03.06.2013 Views

Michele Serra - La Repubblica

Michele Serra - La Repubblica

Michele Serra - La Repubblica

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

<strong>Repubblica</strong> Nazionale 23 14/08/2005<br />

Domenica<br />

<strong>La</strong><br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

MASSIMO DELL’OMO<br />

GUSH KATIF<br />

Che cosa ha spinto, o attirato, uomini e donne da ogni<br />

angolo del mondo a venire qua, nel Gush Katif? Che<br />

cosa li ha trattenuti, poi, in questo pezzo di deserto oltre<br />

confine, terra altrui, tra ronde, carri armati, filo spinato,<br />

tiri di cecchini, caduta di razzi, Hamas o Jihad che sia? E che<br />

vita è stata lungo la curva di giorni tutti uguali, strappati volta per<br />

volta a un futuro provvisorio, in attesa che Pomona, la dea dei frutti,<br />

concedesse loro un buon raccolto, eppoi ricominciare fino all’amen<br />

dell’ultima data da pronunciare chissà dove? Una storia ci aiuta,<br />

una storia tra tante altre simili. Quella di Caim Klein, 55 anni, da<br />

Debrezen, Ungheria, omone irsuto di vaghissima somiglianza all’ultimo<br />

Richard Burton, scarpe grosse cervello fino. Da 16 vive in<br />

uno dei 21 insediamenti del Gush Katif: Gan Or, 52 famiglie.<br />

Caim è nato da relitti dell’Olocausto, dall’unione di due devastate<br />

solitudini deposte sulle macerie del dopoguerra. Prima della<br />

furia nazista, il padre Mordechi possedeva a Debrezen una piccola<br />

fabbrica per l’imbottigliamento dell’acqua minerale.<br />

(segue nelle pagine successive)<br />

di <strong>Repubblica</strong><br />

Terra<br />

promessa<br />

Dalla Shoah alle guerre<br />

di Israele, allo sgombero<br />

dalla Striscia di Gaza<br />

Nell’album di famiglia<br />

del colono Caim Klein<br />

sessant’anni di storia<br />

SANDRO VIOLA<br />

GERUSALEMME<br />

Dicono che Sharon non abbia mai sottovalutato<br />

l’ipotesi di fare la fine di Ytzhak Rabin, ucciso<br />

dieci anni fa da due pallottole sparategli alle<br />

spalle da un giovane estremista della destra religiosa:<br />

e per questo, nonostante il massiccio dispositivo di<br />

sicurezza da cui è protetto, dorme con una pistola sotto il cuscino.<br />

Vero o non vero, la cosa certa è che ormai da molti mesi,<br />

da quando è stato chiaro che intendeva sul serio smantellare<br />

le colonie ebraiche nella Striscia di Gaza, un’ondata<br />

d’avversione gli s’è rovesciata fragorosamente addosso.<br />

Un’avversione, per non dire un odio, che non accenna a diminuire.<br />

Anzi s’ingrossa, man mano che s’avvicinano i giorni<br />

cruciali della prima evacuazione israeliana — dopo trentott’anni<br />

e tre mesi — da una terra palestinese.<br />

Certo, ad esecrare e maledire Sharon è soltanto un terzo,<br />

così si calcola, della società d’Israele: ma questo terzo consiste<br />

della parte più irrazionale, fanatica e violenta del paese.<br />

(segue nelle pagine successive)<br />

il reportage<br />

Le spade di Toledo, mestiere da donne<br />

CONCITA DE GREGORIO<br />

il racconto<br />

<strong>La</strong> post-crociera, festa proletaria<br />

DONATELLA ALFONSO e MICHELE SERRA<br />

FOTO GAMMA<br />

le storie<br />

<strong>La</strong> vita clandestina del prete Ludmila<br />

CINZIA SASSO<br />

i luoghi<br />

Palermo, il paradiso ritrovato della Zisa<br />

ATTILIO BOLZONI<br />

cultura<br />

<strong>La</strong> leggenda del cacciatore di falsari<br />

STEFANO MALATESTA<br />

la lettura<br />

Torna il popolo a cavallo di Gengis khan<br />

GUIDO RAMPOLDI


24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

la copertina<br />

Via dalle colonie<br />

MASSIMO DELL’OMO<br />

(segue dalla copertina)<br />

Aveva una moglie, Regina,<br />

e tre figli: Juda, Jacob e Vera.<br />

Stefania Frankl, la madre<br />

di Caim, gestiva un<br />

negozio, sempre a Debrezen,<br />

era sposata con Levi<br />

Aron Leichter, una figlia: Rachel. Quando<br />

i tedeschi invasero l’Ungheria lì accumunò<br />

il vagone piombato. L’ultima<br />

volta che Mordechi vide sua<br />

moglie e i suoi figli, Juda aveva<br />

sette anni, Jacob cinque e Vera<br />

due. Fumo di Auschwitz. E ad<br />

Auschwitz morì Leichter.<br />

Mathausen per Stefania Frankl e la<br />

piccola Rachel. Campi di lavoro di<br />

mezza Europa per Mordechi.<br />

«Quante volte ho sentito questa<br />

storia — racconta oggi Caim — ma forse<br />

ero troppo giovane allora. <strong>La</strong> consideravo<br />

solo uno degli aspetti terribili<br />

della guerra, razzismo. <strong>La</strong> tragedia, in<br />

tutta la sua vastità, era troppo grande per<br />

me. L’ho capita solo tanti anni dopo».<br />

Mordechi Klein e Stefania Frankl si conoscono<br />

dunque alla fine della guerra, tra<br />

gli spettri che tornano a Debrezen. Troppo<br />

vive le piaghe aperte, inesistenti le cure:<br />

si sposano solo nel 1948. Due anni dopo<br />

nasce Caim. Altri quattro anni e sono<br />

di nuovo in fuga. Questa volta dal comunismo.<br />

Scappano prima che i carri armati<br />

sovietici schiaccino la rivolta ungherese:<br />

in Israele, Stato ancora giovane, ad abitare<br />

nei pressi di Ashkelon. Il governo,<br />

promuovendo l’Aliyah (letteralmente: la<br />

salita, il richiamo degli ebrei in Israele)<br />

dona loro trenta dunam (ettari) di terra.<br />

Qui cresce Caim. Elementari nel kibbutz<br />

di Nitzanim, superiori a Kyfar Silver.<br />

Al termine, un anno dopo la guerra dei Sei<br />

giorni, Zahal (in ebraico l’equivalente di<br />

Idf, Israeli Defence Force) lo chiama per i<br />

tre anni di leva cui sono obbligati i diciottenni.<br />

Dopo l’addestramento frequenta<br />

il corso allievi piloti dell’Aeronautica. Ride<br />

al ricordo scuotendo il corpo intero:<br />

«Trascorsi i primi due mesi l’istruttore mi<br />

chiamò e mi disse: “Sei molto bravo, ma<br />

sono sicuro che sarai più bravo da un’altra<br />

parte”». Fu spedito allo “Shaked”<br />

(“Mandorla”), il corpo di unità speciali di<br />

combattimento addestrate a “command<br />

action” oltre confine.<br />

Combatte in Egitto e in Giordania: una<br />

foto lo ritrae a Petra. Nel ‘71 ridiventa civile<br />

senza saper che fare. Non ha radici,<br />

né religiose né terrene. «Anche dalla famiglia<br />

— spiega — mi ero già staccato.<br />

Mio padre, peraltro, per le percosse subite<br />

durante la prigionia non ragionava<br />

nemmeno più tanto bene. Me ne andai<br />

in Europa». Per un anno vaga tra Francia<br />

e Danimarca. S’impianta in una comunità<br />

hippy di Amsterdam, musica e spinelli.<br />

Rientra in Israele nel ‘73 per rivedere<br />

i genitori, forse anche i soldi erano finiti,<br />

a giugno. Ai primi di ottobre Siria ed<br />

Egitto aggrediscono Israele. È la guerra<br />

dello Yom Kippur. Zahal lo reclama di<br />

nuovo nelle “special landing units”,<br />

commando che operavano nel Canale di<br />

Suez, a Cantara, con i gommoni Zodiac.<br />

Questa volta, il conflitto, nel quale perde<br />

un carissimo amico, lascia tracce più<br />

profonde delle cicatrici da schegge che<br />

porta ancora sulle braccia. Caim ha tutto<br />

il tempo di rifletterci nei mesi supplementari<br />

di servizio cui sono tenute le<br />

unità speciali. «Mi chiesi in quel periodo<br />

per quale ragione o causa avevo combattuto.<br />

Soprattutto per chi? Solo perché<br />

avevo cominciato il servizio militare qui?<br />

Per quanto mi riguardava avrei potuto<br />

farlo in Ungheria o in Danimarca. D’altro<br />

canto non mi sentivo nemmeno un<br />

mercenario che andava in guerra per la<br />

paga. Ripensai alla storia dei miei genitori,<br />

all’Olocausto, alla fuga dal comunismo.<br />

Parlai con molte persone. Arrivai<br />

alla conclusione che ciò che avevo fatto<br />

a rischio della vita, lo avevo fatto perché<br />

ero ebreo. Anche se non sapevo con precisione<br />

che cosa ciò significasse».<br />

Non conosce quasi niente, lui, della<br />

sua religione. E vuole sapere. È preso dall’ansia<br />

di sapere. Si iscrive alla scuola religiosa,<br />

la “Yeshiva” di Gerusalemme. <strong>La</strong><br />

frequenta per un po’. L’impatto è duro.<br />

Troppo fanatismo. Ne esce quasi subito.<br />

Si iscrive alla facoltà di Scienze di Tel<br />

Aviv. Si laurea in chimica dopo tre anni.<br />

Va dove l’occasione di lavoro lo porta: a<br />

Sebastia, in Samarìa, uno dei primi insediamenti<br />

della West Bank, dove insegna<br />

scienze. Frequenta un gruppo religioso<br />

più morbido della “Yeshiva”. Scopre la<br />

Torah. Si trasferisce di nuovo: a Beit<br />

Shaen, dove conosce e sposa Sara Baron,<br />

biologa di origini tunisine, figlia di un<br />

rabbino di Djerba. Non sono soddisfatti<br />

del luogo in cui vivono. Decidono di trasferirsi<br />

ancora: nel Sud, ad Ashkelon,<br />

nella casa dei genitori di lei.<br />

Dice Caim: «Ora so che ogni passo del<br />

mio vagabondaggio mi avvicinava sempre<br />

di più alla meta finale». Perché Ashkelon<br />

è a meno di quaranta chilometri dal<br />

Gush Katif dove, dagli anni successivi alla<br />

guerra dei Sei giorni, sono sorti in terra<br />

palestinese i primi insediamenti, moltiplicatisi<br />

alla fine degli anni Settanta per<br />

l’incoraggiamento e gli incentivi economici<br />

dei vari governi israeliani.<br />

Nell’86 nasce il primo figlio, Jonatan;<br />

nell’88, la seconda, Murìa. Caim, in quella<br />

fine anni Ottanta, impiegato come<br />

chimico in una fabbrica di formaggi e gelati,<br />

avverte che il tempo è arrivato. È ora<br />

di andare. Trasferimento a Gan Or, in<br />

terra d’altri: quale la motivazione principale,<br />

quella decisiva per una scelta del<br />

genere? Queste le parole: «<strong>La</strong> spinta fon-<br />

Klein ha 55 anni e viene dall’Ungheria. I suoi genitori,<br />

sopravvissuti all’Olocausto, sono emigrati<br />

in Israele per sfuggire al comunismo. Ha combattuto<br />

due guerre, fatto l’hippy e infine ha trovato la “strada<br />

della fede” che lo ha portato a Gush Katif. <strong>La</strong> sua storia<br />

è la storia di questa terra tormentata e di una pace difficile<br />

L’esodo infinito di Caim<br />

“Ma questa è casa mia”<br />

damentale è stata ideologico-religiosa:<br />

venire a vivere ad Ezre Ysrael, la Terra<br />

Promessa. Ho scoperto tardi la religione.<br />

Ho vissuto senza regole la mia giovinezza.<br />

Eppure, ho sempre avuto dentro<br />

un’inquietudine che mi ha portato a girare<br />

in Europa e per Israele. Sono anche<br />

tornato in Ungheria perché pensavo che<br />

avrei potuto trovare qualcosa che mi illuminasse<br />

o mi fermasse. In fondo, là<br />

erano nati i miei genitori, là erano tornati<br />

dopo l’Olocausto e là sono nato io. Mi<br />

sono sentito straniero. Solo ora capisco<br />

di vivere nella mia terra, la terra del popolo<br />

cui appartengo».<br />

Inutile ribattere sull’illegalità degli insediamenti.<br />

Diverse le domande, identica<br />

la risposta. Caim ripete che i luoghi del<br />

Gush Katif sono indicati nella Torah come<br />

parte di Ezre Ysrael. Che anzi, secondo<br />

il libro sacro, sarebbe ben più vasta<br />

dell’attuale, territori occupati compresi.<br />

E ciò vale come sentenza definitiva e<br />

inappellabile. Come dicevano nella Roma<br />

papalina: ego locutus, causa finita.<br />

Con l’ideologia e la religione si poteva<br />

pagare anche il conto al negozio? Po-<br />

‘‘<br />

<strong>La</strong> spinta che mi ha<br />

condotto qui è stata<br />

ideologica<br />

e religiosa: volevo<br />

venire a vivere<br />

nella Terra promessa<br />

tremmo rispondere di sì. Il governo dà a<br />

Caim dieci dunam (ettari) e 74mila dollari.<br />

Dei quali, tre quarti a fondo perduto,<br />

un quarto da restituire in blocco al termine<br />

del venticinquesimo anno. Sono<br />

soldi che non passano per le sue mani:<br />

l’apposito ministero pagherà direttamente<br />

i fornitori di sementi, attrezzi, fertilizzanti<br />

e anticrittogamici comprati da<br />

Caim. In più c’è una casetta di 70 metri<br />

quadri per la quale non c’è affitto da pagare.<br />

Il resto è una distesa di sabbia. Lui<br />

comincia con l’attrezzare quattro dunam<br />

per la coltivazione di ortaggi. Tradotto<br />

in opera, significa costruire le serre<br />

con relativi impianti di irrigazione.<br />

Racconta: «<strong>La</strong>voro duro all’inizio, sveglia<br />

prima dell’alba e a letto con le galline».<br />

<strong>La</strong>voro duro, ma risultato assicurato.<br />

Non ci sono incognite nella vendita<br />

dei prodotti: una compagnia compra, fin<br />

dalla semina, l’intero raccolto per l’esportazione.<br />

Dopo Jonatan e Murìa, nasce<br />

Elia, che ora ha 15 anni. Gli affari vanno<br />

bene. <strong>La</strong> moglie apre, con un proprio<br />

marchio, un negozietto di abbigliamento<br />

per bambini. <strong>La</strong> casa viene allargata a


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 25 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

240 metri quadri. Altra terra viene comprata,<br />

altre serre costruite. In tutto questo<br />

tempo ciò che accade in Palestina, gli<br />

attentati in Israele, gli attacchi agli insediamenti<br />

sembrano non incrinare le certezze<br />

di Caim, appena lambito dai frangenti<br />

delle esistenze altrui, assorto invece<br />

nel radicamento a Gan Or, nell’incremento<br />

della sua azienda. Sì, gira con la pistola<br />

nella fondina ma da tempo si è abituato<br />

agli spari nella notte, alla caduta di<br />

qualche razzo. Mai avuto ripensamenti,<br />

il rimpianto per una vita dal futuro più<br />

certo e meno opprimente di quello rinchiuso<br />

dietro reti e filo spinato? «Mai».<br />

Cresce, con la fattoria, anche la famiglia.<br />

Nel ‘98 nasce il quarto figlio, Johanan.<br />

Dunque, a fine parabola, tra questi<br />

volti e questo cielo che li ha consumati<br />

non abbiamo trovato l’ombra di un dubbio<br />

cui appendere un pensiero differente,<br />

solo verità che non si toccano con<br />

mano. Ma anche verità che le mani le<br />

hanno riempite di frutti. Caim è arrivato<br />

a Gan Or ricco solo delle sue convinzioni,<br />

da lui stesso definite ideologico-religiose.<br />

Oggi, sulla soglia della partenza,<br />

GLI SGOMBERI<br />

Domani inizierà la fase decisiva<br />

degli sgomberi, chiamata in codice “Mano<br />

tesa ai fratelli”: i soldati israeliani<br />

andranno nelle case dei coloni<br />

della striscia di Gaza per convincerli<br />

a partire.Da martedì, infine, i soldati<br />

potranno usare la forza. Gli sgomberi<br />

sono previsti dal piano di pace<br />

del febbraio 2004, per il quale Israele<br />

evacuerà ventuno insediamenti,<br />

ricollocando circa ottomila coloni<br />

Caim possiede<br />

venti dunam, dieci in<br />

più dell’inizio, di cui tredici<br />

coperti da serre. Forse ha anche<br />

un discreto conto in banca, a giudicare<br />

dalla vita parca cui qui si è costretti,<br />

volenti o nolenti, e dal desco assai frugale.<br />

<strong>La</strong> compagnia americana che compra<br />

le serre per rivenderle ai palestinesi gli<br />

pagherà, tredici dunam per quattromila,<br />

52mila dollari. Altri 500mila per la terra,<br />

la casa e l’avviamento del negozio. C’è di<br />

che ricominciare.<br />

Non sa, lui, dove andrà ad abitare. Nell’immediato,<br />

dalla sorella della moglie vicino<br />

ad Ashkelon. Poi? Caim allarga le<br />

braccia. Eppure da questa incertezza s’è<br />

già delineato un profilo di programma.<br />

Lui tecnico di computer: è già un esperto<br />

digitatore e dell’agricoltura ne ha abbastanza,<br />

pesando gli anni. Sara in società<br />

con la sorella, che ha un allevamento di<br />

galline: potrebbero ingrandirlo. Ovviamente,<br />

se Dio vorrà, o non lo spingerà altrove.<br />

Magari in Cisgiordania.<br />

ALBUM DI FAMIGLIA<br />

Qui sopra, Caim Klein<br />

oggi davanti<br />

alla sua casa<br />

di Gush Katif;<br />

dietro, altre<br />

due immagini<br />

dell’insediamento<br />

di Gush Katif<br />

e, al centro,<br />

Caim con la divisa<br />

dell’esercito israeliano<br />

durante la guerra<br />

del Kippur.<br />

Nelle altre foto,<br />

da sinistra in basso<br />

in senso orario: Jacob,<br />

Juda e Vera, i fratellastri<br />

di Caim uccisi<br />

ad Auschwitz;<br />

Caim bambino;<br />

uno zio<br />

che combattè<br />

contro i franchisti<br />

e che fu ucciso<br />

nella guerra<br />

di Spagna;<br />

Mordechi Klein<br />

e Stefania Frankl<br />

con la piccola Rachel;<br />

Caim e Rachel;<br />

Caim con i genitori<br />

ormai anziani;<br />

Caim il giorno<br />

delle nozze<br />

con Sara Baron<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25<br />

Bulldozer-Sharon<br />

una sfida mortale<br />

SANDRO VIOLA<br />

(segue dalla copertina)<br />

Davanti al King David, il vecchio e<br />

leggendario albergo di Gerusalemme,<br />

una ventina di attivisti del<br />

movimento dei coloni, anziani, giovani e<br />

adolescenti, inalberano cartelli con su<br />

scritto «Sharon dittatore» o «Sharon traditore»,<br />

e distribuiscono volantini contro<br />

il ritiro da Gaza. Ma se si percorrono<br />

due o trecento metri nelle strade lì intorno,<br />

sui muri si vedono scritte più impressionanti:<br />

«Sharon, farai la fine di Rabin»,<br />

«Preghiamo per la morte di Sharon», «Attento<br />

Sharon, abbiamo più armi dei<br />

combattenti del ghetto di Varsavia». E<br />

poi la scritta più torva e incivile di tutte:<br />

«Lily t’aspetta», Lily essendo stato il nome<br />

della moglie, morta anni fa, di Sharon.<br />

Sono slogan non tanto spontanei o puramente<br />

emotivi, visto che a suggerirli —<br />

dopo averli spulciati da una qualche tortuosa<br />

interpretazione dei testi sacri —,<br />

sono le decine di rabbini che appoggiano,<br />

infiammano, la battaglia dei coloni.<br />

Gli stessi rabbini, per intenderci, che avevano<br />

avuto a lezione Natan Zada, il soldato<br />

diciannovenne che dieci giorni fa è<br />

salito su un autobus pieno di arabi e s’è<br />

messo a sparare. Gli stessi che in queste<br />

ore incitano i soldati e gli ufficiali, che da<br />

mercoledì prossimo dovranno portar via<br />

con la forza i coloni da Gaza, a disubbidire<br />

agli ordini dello stato maggiore.<br />

Adesso che gli attentati degli integralisti<br />

palestinesi si sono drasticamente ridotti,<br />

in Israele il turismo è tornato fluviale.<br />

Così che l’altra sera, vedendo<br />

un’interminabile fila di gente che entrava<br />

dalla porta di Jaffa nella città vecchia,<br />

avevo creduto si trattasse di turisti diretti<br />

a uno spettacolo di<br />

Sons et Lumiéres attorno<br />

alla Torre di David.<br />

Erano invece oppositori<br />

del ritiro da Gaza, religiosi<br />

e laici (gli uni in<br />

abiti neri e cappello a<br />

staio, gli altri in t-shirt e<br />

sandali) che andavano<br />

al Muro del pianto. Settantamila<br />

persone ammassate<br />

l’una sull’altra<br />

nel grande slargo antistante<br />

il Muro, gli slogan<br />

contro Sharon che risuonavano<br />

a ondate, il CONTRO IL PREMIER<br />

traffico bloccato — auto Una manifestazione<br />

della polizia comprese di protesta contro il premier<br />

— in mezza Gerusalem- israeliano Ariel Sharon<br />

me. E a Tel Aviv, giovedì<br />

sera, erano centocinquantamila: come<br />

dire, in un paese con la popolazione dell’Italia,<br />

un milione e seicentomila.<br />

Su questo sfondo concitato, mentre i<br />

coloni di Gaza hanno già ricevuto l’ordine<br />

di sgombero, quel che viene continuamente<br />

a galla è l’enigma Sharon. L’oscurità<br />

che avvolge la sua spettacolare inversione<br />

di rotta. Perché le stesse folle<br />

che oggi lo maledicono, sino a due anni<br />

fa tripudiavano ad ogni sua comparsa,<br />

parola o gesto. Lo osannavano, cantavano<br />

esaltate «Ariel, sei il re d’Israele». Mi<br />

viene in mente una conversazione avuta<br />

verso la fine dei Novanta a Kiryat Arba,<br />

una grossa colonia di fronte a Hebron. Il<br />

capo dell’insediamento, un ortodosso<br />

del Gush Emunim, lo chiamava «il bulldozer».<br />

E per un tratto della chiacchierata<br />

avevo pensato che col termine «bulldozer»<br />

l’uomo si riferisse alla stazza fisica<br />

di Sharon. Ma non era così: i coloni<br />

chiamavano Sharon «il bulldozer» perché<br />

sbancava dappertutto terreni, scavava<br />

fondamenta, e costruiva senza interruzione<br />

le colonie ebraiche nei Territori<br />

occupati.<br />

Trent’anni trascorsi ad impiantare<br />

sempre nuovi insediamenti, e sempre<br />

più in avanti, più addentro la Palestina,<br />

lungo i crinali delle alture in Giudea e Samaria,<br />

sinanche nelle zone più popolate<br />

dai palestinesi. Perché fosse chiaro a tutti<br />

che la realtà delle colonie nelle terre bibliche<br />

era ormai definitiva, irrevocabile.<br />

Nei fatti un’annessione, da far ingoiare<br />

un giorno o l’altro alla comunità internazionale.<br />

Come ministro volta a volta dell’Agricoltura,<br />

dell’Ambiente, delle Infrastrutture,<br />

della Difesa, Sharon s’era infatti<br />

assunto il ruolo del Grande Costruttore.<br />

E i risultati sono noti. Quand’egli<br />

andò al potere nel ‘77 con il Likud di Begin,<br />

in Cisgiordania c’erano infatti novemila<br />

coloni: adesso ce ne sono duecentotrentamila.<br />

Con quanta prontezza e violenza ha<br />

reagito in questi trent’anni ad ogni ipotesi<br />

o proposta d’un ritiro — anche limitato<br />

— dai Territori. Prendiamo per esempio<br />

Gaza. Un piano d’evacuazione da Gaza<br />

lo aveva avanzato nel 2002 l’allora leader<br />

dei laburisti, Amram Mitzna. Sharon<br />

lo aveva respinto ruggendo come un leone.<br />

È vero che quale ministro della Difesa<br />

era stato lui a organizzare nell’aprile<br />

dell’82, dopo la firma del trattato di pace<br />

con l’Egitto, la ritirata dal Sinai e lo smantellamento<br />

della colonia di Yamit. Ma ad<br />

imporre il ritiro era stato Begin, il primo<br />

ministro, e i coloni non costituivano ancora<br />

nella vita politica del paese il formidabile<br />

gruppo di pressione che sarebbero<br />

divenuti in seguito. In ogni caso,<br />

sgombrato l’ultimo ebreo dal Sinai, Sharon<br />

presentò al Parlamento una risoluzione<br />

che vietava ai governi futuri di progettare<br />

altri ritiri dalle colonie dei Territori<br />

occupati.<br />

Poi, poco più d’un anno fa, ecco la<br />

svolta. Il piano di ritiro da Gaza e da quattro<br />

piccoli insediamenti in Samaria: via<br />

tutto, postazioni militari, colonie e coloni.<br />

Decisione «unilaterale», e dunque<br />

senza alcun negoziato o accordo con i<br />

palestinesi. <strong>La</strong>sciamo per ora da parte le<br />

ragioni, che restano incerte e in gran parte<br />

riposte, della scelta di Sharon. Il fatto è<br />

che l’annuncio del piano ha rivoltato la<br />

società israeliana come un calzino. I sostenitori<br />

di Sharon, le destre e i coloni,<br />

sono adesso i suoi avversari, e i suoi avversari<br />

— la sinistra, i pacifisti — si sono<br />

trasformati in sostenitori. Ricordo verso<br />

la fine dell’anno scorso gli incontri con<br />

alcuni vecchi conoscenti, intellettuali di<br />

Peace now e della sinistra laburista, nei<br />

soliti caffè della German colony o di Ben<br />

Yehuda. I loro discorsi imbarazzati. Il loro<br />

disagio nel trovarsi, dopo trent’anni di<br />

critiche spietate, a parteggiare<br />

per Ariel Sharon.<br />

E questo mentre a<br />

Gaza e in Cisgiordania il<br />

movimento dei coloni si<br />

preparava a dare battaglia<br />

contro il suo vecchio<br />

idolo.<br />

Così, più che divisa, la<br />

società israeliana appare<br />

oggi letteralmente spaccata.<br />

<strong>La</strong> verità è che la<br />

FOTO REUTERS<br />

gran parte degli israeliani<br />

non avevano voluto<br />

vedere né sentire quel<br />

che avveniva nei territori<br />

occupati. Quali abusi<br />

gravissimi venissero regolarmente<br />

compiuti dai<br />

coloni. Le spedizioni che<br />

facevano per impedire le raccolte nelle<br />

piccole proprietà palestinesi, così da far<br />

marcire olive, frutta e verdure sugli alberi<br />

o nei campi. Le greggi sgozzate, le prepotenze<br />

ai posti di blocco e nei mercati,<br />

le acque dirottate. Né a patire l’arroganza<br />

dei coloni erano solo i palestinesi. Erano<br />

anche le strade d’Israele ad essere<br />

ostruite, sparse di copertoni bruciati,<br />

ogni volta che i coloni manifestavano per<br />

qualche loro rivendicazione, sussidi,<br />

nuove costruzioni, altri privilegi.<br />

Se da una parte gli israeliani preferivano<br />

non vedere (e i media, la tv soprattutto,<br />

favorivano la rimozione), dall’altra i<br />

partiti politici si disputavano il voto dei<br />

coloni. Così il loro movimento non ha<br />

fatto che crescere. Vi sono confluiti i resti<br />

del vecchio sionismo religioso, il nazionalismo<br />

oltranzista che s’era sempre opposto<br />

alla spartizione della Palestina, e<br />

nei primi Ottanta la corrente anti-araba,<br />

razzista, del rabbino americano Meir<br />

Kahane. E ne è scaturito un fondamentalismo<br />

parente stretto di quello islamico. I<br />

governanti e l’opinione pubblica avrebbero<br />

dovuto prendere le distanze, impedire<br />

che il peso politico delle colonie e dei<br />

coloni aumentasse sino a rappresentare<br />

un pericolo per la democrazia d’Israele.<br />

Non l’hanno fatto, e oggi il bubbone non<br />

si può più incidere.<br />

Quanto alla questione della pace, d’un<br />

processo negoziale che dopo l’uscita da<br />

Gaza conduca all’evacuazione d’una<br />

gran parte almeno, se non di tutta, la Cisgiordania<br />

— così consentendo la nascita<br />

d’uno Stato palestinese—, quel che è<br />

successo in queste settimane induce<br />

una volta di più al pessimismo. Se lo<br />

sgombero di ottomila coloni da Gaza ha<br />

fatto addensare su Israele le ombre d’una<br />

guerra civile, cosa succederebbe infatti<br />

al momento di sgombrarne centocentoventimila<br />

dalla Giudea e dalla Samaria?


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 26 14/08/2005<br />

Antiche<br />

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

il reportage<br />

Tradizioni artigiane<br />

CONCITA DE GREGORIO<br />

Nella città spagnola dove secoli fa i cavalieri venivano<br />

a cercare “Excalibur” e dove oggi i toreri si procurano<br />

gli “estoques”, la produzione di lame pregiate è diventata<br />

un lavoro di donne. Sono le tre sorelle Martìn - Margarita,<br />

Ascensiòn e Maria del Pilar - a mandare avanti la gloriosa<br />

officina Bermejo che ancora fornisce 62 eserciti<br />

Toledo, il mestiere delle spade<br />

TOLEDO<br />

Margarita Martìn, cinquanta<br />

passati, ha<br />

un bolerino rosa e<br />

dei jeans rosa attillati<br />

ton sur ton. Sale le scale e si affatica<br />

un po’, «fumo troppo». Poi riparte,<br />

passa in rassegna i reparti, fa gesti muti<br />

agli operai che d’altra parte non potrebbero<br />

sentirla: il rumore di lame è<br />

un clangore di battaglia che si mescola<br />

coi soffi e gli sbuffi delle macchine.<br />

Fiamme, fumi,<br />

odore di fuoco.<br />

Uomini dentro<br />

scafandri che maneggiano<br />

pinze<br />

incandescenti. <strong>La</strong><br />

signora, piccola e<br />

svelta, ci passa in<br />

mezzo come fosse<br />

in cucina e si raccomanda<br />

molto<br />

con l’ospite: attenta<br />

qui, non si<br />

tagli. Non tocchi la<br />

vasca, è rovente.<br />

Stia lontana dal<br />

forno. Attenta alle<br />

scintille, si potrebbe<br />

sciupare il<br />

vestito. L’acciaio<br />

brunito macchia e poi ci vuole il limone<br />

per toglierlo. Limone e mezza giornata<br />

ad asciugare al sole.<br />

Si chiude la porta sull’inferno in miniatura,<br />

si torna nel patio. Il cortile interno<br />

è verde e ombroso. Smerli di castello,<br />

azulejos e fiori, una fontana. Silenzio.<br />

«Qui da bambine le mie sorelle<br />

ed io giocavamo alle principesse.<br />

Guardi, quella è la Puerta del Sol da dove<br />

entrarono Alfonso VI e il Cid Campeador<br />

quando presero la città ai Mori.<br />

Questa è la moschea, laggiù la sinagoga.<br />

Qui sotto la porta di Carlo V imperatore.<br />

Noi ci mascheravamo con gli<br />

I maestri fabbri<br />

spiavano il momento<br />

di battere l’acciaio<br />

guardando il colore<br />

rosso tizzone,<br />

porpora del re,<br />

rosso sangue,<br />

rosso tramonto...<br />

stracci e aspettavamo il principe che<br />

avrebbe scelto la più bella e l’avrebbe<br />

salvata. Le nostre vicine sono le suore<br />

carmelitane, vede? <strong>La</strong> sera escono a<br />

curare l’orto e quando fa buio si sentono<br />

pregare: fanno un mormorio che<br />

sembra d’acqua». Si vedono, sì, le carmelitane.<br />

Al di là delle tende del convento,<br />

ombre minuscole dietro alle finestre<br />

chiuse.<br />

In un tempo lontano, molto molto<br />

lontano, tanti secoli prima che la gloriosa<br />

fabbrica di spade Bermejo esistesse,<br />

i cavalieri venivano a Toledo<br />

da tutta la Spagna perché le acque del<br />

fiume Tago erano<br />

una leggenda: loro<br />

sole, si diceva,<br />

potevano raffreddare<br />

il conio di<br />

una lama così da<br />

renderla invincibile.<br />

Arrivavano a<br />

cavallo fin qui a<br />

cercare “Excalibur”,<br />

c’erano<br />

maestri fabbri che<br />

sapevano riconoscere<br />

la temperaturadell’acciaio<br />

e<br />

dunque il<br />

momento di<br />

batterlo sologuardando<br />

il colore della lama incandescente:<br />

rosso tizzone, porpora<br />

del re, rosso sangue, rosso<br />

tramonto. Ancora oggi si<br />

dice così, la scala dei colori del<br />

fuoco è questa. Poi i signori<br />

raffreddavano il lavoro che gli<br />

veniva consegnato affondandolo<br />

nel corpo muscoloso di<br />

uno schiavo, dicono i testi<br />

conservati al museo. Le illustrazioni,<br />

sui libri, indugiano<br />

sui dettagli. I più generosi risparmiavano<br />

le vite e bagnavano<br />

la lama con l’urina di capra. A<br />

quel punto di nuovo bisognava<br />

scaldarla: sarebbe stata pronta solo<br />

quando al contatto con il corno di un<br />

toro avesse cambiato colore. C’è un<br />

modo di dire altrimenti incomprensibile,<br />

qui in Spagna: «C’è puzza di corno<br />

bruciato», dicono le donne di casa<br />

quando qualcosa si attacca nella pentola.<br />

Le corna nel resto del mondo<br />

non bruciano. A Toledo sì, da secoli.<br />

Lo sapeva Carlo Magno. Lo sapeva<br />

Shakespeare quando ha scritto l’Otello<br />

e naturalmente lo sapeva Cervantes,<br />

Don Chisciotte è nato qui.<br />

Lo sa Margarita Martìn, quieta madre<br />

di famiglia ed erede del fondatore,<br />

Vicente Martìn Bermejo. All’una in<br />

punto, quando la fabbrica Bermejo fa<br />

suonare la sirena di fine turno, da quasi<br />

cent’anni le donne del quartiere<br />

sanno che è l’ora di mettere le patate a<br />

lessare. Di buttare la pasta, diremmo<br />

noi. Vicente, il nonno di Margarita,<br />

aprì qui il suo laboratorio di maestro<br />

d’armi nel 1910: il terreno glielo aveva<br />

regalato la suocera (Margarita, naturalmente)<br />

con matriarcale lungimirante<br />

senso pratico, così che il genero<br />

nullatenente potesse mettersi all’opera<br />

e mandare avanti la famiglia. Cominciò<br />

da solo, col suo basco in testa:<br />

gli uffici sono pieni di foto di questo<br />

ometto minuscolo che esamina i ferri<br />

come fosse Picasso.<br />

Sarà così per pochi giorni ancora. A<br />

Ferragosto si chiude per ferie e a settembre<br />

— racconta la signora in rosa,<br />

gli occhi realmente pieni di lacrime —<br />

si riaprirà in un capannone di là dal<br />

fiume Tago, in periferia. «Un luogo a<br />

norma, che ci consenta di essere ancora<br />

competitivi perché ora che sono arrivati<br />

i cinesi non basta più la qualità.<br />

Ci vuole l’efficienza, la quantità e il<br />

basso costo. Non mi ci faccia pensare<br />

che non mi voglio intristire. Davvero<br />

non riesco ancora a credere che ce ne<br />

andremo da qui». Però i cinesi, certo.<br />

Le imitazioni made in Taiwan hanno<br />

rovinato il mercato: ormai delle cose<br />

conta solo l’aspetto, non la sostanza, e<br />

se la qualità delle lame da dieci euro è<br />

pessima, pazienza: la gente comunque<br />

compra quelle. Ci vuole l’intenditore<br />

per cogliere la differenza, ci vuole<br />

un professionista e non un turista per<br />

decidere di spendere seicento euro invece<br />

di sei per un “estoque” da torero.<br />

Margarita sospira: che ne sarà di noi.<br />

Il mestiere delle armi a Toledo è oggi<br />

un mestiere di donne. Le tre sorelle<br />

Martìn — Ascensiòn e Maria del Pilar,<br />

le altre — hanno ereditato una fabbrica<br />

che fornisce spade scimitarre e pu-<br />

Europa<br />

ELSA<br />

Difende la mano<br />

che impugna la spada<br />

<strong>La</strong> sua particolare forma<br />

“a campana” serve<br />

a deviare i colpi avversari<br />

L’elsa a crociera, tipica<br />

delle spade più antiche,<br />

ha anche una traversa<br />

difensiva di metallo<br />

IMPUGNATURA<br />

Ha un profilo zigrinato<br />

per garantire una presa<br />

più sicura. Le dimensioni<br />

dell’impugnatura variano<br />

a seconda della lunghezza<br />

e del peso della lama. Spesso<br />

è protetto da un coprimano,<br />

una striscia di metallo ricurva<br />

che collega elsa e pomo<br />

POMO<br />

È la parte terminale<br />

della guardia. Protegge<br />

l’impugnatura dai colpi<br />

provenienti dal basso<br />

e impedisce alla mano<br />

di scivolare. Può essere<br />

utilizzato anche<br />

per colpire direttamente<br />

l’avversario<br />

LAMA<br />

Può essere curva o<br />

dritta, a doppio taglio<br />

o con una sola<br />

affilatura. Il tratto<br />

più vicino alla punta<br />

è detto foible, e si<br />

distingue dalla zona<br />

in prossimità<br />

dell’elsa (forte)<br />

per spessore<br />

e larghezza. <strong>La</strong> parte<br />

senza affilatura<br />

si chiama ricasso<br />

gnali a sessantadue eserciti del globo.<br />

I Marines, la Us Navy e la Guardia Vaticana<br />

tra questi, oltre che “estoques”<br />

da torero a tutti i matadores di Spagna.<br />

Gli “estoques”, spade sottili che<br />

uccidono di punta e non di lama, sono<br />

elegantissimi e di una bellezza estetica<br />

che fa dimenticare a cosa servono:<br />

impugnatura rivestita di tela rossa,<br />

pomello d’oro. I toreri, la cui superstizione<br />

è leggendaria, vengono a sceglierli<br />

personalmente: seguono la lavorazione,<br />

curano l’inclinazione della<br />

lama colpo su colpo di martello. <strong>La</strong><br />

curva della lama si chiama, nel linguaggio<br />

degli artigiani, la “morte”.<br />

Non c’è torero che non passi da Toledo,<br />

dai Bermejo.<br />

«Io avevo sposato un avvocato, mia<br />

sorella un fisico nucleare e l’altra un<br />

economista. Mio padre seguiva la fabbrica<br />

e quando è mancato, a 57 anni,<br />

abbiamo dovuto decidere: potevamo<br />

chiudere, ma avevamo cinquanta<br />

operai. Cinquanta famiglie. Che<br />

si faceva? Si mandavano a casa?<br />

Così sono rimasta io. Poi mio<br />

cognato, il fisico, ha deciso<br />

di venire a dare un’occhiata.<br />

Si è innamorato<br />

di questo lavoro,<br />

adesso<br />

l’amministrato-<br />

Spagna e Portogallo


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 27 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

re è lui. I nostri figli, i miei tre e i tre miei<br />

nipoti, fanno mestieri più redditizi di<br />

questo. Delle spade si vive appena: i<br />

costi sono altissimi e i guadagni incerti.<br />

Sa che davvero a volte arriviamo a fine<br />

mese a stento? Fare l’avvocato rende<br />

molto di più, però certo, con che<br />

cuore, con che anima si può archiviare<br />

una storia così? Possiamo chiudere<br />

Bermejo? Non credo, davvero. Comunque:<br />

non io».<br />

Il cuore e l’anima, ecco. Le<br />

lame di Toledo raccontano<br />

storie di eserciti di mori<br />

assediati dai cattolici, di<br />

cavalieri leggendari e<br />

imperatori, di morti<br />

all’arma bianca<br />

tra i vicoli del<br />

ghetto. Isabella<br />

la Cattolica<br />

—<br />

di cui<br />

Stati Uniti e Messico<br />

qui in cattedrale<br />

si<br />

celebrano<br />

ora con<br />

una mostrasontuosa<br />

i 500<br />

anni dalla morte<br />

— aveva una sua<br />

spada, le serviva per<br />

ordinare i cavalieri e gli<br />

hidalgos che mandava<br />

a conquistare le Americhe,<br />

per varare con solennità<br />

gli editti con cui cacciava<br />

dalla Spagna gli ebrei e le loro<br />

ricchezze, i loro talenti. Ha<br />

una spada in mano San Paolo nel<br />

ritratto custodito nella casa di Domenico<br />

Theotokopoulos, pittore cresciuto<br />

a Roma alla scuola di Tiziano e<br />

venuto qui a vivere e morire, nato a<br />

Creta però e perciò chiamato il greco,<br />

El Greco. Hanno spade nei foderi i<br />

soldati della sua crocifissione, custodita<br />

nella sacrestia del Duomo: Tiziano<br />

Tintoretto Caravaggio, un piccolo<br />

Louvre sistemato alla buona nelle<br />

stanze sul retro, uno spettacolo da levare<br />

il fiato e sono solo gli avanzi di<br />

quel che è stata la ricchezza dei Re<br />

cattolici. È affilato e grigio come una<br />

spada il cristo in croce della Cattedrale.<br />

Ci sono spade disegnate sulle porte<br />

di legno, in città, negli stemmi di<br />

pietra. È una miniatura della spada<br />

del Cid il tagliacarte che centinaia di<br />

turisti arrivati in torpedone da Madrid<br />

comprano per diciannove euro e<br />

novanta e portano in America, in<br />

Giappone. Nell’anno mille in questa<br />

città vivevano insieme la sensualità<br />

degli arabi, l’intelligenza degli ebrei e<br />

il raziocinio dei cattolici: chiese di<br />

tutti i culti raccontano un medioevo<br />

luminoso e una convivenza possibile.<br />

All’ombra delle armi, certo: migliaia e<br />

migliaia di spade custodite nella fortezza<br />

dell’Alcazar. Però poi l’odore<br />

dolce del capretto, la sera, i ricami di<br />

pietra alle finestre.<br />

Dice Margarita che la sapienza segreta<br />

dell’arte delle spade risiede in<br />

principio nell’acqua e nella sabbia del<br />

Tago. È vera la leggenda. C’è qui una<br />

sabbia particolarmente ricca di un mi-<br />

IL MANUALE<br />

Una sequenza<br />

di scene illustrative<br />

da un manuale<br />

sull’arte del duellare<br />

stampato e diffuso<br />

nel diciottesimo secolo<br />

SFIDA NEL BOSCO<br />

Un singolare duello<br />

tra dame che si sfidano<br />

all’alba nel bosco<br />

L’immagine è francese<br />

dei primi anni<br />

del Novecento<br />

nerale chiamato wolframio, e c’è l’acqua<br />

salina del fiume che fa da buon<br />

conduttore al momento di forgiare le<br />

lame. «Noi i ferri li lavoriamo soltanto:<br />

l’acciaio non lo facciamo qui, ci arriva<br />

dai Paesi baschi. Qui lo forgiamo, gli<br />

diamo forma e resistenza, potenza ed<br />

elasticità. <strong>La</strong> materia prima non è nulla<br />

senza la mano che la tratta. È come<br />

avere le uova e pensare di aver già<br />

pronta la frittata», ride. È vero anche<br />

che i cavalieri per raffreddare le loro<br />

lame le bagnassero nel sangue degli<br />

schiavi, o nell’urina. «Ora ci sono le vasche,<br />

vede?».<br />

Bermejo produ-<br />

ce dodicimila spade<br />

all’anno, mille<br />

al mese, quasi cinquanta<br />

al giorno.<br />

Ha contratti in<br />

esclusiva e licenze<br />

per gli eserciti<br />

americano e iracheno.<br />

A luglio ha<br />

chiuso la spedizione<br />

per il Cile, a settembre<br />

si ricomincia<br />

con le spade dei<br />

Marines. «Le committenzeinternazionalicominciarono<br />

nel 1959. Arrivò<br />

a Toledo un<br />

ebreo di Boston,<br />

Sharon Fugger, un tipo bizzarro che<br />

per pranzo voleva solo sardine e uova<br />

sode. Era scappato dai nazisti fuggendo<br />

in Polonia, era passato per la Russia<br />

e la Svezia, infine era arrivato in America.<br />

<strong>La</strong>vorava per l’esercito Usa, procurava<br />

i materiali. Sapeva della tradizione<br />

di Toledo, Alonso Sahagun il<br />

Vecchio d’altra parte è leggendario: un<br />

artigiano del 1500 di cui parlano testi<br />

scritti in caratteri e in idiomi che non<br />

saprei decifrare. Perciò questo strano<br />

signore, Fugger, venne qui a cercare<br />

qualche spada per le uniformi di gala<br />

del suo esercito. Aveva sentito parlare<br />

del maestro Vicente, mio nonno. Gli<br />

chiese in principio dodici pezzi. Furono<br />

cinquanta l’anno dopo, cento quello<br />

dopo ancora». Si passa davanti alle<br />

foto incorniciate ai muri: il nonno, l’omino<br />

con un grande naso e con il basco<br />

in testa, mentre parla con gli operai,<br />

valuta il filo di una lama, accompagna<br />

gli ospiti. «Ha vissuto fino a novant’anni,<br />

stava qui seduto sotto l’albicocco<br />

a raccontarci storie di battaglie.<br />

Ha fatto in tempo a conoscere i<br />

generali della guerra del Golfo e gli<br />

astronauti. John Glenn è venuto qui a<br />

comprare una spada ed è rimasto un<br />

pomeriggio intero. El Buitre è un nostro<br />

caro amico, un collezionista».<br />

Le armi da collezione sono le più<br />

belle e le più care. <strong>La</strong> copia della spada<br />

di Simon Bolivar costa novemila euro:<br />

è fatta d’oro e zirconi, un lavoro delicatissimo<br />

di intaglio. Il laboratorio<br />

delle incisioni è una stanza chiusa, top<br />

secret. «Qualche segreto ce lo dobbiamo<br />

tenere stretto, con tutta la gente<br />

che circola e fa foto non si sa mai…».<br />

Sono le donne a incidere e a dipingere<br />

a mano, pezzo per pezzo. Hanno delle<br />

maschere come quelle delle decalcomanie,<br />

le applicano sulle lame, ci fanno<br />

passare sopra gli acidi con un pennello,<br />

poi scavano con un punteruolo.<br />

Ogni lama passa da trenta mani almeno,<br />

e finisce poi dentro la fodera di<br />

cuoio che un artigiano vicino cuce secondo<br />

la curva voluta con una macchina<br />

a pedali. È così che lievitano i<br />

tempi di fabbricazione, e i costi: 400<br />

euro una spada dei cadetti di West<br />

Point, da 450 in su un “estoque” da torero,<br />

550 la spada adornata di foglie dei<br />

Marines, 6.000 il regalo di Juan Carlos<br />

a Saddam Hussein, la copia di una antica<br />

spada irachena. Per le nozze dell’Infanta<br />

Elena la casa reale ha commissionato<br />

a Bermejo 25 pezzi da collezione,<br />

nell’impugnatura una testa di<br />

leone con occhi di rubino. Senza<br />

prezzo, non è in vendita.<br />

Si è fatta l’ora di pranzo, suona<br />

la sirena. Gli operai escono<br />

togliendosi gli occhiali<br />

e le cuffie, sono quasi<br />

tutti giovani. L’ultima<br />

generazione di<br />

vecchi è andata<br />

in pensione un<br />

anno fa, ne<br />

restano<br />

quattro<br />

p e r<br />

Poi i committenti<br />

raffreddavano<br />

il prodotto<br />

affondandolo<br />

nel corpo muscoloso<br />

di uno schiavo<br />

I più miti usavano<br />

l’urina di capra<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27<br />

passare le consegne. «Questo è un<br />

mestiere che non si impara nelle<br />

scuole, si impara facendolo. Arrivano<br />

che magari hanno studiato da saldatori,<br />

ma saldare un rubinetto non<br />

è come unire alla lama l’impugnatura<br />

del Cid. Ci vuole molto tempo, e i<br />

ragazzi oggi hanno fretta. Non c’è la<br />

fila, no, per venire a lavorare da noi:<br />

sono i figli e i nipoti dei vecchi artigiani,<br />

in genere, che arrivano. Contano<br />

la passione, l’amore della tradizione,<br />

l’orgoglio».<br />

Anche i figli di Margarita, due avvocati<br />

e una veterinaria, si affacciano<br />

ogni tanto. Siedo-<br />

no nel consiglio di<br />

amministrazione<br />

per le riunioni importanti,<br />

sentono<br />

le cose di famiglia.<br />

«Anche mia<br />

figlia, come me, si<br />

è sposata nella<br />

chiesa di cui si vede<br />

da qui il campanile,<br />

Santiago<br />

del Arrabal. I miei<br />

genitori ci vivevano<br />

dietro, in questa<br />

piccola ala<br />

della fabbrica.<br />

Anche a mia figlia<br />

dispiace che ce ne<br />

andiamo da qui,<br />

anche lei veniva a giocare nel patio da<br />

piccola. Chissà che alla fine non scelga<br />

di continuare l’impresa. L’altro<br />

giorno mi diceva: mamma, le nostre<br />

sono armi che non tagliano, non uccidono,<br />

fanno persino tenerezza ora<br />

che i morti li portano le bombe nella<br />

metro. E poi senta, pesano un quintale.<br />

Ci vuole il fisico per alzare una spada<br />

vera. Ecco, vede questa cicatrice<br />

che ho qui? Ne presi una in mano da<br />

bambina e mi cadde sul piede. Stia<br />

molto attenta, anzi. Non tocchi». Se si<br />

esclude la Regina Isabella, non è cosa<br />

da donne maneggiare le spade.<br />

Rustiche


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 28 14/08/2005<br />

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

il racconto<br />

Ferie d’alto mare<br />

<strong>La</strong> post-crociera<br />

festa proletaria<br />

MICHELE SERRA<br />

<strong>La</strong> parola “fame”, qui da noi,<br />

appartiene alla memoria degli<br />

avi e ai film di Franco Citti.<br />

È stata rimpiazzata da<br />

concetti più costumati, come<br />

“appetito”, che apparentano<br />

il gesto di nutrirsi a una garbata convenzione<br />

sociale piuttosto che al bisogno<br />

bestiale di mantenersi in vita.<br />

È dunque con allegro sconcerto che la<br />

odo echeggiare più volte, come leit-motiv<br />

programmatico, nel discorso di benvenuto<br />

ai croceristi (rotta Savona-Barcellona-Casablanca-Canarie-Madeira-Malaga<br />

e ritorno). «Se avete ancora fame…. se<br />

vi resta un po’ di fame… se la fame non è<br />

passata… se siete ancora affamati…»: ecco<br />

l’impulso che dovrebbe condurci, tutti<br />

e millecinquecento, lungo i ponti e le ore<br />

del giorno, i ristoranti e i self-service, i bar<br />

e gli odorosi barbecue allestiti accanto alla<br />

piscina, nella ininterrotta migrazione<br />

in ciabatte che unisce il breakfast al brunch<br />

al lunch alla merenda al dinner al rabbocco<br />

di mezzanotte allo spuntino in discoteca:<br />

sì, mangiare, mangiare continuamente<br />

e molto, onorare l’agio del tutto<br />

compreso e festeggiare il lungo addio<br />

all’indigenza in un fescennino di succhi<br />

gastrici e ganasce, piatti ricolmi, camerieri<br />

prodighi.<br />

Il collante ideologico<br />

è il cibo “tutto<br />

compreso”, una<br />

staffetta ininterrotta<br />

di colazione-brunchlunch-merenda-cenaspuntini<br />

after hours<br />

In principio era un esclusivo ritrovo<br />

di ricchi, poi la tipica vacanza della media<br />

borghesia sportiva, un semilussuoso<br />

petit-tour esotico. Oggi si è trasformata<br />

in una poderosa bolgia di popolo,<br />

un sogno da dèpliant da coronare in massa<br />

Quanto se ne vuole e quando si vuole,<br />

basta studiare giudiziosamente il labirinto<br />

degli orari, sapere che se la cornucopia<br />

del ponte 10 chiude alle cinque è perché<br />

apre quella del ponte 11, oppure basta seguire<br />

il flusso maggioritario della gente,<br />

quasi sempre diretta, a frotte, a nuove<br />

fonti di nutrimento.<br />

È il cibo il collante ideologico (il “comune<br />

sentire”) della crociera. E la motonave<br />

Costa Romantica deve avere stive<br />

incredibili, congelatori ciclopici e cambusieri<br />

più che abili per riuscire a stillare<br />

da ogni angolo montagne di roba da mangiare<br />

(sì, mangiare!) e fiumi di bevande.<br />

Discrasia evidente rispetto al nuovo culto<br />

parco e dietista degli abbienti, dei lettori<br />

di settimanali anche non intelligenti,<br />

del ceto medio oramai conscio che mangiare<br />

all’ingozzo richiama troppo sgarbatamente<br />

il nostro passato plebeo, tanto<br />

che nei ristoranti italiani, anche i più<br />

cheap, quasi nessuno ordina più antipasto<br />

primo secondo e dolce, non fa bene e<br />

non sta bene. È una gloriosa attitudine<br />

proletaria e residuale, quella del cibo eccedente<br />

e gioioso: ed è il primo indizio,<br />

questo, di quanto avessi sbagliato i pronostici<br />

sulla crociera, che ritenevo tipica<br />

vacanza da media borghesia sportiva, semilussuoso<br />

petit-tour per visitatori di<br />

porti e medine, moschee e centri storici, e<br />

invece è una poderosa bolgia di popolo in<br />

ascesa o anche di popolo e basta: sposini<br />

meridionali in viaggio di nozze grazie a<br />

una colletta dei parenti, pensionate che<br />

hanno risparmiato per anni per coronare<br />

il loro sogno da dèpliant, famiglie di operai<br />

e piccoli impiegati.<br />

Indizio implacabile, il numero bassissimo<br />

di passeggeri con un libro o un giornale<br />

in mano, forse uno su cento, e molto<br />

spesso con il Codice da Vinci. (Ne ho visto<br />

uno, un signore sulla cinquantina,<br />

che leggeva Svevo, e volevo proporgli un<br />

ammutinamento). Crudelissima, in<br />

questo senso, una breve scena pomeridiana,<br />

con animatori implacabili che costringono<br />

al Trivial Pursuit un gruppetto<br />

di anziane semiassopite: «Chi è il pittore<br />

contemporaneo famoso per le tele bianche<br />

tagliate?». No, le casalinghe di Voghera<br />

non sono tenute a conoscere Fontana.<br />

Infatti una dice «Giotto», poi si siede<br />

e si mette a ridere. Solo domande su Simona<br />

Ventura e Del Piero, please. Non<br />

sta bene mettere gli incolti di fronte al loro<br />

status: anche se se ne fregano, tutto<br />

sommato.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> crociera è un allestimento scenico<br />

per poveri che almeno dieci giorni all’anno<br />

vogliono sentirsi ricchi: i ponti si chiamano<br />

Montecarlo, Vienna e Verona, ristoranti<br />

e luoghi di riunione Michelangelo<br />

e Brunelleschi e trasudano marmi e ottoni<br />

come la hall di un albergo internazionale<br />

che punta alla clientela araba, il<br />

free-shop ha la sua scintillante vaghezza<br />

aeroportuale, t-shirt, sigarette, orologi,<br />

foulard e chincaglieria, le cabine (la cosa<br />

migliore della nave) sono comode e moquettate<br />

come bomboniere, ottimamente<br />

condizionate, e connesse alla ter-<br />

ra madre dal satellite che infligge il commissario<br />

Rocca anche in pieno Atlantico.<br />

Piccola sbavatura, in questa accurata recita<br />

interclassista: nessun luogo al mondo,<br />

come una grande nave, è così spietatamente<br />

metaforico delle differenze di<br />

censo. Dalle cabine del ponte più basso<br />

(gli inferi) all’empireo dei ponti sommitali,<br />

il prezzo quasi raddoppia, e negli<br />

ascensori, schiacciando il bottone del<br />

ponte di pertinenza, ognuno svela spietatamente<br />

quanto ha speso, e a quale girone<br />

è stato assegnato, se quello nobilmente<br />

affacciato sul Mediterraneo oppure<br />

quello sprofondato nella pancia<br />

oscura della nave.<br />

Un ragazzo del Sud, ricciutello e simpatico,<br />

un po’ Troisi un po’ Ninetto Davoli,<br />

in ascensore mi dice ridendo: «Sto al 5,<br />

ma per non farmi accorgere premo sempre<br />

il 10 e poi scendo per le scale…». Già<br />

tutto ben detto nel Titanic di De Gregori,<br />

prima seconda e terza classe, anche se oggidì<br />

l’abito fa un po’ meno il monaco e in<br />

shorts e maglietta ci si assomiglia tutti. Solo<br />

gli uomini dell’equipaggio si distinguono,<br />

con le uniformi inappuntabili che garantiscono<br />

il superiore decoro delle istituzioni.<br />

Tanto distanti paiono dal brulicante<br />

e sciatto transito della clientela<br />

sbracata, che una signora non particolarmente<br />

perspicace domanda a un ufficiale:<br />

ma voi, dormite sulla nave?<br />

* * *<br />

Chiedersi se sia il glorioso Love Boat a<br />

ispirare il clima e i modi della crociera, o<br />

viceversa il telefilm li abbia mutuati dalla<br />

realtà, è come chiedersi se sia la televisione<br />

lo specchio del popolo, o il popolo<br />

che si conforma al video, per cercare di<br />

esserne degno. L’uovo e la gallina. Sta di<br />

fatto che le signore, quando annotta, si<br />

imbudinano in abitini da sera e fanno la<br />

fila per partecipare al drink con il comandante,<br />

che è l’apogeo dello chic da<br />

crociera anche se cinque o seicento ospiti<br />

per turno non garantiscono intimità,<br />

più che un ricevimento è una Vucciria, e<br />

il comandante, poverello, è pur sempre<br />

uno solo, per quanto alto, abbronzato<br />

e perfino di bell’aspetto.<br />

I turnisti del drink (e di tutto<br />

il resto) non paiono però patire<br />

la carente esclusività dei riti di<br />

bordo, e si ammassano festanti<br />

in code da ufficio postale in<br />

attesa di afferrare il calice di<br />

spumantino, e farsi fotografare<br />

a braccetto con colui che deve<br />

apparire, sotto i lampadari a<br />

gocce e in mezzo a tutti quei<br />

velluti, poco meno di Horace<br />

Nelson. Il brivido marinaro,<br />

per il resto, è affidato a una<br />

squillante prova di evacuazione<br />

della nave, con le sirene e<br />

tutto il resto, che porta ad ammassarsi,<br />

con il giubbotto<br />

arancione, nei punti di ritrovo,<br />

tra schiamazzi e battute su<br />

naufragi e iceberg, abissi e pescecani,<br />

in una parodia dell’emergenza<br />

che almeno instilla<br />

nei partecipanti una vaga percezione<br />

del mare, dello stare in<br />

mare, del temere il mare, che<br />

immenso e silenzioso si apre<br />

alla prua e poi richiude a poppa,<br />

in lontananza, la ferita spumeggiante<br />

della scia.<br />

Già, il mare. Qualcuno, appoggiato<br />

ai parapetti dei ponti più alti,<br />

passa i minuti, il tempo di una sigaretta,<br />

ad osservarlo. Oppure ci si appiccica alle<br />

grandi vetrate delle cabine, come i visitatori<br />

di un gigantesco acquario, e si<br />

cercano nel blu infinito i soliti delfini o la<br />

vaga sagoma di un’isola, o della terraferma,<br />

o il segmento piatto e nero di una petroliera<br />

all’orizzonte. Ma di salmastro e<br />

di marino, a bordo di questo falansterio<br />

alto come un grattacielo, e lungo come<br />

dieci ristoranti messi in fila (tale è), ne arriva<br />

ben poco. In viaggio ci si consola con<br />

le due tinozze quadrate che fanno da piscina<br />

(otto per otto, direi), o con le vasche<br />

di idromassaggio, e si rimanda il contatto<br />

vivo con il mare alle soste, quando una<br />

spiaggia vera sia a portata di gambe (come<br />

a Malaga), o quando le gite in torpedone<br />

prevedano, oltre allo shopping<br />

compulsivo in suk e boutique, anche<br />

una sosta per fare un tuffo vero, finalmente,<br />

in acque vere.<br />

* * *<br />

A parte il cibo, in dose stordente, tutto<br />

FOTO CORBIS<br />

il resto o quasi è extra. Vino e bevande, e<br />

va bene, ma poi il servizio, le gite a terra,<br />

il fitness, internet, ogni leggera deviazione<br />

dal pellegrinaggio continuo in cerca<br />

di nutrimento costa denaro. Si spende,<br />

caricando sulla prestigiosa Costa Card<br />

euro su euro, ma non si sfugge alla severa<br />

sorveglianza del personale amministrativo,<br />

che invita gli spendaccioni a recarsi<br />

all’apposito desk per dimostrare di<br />

avere l’acconcia copertura finanziaria,<br />

cosa che non mi era mai capitata neanche<br />

nei più sgangherati ostelli che frequentavo,<br />

effettivamente squattrinato,<br />

in gioventù. «Lei non ha idea di chi imbarchiamo»,<br />

mi confida un’impiegata<br />

per giustificarsi di fronte alle mie rimostranze<br />

per l’eccessiva pedanteria dei<br />

controlli. «C’è gente che ha scassinato il<br />

frigobar prima di sbarcare. C’è di tutto,<br />

sa, a bordo». Le faccio osservare che la<br />

bassa qualità della clientela non è, per la<br />

precisione, tra gli addebiti che possono<br />

essere mossi a un presunto innocente.<br />

<strong>La</strong> mia replica cade nel vuoto. Far cade-<br />

GIOCHI DI BORDO<br />

Sopra, la sezione<br />

trasversale<br />

dei vapori “Duilio”<br />

e “Giulio Cesare”,<br />

entrati in servizio<br />

negli anni Venti<br />

sulla rotta Europa-<br />

Sudamerica<br />

A sinistra, vignette<br />

di Marcello<br />

Dudovich sui giochi<br />

a bordo<br />

dell’“Augustus”,<br />

e un manifesto<br />

pubblicitario<br />

Le illustrazioni sono<br />

tratte dal libro<br />

“Transatlantici”<br />

di Maurizio Eliseo<br />

e Paolo Piccione,<br />

edito a cura<br />

della Banca Carige


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 29 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

re le repliche nel vuoto dev’essere uno<br />

dei punti forti nell’addestramento del<br />

personale di bordo.<br />

Colgo, nel trascorrere dei giorni, una<br />

certa qual tensione tra clientela e compagnia,<br />

con impiegate transnazionali<br />

pallide e severe, occupatissime a rispondere<br />

«non si può» in tutte le lingue a qualunque<br />

richiesta appena insolita (tipo:<br />

mi hanno rubato il telefonino a Malaga,<br />

potreste per favore bloccare il mio numero<br />

con una telefonata alla Vodafone?<br />

Risposta: non è previsto dalle nostre regole).<br />

Dico che neanche in una pensione<br />

di sest’ordine rifiutano una cortesia a un<br />

cliente in difficoltà, ma capisco di rappresentare<br />

più una turbativa della disciplina<br />

di bordo che un caso di piccola<br />

emergenza. Non sono previsto dai regolamenti.<br />

L’ultimo giorno, però, capisco almeno<br />

in parte la gelida impenetrabilità che<br />

la compagnia oppone alle necessità dei<br />

passeggeri. Alla fila per pagare gli extra<br />

(lunghissima, l’ennesima) se ne aggiun-<br />

ge un’altra, appena più breve, di clienti<br />

che contestano, alcuni sbraitando, l’addebito<br />

di un caffè, o di una minerale.<br />

L’ordinata filiera della Costa Card sbanda<br />

e quasi deraglia mentre clienti e impiegate<br />

spulciano un numero pazzesco<br />

di foglietti di carta questionando sui<br />

centesimi. Il popolo è in subbuglio, quasi<br />

in rivolta, la crapula, vista dalla coda, si<br />

rivela più costosa e disagevole di quanto<br />

immaginato all’imbarco, l’orgia di fotografie<br />

(con il salvagente al collo, con il comandante,<br />

con i vicini di tavola, mentre<br />

si balla il valzer con il cameriere, mentre<br />

si fa il trenino — sì, anche il trenino — tra<br />

le bottiglie scolate) è sfuggita di mano ai<br />

fotografati, forse ne hanno comperate<br />

troppe e non se ne ricordano, comunque<br />

non le vogliono pagare, magari non<br />

possono proprio, spiantati dalla retta di<br />

crociera e con i soldi contati per rientrare,<br />

sui treni disgustosi delle normali tratte<br />

italiane non Eurostar, a casa, e mettere<br />

la foto del comandante accanto a Padre<br />

Pio.<br />

Si risolvono i contenziosi rimediabili,<br />

per gli altri ci sono appositi moduli per<br />

reclamare, la maggioranza inghiotte<br />

(dopo tutto quello che ha inghiottito) la<br />

spina di un conto sfuggito di mano, passarsela<br />

da semi-ricchi, sia pure in una cabina<br />

bassa e senza oblò, non è gratuito, o<br />

forse è tornare a casa e al proprio status<br />

abituale che costa davvero. Battute<br />

scontate tra gli sbarcandi, «la Costa costa»,<br />

ma non è neanche giusto lamentarsi<br />

di quello, quando la sola lamentela lecita,<br />

per capire meglio in quale secca ci si<br />

è arenati, sarebbe domandarsi se è davvero<br />

necessario, per essere felici, fare il<br />

trenino al largo di Madeira.<br />

* * *<br />

Però bellissima la Rocca di Gibilterra,<br />

di notte, uno sperone di luci che squarcia<br />

il nero, e centinaia di navi che suonano la<br />

sirena salutando con un mugghio corale<br />

e struggente il mare domestico e affrontando<br />

l’Oceano, in memoria di quando<br />

l’Atlantico era l’incognito ed era l’addio.<br />

Ora è tutto compreso, bevande escluse.<br />

DONATELLA ALFONSO<br />

GENOVA<br />

«Bourbon, bitter campari, succo<br />

di limone. Tutto nello shaker e poi in<br />

una flute guarnita con fetta d’arancio e<br />

ciliegina». Sorride: «Si chiamava Cocktail<br />

Michelangelo, ovvio. Era rosa, un<br />

po’ amarognolo. Ci ho vinto anche lo<br />

Shaker d’oro a Saint Vincent». Ma Liz<br />

Taylor e Richard Burton al “Michelangelo”<br />

preferivano altro: «Due martini<br />

per aperitivo e poi, dopocena, Dom Perignon<br />

per lei, bourbon per lui. Mai visti<br />

andar via ciondolanti, però. Sorridevano,<br />

tornavano in cabina tranquilli.<br />

Lei una volta mi ha detto: Benito, sai<br />

perché veniamo da te? Perché non ci<br />

guardi nemmeno. E lei era veramente<br />

bella, gentile, morbida, dolce. Era venuta<br />

prima con Eddie Fischer, poi con<br />

Burton. Ma con Fischer faceva un po’ la<br />

star, era più rigida. Con Burton no, era<br />

veramente una ragazza semplice, a suo<br />

agio. Stupenda, sempre».<br />

Succedevano tante cose nei sette bar<br />

della Michelangelo. Benito Cuppari,<br />

capo dei barmen della grande nave per<br />

sette anni («ma in realtà io ci ho lavorato<br />

da prima del varo, avevo collaborato<br />

proprio alla progettazione dei bar, con<br />

gli architetti e gli arredatori») sorride<br />

mentre, dal grande<br />

belvedere affacciato<br />

sulla città<br />

antica guarda il<br />

mare e il porto di<br />

Genova, da dove la<br />

Michelangelo<br />

salpò per la prima<br />

volta quarant’anni<br />

fa, il 12 maggio1965.Prestigioso<br />

imbarco, il<br />

clou della carriera<br />

da barista sull’oceano,<br />

per lui che<br />

dal ‘54 aveva cominciato<br />

ad andare<br />

su e giù per le<br />

Americhe su tutti i<br />

grandi transatlan-<br />

tici italiani: Augustus,<br />

Giulio Cesare,<br />

Leonardo Da<br />

Vinci, Colombo,<br />

Conte Grande,<br />

Raffaello. E Michelangelo,<br />

la più amata. «Era una bella<br />

nave, più bella della Queen Mary. Un<br />

vero albergo a cinque stelle, le lenzuola<br />

di lino cambiate tutti i giorni, la cameriera<br />

che senza bisogno di venire richiamata<br />

andava a prendere lo<br />

smoking e lo faceva trovare pronto in<br />

cabina, perfettamente stirato, insieme<br />

con la frutta sulle fruttiere d’argento. E<br />

ci lavoravano grandi professionisti, a<br />

tutti i livelli: la ristorazione, ad esempio.<br />

Buonissimo il cibo, ricercatissima<br />

la presentazione: in prima classe ogni<br />

piatto arrivava con le campane di servizio<br />

individuali, d’argento. Hanno<br />

raccontato grandi bugie, dicendo che<br />

non si sarebbero più fatte crociere,<br />

l’hanno venduta come ferrovecchio.<br />

Hanno smantellato un patrimonio...<br />

Sì, mi ha fatto male questa fine, e non<br />

solo a me. Al Pier 94 di New York, il molo<br />

di attracco, ho visto piangere i passeggeri<br />

quando ci hanno detto «la nave<br />

torna a Genova e non parte più».<br />

Per i protagonisti del boom italiano<br />

un viaggio sulla Michelangelo, magari<br />

con le attrici e i cantanti da intravedere<br />

giusto al bar o al ristorante, era il segno<br />

della promozione sociale raggiunta.<br />

Loro, le star, solo raramente si concedevano:<br />

«Mi ricordo Petula Clark, che<br />

cantò una sera soltanto per l’equipaggio».<br />

Ma ci fu anche un Burt <strong>La</strong>ncaster<br />

con il mal di mare: «Prendemmo una<br />

tempesta, la nave si inclinò di ventotto<br />

gradi. Lui rimase otto giorni in cabina».<br />

O Renata Tebaldi, regina dell’opera,<br />

«che era completamente succube della<br />

madre: le sceglieva persino il menu».<br />

E Alberto Sordi, celebre anche tra i 720<br />

dell’equipaggio tutto, dal comandante<br />

al mozzo, per una certa difficoltà a<br />

mettere la mano in tasca e trarne qualche<br />

spicciolo. «Ma la cosa che aveva<br />

realmente fatto scandalo è che si facesse<br />

rammendare i calzini dalle cameriere.<br />

Un attore famoso come lui…».<br />

Si pagava in dollari, nei bar, e a parte<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29<br />

Il barista sull’oceano:<br />

ricordo champagne,<br />

attrici e notti bianche<br />

IL COCKTAIL DELL’AMORE<br />

Il bouquet dell’amore, disegnato<br />

da Peynet per Benito Cuppari<br />

le mance le bevande erano l’unica spesa<br />

da prevedere a bordo, perché traversate<br />

e crociere avevano una tariffa tutto<br />

compreso. «Ma i prezzi erano concorrenziali,<br />

tutto fuori dogana. Sessanta<br />

centesimi un cocktail, e una bottiglia<br />

di Dom Perignon per otto dollari». Non<br />

facevano proprio caso ai conti i full<br />

cruisers, quelli che in prima classe non<br />

solo facevano la traversata, ma da un<br />

anno all’altro prenotavano la crociera<br />

di ventuno giorni, la round trip: partenza<br />

e arrivo a New York e nel mezzo Madera,<br />

Algeciras, Palermo, Napoli, Genova,<br />

Cannes, Barcellona, Lisbona. Fedelissimi<br />

anno dopo anno, per sette anni.<br />

«Miliardari certo, californiani soprattutto,<br />

vicepresidenti di banche e<br />

grandi società, la padrona della Camel<br />

con il marito... Notti intere a giocare,<br />

bere. All’alba il marinaio scaldava la piscina<br />

a ventotto gradi, c’era il bagno finale:<br />

alle sei e mezzo facevo servire<br />

omelette e champagne. Alle sette e<br />

mezzo tutti a letto».<br />

Restavano chiusi ben poco, i sette<br />

bar della Michelangelo. In funzione<br />

dalle 10 alle 14, riposo sino alle 16.30.<br />

Poi di nuovo via con gli shaker, fino alle<br />

tre, almeno. Con un sorriso per tutti,<br />

ascoltando confidenze da non raccontare<br />

mai: discrezione come stile di vita<br />

e di lavoro. «Tantissime cose non le ha<br />

mai sapute nemmeno<br />

mia moglie.<br />

<strong>La</strong> discrezione era<br />

una dote che a bordo<br />

nessuno infrangeva,nemmeno<br />

dove si lavavano<br />

i piatti sentivi<br />

un mormorio, un<br />

pettegolezzo. Veniva<br />

Thomas Foglietta,<br />

senatore di<br />

Filadelfia che è<br />

tornato a trovarmi<br />

qui a Genova<br />

quando era ambasciatore<br />

di Clinton<br />

in Italia. Faceva la<br />

crociera di ventun<br />

giorni, si sedeva<br />

davanti a me per<br />

ore, e parlava di Filadelfia,<br />

delle lotte<br />

per diventare sindaco...<br />

beveva<br />

tranquillo, raccontava.<br />

E Charlie <strong>La</strong>sserse, il vicepresidente<br />

della Morgan Bank: grandissimo.<br />

In quegli anni era proibito importare<br />

oro negli Usa, lui faceva la crociera<br />

con gli sbarchi a Napoli e a Venezia. Andava<br />

da un orafo, si faceva fare un leone<br />

di San Marco da cinque chili. Ogni<br />

viaggio, un leone. Come opera d’arte<br />

poteva importarli».<br />

Il comandante sulla plancia di comando<br />

(«perché allora il comandante<br />

era il padrone della nave e stava ad occuparsi<br />

della nave, non ai ricevimenti»)<br />

il capo barman sulla sua, il Bar Nero.<br />

«Stupendo. Tutto in pelle nera, un bancone<br />

lungo ventotto metri con un disegno<br />

michelangiolesco al centro. Sette<br />

persone di servizio. Sì, era il mio preferito.<br />

Stavo lì, in genere, poi facevo qualche<br />

giro, avevo un “secondo” in ogni<br />

bar... in serata mi spostavo magari al night:<br />

bello, sulla piscina, con pista da<br />

ballo e orchestra». Cinquecento passeggeri<br />

in prima classe? Per il cocktail di<br />

benvenuto significava preparare 1500<br />

cocktails in un’ora e un quarto. «Martini,<br />

Manhattan, Champagne cocktail,<br />

Così per partire, con i tre quarti dei camerieri<br />

impegnati. Poi c’erano quelli<br />

che ti chiedevano gli special orders,<br />

whisky o altro».<br />

Il modello della Michelangelo, regalo<br />

di fine imbarco, lo guarda dall’alto<br />

del bancone dell’american bar dove ora<br />

lavora il figlio. «Ci tenevo tanto, gli architetti<br />

me l’avevano promesso. Ma c’è<br />

un’altra cosa a cui tengo, la dedica su un<br />

menu che mi ha fatto Peynet, il disegnatore:<br />

la ricetta di un cocktail, il bouquet<br />

dell’amore, l’ha chiamato. Un po’<br />

di tenerezza, un po’ di mughetto portafortuna,<br />

tra gli ingredienti».<br />

Dopo la Michelangelo, basta con il<br />

mare e le crociere? «Per il lavoro sì, sono<br />

rimasto sulla terraferma. E di crociere<br />

non ne parliamo: mi hanno invitato<br />

tante volte, ma a vedere navi jukebox e<br />

cibi congelati, io proprio non ci vado».


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 31 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

le storie<br />

Chiesa del silenzio<br />

CINZIA SASSO<br />

BRNO<br />

Alle tre di un pomeriggio<br />

d’estate, una piccola<br />

donna coi capelli raccolti<br />

in una crocchia, gli orecchini<br />

di perle, le gambe sperdute in un<br />

paio di jeans azzurrini, scende dal tram<br />

numero tre con in mano un cesto di vimini.<br />

Torna dall’orto con le carote e l’insalata.<br />

Come fanno tanti<br />

vecchi, qui, a Brno, in<br />

periferie come questa<br />

— Stara Osada, a Zidenice<br />

— che sanno ancora<br />

di comunismo.<br />

Ciabatta ingobbita nei<br />

finti Birkenstock di plastica<br />

nera, ha 73 anni e<br />

occhi di un azzurro trasparente.<br />

Si infila in uno<br />

dei cinque portoni del<br />

suo blocco di case, dodici<br />

piani, senza balconi, i<br />

muri grigi e scrostati. Entra<br />

nel suo appartamento<br />

che sta a piano terra. È sola<br />

e in silenzio. Sola e in silenzio<br />

come è sempre stata.<br />

Si chiama Ludmila Javorova<br />

ed è un prete. Una<br />

donna prete costretta per<br />

tutta la vita a dimenticare se<br />

stessa: prima, nella Cecoslovacchia<br />

della dittatura<br />

comunista, come cattolica;<br />

poi, nella Chiesa che non<br />

vuole le donne sopra un altare,<br />

come sacerdote.<br />

Si scusa perché ha le mani<br />

sporche di terra, non aspettava<br />

nessuno, anzi, stava per<br />

andare con le carote da sua sorella<br />

Maria che è una delle poche<br />

che ha sempre saputo. Comunque<br />

va bene, venga, sì, sono<br />

un prete, se insiste le spiego.<br />

<strong>La</strong> casa è due stanze, tutto lindo,<br />

pulito, in cucina la formica<br />

bianca e la marmellata di albicocche<br />

appena riposta. Le tendine<br />

di pizzo, tanta luce anche se siamo<br />

proprio in basso, là fuori ecco il giardino.<br />

Nel salotto il divano di legno che<br />

è anche il suo letto, tante piante — ficus,<br />

dracene, papiri, un cactus perché<br />

piaceva a suo padre — e soprattutto<br />

tantissimi libri. Una parete di<br />

libri: filosofia, psicologia, architettura,<br />

i titoli sono in ceco, ma si capisce.<br />

C’è una macchina per cucire,<br />

un tv Grundig e, su un tavolino<br />

coi vasi di fiori finti, un computer<br />

collegato col mondo. «Sì, sono un<br />

sacerdote. Sì, ho celebrato la<br />

Messa». Bobinko, il gatto soriano,<br />

si struscia in cerca di grattini<br />

sul collo. Ludmila lo accontenta<br />

e continua: «Ma non voglio<br />

essere una bandiera, io<br />

non chiedo né recrimino<br />

niente».<br />

Il contrabbando di ostie<br />

Era la notte del 28 dicembre<br />

del 1970. In una casa che non è<br />

molto lontano da qui, un vescovo, anima<br />

della chiesa nascosta della Cecoslovacchia<br />

comunista, innamorato di Dio<br />

e della libertà, provato da 14 anni di carcere<br />

ma indomito, ordinò Ludmila Javorova<br />

sacerdote della Chiesa Cattolica<br />

Romana. In cella aveva capito che le<br />

donne erano vittime due volte: senza<br />

sacerdoti tra loro non potevano ricevere<br />

nemmeno il conforto dell’Eucarestia.<br />

Ludmila aveva 38 anni, in quel momento<br />

faceva la custode in una galleria<br />

d’arte, anche lei amava Dio. Dovevano<br />

amarlo tutti in silenzio, però. Pregare di<br />

nascosto e stare attenti al vicino che poteva<br />

fare la spia. Scrivere le preghiere<br />

sulle cartine di sigarette e ingoiarle se<br />

arrivava qualcuno. Celebrare al buio, la<br />

notte, nelle poche case sicure che dovevano<br />

avere due ingressi così, se era il<br />

caso, almeno qualcuno poteva scappare<br />

e salvarsi. C’era il contrabbando di<br />

ostie per celebrare l’Eucarestia. Trovare<br />

chi volesse ordinare nuovi preti era<br />

difficile, oltre alla fede ci voleva troppo<br />

coraggio. Il gruppo si chiamava Koinotes,<br />

viene dal greco, vuol dire Comunità,<br />

era uno dei più importanti della<br />

chiesa clandestina. Il piccolo gruppo<br />

divenne ancora più piccolo quando<br />

Ludmila venne fatta sacerdote: neppure<br />

tra loro tutti capirono; anche tra loro<br />

era costretta a nascondersi.<br />

Quella notte appena dopo Natale, in<br />

Vive a Brno nella <strong>Repubblica</strong> Ceca, è stata ordinata sacerdote<br />

da un vescovo nel 1970 in un Paese provato dalla dittatura<br />

comunista e costretto a vivere la propria religione<br />

in clandestinità. Ha celebrato messa di notte nelle case dei credenti,<br />

sino a quando, ventisei anni più tardi, il Vaticano l’ha interdetta<br />

dal suo ufficio: “Ma un sacramento non si cancella”<br />

<strong>La</strong> fede nascosta<br />

del prete Ludmila<br />

quell’appartamento, davanti a un testimone<br />

vincolato al silenzio, dopo essere<br />

stata ordinata dal vescovo fondatore<br />

dei Koinotes Felix Maria Davidek,<br />

Ludmila celebrò la sua prima Messa.<br />

Indosso aveva il suo vestito più bello,<br />

nero, di broccato. Poi nel gelo si incamminò<br />

verso casa, da sola, e si accorse<br />

che stava piangendo. Finalmente.<br />

Non lo aveva mai fatto: piangeva di<br />

felicità e di paura. Era cresciuta con otto<br />

fratelli maschi e si era abituata a fare<br />

come fanno gli uomini, trattenere le<br />

emozioni, nascondere i sentimenti.<br />

Entrò, al piano di sopra sentì piangere<br />

Bohumila, la nipotina che tanto non<br />

poteva capire, tra le lacrime impartì la<br />

sua prima benedizione e le sussurrò:<br />

«Questo è un giorno molto importante,<br />

quando crescerai ti dirò che cosa è successo<br />

ma per adesso deve restare un segreto».<br />

Sopra il divano, nel salottino, c’è un<br />

grande ritratto della persona che ha reso<br />

possibile questa storia: Felix Maria<br />

Davidek pare un uomo bellissimo, occhi<br />

senza paura, mani bianche, lunghissime,<br />

aristocratico anche nel fisico.<br />

Gli uomini, non solo l’amico Felix, diventato<br />

prima prete e poi vescovo, hanno<br />

una parte importante nella storia di<br />

Ludmila: da bambina soffriva di non<br />

poter giocare come facevano i suoi fra-<br />

L’ALBUM DI FAMIGLIA<br />

In alto, Ludmila nel’97.<br />

Al centro, con la famiglia<br />

del fratello e con la<br />

nipotina. Sotto, Ludmila<br />

negli anni ‘70<br />

‘‘<br />

Non sono una<br />

fuorilegge,<br />

non mi rivolto contro<br />

nessuno ma non<br />

si può spegnere<br />

la luce dello Spirito<br />

telli, si lamentava con la mamma, allora<br />

protestava in modo vivace. Adorava<br />

suo padre e di lui non può dimenticare<br />

una frase, come se fosse quella che le ha<br />

segnato la vita. Era bimbetta, la famiglia<br />

molto cattolica e il padre un uomo di<br />

grande cultura, sempre a leggere di tutto,<br />

molti dei libri di questa stanza erano<br />

suoi. I fratelli giocavano a dire la Messa,<br />

a lei era vietato e allora andò dal padre<br />

protestando: «Perché le donne non<br />

possono fare il prete?». E lui, spostando<br />

appena lo sguardo dal libro: «Prega perché<br />

questo possa accadere». È accaduto,<br />

e adesso Bohumila può sapere. Ma la<br />

gerarchia no, quella ha preferito ignorare,<br />

cancellare con il silenzio.<br />

Era il 1996, un’altra storia, ormai, per<br />

la Cecoslovacchia: a Berlino era caduto<br />

il muro e poi a catena la rivoluzione di<br />

velluto e il Paese che non c’era più proprio,<br />

ora Brno è nella <strong>Repubblica</strong> Ceca,<br />

la seconda città dopo Praga, e il resto è<br />

Slovacchia. Dallo Stato non era più necessario<br />

nascondersi, ma dalla Chiesa?<br />

Per anni Ludmila aveva cercato di avere<br />

risposte: anche Felix, alla fine, l’aveva<br />

lasciata sola. Sola con il suo segreto,<br />

sola con la mancanza di modelli, sola a<br />

cercare di giustificare agli altri la propria<br />

vocazione. Aveva scritto a Giovanni<br />

Paolo II: sarà mai arrivata, quella lettera?<br />

Di certo non è mai arrivata risposta.<br />

Nel ‘92 il Vaticano rivolse un appello<br />

ai preti della chiesa sotterranea perché<br />

uscissero allo scoperto: rivolta solo<br />

agli uomini, però. È nel ‘96, solo nel ‘96,<br />

che Roma manda a chiamare Ludmila:<br />

dal vescovo della sua diocesi, come si<br />

deve, che in privato le dice che «è formalmente<br />

interdetta dall’esercitare il<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31<br />

sacerdozio». Niente di scritto, nessun<br />

pronunciamento eclatante: se le donne<br />

prete non esistono, perché mai parlarne?<br />

E Ludmila obbedisce: «Si vede che i<br />

tempi di Dio sono diversi dai tempi degli<br />

uomini, però il futuro apre alle donne<br />

questa possibilità».<br />

“Un dono di Cristo”<br />

«Un sacramento non si può cancellare,<br />

io sono stata ordinata da un vescovo e<br />

resto un prete. Il sacerdozio è un dono<br />

carismatico, è un dono di Cristo e davanti<br />

a Cristo non esiste uomo o donna,<br />

esiste solo la persona». Ma il dogma?<br />

Sorride: «Non è un dogma, è solo una<br />

norma del diritto canonico». «Non sono<br />

una fuorilegge, né era fuori dalla legge<br />

quello che è accaduto. Il sacramento<br />

non fa differenza di genere». Ancora:<br />

«Io sono solo una piccola persona in un<br />

piccolo appartamento, non mi rivolto<br />

contro nessuno. Sono contro la violenza<br />

e l’imposizione, questa è una questione<br />

che ha bisogno di tempo per maturare<br />

e di molto coraggio. Ci sono nuovi<br />

bisogni, non si può chiudere la porta,<br />

non si può spegnere la luce dello<br />

Spirito». Non è una rivendicazione, sia<br />

chiaro: «Non è che perché adesso ci sono<br />

donne magistrato, soldato, capo di<br />

Stato, che allora le donne vogliono raggiungere<br />

la parità anche in questo.<br />

Quello che dev’essere riconosciuto è<br />

l’essere umano che è nella donna, un<br />

essere uguale a quello dell’uomo».<br />

Dietro gli occhiali dorati lo sguardo<br />

sembra ancora più limpido:<br />

«Il mio essere<br />

una donna sacerdote<br />

è un<br />

dono di Dio<br />

che serve anche<br />

ai bisogni<br />

attuali del popolo<br />

di Dio».<br />

Per questo ha<br />

accettato di<br />

raccontare la<br />

sua storia, per<br />

prima, a Miriam<br />

Therese<br />

Winter, una<br />

suora e teologa<br />

americana (ne<br />

ha scritto un libro,<br />

Dal profondo,<br />

edizioni Appunti<br />

di Viaggio).<br />

Cosa pensa della<br />

gerarchia ecclesiastica<br />

che è sorda<br />

a questi argomenti?<br />

«Mi viene<br />

da pensare a loro<br />

come a dei bambini<br />

handicappati…<br />

li amo e tento di capirli.<br />

Come mi ha<br />

insegnato mio padre,<br />

prego perché<br />

Dio possa usare il<br />

mio essere prete come<br />

una via per dimostrare<br />

che questo<br />

è possibile». Tiene le mani immobili,<br />

dolcemente appoggiate, le muove<br />

solo per accarezzare lentamente Bobinko.<br />

Se oggi è una tranquilla pensionata<br />

che va all’orto, da Maria sua sorella,<br />

dalla nipote Bohumila, alla chiesa<br />

dei Santi Cirillo e Metodio a insegnare<br />

catechismo ai bambini, se oggi ha raggiunto<br />

la serenità, non è stato sempre<br />

così. Gli anni della guerra, poi quelli<br />

della repressione sono stati durissimi.<br />

Il vescovo Davidek pensava che la chiesa<br />

dovesse vivere e continuare nel suo<br />

operato in qualsiasi condizione e a Roma<br />

non potevano sapere di cosa ci fosse<br />

bisogno nella Cecoslovacchia dell’-<br />

StB, la famigerata polizia politica: «<strong>La</strong><br />

Chiesa del silenzio aveva bisogno anche<br />

di preti sposati e di donne prete.<br />

Ciò che mi è accaduto è accaduto in un<br />

momento eccezionale della storia ed in<br />

un luogo particolare».<br />

Pensa che mondo, sogna Ludmila, se<br />

la chiesa fosse aperta anche alle donne.<br />

Il libro delle preghiere, ad esempio: il<br />

suo è corretto tutto al femminile. In ceco<br />

ogni verbo, ogni sostantivo, ogni aggettivo<br />

sono declinati secondo il genere.<br />

«Io mi sento una donna, sono sempre<br />

più grata, più profondamente grata,<br />

di esserlo. E questa gioia voglio<br />

esprimerla anche nella preghiera, ma<br />

al femminile». «Faccio parte della<br />

Chiesa e dunque insieme ad essa gioisco,<br />

soffro e lotto. Vorrei che la mia<br />

Chiesa mi accettasse per quello che sono:<br />

donna e sacerdote».


32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

i luoghi<br />

Giardini restaurati<br />

<strong>La</strong> Zisa, paradiso ritrovato<br />

ATTILIO BOLZONI<br />

PALERMO<br />

Gliemiri che venivano dall’altra<br />

parte del mare lo<br />

chiamavano gennat alard,<br />

il Paradiso della Terra.<br />

E lo trovarono anche a Palermo. Ma<br />

gli abitanti di quella città, magnifica come<br />

lo era solo Bagdad per i suoi giardini<br />

e Cordova per le sue moschee, dieci<br />

secoli dopo seppellirono quel paradiso<br />

sotto i loro rifiuti. Dove c’erano fontane<br />

e palme da datteri e melograni ci portarono<br />

sozzure, veleni, carcasse di animali<br />

e di automobili. Dove crescevano<br />

le piante degli odori ci costruirono case<br />

deformi e giganteschi palazzi, rovesciarono<br />

cemento sugli agri più fertili<br />

della Conca d’Oro, nascosero castelli,<br />

coprirono tesori. I parchi di Palermo diventarono<br />

i suoi orrori urbani. E anche<br />

la Zisa, in arabo la Splendida, fu sotterrata<br />

con la sua memoria. Dimenticata,<br />

lasciata nelle mani dei nuovi califfi mafiosi,<br />

abbandonata nel suo sfacelo.<br />

Ci sono voluti gli ultimi vent’anni e<br />

tanta fatica per seguire una traccia che<br />

forse, prima o poi, ci farà ritrovare la<br />

strada che conduce ancora al Paradiso<br />

della Terra. Vi hanno piantato aranci<br />

amari e cedri, bacche, arbusti, la lavanda,<br />

i carrubi, il gelsomino e la menta, le<br />

rose e i pistacchi. Vi hanno scavato tra<br />

le sterpaglie e i cumuli di fango una vasca<br />

lunga centotrentacinque metri e<br />

larga quattro, una «via dell’acqua» con<br />

luci e spruzzi. Vi hanno disegnato aiuole,<br />

poggiato marmi e restaurato pozzi,<br />

mosaici, colonne. In una delle borgate<br />

più devastate e putrefatte stanno facendo<br />

rinascere un frammento di quell’eden<br />

che dopo gli arabi fu dimora dei<br />

normanni, grande riserva reale di caccia<br />

che si estendeva da Altofonte fino<br />

quasi al mare, territorio che elevò Palermo<br />

a capitale. Una delle più grandiose<br />

del Mediterraneo.<br />

Erano centomila e qualcuno dice anche<br />

duecentocinquantamila quelli che<br />

vivevano sotto il Montepellegrino<br />

quando gli arabi persero il dominio dell’isola<br />

e, dopo due secoli e mezzo, arrivò<br />

dal nord più lontano un manipolo<br />

di audaci. Erano condottieri «fedeli di<br />

Dio e cavalieri di Cristo» con a capo i<br />

fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla,<br />

dovevano sottomettere i greci, cacciare<br />

i saraceni e riportare la Sicilia «in<br />

grembo alla cristianità».<br />

L’avventura però fu anche un’altra. E<br />

i re normanni dal 1071 e per cento anni<br />

vissero a Palermo come «i più orientali»<br />

dei sovrani. Fu allora che il gennat alard<br />

divenne il Genoardo. Fu allora che<br />

il mecenatismo illuminato dei cavalieri<br />

di origini scandinave assecondò la fusione<br />

di culture, di popoli, di tendenze.<br />

Una Palermo multietnica dove cupole<br />

islamiche svettavano sulle basiliche latine,<br />

dove artigiani magrebini e bizantini<br />

decoravano chiese cristiane, dove<br />

per le vie si incontravano mercanti e<br />

geografi e matematici di ogni razza e<br />

ogni provenienza. Longobardi, ebrei,<br />

slavi, berberi, persiani, tartari. E, come<br />

annotava uno dei tanti poeti a quel<br />

tempo partiti dall’altra sponda del Mediterraneo,<br />

«le donne di questa città all’aspetto<br />

sembrano musulmane, parlano<br />

arabo correttamente, si ammantano<br />

e si velano come quelle».<br />

Fu proprio in quegli anni che dalle<br />

maestranze di Sousse e di Kairouan i<br />

normanni si fecero progettare e realizzare<br />

quelle che il viaggiatore arabo andaluso<br />

Ibn Giubair descriveva come «le<br />

perle di un monile», la piccola Cuba, la<br />

Cuba Soprana, il palazzo dell’Uscibene.<br />

E soprattutto el Aziz, la Zisa. Palazzi<br />

che uno dopo l’altro ricadevano nel Paradiso<br />

della Terra, luogo di delizie, culla<br />

di ozi e sollazzi di corte. Su mandato<br />

papale i normanni edificarono le grandi<br />

cattedrali cristiane — a Palermo, a<br />

Monreale, a Cefalù — ma nel privato<br />

scelsero di trascorrere la loro esistenza<br />

come i vinti, quei sultani che passavano<br />

le giornate a sentire il cinguettio degli<br />

uccelli e i profumi delle erbe nei giardini<br />

ispirati al disegno islamico, che godevano<br />

di quelle grandi sale per il riposo<br />

e per le feste, per gli incontri con le<br />

concubine.<br />

«<strong>La</strong> Zisa era il palazzo dei piaceri, costruita<br />

da un re cristiano ma araba nella<br />

sua concezione: è stato un riconoscimento<br />

dei trionfatori agli sconfitti»,<br />

spiega Salvo Lo Nardo, uno degli architetti<br />

— gli altri sono Pippo Caronia e<br />

Luigi Trupia — che hanno fatto rivivere<br />

a Palermo questo ritaglio di Genoardo.<br />

L’idea la ebbero nel 1986 e trovarono<br />

in quella inquieta stagione politica<br />

siciliana un’entusiastica sponsorizzazione<br />

trasversale, il sindaco democristiano<br />

ribelle Leoluca Orlando e l’assessore<br />

socialista Turi Lombardo. Progetto<br />

approvato nel 1990 e finanziato<br />

dal Comune nel 1996, nel 1997 iniziarono<br />

i lavori ma poi la ditta fallì e il cantiere<br />

rimase chiuso per anni. Ha riaperto<br />

l’anno scorso. Nell’estate del 2005 i<br />

giardini della Zisa sono stati finalmente<br />

offerti alla città che li aveva occultati.<br />

Tre ettari di verde, sessanta varietà di<br />

piante sapientemente sparse in otto<br />

campi, poco più di cinque milioni di<br />

euro il costo dell’opera. «Noi palermitani<br />

siamo lenti nel fare le cose ma poi,<br />

alla fine, riusciamo a sentirle profondamente<br />

nostre», dice la Sovrintendente<br />

ai beni culturali di Palermo Adele Mormino<br />

quando ci mostra in un bellissimo<br />

tramonto il «luogo delle delizie».<br />

Eccoli i giardini della Zisa con i suoi tre<br />

percorsi, la «via dell’acqua», la «via del<br />

verde» e la «via dell’ombra», un reticolato<br />

metallico che sarà coperto da bouganville<br />

e da glicine e da gelsomini. In<br />

mezzo la lunga vasca con le ceramiche<br />

lavorate dai mastri di Santo Stefano di<br />

Camastra, gli zampilli, il marmo bianco<br />

delle cave di Alcamo e di Castellammare,<br />

un proseguimento ideale del<br />

tracciato d’acqua della sala della fontana,<br />

quella che si apre oltre le porte del<br />

palazzo della Zisa. E fuori dalle sue mura<br />

c’è ancora la «senia», una piattaforma<br />

di pietra circolare con al centro un<br />

pozzo e una macchina dentata. Una<br />

volta un asinello legato e bendato vi girava<br />

all’infinito intorno, con il suo andare<br />

le pale tiravano su dal pozzo l’acqua<br />

che finiva poi in una cisterna e scivolava<br />

nei canali che irrigavano il giardino.<br />

Ci vorrà del tempo e tanta pazienza<br />

per vederlo rigoglioso come mille anni<br />

fa questo parco circondato ancora dalle<br />

mostruosità della Palermo più «ruggente»,<br />

sfregi lasciati nel quartiere della<br />

Zisa dai Moncada, dai Corvaia, dai<br />

Carini, palazzoni tutti uguali, edilizia di<br />

rapina, licenze regalate dall’“Anonima<br />

Impresa Ciancimino” agli amici, ai prestanome,<br />

a pensionati nullatenenti.<br />

Una Palermo infetta che guarda ancora<br />

oggi quella che era la Palermo più regale<br />

e superba.<br />

È in fondo, imponente e maestoso,<br />

che si staglia il palazzo che i palermitani<br />

chiamano castello ma castello non è<br />

mai stato. Un parallelepipedo di tufo,<br />

alto più di 25 metri e largo più di 35 con<br />

un’iscrizione in versi sull’arcata di accesso<br />

alla sala della fontana: «Quantunque<br />

volte vorrai, tu vedrai il più bel<br />

possesso del più splendido tra i reami<br />

del mondo: dei mari e la montagna che<br />

Mille anni fa, quando Palermo era la capitale più raffinata<br />

del Mediterraneo, i re normanni costruirono su mandato<br />

papale le grandi cattedrali cristiane. Ma per i propri piaceri<br />

copiarono l’arte dei musulmani sconfitti. Sorse così el Aziz,<br />

la Splendida, che oggi torna con le sue vie d’acqua<br />

e d’ombra, i profumi delle erbe, i fantasmi dei suoi harem<br />

Tre ettari di verde,<br />

sessanta varietà<br />

di piante sparse<br />

in otto diversi campi<br />

li domina le cui cime sono tinte di narciso<br />

e vedrai il gran re del secolo in bel<br />

soggiorno ché a lui conviensi la magnificenza<br />

e la letizia. Questo è il paradiso<br />

terrestre che si apre agli sguardi. Questi<br />

è il Musta’izz e questo palazzo l’Aziz».<br />

Il Musta’izz, «bramoso di gloria», era<br />

re Guglielmo II. L’Aziz fu iniziato nel<br />

1165 da Guglielmo I il Malo. E ultimato<br />

nel 1167 da Guglielmo II il Buono, che<br />

al trono salì appena adolescente, quando<br />

aveva solo tredici anni. Così lo storico<br />

<strong>Michele</strong> Amari ricorda la nascita della<br />

Zisa nella sua ricostruzione dell’epoca<br />

musulmana in Sicilia: «Guglielmo,<br />

rivaleggiando col padre ne’ passatempi<br />

soli, ei si messe a fabbricare tal palagio<br />

che fosse più splendido e sontuoso<br />

di que’ lasciatigli da Ruggiero. Fu murato<br />

in brevissimo tempo, con grande


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 33 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

spesa, il nuovo palagio e postogli il nome<br />

di El Aziz che in bocche italiane diventò<br />

la Zisa e così diciamo fin oggi».<br />

Un gioiello di architettura araba e di<br />

monumentalità normanna. <strong>La</strong> perfetta<br />

sintesi della mescolanza tra dominatori<br />

e dominati, la Zisa come simbolo di<br />

una Sicilia felicissima. Scrive Giuseppe<br />

Bellafiore, professore ordinario di storia<br />

dell’arte e autore di un testo sulla Zi-<br />

sa dato alle stampe una decina di anni<br />

fa dall’editore palermitano Flaccovio:<br />

«A volere meglio specificare le caratteristiche<br />

funzionali del palazzo, c’è da<br />

dire innanzitutto che esso era una dimora<br />

destinata prevalentemente al<br />

soggiorno estivo. Non si trattava tuttavia<br />

di un precario soggiorno diurno...<br />

Era questo rivolto ed aperto a nordovest<br />

verso il mare, cioè verso la zona<br />

Un palazzo-gioiello<br />

progettato<br />

per captare le brezze<br />

di mare più fresche<br />

PROGETTO VENTENNALE<br />

L’architetto Salvo Lo Nardo,<br />

che con Pippo Caronia<br />

e Luigi Trupia ha guidato<br />

il restauro della Zisa<br />

Un restauro ventennale: l’idea<br />

è del 1986, il progetto<br />

del 1990, il finanziamento<br />

del 1996 e l’inaugurazione<br />

di pochi giorni fa<br />

RICCHE DECORAZIONI<br />

A sinistra, un montaggio<br />

tra foto e disegno<br />

mostra l’edificio della Zisa<br />

com’è oggi dopo il restauro<br />

e com’era in passato.<br />

Sotto, una veduta diurna<br />

e una notturna dei giardini.<br />

Sopra, alcuni dettagli<br />

delle decorazioni del palazzo<br />

panoramica più attraente e più fresca<br />

della pianura palermitana». Aggiunge<br />

ancora Bellafiore: «Da quella parte,<br />

giungevano le brezze più temperate e<br />

specialmente quelle notturne, che potevano<br />

essere accolte entro lo stesso<br />

palazzo attraverso l’ampio varco dei<br />

tre fornici di facciata e della grande finestra<br />

belvedere del piano alto».<br />

Spazi, finestre, atri, un mirabile si-<br />

FOTO DI MASSIMO LO VERDE<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />

stema di ventilazione per assorbire ed<br />

espellere l’aria calda. Per affrontare le<br />

giornate di scirocco. Per trovare riparo<br />

alle lunghe estati palermitane. E concedersi<br />

sollievi più intimi. «Era proprio<br />

lì dentro che i nuovi conquistatori si dedicavano<br />

alle gioie dell’anima e soprattutto<br />

a quelle del corpo», racconta Matteo<br />

Scognamiglio, direttore del servizio<br />

beni architettonici della Sovrintendenza,<br />

che spiega come da alcuni mesi<br />

stanno completando il recupero della<br />

sala della fontana.<br />

Era al primo piano l’harem della Zisa,<br />

nelle sale che si inseguono nelle due<br />

ali del palazzo. Aspettavano là le donne<br />

dei sovrani, distese sui loro soffici<br />

diwan e nella penombra delle nicchie.<br />

Un’atmosfera fiabesca, da Mille e una<br />

notte. Alla Zisa ma anche alla Cuba e in<br />

tutti gli altri «sollazzi» dei giardini di delizia<br />

musulmani, quelli che si richiamavano<br />

al paradiso coranico. Era il Genoardo<br />

voluto dai normanni.<br />

E non fu certamente un caso che proprio<br />

lì, alla Cuba, tra le acque e gli alberi<br />

che circondavano un altro parallelepipedo<br />

— di dimensioni appena più<br />

piccole della Zisa — Boccaccio ambientò<br />

una delle novelle del suo Decameron.<br />

<strong>La</strong> sesta della quinta giornata. È<br />

la vicenda d’amore tra Gian di Procida<br />

e Restituta, una ragazzina bellissima di<br />

Ischia rapita da «giovani ciciliani» per<br />

offrirla in dono a Federico II d’Aragona.<br />

Il re comandò «che ella fosse messa in<br />

certe case bellissime di un suo giardino,<br />

il quale chiamavan Cuba, e quivi<br />

servita, e così fu fatto». Lieto il finale<br />

della storia. I due amanti si ritrovarono<br />

dopo il rapimento ma una notte vennero<br />

scoperti mentre dormivano abbracciati,<br />

il re li fece trascinare nudi sul<br />

rogo. In loro favore intercedette però<br />

Ruggieri de Loria, che ricordò al sovrano<br />

cosa fecero i Procida nella guerra del<br />

Vespro. E fu così che «Gian di Procida<br />

campa e divien marito di lei».<br />

Quando Giovanni Boccaccio scrisse<br />

il Decameron, era già cominciato il declino<br />

del parco reale e anche di quella<br />

Palermo che per il geografo arabo Al-<br />

Idrisi era allora «la più grande e la più<br />

bella metropoli del mondo». Un decadimento<br />

che subì anno dopo anno pure<br />

la Zisa. Nel Trecento fu realizzata<br />

una merlatura che soffocò una scritta<br />

in arabo alla sommità dell’edificio, poi<br />

il «sollazzo» fu trasformato in una fortificazione.<br />

Narra Nicolò Speciale, cronista<br />

del quindicesimo secolo, di quel<br />

che accadeva anche nel passato più<br />

lontano nella Conca d’Oro: «Tutto ciò<br />

che c’era di verde veniva distrutto e<br />

nessuno aveva pietà».<br />

Gli aragonesi e i viceré spagnoli assegnarono<br />

la Zisa di volta in volta a nobili<br />

famiglie. Nel Cinquecento diventò<br />

un baglio, nel Seicento l’acquistò per<br />

poche once Don Giovanni di Sandoval,<br />

nel 1808 la Zisa passò ai Notarbartolo<br />

principi di Sciara. <strong>La</strong> tennero loro fino<br />

al 1951, quando fu espropriata dalla<br />

Regione. Cominciarono allora i primi<br />

lavori di restauro. Ma alla vecchia maniera<br />

siciliana. Interventi saltuari e approssimativi.<br />

Tra il 1956 e il 1957 furono<br />

perfino buttati giù alcuni muri, i solai<br />

e anche i pavimenti che avevano<br />

abilmente sistemato quelle maestranze<br />

arabe venute da Sousse e da Kairouan<br />

per desiderio dei nuovi signori.<br />

Nell’ottobre del 1971 il più bel palazzo<br />

del Paradiso della Terra cedette per<br />

l’incuria: il primo piano precipitò. E cominciarono<br />

anche i saccheggi della Zisa<br />

la Splendida, luogo per le scorrerie di<br />

vandali e rifugio di tossici. Il vero restauro<br />

statico e architettonico ebbe<br />

inizio l’anno dopo il crollo, nel 1972.<br />

Ma dentro e intorno a quel poco che<br />

restava del mitico Genoardo ormai era<br />

arrivato il palermitano più predatore e<br />

impunito. Aprirono una fossa per una<br />

discarica abusiva. E poi comparve<br />

un’officina. E poi ancora uno sfasciacarrozze.<br />

Ci trasferirono lì, proprio lì<br />

nel Paradiso della Terra, anche un deposito<br />

dell’Amnu, l’azienda municipalizzata<br />

dei rifiuti. E davanti e dietro al<br />

palazzo dei piaceri intanto il nuovo potere<br />

aveva lasciato già le sue impronte,<br />

i cantieri e il calcestruzzo degli ultimi re<br />

di Palermo, i boss.


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 34 14/08/2005<br />

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

STEFANO MALATESTA<br />

Non posso vantarmi di aver conosciuto bene Pico<br />

Cellini, anche se questo si può dire di molti<br />

che chiamiamo amici. È stata una di quelle<br />

scoperte tardive in cui il rammarico per avere<br />

mancato un incontro quando era nel suo momento<br />

migliore è solo in parte compensato<br />

dalla frequenza con cui poi lo sono andato a trovare nel suo<br />

studio, un seminterrato dalle parti di piazza Mazzini, a Roma.<br />

E comunque la differenza di età e la fama di essere il più<br />

straordinario cacciatore di falsi d’arte in Europa non gli impedivano<br />

di perdere una parte notevole del suo prezioso<br />

tempo a raccontare a un giovanotto, come ero in quegli anni,<br />

eccitanti storie che si erano svolte, per la maggior parte,<br />

prima o immediatamente dopo la seconda guerra mondiale.<br />

Storie che non riguardavano solo i falsi, ma tutto il variegato<br />

mondo legato all’arte e all’antiquariato di pregio. Per<br />

una qualche ragione ora dimenticata gli ero stato presentato<br />

da Giuliano Briganti ed era bastato il nome riverito di Giuliano<br />

per aver la sua totale fiducia.<br />

<strong>La</strong> parte più affascinante dei suoi racconti era quando cominciava<br />

a divagare, senza che la sua memoria perdesse uno<br />

di quegli infiniti dettagli in cui riusciva a far accomodare i fatti<br />

veri e propri: dettagli tecnici di materiali, ma anche notazioni<br />

psicologiche, schizzi di ambiente, ricordi che non erano solo<br />

personali e che davano alle storie un’attendibilità molto più<br />

certa di vicende simili, narrate da altri.<br />

Per quattro o cinque mesi, due o tre volte a settimana, a<br />

partire dalla fine di una primavera di molti anni fa, di comune<br />

accordo mi facevo trovare davanti alla porta d’ingresso<br />

del seminterrato. Il pretesto era la ricerca di un soggetto cinematografico<br />

che ricostruisse la vita di un falsario senza romanzeggiare<br />

troppo e senza incorrere in troppe banalità. Sospettoso<br />

all’inizio (del soggetto, non di me), Pico era diventato<br />

un sostenitore del progetto, in cui tuttavia voleva inzeppare<br />

troppi ricordi. «Sta venendo una pignoccata» disse a un<br />

certo punto, rendendosi anche lui conto che debordavamo<br />

di storie da ogni lato. Il soggetto non l’ho mai scritto, ma ogni<br />

anno dopo la sua morte sono andato a risfogliare il blocco di<br />

Yellow Paper per tentare di ricostruire almeno qualcuno di<br />

quei racconti che allora mi sembravano magnifici. Ma solo<br />

quest’anno li ho completati e lascio ai lettori di giudicare<br />

quanto siano ancora tali...<br />

* * *<br />

Riccardi. Un giorno — era almeno una settimana che non<br />

lo vedevo — gli chiesi se conosceva i fratelli Riccardi. Al British<br />

Museum di Londra avevo visto una straordinaria mostra<br />

di falsi intitolata Fake, the art of deception e come richiamo<br />

avevano sistemato di traverso all’entrata principale una biga<br />

romana con appeso un cartellino dove c’era scritto: «Fatta<br />

dai fratelli Riccardi nel 1930». Pico non era un sentimentale,<br />

ma al nome dei Riccardi la sua pelle diventò rosea come<br />

quella di un bambino: «Quali Riccardi? Amedeo? Teodoro,<br />

che era il cugino? L’altro cugino, che forse era il migliore? Io<br />

ero fidanzato con Flora, la figlia di Amedeo che viveva a Firenze.<br />

Ero arrivato da Siena solo l’anno prima, a quattordici<br />

anni, per guadagnarmi il pane. Mio fratello era ritornato dalla<br />

guerra con la tubercolosi, il babbo si era indebitato e toccava<br />

a me fare l’infermiere, iniezioni di sodio per stuccare i<br />

buchi che aveva nei polmoni».<br />

«Quando mio fratello morì, sono partito per Firenze, avevo<br />

trovato un posto di restauratore a cinquanta lire al giorno.<br />

L’anno successivo, a quindici anni ero simpatico e frequentavo<br />

due o tre ragazzine. Una era Elsa De Giorgi, che chiamavo<br />

la contessa frittellara perché riusciva a macchiare anche la sottoveste...<br />

L’altra era Flora Riccardi, veniva da una sana, grande<br />

famiglia di falsari. Questi Riccardi avevano iniziato come<br />

orefici da fiera, specializzati in orecchini d’oro e coralli per le<br />

balie... Poi aprirono un negozio di roba a Tordinona, a Roma,<br />

accanto a un locale di balie gestito da una sensale che chiamavano<br />

la manderina».<br />

«Quando veniva qualche cliente, la manderina faceva un fischio<br />

a una di quelle ragazzone ciociare che stavano sopra le<br />

panche come a covare l’ovo e diceva: “Bella Mora, fa vedere<br />

quanta roba tieni”. E quella tirava fora la zinna e faceva uno<br />

schizzo di due metri. Queste balie erano tremende, avrebbero<br />

fatto qualsiasi cosa per un paio di orecchini di corallo.<br />

Quando il padrone era in casa e la moglie non vedeva, se era<br />

un maschietto gli prendevano il piselletto in bocca per farlo diventare<br />

duro e poi dicevano: “Che bello cazzo che tien ‘sto pupo,<br />

è come il padre”. E naturalmente il padre era contento e gli<br />

regalava i coralli. Insomma una mercanzia complicata».<br />

«<strong>La</strong> loro carriera di falsari iniziò quasi subito. Un certo Fuschini<br />

di Acquapendente, che aveva sentito parlare della loro<br />

bravura, gli aveva portato delle mattonelle medievali spezzate,<br />

per vedere se loro erano capaci di rifare le parti mancanti.<br />

Questo Fuschini dirigeva il carcere di Acquapendente, dove<br />

qualche mese prima erano iniziati lavori di restauro. E dal pozzo<br />

prosciugato erano venute fuori migliaia e migliaia di mattonelle<br />

in frantumi, d’epoca medievale, di un tipo molto raro, a<br />

tre colori, chiamate a goccioloni. Una volta quando si rompeva<br />

un piatto, i cocci venivano lavati e gettati nel pozzo, perché<br />

si diceva che in questa maniera filtrasse meglio. E c’era anche<br />

roba più antica, le mezze maioliche con la terra sotto. Una ter-<br />

Si chiamava Pico Cellini, non aveva<br />

nemmeno la licenza media ma divenne uno<br />

dei più famosi restauratori italiani.<br />

Le sue tecniche d’indagine sperimentali e disinvolte<br />

gli consentirono di svelare clamorosi imbrogli. Come la stele<br />

attica, che davanti a un ministro smascherò leccandone il marmo<br />

Ilcacciatore<br />

di<br />

falsi<br />

Aveva frequentato la bottega<br />

di una famiglia di geniali falsari,<br />

capaci di fabbricare e piazzare<br />

statue di guerrieri etruschi<br />

al Metropolitan di New York<br />

e una biga romana al British di Londra<br />

ra gialla, che si bagnava con una terra bianca e si graffiava, motivi<br />

generalmente astratti, poi si coloravano con la ferraccia per<br />

il marrone e con la ranina dell’ossido di rame per il verde».<br />

«Si cominciò col falsificare i pezzi mancanti e poi si continuò<br />

con la falsificazione dell’intero pezzo. Il Fuschini, che io<br />

ho conosciuto, era un uomo secco secco e pieno di intraprendenza,<br />

prendeva le maioliche e le andava a vendere a<br />

Londra. Al South Kensington Museum ci sono maioliche rifatte<br />

e quelle completamente false vendute da Fuschini, che<br />

diceva al ritorno: “Sono stato a Lontre”, proprio così. Di coccio<br />

in coccio passarono alla roba etrusca. Uno dei primi acquirenti<br />

fu Marshall, che allora dirigeva il Metropolitan di<br />

New York, ed era aiutato dalla sua segretaria, la Ritter. A Marshall,<br />

avevano venduto un pezzo autentico, comprato dai<br />

tombaroli della zona di Orvieto, un piccolo balsamario a forma<br />

di testa di guerriero, protocorinzio, una cosa rara. Il pezzo<br />

era piaciuto molto all’americano, che l’aveva comprato<br />

subito, e poi aveva detto: “Questi reperti sono belli, ma per un<br />

grande museo come il nostro non bastano, sono noccioline.<br />

Noi vogliamo cose grandi” e i Riccardi a sentire queste proposte<br />

gongolavano. E così fecero due guerrieri etruschi, due<br />

mammozzoni che erano un castigo di Dio».<br />

«<strong>La</strong> Ritter, che era una cretina, nel suo paper illustrativo, ha<br />

scritto che quei colossi, alti due metri e mezzo perché i Riccardi<br />

li avevano fatti grandi, li volevano imponenti, dunque che<br />

quei colossi erano un miracolo di tecnica, oltre che di arte.<br />

“Noi non saremmo in grado oggi di cuocerli alla stessa temperatura<br />

in tutti i punti”, diceva. Ma i Riccardi non avevano<br />

cotto il bove intero, avevano cotto le bistecche. Non capisce?<br />

Prima avevano creato i mammozzoni prendendo come modello<br />

un bronzetto greco, poi li avevano fatti a pezzi e cotti così,<br />

come bistecche e solo dopo avevano ricostruito le statue».<br />

«Con gli anni i Riccardi si allargarono ad altri campi: forse<br />

si erano un po’ montati la testa e pensavano di poter contraffare<br />

tutto. Ma i bronzi erano la loro specialità perché erano<br />

nati orafi e nella fusione ritrovavano la loro anima di metallari.<br />

Il materiale primo se lo procuravano andando in giro<br />

la domenica mattina: come altri cercavano lumache o funghi<br />

tra le radici dei faggi dell’Amiata, loro avevano occhio solamente<br />

per rottami di bronzo o di rame, vecchie caldaie<br />

scoppiate, lamierini contorti e abbandonati negli scarichi


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 35 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

<strong>La</strong> vita da film dell’uomo<br />

che assaggiava le statue<br />

ferroviari della Toscana. Rifacevano l’intero pezzo ritagliando<br />

le lastre delle caldaie con le sfoglie di un lamierino messe<br />

una sopra l’altra e battendole su un’anima di legno con dei<br />

martelletti di loro invenzione. Dal toc toc di quei martelletti<br />

nacque una biga intera, quella esposta al British Museum e a<br />

lungo ritenuta autentica. <strong>La</strong> stava per comprare il Museo<br />

etrusco di Valle Giulia a Roma».<br />

«Se ripenso a quegli anni felici, il pranzo la domenica con la<br />

ribollita e poco altro, posso dire che sono stato fortunato. Erano<br />

i migliori del ramo e parlavano liberamente, perché erano<br />

orgogliosi del loro mestiere e se ne vantavano. Incominciava<br />

uno a raccontare delle grattacacio di bronzo, di come fossero<br />

utili per ricostituire i pezzi mancanti dei vasi romani. E un altro<br />

chiedeva: “O tu come ha fatto a mascherare i buchi?”. “Semplice,<br />

ho lasciato cadere una goccia di stagno su ogni buco e poi<br />

ho passato la patina per nascondere meglio”. Sono rimasti<br />

sempre degli artigiani, non sono diventati ricchi con i falsi, e in<br />

fondo hanno solo fatto quel che il mercato chiedeva. Non avevano<br />

l’anima del truffatore ed io ho imparato tutto da loro».<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> leccata. Nel dopoguerra, la prima esposizione in un Palazzo<br />

Venezia rinnovato e adibito alle mostre doveva mostrare<br />

i migliori pezzi di marmo provenienti dalla Grecia e Magna<br />

Grecia. A detta degli esperti, una delle opere più pregiate era<br />

una nuova acquisizione, una stele attica giudicata magnifica<br />

anche dal direttore delle Antichità e Belle Arti di allora, Bianchi<br />

Bandinelli. Ma a Pico non era piaciuta, durante l’anteprima<br />

per giornalisti e critici della mostra si era avvicinato alla stele,<br />

scoprendo una vecchia conoscenza.<br />

«Era una vecchia cosa, risaliva almeno a dieci anni prima ed<br />

era stata rifiutata persino dai tedeschi. Con il Patto d’Acciaio<br />

era diventato d’obbligo dimostrare un certo cameratismo<br />

verso gli arroganti nazi scesi a Roma a razziare quante più statue<br />

antiche possibili, da sistemare negli atri di quegli orrendi<br />

palazzi disegnati da Speer. O nei castelli di cui si era impadronito<br />

Goering, che si atteggiava a principe rinascimentale mentre<br />

non era che un lardoso criminale nazista. Questo non voleva<br />

dire che i tedeschi non pagassero. Pagarono fino all’ultima<br />

lira anche certe patacche, e per il discobolo <strong>La</strong>ncellotti il<br />

prezzo fu di un milione. Poi Siviero, quello dei servizi americani<br />

incaricato del recupero delle opere d’arte, disse che i te-<br />

I nazisti erano scesi a Roma decisi<br />

a razziare reperti antichi. Ma anche<br />

a loro furono rifilate patacche<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />

UN RACCONTO IN TRE PUNTATE<br />

Quella che pubblichiamo in queste pagine<br />

è la prima puntata delle storie di Pico Cellini.<br />

Altre due puntate usciranno nei prossimi giorni<br />

sulle pagine della Cultura.<br />

Nelle foto: al centro, Pico Cellini in un ritratto<br />

del 1993 di Bruno Di Maio (www.brunodimaio.it);<br />

a sinistra in basso, Cellini nel ’51<br />

restaura la “Giuditta” del Caravaggio;<br />

nella fascia, da sinistra a destra, opere ritenute false<br />

da Cellini: il Colosso etrusco e il Kouros<br />

del Metropolitan Museum, la Santa Lucia<br />

della Collezione Berenson;<br />

la Fornarina di Raffaello; il Trono di Boston<br />

deschi non avevano pagato una lira, ma non era vero. Ci fu solo<br />

una certa resistenza da parte di alcuni membri delle Antichità<br />

e Belle Arti, durata poco, perché intervenne personalmente<br />

Bottai, urlando che la scienza non bastava, ci volevano<br />

i coglioni per stare in quei posti. E così il discobolo partì<br />

per la Germania. Uno dei due o tre pezzi che rifiutarono fu<br />

proprio quella che veniva chiamata la stele attica. Un noto<br />

falsario di Roma aveva fatto rubare il coperchio di un sarcofago<br />

abbandonato per decenni lungo il Decumano Massimo<br />

negli scavi di Ostia antica, e l’aveva trasformato in un abbastanza<br />

rozzo bassorilievo».<br />

«<strong>La</strong> mostra poteva essere un’ottima occasione per riciclarlo.<br />

<strong>La</strong> stele nuova versione era più curata, più levigata della<br />

vecchia, ma non ci si poteva sbagliare: era lei e lo dissi a<br />

Bianchi Bandinelli. Ma la presentazione — il tappetino come<br />

io lo chiamo — era stata abile, si erano inventati anche un<br />

pedigree e Bianchi Bandinelli mi rispose che oramai i falsi mi<br />

avevano dato alla testa, li vedevo dappertutto. Ma questo<br />

non era il caso. Ci rimasi male, perché era un signore toscano<br />

per bene e avevano messo in mezzo anche lui. Così decisi<br />

di fare un gesto, un’azione spettacolare e memorabile, in<br />

modo che restasse il ricordo».<br />

Ma per uno strano pudore, Pico non riuscì mai a parlare con<br />

precisione di quello che era stato uno dei momenti decisivi<br />

della sua vita, a partire dal quale la sua fama dilagò incontrastata.<br />

Questa versione dei fatti è ricavata da tre testimonianze,<br />

molto simili, tra i pochi che ricordavano dopo quasi mezzo secolo:<br />

«Era difficile riconoscere Pico in quel signore piccolo e<br />

ipervestito che, davanti al ministro, si era come tuffato sotto il<br />

cordone rosso posto davanti all’opera, aveva abbrancato il<br />

marmo e tirando fuori una lingua lustra come una foca ammaestrata,<br />

dava colpi che sembravano vere e proprie leccate.<br />

Ma i carabinieri in alta uniforme erano stati così abili e lesti nell’agguantare<br />

il poveretto per la collottola facendolo sparire come<br />

avrebbe fatto un prestigiatore con cappello a cilindro e coniglio<br />

bianco, ma in sequenza al contrario».<br />

Pico riprese: «Mi portarono al commissariato e poi mi rilasciarono.<br />

Due giorni dopo ho ricevuto una telefonata di Bianchi<br />

Bandinelli: “Lei ha fatto una cosa gravissima mettendo il<br />

governo alla gogna. Io ho costituito una commissione, voglio<br />

rendermi conto in base a che cosa lei ha giudicato la stele falsa”.<br />

Cercai di mantenere la calma, era un’occasione d’oro e<br />

non me la sarei fatta sfuggire. Il pomeriggio del giorno dopo alle<br />

sei in punto stavo in casa di Bianchi Bandinelli. Lui era un<br />

gentiluomo ma si lasciava anche fregare e suggestionare. Cominciai<br />

a parlare degli acidi, dati al marmo in tempi molto recenti.<br />

Il marmo all’inizio li aveva assorbiti e poi risputati in superficie<br />

dove stagnavano. Passandoci la lingua sopra non solo<br />

si sentivano, ma si poteva individuare la qualità e il tipo. I falsari<br />

li avevano certamente usati per modellare più rapidamente,<br />

ma esisteva la possibilità, remota, che fossero stati usati<br />

per ripulire la lastra».<br />

«Mi sentivo magnanimo e passai ad altre prove contro: “Il<br />

marmo del bassorilievo è del tipo fasciato chiamato marmo<br />

del Peloponneso. Ora questo tipo di marmo, mi permetto di<br />

far osservare, presenta delle fasce nere, anche grigie, che alterano<br />

la sua purezza. Lo hanno adoperato i romani nel tardo<br />

Impero, i bizantini, anche per le statue. I greci dell’epoca classica,<br />

mai. I greci cercavano l’assoluto. Scolpivano sempre nel<br />

marmo pario o nel pentelico. Se trovavano una macchia, tagliavano<br />

il pezzo e inserivano un tassello. C’era anche una ragione<br />

pratica, artigianale, in questa ricerca di biancore completo.<br />

Il fondo bianco era necessario per l’aganosis, la lucidatura<br />

di cera con cui gli artisti greci rifinivano le statue, per renderle<br />

come l’avorio e poi dipingerle. I lavori in scultura dell’epoca<br />

classica sono policromi a fondo bianco”».<br />

Venne servito il tè, poi Pico riprese: «Passiamo a un altro<br />

punto. <strong>La</strong> stele ha un timpano a forma di tetto, con due palmette<br />

scolpite ai due spigoli. Si chiamano argoteli. Nell’epoca<br />

arcaica e anche in quella classica, la presenza degli argoteli era<br />

codificata da una norma. Se si scolpiva una palmetta al vertice<br />

del tetto, in posizione centrale, si poteva fare a meno delle<br />

palmette laterali. Ma se c’erano le laterali, ci doveva essere anche<br />

obbligatoriamente quella centrale. Invece qui manca.<br />

Non c’è perché allo scalpellino è venuto a mancare il materiale.<br />

Il coperchio del sarcofago aveva dimensioni limitate e la cuspide<br />

del tetto arrivava proprio dove il tetto finiva. <strong>La</strong> superficie<br />

rimasta non era sufficiente per scolpire la palmetta centrale<br />

e lo scalpellino non se ne era accorto».<br />

Alle ultime parole di Pico un archeologo, che fino a quel momento<br />

non aveva dato segni di vita, si volse verso il restauratore<br />

e con voce quasi strozzata disse: «Ne sutor ultra...». Pico<br />

diede un’occhiata al direttore generale, che si era fatto di marmo<br />

anche lui. E poi mentre si alzava dalla tavola fingendo di<br />

essere mortalmente offeso, pronunciò con voce chiara queste<br />

parole: «Anche se non ho la laurea e nemmeno uno straccio di<br />

qualsiasi licenza media, un po’ di latino l’ho imparato e ho riconosciuto<br />

la citazione. Ho capito che cosa mi vuole dire: “Ne<br />

sutor ultra”, “il ciabattino non vada avanti”, è troppo ignorante.<br />

Ma se sono così ignorante perché mi avete chiamato?». L’uscita<br />

dalla casa di Pico a piccoli passi, girando intorno a tutti i<br />

mobili, una camminata che ne mimava una famosa di Totò, è<br />

rimasta per anni nella memoria di chi aveva partecipato alla<br />

riunione... Una settimana più tardi la stele venne portata via<br />

da Palazzo Venezia.


36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

la lettura<br />

Civiltà senza tempo<br />

GUIDO RAMPOLDI<br />

Per quanto otto secoli fa i loro<br />

esploratori non si spinsero<br />

oltre la campagna di<br />

Udine, anche in Italia, così<br />

come in tutta l’Europa slava,<br />

i mongoli sono inseguiti<br />

dalla fama più sinistra che sia toccata<br />

ad un popolo. Colpa dei loro avi.<br />

Sommando le cronache redatte da<br />

persiani, cristiani, cinesi e arabi, si ricava<br />

che Gengis khan tolse di mezzo<br />

dieci milioni d’umani in un mondo allora<br />

spopolato. Probabilmente le sue<br />

vittime furono assai meno, tuttavia i<br />

mongoli uccisero nei modi più vistosi.<br />

I principi e i loro sudditi che rifiutavano<br />

la resa furono bolliti, scuoiati,<br />

squartati, impalati, arrostiti a fuoco<br />

lento, ustionati a morte con l’argento<br />

fuso nelle orecchie, trasformati in<br />

prede di battute di caccia, tutti spettacoli<br />

organizzati per il sollazzo della<br />

truppa. Ai musulmani d’Oriente il<br />

khan era noto come “il Maledetto”,<br />

l’Europa cristiana era certa che i suoi<br />

guerrieri discendessero dai mostri biblici<br />

Gog e Magog. Però i più grandi<br />

sterminatori che la storia ricordi furono<br />

allo stesso tempo geniali costruttori<br />

del più vasto impero mai apparso<br />

Dopo la caduta dell’Urss i mongoli hanno scelto<br />

di rifondare l’identità nazionale sul feroce condottiero<br />

che 800 anni fa creò il più vasto impero della storia,<br />

dal mar Giallo all’Europa occidentale. Un salto<br />

all’indietro vertiginoso, ma qui gli allevatori nomadi<br />

vivono ancora la stessa vita del Milleduecento<br />

Torna il popolo a cavallo<br />

sulla terra, dal mar Giallo all’Europa<br />

occidentale; e quell’impero fu d’una<br />

tolleranza religiosa singolare non solo<br />

per il suo tempo.<br />

Così quando è finita con l’Urss anche<br />

la tutela sovietica sulla loro patria,<br />

i mongoli hanno deciso di fondare l’identità<br />

nazionale proprio su quel passato<br />

maledetto: hanno glorificato<br />

Gengis. <strong>La</strong> riabilitazione cominciò<br />

quindici anni fa, il giorno della festa<br />

nazionale. Nello stadio di Ulaan Bataar<br />

l’esercito sfilava davanti ai capi<br />

comunisti, quando sugli spalti due<br />

uomini srotolarono un drappo bianco<br />

e lo sollevarono in alto, così in alto che<br />

tutti riconobbero la faccia dipinta. Allora<br />

la folla ammutolì: per l’ideologia<br />

ufficiale da ottant’anni Gengis khan<br />

era un’anticaglia proibita. I libri di<br />

scuola lo liquidavano come un simbolo<br />

del più feroce pre-capitalismo feudale;<br />

e il fatto che i suoi mongoli avessero<br />

sterminato russi fino a Kiev e slavi<br />

fino a Cracovia lo rendeva particolarmente<br />

controrivoluzionario. Tutti<br />

guardarono verso il palco delle autorità:<br />

la nomenklatura pareva confusa.<br />

Poi qualcuno cominciò ad applaudire<br />

e l’applauso crebbe, dilagò nello stadio,<br />

fu un’ovazione: il Figlio del Cielo<br />

Eterno era tornato.<br />

Da allora è ovunque. Portano il suo<br />

nome il miglior albergo della capitale,<br />

la vodka più cara, la birra nazionale,<br />

l’unico Airbus delle linee aeree mongole,<br />

un’infinità di bar, ristoranti, imprese<br />

di turismo. Il partito ex-comu-<br />

Questo è il Paese più<br />

spopolato del pianeta<br />

e i viaggiatori<br />

l’associano<br />

a un’esperienza<br />

che l’Occidente<br />

ha perduto:<br />

la percezione<br />

del nulla:<br />

mancano alberi, case,<br />

punti di riferimento,<br />

così le colline<br />

ingigantiscono<br />

e il cielo si dilata<br />

nista l’ha riabilitato, da nemico dei<br />

popoli è diventato padre della patria.<br />

E quest’anno presiede alle cerimonie<br />

indette per l’ottocentesimo anniversario<br />

della fondazione dell’impero.<br />

Come per prevenire i dubbiosi, il premier<br />

mongolo in giugno ha avvertito:<br />

Gengis non fu cattivo come raccontano,<br />

«ebbe cattiva stampa».<br />

Ad un estraneo questo agganciare il<br />

nostro tempo al tredicesimo secolo<br />

può apparire bizzarro come quel programma<br />

della tv statale in cui il conduttore<br />

e le vallette, vestiti nelle sete<br />

larghe un tempo in uso alla corte imperiale,<br />

consegnano elettrodomestici<br />

ai vincitori. Ma per un quinto della popolazione,<br />

gli allevatori nomadi, la vita<br />

del Duecento è un’esperienza vissuta.<br />

«Tuttora essi applicano le regole<br />

prescritte dalla Legge universale dell’impero<br />

per leggere il cielo, ricavare<br />

le previsioni del tempo, allevare il bestiame,<br />

sapere cosa fare nel primo<br />

giorno di luna», mi disse a Ulaan Bataar<br />

Nasrain Nyam-Osor, rettore<br />

d’un’università che ovviamente porta<br />

il nome di Gengis khan.<br />

<strong>La</strong> realtà forse è meno romantica.<br />

Oggi molti nomadi cercano un compromesso<br />

con la modernità e per una<br />

parte dell’anno o definitivamente si<br />

vanno ad accampare alla periferia<br />

della capitale. Però non è infrequente<br />

il percorso inverso: nei somon, le cittadine<br />

costruite intorno a kombinat<br />

industriali oggi decrepiti, alcuni preferiscono<br />

la vita avventurosa del pa-<br />

store alla disoccupazione o a stipendi<br />

medi che non raggiungono i 100 dollari<br />

al mese. I pastori irriducibili spesso<br />

raccontano che a Ulaan Bataar l’aria<br />

è «troppo pesante». I loro progenitori<br />

avevano così in sospetto le città<br />

che nella furia con cui le radevano al<br />

suolo si può sospettare un’avversione<br />

ideologica. <strong>La</strong> loro Legge universale<br />

tollerava le case in muratura ma prescriveva<br />

di non abitarvi in tanti, ritenendole<br />

sporche e contronatura.<br />

Condannava gli scavi come ferite inflitte<br />

alla Terra, che per un cavaliere<br />

errante rappresentava unicamente<br />

un’immensità da percorrere sopraelevati,<br />

e prescriveva di colmare ogni<br />

buco nel terreno, fosse pure il piccolo<br />

foro prodotto dal chiodo cui nelle soste<br />

si legava il cavallo. Otto secoli dopo<br />

queste prescrizioni non sono più<br />

osservate, se non da alcuni anziani;<br />

ma basta uscire da Ulaan Bataar per<br />

ritrovare, dopo qualche dozzina di<br />

chilometri, la Mongolia antica.<br />

Innanzitutto la sua vuota immensità.<br />

Con un’estensione pari a cinque<br />

Italie, la Mongolia ha meno abitanti di<br />

Roma (due milioni e mezzo). È il Paese<br />

più spopolato del pianeta, uno spazio<br />

metafisico che i cartografi prosaicamente<br />

situano tra la Russia e la Cina.<br />

<strong>La</strong> letteratura di viaggio contemporanea<br />

in genere l’associa ad un’esperienza<br />

che l’Occidente ha perso, la<br />

percezione del nulla. Chi avesse voglia<br />

di attraversare le foreste del nord<br />

nell’unico modo possibile, a piedi o a


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 37 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

di Gengis il Maledetto<br />

cavallo, potrebbe procedere in linea<br />

retta per 400 chilometri fino alla Russia<br />

senza incontrare anima viva, a parte<br />

qualche evaso che inselvatichisce<br />

tra abeti e betulle, assediato dai lupi.<br />

Gli altopiani centrali, distese alluvionali<br />

bianche d’inverno e verde-tenue<br />

d’estate, stordiscono il viaggiatore<br />

privandolo delle proporzioni: mancando<br />

alberi, case o altri punti di riferimento,<br />

le colline ingigantiscono e il<br />

cielo si dilata. Le strade asfaltate intorno<br />

alla capitale diventano presto<br />

piste che si accavallano e si separano,<br />

oppure si estinguono dopo aver disegnato<br />

geroglifici incomprensibili. Il<br />

sud è un deserto di sabbia e di rocce, il<br />

Gobi, che nel passato inghiottì intere<br />

spedizioni cinesi. A chi vi si avvicina<br />

— lo racconta nel suo Gobi lo scrittore<br />

Roberto Ive, un cantore di quella terra<br />

— può capitare di incontrare alberi<br />

con la sciarpa votiva di seta blu, il khadag,<br />

legata intorno al tronco: sono gli<br />

ultimi alberi prima del nulla. Più<br />

avanti comincia un mondo primordiale<br />

dove anche il vento e la grandine<br />

sono in scala, cioè grandiosi come il<br />

Gobi.<br />

Come il paesaggio, così è quasi immutata<br />

la vita del popolo a cavallo.<br />

Tuttora abita nella tenda bianca che<br />

terrorizzò la cristianità. I russi la chiamano<br />

yurta, i mongoli gher, “casa”.<br />

Circolare, bassa, smontabile in<br />

mezz’ora. Struttura modulare in bastoni;<br />

pareti in strati di lana pressata,<br />

il feltro, per trattenere il calore del fo-<br />

L’IMPERATORE RIABILITATO<br />

<strong>La</strong> Mongolia si estende per 1.560.000 chilometri<br />

quadrati su un altopiano dove, d’inverno,<br />

le temperature possono arrivare anche a 50° sotto<br />

zero. Più di un quinto dei due milioni e mezzo<br />

di abitanti è nomade, dedito alla pastorizia, l’unica<br />

vera ricchezza del paese. Nel ‘92, in seguito<br />

al crollo dell’Urss, è diventata una <strong>Repubblica</strong><br />

semipresidenziale. E nel ‘97 il governo<br />

ha riabilitato ufficialmente la figura di Gengis khan,<br />

colare nei mesi freddi, quando la temperatura<br />

scende ai meno quaranta.<br />

Non è una vita facile, e per gli adulti la<br />

radio è l’unico svago. Ma se un bambino<br />

può scegliere tra la scuola e il cavallo,<br />

beh, non ha molte esitazioni. I<br />

nomadi cavalcano dall’età di sei anni.<br />

Usano l’animale soprattutto per pascolare<br />

greggi, yak e cammelli lanosi,<br />

ma è chiaro che cavalcano soprattutto<br />

per passione, con la facilità di bambini<br />

e adulti che trottano in schiere<br />

compatte di quattro o cinque animali<br />

affiancati.<br />

<strong>La</strong> loro destrezza confermò nei secoli<br />

l’opinione di tanti viaggiatori, per<br />

i quali non v’è cosa che i mongoli non<br />

riescano a fare dalla sella, perfino defecare.<br />

Tuttora un cavaliere scadente<br />

è così malvisto che due anni fa, quando<br />

chiesi ad un pastore nomade se<br />

fosse mai caduto da cavallo, la mia interprete<br />

si rifiutò di tradurre: la domanda<br />

è considerata gravemente offensiva.<br />

Ammettere un capitombolo<br />

equivale a confessarsi non solo inetto,<br />

ma anche menagramo, perché l’incidente<br />

conferma che la sfortuna aleggia<br />

sulla famiglia del disarcionato.<br />

Quando gli ho chiesto se questa superstizione<br />

nasca dal fatto che Gengis<br />

khan morì per i postumi d’una caduta<br />

da cavallo, lo storico Namsrain<br />

Nyam-Osor m’ha corretto vigorosamente:<br />

l’imperatore non rovinò mai a<br />

terra, solo storici incauti credono a<br />

questa diceria. «Benché sessantenne<br />

non poteva incappare in un incidente<br />

considerato dal precedente regime simbolo del<br />

feudalesimo pre-capitalista e ora onorato come<br />

padre fondatore della patria. Tanto che<br />

nel 2006, per gli 800 anni dalla sua ascesa al<br />

trono, sono previste celebrazioni eccezionali.<br />

Le immagini di queste pagine sono tratte<br />

da un servizio fotografico della storica ed etnologa<br />

francese Sophie Zénon, e sono state esposte<br />

a Parigi nella mostra “Haïkus Mongols”<br />

Agli occhi<br />

del cavaliere nomade<br />

l’unica vita degna<br />

è mobile<br />

e sopraelevata,<br />

un moto perpetuo<br />

regolato dal cielo,<br />

un flottare nell’aria<br />

fina e nel vento<br />

E così ha sviluppato<br />

un disprezzo atavico<br />

per il contadino<br />

appiedato, chino<br />

sui campi<br />

così disastroso. Era sempre affiancato<br />

da cavalieri pronti a sorreggerlo».<br />

Per molti cavalieri in erba l’iniziazione<br />

avviene con il Nadaam, la Festa,<br />

una corsa a cavallo che vede centinaia<br />

di bambini e adolescenti galoppare<br />

per due ore e decine di chilometri, all’occorrenza<br />

pestandosi senza pietà<br />

con il manico d’osso dei frustini. Chi<br />

in quei giorni s’avventuri a piedi dalle<br />

parti del traguardo, dove il traffico<br />

equestre è più intenso, non solo si<br />

sente precario come un pedone in autostrada,<br />

ma soprattutto capisce il disprezzo<br />

atavico che il popolo a cavallo<br />

nutre per l’appiedato, in particolare<br />

per il contadino, dunque per il cinese.<br />

Agli occhi del cavaliere nomade<br />

l’unica vita degna è mobile e sopraelevata,<br />

un moto perpetuo regolato dal<br />

cielo, un flottare nell’aria fina e nel<br />

vento; per converso il popolo dei campi,<br />

sedentario, infangato e chino sulla<br />

terra, rappresenta un’umanità bruta.<br />

«Il mondo è fondato sull’agricoltura»,<br />

era scritto ancor prima di Cristo in testa<br />

agli editti dell’imperatore cinese.<br />

Quando i mongoli conquistarono la<br />

Cina settentrionale, discussero a lungo<br />

se lasciare in vita una popolazione<br />

così sordidamente agricola.<br />

Per quanto in seguito siano stati gli<br />

stanziali dettare la loro legge, gli allevatori<br />

nomadi o semi-nomadi, oggi<br />

mezzo milione, hanno dimostrato<br />

una certa capacità di resistere. Parevano<br />

spacciati già negli anni Trenta,<br />

quando il regime filo-sovietico confi-<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />

scò il bestiame e irreggimentò proprietari<br />

e pastori nei nigdel, sorta di<br />

kolkhoz per allevatori. Distrutti i templi<br />

buddisti, che nella popolazione<br />

nomade avevano il serbatoio delle vocazioni,<br />

fucilati gli sciamani, banditi i<br />

monaci, sembrò sparire anche la civiltà<br />

del nomadismo mongolo.<br />

Ma sessant’anni più tardi, al crollo<br />

del comunismo, si scoprì che i nomadi<br />

non erano meno buddisti di prima,<br />

e nel frattempo s’erano perfettamente<br />

adattati al collettivismo, ricavandone<br />

non solo i vantaggi (collegi invernali<br />

per i bambini, pensione, un minimo<br />

d’assistenza medica) ma anche un<br />

certo lucro. Erano così integrati in quel<br />

sistema che all’inizio degli anni Novanta,<br />

quando gli ex stalinisti si convertirono<br />

d’incanto al liberismo, i nomadi<br />

si trovarono in difficoltà. Il governo<br />

rinunciò a riformare i nigdel e li<br />

abrogò frettolosamente, ritenendo<br />

che il nomadismo assistito non avrebbe<br />

mai portato attivi allo Stato. Il bestiame<br />

fu privatizzato. Parte degli allevatori<br />

vendette la propria quota di bestiame<br />

e si trasferì in città per tentare<br />

d’arricchirsi. Nella capitale molti di loro<br />

oggi ingrossano le fila degli alcolisti.<br />

Altri tentano di trovare una via d’accesso<br />

onorevole alla modernità.


38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

Il cornetto intinto<br />

nel cappuccino altrui,<br />

la schiava messa<br />

in vendita tra i banchi<br />

di un mercato romano<br />

LE GAG<br />

POSSO FARE ZUPPETTA?<br />

In un bar, Loy puccia il cornetto<br />

nelle tazze altrui. E spiega:<br />

“Il medico mi ha proibito<br />

il cappuccino, così lo freghiamo”<br />

CONFESSIONI IN TRENO<br />

Con “Viaggio in seconda<br />

classe” (’77) la candid camera<br />

finisce in treno: Loy raccoglie<br />

le confidenze dell’Italia pendolare<br />

LAVORARE STANCA<br />

Loy chiede soldi agli operai<br />

della Breda di Sesto: “Sono<br />

stufo di lavorare”. Scoppiano<br />

disordini: viene anche arrestato<br />

Dieci anni fa moriva Nanni Loy. Il suo “Specchio segreto” fece<br />

debuttare da noi un genere che, con “Scherzi a parte”, “Striscia”,<br />

“le Iene”, ha sbancato gli ascolti e che anche quest’estate,<br />

con “Paperissima”, è in testa alle classifiche. Ma il passaggio<br />

dal bianco e nero al colore, dall’emittenza pubblica a quella commerciale<br />

ha cambiato il cuore della televisione-verità. E ora il futuro è delle webcam<br />

Quando la tv-spia<br />

raccontava l’Italia<br />

Candid<br />

Camera<br />

ANTONIO DIPOLLINA<br />

Il programmapiù visto dell’estate<br />

tv si chiama Paperissima e si<br />

articola in due momenti ben distinti.<br />

Nel primo si vede, per<br />

esempio, un filmato in cui un<br />

bimbo con un trattore giocattolo<br />

finisce contro un albero, nel secondo<br />

un uomo con un trattore vero finisce<br />

contro un albero. Il telespettatore<br />

ride in entrambi i casi (i bambini, soprattutto)<br />

ma solo in uno dei due la telecamera<br />

al momento dell’impatto ha<br />

un sobbalzo, l’immagine svaria da destra<br />

a sinistra, l’operatore insomma è<br />

sorpreso, e magari — si spera — anche<br />

un po’ preoccupato. In questo caso la<br />

realtà è davvero tale, ed è approdata<br />

per percorsi ormai noti, in tv. Nel secondo<br />

caso, la telecamera resta saldissima<br />

e quindi è tutto costruito, l’operatore<br />

sa quello che sta per accadere<br />

(in un solo caso non è così, ovvero<br />

quando l’operatore è felice, per motivi<br />

suoi, dello schianto del conoscente,<br />

ma in quel caso la telecamera si sposterebbe<br />

comunque per via del sussulto<br />

di gioia). Quest’ultima è candid<br />

camera, artefatta, ormai dilagante (i<br />

filmati di Paperissima con telecamera<br />

ferma sono la stragrande maggioranza).<br />

Il mercato della tv mondiale, che<br />

chiede a gran voce filmati del genere,<br />

ha imposto le sue regole.<br />

In un recente filmato, a milioni si sono<br />

divertiti a vedere due bimbi che<br />

prendevano a litigare, prima si tiravano<br />

i capelli, poi hanno iniziato a graffiarsi<br />

in faccia, poi a spintonarsi contro<br />

i mobili della stanza, poi a tirarsi<br />

oggetti pesanti: la telecamera era saldissima,<br />

dietro alla medesima o c’era<br />

un babbo-manager che aveva allestito<br />

il tutto, oppure lo stesso babbo stava<br />

pensando che, se usciva anche il<br />

sangue, stavolta i cento dollari in palio<br />

per il migliore filmato non glieli avrebbe<br />

tolti nessuno.<br />

Che ne avrebbe pensato il buon<br />

Nanni Loy? Chi lo sa. O meglio, si può<br />

immaginarlo, a patto di non ritenere i<br />

suoi Specchio Segreto e Viaggio in seconda<br />

classe come esperimenti naif di<br />

telecamera nascosta e poi succeda<br />

quello che deve succedere. Ovviamente<br />

c’era una scrittura precedente,<br />

c’era un’intenzione alla base, c’era<br />

una costruzione successiva. C’era la<br />

tv, insomma, con il suo strapotere e le<br />

sue esigenze già ben delineate e fortis-<br />

sime: Loy ci metteva poi i diversi livelli<br />

di lettura a disposizione, per cui il<br />

cornetto nel cappuccino altrui, o meglio<br />

ancora la finta schiava venduta al<br />

mercato romano, potevano divertire<br />

o stupire i più, e poi far versare inchiostro<br />

agli analisti del comportamento.<br />

Il punto è che da allora sono dovuti<br />

passare decenni prima di rivedere, da<br />

noi, il ritorno della telecamera non<br />

conclamata. Ma era già tardi, c’era la<br />

tv commerciale in piena espansione, e<br />

insomma eravamo già alla lunga, lunghissima<br />

fase degenerativa. Con la lezione<br />

dei maestri della tv ultrapop<br />

americana sottomano, s’intende. Con<br />

l’esigenza della tv-maiale, nel senso di<br />

quella dove non si butta via niente.<br />

È il 1990, a giugno su Canale 5 va in<br />

onda in prima serata un curioso esperimento<br />

che si chiama appunto Paperissima:<br />

dentro c’è tutto il «non visto<br />

in tv ma successo in tv», errori e strafalcioni<br />

di giornalisti e conduttori, ca-<br />

pitomboli e pernacchie dai quattro<br />

angoli del mondo, parolacce sfuggite<br />

e “bippate” ma intuibilissime, i vip al<br />

naturale, o meglio come li immaginate<br />

al naturale. Il giorno dopo negli studi<br />

non credono ai loro occhi, i dati parlano<br />

di nove milioni di telespettatori,<br />

un successo torrenziale, direbbero loro,<br />

ottenuto a prezzi irrisori, con investimento<br />

quasi zero. L’inizio di qualcosa<br />

di meraviglioso.<br />

<strong>La</strong> tv commerciale — e solo lei — ha<br />

costruito da lì, sulle varianti possibili<br />

della telecamera nascosta o comunque<br />

spia, un filone che solo oggi va calando,<br />

ma appena appena. Il filone ha<br />

prodotto la quasi epopea di Scherzi a<br />

parte, programma boom fino allo sfinimento<br />

attuale. Un genere venduto<br />

anche in dvd nei suoi “best of”, un genere<br />

che all’inizio sembrò quasi puro,<br />

nella deflagrazione. Finché qualcuno<br />

non si accorse che gli scherzi più clamorosi<br />

e thriller ai vip avevano per<br />

protagonisti, guarda caso, ottimi attori<br />

(memorabile il Leo Gullotta che si ritrova<br />

una tigre vera in garage: ovvio<br />

che nessuno sarebbe così pazzo da rischiare<br />

un simile scherzo per davvero,<br />

grande la prova d’attore): finché diventa<br />

ovvio e naturale il taroccamento<br />

dell’ottanta per cento almeno degli<br />

scherzi andati in onda. E il venti per<br />

cento restante è quasi sempre quello<br />

meno divertente.<br />

Il meglio, il vero — come in ogni tv<br />

che si rispetti — non è mai andato in<br />

onda. Luca Barbareschi si ritrovò<br />

chiuso in ascensore con stranissimi<br />

compagni di viaggio, capì la situazione,<br />

gli girarono i santissimi e iniziò a<br />

demolire a mai nude tutto quanto alla<br />

ricerca della telecamera nascosta, che<br />

saltò fuori: mai visto in tv, mai autorizzato.<br />

E quel direttore di giornale invitato<br />

a partecipare a un finto talkshow<br />

che si ritrovò molestato quasi<br />

sessualmente in trasmissione da una<br />

finta ospite? Abbozzò, poi reagì e fece<br />

per andarsene. Sbucò la responsabile<br />

del programma e gli disse: «Su, firmiamo<br />

la liberatoria, oggi la firmano tutti<br />

e poi sono un sacco di soldi». Quello<br />

che lui le rispose è abbastanza noto,<br />

ma non si può proprio scrivere. Dell’episodio,<br />

va da sé, non si è mai visto<br />

nulla.<br />

Per i rami, la telecamera nascosta è<br />

andata ovunque, cercando sempre<br />

più una parvenza di verità. Con la tecnologia<br />

che ha ridotto al minimo le di-


DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

‘‘<br />

maggiore crudeltà‘‘<strong>La</strong><br />

del nostro lavoro sta<br />

nel creare illusioni per<br />

i poveretti che ci credono, e<br />

nel distruggerle<br />

poi brutalmente<br />

con la rivelazione<br />

che era tutta una finta<br />

mensioni, la microcamera addosso a<br />

inviati spregiudicati ha fatto la fortuna<br />

di programmi come Striscia la Notizia<br />

e le Iene, ha smascherato centinaia<br />

di ciarlatani e truffatori da poco,<br />

si è sempre astenuta dai grandi scandali,<br />

per ovvi motivi (e comunque oggi<br />

il telefono basta e avanza). Ma sempre<br />

al servizio delle esigenze tv, quelle<br />

che non rendono poi molto dissimile<br />

lo scherzo al vip dal serio inviato del<br />

telegiornale che raduna prima la folla<br />

di una manifestazione e poi fa accendere<br />

la telecamera per far sembrare<br />

che siano tanti.<br />

È chiaro che definire tutto questo<br />

“candid camera” richiamandosi allo<br />

spirito delle origini non ha molto senso.<br />

È altro, è televisione. Il genere è<br />

stanco e il percorso complicatissimo.<br />

Oggi, le vere “candid” sono le webcam<br />

nascoste, e non per nulla sta arrivando<br />

una legislazione ferrea al proposito<br />

in difesa della privacy. Vale quello<br />

che si dice dei rapporti tra le persone:<br />

se tutti un giorno si mettessero a raccontarsi<br />

l’un l’altro la verità, il mondo<br />

finirebbe dopo poche ore. Se una vera<br />

Con “Specchio segreto”<br />

abbiamo inventato<br />

l’assurdo letterario<br />

e poi ne abbiamo<br />

provocato l’irruzione<br />

nel quotidiano<br />

più banale della gente<br />

più normale<br />

telecamera autenticamente nascosta<br />

ci mostrasse al naturale all’esterno,<br />

idem.<br />

Oggi la “Real-tv”, sui nostri canali, è<br />

un programma di Italia 1 che mostra<br />

eventi drammatici, sciagure, catastrofi<br />

naturali, sparatorie tra banditi e polizia.<br />

Effettacci, insomma. I reality-show<br />

sono quanto di più costruito e artefatto<br />

possibile, di “candid” non c’è più nulla.<br />

Si parla di una nuova edizione di Scherzi<br />

a partein allestimento, ma è come un<br />

segreto di stato: già ormai se ne accorgono<br />

tutti se vengono presi di mira, figuriamoci<br />

se si spargesse la notizia che<br />

quelli di Mediaset ci stanno lavorando<br />

sopra. A Striscia e alle Iene provano i<br />

nuovi modelli di microcamera, e via<br />

contro nuovi truffatori.<br />

Ogni tanto si prende un aereo delle linee<br />

straniere, e sui monitor partono<br />

delle “candid” con colori anni Settanta,<br />

ma girate di recente. Sono ingenue, alcune<br />

deliziose, con gente comune, cercano<br />

il surreale. Un altro mondo, ci<br />

provano ancora, si divertono con poco,<br />

direbbe qualcuno. Da noi è diverso, da<br />

noi ha vinto la televisione.<br />

<strong>La</strong> gente ha tutto il diritto<br />

di andare in Tv. Anzi,<br />

secondo me ci va troppo<br />

poco. Vedo ancora molti<br />

salotti pieni di politici,<br />

giornalisti, intellettuali,<br />

artisti [...]. E gli altri?<br />

Dove sono gli altri?<br />

All’estero continuano<br />

a fare piccoli sketch<br />

ingenui e surreali,<br />

dove la gente comune<br />

è ancora protagonista<br />

GLI EREDI<br />

CANDID CAMERA SHOW<br />

Gerry Scotti negli anni ’80,<br />

ripropone, aggiornandola,<br />

la formula di “Specchio Segreto”.<br />

Fra gli autori anche Nanni Loy<br />

LIBERO<br />

Nel 2000 Teo Mammucari<br />

applica i principi della candid<br />

camera agli scherzi telefonici.<br />

Grande successo di pubblico<br />

SCHERZI A PARTE<br />

Ideata da Fatma Ruffini nel ’92,<br />

sceglie le vittime delle sue<br />

telecamere nascoste<br />

fra i personaggi della televisione<br />

FOTO WEBPHOTO<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />

Nanni Loy nel ricordo di Ugo Gregoretti<br />

“Tagliente ma affettuoso<br />

così ha svelato i nostri tic”<br />

PAOLO D’AGOSTINI<br />

Due signori. Tutt’e due comunisti “aristocratici” (il<br />

personaggio che rievochiamo lo era di nascita e il nostro<br />

intervistato prima di accettare la tessera del Pci<br />

si chiese candidamente: «Come posso io che possiedo 200<br />

cravatte?», sentendosi rispondere che poteva dal momento<br />

che il poeta Aragon ne possedeva il doppio). E grandi innovatori<br />

televisivi. Tre cose in comune tra Nanni Loy e Ugo<br />

Gregoretti. Un’altra è Fregene, cara ai cinematografari, dove<br />

il 21 agosto di dieci anni fa Loy fu colto da infarto e Gregoretti,<br />

con la compagna di Nanni Elvira, fu il primo a tentare<br />

invano di soccorrerlo. Ugo Gregoretti (classe 1930, cinque<br />

anni meno di Loy) ricorda l’amico cominciando dall’episodio<br />

che ne fece un personaggio popolarissimo. E svelando<br />

un altro punto di contatto.<br />

«L’ho conosciuto dopo aver fatto il mio primo film nel ‘61,<br />

I nuovi angeli. Venni “scoperto” in virtù di una rubrica che<br />

tenevo in tv, Controfagotto. Sull’onda del suo successo e della<br />

novità che rappresentava il produttore Alfredo Bini mi<br />

propose di fare un film. Mi trovai così promosso regista di<br />

cinema, e conobbi Nanni. Di lì a poco Angelo Guglielmi reduce<br />

da Londra con sotto il braccio il “format” — si direbbe<br />

oggi — della candid camera propose a me Specchio segreto.<br />

Risposi che sarei stato troppo riconoscibile per via di Controfagotto,<br />

mentre la formula si fondava proprio sulla irriconoscibilità<br />

del “provocatore”. Venne allora in mente a entrambi<br />

Nanni, che accettò circondandosi di collaboratori di<br />

talento come Giorgio Arlorio e Fernando Morandi».<br />

Ha rivelato un retroscena...<br />

«Non l’ho mai raccontato. Evidentemente però l’affinità<br />

elettiva tra noi due è rimasta tanto legata a quel fatto che ancora<br />

oggi, con mia frustrazione, c’è chi incontrandomi mi<br />

dice: lei ha fatto tante belle cose ma nessuna ha eguagliato<br />

quel cornetto intinto nel cappuccino degli altri. E, non vorrei<br />

apparire irriverente, quando Nanni morì e fu allestita la<br />

camera ardente in Campidoglio, mentre scendevo la scalinata<br />

incrociai una donnetta che mi disse a bruciapelo: ma<br />

come, lei non era morto?».<br />

Avete entrambi riversato nella televisione lo spirito, la<br />

sensibilità della commedia cinematografica italiana.<br />

«Lui certamente, veniva da quel cinema. Io ero un redattore,<br />

anzi un praticante del telegiornale che sognava di diventare<br />

regista di cinema e aveva un occhio di riguardo per<br />

la commedia all’italiana. Il mio Controfagotto conteneva<br />

materiali equivalenti. E perfino quando ho girato Apollon<br />

sull’occupazione di una tipografia gli operai romani che recitavano<br />

se stessi erano di scuola sordiana. In Nanni c’erano<br />

già molte esperienze, in me la contaminazione da giornalistino<br />

televisivo che applicava i moduli della commedia<br />

ai suoi “pezzi”. Impostavo le interviste come se fossero sketch,<br />

parenti poveri di un film».<br />

Il modello di Specchio segreto e la successiva<br />

evoluzione (o involuzione?) della formula<br />

candid camera nella tv italiana.<br />

«Specchio segreto si avvalse subito di una<br />

componente non so se già presente nella sperimentazione<br />

anglosassone anteriore: autori<br />

e sceneggiatori che venivano dal cinema,<br />

Nanni per primo. E di una comicità, di un<br />

umorismo che andavano oltre l’invenzione di<br />

gag e rimandavano a uno spaccato antropologico<br />

e sociale. Uno spessore mai visto prima,<br />

FRA CINEMA E TV né tantomeno dopo. Pensi ai livelli di stupidità<br />

Nella foto,<br />

di oggi e agli abissi di faciloneria provocatoria<br />

Ugo Gregoretti ma stolta, vacua. <strong>La</strong> forza e la classe di Nanni<br />

erano nel non essere mai offensivo pur essendo<br />

così pungente. Un meccanico autocontenimento<br />

faceva sì che quando si avvicinava troppo al confine<br />

della presa per il culo scattassero la pietas, la simpatia,<br />

l’indulgenza affettuosa verso il malcapitato. Tra i molti primati<br />

di Specchio segreto — oltre a quello cronologico e a<br />

quello qualitativo nel far tesoro sia del cinema civile e di denuncia<br />

che della commedia all’italiana, nel farsi ritratto di<br />

un paese con le sue contraddizioni e tic e con la sua straordinaria<br />

varietà umana — ce n’è anche un altro. Si scoprì lì la<br />

famosa “liberatoria”: cioè, dopo aver “incastrato” le persone<br />

a loro insaputa, bisognava ottenere il permesso per andare<br />

in onda. E il bello è che i rifiuti furono pochissimi, la<br />

stragrande maggioranza si fidava e firmava al volo».<br />

Va di moda rimpiangere la Rai di Bernabei. Ma è vero che<br />

quella tv così governativa, prudente, bacchettona, consentiva<br />

spazi anticonformisti come Specchio segreto.<br />

«Più che “di Bernabei” parlerei di Rai monopolio. Sentivamo<br />

la responsabilità del nostro ruolo. Sia pure sotto il tallone<br />

di ferro della censura democristiana eravamo severamente<br />

invitati a fare le cose bene e a scoprire dove stesse di<br />

casa l’araba fenice dello specifico televisivo. Contribuirono<br />

pochi registi cinematografici che, come Mario Soldati, portarono<br />

la spregiudicatezza del cinema nell’inchiesta televisiva.<br />

Miei maestri sono stati i tecnici, sia i vecchi tecnici della<br />

radio che i nuovi che dal cinema erano passati alla tv optando<br />

per il posto fisso, e poi quel grande radiocronista che<br />

era Vittorio Veltroni: l’abilità era quella di costruire delle immagini<br />

sonore, ciò che ignorava la tradizione del documentario<br />

cinematografico italiano che disprezzava la tv. Inventammo<br />

le inchieste televisive aggiungendo con le voci<br />

lo spessore mancante al documentarismo “artistico”. Le<br />

cose erano insomma più belle perché ogni dettaglio era teso<br />

a una qualità anche estetica. Con la fine del monopolio<br />

questo è finito. E dico che ha contribuito a renderci più perspicaci<br />

proprio la censura. Una ginnastica, una palestra.<br />

Studiare come assestare il cazzotto passando attraverso le<br />

sue maglie. Uno strumento pedagogico».<br />

Ragionamento un po’ insidioso, non le pare?<br />

«Io rimpiango la disciplina. So che oggi vediamo solo imbruttimento<br />

mentre allora c’era un’estetica. E la censura è<br />

stata come un’istitutrice, formativa. Nelle mani di chi ha il<br />

potere di scegliere, oggi del tutto incapace, potrebbe essere<br />

strumento di rieducazione: una bella censura a Maria De Filippi<br />

non sarebbe cosa sana?».


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 40 14/08/2005<br />

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

i sapori<br />

Riti di Ferragosto<br />

Bistecca<br />

Classico intramontabile,<br />

varia per taglio, frollatura<br />

e razza bovina. In attesa<br />

del ritorno della bistecca<br />

con l’osso, ci si consola<br />

con controfiletti e costate<br />

L’appuntamento<br />

Sagra della bistecca<br />

a Cortona (Arezzo)<br />

Il gusto della carne<br />

alla prova del fuoco<br />

Braciola<br />

I maiali di oggi fanno<br />

concorrenza ai bovini per<br />

magrezza: un bel guaio<br />

sulla brace, che asciuga i<br />

succhi. Meglio marinare<br />

la carne poche ore prima<br />

L’appuntamento<br />

Festa di Ferragosto<br />

a Fenestrelle (Torino)<br />

Costina di maiale<br />

Gioiello da barbecue,<br />

“finger food” d’obbligo.<br />

Il misto di grasso-magro<br />

attaccato alla costola si<br />

sgranocchia con la carne<br />

superbollente<br />

L’appuntamento<br />

Maialata a Montefiore<br />

dell’Aso (Ascoli Piceno)<br />

Costoletta d’agnello<br />

Va servita croccante fuori<br />

e rosa all’interno, perché<br />

non diventi stopposa. <strong>La</strong><br />

marinatura pre-cottura dà<br />

profumo e morbidezza<br />

L’appuntamento<br />

Sagra della bistecca di<br />

castrato, Monte Rinaldo<br />

(Fermo)<br />

Pancetta<br />

Colesterolo allo stato<br />

puro, ma anche una<br />

bontà untuosa e<br />

irresistibile. Invece<br />

di salarla, a fine cottura<br />

basta un giro di pepe<br />

L’appuntamento<br />

Festa del Bue a Cento<br />

(Ferrara)<br />

Nei mesi estivi si celebra l’apoteosi della brace, tecnica globale<br />

che unisce tutte le culture del mondo ma soprattutto occasione<br />

per trascorrere una giornata con le persone care all’insegna<br />

dell’aria buona e del cibo di qualità. Per quattro milioni di italiani<br />

è un appuntamento settimanale. Ecco i segreti per preparare<br />

grigliate prelibate senza compromettere la linea<br />

Barbecue<br />

LICIA GRANELLO<br />

<strong>La</strong> griglia è pronta, la brace ardente, salsicce e bistecche fanno bella mostra<br />

di sé sul vassoio. Moltiplicate la cartolina per venti milioni di volte<br />

e avrete un’idea di quanti barbecue saranno organizzati nelle prossime<br />

settimane tra le Dolomiti e <strong>La</strong>mpedusa, a cominciare da domani,<br />

vero griglia-day per vacanzieri e forzati della città.Ci portiamo appresso<br />

il rito della grigliata all’aria aperta come un passaporto d’allegria<br />

a poco prezzo: forse proprio per questo l’appuntamento con carbonella e<br />

spiedini a un certo punto è diventato una pratica inutile e vecchia, archiviata come<br />

un cappello demodé.<br />

A rivitalizzarlo, l’ondata migratoria degli ultimi anni,<br />

insieme al superamento dell’emergenza mucca pazza<br />

(che in Italia ha causato un morto, chissà se si può dire altrettanto<br />

di pesticidi e additivi cancerogeni ancora utilizzati<br />

ovunque). Perché la carne alla brace è il cibo globale<br />

per eccellenza, indifferente a frontiere e razze,<br />

confessioni religiose e conto in banca. Basta<br />

che si sparga nell’aria un certo profumo e<br />

siamo tutti lì, davanti alla griglia, dal presidente<br />

degli Stati Uniti (avete presente le immagini<br />

dei weekend nel ranch presidenziale?)<br />

al campesino messicano, uniti nel sacro nome<br />

dello spiedino arrostito.<br />

Non che tutti i barbecue siano uguali. Al contrario, basta passeggiare la<br />

domenica nei parchi delle grandi città per scoprire come l’occasione del<br />

pranzo collettivo si trasformi in una mirabile esibizione, con rituali organizzati<br />

fin nei minimi dettagli. I coreani, per esempio, collocano il braciere<br />

a centro tavola e intingono i tocchetti di carne mista, una volta cotti,<br />

nelle ciotole con salse (quasi tutte piccanti), come i francesi con la “fondue<br />

bourguignonne”.<br />

I venezuelani, invece, allestiscono delle supergriglie, accudite dagli uomini,<br />

mentre le donne preparano le carni, e i bambini, dispiegati i plaid sull’erba, allineano<br />

piatti e tovaglioli usa-e-getta. Il tutto, sulle note ardenti della musica salsa, mentre<br />

i cinesi arrivano con i bocconcini di pollo e zenzero già perfettamente infilzati negli<br />

spiedini, in modo da ridurre al minimo il lavoro sul campo.<br />

Noi preferiamo la campagna, la spiaggia, il giardino degli amici, il prato di fianco<br />

al terreno di gioco dopo una furibonda partita di calcetto. Secondo la ricerca realizzata<br />

nelle scorse settimane da Demoskopea per Montorsi (carni&salumi), oltre quattro<br />

milioni di famiglie organizzano il barbecue con frequenza settimanale, attribuendogli<br />

virtù non così scontate: appuntamento altamente “socializzante” con<br />

amici e parenti, occasione di coinvolgimento dei figli, alternativa alla routine della<br />

cucina quotidiana, escamotage per praticare la dieta senza avvilimenti.<br />

Anche la scelta delle carni è direttamente proporzionale alla riscoperta del fascino<br />

della griglia: in caduta le preferenze per le tipologie “light” (pollo, tacchino e coniglio),<br />

al primo posto assoluto troneggia Re Maiale, con il manzo a seguire. Niente attrae<br />

quanto salsiccia e costine, anche se bistecca e spiedini hanno sempre i loro fans<br />

affezionati. Ben distaccate – questione di gola e di tradizione – le non-carni: il pesce<br />

piace, ma necessita di una griglia monodedicata per evitare sgradevoli commistioni<br />

di odori, il formaggio è goloso, ma basta distrarsi un attimo per ritrovarsi con un blob<br />

giallastro spalmato su griglia e carbonella. Quanto alle verdure, non c’è barbecue<br />

senza radicchio carbonizzato, mentre le patate sopravvivono solo se accartocciate<br />

nell’alluminio e dimenticate nella brace spenta (salvo ricordarsene a fine pasto).<br />

Il resto, tutto quanto avreste voluto sapere sulla griglia e non avete mai osato chiedere<br />

– siamo tutti fuochisti provetti e come cuociamo noi le bistecche nessuno! – lo<br />

trovate su www.carnealfuoco.it. Compresi gli ultimi ritrovati hi-tech per arrostire costine&salsicce<br />

senza incenerirvi i polpastrelli.<br />

Petto di tacchino<br />

Carne da convalescenti:<br />

magra, poco gustosa,<br />

digeribilissima. Ottima<br />

negli spiedini insieme a<br />

bocconcini di carne e<br />

verdure robuste<br />

L’appuntamento<br />

Fuga del bove,<br />

Montefalco (Perugia)<br />

Salamino<br />

Si compra da un macellaio<br />

complice, prenotando<br />

per tempo. Se è buono,<br />

ma buono davvero,<br />

vale la grigliata<br />

da solo<br />

L’appuntamento<br />

Ferragosto<br />

a <strong>La</strong>ngosco (Pavia)


DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

4 milioni<br />

Le famiglie che praticano<br />

il barbecue settimanalmente<br />

39,2 Kg<br />

Il consumo pro capite annuo<br />

di carne suina<br />

25,1 Kg<br />

Il consumo pro capite annuo<br />

di carne bovina<br />

17,3 Kg<br />

Il consumo pro capite annuo<br />

di carni avicole<br />

‘‘<br />

Woody Allen<br />

Cloquet odiava la realtà, ma si rendeva<br />

conto che era pur sempre l’unico posto<br />

dove trovare una buona bistecca<br />

Da EFFETTI COLLATERALI<br />

casa editrice Bompiani<br />

Spiedini di pollo<br />

Danno il meglio insieme a<br />

verdure saporite. Sullo<br />

stecchino si alternano<br />

carne, cipolla e peperoni<br />

con pomodori ciliegino<br />

L’appuntamento<br />

Festa del contado<br />

a Sassocorvaro<br />

(Pesaro Urbino)<br />

B arbecue<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />

Quando la cucina<br />

è un affare da uomini<br />

MASSIMO MONTANARI<br />

è uscire fuori, per una scampagnata<br />

nei boschi o lungo il fiume, una scappata al<br />

parco di città, una più semplice discesa nel<br />

giardino o nel cortile sottocasa. Volendo, anche il<br />

terrazzo può andar bene: l’importante è uscire. È<br />

questa la vera ragion d’essere del rito — perché di<br />

un rito si tratta, né più né meno. L’invitante profumo<br />

delle carni non è solo celebrazione del gusto, e<br />

il sapore forte della brace non è solo una ghiottoneria<br />

per adepti. C’è qualcosa di più, qualcosa che<br />

si sarebbe tentati di chiamare il “richiamo della foresta”.<br />

Non per nulla, col barbecue, la preparazione del<br />

cibo tende a cambiare sesso. Se la nostra storia<br />

alimentare ha posto la donna a protagonista<br />

della cucina domestica, la grigliata e lo spiedo<br />

sono per definizione un affare di maschi. Sì, certamente,<br />

era lei a cuocere il galletto come<br />

solo lei sapeva fare, e le melanzane<br />

e i pomodori non si<br />

bruciavano mai, erano perfetti.<br />

Ma dietro di lei c’era immancabilmente<br />

lui; prima di lei,<br />

lui aveva fatto il fuoco, e non si stancava<br />

di dare consigli non richiesti. E in<br />

tanti altri casi era lui e solo lui il signore<br />

del gioco, il domatore del fuoco,<br />

il conoscitore esperto (o sedicente tale) del “momento<br />

giusto”. Questa inversione di ruoli è il segno<br />

distintivo della grigliata. <strong>La</strong> griglia sostituisce il fuori<br />

al dentro, lo spazio aperto alla casa. Sostituisce<br />

l’uomo cacciatore alla donna che addomestica il cibo<br />

e lo prepara in cucina. Riporta il gesto “culturale”<br />

della cucina a una “natura”, vera o presunta, che<br />

non conosceva complicazioni di tecniche e strumenti;<br />

che non conosceva, in senso proprio, l’arte<br />

di cucinare, ma si accontentava di cuocere il cibo.<br />

Senza pentole, senza padelle, senza acqua, senza<br />

olio, con il solo ausilio del fuoco e di un pezzo di<br />

ferro su cui posare la carne cruda, il gesto della cottura<br />

riacquista il senso primordiale che dovette<br />

avere non appena Prometeo regalò il fuoco agli uomini.<br />

Ogni cultura umana di tanto in tanto ha nostalgia<br />

di questo passato, più mitico che reale; ogni<br />

cultura desidera completarsi con la natura da cui<br />

presume di essersi staccata.<br />

Ma anche questa “natura” è una costruzione<br />

culturale. Gestire il fuoco, la fiamma, il calore<br />

non è possibile senza un apprendimento paziente,<br />

senza un sapere pratico che si impara e si insegna.<br />

L’uomo della foresta, che caccia e cuoce la<br />

sua preda, non è esattamente l’uomo “selvatico”<br />

descritto nei testi antichi e medievali, riprodotto<br />

in affreschi e in stampe popolari, protagonista di<br />

leggende ancora vive nelle nostre montagne.<br />

Leggende che, peraltro, svelano tutta l’ambiguità<br />

dell’immagine nel momento in cui attribuiscono<br />

proprio all’uomo “selvatico” l’invenzione<br />

della “civiltà”: è lui, in tanti racconti, a insegnare<br />

agli uomini le pratiche della coltivazione<br />

e della pastorizia, il segreto della ceramica,<br />

l’arte della cucina.<br />

È questo mito che, più o meno consapevolmente,<br />

rivive nel rito del barbecue. Preparare<br />

il cibo fuori casa, in maniera semplice, senza<br />

ingombri, senza il peso della “civiltà”. E se, come<br />

dicono, la civiltà l’hanno fatta le donne,<br />

per questa volta cercheremo di farne a meno.<br />

‘‘<br />

(L’autore è docente di storia medioevale<br />

all’Università di Bologna)<br />

Salsiccia<br />

<strong>La</strong> più amata dagli italiani.<br />

Può essere di carni miste<br />

o di un solo tipo. I dannati<br />

della dieta la<br />

bucherellano per far<br />

uscire il grasso in cottura<br />

L’appuntamento<br />

Sagra del cinghiale<br />

Cicerale (Salerno)<br />

Wurstel<br />

Gregario di successo,<br />

è molto utilizzato<br />

negli spiedini misti<br />

per dare gusto<br />

alle carni bianche<br />

L’appuntamento<br />

Barbecue alle case<br />

di Sant’Andrea<br />

di Buccheri (Siracusa)


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 43 14/08/2005<br />

DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

PIETRE MILIARI<br />

VESPA<br />

Nasce nel’46<br />

nei laboratori<br />

Piaggio. Nove anni<br />

dopo, nel ‘55,<br />

arriva il “Vespone”,<br />

simbolo dell’Italia<br />

del boom<br />

LAMBRETTA<br />

L’anti-Vespa<br />

nasce nel ’47<br />

nelle fabbriche<br />

Innocenti. Si<br />

ispirava ai mezzi<br />

in dotazione<br />

dei parà francesi<br />

SPAZIO<br />

Nella seconda<br />

metà degli anni<br />

’80, la Honda<br />

introduce Spazio:<br />

È il primo<br />

maxiscooter<br />

e inaugura un’era<br />

FOTO CORBIS<br />

I l<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />

Prezzo<br />

di listino:<br />

3.990<br />

euro<br />

STILE AMERICANO<br />

A quattro anni dal lancio, la serie Beverly della Piaggio<br />

si arricchisce della versione 250, con un nuovo motore<br />

da 244 cc monocilindrico da 22 Cv. Dall’inizio dell’anno<br />

in dotazione alla polizia di New York. Pesa 149 Kg<br />

Prezzo<br />

di listino:<br />

3.800<br />

euro<br />

VITA METROPOLITANA<br />

Password, lo scooter a ruote alte della bolognese Malaguti,<br />

è stato pensato come “chiave d’accesso”<br />

veloce e pratica per la città. Motore Yamaha da 250 cc<br />

e 20,8 Cv di potenza. Pesa 156 kg<br />

Quei viaggi veri e immaginari<br />

in sella alla mia “Primavera”<br />

MASSIMO GHINI<br />

viaggio più lungo che mi sia capitato di fare in Vespa l’ho fatto<br />

da fermo. Per più di duecento giorni, per l’esattezza sere,<br />

ho cavalcato una splendida Vespa del ‘53, quella col faro sul<br />

parafango, attraverso alcuni dei teatri più importanti d’Italia.<br />

Vacanze Romane e la sua leggendaria Vespa non potevano essere<br />

mezzo migliore per coinvolgere migliaia di spettatori in un<br />

viaggio sulle ali della memoria di un’epoca, di un paese e di una<br />

società tutte proiettate a pensare di costruire un mondo migliore.<br />

In fondo l’idea che un giornalista squattrinato potesse<br />

portare in Vespa una vera principessa, per l’epoca, ha fatto sognare<br />

molti. Immaginatevi che ogni sera l’apparizione della<br />

suddetta, tirata su in scena da un piccolo montacarichi ed accompagnata<br />

da piccoli sbuffi di vapore magici, scatenava l’applauso<br />

spontaneo di folle sorridenti ed ipnotizzate<br />

nello stesso tempo. Una moderna Wanda<br />

Osiris che i suoi ammiratori omaggiavano con<br />

il rispetto e la devozione dovuti. Una sera dopo<br />

l’ennesima replica, mi trovavo a cena con un<br />

grande commediografo e regista italiano Peppino<br />

Patroni Griffi che entusiasta dello spettacolo<br />

mi confessò con un po’ d’imbarazzo di essersi<br />

commosso alla vista della Vespa che gli ricordava...<br />

quello che gli ricordava! Nessuno di<br />

noi ebbe nulla da eccepire quando vedemmo<br />

sulla locandina scritto: con la partecipazione<br />

straordinaria della Vespa.<br />

Di veri viaggi con la Vespa, però, ne ho fatti<br />

tanti. <strong>La</strong> prima che mi venne regalata è stata una<br />

125 Primavera all’età di 16 anni, i miei non vollero<br />

prima. Segretamente ne avevo guidate<br />

molte dei miei amici che mi facevano la grazia<br />

di prestarmele. <strong>La</strong> mia “primavera ” durò esattamente un anno<br />

e un mese. Era un pezzo molto richiesto nel mercato dei furti.<br />

Vennero a “prendersela” nel cortile del mio liceo a Monteverde.<br />

Con dolore continuai a vivere dell’elemosina di amici che mi<br />

prestavano i loro vespini dismessi. Cominciò un’epoca di moto,<br />

velocità ed incoscienza. Anche le auto ebbero la loro parte, anni<br />

di lontananza, di distacco, quasi di rifiuto. Poi un giorno ecco<br />

riaccendersi la fiamma della passione. <strong>La</strong> televisione mi offrì la<br />

possibilità di girare un documentario sulla mia città, Roma,<br />

usando la Vespa originale di Vacanze Romane, quella di Gregory<br />

Peck. Un colpo di fulmine. Girammo le ultime scene arrivando<br />

fino ad Ostia, come nei vecchi film della grande commedia all’italiana.<br />

Da quel momento non ci siamo più lasciati, con grande<br />

gioia di mia moglie Paola che non ha mai avuto grande passione<br />

per le mie corse in moto. Sarà un caso ma al mio ultimo compleanno<br />

mio fratello mi ha regalato una vecchia 125 primavera,<br />

tutta rimessa a nuovo. Quando l’ho vista ho avuto un tuffo al cuore.<br />

L’ho messa in moto e sono andato a farmi un giro, ad un semaforo<br />

un tipo con un motorino mi ha affiancato, ha guardato<br />

la Vespa con attenzione e poi mi ha detto «125 primavera, 4 marce,<br />

marmitta del novantino... è sempre ‘a più bella». Mi sono sentito<br />

orgoglioso come un bambino sulla sua prima bicicletta.<br />

Questa, però la tengo in garage, perché mi piacerebbe molto lasciare<br />

ai miei figli, in tempi difficili come questi, la possibilità di<br />

goderci insieme un piccolo angolo di “primavera”.<br />

IL PERSONAGGIO<br />

L’attore Massimo Ghini<br />

FOTO LA PRESS


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 44 14/08/2005<br />

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005<br />

l’incontro<br />

Dive sempreverdi<br />

Claudia Cardinale<br />

LAURA LAURENZI<br />

ROMA<br />

Bella è ancora bella, compatta<br />

e sottile, le braccia<br />

nude e perfettamente delineate,<br />

senza un cedimento.<br />

Mi aspetta in giardino, tutta vestita di<br />

bianco. Da lontano, mentre chiama a sé<br />

i cani, sembra quella di un tempo. Gerani,<br />

oleandri, sfondo bucolico, un pratone<br />

rustico per niente all’inglese, ombra.<br />

Siamo nel casale sulla via Flaminia, alle<br />

porte di Roma, dove vive sua madre. Eccola<br />

la Cardinale, monumento alla bellezza<br />

sensuale e mediterranea. Una che<br />

se ne infischia del passare del tempo e<br />

non sembra per niente angosciata. Indossa<br />

una gonna folk, svolazzante, da<br />

ragazza, espadrillas in tinta, collana etnica<br />

e un top leggerissimo con bretelline<br />

filiformi a incorniciare la scollatura<br />

soda. Ci sediamo in salotto, davanti al<br />

grande camino di pietra. «Sì lo so, mi<br />

mantengo in forma. Eppure fumo tanto:<br />

almeno un pacchetto e mezzo al giorno.<br />

Mi curo la pelle, uso buone creme, ma<br />

non ho mai messo piede in un istituto di<br />

bellezza. Faccio moto, da ragazza ero<br />

un’atleta, campionessa di pallavolo e di<br />

basket, cammino moltissimo. Un altro<br />

segreto forse è che mangio poco. Io non<br />

mangio: assaggio. Una forchettata di<br />

questo, un pezzettino di quello. Basta.<br />

Detesto alzarmi da tavola con quel senso<br />

sgradevole di sazietà». Autodisciplina.<br />

Questa deve essere, da sempre, la<br />

sua parola d’ordine.<br />

Le rughe — poche, gentili — ci sono,<br />

ma hanno una loro morbidezza, forse<br />

perché non vengono tenute nascoste.<br />

«Non vorrei mai cancellare i segni dal mio<br />

viso, non vorrei mai dare un colpo di spugna.<br />

Mai, mai farei un lifting. Sono contraria<br />

per principio, e avrei troppa paura.<br />

E se non vieni come speravi? E se ti guardi<br />

allo specchio e non sai chi sei? E poi ho<br />

visto troppi danni, troppi errori. Magari ti<br />

toccano un nervo per sbaglio e rimani<br />

con la bocca storta, oppure con un occhio<br />

più chiuso e uno più aperto...».<br />

<strong>La</strong> più bella invenzione italiana dopo<br />

gli spaghetti, la definì David Niven. <strong>La</strong><br />

bellezza, ripete lei, è un dono avvelenato.<br />

A 66 anni Claudia Cardinale continua<br />

a ricevere lettere di ammiratori. «Mi<br />

scrivono in tanti. Anche molte donne, in<br />

genere mi chiedono consigli. Io rispondo<br />

sempre personalmente. Quelli che<br />

mettono anche il numero di telefono li<br />

richiamo. A momenti svengono, pensano<br />

che sia uno scherzo».<br />

Ma uno scherzo non è. È inconfondibile<br />

la voce di Claudia Cardinale, anche<br />

se con gli anni è diventata meno roca,<br />

meno sorprendente. Fu Fellini a sdoganarla,<br />

fu lui il primo e il più grande ad apprezzare<br />

quel soffio denso, a imporre<br />

che la Cardinale non venisse doppiata.<br />

Nello stesso anno, era il 1962, addirittura<br />

negli stessi mesi, l’attrice girava forse<br />

i suoi due film più noti: 8 e ½ e Il Gattopardo,<br />

e i due registi erano come il giorno<br />

e la notte, uno geloso dell’altro. Uno,<br />

Fellini, lavorava nel caos più assoluto e<br />

voleva che lei improvvisasse e basta, e la<br />

voleva bionda; l’altro, Visconti, maniaco<br />

del particolare, studiava ogni ciak nei<br />

minimi dettagli con perfezionismo accanito,<br />

e la voleva bruna. «Ogni quindici<br />

giorni mi dovevo ritingere i capelli».<br />

Le ripeteva Visconti: «Ricordati, devi separare<br />

la bocca dagli occhi. Gli occhi devono<br />

dire esattamente l’opposto di<br />

quello che stai dicendo con le parole».<br />

Forse in questa ambiguità risiede il segreto<br />

del suo sex-appeal.<br />

«Visconti mi ha insegnato moltissime<br />

cose. Mi diceva: Claudia, quando arrivi<br />

da qualche parte non arrivare a piccoli<br />

passi, devi prendere possesso del terreno<br />

come fossi una pantera. Tutti pensano<br />

di te che sei una gattina da accarezzare.<br />

Invece sei una pantera, una tigre,<br />

una che, se vuole, divora il domatore».<br />

Luchino e Federico: erano entrambi<br />

incantati dalla sua bellezza, come<br />

un’intera generazione e non soltanto di<br />

italiani. In quel mitico 1962 Moravia rimase<br />

talmente folgorato dalla sua sensualità<br />

ipnotica che scrisse su di lei, anzi,<br />

con lei, un libro-intervista, dal titolo<br />

<strong>La</strong> dea dell’amore. «Parlava del mio corpo<br />

come di un oggetto sospeso nello<br />

spazio. I nostri incontri avvenivano nella<br />

sua casa di piazza del Popolo. Elsa<br />

Morante se ne stava nella stanza accanto.<br />

No, non era gelosa. Stavamo seduti<br />

uno di fronte all’altra. Lui batteva direttamente<br />

a macchina le risposte che gli<br />

davo. Però era molto nervoso, forse era<br />

emozionato, le mani gli tremavano, e la<br />

macchina da scrivere spesso gli cadeva<br />

per terra. Stavamo per lunghissimo<br />

tempo zitti. Lui non diceva niente e io<br />

non dicevo niente».<br />

Una bellezza che metteva agitazione,<br />

la sua. Toglieva la parola. «E pensare che<br />

io ero complessata, all’inizio della mia<br />

carriera. Non mi sono mai trovata bella.<br />

Ero una vera selvaggia, non parlavo con<br />

nessuno. Il mio segreto evidentemente<br />

è che io captavo la luce, e forse ancora la<br />

È una delle tre italiane nella lista<br />

“Harpers & Queen” delle cento<br />

donne più belle del secolo scorso,<br />

Moravia ha scritto con lei il librointervista<br />

“<strong>La</strong> dea dell’amore”.<br />

Eppure - racconta - non<br />

si è mai sentita bella,<br />

soltanto fotogenica.<br />

E fortunata per aver<br />

vissuto 150 vite, tante<br />

quanti i film<br />

capto, sono fotogenica. E trasmetto<br />

emozioni. È il mistero della fotogenia.<br />

Sei come Marlon Brando, mi dice ancora<br />

oggi, dopo trent’anni, il mio compagno,<br />

Pasquale Squitieri. Sei come lui. Da<br />

ogni parte tu venga inquadrata, anche<br />

di schiena, prendi la luce».<br />

Si accende un’altra sigaretta con le<br />

mani dalle dita affusolate e nervose, le<br />

unghie perfette, un anello per ogni dito,<br />

tranne ai pollici. «Certo il cinema è stato<br />

per me una grande ancora di salvezza.<br />

Grazie al cinema sono riuscita ad<br />

esprimere i miei sentimenti. Normalmente<br />

uno vive solo una vita: io centocinquanta,<br />

quanti sono i film e gli spettacoli<br />

teatrali in cui ho recitato. Sono<br />

stata una puttana, una principessa, una<br />

santa. Mi sono imbruttita, mi sono stravolta<br />

e modificata, ho dovuto dimostrare<br />

85 anni. Io non faccio mai le prove,<br />

non ripeto la scena a casa, non ripasso la<br />

parte. Io semplicemente divento il personaggio,<br />

mi ci calo dentro annullando<br />

me stessa. Mi trasformo, sono un’altra.<br />

Per questo ho sempre fatto una grande<br />

differenza fra identità, la mia, e alterità,<br />

Non voglio cancellare<br />

i segni dell’età<br />

dal mio viso,<br />

non vorrei mai dare<br />

un colpo di spugna<br />

Mai e poi mai farei<br />

un lifting<br />

Sono contraria<br />

per principio, ma ho<br />

i miei personaggi, una differenza fra vita<br />

privata e lavoro. Per questo la gente<br />

mi rispetta: per la mia normalità, perché<br />

non mi sono mai montata la testa».<br />

Una cesura netta dunque fra la donna<br />

e l’attrice: «Quando mi rivedo al cinema,<br />

sul grande schermo, mi dico: ma<br />

non sono io! È un’altra. È l’altra! È Claudia!<br />

Mentre io sono Claude, il mio vero<br />

nome, pronunciato alla francese». Il vero<br />

motivo per cui cominciò a fare del cinema,<br />

racconta, fu per dare un taglio<br />

netto al passato e troncare con la Tunisia.<br />

Vittima di una violenza carnale,<br />

aspettava un bambino, quel Patrick che<br />

nacque quando lei aveva appena 18 anni<br />

e che il suo compagno-pigmalione, il<br />

produttore Franco Cristaldi, le impose<br />

di fare passare per fratellino minore,<br />

«perché le dive non hanno figli illegittimi».<br />

Fu costretta a mentire fin troppo a<br />

lungo, e la cosa ancora la devasta. «Presi<br />

la strada del cinema perché mi consentiva<br />

di essere indipendente. Ho lavorato<br />

anche incinta, non si vedeva<br />

quasi. Quattro diversi film, fino all’ottavo<br />

mese di gravidanza». Ha mai più avuto<br />

contatti con il padre del bambino?<br />

Lungo silenzio. «Non ho più voluto sapere<br />

niente di lui. Certo quando sono diventata<br />

famosa lui è venuto a cercarmi,<br />

è tornato a farsi vivo. Ma io gli ho sbattuto<br />

la porta in faccia. Non parlo volentieri<br />

di questa vicenda, che mi ha segnato<br />

nel profondo e ha fatto molto soffrire<br />

mio figlio».<br />

Una vita che sembra un romanzo, la<br />

sua: essere eletta per caso la più bella italiana<br />

di Tunisi, «avere il cuore in Africa e<br />

la testa in Europa», venire catapultata in<br />

viaggio premio al Festival del Cinema di<br />

Venezia, esordire con i registi più grandi,<br />

tenere nascosta una gravidanza per<br />

volere insindacabile di uno dei più importanti<br />

produttori europei, mietere un<br />

successo dopo l’altro, il tutto sotto il peso<br />

di un contratto capestro e di uno stipendio<br />

minimo. «Mi sentivo un’impiegata,<br />

guadagnavo pochissimo, è anche<br />

vero che me ne sono sempre infischiata<br />

dei soldi». Possibile che nessuno abbia<br />

mai pensato a trasformare la sua vita —<br />

soprattutto gli anni tempestosi dell’adolescenza<br />

e della giovinezza — in un<br />

film? «Ci sta lavorando un grande regista.<br />

Un regista italiano molto famoso. È<br />

già pronta la storia».<br />

Intanto è stata lei a scrivere un libro su<br />

di sé. Per narrare non tanto le sue memorie<br />

quanto i suoi incontri. È uscito qualche<br />

mese fa per ora solo in Francia e si intitola<br />

Mes étoiles, le mie stelle, da Marlon<br />

Brando in su, o «in giù», come dice lei. E<br />

chissà a quale latitudine della sua classifica<br />

planetaria lei colloca per esempio registi<br />

come Monicelli, Comencini, Germi,<br />

Sergio Leone, o colleghi come Henry<br />

Fonda e Sean Connery, Mastroianni e<br />

Trintignant, Burt <strong>La</strong>ncaster e Rock Hudson,<br />

John Wayne, Steve McQueen, Tony<br />

Curtis, Alain Delon e Jean Paul Belmondo,<br />

De Niro. O Cary Grant, che a Los Angeles<br />

era suo vicino di casa.<br />

Oggi Claudia Cardinale ha in cantiere<br />

anche troppa paura‘‘<br />

in cui ha recitato. “Senza<br />

mai imparare la parte<br />

ma calandomi dentro, annullando me<br />

stessa nel personaggio, fosse una<br />

puttana, una principessa o una santa”<br />

FOTO CONTRASTO<br />

un film con Richard Gere. Riceve ancora<br />

molte proposte e molti copioni, ma<br />

quasi mai dall’Italia, paese «dalla memoria<br />

corta». In compenso conosce una<br />

seconda stagione di gloria attraverso il<br />

teatro, recitando nella sua lingua madre,<br />

il francese. Si adopera con slancio<br />

come ambasciatrice di buona volontà<br />

per l’Unesco, in particolare a favore delle<br />

donne: «Mi sono battuta contro la lapidazione<br />

di Amina, e anche a favore di<br />

Souad, la donna cisgiordana che è stata<br />

quasi bruciata viva e ha scritto un libro<br />

per raccontarlo. Vive con una maschera.<br />

Davanti a me un giorno se l’è tolta, e<br />

mi ha fatto vedere anche il suo corpo<br />

martoriato dal fuoco. Sono rimasta senza<br />

parole. Ecco: cerco di essere la voce<br />

delle donne che non hanno voce».<br />

Se c’è una cosa che non sopporta, in<br />

Italia, è la tivù: «Pur di apparire si è disposti<br />

a tutto. Io non sono così. Per questo<br />

rifiuto quasi sempre gli inviti. Poi<br />

non mi piace vedere tutto quel nudo, seno<br />

di fuori, sedere di fuori, ombelico di<br />

fuori, perché? Mi dà fastidio tanta esibizione.<br />

Ai miei tempi ho sempre detto di<br />

no no e no quando volevano che mi spogliassi<br />

sul set. Mi sembrava di vendere il<br />

mio corpo. Anche quelle inquadrature<br />

in Vaghe stelle dell’Orsa in cui sembro<br />

nuda, era nuda soltanto la schiena. Credo<br />

che la cosa più bella sia fare sognare.<br />

Puoi suggerire senza fare vedere».<br />

È lusingata di essere una fra le tre sole<br />

italiane, con Sophia Loren e Isabella<br />

Rossellini, inclusa nella lista delle cento<br />

donne più belle del Novecento stilata da<br />

Harpers & Queen: «Non me l’aspettavo<br />

davvero, sono rimasta sbalordita. Lo<br />

giuro. Non ho mai pensato di essere bella.<br />

Ava Gardner era bella. Rita Hayworth<br />

era bella». E oggi? Tira fuori solo il nome<br />

di Monica Bellucci. «Oggi il problema<br />

delle attrici, ma anche degli attori, è che<br />

non fanno sognare, non hanno magia.<br />

Ma non dipende da loro. È l’occhio del<br />

regista che deve trasformarti in quello<br />

che lui vuole, unito alla sapienza degli<br />

operatori e dei direttori della fotografia.<br />

E io ho avuto i migliori del mondo».

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!