pensioni ai religiosi, a favore<br />
della Cassa venne iscritta rendita 5% in misura uguale alla rendita assicurata dai<br />
beni passati al demanio. Il trasferimento aveva appena avuto inizio che le pressanti<br />
esigenze del Tesoro spinsero il Sella ad affidare la liquidazione dei beni demaniali<br />
ad una società privata, la Società anonima per la vendita dei beni del Regno d’Italia<br />
partecipata dalla Società generale di credito mobiliare italiana, con la prescrizione<br />
di seguire, di massima, le procedure previste per le vendite pubbliche. L’appalto<br />
venne concesso dal 1865, con obbligo di versare allo stato degli anticipi, di cui 40<br />
milioni già nel 1864 (sintetiche notizie su questo argomento sono in Giannino<br />
Parravicini, La politica fiscale e le entrate effettive del Regno d’Italia – 1860-1890,<br />
ILTE, Torino 1958). In questo caso, non si trattò di un’operazione volta a ridurre il<br />
debito pubblico, che invece aumentò per l’emissione della rendita a favore della<br />
Cassa ecclesiastica, ma di fornire mezzi finanziari allo stato attraverso le anticipazioni<br />
della società appaltatrice del servizio di vendita.<br />
La terza guerra d’indipendenza pose gravi problemi finanziari al neonato Regno<br />
d’Italia; sul piano monetario si giunse alla dichiarazione del corso forzoso, su<br />
quello fiscale all’emanazione di una legge eversiva che nel 1866 trasferì in proprietà<br />
al demanio dello stato i beni di qualsiasi specie appartenenti agli enti ecclesiastici<br />
soppressi, contro iscrizione di rendita a favore del fondo per il culto, di nuova istituzione,<br />
per il pagamento delle pensioni ai religiosi. L’operazione di conversione<br />
della proprietà ecclesiastica non fornì prontamente allo stato i mezzi straordinari di<br />
cui era alla ricerca, anzi determinò un immediato aggravio per effetto dell’iniziale<br />
accreditamento di titoli del debito pubblico a fronte delle proprietà trasferite. Nella<br />
ricerca di meccanismi per accelerare gli introiti attraverso l’alienazione del patrimonio<br />
ecclesiastico, un disegno di legge dello Scialoja, che non ebbe seguito, intendeva<br />
attribuire ai vescovi l’obbligo di alienazione, da effettuare in un decennio<br />
con rate semestrali di 50 milioni, mentre la riscossione e il pagamento venivano assicurati<br />
dal conte Langrand-Dumonceau, sia in nome proprio sia per conto della<br />
Banca di credito fondiario e industriale di Bruxelles, dietro corresponsione di un’esorbitante<br />
provvigione: il 10% dei 600 milioni che lo stato intendeva ricavare!<br />
Francesco Ferrara scrisse su La Nuova Antologia che si trattava di “un baratto di parole<br />
e carta contro 60 milioni di lire metalliche”.<br />
43
Mario Sarcinelli<br />
Una successiva legge del 1867 dispose la soppressione di ulteriori categorie di<br />
enti, la devoluzione al demanio di tutti i loro beni e l’iscrizione a favore del fondo<br />
per il culto di rendita 5% per le pensioni ai religiosi degli enti soppressi. Le due<br />
leggi del 1866 e del 1867 vennero applicate ad oltre 52.000 enti, compresi quelli<br />
conservati e assoggettati alla conversione dei beni immobili. La vendita poteva avvenire<br />
solo ai pubblici incanti, per lotti piccoli nella misura del possibile, con pagamento<br />
di un decimo del valore di aggiudicazione in contanti e per nove decimi in<br />
18 anni, a rate uguali e con interesse scalare del 6%. Era previsto uno sconto del<br />
7% sui nove decimi se si saldava tutto il prezzo e del 3% se si pagava entro due anni.<br />
Per fronteggiare le impellenti necessità dello stato, venne introdotta un’imposta<br />
straordinaria del 30% sul patrimonio degli enti che non erano stati soppressi, eccettuati<br />
soltanto le confraternite e i benefici parrocchiali, nonché su quello dello<br />
stesso fondo per il culto, da assolvere con varie modalità; inoltre, fu autorizzato un<br />
prestito per un introito massimo di 400 milioni di lire da redimere con i proventi<br />
della vendita dell’asse ecclesiastico. Queste obbligazioni, collocate dal Tesoro sotto<br />
la pari a prezzi variabili da 77 a 85, potevano essere utilizzate al valore nominale di<br />
100 per pagare le rate da parte degli acquirenti dei beni ecclesiastici. (Su tutta questa<br />
materia sono preziose le notizie e le osservazioni di Giulio Cesare Bertozzi negli<br />
Annali di statistica – 1879 del Ministero di agricoltura, industria e commercio).<br />
Pur tenendo conto della diversità dei tempi e dello sviluppo delle tecniche finanziarie<br />
per la mobilizzazione delle attività reali, da questi precedenti storici si<br />
evince che le dismissioni immobiliari furono operazioni necessariamente lente, che<br />
i tentativi di accelerazione attraverso l’intermediazione finanziaria o non andarono<br />
in porto o si rivelarono più costose, come accadde con l’emissione delle obbligazioni<br />
ecclesiastiche, che l’entità degli sconti fu piuttosto modesta, ma non per questo<br />
meno criticata per la disparità che creava tra chi aveva disponibilità da investire e<br />
chi no (Relazione della Commissione centrale di sindacato sull’amministrazione<br />
dell’asse ecclesiastico nel 1878 al Parlamento). Per provvedere alle necessità della<br />
pubblica finanza si dovette battere la strada maestra della tassazione e del ricorso al<br />
mercato.<br />
I tentativi più recenti<br />
• L’opportunità di procedere alla valorizzazione/alienazione del patrimonio<br />
immobiliare pubblico fu avvertita sin dalla fine degli anni ’80 del ’900. Nel 1991<br />
venne costituita la Immobiliare Italia, società mista con la partecipazione dell’IMI<br />
e disciolta dopo alcuni anni per l’impossibilità di raggiungere l’oggetto sociale a<br />
causa, pare, dell’opposizione o almeno della non collaborazione della Direzione generale<br />
del demanio. Nel 1996 venne annunciata la mobilizzazione del patrimonio<br />
reale attraverso un modello di cartolarizzazione basato su fondi immobiliari, ma il<br />
44 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Mario Sarcinelli<br />
progetto non decollò. Le prime cartolarizzazione di immobili pubblici si ebbero<br />
nel 2001-02; contemporaneamente vi fu la costituzione per legge della società per<br />
azioni “Patrimonio dello stato” che si è dedicata alla preparazione del Conto patrimoniale<br />
delle amministrazioni pubbliche, alla promozione del “Fondo patrimonio<br />
uno”, fondo immobiliare ad apporto pubblico, all’assistenza nella preparazione del<br />
“Fondo immobili pubblici” e nella cartolarizzazione SCIP 3 di immobili e terreni<br />
pubblici, al monitoraggio di SCIP 2, nonché alla vendita all’asta di immobili pubblici.<br />
Nel periodo 2001-04 le privatizzazioni immobiliari sono ammontate a €<br />
15,2 miliardi.<br />
Nel 2004 è stata completata e inviata al Parlamento una relazione sul Conto<br />
patrimoniale delle amministrazioni pubbliche con stime per gli anni 2001, 2002 e<br />
2003; è questa un’operazione meritoria, poiché non è possibile gestire la valorizzazione/alienazione<br />
del patrimonio pubblico senza conoscere la sua composizione e<br />
soprattutto la sua dimensione; ciò non significa che tutti i beni inclusi nell’esercizio<br />
fossero da considerare (perché inserire nella stima i ghiacciai che non sono certamente<br />
alienabili?) e che il metodo del fair value non lasci perplessi in alcuni casi.<br />
Tuttavia, una stima ha sempre margini di opinabilità e di errore ed è comunque<br />
preferibile all’assenza di informazioni. L’attivo delle amministrazioni pubbliche nel<br />
2003 a valori di libro ammontava a € 1.246,4 miliardi e a quelli di stima a €<br />
1.771,4; al passivo, i debiti risultavano pari a € 1.381,4 miliardi. Prescindendo da<br />
una piccola posta relativa ai fondi per rischi ed oneri futuri (€ 2,8 miliardi), emerge<br />
un disavanzo patrimoniale ai valori di libro di € 137,8 miliardi, che diventa un<br />
avanzo di € 387,2 miliardi ai valori stimati. Se si considerano le sole amministrazioni<br />
centrali, l’attivo stimato è pari a € 977,5 miliardi, che si riduce del 46% a €<br />
448,7 miliardi applicando un indice di alienabilità (pudicamente denominato disposability…).<br />
Per ottenere questa stima del patrimonio alienabile di pertinenza<br />
delle amministrazioni centrali si sono dovuti includere il 70 per cento degli immobili<br />
destinati ad usi governativi e collettivi e il 30% dei beni di valore culturale, bibliotecario<br />
ed archivistico… A questo punto, va riconosciuto non solo che le ipotesi<br />
avanzate dal prof. Guarino sul valore dei beni mobilizzabili non sono molto<br />
lontane dalle stime effettuate da una squadra di tecnici, ma anche che i timori di<br />
chi teme un nuovo sacco del patrimonio culturale non sono infondati; di già in<br />
America i curatori di importanti musei considerano alcuni “pezzi” come investimenti<br />
passibili di realizzazione sul mercato e li vendono attraverso Sotheby’s...<br />
Sulla tela di fondo che si è sopra delineata è stato redatto il piano strategico delle<br />
privatizzazioni per il 2006-2009. Su un totale di attività per le amministrazioni<br />
centrali e per gli enti previdenziali al 2004 di € 1.063,9 miliardi, il piano prevede<br />
dismissioni per € 44,5 miliardi, relative ai comparti dei fondi di rotazione per €<br />
5,5 miliardi, delle partecipazioni per € 20 miliardi, delle immobilizzazioni materiali<br />
(fabbricati e terreni, infrastrutture e attività atipiche) per € 14 miliardi, dei<br />
crediti e di altri averi degli enti previdenziali per € 5 miliardi. Dal piano sono<br />
45
Mario Sarcinelli<br />
esclusi gli enti locali, anche se essi posseggono un 40% del patrimonio delle amministrazioni<br />
pubbliche, i quali sinora si sono mostrati restii ad alienare i propri beni,<br />
anche per l’insufficienza degli incentivi. L’inclusione delle infrastrutture (ad es.,<br />
quelle portuali) è un chiaro indicatore dell’esaurirsi dello stock di beni facilmente<br />
alienabili, come le attività finanziarie e gli immobili residenziali; tuttavia, per procedere<br />
su questa strada si richiede non solo un’apposita legislazione, ma anche<br />
un’attenta riflessione da parte dei responsabili politici e della società civile sui regimi<br />
giuridici che potranno sostituire quello della tradizionale concessione al fine di<br />
garantire l’interesse pubblico non solo ad una buona gestione e alla non discriminazione,<br />
ma anche all’espansione della capacità e al miglioramento della qualità. È<br />
sufficiente ricordare che nell’Ottocento le ferrovie di proprietà pubblica vennero<br />
date in concessione per l’esercizio, ma nel 1905 si arrivò alla gestione diretta da<br />
parte dello stato…<br />
<br />
Concludendo, è possibile affermare che anche svendendo il patrimonio pubblico,<br />
è difficile giungere ad una drastica e strutturale riduzione del debito pubblico.<br />
La tesi che è sufficiente concedere forti sconti per conseguire l’obiettivo omette di<br />
considerare che meno si realizza dalla vendita di attività, meno debito si redime, più<br />
danno la collettività subisce, più se ne avvantaggia il compratore. Secondo notizie di<br />
stampa, l’operazione SCIP 1 ha comportato veri e propri regali, poiché la sottovalutazione<br />
del 50 per cento nella cessione delle attività al veicolo speciale per la cartolarizzazione<br />
al fine di assicurare al medesimo il massimo rating è stata recuperata solo<br />
in parte quando gli immobili sono stati venduti. Perciò, solo la ricostituzione di un<br />
sufficiente avanzo primario potrà permettere al rapporto debito/pil di scendere in<br />
modo apprezzabile; in attesa che ciò avvenga attraverso una ripresa della crescita<br />
economica e un contenimento del tasso di aumento delle spese, le dismissioni patrimoniali<br />
andrebbero manovrate in modo da non fare aumentare il rapporto debito/pil<br />
rispetto all’anno precedente, evitando così le reprimende di Bruxelles e le minacce<br />
di revisione verso il basso del rating da parte delle agenzie. Le dismissioni patrimoniali<br />
dovrebbero continuare anche dopo che l’avanzo primario sarà stato riportato<br />
ad un livello di sicurezza, dando così un proprio apporto alla riduzione del<br />
rapporto debito/pil. Nell’ansia di privatizzare, però, bisogna evitare che l’interesse di<br />
breve periodo, come l’incasso di una somma capitale per ridurre marginalmente il<br />
debito, comprometta quello di lungo periodo attraverso una deficiente architettura<br />
e un’insufficiente regolamentazione dei campi che il settore pubblico trasferisce a<br />
quello privato acriticamente fidando nella mano invisibile…<br />
46 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
La libertà economica<br />
unica regola del mercato globalizzato<br />
Gli studiosi sono concordi. La globalizzazione che pareva<br />
obbedire a una legge fisica, si è inceppata. Rallenta<br />
l’integrazione mondiale, si accentua la propensione<br />
a rapporti e scambi tra aree con una cultura simile.<br />
Questo accade perdurando una stagnazione economica<br />
che genera sfiducia verso la capacità taumaturgica<br />
del mercato. L’Europa si è bloccata, la Germania è in<br />
stagnazione e ci avviamo verso la rassegnazione dell’Europa<br />
senza Costituzione basata solo sulla moneta.<br />
La Banca Centrale Europea amministra la moneta e i<br />
tassi con la mentalità di Euroburocrati senza futuro,<br />
mentre il dollaro e la FED condizionano il mercato<br />
mondiale.<br />
I tentativi più recenti<br />
• Risparmio considerazioni sul fatto che la realtà stia<br />
dando ragione alle tesi di Huntington sul mondo ineluttabilmente<br />
diviso tra sette civiltà. Credo che questa diminuzione<br />
di slancio globale obbligatorio, possa essere positiva.<br />
Mi spiego. Il mercato è il regno della libertà individuale governata<br />
da alcune (poche) regole. Non è il suo meccanismo a<br />
garantire la prosperità. Se così fosse l’uomo sarebbe, come<br />
volevano gli stoici, una formichina condannata a subire la<br />
necessità. Invece il liberalismo è la scoperta del primato della<br />
qualità umana. La legge del mercato non è un Moloc divoratore<br />
dei singoli: nel mercato pesa di più l’energia di libertà di<br />
chi va al mercato. Dunque sarebbe una contraddizione, una<br />
specie di controvalore, se la globalizzazione fosse imposta<br />
dalla necessità storica: la libertà economica si esercita nelle<br />
condizioni date e il suo sviluppo non è sottomesso a bronzee<br />
leggi. Conta la libertà.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
GIAMPIERO CANTONI<br />
Senatore<br />
della Repubblica<br />
Università S. Pio V<br />
di Roma<br />
≈<br />
“… la libertà<br />
economica<br />
si esercita nelle<br />
condizioni date<br />
ed il loro sviluppo<br />
non è sottomesso<br />
a bronzee leggi.<br />
conta la libertà”<br />
≈<br />
47
Giampiero Cantoni<br />
Ed allora che si fa? Qui viene la politica. Infatti questo passaggio dalla globalizzazione<br />
all’integrazione per “arcipelaghi omogenei” rende quanto mai decisiva la<br />
questione della competitività del sistema. La libertà individuale cerca il terreno più<br />
consono a sviluppare i propri talenti. Si va dove il lavoro e il capitale possono dare<br />
meglio i loro frutti. Ecco: il compito del governo è dissodare il terreno, renderlo<br />
idoneo ad una crescita rigogliosa. Senza dogmi (in questo senso Tremonti, con il<br />
suo colbertismo, ha capito tutto per primo). Ci vuole l’erpice delle riforme.<br />
Il ruolo fondamentale della competitività<br />
• La competitività deve diventare un punto fondamentale per il rilancio non<br />
solo delle economie, ma per un processo di modernizzazione necessaria per uscire<br />
dalle ingessature di un Paese con un’architettura burocratica troppo farraginosa e<br />
complessa e un capitalismo eccessivamente concentrato e protetto.<br />
Certo, sulla strada della modernizzazione del Paese, non è derogabile il metter<br />
mano alla previdenza. Senza rivedere le pensioni siamo condannati, stante l’alto<br />
tasso di invecchiamento. Non è questione di tagli, ma di nuovo disegno del Welfare.<br />
Oggi lo stato sociale non obbedisce al suo scopo: finisce per gravare sulle fasce<br />
deboli e sugli esclusi dal lavoro. Bisogna ripartire dalla valorizzazione della società,<br />
spostare l’asse dal Welfare State alla Welfare Society, dove si dia più peso alle libere<br />
aggregazioni.<br />
Il Paese invece perde tempo. Si dissangua in dibattiti e litigi che ignorano questo<br />
stato congiunturale del mondo. Invece occorre fare le riforme in grande.<br />
L’assestamento dei rapporti tra i partner suppone che Francia e Germania la<br />
smettano di pretendere il dominio. Non possiamo permetterci né a livello italiano<br />
né a livello continentale di avere una democrazia bloccata dai contrasti tra istituzioni.<br />
Se vogliamo sopravvivere, il buon senso impone: riformare e investire di più<br />
per aumentare la competitività e la produzione.<br />
Difendere la nostra civiltà è buona cosa per tutte le civiltà, nel rispetto delle<br />
differenze. Qui vorrei sottolineare un punto, che io ritengo niente affatto “solo”<br />
occidentale, una specie di optional: la democrazia economica. Anch’essa va non dico<br />
esportata (non è una merce), ma aiutata a fiorire nei paesi a democrazia limitata.<br />
Il mercato strumento di pace<br />
• Altro importante elemento è il mercato quale strumento essenziale di costruzione<br />
di una pace duratura. Creare legami economici solidi e stabili rende le ostilità<br />
più costose per le rispettive popolazioni. Fare scattare la leva dello sviluppo economico<br />
è essenziale per pacificare territori ancora in balia di una violenza folle e sca-<br />
48 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
tenata. Perché, secondo voi, un adolescente palestinese ha più probabilità di diventare<br />
un terrorista di quante ne abbia un ragazzino della Milano bene? Semplicemente,<br />
perché le opzioni a sua disposizione sono infinitamente inferiori. Nella miseria,<br />
esplodono tutti i nostri istinti aggressivi, che il capitalismo in qualche modo<br />
attutisce. L’intuizione è antica, e risale almeno a Schumpeter: per cui l’imperialismo<br />
militarista era un “atavismo”, un ritorno a un precedente stadio di civilizzazione,<br />
e nemico giurato del capitalismo autentico.<br />
Il libero mercato crea legami di solidarietà ed amicizia. Funziona come veicolo<br />
della comprensione. Costringe a cooperare anche individui riottosi e mal disposti.<br />
“Non dalla benevolenza del macellaio”, insegna Adam Smith, ci aspettiamo che la<br />
carne ci venga servita in tavola: ma anzi dalla sua avidità, della sua egoistica propensione<br />
al guadagno. È così che il mercato spezza il male terribile dell’egoismo,<br />
che degenererebbe altrimenti in ingordigia predatoria e nella tentazione, sempre<br />
fortissima, del furto.<br />
Il mercato è quel sistema nel quale gli individui depongono la spada, si stringono<br />
le mani, e vivono di scambio, non di violenza.<br />
Per questo, esportare un sistema di autentico libero mercato è essenziale, soprattutto<br />
per spezzare la spirale dello “scontro tra civiltà”, che poi è solo un sinonimo<br />
elaborato e pomposo per l’atavica incomprensione tra i popoli, il naturale desiderio<br />
di non parlarsi se non ad armi spianate.<br />
Il mercato ha tenuto unito l’Occidente, anche in anni di differenze buie e<br />
profonde. I popoli in guerra erano nemici, nel ’39-’45. Eppure, deposte le armi,<br />
sono stati riuniti in fratellanza dall’amicizia cementata dal libero commercio. Si sono<br />
messi gli uni a disposizione degli altri: gli americani hanno comprato automobili<br />
tedesche, i tedeschi hanno mangiato panini americani, gli italiani hanno esportato<br />
il loro genio, la moda e la loro cultura, e hanno imparato a fare i conti con le<br />
abitudini e le attitudini degli amici ritrovati.<br />
Le istituzioni fondamentali della democrazia economica – il rispetto dei diritti<br />
di proprietà e la libertà di entrata nei mercati – vanno esportate nei paesi islamici<br />
con convinzione pari a quella con cui stiamo esportando il diritto di voto. Sono<br />
realtà complementari, e vanno tenute insieme per costruire relazioni pacifiche con<br />
quei Paesi e dentro quei territori.<br />
Globalizzazione e governabilità<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giampiero Cantoni<br />
• E infine la globalizzazione – fenomeno dominante è ancora più incalzante<br />
nel terzo millennio.<br />
La globalizzazione deve però essere compatibile con i processi di crescita e progresso<br />
democratico, anche perché un fenomeno fuori controllo significa correre<br />
grandissimi rischi, insiti e conseguenti nelle grandi rivoluzioni epocali.<br />
49
Giampiero Cantoni<br />
È vero anche che la globalizzazione è un processo di cambiamento epocale che<br />
deve essere sviluppato nella governabilità tenendo conto anche della fragilità degli<br />
attuali equilibri.<br />
Globalizzare significa anche grandi eventi quali gli enormi spostamenti di masse<br />
di uomini che arrancano ormai quotidianamente verso i Paesi più ricchi o ritenuti<br />
tali.<br />
È vero anche, che la globalizzazione deve essere accompagnata da un processo<br />
evolutivo e democratico della politica, migliorando la trasparenza dei sistemi economici,<br />
con la finalità di modernizzare le regole pluralistiche di mercato e la conseguente<br />
armonizzazione di tutti i paesi verso i principi dello sviluppo, della flessibilità<br />
e nell’efficienza dei meccanismi di crescita, per conseguire un risultato che incide<br />
nella creazione di nuova occupazione, soprattutto ai giovani che entrano per la<br />
prima volta nel circuito produttivo.<br />
L’Europa deve aprirsi, togliere l’ingessatura dei protezionismi indotti e spingere<br />
i governi verso le riforme strutturali permanenti istituzionali e del Welfare State.<br />
Creare nuovi “Fondi Pensione Europei” per omogeneizzare questo fondamentale<br />
diritto per la dignitosa futura sicurezza.<br />
Il fenomeno della globalizzazione rende opportuno e urgente definire il coordinamento<br />
e la responsabilità sovranazionale per il governo della globalizzazione.<br />
La classe politica europea e tutti coloro che hanno le leve del potere per lo sviluppo<br />
della globalizzazione e la sua governabilità hanno però grandi responsabilità<br />
politiche, sociali e morali verso la collettività.<br />
Il processo di evoluzione mondiale non è però in contraddizione con il Welfare<br />
State, ma è in netta opposizione allo stato sociale che spreca risorse, capitali improduttivi<br />
e spese assistenziali.<br />
Le basi di una nuova etica sociale<br />
• Gli effetti positivi della globalizzazione porranno la base per una nuova etica<br />
sociale verso la trasparenza delle decisioni politiche che influenzano le scelte a carico<br />
della collettività.<br />
Un elemento essenziale sarà la scuola e la formazione perché nelle società più<br />
avanzate l’innovazione tecnologica sarà un fattore di confronto, dove si determineranno<br />
ancora di più che in passato le disuguaglianze tra individui e nazioni.<br />
Gli aspetti immateriali della conoscenza e dell’istruzione hanno ormai preso il<br />
sopravvento rispetto alle ricchezze materiali.<br />
Infatti la conoscenza e la capacità di innovazione tecnologica, saranno l’asse<br />
portante delle società più evolute e concorrenziali.<br />
Solo un esempio: l’Unione Europea possiede un numero di personal computer<br />
inferiore ai paesi emergenti.<br />
50 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giampiero Cantoni<br />
Per il nostro Paese la globalizzazione deve essere vista come una leva per scardinare<br />
l’ingessatura di regole arcaiche, per accelerare la modernizzazione e la ristrutturazione<br />
di un sistema burocratico e imprenditoriale sempre più concorrenziale e<br />
adatto allo sviluppo della competizione internazionale.<br />
Con la globalizzazione le prerogative degli Stati nazionali e degli apparati politici<br />
e istituzionali vengono indeboliti, mentre si rinforzano le istituzioni sovranazionali.<br />
Diventano irreversibili i processi di destatalizzazione.<br />
Le privatizzazioni dovranno essere accelerate con coraggio per un sistema produttivo<br />
dove l’imperativo sarà: “meno stato più mercato”.<br />
Inoltre, si affacceranno nuovi problemi che investono direttamente il rapporto<br />
tra politica e economia facendo emergere le differenze fra le diverse velocità di sviluppo<br />
che inevitabilmente si delineeranno nell’integrazione dei vari mercati, dove<br />
però il sistema politico lento e farraginoso non riuscirà a tenere il passo nell’evoluzione<br />
dei processi di mondializzazione.<br />
La globalizzazione però farà crescere le disuguaglianze sociali, i risentimenti e le<br />
chiusure localistiche e corporative.<br />
Questi fattori indeboliranno l’Europa dal punto di vista economico e sociale.<br />
Infine governare la globalizzazione significa anche governare i mercati e le politiche<br />
di protezione ambientale.<br />
<strong>Economia</strong> ed ecologia diventeranno derivati di comune interesse sociale.<br />
E infine la globalizzazione in Europa non deve chiudersi in difesa, ma gestire<br />
nuove opportunità in aiuto ai più deboli, quasi che “la globalizzazione «dal volto<br />
umano» significa rendere più compatibili su scala globale l’impatto sulle persone,<br />
ambiente, salute e la pace.”<br />
<br />
51
Parametri di Maastricht e debito pubblico:<br />
il caso italiano<br />
In tutti i paesi europei e, in particolare, in Italia, la difficile<br />
congiuntura economica ha indotto, recentemente,<br />
ad avviare un intenso dibattito circa l’opportunità<br />
di ammodernare i criteri di base che presiedono il<br />
coordinamento delle politiche economiche dei paesi<br />
dell’Unione, ovvero i c.d. parametri di Maastricht e il<br />
successivo Patto di stabilità e di crescita.<br />
Sul punto è opportuno, in via preliminare, fare alcune precisazioni.<br />
Anzitutto, va ricordato, sul piano “storico”, che i<br />
criteri del Trattato di Maastricht – 3% del PIL per il deficit,<br />
60% per il debito – furono previsti per l’ingresso nell’Unione<br />
Economica e Monetaria: il parametro del 60% era non solo<br />
vicino al dato medio per i paesi europei all’epoca del Trattato,<br />
ma era – ed è – anche il valore che stabilizza tale rapporto per<br />
un Pil nominale che cresce al 5% in presenza di un deficit<br />
pubblico (indebitamento netto della P.A.) pari al 3% del Pil.<br />
A sua volta, il limite del 3% posto al rapporto deficit/pil era<br />
di fatto simile alla quota destinata in molti paesi alle spese in<br />
conto capitale, che oltre agli investimenti fissi includono anche<br />
i trasferimenti in conto capitale della P.A.<br />
La proposta di un Patto di stabilità per l’Europa fu invece<br />
avanzata successivamente e, segnatamente, nel novembre<br />
del 1995 dall’allora Ministro delle finanze tedesco Theo<br />
Waigel.<br />
L’intento da questi perseguito era evidente: il governo tedesco<br />
dell’epoca temeva che una volta entrati nell’euro, i<br />
paesi tradizionalmente indisciplinati sul fronte della finanza<br />
pubblica – e in primis l’Italia – tornassero alle vecchie pratiche,<br />
con le invitabili conseguenze per la stabilità dell’UEM e<br />
le altrettanto invitabili ripercussioni sul tasso di cambio della<br />
nuova moneta.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
BRUNO TABACCI<br />
Deputato, Presidente<br />
della X Commissione<br />
Attività produttive,<br />
commercio e turismo<br />
≈<br />
“… senza uno<br />
sforzo corale<br />
per abbattere<br />
sensibilmente il<br />
fardello del nostro<br />
debito qualsiasi<br />
tentativo di rilancio<br />
dell’economia…<br />
non potrà che<br />
essere velleitario e,<br />
in quanto tale,<br />
persino<br />
controproducente”<br />
≈<br />
53
Bruno Tabacci<br />
L’idea del Patto era dunque quella di trasformare i criteri di ingresso nella UE in<br />
regole che garantissero definitivamente la disciplina di bilancio nell’area dell’euro.<br />
Dopo un periodo di defatiganti trattative, il Patto di stabilità e crescita nacque<br />
nel giugno del 1997 al Consiglio Europeo di Amsterdam.<br />
Il Patto fu adottato, in vista della terza fase dell’Unione economica e monetaria,<br />
in conseguenza della valutazione politica, da parte di alcuni Stati membri (in<br />
particolare la Germania), circa l’insufficienza della procedura sui disavanzi eccessivi<br />
prevista dal Trattato istitutivo della Comunità europea e dal relativo Protocollo<br />
allegato al Trattato.<br />
In particolare, era stata evidenziata da parte di alcuni Paesi la necessità, da un lato,<br />
di assicurare che il valore di riferimento del 3% del rapporto disavanzo/PIL costituisse<br />
effettivamente un tetto massimo, non valicabile se non in circostanze eccezionali,<br />
e, dall’altro, di introdurre in caso di disavanzi eccessivi un meccanismo sanzionatorio<br />
semi-automatico che evitasse di demandare la decisione di comminare eventuali<br />
sanzioni integralmente alla discrezionalità del Consiglio dell’Unione Europea.<br />
Sono state così introdotte disposizioni intese a meglio precisare sia i parametri<br />
e i criteri per l’applicazione dei valori di riferimento indicati nel Trattato CE e nel<br />
Protocollo, sia le procedure e gli strumenti per constatare l’esistenza di un disavanzo<br />
eccessivo, prevenirne il verificarsi e raccomandarne la riduzione al di sotto dei<br />
medesimi valori.<br />
In base al Patto i membri dell’UEM si sono impegnati a presentare dei programmi<br />
pluriennali di stabilità, funzionali al mantenimento di un saldo di bilancio<br />
a medio termine prossimo all’equilibrio ovvero in surplus.<br />
Tale ultima condizione era diretta a consentire di affrontare i periodi di recessione<br />
con un margine di manovra sufficiente per lasciar agire pienamente i cosiddetti<br />
stabilizzatori automatici, senza eccedere il tetto del 3% del PIL per il deficit.<br />
Il superamento, anche limitato, del tetto massimo del 3%, veniva consentito,<br />
senza incorrere in sanzioni, solo “circostanze eccezionali e temporanee”, cioè connesse<br />
ad eventi che non sono soggetti al controllo dello Stato interessato o che sono<br />
determinate da una grave recessione economica (diminuzione del PIL, in termini<br />
reali, pari almeno al 2%); peraltro, se il rapporto deficit/PIL avesse superato il 3%<br />
in presenza di una diminuzione del PIL inferiore al 2%, lo Stato interessato poteva<br />
comunque cercare di dimostrare che il disavanzo era connesso a circostanze eccezionali<br />
e il Consiglio, valutate tali osservazioni, avrebbe potuto derogare alla dichiarazione<br />
di disavanzo eccessivo.<br />
Va inoltre ricordato, come i vincoli del Patto di stabilità e crescita si riferiscano<br />
al complesso di tutte le amministrazioni pubbliche, dal momento che le grandezze<br />
su cui valutare il disavanzo e il debito sono state individuate rispettivamente nell’indebitamento<br />
netto delle amministrazioni pubbliche e nel debito pubblico. Gli<br />
Stati membri risultano pertanto responsabili degli andamenti del complesso della<br />
finanza pubblica, che solo per una parte è gestita attraverso il bilancio statale.<br />
54 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Bruno Tabacci<br />
Nel caso dell’Italia, in considerazione delle notevoli dimensioni del disavanzo e<br />
del debito, ne è derivata l’esigenza di introdurre procedure volte a monitorare e<br />
contenere gli andamenti finanziari di enti, quali in primo luogo quelli territoriali,<br />
che godono di una ampia autonomia finanziaria.<br />
In risposta a questa esigenza si è provveduto a definire il cosiddetto Patto di stabilità<br />
interno, con il quale regioni ed enti locali sono investiti della responsabilità<br />
di concorrere al rispetto degli obiettivi e dei vincoli finanziari assunti dallo Stato in<br />
sede comunitaria.<br />
Vincoli di bilancio e rilancio della crescita: il bivio della politica economica<br />
• Date queste premesse, utili al corretto inquadramento della questione, prima<br />
di addentrarsi nello spinoso tema di come i vincoli europei e, in particolare,<br />
quello inerente il rapporto debito/Pil, incida sulla politica economica nazionale, è<br />
opportuno svolgere alcune riflessioni di carattere generale in ordine alla permanenza<br />
della validità degli attuali vincoli di bilancio comunitari, ciò al fine di rispondere<br />
ad una domanda cruciale: le regole europee sono troppo rigide e tali da ingessare in<br />
modo esiziale le politiche di bilancio nazionali soprattutto nelle fasi di ciclo negativo,<br />
oppure è vero il contrario, ossia che è proprio mantenendo una situazione di<br />
bilancio equilibrata in tempi di vacche grasse che si può utilizzare poi la politica fiscale<br />
a fini espansivi in periodi di recessione?<br />
Dalla riposta a tale quesito, dipende la risposta che vogliamo dare sul piano<br />
delle politiche economiche nazionali per il rilancio della crescita e dello sviluppo.<br />
In altre parole, se si opta per una risposta affermativa alla prima domanda, ne<br />
discende che in periodi di difficile congiuntura è meglio allentare le regole e magari<br />
fare un po’ di deficit spending ovvero ridurre le imposte anche a scapito del disavanzo<br />
per la rilanciare domanda e investimenti.<br />
Viceversa, in una visione più ortodossa, anche in periodo di vacche magre è<br />
preferibile puntare comunque sulla riduzione del debito, al fine semmai di destinare<br />
a politiche espansive o a più costose riforme strutturali i risparmi di spesa derivanti<br />
dai minori interessi da pagare per il servizio del debito.<br />
È questo lo snodo centrale della questione che abbiamo dinanzi.<br />
E sul punto non esito ad affermare che per un paese come l’Italia, con un debito<br />
pubblico che nel 2005, dopo anni di ininterrotta discesa, ha ricominciato a crescere,<br />
attestandosi al 108,2% del Pil, la vera priorità è e rimane la riduzione dello<br />
stock di debito.<br />
Senza questa riduzione non c’è futuro e non c’è libertà.<br />
E senza libertà non c’è sviluppo.<br />
E la libertà, oggi, nella nuova dimensione internazionale dei mercati finanziari,<br />
si conquista con il rigore finanziario, senza il quale siamo destinati ad essere<br />
55
Bruno Tabacci<br />
trascinati nella spirale senza ritorno del rialzo dei tassi di interesse sul nostro debito.<br />
Un rialzo che dipende dalle valutazioni del mercato, delle operatori e delle<br />
agenzie di rating, che guardano l’Italia come un osservato speciale.<br />
Nonostante l’ossessiva attenzione dei media sullo scostamento del nostro disavanzo<br />
dal rapporto magico del 3% per cento del Pil, la vera questione della nostra<br />
finanza pubblica risiede nella dinamica del rapporto debito/prodotto; se il livello<br />
di tale rapporto resta elevato, i tassi d’interesse sono più alti e i conti pubblici sono<br />
più esposti al rischio di una loro variazione, senza peraltro considerare che una rilevante<br />
parte delle entrate deve essere destinata al pagamento di interessi ai possessori<br />
di titoli anziché alla provvista di beni e servizi.<br />
Assicurare una continua, anche se graduale, diminuzione del rapporto fra debito<br />
e prodotto è dunque l’obiettivo più importante che dovrebbe prefiggersi qualsiasi<br />
governo, di qualunque colore esso sia, fermo restando, ovviamente, che la riduzione<br />
del deficit è a sua volta funzionale a tale diminuzione.<br />
Non si può fingere di ignorare questa realtà.<br />
Ciò non vuol dire, tuttavia, che i vincoli comunitari non siano perfettibili e<br />
che il Patto di stabilità non possa essere reso più “intelligente”.<br />
Bene ha fatto, pertanto, il Governo italiano a spingere in questa.<br />
La riforma del Patto di stabilità: quando la flessibilità non sacrifica il rigore<br />
• La riforma, approvata il 27 giugno scorso, dal Consiglio UE, del Patto di stabilità<br />
è assolutamente condivisibile e rappresenta una feconda evoluzione della governance<br />
economica europea, posto che è riuscita nell’intento di lasciare maggiore<br />
margine ai governi europei per le loro politiche economiche, senza tuttavia modificare<br />
i presidi del 3% per cento per il deficit e del 60% per il debito.<br />
Sul punto, ricordo che le principali modifiche relative al rafforzamento della<br />
sorveglianza delle posizioni di bilancio e al coordinamento delle politiche economiche,<br />
hanno riguardato anzitutto l’obiettivo a medio termine di bilancio: quest’ultimo,<br />
correttamente, può ora essere differenziato per ciascuno Stato membro e<br />
può divergere dal requisito di un saldo prossimo al pareggio o in attivo.<br />
Tale obiettivo specifico, riveduto in caso di importanti riforme strutturali e –<br />
in ogni caso – ogni quattro anni, deve offrire un margine di sicurezza rispetto al<br />
rapporto tra disavanzo pubblico e PIL del 3% ed assicurare rapidi progressi verso la<br />
sostenibilità, consentendo, di conseguenza, rilevanti margini di manovra nel bilancio,<br />
segnatamente per gli investimenti pubblici.<br />
Di particolare rilievo è, inoltre, la peculiare considerazione attribuita alle riforme<br />
strutturali che abbiano un impatto sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze<br />
pubbliche nell’ambito dell’esame dei programmi di stabilità degli Stati membri.<br />
56 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Bruno Tabacci<br />
A tale riguardo, nel valutare la situazione di uno Stato membro, il Consiglio<br />
dovrà tener conto delle eventuali riforme delle pensioni che introducono un sistema<br />
multipilastro, comprendente un pilastro obbligatorio, finanziato a capitalizzazione.<br />
Agli Stati membri che attuano simili riforme viene dunque consentito di deviare<br />
dal percorso di aggiustamento verso il loro obiettivo di bilancio a medio termine<br />
o dall’obiettivo stesso, con una deviazione che rispecchi il costo netto della riforma<br />
del pilastro a gestione pubblica ( a condizione che tale deviazione resti temporanea<br />
e che sia mantenuto un opportuno margine di sicurezza rispetto al valore di riferimento<br />
del disavanzo). Tali regole non potranno che incentivare quelle riforme<br />
strutturali dalle quali dipende la solidità della finanza pubblica.<br />
Ancor più rilevanti , soprattutto per l’Italia, sono inoltre le modifiche alle modalità<br />
di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi.<br />
Sono stato infatti ampliati i casi in cui il superamento del valore del 3% può essere<br />
considerato eccezionale e temporaneo e può quindi (se resta vicino a detto valore)<br />
essere giustificato: si è stabilito, infatti, che può essere considerato eccezionale<br />
un superamento del valore di riferimento risultante da un tasso di crescita negativo<br />
o dalla diminuzione cumulata della produzione durante un periodo prolungato di<br />
crescita molto bassa in relazione alla crescita potenziale; in secondo luogo, si è disposto<br />
che la Commissione, nel preparare la relazione sulla situazione di disavanzo<br />
eccessivo, tenga presenti tutti gli altri fattori rilevanti; la relazione deve in particolare<br />
riflettere in maniera appropriata gli sviluppi relativi alla posizione economica a<br />
medio termine (in particolare la crescita potenziale, le condizioni congiunturali<br />
prevalenti, l’attuazione delle politiche nel contesto dell’agenda di Lisbona e delle<br />
politiche intese a promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione) e l’evoluzione<br />
della posizione di bilancio di medio termine (in particolare l’impegno per il risanamento<br />
del bilancio nei periodi di congiuntura favorevole, la sostenibilità del debito,<br />
gli investimenti pubblici e la qualità complessiva delle finanze pubbliche).<br />
Inoltre, la Commissione deve tenere nella debita considerazione tutti gli altri<br />
fattori significativi, con particolare attenzione agli sforzi di bilancio intesi ad aumentare<br />
o a mantenere a un livello elevato i contributi finanziari a sostegno della<br />
solidarietà internazionale e della realizzazione degli obiettivi delle politiche europee,<br />
segnatamente l’unificazione dell’Europa.<br />
Infine, anche in tal caso, in tutte le valutazioni finanziarie nel quadro della procedura<br />
medesima, la Commissione e il Consiglio devono tenere nella debita considerazione<br />
l’attuazione di riforme delle pensioni che introducono un sistema multipilastro<br />
comprendente un pilastro obbligatorio, finanziato a capitalizzazione.<br />
A tal fine, nel caso di Stati membri il cui disavanzo superi il valore di riferimento,<br />
pur rimanendo prossimo ad esso, e qualora tale superamento rispecchi l’attuazione<br />
di riforme delle pensioni, si tiene conto del costo netto della riforma in maniera<br />
linearmente decrescente per un periodo transitorio di cinque anni.<br />
57
Bruno Tabacci<br />
Da ultimo, ma non certo per importanza, vanno ricordate le nuove norme relative<br />
al termine per la correzione del disavanzo eccessivo, pari di norma ad un anno<br />
dalla sua constatazione, ma che in caso di circostanze particolari può essere aumentato<br />
di 1 anno (2 anni dopo la sua constatazione, come previsto dalla raccomandazione<br />
adottata il 12 luglio nei confronti dell’Italia).<br />
I termini fissati per la correzione possono dunque essere riveduti e prorogati<br />
qualora durante una procedura per i disavanzi eccessivi si verifichino eventi economici<br />
sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative sul bilancio, mentre<br />
il termine entro il quale il Consiglio può decidere di irrogare sanzioni per inadempimento<br />
delle proprie raccomandazioni viene esteso da 10 a 16 mesi.<br />
Il combinato disposto delle suddette modifiche ai vincoli di bilancio comunitari,<br />
che assegna un ruolo specifico alla congiuntura economica, non può che essere<br />
visto con favore da un Paese come l’Italia che è invischiato ormai da alcuni anni,<br />
com’è noto, in una trappola di bassa crescita, che a sua volta aggrava una situazione<br />
atavica di difficoltà sul versante dei conti pubblici.<br />
La maggiore attenzione alle condizioni cicliche anche nella procedura di deficit<br />
eccessivo consente dunque di conservare quel rigore indispensabile in una economia<br />
di mercato, garantito dalle norme del Trattato che rimangono pienamente valide,<br />
assicurando nel contempo una maggiore razionalità economica dello stesso<br />
Patto di stabilità e creando degli incentivi per politiche fiscali sane in periodi di alta<br />
crescita.<br />
I nuovi impegni assunti dall’Italia in sede UE<br />
• Se la revisione del Patto di stabilità ha evitato all’Italia l’irrogazione di pesanti<br />
sanzioni pecuniarie per disavanzi eccessivi, rimane intatto il problema del risanamento<br />
strutturale dei nostri conti pubblici, comunque impostoci dall’Unione europea.<br />
Al riguardo, occorre ricordare che l’Italia, anche a seguito delle riclassificazioni<br />
contabili operate da Eurostat, ha fatto registrare un disavanzo pari al 3,2% del PIL<br />
nel 2003 e nel 2004 e destinato a mantenersi, nell’ipotesi di politiche invariate,<br />
nettamente al di sopra del 3% nel 2005 e nel 2006.<br />
Quanto al debito, il rapporto debito/PIL, pari al 106-107% nel 2003 e nel<br />
2004, è tornato nuovamente a crescere nel 2005, risultando nettamente superiore<br />
al valore di riferimento (del 60%).<br />
Il debito, inoltre, non sembra destinato a scendere significativamente nel prossimo<br />
futuro, posto che il livello dell’avanzo primario, inferiore al 2% nel 2004, risulta<br />
pressoché nullo nei prossimi anni.<br />
Rispetto al decennio scorso, in cui il rapporto debito/PIL si è progressivamente<br />
ridotto dal 124,3% del 1995 al 106,6% nel 2004, l’ultimo DPEF prospetta nel<br />
58 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Bruno Tabacci<br />
2005 una inversione di tendenza, con una crescita del debito rispetto al PIL di 1,6<br />
punti percentuali, passando dal 106,6% al 108,2%.<br />
Sulla base di tale scenario, il 12 luglio scorso, il Consiglio ECOFIN, nell’ambito<br />
della procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia, ha adottato una<br />
serie di raccomandazioni, dirette ad impegnare il nostro Paese a:<br />
a) attuare con rigore il bilancio 2005, in particolare mediante la riduzione delle<br />
misure una tantum dall’1,4% allo 0,4% del PIL;<br />
b) prendere le misure necessarie per riportare il deficit al di sotto del 3%, in<br />
modo durevole, entro il 2007. Ipotizzando una crescita del PIL dell’1,5%<br />
nel 2006 e nel 2007, il Consiglio ha raccomandato una riduzione cumulativa<br />
del disavanzo strutturale di almeno l’1,6% del PIL nel periodo 2006-<br />
2007, di cui la metà (0,8%) da conseguire nel 2006;<br />
c) assicurare che il rapporto debito/PIL si riduca ad un ritmo soddisfacente,<br />
conseguendo un avanzo primario di livello adeguato e prestando particolare<br />
attenzione anche ai fattori diversi dal disavanzo netto, come le operazioni<br />
registrate “sotto la linea” (vale a dire operazioni che non incidono sull’indebitamento<br />
netto ma soltanto sul debito);<br />
d) proseguire il risanamento delle finanze pubbliche negli anni successivi al<br />
2007 per poter raggiungere una posizione di bilancio prossima al pareggio o<br />
positiva. In particolare, in linea con la nuova disciplina del Patto di stabilità<br />
e crescita, il Consiglio ha raccomandato alle autorità italiane una riduzione<br />
del deficit, in termini corretti per il ciclo, al netto delle misure temporanee e<br />
una tantum, pari allo 0,5% del PIL.<br />
A seguito dell’attivazione da parte della UE della procedura per disavanzo<br />
eccessivo nei confronti dell’Italia, che ha richiesto l’attuazione di “misure di aggiustamento<br />
permanenti al netto delle una tantum che assicurino un aggiustamento<br />
cumulato pari all’1,6% nel biennio 2006-2007, rispetto al 2005”, l’aggiustamento<br />
strutturale cumulato indicato dal DPEF 2006-2009 risulta pari allo<br />
0,8% del PIL nel 2006, dell’1,8% nel 2007, al 2,4% nel 2008 e al 2,9% nel<br />
2009.<br />
Rispetto all’andamento tendenziale, che prospetterebbe per il 2006 e per il<br />
triennio successivo un indebitamento netto pari al 4,7% del PIL, il DPEF 2006-<br />
2009 ha fissato per il 2006 un obiettivo programmatico di indebitamento netto<br />
pari al 3,8% del PIL, con un recupero dell’ordine dello 0,9% del PIL rispetto al valore<br />
tendenziale.<br />
L’indebitamento netto programmatico risulta da un avanzo primario dello<br />
0,9% (+0,8 punti di PIL rispetto al valore tendenziale) e da una spesa per interessi<br />
del 4,7% (-0,2 punti di PIL rispetto al tendenziale).<br />
Per il 2007, l’obiettivo di indebitamento netto è stato fissato dal DPEF del luglio<br />
scorso al 2,8% del PIL, in modo da scendere al di sotto della soglia del 3%, come<br />
concordato in sede europea.<br />
59
Bruno Tabacci<br />
Nel biennio successivo la riduzione dell’indebitamento netto proseguirà fino a<br />
raggiungere l’1,5% del PIL nel 2009.<br />
In corrispondenza con la riduzione dell’indebitamento netto, dovrebbe registrarsi,<br />
a livello programmatico, un avanzo primario dell’1,8% nel 2007, del 2,5%<br />
nel 2008 e del 3% del 2009.<br />
Per quanto concerne il rapporto debito pubblico/PIL, il quadro programmatico<br />
presentato dal Governo prevede che nel 2006 il rapporto torni a scendere, rispetto<br />
al valore raggiunto nel 2005 (108,2%), al 107,4%; per quanto concerne gli<br />
anni successivi, il rapporto debito/PIL dovrebbe ridursi al 105,2% nel 2007, al<br />
103,6% nel 2008 e al 100,9% nel 2009.<br />
Gli obiettivi fissati dal DPEF del luglio scorso sono stati confermati dalla Relazione<br />
revisionale e programmatica presentata il 30 settembre scorso.<br />
Quali politiche per la riduzione del debito ?<br />
• La matematica elementare del debito ci dice che la sua dinamica rispetto al<br />
prodotto dipende da tre variabili: costo medio del debito, tasso di crescita nominale<br />
dell’economia, saldo primario fra entrate e spese al netto degli interessi: una differenza<br />
positiva fra costo del debito e tasso di crescita fa aumentare il rapporto fra<br />
debito e prodotto nazionale; un avanzo primario lo fa diminuire.<br />
Da tali semplici considerazioni si evince che, tra i diversi fattori in gioco, per<br />
ottenere una riduzione significativa del rapporto debito/Pil occorre, in primo luogo,<br />
un avanzo primario stabile, ove stabile significa di natura strutturale, ossia in<br />
primo luogo depurato da eventuali misure una tantum e da effetti ciclici.<br />
Per raggiungere un tale obiettivo, funzionale al rispetto degli impegni stipulati<br />
in sede Ue, va chiarito subito che, data la congiuntura attuale, la via dell’aumento<br />
della pressione fiscale non è assolutamente percorribile, posto che così facendo si<br />
deprimerebbero ancor di più la propensione al consumo e gli investimenti, ossia<br />
gli stessi presupposti alla base di un possibile rilancio dell’economia.<br />
L’eccesso della spesa corrente<br />
• È evidente pertanto che il risanamento dei conti pubblici dovrà essere strutturale<br />
sul versante della spesa – che, nonostante decreti taglia spese e golden rule, è<br />
cresciuta sensibilmente negli ultimi anni – ma non dovrà incidere né sulle tasche<br />
dei cittadini e sulla qualità dei servizi loro offerti, né sui bilanci delle imprese che<br />
vogliono crescere, rischiare e internazionalizzarsi.<br />
Alla radice dei problemi di finanza pubblica in Europa e in Italia vi è, infatti,<br />
un eccesso della spesa corrente.<br />
60 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
In troppi settori e in troppi ambiti, sussistono privilegi troppo ampi e generosi<br />
in confronto alla capacità delle nostre economie di produrre gettito fiscale senza<br />
imporre aliquote che disincentivino l’offerta di lavoro e gli investimenti.<br />
Per ricondurre davvero la finanza pubblica in equilibrio è dunque indispensabile<br />
controllare la spesa corrente, eliminando inutili sprechi e ingiustificati privilegi,<br />
razionalizzando le spese dello Stato centrale e degli enti decentrati, secondo una<br />
logica aderente al principio di sussidiarietà.<br />
Considerati i vincoli di bilancio e la difficile comprimibilità della spesa corrente<br />
nel breve periodo, deve essere tuttavia altresì chiaro che, nel breve periodo, se<br />
non si intende lasciare dov’è (108,2%) il rapporto debito/Pil, non sono nemmeno<br />
immaginabili ulteriori tagli della pressione fiscale, benché posti in essere ai fini del<br />
rilancio della domanda interna.<br />
Obiettivi indifferibili del prossimo governo<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Bruno Tabacci<br />
• Il primo e indifferibile obiettivo di politica economica di qualunque Governo<br />
si insedierà nella prossima legislatura dovrà essere pertanto l’abbattimento dello<br />
stock di debito e della relativa spesa per interessi.<br />
Ma come? Principalmente attraverso due linee direttrici. La prima è quella della<br />
dismissione degli ancora cospicui assets pubblici di beni e valori mobiliari e immobiliari<br />
e, soprattutto, della loro “valorizzazione”. Quest’ultima è una parola<br />
spesso abusata e che va riempita di significanti concreti, tra i quali ritengo debba<br />
esservi in primis il maggiore coinvolgimento dei privati nella gestione di quell’immenso<br />
patrimonio pubblico di beni paesaggistici, storici, artistici e culturali di cui<br />
l’Italia dispone. L’affidamento ai privati di tale patrimonio, anche mediante un<br />
maggiore utilizzo dello strumento concessorio, oltre ad assicurare cumulativamente<br />
risparmi di spesa e maggiori e significativi introiti alle casse erariali, garantisce,<br />
in definitiva, una migliore e più efficiente salvaguardia dei beni pubblici, ne estende<br />
in modo virtuoso la fruibilità collettiva e contribuisce nel contempo ad implementare<br />
quell’offerta turistica tanto importante ai fini del rilancio della crescita<br />
dell’economia. Peraltro nei giorni scorsi l’ex ministro dell’Industria Giuseppe Guarino<br />
ha rilanciato una proposta di drastica aggressione del debito pubblico che merita<br />
quantomeno di essere vagliata con la massima attenzione prima di essere eventualmente<br />
respinta: attraverso la costituzione di una nuova società per azioni in cui<br />
andrebbe a confluire una fetta rilevantissima del patrimonio dello Stato (partecipazioni<br />
nelle società quotate come Eni, Enel e Finmeccanica, e nelle società non quotate,<br />
immobili anche di valore storico, crediti, beni non utilizzati a fini pubblici ed<br />
altro) stimabile in 430 miliardi di euro circa. La collocazione sul mercato di tale<br />
holding, attraverso la quotazione in Borsa, secondo la proposta di Guarino, consentirebbe<br />
di abbattere in un solo colpo il debito pubblico al 70% del Pil.<br />
61
Bruno Tabacci<br />
La seconda linea direttrice è rinvenibile nella lotta all’evasione e all’elusione fiscale<br />
e a quel 16,5% di Pil di economia sommersa – un dato che per molti analisti<br />
e osservatori è sottostimato e che in realtà si attesterebbe tra il 25 ed il 30%, il doppio<br />
dunque della media dei paesi Ocse – che costituisce il vero ostacolo alla realizzazione<br />
di una equa ed efficiente politica fiscale. Le dimensioni del sommerso sono<br />
tali da inquinare e condizionare negativamente qualunque intervento di politica<br />
economica e, a mio avviso, il contrasto di questa propensione all’evasione che riguarda<br />
da vicino quasi tutte le fasce sociali, non può non costituire la priorità assoluta<br />
di qualunque governo.<br />
A tal fine, andrà ulteriormente migliorata la disciplina vigente sull’immigrazione,<br />
soprattutto al fine di combattere l’evasione contributiva ; andranno introdotti<br />
nuovi incentivi per l’emersione del lavoro irregolare; sul piano tributario, oltre<br />
al rafforzamento organizzativo dell’Amministrazione finanziaria e al coinvolgimento<br />
dei comuni nelle attività di accertamento (come peraltro previsto dalla<br />
manovra finanziaria per il 2006) andranno introdotti – parallelamente alla ulteriore<br />
estensione degli studi di settore – nuovi meccanismi fondati sul c.d. “contrasto<br />
fiscale d’interessi” (in base al quale la lotta all’evasione si realizza anche con<br />
l’ampliamento del novero dei beni e soprattutto dei servizi deducibili dal reddito<br />
imponibile).<br />
In questa direzione, testè molto sinteticamente tracciata, le risorse che via via si<br />
libereranno dalla graduale riduzione della spesa per interessi potranno, in prospettiva,<br />
anche essere destinate ad una ulteriore riduzione della pressione fiscale e, in<br />
tale ambito, ad una riduzione del cuneo d’imposta sul lavoro che, com’è noto, è tra<br />
i più alti dei paesi avanzati.<br />
Indispensabile uno sforzo corale<br />
• Ma senza un sforzo corale per abbattere sensibilmente il fardello del nostro<br />
debito qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia condotto con una deviazione,<br />
benché temporanea, dall’equilibrio strutturale dei conti pubblici, non potrà che essere<br />
velleitario e, in quanto tale, persino controproducente.<br />
E aggiungo, da ultimo, che anche nell’ipotesi, verosimile, di una imminente<br />
sostanziale ripresa dell’economia reale, quale che sia il Governo futuro, non dovrà<br />
cedere alla tentazione, come invece ha fatto il centrosinistra nella scorsa legislatura,<br />
di adottare politiche fiscali espansive pro cicliche; queste ultime, in periodi di crescita<br />
sostenuta, dovrebbero infatti essere generalmente evitate, proprio al fine di<br />
consentirne il ricorso in periodo di bassa crescita.<br />
Tra le ragioni delle attuali difficoltà di bilancio, anche in altri paesi Europei, vi<br />
è infatti l’allentamento del processo di consolidamento fiscale negli ultimi anni del<br />
secolo scorso (1999-2000), quando la crescita economica è stata relativamente so-<br />
62 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Bruno Tabacci<br />
stenuta e proprio per questo lo sforzo per il risanamento avrebbe potuto e dovuto<br />
essere più consistente.<br />
Così come, in questa Legislatura, sarebbe stato forse meglio non “impiccarsi”<br />
all’iniziale programma elettorale, prendendo invece atto, con realismo ed onestà<br />
intellettuale, di come le condizioni oggettive dell’economia avrebbero dovuto esigere<br />
maggiore rigore nelle previsioni di bilancio e maggiore lungimiranza e selettività<br />
nelle politiche di sostegno, troppo sbilanciate sulla domanda e sui consumi<br />
privati, a discapito dell’esigenza di sostenere l’offerta – e dunque l’innovazione, la<br />
ricerca e la qualità – delle nostre imprese nel nuovo scenario ipercompetitivo dell’economia<br />
globalizzata.<br />
L’auspicio è che dunque non si ripetano, nel futuro, i medesimi errori, e che<br />
chiunque assuma la responsabilità del Governo la eserciti con prudenza e senso<br />
dello Stato, ma anche con il coraggio dell’impopolarità ed il senso della concretezza,<br />
per il bene del Paese e, soprattutto, delle giovani generazioni, sulle quali troppo<br />
spesso ricadono gli errori del nostro passato.<br />
<br />
63
Il futuro dell’impresa italiana:<br />
tra economia reale ed economia immateriale<br />
Il cambiamento è caratteristica precipua dei sistemi economici:<br />
non ci può essere sviluppo economico senza un<br />
continuo cambiamento dei modi di produrre, dei prodotti<br />
utilizzati, dei consumi e delle preferenze dei consumatori.<br />
La molla del cambiamento è la concorrenza, ossia<br />
la ricerca continua di fare meglio e di più, per riuscire<br />
a vincere la competizione. Per questo i paesi che più sono<br />
immersi in un clima concorrenziale sono anche quelli<br />
che meglio e prima riescono ad adattarsi a nuovi assetti<br />
e finiscono pertanto per avere maggiori redditi e maggiore<br />
occupazione, pur se nel breve termine appaiono<br />
più stressati e più “a rischio”, per i continui cambiamenti<br />
che si rendono necessari. Al contrario, i Paesi ove imprese<br />
e lavoratori sono al riparo dalla concorrenza, sembrano<br />
vivere nel breve termine in modo più disteso, ma<br />
in realtà perdono posizioni e si impoveriscono in modo<br />
irreversibile: questo ha dimostrato, tra le altre cose, l’esperienza<br />
dei paesi ad economia pianificata dell’area comunista,<br />
che si erano messi al riparo della concorrenza e<br />
che hanno accumulato ritardi incolmabili.<br />
Dal reale all’immateriale<br />
• Se la concorrenza è lo stimolo del cambiamento e della<br />
crescita, l’innovazione tecnologica ne è lo strumento. L’innovazione<br />
non nasce per caso, ma è guidata dai bisogni<br />
espressi dal mercato. E quindi, un mercato dove è forte la<br />
concorrenza, esprime continuamente nuovi bisogni e premia<br />
le soluzioni in termini di profitti e successi. Per questo,<br />
concorrenza ed innovazione tecnologica vanno di pari passo<br />
e contribuiscono a modificare continuamente l’assetto delle<br />
imprese di un Paese.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
INNOCENZO<br />
CIPOLLETTA<br />
Presidente della UBS<br />
Corporate Finance<br />
(Italia) S.p.a.<br />
e Presidente del CdA<br />
dell’Universtà<br />
di Trento<br />
≈<br />
“… una maggiore<br />
competitività di<br />
costo per sostenere<br />
le nostre<br />
esportazioni deve<br />
essere una<br />
costante della<br />
politica e delle<br />
imprese italiane …<br />
(per) conseguire<br />
più elevati livelli<br />
di crescita in un<br />
contesto<br />
internazionale<br />
profondamente<br />
cambiato e<br />
caratterizzato da<br />
una nuova<br />
divisione mondiale<br />
del lavoro”<br />
≈<br />
65
Innocenzo Cipolletta<br />
Lo sanno bene le imprese immerse nella concorrenza: le ragioni del loro successo<br />
sono anche le cause del loro possibile declino, se non sapranno innovare per<br />
tempo, perché altre imprese le imiteranno con costi e innovazioni tali da metterle<br />
fuori mercato. Sicché è normale che il tessuto produttivo di un Paese industriale si<br />
modifichi di continuo e che tali modifiche siano più forti nei periodi di accelerazione<br />
dell’innovazione tecnologica, com’è l’attuale che fa emergere nuovi prodotti,<br />
nuove modi di produrre e nuovi concorrenti che accedono per la prima volta alle<br />
soglie del mercato.<br />
L’Italia è in pieno in questa fase di trasformazione e, mentre si stanno esaurendo<br />
i fattori di successo che hanno contribuito a disegnare la struttura produttiva<br />
del nostro Paese, stanno emergendo nuove tendenze e nuovi sviluppi che contribuiranno<br />
all’emersione di una nuova specializzazione.<br />
Poiché ciò che tende a scomparire è ben noto e visibile e quindi genera preoccupazioni,<br />
mentre ciò che sta per emergere è ancora poco noto, meno visibile ed in<br />
cerca di soluzioni ancora da definire, ne deriva che, nelle fasi di cambiamento sostanziale,<br />
nel Paese emergano più gli svantaggi delle perdite subite e dalle proteste<br />
di chi perde posizioni, che i vantaggi del nuovo che verrà. È anche per questo che<br />
ne deriva spesso l’immagine di un Paese in difficoltà, che sta abbandonando una<br />
posizione nota, senza ancora sapere bene dove approderà. E questo spiega perché<br />
in Italia ci sia molta più preoccupazione per le perdite di alcune posizioni, mentre<br />
c’è poco interesse a quanto di nuovo sta emergendo.<br />
Ma la tendenza che si sta materializzando per l’economia del nostro Paese, segue<br />
anche tracce già sperimentate da chi ci ha proceduto, pur se la via di uscita sarà<br />
tipica delle nostre competenze. L’economia si sta spostando dal reale all’immateriale<br />
e questo caratterizza tutte le imprese, siano esse di beni che di servizi. La prossima<br />
specializzazione dell’economia italiana ricalcherà, verosimilmente, la specializzazione<br />
esistente oggi. E questo non è necessariamente un male o un limite, perché<br />
la nuova specializzazione riguarderà più il modo di fare impresa che il settore o il<br />
mercato di riferimento, che rimarrà, presumibilmente, quello tradizionale del nostro<br />
Paese.<br />
Più servizi, dunque, ma non attraverso un processo di banale terziarizzazione<br />
dell’economia, quanto in una evoluzione che sposta l’impresa dal reale all’immateriale,<br />
pur rimanendo saldamente ancorata nel campo industriale. L’Italia, a mio avviso,<br />
salverà la sua forte anima industriale, ma l’industria che sta emergendo non<br />
sarà simile a quella, fin qui conosciuta, del miracolo economico o dei distretti dove<br />
“piccolo è bello”. Sarà l’Italia dell’impresa densa di servizio e dell’organizzazione<br />
della produzione personalizzata su scala industriale che sta emergendo dalla concorrenza<br />
internazionale. Un’Italia che saprà conservare le sue quote di commercio<br />
mondiale, anche se porterà molta produzione fuori dai nostri confini. Un’Italia dove<br />
la cultura industriale, così radicata a livello locale, farà emergere nuovi modi di<br />
produrre e di servire il mercato, più che nuovi prodotti.<br />
66 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Un nuovo modello di specializzazione<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Innocemzo Cipolletta<br />
• L’Italia ristagna da alcuni anni, malgrado il sistema economico internazionale<br />
sia caratterizzato da una espansione relativamente forte, ma non tale da trascinare<br />
anche il nostro Paese. La crescita mondiale sembra aver lasciato ai margini dello<br />
sviluppo il Vecchio Continente Europeo e le imprese italiane appaiono le più stanche.<br />
Certo, la crescita mondiale si è spostata ad Oriente ed il centro del Mondo –<br />
che un tempo era il Mediterraneo e che poi si è spostato sull’Atlantico – ora sembra<br />
sempre più situarsi sul Pacifico. L’Europa appare distante, tanto che si parla di<br />
vero malessere europeo.<br />
Ma non tutti i Paesi europei si comportano allo stesso modo. Alcuni Paesi continuano<br />
un forte trend di crescita, come la Spagna ed alcuni dei Paesi scandinavi.<br />
Altri, come il Regno Unito e l’Irlanda, appaiono più legati al mondo americano<br />
che a quello europeo. La Germania e la Francia stanno recuperando terreno sul<br />
commercio mondiale e tentano alcuni rilanci di domanda interna. L’Italia appare<br />
più fragile in questo scenario: ancora alle prese con vecchi problemi irrisolti (debito<br />
pubblico, ritardo del Mezzogiorno, insicurezza interna, ecc.), mentre deve affrontare<br />
l’urgenza dei nuovi problemi a cui non può sottrarsi (immigrazione, tecnologie,<br />
invecchiamento della popolazione, ecc.).<br />
Le cause del disagio italiano sono molte e molto si è discusso su di esse, fino a<br />
teorizzare una sorta di declino industriale per il nostro Paese. Non sono così pessimista,<br />
ma è certo che l’Italia sta assistendo all’esaurirsi del modello di crescita che<br />
l’aveva caratterizzata fino ad oggi e deve quindi adattarsi ad un nuovo modello.<br />
Per molti anni la crescita del nostro Paese è stata assicurata dalle esportazioni e<br />
la politica economica del Paese è stata coerente con questo obiettivo. Durante il<br />
periodo del Miracolo Economico (anni ’50 e ’60) le esportazioni sono cresciute<br />
grazie ai bassi costi di produzione del nostro Paese ed alla compressione della domanda<br />
interna, con il risultato di accrescere reddito e benessere di tutti. Ma con<br />
l’aumento del reddito, sono cresciuti anche i costi di produzione, sicché per mantenere<br />
il nostro modello di sviluppo abbiamo fatto ricorso alle svalutazioni della lira<br />
(anni ’70, ’80 ed in parte ’90): il risultato è stato quello di mantenere una certa<br />
capacità di crescita, ma a scapito di un impoverimento interno, generato dalla forte<br />
inflazione derivante dalle svalutazioni e dall’aumento dei tassi di interesse e dell’indebitamento<br />
pubblico.<br />
L’aver posto fine al circuito perverso “svalutazione – inflazione – impoverimento”<br />
con l’ingresso dell’Italia nell’euro a metà degli anni ’90, ha migliorato nettamente il<br />
livello di vita interno, ma ha peggiorato la capacità di crescita, per il venir meno del<br />
traino delle esportazioni, che continuano a sostenere molte aziende italiane ma non<br />
rappresentano più la componente più dinamica dell’economia. Di fatto oggi l’Italia<br />
“sta meglio” perché ha un tasso di disoccupazione più basso di dieci anni fa, maggiore<br />
occupazione e da lavoro a molti immigrati, ma non riesce a crescere.<br />
67
Innocenzo Cipolletta<br />
Se la ricerca di una maggiore competitività di costo per sostenere le nostre esportazioni<br />
deve essere una costante della politica e delle imprese italiane, tuttavia occorre<br />
anche che esse si posizionino su segmenti di mercato che consentano, a loro ed al Paese,<br />
di conseguire più elevati livelli di crescita in un contesto internazionale profondamente<br />
cambiato e caratterizzato da una nuova divisione mondiale del lavoro.<br />
La competizione massiccia a livello mondiale<br />
• Siamo in una fase di eccesso di offerta di capacità produttiva a livello mondiale.<br />
L’ingresso sul mercato di produttori come la Cina e l’India in una fase di rapida<br />
diffusione dell’innovazione tecnologica ha comportato una competizione<br />
massiccia sui settori tradizionali dell’industria con una forte riduzione dei prezzi e<br />
dei margini di profitto delle imprese. Questo fenomeno era ed è inevitabile. Anzi<br />
esso è auspicabile, dato che comporta il progressivo sviluppo di paesi ed aree finora<br />
caratterizzati da una povertà assoluta. Nel medio termine, esso significa la crescita<br />
di un mercato mondiale a dimensioni tali da consentire a tutti i paesi spazi significativi<br />
di crescita e di benessere. D’altra parte, ai suoi tempi, anche il nostro Paese si<br />
è sviluppato grazie a comportamenti analoghi, guadagnando quote di mercato a<br />
discapito di altri paesi, imitando ed innovando i prodotti che altri avevano immesso<br />
nel mercato e sfruttando i più bassi costi di produzione.<br />
Ma, se nel medio termine l’evoluzione sarà positiva, nel breve termine questo<br />
fenomeno sta determinando difficoltà a molti produttori. In realtà si sta osservando<br />
un processo di specializzazione produttiva a livello mondiale. Tale processo,<br />
sempre presente sulla base dei vantaggi comparati, subisce accelerazioni nelle fasi<br />
di eccesso di capacità produttiva, perché le imprese meno solide tendono a scomparire<br />
più rapidamente proprio perché la scarsa domanda rispetto all’offerta penalizza<br />
in modo più forte chi non ha capacità competitive di costo e/o di qualità.<br />
La specializzazione produttiva tende a concentrare le attività produttive di una<br />
regione o Stato in quelle che sono più vantaggiose ed in quelle che sono più protette<br />
in modo naturale: le prime hanno una protezione implicita nei vantaggi competitivi<br />
assunti grazie ad una tradizione di conoscenze e di abilità che difficilmente si<br />
riesce a sostituire. Le seconde sono protette naturalmente perché si tratta di attività<br />
che hanno scarsa competizione (commercio e distribuzione, servizi alle persone,<br />
distribuzione di energia, editoria e comunicazioni, costruzioni, logistica, ecc.).<br />
Il ritmo lento dell’Italia<br />
• Per l’Italia questa evoluzione si sta traducendo, quasi paradossalmente, in<br />
una sorta di cristallizzazione della nostra struttura produttiva sui settori tradiziona-<br />
68 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
li. Infatti, perdiamo capacità produttiva ed imprese in settori in cui non c’è una<br />
forte tradizione (in particolare nei settori tecnologicamente avanzati dove la presenza<br />
del Paese era già scarsa), mentre cresce la specializzazione in alcuni settori o<br />
imprese tradizionali in cui abbiamo specifiche competenze e siamo tradizionalmente<br />
forti, malgrado essi siano in diretta competizione con i nuovi produttori<br />
(alta moda, elettrodomestici di consumo, componentistica dell’auto, macchine<br />
utensili, legno e mobilio di alta gamma, ecc.). Inoltre aumenta il peso e l’interesse<br />
degli imprenditori per i comparti “protetti”, ossia quelli in concessione (autostrade,<br />
energia, comunicazioni, attività locali, servizi, ecc.), dove la pressione<br />
della concorrenza internazionale è inferiore o si manifesta più in termini di controllo<br />
che di presenza di attività produttiva. Ne sono esempi l’investimento forte<br />
di capitali privati nelle telecomunicazioni, nelle autostrade, nell’energia, nelle<br />
banche, ecc..<br />
Una simile evoluzione avviene in molti dei Paesi europei, ognuno con le sue<br />
specialità e con le sue protezioni. Non si tratta di rammaricarsi o di contrastarla per<br />
perseguire ipotetiche altre vie. La cosa migliore da fare, a mio avviso, è quella di investire<br />
in questa tendenza per trarne il maggior vantaggi e posizionarsi meglio per<br />
quando anche paesi come la Cina e l’India saranno grandi mercati di sbocco, oltre<br />
che competitori temibili per le produzioni a basso costo.<br />
L’industria dei servizi<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Innocemzo Cipolletta<br />
• Seguire e favorire la tendenza in atto significa capire che l’economia si sta<br />
spostando dalla parte dei servizi: l’industria dei prossimi anni sarà un’industria di<br />
servizi, intesa nel senso che la componente di servizio nei prodotti industriali aumenterà<br />
notevolmente e che il consumatore finale – sia esso impresa o famiglia –<br />
acquisterà sempre più prodotti industriali sofisticati, non già direttamente, ma attraverso<br />
un servizio. Questa è la rivoluzione che stiamo osservando e che consentirà<br />
alle industrie italiane di competere con paesi a più bassi costi di produzione e<br />
di allargare la domanda interna che rappresenterà la componente dinamica della<br />
crescita dei paesi di vecchia industrializzazione.<br />
Il servizio è sempre stato una componente del prodotto industriale: basti pensare<br />
alla ricerca, al design, al marketing, alla commercializzazione, all’assistenza post<br />
vendita e così via. Ma finora questa componente è stata vissuta essenzialmente<br />
come funzionale alla produzione manifatturiera, la cui logica era prevalente. Questo<br />
è il mondo delle commodities, ossia il mondo dei prodotti standard pur se con<br />
diverse opzioni. La crescita dei servizi si è così manifestata essenzialmente attraverso<br />
l’outsourcing di funzioni di servizio che hanno generato molte imprese del cosiddetto<br />
“terziario avanzato”: dalle imprese di informatica a quelle di amministrazione,<br />
di engeneering, di marketing, di design, di progettazione, ecc.<br />
69
Innocenzo Cipolletta<br />
Ma una nuova fase si sta presentando: quella dei beni industriali personalizzati,<br />
pur se prodotti in quantità relativamente elevata. Si tratta di prodotti con un forte<br />
contenuto di servizio inglobato dentro, perché studiati per le esigenze specifiche<br />
del cliente: al punto che la manifattura del prodotto può essere anche delocata,<br />
mentre prendono sempre maggiore consistenza e restano nel nostro Paese, tutte le<br />
funzioni a più elevato valore aggiunto.<br />
Questa “nicchia” di produzioni è sempre esistita, e in Italia è ben nota perché<br />
rappresenta un comparto dove le qualità della nostra manifattura possono eccellere.<br />
Si tratta di imprese ove è presente, al tempo stesso, una forte componente artigianale,<br />
industriale e di servizio. Ma questo comparto è destinato a crescere in misura<br />
rilevante e ad assumere connotati industriali, grazie sia alla tecnologia che all’ampliarsi<br />
del mercato.<br />
Innovazione tecnologica e flessibilità<br />
• L’innovazione tecnologica sta rendendo flessibili i sistemi di produzione e<br />
consente di adattare i prodotti a specifiche esigenze: basti pensare alla moda, con il<br />
ritorno di vestiti “sartoriali” in produzione di serie, nel senso che il prodotto standard<br />
può essere adattato alle misure specifiche del cliente trasmesse per via informatica<br />
ai macchinari industriali che li producono. Ma il campo dove questa forma<br />
di personalizzazione è più evidente è quello delle macchine utensili e degli impianti,<br />
che devono adattarsi alle esigenze dei clienti ed essere sempre diverse l’una dall’altra,<br />
pur avendo basi di ricerca e di soluzioni tecnologiche comuni. E questo è un<br />
settore dove l’Italia eccelle e che sta allargando la sua quota.<br />
Queste produzioni industriali nascono da una forte componente di servizio,<br />
producono servizi (assistenza, adattamento, ecc.), occupano intelligenze e possono<br />
essere montati vicino al cliente che spesso è localizzato in aree lontane. Basti pensare<br />
alle macchine a controllo numerico che sono vendute in tutto il mondo, essendo<br />
l’Italia e l’Europa un mercato troppo ridotto.<br />
Se queste produzioni sono sempre esistite e se l’innovazione tecnologica le sta<br />
rilanciando, resta il fatto che il loro sviluppo è derivato soprattutto dall’ampliarsi<br />
di una domanda che non è più locale. Posto che tali produzioni sono di gamma<br />
elevata e, quindi, hanno un mercato relativamente ristretto, la loro crescita non<br />
può avvenire che in caso di un forte allargamento del mercato. Questo è avvenuto<br />
grazie alla globalizzazione che ha ampliato il mercato e fatto crescere la classe di<br />
consumo (persone ed imprese) di fascia medio/alta che costituisce il mercato di riferimento<br />
di queste produzioni.<br />
È così che, alta moda, macchine utensili, mobili, elettronica di consumo, ecc.,<br />
sono comparti che sono cresciuti personalizzandosi e dotandosi di servizi impliciti,<br />
tanto che meno rilevante appare oggi il sapere dove essi sono stati prodotti, mentre<br />
70 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
esta sempre più importante capire dove e chi li ha concepiti e chi assicura il servizio<br />
complessivo. Rientra in questa accezione il mondo dei marchi, il cui valore è<br />
fatto da una somma di servizi che si sono consolidati nel tempo e consentono di<br />
soddisfare esigenze sofisticate di una clientela di livello medio/alto, capace di remunerare<br />
costi elevati, che così coprono il valore del lavoro di paesi industriali che<br />
non possono competere con i paesi di nuova industrializzazione presenti ornai sui<br />
prodotti standard.<br />
Rientra in questa accezione anche tutto il mondo della subfornitura di qualità,<br />
per produzioni studiate assieme al committente e prodotte spesso in esclusiva per<br />
lui. È la filiera delle competenze, dove una impresa concepisce e commercializza<br />
un prodotto, la cui impostazione, produzione e assemblaggio è allocata presso una<br />
serie di imprese italiane ed estere che hanno collaborato allo studio ed alla ricerca<br />
delle soluzioni. Queste imprese operano con tempi di consegna predefiniti e certi,<br />
in una ideale catena di montaggio estesa in tutto il mondo e che si materializza, di<br />
volta in volta, con soluzioni diverse, a seconda delle opportunità e dei mercati da<br />
servire. Impliciti o espliciti in tali filiere sono i servizi di logistica, di informatica, di<br />
organizzazione e quanto altro renda effettivamente efficiente ed unica una simile<br />
organizzazione.<br />
Leader nei propri mercati di riferimento<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Innocemzo Cipolletta<br />
• Questa tendenza all’immateriale nella produzione industriale si sposa bene<br />
con la caratteristica di piccola impresa che continuerà a rappresentare una specificità<br />
italiana. Ma la piccola impresa di domani non sarà la piccola impresa che<br />
abbiamo conosciuto fin qui. E questo perché la grandezza del mercato di riferimento<br />
influenza anche la grandezza delle imprese. Fin tanto che i mercati di riferimento<br />
sono stati locali, la dimensione delle imprese italiane era proporzionate<br />
a tali mercati, nel senso che grandi, medie e piccole aziende erano riferite al mercato<br />
specifico. Si potevano così avere grandi imprese locali che invece risultavano<br />
medie o piccole se confrontate con altre che operavano su mercati di dimensioni<br />
diverse.<br />
Partendo da questi presupposti, si può dire che, in epoca di globalizzazione,<br />
con la estensione dei mercati ed il ridursi delle barriere locali, la dimensione media<br />
delle aziende tende a crescere perché cresce il mercato di riferimento. Questo non è<br />
sempre vero, ma può esserlo mediamente, se mercato globale significa la possibilità<br />
di servire imprese e consumatori dislocati a distanza rilevante, con abitudini, comportamenti<br />
e regole diverse rispetto a quelle con le quali si è avuto a che fare fino a<br />
ieri. In altre parole, nel mercato globale ci sarà sempre un posto importante per le<br />
piccole e medie imprese, ma la piccola impresa del mercato globale dovrà essere<br />
mediamente più grande della piccola impresa del mercato locale.<br />
71
Innocenzo Cipolletta<br />
Tuttavia questa affermazione merita un’ulteriore specificazione. In genere<br />
quando si parla di dimensione aziendale si fa riferimento al numero degli addetti<br />
o, meno frequentemente, al fatturato dell’impresa stessa. Questi riferimenti sono<br />
senza dubbio utili, se non necessari, quando si fanno indagini statistiche per quantificare<br />
il fenomeno della piccola impresa e cercare di analizzarne i comportamenti<br />
con riferimento a diverse variabili e situazioni. Tuttavia appare ben chiaro come<br />
questa accezione della dimensione non sia sempre valida e risulti a volte incapace<br />
di rendere a pieno il senso di dimensione aziendale.<br />
In realtà il numero degli addetti di una impresa non pretende di delimitarne la<br />
dimensione, ma sta ad indicare altre caratteristiche dell’impresa stessa: la quota di<br />
mercato detenuta, la complessità della sua organizzazione interna, il capitale investito,<br />
l’esistenza di professionalità multiple, il numero e la qualità dei contatti con<br />
l’esterno, la capacità o meno di ricorrere a servizi esterni, l’articolazione dei rapporti<br />
tra management e proprietà, gli investimenti in ricerca ed innovazione, la sua<br />
proiezione sul mondo esterno, la capacità di influenzare il mercato di riferimento e<br />
quella di prevederne le evoluzioni, il controllo esercitato da investitori istituzionali<br />
e da autorità, e così via. Tutte queste caratteristiche possono concorrere a fare grandi<br />
o piccole le imprese. Da esse se ne deduce che anche imprese di dimensioni piccole,<br />
secondo l’accezione del numero degli addetti, possono essere considerate come<br />
imprese medie o grandi se riescono ad avere peculiarità specifiche come organizzazione,<br />
rapporto con il mercato, ricerca, ecc.<br />
Le dimensioni delle imprese competitive<br />
• Se è vero che la globalizzazione presuppone dimensioni maggiori delle<br />
stesse piccole imprese, ecco allora che tale crescita non deve essere intesa solo come<br />
numero di addetti, o meglio essa non deve essere perseguita banalmente accrescendo<br />
addetti e fatturato, ma assumendo caratteristiche da grande impresa,<br />
pur se si dovesse rimanere con lo stesso numero di dipendenti. Più in particolare,<br />
le imprese piccole e medie di domani avranno a disposizione competenze, professionalità,<br />
organizzazione e contatti di livello non diverso da quello che oggi<br />
caratterizzano una grande azienda. Ciò è possibile grazie alla specializzazione del<br />
mercato che offre servizi che un tempo erano appannaggio della grande impresa,<br />
perché essa era la sola che aveva la dimensione per produrli al suo interno. Oggi,<br />
invece, è possibile acquistare sul mercato sistemi di organizzazione e servizi che<br />
sono nati dall’outsourcing di funzioni interne di grandi imprese. Le piccole imprese,<br />
per crescere senza dover necessariamente aumentare di dipendenti, faranno<br />
ricorso a questi servizi, quindi dovranno avere una capacità di scelta e di valutazione<br />
che spesso è legata alla cultura ed alla esperienza. La globalizzazione in<br />
atto presuppone un accrescimento delle competenze di tutti. Questo significa<br />
72 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Innocemzo Cipolletta<br />
dover crescere per competere in un mercato globale, anche se si vuole, o si deve,<br />
restare piccoli.<br />
Ma la grandezza di una impresa è funzione anche del mercato di riferimento.<br />
In altre parole, la quota di mercato detenuta e la capacità di influenzare il mercato<br />
di riferimento sono fattori che hanno un ruolo non secondario nel determinare la<br />
dimensione di una azienda, o meglio nel sapere se essa deve solo difendersi o può<br />
attuare anche una strategia di attacco sul mercato.<br />
La dimensione del mercato di riferimento non è un dato assoluto imposto dalle<br />
circostanze, ma può essere, entro certi limiti, una scelta dell’impresa stessa. Sempre<br />
più le imprese tendono a focalizzare la propria attività su ciò che sanno fare in<br />
maniera eccellente, mentre si ricorre a committenti esterni per acquisire ciò che<br />
non si sa fare o ciò che non conviene produrre in proprio. La scelta tra il make o il<br />
buy per le imprese di tutte le dimensioni rappresenta una scelta fondamentale al fine<br />
di poter perseguire un’alta qualità.<br />
Questa tendenza, che spinge sempre più verso una frammentazione del modello<br />
produttivo, implica anche la creazione di mercati tanto segmentati quanto lo sono<br />
le diverse parti o funzioni in cui si riesce ad articolare il processo produttivo.<br />
Sono queste le “nicchie” produttive dove le piccole imprese cercano riparo dalla<br />
concorrenza generalista delle grandi imprese: riuscire ad essere leader mondiale di<br />
una piccola fase produttiva o di una specifico bene o servizio, consente alle piccole<br />
imprese di poter dominare il proprio mercato di riferimento, di poterne influenzare<br />
l’evoluzione governando la tecnologia, di potersi imporre malgrado una dimensione<br />
ridotta. Certo, il vantaggio non sarà mai eterno perché altri concorrenti vorranno<br />
entrare in quel mercato, mentre non si potrà mai imporre la proprio volontà<br />
all’acquirente, specie se è un a grande impresa, a rischio che questa ultima favorisca<br />
la nascita di un concorrente o decida di internalizzare la funzione se le pretese del<br />
fornitore appaiono troppo onerose. Ma, se si riesce a governare il mercato, seguendo<br />
le esigenze del committente, collaborando con esso, investendo in innovazione<br />
e mantenendo una certa articolazione della clientela, allora si può essere una grande<br />
impresa pur rimanendo piccoli, perché si avranno ruoli e funzioni da grande<br />
impresa, fino a poter essere dei veri monopolisti del proprio segmento di mercato.<br />
Questa ricerca di nicchie produttive e di focalizzazione della produzione presuppone<br />
una organizzazione di impresa orientata al mercato, pronta al cambiamento<br />
e capace di mantenere elevate professionalità al suo interno. In altre parole,<br />
presuppone una crescita dell’impresa che gli consenta di rimanere leader sul mercato<br />
di riferimento, ciò che costituisce una chance in più per operare sul mercato globale.<br />
E questa è una tendenza già visibile per le imprese italiane che si accentuerà<br />
nel futuro. Già oggi siamo leader in specifici settori (freni per auto, macchine per<br />
la stampa dei giornali, macchine per imballaggi, ecc.) dove imprese di media se<br />
non piccola dimensione di fatto controllano quote significative del loro mercato di<br />
riferimento e sono determinanti nel guidare le tendenze della tecnologia, dei prez-<br />
73
Innocenzo Cipolletta<br />
zi. Molto più di quanto non lo siano le poche “grandi” imprese italiane che operano<br />
in mercati così vasti dove loro non controllano che quote marginali. Questo è il<br />
caso, ad esempio, dell’automobile o dell’energia.<br />
La domanda di servizi quale motore dell’industria moderna<br />
• Ma anche la domanda interna giocherà un ruolo determinante nella nuova<br />
specializzazione dell’economia italiana. Infatti la crescita della domanda interna<br />
privilegerà sempre più i servizi, i cui contenuti di innovazione e di consumi<br />
industriali sarà una molla potente per la crescita qualitativa e quantitativa<br />
del Paese. Come in altri Paesi industriali, l’Italia vedrà crescere una domanda di<br />
servizi che impiegano e “consumano” consistenti volumi di prodotti industriali<br />
moderni e sofisticati, la cui produzione presuppone imprese industriali capaci<br />
di interpretare i nuovi bisogni: ossia imprese industriali di servizi come prima<br />
descritte.<br />
I consumi delle famiglie e delle imprese sono in misura crescente orientati verso<br />
i servizi moderni. Questo non significa che consumeremo sempre più servizi e<br />
sempre meno beni. Significa invece che consumeremo molti beni non più in via<br />
diretta, ma attraverso il ricorso ai servizi. Ed i beni che consumeremo attraverso i<br />
servizi saranno spesso ben più sofisticati e moderni di quelli che consumeremo acquistandoli<br />
direttamente. Ecco perché una società con una crescente domanda interna<br />
di servizi è una società fortemente industriale, dove l’industria è moderna e<br />
vicina ad i nuovi bisogni dei consumatori. Una industria che è anche tecnologicamente<br />
più avanzata e basata sulla ricerca, con contenuti di servizio superiori all’industria<br />
tradizionale dei beni di massa.<br />
Di fatto, la struttura dei consumi delle famiglie si sta spostando verso i servizi,<br />
sia per i nuovi bisogni, sia per quelli tradizionali. Basti pensare all’alimentazione,<br />
che si sta spostando verso la ristorazione, sia nei momenti di lavoro che in quelli<br />
del tempo libero. Lo stesso vale per i divertimenti, lo sport, il turismo, dove si tende<br />
sempre più, a non consumare direttamente i beni, ma si transita attraverso un<br />
servizio. In questi casi, si usano beni industriali più moderni, più sofisticati e rinnovati<br />
in continuità, rispetto al caso di un uso diretto di tali beni.<br />
Alcuni esempi possono aiutare a capire meglio. Mangiare a casa implica l’uso<br />
di macchinari e tecnologie decisamente meno avanzati di quelli a cui si ricorre indirettamente<br />
quando si mangia in un ristorante o in una mensa, dove l’approccio<br />
industriale della produzione impone macchine efficienti e tecnologie moderne.<br />
Andare in una palestra per fare esercizi ginnici, oggi implica l’uso di macchinari<br />
complessi ed una assistenza specialistica, mentre la ginnastica a casa propria comporta<br />
pochi acquisti di materiali e nessun servizio. Curarsi presso un ospedale, una<br />
clinica o ricorrere ad un laboratorio medico, ci porta ad utilizzare macchinari sofi-<br />
74 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
sticati che mai potremmo avvicinare ricorrendo al medico di famiglia o curandoci<br />
da soli con l’acquisto di medicine e macchine specifiche.<br />
In tutti questi esempi – e facendo astrazione dalla soddisfazione personale – il<br />
ricorso al servizio rispetto al “fai da te” implica un consumo indiretto di beni industriali<br />
sofisticato e basato spesso su ricerca ed uso di moderne tecnologie. Implica<br />
quindi anche l’esistenza di imprese industriali che sanno rispondere alle esigenze<br />
dei nuovi consumatori e che sanno servire il loro mercato di riferimento, direttamente<br />
connesse con le imprese che erogano il servizio, in una filiera di competenze<br />
che fa crescere le imprese e fa sviluppare il Paese nella direzione dell’innovazione e<br />
della ricerca.<br />
Poiché questi servizi hanno spesso anche una certa protezione nei confronti<br />
della concorrenza estera, posto che devono essere forniti in prossimità ed a contatto<br />
con il consumatore finale, questo orientamento della domanda verso i servizi è<br />
un modo per mantenere quote di reddito e di lavoro nei Paesi industriali in fasi di<br />
forte concorrenza estera da parte di Paesi di nuova industrializzazione. Se accanto a<br />
questi servizi nasce poi la filiera industriale, allora anche questa filiera riceve una<br />
sorta di protezione, almeno temporanea, che gli garantisce di potersi sviluppare per<br />
competere poi nel mondo. Questa appare essere la tendenza di mercati come quello<br />
italiano, che potranno sviluppare segmenti di servizi densi di industria, così come<br />
l’industria si sta continuamente vestendo di servizio.<br />
Liberare i servizi<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Innocemzo Cipolletta<br />
• Le possibilità di sviluppo dell’economia italiana riposano dunque sulla capacità<br />
che avrà il Paese di rafforzare la specializzazione produttiva in atto, allargandola<br />
anche ad altri comparti, di far crescere le proprie imprese che devono orientarsi<br />
sempre più sul contenuto di servizio della loro produzione, di far crescere un comparto<br />
di servizi professionali moderni, capaci di interagire con le imprese industriali<br />
e di far emergere una nuova domanda interna che privilegerà i servizi i cui contenuti<br />
di innovazione e di consumi industriali sarà una molla potente per la crescita<br />
qualitativa e quantitativa del Paese.<br />
Questa tendenza è comune a molte economie industriali, ma il nostro Paese<br />
può accelerarla, beneficiandone dei vantaggi, o ritardarla finendo per stare più a<br />
lungo nella fase del disagio. La via per accelerarla sta nell’ampliamento della concorrenza.<br />
Occorre eliminare molte delle protezioni esistenti che impediscono l’emergere<br />
di nuove imprese e di nuovi modi di consumo, ritardando gli adeguamenti<br />
necessari: ciò che non impedisce al paese di perdere le vecchie strutture produttive,<br />
ma rallenta e diminuisce la crescita delle nuove.<br />
È necessario un processo di liberalizzazioni e di aumento della competizione<br />
che acceleri le tendenze in atto: tutto il contrario di quanto spesso si chiede in fasi<br />
75
Innocenzo Cipolletta<br />
difficili, ossia protezioni per difendersi e prendere tempo. L’aumento di concorrenza<br />
favorisce la concentrazione delle attività in operatori più grandi, capaci di competere<br />
sul mercato interno ed internazionale. Di questo ha bisogno l’Italia per<br />
competere nel mondo: operatori più grandi e più professionali, come è stato detto<br />
in precedenza.<br />
Liberalizzazione e competizione mondiale<br />
• Le liberalizzazioni e la competizione sono essenziali se si vuole che i settori<br />
naturalmente protetti crescano come dimensione, sviluppino una domanda di innovazione<br />
e ricerca e siano domani dei competitori mondiali, quando le loro protezioni<br />
verranno meno in seguito ai progressi della scienza e della tecnologia. Un<br />
caso è emblematico: le professioni, che sono protette da legislazioni rigide, sono il<br />
settore di maggior creazione imprenditoriale in molti paesi moderni. Avvocati, architetti,<br />
ingegneri, medici, giornalisti, ecc., stanno creando nel mondo imprese di<br />
dimensioni grandi, capaci di essere presenti con loro filiali ed affiliati in tutto il<br />
mondo. È così che si internazionalizzano attività che, per la loro natura, erano tipicamente<br />
locali e protette (consulenza giuridica, logistica, gestione di aeroporti, ingegnerizzazione<br />
di processi, progettazione di edifici e di complessi, ecc.). L’Italia,<br />
invece, ha preso dei ritardi in questi settori perché la legislazione protettiva esistente<br />
e il sistema di corporazioni che si è costituito rendono ardua la trasformazione in<br />
imprese di queste attività, ne impedisce la pubblicità, ne frenano la concorrenza<br />
stabilendo prezzi e tariffe e così via.<br />
È tutto il comparto dei servizi che necessita di maggiore competizione: professioni,<br />
commercio, comunicazioni, trasporti, finanza, distribuzione dell’energia,<br />
ecc., sono i settori per i quali è opportuno accelerare la concorrenza, così come prevede<br />
la direttiva europea sui servizi (la cosiddetta direttiva Bolkestein), oggi boicottata<br />
in molti paesi europei. Un analogo processo di concorrenza e liberalizzazione<br />
deve poi riguardare alcuni servizi collettivi, come l’educazione e la sanità che rappresentano<br />
i consumi privilegiati di domani.<br />
Per mantenere le sue posizioni sui mercati mondiali, per crescere di dimensioni<br />
e di capacità produttiva, per svilupparsi ed aumentare il livello del reddito, il nostro<br />
Paese ha bisogno di maggiore competizione e di maggiori liberalizzazioni.<br />
Queste sono anche le chiavi per una ripresa economica, che non può più dipendere<br />
solo da capacità competitiva di prezzo, ma che deve riposare sulla qualità dei nostri<br />
prodotti e servizi e sulla capacità delle nostre imprese.<br />
76 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
<strong>Economia</strong> e sistema politico italiano:<br />
un rapporto corretto o c’è qualcosa da<br />
cambiare?<br />
L’argomento che mi è stato assegnato può essere affrontato<br />
riflettendo sull’intera storia economia dell’Italia<br />
repubblicana e può dar luogo a tre tipi diversi di<br />
risposte.<br />
Il primo. Non vi è stato alcun rapporto fra il sistema<br />
politico italiano e lo sviluppo economico dell’Italia. La<br />
questione non si pone in quanto la crescita dell’economia<br />
italiana sarebbe avvenuta più o meno negli stessi<br />
termini sotto un qualunque assetto politico, naturalmente<br />
di ordine democratico ed inserito nella economia<br />
occidentale.<br />
Il secondo. Il sistema politico italiano ha dato un apporto<br />
positivo allo sviluppo della nostra economia. E<br />
questo può essere assunto misurandone gli effetti sulla<br />
base di qualche parametro quantitativo (livello di occupazione<br />
o divario Nord-Sud). Oppure sulla base di<br />
qualche valutazione politica di aspetti socio-economici<br />
(divari sociali, livello e qualità del Welfare, tenuta<br />
della famiglia, etc.).<br />
Il terzo. La crescita dell’economia italiana è stata così<br />
sostenuta nonostante il ruolo negativo che ha svolto il<br />
sistema politico. Se quest’ultimo fosse stato più prossimo<br />
a quello di altri paesi europei, la crescita avrebbe<br />
potuto essere più sostenuta, o più equilibrata, oppure<br />
meno ciclica.<br />
Le caratteristiche del nostro sistema economico<br />
• Avendoci convissuto, come cittadino di questa repubblica,<br />
so che si è trattato di un sistema fondato su un forte<br />
potere di parecchi partiti di diversa dimensione, su un sistema<br />
parlamentare molto forte e governi tendenzialmente de-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
PIERO BARUCCI<br />
Economista<br />
≈<br />
“L’Italia ha<br />
bisogno di una<br />
vera e propria<br />
rifondazione che<br />
è sì di norme e di<br />
assetti produttivi<br />
ma che è in primo<br />
luogo di cultura,<br />
di atteggiamenti,<br />
di mentalità”<br />
≈<br />
77
Piero Barucci<br />
boli, con un partito comunista organizzato e continuamente alla soglia di un impegno<br />
governativo, con un sindacato dei lavoratori molto presente, attivo e forte,<br />
con una rappresentanza imprenditoriale notevole.<br />
Governi tendenzialmente deboli e di breve durata, hanno garantito una buona<br />
costanza nell’indirizzo fondamentale della politica economica, una notevole stabilità<br />
nella alleanze internazionali, una radicata fedeltà all’impegno per la costituzione<br />
dell’unità europea.<br />
Le cose sono un po’ cambiate dopo il 1994, con governi con una più lunga durata<br />
media, ma il condizionamento dovuto dai partiti “marginali” è sempre stato<br />
assai marcato.<br />
Nei quasi sessanta anni della vita repubblicana, la crescita economica è stata<br />
notevole; nei quarantacinque anni fra il 1947 ed il 1992 è stata imponente. Sono<br />
però mutate non tanto e non soltanto il ritmo, ma, e più che altro, le ragioni che<br />
l’anno favorita. Gli anni del cosiddetto “miracolo economico” fanno storia a sé: la<br />
crescita fu particolarmente elevata, con una inflazione assai bassa, i conti pubblici<br />
in equilibrio e quelli esteri quasi.<br />
L’economia italiana trasse gran vantaggio dalla favorevole congiuntura internazionale<br />
e dal recupero tecnologico conseguente la fine della seconda guerra mondiale.<br />
Una prima liberalizzazione degli scambi internazionali, resi ordinati dall’ancoraggio<br />
ad un dollaro moneta di indiscusso riferimento, favorì l’inizio della costituzione<br />
del mercato comune europeo, e permise all’Italia di trarre pieno vantaggio<br />
da un andamento salariale inferiore a quello della produttività.<br />
Si ebbe, per un lungo periodo di tempo, una saggia politica economica che,<br />
utilizzando al meglio una congiuntura economia e politica assai favorevole, riuscì a<br />
conciliare l’espansione insieme a significative misure di tipo riformatore. In breve,<br />
e sia pure in modo troppo sbrigativo, può dirsi che in quel periodo il ciclo economico<br />
italiano era nelle cose; fu merito del sistema politico italiano non contrastarlo<br />
anche se non si ebbero scelte storiche – esclusa la opzione europea – per assecondarlo<br />
esplicitamente.<br />
È negli anni a seguire che l’indirizzo politico italiano diviene nettamente attivo,<br />
tanto da lasciare il segno della peculiarità sulle scelte generali di politica economica.<br />
Tali scelte sono individuabili in: 1) una forte politica attiva della presenza pubblica<br />
nella economia italiana; 2) una politica di welfare diffusa e generosa nei suoi<br />
diversi aspetti; 3) il ricorso ad una politica del cambio funzionale al recupero di<br />
competitività per le nostre esportazioni.<br />
Il fatto che queste scelte si siano mostrate al culmine in fasi diverse del periodo<br />
che va fra il 1962 ed il 1992 non va trascurato; ma una trattazione più accurata richiederebbe<br />
spazi non disponibili in questa occasione.<br />
78 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Le scelte di percorso<br />
• Solo in punta di penna si può ricordare che la scelta del primo tipo era di<br />
vecchia data nella esperienza storica italiana. Ma è indubitabile che tale presenza si<br />
fece nel periodo particolarmente ampia sia per la nazionalizzazione della energia<br />
elettrica, sia per il salvataggio “pubblico” di parecchie realtà industriali condotte da<br />
privati, sia per l’acquisizione del controllo di banche “private” da parte di quelle<br />
pubbliche.<br />
Agli inizi degli anni ’90 le imprese pubbliche in Italia presentavano una copertura<br />
molto vasta, con punte di eccellenza, come si è poi visto, casi che necessitavano<br />
una profonda ristrutturazione, casi di palese decozione. Il numero degli occupati<br />
ad esse interessate era molto elevato. In non pochi casi, erano state soggetti attivi<br />
nella politica industriale italiana. Per loro la stagione delle privatizzazioni giunse<br />
alcuni anni dopo rispetto alle esperienze estere.<br />
La scelta del secondo tipo era anch’essa nella storia dell’Italia, nel senso che, per<br />
una ragione o per l’altra, l’Italia ha convissuto con una condizione del bilancio<br />
pubblico in significativo squilibrio. Eppure, ancora agli inizi degli anni ’70, il rapporto<br />
debito pubblico-prodotto interno lordo era in Italia entro il famoso parametro<br />
di Maastricht. È negli anni successivi che inizia un profondo deterioramento<br />
dei nostri conti pubblici; per qualche anno ciò accadde anche in altri paesi europei<br />
i quali però, fino dai primi anni ’80, iniziano politiche di correzione fiscale. Il fatto<br />
è che agli inizia degli anni ’90 l’Italia si presenta con queste caratteristiche: un saggio<br />
di inflazione che è il doppio di quello della Germania, un rapporto deficit-Pil<br />
intorno al 10%, un rapporto debito-Pil intorno al 120% e con tassi di interesse<br />
reali positivi (ed in qualche anno largamente positivi).<br />
Vedremo fra breve, e conclusivamente, se questa fu una scelta consapevolmente<br />
compiuta oppure subita a parte dal nostro sistema politico.<br />
La scelta del terzo tipo fu invece lucidamente ed abilmente perseguita. Attraverso<br />
una politica internazionale in cui servivano abilità diplomatica e disegno di<br />
più lungo respiro (non va dimenticato il ruolo avuto dall’Italia nel rilancio europeo<br />
degli anni ’80), l’Italia fu in grado di utilizzare il cambio a favore della nostra industria<br />
e del nostro turismo. In pochi anni la lira fu ripetutamente svalutata rispetto<br />
al marco tedesco, almeno fino a quando il processo di integrazione europea si fece<br />
più stringente.<br />
Gli effetti del trattato di Maastricht<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Barucci<br />
• La conclusione è che durante questo lungo periodo, che giunge fino al 1995,<br />
data dell’ultimo aggiustamento del cambio, l’Italia resse sì il ritmo di alcuni aggregati<br />
macroeconomici rispetto a quelli di altri paesi europei, ma non sulla base di<br />
79
Piero Barucci<br />
vantaggi competitivi conseguito con politiche produttive e distributive di tipo europeo,<br />
ma sulla base di una combinazione di abili adattamenti che non potevano durare nel<br />
tempo.<br />
Il resto è storia recente, quella di cui si parla tutti i giorni su tutti i giornali e<br />
che, purtroppo, è scritta nelle serie statistiche che ci riguardano.<br />
Nel momento in cui gli effetti del Trattato di Maastricht e sue successive modifiche<br />
si fanno sentire, fino all’avvento della moneta unica, l’economia italiana,<br />
non potendo più utilizzare politiche di astuto adattamento di accorgimenti occasionali<br />
rispetto a disegni di più lungo andare, non riesce più a trovare nel suo interno<br />
vantaggi competitivi adeguati a fronteggiare una concorrenza divenuta<br />
globale.<br />
Per cui oggi, per la prima volta nella sua breve storia di paese unito, l’Italia è costretta<br />
a confrontarsi con la concorrenza internazionale solo utilizzando al meglio le<br />
forze di cui dispone all’interno di un quadro composto di regole uguali per tutti in<br />
un’epoca di completa globalizzazione del movimento internazionale dei capitali.<br />
Una rifondazione di norme e di assetti<br />
• Siamo ad un passaggio di ordine storico, del quale non mi sembra che il dibattito<br />
in corso tenga adeguatamente conto. Esso oscilla fra l’appello salvifico a<br />
rendere d’incanto l’Italia un paese come gli Usa o la Gran Bretagna, ed il suggerimento<br />
ripetitivo di introdurre questa o quella misura. È utile il richiamo al quadro<br />
d’assieme che dobbiamo raggiungere; e sono utili le discussioni su le misure che si<br />
possono prendere.<br />
Il punto da affrontare è però, purtroppo, diverso. L’Italia ha bisogno di una vera<br />
e propria rifondazione che è si di norme e di assetti produttivi ma che è in primo<br />
luogo di cultura, di atteggiamenti, di mentalità. Ciò che ancora prevale è parte di<br />
un mondo post-agricolo, di assistenza pubblica, di isola protetta da muraglie di vario<br />
ordine, in un momento in cui non è possibile più sottrarsi al vento irrefrenabile<br />
che ci deriva dall’essere parte della concorrenza internazionale, in particolare di<br />
quella dei capitali.<br />
Questa vera e propria rifondazione non può che avvenire per via politica. Mi auguro<br />
che nella prossima campagna elettorale tutto questo possa fare almeno capolino.<br />
Il ruolo della politica<br />
• Torniamo alla domanda iniziale: che ruolo ha avuto in questo lunga, e per<br />
molti versi gloriosa vicenda, il sistema politico italiano? Ed è tuttora in grado di<br />
svolgere un ruolo, e, se affermativamente, in qual modo?<br />
80 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Piero Barucci<br />
Qui il giudizio è assai arduo, perché per gran parte ha natura storica. Il che<br />
comporta di tener conto di molti fattori, il primo dei quali riguarda la geografia<br />
partitica italiana e la presenza di un fortissimo partito comunista sia pure con un<br />
rapporto del tutto particolare con la Unione sovietica.<br />
Per cui, tutto compreso, mi sentirei di dire che per una cinquantina di anni il<br />
nostro complicato sistema politico accompagnò la crescita della nostra economia,<br />
attenuando i conflitti sociali, ma non rendendo esplicito che ognuno di noi<br />
stava utilizzando artatamente delle condizioni non solo irripetibili ma anche tali<br />
che scaricare sulle generazioni future gli oneri che erano per noi dei vantaggi non meritati.<br />
In questa sottaciuta verità, stanno probabilmente le difficoltà che ora si incontrano<br />
a dare una svolta profonda alla nostra politica economica. Per tutti noi ciò<br />
che si è conseguito diviene una soglia dalla quale è difficile retrocedere; anche se lo<br />
si è ottenuto per una casuale vicenda ereditaria.<br />
Il punto in discussione diviene allora un altro, ed è questo. Se l’Italia (e non solo<br />
la sua economia) ha bisogno di una vera e propria rifondazione di cultura, di atteggiamenti,<br />
di mentalità (non parlo di valori per non scomodare parole che mettono<br />
paura), quale sistema politico e, perché no, elettorale può facilitarla?<br />
Da non esperto di così ardue questioni, mi permetto di avanzare l’ipotesi che il<br />
sistema politico attuale (e quello elettorale appena varato) è inadeguato.<br />
Saranno anni, i prossimi, durante i quali il sistema politico italiano non potrà<br />
limitarsi ad assecondare ciò che è di per sé in atto nella nostra economia, ma dovrà<br />
cercare di indirizzarlo, orientarlo, piegarlo nel senso dovuto perché l’Italia possa<br />
continuare ad essere un importante paese industrializzato, nel quale crescita, giustizia<br />
sociale, qualità della vita delle generazioni attuali e future possano essere congiuntamente<br />
conseguite.<br />
C’è un severo lavoro da svolgere; inconsueto, che potrebbe comportare un rischio<br />
di impopolarità simile a quello che si guadagnarono sul campo i responsabili<br />
governativi dell’estate del 1992.<br />
Ma qualche lettura storica, oltre che una conoscenza critica diretta del mio<br />
paese, mi dicono che la politica è divenire continuo i cui movimenti significativi si<br />
scoprono molto spesso con qualche ritardo.<br />
C’è tanto movimento oggi nella vita politica italiana, e mi pare di poter dire<br />
che c’è anche del buono.<br />
Nelle occasionali opportunità di incontro, nelle più diverse località italiane,<br />
per motivi di ordine culturale, politico, economico, religioso, si incontrano tante<br />
persone di tutte le età che manifestano la volontà per un forte sentire civile. Così<br />
come, incontrando gli imprenditori, capita di scorgere una insospettata voglia di<br />
reagire, di rischiare, di mettersi in gioco.<br />
Il sistema politico italiano sarà quello che saprà essere dopo questa lunga fase di<br />
disvalore della politica o di stanca ripetizione di riti del passato. Vedremo cosa av-<br />
81
Piero Barucci<br />
verrà! Intanto i politologi potranno esercitarsi a disegnare il vestito ideale per l’Italia<br />
che verrà; la quale sarà ciò che tutti noi vorremo che sia.<br />
82 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Le imprese familiari:<br />
problemi di competitività<br />
e prospettive di sviluppo<br />
Il tema dei problemi e delle prospettive delle nostre<br />
imprese familiari è oggi non solo di estrema attualità<br />
ma anche di enorme rilevanza per il futuro del nostro<br />
Paese. Prima di scendere nel dettaglio della nostra<br />
analisi, che sarà di natura prettamente economica, è<br />
però opportuno precisare le premesse fondanti da cui<br />
intendiamo muovere. Alla base della nostra riflessione<br />
vi è la convinzione che le innumerevoli piccole e piccolissime<br />
imprese che costituiscono il nucleo del sistema<br />
produttivo italiano ed europeo sono caratterizzate<br />
da uno straordinario spirito di intrapresa, ovvero da<br />
una cultura d’impresa, che significa non solo imprenditorialità,<br />
ma anche capacità di assunzione del rischio<br />
non disgiunto però dalla responsabilità verso chi partecipa<br />
all’impresa stessa.<br />
• Per quanto attiene poi all’idea di impresa che sottende<br />
tutta la nostra elaborazione, vogliamo citare due passi assai<br />
incisivi dell’Enciclica Centesimus Annus. Nel primo Giovanni<br />
Paolo II, richiamando l’attenzione sulle finalità dell’impresa<br />
e sui suoi costituenti essenziali, scrive: “Scopo dell’impresa,<br />
infatti, non è semplicemente la produzione del profitto,<br />
bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini<br />
che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro<br />
fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al<br />
servizio dell’intera società.”(Centesimus Annus, n. 35). Il concetto<br />
è poi ulteriormente rafforzato allorché si mette in chiaro<br />
come al centro dello schema interpretativo di ogni realtà<br />
imprenditoriale debba necessariamente sempre esservi l’uomo<br />
e il suo sviluppo integrale: “L’azienda non può esser considerata<br />
solo come una «società di capitali»; essa, al tempo stesso è<br />
una «società di persone», di cui entrano a far parte in modo di-<br />
GIOVANNI<br />
MARSEGUERRA<br />
Università Cattolica<br />
di Milano<br />
≈<br />
“In Italia<br />
il fenomeno del<br />
capitalismo<br />
familiare è<br />
probabilmente<br />
ancor più rilevante<br />
che negli altri<br />
Paesi sviluppati…<br />
Ed è dunque<br />
ragionevole, in un<br />
tale contesto,<br />
che la capacità<br />
manageriale<br />
di una famiglia<br />
sia adeguata alle<br />
circostante e che<br />
gli investimenti<br />
possano essere<br />
affrontati<br />
rimanendo nel<br />
nucleo familiare”<br />
≈<br />
83
Giovanni Marseguerra<br />
verso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la<br />
sua attività, sia coloro che vi collaborano con il loro lavoro” (Centesimus Annus, n. 43).<br />
Nella nostra riflessione di natura economica, dunque, quando si parlerà di impresa,<br />
si intenderà sempre e comunque riferirsi ad una comunità di uomini al servizio<br />
della società, al di là delle specifiche definizioni via via adottate e facenti riferimento<br />
alla dimensione o alla struttura proprietaria o alla tipologia di gestione.<br />
Le piccole imprese del capitalismo familiare<br />
• Se si volesse individuare un elemento di reale continuità nel contesto di rapida<br />
evoluzione che ha segnato il capitalismo italiano degli ultimi due decenni, lo si<br />
potrebbe probabilmente rintracciare nella massiccia presenza di imprese possedute<br />
e gestite da famiglie. Quando si voglia guardare in prospettiva al problema della<br />
competitività e dello sviluppo industriale complessivo del nostro Paese, il naturale<br />
punto di partenza dell’analisi è dunque costituito dal tema del capitalismo familiare,<br />
dei suoi problemi e delle sue prospettive. In effetti il tessuto produttivo dell’Italia,<br />
e per molti versi anche dell’Europa, è costituito in massima parte da piccole e<br />
piccolissime imprese, le quali costituiscono una forma di imprenditorialità al contempo<br />
molto diffusa e di grande valore economico e culturale e possono a ben ragione<br />
essere considerate la principale forza propulsiva dell’innovazione imprenditoriale,<br />
dell’occupazione ed anche dell’integrazione sociale. La maggior parte di<br />
queste piccole attività imprenditoriali è poi caratterizzata dalla sostanziale coincidenza<br />
che in esse si realizza tra proprietà e controllo, nel senso che una medesima<br />
famiglia è al contempo coinvolta direttamente in maniera significativa nella gestione<br />
e detentrice di una rilevante quota di proprietà. I dati confermano che questa<br />
peculiare tipologia di gestione, controllo e proprietà delle attività di produzione<br />
rappresenta un fenomeno con una diffusione assolutamente rilevante a livello<br />
mondiale e ancor più marcata nel nostro Paese. Sebbene in linea di principio non<br />
sia del tutto esatto identificare la ridotta dimensione con la caratteristica familiare<br />
(perché è ben vero che esistono piccole imprese che non sono a carattere familiare<br />
e, d’altra parte, non tutte le imprese a carattere familiare sono di ridotte dimensioni),<br />
tuttavia è però certamente vero che la quasi totalità delle imprese piccole e delle<br />
micro-imprese ha un carattere fortemente familiare sia per quanto concerne la<br />
proprietà sia per quanto attiene la gestione delle attività.<br />
Il quadro europeo<br />
• Vediamo alcuni dati. Per quanto attiene all’Europa intera, secondo i dati<br />
EUROSTAT 2002 (si veda anche la Fig. 1), le micro-imprese (quelle con meno di<br />
84 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Figura 1 - Indicatori imprese UE-15, Anno 2000 (Fonte: Eurostat, 2002)<br />
10 dipendenti) rappresentano l’89,1% del totale delle imprese dell’Unione europea,<br />
forniscono il 27,8% dell’occupazione totale ed il 20,8% del valore aggiunto,<br />
mentre gli analoghi dati per le piccole imprese (quelle con meno di 50 dipendenti)<br />
sono il 9,1% (del totale delle imprese), 21,9% (dell’occupazione totale) ed il<br />
19,9% (del valore aggiunto). Dunque, in aggregato, le micro e piccole imprese costituiscono<br />
a livello europeo quasi il 100% (esattamente il 98,2%) delle imprese,<br />
quasi il 50% (esattamente il 49,7%) dell’occupazione totale e più del 40% (esattamente<br />
il 40,7%) del valore aggiunto totale. Questi dati da soli sono sufficienti a dimostrare<br />
la validità delle precedenti affermazioni sulla rilevanza, a livello europeo,<br />
delle imprese a dimensione più ridotta.<br />
Il quadro italiano<br />
• Per quanto attiene poi più specificatamente all’Italia, i dati ISTAT 2004<br />
confermano come nel nostro Paese, nel 2002, delle oltre 4,2 milioni di imprese attive<br />
nell’industria e dei servizi (con una occupazione totale di quasi 16 milioni di<br />
addetti), ben il 95 per cento abbia meno di dieci addetti e come questa classe dimensionale<br />
abbia un peso in termini di occupazione pari al 47 per cento (si veda la<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
85
Giovanni Marseguerra<br />
Fig. 2), contro, ad esempio, il 21 per cento in Germania, il 22 per cento in Francia<br />
e il 27 per cento nel Regno Unito. A conferma del fatto che il sistema produttivo<br />
del nostro Paese resta caratterizzato dalla prevalenza della micro e piccola impresa,<br />
il numero di addetti per impresa è pari circa a 3,8, un numero di gran lunga inferiore<br />
a quello delle altri grandi economie industriali. In termini di confronto con<br />
gli altri Paesi europei, la dimensione delle imprese italiane dell’industria e dei servizi<br />
è in media pari a circa il 60 per cento di quella degli altri Paesi dell’Unione.<br />
Sembra lecito nutrire qualche perplessità su una siffatta struttura del sistema<br />
produttivo se è vero, come sembrano indicare gli ormai numerosi studi in materia,<br />
che lo sviluppo della produttività dipende in maniera critica dalla dimensione dell’impresa:<br />
il punto è che, da un lato, l’innovazione richiede investimenti cospicui a<br />
cui difficilmente possono far fronte imprese di ridotta dimensione (e questo è vero<br />
specialmente nei settori a più alto contenuto tecnologico, dove la grande dimensione<br />
assume un rilievo spesso determinante), e dall’altro in taluni settori industriali<br />
sono presenti rendimenti di scala crescenti che comportano una perdita di<br />
efficienza là dove la dimensione dell’impresa è troppo ridotta .<br />
Figura 2 - Distribuzione dell’occupazione per classi di addetti - Italia, Anno 2002<br />
(Fonte: ISTAT, 2004)<br />
Il ruolo della politica<br />
• Ma quale è l’esatta diffusione del capitalismo familiare, nel mondo in generale<br />
e in Italia in particolare? Non esiste invero una definizione di impresa familiare<br />
che sia al contempo sufficientemente precisa da poter essere utilizzata nell’analisi<br />
empirica e universalmente accettata così da permettere confronti tra diversi campioni<br />
di imprese. Ad esempio, in Corbetta (1995) si definisce familiare quell’im-<br />
86 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
presa in cui una o poche famiglie, collegate da vincoli di parentela, di affinità o da<br />
solide alleanze, detengano una quota di capitale di rischio sufficiente ad assicurare<br />
il controllo dell’impresa stessa, anche quando tale controllo venga esercitato in presenza<br />
di amministratori e/o manager esterni alla famiglia (ma di loro fiducia), fino<br />
ad includere il caso in cui nessun membro delle famiglie controllanti sia impegnato<br />
nella gestione dell’impresa (Corbetta, 1995, pp. 20-21).<br />
È evidente come, anche attenendosi a questa definizione, in cui non viene specificata<br />
la misura del coinvolgimento della famiglia nella gestione né viene indicata la<br />
consistenza della quota di possesso, non sia facile, senza ulteriori specificazioni, valutare<br />
con precisione la dimensione della diffusione del capitalismo familiare. D’altro<br />
canto ogni ulteriore indicazione sui limiti da imporre alla proprietà e/o alla gestione<br />
di una famiglia per classificare un’impresa come appartenente al capitalismo familiare<br />
rischia di essere, se non altro, arbitraria e dunque più difficilmente condivisibile.<br />
Quello che si può certamente dire è che il mondo delle imprese familiari comprende<br />
una ampia varietà di aziende con modelli di struttura proprietaria, di governance e di<br />
gestione tra loro assai diversi e, qualunque sia il criterio adottato per definirlo, il capitalismo<br />
familiare rappresenta un fenomeno con una diffusione assolutamente rimarchevole<br />
a livello mondiale. Secondo le cifre fornite dall’organizzazione internazionale<br />
Family Firm Institute (FFI), appartengono al capitalismo familiare tra l’80 ed il 90<br />
per cento delle attività imprenditoriali del Nord America e circa il 75 per cento di<br />
quelle del Regno Unito. Secondo i dati riportati da alcuni autori (Caselli e Gennaioli,<br />
2003), due terzi delle imprese piccolo e medio piccole tedesche sarebbero gestite dai<br />
proprietari mentre la proporzione di imprese possedute o gestite da famiglie nel<br />
mondo sarebbe tra il 65 e l’80 per cento circa. Il capitalismo familiare inoltre sarebbe<br />
responsabile di circa il 70 per cento delle vendite totali e dei profitti complessivi delle<br />
250 più grandi imprese private Indiane e le 15 più importanti e facoltose famiglie<br />
controllerebbero più del 60 per cento delle attività corporate quotate in Indonesia, tra<br />
il 50 e il 60 per cento nelle Filippine e in Tailandia, più del 30 per cento in Sud Korea<br />
e Hong Kong, e più del 20 per cento a Singapore, nella Malesia e a Taiwan.<br />
In Italia il fenomeno del capitalismo familiare è probabilmente ancor più rilevante<br />
che negli altri Paesi sviluppati, e questo non sorprende anche perché, come<br />
abbiamo visto, da noi la percentuale di micro e piccole imprese è particolarmente<br />
elevata ed è dunque ragionevole, in un tale contesto, che la capacità manageriale di<br />
una famiglia sia adeguata alle circostanze e che gli investimenti (necessariamente limitati)<br />
possano essere affrontati rimanendo nel nucleo familiare.<br />
Alcuni profili economici del capitalismo familiare<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
• Esaminiamo ora quali siano, dal punto di vista della teoria economica, le<br />
principali caratteristiche, e di conseguenza i principali punti di forza e di debolez-<br />
87
Giovanni Marseguerra<br />
za, del capitalismo familiare (Marseguerra, 2004). Nelle piccole imprese di famiglia<br />
coesistono la forma dimensionale ridotta e il carattere familiare della proprietà<br />
e del controllo, e se evidentemente ciascuna di queste due caratteristiche comporta<br />
vantaggi e svantaggi specifici, è tuttavia l’interazione delle due a creare una specificità<br />
economica del tutto peculiare. I vantaggi e gli svantaggi della piccola dimensione<br />
sono ben noti: da un lato abbiamo la flessibilità organizzativa (con scambi<br />
interpersonali diretti, frequenti e informali), la flessibilità produttiva (possibilità di<br />
offrire prodotti personalizzati e di adeguare rapidamente l’offerta alla domanda), lo<br />
stretto legame con il tessuto locale (che comporta la conoscenza approfondita del<br />
mercato di riferimento e la possibilità di uno stretto contatto con i clienti); dall’altro<br />
vi è però la scarsità di risorse umane qualificate (che comporta una generale debolezza<br />
degli aspetti gestionali), la debolezza finanziaria (che comporta una generale<br />
difficoltà nel reperire risorse per gli investimenti e dunque, ad esempio, una scarsa<br />
propensione ad avviare attività di ricerca e sviluppo). Per quanto poi attiene al<br />
carattere familiare dell’attività, come appare evidente, il principale punto di forza<br />
del capitalismo familiare è costituito dalla sostanziale coincidenza che in esso si<br />
realizza tra la proprietà e la gestione, tra il proprietario ed il manager. Non essendoci<br />
una situazione di delega da parte di chi detiene i diritti di proprietà nei confronti<br />
di chi deve gestire gli asset societari, si evita che la gestione possa non essere in linea<br />
con gli interessi della proprietà e vengono così fondamentalmente a mancare tutte<br />
quelle situazioni di conflitto di interesse che si verificano invece nella grande impresa<br />
a proprietà diffusa e che comportano, per l’impresa stessa, la sopportazione<br />
di alti costi.<br />
A dire il vero, che un’impresa funzioni meglio se chi ha il compito di gestirla ne<br />
detiene anche la proprietà può sembrare fin troppo ovvio. Tuttavia, quello che è sicuramente<br />
un vantaggio per lo sviluppo dell’impresa nella prima fase della sua crescita<br />
può invece rivelarsi un grosso limite nelle fasi successive. Il punto è che per<br />
competere sui mercati globali le imprese devono poter trattare la dimensione come<br />
una variabile strategica, e dunque essere in grado, all’occorrenza, di espandere l’azienda<br />
in risposta alle mutate circostanze esterne. Devono cioè poter aggiustare la<br />
dimensione alle mutevoli circostanze in cui si trovano ad operare, scegliendo periodicamente<br />
la dimensione più appropriata alla situazione competitiva corrente.<br />
Tuttavia, per poter crescere, è necessario saperlo fare. Vi sono, a questo riguardo,<br />
essenzialmente tre problemi che le piccole imprese a carattere familiare si trovano<br />
a dover affrontare nel loro processo di crescita. In tutti e tre i casi si tratta di<br />
problemi di scarsità. Vi è innanzitutto la scarsità di risorse umane, da intendersi<br />
non solo in riferimento al limitato numero di addetti ed alla loro generalmente limitata<br />
qualificazione, ma anche per quanto attiene alla difficoltà ad attrarre personale<br />
qualificato da inserire in azienda. Vi è poi la scarsità di risorse finanziarie, anche<br />
qui in riferimento sia alle limitate disponibilità interne per gli investimenti sia<br />
per quanto attiene alla difficoltà a raccoglier capitale esterno, di debito o di rischio.<br />
88 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Vi è infine probabilmente la scarsità più importante, vale a dire quella di cultura di<br />
impresa, in riferimento sia pure in diversa misura, all’imprenditore, al dirigente e<br />
all’operaio. Esaminiamo brevemente in successione queste tre grandi scarsità della<br />
piccola impresa familiare.<br />
La scarsità di risorse umane è una conseguenza diretta dello scarso sviluppo<br />
della struttura organizzativa interna che da un lato conduce ad una ridotta capacità<br />
di attrazione delle figure professionalmente più qualificate e dall’altro porta ad una<br />
forte difficoltà a mantenere nell’impresa queste stesse figure, quando queste siano<br />
presenti, in conseguenza delle ridotte possibilità di crescita personale offerte da un<br />
ambiente ristretto anche culturalmente. La scarsità di capacità gestionali si manifesta<br />
tipicamente al momento della successione nella conduzione aziendale. In questa<br />
fase della vita di un’azienda, infatti, non solo la proprietà dell’asset passa da una<br />
generazione alla successiva ma anche la gestione dello stesso passa da una generazione<br />
alla successiva, e si ha dunque quello che possiamo chiamare il fenomeno<br />
della trasmissione intergenerazionale delle responsabilità manageriali. Ma l’identificazione<br />
tra proprietà e management implica necessariamente una forma di inefficienza<br />
(Caselli e Gennaioli, 2003), a meno che la distribuzione delle capacità gestionali<br />
non coincida esattamente con quella delle proprietà (il che appare abbastanza<br />
inverosimile). In presenza di eredi con scarsa attitudine imprenditoriale oppure<br />
in contrasto tra loro, si corre il rischio concreto che quanto è stato realizzato<br />
dal fondatore sia rapidamente dissipato da successori non all’altezza del compito.<br />
Potrebbe in questo soccorrerci la saggezza, molto pragmatica, degli americani in<br />
forza della quale se è vero che agli eredi del fondatore va assicurato il patrimonio finanziario<br />
e la possibilità di gestirlo, è però anche vero che non può esistere un diritto<br />
ereditario alla successione manageriale (l’esempio spesso citato è quello del figlio<br />
di un chirurgo che, soltanto per diritto di nascita, dovrebbe essere in grado di<br />
operare).<br />
Risorse umane e sviluppo dell’impresa<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
• La scarsità di risorse umane è però una difficoltà strutturale del piccolo capitalismo<br />
familiare che è poi strettamente connesso alla terza scarsità sopra menzionata,<br />
quella culturale. L’accentramento delle funzioni di direzione e controllo in<br />
una stessa persona, l’imprenditore fondatore, o in un ridotto nucleo di persone (i<br />
familiari del fondatore), conseguenza del carattere familiare dell’impresa, comporta<br />
quasi inevitabilmente una forte de-responsabilizzazione delle altre figure presenti<br />
in azienda, in primo luogo quelle dirigenziali. Il problema culturale, consiste, in<br />
estrema sintesi, nella difficoltà che incontra l’imprenditore nel separare l’azienda<br />
da se stesso e dalla propria famiglia: questa difficoltà si manifesta sia nella riluttanza<br />
a perdere porzioni di controllo e di gestione, sia nella poca disponibilità a far<br />
89
Giovanni Marseguerra<br />
crescere i propri dipendenti. Si può allora ragionevolmente sostenere che, in conseguenza<br />
della scarsità di cultura imprenditoriale che spesso caratterizza la piccola<br />
impresa familiare, la forma organizzativa caratteristica del capitalismo familiare<br />
comporta che il dirigente-manager esterno alla famiglia tenda tipicamente a diventare<br />
più un esecutore della volontà del fondatore-proprietario (o dei suoi eredi) che<br />
un soggetto dotato di propria autonomia e responsabilità. Si genera così un circolo<br />
vizioso in cui, da un lato, l’impresa non riesce a cogliere le opportunità di crescita<br />
per insufficienza di competenze, professionalità e motivazioni e, dall’altro, non<br />
crescendo, comprime sempre più le professionalità che sono invece presenti, demotivando<br />
al contempo i più intraprendenti. E allora si vede bene come il fenomeno<br />
tristemente noto della fortissima mortalità delle piccole imprese può essere<br />
spiegato anche facendo ricorso a questo perverso meccanismo di selezione avversa.<br />
Le nuove figure dell’impresa familiare<br />
• Alla luce delle precedenti osservazioni si pone per la piccola impresa familiare<br />
il problema di riuscire a costruire una nuova figura (di dirigente, di quadro o anche<br />
solo di operaio) che abbia le capacità e le competenze adeguate alle nuove sfide<br />
competitive della rivoluzione tecnologica. Vi è una crescente esigenza di nuove<br />
competenze manageriali e professionali che, come abbiamo visto, spesso non esistono<br />
rimanendo all’interno del nucleo familiare. Questo sta comportando l’attivazione<br />
di un processo non semplice, ancora in una fase preliminare, di cooptazione<br />
dall’esterno di dirigenti, responsabili, e collaboratori i quali, per poter operare<br />
efficacemente, richiedono discrezionalità ed autonomia. Comincia così ad avviarsi<br />
un processo graduale di separazione tra proprietà e management e di nuova “divisione<br />
del lavoro manageriale” anche nelle piccole e piccolissime imprese che presenta<br />
specificità e peculiarità proprie. Ad esempio, in forza di questo processo di<br />
apertura dell’impresa familiare, la legittimazione a ricoprire cariche direttive dovrebbe<br />
sempre più tendere a basarsi sul possesso effettivo di capacità e competenze<br />
(i soli legami familiari non devono più, da soli, essere sufficienti). Un fenomeno<br />
analogo sta interessando il cosiddetto “middle management” (cioè i quadri intermedi,<br />
i tecnici, ecc.) manifestandosi nella domanda, da parte di queste figure professionali,<br />
di una crescente autonomia e di un più marcato riconoscimento di ruolo.<br />
Man mano che l’impresa si espande, e da piccola cerca di acquisire una dimensione<br />
più appropriata al contesto competitivo, non sono solo le ridotte capacità gestionali<br />
a mettere seriamente in difficoltà un processo di crescita comunque non<br />
facile. Vi sono anche i ridotti mezzi finanziari. Se il patrimonio della famiglia non<br />
è più sufficiente a finanziare la crescita, le strade che si presentano sono essenzialmente<br />
due. Gli investimenti necessari che non possono essere più finanziati con i<br />
mezzi propri, lo potranno essere ricorrendo al capitale di debito oppure al capitale<br />
90 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
di rischio. E tuttavia, ricorrere al finanziamento esterno non è senza conseguenze<br />
per l’attività dell’impresa: qualunque sia la soluzione adottata infatti, la separazione<br />
tra la figura del finanziatore e quella del finanziato genera un conflitto di interesse<br />
(tra manager ed azionisti oppure tra manager, creditori ed azionisti). Poiché i conflitti<br />
di interesse generano sempre dei costi per l’impresa nel suo complesso, con il<br />
ricorso al finanziamento esterno si viene a perdere uno dei principali vantaggi dell’impresa<br />
familiare.<br />
La specificità italiana<br />
• Quale è, in questo quadro, la specificità italiana? Anche nel nostro Paese, la<br />
difficoltà a reperire risorse finanziarie ha rappresentato (e tuttora rappresenta) uno<br />
degli ostacoli maggiori alla crescita delle imprese. Il punto è che il finanziamento<br />
degli investimenti continua a basarsi quasi esclusivamente sulle risorse generate internamente<br />
oppure sui prestiti bancari, e le imprese si sono sempre avvalse in misura<br />
alquanto ridotta della possibilità di reperire autonomamente sul mercato i capitali<br />
necessari a finanziare gli investimenti. Questa caratteristica delle fonti di finanziamento<br />
in Italia ha rappresentato, e in parte ancora rappresenta, una significativa<br />
differenza rispetto a quanto avviene in molti altri Paesi e, in particolare, in quelli<br />
del sistema anglo-sassone (Marseguerra, 2000).<br />
Questo stato di cose ha effetti perversi sullo sviluppo delle attività imprenditoriali.<br />
Infatti le imprese, da un lato, si trovano a dover fronteggiare (per una pluralità<br />
di motivi) una grave erosione della loro capacità di autofinanziamento e, dall’altro,<br />
sono le prime vittime della scarsa cultura imprenditoriale degli intermediari<br />
finanziari che tendono a valutare l’affidabilità di un’azienda quasi esclusivamente<br />
in funzione delle sue disponibilità patrimoniali (con assai poca considerazione delle<br />
reali opportunità imprenditoriali). Un maggiore indebitamento inoltre comporta<br />
accresciuti oneri finanziari, riducendo così il livello degli utili e imponendo forti<br />
limiti alle attività di ricerca. Tutto ciò rischia di impedire alle nostre imprese di cogliere<br />
importanti opportunità di crescita e di sviluppo.<br />
Le fonti finanziarie<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
• Se poi si considera la difficoltà nel reperimento delle fonti finanziarie non<br />
nell’ottica della singola impresa ma in quella più generale dell’insieme delle piccole<br />
imprese, allora è il sistema economico intero che può incontrare gravi difficoltà<br />
nella crescita e nello sviluppo. In altri termini, i tratti essenziali di un modello vincente<br />
possono trasformarsi in un ostacolo alla crescita per il Paese intero. La situazione<br />
attuale dell’Italia, con un forte rallentamento della crescita negli ultimi de-<br />
91
Giovanni Marseguerra<br />
cenni, può forse essere spiegata, tra le altre cose, anche dalla particolare fase evolutiva<br />
in cui si trovano le imprese del suo capitalismo familiare, incapaci di superare quella<br />
che può essere definita una soglia critica dello sviluppo, determinata dalle limitate<br />
capacità gestionali e dalle ridotte risorse finanziarie delle famiglie proprietarie.<br />
Bisogna comunque ricordare, anche alla luce del recente sviluppo del mercato<br />
dei capitali che si è avuto nel nostro Paese, in parte in conseguenza della maggiore<br />
attenzione ai diritti degli azionisti di minoranza, che le possibilità di crescita per le<br />
piccole imprese sono oggi di molto aumentate. E tuttavia il fenomeno della sottocapitalizzazione<br />
è ancora un problema rilevante e non risolto del sistema produttivo<br />
italiano.<br />
Congiuntura e PIL<br />
• Dal punto di vista congiunturale poi, l’Italia si trova certamente in una situazione<br />
molto difficile. Tutti i dati, per quanto imprecisi e indicativi possano essere,<br />
lo confermano. Prendiamo soltanto i dati sul PIL degli ultimi due anni: nel<br />
2003 il nostro Paese è cresciuto appena dello 0,3% a fronte di una media europea<br />
dello 0,5% (e del 2,5% della Spagna), di una crescita americana del 3,5% e cinese<br />
del 9,3%. Gli stessi dati riferiti al 2004 ci dicono che l’Italia è cresciuta de 1,2% a<br />
fronte di una media europea dello 2% (e del 2,7% della Spagna), di una crescita<br />
degli Usa del 4,4% e della Cina del 9,5%. Le recenti stime e previsioni del Fondo<br />
Monetario Internazionale per il 2005 e il 2006 non fanno poi ben sperare per il futuro,<br />
visto che si prevede che la nostra crescita resterà significativamente sotto la<br />
media europea e ben sotto la crescita americana. Dunque se è vero che tutta l’area<br />
UE ha avuto (e probabilmente continuerà ad avere anche nei prossimi anni) un ritmo<br />
di crescita assai rallentato rispetto a quello Usa ed internazionale, è però anche<br />
vero che noi siamo andati (e probabilmente continueremo ad andare anche nei<br />
prossimi anni) meno bene della media europea. A preoccupare ci sono poi i dati<br />
sulla finanza pubblica, la perdita di competitività espressa dalla bilancia commerciale,<br />
le difficoltà della FIAT, la crisi dell’Alitalia, e si potrebbe continuare. Un quadro<br />
dunque poco incoraggiante.<br />
I problemi della competitività<br />
• Si pongono per l’Italia due problemi di competitività: quello della competitività<br />
del sistema-Paese, e quello della competitività delle nostre imprese. Secondo<br />
il recente Global Competitiveness Report 2003-2004 elaborato dal World Economic<br />
Forum, l’Italia ha subito nel 2002 un deciso calo di competitività rispetto ai 74<br />
Paesi considerati dalla ricerca, scendendo nella graduatoria in un solo anno dal<br />
92 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
ventiseiesimo al trentanovesimo posto. Se si guardano i dati in maggior dettaglio si<br />
scopre che, mentre siamo scesi al trentanovesimo posto per quanto riguarda il livello<br />
di competitività come sistema Paese, occupiamo invece il ventiquattresimo posto come<br />
sistema delle imprese (rispetto al ventitreesimo del 2001) e il diciottesimo (rispetto<br />
al diciannovesimo del 2001) quando si prendano in considerazione in via ancora<br />
più specifica direttamente le strategie e le prassi operative delle imprese. Questi dati<br />
segnalano come esista in Italia un forte divario tra il sistema Paese nel suo complesso<br />
e il sistema delle imprese. Prima di esaminare più diffusamente il problema della<br />
competitività delle nostre aziende, consideriamo brevemente i nostri problemi strutturali.<br />
Per quanto attiene a questi, le nostre debolezze vanno ricercate nelle infrastrutture<br />
(materiali e immateriali), nell’energia (ricordiamo l’abbandono del nucleare, che<br />
fu un errore gravissimo visto anche che importiamo energia nucleare da Paesi a noi<br />
confinanti), nella Pubblica Amministrazione, nella distribuzione, nella formazione,<br />
nel deficit di ricerca scientifica e tecnologica, nell’incapacità ad attrarre capitali esteri,<br />
nel ritardo del Mezzogiorno, nel fisco oneroso e iniquo; e si potrebbe proseguire a<br />
lungo. Tutte queste debolezze comportano aumenti nei costi di produzione, fanno<br />
crescere l’inflazione, alimentano rendite. Una volta queste inefficienze venivano superate<br />
dalle svalutazioni impropriamente definite competitive, che adesso sono fortunatamente<br />
finite con grande vantaggio per il nostro debito pubblico e per l’abbassamento<br />
dei tassi di interesse. Ma alle stesse non è stata sostituita una politica di innovazione<br />
sistemica, i governi si susseguono ed i problemi rimangono (e le graduatorie<br />
internazionali sono lì a confermarlo). La questione è dunque quella di comprendere<br />
se il calo di competitività che stiamo vivendo rientra in un generale declino del<br />
nostro sistema industriale (o prelude ad un prossimo declino) a favore di altri paesi<br />
oppure se questi ranking internazionali di competitività, così negativi per noi, non<br />
possono invece costituire lo stimolo per modificare in positivo la situazione.<br />
Le prospettive di sviluppo<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
• La situazione di difficoltà in cui si trova il nostro sistema produttivo che, come<br />
abbiamo visto, configura una specifica emergenza italiana in una più generale<br />
difficoltà europea, impone una riflessione più approfondita con un riferimento<br />
specifico al problema dello sviluppo delle nostre imprese. Questo nella convinzione<br />
che, se è vero che dalle difficoltà dovute all’inefficienza infrastrutturale del nostro<br />
Paese, acuite dall’aggressività competitiva dei Paesi emergenti, si potrà uscire<br />
solamente con accordi economico-finanziari di lungo respiro tra le parti sociali per<br />
progettare ed agire in modo innovativo, è però anche vero che potremo avere successo<br />
solo se ognuno degli attori farà la sua parte. Imprese per prime.<br />
In base all’analisi economica svolta, si è visto come nel medio-lungo periodo<br />
sia necessaria una crescita dimensionale delle nostre imprese che permetta di po-<br />
93
Giovanni Marseguerra<br />
tenziare gli indiscutibili fattori di qualità che esse oggi, nonostante tutto, esprimono<br />
con straordinaria vitalità. Nell’attuale contesto fortemente competitivo l’espansione<br />
dell’impresa, da intendersi in termini di crescita del fatturato, del capitale investito ed<br />
anche del numero di addetti, è ormai una necessità ineludibile. Si pensi solo alla necessità<br />
di sfruttare le economie di scala e di scopo in conseguenza della forte competizione<br />
sui costi, oppure all’esigenza di competere su mercati sempre più internazionalizzati.<br />
Ebbene, coerentemente con l’impostazione di metodo e di valore del nostro<br />
approccio e facendo riferimento all’impresa come comunità di uomini, il principio<br />
che a nostro avviso, se correttamente applicato, può rappresentare la giusta bussola<br />
per affrontare una situazione non facile, è quello della sussidiarietà (Quadrio Curzio,<br />
2002), di cui sono ben conosciute le linee fondamentali e che è un principio cardine<br />
della Dottrina Sociale della Chiesa in riferimento al modo di essere delle istituzioni<br />
della società civile. In estrema sintesi, il nucleo centrale della sussidiarietà è costituito<br />
dalla valorizzazione della persona, in particolare della sua dignità, autonomia, libertà<br />
e responsabilità. Se si considerano le diverse sfere di autonomia costruttiva, cioè quella<br />
personale, quella familiare e quella associativa, potremmo dire che la caratteristica<br />
principale della sussidiarietà è che la libertà e la responsabilità individuale devono<br />
esplicarsi al massimo entro ciascuna di questa diverse sfere. Dunque la corretta applicazione<br />
del principio di sussidiarietà porta alla costruzione di capacità individuali e<br />
collettive, favorendo la maturazione e l’accrescimento delle potenzialità dei singoli e<br />
delle comunità di gestire in maniera attiva la propria vita sociale, lavorativa, familiare<br />
e politica. La sussidiarietà può poi essere intesa, in un’accezione più generale ma anche<br />
con precisi contenuti operativi, come un principio metodologico di fondamentale<br />
importanza ed utilità pratica nella gestione della complessità: se si pensa infatti al<br />
problema enorme delle interazioni che si realizzano tra le varie componenti di ogni<br />
sistema complesso, nel principio di sussidiarietà si possono trovare le più corrette<br />
chiavi di interpretazione di queste reciproche relazioni, vale a dire quelle che garantiscono<br />
autonomia e coesione tra le parti attraverso flessibilità e responsabilità.<br />
La spinta della sussidiarietà<br />
• Ma in che modo la sussidiarietà può concretamente aiutare le piccole imprese<br />
del capitalismo familiare nel loro indispensabile percorso di crescita? In un contesto<br />
come quello attuale, caratterizzato da una competizione aggressiva e da una<br />
dinamica di rapidi cambiamenti, far crescere un’impresa significa permetterle di<br />
avere continuità, ovvero permettere che l’impresa stessa si sviluppi “come comunità<br />
di uomini”. Ciascuna delle tre grandi scarsità che caratterizzano la piccola impresa<br />
familiare (di risorse umane, di risorse finanziarie e di quella particolare risorsa<br />
che abbiamo chiamato cultura di impresa) può essere efficacemente affrontata<br />
facendo ricorso al principio di sussidiarietà.<br />
94 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Per quanto attiene alle risorse umane, l’analisi svolta ha mostrato come si<br />
ponga per la piccola impresa familiare il problema di riuscire a costruire una<br />
nuova figura (di dirigente, di quadro o anche solo di operaio) che abbia le capacità<br />
e le competenze adeguate alle nuove sfide competitive della rivoluzione tecnologica.<br />
Le economie in generale esprimono un fabbisogno crescente di capitale<br />
umano, e le piccole imprese familiari in particolare richiedono risorse umane<br />
sempre più qualificate e più formate. Se infatti è importante che sia elevato il livello<br />
complessivo delle conoscenze e delle competenze, è però fondamentale che<br />
queste siano in grado di evolversi adattandosi alle continue trasformazioni in atto.<br />
In un’ottica di lungo periodo, risulta indispensabile innalzare il livello medio<br />
dell’istruzione attraverso una opportuna valorizzazione del sistema scolastico ed<br />
universitario. Tutto ciò richiede però tempo perché i vantaggi di queste politiche<br />
si vedono con il passaggio di generazioni successive di giovani sempre più formati.<br />
Accanto dunque a queste iniziative di ampio respiro, è necessario procedere<br />
anche in un’ottica di più breve periodo e, a questo riguardo, si impone la necessità<br />
che l’apprendimento accompagni tutta la vita delle persone, e non si esaurisca<br />
con la fase che è tipicamente dedicata all’istruzione. In questa ottica, assume<br />
assoluto rilievo la formazione continua dei lavoratori già occupati ed anzi, idealmente,<br />
l’istruzione e la formazione professionale degli adulti non dovrebbero<br />
presentare soluzioni di continuità, così da permettere di soddisfare in modo integrato<br />
le richieste del sistema economico e della società in generale. Dunque per<br />
valorizzare le risorse umane e le professionalità, e per responsabilizzare le figure<br />
dirigenziali, diventa essenziale l’investimento in formazione, che è lo strumento<br />
principe per la gestione delle risorse umane, ma che è anche il mezzo essenziale<br />
per promuovere la vera sussidiarietà. Questa impostazione metodologica ha inoltre<br />
il merito di porre al centro dell’analisi l’individuo, la persona, con i suoi diritti<br />
ed i suoi doveri (nel caso specifico, di apprendimento). In altri termini, quando<br />
si esamini in modo organico il processo di istruzione e formazione, ovvero di<br />
apprendimento, è la responsabilità personale che viene ad assumere il ruolo principale,<br />
ed emerge allora chiaramente come solo attraverso il principio di sussidiarietà<br />
si possa ottenere una vera valorizzazione dell’individuo. Inoltre, questo tipo<br />
di approccio, in cui la formazione degli adulti non è più residuale ma centrale,<br />
accanto all’accrescimento personale ed al perfezionamento professionale, conduce<br />
anche, a livello macro, ad una maggiore coesione sociale ed ad una più sentita<br />
partecipazione alla vita sociale.<br />
La cultura imprenditoriale<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
• Vediamo infine brevemente come anche le altre due grandi scarsità della<br />
piccola impresa familiare, quella delle risorse finanziarie e quella della cultura<br />
95
Giovanni Marseguerra<br />
imprenditoriale, possano essere affrontate facendo ricorso agli strumenti della<br />
sussidiarietà. Per quanto attiene alla finanza, osserviamo solamente come il problema<br />
consista essenzialmente nella accentuata prudenza, se non diffidenza, del<br />
sistema bancario e creditizio, soprattutto delle banche più grandi, nello spirito di<br />
intrapresa dei piccoli imprenditori del capitalismo familiare. Se per la scarsità<br />
delle risorse umane lo strumento essenziale della sussidiarietà è quello della formazione,<br />
nel caso della scarsità di risorse finanziarie lo strumento essenziale è<br />
quello del modello cooperativo per l’attività bancaria. La conoscenza del territorio,<br />
la vicinanza agli operatori economici, il radicamento nei mercati locali, l’inclinazione<br />
ad instaurare relazioni di lungo periodo, sono tutti tratti caratteristici<br />
del modello cooperativo dell’attività creditizia che costituiscono un fattore di<br />
vantaggio competitivo e che consentono di ridurre drasticamente i costi derivanti<br />
dalla valutazione del merito di credito permettendo in tal modo l’accesso ai finanziamenti<br />
bancari da parte di categorie di clientela che altrimenti ne resterebbero<br />
escluse.<br />
Per quanto attiene infine alla scarsità di cultura imprenditoriale, lo strumento<br />
essenziale della sussidiarietà è rappresentato dall’associazionismo che, nelle sue varie<br />
forme, rappresenta la strada per consentire alle piccole imprese di esprimere<br />
tutte le loro potenzialità. Attraverso le associazioni imprenditoriali, ad esempio, le<br />
imprese imparano a ragionare in un’ottica di sistema per sfruttare al meglio le economie<br />
di agglomerazione. Per mezzo di politiche orizzontali dirette ai sistemi locali,<br />
si possono ottenere miglioramenti di competitività, non della singola impresa,<br />
ma di tutto il sistema. Una micro-impresa inserita in un sistema di imprese ha<br />
maggiori possibilità di innovare, esportare e consolidare i propri risultati imprenditoriali.<br />
Conclusioni<br />
• La nostra analisi si propone come un primo passo verso lo sviluppo di una<br />
teoria delle piccole imprese del capitalismo familiare basata sulla sussidiarietà ed ha<br />
portato alla individuazione dei precisi strumenti di policy attraverso i quali questo<br />
principio può trovare concreta attuazione. Che poi sulla sussidiarietà possa essere<br />
costruita buona parte della teoria economica, non è opinione nuova. Basti qui ricordare<br />
cosa scriveva, quasi centocinquanta anni fa il grande economista John<br />
Stuart Mill nel celeberrimo saggio On Liberty (1859): «Il male comincia, quando il<br />
Governo, in cambio di incoraggiare l’azione degli individui e dei corpi collettivi, sostituisce<br />
la sua propria alla loro attività; quando invece di istruirli, di consigliarli o, all’occorrenza,<br />
di denunciarli davanti ai tribunali, li lascia in disparte, ne inceppa la libertà,<br />
o fa per essi i loro affari» (J.S. Mill, Della libertà, Sansoni, Firenze 1974, p.<br />
156). Solo dunque se si saprà promuovere la vera sussidiarietà si potrà permettere<br />
96 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
al capitalismo familiare di continuare ad essere motore dello sviluppo e della crescita<br />
del nostro Paese e dell’Europa intera, consentendo altresì all’Italia di diventare<br />
davvero europea.<br />
Riferimenti bibliografici<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Giovanni Marseguerra<br />
CASELLI, F., e GENNAIOLI, N., 2003, “Dynastic Management”, CEPR Discussion Paper No.<br />
3767.<br />
CORBETTA, G., 1995, Le imprese familiari: Caratteri originali, varietà e condizioni di sviluppo,<br />
Egea, Milano.<br />
MARSEGUERRA, G., 2000, “Governo delle Imprese e Mercati Finanziari: il Ruolo degli Investitori<br />
Istituzionali”, «il Risparmio», n.1, Anno XLVIII, pp. 1-21.<br />
MARSEGUERRA, G., 2004, “Le sfide del capitalismo familiare”, «L’Impresa», n. 4, Giugno-Luglio,<br />
2004, pp. 26-34.<br />
QUADRIO CURZIO, A., 2002, Sussidiarietà e Sviluppo. Paradigmi per l’Europa e per l’Italia, Vita e<br />
Pensiero, Milano.<br />
<br />
97
“Esiste una (…) serie di passioni le quali, nonostante<br />
derivino dall’immaginazione, devono sempre essere<br />
attenuate rispetto al livello a cui le innalzerebbe la natura<br />
indisciplinata, e questo prima che noi possiamo<br />
prendervi parte o considerarle gentili o adeguate. Tali<br />
passioni sono l’odio e il risentimento, con tutte le loro<br />
diverse modificazioni. Riguardo a tutte queste passioni,<br />
la nostra simpatia si divide tra la persona che le<br />
prova e quella che ne è oggetto. Gli interessi di queste<br />
due persone sono direttamente opposti. Il nostro sentimento<br />
di partecipazione per l’una ci fa temere quel<br />
che la nostra simpatia per l’altra ci porterebbe a desiderare”.<br />
(A. Smith, La teoria delle passioni, Parte I,<br />
Cap. III, 1).<br />
Le nostre passioni e la condizione dell’economia<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Debolezza dell’economia<br />
o crisi del suo governo?<br />
• Si è voluto iniziare questa breve riflessione sulle vicende<br />
economiche del nostro Paese con la citazione di un notissimo<br />
passo di una delle più intelligenti opere di uno dei padri fondatori<br />
dell’economia moderna, perché involontariamente, ma<br />
significativamente bene allude alla condizione sociale e subito<br />
dopo politica della nostra Italia. Mentre tutti si dicono ossequiosi<br />
nei confronti degli autorevolissimi richiami all’unità e<br />
alla solidarietà della massima magistratura dello Stato, altrettanti,<br />
subito dopo, sembrano dimenticare quei moniti, attribuendo<br />
all’altro una volontà negativa e promuovendo un desiderio<br />
di contrapposizione che sa molto di furbizia egoistica<br />
pronta a strumentalizzare la inconsapevolezza dei più.<br />
E in queste spesso fittizie contrapposizioni si finisce non<br />
solo per perdere il senso dell’interesse generale, ma anche per<br />
alimentare un disorientamento che retroagendo sulla situa-<br />
ANDREA BIXIO<br />
Università<br />
“La Sapienza”<br />
di Roma<br />
≈<br />
“… si può ritenere<br />
che oggi non si<br />
possa più evitare<br />
di dare priorità<br />
direttamente alla<br />
crescita. Cosa che<br />
a ben vedere non<br />
significa affatto<br />
lassismo rispetto<br />
alla spesa<br />
pubblica; … vuol<br />
dire operare<br />
in modo molto<br />
deciso sotto<br />
l’aspetto della sua<br />
riqualificazione”<br />
≈<br />
99
Andrea Bixio<br />
zione contribuisce involontariamente a rafforzare il senso piuttosto di inimicizia<br />
che quello, per usare di nuovo la terminologia di Smith, di simpatia.<br />
Di modo che la convergenza indubitabile delle analisi sulla crisi italiana, che<br />
pure provengono da settori ideologici spesso opposti, non riesce ad esercitare una<br />
propria funzione virtuosa nell’individuare obbiettivi condivisibili, ma resta impotente,<br />
quando non attonita, di fronte all’emergere di un inconsapevole desiderio<br />
del peggio, quando questo fosse imputabile all’altro.<br />
Per reagire contro questo stato di cose, dunque, vale la pena richiamare l’attenzione<br />
su alcuni punti sui quali vi è un certo accordo e a partire dai quali sia possibile<br />
svolgere qualche riflessione problematica, utile per riprendere con animo sereno<br />
il filo del discorso.<br />
E per dare effetto a questa intenzione, bisogna subito ricordare che una certa<br />
convergenza si verifica, quando si vada a guardare le ragioni della crisi partendo un<br />
po’ da lontano; quando, cioè, ci si riferisca all’evoluzione dell’economia europea a<br />
partire dal secondo conflitto mondiale.<br />
Riflettendo su un non lontano passato<br />
• Qualora ci si ponga in quest’ottica, non si può evitare di vedere che la crisi<br />
viene da lontano e che quella italiana costituisce solo un segmento, con proprie<br />
specificità, di un fenomeno più ampio.<br />
Come è noto, infatti, i maggiori paesi europei hanno goduto di una crescita<br />
ancora certamente alta negli anni sessanta (5,3%); ma questa crescita è venuta<br />
sempre più diminuendo nei decenni successivi, fino a raggiungere il 2,2% negli<br />
anni ottanta, il 2,1% negli anni novanta e un ulteriore deterioramento nell’ultimo<br />
periodo. Il tasso di sviluppo ha seguito dappresso questo andamento anche se in<br />
parte un suo indebolimento non doveva meravigliare, dal momento che si era partiti,<br />
dopo la seconda guerra mondiale, da condizioni che consentivano ampi margini<br />
di veloce espansione economica. Dunque un certo rallentamento della crescita<br />
potrebbe anche essere ritenuto in parte fisiologico. Tuttavia è noto che il rallentamento<br />
è stata conseguenza anche di una specifica evoluzione della società, ivi compreso<br />
il compimento di quello stato sociale che, sorto alla fine dell’ottocento e sviluppato<br />
nel primo cinquantennio del secolo successivo, dopo la ricostruzione raggiungeva<br />
la propria massima realizzazione.<br />
Processo, questo, che portò ad una espansione della spesa pubblica, in particolare<br />
della spesa corrente, ad un aumento progressivo della pressione fiscale e ad un<br />
rallentamento della attività produttiva dovuto anche alle dinamiche salariali, nonché<br />
a cause esogene come la crisi petrolifera.<br />
Il rallentamento dello sviluppo insieme all’espansione della spesa pubblica poneva<br />
i vari paesi europei di fronte ad una crisi di sistema, che si evidenziava già in<br />
100 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Andrea Bixio<br />
tempi per così dire risalenti mediante la crisi fiscale dello Stato. Si ricorderà a tal<br />
proposito che già nel 1977 Federico Caffè curò la pubblicazione del noto libro di<br />
James O’Connor The Fiscal Crisis of the State del 1973, in cui l’autore riteneva doversi<br />
far fronte speditamente alla crisi fiscale, anche se questa di per sé non poteva<br />
direttamente essere ascritta all’espansione della spesa sociale. Se si pensa che il volume<br />
di Milton Friedman Capitalism and Freedom è del 1962 e che The Affluent<br />
Society di John Kennet Galbraith è del 1958, cioè che le posizioni ‘conservatrici’ e<br />
quelle liberal erano già ben definite, si può facilmente comprendere di fronte a<br />
quali ritardi sociali ci si trovi oggi, pur essendo stata la nostra cultura economica<br />
ben consapevole dei termini dei problemi fin da tempi da considerarsi senz’altro<br />
remoti.<br />
Ma forse tutto ciò non può neppure tanto meravigliare, quando si voglia rileggere<br />
un breve passo sempre del libro di O’Connor: «Una miriade di ‘interessi speciali’<br />
– grandi società per azioni, industrie, gruppi commerciali, regionali… – esercitano<br />
pressioni sul bilancio, affinché siano effettuati vari tipi di investimenti sociali.<br />
(Il sistema politico manipola queste pressioni in modi che devono essere o legittimati<br />
o nascosti all’opinione pubblica). Le organizzazioni sindacali e i lavoratori<br />
in generale avanzano svariate richieste, relative a consumi sociali di vario genere,<br />
mentre i disoccupati e i poveri (insieme con gli uomini d’affari che versano in difficoltà<br />
finanziarie) esigono un aumento delle spese sociali. Ben poche di queste rivendicazioni<br />
sono coordinate dal mercato; quasi tutte sono manipolate dal sistema<br />
politico, e in definitiva vengono accolte o respinte a seconda dell’esito di una lotta<br />
politica. Proprio perché l’accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali avviene<br />
in una cornice politica, si hanno in grande quantità sprechi, duplicazioni e<br />
sovrapposizioni nei progetti e nei servizi statali. Alcune richieste sono in conflitto e<br />
si elidono l’una con l’altra; altre si contraddicono in una molteplicità di modi.<br />
L’accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali è un processo altamente irrazionale<br />
sotto l’aspetto della coerenza amministrativa, della stabilità fiscale e di<br />
una accumulazione privata potenzialmente redditizia». (Introduzione).<br />
Questo stato di cose, come è noto, spinse gli Stati Uniti a mutare la propria politica<br />
economica diretta non più a sostenere e sviluppare la domanda, ma a rafforzare<br />
l’offerta, riducendo in parte la spesa pubblica e avviando un notevole indebolimento<br />
della pressione fiscale, facilitati in tutto ciò dalla possibilità di finanziare il<br />
processo anche in deficit.<br />
Così, mentre in Europa si proseguiva in una politica classica di sostegno della<br />
domanda che inevitabilmente faceva crescere la spesa pubblica e il debito dello Stato,<br />
al di là dell’oceano grazie ad un riavvio della concorrenza ed alla modernizzazione<br />
dell’apparato produttivo, si recuperava in competitività e si tornava a rilevanti<br />
tassi di sviluppo. Per converso in Europa si passava nel breve volgere di sei anni<br />
da un avanzo contenuto ad un notevole disavanzo che nel 1975 era già del 4,3%.<br />
101
Andrea Bixio<br />
Una divaricazione delle politiche economiche<br />
• Come mai una tale divaricazione della politica economica dei due continenti?<br />
O più precisamente come mai una più decisa capacità reattiva degli Stati Uniti?<br />
Vi sono certamente delle ragioni legate alla diversa struttura economica, al diverso<br />
grado di organizzazione delle classi e di ceti sociali, al differente grado di ‘liberalismo’<br />
presente nei due sistemi. È tuttavia da ricordare anche una diversa collocazione<br />
squisitamente politica con diverso grado di responsabilità globale.<br />
Per gli Stati Uniti, a differenza che per l’Europa, era in gioco un proprio primato<br />
politico che si doveva fondare necessariamente su un primato economico. Se si<br />
torna con la memoria a quegli anni, non si può evitare di ricordare che la grande<br />
sfida geo-politica si era indirizzata verso la cosiddetta competizione pacifica con<br />
una Unione Sovietica uscita da poco dal gelo staliniano. Ora, la base materiale su<br />
cui tale competizione si veniva svolgendo era data, con piena consapevolezza degli<br />
attori, dalla produttività. Non potendo scontrarsi con le armi, le due massime potenze<br />
non potevano affrontarsi che sulla base della competizione economica e alla<br />
fine appunto su quella della produttività.<br />
Ci si rammenterà anche che in quegli anni l’Unione Sovietica accettava la sfida<br />
su un tale terreno, perché godeva ancora di buoni tassi di sviluppo, mentre nel<br />
campo avverso si cominciava a parlare di declino americano. Le urgenze della storia<br />
e il maggior grado di responsabilità verso di esse, a parer di chi scrive spinsero<br />
gli Stati Uniti a prendere coscienza dei propri problemi e ad impostare decise scelte<br />
di politica economica per riportare la produttività del sistema a livelli che fossero<br />
in grado di sopportare la competizione.<br />
La storia degli anni subito seguenti ci mostra come la sfida lanciata dall’Unione<br />
Sovietica sulla base della convinzione della superiorità della propria organizzazione<br />
produttiva, effettivamente si svolgesse su un simile terreno; anche se il vincitore<br />
non fu il sistema che in un certo momento aveva ritenuto di aver le armi migliori,<br />
ma fu appunto gli Stati Uniti.<br />
Al di sotto della illusoria cortina di ordine autocratico, per parafrasare O’Connor,<br />
i vari ceti sociali presenti nel paese del comunismo di Stato da un lato mantenevano<br />
alta la spesa pubblica (anche per la struttura giuridica stessa del sistema) accaparrando<br />
risorse sulla base di criteri politici e non di efficienza economica, dall’altro<br />
lato spingevano lo stesso Stato verso una condizione di crisi fiscale dissimulata<br />
appena dal tipo particolare di ordine politico. In fondo quello dell’Unione Sovietica,<br />
da questo punto di vista, può essere considerato come un caso limite di un<br />
processo che investiva in quei tempi un po’ tutti i paesi. Un caso limite che si è risolto<br />
drammaticamente proprio a causa della radicalità e rigidità che caratterizzava<br />
quella esperienza.<br />
L’Europa, in particolare quella continentale, non aveva le responsabilità geopolitiche<br />
del suo partner; inoltre difficilmente avrebbe potuto rinunziare alla forte e<br />
102 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
igida espansione dello Stato sociale e della spesa pubblica; perché, grazie a questa,<br />
aveva nel secolo ventesimo arrestato l’espansione di una economia collettivista<br />
(fondata su una radicale socializzazione e centralizzazione dei mezzi di produzione),<br />
legando a sé ceti e classi potenzialmente antagonisti. Dunque, per questi motivi<br />
(e naturalmente per molti altri ancora), da un lato non sentiva così urgente la<br />
necessità di trasformare repentinamente la propria politica economica, dall’altro<br />
lato, come in Italia, aveva difficoltà a farlo nel timore di alterare gli equilibri sociali<br />
conseguiti pagando un altissimo prezzo.<br />
Dunque, il nostro continente restò per molto tempo legato a politiche tradizionali,<br />
di sostegno della domanda, nella convinzione che l’ampliamento della spesa<br />
pubblica avrebbe dato un sostegno alla domanda e indirettamente alla attività<br />
economica in maniera proporzionalmente maggiore dell’effetto restrittivo causato<br />
inevitabilmente dall’aumento della pressione fiscale. Perciò, si proseguì sostanzialmente<br />
nella direzione consueta, ritenendo di poter mantenere non solo il livello,<br />
ma in fondo la qualità stessa della spesa, e di poter pur tuttavia rilanciare l’attività<br />
economica. Cosa che non è priva di senso, a patto, però, che la stessa spesa pubblica<br />
venga riqualificata fortemente depurandola delle diseconomie ed indirizzandola<br />
in modo da costituire un elemento propulsivo del miglioramento della produttività<br />
totale dei fattori.<br />
Ma tutto ciò significherebbe far corrispondere ad una prima fase di forte contenimento<br />
e riqualificazione della spesa sociale un rilancio di quella per investimenti<br />
altrettanto indirizzati all’aumento della produttività del sistema. Cosa più<br />
facile da dirsi che da farsi, dal momento che, come si sa, in situazioni di crisi di bilancio<br />
la prima cosa che viene tagliata sono appunto gli investimenti.<br />
E il nostro Paese?<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Andrea Bixio<br />
• L’Italia si muove nel contesto europeo appena descritto, secondo politiche di<br />
sostegno della domanda che hanno, come è noto, dato luogo ad aumenti notevolissimi<br />
della spesa pubblica e soprattutto dei disavanzi e del debito pubblico.<br />
I dati sono notissimi, ma qui vanno richiamati sinteticamente al fine di rendere<br />
più comprensibile la situazione. L’incidenza della spesa pubblica sul prodotto interno<br />
lordo a partire dagli anni settanta si è venuta espandendo, passando da circa<br />
un terzo a circa il 58% nel 1993 e divenendo oggi maggiore di tre volte quella del<br />
1970. A questa espansione tuttavia non ha corrisposto una adeguata copertura fiscale,<br />
dal momento che per molti anni la dinamica dello sviluppo delle entrate è<br />
stata molto inferiore di quella relativa alla crescita delle spese. Nello stesso tempo a<br />
causa dell’aumento della spesa in disavanzo (per molto tempo intorno al 10%), il<br />
debito pubblico è passato in percentuale sul prodotto interno lordo dal 50% del<br />
1972 al 125% del 1994; per poi ridiscendere, come è noto, lentamente anche a<br />
103
Andrea Bixio<br />
causa degli impegni di Maastricht, i quali in ogni caso con l’entrata nell’euro giovarono,<br />
consentendo una riduzione della spesa per interessi.<br />
Tuttavia, all’espansione della spesa pubblica non corrispose affatto una sua virtuosa<br />
riqualificazione; cosicché essa non è mai apparsa dirigersi a migliorare la produttività<br />
del sistema; piuttosto a moltiplicare le diseconomie, a rilanciare i consumi,<br />
nonché indirettamente l’inflazione (sempre superiore alla media europea). Cosicché<br />
per molti anni la competitività del sistema è stata recuperata principalmente mediante<br />
le periodiche svalutazioni competitive; utili, perché hanno in parte contribuito a<br />
rilanciare in particolare le esportazioni e la nostra quota nel commercio mondiale.<br />
Questi i dati più grossolani della nostra situazione; rispetto alla quale è possibile<br />
condurre un discorso solo introduttivo, senza pretendere di voler chiarire nei<br />
suoi molteplici aspetti la condizione di crisi del nostro paese.<br />
Tuttavia, va ricordato, prima di passare a porci qualche interrogativo sul nostro<br />
futuro, che se per certi versi la politica di sostegno della domanda è stata per molto<br />
tempo analoga a quella degli altri grandi paesi dell’Europa continentale, le modalità<br />
e i contesti sono stati da noi profondamente differenti. A bassa inflazione, stabilità<br />
del valore della moneta, stabilità salariale e difesa del potere di acquisto,<br />
performanti risultati della produttività totale e del settore industriale, nonché specializzazione<br />
in produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, ha corrisposto<br />
in Italia alta inflazione, instabilità monetaria, aumento nominale dei salari, indebolimento<br />
del potere di acquisto, specializzazione in settori tradizionali, declino<br />
negli ultimi anni della produttività.<br />
Le ragioni di questo diverso tipo di condizione vanno ricercate nella storia economica<br />
e nel percorso specifico attraverso il quale il nostro paese si è potuto sviluppare<br />
all’interno della divisione internazionale del lavoro; esse hanno condotto ad<br />
uno sviluppo della spesa pubblica, l’aumento di valore nominale della quale, grazie<br />
al processo inflativo in atto, per molto tempo è stato compensato dalla sua svalutazione.<br />
Cosicché l’espansione di quella stessa spesa ha potuto in una certa stagione<br />
apparire non anomala, perché appunto compensata. Cosa che, però, paradossalmente<br />
ha facilitato di nuovo una espansione della stessa spesa pubblica.<br />
Con tutte le sue carenze, tuttavia, il nostro modello, quello appena sopra descritto,<br />
ha svolto una funzione positiva; con esso si è riusciti ad un tempo a far<br />
fronte a rapidissime e disordinate trasformazioni nella direzione di un mai visto<br />
prima sviluppo sociale (che pur premeva sulla spesa pubblica) e a mantenere competitive<br />
le merci italiane sul piano nel commercio internazionale.<br />
È noto che questo tipo di processo ad un certo punto si è dovuto arrestare per<br />
vari motivi: il debito pubblico insostenibile, la riduzione mondiale dell’inflazione<br />
che non poteva non essere perseguita anche da noi, pena la perdita di competitività,<br />
e che non consentiva più una riduzione del valore reale del debito, un nuovo<br />
sistema internazionale fondato sulla stabilità monetaria, la istituzione dell’euro, i<br />
limiti di Maastricht…<br />
104 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Così si è passati da un risalente periodo in ci si cresceva più dell’Europa ad un<br />
più recente momento in cui la tendenza si ritrovava completamente invertita, causata<br />
da problemi strutturali nostri, aggravati in parte dal rallentamento dei nostri<br />
grandi partners commerciali.<br />
E a tutto ciò si è aggiunta la globalizzazione economica dovuta non solo a ragioni<br />
economiche consistenti nella volontà di aumentare i volumi del commercio<br />
mondiale e la crescita, ma anche politiche. Essendo la globalizzazione stessa per<br />
certi versi un ampliamento di quella competizione pacifica fra occidente e oriente<br />
che prendendo atto del carattere catastrofico della guerra globale, aveva indirizzato<br />
i sistemi verso una competizione operata prevalentemente mediante l’esercizio delle<br />
politiche economiche.<br />
Ora, in una tale situazione il nostro paese non poteva evitare di ritrovarsi di<br />
fronte a gravi difficoltà. Così come l’Unione Sovietica non potendo risolvere come<br />
già la Germania nazista i propri problemi mediante la guerra, aveva dovuto affrontare<br />
una rude ristrutturazione non solo economica, ma anche dolorosamente sociale,<br />
anche l’Italia non potendo esportare i propri problemi mediante l’inflazione e le<br />
svalutazioni competitive a causa di vincoli esterni si è trovata ad un certo punto costretta<br />
ad una ristrutturazione economica che, se si vuole essere onesti, non ha potuto<br />
(e non può) evitare di dover far pagare dei prezzi di carattere sociale, o a danno<br />
di un ceto o in danno di un altro; e meglio sarebbe con danno distribuito secondo<br />
solidarietà collettiva.<br />
In che modo tuttavia operare?<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Andrea Bixio<br />
• Come è noto, all’inizio della ‘transizione’ italiana la priorità è stata data al risanamento<br />
delle finanze pubbliche; anche pagando qualcosa in termini di crescita.<br />
Prima il debito pubblico, il disavanzo; poi lo sviluppo. Certo, se si va a vedere i<br />
programmi politici, tutti dichiaravano di voler perseguire politiche ad un tempo di<br />
risanamento e di sviluppo. Quando però si prende in considerazione il decennio<br />
trascorso, si deve constatare che il contenimento del debito è stato in un primo periodo<br />
l’obbiettivo senz’altro primario. Obbiettivo centrato solo in parte e solo in<br />
senso quantitativo, perché non si è operato a sufficienza nella direzione di una riqualificazione<br />
a fondo della spesa pubblica. Cosa che risulta con evidenza, quando<br />
si vada a vedere il lento declino della produttività totale; declino accelerato dalla<br />
globalizzazione economica.<br />
Perciò oggi ci si trova in una situazione particolarmente complicata. Il disavanzo<br />
a causa della congiuntura è tornato a crescere, mentre il problema della crescita<br />
si fa molto più assillante, non potendo attendere ulteriormente.<br />
Dunque si può ritenere che oggi non si possa più evitare di dare priorità direttamente<br />
alla crescita. Cosa che a ben vedere non significa affatto lassismo rispetto<br />
105
Andrea Bixio<br />
alla spesa pubblica; al contrario vuol dire operare (che può essere di diverso segno)<br />
in modo molto più deciso sotto l’aspetto della sua riqualificazione.<br />
Così, sembra che le opzioni di massima presenti sul tappeto, per semplificare<br />
siano due. Procedere speditamente verso politiche di rafforzamento dell’offerta, di<br />
congrua riduzione della pressione fiscale (e qui ben vengano le proposte che in questo<br />
periodo vengono avanzate al fine di alleggerire l’economia del carico di una parte<br />
consistente del debito pubblico), di contenimento, riduzione e soprattutto riqualificazione<br />
della spesa pubblica, di liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei capitali,<br />
nonché del sistema bancario e del comparto dei servizi, non dimenticando tuttavia<br />
di evitare azioni provenienti anche dall’esterno, dirette a operazioni puramente<br />
e semplicemente speculative anche nel settore industriale. Oppure continuare a sostenere<br />
la domanda con un carico fiscale inalterato, ma allora riqualificare ancora<br />
più a fondo la spesa pubblica in modo che questa si dimostri idonea a incidere fortemente<br />
sulla produttività totale dei fattori; dunque mantenendo un ruolo attivo dello<br />
Stato in una condizione tuttavia che deve evitare le modalità di una lunga e non<br />
sempre lusinghiera esperienza del passato. Politica che va comunque accompagnata<br />
con le riforme (in parte già oggi avviate) in ordine agli aspetti già indicati a proposito<br />
della prima opzione. Politica difficile da portare avanti data l’inefficienza del<br />
comparto pubblico e la resistenza di molti gruppi sociali, condizionanti le scelte<br />
proprio di coloro che dovrebbero procedere speditamente nella direzione indicata.<br />
Una via da intraprendere<br />
• Quale di queste due opzioni è maggiormente percorribile dal nostro paese?<br />
Questo è senz’altro l’interrogativo decisivo. Perché il problema italiano non è, come<br />
si è detto fin dall’inizio di queste considerazioni, quello di individuare i problemi<br />
o le politiche economiche da portare avanti, non è in altri termini culturale, ma<br />
di altra natura. Il problema riguarda la decisione e la capacità di portarla ad effetto.<br />
Subito sopra, esemplificando, sono state individuate due parzialmente differenti<br />
opzioni. Ambedue sono plausibili, perché, a ben vedere, costituiscono due<br />
differenti modi per raggiungere un medesimo risultato. È possibile intraprendere<br />
con decisione l’una o l’altra via?<br />
Qui sorgono gravissime difficoltà. Infatti, il nostro paese, mentre in apparenza<br />
è polarizzato in due schieramenti, la prevalenza di uno dei quali potrebbe produrre<br />
la forza necessaria per poter decidere, nella realtà ha una struttura consociativa<br />
profonda, per la quale a privilegi e protezioni di un ceto corrispondono altrettanti<br />
privilegi di un altro; corrispondenze che possiamo rilevare anche all’interno di un<br />
medesimo gruppo sociale.<br />
In questa situazione le spinte all’innovazione sia di un segno che di segno opposto<br />
finiscono per elidersi vicendevolmente, non riuscendo ad emergere e a sostanziare la<br />
106 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
decisione di uno dei due schieramenti. Cosa che spiega le incertezze e le lentezze dei<br />
governi sia di destra che di sinistra nell’imboccare una via che astrattamente potrebbe<br />
anche essere quella più idonea dal punto di vista della propria ideologia politica.<br />
Se è vero che il centrodestra riceve il suo consenso più caratterizzante, ad esempio,<br />
dal lavoro autonomo, mentre lo schieramento alternativo da quello dipendente,<br />
è anche vero che il secondo tipo di lavoro registra una sua rilevante presenza anche<br />
nella prima coalizione e viceversa. Così, quando si tenga presente che piccoli<br />
scarti di voti possono ribaltare i risultati elettorali, risulta evidente che si è in ogni<br />
caso politicamente condizionati da posizioni che in astratto potrebbero essere<br />
estranee alle opzioni del singolo schieramento. Cosa che riguarda molti gruppi sociali<br />
fra cui non ultimo quello imprenditoriale.<br />
Di qui il liberalismo più proclamato che reale del centro-destra; di qui il ‘socialismo’,<br />
di cui paradossalmente si deve parlare con qualche delicatezza nella sinistra<br />
proprio a causa della egemonia culturale di gruppi ‘democratici’ non socialisti.<br />
La ragione di tutto ciò la si può rinvenire nella storia stessa del nostro paese, il<br />
quale per più di cento anni si è venuto sviluppando mediante una forte presenza<br />
pubblica, una sorta di capitalismo di stato, con brevi momenti di politiche liberiste.<br />
Cosa che ha plasmato la crescita dei ceti sociali non mediante virtuosi rapporti<br />
di netto confronto reciproco, ma attraverso forme consociative e corporative di tipo<br />
ora democratico, ora, purtroppo come si sa, di tipo autocratico e totalitario.<br />
Così, ci si è trovati di fronte ad una società in cui ciascun gruppo era in grado<br />
di condizionare l’altro e la totalità del paese.<br />
Questo intreccio fra i vari ceti, da un lato ha sottratto la possibilità di istituire<br />
una egemonia sociale capace di promuovere e affermare, pur democraticamente e<br />
nel rispetto delle minoranze, specifiche scelte strategiche, dall’altro lato ha avuto<br />
sempre più bisogno della spesa pubblica e di vari tipi di sostegno statale. Ha condotto,<br />
inoltre, ad indebolire la stessa azione dello stato dal momento che quest’ultimo<br />
da soggetto attivo e dominante è divenuto sempre più elemento servente le<br />
mediazioni fra i ceti sociali.<br />
Due contraddizioni<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Andrea Bixio<br />
• Di qui una prima contraddizione: l’Italia è ancora strutturata in modo tale da<br />
aver bisogno di una forte azione sul piano economico da parte dello stato, ma avendo<br />
indebolito la capacità propulsiva e innovativa di quest’ultimo, anche e soprattutto<br />
nella politica economica e nella riqualificazione della spesa, non trova soccorso<br />
più in quell’architrave che ha fortemente contribuito alla modernizzazione del paese.<br />
E poi ancora un’altra contraddizione: poiché alla rilevanza dell’azione statale<br />
per oltre un secolo ha corrisposto una relativa debolezza del capitalismo privato,<br />
nel momento in cui per ragioni geo-economiche e geo-politiche si è dovuto in par-<br />
107
Andrea Bixio<br />
te abbandonare la leva statale, ci si è trovati di fronte ad un’ulteriore causa di debolezza;<br />
ad un esiziale indebolimento del capitale privato, il quale ha visto dissolversi<br />
grandi gruppi industriali in settori decisivi come l’elettronica, la chimica, l’alimentare,<br />
l’informatica… in un momento in cui il sistema globale tornava ad assegnargli<br />
un ruolo centrale. Così, quando abbiamo avuto più bisogno dei privati, abbiamo<br />
assistito alla morte di molti grandi gruppi finanziari ed industriali potenzialmente<br />
idonei ad impostare azioni globali.<br />
Cosa, dunque, fare in una tale situazione?<br />
Prima di tutto sarebbe necessario che i gruppi sociali dominanti dei rispettivi<br />
schieramenti premessero per spingere ad intraprendere azioni decisive tempestivamente;<br />
e perciò nella prima parte della legislatura.<br />
E poi, direi che sono proprio le contraddizioni indicate che ci devono indicare<br />
la via da seguire.<br />
Per prima cosa bisogna dire che non si può rinunciare ad un ruolo forte dello<br />
stato, intendendo, però, questo ruolo in modo affatto nuovo, che si fonda su due<br />
capisaldi fondamentali.<br />
Il primo consiste nel fatto che tale ruolo non significhi che lo stato debba interessarsi<br />
di produzione come ha fatto nel passato. Il secondo riguarda il capitale privato<br />
(naturalmente anche straniero a patto che non sia meramente speculativo). Lo<br />
stato deve divenire il portatore di una domanda pubblica diretta a promuovere investimenti<br />
privati diretti all’innovazione. Perciò, veloce eliminazione di vecchie e<br />
superate situazioni, trasformazione tecnologica degli apparati amministrativi in<br />
senso allargato, ammodernamento o decisa sostituzione di sistemi di organizzazione<br />
e di comunicazione, altrettanto veloce sviluppo della ricerca e in generale azione<br />
capace di orientare in collaborazione con le università, i centri di ricerca e i vari settori<br />
economici, lo stesso sviluppo tecnologico verso quelle tecnologie che contribuiscono<br />
al miglioramento della produttività totale.<br />
Dunque, la spesa come spesa per investimenti e in particolar modo come volano<br />
per il rafforzamento del settore privato. Il rapporto con questo settore non come<br />
mera azione di sostegno dell’esistente, ma come ragione di sana concorrenza<br />
delle aziende rispetto ad un mercato di origine pubblica orientato all’innovazione,<br />
alla trasformazione e all’ammodernamento del cosiddetto sistema paese.<br />
Questo l’aspetto più rilevante da sottolineare per far fronte ad una situazione<br />
strutturalmente contraddittoria che finisce per spingere l’Italia verso un non tanto<br />
poi lento declino.<br />
Le riforme necessarie<br />
• Il contenimento della spesa corrente, la riduzione della pressione fiscale, la<br />
creazione di un nuovo e più flessibile sistema di garanzie sociali, un maggior tasso<br />
108 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
di concorrenza soprattutto nei servizi… sono tutte cose necessarie, implicite nel<br />
discorso che fin qui è stato sviluppato. Esse, come da più parti richiesto, riguardano<br />
riforme che si stanno tentando e che vanno compiute con maggiore consapevolezza<br />
e decisione. Tuttavia vanno inquadrate nello scenario che si è cercato di sinteticamente<br />
descrivere, perché altrimenti si potranno rivelare alla fine vane o insufficienti.<br />
Se è difficile che noi possiamo diventare un paese anglosassone capace di trovare<br />
una Margareth Tatcher e di tenercela per lo meno per due legislature, meno impossibile<br />
è restare in qualche modo nel solco della nostra tradizione non abolendo<br />
la tradizionale alleanza fra stato e capitalismo privato, ma all’opposto rivoluzionandola<br />
e rendendola virtuosamente capace di affrontare le nuove sfide.<br />
E soprattutto fine di un processo di riforma rissoso e senza fine, nonché meno<br />
produzione legislativa e più attenta implementazione e controllo dei processi di attuazione.<br />
Per concludere<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Andrea Bixio<br />
• Alla fine di questo ragionamento vorrei ricordare che essendo partiti da una<br />
significativa citazione riguardante le passioni asociali, è opportuno chiudere su un<br />
tema analogo e tuttavia speculare. Perché è senz’altro meglio concordare, pur soffrendo<br />
di qualcosa nell’immediato, di ripartirci i beni di un ritrovato sviluppo, che<br />
accapigliarci per strapparci sempre più sottili porzioni di un reddito complessivo<br />
declinante. Dunque, come ci ricorda il nostro moralista riprendendo il motivo<br />
contenuto nella prima citazione, “Ciò che rende l’intera serie di passioni appena menzionate<br />
sgraziate, e, nella maggior parte dei casi, sgradevoli, è il fatto che la nostra simpatia<br />
è divisa di fronte a esse. All’opposto esiste un’altra serie di passioni che quasi sempre<br />
vengono rese particolarmente piacevoli e convenienti da una simpatia raddoppiata.<br />
La generosità, l’umanità, la gentilezza, la compassione, la amicizia reciproca e la stima,<br />
tutte le affezioni sociali e benevole, quando vengono espresse nell’atteggiamento e<br />
nel comportamento, anche nei riguardi di coloro che non sono particolarmente legati a<br />
noi, compiacciono quasi sempre lo spettatore indifferente. La sua simpatia per la persona<br />
che prova quelle passioni coincide esattamente con la preoccupazione per la persona<br />
che ne è oggetto”. (A. Smith, cit., Parte I, cap. IV, 1).<br />
<br />
109
La sfida della nuova economia e il tema<br />
della formazione manageriale<br />
Non da qualche anno, ma ormai da qualche secolo,<br />
ogni nuova generazione di imprenditori si è trovata di<br />
fronte mutamenti radicali che raramente è stato possibile<br />
affrontare con gli strumenti offerti dall’esperienza<br />
precedente.<br />
La sfida della nuova economia<br />
• Non si è trattato soltanto di mutamenti ed innovazioni<br />
tecnologiche, anche se queste sono state clamorose e spesso<br />
travolgenti: basti pensare ai mezzi di trasporto, all’elettricità,<br />
all’elettronica, all’informatica, ai nuovi farmaci, e via<br />
dicendo. Si è trattato anche, e forse in maggior misura, dei<br />
profondi cambiamenti intervenuti nella società, nei comportamenti<br />
umani, nella continua alterazione delle aree economiche<br />
generata dalle vicende geopolitiche: basti pensare a<br />
quanto avvenuto in Occidente con le guerre napoleoniche<br />
nel secolo XIX, o con la prima e la seconda guerra mondiale,<br />
con il crollo degli imperi multinazionali e la ridefinizione di<br />
confini e mercati che ne è derivata. Non a caso Hobsbawm<br />
ha definito il secolo appena passato “il secolo breve” per i<br />
tanto rapidi e sconvolgenti avvenimenti politici ed economici<br />
che lo hanno caratterizzato. Ad ognuno di questi eventi<br />
l’imprenditore ha dovuto reagire improvvisando nuovi strumenti,<br />
nuove tecniche, nuovi atteggiamenti e diverse strategie<br />
di penetrazione; quelli che ne sono stati capaci hanno<br />
avuto successo; gli altri sono stati cancellati dal mercato.<br />
Il “nuovo” della nuova economia<br />
• Se questa è la realtà storica, ci si può chiedere cosa abbia<br />
di realmente nuovo la cosiddetta nuova economia. An-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
ANTONIO ZURZOLO<br />
Economista<br />
≈<br />
“La formazione<br />
manageriale è un<br />
compito complesso<br />
e costoso,<br />
ma irrinunciabile<br />
se si vuole<br />
progredire o,<br />
addirittura, se non<br />
si vuole regredire”<br />
≈<br />
111
Antonio Zurzolo<br />
che oggi ci troviamo di fronte ad eventi inattesi che coinvolgono non solo la produzione<br />
e il mercato, ma il costume, la politica, intere nuove aree geografiche e popolazioni<br />
sino ad oggi ritenute al margine dello sviluppo economico mondiale. Ma<br />
quello che è realmente nuovo, e che costituisce una sfida che non ha precedenti<br />
storici, è l’ampiezza e la velocità dei mutamenti avvenuti negli ultimi anni. Le tecnologie<br />
hanno raggiunto livelli elevatissimi in ogni ambito e i processi innovativi si<br />
susseguono senza sosta.<br />
La rapidità delle comunicazioni e della diffusione dell’informazione non solo<br />
economica, ma scientifica, sociale, culturale, favorita dall’introduzione e dallo sviluppo<br />
delle tecnologie informatiche al di là di ogni previsione, costituisce un possente<br />
fattore di accelerazione.<br />
La combinazione di elettronica, computer, telecomunicazioni in un unico sistema<br />
integrato apre la porta a nuovi modi di gestire le attività economiche.<br />
La globalizzazione dei mercati ha abbattuto le frontiere e aperto le porte alla<br />
concorrenza mondiale. La dimensione nazionale per le imprese, salvo le piccolissime,<br />
non esiste più.<br />
Questa constatazione si riferisce non solo al mercato di sbocco dei prodotti o di<br />
approvvigionamento delle materie prime, ma anche a tutte le scelte e le opportunità<br />
di finanziamento, di localizzazione e persino di proprietà delle aziende stesse.<br />
Queste affermazioni risultano immediatamente evidenti quando si tenga conto<br />
dell’entità dei flussi commerciali e finanziari internazionali, di possibilità di quotazione<br />
delle aziende sulle borse internazionali, del merchant banking mondiale che<br />
vede intermediari di un paese acquistare o vendere aziende di un altro paese per<br />
conto di committenti di un terzo paese. Paesi emergenti crescono ad un ritmo impressionante<br />
e invadono i mercati anche dei Paesi industrializzati.<br />
Fino all’inizio degli anni ’80, ad esempio, sarebbe stato impossibile immaginare<br />
che nell’arco di appena un decennio un Paese arretrato come la Cina potesse –<br />
servendosi di un doppio dumping, sociale e valutario – occupare spazi sempre più<br />
ampi di quelli che erano stati fino a quel momento i mercati tradizionali dell’industria<br />
manifatturiera occidentale (e che si tratti di un doppio dumping appare evidente<br />
quando si considerino le condizioni sociali dei lavoratori cinesi ed il fatto<br />
che la Cina, a fine 2005, abbia accumulato riserve valutarie di oltre 700 miliardi di<br />
dollari, pur con un reddito pro-capite di poco superiore ai 1.000 dollari).<br />
La vera novità dunque non è rappresentata soltanto da eventi di questo genere,<br />
ma dalla rapidità con la quale questi eventi si sono verificati, e dall’ampiezza che<br />
questi fenomeni hanno raggiunto in tempi incredibilmente brevi. Da questo punto<br />
di vista, dunque, il secolo presente potrebbe già essere definito, parafrasando<br />
Hobsbawm, “il secolo brevissimo”.<br />
È chiaro che una situazione come quella adombrata presenta una serie di rischi<br />
e di opportunità dei quali l’impresa non può non tener conto e non solo nelle strategie<br />
di medio e lungo termine, ma anche nell’operatività quotidiana.<br />
112 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
La situazione dell’Italia<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Antonio Zurzolo<br />
• Nel contesto globale sopra descritto, il nostro Paese si trova in una situazione<br />
particolarmente difficile e delicata.<br />
Secondo un recente rapporto di “Business International”, la competitività del<br />
sistema Italia registra un arretramento di ben otto posizioni rispetto al 2002 e si<br />
colloca al 31° posto nella classifica che prende in considerazione 60 Paesi, a notevole<br />
distanza quindi da quelli più avanzati (in Europa la Danimarca è al 5° posto, il<br />
Regno Unito al 6°, i Paesi Bassi al 7°, la Francia al 14°, la Germania al 15°). Il nostro<br />
Paese è in fase di sostanziale stagnazione; produzione e produttività non crescono;<br />
le spese di ricerca sono tra le più basse tra i Paesi industrializzati; il problema<br />
del Mezzogiorno è sempre grave.<br />
Secondo un recente sondaggio congiunturale («Sole 24 ore» del 13 ottobre<br />
2005) si stima che nel 2005 il Pil cresca solo dello 0,2% e il consumo delle famiglie<br />
dello 0,7%; in flessione dello 0,3% gli investimenti. Modeste sono le attese di ripresa<br />
per il 2006: Pil + 1,1%; consumo delle famiglie + 1,2%; investimenti +<br />
1,7%. Le motivazioni sono diverse.<br />
Innanzitutto cause esterne all’impresa quali, oltre naturalmente la fase congiunturale<br />
sfavorevole, l’insufficienza di infrastrutture, l’eccessiva burocratizzazione<br />
della amministrazioni pubbliche, le distorsioni del sistema fiscale, le carenze del<br />
sistema scolastico. Poi la peculiarità del tessuto produttivo costituito, in rilevante<br />
misura, da imprese di piccole e medie dimensioni a conduzione familiare. Sono<br />
poche le grandi imprese, in buona parte ex aziende pubbliche o a partecipazione<br />
statale, e pochissime le società quotate in borsa.<br />
Il sistema della piccola e media impresa italiana non sempre dispone della managerialità<br />
necessaria a garantire la competitività in un mercato globale e, soprattutto,<br />
risulta fragile la struttura dimensionale (patrimoniale e organizzativa) rispetto<br />
alla tipologia dello specifico settore.<br />
Eppure anch’essa deve affrontare la concorrenza internazionale sempre più agguerrita<br />
sia sul lato della qualità e novità dei prodotti, sia su quello dei prezzi e, in<br />
particolare, la concorrenza dei Paesi emergenti che non hanno tutti gli oneri e i<br />
vincoli dei Paesi più avanzati.<br />
Se questa è la realtà dalla quale non si può prescindere, ma vogliamo avere un<br />
ruolo sul mercato globale (e in una situazione di mercato aperto alla concorrenza<br />
internazionale non esistono possibilità di scelta: i rischi vanno affrontati e le opportunità<br />
subito colte, pena la progressiva emarginazione), è necessario scegliere<br />
rapidamente linee strategiche lungo le quali muoversi e modelli organizzativi moderni<br />
ed efficienti.<br />
Occorre perseguire in tempi brevi un vero e proprio riposizionamento strategico<br />
facendo emergere le potenzialità della dimensione (raggiungibile nelle diverse<br />
forme e modalità di aggregazione) che deve essere adeguata al fine di conseguire<br />
113
Antonio Zurzolo<br />
una migliore l’ammodernamento e il rafforzamento delle dotazioni tecnologiche,<br />
la ricerca, l’innovazione (dei prodotti, dei processi, dell’organizzazione), subito avvertendo<br />
che le scelte non possono mai considerarsi definitive, ma soggette a continuo<br />
riscontro con le realtà operative e di mercato.<br />
Sono operazioni che richiedono anche cospicui investimenti finanziari. Le trasformazioni<br />
dovranno essere affrontate non sotto spinte emotive, ma con analisi e<br />
valutazioni adeguate alla rilevanza dei problemi che comportano. In questo processo<br />
di progressivo e incessante assestamento essenziale e determinante è l’azione del<br />
management.<br />
La formazione manageriale<br />
• Ci si può dunque porre il problema del tipo di formazione manageriale più<br />
idoneo ad affrontare temi di tanta ampiezza e di tanto peso, dai quali dipendono<br />
non solo la sopravvivenza e lo sviluppo di imprese e di interi settori industriali, ma<br />
addirittura la possibilità del mantenimento di adeguati livelli di occupazione e di<br />
reddito nelle maggiori economie occidentali. Tuttavia quanto detto in precedenza<br />
sulla crescente interrelazione dei mercati e delle economie porta inevitabilmente a<br />
porre il problema in termini più ampi. Il contatto con strutture sociali, economiche<br />
e culturali diverse, per essere fruttuoso, presuppone un allargamento delle conoscenze<br />
non solo linguistiche, ma anche giuridiche, economiche e culturali nel<br />
senso più ampio del termine.<br />
Per tornare alla Cina, si può ricordare che i primi successi nella diffusione del<br />
cristianesimo in quell’immenso Paese furono ottenuti dal p. Matteo Ricci soltanto<br />
dopo averne assimilato a fondo la cultura, la filosofia e la religione, e che solo dopo<br />
essere stato cooptato tra i saggi e gli scienziati del Celeste Impero gli fu possibile<br />
svolgere la propria funzione missionaria e culturale.<br />
La componente culturale<br />
• Ora, appaiono evidenti due cose: la prima è che la formazione manageriale<br />
deve poggiare su una solida base culturale in senso ampio, e ciò non può che avvenire<br />
nella scuola superiore: quindi inglese, informatica, economia, e imprenditorialità<br />
non possono essere condizioni sufficienti (pur essendo necessarie) al successo<br />
economico di un individuo o di un Paese. La seconda, che non è possibile accostarsi<br />
in modo serio a culture diverse dalla propria se prima non si conosce, appunto,<br />
la propria. E qui tocchiamo un tasto particolarmente dolente del nostro sistema<br />
scolastico che, per eccessiva permissività e scarsa profondità di studio, porta i giovani<br />
a completare i propri cicli formativi – inclusa l’università – in condizioni di<br />
114 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
deplorevole ignoranza della propria storia e perfino della propria lingua, per non<br />
parlare di quelle altrui: condizioni sulle quali appare difficile impostare quella che<br />
dovrebbe essere una formazione aggiuntiva e complementare e non esclusiva, quale<br />
deve essere quella manageriale.<br />
L’esperienza dell’IRI<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Antonio Zurzolo<br />
• Il tema della formazione manageriale si è affacciato in ritardo nel nostro paese<br />
a causa della frammentata struttura del sistema produttivo, costituito in gran<br />
parte, come già detto, da piccole e medie imprese a conduzione familiare.<br />
Solo con il crescere delle dimensioni aziendali, la nascita della grande impresa,<br />
la separazione tra proprietà e gestione, il problema è venuto alla luce.<br />
Vale forse la pena ricordare come, in passato, questo problema sia stato affrontato<br />
con notevole pragmatismo, e con un discreto successo, dall’<strong>Istituto</strong> per la Ricostruzione<br />
Industriale (IRI), nato nel 1933 proprio per supplire alle carenze e ai<br />
fallimenti della grande industria e della finanza privata con un apporto, oltre che<br />
di fondi pubblici, di managerialità tecnicamente all’avanguardia e non connessa,<br />
com’era stato per il passato, alla proprietà. L’IRI aveva creato istituti di formazione,<br />
indirizzati sia ai dirigenti italiani che a giovani funzionari dei paesi in via di sviluppo<br />
nei quali, alle docenze accademiche che davano una pregevole base teorica agli<br />
studi, si affiancavano testimonianze e corsi tenuti da tecnici e da managers sia interni<br />
che esterni al gruppo 1 . Iniziative analoghe sorsero poi nell’ambito di altri<br />
gruppi pubblici e privati. Le dimensioni del fenomeno erano tuttavia piuttosto circoscritte.<br />
In generale la dirigenza si autoformava in ambito aziendale e, spesso, nel<br />
ricoprire le posizioni di vertice si cercava di fronteggiare le difficoltà contingenti.<br />
Così, nei decenni passati abbiamo assistito all’avvicendarsi nella conduzione manageriale<br />
di figure molto diverse: i tecnici, negli anni della ricostruzione postbellica, i<br />
commerciali nei momenti di crisi del mercato; i controller nelle fasi di consolidamento,<br />
i finanziari, nel più recente processo di razionalizzazione e riaggregazione del sistema<br />
produttivo sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Tutte le figure che<br />
avevano ed hanno tuttora, un ruolo importante e insostituibile in azienda. Tuttavia<br />
hanno anche dei limiti. Il tecnico perché è portato a concentrarsi sulla produzione e<br />
sulle relative tecnologie a volte senza tenere sufficientemente conto – dei costi e dei<br />
possibili vantaggi competitivi della concorrenza; il commerciale per la propensione ad<br />
esaltare i volumi a scapito dei prezzi; il controller per le caratteristiche proprie delle sua<br />
1 L’esperienza IRI vide la partecipazione ai corsi di management di oltre 3.200 stranieri e di un<br />
numero ben più consistente di dirigenti del gruppo. Tra gli istituti di formazione dell’IRI vanno ricordati<br />
la scuola Reiss Romoli che ha formato una classe di dirigenti e tecnici nel campo delle telecomunicazioni,<br />
e le scuole di formazione delle BIN (Banche di interesse nazionale) nel settore bancario.<br />
115
Antonio Zurzolo<br />
funzione il finanziario per la tendenza a privilegiare il capital gain di breve-medio termine<br />
rispetto allo sviluppo e alle strategie di lungo respiro.<br />
Non è certo il caso di elencare quali imprese italiane rientrano nei citati raggruppamenti,<br />
ma gli esempi sono evidenti e le conseguenze sulla crisi dell’apparato<br />
produttivo non possono sfuggire all’osservatore attento .<br />
Non è dunque questo l’approccio giusto. Se si vuole affrontare con successo<br />
l’attuale scenario competitivo occorre creare una solida cultura manageriale.<br />
L’identikit del vero manager<br />
• Il vero manager, almeno con riferimento alla grande industria 2 , non può essere<br />
né un puro tecnico, né un puro venditore, né un puro controllore o un puro finanziario;<br />
deve invece possedere sufficienti conoscenze e abilità in tutti questi campi e altri<br />
ancora per poter gestire con cognizione di causa i suoi collaboratori; deve avere<br />
grandi doti di sintesi e la capacità, dopo aver valutate le diverse opinioni, di decidere<br />
sul da farsi, assumendosi le relative responsabilità; deve avere spiccate doti di leadership;<br />
e cioè la capacità di coinvolgere e valorizzare i suoi collaboratori, poiché l’uomo<br />
rappresenta pur sempre il punto centrale dei processi economico-produttivi.<br />
Se questo è vero, i corsi formativi del management devono approfondire le diverse<br />
tematiche (Finanza, Marketing, Produzione, Organizzazione, Personale, Amministrazione<br />
e Controllo, ecc.)oltre che nelle modalità tecniche operative caratteristiche<br />
della funzione, in un’ottica di dialettica interfunzionale<br />
Lingue straniere, informatica, economia, diritto sociologia devono essere la base,<br />
non il fine.<br />
I corsi formativi devono mettere i futuri dirigenti in grado di comprendere e<br />
affrontare i concreti problemi della gestione aziendale.<br />
Il ruolo della scuola<br />
• Ma chi può fornire ai giovani la cultura occorrente a ricoprire efficacemente<br />
posizioni ai vertici aziendali?<br />
Come già accennato, il problema va visto in una prospettiva più ampia che comincia<br />
dalla scuola superiore, passa per l’università e solo alla fine approda al tema<br />
specifico della formazione manageriale vera e propria.<br />
2 È poi del tutto evidente che un’attenta e intelligente gestione della grande industria non può<br />
che avere riflessi benefici sulla piccola e media industria, che in molti casi ne è fornitrice o cliente, e<br />
che ne è quindi in generale fortemente condizionata non solo in termini di fatturato, ma anche di stili<br />
manageriali.<br />
116 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Si è già detto che alla cultura generale deve provvedere la scuola superiore che<br />
deve prendere atto delle mutate esigenze e ad esse adeguare i propri programmi e la<br />
loro attuazione.<br />
Spetta all’Università fornire la base dottrinaria che apre alla conoscenza e comprensione<br />
dei fenomeni economico-aziendali.<br />
Può infine attribuirsi a Corsi specifici, da attuarsi in stretta collaborazione tra<br />
l’Università (pubbliche e private), mondo produttivo organizzazioni economiche,<br />
la formazione manageriale.<br />
Il mondo produttivo è direttamente interessato alla formazione manageriale e<br />
deve quindi sostenerla con la disponibilità di uomini e mezzi 3 , ma occorre tenere<br />
ben presente che il problema ha ripercussioni sull’intero sistema economico nazionale.<br />
La formazione<br />
• La richiesta di formazione manageriale attraversa oggi una fase di grande sviluppo:<br />
l’accesso ai corsi di Master of Business Administration (MBA) non è mai stato<br />
tanto massiccio, e l’offerta di istruzioni italiane e straniere appare estremamente<br />
ampia. E tuttavia cominciano a levarsi voci critiche che occorre ascoltare se non si<br />
vuole che questo cospicuo impegno di risorse umane e finanziarie col disperdersi<br />
in un’ennesima fabbrica di diplomi inutili o quasi inutili.<br />
I corsi di MBA non devono essere una ripetizione delle lezioni universitarie<br />
con qualche ulteriore approfondimento accademico. Il fine non è quello di mettere<br />
i partecipanti in grado di svolgere eleganti disquisizioni teoriche, ma di allinearli<br />
ad affrontare i concreti problemi della gestione aziendale. Il corpo insegnante deve<br />
essere formato da docenti italiani e stranieri e da manager che hanno avuto responsabilità<br />
gestionali e operative. È infatti di tutta evidenza l’importanza di poter trasmettere<br />
ai giovani il patrimonio di esperienze di chi le ha direttamente vissute.<br />
Passando dal generale al particolare, occorre sottolineare che del problema della<br />
formazione manageriale devono farsi carico anche le singole aziende o, almeno<br />
quelle di maggior rilievo.<br />
La sensibilità della dirigenza<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Antonio Zurzolo<br />
• Le aziende devono sentire la necessità che la propria dirigenza segua corsi<br />
formativi e devono curarne direttamente l’organizzazione o, quanto meno, favorire<br />
3 Contributi finanziari potrebbero essere forniti anche dalle Fondazioni di origine industriale<br />
(Agnelli, IRI, Olivetti) e bancarie (Cariplo, San Paolo, Monte dei Paschi, Casse di Risparmio)<br />
117
Antonio Zurzolo<br />
la partecipazione a corsi esterni. Devono poi, per i giovani più promettenti, programmare<br />
il loro passaggio in posizioni operative nelle principali funzioni (Produzione,<br />
Commerciale, Finanza, Amministrazione e Controllo, ecc.) e aree di business,<br />
e successivamente l’inserimento nello staff dell’alta direzione.<br />
Potranno così acquisire sul campo l’esperienza necessaria a comprendere meglio<br />
le problematiche delle diverse funzioni /aree che compongono la realtà aziendale<br />
e le loro interrelazioni e vivere da vicino il momento decisionale.<br />
I manager a loro volta, devono sentire la responsabilità, anche sociale, del proprio<br />
ruolo e partecipare con convinzione e con il massimo impegno ai processi formativi.<br />
Solo in tal modo si potrà formare una classe dirigente all’altezza delle sfide che<br />
dovrà affrontare in un mercato globale sempre più vivace e agguerrito.<br />
La formazione manageriale è un compito complesso e costoso, ma irrinunciabile<br />
se si vuole progredire o, addirittura , se non si vuole regredire.<br />
118 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
COLLOQUI Intervista al Prof. Emmanuele Emanuele 121<br />
POLITICA INTERNA a cura di Nicola Graziani 140<br />
POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro 136<br />
RICERCHE a cura di Andrea Bixio 145<br />
RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli 150<br />
IL “CORSIVO“ a cura di Giorgio Tupini 155<br />
NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris 158<br />
FUORI SCAFFALE a cura di Amos Ciabattoni 166<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Rubriche<br />
119
L’Italia e il suo grande fabbisogno di cultura<br />
di Emmanuele Emanuele<br />
«Civitas» - Prof. Emanuele, ai Suoi impegni nel settore economico bancario,<br />
a quelli di amministratore di aziende di grande importanza nel Paese e di Presidente<br />
della Fondazione della Cassa di Risparmio di Roma, Lei affianca interessi<br />
culturali di grande attualità e il “Forum” al quale si richiama il nostro “Colloquio”<br />
ne è la dimostrazione più recente. Quali sono gli scopi del Movimento<br />
culturale di “Alleanza Popolare” da Lei fondato e come e per quali aspetti si affianca<br />
oppure si distingue dai numerosi analoghi movimenti che si propongono<br />
di concorrere al fabbisogno culturale della società di oggi?<br />
Emanuele - Definire “Alleanza Popolare” un movimento culturale non è appropriato.<br />
Essa è nata nel 1998 come movimento politico a seguito della nuova<br />
stagione delle riforme elettorali nel nostro Paese e all’affermarsi di un sistema bipolare.<br />
“Alleanza Popolare” può dirsi più correttamente un movimento politico<br />
per la politica. Essa, infatti, aveva come intendimento, fin dagli inizi, quello di radicare<br />
nell’agone della politica quelle forze culturali, professionali, imprenditoriali<br />
esistenti nel nostro Paese ciclicamente chiamate alla partecipazione all’attività politica,<br />
ma successivamente espulse dal sistema partitico, poiché non omologhe agli<br />
“apparati” burocratici. In altri termini, “Alleanza Popolare” voleva colmare un divario<br />
tra la società civile e quella politica, divario che si avverte ogni giorno di più<br />
nel nostro Paese, dove una classe politica che ha una storia ed una formazione diversa,<br />
perché proviene, nella stragrande maggioranza dei casi, non da professionalità<br />
dimostrate, al di là di quelle della partecipazione all’attività partitica, e dal bisogno<br />
quindi di una società sempre più evoluta e scientificamente avanzata di ave-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Colloqui<br />
intervista a cura di Amos Ciabattoni<br />
121
e persone atte a dare, con l’esperienza del loro cursus honorum professionale, un<br />
contributo concreto alla proposta politica per la soluzione dei problemi del nostro<br />
Paese.<br />
Devo dire, per la verità, che questa proposta di “Alleanza Popolare”, che tra l’altro<br />
proponeva un grande accordo, come dice il nome, tra le principali componenti<br />
sociali del Paese, non ha avuto il successo sperato, perché i partiti si sono chiusi a<br />
riccio, rifiutando qualsiasi possibilità di dialogo e di penetrazione ad esponenti della<br />
società civile, percepiti come soggetti estranei alla dialettica interna dei partiti e<br />
come tali, non graditi.<br />
C - Il quadro del nostro Paese che emerge spesso nelle analisi politiche e culturali,<br />
mostra un’incompleta maturità di “Nazione” dell’Italia: fatti storici hanno<br />
concorso nei secoli passati a configurare e a far crescere uno “Stato”, un “governo”<br />
più che una “Nazione”, ed i “compromessi” politico-ideologici dai quali è<br />
nata la nostra Unità geografico-politica (non a torto si ripete il concetto di un<br />
“Risorgimento incompiuto”), non hanno prodotto effetti del tutto positivi. Se<br />
condivide questa analisi, vuole argomentarla nel positivo e nel negativo?<br />
E - È indubbio che l’Italia ha sentito in modo assai meno sacrale rispetto agli<br />
altri Paesi europei il concetto di “Nazione” e questo per motivi storici essendo diventata<br />
Nazione molto tardi rispetto ad esempio alla Spagna, alla Francia, alla Germania,<br />
all’Austria, e ovviamente agli Stati Uniti ed all’Inghilterra. Noi abbiamo<br />
avuto una storia nazionale diversa. Siamo stati per lunghi secoli divisi, abbiamo subito<br />
una grave frantumazione del nostro territorio sotto dominazioni straniere,<br />
non abbiamo maturato dopo l’Unità una concezione di “Nazione-Patria” per un<br />
periodo sufficientemente ampio, ed ovviamente l’identità fortemente maturata in<br />
epoca risorgimentale si è finita per perdere. Durante la stagione monarchica, l’Italia<br />
ha tentato, infatti, con grande determinazione, di costruirsi quell’identità nazionale.<br />
Lo ha fatto con le guerre di indipendenza, con le campagne di espansione<br />
coloniale, e con la sanguinosa prima guerra mondiale. Il dopoguerra della seconda<br />
guerra mondiale ha nuovamente ributtato il nostro Paese, a causa di una damnatio<br />
memoriae del passato, in un limbo dove la capacità di essere Nazione è stata vista<br />
addirittura con sospetto e quasi demonizzata. La concezione della democrazia forte<br />
che fa una Nazione, penso all’Inghilterra ed alla Francia, da noi non ha avuto maturazione;<br />
si è sempre cercato un profilo basso, in nome di una concezione democratica<br />
che è finita per diventare paralizzante per il ruolo internazionale del nostro<br />
Paese. L’Italia non è mai diventata Nazione nel senso pieno del termine perché non<br />
è riuscita a crescere in maniera autonoma, non è mai riuscita ad avere, nel lungo<br />
periodo della prima Repubblica, il ruolo di Paese leader. Siamo stati più che altro<br />
un Paese di frontiera, un territorio dove si incontravano e scontravano le realtà<br />
confliggenti della vecchia guerra fredda, tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo<br />
comunista e quello della democrazia. Non abbiamo acquisito la capacità di cresce-<br />
122 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
e per levare una voce forte in questo dibattito, preferendo spesso essere una specie<br />
di luogo di incontro, dove transitavano le realtà internazionali di cui ho fatto cenno,<br />
piuttosto che tentare di rappresentare l’elemento di cerniera tra i due mondi, o<br />
ancor più avere un ruolo importante nella dialettica tra di essi. Questo è il limite<br />
vero della nostra fragile democrazia, questo è il limite della nostra capacità di non<br />
aver saputo realizzare la Nazione italiana. Indipendentemente dalla cultura e dal<br />
grande ruolo che abbiamo rivestito e continuiamo a rivestire per le vestigia della<br />
nostra storia e per le indubbie qualità artistiche del nostro popolo, non siamo riusciti<br />
ad essere quella Nazione unita e forte, al di là dell’iconografia classica del detto<br />
“un popolo di guerrieri, poeti, santi e navigatori” inciso sul frontone del Palazzo<br />
della Civiltà Italiana.<br />
C - Il declino dei “partiti dei grandi ideali” è una realtà che l’Italia ha vissuto<br />
negli ultimi decenni. Ad essi si è venuta sostituendo la proliferazione di partiti,<br />
ex grandi e nuovi piccoli, che rendono per lo meno singolare il sistema politico<br />
italiano. Il fenomeno merita, a nostro avviso, attenzione soprattutto dal punto di<br />
vista della natura e della legittimazione culturale e storica delle infinite “sigle”<br />
partitiche: il tutto – secondo i punti di osservazione – a vantaggio o a scapito<br />
dell’efficienza del sistema. Qual è il suo punto di vista?<br />
E - La crisi delle grandi ideologie ottocentesche che sono state l’humus culturale<br />
e politico su cui si è articolato il grande dibattito tra il liberismo ed il socialismo<br />
è oggi indubbia. Queste ideologie hanno una matrice molto ben delineata e sono<br />
conseguenti alle problematiche socio-economiche generate dalla prima grande rivoluzione<br />
industriale. Nella stagione del trapasso dalle economie che traevano origine<br />
dal latifondo, si innestò un meccanismo produttivo generato dal capitalismo<br />
mercantile che mise in moto una grande stagione di progresso economico, sociale e<br />
scientifico. In parallelo con la stagione in cui l’economia vedeva codificate le sue<br />
regole dal liberismo, pur con le voci attente alle problematiche sociali, penso a<br />
Stuart Mill, e soprattutto a Keynes, la politica era improntata da una concezione liberale<br />
a cui si frappose dapprima la protesta sindacale e successivamente l’ideologia<br />
socialista nelle diverse accezioni riformista o rivoluzionaria. Un ruolo importantissimo,<br />
come noto lo ha avuto in questo contesto la dottrina sociale della Chiesa,<br />
che si è posta anch’essa quale ulteriore punto di riferimento e cerniera tra le tematiche<br />
del mercato e quelle della solidarietà. È evidente che queste ideologie che hanno<br />
avuto una germinazione di più di duecento anni fa, hanno cominciato a mostrare<br />
chiari segni di logoramento, ed i partiti che ad esse si ispiravano hanno cominciato<br />
anch’essi a perdere il rapporto con la realtà, che si evolve continuamente<br />
in virtù di fenomeni esterni conseguenti oggi anche alla seconda grande rivoluzione,<br />
quella informatica e tecnologica, da cui è scaturita la globalizzazione. In questo<br />
contesto, stanno proliferando sigle nuove che non si richiamano alle passate ideologie,<br />
ma tendono a presentarsi come portatrici di proposte politico- sociali inno-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
123
vative, anche se i filoni essenziali sono più o meno gli stessi, ma in cui il fattore distintivo<br />
è proprio il rifiuto di identificarsi con le ideologie tradizionali.<br />
Se infatti è vero che molte delle proposte avanzate da partiti come Rifondazione<br />
comunista o i DS sono il portato, rispettivamente, del socialismo sovietico delle origini<br />
e del socialismo riformista, invero mal digerito, così come Forza Italia esprime in<br />
maniera, a dire il vero, non troppo aderente le idee liberali, è altrettanto vero che alcune<br />
“proposte” nuove, frutto di una realtà profondamente diversa, (la Lega, il nuovo<br />
corso di AN, la Margherita, i fermenti di una rinascita di un partito dei cattolici) si<br />
stanno manifestando. Credo che ad esse bisogna prestare la massima attenzione, bisogna<br />
interpretarne in prospettiva le capacità di aggregazione, soprattutto occorre non<br />
demonizzarle, e vederle come un contributo fecondo al dibattito politico generale.<br />
C - Il bipolarismo è stato presentato – e ritenuto – a lungo come una soluzione<br />
ottimale per irrobustire democraticamente il Paese e facilitare la partecipazione<br />
dei cittadini allo sviluppo in progresso della società italiana. Con il passare del<br />
tempo, questa scelta, presentata, come ottimale e di qualità, ha però mostrato<br />
notevoli aspetti negativi e prodotto altrettanti non positivi effetti. Qual è il Suo<br />
punto di vista e quali sono gli aspetti ancora positivi e quali i negativi che influiscono<br />
sulla vita italiana e sulla capacità del nostro Paese di competere nella visione<br />
“globale” del mondo?<br />
E - Nel nostro Paese, in realtà, non esiste una solida cultura del bipolarismo e<br />
del bipartitismo, che invece ha attecchito nei Paesi anglosassoni dove mantiene un<br />
preciso valore ed una chiara attualità. Tuttavia non v’è dubbio che anche da noi essa<br />
ha avuto una grande importanza. Penso alle battaglie referendarie ed alle conseguenti<br />
riforme che hanno giovato a semplificare il processo di trasformazione, proprio<br />
nel momento in cui si disfaceva il tessuto partitico che aveva connotato il nostro<br />
Paese dal 1946 fino agli anni Novanta. Oggi sicuramente il bipolarismo comincia<br />
a penetrare nella concezione collettiva in maniera sempre più evidente. Il<br />
paradosso è che contestualmente si è assistito ad una proliferazione sproporzionata<br />
di sigle partitiche, sicuramente estranea agli intendimenti dei fautori del bipolarismo,<br />
che miravano piuttosto alla semplificazione del quadro politico. Questo ha<br />
prodotto il ritorno, nel dibattito politico, della opportunità di riproporre un sistema<br />
elettorale proporzionale. Infatti, l’attuale sistema non garantisce appieno la stabilità<br />
dell’azione di Governo. La Lega nel Centro Destra e i due partiti dichiaratamente<br />
comunisti nel Centro Sinistra provocano costanti fibrillazioni e lacerazioni<br />
alle proposte degli schieramenti in cui militano. Questi partiti contribuiscono a far<br />
vincere la coalizione ma rendono difficile governare.<br />
Ciò che ci si chiede da più parti è di scomporre l’attuale sistema bipolare facendo<br />
emergere una forza più omogenea in cui far convergere partiti che oggi paradossalmente,<br />
pur avendo teorie e programmi molto simili, si trovano a militare in<br />
schieramenti opposti a causa delle caratteristiche del sistema elettorale bipolare.<br />
124 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Personalmente penso che sia da coltivare un’altra ipotesi. Ritengo, infatti, che il<br />
sistema elettorale migliore dopo questa prima stagione bipolare in cui i differenti<br />
partiti presenti nelle due coalizioni non sono riusciti ad omogeneizzare le loro idee<br />
nei rispettivi programmi, potrebbe essere quello di introdurre un temperamento<br />
del vigente sistema che ne rafforzi la stabilità mediante il rafforzamento della componente<br />
proporzionale con il quorum di sbarramento al di sotto del quale non vi<br />
sia legittimazione ad essere rappresentati in Parlamento.<br />
C - Due sono in particolare le grandi idee positive alle quali ha da secoli attinto<br />
linfa vitale la nostra cultura, e che sembrano oggi essere in ripresa: il Cristianesimo<br />
(con il suo immenso patrimonio di pensiero sociale) ed il Socialismo<br />
umanistico progressista (con i suoi fermenti di giustizia sociale legati alle libertà<br />
civili). I relativi ritorni, a distanza più ravvicinata fra loro, si fanno sempre più<br />
invocati ed evidenti, oltre che indispensabili, a sostegno di un esistenzialismo,<br />
singolo e comunitario divenuto immanente. Il tema lanciato dal Suo movimento<br />
culturale “Alleanza Popolare” su “I valori del Cattolicesimo nei movimenti politici<br />
e nei partiti italiani” è su questa linea di interpretazione dei fabbisogni più<br />
urgenti della società di oggi? E come intende contribuire a colmarli?<br />
E - Sono completamente in sintonia con la sua impostazione. Durante il convegno<br />
cui Lei fa riferimento ho detto che proprio i due grandi filoni che si sono<br />
più produttivamente contrapposti, in Italia, durante il periodo postbellico e che<br />
con il loro confronto hanno consentito la crescita democratica, culturale e sociale<br />
del nostro Paese sono stati il Cattolicesimo politico ed il Socialismo democratico.<br />
Credo che questo trovi puntuale riscontro nel fatto che in Europa due sono i grandi<br />
schieramenti che si fronteggiano: il Partito Popolare Europeo, in cui trova rappresentanza<br />
il pensiero sociale della Chiesa, ed il Gruppo Socialista Democratico<br />
che si ispira al Socialismo riformista.<br />
Non occorre fare ricorso a complesse analisi per capire che quanto da Lei detto<br />
e da me condiviso, e quanto costituisce l’obiettivo del mio movimento “Alleanza<br />
Popolare” sono le strade maestre della tematica da Lei sollevata. “Alleanza Popolare”<br />
è un movimento che intende sollecitare la partecipazione del mondo del lavoro,<br />
delle professioni, dell’imprenditoria, della cultura alla vita politica, mondi che non<br />
intendono più essere rappresentati da apparati di partiti che sono esogeni alla vita<br />
sociale ed economica del Paese. Noi riteniamo che la spinta dal basso della società<br />
civile possa essere la soluzione. Penso all’associazionismo, al Terzo Settore, al variegato<br />
mondo del non profit e, in una parola, alla società civile di cui la politica non<br />
è più interprete fedele.<br />
E nella dialettica che Lei ha individuato e che noi riproponiamo con convinzione<br />
tra l’etica sociale cristiana e quella del socialismo democratico devono essere<br />
individuate da “Alleanza Popolare” le maggiori propensioni alla partecipazione.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
125
C - L’Europa unita ha prodotto anzitutto un elevato grado di competizione<br />
tra le Nazioni che ne fanno parte. Ciascuna offre di sé stessa il meglio che possiede<br />
in ogni campo delle collaborazioni e dei confronti. Quali sono a Suo avviso le<br />
peculiarità delle “offerte”, o meglio degli strumenti di cui dispone l’Italia per il<br />
sostegno della “nuova Civiltà europea” intesa come competizione positiva con il<br />
resto del mondo?<br />
E - L’Italia a mio modo di vedere ha due grandi peculiarità e specificità. La prima<br />
è la miriade di piccole e medie imprese che formano il tessuto connettivo del<br />
nostro Paese e che sono una caratteristica unica in ambito europeo. La forza vera<br />
della nostra economia è radicata nel reticolo delle migliaia di medie e piccole imprese,<br />
nelle centinaia di banche, penso alle popolari, a quelle del credito artigiano,<br />
alle peculiarità delle Casse di Risparmio sopravvissute, e questa specificità giova<br />
moltissimo, occorre riconoscerlo, al tessuto connettivo dell’economia europea,<br />
proprio per la capacità di produrre quel made in Italy che in prospettiva sarà il made<br />
in Europe che ne faranno il competitore principale con i grandi colossi economici<br />
mondiali come l’America e con i Paesi emergenti dell’Asia.<br />
Un’altra peculiarità italiana è il fatto che il nostro Paese è uno dei maggiori depositari<br />
del bello dell’Europa, con la miriade di musei, di monumenti ed opere<br />
d’arte che non ha molti paragoni e che ne fanno il luogo deputato per un turismo<br />
culturale che purtroppo alcune leggi dissennate, come l’abolizione del ministero<br />
del turismo, finiscono per frustrare. Queste sono le peculiarità del nostro Paese e<br />
questi sono i settori strategici che, a mio parere, andrebbero potenziati e su cui bisognerebbe<br />
puntare per favorire la crescita non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa,<br />
anche in rapporto alla competizione con gli altri sistemi economici.<br />
C - Nella Chiesa e nel mondo culturale laico liberale si è aperta una fase molto<br />
interessante del dibattito sul concetto di “laicità”. Il cardinale di Venezia Angelo<br />
Scola parla addirittura di una “nuova laicità” da ricercare assieme: “I credenti<br />
e i non credenti devono lavorare assieme per una società civile pluriforme”<br />
Praticamente la discussione aperta attualizza il mai risolto rapporto tra l’umanità<br />
e la religione che oggi diventa attualissimo nell’era post moderna della globalizzazione.<br />
Quali sviluppi vede e perora di questo fenomeno?<br />
E - È una domanda molto complessa, cui mi vedo costretto a rispondere con<br />
una semplificazione. Io sono un cattolico senza dubbi, che nel dialogo con i non<br />
cattolici ed i non credenti vede il limite di questa ricerca disperata del relativismo<br />
imperante, e del dialogo fine a se stesso sempre più auspicato anche da autorevoli<br />
commentatori. Il dialogo, per me, non può esistere a tutti i costi, e non può diventare<br />
uno slogan che finisce per neutralizzare lo spessore delle proprie convinzioni.<br />
L’edificare una società nel dialogo tra cattolici e laici è sicuramente auspicabile per<br />
uno sviluppo democratico del Paese specie di fronte alle grandi sfide che quotidia-<br />
126 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
namente si pongono alla società. Ma comunque non si può negare che vi sia una<br />
separatezza di fondo tra i due mondi, che essi hanno radici, culture, aspettative e<br />
speranze diverse. Il mondo laico è un mondo che ha una concezione della libertà<br />
che nella sua estremizzazione porta anche a quei problemi di ingegneria genetica<br />
contro i quali il recente referendum si è espresso in modo chiaro. Il cattolico ha<br />
una concezione diversa, più spirituale, più attenta al divenire di una prospettiva<br />
universale ed escatologica.<br />
Estremizzando, non ritengo che il dialogo forzato come viene correntemente<br />
auspicato possa rappresentare l’unico indispensabile valore per la costruzione di<br />
una società moderna, migliore e progredita. Credo che la dialettica sia in sé positiva,<br />
purché non induca una delle parti a dover preliminarmente modificare le proprie<br />
convinzioni. Questo discorso vale a maggior ragione quando viene applicato<br />
al tanto strombazzato dialogo con altre civiltà e altre religioni. Esso è precorribile<br />
se le parti che siedono a questo ideale tavolo sono scevre da preconcette aggressive<br />
posizioni nei confronti dell’altro. Se una religione parte dal presupposto che il suo<br />
credo è universale ed indiscusso, che tutto ciò che la circonda nel mondo ed è diverso<br />
da essa è condannabile, evidentemente i presupposti del dialogo sono inesistenti.<br />
Ricercare il dialogo a tutti i costi, e lo dice uno come me che da tempo immemore<br />
continua a cercare il dialogo con tutti su diversi terreni tra il liberismo e la<br />
solidarietà, tra la fede religiosa e la pratica politica e, come ad esempio in tempi recenti,<br />
su quello della cultura, di popoli e nazioni differenti, che la prossima pubblicazione<br />
del volume sulle civiltà del Mediterraneo comprova, per maturare la trasformazione<br />
della società, con il rischio di dover perdere la propria identità è un<br />
obiettivo che non mi trova d’accordo.<br />
C - Il rapporto con l’Islam si tinge di innumerevoli “colori”. Ciò che però resta<br />
da definire è la parte più sostanziale di tale rapporto: si tratta di uno scontro<br />
di civiltà oppure di un confronto. Nell’uno o nell’altro caso, quali sono gli elementi<br />
positivi e quelli persistentemente negativi delle nuove frontiere che si sono<br />
aperte nella competizione culturale, politica e religiosa tra le diverse aree del<br />
mondo?<br />
E - Per poter dare una risposta ad una simile domanda che è tra le più importanti<br />
dei nostri tempi, occorre per prima cosa capire cosa è la legge coranica, la legge<br />
religione che governa gli stati islamici. È una risposta molto netta e semplice:<br />
tutto ciò che si pone fuori dell’Islam è sbagliato e va tendenzialmente distrutto;<br />
tutto ciò che sta a fondamento del suo credo è giusto e va osservato e fatto osservare.<br />
Non vi sono accenni all’amore, alla pietà, al perdono, in una parola a tutti i<br />
punti fondamentali della nostra fede. Evidentemente dobbiamo accettare il principio<br />
che, senza parlare di scontro di civiltà che mi appare un concetto troppo rozzo<br />
e semplicistico, ci sono preclusioni di fondo su concezioni esistenziali. Se la prospettiva<br />
di questo credo ha alla base il convincimento che il nostro modo di vivere<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
127
e di pensare deve essere cambiato, il dialogo si pone su basi difficili da sviluppare.<br />
Anche su questo punto, come sul precedente non ho personalmente molti<br />
dubbi. La Civiltà occidentale pur con tutti i suoi drammi, le grandi crisi, le guerre,<br />
i problemi sociali quali la disoccupazione ed il crescente divario tra povertà e ricchezza,<br />
è pur sempre una civiltà solare, una civiltà partecipativa che non esclude<br />
nessuno, in cui tutti possono convivere. Ma soprattutto ha avuto una lunga stagione<br />
di conflitti ideologici, sociali, politici e militari che hanno però consentito l’affermazione<br />
della democrazia. Non mi pare che le nazioni che fanno riferimento alla<br />
Fede Coranica come Principio costituzionale abbiano queste caratteristiche e<br />
questa storia.<br />
La teoria di un Islam moderato, come ha ben illustrato Panebianco nel suo recente<br />
editoriale sul «Corriere della Sera» del 7 agosto 2005, è una concezione erronea<br />
e superficiale. Dopo l’11 settembre, infatti, si è scoperto che la “moderata”<br />
Arabia Saudita, da sempre in teoria alleata all’Occidente è la nazione da cui partono<br />
i finanziamenti più robusti per Bin Laden.<br />
Si è scoperto, come lui dice, che la moderazione politico-diplomatica dei Governi<br />
in cui esiste il fondamentalismo religioso non impedisce a quel fondamentalismo<br />
di alimentare l’islamismo radicale.<br />
Sempre Panebianco ha evidenziato la nostra incapacità di proporre una politica<br />
in grado di fronteggiare la sfida islamica. Noi cerchiamo di impostare una azione<br />
di prevenzione contro gli attacchi terroristici, ma non abbiamo compreso che per<br />
combattere il terrorismo non basta la polizia, occorre neutralizzare la propaganda<br />
fondamentalista.<br />
Non possiamo consentire che nel nostro Paese proliferino le “madrase” (le<br />
scuole islamiche) e le moschee e nel consentire ciò accettare supinamente i veti posti<br />
acché le nostre chiese vengano edificate nei paesi arabi e l’insegnamento cattolico<br />
consentito.<br />
Pertanto, nel breve periodo sinceramente non vedo grandi potenzialità nel dialogo<br />
così come viene oggi concepito. Questo dialogo per avere un concreto avvio<br />
deve partire da una ferma condanna del terrorismo da parte dei paesi di religione<br />
islamica. A me pare che ad oggi, tranne qualche timida eccezione, questa condanna<br />
non sia così forte e manifesta neanche dopo New York, Madrid o Londra.<br />
Vedo invece la forza della civiltà occidentale, in cui coesistono tolleranza e pace<br />
pur nel conflitto politico ed economico, che con tutte le sue ombre, ha pur sempre<br />
generato grandi capolavori dell’arte, del bello e dell’ingegno, che deve essere a mio<br />
parere difesa con maggiore convinzione di quanto si faccia oggi in cui prevale la ricerca<br />
del compromesso a tutti i costi.<br />
C - La rivista «Civitas» che fu palestra di grandi pensatori come Meda, De<br />
Gasperi, <strong>Sturzo</strong>, può essere considerata uno strumento attuale per il progresso<br />
culturale dell’Italia e quindi strumento a disposizione dei pensieri attivi della<br />
cultura e della politica di oggi proiettata nel futuro?<br />
128 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
E - Assolutamente sì. «Civitas» è una componente essenziale della storia del dibattito<br />
culturale, politico, religioso, economico del nostro Paese, ed è una fortuna<br />
che oggi sia stata rieditata, e sono certo che essa si confermerà terreno di incontro e<br />
confronto tra coloro che hanno concezioni anche contrapposte. Essa ha un radicamento<br />
storico, culturale e spirituale che ne fa un importante presidio di quei valori<br />
a cui molti di noi, ed io sicuramente, si ispirano.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
129
Politica interna<br />
a cura di Nicola Graziani<br />
La stagione politica aperta con il referendum sulla legge che regolamenta la<br />
procreazione assistita è stata dominata dal tema dei rapporti tra Stato e gerarchia<br />
ecclesiastica, tornato ad una nuova centralità per il concorrere di una serie di fattori<br />
che vanno dalla partecipazione in prima persona della Cei nella campagna per<br />
l’astensionismo, agli interventi del Capo dello Stato in materia, al rientro sulla scena<br />
politica di parte del Partito Radicale a fianco dello Sdi di Enrico Boselli. Intanto<br />
l’approssimarsi della fine della legislatura ha spinto la maggioranza ad un estremo<br />
tour de force volto a far approvare dal Parlamento una serie di riforme e di provvedimenti<br />
legislativi – alcuni previsti dal Patto con gli Italiani presentato da Silvio<br />
Berlusconi nella campagna elettorale del 2001, altri pensati e introdotti con il chiaro<br />
intento di incidere sull’esito delle prossime elezioni politiche.<br />
Il governo, in questo periodo, ha dovuto nuovamente fare i conti con le difficoltà<br />
dell’economia, sottolineate dall’avvicendamento a Via XX Settembre tra Domenico<br />
Siniscalco e Giulio Tremonti, e quelle della politica internazionale (la permanenza<br />
dei militari italiani su suolo iracheno; i rapporti con gli Usa dopo il rapimento<br />
a Milano di un imam egiziano; l’emergenza terrorismo dopo gli attentati di<br />
Londra; il peggioramento dei rapporti con l’Iran). Contemporaneamente è venuta<br />
a chiudersi una fase nei rapporti tra Palazzo Chigi ed il Quirinale, con Ciampi che<br />
è apparso sempre meno disposto a fare ricorso alla moral suasion per limare gli eccessi<br />
contenuti in alcune iniziative legislative della maggioranza, mentre i rapporti<br />
all’interno della Casa delle Libertà hanno registrato un profondo mutamento con<br />
l’abbandono della segreteria dell’Udc da parte di Marco Follini, il ritorno al partito<br />
di Pier Ferdinando Casini ed il rafforzamento dell’asse Fi-Lega.<br />
Le opposizioni hanno lanciato la sfida a Berlusconi celebrando le primarie, il<br />
cui successo in termini di partecipazione popolare ha rafforzato il ruolo di Romano<br />
Prodi, senza però che questo si traducesse in una maggiore omogeneità politica. Il<br />
programma su cui il centrosinistra promette di basare il ritorno al potere non è stato<br />
elaborato, e la maggior parte delle discussioni di questi mesi si sono incentrate<br />
sullo stanco e ripetitivo tema della forma politologica con cui l’alleanza, o alcuni<br />
componenti di essa, si presenteranno all’esame del corpo elettorale.<br />
130 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
• Laicità dello Stato e rapporti con la Chiesa. L’impegno diretto della Chiesa<br />
alla campagna per l’astensionismo in occasione del referendum sulla procreazione<br />
assistita, campagna in occasione della quale gerarchie e parrocchie hanno partecipato<br />
con impegno maggiore rispetto agli stessi referendum su divorzio ed aborto,<br />
ha rappresentato anche la prima occasione in cui il nuovo Pontefice, Benedetto<br />
XVI, ha avuto modo di esprimersi sul tema della presenza cattolica nella società e<br />
nella politica italiana. A meno di una settimana dalla consultazione lo stesso Pontefice,<br />
parlando al convegno diocesano di Roma dedicato alla istituzione familiare, è<br />
intervenuto sottolineando la necessità di contrastare il relativismo dominante nella<br />
cultura contemporanea. L’obbligo è quello di tutelare la “intangibilità della vita<br />
umana dal concepimento al suo termine naturale”. Le unioni di fatto e quelle<br />
omosessuali, ha ribadito il Papa, “scacciano Dio” e portano ad un “avvilimento dell’amore<br />
umano”. Il risultato del referendum, andato deserto e quindi dichiarato<br />
nullo per la scarsissima affluenza alle urne (25,9%), ha segnato un indubbio successo<br />
del fronte cattolico, ma soprattutto ha dimostrato la stanchezza del corpo<br />
elettorale nei confronti di uno strumento costituzionalmente rilevante ormai rimasto<br />
vittima degli abusi che sono stati compiuti – soprattutto ad opera del Partito<br />
Radicale – nel corso degli anni. In particolare le vere sconfitte della giornata sono<br />
state la sinistra e la destra libertaria italiane, quel fronte radicaleggiante che si è dimostrato<br />
non più capace come in passato di gestire l’agenda del dibattito culturale<br />
nazionale e di mobilitare le masse attorno ad esso. Non è un caso che nei settori<br />
più pronti e più spregiudicati del laicismo nazionale sia emerso, nel corso del dibattito<br />
referendario, un nuovo fronte di “atei devoti” pronti a schierarsi con la gerarchia<br />
ecclesiastica la quale non ha mancato di offrire loro la sua sponda. In termini<br />
più puramente politici, il dibattito sulla consultazione ha portato ad un notevole<br />
ridimensionamento dei favori degli ambienti cattolici in direzione di Gianfranco<br />
Fini, schieratosi apertamente in favore di una parte dei quesiti (fino al punto di definire<br />
“altamente diseducativa” l’astensione), e dello stesso sostegno interno ad Alleanza<br />
Nazionale nei confronti del leader. Fini, a luglio, ha dovuto affrontare una<br />
vera e propria fronda dei colonnelli del partito. Il fronte dei cattolici impegnati in<br />
politica ha dovuto invece fare i conti con l’esplicito invito dei vertici della Cei ad<br />
astenersi dal voto. Invito divenuto particolarmente pressante quando la stessa<br />
Conferenza Episcopale è giunta a manifestare perplessità nei confronti di quei cattolici<br />
che avevano manifestato ugualmente l’intenzione di recarsi alle urne. Difficile<br />
dire quanti cattolici abbiano preso la propria decisine unicamente sulla base delle<br />
indicazioni della gerarchia, certo però queste hanno avuto un peso enorme: basti<br />
vedere i dati sull’affluenza. Se però una parte del mondo cattolico ha aderito pienamente<br />
ai comitati per l’astensione (è il caso del presidente del nuovo movimento<br />
Italia Popolare, Alberto Monticone), altri cattolici hanno espresso un diverso parere<br />
e sono andati ugualmente a votare. In particolare Romano Prodi, candidato del<br />
centrosinistra alla Presidenza del Consiglio, si è dichiarato “cattolico adulto” ed ha<br />
ostentato la sua intenzione di depositare la scheda nell’urna. All’indomani del fallimento<br />
della prova referendaria, il cardinale Camillo Ruini ha avuto modo di dirsi<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
131
“colpito dalla saggezza del popolo italiano”, di lasciare aperta la porta all’eventualità<br />
di apporre modifiche alla legge 40 (“Tutto può essere migliorato, ma non certo<br />
stravolto o radicalmente peggiorato”) e di rassicurare che sull’aborto la Chiesa “è<br />
contraria, ma non vogliamo modificare la normativa”. Parole che intendevano rispondere<br />
ai timori espressi dal segretario dei Ds, Piero Fassino, e già espresse dal<br />
ministro dei beni culturali Rocco Buttiglione.<br />
Già alla fine di giugno lo stesso Cardinal Ruini ha comunque ribadito il suo no<br />
alle coppie omosessuali, quello ai “patti di convivenza” e la non volontà di modificare<br />
la 194, nonostante la contrarietà della Chiesa ai “piccoli omicidi”.<br />
• Il Papa al Quirinale. In questo clima non certo di scontro, ma sicuramente<br />
di serrato confronto, si è svolta la visita ufficiale di Benedetto XVI al Quirinale.<br />
Carlo Azeglio Ciampi, di osservanza cattolica ma di cultura profondamente estranea<br />
all’esperienza cinquantennale dei cattolici democratici e popolari impegnati in<br />
politica, ha colto allora l’occasione per rivendicare “con orgoglio” la laicità dello<br />
Stato come “necessaria distinzione fra il credo religioso di ciascuno e la vita della<br />
comunità civile regolata dalle leggi della Repubblica”. La risposta del Papa è stata<br />
di riconoscimento della “legittimità” della laicità, ma se “sana”, vale a dire non<br />
avulsa da quell’etica che trova le sue radici nella religione e dall’eredità cristiana<br />
della cultura del Paese. La divisione tra la linea della gerarchia ecclesiastica e Prodi<br />
è emersa di nuovo a metà settembre in occasione di un messaggio inviato dal leader<br />
del centrosinistra ad un convegno dell’Arcigay, in cui Prodi ribadiva la linea non<br />
contraria ai Pacs contenuta nella piattaforma programmatica dell’Ulivo. Dura la<br />
reazione dell’Osservatore Romano, che l’ha accusato di voler lacerare l’istituzione<br />
familiare, della Cei ed in alcuni settori del mondo politico. Nelle fila delle opposizioni<br />
Clemente Mastella, impegnato tra l’altro in un braccio di ferro nell’ambito<br />
della coalizione per il no all’ingresso dei pannelliani, ha colto la palla al balzo per<br />
ribadire anche la sua contrarietà ai Pacs. All’interno della Cdl Marco Follini ha<br />
parlato di Prodi come di un leader “zapaterista”. Prodi ha risposto scrivendo a “Famiglia<br />
Cristiana” per definire quanto accaduto “semplici dispute terminologiche” e<br />
precisare di non volere omologare le coppie di fatto alle famiglie, ma nel frattempo<br />
si è andata acuendo la frattura tra i Ds e settori della Margherita, in particolare<br />
Francesco Rutelli, il quale ha fatto sostanzialmente propria la posizione espressa<br />
contemporaneamente dal Cardinal Ruini, sostanzialmente contrario ai Pacs, soprattutto<br />
nel caso di coppie omosessuali, mentre le coppie eterosessuali possono<br />
sperare in aperture nell’ambito del diritto privato. Fermo restando che “la Costituzione<br />
intende la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Un intervento,<br />
quello del Cardinal Ruini, definito “legittimo” da Piero Fassino, ma la cosa<br />
non ha impedito a Carlo Azeglio Ciampi appena 24 ore dopo di ricordare esaltando<br />
la Presa di Porta Pia in quanto fine del potere temporale dei Papi, parole universalmente<br />
interpretate come un altolà agli eccessi di certi interventismi.<br />
Quando Ciampi e Pier Ferdinando Casini commemorano a Montecitorio la<br />
visita resa da Giovanni Paolo II alla Camera dei Deputati il messaggio che Bene-<br />
132 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
detto XVI invia contiene la rassicurazione che la Chiesa non è in cerca di privilegi,<br />
e che anzi rispetta la “legittima laicità” dello Stato. Al tempo stesso però rivendica<br />
il diritto a parlare “in favore della persona”, nel pieno rispetto del Concordato.<br />
Proprio sul Concordato, però, si sono appuntati nel frattempo gli strali della parte<br />
più laicista del centrosinistra, lo Sdi di Enrico Boselli ed i radicali di Marco Pannella<br />
ed Emma Bonino. Le due componenti, dopo aver scelto la via della fusione a<br />
freddo nella componente detta della Rosa nel Pugno, hanno immediatamente attaccato<br />
gli accordi tra Stato e Chiesa, dichiarandoli superati. Una posizione che<br />
non ha trovato alcun consenso nelle restanti componenti delle opposizioni (lo stesso<br />
Bertinotti si espresso contro ogni modifica non solo del Concordato, ma anche<br />
dell’8 per mille), ma che ha agitato non poco le acque, da decenni sonnacchiose,<br />
tra le due sponde del Tevere.<br />
• La questione aborto. Su questo si è innescata infine una nuova polemica sull’aborto.<br />
A scatenarla la decisione di un ospedale di Torino di far sperimentare la<br />
“pillola del giorno dopo” Ru486, uno strumento abortivo da anni condannato dalla<br />
Chiesa e mai introdotto finora in Italia. La sperimentazione in Piemonte è stata<br />
inizialmente sospesa su decisione del ministro della Salute Francesco Storace (in<br />
questo frangente il presidente della Regione Piemonte, la diessina Mercedes Bresso,<br />
ha avuto modo di dichiarare intempestivamente: “sono laica, ma se fossi credente<br />
non mi farei cattolica, semmai calvinista”) e poi fatta riprendere, mentre la<br />
Ru486 veniva adottata anche in alcune strutture ospedaliere toscane. Contemporaneamente<br />
Benedetto XVI elogiava gli attivisti del Movimento per la Vita, mentre<br />
Storace si dichiarava disponibile a far entrare nei consultori veri e propri volontari<br />
antiabortisti. Dura reazione non solo da parte di settori del centrosinistra, ma della<br />
stessa maggioranza. Mentre l’Osservatore Romano denunciava il tradimento dello<br />
spirito della 194, il ministro delle Pari opportunità Stefania Prestigiacomo commentava:<br />
“Qui si vuole tornare ad una condizione medievale di trattamento della<br />
donna”. Un riferimento esplicito anche alla richiesta dell’Udc di avviare un’inchiesta<br />
parlamentare sull’applicazione di tutte le parti della 194, compresa quella sui<br />
consultori (in larga parte disattesa).<br />
In generale, l’impressione che si ricava è quella di una mancanza di mezzi politici<br />
adeguati ad affrontare una materia così delicata come i rapporti tra la Chiesa<br />
cattolica e lo Stato laico. Non sfugge che, se il problema della completa applicazione<br />
della 194 è autentico e pesante, si arriva a parlarne a ridosso della prova elettorale.<br />
La cosa alimenta il dubbio che, più che a dare alla legislazione generale italiana<br />
una cornice di valori cristiani, si pensi a concentrarsi su temi etici e morali atti a<br />
smuovere con facilità quelli che una volta sono stati definiti i “voti del cielo”. Manca<br />
del tutto l’opera di matura mediazione da parte dell’ormai disperso laicato cattolico<br />
impegnato in politica, storicamente capace di inserire talune tematiche in<br />
un più generale contesto di costruzione di una società pluralista volta alla valorizzazione<br />
della persona umana. Nel rispetto anche del pluralismo e dei numeri. Colpisce<br />
anche il ritorno di vecchi atteggiamenti inutilmente laicisti di parte del mon-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
133
do politico, trasversale alla destra e alla sinistra, ben rappresentato da Boselli, Pannella,<br />
Prestigiacomo e Taradash, mentre l’atteggiamento di Storace, sicuramente<br />
sincero, appare in buona parte frutto della preoccupazione di recuperare ad Alleanza<br />
Nazionale una fetta fondamentale di elettorato che rischia di ritenersi in libera<br />
uscita dopo la presa di posizione di Fini sulla procreazione assistita. Gli esiti di questa<br />
fase saranno evidenti dopo le elezioni, soprattutto se la nuova maggioranza dovesse<br />
approvare una legge in qualche modo favorevole ai Pacs, e la Cei decidesse,<br />
come ha lasciato intendere in una intervista il Cardinal Sodano, di scendere nuovamente<br />
in campo, facendo promotrice questa volta non di una campagna per l’astensione<br />
dal voto, ma di una vera e propria iniziativa referendaria.<br />
• Riforme e altre questioni. Allo scadere della legislatura, la maggioranza è<br />
tornata a dar prova di una certa compattezza in Parlamento al fine di varare alcune<br />
riforme fondamentali a mantenerne il collante in vista dell’appuntamento elettorale.<br />
Così sono state definitivamente varate la devolution tanto cara alla Lega, la<br />
riforma dell’ordinamento giudiziario, la riforma del Tfr, la legge ex Cirielli, la proporzionale.<br />
In particolare, quest’ultima non era prevista da alcun patto di legislatura,<br />
e non sembrava essere nemmeno all’ordine del giorno dopo che l’aveva chiesta<br />
con forza ancora d’estate l’Udc di Marco Follini. Seguendo l’esempio non esaltante<br />
di Francois Mitterrand nel 1986, la Casa delle Libertà ha cambiato all’ultimo momento<br />
le regole del gioco per limitare i danni di una eventuale sconfitta elettorale,<br />
a prezzo di tornare, almeno nominalmente (i frutti della nuova legge matureranno<br />
solo nella stagione postelettorale) al vecchio sistema proporzionale. Lo stesso la cui<br />
fine ha aperto la strada a quella politica per leader e slogan che ha fatto la fortuna<br />
di gran parte dell’attuale classe dirigente italiana, a cominciare proprio da Silvio<br />
Berlusconi (senza dimenticare lo stesso Prodi). L’immediata conseguenza è stata il<br />
ritorno al partito di Pier Ferdinando Casini, aiutato in questo anche dalla fine della<br />
segreteria Follini, sostituito ad ottobre da Cesa, ed il lancio della candidatura a Palazzo<br />
Chigi dello stesso Casini, ma anche di Gianfranco Fini. Un “gioco a tre punte”<br />
destinato ad aiutare non si sa ancora esattamente chi. La portata della riforma<br />
non è ancora chiara, ma è significativo il fatto che Romano Prodi, generalmente restio<br />
ad annunciare progetti controriformistici, in questo casso abbia detto a chiare<br />
lettere che un suo governo cercherà di tornare immediatamente al maggioritario.<br />
Anche la devolution ha provocato l’immediata reazione delle opposizioni, che<br />
ora vedono nel referendum confermativo lo strumento per bloccare quella che viene<br />
definita una riforma destinata a frantumare il tessuto connettivo del paese. È<br />
utile notare che i referendum confermativi, al contrario di quelli abrogativi, non<br />
prevedono quorum, e a giovarsi di questa circostanza saranno con ogni probabilità<br />
i fautori del no alla ratifica: l’unica forza politica a desiderare sovra ogni altra cosa<br />
la devolution infatti è la Lega, per la quale la posta in gioco equivale grossomodo<br />
alla stessa ragion d’essere del partito. Forza Italia sembra avere l’atteggiamento di<br />
chi ha già pagato con l’approvazione parlamentare il prezzo pattuito per l’adesione<br />
degli uomini di Bossi alla Casa delle Libertà, mentre difficilmente Alleanza Nazio-<br />
134 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
nale potrà mobilitare a fondo il proprio elettorato con la motivazione che parte del<br />
pacchetto delle riforme costituzionali riguarda un vecchio cavallo di battaglia di<br />
An, il rafforzamento dei poteri del premier. L’uscita di Domenico Fisichella dal<br />
partito è indice di questo profondo malessere. Viceversa il centrosinistra, se non<br />
del tutto contrario in certi suoi settori proprio al rafforzamento dei poteri del premier<br />
(in particolare in certi ambienti prodiani), è compatto nell’opposizione alla<br />
devolution bossiana, ed ha scelto di dar vita ai comitati “Salviamo la Costituzione”<br />
presieduti dal Presidente Emerito della Repubblica Oscar <strong>Luigi</strong> Scalfaro. Da ultimo<br />
è significativo che proprio sulla devolution la Conferenza Episcopale Italiana<br />
abbia espresso perplessità similari a quelle dell’Unione, parlando in toni preoccupati<br />
della necessita’ “di contrastare con la massima attenzione la creazione di 20<br />
servizi regionali diversi”.<br />
Nelle parole dei vescovi pare di poter cogliere la dimostrazione di quanto si diceva<br />
prima, e cioè che la politica attuale, in cui il ruolo dei cattolici laici è ridotto<br />
quasi all’irrilevanza, si limiti ad accontentare alcune esigenze della cultura cristiana,<br />
dando però all’intera legislazione nazionale un’impronta culturale estremamente<br />
lontana dai valori cattolici e dalla dottrina sociale della Chiesa. Questo avviene indipendentemente<br />
dall’essere al governo il centrodestra o il centrosinistra. Il ruolo<br />
dei cattolici nella società italiana, al momento, è limitato al gentilonismo dei “voti<br />
del cielo”.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
<br />
135
Germania incerta; Francia in turbolenza<br />
Politica internazionale<br />
• Entrambi i paesi al cuore dell’Unione Europea, la Francia e la Germania,<br />
stanno attraversando un periodo di turbolenza che rende improbabile un rapido rilancio<br />
del processo di integrazione.<br />
In Germania la sconfitta della SPD alle elezioni amministrative di aprile, ha<br />
costretto Gerarhdt Shroeder ad andare a elezioni anticipate in settembre. Questa<br />
scelta repentina del cancelliere ha scosso l’ambiente politico tedesco, abituato a<br />
procedure meno brusche. Si è trattato tuttavia di una decisione vincente perché alle<br />
elezioni, pur partendo con un ampio distacco e avendo perso tutte le locali e le<br />
amministrative degli anni precedenti, la SPD – condotta da un cancelliere che dà il<br />
meglio di sé in campagna elettorale – ha ritrovato slancio ed è giunta seconda per<br />
un soffio: 222 seggi a 226. La conseguenza è stata, dopo quasi due mesi di negoziato,<br />
la riedizione della Grosse Koalition, come nel 1966, condotta dalla prima donna<br />
cancelliere della storia tedesca: Angela Merkel. Chi si aspettava un rapido rilancio<br />
dell’economia attraverso profonde riforme o una ripresa dell’Europa condotta<br />
da una Germania nuova, è rimasto deluso: la coalizione tra SPD e CDU sarà la<br />
collaborazione prudente tra due partiti fino a ieri antagonisti e oggi costretti a collaborare.<br />
In altri paesi, come nella vicina Francia, tali forme di coabitazione non<br />
funzionano. Non è detto però che la Germania non riservi sorprese da questo punto<br />
di vista. In passato l’esperienza della coalizione diede buoni frutti, ma soprattutto<br />
é la biografia della nuova “cancelliera” – originaria dell’est e dalla personalità risoluta<br />
– che fa sperare in un nuovo protagonismo della Germania. L’Europa ne ha<br />
certamente un gran bisogno.<br />
•<br />
a cura di Mario Giro<br />
Dal novembre 2004, quando Nicolas Sarkozy diviene presidente dell’UMP, il<br />
partito creato da Jacques Chirac, la scena politica francese è dominata dalla sfida<br />
tra il vecchio Presidente della Repubblica e il giovane ambizioso ministro dell’Interno<br />
d’Oltralpe, accusato di essere troppo autonomo e di giocare a fare il solista.<br />
136 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Tutta la carriera di Sarkozy è infatti la corsa di un outsider, un “maverick” come si<br />
direbbe negli Usa, un politico senza padrini né filiazioni. Un anno dopo, il duello<br />
tra i due non si è attenuato, anzi ha mietuto la sua prima vittima illustre nei panni<br />
dell’ex primo ministro Raffarin che ha dovuto rassegnare le dimissioni dopo la vittoria<br />
dei No al referendum del 29 maggio per la ratifica del trattato costituzionale<br />
europeo.<br />
Il primo ministro si è battuto per il Sì, assieme alla gran parte della classe politica<br />
francese, fatte salvo le ali estreme. Tuttavia la maggioranza ha scelto di opporsi,<br />
facendo subire a Chirac una sconfitta paragonabile a quella dello scioglimento dell’Assemblea<br />
nazionale nel ’97. I francesi hanno votato No soprattutto per cause interne:<br />
il cattivo andamento dell’economia, la sfiducia nelle riforme proposte dal<br />
governo. Ma certamente anche il dibattito sulla futura adesione della Turchia e la<br />
difficile assimilazione dei nuovi 10 membri hanno avuto il loro peso.<br />
Raffarin era stato scelto dal presidente dopo la sua rielezione, come uomo dal<br />
profilo moderato e per contrastare le ambizioni ad occupare palazzo Matignon di<br />
Sarkozy, che aveva dovuto accontentarsi del ministero dell’Interno. Da quel posto<br />
il dinamico politico gollista, un tempo alleato di Balladur nelle presidenziali del<br />
95, ha costruito la sua immagine di uomo forte, affidabile nelle scelte per la sicurezza<br />
(uno dei temi della campagna presidenziale), pronto a dirigere la Francia. Per<br />
toglierlo da un posto considerato troppo mediatico, e metterlo in difficoltà secondo<br />
alcuni, Chirac aveva spostato Sarkozy al ministero dell’<strong>Economia</strong> e Finanze nel<br />
secondo governo Raffarin e dato place Beauvau al suo fidato segretario generale<br />
dell’Eliseo, Dominique de Villepin. Ma anche dalla nuova postazione il ministro<br />
aveva proseguito la sua opera autonoma di rafforzamento di un’immagine da “presidenziabile”.<br />
Dopo i risultati del referendum, Raffarin è stato il capro espiatorio<br />
predestinato, come accade al Primi ministri in Francia, chiamati anche i “fusibili”.<br />
A quel punto Sarkozy è tornato alla carica e al presidente non è rimasto che nominare<br />
primo ministro Villepin, il collaboratore di sempre. Il difetto di quest’ultimo<br />
è di non essere mai stato eletto, non essersi mai cimentato con una campagna elettorale<br />
e di apparire come il puro prodotto delle Hautes Ecoles che in Francia sfornano<br />
a getto continuo gli alti funzionari di Stato. In compenso Sarkozy è tornato<br />
all’Interno. Tra i due uomini il rapporto è molto difficile, talvolta le dichiarazioni<br />
vanno sopra le righe. Si tratta di una specie di coabitazione tra due anime dello<br />
stesso governo. Sarkozy, che controlla il partito, mira alle elezioni presidenziali del<br />
2007 e ha imposto all’UMP di scegliere il candidato in fase congressuale, bloccando<br />
così ogni possibile intervento di Chirac.<br />
•<br />
A sinistra le cose non sono più chiare. Anche per il Partito socialista (PS) il referendum<br />
è stato un momento traumatico, già nel corso della campagna elettorale.<br />
Laurent Fabius, ex primo ministro di Mitterrand e uno dei capi socialisti storici,<br />
aveva spaccato il fronte schierandosi per il No, assieme ai trotzkisti e ai comunisti.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
137
Per un politico liberalsocialista come lui si è trattato soprattutto del tentativo di<br />
rientrare sulla scena politica, dopo alcuni anni di oscuramento, dovuto in parte a<br />
guai giudiziari. Anche se l’assemblea del PS aveva in precedenza stabilito la linea<br />
del sostegno al Si, Fabius si era desolidarizzato, auto-sospendendosi de facto dalla<br />
direzione del partito.<br />
La vittoria del No lo ha ricompensato dandogli un’improvvisa nuova popolarità<br />
e mettendo in imbarazzo il giovane leader del PS, François Hollande, succeduto<br />
alla testa della formazione dopo la famosa rinuncia di Lionel Jospin, la sera del<br />
primo turno delle presidenziali del 2002. La crisi socialista è tanto più paradossale<br />
se si pensa che alle ultime regionali del 2004 il PS aveva strappato 20 regioni su 22<br />
alla destra. Sempre minacciato dall’estrema sinistra, che non cessa di attaccare socialisti<br />
alla stessa stregua dei gollisti e che presenterà certamente uno o più candidati<br />
alle prossime presidenziali, il PS sa di rischiare ora anche una frammentazione<br />
interna. Se Fabius decidesse di presentarsi, suscitando forse anche le ambizioni di<br />
qualcun altro, l’incubo dei socialisti è di rivivere l’esclusione dal secondo turno.<br />
Non altrimenti è da leggere l’invito rivolto a Romano Prodi al recente congresso<br />
PS per parlare delle primarie dell’Ulivo: la formula italiana potrebbe rappresentare<br />
per i socialisti francesi quella quadratura del cerchio necessaria a ricostruire un’unità<br />
a rischio.<br />
•<br />
Mentre la classe politica d’oltralpe si divide in un tipico esercizio di “politique<br />
politicienne”, le banlieue francesi sono state attraversate da un vento di rivolta. Per<br />
circa un mese migliaia di giovani, in maggioranza rappresentanti le seconde e terze<br />
generazioni degli immigrati arabi o africani, sono scese in piazza di notte incendiando<br />
automobili, distruggendo negozi, stazioni di servizio ecc. er scontrandosi<br />
con le forze dell’ordine, in un fenomeno violento senza precedenti per la sua estensione.<br />
Il ministro dell’Interno Sarkozy ha scelto questa occasione per lanciare una<br />
delle sue frasi che riecheggiano il linguaggio dell’estrema destra lepenista, un modo<br />
per mandare uin messaggio agli elettori di quella parte politica: ha chiamato i giovani<br />
“feccia”. Ma al di là delle esternazioni dei politici, va detto che molti intellettuali,<br />
come il filosofo Filkienkraut o l’accademica di Francia Carrère d’Encausse,<br />
hanno espresso giudizi molto duri sui giovani ribelli, accusandoli di non voler integrarsi,<br />
si essere il risultato del “comunitarismo” (il vivere in comunità separate, ciò<br />
che è contro lo spirito stesso della laicità repubblicana), di avere “usi e costumi<br />
troppo africani o arabi” ed altro.<br />
Si nota quindi una reale frattura di comunicazione tra i giovani figli di immigrati<br />
– quasi tutti con cittadinanza francese – e l’opinione pubblica. Molti francesi<br />
considerano l’integrazione fallita, dopo anni di retorica “repubblicana”, cioè il riferimento<br />
ai valori della repubblica davanti alla quale tutti sono uguali nello spirito<br />
della laicità dello stato. Va notato che il fallimento è stato causato piuttosto dalla<br />
non applicazione del modello repubblicano stesso. La frattura sociale è facilmente<br />
138 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
iscontrabile dalla ghettizzazione di intere fasce di popolazione, tra le meno agiate.<br />
Le enormi cités, dove vivono ammassati solo immigrati o poveri, non corrispondono<br />
in nulla al modello integrativo alla francese. Il ghetto francese esiste ed è ben visibile<br />
nella struttura abitativa delle città. Nel 2005 si contavano oltre 700 quartieri<br />
“sensibili” in Francia. La cartina della loro dislocazione corrisponde alle zone di<br />
turbolenza di queste notti incendiarie.<br />
Non va dimenticato che non si tratta di un fenomeno nuovo: già negli anni<br />
Ottanta rivolte simili si sono avute nelle stesse aree, benché in misura meno generalizzata.<br />
In discussione in queste ore è proprio la politica della città, che in Francia<br />
è stata oggetto di molte riflessioni (e anche della creazione di un ministero apposito)<br />
ma non ha saputo dare risposte determinanti. Negli anni Ottanta le rivolte erano<br />
terminate quando gli emiri fondamentalisti erano riusciti a dirottare la rabbia<br />
giovanile verso la moschea, la reislamizzazione dal basso, l’indottrinamento. Abbiamo<br />
visto le conseguenze di tale manovra. Quale sarà lo sbocco che oggi sarà<br />
proposto ai giovani beurs di oggi?<br />
Medio Oriente e Nord Africa: primi mutamenti in uno scenario ingessato<br />
• A fronte dello stato comatoso della politica europea di relazione con il mondo<br />
arabo, dimostrata anche dal fallimento del Vertice Euromed di novembre, al<br />
contrario gli Usa – malgrado l’evidente difficoltà a pacificare l’Iraq – sembrano ottenere<br />
alcuni successi. La strategia americana del Grande Medio Oriente, incentrata<br />
sui rapporti bilaterali, la spinta alla democratizzazione e la mediazione nelle crisi,<br />
fa alcuni passi in avanti.<br />
Egitto<br />
In Egitto si sono svolte in autunno le elezioni presidenziali e legislative. Nel<br />
primo caso la vittoria annoiata di Mubarak non ha destato sorprese, anceh se si è<br />
assistito per la prima volta a un confronto tra candidati. Nel caso del voto per il<br />
parlamento invece, l’affermazione del partito dei Fratelli Musulmani che conquistano<br />
oltre 80 seggi, anticipa una tendenza che potrebbe essere ripresa da altri paesi<br />
arabo-musulmani. Il partito del presidente rimane maggioritario, complice un<br />
complesso sistema elettorale a vari turni, ma la novità rimane, soprattutto se si tiene<br />
conto della presenza dei Fratelli musulmani in molti altri paesi cosiddetti moderati,<br />
come la Giordania. Si capisce meglio così la violenta critica che i capi di al<br />
Qaeda da tempo rivolgono alla formazione fondamentalisti, proprio per aver scelto<br />
la via elettorale e il gioco democratico. Un successo di tale opzione è un grave rischio<br />
per coloro che hanno puntato tutto sulla violenza, sul terrorismo e sullo<br />
scontro di civiltà.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
139
Israele<br />
In Israele, il completamento in agosto del ritiro israeliano da Gaza, che molti<br />
osservatori consideravano improbabile, crea una nuova situazione politica. Da una<br />
parte l’Amministrazione Palestinese è messa per la prima volta di fronte alle proprie<br />
responsabilità. A Gaza dovrà mantenere l’ordine ed è costretta a dar prova di<br />
fermezza con Hamas che ha nella Striscia il suo punto di forza. Dall’altra il primo<br />
ministro Sharon, che non si è piegato alle critiche piovute da destra, è sempre più<br />
solo nel suo partito, il Likud. A fine anno la grande coalizione con i laburisti, che<br />
ha permesso di sostenere l’impatto degli attacchi, finisce su un binario morto. A<br />
novembre il partito laburista elegge a sorpresa un nuovo leader, Amir Peretz, sindacalista<br />
di origine ebreo-marocchina, scelto su un programma economico spiccatamente<br />
progressista. Il nuovo segretario parla di “Israele stato di tutte le religioni” e<br />
decide il ritiro dei ministri dal governo di coalizione. A Sharon non resta che convocare<br />
le elezioni per la primavera. Tuttavia il vecchio primo ministro non si arrende:<br />
stretto fra le critiche nel suo partito e la fine dell’alleanza con la sinistra, con<br />
una mossa improvvisa dichiara di lasciare il Likud per formare un nuovo partito<br />
centrista. Lo segue Shimon Peres che si è visto sfiduciato dal Labour. I primi sondaggi<br />
gli danno ragione: la nuova formazione è prima mentre il Likud affonderebbe<br />
perdendo molti consensi. Siamo forse alla vigilia di una vera svolta politica in<br />
Israele che non mancherà di influenzare i palestinesi. Abu Mazen infatti è in continua<br />
polemica con Hamas che non vuole abbandonare il controllo di Gaza. Alcuni<br />
scontri armati hanno portato alla luce la tensione latente tra l’organizzazione islamista<br />
e la polizia palestinese.<br />
Libano<br />
Nel vicino Libano il 2005 è stato l’anno del ribaltamento. L’assassinio, avvenuto<br />
in febbraio, di Rafik Hariri, ex primo ministro della ricostruzione post-bellica,<br />
ha provocato una fortissima ondata di indignazione contro la Siria, accusata dell’attentato.<br />
Enormi manifestazioni hanno attraversato le vie di Beirut e anche il funerale<br />
dell’uomo politico si è trasformato in una protesta di massa. Le pressioni internazionali<br />
su Damasco, in cui Francia e Usa si sono trovate fianco a fianco, sono<br />
state talmente forti da costringere al ritiro i circa 20.000 militari che stazionavano<br />
nel paese dagli anni Settanta. Nel giugno, per la prima volta dal 1972, i libanesi<br />
hanno potuto recarsi alle urne senza la tutela siriana. I risultati hanno premiato la<br />
formazione plurale diretta dal figlio di Hariri, Saad, una colazione di cristiani e<br />
musulmani che ha anche avuto l’appoggio degli Hezbollah sciiti del sud. Tutte le<br />
formazioni politiche hanno inserito nelle loro liste personalità di varie religioni e<br />
provenienza geografica: un primo passo per mettere fine alla rigida partizione etnico-religiosa<br />
che caratterizzava la politica libanese. Alcune donne hanno potuto essere<br />
elette e fanno parte del nuovo governo di coalizione, in cui ha accettato di en-<br />
140 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
trare anche il partito Hezbollah. Il ritrovato pluralismo libanese, affrancato dalla<br />
tutela siriana, rappresenta un esempio unico di democrazia e di coabitazione tra diversi,<br />
un messaggio importante per un mondo arabo tentato dall’omologazione a<br />
causa della sfida estremista.<br />
Nord Africa<br />
Anche in Nord Africa si segnalano alcune novità, in controtendenza rispetto<br />
alla minaccia fondamentalista. Nell’Algeria spossata da più di dieci anni di guerra<br />
civile, la parziale riforma del codice della famiglia, con alcuni avanzamenti sull’affido<br />
dei figli alla madre in caso di separazione e l’obbligo di assicurare l’alloggio all’ex<br />
moglie, ma soprattutto l’approvazione a settembre per via referendaria di una<br />
Carta per la pace, che metta fine al conflitto intestino, segnano una svolta di rilievo.<br />
La politica della concordia civile del presidente Bouteflika segna così un altro<br />
passo in direzione dell’uscita dalla crisi. Rimangono tuttavia le polemiche sull’amnistia<br />
promessa ai terroristi e ai militari, in un paese che ha visto il numero delle<br />
vittime giungere a circa 200.000, con un milione di sfollati e almeno 18.000<br />
scomparsi.<br />
Marocco<br />
In Marocco, il giovane sovrano Mohammed VI, dopo aver abolito il tutorato<br />
dell’uomo sulla donna e severamente ristretto le possibilità di ripudio e di poligamia,<br />
ha preso un’iniziativa coraggiosa sulla riconciliazione nazionale. A Rabat è stata<br />
istituita l’Istanza di Equità e Riconciliazione (sul modello sudafricano) che ha rimesso<br />
il suo rapporto al re il 30 novembre. In sedute pubbliche (ma senza far nomi)<br />
trasmesse dai media, le vittime delle violazioni dei diritti umani dal 1956 al<br />
1999, o i loro parenti, hanno potuto denunciare le violenze subite. Ai congiunti<br />
degli scomparsi è stato concesso di inoltrare denuncia davanti all’Istanza. Così è<br />
venuta alla luce la storia segreta dei regni precedenti, sono stati identificati e chiusi<br />
numerosi luoghi di detenzione clandestini, riesumati molti corpi, indennizzate le<br />
vittime o i loro familiari. L’Istanza di arbitraggio, che si è occupata dei risarcimenti,<br />
ha versato oltre 120 milioni d dollari per circa 6000 casi. Si tratta della più grande<br />
operazione di questo tipo messa in atto in un paese arabo-islamico, un’occasione di<br />
trasparenza e di catarsi nazionale con l’obiettivo di riconciliare il Marocco con il<br />
suo passato. Malgrado il basso profilo appositamente tenuto dai componenti dell’Istanza<br />
(quasi tutti ex prigionieri politici o militanti dei diritti umani), tale esperienza<br />
è stata seguita con interesse dai media internazionali arabi ed è certamente<br />
destinata a fare scuola per divenire un modello imitabile.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
141
Il Polisario<br />
Dopo una lunga stasi, si riapre anche la possibilità di una soluzione dell’annosa<br />
questione Saharaoui. Il Polisario (Fronte per la liberazione dell’ex sahara spagnolo)<br />
ha recentemente ceduto alle pressioni americane e liberato gli ultimi 400 prigionieri<br />
di guerra marocchini. Si tratta di una storia dolorosa, risolta dall’impegno del senatore<br />
Lugar, presidente della commissione affari esteri del Senato, nel quadro della strategia<br />
americana per il riavvicinamento tra Algeria e Marocco, entrambi in ottime relazioni<br />
con Washington. Al momento del cessate il fuoco del 1991, vi erano oltre<br />
2200 prigionieri marocchini nei campi desertici di Tindouf, una regione dell’Algeria<br />
che sostiene il Polisario. Quest’ultimo ne libera poche decine alla volta, nel corso di<br />
dieci anni. Dal canto suo, a Rabat la monarchia ha dimenticato i prigionieri del deserto,<br />
che diventano dei fantasmi. È Maometto VI a riaprire la ferita nel 2005, chiedendo<br />
la liberazione dei “dimenticati del deserto”. Finalmente l’Algeria, cedendo alle<br />
pressioni americane, ottiene dal Polisario il loro rilascio e il 18 agosto gli ultimi 400<br />
tornano a casa. L’antica alleanza americana con il Marocco e le recenti relazioni stabilite<br />
con Algeri, spingono alla distensione tra i due paesi, in antagonismo fin dalla<br />
“guerra delle sabbie” dell’inizio anni Sessanta. Per gli Usa la stabilità dell’area nord<br />
africana è molto importante, soprattutto da quando è stato accertata la presenza di<br />
gruppi terroristici salafiti che agiscono nella zona saheliane a sud dei due paesi maghrebini.<br />
Il rapimento di turisti occidentali nel deserto e alcune azioni a sud di Marocco<br />
e Algeria, hanno da tempo messo in allarme numerosi servizi di intelligence.<br />
Pericolo di infiltrazioni terroristiche in Africa<br />
• L’“islam nero”, 250 milioni di fedeli, si è sempre distinto da quello arabo per<br />
le sue capacità di adattamento in seno a società etnicamente e religiosamente plurali.<br />
Il sincretismo e la mescolanza dei riti sono la regola nella maggioranza dei paesi<br />
africani. In Africa islam, cristianesimo e animismo si fronteggiano da avversari<br />
ma non da nemici, o almeno il conflitto è assorbito dal sistema clanico e nella vita<br />
quotidiana. I passaggi da una fede all’altra sono tollerati, le famiglie “miste” frequenti,<br />
provocando l’ira o la derisione dell’islam arabo. Tuttavia in alcuni paesi o<br />
regioni, le frizioni possono sfociare in conflitto. I due paesi africani dove il pericolo<br />
di contaminazione del terrorismo internazionale è oggi più forte sono la Nigeria e<br />
il Sudan. Le cronache riportano episodi legati ad al Qaeda in Africa Orientale, nella<br />
Somalia dei signori della guerra, in Eritrea, in Tanzania e Kenya a causa degli attentati<br />
alle ambasciate Usa, nell’isola arabofona di Zanzibar.<br />
•<br />
Tuttavia Nigeria e Sudan possiedono le caratteristiche necessarie per l’impiantarsi<br />
di una rete eversiva stabile. Entrambi i paesi sono ex colonie britanniche, han-<br />
142 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
no conosciuto numerosi colpi di stato militari, adottato un quadro istituzionale federale<br />
per evitare le spinte secessioniste (Biafra per la Nigeria, Sud per il Sudan),<br />
sempre incarnate da leader cristiani. Gli studiosi hanno messo in luce legami antichi<br />
tra i due paesi, complice il passaggio obbligato attraverso Khartoum che i nigeriani<br />
dovevano compiere sul cammino verso la Mecca. Un importante flusso migratorio<br />
trasversale è sempre esistito e ancora oggi città sudanesi come Nyala, el Facher<br />
(capoluogo del Dafur) o Kassala hanno circa un 20% di popolazione di origine<br />
nigeriana. Gli scambi intra-islamici tra i due paesi sono avvenuti anche grazie<br />
alle confraternite musulmane, come quelle impiantate nel Darfur da missionari nigeriani.<br />
Come avviene in Nord Sudan, in Nigeria si applica la sharia in 12 stati sui<br />
36 che conta la federazione. Una caratteristica comune ai due paesi è l’appoggio<br />
dato dalle autorità coloniali alle elite islamiche: nel nord Sudan e nord Nigeria<br />
sheik e emiri locali furono frequentemente posti a presiedere le corti di giustizia locali.<br />
In Sudan ciò ha permesso di contenere per un tempo il contagio indipendentista<br />
proveniente dall’Egitto. I rampolli dell’aristocrazia musulmana sudanese furono<br />
sconsigliati di proseguire gli studi superiori a Beirut o al Cairo, favorendo la nascita<br />
di scuole islamiche confraternali locali. Similmente in Nigeria i missionari<br />
cristiani furono intralciati e ostacolati dall’autorità britannica nella loro progressione<br />
verso nord. Così poco a poco si è venuto a creare in entrambi gli stati una doppia<br />
velocità, con un nord sottoposto alla legge islamica e un sud amministrato dalla<br />
legge del colonizzatore adattata alle tradizioni ancestrali. Il diritto musulmano in<br />
vigore nel Nord Sudan fu codificato nel 1915 e venne utilizzato per la redazione di<br />
quello del Nord Nigeria nel 1959. L’anno dopo, all’indipendenza, erano sudanesi<br />
ad occupare i posti chiave nelle corti islamiche del nord Nigeria. Dopo la decolonizzazione<br />
in entrambi i casi il doppio sistema giuridico è rimasto intatto, irrigidendosi<br />
in scontro confessionale.<br />
•<br />
Il tentativo è ancora oggi lo stesso: estendere la sharia a tutto il paese o almeno<br />
anche ai non-musulmani presenti nelle rispettive regioni del nord. La trentennale<br />
guerra con il Sud ha oggi finalmente avuto fine con la firma dell’Accordo di pace<br />
del 9 gennaio, e non è stata messa in discussione nemmeno dalla morte di John<br />
Garang, il leader cristiano del Sud, avvenuta per incidente di elicottero all’inizio di<br />
agosto. Ciononostante il lungo conflitto ha mutato il volto del paese: la popolazione<br />
cristiana della capitale Khartoum è passata da qualche decina di migliaia negli<br />
anni Settanta, a circa un milione oggi. Anche la crisi in Darfur ne è una diretta<br />
conseguenza, complicata nei mesi recenti dalla divisione in seno alla ribellione antigovernativa.<br />
Il passaggio della Nigeria alla democrazia nel corso degli anni Novanta<br />
e l’elezione di Obasanjo alla presidenza, un cristiano protestante, non ha modificato<br />
i termini della questione: il sistema federale permette agli stati del nord di<br />
applicare il codice islamico malgrado le proteste delle chiese. In Sudan anche l’estromissione<br />
al potere del National Islamic Front di Hassan el Turabi, il leader fon-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
143
damentalista che aveva ospitato Bin Laden negli anni Novanta, ha dato un forte<br />
impulso ai negoziati tra governo e SPLA. Tuttavia, anche secondo l’accordo, la sharia<br />
è iscritta come fonte di diritto e resta applicabile al nord. Attualmente in tutti e<br />
due gli stati, sotto la spinta della lotta al terrorismo e per mantenere i migliori rapporti<br />
possibili con gli Usa, prevale un’interpretazione “tollerante” della sharia: si<br />
denunciano gli eccessi dei sauditi che applicano il taglio della mano per i ladri,<br />
mentre “è meglio utilizzare la frusta”, prevista nell’80% delle pene. I sanguinosi<br />
scontri intra-comunitari di cui è costellata la cronaca nigeriana, anche se possono<br />
aver origine in questioni legate al controllo di mercati o risorse, sono aggravati dal<br />
contrasto sulla legge islamica. La crescita di movimenti radicali in entrambi i paesi<br />
ha messo in discussione lo statuto delle minoranze cristiane nelle regioni del nord,<br />
vittime primarie delle campagne contro l’alcolismo, la prostituzione o i cattivi costumi.<br />
La stessa controversia sull’applicazione della pena di morte alle adultere (le<br />
storie di Amina e di Safiya che tanto hanno fatto scalpore nelle cronache occidentali)<br />
è la conseguenza di tale situazione. Gravi sono anche le reazioni al fenomeno<br />
dei convertiti (che non diminuisce in Nigeria, né scompare in Sudan) o le accuse<br />
di blasfemia rivolte ai cristiani.<br />
Tale situazione ha come conseguenza di mettere in crisi la tenuta unitaria dei<br />
due stati. Gli estremisti islamici sono più interessati alla religione che all’unità nazionale<br />
e non vedono male una possibile partizione, sia in Nigeria che in Sudan.<br />
Paradossalmente si tratta della stessa posizione di molti non-musulmani secessionisti.<br />
È possibile che le reti terroristiche sostengano tale eventualità per procurarsi<br />
degli approdi sicuri in territori omogenei. Il contesto della lotta globale al terrorismo<br />
rende tale eventualità una minaccia, percepita come tale dalle cancellerie occidentali<br />
in particolare nel caso della Nigeria.<br />
144 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
I nuclei tematici<br />
Individuo e Moltitudine<br />
di Fedele Cuculo (*)<br />
• Tra gli interessi più significativi della riflessione sociologico-giuridica e filosofico-politica<br />
contemporanea, con sempre maggior ricorrenza compare il riferimento<br />
alla categoria di moltitudine, quale rinnovato paradigma ermeneutico dei<br />
rapporti tra singolarità individuali, collettività sociali, dinamiche ed istituzioni di<br />
potere.<br />
Ne rappresentano rinnovata testimonianza le recenti giornate di studio organizzate<br />
dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna (17-19 novembre<br />
2005), orientate appunto all’investigazione intorno ai profili di problematicità<br />
e suggestività del tema in discorso.<br />
In realtà, mai con tale intensità come nelle società del post-moderno si è percepito<br />
– soprattutto in certi ambienti scientifici del contesto continentale europeo –<br />
il bisogno di confrontarsi con gli esiti della globalizzazione economica, politica,<br />
culturale; questa direttrice di ricerca si è sviluppata problematizzando l’orizzonte<br />
contrattualistico-politico moderno, mediante la proposizione di modelli interpretativi<br />
teorici elaborati allo scopo di attingere ulteriori e più appaganti livelli di<br />
comprensione della complessità della realtà sociale.<br />
Più in particolare, le linee di analisi qui segnalate trovano svolgimento in corrispondenza<br />
– per un verso – con le più esplicite indicazioni di crisi degli schemi politici<br />
e giuridici della rappresentanza statual-nazionale (si pensi alla caduta degli ordinamenti<br />
di ispirazione sovietica, ai peculiari attivismi dei movimenti di opinione<br />
e di protesta, ma anche alle teorie e ai processi della cd. de-istituzionalizzazione) e<br />
– per l’altro – con la reticolarizzazione degli assetti sociali (di reciproca e più imme-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Ricerche<br />
a cura di Andrea Bixio<br />
(*) Professore a contratto di Sociologia del Diritto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia - Università di<br />
Cassino.<br />
145
diata connessione) implicati dall’affermazione dei mercati globali. In un quadro<br />
siffatto, emerge con progressiva nettezza (attraverso il recupero dell’idea di moltitudine)<br />
il tentativo di definizione – originale ma non improvvisato – di una dimensione<br />
sociale di congiunzione delle aspirazioni di pertinenza dell’individuo<br />
(inteso nella sua accezione di irripetibile singolarità desiderante) con gli spazi di<br />
autodeterminazione della socialità collettiva.<br />
Nell’intendimento di una loro unitaria profilazione, va, dunque, rilevato come<br />
i percorsi ermeneutici tracciati dai teorici della moltitudine – seppur connotati<br />
dalla comune filiazione spinoziana – si distinguano, in termini sostantivi, per le rispettive<br />
sensibilità di ricostruzione ontologica della società ed in ragione delle rilevanti<br />
diversità di prospettiva ideologica.<br />
La moltitudine nella prospettiva politica<br />
• Tra i più significativi contributi orientati alla strutturazione di una teoria<br />
della moltitudine, denotano, senza dubbio, particolare meritevolezza di menzione<br />
alcuni pregevoli, recenti lavori ricostruttivi dovuti all’opera di Etienne Balibar (cfr.<br />
Etienne Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, tr. it., Manifestolibri,<br />
Roma 2004; Id., Spinoza. Il transindividuale, tr. it., Ghibli, Milano<br />
2002; Id., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, tr. it., Mimesis<br />
Eterotopia, Milano 2001; Id., Citoyen Sujet. Réponse à la question de J.-L. Nancy:<br />
Qui vient après le sujet?, «Cahiers Confrontation», 20/1989).<br />
Balibar analizza suggestivamente i profili strutturali del complesso rapporto<br />
(insieme permanente e dinamico) intercorrente tra masse e passioni, in riferimento<br />
specifico alla duplicità vettoriale (vale a dire in senso oggettivo e soggettivo)<br />
della paura quale sentimento collettivo: “la crainte des masses” viene, dunque,<br />
delineandosi come “formulazione [intenzionalmente] ambivalente” del genitivo<br />
che l’espressione (la paura delle masse) contiene (cfr. Spinoza. Il transindividuale,<br />
cit., p. 14), incarnazione di pulsioni reciproche che le moltitudini, nel contempo,<br />
patiscono ed ispirano nella dialettica materiale del confronto con le istituzioni<br />
di potere.<br />
Il consapevole perdurare delle condizioni di fluctuatio animi delle masse, secondo<br />
la perenne oscillazione tra amore e odio nel loro direzionamento politico,<br />
sviluppa la trasposizione dell’idea spinoziana di obbedienza alle leggi come rappresentazione<br />
dell’“esaurimento [della coattività] dello Stato nel compimento del suo<br />
fine” (cfr. ivi, p. 15), nella direzione di una democrazia della moltitudine auspicabile<br />
ma disarmata.<br />
D’altra parte, nella prospettiva interpretativa di Balibar, la centralità ontologica<br />
della comunicazione intersoggettiva alimenta l’inestricabile composizione di individualità<br />
e moltitudine, che ridimensiona la stessa pensabilità della riduzione totalitaria<br />
delle masse in forma di disumanità costretta e dispersa: i fantasmi orwelliani<br />
della nostra epoca e i timori del controllo elettronico delle opinioni fanno i conti,<br />
146 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
in questo senso, con la presenza politica della moltitudine e la sua inestinguibile<br />
coscienza di sé.<br />
All’idea cardinale sin qui illustrata della transindividualità quale essenza del legame<br />
collettivo si giustappone la valorizzazione negriana della moltitudine come<br />
dimensione di resistenza, mutamento politico e dispiegamento delle cupidità autorealizzative<br />
delle singolarità desideranti.<br />
Inscritto nell’orizzonte della critica neomarxista dei sistemi di biopotere, il pensiero<br />
di Antonio Negri (cfr. Michael Hardt-Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e<br />
democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004 e Antonio Negri, Guide.<br />
Cinque lezioni su Impero e dintorni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003)<br />
articola una lettura antagonistica della moltitudine come momento espressivo di<br />
anti-individualismo politico (nella misura in cui postula il contrasto ai tentativi di<br />
atomizzazione della società politica nel confronto con le strutture globalizzate di<br />
potere economico).<br />
Trasfigurazione sociale di un’ontologia dell’immanenza (elaborata sul terreno<br />
di crisi del modello dello stato-nazione ed emancipata dai vincoli del circuito teorico<br />
cittadinanza-rappresentanza) e declinazione di movimenti collettivi, la categoria<br />
di moltitudine qui evocata rifugge la connotazione di compatta indistinzione tradizionalmente<br />
involgente l’idea di massa, il suo tratto selvaggio di folla idolatra,<br />
manipolabile e crudele (cfr. Paolo Cristofolini, Saeva multitudo, comunicazione al<br />
convegno bolognese del 17-19 novembre 2005 [per cui supra]), in esplicita e radicale<br />
autonomia rispetto agli spettri sociali sottesi ai concetti di proletariato e classe<br />
operaia.<br />
Nella reciproca implicazione di persona e moltitudine (quale dimensione etica<br />
di coalescenza delle singolarità) si sviluppa l’attitudine alla reticolarità, concepita<br />
come capacità di produzione di immaterialità e legame sociale.<br />
La focalizzazione negriana della costitutività della moltitudine – nella teleologia<br />
di forma aperta di una società senza stato – compendia processo immaginativo<br />
e generazione istituzionale, arrestandosi sul crinale di una incompiuta definizione<br />
(laddove si innestano le più ponderate mozioni di censura teorica): proprio a questo<br />
stadio di riflessione, infatti, si rivela (in tutta la sua consistenza concettuale) il<br />
nodo interrogativo della sensibile mancanza di prefigurazione degli assetti giuridico-politici<br />
suscettivi di sostituire sovranità e strutture statuali.<br />
In questo senso specifico, l’aspirazione al tratteggio delle condizioni di inveramento<br />
di una democrazia assoluta della moltitudine tradisce i segni della sua inconclusione.<br />
La moltitudine nella prospettiva esistenziale<br />
• Alla stregua di un diverso dispositivo ermeneutico (e valorizzando un peculiare<br />
angolo di prospettiva teorica di più schietta matrice spinoziana), Chantal Jaquet<br />
tematizza in forma originale la dimensione della corporalità degli individui<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
147
che compongono la moltitudine (cfr. Chantal Jaquet, Sub specie aeternitatis. Etude<br />
des concepts de temps, durée et éternité chez Spinoza [prefaxe d’Alexandre Matheron],<br />
Kime, Paris 1997 e Ea., Le corps, Presses Universitaires de France, Paris 2001).<br />
In tale cornice di riecheggio deleuziano (cfr. Gilles Deleuze, Spinoza. Filosofia<br />
pratica, tr. it., Guerini e Associati, Milano 1998), il tentativo di articolare una visione<br />
fisicalista delle relazioni tra personalità e corporeità trova espressione nella<br />
rappresentazione antiaristotelica di una speciale corrispondenza tra il livello della<br />
costituzione passionale dell’individuo (le attitudini del corpo ad agire e a patire,<br />
all’affezione attiva e passiva) e le sue capacità di conoscenza distinta, che permea<br />
di sé l’ordito dei rapporti interindividuali nella proiezione collettiva della moltitudine.<br />
Per converso, nella riflessione critica di Jean Luc Nancy (cfr. Jean Luc Nancy,<br />
La comunità inoperosa, tr. it., Cronopio, Napoli 2003; Id., La creazione del mondo o<br />
la mondializzazione, tr. it., Einaudi, Torino 2003; Id., Essere singolare plurale, tr. it.,<br />
Einaudi, Torino 2001), l’opportunità del ricorso ad un’idea di “essere-in-comune”<br />
(che preceda lo stesso spazio della politica) si interseca – non certo per nominalismi<br />
di maniera – all’esplicitazione di perplessità investenti l’inadeguatezza categoriale<br />
del concetto di moltitudine, considerato nella sua accezione negriana: “[…] è<br />
necessario superare l’idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un’idea di naturalità,<br />
di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c’è» un popolo. Alla<br />
parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al<br />
concetto di Gemeinschaft, di Volk. […] Non credo che la moltitudine sia la soluzione:<br />
è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto<br />
di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si<br />
parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni<br />
Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone<br />
ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all’erotismo. In<br />
questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività<br />
amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l’impressione che<br />
la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda<br />
qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. È un concetto fragile<br />
perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia<br />
all’idea di un soggetto tradizionale.” (sequenze tratte dall’intervista pubblicata da<br />
«il manifesto» del 12 novembre 2005).<br />
Val senza dubbio la pena di considerare, conclusivamente, come la potenziale<br />
ontologizzazione del legame sociale postulato dal concetto di moltitudine rischi di<br />
condurre allo svuotamento del primato valoriale dell’individuo o ad una sua penetrante<br />
compromissione, mentre l’assolutizzazione sostanzialista della categoria di<br />
persona (nella sua connotazione di alterità singolare implicata dal superamento<br />
della prospettiva contrattualista) depriva di senso e comprime gli spazi delle istituzioni<br />
della consociazione politica.<br />
Per queste ragioni, il riconoscimento della costituzione passionale di individui<br />
e moltitudine non può ragionevolmente corrispondere all’ipostasi della rimozione<br />
148 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
dell’idea di modernità come transizione dal dominio delle passioni alla dimensione<br />
del confronto e della selezione degli interessi.<br />
Così, le aporie definitorie della moltitudine e dell’invocata potenza del numero<br />
(quali concetti di teoria politica), nonché i problemi dell’unanimità come volontà<br />
comune delle masse (della loro decisionalità e delle condizioni materiali dell’obbedienza),<br />
se per un verso concorrono indubbiamente a delineare un quadro di irrisolte<br />
complessità, per un altro verso testimoniano l’ineludibilità del cimento teoretico<br />
sul tema della reticolarità delle dinamiche della socialità collettiva post-moderna;<br />
di quella dinamica, più in particolare che rinviene nella moltitudine una necessaria<br />
(seppur imperfetta) nominazione. Ne scaturisce la consapevolezza di dover<br />
muovere, ancora una volta, alla ricerca di una forma giuridica e politica autentica;<br />
aspirazione a cui a ben vedere non si può mai realmente rinunciare.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
<br />
149
Una singolare mediazione di pace: La Pira in Vietnam<br />
• Quaranta anni fa, l’11 novembre 1965, il presidente nordvietnamita Ho Chi<br />
Minh ricevette ad Hanoi Giorgio La Pira. Pochi giorni dopo, questi raccontò così<br />
quell’incontro sorprendente:<br />
“Questo colloquio finale era stato preceduto, nei giorni precedenti, (8, 9, 10) da altri<br />
colloqui interlocutori, preparatori, avuti con i leaders politici del Vietnam (fronte<br />
della patria etc.): tutti questi ‘esami precedenti’ erano stati felicemente superati; ogni sospetto<br />
(sempre naturale in casi di tanto peso come il nostro) era stato vinto, la fiducia<br />
verso di noi era divenuta totale, e finalmente si poteva parlare francamente, a cuore libero<br />
con i massimi responsabili politici del Vietnam. Le conclusioni? Eccole in sintesi: –<br />
perché il negoziato di pace avvenga […] è necessario a) la cessazione […] di tutte le<br />
operazioni di guerra […] b) la dichiarazione secondo la quale gli accordi di Ginevra<br />
1954 vengono assunti come base del negoziato […] La novità emersa dai nostri colloqui<br />
[…] è questa: il governo di Hanoi è disposto ad iniziare il negoziato (O. Ci. Min<br />
ha detto: – sono disposto ad andare ovunque; ad incontrarmi con chiunque) senza prima<br />
esigere il ritiro effettivo delle truppe americane […] La difficoltà massima che si opponeva<br />
all’inizio dei negoziati era, appunto, costituita dal fatto che sino ad ora il Vietnam<br />
aveva richiesto, come atto preliminare ad ogni negoziato, l’effettivo ritiro di tutte<br />
le truppe […] il nostro colloquio si è svolto nel contesto di una situazione politica e storica<br />
così piena di complessità: perché non bisogna dimenticare che il Vietnam confina –<br />
e non solo geograficamente – con la Cina. Eppure nonostante questa vicinanza e le sue<br />
inevitabili conseguenze, l’apertura fatta verso di noi è stata davvero grande e davvero<br />
audace e impreveduta! ”.<br />
La mediazione italiana<br />
Religioni e Civiltà<br />
a cura di Agostino Giovagnoli<br />
• Ebbe così inizio un tentativo di mediazione “italiana” per fermare la guerra<br />
in Vietnam, le cui premesse si radicano lontano nel tempo, nel momento del di-<br />
150 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
stacco di La Pira e Fanfani, nel 1951, da Giuseppe Dossetti, con il quale aveva condiviso<br />
molte battaglie. Dossetti decise infatti allora di ritirarsi dalla lotta politica,<br />
giudicando irrealizzabili gli ideali che egli aveva cercato di seguire fino a quel momento,<br />
per i condizionamenti imposti dalla guerra fredda e per l’indisponibilità<br />
della Chiesa a sostenere il suo disegno. Secondo molte ricostruzioni, con il ritiro di<br />
Dossetti, si sarebbe esaurita la spinta ideale che aveva animato la Dc fino a quel<br />
momento e sarebbe iniziata per il partito una fase puramente pragmatica e di gestione<br />
del potere, grazie soprattutto al “tradimento” di Fanfani. Ma la permanenza<br />
di La Pira nella vita politica italiana dopo il ritiro di Dossetti indica che, tra i cattolici<br />
impegnati in politica, la spinta ideale non si esaurì con quel ritiro. La Pira, inoltre,<br />
ha parlato spesso della profonda amicizia che lo legava a Fanfani, indicando tra<br />
le tappe di ciò che egli chiamava un’“alleanza” nel senso biblico del termine proprio<br />
quanto avvenne nel 1951 e coinvolgendo nei suoi ricordi anche una terza importante<br />
figura, testimone e in qualche modo ispiratore del disegno storico e politico<br />
cui La Pira e Fanfani sono rimasti fedeli nei decenni successivi: Giovanni Battista<br />
Montini, allora Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, più tardi arcivescovo di<br />
Milano e infine papa con il nome di Paolo VI. Dall’incontro con Montini che avvenne<br />
il giorno dell’Epifania del 1951, scaturì, secondo La Pira un vasto disegno<br />
religioso, storico e politico che lo portò a scrivere una lettera a Stalin, a diventare<br />
sindaco di Firenze, ad organizzare i convegni sulla Pace e sulla civiltà, ad incontrare<br />
Chruscev e molto altro, fino al viaggio ad Hanoi del 1965.<br />
Il sindaco di Firenze è stato spesso accusato di ingenuità, di debolezza e o, addirittura,<br />
di complicità nei confronti dei comunisti, ma il suo disegno era chiaramente<br />
orientato in senso anticomunista. Le loro parole nei confronti dell’Occidente<br />
furono spesso severe, riguardo però soprattutto alle scelte compiute dagli occidentali<br />
sul modo di presentarsi al mondo, esaltando il mercato o la libertà individuale.<br />
La Pira, infatti, valorizzava l’Occidente sotto un profilo diverso e cioè come<br />
espressione della civiltà cristiana. Non era dunque l’Occidente in quanto tale che<br />
egli respingeva, ma un certo modo di interpretarne l’identità e le conseguenze che<br />
ne scaturivano nella politica internazionale, soprattutto in riferimento ai paesi<br />
emergenti dell’Asia e dell’Africa. Analogamente, La Pira criticava alcuni comportamenti<br />
americani nel mondo, contrapponendo però l’immagine positiva di un’altra<br />
America e alla richiesta non di abbandonare il “primato” americano bensì di interpretarlo<br />
in altro modo, svolgendo quella funzione di “pilotaggio” del mondo<br />
conforme alla missione che la storia assegnava agli Stati Uniti. Per La Pira, insomma,<br />
l’emergere di un inedito confronto culturale a livello planetario richiedeva all’Occidente<br />
di riproporre in modo radicalmente nuovo e convincente il suo ruolo<br />
di “guida”. Il suo era un “occidentalismo” che guardava il mondo non da Washington<br />
ma da Roma: egli non rifiutava un approccio occidentale ma lo subordinavano<br />
ad una superiore prospettiva universalistica e, alla luce di tale prospettiva, egli intuiva<br />
che prove di forza come la guerra in Vietnam erano profondamente controproducenti<br />
per conquistare alla causa occidentale il Terzo mondo.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
151
L’apertura di Hanoi<br />
• Una settimana dopo l’incontro di Hanoi, Fanfani – che si trovava a New<br />
York – venne informato della disponibilità vietnamita da un dettagliato resoconto<br />
di La Pira. Egli decise di agire subito nella vesta che egli rivestiva allora di Presidente<br />
dell’Assemblea delle Nazioni Unite ed incontrò l’ambasciatore americano all’O-<br />
NU, Goldberg, attraverso cui inviò a Johnson una lettera con l’informazione della<br />
disponibilità nordvietnamita. Pochi giorni dopo, La Pira scriveva ad Ho Chi<br />
Minh:<br />
“Signor Presidente e caro amico, questa lettera vuole esprimerVi il ringraziamento<br />
profondo, cordiale per l’accoglienza – indimenticabile, piena di calore e di amicizia –<br />
che Primicerio ed io abbiamo ricevuto ad Hanoi da parte Vostra […] Noi vi portiamo,<br />
tutti voi, nel nostro cuore e noi preghiamo e agiamo ogni giorno – e possiamo dire a ciascuna<br />
ora del giorno – perché il temporale triste e doloroso che affligge ancora il popolo<br />
eroico del Vietnam possa finire e perché l’arcobaleno della pace possa apparire su tutta<br />
la Nazione vietnamita e, di conseguenza, sull’orizzonte di tutte le nazioni […] Noi<br />
siamo impegnati ad operare ai livelli più alti – spirituali, culturali, politici – del mondo;<br />
e noi abbiamo la sensazione che, malgrado le resistenze che si oppongono alla nostra<br />
azione, qualcosa sia in movimento, nelle sedi più alte e decisionali […] Grazie ancora,<br />
con tutto il mio cuore, e che la Vergine Maria ci aiuti”.<br />
Ma il Segretario di Stato americano, Dean Rusk lasciò passare diversi giorni<br />
prima di chiedere ufficialmente a Fanfani chiarimenti sulla proposta vietnamita,<br />
che il Presidente dell’Assemblea ONU si affrettò a comunicare ad Hanoi attraverso<br />
un canale riservato indicatogli da La Pira e di cui constatò immediatamente l’efficacia.<br />
Ma l’iniziativa di La Pira e di Fanfani fu inaspettatamente bruciata da un’improvvisa<br />
fuga di notizie e soprattutto dalle successive dichiarazioni ufficiali del Dipartimento<br />
di Stato, cui seguì la smentita di Hanoi della disponibilità attestata da<br />
La Pira (anche se la smentita non contraddiceva la testimonianza lapiriana). In sostanza,<br />
come scrisse parte della stampa americana, i falchi di Washington e quelli<br />
di Pechino si unirono per affondare l’iniziativa, mentre a Mosca si sperava invece<br />
in uno sviluppo positivo dell’iniziativa La Pira-Fanfani.<br />
Le reazioni in Italia<br />
In Italia, furono sollevati molti dubbi sull’iniziativa. Si disse che Ho Chi Minh<br />
non aveva manifestato alcuna autentica disponibilità nel suo incontro con La Pira<br />
e che quindi quest’ultimo si sarebbe inventato o avrebbe amplificato l’apertura<br />
nordvietnamita. Ma la disponibilità di Hanoi ad accontentarsi di una semplice dichiarazione<br />
americana di un ritiro delle truppe non fu attestata solo da La Pira:<br />
nello stesso periodo, i diplomatici occidentali ne ebbero notizia anche dai governi<br />
dell’Europa orientale. Fanfani, poi, fu accusato da una parte della stampa italiana<br />
di leggerezza per aver avallato un’iniziativa che gli americani non avrebbero mai<br />
152 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
preso veramente sul serio e Malagodi definì la sua opera “ridicola per non dire<br />
grottesca”. Ma tali accuse sembrano smentite dall’attenzione dimostrata dagli americani,<br />
dalla loro richiesta di chiarimenti e persino dai tentativi di screditare la controparte,<br />
mettendone in luce le ambiguità, difendendosi contemporaneamente<br />
dalle accuse di una gestione affrettata della questione. A La Pira, inoltre, è stata attribuita<br />
la colpa della divulgazione della notizia, il che costituirebbe un’altra dimostrazione<br />
della sua ingenuità e della sua mancanza di serietà. Ma non è certo che la<br />
notizia sia stata rivelata – indirettamente – da La Pira e, in ogni caso, la complessa<br />
dinamica della vicebda mette in luce che l’amministrazione americana era infastidita<br />
dall’iniziativa e che contribuì ad una dettagliata diffusione di particolari sui<br />
contatti in corso, pur sapendo che ciò avrebbe provocato la reazione cinese e la<br />
conseguente smentita nordvietnamita. Insomma, anche se la fuga di notizie non fu<br />
provocata dal Dipartimento di Stato, il successivo comportamento del governo<br />
americano fu decisivo per “bruciare” l’iniziativa italiana: Washington non voleva<br />
aprire il dialogo con Hanoi. Il giorno dopo il fallimento dell’iniziativa, Paolo VI –<br />
costantemente informato da La Pira di tutta la vicenda – si affacciò a San Pietro<br />
per invocare la pace in Vietnam e il presidente Johnson dovette inviare in tutta<br />
fretta Goldberg a Roma per chiudere l’“incidente”.<br />
Com’è noto, la vicenda ebbe uno strascico tutto italiano. Il 20 dicembre<br />
1965 La Pira concesse, in casa Fanfani, mentre questi era ancora a New York,<br />
un’intervista a Gianna Preda, giornalista de «Il Borghese». L’intervista mostrò<br />
un’immagine totalmente inattendibile di La Pira, secondo la quale il comunismo<br />
era già stato sconfitto, la Cina non rappresentava un serio pericolo, il governo americano<br />
non capiva che cosa stava succedendo nel mondo, Paolo VI era troppo esitante,<br />
Moro troppo debole, i socialisti poco convincenti e Pietro Ingrao degno di<br />
grande stima. In realtà, molte affermazioni attribuite a La Pira da Gianna Preda assumono<br />
un’altra luce se rapportate alla sua ampia visione storica e religiosa ed il<br />
motivo del suo filocomunismo, che ispira l’intervista, appare complessivamente<br />
infondato. Ma per «Il Borghese» il punto cruciale era soprattutto un altro e cioè<br />
l’ammirazione per De Gaulle cui La Pira avvicinava Fanfani, sempre nell’ottica del<br />
suo vasto disegno storico-religioso. Nel clima dell’epoca, l’accostamento divenne la<br />
dimostrazione che Fanfani sfruttava il suo ruolo di ministro degli Esteri per costruire<br />
una personale posizione di potere. L’intervista provocò le dimissioni di Fanfani.<br />
L’iniziativa italiana venne giudicata seria da «Le Monde». Oltre a fondarsi su<br />
informazioni attendibili, non assunse valenze antiamericane e si presentò come un<br />
modo per aiutare l’alleato in una situazione difficile. La Pira perseguì l’obiettivo<br />
della pace nella convinzione che la guerra del Vietnam, oltre che dolorosa per il popolo<br />
vietnamita, fosse anche pericolosa per il mondo intero e dannosa per gli stessi<br />
americani. La sua azione si svolse nella convinzione che l’Occidente dovesse sviluppare,<br />
valendosi della sua tradizione cristiana, un’iniziativa lungimirante ed efficace<br />
per conservare e sviluppare il suo ruolo nel mondo, estendendo la sua influenza anche<br />
nei paesi dell’Africa e dell’Asia e contrastando l’influenza comunista. Essa si<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
153
sviluppò, inoltre, nella consapevolezza che il sistema internazionale non poteva<br />
ignorare la presenza cinese e che la Cina doveva essere coinvolta per costruire un<br />
solido equilibrio di pace nel mondo. In questo senso, tale iniziativa si proiettava oltre<br />
il confronto bipolare, assumendo implicitamente quella prospettiva multipolare<br />
che la stessa diplomazia americana avrebbe esplicitamente assunto pochi anni<br />
più tardi. In questo modo, La Pira anticipò situazioni e problemi che oggi sono<br />
sotto gli occhi di tutti, come la complessa questione del rapporto fra l’Occidente e<br />
il resto del mondo, al di là del conflitto bipolare determinato dalla guerra fredda.<br />
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C’è o non c’è?<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Il “Corsivo”<br />
a cura di Giorgio Tupini<br />
• Don Ferrante avrebbe un gran daffare. Armato dei suoi libri di manzoniana<br />
memoria, aveva sentenziato che tutto quel trambusto attorno alla peste era ridicolo<br />
perché la peste non c’era né poteva esserci, non essendo “né sostanza né accidente”.<br />
Ma di peste morì.<br />
Ora, bisognerebbe interpellarlo sulla questione morale tornata di nuovo alla ribalta<br />
in un temporale di agosto: c’è o non c’è?<br />
Rutelli, sfogliando la Margherita, dice di sì per la promiscuità tra politica e affari<br />
degli alleati. I Ds si offendono e respingono, Prodi come al solito media, il centrodestra<br />
monta a cavallo, ma Amato cala il sipario proclamando alla festa dell’Unità<br />
che si tratta di “una vergognosa invenzione”. D’accordo con Don Ferrante dice<br />
che non c’è. Porta male.<br />
Così, polverone dopo polverone, l’attenzione è distratta da problemi reali, tra i<br />
quali sta una questione morale più profonda di quella sollevata dalla scalata bancaria<br />
delle cooperative. Nel ritratto della politica di casa nostra qualche lineamento si<br />
è alterato.<br />
All’autocontrollo, alla riservatezza, insomma alla serietà di statisti come De<br />
Gasperi, Einaudi e altri fondatori della Repubblica si è sostituita la ricerca spasmodica<br />
della visibilità, della quotidiana “dichiarazione” facile e superflua, che consente<br />
la citazione altrettanto superflua dei media di pubblico e privato servizio. Sulle<br />
TV vanno in scena ormai le maschere e si intuisce, appena appaiono, quel che dirà<br />
Meneghino o Pantalone, Arlecchino o Gianduia, Pulcinella o Todaro Brontolòn.<br />
Ancora: gli atteggiamenti demagogici attraversano tutti gli schieramenti dimentichi<br />
che si governa anche con il “no” e non attenti a una certa reazione montante<br />
dei cittadini, che amerebbero più rispetto verso il proprio buon senso e il proprio<br />
portafogli (ricordiamo soltanto un capolavoro della demagogia domestica: la distruzione<br />
delle centrali elettriche nucleari, che fruttò voti ad alcuni e grosse perdite<br />
al Paese, che ora versa milioni di euro agli avveduti produttori francesi e svizzeri di<br />
energia nucleare!)<br />
155
Ancora: se negli anni della ricostruzione democratica la politica era considerata<br />
da molti un servizio, ora si assiste ad un ingrossamento procace di emolumenti e<br />
appannaggi. Sembra che siano quasi duecentomila gli stipendi, a volte d’oro, che<br />
interessano i rappresentanti popolari, dai parlamentari europei e nazionali ai reggitori<br />
regionali, provinciali e comunali, senza dimenticare i finanziamenti ai partiti,<br />
ai giornali dei partiti, le auto blu, ecc. È inutile rispondere che “la politica ha i suoi<br />
costi” e trattare con fastidio chi avanza riserve. È un fatto che da noi i costi sono di<br />
gran lunga superiori a quelli europei e nordamericani, ingenerano la maliziosa interpretazione<br />
che certi decentramenti siano voluti anche per la relativa moltiplicazione<br />
dei pani e companatici e provocano insofferenze, disaffezioni, astensionismi,<br />
fughe verso gli estremismi contrapposti. Ora si promette di fare qualche ulteriore<br />
meritoria limatura con la finanziaria di Tremonti, ma come dimenticare che gli<br />
Stati Uniti, con una popolazione cinque volte superiore alla nostra, hanno una Camera<br />
con cento Senatori?<br />
Ma fermiamoci qui. Un corsivo non può essere troppo serioso. Non abbiamo<br />
scomodato infatti nessun alfiere della morale, né Aristotele né Tommaso, né Socrate<br />
né Agostino, né Kant né contemporanei come Mc Intyre o Willams o Scalfari<br />
(alla ricerca, con il suo Voltaire della “morale perduta”). Partiti dalla questione morale<br />
di agosto siamo arrivati pienamente a Esopo, dalla morale della favola che è il<br />
deterioramento della politica. Anche etico.<br />
Ruini e Porta Pia<br />
• Il rosso va bene se non è porpora. Sta diventando il tormentone di molti<br />
compagni di vecchio e nuovo conio. Si chiama “Ruini”, come dicono, tralasciando<br />
quel “cardinale”, che potrebbe complicare il dialogo con gli elettori cattolici.<br />
Il benedetto Cardinale, dopo aver lasciato il segno nei referendum sulla legge<br />
40, ora potrebbe fare il bis con il Pacs promossi da Prodi, Ds, Verdi, Rifondatori<br />
comunisti, Arcigay e perfino da qualche compiacente esponente del centrodestra.<br />
Finimondo. Tutto il sommerso dell’anticlericarlismo ottocentesco si mobilita.<br />
Quelli votati al compito di intercettare il voto cattolico si sforzano di spiegare, interpretare,<br />
retrocedere, ma sono presi in contropiede dagli squadristi rossi di Siena,<br />
che vorrebbero tappare – democraticamente, si intende – la bocca al cardinale. Rutelli<br />
per la seconda volta prende in castagna gli alleati e ammonisce: “non è detto<br />
che una posizione che si dimostri prevalente nel centrosinistra sia effettivamente<br />
prevalente nel Paese, tanto più se il suo profilo, piuttosto che laico e pluralista, si<br />
manifesti fortemente come laicista”. Che strano, meglio di Scoppola, che fa la predica<br />
alla Chiesa invitandola, con Ruini, a essere più attenta ai “valori della pietà”.<br />
Giacché un corsivo è un corsivo – l’abbiamo già scritto sopra – e non può essere<br />
troppo serioso, non ci addentriamo oltre. Però due osservazioni vogliamo farle.<br />
La prima è che qualcuno deve ancora capire che vi sono valori morali, pre-politici,<br />
che molta gente ritiene più importanti delle polemichette elettorali in chiave<br />
156 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
di vecchio fondamentalismo laicista. Perfino Antonio Gramsci osservava che il sentimento<br />
religioso cristiano-cattolico e il rapporto profondo con la Chiesa di Roma<br />
sono gli unici veri caratteri originali delle genti italiche.<br />
La seconda è che ai degasperiani non dell’ultim’ora irrita l’ipocrisia di chi, a destra<br />
o a sinistra, tira in ballo il vecchio Presidente a spoposito e per trarne indebito<br />
profitto.<br />
L’uomo che difese sempre la laicità dello Stato, che si oppose all’operazione<br />
<strong>Sturzo</strong> e a ogni invasione di campo, fu al tempo stesso difensore intransigente di<br />
tutte le libertà a cominciare da quella religiosa. Scriveva nel 1950: “Dio non abbandonerà<br />
l’Italia se resterà fedele alla sua missione di difendere la libertà della sua Chiesa<br />
e di difendere il patrimonio della sua civiltà”.<br />
Ma tant’è. Una volta le correnti risorgimentali venate di massoneria – da Mazzini<br />
a Garibaldi, da Crispi a Carducci – si pascevano della Questione Romana. Ora<br />
che la Questione è archiviata e Porta Pia è spalancata sulla Capitale, l’integralismo<br />
anticlericale cerca di ravvivarsi con il linguaggio di Podrecca. E così un radicale<br />
transnazionale, new entry dell’area centrosinistra, invita il Cardinale “a farsi una<br />
canna”.<br />
Meglio Peppone.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
<br />
157
Mondo<br />
Novità in libreria<br />
a cura di Valerio De Cesaris<br />
Mark Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Laterza, Roma-Bari 2005,<br />
252 pp., € 18,00<br />
Dopo la Storia e politica dell’Unione europea di Giuseppe Mammarella e Paolo<br />
Cacace, Laterza propone la Storia politica dell’integrazione europea di Mark Gilbert,<br />
che prende le mosse dal secondo dopoguerra. Si tratta di un’analisi operata da chi,<br />
formatosi in Inghilterra, non può non porre in rilievo il «rapporto spesso burrascoso<br />
della Gran Bretagna con i suoi partner europei». L’autore nota che «quasi tutta<br />
la storiografia dell’integrazione europea è scritta da esponenti del movimento europeo,<br />
cioè secondo la prospettiva di persone che attribuiscono un notevole valore<br />
etico-politico allo sviluppo delle istituzioni comunitarie». Gilbert, tentando un approccio<br />
più “imparziale”, sottolinea la compresenza di fattori morali e scelte pragmatiche<br />
nei vari passaggi della costruzione dell’Unione, in uno svolgimento dei<br />
fatti complesso e per certi versi imprevedibile. Al punto che «l’integrazione europea<br />
non è per nulla un processo lineare» o, come affermava Andrew Shonfield, è<br />
«un viaggio verso una destinazione sconosciuta».<br />
Mario Giro, Gli occhi di un bambino ebreo, Guerini, Milano 2005, 136 pp., € 12,50<br />
«Al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati<br />
verso di me e mi hanno fissato, con uno sguardo di purezza, d’innocenza. Sembrava<br />
non capissero. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore, che<br />
non so ancora spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare parere…». È Merzoug Hamel<br />
che parla, un terrorista islamico che racconta la sua storia, dal fondo di un carcere<br />
marocchino. È stato condannato a morte anche se non ha voluto uccidere. Il libro<br />
è significativo, è il racconto della vita di un giovane beur dell’emigrazione in Francia,<br />
in tutto simile a quelli che sono stati protagonisti delle cronache recenti. Merzoug<br />
incappa nelle reti della reislamizzazione dal basso e del terrorismo nei primi<br />
158 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
anni Novanta. L’autore narra bene come “si crea un terrorista”: la parabola di un<br />
giovane sradicato che crede di ritrovare identità nel gruppo islamico fino a giungere<br />
con un mitra davanti alla sinagoga di Casablanca in Marocco. Si tratta degli attentati<br />
di metà anni ’90, i primi nel paese nordafricano che ne subirà in seguito altri,<br />
molto più micidiali, come quelli del 2003. La storia di Merzoug termina tuttavia<br />
in maniera inaspettata: all’ultimo istante egli si ravvede e decide di non uccidere.<br />
Il lavaggio del cervello che ha subito non ha cancellato del tutto la sua umanità.<br />
Non si è mai pentito di non aver sparato, anche se è chiuso in un carcere di massima<br />
sicurezza. La sua è una storia emblematica che lascia intravedere una luce di<br />
speranza nel nostro tempo dominato dalla paura del terrorismo.<br />
Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano<br />
2005, 510 pp., € 22,00<br />
L’ormai classico studio di Zinn, edito per la prima volta nel 1980, è ora pubblicato<br />
anche in italiano. Lo storico americano, noto per le sue posizioni radicali<br />
e per il suo impegno pacifista, contesta le ricostruzioni “ufficiali” della storia statunitense,<br />
in cui viene sempre presentata una nazione compatta e convinta dei<br />
propri ideali. Zinn analizza invece le contraddizioni interne del paese, gli errori<br />
in politica estera, le forme di oppressione che ancora esistono nel più potente<br />
paese della terra. La sua è una storia dei “vinti”, delle minoranze. Vi è descritto il<br />
genocidio degli indios, la schiavitù, le discriminazioni razziali, la difficile emancipazione<br />
delle donne. Si può essere d’accordo o meno con la sua ricostruzione<br />
della storia americana, ma certamente essa ha il fascino di porre problemi a lungo<br />
rimossi e dalla storiografia e dalla coscienza nazionale. Il volume di Zinn restituisce<br />
la complessità di tanti fenomeni storici, nel paese che è forse il più plurale<br />
al mondo.<br />
Sébastien Fath, In God We Trust. Evangelici e fondamentalisti cristiani negli Stati<br />
Uniti, Lindau, Torino 2005, 272 pp., € 24,00<br />
Il volume di Fath, storico francese esperto di questioni religiose statunitensi, è<br />
incentrato sul Sud degli Stati Uniti, la cosiddetta Bible Belt. L’intento dell’autore è<br />
di spiegare i tratti del messianismo americano, tante volte incompreso in Europa,<br />
ripercorrendone la storia. Ne emerge un’interessante interpretazione della «religione<br />
civile» americana, intrisa di riferimenti religiosi. Vi si legge anche la differenza<br />
tra Nord e Sud del paese, oggi attenuata rispetto al passato ma sempre considerevole.<br />
Le moltissime denominazioni cristiane degli Stati Uniti – quasi mille – hanno<br />
caratteri e orientamenti politici diversi tra loro, talvolta diametralmente opposti.<br />
La “democraticità” del sistema americano permette la sopravvivenza di ciascuna di<br />
esse e crea una sorta di competizione tra chiese, che rende il cristianesimo evangeli-<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
159
co molto dinamico. Le grandi questioni della storia americana, quali la schiavitù e<br />
la segregazione razziale, le guerre, persino le relazioni internazionali con altri Stati<br />
sono state sempre influenzate dal pensiero delle più grandi chiese americane, prima<br />
tra tutte la Southern Baptist Convention.<br />
Alberto Bobbio, Truccarsi a Sarajevo. Storia e storie di un assedio dimenticato, Edizioni<br />
Messaggero Padova, Padova 2005, 118 pp., € 7,50<br />
Il piccolo libro di Alberto Bobbio nasce dall’aver visto la guerra e dall’aver incontrato<br />
donne e uomini che della guerra sono stati vittime. Bobbio è stato a<br />
lungo inviato speciale di «Famiglia Cristiana» nei Balcani. Nei primi anni Novanta<br />
era a Sarajevo, dove ha vissuto i tragici momenti dell’assedio serbo alla<br />
città. L’opinione pubblica internazionale era allora concentrata su altri avvenimenti,<br />
primo tra tutti la guerra del Golfo. Eppure la dissoluzione della Jugoslavia<br />
segnava «la fine di un’epoca e anche di un mito, quello della “fratellanza e dell’unità”».<br />
Segnava, anche, il primo conflitto in Europa dalla fine della seconda<br />
guerra mondiale. Bobbio non ha scritto un libro di storia né un’interpretazione<br />
geopolitica degli avvenimenti, si è limitato a raccontare le storie di coloro che ha<br />
incontrato in Bosnia in quegli anni drammatici. «Chi dimentica un crimine ne<br />
diventa complice», diceva Voltaire. Il libro di Alberto Bobbio è importante perché<br />
aiuta a non dimenticare.<br />
Storia del cristianesimo<br />
Roberto Morozzo della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori,<br />
Milano 2005, 440 pp., € 20,00<br />
La vicenda di Oscar Arnulfo Romero, vescovo martire, assassinato sull’altare<br />
il 24 marzo 1980, è densa di significato per la Chiesa del nostro tempo. La sua figura<br />
«resta controversa e carica di opposti significati: profeta e sovversivo, martire<br />
e rivoluzionario, uomo della Chiesa e uomo della politica, pastore d’anime e<br />
caudillo, fautore del dialogo e agitatore della piazza». A distanza di venticinque<br />
anni dalla sua morte, El Salvador celebra Romero con larghi onori. La Chiesa ha<br />
avviato un processo di beatificazione e la vox populi lo descrive già come un martire.<br />
Nel suo bel libro Morozzo della Rocca restituisce la complessità di un uomo<br />
profondamente radicato nella Chiesa cattolica, che matura un percorso di vicinanza<br />
ai poveri e di difesa dei deboli. Le sue posizioni divennero presto invise alle<br />
oligarchie salvadoregne, che controllavano il paese attraverso i militari. Agli<br />
insulti e alle minacce seguirono i fatti: il pomeriggio del 24 marzo 1980, mentre<br />
l’arcivescovo di San Salvador celebrava la messa, si udì uno sparo proveniente da<br />
uno degli accessi della chiesa. «Erano passati pochissimi secondi dalla fine dell’o-<br />
160 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
melia. Romero cadde a fianco dell’altare». Morì poco dopo l’arrivo in ospedale,<br />
all’età di 62 anni. Nella storia della Chiesa, quella di Oscar Romero è una delle<br />
vicende più note di quel Novecento che Andrea Riccardi ha efficacemente definito<br />
«il secolo del martirio».<br />
Agostino Giovagnoli (a cura di), La Chiesa e le culture. Missioni cattoliche e «scontro<br />
di civiltà», Guerini, Milano 2005, 256 pp., € 20,50<br />
La Chiesa, nella sua lunga storia, si è trovata a contatto con culture diverse, le<br />
ha valorizzate, ha vissuto con continuità lo «slancio universalistico» che la caratterizza.<br />
Il volume affronta dal punto di vista storico il decisivo nodo del rapporto<br />
con l’«altro», in un tempo in cui l’incontro tra culture diverse sembra, per molti,<br />
condurre inevitabilmente allo «scontro di civiltà». Dall’America Latina ai Balcani,<br />
dal Senegal e dall’Algeria alla Cina, la Chiesa è entrata in contatto e in dialogo<br />
con culture complesse pur mantenendo salda la propria identità. Dalla vecchia<br />
prospettiva dell’«adattamento» alle culture si è passati nel corso del Novecento all’idea<br />
dell’«inculturazione», nel tentativo di rendere accessibile a tutti la vita cristiana.<br />
La tentazione di “piegare” la Chiesa alle esigenze di una determinata civiltà,<br />
quella occidentale, è oggi pressante, ma la Chiesa non intende identificarsi<br />
esclusivamente con una cultura, né mostrarsi «relativisticamente indifferente verso<br />
tutte le culture».<br />
Andrea Tornielli, Matteo L. Napolitano, Pacelli, Roncalli e i battesimi della Shoah,<br />
Piemme, Casale Monferrato (Al) 2005, 192 pp., € 11,50<br />
Le questioni che riguardano l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla deportazione<br />
e allo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale continuano<br />
a suscitare un interesse vasto, per le profonde ferite lasciate da quegli<br />
anni e per la passione che anima il lavoro degli studiosi su questi temi. Il 28 dicembre<br />
2004 Alberto Melloni sul «Corriere della Sera» ha pubblicato un documento<br />
che «è piombato come un macigno sul dibattito storiografico relativo a<br />
papa Pacelli». Vi si leggeva – secondo l’interpretazione di Melloni – l’intenzione<br />
di Pio XII di non restituire alle famiglie i bambini ebrei che erano stati ospitati<br />
durante la guerra negli istituti religiosi in Francia, e che erano stati battezzati.<br />
La questione ha suscitato un intenso confronto giornalistico, particolarmente<br />
sulle pagine del «Corriere della Sera» e di «Avvenire», e ha coinvolto numerosi<br />
storici ed editorialisti. Tornielli e Napolitano hanno approfondito la vicenda,<br />
giungendo a conclusioni diverse da quelle di Melloni: «Non ci sono stati battesimi<br />
di massa e gli ebrei salvati dalla Chiesa non sono stati costretti ad abbracciare<br />
la fede cattolica».<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
161
Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia,<br />
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 406 pp., € 35,00<br />
Il volume di mons. Marchetto nasce come “contrappunto”, in opposizione all’interpretazione<br />
che del concilio ha dato l’<strong>Istituto</strong> per le scienze religiose di Bologna<br />
guidato da Giuseppe Alberigo. La monumentale Storia del concilio Vaticano II<br />
diretta da Alberigo e pubblicata in sei lingue dà – secondo Marchetto – un’idea distorta<br />
del Vaticano II, presentato come una cesura netta rispetto al passato e soprattutto<br />
come “spirito” nuovo, al di là del carattere più o meno di novità dei suoi<br />
documenti. Per gli storici dell’<strong>Istituto</strong> per le scienze religiose di Bologna lo “spirito”<br />
del concilio, più importante dei testi prodotti, sarebbe incarnato da Giovanni<br />
XXIII, mentre Paolo VI avrebbe in qualche modo soffocato tale spirito negli anni<br />
seguenti. Questa interpretazione viene bollata come ideologica, così come quella<br />
per cui al concilio si ebbe uno scontro tra «Curia conservatrice» e «teologi progressisti».<br />
Per Marchetto il concilio non segna affatto «il nascere di una nuova Chiesa»,<br />
ma si situa pienamente in continuità con i concili precedenti.<br />
Giuseppe Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano II, il Mulino, Bologna 2005,<br />
202 pp., € 10,50<br />
Alberigo offre una sintesi del Vaticano II a partire dalle proprie esperienze personali,<br />
essendo egli stato testimone diretto dei lavori conciliari. L’idea di una “breve<br />
storia”, dopo i cinque volumi – e le quasi tremila pagine – della Storia del concilio<br />
Vaticano II, nasce dall’esigenza di produrre un’opera divulgativa, che non sia per<br />
soli specialisti. Il punto di vista di Alberigo è molto diverso da quello di Agostino<br />
Marchetto. Il cuore della sua interpretazione è il concilio stesso come evento: «La<br />
carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con la storia,<br />
l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini hanno caratterizzato il Vaticano II.<br />
Pertanto appare più forte la priorità del fatto “concilio”, in quanto evento che ha<br />
raccolto un’assemblea deliberante di oltre duemila vescovi, anche rispetto alle sue<br />
decisioni, che non possono essere lette come astratte e fredde norme, ma come<br />
espressione e prolungamento dell’evento stesso». Inoltre, egli insiste molto sul ruolo<br />
avuto al concilio da Giuseppe Dossetti. Le due diverse “letture” del Vaticano II –<br />
quella di Marchetto e quella di Alberigo – sono entrambe interessanti per chi voglia<br />
approfondire la storia del concilio.<br />
Simona Merlo, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola II a Stalin<br />
(1905-1939), Guerini, Milano 2005, 444 pp., € 29,50<br />
Il libro affronta una storia locale, quella della Chiesa di Kiev nel primo Novecento,<br />
ed è al tempo stesso una finestra sull’ortodossia slava. È la vicenda di una<br />
162 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Chiesa che vive anni di risveglio dopo la rivoluzione del 1905 e che tenta un rinnovamento<br />
istituzionale, reso impossibile dalla successiva rivoluzione del 1917. Il cristianesimo<br />
subisce un processo di «estraniazione dal tessuto sociale» del paese, fino<br />
agli anni drammatici del «grande terrore» staliniano. Kiev in quegli anni è una città<br />
«russo-ucraina», secondo la definizione di Zen’kovskij, e le sorti della grande Russia<br />
sono inevitabilmente anche quelle della “piccola” Ucraina. Per l’ortodossia keviana,<br />
come per quella russa, si apre un periodo «di libertà e servitù insieme, di sofferenze<br />
e di speranze, infine di persecuzione e martirio». Simona Merlo utilizza una<br />
copiosa documentazione in ucraino e in russo e offre, con il suo libro, una ricostruzione<br />
importante per comprendere la storia delle Chiese ortodosse nei primi<br />
decenni del XX secolo.<br />
Antisemitismo<br />
Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX<br />
secolo. Vol. 1: La crisi dell’Europa: le origini e il contesto, a cura di Marina Cattaruzza,<br />
Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, UTET, Torino 2005,<br />
XVII-1188 pp., € 45,00<br />
La Shoah, un unicum nella storia mondiale, non smette di coinvolgere gli storici<br />
in dibattiti e interpretazioni. L’iniziativa di pubblicare una imponente Storia della<br />
Shoah, che raccolga gli interventi di oltre cinquanta tra i maggiori studiosi sull’argomento,<br />
è senza dubbio meritevole. Si tratta di un’opera che intende fare il<br />
punto sulla storiografia relativa all’Olocausto, collegando gli avvenimenti della seconda<br />
guerra mondiale ad una più generale crisi dell’Europa iniziata nell’Ottocento.<br />
Il primo volume affronta appunto la «crisi dell’Europa», dando risalto al contesto<br />
generale in cui si affermò l’antisemitismo nazista, alle premesse ideologiche di<br />
esso, agli antecedenti storici dell’antisemitismo. Il secondo volume si occuperà degli<br />
anni della distruzione degli ebrei; il terzo di «riflessioni, luoghi della memoria,<br />
risoluzioni»; il quarto di «eredità, rappresentazioni, identità»; il quinto volume sarà<br />
infine una raccolta di documenti. Tre DVD video (1. Il processo di Norimberga; 2.<br />
Il processo Eichmann; 3. Il Tribunale dei Giusti) e un CD-rom ipertestuale completeranno<br />
l’opera.<br />
Milena Santerini, Antisemitismo senza memoria. Insegnare la Shoah nelle società multiculturali,<br />
Carocci, Roma 2005, 220 pp., € 18,60<br />
L’ostilità antiebraica è uno dei fenomeni di più lunga durata negli ultimi duemila<br />
anni, seppure in forme molto diverse tra loro. Innestandosi sul tradizionale<br />
antigiudaismo religioso, diffuso principalmente nell’Europa cristiana, l’antisemitismo<br />
moderno si è affermato nel XIX secolo con caratteri politici e razziali, fino alla<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
163
tragedia della Shoah. A seguito della costituzione dello Stato d’Israele i temi dell’antisemitismo<br />
europeo si sono diffusi nel mondo islamico, alimentando una contrapposizione<br />
violenta. Milena Santerini mette in guardia contro il pericolo di un<br />
“nuovo” antisemitismo nell’èra della globalizzazione, che recupera gli antichi stereotipi<br />
contro gli ebrei ma che si esprime in forme nuove e viene veicolato da più<br />
capillari e informali mezzi di comunicazione, come internet. L’autrice, docente di<br />
pedagogia, si interroga su come portare avanti un efficace progetto educativo che<br />
realizzi – a partire dalle scuole – «un confronto interculturale aperto e pluralistico<br />
che aiuti a superare gli stereotipi e l’intolleranza». Un libro rivolto in particolare a<br />
insegnanti ed educatori, ma che offre una riflessione estremamente interessante per<br />
tutti.<br />
Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita,<br />
Garzanti, Milano 2005, 510 pp., € 25,00<br />
Giorgio Fabre dà un’interpretazione della parabola umana di Mussolini, dal socialismo<br />
alla presa del potere fino alla politica razziale, inedita nella storiografia italiana.<br />
In genere infatti Mussolini è presentato come un «razzista riluttante», che<br />
avrebbe deciso di promulgare le leggi razziali solo in virtù dell’avvicinamento alla<br />
Germania nazista. Il libro di Fabre, che ha suscitato le critiche degli storici defeliciani,<br />
sostiene che «anche prima del 1938 l’azione razzista e antisemita di Mussolini<br />
fu ampia e talvolta violenta, anche se per lo più segreta». A supporto delle proprie<br />
tesi Fabre porta molti documenti, alcuni molto interessanti. Il primo di essi è<br />
una lettera del 1929 indirizzata da Mussolini a Bonaldo Stringher, governatore della<br />
Banca d’Italia, in cui si chiedeva che Ugo Del Vecchio, Direttore della filiale di<br />
Genova della Banca d’Italia, fosse sollevato dal suo incarico. In tale lettera si sottolineava<br />
che Del Vecchio era «israelita». Dai documenti citati da Fabre risulta che<br />
Mussolini cambiò atteggiamento solo quando seppe dal prefetto di Genova che<br />
l’ultimogenito di Del Vecchio era stato battezzato. Questa e altre vicende documentate<br />
nel libro dimostrano che la tesi di Giorgio Fabre merita di essere presa in<br />
considerazione.<br />
Michele Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi,<br />
Torino 2005, 170 pp., € 8,50<br />
Il libro è una sintesi della vicenda della Shoah e ha il pregio di essere fruibile<br />
per un pubblico vasto. È infatti destinato innanzitutto al mondo della scuola. L’autore<br />
si è a lungo occupato della storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, seguendo<br />
piste di ricerca che sono state battute da molti storici e che hanno prodotto un numero<br />
considerevole di pubblicazioni, soprattutto negli ultimi anni. Sarfatti si discosta<br />
dalle classiche interpretazioni di Renzo De Felice soprattutto per quel che ri-<br />
164 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
guarda l’atteggiamento della Repubblica sociale italiana verso gli ebrei. Per De Felice<br />
infatti la costruzione di campi di concentramento in territorio italiano, a partire<br />
dal 1943, mostrerebbe l’intenzione dei fascisti di evitare la deportazione degli ebrei<br />
in Germania. Per Sarfatti, al contrario, il governo fascista-repubblicano collaborò<br />
con i nazisti per l’arresto e la deportazione degli ebrei.<br />
Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, Roma<br />
2005, 224 pp., € 15,00<br />
Il mito degli “italiani brava gente” ha significato, in relazione alla deportazione<br />
e allo sterminio degli ebrei, la creazione di una coscienza assolutoria: le responsabilità<br />
della Shoah ricadrebbero unicamente sui tedeschi. Osti Guerrazzi ha studiato i<br />
processi ai collaborazionisti e ai delatori e racconta, con il suo Caino a Roma, una<br />
storia diversa: molti italiani ebbero un ruolo decisivo nella cattura di ebrei romani,<br />
poi consegnati ai nazisti perché fossero deportati e uccisi. In particolare, l’autore<br />
descrive le attività di alcuni gruppi, come la banda di Palazzo Braschi e la banda<br />
Koch, che fecero della persecuzione degli ebrei il perno della loro attività. Alcuni<br />
italiani denunciarono gli ebrei per motivi ideologici, ovvero per antisemitismo, altri,<br />
la maggior parte, semplicemente per appropriarsi dei loro beni. Molti ebrei<br />
persero la vita perché il progetto nazista di sterminio trovò, anche a Roma, non pochi<br />
complici.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
<br />
165
Fuori scaffale<br />
a cura di Amos Ciabattoni<br />
Achille Albonetti, L’Italia, la Politica Estera e l’Unità dell’Europa, Edizioni Lavoro,<br />
Roma 2005, 216 pp., € 12,50.<br />
L’Italia, la Politica Estera e l’Unità dell’Europa sono l’oggetto di un’accorata riflessione<br />
di Achille Albonetti apparsa assai di recente nelle nostre librerie. Essa assume<br />
un particolare significato e valore perché l’autore è uno di quegli “artigiani”,<br />
così come assai efficacemente li definisce Sergio Romano nella sua prefazione, che<br />
hanno partecipato ai primi lavori del “cantiere” dell’integrazione europea pur senza<br />
essere, nella stragrande maggioranza dei casi, uomini politici o di governo. Erano<br />
tecnocrati, grand commis, consiglieri e intellettuali ispirati tutti dalla visione dell’<br />
Europa Unita e del superamento delle rivalità nazionali che tanto sangue erano costate<br />
fino a quel momento ai paesi europei.<br />
Con l’autorevolezza della sua appartenenza a questa nobile corporazione ideale<br />
l’autore illustra quella che gli appare come una grave crisi della politica non solo<br />
europeista, ma anche europea dell’Italia.<br />
Prima di affrontare le sfide del XXI secolo opera un’assai efficace “amarcord”<br />
sul cammino dell’Italia verso la democrazia e sui valori fondamentali che dovranno<br />
a suo avviso continuare ad ispirarne la politica: democrazia e mercato all’ interno e<br />
Europa e vincolo atlantico all’esterno.<br />
Valori di cui denuncia con veemenza le sofferenze, da cui sono afflitti nel nostro<br />
sistema politico, ed in particolare l’incapacità della nostra democrazia parlamentare<br />
e rappresentativa di realizzare il principio su cui pur dovrebbe fondarsi,<br />
“la meritocrazia o l’elezione dei migliori”. Un limite questo che si aggiunge all’altro<br />
insoluto problema della copertura dei costi della politica, con il rischio conseguente<br />
che le “democrazie [diventino] delle plutocrazie e oligarchie”. Questo anche per<br />
il cattivo funzionamento interno degli apparati politici quali i partiti, come anche i<br />
sindacati, i vari organi collegiali, operanti negli enti pubblici, etc.<br />
Valori di cui invoca comunque la tutela nonché l’ulteriore affermazione e sviluppo<br />
quale condizione irrinunciabile, per il raggiungimento dell’ unità politica e<br />
di difesa dell’Europa, traguardo vitale perché i paesi europei possano conservare i<br />
propri attributi di piena sovranità della nuova realtà internazionale.<br />
166 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
In questa prospettiva vengono ribaditi i tre cardini della politica estera italiana:<br />
l’associazione con gli Stati Uniti nell’Alleanza Atlantica, l’unità europea e l’economia<br />
di mercato quale fondamento di ogni ulteriore progresso verso quell’unità così<br />
insistentemente e faticosamente perseguita.<br />
Un’unità che per rimanere vitale dovrà estendersi dalla dimensione economica<br />
a quella politica e militare anche per il valore strategico della risorsa: energia, essenziale<br />
sia ai fini della produzione che a quelli della sicurezza. Assai efficacemente Albonetti<br />
la definisce “strumento di progresso e anche di offesa e difesa”.<br />
Ma proprio l’importanza, che questa risorsa ha ormai prepotentemente assunto,<br />
pone l’esigenza di poter disporre di tutte le sue possibili fonti. Evoca il problema<br />
del nucleare di cui l’Europa Unita non potrà fare almeno non solo nelle sue utilizzazioni<br />
pacifiche, ma anche in quelle militari.<br />
Tanto più che anche nel Trattato di non proliferazione nucleare, proprio su iniziativa<br />
dell’ Italia (un’iniziativa aggiungiamo noi propiziata anche dall’ “artigiano”<br />
Albonetti) venne inserita la clausola europea, che prevedeva espressamente che la<br />
firma del TNP da parte dei paesi europei “non nucleari” non avrebbe costituito<br />
ostacolo alla disponibilità dell’arma nucleare da parte della futura Europa Unita.<br />
Un’Europa destinata ad evolvere in un polo continentale convenzionale, nucleare<br />
e spaziale, partendo dalla ”integrazione dei deterrenti nucleari di Francia e<br />
Gran Bretagna” e volta a porsi come fattore di stabilità e di progresso nel sistema<br />
internazionale e ad ovviare con il suo stesso esistere a quella “solitudine” degli Stati<br />
Uniti, quale unica superpotenza, fonte a sua volta del tanto discusso unilateralismo<br />
americano di questi giorni.<br />
Nell’operare questa acuta riflessione l’autore evoca con grande efficacia le lezioni<br />
dei due scomparsi maestri della nostra diplomazia, gli ambasciatori Roberto<br />
Gaja e Roberto Ducci, i quali assai acutamente avevano osservato come nessun apparato<br />
militare potesse ormai assumere un carattere realmente strategico, cioè porsi<br />
come competitivo a livello globale se non munito di capacità non solo nucleare,<br />
ma anche spaziale. Ducci era anzi arrivato a sostenere che gli Europei se non avessero<br />
raggiunto la capacità nucleare avrebbero avuto come unica alternativa quella<br />
di aspirare ad un nuovo editto di Caracalla, l’imperatore romano che estese la cittadinanza<br />
romana a tutti gli abitanti dell’impero.<br />
Il raggiungimento di questo obiettivo è dunque essenziale per l’Europa e in<br />
particolare per l’Italia, che non deve smarrire il suo ruolo di promotore delle<br />
iniziative di spinta e progresso sul cammino dell’integrazione evitando di trovarsi<br />
esclusa de quelle consultazioni ristrette e da quelle iniziative diplomatiche<br />
promosse dai maggiori partners europei, quali i recenti incontri anglo franco tedeschi<br />
di questi ultimi mesi o il negoziato anch’esso tripartito sul nucleare iraniano.<br />
Il modo più efficace di contrastare la formazione di direttori europei come anche<br />
la nostra eventuale esclusione da essi è quello di essere sempre partecipi dei<br />
momenti di incontro e approfondimento come anche delle iniziative politiche e<br />
diplomatiche europee.<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
167
L’iniziativa più efficace e desiderabile sarebbe per l’autore quella che dovrebbero<br />
assumere i paesi fondatori ai fini di un rilancio del processo di integrazione mediante<br />
l’avvio fra di loro di una solidarietà di fatto sostanziata di impegni politici e<br />
di difesa più stretti, consistente in definitiva in un nuovo ricorso alla già sperimentata<br />
via funzionale all’integrazione.<br />
Una solidarietà aperta ad ulteriori adesioni, ma difficilmente estensibile a tutti<br />
i venticinque membri dell’Unione Europea, che in tale dimensione “rischia di trasformarsi<br />
in una zona di libero scambio, con rilevante significato economico, ma<br />
con insufficiente valore politico.”<br />
Questa critica serrata e disincantata di un europeista autentico partecipe della<br />
fase “eroica” della costruzione europea si pone come un monito assai utile per coloro<br />
che si cimentano oggi nel complesso “esercizio” della costruzione europea in un<br />
mondo in cui l’interesse nazionale è riproposto ad ogni piè sospinto come fondamentale<br />
criterio di azione politica in stridente contrasto con l’ispirazione dei padri<br />
fondatori delle prime comunità europee, la CECA, la CEE e l’EURATOM, tesi<br />
invece al superamento dell’interesse immediato dei loro rispettivi paesi nel rispetto<br />
del superiore interesse comune di tutti gli europei nel loro insieme.<br />
Antongiulio De’ Robertis<br />
168 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Abramo, 16<br />
Abu Mazen, 140<br />
Agostino, 156<br />
Alberigo G., 162<br />
Albonetti A., 166, 167<br />
Amato G., 155<br />
Ambrosanio M.F., 21<br />
Amina, 144<br />
Andreatta B., 18<br />
Aristotele, 156<br />
Balibar E., 146<br />
Bardi, 36<br />
Barucci P., 8<br />
Bazoli G., 19<br />
Benedetto XVI, 131-133<br />
Berlusconi S., 130, 134<br />
Bertinotti F., 133<br />
Bertozzi G.C., 44<br />
Bin Laden O., 128, 144<br />
Bixio A., 8<br />
Bobbio A., 160<br />
Bonino E., 133<br />
Boselli E., 16, 130, 133, 134<br />
Bouteflika, 141<br />
Bresso M., 133<br />
Buttiglione R., 132<br />
Cacace P., 158<br />
Caffè F., 101<br />
Canterini M.,<br />
Cantoni G., 8, 9<br />
Carducci G., 157<br />
Carli G., 36<br />
Carrère d’Encausse, 138<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Caselli F., 87, 89<br />
Casini P.F., 130, 132, 134<br />
Cattaruzza M., 163<br />
Cesa, 134<br />
Chirac J., 136, 137<br />
Ciampi C.A., 130, 132<br />
Cipolletta I., 8<br />
Cirielli, 134<br />
Colombo C., 15<br />
Corbetta G., 86, 87<br />
Crispi F., 157<br />
Cristofolini P., 147<br />
Cuculo F., 145<br />
Nomi citati<br />
De Felice R., 164, 165<br />
De Gasperi A., 16, 17, 128, 155<br />
De Gaulle C., 153<br />
De Mita C., 18<br />
De Rosa G., 17<br />
de Villepin D., 137<br />
Del Vecchio U., 164<br />
Deleuze G., 148<br />
Dossetti G., 17, 151, 162<br />
Ducci R., 167<br />
Edoardo III, 36<br />
Einaudi L., 36, 155<br />
Emanuele E., 8, 121,<br />
Esopo, 156<br />
Fabius L., 137, 138<br />
Fabre G., 164<br />
Fanfani A., 17, 151-153<br />
Fassino P., 132<br />
Fath S., 159<br />
169
Ferrara F., 43<br />
Filkienkraut, 138<br />
Fini G., 131, 134<br />
Fisichella D., 135<br />
Flores M., 163<br />
Follini M., 130, 132, 134<br />
Forlani A., 18<br />
Franco D., 39<br />
Friedman M., 101<br />
Gaja R., 167<br />
Galbraith J.K., 101<br />
Garang J., 143<br />
Garibaldi G., 157<br />
Gennaioli N., 87<br />
Giarda P., 8, 9<br />
Gilbert M., 158<br />
Giovagnoli A., 161<br />
Giovanni Paolo II, 83, 132<br />
Giovanni XXIII, 162<br />
Giro M., 158<br />
Goldberg, 152, 153<br />
Gramsci A., 157<br />
Guarino G., 40, 43, 45, 61<br />
Gui L., 17<br />
Hamel M., 158<br />
Hamilton A., 35<br />
Hardt M., 147<br />
Hariri R., 140<br />
Hariri S., 140<br />
Ho Chi Minh, 150, 152<br />
Hobsbawm, 111, 112<br />
Huntington, 47<br />
Ingrao P., 153<br />
Jaquet C., 147, 148<br />
Jay, 35<br />
Johnson L.B., 152, 153<br />
Kant I., 156<br />
Keynes, 123<br />
La Pira G., 18, 150-154<br />
Langrand-Dumonceau, 43<br />
Leone XIII, 15<br />
Levis Sullam S., 163<br />
Lombardini S., 18<br />
Madison, 35<br />
Malagodi L., 18, 153<br />
Mammarella G., 158<br />
Marchetto A., 162<br />
Marseguerra G., 8, 88, 91,<br />
Marx C., 16<br />
Mastella C., 132<br />
Mazzini G., 157<br />
Mazzotta R., 18<br />
Mc Intyre, 156<br />
Meda F., 16, 128<br />
Melloni A., 161<br />
Merkel A., 136<br />
Merlo S., 162, 163<br />
Mill J.S., 96, 123<br />
Mitterrand F., 134, 137<br />
Mohammed VI, 141<br />
Monticone A., 131<br />
Montini G.B., 151<br />
Moro A., 18, 153<br />
Morozzo della Rocca R., 160<br />
Murri R., 16<br />
Mussolini B., 17, 164<br />
Nancy J.L., 148<br />
Napolitano M.L., 161<br />
Negri A., 147<br />
Negri T., 148<br />
O’Connor J., 101, 102<br />
Olivelli T., 17<br />
Osti Guerrazzi A., 165<br />
Pacelli E., 161<br />
Panebianco A., 128<br />
Pannella M., 133, 134<br />
Paolo VI, 151, 153, 162<br />
Parravicini G., 43<br />
Pellizzari A., 17<br />
Peres S., 140<br />
Peretz A., 140<br />
Peruzzi, 36<br />
Piccoli F., 18<br />
Pio XII, 161<br />
Preda G., 153<br />
Prestigiacomo S., 133, 134<br />
Prodi R., 18, 130, 131, 132, 134, 138, 155,<br />
156,<br />
170 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Quadrio Curzio A., 94<br />
Raffarin, 137,<br />
Riccardi A., 161<br />
Ricci M., 114<br />
Romano S., 166<br />
Romero O.A., 160, 161<br />
Ruini C., 131, 132, 156<br />
Rusk D., 152<br />
Rutelli F., 132, 156<br />
Safiya, 144<br />
Salvi C., 13<br />
Sangiorgi G., 8<br />
Saraceno P., 18<br />
Sarcinelli M., 9<br />
Sarfatti M., 164, 165<br />
Sarkozy N., 136-138<br />
Scalari E., 156<br />
Scalfaro O.L., 135<br />
Schumpeter, 49<br />
Scialoja, 43<br />
Scola A., 126<br />
Sella, 43<br />
Sharon A., 140<br />
Shonfield A., 158<br />
Siniscalco D., 130<br />
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005<br />
Smith A., 49, 99, 100, 109<br />
Socrate, 156<br />
Sodano A., 134<br />
Stalin Y., 151, 162<br />
Storace F., 133, 134<br />
Stringher B., 164<br />
<strong>Sturzo</strong> L., 16, 128, 157<br />
Tabacci B., 8<br />
Taradash M., 134<br />
Taviani P.E., 17<br />
Tommaso d’Aquino, 156<br />
Toniolo G., 15, 16, 19<br />
Tornielli A., 161<br />
Traverso E., 163<br />
Tremonti G., 48, 130, 156<br />
Vanoni E., 18<br />
Villone M., 13<br />
Voltaire, 156, 160<br />
Waigel T., 53<br />
Willams, 156<br />
Zen’kovskij, 163<br />
Zinn H., 159<br />
Zurzolo A., 8<br />
171
ANNO I - N. 1/2004<br />
ANNO II<br />
EUROPA SENZA CONFINI<br />
Gabriele De Rosa - Achille Silvestrini - Franco Nobili - <strong>Luigi</strong> Giraldi - Giorgio Tupini -<br />
Jean Dominique Durand - Roberto Morozzo della Rocca - Gorgio Bosco - Agostino Giovagnoli<br />
- Paola Pizzo - Marisa Ferrari Occhionero - Simona Andrini - Stefano Trinchese<br />
N. 1/2005<br />
LA DEMOCRAZIA MALATA<br />
Agostino Giovagnoli - Rudolf Lill - Jean Marie Mayeur - Pietro Scoppola - Carlo Mongardini<br />
- Savino Pezzotta - Andrea Bonaccorsi - Paolo Musso - Carlo Giunipero - Marco<br />
Impagliazzo - Ruggero Orfei - Giuseppe Merisi - Giovanni Pitruzzella - Leopoldo Elia -<br />
Nicola Mancino<br />
N. 2/2005<br />
NUMERI PRECEDENTI<br />
LA LUNGA STAGIONE DELLA LIBERAZIONE<br />
Giulio Andreotti - Franco Nobili - Alfredo Canavero - Raoul Pupo - Corrado Belci -<br />
Agostino Giovagnoli<br />
RELIGIONI, MULTICULTURALISMO, LAICITÀ<br />
Milena Santerini - Renè Remond - Paolo Branca - Vincenzo Cesareo - Carlo Cardia<br />
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