Michele Serra - La Repubblica
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<strong>Repubblica</strong> Nazionale 23 14/08/2005<br />
Domenica<br />
<strong>La</strong><br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
MASSIMO DELL’OMO<br />
GUSH KATIF<br />
Che cosa ha spinto, o attirato, uomini e donne da ogni<br />
angolo del mondo a venire qua, nel Gush Katif? Che<br />
cosa li ha trattenuti, poi, in questo pezzo di deserto oltre<br />
confine, terra altrui, tra ronde, carri armati, filo spinato,<br />
tiri di cecchini, caduta di razzi, Hamas o Jihad che sia? E che<br />
vita è stata lungo la curva di giorni tutti uguali, strappati volta per<br />
volta a un futuro provvisorio, in attesa che Pomona, la dea dei frutti,<br />
concedesse loro un buon raccolto, eppoi ricominciare fino all’amen<br />
dell’ultima data da pronunciare chissà dove? Una storia ci aiuta,<br />
una storia tra tante altre simili. Quella di Caim Klein, 55 anni, da<br />
Debrezen, Ungheria, omone irsuto di vaghissima somiglianza all’ultimo<br />
Richard Burton, scarpe grosse cervello fino. Da 16 vive in<br />
uno dei 21 insediamenti del Gush Katif: Gan Or, 52 famiglie.<br />
Caim è nato da relitti dell’Olocausto, dall’unione di due devastate<br />
solitudini deposte sulle macerie del dopoguerra. Prima della<br />
furia nazista, il padre Mordechi possedeva a Debrezen una piccola<br />
fabbrica per l’imbottigliamento dell’acqua minerale.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
di <strong>Repubblica</strong><br />
Terra<br />
promessa<br />
Dalla Shoah alle guerre<br />
di Israele, allo sgombero<br />
dalla Striscia di Gaza<br />
Nell’album di famiglia<br />
del colono Caim Klein<br />
sessant’anni di storia<br />
SANDRO VIOLA<br />
GERUSALEMME<br />
Dicono che Sharon non abbia mai sottovalutato<br />
l’ipotesi di fare la fine di Ytzhak Rabin, ucciso<br />
dieci anni fa da due pallottole sparategli alle<br />
spalle da un giovane estremista della destra religiosa:<br />
e per questo, nonostante il massiccio dispositivo di<br />
sicurezza da cui è protetto, dorme con una pistola sotto il cuscino.<br />
Vero o non vero, la cosa certa è che ormai da molti mesi,<br />
da quando è stato chiaro che intendeva sul serio smantellare<br />
le colonie ebraiche nella Striscia di Gaza, un’ondata<br />
d’avversione gli s’è rovesciata fragorosamente addosso.<br />
Un’avversione, per non dire un odio, che non accenna a diminuire.<br />
Anzi s’ingrossa, man mano che s’avvicinano i giorni<br />
cruciali della prima evacuazione israeliana — dopo trentott’anni<br />
e tre mesi — da una terra palestinese.<br />
Certo, ad esecrare e maledire Sharon è soltanto un terzo,<br />
così si calcola, della società d’Israele: ma questo terzo consiste<br />
della parte più irrazionale, fanatica e violenta del paese.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
il reportage<br />
Le spade di Toledo, mestiere da donne<br />
CONCITA DE GREGORIO<br />
il racconto<br />
<strong>La</strong> post-crociera, festa proletaria<br />
DONATELLA ALFONSO e MICHELE SERRA<br />
FOTO GAMMA<br />
le storie<br />
<strong>La</strong> vita clandestina del prete Ludmila<br />
CINZIA SASSO<br />
i luoghi<br />
Palermo, il paradiso ritrovato della Zisa<br />
ATTILIO BOLZONI<br />
cultura<br />
<strong>La</strong> leggenda del cacciatore di falsari<br />
STEFANO MALATESTA<br />
la lettura<br />
Torna il popolo a cavallo di Gengis khan<br />
GUIDO RAMPOLDI
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
la copertina<br />
Via dalle colonie<br />
MASSIMO DELL’OMO<br />
(segue dalla copertina)<br />
Aveva una moglie, Regina,<br />
e tre figli: Juda, Jacob e Vera.<br />
Stefania Frankl, la madre<br />
di Caim, gestiva un<br />
negozio, sempre a Debrezen,<br />
era sposata con Levi<br />
Aron Leichter, una figlia: Rachel. Quando<br />
i tedeschi invasero l’Ungheria lì accumunò<br />
il vagone piombato. L’ultima<br />
volta che Mordechi vide sua<br />
moglie e i suoi figli, Juda aveva<br />
sette anni, Jacob cinque e Vera<br />
due. Fumo di Auschwitz. E ad<br />
Auschwitz morì Leichter.<br />
Mathausen per Stefania Frankl e la<br />
piccola Rachel. Campi di lavoro di<br />
mezza Europa per Mordechi.<br />
«Quante volte ho sentito questa<br />
storia — racconta oggi Caim — ma forse<br />
ero troppo giovane allora. <strong>La</strong> consideravo<br />
solo uno degli aspetti terribili<br />
della guerra, razzismo. <strong>La</strong> tragedia, in<br />
tutta la sua vastità, era troppo grande per<br />
me. L’ho capita solo tanti anni dopo».<br />
Mordechi Klein e Stefania Frankl si conoscono<br />
dunque alla fine della guerra, tra<br />
gli spettri che tornano a Debrezen. Troppo<br />
vive le piaghe aperte, inesistenti le cure:<br />
si sposano solo nel 1948. Due anni dopo<br />
nasce Caim. Altri quattro anni e sono<br />
di nuovo in fuga. Questa volta dal comunismo.<br />
Scappano prima che i carri armati<br />
sovietici schiaccino la rivolta ungherese:<br />
in Israele, Stato ancora giovane, ad abitare<br />
nei pressi di Ashkelon. Il governo,<br />
promuovendo l’Aliyah (letteralmente: la<br />
salita, il richiamo degli ebrei in Israele)<br />
dona loro trenta dunam (ettari) di terra.<br />
Qui cresce Caim. Elementari nel kibbutz<br />
di Nitzanim, superiori a Kyfar Silver.<br />
Al termine, un anno dopo la guerra dei Sei<br />
giorni, Zahal (in ebraico l’equivalente di<br />
Idf, Israeli Defence Force) lo chiama per i<br />
tre anni di leva cui sono obbligati i diciottenni.<br />
Dopo l’addestramento frequenta<br />
il corso allievi piloti dell’Aeronautica. Ride<br />
al ricordo scuotendo il corpo intero:<br />
«Trascorsi i primi due mesi l’istruttore mi<br />
chiamò e mi disse: “Sei molto bravo, ma<br />
sono sicuro che sarai più bravo da un’altra<br />
parte”». Fu spedito allo “Shaked”<br />
(“Mandorla”), il corpo di unità speciali di<br />
combattimento addestrate a “command<br />
action” oltre confine.<br />
Combatte in Egitto e in Giordania: una<br />
foto lo ritrae a Petra. Nel ‘71 ridiventa civile<br />
senza saper che fare. Non ha radici,<br />
né religiose né terrene. «Anche dalla famiglia<br />
— spiega — mi ero già staccato.<br />
Mio padre, peraltro, per le percosse subite<br />
durante la prigionia non ragionava<br />
nemmeno più tanto bene. Me ne andai<br />
in Europa». Per un anno vaga tra Francia<br />
e Danimarca. S’impianta in una comunità<br />
hippy di Amsterdam, musica e spinelli.<br />
Rientra in Israele nel ‘73 per rivedere<br />
i genitori, forse anche i soldi erano finiti,<br />
a giugno. Ai primi di ottobre Siria ed<br />
Egitto aggrediscono Israele. È la guerra<br />
dello Yom Kippur. Zahal lo reclama di<br />
nuovo nelle “special landing units”,<br />
commando che operavano nel Canale di<br />
Suez, a Cantara, con i gommoni Zodiac.<br />
Questa volta, il conflitto, nel quale perde<br />
un carissimo amico, lascia tracce più<br />
profonde delle cicatrici da schegge che<br />
porta ancora sulle braccia. Caim ha tutto<br />
il tempo di rifletterci nei mesi supplementari<br />
di servizio cui sono tenute le<br />
unità speciali. «Mi chiesi in quel periodo<br />
per quale ragione o causa avevo combattuto.<br />
Soprattutto per chi? Solo perché<br />
avevo cominciato il servizio militare qui?<br />
Per quanto mi riguardava avrei potuto<br />
farlo in Ungheria o in Danimarca. D’altro<br />
canto non mi sentivo nemmeno un<br />
mercenario che andava in guerra per la<br />
paga. Ripensai alla storia dei miei genitori,<br />
all’Olocausto, alla fuga dal comunismo.<br />
Parlai con molte persone. Arrivai<br />
alla conclusione che ciò che avevo fatto<br />
a rischio della vita, lo avevo fatto perché<br />
ero ebreo. Anche se non sapevo con precisione<br />
che cosa ciò significasse».<br />
Non conosce quasi niente, lui, della<br />
sua religione. E vuole sapere. È preso dall’ansia<br />
di sapere. Si iscrive alla scuola religiosa,<br />
la “Yeshiva” di Gerusalemme. <strong>La</strong><br />
frequenta per un po’. L’impatto è duro.<br />
Troppo fanatismo. Ne esce quasi subito.<br />
Si iscrive alla facoltà di Scienze di Tel<br />
Aviv. Si laurea in chimica dopo tre anni.<br />
Va dove l’occasione di lavoro lo porta: a<br />
Sebastia, in Samarìa, uno dei primi insediamenti<br />
della West Bank, dove insegna<br />
scienze. Frequenta un gruppo religioso<br />
più morbido della “Yeshiva”. Scopre la<br />
Torah. Si trasferisce di nuovo: a Beit<br />
Shaen, dove conosce e sposa Sara Baron,<br />
biologa di origini tunisine, figlia di un<br />
rabbino di Djerba. Non sono soddisfatti<br />
del luogo in cui vivono. Decidono di trasferirsi<br />
ancora: nel Sud, ad Ashkelon,<br />
nella casa dei genitori di lei.<br />
Dice Caim: «Ora so che ogni passo del<br />
mio vagabondaggio mi avvicinava sempre<br />
di più alla meta finale». Perché Ashkelon<br />
è a meno di quaranta chilometri dal<br />
Gush Katif dove, dagli anni successivi alla<br />
guerra dei Sei giorni, sono sorti in terra<br />
palestinese i primi insediamenti, moltiplicatisi<br />
alla fine degli anni Settanta per<br />
l’incoraggiamento e gli incentivi economici<br />
dei vari governi israeliani.<br />
Nell’86 nasce il primo figlio, Jonatan;<br />
nell’88, la seconda, Murìa. Caim, in quella<br />
fine anni Ottanta, impiegato come<br />
chimico in una fabbrica di formaggi e gelati,<br />
avverte che il tempo è arrivato. È ora<br />
di andare. Trasferimento a Gan Or, in<br />
terra d’altri: quale la motivazione principale,<br />
quella decisiva per una scelta del<br />
genere? Queste le parole: «<strong>La</strong> spinta fon-<br />
Klein ha 55 anni e viene dall’Ungheria. I suoi genitori,<br />
sopravvissuti all’Olocausto, sono emigrati<br />
in Israele per sfuggire al comunismo. Ha combattuto<br />
due guerre, fatto l’hippy e infine ha trovato la “strada<br />
della fede” che lo ha portato a Gush Katif. <strong>La</strong> sua storia<br />
è la storia di questa terra tormentata e di una pace difficile<br />
L’esodo infinito di Caim<br />
“Ma questa è casa mia”<br />
damentale è stata ideologico-religiosa:<br />
venire a vivere ad Ezre Ysrael, la Terra<br />
Promessa. Ho scoperto tardi la religione.<br />
Ho vissuto senza regole la mia giovinezza.<br />
Eppure, ho sempre avuto dentro<br />
un’inquietudine che mi ha portato a girare<br />
in Europa e per Israele. Sono anche<br />
tornato in Ungheria perché pensavo che<br />
avrei potuto trovare qualcosa che mi illuminasse<br />
o mi fermasse. In fondo, là<br />
erano nati i miei genitori, là erano tornati<br />
dopo l’Olocausto e là sono nato io. Mi<br />
sono sentito straniero. Solo ora capisco<br />
di vivere nella mia terra, la terra del popolo<br />
cui appartengo».<br />
Inutile ribattere sull’illegalità degli insediamenti.<br />
Diverse le domande, identica<br />
la risposta. Caim ripete che i luoghi del<br />
Gush Katif sono indicati nella Torah come<br />
parte di Ezre Ysrael. Che anzi, secondo<br />
il libro sacro, sarebbe ben più vasta<br />
dell’attuale, territori occupati compresi.<br />
E ciò vale come sentenza definitiva e<br />
inappellabile. Come dicevano nella Roma<br />
papalina: ego locutus, causa finita.<br />
Con l’ideologia e la religione si poteva<br />
pagare anche il conto al negozio? Po-<br />
‘‘<br />
<strong>La</strong> spinta che mi ha<br />
condotto qui è stata<br />
ideologica<br />
e religiosa: volevo<br />
venire a vivere<br />
nella Terra promessa<br />
tremmo rispondere di sì. Il governo dà a<br />
Caim dieci dunam (ettari) e 74mila dollari.<br />
Dei quali, tre quarti a fondo perduto,<br />
un quarto da restituire in blocco al termine<br />
del venticinquesimo anno. Sono<br />
soldi che non passano per le sue mani:<br />
l’apposito ministero pagherà direttamente<br />
i fornitori di sementi, attrezzi, fertilizzanti<br />
e anticrittogamici comprati da<br />
Caim. In più c’è una casetta di 70 metri<br />
quadri per la quale non c’è affitto da pagare.<br />
Il resto è una distesa di sabbia. Lui<br />
comincia con l’attrezzare quattro dunam<br />
per la coltivazione di ortaggi. Tradotto<br />
in opera, significa costruire le serre<br />
con relativi impianti di irrigazione.<br />
Racconta: «<strong>La</strong>voro duro all’inizio, sveglia<br />
prima dell’alba e a letto con le galline».<br />
<strong>La</strong>voro duro, ma risultato assicurato.<br />
Non ci sono incognite nella vendita<br />
dei prodotti: una compagnia compra, fin<br />
dalla semina, l’intero raccolto per l’esportazione.<br />
Dopo Jonatan e Murìa, nasce<br />
Elia, che ora ha 15 anni. Gli affari vanno<br />
bene. <strong>La</strong> moglie apre, con un proprio<br />
marchio, un negozietto di abbigliamento<br />
per bambini. <strong>La</strong> casa viene allargata a
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 25 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
240 metri quadri. Altra terra viene comprata,<br />
altre serre costruite. In tutto questo<br />
tempo ciò che accade in Palestina, gli<br />
attentati in Israele, gli attacchi agli insediamenti<br />
sembrano non incrinare le certezze<br />
di Caim, appena lambito dai frangenti<br />
delle esistenze altrui, assorto invece<br />
nel radicamento a Gan Or, nell’incremento<br />
della sua azienda. Sì, gira con la pistola<br />
nella fondina ma da tempo si è abituato<br />
agli spari nella notte, alla caduta di<br />
qualche razzo. Mai avuto ripensamenti,<br />
il rimpianto per una vita dal futuro più<br />
certo e meno opprimente di quello rinchiuso<br />
dietro reti e filo spinato? «Mai».<br />
Cresce, con la fattoria, anche la famiglia.<br />
Nel ‘98 nasce il quarto figlio, Johanan.<br />
Dunque, a fine parabola, tra questi<br />
volti e questo cielo che li ha consumati<br />
non abbiamo trovato l’ombra di un dubbio<br />
cui appendere un pensiero differente,<br />
solo verità che non si toccano con<br />
mano. Ma anche verità che le mani le<br />
hanno riempite di frutti. Caim è arrivato<br />
a Gan Or ricco solo delle sue convinzioni,<br />
da lui stesso definite ideologico-religiose.<br />
Oggi, sulla soglia della partenza,<br />
GLI SGOMBERI<br />
Domani inizierà la fase decisiva<br />
degli sgomberi, chiamata in codice “Mano<br />
tesa ai fratelli”: i soldati israeliani<br />
andranno nelle case dei coloni<br />
della striscia di Gaza per convincerli<br />
a partire.Da martedì, infine, i soldati<br />
potranno usare la forza. Gli sgomberi<br />
sono previsti dal piano di pace<br />
del febbraio 2004, per il quale Israele<br />
evacuerà ventuno insediamenti,<br />
ricollocando circa ottomila coloni<br />
Caim possiede<br />
venti dunam, dieci in<br />
più dell’inizio, di cui tredici<br />
coperti da serre. Forse ha anche<br />
un discreto conto in banca, a giudicare<br />
dalla vita parca cui qui si è costretti,<br />
volenti o nolenti, e dal desco assai frugale.<br />
<strong>La</strong> compagnia americana che compra<br />
le serre per rivenderle ai palestinesi gli<br />
pagherà, tredici dunam per quattromila,<br />
52mila dollari. Altri 500mila per la terra,<br />
la casa e l’avviamento del negozio. C’è di<br />
che ricominciare.<br />
Non sa, lui, dove andrà ad abitare. Nell’immediato,<br />
dalla sorella della moglie vicino<br />
ad Ashkelon. Poi? Caim allarga le<br />
braccia. Eppure da questa incertezza s’è<br />
già delineato un profilo di programma.<br />
Lui tecnico di computer: è già un esperto<br />
digitatore e dell’agricoltura ne ha abbastanza,<br />
pesando gli anni. Sara in società<br />
con la sorella, che ha un allevamento di<br />
galline: potrebbero ingrandirlo. Ovviamente,<br />
se Dio vorrà, o non lo spingerà altrove.<br />
Magari in Cisgiordania.<br />
ALBUM DI FAMIGLIA<br />
Qui sopra, Caim Klein<br />
oggi davanti<br />
alla sua casa<br />
di Gush Katif;<br />
dietro, altre<br />
due immagini<br />
dell’insediamento<br />
di Gush Katif<br />
e, al centro,<br />
Caim con la divisa<br />
dell’esercito israeliano<br />
durante la guerra<br />
del Kippur.<br />
Nelle altre foto,<br />
da sinistra in basso<br />
in senso orario: Jacob,<br />
Juda e Vera, i fratellastri<br />
di Caim uccisi<br />
ad Auschwitz;<br />
Caim bambino;<br />
uno zio<br />
che combattè<br />
contro i franchisti<br />
e che fu ucciso<br />
nella guerra<br />
di Spagna;<br />
Mordechi Klein<br />
e Stefania Frankl<br />
con la piccola Rachel;<br />
Caim e Rachel;<br />
Caim con i genitori<br />
ormai anziani;<br />
Caim il giorno<br />
delle nozze<br />
con Sara Baron<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25<br />
Bulldozer-Sharon<br />
una sfida mortale<br />
SANDRO VIOLA<br />
(segue dalla copertina)<br />
Davanti al King David, il vecchio e<br />
leggendario albergo di Gerusalemme,<br />
una ventina di attivisti del<br />
movimento dei coloni, anziani, giovani e<br />
adolescenti, inalberano cartelli con su<br />
scritto «Sharon dittatore» o «Sharon traditore»,<br />
e distribuiscono volantini contro<br />
il ritiro da Gaza. Ma se si percorrono<br />
due o trecento metri nelle strade lì intorno,<br />
sui muri si vedono scritte più impressionanti:<br />
«Sharon, farai la fine di Rabin»,<br />
«Preghiamo per la morte di Sharon», «Attento<br />
Sharon, abbiamo più armi dei<br />
combattenti del ghetto di Varsavia». E<br />
poi la scritta più torva e incivile di tutte:<br />
«Lily t’aspetta», Lily essendo stato il nome<br />
della moglie, morta anni fa, di Sharon.<br />
Sono slogan non tanto spontanei o puramente<br />
emotivi, visto che a suggerirli —<br />
dopo averli spulciati da una qualche tortuosa<br />
interpretazione dei testi sacri —,<br />
sono le decine di rabbini che appoggiano,<br />
infiammano, la battaglia dei coloni.<br />
Gli stessi rabbini, per intenderci, che avevano<br />
avuto a lezione Natan Zada, il soldato<br />
diciannovenne che dieci giorni fa è<br />
salito su un autobus pieno di arabi e s’è<br />
messo a sparare. Gli stessi che in queste<br />
ore incitano i soldati e gli ufficiali, che da<br />
mercoledì prossimo dovranno portar via<br />
con la forza i coloni da Gaza, a disubbidire<br />
agli ordini dello stato maggiore.<br />
Adesso che gli attentati degli integralisti<br />
palestinesi si sono drasticamente ridotti,<br />
in Israele il turismo è tornato fluviale.<br />
Così che l’altra sera, vedendo<br />
un’interminabile fila di gente che entrava<br />
dalla porta di Jaffa nella città vecchia,<br />
avevo creduto si trattasse di turisti diretti<br />
a uno spettacolo di<br />
Sons et Lumiéres attorno<br />
alla Torre di David.<br />
Erano invece oppositori<br />
del ritiro da Gaza, religiosi<br />
e laici (gli uni in<br />
abiti neri e cappello a<br />
staio, gli altri in t-shirt e<br />
sandali) che andavano<br />
al Muro del pianto. Settantamila<br />
persone ammassate<br />
l’una sull’altra<br />
nel grande slargo antistante<br />
il Muro, gli slogan<br />
contro Sharon che risuonavano<br />
a ondate, il CONTRO IL PREMIER<br />
traffico bloccato — auto Una manifestazione<br />
della polizia comprese di protesta contro il premier<br />
— in mezza Gerusalem- israeliano Ariel Sharon<br />
me. E a Tel Aviv, giovedì<br />
sera, erano centocinquantamila: come<br />
dire, in un paese con la popolazione dell’Italia,<br />
un milione e seicentomila.<br />
Su questo sfondo concitato, mentre i<br />
coloni di Gaza hanno già ricevuto l’ordine<br />
di sgombero, quel che viene continuamente<br />
a galla è l’enigma Sharon. L’oscurità<br />
che avvolge la sua spettacolare inversione<br />
di rotta. Perché le stesse folle<br />
che oggi lo maledicono, sino a due anni<br />
fa tripudiavano ad ogni sua comparsa,<br />
parola o gesto. Lo osannavano, cantavano<br />
esaltate «Ariel, sei il re d’Israele». Mi<br />
viene in mente una conversazione avuta<br />
verso la fine dei Novanta a Kiryat Arba,<br />
una grossa colonia di fronte a Hebron. Il<br />
capo dell’insediamento, un ortodosso<br />
del Gush Emunim, lo chiamava «il bulldozer».<br />
E per un tratto della chiacchierata<br />
avevo pensato che col termine «bulldozer»<br />
l’uomo si riferisse alla stazza fisica<br />
di Sharon. Ma non era così: i coloni<br />
chiamavano Sharon «il bulldozer» perché<br />
sbancava dappertutto terreni, scavava<br />
fondamenta, e costruiva senza interruzione<br />
le colonie ebraiche nei Territori<br />
occupati.<br />
Trent’anni trascorsi ad impiantare<br />
sempre nuovi insediamenti, e sempre<br />
più in avanti, più addentro la Palestina,<br />
lungo i crinali delle alture in Giudea e Samaria,<br />
sinanche nelle zone più popolate<br />
dai palestinesi. Perché fosse chiaro a tutti<br />
che la realtà delle colonie nelle terre bibliche<br />
era ormai definitiva, irrevocabile.<br />
Nei fatti un’annessione, da far ingoiare<br />
un giorno o l’altro alla comunità internazionale.<br />
Come ministro volta a volta dell’Agricoltura,<br />
dell’Ambiente, delle Infrastrutture,<br />
della Difesa, Sharon s’era infatti<br />
assunto il ruolo del Grande Costruttore.<br />
E i risultati sono noti. Quand’egli<br />
andò al potere nel ‘77 con il Likud di Begin,<br />
in Cisgiordania c’erano infatti novemila<br />
coloni: adesso ce ne sono duecentotrentamila.<br />
Con quanta prontezza e violenza ha<br />
reagito in questi trent’anni ad ogni ipotesi<br />
o proposta d’un ritiro — anche limitato<br />
— dai Territori. Prendiamo per esempio<br />
Gaza. Un piano d’evacuazione da Gaza<br />
lo aveva avanzato nel 2002 l’allora leader<br />
dei laburisti, Amram Mitzna. Sharon<br />
lo aveva respinto ruggendo come un leone.<br />
È vero che quale ministro della Difesa<br />
era stato lui a organizzare nell’aprile<br />
dell’82, dopo la firma del trattato di pace<br />
con l’Egitto, la ritirata dal Sinai e lo smantellamento<br />
della colonia di Yamit. Ma ad<br />
imporre il ritiro era stato Begin, il primo<br />
ministro, e i coloni non costituivano ancora<br />
nella vita politica del paese il formidabile<br />
gruppo di pressione che sarebbero<br />
divenuti in seguito. In ogni caso,<br />
sgombrato l’ultimo ebreo dal Sinai, Sharon<br />
presentò al Parlamento una risoluzione<br />
che vietava ai governi futuri di progettare<br />
altri ritiri dalle colonie dei Territori<br />
occupati.<br />
Poi, poco più d’un anno fa, ecco la<br />
svolta. Il piano di ritiro da Gaza e da quattro<br />
piccoli insediamenti in Samaria: via<br />
tutto, postazioni militari, colonie e coloni.<br />
Decisione «unilaterale», e dunque<br />
senza alcun negoziato o accordo con i<br />
palestinesi. <strong>La</strong>sciamo per ora da parte le<br />
ragioni, che restano incerte e in gran parte<br />
riposte, della scelta di Sharon. Il fatto è<br />
che l’annuncio del piano ha rivoltato la<br />
società israeliana come un calzino. I sostenitori<br />
di Sharon, le destre e i coloni,<br />
sono adesso i suoi avversari, e i suoi avversari<br />
— la sinistra, i pacifisti — si sono<br />
trasformati in sostenitori. Ricordo verso<br />
la fine dell’anno scorso gli incontri con<br />
alcuni vecchi conoscenti, intellettuali di<br />
Peace now e della sinistra laburista, nei<br />
soliti caffè della German colony o di Ben<br />
Yehuda. I loro discorsi imbarazzati. Il loro<br />
disagio nel trovarsi, dopo trent’anni di<br />
critiche spietate, a parteggiare<br />
per Ariel Sharon.<br />
E questo mentre a<br />
Gaza e in Cisgiordania il<br />
movimento dei coloni si<br />
preparava a dare battaglia<br />
contro il suo vecchio<br />
idolo.<br />
Così, più che divisa, la<br />
società israeliana appare<br />
oggi letteralmente spaccata.<br />
<strong>La</strong> verità è che la<br />
FOTO REUTERS<br />
gran parte degli israeliani<br />
non avevano voluto<br />
vedere né sentire quel<br />
che avveniva nei territori<br />
occupati. Quali abusi<br />
gravissimi venissero regolarmente<br />
compiuti dai<br />
coloni. Le spedizioni che<br />
facevano per impedire le raccolte nelle<br />
piccole proprietà palestinesi, così da far<br />
marcire olive, frutta e verdure sugli alberi<br />
o nei campi. Le greggi sgozzate, le prepotenze<br />
ai posti di blocco e nei mercati,<br />
le acque dirottate. Né a patire l’arroganza<br />
dei coloni erano solo i palestinesi. Erano<br />
anche le strade d’Israele ad essere<br />
ostruite, sparse di copertoni bruciati,<br />
ogni volta che i coloni manifestavano per<br />
qualche loro rivendicazione, sussidi,<br />
nuove costruzioni, altri privilegi.<br />
Se da una parte gli israeliani preferivano<br />
non vedere (e i media, la tv soprattutto,<br />
favorivano la rimozione), dall’altra i<br />
partiti politici si disputavano il voto dei<br />
coloni. Così il loro movimento non ha<br />
fatto che crescere. Vi sono confluiti i resti<br />
del vecchio sionismo religioso, il nazionalismo<br />
oltranzista che s’era sempre opposto<br />
alla spartizione della Palestina, e<br />
nei primi Ottanta la corrente anti-araba,<br />
razzista, del rabbino americano Meir<br />
Kahane. E ne è scaturito un fondamentalismo<br />
parente stretto di quello islamico. I<br />
governanti e l’opinione pubblica avrebbero<br />
dovuto prendere le distanze, impedire<br />
che il peso politico delle colonie e dei<br />
coloni aumentasse sino a rappresentare<br />
un pericolo per la democrazia d’Israele.<br />
Non l’hanno fatto, e oggi il bubbone non<br />
si può più incidere.<br />
Quanto alla questione della pace, d’un<br />
processo negoziale che dopo l’uscita da<br />
Gaza conduca all’evacuazione d’una<br />
gran parte almeno, se non di tutta, la Cisgiordania<br />
— così consentendo la nascita<br />
d’uno Stato palestinese—, quel che è<br />
successo in queste settimane induce<br />
una volta di più al pessimismo. Se lo<br />
sgombero di ottomila coloni da Gaza ha<br />
fatto addensare su Israele le ombre d’una<br />
guerra civile, cosa succederebbe infatti<br />
al momento di sgombrarne centocentoventimila<br />
dalla Giudea e dalla Samaria?
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 26 14/08/2005<br />
Antiche<br />
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
il reportage<br />
Tradizioni artigiane<br />
CONCITA DE GREGORIO<br />
Nella città spagnola dove secoli fa i cavalieri venivano<br />
a cercare “Excalibur” e dove oggi i toreri si procurano<br />
gli “estoques”, la produzione di lame pregiate è diventata<br />
un lavoro di donne. Sono le tre sorelle Martìn - Margarita,<br />
Ascensiòn e Maria del Pilar - a mandare avanti la gloriosa<br />
officina Bermejo che ancora fornisce 62 eserciti<br />
Toledo, il mestiere delle spade<br />
TOLEDO<br />
Margarita Martìn, cinquanta<br />
passati, ha<br />
un bolerino rosa e<br />
dei jeans rosa attillati<br />
ton sur ton. Sale le scale e si affatica<br />
un po’, «fumo troppo». Poi riparte,<br />
passa in rassegna i reparti, fa gesti muti<br />
agli operai che d’altra parte non potrebbero<br />
sentirla: il rumore di lame è<br />
un clangore di battaglia che si mescola<br />
coi soffi e gli sbuffi delle macchine.<br />
Fiamme, fumi,<br />
odore di fuoco.<br />
Uomini dentro<br />
scafandri che maneggiano<br />
pinze<br />
incandescenti. <strong>La</strong><br />
signora, piccola e<br />
svelta, ci passa in<br />
mezzo come fosse<br />
in cucina e si raccomanda<br />
molto<br />
con l’ospite: attenta<br />
qui, non si<br />
tagli. Non tocchi la<br />
vasca, è rovente.<br />
Stia lontana dal<br />
forno. Attenta alle<br />
scintille, si potrebbe<br />
sciupare il<br />
vestito. L’acciaio<br />
brunito macchia e poi ci vuole il limone<br />
per toglierlo. Limone e mezza giornata<br />
ad asciugare al sole.<br />
Si chiude la porta sull’inferno in miniatura,<br />
si torna nel patio. Il cortile interno<br />
è verde e ombroso. Smerli di castello,<br />
azulejos e fiori, una fontana. Silenzio.<br />
«Qui da bambine le mie sorelle<br />
ed io giocavamo alle principesse.<br />
Guardi, quella è la Puerta del Sol da dove<br />
entrarono Alfonso VI e il Cid Campeador<br />
quando presero la città ai Mori.<br />
Questa è la moschea, laggiù la sinagoga.<br />
Qui sotto la porta di Carlo V imperatore.<br />
Noi ci mascheravamo con gli<br />
I maestri fabbri<br />
spiavano il momento<br />
di battere l’acciaio<br />
guardando il colore<br />
rosso tizzone,<br />
porpora del re,<br />
rosso sangue,<br />
rosso tramonto...<br />
stracci e aspettavamo il principe che<br />
avrebbe scelto la più bella e l’avrebbe<br />
salvata. Le nostre vicine sono le suore<br />
carmelitane, vede? <strong>La</strong> sera escono a<br />
curare l’orto e quando fa buio si sentono<br />
pregare: fanno un mormorio che<br />
sembra d’acqua». Si vedono, sì, le carmelitane.<br />
Al di là delle tende del convento,<br />
ombre minuscole dietro alle finestre<br />
chiuse.<br />
In un tempo lontano, molto molto<br />
lontano, tanti secoli prima che la gloriosa<br />
fabbrica di spade Bermejo esistesse,<br />
i cavalieri venivano a Toledo<br />
da tutta la Spagna perché le acque del<br />
fiume Tago erano<br />
una leggenda: loro<br />
sole, si diceva,<br />
potevano raffreddare<br />
il conio di<br />
una lama così da<br />
renderla invincibile.<br />
Arrivavano a<br />
cavallo fin qui a<br />
cercare “Excalibur”,<br />
c’erano<br />
maestri fabbri che<br />
sapevano riconoscere<br />
la temperaturadell’acciaio<br />
e<br />
dunque il<br />
momento di<br />
batterlo sologuardando<br />
il colore della lama incandescente:<br />
rosso tizzone, porpora<br />
del re, rosso sangue, rosso<br />
tramonto. Ancora oggi si<br />
dice così, la scala dei colori del<br />
fuoco è questa. Poi i signori<br />
raffreddavano il lavoro che gli<br />
veniva consegnato affondandolo<br />
nel corpo muscoloso di<br />
uno schiavo, dicono i testi<br />
conservati al museo. Le illustrazioni,<br />
sui libri, indugiano<br />
sui dettagli. I più generosi risparmiavano<br />
le vite e bagnavano<br />
la lama con l’urina di capra. A<br />
quel punto di nuovo bisognava<br />
scaldarla: sarebbe stata pronta solo<br />
quando al contatto con il corno di un<br />
toro avesse cambiato colore. C’è un<br />
modo di dire altrimenti incomprensibile,<br />
qui in Spagna: «C’è puzza di corno<br />
bruciato», dicono le donne di casa<br />
quando qualcosa si attacca nella pentola.<br />
Le corna nel resto del mondo<br />
non bruciano. A Toledo sì, da secoli.<br />
Lo sapeva Carlo Magno. Lo sapeva<br />
Shakespeare quando ha scritto l’Otello<br />
e naturalmente lo sapeva Cervantes,<br />
Don Chisciotte è nato qui.<br />
Lo sa Margarita Martìn, quieta madre<br />
di famiglia ed erede del fondatore,<br />
Vicente Martìn Bermejo. All’una in<br />
punto, quando la fabbrica Bermejo fa<br />
suonare la sirena di fine turno, da quasi<br />
cent’anni le donne del quartiere<br />
sanno che è l’ora di mettere le patate a<br />
lessare. Di buttare la pasta, diremmo<br />
noi. Vicente, il nonno di Margarita,<br />
aprì qui il suo laboratorio di maestro<br />
d’armi nel 1910: il terreno glielo aveva<br />
regalato la suocera (Margarita, naturalmente)<br />
con matriarcale lungimirante<br />
senso pratico, così che il genero<br />
nullatenente potesse mettersi all’opera<br />
e mandare avanti la famiglia. Cominciò<br />
da solo, col suo basco in testa:<br />
gli uffici sono pieni di foto di questo<br />
ometto minuscolo che esamina i ferri<br />
come fosse Picasso.<br />
Sarà così per pochi giorni ancora. A<br />
Ferragosto si chiude per ferie e a settembre<br />
— racconta la signora in rosa,<br />
gli occhi realmente pieni di lacrime —<br />
si riaprirà in un capannone di là dal<br />
fiume Tago, in periferia. «Un luogo a<br />
norma, che ci consenta di essere ancora<br />
competitivi perché ora che sono arrivati<br />
i cinesi non basta più la qualità.<br />
Ci vuole l’efficienza, la quantità e il<br />
basso costo. Non mi ci faccia pensare<br />
che non mi voglio intristire. Davvero<br />
non riesco ancora a credere che ce ne<br />
andremo da qui». Però i cinesi, certo.<br />
Le imitazioni made in Taiwan hanno<br />
rovinato il mercato: ormai delle cose<br />
conta solo l’aspetto, non la sostanza, e<br />
se la qualità delle lame da dieci euro è<br />
pessima, pazienza: la gente comunque<br />
compra quelle. Ci vuole l’intenditore<br />
per cogliere la differenza, ci vuole<br />
un professionista e non un turista per<br />
decidere di spendere seicento euro invece<br />
di sei per un “estoque” da torero.<br />
Margarita sospira: che ne sarà di noi.<br />
Il mestiere delle armi a Toledo è oggi<br />
un mestiere di donne. Le tre sorelle<br />
Martìn — Ascensiòn e Maria del Pilar,<br />
le altre — hanno ereditato una fabbrica<br />
che fornisce spade scimitarre e pu-<br />
Europa<br />
ELSA<br />
Difende la mano<br />
che impugna la spada<br />
<strong>La</strong> sua particolare forma<br />
“a campana” serve<br />
a deviare i colpi avversari<br />
L’elsa a crociera, tipica<br />
delle spade più antiche,<br />
ha anche una traversa<br />
difensiva di metallo<br />
IMPUGNATURA<br />
Ha un profilo zigrinato<br />
per garantire una presa<br />
più sicura. Le dimensioni<br />
dell’impugnatura variano<br />
a seconda della lunghezza<br />
e del peso della lama. Spesso<br />
è protetto da un coprimano,<br />
una striscia di metallo ricurva<br />
che collega elsa e pomo<br />
POMO<br />
È la parte terminale<br />
della guardia. Protegge<br />
l’impugnatura dai colpi<br />
provenienti dal basso<br />
e impedisce alla mano<br />
di scivolare. Può essere<br />
utilizzato anche<br />
per colpire direttamente<br />
l’avversario<br />
LAMA<br />
Può essere curva o<br />
dritta, a doppio taglio<br />
o con una sola<br />
affilatura. Il tratto<br />
più vicino alla punta<br />
è detto foible, e si<br />
distingue dalla zona<br />
in prossimità<br />
dell’elsa (forte)<br />
per spessore<br />
e larghezza. <strong>La</strong> parte<br />
senza affilatura<br />
si chiama ricasso<br />
gnali a sessantadue eserciti del globo.<br />
I Marines, la Us Navy e la Guardia Vaticana<br />
tra questi, oltre che “estoques”<br />
da torero a tutti i matadores di Spagna.<br />
Gli “estoques”, spade sottili che<br />
uccidono di punta e non di lama, sono<br />
elegantissimi e di una bellezza estetica<br />
che fa dimenticare a cosa servono:<br />
impugnatura rivestita di tela rossa,<br />
pomello d’oro. I toreri, la cui superstizione<br />
è leggendaria, vengono a sceglierli<br />
personalmente: seguono la lavorazione,<br />
curano l’inclinazione della<br />
lama colpo su colpo di martello. <strong>La</strong><br />
curva della lama si chiama, nel linguaggio<br />
degli artigiani, la “morte”.<br />
Non c’è torero che non passi da Toledo,<br />
dai Bermejo.<br />
«Io avevo sposato un avvocato, mia<br />
sorella un fisico nucleare e l’altra un<br />
economista. Mio padre seguiva la fabbrica<br />
e quando è mancato, a 57 anni,<br />
abbiamo dovuto decidere: potevamo<br />
chiudere, ma avevamo cinquanta<br />
operai. Cinquanta famiglie. Che<br />
si faceva? Si mandavano a casa?<br />
Così sono rimasta io. Poi mio<br />
cognato, il fisico, ha deciso<br />
di venire a dare un’occhiata.<br />
Si è innamorato<br />
di questo lavoro,<br />
adesso<br />
l’amministrato-<br />
Spagna e Portogallo
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 27 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
re è lui. I nostri figli, i miei tre e i tre miei<br />
nipoti, fanno mestieri più redditizi di<br />
questo. Delle spade si vive appena: i<br />
costi sono altissimi e i guadagni incerti.<br />
Sa che davvero a volte arriviamo a fine<br />
mese a stento? Fare l’avvocato rende<br />
molto di più, però certo, con che<br />
cuore, con che anima si può archiviare<br />
una storia così? Possiamo chiudere<br />
Bermejo? Non credo, davvero. Comunque:<br />
non io».<br />
Il cuore e l’anima, ecco. Le<br />
lame di Toledo raccontano<br />
storie di eserciti di mori<br />
assediati dai cattolici, di<br />
cavalieri leggendari e<br />
imperatori, di morti<br />
all’arma bianca<br />
tra i vicoli del<br />
ghetto. Isabella<br />
la Cattolica<br />
—<br />
di cui<br />
Stati Uniti e Messico<br />
qui in cattedrale<br />
si<br />
celebrano<br />
ora con<br />
una mostrasontuosa<br />
i 500<br />
anni dalla morte<br />
— aveva una sua<br />
spada, le serviva per<br />
ordinare i cavalieri e gli<br />
hidalgos che mandava<br />
a conquistare le Americhe,<br />
per varare con solennità<br />
gli editti con cui cacciava<br />
dalla Spagna gli ebrei e le loro<br />
ricchezze, i loro talenti. Ha<br />
una spada in mano San Paolo nel<br />
ritratto custodito nella casa di Domenico<br />
Theotokopoulos, pittore cresciuto<br />
a Roma alla scuola di Tiziano e<br />
venuto qui a vivere e morire, nato a<br />
Creta però e perciò chiamato il greco,<br />
El Greco. Hanno spade nei foderi i<br />
soldati della sua crocifissione, custodita<br />
nella sacrestia del Duomo: Tiziano<br />
Tintoretto Caravaggio, un piccolo<br />
Louvre sistemato alla buona nelle<br />
stanze sul retro, uno spettacolo da levare<br />
il fiato e sono solo gli avanzi di<br />
quel che è stata la ricchezza dei Re<br />
cattolici. È affilato e grigio come una<br />
spada il cristo in croce della Cattedrale.<br />
Ci sono spade disegnate sulle porte<br />
di legno, in città, negli stemmi di<br />
pietra. È una miniatura della spada<br />
del Cid il tagliacarte che centinaia di<br />
turisti arrivati in torpedone da Madrid<br />
comprano per diciannove euro e<br />
novanta e portano in America, in<br />
Giappone. Nell’anno mille in questa<br />
città vivevano insieme la sensualità<br />
degli arabi, l’intelligenza degli ebrei e<br />
il raziocinio dei cattolici: chiese di<br />
tutti i culti raccontano un medioevo<br />
luminoso e una convivenza possibile.<br />
All’ombra delle armi, certo: migliaia e<br />
migliaia di spade custodite nella fortezza<br />
dell’Alcazar. Però poi l’odore<br />
dolce del capretto, la sera, i ricami di<br />
pietra alle finestre.<br />
Dice Margarita che la sapienza segreta<br />
dell’arte delle spade risiede in<br />
principio nell’acqua e nella sabbia del<br />
Tago. È vera la leggenda. C’è qui una<br />
sabbia particolarmente ricca di un mi-<br />
IL MANUALE<br />
Una sequenza<br />
di scene illustrative<br />
da un manuale<br />
sull’arte del duellare<br />
stampato e diffuso<br />
nel diciottesimo secolo<br />
SFIDA NEL BOSCO<br />
Un singolare duello<br />
tra dame che si sfidano<br />
all’alba nel bosco<br />
L’immagine è francese<br />
dei primi anni<br />
del Novecento<br />
nerale chiamato wolframio, e c’è l’acqua<br />
salina del fiume che fa da buon<br />
conduttore al momento di forgiare le<br />
lame. «Noi i ferri li lavoriamo soltanto:<br />
l’acciaio non lo facciamo qui, ci arriva<br />
dai Paesi baschi. Qui lo forgiamo, gli<br />
diamo forma e resistenza, potenza ed<br />
elasticità. <strong>La</strong> materia prima non è nulla<br />
senza la mano che la tratta. È come<br />
avere le uova e pensare di aver già<br />
pronta la frittata», ride. È vero anche<br />
che i cavalieri per raffreddare le loro<br />
lame le bagnassero nel sangue degli<br />
schiavi, o nell’urina. «Ora ci sono le vasche,<br />
vede?».<br />
Bermejo produ-<br />
ce dodicimila spade<br />
all’anno, mille<br />
al mese, quasi cinquanta<br />
al giorno.<br />
Ha contratti in<br />
esclusiva e licenze<br />
per gli eserciti<br />
americano e iracheno.<br />
A luglio ha<br />
chiuso la spedizione<br />
per il Cile, a settembre<br />
si ricomincia<br />
con le spade dei<br />
Marines. «Le committenzeinternazionalicominciarono<br />
nel 1959. Arrivò<br />
a Toledo un<br />
ebreo di Boston,<br />
Sharon Fugger, un tipo bizzarro che<br />
per pranzo voleva solo sardine e uova<br />
sode. Era scappato dai nazisti fuggendo<br />
in Polonia, era passato per la Russia<br />
e la Svezia, infine era arrivato in America.<br />
<strong>La</strong>vorava per l’esercito Usa, procurava<br />
i materiali. Sapeva della tradizione<br />
di Toledo, Alonso Sahagun il<br />
Vecchio d’altra parte è leggendario: un<br />
artigiano del 1500 di cui parlano testi<br />
scritti in caratteri e in idiomi che non<br />
saprei decifrare. Perciò questo strano<br />
signore, Fugger, venne qui a cercare<br />
qualche spada per le uniformi di gala<br />
del suo esercito. Aveva sentito parlare<br />
del maestro Vicente, mio nonno. Gli<br />
chiese in principio dodici pezzi. Furono<br />
cinquanta l’anno dopo, cento quello<br />
dopo ancora». Si passa davanti alle<br />
foto incorniciate ai muri: il nonno, l’omino<br />
con un grande naso e con il basco<br />
in testa, mentre parla con gli operai,<br />
valuta il filo di una lama, accompagna<br />
gli ospiti. «Ha vissuto fino a novant’anni,<br />
stava qui seduto sotto l’albicocco<br />
a raccontarci storie di battaglie.<br />
Ha fatto in tempo a conoscere i<br />
generali della guerra del Golfo e gli<br />
astronauti. John Glenn è venuto qui a<br />
comprare una spada ed è rimasto un<br />
pomeriggio intero. El Buitre è un nostro<br />
caro amico, un collezionista».<br />
Le armi da collezione sono le più<br />
belle e le più care. <strong>La</strong> copia della spada<br />
di Simon Bolivar costa novemila euro:<br />
è fatta d’oro e zirconi, un lavoro delicatissimo<br />
di intaglio. Il laboratorio<br />
delle incisioni è una stanza chiusa, top<br />
secret. «Qualche segreto ce lo dobbiamo<br />
tenere stretto, con tutta la gente<br />
che circola e fa foto non si sa mai…».<br />
Sono le donne a incidere e a dipingere<br />
a mano, pezzo per pezzo. Hanno delle<br />
maschere come quelle delle decalcomanie,<br />
le applicano sulle lame, ci fanno<br />
passare sopra gli acidi con un pennello,<br />
poi scavano con un punteruolo.<br />
Ogni lama passa da trenta mani almeno,<br />
e finisce poi dentro la fodera di<br />
cuoio che un artigiano vicino cuce secondo<br />
la curva voluta con una macchina<br />
a pedali. È così che lievitano i<br />
tempi di fabbricazione, e i costi: 400<br />
euro una spada dei cadetti di West<br />
Point, da 450 in su un “estoque” da torero,<br />
550 la spada adornata di foglie dei<br />
Marines, 6.000 il regalo di Juan Carlos<br />
a Saddam Hussein, la copia di una antica<br />
spada irachena. Per le nozze dell’Infanta<br />
Elena la casa reale ha commissionato<br />
a Bermejo 25 pezzi da collezione,<br />
nell’impugnatura una testa di<br />
leone con occhi di rubino. Senza<br />
prezzo, non è in vendita.<br />
Si è fatta l’ora di pranzo, suona<br />
la sirena. Gli operai escono<br />
togliendosi gli occhiali<br />
e le cuffie, sono quasi<br />
tutti giovani. L’ultima<br />
generazione di<br />
vecchi è andata<br />
in pensione un<br />
anno fa, ne<br />
restano<br />
quattro<br />
p e r<br />
Poi i committenti<br />
raffreddavano<br />
il prodotto<br />
affondandolo<br />
nel corpo muscoloso<br />
di uno schiavo<br />
I più miti usavano<br />
l’urina di capra<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27<br />
passare le consegne. «Questo è un<br />
mestiere che non si impara nelle<br />
scuole, si impara facendolo. Arrivano<br />
che magari hanno studiato da saldatori,<br />
ma saldare un rubinetto non<br />
è come unire alla lama l’impugnatura<br />
del Cid. Ci vuole molto tempo, e i<br />
ragazzi oggi hanno fretta. Non c’è la<br />
fila, no, per venire a lavorare da noi:<br />
sono i figli e i nipoti dei vecchi artigiani,<br />
in genere, che arrivano. Contano<br />
la passione, l’amore della tradizione,<br />
l’orgoglio».<br />
Anche i figli di Margarita, due avvocati<br />
e una veterinaria, si affacciano<br />
ogni tanto. Siedo-<br />
no nel consiglio di<br />
amministrazione<br />
per le riunioni importanti,<br />
sentono<br />
le cose di famiglia.<br />
«Anche mia<br />
figlia, come me, si<br />
è sposata nella<br />
chiesa di cui si vede<br />
da qui il campanile,<br />
Santiago<br />
del Arrabal. I miei<br />
genitori ci vivevano<br />
dietro, in questa<br />
piccola ala<br />
della fabbrica.<br />
Anche a mia figlia<br />
dispiace che ce ne<br />
andiamo da qui,<br />
anche lei veniva a giocare nel patio da<br />
piccola. Chissà che alla fine non scelga<br />
di continuare l’impresa. L’altro<br />
giorno mi diceva: mamma, le nostre<br />
sono armi che non tagliano, non uccidono,<br />
fanno persino tenerezza ora<br />
che i morti li portano le bombe nella<br />
metro. E poi senta, pesano un quintale.<br />
Ci vuole il fisico per alzare una spada<br />
vera. Ecco, vede questa cicatrice<br />
che ho qui? Ne presi una in mano da<br />
bambina e mi cadde sul piede. Stia<br />
molto attenta, anzi. Non tocchi». Se si<br />
esclude la Regina Isabella, non è cosa<br />
da donne maneggiare le spade.<br />
Rustiche
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 28 14/08/2005<br />
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
il racconto<br />
Ferie d’alto mare<br />
<strong>La</strong> post-crociera<br />
festa proletaria<br />
MICHELE SERRA<br />
<strong>La</strong> parola “fame”, qui da noi,<br />
appartiene alla memoria degli<br />
avi e ai film di Franco Citti.<br />
È stata rimpiazzata da<br />
concetti più costumati, come<br />
“appetito”, che apparentano<br />
il gesto di nutrirsi a una garbata convenzione<br />
sociale piuttosto che al bisogno<br />
bestiale di mantenersi in vita.<br />
È dunque con allegro sconcerto che la<br />
odo echeggiare più volte, come leit-motiv<br />
programmatico, nel discorso di benvenuto<br />
ai croceristi (rotta Savona-Barcellona-Casablanca-Canarie-Madeira-Malaga<br />
e ritorno). «Se avete ancora fame…. se<br />
vi resta un po’ di fame… se la fame non è<br />
passata… se siete ancora affamati…»: ecco<br />
l’impulso che dovrebbe condurci, tutti<br />
e millecinquecento, lungo i ponti e le ore<br />
del giorno, i ristoranti e i self-service, i bar<br />
e gli odorosi barbecue allestiti accanto alla<br />
piscina, nella ininterrotta migrazione<br />
in ciabatte che unisce il breakfast al brunch<br />
al lunch alla merenda al dinner al rabbocco<br />
di mezzanotte allo spuntino in discoteca:<br />
sì, mangiare, mangiare continuamente<br />
e molto, onorare l’agio del tutto<br />
compreso e festeggiare il lungo addio<br />
all’indigenza in un fescennino di succhi<br />
gastrici e ganasce, piatti ricolmi, camerieri<br />
prodighi.<br />
Il collante ideologico<br />
è il cibo “tutto<br />
compreso”, una<br />
staffetta ininterrotta<br />
di colazione-brunchlunch-merenda-cenaspuntini<br />
after hours<br />
In principio era un esclusivo ritrovo<br />
di ricchi, poi la tipica vacanza della media<br />
borghesia sportiva, un semilussuoso<br />
petit-tour esotico. Oggi si è trasformata<br />
in una poderosa bolgia di popolo,<br />
un sogno da dèpliant da coronare in massa<br />
Quanto se ne vuole e quando si vuole,<br />
basta studiare giudiziosamente il labirinto<br />
degli orari, sapere che se la cornucopia<br />
del ponte 10 chiude alle cinque è perché<br />
apre quella del ponte 11, oppure basta seguire<br />
il flusso maggioritario della gente,<br />
quasi sempre diretta, a frotte, a nuove<br />
fonti di nutrimento.<br />
È il cibo il collante ideologico (il “comune<br />
sentire”) della crociera. E la motonave<br />
Costa Romantica deve avere stive<br />
incredibili, congelatori ciclopici e cambusieri<br />
più che abili per riuscire a stillare<br />
da ogni angolo montagne di roba da mangiare<br />
(sì, mangiare!) e fiumi di bevande.<br />
Discrasia evidente rispetto al nuovo culto<br />
parco e dietista degli abbienti, dei lettori<br />
di settimanali anche non intelligenti,<br />
del ceto medio oramai conscio che mangiare<br />
all’ingozzo richiama troppo sgarbatamente<br />
il nostro passato plebeo, tanto<br />
che nei ristoranti italiani, anche i più<br />
cheap, quasi nessuno ordina più antipasto<br />
primo secondo e dolce, non fa bene e<br />
non sta bene. È una gloriosa attitudine<br />
proletaria e residuale, quella del cibo eccedente<br />
e gioioso: ed è il primo indizio,<br />
questo, di quanto avessi sbagliato i pronostici<br />
sulla crociera, che ritenevo tipica<br />
vacanza da media borghesia sportiva, semilussuoso<br />
petit-tour per visitatori di<br />
porti e medine, moschee e centri storici, e<br />
invece è una poderosa bolgia di popolo in<br />
ascesa o anche di popolo e basta: sposini<br />
meridionali in viaggio di nozze grazie a<br />
una colletta dei parenti, pensionate che<br />
hanno risparmiato per anni per coronare<br />
il loro sogno da dèpliant, famiglie di operai<br />
e piccoli impiegati.<br />
Indizio implacabile, il numero bassissimo<br />
di passeggeri con un libro o un giornale<br />
in mano, forse uno su cento, e molto<br />
spesso con il Codice da Vinci. (Ne ho visto<br />
uno, un signore sulla cinquantina,<br />
che leggeva Svevo, e volevo proporgli un<br />
ammutinamento). Crudelissima, in<br />
questo senso, una breve scena pomeridiana,<br />
con animatori implacabili che costringono<br />
al Trivial Pursuit un gruppetto<br />
di anziane semiassopite: «Chi è il pittore<br />
contemporaneo famoso per le tele bianche<br />
tagliate?». No, le casalinghe di Voghera<br />
non sono tenute a conoscere Fontana.<br />
Infatti una dice «Giotto», poi si siede<br />
e si mette a ridere. Solo domande su Simona<br />
Ventura e Del Piero, please. Non<br />
sta bene mettere gli incolti di fronte al loro<br />
status: anche se se ne fregano, tutto<br />
sommato.<br />
* * *<br />
<strong>La</strong> crociera è un allestimento scenico<br />
per poveri che almeno dieci giorni all’anno<br />
vogliono sentirsi ricchi: i ponti si chiamano<br />
Montecarlo, Vienna e Verona, ristoranti<br />
e luoghi di riunione Michelangelo<br />
e Brunelleschi e trasudano marmi e ottoni<br />
come la hall di un albergo internazionale<br />
che punta alla clientela araba, il<br />
free-shop ha la sua scintillante vaghezza<br />
aeroportuale, t-shirt, sigarette, orologi,<br />
foulard e chincaglieria, le cabine (la cosa<br />
migliore della nave) sono comode e moquettate<br />
come bomboniere, ottimamente<br />
condizionate, e connesse alla ter-<br />
ra madre dal satellite che infligge il commissario<br />
Rocca anche in pieno Atlantico.<br />
Piccola sbavatura, in questa accurata recita<br />
interclassista: nessun luogo al mondo,<br />
come una grande nave, è così spietatamente<br />
metaforico delle differenze di<br />
censo. Dalle cabine del ponte più basso<br />
(gli inferi) all’empireo dei ponti sommitali,<br />
il prezzo quasi raddoppia, e negli<br />
ascensori, schiacciando il bottone del<br />
ponte di pertinenza, ognuno svela spietatamente<br />
quanto ha speso, e a quale girone<br />
è stato assegnato, se quello nobilmente<br />
affacciato sul Mediterraneo oppure<br />
quello sprofondato nella pancia<br />
oscura della nave.<br />
Un ragazzo del Sud, ricciutello e simpatico,<br />
un po’ Troisi un po’ Ninetto Davoli,<br />
in ascensore mi dice ridendo: «Sto al 5,<br />
ma per non farmi accorgere premo sempre<br />
il 10 e poi scendo per le scale…». Già<br />
tutto ben detto nel Titanic di De Gregori,<br />
prima seconda e terza classe, anche se oggidì<br />
l’abito fa un po’ meno il monaco e in<br />
shorts e maglietta ci si assomiglia tutti. Solo<br />
gli uomini dell’equipaggio si distinguono,<br />
con le uniformi inappuntabili che garantiscono<br />
il superiore decoro delle istituzioni.<br />
Tanto distanti paiono dal brulicante<br />
e sciatto transito della clientela<br />
sbracata, che una signora non particolarmente<br />
perspicace domanda a un ufficiale:<br />
ma voi, dormite sulla nave?<br />
* * *<br />
Chiedersi se sia il glorioso Love Boat a<br />
ispirare il clima e i modi della crociera, o<br />
viceversa il telefilm li abbia mutuati dalla<br />
realtà, è come chiedersi se sia la televisione<br />
lo specchio del popolo, o il popolo<br />
che si conforma al video, per cercare di<br />
esserne degno. L’uovo e la gallina. Sta di<br />
fatto che le signore, quando annotta, si<br />
imbudinano in abitini da sera e fanno la<br />
fila per partecipare al drink con il comandante,<br />
che è l’apogeo dello chic da<br />
crociera anche se cinque o seicento ospiti<br />
per turno non garantiscono intimità,<br />
più che un ricevimento è una Vucciria, e<br />
il comandante, poverello, è pur sempre<br />
uno solo, per quanto alto, abbronzato<br />
e perfino di bell’aspetto.<br />
I turnisti del drink (e di tutto<br />
il resto) non paiono però patire<br />
la carente esclusività dei riti di<br />
bordo, e si ammassano festanti<br />
in code da ufficio postale in<br />
attesa di afferrare il calice di<br />
spumantino, e farsi fotografare<br />
a braccetto con colui che deve<br />
apparire, sotto i lampadari a<br />
gocce e in mezzo a tutti quei<br />
velluti, poco meno di Horace<br />
Nelson. Il brivido marinaro,<br />
per il resto, è affidato a una<br />
squillante prova di evacuazione<br />
della nave, con le sirene e<br />
tutto il resto, che porta ad ammassarsi,<br />
con il giubbotto<br />
arancione, nei punti di ritrovo,<br />
tra schiamazzi e battute su<br />
naufragi e iceberg, abissi e pescecani,<br />
in una parodia dell’emergenza<br />
che almeno instilla<br />
nei partecipanti una vaga percezione<br />
del mare, dello stare in<br />
mare, del temere il mare, che<br />
immenso e silenzioso si apre<br />
alla prua e poi richiude a poppa,<br />
in lontananza, la ferita spumeggiante<br />
della scia.<br />
Già, il mare. Qualcuno, appoggiato<br />
ai parapetti dei ponti più alti,<br />
passa i minuti, il tempo di una sigaretta,<br />
ad osservarlo. Oppure ci si appiccica alle<br />
grandi vetrate delle cabine, come i visitatori<br />
di un gigantesco acquario, e si<br />
cercano nel blu infinito i soliti delfini o la<br />
vaga sagoma di un’isola, o della terraferma,<br />
o il segmento piatto e nero di una petroliera<br />
all’orizzonte. Ma di salmastro e<br />
di marino, a bordo di questo falansterio<br />
alto come un grattacielo, e lungo come<br />
dieci ristoranti messi in fila (tale è), ne arriva<br />
ben poco. In viaggio ci si consola con<br />
le due tinozze quadrate che fanno da piscina<br />
(otto per otto, direi), o con le vasche<br />
di idromassaggio, e si rimanda il contatto<br />
vivo con il mare alle soste, quando una<br />
spiaggia vera sia a portata di gambe (come<br />
a Malaga), o quando le gite in torpedone<br />
prevedano, oltre allo shopping<br />
compulsivo in suk e boutique, anche<br />
una sosta per fare un tuffo vero, finalmente,<br />
in acque vere.<br />
* * *<br />
A parte il cibo, in dose stordente, tutto<br />
FOTO CORBIS<br />
il resto o quasi è extra. Vino e bevande, e<br />
va bene, ma poi il servizio, le gite a terra,<br />
il fitness, internet, ogni leggera deviazione<br />
dal pellegrinaggio continuo in cerca<br />
di nutrimento costa denaro. Si spende,<br />
caricando sulla prestigiosa Costa Card<br />
euro su euro, ma non si sfugge alla severa<br />
sorveglianza del personale amministrativo,<br />
che invita gli spendaccioni a recarsi<br />
all’apposito desk per dimostrare di<br />
avere l’acconcia copertura finanziaria,<br />
cosa che non mi era mai capitata neanche<br />
nei più sgangherati ostelli che frequentavo,<br />
effettivamente squattrinato,<br />
in gioventù. «Lei non ha idea di chi imbarchiamo»,<br />
mi confida un’impiegata<br />
per giustificarsi di fronte alle mie rimostranze<br />
per l’eccessiva pedanteria dei<br />
controlli. «C’è gente che ha scassinato il<br />
frigobar prima di sbarcare. C’è di tutto,<br />
sa, a bordo». Le faccio osservare che la<br />
bassa qualità della clientela non è, per la<br />
precisione, tra gli addebiti che possono<br />
essere mossi a un presunto innocente.<br />
<strong>La</strong> mia replica cade nel vuoto. Far cade-<br />
GIOCHI DI BORDO<br />
Sopra, la sezione<br />
trasversale<br />
dei vapori “Duilio”<br />
e “Giulio Cesare”,<br />
entrati in servizio<br />
negli anni Venti<br />
sulla rotta Europa-<br />
Sudamerica<br />
A sinistra, vignette<br />
di Marcello<br />
Dudovich sui giochi<br />
a bordo<br />
dell’“Augustus”,<br />
e un manifesto<br />
pubblicitario<br />
Le illustrazioni sono<br />
tratte dal libro<br />
“Transatlantici”<br />
di Maurizio Eliseo<br />
e Paolo Piccione,<br />
edito a cura<br />
della Banca Carige
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 29 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
re le repliche nel vuoto dev’essere uno<br />
dei punti forti nell’addestramento del<br />
personale di bordo.<br />
Colgo, nel trascorrere dei giorni, una<br />
certa qual tensione tra clientela e compagnia,<br />
con impiegate transnazionali<br />
pallide e severe, occupatissime a rispondere<br />
«non si può» in tutte le lingue a qualunque<br />
richiesta appena insolita (tipo:<br />
mi hanno rubato il telefonino a Malaga,<br />
potreste per favore bloccare il mio numero<br />
con una telefonata alla Vodafone?<br />
Risposta: non è previsto dalle nostre regole).<br />
Dico che neanche in una pensione<br />
di sest’ordine rifiutano una cortesia a un<br />
cliente in difficoltà, ma capisco di rappresentare<br />
più una turbativa della disciplina<br />
di bordo che un caso di piccola<br />
emergenza. Non sono previsto dai regolamenti.<br />
L’ultimo giorno, però, capisco almeno<br />
in parte la gelida impenetrabilità che<br />
la compagnia oppone alle necessità dei<br />
passeggeri. Alla fila per pagare gli extra<br />
(lunghissima, l’ennesima) se ne aggiun-<br />
ge un’altra, appena più breve, di clienti<br />
che contestano, alcuni sbraitando, l’addebito<br />
di un caffè, o di una minerale.<br />
L’ordinata filiera della Costa Card sbanda<br />
e quasi deraglia mentre clienti e impiegate<br />
spulciano un numero pazzesco<br />
di foglietti di carta questionando sui<br />
centesimi. Il popolo è in subbuglio, quasi<br />
in rivolta, la crapula, vista dalla coda, si<br />
rivela più costosa e disagevole di quanto<br />
immaginato all’imbarco, l’orgia di fotografie<br />
(con il salvagente al collo, con il comandante,<br />
con i vicini di tavola, mentre<br />
si balla il valzer con il cameriere, mentre<br />
si fa il trenino — sì, anche il trenino — tra<br />
le bottiglie scolate) è sfuggita di mano ai<br />
fotografati, forse ne hanno comperate<br />
troppe e non se ne ricordano, comunque<br />
non le vogliono pagare, magari non<br />
possono proprio, spiantati dalla retta di<br />
crociera e con i soldi contati per rientrare,<br />
sui treni disgustosi delle normali tratte<br />
italiane non Eurostar, a casa, e mettere<br />
la foto del comandante accanto a Padre<br />
Pio.<br />
Si risolvono i contenziosi rimediabili,<br />
per gli altri ci sono appositi moduli per<br />
reclamare, la maggioranza inghiotte<br />
(dopo tutto quello che ha inghiottito) la<br />
spina di un conto sfuggito di mano, passarsela<br />
da semi-ricchi, sia pure in una cabina<br />
bassa e senza oblò, non è gratuito, o<br />
forse è tornare a casa e al proprio status<br />
abituale che costa davvero. Battute<br />
scontate tra gli sbarcandi, «la Costa costa»,<br />
ma non è neanche giusto lamentarsi<br />
di quello, quando la sola lamentela lecita,<br />
per capire meglio in quale secca ci si<br />
è arenati, sarebbe domandarsi se è davvero<br />
necessario, per essere felici, fare il<br />
trenino al largo di Madeira.<br />
* * *<br />
Però bellissima la Rocca di Gibilterra,<br />
di notte, uno sperone di luci che squarcia<br />
il nero, e centinaia di navi che suonano la<br />
sirena salutando con un mugghio corale<br />
e struggente il mare domestico e affrontando<br />
l’Oceano, in memoria di quando<br />
l’Atlantico era l’incognito ed era l’addio.<br />
Ora è tutto compreso, bevande escluse.<br />
DONATELLA ALFONSO<br />
GENOVA<br />
«Bourbon, bitter campari, succo<br />
di limone. Tutto nello shaker e poi in<br />
una flute guarnita con fetta d’arancio e<br />
ciliegina». Sorride: «Si chiamava Cocktail<br />
Michelangelo, ovvio. Era rosa, un<br />
po’ amarognolo. Ci ho vinto anche lo<br />
Shaker d’oro a Saint Vincent». Ma Liz<br />
Taylor e Richard Burton al “Michelangelo”<br />
preferivano altro: «Due martini<br />
per aperitivo e poi, dopocena, Dom Perignon<br />
per lei, bourbon per lui. Mai visti<br />
andar via ciondolanti, però. Sorridevano,<br />
tornavano in cabina tranquilli.<br />
Lei una volta mi ha detto: Benito, sai<br />
perché veniamo da te? Perché non ci<br />
guardi nemmeno. E lei era veramente<br />
bella, gentile, morbida, dolce. Era venuta<br />
prima con Eddie Fischer, poi con<br />
Burton. Ma con Fischer faceva un po’ la<br />
star, era più rigida. Con Burton no, era<br />
veramente una ragazza semplice, a suo<br />
agio. Stupenda, sempre».<br />
Succedevano tante cose nei sette bar<br />
della Michelangelo. Benito Cuppari,<br />
capo dei barmen della grande nave per<br />
sette anni («ma in realtà io ci ho lavorato<br />
da prima del varo, avevo collaborato<br />
proprio alla progettazione dei bar, con<br />
gli architetti e gli arredatori») sorride<br />
mentre, dal grande<br />
belvedere affacciato<br />
sulla città<br />
antica guarda il<br />
mare e il porto di<br />
Genova, da dove la<br />
Michelangelo<br />
salpò per la prima<br />
volta quarant’anni<br />
fa, il 12 maggio1965.Prestigioso<br />
imbarco, il<br />
clou della carriera<br />
da barista sull’oceano,<br />
per lui che<br />
dal ‘54 aveva cominciato<br />
ad andare<br />
su e giù per le<br />
Americhe su tutti i<br />
grandi transatlan-<br />
tici italiani: Augustus,<br />
Giulio Cesare,<br />
Leonardo Da<br />
Vinci, Colombo,<br />
Conte Grande,<br />
Raffaello. E Michelangelo,<br />
la più amata. «Era una bella<br />
nave, più bella della Queen Mary. Un<br />
vero albergo a cinque stelle, le lenzuola<br />
di lino cambiate tutti i giorni, la cameriera<br />
che senza bisogno di venire richiamata<br />
andava a prendere lo<br />
smoking e lo faceva trovare pronto in<br />
cabina, perfettamente stirato, insieme<br />
con la frutta sulle fruttiere d’argento. E<br />
ci lavoravano grandi professionisti, a<br />
tutti i livelli: la ristorazione, ad esempio.<br />
Buonissimo il cibo, ricercatissima<br />
la presentazione: in prima classe ogni<br />
piatto arrivava con le campane di servizio<br />
individuali, d’argento. Hanno<br />
raccontato grandi bugie, dicendo che<br />
non si sarebbero più fatte crociere,<br />
l’hanno venduta come ferrovecchio.<br />
Hanno smantellato un patrimonio...<br />
Sì, mi ha fatto male questa fine, e non<br />
solo a me. Al Pier 94 di New York, il molo<br />
di attracco, ho visto piangere i passeggeri<br />
quando ci hanno detto «la nave<br />
torna a Genova e non parte più».<br />
Per i protagonisti del boom italiano<br />
un viaggio sulla Michelangelo, magari<br />
con le attrici e i cantanti da intravedere<br />
giusto al bar o al ristorante, era il segno<br />
della promozione sociale raggiunta.<br />
Loro, le star, solo raramente si concedevano:<br />
«Mi ricordo Petula Clark, che<br />
cantò una sera soltanto per l’equipaggio».<br />
Ma ci fu anche un Burt <strong>La</strong>ncaster<br />
con il mal di mare: «Prendemmo una<br />
tempesta, la nave si inclinò di ventotto<br />
gradi. Lui rimase otto giorni in cabina».<br />
O Renata Tebaldi, regina dell’opera,<br />
«che era completamente succube della<br />
madre: le sceglieva persino il menu».<br />
E Alberto Sordi, celebre anche tra i 720<br />
dell’equipaggio tutto, dal comandante<br />
al mozzo, per una certa difficoltà a<br />
mettere la mano in tasca e trarne qualche<br />
spicciolo. «Ma la cosa che aveva<br />
realmente fatto scandalo è che si facesse<br />
rammendare i calzini dalle cameriere.<br />
Un attore famoso come lui…».<br />
Si pagava in dollari, nei bar, e a parte<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29<br />
Il barista sull’oceano:<br />
ricordo champagne,<br />
attrici e notti bianche<br />
IL COCKTAIL DELL’AMORE<br />
Il bouquet dell’amore, disegnato<br />
da Peynet per Benito Cuppari<br />
le mance le bevande erano l’unica spesa<br />
da prevedere a bordo, perché traversate<br />
e crociere avevano una tariffa tutto<br />
compreso. «Ma i prezzi erano concorrenziali,<br />
tutto fuori dogana. Sessanta<br />
centesimi un cocktail, e una bottiglia<br />
di Dom Perignon per otto dollari». Non<br />
facevano proprio caso ai conti i full<br />
cruisers, quelli che in prima classe non<br />
solo facevano la traversata, ma da un<br />
anno all’altro prenotavano la crociera<br />
di ventuno giorni, la round trip: partenza<br />
e arrivo a New York e nel mezzo Madera,<br />
Algeciras, Palermo, Napoli, Genova,<br />
Cannes, Barcellona, Lisbona. Fedelissimi<br />
anno dopo anno, per sette anni.<br />
«Miliardari certo, californiani soprattutto,<br />
vicepresidenti di banche e<br />
grandi società, la padrona della Camel<br />
con il marito... Notti intere a giocare,<br />
bere. All’alba il marinaio scaldava la piscina<br />
a ventotto gradi, c’era il bagno finale:<br />
alle sei e mezzo facevo servire<br />
omelette e champagne. Alle sette e<br />
mezzo tutti a letto».<br />
Restavano chiusi ben poco, i sette<br />
bar della Michelangelo. In funzione<br />
dalle 10 alle 14, riposo sino alle 16.30.<br />
Poi di nuovo via con gli shaker, fino alle<br />
tre, almeno. Con un sorriso per tutti,<br />
ascoltando confidenze da non raccontare<br />
mai: discrezione come stile di vita<br />
e di lavoro. «Tantissime cose non le ha<br />
mai sapute nemmeno<br />
mia moglie.<br />
<strong>La</strong> discrezione era<br />
una dote che a bordo<br />
nessuno infrangeva,nemmeno<br />
dove si lavavano<br />
i piatti sentivi<br />
un mormorio, un<br />
pettegolezzo. Veniva<br />
Thomas Foglietta,<br />
senatore di<br />
Filadelfia che è<br />
tornato a trovarmi<br />
qui a Genova<br />
quando era ambasciatore<br />
di Clinton<br />
in Italia. Faceva la<br />
crociera di ventun<br />
giorni, si sedeva<br />
davanti a me per<br />
ore, e parlava di Filadelfia,<br />
delle lotte<br />
per diventare sindaco...<br />
beveva<br />
tranquillo, raccontava.<br />
E Charlie <strong>La</strong>sserse, il vicepresidente<br />
della Morgan Bank: grandissimo.<br />
In quegli anni era proibito importare<br />
oro negli Usa, lui faceva la crociera<br />
con gli sbarchi a Napoli e a Venezia. Andava<br />
da un orafo, si faceva fare un leone<br />
di San Marco da cinque chili. Ogni<br />
viaggio, un leone. Come opera d’arte<br />
poteva importarli».<br />
Il comandante sulla plancia di comando<br />
(«perché allora il comandante<br />
era il padrone della nave e stava ad occuparsi<br />
della nave, non ai ricevimenti»)<br />
il capo barman sulla sua, il Bar Nero.<br />
«Stupendo. Tutto in pelle nera, un bancone<br />
lungo ventotto metri con un disegno<br />
michelangiolesco al centro. Sette<br />
persone di servizio. Sì, era il mio preferito.<br />
Stavo lì, in genere, poi facevo qualche<br />
giro, avevo un “secondo” in ogni<br />
bar... in serata mi spostavo magari al night:<br />
bello, sulla piscina, con pista da<br />
ballo e orchestra». Cinquecento passeggeri<br />
in prima classe? Per il cocktail di<br />
benvenuto significava preparare 1500<br />
cocktails in un’ora e un quarto. «Martini,<br />
Manhattan, Champagne cocktail,<br />
Così per partire, con i tre quarti dei camerieri<br />
impegnati. Poi c’erano quelli<br />
che ti chiedevano gli special orders,<br />
whisky o altro».<br />
Il modello della Michelangelo, regalo<br />
di fine imbarco, lo guarda dall’alto<br />
del bancone dell’american bar dove ora<br />
lavora il figlio. «Ci tenevo tanto, gli architetti<br />
me l’avevano promesso. Ma c’è<br />
un’altra cosa a cui tengo, la dedica su un<br />
menu che mi ha fatto Peynet, il disegnatore:<br />
la ricetta di un cocktail, il bouquet<br />
dell’amore, l’ha chiamato. Un po’<br />
di tenerezza, un po’ di mughetto portafortuna,<br />
tra gli ingredienti».<br />
Dopo la Michelangelo, basta con il<br />
mare e le crociere? «Per il lavoro sì, sono<br />
rimasto sulla terraferma. E di crociere<br />
non ne parliamo: mi hanno invitato<br />
tante volte, ma a vedere navi jukebox e<br />
cibi congelati, io proprio non ci vado».
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 31 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
le storie<br />
Chiesa del silenzio<br />
CINZIA SASSO<br />
BRNO<br />
Alle tre di un pomeriggio<br />
d’estate, una piccola<br />
donna coi capelli raccolti<br />
in una crocchia, gli orecchini<br />
di perle, le gambe sperdute in un<br />
paio di jeans azzurrini, scende dal tram<br />
numero tre con in mano un cesto di vimini.<br />
Torna dall’orto con le carote e l’insalata.<br />
Come fanno tanti<br />
vecchi, qui, a Brno, in<br />
periferie come questa<br />
— Stara Osada, a Zidenice<br />
— che sanno ancora<br />
di comunismo.<br />
Ciabatta ingobbita nei<br />
finti Birkenstock di plastica<br />
nera, ha 73 anni e<br />
occhi di un azzurro trasparente.<br />
Si infila in uno<br />
dei cinque portoni del<br />
suo blocco di case, dodici<br />
piani, senza balconi, i<br />
muri grigi e scrostati. Entra<br />
nel suo appartamento<br />
che sta a piano terra. È sola<br />
e in silenzio. Sola e in silenzio<br />
come è sempre stata.<br />
Si chiama Ludmila Javorova<br />
ed è un prete. Una<br />
donna prete costretta per<br />
tutta la vita a dimenticare se<br />
stessa: prima, nella Cecoslovacchia<br />
della dittatura<br />
comunista, come cattolica;<br />
poi, nella Chiesa che non<br />
vuole le donne sopra un altare,<br />
come sacerdote.<br />
Si scusa perché ha le mani<br />
sporche di terra, non aspettava<br />
nessuno, anzi, stava per<br />
andare con le carote da sua sorella<br />
Maria che è una delle poche<br />
che ha sempre saputo. Comunque<br />
va bene, venga, sì, sono<br />
un prete, se insiste le spiego.<br />
<strong>La</strong> casa è due stanze, tutto lindo,<br />
pulito, in cucina la formica<br />
bianca e la marmellata di albicocche<br />
appena riposta. Le tendine<br />
di pizzo, tanta luce anche se siamo<br />
proprio in basso, là fuori ecco il giardino.<br />
Nel salotto il divano di legno che<br />
è anche il suo letto, tante piante — ficus,<br />
dracene, papiri, un cactus perché<br />
piaceva a suo padre — e soprattutto<br />
tantissimi libri. Una parete di<br />
libri: filosofia, psicologia, architettura,<br />
i titoli sono in ceco, ma si capisce.<br />
C’è una macchina per cucire,<br />
un tv Grundig e, su un tavolino<br />
coi vasi di fiori finti, un computer<br />
collegato col mondo. «Sì, sono un<br />
sacerdote. Sì, ho celebrato la<br />
Messa». Bobinko, il gatto soriano,<br />
si struscia in cerca di grattini<br />
sul collo. Ludmila lo accontenta<br />
e continua: «Ma non voglio<br />
essere una bandiera, io<br />
non chiedo né recrimino<br />
niente».<br />
Il contrabbando di ostie<br />
Era la notte del 28 dicembre<br />
del 1970. In una casa che non è<br />
molto lontano da qui, un vescovo, anima<br />
della chiesa nascosta della Cecoslovacchia<br />
comunista, innamorato di Dio<br />
e della libertà, provato da 14 anni di carcere<br />
ma indomito, ordinò Ludmila Javorova<br />
sacerdote della Chiesa Cattolica<br />
Romana. In cella aveva capito che le<br />
donne erano vittime due volte: senza<br />
sacerdoti tra loro non potevano ricevere<br />
nemmeno il conforto dell’Eucarestia.<br />
Ludmila aveva 38 anni, in quel momento<br />
faceva la custode in una galleria<br />
d’arte, anche lei amava Dio. Dovevano<br />
amarlo tutti in silenzio, però. Pregare di<br />
nascosto e stare attenti al vicino che poteva<br />
fare la spia. Scrivere le preghiere<br />
sulle cartine di sigarette e ingoiarle se<br />
arrivava qualcuno. Celebrare al buio, la<br />
notte, nelle poche case sicure che dovevano<br />
avere due ingressi così, se era il<br />
caso, almeno qualcuno poteva scappare<br />
e salvarsi. C’era il contrabbando di<br />
ostie per celebrare l’Eucarestia. Trovare<br />
chi volesse ordinare nuovi preti era<br />
difficile, oltre alla fede ci voleva troppo<br />
coraggio. Il gruppo si chiamava Koinotes,<br />
viene dal greco, vuol dire Comunità,<br />
era uno dei più importanti della<br />
chiesa clandestina. Il piccolo gruppo<br />
divenne ancora più piccolo quando<br />
Ludmila venne fatta sacerdote: neppure<br />
tra loro tutti capirono; anche tra loro<br />
era costretta a nascondersi.<br />
Quella notte appena dopo Natale, in<br />
Vive a Brno nella <strong>Repubblica</strong> Ceca, è stata ordinata sacerdote<br />
da un vescovo nel 1970 in un Paese provato dalla dittatura<br />
comunista e costretto a vivere la propria religione<br />
in clandestinità. Ha celebrato messa di notte nelle case dei credenti,<br />
sino a quando, ventisei anni più tardi, il Vaticano l’ha interdetta<br />
dal suo ufficio: “Ma un sacramento non si cancella”<br />
<strong>La</strong> fede nascosta<br />
del prete Ludmila<br />
quell’appartamento, davanti a un testimone<br />
vincolato al silenzio, dopo essere<br />
stata ordinata dal vescovo fondatore<br />
dei Koinotes Felix Maria Davidek,<br />
Ludmila celebrò la sua prima Messa.<br />
Indosso aveva il suo vestito più bello,<br />
nero, di broccato. Poi nel gelo si incamminò<br />
verso casa, da sola, e si accorse<br />
che stava piangendo. Finalmente.<br />
Non lo aveva mai fatto: piangeva di<br />
felicità e di paura. Era cresciuta con otto<br />
fratelli maschi e si era abituata a fare<br />
come fanno gli uomini, trattenere le<br />
emozioni, nascondere i sentimenti.<br />
Entrò, al piano di sopra sentì piangere<br />
Bohumila, la nipotina che tanto non<br />
poteva capire, tra le lacrime impartì la<br />
sua prima benedizione e le sussurrò:<br />
«Questo è un giorno molto importante,<br />
quando crescerai ti dirò che cosa è successo<br />
ma per adesso deve restare un segreto».<br />
Sopra il divano, nel salottino, c’è un<br />
grande ritratto della persona che ha reso<br />
possibile questa storia: Felix Maria<br />
Davidek pare un uomo bellissimo, occhi<br />
senza paura, mani bianche, lunghissime,<br />
aristocratico anche nel fisico.<br />
Gli uomini, non solo l’amico Felix, diventato<br />
prima prete e poi vescovo, hanno<br />
una parte importante nella storia di<br />
Ludmila: da bambina soffriva di non<br />
poter giocare come facevano i suoi fra-<br />
L’ALBUM DI FAMIGLIA<br />
In alto, Ludmila nel’97.<br />
Al centro, con la famiglia<br />
del fratello e con la<br />
nipotina. Sotto, Ludmila<br />
negli anni ‘70<br />
‘‘<br />
Non sono una<br />
fuorilegge,<br />
non mi rivolto contro<br />
nessuno ma non<br />
si può spegnere<br />
la luce dello Spirito<br />
telli, si lamentava con la mamma, allora<br />
protestava in modo vivace. Adorava<br />
suo padre e di lui non può dimenticare<br />
una frase, come se fosse quella che le ha<br />
segnato la vita. Era bimbetta, la famiglia<br />
molto cattolica e il padre un uomo di<br />
grande cultura, sempre a leggere di tutto,<br />
molti dei libri di questa stanza erano<br />
suoi. I fratelli giocavano a dire la Messa,<br />
a lei era vietato e allora andò dal padre<br />
protestando: «Perché le donne non<br />
possono fare il prete?». E lui, spostando<br />
appena lo sguardo dal libro: «Prega perché<br />
questo possa accadere». È accaduto,<br />
e adesso Bohumila può sapere. Ma la<br />
gerarchia no, quella ha preferito ignorare,<br />
cancellare con il silenzio.<br />
Era il 1996, un’altra storia, ormai, per<br />
la Cecoslovacchia: a Berlino era caduto<br />
il muro e poi a catena la rivoluzione di<br />
velluto e il Paese che non c’era più proprio,<br />
ora Brno è nella <strong>Repubblica</strong> Ceca,<br />
la seconda città dopo Praga, e il resto è<br />
Slovacchia. Dallo Stato non era più necessario<br />
nascondersi, ma dalla Chiesa?<br />
Per anni Ludmila aveva cercato di avere<br />
risposte: anche Felix, alla fine, l’aveva<br />
lasciata sola. Sola con il suo segreto,<br />
sola con la mancanza di modelli, sola a<br />
cercare di giustificare agli altri la propria<br />
vocazione. Aveva scritto a Giovanni<br />
Paolo II: sarà mai arrivata, quella lettera?<br />
Di certo non è mai arrivata risposta.<br />
Nel ‘92 il Vaticano rivolse un appello<br />
ai preti della chiesa sotterranea perché<br />
uscissero allo scoperto: rivolta solo<br />
agli uomini, però. È nel ‘96, solo nel ‘96,<br />
che Roma manda a chiamare Ludmila:<br />
dal vescovo della sua diocesi, come si<br />
deve, che in privato le dice che «è formalmente<br />
interdetta dall’esercitare il<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31<br />
sacerdozio». Niente di scritto, nessun<br />
pronunciamento eclatante: se le donne<br />
prete non esistono, perché mai parlarne?<br />
E Ludmila obbedisce: «Si vede che i<br />
tempi di Dio sono diversi dai tempi degli<br />
uomini, però il futuro apre alle donne<br />
questa possibilità».<br />
“Un dono di Cristo”<br />
«Un sacramento non si può cancellare,<br />
io sono stata ordinata da un vescovo e<br />
resto un prete. Il sacerdozio è un dono<br />
carismatico, è un dono di Cristo e davanti<br />
a Cristo non esiste uomo o donna,<br />
esiste solo la persona». Ma il dogma?<br />
Sorride: «Non è un dogma, è solo una<br />
norma del diritto canonico». «Non sono<br />
una fuorilegge, né era fuori dalla legge<br />
quello che è accaduto. Il sacramento<br />
non fa differenza di genere». Ancora:<br />
«Io sono solo una piccola persona in un<br />
piccolo appartamento, non mi rivolto<br />
contro nessuno. Sono contro la violenza<br />
e l’imposizione, questa è una questione<br />
che ha bisogno di tempo per maturare<br />
e di molto coraggio. Ci sono nuovi<br />
bisogni, non si può chiudere la porta,<br />
non si può spegnere la luce dello<br />
Spirito». Non è una rivendicazione, sia<br />
chiaro: «Non è che perché adesso ci sono<br />
donne magistrato, soldato, capo di<br />
Stato, che allora le donne vogliono raggiungere<br />
la parità anche in questo.<br />
Quello che dev’essere riconosciuto è<br />
l’essere umano che è nella donna, un<br />
essere uguale a quello dell’uomo».<br />
Dietro gli occhiali dorati lo sguardo<br />
sembra ancora più limpido:<br />
«Il mio essere<br />
una donna sacerdote<br />
è un<br />
dono di Dio<br />
che serve anche<br />
ai bisogni<br />
attuali del popolo<br />
di Dio».<br />
Per questo ha<br />
accettato di<br />
raccontare la<br />
sua storia, per<br />
prima, a Miriam<br />
Therese<br />
Winter, una<br />
suora e teologa<br />
americana (ne<br />
ha scritto un libro,<br />
Dal profondo,<br />
edizioni Appunti<br />
di Viaggio).<br />
Cosa pensa della<br />
gerarchia ecclesiastica<br />
che è sorda<br />
a questi argomenti?<br />
«Mi viene<br />
da pensare a loro<br />
come a dei bambini<br />
handicappati…<br />
li amo e tento di capirli.<br />
Come mi ha<br />
insegnato mio padre,<br />
prego perché<br />
Dio possa usare il<br />
mio essere prete come<br />
una via per dimostrare<br />
che questo<br />
è possibile». Tiene le mani immobili,<br />
dolcemente appoggiate, le muove<br />
solo per accarezzare lentamente Bobinko.<br />
Se oggi è una tranquilla pensionata<br />
che va all’orto, da Maria sua sorella,<br />
dalla nipote Bohumila, alla chiesa<br />
dei Santi Cirillo e Metodio a insegnare<br />
catechismo ai bambini, se oggi ha raggiunto<br />
la serenità, non è stato sempre<br />
così. Gli anni della guerra, poi quelli<br />
della repressione sono stati durissimi.<br />
Il vescovo Davidek pensava che la chiesa<br />
dovesse vivere e continuare nel suo<br />
operato in qualsiasi condizione e a Roma<br />
non potevano sapere di cosa ci fosse<br />
bisogno nella Cecoslovacchia dell’-<br />
StB, la famigerata polizia politica: «<strong>La</strong><br />
Chiesa del silenzio aveva bisogno anche<br />
di preti sposati e di donne prete.<br />
Ciò che mi è accaduto è accaduto in un<br />
momento eccezionale della storia ed in<br />
un luogo particolare».<br />
Pensa che mondo, sogna Ludmila, se<br />
la chiesa fosse aperta anche alle donne.<br />
Il libro delle preghiere, ad esempio: il<br />
suo è corretto tutto al femminile. In ceco<br />
ogni verbo, ogni sostantivo, ogni aggettivo<br />
sono declinati secondo il genere.<br />
«Io mi sento una donna, sono sempre<br />
più grata, più profondamente grata,<br />
di esserlo. E questa gioia voglio<br />
esprimerla anche nella preghiera, ma<br />
al femminile». «Faccio parte della<br />
Chiesa e dunque insieme ad essa gioisco,<br />
soffro e lotto. Vorrei che la mia<br />
Chiesa mi accettasse per quello che sono:<br />
donna e sacerdote».
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
i luoghi<br />
Giardini restaurati<br />
<strong>La</strong> Zisa, paradiso ritrovato<br />
ATTILIO BOLZONI<br />
PALERMO<br />
Gliemiri che venivano dall’altra<br />
parte del mare lo<br />
chiamavano gennat alard,<br />
il Paradiso della Terra.<br />
E lo trovarono anche a Palermo. Ma<br />
gli abitanti di quella città, magnifica come<br />
lo era solo Bagdad per i suoi giardini<br />
e Cordova per le sue moschee, dieci<br />
secoli dopo seppellirono quel paradiso<br />
sotto i loro rifiuti. Dove c’erano fontane<br />
e palme da datteri e melograni ci portarono<br />
sozzure, veleni, carcasse di animali<br />
e di automobili. Dove crescevano<br />
le piante degli odori ci costruirono case<br />
deformi e giganteschi palazzi, rovesciarono<br />
cemento sugli agri più fertili<br />
della Conca d’Oro, nascosero castelli,<br />
coprirono tesori. I parchi di Palermo diventarono<br />
i suoi orrori urbani. E anche<br />
la Zisa, in arabo la Splendida, fu sotterrata<br />
con la sua memoria. Dimenticata,<br />
lasciata nelle mani dei nuovi califfi mafiosi,<br />
abbandonata nel suo sfacelo.<br />
Ci sono voluti gli ultimi vent’anni e<br />
tanta fatica per seguire una traccia che<br />
forse, prima o poi, ci farà ritrovare la<br />
strada che conduce ancora al Paradiso<br />
della Terra. Vi hanno piantato aranci<br />
amari e cedri, bacche, arbusti, la lavanda,<br />
i carrubi, il gelsomino e la menta, le<br />
rose e i pistacchi. Vi hanno scavato tra<br />
le sterpaglie e i cumuli di fango una vasca<br />
lunga centotrentacinque metri e<br />
larga quattro, una «via dell’acqua» con<br />
luci e spruzzi. Vi hanno disegnato aiuole,<br />
poggiato marmi e restaurato pozzi,<br />
mosaici, colonne. In una delle borgate<br />
più devastate e putrefatte stanno facendo<br />
rinascere un frammento di quell’eden<br />
che dopo gli arabi fu dimora dei<br />
normanni, grande riserva reale di caccia<br />
che si estendeva da Altofonte fino<br />
quasi al mare, territorio che elevò Palermo<br />
a capitale. Una delle più grandiose<br />
del Mediterraneo.<br />
Erano centomila e qualcuno dice anche<br />
duecentocinquantamila quelli che<br />
vivevano sotto il Montepellegrino<br />
quando gli arabi persero il dominio dell’isola<br />
e, dopo due secoli e mezzo, arrivò<br />
dal nord più lontano un manipolo<br />
di audaci. Erano condottieri «fedeli di<br />
Dio e cavalieri di Cristo» con a capo i<br />
fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla,<br />
dovevano sottomettere i greci, cacciare<br />
i saraceni e riportare la Sicilia «in<br />
grembo alla cristianità».<br />
L’avventura però fu anche un’altra. E<br />
i re normanni dal 1071 e per cento anni<br />
vissero a Palermo come «i più orientali»<br />
dei sovrani. Fu allora che il gennat alard<br />
divenne il Genoardo. Fu allora che<br />
il mecenatismo illuminato dei cavalieri<br />
di origini scandinave assecondò la fusione<br />
di culture, di popoli, di tendenze.<br />
Una Palermo multietnica dove cupole<br />
islamiche svettavano sulle basiliche latine,<br />
dove artigiani magrebini e bizantini<br />
decoravano chiese cristiane, dove<br />
per le vie si incontravano mercanti e<br />
geografi e matematici di ogni razza e<br />
ogni provenienza. Longobardi, ebrei,<br />
slavi, berberi, persiani, tartari. E, come<br />
annotava uno dei tanti poeti a quel<br />
tempo partiti dall’altra sponda del Mediterraneo,<br />
«le donne di questa città all’aspetto<br />
sembrano musulmane, parlano<br />
arabo correttamente, si ammantano<br />
e si velano come quelle».<br />
Fu proprio in quegli anni che dalle<br />
maestranze di Sousse e di Kairouan i<br />
normanni si fecero progettare e realizzare<br />
quelle che il viaggiatore arabo andaluso<br />
Ibn Giubair descriveva come «le<br />
perle di un monile», la piccola Cuba, la<br />
Cuba Soprana, il palazzo dell’Uscibene.<br />
E soprattutto el Aziz, la Zisa. Palazzi<br />
che uno dopo l’altro ricadevano nel Paradiso<br />
della Terra, luogo di delizie, culla<br />
di ozi e sollazzi di corte. Su mandato<br />
papale i normanni edificarono le grandi<br />
cattedrali cristiane — a Palermo, a<br />
Monreale, a Cefalù — ma nel privato<br />
scelsero di trascorrere la loro esistenza<br />
come i vinti, quei sultani che passavano<br />
le giornate a sentire il cinguettio degli<br />
uccelli e i profumi delle erbe nei giardini<br />
ispirati al disegno islamico, che godevano<br />
di quelle grandi sale per il riposo<br />
e per le feste, per gli incontri con le<br />
concubine.<br />
«<strong>La</strong> Zisa era il palazzo dei piaceri, costruita<br />
da un re cristiano ma araba nella<br />
sua concezione: è stato un riconoscimento<br />
dei trionfatori agli sconfitti»,<br />
spiega Salvo Lo Nardo, uno degli architetti<br />
— gli altri sono Pippo Caronia e<br />
Luigi Trupia — che hanno fatto rivivere<br />
a Palermo questo ritaglio di Genoardo.<br />
L’idea la ebbero nel 1986 e trovarono<br />
in quella inquieta stagione politica<br />
siciliana un’entusiastica sponsorizzazione<br />
trasversale, il sindaco democristiano<br />
ribelle Leoluca Orlando e l’assessore<br />
socialista Turi Lombardo. Progetto<br />
approvato nel 1990 e finanziato<br />
dal Comune nel 1996, nel 1997 iniziarono<br />
i lavori ma poi la ditta fallì e il cantiere<br />
rimase chiuso per anni. Ha riaperto<br />
l’anno scorso. Nell’estate del 2005 i<br />
giardini della Zisa sono stati finalmente<br />
offerti alla città che li aveva occultati.<br />
Tre ettari di verde, sessanta varietà di<br />
piante sapientemente sparse in otto<br />
campi, poco più di cinque milioni di<br />
euro il costo dell’opera. «Noi palermitani<br />
siamo lenti nel fare le cose ma poi,<br />
alla fine, riusciamo a sentirle profondamente<br />
nostre», dice la Sovrintendente<br />
ai beni culturali di Palermo Adele Mormino<br />
quando ci mostra in un bellissimo<br />
tramonto il «luogo delle delizie».<br />
Eccoli i giardini della Zisa con i suoi tre<br />
percorsi, la «via dell’acqua», la «via del<br />
verde» e la «via dell’ombra», un reticolato<br />
metallico che sarà coperto da bouganville<br />
e da glicine e da gelsomini. In<br />
mezzo la lunga vasca con le ceramiche<br />
lavorate dai mastri di Santo Stefano di<br />
Camastra, gli zampilli, il marmo bianco<br />
delle cave di Alcamo e di Castellammare,<br />
un proseguimento ideale del<br />
tracciato d’acqua della sala della fontana,<br />
quella che si apre oltre le porte del<br />
palazzo della Zisa. E fuori dalle sue mura<br />
c’è ancora la «senia», una piattaforma<br />
di pietra circolare con al centro un<br />
pozzo e una macchina dentata. Una<br />
volta un asinello legato e bendato vi girava<br />
all’infinito intorno, con il suo andare<br />
le pale tiravano su dal pozzo l’acqua<br />
che finiva poi in una cisterna e scivolava<br />
nei canali che irrigavano il giardino.<br />
Ci vorrà del tempo e tanta pazienza<br />
per vederlo rigoglioso come mille anni<br />
fa questo parco circondato ancora dalle<br />
mostruosità della Palermo più «ruggente»,<br />
sfregi lasciati nel quartiere della<br />
Zisa dai Moncada, dai Corvaia, dai<br />
Carini, palazzoni tutti uguali, edilizia di<br />
rapina, licenze regalate dall’“Anonima<br />
Impresa Ciancimino” agli amici, ai prestanome,<br />
a pensionati nullatenenti.<br />
Una Palermo infetta che guarda ancora<br />
oggi quella che era la Palermo più regale<br />
e superba.<br />
È in fondo, imponente e maestoso,<br />
che si staglia il palazzo che i palermitani<br />
chiamano castello ma castello non è<br />
mai stato. Un parallelepipedo di tufo,<br />
alto più di 25 metri e largo più di 35 con<br />
un’iscrizione in versi sull’arcata di accesso<br />
alla sala della fontana: «Quantunque<br />
volte vorrai, tu vedrai il più bel<br />
possesso del più splendido tra i reami<br />
del mondo: dei mari e la montagna che<br />
Mille anni fa, quando Palermo era la capitale più raffinata<br />
del Mediterraneo, i re normanni costruirono su mandato<br />
papale le grandi cattedrali cristiane. Ma per i propri piaceri<br />
copiarono l’arte dei musulmani sconfitti. Sorse così el Aziz,<br />
la Splendida, che oggi torna con le sue vie d’acqua<br />
e d’ombra, i profumi delle erbe, i fantasmi dei suoi harem<br />
Tre ettari di verde,<br />
sessanta varietà<br />
di piante sparse<br />
in otto diversi campi<br />
li domina le cui cime sono tinte di narciso<br />
e vedrai il gran re del secolo in bel<br />
soggiorno ché a lui conviensi la magnificenza<br />
e la letizia. Questo è il paradiso<br />
terrestre che si apre agli sguardi. Questi<br />
è il Musta’izz e questo palazzo l’Aziz».<br />
Il Musta’izz, «bramoso di gloria», era<br />
re Guglielmo II. L’Aziz fu iniziato nel<br />
1165 da Guglielmo I il Malo. E ultimato<br />
nel 1167 da Guglielmo II il Buono, che<br />
al trono salì appena adolescente, quando<br />
aveva solo tredici anni. Così lo storico<br />
<strong>Michele</strong> Amari ricorda la nascita della<br />
Zisa nella sua ricostruzione dell’epoca<br />
musulmana in Sicilia: «Guglielmo,<br />
rivaleggiando col padre ne’ passatempi<br />
soli, ei si messe a fabbricare tal palagio<br />
che fosse più splendido e sontuoso<br />
di que’ lasciatigli da Ruggiero. Fu murato<br />
in brevissimo tempo, con grande
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 33 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
spesa, il nuovo palagio e postogli il nome<br />
di El Aziz che in bocche italiane diventò<br />
la Zisa e così diciamo fin oggi».<br />
Un gioiello di architettura araba e di<br />
monumentalità normanna. <strong>La</strong> perfetta<br />
sintesi della mescolanza tra dominatori<br />
e dominati, la Zisa come simbolo di<br />
una Sicilia felicissima. Scrive Giuseppe<br />
Bellafiore, professore ordinario di storia<br />
dell’arte e autore di un testo sulla Zi-<br />
sa dato alle stampe una decina di anni<br />
fa dall’editore palermitano Flaccovio:<br />
«A volere meglio specificare le caratteristiche<br />
funzionali del palazzo, c’è da<br />
dire innanzitutto che esso era una dimora<br />
destinata prevalentemente al<br />
soggiorno estivo. Non si trattava tuttavia<br />
di un precario soggiorno diurno...<br />
Era questo rivolto ed aperto a nordovest<br />
verso il mare, cioè verso la zona<br />
Un palazzo-gioiello<br />
progettato<br />
per captare le brezze<br />
di mare più fresche<br />
PROGETTO VENTENNALE<br />
L’architetto Salvo Lo Nardo,<br />
che con Pippo Caronia<br />
e Luigi Trupia ha guidato<br />
il restauro della Zisa<br />
Un restauro ventennale: l’idea<br />
è del 1986, il progetto<br />
del 1990, il finanziamento<br />
del 1996 e l’inaugurazione<br />
di pochi giorni fa<br />
RICCHE DECORAZIONI<br />
A sinistra, un montaggio<br />
tra foto e disegno<br />
mostra l’edificio della Zisa<br />
com’è oggi dopo il restauro<br />
e com’era in passato.<br />
Sotto, una veduta diurna<br />
e una notturna dei giardini.<br />
Sopra, alcuni dettagli<br />
delle decorazioni del palazzo<br />
panoramica più attraente e più fresca<br />
della pianura palermitana». Aggiunge<br />
ancora Bellafiore: «Da quella parte,<br />
giungevano le brezze più temperate e<br />
specialmente quelle notturne, che potevano<br />
essere accolte entro lo stesso<br />
palazzo attraverso l’ampio varco dei<br />
tre fornici di facciata e della grande finestra<br />
belvedere del piano alto».<br />
Spazi, finestre, atri, un mirabile si-<br />
FOTO DI MASSIMO LO VERDE<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />
stema di ventilazione per assorbire ed<br />
espellere l’aria calda. Per affrontare le<br />
giornate di scirocco. Per trovare riparo<br />
alle lunghe estati palermitane. E concedersi<br />
sollievi più intimi. «Era proprio<br />
lì dentro che i nuovi conquistatori si dedicavano<br />
alle gioie dell’anima e soprattutto<br />
a quelle del corpo», racconta Matteo<br />
Scognamiglio, direttore del servizio<br />
beni architettonici della Sovrintendenza,<br />
che spiega come da alcuni mesi<br />
stanno completando il recupero della<br />
sala della fontana.<br />
Era al primo piano l’harem della Zisa,<br />
nelle sale che si inseguono nelle due<br />
ali del palazzo. Aspettavano là le donne<br />
dei sovrani, distese sui loro soffici<br />
diwan e nella penombra delle nicchie.<br />
Un’atmosfera fiabesca, da Mille e una<br />
notte. Alla Zisa ma anche alla Cuba e in<br />
tutti gli altri «sollazzi» dei giardini di delizia<br />
musulmani, quelli che si richiamavano<br />
al paradiso coranico. Era il Genoardo<br />
voluto dai normanni.<br />
E non fu certamente un caso che proprio<br />
lì, alla Cuba, tra le acque e gli alberi<br />
che circondavano un altro parallelepipedo<br />
— di dimensioni appena più<br />
piccole della Zisa — Boccaccio ambientò<br />
una delle novelle del suo Decameron.<br />
<strong>La</strong> sesta della quinta giornata. È<br />
la vicenda d’amore tra Gian di Procida<br />
e Restituta, una ragazzina bellissima di<br />
Ischia rapita da «giovani ciciliani» per<br />
offrirla in dono a Federico II d’Aragona.<br />
Il re comandò «che ella fosse messa in<br />
certe case bellissime di un suo giardino,<br />
il quale chiamavan Cuba, e quivi<br />
servita, e così fu fatto». Lieto il finale<br />
della storia. I due amanti si ritrovarono<br />
dopo il rapimento ma una notte vennero<br />
scoperti mentre dormivano abbracciati,<br />
il re li fece trascinare nudi sul<br />
rogo. In loro favore intercedette però<br />
Ruggieri de Loria, che ricordò al sovrano<br />
cosa fecero i Procida nella guerra del<br />
Vespro. E fu così che «Gian di Procida<br />
campa e divien marito di lei».<br />
Quando Giovanni Boccaccio scrisse<br />
il Decameron, era già cominciato il declino<br />
del parco reale e anche di quella<br />
Palermo che per il geografo arabo Al-<br />
Idrisi era allora «la più grande e la più<br />
bella metropoli del mondo». Un decadimento<br />
che subì anno dopo anno pure<br />
la Zisa. Nel Trecento fu realizzata<br />
una merlatura che soffocò una scritta<br />
in arabo alla sommità dell’edificio, poi<br />
il «sollazzo» fu trasformato in una fortificazione.<br />
Narra Nicolò Speciale, cronista<br />
del quindicesimo secolo, di quel<br />
che accadeva anche nel passato più<br />
lontano nella Conca d’Oro: «Tutto ciò<br />
che c’era di verde veniva distrutto e<br />
nessuno aveva pietà».<br />
Gli aragonesi e i viceré spagnoli assegnarono<br />
la Zisa di volta in volta a nobili<br />
famiglie. Nel Cinquecento diventò<br />
un baglio, nel Seicento l’acquistò per<br />
poche once Don Giovanni di Sandoval,<br />
nel 1808 la Zisa passò ai Notarbartolo<br />
principi di Sciara. <strong>La</strong> tennero loro fino<br />
al 1951, quando fu espropriata dalla<br />
Regione. Cominciarono allora i primi<br />
lavori di restauro. Ma alla vecchia maniera<br />
siciliana. Interventi saltuari e approssimativi.<br />
Tra il 1956 e il 1957 furono<br />
perfino buttati giù alcuni muri, i solai<br />
e anche i pavimenti che avevano<br />
abilmente sistemato quelle maestranze<br />
arabe venute da Sousse e da Kairouan<br />
per desiderio dei nuovi signori.<br />
Nell’ottobre del 1971 il più bel palazzo<br />
del Paradiso della Terra cedette per<br />
l’incuria: il primo piano precipitò. E cominciarono<br />
anche i saccheggi della Zisa<br />
la Splendida, luogo per le scorrerie di<br />
vandali e rifugio di tossici. Il vero restauro<br />
statico e architettonico ebbe<br />
inizio l’anno dopo il crollo, nel 1972.<br />
Ma dentro e intorno a quel poco che<br />
restava del mitico Genoardo ormai era<br />
arrivato il palermitano più predatore e<br />
impunito. Aprirono una fossa per una<br />
discarica abusiva. E poi comparve<br />
un’officina. E poi ancora uno sfasciacarrozze.<br />
Ci trasferirono lì, proprio lì<br />
nel Paradiso della Terra, anche un deposito<br />
dell’Amnu, l’azienda municipalizzata<br />
dei rifiuti. E davanti e dietro al<br />
palazzo dei piaceri intanto il nuovo potere<br />
aveva lasciato già le sue impronte,<br />
i cantieri e il calcestruzzo degli ultimi re<br />
di Palermo, i boss.
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 34 14/08/2005<br />
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
STEFANO MALATESTA<br />
Non posso vantarmi di aver conosciuto bene Pico<br />
Cellini, anche se questo si può dire di molti<br />
che chiamiamo amici. È stata una di quelle<br />
scoperte tardive in cui il rammarico per avere<br />
mancato un incontro quando era nel suo momento<br />
migliore è solo in parte compensato<br />
dalla frequenza con cui poi lo sono andato a trovare nel suo<br />
studio, un seminterrato dalle parti di piazza Mazzini, a Roma.<br />
E comunque la differenza di età e la fama di essere il più<br />
straordinario cacciatore di falsi d’arte in Europa non gli impedivano<br />
di perdere una parte notevole del suo prezioso<br />
tempo a raccontare a un giovanotto, come ero in quegli anni,<br />
eccitanti storie che si erano svolte, per la maggior parte,<br />
prima o immediatamente dopo la seconda guerra mondiale.<br />
Storie che non riguardavano solo i falsi, ma tutto il variegato<br />
mondo legato all’arte e all’antiquariato di pregio. Per<br />
una qualche ragione ora dimenticata gli ero stato presentato<br />
da Giuliano Briganti ed era bastato il nome riverito di Giuliano<br />
per aver la sua totale fiducia.<br />
<strong>La</strong> parte più affascinante dei suoi racconti era quando cominciava<br />
a divagare, senza che la sua memoria perdesse uno<br />
di quegli infiniti dettagli in cui riusciva a far accomodare i fatti<br />
veri e propri: dettagli tecnici di materiali, ma anche notazioni<br />
psicologiche, schizzi di ambiente, ricordi che non erano solo<br />
personali e che davano alle storie un’attendibilità molto più<br />
certa di vicende simili, narrate da altri.<br />
Per quattro o cinque mesi, due o tre volte a settimana, a<br />
partire dalla fine di una primavera di molti anni fa, di comune<br />
accordo mi facevo trovare davanti alla porta d’ingresso<br />
del seminterrato. Il pretesto era la ricerca di un soggetto cinematografico<br />
che ricostruisse la vita di un falsario senza romanzeggiare<br />
troppo e senza incorrere in troppe banalità. Sospettoso<br />
all’inizio (del soggetto, non di me), Pico era diventato<br />
un sostenitore del progetto, in cui tuttavia voleva inzeppare<br />
troppi ricordi. «Sta venendo una pignoccata» disse a un<br />
certo punto, rendendosi anche lui conto che debordavamo<br />
di storie da ogni lato. Il soggetto non l’ho mai scritto, ma ogni<br />
anno dopo la sua morte sono andato a risfogliare il blocco di<br />
Yellow Paper per tentare di ricostruire almeno qualcuno di<br />
quei racconti che allora mi sembravano magnifici. Ma solo<br />
quest’anno li ho completati e lascio ai lettori di giudicare<br />
quanto siano ancora tali...<br />
* * *<br />
Riccardi. Un giorno — era almeno una settimana che non<br />
lo vedevo — gli chiesi se conosceva i fratelli Riccardi. Al British<br />
Museum di Londra avevo visto una straordinaria mostra<br />
di falsi intitolata Fake, the art of deception e come richiamo<br />
avevano sistemato di traverso all’entrata principale una biga<br />
romana con appeso un cartellino dove c’era scritto: «Fatta<br />
dai fratelli Riccardi nel 1930». Pico non era un sentimentale,<br />
ma al nome dei Riccardi la sua pelle diventò rosea come<br />
quella di un bambino: «Quali Riccardi? Amedeo? Teodoro,<br />
che era il cugino? L’altro cugino, che forse era il migliore? Io<br />
ero fidanzato con Flora, la figlia di Amedeo che viveva a Firenze.<br />
Ero arrivato da Siena solo l’anno prima, a quattordici<br />
anni, per guadagnarmi il pane. Mio fratello era ritornato dalla<br />
guerra con la tubercolosi, il babbo si era indebitato e toccava<br />
a me fare l’infermiere, iniezioni di sodio per stuccare i<br />
buchi che aveva nei polmoni».<br />
«Quando mio fratello morì, sono partito per Firenze, avevo<br />
trovato un posto di restauratore a cinquanta lire al giorno.<br />
L’anno successivo, a quindici anni ero simpatico e frequentavo<br />
due o tre ragazzine. Una era Elsa De Giorgi, che chiamavo<br />
la contessa frittellara perché riusciva a macchiare anche la sottoveste...<br />
L’altra era Flora Riccardi, veniva da una sana, grande<br />
famiglia di falsari. Questi Riccardi avevano iniziato come<br />
orefici da fiera, specializzati in orecchini d’oro e coralli per le<br />
balie... Poi aprirono un negozio di roba a Tordinona, a Roma,<br />
accanto a un locale di balie gestito da una sensale che chiamavano<br />
la manderina».<br />
«Quando veniva qualche cliente, la manderina faceva un fischio<br />
a una di quelle ragazzone ciociare che stavano sopra le<br />
panche come a covare l’ovo e diceva: “Bella Mora, fa vedere<br />
quanta roba tieni”. E quella tirava fora la zinna e faceva uno<br />
schizzo di due metri. Queste balie erano tremende, avrebbero<br />
fatto qualsiasi cosa per un paio di orecchini di corallo.<br />
Quando il padrone era in casa e la moglie non vedeva, se era<br />
un maschietto gli prendevano il piselletto in bocca per farlo diventare<br />
duro e poi dicevano: “Che bello cazzo che tien ‘sto pupo,<br />
è come il padre”. E naturalmente il padre era contento e gli<br />
regalava i coralli. Insomma una mercanzia complicata».<br />
«<strong>La</strong> loro carriera di falsari iniziò quasi subito. Un certo Fuschini<br />
di Acquapendente, che aveva sentito parlare della loro<br />
bravura, gli aveva portato delle mattonelle medievali spezzate,<br />
per vedere se loro erano capaci di rifare le parti mancanti.<br />
Questo Fuschini dirigeva il carcere di Acquapendente, dove<br />
qualche mese prima erano iniziati lavori di restauro. E dal pozzo<br />
prosciugato erano venute fuori migliaia e migliaia di mattonelle<br />
in frantumi, d’epoca medievale, di un tipo molto raro, a<br />
tre colori, chiamate a goccioloni. Una volta quando si rompeva<br />
un piatto, i cocci venivano lavati e gettati nel pozzo, perché<br />
si diceva che in questa maniera filtrasse meglio. E c’era anche<br />
roba più antica, le mezze maioliche con la terra sotto. Una ter-<br />
Si chiamava Pico Cellini, non aveva<br />
nemmeno la licenza media ma divenne uno<br />
dei più famosi restauratori italiani.<br />
Le sue tecniche d’indagine sperimentali e disinvolte<br />
gli consentirono di svelare clamorosi imbrogli. Come la stele<br />
attica, che davanti a un ministro smascherò leccandone il marmo<br />
Ilcacciatore<br />
di<br />
falsi<br />
Aveva frequentato la bottega<br />
di una famiglia di geniali falsari,<br />
capaci di fabbricare e piazzare<br />
statue di guerrieri etruschi<br />
al Metropolitan di New York<br />
e una biga romana al British di Londra<br />
ra gialla, che si bagnava con una terra bianca e si graffiava, motivi<br />
generalmente astratti, poi si coloravano con la ferraccia per<br />
il marrone e con la ranina dell’ossido di rame per il verde».<br />
«Si cominciò col falsificare i pezzi mancanti e poi si continuò<br />
con la falsificazione dell’intero pezzo. Il Fuschini, che io<br />
ho conosciuto, era un uomo secco secco e pieno di intraprendenza,<br />
prendeva le maioliche e le andava a vendere a<br />
Londra. Al South Kensington Museum ci sono maioliche rifatte<br />
e quelle completamente false vendute da Fuschini, che<br />
diceva al ritorno: “Sono stato a Lontre”, proprio così. Di coccio<br />
in coccio passarono alla roba etrusca. Uno dei primi acquirenti<br />
fu Marshall, che allora dirigeva il Metropolitan di<br />
New York, ed era aiutato dalla sua segretaria, la Ritter. A Marshall,<br />
avevano venduto un pezzo autentico, comprato dai<br />
tombaroli della zona di Orvieto, un piccolo balsamario a forma<br />
di testa di guerriero, protocorinzio, una cosa rara. Il pezzo<br />
era piaciuto molto all’americano, che l’aveva comprato<br />
subito, e poi aveva detto: “Questi reperti sono belli, ma per un<br />
grande museo come il nostro non bastano, sono noccioline.<br />
Noi vogliamo cose grandi” e i Riccardi a sentire queste proposte<br />
gongolavano. E così fecero due guerrieri etruschi, due<br />
mammozzoni che erano un castigo di Dio».<br />
«<strong>La</strong> Ritter, che era una cretina, nel suo paper illustrativo, ha<br />
scritto che quei colossi, alti due metri e mezzo perché i Riccardi<br />
li avevano fatti grandi, li volevano imponenti, dunque che<br />
quei colossi erano un miracolo di tecnica, oltre che di arte.<br />
“Noi non saremmo in grado oggi di cuocerli alla stessa temperatura<br />
in tutti i punti”, diceva. Ma i Riccardi non avevano<br />
cotto il bove intero, avevano cotto le bistecche. Non capisce?<br />
Prima avevano creato i mammozzoni prendendo come modello<br />
un bronzetto greco, poi li avevano fatti a pezzi e cotti così,<br />
come bistecche e solo dopo avevano ricostruito le statue».<br />
«Con gli anni i Riccardi si allargarono ad altri campi: forse<br />
si erano un po’ montati la testa e pensavano di poter contraffare<br />
tutto. Ma i bronzi erano la loro specialità perché erano<br />
nati orafi e nella fusione ritrovavano la loro anima di metallari.<br />
Il materiale primo se lo procuravano andando in giro<br />
la domenica mattina: come altri cercavano lumache o funghi<br />
tra le radici dei faggi dell’Amiata, loro avevano occhio solamente<br />
per rottami di bronzo o di rame, vecchie caldaie<br />
scoppiate, lamierini contorti e abbandonati negli scarichi
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 35 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
<strong>La</strong> vita da film dell’uomo<br />
che assaggiava le statue<br />
ferroviari della Toscana. Rifacevano l’intero pezzo ritagliando<br />
le lastre delle caldaie con le sfoglie di un lamierino messe<br />
una sopra l’altra e battendole su un’anima di legno con dei<br />
martelletti di loro invenzione. Dal toc toc di quei martelletti<br />
nacque una biga intera, quella esposta al British Museum e a<br />
lungo ritenuta autentica. <strong>La</strong> stava per comprare il Museo<br />
etrusco di Valle Giulia a Roma».<br />
«Se ripenso a quegli anni felici, il pranzo la domenica con la<br />
ribollita e poco altro, posso dire che sono stato fortunato. Erano<br />
i migliori del ramo e parlavano liberamente, perché erano<br />
orgogliosi del loro mestiere e se ne vantavano. Incominciava<br />
uno a raccontare delle grattacacio di bronzo, di come fossero<br />
utili per ricostituire i pezzi mancanti dei vasi romani. E un altro<br />
chiedeva: “O tu come ha fatto a mascherare i buchi?”. “Semplice,<br />
ho lasciato cadere una goccia di stagno su ogni buco e poi<br />
ho passato la patina per nascondere meglio”. Sono rimasti<br />
sempre degli artigiani, non sono diventati ricchi con i falsi, e in<br />
fondo hanno solo fatto quel che il mercato chiedeva. Non avevano<br />
l’anima del truffatore ed io ho imparato tutto da loro».<br />
* * *<br />
<strong>La</strong> leccata. Nel dopoguerra, la prima esposizione in un Palazzo<br />
Venezia rinnovato e adibito alle mostre doveva mostrare<br />
i migliori pezzi di marmo provenienti dalla Grecia e Magna<br />
Grecia. A detta degli esperti, una delle opere più pregiate era<br />
una nuova acquisizione, una stele attica giudicata magnifica<br />
anche dal direttore delle Antichità e Belle Arti di allora, Bianchi<br />
Bandinelli. Ma a Pico non era piaciuta, durante l’anteprima<br />
per giornalisti e critici della mostra si era avvicinato alla stele,<br />
scoprendo una vecchia conoscenza.<br />
«Era una vecchia cosa, risaliva almeno a dieci anni prima ed<br />
era stata rifiutata persino dai tedeschi. Con il Patto d’Acciaio<br />
era diventato d’obbligo dimostrare un certo cameratismo<br />
verso gli arroganti nazi scesi a Roma a razziare quante più statue<br />
antiche possibili, da sistemare negli atri di quegli orrendi<br />
palazzi disegnati da Speer. O nei castelli di cui si era impadronito<br />
Goering, che si atteggiava a principe rinascimentale mentre<br />
non era che un lardoso criminale nazista. Questo non voleva<br />
dire che i tedeschi non pagassero. Pagarono fino all’ultima<br />
lira anche certe patacche, e per il discobolo <strong>La</strong>ncellotti il<br />
prezzo fu di un milione. Poi Siviero, quello dei servizi americani<br />
incaricato del recupero delle opere d’arte, disse che i te-<br />
I nazisti erano scesi a Roma decisi<br />
a razziare reperti antichi. Ma anche<br />
a loro furono rifilate patacche<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />
UN RACCONTO IN TRE PUNTATE<br />
Quella che pubblichiamo in queste pagine<br />
è la prima puntata delle storie di Pico Cellini.<br />
Altre due puntate usciranno nei prossimi giorni<br />
sulle pagine della Cultura.<br />
Nelle foto: al centro, Pico Cellini in un ritratto<br />
del 1993 di Bruno Di Maio (www.brunodimaio.it);<br />
a sinistra in basso, Cellini nel ’51<br />
restaura la “Giuditta” del Caravaggio;<br />
nella fascia, da sinistra a destra, opere ritenute false<br />
da Cellini: il Colosso etrusco e il Kouros<br />
del Metropolitan Museum, la Santa Lucia<br />
della Collezione Berenson;<br />
la Fornarina di Raffaello; il Trono di Boston<br />
deschi non avevano pagato una lira, ma non era vero. Ci fu solo<br />
una certa resistenza da parte di alcuni membri delle Antichità<br />
e Belle Arti, durata poco, perché intervenne personalmente<br />
Bottai, urlando che la scienza non bastava, ci volevano<br />
i coglioni per stare in quei posti. E così il discobolo partì<br />
per la Germania. Uno dei due o tre pezzi che rifiutarono fu<br />
proprio quella che veniva chiamata la stele attica. Un noto<br />
falsario di Roma aveva fatto rubare il coperchio di un sarcofago<br />
abbandonato per decenni lungo il Decumano Massimo<br />
negli scavi di Ostia antica, e l’aveva trasformato in un abbastanza<br />
rozzo bassorilievo».<br />
«<strong>La</strong> mostra poteva essere un’ottima occasione per riciclarlo.<br />
<strong>La</strong> stele nuova versione era più curata, più levigata della<br />
vecchia, ma non ci si poteva sbagliare: era lei e lo dissi a<br />
Bianchi Bandinelli. Ma la presentazione — il tappetino come<br />
io lo chiamo — era stata abile, si erano inventati anche un<br />
pedigree e Bianchi Bandinelli mi rispose che oramai i falsi mi<br />
avevano dato alla testa, li vedevo dappertutto. Ma questo<br />
non era il caso. Ci rimasi male, perché era un signore toscano<br />
per bene e avevano messo in mezzo anche lui. Così decisi<br />
di fare un gesto, un’azione spettacolare e memorabile, in<br />
modo che restasse il ricordo».<br />
Ma per uno strano pudore, Pico non riuscì mai a parlare con<br />
precisione di quello che era stato uno dei momenti decisivi<br />
della sua vita, a partire dal quale la sua fama dilagò incontrastata.<br />
Questa versione dei fatti è ricavata da tre testimonianze,<br />
molto simili, tra i pochi che ricordavano dopo quasi mezzo secolo:<br />
«Era difficile riconoscere Pico in quel signore piccolo e<br />
ipervestito che, davanti al ministro, si era come tuffato sotto il<br />
cordone rosso posto davanti all’opera, aveva abbrancato il<br />
marmo e tirando fuori una lingua lustra come una foca ammaestrata,<br />
dava colpi che sembravano vere e proprie leccate.<br />
Ma i carabinieri in alta uniforme erano stati così abili e lesti nell’agguantare<br />
il poveretto per la collottola facendolo sparire come<br />
avrebbe fatto un prestigiatore con cappello a cilindro e coniglio<br />
bianco, ma in sequenza al contrario».<br />
Pico riprese: «Mi portarono al commissariato e poi mi rilasciarono.<br />
Due giorni dopo ho ricevuto una telefonata di Bianchi<br />
Bandinelli: “Lei ha fatto una cosa gravissima mettendo il<br />
governo alla gogna. Io ho costituito una commissione, voglio<br />
rendermi conto in base a che cosa lei ha giudicato la stele falsa”.<br />
Cercai di mantenere la calma, era un’occasione d’oro e<br />
non me la sarei fatta sfuggire. Il pomeriggio del giorno dopo alle<br />
sei in punto stavo in casa di Bianchi Bandinelli. Lui era un<br />
gentiluomo ma si lasciava anche fregare e suggestionare. Cominciai<br />
a parlare degli acidi, dati al marmo in tempi molto recenti.<br />
Il marmo all’inizio li aveva assorbiti e poi risputati in superficie<br />
dove stagnavano. Passandoci la lingua sopra non solo<br />
si sentivano, ma si poteva individuare la qualità e il tipo. I falsari<br />
li avevano certamente usati per modellare più rapidamente,<br />
ma esisteva la possibilità, remota, che fossero stati usati<br />
per ripulire la lastra».<br />
«Mi sentivo magnanimo e passai ad altre prove contro: “Il<br />
marmo del bassorilievo è del tipo fasciato chiamato marmo<br />
del Peloponneso. Ora questo tipo di marmo, mi permetto di<br />
far osservare, presenta delle fasce nere, anche grigie, che alterano<br />
la sua purezza. Lo hanno adoperato i romani nel tardo<br />
Impero, i bizantini, anche per le statue. I greci dell’epoca classica,<br />
mai. I greci cercavano l’assoluto. Scolpivano sempre nel<br />
marmo pario o nel pentelico. Se trovavano una macchia, tagliavano<br />
il pezzo e inserivano un tassello. C’era anche una ragione<br />
pratica, artigianale, in questa ricerca di biancore completo.<br />
Il fondo bianco era necessario per l’aganosis, la lucidatura<br />
di cera con cui gli artisti greci rifinivano le statue, per renderle<br />
come l’avorio e poi dipingerle. I lavori in scultura dell’epoca<br />
classica sono policromi a fondo bianco”».<br />
Venne servito il tè, poi Pico riprese: «Passiamo a un altro<br />
punto. <strong>La</strong> stele ha un timpano a forma di tetto, con due palmette<br />
scolpite ai due spigoli. Si chiamano argoteli. Nell’epoca<br />
arcaica e anche in quella classica, la presenza degli argoteli era<br />
codificata da una norma. Se si scolpiva una palmetta al vertice<br />
del tetto, in posizione centrale, si poteva fare a meno delle<br />
palmette laterali. Ma se c’erano le laterali, ci doveva essere anche<br />
obbligatoriamente quella centrale. Invece qui manca.<br />
Non c’è perché allo scalpellino è venuto a mancare il materiale.<br />
Il coperchio del sarcofago aveva dimensioni limitate e la cuspide<br />
del tetto arrivava proprio dove il tetto finiva. <strong>La</strong> superficie<br />
rimasta non era sufficiente per scolpire la palmetta centrale<br />
e lo scalpellino non se ne era accorto».<br />
Alle ultime parole di Pico un archeologo, che fino a quel momento<br />
non aveva dato segni di vita, si volse verso il restauratore<br />
e con voce quasi strozzata disse: «Ne sutor ultra...». Pico<br />
diede un’occhiata al direttore generale, che si era fatto di marmo<br />
anche lui. E poi mentre si alzava dalla tavola fingendo di<br />
essere mortalmente offeso, pronunciò con voce chiara queste<br />
parole: «Anche se non ho la laurea e nemmeno uno straccio di<br />
qualsiasi licenza media, un po’ di latino l’ho imparato e ho riconosciuto<br />
la citazione. Ho capito che cosa mi vuole dire: “Ne<br />
sutor ultra”, “il ciabattino non vada avanti”, è troppo ignorante.<br />
Ma se sono così ignorante perché mi avete chiamato?». L’uscita<br />
dalla casa di Pico a piccoli passi, girando intorno a tutti i<br />
mobili, una camminata che ne mimava una famosa di Totò, è<br />
rimasta per anni nella memoria di chi aveva partecipato alla<br />
riunione... Una settimana più tardi la stele venne portata via<br />
da Palazzo Venezia.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
la lettura<br />
Civiltà senza tempo<br />
GUIDO RAMPOLDI<br />
Per quanto otto secoli fa i loro<br />
esploratori non si spinsero<br />
oltre la campagna di<br />
Udine, anche in Italia, così<br />
come in tutta l’Europa slava,<br />
i mongoli sono inseguiti<br />
dalla fama più sinistra che sia toccata<br />
ad un popolo. Colpa dei loro avi.<br />
Sommando le cronache redatte da<br />
persiani, cristiani, cinesi e arabi, si ricava<br />
che Gengis khan tolse di mezzo<br />
dieci milioni d’umani in un mondo allora<br />
spopolato. Probabilmente le sue<br />
vittime furono assai meno, tuttavia i<br />
mongoli uccisero nei modi più vistosi.<br />
I principi e i loro sudditi che rifiutavano<br />
la resa furono bolliti, scuoiati,<br />
squartati, impalati, arrostiti a fuoco<br />
lento, ustionati a morte con l’argento<br />
fuso nelle orecchie, trasformati in<br />
prede di battute di caccia, tutti spettacoli<br />
organizzati per il sollazzo della<br />
truppa. Ai musulmani d’Oriente il<br />
khan era noto come “il Maledetto”,<br />
l’Europa cristiana era certa che i suoi<br />
guerrieri discendessero dai mostri biblici<br />
Gog e Magog. Però i più grandi<br />
sterminatori che la storia ricordi furono<br />
allo stesso tempo geniali costruttori<br />
del più vasto impero mai apparso<br />
Dopo la caduta dell’Urss i mongoli hanno scelto<br />
di rifondare l’identità nazionale sul feroce condottiero<br />
che 800 anni fa creò il più vasto impero della storia,<br />
dal mar Giallo all’Europa occidentale. Un salto<br />
all’indietro vertiginoso, ma qui gli allevatori nomadi<br />
vivono ancora la stessa vita del Milleduecento<br />
Torna il popolo a cavallo<br />
sulla terra, dal mar Giallo all’Europa<br />
occidentale; e quell’impero fu d’una<br />
tolleranza religiosa singolare non solo<br />
per il suo tempo.<br />
Così quando è finita con l’Urss anche<br />
la tutela sovietica sulla loro patria,<br />
i mongoli hanno deciso di fondare l’identità<br />
nazionale proprio su quel passato<br />
maledetto: hanno glorificato<br />
Gengis. <strong>La</strong> riabilitazione cominciò<br />
quindici anni fa, il giorno della festa<br />
nazionale. Nello stadio di Ulaan Bataar<br />
l’esercito sfilava davanti ai capi<br />
comunisti, quando sugli spalti due<br />
uomini srotolarono un drappo bianco<br />
e lo sollevarono in alto, così in alto che<br />
tutti riconobbero la faccia dipinta. Allora<br />
la folla ammutolì: per l’ideologia<br />
ufficiale da ottant’anni Gengis khan<br />
era un’anticaglia proibita. I libri di<br />
scuola lo liquidavano come un simbolo<br />
del più feroce pre-capitalismo feudale;<br />
e il fatto che i suoi mongoli avessero<br />
sterminato russi fino a Kiev e slavi<br />
fino a Cracovia lo rendeva particolarmente<br />
controrivoluzionario. Tutti<br />
guardarono verso il palco delle autorità:<br />
la nomenklatura pareva confusa.<br />
Poi qualcuno cominciò ad applaudire<br />
e l’applauso crebbe, dilagò nello stadio,<br />
fu un’ovazione: il Figlio del Cielo<br />
Eterno era tornato.<br />
Da allora è ovunque. Portano il suo<br />
nome il miglior albergo della capitale,<br />
la vodka più cara, la birra nazionale,<br />
l’unico Airbus delle linee aeree mongole,<br />
un’infinità di bar, ristoranti, imprese<br />
di turismo. Il partito ex-comu-<br />
Questo è il Paese più<br />
spopolato del pianeta<br />
e i viaggiatori<br />
l’associano<br />
a un’esperienza<br />
che l’Occidente<br />
ha perduto:<br />
la percezione<br />
del nulla:<br />
mancano alberi, case,<br />
punti di riferimento,<br />
così le colline<br />
ingigantiscono<br />
e il cielo si dilata<br />
nista l’ha riabilitato, da nemico dei<br />
popoli è diventato padre della patria.<br />
E quest’anno presiede alle cerimonie<br />
indette per l’ottocentesimo anniversario<br />
della fondazione dell’impero.<br />
Come per prevenire i dubbiosi, il premier<br />
mongolo in giugno ha avvertito:<br />
Gengis non fu cattivo come raccontano,<br />
«ebbe cattiva stampa».<br />
Ad un estraneo questo agganciare il<br />
nostro tempo al tredicesimo secolo<br />
può apparire bizzarro come quel programma<br />
della tv statale in cui il conduttore<br />
e le vallette, vestiti nelle sete<br />
larghe un tempo in uso alla corte imperiale,<br />
consegnano elettrodomestici<br />
ai vincitori. Ma per un quinto della popolazione,<br />
gli allevatori nomadi, la vita<br />
del Duecento è un’esperienza vissuta.<br />
«Tuttora essi applicano le regole<br />
prescritte dalla Legge universale dell’impero<br />
per leggere il cielo, ricavare<br />
le previsioni del tempo, allevare il bestiame,<br />
sapere cosa fare nel primo<br />
giorno di luna», mi disse a Ulaan Bataar<br />
Nasrain Nyam-Osor, rettore<br />
d’un’università che ovviamente porta<br />
il nome di Gengis khan.<br />
<strong>La</strong> realtà forse è meno romantica.<br />
Oggi molti nomadi cercano un compromesso<br />
con la modernità e per una<br />
parte dell’anno o definitivamente si<br />
vanno ad accampare alla periferia<br />
della capitale. Però non è infrequente<br />
il percorso inverso: nei somon, le cittadine<br />
costruite intorno a kombinat<br />
industriali oggi decrepiti, alcuni preferiscono<br />
la vita avventurosa del pa-<br />
store alla disoccupazione o a stipendi<br />
medi che non raggiungono i 100 dollari<br />
al mese. I pastori irriducibili spesso<br />
raccontano che a Ulaan Bataar l’aria<br />
è «troppo pesante». I loro progenitori<br />
avevano così in sospetto le città<br />
che nella furia con cui le radevano al<br />
suolo si può sospettare un’avversione<br />
ideologica. <strong>La</strong> loro Legge universale<br />
tollerava le case in muratura ma prescriveva<br />
di non abitarvi in tanti, ritenendole<br />
sporche e contronatura.<br />
Condannava gli scavi come ferite inflitte<br />
alla Terra, che per un cavaliere<br />
errante rappresentava unicamente<br />
un’immensità da percorrere sopraelevati,<br />
e prescriveva di colmare ogni<br />
buco nel terreno, fosse pure il piccolo<br />
foro prodotto dal chiodo cui nelle soste<br />
si legava il cavallo. Otto secoli dopo<br />
queste prescrizioni non sono più<br />
osservate, se non da alcuni anziani;<br />
ma basta uscire da Ulaan Bataar per<br />
ritrovare, dopo qualche dozzina di<br />
chilometri, la Mongolia antica.<br />
Innanzitutto la sua vuota immensità.<br />
Con un’estensione pari a cinque<br />
Italie, la Mongolia ha meno abitanti di<br />
Roma (due milioni e mezzo). È il Paese<br />
più spopolato del pianeta, uno spazio<br />
metafisico che i cartografi prosaicamente<br />
situano tra la Russia e la Cina.<br />
<strong>La</strong> letteratura di viaggio contemporanea<br />
in genere l’associa ad un’esperienza<br />
che l’Occidente ha perso, la<br />
percezione del nulla. Chi avesse voglia<br />
di attraversare le foreste del nord<br />
nell’unico modo possibile, a piedi o a
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 37 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
di Gengis il Maledetto<br />
cavallo, potrebbe procedere in linea<br />
retta per 400 chilometri fino alla Russia<br />
senza incontrare anima viva, a parte<br />
qualche evaso che inselvatichisce<br />
tra abeti e betulle, assediato dai lupi.<br />
Gli altopiani centrali, distese alluvionali<br />
bianche d’inverno e verde-tenue<br />
d’estate, stordiscono il viaggiatore<br />
privandolo delle proporzioni: mancando<br />
alberi, case o altri punti di riferimento,<br />
le colline ingigantiscono e il<br />
cielo si dilata. Le strade asfaltate intorno<br />
alla capitale diventano presto<br />
piste che si accavallano e si separano,<br />
oppure si estinguono dopo aver disegnato<br />
geroglifici incomprensibili. Il<br />
sud è un deserto di sabbia e di rocce, il<br />
Gobi, che nel passato inghiottì intere<br />
spedizioni cinesi. A chi vi si avvicina<br />
— lo racconta nel suo Gobi lo scrittore<br />
Roberto Ive, un cantore di quella terra<br />
— può capitare di incontrare alberi<br />
con la sciarpa votiva di seta blu, il khadag,<br />
legata intorno al tronco: sono gli<br />
ultimi alberi prima del nulla. Più<br />
avanti comincia un mondo primordiale<br />
dove anche il vento e la grandine<br />
sono in scala, cioè grandiosi come il<br />
Gobi.<br />
Come il paesaggio, così è quasi immutata<br />
la vita del popolo a cavallo.<br />
Tuttora abita nella tenda bianca che<br />
terrorizzò la cristianità. I russi la chiamano<br />
yurta, i mongoli gher, “casa”.<br />
Circolare, bassa, smontabile in<br />
mezz’ora. Struttura modulare in bastoni;<br />
pareti in strati di lana pressata,<br />
il feltro, per trattenere il calore del fo-<br />
L’IMPERATORE RIABILITATO<br />
<strong>La</strong> Mongolia si estende per 1.560.000 chilometri<br />
quadrati su un altopiano dove, d’inverno,<br />
le temperature possono arrivare anche a 50° sotto<br />
zero. Più di un quinto dei due milioni e mezzo<br />
di abitanti è nomade, dedito alla pastorizia, l’unica<br />
vera ricchezza del paese. Nel ‘92, in seguito<br />
al crollo dell’Urss, è diventata una <strong>Repubblica</strong><br />
semipresidenziale. E nel ‘97 il governo<br />
ha riabilitato ufficialmente la figura di Gengis khan,<br />
colare nei mesi freddi, quando la temperatura<br />
scende ai meno quaranta.<br />
Non è una vita facile, e per gli adulti la<br />
radio è l’unico svago. Ma se un bambino<br />
può scegliere tra la scuola e il cavallo,<br />
beh, non ha molte esitazioni. I<br />
nomadi cavalcano dall’età di sei anni.<br />
Usano l’animale soprattutto per pascolare<br />
greggi, yak e cammelli lanosi,<br />
ma è chiaro che cavalcano soprattutto<br />
per passione, con la facilità di bambini<br />
e adulti che trottano in schiere<br />
compatte di quattro o cinque animali<br />
affiancati.<br />
<strong>La</strong> loro destrezza confermò nei secoli<br />
l’opinione di tanti viaggiatori, per<br />
i quali non v’è cosa che i mongoli non<br />
riescano a fare dalla sella, perfino defecare.<br />
Tuttora un cavaliere scadente<br />
è così malvisto che due anni fa, quando<br />
chiesi ad un pastore nomade se<br />
fosse mai caduto da cavallo, la mia interprete<br />
si rifiutò di tradurre: la domanda<br />
è considerata gravemente offensiva.<br />
Ammettere un capitombolo<br />
equivale a confessarsi non solo inetto,<br />
ma anche menagramo, perché l’incidente<br />
conferma che la sfortuna aleggia<br />
sulla famiglia del disarcionato.<br />
Quando gli ho chiesto se questa superstizione<br />
nasca dal fatto che Gengis<br />
khan morì per i postumi d’una caduta<br />
da cavallo, lo storico Namsrain<br />
Nyam-Osor m’ha corretto vigorosamente:<br />
l’imperatore non rovinò mai a<br />
terra, solo storici incauti credono a<br />
questa diceria. «Benché sessantenne<br />
non poteva incappare in un incidente<br />
considerato dal precedente regime simbolo del<br />
feudalesimo pre-capitalista e ora onorato come<br />
padre fondatore della patria. Tanto che<br />
nel 2006, per gli 800 anni dalla sua ascesa al<br />
trono, sono previste celebrazioni eccezionali.<br />
Le immagini di queste pagine sono tratte<br />
da un servizio fotografico della storica ed etnologa<br />
francese Sophie Zénon, e sono state esposte<br />
a Parigi nella mostra “Haïkus Mongols”<br />
Agli occhi<br />
del cavaliere nomade<br />
l’unica vita degna<br />
è mobile<br />
e sopraelevata,<br />
un moto perpetuo<br />
regolato dal cielo,<br />
un flottare nell’aria<br />
fina e nel vento<br />
E così ha sviluppato<br />
un disprezzo atavico<br />
per il contadino<br />
appiedato, chino<br />
sui campi<br />
così disastroso. Era sempre affiancato<br />
da cavalieri pronti a sorreggerlo».<br />
Per molti cavalieri in erba l’iniziazione<br />
avviene con il Nadaam, la Festa,<br />
una corsa a cavallo che vede centinaia<br />
di bambini e adolescenti galoppare<br />
per due ore e decine di chilometri, all’occorrenza<br />
pestandosi senza pietà<br />
con il manico d’osso dei frustini. Chi<br />
in quei giorni s’avventuri a piedi dalle<br />
parti del traguardo, dove il traffico<br />
equestre è più intenso, non solo si<br />
sente precario come un pedone in autostrada,<br />
ma soprattutto capisce il disprezzo<br />
atavico che il popolo a cavallo<br />
nutre per l’appiedato, in particolare<br />
per il contadino, dunque per il cinese.<br />
Agli occhi del cavaliere nomade<br />
l’unica vita degna è mobile e sopraelevata,<br />
un moto perpetuo regolato dal<br />
cielo, un flottare nell’aria fina e nel<br />
vento; per converso il popolo dei campi,<br />
sedentario, infangato e chino sulla<br />
terra, rappresenta un’umanità bruta.<br />
«Il mondo è fondato sull’agricoltura»,<br />
era scritto ancor prima di Cristo in testa<br />
agli editti dell’imperatore cinese.<br />
Quando i mongoli conquistarono la<br />
Cina settentrionale, discussero a lungo<br />
se lasciare in vita una popolazione<br />
così sordidamente agricola.<br />
Per quanto in seguito siano stati gli<br />
stanziali dettare la loro legge, gli allevatori<br />
nomadi o semi-nomadi, oggi<br />
mezzo milione, hanno dimostrato<br />
una certa capacità di resistere. Parevano<br />
spacciati già negli anni Trenta,<br />
quando il regime filo-sovietico confi-<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />
scò il bestiame e irreggimentò proprietari<br />
e pastori nei nigdel, sorta di<br />
kolkhoz per allevatori. Distrutti i templi<br />
buddisti, che nella popolazione<br />
nomade avevano il serbatoio delle vocazioni,<br />
fucilati gli sciamani, banditi i<br />
monaci, sembrò sparire anche la civiltà<br />
del nomadismo mongolo.<br />
Ma sessant’anni più tardi, al crollo<br />
del comunismo, si scoprì che i nomadi<br />
non erano meno buddisti di prima,<br />
e nel frattempo s’erano perfettamente<br />
adattati al collettivismo, ricavandone<br />
non solo i vantaggi (collegi invernali<br />
per i bambini, pensione, un minimo<br />
d’assistenza medica) ma anche un<br />
certo lucro. Erano così integrati in quel<br />
sistema che all’inizio degli anni Novanta,<br />
quando gli ex stalinisti si convertirono<br />
d’incanto al liberismo, i nomadi<br />
si trovarono in difficoltà. Il governo<br />
rinunciò a riformare i nigdel e li<br />
abrogò frettolosamente, ritenendo<br />
che il nomadismo assistito non avrebbe<br />
mai portato attivi allo Stato. Il bestiame<br />
fu privatizzato. Parte degli allevatori<br />
vendette la propria quota di bestiame<br />
e si trasferì in città per tentare<br />
d’arricchirsi. Nella capitale molti di loro<br />
oggi ingrossano le fila degli alcolisti.<br />
Altri tentano di trovare una via d’accesso<br />
onorevole alla modernità.
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
Il cornetto intinto<br />
nel cappuccino altrui,<br />
la schiava messa<br />
in vendita tra i banchi<br />
di un mercato romano<br />
LE GAG<br />
POSSO FARE ZUPPETTA?<br />
In un bar, Loy puccia il cornetto<br />
nelle tazze altrui. E spiega:<br />
“Il medico mi ha proibito<br />
il cappuccino, così lo freghiamo”<br />
CONFESSIONI IN TRENO<br />
Con “Viaggio in seconda<br />
classe” (’77) la candid camera<br />
finisce in treno: Loy raccoglie<br />
le confidenze dell’Italia pendolare<br />
LAVORARE STANCA<br />
Loy chiede soldi agli operai<br />
della Breda di Sesto: “Sono<br />
stufo di lavorare”. Scoppiano<br />
disordini: viene anche arrestato<br />
Dieci anni fa moriva Nanni Loy. Il suo “Specchio segreto” fece<br />
debuttare da noi un genere che, con “Scherzi a parte”, “Striscia”,<br />
“le Iene”, ha sbancato gli ascolti e che anche quest’estate,<br />
con “Paperissima”, è in testa alle classifiche. Ma il passaggio<br />
dal bianco e nero al colore, dall’emittenza pubblica a quella commerciale<br />
ha cambiato il cuore della televisione-verità. E ora il futuro è delle webcam<br />
Quando la tv-spia<br />
raccontava l’Italia<br />
Candid<br />
Camera<br />
ANTONIO DIPOLLINA<br />
Il programmapiù visto dell’estate<br />
tv si chiama Paperissima e si<br />
articola in due momenti ben distinti.<br />
Nel primo si vede, per<br />
esempio, un filmato in cui un<br />
bimbo con un trattore giocattolo<br />
finisce contro un albero, nel secondo<br />
un uomo con un trattore vero finisce<br />
contro un albero. Il telespettatore<br />
ride in entrambi i casi (i bambini, soprattutto)<br />
ma solo in uno dei due la telecamera<br />
al momento dell’impatto ha<br />
un sobbalzo, l’immagine svaria da destra<br />
a sinistra, l’operatore insomma è<br />
sorpreso, e magari — si spera — anche<br />
un po’ preoccupato. In questo caso la<br />
realtà è davvero tale, ed è approdata<br />
per percorsi ormai noti, in tv. Nel secondo<br />
caso, la telecamera resta saldissima<br />
e quindi è tutto costruito, l’operatore<br />
sa quello che sta per accadere<br />
(in un solo caso non è così, ovvero<br />
quando l’operatore è felice, per motivi<br />
suoi, dello schianto del conoscente,<br />
ma in quel caso la telecamera si sposterebbe<br />
comunque per via del sussulto<br />
di gioia). Quest’ultima è candid<br />
camera, artefatta, ormai dilagante (i<br />
filmati di Paperissima con telecamera<br />
ferma sono la stragrande maggioranza).<br />
Il mercato della tv mondiale, che<br />
chiede a gran voce filmati del genere,<br />
ha imposto le sue regole.<br />
In un recente filmato, a milioni si sono<br />
divertiti a vedere due bimbi che<br />
prendevano a litigare, prima si tiravano<br />
i capelli, poi hanno iniziato a graffiarsi<br />
in faccia, poi a spintonarsi contro<br />
i mobili della stanza, poi a tirarsi<br />
oggetti pesanti: la telecamera era saldissima,<br />
dietro alla medesima o c’era<br />
un babbo-manager che aveva allestito<br />
il tutto, oppure lo stesso babbo stava<br />
pensando che, se usciva anche il<br />
sangue, stavolta i cento dollari in palio<br />
per il migliore filmato non glieli avrebbe<br />
tolti nessuno.<br />
Che ne avrebbe pensato il buon<br />
Nanni Loy? Chi lo sa. O meglio, si può<br />
immaginarlo, a patto di non ritenere i<br />
suoi Specchio Segreto e Viaggio in seconda<br />
classe come esperimenti naif di<br />
telecamera nascosta e poi succeda<br />
quello che deve succedere. Ovviamente<br />
c’era una scrittura precedente,<br />
c’era un’intenzione alla base, c’era<br />
una costruzione successiva. C’era la<br />
tv, insomma, con il suo strapotere e le<br />
sue esigenze già ben delineate e fortis-<br />
sime: Loy ci metteva poi i diversi livelli<br />
di lettura a disposizione, per cui il<br />
cornetto nel cappuccino altrui, o meglio<br />
ancora la finta schiava venduta al<br />
mercato romano, potevano divertire<br />
o stupire i più, e poi far versare inchiostro<br />
agli analisti del comportamento.<br />
Il punto è che da allora sono dovuti<br />
passare decenni prima di rivedere, da<br />
noi, il ritorno della telecamera non<br />
conclamata. Ma era già tardi, c’era la<br />
tv commerciale in piena espansione, e<br />
insomma eravamo già alla lunga, lunghissima<br />
fase degenerativa. Con la lezione<br />
dei maestri della tv ultrapop<br />
americana sottomano, s’intende. Con<br />
l’esigenza della tv-maiale, nel senso di<br />
quella dove non si butta via niente.<br />
È il 1990, a giugno su Canale 5 va in<br />
onda in prima serata un curioso esperimento<br />
che si chiama appunto Paperissima:<br />
dentro c’è tutto il «non visto<br />
in tv ma successo in tv», errori e strafalcioni<br />
di giornalisti e conduttori, ca-<br />
pitomboli e pernacchie dai quattro<br />
angoli del mondo, parolacce sfuggite<br />
e “bippate” ma intuibilissime, i vip al<br />
naturale, o meglio come li immaginate<br />
al naturale. Il giorno dopo negli studi<br />
non credono ai loro occhi, i dati parlano<br />
di nove milioni di telespettatori,<br />
un successo torrenziale, direbbero loro,<br />
ottenuto a prezzi irrisori, con investimento<br />
quasi zero. L’inizio di qualcosa<br />
di meraviglioso.<br />
<strong>La</strong> tv commerciale — e solo lei — ha<br />
costruito da lì, sulle varianti possibili<br />
della telecamera nascosta o comunque<br />
spia, un filone che solo oggi va calando,<br />
ma appena appena. Il filone ha<br />
prodotto la quasi epopea di Scherzi a<br />
parte, programma boom fino allo sfinimento<br />
attuale. Un genere venduto<br />
anche in dvd nei suoi “best of”, un genere<br />
che all’inizio sembrò quasi puro,<br />
nella deflagrazione. Finché qualcuno<br />
non si accorse che gli scherzi più clamorosi<br />
e thriller ai vip avevano per<br />
protagonisti, guarda caso, ottimi attori<br />
(memorabile il Leo Gullotta che si ritrova<br />
una tigre vera in garage: ovvio<br />
che nessuno sarebbe così pazzo da rischiare<br />
un simile scherzo per davvero,<br />
grande la prova d’attore): finché diventa<br />
ovvio e naturale il taroccamento<br />
dell’ottanta per cento almeno degli<br />
scherzi andati in onda. E il venti per<br />
cento restante è quasi sempre quello<br />
meno divertente.<br />
Il meglio, il vero — come in ogni tv<br />
che si rispetti — non è mai andato in<br />
onda. Luca Barbareschi si ritrovò<br />
chiuso in ascensore con stranissimi<br />
compagni di viaggio, capì la situazione,<br />
gli girarono i santissimi e iniziò a<br />
demolire a mai nude tutto quanto alla<br />
ricerca della telecamera nascosta, che<br />
saltò fuori: mai visto in tv, mai autorizzato.<br />
E quel direttore di giornale invitato<br />
a partecipare a un finto talkshow<br />
che si ritrovò molestato quasi<br />
sessualmente in trasmissione da una<br />
finta ospite? Abbozzò, poi reagì e fece<br />
per andarsene. Sbucò la responsabile<br />
del programma e gli disse: «Su, firmiamo<br />
la liberatoria, oggi la firmano tutti<br />
e poi sono un sacco di soldi». Quello<br />
che lui le rispose è abbastanza noto,<br />
ma non si può proprio scrivere. Dell’episodio,<br />
va da sé, non si è mai visto<br />
nulla.<br />
Per i rami, la telecamera nascosta è<br />
andata ovunque, cercando sempre<br />
più una parvenza di verità. Con la tecnologia<br />
che ha ridotto al minimo le di-
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
‘‘<br />
maggiore crudeltà‘‘<strong>La</strong><br />
del nostro lavoro sta<br />
nel creare illusioni per<br />
i poveretti che ci credono, e<br />
nel distruggerle<br />
poi brutalmente<br />
con la rivelazione<br />
che era tutta una finta<br />
mensioni, la microcamera addosso a<br />
inviati spregiudicati ha fatto la fortuna<br />
di programmi come Striscia la Notizia<br />
e le Iene, ha smascherato centinaia<br />
di ciarlatani e truffatori da poco,<br />
si è sempre astenuta dai grandi scandali,<br />
per ovvi motivi (e comunque oggi<br />
il telefono basta e avanza). Ma sempre<br />
al servizio delle esigenze tv, quelle<br />
che non rendono poi molto dissimile<br />
lo scherzo al vip dal serio inviato del<br />
telegiornale che raduna prima la folla<br />
di una manifestazione e poi fa accendere<br />
la telecamera per far sembrare<br />
che siano tanti.<br />
È chiaro che definire tutto questo<br />
“candid camera” richiamandosi allo<br />
spirito delle origini non ha molto senso.<br />
È altro, è televisione. Il genere è<br />
stanco e il percorso complicatissimo.<br />
Oggi, le vere “candid” sono le webcam<br />
nascoste, e non per nulla sta arrivando<br />
una legislazione ferrea al proposito<br />
in difesa della privacy. Vale quello<br />
che si dice dei rapporti tra le persone:<br />
se tutti un giorno si mettessero a raccontarsi<br />
l’un l’altro la verità, il mondo<br />
finirebbe dopo poche ore. Se una vera<br />
Con “Specchio segreto”<br />
abbiamo inventato<br />
l’assurdo letterario<br />
e poi ne abbiamo<br />
provocato l’irruzione<br />
nel quotidiano<br />
più banale della gente<br />
più normale<br />
telecamera autenticamente nascosta<br />
ci mostrasse al naturale all’esterno,<br />
idem.<br />
Oggi la “Real-tv”, sui nostri canali, è<br />
un programma di Italia 1 che mostra<br />
eventi drammatici, sciagure, catastrofi<br />
naturali, sparatorie tra banditi e polizia.<br />
Effettacci, insomma. I reality-show<br />
sono quanto di più costruito e artefatto<br />
possibile, di “candid” non c’è più nulla.<br />
Si parla di una nuova edizione di Scherzi<br />
a partein allestimento, ma è come un<br />
segreto di stato: già ormai se ne accorgono<br />
tutti se vengono presi di mira, figuriamoci<br />
se si spargesse la notizia che<br />
quelli di Mediaset ci stanno lavorando<br />
sopra. A Striscia e alle Iene provano i<br />
nuovi modelli di microcamera, e via<br />
contro nuovi truffatori.<br />
Ogni tanto si prende un aereo delle linee<br />
straniere, e sui monitor partono<br />
delle “candid” con colori anni Settanta,<br />
ma girate di recente. Sono ingenue, alcune<br />
deliziose, con gente comune, cercano<br />
il surreale. Un altro mondo, ci<br />
provano ancora, si divertono con poco,<br />
direbbe qualcuno. Da noi è diverso, da<br />
noi ha vinto la televisione.<br />
<strong>La</strong> gente ha tutto il diritto<br />
di andare in Tv. Anzi,<br />
secondo me ci va troppo<br />
poco. Vedo ancora molti<br />
salotti pieni di politici,<br />
giornalisti, intellettuali,<br />
artisti [...]. E gli altri?<br />
Dove sono gli altri?<br />
All’estero continuano<br />
a fare piccoli sketch<br />
ingenui e surreali,<br />
dove la gente comune<br />
è ancora protagonista<br />
GLI EREDI<br />
CANDID CAMERA SHOW<br />
Gerry Scotti negli anni ’80,<br />
ripropone, aggiornandola,<br />
la formula di “Specchio Segreto”.<br />
Fra gli autori anche Nanni Loy<br />
LIBERO<br />
Nel 2000 Teo Mammucari<br />
applica i principi della candid<br />
camera agli scherzi telefonici.<br />
Grande successo di pubblico<br />
SCHERZI A PARTE<br />
Ideata da Fatma Ruffini nel ’92,<br />
sceglie le vittime delle sue<br />
telecamere nascoste<br />
fra i personaggi della televisione<br />
FOTO WEBPHOTO<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />
Nanni Loy nel ricordo di Ugo Gregoretti<br />
“Tagliente ma affettuoso<br />
così ha svelato i nostri tic”<br />
PAOLO D’AGOSTINI<br />
Due signori. Tutt’e due comunisti “aristocratici” (il<br />
personaggio che rievochiamo lo era di nascita e il nostro<br />
intervistato prima di accettare la tessera del Pci<br />
si chiese candidamente: «Come posso io che possiedo 200<br />
cravatte?», sentendosi rispondere che poteva dal momento<br />
che il poeta Aragon ne possedeva il doppio). E grandi innovatori<br />
televisivi. Tre cose in comune tra Nanni Loy e Ugo<br />
Gregoretti. Un’altra è Fregene, cara ai cinematografari, dove<br />
il 21 agosto di dieci anni fa Loy fu colto da infarto e Gregoretti,<br />
con la compagna di Nanni Elvira, fu il primo a tentare<br />
invano di soccorrerlo. Ugo Gregoretti (classe 1930, cinque<br />
anni meno di Loy) ricorda l’amico cominciando dall’episodio<br />
che ne fece un personaggio popolarissimo. E svelando<br />
un altro punto di contatto.<br />
«L’ho conosciuto dopo aver fatto il mio primo film nel ‘61,<br />
I nuovi angeli. Venni “scoperto” in virtù di una rubrica che<br />
tenevo in tv, Controfagotto. Sull’onda del suo successo e della<br />
novità che rappresentava il produttore Alfredo Bini mi<br />
propose di fare un film. Mi trovai così promosso regista di<br />
cinema, e conobbi Nanni. Di lì a poco Angelo Guglielmi reduce<br />
da Londra con sotto il braccio il “format” — si direbbe<br />
oggi — della candid camera propose a me Specchio segreto.<br />
Risposi che sarei stato troppo riconoscibile per via di Controfagotto,<br />
mentre la formula si fondava proprio sulla irriconoscibilità<br />
del “provocatore”. Venne allora in mente a entrambi<br />
Nanni, che accettò circondandosi di collaboratori di<br />
talento come Giorgio Arlorio e Fernando Morandi».<br />
Ha rivelato un retroscena...<br />
«Non l’ho mai raccontato. Evidentemente però l’affinità<br />
elettiva tra noi due è rimasta tanto legata a quel fatto che ancora<br />
oggi, con mia frustrazione, c’è chi incontrandomi mi<br />
dice: lei ha fatto tante belle cose ma nessuna ha eguagliato<br />
quel cornetto intinto nel cappuccino degli altri. E, non vorrei<br />
apparire irriverente, quando Nanni morì e fu allestita la<br />
camera ardente in Campidoglio, mentre scendevo la scalinata<br />
incrociai una donnetta che mi disse a bruciapelo: ma<br />
come, lei non era morto?».<br />
Avete entrambi riversato nella televisione lo spirito, la<br />
sensibilità della commedia cinematografica italiana.<br />
«Lui certamente, veniva da quel cinema. Io ero un redattore,<br />
anzi un praticante del telegiornale che sognava di diventare<br />
regista di cinema e aveva un occhio di riguardo per<br />
la commedia all’italiana. Il mio Controfagotto conteneva<br />
materiali equivalenti. E perfino quando ho girato Apollon<br />
sull’occupazione di una tipografia gli operai romani che recitavano<br />
se stessi erano di scuola sordiana. In Nanni c’erano<br />
già molte esperienze, in me la contaminazione da giornalistino<br />
televisivo che applicava i moduli della commedia<br />
ai suoi “pezzi”. Impostavo le interviste come se fossero sketch,<br />
parenti poveri di un film».<br />
Il modello di Specchio segreto e la successiva<br />
evoluzione (o involuzione?) della formula<br />
candid camera nella tv italiana.<br />
«Specchio segreto si avvalse subito di una<br />
componente non so se già presente nella sperimentazione<br />
anglosassone anteriore: autori<br />
e sceneggiatori che venivano dal cinema,<br />
Nanni per primo. E di una comicità, di un<br />
umorismo che andavano oltre l’invenzione di<br />
gag e rimandavano a uno spaccato antropologico<br />
e sociale. Uno spessore mai visto prima,<br />
FRA CINEMA E TV né tantomeno dopo. Pensi ai livelli di stupidità<br />
Nella foto,<br />
di oggi e agli abissi di faciloneria provocatoria<br />
Ugo Gregoretti ma stolta, vacua. <strong>La</strong> forza e la classe di Nanni<br />
erano nel non essere mai offensivo pur essendo<br />
così pungente. Un meccanico autocontenimento<br />
faceva sì che quando si avvicinava troppo al confine<br />
della presa per il culo scattassero la pietas, la simpatia,<br />
l’indulgenza affettuosa verso il malcapitato. Tra i molti primati<br />
di Specchio segreto — oltre a quello cronologico e a<br />
quello qualitativo nel far tesoro sia del cinema civile e di denuncia<br />
che della commedia all’italiana, nel farsi ritratto di<br />
un paese con le sue contraddizioni e tic e con la sua straordinaria<br />
varietà umana — ce n’è anche un altro. Si scoprì lì la<br />
famosa “liberatoria”: cioè, dopo aver “incastrato” le persone<br />
a loro insaputa, bisognava ottenere il permesso per andare<br />
in onda. E il bello è che i rifiuti furono pochissimi, la<br />
stragrande maggioranza si fidava e firmava al volo».<br />
Va di moda rimpiangere la Rai di Bernabei. Ma è vero che<br />
quella tv così governativa, prudente, bacchettona, consentiva<br />
spazi anticonformisti come Specchio segreto.<br />
«Più che “di Bernabei” parlerei di Rai monopolio. Sentivamo<br />
la responsabilità del nostro ruolo. Sia pure sotto il tallone<br />
di ferro della censura democristiana eravamo severamente<br />
invitati a fare le cose bene e a scoprire dove stesse di<br />
casa l’araba fenice dello specifico televisivo. Contribuirono<br />
pochi registi cinematografici che, come Mario Soldati, portarono<br />
la spregiudicatezza del cinema nell’inchiesta televisiva.<br />
Miei maestri sono stati i tecnici, sia i vecchi tecnici della<br />
radio che i nuovi che dal cinema erano passati alla tv optando<br />
per il posto fisso, e poi quel grande radiocronista che<br />
era Vittorio Veltroni: l’abilità era quella di costruire delle immagini<br />
sonore, ciò che ignorava la tradizione del documentario<br />
cinematografico italiano che disprezzava la tv. Inventammo<br />
le inchieste televisive aggiungendo con le voci<br />
lo spessore mancante al documentarismo “artistico”. Le<br />
cose erano insomma più belle perché ogni dettaglio era teso<br />
a una qualità anche estetica. Con la fine del monopolio<br />
questo è finito. E dico che ha contribuito a renderci più perspicaci<br />
proprio la censura. Una ginnastica, una palestra.<br />
Studiare come assestare il cazzotto passando attraverso le<br />
sue maglie. Uno strumento pedagogico».<br />
Ragionamento un po’ insidioso, non le pare?<br />
«Io rimpiango la disciplina. So che oggi vediamo solo imbruttimento<br />
mentre allora c’era un’estetica. E la censura è<br />
stata come un’istitutrice, formativa. Nelle mani di chi ha il<br />
potere di scegliere, oggi del tutto incapace, potrebbe essere<br />
strumento di rieducazione: una bella censura a Maria De Filippi<br />
non sarebbe cosa sana?».
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 40 14/08/2005<br />
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
i sapori<br />
Riti di Ferragosto<br />
Bistecca<br />
Classico intramontabile,<br />
varia per taglio, frollatura<br />
e razza bovina. In attesa<br />
del ritorno della bistecca<br />
con l’osso, ci si consola<br />
con controfiletti e costate<br />
L’appuntamento<br />
Sagra della bistecca<br />
a Cortona (Arezzo)<br />
Il gusto della carne<br />
alla prova del fuoco<br />
Braciola<br />
I maiali di oggi fanno<br />
concorrenza ai bovini per<br />
magrezza: un bel guaio<br />
sulla brace, che asciuga i<br />
succhi. Meglio marinare<br />
la carne poche ore prima<br />
L’appuntamento<br />
Festa di Ferragosto<br />
a Fenestrelle (Torino)<br />
Costina di maiale<br />
Gioiello da barbecue,<br />
“finger food” d’obbligo.<br />
Il misto di grasso-magro<br />
attaccato alla costola si<br />
sgranocchia con la carne<br />
superbollente<br />
L’appuntamento<br />
Maialata a Montefiore<br />
dell’Aso (Ascoli Piceno)<br />
Costoletta d’agnello<br />
Va servita croccante fuori<br />
e rosa all’interno, perché<br />
non diventi stopposa. <strong>La</strong><br />
marinatura pre-cottura dà<br />
profumo e morbidezza<br />
L’appuntamento<br />
Sagra della bistecca di<br />
castrato, Monte Rinaldo<br />
(Fermo)<br />
Pancetta<br />
Colesterolo allo stato<br />
puro, ma anche una<br />
bontà untuosa e<br />
irresistibile. Invece<br />
di salarla, a fine cottura<br />
basta un giro di pepe<br />
L’appuntamento<br />
Festa del Bue a Cento<br />
(Ferrara)<br />
Nei mesi estivi si celebra l’apoteosi della brace, tecnica globale<br />
che unisce tutte le culture del mondo ma soprattutto occasione<br />
per trascorrere una giornata con le persone care all’insegna<br />
dell’aria buona e del cibo di qualità. Per quattro milioni di italiani<br />
è un appuntamento settimanale. Ecco i segreti per preparare<br />
grigliate prelibate senza compromettere la linea<br />
Barbecue<br />
LICIA GRANELLO<br />
<strong>La</strong> griglia è pronta, la brace ardente, salsicce e bistecche fanno bella mostra<br />
di sé sul vassoio. Moltiplicate la cartolina per venti milioni di volte<br />
e avrete un’idea di quanti barbecue saranno organizzati nelle prossime<br />
settimane tra le Dolomiti e <strong>La</strong>mpedusa, a cominciare da domani,<br />
vero griglia-day per vacanzieri e forzati della città.Ci portiamo appresso<br />
il rito della grigliata all’aria aperta come un passaporto d’allegria<br />
a poco prezzo: forse proprio per questo l’appuntamento con carbonella e<br />
spiedini a un certo punto è diventato una pratica inutile e vecchia, archiviata come<br />
un cappello demodé.<br />
A rivitalizzarlo, l’ondata migratoria degli ultimi anni,<br />
insieme al superamento dell’emergenza mucca pazza<br />
(che in Italia ha causato un morto, chissà se si può dire altrettanto<br />
di pesticidi e additivi cancerogeni ancora utilizzati<br />
ovunque). Perché la carne alla brace è il cibo globale<br />
per eccellenza, indifferente a frontiere e razze,<br />
confessioni religiose e conto in banca. Basta<br />
che si sparga nell’aria un certo profumo e<br />
siamo tutti lì, davanti alla griglia, dal presidente<br />
degli Stati Uniti (avete presente le immagini<br />
dei weekend nel ranch presidenziale?)<br />
al campesino messicano, uniti nel sacro nome<br />
dello spiedino arrostito.<br />
Non che tutti i barbecue siano uguali. Al contrario, basta passeggiare la<br />
domenica nei parchi delle grandi città per scoprire come l’occasione del<br />
pranzo collettivo si trasformi in una mirabile esibizione, con rituali organizzati<br />
fin nei minimi dettagli. I coreani, per esempio, collocano il braciere<br />
a centro tavola e intingono i tocchetti di carne mista, una volta cotti,<br />
nelle ciotole con salse (quasi tutte piccanti), come i francesi con la “fondue<br />
bourguignonne”.<br />
I venezuelani, invece, allestiscono delle supergriglie, accudite dagli uomini,<br />
mentre le donne preparano le carni, e i bambini, dispiegati i plaid sull’erba, allineano<br />
piatti e tovaglioli usa-e-getta. Il tutto, sulle note ardenti della musica salsa, mentre<br />
i cinesi arrivano con i bocconcini di pollo e zenzero già perfettamente infilzati negli<br />
spiedini, in modo da ridurre al minimo il lavoro sul campo.<br />
Noi preferiamo la campagna, la spiaggia, il giardino degli amici, il prato di fianco<br />
al terreno di gioco dopo una furibonda partita di calcetto. Secondo la ricerca realizzata<br />
nelle scorse settimane da Demoskopea per Montorsi (carni&salumi), oltre quattro<br />
milioni di famiglie organizzano il barbecue con frequenza settimanale, attribuendogli<br />
virtù non così scontate: appuntamento altamente “socializzante” con<br />
amici e parenti, occasione di coinvolgimento dei figli, alternativa alla routine della<br />
cucina quotidiana, escamotage per praticare la dieta senza avvilimenti.<br />
Anche la scelta delle carni è direttamente proporzionale alla riscoperta del fascino<br />
della griglia: in caduta le preferenze per le tipologie “light” (pollo, tacchino e coniglio),<br />
al primo posto assoluto troneggia Re Maiale, con il manzo a seguire. Niente attrae<br />
quanto salsiccia e costine, anche se bistecca e spiedini hanno sempre i loro fans<br />
affezionati. Ben distaccate – questione di gola e di tradizione – le non-carni: il pesce<br />
piace, ma necessita di una griglia monodedicata per evitare sgradevoli commistioni<br />
di odori, il formaggio è goloso, ma basta distrarsi un attimo per ritrovarsi con un blob<br />
giallastro spalmato su griglia e carbonella. Quanto alle verdure, non c’è barbecue<br />
senza radicchio carbonizzato, mentre le patate sopravvivono solo se accartocciate<br />
nell’alluminio e dimenticate nella brace spenta (salvo ricordarsene a fine pasto).<br />
Il resto, tutto quanto avreste voluto sapere sulla griglia e non avete mai osato chiedere<br />
– siamo tutti fuochisti provetti e come cuociamo noi le bistecche nessuno! – lo<br />
trovate su www.carnealfuoco.it. Compresi gli ultimi ritrovati hi-tech per arrostire costine&salsicce<br />
senza incenerirvi i polpastrelli.<br />
Petto di tacchino<br />
Carne da convalescenti:<br />
magra, poco gustosa,<br />
digeribilissima. Ottima<br />
negli spiedini insieme a<br />
bocconcini di carne e<br />
verdure robuste<br />
L’appuntamento<br />
Fuga del bove,<br />
Montefalco (Perugia)<br />
Salamino<br />
Si compra da un macellaio<br />
complice, prenotando<br />
per tempo. Se è buono,<br />
ma buono davvero,<br />
vale la grigliata<br />
da solo<br />
L’appuntamento<br />
Ferragosto<br />
a <strong>La</strong>ngosco (Pavia)
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
4 milioni<br />
Le famiglie che praticano<br />
il barbecue settimanalmente<br />
39,2 Kg<br />
Il consumo pro capite annuo<br />
di carne suina<br />
25,1 Kg<br />
Il consumo pro capite annuo<br />
di carne bovina<br />
17,3 Kg<br />
Il consumo pro capite annuo<br />
di carni avicole<br />
‘‘<br />
Woody Allen<br />
Cloquet odiava la realtà, ma si rendeva<br />
conto che era pur sempre l’unico posto<br />
dove trovare una buona bistecca<br />
Da EFFETTI COLLATERALI<br />
casa editrice Bompiani<br />
Spiedini di pollo<br />
Danno il meglio insieme a<br />
verdure saporite. Sullo<br />
stecchino si alternano<br />
carne, cipolla e peperoni<br />
con pomodori ciliegino<br />
L’appuntamento<br />
Festa del contado<br />
a Sassocorvaro<br />
(Pesaro Urbino)<br />
B arbecue<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />
Quando la cucina<br />
è un affare da uomini<br />
MASSIMO MONTANARI<br />
è uscire fuori, per una scampagnata<br />
nei boschi o lungo il fiume, una scappata al<br />
parco di città, una più semplice discesa nel<br />
giardino o nel cortile sottocasa. Volendo, anche il<br />
terrazzo può andar bene: l’importante è uscire. È<br />
questa la vera ragion d’essere del rito — perché di<br />
un rito si tratta, né più né meno. L’invitante profumo<br />
delle carni non è solo celebrazione del gusto, e<br />
il sapore forte della brace non è solo una ghiottoneria<br />
per adepti. C’è qualcosa di più, qualcosa che<br />
si sarebbe tentati di chiamare il “richiamo della foresta”.<br />
Non per nulla, col barbecue, la preparazione del<br />
cibo tende a cambiare sesso. Se la nostra storia<br />
alimentare ha posto la donna a protagonista<br />
della cucina domestica, la grigliata e lo spiedo<br />
sono per definizione un affare di maschi. Sì, certamente,<br />
era lei a cuocere il galletto come<br />
solo lei sapeva fare, e le melanzane<br />
e i pomodori non si<br />
bruciavano mai, erano perfetti.<br />
Ma dietro di lei c’era immancabilmente<br />
lui; prima di lei,<br />
lui aveva fatto il fuoco, e non si stancava<br />
di dare consigli non richiesti. E in<br />
tanti altri casi era lui e solo lui il signore<br />
del gioco, il domatore del fuoco,<br />
il conoscitore esperto (o sedicente tale) del “momento<br />
giusto”. Questa inversione di ruoli è il segno<br />
distintivo della grigliata. <strong>La</strong> griglia sostituisce il fuori<br />
al dentro, lo spazio aperto alla casa. Sostituisce<br />
l’uomo cacciatore alla donna che addomestica il cibo<br />
e lo prepara in cucina. Riporta il gesto “culturale”<br />
della cucina a una “natura”, vera o presunta, che<br />
non conosceva complicazioni di tecniche e strumenti;<br />
che non conosceva, in senso proprio, l’arte<br />
di cucinare, ma si accontentava di cuocere il cibo.<br />
Senza pentole, senza padelle, senza acqua, senza<br />
olio, con il solo ausilio del fuoco e di un pezzo di<br />
ferro su cui posare la carne cruda, il gesto della cottura<br />
riacquista il senso primordiale che dovette<br />
avere non appena Prometeo regalò il fuoco agli uomini.<br />
Ogni cultura umana di tanto in tanto ha nostalgia<br />
di questo passato, più mitico che reale; ogni<br />
cultura desidera completarsi con la natura da cui<br />
presume di essersi staccata.<br />
Ma anche questa “natura” è una costruzione<br />
culturale. Gestire il fuoco, la fiamma, il calore<br />
non è possibile senza un apprendimento paziente,<br />
senza un sapere pratico che si impara e si insegna.<br />
L’uomo della foresta, che caccia e cuoce la<br />
sua preda, non è esattamente l’uomo “selvatico”<br />
descritto nei testi antichi e medievali, riprodotto<br />
in affreschi e in stampe popolari, protagonista di<br />
leggende ancora vive nelle nostre montagne.<br />
Leggende che, peraltro, svelano tutta l’ambiguità<br />
dell’immagine nel momento in cui attribuiscono<br />
proprio all’uomo “selvatico” l’invenzione<br />
della “civiltà”: è lui, in tanti racconti, a insegnare<br />
agli uomini le pratiche della coltivazione<br />
e della pastorizia, il segreto della ceramica,<br />
l’arte della cucina.<br />
È questo mito che, più o meno consapevolmente,<br />
rivive nel rito del barbecue. Preparare<br />
il cibo fuori casa, in maniera semplice, senza<br />
ingombri, senza il peso della “civiltà”. E se, come<br />
dicono, la civiltà l’hanno fatta le donne,<br />
per questa volta cercheremo di farne a meno.<br />
‘‘<br />
(L’autore è docente di storia medioevale<br />
all’Università di Bologna)<br />
Salsiccia<br />
<strong>La</strong> più amata dagli italiani.<br />
Può essere di carni miste<br />
o di un solo tipo. I dannati<br />
della dieta la<br />
bucherellano per far<br />
uscire il grasso in cottura<br />
L’appuntamento<br />
Sagra del cinghiale<br />
Cicerale (Salerno)<br />
Wurstel<br />
Gregario di successo,<br />
è molto utilizzato<br />
negli spiedini misti<br />
per dare gusto<br />
alle carni bianche<br />
L’appuntamento<br />
Barbecue alle case<br />
di Sant’Andrea<br />
di Buccheri (Siracusa)
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 43 14/08/2005<br />
DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
PIETRE MILIARI<br />
VESPA<br />
Nasce nel’46<br />
nei laboratori<br />
Piaggio. Nove anni<br />
dopo, nel ‘55,<br />
arriva il “Vespone”,<br />
simbolo dell’Italia<br />
del boom<br />
LAMBRETTA<br />
L’anti-Vespa<br />
nasce nel ’47<br />
nelle fabbriche<br />
Innocenti. Si<br />
ispirava ai mezzi<br />
in dotazione<br />
dei parà francesi<br />
SPAZIO<br />
Nella seconda<br />
metà degli anni<br />
’80, la Honda<br />
introduce Spazio:<br />
È il primo<br />
maxiscooter<br />
e inaugura un’era<br />
FOTO CORBIS<br />
I l<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
Prezzo<br />
di listino:<br />
3.990<br />
euro<br />
STILE AMERICANO<br />
A quattro anni dal lancio, la serie Beverly della Piaggio<br />
si arricchisce della versione 250, con un nuovo motore<br />
da 244 cc monocilindrico da 22 Cv. Dall’inizio dell’anno<br />
in dotazione alla polizia di New York. Pesa 149 Kg<br />
Prezzo<br />
di listino:<br />
3.800<br />
euro<br />
VITA METROPOLITANA<br />
Password, lo scooter a ruote alte della bolognese Malaguti,<br />
è stato pensato come “chiave d’accesso”<br />
veloce e pratica per la città. Motore Yamaha da 250 cc<br />
e 20,8 Cv di potenza. Pesa 156 kg<br />
Quei viaggi veri e immaginari<br />
in sella alla mia “Primavera”<br />
MASSIMO GHINI<br />
viaggio più lungo che mi sia capitato di fare in Vespa l’ho fatto<br />
da fermo. Per più di duecento giorni, per l’esattezza sere,<br />
ho cavalcato una splendida Vespa del ‘53, quella col faro sul<br />
parafango, attraverso alcuni dei teatri più importanti d’Italia.<br />
Vacanze Romane e la sua leggendaria Vespa non potevano essere<br />
mezzo migliore per coinvolgere migliaia di spettatori in un<br />
viaggio sulle ali della memoria di un’epoca, di un paese e di una<br />
società tutte proiettate a pensare di costruire un mondo migliore.<br />
In fondo l’idea che un giornalista squattrinato potesse<br />
portare in Vespa una vera principessa, per l’epoca, ha fatto sognare<br />
molti. Immaginatevi che ogni sera l’apparizione della<br />
suddetta, tirata su in scena da un piccolo montacarichi ed accompagnata<br />
da piccoli sbuffi di vapore magici, scatenava l’applauso<br />
spontaneo di folle sorridenti ed ipnotizzate<br />
nello stesso tempo. Una moderna Wanda<br />
Osiris che i suoi ammiratori omaggiavano con<br />
il rispetto e la devozione dovuti. Una sera dopo<br />
l’ennesima replica, mi trovavo a cena con un<br />
grande commediografo e regista italiano Peppino<br />
Patroni Griffi che entusiasta dello spettacolo<br />
mi confessò con un po’ d’imbarazzo di essersi<br />
commosso alla vista della Vespa che gli ricordava...<br />
quello che gli ricordava! Nessuno di<br />
noi ebbe nulla da eccepire quando vedemmo<br />
sulla locandina scritto: con la partecipazione<br />
straordinaria della Vespa.<br />
Di veri viaggi con la Vespa, però, ne ho fatti<br />
tanti. <strong>La</strong> prima che mi venne regalata è stata una<br />
125 Primavera all’età di 16 anni, i miei non vollero<br />
prima. Segretamente ne avevo guidate<br />
molte dei miei amici che mi facevano la grazia<br />
di prestarmele. <strong>La</strong> mia “primavera ” durò esattamente un anno<br />
e un mese. Era un pezzo molto richiesto nel mercato dei furti.<br />
Vennero a “prendersela” nel cortile del mio liceo a Monteverde.<br />
Con dolore continuai a vivere dell’elemosina di amici che mi<br />
prestavano i loro vespini dismessi. Cominciò un’epoca di moto,<br />
velocità ed incoscienza. Anche le auto ebbero la loro parte, anni<br />
di lontananza, di distacco, quasi di rifiuto. Poi un giorno ecco<br />
riaccendersi la fiamma della passione. <strong>La</strong> televisione mi offrì la<br />
possibilità di girare un documentario sulla mia città, Roma,<br />
usando la Vespa originale di Vacanze Romane, quella di Gregory<br />
Peck. Un colpo di fulmine. Girammo le ultime scene arrivando<br />
fino ad Ostia, come nei vecchi film della grande commedia all’italiana.<br />
Da quel momento non ci siamo più lasciati, con grande<br />
gioia di mia moglie Paola che non ha mai avuto grande passione<br />
per le mie corse in moto. Sarà un caso ma al mio ultimo compleanno<br />
mio fratello mi ha regalato una vecchia 125 primavera,<br />
tutta rimessa a nuovo. Quando l’ho vista ho avuto un tuffo al cuore.<br />
L’ho messa in moto e sono andato a farmi un giro, ad un semaforo<br />
un tipo con un motorino mi ha affiancato, ha guardato<br />
la Vespa con attenzione e poi mi ha detto «125 primavera, 4 marce,<br />
marmitta del novantino... è sempre ‘a più bella». Mi sono sentito<br />
orgoglioso come un bambino sulla sua prima bicicletta.<br />
Questa, però la tengo in garage, perché mi piacerebbe molto lasciare<br />
ai miei figli, in tempi difficili come questi, la possibilità di<br />
goderci insieme un piccolo angolo di “primavera”.<br />
IL PERSONAGGIO<br />
L’attore Massimo Ghini<br />
FOTO LA PRESS
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 44 14/08/2005<br />
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />
l’incontro<br />
Dive sempreverdi<br />
Claudia Cardinale<br />
LAURA LAURENZI<br />
ROMA<br />
Bella è ancora bella, compatta<br />
e sottile, le braccia<br />
nude e perfettamente delineate,<br />
senza un cedimento.<br />
Mi aspetta in giardino, tutta vestita di<br />
bianco. Da lontano, mentre chiama a sé<br />
i cani, sembra quella di un tempo. Gerani,<br />
oleandri, sfondo bucolico, un pratone<br />
rustico per niente all’inglese, ombra.<br />
Siamo nel casale sulla via Flaminia, alle<br />
porte di Roma, dove vive sua madre. Eccola<br />
la Cardinale, monumento alla bellezza<br />
sensuale e mediterranea. Una che<br />
se ne infischia del passare del tempo e<br />
non sembra per niente angosciata. Indossa<br />
una gonna folk, svolazzante, da<br />
ragazza, espadrillas in tinta, collana etnica<br />
e un top leggerissimo con bretelline<br />
filiformi a incorniciare la scollatura<br />
soda. Ci sediamo in salotto, davanti al<br />
grande camino di pietra. «Sì lo so, mi<br />
mantengo in forma. Eppure fumo tanto:<br />
almeno un pacchetto e mezzo al giorno.<br />
Mi curo la pelle, uso buone creme, ma<br />
non ho mai messo piede in un istituto di<br />
bellezza. Faccio moto, da ragazza ero<br />
un’atleta, campionessa di pallavolo e di<br />
basket, cammino moltissimo. Un altro<br />
segreto forse è che mangio poco. Io non<br />
mangio: assaggio. Una forchettata di<br />
questo, un pezzettino di quello. Basta.<br />
Detesto alzarmi da tavola con quel senso<br />
sgradevole di sazietà». Autodisciplina.<br />
Questa deve essere, da sempre, la<br />
sua parola d’ordine.<br />
Le rughe — poche, gentili — ci sono,<br />
ma hanno una loro morbidezza, forse<br />
perché non vengono tenute nascoste.<br />
«Non vorrei mai cancellare i segni dal mio<br />
viso, non vorrei mai dare un colpo di spugna.<br />
Mai, mai farei un lifting. Sono contraria<br />
per principio, e avrei troppa paura.<br />
E se non vieni come speravi? E se ti guardi<br />
allo specchio e non sai chi sei? E poi ho<br />
visto troppi danni, troppi errori. Magari ti<br />
toccano un nervo per sbaglio e rimani<br />
con la bocca storta, oppure con un occhio<br />
più chiuso e uno più aperto...».<br />
<strong>La</strong> più bella invenzione italiana dopo<br />
gli spaghetti, la definì David Niven. <strong>La</strong><br />
bellezza, ripete lei, è un dono avvelenato.<br />
A 66 anni Claudia Cardinale continua<br />
a ricevere lettere di ammiratori. «Mi<br />
scrivono in tanti. Anche molte donne, in<br />
genere mi chiedono consigli. Io rispondo<br />
sempre personalmente. Quelli che<br />
mettono anche il numero di telefono li<br />
richiamo. A momenti svengono, pensano<br />
che sia uno scherzo».<br />
Ma uno scherzo non è. È inconfondibile<br />
la voce di Claudia Cardinale, anche<br />
se con gli anni è diventata meno roca,<br />
meno sorprendente. Fu Fellini a sdoganarla,<br />
fu lui il primo e il più grande ad apprezzare<br />
quel soffio denso, a imporre<br />
che la Cardinale non venisse doppiata.<br />
Nello stesso anno, era il 1962, addirittura<br />
negli stessi mesi, l’attrice girava forse<br />
i suoi due film più noti: 8 e ½ e Il Gattopardo,<br />
e i due registi erano come il giorno<br />
e la notte, uno geloso dell’altro. Uno,<br />
Fellini, lavorava nel caos più assoluto e<br />
voleva che lei improvvisasse e basta, e la<br />
voleva bionda; l’altro, Visconti, maniaco<br />
del particolare, studiava ogni ciak nei<br />
minimi dettagli con perfezionismo accanito,<br />
e la voleva bruna. «Ogni quindici<br />
giorni mi dovevo ritingere i capelli».<br />
Le ripeteva Visconti: «Ricordati, devi separare<br />
la bocca dagli occhi. Gli occhi devono<br />
dire esattamente l’opposto di<br />
quello che stai dicendo con le parole».<br />
Forse in questa ambiguità risiede il segreto<br />
del suo sex-appeal.<br />
«Visconti mi ha insegnato moltissime<br />
cose. Mi diceva: Claudia, quando arrivi<br />
da qualche parte non arrivare a piccoli<br />
passi, devi prendere possesso del terreno<br />
come fossi una pantera. Tutti pensano<br />
di te che sei una gattina da accarezzare.<br />
Invece sei una pantera, una tigre,<br />
una che, se vuole, divora il domatore».<br />
Luchino e Federico: erano entrambi<br />
incantati dalla sua bellezza, come<br />
un’intera generazione e non soltanto di<br />
italiani. In quel mitico 1962 Moravia rimase<br />
talmente folgorato dalla sua sensualità<br />
ipnotica che scrisse su di lei, anzi,<br />
con lei, un libro-intervista, dal titolo<br />
<strong>La</strong> dea dell’amore. «Parlava del mio corpo<br />
come di un oggetto sospeso nello<br />
spazio. I nostri incontri avvenivano nella<br />
sua casa di piazza del Popolo. Elsa<br />
Morante se ne stava nella stanza accanto.<br />
No, non era gelosa. Stavamo seduti<br />
uno di fronte all’altra. Lui batteva direttamente<br />
a macchina le risposte che gli<br />
davo. Però era molto nervoso, forse era<br />
emozionato, le mani gli tremavano, e la<br />
macchina da scrivere spesso gli cadeva<br />
per terra. Stavamo per lunghissimo<br />
tempo zitti. Lui non diceva niente e io<br />
non dicevo niente».<br />
Una bellezza che metteva agitazione,<br />
la sua. Toglieva la parola. «E pensare che<br />
io ero complessata, all’inizio della mia<br />
carriera. Non mi sono mai trovata bella.<br />
Ero una vera selvaggia, non parlavo con<br />
nessuno. Il mio segreto evidentemente<br />
è che io captavo la luce, e forse ancora la<br />
È una delle tre italiane nella lista<br />
“Harpers & Queen” delle cento<br />
donne più belle del secolo scorso,<br />
Moravia ha scritto con lei il librointervista<br />
“<strong>La</strong> dea dell’amore”.<br />
Eppure - racconta - non<br />
si è mai sentita bella,<br />
soltanto fotogenica.<br />
E fortunata per aver<br />
vissuto 150 vite, tante<br />
quanti i film<br />
capto, sono fotogenica. E trasmetto<br />
emozioni. È il mistero della fotogenia.<br />
Sei come Marlon Brando, mi dice ancora<br />
oggi, dopo trent’anni, il mio compagno,<br />
Pasquale Squitieri. Sei come lui. Da<br />
ogni parte tu venga inquadrata, anche<br />
di schiena, prendi la luce».<br />
Si accende un’altra sigaretta con le<br />
mani dalle dita affusolate e nervose, le<br />
unghie perfette, un anello per ogni dito,<br />
tranne ai pollici. «Certo il cinema è stato<br />
per me una grande ancora di salvezza.<br />
Grazie al cinema sono riuscita ad<br />
esprimere i miei sentimenti. Normalmente<br />
uno vive solo una vita: io centocinquanta,<br />
quanti sono i film e gli spettacoli<br />
teatrali in cui ho recitato. Sono<br />
stata una puttana, una principessa, una<br />
santa. Mi sono imbruttita, mi sono stravolta<br />
e modificata, ho dovuto dimostrare<br />
85 anni. Io non faccio mai le prove,<br />
non ripeto la scena a casa, non ripasso la<br />
parte. Io semplicemente divento il personaggio,<br />
mi ci calo dentro annullando<br />
me stessa. Mi trasformo, sono un’altra.<br />
Per questo ho sempre fatto una grande<br />
differenza fra identità, la mia, e alterità,<br />
Non voglio cancellare<br />
i segni dell’età<br />
dal mio viso,<br />
non vorrei mai dare<br />
un colpo di spugna<br />
Mai e poi mai farei<br />
un lifting<br />
Sono contraria<br />
per principio, ma ho<br />
i miei personaggi, una differenza fra vita<br />
privata e lavoro. Per questo la gente<br />
mi rispetta: per la mia normalità, perché<br />
non mi sono mai montata la testa».<br />
Una cesura netta dunque fra la donna<br />
e l’attrice: «Quando mi rivedo al cinema,<br />
sul grande schermo, mi dico: ma<br />
non sono io! È un’altra. È l’altra! È Claudia!<br />
Mentre io sono Claude, il mio vero<br />
nome, pronunciato alla francese». Il vero<br />
motivo per cui cominciò a fare del cinema,<br />
racconta, fu per dare un taglio<br />
netto al passato e troncare con la Tunisia.<br />
Vittima di una violenza carnale,<br />
aspettava un bambino, quel Patrick che<br />
nacque quando lei aveva appena 18 anni<br />
e che il suo compagno-pigmalione, il<br />
produttore Franco Cristaldi, le impose<br />
di fare passare per fratellino minore,<br />
«perché le dive non hanno figli illegittimi».<br />
Fu costretta a mentire fin troppo a<br />
lungo, e la cosa ancora la devasta. «Presi<br />
la strada del cinema perché mi consentiva<br />
di essere indipendente. Ho lavorato<br />
anche incinta, non si vedeva<br />
quasi. Quattro diversi film, fino all’ottavo<br />
mese di gravidanza». Ha mai più avuto<br />
contatti con il padre del bambino?<br />
Lungo silenzio. «Non ho più voluto sapere<br />
niente di lui. Certo quando sono diventata<br />
famosa lui è venuto a cercarmi,<br />
è tornato a farsi vivo. Ma io gli ho sbattuto<br />
la porta in faccia. Non parlo volentieri<br />
di questa vicenda, che mi ha segnato<br />
nel profondo e ha fatto molto soffrire<br />
mio figlio».<br />
Una vita che sembra un romanzo, la<br />
sua: essere eletta per caso la più bella italiana<br />
di Tunisi, «avere il cuore in Africa e<br />
la testa in Europa», venire catapultata in<br />
viaggio premio al Festival del Cinema di<br />
Venezia, esordire con i registi più grandi,<br />
tenere nascosta una gravidanza per<br />
volere insindacabile di uno dei più importanti<br />
produttori europei, mietere un<br />
successo dopo l’altro, il tutto sotto il peso<br />
di un contratto capestro e di uno stipendio<br />
minimo. «Mi sentivo un’impiegata,<br />
guadagnavo pochissimo, è anche<br />
vero che me ne sono sempre infischiata<br />
dei soldi». Possibile che nessuno abbia<br />
mai pensato a trasformare la sua vita —<br />
soprattutto gli anni tempestosi dell’adolescenza<br />
e della giovinezza — in un<br />
film? «Ci sta lavorando un grande regista.<br />
Un regista italiano molto famoso. È<br />
già pronta la storia».<br />
Intanto è stata lei a scrivere un libro su<br />
di sé. Per narrare non tanto le sue memorie<br />
quanto i suoi incontri. È uscito qualche<br />
mese fa per ora solo in Francia e si intitola<br />
Mes étoiles, le mie stelle, da Marlon<br />
Brando in su, o «in giù», come dice lei. E<br />
chissà a quale latitudine della sua classifica<br />
planetaria lei colloca per esempio registi<br />
come Monicelli, Comencini, Germi,<br />
Sergio Leone, o colleghi come Henry<br />
Fonda e Sean Connery, Mastroianni e<br />
Trintignant, Burt <strong>La</strong>ncaster e Rock Hudson,<br />
John Wayne, Steve McQueen, Tony<br />
Curtis, Alain Delon e Jean Paul Belmondo,<br />
De Niro. O Cary Grant, che a Los Angeles<br />
era suo vicino di casa.<br />
Oggi Claudia Cardinale ha in cantiere<br />
anche troppa paura‘‘<br />
in cui ha recitato. “Senza<br />
mai imparare la parte<br />
ma calandomi dentro, annullando me<br />
stessa nel personaggio, fosse una<br />
puttana, una principessa o una santa”<br />
FOTO CONTRASTO<br />
un film con Richard Gere. Riceve ancora<br />
molte proposte e molti copioni, ma<br />
quasi mai dall’Italia, paese «dalla memoria<br />
corta». In compenso conosce una<br />
seconda stagione di gloria attraverso il<br />
teatro, recitando nella sua lingua madre,<br />
il francese. Si adopera con slancio<br />
come ambasciatrice di buona volontà<br />
per l’Unesco, in particolare a favore delle<br />
donne: «Mi sono battuta contro la lapidazione<br />
di Amina, e anche a favore di<br />
Souad, la donna cisgiordana che è stata<br />
quasi bruciata viva e ha scritto un libro<br />
per raccontarlo. Vive con una maschera.<br />
Davanti a me un giorno se l’è tolta, e<br />
mi ha fatto vedere anche il suo corpo<br />
martoriato dal fuoco. Sono rimasta senza<br />
parole. Ecco: cerco di essere la voce<br />
delle donne che non hanno voce».<br />
Se c’è una cosa che non sopporta, in<br />
Italia, è la tivù: «Pur di apparire si è disposti<br />
a tutto. Io non sono così. Per questo<br />
rifiuto quasi sempre gli inviti. Poi<br />
non mi piace vedere tutto quel nudo, seno<br />
di fuori, sedere di fuori, ombelico di<br />
fuori, perché? Mi dà fastidio tanta esibizione.<br />
Ai miei tempi ho sempre detto di<br />
no no e no quando volevano che mi spogliassi<br />
sul set. Mi sembrava di vendere il<br />
mio corpo. Anche quelle inquadrature<br />
in Vaghe stelle dell’Orsa in cui sembro<br />
nuda, era nuda soltanto la schiena. Credo<br />
che la cosa più bella sia fare sognare.<br />
Puoi suggerire senza fare vedere».<br />
È lusingata di essere una fra le tre sole<br />
italiane, con Sophia Loren e Isabella<br />
Rossellini, inclusa nella lista delle cento<br />
donne più belle del Novecento stilata da<br />
Harpers & Queen: «Non me l’aspettavo<br />
davvero, sono rimasta sbalordita. Lo<br />
giuro. Non ho mai pensato di essere bella.<br />
Ava Gardner era bella. Rita Hayworth<br />
era bella». E oggi? Tira fuori solo il nome<br />
di Monica Bellucci. «Oggi il problema<br />
delle attrici, ma anche degli attori, è che<br />
non fanno sognare, non hanno magia.<br />
Ma non dipende da loro. È l’occhio del<br />
regista che deve trasformarti in quello<br />
che lui vuole, unito alla sapienza degli<br />
operatori e dei direttori della fotografia.<br />
E io ho avuto i migliori del mondo».