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SEPARATISMO - Archivio Guerra Politica

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<strong>SEPARATISMO</strong><br />

(Opera, 21 agosto 1998)<br />

PREMESSA<br />

Il documento che segue non persegue fini di carattere personale né segna una svolta nella mia posizione<br />

nei confronti di uno Stato e di un regime che disprezzo. Il volto cristiano della giustizia rappresenta solo un<br />

pro-memoria per coloro che hanno finto di dimenticare come, in passato, hanno chiuso capitoli ancor più<br />

sanguinosi della nostra storia solo perché le responsabilità di vertice non potevano essere diversamente<br />

occultate.<br />

Mettere a confronto, quindi, la ‘clemenza’ degli Scalfaro e C. per i duchi, i principi, i mafiosi protagonisti<br />

della ribellione separatista siciliana, con la ‘faccia feroce’ che oggi stabiliscono nei confronti di quanti non si<br />

sono proposti di vendere agli Stati uniti una parte del territorio nazionale ma, al contrario, di liberarsi della<br />

tutela opprimente e liberticida degli americani –e con essa dei loro servi italioti- ci è parso doveroso.<br />

Altrettanto doverosa ci appare la risposta a quanti dagli Scalfaro e compari attendono il condono<br />

condizionato al loro ravvedimento ed al riconoscimento dei loro ‘crimini’ con conseguente condanna di un<br />

passato che, contrariamente al loro presente, è dignitoso e andrebbe difeso e rivendicato. Non è l’attesa<br />

della ‘grazia’ che devono attendere ma, eventualmente, un provvedimento di giustizia, non dettato da<br />

pelose clemenze, che si basi sul riconoscimento della responsabilità dello Stato e del regime nella guerra<br />

politica.<br />

Un provvedimento che riapra –non chiuda- il capitolo sugli ‘anni di piombo’ per concluderlo solo dopo che<br />

esso sarà interamente chiarito.<br />

La scarcerazione dei detenuti politici deve quindi rappresentare il primo passo verso un chiarimento storico<br />

definitivo, facendo saltare gli accordi presi da democristiani e pidiessini, con la complicità dell’immancabile<br />

magistratura italiana, per cancellare le loro responsabilità e i servigi resi a Stati uniti ed Unione sovietica<br />

sulla pelle degli italiani tutti. Perché coloro che sono ancora in carcere servono ancora oggi a questa classe<br />

dirigente senza dignità per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal tradimento da essa perpetrato nei<br />

confronti degli interessi nazionali da oltre mezzo secolo.<br />

Depongano le illusioni quanti potrebbero intravedere in queste pagine un invito, implicito od esplicito, fatto<br />

da chi scrive a promulgare un decreto di indulto ovvero a compiere un gesto di clemenza nei confronti suoi<br />

e di quanti come lui sono ancora in carcere. E’ un’illusione che possono coltivare gli sciocchi e i disonesti,<br />

non coloro che comprendono come la ‘clemenza’ dei servi suoni ad offesa per coloro che, al pari di chi<br />

scrive, sono signori di se stessi e dei loro destini.<br />

“Onorevoli senatori. Il disegno di legge sul quale, d’incarico della Commissione da me presieduta, ho<br />

l’onore di riferirvi, ha la sua prima origine nelle dichiarazioni che il Presidente del consiglio faceva al Senato<br />

il giorno 19 agosto u.s. Egli dichiarava allora che il governo, mentre intendeva riaffermare la esigenza di<br />

difendere la maestà della legge, accogliendo tuttavia l’invito da varie parti ad esso rivolto, avrebbe<br />

presentato un provvedimento di clemenza, ispirato a sensi di larga umanità, nell’intento anche di<br />

contribuire ancora di più alla distensione degli animi e nella persuasione che la clemenza è il volto cristiano<br />

della giustizia”.<br />

Corre l’anno democristiano 1953. A pronunciare queste alate parole è Adone Zoli, relatore di un disegno di<br />

legge per la promulgazione di un decreto di amnistia e indulto nei confronti di coloro che hanno commesso<br />

“reati… per fine politico” fino al 18 giugno 1946 (varato con legge 18 dicembre 1953 n.920).<br />

La guerra è finita il 25 aprile 1945 ma il parlamento, compatto, avverte la necessità di promulgare una legge<br />

che allontani lo spettro del carcere o determini il ritorno a casa di quanti sono detenuti per fatti compiuti<br />

fino alla data del 18 luglio 1946, oltre un anno e due mesi dalla cessazione del conflitto. E’ il riconoscimento<br />

ufficiale di uno stato di guerra non dichiarato che aveva continuato ad insanguinare il Paese anche dopo<br />

che le armi avevano taciuto e i ‘liberatori’ avevano conquistato l’intero territorio nazionale. Nell’Italia<br />

tornata alla pace, dopo il 25 aprile 1945 era difatti esploso con virulenza lo scontro tra anticomunismo e<br />

comunismo ma, parallela alla guerra politica, in Sicilia era divampata la ribellione separatista.<br />

Erano i protagonisti di quest’ultima quelli che i partiti politici, solidali fra loro, dal Movimento sociale<br />

italiano al Partito comunista, sorretti dalla benedizione vaticana, hanno allora inteso salvare con un decreto


di amnistia e indulto che l’opportunismo, non il tempo trascorso, hanno fatto dimenticare in anni in cui<br />

sarebbe stato più che necessario, doveroso, rammentarlo.<br />

La rivolta separatista siciliana non fu un moto spontaneo di popolo ma in esso, provato e sfinito dalla<br />

guerra, trovò molti consensi ed alimentò le speranze di quanti nell’infame casa Savoia vedevano il simbolo<br />

di un’oppressione brutale che durava da oltre ottant’anni; da quel 1860 che aveva visto un avventuriero di<br />

pochi scrupoli sbarcare a Marsala per sostituire una tirannide indigena con quella straniera del regno di<br />

Piemonte e Sardegna. Nell’estate del 1943 sprazzi di rivolta avevano illuminato la tormentata terra di Sicilia<br />

insanguinandone le contrade già segnate dolorosamente dalla guerra. Provocati dal desiderio legittimo di<br />

una popolazione che non voleva partecipare alla ‘guerra di Badoglio’ che nella libertà della propria terra<br />

vedeva quel tempo della pace che lo Stato italiano le aveva sempre negato furono soffocati con l’usuale<br />

durezza dall’esercito di Vittorio Emanuele III. Nella sola Comiso vi furono, secondo i reticenti dati ufficiali,<br />

fra i rivoltosi 19 morti e 63 feriti (F. Gaja, L’esercito della lupara, Milano Maquis 1990, p.166), senza contare<br />

gli arrestati, i torturati nelle caserme, i condannati. Ma in una terra in cui la dignità è più preziosa della vita<br />

non si uccide impunemente, così l’esercito di Badoglio contò 18 morti.<br />

Se la ribellione separatista, che traeva forza e ragion d’essere da un anelito di libertà, fosse stata fomentata<br />

dal basso, e avesse trovato in se stessa e per suo esclusivo conto i propri condottieri, sarebbe stata scritta<br />

una pagina di storia sanguinosa ma onorata. Invece, così non fu.<br />

Alla testa del movimento separatista, a strumentalizzare quel sogno di libertà, vi erano difatti i complici<br />

degli oppressori, quelli che dallo Stato sabaudo in versione ‘democratica’ prima, fascista dopo, avevano<br />

ottenuto privilegi e benemerenze e che ora, con l’arrivo degli angloamericani, avevano intravisto la<br />

possibilità di divenire i padroni dell’isola, facendosi umili servi dei vincitori. Politici emarginati ma mai<br />

perseguitati durante il Ventennio, tornati alle loro lucrose professioni cumulando denaro e rancore; mafiosi<br />

rientrati dal confino con l'odio nel cuore; nobili che sognavano il ritorno all’antico potere non importa come<br />

e al servizio di chi. Durante la guerra avevano contribuito a ‘liberare’ dalla vita migliaia di siciliani falciati dai<br />

bombardamenti terroristici su città e paesi, collaborando segretamente coi loro massacratori; con lo sbarco<br />

‘concordato’ fra questi ultimi, casa Savoia e lo Stato maggiore delle Forze armate italiane videro la prossima<br />

concretizzazione delle loro aspirazioni.<br />

Fra loro vi fu chi salvò faccia ed apparenze, inneggiando al “diritto alla libertà e all’indipendenza della<br />

Sicilia” (ivi, p.133) fin dal 22 luglio 1943; e chi, invece, distribuì senza ritegno e senza vergogna migliaia di<br />

distintivi “recanti il semplice numero 49, ad indicare la Sicilia come quarantanovesima stella degli Stati uniti<br />

d’America” (ivi, p.136), rendendo in tal modo esplicite le sue intenzioni di passare da un padrone all’altro. I<br />

nomi dei capi separatisti più noti appartenevano alla politica: Antinio Varvaro, Antonio Canepa, Andrea<br />

Finocchiaro Aprile, Concetto Gallo. Poi vi era la melma mafiosa dei Calogero Vizzini e dei suoi compari e<br />

comparielli, picciotti e quaquaraqua. Ma a tirare i fili, c’erano i rappresentanti di una nobiltà più che avida,<br />

ricca e disonorata: il duca di Carcaci ed i suoi rampolli, i baroni La Motta, Cammarata, Di Benedetto,<br />

Bordonaro, Bonanno di Linguaglossa etc., solo per citare i più noti.<br />

La truppa era altrettanto composita. Vi erano i ‘volontari’ e i ‘banditi’. I primi attratti dall’ideale separatista,<br />

i secondi richiamati da Concetto Gallo per conto di principi, duchi e baroni. E furono proprio i banditi il<br />

braccio armato del movimento separatista. Banditi lo erano certamente anche se in molti avevano una<br />

parvenza di ideali come, ad esempio, due degli esponenti più rappresentativi della banda dei niscemesi,<br />

Rosario Avila senior e Rosario Avila junior, padre e figlio che si erano iscritti, rispettivamente, l’8 marzo<br />

1944 e il 28 aprile 1945 alla sezione del Movimento separatista di Niscemi. Gli altri “guidati ed infiammati –<br />

scriveva l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana- dalla diabolica esaltazione di Concetto Gallo, agivano<br />

nella illusione di rifarsi la perduta verginità morale camuffandolo con il sacrificio per un ideale…” (ivi,<br />

p.229).<br />

Senza di loro, il separatismo siciliano non avrebbe avuto storia né peso politico. I niscemesi guidati da<br />

Salvatore Rizzo erano stati arruolati, senza molti problemi, nel luglio del 1945. Più difficile era stato<br />

l’avvicinamento di Salvatore Giuliano con il quale il primo contatto ufficiale si ebbe il 15 maggio 1945 con<br />

esiti positivi (E. Magrì, Salvatore Giuliano, Mondadori, Milano 1987, p.50-51), tanto che il bandito di<br />

Montelepre nel mese di luglio poteva essere considerato un militante separatista a tutti gli effetti.<br />

L’arruolamento dei banditi trovò sanzione definitiva il 15 agosto 1945, nel corso di una riunione svoltasi a<br />

Palermo in casa del barone Stefano La Motta. Vi parteciparono tutti quelli che contavano: “Muniti di<br />

regolari deleghe, intervennero – scrive Filippo Gaja - don Lucio e Giuseppe Tasca, i fratelli duchi di Carcaci,


Attilio Castrogiovanni, il barone Stefano La Motta, Sirio Rossi, il barone Cammarata, Concetto Gallo Nicotra,<br />

Antonino Varvaro e Finocchiaro Aprile. Intervenne anche, disdegnando qualsiasi delega e accompagnato da<br />

due guardie del corpo, don Calogero Vizzini, capo della mafia siciliana” (F. Gaja, L’esercito…cit., p. 197).<br />

Con la sola opposizione di Antonino Varvaro, respinta da Lucio Tasca con l’obiezione che “anche Garibaldi si<br />

era rivolto ai criminali” e l’assicurazione di Calogero Vizzini che “garantì di poter assumere in qualsiasi<br />

momento il controllo dei fuorilegge, dicendo esplicitamente che contro questi ultimi nulla avrebbe potuto<br />

la polizia senza l’aiuto della mafia” (ivi, p.198), i banditi divennero soldati dell’unico ideale al quale, in<br />

fondo, potevano aderire con la speranza che il giorno della vittoria avrebbe coinciso con quello della loro<br />

redenzione.<br />

Si ingannavano e venivano ingannati, ma erano importanti per la corrotta nobiltà siciliana. E pur di poterli<br />

avere qualcuno fra i capi del separatismo siciliano aveva provveduto a far liquidare fisicamente Antonio<br />

Canepa, legato non agli americani ma all’Intelligence service britannico, contrario ad ogni ipotesi di<br />

inquinamento della purezza dell’armata separatista con l’immissione di criminali comuni e, quel che era<br />

peggio, dotato di un carisma in grado di annullare quello di Concetto Gallo. Era Antonio Canepa il capo<br />

militare e politico dell’Evis, fino a quel 17 giugno 1945 quando, a Randazzo in provincia di Catania, i<br />

carabinieri aprirono il fuoco senza preavviso e senza motivazioni sul furgone sul quale viaggiava insieme ad<br />

alcuni suoi compagni. I carabinieri, si sa, sono coscienziosi. E anche quella volta fecero un lavoro accurato:<br />

su sei separatisti ne morirono tre, due dissanguati per le ferite ed uno sul colpo: Antonio Canepa.<br />

L’esercito da lui creato si sgretolò: “Oltre alla brigata Canepa accampata a Cesarò - ricorda Gaja - al<br />

momento dello scontro a fuoco di Randazzo erano già in formazione in tutta la Sicilia i sedici gruppi di<br />

guerriglieri previsti da Canepa i quali, rimasti senza capo, si sciolsero” (ivi, p.196). Ora si poteva costituire<br />

un nuovo esercito separatista con a capo Concetto Gallo.<br />

Il primo attacco, i miliziani separatisti e niscemesi insieme, lo sferrarono il 16 ottobre 1945 attaccando, in<br />

località Ape nei pressi di Niscemi, una pattuglia di carabinieri, quattro dei quali furono uccisi e un quinto<br />

ferito. La guerra contro l’Italia era iniziata.<br />

Una guerra all’italiana, con trattative segretissime fra i capi del movimento separatista siciliano e Giuseppe<br />

Romita, ministro degli Interni, per conto del governo che giunse a ricevere una delegazione di ‘rivoltosi’ al<br />

Viminale, facendola accompagnare da un aereo militare appositamente inviato a Catania; e l’esercito ribelle<br />

che si concentrava apertamente in località San Mauro di sopra da dove avrebbe dovuto iniziare la sua<br />

marcia ‘liberatrice’ conquistando Caltagirone, patria del non compianto don Luigi Sturzo.<br />

Nell’attesa che sorgesse l’alba del giorno fatale, i separatisti, con e senza banditi, procedettero a compiere<br />

requisizioni forzate per procurarsi viveri e sequestri di persona per autofinanziarsi. Principi, duchi e baroni<br />

non sborsavano che spiccioli: prima – ovvio- il patrimonio, poi l’ideale.<br />

Il secondo attacco lo sferrò Salvatore Giuliano. Fallite le trattative col governo di Roma, le truppe italiane si<br />

erano disposte attorno a San Mauro, pronte ad attaccare. Era necessaria una diversione nella speranza, poi<br />

rivelatasi vana, che una parte delle forze militari italiane fosse spostata dalla Sicilia orientale a quella<br />

occidentale. Così venne impartito a Giuliano l’ordine di attaccare. Il bandito ubbidì assalendo la caserma dei<br />

carabinieri di Bellolampo, il 26 dicembre 1945, e facendo prigionieri i quattro militi che la difendevano.<br />

Troppo tardi e troppo poco.<br />

Il 29 dicembre 1945, le truppe italiane attaccarono il campo separatista di San Mauro, impegnandosi in uno<br />

scontro a fuoco impari per la evidente sproporzione di mezzi e di uomini proprio confrontati con quelli dei<br />

rivoltosi. Lo sprovveduto ed inetto capo militare, Concetto Gallo, si auto-eliminò subito dalla scena<br />

andando con cinque uomini a catturare una pattuglia di soldati italiani, senza accorgersi che “era<br />

fiancheggiata da altri reparti, e si trovò improvvisamente sotto il fuoco” (ivi, p.239). Obbligato a rintanarsi<br />

in una buca, Gallo sparò fino all’esaurimento delle munizioni per essere poi catturato, insieme a due<br />

giovanissimi volontari, alle quattro del pomeriggio.<br />

Ad assumere le redini del comando fu Salvatore Rizzo, il capo dei niscemesi, che diresse “la manovra di<br />

sganciamento. Fece la rapida ispezione di un sentiero e –scrive Gaja- appena la notte fu caduta, il silenzio, e<br />

in fila indiana, tenmendo i cavalli per le redini, i guerriglieri si addentrarono nel bosco di San Pietro” (ivi,<br />

p.240).<br />

La guerra guerreggiata dichiarata dal separatismo siciliano all’Italia si conclude qui, con la cosiddetta<br />

‘battaglia di San Mauro’ che suddivise equamente le perdite: un morto e due feriti, fra i separatisti; un<br />

morto e cinque feriti fra i militari italiani. Iniziò, quindi, la guerriglia vera e propria affidata alle capacità


militari dei banditi che scrissero una pagina sanguinosa, intrisa di uccisioni di appartenenti alle forze di<br />

polizia e dell’esercito, di assalti ad installazioni militari e caserme, di sequestri di persona per finanziare il<br />

movimento e poter continuare a combattere.<br />

La storia politica del movimento separatista potè così proseguire poggiandosi sulla determinazione feroce<br />

con la quale Salvatore Giuliano e la sua banda, i niscemesi ed altri continuarono a battersi per un ideale<br />

ormai definitivamente tradito, restando soli quando gli ultimi volontari rimasti furono mandati a casa con la<br />

garanzia che la polizia non li avrebbe arrestati, pur restando a tutti gli effetti dei latitanti. La svolta, che<br />

segna anche l’inizio della manovra di sganciamento dei banditi, era stata determinata dall’ingresso in scena<br />

di Umberto II, consapevole di quanto fosse vacillante il suo trono nella primavera del 1946, ed alla ricerca di<br />

una soluzione che ponesse rimedio a quella che già si profilava come una sconfitta nelle elezioni del 2<br />

giugno 1946.<br />

La nobiltà separatista, in questa contingenza, dimentica degli ideali, si propone di affidare la ‘libera Sicilia’<br />

all’erede di chi della sua libertà l’aveva privata, offrendo a Umberto II il trono dell’isola, con l’entusiastico<br />

consenso delle gerarchie militari. E’ l’ennesima pagina di fango, scritta con la complicità dei vertici politici,<br />

militari ed ecclesiastici, con latitanti di alto rango ricevuti al Quirinale, patti stipulati con i mafiosi, generali<br />

che fomentavano ‘movimenti rivoluzionari’ monarchici, soldi elargiti senza risparmio da casa Savoia agli<br />

‘amici’ ed agli ‘amici degli amici’.<br />

Ad una distanza siderale da questo mondo di operetta tragica e dai suoi burattinai, sul terreno arido e<br />

pietroso dei contrafforti montuosi della Sicilia, si consumava intanto la tragedia autentica dei banditi-<br />

separatisti. I niscemesi di Salvatore Rizzo avevano catturato, il 10 gennaio 1946, otto carabinieri, un’intera<br />

pattuglia che si era subito arresa senza sparare un colpo. Obbedivano ancora una volta agli ordini del<br />

comando separatista di Palermo che esigevano l’attacco alle forze militari e di polizia italiane, ma questa<br />

volta non disarmano i loro prigionieri, neanche li uccidono, se li portano invece appresso, benché braccati<br />

da migliaia di uomini dell’esercito e dei carabinieri, per ben diciotto giorni, senza torcere loro un capello.<br />

Filippo Gaja nota che “a rigor di logica, un gruppo di guerriglieri in continuo spostamento non prende<br />

prigionieri, che possono rallentare la marcia, se non è costretto dalla necessità, o se non ha uno scopo ben<br />

definito, oppure se non ha l’ordine di farlo. Né è possibile - continua Gaja - attribuire l’iniziativa ai banditi<br />

per puro desiderio di vendetta, poiché questa sarebbe stata consumata subito. Tanto meno è naturale che<br />

dei banditi si portino dietro otto carabinieri legati per diciotto giorni, come in effetti avvenne” (ivi, 244-<br />

245).<br />

Diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare la logica del comportamento dei niscemesi in questo<br />

frangente e comprenderne il fine, mancando in assoluto elementi di certezza. La più vicina alla verità<br />

appare essere quella di uno scambio di prigionieri: gli otto carabinieri in cambio di Concetto Gallo, arrestato<br />

a San Mauro, come abbiamo visto, il 29 dicembre 1945. Se questa è la verità –e non può non esserlo a rigor<br />

di logica- Salvatore Rizzo ed i suoi uomini obbedivano con disciplina e a rischio della propria vita agli ordini<br />

dei dirigenti del Gris (Gioventù rivoluzionaria per l’indipendenza della Sicilia). Ammette Filippo Gaja che,<br />

effettivamente, “molti anni dopo si seppe che vi fu effettivamente un principio di trattativa fra lo Stato e la<br />

guerriglia, sotto forma di colloqui segreti fra Guglielmo Carcaci e l’ispettore Messana”; e rileva come<br />

“dall’andirivieni di messaggeri sembrava che i capi dei banditi stessero discutendo con i responsabili della<br />

rivolta sul cosa fare dei prigionieri” (ivi, p.248).<br />

Poi, come in ogni oscuro mistero, sulla vicenda e la sua tragica conclusione cala la nebbia del silenzio. Da<br />

Rosario Avila jr. si sa solo che “…un giorno verso la fine di gennaio furono raggiunti da un giovane sui<br />

vent’anni che indossava un impermeabile chiaro, il quale dopo aver salutato i presenti, parlando aveva<br />

accennato a macchine già pronte per portar via i carabinieri” (ivi, p.249), ma è doveroso dubitare della<br />

parola di un uomo incarcerato, facilmente condizionabile dai suoi carcerieri interessati ad addossare ogni<br />

responsabilità ai niscemesi sollevandone il comando separatista.<br />

Salvatore Rizzo aveva sempre obbedito agli ordini dei dirigenti del Gris e non si comprende perché avrebbe<br />

dovuto fare eccezione in quella sola ed unica occasione, così che di certo c’è solo la visita di un emissario<br />

del duca di Carcaci e dei suoi complici. Poche ore più tardi, Salvatore Rizzo “a notte fatta ordinò a sei dei<br />

suoi uomini di fare uscire i carabinieri dalla stanza dove erano rinchiusi, legandoli a due a due con le loro<br />

stesse manette. Quindi tutti si avviarono nell’oscurità. Li fecero camminare un’ora e mezzo nella notte, poi<br />

fu dato l’alt davanti a una miniera di zolfo abbandonata in contrada Bubbonia. L’ex ergastolano Francesco<br />

Saporito disse ai carabinieri che sarebbero stati liberati e li invitò a spogliarsi senza far rumore, con la scusa


che gli indumenti servivano a loro. Ma dopo che furono nudi, nel gelo della notte - ricorda Gaja - cominciò<br />

l’esecuzione. Il brigadiere aveva ancora la panciera e due carabinieri i calzini di cotone bianco d’ordinanza.<br />

Furono fucilati uno alla volta. Il più giovane, un ragazzo di vent’anni, si calò la bustina sugli occhi per non<br />

vedere, e morì così. Il costume delle stragi politiche era entrato nella storia d’Italia. Questa fu la prima” (ivi,<br />

p.195).<br />

Fu anche la prima i cui mandanti e responsabili organizzativi vennero lasciati impuniti dalla magistratura<br />

italiana su ordine del potere politico. Agguati a pattuglie di polizia e militari, sequestri di persona a scopo di<br />

auto-finanziamento, requisizioni forzate, omicidi individuali, rivolte collettive, rastrellamenti, arresti,<br />

torture. La misconosciuta - ancora oggi - guerriglia separatista siciliana fu la prima guerra civile che<br />

sconvolse l’Italia ‘liberata’. Guerriglia che aveva come fine dichiarato il distacco di una parte del territorio<br />

nazionale per un’indipendenza da burla o, più realisticamente, il suo passaggio sotto l’amministrazione<br />

degli Stati uniti d’America. E Stati uniti ed Inghilterra appaiono come i veri responsabili di una tragedia che il<br />

regime ed i suoi storici asserviti hanno, poi, fatto dimenticare.<br />

Ha raccontato il prudentissimo e inetto Concetto Gallo: “Il 17 giugno (1945 nda), mentre sto per lasciare<br />

Catania, ricevo una telefonata da Guglielmo duca di Carcaci, comandante della Lega giovanile e<br />

comandante generale dell’Evis. Mi dice: ‘Hanno ammazzato Canepa. Non ti muovere. Ti verrò a prendere<br />

io’. Partimmo insieme verso Cesarò e ci rifugiammo nella ducea di Wilson, presso Bronte. Trascorsi alcuni<br />

giorni, arriva un’automobile. Alla guida c’è un ammiraglio degli Stati uniti. Accanto, una bella signora.<br />

Dietro, Guglielmo di Carcaci con un cappello da commodoro. Entro in fretta e furia nell’automobile, mi<br />

infilo una giacca da ammiraglio degli Stati uniti, metto in testa un berretto da commodoro e l’automobile si<br />

avvia. La città è circondata da polizia e carabinieri. Un vero presidio con posti di blocco ovunque. Ovunque<br />

uomini e barriere che si alzano solo dopo che la polizia ha controllato i documenti di chi vuole lasciare la<br />

città. Noi –prosegue Concetto Gallo- arriviamo al posto di blocco di Ognina. L’ammiraglio si fa riconoscere e<br />

la pattuglia dei carabinieri ci fa un perfetto saluto aprendo la barriera. Questo episodio mi diede<br />

personalmente –conviene il protettissimo dalla magistratura italiana Concetto Gallo- la misura della<br />

simpatia che il Movimento godeva presso gli alleati. E infatti la sera stessa, dopo una sosta con colazione a<br />

Taormina, giungemmo a Palermo dove, insieme col duca di Carcaci, fummo ospiti a villa Wittinger, che era<br />

la sede del comando alleato in Sicilia…”(ivi, p.445).<br />

E’ più di un indizio, come lo stesso Filippo Gaja lo presenta: è una prova, inconfutabile e pesante come un<br />

macigno che avrebbe dovuto pesare sulla coscienza di quanti politici, militari e magistrati l’hanno rimossa in<br />

nome di una ragion di Stato che appare, viceversa, come l’ennesimo atto di servilismo nei confronti dei<br />

vincitori della seconda guerra mondiale. I lacchè seppellirono la verità sulla sanguinosa guerriglia<br />

separatista in Sicilia, e presentarono gli ‘alleati’ (di chi non lo hanno ancora spiegato) come i difensori<br />

dell’unità nazionale minacciata dall’accordo fra il partito comunista italiano e la Jugoslavia di Tito per<br />

privarci di Trieste e di qualche altro lembo di terra sul confine nord- orientale. Con il complice assensosilenzio<br />

dei comunisti italiani hanno rimosso dal ricordo una guerriglia vera in Sicilia rimpiazzandola con<br />

un’altra, solo ipotetica, dalla parte opposta della penisola.<br />

Ma a motivare questo processo di rimozione- sostituzione non fu la presenza esclusiva degli angloamericani.<br />

Ad eseguire un piano accuratamente elaborato, ad arruolare uomini capaci di combattere, a<br />

fornire loro le motivazioni per farlo in modo determinato e duraturo nel tempo non potevano essere<br />

stranieri ma indigeni per di più, come abbiamo visto, fra i più facoltosi ed influenti dell’isola: nobili, politici,<br />

preti e mafiosi.<br />

L’Ispettorato generale di P.S. della Sicilia, in un suo rapporto del 7 marzo 1946, ne aveva indicati alcuni:<br />

“Promotori ed organizzatori: Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, Rosario Cacopardo, Stefano La Motta,<br />

Concetto Gallo. Capi: Salvatore La Manna, Cammarata inteso Pippi, da identificare, Antonio Velis, Giovanni<br />

Li Mandri, Giuseppe Calabrò, Francesco Tornabene, Salvatore Giacomo Maria Graziano, don Ciccio da<br />

Caltagirone, da identificare, Pasquale Sciortino, Bordonaro, da identificare, altro Bordonaro, da identificare,<br />

Pietro Franzone…” (ibidem). Ma, in quel rapporto, di rilievo non c’erano solo i nomi, c’era anche il<br />

riconoscimento esplicito di un’unità di comando che aveva reso possibile lo sviluppo coordinato ed<br />

armonico della guerriglia in Sicilia: “All’unità di comando –scriveva difatti l’ispettore generale di P.S. Ettore<br />

Messana- delle due formazioni ribelli operanti nella Sicilia orientale ed occidentale si credette contrapporre<br />

la unicità di indirizzo e di coordinamento nelle indagini che andavano svolgendo i vari organi di polizia<br />

dell’isola…” (ivi, p.284). E la conferma giunge dall’interno della stessa organizzazione separatista, come


diretta conseguenza dei “primi arresti dei responsabili dalle cui dichiarazioni emergeva subito la colpa dei<br />

dirigenti del Gris tra cui troneggiano le figure del duca di Carcaci, di Giuseppe tasca e del barone La Motta”<br />

(ibidem).<br />

Vi erano tutti i presupposti per fare un processo clamoroso, alla cui conclusione la verità sarebbe<br />

necessariamente emersa in ogni suo risvolto, anche il più oscuro e recondito. Ma a chi poteva convenire<br />

l’accertamento della verità e la sua proclamazione in sede giudiziaria e storica? A nessuno. Tutti, semmai,<br />

avevano l’interesse opposto: soffocare la verità, distruggerne financo i frammenti sia per evitare che<br />

venisse riconosciuta la responsabilità degli ‘alleati’ e dei vertici politici, militari ed ecclesiastici italiani che<br />

con la gerarchia separatista avevano trattato, brigato, preso accordi rendendosene complici, sia perché i<br />

capi e una parte dell’esercito separatista si erano avviati a divenire la milizia politica e militare della<br />

Democrazia cristiana, dell’anticomunismo trasformandosi nel braccio armato dello Stato.<br />

La polizia, consapevole di questa realtà, aveva proceduto subito a salvare i propri complici e confidenti in<br />

coppola e lupara. Nel citato rapporto del 7 marzo 1946, l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, uno dei<br />

protagonisti di questa ignobile pagina di storia, si era premurato di specificare che “nessuna responsabilità<br />

concreta è stata accertata a carico del Calogero Vizzini, il quale pur separatista, nulla avrebbe avuto a che<br />

fare con il Gris…” (ivi, p.266). E con il riconosciuto pubblico capo della mafia siciliana “nessun altro<br />

elemento di spicco della mafia –rileva Filippo Gaja- ebbe l’onore della citazione nei rapporti di polizia “<br />

(ibidem).<br />

Lo stesso accadde con i capi separatisti. “…Lucio Tasca barone di Bordonaro - scrive ancora Gaja - rimase<br />

tranquillamente nella sua sontuosa villa in attesa degli avvenimenti…In definitiva, furono perseguiti quali<br />

ispiratori ed organizzatori della guerriglia soltanto il duca Guglielmo di Carcaci, Giuseppe Tasca, l’avvocato<br />

Rosario Cacopardo, il barone Stefano La Motta e Concetto Gallo; ma solo gli ultimi due raggiunsero il<br />

carcere, in attesa dell’amnistia, e dopo pochi mesi riottennero la libertà” (ibidem).<br />

Le ragioni ufficiali di tanta benevolenza le spiega il comandante dell’Arma dei carabinieri, Brunetto Brunetti,<br />

in una relazione inviata il 18 febbraio 1946 ad Alcide de Gasperi: “A loro carico –scrive- non sono affiorati<br />

convincenti elementi di diretta partecipazione all’organizzazione del Gris e delle bande armate, per cui<br />

finora non sono state raccolte prove sufficienti a giustificare il loro arresto e la conseguente denuncia<br />

all’autorità giudiziaria. Al loro fermo si è anche soprasseduto perché, da quanto ha riferito il commendator<br />

Messana, il ministero dell’Interno non intenderebbe allargare troppo le repressioni, che verrebbero limitate<br />

alle sole persone direttamente coinvolte nelle azioni criminose, e ai loro fiancheggiatori…” (ivi, p.267).<br />

Ministro degli interni, all’epoca, era il socialista Giuseppe Romita, ministro di Grazia e giustizia il comunista<br />

Palmiro Togliatti. Con questi ‘rappresentanti del popolo’, nobili e nobilastri sarebbero rimasti fuori dalle<br />

inchieste, e a pagare per tutti sarebbero stati i proletari che li avevano ingenuamente seguiti in nome di un<br />

ideale di libertà che, per loro, significava anche la fine dell’oppressione economica e dello sfruttamento.<br />

Nell’ipocrita distinzione operata dal socialista Giuseppe Romita in concorso con il comunista Palmiro<br />

Togliatti fra coloro che possono essere ‘repressi’ perché ‘direttamente coinvolti nelle azioni criminose’ e<br />

coloro che lo devono essere, c’è una filosofia politica e giudiziaria che, da allora, è rimasta inalterata: gli<br />

esecutori pagano, i mandanti e gli organizzatori no.<br />

In quanto alle ‘prove’ si nega con estrema disinvoltura che esistano o che siano sufficienti, come ha fatto il<br />

comandante Brunetti che ha ignorato bellamente quanto gli aveva messo per iscritto il suo subalterno,<br />

generale Branca, responsabile dei carabinieri in Sicilia: “l’idea di aggregare ad elementi di fede separatista<br />

malfattori comuni è una trovata di Lucio Tasca, capo del Gris –aveva scritto Branca, specificando che- capi<br />

del Gris e promotori delle violenze sono: don Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, figlio di Lucio Tasca,<br />

barone Cammarata, barone Stefano La Motta, avvocato Silvio Rossi, avvocato Di Benedetto” (O. Barrese -<br />

G. D’Agostino, La guerra dei sette anni, Rubbettino, Messina 1997, p.83).<br />

Dopo polizia e carabinieri, a completare con precisione chirurgica l’ingiustizia salvando i forti e<br />

condannando i deboli interviene la magistratura italiana, da sempre gelosa custode della sua dipendenza da<br />

ogni potere politico, non importa quale purché garantisca carriera e stipendio. Inizia la Procura generale di<br />

Palermo a compiere l’opera di divisione fra i volontari del Gris, da salvare, e i banditi, da condannare,<br />

applicando il 9 marzo 1947 l’amnistia Togliatti a 183 imputati e inviando “alle Corti d’assise competenti<br />

secondo criteri territoriali i giudizi per fatti che non potevano rientrare nella’amnistia” (F. Gaja, L’esercito…<br />

cit., p. 446). La frammentazione del processo in tanti rivoli è, difatti, la premessa indispensabile per non


fare emergere il disegno unitario del separatismo siciliano, coordinato da un unico vertice che aveva avuto<br />

ai suoi ordini non bande separate ma un solo esercito.<br />

Una realtà, questa, che era presente negli atti processuali come nei rapporti di polizia e carabinieri nei quali<br />

la ‘banda Avila’ e la ‘banda Giuliano’ erano inserite nell’organico del Gris. Ma cosa vale la verità,<br />

quand’anche conosciuta dall’intera popolazione, per l’arrogante magistratura italiana? Nulla. Dopo aver<br />

salvato i capi del separatismo, i ‘promotori delle violenze’, bisognava chiudere il capitolo concedendo<br />

‘clemenza’ ai ‘volontari’ per riservare ai soli banditi un trattamento feroce e vendicativo.<br />

Un esempio emblematico e significativo di una disparità di trattamento, che non può che definirsi ignobile,<br />

viene fornito dal raffronto di quanto hanno scritto i magistrati nelle sentenze emesse, rispettivamente, a<br />

carico di Concetto Gallo e dei superstiti della ‘banda dei niscemesi’. Sul conto del primo, i giudici della Corte<br />

d’assise, rievocando la ‘battaglia di San Mauro’, non esitarono a scrivere: “…L’ambiente è quello della<br />

battaglia che vede contrapposti due piccoli eserciti, il regolare comandato da tre generali e quello dei ribelli<br />

contro l’ordine costituito comandato da Concetto Gallo che agiva per un ideale, sia pure condannevole per<br />

il sovvertimento che si proponeva, ma pur sempre un ideale…” (ivi, p.288). Sui secondi, in tutto quattro<br />

imputati fra i quali Vincenzo Milazzo, i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, territorialmente<br />

competente per la strage di Feudo nobile, risolsero così il problema rappresentato dalla milizia degli<br />

accusati nell’esercito separatista: “…la predetta banda (composta tutta di avanzi di galera, di evasi e di<br />

pregiudicati) successivamente si aggregava (al Grsi, nda) al solo intimo proposito di mascherare e rafforzare<br />

il raggiungimento delle proprie finalità, rivolte unicamente alla consumazione dei più gravi delitti…” (ivi,<br />

p.286).<br />

Giustizia era fatta.<br />

Se questi furono i giudici, non migliore di loro fu il codardo Concetto Gallo che dei niscemesi era stato<br />

l’arruolatore ed il capo, e per la cui liberazione erano stati prima fatti prigionieri, poi uccisi, gli otto<br />

carabinieri di Feudo nobile. Non una parola o un gesto sprecò Concetto Gallo in loro difesa. Assistette in<br />

silenzio allo spettacolo miserando del massacro giudiziario di quel che restava dei suoi uomini cumulando i<br />

benefici che a lui venivano concessi in nome della sua complicità con il potere politico. La storia giudiziaria<br />

di Concetto Gallo è difatti quella di un salvataggio sistematico e sfacciato.<br />

In relazione alla costituzione ed all’attività dell’Evis il 19 settembre 1946 il giudice aveva rinviato a giudizio<br />

quaranta persone riuscendo nell’impresa di accusare i subalterni di essere i capi e i capi di essere i<br />

vivandieri, tanto che il duca di Carcaci e Concetto Gallo vennero ritenuti colpevoli “solo di ‘aver fornito<br />

informazioni e viveri’ “(ivi, p.441). Nel processo, svoltosi a Catania, contro la banda dei niscemesi<br />

“inizialmente - ricorda Filippo Gaja - era imputato anche Concetto Gallo, esattamente per undici capi di<br />

imputazione. Ma poi fu prosciolto” (ivi, p.285).<br />

Nel processo per l’uccisione del brigadiere dei carabinieri Giovanni Cappello, avvenuta a San Mauro il 29<br />

dicembre 1945, la Corte d’assise giunse al punto - fatto di eccezionale rarità in un tribunale italiano- di<br />

disattendere la testimonianza di un ufficiale dei carabinieri, ritenendola meno attendibile di quella<br />

dell’imputato Concetto Gallo, pur di evitargli il carcere. Riuscirono, così, quei giudici a condannarlo per<br />

omicidio preterintenzionale il 28 ottobre 1950, e “il reato - annota Gaja - fu dichiarato estinto per amnistia<br />

e il mandato di cattura contro Gallo revocato” (ivi, p.288). La famiglia del sottufficiale dei carabinieri ucciso<br />

si ribellò ad una sentenza che le apparve scandalosa. Propose appello e chiese ed ottenne il trasferimento<br />

del processo ad altra sede per legittima suspicione. Questa volta, la Corte d’assise di appello riconobbe<br />

Concetto Gallo responsabile di omicidio volontario e, il 18 novembre 1954, lo condannò a quattordici anni<br />

di reclusione. Ma, per effetto del decreto di amnistia ed indulto promulgato dal Presidente della repubblica<br />

il 18 dicembre 1953, la pena venne interamente condonata.<br />

Giustizia era fatta.<br />

Dopo la discriminazione fra i capi e i gregari del separatismo siciliano, quella fra questi ultimi e i banditi, ve<br />

ne fu una terza fra banditi e banditi. Risparmiati dai mitra dei carabinieri e dalle lupare dei mafiosi,<br />

Salvatore Giuliano ed i suoi uomini vennero graziati anche dal bisturi giudiziario che su di loro non<br />

intervenne. Anzi, il procuratore generale di Palermo, Emanuele Pili, risulta documentalmente provato che<br />

incontrò almeno una volta Giuliano recandogli “grande conforto” (ivi, p.333). “Un bandito inseguito da<br />

centinaia di ordini di arresto, che incontra privatamente il capo della giustizia - commenta Filippo Gaja - è<br />

un fatto oggettivamente molto insolito, spiegabile solo con motivazioni straordinarie che però non sono


mai state spiegate” (ivi, p.336). Negli anni Settanta e successivi si sarebbe visto anche di peggio, perché gli<br />

anni passano ma la magistratura resta.<br />

A parere di Filippo Gaja, l’impunità di Salvatore Giuliano derivò dal fatto che “se fosse comparso in Corte<br />

d’assise forse avrebbe potuto documentare la sua alleanza con i finanziatori e dirigenti del Gris e avrebbe<br />

fatto delle chiamate di correo, poiché non aveva una natura remissiva. Era uno che non perdonava.<br />

Difficilmente avrebbe acconsentito di essere il solo a pagare per i delitti dei quali si era macchiato in nome<br />

dell’indipendentismo, se era convinto, come era convinto, d’essere stato indotto a compierli per uno scopo<br />

politico” (ivi, p.288.289). Noi siamo meno ingenui perché riteniamo che mai, nemmeno per un momento, a<br />

politici, magistrati e uomini delle forze di polizia è venuto in mente di condurre Salvatore Giuliano vivo<br />

dinanzi ad una Corte d’assise. A nostro giudizio, quindi, la discriminazione fra Salvatore Giuliano e Salvatore<br />

Rizzo non derivò dalla maggiore capacità di ricatto del primo rispetto al secondo, quanto dal fatto che il<br />

bandito di Montelepre, dopo la causa separatista, aveva abbracciato quella anticomunista, mentre il<br />

secondo non aveva compreso la realtà che si era determinata in Sicilia e nel paese o, più semplicemente,<br />

non gli interessava.<br />

“Uccidetemi se per caso diventassi comunista”, aveva ordinato Giuliano ai suoi gregari Pisciotta e Ferreri. Si<br />

comprende - scrive Gaja - perché alle elezioni del 2 giugno 1946 si ebbero solo 21 voti comunisti e socialisti<br />

a Montelepre” (ivi, p.301). Si comprende anche perché a Salvatore Giuliano e alla sua banda venne<br />

concessa una proroga sulla vita e piena libertà di azione, culminata nella strage di Portella delle ginestre il 1<br />

maggio 1947. La Democrazia cristiana, la Chiesa di Roma, le forze anticomuniste italiane e straniere<br />

avevano bisogno di uomini come lui per imporre con il terrore il nuovo ordine che in Sicilia si<br />

rappresentava, in quegli anni, con la croce e la lupara. Poi, anche Salvatore Giuliano divenne un subalterno<br />

scomodo, da uccidere. E gli ammazzati rappresentano l’altra faccia della giustizia italiana, altrettanto<br />

efficiente di quella ufficiale.<br />

“Ho già riferito all’inizio della presente relazione - scriveva il 28 aprile 1947 l’ispettore generale di P.S.<br />

Ettore Messana al capo della polizia - che gli ultimi tre componenti della banda, fra cui il capo di essa, il<br />

pericoloso pregiudicato Salvatore Rizzo, sono stati eliminati con l’ultima decisa azione del 19 febbraio<br />

scorso. Il bandito Rizzo, ferito, ha continuato a fare fuoco fino agli estremi contro i carabinieri ed è morto<br />

addentando la canna rovente del suo mitra, mentre in una mano teneva stretta una bomba a mano, a cui<br />

aveva già tolto la linguetta di sicurezza… Prego codesto ministero - concludeva Messana - perché la taglia di<br />

L. 500 mila promessa per la cattura del capo della banda dei niscemesi sia concessa al confidente che è<br />

riuscito a far cogliere il bandito Rizzo Salvatore, capo della banda stessa durante tutte le vicende dell’Evis,<br />

in occasione dell’eccidio dei militari della stazione di Feudo nobile e in tutte le altre imprese criminose” (O.<br />

Barrese - G. D’Agostino, La guerra…cit., p. 92).<br />

Rosario Avila senior era stato già eliminato, come altri componenti la banda, da sicari mafiosi; Rosario Avila<br />

junior morirà in carcere senza che si conoscano la data né le circostanze. In poco più di un anno la ‘banda<br />

dei niscemesi’ era stata così annientata, fisicamente liquidata, dall’azione congiunta di polizia, carabinieri,<br />

polizia e mafia. I pochi superstiti vennero sepolti all’ergastolo.<br />

Non diversa fu la sorte riservata a Salvatore Giuliano ed ai suoi uomini. Il 27 giugno 1947, informati dalla<br />

solita ‘fonte confidenziale’, i carabinieri tendono ad Alcamo un’imboscata ai banditi-confidenti<br />

dell’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, colpevoli di conoscere qualche particolare di troppo sulla<br />

strage di Portella delle ginestre ed i suoi mandanti. Vengono uccisi sul colpo Caraci Antonio, Giuseppe e<br />

Fedele Pianello, mentre Salvatore Ferreri, conosciuto come Fra’ Diavolo, viene trascinato nella caserma e<br />

liquidato con due colpi di pistola in fronte sparati dal capitano Giallombardo.<br />

Il 24 novembre 1948 tocca a Giuseppe Passatempo cadere sotto il fuoco dei carabinieri. Lo seguono, nei<br />

primi mesi del 1950, Salvatore Pecoraro, il 24 gennaio, e Rosario Candela, il 14 marzo. Passatempo<br />

Giovanni, Di Maria Emanuele e Giammone vengono eliminati dalla mafia. Il 5 luglio 1950 tocca a Salvatore<br />

Giuliano essere eliminato dalla scena; il 9 febbraio 1954, viene chiusa per sempre la bocca di Gaspare<br />

Pisciotta mentre il 6 marzo 1954 l’avvelenamento di Angelo Russo, sempre nel carcere dell’Ucciardone<br />

permette la scarcerazione del secondino Selvaggio accusato di aver avvelenato Pisciotta.<br />

Per gli altri fu la morte civile.<br />

“La clemenza –aveva detto con voce ispirata il democristiano Adone Zoli- è il volto cristiano della giustizia”.<br />

Ma rivolta verso chi?


Non passeranno molti anni e, a metà degli anni Sessanta, la guerra politica ridiviene guerreggiata perché<br />

tanto esigeva lo Stato di Portella delle ginestre. Questa volta la Sicilia rimane esclusa, affidata al controllo<br />

della mafia, mentre il centro-nord del Paese conosce il volto di una guerra nella quale si ritrovano gli stessi,<br />

identici elementi di ambiguità, misteri e complicità fra lo Stato presunto ‘aggredito’ ed i suoi presunti<br />

‘aggressori’.<br />

Le bande del neofascismo atlantico e di regime assumono il ruolo che fu di Salvatore Giuliano e dei suoi<br />

uomini. Delinquenti, e non politici, conosceranno però durante e dopo la guerra la ‘clemenza’ ed il ‘volto<br />

cristiano della giustizia’ in misura proporzionale ai servigi resi allo Stato ed al regime. Come già i dirigenti<br />

separatisti eletti all’Assemblea costituente, i ‘promotori delle violenze’ sono sempre stati seduti –e ancora<br />

oggi siedono- sui banchi della Camera dei deputati e del Senato, fanno parte delle Commissioni<br />

parlamentari d’inchiesta e ostentano indignazione al solo sentir parlare di ‘clemenza’ nei confronti dei<br />

‘terroristi’ ancora in galera, avendo già provveduto a far concedere ai propri stragisti quei benefici che la<br />

legislazione penitenziaria riserva, appunto, ai delinquenti.<br />

A sinistra, la situazione è storicamente diversa ma non eticamente migliore.<br />

La corsa ai benefici di legge, ottenuti e da ottenere ripudiando ideali e passato, rinnegando compagni vivi e<br />

morti, umiliandosi dinanzi a secondini e magistrati di sorveglianza, ha visto tagliare il traguardo, tra i primi, i<br />

capi, secondo una tradizione italiana che pesa come una maledizione su un popolo dove pure dignità non è<br />

parola di ignoto significato. Ne sono testimonianza alcune decine di ragazzi e ragazze, divenuti uomini e<br />

donne in carcere, che nulla hanno mai chiesto e niente vogliono. Non ai ‘semiliberi’, ai ‘lavoranti esterni’, ai<br />

‘permessanti’, a quanti invocano il diritto di avere ‘pietà verso se stessi’ abbiamo pensato tratteggiando la<br />

storia tragica e terribilmente attuale del separatismo siciliano e della sua conclusione. Le abbiamo invece<br />

dedicate ai soldati di una guerra ideologica che lo Stato ha dichiarato, fomentato, inasprito e, infine,<br />

fermato dichiarandosene vincitore. A questi ex ragazzi e ragazze, a questi uomini e donne, le dedichiamo<br />

con rispetto pari al disprezzo che riserviamo ai politici italiani di ogni partito, nessuno escluso.<br />

Non c’è difatti politico italiano che abbia vissuto gli anni del dopoguerra, che non conosca il testo del<br />

provvedimento di amnistia ed indulto concesso con legge 18 dicembre 1953 n.920. Oscar Luigi Scalfaro,<br />

Nilde Iotti, Giorgio Napolitano, Armando Cossutta, Giulio Andreotti, Pino Rauti, Marco Pannella, Giulio<br />

Maceratini, Sergio Flamigni, solo per citarne alcuni, non hanno certo dimenticato la storia infame della<br />

guerriglia siciliana e la sua ancor più infamante conclusione, così come ricordano quali interessi politici ed<br />

ideologici furono alla base di quel provvedimento di amnistia e indulto che chiuse il capitolo bellico fino alla<br />

cessazione ufficiale della guerriglia separatista in Sicilia. Ognuno in quell’occasione salvò i propri: il Partito<br />

comunista italiano, i Moranino; il Movimento sociale, i residui prigionieri della Repubblica sociale italiana; la<br />

Democrazia cristiana, i propri assassini. Ma, pur contro la volontà dei suoi promotori di allora e degli<br />

interessati smemorati di oggi, quel provvedimento di amnistia e indulto rimane modello per quanti oggi<br />

cercano una soluzione che chiuda, in maniera definitiva, il capitolo della guerra politica.<br />

Ricordiamo anche noi, qui, cosa stabiliva l’art. 2 del decreto di amnistia ed indulto del 18 dicembre 1953:<br />

“Il Presidente della repubblica è delegato a concedere indulto:<br />

per i seguenti reati commessi dall’8 settembre dall’8 settembre 1943 al 18 giugno 1946: reati politici ai<br />

sensi dell’art. 8 del codice penale e i reati connessi; nonché i reati inerenti a fatti bellici, commessi da coloro<br />

che abbiano appartenuto a formazioni armate:<br />

commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni dieci e, qualora l’ergastolo sia stato<br />

già commutato in reclusione per effetto dell’indulto, riducendo ad anni dieci la pena della<br />

reclusione sostituita a quella dell’ergastolo;<br />

2. riducendo ad anni due la pena della reclusione superiore ad anni venti e condonando<br />

interamente la pena non superiore ad anni venti;<br />

per ogni reato commesso non oltre il 18 giugno 1946 da coloro che appartennero a formazioni<br />

armate, e non fruiscano del beneficio indicato nella precedente lettera a):<br />

commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni venti e, se l’ergastolo è stato già<br />

commutato in reclusione per effetto di indulto, riducendo di anni otto la pena della reclusione già<br />

sostituita a quella dell’ergastolo;<br />

In nessun caso la pena residua può superare gli anni venti.


I benefici previsti nelle lettere a) e b) del presente articolo si cumulano con quelli concessi dai<br />

precedenti provvedimenti di clemenza e devono essere applicati anche a coloro si siano trovati o si<br />

trovino in stato di latitanza” (legge 18 dicembre 1953 n.920).<br />

Non ci sono errori. L’Italia del 1953 riconosceva ancora, senza ipocrisia, che esistevano ‘reati politici’ i cui<br />

autori non potevano essere equiparati, per evidenti ragioni, a chi i reati veri li commetteva per fine di lucro<br />

e interessi personali. Sulla base di una verità incontrovertibile, sancita anche dal codice penale, si potevano<br />

adottare provvedimenti che di questa differenza tenevano debito conto.<br />

L’Italia del 1998 pretende viceversa che il ladrocinio sia considerato l’unico ‘reato politico’ e quanto<br />

determinato da ragioni ideali sia valutato alla stregua del crimine comune, e come tale trattato.<br />

I ladri democristiani ed i loro complici del 1953 avevano ancora, insieme alla convenienza, un minimo di<br />

pudore; i ladroni democristiani oggi sparsi nelle varie formazioni sorte in questi ultimi anni, insieme ai loro<br />

complici del partito democratico della sinistra, hanno perso anche quello e, in quanto alla convenienza di<br />

mostrare che ‘la clemenza è il volto cristiano della giustizia’ non ritengono di averne necessità: il cardinale<br />

Marcinkus è scappato con la benedizione papale; Roberto Calvi lo hanno impiccato; Michele Sindona lo<br />

hanno avvelenato e agli altri ci ha pensato la loro magistratura a condurre un’inchiesta che alla fine, di<br />

nuovo, ci ha gratificato della entrata in scena del plurinquisito Antonio di Pietro lasciando tutto come<br />

prima, peggio di prima. E’ vero, l’Italia politica, clericale, finanziaria delle mezze calzette rivoltate ostenta la<br />

faccia feroce nei confronti di quanti hanno inseguito il sogno bellissimo di liberarsi di loro una volta per<br />

sempre. Non ce lo perdoneranno mai, questo sogno.<br />

Ma quanti in questo regime non si identificano, in questi partiti non si riconoscono, a questo mondo<br />

giudiziario e pretesco che imperversa nei tribunali e nelle tribune televisive non intendono uniformarsi,<br />

possono rilevare ora quanto inutili siano le ciarle di tutti coloro che, in televisione e nei giornali, ostentano<br />

il bisogno di chiudere il periodo degli ‘anni di piombo’ con un gesto di clemenza che permetta ai ‘terroristi’<br />

di lasciare il carcere entro il 2010! (non è una barzelletta, è il calcolo fatto da Roberto Formigoni).<br />

Possono ora, costoro, fare il confronto fra un provvedimento assunto per le esigenze del regime e quelli<br />

proposti per spezzare la volontà e l’orgoglio di quanti ancora detenuti non se la sentono proprio di recitare<br />

mea culpa, di riconoscere che hanno avuto torto a sognare un paese liberato dai suoi parassiti politici, di<br />

spezzare il sogno dopo aver infranto per ragioni ideali la loro vita. Lo vieta il rispetto di se stessi, quello per i<br />

propri caduti ed anche quello per gli uccisi dell’altra parte della barricata, anch’essi traditi dallo stesso<br />

Stato, che sul sacrificio di tutti ha potuto sopravvivere e rafforzarsi.<br />

Il confronto fra il provvedimento di amnistia ed indulto del 18 dicembre 1953 e quelli via via enunciati in<br />

questi anni da tutte le parti politiche denuncia l’ipocrisia del regime ed indica la via da seguire, non perché<br />

il parlamento possa esibire ‘clemenza’ ed ostentare il ‘volto cristiano della giustizia’, ma semmai perché<br />

venga piegato alla necessità di compiere un atto di giustizia. Una giustizia senza aggettivi, vergognosa di se<br />

stessa e del tempo perduto.<br />

Vincenzo Vinciguerra

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