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intro 16/07/2003<br />

Piano di lavoro<br />

PARTE 1: PSICOLOGIA IN ECONOMIA<br />

Francesco Guala + e Matteo Motterlini ±<br />

L’ECONOMIA COGNITIVA E SPERIMENTALE *<br />

1.1 Comportamento razionale e comportamento reale<br />

1.2 Giudizi e pregiudizi<br />

1.3 Violazioni della teoria della scelta<br />

1.4 Prospect theory: genesi e principi cognitivi<br />

1.5 Questioni di fatto questioni di diritto<br />

1.6 Il programma di ricerca dell’economia cognitiva<br />

Intermezzo: Economia cognitiva ed economia sperimentale<br />

PARTE 2: ESPERIMENTI IN ECONOMIA<br />

2.1. L’economia entra in laboratorio<br />

2.2. Controllare le preferenze<br />

2.3. Instituzioni, norme sociali e comportamento<br />

2.4. Teoria ed esperimento<br />

2.5. L’ingegneria economica<br />

Note bibliografiche e approfondimenti<br />

+ Centre for Philosophy of the Social Sciences, University of Exeter, Amory Building, Rennes Drive, Exeter EX4 4RJ,<br />

UK. Email: f.guala@ex.ac.uk<br />

± Dipartimento di Scienze della Cognizione e della Formazione, Università di Trento, via Matteo del Ben 5, 38068<br />

Rovereto (TN), Italy. Email: matteo.motterlini@unitn.it<br />

* Capitolo introduttivo al volume Introduzione alla behavioral & experimental economics, a cura di M. Motterlini<br />

e F. Guala, Università Bocconi Editore, Milano, (in corso di pubblicazione).<br />

1


intro 16/07/2003<br />

Il 9 Ottobre 2002 migliaia di e-mail diffusero in poche ore il comunicato ufficiale dell’Accademia<br />

delle Scienze Svedese: Daniel Kahneman e Vernon Smith erano stati insigniti del “Premio della<br />

Banca Svedese per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel”. Il premio era nell’aria da<br />

tempo: si sapeva che Amos Tversky – il più stretto collaboratore di Kahneman – lo aveva mancato<br />

di un soffio prima di morire improvvisamente nel 1996, e ogni anno il nome di un economista<br />

sperimentale circolava nella rosa dei candidati. Non di meno, si trattava di un evento epocale: il<br />

Premio Nobel riconosceva ufficialmente che l’economia cognitiva e l’economia sperimentale<br />

costituiscono uno dei più importanti sviluppi nelle scienze sociali dell’ultimo mezzo secolo.<br />

Non era della prima volta che l’Accademia delle Scienze premiava ricerche di frontiera, ancora in<br />

attesa di essere accettate universalmente dalla comunità scientifica. Inoltre economisti come<br />

Maurice Allais e Herbert Simon, che avevano contribuito in vari modi alla nascita dell’economia<br />

cognitiva e sperimentale, figuravano già da molti anni fra i laureati. Ma Simon e Allais erano stati<br />

premiati per il loro lavoro in altre aree della teoria economica, e il premio del 2002 costituiva una<br />

novità sotto almeno due punti di vista. In primo luogo, riconosceva il lavoro di uno studioso che<br />

secondo le rigide convenzioni dell’odierna accademia non dovrebbe neppure essere considerato un<br />

“economista”. Daniel Kahneman veniva premiato “per aver integrato intuizioni della ricerca<br />

psicologica nella scienza economica, specialmente nel campo del giudizio e della decisione in<br />

condizioni d incertezza”. Si tratta di un contributo “dall’esterno”, da parte di un influente psicologo<br />

che fino a oggi avrebbe probabilmente avuto problemi a trovare lavoro in un qualsiasi dipartimento<br />

di economia americano.<br />

In secondo luogo, l’altra metà del Nobel premiava un’innovazione metodologica, invece di un<br />

contributo al corpo teorico dell’economia. Vernon Smith veniva premiato “per aver affermato la<br />

rilevanza della degli strumenti di laboratorio per l’indagine empirica in economia, soprattutto per lo<br />

studio di meccanismi di mercato alternativi”. Ovviamente le innovazioni metodologiche tendono a<br />

favorire gli sviluppi teorici: osservando il mondo attraverso un nuovo paio di occhiali è più<br />

probabile notare nuovi aspetti della realtà. E infatti il lavoro di Vernon Smith comprende anche<br />

importanti apporti alla teoria economica. Ma il comitato del Nobel ci teneva a sottolineare che<br />

L’economia è stata comunemente considerata una scienza non-sperimentale, fondata sull’osservazione delle economie<br />

reali piuttosto che sugli esperimenti controllati nel laboratorio. Oggi, tuttavia, un crescente corpo di ricerca è dedicato a<br />

modificare e controllare le assunzioni economiche di base; inoltre, la ricerca economica utilizza in modo crescente dati<br />

raccolti in laboratorio invece che sul campo.<br />

Con il premio del 2002 veniva sancito questo profondo mutamento nella natura stessa della scienza<br />

economica.<br />

In questo volume sono raccolti alcuni fra i più rilevanti contributi ai due programmi di ricerca<br />

insigniti del Nobel 2002: (i) la tradizione degli studi cognitivi sul giudizio, la scelta e la decisione<br />

umana, articolata nel contesto del più ampio progetto delle scienze cognitive e in particolare della<br />

psicologia cognitiva; e (ii) la tradizione dell’economia sperimentale (in senso stretto) volta allo<br />

studio del funzionamento dei mercati nel mondo manipolabile e controllato del laboratorio. Ci si<br />

riferisce genericamente alla prima tradizione come Behavioral Economics (che tradurremo con il<br />

più caratterizzante “economia cognitiva”, piuttosto che con il generico “economia<br />

comportamentale”) e alla seconda come Experimental Economics (“economia sperimentale”).<br />

2


intro 16/07/2003<br />

Piano di lavoro<br />

La scelta dei saggi è ampiamente determinata dai limiti di spazio, e inevitabilmente influenzata dai<br />

nostri gusti personali. Anche se abbiamo dovuto escludere numerosi importanti lavori e ignorare<br />

alcuni influenti ricercatori, tutti gli articoli <strong>qui</strong> tradotti sono di primissimo piano. Nel selezionare<br />

abbiamo cercato di privilegiare testi leggibili e rappresentativi di una linea di ricerca più ampia, che<br />

possano perciò essere utilizzati come porta d’accesso alla letteratura cognitiva e sperimentale. La<br />

disponibilità di questi testi in traduzione italiana è particolarmente importante per la loro diffusione,<br />

ma anche per la formazione degli economisti delle prossime generazioni.<br />

Abbiamo ritenuto opportuno introdurre gli articoli per mezzo di una breve discussione della loro<br />

rilevanza e del loro significato, nel contesto della ricerca economica in generale e dell’economia<br />

cognitiva e sperimentale in particolare. E’ bene sottolineare però che questa introduzione non aspira<br />

in alcun modo a essere esaustiva. Esistono già eccellenti rassegne della letteratura cognitiva e<br />

sperimentale – di cui diamo i riferimenti nelle ampie note bibliografiche a questa introduzione. Il<br />

raggio delle ricerche cognitive e sperimentali è semplicemente troppo ampio per poter essere<br />

trattato in qualche decina di pagine. Abbiamo piuttosto voluto sottolineare il contributo originale<br />

dell’economia cognitiva e dell’economia sperimentale sia dal punto di vista dei risultati sia dal<br />

punto di vista del metodo impiegato per raggiungerli. Crediamo che le istanze metodologiche<br />

vadano enfatizzate e illustrate nei dettagli poiché, in questo e altri celebri casi di crescita della<br />

conoscenza (non solo economica), si sono rivelati un importante fattore rivoluzionario. Questo<br />

approccio è anche motivato dal fatto che questi emergenti programmi di ricerca non sono ancora<br />

caratterizzati da un “paradigma” dominante con un nucleo teorico consolidato e un insieme definito<br />

di tecniche di ricerca. Anche adottare una prospettiva storica non sarebbe stato di aiuto, in quanto<br />

una storia della disciplina non è ancora stata scritta.<br />

Perché dunque l’economia diviene cognitiva e sperimentale? Le scelte e le decisioni reali degli<br />

uomini comuni che abitano il mondo che ci circonda possono deviare in vari modi dalle decisioni<br />

degli “eroici” uomini economici che popolano il “mondo ideale” della teoria della scelta razionale.<br />

Non si tratta certo di una constatazione sorprendente. Dopotutto pochi di noi sarebbero disposti a<br />

ritenere che i propri simili siano perfettamente razionali. Siamo consapevoli di essere fallibili, di<br />

avere limitate capacità di calcolo, limitato accesso alle informazioni, poca memoria e anche questa<br />

poco affidabile. Nella vita di tutti i giorni amiamo, soffriamo, proviamo gioia, paura, rabbia, e altre<br />

emozioni che condizionano le nostre scelte in modo poco “calcolato”. Non che gli economisti siano<br />

meno consapevoli di ciò di quanto lo siamo tutti noi; tuttavia hanno a lungo ritenuto che le<br />

deviazioni dal comportamento razionale fossero per lo più rare e soprattutto trascurabili per quanto<br />

riguarda le predizioni del comportamento aggregato degli attori economici e il funzionamento dei<br />

mercati.<br />

I risultati sperimentali associati al nome di Kahneman mettono in discussione questa assunzione di<br />

fondo. L’evidenza empirica suggerisce piuttosto che le violazioni della razionalità sono abbondanti,<br />

diffuse e importanti, ma soprattutto sistematiche; e, come tali, esercitano un peso considerevole sul<br />

comportamento economico. Nei paragrafi successivi illustreremo alcuni di questi risultati.<br />

Cominceremo presentando brevemente il nucleo assiomatico della teoria della scelta razionale e le<br />

violazioni sistematiche di tali assunzioni scoperte dagli psicologi cognitivi. Ci interrogheremo<br />

<strong>qui</strong>ndi sull’ implicazioni di tali risultati per la teoria economica e la nozione di razionalità che<br />

questa presuppone. Ciò solleverà inevitabilmente la questione della peculiarità del metodo<br />

dell’economia cognitiva. Cercheremo di valutarne l’ambizione di catturare il reale comportamento<br />

degli attori economici, superando la sterile contrapposizione disciplinare fra psicologia cognitiva ed<br />

economia.<br />

3


intro 16/07/2003<br />

Seguendo l’ordine dei contributi, la seconda parte dell’introduzione è dedicata ai risultati<br />

sperimentali legati a Smith. Il filo conduttore in questo caso non è identificabile né con un<br />

particolare nucleo teorico né con un progetto di riforma della teoria ortodossa. Gli economisti<br />

sperimentali condividono piuttosto un metodo, un insieme di strumenti per la produzione e<br />

l’osservazione di dati empirici. Presenteremo brevemente i principali risultati nel campo dei beni<br />

pubblici, della contrattazione, e delle aste. Quindi, passeremo a discutere alcune questioni di portata<br />

più generale riguardanti il ruolo della sperimentazione controllata nel contesto della scienza<br />

economica. Quale validità hanno i risultati sperimentali di laboratorio? E’ possibile generalizzarne<br />

la portata a contesti più ampi?<br />

PARTE 1. PSICOLOGIA IN ECONOMIA<br />

1.1 Comportamento razionale e comportamento reale<br />

L’economia neoclassica muove dal presupposto che le decisioni individuali siano prevalentemente<br />

governate dall’interesse personale e dalla razionalità. Razionalità, in un contesto economico,<br />

significa assumere che gli agenti usino l’informazione disponibile con coerenza, in modo da operare<br />

la scelta ottimale date le alternative disponibili e gli obbiettivi prefissati. Significa inoltre assumere<br />

che gli agenti siano lungimiranti, cioè che essi sappiano calcolare le conseguenze future delle loro<br />

decisioni presenti. Tradizionalmente il protagonista dei modelli economici è un agente dotato di un<br />

dato e stabilito ordinamento di preferenze sulle alternative a disposizione e capace di formare delle<br />

credenze (o aspettative) probabilistiche sugli stati del mondo e sugli effetti delle sue azioni. Egli è<br />

anche in grado di elaborare l’informazione a disposizione secondo il calcolo della probabilità.<br />

Tecnicamente, in condizioni di incertezza, l’agente economico è un massimizzatore dell’utilità<br />

(soggettiva) attesa.<br />

Il merito di aver fornito alla teoria economica il fondamento formale di una scienza rigorosa è da<br />

ascrivere a John von Neumann e Oskar Morgenstern, e al loro epocale The Theory of Games and<br />

Economic Behavior (1947). Il concetto di utilità in economia ha una lunga storia – che non staremo<br />

<strong>qui</strong> a ripercorrere. Von Neumann e Morgenstern riuscirono a trasformare alcune plausibili intuizioni<br />

circa la decisione umana in procedure formali e a esprimere la teoria della scelta in condizioni di<br />

rischio in forma assiomatica. Con grande senso di modestia, essi intesero il loro contributo come<br />

uno stadio preliminare per lo sviluppo della scienza economica. Una fase, con le loro parole,<br />

“necessariamente euristica”, vale a dire “di transizione da considerazioni plausibili e non<br />

matematiche alle procedure formali della matematica” (p.7). E' questo un passaggio indispensabile<br />

nell’evoluzione delle scienze matematizzate, di cui siamo già stati testimoni nel corso della storia<br />

della fisica in generale e dell'astronomia in particolare. Von Neumann e Morgenstern erano<br />

consapevoli che perché ci siano gli scienziati geniali e rivoluzionari – per esempio, i Keplero o i<br />

Newton – occorrono anche gli scienziati intenti alla raccolta dei dati e delle osservazione – per<br />

esempio i Tycho Brahe. Ma, riconoscevano anche che, negli anni Quaranta, “niente di tutto ciò è<br />

ancora accaduto in economia” (p.4).<br />

Nonostante ciò, il tentativo di formalizzare un modello di comportamento razionale in condizioni di<br />

rischio ebbe pieno successo. Ignorando la prudenza dei suoi padri fondatori, gran parte della<br />

professione vedrà nel concetto di razionalità di von Neumann e Morgenstern il solido strato di<br />

roccia su cui costruire l’elegante edificio della scienza economica. Ma cosa significa agire<br />

razionalmente in condizioni di rischio? Von Neumann e Morgenstern delineano il profilo di un<br />

agente razionale per mezzo degli assiomi dell’utilità attesa. Le versioni più moderne di questa<br />

4


intro 16/07/2003<br />

teoria distinguono solitamente tre assiomi o principi fondamentali: l’assioma di ordinamento (A1),<br />

l’assioma di continuità (A2), e l’assioma di indipendenza (A3).<br />

Indichiamo con x, y, z, w,... i risultati (detti anche “conseguenze” o “stati del mondo”) di una lotteria<br />

o prospetto probabilistico; con f la relazione di preferenza; con p un valore di probabilità.<br />

L’operatore ⇒ rappresenta l’implicazione semplice (“se… allora”), mentre ⇔ rappresenta<br />

l’implicazione forte (“se e soltanto se”) e ¬ la negazione (“non”). Gli assiomi dell’utilità attesa sono<br />

i seguenti:<br />

(A1) f è una relazione d’ordine:<br />

(x f y) ⇒ ¬(y f x) [asimmetria]<br />

(x f y & y f z) ⇒ (x f z) [transitività]<br />

(A2) (x f y f z) ⇔ [px + (1 – p)z f y f qy + (1 – q)z ]<br />

per p e q strettamente fra 0 e 1 [continuità]<br />

(A3) Per qualsiasi p tale che 0 < p = 1,<br />

(x f y) ⇔ [px + (1 – p)z] f [py + (1 – p)z] [indipendenza].<br />

L’assioma di ordinamento costituisce il nucleo della teoria della scelta in condizioni di certezza, o<br />

teoria dell’utilità ordinale. Esso comprende due principi: il primo (asimmetria) afferma che se<br />

Mario preferisce una mela a una pera, non può allo stesso tempo preferire una pera a una mela (si<br />

noti la parentela con l’assioma debole delle preferenze rivelate). Il secondo (transitività) afferma<br />

che se Mario preferisce una mela a una pera e una pera a una banana, deve al contempo preferire<br />

una mela a una banana. L’assioma di continuità è poco realistico ma necessario per ragioni<br />

puramente matematiche, che eviteremo di discutere a fondo in questa sede. L’assioma di<br />

indipendenza è più importante, perché permette di passare dall’utilità ordinale a quella cardinale.<br />

Esso afferma, intuitivamente, che se Mario preferisce una mela a una pera, preferirà anche una<br />

lotteria in cui può vincere una mela con probabilità, per esempio, 0,3 e un’automobile con<br />

probabilità 0,7 a una lotteria in cui ha la possibilità di vincere una pera con 0,3 e un’automobile con<br />

0,7. Quando due lotterie hanno una o più possibilità in comune, in altri termini, è ragionevole<br />

“astrarre” da queste ultime e concentrarsi sulle altre per decidere quale lotteria scegliere.<br />

Utilizzando questi tre assiomi (più gli assiomi classici del calcolo della probabilità) è possibile<br />

dimostrare un teorema di rappresentazione dell’utilità attesa. Formalmente, il teorema afferma che<br />

se una relazione di ordinamento (f) soddisfa (A1), (A2), (A3), allora esiste una funzione reale di<br />

utilità U(.) (definita sui risultati delle lotterie) tale che: per tutte le lotterie X e Y,<br />

(1) X f Y ⇔ EU(X) f EU(Y),<br />

dove l’utilità attesa EU (Expected Utility) è data dalla somma delle utilità moltiplicate per le<br />

probabilità dei risultati di una lotteria:<br />

(2) EU = ∑ piU(x i ).<br />

La formula (1) afferma che un agente che sceglie in conformità con gli assiomi precedenti – ed è<br />

dunque ‘razionale’ nel senso di von Neumann e Morgenstern – massimizza l’utilità attesa EU.<br />

Il modello di von Neumann e Morgenstern è applicabile a situazioni di rischio, nelle quali cioè le<br />

probabilità corrispondenti a ogni stato del mondo sono “oggettive” (come, appunto, nelle vere<br />

lotterie). Leonard Savage (1954) ha generalizzato questo modello alle situazioni di incertezza, nelle<br />

quali non c’è alcuna ragione oggettiva di assegnare una particolare probabilità agli stati del mondo.<br />

In questo caso le probabilità rappresentano gradi di credenza individuali, e la teoria di Savage è<br />

5


intro 16/07/2003<br />

detta “teoria dell’utilità attesa soggettiva”. In entrambi i casi (rischio e incertezza), come si è detto, i<br />

valori di probabilità p, q ecc. devono soddisfare gli assiomi classici del calcolo delle probabilità<br />

(l’operatore “∨” rappresenta la disgiunzione “oppure”):<br />

(P1) Per qualsiasi conseguenza x, 0 ≤ px ≤ 1. [spazio delle probabilità]<br />

(P2) Per l’insieme S = {x, y, …, z} di conseguenze mutualmente esclusive ed esaustive, pS = 1.<br />

[certezza]<br />

(P3) Se x, y, z,… sono conseguenze mutualmente esclusive, allora p(x ∨ y ∨ w ∨ …) = p1x + p2y +<br />

p3w + … [additività]<br />

p(<br />

x & y)<br />

(P4) Per tutte le conseguenze x, y tali che p(y) ≠ 0, p ( x | y)<br />

= . [probabilità condizionale]<br />

p(<br />

y)<br />

L’economia neoclassica viene spesso definita la scienza del comportamento razionale. Lo studio del<br />

comportamento razionale è però anche considerato funzionale alla comprensione delle cause dei<br />

fenomeni economici reali. La teoria della scelta razionale può essere dunque interpretata in due<br />

modi non necessariamente incompatibili: come una teoria positiva e/o come una teoria normativa.<br />

Nel primo caso (teoria positiva), essa aspira a fornire una descrizione almeno approssimativamente<br />

corretta del comportamento degli esseri umani impegnati in scelte di tipo “economico” (cfr.<br />

Friedman e Savage, 1948).<br />

Il modello dell’utilità attesa è del tutto vago riguardo agli oggetti (x, y, z,…) ai quali può essere<br />

applicato. I risultati delle lotterie, infatti, possono essere situazioni o “stati del mondo” di qualsiasi<br />

genere: essere sposato piuttosto che celibe, possedere una moto piuttosto che una bicicletta, mio<br />

fratello che sceglie di intraprendere la carriera di avvocato piuttosto che di medico. Solitamente le<br />

conseguenze della decisione sono intese come stati del mondo oggettivi, piuttosto che come<br />

interpretazioni degli stati del mondo da parte degli agenti economici. Kenneth Arrow (1952) ha<br />

introdotto un “principio di estensionalità” per catturare questa assunzione di sfondo. Ma a qualsiasi<br />

stato del mondo oggettivo può corrispondere un diverso livello di utilità soggettiva, e non c’è alcuna<br />

restrizione di principio riguardo alle fonti dell’utilità: una persona può apprezzare il lavoro e il<br />

denaro, un’altra invece l’ozio e le serate con gli amici, e così via. Gli economisti, tuttavia, per<br />

sfuggire alla vacuità, tendono a utilizzare dei modelli più specifici, costruiti aggiungendo al modello<br />

di base della scelta razionale altre assunzioni particolari. Tre sono tipiche:<br />

egoismo: gli agenti economici massimizzano la propria utilità e sono indifferenti riguardo a quella<br />

altrui;<br />

materialismo: l’utilità degli agenti economici dipende soltanto dalla quantità di beni consumati;<br />

utilità decrescente al margine: l’utilità cresce col numero di beni (a più beni corrisponde più utilità<br />

che a meno beni) ma diminuisce al margine (al consumo del bene n+1 corrisponde meno utilità che<br />

al bene n).<br />

Aggiungendo (per ultimo, ma non certo in ordine di importanza) un terzo principio di<br />

razionalità: preferenze e credenze degli agenti economici soddisfano gli assiomi della teoria<br />

dell’utilità attesa,<br />

otteniamo la versione contemporanea dell’homo oeconomicus – l’essere umano “modello” utilizzato<br />

dagli economisti neoclassici per comprendere la realtà economica.<br />

E’ importante sottolineare che l’ipotesi che il comportamento umano sia catturato dagli assiomi<br />

della scelta non implica affatto che gli esseri umani reali ragionino sulla base di essi. Grazie<br />

soprattutto a Friedman e Savage (1948) e Friedman (1953) è corrente l’interpretazione secondo la<br />

quale gli esseri umani si comportano “come se” facessero i calcoli necessari per comportarsi in<br />

6


intro 16/07/2003<br />

modo razionale. Per quanto sia naturale interpretare le preferenze come una rappresentazione dei<br />

desideri e le probabilità come una rappresentazione delle credenze soggettive, gli economisti<br />

intendono i modelli della scelta razionale in senso non letterale, e li considerano semplici strumenti<br />

per la previsione del comportamento umano.<br />

Di contro, la psicologia cognitiva, per vocazione, non si accontenta di studiare le decisioni razionali<br />

come se queste descrivessero le scelte reali. Essa scoperchia la “scatola nera” del processo<br />

decisionale per analizzare la concreta capacità della mente umana di codificare ed elaborare<br />

l’informazione e di risolvere problemi. La tradizione cognitiva in psicologia riconosce che gli esseri<br />

umani sono sistemi capaci di giudizi e di scelte razionali. E accetta pertanto che quella offerta dalla<br />

teoria economica possa essere una buona approssimazione del comportamento reale. Ma, per quanto<br />

approssimativamente buona, è una teoria fortemente incompleta e irrealistica. La psicologia<br />

cognitiva sottolinea <strong>qui</strong>ndi l’importanza di altri fattori, meno consapevoli ma non meno sistematici,<br />

che governano le scelte individuali. Questi fattori hanno a che fare con la percezione, con la<br />

formazione delle credenze e la costruzione di modelli mentali che plasmano le varie situazioni che<br />

si devono affrontare. Essi riguardano motivi, per così dire, intrinseci; per esempio le emozioni e le<br />

attitudini dei decisori. Riguardano anche la memoria – in particolare la memoria delle decisioni<br />

passate e il peso che queste si portano dietro per le decisioni presenti e future. Si tratta di fattori che<br />

spesso risentono fortemente del contesto e della situazione in cui una data decisione viene presa e<br />

che hanno un effetto non trascurabile sulle decisioni economiche – come riconosce l’economia<br />

cognitiva.<br />

Proprio l’attenzione per i meccanismi psicologici della decisione ha consentito di accumulare una<br />

massa di evidenza comportamentale riguardante le deviazioni sistematiche dai modelli della scelta<br />

razionale. In particolare, a partire dagli anni Settanta, e portando avanti l’eredità di psicologi<br />

matematici quali Edwards e Coombs, Tversky e Kahneman hanno messo a punto una serie di<br />

ingegnosi esperimenti volti a mostrare come nel formarsi le proprie aspettative e aggiornare le<br />

proprie credenze in condizioni di incertezza i soggetti non sempre impiegano le regole del calcolo<br />

della probabilità, e nel prendere decisioni non sempre seguono le strategie che massimizzano<br />

l’utilità attesa.<br />

1.2 Giudizi e pregiudizi<br />

La ricerca in ambito psicologico, da cui l’economia cognitiva attinge gran parte dei risultati e dei<br />

metodi, distingue tra giudizio e scelta. Il giudizio riguarda il processo attraverso il quale le persone<br />

stimano le probabilità. Le violazioni dei modelli normativi del giudizio prendono il nome di biases<br />

(pregiudizi). La scelta riguarda il processo attraverso il quale le persone compiono determinate<br />

azioni tenendo conto dei giudizi a cui sono pervenuti. Le violazione dei modelli normativi della<br />

scelta prendono il nome di anomalie. In questo volume per ragioni di spazio abbiamo privilegiato<br />

la ricerca sulla scelta. Poiché la ricerca sul giudizio è cronologicamente anteriore e in un certo senso<br />

ha preparato il terreno per quella sulla scelta, sarà utile tuttavia riassumere alcuni dei principali<br />

risultati. (Per ulteriori riferimenti e applicazioni della ricerca sul giudizio in ambito economico, si<br />

vedano le note alla fine di questa introduzione.)<br />

Le persone spesso prendono le proprie decisioni in situazione di incertezza in funzione della stima<br />

probabilistica di una dato evento, o partendo da un’ipotesi stocastica fondata sull’evidenza a<br />

disposizione. Poiché l’incertezza regna sovrana nella vita di tutti i giorni e specialmente in ambito<br />

economico (si pensi alle fluttuazioni della borsa, o ai rischi che affrontano gli imprenditori quando<br />

investono il proprio denaro in un nuovo prodotto), comprendere il modo in cui le persone operano<br />

giudizi di tipo probabilistico è fondamentale per comprendere la decisione individuale.<br />

7


intro 16/07/2003<br />

Fin dai loro primi lavori, Kahneman e Tversky hanno notato che il giudizio umano in condizione di<br />

incertezza diverge in modo sistematico (e <strong>qui</strong>ndi prevedibile) dalle leggi della probabilità assunte<br />

dalla teoria economica. Nella maggior parte dei casi le persone sono incapaci di analizzare in modo<br />

esaustivo le situazioni che coinvolgono giudizi probabilistici e non hanno le risorse computazionali<br />

per svolgere i calcoli richiesti dalle leggi della probabilità. Quando ciò accade esse si affidano a<br />

delle “scorciatoie” mentali che agevolano e semplificano il loro compito ma non sempre li<br />

conducono per la strada migliore. Tversky e Kahneman hanno mostrato che è possibile prevedere<br />

quale strada “sbagliata” imboccheranno; vale a dire che è possibile prevedere come i loro giudizi e<br />

le loro scelte effettive si distanzieranno da quelle ottimali (razionali). Queste scorciatoie<br />

documentate sperimentalmente a partire dai primi anni Settanta prendono il nome di heuristics<br />

(euristiche, propensioni).<br />

Alcuni esempi ci aiuteranno a capire di cosa si tratta e di come i nostri giudizi ne siano condizionati.<br />

Immagina ti venga chiesto di indicare la categoria cui appartiene un certo lavoratore – per esempio<br />

“bibliotecario” o “commerciante”. Ti viene detto che l’individuo preso a caso dalla popolazione<br />

“porta gli occhiali, è schivo, timido ed è un lettore vorace di testi storici”. E’ probabile che, come la<br />

maggior parte delle persone, dirai che questo individuo è un bibliotecario nonostante il fatto che la<br />

proporzione di commercianti nella popolazione è tale che sarebbe molto più probabile che quella<br />

persone fosse un commerciante. L’euristica della “rappresentatività” (o tipicità) (Tversky e<br />

Kahneman 1973, 1974, 1982) è così robusto che in una serie di esperimenti successivi ai soggetti è<br />

stato dato un analogo problema da risolvere fornendo con precisione l’informazione circa le reali<br />

proporzioni (cioè le probabilità a priori) di quei tipi di impiego nella popolazione. Tale<br />

informazione tuttavia non influenza il giudizio finale dei soggetti che continua a essere distorto dall’<br />

“effetto tipicità”. La stessa euristica entra in gioco, per esempio, quando le persone valutano la<br />

probabilità congiunta di due eventi maggiore della probabilità di uno dei due eventi soltanto –<br />

contraddicendo platealmente la regola della congiunzione del calcolo della probabilità (per cui p(x<br />

& y) = p(x)). Per esempio, i soggetti di uno dei numerosi esperimenti dedicati alla “fallacia della<br />

congiunzione” hanno stimato che se Bjorn Borg avesse raggiunto la finale di Wimbledon, egli<br />

avrebbe avuto meno probabilità di perdere il primo set (evento x) che di perdere il primo set e di<br />

vincere la partita (evento x e evento y insieme). Un altro errore sistematico nei giudizi probabilistici<br />

è legato al fenomeno del bombardamento mediatico. Le persone giudicano le probabilità di un dato<br />

evento in funzione della facilità con cui quell’evento è “disponibile alla mente” (“euristica della<br />

disponibilità”), il che, spesso, dipende dalla diffusione che un dato evento ottiene sui media. In<br />

particolare, le persone tendono a sovrastimare le probabilità di eventi salienti o familiari. I soggetti<br />

di un esperimento per esempio valutano più probabile morire assassinati o in un incidente stradale<br />

piuttosto che di diabete o cancro allo stomaco (per la popolazioni americana diabete e cancro allo<br />

stomaco uccidono il doppio rispetto agli omicidi o agli incidenti stradali) verosimilmente perché i<br />

primi sono più spesso sulle pagine dei giornali e più facilmente richiamabili alla mente di quanto sia<br />

accedere ai dati aggregati delle statistiche.<br />

Altri errori sistematici del giudizio comprendono: la cosiddetta “legge dei piccoli numeri” (Tversky<br />

e Kahneman 1971), ovvero la tendenza a credere statisticamente vero per le piccole serie quello che<br />

è solo approssimativamente vero per serie molto lunghe (e rigorosamente vero solo per serie che si<br />

approssimano all’infinito). La “fallacia dello scommettitore” (già nota a Brunsvik 1939): aspettarsi<br />

che una seconda estrazione da un meccanismo governato dal caso sia negativamente correlata alla<br />

prima anche se le due estrazioni sono statisticamente indipendenti. (Per esempio, se nei primi giri<br />

della roulette esce sempre il rosso ci si aspetta che il prossimo giro sarà un nero – come se la<br />

roulette avesse memoria!) L’incapacità di renderci conto della “regressione ai valori medi”<br />

(Tversky e Kahneman 1974): la performance di una squadra è statisticamente peggiore dopo una<br />

partita vinta quattro a zero, e migliore dopo una partita persa tre a zero, semplicemente perché si<br />

tratta di risultati estremi e dunque improbabili – le critiche o elogi dell’allenatore contano meno di<br />

quanto si crede comunemente. La “confusione dell’inverso” (Dawes 1988): la tendenza a<br />

8


intro 16/07/2003<br />

confondere la probabilità condizionale che un evento occorra data l’occorrenza di un altro evento<br />

(per esempio: confondere la probabilità che il test risulti positivo (x) posto che il paziente abbia una<br />

data malattia (y); con la probabilità condizionale che un evento (y) occorra dato l’evento x, cioè la<br />

probabilità che il paziente abbia la malattia (y) posto che il test risulti positivo (x).)<br />

1.3 Violazioni della teoria della scelta<br />

Non solo i giudizi, ma anche le scelte in condizioni di incertezza si distanziano in modo sistematico<br />

dalle assunzioni di razionalità della teoria economica. I contributi riuniti nei capitoli 4-6 contengono<br />

numerosi risultati empirici che testimoniano della nostra difficoltà a compiere scelte coerenti,<br />

specialmente (ma non solo) in condizioni di incertezza. Alcune violazioni della teoria dell’utilità<br />

attesa sono note fin dalle sue origini. Già nel 1952, Maurice Allais si dichiarava scettico sulla<br />

capacità della teoria di descrivere adeguatamente il comportamento degli esseri umani. Allais<br />

riteneva che la percezione del rischio fosse “distorta” da numerosi fattori psicologici che il modello<br />

di von Neumann e Morgenstern non è in grado di rappresentare. In una dimostrazione pubblica<br />

rimasta nella storia, Allais riuscì a far compiere scelte anomale ad alcuni celebri economisti, fra i<br />

quali in particolare Leo Savage, uno dei fondatori della teoria dell’utilità attesa.<br />

Il “paradosso di Allais” è sorprendentemente semplice: immagina di dover scegliere prima fra una<br />

lotteria (X) con un premio certo di un milione di franchi e una lotteria (Y) con 10% di probabilità di<br />

vincere cinque milioni, 89% di vincere un milione, e 1% di non vincere nulla. Poi, di dover<br />

scegliere fra (Z) una lotteria con probabilità 10% di vincere cinque milioni e 89% di non vincere<br />

nulla, e (W) una lotteria con probabilità 11% di vincere un milione e 89% di non vincere nulla. Le<br />

scommesse sono rappresentate nella matrice <strong>qui</strong> sotto, dove s1, s2, s3 denotano possibili eventi con le<br />

rispettive probabilità.<br />

s 1 (p = 0,10) s 2 (p = 0,01) s 3 (p = 0,89)<br />

X 1 m 1 m 1 m<br />

Y 5 m 0 1 m<br />

Z 5 m 0 0<br />

W 1 m 1 m 0<br />

Tabella 1: Il paradosso di Allais<br />

Secondo la teoria dell’utilità attesa, i risultati nella colonna s3 non dovrebbero essere rilevanti per la<br />

scelta da compiere sia nel primo (X, Y) che nel secondo (Z, W) esperimento. Nel caso si realizzasse<br />

s3 infatti la scelta diventerebbe irrilevante (il risultato sarebbe lo stesso). Un agente razionale nel<br />

senso di von Neumann e Morgenstern dovrebbe ignorare s3 e concentrarsi sulle conseguenze di s1 e<br />

s2 (queste considerazioni seguono in particolare dal principio di independenza). A questo punto<br />

(provate a coprire la colonna s3 con un foglio), è chiaro che la prima (X, Y) e la seconda (Z, W)<br />

scelta sono in realtà perfettamente identiche. Quindi, si dovrebbe scegliere o X e W, oppure Y e Z.<br />

Sorprendentemente, la maggior parte delle persone che affrontano questo test scelgono invece X e<br />

Z, violando così i principi dell’utilità attesa (cf. Allais 1953).<br />

I “paradossi” degli anni Cinquanta (vedi anche Ellsberg 1961) aprirono le porte alla ricerca<br />

cognitiva, e alla scoperta di numerosissime anomalie della scelta razionale. Partiamo da un concetto<br />

cardine dell’economia tradizionale, quello di preferenza. In riferimento alle preferenze la teoria<br />

della scelta razionale fa alcune assunzioni che sono semplici, trattabili e controllabili. Essa assume<br />

per esempio che le preferenze siano “invarianti” (i) sia rispetto al modo in cui le opzioni vengono<br />

9


intro 16/07/2003<br />

descritte (secondo il principio di estensionalità), (ii) sia rispetto al modo in cui le preferenze sono<br />

manifestate. La teoria della scelta assume inoltre che le preferenze siano non solo stabili ma anche<br />

(iii) “indipendenti dal livello di riferimento” – vale a dire non condizionate dalla transitoria<br />

posizione patrimoniale dell’individuo. Un gran numero di esperimenti mostra che queste<br />

assunzioni sono violate in modo significativo. Immagina di dover risolvere il seguente problema:<br />

Siamo in tempo di elezioni e si va al ballottaggio tra due candidati per l’elezione del Sindaco della<br />

tua città. Hai a disposizione le seguenti informazioni che fanno del candidato A un uomo di medie<br />

virtù e del candidato B un uomo di qualità pregi e difetti fuori dal comune. Nei dettagli:<br />

il candidato A (i) è un uomo d’affari della tua città (ii) ha fatto volontariato durante gli anni<br />

dell’università, (iii) è laureato in giurisprudenza, (iv) ha due figli che vanno alla scuola elementare<br />

di quartiere, (v) è sposato con una casalinga.<br />

Il candidato B (i) è stato vice-presidente del Consiglio, (ii) ha organizzato la raccolta di fondi per<br />

realizzare il locale ospedale per bambini, (iii) ha conseguito un Mba in una nota università<br />

americana (iv) è stato coinvolto in un giro di tangenti negli anni passati, (v) ha divorziato due volte<br />

e ha figli da tre donne diverse.<br />

Per quale candidato non voteresti?<br />

Shafir (1993) descrive un esperimento molto simile a questo condotto a Princeton (ma vedi anche<br />

questo volume, cap. 6 in particolare 2.2). I soggetti sperimentali tendono a focalizzarsi sugli aspetti<br />

marcatamente negativi dei candidati, che pesano <strong>qui</strong>ndi sulla loro scelta in modo maggiore rispetto<br />

a quelli positivi (solo l’ 8 per cento dei soggetti decide di non votare per il candidato A contro il 92<br />

per cento che decide di non votare B).<br />

Adesso però immagina che ti venga chiesto per quale candidato voteresti? In questo caso è<br />

plausibile che ti focalizzerai più facilmente sugli aspetti positivi che, questa volta, peseranno<br />

comparabilmente di più di quelli negativi (in questa seconda versione il 79 per cento dei soggetti<br />

sceglie il candidato A e il 21 cento quello B). Si noti che le possibilità del candidato B di essere<br />

eletto sono fino a due volte superiori quando la domanda è posta in termini positivi (21 per cento<br />

contro 8 per cento) piuttosto che per via negativa. (Ciò suggerisce, fra l’altro, che il candidato A<br />

dovrebbe fare campagna sugli aspetti negativi del rivale per “incorniciare” la scelta degli elettori in<br />

termini di rifiuto, mentre il candidato B dovrebbe fare campagna sui suoi aspetti positivi.)<br />

L’esperimento inoltre mostra che strategie logicamente e<strong>qui</strong>valenti per “ricavare” le preferenze<br />

dagli agenti economici determinano preferenze diverse da parte di questi stessi soggetti. Infatti<br />

“scegliere” e “rifiutare” (cioè “votare per” e “non votare per”) dovrebbero essere complementari e<br />

la somma delle percentuali dei soggetti che scelgono e rifiutano dovrebbe essere pari al 100 per<br />

cento. Ma di fatto così non è: la somma delle percentuali con cui il candidato B viene “votato” e<br />

“non votato” è del 113 per cento! (21 per cento più 92 per cento.) La teoria standard assume che le<br />

scelte delle persone rivelino il loro ‘sistema’ di preferenze. Ma, in questo caso, si pone<br />

evidentemente un problema: le vere preferenze sono rivelate quando scegliamo o quando<br />

rifiutiamo?<br />

Gli effetti del metodo di ricavare le preferenze da un individuo che deve risolvere un problema di<br />

scelta possono giocare un ruolo determinante al punto che un individuo può esse indotto a<br />

rovesciare le sue preferenze. Il classico articolo di Sarah Lichtenstein e Paul Slovic, “Inversioni di<br />

preferenza fra offerte e scelte nelle scommesse” (<strong>qui</strong> tradotto come capitolo 5) presenta un caso di<br />

questo genere. Le inversioni si verificano quando ai soggetti sperimentali vengono offerte due<br />

scommesse. La prima, scommessa P, ha una alta probabilità di vincere un premio relativamente<br />

10


intro 16/07/2003<br />

piccolo (diciamo l’ 80 per cento di vincere 40 euro). La seconda, scommessa $, presenta una bassa<br />

probabilità di vincere un premio relativamente grande (diciamo il 10 per cento di vincere 400 euro).<br />

Quale scommessa scegli tra P e $? Adesso immagina che ti venga anche chiesto di attribuire un<br />

prezzo alle due scommesse. Quale delle due scommesse valuti di più in termini monetari?<br />

Se sei come la maggior parte (67 per cento circa) delle persone la tua scelta cadrà su P nel primo<br />

caso, e su $ nel secondo. In questo caso anche tu saresti vittima del fenomeno noto come inversione<br />

delle preferenze. O le tue preferenze sono intransitive, oppure non sono invarianti rispetto ai metodi<br />

di elicitazione. L’assioma di transitività è centrale nella teoria economica, e abbandonarlo<br />

comporterebbe la rinuncia alle tecniche di massimizzazione con le quali gli economisti affrontano<br />

numerosi problemi analitici. Ma anche l’idea di invarianza è estremamente importante: rinunciarvi<br />

significa ammettere che il comportamento degli agenti economici varia in situazioni che gli<br />

economisti considerano identiche. In altri termini, le preferenze non sono pre-definiti insiemi di<br />

curve di indifferenza che si trovano sui testi di microeconomia. Più che ordinate, pre-stabilite e<br />

facilmente rivelabili, le preferenze appaiono costruite nel processo stesso della scelta e influenzate<br />

dal contesto. Per queste ragioni il fenomeno delle inversioni di preferenze sono al centro di un<br />

accesa discussione tutt’altro che esaurita.<br />

Esistono altri modi di indurre le persone a compiere scelte intransitive. In un classico esperimento<br />

degli anni Cinquanta, Kenneth May (1954) chiedeva a un gruppo di uomini di scegliere fra coppie<br />

di potenziali compagne, descritte per sommi capi su tre dimensioni: bellezza, intelligenza,<br />

ricchezza. Per esempio: la ragazza A è più bella sia di B che di C; più intelligente di B ma meno di<br />

C; meno ricca di B e di C. La ragazza B è meno bella di A ma più bella di C; meno intelligente sia<br />

di C che di A; più ricca di C e A. Infine, la ragazza C è meno bella di A e B; più intelligente di A e<br />

B; più ricca di A ma meno di B. Posti di fronte a due ragazze, molti soggetti prendono la decisione<br />

seguendo un semplice criterio: scelgono la ragazza con più attributi positivi. Questo metodo tuttavia<br />

porta a compiere scelte cicliche (dunque intransitive) di questo tipo: A f B, B f C, C f A.<br />

Dietro questa anomalia si nasconde un importante processo psicologico. Alcune decisioni sono<br />

semplificate dal fatto che un’opzione “domina” le altre sotto tutti i punti di vista. Per esempio: se<br />

dobbiamo scegliere fra una lotteria che ci dà nulla con probabilità 0,5 oppure 10 dollari con<br />

probabilità 0,5, e un’altra che ci dà nulla con probabilità 0,4 oppure 20 dollari con probabilità 0,6, la<br />

scelta è presto fatta. Purtroppo molte decisioni non sono di questo tipo, in quanto le opzioni sono<br />

migliori sotto certi aspetti e peggiori sotto altri (probabilità contro guadagno; bellezza contro<br />

intelligenza; divertimento contro fatica, ecc.). Quando ci troviamo in situazioni del genere, prima di<br />

prendere una decisione cerchiamo di valutare le ragioni pro e contro ciascuna opzione. Ora: una<br />

preferenza per x rispetto a y può essere interpretata come una disposizione a scegliere x invece che y<br />

“tutto considerato”, ovvero avendo soppesato tutte le ragioni in favore e contro la scelta di x. Il<br />

processo attraverso il quale si arriva alla preferenza è tuttavia ignorato completamente dalla teoria<br />

della scelta, che si limita a imporre dei re<strong>qui</strong>siti di coerenza sulla struttura delle preferenze una volta<br />

che esse sono state formate. Come mostrano in dettaglio Shafir, Simonson e Tversky nel capitolo 6<br />

(“Scelta e ragioni”), il ragionamento – nel senso letterale di “offrire e valutare ragioni pro e contro”<br />

– che porta alla preferenza può spesso generare ordinamenti anomali.<br />

Anche l’assunzione di invarianza delle preferenze rispetto al corrente livello di consumo o alla<br />

corrente dotazione di un individuo appare smentita in laboratorio. Sarà una storia a guidarci in<br />

questo nuovo problema. Apprezzi il buon vino. Anni fa avevi ac<strong>qui</strong>stato alcune casse di Brunello di<br />

Montalcino che tieni in cantina. Nel frattempo le bottiglie hanno notevolmente ac<strong>qui</strong>stato di valore.<br />

Le avevi pagate meno di 20 euro a bottiglia e adesso valgono oltre 200. Come a molte altre persone,<br />

ti capita occasionalmente di aprire una bottiglia. Ma non venderesti mai il tuo vino al prezzo di<br />

mercato corrente, e allo stesso tempo non compreresti mai una nuova bottiglia a quel prezzo. Se ti<br />

identifichi in questa descrizione, se cioè anche a te sembra di ragionare in questo modo, se <strong>qui</strong>ndi<br />

11


intro 16/07/2003<br />

sei portato a domandare per un bene in tuo possesso più di quanto tu stesso saresti disposto a pagare<br />

per ac<strong>qui</strong>starlo, allora le tue scelte sono condizionate dall’ “effetto dote” (endowment effect).<br />

Il fenomeno, originariamente scoperto da Thaler (1980), è documentato da una serie di esperimenti<br />

molto noti (alcuni sono descritti nel cap. 4 di questo volume: “Anomalie: effetto dote, avversione<br />

alle perdite, e status quo”). Qui ne anticipiamo uno. Una classe di studenti di economia viene divisa<br />

a caso in due gruppi. A un gruppo viene regalata una tazza – per intenderci, una di quelle tipiche<br />

tazze da caffè americane con il logo dell’università stampato sopra. Fra i due gruppi viene condotta<br />

un’asta allo scopo di verificare quanti dollari chiedono i possessori di tazza per separarsi<br />

dall’oggetto che hanno ottenuto in dote solo pochi minuti prima. E quanti dollari sono disposti a<br />

pagare gli studenti senza tazza per averne una. Potete indovinare facilmente l’esito: i possessori di<br />

tazza mediamente non sono disposti a vendere sotto i 5,25 dollari. Gli studenti senza tazza non sono<br />

disposti a comperare sopra i 2,75 dollari. Il solo fatto di essere divenuti proprietari di un oggetto<br />

(anche piuttosto insignificante) è sufficiente perché quell’oggetto venga istantaneamente valutato<br />

da chi lo possiede quasi il doppio rispetto a chi non ce l’ha. In particolare, le persone sembrano<br />

risentire dell’ “effetto possessione” o “effetto dote” – ovvero provano più dispiacere quando<br />

perdono degli oggetti di cui sono in possesso (che cioè fanno parte del proprio paniere) di quanto<br />

piacere arrechi loro ac<strong>qui</strong>sire gli stessi oggetti. L’effetto dote implica inoltre un certo<br />

conservatorismo delle scelte economiche – per esempio la tendenza a ribadire una data scelta di<br />

investimento piuttosto che di impegnarsi un una nuova decisione. Dopotutto, se le persone tendono<br />

ad attribuire un valore sregolatamente alto a quanto posseggono e al loro status quo, allora le<br />

decisioni di cambiare diventano più difficili e meno frequenti.<br />

Si è detto che le preferenze tendono a essere dipendenti da un certo livello di riferimento. Tale<br />

principio è empiricamente documentato in varie circostanze, e non solo in situazioni di laboratorio.<br />

Nel capitolo 7 (“L’offerta di lavoro dei tassisti di New York: un giorno alla volta”) Colin Camerer,<br />

Linda Babcock, George Lowenstein e Richard Thaler presentano un’applicazione sul campo<br />

particolarmente convincente. Il fenomeno dell’avversione alle perdite si è rivelato utile per spiegare<br />

alcune osservazioni nel mercato del lavoro, come per esempio le asimmetrie nell’elasticità delle<br />

curve di domanda in seguito a una crescita o diminuzione dei prezzi. Camerer et al. hanno osservato<br />

il comportamento dei tassisti di New York chiedendosi se le loro decisioni siano di fatto conformi<br />

alla teoria economica standard. Si è notato che i tassisti scelgono quante ore lavorare stabilendo per<br />

ogni giornata un obbiettivo di guadagno, raggiunto il quale “smontano”. Essi pertanto lavorano<br />

meno ore nei giorni “caldi” di quanto facciano nei giorni con poca richiesta. Durante i primi,<br />

banalmente, hanno bisogno di meno tempo per raggiungere il loro obbiettivo. Dal punto di vista<br />

della scelta razionale i tassisti dovrebbero sostituire lavoro e tempo libero inter-temporalmente:<br />

lavorando <strong>qui</strong>ndi più ore quando il tasso di salario è alto e consumando più tempo libero quando<br />

quest’ultimo “costa meno”, cioè quando il salario cui si rinuncia è basso. I risultati dell’esperimento<br />

evidenziano invece una a correlazione negativa tra ore lavorative e tasso di salario giornaliero in<br />

linea con il principio di avversione alle perdite. Il fallimento nel raggiungere l’obbiettivo di<br />

guadagno è percepito cioè dal tassista come una perdita, per compensare la quale egli è disposto a<br />

lavorare più a lungo; mentre superare l'obbiettivo è percepito come una vincita, ottenuta la quale è<br />

meno incentivato a continuare a lavorare.<br />

Un’altra interessante violazione della teoria economica del consumatore riguarda il concetto di<br />

fungibilità del denaro. Il fenomeno identificato da Thaler (1980) per cui “non tutti gli euro valgono<br />

uguale” è noto come “effetto dei conti mentali”.<br />

Eccoti un nuovo problema. Stai andando allo Stadio: è la domenica del Derby e appena arrivi<br />

all’ingresso ti accorgi di avere perso il tuo biglietto da 50 euro. Cosa fai, ricompri il biglietto? Ora<br />

immagina lo stesso scenario, solo che invece di aver perso il biglietto hai perso 50 euro che avevi<br />

nella tasca della giacca. Cosa fai, compri il biglietto? La maggior parte di soggetti che si sono<br />

12


intro 16/07/2003<br />

sottoposti a un esperimento simile non ricomprerebbero il biglietto nel primo caso ma lo<br />

comprerebbero nel secondo. Il dilemma è lo stesso. In entrambi i casi siamo diventati più poveri di<br />

50 euro. Ma perché allora prendiamo decisioni così diverse (vedere o non vedere il derby)? Thaler<br />

spiega che ognuno di noi tende a dividere i soldi in categorie e a trattarli in funzione della loro<br />

provenienza, del modo in cui sono conservati e del modo in cui vengono spesi. In breve, ognuno di<br />

noi ha dei “conti mentali”. Per la maggior parte di persone il primo scenario viene codificato<br />

all’interno del “conto mentale divertimento” ( o “conto mentale squadra del cuore”) e si traduce in<br />

100 euro di costo-divertimento. Il secondo scenario invece non rientra in questa categoria. La<br />

perdita di 50 euro e il costo del biglietto sono, in qualche modo, separati in due conti diversi. Il<br />

fenomeno psicologico dei conti mentali è ovviamente anatema per la teoria economica che sostiene<br />

la tesi della fungibilità del denaro (vale a dire che 100 euro vinti alla lotteria, 100 euro di stipendio,<br />

100 euro di eredità dovrebbero – giustamente – avere lo stesso valore).<br />

Questi sono soltanto alcuni esempi di cui ci siamo serviti per rendere l’idea di alcune fra le molte<br />

anomalie osservate dagli economisti cognitivi. Numerosi altri casi illustrati nei dettagli e con una<br />

maggiore attenzione al setting sperimentale occupano i capitoli 4, 6, 8 di questo volume.<br />

1.4. Prospect Theory: genesi e principi cognitivi<br />

L’economia cognitiva si caratterizza non solo per l’obbiettivo di investigare empiricamente il<br />

comportamento umano (obbiettivo di per sé lodevole ma non molto originale); ma soprattutto per il<br />

tentativo di riformare la teoria economica, iniettando al suo interno alcuni robusti principi cognitivi<br />

(identificati per via sperimentale) che agirebbero in modo sistematico. La sfida dell’economia<br />

cognitiva consiste nel proporre modelli descrittivi della decisione abitati da agenti in carne ed ossa<br />

che arrivano a certe decisioni applicando certe procedure, al fine di rendere conto di un’ ampia<br />

classe di fenomeni economici che non sono altrimenti spiegabili per mezzo della teoria della scelta<br />

razionale. E’ particolarmente interessante il modo in cui Kahneman descrive il suo metodo di lavoro<br />

allorché, insieme ad Amos Tversky, nei primi anni Settanta rifletteva su come assemblare quel<br />

“minimo insieme di modificazioni della teoria dell’utilità” per formulare una teoria descrittiva che<br />

tenesse conto dell’evidenza allora nota e che gli sarebbe valsa, circa trent’anni più tardi, il premio<br />

Nobel:<br />

Amos ed io iniziammo a collaborare allo studio della presa di decisione nel 1974. […] Il nostro metodo di ricerca ai bei<br />

tempi di Gerusalemme consisteva nel puro divertimento. Ci incontravamo tutti i pomeriggi per molte ore che<br />

passavamo a inventarci interessanti coppie di scommesse e a osservare le nostre preferenze intuitive. Se ci trovavamo<br />

d’accordo sulla stessa scelta, assumevamo provvisoriamente che quella era una caratteristica del genere umano e<br />

andavamo avanti sviluppando le implicazioni teoriche e lasciando i controlli più seri a un altro momento. […] La teoria<br />

che stavamo costruendo era la più conservativa possibile. Ci muovevamo all’interno della cornice teorica della decisone<br />

in cui la scelta tra scommesse è il modello di tutte le decisioni. Non mettevamo in discussione l’analisi filosofica della<br />

scelta in termini di credenze e di desideri che sta alla base della teoria dell’utilità, e neppure i modelli normativi di<br />

scelta razionale offerti da von Neumann e Morgenstern, e successivamente da Savage. L’obbiettivo che ci eravamo<br />

posti era di assemblare un minimo insieme di modificazioni della teoria dell’utilità attesa che ci avrebbe permesso di<br />

fornire un resoconto descrittivo di tutto quello che sapevamo su una classe alquanto ristretta di decisioni: scelte tra<br />

semplici scommesse monetarie con specifiche probabilità oggettive e al massimo due risultati possibili. (Kahneman in<br />

Kahneman e Tversky, ed., 2000, pp. xi-x)<br />

Quei pomeriggi a Gerusalemme si rivelarono particolarmente fertili e misero Tversky e Kahneman<br />

di fronte ad alcuni fondamentali principi della percezione del giudizio che, trasferiti nel contesto<br />

delle scelte economiche, ne limitano la razionalità. Cruciale si rivelò il fatto – peraltro già<br />

evidenziato da Markowitz (1952) – che le persone percepiscono i risultati di una scommessa<br />

monetaria in termini di cambiamenti (positivi o negativi) relativi a un (non constante) livello di<br />

riferimento (solitamente il loro status quo), piuttosto che in termini di stati assoluti di ricchezza.<br />

Tale considerazione trova riscontro nel modo in cui è strutturato il nostro apparato percettivo, il<br />

13


intro 16/07/2003<br />

quale è “modulato per valutare i cambiamenti o le differenze piuttosto che per valutare dimensioni<br />

assolute” (questo volume, p. 000). Di fronte a una fonte luminosa, a un suono o a una temperatura<br />

reagiamo sempre a partire da una certa situazione a cui ci eravamo precedentemente adattati. Il<br />

livello di adattamento costituisce il punto di riferimento a partire dal quale percepiamo i nuovi gli<br />

stimoli. Per esempio, se immergiamo una mano nell’acqua la stessa temperatura dell’acqua ci<br />

sembrerà calda se la nostra mano si era adattata a un ambiente più freddo e fredda in caso contrario.<br />

Per Tversky e Kahneman, “lo stesso principio si applica a qualità non-sensoriali come la salute, il<br />

prestigio e la ricchezza.” (ibid.).<br />

Un’altra considerazione psicologica rilevante riguarda il fatto che gli individui appaiono essere più<br />

avversi alle perdite, relativamente al proprio livello di riferimento, di quanto siano attratti alle<br />

vincite di pari dimensione. La disutilità di una perdita x, cioè, è minore dell’utilità di una vincita x<br />

delle stesse dimensioni. Di conseguenza, la risposta alle perdite è più forte della risposta ai<br />

guadagni. Tversky e Kahneman stimano che il valore associato a una perdita moderata sia circa il<br />

doppio del valore associato a una vincita e<strong>qui</strong>valente. Per esempio, nel caso di una piccola<br />

scommessa le persone tendono a preferire lo status quo al 50% di probabilità di vincere 12 euro o di<br />

perdere 10 euro. Semplicemente, le perdite incutono più timore . In aggiunta al fenomeno<br />

dell’avversione alle perdite, Kahneman e Tversky evidenziarono un altro robusto fenomeno<br />

psicologico connesso al livello di riferimento. Gli individui manifestano una sensibilità nei<br />

confronti delle vincite e delle perdite che diminuisce più ci si allontana da un dato livello di<br />

riferimento. In altri termini, la sensibilità per i cambiamenti della propria ricchezza è marginalmente<br />

decrescente. Anche in questo caso, l’intuizione di Tversky e Kaneman trova sostegno da una nota<br />

legge della percezione – legge di Fechner – per cui l’intensità psicologica è una funzione<br />

logaritmica dell’intensità fisica (cfr. Dawes 1988, p. 39). Ciò significa che avvertiamo<br />

maggiormente un cambiamento della temperatura dell’ambiente da 3 a 6 gradi di quanto avvertiamo<br />

un cambiamento tra 20 e 23 (sia che la temperatura aumenti sia che diminuisca). Per analogia,<br />

siamo verosimilmente più sensibili alla differenza di una vincita o a una perdita tra 50 e 100 euro<br />

che a una vincita o una perdita tra 5000 e 5050 euro. Poiché le perdite diminuiscono di intensità al<br />

margine, cioè più ci allontaniamo dal livello di riferimento e meno queste incidono sul nostro<br />

percepito livello di ricchezza, il principio della diminuzione di sensibilità implica che gli individui<br />

siano tendenzialmente avversi al rischio nell’ambito delle vincite e amanti del rischio nell’ambito<br />

delle perdite.<br />

Infine, come già notato da Allais (1953) ed Edwards (1962), esiste anche un “effetto certezza” di<br />

cui si dovrà tener conto. Vale a dire che la stessa riduzione della probabilità di un determinato<br />

risultato ha più impatto quando il risultato è inizialmente certo di quando esso è meramente<br />

probabile. Per esempio, la maggior parte delle persone sarebbero verisimilmente disposte a pagare<br />

di più per togliere il solo e unico proiettile dentro una pistola usata per la roulette russa che per<br />

toglierne uno su quattro. In entrambi i casi la probabilità è ridotta della stessa quantità oggettiva<br />

(1/6) ma psicologicamente l’impatto da 1/6 a zero è differente di quello da 4/6 a 3/6.<br />

Nella seconda metà degli anni Settanta queste idee trovano una formulazione unitaria e coerente<br />

nella cosiddetta “Prospect Theory”, un modello della decisione alternativo all’utilità attesa. Il<br />

capitolo 2 contiene una traduzione dell’articolo di Kahneman e Tversky (“Prospect Theory:<br />

un’analisi della decisione in condizione di rischio”) apparso per la prima volta sulla prestigiosa<br />

rivista Econometrica nel 1979, e che costituisce una svolta nella storia dell’economia cognitiva.<br />

Anche se esistono numerose successive presentazioni della teoria, abbiamo pensato che non c’è<br />

niente di meglio che leggere l’originale. In questa sezione cercheremo di fornire una guida alla<br />

lettura, discutendo criticamente e in breve le principali caratteristiche della Prospect Theory.<br />

Abbiamo visto che la teoria dell’utilità attesa assume l’esistenza di una funzione U sugli stati del<br />

mondo x, y, ecc., tale che, se alla scelta della lotteria o prospetto X è associata una distribuzione di<br />

14


intro 16/07/2003<br />

probabilità pi su differenti conseguenze xi e alla scelta di Y è associata una distribuzione di<br />

probabilità qi su yi, allora il decisore preferisce (strettamente) X a Y se e solo se<br />

(3) ∑ p iU<br />

xi<br />

) ∑<br />

( > qiU(<br />

yi<br />

)<br />

Un esempio (tratto da Dawes 1988 p. 11-13) illustrerà il senso in cui si può parlare di scelta<br />

irrazionale rispetto alle teoria dell’utilità attesa.<br />

A. Vincita di 45 euro con probabilità 20%, oppure niente<br />

B. Vincita di 30 euro con probabilità 25%, oppure niente.<br />

(Quale preferisci?)<br />

Il valore atteso delle due scommesse è dato dalla probabilità di vincita moltiplicata per la<br />

probabilità. Quindi il valore atteso di A è (45×0,20) = 9 euro, il valore atteso di B è (30×0,25) = 7,5<br />

euro. La teoria dell’utilità attesa ci dice che le persone, per essere razionali, devono massimizzare la<br />

propria utilità attesa e non semplicemente scegliere la scommessa con il valore atteso più alto. Non<br />

potremmo accusare di irrazionalità colui che scegliesse B qualora fosse per esempio senza soldi o<br />

gli servissero esattamente 30 euro e non di più per comperarsi un libro che gli piace molto. In<br />

questo caso, costui potrebbe ragionevolmente valutare che la differenza tra 30 e 40 è euro<br />

insignificante rispetto alla differenza di probabilità tra 0,25 e 0,20. Quindi, anche se il valore atteso<br />

di A è superiore a quello di B, egli potrà coerentemente preferire B ad A poiché, data la sua<br />

funzione di utilità, l’utilità attesa di B è superiore ad A. In questo caso diremo che<br />

0,25×U(30) > 0,20×U(45) se e solo se U(30)/U(45) > 0,20/0,25.<br />

Modifichiamo ora leggermente il problema in questo modo:<br />

C. Vincita di 45 euro con probabilità 80%, oppure niente<br />

D. Vincita di 30 euro con certezza (100%)<br />

(Quale preferisci?)<br />

Un individuo che preferisse A a B nella prima versione del problema (1a) e D a C nella seconda<br />

(1b) (come accade nella maggior parte dei casi – verifica le scelte che tu stesso compieresti),<br />

violerebbe, in questo caso, la teoria dell’utilità attesa e sarebbe, in questo senso specifico,<br />

irrazionale. Vediamo perché: la scelta di A rispetto a B implica che 0,20×U(45) > 0,25×U(45), vale<br />

a dire U(45 )/U(30) > 0,25/0,20. La scelta di D rispetto a C implica invece che 0,80×U(45) <<br />

1×U(30), vale a dire U(45 )/U(30) < 1/0,80. Ma: 0,25/0,20 = 1/0,80 = 1,25, da cui l’incoerenza.<br />

Come ora vedremo, la Prospect Theory consente di rendere conto di scelte effettive (distinte dalle<br />

scelte razionali) come quelle dell’esempio citato. E’ opportuno ribadire che la Prospect Theory<br />

nasce con intenti descrittivi, non normativi. Essa è il prodotto di un’induzione a partire da fenomeni<br />

psicologici. Quei fenomeni di cui abbiamo parlato e che Tversky e Kahneman considerarono<br />

significativi per catturare le caratteristiche rilevanti della decisione individuale in contesti ‘reali’. La<br />

genesi della teoria, cioè il processo che conduce alla sua scoperta e formulazione segue una<br />

direzione, per così dire, dal basso verso l’alto: dalle osservazioni empiriche alla teoria che le spiega.<br />

Al contrario, la teoria dell’utilità attesa ha una fondazione assiomatica. Essa si costituisce seguendo<br />

un percorso opposto: dall’ alto verso il basso. Dagli assiomi vengono derivate previsioni che<br />

devono poi essere controllate empiricamente. Tversky e Kahneman non mancano di sottolineare che<br />

entrambe le teorie sono indispensabili: la teoria dell’utilità attesa per caratterizzare il<br />

comportamento razionale, e la Prospect Theory per catturare il comportamento reale che si discosta<br />

in modo sistematico da quello implicato dagli assiomi. In effetti, e su questo importante aspetto<br />

epistemologico torneremo in seguito, è solo grazie al concetto di comportamento razionale che è<br />

15


intro 16/07/2003<br />

possibile pensare alle sue violazioni. E <strong>qui</strong>ndi analizzare il modo in cui le scelte osservate si<br />

discostano (sistematicamente) da quelle razionali. In questo senso, il concetto di razionalità<br />

normativa svolge un ruolo euristico, nella misura in cui suggerisce il genere di osservazioni e di<br />

esperimenti che violando la teoria dell’utilità attesa indicano la strada verso una teoria della scelta<br />

empiricamente fondata in grado di accomodarli.<br />

La Prospect Theory postula l’esistenza di due funzioni, la funzione di valore ? e la funzione di<br />

ponderazione (o dei pesi di decisione) p, tali che il decisore preferisce strettamente X a Y se e solo<br />

se<br />

(4) ∑π p ) ν ( x ) > ∑π ( q ) ν ( Δ<br />

( i Δ i<br />

i yi<br />

)<br />

dove ? xi = xi – x0 è il cambiamento associato a una conseguenza xi rispetto a un dato livello di<br />

riferimento x0. Prospect Theory e teoria dell’utilità attesa si distinguono per tre caratteristiche<br />

fondamentali da cui discendono importanti implicazioni predittive. Primo, nella Prospect Theory il<br />

decisore non è interessato agli stati finali di per sé, ma ai cambiamenti di stato (? xi) relativi al<br />

livello di riferimento (x0). Il processo psicologico che sottende a una data decisione è caratterizzato<br />

da due momenti. Innanzitutto il problema di scelta viene elaborato in modo da stabilire un dato<br />

livello di riferimento relativamente al quale prendere la decisione in questione. Il livello di<br />

riferimento può essere identificato dallo status quo, cioè dal corrente livello di benessere, oppure<br />

dal livello di aspirazione che il decisore si è posto come obbiettivo. L’esito della scelta è <strong>qui</strong>ndi<br />

codificato in termini di vincita, se superiore al livello di riferimento; e in termini di perdita, se<br />

inferiore a esso. Segue la valutazione basata sul criterio (2) di cui sopra.<br />

Secondo, la funzione-valore v ha la forma di una “S” (si veda la figura 000, p. 000) rispecchiando<br />

così l’attitudine al rischio per le vincite e per le perdite. E’ <strong>qui</strong>ndi rispettivamente concava (“avversa<br />

al rischio”) nell’ambito delle vincite, e convessa (“amante del rischio”) nell’ambito delle perdite.<br />

(Al contrario, gli economisti solitamente assumono che la funzione U della teoria dell’utilità attesa<br />

sia concava e uniforme in tutta la sua lunghezza, per esprimere l’idea che l’utilità è marginalmente<br />

decrescente e gli individui sono avversi al rischio.) La funzione v si inclina inoltre di più intorno<br />

allo zero essendo più ripida per le piccole perdite di quanto non sia per piccole vincite (“avversione<br />

alle perdite”). Infine esibisce il principio per cui la sensibilità psicologica diminuisce al margine (le<br />

vincite marginali procurano via via sempre meno soddisfazione; le perdite marginali fanno via via<br />

sempre meno male). Essa è <strong>qui</strong>ndi marginalmente decrescente sia per le vincite sia per le perdite.<br />

Terzo, nella teoria dell’utilità attesa l’utilità di ogni esito possibile è ponderata con la sua<br />

probabilità. Nella Prospect Theory il valore di ogni cambiamento di benessere è moltiplicato invece<br />

per un “peso di decisione”. I pesi di decisione non sono probabilità ma trasformazioni delle<br />

probabilità; non seguono <strong>qui</strong>ndi il calcolo delle probabilità (e non sono interpretabili come gradi di<br />

credenza.) Essi sono derivati dalle scelte e “misurano l’impatto degli eventi sulla desiderabilità dei<br />

prospetti e non semplicemente la percepita probabilità degli eventi.” (questo volume, p. 000) In<br />

particolare la funzione di ponderazione p è monotona e crescente con discontinuità tra 0 e 1; in<br />

questo modo sovrastima sistematicamente probabilità molto piccole e sottostima probabilità medie<br />

o molto grandi (vedi figura 000, p. 000). In particolare la funzione di ponderazione sovrastima le<br />

differenze di probabilità che coinvolgono i punti estremi della certezza e della impossibilità rispetto<br />

a differenze comparabili al centro della scala.<br />

Queste caratteristiche peculiari consentono alla Prospect Theory di fornire predizioni accurate sulle<br />

scelte operate dai soggetti sperimentali in determinate circostanze in cui è evidente lo scarto fra il<br />

comportamento effettivamente osservato e la teoria economica. In particolare, il fatto che gli<br />

individui elaborano il problema di scelta valutando i propri prospetti monetari relativamente a un<br />

dato livello di riferimento è coerente con l’osservazione che le persone scelgono differentemente a<br />

16


intro 16/07/2003<br />

seconda di come le scelte vengono “incorniciate”. L’inclinazione più pronunciata della funzione di<br />

valore intorno al livello di riferimento nel quadrante delle perdite è coerente con il fatto che le<br />

perdite incutono proporzionalmente più timore delle corrispettive vincite. Inoltre il fatto che la<br />

funzione di valore sia marginalmente decrescente per le vincite e per le perdite è coerente con<br />

l’osservazione che gli individui sono avversi al rischio riguardo ai guadagni ma cercano il rischio<br />

riguardo alle perdite. Infine il fatto che la funzione dei pesi di decisioni sia non lineare rispetto alle<br />

variazione delle probabilità è coerente con l’osservazione che le persone sono molto più sensibili a<br />

un cambiamento di probabilità da 0 a 0,1 o da 0,99 a 1,00 piuttosto che da 0,39 a 0,40.<br />

La sovrastima di basse probabilità e la sottostima di grandi probabilità e, allo stesso tempo, il<br />

riconoscimento della certezza e dell’impossibilità per i loro valori reali (p=1 e p=0,<br />

rispettivamente), riesce per esempio a rendere conto del paradosso di Allais e delle violazioni del<br />

principio di indipendenza. Il lettore è invitato a tornare alla tabella 1, p.000. Noterà che la differenza<br />

tra 0,99 (opzione Y) e 1, cioè certezza (opzione X) – che porta alla preferenza di X rispetto a Y –<br />

sembra essere più rilevante della differenza tra 0,10 (Z) e 0,11 (W) – che fa <strong>qui</strong>ndi propendere in<br />

questo secondo caso per Z.<br />

In conclusione, la Prospect Theory è una teoria che si propone di descrivere le scelte reali e non di<br />

regolare le scelte ideali. Essa deve pertanto tener conto delle violazioni della razionalità quando<br />

queste accadono effettivamente. Non solo, ma per essere una buona teoria empirica, essa non può<br />

limitarsi a incorporare ad hoc l’irrazionalità: deve anche prevedere la direzione in cui l’irrazionalità<br />

si manifesta. Deve cioè rendere conto del fatto che l’irrazionalità è sistematica. Il che è possibile<br />

solo individuando i principi cognitivi che stanno alla base del funzionamento, per così dire,<br />

automatico del nostro modo giudicare e di scegliere. La Prospect Theory descrive <strong>qui</strong>ndi le scelte<br />

come risultato di un processo cognitivo inconsapevole. La teoria dell’utilità attesa rimane<br />

comunque valida come regola di scelta quando consapevolmente cerchiamo di risolvere<br />

razionalmente un problema di decisione (torneremo sulla distinzione descrittivo/normativo fra<br />

breve).<br />

La Prospect Theory, come abbiamo detto, costituisce un punto di svolta nella storia dell’economia<br />

cognitiva. Non può essere considerata un punto di partenza, in quanto essa sistematizza una mole di<br />

evidenza empirica precedentemente accumulata da economisti e psicologi cognitivi, e incorpora<br />

alcune idee (quali la ponderazione delle probabilità) già formulate da altri (Allais, per esempio).<br />

Tutte queste idee vengono però finalmente organizzate in un quadro coerente, che influenzerà tutta<br />

la ricerca successiva come non avrebbe potuto fare ognuna di esse singolarmente. La teoria non è<br />

neppure un punto di arrivo, in quanto per molti versi essa è stata migliorata e superata da modelli<br />

della decisione formulati successivamente. Non è possibile fornire <strong>qui</strong> una rassegna di questi<br />

sviluppi teorici, ma vale la pena citare almeno la Expected Utility with Rank-Dependent<br />

Probabilities, un modello proposto da John Quiggin (1982) e Menahem Yaari (1987) che incorpora<br />

esplicitamente le caratteristiche principali della Prospect Theory correggendone allo stesso tempo<br />

alcuni difetti. In particolare, essa implica che le opzioni dominanti stocasticamente siano sempre<br />

preferite a quelle dominate (per esempio: (10 euro, p=0,9; 0 euro, 0,1) f (8 euro, 0,8; 0 euro, 0,2)),<br />

un fatto intuitivamente plausibile che Kahneman e Tversky trattavano per mezzo di un’assunzione<br />

ad hoc nel processo preliminare di editing. Oggi il modello Rank-Dependent è il più popolare fra i<br />

teorici della decisione e ha cominciato ad affermarsi fra gli economisti in generale. (Per ulteriori<br />

riferimenti ai modelli alternativi della decisione rimandiamo alle note alla fine di questa<br />

introduzione.)<br />

1.6 Questioni di diritto e questioni di fatto<br />

17


intro 16/07/2003<br />

Esiste un importante distinzione filosofica, che risale allo scozzese David Hume (1748), fra<br />

questioni di diritto e questioni di fatto. Secondo questa distinzione, non si può dedurre<br />

un’affermazione normativa (riguardante “ciò che deve essere”) da una serie di affermazioni<br />

descrittive (riguardante “ciò che è”). Qualsiasi norma può essere derivata soltanto da un’altra<br />

norma. Per esempio, dal semplice fatto che due persone dello stesso sesso non possono fecondarsi<br />

non è logicamente possibile dedurre che è giusto che le coppie omosessuali non abbiano figli. Per<br />

ottenere una deduzione corretta, dobbiamo aggiungere un’ulteriore premessa (alquanto discutibile):<br />

che tutto ciò che è “normale” (cioè statisticamente più frequente), o “naturale” (cioè indipendente<br />

dall’intervento umano) è anche giusto. L’argomento di Hume vale anche nel nostro caso. Mezzo<br />

secolo di ricerca cognitiva mostrano che le scelte di numerose persone violano gli assiomi<br />

dell’utilità attesa. Ma questo fatto non giustifica, da solo, la conclusione che non è razionale seguire<br />

la teoria dell’utilità attesa dal punto di vista normativo. Al contrario, si potrebbe concludere che i<br />

soggetti sperimentali sbagliano rispondendo ai questionari degli economisti e psicologi cognitivi, e<br />

che dovrebbero imparare a scegliere “correttamente” – come dettano le norme della teoria<br />

dell’utilità attesa. Dopotutto la maggior parte dei soggetti riconosce la propria “irrazionalità”<br />

quando è posta di fronte a una violazione della teoria. A cosa servirebbe altrimenti una teoria<br />

normativa?<br />

Leo Savage, a cui si deve la versione della teoria dell’utilità attesa soggettiva comunemente usata<br />

dagli economisti, è esplicito sulla portata filosofica della distinzione tra aspetti positivi (descrittivi)<br />

e normativi della teoria dell'utilità. Nel suo Foundation of Statistics (1954) Savage non presenta la<br />

teoria dell’utilità come un contributo alla scienza empirica. Gli assiomi di Savage non sono semplici<br />

ipotesi, ma veri e propri principi normativi che nessuna persona ragionevole dovrebbe rifiutare. Si<br />

noti che, in quanto resoconto di ciò che un agente razionale deve fare, il modello di Savage ha<br />

anche implicazioni empiriche sull'agire umano (assumendo che gli esseri umani siano almeno in<br />

parte razionali); ma nessuna osservazione empirica può falsificare il modello. Vale a dire che<br />

l'osservazione di un comportamento incompatibile con gli assiomi non suggerisce al teorico della<br />

decisione che gli assiomi debbano essere modificati. Ci si aspetta piuttosto che colui che prende una<br />

decisione in contraddizione con tali assiomi modifichi la propria azione per conformarvisi – e, per<br />

Savage, dovrebbe farlo.<br />

Non tutti, però, concordano con questo approccio. E' possibile abbozzare i tre corni di un trilemma<br />

che ci consentiranno di collocare il programma di ricerca dell’economia cognitiva in un più ampio<br />

contesto e di confrontarlo con altri programmi nel campo delle scienze sociali.<br />

Primo corno: accettiamo la teoria dell'utilità attesa sia nella sua valenza normativa sia nella sua<br />

valenza descrittiva. Crediamo che la teoria della utilità attesa sia una approssimazione<br />

sufficientemente buona per predire il comportamento umano. Anche se gli esseri umani,<br />

ovviamente, non sono perfettamente razionali, essi, nella maggior parte delle circostanze, si<br />

comportano come se lo fossero.<br />

Secondo corno: Rifiutiamo la teoria della utilità attesa nella sia nella sua valenza normativa sia<br />

nella sua valenza descrittiva. Se gli agenti operano le proprie scelte violando in modo sistematico<br />

gli assiomi occorre mettere in discussione la nozione stessa di razionalità definita dalla teoria della<br />

utilità attesa e dal suo nucleo assiomatico. Occorre <strong>qui</strong>ndi riconoscere che l' homo oeconomicus<br />

non ha la teoria della razionalità che si merita e ricercare una valida teoria alternativa.<br />

Terzo corno: Accettiamo la teoria della utilità attesa nella sua valenza normativa ma non in quella<br />

descrittiva. La teoria dell’utilità attesa cattura correttamente la nozione di agire razionale, ma è<br />

empiricamente inadeguata come teoria della scelta umana.<br />

18


intro 16/07/2003<br />

La più celebre e influente difesa del primo corno del trilemma si deve a Milton Friedman. “The<br />

Methodology of Positive Economics”(1953) è sicuramente il saggio metodologico più citato del<br />

ventesimo secolo. Per Friedman la plausibilità delle assunzioni teoriche non è un indice rilevante<br />

della validità di una teoria; al contrario, teorie molto importanti procedono da assunzioni alquanto<br />

irrealistiche. Esse riescono cioè a “spiegare molto con poco”: pur concentrandosi su aspetti limitati<br />

del mondo reale, sono in grado di prevedere un ampio raggio di fenomeni. Questo è precisamente il<br />

caso della teoria normativa della decisione.<br />

Friedman riconosce che gli individui non possiedono le risorse di calcolo per comportarsi in modo<br />

perfettamente razionale; e certamente essi sono mossi da numerosi altre motivazioni oltre al<br />

desiderio di massimizzare il proprio profitto o benessere. Ma, sostiene Friedman, essi si comportano<br />

“come se” stessero massimizzando la propria utilità: proprio come l’esperto giocatore di bigliardo<br />

che esegue colpi magistrali si comporta “come se” conoscesse e applicasse le leggi della meccanica<br />

razionale. Friedman rifiuta la questione se il modello di razionalità sia realistico o meno. Si chiede<br />

solo se esso costituisca un’approssimazione sufficientemente buona per gli scopi prefissati. E per<br />

saperlo c’è un’unica via; vedere cioè se la teoria funziona, il che – per Friedman – significa vedere<br />

se la teoria porta a predizioni sufficientemente accurate. Friedman pensava che i modelli di<br />

razionalità fossero predittivamente accurati, una posizione condivisa anche da altri celebri<br />

economisti della scuola di Chicago (cfr. Becker 1976; Lucas 1982). Questa posizione ha il difetto di<br />

essere smentita dalla grande mole di dati empirici raccolti in laboratorio e sul campo. Anche se è<br />

difficile stimare esattamente il suo grado attuale di popolarità, si può dire con certezza che è in calo<br />

da molti anni.<br />

I sostenitori del secondo corno del trilemma mettono in dubbio che il mondo economico sia<br />

popolato da esperti giocatori di bigliardo. Ma, anche se lo fosse, tali giocatori non si<br />

comporterebbero come vorrebbe la teoria della scelta razionale. Esistono varie versioni di questa<br />

critica. Allais (1953), per citare un economista che ha esercitato una grande influenza sulla ricerca<br />

nel campo della decisione, riteneva per esempio che l’assioma di indipendenza della teoria<br />

dell’utilità attesa (cfr. paragrafo 1.1) fosse normativamente errato. Un individuo davvero razionale<br />

(o “esperto” nel senso di Friedman) non dovrebbe tenerne conto. Per quanto cruciale nella<br />

dimostrazione di esistenza e unicità della funzione di utilità in condizioni di rischio, è in effetti<br />

piuttosto difficile elaborare argomenti che giustifichino la valenza razionale dell’assioma di<br />

indipendenza (ma vedi Hammond 1988). Altri economisti e filosofi hanno messo in dubbio il valore<br />

normativo di principi ancora più centrali, quali l’assioma di transitività (Sugden 1991; Anand<br />

1993). Altre critiche normative alla teoria della scelta si muovono su un piano più generale: in una<br />

serie di articoli ormai celebri, Amartya Sen (1977, 1985, 1993) ha sostenuto che una teoria della<br />

razionalità degna di questo nome non può limitarsi a imporre dei re<strong>qui</strong>siti di coerenza sulla scelta,<br />

ma debba arricchirsi incorporando le ragioni che davvero influenzano le scelte umane, in particolare<br />

le considerazioni di tipo morale e politico che gli economisti hanno cercato erroneamente di<br />

espellere dalla teoria. Sen e altri (John Broome 1991, per esempio) hanno sostenuto infine che le<br />

preferenze non costituiscono neppure il livello di analisi appropriato per una teoria economica con<br />

aspirazioni di tipo normativo.<br />

Non è questo il luogo per entrare nel dettaglio di queste critiche, per quanto i dibattiti a livello<br />

normativo esercitino non poca influenza sulla ricerca nel campo della decisione (cfr. Guala 2000a, e<br />

Starmer 2000). La via seguita da Kahneman, Tversky e dalla maggior parte degli economisti<br />

cognitivi non è identificabile con nessuno dei due corni di cui sopra. La loro posizione deve molto<br />

se mai all’opera di Herbert Simon e al suo concetto di “razionalità limitata”. Simon ritiene che<br />

l’economia non debba riguardare in modo astratto lo studio del comportamento razionale, ma<br />

ridefinirsi come lo studio empirico dei limiti delle capacità di calcolo degli esseri umani e di come<br />

tali limiti influiscono sul comportamento reale. Simon prende atto che più che un essere razionale,<br />

l’uomo è un essere che ragiona. E nel ragionare egli è inevitabilmente costretto nei limiti della sua<br />

19


intro 16/07/2003<br />

stessa natura finita e fallibile. Neppure i giocatori di scacchi e altri giochi complessi si comportano<br />

in modo perfettamente razionale: essi non sono in grado di immaginare tutte le possibili strategie e<br />

di calcolare quale abbia più probabilità di condurre alla vittoria. Essi piuttosto seguono delle regole<br />

approssimative, del tipo: “quando l’avversario arrocca, conviene spostare la regina”; “se perdi una<br />

torre difendi il re con l’alfiere”, e così via. Se così stanno le cose, che senso ha continuare a<br />

sostenere che gli individui si comportano “come se” fossero perfettamente razionali?<br />

La questione non riguarda la legittimità dell'uso dell'astrazione e dell'approssimazione nel contesto<br />

dell'impresa scientifica in generale e in economia in particolare. (La scienza non può procedere<br />

senza l’utilizzo di idealizzazioni e semplificazioni, come insegna la storia della fisica da Galileo in<br />

poi.) Il problema riguarda piuttosto quello che si omette dal nostro oggetto di studio (la scienza<br />

economica e il comportamento umano) compiendo una data astrazione piuttosto che un'altra. In<br />

particolare, secondo Simon, è illegittimo il contenuto stesso dell'astrazione teorizzata da Friedman:<br />

“trascurare le reali capacità umane di calcolo, e <strong>qui</strong>ndi i limiti della razionalità umana, è infatti<br />

come omettere le forze gravitazionali nella teoria astrofisica. In un mondo privo di peso, o dotato di<br />

schermi antigravità le cose sarebbero molto diverse da come sono nel mondo reale. Una teoria<br />

formulata per il primo mondo avrebbe uno scarso valore predittivo per il secondo” (Simon 1997,<br />

p.89). Per esempio, la resistenza dell’aria può essere considerata un fattore accidentale o irrilevante<br />

quando si studia la caduta di un corpo nel vuoto. Tuttavia, se l'obiettivo è quello di progettare<br />

paracaduti essa diventa uno dei fattori più rilevanti. Questo argomento consente di criticare la teoria<br />

economica sulla base del criterio indicato dallo stesso Friedman circa il valore (pragmatico) delle<br />

predizioni. E' infatti significativo notare che la teoria economica non ottiene un bel voto se<br />

giudicata alla luce delle sue previsioni. Oggi esiste una grande quantità di osservazioni sui concreti<br />

processi decisionali dei consumatori, dei managers e delle imprese che contraddicono le previsioni<br />

fondate sul principio di razionalità. Tali dati empirici devono essere integrati in una nuova teoria<br />

della decisione più vicina alla realtà del mondo economico.<br />

Tversky e Kahneman seguono la strada tracciata da Simon. Essi ritengono che gli economisti non<br />

possono essere soddisfatti della capacità predittiva della teoria dell’utilità attesa – la razionalità<br />

economica come teoria descrittiva, in altri termini, non supera gli standard di valutazione indicati<br />

dallo stesso Friedman. Con Simon sono d’accordo nel porre al centro dell’indagine del<br />

comportamento umano i processi cognitivi e sono convinti delle implicazioni economiche di tali<br />

processi. E con Simon concordano anche che “ceteris paribus, più realistiche sono le nostre<br />

assunzioni sugli attori economici e migliore è la nostra teoria economica” (Rabin, 2000, p. 3).<br />

Tversky e Kahneman continuano anche a considerare i modelli descrittivi e normativi della scelta<br />

come logicamente indipendenti e separati (cfr. questo volume, p. 000). Essi, abbracciando il terzo<br />

corno del trilemma, ritengono che la forza normativa della teoria dell’utilità attesa non sia in<br />

discussione. L’obbiettivo del loro progetto di ricerca non consiste nel falsificare la teoria dell’utilità<br />

attesa come teoria normativa, ma nel mostrarne l’inadeguatezza empirica, e <strong>qui</strong>ndi l’inadeguatezza<br />

predittiva dei modelli economici su di essa basati. In ciò consiste la pars destruens del progetto<br />

cognitivo applicato all’economia. Mentre la sua pars construens consiste nell’integrare i modelli<br />

neoclassici tenendo conto dell’evidenza sperimentale anomala e dei principi psicologici (scoperti<br />

per via sperimentale) che consentono di spiegarla.<br />

Inoltre, conoscere il modo in cui le persone commettono errori è preliminare alla ricerca del sistema<br />

per evitarli. Tradizionalmente, infatti, la ricerca cognitiva sulla decisione umana distingue fra tre<br />

livelli teorici: (i) la teoria normativa che ci dice come le persone devono giudicare; (ii) la teoria<br />

descrittiva che ci dice come le persone giudicano di fatto; e (iii) la teoria prescrittiva, che ci dice<br />

come le persone potrebbero (meglio) comportarsi se tenessero conto dei propri limiti cognitivi e<br />

degli errori che commettono in modo sistematico.<br />

20


intro 16/07/2003<br />

L’assunzione di fondo è che le persone possono e, di fatto, riescono a ragionare secondo le regole<br />

corrette della probabilità. Lo fanno effettivamente in molte circostanze. Ma non in tutte. E quelle<br />

circostanze in cui non ci riescono non sono trascurabili dal punto di vista economico. Le persone<br />

inoltre tendono a riconoscere i propri errori quando messi a confronto con una teoria che li spiega, e<br />

riconoscono anche la validità della teoria normativamente corretta quando il problema è posto in<br />

maniera trasparente. Come Simon, tuttavia, molti economisti cognitivi ritengono che la teoria<br />

normativa costituisca un obbiettivo irrealistico e che talvolta sia raccomandabile insegnare routines<br />

comportamentali che portino a soluzioni soddisfacenti (anche se non necessariamente ottimali) dei<br />

problemi che gli individui si trovano affrontare nella vita di tutti i giorni e sul lavoro. Non è detto,<br />

in altre parole, che normativo e prescrittivo debbano per forza coincidere. E’ possibile <strong>qui</strong>ndi che la<br />

futura ricerca sulla scelta e sui giudizi probabilistici si concentri maggiormente sul de-biasing<br />

(correzione degli errori) piuttosto che sullo sviluppo di teorie alternative della decisione o sulla<br />

critica normativa della teoria ortodossa.<br />

1.6 Il programma di ricerca dell’economia cognitiva<br />

Un programma di ricerca, secondo il filosofo della scienza Imre Lakatos, è definito da un nucleo<br />

teorico e da alcune regole euristiche: alcune ci dicono quali vie di ricerca evitare (euristica<br />

negativa), altre quali vie seguire (euristica positiva). Gli scienziati devono usare la loro ingegnosità<br />

per articolare e inventare opportune ipotesi (“ausiliari”) che, oltre a sostenere l’urto dei controlli e<br />

difendere il nucleo dalle possibili falsificazioni, devono assorbire le anomalie e soprattutto predire<br />

fatti nuovi. Un programma che saprà realizzare questo scopo sarà detto “progressivo” (regressivo in<br />

caso contrario, cioè se si limiterà a “salvare i fenomeni” senza implicare nuove predizioni di<br />

successo). L’esempio classico è fornito dal programma newtoniano. Il suo nucleo è costituito dalle<br />

tre leggi del moto e dalla teoria della gravitazione; la cintura protettiva, dalle condizioni iniziali,<br />

dall’ottica geometrica e dalla teoria della rifrazione atmosferica ecc. Il “piano” attraverso cui<br />

modificare le ipotesi ausiliari per arrivare a una più sofisticata articolazione del programma è<br />

suggerito dall’euristica che, nel caso del programma newtoniano, consiste nel suo apparato<br />

matematico: il calcolo differenziale, la teoria della convergenza, le equazioni differenziali e<br />

integrali (cfr. Lakatos 1978).<br />

Da questa prospettiva, potremmo considerare l’economia cognitiva un programma di ricerca il cui<br />

nucleo teorico è costituito dalla Prospect Theory. Per quanto riguarda invece l’euristica positiva del<br />

programma, vale a dire la sua missione, essa è quella di “accrescere il potere esplicativo<br />

dell’economia dotandola di basi psicologiche più realistiche.” (Camerer e Loewenstein, in via di<br />

pubblicazione, p. 1). Alla base del progetto vi è dunque la convinzione che, importando nella teoria<br />

economica quanto sappiamo circa i principi cognitivi che determinano le preferenze e le decisioni<br />

individuali, è possibile migliorare la teoria economica in se stessa: vale a dire generando nuovi<br />

modelli teorici plausibili, migliori predizioni, e scelte politiche più efficaci. (cfr. ibid.) Questo<br />

approccio non implica affatto il rifiuto in blocco del modello neoclassico. Anzi, il modello<br />

neoclassico costituisce il punto di riferimento imprescindibile sia sul versante teorico (in virtù della<br />

sua plausibilità normativa), sia sul versante metodologico (in virtù della sua trattabilità e generalità).<br />

Ma invece di ignorare le violazioni delle assunzioni che stanno al centro dell’impianto neoclassico<br />

(funzione di utilità e massimizzazione etc.), l’economia cognitiva rivendica la fertilità di tali<br />

fenomeni in prospettiva di una nuova sintesi “quasi-razionale” (Thaler, 1980). Una sintesi in cui i<br />

modelli neoclassici, integrati da teorie psicologiche che tengano conto dei processi cognitivi dei<br />

soggetti decisionali, si propongono di rafforzare le previsioni del reale comportamento umano in<br />

situazioni tipicamente economiche.<br />

In altri termini, l’economia cognitiva rifiuta di considerare “non falsificabile” la teoria neoclassica<br />

in quanto teoria descrittiva. Allo stesso tempo, ne accetta però l’accezione normativa. Proprio per<br />

21


intro 16/07/2003<br />

questo può nutrirsi dello scambio dialettico tra i modelli neoclassici e la sperimentazione empirica –<br />

una dinamica questa che si è peraltro rivelata fondamentale in numerosi casi di crescita della<br />

conoscenza in fisica ma anche in matematica (per una documentazioni di questi casi cfr. Lakatos<br />

1978b). E’ infatti grazie alle predizioni violate, dedotte dai modelli normativi della scelta, che noi<br />

possiamo imparare cose nuove circa il reale comportamento umano e le sue implicazioni per la vita<br />

economica. Come notava John Harsanyi già nel 1977,<br />

a lungo andare, le teorie normative del comportamento razionale potranno rivelarsi non meno importanti nell’analisi<br />

delle deviazioni dal comportamento razionale che nell’analisi del comportamento umano strettamente conforme ai<br />

nostri criteri normativi. (1977, p. 29)<br />

Possiamo articolare ulteriormente questo punto di vista notando che, da un lato, i modelli normativi<br />

forniscono le categorie analitiche e gli standard per caratterizzare i risultati della ricerca empirica<br />

che altrimenti affogherebbero nell'abbondanza della realtà. Dall'altro, i resoconti descrittivi (dei<br />

processi cognitivi) rendono conto di una ricchezza del comportamento effettivo che suggerisce la<br />

povertà delle teorie normative e insieme la direzione per una loro possibile revisione. I modelli<br />

normativi fissano così le questioni rilevanti circa il comportamento umano nel senso di errori di<br />

performance che devono essere spiegati e, se possibile, corretti. In questo modo svolgono un<br />

importante ruolo euristico, sollevando le domande rilevanti e dirigendo la ricerca verso aspetti del<br />

comportamento che possono migliorare il benessere sociale. Allo stesso tempo, la ricerca empirica<br />

offre l'opportunità di riscattare parte dell'abbondanza del comportamento umano persa nelle<br />

astrazioni della teoria, facendo in modo che i modelli di quest’ultima si avvicinino al mondo dei<br />

fenomeni reali.<br />

All’interno di questo programma, pertanto, fare ricerca significa:<br />

Primo, identificare le assunzioni normative o i modelli che sono ritenuti normativamente validi in<br />

tutti i contesti (per esempio la teoria della probabilità bayesiana e la teoria dell’utilità attesa).<br />

Secondo, identificare le anomalie: mostrare cioè per via sperimentale o attraverso la ricerca<br />

empirica sul campo evidenti e plateali violazioni di tali assunzioni o di tali modelli – rifiutarsi<br />

inoltre di accettare manovre tipicamente ad hoc per ‘salvare’ tali modelli, per esempio postulando<br />

costi di transazione, o capacità di apprendimento sovrannaturali da parte dei soggetti, o la messa in<br />

discussione del design sperimentale quando i risultati sono robusti, etc. Dopo tutto si tratterebbe di<br />

ipotesi empiriche che possono essere (e sono state) controllate per mezzo di esperimenti e altre<br />

ricerche empiriche.<br />

Terzo, impiegare piuttosto le anomalie come indizio e fonte di ispirazione per nuove teorie,<br />

possibilmente generalizzabili, capaci di catturare i rilevanti meccanismi cognitivi responsabile delle<br />

violazioni.<br />

Quarto, costruire modelli economici servendosi delle (nuove) assunzioni comportamentali (di cui al<br />

punto tre). Derivarne le predizioni. Progettare esperimenti o ricerche sul campo per controllarli.<br />

(vedi Camerer e Lowenstein ibid., p. 6).<br />

Un aspetto merita, a nostro parere, particolare attenzione: il ruolo giocato dalle anomalie, e <strong>qui</strong>ndi<br />

dall’evidenza di tipo negativo, nella scoperta e costruzione di ipotesi alternative a quelle<br />

neoclassiche. Riflettere su questo aspetto ci consentirà di cogliere la peculiarità dell’economia<br />

cognitiva sia riguardo ai suoi contenti teorici sia riguardo al suo status epistemologico. Secondo una<br />

felice caratterizzazione di Laibson e Zeckhauser (1999), la storia della psicologia cognitiva<br />

sperimentale è la storia degli “artefatti” (effetti anomali considerati inizialmente prodotti<br />

“artificiali” dell’esperimento) che diventano effetti principali. La psicologia sperimentale è, per così<br />

dire, guidata dalle anomalie. Gli errori di performance dei soggetti sperimentali sono preziosi indizi<br />

riguardo al modo in cui gli individui costruiscono le proprie preferenze e danno un senso alle<br />

proprie scelte (e, più in generale, del funzionamento dei processi cognitivi). Secondo questa<br />

prospettiva, Tversky e Kahneman sono prima di tutto “degli archeologi della cognizione”: come il<br />

22


intro 16/07/2003<br />

ritrovamento di pezzi di coccio suggeriscono all’archeologo la natura del reperto e <strong>qui</strong>ndi gli<br />

conferiscono informazioni sulle civilizzazioni che sono il suo oggetto di studio, così le anomalie<br />

ottenute in laboratorio suggeriscono allo scienziato cognitivi degli indizi sulla reale natura dei<br />

processi cognitivi umani. (cfr. Laibson, Zeckhauser, 1999, pp. 20-21)<br />

Intermezzo: Economia cognitiva ed economia sperimentale<br />

Più che una teoria unificata, l’economia cognitiva si presenta oggi come “una collezione di<br />

strumenti o di idee.” Camerer e Loewenstein, nel valutare gran parte dei principali contributi della<br />

neo-disciplina raccolti nel loro recente Behavioral Economics: Past, Present, and Future (in corso<br />

di pubblicazione) riconoscono come questi non siano tanto caratterizzati da un saldo nucleo<br />

dottrinale quanto da “una scuola di pensiero o uno stile di modellizzazione (dei problemi) che<br />

potrebbe anche finire con il perdere il suo specifico status semantico man mano che la Behavioral<br />

economics verrà insegnata e adoperata”. (p.47) La speranza dei suoi sostenitori è che i modelli<br />

economico-cognitivi si dimostrino presto “trattabili e utili nella spiegazione delle anomalie e nella<br />

predizione di nuovi fatti sorprendenti.” (ibid.) A quel punto – come già è accaduto per lo sviluppo<br />

delle scienze più mature – è possibile che la ristrette assunzioni di razionalità, ora considerate<br />

indispensabili in economia, saranno viste come casi speciali di una teoria più generale fondata su<br />

basi cognitivo-comportamentali. (cfr. ibid., p. 48)<br />

Dopotutto anche la teoria economia non deriva il suo potere predittivo da un unico strumento – la<br />

teoria dell’utilità. Occorrono specifici assunzioni ausiliari per applicare la teoria dell’utilità e la<br />

nozione di razionalità oggettiva alle situazioni della vita economica reale. Infatti, se la teoria<br />

economica vuole andare oltre considerazioni molto generali (tipo esistenza di e<strong>qui</strong>libri in mercati<br />

perfettamente competitivi) deve introdurre ipotesi specifiche per rendere conto della maggior parte<br />

delle sue predizioni. E spesso queste ipotesi introducono resoconti specifici di “errori” o “limiti”<br />

della razionalità del sistema – come implicitamente fanno per esempio le teorie di Keynes o di<br />

Robert Lucas per spiegare l’efficacia di determinate misure di politica economica o i cicli<br />

economici (cfr. Simon 1997, pp. 243-247). Si tratta, da questo punto di vista, di compiere un atto di<br />

modestia o di onestà intellettuale per riconoscere che tutta l’economia posa su qualche psicologia<br />

implicita: “la questione è se la psicologia implicita nell’economia sia buona psicologia o cattiva<br />

psicologia”(Camerer, Loevenstein, ibid.). Visto che la soluzione a questo interrogativo non può che<br />

essere empirica, l’economia cognitiva può aiutare a risolvere alcune questioni dibattute per anni<br />

dagli economisti e troppo spesso risolte attraverso argomentazioni puramente teoriche o (peggio<br />

ancora) con la sola forza dell’ideologia. Nel capitolo 8 Shafir, Diamond e Tversky forniscono<br />

un’applicazione particolarmente istruttiva dell’approccio cognitivo, discutendo un annoso problema<br />

della macroeconomia keynesiana e monetarista (le “Illusioni monetarie”).<br />

Il progetto di fornire una migliore base empirica all’economia è condiviso anche dal secondo<br />

programma di ricerca di cui ci occupiamo in questo libro. L’economia sperimentale nasce con<br />

l’intento di supplire alle metodologie empiriche tradizionalemente utilizzate dagli economisti –<br />

dall’analisi statistica dei dati “raccolti sul campo” (econometria), ai questionari, ai famosi (o<br />

23


intro 16/07/2003<br />

famigerati) “fatti stilizzati” con i quali si suole spesso giustificare l’uso di un modello. Non a caso il<br />

periodo di maggior crescita dell’economia sperimentale coincide con la crescente consapevolezza, a<br />

partire dagli anni Settanta, dei limiti delle metodologie tradizionali (specialmente dell’econometria).<br />

La distinzione fra economia cognitiva e sperimentale è in parte arbitraria e convenzionale. La<br />

ricerca nelle due discipline è contigua e spesso sovrapposta, come riconosciuto dal comitato che ha<br />

appropriatamente diviso il premio Nobel fra i maggiori rappresentanti delle due discipline. (E’<br />

difficile dire, per esempio, se gli articoli pubblicati su riviste come Theory and Decision o il Journal<br />

of Risk and Uncertainty siano meglio caratterizzabili come “cognitivi” o “sperimentali”.) E’<br />

possibile tuttavia, in via preliminare, identificare alcune differenze e analogie fra i due programmi<br />

di ricerca.<br />

L’economia sperimentale si affida all’esperimento controllato in laboratorio, un metodo di<br />

indagine largamente utilizzato anche dagli economisti cognitivi. In economia cognitiva, tuttavia, si<br />

fa uso anche di altri metodi di indagine, e talvolta si utilizza il termine “esperimento” in senso più<br />

ampio e impreciso che in economia sperimentale. Gli “esperimenti” degli economisti cognitivi sono<br />

caratterizzati da un certo eclettismo, si possono svolgere nei corridoi delle università (e <strong>qui</strong>ndi non<br />

necessariamente in “laboratorio”), e possono assomigliare più ai questionari degli psicologi che a un<br />

esperimento vero e proprio. Al contrario, l’economia sperimentale si è rapidamente organizzata<br />

intorno a una serie di regole relativamente precise riguardanti il tipo di condizioni che devono<br />

caratterizzare un esperimento controllato in senso proprio – di cui diremo ampiamente fra poco,<br />

nella sezione 2.2.<br />

Vi è poi una differenza che riguarda la missione dei due programmi di ricerca. Mentre l’economia<br />

cognitiva si pone programmaticamente l’obbiettivo di riformare (migliorandola) la teoria economica<br />

attraverso l’adozione di idee tratte dalla psicologia cognitiva, l’economia sperimentale si identifica<br />

per un metodo suo proprio, piuttosto per un obbiettivo dichiarato. Ciò che accomuna gli economisti<br />

sperimentali è l’utilizzo di una certa tecnica di indagine (l’esperimento controllato), a prescindere<br />

dalle lezioni che essi intendono trarne a livello teorico. Alcuni economisti sperimentali condividono<br />

il progetto di revisione della teoria abbracciato dai cognitivisti, ma altri continuano a lavorare a<br />

proprio agio in un contesto teorico neoclassico.<br />

Le ricerche empiriche degli economisti sperimentali infine coprono un raggio più ampio di quelle<br />

dei cognitivisti. Mentre l’economia cognitiva si dedica in prevalenza allo studio dei processi di<br />

decisione individuale, l’economia sperimentale spazia dalla decisione alla teoria dei giochi, dallo<br />

studio dei mercati alla produzione dei beni pubblici, dalle istituzioni alla speculazione di borsa, e<br />

oltre. In linea di principio non esiste un dominio prefissato per l’economia sperimentale, che si<br />

estende fin dove il suo metodo lo permette. In molte di queste ricerche la conoscenza dei processi<br />

cognitivi di decisione individuale si rivela centrale, in altre meno. Talvolta la teoria della scelta<br />

razionale si rivela inadeguata alla spiegazione dei dati sperimentali, e deve essere rimpiazzata da<br />

modelli più realistici. Alcune volte invece la teoria è semplicemente incompleta e deve essere<br />

coniugata da ipotesi empiriche suggerite dagli esperimenti stessi. Ma ci sono anche casi in cui la<br />

teoria neoclassica si comporta egregiamente e riesce a rendere conto in modo adeguato delle<br />

osservazioni di laboratorio. Nella seconda parte di questa introduzione esamineremo alcuni esempi<br />

rappresentativi dell’economia sperimentale in relazione ai saggi scelti per la terza e quarta parte di<br />

questo volume.<br />

24


intro 16/07/2003<br />

PARTE 2. ESPERIMENTI IN ECONOMIA<br />

2.1. L’economia entra in laboratorio<br />

Nel corso delle sue lezioni ad Harvard negli anni ’40 Edward Chamberlin era solito simulare in<br />

classe il funzionamento dei mercati facendo scambiare ai suoi studenti beni fittizi con prezzi di<br />

offerta e domanda scritti su foglietti di carta. Egli mirava così a controllare la validità di una<br />

predizione implicita nella teoria della concorrenza monopolistica che andava allora elaborando, cioè<br />

che in un mercato senza ricontrattazione, con agenti senza informazione condivisa, non si<br />

raggiunge l’e<strong>qui</strong>librio competitivo. I risultati dei suoi esperimenti – pubblicati nell’articolo “An<br />

Experimental Imperfect Market” (1948) – sembravano dargli ragione. I mercatini di Chamberlin<br />

mancavano regolarmente di convergere su prezzi di e<strong>qui</strong>librio efficienti. Vernon Smith, giovane<br />

dottorando ad Harvard e allievo di Chamberlin, prese parte a quegli esperimenti in aula, ai quali<br />

tuttavia non diede molta importanza. Anni dopo, tuttavia, si trovò a riflettere sulla metodologia<br />

implicita di quei primi esperimenti. Smith notò che Chamberlin lasciava che venditori e compratori<br />

circolassero in classe, si incontrassero, e contrattassero il prezzo di scambio, che veniva poi esposto<br />

pubblicamente su una lavagna. Smith decise di modificare leggermente il disegno sperimentale di<br />

Chamberlin, utilizzando un mercato ad asta doppia (double oral auction) nel quale le contrattazioni<br />

avvenissero pubblicamente, comunicando simultaneamente con tutti i partecipanti attraverso il<br />

banditore d’asta. (Un po’ come accade al New York Stock Exchange.) Inoltre Smith fece ripetere<br />

l’esperimento varie volte, per essere certo che gli studenti avessero compreso le regole del gioco.<br />

I risultati furono, come racconta lo stesso Smith (1991), sorprendenti: cambiare il meccanismo di<br />

allocazione era sufficiente per far sì che i soggetti sperimentali scoprissero nel giro di pochi turni il<br />

prezzo di e<strong>qui</strong>librio, in linea con le predizioni della teoria della domanda e dell’offerta. (Per i<br />

risultati di uno dei suoi primi esperimenti, vedi la figura 000 del cap. 3 di questo volume: il lato<br />

sinistro dell’illustrazione mostra le ‘curve’ di domanda e di offerta indotte in laboratorio. Le ‘curve’<br />

si intersecano al prezzo (p = 2) di e<strong>qui</strong>librio competitivo. La parte destra della figura mostra che la<br />

maggior parte dei prezzi contrattati si colloca intorno al livello previsto dalla teoria e che le<br />

deviazioni tendono a diminuire col passare del tempo.)<br />

L’articolo di Smith ebbe non pochi problemi a trovare una collocazione nelle riviste scientifiche<br />

(evento non raro nella storia dell’economia). Per alcuni, il risultato era banale: il mercato<br />

sperimentale di Smith “scopriva” qualcosa che gli economisti teorici avevano sempre sostenuto. Per<br />

altri, era incredibile: come poteva la teoria economica, con le sue assunzioni altamente idealizzate,<br />

descrivere fenomeni del mondo reale? Per molti, infine, il risultato era sospetto in quanto ottenuto<br />

con un metodo non “ortodosso”. Contro il parere di un paio di referees, grazie alla presa di<br />

posizione di un editor del Journal of Political Economy, l’articolo fu finalmente pubblicato nel<br />

1962.<br />

Da un punto di vista cronologico “Uno studio sperimentale della competizione di mercato” (“An<br />

Experimental Study of Competitive Market Behavior”, <strong>qui</strong> tradotto come capitolo 3) non è tuttavia<br />

il primo lavoro di economia sperimentale. Prima di Smith e Chamberlin altri economisti avevano<br />

già utilizzato la sperimentazione controllata ai fini di ricerca. Sebbene sia difficile identificare le<br />

origini dell’economia sperimentale con precisione, possiamo ricordare prima della seconda guerra<br />

mondiale gli studi empirici delle curve di indifferenza di Thurstone (1931), e dopo la guerra i già<br />

citati “paradossi” di Allais ed Ellsberg. La teoria dei giochi, inoltre, con i suoi semplici modelli a<br />

due/tre giocatori e i suoi curiosi risultati (dilemma del prigioniero e così via) si prestava<br />

naturalmente alla “simulazione” di laboratorio con esseri umani reali al posto degli agenti razionali<br />

di von Neumann e Morgenstern (cfr. per esempio Flood 1958, Fouraker e Siegel 1963). E, sempre<br />

verso la fine degli anni Cinquanta, Reinhard Selten (premio Nobel molti anni più tardi, nel 1994)<br />

25


intro 16/07/2003<br />

conduceva i suoi primi esperimenti sulla formazione dei prezzi in mercati caratterizzati da un<br />

oligopolio (cfr. Sauerman, Selten 1959).<br />

Negli anni Cinquanta e Sessanta, tuttavia, la teoria della decisione e la teoria dei giochi costituivano<br />

progetti di ricerca tutto sommato marginali per quanto nuovi ed eccitanti rispetto al nucleo<br />

dell’economia neoclassica: la macroeconomia della sintesi neo-keynesiana e la teoria dell’e<strong>qui</strong>librio<br />

generale. L’idea che gli esperimenti di laboratorio potessero essere applicati allo studio dei mercati<br />

era considerata abbastanza stravagante. I mercati sembrano essere entità troppo complesse per<br />

essere studiate in laboratorio. Inoltre gli economisti teorici cominciavano proprio in quegli anni a<br />

definire le condizioni necessarie per l’esistenza di e<strong>qui</strong>libri di mercato. Alcune di esse (numero<br />

infinito di agenti, conoscenza perfetta, zero costi di transazione) sembravano sbarrare la strada in<br />

partenza allo studio empirico.<br />

A ciò si aggiunga la tendenza radicata nella professione a considerare l’economia come una scienza<br />

non-sperimentale. L’atteggiamento ribadito da Samuelson e Nordhaus (1985), in uno dei più<br />

influenti libri di testo dell’ultimo mezzo secolo, è veramente tipico:<br />

L’economia […] non può effettuare gli esperimenti controllati dei chimici e dei biologi perché non è in grado di<br />

controllare facilmente tutti gli altri fattori. Come gli astronomi o i meteorologi, gli economisti devono limitarsi in larga<br />

parte ad osservare [passivamente] (p. 8)<br />

Si noti che la difficoltà di operare esperimenti controllati e il doversi limitare all’osservazione dei<br />

dati sul campo, sancisce di fatto (anche se non in linea di principio) l’infalsificabilità della teoria<br />

economica. Quando un test empirico condotto con dati non sperimentali dà un esito negativo, è<br />

facile imputare il fallimento a qualche imprevisto fattore disturbante o a un errore di misurazione.<br />

La teoria finisce per essere salvata, qualunque cosa succeda, in quanto nessun tipo di evidenza può<br />

fornire un controllo stringente della sua validità. Gli economisti sono <strong>qui</strong>ndi indotti ad applicare un<br />

“falsificazionismo innocuo” o, per usare un’altra famosa espressione di Mark Blaug, a “giocare a<br />

tennis con la rete abbassata” (1980, p. 241). Al contrario le scienze più avanzate, come la fisica o la<br />

biologia, fanno uso sia di dati sperimentali che non-sperimentali. La rivoluzione copernicana e<br />

quella newtoniana sarebbero state impossibili senza le osservazioni dei moti dei pianeti di Tycho<br />

Brahe e degli esperimenti sui moti terrestri di Galileo Galilei. Soltanto la combinazione di<br />

speculazione teorica, osservazione sul campo ed esperimento ci permette di abbandonare vecchie<br />

idee errate e di sostituirle con altre più promettenti (vedremo più avanti come).<br />

2.2 Controllare le preferenze<br />

“Uno studio sperimentale della competizione di mercato” contiene alcuni elementi-chiave delle<br />

successive ricerche di Vernon Smith e dell’economia sperimentale in generale. Innanzitutto, il<br />

coraggio di avventurarsi nel cuore del dominio di applicazione della teoria economica: i mercati.<br />

Poi l’attenzione per le istituzioni, i sistemi di regole codificati in maniera più o meno esplicita che<br />

governano e coordinano il comportamento simultaneo di numerosi individui. E ancora,<br />

l’esplorazione di meccanismi economici sui quali la teoria ortodossa getta poca o addirittura<br />

nessuna luce.<br />

La classica analisi walrasiana dell’e<strong>qui</strong>librio è fondata su numerose idealizzazioni teoriche, fra le<br />

quali l’esistenza di un banditore d’asta con il compito di scoprire il prezzo di e<strong>qui</strong>librio per tentativi<br />

ed errori (tâtonnement). Come è noto, il banditore walrasiano annuncia un prezzo, annota la<br />

quantità di beni che i venditori sono disposti a cedere per quel prezzo e la quantità che i compratori<br />

sono disposti ad ac<strong>qui</strong>stare. Se l’offerta supera la domanda, il banditore aggiusta il prezzo al<br />

ribasso, se al contrario la domanda è in eccesso, il prezzo viene alzato. La procedura è ripetuta fino<br />

26


intro 16/07/2003<br />

a quando domanda e offerta si e<strong>qui</strong>valgono; quando questo accade, è stato trovato il prezzo di<br />

e<strong>qui</strong>librio.<br />

E’ probabile che lo stesso Walras considerasse questo meccanismo un’idealizzazione dei processi<br />

che effettivamente governano domanda e offerta nei mercati reali. In effetti nessun mercato reale<br />

utilizza esattamente il sistema walrasiano (anche se alcuni, come la borsa di Parigi, utilizzano<br />

sistemi simili), e il tâtonnement sembra essere più che altro la metafora della procedura di soluzione<br />

di un sistema di equazioni simultanee – il procedimento attraverso il quale gli economisti<br />

matematici determinano il prezzo di e<strong>qui</strong>librio. Non è affatto scontato che le istituzioni di mercato<br />

reali riescano a ottenere i risultati mirabili dell’istituzione ideale immaginata da Walras.<br />

La finzione del tâtonnement è stato un problema a lungo ignorato in attesa degli strumenti teorici ed<br />

empirici adatti per affrontarlo. Negli anni Sessanta e Settanta la teoria dei giochi ha permesso di<br />

rappresentare formalmente il funzionamento di alcuni meccanismi d’asta non-walrasiani. Ma<br />

nonostante i progressi in questo campo (si vedano in particolare Vickrey 1961, Wilson 1977,<br />

Milgrom e Weber 1982), l’analisi teorica risulta ancora oggi fondata su assunzioni restrittive e<br />

dunque incapace di descrivere in modo convincente il funzionamento di molte istituzioni reali.<br />

Inoltre i risultati teorici – per quanto rigorosi e analiticamente ineccepibili – rimangono veri soltanto<br />

in astratto fino a che non è possibile controllarli dal punto di vista empirico. Ma le ricerche sul<br />

campo incontrano difficoltà notevoli da questo punto di vista. Le funzioni di domanda e offerta non<br />

sono costrutti teorici facilmente osservabili in modo diretto: in qualsiasi momento l’osservatore ha<br />

accesso soltanto a un punto (il prezzo effettivo di un bene) sulle due curve. Egli non può osservare<br />

come il prezzo varia col variare delle due funzioni, o verificare che il sistema sia effettivamente in<br />

e<strong>qui</strong>librio, perché questo richiederebbe appunto la conoscenza diretta della domanda e dell’offerta,<br />

ovvero delle preferenze di tutti gli agenti economici presenti sul mercato. Ovviamente esistono<br />

metodi indiretti per lo studio degli e<strong>qui</strong>libri di mercato, ma queste procedure sono necessariamente<br />

fondate su una serie di assunzioni di sfondo tanto discutibili quanto l’ipotesi stessa che ci si propone<br />

di controllare (l’efficienza dei mercati competitivi).<br />

Questo problema può essere risolto in maniera estremamente efficace in laboratorio. L’idea è<br />

semplice: se potessimo “tenere fissi” alcuni fattori chiave come per esempio le funzioni di domanda<br />

e offerta, potremmo variare sistematicamene altri fattori (le istituzioni che governano gli scambi) e<br />

valutarne in modo preciso la rilevanza causale. Per esempio: è possibile classificare le aste<br />

(istituzioni di mercato nelle quali un venditore vende un bene al miglior offerente) in due grandi<br />

categorie: aste “continue” e “a busta chiusa”. Nelle aste a busta chiusa ogni compratore presenta<br />

simultaneamente una sola offerta, e il venditore sceglie la più alta. Nelle aste continue invece gli<br />

ac<strong>qui</strong>renti possono presentare numerose offerte in sequenza e calibrare il proprio prezzo di riserva<br />

sulla base del comportamento degli altri concorrenti. Uno dei primi risultati di Smith e dei suoi<br />

collaboratori – in particolare Charles Plott (poi direttore del laboratorio di economia sperimentale al<br />

California Institute for Technology) – fu la dimostrazione che le aste continue sono in generale più<br />

efficienti di quelle a busta chiusa; un risultato ottenuto confrontando il funzionamento delle due<br />

istituzioni ceteris paribus, ovvero tenendo costanti altri fattori quali le funzioni di domanda e<br />

offerta.<br />

Questo risultato ha una rilevanza notevole anche dal punto di vista teorico, in quanto contraddice i<br />

teoremi di e<strong>qui</strong>valenza di William Vickrey. Vickrey (1961) aveva mostrato che le cosiddette aste<br />

continue “inglesi” (o ascendenti) dovrebbero in teoria fornire risultati identici alle aste a busta<br />

chiusa “con secondo prezzo” (dove il bene viene venduto al migliore offerente, il quale paga però il<br />

prezzo offerto dal secondo miglior offerente). Inoltre le aste continue “olandesi” (o discendenti)<br />

risultano in teoria essere e<strong>qui</strong>valenti alle aste a busta chiusa “con primo prezzo”. Mentre il primo<br />

risultato di Vickrey si rivela in accordo coi dati sperimentali (anche se le aste a busta chiusa sono<br />

più “lente” nel convergere sui prezzi di e<strong>qui</strong>librio), la seconda predizione è falsificata dagli stessi.<br />

27


intro 16/07/2003<br />

Questi primi risultati hanno ovviamente stimolato gli economisti sperimentali a cercare spiegazioni<br />

fondate su meccanismi psicologici quali il piacere della “suspence” generata dalle aste a busta<br />

chiusa, o l’incapacità di valutare correttamente i rischi derivanti dall’offrire una somma molto<br />

elevata. (Gli articoli che riportano i risultati più rilevanti sono citati nelle note alla fine di questa<br />

introduzione.) Per il momento tuttavia ci interessa soffermarci sulle tecniche sperimentali sviluppate<br />

da Smith e dai suoi colleghi per controllare le curve di domanda e offerta in laboratorio. L’idea<br />

fondamentale consiste nel retribuire i soggetti sperimentali in base alla quantità e al valore dei beni<br />

da essi ac<strong>qui</strong>stati (o venduti) nel mercato sperimentale. Per esempio: supponiamo di voler “indurre”<br />

curve di domanda e di offerta come quelle rappresentate nella figura 2.1. I soggetti a cui viene<br />

assegnato il ruolo di venditore ricevono in dote un’unità del bene di scambio con relativo “prezzo di<br />

riserva”, solitamente espresso in “buoni sperimentali” (il prezzo di riserva può essere interpretato<br />

come il costo di produzione del bene in questione). Essi sanno che vendendo un’unità a un prezzo<br />

superiore al prezzo di riserva essi guadagneranno la differenza fra prezzo di riserva e prezzo di<br />

vendita. Alla fine dell’esperimento lo sperimentatore scambierà i buoni da essi guadagnati con<br />

denaro contante, a un tasso di scambio prefissato e noto ai soggetti sperimentali (per esempio: 1<br />

buono = 1 euro).<br />

I compratori ricevono un simile “prezzo di riserva”, questa volta interpretabile come il prezzo al<br />

quale, alla chiusura dei mercati, lo sperimentatore ac<strong>qui</strong>sterà ogni unità da essi ac<strong>qui</strong>stata nel corso<br />

dell’esperimento. Essi sanno dunque che ac<strong>qui</strong>stando un’unità a costo inferiore al prezzo di riserva<br />

essi possono ottenere un profitto pari alla differenza fra prezzo di mercato e prezzo di riserva. Alla<br />

fine dell’esperimento, ancora una volta, lo sperimentatore converte i gudagni in denaro contante.<br />

Prezzo<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

Figura 2.1<br />

40 Domanda<br />

Offerta<br />

10 20 30<br />

Quantità<br />

Per ottenere curve come quelle rappresentate nella figura 2.1, lo sperimentatore può distribuire i<br />

prezzi di riserva in questo modo:<br />

No. Giocatori Prezzo di riserva<br />

10 venditori 30 buoni<br />

20 venditori 10 buoni<br />

10 compratori 35 buoni<br />

20 compratori 15 buoni<br />

Tavola 2.1<br />

28


intro 16/07/2003<br />

Il prezzo di e<strong>qui</strong>librio si trova dove la curva di domanda si interseca con la curva di offerta. La<br />

teoria prevede dunque che in questa “microeconomia” si scambino 20 unità a un prezzo di 15 buoni.<br />

E’ facile mostrare che con la “giusta” istituzione – per esempio con un’asta doppia come quella<br />

utilizzata da Smith nei suoi primi esperimenti – i prezzi di scambio convergono rapidamente verso<br />

l’e<strong>qui</strong>librio, dopo alcune ripetizioni. (Se volete provare voi stessi in classe o con gli amici,<br />

Bergstrom e Miller (1997) forniscono semplici instruzioni per creare “sistemi microeconomici”<br />

come quello dell’esempio <strong>qui</strong> sopra.)<br />

Le tecniche di induzione di domanda e offerta poggiano su alcune semplici ipotesi. Vernon Smith e<br />

Luis Wilde le hanno riassunte in una serie di “precetti” che costituiscono per così dire le “linee<br />

guida” del programma di ricerca dell’economia sperimentale (Smith 1976, 1982; Wilde 1980). I<br />

precetti forniscono indicazioni su come disegnare un appropriato esperimento, e sui re<strong>qui</strong>siti che lo<br />

sperimentatore deve soddisfare per ottenere il controllo delle preferenze individuali. Il primo<br />

precetto riguarda la “salienza” degli incentivi:<br />

Salienza: i soggetti hanno diritto a un compenso crescente con il crescere dei beni guadagnati e<br />

decrescente con il decrescere dei beni perduti.<br />

Solitamente i partecipanti ricevono anche una somma di denaro fissa per compensarli del tempo<br />

investito nell’esperimento (l’uso di studenti è dunque anche funzionale a ridurre il costo di un<br />

esperimento: un’ora di uno studente “costa” ovviamente meno di un’ora di un manager).<br />

Dominanza: il compenso deve essere sufficientemente alto da dominare ogni costo derivante dalla<br />

partecipazione all’esperimento.<br />

Salienza e “dominanza” mirano a far sì che i soggetti siano sufficientemente motivati nel<br />

partecipare all’esperimento. (Si noti che fra i costi da dominare bisogna includere per esempio lo<br />

sforzo di concentrazione richiesto dall’esperimento, in modo da evitare che il soggetto commetta<br />

errori di disattenzione o giochi a caso. E anche il piacere di “giocare per il gusto del gioco” invece<br />

di cercare di massimizzare i propri guadagni.)<br />

Altri due principi chiave dell’economia sperimentale sono “privacy” e “non-sazietà”:<br />

Privacy: i soggetti non vengono informati riguardo ai guadagni/perdite degli altri partecipanti.<br />

Non-sazietà: i compensi sono sufficientemente alti ed espressi in un’unità di scambio tale che i<br />

soggetti non ne sono mai sazi.<br />

Come si può constatare, i precetti forniscono allo sperimentatore delle indicazioni di massima<br />

riguardo a come controllare il contenuto delle preferenze dei soggetti che partecipano agli<br />

esperimenti. Solitamente i compensi vengono espressi in denaro in quanto nella nostra società esso<br />

è considerato quasi universalmente un bene, e in generale gli individui desiderano averne sempre di<br />

più. Ma in linea di principio i compensi potrebbero essere dei fiori, dei dolci, o qualsiasi altra cosa<br />

che i soggetti desiderano, purché essa soddisfi i precetti.<br />

E’ dunque importante sottolineare tre caratteristiche dei precetti: in primo luogo, il controllo sul<br />

comportamento individuale non è mai totale, in quanto le capacità cognitive e computazionali dei<br />

soggetti sperimentali, le loro credenze, l’informazione a disposizione, e altri fattori ancora possono<br />

essere lasciate più o meno “liberi” di variare a seconda dello scopo dell’esperimento. Questa libertà<br />

è in un certo senso ciò che distingue un vero e proprio esperimento da una simulazione: nella<br />

simulazione il comportamento finale è determinato dalle assunzioni teoriche riprodotte in<br />

laboratorio, mentre in un esperimento deve rimanere un elemento di sorpresa, o la possibilità di<br />

29


intro 16/07/2003<br />

scoprire qualcosa riguardo al mondo reale che non è stato “costruito” dallo sperimentatore. Inoltre, i<br />

precetti non definiscono esattamente come disegnare un esperimento. Sono soltanto “linee guida”<br />

che devono essere interpretate in modo flessibile a seconda delle circostanze. Infine, i precetti<br />

costituiscono in ogni particolare esperimento delle ipotesi empiriche, piuttosto che degli assiomi<br />

veri a priori. Questo significa che in alcuni casi gli sperimentatori potrebbero anche non riuscire a<br />

controllare le preferenze dei soggetti sperimentali. In termini più generali, questo significa che<br />

l’economia sperimentale non elimina le assunzioni ausiliari necessarie per controllare un’ipotesi<br />

scientifica; tali ipotesi sono necessarie tanto in laboratorio quanto nella ricerca empirica condotta<br />

sul campo. L’economia sperimentale però permette di creare circostanze nelle quali lo<br />

sperimentatore può assegnare un alto grado di probabilità all’ipotesi che le assunzioni ausiliari siano<br />

soddisfatte. Non solo: il vantaggio decisivo dell’approccio sperimentale è che qualora per qualsiasi<br />

ragione ci si trovasse a dubitare delle assunzioni ausiliarie su cui poggia l’esperimento, esse<br />

possono a loro volta essere controllate in laboratorio. Esiste infatti un’altra vasta classe di<br />

esperimenti nei quali la capacità stessa di “indurre” preferenze egoistiche o la massimizzazione del<br />

proprio reddito è al centro della ricerca sperimentale. I precetti stessi, in altri termini, fungono da<br />

ipotesi che vengono sottoposte a test empirico. Precetti quali quello di privacy indicano condizioni<br />

nelle quali la teoria economica può essere controllata in modo particolarmente severo. Gli<br />

esperimenti sulla decisione individuale condotti da molti economisti cognitivi e sperimentali<br />

appartengono a questa categoria. Ma sono estremamente rilevanti anche gli esperimenti sulle<br />

preferenze sociali descritti nella quarta parte di questo libro, e di cui ora diremo.<br />

2.3. Istituzioni, norme sociali e comportamento<br />

In generale, una delle differenze fra economia sperimentale ed economia cognitiva consiste<br />

nell’interesse prevalente da parte di quest’ultima per la razionalità individuale. Al contrario molti<br />

economisti sperimentali hanno allargato il campo delle loro ricerche allo studio della razionalità a<br />

livello sistemico. L’idea fondamentale è che in alcuni casi l’ordine a livello aggregato (di mercato)<br />

possa essere generato a prescindere dal comportamento razionale degli individui che agiscono nel<br />

mercato stesso. In effetti, come anticipato, una delle lezioni più importanti dei primi esperimenti sui<br />

mercati condotti da Smith e dai suoi collaboratori è che “le istituzioni sono importanti” (Plott e<br />

Smith, 1978, Smith 1987). Alcune di esse sono incapaci di “guidare” i comportamenti individuali<br />

verso e<strong>qui</strong>libri efficienti, mentre altre vi riescono egregiamente. Alcune istituzioni sono così potenti<br />

da riuscire addirittura a generare un ordine di mercato anche in presenza di agenti irrazionali (cfr. in<br />

particolare Gode e Sunder 1993).<br />

La centralità del ruolo delle istituzioni suggerisce un capovolgimento metodologico riguardo<br />

all’analisi economica ortodossa. L’economia neoclassica tende ad analizzare i fenomeni economici<br />

“dal micro al macro”; essa muove cioè dal comportamento individuale per spiegare i fenomeni<br />

sociali aggregati. Ma se le istituzioni e le norme sociali sono così importanti, allora pare opportuno<br />

in numerose circostanze muovere da esse per comprendere l’agire individuale. Le istituzioni sociali<br />

che influenzano il comportamento individuale sono di vario tipo. Alcune di esse sono molto<br />

esplicite e locali. Le istituzioni che governano lo scambio al New York Stock Exchange, per<br />

esempio, sono di questo genere: regole scritte e formulate in modo preciso, che chiunque voglia<br />

condurre scambi nel mercato azionario è tenuto a rispettare, pena gravi sanzioni anche penali.<br />

Diversi mercati sono governati da diverse regole, codificate a diversi livelli di precisione, talvolta<br />

non scritte ma per comune accordo o tradizione rispettate da tutti i partecipanti al gioco. (Non ci si<br />

aspetta, per esempio, che il mercato del pesce di Bari sia regolato allo stesso livello di dettaglio del<br />

NASDAQ.)<br />

All’estremità opposta dello spettro troviamo norme molto generali che non si applicano a situazioni<br />

definite in modo esatto, ma che non di meno possono influenzare il comportamento individuale in<br />

30


intro 16/07/2003<br />

modo decisivo. Prendiamo delle norme fondamentali quale il mantenere la parola data, non<br />

approfittare delle disgrazie altrui, dividere equamente ciò che si è guadagnato in gruppo, punire chi<br />

non coopera, e così via. Queste norme appartengono al codice morale di molte società per altri versi<br />

diversissime, ma solitamente non sono codificate per mezzo di un sistema preciso di definizioni e<br />

sanzioni. Norme come queste hanno tuttavia una grande importanza dal punto di vista economico.<br />

La teoria economica è in grado di confrontarsi con norme di questo tipo, ancora una volta grazie<br />

alla teoria dei giochi. Il “dilemma del prigioniero” – forse il modello più celebre e discusso nelle<br />

scienze sociali (e non solo) – deve parte della propria fama proprio al fatto che sembra contraddire<br />

clamorosamente alcune norme sociali (e di conseguenza alcune intuizioni morali) fortemente<br />

radicate nella nostra psicologia individuale. Il dilemma del prigioniero è rappresentato nella Tavola<br />

2.2. Ogni giocatore muove simultaneamente, scegliendo una delle due strategie: “Defeziona” o<br />

“Coopera”. Si tratta di un gioco non-cooperativo a motivi misti, in quanto ogni giocatore ha un<br />

incentivo a non cooperare quando l’avversario coopera, ma la soluzione Defeziona/Defeziona è<br />

dominata da Coopera/Coopera e dunque inefficiente. Defeziona/Defeziona è tuttavia l’unico<br />

e<strong>qui</strong>librio del gioco (un “e<strong>qui</strong>librio di Nash”, dal nome del matematico e premio Nobel in economia<br />

John Nash): se l’avversario gioca Coopera, è ottimale giocare Defeziona; se l’avversario gioca<br />

Defeziona, è ancora ottimale giocare Defeziona. La soluzione Coopera/Coopera, per quanto<br />

superiore da un punto di vista sociale rispetto a Defeziona/Defeziona, è instabile.<br />

Primo<br />

giocatore<br />

Tavola 2.2<br />

Secondo<br />

giocatore<br />

Defeziona Coopera<br />

Defeziona (1,1) (10,5)<br />

Coopera (5,10) (8,8)<br />

La logica del dilemma del prigioniero non è banale; a dispetto della teoria, la maggior parte delle<br />

persone “vedono” immediatamente il reciproco vantaggio nel giocare entrambi Coopera. In effetti i<br />

primi esperimenti col dilemma del prigioniero giocato una sola volta (one shot), effettuati per lo più<br />

da psicologi, riportano una percentuale notevole di soggetti disposti a cooperare. Ma perché<br />

esattamente si verifica questa “anomalia” del comportamento razionale?<br />

Una spiegazione plausibile, in linea con quanto accennato più sopra, è che i soggetti sperimentali<br />

seguano delle norme di comportamento sociale che prescrivono di cooperare in situazioni tipo<br />

dilemma del prigioniero. La cooperazione non è irrazionale in una situazione di gioco ripetuto<br />

indefinitamente. Anzi, costruirsi una buona reputazione, di giocatore “cooperativo” o onesto, può<br />

essere di grande utilità (pensiamo a quanto sia importante negli affari). Forse i soggetti sperimentali<br />

giocano il dilemma in laboratorio come se fosse un gioco ripetuto indefinitamente: non si rendono<br />

conto che non giocheranno mai più con gli stessi giocatori, dunque che non ha senso costruirsi una<br />

reputazione e che sarebbe nel loro interesse comportarsi da free rider. (E’ detto free rider colui che<br />

cerca di godere di un bene o servizio facendo sopportare ad altri il suo costo – come chi sale<br />

sull’autobus senza pagare).<br />

Ma esistono altre possibilità: potrebbe darsi che i soggetti sperimentali non si comportino nel modo<br />

egoistico postulato dalla teoria economica, e che per esempio cerchino di massimizzare non soltanto<br />

il proprio profitto ma anche (o soprattutto) quello altrui. Questo tipo di comportamento altruistico<br />

porterebbe a giocare “Coopera” pur sapendo che l’altro potrebbe giocare “Defeziona” – anzi,<br />

magari proprio perché ci si aspetta che l’avversario sia un free rider. Questa spiegazione si scontra<br />

tuttavia con una mole di evidenza sperimentale che mostra che quando il dilemma del prigioniero<br />

viene giocato ripetutamente la percentuale di cooperazione tende a diminuire progressivamente<br />

(Rapoport e Chammah 1965; Selten e Stoecker 1986).<br />

31


intro 16/07/2003<br />

Il capitolo 9 – “Le ragioni del free riding: strategie e apprendimento negli esperimenti coi beni<br />

pubblici” di James Andreoni – analizza questo fenomeno. Andreoni utilizza una variante del<br />

dilemma del prigioniero, il gioco dei beni pubblici, estremamente diffuso nella letteratura<br />

sperimentale. Un gioco dei beni pubblici, semplificando, è un dilemma del prigioniero con più di<br />

due giocatori e con una varietà di strategie più ampia della semplice alternativa “Defeziona o<br />

Coopera”. Ogni giocatore dispone a ogni turno di una somma (per esempio, 20 buoni) da dividere<br />

fra due “conti bancari”. Il primo conto è “privato” e garantisce un’unità di profitto per ogni buono<br />

versato (se versi 20 buoni, ne guadagni 20). Il secondo conto è “pubblico” e garantisce una frazione<br />

di profitto (per esempio il 50%) della totalità dei buoni depositati da tutti i membri del gruppo. Il<br />

punto cruciale è che tutti i giocatori godono dei profitti del conto pubblico in modo esattamente<br />

uguale, a prescindere da quanto vi hanno versato.<br />

Per esempio, immaginiamo che il gruppo sia composto da quattro giocatori, con 20 buoni a testa, e<br />

che il conto pubblico garantisca un profitto del 50%. La funzione di profitto (πi) di ciascun<br />

giocatore è data da<br />

4<br />

∑<br />

j=<br />

1<br />

π = 20 − g + 0.<br />

5 g ,<br />

i<br />

i<br />

j<br />

dove gi è il numero dei buoni versati dal giocatore i nel conto pubblico, e (20 – gi) è il profitto dal<br />

conto privato. E’ facilmente intuibile che, come nel dilemma del prigioniero, ogni giocatore è<br />

incentivato a non versare nulla nel conto pubblico. Se gli altri giocatori versano tutti i buoni a loro<br />

disposizione, infatti, il giocatore in questione guadagna (60/2) + 20 = 55 buoni se non versa nulla<br />

nel conto comune, contro (80/2) = 40 buoni se li versa anch’egli tutti nel conto pubblico, (79/2) + 1<br />

= 40,5 buoni se ne versa soltanto 19, (78/2) + 2 = 41 buoni se ne versa 18, e così via. D’altra parte,<br />

se tutti ragionano in questo modo, nessuno verserà nulla nel conto pubblico, e i profitti per ogni<br />

giocatore saranno pari a (0/2) + 20 = 20 buoni. Quest’ultimo, d’altronde, è l’unico e<strong>qui</strong>librio di<br />

Nash.<br />

Esistono diverse varianti rispetto a questa situazione di base (detta anche “gioco dei beni pubblici<br />

con agenti simmetrici e payoffs lineari”), che peraltro si presta alla sperimentazione grazie alla sua<br />

semplice struttura che lo rende di immediata comprensione. Come nel dilemma del prigioniero, nel<br />

gioco dei beni pubblici giocato una volta sola si osserva un livello anomalo di contribuzione al<br />

conto pubblico (in media, intorno al 50% dei buoni posseduto da ciascun giocatore). Quando il<br />

gioco viene giocato ripetutamente si verifica invece un fenomeno di progressivo decadimento delle<br />

contribuzioni, che tendono a scendere verso lo zero senza però mai raggiungerlo – anche se il gioco<br />

viene ripetuto fino a 60 volte consecutive.<br />

Secondo la teoria ortodossa, in un gioco dei beni pubblici ripetuto finitamente (cioè un numero predeterminato<br />

di volte) tutti i giocatori dovrebbero contribuire zero fin dal primo turno. Si tratta<br />

ancora una volta di un risultato contrario all’intuizione, derivato per mezzo di un ragionamento per<br />

“induzione all’indietro” (backward induction): all’ultimo turno non ha senso mantenere la propria<br />

reputazione di cooperatore, perché il gioco finisce. E’ dunque ottimale contribuire zero qualsiasi<br />

cosa facciano gli altri. Ma gli altri lo sanno: al penultimo turno, dunque, non ha senso per loro<br />

mantenere la propria reputazione di cooperatore, poiché si aspettano che io non cooperi in ogni<br />

caso. Lo stesso ragionamento si applica al terz’ultimo, quart’ultimo turno e così via fino al primo,<br />

col risultato che non è mai razionale cooperare. Eppure come si è detto negli esperimenti si verifica<br />

un discreto livello di cooperazione nei primi turni, che poi diminuisce gradualmente col procedere<br />

del gioco.<br />

Il fenomeno del decadimento dei contributi è stato replicato numerose volte, e suggerisce una<br />

spiegazione che permette di salvare l’ipotesi del free riding. I soggetti sperimentali forse imparano a<br />

conoscere il gioco nel corso dell’esperimento. Mentre all’inizio non capiscono quale sia la mossa<br />

32


intro 16/07/2003<br />

migliore, mano a mano che procedono essi apprendono che esiste un solo e<strong>qui</strong>librio e che bisogna<br />

giocarlo. Questa spiegazione ha stimolato la creazione di modelli con “errore e apprendimento”, nei<br />

quali gli individui contribuiscono inizialmente sopra l’e<strong>qui</strong>librio di Nash, ma a poco a poco si<br />

allineano con esso (Palfrey e Prisbey 1996, Anderson et al. 1998). Se alcuni soggetti commettono<br />

degli errori, è anche possibile che altri cerchino di sfruttare il loro comportamento fingendo di<br />

cooperare nei primi turni e poi defezionando a uno stadio più avanzato del gioco. Questa ipotesi può<br />

essere derivata rigorosamente per via teorica (Kreps et al. 1982) e complica non poco le cose<br />

introducendo di fatto due tipi di giocatori: (1) irrazionali, e (2) razionali che giocano in modo<br />

strategico.<br />

L’esperimento di Andreoni introduce due modifiche al gioco classico dei beni pubblici, che<br />

permettono di controllare sia l’ipotesi dell’apprendimento che quella del comportamento strategico.<br />

La prima variante consiste nel formare gruppi di due tipi: “Partners” che giocano sempre con le<br />

stesse persone, e “Strangers” che invece cambiano gruppo a ogni turno. In un gruppo di Partners ha<br />

senso giocare strategicamente per cercare di indurre gli altri a credere nella mia buona volontà di<br />

cooperatore. Nei gruppi di Strangers invece costruirsi una reputazione non ha senso, e i giocatori<br />

razionali dovrebbero sempre defezionare. Ma invece nell’esperimento di Andreoni gli Strangers non<br />

contribuiscono significativamente meno dei Partners, un risultato che confuta i modelli di<br />

comportamento strategico.<br />

La seconda variante consiste in una semplice interruzione a metà del gioco. Sorprendentemente,<br />

interrompere l’esperimento dopo qualche turno è sufficiente a far ritornare la contribuzione a livelli<br />

analoghi a quelli di inizio partita. L’idea che il decadimento sia dovuto a un effetto di<br />

apprendimento risulta dunque screditata: se di apprendimento si tratta, è davvero molto fragile,<br />

visto che pochi minuti di pausa sono sufficienti a fare ricadere i soggetti nello stesso “errore”.<br />

Andreoni ha cercato di spiegare il fenomeno della contribuzione nei giochi con beni pubblici<br />

postulando l’esistenza di giocatori altruisti. Ha addirittura ipotizzato l’esistenza di diversi tipi di<br />

altruismo, e ha cercato di distinguere fra di essi per mezzo di sofisticate tecniche sperimentali<br />

(Andreoni 1995a). L’ipotesi dell’altruismo appare plausibile in quanto conferma alcune nostre<br />

esperienze nella vita di tutti i giorni – aiuta a spiegare l’esistenza di istituzioni quali la Croce Rossa<br />

che si reggono sul volontariato, o il fatto che moltissime persone contribuiscono alla ricerca contro<br />

il cancro e altri progetti non-profit. Nel contesto dei giochi con beni pubblici, tuttavia, essa è<br />

difficile da dimostrare in quanto i giocatori hanno un chiaro incentivo egoistico a cooperare – a<br />

patto ovviamente che anche gli altri lo facciano. Nei debriefing (i questionari o interviste che spesso<br />

vengono fatte dopo gli esperimenti) molti soggetti sfogano la propria frustrazione nei confronti dei<br />

loro compagni di gruppo: “come fanno a non capire che cooperando avremmo potuto tutti<br />

guadagnare più soldi?” Insomma, non esattamente la reazione che ci aspeteremmo da parte di un<br />

altruista.<br />

Un’ipotesi intrigante è che in realtà esistano giocatori di diverso tipo. Nella vita di tutti i giorni<br />

sappiamo che ci sono egoisti, cooperativi, altruisti, e persone che mostrano tratti misti di tutte<br />

queste personalità. Alcuni economisti hanno cercato di individuare diversi tipi di personalità per<br />

mezzo di tecniche sofisticate tratte dalla psicologia sociale. Offermann et al. (1996) hanno mostrato<br />

che è possibile sottoporre a un test psicologico (la “decomposed game technique”) i soggetti prima<br />

di far loro giocare l’esperimento con beni pubblici, e che i risultati del test possono essere utilizzati<br />

per predire con una certa accuratezza il loro livello medio di contribuzione. Fischbacher et al.<br />

(2001) e Brandts e Schram (2001) hanno mostrato che altre tecniche possono condurre a risultati<br />

simili.<br />

Se diversi giocatori giocano in modo diverso, forse il fenomeno del decadimento della<br />

contribuzione è un effetto combinato di molti atteggiamenti individuali. Trovandosi in gruppo con<br />

33


intro 16/07/2003<br />

dei free riders, dei giocatori che vorrebbero cooperare invece defezionano per “reciprocare” il<br />

comportamento ostile. Se si potessero isolare i free riders dagli altri giocatori, si potrebbe forse<br />

osservare un livello di contribuzione stabilmente basso in alcuni gruppi, costantemente alto in altri –<br />

“disaggregando” così il fenomeno del decadimento della contribuzione. Burlando e Guala (2002)<br />

hanno creato sperimentalmente gruppi omogenei di free riders, di reciprocatori, e di altruisti, e<br />

hanno in effetti osservato livelli di contribuzione molto diversi nei tre gruppi, a conferma<br />

dell’ipotesi degli “agenti eterogenei”.<br />

Norme di e<strong>qui</strong>tà (fairness) e reciprocazione sembrano giocare un ruolo importante anche in un’altra<br />

classe di esperimenti, dedicati allo studio della contrattazione. Ancora una volta la teoria dei giochi<br />

costituisce storicamente il punto di partenza di questo genere di ricerca. Il più semplice modello di<br />

contrattazione è probabilmente il cosiddetto “gioco dell’ultimatum”, un gioco sequenziale a due<br />

giocatori nel quale il primo giocatore (“Uno”) offre al secondo (“Due”) la divisione di una somma x<br />

in due parti (k, x – k). Se Due accetta la divisione, ognuno si porta a casa quanto proposto da Uno.<br />

Altrimenti, se Due rifiuta, nessuno dei giocatori guadagna nulla (0, 0). Il gioco dell’ultimatum<br />

riproduce alcune caratteristiche essenziali dello scambio di mercato. Secondo la teoria neoclassica,<br />

uno scambio di mercato produce benessere, nel senso che entrambe le parti preferiscono scambiare i<br />

propri beni piuttosto che mantenere lo status quo. Banalmente: tutte le mattine preferisco privarmi<br />

di 90 centesimi e ottenere una copia del mio giornale preferito, mentre il giornalaio preferisce<br />

privarsi di una copia in cambio dei miei 90 centesimi. L’utilità di entrambi è aumentata dopo lo<br />

scambio, che dunque genera una situazione Pareto-superiore a quella esistente prima dello scambio.<br />

Tuttavia, il giornalaio mi avrebbe forse venduto il giornale anche per meno di 90 centesimi. Forse<br />

avrebbe ottenuto un profitto anche se io lo avessi pagato 80, e io avrei potuto avere<br />

contemporaneamente il giornale e 10 centesimi in più nelle mie tasche. Ed entrambi ci avremmo<br />

ancora guadagnato, nel senso che entrambi avremmo preferito scambiare a un prezzo inferiore<br />

piuttosto che non scambiare per nulla. Tuttavia quando un bene ha un prezzo fisso la contrattazione<br />

assume la forma di un’offerta del genere “prendere o lasciare”. In tali circostanze il venditore (il<br />

giocatore Uno) ha interesse ad alzare il prezzo al massimo, ovvero a offrire una divisione della torta<br />

(il “surplus” di utilità generato dallo scambio) che garantisca il massimo di guadagno a se stesso, e<br />

il minimo al compratore (giocatore Due). In gergo, il gioco dell’ultimatum ha un solo e<strong>qui</strong>librio di<br />

Nash, dove Uno offre a Due una quantità x – k = ε positiva ma il più vicino possibile allo zero. Due<br />

accetta in quanto ε è comunque superiore a zero e <strong>qui</strong>ndi non gli conviene rifiutare l’offerta.<br />

Tuttavia qualsiasi offerta fra 0 + ε e x – ε è Pareto efficiente.<br />

Gli esperimenti con il gioco dell’ultimatum hanno fin da subito generato risultati anomali rispetto<br />

alla teoria. Guth, Schmittberger e Schwartz (1982) riportano offerte inferiori al 70% della somma da<br />

dividere (x), dunque lontane dalla predizione teorica k = x – ε, e numerosi casi di rifiuto di offerte<br />

positive da parte del giocatore Due. Questo risultato solleva due questioni interessanti: primo,<br />

bisogna trovare una spiegazione del perché i soggetti non giochino l’e<strong>qui</strong>librio di Nash; secondo,<br />

occorre spiegare perché molte coppie di giocatori si coordinano su divisioni fra (50%, 50%) e (70%,<br />

30%). Guth (1988) propende per una spiegazione basata sull’esistenza di norme sociali che fungono<br />

da “punti focali”, ovvero identificano un livello di offerta che l’altro giocatore dovrebbe trovare<br />

“equo” o “ragionevole”. Un’offerta esageratamente iniqua in favore di Uno potrebbe infatti portare<br />

Due a sentirsi vittima di un’ingiustizia e dunque a rifiutare l’offerta rinunciando a parte del proprio<br />

guadagno. La scelta di offrire fra il 30 e il 50% al secondo giocatore potrebbe dipendere<br />

dall’interazione fra considerazioni di “pura giustizia” e il tentativo strategico di sfruttare in parte la<br />

propria posizione di potere.<br />

Altri economisti propendono per un’interpretazione diversa, che salva almeno in parte l’analisi<br />

teorica standard. Binmore, Shaked e Sutton (1985) per esempio suggeriscono che molti rifiuti siano<br />

da imputare al basso costo, ovvero al fatto che quando x – k si avvicina a zero la differenza fra<br />

34


intro 16/07/2003<br />

accettare e rifiutare diventa insignificante dal punto di vista economico. In un esperimento molto<br />

dibattuto e metodologicamente discutibile (nelle istruzioni i soggetti erano esplicitamente invitati a<br />

massimizzare i propri payoffs) Binmore et al. testano un modello di gioco dell’ultimatum ripetuto<br />

due volte, nel quale i giocatori si scambiano i ruoli, con un e<strong>qui</strong>librio di Nash k = x × 0,75. Con<br />

questo disegno sperimentale, i soggetti sembrano “imparare” nella seconda fase del gioco a<br />

convergere sull’e<strong>qui</strong>librio. Il problema però, come notato per esempio da Guth e Tiez (1988), è che<br />

l’e<strong>qui</strong>librio di Nash in questo caso è troppo prossimo alla divisione equa osservata nei precedenti<br />

esperimenti per poter discriminare fra le due ipotesi (comportamento egoistico e razionale piuttosto<br />

che dettato da norme sociali). Nello stesso tipo di esperimento, quando l’e<strong>qui</strong>librio viene spostato<br />

verso k = x × 0,90 si osservano significative deviazioni verso offerte del 60-75%.<br />

Anche l’idea che i rifiuti di offerte “inique” siano dovuti alla scarsa rilevanza degli incentivi<br />

monetari è stata screditata da successivi esperimenti. Mentre gli esperimenti condotti negli Usa e in<br />

Europa tendono ad avere bassi payoff per ovvie ragioni finanziarie, è possibile replicare i risultati in<br />

paesi dove allo stesso valore nominale corrisponde un incentivo molto alto in termini reale.<br />

Cameron (1999) per esempio non ha trovato nessuna differenza in esperimenti di ultimatum one<br />

shot condotti in Indonesia (la ripetizione sembra invece avere qualche importanza, vedi Slonim e<br />

Roth 1998).<br />

Gli esperimenti “transculturali” sollevano anche un altro tipo di questione, ovvero la robustezza dei<br />

risultati ottenuti nei paesi occidentali. Se le norme sociali hanno davvero importanza, il<br />

comportamento dei soggetti sperimentali potrebbe variare considerevolmente a seconda delle<br />

concezioni di e<strong>qui</strong>tà e giustizia prevalenti in diversi contesti culturali. Nel capitolo 10<br />

(“Contrattazione di mercato a Gerusalemme, Lubiana, Tokio e Pittsburgh: uno studio<br />

sperimentale”) Alvin Roth, Vesna Prasnikar, Masahiro Okuno-Fusiwara e Shmuel Zamir riportano i<br />

risultati di un esperimento replicato in quattro paesi diversi. Si tratta di un esperimento articolato in<br />

due fasi. Nella prima fase un venditore si trova alle prese con nove compratori, che propongono<br />

varie divisioni di una somma fissa (x = 10 dollari). Se il venditore accetta l’offerta di un<br />

compratore, i dieci dollari vengono suddivisi come proposto dal compratore e tutti gli altri giocatori<br />

guadagnano zero. Se il venditore rifiuta tutte le offerte, nessuno guadagna nulla. La teoria standard<br />

prevede che il venditore ottenga una fetta preponderante della “torta”, cosa che puntualmente si<br />

verifica in tutti gli esperimenti, a prescindere dal contesto socio-culturale.<br />

Nella seconda fase, invece, i soggetti partecipano a un gioco dell’ultimatum ripetuto dieci volte con<br />

dieci diversi partners. I risultati di questa fase dell’esperimento sono radicalmente diversi: non<br />

soltanto in generale il comportamento devia in modo significativo dalle predizioni della teoria, ma i<br />

livelli di offerta e i rifiuti variano considerevolmente a seconda della nazionalità dei partecipanti.<br />

Gli americani e gli slavi tendono a proporre una divisione equa (50%, 50%) più spesso di quanto<br />

facciano i giapponesi e gli israeliani, che invece offrono più spesso soltanto il 40% al proprio<br />

partner. Gli israeliani inoltre sembrano essere più inclini ad accettare divisioni inique di quanto lo<br />

siano gli altri. Il dato più rilevante, in ogni caso, emerge confrontando i risultati delle due fasi<br />

sperimentali. Nella prima fase la competizione fra i compratori spinge i partecipanti a comportarsi<br />

come previsto dalla teoria, mentre nel gioco dell’ultimatum le norme culturali di e<strong>qui</strong>tà influenzano<br />

in modo molto più significativo i risultati sperimentali. Ancora una volta, le circostanze nel quale le<br />

contrattazioni hanno luogo, le regole e istituzioni che governano lo scambio sembrano determinare<br />

in modo cruciale il comportamento individuale. Da una parte, l’ipotesi che gli esseri umani siano<br />

sempre, in ogni circostanza massimizzatori razionali della propria utiltà, e che quest’ultima dipenda<br />

soltanto dal reddito, risulta pesantemente screditata dai dati sperimentali. Dall’altra, l’analisi<br />

neoclassica risulta fortemente corroborata dagli esperimenti condotti nelle circostanze istituzionali<br />

“giuste”.<br />

35


intro 16/07/2003<br />

2.4. Teoria ed esperimento<br />

Abbiamo detto che il carattere distintivo dell’economia sperimentale è di tipo metodologico,<br />

piuttosto che teorico. Ma quale metodo? Il vantaggio fondamentale della sperimentazione<br />

controllata rispetto alla ricerca empirica sul campo consiste nella possibilità di variare a piacere le<br />

condizioni sperimentali e di intervenire manipolando le variabili principali, per scoprire “cosa<br />

succede se…” si verifica un certo evento. Si tratta di una definizione di metodo sperimentale tanto<br />

vaga quanto condivisa. I problemi sorgono non appena cerchiamo di renderla più precisa e rigorosa.<br />

Nei loro articoli esplicitamente metodologici alcuni economisti sperimentali insistono<br />

sull’importanza del controllo della teoria. Charles Plott, in particolare, sostiene che la rivoluzione<br />

metodologica dell’economia sperimentale consiste nell’aver spostato l’attenzione dallo studio dei<br />

fenomeni economici nel “mondo reale” al controllo dei modelli teorici:<br />

Gli esperimenti non venivano presi sul serio poiché in quanto simulazioni essi risultavano incompleti […]. Una volta<br />

che i modelli, invece delle economie, furono spostati al centro della ricerca la semplicità di un esperimento e forse<br />

perfino l’assenza delle caratteristiche di economie più complesse divenne un vantaggio. Un esperimento dovrebbe<br />

essere giudicato in base a ciò che insegna riguardo alla teoria, e non in base alla somiglianza con ciò che la natura può<br />

aver creato (Plott 1991, p.906).<br />

Questo atteggiamento presenta innegabili vantaggi retorici e disinnesca una mina piazzata sotto il<br />

nascente edificio dell’economia sperimentale. Nella misura in cui gli esperimenti si configurano<br />

come controlli delle teorie – argomenta Plott – l’obiezione circa l’irrealismo e il particolarismo dei<br />

risultati di laboratorio viene a cadere sui modelli piuttosto che sugli esperimenti. Non è inoltre da<br />

trascurare il fatto che l’economia è una disciplina dominata da una forte componente teorica e<br />

<strong>qui</strong>ndi “l’insegnare qualcosa sulla teoria” è percepito come un obbiettivo di per sé degno.<br />

Ma nonostante l’efficace difesa di Plott, l’affermazione che l’economia sperimentale sia<br />

principalmente volta al controllo delle teorie economiche è fuorviante. Essa è per giunta nefasta, in<br />

quanto suggerisce erroneamente che per effettuare un buon esperimento sia sufficiente prendere un<br />

modello, fare in modo che le assunzioni teoriche e le condizioni iniziali siano realizzate in<br />

laboratorio, e <strong>qui</strong>ndi osservare se le predizioni del modello sono confermate dai dati sperimentali. In<br />

realtà il contesto sperimentale non è mai così preciso e netto. Sia negli esperimenti di mercato<br />

inaugurati da Vernon Smith che negli esperimenti sui beni pubblici (si vedano anche i capitoli 3 e<br />

9), per esempio, è vero che per certi versi la teoria economica ha fornito uno stimolo cruciale alla<br />

sperimentazione. (Nel primo caso, la teoria descriveva in modo poco convincente il funzionamento<br />

delle istituzioni che coordinano le scelte degli individui e la determinazione del prezzo di e<strong>qui</strong>librio;<br />

nel secondo caso, la teoria forniva una predizione - il fenomeno del free riding - che cozza con le<br />

nostre intuizioni e con la nostra esperienza nella vita di tutti i giorni.)<br />

Ma, per altri versi, la teoria gioca un ruolo molto più limitato di quanto possa apparire a una analisi<br />

superficiale. Nel caso degli esperimenti di mercato, per esempio, la teoria non è sempre in grado di<br />

fornire precise predizioni riguardo agli effetti dell’utilizzo di un sistema di regole piuttosto che di<br />

un altro. E ancora, nel caso degli esperimenti con beni pubblici la teoria suggerisce le caratteristiche<br />

principali del disegno sperimentale, ma una volta stabilito che non è in grado di spiegare fenomeni<br />

quali la contribuzione e il suo progressivo decadimento nei giochi ripetuti, lo sperimentatore è<br />

lasciato a se stesso nel difficile tentativo di scoprire le cause di questi fenomeni. E’ pertanto più<br />

accurato descrivere gli esperimenti con beni pubblici come il controllo sistematico di una serie di<br />

ipotesi “extra-teoriche” – suggerite dal senso comune, da fenomeni del mondo reale, o<br />

dall’esperienza dello sperimentatore – che come tentativi di controllare in laboratorio le predizioni<br />

di una teoria.<br />

36


intro 16/07/2003<br />

Più precisamente, il nucleo metodologico dell’economia sperimentale consiste nel cosiddetto<br />

modello dell’esperimento perfettamente controllato (Tavola 2.3). Il controllo sperimentale consiste<br />

nella possibilità di variare un fattore alla volta fra tutti i fattori potenzialmente rilevanti per la<br />

creazione di un certo effetto o per il funzionamento di un certo sistema (un’economia per esempio),<br />

tenendo gli altri fattori e le condizioni di sfondo costanti. Nella Tavola 2.2 abbiamo rappresentato<br />

con la variabile X il fattore principale e con Y il suo effetto. I Ki sono altri fattori e condizioni di<br />

sfondo potenzialmente rilevanti che vengono per l’appunto controllati nell’esperimento, in modo da<br />

poter misurare l’effetto (Y2 – Y1) di X quando esso agisce “in isolamento” e confrontarlo con quanto<br />

accade in un sistema sperimentale nel quale il trattamento non è stato somministrato (Y4 – Y3).<br />

Trattamento Altri fattori (Ki)<br />

Gruppo sperimentale Y1 X Y2 Constanti<br />

Gruppo di controllo Y3 Y4 Constanti<br />

Tavola 2.3<br />

Il modello dell’esperimento perfettamente controllato è centrale non soltanto in economia ma in<br />

tutte le scienze che fanno uso del metodo sperimentale. Talvolta la sua rilevanza viene oscurata dal<br />

fatto che un singolo esperimento non presenta la struttura dell’esperimento perfettamente<br />

controllato – per esempio perché non ci sono due gruppi di soggetti distinti (sperimentale e di<br />

controllo). Ma si tratta più che altro di un’illusione ottica nella quale cadiamo allorché non<br />

consideriamo l’esperimento nel contesto generale del programma di ricerca a cui esso appartiene.<br />

Se un particolare effetto (la contribuzione nei beni pubblici per esempio) è stato osservato in un<br />

certo contesto (per esempio con studenti universitari americani), alcuni ricercatori potrebbero<br />

chiedersi se quel particolare fattore (la nazionalità e dunque l’appartenenza culturale dei soggetti)<br />

sia rilevante per il fenomeno in questione. Essi possono dunque effettuare un esperimento con<br />

studenti universitari italiani, e vedere se ci sono differenze rilevanti fra le due situazioni<br />

sperimentali, mantenendo il resto del disegno sperimentale identico. In un caso del genere, il<br />

“gruppo di controllo” è dato automaticamente dal primo esperimento (quello americano) con il<br />

quale si confrontano i risultati. Il gruppo di controllo c’è sempre, anche se magari non è esplicitato.<br />

Il confronto fra situazioni diverse è cruciale per un semplice motivo: soltanto confrontando cosa<br />

succede quando manipoliamo X con ciò che accade quando non lo manipoliamo, possiamo scoprire<br />

se X è una causa dell’effetto Y – o in altre parole se le variabili X e Y sono legate da una relazione<br />

causale. Si noti che le due situazioni da confrontare devono essere diverse ma non troppo. Si tratta<br />

di una procedura del tutto in linea col senso comune: se vogliamo scoprire la causa di un<br />

cortocircuito in cucina, dovremo staccare tutti gli elettrodomestici, e poi accenderli uno a uno<br />

lasciando tutti gli altri spenti. Se invece li accendiamo tutti insieme, quando salta la luce non<br />

sapremo se la causa del cortocircuito sia il tostapane o il frigorifero o il frullatore, ecc. perché<br />

stiamo confrontando due situazioni troppo diverse: una nel quale il tostapane e tutti gli altri<br />

elettrodomestici sono spenti, rispetto a una nel quale il tostapane e tutti gli atri elettrodomestici sono<br />

accesi.<br />

Per essere certi che il tostapane sia davvero responsabile del cortocircuito, dobbiamo essere certi<br />

che nessun altra condizione rilevante venga modificata quando lo accendiamo. Questa fiducia ci<br />

viene per esempio dal fatto che la cucina è un sistema “chiuso” o almeno “isolabile”, nel senso che<br />

possiamo fare in modo che nessuno si intrometta facendo confusione mentre stiamo lavorando. Lo<br />

stesso accade in laboratorio, dove a differenza che nel mondo reale possiamo isolare la nostra<br />

microeconomia dai disturbi del mondo esterno. Il che, ovviamente, non è possibile con le economie<br />

reali, sistemi “aperti” in continua evoluzione e sottoposti a mille influenze di tipo sociale, politico,<br />

naturale, ecc.<br />

37


intro 16/07/2003<br />

Da dove viene dunque la lista dei fattori Ki da controllare nel corso di un esperimento? In parte<br />

dalla teoria economica, la quale identifica alcuni fattori che possono essere importanti per il<br />

fenomeno che si intende investigare. In questo modo essa suggerisce allo sperimentatore alcuni<br />

aspetti importanti del disegno sperimentale. Ma essa non è in grado di determinare tutti i dettagli di<br />

un esperimento, per almeno due motivi. In primo luogo, i modelli teorici in economia (ma anche<br />

nelle altre scienze) includono numerose assunzioni idealizzate che non devono essere interpretate<br />

alla lettera. La teoria newtoniana per esempio postula l’esistenza di punti-massa senza dimensioni,<br />

ma si tratta di un’idealizzazione a scopi puramente matematico-formali. In economia abbiamo<br />

assunzioni quali il numero infinito di agenti sul mercato, la conoscenza perfetta, ecc. che non ci si<br />

aspetta di vedere realizzate esattamente nel mondo reale. Ma la teoria stessa non fornisce una guida<br />

precisa all’interpretazione delle idealizzazioni.<br />

Il secondo motivo riguarda invece le astrazioni della teoria, ovvero gli aspetti della realtà che<br />

vengono ignorati nei modelli per ragioni di semplicità o trattabilità. Spesso questo aspetto viene<br />

sottolineato specificando che un certo risultato teorico è valido soltanto ceteris paribus, ovvero in<br />

condizioni simili a quelli di un modello dove certi fattori non specificati sono assenti o mantenuti<br />

artificialmente “stabili”. Il punto rilevante è che la clausola ceteris paribus serve a includere in un<br />

colpo solo una lista molto lunga di fattori, alcuni dei quali non sono neppure formalizzabili nei<br />

termini della teoria, altri magari neppure conosciuti. In un esperimento può capitare che gli<br />

economisti siano interessati proprio a controllare se alcuni di questi fattori “extrateorici” siano<br />

importanti o meno, e ovviamente la teoria non ci può aiutare in questo compito. L’intuito dello<br />

sperimentatore e la sua esperienza sono cruciali nel disegnare un buon esperimento.<br />

Il modello dell’esperimento controllato definisce dunque le condizioni ideali per la scoperta di<br />

relazioni causali. Questa aspetto cruciale è spesso oscurato nelle descrizioni dell’economia<br />

sperimentale che danno troppa enfasi al controllo delle teorie. Derivare una predizione da una teoria<br />

e osservare se la predizione viene confermata oppure smentita dai dati non è di grande utilità se allo<br />

stesso tempo se ci facciamo un’idea del perché la teoria prevede quel tipo di fenomeno. Gli<br />

esperimenti controllati promettono di confrontarsi con questo tipo di problema investigando<br />

l’effetto di diversi fattori presi singolarmente fra quelli indicati dalla teoria, ma anche fra quelli che<br />

la teoria non è in grado di modellare e che vengono relegati nelle clausole ceteris paribus.<br />

Anche in questo caso, come già abbiamo avuto modo di notare, l’influente metodologia di Milton<br />

Friedman (1953), con il suo accento sulle predizioni come mezzo per controllare le teorie, ha<br />

esercitato un’influenza negativa sugli economisti e non li ha guidati nella migliore direzione per<br />

comprendere i vantaggi della sperimentazione controllata. Prevedere accuratamente non è l’unico<br />

scopo della scienza economica. Gli economisti sono un po’ come medici che non si accontentano di<br />

prevedere un’epidemia ma vogliono anche dirci come prevenirla o curarla. L’economia serve anche<br />

(soprattutto, forse) a intervenire, suggerendo l’efficacia di determinate politiche economiche. E<br />

l’intervento richiede non soltanto capacità predittive. Gli economisti sperimentali non si limitano a<br />

considerare le teorie economiche “come se” descrivessero realisticamente i meccanismi del mondo<br />

reale; essi cercano anche di capire quali meccanismi o fattori sono effettivamente operanti da un<br />

punto di vista causale.<br />

L’attenzione per l’intervento e non solo per la rappresentazione (teorica) accomuna in modo<br />

innovativo economisti sperimentali ed economisti cognitivi. Abbiamo già detto dell’importanza che<br />

gli economisti cognitivi ripongono nelle tecniche di debiasing e nella connessa ricerca di teorie<br />

“prescrittive” della decisione. Inoltre il rifiuto del predittivismo strumentalista è alla radice di<br />

entrambi i programmi di ricerca. Dopotutto, modelli lineari anche molto banali, con poche e<br />

semplici variabili scelte con un po’ di attenzione sono in grado di prevedere con discreto successo<br />

in varie circostanze (Dawes 1979). Non diversamente, per intenderci, da come un cacciavite può<br />

essere usato in certe situazioni anche per tagliare il pane. Ma in altre circostanze (se il pane è molto<br />

38


intro 16/07/2003<br />

friabile oppure se dobbiamo tagliare fette molto sottili) il cacciavite risulterà inadeguato. In casi del<br />

genere è importante sapere perché uno strumento non funziona bene, e questo è possibile soltanto se<br />

siamo in grado di comprendere gli aspetti reali del problema da risolvere. Fuor di metafora, per<br />

modificare i modelli irrealistici dell’economia quando essi cessano di prevedere in modo accurato è<br />

necessario comprendere i meccanismi (cognitivi) della scelta e i meccanismi (istituzionali) di<br />

allocazione dei mercati reali. La classica obiezione avanzata dai seguaci di Friedman è che nessun<br />

modello scientifico può essere del tutto realistico. Questo è vero, ma alcuni generi di irrealisticità<br />

sono innocui, altri no. E per saperlo non ci resta che essere realisti riguardo ai nessi causali, le<br />

relazioni che ci permettono di intervenire per migliorare in mondo in cui viviamo (costruendo<br />

magari buoni coltelli – coltellini svizzeri!).<br />

2.5 L’ingegneria economica<br />

Ricapitolando: la critica principale che viene rivolta all’economia sperimentale è che gli esperimenti<br />

hanno luogo in condizioni particolari e irrealistiche, molto diverse dalle economie reali alle quali in<br />

ultima analisi ci si propone di trasferire i risultati di laboratorio. La via d’uscita suggerita da Plott e<br />

altri consisteva nel deviare la critica dall’irrealisticità degli esperimenti all’irrealisticità dei modelli.<br />

(Dopotutto, se questi ultimi sono troppo astratti o idealizzati non è certo colpa degli sperimentatori<br />

– cfr. anche Smith 1982; Wilde 1980). Essa tuttavia non riesce a risolvere il problema – anzi, se mai<br />

ne enfatizza l’importanza mostrando che il problema della trasferibilità (o “validità esterna”) degli<br />

esperimenti dal laboratorio al mondo reale è molto più pressante e diffuso di quanto si pensi.<br />

Si tratta di un problema avvertito da tutte quelle discipline come l’economia, la medicina e la<br />

biologia, per esempio, che aspirano a risolvere problemi fuori dal laboratorio. Gli esperimenti<br />

controllati sono un potente metodo di indagine per controllare ipotesi causali, ma si tratta di un<br />

potere guadagnato a spese della generalità. Proprio in quanto diverso dal mondo reale, l’ambiente di<br />

laboratorio risulta molto utile nello scoprire nessi causali. Ma più il laboratorio si differenzia dal<br />

mondo reale, più sarà difficile generalizzare i risultati al di fuori di esso.<br />

Il problema ovviamente non è limitato alle scienze mediche e sociali. In fisica i risultati<br />

sperimentali trovano spesso applicazioni fuori dal laboratorio. Uno sguardo attento a tali<br />

applicazioni tecnologiche, tuttavia, mostra che esse sono solitamente ottenute tanto “aggiustando” il<br />

laboratorio allo scopo di replicare le condizioni del “mondo reale”, quanto manipolando<br />

quest’ultimo in modo da assomigliare a un piccolo laboratorio. I raggi catodici che fanno funzionare<br />

le nostre televisioni, per esempio, sono il prodotto di un meccanismo sofisticato che è stato prima<br />

testato in laboratorio, poi stabilizzato in una fabbrica, e <strong>qui</strong>ndi rinchiuso in una scatola protettiva e<br />

venduto nei negozi delle nostre città. Fuori dal loro ambiente protetto e standardizzato i raggi<br />

catodici non potrebbero venire prodotti con facilità e affidabilità. Ovviamente la fisica è in grado di<br />

prevedere anche il comportamento di sistemi “naturali”, ma si tratta per lo più di sistemi<br />

naturalmente isolati da cause perturbanti, che si comportano in modo ripetitivo – come per esempio<br />

il sistema solare. Quando si tratta di prevedere l’evoluzione di sistemi “aperti” anche le scienze<br />

naturali si trovano in grande difficoltà (pensiamo ai problemi che devono affrontare i meteorologi).<br />

Credere che i modelli che spiegano fenomeni di laboratorio si estendano anche a questi sistemi<br />

complessi è un atto di fede scarsamente corroborato dall’evidenza empirica.<br />

In generale, più ci si allontana dalle semplici formule dei fisici teorici, più aumenta di importanza la<br />

conoscenza del contesto di applicazione del modello o teoria in questione. Facciamo un esempio: il<br />

laser. Il laser è definito in base alla sua funzione: si tratta di una macchina capace di produrre una<br />

radiazione altamente coerente, uno strumento dotato della capacità di “laseggiare”, per così dire<br />

(lasing). (L’acronimo sta infatti per Light Amplified by Stimulated Emission of Radiation.) Secondo<br />

39


intro 16/07/2003<br />

la definizione da manuale, la sua struttura può essere descritta a un alto livello di astrazione nel<br />

modo seguente:<br />

queste macchine hanno in comune un materiale attivo (per esempio un rubino) per convertire parte dell’energia in una<br />

luce laser; e degli specchi, uno dei quali semi-trasparente, per fare in modo che il raggio attraversi il materiale attivo<br />

molte volte e in questo modo diventi grandemente amplificato. (L. Allen and D.G.C. Jones, Principles of Gas Lasers,<br />

New York: Plenum Press, 1967; citato in Cartwright, 1989, p. 216.<br />

Nel descrivere la struttura astratta di un laser, gli autori hanno inserito tra parentesi degli esempi di<br />

materiali che possono essere usati in concreto per costruire una macchina che “laseggia”. Ma<br />

esistono in linea di principio altri modi e altri materiali per raggiungere lo stesso risultato (il<br />

materiale attivo, per esempio, può essere un gas). Il punto è che per quanto ci si sforzi di fornire una<br />

descrizione del processo di costruzione di un laser, il livello di dettaglio non sarà mai sufficiente a<br />

guidare ogni mossa dello scienziato. Si tratta di un problema molto generale, che Nancy Cartwright<br />

chiama “questione dell’astrazione materiale”:<br />

Un fisico può predicare i principi secondo i quali un laser dovrebbe funzionare; ma soltanto gli ingegneri sanno come<br />

estendere, correggere, modificare, o aggirare quei principi per adattarli ai diversi materiali che possono essere<br />

assemblati per produrre un laser funzionante. I principi della fisica in qualche modo astraggono da tutte le<br />

manifestazioni materiali del laser, per fornire una descrizione generale che è in qualche senso comune a tutte, ma non<br />

letteralmente vera di alcuna di esse (1989, p. 211).<br />

Questa difficoltà è connessa al carattere eminentemente ad hoc di gran parte dell’applicazione della<br />

scienza. Ma poiché sono proprio le applicazioni tecnologiche (i laser, i radar, gli aerei e le navicelle<br />

spaziali) a indurci a prendere sul serio le teorie che le hanno ispirate, non possiamo esimerci dal<br />

confrontarci con esse e dall’esaminare più nei dettagli la relazione esistente fra teoria e<br />

applicazione. Il punto è che le teorie sono sostenute epistemicamente anche dall’uso che ne<br />

facciamo, ovvero dai successi tecnologici che esse consentono. Il progresso consiste nel saper fare,<br />

nella capacità di creare nuovi fenomeni e di intervenire per modificare l’esistente. Il fatto per<br />

esempio che i raggi laser possono venire usati per correggere la miopia, o per bucare la corazza di<br />

un carro armato, suggerisce una profonda differenza fra la scienza e l’astrologia, le favole o la<br />

critica letteraria. E’ la crescita cumulativa della conoscenza scientifica a livello tecnologico a<br />

segnare la differenza principale fra scienze empiriche e altre discipline intellettuali.<br />

Non diversamente dalle teoria della fisica, anche le teorie economiche hanno la forma di sistemi<br />

assiomatici, ma in pratica non contengono informazioni sufficienti per legare il mondo delle idee<br />

con quello dei fatti concreti. Come dei libri di cucina, le teorie sono costituite da una serie di esempi<br />

(“esemplari” o “modelli”) che suggeriscono come come spiegare (e talvolta creare) fenomeni di un<br />

certo tipo. Ma come le ricette di cucina, molto è lasciato all’immaginazione e alle capacità<br />

individuali dello scienziato. Poche persone sono in grado di cucinare una buona Sacher torte,<br />

specialmente se non hanno mai cucinato dolci in precedenza, e l’aiuto di una buona ricetta non<br />

risolverà tutti i problemi che incontreranno nel corso della preparazione. Allo stesso modo, nessun<br />

principiante è in grado di far funzionare uno strumento delicato o di replicare un esperimento sulla<br />

base soltanto di un libretto di istruzioni o di un manuale. (Per questo motivo la trasmissione del<br />

sapere scientifico è tanto di tipo linguistico quanto di tipo pratico e visivo. Quando uno scienziato<br />

intende replicare un esperimento deve ac<strong>qui</strong>sire una serie di tecniche nuove, e il metodo migliore di<br />

apprendimento consiste nel vedere e nel fare.)<br />

Il problema del passaggio dalla scienza pura alla scienza applicata si articola in almeno due<br />

passaggi: in primo luogo, si pone il problema della validità di un modello teorico in laboratorio,<br />

ovvero in circostanze sperimentali “artificiali” create per controllare il modello stesso. Poi, si pone<br />

il problema della trasferibilità del risultato sperimentale fuori dal laboratorio, nel “mondo reale” che<br />

in ultima analisi intendiamo controllare, modificare o anche soltanto spiegare sulla base della nostra<br />

conoscenza teorica e sperimentale. Gli scienziati sociali e gli psicologi sono soliti chiamare la prima<br />

40


intro 16/07/2003<br />

questione “problema della validità interna dell’esperimento”, mentre las econda viene solitamente<br />

identificata come problema della “validità esterna” o “ecologica”. Gli economisti utilizzano una<br />

terminologia ancora diversa, e hanno coniato il termine “parallelismo” per riferirsi a quest’ultimo<br />

problema (cfr. Smith 1982). Non esistono ricette semplici e universali per dimostrare la validità<br />

esterna o parallelismo dei risultati sperimentali. Soltanto il lavoro e una buona dose di ingegnosità<br />

da parte dei tecnici è in grado di trasformare un esperimento nella soluzione di un problema “reale”.<br />

E una condizione necessaria per ottenere la trasferibilità è che l’economia “reale” non sia troppo<br />

diversa dal sistema “importato” in laboratorio.<br />

A questo proposito, nella <strong>qui</strong>nta e ultima parte del libro abbiamo incluso due esempi di come un<br />

risultato sperimentale possa aiutare nella comprensione e soluzione di un problema economico<br />

“reale”. Entrambi gli articoli riportano esperimenti nel campo della teoria delle aste. Come abbiamo<br />

avuto modo di osservare, la teoria delle aste si applica a sistemi economici relativamente semplici<br />

presi in isolamento, e i mercati da essa studiati possono essere analizzati per mezzo di tecniche di<br />

e<strong>qui</strong>librio parziale prescindendo dall’economia nella sua interezza.<br />

Nel capitolo 11, “Maledizione del vincitore e informazione pubblica nelle aste a valore comune”,<br />

John Kagel e Dan Levin si misurano con un problema concreto. Nel 1971 alcune compagnie<br />

petrolifere avevano sostenuto di aver pagato al governo americano prezzi troppo alti per le<br />

concessioni nel Golfo del Messico. Il problema, a loro avviso, era dovuto al sistema d’asta utilizzato<br />

per vendere le concessioni, che li avrebbe indotti sistematicamente in errore nelle loro valutazioni.<br />

Si tratta di un argomento difficilmente controllabile per mezzo di dati raccolti sul campo, in quanto<br />

è difficile determinare il valore di una concessione nel lungo periodo, così come osservare le stime<br />

soggettive di tale valore operate dalle aziende petrolifere. Kagel e Levin affrontano la questione per<br />

mezzo di un ingegnoso esperimento nel quale i partecipanti si trovano a competere nell’ac<strong>qui</strong>sto di<br />

un bene fittizio riguardo al valore del quale hanno ricevuto informazioni parziali e inaccurate.<br />

Secondo l’analisi teorica standard, i compratori dovrebbero calibrare le proprie offerte<br />

correggendole verso il basso. Se la propria stima è pessimistica, qualcuno più ottimista offrirà di<br />

più. Ma allora è più probabile che compri chi opera un stima troppo ottimistica. In questo caso il<br />

vincitore dell’asta pagherà troppo – il vincitore è “maledetto”.<br />

Kagel e Levin mostrano che la “maledizione del vincitore” può essere prodotta in laboratorio, e<br />

mettono in rilievo una serie di interessanti parallelismi fra i dati raccolti in laboratorio e l’evidenza<br />

empirica raccolta sul campo. Ma il punto rilevante è che i dati raccolti sul campo assumono un<br />

nuovo significato e possono essere utilizzati con molta più efficacia dopo che l’esperimento ha<br />

mostrato l’esistenza del fenomeno della “maledizione” in vitro, rispetto a prima, quando cioè la<br />

maledizione era solo una congettura poco plausibile.<br />

In questo senso, gli esperimenti fungono da “mediatori” fra le ipotesi che noi formiamo a proposito<br />

del mondo reale, e il mondo reale stesso. Anche i modelli teorici hanno una funzione simile, grazie<br />

alla loro relativa semplicità e manipolabilità, ma gli esperimenti aggiungono a queste caratteristiche<br />

quella di essere fatti “della stessa materia” dei sistemi del mondo reale (le economie) alle quali in<br />

ultima analisi vanno applicati i risultati sperimentali. In breve, come rileva Vernon Smith, in<br />

laboratorio “persone reali guadagnano denaro reale per prendere decisioni reali riguardo a questioni<br />

astratte che sono tanto ‘reali’ quanto un’azione della General Motors” (Smith 1976, p. 275).<br />

Kagel e Levin hanno replicato in laboratorio le caratteristiche essenziali del sistema d’aste utilizzato<br />

per vendere concessioni petrolifere nel Golfo del Messico. Ma è possibile procedere anche in senso<br />

inverso, replicando cioè nel mondo reale un sistema messo a punto in laboratorio. Questo tipo di<br />

“ingegneria economica” sta assumendo un ruolo sempre più di rilievo – anche per via della<br />

necessità di un numero crescente di governi di sostituire sistemi di allocazione inefficienti con<br />

sistemi di mercato. Come mostrano i casi della Russia e di altre nazioni dell’ex blocco sovietico, la<br />

41


intro 16/07/2003<br />

transizione verso sistemi di mercato è un processo estremamente delicato. L’esperienza insegna che<br />

le ricette valide per tutti i gusti non esistono o comunque non funzionano, e che le riforme vanno<br />

calibrate attentamente caso per caso.<br />

Nel capitolo 12 (“Prototipi sperimentali: un’applicazione alle aste di PCS”), Charles Plott illustra<br />

come l’economia sperimentale si sia rivelata fondamentale nel processo di riforma del mercato delle<br />

telecomunicazioni che ha avuto luogo negli Stati Uniti nei primi anni Novanta. Prima delle riforme,<br />

le frequenze-radio per telefonini e altri sistemi di comunicazione personale (Personal<br />

Communication Systems, PCS) venivano concesse gratis dopo un processo burocratico attraverso il<br />

quale i concorrenti dovevano dimostrare di poterle utilizzare al meglio. Questo processo, oltre a<br />

essere poco trasparente e potenzialmente corruttibile, aveva il difetto di non generare nessun reddito<br />

per lo Stato, proprietario di un bene scarso e molto richiesto come le frequenze. Quando negli Stati<br />

Uniti la Federal Communication Commission decise di cominciare a vendere le frequenze al<br />

miglior offerente, si pose il problema di come farlo. La teoria economica è <strong>qui</strong> impotente, in quanto<br />

beni come le frequenze-radio (cosiddetti “beni complementari”) sono difficili da trattare<br />

analiticamente. Numerosi consulenti lavorarono alla soluzione utilizzando modelli teorici<br />

incompleti, ma anche esperimenti di laboratorio. Questi “prototipi” sperimentali servirono a guidare<br />

gli scienziati nelle aree che la teoria lascia inesplorate, e poi ancora a controllare che le regole<br />

messe a punto dalla Federal Communication Commission fossero effettivamente “robuste” e<br />

affidabili – ovvero che il mercato non “collassasse” a causa di qualche problema tecnico imprevisto.<br />

L’attenzione e la cura impiegate nella costruzione delle aste per PCS hanno portato i loro frutti,<br />

come testimoniano per via indiretta i numerosi fallimenti di altri simili tentativi sia precedenti sia<br />

successivi. Il caso dell’asta per telefonini della terza generazione organizzata in Italia nell’Ottobre<br />

del 2000 rientra purtroppo fra questi ultimi. Avendo a disposizione cinque licenze, il governo<br />

italiano decise di ammettere soltanto sei concorrenti, senza prevedere che uno di essi si sarebbe<br />

ritirato dopo appena due turni dell’asta. Il risultato fu di concedere alle cinque multinazionali<br />

rimaste in gara dei beni pubblici estremamente preziosi con uno sconto di circa il 60 % rispetto al<br />

prezzo che avevano pagato in Gran Bretagna soltanto pochi mesi prima.<br />

L’applicazione del metodo sperimentale alla soluzione di problemi delle economie “reali” sta<br />

ancora muovendo i primi passi, ma fornisce già alcune importanti indicazioni. Innanzitutto, la<br />

politica economica richiede un bagaglio di conoscenze derivate dallo studio accurato di un<br />

problema nel suo contesto specifico. Inoltre, la teoria si rivela importante nel porre le giuste<br />

domande e talvolta anche nel rispondere a esse; ma molto spesso ha bisogno di essere coadiuvata da<br />

altre metodologie quali l’esperimento di laboratorio, le simulazioni, e i dati raccolti sul campo.<br />

Come la teoria, ovviamente anche gli esperimenti non possono da soli fornire soluzioni a problemi<br />

concreti. Per “esportare” i risultati al di fuori del laboratorio è necessario unire la ricerca<br />

sperimentale con la ricerca empirica sul campo e con l’analisi teorica.<br />

Siamo ancora lontani dal poter articolare una metodologia della scienza applicata esportabile in<br />

diversi domini. Forse tale metodologia non esiste neppure, e la scienza applicata sarà sempre<br />

caratterizzata da procedure ad hoc, inventate a seconda dei contesti. Ma la riflessione<br />

epistemologica può almeno impedirci di cadere in errori di prospettiva. L’analisi teorica in<br />

economia gode di un prestigio sproporzionato che non trova riscontro in nessun’altra disciplina<br />

scientifica avanzata. Ansiosi di vedere riconosciuta la propria “scientificità”, gli economisti hanno<br />

imitato le scienze più avanzate formalizzando rapidamente il proprio linguaggio, ma dimenticando<br />

che il rigore formale conta poco o nulla se completamente divaricato dalla ricerca applicata.<br />

Quando arriva il momento delle scelte di politica economica, parafrasando Herbert Simon, è<br />

preferibile “avere vagamente ragione” che “esattamente torto”. La politica economica è troppo<br />

spesso influenzata da modelli e ragionamenti puramente astratti e troppo distante dallo studio del<br />

contesto particolare nel quale i problemi concreti sono collocati. L’economia cognitiva e<br />

42


intro 16/07/2003<br />

l’economia sperimentale, per quanto programmi di ricerca ancora relativamente giovani,<br />

promettono di ri-bilanciare il rapporto tra teoria ed evidenza. Anche grazie a esse, in un futuro non<br />

troppo remoto l’economia assomiglierà un po’ di più alle scienze che “funzionano”.<br />

43


intro 16/07/2003<br />

NOTE BIBLIOGRAFICHE E APPROFONDIMENTI<br />

Sul sito web della The Royal Swedish Academy of Sciences (http://www.nobel.se/) è possibile trovare varie<br />

informazioni riguardo al conferimento del premio Nobel, in particolare la motivazione ufficiale (“Advanced<br />

information on the Prize in Economic Sciences 2002, 17 December 2002: “Foundations of Behavioral and Experimental<br />

Economics: Daniel Kahneman and Vernon Smith”) insieme ai filmati e ai testi relativi alle Nobel Lectures di Kahneman<br />

(2002) e Smith (2002b). Informazioni sulla storia dei premi Nobel in economia e in particolare a quelli conferiti a<br />

Allais, Simon, Selten e Mc Fadden a cui si fa riferimento nel testo si trovano al seguente indirizzo<br />

http://almaz.com/nobel/economics/economics.html.<br />

I principali articoli di Kahneman e Tversky insieme ai molti lavori che hanno ispirato sono raccolti in tre volumi della<br />

Cambridge University Press, di cui il primo del 1982, Judgment Under Uncertainty: Heuristics and Biases a cura di<br />

Kahneman, Slovic e Tversky è ormai un classico – vedi inoltre Kahneman e Tversky (a cura di) (2000), e Gilovich,<br />

Griffin, Kahneman (a cura di) (2001). Una rassegna completa e aggiornata di articoli che si collocano esplicitamente<br />

all’interno del programma di ricerca dell’ecionomia cognitiva, corredata da una bibliografia pressoché esaustiva e da<br />

un’utile introduzione, è in corso di pubblicazione: Camerer e Loewenstein, “Behavioral Economics: Past, Present, and<br />

Future”, MIT Press. Ottime rassegne sulla fertile contaminazione tra economia e psicologia cognitiva con una<br />

discussione dei risultati sperimentali più rilevanti sono da Rabin (1998) e (2001) e Mc Fadden (1999), vedi anche<br />

Camerer (1995) per lo stesso argomento affrontato in riferimento alla teoria della decisione individuale, Shafir e<br />

LeBoeuf (2002) in riferimento alla questione della razionalità tra teorie normative e descrittive, e Motterlini (2003) per<br />

un punto di vista epistemologico. Articoli classici che hanno dato origine alla riflessione su questi temi si trovano in<br />

Bell, Raiffa, Tversky (a cura di) (1988).<br />

Le migliori rassegne dei risultati e delle tecniche utilizzate in economia sperimentale si trovano nell’Handbook of<br />

Experimental Economics (Kagel e Roth, a cura di, 1995) e nell’Handbook of Experimental Economics Results (Plott e<br />

Smith, a cura di, 2003). Fra i manuali, vedi Hey (1991), Davis e Holt (1993), e Friedman e Saunders (1994). Bergstrom<br />

e Miller (1997) è invece un corso di microeconomia basato su semplici esperimenti da condurre in classe. Esistono<br />

anche numerose risorse su internet; il migliore punto di partenza è sicuramente la pagina web di Alvin Roth a Harvard<br />

(Roth 2003). Un’ottima bibliografia on-line è quella di Charles Holt (2000). Holt ha pubblicato anche diversi articoli sul<br />

Journal of Economic Perspectives su come utilizzare gli esperimenti a fini pedagogici.<br />

Fra le riviste scientifiche, dal 1998 Experimental Economics pubblica esclusivamente lavori di tipo sperimentale, ma<br />

numerose pubblicazioni appaiono regolarmente su riviste di settore come Theory and Decision, Journal of Risk and<br />

Uncertainty, Journal of Economic Behaviour and Organization, Journal of Public Economics. L’economia<br />

sperimentale ormai è di casa anche in riviste “generaliste” come Economic Journal, American Economic Review,<br />

Econometrica. Infine, esistono numerosissimi laboratori sperimentali, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Vernon<br />

Smith si è recentemente spostato a George Mason University, ma il suo vecchio laboratorio all’Università dell’Arizona<br />

resta fra i più attivi nel mondo. Altri importanti centri negli Stati Uniti sono a Caltech, Harvard, e Virginia. In Europa<br />

vale la pena di citare i laboratori sperimentali alle università di Amsterdam, Bonn, di East Anglia (Norwich), e York. In<br />

Italia il centro principale per l’economia computazionale e sperimentale è il CEEL dell’Università di Trento.<br />

PARTE 1.<br />

1.1 Comportamento razionale e comportamento reale<br />

Per un’introduzione agile, sintetica ma non banale (soprattutto dal punto di vista filosofico) della teoria della scelta, dei<br />

suoi paradossi normativi e delle violazioni empiriche, vedi Hargreaves-Heap et al. (1992). Il testo di riferimento<br />

classico riguardo alla teoria della scelta razionale è Kreps (1978), mentre Gardenfors e Sahlin (a cura di, 1988) contiene<br />

i principali contributi alla teoria normativa della decisione. Per una rassegna del dibattito più recente si vedano i<br />

contributi al volume a cura di Arrow, Colomb atto, Perlman e Schmidt (1995). Per una prospettive storico-filosofica<br />

sullo sviluppo della teoria della decisione sotto la pressione delle critiche descrittive, vedi Starmer (2000) e Guala<br />

(2000b).<br />

1.2 Giudizi e pregiudizi<br />

Fischhoff (1988) e Dawes (1998) danno una prospettiva completa e metodologicamente sofisticata della ricerca sul<br />

giudizio e la decisione umana da un punto di vista cognitivo. Hastie (2001) e Gilovich, Griffin D.W (2001) tracciano un<br />

bilancio aggiornato dei trent’anni di ricerca discutendo i risultati conseguiti e i problemi aperti. Per una godibile e<br />

veramente accessibile introduzione in lingua italiana a heuristics & biases vedi Piattelli Palmarini (1985). Plous (1993)<br />

è un libro di testo introduttivo molto utilizzato nelle università americane. Per una prospettiva avanzata sugli stessi<br />

argomenti e sui numerosi casi di giudizi sistematicamente irrazionali che commettiamo nella vita di tutti i giorni, vedi<br />

Dawes (1988) e (2002). Gigerenzer (2002) discute varie violazioni del ragionamento probabilistico in ambito medico e<br />

giuridico.<br />

44


intro 16/07/2003<br />

In lingua italiana esistono ottimi ed esaurenti manuali Per la psicologia del ragionamento vedi Girotto (1994). Per la<br />

psicologia della decisione e le decisioni degli esperti vedi rispettivamente Rumiati, Bonini (2001) e Rumiati, Bonini<br />

(1996) che danno una chiara esposizione dei principali risultati mettendone in luce punti di forza e di debolezza<br />

attraverso la discussione dei vari esperimenti che li hanno motivati.<br />

Su questioni più specifiche citate nel testo come per esempio le violazione delle stime probabilistiche secondo la teoria<br />

bayesiana, vedi Fischhoff, Beyth-Marom (1983), Bar Hillel (1990). Sulla confusione delle probabilità inverse vedi<br />

Dawes, Mirels, Gold, Donahue (1993) e Doerthy et. al. (1979). Sulla fallacia della congiunzione, Tversky, Kahneman<br />

(1983). In generale, nel contesto del giudizio umano, la tendenza in ambito di economia cognitiva consiste nel costruire<br />

modelli che incorporino le violazioni sistematiche documentate sperimentalmente quando ve ne sono – altrimenti si<br />

usano regole bayesiane (cfr. Camerer, Lowenstein, 2003, pp.12-13). Secondo Camerer e Loewenstein questo approccio<br />

“quasi-bayesiano” diventerà presto il modo standard per trattare i risultati della psicologia cognitiva del giudizio.<br />

1.3 Violazioni della teoria della scelta<br />

Anand (1993) dedica un capitolo a ogni assioma della teoria della scelta e alle principali violazioni, e ne discute le<br />

implicazioni epistemologiche per lo sviluppo di una teoria descrittiva e normativa. Il paradosso di Allais e le prime<br />

violazioni del principio di indipendenza sono al centro dei due classici volumi CNRS (1953) e Allais, Hagen (a cura di,<br />

1979). Sulla valenza normativa del principio di indipendenza vedi anche McClennen (1983), Hammond (1988) e<br />

Machina (1989). La scoperta delle inversioni di preferenza è riportata in Lichtenstein e Slovic (1971) e (1973). Gli<br />

economisti hanno mostrato grande scetticismo riguardo a questo fenomeno fin da subito. Sui principali tentativi (falliti)<br />

di spiegare le inversioni come “artefatto” di laboratorio vedi Grether e Plott (1979), Reilly (1982), Holt (1986), Karni e<br />

Safra (1986), Segal (1987), Loomes, Starmer e Sugden (1989, 1991), Starmer e Sugden (1991), Tversky, Slovic e<br />

Kahneman (1990), Keller, Segal e Wang (1993). Slovic (1995) contiene una rassegna di questo dibattito, mentre<br />

Hausman (1992) e Guala (2000b) lo discutono da un punto di vista epistemologico. Altri esperimenti riguardano invece<br />

il dominio delle inversioni di preferenza (dove e quando si manifestano, e i fattori che ne prevengono l’occorrenza): cfr.<br />

Berg et al (1985), Knez e Smith (1987), Chu e Chu (1990). La valenza normativa del principio di razionalità è discussa<br />

a fondo in Mongin (2001).<br />

1.4 Prospect Theory: genesi e principi cognitivi<br />

La Prospect Theory è stata soggetta ad approfondimenti, miglioramenti e modifiche sotto la pressione dell’evidenza<br />

empirica e la necessità di un maggiore rigore formale. Tversky e Kahneman (1992) hanno sviluppato una nuova<br />

versione avanzata della Prospect Theory tenendo conto di pesi decisionali cumulativi invece che separabili e la hanno<br />

estesa in nuovi contesti. Prelec (2000) descrive le principali proprietà empiriche della funzione dei pesi di ponderazione<br />

e ne dà una fondazione assiomatica capace di renderne conto. Tversky e Cox (1995) estendono l’idea della non<br />

linearità della scala delle probabilità dalle situazioni rischio (dove le probabilità associate ai possibili esiti sono note)<br />

alle situazioni di incertezza (dove le probabilità associate ai possibili esiti sono sconosciute).<br />

Esistono inoltre numerose alternative alla teoria dell’utilità attesa e alla Prospect Theory, note come “teorie<br />

generalizzate dell’utilità attesa”. Le principali sono la Generalized Expected Utility Analysis di Mark Machina (1982,<br />

1983), la Regret Theory di Loomes e Sugden (1982, 1984), e le già citate teorie di Quiggin (1983) e Yaari (1987).<br />

Harless e Camerer (1994) e Hey e Orme (1994) confrontano il valore empirico delle varie teorie per mezzo di tecniche<br />

econometriche (arrivando talvolta a conclusioni molto diverse). Starmer (2000) fornisce un’ottima rassegna.<br />

1.5 Questioni di fatto questioni di diritto<br />

Sulla questione normativo versus descrittivo e sulla questione della razionalità in filosofa e scienze cognitive vedi Stein<br />

(1998) e Stich (1997). Sull’influente e perniciosa legittimazione metodologica dell’agente economico come agente<br />

razionale di Friedman, vedi il suo classico (1953); la letteratura su questo articolo è sterminata, ma per gli scopi di<br />

questa introduzione molto ben calibrate sono le critiche rivolte all’ipotesi “as if” di Egidi (1995).<br />

Sulle tecniche di de-biasing e la loro efficacia (e sul tentativo di costruire una teoria prescrittiva della decisione che aiuti<br />

le persone a prendere la ‘migliore’ decis ione nel loro stesso interesse) sono interessanti i lavori di Fischhoff (1992,<br />

1996a, 19996b, 1999) che muovono dall’applicazione di tali tecniche sul campo. Larrick, Morgan, Nisbett (1990)<br />

mostrano che gli studenti che seguono un corso di “analisi costi-benefici”diventano ‘più razionali’ nelle scelte della vita<br />

quotidiana. In altri casi le cose non vanno altrettanto bene. Gli errori probabilistici e logici sembrano poco sensibili alla<br />

“buona educazione” – cfr. Gigerenzer (2002). In generale, gli economisti tendono a sopravvalutare le capacità di<br />

apprendimento dei soggetti in seguito all’esperienza ripetuta e dopo che questi sono diventati consapevoli di un errore.<br />

Per gli psicologi invece è troppo ottimistico credere che la complessità del mondo che ci circonda offra molte occasioni<br />

per imparare dai nostri errori – cfr. Einhorn (1986).<br />

1.6 Il programma di ricerca dell’economia cognitiva<br />

La letteratura sulla applicazione della metodologia dei programmi di ricerca di Imre Lakatos (1978) e dei suoi standard<br />

di valutazione alla storia della scienza e all’economia in particolare è estesa. Qui ci limitiamo a segnalare de Marchi,<br />

Blaug (a cura di) (1991) per alcuni significativi esempi, e Backhouse (1997) per un bilancio. Sul progetto<br />

45


intro 16/07/2003<br />

epistemologico di Lakatos, punti di forza e limiti vedi Motterlini (2000). Sulla filosofia della scienza e l’economia vedi<br />

Hausman (1992).<br />

Intermezzo: Economia cognitiva ed economia sperimentale<br />

Il volume a cura di Hogarth e Reder (1986) è sicuramente il punto di partenza più indicato. ) Sulla differenza fra metodo<br />

sperimentale in economia e psicologia vedi anche Cox e Isaac (1986), Hogarth e Reder (a cura di, 1986), Smith<br />

(1991b), Lowenstein (1999), Rabin (1998, 2001), Hertwig e Ortmann (2001) e il successivo dibattito su Behavioral and<br />

Brain Sciences.<br />

PARTE 2<br />

2.1. L’economia entra in laboratorio<br />

Una storia vera e propria dell’economia sperimentale deve ancora essere scritta. Smith (1992) e Roth (nell’introduzione<br />

a Kagel e Roth, a cura di, 1995) forniscono una prospettiva “dall’interno” della disciplina, mentre gli storici Leonard<br />

(1994) e Mirowski (2002) ricostruiscono il milieu culturale nel quale è nata l’economia sperimentale. I principali<br />

articoli scientifici di Vernon Smith sono raccolti nei suoi Collected Papers (1991 e 2000); per la sua Nobel Lecture si<br />

veda Smith (2002b). Fra i risultati più rilevanti delle ricerche sperimentali sulle istituzioni di mercato ricordiamo lo<br />

studio comparato delle aste ascendenti (o “inglesi”), discendenti (“olandesi”), a busta chiusa con primo prezzo e a busta<br />

chiusa con secondo prezzo (Coppinger, Smith e Titus 1980; Cox, Robertson e Smith 1982), in particolare la scoperta<br />

che le e<strong>qui</strong>valenze teoriche dimostrate da Vickrey (1961) non si manifestano in laboratorio. Per l’estensione degli<br />

esperimenti ai mercati azionari cfr. Forsythe, Palfrey and Plott (1982); Smith, Suchanek e Williams (1988) riproducono<br />

in condizioni controllate le “bolle” speculative che sembrano scoppiare di tanto in tanto nei mercati reali. Si vedano<br />

anche gli studi di Holt, Langan e Villamil (1986) sul “potere di mercato”, ovvero la capacità da parte di alcuni venditori<br />

o compratori di spostare il prezzo a loro favore; e quelli di Smith e altri sulla qualità dell’informazione fornita ai<br />

soggetti sperimentali (Cox, Smith e Walker, 1984; Isaac e Walker, 1985).<br />

2.2. Controllare le preferenze<br />

Sul problema del controllo delle preferenze, cfr. Smith (1976, 1982, 1987) e Wilde (1980). Starmer (1999) discute<br />

criticamente i precetti di Smith, mentre Harrison (1989) e il successivo dibattito sull’American Economic Review<br />

costituiscono un buon esempio di discussione metodologica su un caso concreto di controllo sperimentale.<br />

Sull’importanza degli incentivi si veda anche Smith e Walker (1993) e Harrison (1994).<br />

2.3. Instituzioni, norme sociali e comportamento<br />

Dawes e Thaler (1988) forniscono un’accessibile introduzione agli esperimenti con beni pubblici e dilemma del<br />

prigioniero, mentre per una rassegna critica più ampia e aggiornata vedi Fehr e Fischbacher (2002). La letteratura<br />

sperimentale sui beni pubblici è enorme, ma oltre ai lavori citati nel testo vale la pena segnalare Marwell e Ames<br />

(1981), Isaac, Walker e Williams (1994), Andreoni (1995a 1995b), Keser (1996), Burlando e Hey (1997), Isaac e<br />

Walker (1998). Sul gioco dell’ultimatum vedi l’introduzione di Thaler (1988), oltre a Guth (1988) e Ochs e Roth<br />

(1989). Per il concetto di punto focale cfr. Schelling (1960), e Schelling (1957) per un’applicazione sperimentale. Sulle<br />

variazioni trans-culturali vedi anche Henrich et al. (2001). Un setting interessante per lo studio dell’altruismo è il<br />

cosiddetto “gioco del dittatore”, sostanzialmente un gioco dell’ultimatum dove il secondo giocatore non ha la possibilità<br />

di rifiutare l’offerta del primo: cfr. Forsythe et al (1994) e Bolton, Katok e Zwick (1998).<br />

2.4. Teoria ed esperimento<br />

Sulla metodologia dell’economia sperimentale, oltre agli articoli citati nelle note alla sezione 2.2., vedi Smith (1989,<br />

1994, 2002a), Plott (1991), Binmore (1999), Rubinstein (2001). La letteratura filosofica sugli esperimenti deve<br />

moltissimo a Ian Hacking (1983, 1992). Nonostante numerosi tentativi di eliminarlo dal bagaglio metodologico delle<br />

scienze, il concetto di causalità risulta irriducibile a nozioni più “rispettabili” come quella di correlazione statistica (cfr.<br />

Cartwright 1989, e Hoover 2001). Sul nesso fra causalità, intervento ed esperimenti si veda in particolare Woodward<br />

(2002). Procedure formali per scoprire relazioni di causa-effetto a partire da dati statistici e altre assunzioni di sfondo<br />

sono state sviluppate da Spirtes, Glymour e Scheines (1993) e da Pearl (1999).<br />

2.5. L’ingegneria economica<br />

Il problema della validità esterna è discusso in Guala (1999). Su scienza teorica e applicata vedi anche Collins (1985) e<br />

Cartwright (1999), mentre su modelli ed esemplari nella scienza cfr. il classico di Thomas Kuhn (1962). Vedi<br />

Motterlini, Guala (2002) per la svolta “contestualista” e “localista” in epistemologia.<br />

Per un’introduzione alla teoria delle aste vedi McAfee e McMillan (1987) o Milgrom (1989). Sulla maledizione del<br />

vincitore si veda (oltre ai lavori citati nel testo) l’introduzione di Thaler (1988a), Capen et al. (1971), Kagel et al.<br />

(1989), Hansen e Lott (1991), Lind e Plott (1991), Kagel e Levin (1991), Cox et al. (1999), Campbell et al. (1999).<br />

Sull’ingegneristica economica in generale cfr. Miller (2002) e Roth (2002); sulle aste per le frequenze telefoniche vedi<br />

Milgrom (1995), Cramton (1997), Guala (2001), Klemperer (2002a, 2002b).<br />

46


intro 16/07/2003<br />

Infine, come anticipato, la scelta degli argomenti trattati in questo volume è stata necessariamente soggettiva. Vi sono<br />

altre ricerche che occupano un posto di tutto riguardo nell’ambito della economia cognitiva e sperimentale di cui non ci<br />

siamo potuti occupare per motivi di spazio. In particolare vale la pena citare la ricerca nelle seguenti aree: decisioni ed<br />

emozioni – per cui vedi Slovic (2000), Loewenstein (1996) e Loewenstein e Lerner (in press); utilità e felicità - per cui<br />

vedi Kahneman, Diener, Schwarz , (a cura di) (1999), Kahneman (1994) e (200); scelta intertemporale – per cui vedi<br />

Loewenstein, Elster (a cura di) (1992), e behavioral game theory – per cui vedi Camerer (1990), behavioral finance –<br />

per cui vedi Thaler (1993) e il capitolo di Shyam Sunder in Kagel e Roth (a cura di) (1995). La cosiddetta<br />

“neuroeconomia”, ovvero il tentativo di fondare la teoria dei mercati sulle più recenti scoperte della neurofisiologia: cf.<br />

McCabe et al. (2001), Camerer, Lowenstein e Prelec (manoscritto), e Smith (di prossima pubblicazione). Di grande<br />

interesse sono anche i collegamenti fra economia sperimentale e computer science, in particolare per il disegno di<br />

mercati “intelligenti”: cf. McCabe, Rassenti e Smith (1989, 1991).<br />

47


intro 16/07/2003<br />

INTRODUZIONE ALLA BEHAVIORAL & EXPERIMENTAL ECONOMICS<br />

Cap. 1: L’economia cognitiva e sperimentale di Francesco Guala e Matteo Motterlini<br />

PARTE 1 ORIGINI: DECISIONI E MERCATI<br />

Cap. 2: Prospect Theory: un’analisi della decisione in condizioni di rischio, di Daniel Kahneman e Amos Tversky<br />

(“Prospect Theory: an Analysis of Decision Under Risk”, Econometrica 1979; anche in Kahneman Tversky (ed.) 1999<br />

Choices, Values and Frames, Cambridge UP, pp. 17-43)<br />

Cap. 3: Uno studio sperimentale della competizione di mercato, di Vernon Smith (“An experimental study of<br />

competitive market behavior”, Journal of Political Economy 70, 1962, 111-137)<br />

PARTE 2 GIUDIZIO, SCELTA E DECISIONE: ANOMALIE<br />

Cap. 4: Anomalie: effetto dote, avversione alla perdita, e status quo, di Daniel Kahneman, Jack Knetsch e Richard<br />

Thaler (“The endowment effect, loss aversion, and status quo bias” , Journal of Economic Perspectives 5, 1991; anche<br />

in Kahneman, Tversky (ed.) 1999 Choices, Values and Frames, pp. 159-170)<br />

Cap. 5: Inversioni di preferenza fra offerte e scelte nelle scommesse, di Sarah Lichtenstein e Paul Slovic (“Reversals of<br />

Preference Between Bids and Choices in Gambling Decisions”, Journal of Experimental Psychology 89, 1971, pp. 46-<br />

55)<br />

Cap. 6: Scelta e ragioni, di Eldar Shafir, Itamar Simonson e Amos Tversky (“Reason-based choice”, Cognition 49,<br />

1993; anche in Kahneman Tversky (ed.) 1999 Choices, Values and Frames, pp.597-619)<br />

PARTE 3 GIUDIZIO, SCELTA E DECISIONE: APPLICAZIONI<br />

Cap. 7: L’offerta di lavoro dei tassisti di New York: un giorno per volta, di Colin Camerer, Linda Babcock, George<br />

Lowenstein e Richard Thaler (“Labor supply of New York taxi drivers: one day at a time”, Quarterly Journal of<br />

Economics 112, 1997; anche in Kahneman Tversky (ed.) 1999 Choices, Values and Frames, pp. 356-370)<br />

Cap. 8: Illusioni monetarie, di Eldar Shafir, Peter Diamond e Amos Tversky (“Money Illusion”, Quarterly Journal of<br />

Economics 112, 1997; anche in Kahneman Tversky (ed.) 1999 Choices, Values and Frames, pp.335-355)<br />

PARTE 4 COMPORTAMENTO STRATEGICO E PREFERENZE SOCIALI<br />

Cap. 9: Le ragioni del free riding: strategie e apprendimento negli esperimenti coi beni pubblici, di James Andreoni<br />

(“Why free ride? Strategies and learning in public goods experiments”, Journal of Public Economics 37, 1988, 291-<br />

304)<br />

Cap. 10: Contrattazioni di mercato a Gerusalemme, Lubiana, Tokio e Pittsburgh: uno studio sperimentale, di Alvin<br />

Roth, Vesna Prasnikar, Masahiro Okuno-Fusiwara e Shmuel Zamir (“Bargaining in market behavior in Jerusalem,<br />

Lubljana, Tokio and Pittsburgh. An experimental study”, American Economic Review 81, 1991, 1068-1095)<br />

PARTE 5 ASTE E MERCATI<br />

Cap. 11: Maledizione del vincitore e informazione pubblica nelle aste a valore comune, di John Kagel e Dan Levin<br />

(“The winner's curse and public information in common value auctions”, American Economic Review 76, 1986, 894-<br />

920)<br />

Cap. 12: Prototipi sperimentali: applicazione alle aste per PCS, di Charles Plott (“Laboratory experimental testbeds:<br />

application to the PCS auction”, Journal of Economics and Management Strategy 6, 1997, 605-638)<br />

Bibliografia<br />

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intro 16/07/2003<br />

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI<br />

Allais, M. e O. Hagen (a cura di, 1979) Expected Utility Hypothesis and the Allais Paradox, Dordrecht, Reidel.<br />

Allais, M. (1953), “Le comportement de l’homme rationnel devant le risque: Critique des postulats et axiomes de l’école<br />

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