L' delle - La Repubblica
L' delle - La Repubblica
L' delle - La Repubblica
You also want an ePaper? Increase the reach of your titles
YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.
Domenica<br />
<strong>La</strong><br />
DOMENICA 3 APRILE 2011/Numero 320<br />
Cinquant’anni fa<br />
l’Urss lanciava<br />
in orbita il primo<br />
cosmonauta:<br />
Jurij Gagarin<br />
Così la Guerra fredda<br />
conquistava<br />
anche lo Spazio<br />
NICOLA LOMBAROZZI<br />
GAGARIN (Smolensk)<br />
Manda giù quest’acqua fredda, Jurij. È leggera, ti fa<br />
volare. Cinquant’anni dopo, circondato da una<br />
scolaresca in gita, il vecchio pozzo di casa Gagarin<br />
conserva l’aria fiabesca e scalcinata della pianura<br />
russa. A questo mestolo di legno pensava il più famoso cosmonauta<br />
della storia la mattina del 12 aprile 1961 sulla rampa di lancio<br />
di Bajkonour, repubblica sovietica del Kazakhstan. Ne avrebbe parlato<br />
dopo con gli amici: della leggenda del pozzo e degli scherzi del<br />
papà falegname quando si mise in testa la folle idea di fare il pilota.<br />
Rito scaramantico e contagioso, se è vero che ancora oggi i cosmonauti<br />
russi, non più eroi ma impiegati dello Spazio, vengono a farsi<br />
una mestolata d’acqua prima di ogni missione.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
di <strong>Repubblica</strong><br />
L’ Uomo<br />
stelle<br />
<strong>delle</strong><br />
VITTORIO ZUCCONI<br />
WASHINGTON<br />
Era il tempo del panico, nella grande villa bianca al centro<br />
di Washington. Niente, ma proprio niente, sembrava<br />
andare nel verso giusto in quella primavera del 1961<br />
per John Fitzgerald Kennedy, colui che aveva vinto le<br />
elezioni da pochi mesi proprio martellando sul tasto del “missile<br />
gap”, della superiorità missilistica dell'Unione Sovietica. Appena<br />
quattro anni prima, il bip-bip del primo satellite artificiale, lo “Sputnik”,<br />
aveva trafitto con il suo monotono pigolio la superbia yankee.<br />
I vettori militari americani sembravano non riuscire a far di meglio<br />
che lanciare in risposta pompelmi meccanici di pochi centimetri di<br />
diametro mentre lo Sputnik aveva avuto già una massa di 83 chili.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
con un articolo di ARRIGO LEVI<br />
l’attualità<br />
<strong>La</strong> Beirut a colori di Gabriele Basilico<br />
PINO CORRIAS<br />
cultura<br />
Enzo Mari, il design della mia vita<br />
MAURIZIO FERRARIS e ENZO MARI<br />
spettacoli<br />
Pokémon, piccoli mostri crescono<br />
JAIME D’ALESSANDRO e SANDRO VERONESI<br />
i sapori<br />
<strong>La</strong> sottile invenzione del carpaccio<br />
ARRIGO CIPRIANI e LICIA GRANELLO<br />
l’incontro<br />
Westwood, compleanno da bad girl<br />
GIUSEPPE VIDETTI<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO BETTMANN/CORBIS
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
la copertina<br />
L’uomo <strong>delle</strong> stelle<br />
LE TAPPE<br />
(segue dalla copertina)<br />
Ma a bordo della sfera<br />
d’acciaio “Vostok 1”<br />
non c’era solo un<br />
semplice giovanotto<br />
di campagna. Jurij<br />
Alekseevic Gagarin,<br />
ventisette anni, era un tipo metodico che<br />
aveva imparato tante cose. Gli obiettivi<br />
tecnici della missione, con i complessi<br />
calcoli astronomici e ingegneristici, ma<br />
soprattutto quelli politici: dimostrare la<br />
superiorità planetaria del sistema sovietico.<br />
Fedele al Partito, sobrio, senza fame di<br />
ricchezze e protagonismo, era il candidato<br />
perfetto, selezionato tra i migliori aviatori<br />
dell’Urss. Così perfetto da battere nello<br />
spareggio finale il suo caro amico. A<br />
German Stepanovic Titov, insofferente<br />
alle gerarchie militari e un po’ troppo affascinato<br />
da vodka e ragazze, sarebbe toccata<br />
pochi mesi dopo la “Vostok 2”. Una<br />
missione più lunga (oltre 25 ore) e difficile<br />
ma inevitabilmente ai margini dei libri<br />
di Storia.<br />
Al figlio del falegname di Klushino toccava<br />
la Gloria. E lo sapeva bene. Quando<br />
sentì la spinta dei razzi e la Terra che si allontanava,<br />
alle 9 e 07, ora di Mosca, non gli<br />
venne altro da dire che «Andiamo!». Banale,<br />
forse, ma adesso quell’incitazione,<br />
tradotta in cinque lingue, è dipinta sul<br />
muro del piccolo museo della cittadina a<br />
quindici chilometri dal villaggio di Klushino,<br />
dove la famiglia Gagarin si era trasferita<br />
all’inizio degli anni Cinquanta. Poche<br />
migliaia di anime per un centro agricolo<br />
in disarmo che si chiamava Gzhatsk<br />
e adesso Gagarin gorod. Proprio qui, affidato<br />
a ex ragazze che quel giorno festeggiarono<br />
in strada il trionfo mondiale del<br />
loro compagno di giochi, sorge il più tenero<br />
museo dello Spazio del mondo. Casetta<br />
in legno e mattoni, macchie d’umido<br />
sui muri, cartoline, vestiti, fotografie. E<br />
1957 SPUTNIK<br />
<strong>La</strong> corsa alla conquista<br />
dello spazio inizia il 4 ottobre<br />
con il lancio del primo satellite<br />
sovietico: lo Sputnik<br />
1958 MERCURY<br />
<strong>La</strong> prima vera risposta<br />
americana è il programma<br />
Mercury: un primate,<br />
Gordo, è lanciato in orbita<br />
Alle 9.07 del 12 aprile 1961 un pilota ventisettenne, figlio di un falegname,<br />
di una contadina e del Partito, si trasformò nel primo essere umano<br />
lanciato nello Spazio. Cinquant’anni dopo, nel suo paese natale, i vecchi amici<br />
di Jurij Gagarin festeggiano la memoria dell’eroe sovietico che con una sola<br />
impresa sconfisse gli Stati Uniti. E ricordano con tenerezza le uniche parole<br />
che riuscì a pronunciare prima della missione: “Andiamo”<br />
I RUSSI<br />
“Quel giorno<br />
tutta l’Urss volò”<br />
una ricostruzione artigianale, mappamondo,<br />
filo di nylon, un po’ di stagnola, di<br />
quel volo indimenticabile. Il primo essere<br />
umano in orbita ellittica intorno alla Terra<br />
con un perigeo di 169 chilometri e un<br />
apogeo di 135, dicono gli esperti. Ma la signora<br />
Elèna, che fa da custode al sacrario<br />
in babbucce e foulard, ha ricordi meno<br />
tecnici: «Com’era bello! Avevo diciannove<br />
anni, scesi in piazza come tutti quando<br />
la radio diede l’annuncio. Parlava dell’orgoglio<br />
sovietico. E io mi sentivo più orgogliosa<br />
di tutti. Avevamo giocato, insieme,<br />
pescato i gamberi nel fiume. Eravamo andati<br />
tutti nello Spazio quella mattina».<br />
Il viaggio durò appena un’ora e 48 minuti<br />
ma dietro gli oblò della Vostok 1, sembrò<br />
molto più lungo. Gagarin rimase sempre<br />
concentrato sul pannello di controllo<br />
sul quale avrebbe dovuto intervenire in<br />
caso di guasto. Nel fondo della navicella,<br />
come nel bagagliaio di un’auto a un picnic,<br />
c’era una scorta di tubetti contenenti<br />
misteriose paste simili a dentifricio. Erano<br />
i primi tentativi di cibo spaziale da usare<br />
nel caso di mancato funzionamento dei<br />
retrorazzi. I tecnici avevano calcolato che,<br />
in quella circostanza, la Vostok sarebbe<br />
rientrata in maniera “naturale” solo dopo<br />
dieci giorni. Ma non sapevano bene né co-<br />
1961 VOSTOK 1<br />
Il 12 aprile Jurij Gagarin<br />
è il primo uomo lanciato<br />
in orbita intorno alla Terra<br />
nella navicella Vostok 1<br />
1969 APOLLO 11<br />
Il 19 luglio Neil Armstrong,<br />
a capo della missione<br />
Apollo 11, è il primo uomo<br />
a camminare sulla luna<br />
NICOLA LOMBARDOZZI<br />
me né dove. I tubetti, mai aperti, sono in<br />
mostra al museo di Gagarin. Furono tra gli<br />
oggetti che l’eroe fu più felice di donare ai<br />
posteri. Nel viaggio ebbe modo di dire cose<br />
che avremmo sentito da decine di<br />
astronauti ma che allora nessuno immaginava:<br />
«Sapevate che la Terra è blu? È una<br />
cosa straordinaria». Tono tranquillo da<br />
pilota che sa controllare le emozioni ma<br />
che cambiò nella fase di rientro. Pochi minuti<br />
difficili in cui ci furono problemi di<br />
sganciamento della parte strumentale<br />
che doveva alleggerire la navicella nel suo<br />
PROPAGANDA<br />
Da sinistra<br />
a destra,<br />
Jurij Gagarin<br />
con Nikita<br />
Krusciov leggono<br />
la Izvestia<br />
che celebra<br />
l’impresa;<br />
le foto del lancio;<br />
un ritratto<br />
di Gagarin<br />
in orbita;<br />
francobolli<br />
commemorativi<br />
e la Piazza Rossa<br />
in festa dopo<br />
la missione<br />
tuffo verso la Terra. Dondolii e oscillazioni<br />
terrificanti. Gagarin deve aver pensato<br />
ai suoi predecessori. Alla cagnetta <strong>La</strong>ika,<br />
destinata a morire, nello Sputnik 2 del<br />
1957. Alle più fortunate bastardine Belka<br />
e Strelka rientrate sane e salve l’anno prima.<br />
E soprattutto a Ivan Ivanovic Secondo,<br />
il manichino a sembianze umane lanciato<br />
poco più di un mese prima, ultima<br />
simulazione in vista della storica missione.<br />
Ma la paura finì presto. A 7000 metri<br />
dal suolo, Gagarin fece l’unico gesto autonomo<br />
di tutta la missione. Azionò il seggiolino<br />
eiettabile e fu accompagnato da<br />
un paracadute rosso fino alle campagne a<br />
30 chilometri dalla città di Engels.<br />
A Gagarin gorod celebrano ancora il<br />
dopo. <strong>La</strong> casa che il governo regalò ai ge-<br />
1970 VENERA 7<br />
<strong>La</strong> sonda Venera 7<br />
è la prima ad atterrare<br />
su Venere e a trasmettere<br />
un segnale alla Terra<br />
1971 MARINER 9<br />
<strong>La</strong> sonda Mariner 9<br />
entra in orbita intorno<br />
a Marte: nel 1965<br />
c’era stato il primo sorvolo<br />
nitori. Appartamentino modesto ma con<br />
telefono e tv mai visti prima nella campagna<br />
sovietica. <strong>La</strong> Volga nera, auto da pezzi<br />
grossi del Partito, con cui Gagarin veniva<br />
spesso a trovare gli amici. Elèna si commuove:<br />
«Mai un attimo di arroganza, veniva<br />
a pescare anche quando fu nominato<br />
eroe dell’Unione sovietica». Il museo<br />
esalta i viaggi in cui l’eroe esportò la gloria<br />
patria. Il bacio della Lollobrigida a un festival<br />
del cinema. <strong>La</strong> foto del primo incontro<br />
con Krusciov, Gagarin in alta<br />
uniforme sul tappeto rosso. E le custodi ti<br />
indicano intenerite il particolare della<br />
scarpa destra slacciata: «Poverino era<br />
stanco, non era uno da cerimonie». E si<br />
glissa sulla parte più dolorosa. <strong>La</strong> strana<br />
storia della Soyuz 1, soprannominata «la<br />
bara volante» per i troppi errori di progettazione.<br />
Un Gagarin stanco di cerimonie voleva<br />
andarci a tutti i costi. Fu nominato solo<br />
supplente di Vladimir Komarov che si<br />
schiantò in atterraggio pochi mesi dopo.<br />
Scioccato più dal rifiuto che dallo scampato<br />
pericolo tornò a volare sui Mig morendo<br />
in un incidente ancora molto discusso<br />
appena un anno dopo, il 27 marzo<br />
del ’68. Ma a Gagarin gorod il tempo si è<br />
fermato a quel 12 aprile. Quest’anno festa<br />
con giochi in piazza, alberi della cuccagna,<br />
e corse sui trampoli. E poi tutti a Klushino<br />
per un sorso di acqua miracolosa.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
Corrispondenze da una Mosca col naso all’insù<br />
Durante la notte fra l’11 e il 12 aprile 1961 su Mosca era caduta la neve, e la città si era svegliata<br />
tutta bianca. Ma il sole era presto comparso in un cielo sgombro di nubi e l’umida<br />
neve dell’aprile russo si era tutta sciolta. Mosca era splendida. <strong>La</strong> notizia del lancio di una<br />
nave spaziale chiamata “Vostok” (Oriente), con a bordo un “cosmonauta” chiamato Jurij Alekseevic<br />
Gagarin, si ebbe alle 10 dalla radio, dalla voce solenne di Jurij Levitan, la voce che aveva<br />
dato al mondo la notizia della resa del nemico a Stalingrado.<br />
Subito dopo mi arrivò all’Hotel Budapest, dove alloggiavamo, la telefonata di Gaetano Afeltra,<br />
direttore di fatto del Corriere d’Informazione: «Arrighe, a mezzogiorno voglio una grande<br />
cronaca di cose viste». Così, interruppi a un certo punto l’ascolto e uscii per strada: ma Mosca<br />
era ancora tranquilla, con piccole folle silenziose raccolte attorno agli altoparlanti disposti in<br />
tutta la città.. Solo dopo l’annuncio del felice ritorno alla terra del primo cosmonauta, un’ora e<br />
28 minuti dopo il lancio, una folla immensa si riversò nelle strade e nelle grandi piazze — Piazza<br />
del Teatro, della Rivoluzione, del Maneggio — che conducono alla Piazza Rossa. Una folla<br />
che fino a notte ballava e cantava, gente che si abbracciava e baciava, donne che piangevano di<br />
gioia. Tre giorni dopo, con l’incontro a Mosca fra Gagarin e Krusciov, la Piazza Rossa conobbe<br />
la manifestazione più grandiosa dal giorno della vittoria. In verità eravamo tutti un po’ commossi.<br />
Nel suo discorso Krusciov paragonò Gagarin a Colombo, disse che l’Urss era «generosamente<br />
disposta a condividere i risultati della sua superiorità scientifica e tecnologica con tutti<br />
coloro che vogliano vivere in pace con noi», ma aggiunse: «Questi risultati ci danno una colossale<br />
superiorità dal punto di vista della difesa del nostro paese: coloro che affilano i coltelli<br />
(segue dalla copertina)<br />
Enella notte del 12 aprile<br />
1961, erano le tre del mattino<br />
ora di Washington, Jfk fu<br />
svegliato dal funzionario di<br />
turno al Consiglio per la Sicurezza<br />
Nazionale con la<br />
notizia che un russo, chiamato Jurij Gagarin,<br />
aveva fatto un giretto attorno al nostro<br />
pianeta, primo essere umano a raggiungere<br />
la Frontiera oltre la gravità terreste,<br />
con la falce e il martello dell’Unione Sovietica<br />
dentro una palla di cannone chiamata,<br />
polemicamente, “Oriente 1”.<br />
Fu come se il tempo della politica, della<br />
Guerra Fredda e <strong>delle</strong> decisioni avesse<br />
conosciuto la stessa accelerazione violenta<br />
da 0 a 27 mila<br />
chilometri dei potentissimi<br />
razzi<br />
“Semyorka” R7,<br />
sparati dalla base di<br />
Bajkonour nel Kazakhstan<br />
per lanciare<br />
Gagarin come<br />
un moderno<br />
Barone di<br />
Muenchausen.<br />
Se ancora Eisenhoweraveva<br />
potuto licenziare<br />
lo “Sputnik”<br />
come «una<br />
ARRIGO LEVI<br />
contro di noi sappiano che Jurij è stato nello spazio, ha visto tutto e sa tutto».<br />
Ma nel suo discorso Krusciov non mancò di parlare anche dei problemi “terrestri” dell’Urss:<br />
in aprile le scorte di viveri erano quasi finite, non erano ancora arrivati i nuovi prodotti primaverili,<br />
al “Zentralnij Rynok”, il Mercato Centrale, mia moglie faceva lunghe code per le patate.<br />
L’Urss era potente e povera. (Per avere poi ricordato questa realtà, le Izvestia mi dedicarono un<br />
corsivo che mi definiva «un maiale che fruga nella spazzatura mentre tutti alzano lo sguardo al<br />
cielo»). Quando, ad agosto, sull’onda dei trionfi spaziali, Krusciov presentò il Programma Ventennale<br />
che dava per prossimo il sorpasso di un Occidente in rovina da parte di un’Unione Sovietica<br />
divenuta il Paese più ricco del mondo, annunciò soltanto sogni che non si realizzarono<br />
mai. Mentre il volo di Gagarin convinse Kennedy a lanciare il piano che portò in una decina<br />
d’anni al primo allunaggio. Ma quel giorno d’aprile tutto sembrava possibile alla «Russia dei<br />
lapti» (le povere calzature del contadino russo: così la definì con orgoglio Krusciov), divenuta<br />
una superpotenza spaziale (e militare). Oggi la guerra fredda è finita insieme con il comunismo,<br />
e grazie alla collaborazione fra Russia, Stati Uniti ed Europa lo spazio è di casa. Quel breve volo<br />
di Gagarin può sembrarci poca cosa. Allora fu una “svolta storica”, per il mondo intero. Quando<br />
a mezzogiorno telefonai all’Informazione col mio pezzo pronto, Gaetano mi chiese: «Arrighe,<br />
hai scritte?». Ma certo, risposi. «Allora butta via tutto, parla, parla, dì tutto quello che ti passa<br />
per la testa». Ovviamente obbedii.<br />
L’autore è stato corrispondente da Mosca del Corriere della Sera dal 1960 al 1962<br />
GLI AMERICANI<br />
E Jfk disse ai suoi<br />
“Voglio la Luna”<br />
VITTORIO ZUCCONI<br />
pallina sparata in cielo», la presenza di un<br />
essere umano volante a 300 chilometri<br />
d’altezza, e di un “homo sovieticus”, aveva<br />
cambiato tutte le regole del gioco.<br />
«Space needs a face» dicevano alla neonata<br />
Nasa, lo Spazio ha bisogno di una faccia,<br />
per colpire l’immaginazione del pubblico,<br />
un volto di uomo, non i musi <strong>delle</strong><br />
cagnette o degli scimpanzé che già erano<br />
stati crudelmente sacrificati sull’altare<br />
dello Spazio. Kennedy era nel panico. Né<br />
il suo umore migliorò di molto quando,<br />
appena cinque giorni dopo lo shock Gagarin,<br />
il 17 aprile una banda di mercenari<br />
male armati e peggio sostenuti naufragarono<br />
sulla Playa Giron cubana, la baia dei<br />
Porci. Niente, proprio niente, andava per<br />
il verso giusto. «Trovatemi qualcuno che<br />
sappia come rispondere a questa impresa<br />
sovietica, chiunque, non mi importa se<br />
sia l'usciere, purché abbia l'idea giusta», si<br />
agitava Kennedy. Invano i generali e gli<br />
scienziati cercarono di spiegargli che Gagarin<br />
non significava nulla, che era uno<br />
«stunt», un effetto speciale propagandistico<br />
senza alcun senso militare o scientifico,<br />
perché la potenza mostruosa dei vettori<br />
russi era dettata dalla necessità di portare<br />
in orbita ordigni nucleari primitivi e<br />
pesantissimi, mentre il Pentagono aveva<br />
scelto la direzione opposta, bombe sempre<br />
più miniaturizzate, per essere lanciate<br />
da missili sempre più piccoli. «Il resto<br />
del mondo ci guarda, il Terzo Mondo, che<br />
non sa nulla di spinta, portata, vettori, orbite,<br />
dirà che gli Stati Uniti stanno perdendo<br />
la propria superiorità sull’Urss» si<br />
disperava Jfk. L’idea venne a lui stesso, a<br />
Kennedy, e fu infatti un’idea politica, una<br />
grandiosa sfida propagandistica, non tecnologica.<br />
Sei settimane soltanto dopo il<br />
volo del figlio di un falegname e di una<br />
contadina russi, cresciuto in una comune<br />
agricola e dunque perfetto esemplare<br />
dell’“uomo nuovo” realsocialista, Jfk si<br />
presentò il 25 maggio davanti alle Camere<br />
riunite. Annunciò che l’America avrebbe<br />
fatto molto di più, che avrebbe smascherato<br />
il bluff di Krusciov e sarebbe andata,<br />
con la propria faccia, non con robottini,<br />
oltre Gagarin. Sulla Luna. Soltanto in<br />
privato, per non perdere il posto che da<br />
pochi mesi gli era stato assegnato proprio<br />
da Kennedy, il direttore della Nasa James<br />
Webb, osò dire quello che molti nella comunità<br />
dei “rocket scientists” della scienza<br />
missilistica, pensavano: «È un’idiozia,<br />
un’impresa che sfascerà i nostri bilanci e<br />
toglierà miliardi a ricerche ben più importanti,<br />
è un esercizio di puro machismo<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
da ragazzini che giocano a vedere chi fa<br />
pipì contro il muro più da lontano e più in<br />
alto». Qualcuno rifiutava di crederci. Negli<br />
stadi di calcio italiani, gli altoparlanti<br />
blateravano le note di una canzone sarcastica,<br />
Tango Bugiardo, Tango Gagarin.<br />
Come sarebbe accaduto per l’allunaggio,<br />
anche per la “Vostok 1" abbondavano gli<br />
scettici e gli increduli, per motivazioni<br />
ideologiche. Otto anni dopo, nel 1969,<br />
tanto l’intuizione di Kennedy quanto i timori<br />
di Webb si sarebbero avverati, con il<br />
piedone di Neil Armstrong nelle polvere<br />
del Mare della Tranquillità. Senza Gagarin<br />
non ci sarebbe molto probabilmente<br />
stato un uomo sulla Luna. Fu uno sforzo<br />
industriale, scientifico e finanziario colossale.<br />
Costò oltre 100 miliardi in dollari<br />
di oggi, ma l'America aveva dimostrato a<br />
tutti chi fosse il bambino che la faceva più<br />
lontano. E la Nasa, dopo avere sbattuto<br />
con il muro dell’«e adesso che facciamo?»,<br />
avrebbe cominciato il languore della crescente<br />
indifferenza dei contribuenti. <strong>La</strong><br />
stessa trappola, lo stesso «stunt» nei quali<br />
ora indiani e cinesi stanno cadendo, per<br />
partecipare anche loro al gioco del bullo<br />
spaziale. Un rito di passaggio dall’infanzia<br />
alla maturità.<br />
Quando la risposta definitiva alla sfida<br />
di Gagarin si consumò nel 1969, i duellanti<br />
originali nel “mezzogiorno spaziale”<br />
non erano più ai comandi. Kennedy sepolto<br />
ad Arlington. Krusciov defenestrato<br />
per avere tentato un altro bluff missilistico,<br />
a Cuba. Ben altre notti di panico avrebbero<br />
scosso gli inquilini della Casa Bianca.<br />
Al mondo restarono circuiti integrati e<br />
processori microscopici, chiusure al velcro<br />
e omogeneizzati per neonati, purificatori<br />
per l’acqua e l’aria, lenti antigraffio<br />
e moonboot isolanti. E il ricordo di un decennio<br />
nel quale i Grandi della Terra si<br />
comportavano come maschietti contro il<br />
muro dell’ultima frontiera.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
l’attualità<br />
Testimonianze<br />
«Lsto<br />
Medio Oriente assediato da fuochi che brucia-<br />
C’era stato la prima volta durante gli anni in bianco e nero<br />
della guerra civile documentando macerie su macerie,<br />
cratere dopo cratere. Oggi, mentre il Medio Oriente<br />
è in fiamme, uno dei maggiori fotografi italiani è andato<br />
a rivedere quei posti. E come allora ha piazzato<br />
la macchina e ha scattato. Ma stavolta la città rivive a colori<br />
BASILICO<br />
“Il mio ritorno a Beirut”<br />
PINO CORRIAS<br />
BEIRUT<br />
a fotografia è un istante del mondo, un rettangolo<br />
messo sul paesaggio, una tessera della memoria»:<br />
alle nove del mattino Gabriele Basilico cerca la sua<br />
prima inquadratura sotto al cielo azzurro di que-<br />
no in Libia e Siria. Davanti al venditore di falafel<br />
passano Suv veloci come vento tra i palazzi appena<br />
rivestiti di tufo e acciaio. Gli uomini della security<br />
Hawk presidiano la Moschea al Amin, con le<br />
sue cupole blu, e la cattedrale ortodossa di San<br />
Giorgio. Dice che la prima foto del suo nuovo viaggio<br />
a Beirut vuole farla qui, in Place des Martyrs, la<br />
Piazza dei Martiri, rinata vent’anni dopo. «Nei<br />
giorni del mio primo viaggio, anno 1991, qui c’erano<br />
pioggia, fango, macerie». Ora Beirut ha ripreso<br />
i colori della vita dopo i quindici anni in bianco e<br />
nero della guerra civile che ha crivellato tutti i suoi<br />
palazzi, accatastato duecentomila cadaveri tra<br />
l’ovest sciita e l’est cristiano, che si contendevano<br />
ogni centimetro di vita lungo la Linea verde abitata<br />
dai cecchini. Basilico piazza il treppiede della<br />
sua Linhof Technikardan che va caricata con un<br />
negativo alla volta. L’inquadratura, che controlla<br />
infilando la testa sotto al drappo nero, come si faceva<br />
mezzo secolo fa, gli compare rovesciata nel<br />
visore. Lui calcola la disposizione degli edifici «come<br />
fossero masse astratte, disposte lungo le linee<br />
della luce e dell’ombra». Sono la sua geometria.<br />
Sono la sua poetica: «L’idea di riprodurre il mondo<br />
con un massimo di densità, un massimo di significato,<br />
in un colpo d’occhio irripetibile». Indica<br />
un punto, dice: «<strong>La</strong> Linea verde passava laggiù».<br />
Come tutti i grandi fotografi Basilico vede cose<br />
che a occhio nudo non si vedono. Racconta: «Sapevo,<br />
nei giorni del ’91, che il dopoguerra avrebbe<br />
cancellato ogni traccia, ogni maceria, perché è così<br />
che fanno i sopravvissuti per ricominciare a vivere<br />
e che la responsabilità di quella memoria stava<br />
in ogni mia inquadratura. Per questo fotografai<br />
moltissimo, 530 scatti in due settimane, una voragine<br />
alla volta, senza mai abituarmi né all’emozione,<br />
né all’orrore».<br />
Regola a 22 il diaframma. Verifica la luce. Perché<br />
è nella luce dei cristalli che adesso — dopo le ultime<br />
guerre del 2006 e del 2008 — si irradia la nuova<br />
avventura di una <strong>delle</strong> città più fascinose al mondo,<br />
stesa tra i fertili monti dello Chouf, dove sorge<br />
il sole, e il Golfo, dove tramonta, con il suo calendario<br />
di modernità che incalza. Ogni giorno si celebrano<br />
inaugurazioni di centri commerciali pie-<br />
ni di computer cinesi, gioielli italiani, arredi indiani.<br />
Ogni sera aprono ristoranti nel quartiere alla<br />
moda di Hamra, e gallerie d’arte con artisti selezionati<br />
a Londra e Dubai. Rinascono le torri a cinque<br />
stelle <strong>delle</strong> multinazionali che in questi anni si<br />
erano spostate negli Emirati.<br />
Il suo ritorno è un omaggio al presente e alla memoria:<br />
«Questa piazza era solo polvere. Tutto era<br />
stato distrutto, smontato, rubato, anche le targhe<br />
blu <strong>delle</strong> strade. E nel nulla, laggiù, c’era questo<br />
Moammed che in un negozio sfondato preparava<br />
tè verde e caffè nero per i passanti. Solo che non<br />
c’erano passanti. C’eravamo solo io, la mia macchina<br />
fotografica e un gatto».<br />
I palazzi e i cantieri qui intorno fanno tutti capo<br />
a Solidere, la società immobiliare che fu di Rafik<br />
Hariri, il primo ministro sbriciolato con trecento<br />
chilogrammi di esplosivo il 14 febbraio del 2005, e<br />
che adesso è stata eredita dal figlio, anche lui primo<br />
ministro, anche lui ingranaggio di questo eterno<br />
ritorno. È Solidere che ha invitato Gabriele Basilico,<br />
per offrirgli tutti i nuovi rettangoli di questa<br />
città che eternamente rinasce dalla ceneri. Addestrata<br />
a soffrire e insieme a godersi le pigrizie della<br />
dolce vita levantina. A contenere l’inferno dei<br />
campi profughi palestinesi e le notturne follie del<br />
jet set. A subire gli assedi israeliani e quelli di Hez-<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
bollah. Il tallone di ferro dei siriani e i tacchi a spillo<br />
<strong>delle</strong> ragazze che danzano le loro notti occidentali<br />
tra i laser del Crystall e del Club Set.<br />
«Di tutte le città che ho fotografato, Beirut è<br />
sempre quella che mi emoziona di più. Ci ritrovo<br />
Rossellini, De Chirico, Piranesi. Ci sono rovine fenice,<br />
romane, ottomane. E lungo lo stesso asse lo<br />
scheletro dell’Holliday Inn che sembra anche lui<br />
un reperto archeologico, oppure quella meraviglia<br />
laggiù, la Boule». Quello che resta della Boule,<br />
la porzione di una sfera in cemento e ferri ritorti,<br />
sta al centro della piazza. È il vecchio cinema<br />
Orient tagliato a metà dai bombardamenti. Una<br />
bolla del tempo che probabilmente rimarrà come<br />
monumento e monito, tra i palazzi che sta disegnando<br />
Jean Nouvel. Nei centottanta ettari di cantieri<br />
stanno sorgendo non meno di trecentocinquanta<br />
nuovi edifici. È il più grande investimento<br />
immobiliare del Medio Oriente, già spesi sette miliardi<br />
di dollari. Altrettanti se ne investiranno nei<br />
prossimi dodici anni quando anche sulle macerie<br />
della città distrutta sorgerà il nuovo polo finanziario,<br />
ristoranti, un parco, lo yatch club. Basilico non<br />
è ancora soddisfatto dell’inquadratura. Sposta,<br />
controlla, aspetta. Il suo modo di fotografare ha le<br />
lentezze del rallenty, «quello che ti permette di vedere<br />
bene un gol». Dice: «Oggi i fotografi in digita-<br />
le scattano a velocità supersonica. Io mi godo la<br />
pellicola. Impiego anche mezzora prima di uno<br />
scatto. Aspetto la luce. Aspetto il vuoto di traffico e<br />
passanti che valorizzi il pieno <strong>delle</strong> architetture.<br />
Penso che nella lentezza della visione ci sia la salvezza<br />
del vivere e una chiave per capire di più». È<br />
difficile che Basilico faccia più di venti scatti in un<br />
giorno. È difficile che scelga un punto facile o comodo<br />
per inquadrare. Sale sui muretti. Sposta<br />
transenne. Si piazza sul tetto più alto o al centro<br />
dell’incrocio più trafficato. Confessa: «Mi piace<br />
tantissimo rompere i coglioni a tutti: spostatevi,<br />
devo fotografare».<br />
Ride, ma quel «devo» è autentico. Perché fotografare<br />
è la sua missione. Il suo modo di raccontare<br />
il mondo dai tempi in cui, appena finita architettura<br />
a Milano, appena passato il ’68, appena finiti<br />
i primi reportage sull’onda <strong>delle</strong> foto di Berengo<br />
Gardin e di Ugo Mulas, scoprì il lavoro di Bernd<br />
e Hilla Becker che nel nord Europa campionavano<br />
l’archeologia industriale. <strong>La</strong>sciò la Nikon e acquistò<br />
la sua prima Hasselblad usata. Cominciò a fotografare<br />
le fabbriche di Sesto San Giovanni, le coste<br />
industriali della Francia, le ciminiere, come<br />
fossero ritratti di persone e non di cose. Dice: «Da<br />
allora ho fotografato e raccontato più di sessanta<br />
città. Che adesso sono il mio personale mosaico<br />
del mondo, la mia città virtuale, che esiste in ogni<br />
dettaglio, senza esistere davvero». Durante la sua<br />
prima cena a Beirut, l’altra sera una signora gli ha<br />
detto: «Ho visto le sue foto del ’91 e le ho trovate<br />
piene di sentimento. Lei conosce l’equilibrio tra la<br />
bellezza e il dramma. Ama Beirut e ha scoperto il<br />
modo di parlarle». Basilico si è commosso. Disse:<br />
«Parlarle e farle raccontare la sua storia era lo scopo<br />
di quel viaggio».<br />
Ora che è quasi arrivato il momento del primo<br />
scatto, qui nella Piazza dei Martiri, racconta che in<br />
quei giorni lontani, ogni tanto passava da<br />
Mohammed a bere il tè e a riposarsi gli occhi. «Una<br />
volta trovo un americano seduto in mezzo a un<br />
paio di vecchi che fumano il narghilè. Era Robert<br />
Frank, il grande fotografo, il maestro di tutti noi.<br />
Girava in calzoncini con una Polaroid semiprofessionale,<br />
parlammo per un’ora della città. Scoprii<br />
che cercavamo la stessa luce. E ci incantava la<br />
stessa solitudine». Anche stavolta trovare le duecentocinquanta<br />
inquadrature della nuova Beirut<br />
sarà un viaggio solitario. Una somma di istanti come<br />
questo, quando finalmente una nuvola si scioglie,<br />
la luce e la prospettiva della piazza finalmente<br />
coincidono, e Gabriele Basilico scatta il suo primo<br />
click.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
PRIMA E DOPO<br />
Le foto di queste pagine di Gabriele Basilico<br />
sono vedute di Beirut in bianco e nero<br />
(anno 1991) e a colori (2011)<br />
Nell’altra pagina in alto da sinistra,<br />
Hotel Hilton ouest e Place de Martyrs;<br />
in basso, rue Dirké e Minet el Hosn (Four Seasons<br />
Hotel e Marina Tower)<br />
In questa pagina in alto,rue Al Omari Mosque;<br />
in basso da sinistra, rue Ahmed Chaouqi<br />
e Avenue du Parc (area in costruzione)<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA<br />
CULTURA*<br />
Per molti milanesi è quello dei<br />
panettoni, cioè dei grossi paracarri<br />
in cemento che a lungo<br />
hanno fatto parte del paesaggio,<br />
esprimendo del resto molto bene le<br />
sue idee di fondo, il tentativo di mettere<br />
insieme la funzionalità (i grossi<br />
blocchi servivano a delimitare degli<br />
spazi, ma potevano essere spostati, a<br />
seconda <strong>delle</strong> esigenze, e all’uopo<br />
erano dotati di un anello per agganciarli),<br />
un certo ascetismo (i blocchi<br />
erano di cemento, austerissimi), e<br />
una riconoscibilità formale (ricordavano<br />
appunto dei panettoni). Ma l’attività<br />
di Enzo Mari si ritrova in molti<br />
altri oggetti che sono entrati a far parte,<br />
se non del paesaggio, almeno dell’arredo<br />
di molti ambienti, come i calendari<br />
in legno, i cestini, i portadocumenti,<br />
le poltrone, i giochi per<br />
bambini.<br />
Mari spiega che alla base della sua<br />
progettazione c’è il desiderio di proporre<br />
<strong>delle</strong> forme indipendenti dalla<br />
moda, destinate a durare, facili da realizzare<br />
tecnicamente, e che portino<br />
con sé, quando è possibile, un po’ del<br />
fascino degli oggetti e degli ambienti<br />
industriali, come accade esemplarmente<br />
nel vassoio Putrella, fatto appunto<br />
con una putrella piegata ai bordi,<br />
che porta il cantiere nel salotto. Altri<br />
tempi, verrebbe da dire, visto che<br />
negli ultimi anni il fascino degli ambienti<br />
industriali si è molto appannato.<br />
Ma non la potenza estetica spontanea<br />
che hanno gli oggetti, e che il design<br />
di Mari cerca di portare in luce. Potrei<br />
sbagliarmi, ma, in questo “portare<br />
in luce”, nello sforzo che richiede,<br />
c’è qualcosa che si pone all’antitesi di<br />
un grande mito istitutivo dell’arte del<br />
Novecento, Duchamp e il ready made.<br />
Nel caso di Duchamp, infatti, l’idea<br />
è che qualunque cosa, presa da un<br />
ambiente di produzione standardizzata<br />
— sia essa un orinatoio, uno scolabottiglie<br />
o una ruota di bicicletta —<br />
può essere un’opera d’arte, qualora<br />
riceva la benedizione di un mondo<br />
dell’arte che decreta che si tratta di<br />
un’opera. Nel caso di Mari assistiamo<br />
piuttosto a una ricerca che ha lo scopo<br />
di produrre un buon oggetto, attività<br />
per la quale, diversamente che nel caso<br />
dell’arte, non basta l’assenso di un<br />
critico e di un gallerista. Bisogna fare i<br />
conti con esigenze di funzionalità, di<br />
riproducibilità tecnica, di realizzabilità<br />
industriale.<br />
Di qui un paradosso su cui forse vale<br />
la pena di riflettere. Il senso comune<br />
contemporaneo è abituato, proprio<br />
in base all’esperienza del ready<br />
made, a considerare che qualunque<br />
cosa può essere un’opera d’arte. Ma al<br />
tempo stesso il design ci insegna<br />
quanto difficile sia produrre dei buoni<br />
oggetti, e che non è affatto vero che,<br />
per esempio, qualunque oggetto può<br />
essere un oggetto di design.<br />
Come risultato, se è vero che l’essere<br />
opera d’arte è, per un oggetto, qualcosa<br />
come una santificazione, mentre<br />
l’essere un oggetto di design è, per così<br />
dire, una promozione di rango minore,<br />
una sorta di beatificazione, si direbbe<br />
che nel Novecento sia stato più<br />
facile essere santi che beati.<br />
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
Il vassoio Putrella, il vaso Camicia, il posacenere Borneo,<br />
i “panettoni” nel traffico di Milano, i giochi degli animali. Ma anche<br />
la famiglia umile, gli inizi da autodidatta, le ore passate in officina<br />
fino alle lezioni tenute all’università. Etica ed estetica del prodotto<br />
industriale: esce l’autobiografia del più grande creatore di oggetti<br />
DORMEUSE (1999) CALENDARIO TIMOR (1966) SERIE DEI 16 ANIMALI (1957) SERIE DELLA NATURA (1961) SAMOS (1973)<br />
Il design<br />
oltre la moda<br />
MAURIZIO FERRARIS<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
IL LIBRO<br />
Sarà in libreria martedì<br />
5 aprile 25 modi<br />
per piantare un chiodo,<br />
l’autobiografia<br />
di Enzo Mari a cura<br />
di Barbara Casavecchia<br />
da cui sono tratti<br />
il brano e i disegni<br />
che pubblichiamo<br />
in queste pagine<br />
Il libro (192 pagine,<br />
17,50 euro) è edito<br />
da Mondadori<br />
ENZO MARI<br />
ENZO MARI<br />
Se qualcunooggi dice che sono un bravo<br />
designer, è perché ho avuto una formazione<br />
da artista, anziché imparare a<br />
menadito la miseria manualistica che<br />
si propina nelle scuole specializzate.<br />
Non ho mai separato i miei due percorsi di ricerca,<br />
che si sono intrecciati e sovrapposti per tutta la mia<br />
vita. Il processo di elaborazione è identico. [...]<br />
Nel 1958 Bruno Munari parla di me a Bruno Danese,<br />
che viene a trovarmi. Sintonia immediata: è<br />
un giovane della mia età, curioso, appassionato. È<br />
grazie a quell’incontro fortunato che la mia vocazione<br />
ha la possibilità di esprimersi, e tramutarsi in<br />
un lavoro a tempo pieno: per Danese, dall’inizio<br />
degli anni Sessanta ai Settanta, sviluppo una sessantina<br />
di progetti messi regolarmente in commercio.<br />
Mezzo secolo dopo, una decina lo sono an-<br />
“<strong>La</strong> forma è eterna, la qualità è umana”<br />
cora e c’è chi li considera dei “classici”. So di aver<br />
seguito sempre la stessa ricetta, la mia. Quando mi<br />
si chiede un progetto nuovo, anziché cercare d’inventare<br />
chissà cosa, mi limito a mettere i puntini<br />
sulle “i”, tenendo ben ferme un paio di convinzioni:<br />
la forma dev’essere eterna, fuori dal tempo, libera<br />
dalle mode, e la sua qualità dev’essere alla<br />
portata di chi fabbrica l’oggetto, come succedeva<br />
una volta. Perché, quando entro in un’officina, se<br />
imparo qualcosa sul piano della tecnica, sento di<br />
dover trasmettere qualcos’altro sul piano della<br />
cultura formale e umanistica: è lì, che si nasconde<br />
l’anima <strong>delle</strong> cose.<br />
E poi mi pongo tre domande: quale bisogno dovrà<br />
soddisfare quest’oggetto? Con quale materia e<br />
quali strumenti lo si può realizzare? Con quale forma?<br />
Molti miei colleghi e illustri teorici accettano<br />
che siano le ricerche di mercato a stabilire cosa è<br />
importante per la gente, mentre sappiamo che es-<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
AUTO<br />
PROGETTAZIONE<br />
A sinistra,<br />
Enzo Mari<br />
monta la sedia<br />
classica 1<br />
tratta<br />
dal suo progetto<br />
del 1973<br />
MOSTRA<br />
Nella foto<br />
in bianco e nero<br />
in alto,<br />
strumento<br />
per le relazioni<br />
di profondità<br />
del ’65;<br />
a sinistra,<br />
allestimento<br />
struttura lineare<br />
per una mostra<br />
di Danese<br />
nel 1965<br />
PUTRELLA<br />
In basso,<br />
il vassoio<br />
Putrella<br />
del 1958,<br />
uno dei primi<br />
oggetti di Mari<br />
per Danese<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45<br />
VASO CAMICIA (1961) VASO PAGO-PAGO (1968)<br />
se nascono solo dalla necessità di vendere, e di conseguenza<br />
andrebbero guardate quantomeno con<br />
sospetto. Credo che sia fondamentale che l’artefice<br />
di un progetto prenda come riferimento se stesso<br />
e i suoi bisogni: se riesce a individuare una risposta<br />
corretta alle proprie necessità, è probabile<br />
che sarà anche la più corretta per gli altri.<br />
Torniamo a Bruno Danese. [...] A posteriori, credo<br />
che esistano due tipi di imprenditore: uno, il più<br />
diffuso, ritiene che un prodotto sia solo lo strumento<br />
necessario per fare soldi, e con questa categoria<br />
è impensabile realizzare un buon oggetto.<br />
L’altro, invece, pensa che il successo commerciale<br />
sia necessario, perché consente di alimentare una<br />
sincera passione per il lavoro. In tal caso, è più probabile<br />
fare qualcosa di decente.<br />
Il primo progetto che mi chiede Danese è una<br />
ciotola. Forse un po’ a sorpresa, gli propongo di<br />
usare come materiale il ferro, perché vorrei acquisirne<br />
le tecniche di lavorazione. Decido di partire<br />
dai semilavorati, cioè le lamiere e i profili d’acciaio<br />
coi quali si fabbrica gran parte della nostra modernità,<br />
dalle rotaie ferroviarie alle putrelle per edifici.<br />
Prodotti industrialmente, hanno forme a mio giudizio<br />
perfette, perché di un’essenzialità assoluta,<br />
fatta per contenere in sé tutte le possibili varianti<br />
successive del costruire. Insomma, sono l’archetipo<br />
del concetto di “standard”. [...]<br />
Uno di quei modelli è la Putrella, ottenuta da un<br />
pesante segmento di trave metallica a doppio t, di<br />
cui ho incurvato verso l’alto gli estremi, in modo da<br />
farla assomigliare a un vassoio. Non penso che a<br />
qualcuno verrà davvero l’idea di riempirla di asparagi,<br />
frutta o cioccolatini, come poi mi è capitato<br />
spesso di vedere nelle vetrine, e invece incontra un<br />
successo inaspettato. Oggi penso che quell’oggetto<br />
sia la sintesi di tutto il design, perché cerca di<br />
qualificare esteticamente un prodotto industriale.<br />
[...] Nel 1966 fumo due pacchetti di sigarette al<br />
giorno e decido di progettare un portacenere perfetto<br />
e definitivo. Deve contenere comodamente<br />
quaranta mozziconi, essere stabile, afferrabile con<br />
una sola mano, facilmente lavabile, possedere un<br />
bordo idoneo all’appoggio della sigaretta e un’area<br />
che ne faciliti lo spegnimento. Tra i primi schizzi e<br />
le fasi intermedie di progettazione passa un anno,<br />
durante il quale continuo a chiedermi che senso<br />
abbia realizzare uno strumento perfetto per un vizio.<br />
Il giorno in cui ricevo il primo esemplare del<br />
Borneo, smetto di colpo di fumare. [...]<br />
Nel 1968, Danese manda in produzione la zuccheriera<br />
Java, nata tre anni prima come modello<br />
artigianale in Pvc. Si è deciso di tradurla in oggetto<br />
industriale, in melammina stampata per alimenti,<br />
con il sogno di mettere a punto uno standard contemporaneo:<br />
perfetto e di larghissima diffusione.<br />
Dev’essere un contenitore facile da afferrare, con<br />
un coperchio che immagino di fissare con una cerniera,<br />
cioè un congegno elementare composto da<br />
una serie di anelli tenuti insieme da un perno.<br />
Mentre gli altri componenti della zuccheriera li<br />
avrebbe stampati una macchina, quel piccolo perno<br />
sarebbe stato inserito a mano da un operaio. È<br />
risaputo che esistono due condizioni di lavoro:<br />
uno alienato e uno di trasformazione, riservato a<br />
un piccolo nucleo di fortunati, gli artisti, gli scrittori,<br />
i poeti, gli scienziati… e i progettisti. Disegnare<br />
quel perno per me significava posizionarmi senza<br />
fatica nel campo migliore, ma costringere un operaio<br />
a ripetere lo stesso gesto, ossessivamente, mille<br />
volte al giorno. Mi ribello al gioco <strong>delle</strong> parti, cerco<br />
un’alternativa possibile e la trovo, progettando<br />
una nuova cerniera, con tanto di brevetto d’invenzione<br />
di primo livello. Da quel momento in poi, la<br />
Java viene utilizzata da Achille Castiglioni come<br />
esempio di qualità progettuale durante le sue lezioni<br />
al Politecnico di Milano. Ma da trent’anni è<br />
fuori catalogo.<br />
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore Spa<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
Pikachu<br />
Il più noto della prima<br />
generazione, compare<br />
in diversi videogame<br />
Alto 40 centimetri<br />
ha poteri elettrici<br />
ed è un Pokémon<br />
Topo<br />
Snivy<br />
Alto 60 centimetri<br />
è uno dei Pokémon<br />
con i quali si inizia<br />
negli ultimi due<br />
videogame. Appartiene<br />
alla specie Serperba<br />
e la sua arma è il veleno<br />
Zekrom<br />
Pokémon leggendario<br />
di quinta generazione,<br />
molto raro e potente<br />
Di quasi tre metri,<br />
è un drago<br />
con poteri elettrici<br />
complementare<br />
a Reshiram<br />
Tepig<br />
Non supera<br />
i 50 centimetri,<br />
è simile a un maiale,<br />
come Snivy<br />
è uno dei Pokémon<br />
con i quali si può<br />
cominciare negli ultimi<br />
due videogame<br />
Reshiram<br />
Pokémon di quinta generazione,<br />
anche questo rarissimo<br />
Alto oltre tre metri,<br />
è un drago che usa<br />
attacchi di fuoco<br />
TRAINER<br />
Ash Ketchum, allenatore di Pokémon<br />
insieme a Pikachu in uno dei film<br />
sui piccoli mostri; in alto a destra, un aereo<br />
della Ana Airlines dedicato ai Pokémon<br />
210 milioni<br />
i videogiochi venduti<br />
dal 1996 a oggi<br />
Oshawott<br />
Pokémon di circa<br />
mezzo metro<br />
simile a una lontra<br />
I suoi poteri<br />
e i suoi attacchi<br />
sono legati<br />
all’elemento<br />
dell’acqua<br />
4 milioni<br />
le copie dell’ultima versione<br />
vendute in Giappone in un mese<br />
© 2011 POKÉMON<br />
© 1995-2011 NINTENDO/<br />
CREATURES INC./<br />
GAME FREAK INC. TM, ®,<br />
E NOMI DEI PERSONAGGI<br />
SONO MARCHI REGISTRATI<br />
DI NINTENDO<br />
anni costruendo la prima coppia di<br />
giochi per Game Boy. Nessuno, nemmeno<br />
alla Nintendo, si aspettava un<br />
successo del genere. Negli ultimi tempi<br />
Tajiri, dato per morto erroneamente su<br />
Twitter durante l’ultimo terremoto in<br />
Giappone, ha preso a fare il consulente<br />
e supervisiona tutti i testi dei giochi<br />
senza però essere al centro della scena.<br />
A differenza dei suoi animali digitali. «Il<br />
vero divertimento con i nostri videogame<br />
inizia solo una volta giunti al termine<br />
della storia», conclude Masuda. Una<br />
storia però che non sembra proprio<br />
avere fine. Anzi, come ogni adolescente,<br />
sembra essere nel pieno <strong>delle</strong> forze.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47<br />
L’infinita scoperta<br />
dei nostri figli<br />
SANDRO VERONESI<br />
15 miliardi<br />
le carte del Trading Card<br />
Game vendute<br />
Praticamente in ogni casa dell’Occidente dove negli ultimi<br />
quindici anni siano cresciuti dei bambini c’è un<br />
cassetto pieno di carte Pokémon, o della loro evoluzione<br />
italiana, i Gormiti; e, in genere disgiunto da questo,<br />
cioè nella stessa casa ma in altro loco — così come di solito<br />
gli archeologi trovano disgiunte le antiche statue dalle iscrizioni<br />
che le accompagnavano, incise sui basamenti — , c’è<br />
un sacchetto o uno scrigno pieno di piccoli gadget di plastica,<br />
mostri di plastica, cartucce di plastica di videogioco, corrispondenti<br />
a quelle collezioni di carte. Oggi sono quindici<br />
anni, si è detto, ma fra altri quindici saranno trenta, poi cinquanta,<br />
poi cento: a quel punto probabilmente molte <strong>delle</strong><br />
carte/iscrizioni saranno andate perdute, ma i mostri e i gadget,<br />
poiché non biodegradabili, saranno ancora da qualche<br />
parte. Avremo voglia a buttarli via, infilandoli barbaramente<br />
nel sacchetto dei rifiuti generici: essi resisteranno, strenuamente,<br />
chimicamente, alla nostra volontà di sbarazzarcene,<br />
e in qualche modo, da qualche parte, alcuni di loro rispunteranno.<br />
D’altron-de, stiamo parlando di miliardi di<br />
pezzi, perciò non è azzardato ipotizzare che almeno qualche<br />
migliaio di esemplari (con una proporzione cioè di uno<br />
su un milione), riesca ad arrivare fino alla fine della propria<br />
vita chimica — che nella fattispecie, è bene ricordarlo, supera<br />
i mille anni. E dato che quando parliamo di Pokémon o<br />
di Gormiti — è bene ricordare anche questo — stiamo parlando<br />
di mondi, la sopravvivenza fisica dei loro abitanti implica<br />
la sopravvivenza dei mondi medesimi, con tutto ciò<br />
che questo comporta. I nostri figli possono crescere quanto<br />
gli pare, dimenticarsene, abbandonarli: non è che un mondo<br />
smetta di esistere solo perché non lo si guarda più. Per il<br />
solo e semplice motivo d’esser stato creato, esso tende a sopravvivere,<br />
a evolvere, e infatti per tutti i bambini che si fanno<br />
ragazzi, e perdono interesse per Pikachu o per Sommo<br />
Luminescente, ci sono altri bambini che scoprono i loro barattoli<br />
abbandonati, dove cova il virus che li contagerà. E la<br />
plastica ne è al tempo stesso il simbolo e il genoma.<br />
Ho una figlia di un anno e mezzo alla quale nessuno aveva<br />
mai parlato di questi mondi. Per i suoi fratelli più grandi<br />
essi, i mondi dei Pokémon e dei Gormiti, hanno da tempo<br />
esaurito la propria attrattiva. Sono mondi che qualcuno ha<br />
inventato, certo, ma che lei, invece, poche settimane fa, ha<br />
scoperto: li ha scoperti con un gesto di inconsapevole archeologia<br />
domestica — aprendo una vecchia scatola, rovesciando<br />
in terra un cassetto; li ha avuti davanti agli occhi nella<br />
propria più vitale rappresentazione, grazie ai mostri che<br />
li abitano e alla plastica che li trasporta intatti nel tempo; e<br />
subito dopo averli scoperti ha cominciato a maneggiarli, assaggiarli,<br />
disporli, ammucchiarli, rovesciarli — ha cominciato,<br />
a modo suo, a giocarci. Tanto vano è, infatti, l’Unendliche<br />
Aufgabe, l’impegno senza fine di collezionarli, quanto<br />
è semplice, ipnotico e irresistibile il messaggio che essi lanciano<br />
a chiunque se li trovi in mano per la prima volta: noi<br />
siamo qui per te. È per via della plastica, sapete — è perché<br />
non invecchiano, e non portano mai il segno <strong>delle</strong> fissazioni<br />
che hanno generato e degli abbandoni che hanno subito.<br />
In questo senso sono, per l’appunto, invulnerabili; e la ragione<br />
semplice semplice del loro successo è che sono stati sì<br />
inventati una volta per tutte, ma non cessano mai di venire<br />
scoperti, ogni giorno, nelle vestigia <strong>delle</strong> infanzie precedenti<br />
che i bambini occidentali si trovano davanti scavando negli<br />
strati di oggetti — quasi tutti di plastica — di cui le loro case<br />
sono imbottite.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
SPETTACOLI<br />
Un giorno un bambino appassionato<br />
di videogame, che amava collezionare insetti<br />
e che non avrebbe mai finito il liceo,<br />
ha un’idea. <strong>La</strong> porta alla Nintendo che quasi per scherzo la realizza. È il 1996,<br />
un esercito di minidinosauri invade il mercato, i ragazzini di tutto il mondo<br />
impazziscono. Adesso Pikachu e gli altri sono diventati adolescenti,<br />
ma ancora pronti per la prossima generazione<br />
JAIME D’ALESSANDRO<br />
Fossero tutti così gli adolescenti<br />
avremmo un mondo<br />
di genitori probabilmente<br />
felici, sicuramente ricchi. I<br />
Pocket Monsters, meglio<br />
noti come Pokémon, hanno<br />
appena compiuto quindici anni e li<br />
festeggiano dall’alto dei 210 milioni di<br />
videogame venduti. Dopo Super Mario<br />
nessuno si è spinto tanto avanti e alla<br />
Nintendo sono ovviamente orgogliosi.<br />
Del resto, oltre alle cinque generazioni<br />
apparse nei giochi elettronici, ci sono le<br />
tredici serie animate trasmesse in centocinquanta<br />
paesi e tradotte in trenta<br />
lingue, i dodici film, l’esercito di pupazzi<br />
e pupazzetti e il gioco di carte uscito<br />
in quattro edizioni e per il quale sono<br />
state stampate quindici miliardi di immagini<br />
collezionabili.<br />
Numeri da capogiro per un universo,<br />
anzi un ecosistema dalle mille sfaccettature,<br />
che non sembra aver mai conosciuto<br />
un momento di crisi. I quattrocentonovanta<br />
mini dinosauri da cacciare,<br />
collezionare e soprattutto scambiare<br />
con gli amici, cavalcano la cresta<br />
dell’onda con una bravura sconosciuta<br />
perfino ai personaggi della Disney. E<br />
ora, ormai quasi adulti, stanno cambiando<br />
davvero. Nell’ultima avventura<br />
uscita da pochi giorni per la console tascabile<br />
Nintendo Ds, al solito suddivisa<br />
in due versioni (chiamate in questo caso<br />
Bianca e Nera), hanno attraversato<br />
l’oceano per approdare a New York.<br />
Non solo: al posto di Pikachu e compagni,<br />
c’è una nuova generazione di mostri<br />
tascabili. Altra rivoluzione in un bestiario<br />
fantastico che fin da quel lontano<br />
1996, quando apparvero nei negozi<br />
Pokémon Rosso e Verde per Game Boy,<br />
è sempre stato ampliato passo dopo<br />
passo ma mai rinnovato così radicalmente.<br />
«Volevo un cambiamento netto»,<br />
racconta Junichi Masuda, direttore<br />
della Game Freak, la software house<br />
giapponese che ha creato il mondo dei<br />
Pokémon. Oggi quarantatreenne, vi lavora<br />
fin dalla sua fondazione ed è il<br />
principale artefice della svolta. «Ero seduto<br />
nel cortile del Moma e mi è venuto<br />
in mente che sarebbe stato bello<br />
mettere al centro del prossimo video-<br />
Piccoli<br />
mostri<br />
crescono<br />
* Parola composta<br />
da due termini<br />
in lingua inglese:<br />
pocket (tascabile)<br />
monster (mostro)<br />
game Manhattan». Rivoluzione necessaria<br />
forse, dato che in genere a ogni<br />
console portatile della Nintendo è<br />
sempre corrisposta una generazione di<br />
Pokémon. Quest’ultima invece non solo<br />
è la seconda per Ds, ma arriva dopo<br />
Oro HeartGolde Argento SoulSilverche<br />
hanno venduto undici milioni di copie.<br />
Un successo difficile da eguagliare<br />
usando i soliti cliché. Anche se sarà<br />
mantenuto quel compendio immaginato<br />
oltre quindici anni fa da Satoshi<br />
Tajiri, il padre autentico dei Pokémon.<br />
Classe 1965, è lui il bambino che amava<br />
Ho-Oh<br />
Alto tre metri<br />
e 80 centimetri,<br />
è un Pokémon<br />
leggendario,<br />
fra i più rari<br />
Ha diverse abilità<br />
e usa fuoco<br />
e attacchi volanti<br />
Lugia<br />
È uno di quelli più rari<br />
Alto cinque metri<br />
e 20 centimetri, è l’unico<br />
a poter apprendere la mossa<br />
leggendaria: l’aerocolpo<br />
collezionare insetti, l’appassionato<br />
di videogame che a malapena è<br />
riuscito a finire il liceo e che ha messo in<br />
piedi con Sugimori la Game Freak. Era<br />
il nome della rivista amatoriale dedicata<br />
ai giochi elettronici che i due presero<br />
a pubblicare dai primi anni Ottanta.<br />
Tajiri in seguito si mise a studiare il linguaggio<br />
di programmazione e dopo un<br />
videogame intitolato Quinty, presentò<br />
l’idea dei Pokémon alla multinazionale<br />
di Super Mario. Sotto la guida di Shigeru<br />
Miyamoto, che Super Mario lo ha<br />
inventato, la Game Freak ha passato sei<br />
Celebi<br />
È alto 50 centimetri,<br />
della specie Tempovia,<br />
ha poteri di “alternacura”:<br />
impedisce ai Pokémon<br />
di cambiare stato<br />
*<br />
Totodile<br />
È di seconda generazione<br />
ed è di tipo acquatico<br />
Alto 60 centimetri,<br />
è uno dei Pokémon<br />
Mascellone<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
le tendenze<br />
Indispensabili<br />
LAURA ASNAGHI<br />
Borsecome golosi pasticcini, esposte in allettanti vetrine che scatenano<br />
il desiderio di fare shopping sfrenato. Piccole e grandi, rigide<br />
e morbide, le borse sono le grandi star di questa stagione della<br />
moda. Ma per essere davvero di tendenza, devono avere una caratterista<br />
fondamentale: il colore, forte e deciso, meglio se energetico<br />
e abbagliante. Tutto è ammesso: dal rosa fucsia all’arancio,<br />
<strong>La</strong> borsa è la vita<br />
(meglio se a colori)<br />
Piccole e grandi, rigide o morbide, effetto “matrioska”<br />
o stile bauletto. L’importante, almeno in primavera<br />
e in estate, è che non siano né classiche né austere<br />
E così da Miuccia Prada a Chanel, da Dolce e Gabbana<br />
a Piero Guidi, trionfa l’allegria dell’arcobaleno<br />
per l’accessorio più trendy del guardaroba femminile<br />
Millennium<br />
bag<br />
BALNEARE<br />
<strong>La</strong> borsa<br />
dell’estate<br />
di Carpisa<br />
è grande<br />
e a righe colorate<br />
FOCOSA<br />
Rosso<br />
fuoco<br />
il secchiello<br />
linea Bold<br />
di Piero<br />
Guidi<br />
dal verde smeraldo al blu cobalto, dal rosso al turchese. Via libera al viola, alle righe<br />
a contrasto e alle fantasie più stravaganti. Le borse colorate racchiudono in<br />
sé un messaggio positivo. «Segnano la voglia di ripresa», sostengono gli stilisti<br />
che sperano di essersi lasciati alle spalle i momenti più bui della crisi. E sull’onda<br />
di questo augurio le vetrine si riempiono di borse deliziose. <strong>La</strong> varietà di modelli<br />
è tale che anche le più incallite collezioniste restano affascinate da questo<br />
fiume colorato che investe il mondo degli accessori. A sdoganare il colore ha<br />
contribuito moltissimo Miuccia Prada, con un’intera collezione dove le righe<br />
ESCLUSIVA<br />
Esclusiva<br />
e originale<br />
la pochette<br />
fucsia da sera<br />
Gherardini<br />
FLOREALE<br />
Stampe floreali,<br />
su fondo bianco<br />
per il bauletto<br />
firmato D&G<br />
BRILLANTE<br />
Colori brillanti<br />
per le pochette<br />
di Gucci<br />
con le nappine<br />
sfrangiate<br />
multicolor fanno la parte del leone. Sono ovunque, sugli abiti ma anche sulle<br />
borse, con chiusure metalliche. Con la complicità dell’estate, Prada ha messo da<br />
parte il nero, il colore più comodo e rilassante, di cui gli armadi <strong>delle</strong> donne sono<br />
pieni, per attirare l’attenzione su una nuova estetica, meno austera e più votata<br />
all’ottimismo. <strong>La</strong> rivoluzione del colore è appoggiata anche da Chanel. Le<br />
classiche borsette in pelle trapuntata con il ciondolo caratterizzato dalla doppia<br />
“C” intrecciata sperimentano la forza del giallo e del rosa, da abbinare a jeans ma<br />
anche a tailleur super griffati. Da Furla la grande novità di stagione sono le borse<br />
a forma di bauletto, in gomma colorata, già diventate oggetti di culto tra le fashioniste<br />
più esigenti. Colori a go-go anche in casa Hermès: dalle piccole alle<br />
grandi Kelly fino alle amatissime Birkin, la gamma cromatica è sempre più ampia.<br />
Fendi e Roger Vivier da tempo credono in questo trend e le loro creazioni per<br />
la sera sono veri capolavori di alto artigianato. I Dolce e Gabbana hanno scelto i<br />
colori caldi dell’estate per “Miss Sicily” la loro borsa-icona, sulla cresta dell’onda<br />
da più stagioni, proposta in tutte le taglie. L’ultima nata è la versione marsupio.<br />
<strong>La</strong> moda dà il via libera al colore e offre una vasta gamma di borse differenziate<br />
per i vari momenti della giornata. Ecco perché sempre più donne vanno in ufficio<br />
con le borse «matrioska». Ovvero quelle che, all’interno, contengono la pochette<br />
morbida da sera o la clutch rigida, con la chiusura a scatto, per il cocktail<br />
del dopo ufficio. Come ricordano gli stilisti, sono finiti i tempi in cui le donne manager<br />
andavano alle feste trascinandosi le shopping bag o le tracolle cariche di<br />
documenti. Adesso anche tra loro prevale il piacere di cambiarsi in vista <strong>delle</strong> feste<br />
serali. E così con un borsa divertente e un paio di scarpe giuste, il gioco è fatto.<br />
Smettono i panni della donna manager e riscoprono la loro femminilità.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
MEDITERRANEA<br />
Colori solari<br />
e mediterranei<br />
per i bauletti<br />
da giorno<br />
di Borbonese<br />
SOLIDA<br />
Mini box<br />
colorate: ecco<br />
le borsette<br />
dell’Emporio<br />
Armani<br />
TRADIZIONALE<br />
Verde intenso<br />
È il colore<br />
della tracolla<br />
classica<br />
di Ferragamo<br />
GLOBETROTTER<br />
Sono pensate<br />
per le donne<br />
che viaggiano<br />
le multitasche<br />
Piquadro<br />
ALLEGRA<br />
Viva le righe<br />
colorate<br />
Da Prada<br />
è tutto un gioco<br />
di contrasti<br />
VARIOPINTA<br />
<strong>La</strong> mini Kelly con tracolla<br />
di Hermès in tutti i colori<br />
dell’arcobaleno<br />
Gabriele Colangelo/Borbonese<br />
“Una al giorno non basta più”<br />
Dietro un grande marchio come Borbonese, che, nel 2010, ha celebrato un secolo di storia,<br />
c’è un giovane talento della moda, appassionato di arte e letteratura. Gabriele Colangelo,<br />
36 anni, cresciuto alla scuola di Versace e di Roberto Cavalli, ha lavorato con il gruppo Burani<br />
e ora firma “Borbonese 1910”, la linea di borse di alta gamma.<br />
Da cosa nasce questa passione sfrenata <strong>delle</strong> donne per le borse speciali e colorate?<br />
«<strong>La</strong> borsa fa la differenza, è quel tocco che permette a una signora ma anche a un ragazza di<br />
mettersi in vista, di emergere. Il tubino nero che si indossa al mattino per andare in ufficio, con<br />
una borsa capiente e pratica, diventa abito da sera se abbinato a una pochette colorata e a un paio<br />
di scarpe molto originali».<br />
<strong>La</strong> borsa protagonista del guardaroba femminile?<br />
«Sì, il suo potere è aumentato enormemente. Anche perché la borsa non ha problemi di taglie<br />
come un vestito e, in più, favorisce anche scelte eccentriche».<br />
Ci fa un esempio?<br />
«Sono poche le donne che possono permettersi di osare un abito rouge ardent e sentirsi perfettamente<br />
a loro agio. Il rosso è un colore impegnativo, che richiede una perfetta forma fisica e<br />
un volto rilassato, come dopo una vacanza. Ma le stravaganze hanno un fascino irresistibile e allora<br />
ecco che la borsa colorata diventa il modo più elegante di soddisfare un desiderio».<br />
Quando lei disegna una borsa, a cosa si ispira?<br />
«Uno stilista deve sempre captare i bisogni <strong>delle</strong> donne e interpretarli nella maniera giusta. Per<br />
“Borbonese 1910”, che rappresenta la linea di borse couture di questa maison nata a Torino all’inizio<br />
del secolo, prendendo le mosse da una gioielleria ho creato venti pezzi glamour, in materiali<br />
pregiati: galuscia, visone, coccodrillo, e il celebre “Op”, l’occhio di pernice, ovvero la pelle<br />
realizzata in esclusiva da Borbonese. Ma l’elemento che ricorda le origini del marchio sono le<br />
chiusure, ispirate ai gioielli déco. Ogni borsa è speciale e ha un nome: “Tribeca”, “Soho”,<br />
“Aspen”».<br />
Gli armadi <strong>delle</strong> donne sono una sorta di gran bazar <strong>delle</strong> borse. Perché secondo lei?<br />
«Semplice. Oggi non esiste più la borsa che si addice a tutte le occasioni. Uno stesso modello<br />
può essere proposto in taglia piccola, media e grande, come fa Borbonese, marchio che tra i suoi<br />
pezzi di culto ha la “Sexy bag”, la “Luna bag” o la “London bag”. Oggi cambiano le dimensioni<br />
<strong>delle</strong> borse e in più i modelli sono tra i più variegati. Tanto che, molte donne, escono di casa portando<br />
a tracolla due borse, a volte tre».<br />
Ma per realizzare una borsa basta il lavoro di un creativo?<br />
«No, lo stilista deve lavorare a stretto contato con i tecnici che conoscono tutti i segreti dei materiali.<br />
<strong>La</strong> borsa nasce da un lavoro di squadra».<br />
(l. as.)<br />
PRATICA<br />
Pratica<br />
e multiuso<br />
la borsa Tod’s<br />
segue il trend<br />
di stagione:<br />
è disponibile<br />
in molti colori<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49<br />
SERALE<br />
<strong>La</strong> pochette da sera<br />
di Louis Vuitton<br />
che si porta a mano<br />
è proposta nei toni<br />
caldi della Cina<br />
PREZIOSA<br />
Bella e preziosa quanto<br />
un gioiello: è la nuova idea<br />
di Bulgari per il look estivo<br />
BON TON<br />
Ecco il classico “trapuntato”<br />
con manici catena di Chanel,<br />
ma in versione rosa shocking<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
i sapori<br />
Invenzioni<br />
LA RICETTA<br />
Lo chef stellato<br />
Ilario Vinciguerra<br />
ha appena<br />
inaugurato<br />
il suo nuovo<br />
locale Ilario<br />
Vinciguerra<br />
Restaurant<br />
a Gallarate, Milano<br />
LICIA GRANELLO<br />
Dalle <strong>La</strong>nghe l’arte antica del vitello all’albese, carne cruda<br />
e tartufo bianco. Poi, a Venezia, la rinascita cosmopolita<br />
Oggi la preparazione che appiattisce i cibi con l’illusione<br />
di mangiare meno e meglio contagia tutti e tutto:<br />
cappesante, fragole, parmigiano...<br />
Ingredienti per 4 persone<br />
12 scampi grandi<br />
4 pomodori cuore di bue<br />
2 lime<br />
4 bicchieri d'acqua<br />
100 grammi di zucchero<br />
Il trionfo della sottigliezza. Il cibo a due dimensioni, ovvero<br />
azzeramento dello spessore, con il sapore che invece di crescere<br />
in altezza si dilata, pronto a strabordare se il piatto non si<br />
adegua in larghezza. Illusione di mangiare poco, di mangiare<br />
meno, di godersi il meglio — il gusto — evitando il peggio<br />
(il carico calorico). <strong>La</strong> lenta esplosione della primavera,<br />
certificata dal timing dell’ora legale, spalanca il suo ventaglio<br />
di temperature intiepidite e voglia di piatti diversi: un<br />
po’ per cacciare via le tossine invernali, un po’ per riprendere<br />
confidenza con i vestiti della bella stagione, incompatibili<br />
con i rotolini di grasso accumulati per difenderci<br />
e consolarci nelle giornate più fredde dell’anno.<br />
Quale soluzione migliore che appiattire i cibi a mo’ di<br />
sfoglia per ridurre le quantità?<br />
In tempi non sospetti, il carpaccio ci ha avvicinati<br />
all’universo dell’alimentazione light senza averne<br />
l’etichetta, magnifico esempio di dietologia inconsapevole.<br />
Del resto, ben prima del nome che da oltre<br />
mezzo secolo traduce in ricetta il concetto di cibo ad<br />
altezza di millimetro, nelle <strong>La</strong>nghe si praticava l’arte<br />
del vitello all’albese, gioco di rimandi e consistenze<br />
tra carne cruda e tartufo bianco, tagliati sottilissimi<br />
entrambi. Non i denti, ma labbra, lingua e palato<br />
a godersi la vellutata carnalità della combinazione,<br />
spennellata con un filo d’olio, escamotage seducente<br />
per esaltare due magie della gastronomia piemontese:<br />
Il piacere sottile<br />
della fettina<br />
Carpaccio di scampi con acqua<br />
di pomodoro e sorbetto al lime<br />
•<br />
Mescolare acqua, zucchero e succo<br />
di lime. Riporre in frigo, rimestando<br />
di tanto in tanto. <strong>La</strong>vare, frullare e far<br />
decantare i pomodori in uno straccio<br />
per due ore in frigo. Raccogliere<br />
l'acqua di vegetazione, aggiungere<br />
un cucchiaino di lecitina di soia<br />
e montare con un frullino<br />
Tagliare sottilmente gli scampi<br />
per lungo, adagiarli in un piatto,<br />
condirli con qualche fiocco di sale<br />
maldon. Servire con un cucchiaio<br />
di acqua di pomodoro e una<br />
quenelle di sorbetto al lime<br />
la trifola e il vitello fassone, la razza bovina dalle cosce ipertrofiche allevata<br />
intorno a Torino da oltre due secoli. Al di là della querelle gastronomica<br />
sulla modalità di preparazione, tra sostenitori del super-sottile e<br />
amanti del battuto a coltello (da non confondere con lo sbrigativo tritato,<br />
antesignano della tartare, colpevole di disperdere i succhi della carne), la<br />
migrazione lungo l’asse del Po da Alba a Venezia è stata felicissima, se è<br />
vero che lì è rinato il piatto, diversamente condito e battezzato col nome<br />
del pittore cinquecentesco Vittore Carpaccio (di cui nell’estate del 1963 si<br />
teneva una mostra in <strong>La</strong>guna).<br />
Più che la ricetta, poté la finezza del taglio: in pieno boom economico<br />
nascevano le sottilette, simbolo dell’Italia affascinata dai toast e dalle<br />
fettine di carne magra e chiara, da coprire con un po’ di formaggio per<br />
rallegrarne il sapore deboluccio. Di lì in poi, la creazione di Cipriani si è<br />
trasformata da ricetta specifica in tecnica di preparazione: tutto è diventato<br />
carpacciabile, dalle cappesante ai carciofi, dalle fragole al parmigiano,<br />
spesso anche in combinazione tra loro in un delirio di sottigliezze<br />
sovrapposte (che è poi l’idea ispiratrice di lasagne e parmigiana<br />
di melanzane). Il guaio è nell’esecuzione. Perché il taglio fine, preciso,<br />
ripetuto fetta dopo fetta, è un’arte che si impara a fatica, come ben sanno<br />
gli apprendisti cuochi giapponesi, obbligati a seguire lunghi corsi<br />
sull’uso <strong>delle</strong> lame prima di accedere alla preparazione di sushi e sashimi.<br />
In caso non abbiate la necessaria confidenza con i coltelli, chiedete<br />
aiuto al macellaio di fiducia. Obbligatori i piatti formato maxi.<br />
Carpaccio<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Manzo<br />
L’originale prevede<br />
controfiletto crudo tagliato<br />
sottilissimo, con maionese<br />
lieve. Versione albese<br />
con olio e tartufo bianco<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
90 grammi<br />
la dose di carne<br />
per ciascun piatto<br />
120<br />
le calorie in cento grammi<br />
di carpaccio di pescespada<br />
1963<br />
L’Harry’s Bar lancia<br />
la ricetta del carpaccio<br />
Polpo<br />
Bollito e tagliato a pezzi,<br />
si pressa in mezza bottiglia<br />
di plastica, bucherellando<br />
il fondo. Un giorno in frigo<br />
prima di affettare e condire<br />
Ananas<br />
Sciroppo di acqua,<br />
fruttosio, agrumi e spezie<br />
per marinare le fette. Sopra,<br />
chicchi di melograno, frutti<br />
rossi o una salsa di gelato<br />
Gamberi<br />
I crostacei, puliti e pestati<br />
dopo marinatura<br />
nello spumante, vengono<br />
conditi con salsa di teste<br />
e spumante frullati<br />
Venezia<br />
DOVE DORMIRE<br />
CA’ SATRIANO<br />
Campo San Maurizio<br />
Tel. 345-5832898<br />
Doppia 110 euro con colazione<br />
DOVE MANGIARE<br />
LE TESTIERE<br />
Sestiere Castello 5801<br />
Tel. 041-5227220<br />
Chiuso domenica e lunedì<br />
menù da 50 euro<br />
Zucchine<br />
Pelapatate o mandolina<br />
per le strisce lunghe<br />
e sottili. Condimento<br />
con olio, limone, sale<br />
e bacche di pepe rosa<br />
DOVE COMPRARE<br />
RIO TERÀ DEI PENSIERI<br />
Santa Croce 495<br />
Tel. 041-2960658<br />
Funghi<br />
Parmigiano, carciofi<br />
o tartufi da far cadere<br />
a pioggia sulle fettine<br />
di ovuli e porcini<br />
Condire con olio e basilico<br />
itinerari<br />
Alba (Cn)<br />
DOVE DORMIRE<br />
ALLA CASCINA BARESANE<br />
Località Santa Rosalia 32<br />
Tel. 335-7248764<br />
Doppia 70 euro con colazione<br />
DOVE MANGIARE<br />
LOCANDA DEL PILONE<br />
Fraz. Madonna di Como 34<br />
Tel. 0173-366167<br />
Chiuso martedì e mercoledì,<br />
menù da 60 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
MACELLERIA ASTEGGIANO<br />
Strada Cauda 2<br />
Tel. 0173-281251<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51<br />
Bologna<br />
DOVE DORMIRE<br />
I PORTICI<br />
Via Indipendenza 69<br />
Tel. 051-42185<br />
Doppia 120 euro con colazione<br />
DOVE MANGIARE<br />
SCACCO MATTO<br />
Via Broccaindosso 63<br />
Tel. 051-263404<br />
Chiuso lunedì a pranzo,<br />
menù da 40 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
PESCHERIA ADRIATICA<br />
Via Drapperie 8<br />
Tel. 051-228695<br />
Il pittore e la contessa<br />
seduti all’Harry’s Bar<br />
ARRIGO CIPRIANI<br />
Un giorno, molti anni fa, Giorgio De Chirico con la<br />
moglie stava facendo colazione a un tavolino dell’Harry’s<br />
Bar. Seduto al banco c’era il pittore Roberto<br />
Matta che, se voglio descriverlo in due parole, mi è<br />
più facile dire che era l’esatto contrario di De Chirico. Matta<br />
vedeva la vita con la lente di ingrandimento dell’umorismo<br />
e del sesso, De Chirico invece non rideva mai. Anzi.<br />
Nei tanti anni durante i quali frequentava il ristorante,<br />
non l’ho mai visto nemmeno sorridere.<br />
I due non si conoscevano. Un cliente, che era un<br />
amico comune dei due, prese Matta per un braccio e<br />
lo portò al tavolo di De Chirico per presentarglielo.<br />
De Chirico si alzò un po’ di malavoglia e Matta gli tese<br />
la mano dicendo: «De Chirico? Quello vero o quello<br />
falso?». Una battuta “mattana” fulminante che faceva<br />
riferimento alle innumerevoli copie false del famoso<br />
pittore il quale però aveva dipinto così tanti<br />
quadri da scambiare talvolta per duplicati anche alcuni<br />
suoi dipinti originali. De Chirico non sorrise<br />
nemmeno quella volta.<br />
Ricordo questo episodio per introdurre il Carpaccio.<br />
Quello vero o quello falso? Ci sono due cose inventate<br />
da mio padre all’Harry’s Bar, anzi tre, se mi considero<br />
anch’io una sua invenzione. Il Bellini e il Carpaccio.<br />
Tutte due hanno in comune il fatto di aver preso il nome<br />
da un pittore e sono stati serviti da noi per la prima volta<br />
nello stesso anno <strong>delle</strong> rispettive esposizioni antologiche<br />
che si presentavano a Venezia quando non era di turno la<br />
Biennale. Queste due creazioni hanno fatto il giro del<br />
mondo. Non come originali, ma come copie.<br />
Il Carpaccio, quello vero, è un piatto freddo di carne cruda<br />
affettata molto sottile. All’inizio era fatto con il filetto di<br />
manzo, ora con il controfiletto. Negli anni Cinquanta la<br />
dietetica non era stata ancora inventata e così, incomprensibilmente,<br />
alla contessa Amalia Nani Mocenigo un<br />
medico lungimirante aveva prescritto una rigorosa dieta<br />
di carne cruda! Il filetto crudo, anche se affettato sottile,<br />
chiedeva aiuto a un condimento, così si pensò di guarnirlo<br />
con una salsa, altra invenzione minore del Vecchio,<br />
chiamata universale perché aveva il raro pregio di potersi<br />
accompagnare sia alla carne che al pesce. Uno dei nostri<br />
cuochi è specialista nel disporla sopra la carne imitando i<br />
tratti del pittore Kandisky. Si potrebbe proporla alla Biennale<br />
come l’opera del cuoco Evaristo. Ma ci vorrebbe un<br />
frigorifero a vetri.<br />
Su Internet viene riconosciuta la titolarità dell’invenzione,<br />
anche se, per presentarla, ci sono alcune foto piuttosto<br />
singolari di varie interpretazioni. Salvo la nostra.<br />
Infine si scopre che il Carpaccio è diventato un’esegesi<br />
del cibo crudo sia di carne che di pesce i quali, se affettati<br />
sottili, diventano “alla Carpaccio”. Perfino il filetto all’albese,<br />
progenitore vero del piatto, viene chiamato alla<br />
Carpaccio.<br />
Un’ultima cosa. C’è chi, per comodità, surgela la carne<br />
prima di affettarla. Sbagliato. Il risultato rivela subito questo<br />
metodo perché tra la carne e il piatto ristagna un’acquerugiola<br />
di colore incerto che, chissà perché, mi fa ricordare<br />
qualche creazione di chef plurireferenziati.<br />
Scamorza<br />
Accoglie gli spinacini<br />
in cottura croccante<br />
e gherirgli di noce,<br />
oppure fettine di salmone<br />
affumicato<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Petto d’oca<br />
Affumicato o marinato<br />
in zucchero e sale<br />
si dispone tra fettine<br />
d’arancia o pompelmo<br />
Sopra, olio e sale grosso<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011<br />
l’incontro<br />
Bad girls<br />
Vivienne Westwood<br />
GIUSEPPE VIDETTI<br />
LONDRA<br />
<strong>La</strong> finestra dell’ufficio, con<br />
vista su Battersea Power<br />
Station, sembra la copertina<br />
di Animals dei Pink<br />
Floyd incorniciata da un infisso. Quando<br />
uscì il disco, nel 1976, quella era una<br />
zona depressa di Londra, Vivienne Westwood<br />
viveva tappata nel negozio di<br />
King’s Road che aveva battezzato Sex e<br />
che l’anno dopo avrebbe preso il nome<br />
di Seditionaries (dal 1980 si chiama<br />
World’s End); con Malcolm Mc<strong>La</strong>ren<br />
cominciava a gettare scompiglio nella<br />
capitale inglese con lo stile punk. L’8<br />
aprile compie settant’anni, è stilista di<br />
fama internazionale, da trent’anni (la<br />
prima gloriosa collezione, ispirata ai pirati,<br />
è del 1981) impera nel mainstream<br />
del fashion business, ma il suo quartier<br />
generale è uno spazio tutt’altro che convenzionale.<br />
Un viavai di creativi — molti parlano<br />
italiano — prendono d’assalto l’archivio<br />
al piano terra, dove sono catalogate le<br />
idee partorite in cinquant’anni di trasgressioni<br />
e stravaganze da quella che è<br />
ancora considerata l’agente provocatrice<br />
della moda. Da qualsiasi angolo della<br />
palazzina si ode la sua voce che impartisce<br />
ordini, interviene a distanza, consiglia,<br />
incita. Quando appare, è l’eterna<br />
ragazzaccia, i capelli arancio, gli occhi di<br />
malachite intelligenti e curiosi, un abito<br />
di pile dal taglio sbieco che pare la versione<br />
maison di un Kansai Yamamoto<br />
per Ziggy Stardust. In giro niente stoffe,<br />
niente manichini, niente schizzi. Solo libri.<br />
Libri ovunque. Su uno scaffale l’eros<br />
nell’antica Grecia, su un altro un volume<br />
sui preraffaelliti, e poi Rembrandt e Rubens<br />
e Tiziano e i puntinisti dell’Otto-<br />
cento. «A me della moda non importa un<br />
fico secco. <strong>La</strong> faccio perché la so fare»,<br />
esordisce. «Sono estremamente politicizzata.<br />
Non credo nella rivoluzione ma<br />
lotto per un mondo migliore, e questo<br />
complica molto le cose quando fai un lavoro<br />
come il mio». Come poteva non infuriarsi<br />
Margaret Thatcher quando Vivienne<br />
indossò un vestito che la lady di<br />
ferro le aveva commissionato (e non ancora<br />
consegnato) sulla copertina del<br />
mensile Tatler (aprile 1989)? «Non la<br />
prese benissimo», sorride Westwood,<br />
«anche perché io avversavo la sua deregulation,<br />
è stato il primo passo verso crisi<br />
economica globale. Mrs. Thatcher,<br />
per la verità, diceva sempre cose lusinghiere<br />
su di me; e le dirò che è sempre<br />
stata una donna elegante, molto elegante,<br />
immacolata. Non scherzo. Solo la Regina<br />
è più elegante di lei. Sono seria, non<br />
rida!». Artista per vocazione, stilista per<br />
caso, antifemminista («le donne che vogliono<br />
fare i lavori degli uomini non hanno<br />
compreso il potere che hanno come<br />
mogli e madri»), totalmente invischiata<br />
nel fashion business eppure aristocraticamente<br />
distaccata da marketing e consumismo,<br />
la Westwood non riesce certo<br />
a controllare tutte le sue linee, ma pretende<br />
che il messaggio esca sempre forte<br />
e chiaro. «Per questo non ho mai voluto<br />
chiudere il World’s End. È un negozio<br />
speciale, dove vendiamo capi riciclati e<br />
t-shirt con slogan politici. È sempre lì, in<br />
King’s Road, lo stesso posto dove nacque<br />
il punk».<br />
Arrivò a Londra nel 1958 da Glossop,<br />
nel Derbyshire. Aveva diciassette anni,<br />
si chiamava Vivienne Isabel Swire, il cognome<br />
Westwood l’ha ereditato dal primo<br />
marito Derek, sposato nel 1962.<br />
«Non credo che gli uomini abbiano mai<br />
avuto un futuro come quello in cui noi<br />
speravamo», racconta fissando un punto<br />
indistinto fuori dalla finestra (cioè,<br />
dentro la copertina dei Pink Floyd). «E<br />
ancora non riesco a credere che tanti sogni<br />
e idee e fermenti si siano impantanati<br />
in questi anni terribili in cui la razza<br />
umana rischia l’estinzione a causa dei<br />
cambiamenti climatici. Io sono nata durante<br />
la Seconda guerra, ho conosciuto<br />
povertà e privazioni prima di assistere<br />
all’esplosione del consumismo. Dopo<br />
due grandi guerre, dopo l’incubo del<br />
Vietnam e le proteste degli hippies, non<br />
avrei mai creduto che saremmo ripiombati<br />
in questo buio. Furono gli hippies a<br />
politicizzare me e la mia generazione.<br />
Oggi i giovani non sanno neanche cosa<br />
sia la politica. Pensano di poter sapere<br />
tutto schiacciando un tasto — e questo<br />
spiega la mia avversione a Internet». Lei<br />
era esattamente il contrario, spavalda,<br />
un maschiaccio già negli anni di scuola,<br />
A giorni compirà settant’anni,<br />
ma a vederla sembra ancora<br />
la ragazzaccia che nel ’58 sbarcò<br />
a Londra per inventare il punk iniziando<br />
da un negozio chiamato<br />
Sex. Il negozio è sempre là<br />
e lei è sempre un’agente<br />
provocatrice del fashion<br />
system: “A me della moda<br />
non importa nulla,<br />
la faccio perché la so fare<br />
Lotto per un mondo migliore, e questo<br />
complica molto le cose quando fai<br />
un lavoro come il mio”<br />
quando se la dava a gambe dalle lezioni<br />
saltando dal secondo piano. «Ah sì,<br />
neanche i ragazzi riuscivano a imitarmi»,<br />
dice maliziosa. «Sono sempre stata<br />
coraggiosa, eroica, con una grande joie<br />
de vivre». Era arrivata in città in cerca di<br />
stimoli culturali e l’incontro con Malcolm<br />
Mc<strong>La</strong>ren, l’altro vate del punk, fece<br />
scattare la scintilla. Della creatività,<br />
perché non fu amore a prima vista. «Lui<br />
aveva diciott’anni, io ventiquattro. Diventammo<br />
amici, poi amanti», racconta<br />
con molto pudore. «All’inizio non mi<br />
piaceva, ma lui fu così insistente che alla<br />
fine cedetti. È un uomo brillante, mi<br />
dissi, perché fare tanto la ritrosa? Ora che<br />
è morto posso dirlo, alla fine della nostra<br />
relazione, che è durata tredici anni, le<br />
sue idee non m’interessavano più; era<br />
un uomo intelligente, ma aveva uno<br />
smodato bisogno di gratificazioni, <strong>delle</strong><br />
lusinghe del successo. Nostro figlio, il<br />
mio secondo figlio, nacque nel 1967, noi<br />
cominciammo il nostro lavoro di stilisti<br />
nel 1970 e andammo avanti per quasi<br />
dieci anni. Persi interesse nei suoi con-<br />
<strong>La</strong> nostra fu solo<br />
un’ operazione<br />
di marketing. Cosa<br />
cambiammo? Nulla<br />
Creammo un look<br />
straordinario, certo<br />
Ma non saranno mai<br />
un po’ di capelli verdi<br />
a renderti diverso<br />
FOTO GAMMA/RAPHO<br />
fronti — intellettualmente — perché si<br />
fermava alla superficie <strong>delle</strong> cose, gli bastava<br />
stupire, e non sempre ci vogliono<br />
grandi idee per stupire la gente».<br />
Insieme crearono uno stile che sarebbe<br />
entrato prepotentemente nell’iconografia<br />
del rock’n’roll e in maniera più<br />
sottile ma implacabile nel blasonato<br />
mondo della moda. <strong>La</strong> loro Factory era<br />
al 430 di King’s Road, un negozio con<br />
una storia. «Nel 1970 si chiamava Paradise<br />
Garage, ci comprai un paio di pantaloni<br />
in velluto leopardato. Mi piacevano<br />
le cose da Teddy Boy che trovavo lì.<br />
Già all’epoca, molto prima dei punk, io<br />
avevo i capelli pettinati a cresta. Conciata<br />
così, sembravo una principessa arrivata<br />
dallo spazio», dice con un sorriso<br />
velato di nostalgia. «Vede, io non ho mai<br />
dato grande importanza al punk, perché<br />
secondo me non successe niente di rilevante»,<br />
continua. «Solo una brillante<br />
operazione di marketing. Cosa cambiammo?<br />
Nulla. Creammo un look<br />
straordinario, questo sì. Ma da qui a<br />
mettersi su un piedistallo — come fecero<br />
tutti, incluso Malcolm — come profeti<br />
di una generazione ribelle che lottava<br />
per una società libera ce ne passa di strada.<br />
Io vedevo solo frotte di ragazzini che<br />
vagavano per la città apatici e senza idee<br />
— ma cosa vuoi sovvertire se non hai<br />
idee? Johnny Rotten e tutti gli altri erano<br />
una manica di conformisti. Non sono i<br />
capelli verdi che ti rendono diverso, ma<br />
il tuo cervello, la tua attitudine nei confronti<br />
della vita. Le idee le avevamo noi,<br />
…Malcolm, io».<br />
Ironicamente, confessa, cominciò a<br />
fare moda a livello industriale nel momento<br />
in cui la cosa non la interessava<br />
più, alla fine degli anni Settanta, quando<br />
la partnership con Mc<strong>La</strong>ren era arrivata<br />
a un punto morto. «Eravamo ormai tutti<br />
preda della nostalgia. Anche Saint-<br />
<strong>La</strong>urent fece una collezione ispirata agli<br />
anni Quaranta e Dior al periodo elisabettiano.<br />
Io incominciai facendo qualcosa<br />
di eroico, qualcosa che avesse una<br />
valenza politica. Dissero che ero una<br />
sovversiva, ma semplicemente non riuscivo<br />
a immaginare una collezione che<br />
non avesse insita un’idea di ribellione, di<br />
protesta contro qualcosa — e c’è sempre<br />
qualcosa che non va nel mondo». Era<br />
anticonformista, molto più colta di<br />
qualsiasi altro stilista («tranne Saint-<br />
<strong>La</strong>urent, un genio», precisa), e soprattutto<br />
non era francese né italiana. «Non<br />
fu mica facile per un’inglese sfidare il<br />
mercato. <strong>La</strong> differenza tra la moda inglese<br />
e quella francese si può riassumere<br />
in una frase di Oscar Wilde: in Francia<br />
tutti i borghesi vogliono essere artisti, in<br />
Inghilterra tutti gli artisti vogliono essere<br />
borghesi. Questo spiega perché io so-<br />
no sempre risultata come un corpo<br />
estraneo nel mondo della moda». Nel<br />
2007 scatenò un putiferio dichiarando<br />
pubblicamente che non avrebbe più votato<br />
i laburisti, appoggiando i conservatori<br />
sui temi <strong>delle</strong> libertà individuali e dei<br />
diritti civili.<br />
«Fu una provocazione», spiega, «perché<br />
avevano cancellato nel paese l’idea<br />
di una destra e di una sinistra creando<br />
due partiti identici, schierati in favore<br />
dei grandi interessi economici. Contro<br />
entrambi ho pubblicato il mio Active Resistance<br />
Manifesto, che vuol dire resistenza<br />
attiva contro la propaganda. È il<br />
mio messaggio ai giovani d’oggi, che ho<br />
redatto tenendo in mente quel che Aldous<br />
Huxley scrisse in uno dei suoi saggi.<br />
I tre più grandi mali del mondo sono<br />
il nazionalismo, la menzogna istituzionalizzata<br />
e la continua distrazione, i cardini<br />
della propaganda. L’antidoto è la<br />
cultura, che è la radice dell’intelligenza,<br />
del pensiero, ciò che ti permette di sapere<br />
chi sei. Nel mio Manifesto ho scritto:<br />
“Noi siamo il passato”. E quel che sopravvive<br />
del passato è l’arte».<br />
Andreas Kronthaler, il fascinoso marito<br />
austriaco di venticinque anni più<br />
giovane, la chiama dalla stanza accanto<br />
per sottoporle un modello da mandare<br />
in produzione. «Io non mi faccio distrarre»,<br />
conclude. «Non mi piace viaggiare,<br />
non guardo la tv, non vado al cinema o a<br />
teatro. Ho poco tempo libero, e lo impiego<br />
per leggere. <strong>La</strong> lettura è il mio momento<br />
di gloria. Non la smetto mai di<br />
predicare in favore della cultura, <strong>delle</strong><br />
arti. Cosa saremmo oggi, anche noi stilisti,<br />
senza Rembrandt, Tiziano, Matisse o<br />
Monet? Se non conosci il passato, non<br />
riesci a capire il mondo in cui vivi. E tristemente,<br />
di questi tempi, siamo pericolosamente<br />
a corto di cultura».<br />
‘‘<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale