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A. Schopenhauer - La vita umana tra dolore e noia - 1

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fuggir la quale consiste l'intera <strong>vita</strong>, diviene desiderata, e spontaneamente le si<br />

corre incontro; dall'altro, che non appena miseria e <strong>dolore</strong> concedono all'uomo una<br />

tregua, la <strong>noia</strong> è subito vicino tanto, che quegli per necessità ha bisogno d'un<br />

passatempo. Quel che tutti i viventi occupa e tiene in moto, è la fatica per<br />

l'esistenza. Ma dell'esistenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno che<br />

cosa fare: perciò il secondo impulso, che li fa muovere, è lo sforzo di alleggerirsi<br />

dal peso dell'essere, di renderlo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia di<br />

sfuggire alla <strong>noia</strong>. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uomini al riparo dei bisogni e<br />

delle cure, quand'abbiano alla fine rimosso da sé tutti gli altri pesi, si trovano esser<br />

di peso a se stessi, e hanno per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni<br />

sot<strong>tra</strong>zione fatta a quella <strong>vita</strong> appunto, per la cui conservazione il più possibile<br />

lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze, E la <strong>noia</strong> è tutt'altro che un male<br />

di poco conto; che finisce con l'imprimere vera disperazione sul volto. Essa fa sì<br />

che esseri, i quali tanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttavia si<br />

cerchino avidamente, e diviene in tal modo il principio della socievolezza. Anche<br />

contro di essa, come contro altre universali calamità, vengono prese pubbliche<br />

precauzioni, e già per ragion di stato; perché questo male, non meno del suo<br />

estremo opposto, la fame, può spingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze:<br />

panem et circense, vuole il popolo. II severo sistema penitenziario di Filadelfia fa<br />

strumento di punizione la semplice <strong>noia</strong>, per mezzo di solitudine e inazione: ed è sì<br />

terribile, che già ha condotto i reclusi al suicidio. Come il bisogno è il perpetuo<br />

flagello del popolo, così è flagello la <strong>noia</strong> per le classi elevati. Nella <strong>vita</strong> borghese è<br />

rappresentata dalla domenica, come il bisogno dai sei giorni di lavoro.<br />

Tra il volere e il conseguire <strong>tra</strong>scorre dunque intera ogni <strong>vita</strong> <strong>umana</strong>. Il desiderio è,<br />

per sua natura, <strong>dolore</strong>: il conseguimento genera tosto sazietà; la meta era solo<br />

apparente: il possesso disperde l'at<strong>tra</strong>zione: in nuova forma si ripresenta il<br />

desiderio, il <strong>dolore</strong>: altrimenti, segue monotonia, vuoto, <strong>noia</strong>, contro cui è la<br />

battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. [...] Gl'incessanti sforzi di<br />

bandire il <strong>dolore</strong> non servono che a mutarne l'aspetto. Questo è dapprima<br />

mancanza, bisogno, ansia per la conservazione della <strong>vita</strong>. Quando sia riuscito, il<br />

che è assai difficile, lo scacciare il <strong>dolore</strong> in questa sua forma, ecco che tosto si<br />

ripresenta in mille altre, variando secondo età e circostanze, come istinto sessuale,<br />

appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità,<br />

ecc.<br />

E se finalmente non riesca a trovar via in nessun'al<strong>tra</strong> forma, viene sotto la<br />

malinconica, grigia veste del tedio e della <strong>noia</strong>, contro cui si tentano rimedi variati.<br />

Quando poi si pervenga da ultimo a discacciare anche quelli, sarà difficile che<br />

accada senza riaprir con ciò la via al <strong>dolore</strong> in una delle precedenti forme, e<br />

ricominciar così il ballo da principio; imperocché <strong>tra</strong> <strong>dolore</strong> e <strong>noia</strong> viene ogni <strong>vita</strong><br />

<strong>umana</strong> di qua e di là rimbalzata. Per disanimante che sia questa considerazione,<br />

voglio tuttavia richiamare accessoriamente l'attenzione sopra un suo lato, dal quale<br />

si può attingere conforto, o anzi addirittura <strong>tra</strong>rre forse una stoica indifferenza per il<br />

proprio male. Che la nos<strong>tra</strong> intolleranza di esso procede massimamente dal fatto,<br />

che noi lo riteniamo venuto per caso, provocato da una catena di cause, la quale<br />

potrebbe agevolmente essere diversa. Per il male immediatamente necessario e<br />

affatto universale, come è per esempio la necessità della vecchiaia e della morte e<br />

di molti quotidiani disagi, non usiamo rattristarci. È piuttosto il considerar<br />

l'accidentalità delle circostanze, le quali ci produssero un <strong>dolore</strong>, che da a questo il<br />

pungolo. Se invece abbiamo conosciuto, che il <strong>dolore</strong> come tale è inerente<br />

all'essenza della <strong>vita</strong>, o è ine<strong>vita</strong>bile, e unicamente la sua figura, la forma in cui si<br />

presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro <strong>dolore</strong> attuale riempi uno<br />

spazio, nel quale, se quello non fosse, immediatamente un altro subentrerebbe,<br />

per ora impedito dal primo; che quindi, in sostanza, ben poco potere ha su noi il<br />

destino; allora potrebbe una cotal riflessione, facendosi persuasione vivente, portar<br />

seco un notevole grado di stoica imperturbabilità, e diminuir l'angosciosa<br />

inquietudine per il nostro bene. Ma in realtà una sì efficace signoria della ragione<br />

sopra il <strong>dolore</strong> direttamente sentito, la si trova di rado, o mai.<br />

riportato in S. Moravia "Filosofia - I testi", Le Monnier, vol. III, pag. 75.

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